venerdì 28 gennaio 2022


IL GATTO CHE MANGIAVA I MOBILI
Lilian Jackson Braun
(The Cat Who Ate Danish Modern, 1967)
Edizione Integrale
1

Jim Qwilleran si preparò la solita colazione da scapolo con un'espressione di tedio e di disgusto, messa in risalto dalla curva spiovente dei baffi cespugliosi. Dopo aver riempito il bricco con l'acqua calda dal rubinetto, si fece una tazza di caffè solubile che in parte non si sciolse, raggrumandosi in superficie.
Pescò una ciambella da un cestino pieno di briciole che cominciavano a sapere di muffa, poi distese un tovagliolo di carta sul tavolo, vicino a una finestra d'angolo dalla quale il sole metropolitano filtrava attraverso lo smog, mettendo in risalto lo squallore dell'appartamento ammobiliato.
Lì, Qwilleran consumò la prima colazione senza assaporarla, riflettendo su quattro problemi che lo assillavano...
In quel periodo non aveva donne; aveva ricevuto lo sfratto e nel giro di tre settimane sarebbe ri¬masto senza casa; al ritmo in cui le tarme si cibavano delle sue cravatte di lì a non molto ne sarebbe rimasto del tutto sprovvisto e, se quel giorno avesse detto al suo direttore editoriale la cosa sbagliata, si sarebbe potuto ritrovare anche senza lavoro. Quarantacinque anni e più e disoccupato. Non era una prospettiva allegra.
Per fortuna non mancava di amici. Sul tavolo, insieme con un grosso dizionario in edizione integrale, una pila di libri tascabili, una rastrelliera che reggeva un'unica pipa e un barattolo di tabacco, c'era un gatto siamese.
Qwilleran grattò il suo amico dietro le orecchie e gli disse: — Scommetto che, quando vivevi di sopra, non ti permettevano di star seduto sul tavolo della prima colazione.
Il gatto, che rispondeva al no¬me di Koko, si stiracchiò con aria soddisfatta. Rizzò i baffi e rispose: — Yow!
Viveva con il giornalista da sei mesi, dopo la tragica morte dell'uomo che abitava al piano superiore. Qwilleran lo nutriva bene, conversava con lui in modo sensato e inventava simpatici giochini. Passatempi insoliti che sollecitavano la straordinaria intelligenza del felino.
Tutte le mattine Koko saltava sul tavolo occupandone un angolino, e lì si sistemava, formando un morbido fagottino, le zampe e la coda marrone infilati meticolosamente sotto il corpo fulvo dal pettorale bianco. Nella blanda luce solare gli occhi allungati di Koko erano di un azzurro brillante e il suo manto vellutato, come la ra¬gnatela appena tessuta che si estendeva sul vetro della finestra, luccicava.
— Tu fai apparire questo appartamento una tana — gli disse il giornalista.
Koko strizzò gli occhi e prese a respirare più velocemente. A ogni respiro il naso vellutato diventava come raso nero, per poi ritornare al velluto.
Qwilleran ricadde di nuovo in profonde riflessioni e si passò di-strattamente il manico di un cucchiaio tra i baffi. Quello era il giorno in cui si era ripromesso di affrontare il direttore editoriale per chiedere che gli fosse assegnato un incarico diverso. La mossa era rischiosa. Il Daily Fluxion era considerato come una nave a per¬fetta tenuta. Percy predicava il lavoro di squadra, lo spirito di squadra e la disciplina di squadra. Tutti, spalla a spalla, per un gioco compatto, uno per tutti. E obbedire senza fare domande. Un impegno costante, un impegno saldo, un impegno comune. Noi, i pochi eletti!
— Le cose stanno così! — disse Qwilleran al gatto. — Se mi presento nell'ufficio di Percy e gli dico senza tanti complimenti che sono stufo del lavoro che faccio, è molto probabile che finisca per la strada. È il suo modo di comportarsi e non posso permettermi di restare disoccupato: non proprio adesso, non fino a quando non sarò riuscito a racimolare un piccolo gruzzolo.
Koko ascoltava ogni sua parola.
— Nel peggiore dei casi probabilmente potrei riuscire a ottenere un impiego al Morning Rampage, ma non vorrei proprio lavorare per quel borioso giornaletto.
Koko lo guardò con occhi grandi e pieni di comprensione. — Yow! — mormorò.
— Vorrei avere un colloquio aperto con Percy, ma è impossibile riuscire a comunicare con lui. È programmato come un computer. Il suo sorriso: molto sincero! La sua stretta di mano: molto vigorosa! I suoi complimenti: molto gratificanti! E poi, quando la volta successiva lo incontri in ascensore, non ti riconosce nemmeno... Quel giorno non sei segnato sulla sua agenda.
Koko cambiò posizione, un po' a disagio.
— Non somiglia nemmeno a un direttore editoriale. Si veste come un pubblicitario, mi fa sentire co¬me un barbone. — Qwilleran si passò una mano sulla nuca. — Forse dovrei andare a farmi tagliare i capelli.
Koko emise un gorgoglio roco e il giornalista capì l'imbeccata. — D'accordo, faremo il nostro gioco. Ma questa mattina solo poche partite. Devo andare al lavoro.
Aprì il grosso dizionario che era notevolmente malridotto e cominciò a fare con Koko il solito gioco delle parole. Funzionava così: il gatto cacciava le unghie tra le pagine e Qwilleran apriva il volume secondo queste indicazioni, leggendo ad alta voce gli esponenti, cioè le due voci in neretto in cima alle colonne. Leggeva la pagina destra se Koko usava la zampa destra. Di solito, però, si trattava quasi sempre della pagina sinistra. Koko era portato a essere mancino.
— "Scena" e "schizzo" — lesse Qwilleran. — Questi sono facili. Due punti a mio favore... Su, riprovaci.
Koko spinse in avanti le orecchie e infilò di nuovo le zampe nelle pagine del volume.
— "Dina" e "dinodo"... Brutto imbroglione! Mi hai battuto! — Qwilleran fu costretto a cercare entrambe le definizioni, il che diede due punti di vantaggio al gatto. Il punteggio finale fu di sette a cinque a favore di Qwilleran.
Poi andò a farsi la doccia e a vestirsi, non prima però di aver pre¬parato la colazione mattutina per Koko: carne cruda, tagliata a dadini con un po' di sughetto di fun¬ghi in scatola. Ma il felino non manifestò il minimo interesse per il cibo. Seguiva il giornalista mia¬golando per attrarre l'attenzione con quella sua voce squillante da siamese, tirandogli l'accappatoio di spugna, balzando nei cassetti dell'armadio man mano che veni¬vano aperti.
— Che cravatta mi devo mette¬re? — gli chiese Qwilleran. Ce n'erano poche nella sua collezio¬ne... per lo più di lana scozzese, con una predominanza di rosso. Erano appese per tutto l'apparta¬mento, sulle maniglie delle porte e sugli schienali delle sedie. — Forse dovrei mettermene una un po' funerea, per colpire favore¬volmente Percy. Oggigiorno ci adeguiamo tutti un po' troppo alle regole. Voi gatti siete rimasti gli unici veri esseri liberi.
Koko sbatté le palpebre a con¬ferma di quelle parole.
Qwilleran tese la mano per prendere una stretta striscia di la¬na blu marina che era appesa al braccio mobile di una lampada a stelo. — Maledizione alle tarme! Un'altra cravatta rovinata.
Koko emise un lieve squittio di comprensione. Il giornalista, do¬po aver esaminato il bordo rosic¬chiato della cravatta, decise di mettersela ugualmente.
— Se ti vuoi rendere utile — disse al gatto — perché non ti oc¬cupi seriamente delle tarme e non la smetti di sprecare il tempo con le ragnatele?
Koko, da quando era venuto a vivere con Qwilleran, aveva svi¬luppato una strana perversione. In quel vecchio e umido edificio c'era una gran quantità di ragni e, per quanto fossero veloci nel tes¬sere la loro tela, Koko riusciva a distruggere tutti quei fili scintil¬lanti.
Qwilleran si cacciò l'estremità rosicchiata della cravatta dentro la camicia e mise in tasca la pipa ricurva raffigurante la testa di un bulldog. Poi arruffò il pelo di Koko in una specie di saluto e uscì dall'appartamento di Blenheim Place.
Quando arrivò finalmente nel¬l'atrio del Daily Fluxion, i capelli erano stati tagliati, i baffi legger¬mente sfoltiti e le scarpe gareggia¬vano con il lucido marmo nero delle pareti. Si vide riflesso di profilo nel marmo e tirò indietro la pancia che cominciava a mo¬strare una lieve convessità.
Non pochi occhi si girarono a guardarlo. Da quando era arriva¬to al Fluxion, sette mesi prima, con quei grossi baffi, la pittoresca pipa e un passato piuttosto miste¬rioso, Qwilleran aveva continuato a essere al centro delle congetture più svariate. Tutti sapevano che aveva un passato notevole di cro¬nista di nera a New York e a Chi¬cago. Dopo di allora, per alcuni anni era scomparso. E adesso svolgeva un lavoro tranquillo in un quotidiano del Midwest e tene¬va, fra tutti gli argomenti possibili di cui si sarebbe potuto occupare, una rubrica di arte.
La porta dell'ascensore si aprì. Qwilleran si scostò mentre diversi membri del personale femminile uscivano per i vari incarichi mat¬tutini o per l'intervallo del caffè. Mentre gli sfilavano davanti le squadrò tutte con occhio critico. Una era troppo vecchia, quell'al¬tra era troppo scialba, la giornali¬sta di moda troppo aggressiva, quella che si occupava della cro¬naca mondana era sposata.
Quest'ultima lo guardò con espressione di finto rimprovero. — Sei proprio fortunato — gli dis¬se. — C'è gente alla quale va tut¬to bene. Ti odio!
Qwilleran la guardò allontanar¬si ancheggiando e balzò sull'a¬scensore un attimo prima che le porte automatiche si richiudes¬sero.
— Chissà che cos'ha voluto di¬re — bofonchiò.
In cabina c'era un altro passeg¬gero: una bionda che lavorava al¬l'ufficio pubblicitario. — Ho ap¬pena sentito la notizia... Congra¬tulazioni! — E scese dall'ascenso¬re al piano successivo.
Mentre raggiungeva la sua re¬dazione con le file di scrivanie metalliche verdi, macchine per scrivere verdi e telefoni verdi, Qwilleran si sentiva salire grandi speranze sotto la cravatta rosic¬chiata.
Arch Riker, il caporedattore, gli fece cenno.
— Resta nei paraggi — disse. — Percy ha indetto una riunione per le dieci e mezzo. Probabil¬mente vuole discutere di quella ri¬dicola W del tuo nome. Hai già visto la prima edizione? — Gli al¬lungò un giornale attraverso la scrivania e gli indicò un titolo a caratteri cubitali: Giudice abban¬dona il proprio seggio dopo accwsa di concwssione.
Riker disse: — Nessuno si è ac¬corto del refuso se non dopo che è iniziata la distribuzione del giornale. Per colpa tua sono tutti con¬fusi in redazione e in tipografia.
— Il mio è un serio nome scoz¬zese — ribatté Qwilleran, a pro¬pria discolpa. Poi si chinò sulla scrivania di Riker e proseguì: — Stamane ho avuto delle vibrazioni positive. Penso che Percy stia per affidarmi un nuovo incarico.
— Se è vero mi giunge nuova.
— Da sei mesi costituisco la fi¬gura più assurda del giornalista: un cronista di nera assegnato alla critica d'arte.
— Se non era di tuo gradimen¬to potevi fare a meno di accettare l'incarico.
— Sai che avevo bisogno di la¬vorare. E mi era stato promesso un posto di capo cronista non ap¬pena si fosse liberata la poltrona.
— Tanti auguri! — ribatté l'al¬tro in tono smorzato.
— Credo che stia per succedere qualcosa, e tutti ne sono al cor¬rente tranne noi due.
Riker si appoggiò allo schienale della poltrona e incrociò le brac¬cia sul petto. — È assiomatico nel mondo della comunicazione che le persone più direttamente coin¬volte siano anche le ultime a co¬noscere le novità che le riguar¬dano.
Quando giunse il segnale di convocazione, Riker e Qwilleran raggiunsero l'ufficio del direttore ed entrarono dicendo: — Buon giorno, Harold.
Il capo veniva chiamato Percy solo dietro le spalle.
Il direttore alla pubblicità era già nella stanza e si stava rimboc¬cando le maniche. Il capo servizi fotografici sedeva guardandosi at¬torno con espressione annoiata. La caporedattrice della pagina femminile se ne stava lì con in te¬sta uno strampalato cappello di zebra e lanciò a Qwilleran una lunga occhiata amichevole che lo mise in imbarazzo.
Fran Unger aveva un fascino caramelloso di cui lui diffidava. Era stufo delle donne manager, tanto più che a suo tempo ne ave¬va sposata una.
Qualcuno chiuse la porta e Harold fece ruotare la poltrona gire¬vole per guardare in faccia Qwil¬leran.
— Qwill, ti devo delle scuse. Avrei dovuto parlartene dieci giorni fa. Probabilmente ti saran¬no già giunte voci in proposito, ed è stato scorretto da parte mia te¬nerti all'oscuro. Mi dispiace. So¬no stato impegolato con la com¬missione municipale anticrimine, ma so che questa non è una scu¬sante.
In realtà era un buon diavolo, si disse il giornalista agitandosi un po' a disagio sulla sedia.
— Ti avevamo promesso un al¬tro incarico non appena si fosse presentata l'occasione giusta — proseguì il direttore editoriale. — E adesso è saltata fuori. Stia¬mo per lanciare un progetto di grande peso per tutta l'industria editoriale e, potrei aggiungere, una miniera d'oro per il Daily Fluxion. Questa città è stata scel¬ta per un esperimento mirante a determinare se la pubblicità na¬zionale usualmente diffusa attra¬verso le riviste possa essere egual¬mente efficace anche nei quoti¬diani dei centri più importanti.
Il direttore alla pubblicità dis¬se: — Se si dovesse appurare che è così, potremo raddoppiare le nostre tariffe. Il profitto per que¬sto solo anno sperimentale sarà superiore al milione di dollari.
— Anche il Morning Rampage cercherà di assicurarsi questa pos¬sibilità — aggiunse Percy. — Ma con i nostri nuovi macchinari e le nostre nuove tecniche per la ri¬produzione a colori, noi siamo in grado di garantire un prodotto su¬periore.
Qwilleran si accarezzò nervosa¬mente i baffi.
— Sarà compito tuo, Qwille¬ran, fare un inserto speciale della domenica per ventidue settimane, formato rivista e a colori
Il giornalista percorse subito mentalmente tutte le possibilità offerte da quell'occasione: imma¬ginò importanti processi in tribu¬nale, campagne elettorali, tribune politiche, manifestazioni sportive e magari anche viaggi all'estero. Si schiarì la gola.
— Questo supplemento proba¬bilmente verterà su argomenti di carattere generale.
— Nel tipo di approccio sì — rispose Percy. — Ma dovrà essere specifico, quanto a contenuto. Noi vogliamo che tu ti occupi di un settimanale che tratterà di de¬sign per interni.
— Di che cosa? — ribatté Qwilleran, in un inconsapevole falsetto.
— Sì, arredamento di interni. L'esperimento sarà sponsorizzato dalle industrie produttrici del campo.
— Arredamento di interni? — Qwilleran ebbe un fremito gelido nei baffi. — Credo che sarebbe più indicata una donna per questo genere di cose.
Fran Unger intervenne in tono zuccheroso. — La mia redazione avrebbe voluto occuparsene, Qwill, ma secondo Harold oggi¬giorno moltissimi uomini sono in¬teressati alla casa. Lui vuole evi¬tare il punto di vista prettamente femminile e attirare un pubblico di lettori più vasto verso la rivista Belle Dimore.
A Qwilleran parve di essersi in¬ghiottito i baffi e di averli in gola.
— Belle Dimore? È questo il nome della rivista?
Percy annuì. — A mio parere questo titolo dà il messaggio giu¬sto. Fascino, vivibilità e buon gu¬sto. Tu puoi scrivere articoli sulle case di lusso, sugli appartamenti di prestigio, sulle residenze dei VIP e sul modo di vivere di questa gente.
Qwilleran si tastò la cravatta rosicchiata.
— Vedrai che il tuo nuovo incarico ti piacerà — lo rassicurò Fran Unger. — Dovrai lavorare con gli architetti di interni, che sono per¬sone assolutamente deliziose.
Qwilleran si chinò a guardare Percy con espressione seria. — Sei sicuro di volere me per questo incarico? Tu conosci i campi nei quali ho lavorato. Non capisco as¬solutamente niente di arredamen¬ti di interni.
— Nella pagina artistica hai fatto un magnifico lavoro anche sen¬za saperne niente di arte — ribat¬té l'altro. — Nel nostro mestiere la specializzazione può essere un intralcio. Per questo nuovo incari¬co basta essere un giornalista con una buona esperienza alle spalle, una persona creativa e piena di ri¬sorse. Sono sicuro che, se avrai qualche difficoltà all'inizio, Fran sarà lieta di darti una mano.
Qwilleran si agitò sulla sedia.
— Ma sì, certo — disse Fran Unger. — Possiamo lavorare in¬sieme, Qwill, io ti guiderò nella direzione giusta. — E ignorando la faccia scura di lui, proseguì: — Per esempio, potresti comin¬ciare dallo Studio Sorbonne, fan¬no progetti per le società e per il jet-set. E poi continuare con la Lyke e Starkweather: sono i più grossi architetti di interni della città. — Fece finta di svenire. — David Lyke è assolutamente ado¬rabile!
— Ci credo — rispose Qwille¬ran con una smorfia cupa. Aveva la sua opinione personale sugli arredatori di interni, sia maschi sia femmine.
— E poi c'è la signora Middy che si occupa di interni americani dell'inizio del secolo. E inoltre c'è un nuovo studio, che si chiama BRUPI, specializzato, cioè in Brut¬tezza Pianificata.
Poi, Percy disse una cosa che gettava una nuova luce sulla pro¬posta. — Questo incarico com¬porterà maggiori responsabilità e, di conseguenza, avrai uno scatto di categoria: passerai da redattore a vice caporedattore.
Qwilleran fece un rapido calco¬lo e gli risultò una cifra che sareb¬be bastata a consentirgli un luogo decente in cui vivere e a pagare alcuni vecchi debiti. Si tirò i baffi. — Be', penso che potrei provarci. Quando vorresti che cominciassi?
— Ieri. Sappiamo, per puro ca¬so, che il Morning Rampage usci¬rà con il supplemento il primo di ottobre. Vorremmo batterlo sul tempo.
Queste parole diedero il colpo di grazia alle sue ultime resisten¬ze. La prospettiva di battere la concorrenza fece ribollire l'in¬chiostro nelle vene di Qwilleran. La sua prima reazione inorridita alla proposta si trasformò improv¬visamente in un'orgogliosa ade¬sione. E, quando Fran Unger gli sorrise amichevolmente e disse: — Ci divertiremo molto con que¬sto lavoro, Qwill — lui per poco non le rispose: "Sorella, giù le zampe dalla mia rivista!".
Quel giorno, all'ora di pranzo, Qwilleran uscì per festeggiare l'aumento di stipendio. Acquistò una scatoletta di polpa di gran¬chio per Koko e una cravatta per sé. Un'altra cravatta di lana a scacchi rossi.

2

Con addosso la cravatta nuova e uno dei suoi completi più belli, Qwilleran uscì di casa con una certa apprensione per la sua pri¬ma visita a uno studio di arreda¬menti di interni, facendosi forza in vista di una prevedibile overdo¬se di oggetti preziosi e rari.
La Lyke e Starkweather si tro¬vava in una zona commerciale molto esclusiva ed era circondata da negozi specializzati, gallerie d'arte e sale da tè. L'ingresso era imponente. Le enormi doppie porte in legno dalle esotiche vena¬ture avevano maniglie d'argento grosse come mazze da baseball.
All'interno erano esposti mobi¬li presentati in singoli ambienti e a Qwilleran fece piacere vedere una stanza le cui pareti erano tappez¬zate con un tessuto scozzese a scacchi rossi uguale a quello della sua cravatta. Corna di cervo era¬no appese sopra un camino di le¬gno rosicchiato dai tarli e c'era un divano rivestito in pelle di cin¬ghiale in pessime condizioni che faceva pensare a vecchi palloni di calcio.
Gli venne incontro un giova¬notto magro al quale disse che vo¬leva parlare con il signor Lyke o con il signor Starkweather. Dopo un ritardo che gli parve di cattivo auspicio, un uomo dai capelli grigi comparve da dietro un paravento orientale che stava in fondo al lo¬cale. Aveva un aspetto mite e mo¬di miti.
— Se si tratta di pubblicità, la persona con la quale dovrebbe parlare è il signor Lyke — annun¬ciò al giornalista — ma in questo momento è occupato con un cliente. Mentre lei aspetta vuol dare un'occhiata attorno?
— Lei è il signor Starkwea¬ther?
— Sì, però penso che dovreb¬be parlare con il signor Lyke. È lui che...
— Se mentre aspetto lei potes¬se dirmi qualcosa su questi ogget¬ti, gliene sarei grato. — Qwilleran indicò le corna di cervo.
— Non c'è granché da dire — gli rispose l'altro, scrollando le spalle in un gesto di impotenza.
— Che cosa si vende bene, oggi?
— Più o meno tutto.
— C'è qualche colore in voga in questo momento?
— Non direi.
— Vedo che avete anche roba moderna.
— Abbiamo un po' di tutto.
La tecnica di Qwilleran non funzionava. — Come la chiamate questa? — chiese indicando uno scrittoio alto con una base a bulbo e un intarsio di uccelli e fiori eso¬tici.
— È una scrivania — disse Starkweather, poi il suo volto pri¬vo di espressione si illuminò appe¬na un poco. — Ecco il signor Ly¬ke.
Da dietro il paravento orientale si fece avanti un bell'uomo sulla trentina. Teneva il braccio attorno alle spalle di una donna di mezza età con un cappello elaborato che sorrideva, il volto arrossato ed estasiato.
Lyke stava dicendole, con una profonda voce di petto: — Vada a casa, mia cara, e dica al vecchio che lei deve assolutamente avere quel divanetto. Non gli costerà un centesimo in più dell'ultima mac¬china che si è comperato. E si ri¬cordi, mia cara, che voglio essere invitato a cena la prima volta che servirà quella superba torta al cioccolato. Non la faccia cuocere dalla sua cuoca. Voglio che la pre¬pari lei, con le sue mani, per David.
Mentre parlava, David Lyke stava accompagnando la donna verso la porta, dove si fermò chi¬nandosi a baciarla su una tempia. Dopodiché disse un arrivederci di un tempismo perfetto, carico di significati ma non sdolcinato.
Nell'attimo in cui si girò verso Qwilleran cambiò bruscamente espressione, passando dal rapi¬mento a un aplomb manageriale. Non riuscì, però, a cambiare quella degli occhi, che erano me¬ditabondi, con palpebre pesanti e lunghe ciglia. Un'altra cosa che colpiva in lui erano i capelli: can-didi come la neve e, per un certo verso, in straordinario contrasto con il volto giovane e abbron¬zato.
— Sono David Lyke — gorgo¬gliò cordialmente, tendendo la mano. I suoi occhi si abbassarono per un solo secondo, ma Qwilleran intuì che avevano valutato la cravatta scozzese e la larghezza dei risvolti della giacca. — Venga nel mio ufficio. Lì potremo parla¬re senza essere disturbati.
Il giornalista lo seguì in una stanza dalle pareti grigio scuro. Sul lustro pavimento di ebano era distesa una pelle di leopardo. Vi¬de delle poltrone quadrate, in¬gombranti e mascoline, rivestite con un tessuto a trama rada. Sulla parete in fondo era appeso il ri¬tratto di una donna nuda la cui pelle era di un luminoso grigio az¬zurro che faceva pensare all'ac¬ciaio.
Qwilleran si ritrovò ad annuire con aria di approvazione. — Bello questo ufficio.
— Sono lieto che le piaccia — disse l'uomo. — Non trova che il grigio è terribilmente civilizzato? Io chiamo questa sfumatura di grigio Seme di papavero. Le sedie sono color Fico secco. Non ne posso più del Beige panna e del Bianco latte. — Tese la mano per prendere una bottiglia di cristallo. — Le andrebbe un goccio di co¬gnac?
Qwilleran rifiutò. Rispose che preferiva fumare la pipa. Poi enunciò lo scopo della sua visita e Lyke disse, con quella sua voce profonda: — Avrei voluto che non aveste chiamato la vostra rivi¬sta Belle Dimore, però! Mi fa ve¬nire in mente dei guanti color la¬vanda e le pèches Melba.
— Che generi di interni fate? — chiese il giornalista.
— Tutti i generi. Se le persone vogliono vivere come conquista¬dores, o come baroni inglesi, o reucci francesi, noi non ci oppo¬niamo.
— Se lei riuscisse a trovarci una casa importante da fotografare, la metteremmo sulla copertina del primo numero.
— A noi la pubblicità andrebbe bene — disse l'altro. — Ma non riesco a immaginare le reazioni dei nostri clienti. Sa com'è... Ogni volta che quelli di Washing¬ton scoprono che un cittadino che paga le tasse ha la moquette nella stanza da bagno, gli controllano le dichiarazioni dei redditi risalendo fino a tre anni prima. — Comin¬ciò a sfogliare uno schedario. — Ho un magnifico interno in stile georgiano coloniale nei colori champagne e mirtillo, però i lam¬padari non sono ancora arrivati... E quest'altra è una casa di città, in stile edoardiano, nei colori bé¬nédictine e prugna, però c'è stato un ritardo nella consegna dei drappeggi perché il fabbricante ha eliminato dalla produzione quel disegno.
— Ma il fotografo non potreb¬be scattare le foto da un'angola¬zione che permetta di non notare la mancanza delle tende?
Lyke parve colpito, ma poi si riprese subito e scosse la testa. — No, le finestre devono essere incluse. — Continuò a far passare le schede e a un tratto ne estrasse una. — Ecco una casa che mi pia¬cerebbe veder pubblicata da voi. Conosce G. Verning Tait? Gli ho fatto la casa in stile impero con bacheche a muro per la sua colle¬zione di giade.
— Chi è questo Tait? — chiese Qwilleran. — Sono nuovo in cit¬tà.
— Non conosce i Tait? Sono una delle vecchie famiglie che vi¬vono in quegli pseudo-castelli di Muggy Swamp... naturalmente lei sa dov'è... Molto, molto esclusi¬vo. — L'arredatore assunse un'e¬spressione mesta. — Sfortunata¬mente i clienti dal pedigree più lungo sono i più lenti a pagare i conti.
— Sono molto mondani, i Tait?
— Un tempo lo erano, ma adesso fanno una vita tranquilla. La signora Tait è... piuttosto indi¬sposta, come usa dire in quel quartiere.
— Pensa che ci permetteranno di fare delle fotografie?
— Le famiglie ricche da gene¬razioni evitano sempre la pubblicità delle loro proprietà. Ma nel caso specifico potrei usare le mie doti persuasive.
Poi presero in esame altre pos¬sibilità. Però sia l'arredatore sia il giornalista si trovarono d'accordo sul fatto che casa Tait era perfetta allo scopo. Un nome importante, un arredamento fantastico, colori brillanti e una collezione di giade per renderla ancora più interes¬sante.
— Oltre a questo — dichiarò Lyke con un sorrisetto — è l'uni¬co lavoro che sono riuscito a por¬tar via allo Studio Sorbonne. Mi darebbe una grande soddisfazione vedere casa Tait sulla copertina di Belle Dimore.
— Se ci riesce mi chiami imme¬diatamente — disse Qwilleran. — Stiamo combattendo contro il tempo, per quanto riguarda il pri¬mo numero. Le dò il telefono di casa.
Glielo annotò su un biglietto da visita del Daily Fluxion e si alzò per accomiatarsi.
David Lyke gli strinse la mano con sincera cordialità. — Posso darle un consiglio paterno?
Il giornalista gli lanciò un'oc¬chiata preoccupata.
— Non definisca mai "tende" i drappeggi — proseguì l'altro, sorridendogli in modo accattivan¬te.
Qwilleran rientrò in ufficio ri¬flettendo sulla complessità della sua nuova attività e pregustando il piacere del pranzo che tra poco avrebbe consumato nel familiare squallore del Press Club, dove il colore delle pareti faceva pensare al filetto di manzo à point.
Sulla scrivania trovò un messag¬gio da parte di Fran Unger, che lo pregava di chiamarla. Fece il nu¬mero con una certa riluttanza.
— Ho cominciato a lavorare al nostro progetto — gli disse la donna. — E ho qualche idea per te. Hai una matita a portata di mano? Per prima cosa c'è una ca¬sa colonica in stile neoclassico che è stata trasformata in una casa da tè giapponese. E ancora, un atti¬co con moquette alle pareti e sul soffitto e con un acquario sotto il pavimento a vetri. E poi so del¬l'esistenza di un'incredibile came¬ra da letto padronale tutta in tre sfumature di nero, a eccezione del letto che è di ottone. Questo do¬vrebbe bastare per fare tutto il primo numero.
Qwilleran sentì vibrare i baffi. — Be', grazie, ma ho già tutto il materiale necessario per quel nu¬mero — rispose, consapevole di stare spudoratamente mentendo.
— Davvero? Per essere un principiante ti sei mosso alla svel¬ta! Che cos'hai preparato?
— È una storia lunga e compli¬cata — dichiarò lui, tenendosi sul¬le generali.
— Mi piacerebbe molto sentir¬la. Vai a far colazione al Press Club?
— No — le d sse dopo un atti¬mo di esitazione. — In realtà sono stato invitato a un circolo pri¬vato da un arredatore.
Fran Unger era una buona gior¬nalista e non si lasciava smontare facilmente.
— E allora perché non ci vedia¬mo per un aperitivo al Press, ver¬so le cinque e mezzo?
— Mi spiace — ribatté lui, sfor¬zandosi di essere il più gentile possibile. — Ma ho un appunta¬mento per cena in centro... sul presto.
Alle cinque e mezzo si rifugiò nell'isolamento del proprio ap¬partamento, portandosi appresso un pezzo di salame di fegato e due panini alla cipolla. Avrebbe di gran lunga preferito mangiare al Press Club, di cui amava l'atmo¬sfera, le dimensioni delle bistec¬che e la compagnia dei colleghi. Ma nelle ultime due settimane aveva preferito evitare la sua tana preferita. I guai erano cominciati quando, al ballo dei fotografi, aveva danzato con Fran Unger. Evidentemente nei fox-trot di an¬nata di Qwilleran c'era qualcosa di magico che le aveva fatto na¬scere delle illusioni perché, da al-lora, aveva cominciato a non dar¬gli requie.
— Non riesco a liberarmi di quella donna — disse a Koko, mentre affettava il salame di fega¬to. — Non che sia brutta, ma non è il mio tipo. Ho già avuto la mia buona razione di donne autorita¬rie. E poi la pelliccia di zebra mi piace solo sulle zebre.
Tagliò dei pezzetti di salame co¬me apertivo per Koko, ma il gatto era troppo impegnato a far scatta¬re le mascelle nel tentativo di af¬ferrare una sottile ragnatela so¬spesa tra le gambe della sedia.
Solo quando, un momento do¬po, squillò il telefono l'animale gli rivolse la sua attenzione. Ne¬gli ultimi tempi aveva dato segni di gelosia nei confronti del tele¬fono. Tutte le volte che Qwilleran parlava nel ricevitore, Koko gli slacciava le stringhe oppure azzannava il filo dell'apparec¬chio. A volte saltava sulla scriva¬nia e cercava di staccargli la cor¬netta dall'orecchio. Quando lo udì chiedere: — Pronto? Buone nuove? — fece il solito balzo sul¬la scrivania e cominciò a rendersi insopportabile.
Qwilleran lo cacciò.
— Benissimo. Quando potre¬mo fare le foto?
Ora Koko stava andando su e giù per la scrivania, nel tentativo di trovare qualche altra possibilità di combinare guai. Riuscì a impi¬gliarsi una zampa nel cordone del telefono e cominciò a miagolare indignato.
— Scusi, non riesco a sentirla bene — disse il giornalista. — Il gatto sta scoperchiando la casa... No, non lo sto picchiando... Resti in linea.
Liberò Koko e lo cacciò via, poi si annotò l'indirizzo che David Lyke gli stava dando.
— Ci vediamo lunedì mattina a Muggy Swamp. La ringrazio, mi è stato di grande aiuto.
Il telefono quella sera squillò una seconda volta. E all'altro ca¬po del filo si udì la voce cordiale di Fran Unger.
— Pronto, sei già a casa?
— Sì, sono a casa. — Conti¬nuava a tener d'occhio Koko che era di nuovo saltato sulla scri¬vania.
— Credevo mi avessi detto di avere un appuntamento impor¬tante, questa sera.
— Sì, ma ho finito prima del previsto.
— Sono al Press Club — disse lei con voce caramellosa. — Per¬ché non mi raggiungi? Siamo tutti qui a bere come spugne.
— Smamma! — urlò il giornali¬sta a Koko che stava cercando di comporre un numero col naso.
— Che cos'hai detto?
— Stavo parlando col gatto. — Diede una spinta a Koko, che strizzò gli occhi e rimase dov'era guardandolo con espressione de¬terminata, aspettando la mossa successiva.
— Tra l'altro — stava dicendo la voce carezzevole — quando mi farai conoscere Koko?
— Yow — esclamò l'interessa¬to, centrando il suo assordante miagolio proprio nell'orecchio di Qwilleran.
— Silenzio! — urlò il giorna¬lista.
— Come?
— Dannazione! — imprecò lui, alla vista di Koko che rovesciava per terra un posacenere pieno.
— Be'... — La voce di Fran Unger si fece dura. — La tua ospitalità mi sconvolge.
— Stammi a sentire, Fran, in questo momento mi è successo un guaio... — Intendeva darle una spiegazione, ma avvertì un clic. — Pronto!
Un silenzio mortale fu la sola risposta e subito dopo si udì il se¬gnale di libero. La comunicazione era stata tolta. Koko stava ritto con una zampa premuta sulla for¬cella del ricevitore.

