lunedì 3 gennaio 2022

LA Q DI QOMPLOTTO Wu Ming

 


LA Q DI QOMPLOTTO 
Wu Ming 

[...]    Il problema non è solo a destra


    Esempi di cospirazionismo a sinistra. Li paga tutti Soros! La Spectre in azione a Bologna. Finché vedrai sventolar bandiera falsa. Putin Tour. Quell’atroce penombra. Cospirazionismo e «meno peggio».


    Ogni fantasia di complotto era nel suo esito reazionaria e perciò, volendo semplificare, portava a destra. Ma quella considerazione si riferiva alle visioni del mondo storicamente associate ai termini destra e sinistra. A idealtipi, insomma. Se invece si prendevano in considerazione gli schieramenti concreti, le persone in carne e ossa che si sentivano e dicevano appartenenti all’una o all’altra parte, allora era falso che la sinistra fosse meno incline al cospirazionismo. Anzi, tra chi si diceva e pensava di sinistra – spettro di posizioni che andava dai più tenui liberal alle correnti anticapitaliste più radicali passando per varie culture alternative –, era molto frequente immaginare vastissime e perfette congiure globali. Se non fosse bastato il successo delle narrazioni truther sull’11 settembre, c’erano molti altri esempi.


    Nei settori più retrivi della sinistra non poche fantasie di complotto si erano affermate in nome dell’antimperialismo. In alcune cerchie si era radicata l’idea che Soros pagasse ogni manifestante e ogni rivolta in qualunque paese avesse un regime sedicente «nemico dell’imperialismo», come la Siria o la Bielorussia, ma anche la stessa Russia o la Cina.


    Che una sollevazione popolare potesse essere strumentalizzata da forze politiche o potenze straniere era nell’ordine delle cose; che ogni sollevazione popolare fosse tout court una messinscena pagata da un grande burattinaio era invece del tutto implausibile. Non solo: era una manifestazione di pensiero reazionario. Non importava quanto autoritario e corrotto fosse un regime «antiamericano» o quanto fossero sfruttati i lavoratori in quel paese: la popolazione non aveva ragione né diritto di protestare, l’operaio non doveva scioperare. Non c’era mobilitazione che avvenisse dal basso, era sempre un complotto dall’alto e i dimostranti si dividevano tra utili idioti e crisis actors, guarda caso pagati da un ebreo.[...]

Introduzione 

Come guastare una festa. Schiavi bambini sotto i tuoi piedi. Fuoco sui narghilè bar. Schiavi bambini a Central Park. La voce di Trump dal roveto in fiamme. Comprare bambini al mobilificio. Speronare pedofili con l’auto. Un nome. La buca del coniglio. Cinque definizioni da tenere in mente. La scomparsa di un nome?

Nei primi giorni d’autunno del 2020, quando gettavo uno sguardo ai mesi e agli anni dedicati all’inchiesta, vedevo soprattutto solitudine, tristezza, esistenze arrivate a un punto morto o finite a rotoli. Capitava che qualcuno mi chiedesse: «Di cosa stai scrivendo?». Se volevo tagliare corto rispondevo: «Di complotti», e non aggiungevo altro. Se invece avevo tempo e voglia snocciolavo un rosario di misteri dolorosi, il cui effetto cumulativo lasciava i presenti a bocca aperta. A quel punto dovevo fermarmi: il tema del mio libro, e il modo in cui lo stavo affrontando, avevano il potere di saturare ogni ambiente, di guastare qualunque serata. E l’annus, tra Covid-19 e stato d’emergenza, era già abbastanza horribilis. Ecco perché, il più delle volte, tenevo per me quegli enigmi e fattacci.

Il 14 febbraio 2020 Tobias aveva caricato su YouTube un video nel quale si rivolgeva ai cittadini statunitensi, in inglese, denunciando l’esistenza sotto i loro piedi di «basi militari sotterranee dove si adora il diavolo e si violentano, torturano e uccidono bambini». Tobias invitava a «localizzare le basi, riunire una grande massa di persone e prenderle d’assalto».

Non era l’unico a denunciare quell’orrore. Deep underground military bases. Ce n’erano in tutti gli Stati Uniti, da una costa all’altra. L’acronimo era «Dumb». I credenti lo scrivevano coi puntini di abbreviazione: «D.u.m.b.». Nell’uso più comune l’aggettivo voleva dire stupido, ma in quel caso sembrava avere l’altro significato, il più antico: incapace di parlare. Come in «Struck dumb by fear», ammutolito dalla paura.

I mostri tenevano milioni di bambini prigionieri nelle D.u.m.b., dopo averli rapiti o fatti nascere là sotto. Lo scopo era violentarli, torturarli e bere il loro sangue per trarne una sostanza al tempo stesso psicotropa e ringiovanente: l’adrenocromo. Erano i «bambini-talpa», mole children. Tra i mostri c’era Hillary Clinton. In un video intitolato Frazzledrip1 la si vedeva scuoiare il volto di una bambina e indossarne la pelle come maschera.

Tobias aveva capelli scuri e lisci, e un viso senza segni particolari. Nel video portava una giacca blu su una camicia bianca, e per parlare alla webcam guardava verso l’alto. Alle sue spalle, una stanza scura e disadorna: scaffali carichi di faldoni, una poltrona ocra e un letto con copripiumone a righe verdi, beige e viola.

Tobias aveva quarantatré anni ed era un uomo solitario. Viveva coi genitori, entrambi settantaduenni, a Hanau, città di novantamila abitanti a pochi chilometri da Francoforte. Si era laureato in economia aziendale a Bayreuth nel 2007, aveva lavorato come bancario e ora faceva il consulente finanziario. Odiava le razze inferiori che corrompevano la Germania, e i giornali avrebbero definito le sue idee «di estrema destra», ma non era membro di alcuna organizzazione. Passava il tempo libero on line dedicandosi a quella che gli spiriti come il suo chiamavano «ricerca», researchNachforschung: visitare siti e guardare video che denunciavano complotti globali, smascheravano i potenti e le loro reti occulte, rivelavano cosa c’era dietro la trama apparente del mondo. Come in The MatrixDie Rote oder die Blaue Pille?

Da anni Tobias sapeva di essere sorvegliato. Non dai servizi di sicurezza tedeschi e nemmeno dalla Cia, ma da un’organizzazione segreta in grado di leggere i pensieri e carpire il suo potere: la visione a distanza. Grazie a quel potere Tobias aveva visto l’orribile realtà nascosta. Le conclusioni che ne aveva tratto avevano ispirato Donald Trump. Tobias si era sorpreso nel vedere il magnate americano usare le sue idee e diventare presidente grazie a esse. Doveva esserne lusingato, indignato o... atterrito?

Il 19 febbraio, verso le dieci di sera, Tobias era uscito dalla sua casa in Helmholtzstraße, era salito sulla sua Bmw e si era diretto verso il centro. Davanti al bar La Votre, sull’Heumarkt, aveva aperto il fuoco con una pistola semiautomatica, una Glock che possedeva legalmente. Sotto i suoi colpi erano morti il barista Kalojan Welkow, trentadue anni, di origine bulgara, e un avventore, Said Nesar Hashemi, ventun anni, di origine afghana. Said si era diplomato da poco e stava facendo uno stage da operatore di impianti alla Goodyear Dunlop.

Sceso dall’auto, Tobias aveva raggiunto un narghilè bar poco distante, il Midnight. Dall’uscio aveva sparato quattro colpi uccidendo il proprietario, Sedat Gürbüz, ventinove anni, e un cliente, Fatih Saraçoğlu, trentaquattro anni, entrambi di origine turca.

Tobias si era allontanato sgommando. Poco dopo aveva sparato contro un chiosco bar nel quartiere di Kesselstadt, uccidendo Vili Viorel Păun, ventitré anni, di origine romena, e Gökhan Gültekin, trentasette anni, di origine curda. Vili lavorava come facchino nella logistica. Gökhan era un muratore, ma la sera lavorava come cameriere per pagare le cure del padre malato di cancro.

Tobias aveva raggiunto un altro narghilè bar, l’Arena, in Kurt-Schumacher-Platz, dove aveva ucciso due avventori – Ferhat Unvar, ventitré anni, apprendista idraulico di origine curda, e Hamza Kurtović, vent’anni, studente di origine bosniaca – e la cameriera, Mercedes Kierpacz, trentacinque anni, cittadina polacca e appartenente alla comunità rom. Era madre di due bambini e incinta del terzo.

Il blitz era durato solo dodici minuti.

Tobias Rathjen lo sapeva: i satanisti delle D.u.m.b. americane e gli allogeni che ogni sera infestavano il centro di Hanau erano parte dello stesso complotto. Lui aveva agito. Ora toccava agli americani. Lui aveva mandato un segnale. Non poteva più fare altro, se non compiere il sacrificio.

Tobias era tornato a casa, aveva ucciso sua madre, si era accucciato al suo fianco e si era tolto la vita.

La polizia aveva trovato i corpi alle quattro del mattino. In casa c’era anche il padre, sotto shock ma incolume.

Il giorno dopo il video sulle D.u.m.b. era scomparso, rimosso dagli amministratori di YouTube.2

La pandemia era stata provvidenziale, o forse era parte del piano. Di certo, grazie a essa si erano salvati mole children a migliaia. Donald Trump, l’eroe di quella storia, aveva approfittato dei lockdown per dare l’assalto alle D.u.m.b.

L’operazione più grossa, denominata «Q-force», si era svolta ad aprile al Central Park di New York.

Il Mount Sinai Hospital aveva allestito nel parco alcune tende per il pre-triage dei pazienti. Quella era la versione ufficiale. In realtà era un avamposto militare. Nascosto dalle tende l’esercito – o, secondo altre versioni, forze speciali della marina – era sceso lungo un tunnel, aveva raggiunto una D.u.m.b. e l’aveva espugnata, liberando migliaia di bambini – qualcuno diceva trentacinquemila – subito portati su navi-ospedale segrete. Alcuni soffrivano di gravi deformità, per non aver mai visto la luce del sole.

Infine gli eroici soldati avevano fatto saltare la base, facendola crollare sui satanisti rimasti dentro.

Central Park. Fin dal nome uno dei luoghi più importanti e iconici di una delle più popolose città del mondo. Un ospedale da campo visibile da centinaia di finestre sulla 5th Avenue. Tende da cui era sgorgato un fiume di bambini, scortati da militari e caricati su decine di veicoli. Un’operazione durata ore, con grande dispiego di uomini e mezzi, e culminata in una grande esplosione sotterranea.

Eppure, nessuno aveva visto né udito nulla.

Non importava: in tutto il mondo si era celebrato il successo della missione. Anche in Italia, sui siti non succubi alle menzogne del mainstream. Aveva rilanciato la notizia Alessandro Meluzzi, psichiatra e personaggio televisivo, ex parlamentare di Forza Italia, arcivescovo della «Chiesa cristiana ortodossa italiana acefala», grande sostenitore di Donald Trump e Vladimir Putin.

Fino ai primi d’aprile del 2020 Jessica Prim – trentasettenne di Peoria, Illinois, danzatrice e stripper col nome d’arte “Nikita Steele” – non aveva mai sentito parlare di basi sotterranee, satanisti pedofili, bambini schiavi, adrenocromo, nulla del genere. Scoprire quella realtà le aveva spalancato gli occhi e dato una nuova ragione di vita. Si era messa d’impegno a fare ricerche, condividendo video e altri materiali, dedicandosi sempre più alla causa: denunciare l’orrore, il traffico di bambini da parte della Cabal, la società segreta che controllava gli Stati Uniti e mezzo mondo.

Jessica pensava spesso al video Frazzledrip. Avrebbe voluto vederlo ma non si trovava da nessuna parte, solo qualche fotogramma sfocato. In ogni caso esisteva, tutti lo sapevano.

Il 27 aprile Trump in persona l’aveva designata per una missione. La missione.

Quel pomeriggio Jessica stava seguendo lo streaming di una conferenza stampa e Trump si era rivolto direttamente a lei, l’aveva indicata col dito e le aveva detto: «Please, go ahead». Lei aveva annuito. Era stato un momento biblico: Mosè sente la voce di Dio nel roveto ardente. La chioma del presidente, in effetti, poteva sembrare in fiamme.

Due giorni dopo, mercoledì 29 aprile, Jessica aveva scritto su Facebook:

Hillary Clinton e la sua assistente, Joe Biden e Tony Podesta devono essere fatti fuori in nome di Babilonia! Non posso essere liberata se loro restano in giro. Svegliatemi!!!!!3

Poi era salita sulla sua Toyota Tundra ed era partita per New York. Il telefono fissato al cruscotto, aveva trasmesso il proprio viaggio in diretta su Facebook e annunciato il suo intento: «Far fuori Joe Biden». Era convinta di poterlo trovare a New York.

Poche ore dopo una pattuglia aveva fermato la Toyota su un vialetto di servizio dell’Hudson River Park, nei pressi del molo 86 dov’era all’ancora la nave-museo Uss Intrepid. Jessica era in stato confusionale. Nel video dell’arresto faceva tenerezza: scossa da brividi, magra, le ciocche bionde che spuntavano da un berretto nero. «Ho tanta paura!», gridava tra i singhiozzi. Un agente le diceva di calmarsi e spegnere l’auto. «I’m so scared!», ripeteva lei.

Jessica aveva confuso l’Intrepid con la nave-ospedale Comfort. Quella dove l’esercito aveva portato i bambini-talpa di Central Park. Anche lei voleva essere ricoverata. «I need help!», aveva urlato agli agenti, in lacrime. «I think I have... I think I’m the coronavirus!». Penso di essere il coronavirus. Chissà cosa intendeva dire. Il tutto sempre in diretta su Facebook.

La polizia aveva trovato sulla Toyota diciotto pugnali. «Avete sentito di quei bambini?», aveva chiesto Jessica agli agenti, mentre la ammanettavano.

Nel luglio 2020 la Wayfair, azienda di mobili con sede a Boston, era stata scoperta con le mani nel sacco. Guardando il catalogo on line ad alcuni era parso strano che certi armadi avessero nomi di persona. Nomi inusuali per giunta: Aanya, Anabel, Samiya. Inoltre gli articoli sembravano davvero troppo costosi, dai diecimila dollari in su. Doveva esserci sotto qualcosa. Forse quegli annunci... erano inserzioni per vendere bambini!

L’intelligenza collettiva si era messa al lavoro.

Grazie alle ricerche erano spuntate notizie di minori scomparsi che avevano proprio quei nomi. Dunque era vero, non si trattava di armadi: la cifra indicata era il prezzo del minore in vendita. Ad esempio l’armadio Samiyah, che costava dodicimila dollari, era in realtà Samiyah Mumin, adolescente scomparsa in Ohio nel maggio 2019.

Solo che Samiyah non era scomparsa. Si era allontanata da casa per soli quattro giorni. Inferocita, la ragazza aveva pubblicato un video in cui ridicolizzava le scoperte degli improvvisati detective. Ma chi poteva escludere che anche l’invettiva fosse parte del piano? Forse, in caso di sospetti, la Wayfair aveva pronte false testimonianze estorte ai minori prigionieri.

Quanto al prezzo alto, un portavoce dell’azienda aveva spiegato all’agenzia Reuters che quelli erano armadi da stoccaggio, articoli di grandi dimensioni progettati per aziende, più costosi dei comuni mobili domestici. Ma era difficile accontentarsi di una simile spiegazione, non si poteva chiudere gli occhi davanti a un traffico tanto schifoso.

Alle nove di mattina del 12 agosto 2020 – un altro maledetto mercoledì – Cecilia Fulbright, trent’anni, era salita sulla sua Pontiac Fiero rossa e si era messa in strada, decisa a fermare il traffico di bambini nella sua città, Waco, Texas. Era reduce da tre giorni e tre notti di ricerche on line sulla Cabal e i suoi crimini, e aveva bevuto per darsi coraggio.

Alle 9:20 aveva avvistato un furgone di consegne per la ristorazione. Al volante c’era una donna, e sul sedile del passeggero sedeva una bambina. La situazione era chiara come il sole. Cecilia si era lanciata all’inseguimento. Aveva più volte cercato di speronare il furgone ma la satanista era riuscita a fuggire con la sua vittima.

Venti minuti dopo, sulla 19th Street, Cecilia aveva visto una Dodge Caravan guidata da una giovane donna. L’intuito non mentiva: anche quella era una pedofila. Doveva agire subito.

Cecilia era riuscita a speronare e urtare la Dodge più volte, senza riuscire a mandarla fuori strada, finché l’inseguita non si era infilata nel parcheggio di un supermercato H-E-B. Nel correrle dietro Cecilia aveva perso il controllo della Pontiac ed era finita contro un pilone di cemento. La polizia l’aveva trovata ancora seduta nell’auto, scossa dal pianto e dai singhiozzi.

Nella foto segnaletica aveva la faccia pesta e un cerotto sul naso. Sogghignava, ma incerta.

Il 2020, anno di pandemia e narrazioni tossiche, e di circoli viziosi tra la prima e le seconde. Il 19 febbraio, giorno della strage di Hanau, il Covid-19 si era appena palesato in Occidente. In Germania i casi noti si contavano sulle dita di una mano. Le altre storie, invece, si erano svolte negli Stati Uniti colpiti in pieno, con l’amministrazione Trump che negava il problema, diversi stati e città in lockdown, gente che perdeva il lavoro e non poteva curarsi, proteste anti-lockdown, proteste pro-lockdown, violenze poliziesche che colpivano una cittadinanza esasperata e scatenavano rivolte urbane.

Gran parte degli americani era confinata in casa, o comunque senza lavoro, senza un posto dove andare: cinema, teatri, circoli, bar, negozi, tutto chiuso. La vita quotidiana si era ritirata, come in un’improvvisa bassa marea, lasciando un vuoto che andava occupato in qualche modo. E così la gente viveva, si sfogava e cercava consolazione sui social network. Navigando incontravano certe storie, si convincevano che erano vere, si caricavano la molla a vicenda, e a un certo punto le molle scattavano.

E nei resoconti ricorreva un nome: QAnon.

Amici che con grande convinzione sostenevano Black Lives Matter e andavano alle marce, gente preoccupata per il cambiamento climatico, persino una collega infermiera che durante un picco di contagi da Covid lavorava con me in terapia intensiva... All’improvviso, tutti si sono messi a condividere le stronzate di QAnon, soprattutto roba su pedofilia, adrenocromo e cerchie di pedofili satanisti. A quanto ne so, sono persone che si dicono ancora liberal, progressiste, di sinistra, e davvero non capisco come possano essersi fatte risucchiare così rapidamente. Parlo di gente sui venticinque anni, che prima appoggiava Bernie Sanders e adesso ripubblica i rigurgiti di QAnon. Che diavolo sta succedendo?

Era un messaggio apparso ad agosto nel forum QAnonCasualties di Reddit, luogo di informazione e mutuo appoggio per chi aveva perso familiari o amici, scivolati nella “buca del coniglio” e non ancora riemersi.

Rabbit hole, come in Alice nel paese delle meraviglie: così era chiamato l’ingresso nel mondo QAnon.

Nel 2020 il fenomeno era cresciuto a dismisura e finalmente ci si era accorti del pericolo. Anche in Europa, soprattutto in Germania. Persino in Italia, con un ritardo di due anni, era suonato l’allarme.

Con ogni probabilità partito come burla, QAnon stava giocando un ruolo importante nella campagna elettorale americana, stava mettendo in difficoltà gli amministratori delle grandi piattaforme social ed era a tutti gli effetti una rete – anzi, a cult, come sempre più spesso era definito: una setta – globale.

A QAnon si adattavano fin troppe definizioni. Io ne avevo isolate cinque. QAnon era:

1. Un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;

2. un modello di business;

3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;

4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;

5. una rete terroristica in potenza.

Ed era diventato tutto ciò in soli tre anni.

Ma nell’ottobre 2020 il nome «QAnon» sembrava sul punto di svanire. Il movimento vi stava rinunciando per aggirare la censura sui social. E perché no, se la prova generale era stata un successo?

Ad agosto e settembre Facebook e Twitter, dopo un lungo tentennare, avevano preso provvedimenti contro il dilagare di QAnon, chiudendo migliaia di profili, rimuovendo pagine e oscurando hashtag. I credenti avevano risposto diluendo il proprio messaggio e impadronendosi di un hashtag già esistente: #savethechildren. Quando l’omonima organizzazione umanitaria aveva preso le distanze l’hashtag era ormai ovunque e dava il nome a mobilitazioni dall’aria innocente, negli Stati Uniti e in altri paesi.

Accantonando il solito gergo, le sottotrame barocche e i dettagli orripilanti, la setta aveva potuto sia aggirare blocchi e divieti, sia agganciare nuovi adepti, che in capo a pochi giorni si erano messi a condividere notizie inventate sulle D.u.m.b. e l’adrenocromo.

E ogni giorno si vedevano più donne.

Su QAnon circolavano molti cliché del genere mai-prima-d’ora. Il più frequente riguardava proprio le donne. QAnon era la prima sottocultura «complottista» a preponderanza femminile, si diceva. Ma era falso. Nelle cerchie del cospirazionismo la tendenza a un crescente protagonismo delle donne era in corso da quarant’anni. QAnon aveva solo dato maggiore visibilità al fenomeno. Se gli osservatori non se n’erano accorti era perché avevano guardato alle cerchie sbagliate.

Ad ogni modo, la strategia del camouflage era piaciuta all’invisibile pope del “qulto”, il sedicente Q, che l’aveva ratificata. In uno dei suoi dispacci aveva scritto: «Mimetizzarsi. Lasciar cadere i riferimenti a “Q”, “QAnon”, ecc. per evitare messe al bando e chiusure di account».

Com’era cominciata quella storia?


1 Intraducibile. «Frazzle» significa spellare, scuoiare e «drip» sgocciolare, colare.

2 Valga come nota metodologica. Ho trovato su un canale Telegram interamente dedicato a Tobias Rathjen il video rimosso e il suo “manifesto”, un documento di ventiquattro pagine in tedesco intitolato Skript mit Bilder (sceneggiatura con immagini), dove esponeva le sue teorie mentre raccontava la storia della propria vita ricorrendo anche a cartoon. Ho poi comparato le tante ricostruzioni della serata apparse sulla stampa tedesca (quotidiana e periodica, si tratta di decine di articoli) e turca (diverse vittime erano turche), aiutandomi con programmi di traduzione automatica. Ho cercato di ricostruire al meglio tempistica e dinamica della strage verificando ogni dettaglio sulla mappa di Hanau. Per quanto riguarda le fonti in inglese segnalo in particolare questo testo: Blyth Crawford, Florence Keen, “The Hanau Terrorist Attack: How Race Hate and Conspiracy Theories Are Fueling Global Far-Right Violence”, in «CTCSentinel», anno 13, n. 3, marzo 2020. È lo stesso metodo che ho utilizzato per ricostruire le altre incursioni, azioni violente e stragi raccontate in questo libro. Riportare ogni volta tutte le fonti giornalistiche appesantirebbe oltremisura quest’apparato di note, che invece intendo mantenere leggero per quanto possibile. Ogni dettaglio di questi episodi è verificabile cercandolo in rete. La maggior parte delle note che seguiranno consiste nell’indicazione di fonti non esplicitate nel testo. Altre, in numero molto minore, introducono precisazioni e caveat o integrano il testo con ulteriori informazioni.

3 Tony Podesta è un lobbista di Washington D.C., fratello del John Podesta di cui si parlerà nel capitolo uno. Per QAnon sono entrambi potenti membri della Cabal.

Capitolo uno

La scia della Qometa

Le colpe di Hillary. La posta elettronica di Hillary. Una pizzeria a Washington D.C. Soldiers of 4chan. Alex Jones e altri avvelenatori. I dolori del giovane Maddison. Quando un uomo con una pizza incontra un uomo con un fucile.

All’inizio di giugno del 2016 la campagna per le presidenziali era entrata nel vivo. Le convention che avrebbero ufficializzato le candidature erano imminenti. Nei due partiti rivali le situazioni erano piuttosto diverse: mentre Donald Trump avanzava a grandi passi nelle primarie repubblicane, Hillary Rhodam Clinton era in un momento difficile. Sul fianco sinistro pativa la concorrenza di un candidato dal successo inatteso, Bernie Sanders, anziano ma portato sugli scudi da una nuova generazione di attivisti provenienti da Occupy e altri movimenti di base; sul fianco destro i repubblicani e Fox News la prendevano di mira con accanimento, addossandole varie colpe risalenti a quand’era segretaria di stato dell’amministrazione Obama (2008-2013).

Colpe ne aveva eccome: Obama e Clinton avevano proseguito la «guerra infinita» di Bush, solo con meno fanfare e meno retorica religiosa. Su quattrocentosette attacchi coi droni eseguiti dalla Cia e dal Pentagono fino al 2016, ben trecento erano avvenuti con Clinton segretaria di stato. Secondo il Bureau of Investigative Journalism a metà del 2011 gli attacchi avevano già fatto almeno trecentottantacinque vittime civili in Afghanistan, Pakistan e Yemen, inclusi centosessanta bambini.4 Almeno, perché, come aveva scritto l’ex presidente Jimmy Carter sul New York Times, «non sappiamo quante centinaia di civili innocenti siano stati uccisi in quegli attacchi».5 Nella primavera del 2011 Clinton aveva anche insistito per bombardare la Libia insieme agli alleati Nato, presentando l’entrata nel conflitto come un do ut des, un favore restituito a Regno Unito, Francia e Italia per la loro partecipazione alla guerra in Afghanistan.6 Quello scambio di cortesie aveva precipitato la Libia nel caos e nella guerra civile permanente.

Ma la destra la attaccava su altro. La mattina dell’11 settembre 2012 una folla in tumulto – al cui interno, secondo fonti di intelligence, agivano terroristi salafiti del gruppo Ansar al-Shari’a – aveva raggiunto il quartiere diplomatico di Bengasi e preso d’assalto il consolato americano. Nell’attacco erano morti l’ambasciatore J. Christopher Stevens e un funzionario del dipartimento di stato. L’indomani, sempre a Bengasi, Ansar al-Shari’a aveva ucciso anche due contractor della Cia. Fox News additava Clinton come responsabile – non solo politica ma diretta – delle falle di sicurezza e delle indecisioni che avevano causato quelle morti. Della catena di eventi si era occupata una commissione parlamentare che stava per divulgare le proprie conclusioni.

Clinton era anche accusata di aver violato le leggi federali usando il proprio indirizzo email privato per comunicazioni riservate. Su quello stava indagando l’Fbi.

L’attenzione per la corrispondenza della candidata democratica era dunque già alta quando il 15 giugno il sedicente hacker «Guccifer 2.0» – in realtà un nickname usato dall’intelligence militare russa7 – aveva pubblicato sul sito DCLeaks oltre diciannovemila email di dirigenti e funzionari del Partito democratico. Le più vecchie erano del gennaio 2015, le più recenti del maggio 2016. Anche solo leggendo a campione si capiva che il comitato nazionale del partito, temendo una svolta troppo a sinistra, si era chiesto come favorire Clinton e ostacolare la campagna di Sanders.

Il 21 luglio 2016, alla convention repubblicana di Cleveland, ogni volta che dal palco Trump aveva nominato «Hillary» – anzi, «Crooked Hillary», Hillary la disonesta – la folla dei delegati era esplosa nel grido: «LOCK HER UP!», rinchiudetela.

Il 22 luglio, tre giorni prima della convention democratica a Philadelphia, anche Wikileaks aveva pubblicato le diciannovemila email, aggiungendone altre. Lo scandalo aveva spinto alle dimissioni parte dello staff del comitato nazionale democratico, in primis la presidente Debbie Wasserman Schultz, che in alcuni scambi aveva definito il manager della campagna di Sanders «un somaro» e «un dannato bugiardo».

Nei mesi successivi erano arrivate altre email, tante che nell’autunno 2016 l’intero corpus ne contava centomila, oltre a migliaia di file allegati. Sul loro contenuto, e su modalità e responsabilità del trafugamento, erano in corso indagini federali.

Dalla pubblicazione di quella corrispondenza erano nate e si erano sviluppate diverse fantasie di complotto. Una in particolare era destinata a un enorme successo.8 Nata sul forum 4chan, era incentrata su immagini di bimbi in catene e abusi sessuali.

Tecnicamente 4chan era una «imageboard», una bacheca per immagini. In realtà era molto di più: un luogo della rete dove valeva tutto o quasi ed erano consentiti discorsi razzisti, misogini, antisemiti. Su 4chan avevano preso forma le retoriche dell’estrema destra “alternativa” americana, la cosiddetta alt-right. Su 4chan aveva preso piede la voga di mettere fra triple parentesi tonde nomi e cognomi di personaggi sgraditi per segnalare che erano ebrei: (((George Soros))), (((Steven Spielberg))), ecc. Da 4chan erano partite campagne di stalking e doxxing ai danni di gruppi o singoli individui. Il doxxing – da «docs», documenti – consisteva nel pubblicare dati sensibili di una persona incitando a denigrarla e perseguitarla. La più vasta campagna di doxxing e molestie era stata il “Gamergate”, una controffensiva maschilista contro il protagonismo e la presa di parola delle donne nel mondo dei videogame. Nel biennio 2014-2015 dossieraggi, attacchi mirati, minacce di stupro, tortura e morte avevano costretto a cambiare casa diverse autrici di giochi, giovani blogger e imprenditrici del settore.

Nella nuova fantasia di complotto esponenti di punta del Partito democratico e manager della campagna elettorale di Clinton partecipavano regolarmente a rituali esoterico-satanici durante i quali commettevano violenze su minori. Il tutto nei sotterranei del Comet Ping Pong, un ristorante-pizzeria di Washington D.C.

Da qui il nomignolo dell’affaire: Pizzagate.

Il Comet Ping Pong era in Connecticut Avenue, nel quartiere di Chevy Chase. Il nome era dovuto alla peculiare fusione di cucina e tennis da tavolo. Idea semplice ma brillante: arrivavi con la famiglia o con amici, ordinavi la pizza, e mentre aspettavi potevi farti una partita di ping pong. Il locale aveva la reputazione di spazio accogliente, inclusivo e aperto alla comunità Lgbtq. Lo stesso proprietario, James Alefantis, gay dichiarato, ne era un pilastro. Era anche un mecenate delle arti: nel Comet Ping Pong si allestivano mostre, si ospitavano installazioni e si suonava musica dal vivo. Come avevano scritto su Slate Christina Cauterucci e Jonathan L. Fischer:

Per quasi dieci anni il Comet è stato sia un punto di ritrovo per le giovani famiglie del quartiere, sia un luogo ospitale per gli eccentrici, le persone queer, gli outsider e la loro arte. Alefantis, che possiede un altro ristorante nella stessa via e a Washington è un formidabile promotore di iniziative artistiche, ospita a rotazione installazioni di artisti visivi locali. Ogni tanto i tavoli da ping pong sul retro vengono spostati per far spazio a concerti di artisti locali emergenti o di band in tournée che potrebbero tranquillamente riempire le sale più grandi in città. Mentre le famiglie mangiano la pizza, i punk di Washington applaudono i loro amici e i loro idoli.9

Il sociologo Jeffrey S. Debies-Carl aveva definito il Comet Ping Pong «un tangibile emblema di inclusività, tolleranza e altri valori progressisti che per l’alt-right fissata coi complotti sono una minaccia».10

Il Pizzagate era nato dalla sovrainterpretazione di alcune email della squadra di Clinton. Il coordinatore della campagna elettorale John Podesta aveva discusso con Alefantis di una cena di finanziamento da tenersi al ristorante. Gli esegeti di quelle email avevano notato che le iniziali di «cheese pizza» erano le stesse di «child pornography». A partire da questo la comunità aveva decifrato – o meglio: inventato – un linguaggio in codice nel quale «pasta» significava «bambino», «formaggio» significava «bambina», «salsa» era «orgia», e così via. Da qui l’idea che pezzi grossi del Partito democratico si ritrovassero nei sotterranei del Comet Ping Pong – che sotterranei non ne aveva, nemmeno un seminterrato – per violentare bambini durante riti satanici. Anche l’insegna del ristorante era chiaramente satanica: intorno alla scritta spiccavano quattro triangoli, ciascuno contenente una stella e una mezzaluna.

L’8 novembre Hillary Clinton aveva preso tre milioni e centomila voti in più di Trump, ma negli Stati Uniti non valeva il principio rivoluzionario «Una testa, un voto». Vigeva l’astruso sistema dei «Grandi elettori»,11 così Trump era diventato il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

A memoria di vivente non c’era campagna elettorale che non si fosse combattuta a suon di bufale, fandonie e colpi bassi. Ma la campagna presidenziale appena conclusa sembrava aver battuto ogni record. Il dizionario Oxford della lingua inglese non aveva atteso nemmeno un giorno: l’8 novembre stesso aveva annunciato la «Parola dell’anno 2016».

Dopo molte discussioni, dibattiti e ricerche, ecco l’Oxford Dictionaries Word of the Year 2016: post-truth.

Post-verità è un aggettivo «relativo a, o denotante, circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto agli appelli all’emozione e alle convinzioni personali».

[...] Nel giro di un anno il termine è passato dall’essere relativamente nuovo all’essere ampiamente compreso, con un verificato impatto sulla coscienza nazionale e internazionale. Il concetto di «post-verità» ha preso forma nell’ultimo decennio, ma quest’anno, nel contesto del referendum sulla Brexit nel Regno Unito e delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, il dizionario Oxford ha registrato un picco nel suo utilizzo, quasi sempre associato a un particolare sostantivo, nell’espressione «politica post-verità».

Un’altra espressione giunta alla ribalta in poco tempo e già divenuta un cliché era «fake news».12

Intanto la narrazione sul Pizzagate si era gonfiata, facendosi sempre più intricata e barocca, e da 4chan si era estesa al più frequentato Reddit. A quel punto l’avevano ripresa propagandisti e mestatori a tempo pieno, personaggi come Alex Jones, Mike Cernovich e Jack Posobiec, che l’avevano diffusa sui loro profili social e canali YouTube in un crescendo di sospetto e odio.

Faccione tondo e iperteso, voce roca da polipi cordali, il texano Alex Jones era uno dei nomi più noti dell’estrema destra americana. Conduttore radiofonico e televisivo, antisemita fino al midollo, da anni era a capo di un piccolo impero multimediale che gli consentiva di amplificare qualunque storia e, soprattutto, gli garantiva ricche entrate. Il più noto dei suoi siti, InfoWars, aveva un fatturato di venti milioni di dollari l’anno e generava profitti per cinque milioni, grazie alla vendita di integratori e sedicenti “rimedi” alternativi. Prodotti come il Brain Force Plus, «nootropo e stimolatore neuronale di ultima generazione», 40 dollari a flaconcino, o le gocce Super Male Vitality, 70 dollari a boccetta, o anche il dentifricio Superblue senza fluoruro, 11 dollari a tubetto. Secondo un vecchio leitmotiv dell’estrema destra americana il fluoruro era parte di un complotto per ridurre il quoziente di intelligenza e controllare le menti degli americani. Aggiungerlo all’acqua potabile in certe zone del paese, con la scusa dell’igiene dentale, era stato un crimine. Per la precisione, un crimine comunista.13 Era certamente per combattere i comunisti che InfoWars vendeva filtri da rubinetto – anche portatili, 189 dollari l’uno – e caraffe filtranti come la Propur, 79,95 dollari.

La fama di Jones era cresciuta a dismisura dopo la strage alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, Connecticut. Il 14 dicembre 2012 Adam Lanza, un ventenne con disturbi mentali, era entrato alla Sandy Hook armato di un fucile e due pistole semiautomatiche, e aveva ucciso venti bambini tra i sei e sette anni, oltre a sei adulti, compresa la preside. Prima di uscire di casa, Lanza aveva anche ucciso sua madre. Circondato dalla polizia, si era ammazzato sparandosi in testa. Ma secondo Alex Jones la strage non c’era mai stata. Si era trattato di un’operazione false flag – «sotto falsa bandiera» – del governo, parte di un complotto per imporre restrizioni al possesso di armi da fuoco. Le vittime non erano nemmeno mai esistite. I loro genitori erano crisis actors, impostori ingaggiati ad hoc.

Quelle affermazioni avevano portato allo stalking – virtuale e fisico – di padri e madri già in lutto per la morte violenta e insensata dei loro figli. Ogni tanto qualche estraneo, suggestionato da InfoWars, guidava fino a Newtown, si appostava davanti alla casa dei genitori di una vittima e li affrontava in strada esigendo prove che il loro bimbo o la loro bimba fossero mai esistiti. A Jones erano piovute addosso decine di querele, con richieste di danni morali e materiali per milioni di dollari. Lui proseguiva imperterrito, e nel dicembre 2015 aveva ottenuto il plauso di Trump in persona, ospite del suo show in collegamento da New York: «Hai una reputazione fantastica», gli aveva detto The Donald.

InfoWars aveva dedicato al Pizzagate diversi video. Il più noto si intitolava Pizzagate Is Real e in poche settimane aveva rastrellato due milioni di visualizzazioni.

Mike Cernovich, agitatore razzista e misogino, esponente dell’alt-right, era stato uno dei protagonisti del Gamergate. Nonostante la voce stridula e la zeppola, sapeva essere un oratore trascinante. In un lungo video su YouTube aveva detto che il Pizzagate era pura verità, aggiungendo che quasi tutti i nomi di punta dell’informazione e gran parte dei divi di Hollywood erano dediti alla pedofilia.

Jack Posobiec aveva il grado di sottotenente della marina e lavorava in una sede distaccata dell’Office of Naval Intelligence. Era un noto propagandista dell’alt-right e uno degli animatori della rete Citizens for Trump. Il 16 novembre si era recato al Comet Ping Pong per «indagare» sul Pizzagate. Aveva trasmesso la propria visita via Periscope, l’applicazione di Twitter per le dirette video. Quando aveva cercato di filmare bambini che festeggiavano un compleanno nella sala sul retro il personale gli aveva chiesto di interrompere la diretta e uscire dal ristorante. C’era stato un battibecco. Posobiec aveva cercato di pagare quel che aveva consumato. Gli avevano detto che offriva la casa, purché se ne andasse. Durante il blitz l’hashtag #Pizzagate era entrato nei Trending Topic. Ci era rimasto per ore.

Dopo la discesa in campo di Jones, Cernovich e Posobiec, il sito e la pagina Facebook del ristorante, il profilo Instagram di Alefantis e i recapiti di diversi dipendenti erano stati presi d’assalto. Commenti ingiuriosi, hatemail, telefonate minatorie, minacce di morte. Finché un giorno...

Maddison aveva ventott’anni. Viveva a Salisbury, una cittadina di trentamila abitanti in North Carolina. Da ragazzo aveva avuto qualche incontro sfortunato con la legge: un paio di condanne per stupefacenti, un altro paio per guida in stato di ubriachezza. Nel 2009 aveva abbandonato il college. Ora lavorava nel magazzino della Food Lion, catena di supermercati che aveva la sede centrale proprio a Salisbury. Quando faceva il turno di notte stava lì per dodici ore filate. Separato dalla moglie, aveva due bambine: una di sette anni – non era sua figlia naturale ma era come se lo fosse – e una di quattro. Diverse foto lo mostravano con loro, capelli e barba biondi, sorridente. Si vedeva che era un padre affettuoso.

Maddison non era di nessun partito. Alle ultime presidenziali non aveva votato. In compenso era molto religioso. Si era fatto tatuare sulla schiena un passaggio della Bibbia:

Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi (Isaia, 40, 30-31).

Nel 2010, dopo il terremoto che aveva raso al suolo Haiti, Maddison aveva trascorso diversi mesi a Grand-Goâve, settanta chilometri a ovest di Port-au-Prince, come membro di una missione umanitaria organizzata dalla sua chiesa, la North Shore Christian Fellowship.

Maddison amava camminare: lunghi viaggi a piedi verso ovest, valicando montagne, costeggiando fiumi, raggiungendo parchi nazionali. Nel 2009 aveva tentato di percorrere da cima a fondo il Colorado Trail, cinquecento chilometri, ma a causa di intemperie si era fermato a metà. Grazie alle camminate, diceva, era guarito dalla dipendenza da internet.

Aveva sempre avuto una passione per i complotti. Gli era venuta da ragazzino, dopo l’attentato alle Torri gemelle. Una volta aveva letto che sotto l’aeroporto di Denver c’era un reticolo segreto di tunnel dove si riunivano i massoni, o gli extraterrestri, o massoni ed extraterrestri insieme. L’idea lo aveva intrigato. Navigando in rete aveva scoperto che tunnel, bunker e basi segrete erano ovunque.

Il 24 ottobre 2016, uscendo dal lavoro, Maddison aveva investito un tredicenne. Era sceso dall’auto e aveva aspettato la polizia. Gli amici del ragazzino lo avevano insultato.

Dopo quella storiaccia era cambiato. Si sentiva in colpa e aveva incubi. Era tornato alle lunghe navigazioni su internet e in poco tempo era scivolato nel rabbit hole. Non faceva che leggere di complotti, guardare video su video... Seguiva la pagina Facebook di Alex Jones. Grazie a lui aveva scoperto il Pizzagate.

A novembre i vigili del fuoco di Salisbury avevano depennato Maddison dall’elenco dei volontari, perché non andava più all’addestramento né rispondeva alle chiamate. Ma non era perché non volesse più soccorrere la gente, anzi. Stava pensando a un’altra missione. Voleva tornare l’uomo che era stato ad Haiti. Voleva salvare bambini, riscattarsi per quel tredicenne che aveva mandato all’ospedale. Voleva agire. Doveva farlo. Com’era possibile che, con tutti gli orrori che avvenivano nei suoi sotterranei, il Comet Ping Pong fosse ancora aperto e Alefantis e i suoi compari pedofili restassero impuniti?

Aveva cercato compagni di viaggio, ma invano. Con un sms aveva chiesto a un amico: «Ci sei per la causa?».

«Quale causa?».

«Assaltare una cerchia di pedofili, forse sacrificare le vite di pochi per le vite di molti. Resistere a un sistema corrotto che rapisce, tortura e stupra neonati e bambini nel nostro stesso cortile».

L’amico non aveva più risposto.

La mattina di domenica 4 dicembre Maddison aveva preso la sua Toyota Prius e guidato per quasi seicento chilometri, più di cinque ore di viaggio, per raggiungere Washington D.C. Sull’autostrada aveva girato un video per le sue bambine: «Non posso farvi crescere in un mondo così corrotto dal male senza almeno lottare per voi, per altri bambini come voi». Aveva aggiunto che le amava «più di qualunque cosa al mondo», e sperava di poterglielo dire ancora, e se non fosse andata così, che non dimenticassero mai il suo amore.

Poco dopo le tre del pomeriggio Maddison aveva parcheggiato in Connecticut Avenue. Era sceso dall’auto impugnando un fucile semiautomatico Colt AR-15 99 millimetri. Alla cintola aveva una Colt calibro 38 e un pugnale. In macchina aveva lasciato un fucile a pompa e una scatola di munizioni. Indossava un paio di jeans chiari e una felpa blu con cappuccio su una t-shirt azzurra.

Quand’era entrato al Comet Ping Pong aveva scatenato un fuggi fuggi.

Muovendosi a grandi passi, puntando ogni tanto l’arma intorno, Maddison aveva cercato l’accesso ai sotterranei, alle stanze segrete. Dov’erano i bambini schiavi? Aveva sparato alcuni colpi, senza ferire nessuno, danneggiando una porta, un computer e un tavolo da ping pong. Dov’erano, quei dannati sotterranei?

Fuori intanto era arrivata la polizia. Sopra il locale volteggiava un elicottero.

Maddison era rimasto nel ristorante tre quarti d’ora, finché non aveva capito: non c’era nessuna scala. Nessuna botola. Nessun vano segreto e nessun bambino schiavo. La realtà gli era crollata addosso.

A quel punto era uscito e, le mani dietro la nuca, si era arreso alla polizia. «Le mie informazioni non erano accurate al cento per cento», avrebbe detto in commissariato.

La fantasia di complotto a cui si era abbandonato lo aveva subito incluso: Maddison era un crisis actor e il suo blitz era stato un’operazione false flag per screditare chi denunciava il Pizzagate.

Ironia della sorte, Maddison aveva davvero sognato di fare l’attore. Aveva recitato minuscoli ruoli in film sconosciuti, produzioni locali. Adesso il suo nome era ovunque. Edgar Maddison Welch.

Poi erano iniziate le prese di distanza. Alex Jones aveva dichiarato che la storiella dei riti satanici sotto il ristorante era «assurda». Si trattava di una «cortina fumogena». Chi aveva messo in giro le cazzate sul Pizzagate lo aveva fatto per sviare l’attenzione. Da cosa? Dalle “vere” rivelazioni trovate nelle email di Podesta. Perché qualcosa c’era, si capiva: riferimenti a culti segreti, a rituali di magia nera...

Jones era stato uno dei principali amplificatori delle calunnie contro Alefantis e il Comet Ping Pong. Dunque, secondo la sua stessa logica, doveva essere parte del complotto.

Il giorno dopo il blitz, Mike Cernovich si era detto estraneo all’intera faccenda e aveva dichiarato: «Non ho mai detto di essere sicuro che la storia fosse vera». Solo due settimane prima aveva pubblicato un video intitolato Sì, il #Pizzagate è reale. Quello che i media spacciatori di fake news non vi dicono.

Anche Jack Posobiec aveva fatto dietrofront e definito «stupida» la fantasticheria sul Pizzagate.

Dopo l’arresto di Welch, Reddit aveva chiuso un proprio forum – in gergo un «sub-reddit» – dedicato al Pizzagate, per violazione delle regole anti-doxxing della piattaforma. Lo spazio era stato usato per diffamare e perseguitare Alefantis e i suoi collaboratori.

A quel punto il Pizzagate era uscito dai radar dei mezzi di informazione, e la sua presa sull’immaginario era parsa affievolirsi. In realtà la storia si era evoluta, e all’inizio del 2017 era confluita in una fantasticheria più vasta, il Pedogate. La narrazione non era più incentrata sul Comet Ping Pong. Quello era solo uno dei tanti posti in cui accadevano cose turpi. I pedosatanisti erano ovunque, annidati nel potere statale e federale, e gestivano una colossale tratta di bambini.

Di lì a pochi mesi quel flusso di immagini sarebbe confluito in QAnon.

Nel marzo 2017 Alex Jones, dopo una diffida degli avvocati di Alefantis, aveva pubblicato un video in cui si cospargeva la chierica di cenere:

Nei nostri commenti su quello che poi è diventato il Pizzagate ho detto cose su mr. Alefantis per le quali, ripensandoci oggi, provo rammarico, e per le quali gli chiedo scusa. Ci scusiamo per tutti i casi in cui i nostri commenti sono sembrati affermazioni negative su mr. Alefantis e il Comet Ping Pong, e speriamo che faccia lo stesso chiunque abbia detto cose simili parlando del Pizzagate.14

Il 22 giugno 2017 Edgar Maddison Welch era stato condannato a quattro anni di carcere.


4 Cfr. Bureau of Investigative Journalism, “Drone Warfare”, (on line).

5 Jimmy Carter, “A Cruel and Unusual Record”, The New York Times, 24 giugno 2012.

6 «Abbiamo chiesto ai nostri alleati, i nostri alleati nella Nato, di andare in Afghanistan con noi dieci anni fa. Ci sono stati, e molti di loro ci sono stati nonostante non avessero subito attacchi... Riguardo alla Libia, abbiamo cominciato a sentire il Regno Unito, la Francia, l’Italia e altri nostri alleati Nato. La cosa è vitale per i loro interessi nazionali». Hillary Clinton durante il programma della Nbc Meet The Press, “Meet the Press transcript for March 27, 2011”, Nbc (on line), traduzione mia.

7 Cfr. Kevin Poulsen, Spencer Ackerman, “Exclusive: ‘Lone DNC Hacker’ Guccifer 2.0 Slipped Up and Revealed He Was a Russian Intelligence Officer”, The Daily Beast, 22 marzo 2018.

8 Oltre al Pizzagate tra le vare fantasie di complotto generate dalla fuga di email vanno citate almeno quelle sull’omicidio di Seth Rich, un dipendente del Comitato nazionale democratico ucciso per strada la notte del 10 luglio 2016, nel quartiere Bloomingdale di Washington D.C., probabilmente in seguito a una rapina finita male. Nonostante l’assenza di qualunque collegamento tra Rich e le email trafugate, si diffuse la voce che a passarle a Wikileaks fosse stato lui. Dichiarazioni ambigue di Julian Assange sembrarono corroborare quella storia. Ne nacque la fantasia «Seth Rich eliminato dal deep state perché era un whistleblower». Anche media russi e persino il profilo Twitter dell’ambasciata russa nel Regno Unito contribuirono a diffonderla. Cfr. almeno “The Seth Rich Conspiracy Theory”, Snopes (on line), 25 maggio 2017; Oliver Darcy, “Seth Rich conspiracy theorists retract and apologize for false statements as they settle lawsuit”, Cnn (on line), 14 gennaio 2021.

9 Christina Cauterucci, Jonathan L. Fischer, “Comet Is D.C.’s Weirdo Pizza Place. Maybe That’s Why It’s a Target”, Slate (on line), 6 dicembre 2016, traduzione mia.

10 Ivi.

11 A eleggere il presidente degli Stati Uniti non è direttamente la cittadinanza ma il Collegio elettorale, nel quale ciascuno stato ha una quota di «grandi elettori» corrispondente al numero dei propri rappresentanti al Congresso. In totale, dunque, il Collegio è composto da cinquecentotrentotto membri. Cfr. National Conference of State Legislatures, “The Electoral College”, (on line), 11 novembre 2020.

12 Sui limiti dell’espressione «fake news» e sugli equivoci che ingenera cfr. Claire Wardle, “Fake News. It’s complicated”, First Draft Footnotes, medium.com/@firstdraft, 16 febbraio 2017; Claire Wardle, Hossein Derakhshan, Information Disorder: Toward an interdisciplinary framework for research and policy making, Consiglio d’Europa, Strasburgo 2017.

13 Cfr. il film di Stanley Kubrick del 1964 Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (in italiano Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) in cui la fantasia di complotto sulla fluorizzazione dell’acqua come macchinazione comunista è il pretesto con cui il generale Jack D. Ripper scatena la guerra atomica. La fantasia non è un’invenzione degli sceneggiatori ma un cavallo di battaglia di gruppi come la John Birch Society, cfr., nel presente libro, «QAnon: filamenti di genoma transatlantico collected from good authorites», capitolo sei, “Gli anni Sessanta e The Paranoid Style”.

14 Eli Rosenberg, “Alex Jones Apologizes for Promoting ‘Pizzagate’ Hoax”, The New York Times, 25 marzo 2017.

Capitolo due

QAnon, nascita e primi sviluppi, 2017-2018

La vanvera prima della tempesta. Le prime gocce e già trabocca il vaso. Le briciole e i fornai. Tu chiamala, se vuoi, «Cabal». Hunter S. Thompson e l’adrenocromo. The Storm. Tra Reddit e 8chan. Tra destra e sinistra. John-John è vivo e lotta insieme a noi. Estensione del dominio della lotta. Quella volta che Matthew sul ponte. L’accampamento del Male. Il Trump di QAnon e quello vero. Trentatré Trumpini entrarono a Tampa tutti e trentatré q-anoneggiando.

La sera del 6 ottobre 2017, prima di cenare nel salone della Casa bianca con una delegazione di alti ufficiali delle forze armate accompagnati dalle famiglie, Trump aveva posato per una foto ricordo. Strizzando gli occhi alla luce dei flash e sogghignando aveva indicato i presenti e detto:

«Voi sapete cosa vuol dire questo? Forse è la quiete prima della tempesta».

«Quale tempesta?», gli avevano chiesto i reporter.

«Potrebbe essere la quiete prima della tempesta», si era limitato a ribadire.

«Si riferisce all’Iran? All’Isis? O a cos’altro?».

Il presidente non aveva risposto e aveva congedato la stampa. I cronisti erano usciti tra sbuffi e mugugni.

Tutti si erano chiesti a cosa avesse alluso... se aveva alluso a qualcosa. Nove volte su dieci Trump apriva la bocca per darle aria, improvvisando, facendo battute senza senso. Era stata una di quelle nove o...? Forse era un riferimento alle tensioni con l’Iran per via del suo programma nucleare? O con la Corea del Nord per via dei suoi test missilistici? Forse c’entrava la guerra in Siria?

Anche su 4chan, nell’area tematica /pol/ – cioè dedicata alla politica –, era partita una discussione intitolata Calm Before The Storm.

Proprio in quel thread, il 28 ottobre 2017, era apparso il primo messaggio firmato «Q». Per la precisione, «Q Clearance Patriot».

Estradizione di HRC [Hillary Rhodam Clinton] già valida da ieri in diversi paesi in caso di fuga oltreconfine. Blocco del passaporto approvato a partire dal 30/10 alle 12:01. Aspettarsi rivolte di massa organizzate in segno di sfida e altre fughe dagli Usa. I M[ilitari] Usa condurranno l’operazione mentre la Gn [Guardia nazionale] si attiva. Verifica: individuare un membro della Gn e chiedere se è stata attivata per il servizio il 30/10 nella maggior parte delle grandi città.

Il giorno dopo ne era arrivato un altro dove si diceva: «HRC in stato di fermo, non di arresto (per ora)».

Nient’altro che un esercizio di fiction sul solito tema «Lock her up!».

L’autore faceva intendere di essere un funzionario di alto livello del governo federale. Per via dell’autorizzazione Q (Q Clearance) di cui millantava il possesso, era diventato l’Anonimo Q.

QAnon.

Di lì a poco aveva cominciato a firmarsi, semplicemente, «Q».

Gli utenti di 4chan credevano la Q Clearance una licenza passepartout che dava accesso a ogni sorta di segreti di stato. In realtà era un permesso rilasciato dal Dipartimento dell’energia, relativo alla sicurezza di centrali e basi nucleari. Non aveva niente a che fare coi dietro-le-quinte della Casa bianca, né attinenza con quello che l’anonimo, o il gruppo di anonimi, raccontava.

Più tardi qualcuno avrebbe definito QAnon un’operazione a tavolino, una «psy-op» – operazione di guerra psicologica – della Cia, ma io dubitavo esistesse un umano tanto preveggente da sapere che quelle righe avrebbero fatto nascere una setta globale.

Anche perché nella storia recente di 4chan si erano visti altri “anon”, sedicenti whistleblower governativi – FbiAnon, CiaAnon e HliAnon (dove Hli stava per High Level Insider) che nessuno aveva preso sul serio. Il loro periodico apparire era parte del cazzeggio tipico di quel forum.

Ma Q era arrivato in un momento particolare, mentre gli interrogativi sulla bizzarra frase di Trump incrociavano la scia del Pedogate. Nei messaggi non c’erano riferimenti a pedofilia e satanismo, ma la comunità di 4chan li aveva letti in quella luce, e una nuova sintesi aveva preso a formarsi. Un nuovo scenario.

Q mandava dispacci stringati ed enigmatici. In un’occasione aveva scritto: «Queste sono briciole, non potete immaginare il quadro completo». Forse alludeva alle briciole di Pollicino, oppure intendeva dire che avrebbe svelato un frammento alla volta.

Molte «briciole» non sembravano avere senso, o meglio, erano aperte a qualunque interpretazione: «Il futuro prova il passato»; «Impara a leggere la mappa»; «Il Padrino III»;... Alcuni dispacci erano sfilze di acronimi e numeri, come «Dnc -> (Sr 187) (Ms-13) -> Dws». Qualcuno aveva notato il ricorrere del numero diciassette e, con mirabile logica ricorsiva, aveva spiegato: la Q è la diciassettesima lettera dell’alfabeto. Da quell’ultimo dettaglio era derivata una spasmodica attenzione per l’apparire del diciassette nei discorsi e nei tweet di Trump. Qualunque uso del numero da parte del presidente era letto come un ammicco verso QAnon.

Nel novembre 2017 i messaggi di Q erano stati ripresi e amplificati da vari propagandisti di destra e profittatori. Un’inchiesta della Nbc aveva ricostruito nei dettagli il lavoro fatto da tre persone in particolare: Coleman Rogers e sua moglie Christina Urso, entrambi amministratori di 4chan, e la loro amica Tracy Diaz, youtuber destrorsa di pallida fama. Insieme avevano deciso di amplificare QAnon e trarne profitti.15 Diaz aveva caricato su YouTube un video intitolato /POL/- Q Clearance Anon - Is it #happening???. Con le sue duecentocinquantamila visualizzazioni era stato decisivo per allargare il bacino d’utenza.

A quel punto, del fenomeno si erano accorti i russi. Stando a un’inchiesta dell’agenzia Reuters, il video di Diaz era stato spinto su Twitter da quattromila account – in gran parte bot – sospesi nel 2018 e 2019 perché collegati all’intelligence di Mosca. #QAnon era stato l’hashtag più usato da quei profili, per un totale di diciassettemila utilizzi.16

Intanto si era formata una comunità di «fornai» (bakers) che raccoglievano le «briciole» e le aggiungevano a un «impasto» (dough), ovvero cercavano riferimenti nascosti, puntini da unire, elementi da forzare dentro uno schema in apparenza coerente.

Ecco com’era nata la narrazione The Storm.

I militari erano i buoni. Nel 2015 Trump aveva risposto per amor di patria a una chiamata del Pentagono e accettato di candidarsi alla presidenza per capeggiare una lotta all’ultimo sangue contro un governo mondiale occulto di pedosatanisti, la cosiddetta Cabal. Si pronunciava con l’accento sulla seconda a.

In italiano si poteva tradurre con «cricca», «cosca», «congrega». Il termine, in uso dal Seicento, derivava da «cabala». Traeva dunque origine dall’idea di un sapere segreto ebraico. Se molti a cui capitava di usarlo erano ignari di quell’etimo e della possibile connotazione, l’utilizzo da parte di QAnon era chiaramente allusivo e venato di antisemitismo.

Secondo QAnon una cosca di politici – in gran parte democratici, ma anche repubblicani ostili a Trump – e figure dell’establishment controllava da decenni il governo americano e gran parte del pianeta, e al contempo adorava Satana e gestiva una vasta e capillare rete di pedofili.

La Cabal aveva preso il potere negli Stati Uniti dopo l’uccisione di John F. Kennedy e da allora aveva in mano lo «stato profondo» (deep state)... con l’eccezione delle forze armate. In teoria, questo avrebbe dovuto sollevare dubbi su cosa significasse «avere in mano lo stato profondo».

La descrizione della Cabal si era arricchita di sempre più dettagli. Ne aveva fatto parte ogni presidente prima di Trump.17 Ne era membro ogni suo avversario politico, da Barack Obama e sua moglie Michelle – che secondo QAnon era una trans, ergo «un uomo», il che faceva di Barack «un frocio» – alle odiatissime Nancy Pelosi e Hillary Clinton fino ai movimenti Black Lives Matter e Antifa. Strani confratelli, questi ultimi, per il senatore John McCain, punto di riferimento dei repubblicani anti-Trump e reazionario della più bell’acqua...

Appartenevano alla Cabal anche grossi nomi del cinema, delle arti e della cultura pop, come Tom Hanks (il più tirato in ballo), Celine Dion, Oprah Winfrey, Marina Abramović e Beyoncé. Immancabile il magnate George Soros, vera e propria figura-jolly del cospirazionismo di quegli anni. Poi c’erano alcune grandi aziende, meglio se straniere. Ad esempio, aveva un ruolo importante la Cemex, multinazionale messicana dei materiali da costruzione, il cui vero business era il traffico di bambini.

Domanda da tenere in mente: perché QAnon non additava come membri della Cabal Mark Zuckerberg, che possedeva e controllava Facebook, la più grande macchina comunicativa del pianeta, o Jeff Bezos, capo supremo di Amazon e uomo più ricco del mondo?

Oltre agli stupri, durante gli incontri segreti della Cabal si svolgevano rituali di vampirismo e cannibalismo. Il 9 luglio 2016 Hillary Clinton aveva partecipato, a casa di Marina Abramović, a una cena satanica con pietanze a base di latte umano, sperma e sangue mestruale.

Nelle prime ricostruzioni, rituali e abusi non avevano un fine utilitario, a parte quello di soddisfare pulsioni bestiali e indulgere nella più ripugnante depravazione. Ma ben presto il fine era apparso, nitido, inequivocabile: estrarre adrenocromo. I bambini dovevano essere in preda al dolore e al terrore, perché la loro ghiandola surrenale pompasse adrenalina e, come prodotto secondario, adrenocromo. Il corpo umano ne produceva solo piccole quantità, ergo servivano molti bambini. La Cabal ne teneva in schiavitù migliaia, forse milioni.

Ma a che serviva l’adrenocromo?

Il composto chimico era entrato nella cultura pop grazie a un excursus satirico dello scrittore Hunter S. Thompson contenuto nel suo libro più famoso, Fear and loathing in Las Vegas (1971), e messo in scena nell’omonimo film di Terry Gilliam (1998). Nel romanzo il Dr. Gonzo mostrava al suo amico Raoul Duke una boccetta di adrenocromo e diceva che al confronto la mescalina «sembra un gingerino». Nella conversazione che seguiva, il lettore veniva a sapere che l’adrenocromo «non si può comprare», ma solo estrarre «dalla ghiandola surrenale di un corpo umano vivo». A Gonzo lo aveva dato «uno di quei freak satanisti» che gli aveva anche «offerto sangue umano».

In quel passaggio, come in altri del libro, Thompson prendeva per i fondelli l’isteria seguita ai delitti della Family di Charles Manson e le leggende macabre che, nell’America dei primi anni Settanta, circondavano il declino del sogno hippie. Quasi mezzo secolo dopo, uno dei più diffusi video di QAnon aveva preso quel brano alla lettera, citandolo come se fosse non-fiction.

Secondo i seguaci di QAnon l’adrenocromo, oltre ad avere un potente effetto allucinogeno, era un elisir di lunga vita. Aveva poteri rinvigorenti e ringiovanenti, ecco perché politici e vip lo bramavano ed erano disposti a tutto pur di ottenerlo.

In quelle fantasie non era difficile riconoscere una vecchia calunnia antigiudaica, l’«accusa del sangue», circolata in Europa dall’undicesimo secolo fino all’inizio del ventesimo. Si diceva che gli ebrei rapissero e uccidessero bambini cristiani, per usarne il sangue come ingrediente dei dolci tradizionalmente mangiati a Pasqua.

L’adrenocromo, nella realtà, era una sostanza molto più banale e facile da reperire. Per ottenere adrenalina non era necessaria una ghiandola surrenale: si poteva sintetizzare in laboratorio. Accadeva ogni giorno, e il processo era noto da più di cent’anni. Dall’ossidazione dell’adrenalina si otteneva l’adrenocromo, un cui derivato, il carbazocromo, era usato come farmaco per l’epilessia, oltreché come emostatico e per curare le emorroidi. I farmaci a base di carbazocromo erano prodotti in molti paesi compresa l’Italia e si trovavano in commercio con vari nomi – Adona, Fleboside, Anaroxyl, Medostyp – senza bisogno di seviziare e dissanguare bambini. Li prescriveva il medico di base.

«Abbiate fiducia nel piano», diceva QAnon. Fiducia nei «cappelli bianchi», cioè i buoni, contrapposti ai «cappelli neri» del deep state. Abbiate fiducia, la Tempesta è vicina. Abbiate fiducia nel presidente, Where We Go One We Go All, dove andrà uno andremo tutti, #WWG1WGA. Trust the plan, perché Trump è un genio.

Di tutte le boutade di QAnon, quella era la più inverosimile.

Trump era un genio. Stava lavorando nell’ombra e giocando una «partita a scacchi in 4D». La partita sarebbe finita con la Tempesta, il momento in cui la giustizia definitiva avrebbe colpito la rete pedofila, e i capi di quest’ultima sarebbero stati imprigionati a Guantanamo e giustiziati in massa. Il Dipartimento della giustizia aveva già pronti venticinquemila mandati di cattura, al momento sigillati, destinati alla dirigenza democratica e ai principali esponenti della Cabal. La missione di Q era preparare i seguaci al gran giorno.

E il gran giorno era vicinissimo, sempre imminente. Anzi tutto era già cominciato. Il 30 ottobre, nel suo secondo messaggio, Q aveva scritto che Hillary era già detenuta. Strano però che continuasse ad apparire in pubblico. Spiegazione: quella non era la vera Hillary, ma un clone. Anche Obama era un clone.

Durante la Tempesta, aveva scritto Q il 1o novembre, Trump avrebbe oscurato ogni mezzo di informazione mainstream – tv, radio, siti di giornali – e parlato alla nazione tramite l’Emergency Broadcast System, rete progettata per raggiungere i cittadini in caso di guerre, calamità o altri eventi straordinari. Ma l’Ebs non esisteva più dal 1997. Lo aveva sostituito un altro sistema, l’Eas (Emergency Alert System). Possibile che un funzionario in possesso della Q Clearance ne fosse all’oscuro? Ma no, l’errore doveva essere intenzionale. Doveva esserci qualche significato nascosto.

Ad ogni modo, che avrebbe detto Trump agli americani?

Avrebbe annunciato il Grande risveglio. La costruzione di una nuova società comandata da lui e dai militari.

Non era chiaro perché mai Trump avesse autorizzato qualcuno a preavvertire i suoi nemici, per giunta su un forum spazzatura come 4chan, rivelando dettagli di un piano in teoria segretissimo. Perché Q e i suoi esegeti bruciavano a Trump l’effetto sorpresa, anticipando ogni mossa e le date precise? E come mai chi era additato come membro della Cabal non fuggiva, né si muoveva per bloccare Trump? La Cabal controllava gli Stati Uniti, anzi, mezzo mondo, ma le toccava assistere, impotente, al realizzarsi del piano che l’avrebbe tolta di mezzo.

Nel mondo “risvegliato” Trump avrebbe fornito energia gratis a tutti, grazie a un’ultramoderna tecnologia ancora segreta, ma della cui esistenza erano edotti milioni di commentatori da social.

Nel mondo reale, invece, Trump era legato a doppio filo alle industrie del carbone e del petrolio, delle quali tutelava gli interessi fin dentro il circolo polare artico.18

Intanto Rogers, Urso e Diaz avevano creato una nuova comunità su Reddit chiamata CBTS _Stream. CBTS stava per «Calm Before The Storm». Su Reddit, e poi su altri social media, la narrazione della Tempesta e del Grande Risveglio si era gonfiata ulteriormente.

Il primo articolo allarmato su QAnon lo aveva scritto Paris Martineau sulla rivista New York il 19 dicembre 2017. Cominciava così:

Una nuova teoria del complotto chiamata “la Tempesta” ha colpito le zone più luride di internet come, be’, una tempesta. Al pari del Pizzagate, la cospirazione include società segrete, un giro di traffico sessuale di bambini gestito (in parte) dal satanico Partito democratico e, naturalmente, innumerevoli salti logici e ipotesi paranoiche che non reggono alla minima verifica basata sui fatti. A differenza del Pizzagate, però, The Storm non si concentra su un solo isolato di Washington, o sulle email di John Podesta. È molto, molto più grande.

Era cruciale capire il contesto, e il contesto era il cosiddetto Russiagate.

Da mesi Trump era accusato di aver vinto la campagna elettorale grazie a interferenze della Russia di Putin. Interferenze delle quali sarebbe stato consapevole o addirittura complice. Era in corso un’inchiesta affidata a un procuratore speciale, l’ex direttore dell’Fbi Robert Mueller.

Ma QAnon diceva che l’inchiesta Mueller non era contro Trump. Quella era la narrazione ufficiale, ed era un diversivo. Trump aveva finto di colludere con la Russia per confondere i suoi nemici. In realtà Mueller stava indagando i crimini della Cabal. Lo stava facendo all’insaputa di tutti... salvo il fatto che QAnon lo diceva urbi et orbi.

Nei primi mesi del 2018 Q e il cerchio interno dei fornai si erano spostati da 4chan a 8chan, bacheca ancor meno moderata, talmente permissiva che nei suoi thread si trovavano filmati di autopsie e immagini di pedopornografia. In pratica, per denunciare complotti di pedofili immaginari Q aveva scelto un forum frequentato da pedofili veri.

Il fondatore e amministratore del sito era un giovane di nome Fredrick Brennan. Aveva aperto 8chan nel 2013, a soli diciannove anni, perché sentiva la necessità di uno spazio «libero da ogni censura». Lo stesso 4chan era «troppo regolato» per i suoi gusti.

Fredrick soffriva di osteogenesi imperfetta, malattia che storpiava il suo corpo e lo costringeva in sedia a rotelle. Aveva braccia e gambe cortissime. Per compiere la maggior parte delle azioni doveva usare arti meccanici.

Nell’estate del 2014 8chan era balzato ai disonori delle cronache grazie al Gamergate. La campagna di ingiurie sessiste, molestie e minacce si era fatta talmente violenta che persino gli amministratori di 4chan erano dovuti intervenire rimuovendo messaggi e bloccando utenti. I reprobi si erano trasferiti su 8chan, e da lì avevano proseguito i loro attacchi. Fredrick aveva rilasciato interviste in cui difendeva la loro libertà di parola.

In quel periodo Fredrick aveva anche scritto un articolo per il sito neonazista The Daily Stormer, in cui perorava la causa dell’eugenetica, per non far più nascere gente come lui. Un testo angosciante, grondante nera disperazione.

Mia madre ha la mia stessa condizione e mi ha partorito col cesareo all’età di trentotto anni. Ha partorito mio fratello, che ha la mia stessa condizione, all’età di quaranta. E il padre? [...] Un uomo talmente affamato di figa che adesso si scopa la mia ex badante fornita dallo stato [...] nonostante sia in menopausa, stia perdendo i capelli e pesi intorno ai centotrenta chili.

Non incolpo i miei genitori per quello che è successo: incolpo la società che gli ha insegnato a ritenere etico il loro agire.19

Nel settembre 2014 Fredrick aveva conosciuto Jim Watkins.

Watkins, cinquantuno anni, era un imprenditore di estrema destra. Possedeva l’azienda di hosting virtuale N.T. Technology, il sito 2ch – sorta di corrispettivo giapponese di 4chan – e un allevamento di maiali poco fuori Manila, nelle Filippine, dove viveva da anni. I due si erano piaciuti e avevano trovato un accordo: N.T. avrebbe ospitato 8chan, con l’impegno formale a non chiuderlo nel caso di controversie. In cambio Fredrick avrebbe lasciato a Watkins il sessanta per cento degli introiti del sito, provenienti da inserzioni pubblicitarie o donazioni.

Nel giro di poche settimane anche Fredrick si era trasferito nelle Filippine, dove la vita costava molto meno, soprattutto a uno come lui, che aveva bisogno di una badante e assistenza continua.

Nel 2015, per via dei contenuti pedopornografici, Google aveva escluso 8chan dai risultati delle ricerche.

Nello stesso anno Fredrick aveva venduto a Watkins dominio e sito. Avrebbe continuato a occuparsene, ma solo sotto l’aspetto tecnico, lavorando come programmatore per N.T.

La situazione era ancora quella nel gennaio 2018, quando 8chan era diventato la nuova casa di Q.

Nel frattempo QAnon aveva colonizzato zone della rete più mainstream. Da Reddit era arrivato a Facebook e Twitter. E Amazon. Diversi soggetti avevano cominciato a produrre e vendere on line felpe, magliette, cappellini, tazze e vari articoli da regalo a tema QAnon. Sarebbe diventato un business enorme.

QAnon si era diffuso in un baleno nella destra americana, in particolare nella fascia anagrafica dei boomer, gli over cinquanta. Anche le celebrità che per prime avevano abbracciato la causa erano boomer, come l’attrice tv Roseanne Barr. Ma era una fase transitoria. Presto l’età media si sarebbe abbassata, soprattutto grazie all’afflusso di giovani donne, non necessariamente provenienti da destra.

QAnon aveva già mostrato una propensione a scavalcare gli steccati. Il disorientamento e il disgusto per l’establishment clintoniano che aveva osteggiato Sanders avevano spinto diversi elettori democratici ad abbracciare prima il Pizzagate, poi QAnon.

Chissà se erano stati loro a tirare in ballo – e a mettere al centro del pantheon – John Fitzgerald Kennedy Jr.

Molti seguaci di QAnon erano convinti che dietro la firma «Q» si nascondesse proprio lui, Jfk Jr., figlio del presidente ucciso a Dallas, noto anche col nomignolo «John-John».

Ufficialmente John-John era morto in un incidente aereo il 16 luglio 1999. Con lui si erano schiantate la moglie Carolyn Bessette e la cognata Lauren. In realtà l’incidente non era mai avvenuto. John-John era vivo, vegeto e – colpo di scena – nemico di quel Partito democratico del quale era stato un importante “delfino”. Presto si sarebbe svelato pubblicamente, dichiarando la propria alleanza con Trump.

A sostegno di quella ricostruzione, QAnon forniva prove. Ad esempio, una foto mostrava con chiarezza che, vista dall’alto, la tomba di Jfk Jr. era a forma di Q. Dunque già nel 1999 l’eroe aveva previsto che anni dopo si sarebbe firmato Q, e aveva spedito un indizio nel futuro.

Solo che la foto non mostrava la tomba di John-John. La tomba di John-John non esisteva, perché il corpo era stato cremato, e le ceneri disperse nell’Atlantico dal ponte del cacciatorpediniere USS Briscoe. Quello nella foto era il prato antistante la tomba di Jfk Senior. E non era a forma di Q. Era semplicemente di forma circolare.

Un’altra prova era una frase scritta da John-John sulla rivista che aveva fondato, George, un mese prima di simulare la propria morte:

Se un giorno il mio caro amico Donald Trump decidesse di sacrificare il proprio favoloso stile di vita da miliardario per diventare presidente, diventerebbe una forza irresistibile per la giustizia definitiva, e lo celebrerebbero tanto i democratici quanto i repubblicani.

John-John non aveva mai scritto nulla del genere, né su George né da alcun’altra parte, ma perché rovinare una bella storia?

E come e dove li aveva passati gli ultimi vent’anni? Lavorando come consulente finanziario a Pittsburgh, Pennsylvania, sotto il falso nome «Vincent Fusca».

Un consulente di Pittsburgh con quel nome c’era davvero: cappello nero, chioma lunga e barba incolta, compariva spesso tra la folla ai comizi di Trump, e in alcune foto accanto a Trump in persona. Quel figuro sciatto era John-John sotto mentite spoglie? I due non si somigliavano nemmeno alla lontana... La risposta arrivava pronta: chirurgia plastica. Ovviamente.

Fusca ne aveva approfittato per brillare di luce riflessa, alludendo alla diceria e pubblicando sui suoi profili social frasi ambigue e foto di Jfk.

E che ne era della moglie e della cognata di John-John, anch’esse ufficialmente morte nell’incidente mai avvenuto? Boh. A loro QAnon non pensava.

Nel marzo 2018 Reddit aveva chiuso il gruppo CBTS e cacciato Tracy Diaz. Per più di due anni Reddit sarebbe rimasta l’unica piattaforma libera dall’infestazione QAnon, l’unica ad aver agito con tempestività.

Nell’aprile 2018 era stata lanciata l’applicazione QDrops, che consentiva di ricevere le briciole – ormai chiamate più spesso «gocce» – sul proprio smartphone e seguire il lavoro dei fornai in tempo reale. In brevissimo tempo aveva scalato le classifiche dell’App Store di Apple e del Play Store di Google. Il 15 luglio Apple l’aveva rimossa. Google l’avrebbe fatto solo nel 2020.

Sempre in aprile Rogers e Urso avevano lanciato Patriots’ Soapbox, un canale YouTube in streaming ventiquattro ore su ventiquattro per interpretare le “gocce” e discutere di QAnon.

Il 7 aprile 2018 a Washington si era tenuta una manifestazione di QAnon, la prima del suo genere. Per il calendario era già primavera, ma il termometro segnava quattro gradi. Un centinaio di persone aveva sfidato il freddo, marciando per le vie della capitale fino a Freedom Plaza, dove s’era tenuto un meeting a microfono aperto. Per l’occasione erano apparsi dal vivo svariati youtuber e fornai. In sé non era stato un grosso evento, ma indicava che la fantasia di complotto stava percolando dai forum di internet nel mondo reale.

Matthew aveva trent’anni e viveva a Henderson, un sobborgo di Las Vegas. Reduce della Marina, al momento era disoccupato e dormiva in un furgone. Un furgone nero blindato, comprato di seconda mano e attrezzato alla bisogna.

Il 15 giugno 2018, poco prima di mezzogiorno, armato di fucile e alla guida del suo mezzo, Matthew si era messo di traverso sul Pat Tillman Bridge, che attraversava il fiume Colorado a duecentosettanta metri di altezza. In quel tratto il fiume segnava il confine tra Nevada e Arizona. Proprio lì accanto c’era la diga Hoover, una delle principali infrastrutture americane, importante attrazione turistica. Da cui il nome dell’episodio: Hoover Dam Standoff.

Mentre bloccava il traffico, Matthew aveva gridato frasi riferite a QAnon e mostrato un cartello scritto in rosso: «Pubblicate il rapporto dell’Oig», Office of Inspector General. Si riferiva all’indagine del Dipartimento della giustizia su come l’Fbi aveva gestito il caso delle email di Hillary. Stando a QAnon, una volta reso pubblico, il rapporto avrebbe detto chiaro e tondo che i nemici di Trump avevano infranto la legge per impedirne la vittoria. Ma il rapporto era stato pubblicato il giorno prima, 14 giugno, e non diceva niente del genere. Q lo aveva subito definito un falso. Quello autentico lo aveva in mano Trump, aveva scritto.

«E come mai non lo divulga?», si era chiesto Matthew, e aveva deciso di fare quella domanda in pubblico, nel modo più eclatante. La sua azione era stata un raro esempio di nodo venuto al pettine dopo una profezia di Q irrealizzata.

Lo stallo tra Matthew e le polizie di Arizona e Nevada era durato circa mezz’ora, poi il furgone aveva fatto inversione e puntato verso l’Arizona, sfondando il posto di blocco e proseguendo sull’autostrada 83. Dopo cinque miglia la polizia gli aveva forato tre ruote con una striscia chiodata ma Matthew non si era fermato. Tre miglia più avanti aveva sterzato e imboccato Cranes Nest Road, una strada sterrata che s’inoltrava nel deserto. Era senza uscita ma lui non lo sapeva. L’aveva percorsa per quattro miglia prima di rimanere bloccato in una conca, il letto arido di un fiume. Sceso dal furgone, Matthew aveva alzato le mani. Dentro il veicolo gli agenti avevano trovato due fucili, due pistole e novecento proiettili.

Negli stessi giorni, sempre in Arizona, una milizia di destra pattugliava i dintorni dell’Interstatale 19, a ridosso del confine col Messico. Si facevano chiamare Veterans On Patrol, Vop. Il loro capo, Michael Lewis Arthur Meyer, aveva trentanove anni, era un seguace di QAnon ed era convinto che da quelle parti ci fossero bambini in schiavitù. Era partito facendo ricerche sulla Cemex e aveva fatto una scoperta clamorosa: un «campo di pedofili».

Un bivacco di homeless abbandonato su un terreno della Cemex mostrava segni della recente presenza di bimbi schiavi. Meyer lo aveva dichiarato in due video su YouTube, che in pochi giorni avevano raggiunto le settecentomila visualizzazioni. La pagina Facebook dei Vop era balzata da poche centinaia di follower a quasi ottantamila. Meyer gongolava, ma per segnare davvero il punto doveva convincere le autorità.

La polizia della contea di Pima aveva fatto un sopralluogo, ma non aveva trovato niente. A quel punto Meyer aveva mostrato loro una prova: un teschio di bambino. Gli agenti lo avevano consegnato al coroner. Il responso: era un teschio di adulto, molto vecchio, e l’analisi dei residui di terra dimostrava che non veniva dal terreno incriminato.

Indefettibili, i Vop avevano esibito altre ossa, dicendo che erano di esseri umani uccisi in modi terribili. Il coroner aveva esaminato anche quelle: erano resti di animali. Almeno un osso era appartenuto a un cervo.

I Vop, aveva scritto il reporter Tay Wiles,

vivono in una versione dark del gioco per smartphone Pokémon Go, in cui creature immaginarie popolano lo spazio fisico in cui si muovono i giocatori. Una pattuglia vede un cartellone pubblicitario che mostra un occhio umano e lo crede il simbolo di una società segreta. Quando vedono croci bianche dipinte o posate sulla sabbia del deserto – cartelli usati per la mappatura aerea – li interpretano come segnali lasciati dai trafficanti di bambini.20

Ed erano armati fino alle gengive.

In polemica con le autorità che ignoravano i suoi allarmi, Meyer aveva occupato per nove giorni una torretta sul terreno “incriminato”. Il 12 luglio era stato arrestato per violazione di proprietà privata.

*

**

A stupire i commentatori mainstream – quasi sempre appartenenti alle élite liberal costiere – era che nella narrazione di QAnon l’eroe fosse il presidente. Le fantasie di complotto, di solito, non ce l’avevano coi «poteri forti»?

Un altro modo di porre il quesito era: i sostenitori di Trump hanno vinto, hanno mandato il loro eroe alla Casa bianca, perché si sentono ancora outsider, all’opposizione, esclusi dal potere?

Domande che rivelavano scarsa conoscenza storica e grande distanza dalle contraddizioni del corpo sociale.

In primo luogo, le fantasie di complotto ruotavano spesso intorno all’idea di un doppio potere. C’era un potere occulto, ufficioso, e c’era un potere visibile, ufficiale. In un peculiare rovesciamento, il potere ufficiale era visto come un contropotere rivoluzionario, impegnato a combattere il ben più forte potere occulto. Le due forze agivano negli stessi spazi e si contendevano le stesse istituzioni. Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler.

In secondo luogo, ad aver vinto le elezioni era stato Trump, non il suo elettorato. Il «popolo» non andava mai al potere insieme ai «populisti». Il ceto medio bianco che aveva votato Trump aveva nutrito grandi speranze di rivalsa, anzi, di catarsi. Ma si era ormai a metà mandato e non c’era stata nessuna rinascita, nessuna palingenesi. Secondo l’editorialista del New York Times Michelle Goldberg, QAnon serviva a ridurre «la dissonanza cognitiva causata dal divario fra Trump come lo immaginano i suoi fedeli seguaci e Trump com’è nella realtà».21 Più Trump si rivelava incompetente, più si rafforzava una narrazione compensativa ed eroicizzante:

Non crei una fantasticheria estrema dove il tuo leader è un genio nascosto, se non ti rendi conto che agli occhi di molti sembra tutt’altro. Non ti servirebbe una storia esoterica su come la tua parte sta segretamente vincendo, se stesse vincendo davvero.

Ma la dissonanza era ancora più a monte: un miliardario figlio di papà cresciuto in bambagia dorata si atteggiava a paladino della working class contro le élite. L’idea che esistesse un altro potere – per giunta mostruoso – e che Trump lo stesse combattendo da outsider era un modo di risolvere la dissonanza. In fondo, accadeva ogni volta che la working class e il ceto medio proletarizzato sostenevano un politico che li “rappresentava” rumorosamente ma era parte della classe dominante e faceva gli interessi dei ricchi.

La conclusione più razionale sarebbe stata: Trump non è dei nostri, per noi non sta facendo nulla. Ma sarebbe stato come ammettere di essersi illusi, di aver creduto a diversivi: la sicurezza, i migranti, il muro al confine con il Messico... Credere a QAnon aiutava a non sentirsi gabbati: sembra che Trump non stia facendo nulla, in realtà combatte una battaglia segreta contro i pedofili che hanno in mano il pianeta.

Il nazionalismo degli elettori di Trump che gridavano «Make America great again!» era inconciliabile con lo scenario dell’inchiesta Mueller. Il presidente colluso con la Russia, nemico storico degli Stati Uniti? Inconcepibile. Dicendo che il compito di Mueller non era indagare Trump bensì, in accordo con Trump, colpire la Cabal, QAnon scioglieva anche quella tensione e restituiva all’inquilino della Casa bianca il suo manto di patriota.

E l’inquilino, in tutto ciò? Cosa pensava, come reagiva?

Trump aveva sempre sposato e diffuso fantasie di complotto. Era stato il più visibile e rumoroso dei Birthers, agitatori convinti che Barack Obama non fosse nato negli Stati Uniti ma in Kenya e avesse falsificato il proprio certificato di nascita per candidarsi alla presidenza. Una diceria nata in ambiente liberal: i primi Birthers erano stati alcuni sostenitori di Hillary Clinton alle primarie democratiche del 2007. Repubblicani e opinionisti di destra avevano colto la palla al balzo e Trump ne aveva fatto un cavallo di battaglia.22

Trump era stato ospite nel programma di Alex Jones e aveva ritwittato più volte Jack Posobiec. Soprattutto, Trump era uno sfegatato fan di sé stesso, rapito da qualunque storia lo avesse come protagonista. QAnon lo adulava dipingendolo come un eroe e un genio, era ovvio che l’adulato non prendesse le distanze. Non solo non le prendeva ma nei suoi tweet faceva l’occhiolino, rilanciando personaggi e siti legati a quei milieux.23

Il 31 luglio c’era stata una nuova svolta. Trump era arrivato a Tampa, in Florida, per sostenere il repubblicano Ron DeSantis, candidato alla carica di governatore. Una folla entusiasta si era concentrata davanti ai Florida State Fairgrounds e aveva accolto il presidente alzando cartelli «Noi siamo Q» e sfoggiando magliette in tema.