3

Quando Qwilleran si presentò al laboratorio fotografico quel lune¬dì mattina, per cercare il fotogra¬fo incaricato di accompagnarlo, trovò Odd Bunsen che stava cac¬ciando l'attrezzatura in una sacca, protestando rumorosamente.
Bunsen era il fotografo del Dai¬ly Fluxion specializzato in disastri ferroviari e in incendi. Ed era sta¬to assegnato a tempo pieno a Bel¬le Dimore.
— È un lavoro da vecchi — si lamentò. — Non ho ancora inten¬zione di scendere dal pennone, io.
Bunsen, che di recente si era arrampicato sul pennone di un grattacielo per riprendere da vici¬no i fuochi d'artificio del 4 luglio, possedeva una sovrabbondanza di difetti e di qualità che divertivano Qwilleran. Era il più temerario dei fotografi del giornale, aveva la voce più tonante e fumava i sigari più lunghi e più pestilenziali. Al Press Club era il più affamato e il più assetato. Aveva un numero spropositato di figli e il suo porta¬fogli era sempre il più piatto.
— Se non fossi al verde me ne andrei — disse a Qwilleran, men¬tre si incamminavano in direzione del parcheggio. — Per tua infor¬mazione personale, spero che quella stupida rivista faccia un bel tonfo. — Con molta difficoltà e altrettante imprecazioni ficcò la sacca, il treppiede, i flash e i loro supporti nella piccola biposto di marca straniera.
Qwilleran, infilandosi a fatica nell'angusto spazio rimasto, cercò di rallegrare il fotografo. — Quando cambierai questa scatola di sardine con una macchina vera?
— È l'unica vettura che funzio¬na a miscela — gli rispose l'altro. — Ne basta una goccia per dieci miglia.
— Voi fotografi siete troppo avari.
— Quando si hanno sei figli e ipoteche da pagare, oltre ai conti dei dentisti...
— Perché non elimini quei si¬gari così cari? — Devono costare almeno tre cent l'uno.
Imboccarono Down River Road quando il fotografo chiese: — Chi ti ha appioppato questo servizio? Fran Unger?
— I miei servizi me li appioppo da solo — rispose Qwilleran con i baffi ritti.
— Da quanto ho sentito dire da Fran al Press Club, pensavo che fosse stata lei a imbastire tutta questa faccenda.
Il giornalista bofonchiò.
— Dopo che ha bevuto un paio di Martini parla molto — disse Bunsen. — Sabato sera ha addi¬rittura buttato lì che a te non piacciono le donne. — Devi aver¬le fatto qualcosa che le brucia da morire.
— È il stato il mio gatto. Fran mi ha telefonato a casa e Koko ha tolto la comunicazione.
— Quel gatto ti metterà nei guai — predisse il fotografo.
Si immisero sulla sopraelevata piena di traffico e procedettero in silenzio fino all'uscita per Muggy Swamp.
— È strano che non abbiano mai dato un nome decente a quel posto.
— Tu non capisci la psicologia delle classi alte — gli rispose Qwilleran. — Probabilmente vivi in qualche grazioso condominio.
— Io? Abito a Happy View Woods, quattro camere da letto e una grossa ipoteca.
— È proprio quello che inten¬devo dire. I Tait non vivrebbero neanche morti in un posto chia¬mato Happy View.
Le strade tortuose di Muggy Swamp offrivano scorci di castelli francesi e di ville inglesi, tutti isolati nel suo boschetto di alberi se¬colari. La residenza dei Tait era una elaborata costruzione in stile spagnolo, decorata a stucchi con una cancellata di ferro che si apri¬va su un grande cortile e la porta d'ingresso, massiccia e borchiata, era fiancheggiata da lanterne di ferro.
David Lyke accolse i giornalisti sulla soglia e li fece entrare in un atrio dal pavimento a scacchi bianchi e neri. Una sfinge di bron¬zo sosteneva una lastra di marmo bianco sulla quale era posato un candelabro a diciassette bracci.
— Pazzesco! — esclamò Bun¬sen.
— Suppongo le serva un po' di aiuto per prendere la sua attrezza¬tura — disse Lyke. Fece un cenno a un cameriere che guardò con dolci occhi adoranti il giovane ar¬chitetto dai capelli bianchi. — Paolo, datti da fare e aiuta questa magnifica gente del giornale... Vedrai che ti faranno una foto da mandare ai tuoi in Messico.
Il ragazzo si affrettò a dare una mano a Bunsen per portar dentro la pesante sacca con l'attrezza¬tura.
— Conosceremo i Tait? — chiese Qwilleran.
David Lyke parlò con voce bas¬sa. — Il capo è rinchiuso da qual¬che parte, a staccare cedole e a curarsi la schiena. Verrà fuori so¬lo quando noi ci metteremo a ur¬lare "Giada!" È un tipo strano!
— E la moglie?
— Compare di rado, e di que¬sto dobbiamo tutti esserle grati.
— È stato difficile ottenere la loro autorizzazione?
— No, il padrone di casa è sta¬to sorprendentemente gentile. Siete pronti per il giro?
Spalancò le doppie porte e con¬dusse i due giornalisti in un salot¬to di un verde brillante arredato con divani e poltrone di seta bian¬ca. C'erano uno scrittoio di ebano decorato in oro e un telefono stile francese su un piedistallo dorato. Accostato alla parete di fronte, non si poteva fare a meno di nota¬re un grande armadio di legno dalle raffinate venature.
— Quell'armadio Biedermeier — spiegò Lyke, inarcando un so-pracciglio — apparteneva alla fa¬miglia e siamo stati costretti a usarlo. Le pareti e il tappeto sono di un verde prezzemolo e le pol¬trone si possono definire color fungo. Quanto alla casa, è spa¬gnola e risale circa al 1925. Ab¬biamo dovuto squadrare gli archi, togliere i pavimenti di piastrelle e rifare le pareti da cima a fondo.
Mentre Lyke si aggirava per la stanza raddrizzando paralumi e li¬sciando le pieghe dei tendaggi ela¬boratamente drappeggiati, Qwilleran osservava lo splendore che lo circondava e annusava il profu¬mo di dollari.
— Se i Tait conducono una vita tranquilla — bisbigliò — perché tutto questo?
L'architetto gli strizzò l'occhio. — Io sono un buon venditore. Lui voleva un ambiente all'altezza della sua collezione di giade, che valgono tre quarti di milione di dollari. Ovviamente questa è una notizia da non pubblicare.
La caratteristica più insolita del salotto era costituita da una serie di nicchie nelle pareti, chiuse da vetri e incorniciate da stucchi in stile classico.
Sui ripiani di vetro erano siste¬mate decine di oggetti delicata¬mente incisi in nero e in un bianco trasparente, e l'illuminazione era stata abilmente predisposta al fine di creare un'aura di mistero.
Odd Bunsen bisbigliò: — Sono quelle le giade? A me sembrano saponette, se volete il mio parere.
— Ma la giada non dovrebbe essere verde? — disse il giorna¬lista.
— Le giade verdi sono in sala da pranzo — li informò Lyke.
Il fotografo cominciò a prepa¬rare il treppiede e le luci e, intan¬to, l'architetto dava a Qwilleran informazioni sull'arredamento.
— Quando scriverà l'articolo su questa casa, chiami l'armadio Biedermeier armoire e le poltrone con i braccioli imbottiti fauteuils.
— Aspetti che i miei colleghi del Fluxion leggano questa roba — disse Qwilleran. — Si faranno delle risate pazzesche.
Intanto Bunsen stava lavoran¬do con la sua solita concentrazio¬ne e scattava foto sia in bianco e nero sia a colori. Armeggiava con le luci e scattava da varie angola¬zioni, spostava mobili di pochi centimetri, poi li rimetteva a po¬sto e se ne stava a lungo immobile per la messa a fuoco. Il cameriere gli faceva da volonteroso assisten¬te e ogni tanto gli intralciava il lavoro.
Poi Bunsen si lasciò cadere su una poltrona di seta bianca. — Devo assolutamente fermarmi per un minuto e fumare. — Estrasse un lungo sigaro dalla ta¬sca superiore del giubbotto.
David Lyke fece una smorfia e si guardò alle spalle. — Vuole far¬ci sparare? La signora Tait detesta il fumo e lo avverte a un chilome¬tro di distanza.
— Be', ecco soffocato sul na¬scere questo mio piccolo deside¬rio! — esclamò Bunsen, e con irri¬tazione si mise di nuovo all'opera.
Qwilleran gli disse: — Ci servo¬no dei primi piani delle giade.
— Non posso fotografare attra¬verso il vetro.
— Il vetro si può togliere — chiarì Lyke. — Paolo, ti spiace andare a dire al signor Tait che abbiamo bisogno della chiave del¬le bacheche?
Il collezionista di giade, un uo¬mo sulla cinquantina, arrivò quasi subito. Il suo volto era radioso. — Volete vedere le mie giade? Quali bacheche devo aprirvi? Le foto¬grafie saranno a colori, vero? — Aveva un volto privo di rughe, dalla pelle rosata, e teneva gli an¬goli della bocca contratti in un abbozzo di sorriso. Qwilleran si dis¬se che faceva pensare a un uomo potente un po' rammollito con gli anni. La camicia di seta sportiva lasciava vedere i folti peli che gli coprivano le braccia, mentre il cranio era completamente pelato.
I pannelli a piombo, delle vetrinette erano stati applicati con marchingegni metallici invisibili. Le aprì Tait stesso, dopo essersi messo un paio di guanti per non sporcarle.
Frattanto Lyke aveva comincia¬to a recitare una sorta di litania in tono formale. — Il signor Tait ha generosamente accettato di mo¬strare la sua collezione ai vostri lettori, signori. Il signor Tait ritie¬ne che il collezionista privato, ac¬cumulando opere d'arte che di¬versamente sarebbero esposte nei musei, abbia un obbligo nei con¬fronti del pubblico. Egli quindi consente che questi pezzi rari ven¬gano fotografati affinché la comu¬nità possa ricavarne insegnamen¬to e godimento estetico.
Qwilleran chiese: — Posso cita¬re queste parole come sue, signor Tait?
Il collezionista non gli rispose. Era troppo assorto nella sua colle¬zione. Prese con cautela, da uno dei ripiani di vetro, una teiera di giada di un bianco purissimo, molto sottile.
— Questo è il mio pezzo più bello — esclamò con voce tre¬mante. — La giada, d'un purissi¬mo bianco, è la più rara. Non dovrei fargliela vedere per prima, forse. Dovrei tenerla in serbo per il gran finale. Ma questa teiera mi entusiasma in un modo indicibile. È del bianco più puro che io abbia mai visto ed è sottile come un pe¬talo di rosa. Può scriverlo nel suo articolo. Sottile come un petalo di rosa!
Rimise a posto la teiera e co¬minciò a togliere sistematica¬mente altri oggetti da altri ripiani. — Questa è una campanellina ci¬nese e ha quasi tremila anni... E questo è un idolo messicano che, a quanto si dice, dovrebbe guarire certe malattie. Sfortunatamente non il mal di schiena. — Contras¬se gli angoli della bocca come se si divertisse per una battuta incom¬prensibile agli altri.
— Tutti questi oggetti sono ca¬richi di piccolissimi dettagli — os¬servò Qwilleran.
— Un tempo gli artisti passava¬no un'intera vita a intarsiare un singolo ninnolo — gli spiegò Tait. — Ma non tutte le mie giade sono opere d'arte. — Si avvicinò a uno scrittoio e aprì un cassetto. — Questi sono utensili primitivi fatti con la giada. Lame di accette, scalpelli, arpioni... — Depose gli oggetti, a uno a uno, sul ripiano.
— Non occorre che lei tiri fuori ogni cosa — disse Qwilleran. — Ci limiteremo a fotografare i pez¬zi lavorati. — Ma il collezionista continuò a svuotare il cassetto maneggiando ogni singolo pezzo con timore reverenziale.
— Avete mai visto la giada grezza? — chiese. — Questo è un pezzo di antibolo.
— Bene, mettiamoci al lavoro — disse Bunsen. — Cominciamo a fotografare questo tesoro paz¬zesco.
Tait porse a Qwilleran un me¬daglione intarsiato. — Lo tocchi.
— È freddo — dichiarò il gior¬nalista.
— È sensuale, come la carne umana. Quando maneggio la gia¬da mi sento ribollire il sangue.
— Ci sono molti libri sulle gia¬de? — chiese Qwilleran. — Vor¬rei documentarmi un po'.
— Venga nella mia libreria — rispose il collezionista. — Ho tut¬to quello che è stato scritto sul¬l'argomento.
Tirò giù un volume dopo l'altro dai vari ripiani: di argomento tec¬nico, memorie, romanzi... e tutti trattavano di quella pietra fredda e sensuale.
— Vuole prenderne qualcuno in prestito? Me li può restituire quando vuole. — Poi mise una mano in un cassetto della scriva¬nia e posò sul palmo di Qwilleran un oggetto a forma di bottone. — Tenga, lo prenda come portafor¬tuna.
— No, non posso accettare una cosa di tanto valore — rispose il giornalista tastando la liscia sfera di pietra. Era verde, come lui pensava dovesse essere la giada.
Tait insistette. — Desidero che l'accetti. Non ha un gran valore di per sé. Probabilmente si tratta semplicemente della pedina di qualche gioco giapponese. La ten¬ga come portafortuna. L'aiuterà a scrivere un bell'articolo sulla mia collezione. — Contrasse di nuovo gli angoli della bocca. — E chissà, magari le darà anche l'idea di di¬ventare collezionista di giade, e questa è la cosa migliore che può succedere a una persona.
Tait pronunciò quelle parole con un fervore religioso e Qwilleran, strofinando la pallina fredda e verde, provò di nuovo un fre¬mito.
Bunsen fotografò diversi gruppi di giade mentre il collezionista gli stava addosso come una chioccia, nervoso ed eccitato. Poi il foto¬grafo cominciò a raccogliere la sua attrezzatura.
— Aspetti — disse Lyke. — C'è un'altra stanza che dovreste vedere, se ci viene consentito. Il boudoir della signora Tait è ma¬gnifico! — Si girò verso il padrone di casa. — Che ne dice?
Qwilleran colse un'occhiata si¬gnificativa tra i due uomini.
— La signora Tait non sta bene — spiegò Tait. — Comunque, va¬do a vedere se è possibile.
Uscì dalla stanza e ricomparve solo dopo parecchi minuti. Il cra¬nio calvo era singolarmente arros¬sato, come il volto. — Mia moglie è d'accordo, ma vi prego di fare il più in fretta possibile.
Mentre Bunsen portava la mac¬china fotografica e il treppiede e Paolo lo seguiva con i riflettori, Tait fece strada per un corridoio il cui pavimento era ricoperto da moquette e li condusse verso un'ala isolata della casa.
Il boudoir era costituito da un salottino che fungeva anche da ca¬mera da letto, arredato sontuosa¬mente. Ogni singola cosa aveva un che di morbido e di delicato. Il letto era sovrastato da un baldac¬chino di seta azzurra. La chaise longue, carica di cuscini, era di velluto azzurro. C'era una sola nota stridente: una poltrona a ro¬telle. Su di essa sedeva una donna dai lineamenti minuti e molto marcati. Il viso era teso in un'e¬spressione che poteva essere di sofferenza ma anche di petulanza. E il colorito della pelle faceva pensare al pallore di una bionda di salute cagionevole.
Lei fece un secco cenno del ca¬po durante le presentazioni men¬tre cercava di tranquillizzare un grazioso gatto siamese che le sta¬va in grembo, raggomitolato su un cuscino. Il felino aveva grandi occhi azzurro lavanda ed era leg¬germente strabico.
Bunsen, cercando di compor¬tarsi con affabilità, disse: — Be'... guardate chi c'è... un bel gattino dagli occhi strabici!
— Stia zitto! — disse la signora Tait bruscamente. — La spaven¬ta.
Con il tono di voce bassa che si assume nella stanza di una perso¬na ammalata Tait mormorò: — Il gatto si chiama Yu, che è l'antico nome cinese per "giada".
— Non Yu — si intromise la donna, lanciando al marito uno sguardo carico di veleno. — Il suo nome è Freja. — Accarezzò il gatto e il corpicino morbido e pe¬loso si adagiò meglio sul cuscino.
Bunsen girò le spalle alla pol¬trona a rotelle e cominciò a fi¬schiettare sommessamente, men¬tre sistemava l'obiettivo della macchina.
— Ci ha messo un bel po' per quattro fotografie! — commentò l'ammalata con voce singolarmen¬te roca.
— Una rivista di tiratura nazio¬nale impiegherebbe due giorni per fare tutte le foto che ho scat¬tato io in una mattinata.
— Se intende fotografare la mia camera — ribatté lei — vo¬glio che ci sia anche il gatto nelle foto.
Un silenzio prolungato calò nella stanza mentre tutti i presenti si giravano verso Bunsen.
— Mi dispiace, ma sono sicuro che il suo gatto non starà fermo per tutto il tempo necessario per l'esposizione.
La donna disse con freddezza: — Altri fotografi non sembrano avere difficoltà a riprendere ani¬mali.
Bunsen sbarrò gli occhi. E quando parlò lo fece con malcela¬ta insofferenza. — Qui ci vuole un'esposizione molto prolungata, signora Tait. Devo bloccare l'obiettivo su un campo molto lungo per riuscire a mettere a fuoco tut¬ta la stanza.
— I suoi problemi tecnici non mi interessano. Voglio semplice¬mente che nelle foto ci sia anche Freja.
Bunsen sospirò. — Io uso un grandangolare e il gatto, se non sta proprio di fronte alla macchi¬na, risulterà solo un minuscolo puntino. E per di più si muoverà e rovinerà il tempo di esposizione.
La voce della padrona di casa si fece stridula. — Se lei non è capa¬ce di fare la fotografia come la vo¬glio io, sarà meglio che ci rinunci.
Il marito le si avvicinò. — Si¬gne, calmati — mormorò. E con una mano fece cenno agli altri di uscire dalla stanza.
Quando i due giornalisti furono lontani da Muggy Swamp, Bun¬sen disse: — Non ti dimenticare di citare il mio nome per le foto. È stato un supplizio. Ti rendi conto che ho sgobbato per tre ore senza fumare? E quella matta sulla se¬dia a rotelle è stata la ciliegina sulla torta!... Senza contare che a me non va di fotografare gatti.
— La bestiola era stranamente nervosa — commentò Qwilleran.
— Paolo mi ha aiutato molto. Gli ho allungato una mancia.
— Mi è sembrato un buon dia¬volo.
— Ha nostalgia di casa e mette da parte i soldi per tornarsene in Messico. Scommetto che Tait lo paga in noccioline!
— Lyke mi ha detto che le gia¬de valgono 750.000 dollari.
— Quello che mi brucia — dis¬se Bunsen — è che un uomo come Tait sia in grado di sbattere via tanti soldi per una teiera mentre io sudo sette camicie per pagare il conto del lattaio.
— Voi uomini sposati pensate di avere tutti i problemi di questo mondo — ribatté Qwilleran. — Almeno tu hai una casa. Guarda me. Vivo in un appartamento am¬mobiliato, mangio al ristorante e non ho più avuto un incontro de¬cente con una donna da un mese.
— Ma c'è sempre Fran Unger.
— Starai scherzando, vero?
— Un uomo della tua età non può andar troppo per il sottile.
— Uh. — Qwilleran tirò in dentro la pancia e si lisciò i baffi. — Io mi considero ancora un boc¬concino invitante, ma a quanto pare c'è scarsità di donne.
— Hai già trovato un altro ap¬partamento?
— Non ho ancora avuto il tem¬po di cercarlo.
— Perché non incarichi quel tuo gatto così intelligente? Dagli la pagina delle inserzioni e fagli fare un paio di telefonate.
Qwilleran rimase in silenzio.

4

Il primo numero di Belle Dimore andò in stampa fin troppo facil¬mente. Arch Riker disse che questo era di cattivo augurio. Nessun cliente annullò la pubblicità, il menabò non ebbe bisogno di alcu¬na correzione, l'impaginazione ri¬sultò perfetta e le bozze così im¬peccabili da far gridare al mira¬colo.
La rivista fu distribuita un saba¬to sera, semisommersa dalle mon¬tagne di fogli dell'edizione dome¬nicale. In copertina spiccava una foto della casa dei Tait di un lumi¬noso verde prezzemolo e bianco fungo. Le pagine redazionali era¬no piene di pubblicità di materas¬si e lavastoviglie. A pagina 2 c'era la foto del direttore di Belle Di¬more, con i suoi baffi spioventi e lo sguardo vacuo.
La domenica mattina David Lyke telefonò a casa di Qwille¬ran. — Ha scritto un gran bell'ar¬ticolo — gli disse con la sua voce profonda. — E grazie per le nu¬merose citazioni. Ma dove diavo¬lo hanno preso quella sua fotogra¬fia? Fa pensare a un basset-hound.
Per il giornalista quella fu una giornata molto gratificante. Gli amici lo tempestarono di telefo¬nate per congratularsi con lui. Sul tardi decise di uscire, nonostante avesse cominciato a piovere. An¬dò in un ristorante di pesce a com¬perare cibo per la cena e, nel cor¬so della serata, batté Koko al gio¬co delle parole per venti a quat¬tro.
Il gatto tirò fuori termini come stanze, sangue, polizia e perfezione. Fu come se avesse avuto una premonizione perché, il lunedì mattina, Belle Dimore si ritrovò ad aver a che fare con la polizia. Lo squillo del telefono svegliò Qwilleran molto di buon'ora. Al¬lungò il braccio per cercare la sve-glia e quando ebbe sbattuto le palpebre a sufficienza per riuscire a leggere i numeri, vide che erano le sei e mezzo. Ancora addormen¬tato raggiunse con passo strascica¬to la scrivania.
— Pronto? — disse bruscamen¬te.
— Qwill, sono Harold.
Nella voce dell'uomo c'era qualcosa di pressante che raggelò le parole in gola al giornalista.
— Parlo con Qwilleran? — urlò dall'altro capo del filo il direttore.
— In persona — fu la risposta, bassa ma stridula.
— Hai sentito le novità? Ti hanno già chiamato? — Dal tono della voce si intuiva l'incombere di un disastro.
— No, che cosa è successo? — chiese Qwilleran, ora del tutto sveglio.
— La polizia mi ha appena te¬lefonato qui, a casa. La residenza dei Tait, il pezzo forte del nostro primo numero di Belle Dimore, è stata visitata dai ladri.
— Come? E che cosa è stato rubato?
— Giade per un valore di alme¬no mezzo milione di dollari. E non è tutto. Il peggio deve ancora arrivare. La signora Tait è morta... Qwill, ci sei ancora? Mi sen¬ti?
— Ti ho sentito — rispose il giornalista con voce atona, la¬sciandosi cadere su una sedia. — Ma non riesco a crederci.
— È già tragico in sé, ma il fat¬to che ci siamo in mezzo anche noi lo rende ancora più dramma¬tico.
— Ma si è trattato di un omi¬cidio?
— No, grazie al cielo non si è arrivati a questo. A quanto pare, ha avuto un attacco cardiaco.
— Be', ma era ammalata. Può darsi che, avendo sentito dei ru¬mori sospetti...
— La polizia vuol parlare con te e con Odd Bunsen, al più pre¬sto. Vogliono le vostre impronte digitali.
— Le nostre impronte digitali? Vogliono interrogare noi?
— Non preoccuparti. È la soli¬ta prassi. Hanno detto che questo li aiuterà a selezionare quelle che troveranno in giro per la casa. Quando siete andati a fare il ser¬vizio?
— Lunedì. Giusto una setti¬mana fa. — Poi Qwilleran dichia¬rò ad alta voce quello che stavano entrambi pensando. — Questa pubblicità non farà bene alla no¬stra rivista.
— Già. Che cos'hai preparato per domenica prossima?
— Una vecchia stalla ristruttu¬rata ad abitazione. Appartiene a un rivenditore di auto usate che vuole vedere il proprio nome sui giornali. Avrei trovato un muc¬chio di case interessanti, ma i pro¬prietari non vogliono che faccia¬mo nomi e indirizzi per varie ra¬gioni.
— Adesso ne hanno un'altra in più — dichiarò Harold. — E ma-ledettamente valida!
Qwilleran riagganciò lentamen¬te e guardò nel vuoto, soppesan¬do la cattiva notizia. Durante la conversazione telefonica Koko non era intervenuto. Se ne stava rannicchiato sotto l'armadio e fis¬sava intensamente il giornalista, come se avvertisse la gravità della situazione.
Qwilleran telefonò a Bunsen a casa e, due ore dopo, erano en¬trambi alla centrale di polizia a raccontare la loro storia.
Uno degli investigatori disse: — Che cosa sta cercando di fare il vostro giornale? Perché non pub¬blica addirittura le piantine della casa per invitare al furto?
I due giornalisti spiegarono che erano andati a fotografare l'inter¬no di casa Tait e che il proprieta¬rio era arrivato con una chiave ed era stato presente all'apertura delle bacheche. Aveva voluto che fotografassero i pezzi più rari...
— Chi altro era presente men¬tre facevate le fotografie?
— L'arredatore di Tait, David Lyke, e il domestico, un certo Paolo... e poi ho intravisto una cameriera in cucina — disse Qwil¬leran.
— Avete avuto qualche contat¬to con il cameriere?
— Certamente — disse Bun¬sen. — Ha lavorato con me per tre ore. Mi ha dato una mano per le luci e per spostare i mobili. Un bravo ragazzo.
Dopo il breve interrogatorio Qwilleran fece qualche domanda esplorativa a sua volta. Ma i poli¬ziotti si guardarono bene dal ri¬spondergli. Quella faccenda non era affar suo.
Mentre uscivano dalla sede del¬la polizia Bunsen sbuffò. — Meno male che è finita. Per un momen¬to ho avuto paura che sospettasse¬ro di noi.
— La nostra professione è al di sopra di ogni sospetto. Non si è mai sentito di un giornalista che si dà al crimine. I medici fanno fuori la moglie, gli avvocati sparano al¬l'amante, i banchieri scappano con la cassa. Ma i giornalisti si li¬mitano a frequentare il Press Club, affogando nell'alcool le lo¬ro propensioni delinquenziali.
Non appena fu in ufficio per prima cosa telefonò allo studio Lyke e Starkweather. All'altro capo del filo udì subito la voce profonda di David Lyke.
— Ha sentito la notizia? — chiese il giornalista con voce cupa.
— Sì, in auto mentre venivo in centro. È un brutto affare per voi.
— Ma come sta Tait? Dev'esse¬re fuori di sé, visto quanto teneva alle sue giade...
— Stia sicuro che dovevano es¬sere assicurate. Ora potrà to¬gliersi lo sfizio di rifarsi la colle¬zione.
La mancanza di partecipazione che traspariva dalla voce dell'ar¬redatore stupì Qwilleran.
— Sì, però ha perso la moglie.
— Be', era inevitabile. Qual¬siasi cosa avrebbe potuto causare la sua morte in ogni momento. Cattive notizie in borsa, una spa¬ratoria in televisione, senza con¬tare poi che era una donna molto infelice. Era costretta da anni su una sedia a rotelle e in tutto que¬sto tempo ha fatto ballare sulla corda il marito e chi le stava attor¬no... No, non sprechi lacrime per la morte della signora Tait. Ha già abbastanza di che preoccuparsi. Pensa che la cosa avrà effetti ne¬gativi per Belle Dimore?
— Temo che la gente avrà pau¬ra di lasciar fotografare la propria casa.
— Non si preoccupi. Farò in modo che lei abbia del materiale interessante. La nostra professio¬ne ha bisogno di una rivista come la vostra. Perché non viene stase¬ra per un cocktail a casa mia? Ho invitato alcuni miei colleghi.
— Buona idea. Dove abita?
— A Villa Verandah. È quella nuova casa ad appartamenti che sembra una cialda ripiegata.
Qwilleran aveva appena riag¬ganciato quando comparve un fat¬torino che gli buttò un giornale sulla scrivania. Era l'edizione locale del Morning Rampage. Il concorrente del Fluxion aveva messo il fattaccio avvenuto in casa Tait in prima pagina, con riferi¬menti precisi riguardo a "una de-scrizione particolareggiata della collezione di giade che era stata pubblicata su un altro quotidiano alla vigilia del furto". Qwilleran si lisciò vigorosamente i baffi con le nocche e andò a cercare in reda¬zione Percy, che però era in riu¬nione con l'editore e il direttore amministrativo.
Di cattivo umore, Qwilleran tornò alla propria scrivania e guardò fissamente la macchina per scrivere. Avrebbe dovuto pre¬parare la scaletta per il numero successivo, ma c'era qualcosa che lo disturbava: la scelta del mo¬mento del furto.
La rivista era uscita il sabato se¬ra. Il furto era avvenuto la notte successiva... o domenica sera tar¬di o lunedì mattina presto. Nel giro di ventiquattro brevi ore qualcuno aveva dovuto (a) legge¬re la descrizione delle giade, (b) farsi venire in mente l'idea di ru¬barle e (c) compiere elaborati preparativi per un'azione piutto¬sto complessa. Questa gente ave¬va dovuto escogitare un piano per introdursi nella casa senza distur¬bare la famiglia o la servitù, ela¬borare un metodo per poter acce¬dere silenziosamente alle bache¬che chiuse con meccanismi inge¬gnosi, imballare con cura il botti¬no, avere a disposizione un mezzo di trasporto all'uscita della casa e, infine, programmare il tutto in modo da sfuggire alle guardie pri¬vate di sicurezza, dato che il quar¬tiere disponeva di un servizio del genere.
Qwilleran si disse che il tempo per mettere a punto una simile faccenda era stato molto poco; per portare a termine con succes¬so quell'operazione ci voleva un'organizzazione di notevole ef¬ficienza... a meno che i ladri non conoscessero casa Tait, o non avessero avuto già in precedenza informazioni sulla collezione. E se le cose stavano così, avevano scelto quella notte al fine di dan¬neggiare Belle Dimore?
Mentre Qwilleran ponderava tutte quelle possibilità, la prima edizione del lunedì del Fluxion uscì dalle rotative e il fattorino attraversò di corsa la redazione buttandone una copia su ogni scri¬vania.
Il furto in casa Tait era stato ri¬portato con molta discrezione a pagina quattro e il titolo era di basso profilo. Qwilleran lesse i sei brevi paragrafi avidamente. L'ar¬ticolo recava la firma di Lodge Kendall, il cronista di nera incari¬cato di seguire quello che succe¬deva alla centrale di polizia. Non faceva riferimento a Belle Dimo¬re. Non accennava al valore ap-prossimativo delle giade e riporta¬va un'incredibile dichiarazione del dipartimento di polizia. Qwil¬leran lesse l'ultimo paragrafo con una smorfia accigliata, poi afferrò la giacca e uscì per raggiungere il Press Club.
Il club occupava una fortezza di pietra calcarea, annerita dalla fu¬liggine, che un tempo era statala prigione della Contea. Le finestre erano strette e munite di sbarre, e molti piccioni avevano fat*o il ni¬do sulle torrette scurite dal tem¬po. All'interno le pareti ricoperte di pannelli di vecchio legno ave-vano ancora il vago odore stantio tipico degli istituti penali del di-ciannovesimo secolo. Ma la cosa peggiore, là dentro, era il rumo¬re. Le voci salivano fino al soffitto a cupola, dove si scontravano con altre voci e rimbalzavano, molti¬plicandosi in un fragore assordan¬te. Per i giornalisti quello era il paradiso.
Quando arrivò, il bar al pian¬terreno era tutto un fervore di di¬scussioni e di ipotesi su quanto era accaduto a Muggy Swamp. I furti di gioielli erano crimini ai quali giornalisti di vera e buona professionalità potevano dedicar¬si con entusiasmo e con estremo scrupolo perché erano una sfida all'intelligenza e, di regola, non danneggiavano nessuno.
Qwilleran trovò Odd Bunsen seduto in fondo al banco del bar, posto riservato per tradizione al personale del Fluxion. Lo rag¬giunse e ordinò un doppio succo di pomodoro con ghiaccio.
— Lo hai letto? — chiese al fo¬tografo.
— Sì — rispose Bunsen. — So¬no pazzi.
Parlavano a bassa voce. All'al¬tro capo del banco di mogano le voci dei giornalisti del Morning Rampage rivelavano un giubilo fin troppo manifesto. Qwilleran lanciò un'occhiata irritata alla concorrenza.
— Chi è quello col vestito chia¬ro? Quello che ride così rumoro¬samente? — chiese.
— Lavora all'ufficio tirature — gli rispose il fotografo. — Que¬st'estate ha giocato a softball con¬tro di noi. E credimi sulla paro¬la... è un verme.
— Mi fa irritare. È morta una donna e lui canta vittoria.
— Ecco che arriva Kendall — disse Bunsen. — Vediamo che co¬sa ne pensa della teoria della poli¬zia.
Il cronista di nera, un giovanot¬to serio e amante del proprio la¬voro, ostentava un'aria professio¬nale di tedio.
Qwilleran gli fece cenno di rag¬giungerli al bar, poi gli chiese: — Credi a quello che hai scritto questa mattina?
— Per quanto riguarda la poli¬zia — gli rispose Kendall — il ca¬so è aperto e chiuso. Non ha nulla a che vedere con l'articolo che avete pubblicato su casa Tait. De¬v'essersi senz'altro trattato di un lavoretto messo a punto da qual¬cuno che conosce la casa.
— È quanto avevo pensato an¬ch'io, ma non mi garba che abbiano scelto come sospetto il came¬riere. Non credo che sia stato lui.
— Però dicono che sia scom¬parso. Se non è stato Paolo a ru¬bare le giade e se non è fuggito in Messico, dov'è?
— Paolo non rientra nel qua¬dro — disse Bunsen. — Mi è par¬so un bravo ragazzo, tranquillo e timido, desideroso di dare una mano.
— Voi fotografi pensate di es¬sere bravissimi nel giudicare la gente — ribatté Kendall. — Be', ti sbagli! A detta di Tait, quel ra¬gazzo è pigro, astuto e bugiardo. Varie volte Tait aveva minacciato di licenziarlo, ma la moglie lo ave¬va sempre difeso. Il marito aveva paura di contrastarla, a causa del¬le sue condizioni fisiche...
Bunsen e Qwilleran si scambia¬rono uno sguardo incredulo e Kendall si allontanò per andare a parlare con un gruppo di giornali¬sti della televisione.
Qwilleran giocherellò per qual¬che minuto con il bottone di giada che gli aveva regalato Tait. Lo te¬neva in tasca con gli spiccioli. Poi guardò il collega. — Stamattina ho telefonato a David Lyke.
— Come l'ha presa?
— Non mi è sembrato terribil¬mente sconvolto. Ha detto che le giade erano assicurate e che la si¬gnora Tait era un'orrida creatura che ha fatto della vita del marito un lungo inferno.
— A questo ci credo... Era una strega, a dir poco. E che cosa ne pensa del fatto che Paolo sia coin¬volto nella faccenda del furto?
— Quando ho parlato con Lyke, la notizia non era stata ancora data.
Bruno, il barista del Press Club, stava nei pressi in attesa del segnale.
— No, basta — gli disse Qwilleran. — Devo andare a mangiare e poi tornare al lavoro.
— Ho visto la rivista, ieri. Ha dato a mia moglie e a me un muc¬chio di idee per arredare la casa. Aspettiamo con impazienza il prossimo numero.
— Dopo quanto è successo a Muggy Swamp forse non vedrete il prossimo numero, perché nes¬suno vorrà più lasciar fotografare la propria casa.
Bruno fece un sorriso di supe¬riorità. — Forse posso aiutarla io; se è a corto di materiale potrà fo¬tografare la mia. Ce la siamo fatta da soli.
— Che genere di casa avete? — Qwilleran attese con una certa diffidenza la risposta. Bruno era noto per essere un Leonardo da Vinci di serie C: aveva molti ta¬lenti, ma tutti di scarsa consisten¬za.
— Io ho quella che viene defi¬nita una disposizione di colori monocromatica — dichiarò il ba¬rista. — Ho un tappeto Chartreu¬se, pareti Chartreuse, tende Chartreuse e un divano Chartreu¬se.
— Molto confacente a uno che fa la tua professione — commentò Qwilleran. — Ma permettimi di correggerti su un piccolo partico¬lare. Noi non chiamiamo mai ten¬de i drappeggi.