Durante il comizio i seguaci di QAnon avevano rubato la scena: i giornalisti avevano parlato quasi solo di loro.

Era stata la definitiva irruzione di QAnon nelle cronache politiche nazionali e, di lì a poco, internazionali. Su 8chan Q aveva commentato: «Benvenuti nel mainstream. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato».

Molti che fino a quel momento erano distratti si erano resi conto che c’era un problema.


15 Brandy Zadrozny, Ben Collins, “How three conspiracy theorists took ‘Q’ and sparked Qanon”, Nbc (on line), 14 agosto 2018.

16 Joseph Menn, “QAnon received earlier boost from Russian accounts on Twitter, archives show”, Agenzia Reuters (on line), 2 novembre 2020.

17 Non è chiaro se ne facesse parte Ronald Reagan. C’è chi dice sì, c’è chi dice no.

18 Cfr. Brad Plumer, Harry Fountain, “Trump Administration Finalizes Plan to Open Arctic Refuge to Drilling”, The New York Times, 17 agosto 2020.

19 Fredrick Brennan, “Hotwheels: Why I Support Eugenics”, The Daily Stormer, 30 dicembre 2014, traduzione mia. Chi non vuole alimentare il traffico di un sito neonazista può usare questo url: https://archive.is/gZd6K.

20 Tay Wiles, “Conspiracy theories inspire vigilante justice in Tucson”, High Country News, 12 settembre 2018, traduzione mia.

21 Michelle Goldberg, “The conspiracy theory that says Trump is a genius”, The New York Times, 6 aprile 2018, traduzione mia.

22 Nel denunciare la falsità del Birtherism pochi hanno fatto notare che è reso possibile da una conditio sine qua non discriminatoria, cioè dal fatto che per diventare presidente degli Stati Uniti non basti la cittadinanza americana ma si debba anche essere venuti al mondo “nel posto giusto”. L’accettazione di questa premessa ha falsato l’intero dibattito.

23 Cfr. Alex Kaplan, “Trump has repeatedly amplified QAnon Twitter accounts. The FBI has linked the conspiracy theory to domestic terror”, Media Matters (on line), 1 agosto 2019.

Capitolo tre

«Un mix straordinario tra Internet e i Templari»

Un nome improprio. Luther Blissett Project. Finalità delle beffe mediatiche di Luther Blissett. Il nome multiplo di Umberto Eco. Un altro «Q Anon». Una lettera da Rotterdam. L’inizio della ricerca. Il Pendolo non fa che tornare (del resto, è quel che fanno i pendoli). Cultura pop, controcultura, sottoculture: quella certa aria di famiglia. L’anello mancante.

Fantasie di complotto. Me n’ero occupato a fondo negli anni Novanta, quando facevo parte del Luther Blissett Project, un network di agitazione culturale e politica e al tempo stesso un gioco di ruolo in rete e dal vivo.

A partire dal 1994 attivisti, artisti e agitatori culturali di vari paesi avevano adottato il nome «Luther Blissett» per firmare opere, performance e azioni di vario genere. Come aveva scritto il ricercatore Marco Deseriis,24 nel giro di pochi anni

il nome multi-uso era stato usato da centinaia di individui in diverse parti del mondo per rivendicare beffe mediatiche, vendere manoscritti apocrifi a case editrici, inventare artisti e opere d’arte, denunciare cacce alle streghe, firmare romanzi di successo, condurre esperimenti psicogeografici – oppure, semplicemente, come pseudonimo su internet.

Deseriis aveva scritto la migliore ricostruzione e analisi del Lbp. Nel suo libro Improper Names: Collective Pseudonyms from the Luddites to Anonymous spiegava che Luther Blissett era più di un semplice pseudonimo: era un multiple-use name e dunque – felice creazione concettuale – un nome improprio.

Al contrario di un nome proprio, la cui funzione principale è fissare un referente [...], un nome improprio è esplicitamente costruito per offuscare sia l’identità sia il numero dei suoi referenti. Da un lato, il nome improprio mantiene l’effetto-scudo di qualunque pseudonimo, cioè la dichiarata funzione di proteggere un individuo sostituendo il suo nome legale [...]. Dall’altro lato, un nome improprio funziona come una molteplicità aperta che non può essere sottratta alla sua ambiguità né ricondotta a un chiaro e unico referente.

Nel ricostruire la genealogia di Blissett Deseriis risaliva a precedenti di secoli prima, sparsi tra il tardo medioevo e la prima rivoluzione industriale. Erano nomi impropri apparsi durante sollevazioni contadine e sommosse urbane, come Jacques Bonhomme (tredicesimo secolo), Armer Konrad (sedicesimo secolo), Ned Ludd e Captain Swing (diciannovesimo secolo). Dopodiché analizzava esempi di multiple-use name nelle avanguardie artistiche del secondo Novecento, come Monty Cantsin e Karen Eliot, i più vicini antecedenti di Luther Blissett. La carrellata proseguiva oltre quest’ultimo arrivando fino al 4chan degli albori, il 4chan prima del Gamergate, quando ancora non era il covo dell’alt-right. Proprio su 4chan era nata la soggettività hacker collettiva nota come Anonymous.

L’intento di chi aveva lanciato il nome Luther Blissett era costruire, menzione dopo menzione, la reputazione di un provocatore immaginario, un personaggio mitico che fosse un po’ bandito sociale – come Robin Hood, Dick Turpin o il brasiliano Lampião – e molto trickster. Figura ricorrente nella mitologia e nel folklore, il trickster (il briccone, l’imbroglione) stupiva e spiazzava il prossimo con scherzi, travestimenti e trasformazioni, per svelare gli inganni e le ipocrisie di cui era fatta la “normalità” e far vedere il mondo con altri occhi. Esempi di trickster erano Anansi, l’uomo-ragno protagonista di favole e leggende dell’Africa occidentale, e Till Eulenspiegel, irriverente personaggio del folklore basso-tedesco e olandese... ma anche il Gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie.

Per il nuovo trickster si era scelto – il perché non s’era mai capito – il nome di un ex calciatore inglese di origine giamaicana. Luther Loide Blissett era stato attaccante del Watford Fc, team di proprietà del cantante Elton John, e meteora della Serie A italiana nella stagione 1983-84. Comprato dal Milan pre berlusconiano, aveva sofferto la rude marcatura dei difensori nostrani e subìto gli insulti razzisti delle curve avversarie. Non era mai riuscito ad ambientarsi. Bilancio: soltanto cinque gol e diverse occasioni sprecate, anche a porta vuota. Si era persino sparsa la leggenda che sbagliare a porta vuota fosse una sua specialità, e che in Inghilterra lo chiamassero «Luther Missit», Luther Mancala. A fine campionato era tornato oltremanica.

Dieci anni dopo i tifosi italiani lo ricordavano solo come un brocco, era il “bidone” per antonomasia... finché il suo nome non era tornato a circolare, stavolta non nelle cronache sportive ma riferito a tutt’altro.

Luther Blissett era apparso in diversi paesi ma il fenomeno si era radicato soprattutto in Italia, grazie alla rete di collettivi che formavano il Luther Blissett Project (Lbp). I due gruppi più numerosi, chiamati «colonne», erano a Bologna e a Roma. Il progetto era durato cinque anni, dall’autunno del 1994 al 31 dicembre 1999.

In breve tempo il Lbp aveva fatto scalpore grazie a beffe molto elaborate ai danni di stampa e tv. Era soltanto una tra le molte pratiche di Blissett, ma era quella che più attirava l’attenzione.

Nel dicembre 1994 una troupe del programma Rai Chi l’ha visto? aveva cercato, tra Friuli-Venezia Giulia e Regno Unito, l’illusionista e performance artist inglese Harry Kipper, scomparso mentre girava l’Europa in bicicletta per tracciare sulla mappa la parola ART. Era svanito al confine tra Italia e Slovenia, lungo l’asta verticale della T. La famiglia e gli amici lo cercavano disperati. Storia affascinante, ma falsa in ogni dettaglio. Lo scomparso non era mai esistito.

Nell’ottobre 1995 il quotidiano bolognese Il Resto del Carlino aveva ricevuto la lettera anonima – o meglio, firmata «L. B.» – di una prostituta sieropositiva. L. B. aveva contratto l’Hiv a causa di una trasfusione di sangue infetto. Nella lettera dichiarava di volersi vendicare del sistema, per questo forava i profilattici che usava coi clienti. Tra i redattori del Carlino doveva essersi sparso il terrore. Il giornale era uscito con ben tre pagine dedicate al “caso”, dense di sproloqui, compresa un’intervista a un grafologo che analizzava la lettera di L. B... senza ricavarne granché di utile, dato che l’avevamo scritta a macchina. Il giorno dopo Luther Blissett aveva rivendicato il falso.

Nel 1996-1997 il Lbp aveva dispiegato una vasta campagna di beffe per contrastare il panico morale su pedofilia e satanismo. Un «moral panic» – concetto introdotto negli anni Settanta dal sociologo sudafricano Stanley Cohen – era un’ondata di paura aggressiva che investiva la società quando le veniva additato un presunto nemico, una minaccia ai suoi valori e alla sua coesione. Nel giro di roulette del 1996 la pallina era finita nella casella del «Pedofilo». Il panico sulla pedofilia – e sul satanismo pedofilo – aveva investito l’Italia, un tornado nel quale roteavano paranoie, leggende urbane, accuse false, titoli gridati, sentenze sommarie, reputazioni distrutte. Per tutta risposta Blissett aveva inventato e fatto agire per mesi, nel Lazio e in Emilia, un network satanico dedito a stupri rituali e, simultaneamente, un gruppo catto-fascista di cacciatori di satanisti. Le imprese di entrambi i gruppi erano più volte finite sui giornali e in tv. La macchinazione e il relativo disvelamento erano arrivati fino ai tg nazionali di prima serata.

Anche tramite quelle beffe avevamo portato avanti una controinchiesta su un’orrida vicenda bolognese. Un dispositivo mediatico-giudiziario fuori controllo aveva trascinato in carcere e messo alla gogna tre innocenti. La storia della “nera” lo avrebbe ricordato come «il caso Bambini di Satana». Blissett aveva aiutato a far assolvere gli imputati, in seguito risarciti dallo stato per l’ingiusta detenzione.

Nel biennio 1998-1999 il mondo dell’arte si era appassionato alle sconvolgenti opere e alla vita turbolenta dell’artista serbo Darko Maver. Le sue sculture riproducevano in modo iperrealistico cadaveri mutilati e semiputrefatti, per questo aveva subito ostracismi, censure, repressione. Tanto che era in carcere a Podgorica. Avevamo scritto comunicati di solidarietà, allestito mostre con riproduzioni fotografiche delle sue opere e ottenuto recensioni sulle principali riviste del settore. Poi avevamo annunciato la morte di Darko: aveva fatto la fine del topo, in galera, durante i bombardamenti Nato del 29 aprile 1999. O forse i suoi carcerieri avevano approfittato del caos per farlo fuori? Nella foto che circolava il suo corpo, steso sul pavimento della cella, sembrava integro, non certo recuperato da sotto pesanti macerie. Illustri critici d’arte italiani lo avevano ricordato, sostenendo di averlo conosciuto bene. La rivelazione che artista e opere erano nostre invenzioni li aveva lasciati attoniti.

Per tutto il 1999, anno di vigilia del Grande giubileo, pellegrine e pellegrini in cerca di informazioni avevano visitato vaticano.org, sito quasi identico a quello della Santa sede – il cui dominio era vatican.va – ma pieno di proclami eretici, concetti teologici di dubbia provenienza, errori grossolani e canzoni di Max Pezzali interpolate dentro discorsi di Giovanni Paolo II. Nel calendario degli eventi erano annunciati il «Giubileo degli artisti (con il critico d’arte Achille Bonito Oliva)», il «Giubileo della vita consacrata (preghiera per il dottor Kevorkian)»25 e l’«Estrazione dei numeri della Sacra ruota». C’era anche un modulo per inviare un’email al papa, con «risposta garantita in ventiquattr’ore». E in effetti rispondevamo.

Era stata l’ultima beffa rivendicata dal Lbp. Il 31 dicembre 1999 avevamo commesso un “suicidio” simbolico, annunciato come «il Seppuku». Da allora nessuno di noi aveva più adottato il nome Luther Blissett.

Nelle rievocazioni del Lbp era frequente un malinteso: si diceva che le nostre erano state fake news. No. Quelle di Blissett erano storie complesse, concepite per diventare ambienti da abitare a lungo, anche per anni. Mentre le abitavamo ne esploravamo e sfruttavamo le ripercussioni sul sistema dei media, finché non decidevamo che era tempo di giungere al culmine: l’exploit finale, la rivelazione, la spiegazione di come avevamo lavorato.

E i falsi di Blissett avevano fini precisi.

Un fine controinformativo: modificare lo sguardo di una parte di opinione pubblica su un dato tema e problema, facendo sorgere dubbi e domande sul modo in cui i media ne parlavano.

Un fine pedagogico: noi stessi facevamo “ingegneria inversa”, non limitandoci a svelare e rivendicare i falsi, ma smontandoli, esponendo le nostre tattiche, spiegando quali automatismi culturali e storture del sistema dell’informazione avevamo sfruttato per diffonderli. La spiegazione della beffa era più importante della beffa stessa.

Un fine mitopoietico: ogni rivendicazione faceva crescere la reputazione di Luther Blissett, rendendo l’adozione del nome improprio più interessante, più accattivante e carica di affettività. Usando il nome ci si sentiva parte di una comunità aperta, si condividevano un certo stile e un certo immaginario. Era la nostra accezione del termine «mitopoesi»: creare narrazioni condivise che stimolassero l’immaginazione collettiva e la cooperazione.

Ultimo ma non ultimo, un fine ludico: la reputazione di Blissett era composta da innumerevoli tasselli sparsi in vari media ed era in costante evoluzione, grazie a sempre nuove storie che confluivano l’una nell’altra. Il gioco consisteva nel crearle e raccontarle. Si lavorava su canovacci impostati collettivamente, che prevedevano l’improvvisazione e andavano in scena in rete e nel mondo reale. «Luther Blissett» era un personaggio che noi interpretavamo, nell’infosfera ma anche coi corpi, durante le performances, le azioni in strada, le derive psicogeografiche.

Luther Blissett, insomma, aveva caratteristiche dei giochi di realtà alternativa (Arg) e dei giochi di ruolo dal vivo (Larp).

Gli Arg erano un genere che coniugava gioco on line e avventura di gruppo, per il quale già negli anni Novanta cominciava a esistere un’industria specializzata. Un Arg conteneva indizi e misteri che i giocatori risolvevano trovando informazioni fuori dal gioco e condividendole coi loro pari. Spesso gli Arg non avevano un finale già scritto. E come indicava il nome, i loro intrecci costituivano realtà alternative che si estendevano alle vite quotidiane dei giocatori e, in un certo senso, le infondevano di magia.

Quanto ai giochi di ruolo dal vivo, un Larp era

uno spazio in cui più persone raccontano una storia interpretandola. Secondo Jonathan Gottschall è il «facciamo finta che» degli adulti. È un incontro tra persone che, attraverso i loro personaggi, si relazionano l’una con l’altra lasciando emergere una storia [...] ogni partecipante veste i panni di un personaggio e vive questo suo alter ego per l’intera durata del gioco. Mangia, dorme e parla rispettando il proprio ruolo e l’ambientazione, ma non c’è un pubblico, né battute scritte [...]. E la storia cambia a seconda di come i partecipanti interagiscono tra loro e con gli elementi narrativi.26

Nel Lbp vigevano regole non scritte ma comprese da tutti: il nome non poteva essere adottato da fascisti et similia, né utilizzato in modi incompatibili con la filosofia del progetto. Nelle rare occasioni in cui era accaduto, l’intero network aveva preso le distanze con nettezza e l’equivoco si era dissipato.

Ad aiutarci a mantenere lo stile complessivo era l’interazione tra due accezioni di Luther Blissett: una «in senso lato» e una «in senso stretto». C’era Luther Blissett come nome improprio vagante nel mondo, e c’era il Luther Blissett Project. In astratto, chiunque poteva usare il nome, nel senso che chiunque sarebbe stato in grado di farlo, non avremmo avuto modo di impedirlo; ma il Lbp lavorava in modo costante sul nome, sulla sua semantica, sull’immaginario che evocava, scoraggiando appropriazioni indebite e recuperi commerciali.

C’era voluto molto rigore, per mantenere il progetto fluido.

Le fantasie di complotto le avevamo studiate, le avevamo smontate e ne avevamo inventate. Per lanciare il Lbp avevamo saccheggiato testi esoterici e cospirazionisti, riadattando termini e frasi, adeguando al nostro scopo quegli stratagemmi retorici. In fondo cos’era il nostro piano quinquennale se non un complotto, per quanto sui generis? Si trattava di stimolare le giuste fantasie al riguardo.

Nel 1995 era uscito il nostro libro Mind Invaders,27 esito di un vorticoso montaggio collettivo. Mind Invaders era una sorta di manuale su come partecipare al gioco e culminava in un capitolo “operativo” intitolato Ratfucking. Un invito alla cospirazione, con consigli pratici su come diffondere il mito di Blissett:

Cercare di compiere il “bel gesto”, l’atto puro di sabotaggio [...] non ha senso: occorre sempre progettare eventi-ambienti, azioni che siano precedute da notizie vere/false di cui nessuno – nemmeno ogni cospiratore singolarmente preso – possieda il quadro globale, e che non smettano di circolare neppure dopo la “detonazione” e il conseguente disvelamento: il “clima” deve essere creato prima dell’azione ed essere modificato retroattivamente da quest’ultima, poi sedimentarsi nel sottobosco degli archetipi, diventare terreno fertile per nuove azioni che in una fase successiva del progetto possano essere linkate tra loro in mille modi diversi.

«Un mix straordinario tra Internet e i Templari». Così definiva il Luther Blissett Project un titolo dell’Espresso (n. 28, anno XLI, 14 luglio 1995). La cospirazione era un’allegoria operativa, serviva a mettere in moto energie. Alludendo a misteriose genealogie, inventando ascendenze, giocando coi sedimenti di altre reputazioni, avevamo circonfuso il nome improprio di un alone che non solo affascinava, ma spronava ad agire.

Si inseriva in quella strategia l’unica beffa che, più di vent’anni dopo, restava irrivendicata: la diffusione di un pamphlet di estrema destra intitolato Il nome multiplo di Umberto Eco. Un testo sgangherato e, soprattutto, falso.

Firmato con la sigla Kma,28 nel 1997 Il nome multiplo di Umberto Eco era stato spedito in decine di copie a giornalisti e politici, e pubblicato sulla pagina web di un certo «Andrea Ridolfi», con tutta evidenza un catto-fascista.

La tesi di fondo era questa: Luther Blissett come «neoteoria del complotto, data in pasto alle masse ma guidata da dietro le quinte, controllandone i contenuti e la popolarità» per nascondere un complotto reale, quello della «sinistra» in tutte le sue gradazioni, dal più istituzionale centrosinistra – all’epoca raggruppato nella coalizione detta «l’Ulivo» – fino ai centri sociali occupati.

Il fine del complotto? Impadronirsi della comunicazione, diffondere «materialismo storico e laicismo di basso rango», incentivare «tendenze inumane come rave, impasticcamenti e piercing», «ghettizza[re] la cultura religiosa e tradizionale e la libertà di educazione e insegnamento», ecc. Blissett, scriveva Kma, era l’incarnazione di una sinistra nuova, postmoderna, «dedicata a forme poco democratiche di militanza, come il segreto, la cospirazione anonima e le beffe diffamatorie, sfruttando la grande forza di pervasione della cultura di massa e dei mezzi di comunicazione».

E chi erano le menti? L’autore del pamphlet additava una conventicola di semiologi e massmediologi, tutti docenti all’Università di Bologna. Ne facevano parte Roberto Grandi, Omar Calabrese e, nel ruolo di eminenza grigia, il più famoso di tutti, Umberto Eco. La genesi del complotto si poteva ricostruire leggendo i libri di Eco, tanto i romanzi – soprattutto Il pendolo di Foucault – quanto i saggi, da Apocalittici e integrati (1964) fino a La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993). Le pezze d’appoggio? Tutte più o meno come questa:

Nella cabala la tecnica del notariqon consiste nel ricavare i significati secondi e metafisici di una parola usandone le lettere come iniziali di altre parole [...]. In Alla ricerca della lingua perfetta [sic] (1993), pag. 33: nella cabala «l’ultima lettera di LB (cuore) è la prima di Binah (intelligenza)»! [...] Luther Blissett = cuore! E ormai non ci sorprende più a scoprire che il simbolo del Multiplo è proprio un cuore, come si può appurare dalle sue prime pubblicazioni, quando ancora il fenomeno era conosciuto pochissimo.

Non a caso, diceva il pamphlet, Luther Blissett era apparso per la prima volta nella tarda estate del 1994. Pochi mesi prima il centrodestra di Silvio Berlusconi aveva vinto le elezioni. La sinistra aveva spiegato la propria sconfitta con il mancato controllo delle televisioni, così Eco e la sua cerchia di semiologi avevano deciso di sperimentare «nuovi modi di persuasione occulta».

Affermiamo, in breve, che Luther Blissett è un parto della mente malata e nefasta di Umberto Eco: se non ne è l’artefice diretto, sicuramente ne è il primo responsabile e ispiratore. Con questo non si vuol dire che dietro le attuali azioni di Luther Blissett ci sia Eco: sarebbe pura mitomania complottistica. Il progetto è stato congegnato per vivere di vita propria, una sorta di Golem che prosegue autonomamente contagiando gli entusiasmi e gli animi dei giovani come una peste.

Proprio mentre veniva diffuso il pamphlet, il Lbp stava usando il proprio sapere “cospirativo” per disarticolare la forma mentis cospirazionista. Quand’era scoppiato il caso Bambini di Satana ci eravamo chiesti come intervenire a modo nostro, come fare inchiesta in modo nuovo. Avevamo fatto esperimenti e ottenuto risultati... e anche grane giudiziarie. Una storia che dovevo rivisitare, rileggere alla luce di QAnon.

Mentre il Lbp si dedicava a quella campagna, quattro membri della colonna bolognese, incluso il sottoscritto, stavano scrivendo un romanzo.

Il libro era uscito nel marzo 1999 per la casa editrice Einaudi. Aveva un titolo brevissimo: Q.

Debitamente firmato «Luther Blissett», Q si svolgeva tra il 1517, anno in cui Martin Lutero aveva presentato le sue 95 tesi, e il 1555, anno della Pace di Augusta che aveva posto fine a un trentennio di guerre di religione. La storia era un lungo duello a distanza tra un eretico dai molti nomi e un agente provocatore papista. Quest’ultimo infiltrava i movimenti protestanti radicali dell’epoca e diffondeva notizie false mediante lettere firmate col nome biblico Qoèlet, in ebraico «il radunante». Era il titolo del libro dell’Antico testamento noto anche come Ecclesiaste.

Nei rapporti al suo superiore Qoèlet si firmava solo con l’iniziale Q. Il romanzo, dunque, prendeva il nome dall’antagonista, dal “cattivo”.

Nelle sue missive Q alludeva a una propria vicinanza al potere, a informazioni preziose alle quali poteva accedere: «Già ho avuto modo di illustrarVi come le mie orecchie avrebbero potuto aiutarVi, data la loro prossimità a certe porte che celano intrighi», scriveva al predicatore Thomas Müntzer, guida spirituale dell’insurrezione contadina scoppiata in Svevia nel 1524.

«Non temete lo scontro aperto», diceva Q a Müntzer: «è proprio in quello che il Dio degli eletti mostrerà di esservi a fianco. Non indugiate: l’Onnipotente vuole trionfare grazie a Voi. State saldo, dunque, e il Signore Vi illumini: il Regno di Dio in terra è prossimo».

Q, il radunante, convinceva gli insorti a radunarsi a Frankenhausen, in Turingia, dove avrebbero combattuto l’ultima, grande battaglia, per liberare la terra da principi e vescovi.

L’armata contadina, caduta in una trappola mortale, veniva sterminata dai lanzichenecchi. Ma altre rivolte sarebbero seguite: l’anonimo protagonista del romanzo vi avrebbe preso parte, e Q sarebbe stato lì a sabotarle e a fare rapporto al suo capo.

Cioè all’arcivescovo Giovanni Pietro Carafa, che nel corso del libro diventava cardinale, capo dell’inquisizione romana e infine papa col nome di Paolo IV. La carriera di Q seguiva la sua: dopo un’ultima missione nell’Europa del nord, la più pericolosa, l’agente era chiamato in Italia. Più vicino al potere, ma in posizione defilata. «Nell’affresco sono una delle figure di sfondo», diceva la prima riga del suo diario. Era il 1545. L’Italia diveniva il luogo della resa dei conti tra i due avversari.

Prima ancora che il libro uscisse si era diffusa una diceria, forse influenzata dal pamphlet di due anni prima. Ecco come la riportava un articolo di Panorama del 25 febbraio 1999:

Mistero fitto e spruzzi di veleno avvolgono Q, colossale romanzo storico e d’immaginazione firmato da Luther Blissett in uscita in primavera per la collana Stile libero Einaudi. Settecento pagine di spy story ambientata nel XVI secolo [...] una sorta di Nome della rosa in versione underground con un io narrante di forte temperamento ma senza nome [...]. Impossibile sapere di più: in sintonia con il progetto Luther Blissett, i veri autori stanno nell’ombra e l’editore non si sbottona. Fedeli alla linea anticopyright, gli adepti di Blissett si divertono a fare rimbalzare ipotesi demenziali sul ponderoso tomo: dietro l’identità multipla ci sarebbe un gruppo di goliardi o un prelato eretico. E c’è chi azzarda il nome dello stesso Umberto Eco.

La diceria si era dissolta poco dopo, quando avevamo rilasciato interviste sul libro, ma in un modo o nell’altro, anche molti anni dopo, Eco continuava ad aleggiare.

Di Q erano state date molte interpretazioni. Del resto ci avevamo messo dentro di tutto, compresi riferimenti allegorici al Lbp. Quello del romanzo era un mondo di identità cangianti, di nomi fluttuanti, di sotterfugi e trucchi, di guerriglia comunicativa, di complotti veri e fantasticati.

Mentre terminava il quinquennio di Blissett e noi autori di Q diventavamo il collettivo Wu Ming, il romanzo veniva tradotto e pubblicato in quasi tutta l’Europa e in buona parte delle Americhe, in Russia, in Turchia, in Giappone, in Corea del Sud, in Australia... Negli Stati Uniti era uscito nel 2004. Lì era stato apprezzato in alcune nicchie, ma era rimasto poco noto.

Dopo il Lbp non avevo mai smesso di interessarmi di cospirazioni, seppure con discontinuità, o meglio, lavorando «a progetto»: diversi dei romanzi di Wu Ming avevano al loro centro complotti (reali o presunti) e paranoie (talora fondate). Ad esempio, L’Armata dei Sonnambuli, raccontava da angolature sghembe l’Evento che, per reazione, aveva fatto nascere il cospirazionismo moderno: la Rivoluzione Francese.

*

**

Nella tarda primavera del 2018 avevamo ricevuto un’email: «A quanto pare, qualcuno ha preso il vecchio manuale di gioco di Luther Blissett e ne ha fatto una teoria del complotto per l’alt-right». Seguiva un link a un articolo uscito su Vice a firma di Justin Caffier, intitolato “A Guide to QAnon, the New King of Right-Wing Conspiracy Theories”.

Dalla prima apparizione del sedicente Q erano passati solo sette mesi. In Europa se ne erano accorte pochissime persone. Tra queste, il mittente dell’email. E, da quel momento, io.

Il mittente era un nostro vecchio sodale dei tempi di Blissett, Florian Cramer, ora professore di cultura visiva alla Willem de Kooning Academy di Rotterdam. Poco dopo si erano fatte vive altre persone, perché la vicenda di QAnon suonava familiare. Almeno, suonava familiare a chi sapeva cos’era stato Luther Blissett e/o aveva letto Q.

Non solo QAnon sembrava citare parti della trama del nostro libro, ma riproponeva le fantasticherie su satanismo e pedofilia che ai tempi di Luther Blissett avevamo studiato e contrastato.

Avevo udito un richiamo e non potevo non rispondere. La faccenda mi implicava.

E così mi ci ero messo di buona lena. In due anni e mezzo avevo letto visto ascoltato moltissimo: decine e decine di libri, centinaia di articoli, discussioni su forum, video, film, canzoni, podcast. Ne avevo discusso all’interno del collettivo e con una vasta moltitudine di persone. Avevo scritto articoli e inchieste, tenuto conferenze in Italia e all’estero, tenuto un corso all’Università di Roma Tor Vergata e cominciato a scrivere un libro, che mi era cresciuto sotto i polpastrelli e sembrava fuggire da ogni parte.

Non si trattava solo di narrare una storia, ma di storicizzare una narrazione. E capire come e perché funzionava. Per farlo servivano idee chiare e concetti giusti.

Per orientarmi avevo riletto Il pendolo di Foucault. Non pensavo di poter parlare di complotti senza passare per quel libro. Rileggerlo, infatti, mi aveva messo nella giusta direzione. In ogni fase della ricerca tornavo a rovistare in quella cassetta degli utensili, perché ogni nuova scoperta me la riportava alla mente.


24 Marco Deseriis, Improper Names: Collective Pseudonyms from the Luddites to Anonymous, Minnesota University Press, Minneapolis-London 2015. Le due citazioni seguenti sono tratte dal libro, che contiene la migliore ricostruzione in lingua inglese di cosa fu e non fu il Luther Blissett Project. Cfr. anche Marco Deseriis, “Lots of Money Because I am Many: The Luther Blissett Project and the Multiple-Use Name Strategy”, in Begum Ozden Firat, Aylin Kuryel (eds.), Cultural Activism: Practices, Dilemmas and Possibilities, Rodopi B.V., Amsterdam 2011.

25 Il medico americano Jack Kevorkian (1928-2011), soprannominato dai media «Dr. Death», fu un pioniere del suicidio assistito e dell’eutanasia. Dichiarò di aver aiutato a morire centotrenta pazienti. Nel 1999 fu processato per omicidio di secondo grado e condannato a otto anni di carcere.

26 Andrea Giovannucci, “La Chaos League e il New Italian Larp. Nuove frontiere dei giochi di ruolo dal vivo”, Giap (on line), 1 dicembre 2016. Il citato Jonathan Gotschall è uno studioso di letteratura americano, autore di vari libri tra cui The Storytelling Animal: How Stories Make Us Human, Houghton Mifflin, Boston 2012.

27 Luther Blissett, Mind Invaders. Come fottere i media: manuale di guerriglia e sabotaggio culturale, Castelvecchi, Roma 1995. Una selezione di capitoli del libro è oggi inclusa nell’antologia di Luther Blissett Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, Einaudi, Torino 2000.

28 Stava semplicemente per Kiss My Ass. Il vero autore del pamphlet è un membro del Luther Blissett Project, oggi filosofo dei media, apprezzato docente in un’università tedesca e teorico del cosiddetto «accelerazionismo».

Capitolo quattro

Il libro delle metastasi

«Un flagello affabulatorio». I diabolici e i sardonici. Mi son comprato un personal computer (ma il cuore soffre un poco di aritmia). Il Piano. Lia ve l’aveva pur detto! Oncologia del complotto. Armi spuntate: ironia, satira, parodia. Falsa inchiesta sul falso allunaggio. Conspirituality. The Me DecadeSingularity. Gli anelli mancanti, la pop culture, la counterculture e il gioco. L’incanto del lotto 49 e Illuminatus!

Il pendolo di Foucault era arrivato nelle librerie italiane il 4 ottobre 1988, dopo un grande battage fatto di anticipazioni e polemiche preventiveEco era reduce dal successo internazionale de Il nome della rosa, diventato anche un film di successo, e le aspettative di critica e lettori erano alle stelle. C’era chi non vedeva l’ora di ammirare il nuovo congegno narrativo e chi invece era pronto alla stroncatura, alla maldicenza, finanche all’insulto.29

Il romanzo aveva colto il pubblico alla sprovvista. Fin dall’esergo, dove campeggiava una citazione in ebraico non tradotta:30

והנה בהיות אור הא”ס נמשך, בבחינת קו ישר תוך החלל הנ”ל, לא נמשך ונפשט (ו) תיכף עד למטה, אמנם היה מתפשט לאט לאט, רצוני לומר, כי תחילה התחיל קו האור להתפשט, ושם תיכף בתחילת התפשטותו בסוד קו, נתפשט ונמשך ונעשה, כעין גלגל אחד עגול סביב

Nondimeno Il pendolo di Foucault aveva venduto bene, anzi, benissimo: trecentomila copie di tiratura, primo ricarico dopo due giorni.

Subito si era imposto un luogo comune: la gente comprava il libro, sì, ma mica era detto che lo leggesse. Lo comprava e restava delusa, oppure lo comprava a prescindere perché era il titolo del momento, per esibirlo sul tavolo del soggiorno o sullo scaffale più visibile, collocato di piatto. Del resto la copertina era molto bella: sullo sfondo un dettaglio ingrandito della Tour Eiffel virato in blu, il nome dell’autore stampato in bianco, il titolo del romanzo in giallo acceso.

Con quel libro, si diceva, Eco aveva fatto mero sfoggio di erudizione. Di più: aveva preso i lettori per i fondelli propinando a chi si era atteso un nuovo Il nome della rosa un folle divertissement. Un divertissement blasfemo, secondo L’Osservatore Romano. Un’operazione finalizzata a irridere ogni senso del sacro. Il giornale vaticano aveva attaccato Eco con violenza in una recensione intitolata “Un flagello fabulatorio che deforma, dissacra e offende”. Recensione priva di citazioni dal libro perché, aveva scritto il critico Fernando Salsano, «fa senso trascrivere buffonate e lordure».31

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni.

Per far capire attualità e importanza del romanzo dovevo raccontarne a grandi linee la fabula, evitando di addentrarmi nell’intreccio, cioè lasciando perdere le sottotrame, la foresta di episodi, le apparenti digressioni (una parte del romanzo si svolgeva in Brasile), e senza fare spoiler. Della parte finale del libro meglio non dir nulla.

La storia cominciava nel 1972 e si concludeva dodici anni più tardi, dopo essersi sviluppata intorno a due case editrici milanesi: la rispettabile Garamond, che pubblicava testi universitari e manuali, e l’equivoca Manuzio, che stampava libri a pagamento, dopo veri e propri raggiri ai danni degli autori, i cosiddetti Aps – Autori a Proprie Spese. I due marchi apparivano distantissimi, incollegabili l’uno all’altro, ma il proprietario era lo stesso, lo spregiudicato signor Garamond, e nei fatti si trattava di un’unica casa editrice, con le due sedi nello stesso edificio e gli ingressi a due indirizzi diversi: via Sincero Renato 1 per la Garamond, via Marchese Gualdi per la Manuzio.32

In quegli uffici lavoravano i due protagonisti/narratori e il loro comprimario.

Casaubon, l’io narrante del romanzo, era il più giovane, laureato a metà degli anni Settanta con una tesi sui templari. Eco gli aveva dato il cognome del filologo Isaac Casaubon (1559-1614), debunker del tardo Rinascimento, l’uomo che aveva dimostrato come il cosiddetto «sapere ermetico» non risalisse affatto all’antichità precristiana.

Jacopo Belbo, l’unico del trio a cui Eco avesse dato un nome di battesimo, era uno scafato editor di mezza età e la seconda voce narrante del romanzo, in absentia, grazie all’espediente del diario e dei racconti autobiografici trovati nel suo computer.

Anche Diotallevi era sopra i quarant’anni. Senza alcun riscontro nella storia di famiglia – il nonno era un trovatello, da cui il cognome – si era convinto di essere ebreo e perciò aveva la passione della Qabbalah e del misticismo ebraico.

L’intreccio cominciava in medias res: Casaubon, trafelato, reduce da eventi sconvolgenti, indovinava la parola d’ordine per accedere ai file di Belbo e cercarvi la spiegazione di quanto accaduto. Da lì partiva un lunghissimo flashback.

Dopo la stagione dell’impegno politico, all’inizio degli anni Ottanta l’Italia era in pieno “riflusso”. Molti che avevano sventolato il libretto rosso di Mao ora si interessavano a dottrine spirituali e filosofie esoteriche. Milano pullulava di psicoterapeuti-santoni, sedicenti alchimisti, circoli neorosacrociani. La stagione cantata da Franco Battiato in Magic Shop, seconda traccia dell’album L’era del cinghiale bianco (1979): «i mantra e gli hare hare a mille lire, / l’esoterismo di René Guénon».

Un giorno i tre redattori ricevevano un nuovo incarico: trovare titoli per due collane dedicate a occultismo, esoterismo, gnosticismo, magia. Una per la Garamond, l’altra per la Manuzio. Rispettivamente, «Hermetica», dal taglio in apparenza più “scientifico”, e «Iside Svelata», destinata agli Aps. La visione di Garamond era nitida:

La collana seria fa da richiamo, attira persone sensate che faranno altre proposte, indicheranno piste, e poi attira gli altri [...] che saranno dirottati alla Manuzio [...]. È un filone d’oro. Io mi son reso conto che quelli mangiano di tutto purché sia ermetico, purché dica il contrario di quel che hanno trovato sui libri di scuola [...]. Un pubblico immenso, diviso in due grandi categorie, già me le vedo sfilare davanti agli occhi e sono legione.

Le due categorie corrispondevano a due fasce di borghesia:

- un’upper middle class che si muoveva con disinvoltura nella profana «Milano da bere» ma vagheggiando il sacro, blaterando di «stati superiori di coscienza», citando Gurdjeff e Guénon e ostentando struggimenti per passati mitici o mitizzati, si trattasse dell’antica India o della Mitteleuropa della crisi – anzi, della Krisis – fin de siècle. Una fauna, per dirla con Furio Jesi, desiderosa di ostentare «lusso spirituale»,33 sempre in cerca di nuovi status symbol e citazioni con cui brillare alle serate mondane. Il pubblico perfetto per Hermetica;

- una piccola borghesia affascinata dall’occulto ma provinciale e imparaticcia, anch’essa in cerca di lusso spirituale e interessata a brillare nel proprio piccolo mondo, ma conseguendo lo status di Autore, sia pure a proprie spese. Il target ideale di Iside Svelata, collana che programmaticamente non voleva lettori ma autori.

Ben presto Belbo, Diotallevi e Casaubon si ritrovavano sepolti nel ciarpame, costretti a fronteggiare un’invasione di dattiloscritti rimasticanti le stesse illazioni sui templari, i rosacroce, i massoni e gli ebrei. I tre chiamavano gli autori di quei testi «i diabolici». E ogni diabolico ricorreva come fonti agli altri diabolici, alimentando un meccanismo di conferma reciproca e logica circolare. Tutti simulavano riscontri e verifiche e fingevano di avere un consistente apparato di fonti e bibliografia, mentre citavano sempre le stesse cose e si citavano a vicenda.

Per noia e frustrazione Belbo, Diotallevi e Casaubon decidevano di fare un gioco: imitare la logica fallace dei diabolici, intrecciare tutte le fantasie di complotto esistenti e produrne una che spiegasse l’intera storia del mondo. «Noi – i sardonici – volevamo giocare a rimpiattino coi diabolici mostrandogli che, se complotto cosmico aveva da esserci, noi sapevamo inventarne uno che più cosmico non ce n’è».

Così nasceva il Piano.

Aiutava a crearlo un quarto personaggio, Abulafia. Prendeva il nome da Abraham ben Samuel Abulafia (1240-1291), fondatore della Qabbalah mistica, ed era una macchina: il personal computer di Belbo.

Al principio degli anni Ottanta, negli uffici e nelle case, i computer erano ancora una novità. Il romanzo di Eco era anche una riflessione sul loro primo impatto, su come stava cambiando il modo di scrivere, di rivedere un testo, di lavorare, e anche di pensare. Lo aveva fatto notare Alberto Asor Rosa in un lungo articolo uscito su Repubblica il 4 ottobre 1988:

Il computer, che del resto ha anche lui un nome (Abulafia), è il personaggio più importante, o, per meglio dire, è l’ur-personaggio, è l’archi-personaggio del libro. Non solo, infatti, tiene nella sua pancia gran parte della storia (ciò riguarda la finzione, e in particolare la figura di Belbo). Ma scrive il racconto, anzi, di più, lo rende possibile: in quanto il dominio sulla materia, su questa materia è reso possibile solo dall’uso del computer. Questo riguarda, da una parte, il controllo sulla mole immensa dei dati eruditi: centinaia, anzi migliaia di nomi, di titoli, di riferimenti, di relazioni (vagoni di schede, che solo un’alta tecnologia poteva mettere in movimento). Ma, dall’altra, riguarda anche la costruzione del racconto, che in ogni suo punto richiama tutti gli altri. Se uno lo legge come un racconto lineare, è fottuto.

Abulafia era il sogno di ogni cabalista: la macchina con cui eseguire le permutazioni dei nomi di Dio.

Era anche il sogno di ogni fanatico di complotti: la macchina con cui stabilire collegamenti, unire puntini lontani...

Infine, era il sogno di ogni postmoderno: la macchina con cui frullare citazioni, fare surf sulle onde dei testi, non prendere niente sul serio.

Tutto questo già prima dei collegamenti via modem: anche senza cablaggi o wi-fi, agli occhi di Belbo Abulafia poteva connettersi a una rete più grande del mondo stesso: all’intera storia umana. Per scherzarci sopra, naturalmente.

Belbo, Diotallevi e Casaubon scoprivano il fascino del random: grazie a ricombinazioni casuali di elementi di diversi complotti iniziavano a collegare tutto, e all’inizio il gioco era divertente, ma poi si faceva compulsivo. L’approccio era questo:

qualsiasi dato diventa importante se è connesso a un altro. La connessione cambia la prospettiva. Induce a pensare che ogni parvenza del mondo, ogni voce, ogni parola scritta o detta non abbia il senso che mostra, ma ci parli di un Segreto. Il criterio è semplice: sospettare, sospettare, sospettare. Si può leggere in trasparenza anche un cartello di senso vietato [...]. Ieri sera mi è capitato tra le mani il manuale per la patente B. Sarà stata la penombra, o quel che lei mi aveva detto, mi ha colto il sospetto che quelle pagine dicessero Qualche Cosa d’Altro.

Da quello spunto derivava un’interpretazione mistica dell’albero a camme, scherzosa eppure sinistra, per il gioco inesorabile delle corrispondenze e la cupa pesantezza delle maiuscole reverenziali:

Al sommo il Motore. Omnia Movens, di cui diremo, che è la Sorgente Creativa. Il Motore comunica la sua energia creativa alle due Ruote Sublimi – la Ruota dell’Intelligenza e la Ruota della Sapienza [...]. Dopo il Motore e le due Ruote viene la Frizione, la sefirah della Grazia che stabilisce o interrompe la corrente d’Amore che lega il resto dell’Albero all’Energia Suprema. Un Disco, un mandala che accarezza un altro mandala. Di lì lo Scrigno del Mutamento – o del cambio, come dicono i positivisti, che è il principio del Male perché permette all’umana volontà di rallentare o accelerare il processo continuo dell’emanazione. Per questo il cambio automatico costa di più, perché qui è l’Albero stesso che decide secondo l’Equilibrio sovrano.

In una conferenza del 1987 – poi adattata a capitolo del suo I limiti dell’interpretazione (1990) – Eco aveva chiamato quell’approccio «semiosi ermetica», prendendolo a estremo esempio della pretesa che un testo potesse essere interpretato liberamente all’infinito, facendogli dire «tutto, salvo quello a cui pensava l’autore».34 Il Pendolo, come aveva scritto Enrico Manera, era anche «una critica alla sbornia postmoderna, alla moda decostruzionista, all’“esoterismo” come pratica accademica, a certa ermeneutica “gnostica” [...] in definitiva a quella cultura che si regge, paradossalmente, sugli effetti di segretezza e sull’aura di miticità al fine di consolidare la propria posizione e recintare un’area interdetta ai non-iniziati».35

Presto Belbo, Diotallevi e Casaubon, partiti con l’intento di irridere tale approccio, cominciavano a soccombervi, a vedere il mondo in modalità allucinatoria. Qualunque cosa diventava segno di qualcos’altro.

Quando ci scambiavamo le risultanze del nostro fantasticare ci sembrava, e giustamente, di procedere per associazioni indebite, cortocircuiti straordinari, a cui ci saremmo vergognati di prestar fede – se ce lo avessero imputato. È che ci confortava l’intesa – ormai tacita, come impone l’etichetta dell’ironia – che stavamo parodiando la logica degli altri. Ma nelle lunghe pause in cui ciascuno accumulava prove per le riunioni collettive, e con la tranquilla coscienza di accumulare pezzi per una parodia di mosaico, il nostro cervello si abituava a collegare, collegare, collegare ogni cosa a qualsiasi altra cosa, e per farlo automaticamente doveva assumere delle abitudini. Credo non ci sia più differenza, a un certo punto, tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere...

Il Piano. Quasi impossibile farne un riassunto: c’erano dentro il Graal, la terra cava, il ghiaccio eterno, l’alchimia, la teosofia, la sinarchia... Eco aveva sbattuto i tuorli di molte uova d’oro editoriali degli anni precedenti – da Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier a Il santo Graal di Lincoln, Baigent e Leigh passando per i libri di Peter Kolosimo –, ci aveva aggiunto olio e limone, poi aveva lasciato la maionese fuori dal frigo, senza coperchio, per farla marcire.

In estrema sintesi quello che i cospiratori di ogni epoca – dai templari agli ebrei, dai rosacroce ai massoni, dai gesuiti ai nazisti – avevano perseguito era il dominio delle correnti telluriche, del mondo sotterraneo. Stonehenge, i dolmen, i menhir e persino la torre Eiffel segnavano punti dove s’incrociavano le correnti e dai quali, guardando il cielo, si poteva cogliere la perfetta sovrapponibilità delle costellazioni e dei percorsi ipogei, perché quod erat superius erat sicut quod erat inferius.

Tutti gli eventi della storia – ogni guerra, congiura e rivoluzione – erano dipesi da ciò che avveniva underground, letteralmente. Nella burlesca ricostruzione dei sardonici, Hitler non aveva mai avuto come intento principale quello di sterminare gli ebrei: voleva trovare un messaggio cabalistico in possesso dei suoi nemici storici. Le procedure dell’Olocausto non avevano senso se si trattava solo di uccidere: troppa lentezza, troppa burocrazia, troppo girare intorno alla questione... Perché spogliare nudi i prigionieri e visitarli meticolosamente? Perché si stava cercando qualcosa, era la risposta. Un messaggio che uno di quei milioni di persone – nella parole di Belbo «il rappresentante gerosolimitano dei Trentasei Invisibili» – nascondeva nell’orlo di un indumento, o in bocca, o tatuato sul corpo. Lo scopo ultimo di Hitler era individuare un punto nel centro cavo della terra corrispondente al centro esatto del cielo. Occupato quel punto, sarebbe stato Signore dell’Universo. Non c’era riuscito, ma nel tentativo aveva portato la Germania alla rovina e ridotto l’Europa in macerie.

Dopo la guerra, il Piano era andato avanti. Andava sempre avanti.

Lia, compagna di Casaubon e mente più lucida tra quelle che si confrontavano nel romanzo, cercava di mettere in guardia il suo uomo. Erano le pagine più belle e potenti, una tenerissima lectio magistralis su cos’erano i simboli e come interpretarli. Parlando dell’ossessione per ciò che stava sottoterra Lia diceva:

Dentro la pancia è bello, perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e la fertilità è sempre in un buco, dove qualcosa prima marcisce e poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab.

Anche la vanvera numerologica era ricondotta all’esperibile realtà del corpo. E forse proprio per quelle materialistiche, gioiose spiegazioni – per giunta da parte di una donna emancipata e disinvolta – si era inalberato L’Osservatore Romano:

Uno sei tu che non sei due, uno è quel tuo affarino lì; una è la mia affarina qui e uni sono il naso e il cuore e quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli occhi, le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia e le natiche. Tre è più magico di tutti perché il nostro corpo non lo conosce, non abbiamo nulla che sia tre cose, e dovrebbe essere un numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in qualunque posto viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo cosino [...] e se mettiamo questi due cosini insieme viene fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. [...] Cinque non parliamone, sono le dita della mano, e con due mani hai quell’altro numero sacro che è dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano.

Ma era inutile, Casaubon già scivolava nel rabbit hole.

A un certo punto la catastrofe: il Piano diventava vero. O meglio, era creduto vero in certi ambienti, con conseguenze tragiche.

Ecco perché il romanzo cominciava a disastro già in corso: per consentire a Casaubon di ricostruire la discesa nell’abisso, mano a mano che gli intenti critici della burla evaporavano e l’ironia lasciava il posto ad altro.

Intanto Diotallevi si scopriva malato di cancro e coglieva un parallelismo: il cancro come interpretazione-permutazione biologica senza limiti e senza regole, analoga all’interpretazione-permutazione testuale a cui il redattore si era abbandonato insieme agli altri due. Il gioco irridente col cospirazionismo aveva incoraggiato il cancro: «Che cosa hanno fatto le mie cellule? Hanno inventato un Piano diverso, e ora vanno per conto proprio [...]. Invertono, traspongono, alternano, permutano, creano cellule mai viste e senza senso, o con sensi contrari a quello giusto». C’era anche una pezza d’appoggio etimologica, anzi, onomasiologica:36

Hai mai riflettuto che il termine retorico metatesi è simile al termine oncologico metastasi? Che cos’è la metatesi? Invece di «palude» dici «padule». E invece di «amori» puoi dire «aromi» [...]. Il vocabolario dice che metathesis vuol dire spostamento, mutazione. E metastasis vuol dire mutamento e spostamento [...]. La radice è la stessa, o è il verbo metatithemi o il verbo methistemi. Ma metatithemi vuol dire metto in mezzo, trasloco, trasferisco, metto invece di, abrogo una legge, cambio il senso. E metathistemi? Ma è la stessa cosa, trasloco, permuto, traspongo, cambio l’opinione comune, esco di senno. Noi, e chiunque cerca un senso segreto oltre la lettera, noi siamo usciti di senno. E così hanno fatto le mie cellule obbedienti. Per questo io muoio, Jacopo, e tu lo sai [...]. Muoio perché ho convinto le mie cellule che la regola non c’è e di ogni testo si può fare ciò che si vuole.

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Il romanzo di Eco non era una parodia del cospirazionismo, come alcuni critici superficiali avevano pensato, ma un apologo su quanto fosse vano, controproducente e anche pericoloso tentare la via della parodia.

Ecco la prima lezione che avevo tratto dal romanzo: la satira sul cospirazionismo poteva divertire chi era già scettico, ma per chi vedeva complotti ovunque non esistevano caricature né interpretazioni eccessive. Non c’era quasi nulla che non potesse essere creduto. Per dirla con Casaubon: «La gente è affamata di piani, se gliene offri uno ci si getta sopra come una muta di lupi. Tu inventi e loro credono. Non bisogna suscitare più immaginario di quanto ce ne sia».

I credenti in QAnon, ad esempio, avevano interpretato alla lettera Hunter S. Thompson sull’adrenocromo. A dirla tutta, l’intero “qulto” sembrava la conseguenza di uno scherzo preso sul serio.

La miglior conferma che parodia e ironia non servivano la forniva l’effetto boomerang di Operazione Luna (Opération Lune), un mockumentary realizzato dal francese William Karel nel 2001 e andato in onda sul canale Arté l’anno dopo.

L’intento di Karel era ironico: il film fingeva di dare ragione – e di fornire prove – a chi sosteneva che l’allunaggio del 1969 non fosse mai avvenuto e che il filmato lo avesse girato in studio Stanley Kubrick, ancora “fresco” di 2001: Odissea nello spazio.

Operazione luna vantava la partecipazione di svariati politici americani che ai tempi dell’allunaggio erano stati ai massimi livelli dell’amministrazione Nixon: Henry Kissinger, Donald Rumsfeld (all’epoca assistente del presidente), Richard Helms e Vernon A. Walters (entrambi ex direttori della Cia), Alexander Haig (già capo di gabinetto della Casa bianca), ecc. Comparivano anche l’ex astronauta Edwin «Buzz» Aldrin e Christiane Kubrick, la vedova di Stanley.

Alternate alle loro testimonianze, quelle di personaggi i cui nomi suonavano familiari, anche se nessuno li aveva mai visti prima: ex astronauti, mogli e amici di astronauti, un ex agente del Kgb e persino l’ex segretaria personale di Nixon. Tutti avallavano la tesi del falso allunaggio dando testimonianze di prima mano.

Strano però che molte affermazioni fossero platealmente false: Nixon non era mai stato governatore della California; Lyndon B. Johnson non era mai stato governatore del Texas; Neil Armstrong non si era mai ritirato in un monastero; nell’estate del 1969 non erano in corso le riprese di 2001: Odissea nello spazio (il film era già uscito da più di un anno). Anche alcune didascalie dicevano il falso: ad esempio Farouk Elbaz non era mai stato «direttore tecnico della Nasa». Inoltre quasi ogni data era sbagliata, inclusa la data stessa dell’allunaggio.

Chi aveva orecchie per intendere aveva inteso. E se ancora aveva dubbi, passaggi chiaramente satirici – Armstrong che portava con sé l’autoradio per paura che nel parcheggio della Nasa gliela fregassero – li avevano dissipati.

A beneficio di tutti gli altri, soltanto dopo cinquantadue minuti, durante i titoli di coda, ripetuti bloopers (riprese scartate) rivelavano che i testimoni erano attori e avevano recitato un copione. I nomi dei loro personaggi erano tratti da film di Kubrick o di Hitchcock: Jack Torrance non era un ex produttore della Paramount ma lo scrittore interpretato da Jack Nicholson in Shining; David Bowman non era un ex ingegnere del centro spaziale di Houston ma il protagonista di 2001: Odissea nello spazio; il più volte nominato George Kaplan non era un colonnello della Cia ma la fantomatica spia di Intrigo internazionale; ecc.

Quanto a Kissinger, Rumsfeld e gli altri pezzi grossi, la loro partecipazione era stata involontaria. Karel li aveva intervistati per un altro documentario, Les hommes de la maison blanche, e avevano risposto a domande su tutt’altri argomenti. Il regista aveva tagliato e rimontato ad arte i loro discorsi perché sembrassero riguardare il falso allunaggio. Erano tutte asserzioni vaghe, perlopiù mezze frasi, a volte addirittura monosillabi o risatine. Karel aveva utilizzato la stessa tecnica con Buzz Aldrin e Christiane Kubrick, convinta di aver partecipato a un documentario su 2001: Odissea nello spazio.

Operazione raffinata. Ma controproducente. Forse la satira più fraintesa del ventunesimo secolo, e fin da subito. Lo stesso svelamento finale, capito a metà, aveva dato adito a nuovi sospetti. Emblematico un commento lasciato sul blog Falsi documentari nel 2007:

La circostanza che personaggi eminenti, veri factotum Usa all’epoca dello sbarco, si siano prestati a questa burla con il fine evidente di smentire i sostenitori del complotto, secondo me dimostra e conferma che i complottisti ci hanno visto bene.

Ovunque si trovavano commenti analoghi, di persone convinte che Rumsfeld e i suoi pari avessero partecipato alla beffa. E se avevano partecipato, doveva esserci un secondo fine.

Se il malinteso si creava già vedendo l’intero film, il continuo cut’n’mix della rete aveva intorbidito ancor più le acque, e continuava a intorbidirle. Sequenze di Operazione Luna erano state estrapolate e inserite in altri documentari, di ben più rozza fattura, dove le testimonianze dei politici, di Christiane Kubrick e di Buzz Aldrin erano presentate come vere confessioni. Su YouTube si trovavano versioni del mockumentary lunghe solo quarantanove minuti, cioè – guardacaso – senza i titoli di coda. Ancora nel 2020 molta gente era convinta che Opération Lune fosse una vera inchiesta sul falso allunaggio, anziché una falsa inchiesta sul falso allunaggio. Karel riceveva ancora congratulazioni per aver smascherato la truffa.

Come aveva detto Lia a Casaubon: «Guai a fare finta: ti credono tutti».

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Ancora: era come se Il pendolo di Foucault avesse scattato un’istantanea dei rapporti tra cospirazionismo e New Age, ma la pellicola si fosse sviluppata solo decenni dopo.

Negli anni in cui Eco aveva scritto il Pendolo, il revival esoterico/spirituale degli anni Sessanta era già divenuto un cliché. Dopo aver ispirato varie correnti della controcultura, quel trend aveva accompagnato il «riflusso» del decennio successivo, il ritorno all’individualismo, avvolgendolo di discorsi su «risvegli», «età dell’Acquario», «coscienza cosmica» e quant’altro.

Se da noi i Settanta erano stati «anni affollati» (titolo di una canzone di Giorgio Gaber), anni di esperienze collettive, negli Stati Uniti erano stati «The Me Decade» il decennio del me, espressione coniata dal giornalista Tom Wolfe.

Nel 1976, in uno dei suoi tipici, spiritati reportage – The Me Decade and the Third Great Awakening –, Wolfe aveva descritto i nuovi hobby spirituali del ceto medio e il boom di ibridazioni tra psicoterapia e misticismo, di pratiche di meditazione, di culti che parafrasavano in mille modi l’antico precetto Γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso. Molti reduci dagli esperimenti comunitari degli anni Sessanta, raccontava Wolfe, avevano rideclinato le loro esperienze e interessi in una chiave individualistica, più orientata al sé, alla cura di sé, al miglioramento di sé.

Il vecchio sogno alchemico era cambiare i metalli in oro. Il nuovo sogno alchemico è: cambiare la propria personalità – rifare, rimodellare, elevare e rifinire il proprio sé... e osservarlo, studiarlo, ammirarlo (me!). Storicamente, era sempre stato un lusso da aristocratici, a lungo confinato alla vita di corte, dato che solo le classi più ricche avevano il tempo libero e il surplus di reddito per dedicarsi a tale dolcissimo e vano passatempo.37

Ora il culto del me si era democratizzato e la sua estensione aveva prodotto nuove discipline, nuove abitudini, nuovi consumi. Cominciava a svilupparsi l’industria della wellness.

Gli ambienti newagey erano già esposti a derive reazionarie, affollati com’erano di guru, santoni, metafisica a buon mercato, richiami acritici a presunti saperi antichi... A nascondere quel rischio era stata la provenienza di molte persone approdate a quel mondo. I neospirituali degli anni Settanta venivano dai movimenti, dalla temperie che da noi si chiamava «il Sessantotto» mentre negli Stati Uniti era solo «the Sixties». Si percepivano e rappresentavano come, quantomeno, progressisti. Banalizzando, la sensibilità media era orientata a sinistra. Leggende d’odio sui padroni occulti del mondo, su sanguinari rituali degli ebrei o sulla razza bianca che rischiava l’estinzione sarebbero suonate male alle loro orecchie, e avrebbero causato immediato rigetto.

Ma sottotraccia erano in corso nuove convergenze.

Solo nel 2011, per definire una nuova realtà ormai visibile, studiosi avevano coniato il neologismo «conspirituality», cospirazione + spiritualità,38 e solo con QAnon la conspirituality era apparsa inquietante e lugubre com’era rappresentata nel Pendolo di Foucault.

Nel crogiolo di QAnon temi cari al cospirazionismo politico si fondevano con temi cari alla New Age, alle frange esoteriche di ogni sorta, ai culti alternativi, alle correnti mistiche o millenaristiche delle grandi religioni. QAnon ne otteneva una lega con cui forgiare armi terribili, sì, ma non del tutto nuove. Sintesi del genere c’erano già state. Il cospirazionismo moderno aveva più volte conosciuto forme di conspirituality. Anzi, quelle forme erano state fondative. Avevano influenzato la storia europea e, di conseguenza, quella degli Stati Uniti. A quei precedenti si era ispirato Eco per il Pendolo. Il romanzo non conteneva profezie, ma consapevolezza storica.

Storicizzare sempre, ecco il motto da scrivere su un foglio e appendere accanto al computer.

Storicizzando, si poteva vedere che la conspirituality era solo un sotto-trend. Il Pendolo mostrava la tendenza generale delle fantasie di complotto: quella a formare conglomerati, e conglomerati di conglomerati. Fenomeno che di fronte a QAnon molti trovavano sorprendente ma che si era sempre verificato.

Complice l’emergenza Covid e mentre negli Stati Uniti scoppiavano rivolte urbane, nella primavera 2020 QAnon aveva realizzato la più volte paventata singolarità cospirazionista. Concetto che tutti utilizzavano ma nessuno definiva con chiarezza. Il termine «singolarità» era usato con diverse accezioni in più campi scientifici. Semplificando al massimo, indicava un repentino passaggio da uno stato all’altro, un superamento – spesso in seguito a una variazione minima – di un limite oltre il quale aumentava il caos.

Una definizione l’avevo tentata io:

Singolarità cospirazionista. Rapidissima convergenza e ibridazione di tutte le fantasie di complotto circolanti in una data epoca, con conseguenze culturali e politiche su una scala tanto vasta quanto imprevedibile, in ogni caso sproporzionata rispetto allo “scatto”, al microevento che ha fatto superare una certa soglia di complessità, scatenando il processo (es. la pubblicazione delle “gocce” di Q).

Ne aveva scritto su Vice Anna Merlan, autrice anche di un libro molto utile intitolato Republic Of Lies:

La tensione di vivere in questo particolare periodo, mentre collidono alla massima velocità una pandemia che si trascina devastante e una rivolta generale contro la brutalità poliziesca e l’ingiustizia razziale, ha accelerato un processo che andava avanti da anni. Chiamatela singolarità cospirazionista: il luogo in cui molte comunità cospirazioniste si incontrano e si fondono all’improvviso, in un crogiuolo di densità inimmaginabile.39

Nelle discussioni seguite all’articolo – dove nessuno aveva mai citato il romanzo di Eco – il sintagma «andava avanti da anni» era passato in secondo piano, e con esso la seconda metà dell’articolo, dove Merlan spiegava che la tendenza naturale dei cospirazionismi era sempre stata quella di convergere e ibridarsi, e che diversi autori avevano lavorato a quello scopo.

L’autrice tornava indietro solo di qualche decennio. Come esempio di poeta della singolarità40 Merlan citava Milton William Cooper, l’autore di Behold A Pale Horse, libro uscito nel 1991 e divenuto un best seller tra miliziani di destra, neonazisti e, più di recente, aspiranti salvatori di bambini-talpa.

Il magnum opus prendeva il titolo dall’Apocalisse di Giovanni, 6,2: «Guardai, e vidi un cavallo bianco». Non c’era complotto che Cooper non inglobasse nella sua fantasmagoria del Nuovo Ordine Mondiale: atterraggi segreti di Ufo, extraterrestri nascosti tra noi, i Protocolli dei savi anziani di Sion, i cavalieri templari, gli Illuminati di Baviera, nefandi culti luciferiani... e false flag di ogni sorta. False flag passate e future: l’autore preconizzava stragi nelle scuole d’America, organizzate dal governo federale per togliere le armi ai patrioti. Dopo il massacro di Sandy Hook qualcuno si era ricordato di quelle pagine, e il mito di un Cooper «profeta» aveva conquistato al libro nuovi lettori.

Cooper era morto nel 2001 in uno scontro a fuoco coi vicesceriffi della contea di Apache County, in Arizona. Dopo la sua fine violenta era diventato una leggenda e il suo libro – un guazzabuglio quasi illeggibile – un testo sacro.

Al posto di Merlan, da buon europeo, io sarei risalito più indietro, al crinale tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, e come poeta della singolarità avrei citato Augustin Barruel (1741-1820), colui che per primo aveva collegato culti ancestrali, templari, Illuminati e logge massoniche, il tutto per spiegare la Rivoluzione francese, «flagello dell’Europa», l’evento più sconvolgente della storia moderna.

Barruel – professore di retorica, gesuita e poi prete secolare – aveva scritto le Memorie per la storia del Giacobinismo mentre era in esilio a Londra. Erano uscite in quattro tomi nel 1797-1798 e avevano fornito, con grande tempismo, una spiegazione per un evento che ai più appariva imponderabile: era stato l’esito di un complotto. Un complotto addirittura millenario. A stretto giro l’opera era stata tradotta in quasi tutte le lingue europee e il successo era stato impetuoso, tanto da spingere il sacerdote a trarne una versione ridotta, in soli due volumi, che aveva raggiunto ancor più persone, per diventare uno dei libri più influenti del diciannovesimo secolo.

Con l’operazione di Barruel – cioè con una singolarità – era nato il cospirazionismo moderno. Non a caso era una delle ispirazioni di Belbo, Diotallevi e Casaubon nell’inventare il Piano.

L’esempio di Barruel dava anche profondità di campo al dibattito sulla conspirituality: i padri del cospirazionismo moderno erano stati cattolici osservanti e devotissimi, membri del clero, dediti agli Exercitia spiritualia di sant’Ignazio, a pratiche di meditazione, di interrogazione della propria coscienza, di purificazione dell’anima. E la loro forma mentis era un’eredità dei secoli: a ben vedere, chi era stato più cospirazionista dell’Inquisizione?

Tornando ad Anna Merlan, dopo aver mostrato che la tendenza alla singolarità era vecchia quanto il cospirazionismo, scriveva:

Detto ciò, è pur vero che prima le comunità di cospirazionisti avevano un certo grado di separatezza. Le loro conferenze si tenevano nelle sale di alberghi diversi, e si rivolgevano a pubblici diversi sotto l’aspetto geografico e sociale [...]. Ma ora Internet è la più grande sala d’albergo di tutti i tempi, e la nuova pandemia di coronavirus ha costretto molte persone a condizioni di vita universalizzanti. Stiamo tutti cercando di dare un senso allo stesso enorme evento globale, cosa che sembra spingere verso una grande teoria unificata del sospetto. E quando tutti usano le stesse piattaforme globali, le comunità sembrano influenzarsi a vicenda molto più rapidamente. Ciò che abbiamo oggi è più che altro una massa, una fusione di teorie cospirazioniste che si combinano in modo da rendere i loro contorni individuali più difficili da distinguere.41

Non era quel che Belbo, Diotallevi e Casaubon avevano visto in Abulafia? Nello schermo di un singolo computer non collegato ad alcun modem, era apparsa loro la Rete.

La cassetta degli utensili era lì, a disposizione di tutti. Il Pendolo era uno dei romanzi più venduti del tardo Novecento, tradotto in decine di lingue e pubblicato in tutti i continenti. Le copie stampate avrebbero riempito svariati silos. Eppure, nel dibattito internazionale su QAnon, nessuno lo stava usando. Era un anello mancante. All’inizio me ne ero crucciato, poi me l’ero spiegato in vari modi: la densità e difficoltà del libro, l’evidente eurocentrismo dell’approccio di Eco alle fantasie di complotto (mentre gli analisti di QAnon erano quasi tutti americani), la non immediatezza dei parallelismi tra il mondo pre internet del romanzo e i processi in corso nell’era dei social network...

Pazienza, la cassetta l’avrei usata io.

*

**

Continuava invece a stupirmi la mancanza di altri anelli. Parlando di QAnon si citavano molti precedenti, dall’«accusa del sangue» al «panico satanico» degli anni Ottanta, passando per le campagne contro la fluorizzazione dell’acqua. Ma QAnon era anche:

- un prodotto della cultura di massa del ventunesimo secolo;

- una sottocultura fissata con Hollywood e il mondo dello spettacolo;

- una comunità di fan e hater al tempo stesso, gente che venerava un personaggio da reality show come Trump e odiava a tempo pieno molti attori e cantanti.

Nel tracciarne la genealogia, non si poteva ignorare la pop culture.

Allo stesso modo non si poteva ignorare la counterculture. Chi, come noi e Florian, era cresciuto nelle culture underground della seconda metà del Novecento non poteva che trovare familiare parte della “cartografia” di QAnon, da Hunter S. Thompson alle influenze beatnik e hippie rintracciabili nella conspirituality.

QAnon faceva venire alla mente la trilogia di romanzi Illuminatus! di Robert Shea e Robert Anton Wilson, uscita nel 1975. Metteva insieme molti degli stessi temi e soggetti, collegandoli tra loro in modo simile. Collegamenti trasversali, spregiudicati, onnicomprensivi. La stessa onnicomprensività su cui aveva fatto satira postmoderna – anche lui in un marasma di riferimenti alla controcultura Sixties – Thomas Pynchon ne L’incanto del lotto 49, pubblicato nel 1966.

La protagonista dell’Incanto, Oedipa Maas, arrivava a sospettare l’esistenza di una rete postale segreta e ramificatissima chiamata Tristero o W.A.S.T.E. – sigla che i personaggi del libro pronunciavano una lettera alla volta. W.A.S.T.E. era una sorta di realtà parallela all’America ufficiale, un mondo di cui facevano parte soggetti “alternativi” ma anche gruppi reazionari come la Peter Pinguid Society. Quest’ultima era una dichiarata parodia della John Birch Society, negli anni Sessanta l’organizzazione più attiva e visibile dell’estrema destra americana, contro cui si era scagliato Bob Dylan nella canzone Talkin’ John Birch Paranoid Blues.

Illuminatus! giocava coi miti cospirativi in modo ancor più svagato e pop. Riassumere la trama era quasi impossibile: sullo sfondo di una lotta globale tra gli Illuminati – società segreta fondata in Baviera nel 1776 – e i Discordiani – parodia di religione neopagana inventata nel 1963 dagli scrittori Gregory Hill e Kerry Thornley – alcuni poliziotti e giornalisti indagavano su un intreccio di complotti, uno dei quali apparentemente ordito da una rock band esoterica chiamata American Medical Association. Tra gli scopi della congiura, donare la vita eterna ad Adolf Hitler, nel romanzo ancora vivo e quasi novantenne. A un certo punto i personaggi si rendevano conto di essere fittizi, capivano di essere dentro un libro. Di fronte a un mostro marino – il Leviatano della Bibbia e dell’omonimo saggio di Thomas Hobbes – si scambiavano frasi come:

In senso assoluto, nessuno di noi è reale. Ma in senso relativo qualunque cosa è reale, e se questa creatura ci mangia certamente moriremo – in quest’universo, o in questo libro. Dato che questo è l’unico universo, o l’unico libro, che conosciamo, saremo totalmente morti, a quanto ne sappiamo.42

Shea e Wilson avevano scritto la sfrenata parodia di una fantasia di complotto universale. E come ogni altra parodia aveva avuto effetti collaterali. Il complotto degli Illuminati prima era tornato in auge in certe sottoculture, come riferimento giocoso, poi era entrato nella cultura di massa – era al centro dell’azione nel best seller di Dan Brown Angeli e demoni43 – e nelle fantasie di complotto del ventunesimo secolo.

Infine, QAnon era una fantasia di complotto partecipativa, che presentava molte caratteristiche tipiche dei giochi di realtà alternativa: ibridazione di realtà e fiction, ricerca collettiva di indizi e collegamenti, soluzione di presunti misteri, aggiornamento continuo della narrazione, disseminazione del gioco in più ambiti e piattaforme, passaggi dalla dimensione on line a quella offline...

Avevo deciso di adottare un approccio morfologico genealogico. Prima avevo isolato le caratteristiche salienti di QAnon: le dinamiche più frequenti, i motivi ricorrenti, i personaggi-tipo, le scene più immaginate; poi ero andato a ritroso, cercando non l’origine di ciascun elemento, ma la più antica interazione tra il maggior numero di essi in quanto parti di una fantasia di complotto partecipativa legata alla cultura pop.

In quel modo ero arrivato al fenomeno Paul-Is-Dead, cominciato nella tarda estate del 1969.


29 Emblematica la scarica di ingiurie e volgarità con cui il critico Pietro Citati accolse il libro su La Repubblica del 21 ottobre 1988. L’invettiva cominciava addirittura in prima pagina e conteneva passaggi come questi: «Eco semiologo, romanziere e critico del costume ha tutto del grande buffone, la vitalità, la volgarità, la cialtroneria; l’assoluta mancanza di idee; [...] l’assenza di ogni fede; [...] la superficialità totale. L’Eco del Pendolo, in particolare, è diventato un buffone del sacro: l’ultimo di quella serie foltissima di mistagoghi, ierofanti, mistificatori, ciarlatani che dall’Egitto alessandrino ad Apollonio di Tiana [...] danzano e piroettano intorno al sacro, insieme annunciatori e derisori del divino, come se il lazzo fosse la lingua che esso preferisce». Nella trattazione che segue spero di far capire quanto fosse volgare, cialtrona, superficiale e priva di idee una siffatta “lettura” del romanzo.

30 È un brano di Isaac Luria, cabalista del sedicesimo secolo: «Quando la Luce dell’Infinito fu disegnata nel Vuoto in forma di linea retta, non fu immediatamente disegnata ed estesa verso il basso, ma si allungò lentamente, ossia, la Linea di Luce cominciò a estendersi e nel primissimo momento di quell’estensione, nel segreto, essa fu disegnata in forma di ruota, perfettamente circolare all’intorno» (traduzione mia, benché – hélas! – dall’inglese, perciò sicuramente approssimativa).

31 Fernando Salsano, “Un flagello fabulatorio che deforma, dissacra e offende”, L’Osservatore Romano, 13 novembre 1988.

32 «Sincerus Renatus» è lo pseudonimo con cui il pastore luterano Samuel Richter firmò il trattato Die Warhaffte und vollkommene Bereitung des Philosophischen Steins der Brüderschafft aus dem Orden des Gülden- und Rosen-Creutzes (La vera e perfetta preparazione della Pietra Filosofale della Fraternità dell’Ordine della Croce d’Oro e della Rosa-Croce), stampato a Breslavia nel 1710. «Marchese Gualdi» allude invece al misterioso alchimista Federico Gualdi, attivo a Venezia negli anni Sessanta e Settanta del diciassettesimo secolo.

33 L’opera in cui Furio Jesi arriva più vicino a scrivere una compiuta definizione del concetto di «lusso spirituale» è Cultura di destra (prima edizione 1979; edizione ampliata a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011): «rifiuto del “materialismo”, omogeneizzazione della tradizione culturale e delle caratteristiche storiche e contraddizioni del passato, e poi composizione, con quella pappa, di feticci positivi e negativi. Il materiale con cui i feticci sono modellati è talmente indifferenziato da permettere le conciliazioni ideologiche apparentemente più contrastanti». Per approfondire il pensiero e la figura di Jesi consiglio: Enrico Manera, Furio Jesi. Mito, violenza, memoria, Carocci, Roma 2012; «Riga», n. 31, interamente dedicato a Jesi, a cura di Marco Belpoliti ed Enrico Manera, marcos y marcos, Roma 2010; Enrico Manera, Giuliano Santoro, Wu Ming 1, “Il più odiato dai fascisti. Conversazione su Furio Jesi”, Giap (on line), 15 gennaio 2013.

34 Umberto Eco, “Aspetti della semiosi ermetica”, in I limiti dell’interpretazione, prima edizione 1990, edizione riveduta La nave di Teseo, Milano 2016.

35 Enrico Manera, “‘La superstizione porta sfortuna’. A trent’anni da Il pendolo di Foucault”, Giap (on line), 4 ottobre 2018.

36 L’onomasiologia opera in senso inverso rispetto alla semantica: anziché i molteplici significati di uno stesso significante, ha per oggetto di studio i significanti che esprimono lo stesso significato. Diotallevi conclude che i verbi greci μετατίθημι e μεθίστημι, come anche i sostantivi «metastasi» e «metatesi», esprimono lo stesso significato. Siamo dunque nel campo dell’onomasiologia.

37 Tom Wolfe, “The ‘Me’ Decade and the Third Great Awakening”, New York Magazine, 23 agosto 1976, la traduzione dell’estratto è mia.

38 Cfr. Charlotte Ward, David Voas, “The Emergence of Conspirituality”, in «Journal of Contemporary Religion», n. 1, vol. 26, gennaio 2011; Egil Asprem, Asbjørn Dyrendal, “Conspirituality Reconsidered: How Surprising and How New is the Confluence of Spirituality and Conspiracy Theory?”, in «Journal of Contemporary Religion», n. 3, vol. 30, settembre 2015.

39 Anna Merlan, “The Conspiracy Singularity Has Arrived”, Vice (on line), 17 luglio 2020, traduzione mia.

40 La scelta del termine è mia, non di Merlan, con duplice riferimento all’odierno significato del termine e al senso originario di facitore, artefice, produttore, dal verbo ποιεῖν, fare, fabbricare.

41 Anna Merlan, Op. cit.

42 Robert Shea, Robert Anton Wilson, Leviathan, ultimo volume della trilogia Illuminatus!, prima edizione 1975. In Italia la trilogia è pubblicata in tre volumi dalla casa editrice milanese ShaKe col titolo complessivo di Trilogia degli Illuminati, ma la traduzione del presente estratto è mia.

43 In realtà non sono gli Illuminati al centro dell’azione ma la leggenda degli Illuminati. E da quel che se ne capisce, la società segreta che Dan Brown chiama «degli Illuminati» –  e di cui avrebbe fatto parte persino Galileo – con gli Illuminati di Baviera ha in comune soltanto il nome.

Capitolo cinque

Paul-è-morto: eziologia e incubazione

Autostrada per l’inferno, o almeno per le Midlands. La beatlemania come sollevazione femminista. La beatlemania e l’omicidio politico. I Beatles e Satana. La svolta. The weird and the eerie nei video dei Beatles. Ma che gli è preso a quelli? Da Santana a Satana: il fatidico Sessantanove. Da Woodstock ad Altamont passando per Helter Skelter. Aspetta, te lo ricordi quel trafiletto...?

Nel febbraio 1967 sul numero 43 di The Beatles Book – una rivista mensile interamente dedicata ai Beatles – era apparso un box intitolato «FALSA DICERIA»:

Ci sono sempre storie sui Beatles svolazzanti in Fleet Street.44 Il 7 gennaio è stato un giorno gelido, e c’erano condizioni pericolose sull’autostrada M1 che collega Londra alle Midlands. Verso sera in città si è sparsa rapida una voce: Paul McCartney era morto in un incidente d’auto sulla M1. Naturalmente non c’era nulla di vero, come ha scoperto l’addetto stampa dei Beatles quando ha telefonato a casa di Paul a St. John’s Wood e gli ha risposto Paul in persona, che ha detto di essere stato tutto il giorno a casa con la sua Mini Cooper nera chiusa in garage.

Non era andata proprio così: dal garage la Mini Cooper – un’auto inconfondibile, disegnata apposta per Paul e più simile a una piccola Rolls Royce che a una Mini Minor – era uscita eccome, e aveva davvero avuto un incidente sulla M1. Solo che Paul non era a bordo: al volante c’era un suo conoscente, lo studente marocchino Mohammed Chtaibi, per fortuna rimasto quasi illeso. La scena dell’incidente, con le sirene della polizia stradale e la macchina fracassata, aveva attirato l’attenzione degli altri automobilisti. Qualcuno aveva riconosciuto la Mini Cooper e così si era sparsa la voce della morte di Paul, subito smentita dall’addetto stampa Tony Barrow e poi su The Beatles Book.45

Un aneddoto di poco conto ma che era rimasto nella memoria di alcuni fan.

Due anni e mezzo dopo intorno a quel ricordo si era formata, come la perla intorno al granello di sabbia, una delle più ramificate fantasie di complotto del secondo Novecento.

Il singolo d’esordio dei Beatles era uscito il 5 ottobre 1962. Love Me Do era una canzoncina d’amore, ma diversa da quel che passava il convento in quei giorni: l’introduzione di armonica blues, le armonie e lo staccato delle voci, l’esuberanza dell’interpretazione... L’immagine del gruppo sulla copertina e nelle prime apparizioni tv aveva fatto il resto: chiome fluenti con frange che arrivavano alle sopracciglia, completi attillati con giacche edoardiane senza colletto, stivaletti a punta. I Beatles erano diversi, ed erano coolLove Me Do aveva scalato la classifica.

I Beatles dei primi anni suonavano un genere dai confini incerti, all’epoca chiamato merseybeat,46 influenzato dal rock’n’roll e dallo skiffle, ma il loro stile era peculiare. I testi erano canonici, perlopiù canzoni d’amore con gli usuali eufemismi – «Voglio tenerti la mano» – e le rime del canzonettario, come you/true o together/forever. Da sotto, però, filtrava un senso di malinconia, un mood crepuscolare. Ne era pervaso l’album Help!, uscito nel 1965, quando la band aveva già venduto milioni di dischi in mezzo mondo, suonato in arene e stadi gremiti di fan urlanti e interpretato sé stessa in due film. Help! era stato il primo vero album. I long playing precedenti erano solo raccolte di pezzi già usciti come singoli, col riempitivo di qualche standard rock’n’roll. Agli ascoltatori più attenti e sensibili Help! aveva promesso qualcosa di diverso per il futuro.

Il termine «Beatlemania» era nato nell’autunno 196347 per indicare un fenomeno di devozione di massa, soprattutto femminile, che andava ben oltre le richieste di autografi. Le ragazze si assiepavano davanti alle case dei membri della band, li seguivano ovunque andassero, circondavano le loro auto, strappavano lembi dei loro abiti. La sequenza iniziale del film A Hard Day’s Night mostrava i Beatles inseguiti da una legione di ragazze sovreccitate. Le stesse che ai concerti strillavano per tutto il tempo. Le urla di quelle invasate, scrivevano i cronisti (maschi) sbigottiti, impedivano di sentire la musica. E non si limitavano a gridare: scoppiavano in lacrime, si tiravano i capelli, a volte svenivano.

Per quelle giovani donne era stata un’esperienza liberatoria. Erano appena uscite da un decennio conformista e sessuofobico, e da infanzie vissute in famiglie patriarcali. Dietro la parvenza di migliaia di donne che adoravano quattro maschi, la beatlemania era stata un’obliqua, sorprendente mobilitazione femminista: «il primo sfogo di massa degli anni Sessanta ad avere come protagoniste le donne e la più spettacolare sollevazione nella rivoluzione sessuale delle donne».48 Le prime figlie del Baby Boom seguito alla guerra rivendicavano la libertà di partecipare a riti estatici e orgiastici, in una moderna reincarnazione delle Baccanti. Con la differenza che quello dei Beatles non era un culto misterico e iniziatico ma democratico e di massa.

La prima volta in cui la tv americana aveva mostrato scene di beatlemania era stata in un servizio della Nbc il 18 novembre 1963, quattro giorni prima dell’omicidio di John F. Kennedy. La seconda volta era stata il giorno stesso, 22 novembre. Un servizio incluso nel programma CBS Morning News with Mike Wallace cominciava così: «Siamo in Beatleland, un tempo conosciuta come Regno Unito. Qui un’epidemia chiamata beatlemania si è impadronita della popolazione adolescente, in particolare di quella femminile».

Seguivano immagini che i telespettatori americani non avevano ancora visto: cordoni di polizia tenevano a bada una folla di ragazze che assediava il pulmino della band. Intervistati dall’inviato della Cbs, John, Paul e George rispondevano a domande banali in modo disarmante e spiritoso. Davano l’impressione di gente affabile, che non si dava arie. Il servizio metteva addosso una grande curiosità.

Poche ore dopo, Kennedy era stato ucciso a Dallas, e tra i Beatles e quella morte si era creato un collegamento imprevedibile, perturbante.

Tre mesi più tardi, nel febbraio 1964, i «favolosi quattro» erano finalmente sbarcati negli Stati Uniti. La beatlemania aveva attraversato l’Atlantico con loro. La cultura americana doveva ancora riprendersi dallo shock di novembre. I Beatles erano arrivati al momento giusto, catturando l’attenzione dei media, più che mai desiderosi di passare ad altro dopo tre mesi di articoli sull’attentato e le sue conseguenze, e di lutto nazionale. Lo aveva scritto nel modo più esplicito Anthony Burton sul New York Daily News dell’11 febbraio: l’America, oppressa dai suoi problemi, «si è rivolta a quattro giovani con ridicoli tagli di capelli per un po’ di intrattenimento leggero».49

Nel frattempo, grazie al movimento per i diritti civili degli afroamericani, le avanguardie della nuova generazione avevano conosciuto l’attivismo. Il 28 agosto 1963, di fronte al Lincoln Memorial di Washington D.C., duecentomila persone avevano ascoltato il discorso di un giovane predicatore battista. Discorso che sarebbe passato alla storia per un’anafora: «I have a dream... I have a dream... I have a dream...».