5

Prima di recarsi da David Lyke per il cocktail Qwilleran andò a casa a cambiarsi d'abito e a dare al gatto una fetta di corned-beef che aveva acquistato al negozio di gastronomia.
Koko lo accolse correndo per la stanza con una manifestazione di gioia tipicamente felina: sotto le sedie, sotto i tavoli, attorno alle lampade, in cima ai ripiani dei li¬bri, di nuovo per terra, con un tonfo e un gorgoglio, facendo brusche piroette a mezz'aria, il tutto a grande velocità. Le lampa¬de vacillavano. I portacenere si spostavano, le tendine si gonfia¬vano per lo spostamento d'aria. Poi balzò sul dizionario e prese a grattarlo, con la parte anteriore del corpo abbassata, la coda svet¬tante verso il cielo, come lo scivo¬lo di un toboga con una bandieri¬na in cima. Quindi si grattò indu-striosamente, smise per guardare Qwilleran e subito riprese a grat¬tarsi.
— Non ho tempo per giocare — gli disse il giornalista. — Sto uscendo. Ho un cocktail party. Forse ti porterò a casa un'oliva.
Indossò un paio di pantaloni appena arrivati dalla tintoria, tol¬se gli spilli a una camicia nuova e si guardò in giro alla ricerca della cravatta scozzese. La trovò ap¬poggiata sul bracciolo del divano. Aveva un buco proprio al centro. Si lasciò sfuggire un gemito. Gli restava solo un'unica cravatta scozzese in buone condizioni. La tirò via con forza dal pomolo della porta dove era appesa e se la legò al collo brontolando. Nel frattem¬po Koko se ne stava lì nella spe¬ranzosa attesa di giocare.
— Stasera no — gli ripeté Qwilleran. — Mangia il tuo corned-beef e poi fatti una bella nan¬na.
Uscì per andare al party con un senso di impazienza. Sperava di riuscire a stringere qualche utile contatto. Era curioso di vedere l'elegante e lussuosa Villa Verandah e ansioso di parlare con Da¬vid Lyke. L'atteggiamento irrive¬rente di quell'uomo gli piaceva. Lyke non corrispondeva all'im¬magine che aveva degli arredato¬ri. Non era né affettato e nemme¬no uno snob. E ostentava la pro¬pria magnifica presenza con una totale e aggraziata noncuranza.
Villa Verandah, un'acquisizio¬ne recente nel panorama cittadi¬no, era un edificio del diciottesi¬mo secolo, al centro di un grande giardino ornamentale, e ogni ap¬partamento aveva una terrazza. Qwilleran trovò quello del padro¬ne di casa brulicante di ospiti, ri¬sonante del tintinnio di bicchieri e di musica che proveniva da alto¬parlanti nascosti alla vista.
Lyke gli disse con quella sua bella voce profonda: — È la pri¬ma volta che viene a Villa Veran¬dah? Noi abbiamo battezzato questa struttura la Vendetta del¬l'Architetto. Le terrazze sono sta¬te ideate per essere troppo assola¬te, troppo ventose e troppo spor¬che. Lo smog che irrompe nel mio soggiorno potrebbe cavare un oc¬chio... Ma è un buon indirizzo. Qui ci vivono personaggi impor¬tanti e alcuni di costoro sono mo¬nocoli.
Aprì una vetrata scorrevole e mostrò a Qwilleran la terrazza do¬ve mobili metallici erano solida¬mente piantati nell'acqua, che il vento increspava in superficie.
— Ogni volta che piove queste terrazze si trasformano in guadi per tre giorni. Quando c'è vento forte le balaustrate vibrano ed eseguono l'Ave Maria. E ammiri la vista eccezionale di cui godia¬mo, un panorama di altre novan¬tadue terrazze.
L'appartamento aveva un che di caldo e di vissuto. Era illuminato da candele accese in tutti gli ango¬li e c'erano molti libri rilegati in pelle pregiata, piante esotiche, di¬pinti in cornici importanti e pile di cuscini. In un angolo una fonta¬nella chioccolava incessantemen¬te. La carta da parati era la più bella che Qwilleran avesse mai vi¬sto, un intreccio di fili d'argento con silhouettes di pavoni.
La nota predominante era l'O¬riente. Vide un paravento orien¬tale, tavolini bassi di legno nero dalle gambe arcuate e un tappeto cinese nella sala da pranzo. Alcu¬ne sculture dell'Estremo Oriente erano sistemate su uno strato di ghiaia ed erano illuminate da fa¬retti invisibili.
Il giornalista disse al padrone di casa: — Dovremmo fotografare questo ambiente.
— Stavo per suggerirle un'altra casa che si trova in questo edifi¬cio. Ho arredato io l'appartamen¬to di Harry Noyton, un semplice pied-à-terre che gli serve per le riunioni di lavoro, ma è stato fat¬to con molto buon gusto e senza badare a spese. I colori sono raffi¬nati in modo scioccante. Ho usato il melanzana, il verde spinaci e il giallo melone troppo maturo.
— Chi è Harry Noyton? — chiese Qwilleran. — Il nome mi è familiare.
— Deve averne sentito parlare per forza. È il tipo più sveglio del¬l'intera città. È proprietario dello stadio, di un paio di alberghi e probabilmente del municipio.
— Mi piacerebbe conoscerlo.
— Lo conoscerà. Verrà qui sta¬sera. Mi piacerebbe che lei faces¬se un servizio fotografico sulla ca¬sa di campagna di Harry, a Lost Lake Hills. È tutta in stile con¬temporaneo, bello ma scomodo. Ma attualmente c'è una situazio¬ne molto imbarazzante in fami¬glia, e quindi non è consigliabile pensarci. Adesso venga, le pre¬sento alcuni ospiti. C'è anche Starkweather con la sua bella mo¬glie che sta diventando un'ubriacona di mezza età. Però non pos¬so fargliene una colpa.
Il socio di Lyke sedeva in silen¬zio a un capo del divano mentre la signora si aggirava tra gli invitati. Sul suo viso un po' sciupato si no¬tava un'espressione di allegria forzata e indossava un abito di un rosa disperato. Quando Lyke le presentò il giornalista, lei si avvin¬ghiò all'architetto con un sorriso sdolcinato.
— Sono innamorata di David — disse a Qwilleran, agitando con gesto esagerato il bicchiere da cocktail che teneva in mano. — Non è travolgente? Questi occhi, questa voce sexy...
— Piano, tesoro — la esortò Lyke. — Vuoi che tuo marito mi spari? Questo è uno dei rischi del¬la nostra professione... siamo troppo adorabili!
Si liberò dalla stretta della si¬gnora Starkweather che si aggrap¬pò al braccio del giornalista e ri¬prese a sproloquiare.
— Gli architetti di interni dan¬no delle feste meravigliose. Si in¬contrano sempre una gran quanti¬tà di uomini e anche il buffet è ec¬cellente. David ha un fornitore fantastico. Ma i drink sono troppo alcolici. — Ridacchiò. — Lei co¬nosce molti arredatori? Sono tre¬mendamente divertenti. Si vesto¬no e ballano così bene... Mio marito non è un vero e proprio archi¬tetto. Prima vendeva tappeti al¬l'ingrosso. È lui che si occupa del¬la parte amministrativa alla L & S. David invece ha il talento e io lo adoro.
Qwilleran scoprì che molti de¬gli ospiti erano a loro volta archi¬tetti arredatori. Tutti gli uomini erano belli e per lo più giovani. Le donne erano meno attraenti, ma supplivano alla scarsa bellezza e gioventù con la vivacità e con un'eleganza che non passava inos¬servata. Ognuno dei presenti era dotato di un fascino naturale. Tut¬ti si complimentarono con Qwille¬ran per la nuova rivista, per i suoi baffi rigogliosi e per il buon pro-fumo del suo tabacco da pipa.
La conversazione passava da un argomento all'altro: i viaggi, la moda, il vino pregiato, il ballo e le dubbie capacità di altri architetti arredatori. A un dato momento fu fatto più volte il nome di Jac¬ques Boulanger, che però venne accantonato con espressioni di di¬sapprovazione.
Qwilleran notò che nessuno aveva voglia di parlare delle ele¬zioni di novembre né di quale squadra avrebbe vinto il campio¬nato di baseball o dei problemi dell'Asia. E nessuno degli invitati sembrava turbato per il furto av¬venuto in casa Tait. Si limitavano a trovare divertente che fosse suc¬cesso a un cliente di David.
Un giovanotto dall'aspetto molto ricercato si avvicinò a Qwilleran e si presentò come Bob Orax. Aveva un volto ovale e ari¬stocratico, con sopracciglia molto arcuate.
— In genere — disse al giorna¬lista — io non mi occupo della cronaca nera, ma la mia famiglia conosce i Tait e l'articolo che è comparso sul giornale di oggi mi ha affascinato. Non credevo che Georgie avesse una raccolta di giade così ricca. Lui e Siggy non ricevevano più da anni. Mia ma¬dre era compagna di scuola di Sig¬gy in Svizzera, lo sa?
— No, non lo sapevo.
— La famiglia di Siggy aveva più intelligenza che ricchezza, so¬stiene mia madre. Erano tutti scienziati e architetti. Ed è stato una sorpresa per tutti quando lei ha sposato un ricco americano. Secondo mia madre, Georgie ave¬va ancora i capelli, allora.
— Come hanno fatto i Tait ad arricchirsi? — chiese Qwilleran.
— In un modo piuttosto singo¬lare e affascinante. Il nonno di Georgie ha fatto un colpo fanta¬stico con la produzione di fruste per calessi. La mamma mi ha det¬to che invece Georgie non ha mai avuto il bernoccolo per gli affari. Ha fatto qualcosa, ma di scarso ri¬lievo, certo non cose da far cre-scere il conto in banca.
— Tait era molto affezionato alla sua collezione di giade — dis¬se Qwilleran. — Mi è dispiaciuto molto per il furto.
— Questo — ribatté l'altro in tono di superiorità — è ciò che succede quando non si vuol paga¬re un buon personale. Quando, il padre era vivo in casa loro c'erano sempre maggiordomi inglesi e ca¬meriere irlandesi. La mia famiglia un tempo era ricca. Adesso tiria¬mo avanti grazie alle conoscenze che abbiamo. Ho un negozietto in River Street che mi permette di sopravvivere.
— Mi piacerebbe venire a tro¬varla, uno di questi giorni — disse Qwilleran. — Sono sempre alla ri¬cerca di materiale per qualche ar¬ticolo interessante.
— Francamente dubito che i suoi lettori possano essere inte¬ressati a me. Io sono specializzato in bruttezza programmata e que¬st'idea è piuttosto audace per i gusti mediocri. Ma venga pure a farmi visita, potrebbe trovarlo di¬vertente.
— Tra l'altro, mi dica chi è quel Jacques Boulanger di cui ho senti¬to parlare.
— Boulanger? — Le sopracci¬glia di Orax si inarcarono un po' di più. — Lavora per i Duxbury, i Penniman e tutte le altre vecchie famiglie di Muggy Swamp.
— Dev'essere in gamba.
— Nella nostra attività il suc¬cesso non sempre è segno di bra¬vura... Santo cielo, lei non ha nul¬la da bere. Posso portarle qualco¬sa dal bar?
Ma non era il bar che interessa¬va Qwilleran: era il buffet, che of¬friva grandi quantità di caviale, di gamberi e pane tostato spalmato con formaggio fuso in piatti ro¬venti, funghi marinati, cuori di carciofo ripieni e invitanti polpet¬tine in salsa di aneto. Mentre si riempiva il piatto per la terza vol¬ta, diede un'occhiata alla cucina e vide il grande forno a microonde in acciaio inossidabile tipico degli organizzatori di catering. Vide anche un orientale sorridente che gli fece un cenno di invito a man-giare e Qwilleran lo ricambiò, con un gesto di ringraziamento.
In quel momento un invitato grosso e sgraziato, con lineamenti marcati, si avvicinò al buffet e co¬minciò a buttarsi in bocca pezzetti di cibo, mandandoli poi giù con lunghe sorsate di una bevanda al¬colica.
— Questi ragazzi mi sono sim¬patici... mi riferisco a questi ar¬chitetti di interni — disse a Qwil¬leran. — Mi invitano a quasi tutte le loro feste. Ma quello che per me è incredibile è come fanno a guadagnarsi l'esistenza, perché vivono in un mondo di sogni. Io sono un uomo di affari, mi occupo di dozzine di iniziative ogni anno. E faccio in modo che ogni investi¬mento renda. Non sto nel giro per guadagnare bruscolini, come que¬sti ragazzi. Lei può capire: è un giornalista, no?
— Jim Qwilleran del Daily Fluxion.
— Voi dei giornali siete una buona razza. Avete i piedi ben piantati per terra. Conosco un mucchio di giornalisti. Conosco i direttori responsabili di entrambi i quotidiani locali, quello delle pa¬gine sportive del Fluxion e il re¬sponsabile delle pagine economi¬che. Sono venuti tutti al mio casi¬no di caccia. A lei piace cacciare e pescare?
— Non ho mai praticato molto questi sport — ammise Qwilleran.
— A dir la verità, tutto quello che facciamo, quando andiamo lì, è starcene seduti attorno a una bottiglia e muovere la lingua. Do¬vrebbe venire, qualche volta... Ah, mi chiamo Harry Noyton.
Si strinsero la mano e Qwille¬ran disse: — David mi ha spiegato che la sua casa potrebbe fornirci buon materiale per la nuova rivi¬sta di arredamento del Fluxion.
Noyton si fissò le scarpe per un po', prima di rispondere. — An¬diamo nell'altra stanza. C'è più tranquillità.
Passarono nella saletta da pran¬zo e sedettero a un tavolino con il ripiano di marmo, Noyton col suo bicchiere e Qwilleran con un piat¬to di gamberi e funghi.
Il primo disse: — Qualunque cosa le abbiano detto della mia casa, non è una bugia: è favolosa! E do tutto il merito a David: cioè a Dave e a mia moglie, che ha molto talento. Io non ne ho per nulla. Tutti gli studi che ho fatto si limitano alla frequenza di un isti¬tuto tecnico per un paio d'anni. — Si interruppe e guardò fuori dalla finestra. — Ma Natalie ha un temperamento artistico, sono orgo¬glioso di lei.
— Mi piacerebbe vedere quella casa.
— Be'... qui sta il problema — disse l'altro bevendo una lunga sorsata. — La casa sarà venduta, perché Natalie e io stiamo divor¬ziando.
— Mi dispiace molto — ribatté il giornalista. — Ci sono passato an¬ch'io.
— Sa, tra me e mia moglie non c'è disaccordo. Solo che lei vuol essere libera. Le è venuta la folle idea di intraprendere una carriera artistica. Si rende conto? Ha tutto quello che desidera. Ma lei vuol essere creativa, morire di fame in uno squallido attico, fare qualco¬sa della sua vita. Così dice, e lo vuole più di ogni altra cosa al mondo. Tanto da rinunciare an¬che ai figli. Non capisco questo tarlo dell'arte che divora le donne al giorno d'oggi.
— Quanti figli avete?
— Due. Due maschi in gamba. Non so come lei possa sentirsela di andarsene e di lasciarli. Ma io ho messo le mie condizioni: la tu¬tela dei figli e divorzio per sem¬pre. Nessun ripensamento. Non può cambiare idea e decidere di tornare dopo un paio di mesi. Non intendo essere preso in giro da nessuno, soprattutto da una donna. Mi dica: ho ragione o no?
Qwilleran fissò l'uomo che ave¬va davanti: aggressivo, ricco, so¬lo.
— Naturalmente manderò i ra¬gazzi all'accademia militare — di¬chiarò Noyton svuotando il bic¬chiere.
— La signora Noyton fa la pit¬trice?
— No, niente del genere. Ha quei grandi telai, sa? E vuole tes¬sere tappeti e altre cose del gene¬re nella speranza che gli arredato¬ri glieli vendano. Non so come fa¬rà a guadagnarsi da vivere. Non vuole denaro da me e non vuole la casa. Non conosce qualcuno inte¬ressato ad acquistare una proprie¬tà immobiliare che vale un quarto di milione di dollari?
— Dev'essere un gran bel posto.
— Senta, se vuole pubblicare qualcosa sulla sua rivista, questo forse mi aiuterebbe a liberarmi di quel peso. Sono sincero con lei.
— Adesso ci abita qualcuno?
— Il custode, nessun altro. Na¬talie è a Reno, io abito qui a Villa Verandah... Mi aspetti un mo¬mento, vado ad aggiungere un po' d'alcool a questi cubetti di ghiac¬cio.
Si avventò verso il bar. Mentre lui era assente, l'organizzatore giapponese di catering portò via in silenzio il piatto di Qwilleran e glielo sostituì con un altro pieno.
— Come le stavo dicendo — proseguì Noyton quando fu di ri¬torno — possiedo questo apparta¬mento che è stato arredato da Dave. Il ragazzo ha buon gusto. Vor¬rei averlo io. C'è un parquet importato dalla Danimarca, un mo¬bile bar incassato nel muro, un tappeto di pelliccia... il necessario e il superfluo.
— Mi interesserebbe vederlo.
— Venga a dare un'occhiata adesso. È sullo stesso piano, nel¬l'ala nord.
Lasciarono il party, Noyton sempre con il bicchiere in mano. — Devo avvertirla — gli disse mentre svoltavano nel corridoio — che i colori sono piuttosto paz¬zi.
Aprì la porta del 15-F e pre¬mette un interruttore a parete. Qwilleran ebbe un sussulto.
Subito l'atmosfera fu pervasa da una musica gradevole all'orec¬chio. Colori molti vivi venivano il¬luminati da fasci di luce. Tutto ap¬pariva soffuso, confortevole ma, al contempo, aspro.
— Le piace questa roba moder¬na? — chiese Noyton. — Costo¬sissima, quando è fatta ad arte.
Stupefatto, Qwilleran esclamò: — È fantastico... mi piace da mo¬rire!
Il pavimento era costituito da minuscoli quadrati di legno scuro resi brillanti da una vetrificazione perfetta. C'era un tappeto folto come erba non tagliata e grande come metà di un campo di squash.
— Le piace? — chiese Noyton. — Vero pelo di capra venuto dalla Grecia.
Il magnifico tappeto era circon¬dato sui tre lati da un trio di divani rivestiti di camoscio di colore naturale. Una poltrona dalle cur¬ve molto invitanti era imbottita con un materiale incredibilmente morbido.
— Quella è vigogna — spiegò il padrone di casa. — Ma provi a se¬dersi sulla poltrona verde, è la mia preferita.
Quando Qwilleran si fu siste¬mato nella poltrona verde ed eb¬be appoggiato i piedi sullo sgabel¬lino che la completava, sul volto gli comparve un'espressione bea¬ta. Accarezzò i braccioli in mor¬bida lana. — Certo che mi piace¬rebbe avere un appartamento co¬me questo — mormorò.
— E questo è il bar — dichiarò Noyton con manifesto orgoglio, versandosi un po' di Scotch. — E lo stereo sta dentro quel cassetto¬ne antico in stile spagnolo. È l'u¬nico pezzo antico di tutta la casa e mi è costato una fortuna. — Si la¬sciò sprofondare nella poltrona. — E pure l'affitto per quest'ap¬partamento non è uno scherzo, tuttavia in quest'edificio abita gente giusta... gente da conosce¬re. — Fece il nome di due giudici, di un banchiere, di un rettore uni¬versitario in pensione e di uno scienziato.
— Li conosco tutti. Conosco un mucchio di gente, in questa città. Il suo direttore editoriale è un mio buon amico.
Qwilleran osservava con ammi¬razione la parete ricoperta di scaf¬fali pieni di libri, la grande scrivania dal ripiano in pelle color rug¬gine, il tappeto caldo e sensuale e i tre divani dai morbidi cuscini.
— Sì, Lyke ha fatto un gran la¬voro, qui! — esclamò.
— Senta, lei ha l'aria di essere un tipo normale — osservò Noy¬ton, guardandolo con espressione astuta. — Va d'accordo con tutti questi arredatori?
— Sembrano un gruppetto di gente simpatica — gli rispose il giornalista, ignorando l'allusione.
— Non è questo che intendevo. Ha conosciuto Bob Orax? Quello sì che ha dei veri problemi.
— Sono abituato a conoscere gente di ogni genere — rispose Qwilleran in tono più brusco del dovuto. La sua capacità giornali¬stica lo portava a identificarsi con il lavoro che faceva e a difendere chi operava in quel campo. Le pa¬role denigratorie di Noyton lo avevano irritato.
L'altro disse: — Ecco quello che ammiro di voi giornalisti. Non vi fermate davanti a nessuno; con¬tinuate imperterriti per la strada che vi siete prefissati.
Qwilleran tolse i piedi dallo sgabello e si alzò dalla poltrona verde. — Be', e adesso che ne direbbe di tornare in mezzo alla calca?
Rientrarono nell'appartamento di Lyke. Noyton aveva con sé due bottiglie di bourbon, prese dalla propria riserva, e le aggiunse a quella del padrone di casa.
Qwilleran si complimentò con l'arredatore per ciò che aveva fat¬to da Noyton. — Vorrei potermi permettere un appartamento si¬mile. Tra l'altro, quanto verrebbe a costare un progetto del genere?
— Troppo — gli rispose Lyke. — Comunque, se avesse bisogno di qualcosa, glielo farò avere a prezzo di costo più il trasporto.
— Quello di cui ho bisogno — disse Qwilleran — è un apparta¬mento ammobiliato. Il posto in cui vivo sta per essere abbattuto per farne un parcheggio e devo andarmene entro dieci giorni.
— Perché non usa l'apparta¬mento di Harry, se le piace tanto? — gli consigliò Lyke. — Lui è in partenza per l'Europa e sarà as¬sente per un mese, almeno.
Qwilleran sbatté le palpebre. — Pensa che sarebbe disposto a subaffittarlo a un prezzo accessi¬bile?
— Provi a chiederglielo.
— Eh no! — disse Noyton. — Non ho intenzione di subaffittar¬lo. Se però lei vuole starci in mia assenza, faccia pure.
— No, insisto per pagare l'affit¬to — dichiarò il giornalista.
— Non faccia l'uomo integro. I giornali mi hanno sempre trattato molto bene e questo mi consenti¬rà di dimostrare la mia ricono¬scenza. Inoltre, per me non costi¬tuirà un grande sacrificio. Quindi perché dovrei chiederle dei soldi?
Lyke si rivolse a Qwilleran. — Naturalmente c'è il trucco sotto. Le chiederà di spedirgli la posta e di prendere nota dei messaggi te¬lefonici.
— Anche per me c'è sotto qualcosa: ho un gatto.
— Lo porti pure — rispose Noyton. — Avrà a sua disposizio¬ne una stanza e un bagno, tutta roba di prim'ordine.
— Da parte mia, le posso ga¬rantire che non combinerà guai.
— Affare fatto. Io parto mer¬coledì. Troverà le chiavi dal por¬tiere, inclusa quella del bar. Fac¬cia come se fosse a casa sua. E non si stupisca se io la chiamerò due volte al giorno dall'Europa. Sono un telefonodipendente.
Più tardi Lyke disse a Qwille¬ran: — Grazie per avermi tolto dall'impiccio. Harry pensava che gli avrei fatto io da segretario. Non so perché, ma quando i clienti assumono un architetto, pensano che faccia anche le fun¬zioni di balia.
Era tutto accaduto così in fret¬ta che Qwilleran riusciva a stento a credere alla propria fortuna. Molto soddisfatto, si recò due vol¬te al banco del buffet, prima di decidersi a salutare il padrone di casa.
Mentre stava uscendo dall'ap¬partamento si sentì tirare per una manica. Il giapponese era fermo al suo fianco e lo guardava sorri¬dendo.
— Ha un cane a casa? — gli chiese.
— No — rispose il giornalista. — Ma...
— Il cane ha fame... prenda il cartoccio per il cagnolino — disse, mettendogli in mano un piccolo involto.

6

— Koko, vecchio mio, facciamo trasloco! — annunciò Qwilleran, felice, il martedì mattina, to¬gliendo il cartoccio dal frigorifero e preparando la colazione per il gatto e per sé. Ripensando agli avvenimenti della serata prece¬dente dovette riconoscere che oc¬cuparsi di arredamento offriva dei vantaggi. Non aveva mai ricevuto tanti complimenti o mangiato ci¬bo tanto buono, per non parlare poi dell'offerta di quell'apparta¬mento che gli era piovuta come la manna dal cielo.
Koko era accucciato su un cu¬scino in cima al frigorifero. Il cu¬scino azzurro era il suo letto, il suo trono, il suo Olimpo. Appari¬va irrequieto e a disagio.
— Villa Verandah ti piacerà — lo rassicurò Qwilleran. — Ci sono morbidi tappeti e alti scaffali pieni di libri. Potrai startene seduto al so¬le sul terrazzo. Ma dovrai compor¬tarti bene. Non potrai fare i tuoi so¬liti balzi e rovesciare lampade.
Koko cambiò posizione. I suoi occhi sembravano due grandi e turbate sfere azzurre.
— Prenderemo il tuo cuscino e lo sistemeremo sopra il nuovo fri-gorifero. Ti sentirai subito a casa.
Un'ora dopo, quando fu arriva¬to al Daily Fluxion, Qwilleran raccontò la bella notizia a Odd Bunsen. Si erano incontrati alla mensa del personale per bere la quotidiana tazza di caffè. Erano seduti al banco con i tipografi che avevano in testa il caratteristico cappellino quadrato di carta, con i compositori che indossavano il grembiulone di tela, con i corret¬tori che portavano le maniche del¬la camicia rimboccate, coi redat¬tori che invece tenevano i polsini abbottonati e con quelli della pubblicità, con i gemelli ai polsi.
Qwilleran disse al fotografo: — Dovresti vedere la bellezza dei bagni di Villa Verandah. Hanno i rubinetti d'oro.
— Come ti è capitata una for¬tuna simile? — chiese incuriosito Bunsen.
— È stata un'idea di Lyke e a Noyton piace mostrarsi generoso. Vuol essere simpatico alla gente. Inoltre, subisce il fascino del gior¬nalismo. Conosci il tipo, no?
— Altri giornali non ti permet¬terebbero di accettare un favore del genere, ma con lo stipendio che ti pagano al Fluxion bisogna prendere tutto quello che si può — affermò Bunsen. — Si è parla¬to del furto?
— Non molto. Ma sono riuscito a carpire qualche notiziola sui Tait. Avevi notato il leggero ac¬cento straniero della signora Tait?
— Parlava come se si fosse in¬goiata la lingua.
— Credo che fosse svizzera. Evidentemente aveva sposato Tait per i suoi soldi, anche se lui probabilmente, nel suo genere un po' rozzo, non doveva essere poi tanto male prima di diventare calvo.
— Hai visto le sue braccia? — chiese Odd. — Sembrano quelle di una scimmia pelosissima. Ci so¬no donne che vanno pazze per queste cose.
Qualcuno gli batté sulla spalla. Era Lodge Kendall, che sedette sullo sgabello accanto al suo. — Lo sapevo che ti avrei trovato qui, lavativo. Gli investigatori che si occupano del caso Tait vogliono avere una serie delle fotografie fatta da te, possibilmente ingran¬dimenti. Soprattutto quelle delle giade.
— Quando le vogliono? Devo stampare una quantità di materia¬le per domenica.
— Al più presto possibile. Qwilleran chiese: — C'è qual¬che novità sul caso?
— Tait ha informato la polizia che mancano due sacche. Dopo i funerali intende andar via per ri¬prendersi un po'. È molto scosso. Ieri sera era andato nello sgabuz¬zino per prendere delle valigie e ha scoperto che mancavano due grosse sacche da viaggio. Per Pao¬lo sarebbero state il mezzo ideale per portarsi via le giade.
— Mi domando come può aver portato due sacche così ingom¬branti fino all'aeroporto.
— Avrà avuto un complice con l'automobile. Quando Tait si è ac¬corto della scomparsa delle due sacche, Paolo doveva già essere passato in Messico e scomparso per sempre in mezzo alle monta¬gne. Chissà se riusciranno mai a ritrovare quelle giade... Ma può darsi che saltino fuori e compaia¬no sul mercato una alla volta. So¬lo che in questo caso nessuno sa-prà o vorrà dire come ci sono arri¬vate. Sai come vanno le cose da quelle parti...
— Io suppongo che la polizia abbia controllato presso le com¬pagnie aeree.
— La lista dei passeggeri per i voli di domenica sera includeva diversi nomi messicani e spagnoli. Naturalmente Paolo avrà dato un nome falso.
Bunsen si intromise: — Peccato non averlo fotografato. Lyke ave¬va consigliato di farlo, ma io me ne sono completamente dimenti¬cato.
— Voi fotografi siete sempre avari di pellicole — esclamò Ken¬dall. — Ci sarebbe quasi da pen¬sare che dovete pagarle di tasca vostra.
— Tra l'altro — disse Qwilleran — sai dirmi con esattezza quando Tait si è accorto della scomparsa delle giade?
— Circa alle sei del mattino. Lui fa parte di quella categoria di persone che si alza presto. Gli piace andare nel suo studio prima di far colazione, a lucidare pietre. Era entrato in camera della mo¬glie per chiederle se le serviva qualcosa e l'ha trovata morta. Ha chiamato il medico dal telefono che sta sul comodino vicino al let¬to. Poi ha chiamato Paolo, ma non ha avuto risposta. Il ragazzo non era nella sua stanza e non c'e¬rano tracce di una partenza affret¬tata. Allora Tait ha fatto un rapi¬do controllo in tutte le stanze e si è accorto che le bacheche erano state svuotate.
— Dopo di che — disse Qwilleran — ha chiamato la polizia e la polizia ha chiamato Percy e Percy ha chiamato me ed erano soltanto le sei e mezzo del mattino. Tutto è avvenuto piuttosto velocemente. Quando Tait ha parlato con la po¬lizia li ha informati dell'articolo pubblicato da Belle Dimore?
— No, non c'è stato bisogno che lo facesse. Il dipartimento di polizia sapeva già dell'articolo e ha messo in dubbio l'opportunità di dare descrizioni tanto esplicite sul valore reale degli oggetti.
Qwilleran sbuffò sdegnosamen¬te. — E dov'era la cuoca, quando è avvenuto il furto?
— È una governante. Ha la do¬menica libera e rientra solo alle otto del lunedì mattina.
— E come spiegano l'attacco cardiaco della signora Tait?
— Pensano che si sia svegliata durante la notte, abbia sentito ru¬mori sospetti in salone e abbia pensato ai ladri. Evidentemente la paura le ha fermato il cuore, che era già in cattive condizioni, a quanto mi hanno detto.
Qwilleran obiettò: — È una ca¬sa molto vasta, quella dei Tait. L'ala in cui si trova la camera da letto dista mezzo miglio dal salot¬to. Come mai la signora Tait ha sentito Paolo armeggiare attorno alle bacheche e suo marito non ha sentito niente?
Kendall si strinse nelle spalle. — Ci sono persone che hanno il sonno leggero. I malati cronici soffrono spesso di insonnia.
— E non ha cercato di svegliare il marito? Ci deve essere qualche sistema di comunicazione interna tra le loro due camere da letto.
— Senti, io non c'ero — di¬chiarò Kendall. — Tutto quello che so me lo hanno detto al co¬mando di polizia. — Picchiettò un dito sull'orologio. — Devo essere lì tra cinque minuti. Arriveder¬ci... Bunsen, non scordarti gli in¬grandimenti.
Quando se ne fu andato, Qwil¬leran disse al fotografo: — Mi do¬mando dove può essere andato a riposare Tait. Che ne pensi del Messico?
— Mi fai più domande tu di qualsiasi altro tuo collega — com¬mentò il fotografo alzandosi dallo sgabello. — Devo andare a stam¬pare. Ci vediamo di sopra.
Qwilleran non avrebbe saputo spiegare quando i suoi sospetti avevano cominciato a imboccare una certa direzione. Finì di bere il caffè e si asciugò alla bell'e meglio i baffi con un tovagliolino di carta. Forse fu proprio quello il momento in cui gli ingranaggi del suo cervello cominciarono a met¬tersi in moto e la sua attenzione si accentrò su G. Verning Tait.
Raggiunse la redazione e udì il telefono sulla sua scrivania squil¬lare insistentemente. L'apparec¬chio era verde, come lo erano tut¬te le scrivanie e le macchine per scrivere della stanza. All'improv¬viso vide quello schema cromatico con nuovi occhi. L'ambiente era di un verde passato-di-piselli. Le pareti facevano pensare al Roquefort e il pavimento di linoleum scuro ricordava il pane integrale.
— Parla Qwilleran — disse nel ricevitore.
— Oh, signor Qwilleran, è pro¬prio lei? — chiese una voce fem¬minile stridula e concitata. — Non pensavo di riuscire a par¬larle!
— In che cosa posso esserle utile?
— Non mi conosce, signor Qwilleran, ma io leggo tutti i suoi articoli. Trovo la sua nuova rivista di arredamento fantastica.
— Grazie.
— Ora le espongo il mio pro¬blema. Ho un tappeto color avo¬cado nella mia sala da pranzo e al¬le pareti delle toiles di Jouy color caramello. Devo far verniciare lo zoccolino color caramello o color avocado? E che cosa mi consiglia di fare per i lambrequins?
Quando finalmente riuscì a liberarsi della sua interlocutrice te¬lefonica, vide Arch Riker fargli un cenno. — Il capo ti sta cercan¬do. È urgente.
— Probabilmente vuol sapere anche lui di che colore deve dipin¬gere il suo zoccolino.
Trovò Percy nel suo ufficio e notò che aveva un'espressione ac¬cigliata.
— Guai — gli disse subito. — Ha appena telefonato quel tipo che vende macchine usate. Hai programmato per il numero di do¬menica un servizio sul suo gra¬naio. Esatto?
— È una stalla ristrutturata — rispose Qwilleran. — Molto inte¬ressante. Ne è venuto fuori un bell'articolo. L'impaginazione è pronta e le foto sono al reparto zincografico.
— Non vuole più che sia pub¬blicato. Ho cercato di persuader¬lo, ma insiste nel dire di no.
— Ma se la settimana scorsa era così entusiasta!
— Lui personalmente non avrebbe obiezioni. Non dà la col¬pa a noi per quanto è successo a casa Tait, ma sua moglie è preoc¬cupata da morire. È diventata isterica e lui ha minacciato di que¬relarci, se pubblichiamo l'arti-colo.
— Non so con che cosa sosti¬tuirlo così in fretta — disse Qwil¬leran. — L'unico materiale spetta¬colare che ho per le mani è un silo dipinto a strisce colorate e trasfor¬mato in una casa per le vacanze.
— Non è proprio l'immagine che vorremmo pubblicare su Belle Dimore. Perché non domandi a Fran Unger se ha qualche buona idea?
— Senti, Harold — replicò Qwilleran con improvvisa decisio¬ne. — Penso che noi dovremmo passare all'attacco.
— Che cosa intendi?
— Intendo che dovremmo fare noi delle nostre indagini persona¬li. La teoria della polizia non mi persuade affatto. È troppo facile incolpare il cameriere. Può darsi che Paolo sia stato uno strumento inconsapevole. Per quello che se ne sa potrebbe trovarsi in fondo a un fiume!
Si interruppe per vedere la rea¬zione dell'altro. Percy si limitò a fissarlo.
— Non si è trattato di un furtarello qualunque — riprese il gior¬nalista alzando la voce — e non si è trattato di una faccenda orga¬nizzata da un povero montanaro ingenuo e pieno di nostalgia, ori¬ginario di un paese straniero sot¬tosviluppato. Qui c'è sotto qual¬cosa di più. Non so chi o che cosa o come, ma ho un sospetto... — Si picchiettò i baffi con le nocche. — Harold, perché non mi dai l'in¬carico di occuparmi di questo ca¬so? Sono sicuro che riuscirei a ca¬varne fuori qualcosa di importan¬te.
Percy accantonò quel suggeri¬mento con un gesto spazientito delle mani. — Io non sono contrario al giornalismo investigativo di per sé, ma abbiamo bisogno di te per la rivista. Non abbiamo perso¬nale da sprecare per indagini di¬lettantistiche.
— Ma io posso occuparmi di entrambe le cose. Basta che tu mi dia l'autorizzazione a parlare con la polizia, per porre qualche do¬manda qua e là.
— No. Hai già abbastanza da fare, Qwill. Lascia che sia la poli¬zia a occuparsene. Noi dobbiamo far uscire la nuova rivista.
Qwilleran proseguì come se non lo avesse sentito, parlando sempre più velocemente.
— C'è qualcosa di sospetto nel lasso di tempo in cui è avvenuto il fatto. Qualcuno ha voluto che fos¬se collegato a noi. E questa non è solo l'unica circostanza strana. Ie¬ri mattina sono successe troppe cose e troppo in fretta. Tu mi hai telefonato alle sei e mezzo. A che ora la polizia ha chiamato te? E a che ora loro hanno ricevuto la te¬lefonata di Tait? E se la signora Tait ha sentito dei rumori sospet¬ti, perché non ha avvertito il ma¬rito? Ritieni possibile che in quel¬la casa non ci sia un sistema di co¬municazione interna? Tutto quel lusso e neanche un semplice inter¬fono tra il letto dell'invalida e la camera da letto del suo devoto marito?
Percy lo guardò freddamente. — Se ci sono elementi di cospi¬razione, la polizia lo scoprirà. Sanno il fatto loro. Tu stanne fuori, abbiamo già abbastanza guai.
Qwilleran placò la vibrazione dei baffi. Era inutile discutere con un computer. — Pensi che dovrei andare ai funerali, domani? — chiese.
— Non sarà necessario. Sare¬mo confacentemente rappresen¬tati.
Qwilleran tornò nel proprio uf¬ficio bofonchiando. — Andiamoci con i piedi di piombo! Vediamo di non offendere nessuno! Sostenia¬mo l'ufficio pubblicità! Facciamo altri soldi!
— E perché no? — gli chiese Arch Riker. — Tu per caso ti illu¬devi che noi facciamo questo la¬voro solo per informare il pubbli¬co?
Quando fu seduto alla scriva¬nia, Qwilleran sollevò il ricevitore color verde pisello, sul quale era incollato l'adesivo con la scritta "Siate gentili con la gente", e chiamò il laboratorio fotografico.
— Quando farai gli ingrandi¬menti delle giade stampane qual¬che copia anche per me, d'accor¬do? Mi è venuta un'idea.