Nel settembre 1964 le proteste del Free Speech Movement all’Università di Berkeley avevano inaugurato la stagione del radicalismo politico nei campus e «the Sixties» come li avremmo ricordati: il momento in cui i Baby Boomer avevano mandato in frantumi il lungo dopoguerra, irrompendo sulla scena con nuove esigenze e domande, con bisogni e desideri che eccedevano di molto la cornice in cui erano cresciuti.

Un periodo di grandi mobilitazioni e forti tensioni, di conflitti e complotti, di omicidi politici. Dopo Jfk, nel 1965 era toccato a Malcolm X, e nel 1968 a Martin Luther King e Robert F. Kennedy.

Gli uccisi non erano stati solo leader politici e spirituali, ma personaggi in grado di “forare lo schermo”. Icone pop.

Che nella beatlemania vi fossero elementi religiosi era stato evidente dal principio. Religiosità cristiana, pagana... e, per qualcuno, satanica. Il principe dei demoni era entrato in scena nel 1966 quando un’intervista a John Lennon, uscita sull’Evening Standard del 4 marzo, era rimbalzata sulla stampa americana, sollevando un putiferio. John aveva detto:

Il cristianesimo finirà. Svanirà nel nulla. Non ho bisogno di argomentare su questo: ho ragione e la realtà mi darà ragione. Oggi noi siamo più popolari di Gesù. Non so cosa finirà prima, se il rock’n’roll o il cristianesimo. Gesù era a posto ma i suoi discepoli erano rozzi e mediocri. È il modo in cui hanno piegato il suo messaggio a rovinarlo ai miei occhi.

Si stava riferendo alla beatlemania, a com’era vista la band, all’investimento emotivo che i fan avevano fatto su di loro. La beatlemania era sintomo di un bisogno di religiosità che il cristianesimo non era più in grado di soddisfare. Ma si era espresso in modo ellittico, dando per scontate troppe cose.

Decine di radio americane, soprattutto negli stati del Sud – la cosiddetta «Cintura della Bibbia» – avevano lanciato boicottaggi e addirittura organizzato roghi di dischi. Il Ku Klux Klan, altre organizzazioni di estrema destra e vari predicatori fondamentalisti erano insorti: i Beatles erano l’Anticristo! Per loro bocca parlava Satana! Lennon aveva osato definirsi più grande del Signore! I Beatles erano una minaccia per la gioventù! I Beatles erano comunisti! Del resto Lennon e Lenin erano quasi lo stesso cognome. David A. Noebel, esponente della John Birch Society, aveva dichiarato:

Nello stato di eccitazione in cui i Beatles li spingono, i giovani faranno qualunque cosa gli venga detto di fare... Un giorno, quando la rivoluzione sarà matura, i comunisti potrebbero mettere i Beatles in tv per ipnotizzare in massa la gioventù americana. Questo mi spaventa a morte.50

Per agosto la band aveva in programma una tournée americana, con una data anche a Memphis, in Tennessee, in piena Bible Belt. C’era il rischio di incidenti o peggio. Il manager dei Beatles, Brian Epstein, aveva messo John su un volo per New York: vai e mettici una toppa. A forza di interviste e conferenze stampa John aveva spiegato cosa aveva inteso dire, e la controversia aveva perso un po’ del suo impeto.

Ma non si era esaurita. Durante il tour il Klan e altre organizzazioni avevano preparato presidii e nuovi falò di dischi, minacciato la band, inveito nei microfoni di stampa e tv. A Memphis qualcuno aveva lanciato sul palco un petardo. I Beatles avevano scambiato il botto per uno sparo e avevano interrotto a metà una canzone.

Una campagna strumentale e odiosa, certo. Ma un nucleo di verità c’era. Nella carriera della band un elemento, se non satanico, almeno esoterico si stava insinuando.

A rigore «esoterico» significava «per chi è dentro» (dal greco ἔσωdentro). L’aggettivo denotava qualunque ambito, rito o sapere riservato a iniziati. In teoria l’esoterismo era conoscenza elevata, dunque per pochi, a numero chiuso, attingibile solo dopo aver appreso un linguaggio segreto, una simbologia nascosta o altra roba del genere. In pratica era ciarpame in vendita nel Magic Shop. Ma nel caso dei Beatles il termine «esoterico» mi era venuto in mente pensando alla loro seconda fase, quando la loro arte, non più immediatamente accessibile come ai primi tempi, aveva richiesto un lavoro di interpretazione e decifrazione. Chi pensava di aver capito si sentiva membro di un circolo esclusivo. Che in fondo era un modo più diretto di dire «esoterico».

Nel 1966 la band aveva intrapreso una metamorfosi, un divenire che li avrebbe condotti in un altrove musicale, poetico, iconografico. Si erano messi a sperimentare con gli allucinogeni, ad ascoltare musiche d’avanguardia (Stockhausen, Berio, Cage, Schaeffer), a frequentare performance artist (tra cui Yoko Ono, incontro fatidico), a cercare nuove filosofie e discipline spirituali. Dopo il tour americano avevano annunciato l’addio alle esibizioni dal vivo. Volevano concentrarsi sul lavoro in studio, sugli esperimenti che avevano in mente, sull’uso di nuove tecnologie.

A metà degli anni Sessanta l’industria musicale conosceva rapide innovazioni. Si evolvevano gli strumenti, le tecnologie di studio, i formati per l’ascolto. Il prodotto discografico più popolare restava il vinile largo sette pollici che ruotava a 45 giri al minuto, con una canzone per lato, ma si era imposto anche il long playing, che era largo dodici pollici e ruotava a 33 (e 1/3) giri. Un formato che concedeva più spazio, rendeva possibile incidere canzoni più lunghe e fare esperimenti. I musicisti avevano cominciato a pensare in termini di album e addirittura di concept album, con i brani uniti da un tema comune o un filo conduttore.

Con il loro produttore George Martin come angelo custode e geniale problem solver i Beatles si erano gettati a capofitto nella sperimentazione compositiva e sonora, dedicandosi a sovraincisioni, montaggi azzardati, registrazioni al contrario, rallentamenti, accelerazioni, arricchendo gli arrangiamenti con strumenti antichi (glockenspiel, clavicembalo) o appartenenti a tradizioni extraeuropee (sitar, tambura). Anche i testi si erano fatti più strani, reminiscenti del surrealismo e altre avanguardie oppure fiabeschi, in ogni caso zeppi di calembour, allusioni, riferimenti criptici. Ad annunciare la svolta era stato l’album Revolver. A consacrarla, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

E che dire delle immagini? Una copertina come quella di Sgt. Pepper’s non s’era mai vista. Ideata e realizzata dagli artisti Peter Blake e Jann Haworth, mostrava i Beatles baffuti e agghindati in redingote dai colori accesi, come un’orchestrina da music hall di una Belle Époque più sognata che reale. La Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper, appunto. Accanto a loro, i doppelgänger: statue di cera del museo Madame Tussauds riproducevano i Beatles del periodo Love Me Do. Una netta presa di distanza dal passato. Sullo sfondo un variopinto collage formava una folla di personaggi famosi e meno famosi: Carl Gustav Jung, Edgar Allan Poe, Bob Dylan, Karl Marx, Marlon Brando, Oscar Wilde, Fred Astaire, Karl-Heinz Stockhausen, Mae West, Marilyn Monroe, Alberto Rizzi, Mohandas K. Gandhi, svariati guru induisti, il mago Aleister Crowley e molti altri. Ai piedi della band un tripudio floreale: il nome BEATLES era composto di giacinti rossi, e giacinti gialli disegnavano una chitarra. Tutt’intorno, in ogni angolo e interstizio, un bric-à-brac di oggetti evocativi, un po’ Vittoriale dannunziano, un po’ domenica a Porta Portese.

Sulla scia di Sgt. Pepper’s la scena psichedelica inglese aveva adottato uno stile fin de siècle, rivisitazione di elementi tardo-vittoriani ed edoardiani. Al fondo di quell’estetica impregnata di décadence si percepiva qualcosa di lugubre, come nei romanzi di Arthur Machen o Matthew P. Shiel.

I Beatles erano stati anche pionieri del videoclip, formato fino a quel momento inesistente. Accompagnare i singoli con cortometraggi ad hoc era un modo di apparire senza violare la consegna che s’erano dati, quella di non suonare più dal vivo. Potevano permetterselo, erano i Beatles: qualunque cosa avessero mandato alle tv sarebbe andata in onda. E se la copertina di Sgt. Pepper’s era strana, weird, il video di Strawberry Fields Forever era risultato inquietante, eerie, nel senso dato all’aggettivo dal critico culturale e filosofo Mark Fisher:

[...] il senso dell’eerie è di rado ancorato a spazi domestici circoscritti e abitati: lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati della presenza umana. Che cos’è avvenuto per originare quelle rovine, quell’assenza? Che genere di entità è coinvolta? Che tipo di essere ha prodotto quel verso inquietante? [...] L’eerie riguarda le più fondamentali domande metafisiche che si possano porre, domande che riguardano l’esistenza e la non esistenza: perché qui c’è qualcosa quando non dovrebbe esserci niente? Perché qui non cè niente quando dovrebbe esserci qualcosa? Gli occhi spenti di un morto, lo sguardo smarrito di un individuo colpito da amnesia – tutti elementi che generano un senso di eerie, esattamente come un villaggio abbandonato o un antico cerchio di pietre.51

Il video mostrava i Beatles intorno a un albero maestoso ma derelitto, spogliato dall’autunno e irto di rami rotti. Un albero da Ballata degli impiccati senza gli impiccati, al centro di una radura deserta. I quattro si muovevano avanti e indietro, impegnati in faccende il cui senso sfuggiva. Correvano, deambulavano con gli occhi fissi nel vuoto, e ogni tanto sembravano controllare una sorta di installazione: tante cordicelle bianche tese tra l’albero e una vecchia pianola. In una sequenza girata all’indietro, con un sol balzo John saliva sull’albero. In un primo piano Paul, immobile, mostrava alla cinepresa uno sguardo freddo e inespressivo. Perché siamo qui? Gli occhi spenti di un morto. Dove sono tutti? Un uomo colpito da amnesia. Siamo noi gli impiccati? «Niente è reale», cantava John, «e niente per cui tornare a casa».

Poi era arrivato l’unico film scritto e diretto dalla band, Magical Mystery Tour. Girato in pochi giorni in un aeroporto dismesso nel Kent e trasmesso dalla Bbc la sera di Santo Stefano del 1967, il film era parso a tutti un pateracchio e aveva suscitato perplessità, quando non totale rigetto. In un alternarsi di momenti weird e eerie una storia evanescente – una bizzarra comitiva girava in corriera per il sud dell’Inghilterra – si rivelava un mero pretesto per mettere in fila videoclip di nuove canzoni dei Beatles, più una della Bonzo Dog Doo-Dah Band.

Al culmine del film i Beatles suonavano I Am The Walrus. Quanto a stranezza sarebbe bastato il testo, con versi come «roba gialla tipo crema pasticciera cola dall’occhio di un cane morto» o «guarda come scappano, come maiali davanti a una pistola». Sarebbe bastato, ma non alla band, che ci aveva messo il sovrappiù di immagini tra l’acido e il dadaista. Scene in cui i Beatles suonavano sulla pista d’atterraggio abbandonata, con gli abiti più Flower Power che avessero mai sfoggiato, si alternavano ad altre in cui portavano maschere da animali: un tricheco (walrus, appunto), un coniglio, un ippopotamo e un pappagallo. Intorno a loro esseri con calotte bianche in testa (gli «uomini-uovo» a cui accennava il testo) e una schiera di poliziotti mano nella mano («pretty little policemen in a row»). Un’allusione ai cordoni che avevano arginato le fan ai tempi della beatlemania? Alla fine della sequenza l’intera combriccola – i quattro animali, gli uomini-uovo e i poliziotti – seguiva in corteo la corriera. Nel caos di fine canzone si udivano attori recitare versi shakespeariani. King Lear, atto IV, scena VI.

Oltre mezzo secolo dopo, quella roba sembrava ancora strana. Figurarsi la prima volta che era andata in onda! Che stavano cercando di dire i Beatles? Forse erano impazziti. In ogni caso, ormai erano imprevedibili. Da loro potevi aspettarti qualunque cosa.

Dopo aver rivisto I Am The Walrus mi era rimasto un senso di dejà vu. Cosa mi ricordavano quelle maschere? Non erano buffe, anzi, le trovavo spaventose. Nel video i Beatles avevano strane movenze. Il tutto mi ricordava qualcosa, ma cosa?

*

**

Uno shock culturale dopo l’altro, si era arrivati alla seconda metà del 1969. A fine agosto c’era stato Woodstock, ed era sembrato che il gallo cantasse una nuova alba. Un megafestival gratuito con Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, The Who, Santana, Joe Cocker e tanti altri. Centinaia di migliaia di persone su una grande spianata nei pressi di Bethel, nord dello stato di New York.52 Vedendo le immagini di quell’immenso rito collettivo si era parlato di una Woodstock nation, alternativa alla nation propriamente detta.

Ma nei giorni in cui a est si preparava Woodstock, la California aveva vissuto il trauma dell’eccidio di Cielo Drive, seguito dal massacro dei coniugi La Bianca.

Soltanto a novembre si era scoperto che c’entravano i Beatles.

Charlie ne aveva passate tante. Un’infanzia randagia e violenta, il riformatorio, la prigione... A trentadue anni aveva trascorso mezza vita dietro le sbarre. Uscito nel marzo del 1967, si era trasferito a San Francisco. Per la precisione nel quartiere Haight Ashbury, epicentro della cultura hippie, e giusto in tempo per viversi l’estate, la mitica estate del 1967, the Summer Of Love. «Se vai a San Francisco, mettiti dei fiori tra i capelli / Se vai a San Francisco, troverai persone gentili».

Charlie suonava la chitarra e scriveva canzoni. Era più vecchio della grande maggioranza degli hippie, ma aveva adottato il loro look e il loro gergo. Il sistema gli aveva rubato la giovinezza, ma era deciso a rifarsi. E in fondo, essere “navigato” aveva i suoi vantaggi: lo rendeva più interessante dei tanti ragazzotti coi capelli lunghi che affollavano il Golden Gate Park. Le giovani hippie pendevano dalle sue labbra, così aveva preso ad atteggiarsi a maestro di vita, lui che di vita fuori dal carcere aveva pochissima esperienza. In poco tempo era diventato un guru: aveva radunato un gruppo di discepoli e – soprattutto – discepole, giovani donne scappate da case piccolo-borghesi e venute a San Francisco per vivere il sogno.

Per la prima volta in vita sua Charlie aveva una famiglia, e proprio così l’aveva chiamata: «the Family». Per la prima volta non era più solo un figlio. Figlio di enne-enne, venuto male, disgraziato, scapestrato. No, adesso era un capofamiglia. Fratello maggiore, padre putativo, maschio alfa, amante di tutte.

Charlie aveva sofferto. Era sceso da un Golgotha. Era un nuovo Gesù, figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Man’s son.

La Family era una nuova versione dei primi cristiani. E i borghesi, i «maiali» dell’establishment, erano i romani. Charlie era venuto per mettere i maiali di fronte agli esiti del loro fallimento. Gli hippie stessi erano quegli esiti. «Questi figli che vi attaccano con pugnali», avrebbe detto in tribunale, «sono i vostri figli. Siete stati voi a educarli, non io. Io ho solo cercato di aiutarli a stare in piedi».

Al tempo stesso Charlie sognava una carriera nella musica. Nel 1968 aveva spostato la Family a Los Angeles, dov’era più facile incontrare artisti e discografici. Con la sua parlantina e offrendogli i favori delle ragazze, Charlie aveva imbambolato Dennis Wilson dei Beach Boys, che aveva ospitato e mantenuto la Family per mesi. I Beach Boys avevano inciso un pezzo di Charlie, Cease To Exist, ma cambiando il titolo in Never Learn Not To Love, e senza accreditarlo come autore. Charlie non l’aveva presa bene.

Nell’agosto del 1968 la Family si era trasferita a nord di Los Angeles, sulle Santa Susana Mountains, in una fattoria semiabbandonata. Era lo Spahn Movie Ranch, dove negli anni Cinquanta si erano girati alcuni western per cinema e tv.

Nella mente di Charlie andava maturando un credo apocalittico. Presto in America sarebbe scoppiata una guerra razziale. I neri avrebbero sterminato i bianchi, ma la Family si sarebbe salvata e sarebbe stata il nucleo della società futura. I segni premonitori erano ovunque. Soprattutto nella musica dei Beatles.

Nei negozi era appena arrivato The Beatles, che tutti chiamavano il White Album, per via della copertina algida e priva di segni, distante anni luce dal sublime caos di Sgt. Pepper’s. Charlie lo aveva capito subito: era un disco esoterico, pieno di messaggi nascosti. Messaggi rivolti proprio a lui. Nelle parole della sua ex discepola Catherine Share:

Quand’è uscito il White Album dei Beatles, Charlie lo ascoltava di continuo. Era sicuro che i Beatles avessero attinto al suo spirito, alla sua verità: tutto sarebbe crollato, l’uomo nero sarebbe insorto. Non era Charlie a voler seguire i Beatles e le indicazioni che sentiva nel White Album, ma il contrario: erano i Beatles a parlare delle cose che lui spiegava da anni. Ogni canzone del White Album parlava di noi.53

Quella che più l’aveva colpito era Helter Skelter. In inglese britannico era il nome di un’attrazione da luna park: un’alta torre da cui scendeva uno scivolo a spirale. I versi parlavano di questo: «Quando arrivo giù in fondo / risalgo fin su in cima / poi mi fermo, mi giro e ti faccio provare un brivido / poi vado ancora giù e ti rivedo / yeah yeah». Secondo Charlie, invece, parlavano della guerra razziale imminente. Da quel momento l’aveva chiamata così: Helter Skelter.

Un altro pezzo che ascoltava di continuo era il più sperimentale dell’album, Revolution 9, un collage sonoro di otto minuti, farina del sacco di John. L’equivalente per l’udito di una macchia di Rorschach. Fanfare, clangori, frastuoni, gemiti, vociare indistinto, e la voce di John che ripeteva «number nine», «number nine», «number nine»... Per Charlie era la colonna sonora dell’Helter Skelter. Non solo: bastava un cambio di vocali e Revolution 9 diventava Revelation 9, cioè il capitolo 9 dell’Apocalisse. L’Apocalisse di Giovanni. Detta all’inglese, la Rivelazione di John.

Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso. Egli aprì il pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’atmosfera (Apocalisse, 9, 1-2).

Dunque il White Album conteneva indicazioni nascoste per trovare il Pozzo, l’ingresso al mondo sotterraneo dove la Family sarebbe vissuta durante Helter Skelter, per poi tornare in superficie e dominare il mondo. Anche il ritorno in superficie era scritto nella Bibbia: «E in mezzo ai candelabri c’era uno simile al figlio dell’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (Apocalisse, 1, 13). Charlie e la Family si erano messi a esplorare la Death Valley in cerca dell’apertura.

Ancora l’ossessione per il mondo ipogeo. Una realtà altra sotto i piedi degli americani.

Ma nell’estate del 1969 Helter Skelter ancora non scoppiava. Bisognava accelerare i tempi.

La vittima più famosa dei massacri dell’8 e 9 agosto era stata Sharon Tate, moglie di Roman Polanski e astro nascente di Hollywood. Era all’ottavo mese di gravidanza quando la Family l’aveva uccisa, insieme a quattro suoi ospiti, nella sua villa di Cielo Drive. Col suo sangue avevano scritto PIG sulla porta d’ingresso. La notte dopo, col sangue dei coniugi LaBianca, nella loro casa di Waverly Drive, avevano scritto HEALTER SKELTER – sbagliando l’ortografia – sullo sportello del frigorifero.

Ironia della sorte, l’ultimo film diretto da Polanski era stato Rosemary’s Baby, tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin. La storia si poteva riassumere così: una congrega di borghesi di New York dediti al satanismo ordisce un complotto ai danni della protagonista, la giovane Rosemary (interpretata da Mia Farrow), per farle partorire un bimbo da consacrare al demonio. Ma si poteva riassumere anche così: la giovane Rosemary si convince che suo marito, i suoi vicini di casa e il suo ostetrico siano parte di una congiura per farle partorire un bimbo da consacrare al demonio. La sua mente interpreta ogni segno ed episodio come conferma dei suoi timori.

Nella prima interpretazione Rosemary’s Baby era un film sul satanismo; nella seconda un film sulla paranoia e l’ossessione per il Maligno, ossessione che l’America intratteneva dai tempi dei primi coloni puritani. Il film non scioglieva l’ambiguità. Le sequenze che sembravano confermare i timori di Rosemary potevano essere allucinazioni da schizofrenia paranoide. In un caso o nell’altro, era come se il male del film fosse uscito dallo schermo per colpire la famiglia del regista.

Anche Charlie e i suoi discepoli giravano film. Durante l’estate avevano rubato un furgone della Nbc pieno di attrezzature da riprese. Il camion era stato abbandonato e la maggior parte della roba venduta o regalata, ma Charlie si era tenuto una cinepresa. Si diceva che la Family ne possedesse altre, cineprese super 8 con cui girava filmini porno. Intorno a quelle voci sarebbe nata un’altra storia: il mito degli snuff movies, pellicole in cui si vedevano vere sevizie e omicidi, commessi al solo scopo di filmarli.

A settembre la Family si era trasferita in un altro podere abbandonato, il Barker Ranch, nella Death Valley. Il 10 ottobre la polizia vi aveva fatto irruzione arrestando Charlie e alcuni discepoli. Erano accusati di furto d’auto, ricettazione e atti vandalici. Gli agenti erano ignari del colpo appena portato a segno. Soltanto a novembre, grazie alle rivelazioni di Susan Atkins a una compagna di cella e alla testimonianza di un malvivente che aveva frequentato la Family, era emerso il collegamento coi massacri di Cielo e Waverley Drive.

Quando Charles Manson era stato individuato come mandante di quei crimini, in tutto il paese si era sparso il panico. La Woodstock Nation non aveva fatto in tempo a essere battezzata che già rischiava di diventare la Manson Nation. Si era detto che il sogno hippie era morto, che la controcultura mostrava il suo lato oscuro e malvagio. Da un giorno all’altro erano fiorite leggende su un network di satanisti di cui la Family era solo un nodo. Manson, dicevano i tabloid, si era cambiato il nome in «Satana». Dietro molti omicidi irrisolti a Los Angeles e dintorni si era vista la sua mano, o meglio, la sua mente malata, e ogni omicidio era diventato «rituale». E a ispirare, anzi, a istigare – seppure involontariamente – Manson erano stati i Beatles! Erano passati solo cinque anni, ma il loro primo sbarco negli Stati Uniti era già storia antica, soggetto di retrospezione rosea: l’intrattenimento leggero, quattro ragazzi dai ridicoli tagli di capelli... Ora, nell’immaginario collettivo, i «favolosi quattro» erano associati ai crimini di una setta, al sangue, all’apocalisse.

Nel 1970, durante il processo alla Family, l’avvocato di Manson aveva cercato di convocare John come teste della difesa per fargli spiegare il significato di Helter Skelter.

Ma la canzone l’aveva scritta Paul.

E a quel punto i Beatles si erano già sciolti.

John non aveva testimoniato.

Nel frattempo quello contro la guerra in Vietnam era diventato il più grande movimento di massa della storia americana. I maschi della generazione boomer rischiavano il richiamo alle armi e i leader del movimento incitavano a bruciare in piazza la cartolina e disertare. Molti attraversavano il confine per rifugiarsi in Canada. Nel novembre 1969 era giunta una notizia agghiacciante: militari americani avevano sterminato l’intera popolazione di due villaggi vietnamiti, M Lai e M Khê, comprese le donne e i bambini. Le vittime erano state più di cinquecento. Prima di essere uccise e mutilate, dodici donne erano state stuprate in gruppo. I fatti risalivano all’anno prima ma erano rimasti segreti. A scoprirli era stato il giornalista d’inchiesta Seymour Hersh.

L’ultimo evento fatidico del 1969 era avvenuto il 6 dicembre nell’autodromo di Altamont, contea di San Joaquin, in California. Visto il successo di Woodstock, i Rolling Stones avevano deciso di concludere il loro tour americano con un grande concerto gratuito. Diverse band si erano esibite prima di loro: Crosby, Stills, Nash & Young, Flying Burrito Brothers, Jefferson Airplane, Santana. Ma il management degli Stones aveva avuto la disgraziata idea di affidare il servizio d’ordine agli Hell’s Angels, celeberrima gang di motociclisti con un lungo curriculum di violenze. Erano scoppiate risse e tumulti. Mentre gli Stones eseguivano Under My Thumb –  «Alla mia mercè», «Sotto il mio dominio» – gli Angels avevano ucciso a coltellate un giovane afroamericano, Meredith Hunter.

Un decennio di brusche rotture col passato. Icone uccise. I Beatles associati a Satana. I Beatles sempre più strani. I Beatles e i delitti della setta di Manson. Il rischio di finire nel mattatoio vietnamita. E il sogno dei free festival divenuto presagio di morte.

Paul-Is-Dead aveva preso forma in quel fuoco incrociato di stimoli e segni.

Nella tarda estate qualcuno si era ricordato di quel box su The Beatles Book nel 1967. Com’era che s’intitolava?

«FALSA DICERIA».


44 Metonimia che indicava i media: Fleet Street è la via di Londra dove all’epoca avevano sede i principali quotidiani e l’agenzia di stampa Reuters. La traduzione del testo del box è mia.

45 La ricostruzione più dettagliata dell’incidente l’ha fornita Jim Yoakum nel suo articolo “The Man Who Killed Paul McCartney”, uscito sulla rivista americana «Gadfly», anno IV, n. 3, maggio/giugno 2000.

46 Il Mersey è il fiume che sfocia a Liverpool.

47 Cfr. Forrest Wickman, “‘Beatlemania’ is born!”, Slate (on line), 24 ottobre 2013.

48 Barbara Ehrenreich, Elizabeth Hess, Gloria Jacobs, Re-Making Love: The Feminization of Sex, Anchor Books/Doubleday, New York 1986, traduzione mia.

49 Citato in Bruce Spizer, The Beatles Are Coming! The Birth of Beatlemania in America, Four Ninety-Eight Productions, 2010, traduzione mia.

50 Citato in Mark Sullivan, “‘More Popular Than Jesus’: The Beatles and the Religious Far Right”, in «Popular Music», vol. 6, n. 3, Beatles Issue (October, 1987), traduzione mia.

51 Mark Fisher, The Weird and the Eerie, Minimum Fax, Roma 2016, traduzione di Vincenzo Perna.

52 In realtà Woodstock, la cittadina che diede il nome all’evento, è lontana una novantina di chilometri.

53 Testimonianza tratta dal documentario Manson, diretto da Robert Hendrickson e Laurence Merrick, 1973, traduzione mia.

Capitolo sei

Ho sepolto Paul, mi manca, mi manca, mi manca!

Wednesday morning at five o’ clock. Un nuovo culto misterico. La radio insinua che Paul è morto. La prima moderna conspiracy fantasy in forma di Alternate Reality Game. Una teoria «innocua»? L’ossessione per il doppio. L’alba del retromascheramento.

Mercoledì 9 novembre 1966, alle cinque del mattino, Paul McCartney era morto in un incidente stradale.

Prima di dare la notizia, Brian Epstein e i Beatles superstiti avevano tenuto un mesto conciliabolo. Cosa sarebbe accaduto da lì in avanti? Il dolore dei fan, e soprattutto delle fan, sarebbe stato immenso. Ci sarebbe stata isteria di massa, l’onda emotiva si sarebbe innalzata fino a travolgere la band, di fatto decretandone la fine.

Quella mattina Brian, John, George e Ringo avevano ragionato da strutturalisti: l’ordine simbolico aveva strutture costanti. I posti in quello spazio venivano prima delle cose e degli esseri reali che li occupavano. «Padre, madre ecc. sono prima di tutto luoghi in una struttura».54 I padri e le madri passavano e andavano, ma il luogo del padre e quello della madre restavano.

In quell’ordine la band occupava una casella che senza Paul non avrebbe potuto mantenere. I Fab Four non potevano diventare i Fab Three. Men che meno potevano rimpiazzare Paul...

No, un momento, aveva detto John. Non potevano rimpiazzare Paul apertamente. Ma potevano farlo in segreto!

Nella disperazione del momento, tutti si erano aggrappati a quell’idea. Brian aveva contattato il vincitore di un concorso di qualche mese prima, una gara di sosia di Paul. Era uno scozzese di nome William Shears Campbell, detto Billy. Per felice coincidenza anche lui suonava e cantava, e aveva pure talento. Lo avevano incontrato. Gli avevano offerto la vita, il prestigio e le ricchezze di Paul su un vassoio di platino. Gli avevano offerto di entrare nei Beatles. Avrebbe rinunciato al suo vero nome e al suo passato, ma la vita che lo attendeva era esaltante. La voce era un po’ diversa da quella di Paul, e la somiglianza non era perfetta, ma un po’ di esercizi vocali e un piccolo intervento plastico avrebbero risolto quei problemi. Allora, che ne pensava?

Billy aveva accettato al volo.

John aveva continuato a rimuginarci sopra. Quella morte e quella sostituzione avevano un tale numero di implicazioni, di sottintesi... Se ne poteva fare un culto misterico. Esoterico. Venirne a conoscenza avrebbe garantito ai fan l’accesso al secondo livello della beatlemania. Simboli da interpretare. Messaggi nascosti nella musica e nelle copertine degli album. L’inveramento di quell’intervista all’Evening Standard: i Beatles come nuova religione. Una religione gnostica.

John avrebbe organizzato una caccia al tesoro alchemico dei Beatles.

Il primissimo articolo su Paul morto e sostituito da un sosia si intitolava “Is Beatle Paul McCartney Dead?” ed era uscito il 17 settembre 1969 su The Drake Times Delphic, giornale studentesco della Drake University di Des Moines, Iowa. L’autore, Tim Harper, aveva raccolto la voce quando aveva appena cominciato a circolare. Ma per disseminarla c’era voluta la radio.

Il 12 ottobre Russ Gibb, disc jockey della Wknr di Detroit, aveva ricevuto la telefonata in diretta di un certo Tom, che gli aveva chiesto un parere sulla morte di McCartney. La morte di McCartney? Gibb non ne sapeva nulla. Tom gli aveva suggerito di prendere il White Album, ascoltare Revolution 9 e, nel punto in cui si ripeteva «number nine», far girare il vinile al contrario. Incuriosito, Gibb lo aveva fatto, in diretta. Rovesciata, la frase diventava: «Turn me on, dead man». Accendimi, uomo morto.55

Tom aveva dato altre istruzioni e Russ le aveva seguite. Nel finale di Strawberry Fields Forever John sembrava scandire «I buried Paul». In realtà, per chissà quale motivo, cantilenava «cranberry sauce», salsa di mirtilli rossi. Ma «ho sepolto Paul» aveva senz’altro più senso.

Migliaia di persone stavano ascoltando.

A quel punto era entrato in scena uno studente dell’università di Ann Arbor, Fred LaBour. Molti anni dopo, col nome d’arte Too Slim e come contrabbassista del gruppo Riders In The Sky, sarebbe diventato un musicista country di moderata fama. In quei giorni lavorava come bigliettaio al cinema del campus. Fred aveva ascoltato la trasmissione di Russ Gibb e gli era venuto in mente di scriverci un pezzo satirico. Il 14 ottobre 1969 il giornale dell’ateneo, il Michigan Daily, lo aveva pubblicato a tutta pagina, col titolo a sette colonne “McCartney Dead; New Evidence Brought to Light”. Era presentato come recensione del nuovo album dei Beatles Abbey Road, e introdotto da una nota redazionale:

In origine Mr. LaBour ha avuto l’incarico di recensire per il Daily Abbey Road, l’ultimo album dei Beatles. Mentre faceva ricerche approfondite sul background dell’album, tuttavia, si è imbattuto in una sorprendente serie di coincidenze che lo hanno messo sulle tracce di qualcosa di molto più significativo. L’autore desidera ringraziare Wknr-Fm, Louise Harrison-Caldwell e la figlia illegittima di George Martin, Marian, per il loro aiuto. Il signor LaBour dice che è tutto vero. J. G.

Fred metteva in fila un gran numero di clues, indizi, accumulati fino a quel momento. Molti li aveva inventati di sana pianta per l’occasione.

C’erano gli indizi visivi, come la mano aperta – sollevata in un gesto di saluto o benedizione – sopra la testa di Paul nella copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. E i giacinti gialli? Componevano la domanda «Paul?» ed erano disposti nella forma di un basso, lo strumento di Paul, girato verso sinistra come lo imbracciava lui, che era mancino. E le statue di cera dei vecchi Beatles? Servivano a porre l’enfasi su quelli nuovi, cioè senza Paul. Nell’interno della copertina, sulla redingote azzurra di Paul c’era uno stemma dell’Opp, Ontario Provincial Police, ma la seconda P era in parte coperta, sembrava una D e dunque si leggeva Opd, Officialy Pronounced Dead. E nella foto sul retro Paul era l’unico che dava le spalle all’obiettivo.

Ma la copertina più fitta di indizi era quella dell’album appena uscito, Abbey Road. I quattro Beatles attraversavano la strada che dava il titolo al disco, in fila indiana, camminando sulle strisce pedonali. Paul era l’unico scalzo.

I Beatles avevano finito di registrare in agosto e faceva parecchio caldo. Era venuta l’idea di uscire e fare una foto molto semplice davanti allo studio. Di quel momento esistevano diversi scatti. All’inizio del servizio Paul aveva i sandali. Poco dopo se li era tolti, il fotografo Iain MacMillan aveva scattato, ed ecco la foto migliore.

Ma l’immagine, secondo Fred, simboleggiava un funerale: John era il sacerdote, Ringo l’uomo delle pompe funebri, Paul il cadavere e George – l’unico vestito in jeans, il proletario – lo scavafosse. Fred scriveva che alle spalle dei quattro, dietro il cancello, c’era un cimitero. In realtà c’era un parcheggio.

Poi gli indizi testuali: fin dal titolo l’idea di fondo di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band era quella dei Beatles che impersonavano altri musicisti. In A Day In The Life John cantava: «Si è fatto scoppiare la testa in macchina / non s’era accorto che il semaforo era scattato». Evidentemente il corpo di Paul era stato trovato col cranio sfondato. E il tricheco di I Am The Walrus? In diverse culture era un simbolo di morte.

Infine gli indizi sonori: i messaggi rovesciati che Fred aveva sentito alla radio, ma anche altri. Nel finale di I Am The Walrus, ad esempio, un verso del King Lear diceva: «What, is he dead?».

Fred identificava il sosia in uno scozzese di nome William Campbell, orfano di entrambi i genitori. La foto del suo passaporto, sosteneva, appariva in un collage nella copertina interna del White Album. Altri avrebbero detto che il nome del sosia era un altro, e lo cantava la band in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: «Non voglio fermare lo show / ma pensavo vi avrebbe fatto piacere sapere / che il cantante canterà una canzone / e vuole che la cantiate con lui / e quindi lasciate che vi presenti / il solo e unico Billy Shears!». In seguito si sarebbe giunti a un accordo: Billy Shears era sempre William Campbell.

L’intento di John, concludeva l’articolo, era fondare una nuova religione, con Paul come figlio di Dio.

Bomba! La voce si era diffusa per tutto il campus, e in breve tempo per tutti i campus. Ogni college d’America aveva un suo giornale, e ogni comunità di studenti aveva una radio di riferimento. L’articolo di Fred era stato ristampato, letto in diretta, commentato... Fred non sapeva se essere compiaciuto o preoccupato: nessuno aveva colto l’ironia del suo pezzo? O era stata colta ma non importava?

Molti studenti avevano cominciato a passare le serate ascoltando maniacalmente canzoni dei Beatles e sviscerando i presunti indizi.

Nel retro della copertina di Sgt Pepper’s, dove i Beatles erano sovrastati dai testi delle canzoni, George puntava col dito il verso «Wednesday morning at five o’ clock», incipit di She’s Leaving Home. Sicuramente erano il giorno e l’ora della morte di Paul.

Nella copertina di Abbey Road c’erano molti altri indizi: Paul era l’unico che non stava al passo: gli altri portavano avanti la gamba sinistra, lui la destra. Paul era mancino, eppure aveva la sigaretta nella mano destra.

Sullo sfondo c’era un maggiolino Volkswagen con la targa «28IF», cioè «ventotto anni se fosse vivo».

La macchina era là da diversi giorni. Forse il proprietario l’aveva parcheggiata ed era andato in vacanza. Ai Beatles sarebbe piaciuto avere la strada sgombra, e avevano chiamato i vigili per farla portare via. Ma nemmeno la band più celebre al mondo aveva il potere di far rimuovere un veicolo se non era in contravvenzione, quindi il maggiolino era rimasto, per diventare un elemento fondamentale di Paul-Is-Dead.

Se ascoltato al contrario, il verso «Strawberry fields, nothing is real» diventava «We’ll sing it, man, we’ll be reversed» (la cantiamo, amico, saremo rovesciati).

Una frase bofonchiata da John alla fine I’m So Tired, una volta rovesciata, diventava: «Paul is a dead man! Miss Him! Miss Him! Miss Him!».

Alla pratica di nascondere tra i solchi messaggi comprensibili solo girando il vinile al contrario si era già dato un nome: «backmasking». In Revolver i Beatles avevano usato registrazioni al contrario per ottenere particolari effetti sonori, ma ora si ipotizzava un vero e proprio rovesciamento fonetico: i Beatles avevano scritto versi in modo che diritti dicessero una cosa e rovesciati ne dicessero un’altra. Un virtuosismo, una sorta di palindromia acustica... che in realtà era pareidolia uditiva da parte dei fan. Il desiderio di sentire riferimenti alla morte di Paul portava a sentirli davvero, trasformando in segnale quello che alle orecchie altrui era solo rumore.

Quella tribù dedita a una fantasia di complotto sui Beatles si era presto guadagnata il nomignolo di «cluesters», cacciatori di indizi. Anni dopo uno di loro, Tom Zarski, aveva spiegato in poche, precise frasi quale molla lo avesse spinto:

Certo, non avevo motivo di credere che fosse vero. Ero sicuro che non lo fosse. Eppure mi sentivo come se fossi stato mandato in missione. Era un indovinello o forse una specie di caccia al tesoro. Ero spinto dalla mia stessa curiosità, avevo bisogno di una risposta.56

Era stata di nuovo la radio a far salire di livello Paul-Is-Dead, portandolo fuori dal circuito dei college. La sera del 21 ottobre 1969 un dj della Wabc di New York, Roby Yonge, aveva dedicato a Paul-Is-Dead il proprio programma, sforando l’ora a disposizione per far ascoltare tutti gli indizi. Le frequenze a onde corte della Wabc coprivano tutta l’East Coast, arrivando fino al Canada, a parti del Messico e dei Caraibi. Nel corso del programma e nelle ore successive l’emittente aveva ricevuto trentacinquemila telefonate.

Era passato poco più di un mese dal primissimo, misconosciuto articolo dedicato alla vicenda, e ora la voce oltrepassava l’Atlantico approdando in Inghilterra, a casa dei Beatles.

I giornalisti avevano cominciato a telefonare all’addetto stampa dei Beatles Derek Taylor. Il poveretto si era ritrovato con la cornetta all’orecchio da mattina a sera, per settimane, costretto a smentire di continuo la morte di McCartney. A un certo punto, esasperato, aveva chiesto cosa dovesse fare Paul per dimostrare che era vivo, oltre a essere vivo.

Nel frattempo Paul, dopo anni vissuti a ritmi forsennati e una fase di conflitti dentro la band, si era ritirato nella campagna scozzese. Era sposato con la fotografa Linda Eastman, gli era appena nata la seconda figlia e avrebbe voluto stare tranquillo per un po’. Ma proprio il fatto che non lo si vedesse da qualche tempo aveva alimentato la fantasia di complotto, e presto si era ritrovato cronisti gironzolanti intorno a casa, pronti a invadere la sua privacy. Aveva cacciato in malo modo una troupe della rivista Life ma poi aveva acconsentito a farsi intervistare e fotografare con la famiglia. Era servito? C’era da dubitarne.

Come avevano potuto i Beatles tenere nascosta la morte di Paul? Che ne era stato del rapporto della polizia stradale, dei documenti dell’obitorio, del certificato di morte? E come avevano fatto sparire dal mondo Billy Shears? Cos’era stato detto ad amici, conoscenti, colleghi, al fisco, all’autorità?

Risposta: i Beatles erano ricchi sfondati, quindi avevano potuto corrompere la stradale, il coroner, il personale ospedaliero, l’agenzia funebre, gli uffici anagrafe. Far scomparire Billy era stato ancora più facile: era orfano e solitario, avevano inventato qualche storia di comodo et voilà.

Poi era nata la fantasia di complotto di secondo livello: non c’era nessun Billy Shears, Paul era vivo ed era ancora nella band, ma gli indizi c’erano davvero, perché era tutta una beffa ideata dei Beatles. La band si era ispirata alla diceria sulla morte di Paul circolata nel gennaio 1967 e aveva disseminato messaggi e riferimenti per incitare i fan a cercarli e così vendere più dischi. L’appiglio era una frase di John: «Paul McCartney non potrebbe morire senza che il mondo lo sapesse, come non ha potuto sposarsi, o andare in vacanza, senza che il mondo lo sapesse. È solo follia... ma è ottima pubblicità per Abbey Road».57

Naturalmente la fantasia di secondo livello non era più fondata dell’altra. Per dirla con Andru J. Reeve, autore del miglior libro su tutta la vicenda, Turn Me On Dead Man: The Beatles and the “Paul-is-Dead” Hoax,

[...] sarebbe impossibile organizzare una trovata pubblicitaria su una scala tanto grande e poi nascondere perfettamente le impronte: di sicuro qualcuno si sarebbe vantato del proprio ruolo nell’operazione o avrebbe scritto un memoir sulla più Grande Idea Pubblicitaria della Storia. Questo non è accaduto, e sono passati [trentacinque anni] da quando la diceria si diffuse nel mondo.58

Reeve aveva scritto quelle righe nel 2004, erano passati altri sedici anni e ancora non era accaduto.

La nuova versione aveva il vantaggio di sposare un razionalismo di fondo, senza rinunciare al patrimonio conoscitivo, emotivo e relazionale accumulato grazie a Paul-Is-Dead.

La sottocultura dei cluesters si era formata e diffusa nei campus universitari. Non era avvenuto per caso. I campus erano i luoghi in cui si concentravano e rielaboravano le tensioni dell’epoca, erano i luoghi dell’impegno politico, dell’opposizione alla guerra, della musica, della sperimentazione di modi di convivere diversi. Erano punti nevralgici della cultura, vissuti da una generazione piena di domande e inquietudini.