7

Qwilleran accantonò definitiva¬mente la pubblicazione del servi¬zio sulla stalla ristrutturata del venditore di auto usate e cominciò a darsi da fare per trovare qualco¬sa con cui sostituirlo. Quella mat¬tina aveva appuntamento con un altro architetto, una donna, ma dubitava che questa potesse tro¬vargli in così breve tempo un'altra casa da mettere in copertina. Ave¬va parlato con lei per telefono e gli era parsa imbarazzata.
"Oh, mio Dio... non so" gli aveva detto.
Qwilleran andò nel suo studio quasi senza speranze. I caratteri in corsivo sulla targhetta recavano la scritta ARREDAMENTI DI IN¬TERNI MIDDY. Il negozio era si¬tuato nei pressi di Happy View Woods e aveva tutti gli ingredien¬ti per apparire affascinante. I da¬vanzali delle finestre erano ralle-grati da crisantemi gialli, la porta era fiancheggiata da pittoresche lanterne da carrozza, con un luc¬cicante picchiotto di ottone. Al¬l'interno l'atmosfera intima che aleggiava era un po' opprimente ma innegabilmente reale.
Non appena Qwilleran fu en¬trato udì i melodiosi rintocchi del campanello che imitavano quello di Westminster e subito dopo vide una donna alta e giovane che sbu¬cava da dietro un paravento pie¬ghevole a listelli collocato in fon¬do al negozio. I capelli scuri e lisci le ricadevano sulle spalle come un manto e le coprivano la fronte, le sopracciglia, le tempie e le guan¬ce. L'unica cosa visibile erano gli occhi verdi e divertiti, un nasino delizioso, una bocca intelligente e un mento delicato.
Qwilleran si illuminò. — Ho appuntamento alle undici con la signora Middy, ma non penso che lei sia la signora Middy.
— Io sono la sua assistente — rispose la donna. — La signora Middy questa mattina arriverà un po' in ritardo... lei arriva sempre in ritardo. Vuole accomodarsi mentre aspetta? — Con un gesto enfatico gli indicò la stanza. — Posso offrirle un divanetto angola¬re Chippendale, una sedia Wind¬sor del diciottesimo secolo oppure una sedia a dondolo. Sono tutte scomode, ma io farò un po' di con¬versazione e cercherò di distrarla dall'angosciosa posizione nella quale sarà costretto a sedere.
— Facciamo pure conversazio¬ne — le rispose Qwilleran, seden¬dosi sulla sedia a dondolo. La ra¬gazza prese posto su quella Wind¬sor, con la gonna molto sollevata sulle ginocchia. — Lei come si chiama? — le chiese riempiendosi la pipa e accendendola.
— Alacocque Wright, e lei de¬v'essere il direttore del nuovo supplemento della domenica... non ricordo come si chiama.
— Belle Dimore — rispose il giornalista.
— Perché i giornali continuano a scrivere alla Horace Greeley, in stile fritto e rifritto? — Gli occhi verdi lo guardavano quasi a pren¬derlo in giro e a Qwilleran la cosa piacque.
— Nel giornalismo c'è un ele¬mento tradizionalista. — Si guar¬dò attorno. — Come nella vostra attività.
— Di fatto l'arredamento d'in¬terni non è la mia attività, il mio campo è l'architettura; ma le don¬ne architetto non sono molto ri¬chieste. Ho accettato di lavorare con la signora Middy per dispera¬zione, ma temo che tutte queste credenze a ripiani aperti e queste sedie a dondolo in finto rustico fi-niranno per distorcere la mia per¬sonalità. Preferisco uno stile che rifletta lo spirito dei nostri tempi. Abbasso quello impero francese, quello coloniale portoghese e il barocco swahili!
— Con questo vuol dire che le piace lo stile moderno?
— Non mi garba usare questa parola — rispose la signorina Wright. — È molto ambigua. C'è lo stile Motel Moderno, quello Miami Beach Moderno, il Borax Danese e una gran quantità di or¬rende mutazioni. Preferisco i clas¬sici del ventesimo secolo: Saarinen, Mies Van der Rohe, Breuer e gente del genere. Alla signora Middy non garba che parli con i clienti, teme che possa sabotare il suo lavoro... e credo che lo farei — aggiunse con un sorriso felino. — Ho un carattere infido.
— Se non tratta con i clienti, che cosa fa?
— Disegni prospettici, piante di appartamenti, combinazioni dei colori, rispondo al telefono e spazzo anche un po' il negozio. Ma mi parli di lei. Le piace lo stile contemporaneo?
— Mi piace tutto — rispose Qwilleran — purché sia comodo e ci si possa mettere sopra i piedi.
Lei lo guardò con manifesto ap¬prezzamento. — È meglio della foto sulla rivista. Ha un'aria seria e responsabile, ma anche interes¬sante. È sposato?
— Al momento, no.
— Deve essere furente per quanto è successo questo fine set¬timana.
— Si riferisce al furto di Muggy Swamp?
— Ritiene che il signor Tait querelerà il Daily Fluxion?
Qwilleran scosse la testa. — Non otterrebbe un soldo bucato. Non abbiamo scritto nulla che fosse falso o diffamatorio e ovvia¬mente, per prima cosa, abbiamo avuto la sua autorizzazione a pub¬blicare il servizio.
— Ma deve ammettere che il furto danneggerà l'immagine del¬la sua rivista.
In quel momento la porta d'in¬gresso si aprì e si udì una voce che diceva: — Oh, mio Dio, oh, mio Dio! Sono in ritardo?
— Arriva mamma Middy — mormorò la ragazza.
Il budino di donna che entrò af¬fannosamente era senza fiato e aveva un'espressione mortificata. Aveva fatto le cose in fretta e ciuffi di capelli grigi sbucavano in tutte le direzioni dall'informe cap¬pellino color grigio topo.
— Preparaci un po' di caffè, mia cara — disse alla sua assistente. — Ho appena preso una multa per eccesso di velocità. Ma il poliziotto è stato molto genti¬le... Il corpo di polizia ha degli agenti così gentili!
L'arredatrice sedette pesante¬mente su una sedia a dondolo ne¬ro e oro. — Perché non scrive un bell'articolo sui nostri poliziotti, signor... signor...
— Qwilleran. Jim Qwilleran. Purtroppo non mi occupo di que¬sto, però mi piacerebbe scrivere un bell'articolo su di lei.
— Oh, mio Dio! — esclamò la signora Middy, togliendosi il cap¬pello e ravviandosi i capelli.
Il caffè arrivò in tazzine dipinte con motivi di boccioli di rose e la signorina Wright lo servì con le sopracciglia inarcate in segno di manifesta disapprovazione per quel disegno floreale. Poi l'arre¬datrice e il giornalista discussero delle possibilità che potevano es¬serci per Belle Dimore.
— Ultimamente ho fatto dei deliziosi arredamenti d'interni — dichiarò la signora Middy. — La casa del dottor Mason è fantasti¬ca, ma non è ancora del tutto fini¬ta. Stiamo aspettando le lampade. La casa del professor Dewitt è de¬liziosa, ma i drappeggi non sono stati ancora montati.
— Il fabbricante non fa più quel modello — disse Qwilleran.
— Sì? Come lo sa?
— Gli alloggi? — le bisbigliò l'assistente.
— Ah, sì, abbiamo appena ul¬timato un pensionato per universitari — dichiarò la signora Middy — e un altro per le ragazze appar¬tenenti al Delta Thelta o come diavolo si chiama. Ma questi sono fuori città.
— Non dimentichi la casa della signora Allison — disse la signori¬na Wright.
— Oh, sì. Quella è davvero magnifica. Potrebbe interessarle un residence per giovani donne in carriera, signor Qwillum? È la di-mostrazione di come si può ri¬strutturare una semplice pensio¬ne. È una di quelle palazzine co¬struite alla fine del secolo scorso in Merchant Street. Prima che la signora Allison mi affidasse il la¬voro era una struttura cupa e grottesca.
— Sembrava un bordello vitto¬riano — disse la signorina Wright.
— Ho usato tela ricamata nel soggiorno e letti a baldacchino per le stanze. La sala da pranzo è risultata splendida. Invece di un unico lungo, che fa tanto istituto religioso, ho messo tanti tavolini habillés, come in un caffè.
Qwilleran aveva preso in consi¬derazione solo le residenze priva¬te, ma adesso era pronto a pubbli¬care qualsiasi cosa potesse essere approntata in fretta e furia.
— E qual è la combinazione dei colori? — chiese.
— Il tema centrale è rosso cilie¬gia — disse la signora Middy — con variazioni. Di sopra è tutto rosa ciliegia. Oh, le piacerà. Le piacerà da morire.
— C'è la possibilità di fotogra¬fare questo pomeriggio?
— Oh, mio Dio, troppo presto! Alla gente piace mettere in ordine prima che arrivi il fotografo.
— Domattina, allora?
— Telefonerò subito alla signo¬ra Allison.
L'arredatrice si precipitò al tele¬fono e Alacocque Wright disse al giornalista: — Mamma Middy ha fatto miracoli con casa Allison. Non assomiglia più a un bordello vittoriano, assomiglia di più a un bordello primo periodo ameri¬cano.
Mentre si svolgevano le trattati¬ve, Qwilleran ne fece una privata con la signorina Wright, dandole un appuntamento per mercoledì alle diciotto sotto l'orologio del municipio e uscì dallo studio Middy con una gradevole sensa¬zione nei baffi. Sulla via del ritor¬no dall'ufficio si fermò in un ne-gozio di primizie e comperò una scatoletta di ostriche affumicate per Koko.
Quella sera Qwilleran imballò i suoi libri in tre scatole di cartone ondulato che aveva preso all'em¬porio e spolverò le sue due vali¬gie. Koko osservava quello che faceva con aria preoccupata. Non aveva toccato le ostriche affumi¬cate.
— Che succede, sei a dieta?
Il gatto cominciò ad aggirarsi per l'appartamento, da un capo all'altro, fermandosi di tanto in tanto ad annusare gli scatoloni ed emettendo un lungo e lugubre miagolio.
— Sei preoccupato? Non vuoi traslocare. — Lo prese in braccio e gli fece qualche rassicurante ca¬rezza sulla testa. Poi lo depose sulle pagine aperte del dizionario. — Su, facciamo una bella partita per scacciare la malinconia. Koko ficcò le unghie nelle pagine, ma senza troppo entusiasmo.
— Batosta e bilancia — lesse il giornalista. — Elementare! Due punti a mio favore. Devi impe¬gnarti di più.
Koko rimise in azione le un¬ghie.
— Kohistani e Koolokamba. — Qwilleran conosceva la definizio¬ne della prima parola, ma dovette cercare il significato di Koolo¬kamba: — Scimmia antropoide dell'Africa Occidentale con la te¬sta quasi calva, muso e zampe ne¬re — lesse. — Fantastico! Questo costituisce un bell'arricchimento al mio vocabolario quotidiano. Grazie mille!
Alla fine di otto partite, Qwille¬ran aveva vinto per dodici a quat¬tro.
— Stai perdendo la tua abilità — disse Qwilleran, e il gatto gli ri¬spose con un lungo e prolungato miagolio.

8

Il mercoledì mattina Qwilleran e Bunsen si recarono a casa Allison in Merchant Street. Qwilleran disse che sperava di trovarvi qual¬cuna delle ragazze. Bunsen di¬chiarò che gli sarebbe piaciuto fo¬tografare uno dei letti a baldac¬chino con una ragazza distesa so¬pra.
L'edificio era una mostruosità vittoriana, la dichiarazione d'a¬more di un carpentiere del XIX secolo entusiasta del proprio lavo¬ro. Ma era stata ridipinta da poco e le finestre ostentavano tende dai colori vivaci. La signora Middy venne loro incontro sulla porta. Portava un cappello informe e un colletto di pizzo delicato.
— Dove sono le ragazze? — disse Bunsen cori voce tonante. — Mi porti da loro.
— Non ci sono durante il gior¬no. Lavorano — rispose la signo¬ra Middy. — Ditemi, che cosa vi interessa vedere? Da dove volete cominciare?
— Per prima cosa mi interessa¬no le stanze da letto con i letti a baldacchino.
La donna si mise in movimento con passi frettolosi, sprimaccian¬do cuscini e spostando i portace¬nere. Poi dal retro della casa fece la sua comparsa una donna dall'a¬ria stanca. Il volto era pallido e i capelli, arrotolati sui bigodini, erano protetti da un retina. Indos¬sava una vestaglia con un disegno floreale piuttosto deprimente, ma aveva modi cordiali.
— Benvenuti, ragazzi! — escla¬mò. — Fate come se foste a casa vostra. — Ho aperto le ante del mobile bar, se volete bere qual¬cosa.
— È troppo presto per l'alcool — dichiarò Bunsen. — Persino per me.
— Allora preferite un caffè? — La signora Allison si voltò verso il retro della casa e urlò: — Elsie, porta un po' di caffè. — Quindi si girò di nuovo verso gli ospiti e chiese: — Ragazzi, vi piacciono le frittelle al miele? Elsie, porta an¬che un po' di frittelle al miele!
Dalla cucina provenne una vo¬ce pigolante che rispose in modo incomprensibile.
— Allora porta qualcos'altro! — urlò la donna.
— È un bel posto questo! — disse Qwilleran.
— Sì, è gratificante occuparse¬ne! — rispose lei. — E la signora Middy sa come rendere confor¬tevole una casa. Non è a buon mercato, ma si merita i soldi che chiede.
— Perché ha scelto il primo pe¬riodo americano?
Per tutta risposta la donna si gi¬rò verso l'arredatrice. — Perché ho scelto il primo periodo ameri¬cano?
— Perché è confortevole e in¬vitante — rispose la signora Mid¬dy — e perché fa parte del nostro patrimonio nazionale.
— Può citare queste parole co¬me se le avessi dette io — dichiarò la signora Allison, facendo cadere la frase dall'alto. Si avvicinò al mobile bar. — Sicuri che non vo¬lete bere nulla? Io invece sì.
Si versò un whisky liscio e, mentre l'arredatrice mostrava la casa ai due uomini, lei li seguì con passo strascicato, tenendo un bicchiere in una mano e una botti¬glia nell'altra. Qwilleran prese nota delle pareti con tappezzerie rimate, dei catini con relativa brocca e dei candelieri Regina Anna. Il fotografo si incapricciò di una testa di polena che stava sopra la mensola del camino nel soggiorno, una vecchia scultura in legno che raffigurava una sirena dal seno prosperoso, che aveva il naso scheggiato e la vernice scro¬stata.
Disse: — Mi ricorda una ragaz¬za con cui uscivo.
— Io l'ho comperata e l'ho fat¬ta restaurare. Avreste dovuto ve¬dere in che stato era quando me la son portata via — disse la signora Allison.
— Guardi quei tavolini, signor Qwillum — gorgheggiò la signora Middy. — Non sono deliziosi? Stile vagamente vittoriano, per¬ché la signora Allison non vuole il vittoriano puro.
— È piuttosto elegante — esclamò il giornalista. — Penso che lei, signora Allison, sia piut¬tosto severa nella scelta delle gio¬vani che ospita qui.
— Può ben dirlo! Devono pre¬sentare ottime referenze e aver fatto almeno due anni di college. — Si versò dell'altro whisky.
Le camere da letto erano di un rosa deciso. Le pareti rosa, la mo¬quette rosa e tendaggi ancor più rosa sopra i letti a baldacchino.
— Adoro questa sfumatura di verde — disse scherzosamente Bunsen.
— Come reagiscono le ragazze a tutto questo rosa? — chiese il giornalista.
La signora Allison girò la do¬manda all'arredatrice.
— Come reagiscono le ragazze a tutto questo rosa?
— Lo trovano caldo e stimolan¬te — rispose lei. — La prego di osservare le cornici degli specchi. Sono dipinte a mano, signor Qwillum!
Bunsen scattò le foto in una delle camere da letto, nel soggior¬no, in un angolo della sala da pranzo, fece un primo piano della polena. Prima di mezzogiorno aveva finito.
— Venite una di queste sere a conoscere le ragazze — disse la si¬gnora Allison quando i due si ac¬comiatarono.
— C'è qualche bionda? — do¬mandò il fotografo.
— Le bionde qui non mancano.
— Benissimo, una qualche sera che non dovrò lavare i piatti e aiu¬tare i bambini nei compiti mi pre¬senterò a bere quel bicchierino che mi ha offerto.
— Non tardi troppo... non è più giovanissimo! — ribatté spiri¬tosamente la signora Allison.
Mentre i due uomini portavano l'attrezzatura verso la macchina, la signora Middy si precipitò ver¬so di loro. — Mi ero dimenticata di dirvelo: la signora Allison non vuole che pubblichiate il suo no¬me e il suo indirizzo.
— Noi lo facciamo sempre — rispose Qwilleran.
— Oh mio Dio, era quello che temevo! Lei non vuole perché pensa che, se voi pubblicherete nome e indirizzo, le ragazze sa¬ranno subissate da telefonate e lei intende assolutamente evi¬tarlo.
— Ma è prassi giornalistica ci¬tare i nomi e le fonti — spiegò Qwilleran. — Altrimenti l'artico¬lo è incompleto.
— Oh, mio Dio! Allora dovre¬mo rinunciare alla pubblicazione. Che peccato!
— Rinunciare? Ma noi non possiamo rinunciare. Siamo già fuori tempo massimo.
— In tal caso non dovrete asso¬lutamente citare il nome e l'indi¬rizzo.
Ora la donna non pareva più si¬mile a un budino. Sembrava un masso di granito col collettino di pizzo.
Bunsen gli bisbigliò: — Sei in trappola. Fai quello che vuole la vecchietta.
— Pensi che dovrei?
— Non c'è più tempo per tro¬vare qualcosa d'altro.
La signora Middy intervenne. — Limitatevi a dire che si tratta di un residence per giovani che lavorano. Mi sembra un termine più gentile di ragazze in carriera, non sembra anche a voi? E non di¬menticatevi di citare il nome dell'arredatrice. — Agitò scherzosa¬mente un dito in direzione di Qwilleran.
Quando si furono allontanati Bunsen disse: — Non si può vin¬cere sempre.
Qwilleran non parve consolarsi con quella filosofia spicciola. Pro-seguirono in silenzio fino a che il fotografo disse: — Stamattina ci sono stati i funerali della signora Tait.
— Lo so.
— Il capo ha affidato il servizio addirittura a due fotografi. Non ha badato a spese. E pensare che ne ha mandato solo uno alla gara internazionale di nautica, la setti¬mana scorsa.
Si accese un sigaro. Qwilleran si affrettò ad abbassare il finestri¬no.
— Hai già traslocato a Villa Verandah? — chiese Bunsen.
— Ci andrò questo pomeriggio. E poi ho un appuntamento per una cena con l'assistente della si¬gnora Middy. È un bel bocconci¬no, e per di più intelligente!
— Attento alle donne intelli¬genti! — lo mise in guardia il col¬lega. — Quelle stupide sono me¬no pericolose.
Sul tardo pomeriggio Qwilleran andò a casa, fece le valigie e chia¬mò un taxi. Poi mise il gatto in uno scatolone che aveva contenuto tonno e nel quale aveva prati¬cato due buchi laterali. All'im¬provviso parve che Koko avesse diciassette zampe. E tutte artiglia¬vano e si dimenavano. Le sue pro-teste verbali aumentavano ancora di più la confusione.
— Lo so, lo so — urlò Qwille¬ran al di sopra del frastuono. — Ma è il meglio che posso fare!
Quando le diciassette zampe, le nove orecchie e le tre code furono al sicuro e il coperchio dello sca¬tolone fu chiuso e assicurato con lo spago, Koko si ritrovò in un luogo buio, comodo e protetto. Vi si accovacciò, ora tranquillo. L'unico segno di vita era un oc¬chio scintillante che si scorgeva attraverso uno dei due buchi nello scatolone.
A un tratto, durante il breve tragitto verso Villa Verandah, il tassista sterzò per evitare di finire contro un autobus e dal sedile po¬steriore si levò un miagolio indi¬gnato.
— Dio mio! — urlò il tassista schiacciando il freno con violen¬za. — Che cos'ho fatto?
— È solo il mio gatto — lo tranquillizzò Qwilleran. — L'ho messo in uno di questi scatoloni.
— Pensavo di aver investito un pedone. Che cos'è? Una lince rossa?
— Un siamese. Sono portati a manifestare i propri sentimenti vi-bratamente.
— Oh sì, li ho visti in televisio¬ne. Sono brutti.
I baffi di Qwilleran vibrarono. In genere non gli piacevano le os-servazioni gratuite. E di conse¬guenza diede una mancia meno generosa del solito all'autista.
A Villa Verandah Koko emise ululati laceranti in ascensore, ma, appena fu tolto dallo scatolone, si guardò attorno attonito. Per qualche secondo non si mosse, con una zampa a mezz'aria, silen¬zioso, in un ascolto attento. Poi lentamente girò la testa a destra e a sinistra a osservare le caratteri-stiche generali della stanza. Quin¬di prese a muoversi con grande cautela sul lustro pavimento di legno.
Annusò il bordo del folto tap¬peto e allungò una zampa a titolo sperimentale, ma immediatamen¬te la ritrasse. Avvicinò il muso al¬l'angolo di un divano, esaminò l'orlo dei tendaggi e guardò nel cestino per la carta straccia vicino alla scrivania.
Qwilleran gli mostrò la nuova ubicazione della cassetta con la ghiaia e gli diede il suo vecchio giocattolo a forma di topo. — Il tuo cuscino è sul friforigero — gli disse. — Fai come se fossi a casa tua.
Un trillo poco familiare echeg¬giò per le stanze e Koko sobbalzò allarmato.
— È solo il telefono — lo rassi¬curò Qwilleran, afferrando il rice¬vitore e mettendosi seduto con aria di importanza alla bella scri¬vania col ripiano di pelle.
All'altro capo del filo si udì una voce che parlava in un inglese perfetto.
— C'è un'interurbana per il si¬gnor James Qwilleran.
— Sono io.
— È una chiamata da Copena¬ghen.
Subito dopo si udì la voce con¬citata di Harry Noyton. — Non le sembra incredibile? Sono già a Copenaghen. Come vanno le co¬se? Ha già traslocato? Si è siste¬mato bene?
— Sono appena arrivato. Co¬m'è andato il viaggio?
— C'è stata un po' di turbolen¬za a est di Gander, ma nel com¬plesso è stato un buon viaggio. Non mi spedisca la posta fino a quando non glielo dirò. La richia¬merò al più presto. Uno di questi giorni avrò un articolo sensazio¬nale per il Daily Fluxion.
— Qualcosa di attualità?
— Qualcosa di assolutamente fantastico, ma non posso ancora parlarne. Però non ho chiamato per questo. Volevo chiederle se le piace il baseball. Ho un paio di bi¬glietti per la partita che si gioche¬rà per beneficenza e sono infilati nell'agenda sulla scrivania. Sareb¬be un peccato non sfruttarli, so-prattutto considerando che costa¬no trenta dollari a lancio.
— Probabilmente sabato dovrò lavorare.
— E allora li dia a qualche suo collega al giornale.
— Com'è Copenaghen?
— È molto pulita. Ci sono mol¬tissime biciclette.
— Quando potrà darci quella notizia sensazionale a cui ha ac¬cennato?
— Spero tra una settimana. E il Fluxion l'avrà in esclusiva.
Dopo aver riagganciato, Qwilleran cercò l'agenda-calendario di Noyton. La trovò nel cassetto, un grosso libro rilegato in pelle, con i giorni da un lato e la rubrica tele¬fonica dall'altro. I biglietti per la partita erano fissati con una graf¬fetta al 26 settembre: posti in pri¬ma fila dietro la panchina. Si chie¬se se usarli o regalarli. Avrebbe potuto invitare Alcocque Wright, filarsela dall'ufficio sabato a mez¬zogiorno...
— Koko! — sbottò. — Via di lì.
Il gatto era saltato silenziosa¬mente sulla scrivania e stava af¬fondando le unghie nel bordo del¬l'agenda, dalla parte della rubrica telefonica. Voleva fare il suo soli¬to gioco. I baffi di Qwilleran vi¬brarono e non resistette alla ten¬tazione di aprire l'agenda alla pa¬gina scelta da Koko.
Trovò i numeri di telefono di un certo dottor Thomas e il ben noto studio legale Teahandle, Burris, Hansblow, Maus e Castle.
C'era anche il nome di Tappington, l'agente di borsa, e il numero telefonico del Toledo, il ristorante più costoso della città. In fondo all'elenco dei nomi c'era Tait. Non George Tait, o Verning Tait, ma Signe Tait.
Fissò quel nome scarabocchiato frettolosamente, che faceva pen¬sare al fantasma della morta. Per¬ché Noyton aveva scritto il nome di Signe e non del marito? Che cosa aveva a che fare un impor¬tante uomo d'affari con la moglie invalida di un ricco e ozioso colle¬zionista di giade?
Ricordò la conversazione che aveva avuto con Noyton al party di David. Avevano parlato del furto delle giade, ma l'altro non aveva accennato di conoscere la defunta signora Tait. Eppure il giornalista aveva capito che ama¬va molto fare sfoggio delle sue al¬tolocate conoscenze e il nome dei Tait era tra quelli che contavano.
Richiuse lentamente l'agenda, ma subito dopo la riaprì e prese a sfogliarla, controllando gli appun¬tamenti di Noyton giorno dopo giorno. Iniziò dal 20 settembre per risalire al primo gennaio. Non c'era nulla che riguardasse Signe Tait o Muggy Swamp. Però il pri¬mo di settembre il colore dell'in¬chiostro era cambiato. Per quasi tutto l'anno era stato blu. In se¬guito Noyton era passato al nero. Il numero telefonico dei Tait era scritto in nero ed era stato aggiun¬to nelle ultime tre settimane.

9

Prima di uscire per recarsi all'ap¬puntamento con Alacocque Wright, Qwilleran telefonò a David Lyke per avere notizie sui fu¬nerali della signora Tait.
— Sarebbe dovuto esserci an¬che lei — gli disse l'architetto. — C'era tutta la vecchia guardia che conosceva il padre e il nonno di Tait. Non si sono mai visti tanti pince-nez e cappelli stile Queen Mary.
— E come l'ha presa Tait?
— Vorrei poterle dire che ap¬pariva pallido e smunto, ma con quel colorito sano sembra sempre che abbia appena vinto una parti¬ta a tennis. Perché non è venuto?
— Dovevo preparare un artico¬lo importante. E questo pomerig¬gio ho traslocato nell'apparta¬mento di Harry Noyton.
— Fantastico, così diventere¬mo vicini di casa! — esclamò Da¬vid. — Perché non viene sabato sera a casa mia? Ci sarà anche Natalie Noyton, appena arrivata da Reno, e un paio di amici per bere qualcosa insieme.
Qwilleran si ricordò dell'eccel¬lente buffet offerto da Lyke la volta precedente e si affrettò ad accettare l'invito. Dopo preparò rapidamente la cena per Koko: mezza scatoletta di salmone rosso con un tuorlo d'uovo crudo e dis¬se: — Fai il bravo! Rientrerò tardi e ti preparerò uno spuntino.
Alle sei in punto incontrò Alacocque Wright sotto l'orologio del municipio. La ragazza aveva dimostrato di essere di una pun¬tualità da architetto. Indossava una strana combinazione: gonna verde, top turchese e una mantel¬la blu di un tessuto che a Qwille¬ran ricordò una sedia da sala da pranzo appartenuta a un suo pas¬sato.
— Me lo sono fatto da sola con dei campionari di tessuto per tap¬pezzeria — gli spiegò, scrutando¬lo da sotto una massa di lucidi ca¬pelli castani che le avviluppavano la testa, le spalle e gran parte del volto.
La portò a cena al Press Club dove fu subito consapevole di es¬sere osservato da tutti gli habitués del bar e del fatto che avrebbe do¬vuto, il giorno dopo, rendere con¬to dei suoi gusti in fatto di donne. Comunque doveva per forza por¬tarla al Club, perché lì aveva un conto aperto e il giorno di paga era solo il venerdì successivo. Condusse la sua invitata, che gli aveva chiesto di chiamarla Cokey, nella sala da pranzo grande al pri¬mo piano, dove l'atmosfera era più tranquilla e i panini costellati di semi di papavero.
— Beve un cocktail? — le chie¬se. — Io sono astemio, ma per te¬nerle compagnia prenderò una spremuta di limone con il seltz.
Cokey lo guardò con espressio¬ne di grande interesse. — Perché non beve?
— È una lunga storia e meno se ne parla e meglio è — rispose. In¬filò una bustina di fiammiferi sot¬to una gamba del tavolo. Tutti i tavoli del Press Club traballavano per un difetto di fabbricazione.
— Io, invece, sto facendo yoga — gli disse lei. — Niente alcolici, niente carne... Ma se ordina gli ingredienti al barista e si fa porta¬re anche due bicchieri da champa¬gne, preparerò con le mie mani uno dei nostri cocktail analcolici.
Quando fu portato il vassoio al tavolo lei versò un po' di panna in ogni bicchiere che poi riempì con un po' di ginger ale, quindi estras¬se dalla borsetta una scatoletta di legno.
— Mi porto sempre appresso la noce moscata per grattugiarla fre¬sca — spiegò, spargendo la super¬ficie delle due bibite con quella polvere marrone. — La noce mo¬scata è uno stimolante; i tedeschi la mettono dappertutto.
Qwilleran assaggiò un sorso con una certa circospezione. Quella bevanda aveva del mor¬dente. Era come Cokey: fresca e riposante con qualcosa di sor¬prendentemente piccante. — Co¬me mai ha deciso di fare l'archi¬tetto?
— Lei forse non lo avrà notato, ma ci sono più architetti di nome Wright che giudici di nome Murphy. A quanto pare noi ci ritro¬viamo sempre a gravitare intorno al tavolo da disegno. Comunque il fatto di portare il cognome Wright non mi serve a nulla. — Si accarezzò i lunghi capelli con gesti delicati. — Forse dovrò rinuncia¬re a lottare e trovarmi un marito.
— Non dovrebbe avere diffi¬coltà, per questo.
— Mi fa piacere che lei sia così fiducioso. — Contrasse la mascel¬la e grattugiò dell'altra noce mo¬scata nel proprio bicchiere. — Mi dica, che cosa ne pensa della pro¬fessione dell'arredatore, dopo che ha vissuto per due settimane in questa giungla di velluto?
— Mi sembrano persone grade¬voli.
— Sono bambini. Vivono in un mondo di gioco. — Un'ombra le passò sul volto, sulla parte rivolta verso di lui. — E proprio come i bambini, possono essere crudeli. — Fissò i granellini di noce mo¬scata che erano rimasti appiccica¬ti all'interno del bicchiere vuoto, fece saettare la lingua per ripu¬lirlo.
Qualcuno passò vicino al loro tavolo. — Salve, Cokey!
Lei alzò gli occhi bruscamente. — Be', salve — disse, e l'inflessio¬ne della sua voce aveva qualcosa di significativo.
— Lo conosce? — chiese Qwil¬leran stupito.
— Ci siamo conosciuti, sì. Mi sta venendo fame. Possiamo ordi¬nare?
Lesse il menu e chiese una trota di torrente con prezzemolo in quantità moderata e un piattino di insalata. Mentalmente Qwille¬ran raffrontò la figura snella della giovane con il proprio giro vita ben imbottito. E si sentì in colpa mentre ordinava zuppa di fagioli, una gagliarda bistecca e patate al forno con panna acida.
— È divorziato? — gli chiese a un tratto Cokey.
Lui annuì.
— Bene. Dove abita?
— Ho traslocato oggi a Villa Verandah. — Attese che lei sbar¬rasse gli occhi, poi aggiunse in un sussulto di onestà: — L'apparta¬mento appartiene a un amico che è andato all'estero.
— Le piace vivere da solo?
— Non vivo da solo. Ho un gat¬to. Un siamese.
— Io adoro i gatti! — squittì Cokey. — Come si chiama il suo?
Qwilleran la fissò con un sorri¬so radioso. — Le persone che amano veramente gli animali chiedono sempre come si chiama¬no. Il suo vero nome è Kao-K'o-Kung, ma per comodità viene chiamato Koko. Fino al giorno in cui ci siamo conosciuti, io mi rite¬nevo un cinofilo. È un animale notevole. Forse ricorderà il delit¬to avvenuto la primavera scorsa in Blenheim Place. Il gatto implicato nel caso era Koko e se io le rac¬contassi alcune delle sue prodezze intellettuali, lei non mi credereb¬be.
— Oh, io sono disposta a cre¬dere qualunque cosa sui gatti. So¬no bestie dalle facoltà paranor¬mali.
— A volte ho la persuasione che Koko intuisca quello che sta per succedere.
— È vero. I gatti sono in sinto¬nia con i loro baffi.
— Me lo hanno detto — ribatté Qwilleran, lisciando i propri con aria distratta. — Koko dà sempre l'impressione di saperne più di me e ha un suo modo intelligente di comunicare. Non che faccia cose che non siano tipiche dei gatti, ep¬pure, in qualche modo, riesce a trasmetterti quello che pensa... Ma non glielo sto spiegando mol¬to bene...
— Capisco esattamente quello che intende.
Qwilleran la guardò con aria di apprezzamento. Quelle erano fac¬cende che lui non poteva discute¬re con i suoi amici al Fluxion. Avendo come unico punto di rife¬rimento i boxer e i cani da caccia, come avrebbero potuto capire qualcosa di gatti? In quel settore della propria vita lui provava un vago senso di isolamento. Ma Co¬key capiva. I suoi occhi verdi e maliziosi si erano addolciti in un'espressione di solidarietà.
Il giornalista tese una mano a prendere quella di lei, che era sot¬tile e affusolata e che stava facen¬do il gioco delle pulci con alcuni semini di papavero sparsi sulla to¬vaglia. — Ha mai sentito di un gatto che mangia le ragnatele o la colla? Koko ha cominciato a lec¬care la colla delle buste. Poi un giorno si è mangiato francobolli per un dollaro.
— Una volta avevo un gatto che beveva acqua con le scaglie di sapone — disse Cokey. — I felini sono molto individualisti. Koko graffia i mobili? È stato molto generoso quel suo amico a cedere l'appartamento a lei che possiede un gatto.
— Koko si fa le unghie solo su una vecchia edizione integrale di un dizionario — rispose Qwilleran con una punta di orgoglio.
— Che intellettuale!
— Non è proprio un vecchio di¬zionario... è abbastanza nuovo, come edizione. Il precedente pa¬drone di Koko lo aveva compera¬to per sé e poi aveva deciso che preferiva la vecchia edizione. E quindi aveva ceduto quella nuova al gatto perché ci si facesse le un¬ghie.
— Ammiro gli uomini che am¬mirano i gatti.
Il giornalista abbassò la voce e disse in tono confidenziale: — Lui e io facciamo un gioco col dizio¬nario. Koko tiene in esercizio le unghie e io arricchisco il mio vo¬cabolario... Certo questa non è una cosa che vorrei fosse risaputa qui al Press Club.
Cokey lo fissò con occhi un po' velati dalla commozione. — Pen¬so che lei sia un uomo fantastico. La prossima volta piacerebbe an¬che a me giocare.
Quella sera quando Qwilleran tornò a casa era tardi, esausto. Le ragazze come Cokey gli facevano capire che non era più tanto gio¬vane come pensava di essere.
Aprì la porta dell'appartamen¬to e stava tastando la parete alla ricerca dell'interruttore quando scorse due bagliori rossi nel soggiorno buio. Avevano uno scintil¬lio sovrannaturale. Li aveva già visti e sapeva di cosa si trattava. Ma gli avevano sempre messo un po' di paura.
— Koko! — disse. — Sei tu?
Accese le luci e i misteriosi ba¬gliori rossi negli occhi di Koko svanirono.
Il gatto si avvicinò con la grop¬pa arcuata, la coda a punto in¬terrogativo e i baffi ritti all'indietro a esprimere disapprovazione. Emetteva veementi lamentele monocordi.
— Mi dispiace — disse il gior¬nalista. — Pensavi che ti avessi abbandonato? Non ci crederai, ma siamo andati a fare una lun¬ghissima passeggiata. È quello che alle donne architetto piace fa¬re quando escono con un uomo... portarlo a vedere le case. Sono a pezzi! — Sprofondò in una poltro¬na e buttò via le scarpe senza nemmeno slacciare le stringhe. — Per tre ore abbiamo guardato gli stili architettonici, l'insensibile speculazione edilizia, l'inefficien¬te pianificazione urbanistica e la banale disposizione delle finestre.
Koko stava ululando con impa¬zienza contro il suo ginocchio. Qwilleran lo prese in braccio, se lo issò sulla spalla e accarezzò il manto vellutato. Sentiva i muscoli tesi sotto il pelo. Koko si divinco¬lò e balzò a terra.
— Che cos'hai? — chiese il giornalista.
— Yow! — rispose il gatto. Si avventò verso il cassettone spa¬gnolo sul quale era appoggiato lo stereo. Si trattava di un mobile massiccio e basso che era retto da quattro gambe panciute. Koko vi si bloccò davanti, tese una delle due zampe anteriori e cercò inu¬tilmente di infilarla sotto, la coda a forma di scimitarra.
A Qwilleran sfuggì un gemito stanco. Sapeva che Koko aveva perso il suo topo di fabbricazione casalinga: un mazzetto pieno di foglie secche di menta infilate in un vecchio calzino. Sapeva che non sarebbe riuscito ad andare a dormire sino a che il topino non fosse stato recuperato. Cercò qualcosa da cacciare sotto il mobi¬le, per esempio il manico di una scopa. Ma nel bugigattolo adia¬cente alla cucina non trovò scope. Evidentemente le cameriere usa¬vano le loro. Un attizzatoio? A Villa Verandah non c'erano cami¬netti. Ombrelli? Se Noyton ne possedeva uno, doveva averlo portato in Europa. Canne da pe¬sca? Mazze da golf? Racchette da tennis? Il padrone di casa sembra¬va non avere hobby sportivi. Ma¬nine grattaschiena, calzascarpe dal manico lungo, clarinetti, qual¬che stampella in disuso?
Con Koko alle calcagna che emetteva imperiosi ordini da sia¬mese, Qwilleran si guardò attorno dappertutto. Pensò con rammari¬co a tutti gli oggetti lunghi e sottili che avrebbe potuto usare: un ra¬mo d'albero, una paletta acchiappamosche, un frustino da calesse...
Alla fine si abbassò verso terra, si distese, infilò un braccio sotto il basso mobile e ne estrasse con cir¬cospezione una monetina, un orecchino d'oro e un nocciolo di oliva, una pallina di carta, alcune di polvere e un familiare sacchettino grigio di forma indefinibile.
Koko si buttò sul suo topino, lo annusò una sola volta senza ecces¬sivo interesse e gli diede un cal¬cetto noncurante, rimandandolo sotto il cassettone, dopo di che si allontanò per andare a bere un po' d'acqua, prima di ritirarsi per la notte.
Qwilleran invece rimase alzato a farsi una fumatina di pipa e a ri¬flettere su molte cose. A Cokey e ai cocktail con la noce moscata, a Belle Dimore, al colletto di pizzo della signora Middy, ai frustini da calesse e alla situazione che re¬gnava a Muggy Swamp.
Si alzò e andò a guardare nel cestino della carta straccia dal quale tirò fuori la pallina di carta che aveva trovato sotto il casset¬tone spagnolo. La spiegò e vide che c'era scritto un nome: Arne Thorwaldson. La lasciò ricadere nel cestino e buttò l'orecchino d'oro nel cassetto della scrivania vicino ai fermagli per la carta.

10

Il giorno dopo i funerali Qwilleran telefonò a G. Verning Tait e gli domandò se poteva fargli una visita per restituirgli il volume sulle gia¬de. Aggiunse che era solito resti¬tuire nel minor tempo possibile i libri che gli venivano prestati.
Tait si dichiarò d'accordo con una voce che non era né fredda né cordiale. Il giornalista riuscì a immaginare le sue labbra che si contraevano.
— Come ha fatto ad avere que¬sto numero? — chiese Tait.
Qwilleran si passò velocemente una mano sul volto, augurandosi di dare la risposta giusta. — Cre¬do che... sì... è il numero che mi deve aver dato David Lyke.
— La mia era pura curiosità, perché non compare sulla guida telefonica.
Qwilleran rimise l'agenda di Noyton nel cassetto della scriva¬nia, accarezzò la testa di Koko per scaramanzia, poi raggiunse Muggy Swamp con un'auto del giornale. Stava tirando a indovi¬nare, ma sperava di vedere o sen¬tire qualcosa che corroborasse il suo sospetto che non tutto fosse esattamente come risultava dal verbale della polizia.
Non aveva progettato alcun ap¬proccio particolare. Si sarebbe li¬mitato alla Tecnica Qwilleran. In venticinque anni di giornalismo praticato in tutto il paese aveva ri¬portato successi stupefacenti nell'intervistare criminali (descritti come tipi dalla bocca chiusa) vec¬chie signore (descritte come timi¬de) uomini politici (descritti come cauti) e cow boys (descritti come taciturni).
In quelle occasioni non poneva domande da ficcanaso, si limitava a fumare la pipa, a mormorare frasi di incoraggiamento, a incal¬zare con delicatezza, e manteneva sul volto un'espressione di inte¬ressamento comprensivo che era rafforzato dall'aspetto severo dei suoi baffi.
Fu Tait in persona, il volto co¬me al solito arrossato e una cami¬cia di seta dal taglio sportivo, a farlo entrare nello scintillante atrio. Qwilleran diede un'occhia¬ta incuriosita verso il soggiorno, ma vide che le doppie porte erano chiuse.
Il collezionista lo invitò in bi¬blioteca. — Le è piaciuto il libro? — chiese. — Comincia a sentire l'attrazione della giada? Crede che potrebbe cominciare a fare anche lei collezione di pietre?
— Temo che al momento la co¬sa sia al di là delle mie possibilità finanziarie — gli rispose, e ag¬giunse una piccola bugia. — Ho preso in subaffitto la casa di Har¬ry Noyton a Villa Verandah e questa piccola follia mi costa un occhio della testa.
Il nome di Noyton non risvegliò alcun ricordo in Tait. — Si può co-minciare anche con mezzi molto modesti. Le posso dare un nome di un mercante d'arte al quale pia¬ce aiutare i principianti. Ha anco¬ra il bottone di giada?
— Me lo porto sempre appresso — gli rispose il giornalista fa¬cendo tintinnare il contenuto del¬la tasca dei pantaloni. Poi chiese in tono solenne: — La signora Tait condivideva il suo entusiasmo per le giade?
Gli angoli della bocca di Tait vi¬brarono. — Purtroppo mia mo¬glie non ha mai sentito il fascino della giada, mentre per me, da ol¬tre quindici anni, collezionarle e occuparmene per lavoro è stato un conforto. Le interessa vedere il mio laboratorio? — Fece strada verso il retro della casa, poi giù per una rampa di scalini che con¬ducevano alla cantina.
— Questa è una casa molto grande — commentò Qwilleran. — Immagino che sia comodo di¬sporre di un sistema di comunica¬zione interna.
— La prego di scusare lo stato del mio laboratorio — disse l'al¬tro, senza rispondere alla sua do¬manda. — Non è in ordine come dovrebbe essere. Ho licenziato la governante. Mi appresto a partire.
— Andrà nel paese delle gia¬de? — chiese Qwilleran in tono speranzoso.
La sua supposizione non ebbe conferma.
— Ha mai visto il laboratorio di un gioielliere? È strano, ma quan¬do sono qui, in questo mio rifugio a tagliare e a lucidare, dimentico tutto. Il mal di schiena non mi tor¬menta e mi sento felice. — Porse all'altro un piccolo drago scolpito. — Questo è l'oggetto che la polizia ha trovato dietro il letto di Paolo quando hanno perquisito la sua stanza. È un genere piuttosto semplice e io cercavo di copiarlo.
— Deve provare molta amarez¬za nei confronti di quel ragazzo.
Tait evitò di guardarlo. — Con l'amarezza non si arriva a nulla.
— Devo essere sincero. Il fatto che lui fosse coinvolto in questa storia mi ha turbato, perché mi era sembrato un giovane franco e privo di malizia.
— Le persone non sempre sono come appaiono.
— Non potrebbe darsi che Pao¬lo sia stato usato come strumento dai veri organizzatori del furto?
— È possibile, certo, ma questo non mi restituisce le mie giade.
— Signor Tait — disse il giorna¬lista — prenda quello che le dirò per quello che può valere, ma de¬sidero sappia che ho la netta im¬pressione che le giade rubate sa¬ranno ritrovate.
— Vorrei condividere il suo ot¬timismo. — Negli occhi di Tait comparve un lampo di curiosità. — Che cosa glielo fa credere?
— Al giornale corre voce che la polizia sia sulle tracce di qualcosa.
Non era la prima volta che Qwilleran spargeva una voce si¬mile, e spesso otteneva dei risul¬tati.
— È strano che non me ne ab¬biano informato — disse Tait fa¬cendo strada per le scale e accom¬pagnandolo alla porta dell'ingres¬so.
— Forse non avrei dovuto ac¬cennargliene — disse Qwilleran. Poi proseguì in tono casuale: — La sua governante... accetterebbe un lavoro provvisorio nel periodo in cui lei sarà assente? Un mio amico ha bisogno di una persona che si occupi di lui e della casa perché ha la moglie all'ospedale. È difficile trovare del buon perso¬nale per un breve periodo.
— Sono sicuro che la signora Hawkins ha bisogno di lavorare — rispose l'altro.
— Tra quanto avrà di nuovo bi¬sogno di lei?
— Non intendo più avvalermi dei suoi servizi. È una brava lavo¬ratrice, ma ha un carattere diffi¬cile.
— E allora, se non le spiace, vorrei che lei mi desse il suo nu¬mero di telefono per poterlo pas¬sare al mio amico.
Entrarono in biblioteca e Tait gli annotò il numero su un fogliet¬to. — Le darò anche il nome e l'indirizzo di quel mercante di gia¬de, in caso lei cambiasse idea.
Quando passarono davanti al soggiorno, Qwilleran guardò con avida curiosità le porte chiuse. — Paolo ha fatto qualche danno quando ha aperto le bacheche?
— No, nessun danno, però è una ben misera consolazione — gli rispose mestamente Tait. — Tuttavia mi piace pensare che le giade sono state rubate da qualcu¬no che le amava.
Mentre si allontanava da Muggy Swamp, Qwilleran si disse che aveva sprecato una mattinata e otto litri di benzina. Eppure, nel corso di quella visita, il suo labbro superiore aveva avuto delle vibra¬zioni provocatorie. Gli era parso di avvertire qualcosa di falso nel¬l'atteggiamento del collezionista. Quell'uomo sarebbe dovuto esse¬re più triste o più arrabbiato. E poi c'era stata quella battuta strappalagrime, da palcoscenico: "Mi piace pensare che le giade so¬no state rubate da qualcuno che le amava".
— Accidenti! — disse ad alta voce Qwilleran. — Che gigione.
Quella mattinata trascorsa a cu¬riosare non aveva fatto altro che stimolare il suo desiderio di saper¬ne di più. Si recò nel luogo dove forse avrebbe potuto trovare qualche risposta alle sue doman¬de. Raggiunse il negozio che si chiamava BRUPI e che si trovava in River Street.
Era un quartiere inadatto a ospitare un negozio di arreda¬mento. Il BRUPI appariva di una raffinatezza sprecata in mezzo a tutti gli altri negozi squallidi che offrivano materiale idraulico e re¬gistratori di cassa usati.
Gli oggetti esposti in vetrina erano sistemati in modo invitante sullo sfondo di tela cerata per cu¬cina sulla quale erano disegnati dei gattini rosa. C'erano vasi con¬tenenti piume di struzzo, blocchi di cemento dipinti con colori fo¬sforescenti e ciotole per uova sode bordate da paillettes. Le eti-chette con i prezzi erano piccole e raffinate come si addice a un ne¬gozio di lusso. Cinque dollari per ogni uovo, quindici per un blocco di cemento.
Qwilleran entrò nel negozio. La maniglia della porta era una copia dorata della Statua della Li¬bertà. Il tintinnio di un campanel¬lo annunciò la sua presenza con le quattro note di How Dry I am. Da dietro un paravento fatto con vecchie copertine del Reader's Di¬gest comparve il cordiale proprie¬tario, Bob Orax, più inappuntabi¬le che mai in mezzo a tutto quel ciarpame: fiori di carta pressati sotto vetro, vassoi decorati con fascette di sigari e candelabri rica¬vati da corna di bue posati su cen¬trini lavorati all'uncinetto.
Un'intera parete era tappezzata da un mosaico di tappi a corona, le altre erano ricoperte da cartelli pubblicitari di supermercati, da involucri di carta per caramelle incorniciati in velluto rosso e oro.
— Dunque è di questo che si occupa! — esclamò Qwilleran. — Chi acquista questa roba?
— La bruttezza pianificata pia¬ce a coloro che sono stufi della bellezza, stanchi del buon gusto, esasperati dalla funzionalità — ri¬spose Orax in tono gaio. — La gente non sopporta troppo a lun¬go la bellezza. Va in senso contra¬rio alle inclinazioni degli uomini. Questo nuovo movimento espri¬me la ribellione dell'intellettuale raffinato. Il convenzionale cliente della middle-class lo respinge.
— Lei crea arredamenti di in¬terni?
— Certo. Ho appena finito un salottino per un cliente; in esso ho abbinato lo stile americano della Grande Depressione e quello mo¬derno del genere Vendite per Corrispondenza. Molto di impat¬to. Ho rivestito una parete con la¬miera ondulata ricavata da un vecchio capanno per gli attrezzi, lasciandovi sopra la ruggine origi¬nale. La combinazione dei colori è: cinnamomo, pastinaca e qual¬che traccia di aneto.
Qwilleran esaminò una serie di trappole per topi trasformati in posacenere.
— Questi sono piccoli gadget per quelli che soffrono di raptus da acquisto — disse Orax con un sorriso ironico. — Spero lei capi¬sca che non ho alcun coinvolgi¬mento emotivo con questa moda. È vero che richiede un certo gra¬do di preparazione, ma io me ne occupo innanzitutto per il vile me¬tallo, come potrebbe dire Shake¬speare.
Qwilleran stette in silenzio per un po', quindi osservò: — È stata bella la serata di lunedì a casa di David Lyke. Ho sentito che ce ne sarà un'altra sabato per la signora Noyton.
— Io non sarò presente — ri¬spose Orax in tono di rammarico. — Mia madre darà una cena e io mi prenderò la responsabilità di preparare dei drink forti per gli invitati, per evitare che si accor¬gano di quanto cucina male. Non è nata per stare davanti ai fornel¬li. Però penso che potrebbe inte-ressarle conoscere Natalie Noyton. È una donna traboccante di fascino.
Qwilleran stava giocherellando con un piccolo fenicottero di pla¬stica rosa che si accendeva e si spegneva.
— I Noyton e i Tait erano mol¬to amici? — chiese.
Orax ebbe un lampo divertito negli occhi. — Dubito che vorreb¬bero frequentare gli stessi am¬bienti.
— Oh! — esclamò Qwilleran assumendo un'espressione inge¬nua. — Mi sembrava di aver sen¬tito dire che Harry Noyton cono¬sceva la signora Tait.
— Sul serio? — Orax inarcò ancora di più le sopracciglia. — Una coppia del tutto improbabile. Se si trattasse di Georgie Tait e di Natalie, la cosa potrebbe avere un senso. Secondo mia madre, Geor¬gie era un gran dongiovanni.
Vide che il giornalista stava os¬servando delle coppe metalliche.
— Questi sono coprimozzi del 1959, ora molto richiesti come contenitori per insalata e fiori.
— Da quanto tempo la signora Tait era costretta sulla poltrona a rotelle?
— Mia madre dice che è suc¬cesso dopo lo scandalo e che deve essere stato sedici o diciotto anni fa. A quei tempi io ero a Prince¬ton, ma a quanto ho sentito dire è stata una cosa grossa. E subito dopo Siggy si è ammalata.
Qwilleran si lisciò i baffi e si schiarì la voce, prima di chiede¬re: — Scandalo? Quale scandalo?
Orax lo fissò con occhi accesi. — Oh, non lo sa? È stata una fac¬cenda piuttosto ghiotta. Dovreb¬be andare a sfogliarsi i giornali di allora. Sono sicuro che il Fluxion deve avere una bella documenta¬zione negli archivi, a questo pro¬posito.
Prese un piumino e spolverò un vassoio pieno di oggettini. — Questi sono piccoli barattoli di latta del 1930 molto adatti per col¬lezioni. I clienti che se ne inten¬dono li acquistano come investi¬mento.
Qwilleran si affrettò a tornare al giornale e chiese all'archivista di mostrargli il materiale che ri¬guardava la famiglia Tait.
Senza rispondergli, la donna scomparve tra le file grigie degli archivi che arrivavano ad altezza d'uomo, muovendosi come una sonnambula. Ritornò a mani vuo¬te. — Non c'è niente.
— È stato richiesto da qual¬cuno?
— Non lo so.
— Le spiacerebbe consultare il suo registro, se lo tiene, e dirmi se qualcuno ha firmato per portarsi via il materiale? — chiese il gior¬nalista in tono impaziente.
L'impiegata si allontanò e ritornò di lì a poco sbadigliando. — Non ho trovato nulla.
— E allora dov'è finito? — urlò Qwilleran. — Ci deve assoluta¬mente essere una scheda per una famiglia importante come quella dei Tait.
Un'altra impiegata si alzò in punta di piedi e disse attraverso una fila di schedari: — Sta parlan¬do di G. Verning Tait? Ma c'è uno schedario intero! È venuto un funzionario di polizia a prenderlo. Voleva portarlo alla sede di poli¬zia ma noi gli abbiamo detto che poteva consultarlo solo qui.
— Lo avrà preso di nascosto. Ci sono dei poliziotti che hanno chi li aiuta. Dov'è il suo capuffi¬cio?
La prima archivista rispose che era il suo giorno di libertà.
— Bene, quando lo vedrà gli dica di farsi restituire subito quel¬la roba. Riuscirà a ricordarselo?
— Ricordarmi di che cosa?
— Non si preoccupi. Gli lasce¬rò io un biglietto.

11

La domenica pomeriggio Qwille¬ran portò Alacocque Wright allo stadio e ascoltò con attenzione i suoi commenti sul baseball.
— Naturalmente — gli disse — il fascino basilare di questo gioco è erotico. Sa, tutto quel simboli¬smo e quei movimenti sensuali...
Indossava qualcosa che si era fatta con una coperta da letto. — La signora Middy l'aveva ordina¬ta per posta e doveva servire per un letto a tre piazze — spiegò. — Invece ne hanno mandata una per un letto a una piazza e mezzo e così io l'ho trasformata in un tail¬leur.
La coperta trasformata in tail¬leur era di velluto verde con delle linee in rilievo che facevano pen¬sare a file di bruchi in marcia.
— Ottimo gusto — osservò Qwilleran.
Cokey gettò all'indietro la sua folta e lunga chioma. — Non in¬tendevo fare una cosa di gusto, in¬tendevo fare una cosa sexy.
Dopo aver cenato in un piccolo ristorante (lei prese un piatto a base di granchio e delle prugne cotte, Qwilleran optò per il menu completo, dalla prima all'ultima portata) il giornalista disse: — Siamo invitati a un party stasera. E io farò una cosa piuttosto azzar¬data: le voglio presentare un gio-vanotto che sembra essere irresi¬stibile per le donne di tutte le età, taglie e forme.
— Non si preoccupi, preferisco gli uomini più anziani.
— Non sono poi tanto più an¬ziano.
— Ma è così maturo, e questo per una persona come me è im¬portante.
Raggiunsero Villa Verandah in taxi tenendosi mano nella mano. All'ingresso dell'edificio furono accolti con entusiasmo dal portiere, al quale nel pomeriggio lui aveva dato premurosamente una mancia. Non era una mancia lauta secondo i criteri di Villa Verandah, ma imponeva che un uomo vestito come un generale prussiano prestasse agli ospiti un'atten-zione equivalente a un dollaro.
Entrarono nello spazioso atrio tutto marmo bianco, vetrate di cristallo, e acciaio inossidabile, e Cokey annuì con aria di approva¬zione. Era diventata silenziosa. Quando furono sull'ascensore au¬tomatico, Qwilleran la strinse in un rapido abbraccio.
La porta dell'appartamento di David venne aperta da un orien¬tale in giacca bianca sul volto del quale, alla vista di Qwilleran, ap¬parve un fugace lampo di ricono¬scimento. Nessuno dimenticava mai i baffi del giornalista. Poi ar¬rivò il padrone di casa, che ema¬nava fascino da tutti i pori. Cokey infilò la mano sotto il braccio di Qwilleran che se lo sentì stringe¬re con maggior forza quando Lyke rispose alle parole di presenta-zione del giornalista con la sua ca¬ratteristica voce profonda e le pal¬pebre abbassate.
L'appartamento era pieno di in¬vitati: clienti di David che parla¬vano del proprio analista e colle¬ghi arredatori che discutevano della mostra d'arte spagnola, che era stata aperta al museo locale, e del nuovo ristorante nel quartiere greco.
— Alla mostra c'è un vargueño Isabelina del diciasettesimo seco¬lo semplicemente meraviglioso.
— Questo ristorante ti ricorde¬rà quel posticino vicino all'Acro¬poli ad Atene. Sai quale, no?
Qwilleran condusse Cokey ver¬so il buffet. — Quando sono in mezzo agli arredatori e agli archi¬tetti mi sembra di essere in una terra sperduta e immaginaria. Non parlano mai di cose serie o sgradevoli.
— Queste persone hanno solo due preoccupazioni: modelli fuori produzione e consegne lente — gli disse Cokey. — Non hanno problemi reali.
— Questo genere di disappro¬vazione non può essere meramen¬te professionale. Ho l'impressio¬ne che lei sia stata piantata da un arredatore.
— Più di una volta. — Si lisciò i lunghi capelli con espressione un po' mesta. — Provi queste polpet¬tine a base di granchio. Sono mol¬to pepate.
Sebbene Qwilleran avesse ce¬nato da poco, non ebbe difficoltà ad assaggiare l'insalata di arago¬sta, le croccanti polpettine di pa¬tate insaporite con l'aglio, le fette di carne di manzo aromatizzate con le spezie e infilate in bastonci¬ni di bambù e le focaccine di gran¬turco al prosciutto, spalmate di burro e calde. Provava un senso di benessere. Guardò Cokey con aria soddisfatta. Gli piacevano il suo brio, il volto provocante che spuntava da quella cortina di capelli e la grazia della sua figura da giovane puledra.
Poi guardò al di sopra di lei, in direzione del soggiorno, e im-provvisamente Cokey divenne in¬significante. Era arrivata Natalie Noyton.
L'ex moglie di Harry Noyton era formosa dappertutto, tranne che nella vita assurdamente sotti¬le e nelle caviglie minute. Il volto, stupendo, faceva pensare a una pesca, e i capelli, gonfi sulla testa, avevano pure riflessi pesca.
Qualcuno disse: — Ti è piaciu¬to il selvaggio West, Natalie?
— Non l'ho nemmeno visto — rispose la donna con una vocina acuta. — Non ho fatto altro che starmene chiusa in una pensione a Reno e lavorare un mio tappeto. Ho cucito con l'ago uno di quei tappeti danesi tutto pelo. A qual¬cuno interessa acquistare un tap¬peto fatto a mano color cacao e verde sedano?
— Sei un po' ingrassata, Na¬talie.
— Oh, eccome! Lì non ho fat¬to altro che lavorare al mio tappe¬to e mangiare burro di arachidi. Adoro il burro con le arachidi croccanti.
Indossava un abito che andava d'accordo con il colore dei capelli. Un tubino di lana tessuta a trama rasata con dei fili dorati. Sulle spalle portava una stola in tinta che aveva una lunga frangia arric¬ciata.
Cokey, che stava osservando la nuova arrivata, disse a Qwilleran:
— Quell'abito dev'esserselo tes¬suto da sola, tra un panino con il burro di arachidi e un altro. Sa¬rebbe stato molto più elegante senza quei fili dorati.
— Come definirebbe un archi¬tetto quel colore? — le chiese.
— Io lo definirei un giallo-rosa a basso grado di intensità e di me¬dia luminosità.
— Un arredatore, invece, lo definirebbe passato di carote o sufflé di patate dolci — ribatté lui.
Dopo che Natalie venne saluta¬ta, lusingata, presa scherzosa¬mente in giro e fatta oggetto di congratulazioni dalle persone che la conoscevano, David Lyke la condusse a conoscere Qwilleran e Cokey dicendole: — Forse il Dai¬ly Fluxion vorrà fotografare la tua casa in collina. Che ne pensi?
— Tu vuoi che la fotografino, David?
— La casa è tua, tesoro, devi decidere tu.
Natalie si rivolse a Qwilleran. — Traslocherò non appena avrò trovato uno studio dopo di che mio marito, il mio ex marito, ven¬derà la casa.
— Ho sentito dire che è straor¬dinaria — dichiarò il giornalista.
— È super, semplicemente su¬per! David ha talento da vendere. — Guardò l'arredatore con espressione adorante.
Lyke spiegò. — Ho corretto al¬cuni errori che aveva fatto l'architetto e ho cambiato le finiture del¬le finestre in modo da poter ap¬pendere i drappeggi che ha tessu¬to Natalie stessa. Sono un'opera d'arte.
— Be', senti, tesorino — disse lei — se a te può essere utile fac¬ciamo pure pubblicare le fotogra¬fie della casa.
— Ti andrebbe di permettere a Qwilleran di darle un'occhiata?
— Va bene... Che ne diresti di lunedì mattina? Al pomeriggio ho un appuntamento dal parruc¬chiere.
Qwilleran chiese: — Ci sono i suoi telai in casa?
— Ma certo. Due grandi e uno piccolo. Vado pazza per il lavoro di tessitura. David, tesoro, fagli vedere quella giacca sportiva che ti ho fatto.
Lyke esitò per una frazione di secondo. — Mia cara, è in tinto¬ria. — Più tardi confessò a Qwil¬leran: — Uso un po' dei suoi tes¬suti per amicizia, ma il suo lavoro lascia molto a desiderare. È sol¬tanto una dilettante priva di gusto e di talento. Quindi, se pubbliche¬rete l'articolo e le foto, non met¬tete troppo in risalto il particolare della tessitura a mano.
La serata si svolse secondo il solito schema di casa Lyke: uno splendido buffet, drink in abbon¬danza, musica per ballare, a volu¬me appena un po' più alto del normale, e dieci conversazioni in atto simultaneamente. C'erano tutti gli elementi perché quella fosse una bella festa, però Qwille-ran provò un certo turbamento dopo l'ultima osservazione fatta da David. Appena poté, invitò Natalie a ballare e le disse: — Ho sentito che sta per entrare nell'at¬tività della tessitura a mano a li¬vello professionale,
— Sì, lavorerò su ordinazione per gli arredatori — gli rispose con quella voce acuta che appari¬va vulnerabile e patetica. — Da¬vid adora i miei lavori, dice che mi farà avere un mucchio di ordi¬nazioni.
Il suo corpo generoso si ade¬guava perfettamente all'abbraccio di Qwilleran e lo scintillante abito che indossava era di una morbi¬dezza squisita, a parte quelle stri¬sce un po' ruvide formate dall'in¬treccio di fili dorati.
Mentre ballavano, lei continuò a chiacchierare. Invece Qwilleran vagava con la mente. Se quella donna puntava sull'appoggio di David per la sua carriera, avrebbe avuto una brutta sorpresa. Nata¬lie gli disse che stava cercando uno studio, che aveva un cugino giornalista, che adorava le ostri-che affumicate e che i terrazzi di Villa Verandah erano troppo ven¬tosi. Al che Qwilleran rispose che si era trasferito in un appartamen¬to lì, ma si guardò bene dall'accennarle di chi fosse. Poi le chiese se, secondo lei, sarebbe stato sconveniente portarsi via qualche buon bocconcino dal buffet per darlo al suo gatto.
— Oh, lei ha un gatto? — squittì Natalie. — Che magari ama le aragoste?
— Ama tutto quello che è co¬stoso. Credo che legga i cartellini dei prezzi.
— Perché non va a prenderlo e non lo porta qui? Lo nutriremo con un po' di aragosta.
Qwilleran dubitava che a Koko potesse far piacere ritrovarsi in mezzo a tanta gente. Però si senti¬va orgoglioso all'idea di poter mo¬strare il suo bel gattone, quindi an¬dò a prenderlo. Koko era accovac¬ciato sul cuscino sopra il frigorife¬ro. Sembrava la perfetta immagi¬ne del dolce far niente, sdraiato sulla schiena in una posizione di totale abbandono, con una delle zampe anteriori a mezz'aria e l'al¬tra ripiegata attorno alle orecchie. Guardò Qwilleran dall'alto in bas¬so con metà linguetta rosa che sporgeva dal labbro e un bagliore di follia negli occhi sotto le palpe¬bre semiabbassate.
— Su, alzati — gli disse il gior¬nalista. — E smettila di far la fac¬cia da scemo. Stai per andare a una soirée.
Quando Koko arrivò in casa Lyke seduto su una spalla di Qwilleran aveva ritrovato tutta la sua dignità felina. Al suo ingresso il brusio delle voci andò in cre¬scendo per poi placarsi del tutto. Il gatto osservava la scena con condiscendenza regale, come un sovrano che onori i suoi sudditi della propria presenza. Non muoveva le palpebre e neppure i baffi. Le macchie scure formavano un tale contrasto con il corpo chiaro, il manto aveva sfumature tanto delicate e gli occhi color zaffiro erano di un'eleganza tanto essen¬ziale da far apparire gli invitati di David Lyke come dei paesani ve-stiti a festa.
Poi il silenzio fu infranto da un'esclamazione di stupore e su¬bito dopo tutti si fecero avanti per accarezzare il manto vellutato del felino.
— Oh, sembra ermellino!
— Butterò via il mio visone!
Koko accettò con aria tolleran¬te quelle smancerie restando però sdegnosamente immobile fino a quando Natalie non gli rivolse la parola. Poi allungò il muso e an¬nusò le dita che si erano protese verso di lui.
— Posso prenderlo? — chiese la donna. E, con grande sorpresa di Qwilleran, Koko la lasciò fare senza protestare minimamente, rannicchiandosi subito nello scial¬le di morbida lana, annusandolo con totale concentrazione e facen¬do sonore fusa.
Cokey prese da parte il giorna¬lista. — Mi fa rabbia da morire pensare a tutta la fatica che devo fare per non ingrassare, per man¬tenere i miei capelli lisci e per mi¬gliorare la mia conversazione... Poi arriva lei, tutta una chiacchie¬ra e in sovrappeso di dieci chili, e le persone vanno in brodo di giug¬giole, incluso il gatto!
Qwilleran provò una certa com¬prensione per Cokey. — Non mi va di tenere qui Koko troppo a lungo in mezzo a tutta questa gen¬te. Riportiamolo al 15-F, così an¬che lei potrà dare un'occhiata al mio appartamento.
— Mi sono portata appresso la grattugia per la noce moscata — disse la ragazza. — Ha panna e ginger ale in casa?
Qwilleran riprese Koko dalla sciarpa di Natalie e condusse Co¬key attraverso il lungo e tortuoso corridoio fino a che raggiunsero l'altra ala dell'edificio.
Quando ebbe aperto la porta, lei rimase per un istante senza fia¬to, immobile sulla soglia, poi cor¬se verso il soggiorno, con le brac¬cia spalancate.
— È favoloso! — esclamò.
— Harry Noyton lo definisce scandinavo.
— La poltrona verde è danese e lo è anche lo zoccolo del pavi¬mento. E le sedie del tavolo da pranzo sono finlandesi. Ma tutto l'appartamento è un monumento agli architetti più famosi del mon¬do: Bertoia, Wegner, Aalto, Mies, Nakashima! È troppo me¬raviglioso! Mi sconvolge! — Si la¬sciò cadere sui cuscini di un diva¬no svedese e nascose il volto tra le mani.
Qwilleran arrivò portando due coppe da champagne riempite con un liquido cremoso e Cokey grat¬tugiò un po' di noce moscata sulle bollicine con gesto solenne.
— A Cokey, la mia ragazza preferita! — esclamò il giornalista alzando il bicchiere. — Magra, con i capelli lisci e capace di spie¬garsi con chiarezza.
— Adesso mi sento meglio — disse lei togliendosi le scarpe e sfregandosi le dita dei piedi nei soffici peli del tappeto.
Qwilleran si accese la pipa e le mostrò il nuovo numero di Belle Dimore sulla cui copertina c'era la foto del salotto Allison. Presero a dibattere sulle audaci sfumature di rosso e di rosa, sulla pettoruta polena e sui letti a baldacchino.
Koko sedeva sul tavolino basso girando loro la schiena e ignorando significativamente la conversazio¬ne. La coda incurvata con la punta dritta era l'essenza del disinteres¬se. Ma l'angolazione delle orecchie rivelava che era in ascolto.
— Ciao, Koko! — disse la ra¬gazza. — Non ti sono simpatica?
Il gatto non si mosse. Non ri¬spose neppure con un fremito di baffi.
— Io avevo un bel gatto aran¬cione che si chiamava Frankie — continuò Cokey in tono mesto. — Porto sempre la sua foto in bor¬setta. — Estrasse una gran quan¬tità di biglietti da visita e di foto¬grafie dal portafogli e sparpagliò tutto sul divano. Poi prese orgo¬gliosamente in mano una foto che raffigurava qualcosa di vagamen¬te arancione. — È sfocata e il co¬lore è sbiadito, ma è tutto quello che mi è rimasto di Frankie. È morto a quindici anni. Il suo pedi¬gree è incerto, però...
— Koko! — esclamò Qwilleran. — Vai via di lì.
Il gatto era silenziosamente sa¬lito sul divano e stava muovendo la lingua rosata.
— Stava leccando quella foto — spiegò il giornalista.
— Oh! — esclamò Cokey, e si affrettò a prendere un quadratino lucido di carta sul quale si vedeva la faccia di un uomo. Lo rimise subito nel portafogli, prima che Qwilleran fosse riuscito a guarda¬re, mentre lei continuava a parla¬re di gatti e a grattugiare noce moscata.
— Adesso mi parli dei suoi baf¬fi — gli disse. — Suppongo lei sappia che sono terribilmente se¬xy.
— Mi sono fatto crescere que¬sto cespuglio in Inghilterra, du¬rante la guerra... una specie di protezione mimetica.
— Mi piacciono!
Lui si rallegrò per il fatto che Cokey non gli avesse chiesto di quale guerra si trattava, come avrebbero fatto molte altre ragaz¬ze.
— A onor del vero ho paura di radermeli. Ho l'impressione che queste basette da labbro mi per¬mettano di entrare in contatto con alcune cose, verità sommerse o fatti che stanno per accadere...
— Fantastico! — esclamò lei. — Proprio come le vibrisse dei gatti.
— Solitamente non faccio que¬sto genere di confidenze a nessu¬no. Non mi va che se ne parli in giro.
— La capisco.
— Ultimamente ho avuto certe vibrazioni riguardo al furto delle giade di Tait.
— Ma non hanno trovato il la¬dro?
— Si riferisce al giovane came¬riere che si presume abbia rubato quella roba? Se debbo basarmi sulle mie premonizioni, non credo che sia stato lui.
Cokey sbarrò gli occhi. — Ha qualche prova?
Qwilleran si accigliò. — Qui sta il punto. Io ho soltanto queste dannate premonizioni. Il camerie¬re non rientra nei miei sospetti. E poi c'è qualcosa di strano sulla de¬terminazione dei tempi. Ho qual¬che riserva su G. Verning Tait. Ha mai sentito parlare di uno scanda¬lo in casa Tait?
Cokey scosse la testa.
— Naturalmente lei era troppo giovane quando è successo.
La ragazza guardò l'orologio. — Si sta facendo tardi. Dovrei an¬dare a casa.
— Un altro drink? — propose Qwilleran.
Si avvicinò al mobile bar ben ri¬fornito e tirò fuori dal piccolo fri¬go la panna e il ginger ale.
Lei ora andava su e giù per la stanza, ammirandola da ogni an¬golazione.
— Dovunque guardi è tutto perfetto e ha stile! — esclamò con espressione estatica. — Mi piace l'intreccio dei vari tessuti, un'ar¬monia di vellutato, di levigato, di lanoso e di peloso. E questo tap¬peto... lo adoro!
Si lasciò cadere sulla lana mor¬bida e arruffata e rimase sdraiata con aria rapita, le braccia spalan¬cate. Qwilleran prese a lisciarsi i baffi con violenza. Lei se ne stava lì, immobile, senza rendersi con¬to che il gatto la stava puntando, con la coda a uncino e il corpo ap¬piattito, e poi avanzava silenzio¬samente sul tappeto folto, simile a una bestia feroce pronta a scatta-re sulla preda. Poi Koko fece un balzo.
Cokey urlò e si rizzò di colpo.
— Mi ha morso. Mi ha dato un morso alla testa!
Qwilleran si precipitò al suo fianco. — Le ha fatto male?
Lei si passò le dita nei capelli. — No, non mi ha fatto veramente male, ha solo tentato di morder¬mi. Ma mi è sembrato molto osti¬le... Qwill, perchè Koko dovreb¬be fare una cosa del genere?