Quei giovani ascoltavano i Beatles da quand’erano ragazzini. Anche loro, come i Beatles, erano in una fase di rapida trasformazione, stavano superando una soglia, quella tra l’essere ragazzi e l’essere giovani adulti con responsabilità e oneri. Come i Beatles, anche loro avevano avuto un “primo” e un “secondo periodo”.

cluesters avevano visto nel Paul morto sull’autostrada il ragazzo che loro erano stati, e nel “Paul nuovo”, più maturo e autore di musica più complessa, la persona nuova che loro si sentivano. Nelle prime foto McCartney era un giovane acqua-e-sapone dallo sguardo risplendente, i Beatles erano vestiti tutti uguali e avevano sorrisi sinceri. Nelle foto del secondo periodo McCartney sembrava molto più vecchio. Anche gli altri Beatles, nel 1967, sembravano invecchiati di diversi anni rispetto all’anno prima. Nei Sixties gli eventi si susseguivano a una tale velocità da far vivere in brevi periodi un’enorme quantità di storia. Le situazioni cambiavano da un momento all’altro, mutavano corso, si capovolgevano. E per chi stava passando dall’adolescenza all’età adulta, tutto era ancora più intenso. Normale che in quelle foto i cluesters vedessero un Paul più vecchio, perché loro stessi si scoprivano più vecchi. L’allegoria aveva un potere d’attrazione fortissimo, ecco perché aveva preso piede tanto rapidamente: a ciascuna di quelle persone raccontava qualcosa di sé, della propria vita.

Paul-Is-Dead era un ciclo di morte e rinascita. E in America quelle corde erano in perenne vibrazione. Ancora Andru J. Reeve:

I Beatles come divinità? Certo, noi americani abbiamo un bisogno irresistibile di trasformare le nostre celebrità in divinità laiche. E col cristianesimo sempre a portata di mano, quella dottrina diventa il modello preimpostato per l’apoteosi di morte. In altre parole, quando gli dèi laici diventano simili a Cristo, assumono su di sé i peccati del mondo e, se muoiono, li ammiriamo e li adoriamo ancora di più [...]. C’è un problema con questa visione dell’apoteosi per quanto riguarda i Beatles: [...] nel paradigma familiare del cristianesimo non c’è posto per quattro cristi, né per un cristo multiplo, [...] uno di loro doveva morire. E, almeno, simbolicamente, uno di loro è morto.

L’altro motivo per cui la voce aveva preso piede: forniva un’esperienza ludica all’altezza della nuova complessità della cultura e del paesaggio mediale. Proponeva un canovaccio o una situazione e poi chiedeva: «Cos’altro puoi scoprire su questo? Cosa puoi aggiungere?». Trasformava il pubblico in partecipanti e volontari.

Nessuna fantasia di complotto aveva mai avuto quelle caratteristiche, né quella composizione sociale.

La caccia agli indizi era proseguita anche dopo lo scioglimento dei Beatles. Si erano presi in esame gli album solisti di Lennon, McCartney e Harrison. Nel nuovo secolo, grazie alla rete, intorno a Paul-Is-Dead era attiva una comunità di persone che chattavano, discutevano sui social, si vedevano su Skype o Zoom, facevano podcast, si incontravano la sera per comparare gli indizi. Il ritrovamento di un nuovo indizio era lo spunto per una conversazione, una serata divertente, una telefonata a un amico, quattro chiacchiere durante una pausa al lavoro. Nel 2017 il filmmaker Mitch Fillion aveva girato un documentario intitolato Who Is This Now? (A Paul Is Dead Film), mostrando proprio quelle situazioni.

In fondo, ci si chiedeva, che male aveva fatto quella conspiracy fantasy, a parte aver importunato un poco McCartney, che nel corso degli anni aveva pure imparato – o si era rassegnato – a scherzarci sopra? Nel 1993 aveva intitolato un suo album dal vivo Paul Is Live. La copertina lo mostrava cinquantenne nella copertina di Abbey Road, senza gli altri tre Beatles ma con un cane al guinzaglio che lo strattonava e quasi gli faceva perdere l’equilibrio. Un riferimento beffardo al suo non stare al passo.

In realtà quella storia era meno frivola o innocua di quanto sembrasse. La fantasticheria, già incentrata su una morte nascosta, aveva avuto una torsione ancor più macabra quando i cluesters si erano improvvisati medici forensi e si erano dati all’antropometria e alla cefalometria. Avevano misurato le distanze tra gli occhi e tra gli zigomi dei due Paul, le lunghezze delle braccia e delle gambe, la forma delle orecchie.

Del resto, il primo cluester non era stato Charles Manson? Lo aveva fatto notare John in un’intervista a Playboy del 1980:

Manson è stato solo una versione estrema di quelli che si erano inventati la storia Paul-Is-Dead o si erano accorti che le iniziali di Lucy in the Sky with Diamonds erano L.S.D., concludendo che avevo scritto una canzone sull’acido.59

Paul-Is-Dead inglobava in tempo reale ogni nuova notizia sui Beatles, sulle vite e carriere degli ex membri, e la cospirazione descritta era sempre più tetra e violenta.

Nel 1976 Mal Evans, storico autista e tuttofare della band, era stato ucciso dalla polizia di Los Angeles, in casa sua, in circostanze rimaste ambigue. Secondo i cluesters era stato eliminato per impedirgli di pubblicare un memoir sulla morte e la sostituzione di Paul.

Lo stesso John era stato assassinato da Mark Chapman nel 1980 davanti alla sua casa di New York. Chapman aveva voluto fargli pagare quelle vecchie frasi sui Beatles «più popolari di Gesù» e anche il testo di Imagine, un inno all’ateismo. Secondo i cluesters, invece, Chapman era solo un esecutore. John stava per rivelare tutto su Paul-Is-Dead e andava fermato.

Il 30 dicembre 1999 un certo Mark Abram, trentatré anni, si era introdotto nella casa di George Harrison a Londra e l’aveva ferito con un coltello. Pensava che i Beatles fossero stregoni e che Dio lo avesse mandato in missione per uccidere George. Quest’ultimo si era salvato per miracolo. Secondo i cluesters anche quel tentato omicidio era legato alla morte di Paul. George era solo l’ennesimo protagonista di Paul-Is-Dead pronto a vuotare il sacco. Impaurito, aveva deciso di non farlo.

Ma chi era il mandante? Billy Shears? Detta così era troppo semplice. Nella narrazione era entrato l’MI5, il servizio segreto interno del Regno Unito. Nel 1966 era stato l’MI5 a coprire i Beatles nascondendo ogni traccia della morte di Paul. Lo aveva fatto perché temeva che la notizia avrebbe scatenato una sollevazione giovanile, con scontri nelle strade e quant’altro. Quando, anni dopo, i tre Beatles originali e membri del loro entourage avevano dato segnali di volersi sbottonare, Billy aveva convinto l’MI5 che era anche nel suo interesse intervenire. L’MI5 aveva corrotto agenti di polizia di Los Angeles per uccidere Evans e lavato il cervello a Chapman e Abram perché uccidessero Lennon e Harrison.

Più approfondivo, più mi ricordava QAnon.

Paul-Is-Dead era una conspiracy fantasy e al tempo stesso un Arg ante litteram. Sovrapposizione, a quanto ne sapevo, mai verificatasi prima di allora. E c’erano già molte dinamiche e temi di QAnon: lo scrutinio paranoico dei prodotti della cultura pop per trovare qualche verità segreta, l’orizzontalità, il networking, l’ossessione per la morte e i doppelgänger.

Se in Paul-Is-Dead la paranoia del doppio aveva fatto pensare a un sosia, nel ventunesimo secolo i credenti in QAnon avevano pensato al biotech. Obama e Clinton erano già stati arrestati, rinchiusi a Guantanamo e giustiziati con un’iniezione letale. Quelli che vedevamo erano cloni. Non si spiegava però come mai quei cloni continuassero a dire e fare le cose di prima, tra cui attaccare Trump in ogni occasione. Tanto valeva tenersi gli originali.

Con Paul-Is-Dead era cominciata l’ossessione per il backmasking. Se nell’immaginazione dei cluesters i messaggi nascosti riguardavano la morte di McCartney, di lì a poco avrebbero riguardato il diavolo e l’adorazione di Satana.

Che era a un solo passo di distanza, perché Paul-Is-Dead aveva una narrazione “cugina”, o forse sorella maggiore: Helter Skelter. Lì si trovavano altri elementi familiari: il satanismo, le basi sotterranee e gli snuff movies. Il mito degli snuff aveva la sua versione più recente nella leggenda di Frazzledrip.

Che parte del lignaggio di QAnon avesse a che fare coi quattro di Liverpool era controintuitivo. Non mi risultava che qualcun altro lo avesse notato. Eppure più ragionavo su Paul-Is-Dead, più ero convinto della sua esemplarità e seminalità, della sua influenza su quanto era venuto dopo. Se pochi se ne erano resi conto, forse era perché chi aveva studiato Paul-Is-Dead non si era occupato di altre fantasie di complotto, e viceversa.

Se il Pendolo era la mia cassetta degli utensili, «Paul-è-morto» era diventato la mia bussola in forma di apologo, di cautionary tale, o di storiella zen da cui trarre paradossi e prendere esempio, da ripetere in testa finché non fossi arrivato al satori.

Entrambi, cassetta e bussola, mi avrebbero protetto dal bias cognitivo del mai-prima-d’ora, che tanto influenzava il dibattito su QAnon e il cospirazionismo al tempo dei social network.

A quel punto ero andato in cerca dei concetti giusti.

Nel frattempo, noi Wu Ming eravamo intervenuti nel dibattito.


54 Gilles Deleuze, “A quoi reconnaît-on le structuralisme?”, in François Châtelet (dir.), Histoire de la philosophie VIII. Le XXe siècle, Hachette, Paris 1973 (trad it. Lo strutturalismo, SE, Milano 2004).

55 «To turn on» è un tipico phrasal verb dell’era psichedelica. Nella spiegazione che ne ha dato Timothy Leary significa «attivare il proprio equipaggiamento neuronale e genetico, diventare sensibili ai molti e vari livelli di coscienza e alle precise molle che li fanno scattare», da Timothy Leary, Flashbacks: A Personal and Cultural History of an Era, G. P. Putnam’s Sons, New York 1983, traduzione mia.

56 Citato in Andru J. Reeve, Turn Me On, Dead Man: The Beatles and the Paul Is Dead Hoax, Authorhouse, Bloomington 2004, traduzione mia.

57 Stralcio di un’intervista rilasciata da Lennon alla WKNR-AM di Detroit il 22 ottobre 1969, riportato in The Beatles Anthology, Chronicle Books, San Francisco 2000, traduzione mia.

58 Andru J. Reeve, Op. cit., traduzione mia.

59 Intervista rilasciata da John Lennon e Yoko Ono al giornalista David Sheff, apparsa postuma su Playboy nel gennaio 1981, traduzione mia.

Capitolo sette

«A leftist prank?»

L’ipotesi della beffa. Lo scoop di Buzzfeed. Brutti segnali dalla Germania. L’imbarazzo della destra non trumpista. L’acuto Ben Davis. Dalle avanguardie alla post ironia, dal détournement al meme. Blissett non faceva solo culture jamming. Serve un inventario. Servono i concetti giusti.

Dopo l’email di Florian ci eravamo informati e avevamo scritto brevi commenti su Twitter. All’epoca usavamo ancora quel social network, che avremmo abbandonato l’anno dopo. Il primo tweet era datato 12 giugno 2018, era in inglese e diceva:

Un tale che usa la firma Q, atteggiandosi obliquamente ad anonimo agente dello stato, passa tediose stronzate ai nazi. Uhm... Sembra che qualcuno stia usando il nostro romanzo Q e il manuale di gioco di Luther Blissett per... fare cosa? Prendere per il culo l’alt-right.

Forse chi aveva creato QAnon aveva in mente il nostro romanzo e le nostre beffe sul pedosatanismo. Forse voleva prendersi gioco della credulità dei sostenitori di Trump, o forse stava solo cazzeggiando. Quasi subito, però, la beffa era sfuggita di mano e aveva acquisito vita propria, coi risultati che già avevamo sotto gli occhi. Ormai era andata troppo avanti nella direzione sbagliata e non era più rivendicabile: chi avrebbe ammesso di avere avviato, per sventatezza, un gioco di ruolo fascista che scatenava pazzoidi armati?

Se davvero QAnon era partito come beffa, aveva fatto – ben più rapidamente, perché la rete aveva accelerato tutto – lo stesso percorso del Piano concepito da Belbo, Diotallevi e Casaubon.

Nella comunità c’erano molti true believers che prendevano le QDrops alla lettera, ma altri – era evidente – stavano trollando, provocando, portando avanti il racconto in tipica modalità alt-right. Lo facevano per fomentare i creduloni, far girare materiale oltraggioso, provocare i liberal, gettare esche ai giornalisti, far cadere in trappola i media. Chi giocava con QAnon prendeva molti piccioni con una fava: si divertiva a manipolare la gente, spargeva odio e coglieva alla sprovvista cronisti e avversari politici, che si trovavano di fronte ad affermazioni sempre più oltranziste e sballate e non sapevano come rispondere. I resoconti sui media mainstream, infatti, erano all’insegna dello sbigottimento. Ci si chiedeva come fosse possibile che tanta gente credesse a cose del genere. Proprio la reazione desiderata da chi stava usando QAnon in maniera consapevole e strategica.

Non sapevamo ancora nulla delle manovre dietro The Storm, di chi avesse lavorato per fare di QAnon un Arg, ma di Arg ce ne intendevamo, e anche di come fare guerriglia culturale tramite un Arg.

Dopo l’exploit di Tampa i giornalisti che seguivano QAnon si erano accorti dei nostri tweet. Il 6 agosto la testata Buzzfeed aveva pubblicato un articolo sulla nostra ipotesi, intitolato “People think this whole QAnon conspiracy theory is a prank on Trump supporters” (C’è chi pensa che l’intera teoria del complotto QAnon sia una beffa ai danni dei sostenitori di Trump). Conteneva nostre dichiarazioni e si era diffuso in modo virale. In breve tempo si erano accumulate interviste e articoli in più lingue, negli Stati Uniti e in Europa, su QAnon «beffa di sinistra» o «beffa anarchica».

Avevano riportato quell’ipotesi SpinMotherboard, la Süddeutsche ZeitungL’Humanitéla Repubblica (in un trafiletto), ArtnetQuartzAlternet e altri mezzi di informazione. Avevamo rilasciato un’intervista alla testata on line tedesca Telepolis. Leggendo le centinaia di commenti in calce ci eravamo resi conto che QAnon aveva preso piede in Germania. Era l’unico paese in Europa dove fosse già accaduto.

QAnon non è un individuo, ma un gruppo ristretto di membri del governo, persone provenienti dagli alti ranghi militari e dalla Casa bianca e alcuni servizi segreti (Nsa) che, insieme a Trump, combattono contro lo stato profondo di stampo mafioso e proteggono fisicamente Trump. Dato che l’intero Msm [MainStream Media, n.d.t.] corrotto sta agendo contro di lui, non ha altra scelta che contattare la popolazione direttamente tramite i social media (8Chan, Twitter, ecc.). E con l’aiuto dei QAnons riferisce sullo stato attuale delle cose. Ogni volta vengono fornite le prove. Quindi chiunque affermi che le informazioni pubblicate lì sono false è un pezzo di merda.

C’è da dubitare che tutti i progetti artistici finanziati dalla Cia siano stati chiusi. E quasi per caso, ecco Wu Ming che fa propaganda cospirativa per la cricca Clinton di Wall Street. Finché i signori di Wu Ming e gruppi simili non riveleranno chi li paga, si può presumere che le loro iniziative siano commissionate da mecenati estremamente discreti, che “sanno cosa devono fare”.

Perché per anni i media delle fake news si sono precipitati non solo contro Trump, ma ora anche contro questo “Larp”? Perché un “Larp” riceve così tanta attenzione in tutto il mondo? Il “Larp” è diventato mainstream? Il “Larp” è diventato una minaccia? Paura di troppa luce?60

Era l’agosto del 2018. La pandemia di Covid-19 sarebbe arrivata solo un anno e mezzo dopo.

Ci aveva intervistati anche Henry Jenkins, forse il più importante studioso di culture partecipative e comunità di fan. E in uno “strillo” sulla pagina Facebook di Artnet si leggeva: «All’improvviso la storia di Luther Blissett, il movimento italiano di sabotatori dell’informazione, è diventata importante per il dibattito politico in America».

In realtà noi non avevamo dato per certo che l’eventuale beffa l’avesse tentata un anarchico o qualcuno «di sinistra».

Certo, l’ipotesi non era peregrina: diverse persone si erano chieste come rivoltare contro l’alt-right il suo stesso gioco. Nel 2017 Johannes Grenzfurthner del collettivo viennese Monochrom, dopo aver definito futile e controproducente ogni tentativo di penetrare nelle bolle di destra con contenuti di sinistra, aveva scritto: «Il tuo contenuto deve essere così oscuro e misterioso da non funzionare più come strumento di propaganda. Altrimenti sarà usato solo per ridicolizzarlo».61 Poco tempo dopo era apparsa la prima QDrop.

Nondimeno, e senza volerci paragonare ai Beatles, ci era chiaro che come il White Album era finito in mano a Manson, così Q poteva essere finito in mano a chiunque.

Purtroppo il giornalista di Buzzfeed, Ryan Broderick, aveva usato soltanto pochi frammenti dell’intervista che gli avevamo rilasciato. Aveva tagliato la parte in cui, forse per primi, avevamo definito QAnon un Arg. Le sfumature e la complessità del nostro discorso si erano perse e il titolo del pezzo era semplicistico, così lo scoop e l’ipotesi stessa erano stati snobbati dai “QAnonologi”. Nessuno dei giornalisti che facevano inchiesta sul fenomeno in modo continuativo aveva colto lo spunto. E non importava quante altre interviste e interventi avessimo fatto, quell’articolo era rimasto il più letto. Nell’autunno 2020 era ancora l’unica e sola fonte su cui si basava la voce «QAnon» della Wikipedia inglese nel fare un riferimento frettoloso e superficiale a Q e al Lbp:

The Italian leftist Wu Ming foundation has speculated that QAnon has been inspired by the Luther Blissett persona, which was used by leftists and anarchists to organize pranks, media stunts, and hoaxes in the 1990s. “Blissett” also published the novel Q in 1999.

Ad ogni modo, la parola prank (beffa) era stata pronunciata e aveva in parte modificato la cornice di senso dentro cui si parlava di QAnon. Anche chi non pensava c’entrasse il nostro romanzo aveva cominciato a ipotizzare che a monte vi fosse uno scherzo, un intento ironico, una trollata.

La destra non trumpista, da tempo relegata ai margini e fino a quel momento esitante, aveva cominciato a prendere le distanze da QAnon. Sul sito conservatore The Federalist Georgi Boorman aveva scritto: «La mitologia di Q è estrema e iperbolica, va molto oltre quella che in contesti più umoristici sarebbe ritenuta satira. Ecco perché si è ipotizzato che Q non sia affatto di destra, bensì qualcuno di sinistra che sta provocando (trolling) la destra».62

Persino un forum trumpista come il sub-reddit The_Donald aveva recepito il messaggio e proibito riferimenti a QAnon nelle discussioni, lamentando che quella storia faceva sembrare i sostenitori di Trump «un branco di idioti». Branco di cui, evidentemente, faceva parte The Donald in persona, dato che ritwittava QAnon e, di lì a poco, ne avrebbe ricevuto un esponente nello studio ovale.

Le considerazioni più intelligenti sulla nostra ipotesi le aveva fatte il critico d’arte Ben Davis su Artnet:

Le cosiddette strategie dei “Tactical Media”, avviate da soggetti come 010010111010101101.org e gli Yes Men, sono ancora oggi romanticizzate come il modello di riferimento per gli artisti-attivisti che intervengono nel dibattito politico. Eppure la verità è che tali strategie, fondamentalmente, sono state assorbite dagli odierni media mainstream. La critica per mezzo della satira, della disinformazione e dello spiazzamento predomina ovunque [...].

Questi progetti artistici degli anni Novanta e dei primi anni Duemila mi sembrano ora il prodotto di un’epoca più innocente. Allora la frammentazione di internet sembrava un modo di contrastare i potenti; allora si poteva credere che fomentare e poi smascherare una bufala avrebbe avuto un effetto naturalmente radicale, “omeopatico”, anziché aiutare semplicemente a nutrire ceppi del virus paranoico che poi diventano sempre più difficili da curare, come quando non si finisce un ciclo di antibiotici.

Ehi, tutto è possibile, ma anche fosse vero che tutto questo casino è partito da un intervento di sinistra ben intenzionato, l’intervento avrebbe avuto un disastroso ritorno di fiamma. E finché non mi verrà dimostrato il contrario, tratterò le risonanze tra Luther Blissett e QAnon non come prove di un grande complotto anticomplottista, ma come segnali che siamo saliti a un livello più difficile nel videogioco, e che abbiamo bisogno di nuove teorie sull’attivismo mediatico per tempi nuovi e difficili.63

A parte quella che ci era sembrata confusione tra le nostre beffe mediatiche – che l’autore ammetteva di non conoscere nei dettagli – e una banale operazione parodica facile da rovesciare e cooptare, eravamo d’accordo su quasi tutto. Davis forse pensava di no, perché l’articolo di Buzzfeed aveva lasciato fuori nostre considerazioni molto simili.

Anche per noi la beffa, ammesso e non concesso che fosse partita «da sinistra», aveva avuto un disastroso ritorno di fiamma.

E anche per noi le vecchie strategie non funzionavano più.

*

**

Già nella seconda metà del ventesimo secolo la crescita spropositata del flusso di immagini e dati aveva reso sempre meno efficaci e spiazzanti, prima, e integrato del tutto e banalizzato, poi, le principali tecniche di intervento critico affinate dalle avanguardie, come il détournement o il cut-up.

Nella definizione data dall’Internazionale situazionista il détournement [dirottamento, deviazione] era

il riutilizzo in una nuova unità di elementi artistici preesistenti [...]. Le due leggi fondamentali del détournement sono la perdita d’importanza – fino al deperimento del suo senso precedente – di ciascun elemento autonomo dirottato; e, al tempo stesso, l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisce a ciascun elemento il suo nuovo peso. C’è una specifica forza dentro il détournement, che ha a che fare con l’arricchirsi della maggior parte degli elementi grazie alla coesistenza, in essi, del loro vecchio senso e di quello immediato.64

Un celebre esempio di détournement era il film del situazionista René Riesel La dialectique peut-elle casser des briques? (Può la dialettica rompere mattoni?). Nel 1972 Riesel aveva “dirottato” un film di arti marziali prodotto a Hong Kong – Tangshou Taiquan Dao, distribuito in occidente col titolo Crush – e ambientato in Corea durante l’occupazione giapponese, aggiungendovi sottotitoli estranei ai dialoghi originali e trasformando la vicenda in una storia di lotta di classe. Più precisamente, di ribellione contro le burocrazie di partito che recuperavano e sabotavano le spinte rivoluzionarie. Tra le nuove battute dei personaggi Riesel aveva inserito frasi di Marx, Debord, Bakunin, Reich e altri sovversivi. Adattando i sottotitoli, il direttore di doppiaggio Gérard Cohen e un gruppo di attori avevano realizzato una versione del film in francese. La dialectique peut-elle casser des briques? non cambiava solo il contenuto di Crush ma metteva in discussione il rapporto tra spettacolo e audience, e il cinema stesso come meccanismo alienante. Nella sequenza iniziale, mentre il protagonista si esibiva in tese mosse di taekwondo, una voce fuori campo lo presentava con queste parole:

Sì, sembra un coglione. Ma non è colpa sua, è colpa del produttore. Lui è alienato e lo sa. Non ha alcun controllo sulla propria vita. In breve, è un proletario. Ma le cose cambieranno.

A differenza del détournement, che non era realizzato a caso ma con un intento preciso, il cut-up era una tecnica improntata all’alea, al random, all’imprevedibilità. Sperimentato già da dadaisti e surrealisti, ripreso e sviluppato nel dopoguerra dallo scrittore William Burroughs e dall’artista Brion Gysin, il cut-up consisteva nel tagliare e ricombinare materiali – testi, pellicole di film, frammenti sonori – in modo da ottenere effetti non solo di sorpresa ma di nuova profondità. Lo aveva spiegato Burroughs in un’intervista alla Paris Review:

Ciascun passaggio narrativo o poetico è soggetto a un numero indefinito di variazioni, tutte interessanti e valide di per sé. Una pagina di Rimbaud tagliata e riordinata darà immagini del tutto nuove: immagini rimbaudiane, vere immagini rimbaudiane, ma nuove [...]. I cut-up stabiliscono nuove connessioni tra le immagini, e il tuo campo visivo si amplia di conseguenza.65

Un esempio di letteratura scritta ricorrendo anche al cut-up era il più famoso romanzo di Burroughs, Il pasto nudo. Un esempio di cut-up musicale era Revolution 9 dei Beatles.

Gli accostamenti azzardati, i dirottamenti di senso, «l’incontro fortuito dell’ombrello e della macchina da cucire sul tavolo operatorio», ecc. Tutto ciò era stato inedito, inaudito e perturbante nella prima metà del Novecento e ancora per qualche tempo nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale, fintanto che l’offerta mediatica era rimasta limitata e rigida. Quelle tecniche venivano da un altrove rispetto alla cultura dominante, scavalcavano steccati semiotici e tecnologici, univano ciò che appariva diviso, accostavano ciò che appariva distante. Lo slogan del Maggio Sessantotto «Sotto il pavé la spiaggia»; i fumetti a larga diffusione trasformati in documenti rivoluzionari cambiando le battute nei balloon; la regina Elisabetta con la spilla da balia punk sulle labbra nella pubblicità di God Save The Queen dei Sex Pistols... Era quello che il teorico della letteratura Michail Bachtin aveva visto nel Gargantua et Pantagruel di Rabelais:

[...] spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato.66

Negli anni Settanta, quando si erano riscoperte quelle note di lettura del 1937-1938, l’ironia era ancora una figura retorica che si poteva usare criticamente, non già un imperativo culturale, una coazione, un abito mentale, la tonalità emotiva da esibire sempre. Ma si stava già svoltando l’angolo. Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Regno Unito (1979) e Ronald Reagan negli Stati Uniti (1981) avevano annunciato il cambio d’epoca e l’ingresso del capitalismo nella sua lunga fase neoliberista. Da quel momento l’atteggiamento ironico era stato propagandato come l’unico adeguato ai tempi, dopo le presunte “pesantezze” dell’epoca precedente. «Non prendere le cose sul serio» si era affermato tra i principali comandamenti neoliberali.

In Italia i più importanti poeti della nuova ironia erano stati due ex prositu – termine utilizzato dai situazionisti per definire i loro epigoni superficiali – liguri: Carlo Freccero e Antonio Ricci, entrambi ben piazzati nelle tv commerciali di Silvio Berlusconi. Il primo come direttore dei palinsesti; il secondo come autore di Drive InStriscia la notizia e altri programmi di smodato successo che avevano imposto il nuovo mood. Uno si chiamava Risatissima. Titolo perfetto: ad affermarsi era stata la risata forzosa, compulsiva, socialmente obbligatoria, la risata del qualunquistico precetto «E fattela ’na risata!».

La tv – come aveva scritto David Foster Wallace nel suo saggio del 1993 E Unibus Pluram: Television and US Fiction – si era imposta come medium ironico per eccellenza. Implicitamente la tv invitava a non credere a nulla di quanto trasmetteva, a non attribuirvi alcuna importanza reale.

Per avere ancora una funzione critica, aveva scritto Wallace, l’ironia si sarebbe dovuta usare ogni tanto, come figura retorica «d’emergenza». Ma un’ironia continua, persistente, diventava opprimente e dispotica.

State attenti: l’ironia ci tiranneggia. La ragione per cui l’ironia onnipresente nella nostra cultura è allo stesso tempo così potente e così insoddisfacente è che chi usa l’ironia è impossibile da inchiodare. Tutta l’ironia negli Stati Uniti è basata su un implicito «non sto dicendo sul serio». Quindi che cosa dice seriamente l’ironia, in quanto modello culturale? Che è impossibile dire qualcosa sul serio? Che è terribile che sia così, ma svegliatevi e guardate in faccia la realtà? Più probabilmente, penso, l’ironia di oggi finisce col dire: «Oddio come sei banale a chiedermi cosa voglio dire davvero». Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica o pedante. E in questo sta l’oppressione dell’ironia istituzionalizzata, di una rivolta troppo riuscita; la capacità di interdire la domanda senza occuparsi del suo oggetto, nel momento in cui viene esercitata, non è altro che dittatura.67

E l’ironia continua diventava automatica, ergo il più delle volte involontaria. Non coglieva nemmeno più sé stessa. In tv era sincronica e diacronica. Sincronica: ciò che vedevi contraddiceva quel che udivi, come quando il miliardario attaccava la «casta» o il rapper milanese straricco, dal suo appartamento gigante, ti diceva che eravamo tutti sulla stessa barca; diacronica: l’anchorman del telegiornale o il conduttore di talk show ti dicevano che eravamo a rischio terza guerra mondiale o ti mostravano cadaveri squarciati, e mezzo minuto dopo ti sorridevano e si collegavano con il comico che presentava il suo nuovo film natalizio, grande, mostriamo la clip, grasse risate!

In Italia il programma Blob – ideato con lo zampino di un altro ligure che aveva studiato i situazionisti, Enrico Ghezzi – era stato sorprendente, all’inizio. Una dose quotidiana di détournement e cut-up in onda ogni sera su un canale pubblico nazionale. Blob usava come materiali gli altri programmi andati in onda quel giorno, sminuzzandoli, montandone i frammenti in modo irriverente, ricontestualizzandoli, aggiungendo didascalie, cambiando il senso di frasi e mimiche facciali. Ma in breve tempo quella striscia era diventata solo la mimesi concentrata dello zapping, lo stesso zapping che tutte e tutti facevano ogni giorno. Blob riproponeva il peggio del liquame che i canali tv sversavano a getto continuo. Non fosse mai che te ne fossi perso uno schizzo. Certo, lo faceva mettendo un titoletto qui e là, a segnalare una distanza critica – no, non critica: ironica. Ma nel 2020 il fatto stesso che Blob andasse in onda da trent’anni dimostrava che il rapporto con la merda era simbiotico e subordinato.

Negli anni Novanta, insomma, tutto veniva già accostato a tutto, il détournement era dato dagli stessi palinsesti e il cut-up si faceva col telecomando. Di “spiazzante” c’era ormai ben poco.

Eppure in quell’epoca nuove riflessioni sulla guerriglia comunicativa erano giunte da vari soggetti, network e movimenti di mezzo mondo. Adbusters, Yes Men, Luther Blissett Project, Neoist Alliance, Eva e Franco Mattes, Autonome Afrika Gruppe, Billboard Liberation Front... Ovunque si erano messe in campo tattiche di culture jamming, di interferenza culturale. La sovversione dei marchi delle aziende e dei messaggi pubblicitari era la più comune ma forse anche la più banale. In ogni caso certe prassi, “rinverdite”, avevano di nuovo provocato spiazzamenti e costruito narrazioni condivise.

Quest’ultima era la cosa che più importava al Lbp, molto più di qualunque beau geste. Il nostro culture jamming non aveva un valore di per sé, era sempre finalizzato a costruire e mantenere vivo il network intorno alla leggenda di Blissett. Vedevamo che le azioni di culture jamming avevano un ciclo d’efficacia sempre più breve, prima di essere smussate di ogni spigolo e integrate nel blob generale. Era necessario rallentare quel ciclo, prolungando il gioco e ritardando gli exploit.

Inoltre alcuni di noi erano arrivati al Lbp dopo esperienze di provocazione culturale di ascendenza avanguardista/situ/punk che avevano avuto effetti intossicanti. Era facile diventare dipendenti dallo scandalo, fino a perseguire l’oltraggioso in quanto tale. Anche quello era un rabbit hole. Per questo eravamo andati in cerca d’altro: di un progetto caldo, avvolgente e di lunga durata. E di un nuovo genere di cospirazione, libera e non paranoica. Come aveva scritto Blissett in Mind Invaders:

[...] il tipo di cospirazione che vado proponendo è del tutto agerarchico e acentrico, praticamente non ha veri e propri “retroscena”; in compenso ha un numero spropositato di “artefici” più o meno inconsapevoli (ad esempio, chiunque sia entrato anche solo una volta nel gioco dei passaparola e delle deformazioni); inoltre, non c’è alcuna maschera da strappare, o meglio, è la maschera il vero volto del cospiratore; per non dire poi dell’inesistenza di «livelli successivi» collocati “più in su”; infine, non valgono le rivelazioni delle «gole profonde», perché ciò che c’è da scoprire non è in profondità, il segreto è paradossalmente tutto in superficie.68

Nel secondo decennio del nuovo secolo, a trasformazione neoliberale compiuta, coi social network e le app di messaggi c’era stato un ulteriore salto di livello, tanto nella sovraofferta mediatica – perché ai media di prima si era unito e intrecciato un immane flusso di miliardi di «canali tv» personali – quanto nella dittatura dell’ironia che riduceva tutto a poltiglia, a un blob senza confini che andava in onda ovunque senza tregua dando la stessa importanza – cioè zero importanza – a tutto.

Il détournement aveva trovato una nuova codificazione nella memetica. A partire dagli anni Zero il meme – l’accostamento di un’immagine a una o più frasi che la decontestualizzavano stabilendo un nuovo significato – si era affermato come la tecnica dominante di intervento estetico e commento culturale. All’inizio degli anni Venti la forma-meme era ormai dappertutto, un meme poteva sostituire qualunque asserzione o reazione, qualunque botta o risposta. Una pratica che diventava sempre più conservatrice nelle forme anche quando non avrebbe voluto esserlo nei contenuti, perché, lungi dall’attivare lo spirito critico tramite lo spiazzamento del punto di vista, il più delle volte non faceva che riassumere in un’immagine “da ridere” quel che il fruitore già pensava. Il tutto sotto i soliti pesanti velami e panneggi di ironia, e di ironia sull’ironia, e via andando.

Infatti si era cominciato a parlare di post ironia. Nella comunicazione dell’alt-right ne avevamo visto la versione più concentrata, indurita e acuminata. La post ironia produceva enunciati invulnerabili, perché erano proposti come “scherzi”, dunque disarmavano preventivamente ogni critica che li prendesse sul serio, ma al tempo stesso avevano contenuti odiosi, che ogni volta abbassavano l’asticella dell’accettabile.

In uno scenario così, mediaticamente saturo, iperconnesso, always on e blobbizzato oltre ogni limite, quali strategie e tattiche comunicative potevano “forare” la membrana dell’ideologia dominante e dell’abitudine? Sicuramente una grossa parte dell’armamentario “classico” era inservibile o quasi. Quella cassetta degli attrezzi andava inventariata. Di ogni utensile avremmo dovuto capire se aveva ancora un utilizzo critico efficace.

A monte, il problema era quello del soggetto. Chi avrebbe dovuto usare gli attrezzi? I piccoli gruppi di sperimentatori non bastavano.

«Sotto il pavé la spiaggia» voleva dire molte cose: questo mondo di merda ne nasconde un altro più piacevole e lanciarvi addosso i sampietrini contribuirà a farlo affiorare, combattiamo per strada come faremmo una festa sulla spiaggia, ecc. L’accostamento, di chiara ascendenza surrealista, aveva colpito perché a farlo era stato un movimento di massa, durante una delle sollevazioni popolari più importanti e iconiche del ventesimo secolo.

L’inventario andava fatto il più collettivamente possibile.

*

**

L’altro inventario lo stavo già facendo per il libro: quello dei concetti.

I concetti utilizzati nel dibattito sulle fantasie di complotto mi sembravano insoddisfacenti, a cominciare dallo stesso «teoria del complotto». Erano tutti così... regolari, erosi e levigati da un uso troppo prolungato.

Mi erano tornate in mente due indicazioni di Deleuze e Guattari:

«La critica implica nuovi concetti (della cosa criticata) non meno della creazione positiva»;

«I concetti devono avere contorni irregolari modellati sulla loro materia vivente».69

Prima di tornare a tracciare la genealogia di QAnon e raccontarne gli sviluppi, dovevo dotarmi dei concetti giusti, trovandoli dov’erano o creandoli ad hoc, calcandoli sulle mobili difformità della «cosa criticata».


60 Commenti in calce a Tomasz Konicz, “‘Verschwörungstheoretiker spielen in derselben Liga wie Hellseher, Astrologen und Gurus’. Ein Interview mit den Mitgliedern des Autorenkollektivs Wu Ming”, Telepolis (on line), 25 agosto 2018, traduzione mia con l’ausilio del traduttore automatico DeepL, deepl.com.

61 Citato in Geert Lovink, “Overcoming Internet Disillusionment: On The Principles of Meme Design”, e-flux n. 83 (on line), giugno 2017, traduzione mia. Ora anche in Geert Lovink, Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme, Università Bocconi editore, Milano 2019, traduzione di Marco Cupellaro e Giuseppe Barile.

62 Georgi Boorman, “Why Thousands Are Obsessed With A Nest Of Conspiracy Theories Called QAnon”, The Federalist (on line), 21 agosto 2018.

63 Ben Davis, “Is the QAnon Conspiracy the Work of Artist-Activist Pranksters? The Evidence for (And Against) a Dangerous Hypothesis”, Artnet (on line), 8 agosto 2018.

64 “Le détournement comme negation et comme prélude”, Internationale situationniste, n. 3, dicembre 1959, traduzione mia. La raccolta completa dei numeri di Internationale situationniste tradotti in italiano è disponibile presso Nautilus, Torino, nautilus-autoproduzioni.org.

65 Intervista rilasciata da Burroughs a Conrad Knickerbocker apparsa sulla «Paris Review», n. 35, autunno 1965, estratto riportato in William Burroughs, Brion Gysin, The Third Mind, The Viking Press, New York 1978.

66 Michail Bachtin, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo”, in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, traduzione di Clara Strada Janovic.

67 David Foster Wallace, “E Unibus Pluram: Gli scrittori statunitensi e la televisione”, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Minimum Fax, Roma 1997, traduzioni di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa.

68 Luther Blissett, Mind Invaders, cit.

69 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002, traduzione di Angela De Lorenzis.

Capitolo otto

Creare concetti: cosa fa un complotto?

«Teoria del complotto» non rende l’idea. La macchina del tempo della Cia. Definizione di cospirazionismo. Fantasie di complotto vs ipotesi di complotto. Critica della “triade” di Barkun. Complotti veri e complotti immaginari. Un epiteto da non usare più: «complottista». Un caveat sul metacospirazionismo.

Definire QAnon «teoria del complotto» non rendeva l’idea. Nemmeno «teoria del complotto di estrema destra», come la chiamava Wikipedia, era una definizione adeguata. Era senza dubbio una narrazione reazionaria e anche peggio, ma la sua presa non era circoscritta a una precisa area ideologica. Arrivava anche in zone molto lontane.

A dirla tutta, le espressioni «conspiracy theory» e «teoria del complotto» erano problematiche in generale. Ma se quella inglese era solo riduttiva, l’omologa italiana faceva di peggio: ingenerava equivoci.

Nell’espressione inglese il termine theory non era usato in modo avalutativo, ma aveva un’implicita connotazione negativa. Nella cultura anglosassone l’atto del teorizzare non era circondato di aprioristico rispetto, anzi, nell’uso comune theory voleva dire congettura, illazione: «Come on, that’s just theory». Tanto che quell’utilizzo aveva effetti retroattivi sull’uso scientifico. La voce del dizionario Merriam-Webster conteneva una buona delucidazione al riguardo:

Nell’uso non scientifico [...] hypothesis e theory si usano spesso in modo intercambiabile per indicare semplicemente un’idea, speculazione o intuizione, e teoria è la scelta più comune.

Poiché quest’uso informale elimina le distinzioni vigenti nella comunità scientifica, si tende a interpretare in modo erroneo i termini hypothesis e theory anche quando li si incontra in contesti scientifici, o comunque contesti che alludono allo studio scientifico senza la distinzione critica che adottano gli scienziati nel valutare ipotesi e teorie.

L’occorrenza più comune è quando theory viene inteso [...] come qualcosa che ha meno valore di verità rispetto ad altri principi scientifici [...]. Quest’errore è di proiezione: poiché usiamo theory in modo generico per indicare qualcosa di anche leggermente ipotetico, è implicito che gli scienziati debbano fare riferimento allo stesso livello di incertezza, anche quando usano theory per riferirsi a principi ben collaudati e ragionati.70

In Italia – e forse in gran parte dell’Europa continentale – era diverso. Nella nostra cultura impregnata di idealismo filosofico, una teoria era comunque qualcosa di importante e degno di riverenza. Usando «teoria» al posto di opinione o parere – «Ho una mia teoria al riguardo» – si risultava subito più autorevoli. Dunque, perché rigettare a priori una teoria del complotto?

In alcune loro accezioni, dunque, theory e teoria erano «falsi amici»: due vocaboli dalla stessa provenienza – dal greco ϑεωρία71 – e dalla morfologia simile, ma semanticamente divergenti. Ecco perché era ingannevole tradurre conspiracy theorists – che in inglese significava, né più né meno, bufalari – con il nobilitante «teorici del complotto».

All’equivoco se ne accompagnava un altro, che portava a rigettare l’altro termine: complotto.

L’errore più comune nell’opporsi alle «teorie del complotto», infatti, consisteva nel negare tout court l’esistenza dei complotti, col risultato di sminuire qualunque denuncia e di chiamare «complottismo» ogni inchiesta scomoda o manifestazione di pensiero critico. E invece di complotti ne erano esistiti, ne esistevano e ne sarebbero esistiti ancora. In ogni momento, da qualche parte, qualcuno complottava. Era grazie a teorie divenute inchieste che certe cospirazioni – come, da noi, la strategia della tensione o i piani della loggia P2 – erano state scoperte. Si trattava di capire cosa distinguesse i complotti veri da quelli immaginari.