12

Quella domenica Qwilleran avrebbe volentieri dormito fino a mezzogiorno, se non avesse dovu¬to subire la tortura dei baffi del siamese. Quando Koko decideva che era ora di alzarsi, saltava leg¬gero e silenzioso sul letto del suo padrone addormentato e gli sfio¬rava leggermente il naso e il men¬to con i baffi.
Il giornalista sollevò di colpo le palpebre e si ritrovò a fissare due enormi occhi tanto innocenti quanto erano azzurri.
— Vattene — borbottò, e si ri¬mise a dormire.
I baffi furono messi di nuovo in azione e questa volta in zone più sensibili: le guance e la fronte.
Qwilleran sussultò e serrò denti e occhi. Solo per sentire subito dopo i baffi che gli solleticavano le palpebre. Si mise di colpo a se¬dere e Koko balzò giù dal letto e scappò fuori dalla stanza. Missio¬ne compiuta.
Il giornalista uscì dalla stanza da letto con passo strascicato, do¬po aver indossato la comoda ve¬staglia a scacchi rossi e neri e aver cercato, per la verità non molto scrupolosamente, la pipa. Quan¬do fu nel soggiorno, si guardò at¬torno con le palpebre pesanti. Sul tavolino c'erano le coppe di champagne della sera precedente, il giornale della domenica e Koko che si stava diligentemente lavan¬do.
— Sei stato un cattivo gatto ieri sera — gli disse Qwilleran. — Perché hai cercato di azzannare quella simpatica fanciulla che ama tanto i gatti?
Koko ruotò su se stesso e si de¬dicò al sottocoda con concentra¬zione rapita, mentre Qwilleran spostava la propria attenzione al tappeto sul quale era rimasta l'im¬pronta del corpo snello di Cokey quando si era sdraiata. Fece per avvicinarsi e cancellare quella sa¬goma con la punta del piede, poi cambiò idea.
Koko, che aveva finito la puli¬zia mattutina, si mise seduto sul tavolino e guardò il giornalista con espressione angelica, sbatten¬do le palpebre.
— Diavolo che non sei altro. Vorrei riuscire a leggerti nel pen¬siero. Quella fotografia che lecca¬vi...
Squillò il telefono. Andò a ri¬spondere con un senso di antici¬pata e soddisfatta impazienza. Ri¬cordava le telefonate di congratu¬lazione che aveva ricevuto la do¬menica precedente, e adesso un nuovo numero di Belle Dimore doveva essere già in mano ai let¬tori.
— Pronto — disse in tono gen¬tile.
— Qwill, sono Harold. — Al¬l'altro capo del filo la voce era te¬sa e il giornalista rabbrividì. — Hai saputo la notizia?
— No, mi sono appena sveglia¬to.
— Il tuo articolo di oggi. Quel¬lo sul Pensionato per giovani don¬ne in carriera... Non hai saputo che cos'è successo?
— No, che cos'è successo? — Si scoprì gli occhi con una mano. All'improvviso ebbe la visione di uno sterminio di massa. Una gran quantità di ragazze innocenti trucidate nei loro letti... quei letti a baldacchino sovrastati da tendag¬gi rosa!
— La polizia ha fatto una reta¬ta ieri sera. È una casa d'appunta¬mento...
— Che cosa?
— Hanno infiltrato un agente, hanno ottenuto un mandato di perquisizione e hanno messo a soqquadro tutta la casa.
Qwilleran dovette sedersi subi¬to perché gli si erano piegate le gi¬nocchia.
— Ma l'architetto mi aveva detto...
— Che cos'hai combinato? Chi ti ha dato il suggerimento di fare un servizio su quella... casa?
— La signora Middy, una don¬nina simpatica dai modi materni. Lei è specializzata... be', in pen¬sionati per professioniste... e quella casa era un residence di classe per ragazze in carriera...
— Professioniste è la parola giusta — lo interruppe Percy. — E questo ci farà fare la figura de¬gli idioti. Aspetta solo che il Morning Rampage ci metta su le ma¬ni...
Qwilleran deglutì. — Non so che cosa dire...
— Per il momento non possia¬mo fare nulla, ma sarebbe bene che tu mettessi le mani su quella signora Biddy...
— Middy.
— Be', comunque si chiami, dille esattamente quello che noi pensiamo di questo incidente imbarazzante. È una situazione di per sé incredibile e, dopo quello che è successo a Muggy Swamp, è troppo!
Percy riagganciò e Qwilleran, nonostante la confusione menta¬le, cercò di capire com'era succes¬so. Ci doveva essere una spiega¬zione. Afferrò il telefono e formò un numero.
— Pronto? — gli chiese una vo¬ce assonnata.
— Cokey? — disse Qwilleran in tono severo. — Hai sentito la notizia? — inconsapevolmente era passato a darle del tu.
— Quale notizia? Non sono an¬cora sveglia.
— Be', svegliati e ascolta. La signora Middy mi ha messo in un pasticcio. Perché non mi hai av¬vertito?
— Riguardo a che cosa?
— Alla casa della signora Allison.
Lei sbadigliò. — Perché che co¬s'ha la casa della signora Allison?
— Vuoi dire che non sai nulla?
— Ma di che cosa stai parlan¬do?
— Mi è stato appena comuni¬cato che la polizia ha perquisito il pensionato per giovani donne in carriera della signora Allison, ieri sera.
Cokey emise uno strillo. — Oh, Qwill, che ridere!
— Tu sapevi che cos'è in realtà quella cosa? — La sua voce ora aveva un tono severo e accusato¬rio.
— No. Ma trovo che sia uno spasso!
— Be', io non penso affatto che sia uno spasso e non lo pensano nemmeno al Daily Fluxion. Fac¬ciamo la figura degli idioti. Come posso riuscire a mettermi in con¬tatto con la signora Middy?
La voce della ragazza si fece di colpo seria. — Vuoi chiamarla tu, adesso? No, non farlo.
— Perché no?
— Quella povera donna... Ca¬drebbe a terra stecchita per la mortificazione.
— Ma lei non sapeva che razza di casa stava arredando? — chiese Qwilleran.
— Sono sicura di no. È un ge¬nio per quanto riguarda l'arreda¬mento delle case, ma è piutto¬sto...
— Piuttosto che cosa?
— Un po' confusa di testa, sai... Ti prego, non chiamarla — lo supplicò. — Lascia che le dia la notizia io con delicatezza. Non vorrai ammazzarla?
— Ho voglia di ammazzare qualcuno, infatti.
Cokey scoppiò di nuovo a ride¬re. — È tutto in stile americano inizio del secolo — esclamò con voce stridula. — Con quei letti Tom Jones!
Qwilleran sbatté il ricevitore sulla forcella. "E adesso?" si chie¬se. Cominciò a passeggiare su e giù per qualche minuto, poi solle¬vò di nuovo il ricevitore e formò un altro numero.
— Ciao! — disse una vocina brillante.
— Fammi parlare con Odd Bunsen.
— Ciao! — ripeté la vocina.
— C'è Odd Bunsen?
— Ciao!
— Dov'è tuo padre? Vai a chia¬mare tuo papà!
Sbuffando, Qwilleran stava per riattaccare, ma in quel momento, all'altro capo del filo, sentì la vo¬ce del collega.
— Era mio figlio, il più piccolo — gli spiegò Bunsen. — Non è molto forte nella conversazione. Che cos'hai in mente per questa mattina?
Qwilleran gli riferì la notizia, poi rimase in ascolto mentre il fo¬tografo non dava segni di vita. Si udiva soltanto un sottofondo di rumori gracchianti.
In tono sarcastico il giornalista continuò: — Volevo solo farti sa¬pere che forse il tuo desiderio sa¬rà esaudito. Non ti auguravi che la rivista chiudesse? Questi due incidenti potrebbero essere suffi¬cienti per toglierla di mezzo.
— Non dare la colpa a me — ri¬batté l'altro. — Io mi limito a fare le fotografie e loro non mettono nemmeno il nome.
— Sono usciti due numeri di Belle Dimore e sono scoppiate due bombe. Non può essere acci¬dentale. Comincio a sentire puzza di bruciato.
— Non penserai alla concor¬renza?
— E a chi altro, se no?
— Quelli del Rampage non hanno tanto fegato.
— Lo so. C'è qualcuno che la¬vora per loro cercando di farci lo sgambetto. Conosci quel chiac¬chierone che lavora al reparto di¬stribuzione? Mi avevi detto che giocava nella loro squadra di softball.
— Stai parlando di Mike Bulmer? È un verme!
— La prima volta che l'ho no¬tato, al Press Club, ho riconosciu¬to la faccia, ma mi ci è voluto un bel po' per farmi venire in mente chi era. Poi finalmente mi sono ri¬cordato. Qualche anno fa, a Chi¬cago, è stato coinvolto in una guerra di tirature. Posso assicu¬rarti che è stata una brutta storia. Adesso lavora al Rampage. Sono pronto a scommettere che è stato lui a suggerire alla polizia la retata in casa Allison e che la squadra del buoncostume è stata ben feli¬ce di agire. Sai come vanno que¬ste cose. Ogni volta che gli artico¬listi del Fluxion rimangono senza idee, si mettono a sparare sulla buoncostume. — Si lisciò i baffi e aggiunse: — E detesto doverlo di¬re, ma ho la brutta sensazione che in questa storia possa essere im¬plicata anche Cokey.
— Chi?
— La ragazza con cui esco. La¬vora per la signora Middy. È stata lei a suggerirmi il servizio sulla ca¬sa della signora Allison, e adesso che ci penso so che conosce Bulmer. L'altra sera al Press Club l'ha salutato.
— Non c'è nessuna legge che lo proibisca — commentò Bunsen.
— Ma è stato il modo in cui l'ha salutato e l'occhiata che gli ha dato. E c'è un'altra cosa — prose¬guì con riluttanza. — Dopo il party in casa di David Lyke ho portato Cokey a casa mia...
— Ehi, la cosa comincia a farsi interessante.
— E Koko ha cercato di mor¬derla.
— Perché, che cosa gli aveva fatto?
— Assolutamente niente. Ko¬ko non aveva mai fatto nulla di si¬mile, prima. Sto cominciando a pensare che stesse cercando di dirmi qualcosa. — All'altro capo del filo calò il silenzio. — Ma mi senti?
— Mi stavo accendendo un si¬garo.
— Diventi troppo distaccato quando sei a casa la domenica. Secondo me dovresti essere più preoccupato per questo guaio.
— Quale guaio? — chiese Bun¬sen. — A mio parere la faccenda Allison è un tiro della concorren¬za. È piuttosto divertente...
— Ma il furto delle giade per mezzo milione di dollari non è stato divertente.
— Be'... — cominciò il fotogra¬fo con voce un po' strascicata. — Lui non arriverebbe a questo...
— Potrebbe! Non dimenticarti che c'è di mezzo pubblicità per un milione di dollari. Forse ha visto la possibilità di intascare una bel¬la sommetta!
— E sacrificare un uomo inno¬cente solo per pugnalare la con¬correnza? No... hai visto troppi vecchi film.
— Forse Tait non era la vittima sacrificale — disse Qwilleran, parlando lentamente. — Forse era d'accordo anche lui...
— Amico, questa mattina voli molto alto, tu.
— Ciao — concluse il giornali¬sta. — Scusami se ti ho disturba¬to. Torna pure alla tua tranquilla atmosfera familiare.
— Tranquilla? Hai detto tran¬quilla? Io sto dipingendo la canti¬na e Tommy è appena caduto nel secchio della vernice. Linda ha buttato nel cesso una bambola di pezza e Jimmy si è fatto un occhio nero. Questa la chiama tranquilli¬tà?
Dopo avere riagganciato, Qwil¬leran si aggirò senza scopo per l'appartamento. Guardò il folto tappeto del soggiorno e ne calpe¬stò irosamente il pelo per cancel¬lare l'impronta. Quando passò in cucina trovò Koko seduto sul vec¬chio dizionario. Il siamese sedeva eretto, le zampe anteriori ripiega¬te sotto il corpo, la coda arrotola¬ta attorno ai fianchi, la testa recli¬nata da un lato. Il giornalista non aveva voglia di giocare, ma il gat¬to lo fissava in speranzosa attesa.
— D'accordo. Facciamo qual¬che partitina — dichiarò Qwilleran con un sospiro. Diede una manata sul dizionario che corri¬spondeva al segnale di inizio e Koko infilò la zampa sinistra nel margine.
Qwilleran sfogliò le pagine vici¬no a quella indicata da Koko: pa¬gina 1102.
— "Fama" e "fame" — lesse ad alta voce. — Queste sono facili. Trovane un paio più difficili.
Il gatto rimise la zampa nel vo¬lume.
— "Salsiccia" e "sensazione". Altri due punti a mio favore.
Koko si accovacciò in preda a una grande eccitazione e riaffon¬dò le unghie.
— "Erba" ed "erba gatta" — disse Qwilleran, e in quel momen¬to ricordò che né lui né Koko ave¬vano fatto colazione.
Mentre sminuzzava un pezzo di carne cruda per il gatto e la scot¬tava in un dito di brodo in scatola, ricordò un'altra cosa: durante una partita recente Koko aveva indi¬cato la stessa pagina due volte. Era accaduto la settimana prece¬dente. Per ben due volte, durante una partita, aveva trovato "sacro" e "sadismo". Qwilleran avvertì una strana vibrazione nei baffi.

13

Il lunedì mattina, mentre Qwille¬ran e Bunsen si stavano recando a Lost Lake Hills per vedere la casa di Noyton, il giornalista era insolitamente taciturno. Non aveva dormito bene, aveva continuato a sognare, a svegliarsi e a sognare di nuovo per tutta la notte interni di case arredati con colori che an¬davano dal burro di arachidi to¬state al budino di riso, con sfuma¬ture aragosta e melassa. Per tutta la mattina il suo cervello era stato tormentato da pensieri incomple¬ti, infondati e infausti.
Temeva molto che Cokey fosse in qualche modo implicata nel tiro mancino ordinato contro il Fluxion ma non voleva arrendersi a quell'idea. Desiderava un'amica come lei. Inoltre era ossessionato dall'idea che Tait fosse complice nel complotto, anche se le uniche prove di cui disponeva erano il fremito premonitore dei baffi e quella singolare esperienza che aveva avuto con il dizionario. Aveva molti dubbi sul ruolo di Paolo in quella storia. Era stato soltanto uno spettatore innocente oppure un abile malfattore, un complice o semplicemente uno strumento? E la passione di Tait per le giade era genuina o una commedia ben recitata? Quell'uo¬mo era veramente così devoto a sua moglie come la gente sembra¬va pensare? Non poteva esserci un'altra donna nella sua vita? Per¬sino il nome del gatto di casa Tait era avvolto nell'ambiguità: si chiamava Yu o Freja?
A questo punto i suoi pensieri andarono a Koko. Già un'altra volta, in occasione di un omicidio, il siamese aveva trovato più indizi col suo nasino freddo e umido di quanto fosse riuscita a fare la squadra Omicidi svolgendo le proprie indagini. Koko sembrava intuire le cose senza la prassi del ragionamento. Era come se l'i¬stinto evitasse di passare per il cervello e ordinasse alle sue zam¬pe di grattare e al suo naso di fiu¬tare nel posto giusto al momento giusto. O si trattava di mera ca¬sualità? Era forse per pura coinci¬denza che Koko girava le pagine del dizionario e si soffermava sul¬le parole fame e salsiccia quando la prima colazione era in ritardo? Varie volte, quella domenica po¬meriggio, gli aveva proposto di giocare alle parole, nella speranza di ottenere ulteriori rivelazioni, ma gli esponenti che il siamese aveva segnalato erano risultati privi di significato. Oppositivo e ottimismo, cinegetico e cipripedium. Qwilleran non si sentiva molto ottimista. Quanto al cipripedium, che risultò essere un tipo di orchidea detta anche pantofola della signora gli rammentò le dita dei piedi di Cokey che si muove¬vano sul folto tappeto di lana di capra.
Tuttavia quella sorta di intuizio¬ne per quanto riguardava Koko e il dizionario non voleva abbando¬narlo.
Odd Bunsen, che stava al vo¬lante, gli chiese: — Ti senti male o che cosa? Te ne stai lì seduto a tremare senza dire una parola!
— Fa molto freddo — rispose il giornalista. — Mi sarei dovuto portare il cappotto. — Frugò nel¬le tasche alla ricerca della pipa.
— Io ho portato un impermea¬bile. A giudicare da come soffia il vento da nord-est dovrebbe veni¬re un temporale.
Nel tragitto fino a Lost Lake Hills attraversarono zone resi¬denziali e campagne coltivate, nelle quali gli aceri cominciavano a mostrare le foglie ingiallite. Ogni tanto il fotografo salutava la gente con un amichevole colpo di clacson oppure agitando il sigaro. Salutò una donna che stava fal-ciando l'erba, due ragazzi in bici¬cletta e un uomo anziano fermo davanti a una buca delle lettere in un paesino di campagna.
— Hai molte conoscenze in questa zona di boschi — osservò Qwilleran.
— Io? Non conosco assoluta¬mente nessuna di queste persone, ma per questi campagnoli può es¬sere un diversivo. Adesso passe¬ranno il resto della giornata a chiedersi chi è quel loro cono¬scente che guida una macchina straniera e fuma il sigaro.
Imboccarono un sentiero di campagna che denotava l'inter¬vento della mano sapiente di un architetto di paesaggi e Qwilleran guardò il foglietto di carta sul quale erano annotate le indicazio¬ni per arrivare alla casa di Noyton.
"Seguire la riva del lago, al primo incrocio svoltare a sinistra, poi raggiungere la cima della col¬lina."
— Quando ti sei accordato per questo inutile servizio?
— Al party di Lyke sabato sera.
— Spero che non fossero sbronzi. Io non mi fido di promes¬se fatte ai cocktail-party. E mi sembra un viaggio lungo per una simile insensatezza.
— Non preoccuparti, Odd, è tutto a posto. Natalie vuole che il nome di David venga citato per tutto il lavoro che ha fatto. E Har¬ry Noyton spera che l'articolo lo aiuti a vendere la casa. La pro¬prietà vale un quarto di milione.
— Spero che la moglie non prenda nemmeno un soldo — commentò Bunsen. — Una donna che ha rinunciato ai figli come ha fatto lei è una poco di buono.
— Ho ricevuto un'altra telefo¬nata dalla Danimarca, stamane. Noyton vuole che la sua corri¬spondenza venga inoltrata ad Aarhus. È una città universitaria. Mi domando che cosa ci sia anda¬to a fare lì.
— Sembra una persona a po¬sto. Chi avrebbe mai pensato che si sarebbe messo con una donna simile?
— Secondo me non dovresti giudicare Natalie prima di averla conosciuta. Non è eccessivamente intelligente ma è schietta. E ho l'impressione che la gente appro¬fitti della sua ingenuità.
La casa in fondo al vialetto circolare aveva una struttura piutto¬sto complessa. I muri di mattoni rosso-chiaro erano disposti con strane angolazioni e le travi di le¬gno del tetto puntavano in tutte le direzioni.
— Che bidonata! E dove sareb¬be la porta d'ingresso?
— A detta di Lyke la casa è in stile organico moderno. Si integra con il terreno e l'arredamento si integra con la struttura.
Suonarono il campanello e mentre aspettavano che qualcuno venisse ad aprire, esaminarono le decorazioni a mosaico ai due lati della porta. Disegni astratti a ghi¬rigori fatti con sassolini, vetri co¬lorati e chiodi di rame.
— Pazzesco! — esclamò Bun¬sen.
Aspettarono a lungo prima di suonare di nuovo.
— Vedi? Che cosa ti avevo det¬to? Non c'è nessuno — disse il fo¬tografo.
— È una casa grande — rispose Qwilleran. — Probabilmente Na¬talie deve usare gli schettini per venire dal suo studio di tessitura alla porta.
Dopo un attimo si udì un clic nella toppa e la porta si aprì ver¬so l'interno, ma solo per pochi centimetri, lentamente. Compar¬ve una cameriera che rimase im¬mobile, come per bloccare l'ac¬cesso agli ospiti.
— Siamo del Daily Fluxion — disse Qwilleran.
— Sì? — La donna li fissò con espressione interrogativa, conti¬nuando a restare immobile.
— La signora Noyton è in ca¬sa?
— Oggi non desidera vedere nessuno. — La porta cominciò a richiudersi.
— Ma abbiamo un appunta¬mento.
— Non vuole vedere nessuno, oggi — ripeté l'altra, stizzita.
Il giornalista si accigliò. — Ab¬biamo fatto un lungo viaggio. Ci aveva detto che potevamo vedere la casa. Le spiace se diamo un'oc¬chiata attorno? Siamo venuti fin qui per un servizio fotografico per il nostro giornale.
— La signora non vuole che si facciano fotografie della casa — dichiarò la donna. — Ha cambia¬to idea.
I due si lanciarono un'occhiata. E subito dopo la porta venne chiusa seccamente.
Mentre ritornavano in città, Qwilleran rifletteva cupamente su quel rifiuto così scortese. — Non è un comportamento da Natalie. Secondo te che cosa può essere successo? Era stata cordiale e gentile, sabato sera...
— La gente è sempre diversa quando beve.
— Ma Natalie non aveva bevu¬to nulla, come me. Forse non si sente bene e la cameriera ha fatto di testa sua.
— Se vuoi il mio parere, penso che la tua Natalie non abbia tutte le rotelle a posto.
— Fermati alla prima cabina telefonica, Odd. Devo chiamare una persona.
Da una cabina a un crocicchio di una strada di campagna Qwille¬ran compose il numero dello stu¬dio Lyke e Starkweather e parlò con David.
— Che cosa sta succedendo? — si informò. — Abbiamo fatto quel po' po' di strada fino a Lost Lake Hills e Natalie si è rifiutata di ri¬ceverci. La cameriera non ha nemmeno voluto lasciarci entrare a dare un'occhiata alle stanze.
— Natalie è matta — spiegò Lyke. — Le chiedo scusa per lei. Uno di questi giorni l'accompa¬gnerò io personalmente.
— Ma intanto noi siamo nei guai. Mercoledì dobbiamo chiu¬dere il numero e non abbiamo nessun articolo di richiamo da in¬dicare in copertina.
— Se le può essere di qualche utilità, può fotografare il mio ap-partamento, ma senza citare il mio nome — disse David. — Ba¬sterà che l'articolo parli di come vive la gente a Villa Verandah.
— Benissimo. Le andrebbe questo pomeriggio alle due?
— Mi dia solo tempo di compe¬rare un po' di fiori e di togliere al¬cuni oggetti di valore perché non voglio che si sappia in giro che si trovano in casa mia. Anzi, detto tra noi, non dovrei neppure averli.
Bunsen e Qwilleran si conces¬sero un pranzo tranquillo al risto¬rante. Quando, finito di mangiare, si diressero verso Villa Verandah Qwilleran disse: — Fermati un attimo al negozio per animali in State Street. Ho bisogno di comperare una cosa.
Stavano percorrendo faticosa¬mente il centro ostruito dall'in¬gorgo automobilistico del primo pomeriggio. A ogni semaforo ros¬so Bunsen salutava le passanti più attraenti con il classico fischio di ammirazione, fingendo di accele¬rare quando stavano per attraver¬sare. Nel passare davanti agli agenti addetti al traffico faceva delle battute spiritose. Tutti cono-scevano il fotografo del Fluxion. Uno di loro bloccò addirittura la circolazione quando la vettura con l'adesivo STAMPA incollato sul parabrezza fece una svolta vietata in State Street.
— Che cosa vuoi comprare nel negozio per animali? — chiese Bunsen.
— Un'imbragatura e un guin¬zaglio per Koko, in modo da po¬terlo legare quando sta sul balco¬ne.
— Limitati a comperare Timbragatura. Ho quattro metri di fi¬lo di nylon che puoi usare come guinzaglio.
— Che ci fai con un filo di ny¬lon di quattro metri?
— L'autunno scorso facevo ser¬vizi fotografici alle partite di cal¬cio. Calavo le pellicole dalla tri¬buna stampa con un filo e sotto un fattorino le prendeva e le portava in fretta al laboratorio. Quelli sì erano bei tempi! Adesso non si fa altro che fotografare arredatori pazzi, donne isteriche e gatti ner¬vosi. Sgobbo come un cane e nemmeno mettono il mio nome.
I due rimasero per tre ore nel¬l'appartamento di David Lyke, fotografarono il soggiorno color argento, la sala da pranzo con il tappeto cinese e la camera da let¬to padronale. Il letto era una pe¬dana bassa, pochi centimetri di al¬tezza, totalmente ricoperta da una pelle di tigre, e lo spogliatoio adiacente aveva una tenda di fili di ambra.
— Questi fili a casa mia dure¬rebbero cinque minuti — com¬mentò Bunsen — con sei ragazzi¬ni che giocano a fare Tarzan.
Lyke aveva portato via alcuni oggetti orientali dal soggiorno e adesso stava riempiendo i vuoti con bocce piene di fiori e grandi vasi dai quali spuntavano lustre foglie verdi. Li dispose sui ripiani con aria tediata.
— Mi dispiace per il comporta¬mento di Natalie — disse, cac¬ciando con forza lo stelo di un cri¬santemo in un vaso di porcellana. — Ma lei sa in che situazione si trova un arredatore quando ha a che fare con i clienti? Uno di que¬sti ha detto a sua moglie di sce¬gliere tra la casa o la terapia anali¬tica. Naturalmente lei ha scelto di arredare la casa e ha sfogato le sue nevrosi su di me... — Osservò i fiori che aveva messo nelle bocce e li sistemò un po'. Raddrizzò dei paralumi. Premette un interrutto¬re invisibile mettendo in moto una fontana che sprizzava acqua facendola ricadere sopra una base fatta di sassolini, poi indietreggiò di qualche passo e guardò i risul¬tati con occhio critico.
— Sa di che cosa ha bisogno questa stanza? — disse. — Di un gatto siamese disteso su un di¬vano.
— Dice sul serio? — chiese Qwilleran. — Vuole che porti qui Koko?
Bunsen protestò. — No, niente gatti nervosi. Non con un gran¬dangolare con tempo di esposizio¬ne.
— Koko non è nervoso — di¬chiarò Qwilleran. — È molto più calmo di te.
— E più bello — disse David.
— E più intelligente — rincalzò Qwilleran.
Bunsen sollevò le mani assu¬mendo un'espressione cupa. Po¬chi minuti dopo Koko faceva il suo ingresso nell'appartamento per farsi fotografare, il manto pe¬loso striato a causa di una rapida spazzolata.
Qwilleran lo depose sul sedile del divano, lo fece girare in dire¬zione del fotografo, gli ripiegò una delle vellutate zampe anterio¬ri sotto il corpo, per dargli una posa di noncuranza signorile, e si¬stemò la coda morbida e scura in una curva fotogenica. Durante tutta questa operazione Koko fe¬ce le fusa.
— Resterà così, senza muo¬versi? — chiese Bunsen.
— Ma certo, resterà così per¬ché glielo dico io.
Diede al gatto un'ultima liscia¬ta, poi indietreggiò. — Stai fer¬mo! Resta lì.
E Koko, con calma, si alzò, sal¬tò sul pavimento e uscì dalla stan¬za con la coda in verticale che esprimeva una totale indifferenza per ciò che stava succedendo in¬torno a lui.
— È calmo, certo che è calmo — commentò Bunsen. — È il gat¬to più calmo che abbia mai cono¬sciuto.
Mentre il fotografo finiva di scattare le foto, Koko si era mes¬so a giocare con i fili d'ambra del¬lo spogliatoio e ad annusare con fraterno interesse la coperta di pelle di tigre sul letto. Intanto, David gli stava preparando qual-cosa da mangiare.
— Sono un po' di avanzi di pol¬lo al curry — spiegò l'arredatore a Qwilleran. — E venuto Yushi ieri sera e ha preparato un rijstafel per otto.
— È lui che fa da mangiare quando lei ha ospiti? È un grande chef.
— È un artista.
Poi versò del ginger ale per il giornalista e dello scotch per Bun¬sen. Questi chiese: — Qualcuno vuol mangiare al Press Club, sta¬sera? Mia moglie ha invitato una banda di donne e sono stato but¬tato fuori di casa con preghiera di non rientrare prima di mezzanot¬te.
— Mi farebbe piacere tenerle compagnia — disse Lyke. — Ma ho già un impegno. Comunque considero valido l'invito per la prossima volta. Mi andrebbe di dare un'occhiata a quel club. Ho sentito che offre tutti i lussi di una prigione medievale.

I due giornalisti si recarono al bar del Press Club; Bunsen ordi¬nò un Martini doppio, Qwilleran un succo d'arancia.
— Non è stata una brutta gior¬nata — commentò il giornalista — anche se è iniziata male!
— Ma non è ancora finita — gli rammentò l'altro.
— Quel David Lyke è un bel ti¬po, non ti pare?
— Non so che cosa pensare del¬la sua camera da letto — rispose il fotografo, facendo roteare gli oc¬chi.
Qwilleran si accigliò. — Sai, è una persona simpatica ma c'è una cosa che mi disturba. Fa battute cattive sui suoi amici. E la cosa dovrebbe essere risaputa. Ciono¬nostante, tutti lo considerano un grand'uomo.
— Quando si è ricchi e belli si viene perdonati anche se si com¬mette un omicidio.
Al secondo giro di aperitivi Qwilleran disse: — Hai mai senti¬to parlare di uno scandalo in casa Tait avvenuto una quindicina di anni fa?
— Quindici anni fa giocavo an¬cora con le biglie.
Il giornalista sbuffò nei baffi.
— Devi essere stato l'unico bambino che giocava a biglie con¬tro se stesso!
Poi fece un cenno al barista. — Bruno, tu ti ricordi di uno scandalo che ha coinvolto ìa fami¬glia di G. Verning Tait a Muggy Swamp?
L'uomo scosse la testa con deci¬sione. — No. Assolutamente no. Se fosse successa una cosa del ge¬nere lo saprei. Ho la memoria di un elefante.
Dopo un po', andarono a sede¬re a un tavolo e ordinarono due costate.
— Lasciamene un pezzetto da portare a casa a Koko.
— Lasciaglielo tu — ribatté Bunsen. — Non ho nessuna inten¬zione di dividere la mia costata con un gatto ipernutrito che vive molto meglio di me.
— Il guinzaglio funzionerà a perfezione. L'ho fissato al balcone prima di uscire. Ma devo serrargli bene l'imbragatura, altrimenti se ne libererà a furia di contorci¬menti. Una tiratina veloce e un astuto movimento sono sufficien¬ti. Quel gatto è come Houdini. — C'erano altre cose che Qwilleran avrebbe potuto confidare riguar¬do a Koko e alle sue capacità, ma si guardò bene dall'accennarne a Bunsen.
Dopo le costate fu servita loro la torta di mele à la mode, poi Qwilleran ordinò un caffè e Bunsen si concesse un brandy, che fu seguito da diversi altri.
Mentre si accendeva la pipa il giornalista, disse: — Sono preoc¬cupato per Natalie e non riesco a capacitarmi per quale motivo non abbia voluto riceverci... Tutta questa faccenda è piuttosto scon¬certante. Vedi un po' che cosa rie¬sci a cavare dai fatti che ti esporrò ora. Natalie ottiene il divorzio su basi a dir poco inconsistenti, an¬che se abbiamo solo la versione del marito, su questo. Io trovo un orecchino nell'appartamento che, a quanto si sa, Harry Noyton usa per riunioni di lavoro. Scopro an¬che che conosce la signora Tait. E alla morte di quest'ultima lui la¬scia precipitosamente il paese. Al contempo vengono rubate le gia¬de di Tait e dopo il furto lui si pre¬para a lasciare a sua volta la cit¬tà... Che cosa te ne pare?
— Credo che gli Yankees vin¬ceranno il campionato.
— Sei cotto — replicò Qwille¬ran. — Andiamo a casa mia, ti da¬rò un caffè forte; almeno ti ri¬prenderai abbastanza per ritorna¬re a casa in auto, a mezzanotte.
Bunsen non mostrava alcuna intenzione di staccarsi dalla sedia.
— Devo portare il gatto via dal balcone, in caso piovesse. Su, avanti, muoviti, prendiamo la tua macchina. Guido io.
— Sono perfettamente in grado di guidare io — ribatté Bunsen. — Sono perfettamente sobrio.
— Allora togliti dal taschino del¬la giacca quella saliera. Andiamo.
Qwilleran sedette al volante e Bunsen, al suo fianco, si mise a cantare. Quando arrivarono a Villa Verandah il fotografo scoprì che nell'ascensore la sua voce ri¬suonava molto più forte.
— Oh... come odio dovermi al¬zare al maaa...ttino!
— Piantala, Odd, spaventerai il gatto.
— Lui non si spaventa tanto fa¬cilmente; è un gatto calmo. È un gatto davvero calmo.
Il giornalista aprì la porta del 15-F e schiacciò l'interruttore inondando il soggiorno di luce.
— Dov'è quel gatto calmo? Vo¬glio vedere quel gatto così calmo!
— Ora lo porto dentro — disse Qwilleran. — Perché non ti siedi, prima di cadere per terra? Acco¬modati su quella poltrona verde: è la cosa più confortevole che tu abbia mai provato.
Il fotografo si accasciò sulla poltrona e Qwilleran aprì la por¬ta della terrazza. Uscì nell'oscuri¬tà della notte e rientrò prima che fosse passato un secondo.
— È sparito. Koko è sparito!
Un filo di nylon lungo quattro metri era legato alla maniglia del¬la porta che si affacciava sulla ter¬razza. Alla sua estremità c'era un'imbragatura di pelle azzurra chiusa all'ultimo buco, mentre la cintura e il collare formavano il disegno di un otto sul pavimento di cemento.
— Qualcuno ha rubato quel gatto così calmo? — chiese il fo¬tografo dalla sua posizione di au¬torevolezza nella poltrona verde.
— Non scherzare — ribatté seccamente Qwilleran. — Sono preoccupato. Telefonerò all'am¬ministratore.
— Aspetta un momento — dis¬se Bunsen sollevandosi a fatica dalla poltrona. — Andiamo a da¬re un'occhiata fuori.
Uscirono sulla terrazza, dove furono accolti da una violenta fo¬lata di vento. Bunsen dovette ap¬poggiarsi per non cadere.
Qwilleran guardò le terrazze vi¬cine. — Tra una e l'altra c'è solo un metro e mezzo di distanza. Penso che Koko avrebbe potuto benissimo saltare.
Bunsen la pensava diversamen¬te. Guardò verso il cortile ben cu¬rato, quattordici piani sotto.
Il giornalista rabbrividì. — I gatti non cadono dai balconi con le balaustrate disse, ma senza molta convinzione.
— Forse il vento lo ha sbattuto giù.
— Non dire stupidaggini.
Guardarono, senza riuscire a vedere granché, l'angolo dell'edi¬ficio. Il vento che soffiava attra¬verso le grate delle terrazze emet¬teva degli accordi vibranti simili a musica organistica eseguita in una strana chiave musicale.
— Qui attorno c'è qualcuno che odia i gatti? — chiese Bunsen.
— Non lo so, non penso, non ho... — Ora stava guardando ver¬so la parte opposta del cortile, strizzando gli occhi nell'oscurità. La facciata dell'ala sud sembrava una scacchiera di luci e ombre. Numerosi appartamenti erano bui, mentre dai tendaggi chiusi di altri filtrava una luce fioca. C'era un solo appartamento parzial¬mente esposto alla vista.
Qwilleran puntò il dito in quel¬la direzione. — Vedi anche tu quello che vedo io? Guarda quel¬la finestra, quella con le tende scostate.
— Ma è l'appartamento di Da¬vid Lyke.
— Lo so, e ha il televisore acce¬so. E guarda chi ci sta seduto so¬pra, per sentirsi al calduccio.
Le ante di un mobiletto laccato cinese erano spalancate e lì si ve¬deva lo schermo televisivo sul quale lampeggiavano immagini. Sopra, ben rannicchiato, c'era Koko, il torace chiaro nettamente visibile sullo sfondo della lacca scura del mobile, mentre la ma¬scherina e le orecchie marrone si riflettevano sulla parete argentea.
— Vado a telefonare a Dave per sentire che cos'è successo — disse Qwilleran.
Chiamò il centralino, chiese l'appartamento di Lyke e attese a lungo prima di persuadersi che non c'era nessuno in casa.
— Non risponde — disse a Bunsen.
— E adesso che cosa facciamo?
— Non lo so. Non potrebbe darsi che Koko si sia sentito solo ed abbia deciso di andare in visita da qualcuno?
— Probabilmente voleva anco¬ra un po' di quel pollo al curry.
— Dev'essere saltato da terraz¬za a terrazza facendo il giro del¬l'edificio. Che gatto pazzo! Lyke deve averlo fatto entrare e poi è uscito. Aveva detto di avere un appuntamento...
— Che cosa intendi fare? — chiese il fotografo.
— Lasciare lì Koko fino a do¬mani mattina.
— Io posso andare a riprender¬lo.
— In che modo? Non ti senti¬rebbe con la porta chiusa, e anche se potesse sentirti, come farebbe ad aprirti la porta scorrevole?
— Vuoi scommettere che riesco a riportartelo? — Il fotografo bal¬zò sulla balaustrata della terrazza e rimase lì un po', barcollante sulle gambe, dopo essersi aggrap¬pato alla colonnina d'angolo.
— No! — esclamò Qwilleran. — Scendi di lì! — Aveva paura di fare una mossa improvvisa. Gli si avvicinò lentamente, trattenendo il fiato.
— Niente paura! — urlò Bun¬sen, balzando nel vuoto e affer¬randosi alla colonnina della ter¬razza successiva. — Qualunque cosa possa fare un gatto, il vec¬chio Odd Bunsen può farla me¬glio di lui.
— Torna indietro... Sei impaz¬zito? No... resta lì...
— Arrivano i nostri! — urlò il fotografo, raggiungendo di corsa l'estremità della terrazza e ripe¬tendo il balzo per ritrovarsi sul¬l'altra. Prima, però, strappò un crisantemo giallo dal davanzale di una finestra e se lo mise tra i den¬ti.
Qwilleran sedette e si coprì il volto con le mani.
— Alla riscossa! — gracchiava Bunsen. — Alla riscossa!
Le sue urla di guerra si andava¬no facendo sempre più deboli, soffocate dal vento violento a ma¬no a mano che passava di terrazza in terrazza. Qualcuno degli inqui¬lini aprì una porta e mise fuori la testa a guardare, senza però riu¬scire a vedere l'impresa acrobati¬ca che veniva compiuta nell'oscu¬rità.
— Alla riscossa! — si udì in lontananza.
Qwilleran pensò ai tre Martini e ai due... anzi ai tre brandy che Odd aveva tracannato. Poi pensò alla moglie e ai sei figli del foto¬grafo e gli si raggelò il sangue nel¬le vene.
All'improvviso dall'altra parte del cortile si udì un urlo di trion¬fo, e Qwilleran vide Bunsen che faceva grandi cenni dalla terrazza di Lyke. Poi il fotografo mise la mano sulla porta scorrevole, che si aprì. Fece un cenno di saluto, quindi si introdusse nel soggiorno grigio argento. Quando Koko lo vide entrare, saltò giù dal televi¬sore e scappò via.
Qwilleran sperò che quel balor¬do avesse abbastanza sale nella zucca per riportare Koko via terra.
Dal punto in cui si trovava non riusciva più a vedere né Odd né il gatto, quindi rientrò e attese che la coppia di vagabondi rientrasse. Mentre aspettava, preparò due tazze di caffè solubile e prese del formaggio e dei crackers che mise sul piatto.
Ma di lì a un po' decise che quell'attesa si faceva troppo lun¬ga. Uscì sul corridoio, si mise in ascolto e guardò in fondo, nel punto in cui si formava la curva. Non c'era traccia di vita. Gli unici rumori che riuscì a sentire erano quelli meccanici della cabina del¬l'ascensore e i suoni frenetici di un lontano televisore. Tornò sulla terrazza e scrutò in direzione del¬l'ala sud. Nell'appartamento di Lyke non si vedeva alcuna attivi¬tà, a parte le immagini che si agi¬tavano sullo schermo televisivo.
Bevve una tazza di caffè, cam¬minando su e giù per la stanza. Poi, raggiunse il telefono e chiese al centralino di provare a richia¬mare l'appartamento di Lyke. La linea dava occupato.
— Ma che cosa sta facendo quel pazzo ubriaco?
— Come ha detto, scusi? — chiese il centralinista.
Ritornò sulla terrazza e prese a fissare la facciata di fronte in pre¬da all'esasperazione. Quando il telefono squillò, corse a rispon¬dere.
— Qwill — disse Bunsen con voce molto più bassa di quella che gli era uscita per tutta la sera. — Abbiamo guai, Qwill...
— Koko? Che cosa è successo?
— Il gatto sta bene, ma il tuo amico arredatore è andato.
— Che cosa vuoi dire?
— Mi sembra che sia morto.
— No!
— È freddo, è bianco e sul tap¬peto c'è una brutta macchia. Ho chiamato la polizia e il giornale. Non andresti a prendere la mia macchina fotografica che è rima¬sta in automobile?
— Ho dato a te le chiavi.
— Io le ho messe nella tasca dell'impermeabile che ho buttato per terra nel tuo atrio. Sarà me¬glio che resti qui accanto al cada¬vere.
— Mi sembra che la sbronza ti sia passata di colpo!
— Sì, sono tornato in me ap¬pena mi sono trovato davanti a questo spettacolo.
Quando Qwilleran arrivò al¬l'appartamento di Lyke con la macchina fotografica di Bunsen, c'erano già gli agenti della polizia. Si guardò attorno nel soggiorno, che era esattamente come lo ave¬vano fotografato nel pomeriggio, solo che ora dal televisore nel mo¬biletto cinese proveniva un inces¬sante bla-bla e sul tappeto spicca¬va il crisantemo giallo che il foto-grafo aveva lasciato cadere.
— Appena sono entrato dalla porta — gli spiegò Bunsen — Koko mi ha portato in camera da let¬to.
Il cadavere era disteso sul pavi¬mento, avvolto in una vestaglia di seta grigia. In un dito era infilato un anello con lo zaffiro più grosso che Qwilleran avesse mai visto. Il viso aveva perso non solo la sua bellezza, ma anche l'espressività e la vivacità che lo rendevano at¬traente. Ora tutto ciò che restava era una maschera fredda e sprez¬zante.
Il giornalista osservò la stanza: la pelle di tigre era stata tirata via dal letto, ripiegata con cura e po¬sata su una panchetta. Tutto il re¬sto era in perfetto ordine. Non sembrava che il letto fosse stato usato.
Bunsen saltellava per la camera cercando buone angolazioni per fotografare. — Voglio solo fare una foto — disse agli agenti. — Non toccherò nulla. — Poi, rivol¬to a Qwilleran, aggiunse: — È dif¬ficile riuscire a scattare una foto significativa. In redazione non in¬tendono più pubblicare scene di violenza. Continuano a ricevere lamentele dall'Associazione geni-tori-insegnanti, dalle vecchiette, dall'Associazione combattenti e reduci di guerra, da quella delle Figlie della rivoluzione americana e dai vegetariani.
— Che ne è di Koko?
— Dev'essere in giro da qual¬che parte. Con ogni probabilità sta distruggendo le prove.
Qwilleran trovò il siamese in sala da pranzo sotto il tavolo, in¬differente come se nulla fosse suc¬cesso. Aveva assunto la sua carat¬teristica posa di noncuranza e se ne stava raggomitolato comoda¬mente sopra un tappeto cinese oro e azzurro. Non appariva né curioso né colpevole né preoccu¬pato né afflitto.
Quando arrivarono gli investi¬gatori della squadra Omicidi, Qwilleran ne riconobbe un paio che aveva già conosciuto. Gli era particolarmente simpatico quello robusto che si chiamava Hames, un poliziotto in gamba capace di pensare con la propria testa. Inve¬ce non gli era riuscito simpatico Wojcick, dalla cui voce nasale tra¬spariva sempre una punta di sar¬casmo.
Wojcick gli lanciò un'occhiata e disse: — Come ha fatto la stampa ad arrivare così in fretta?
L'agente di pattuglia interven¬ne. — Il fotografo era già qui quando noi siamo arrivati. Ci ha fatti entrare lui. È quello che ha trovato il cadavere e ci ha chia¬mati.
Wojcick si girò verso Bunsen. — Come hai fatto ad arrivare qui?
— Sono entrato dalla porta-fi¬nestra.
— Capisco... siamo al quattor¬dicesimo piano e tu sei entrato dalla porta-finestra, eh?
— Certamente. Là fuori è pie¬no di terrazze.
Hames stava guardando il lus¬suoso soggiorno. — Dai un'occhiata a quella tappezzeria. Se mia moglie la vedesse...
Wojcick entrò nella stanza da letto, poi andò sulla terrazza. Guardò i quattordici piani sotto¬stanti e calcolò la distanza tra le varie terrazze, poi si piazzò da¬vanti a Bunsen.
— Allora, come hai fatto a en¬trare?
— Te l'ho detto.
— Penso che tu sappia di puz¬zare come una distilleria!
Qwilleran si intromise subito. — Bunsen sta dicendo la verità. È saltato da una terrazza all'altra dal mio appartamento sino alla facciata opposta.
— Quella che ora vi farò po¬trebbe essere una domanda un po' stupida — disse l'investigato¬re. — Ma vi spiace se chiedo il perché?
— Be', è andata così — rispo¬se il fotografo. — Eravamo dal¬l'altra parte del cortile...
— È venuto a prendere il mio gatto. Il mio gatto era qui.
Hames disse: — Deve trattarsi del famoso siamese che vuole sof¬fiarmi il posto. Mi piacerebbe co¬noscerlo.
— È in sala da pranzo, sotto il tavolo.
— Mia moglie va pazza per i siamesi. Un giorno o l'altro finirò per cedere e gliene comprerò uno.
Qwilleran seguì l'investigatore in sala da pranzo e gli bisbigliò: — C'è qualcosa di cui dovrei metterti al corrente, Hames. Questo po¬meriggio eravamo qui a fotografa¬re l'appartamento per Belle Di¬more e David Lyke ha messo via alcuni oggetti artistici di valore prima che noi iniziassimo il servi¬zio. Non so dove li abbia cacciati, ma si trattava di pezzi importanti, e adesso non li vedo da nessuna parte.
Da parte dell'altro non vi fu al¬cuna reazione. Hames si era ingi¬nocchiato sotto il tavolo.
— Per quanto riesco a ricorda¬re — proseguì il giornalista — qui c'era un paravento cinese a cin¬que pannelli tutto in oro e una lunga pergamena verticale che raffigurava anatre e oche, oltre al¬la scultura lignea di un cervo a grandezza naturale, molto antica a giudicare dal suo stato di con-servazione. Infine un grosso vaso cinese e un Budda d'oro alto qua¬si un metro.
Da sotto il tavolo Hames disse: — Il pelo di questo briccone sem¬bra visone. Costano molto questi gatti?
Wojcick era andato a svegliare i vicini di casa. L'appartamento di fronte a quello di Lyke era occu¬pato da una signora anziana, sor¬da, che disse di essere andata a letto presto, di non aver sentito nulla, di non avere visto nessuno.
— Non conosciamo il signor Lyke — dichiarò una voce ma¬schile. — Lo vediamo ogni tanto in ascensore, solo o in compagnia di amici.
— E sopportiamo anche i suoi festini sfrenati — si intromise una voce stridula di donna.
— Stasera non abbiamo udito nulla, a parte il suo televisore — disse un uomo. — E la cosa ci è parsa piuttosto insolita. Di solito ascolta lo stereo... voglio dire mu¬sica.
— Lui non suona il piano, strimpella a tutto volume — disse la donna di prima. — La settima¬na scorsa ce ne siamo lamentati con l'amministratore.
— Quando abbiamo sentito il suo televisore — proseguì l'uomo — abbiamo pensato che ci doves¬se essere qualcosa di interessante e abbiamo acceso anche il nostro. Dopo di che da quell'apparta¬mento non abbiamo più udito nul¬la.
— Nessuno che parlava... e neppure gente che litigava? — chiese l'investigatore.
— A dire il vero, mi sono ad¬dormentato guardando la televi¬sione, non era poi un granché.
Wojcick fece un cenno alla donna. — E lei?
— Tra il televisore acceso e mio marito che russava non avrei sen¬tito l'esplosione di una bomba.
Quando Wojcick rientrò nel¬l'appartamento di Lyke chiese a Qwilleran: — Conosceva bene il defunto?
— L'ho visto per la prima volta due settimane fa. Per lavoro. Un servizio per il mio giornale. Non so molto di lui, solo che dava delle grandi feste e sembrava molto popolare tra le donne e gli uomi¬ni...
— Faceva l'arredatore, vero?
— Sì — rispose il giornalista seccamente. — Ed era anche in-credibilmente bravo.
— Quando l'ha visto l'ultima volta?
— Questo pomeriggio quando siamo venuti a fotografare l'ap-partamento. Bunsen e io lo ave¬vamo invitato a cena al Press Club, ma lui ha rifiutato dicendo che aveva un appuntamento.
— Ha idea di chi dovesse ve¬dere?
— No. Si è limitato a dire que¬sto.
— Viveva da solo?
— Sì... credo di sì.
— Che cosa significa?
— Che c'è solo il suo nome sul¬la cassetta della posta.
— Aveva persone di servizio?
— Quando aveva invitati c'era¬no due persone che lavoravano in cucina e servivano. L'amministra¬zione dello stabile gestisce il servi¬zio di pulizia.
— Conosce qualche suo paren¬te o qualcuno dei suoi amici più intimi?
— Solo il suo socio dello studio di architettura. Le conviene met¬tersi in contatto con Starkweather; è questo il nome.
In quel momento sopraggiunse¬ro il coroner e il fotografo della polizia. Wojcick si rivolse ai due giornalisti. — Perché voi due non prendete armi e bagagli e non fila¬te via?
— Vorrei avere la dichiarazio¬ne di morte del medico legale in modo da poter scrivere un artico¬lo completo.
Wojcick lo guardò con atten¬zione. — Lei non è il giornalista del Fluxion che ha avuto a che fa¬re con il furto in casa Tait?
— Non ho avuto a che fare con quella faccenda — rispose Qwilleran. — Ho scritto un articolo sulla casa dei signori Tait, proprio po¬chi giorni prima che il loro came¬riere sparisse con le giade... se vo¬gliamo credere al rapporto della polizia.
Dall'altra stanza si udì la voce di Hames. — Avete notato che gli occhi di questo gatto al buio di¬ventano rossi?
Wojcick si rivolse di nuovo ai due giornalisti. — La morte è av¬venuta in seguito a una ferita cau¬sata da un proiettile. Sparato a di¬stanza ravvicinata, verso le dieci. L'arma è scomparsa. Il movente non sembra essere stato il furto. Tutto qui. Adesso fateci un favore e andatevene a casa. Probabil-mente ne sapete più di noi. Al vo¬stro giornale siete molto bravi nell'inventarvi questo genere di cose.
Per riprendere Koko, Qwilleran dovette strisciare sotto il tavo¬lo della sala da pranzo e tirarlo via con la forza, perché sembrava che il siamese avesse messo radici lì.
Hames accompagnò i giornalisti alla porta. — Il vostro supple¬mento domenicale è niente male, disse. — Tutte quelle case elegan¬ti... Mia moglie dice che dovrei fare un po' di soldi; almeno po¬tremmo vivere anche noi così.
— Penso che l'idea della nuova rivista sia buona — rispose Qwilleran. — Ma abbiamo avuto gros¬se difficoltà: prima la faccenda Tait e poi...
— Avanti, filate — disse Woj¬cick con voce secca. — Abbiamo del lavoro da fare...
— Senti un po' — disse Hames. — A mia moglie sono piaciuti quei letti a baldacchino che avete fotografato in Merchant Street. Dove si possono comperare?
Sul volto di Qwilleran compar¬ve un'espressione infelice. — Quella è stata un'altra coinciden¬za infausta. Vorrei proprio sapere come mai la squadra del buonco¬stume ha scelto proprio quel fine settimana per fare una perquisi¬zione in quel posto.
— Be', non so come sia andata. Però so che il Fondo per le vedove degli agenti di polizia aveva rice¬vuto una donazione piuttosto so¬stanziosa dalla Fondazione Penniman... Dunque, cosa avete detto che manca dall'appartamento? Un paravento dorato a cinque pannelli, un'antica scultura in le¬gno di un cervo, un vaso di porcel¬lana... Siete sicuri che si trattasse di un paravento a cinque pannelli? Di solito quelli giapponesi hanno un numero pari di pannelli.
I due giornalisti ritornarono, lentamente e pensosamente, al 15-F, Bunsen, con la macchina fo¬tografica e Qwilleran con il gatto sulla spalla.
— La Fondazione Penniman? — ripeté quest'ultimo, dopo un po'.
— Sai chi sono i Penniman, ve¬ro? — gli chiese il fotografo.
— Sì, so chi sono. Abitano a Muggy Swamp e sono i proprieta¬ri del Morning Rampage.