Di contro, nel lamentarsi dell’espressione «conspiracy theory», i credenti in QAnon o in altre fantasie di complotto sostenevano che l’avesse inventata la Cia nel 1967. Falso. L’utilizzo era documentato, già con accezione negativa, fin dal 1870.72 Nel suo magnum opus La società aperta e i suoi nemici (1945) il filosofo Karl Popper aveva usato più volte l’espressione «social conspiracy theory» (nella traduzione italiana, «teoria sociale della cospirazione»), concetto ripreso in altri suoi scritti. Per Popper il diffondersi di interpretazioni della società e della storia incentrate sul complotto era

una conseguenza del venir meno del riferimento a dio, e della conseguente domanda: «Chi c’è al suo posto?». Quest’ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti – sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di aver organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo.73

Ma se si stava parlando di una forma mentis, a maggior ragione la parola «teoria» era inadeguata.

Il vocabolo per definire quella forma mentis c’era già: cospirazionismo. Termine non nuovo ma che si poteva rimettere in gioco, e diverso dal più us(ur)ato «complottismo». Ne avevo buttato giù una definizione:

Cospirazionismo. Mentalità che vede la logica del complotto all’opera in ogni ambito e per ogni evento, fino a mettere un Grande Complotto al centro del funzionamento del sistema, esagerando il ruolo della volontà nella storia, una Volontà che sembra tutto prevedere e tutto ottenere, attribuita a lobby o supercaste pressoché onnipotenti.

Il fatto che qualcuno definisse «cospirazionismo», «complottismo» o «teoria del complotto» qualunque analisi sgradita non dimostrava che l’accusa fosse sempre falsa, né che non esistessero la realtà e mentalità che quei termini indicavano. Dimostrava solo che di quei termini si tendeva ad abusare, perché i concetti a monte non erano chiari. Oltre a confermare che il cospirazionismo forniva appigli per denigrare il dissenso e la denuncia di complotti reali.

Appunto. La domanda a cui rispondere per poter porre le altre era: in cosa consiste, come funziona un complotto reale?

Avevo raccolto un florilegio di definizioni di «complotto», «cospirazione» e «conspiracy» tratte da diversi dizionari della lingua italiana e inglese:

1. intesa segreta tra poche persone, volta a rovesciare un potere [...]; 2. (estens.) intesa tra poche persone a danno di qualcuno (Treccani sinonimi e contrari)

Cospirazione, congiura, intrigo ai danni delle autorità costituite o (meno com., e solo in senso estens. e fig.) di persone private (Treccani vocabolario on line)

1. accordo segreto tra più persone per organizzare e attuare azioni sovversive contro chi detiene il potere politico; 2 estens. Trama, intrigo, macchinazione di più persone a danno di qualcuno (Dizionario Gabrielli della lingua italiana)

1. accordo, intesa segreta fra più persone per decidere e organizzare azioni ai danni di qcn., spec. di chi detiene il potere (Dizionario De Mauro della lingua italiana)

To join in a secret agreement to do an unlawful or wrongful act or an act which becomes unlawful as a result of the secret agreement (Merriam Webster Dictionary)

A secret plan by a group of people to do something harmful or illegal (Oxford Learner’s Dictionary)

An agreement between a group of people which other people think is wrong or is likely to be harmful (Collins English dictionary)

Bastava un colpo d’occhio per vedere la differenza.

Le definizioni italiane avevano come referente il potere costituito, le autorità, le istituzioni. Solo in subordine dicevano che vittima di un complotto poteva essere anche un singolo individuo o un gruppo privo di potere.

Di contro, le definizioni inglesi tiravano in ballo non il potere ma la legge: c’era un complotto se il fine del piano o dell’accordo era commettere un’azione illegale, oppure sbagliata, ergo contraria a un altro tipo di legge, quella morale. Rispetto a quelle italiane, erano definizioni più generali e astratte.

Curiosamente, la più chiara e diretta definizione di complotto l’avevo sentita in un video che non era più on line, e per fortuna me l’ero appuntata. L’aveva data John F. McManus, presidente emerito della John Birch Society:

Si ha un complotto se ci sono questi tre elementi: primo, più di una persona; secondo, segretezza; terzo, intenzione di nuocere. Devono esserci tutti e tre. Se non c’è la prima, non è un complotto, perché non si complotta da soli; se non c’è la seconda, non è un complotto, ma un’azione alla luce del sole; se non c’è la terza, non è un complotto, al massimo un piano per organizzare una festa di compleanno a sorpresa. Puoi chiamarlo complotto, se vuoi, ma non c’è l’intenzione di nuocere.

Impeccabile. All’osso, un complotto consisteva in più persone – come indicava il prefisso co-, dal latino cum, con, insieme – che si accordavano in segreto per agire contro qualcun altro. Chi scartava sempre ogni ipotesi di complotto, dunque, negava l’esistenza di un’attività comune e frequentissima. Del resto tutti i codici penali contemplavano reati associativi, cioè, in una parola, complotti.

In ogni caso le definizioni italiane erano più vicine al focus della mia ricerca. Sia i complotti immaginari di cui mi stavo occupando sia i complotti reali che mi venivano in mente erano complotti politici. Riguardavano la conduzione della pòlis, la vita associata, i destini collettivi, le istituzioni, i rapporti tra partiti e quelli tra governanti e governati.

Ragionando su complotti politici noti e confermati ne avevo isolato cinque caratteristiche.

I complotti reali:

1. Hanno un focus preciso e un fine facilmente riassumibile.

2. Coinvolgono un numero di attori limitato.

3. Sono messi in pratica in modo imperfetto, perché la realtà è imperfetta.

4. Terminano una volta scoperti e denunciati, cosa che solitamente avviene dopo un periodo piuttosto breve, anche se gli effetti possono persistere a lungo.

(Corollario: non sono mai i mercanti di cospirazionismo a scoprire e far cessare complotti veri, non è mai un Alex Jones)

5. Non sono raccontabili senza la loro epoca: sono immanenti a una fase storica e diventano passato insieme a essa.

Corrispondeva a quella descrizione il complotto politico per antonomasia, il Watergate, che aveva preso il nome da un albergo di Washington e donato un suffisso a molti scandali e complotti successivi, veri e presunti: Irangate, Climategate, Gamergate, Pizzagate, Pedogate, Russiagate, una lista lunghissima. Nella mia città, Bologna, avevamo persino avuto un «Cinziagate».74

Il complotto del Watergate:

1. Aveva un fine preciso: spiare gli avversari politici del presidente Nixon e ostacolarne le attività ricorrendo a tecniche di sabotaggio che i cospiratori chiamavano ratfucking, fottere i ratti. Dopo la scoperta di quel primo fine, per disperazione i cospiratori ne avevano adottato un altro: cancellare le tracce, ostacolare l’inchiesta del Washington Post e le indagini degli inquirenti.

2. Coinvolgeva una cerchia ristretta di collaboratori di Nixon – passati alla storia come i «Sette del Watergate» – e una squadra di guastatori soprannominati gli Idraulici (Plumbers), dedita al lavoro sporco.

3. Era stato portato avanti in maniera confusa e maldestra, lasciando molte tracce, tanto che i Plumbers si erano fatti scoprire mentre si intrufolavano di notte nella sede del Comitato nazionale Democratico al Watergate Hotel.

4. Era stato scoperto e indagato dopo poco più di un anno, nel giugno 1972. Nixon aveva puntato i piedi e si era dimesso – travolto dallo scandalo – solo due anni più tardi, ma il ratfucking era cessato subito. Ventinove persone legate al presidente erano state rinviate a giudizio, e sei dei suoi più stretti collaboratori e consulenti – tra i quali il procuratore generale John Mitchell – erano finiti in carcere. Nixon aveva evitato il processo solo perché il suo successore alla Casa bianca, Gerald Ford, gli aveva concesso la grazia nel settembre 1974.

(Corollario: a scoprire la macchinazione non erano state persone fissate con fantasie di complotto, ma due giovani cronisti delle pagine locali del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein)

5. Era legato a un’epoca della storia americana: il nome «Watergate» riportava alla mente gli anni Settanta, il film Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, la crisi di fiducia e di legittimità politica in cui lo scandalo aveva gettato il paese.

Restando in quel decennio ma spostandomi in Italia, avevo ragionato sui principali complotti politici nostrani, quelli della strategia della tensione. Erano molto più complicati del Watergate eppure ne condividevano le cinque caratteristiche.

1. Le loro finalità – anticomuniste, antisindacali, reazionarie – erano state individuate e ricostruite nei dettagli.

2. Erano stati ideati e portati avanti da un numero senz’altro considerevole eppure limitato di persone in seguito identificate, indagate e il più delle volte processate. Terroristi, infiltrati, agenti segreti, faccendieri, membri della loggia P2: di quasi tutti conoscevamo nomi e cognomi. Benché si insistesse di più sui misteri rimasti che sulla conoscenza accumulata negli anni, di quei complotti sapevamo molto, moltissimo. Erano documentate responsabilità politiche e istituzionali ai piani più alti, responsabilità organizzative ed esecutive da parte di neofascisti e uomini dei servizi segreti, e responsabilità di inquirenti per quanto riguardava depistaggi, insabbiamenti e false attribuzioni di attentati. La mole di documenti sulla strage di piazza Fontana era immensa, si conosceva ormai quasi ogni dettaglio. Certo, molti responsabili non avevano pagato, ma il punto non erano le condanne: il punto era la conoscenza storica.

3. I complotti erano stati messi in pratica con molte pecche e sbavature, subito rilevate da inchieste giornalistiche e da indagini istruite da magistrati non asserviti. La natura di false flag della strage di piazza Fontana era stata compresa e denunciata quasi subito, già nel volantino Il Reichstag brucia? del 19 dicembre 1969, e poi nella controinchiesta collettiva La strage di stato pubblicata sei mesi dopo.

4. La strategia della tensione era durata alcuni anni, ma con la progressiva individuazione e incriminazione dei suoi protagonisti, la stagione delle bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni e nelle stazioni era finita.

5. La strategia della tensione era legata a un determinato periodo storico. Il suo arco coincideva grosso modo con gli anni Settanta, e quando se ne parlava si evocava quell’epoca.

Nelle fantasie di complotto di cui mi stavo occupando, ognuna delle cinque caratteristiche appariva rovesciata.

I complotti fantasticati:

1. Risultano “sfocati” e dispersivi, perché hanno il fine più vasto immaginabile: dominare, conquistare o distruggere il mondo.

2. Coinvolgono un numero di attori potenzialmente illimitato, che cresce a ogni resoconto, dato che chiunque neghi l’esistenza del complotto è presto denunciato come complice. Secondo ogni logica, più persone sono al corrente di un complotto e più quest’ultimo è instabile e a rischio di fallimento. Soltanto nella forma mentis cospirazionista, che rovescia la logica dei complotti reali, un complotto è tanto più solido e destinato al successo quante più persone ne fanno parte.

3. Il loro presunto svolgimento è coerentissimo, perfetto, tutto è attuato secondo i piani e nel minimo dettaglio, tutto fila liscio. Qualunque cosa succeda era stata prevista. Se qualcosa sembra essere andato storto è perché doveva sembrare che andasse storto.

4. Proseguono, vanno avanti indefinitamente anche se descritti e denunciati in innumerevoli libri, articoli e documentari.

5. Sono astorici, trascendono ogni epoca e contesto. Sono in corso da decenni, secoli, millenni. Mentre se uno sente dire «Watergate» o «piazza Fontana» gli viene in mente una precisa epoca, «complotto giudaico-massonico» evoca un complotto che dura da sempre ed è senza fine.

Nel riferirmi a teorie del complotto fondate e riscontrabili, avevo deciso di usare l’espressione «ipotesi di complotto».75

Per quanto riguardava i complotti fantasticati, invece, avevo deciso di sostituire «teoria del complotto» con «fantasia di complotto», che poteva essere reso in inglese con conspiracy fantasy.

Ero andato a tentoni. In un’inchiesta su QAnon scritta per la rivista Internazionale avevo usato «fantasticheria di complotto». Per la traduzione francese di quel testo – uscita sui siti Le Grand Continent e Lundi Matin76 – avevo proposto «fantasmagorie de complot». Poi avevo pensato che un buon concetto non fa dispendio di sillabe, e avevo optato per «fantasia». Qualche tempo dopo Florian mi aveva detto che in Germania, per non dare dignità di teorie a certi vaneggiamenti, a volte si usava l’espressione Verschwörungsmythos – mito di complotto, ma anche, appunto, fantasia di complotto.

Dunque, ecco la mia coppia concettuale:

Ipotesi di complotto: servono a indagare complotti specifici e situati, orientati a un fine preciso, che solitamente cessano dopo essere stati scoperti, o al momento della loro scoperta sono già cessati.

Fantasie di complotto: riguardano sempre una cospirazione universale, che ha come fine la conquista o la distruzione del mondo intero da parte di società segrete, confraternite occulte, “razze infide”, singoli individui descritti come onnipotenti burattinai, conquistatori alieni... o un’alleanza di tutti questi soggetti. Una cospirazione costantemente denunciata eppure sempre in pieno svolgimento, da decenni, da secoli.

Nella prima categoria si trovavano: lo scandalo Watergate e le manovre di Nixon e compari per insabbiarlo; il programma Cointelpro dell’Fbi per infiltrare le Pantere Nere e altri gruppi radicali; i tentativi di assassinare Fidel Castro da parte della Cia; i complotti della strategia della tensione italiana; la produzione di false prove contro il regime di Saddam Hussein per giustificare l’invasione dell’Iraq; i complotti della criminalità organizzata; ecc.

Nella seconda categoria si trovavano: gli incubi a occhi aperti sugli Illuminati, sui tentacoli della piovra giudaica, sul piano Kalergi e la «grande sostituzione etnica», su George Soros che muoveva i fili del mondo, su Bill Gates che ci controllava coi nanochip nei vaccini, sulle «scie chimiche» e le Cabal di pedosatanisti.

Ma non volevo trarne una dicotomia rigida, perché i due concetti non erano reciprocamente esclusivi. In primo luogo, il confine tra ipotesi e fantasie non era invalicabile, anzi, accadeva spesso che dalle prime si scivolasse nelle seconde; in secondo luogo, una fantasia di complotto era spesso la creazione di cospiratori veri.

Riguardo al primo aspetto pensavo agli attentati dell’11 settembre 2001. Si era partiti da comprensibili dubbi su elementi della versione ufficiale che apparivano poco chiari. Dubbi rafforzati ex post da un dato di fatto: gli attentati erano stati usati come pretesto – con tanto di prove false a carico dell’Iraq – per lanciare la “guerra infinita” di George W. Bush. Guerra che aveva devastato il Medio Oriente e l’Asia occidentale, favorendo anche la nascita dell’Isis.

Da quelle premesse legittime molti erano partiti senza mappa né bussola e si erano persi nella terra dei truther, i paladini della vera verità sull’11 settembre. Un luogo dove tutti si improvvisavano ingegneri infrastrutturali, esperti di esplosivi, esperti di fotografia forense e quant’altro. E così il focus della critica si era al tempo stesso ristretto e allargato:

ristretto, perché dalla mobilitazione contro le guerre imperiali di Bush si era passati a discussioni on line piene di tecnicismi per dimostrare che il crollo delle torri gemelle era stato una «demolizione controllata» e gli attentati di quel giorno nient’altro che un «lavoro dall’interno» (inside job);

allargato, perché un tale scenario implicava per forza un complotto sconfinato, con centinaia di migliaia di complici attivi in varie sfere delle amministrazioni dei più importanti stati. In una parola: un complotto universale.

Un’azione come quella immaginata dai truther avrebbe richiesto un numero inimmaginabile di congiurati a ogni livello delle istituzioni americane. Inoltre la rete dei complici di una simile macchinazione si sarebbe estesa alla politica internazionale, non solo alle agenzie di intelligence e alle classi dirigenti dei paesi alleati degli Stati Uniti, ma anche a quelle dei paesi “avversari” nel consiglio di sicurezza dell’Onu: la Russia e la Cina, che certamente sarebbero state al corrente di un complotto del genere, o comunque l’avrebbero scoperto in tempi brevissimi. In fondo, se dicevano di averlo scoperto «ricercatori indipendenti» come Alex Jones, Maurizio Blondet e Massimo Mazzucco...

Russia e Cina avevano protestato per il dubbio incidente del Golfo del Tonchino che aveva scatenato la guerra in Vietnam, per la bufala sulle Weapons of Mass Destruction in mano a Saddam e in moltissime altre occasioni, eppure non avevano messo in dubbio che le torri gemelle fossero crollate in seguito all’attentato coi due aerei di linea. Russia e Cina avevano accettato la versione ufficiale, era un dato di fatto. Ma quell’implicazione era in genere rimossa, forse perché in contrasto con le simpatie politiche di molti truther, grandi fan di Vladimir Putin o del Partito comunista cinese.

Ancora: più passava il tempo, più aumentava il numero dei presunti complici, perché nel frattempo migliaia di funzionari dell’epoca erano andati in pensione ma il cover up doveva proseguire da una generazione all’altra, ergo ormai il complotto aveva milioni di complici. Anche perché il loro numero includeva potenzialmente chiunque non accettasse la verità dei truther.

Le ripetute denunce di questi ultimi non avevano mai smascherato nessuno. Il presunto cover up durava ancora e forse sarebbe durato per sempre, e si sarebbe continuato a denunciarlo, come si continuavano a denunciare quello dei templari, quello giudaico-massonico, ecc.

Ad amiche e amici incuriositi dal trutherism avevo sempre chiesto: «Abbiamo bisogno di questa roba per essere contro le guerre americane?». No, ma certamente ne aveva bisogno chi voleva arrivare al complotto giudaico. Alludeva a quest’ultimo la leggenda urbana sull’assenza di ebrei nelle torri gemelle la mattina dell’attentato. Tutti preallertati dal Mossad, che in quel modo era annoverato tra gli artefici della strage. In realtà gli ebrei morti nel World Trade Center erano stati almeno duecentosettanta, circa il dieci per cento del totale. La percentuale rispecchiava quella degli ebrei tra gli abitanti di New York City. Il Mossad aveva già all’attivo molte malefatte reali, attribuirgliene di inventate danneggiava le denunce fondate e le inchieste serie, facendo il gioco di chi tacciava di antisemitismo ogni critica ai governi israeliani.

Per quanto riguardava il secondo aspetto, come aveva ricordato più volte lo storico Carlo Ginzburg, dietro un complotto fantasticato ce n’era spesso uno reale.

Nella prima parte del suo Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Ginzburg ricostruiva la storia del «complotto dei lebbrosi», una fantasia che nel 1321, con epicentro Carcassonne, s’era impossessata delle plebi francesi, causando stragi di malati di lebbra e, in un secondo momento, di ebrei. Gli ebrei erano accusati di aver mandato i lebbrosi ad avvelenare pozzi e fontane, per uccidere i cristiani e impadronirsi del regno di Francia e del mondo intero. I capi della congiura si erano addirittura già spartiti i titoli nobiliari: conti, baroni, re. In altre versioni dietro ebrei e lebbrosi c’erano mandanti maomettani: il viceré di Granada e il re di Tunisi.

Ebrei erano stati torturati fino a estorcere loro false confessioni, per poi essere avviati al rogo. Altri erano stati bruciati in massa saltando ogni procedura: «A Chinon, nei pressi di Tours, era stata scavata una gran fossa dove erano stati gettati e dati alle fiamme centosessanta ebrei, uomini e donne». I lebbrosi scampati alla spada e alle fiamme erano stati segregati – per la prima volta nella storia – e avevano perso ogni bene e proprietà.

Ginzburg ricostruiva l’intreccio di interessi economici e politici che avevano portato le autorità secolari – a partire da re Filippo V il lungo – e quelle religiose a dar credito alle dicerie, fomentarle e condurle ai loro tragici esiti. E non aveva alcun problema a dirlo: c’era stato un complotto.

Parlando di complotto non si vuole semplificare indebitamente un intreccio causale complesso. Può darsi benissimo che le prime accuse siano nate spontaneamente, dal basso. Ma da un lato, la rapidità con cui la repressione si diffuse, in un’età in cui le notizie viaggiavano a piedi, a dorso di mulo, tutt’al più a cavallo; dall’altro, la ramificazione geografica dal presumibile epicentro di Carcassonne, rivelano l’intervento di azioni deliberate e coordinate, volte a orientare in una direzione predeterminata una serie di tensioni già in atto. Complotto significa questo, e soltanto questo. Supporre l’esistenza di un’unica centrale coordinatrice, composta da una o più persone, sarebbe evidentemente assurdo, e comunque smentito dall’emergere tardivo e contrastato dell’accusa contro gli ebrei. Altrettanto assurdo sarebbe supporre che tutti gli attori della vicenda (escluse le vittime) agissero in malafede. In realtà la malafede è, in questo contesto, irrilevante – oltre che inverificabile.77

Nell’introduzione al libro Ginzburg aveva scritto: «I complotti esistono: sono, soprattutto oggi, una realtà quotidiana. Complotti di servizi segreti, di terroristi, o di entrambi». E spesso il complotto, come in Francia nel 1321, aveva come fine inventare un complotto. Gli esempi celebri erano numerosi: l’Okhrana, la polizia segreta zarista, aveva fabbricato i Protocolli dei savi anziani di Sion; negli anni della guerra fredda gli Stati Uniti avevano istigato e sovvenzionato la paranoia anticomunista; la “pista anarchica” di piazza Fontana era un complotto falso per nascondere il complotto vero di fascisti e pezzi dello stato; negli anni dieci del ventunesimo secolo la Russia di Putin aveva finanziato le destre identitarie – eufemismo per «fasciste» – di mezza Europa, alimentando un’incessante propaganda contro la «sostituzione etnica» e George Soros che orchestrava le migrazioni dal sud del mondo.

Per questo, parlando di cospirazionismo, era sin troppo facile cadere a propria volta in fantasie di complotto. Qualcuno pensava che QAnon fosse in toto un’operazione della Cia e che il suo sviluppo fosse pianificato a tavolino dal principio. Storicizzare, aggiungere profondità di campo, serviva anche a evitare quelle forme di metacospirazionismo. Perché esistevano certamente mestatori organizzati, forze che avevano interesse ad alimentare fantasie di complotto, ma non avrebbero ottenuto alcun risultato se non vi fosse già stata una propensione a pensare in quel modo, un dispositivo che operava nella nostra cultura da molto tempo.

Tra gli analisti di fantasie di complotto era molto diffusa una triade concettuale proposta da Michael Barkun nel suo saggio A Culture Of Conspiracy (2001, 2013):

1. Event conspiracies. Riguardavano un singolo evento o «una serie di eventi limitati e discreti», dove discreti era inteso nell’accezione tecnica di localizzati, distinti. Tra gli esempi Barkun faceva l’omicidio Kennedy e l’11 settembre, casi in cui «le presunte forze cospirative hanno concentrato le loro energie su un obiettivo limitato e ben definito».78

2. Systemic conspiracies. Avevano come fine ottenere o mantenere il dominio di un paese, di un’area geografica o del mondo intero. «Anche se le finalità sono vaste», scriveva Barkun, «di solito la macchina cospirativa è semplice: una singola organizzazione malvagia sviluppa un piano per infiltrare e sovvertire le istituzioni esistenti. Questo scenario è comune nelle teorie del complotto sui presunti intrighi di ebrei, massoni e della chiesa cattolica, e in quelle centrate sul comunismo e i capitalisti internazionali».

3. Superconspiracies. Narrazioni che collegavano tra loro più complotti, lungo una scala gerarchica e uno dentro l’altro come bambole russe. «Al vertice della gerarchia cospirativa sta una forza lontana ma onnipotente che manipola gli attori dei complotti ai livelli inferiori». Tra gli esempi Barkun citava le fantasie dell’inglese David Icke sui rettiliani, uomini-lucertola mutaforma che controllavano il mondo dalla cima di una piramide di complotti “minori”: le trame giudaiche-massoniche, l’11 settembre, il falso allunaggio, ecc.

Con tutto il rispetto per Barkun, che aveva scritto un libro importante, la sua categorizzazione mi sembrava fallace o comunque superata. Non esistevano più, se mai erano esistite, semplici event conspiracies. Anche quando una fantasia di complotto partiva da un singolo evento, questo era subito integrato in una costruzione più grande. I presunti retroscena dell’evento implicavano i centri di un potere sempre più vasto e la macchinazione acquisiva un tale numero di complici da implicare per forza il complotto universale. Era il caso degli esempi più noti fatti da Barkun: l’uccisione di Jfk e l’11 settembre.

Persino Paul-Is-Dead non riguardava più un singolo evento ma si era allargato fino a inglobarne sempre di più, coinvolgendo servizi segreti e trame internazionali.

Quanto a systemic conspiracies e superconspiracies, il confine tra le due mi sembrava troppo labile perché funzionassero davvero come concetti. Ormai tutte le fantasie di complotto erano sistemiche e multilivello.

Ritenevo molto più utile ed efficace mettere in un’unica categoria le fantasie di complotto, e in un’altra le ipotesi sui complotti reali, senza per questo introdurre uno schema dicotomico.

Nel settembre 2020 anche Buzzfeed aveva concluso che definire QAnon conspiracy theory era inadeguato. Da quel momento i suoi giornalisti avrebbero usato collective delusion, traducibile con «delirio collettivo», a segnalare che eravamo ben oltre semplici illazioni e teorie infondate.79

Avevo trovato la scelta sbagliata, principalmente per due motivi:

1. L’uso del linguaggio della psichiatria fuori dal suo ambito specifico assecondava la crescente patologizzazione e medicalizzazione della società e della vita, cioè, nelle parole di Franca Ongaro Basaglia e Giorgio Bignami, la tendenza a tradurre «in termini medici [...] problemi che dovrebbero essere affrontati con misure sociali».80 Tendenza che durante l’emergenza Covid-19 già dominava incontrastata. Non mi sembrava il caso di attizzare ulteriormente le fiamme.

2. Se l’intento era recuperare persone cadute nel rabbit hole, dire loro che erano delusional, che stavano delirando, poteva essere controproducente e irrigidirle nelle loro credenze.

Per l’appunto: fino a quel momento avevo riflettuto su come definire le narrazioni. E i narranti?

Un punto di partenza era evitare il termine «complottista». Nato per indicare il propagandista, il profittatore, il soggetto che traeva un vantaggio ideologico o di lucro dalle narrazioni che propalava, in Italia il termine aveva ormai sostituito il vecchio «dietrologo», diventando un lucchetto che chiudeva ogni discussione. Veniva chiamato complottista chiunque non si accontentasse delle narrazioni ufficiali, delle parvenze immediate, delle argomentazioni autoassolutorie del potere.

Inoltre il termine «complottista» metteva sullo stesso piano il propagandista a tempo pieno e l’occasionale fruitore di propaganda, chi preparava l’intruglio e chi lo beveva, il manipolatore e i manipolati.

Con cosa l’avevo sostituito? Con niente. Qualunque termine sarebbe divenuto una facile etichetta. Ricorrevo ogni volta a perifrasi, cercando di distinguere tra:

1. i propugnatori a tempo pieno di conspiracy fantasies;

2. chi per vari motivi si ritrovava a consumarle anche occasionalmente, a ritenerle in tutto o in parte plausibili, a condividerle sul proprio profilo.

Il primo punto includeva sia individui con nome e cognome – Alex Jones, David Icke o i corrispettivi italiani che animavano siti come Byoblu – sia anonimi troll, ma anche agenzie statali che operavano a fini geopolitici o di controllo sociale.

Il secondo punto, come aveva spiegato lo psicologo Rob Brotherton, includeva potenzialmente tutti noi. Le conspiracy theories, aveva scritto l’autore di Suspicious Minds (2015), erano

in risonanza con alcuni dei preconcetti incorporati nel nostro cervello e con le scorciatoie che il nostro pensiero tende a prendere, e attingono dal pozzo dei nostri più profondi desideri, delle nostre paure, delle nostre presupposizioni sul mondo e le persone che ci vivono.81

Tutte e tutti credevamo, avevamo creduto o avremmo potuto credere a qualche fantasia di complotto.

I commentatori da social descrivevano la “presa” di QAnon come un problema di stupidità, ignoranza o malattia mentale. Non si sarebbe potuto commettere errore peggiore.

Errore complementare all’altro, quello di credere che la setta reclutasse solo a destra, tra fascisti e reazionari vari.

Istruzione, intelligenza, sanità mentale, appartenenza alla sinistra: nulla di tutto ciò rendeva automaticamente immuni a QAnon.


70 Voce «Theory» sul dizionario Merriam-Webster, traduzione mia.

71 Nell’antica Grecia il teoro, ϑεωρός, era un delegato, una sorta di ambasciatore che ogni città inviava alle grandi manifestazioni religiose e ginniche, o presso altre città per invitare loro rappresentanze a un’importante celebrazione o cerimonia. La ϑεωρία era dunque la sfilata degli ambasciatori delle varie città durante tali eventi pubblici. Per estensione in latino il termine venne usato per ogni sequenza, serie, successione di oggetti o enti. Significato che sopravvive anche in italiano, benché appartenente a un registro alto e arcaicizzante della lingua. Infine nel tardo latino theorĭa giunse a indicare un insieme ordinato di formule, concetti, definizioni che permettano di spiegare un fenomeno o descrivere un aspetto della realtà fisica o sociale.

72 Come dimostrato da Robert Blaskiewicz in un’inchiesta apparsa sullo Skeptical Enquirer l’8 agosto 2013 col titolo “Nope, It Was Always Already Wrong”.

73 Karl R. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna 2009, traduzione di Giuliano Pancaldi.

74 Nomignolo affibbiato dai giornalisti allo scandalo che alla fine del 2009 travolse l’allora sindaco di Bologna Flavio Delbono (Pd), costringendolo alle dimissioni nel gennaio 2010, dopo soli sette mesi di mandato. Quand’era assessore regionale alle finanze e vicepresidente della regione Emilia Romagna Delbono aveva utilizzato risorse pubbliche per circa ventunomila euro, facendo figurare come impegni di lavoro viaggi privati in compagnia dell’allora fidanzata Cinzia Cracchi. Secondo l’accusa Delbono aveva anche offerto soldi a Cracchi perché tacesse durante gli interrogatori con i magistrati. L’ex sindaco optò per il patteggiamento e nel febbraio 2011 fu condannato a diciannove mesi e dieci giorni di reclusione per i reati di peculato, truffa aggravata, intralcio alla giustizia e induzione a rilasciare false dichiarazioni. Nel marzo 2012 fu condannato a un mese e dieci giorni di reclusione per il reato di abuso d’ufficio. Cfr. Luigi Spezia, “Il Cinzia-gate che travolse Delbono. Per l’ex sindaco pena di 19 mesi”, La Repubblica-Bologna, 18 febbraio 2011; Nicola Lillo, “Cinzia-gate, secondo patteggiamento per Delbono”, Il Fatto quotidiano (on line), 13 marzo 2012.

75 È il titolo italiano di un film del 1997, Conspiracy Theory, con Mel Gibson e Julia Roberts, ma francamente me ne infischio. La traduzione in quel caso era scorretta.

76 Wu Ming 1, “Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne”, inchiesta apparsa in due puntate su Internazionale (on line), 2 e 18 settembre 2020; ripresa in francese col titolo “Le monde de QAnon” su Le Grand Continent (on line), 1 e 8 ottobre 2020, traduzione di Amélie Depriester e Baptiste Roger-Lacan; e ancora su Lundi Matin (on line) col titolo “Conspiration et fantasmagorie à l’ère de Trump et du Covid”, 12 ottobre 2020, stessa traduzione.

77 Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, prima edizione Einaudi, Torino 1989, nuova edizione ampliata Adelphi, Milano 2017.

78 Michael Barkun, A Culture of Conspiracy: Apocalyptic Visions in Contemporary America, seconda edizione, University of California Press, Berkeley 2013, traduzione mia per questa e le due citazioni a seguire.

79 Cfr. Drusilla Moorhouse, Emerson Malone, “Here’s Why BuzzFeed News Is Calling QAnon A ‘Collective Delusion’ From Now On”, Buzzfeed (on line), 4 settembre 2020.

80 Franca Ongaro Basaglia, Giorgio Bignami, «Medicina / medicalizzazione», in Franca Ongaro Basaglia (a cura di), Salute/Malattia. Le parole della medicina, prima edizione Einaudi, Torino 1982; edizione ampliata a cura di Maria Grazia Giannichedda, Alphabeta Verlag, Merano 2012.

81 Rob Brotherton, Suspicious Minds: Why We Believe Conspiracy Theories, Bloomsbury Sigma, New York 2016. Ne esiste anche un’edizione italiana ma raffrontandola all’originale ho constatato che la traduzione è frettolosa e goffa. Per queste poche righe ho preferito fare da me.

Capitolo nove

Irrazionale ma logico

Pensiero veloce e pensiero lento. Non sempre c’è una tigre tra i rami. L’info che arriva prima bene alloggia. Se lo ricordo vuol dire che è importante. Qui sto comodo, perché spostarmi? Lo ha voluto qualcuno! Parete grande, pennello grande. Guarda, lo dice anche qui. Ma certo che lo so! Cravatte e pandemia. Capitan America e il virus. Smetterla? Dopo tutta ’sta fatica? È colpa degli altri. La gente la pensa come noi. Sul fare ricerche. Photoshop ’til you drop. L’arte di ottenere ragione in vari stratagemmi. The lady is a pedo.

Un termine ambiguo e poco utile era «irrazionale». Le idee di un credente in QAnon o altre fantasie di complotto erano senz’altro irrazionali nei contenuti, basate su connessioni del tutto illogiche, ma il modo in cui si formavano seguiva logiche precise. Era il risultato di come funzionava la nostra mente in certe condizioni.

Le neuroscienze avevano localizzato quello che chiamavamo «raziocinio» nella corteccia cerebrale prefrontale. Un’area molto sottile – «un fazzoletto grigio», l’aveva definito lo scrittore e divulgatore scientifico Massimo Polidoro – della neocorteccia, la parte più recente del nostro cervello. Le emozioni risiedevano invece nel sistema limbico, un’area molto più antica, a volte chiamata paleocervello. Nell’area limbica aveva un ruolo cruciale l’amigdala, struttura che aveva il compito di reagire ai pericoli e mandare segnali d’allarme a tutto il corpo.

In presenza di uno stimolo prima entravano in gioco le funzioni del paleocervello, in particolare dell’amigdala, e poi quelle della corteccia prefrontale. Quest’ultima interveniva per vagliare i segnali d’allarme, regolare le emozioni, farci ragionare. Basandosi su questo lo psicologo Daniel Kahneman aveva introdotto la distinzione tra il pensiero veloce del sistema limbico (emotivo, impulsivo, automatico) e il pensiero lento della corteccia prefrontale (analitico, prudente, controllato).

Il pensiero veloce ci aveva permesso di sopravvivere come specie. Polidoro, nel suo Il mondo sottosopra, aveva scritto:

I nostri antenati che vivevano nella savana erano alle prese con leoni, pantere e altre minacce alla propria sopravvivenza, e non potevano permettersi di riflettere troppo. Era necessario decidere in fretta se la sagoma scura che si vedeva tra le foglie poteva essere un predatore o solo un gioco di luci e ombre: non farlo poteva significare l’estinzione. Dunque, meglio scappare sempre... piuttosto che fermarsi a verificare.82

Solo che il cervello umano tendeva a funzionare in quel modo anche in un contesto diversissimo: la società capitalistica – complessa e in overdose di informazioni – del ventunesimo secolo. In momenti di stress, paura o collera ciò portava a compiere errori, a prendere decisioni sbagliate o esprimere giudizi ingiusti prima che il pensiero lento potesse intervenire. Da ciò derivavano molti dei pregiudizi (bias) che condizionavano le nostre vite.

Negli ultimi anni il cortocircuito tra il flusso continuo e ansiogeno delle «breaking news» – molto spesso bad news – e gli algoritmi dei social network che spingevano a reazioni immediate aveva rafforzato i nostri bias e reso gli errori non solo più frequenti ma più rapidi nel propagarsi.

L’emergenza Covid-19 aveva ulteriormente aggravato la situazione. Prima dei lockdown per molti non sarebbe stato possibile e nemmeno immaginabile trascorrere on line l’intero tempo di veglia. C’erano limiti, paletti infissi nel terreno: il lavoro o la scuola, lo sport, gli affetti, la compagnia di amici, relazioni da mantenere... Nel tardo inverno del 2020 l’emergenza aveva scalzato quei paletti, e per lunghi mesi la reclusione domestica, il bombardamento di cattive notizie e l’impellente logica dei social avevano pungolato il pensiero veloce, istigandoci ad alzare sempre più i toni e compiere scelte drastiche senza pensarci un momento.

Cosa succedeva nella mente di chi cedeva a una fantasia di complotto, mentre scivolava nel rabbit hole? Avevo provato a ricostruirlo in sequenza.

Il Primacy Effect portava a dare più peso alle cose sentite o lette per prime. Avveniva anche da calmi, a maggior ragione in uno stato emotivamente carico. Chi riceveva una notizia mentre era inquieto, arrabbiato o impaurito tendeva a ricordarla più facilmente. Questo avrebbe influenzato le elaborazioni e decisioni successive.

Anche quando la corteccia prefrontale entrava in azione l’effetto era difficile da correggere per via dell’Euristica della disponibilità, cioè: se ricordavi una cosa, significava che era importante. La mente tendeva a ritenere più valido ciò che poteva richiamare con poco sforzo, a scapito di quel che avrebbe potuto conoscere con uno sforzo maggiore.

Ne derivava il Pregiudizio di ancoraggio: pensando, non ci si allontanava dal punto su cui la mente si era fissata dal principio, scambiato per il punto della questione, quando in realtà era stato scelto in modo arbitrario. E se le informazioni ricevute all’inizio erano all’insegna del niente-è-come-sembra, se il frame era quello di una verità celata da trame occulte, era più facile restare in quella cornice, mettendo in fila altri bias e distorsioni cognitive.

Il Pregiudizio di intenzionalità faceva pensare che se qualcosa era accaduto – un incidente, un’alluvione, un’epidemia – qualcuno doveva averlo voluto e pianificato.

Il Pregiudizio di proporzionalità convinceva che un evento su vasta scala e con molte conseguenze non potesse avere una causa “piccola”: doveva averne per forza una “grande”, che a sua volta – in base al pregiudizio di intenzionalità – doveva dipendere dalla volontà di qualcuno. Una pandemia non poteva avere come causa scatenante un episodio impercettibile come lo svolazzo di un virus da un animale a un essere umano, in seguito a processi impersonali, oggettivi, a cui tutti contribuivamo: deforestazione, urbanizzazione, allevamento intensivo... No, doveva essere l’esito di un piano globale, e quel piano deve avere un volto. Qualcuno aveva additato Bill Gates. Era ricchissimo, stava sulle palle a molti (anche a me, da tempi non sospetti), faceva carità ipocrita, c’entrava qualcosa con i vaccini, Windows si bloccava sempre... Aggiudicato!

A quel punto scattava il Pregiudizio di conferma: senza nemmeno pensarci, si sceglievano le informazioni che rafforzano la convinzione, scartando quelle che l’avrebbero messa in crisi. Ogni tassello sembrava andare al proprio posto, cosa che dava soddisfazione, faceva sentire forti e in grado di dominare ogni tema e materia.

L’esaltazione rafforzava l’Effetto Dunning-Kruger: la tendenza a sopravvalutare le proprie conoscenze, a darle per scontate. Perché il mare era salato? Perché d’estate faceva più caldo che d’inverno? Cosa faceva il fegato, esattamente? A quelle domande la maggior parte di noi non avrebbe saputo rispondere al volo. Ma giunti a quel punto si andava ben oltre, il Dunning-Kruger diventava hybris, portava a disquisire di virologia, ingegneria, balistica, chimica degli esplosivi o dei gas, astronautica, storia delle religioni...

Più si sopravvalutava la propria capacità di leggere il mondo, più l’Apofenia faceva percepire collegamenti e schemi dove non ce n’erano. Il credente in QAnon notava che Trump indossava spesso cravatte gialle, e ci vedeva un segnale preciso: il presidente stava dicendo che la pandemia era finta. La bandiera gialla era usata per segnalare che una nave non aveva persone infette a bordo, e nel codice internazionale nautico il giallo stava per la lettera Q. Tutto tornava. Ancora: nel mondo di QAnon – fantasia che discendeva dal Pizzagate – qualunque riferimento alla pizza da parte di un personaggio famoso era interpretato come messaggio in codice, strizzata d’occhio sulla propria appartenenza alla Cabal. Era noto che gli stupratori di bambini non vedevano l’ora di attirare l’attenzione sui propri crimini.

Entrava in gioco anche la Pareidolia, che faceva vedere immagini nascoste, simboli o facce affioranti da sfondi, come un tempo s’era visto il volto di Satana nel fumo delle Torri gemelle. Qualcuno aveva avvistato il virus Sars-Cov-2 in una scena del film Captain America - Il primo Vendicatore. Era proprio il coronavirus, inconfondibile, su un tabellone in Times Square nella scena finale del film! Ed era accanto a una pubblicità della birra Corona! Il film era del 2011, dunque tutto era previsto da tempo. Sarebbe bastato fermarsi un minuto, guardare meglio: quello non era il virus, ma un mazzetto di bucatini Barilla disposti in modo da ricordare un fuoco d’artificio.

Fermarsi? Era fuori questione. La ricerca si prendeva sempre più ore del giorno e della notte, spingeva a collegare elementi, discutere, diffondere materiali. Il credente era ormai in preda al Bias da intensificazione dell’impegno: il tempo e le energie investite non gli consentivano di smettere, men che meno di invertire la rotta senza conseguenze sul suo ego, sulla sua autostima, sulla sua credibilità agli occhi altrui. Ogni giorno che passava, cambiare idea avrebbe richiesto più fatica mentale.

Ma perché cambiare idea se aveva ragione? Era scattata la razionalizzazione post acquisto: se ci ho investito tanto, vuol dire che l’affare era buono.

Se ogni tanto il credente avvertiva una Dissonanza cognitiva, per esempio tra la sua autostima e il fatto che la sua condotta avesse allontanato persone care, la risolveva nel modo meno faticoso: salvando l’autostima e dando la colpa agli altri. Perdo amici, mi isolo da famigliari e parenti? Colpa loro, non vogliono svegliarsi. Preferiscono restare nell’ignoranza? Che ci restino.

E se non fosse solo ignoranza? Se fossero complici della Cabal? Per fortuna adesso mi stanno alla larga. Tanto ho una nuova comunità. E sempre più persone condividono le nostre idee. E se sempre più persone le condividono, vuol dire che abbiamo ragione.

E così, contento del suo Argumentum ad populum, andava avanti.

Quando un credente diceva di aver fatto ricerche, significava che aveva navigato in rete in balia di tutti quei pregiudizi, errori e scorciatoie. Su ogni questione, su ogni nuova ramificazione della storia aveva letto un paio di commenti su Facebook, guardato in fretta una foto su Instagram, leggiucchiato pagine trovate nella prima schermata di Google... Al massimo si era riguardato spezzoni di documentari QAnon come Fall of the Cabal o Out of the Shadows.

In rete girava una decifrazione del termine «ricerca» come lo usavano i qultisti:

Ho fatto1 ricerche2 per conto mio3

1. Ho guardato

2. un video di merda su YouTube

3. fatto da qualcun altro.

Ed ecco arrivato il momento. Quel momento. La ricerca andava portata un passo oltre. Per nutrire un sempre più affamato pregiudizio di conferma e avere l’approvazione della nuova community, bisognava fabbricare prove.

I credenti in QAnon ricorrevano spessissimo a foto ritoccate o compendiate da didascalie false. Li avevo visti falsificare luogo e data di un tweet del comico Patton Oswalt per accusarlo di aver violentato bambini al Comet Ping Pong. Li avevo visti ritoccare foto della modella Chrissy Teigen e di suo marito, il cantante John Legend, per collocarli sull’isola privata del banchiere stupratore Jeffrey Epstein, popolarmente nota come Pedophile Island. Li avevo visti modificare una foto in cui il deputato democratico Adam Schiff posava accanto a suo padre novantenne, sostituendo quest’ultimo con Epstein. Li avevo visti spargere immagini confuse o alterate ad hoc spacciandole per fotogrammi di Frazzledrip. Gli esempi possibili erano centinaia. E tra chi realizzava quei falsi, non pochi lo facevano “in buonafede”, convinti di lottare dalla parte giusta e che la causa giustificasse le tattiche. Era la loro “controinformazione”, e il falso si poteva sempre giustificare come «meme», satira o quant’altro.

L’autoconvincimento gonfiato dalle ricerche spingeva non solo a inventare “prove”, ma a usare ogni trucco per difendersi e contrattaccare negli alterchi on line. Su quell’aspetto tornava utile il breve trattato di Arthur Schopenhauer L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi. Quasi ogni mossa compiuta nelle culture war sui social network poteva essere ricondotta agli espedienti messi in fila dal filosofo nel 1830-1831. Ma io mi chiedevo: chi li adotta li considera espedienti? Mi sembrava che il loro uso fosse automatico: non erano esempi di astuzia retorica e destrezza nella «scherma spirituale» (come Schopenhauer definiva la dialettica), ma conseguenze del pensiero veloce, di bias cognitivi ed errori di ragionamento. “Funzionavano” non per l’abilità di chi li adoperava, ma perché più adatti – evolutivamente adatti – all’ambiente caotico dei social.

Nello stratagemma numero 12 Schopenhauer descriveva l’effetto di framing imposto da QAnon: «Si introduce già nella parola, nella denominazione, ciò che si vuole provare, così da derivarlo poi con un semplice giudizio analitico». Inquadrare la discussione nella cornice della «lotta agli abusi su minori e al traffico di bambini» faceva sembrare giusto ogni passaggio successivo, per quanto illogico, e metteva gli avversari nella scomoda posizione di dover precisare: «È ovvio che anch’io sono contro gli abusi su minori e il traffico di bambini, ma...».

Innumerevoli volte avevo visto utilizzare lo stratagemma numero 19:

Se l’avversario ci sollecita esplicitamente a esibire qualcosa contro un determinato punto della sua affermazione, ma noi non abbiamo nulla di adatto, allora dobbiamo svolgere la cosa in maniera assai generale e poi parlare contro tali generalità. Ci viene chiesto di dire perché una determinata ipotesi fisica non è credibile: allora parliamo della illusorietà del sapere umano e ne diamo ogni sorta di esempi.83

Era il caso di certi attacchi generalizzati alla «scienza ufficiale» quando una fantasia di complotto a sfondo scientifico – medico, farmaceutico, climatologico – trovava la propria confutazione. Anziché restare sui punti specifici, chi promuoveva la fantasia estendeva il campo della disputa e dichiarava ingannevole – in quanto frutto di illusioni, corruzione, censura delle voci dissenzienti – il consenso scientifico sull’argomento e le basi stesse della disciplina che se ne occupava. Un frequente bersaglio di simili attacchi era l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni unite, e con esso la climatologia tout court.

Un altro esempio lo forniva il JAQing off, gioco di parole tra l’acronimo di Just Asking Questions (sto solo facendo domande) e il verbo to jack off, farsi le seghe (naturalmente l’espressione l’avevano coniata i detrattori dell’espediente). Era un «farsi domande» per nulla innocente: il JAQer partiva da premesse false, sovente calunniose, per trarne uno o più interrogativi capziosi e scagliarli contro il bersaglio. Lo scopo era provocare una risposta adirata, perché «nell’ira [l’avversario] non è più in condizione di giudicare rettamente e di percepire il proprio vantaggio» (stratagemma numero 8). A quel punto scattava la trappola: perché reagisci così se sto solo facendo domande? Hai la coda di paglia? La smentita o reazione dei calunniati suonava come “prova” della verità dell’accusa.

Tra gli angariatori di Chrissy Teigen avevo visto l’attore James Woods, grande fan di Trump, forte di due milioni e mezzo di follower su Twitter, citare Shakespeare per insinuare che la modella – accusata di pedofilia senza la minima prova – si difendeva con veemenza sospetta. Amleto, atto III, scena II: «The lady doth protest too much, methinks». Nella traduzione di Cesare Garboli, non letterale ma fedele: «Lei esagera coi giuramenti, mi sembra».84 Qualunque cosa facesse o dicesse, la vittima di calunnia si trovava in trappola. E non accadeva solo alle celebrità, che tutto sommato avevano strumenti per difendersi. La persecuzione mirata in branco (targeted harassment) poteva colpire chiunque, per i motivi più disparati, e dai social network tracimare nello spazio fisico.

E i membri del branco avevano cominciato facendo ricerche.

Questo, al meglio di com’ero riuscito a ricostruirlo, ciò che accadeva durante e dopo la caduta nel rabbit hole.

Ma occorreva fare un passo indietro: cosa succedeva prima, e perché?

Se le fantasie di complotto erano tanto diffuse, se avevano tanta presa, significava che svolgevano una funzione. Una funzione sistemica.


82 Massimo Polidoro, Il mondo sottosopra, Piemme, Milano 2019.

83 Arthur Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, a cura e con un saggio di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2006.

84 William Shakespeare, Amleto nella traduzione di Cesare Garboli, Einaudi, Torino 2009.

Capitolo dieci

Cosa fa una fantasia di complotto?

Der Sozialismus der dummen Kerls. Ogni fantasia di complotto ha un nucleo di verità. Il capitalismo non si è affermato con un complotto. Omeostasi del sistema e narrazione diversiva. Sul non saperci fare col sintomo. Come funziona una narrazione diversiva: le scie chimiche. Watcher Of The Skies. Morgellons e altre storie. Guerra climatica! Una magra consolazione.

Una massima attribuita al socialista tedesco August Bebel (1840-1913) ma con ogni probabilità apocrifa diceva: «L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Dove il termine «socialismo» non indicava il modello socioeconomico per cui lottare, ma la lotta stessa, l’antagonismo verso i padroni. L’ossessione per gli ebrei, diceva Bebel o chi per lui, era la lotta di classe der dummen Kerls.

Il contenuto della massima era vero, ma l’epiteto era infelice. Non era questione di imbecillità ma di proiezione, meccanismo di difesa psicologica a cui chiunque di noi poteva soccombere.

Il malessere di uno «sfruttato, represso, calpestato, odiato», di un «malpagato, derubato, deriso, disgregato» (Rino Gaetano, Mio fratello è figlio unico) era legato al suo posto nei rapporti sociali, a disuguaglianze strutturali, alla concentrazione della ricchezza, a come funzionava il mercato del lavoro. Per comprendere quello stato di cose era necessario comprendere l’ideologia che lo giustificava e lo faceva apparire “naturale”. E per comprendere quell’ideologia andavano messi in discussione il modo di vivere, il lavoro, i consumi, i miti, le contraddizioni personali, il tempo passato sui social network, il venerare calciatori miliardari senza pensare che se esistevano gli straricchi era perché altri restavano strapoveri, ecc. Una presa di coscienza faticosa, spesso evitata – o lasciata affievolire nel corso degli anni – anche da chi si riteneva “politicizzato” e attivo.

Proiettare il proprio malessere su un presunto nemico occulto era più facile.

Per avercela coi miliardari (Trump incluso), con l’ipocrisia dei nababbi filantropi (Soros, Gates, Bono Vox), con il Partito democratico americano (e con quello italiano), e in genere coi «poteri forti», non c’era alcun bisogno di fantasie di complotto. Se quest’ultime si affermavano era perché, rispetto all’analisi di classe della società e alla critica dell’economia politica, erano più confortevoli.

Ogni fantasia di complotto, anche la più dissennata, partiva da un nucleo di verità, e QAnon non faceva eccezione. Il traffico di bambini esisteva, gli abusi sui minori anche, la politica era influenzata da lobby e potentati economici, gran parte dell’informazione mainstream serviva interessi partitici e padronali, alcuni divi di Hollywood erano membri di culti avvolti di segretezza (ad esempio Scientology), ecc. Su quelle fondamenta di verità QAnon innalzava cattedrali di panzane. Seguendo le panzane, ci si allontanava dalla verità.

Il deep state era una descrizione caricaturale degli interessi di classe che influenzavano e plasmavano l’azione dei governi e dello stato. Nel suo Republic Of Lies Anna Merlan esponeva il nocciolo di senso – un senso addirittura ovvio – dell’espressione:

[Lo stato profondo] è il luogo in cui le industrie miliardarie e le agenzie governative che dovrebbero regolarle sono gestite dalle stesse persone che passano continuamente per la stessa porta girevole [...]. È il luogo in cui agenzie altamente segrete come la Nsa operano in collaborazione con aziende tecnologiche della Silicon Valley indifferenti a preoccupazioni etiche [...]. È il luogo in cui il sistema elettorale è talmente corrotto che la maggior parte degli americani dispera di poterlo mai recuperare.85

Ma il cospirazionismo aveva reso l’espressione inutilizzabile. Per i credenti in QAnon il deep state era molto di più – l’organigramma segreto del complotto universale – e al tempo stesso molto di meno, perché il capitalismo era ben più grande e complesso di qualunque organigramma o congiura.

Il capitalismo non era frutto di alcun complotto, ma un esito a lungo termine, e dopo molti conflitti, della civilizzazione iniziata con la rivoluzione agricola, con la stanzialità degli agglomerati umani, con la nascita delle città.

Il capitalismo aveva preso forma riconoscibile a partire dal sedicesimo secolo e si era evoluto per mezzo millennio, cooptando istituzioni precedenti – lo stato, coi suoi assetti e la sua sfera giuridica – e trasformando radicalmente istituzioni ancora più antiche, come la famiglia, dando vita a una nuova formazione economico-sociale.

Il capitalismo aveva reso la grande maggioranza delle persone dipendenti dalla vendita della loro forza-lavoro su un mercato nominalmente «libero» ma in realtà regolato da un’articolata disuguaglianza sociale: divisione in classi, disparità di genere, gerarchizzazione etnica, emarginazioni geografiche, ecc.

Il capitalismo si era innervato alla vita quotidiana e alla psicologia degli esseri umani, imponendo un’ideologia di fondo in cui tutti eravamo imbozzolati, chi più consapevolmente, chi meno, chi del tutto ignaro.

Il capitalismo sopravviveva grazie a istituzioni e leggi che riconoscevano, codificavano e difendevano la proprietà e l’eredità, riproducendo i rapporti sociali da una generazione all’altra, nonché grazie a molte altre leggi e regole applicate da una miriade di soggetti locali, nazionali e sovranazionali, in base a consuetudini, interessi immediati e interessi a medio termine, tenendo conto degli esiti transitori di scontri – anche armati – tra interessi diversi.

Il capitalismo viveva di contraddizioni che ciclicamente lo portavano a crisi e a superamenti di tali crisi mediante la distruzione di risorse. «Distruzione creatrice», l’aveva chiamata Joseph Schumpeter.

Tra tutte quelle caratteristiche e variabili c’erano anche le intenzioni dei soggetti in campo, ma contavano meno di quanto si credesse, erano a loro volta sovradeterminate. «Gli uomini fanno la propria storia», aveva scritto Karl Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), «ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione».

Chi credeva che il sistema dipendesse in toto dalla volontà dei potenti – anzi, di pochi malvagi – abbaiava al loro complotto, confinato nella propria impotenza. Intanto il sistema continuava a funzionare, anzi, mercificava i suoi latrati. Il mercato delle fantasie di complotto era fiorentissimo: libri, video, t-shirt, introiti pubblicitari sul web, chi più ne aveva più ne metteva.

Sullo sfondo delle nostre vite, incessanti, operavano dispositivi che spingevano ogni processo in direzione della tutela del sistema. Avevo preso in prestito un termine usato nella biologia, nella psicologia e nella semiotica: l’insieme di quelle spinte era l’omeostasi del sistema.

Omeostasi del sistema. Dal greco ὅμοιος, simile, e στάσις, sostantivo del verbo ἵστημι, «stare». Tendenza del capitalismo a conservare le proprie caratteristiche di base e la propria logica di fondo a dispetto delle turbolenze esterne e interne. Ogni sistema sociale tende all’omeostasi, ma il capitalismo è il primo a essersi imposto come totalità su scala planetaria, perciò la sua omeostasi opera ovunque e in ogni momento. All’insieme dei sottosistemi che compongono il capitalismo corrisponde una rete di dispositivi di controllo, la cui interazione regola i flussi di energia e informazione. Le opzioni che minacciano le caratteristiche di base del sistema vengono scartate a priori, a volte tanto a priori da non essere nemmeno immaginate.86

Dal concetto di omeostasi del sistema ne derivava un altro:

Narrazione diversiva. Rappresentazione di una situazione politica o di un problema sociale che, concentrandosi su cause e responsabilità fittizie o concause di poco rilievo, distoglie la critica dal funzionamento reale e dalle contraddizioni del capitalismo, proponendo false soluzioni spesso incentrate su capri espiatori. Una narrazione diversiva ritarda la reale presa in carico dei problemi, disperde energie e sfoca il quadro, aggravando la situazione di partenza. Tra le narrazioni diversive che svolgono tali funzioni, le fantasie di complotto sono le più frequenti ed efficienti.

Per usare una metafora da elettricisti, il cospirazionismo era la messa a terra del capitalismo: scaricava in basso la tensione e impediva che le persone fossero folgorate dalla consapevolezza che il sistema andava cambiato.

Che l’esito fosse quello lo diceva anche uno studio uscito nel febbraio 2017 sulla rivista scientifica Political Psychology intitolato “Blaming a few bad apples to save a threatened barrel: the system-justifying function of conspiracy theories” (Incolpare poche mele marce per salvare un cesto in pericolo: la funzione delle fantasie di complotto è giustificare il sistema). Gli autori spiegavano che le fantasie di complotto, anche se «rappresentate come alternative e sovversive nei confronti delle narrazioni dominanti», in realtà «possono rafforzare, anziché minare, il sostegno allo stato delle cose quando la sua legittimità sia minacciata». Chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche. «Imputando tragedie, disastri e problemi sociali all’agire di pochi malvagi», concludeva lo studio, «le teorie del complotto possono distogliere l’attenzione dai difetti intrinseci ai sistemi sociali».87

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I nuclei di verità delle fantasie di complotto non andavano cercati negli oggetti che, volta per volta, il cospirazionismo additava. Quegli oggetti erano sempre e solo segni: sintomi, metafore, allegorie inconsce. Guardare all’oggetto stesso sarebbe stato come dire: «Sì, i Protocolli dei savi anziani di Sion sono falsi, ma anche tra gli ebrei ci sono dei lestofanti». Il punto non era quello. Il punto era che nella narrazione sul complotto giudaico gli ebrei stavano per qualcos’altro.

Il cospirazionismo, infatti, aveva un duplice problema coi sensi figurati. Li trovava dove non c’erano – e in quei casi si trattava di apofenia e pareidolia da parte dei singoli – mentre dove c’erano non li coglieva – e in quel caso si trattava di asimbolia della narrazione stessa. Asimbolia ben descritta da Casaubon nel Pendolo:

[...] tutti stavamo lentamente smarrendo quel lume intellettuale che ci fa sempre distinguere il simile dall’identico, la metafora dalle cose, quella qualità misteriosa e folgorante e bellissima per cui siamo sempre in grado di dire che un tale si è imbestialito ma non pensiamo affatto che gli siano cresciuti peli e zanne, e invece il malato pensa “imbestialito” e subito vede colui che abbaia o grufola o striscia o vola.

Ad esempio la metafora del capitale come vampiro era un classico, Marx l’aveva usata in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, nei Grundrisse e nel primo libro del Capitale:

Il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato.

QAnon aveva preso la metafora alla lettera. I potenti erano descritti come veri vampiri. Il sangue non era più metafora della forza-lavoro, del tempo di vita, dell’esistenza proletaria nei rapporti sociali: era sangue e basta. Bevuto da Hillary Clinton, da Soros, da Tom Hanks o da Joe Biden.

Qualcuno avrebbe potuto dire, e a dire il vero qualcuno diceva: perché perdere tempo a smontare accuse contro membri della classe dominante, politicanti, miliardari, superstar e guerrafondai? Cazzi loro, si becchino quel che gli arriva! Gli diano pure dei pedofili e dei vampiri! Ma le fantasie di complotto non funzionavano così. Sembravano mirare in alto, ma colpivano sempre in basso.

Le fantasie di complotto antisemite sui banchieri Rothschild non avevano colpito il capitale finanziario, ma portato alla persecuzione e uccisione di milioni di persone.

Nemmeno le leggende d’odio su Soros e l’immigrazione avevano colpito il capitale: avevano solo aumentato razzismo e xenofobia, trasformando il Mediterraneo in un cimitero di uomini, donne e bambini.

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Diverse fantasie di complotto esprimevano ansia per il disastro climatico e l’inazione di fronte al problema. Ogni giorno, almeno prima che l’attacco di panico da Covid spazzasse via ogni altro tema, leggevamo titoli e vedevamo servizi su quanto fosse grave la situazione... e al tempo stesso vedevamo che non si faceva nulla. I media involontariamente ironici ci esponevano al più classico e paralizzante doppio legame: preoccupatevi, è terribile, ma non preoccupatevi, passiamo ad altro, nuovi esilaranti video in colonna destra.

Per settimane si parlava di «emergenza siccità», ci mostravano il Po ridotto a un tetro rigagnolo, ci informavano che le risorse idriche in Nord Italia erano a rischio, che l’agricoltura non avrebbe avuto acqua per irrigare. Notizie su giornali, siti, telegiornali. Al contempo nessuno sembrava occuparsene davvero. Com’era possibile che la situazione fosse tanto grave e al tempo stesso nessuno agisse?

Il disastro climatico metteva di fronte all’esigenza di cambiare modo di produzione, ma l’omeostasi del sistema escludeva o relegava ai margini analisi, critiche e misure dettate da quella consapevolezza. Nel mentre la forte dissonanza cognitiva sul tema generava narrazioni diversive che deviavano l’ansia e l’attenzione: fantasie di complotto sul rilascio nell’atmosfera di agenti tossici tramite voli aerei segreti (scie chimiche), sull’alterazione a tavolino del clima a fini geopolitici (guerra climatica), o sulle migrazioni mondiali – nella realtà causate anche dal disastro climatico – come frutto di una grande cospirazione.

Negli anni Zero era partito il JAQing-Off.

«Non trovate strano anche voi che oggi si vedano tutte quelle scie in cielo? Una volta mica c’erano!».

La mia risposta era sempre stata: «No, non lo trovo strano, e c’erano anche prima».

Da bambino avevo spesso il naso per aria, e sopra il territorio in cui ero cresciuto – il Basso Ferrarese – si incrociavano rotte civili importanti: voli tra Roma e il Nord Europa, tra Milano (o Ginevra) e il Medio Oriente, tra Milano e Atene, tra Milano e Bari, da Venezia verso sud-ovest... Per la sua posizione al centro del Mediterraneo l’Italia era da decenni uno dei paesi più sorvolati d’Europa, e la pianura padana era larga: partiva dal settimo parallelo e arrivava quasi al tredicesimo. Difficile non passarci sopra. Nel mio nord-est cispadano, inoltre, era frequente sussultare per il rombo di uno o più aerei militari provenienti dalle basi di Aviano o Poggio Renatico.

Insomma, di scie ne vedevo spesso. Ed erano gli anni Settanta.

«Ma perché adesso ce ne sono molte di più?».

Perché da allora al 2019 – prima dello stop dovuto all’emergenza Covid – i voli non avevano fatto che aumentare, con un vero e proprio boom negli anni Zero dovuto ai voli low cost. In Italia dal 1986 al 2006 il traffico aereo era triplicato, passando da 507.374 a 1.538.977 voli all’anno. Più voli, più scie di condensazione.88

«E perché sono così lunghe? Perché col passare delle ore si allargano? Perché si incrociano tra loro e hanno forme strane? Perché prima sono chiare poi diventano scure?».

Perché le scie non erano altro che nuvole, seppure formate dal passaggio di aerei, e da nuvole si comportavano: assumevano diverse forme e dimensioni, si tingevano di diversi colori, sembravano più vicine tra loro di quanto non fossero... Dipendeva dalla quota, dal vento e dall’umidità, dalla velocità a cui era passato l’aereo, dalla posizione dell’osservatore rispetto al sole, da tanti fattori.

Nella fantasia sulle scie chimiche, invece, era in corso un complotto mondiale per avvelenarci e al tempo stesso controllare le nostre menti, irrorando nell’atmosfera sostanze velenose e, in qualche modo, «neuroconduttive». Gli scopi non erano chiari, perché erano troppi. La narrazione aveva decine di varianti. In tutte quante poteri occulti controllavano il traffico aereo mondiale e lo usavano per compiere un immane e reiterato crimine contro l’umanità. Le scie non erano formate da vapore acqueo, a quello credevano solo i gonzi: contenevano un cocktail di metalli pesanti – bario, silicio, alluminio, cadmio, manganese, palladio – e vari composti chimici, che facevano ammalare la popolazione per poi far soldi con farmaci e vaccini, e fissavano nell’aria una «fascia elettroconduttiva» grazie a cui loro potevano manipolare i nostri umori e sentimenti.

A emettere le scie chimiche (chemtrails) non erano aerei di linea ma velivoli misteriosi senza scritte. Anzi, no, le rilasciavano anche i voli di linea, attrezzati ad hoc dalla Cia, dalla Nasa o da chi ne faceva le veci. Tra le patologie causate spiccava il morbo di Morgellons: la pelle si ricopriva di piaghe pruriginose, che a furia di grattare si rompevano e si rivelavano piene di strani filamenti.

Anche in quel caso il complotto immaginato era logicamente e logisticamente impossibile, con milioni di complici sparsi ovunque. Come minimo dovevano far parte della combutta i governi, le autorità che regolavano il trasporto aereo, gli operatori delle torri di controllo e delle piste di atterraggio, i piloti e i controllori di volo, i servizi meteorologici, gli scienziati che ogni giorno analizzavano l’atmosfera senza riscontrare gli effetti descritti, e l’intera comunità medica. Un sito italiano chiamato Gli Insabbiatori includeva tra i complici anche produttori e registi di pubblicità, film e serie tv dove apparivano scie di condensazione.

Tutti quegli avvelenatori non vivevano sul pianeta, nella nostra stessa atmosfera? A che pro avrebbero dovuto intossicarsi da soli?

Forse loro prendevano l’antidoto. E l’antidoto era la spirulina, «ricca di proteine vegetali, molto utile per il sistema nervoso e il sistema immunitario», «cibo del ventunesimo secolo», «in una microalga, il cibo del futuro». E se la prendono loro, prendiamola anche noi! Consigliavano la spirulina blog come Informarmy o Scie Chimiche Informazione Corretta. Si poteva acquistare in farmacia, in erboristeria e on line, in comode capsule o tavolette. Sul sito Macrolibrarsi – «e-commerce n. 1 in Italia per il benessere di corpo, mente e spirito» – una tale Alessandra dava cinque stelle al prodotto e commentava:

Ho iniziato a usare Spirulina per contrastare l’assunzione dei metalli pesanti che ci piovono dalle scie chimiche che vediamo nei nostri cieli purtroppo quasi ogni giorno. La Spirulina è indicata per ridurre questo inconveniente e devo dire che durante il mese di assunzione non ho mai avuto mal di testa o altri disturbi tipo vertigini o vuoti di memoria, e anche l’energia generale ne era migliorata.

I cospiratori controllavano il mondo intero... ma lasciavano in giro la spirulina.

E il morbo di Morgellons? A battezzarlo nel 2002 era stata Mary Leitao, ex biologa di Surfside Beach, South Carolina, per descrivere i sintomi di cui soffriva suo figlio piccolo. Il nome «morgellons» – presunto termine in langue d’oc per grossi insetti, mosceroni – lo aveva trovato in una lettera del 1690 dello scienziato inglese Thomas Browne. Browne sembrava descrivere un morbo simile, ma in trecento anni nessuno ne aveva riscontrato l’esistenza.

Secondo i medici, il figlio di Mary soffriva di sindrome di Ekbom, o parassitosi allucinatoria. Chi la pativa si sentiva infestato da insetti, vermi o ragnetti che strisciavano sottopelle. Grattandosi disperatamente si produceva escoriazioni, ferite, ulcere nelle quali potevano finire peli, fibre di vestiti, capelli. Da lì il mito degli «strani filamenti».

Mary aveva fondato un’associazione e ottenuto l’ascolto di vari politici americani, ma nel 2012 il Cdc – l’agenzia federale per la prevenzione e il controllo della malattie – aveva concluso che il Morgellons non esisteva. Conclusione che, ovviamente, era parte di un complotto.

Per qualche motivo l’Italia era uno dei paesi dove la fantasia sulle scie chimiche aveva avuto più successo. Negli anni Dieci c’era stato un boom, con tanto di manifestazioni, come quella che si era svolta a Modena il 21 dicembre 2013. Nella città della Ghirlandina cinquecento persone venute da tutta Italia avevano sfilato, esposto striscioni e cartelli, gridato slogan e attirato l’attenzione dei media.

«Abbiamo il diritto di riprenderci la nostra vita. Si alzino gli occhi al cielo e si capisca che ci vogliono avvelenare», spiega Monia Benini, della Draco edizioni, una delle realtà che ha organizzato il corteo assieme con associazione Rip, Riprendiamoci il pianeta. La spiegazione del fenomeno celeste, secondo le persone scese in strada, è semplice: «In natura non esistono le velature spontanee, è un fenomeno meteorologico inesistente. In realtà le velature sono effettuate da aerei cisterna americani che rilasciano sostanze nell’atmosfera. Ci devono spiegare che cosa sta succedendo sopra le nostre teste», dice Massimiliano Bonavoglia di Bergamo, uno di quelli che prende la parola alla fine del corteo. «Noi respiriamo queste irrorazioni che operano una trasmutazione genetica del terreno».89

Ogni giorno, in giro per l’italia, si smaltivano metalli pesanti e rifiuti tossici, illegalmente e in modi ben più diretti, senza arzigogolii né fantasmagorie celesti. Ogni minuto dedicato alle scie chimiche era sottratto a vere battaglie ambientali.

Col passare degli anni le scie chimiche erano state inglobate in una narrazione ancor più vasta, quella sulla «guerra climatica». Le chemtrails erano tra i mezzi usati per alterare il clima, indurre siccità e carestie, scatenare nubifragi e alluvioni, generare trombe d’aria da dirigere contro un territorio nemico. Secondo alcuni il fine era addirittura cambiare l’atmosfera perché potessero insidiarsi sulla Terra invasori alieni. Ogni disastro meteorologico e climatico era progettato a tavolino. E dato che in certi milieux il nazionalismo non mancava mai, la guerra climatica era contro l’Italia. Lo avevo letto su diversi blog, forum e pagine social. In quel paradossale sogno di gloria il Belpaese era importantissimo, bersaglio di un complotto mondiale.

C’è chi ancora crede che tutti questi disastri, siano di origine naturale, chi rimbecillito dalla tv dà ancora la colpa al surriscaldamento globale e c’è chi invece sa da anni chi sono i colpevoli, a partire dal non molto lontano 2002, quando il governo Berlusconi firmò un trattato con G. Bush (senza consenso popolare) per le operazioni di geoingegneria nei cieli italiani.

Una scossa di terremoto di magnitudo 3.8 è stata registrata questa mattina in Emilia Romagna, dove ieri si è anche scatenata una violenta tromba d’aria, che ha provocato molti danni (oltre cento le case colpite) e undici feriti.

A Verona una violenta grandinata molto anomala ha provocato immensi danni a case, auto e soprattutto all’agricoltura.

[...] La guerra climatica, firmata Haarp ha lo scopo preciso di inginocchiare le popolazioni, ottenendo così un maggior controllo su di esse, ritardando o rovinando i raccolti locali si costringe la popolazione ad acquistare i prodotti dalla multinazionali [sic], tra i quali i dannosissimi Ogm.90

Lo Haarp indicato come “firmatario” della guerra climatica era lo High-frequency Active Auroral Research Program, un progetto avviato nel 1990 dalla Difesa americana e dall’Università Alaska Fairbanks. Lo scopo dichiarato era fare esperimenti di radiotrasmissione nella ionosfera per sviluppare tecnologie di comunicazione e sorveglianza. Un programma militare, dunque non “innocente”, e già oggetto di controversie e audizioni parlamentari. Non vi era però alcun collegamento dimostrato né plausibile tra lo Haarp e una tromba d’aria in Romagna o una bomba d’acqua in Valpolicella. Ancora una volta una fantasia di complotto allontanava da possibili nuclei di verità – gli interessi militari, i rapporti tra industria bellica e scienza, i rischi della «geoingegneria» che molti proponevano come soluzione al surriscaldamento globale – per vagheggiare congiure impossibili con milioni di complici e conniventi. Era forte la tentazione di definire le fantasie sulla «guerra climatica» der Antimperialismus der Dummen Kerls.

Il cospirazionismo non si smentiva: era un «non saperci fare col sintomo». Portava a preoccuparsi delle scie in quanto tali anziché delle scie in quanto segni. L’aumento delle scie, infatti, segnalava l’impatto ambientale e climalterante di un’industria cresciuta in modo tumultuoso, beneficiando della deregulation neoliberista e comprimendo i diritti della forza-lavoro. L’aumento dei voli aveva accresciuto l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica. Gli aerei erano responsabili del due per cento dell’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera. Se il trasporto aereo fosse stato un paese, sarebbe stato tra i primi dieci per impatto sul clima, e in realtà quel due per cento valeva di più, perché l’anidride carbonica emessa ad alta quota contribuiva al surriscaldamento più di quella emessa da terra.91

L’ansia per quel che stava accadendo all’atmosfera e al clima era dirottata, pervertita e incanalata lontano da qualunque agire costruttivo. Anzi, da qualunque agire, punto. Perché se dietro il disastro climatico c’era un potere occulto e onnipotente (a parte la defaillance sulla spirulina), non poteva che derivarne un senso di impotenza. Che possibilità di agire c’era contro un nemico tanto forte da controllare l’atmosfera e cambiare il clima? Nessuna. E se non potevi far nulla, l’unica consolazione era gridare: io so che il complotto esiste!


85 Anna Merlan, Republic of Lies. American Conspiracy Theorists and their surprising rise to power, Metropolitan Books, Henry Holt & Co., New York 2019.

86 Un’osservazione di Wu Ming 2: «L’omeostasi sta alla base di una certa idea di medicina, secondo la quale ogni terapia dovrebbe limitarsi a favorire la tendenza naturale di un corpo a stare bene. Ma l’omeostasi del capitalismo è particolare perché il sistema tutela sé stesso, in ultima istanza autorappresentandosi come sistema produttivo quando invece è un sistema distruttivo. Questa è la sua straordinaria contraddizione: l’omeostasi capitalistica è il preservare-sé-stesso di un sistema distruttivo e quindi, al di là delle maschere, autodistruttivo. È come una malattia che difende sé stessa, ma in ultima analisi uccide il corpo che la ospita, con reazioni autoimmuni. Mentre l’omeostasi del mio corpo ne contrasta il deperimento, l’omeostasi del capitalismo accelera le sue stesse crisi».

87 Daniel Jolley, Karen M. Douglas, Robbie M. Sutton, “Blaming a Few Bad Apples to Save a Threatened Barrel: The System-Justifying Function of Conspiracy Theories”, in «Political Psychology», febbraio 2017.

88 Tutti i dati sul traffico aereo sono reperibili sul sito dell’Enac, Ente nazionale aviazione civile.

89 David Marceddu, “‘Basta scie chimiche’, oltre 300 persone in corteo a Modena: ‘Vogliamo spiegazioni’”, Il Fatto Quotidiano (on line), 21 dicembre 2013.

90 Anonimo, “Guerra climatica all’Italia!”, s.d. [2013], Notizie Shock, sito reperibile su Google Sites.

91 “Facts & Figures”, sezione del sito ufficiale dell’Atag, Air Transport Action Group, atag.org, ultima consultazione nel settembre 2020.

Capitolo undici


    Il problema non è solo a destra


    Esempi di cospirazionismo a sinistra. Li paga tutti Soros! La Spectre in azione a Bologna. Finché vedrai sventolar bandiera falsa. Putin Tour. Quell’atroce penombra. Cospirazionismo e «meno peggio».


    Ogni fantasia di complotto era nel suo esito reazionaria e perciò, volendo semplificare, portava a destra. Ma quella considerazione si riferiva alle visioni del mondo storicamente associate ai termini destra e sinistra. A idealtipi, insomma. Se invece si prendevano in considerazione gli schieramenti concreti, le persone in carne e ossa che si sentivano e dicevano appartenenti all’una o all’altra parte, allora era falso che la sinistra fosse meno incline al cospirazionismo. Anzi, tra chi si diceva e pensava di sinistra – spettro di posizioni che andava dai più tenui liberal alle correnti anticapitaliste più radicali passando per varie culture alternative –, era molto frequente immaginare vastissime e perfette congiure globali. Se non fosse bastato il successo delle narrazioni truther sull’11 settembre, c’erano molti altri esempi.


    Nei settori più retrivi della sinistra non poche fantasie di complotto si erano affermate in nome dell’antimperialismo. In alcune cerchie si era radicata l’idea che Soros pagasse ogni manifestante e ogni rivolta in qualunque paese avesse un regime sedicente «nemico dell’imperialismo», come la Siria o la Bielorussia, ma anche la stessa Russia o la Cina.


    Che una sollevazione popolare potesse essere strumentalizzata da forze politiche o potenze straniere era nell’ordine delle cose; che ogni sollevazione popolare fosse tout court una messinscena pagata da un grande burattinaio era invece del tutto implausibile. Non solo: era una manifestazione di pensiero reazionario. Non importava quanto autoritario e corrotto fosse un regime «antiamericano» o quanto fossero sfruttati i lavoratori in quel paese: la popolazione non aveva ragione né diritto di protestare, l’operaio non doveva scioperare. Non c’era mobilitazione che avvenisse dal basso, era sempre un complotto dall’alto e i dimostranti si dividevano tra utili idioti e crisis actors, guarda caso pagati da un ebreo.


    La tendenza a negare ogni capacità d’azione (agency) popolare se politicamente sgradita non era certo una novità: negli anni Settanta i dirigenti del Partito comunista italiano avevano denunciato l’ascesa della “nuova sinistra” e di movimenti esterni al partito come parte di un complotto americano e dei servizi segreti. Il Pci bolognese aveva risposto alla sollevazione studentesca e giovanile dell’11 e 12 marzo 1977 gridando a un supercomplotto eversivo di cui erano parte sia l’ultrasinistra sia i neofascisti. Due settimane dopo i fatti il segretario della federazione cittadina – e futuro sindaco – Renzo Imbeni aveva aperto il quindicesimo congresso del partito dicendo:


    Possiamo dire con cognizione di causa che la caratteristica principale e nuova è quella di uno stato maggiore e di una direzione formata da un intreccio di legalità e illegalità, di azioni di massa e azioni squadristiche, in cui sono presenti Brigate Rosse, Nap, gruppi eversivi fascisti che si servono di coperture esterne sia nel campo dell’informazione sia in quello della giustizia. A Bologna c’è stata la concentrazione di uomini e mezzi per attuare un disegno di aggressione alle istituzioni e alle organizzazioni del movimento operaio.92


    Anni dopo, su quelle fantasie di complotto il Pci bolognese aveva fatto parziale autocritica. Ma anche nel nuovo secolo, di fronte a mobilitazioni fastidiose, dagli eredi politici di quella storia giungeva, immancabile, la domanda «Chi li paga?», che sempre alludeva a un complotto.


    Da quelle parti, del resto, il cospirazionismo era forma mentis di lungo corso, fissatasi nelle sinapsi ai tempi delle purghe staliniane.


    Nella sinistra “radicale” aveva sempre avuto successo chi gridava alla false flag anche quando era la spiegazione più implausibile.


    Il cospirazionismo, aveva scritto lo storico Richard Hofstadter, faceva continuamente «a leap from the undeniable to the unbelievable», un balzo dall’innegabile al non credibile.93 Che gruppi come al-Qaeda e l’Isis fossero nati e cresciuti per colpa dell’occidente – soprattutto delle ingerenze statunitensi in Medio Oriente – era un’asserzione fondata e documentabile. Concluderne che in pratica i due gruppi non esistevano se non come dirette emanazioni della Cia, e chiamare false flag ogni loro attentato, era il balzo nel non credibile.


    Certo, le operazioni sotto falsa bandiera erano una realtà. L’esempio classico continuava a fornirlo la prima inchiesta su piazza Fontana. In genere, però, erano operazioni circoscritte, e venivano scoperte. Estendere la spiegazione false flag a troppi eventi portava a pensare che tutto fosse l’esatto opposto di quel che sembrava. Invece, il più delle volte, un attentato di terroristi islamici era davvero quel che sembrava: un attentato di terroristi islamici.


    Il più avvilente esempio di cospirazionismo a sinistra lo aveva fornito l’adesione di sedicenti “marxisti” a fantasie di complotto contro i migranti.


    Forse, però, non stavo più parlando di sinistra, ma di «quell’atroce penombra dove destra e sinistra si confondono», per dirla con Pier Paolo Pasolini.94 E allora me ne sarei occupato in un altro momento.


    E i liberal? Pavoneggiandosi da campioni di raziocinio, si dipingevano come nemici dei «complottisti», ma indulgevano in fantasie di complotto altrettanto spesso dei loro oppositori.


    Il voto referendario per la Brexit? Esito di un complotto russo e di un lavaggio del cervello di massa.


    Il movimento dei Gilet gialli? Un fenomeno creato a tavolino ed eterodiretto.


    E che dire del Russiagate come spiegazione deresponsabilizzante della vittoria di Trump nel 2016? Ogni traduzione delle contraddizioni interne in lotta a un nemico esterno era intrinsecamente di destra, e la reazione liberal alla vittoria di Trump lo aveva dimostrato plasticamente, con dichiarazioni e pose da cold warriors degne di Joe McCarthy.


    Che la macchina governativa russa impiegasse hacker e troll a tempo pieno era innegabile, molte inchieste se n’erano occupate da ben prima che Trump vincesse le elezioni del 2016. I media di stato russi – come Sputnik, agenzia di stampa e testata on line – avevano ripreso e amplificato svariate fantasie di complotto. Il Cremlino aveva finanziato l’estrema destra di tutta Europa. Ma vedere Putin dietro ogni evento e movimento significava negare le contraddizioni reali. Un escamotage buono, in America come in Europa, per rimuovere il malessere diffuso, il rancore nei confronti delle élite che avevano gestito neoliberismo, privatizzazioni e austerity, politiche che avevano aumentato esclusione e disuguaglianza.


    Infine (ma ero solo al principio): più le fantasie di complotto erano estreme, più avevano un effetto diversivo anche su chi le combatteva. Un fenomeno come QAnon spingeva verso il solito menopeggismo che, spostando il quadro politico sempre più a destra, aveva cementato l’ordine neoliberale. In nome del meno peggio si erano fatte politiche sempre più di destra perché altrimenti... arrivava la destra.


    In quello slittamento generale, volta per volta lo spauracchio di ieri – il “più peggio” contro cui si era invocato il «voto utile» – era diventato l’opzione accettabile di oggi. In Italia di fronte a Berlusconi la “sinistra” neoliberale aveva rivalutato il pentapartito, di fronte a Salvini aveva rivalutato Berlusconi e forse, di fronte a chissà chi, un giorno avrebbe rivalutato Salvini. Negli Stati Uniti di fronte a Trump la “sinistra” neoliberale aveva rivalutato addirittura George W. Bush. E di fronte a una setta come QAnon, a un’estrema destra armata a cui Trump dava di gomito, come non sperare nella vittoria di Biden, come non votarlo, anche turandosi il naso?


    Cospirazionismo e menopeggismo erano entrambi narrazioni diversive, e si alimentavano a vicenda. Spacciato per «realismo», il menopeggismo aveva via via reso impensabile ogni alternativa, lasciando prive di rappresentanza – e soprattutto di visione, di immaginazione – porzioni sempre più ampie di società, che nella disperazione avevano scelto populismi vari e adesso, deluse anche dai populismi, sguazzavano nelle fantasie di complotto. Che diventavano sempre più spaventose, spingendo altri a cercare rifugio nel meno peggio.


    Antonio Gramsci aveva scritto del meno peggio nei Quaderni del carcere:


    Un male è sempre minore di un altro susseguente possibile maggiore. Ogni male diventa minore in confronto di un altro che si prospetta maggiore e così all’infinito. La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo (ciò che avrebbe ben altro significato, per l’effetto psicologico condensato, e potrebbe far nascere una forza concorrente attiva a quella che passivamente si adatta alla “fatalità”, o rafforzarla se già esiste).95

   

      

        92 Cit. in Andrea Fontana, “Quando nel ’77 il PCI impaurito ipotizzò il grande complotto”, Il Resto del Carlino - Bologna, 9 marzo 2007.

      

   

        93 Richard Hofstadter, “The Paranoid Style in American Politics”, in «Harper’s Magazine», novembre 1964, traduzione mia.

          

        94 Da una lettera di Pasolini in risposta a Giovanni Ventura, imputato per piazza Fontana, 24 settembre 1975. Riprodotta in Simona Zecchi, Pasolini massacro di un poeta, Ponte alle Grazie, Milano 2015.

          

        95 Antonio Gramsci, Quaderno 16, XXII, § (25), in Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975.


Capitolo dodici


    A Midterm Election in Sorosland (agosto-dicembre 2018)