15

Qwilleran dettò i particolari del¬l'omicidio di David Lyke a un re¬dattore del Fluxion. Poi Bunsen telefonò a sua moglie.
— Il party è finito, tesoro? Di' alle fanciulle che arriverò in tem¬po per il bacio della buona not¬te... Niente... assolutamente niente. Siamo rimasti qui a chiac¬chierare tutta la sera... Tesoro, sai che non farei mai una cosa del ge¬nere!
Il fotografo lasciò Villa Verandah per tornare a casa e Qwille¬ran cominciò a preoccuparsi per la prolungata tranquillità di Koko. Era una dimostrazione del suo sangue freddo felino oppure era sotto choc? Una volta rientra¬to nell'appartamento avrebbe do¬vuto aggirarsi per le stanze, ispe¬zionare la cucina alla ricerca di qualche avanzo di cibo, oppure raggomitolarsi sul suo cuscino azzurro in cima al frigorifero. Inve¬ce se ne stava rannicchiato sotto la scrivania sul parquet, gli occhi spalancati, senza guardare nulla in particolare. Quel comporta¬mento fece pensare a Qwilleran che avesse freddo. Gli mise ad¬dosso la sua vecchia giacca spor-tiva di velluto, sistemandogliela attorno come una tenda. Ma non ricevette in cambio alcun cenno di riconoscimento. Quanto a lui, era stremato dopo lo spavento che si era preso per la scomparsa di Koko, la raccapricciante perfor¬mance di Bunsen da una terrazza all'altra e la scoperta del cada¬vere di Lyke. Ma quando andò a letto non riuscì a prender sonno. Gli interrogativi accompagnavano ogni suo movimento, quando si girava.
Prima domanda: chi poteva vo¬ler eliminare il cordiale e simpati¬co David Lyke, una persona che mostrava pari gentilezza sia con gli uomini che con le donne, con i giovani e con i vecchi, con i clienti e i concorrenti, con il personale e con gli ospiti? Era vero che parla¬va male dietro le loro spalle, ep¬pure li affascinava tutti.
Seconda domanda: il movente poteva essere la gelosia? Lyke aveva tutto: fisico, talento, perso¬nalità, successo e amicizie. Quella sera aveva detto di avere un ap¬puntamento. Forse la donna con la quale doveva incontrarsi era stata seguita da un amante o da un marito geloso... oppure c'era un'altra possibilità: forse non ave¬va appuntamento con una donna.
Terza domanda: perché Lyke aveva un prezioso anello al dito e niente altro di valore addosso e indossava solo la vestaglia? Per¬ché la pelle di tigre era stata tolta dal letto e ripiegata a metà sera¬ta? Qwilleran si accigliò e sbuffò nei baffi.
Quarta domanda: perché i vici¬ni non avevano sentito rumori in¬soliti o spari? Forse l'audio del te¬levisore di Lyke era stato messo a tutto volume appositamente, pri¬ma che venisse sparato il colpo, e i vicini avevano attribuito quello che aveva udito a un programma televisivo... Una magnifica inven¬zione, la televisione!
Quinta domanda: dov'era stato Koko per tutto il tempo? Che co¬s'aveva visto? Che cos'aveva fat¬to? Perché ora sembrava imbam¬bolato?
Qwilleran si rigirò nel letto per la centesima volta. Si addormentò solo prima dell'alba e sognò tele¬foni che squillavano. Erano i suoi lettori che lo chiamavano per far¬gli domande alle quali lui non era in grado di rispondere. Pronto, quali colori si mescolano per otte¬nere un rosa azzurro? Dove posso acquistare una sedia danese fab¬bricata in Giappone? E telefona¬va anche il direttore. Qwill, sono Harold. Metteremo la moquette nella sala stampa. Che ne pensi di un colore tipo Bourbon?
Quando gli squilli veri finalmente svegliarono Qwilleran dal suo sonno profondo, riuscì a sol¬levare il ricevitore e a pronuncia¬re un assonnato "Pronto?". Al¬l'altro capo del filo si udì dire sol¬tanto: — Starkweather. — Poi ci fu un attimo di silenzio.
— Sì? — rispose, cercando di parlare con chiarezza. — Come va?
— Non è terribile? — disse il socio di Lyke. — Non ho chiuso occhio tutta la notte.
La mente di Qwilleran si affollò di colpo del ricordo di quanto era avvenuto il giorno precedente. — È stato uno choc — convenne. — Non capisco...
— C'è qualcosa... Voglio dire, potrebbe... — Seguì un silenzio prolungato.
— Posso fare qualcosa per lei, signor Starkweather?
— Be', pensavo... Se lei potes¬se scoprire che cosa... che cosa pubblicherà il giornale in proposi¬to.
— Ho dettato io stesso l'artico¬lo per telefono, ieri sera. Mi sono limitato ai puri fatti, basandomi sul rapporto del coroner e sulle dichiarazioni della polizia. Uscirà nella prima edizione del mattino. Se questa storia avrà un seguito l'editore me lo telefonerà subito. È preoccupato?
— Be', non vorrei che l'omici¬dio potesse riflettersi... sa che co¬sa voglio dire.
— Riflettersi sul vostro studio, intende?
— Alcuni nostri clienti sono molto...
— Teme che i giornali riportino i fatti in modo scandalistico? È quello che sta cercando di dirmi? Non posso saperlo per quanto ri¬guarda il Morning Rampage, ma non deve preoccuparsi per il Fluxion. Non ho proprio idea di che cosa si potrebbe dire di contro¬producente per il vostro studio.
— Be', sa... David e le sue fe¬ste... i suoi amici... Lui aveva una quantità di... sa come sono questi giovani scapoli...
Adesso Qwilleran era comple¬tamente sveglio. — Ha qualche sospetto in merito a un possibile movente?
— Non riesco a immaginarne nessuno.
— Forse la gelosia?
— Non saprei proprio.
— Pensa che quest'omicidio possa avere a che fare con la col¬lezione di arte orientale di David?
— Non lo so davvero — rispose Starkweather con un tono di voce dal quale traspariva chiaramente che non poteva essergli d'aiuto.
Il giornalista, però, non desi¬stette. — Lei conosce la sua colle¬zione abbastanza bene per deter¬minare se manca qualcosa?
— È quanto ha voluto sapere anche la polizia ieri sera.
— E lei è stato in grado di aiu¬tarli?
— Mi sono recato subito lì, al¬l'appartamento di David.
— E che cosa ha trovato?
— Alcuni dei pezzi migliori erano chiusi a chiave in un arma¬dio. Non so perché.
— Glielo posso spiegare io — disse Qwilleran. — David li ha messi via prima che noi iniziassi¬mo a fotografare.
— Oh — fu il commento del¬l'altro.
— Lei sapeva che dovevamo fare quel servizio fotografico nel suo appartamento?
— Sì, Dave me ne aveva ac¬cennato, ma mi era uscito di men¬te.
— Le aveva detto che intende¬va metter via alcuni pezzi?
— Non mi pare.
— A me aveva spiegato di ave¬re alcuni oggetti del cui possesso non voleva gli altri fossero infor¬mati. Erano cose di valore?
Starkweather esitò. — Alcu¬ne sì. Be'...
— Non era roba che scottava?
— Come?
— Roba rubata, voglio dire.
— Oh, no! no! Ci aveva speso un mucchio di soldi.
— Di questo son sicuro — disse il giornalista. — Ma io sto parlan¬do della provenienza di quella ro¬ba. Dico questo perché Dave mi aveva accennato che alcuni ogget¬ti non avrebbero dovuto essere in suo possesso. Secondo lei che co¬sa intendeva?
— Be'... erano... si potrebbe dire che erano pezzi da museo.
— Sono molti i collezionisti che ne possiedono, vero?
— Però alcuni di quelli che Da¬vid aveva erano... Be'... credo che non avrebbero mai dovuto la¬sciare il loro paese di origine, vo¬glio dire il Giappone.
— Capisco — disse Qwilleran. Rimase in silenzio per un attimo. — Questo significa, dunque, che quegli oggetti erano vincolati dal¬la Sovrintendenza di quel paese?
— Qualcosa del genere.
— Quindi patrimonio nazio¬nale?
— Sì, penso che si possa dire così.
— E questo l'ha riferito alla po¬lizia, signor Starkweather?
— No.
— E perché no?
— Perché non mi hanno chie¬sto nulla del genere.
Il giornalista provò per un atti¬mo, un senso di euforia. Immagi¬nava Wojcik che interrogava, con quei suoi modi bruschi, il laconico Starkweather. Poi gli venne in mente un'altra cosa. — Ricorda, per caso, che qualcuno abbia mo¬strato un particolare interesse per quegli oggetti "protetti?"
— No, ma mi domando...
— Che cosa? Che cosa si do¬manda, signor Starkweather?
Il socio di Lyke tossicchiò. — Se si scoprisse qualcosa di illega¬le... sa, lo studio ne sarebbe re¬sponsabile... potrebbero...
— Ne dubito. Perché non va un po' a riposare, signor Starkweater? Prenda una pillola e cerchi di rilassarsi.
— Devo andare allo studio. Non so cosa accadrà oggi. Quello che è successo è terribile, sa.
Dopo che Starkweather ebbe riagganciato, Qwilleran si sentì strano, come se gli avessero cava¬to tutti i denti. Andò in cucina a farsi un po' di caffè e trovò Koko sdraiato sul cuscino sopra il frigo¬rifero, disteso su un fianco, con la testa rovesciata all'indietro e gli occhi chiusi. Gli parlò, ma l'altro non mosse nemmeno un pelo di baffo. Lo accarezzò e Koko trasse un profondo sospiro nel sonno. Una delle zampe posteriori fu scossa un breve fremito.
— Stai sognando? — gli chiese Qwilleran. — Che cosa sogni? Pollo al curry? Gente che fa fra¬casso con le pistole? Mi piacereb¬be proprio sapere a che cosa hai assistito ieri sera.
I baffi fremettero e subito dopo Koko si posò una zampa sugli oc¬chi.
La seconda telefonata interrup¬pe la rasatura di Qwilleran. Andò a rispondere, piuttosto contraria¬to. Considerava la rasatura un ri¬to spirituale: in parte adorazione ancestrale, in parte riconferma della virilità, in parte dichiarazio¬ne di rispettabilità... E, inoltre, richiedeva un'enorme capacità ar¬tistica.
— Sono Cokey — disse una vo¬ce ansante. — Ho appena sentito alla radio la notizia della morte di David Lyke. Non riesco a crederci.
— È stato assassinato.
— Hai idea di chi possa essere stato?
— Come faccio a saperlo?
— Sei arrabbiato con me? — chiese Cokey. — Sei arrabbiato con me perché ti ho suggerito di fare il servizio sulla casa della si¬gnora Allison...
— Non sono arrabbiato — dis¬se Qwilleran, consentendo alla propria voce di ammorbidirsi un po'. Gli era venuto in mente che forse aveva qualche domanda da porre a Cokey. — Mi stavo raden¬do e ho tutta la faccia piena di schiuma.
— Scusami se ti ho chiamato così presto.
— Ti ritelefono io e ceneremo insieme.
— Come sta Koko?
— Benone.
Dopo averla salutata a Qwille¬ran venne un'idea. Si deterse la schiuma dalla faccia, svegliò Ko¬ko e lo piazzò sul dizionario. Il siamese arcuò la groppa, stirac¬chiandosi tutto con un movimento teso e vibrante, rizzò i baffi, ab¬bassò gli occhi e fece un enorme sbadiglio che mise in mostra tren¬ta denti, un palato rigato, dodici centimetri di lingua e mezzo eso¬fago.
— Bene, ora giochiamo — dis¬se il giornalista dopo aver fatto a sua volta un prolungato sbadiglio.
Koko si rigirò su se stesso tre volte, poi si distese sulle pagine aperte del dizionario assumendo una posa languida.
— Il gioco! Il gioco! — Qwille¬ran cacciò le unghie nelle pagine per farglielo capire.
Koko rotolò pudicamente met¬tendosi sulla schiena e agitandosi con espressione di grande conten¬tezza.
— Che ti succede?
Il siamese si limitò a socchiude¬re gli occhi e ad assumere un'aria sognante.
Accettò di collaborare solo do¬po che Qwilleran gli fece passare una sardina sotto il naso. Ma il gioco non diede grandi risultati: "mascellare" e "matto", "rete a strascico" e "ruota", "scalogno" e "scandinavo". Lui aveva sperato in parole più pertinenti, ma do¬vette ammettere che almeno un paio avevano un senso. Sulla sca¬toletta di sardine si leggeva la scritta: prodotto norvegese.
Qwilleran si affrettò ad andare in ufficio dove cominciò a occu¬parsi del nuovo numero di Belle Dimore, ma la sua mente era al¬trove. Aspettò a telefonare a Starkweather pensando che non fosse ancora arrivato in studio, poi decise di chiamare la signora Starkweather a casa.
Scoppiò in lacrime. — Non è tremendo? Il mio David, il mio ca¬ro David? Perché qualcuno avreb¬be dovuto fare una cosa simile?
— È difficile capirlo.
— Era così giovane... aveva solo trentadue anni! Era pieno di vita e di talento. Non so come fa¬rà Stark senza di lui.
— David aveva nemici, signora Starweather?
— Non so, non riesco a pensa¬re... sono troppo agitata!
— Forse qualcuno era geloso del successo di David... Chi avrebbe potuto trarre vantaggio dalla sua morte?
Le lacrime e i singhiozzi si pla¬carono, trasformandosi in rumo¬rose soffiate di naso. — Nessuno. David viveva alla grande e spen¬deva tutto quello che guadagna¬va. Non riusciva a mettere da par¬te nemmeno un soldo. Stark non faceva che rimproverarlo a questo proposito.
— Che cosa succederà della quota societaria di David? — chiese Qwilleran cercando di esprimersi nel tono più casuale possibile.
— Be', naturalmente andrà a Stark. Erano questi gli accordi. Stark aveva finanziato l'attività e David aveva contribuito con il suo talento.
— David non aveva parenti?
— No, non aveva nessuno. Penso che sia per questo che dava tante feste... Voleva sempre avere amici attorno e pensava di doversi comperare l'affetto altrui. — La donna fece un profondo sospiro. — Ma non era vero. La gente lo adorava!
Qwilleran si morse il labbro. Avrebbe voluto ribattere: sì, ma non era una canaglia? Non taglia¬va forse i panni addosso alle per¬sone che gli stavano attorno? Possibile che lei non si rendesse conto che Lyke l'aveva definita una stu¬pida donna di mezza età?
Invece le disse: — Mi domando che cosa ne sarà della collezione d'arte orientale di David.
— Non lo so, non lo so proprio. — La voce si fece più dura. — Ma mi vengono in mente tre o quattro brave persone che vorrebbero metterci su le mani.
— Sa se David nel suo testa¬mento ha lasciato a qualcuno la sua collezione?
— Non lo so — rispose lei dopo un momento di riflessione. — Ma non mi stupirebbe affatto se l'a¬vesse lasciata a quel giovane giap¬ponese che cucinava per lui. E so¬lo una mia idea, certo...
— Che cosa glielo fa credere?
— Loro due erano molto amici. Era stato David a trovare a Yushi il lavoro di catering. E di questo Yushi gli era grato. Tutti noi era¬vamo grati a David per qualcosa. — Ricominciò a singhiozzare. — Sono contenta che lei non possa vedermi ora, signor Qwilleran. Ho un aspetto terribile. Non ho fatto che piangere da ore e ore. David mi faceva sentire giovane e all'improvviso adesso mi sembra d'essere invecchiata.
Dopo quella telefonata Qwille¬ran ne fece un'altra allo studio di arredamento BRUPI. Riconobbe la voce soave che gli rispose.
— Bob, sono Qwilleran, del Fluxion.
— Ah, davvero? — disse Orax. — Santo cielo se scottano le linee, stamattina! La società dei telefoni può essere contenta.
— Ha avuto qualche notizia sull'omicidio di Dave?
— Niente che valga la pena di riferire.
— In realtà ho chiamato per avere notizie di Yushi. Sa se per caso è disponibile per dei servizi di catering? Darò un party per un mio amico che si sposa.
— Sicuramente Yushi avrà molto tempo libero, ora che è morto David. Troverà il suo nome sulla guida del telefono alla voce Cucina Internazionale. Ci vedia¬mo alla Bevuta Postuma?
— Che cosa sarebbe?
— Come, non lo sa? — Quan¬do David ha steso le sue ultime volontà ha espresso il desiderio che tutti gli amici partecipassero a un cocktail d'addio in sua memo¬ria al Toledo. Niente lacrime, ma allegria, danze e roba da bere in quantità fino all'ultimo centesi¬mo. E al Toledo i soldi spariscono in fretta.
— David era proprio un bel ti¬po — disse Qwilleran. — Mi pia¬cerebbe scrivere un suo profilo sui giornali. Chi erano i suoi migliori amici? Chi potrebbe darmi un po' di informazioni al riguardo?
Orax tossicchiò. — Gli Starkweather, e naturalmente i Noyton, oltre al caro Yushi. E non po¬chi sbafatori spudorati come me.
— Aveva qualche nemico?
— Forse Jacques Boulanger, ma al giorno d'oggi è difficile di¬stinguere un amico da un nemico.
— E che cosa mi sa dire delle donne nella sua vita?
— Ah, le donne! — esclamò Orax. — C'era Lois Avery, ma si è sposata e ha lasciato la città. E c'era una creatura dai lunghi ca¬pelli neri che lavora per la signora Middy, ma ho dimenticato come si chiama.
— Penso di sapere a chi si rife¬risce.

16

Qwilleran prese il taxi per lo Stu¬dio Sorbonne. Aveva telefonato per chiedere un appuntamento e una donna dall'accattivante ac¬cento francese lo aveva invitato a presentarsi tout de suite all'atelier, se desiderava avere un rendez-vous con monsieur Boulanger.
In taxi ripensò a Cokey. Ades¬so aveva capito come stavano le cose. Koko aveva intuito che lei nascondeva qualcosa e aveva cer¬cato di comunicargli quell'infor¬mazione quando le aveva morso la testa e aveva leccato la fotogra¬fia estratta dal portafogli.
Qwilleran aveva solo intravisto quella foto, ma era abbastanza si¬curo di chi fossero le sembianze che il gatto aveva leccato: quei ca¬pelli chiari, quell'atteggiamento artefatto, sì ora aveva capito! Co¬key... quella fanciulla così candi¬da, così sincera e così disarmante... Era dotata di una capacità di persuasione ambigua. Aveva la¬sciato che Qwilleran le presentas¬se David e questi aveva recitato la commedia mettendo in atto il fa¬scino del suo sguardo caldo. Era bastato questo. Si chiese se aveva recitato la parte del gentiluomo in base a una ispirazione momenta¬nea oppure se tra loro due c'era stato un accordo prestabilito.
Se Cockey lo aveva ingannato la prima volta, era probabile che l'avesse fatto anche la seconda volta, escogitando lo scandalo per la faccenda Allison. Forse aveva rapporti con qualcuno del Morning Rampage?
— È questo il posto dove vuole andare? — gli chiese il tassista scuotendolo da quelle idee sgra¬devoli. La vettura si era fermata davanti a un piccolo edificio dal¬l'aspetto pretenzioso: una versio¬ne in miniatura delle case che i monarchi francesi costruivano per le loro amanti.
L'interno dello Studio Sorbon¬ne era un impressionante pot-pourri di marmo bianco panna, moquette bianca, mobili bianchi e lampadari di cristallo. La moquet¬te folta e riccioluta sembrava una meringa. Qwilleran ci camminò sopra con circospezione.
Regnava un silenzio ovattato, mentre si guardava attorno. Poi, da dietro un paravento comparve una donna dalla pelle scura di ra¬ra bellezza. — Bonjour, monsieur. Posso esserle utile?
— Ho un appuntamento con il signor Boulanger. Sono del Daily Fluxion.
— Ah, oui. Monsieur Boulan¬ger è au telephone, con un client. Ma vado a dirgli che lei è arrivato.
Con andatura sinuosa scompar¬ve dietro il paravento coi pannelli a specchio. E Qwilleran intravide il riflesso di se stesso intento a fis¬sare, con espressione di compia¬ciuto apprezzamento, la figura che si allontanava.
Un attimo dopo un bel negro che ostentava una barbetta a pun¬ta si fece avanti a grandi passi. — Salve — disse con un sorriso cor¬diale. — Io sono Jack Baker.
— Ho un appuntamento con il signor Boulanger — dichiarò Qwilleran.
— Sono io — rispose l'arreda¬tore. — Jacques Boulanger per i clienti. Jack Baker per gli amici e la stampa. Si accomodi nel mio ufficio, s'il vous plaît.
Qwilleran lo seguì in una stan¬za di un azzurro pallido che era tutta una morbidezza di tappeti, con pareti che sembravano di vel¬luto e con poltrone delicatissime. Un po' a disagio, alzò gli occhi al soffitto e vide che era interamente ricoperto con seta azzurra a pie¬ghe che al centro si raccoglievano in un rosone fatto a coccarda.
— Amico, so che cosa sta pen¬sando — disse Baker ridendo. — Che questo stile è ormai antiqua¬to. Mais malheureusement è quel¬lo che i clienti si aspettano. Mi fa sentire un cretino ma mi dà da vi¬vere. — Gli occhi dell'uomo ave¬vano un'espressione allegra che mise Qwilleran a proprio agio.
— Le è piaciuta la sala d'atte¬sa? L'abbiamo appena rifatta.
— No. Però penso che non sia male se piace molto il bianco — rispose il giornalista.
— Non è bianco! — ribatté l'arredatore con un brivido esage¬rato. — Si chiama Vichyssoise e ha un vago fondo smorzato di ver¬de porro.
Il giornalista chiese: — È que¬sto il tipo di lavoro che fa per i suoi clienti? Ci interesserebbe fo¬tografare uno dei suoi arredamen¬ti d'interni per Belle Dimore. Mi hanno detto che lei ne fa molti per la gente di Muggy Swamp.
Boulanger ebbe un attimo di esitazione. — Non vorrei darle l'impressione che non intendo collaborare, vous savez? Ma ai miei clienti non garba questo ge¬nere di pubblicità. E se devo esse¬re assolutamente sincero, le dirò che gli arredamenti che faccio io a Muggy Swamp non sono qu'est-ce qu'on dit degni di essere pubblica¬ti. Parlo sul serio. I miei clienti so¬no tutti conservatori. Amano gli stereotipi più banali, preferibil-mente quelli francesi, che sono i peggiori. Ora, se io lavorassi per i nouveaux riches di Lost Lake Hills, potrei mostrarle arreda¬menti pieni di fantasia e di auda¬cia. Forse non di molto buon gu¬sto, ma sicuramente più estrosi.
— Peccato — disse Qwilleran. — Speravo che sarebbe stato pos¬sibile fotografare le case di perso¬naggi che contano nella buona so¬cietà, come i Duxbury o i Penniman.
— Vorrei poterlo fare — rispo¬se l'arredatore. — Vorrei proprio. A me piace il mondo della stam¬pa. È stato un giornalista ameri¬cano, a Parigi, a presentarmi la mia prima cliente... la signora Duxbury. — Fece una risata gioiosa. — Le interessa sentire tutta la folle storia? C'est formidable!
— Me la racconti! Le spiace se mi accendo la pipa?
Baker cominciò a parlare con manifesto compiacimento. — Io sono nato proprio qui, in questa città, dalla parte sbagliata, dalla parte sbagliata della ferrovia, se capisce quello che voglio dire. In qualche modo sono riucito ad an¬dare al college con una borsa di studio. E ne sono uscito con un diploma in belle arti, il che mi ha dato il diritto di lavorare per uno studio di arredamento per il quale andavo in giro a montare tendag¬gi. Sono riuscito a mettere da par¬te un po' di soldi e sono andato a Parigi, alla Sorbonne. Cest bien ça! — Il volto dell'uomo ebbe un'espressione di tenerezza. — Ed è lì che sono stato scoperto dal signore e dalla signora Duxbu¬ry, due magnifiche persone.
— Sapevano che lei era un loro concittadino?
— Mais non! Mi divertivo a parlare inglese con accento fran¬cese e mi ero lasciato crescere questa barba pittoresca. I Duxbury sono cascati nella trappola del¬l'esotismo... che Dio li benedica! e mi hanno assunto facendomi ve¬nire qui, a occuparmi della loro casa di trentadue stanze in Muggy Swamp. L'ho fatta tutta in tonali¬tà ostrica, pistacchio e albicocca. Dopo di che tutte le altre famiglie importanti hanno voluto avere anche loro l'arredatore nero dei Duxbury venuto da Parigi. E io sono stato costretto a mantenere l'accento francese, vous savez?
— Per quanto tempo è riuscito a mantenere il segreto?
— Ormai non è più un segreto, ma troppe persone si sentirebbero in imbarazzo se ammettessimo la verità, e così ci godiamo tutti questo innocente, piccolo divertissement. Io fingo di essere francese e loro fingono di non sapere che non lo sono. C'est parfait! — Ba¬ker sorrise compiaciuto, mentre raccontava.
La giovane donna dal volto e dalla figura favolosi entrò nella stanza reggendo nelle mani un vassoio dorato, sul quale c'erano tazze da tè, fettine di limone e una teiera dorata.
— Questa è mia nipote Verna — spiegò l'arredatore.
— Piacere — disse la giovane a Qwilleran. — È pronto per la sua dose quotidiana? Limone o zuc¬chero? — Non c'era la minima traccia di accento francese nelle sue parole. Era molto americana e molto giovane, ma versava il tè dalla teiera vermeil con una gra¬zia aristocratica.
Qwilleran chiese a Baker: — Chi faceva gli arredamenti a Mug¬gy Swamp, prima del suo arrivo sulla scena?
L'arredatore fece un sorriso un po' forzato. — Eh bien! Erano Lyke e Starkweather. — Attese la reazione di Qwilleran, che però era un veterano nel celare le pro¬prie emozioni dietro i folti baffi.
— Intende dire che ha soffiato loro tutti i clienti?
— C'est la vie! Questo genere di clientela è volubile, si compor¬ta come un gregge di pecore. So¬prattutto a Muggy Swamp.
Baker era un tipo schietto e quindi Qwilleran decise di parlare apertamente.
— Come mai non ha avuto G. Verning Tait come cliente?
L'altro guardò la nipote che a sua volta lo guardò. Poi, fece un sorriso accattivante. — Nella fa¬miglia dei Tait c'erano forti ani¬mosità — disse, scegliendo le pa¬role con cura. — Pourtant, David Lyke ha fatto un bel lavoro. Io non avrei mai usato quella carta da tappezzeria a righe nel salone e i lampadari sono un po' fuori mi¬sura, ma David ce l'ha messa tut¬ta. — L'espressione del suo volto divenne mesta, vera o finta che fosse. — E adesso ho perso il mio concorrente migliore. Senza concorrenza dov'è il divertimento in questo gioco?
— Sto pensando di scrivere un articolo su David Lyke — spiegò Qwilleran. — Come suo concor¬rente lei potrebbe farmi qualche dichiarazione su di lui?
— Citabile? — chiese Baker con un'espressione astuta.
— Da quanto tempo lo cono¬sceva?
— Da molto, da quando erava¬mo entrambi dall'altra parte della ferrovia. Prima che il suo nome diventasse Lyke.
— Si è cambiato nome?
— Sì. Era impronunciabile e incomprensibile. Dave ha deciso che Lyke sarebbe stato più grade¬vole.
— Andavate d'accordo?
— Tiens! Eravamo compagni al ginnasio: una coppia di esteti in una giungla di giocatori di palla¬canestro alti due metri e di teen-agers teppisti. Segretamente mi sentivo superiore a Dave perché io avevo i genitori e lui era orfa¬no; poi, quando sono uscito dal college, mi sono ritrovato a lavo-rare per lui, a misurare finestre, a praticare fori nel legno in modo che David Lyke potesse vendere tessuti per drappeggi a cinquemila dollari ed essere invitato alle inaugurazioni delle case di Muggy Swamp. Mentre io mi strizzavo il cervello a scuola e lavavo piatti per mantenermi, lui si faceva stra¬da dando un'immagine di notevo¬le personalità, schiarendosi i capelli e chissà che altro ancora. Mi bruciava, amico mio, mi bruciava!
Qwilleran aspirò qualche boc¬cata di fumo e lo guardò con aria comprensiva.
— Dites donc, mi sono preso la mia vendetta. — Baker fece un largo sorriso. — Sono tornato da Parigi e mi sono accaparrato tutti i suoi clienti di Muggy Swamp. E per affondare ancora di più il col¬tello nella piaga, mi sono trasferi¬to nello stesso edificio dove vive¬va lui, ma in un appartamento più costoso e a un piano sopra il suo.
— Lei vive a Villa Verandah? Anch'io.
— Al quindicesimo piano, ala sud.
— Al quattordicesimo piano, ala nord.
— Alors noi due siamo una coppia ambiziosa — commentò Baker.
Qwilleran aveva ancora una do¬manda da porre. — In quanto concorrente ed ex amico di Da¬vid, oltre che suo vicino, non è in grado di avanzare qualche ipotesi plausibile riguardo al movente che può aver spinto qualcuno al¬l'omicidio?
L'arredatore si strinse nelle spalle. — Qui saît? Era un uomo privo di scrupoli, sia nella vita pri¬vata sia nel lavoro.
— Io credo che fosse il massi¬mo — si intromise Verna.
— Vraiment, chérie, la facciata era splendida, ma sarebbe stato pronto a tagliarti la gola...
— Non ho mai conosciuto una persona dotata di tanto magneti¬smo quanto lui.
— Et bien! — Baker spinse in fuori la mascella e la guardò con aria cupa.
— Probabilmente ci rivedremo nel nostro mausoleo — disse il giornalista, apprestandosi ad an¬dare via.
— Salga al quindicesimo piano a fare il pieno, una di queste sere — disse l'arredatore. — Mia mo¬glie è una vera maga in cucina.
Qwilleran tornò in ufficio per correggere le bozze e trovò un messaggio in cui gli veniva detto di farsi subito vivo con il capo.
Percy era di umore nero. — Qwill — disse subito in tono bru¬sco — lo so che tu non eri affatto entusiasta di assumerti l'incarico di dirigere Belle Dimore e penso di aver sbagliato a spingerti ad ac¬cettarlo.
— Che cosa significa?
— Non ti sto facendo una colpa per la serie di contrattempi che si sono verificati, ma sembra pro¬prio che la rivista sia nata sotto una cattiva stella.
— All'inizio la cosa non mi en¬tusiasmava — ribatté Qwilleran. — Però adesso ho cambiato idea e mi sembra interessante.
— Quella faccenda di ieri sera — disse Percy scuotendo il capo. — Perché succede tutto nel tuo campo? A volte ci sono ragioni psicologiche per ciò che noi defi¬niamo iettatura. Forse dovremmo toglierti l'incarico. Anderson va in pensione il primo ottobre.
— Anderson? — disse Qwille¬ran con manifesto orrore. — Quello che si occupa di problemi religiosi?
— Forse potresti occupartene tu e Belle Dimore potrebbe essere curata dallo staff femminile, come era nel progetto originale.
Il giornalista si sentì rizzare i baffi. — Se mi avessi lasciato in¬dagare su questo omicidio, Harold, come io avevo suggerito, credo che sarei riuscito a scovare qualche indizio. Ci sono forze che lavorano contro di noi. Per esem¬pio, so che il Fondo vedove degli agenti di polizia ha ricevuto una grossa donazione dai proprietari del Morning Rampage, più o me¬no nello stesso periodo in cui la Buoncostume ha fatto irruzione nella casa della Addison.
Percy appariva stanco. — Stan¬no per riceverne una anche da noi. Ogni mese di settembre i due giornali fanno una donazione.
— D'accordo, forse non si è trattato di corruzione, però la scelta del momento non è stata certo casuale. Io sospetto qualco¬sa di losco anche per quanto ri¬guarda l'incidente di Muggy Swamp.
— Su che cosa si fondano que¬sti tuoi sospetti?
Qwilleran si lisciò i baffi. — Non posso svelare quali sono le mie fonti di informazione, ma svolgendo ulteriori indagini...
Percy batté il pugno sulla scri¬vania con forza. — Lasciamo le cose come ho suggerito io, Qwill. Tu chiudi col prossimo numero di domenica e passi il testimone a Fran.
— Aspetta... — dammi un'al¬tra settimana di tempo prima di decidere. Ti assicuro che ci saran¬no sviluppi sorprendenti!
— Negli ultimi quindici giorni abbiamo avuto solo svilupppi sor-prendenti!
Il giornalista non rispose e non si scostò dalla scrivania di Percy. Si limitò a guardarlo negli occhi in attesa di una risposta affermativa. Un trucco che aveva imparato da Koko.
— D'accordo, ti concedo un'al¬tra settimana, e speriamo che nes¬suno metta una bomba in redazio¬ne.
Qwilleran tornò nel suo ufficio combattuto tra la speranza e il dubbio. Chiamò la sede di polizia e chiese di parlare con Lodge Kendall.
— Qualche novità sull'omici¬dio?
— Assolutamente no — gli ri¬spose l'altro. — Stanno esaminan¬do l'agenda di Lyke. È un elenco molto lungo.
— Sono riusciti a rilevare qual¬che impronta digitale?
— Non solo digitali, ma anche quelle di zampe.
— Fammi sapere se viene fuori qualcosa. Detto tra noi, il mio la¬voro può dipendere da questo.

Alle sei in punto, mentre stava uscendo a cena, all'ascensore in¬contrò Odd Bunsen.
— Vuoi quelle foto di casa Tait? È da una settimana che oc¬cupano spazio nel mio armadiet¬to.
Andò nel laboratorio fotografi¬co e tornò subito dopo con una grossa busta.
— Ho fatto dei primi piani per te, oltre che per la polizia. A che cosa ti servono?
— Pensavo di darle a Tait.
— Lo immaginavo. Ho fatto un accurato lavoro di stampa.
Qwilleran raggiunse il Press Club, riempì un piatto di tutto ciò che offriva il buffet e lo portò in fondo al banco del bar, per poter mangiare in solitudine e riflettere sulle scoperte che aveva fatto quel giorno. Il rapporto di Lyke con Cokey, i suoi esordi poco aristo¬cratici, l'amicizia adolescenziale che si era guastata, le opere d'arte che sarebbero dovute restare in Giappone e le notizie molto vaghe su Yushi e sulle sue origini. Nel corso della giornata Qwilleran aveva cercato di telefonare a Yu¬shi, ma la segreteria telefonica gli aveva risposto che era fuori città.
Mentre beveva il caffè aprì la busta: le foto erano notevoli. Bunsen le aveva ingrandite a 28x34. Il barista gli girava attor¬no, togliendo una macchia dal banco che non aveva bisogno di essere pulito, con un'espressione di curiosità sul viso.
— Questa è casa Tait — disse Qwilleran. — Darò queste foto al suo proprietario.
— Gliene sarà grato. A tutti piace avere le foto della loro casa, dei loro figli e dei loro animali e cose del genere. — Bruno accom¬pagnò quelle parole con un cenno del capo, con l'aria di chi sa il fat¬to suo.
— Hai mai sentito di gatti che leccano le foto lucide? È proprio questo che fa il mio gatto. Mangia anche gli elastici.
— Non va bene — rispose il ba¬rista. — Dovrebbe far qualcosa a questo proposito.
— Pensi che possa fargli male?
— Non è normale. Secondo me il suo gatto soffre di disturbi men¬tali.
— Eppure sembra perfetta¬mente sano e felice.
Bruno scosse la testa.
— Quel gatto ha bisogno di aiuto. Dovrebbe portarlo da uno psicogattista.
— Uno psicogattista? Non sa¬pevo che esistessero — dichiarò Qwilleran.
— Posso dirle a chi rivolgersi.
— Be', grazie. Se dovessi deci¬dere di portar Koko da uno strizzacervelli mi rivolgerò a te.
Andò al buffet per riempirsi il piatto per la seconda volta, avvol¬se una fetta di tacchino in un tova¬gliolo di carta e prese un taxi per tornare a Villa Verandah.
Appena fu uscito dalla cabina dell'ascensore al quattordicesimo piano fece tintinnare le chiavi. Era il segnale per Koko. Il gatto correva sempre alla porta e levava il suo stridulo miagolio da siamese a mo' di saluto. Faceva parte del rituale che Qwilleran fingesse di armeggiare con la serratura; quanto più indugiava nell'aprire la porta, tanto più i miagolii au-mentavano di volume.
Ma quella sera non ebbe nessu¬na risposta. Aprì la porta e si af¬frettò ad andare a guardare nei tre nascondigli preferiti da Koko: nell'angolo nord-est del divano centrale, sotto il tavolino dal ri¬piano di vetro, un riparo fresco per le giornate calde e tra un bu¬sto di marmo di Saffo e una copia di Fanny Hill, dove Koko si rifu¬giava quando faceva freddo. Nes¬suno dei nascondigli rivelava la presenza del siamese.
Passò in cucina e guardò in ci¬ma al frigorifero, aspettandosi di vedere un morbido fagottino di pelliccia chiara sopra un cuscino azzurro raggomitolato in modo da apparire senza testa, senza coda e senza zampe, e immerso nel son¬no.
Ma Koko non era neppure lì. Lo chiamò e non ebbe risposta. Controllò sistematicamente sotto il letto, dietro i tendaggi, in arma¬di e cassetti. Persino nell'impian¬to stereo. Aprì le ante dei pensili di cucina, in preda al panico spa¬lancò con gesto brusco il frigorife¬ro. Nessuna traccia di Koko. Guardò nel forno. In tutto quel frattempo Koko seguiva quella ri¬cerca frenetica dalla poltrona ver¬de, in piena vista ma del tutto in¬visibile, come riesce a essere un gatto quando se ne sta in silenzio e immobile. Qwilleran ebbe un sussulto di sorpresa e di sollievo quando finalmente scorse quella minuscola massa di peli. Poi però si preoccupò: il gatto sedeva rag-gomitolato con le scapole in risal¬to e una espressione turbata negli occhi.
— Stai bene? — gli chiese.
Il gatto emise uno squittio da topo senza aprire la bocca.
— Ti senti male?
Koko si agitò un po' a disagio e fissò l'angolo del sedile della pol¬trona. A pochi centimetri dal suo naso c'era una pallina di lanugine. Lanugine verde.
— Che cos'è? Dove l'hai pre¬so? — chiese Qwilleran, poi i suoi occhi si posarono sul bracciolo della poltrona. Lì mancava un pezzo di tessuto e spuntava un po' di imbottitura.
— Koko! — urlò il giornalista. — Hai masticato questa poltrona? Questa costosa poltrona danese?
Koko diede un colpetto di tosse e sputò fuori un altro batuffolo di lana verde ben masticata.
Qwilleran sobbalzò. — Che co¬sa dirà Harry Noyton? Gli verrà un colpo! — Poi la sua voce si alzò in un urlo. — Sei tu che mangi le mie cravatte?
Il gatto alzò gli occhi e prese a fare delle poderose fusa.
— Non azzardarti a fare le fu¬sa. Devi essere pazzo a mangiare la stoffa... Sei diventato matto, mio Dio! Mi mancava solo que¬sto. Un ulteriore problema.
Koko diede un altro colpo di tosse roco e subito dalla bocca gli sbucò un pezzo di lana verde mol¬to bagnata.
Qwilleran si avventò verso il te¬lefono e formò un numero.
— Mi faccia parlare con il bari¬sta — disse e, un attimo dopo, udì il frastuono del bar del Press Club, così forte da sembrare il rombo di un uragano.
— Bruno! — urlò. — Parla Qwilleran. Come posso fare per parlare con quel medico? Con lo psicogattista?

17

Il mattino successivo Koko man¬giò un altro pezzo di poltrona da¬nese. Qwilleran telefonò in ufficio e disse ad Arch Riker che aveva un appuntamento con il medico e sarebbe arrivato in ritardo.
— Guai? — chiese Riker.
— Niente di serio. Una specie di problema di digestione.
— Questa sì che è bella. Pen¬savo che avessi uno stomaco da caprone!
— Ce l'ho, ma ieri sera c'è sta¬ta una grossa sorpresa.
— Sarà meglio che ti curi — lo consigliò Riker. — Queste cose possono peggiorare.
Bruno gli aveva dato il numero telefonico del dottor Highspight e quando Qwilleran chiamò, la vo¬ce della donna che rispose doveva competere con i miagolii e i la¬menti di innumerevoli gatti. Par¬lando con accento dialettale disse che sarebbe potuto venire alle un¬dici di quel mattino. Con grande sorpresa di Qwilleran aggiunse che non era necessario portare il paziente. Gli diede un indirizzo in Merchant Street e lui sussultò.
Preparò un'invitante prima co¬lazione per Koko, gelatina di bro¬do e il petto di tacchino che aveva preso al Press Club, per scorag¬giare l'appetito del gatto per i mo¬bili danesi. Lo salutò preoccupato e, uscito di casa, prese l'autobus per raggiungere Merchant Street.
L'edificio in cui risiedeva il dot¬tor Highspight era a due isolati di distanza da quello della signora Allison e aveva lo stesso aspetto antiquato. A differenza di casa Allison, che era stata dipinta da poco e aveva il giardino ben cura¬to, la clinica veterinaria aveva un aspetto decisamente malconcio. Il prato era pieno di erbacce e sotto il portico alcune assi dell'impian¬tito erano staccate. Qwilleran suonò il campanello con una certa apprensione. Non aveva mai sen¬tito parlare di psicogattisti e dete¬stava l'idea di essere spennato da un ciarlatano. E nemmeno gli an¬dava l'idea di essere vittima di un ennesimo scherzo.
La persona che venne ad aprire era circondata da gatti. Qwilleran ne contò cinque, uno tigrato, un bastardino arancione, uno color cioccolato e due snelle piccole pantere nere. Poi il suo sguardo si posò sulle ciabatte logore che cal¬zava la donna, sulle calze allenta¬te, sull'orlo scucito della vestaglia informe e infine sul volto rinca¬gnato da donna di mezza età sul quale aleggiava un sorriso dolce.
— Entri, caro! — gli disse — prima che i gatti escano in strada.
— Mi chiamo Qwilleran e ho un appuntamento con il dottor Highspight. — Il suo naso registrò odori vaghi di pesce e di disinfet¬tante e i suoi occhi scrutarono l'ampio vestibolo, mentre contava i gatti.
Alcuni stavano sul tavolino, al¬tri su diversi gradini della scala e altri ancora guardavano incuriosi¬ti dalla soglia delle porte. Un gat¬tino siamese con un musetto ado¬rabilmente piccolo aveva assunto una posizione di autorevolezza al centro di una cassetta bassa piena di ghiaia che occupava un angolo dell'atrio.
— Oh, io non sono dottore, ca¬ro! — disse la donna. — Solo una patita di gatti con un po' di buon senso. Le andrebbe una tazza di tè? Vada nel soggiorno e si acco¬modi. Intanto metto la teiera sul fuoco.
Il soggiorno aveva il soffitto al¬to, ma i mobili avevano visto gior¬ni migliori. Qwilleran scelse la poltrona imbottita che gli parve avesse meno problemi di molle sporgenti. I gatti lo avevano se¬guito e adesso gli stavano ispezio¬nando i lacci e lo studiavano da distanza ravvicinata. Si chiese quale fosse il concetto felino di di¬stanza ravvicinata. Più o meno un metro e ottanta, la lunghezza me¬dia di un salto in lungo fatto da un uomo.
— Dunque, caro, quale sareb¬be il problema? — chiese la signo¬ra Highspight, mettendosi seduta su una dondolo e prendendosi in grembo un gatto color albicocca dall'aria feroce. — Mi aspettavo la visita di un ragazzo... Mi è par¬so così angosciato quando ha chiamato.
— Ero preoccupato per il mio siamese. È un gatto notevole che ha delle doti insolite. È molto cor¬diale. Ma in questi ultimi tempi il suo comportamento è diventato molto strano. Sta impazzendo per la colla delle buste, per il nastro adesivo, per i francobolli e per tutte le cose di questo tipo. Le lecca.
— Anche a me piace leccare le buste — disse la donna, dondo¬landosi energicamente e accarez¬zando il felino color albicocca. — È pazzesco quanti odori riescono a creare oggigiorno.
— Ma non le ho ancora detto la cosa più terribile. Ha cominciato a masticare i tessuti, anche a in¬goiarli. Pensavo che fossero le tarme a divorare le mie cravatte, invece è il gatto. Si è fatto fuori tre cravatte di ottima lana e ieri sera si è addirittura mangiato un pezzo di poltrona danese.
— Adesso si comincia a capire qualcosa. Mangia sempre lana?
— Penso di sì. La poltrona è rivestita da un tessuto di lana.
— Non gli farà male. Se non la digerisse la vomiterebbe.
— È consolante saperlo — di¬chiarò il giornalista. — Ma sta di¬ventando un problema. Quella che lui si mangiava è una poltrona molto costosa e non è nemmeno mia.
— Lo fa anche quando lei è in casa?
— No, solo quando sono fuo¬ri...
— Il poverino si sente solo. I siamesi hanno bisogno di compa¬gnia. Altrimenti diventano un po' strani. Rimane solo tutto il gior¬no?
Il giornalista annuì.
— Da quanto tempo vive con lei?
— Da sei mesi. Era del mio pa¬drone di casa che è stato ucciso lo scorso marzo. Forse lei si ricorda l'omicidio di Blenheim Place...
— Certo che me lo ricordo. Leggo sempre la cronaca nera, e quello è stato terrificante. L'han¬no fatto fuori con un coltello da cucina. E il povero gattino era molto affezionato al suo padrone?
— Erano anime gemelle, non si separavano mai.
— Ecco la risposta, caro. Pro¬babilmente il povero gattino ha subito uno choc e adesso si sente solo.
Qwilleran si ritrovò a difendere se stesso. — Il gatto è molto affe¬zionato a me, andiamo d'accordissimo. Mi vuol bene e ogni tan¬to giochiamo insieme. — In quel momento un grosso gatto, di un colore grigio-azzurro, entrò nella stanza ed emise un sonoro richia¬mo.
— L'acqua sta bollendo — disse la donna. — Tommy mi informa sempre quando l'acqua sta bollen¬do. Vado a prendere il necessario per il tè e torno in baleno.
La squadra dei gatti continuò a fissare Qwilleran fino a quando la signora Highspight non ritornò con delle tazze e una panciuta teiera marrone.
— E quel suo gatto parla mol¬to? — gli chiese.
— Miagola molto per una cosa o per l'altra.
— Il che vuol dire che la madre lo ha respinto quando era piccolino. Quella razza ha sempre una vena malinconica e ha bisogno di più affetto. È castrato?
Il giornalista annuì. — È quel¬lo che mia nonna usava definire un signor gatto in pensione.
— C'è un'unica soluzione: de¬ve prendergli un altro gatto per¬ché gli faccia compagnia.
— Tenere due gatti? — prote¬stò subito lui.
— È più facile tenerne due che uno. Si divertono e si aiutano a la¬varsi nei punti difficili da raggiungere. Se il suo gatto avesse un compagno lei non dovrebbe lavar¬gli le orecchie con cotone e acido borico.
— Non sapevo di doverlo fare.
— E nemmeno si preoccupe¬rebbe per il costo del cibo. Due gatti contenti non mangiano mol¬to di più di un gatto che si sente solo.
Qwilleran avvertì un leggero respiro sul collo e quando si girò vide il grazioso siamese che aveva notato quando era entrato e che ora era salito sul sedile della sua poltrona e gli stava annusando l'orecchio.
— Il tè è pronto — annunciò la donna. — A me piace molto for¬te. C'è un po' di latte nel bricco sul vassoio, se le va.
Qwilleran le prese di mano una tazza di porcellana molto sottile piena di un liquido color mogano e scorse un pelo di gatto che flut¬tuava sulla sua superficie.
— Lei vende gatti? — chiese.
— Ho un allevamento di gatti esotici e mi occupo di trovare una casa a quelli randagi — spiegò la donna. — Quello di cui il suo gat¬to ha bisogno è una bella siamesina... naturalmente sterilizzata, anche se questo non fa molta dif¬ferenza. Loro sanno a quale sesso appartengono e possono essere molto teneri l'uno con l'altra. Co¬me si chiama il suo siamese?
— Koko.
— Proprio come nei musical di Gilbert e Sullivan! — Poi si mise a cantare con una voce notevol¬mente bella: — Perché sposerà Yum Yum, ti-dum, ti-dum! Se la collera passerà, l'allegria tornerà!
Tommy, il grosso gattone Blue Point, alzò la testa e si mise a mia¬golare. Intanto il siamese stava entrando nella tasca di Qwilleran.
— La scacci, caro, se le dà fa¬stidio. È una gran sfacciata. Le femmine prendono sempre in simpatia gli uomini.
Qwilleran accarezzò il morbido pelo quasi bianco e la gattina fece le fusa e cercò di mordicchiargli un dito con quattro dentini.
— Se dovessi prendere un altro gatto, forse questo...
— Eh, no! Questa non posso dargliela! È una micina speciale. Ma so dove c'è una orfanella che ha bisogno di una buona famiglia. Ha sentito che la signora Tait è morta la settimana scorsa? C'è stato un furto e ne hanno parlato tutti i giornali.
— Ne so qualcosa.
— Molto triste. La signora Tait aveva una siamese e non penso che suo marito vorrà tenere la po¬vera bestiola.
— Che cosa glielo fa pensare?
— Lui non ama i gatti.
— Come fa a saperlo?
— Quella gatta è nata da una delle mie femmine e la povera si¬gnora Tait, che Dio la faccia ripo¬sare in pace, ha dovuto chiamar¬mi perché andassi ad aiutarla. La povera bestiola era così nervosa che non voleva né mangiare né dormire e adesso che la sua pa¬drona non c'è più, chissà che cosa ne sarà di lei... Lasci che le riem¬pia ancora la tazza, caro.
Versò dell'altro tè scurissimo che uscì dal becco della teiera con un bel po' di foglioline.
— E quel suo marito — conti¬nuò la donna. — Pieno di boria ma... pensi un po', ho dovuto aspettare a lungo perché mi pa¬gasse. E io ho tante bocche da sfa¬mare!
Qwilleran sentì che i baffi gli davano un segnale. Disse che, da¬te le circostanze, avrebbe preso in considerazione la possibilità di adottare il gatto dei signori Tait. Poi si legò i lacci delle scarpe che i gatti avevano sciolto e si alzò. — Quanto le devo per la visita?
— Tre dollari sarebbero troppi per lei, caro?
— Penso di poter sopravvivere.
— E se vuole dare un piccolo contributo per il tè che le ho of¬ferto sappia che sono soldi che servono per comperare un po' di cibo per i gatti. Li metta pure nel vasetto di marmellata che sta sul tavolino dell'ingresso.
La signora Highspight e un cor¬teo di code in movimento accom-pagnarono Qwilleran alla porta mentre la gattina siamese gli si sfregava contro le caviglie, inte¬nerendolo profondamente. Mise un quarto di dollaro nel vasetto della marmellata.
— Mi chiami se ha bisogno di aiuto, caro — disse la donna.
— Mi ero dimenticato di chie¬derle una cosa. L'altra sera era ve¬nuta una mia amica a trovarmi e Koko ha cercato di morderla. Non è stata un'aggressione vio¬lenta... solo un morso dimostrati¬vo, ma di tutti i punti possibili e immaginabili ha scelto la testa.
— Che cosa stava facendo la si¬gnorina?
— Non stava facendo proprio niente. Stava badando ai fatti suoi quando all'improvviso Koko si è avventato contro la sua testa.
— La signorina si chiama Co¬key?
— Così la chiamano tutti.
— Dovrà usare un altro nome per lei, caro. Koko ha pensato che la chiamasse con il proprio. I gatti sono gelosi del loro nome, molto gelosi.
Quando Qwilleran si allontanò dalla gatteria di Merchant Street, rifletté sulla diagnosi fattagli dalla signora Highspight e gli parve molto logica. L'aggressione dimo¬strativa contro Cokey era stata dettata dalla gelosia. Alla prima cabina telefonica si fermò per te¬lefonare allo studio Middy.
All'altro capo del filo udì la vo¬ce di Cokey che gli parve strana¬mente dolce e remissiva. Quando le propose di uscire a cena, lei lo invitò a casa sua dicendogli che non poteva offrirgli altro che stu¬fato e insalata, ma gli promise una sorpresa.
Qwilleran tornò in ufficio e la¬vorò un po'. Buttò giù i suoi articoli senza il minimo sforzo. Le pa¬role scorrevano dalla sua mente senza difficoltà e le due dita con le quali batteva toccavano sempre i tasti giusti. Rispose anche a qualche lettera di lettori che chie¬devano consigli sull'arredamento.
"Posso usare un matelassé su una piccola bergère?"
"Una credenza bassa sistemata sotto una lampada tipo lanterna appesa in alto può star bene?"
Dato che era di buon umore, Qwilleran rispose a tutti: "Sì, certo. Perché no?".
Poco prima di uscire dall'uffi¬cio, alle cinque e mezzo, il capo archivista lo chiamò per dirgli che la pratica Tait era stata restituita e Qwilleran andò a prenderla.
In previsione della visita a Co¬key voleva andare a casa a radersi e a dare da mangiare al gatto. Non appena fu uscito dall'ascen¬sore, al quattordicesimo piano, udì sonori peana di benvenuto. E quando entrò nell'appartamento Koko si diede a corse folli per tut¬te le stanze. Saltava sugli schienali delle poltrone e si ributtava giù con un tonfo. Atterrò sul mobilet¬to stereo e vi scivolò sopra per tutta la sua lunghezza, fece il giro del tavolo da pranzo sfrecciando in un saettare di pelo chiaro, ro¬vesciò tutto quello che c'era sul ri¬piano della scrivania e il cestino della carta straccia, con un ululato il falsetto che si alternava con un gorgoglio baritonale.
— Così va bene! — esclamò Qwilleran. — È questo che mi piace vedere. — E si chiese se il gatto avesse intuito che di lì a un po' avrebbe avuto una compagna di giochi.
Sminuzzò dei fegatini di pollo e li fece dorare nel burro, poi sbri¬ciolò un pezzettino di roquefort, quindi si mise in ordine e indossò il secondo dei due vestiti di cui di¬sponeva e la cravatta scozzese bella. Prima di andare, rimase esi¬tante davanti alla cartelletta Tait che si era portato a casa: una bu¬sta voluminosa, piena di vecchie cronache mondane, di notizie economiche obsolete e di annunci mortuari. I baffi vibrarono, ma il suo stomaco decise che la pratica Tait poteva aspettare un po'.

18

Cokey abitava all'ultimo piano di una vecchia casa e Qwilleran, do¬po essersi fatto a piedi tre piani di scale, arrivò ansimante davanti al¬la porta del suo appartamento. E quando se la trovò davanti finì per perdere anche quel poco di fiato che gli era rimasto.
La persona che lo salutò era una sconosciuta. Aveva zigomi, tempie, mascella e orecchie. I ca¬pelli che prima le ricoprivano la testa e gran parte del volto come un elmo di maglia metallica ades¬so formavano un'aureola di ric¬cioli morbidi. Qwilleran rimase affascinato alla vista del collo lungo e dell'aggraziata linea del men¬to.
— Fantastico! — esclamò, e la seguì con lo sguardo mentre lei si muoveva per l'appartamento sbri¬gando piccoli e inutili lavoretti domestici.
I mobili erano pochi, di un'ele¬ganza volutamente modesta e bohémienne. Sedie di tela nera, ten¬de pure di tela ma del colore dei sacchi per patate e assi verniciate che reggevano libri bloccati alle due estremità da vasi di piante. Cokey aveva creato un ambiente festoso, con candele accese e mu-sica di sottofondo. C'erano persi¬no due garofani bianchi infilati in una bottiglia d'aceto vuota.
Quella capacità organizzativa realizzata con poca spesa fece a Qwilleran un effetto positivo. C'era qualcosa in quella stanza che a una persona residente a Vil¬la Verandah risultava malinconico e coraggioso al tempo stesso. E questo lo toccò in un punto vulne¬rabile e per un attimo provò l'im¬pulso delirante di proteggere quella ragazza per tutta la vita. Ma quell'attimo svanì subito. Si asciugò la fronte col fazzoletto e fece un commento sulla musica proveniente da un giradischi por¬tatile.
— Schubert — disse Cokey in tono dolce. — Ho rinunciato a Hindemith, non si accorda più con la mia nuova pettinatura.
Per cena servì un misto di pe¬sce con riso integrale, con una salsa che conteneva qualcosa di ver¬de. L'insalata era croccante e ri¬chiedeva una lunga masticazione, il che rendeva un po' difficile la conversazione. Seguì poi un gela¬to a base di yogurt e fichi, ricoper¬to da semi di girasole. A cena fini¬ta Cokey gli offrì una tisana, spiegando che si trattava di una specialità fatta con alfalfa e alghe, poi invitò Qwilleran a prendere posto sulla poltrona più comoda e ad appoggiare i piedi su uno sga¬bello che lei aveva ricavato da una cassetta di birra rivestita con cam¬pioni di morbida moquette. Mentre lui si accendeva la pipa Cokey si raggomitolò sul divano-letto, una branda coperta da un telo a righe, e cominciò a sferruz-zare qualcosa di rosa.
— Cos'è? — chiese Qwilleran.
— Un pullover — spiegò lei. — Mi faccio da sola tutta la roba di maglia. Ti piace il colore? Il rosa diventerà parte del mio nuovo look, visto che con la mia immagi¬ne precedente non mi è andata bene.
Qwilleran ora fumava tranquil¬lo, stupendosi per l'onnipotente magia di cui erano dotati i parruc¬chieri per signora. Si disse che ve¬nivano spesi miliardi per le ricer¬che neurofisiologiche mirate a controllare il comportamento umano, mentre gli istituti di bel¬lezza sarebbero stati molto più a buon mercato e avrebbero otte¬nuto i medesimi risultati.
Osservò per qualche momento la grazia angolosa delle mani di Cokey che muovevano gli aghi e a un tratto esclamò: — Dimmi in tutta sincerità, Cokey, tu sapevi che genere di casa era quella della signora Allison, quando mi hai suggerito di fare il servizio sulla rivista?
— In tutta sincerità lo ignoravo.
— Per caso non ne hai accenna¬to a quel tizio del Morning Rampage?
— Di chi stai parlando?
— Mike Bulmer, reparto tira¬ture. Ho avuto l'impressione che tu lo conoscessi. Gli hai parlato, quando eravamo al Press Club.
— Oh, quello? Veramente non lo conosco. La primavera scorsa ha comperato delle lampade dalla signora Middy e l'ha pagata con un assegno scoperto. Per questo me lo ricordavo.
Qwilleran si sentì sollevato. — Temevo che avessi dei segreti per me.
Cokey smise di colpo di sferruz¬zare e sospirò. — Ho un segreto e sarà meglio che te lo confessi per¬ché tanto, prima o poi, tu lo sco¬priresti. Sei un tale ficcanaso...
— Malattia professionale — ri¬batté lui, apprestandosi ad accen¬dere di nuovo la pipa. Cokey lo osservò mentre lui la picchiettava sul posacenere per svuotarla, aspirava, la esaminava, la riempi¬va di tabacco che premeva con forza e avvicinava il fiammifero.
— Be', si tratta di David Lyke. Quando mi hai portata al party e mi hai presentata ti avevo detto di non averlo mai conosciuto...
— E invece non era vero, per¬ché tieni la sua foto in borsetta.
— Come fai a saperlo?
— Hai rovesciato tutto il conte¬nuto sul mio divano, sabato sera, e Koko ha scelto la foto di Lyke per dargli una bella leccata.
— Tu e quel gatto dai poteri pa¬ranormali fate una bella coppia!
— Dunque lo conoscevi.
La ragazza si strinse nelle spalle con un'espressione di sconforto. — Ero una delle tante che si sono prese una cotta per lui... quegli occhi da camera da letto e quella voce profonda e calda. Natural¬mente non c'è stato nulla di serio. David seduceva tutte ma non amava nessuno.
— Ma tu conservi la sua foto.
Cokey serrò le labbra e sbatté le palpebre. — L'ho stracciata qualche giorno fa. — Poi, all'im¬provviso, parve avvertire l'urgen¬za di passarsi un po' di rossetto sulle labbra, di mettere un altro disco, di spegnere le candele sulla tavola e di andare a riporre il bur¬ro in frigorifero. Quando ebbe concluso quella frenetica attività, si rimise seduta a lavorare a ma¬glia. — Parliamo un po' di te — disse. — Perché porti sempre cra¬vatte scozzesi?
Lui si tastò delicatamente la cravatta. — Mi piacciono. Questa è Mclntosh. Ne avevo anche una Bruce e una McGregor, ma me le ha mangiate Koko.
— Mangiate?
— Prima davo la colpa alle tar¬me, ma in realtà il colpevole è Koko. Sono contento che non sia riuscito a farmi fuori anche que¬sta. È quella che preferisco. Mia madre era una Mclntosh.
— Non ho mai sentito di gatti che mangiano le cravatte.
— Mangiare lana è un sintomo di nevrosi — le rispose con auto-revolezza. — La domanda è: per¬ché non ha toccato la Mclntosh? Aveva tutte le possibilità per farlo e invece ha rovinato solo le altre. Perché ha risparmiato la mia cra¬vatta preferita?
— Deve trattarsi di un gatto molto riguardoso. Ha mangiato anche qualcos'altro?
Qwilleran annuì con aria cupa.
— Hai visto quella poltrona da¬nese nel mio appartamento? Ha mangiato un pezzo anche di quella.
— È di lana — commentò Co¬key. — Materia animale. Forse fa bene ai gatti nevrotici.
— Tutto l'appartamento ne è pieno: poltrone di vigogna, divani in pelle, tappeti di peli di capra, ma Koko ha dovuto proprio man¬giarsi un pezzo della poltrona pre¬ferita di Harry Noyton. Quanto mi costerà rifondere il danno?
— La signora Middy te la ripa¬rerà a prezzo di costo. Ma biso¬gnerà ordinare il tessuto in Dani¬marca.
— E come si fa a sapere che Koko non se lo rimangerà?
Poi le raccontò della signora Highspight e del progetto di adot¬tare la gatta dei Tait. — Mi ha detto che a lui non piacciono i gat¬ti. Mi ha anche detto che paga i conti molto in ritardo.
— Più sono ricchi più è difficile farsi pagare — fu il commento di Cokey.
— Ma Tait è davvero tanto ric¬co come pensa la gente? David mi aveva lasciato intendere di non aver ricevuto quanto gli doveva per il lavoro che gli aveva fatto; e quando abbiamo discusso della possibilità di fare il servizio foto¬grafico su casa Tait, mi disse che pensava di potere persuadere il padrone di casa ad accettare. Era come se sapesse di avere in mano la leva giusta da usare. E infatti Tait aveva accettato subito. Per¬ché? Forse perché era già rovina¬to e pronto a collaborare con il suo creditore? Non ci sarà invece qualche altro oscuro motivo? — Si toccò i baffi. — A volte penso che il furto di Muggy Swamp sia tutta una montatura e continuo a credere che la teoria della polizia sulla colpevolezza del cameriere non stia in piedi.
— E allora che ne è stato di lui?
— È in Messico, oppure è stato ammazzato. E se è in Messico, o ci è andato di sua spontanea vo¬lontà o c'è stato spedito da chi ha messo in atto tutta questa storia. E se c'è stato spedito i casi sono due: o ha con sé le giade oppure è innocente. E se ha con sé le giade scommetto dieci a uno che Tait progetta un viaggio nel Messico in un futuro molto prossimo. Inten¬de andarsene via per riposarsi. Se va a ovest finirà probabilmente in Messico.
— Ma si può andare a ovest an¬che passando per l'est — disse Cokey.
Qwilleran tese un braccio e le picchiettò sulla mano. — Sei una ragazza in gamba.
— Pensi che abbia affidato le giade al cameriere?
— Può darsi. Forse non è stato Paolo a rubare le giade. Forse è stato spedito in Messico per sviare i sospetti. Se è così, dove sono le giade?
Per tutta risposta seguì un si¬lenzio prolungato. Qwilleran si picchiettò la pipa sui denti. Cokey picchiettò gli aghi l'uno contro l'altro. Il giradischi fece clic nel lasciar cadere un altro disco sul piatto. Questa volta la musica era di Brahms.
Di lì a un po' Qwilleran disse: — Hai presente quel gioco che io e Koko facciamo con il diziona¬rio? Ultimamente Koko ha tirato fuori delle parole che hanno un certo significato. Non dovrei par¬larne. È troppo incredibile.
— Sai che cosa penso dei gatti. Sono disposta a credere a qualun¬que cosa.
— La prima volta che me ne so¬no accorto è stato domenica mat¬tina. Mi ero dimenticato di prepa¬rargli la prima colazione e quando abbiamo fatto il gioco del diziona¬rio lui ha tirato fuori la parola "fa¬me".
Cokey batté le mani. — Che in¬telligente!
— Al tentativo successivo ha ti¬rato fuori "erba", ma io non ho avuto l'intuizione giusta fino a quando non ha scelto la parola "erba gatta". Evidentemente era disperato.
— Be', ma questo vostro giuo¬co mi fa pensare alla tavola dell'Ouija. Sai, quella tavola sulla quale sono scritte parole e lettere da cui si traggono risposte e mes¬saggi telepatici.
— Mi fa venire i brividi — pro¬seguì Qwilleran. — Da quando è successa quella faccenda a Muggy Swamp continua a tirare fuori pa¬role che fanno pensare a Verning Tait. Per esempio, "calvo" e "sa¬croiliaco". Quest'ultima per ben due volte in una sola partita, ed è una bella coincidenza in un dizio¬nario che ha tremila pagine.
— Il signor Tait è calvo?
— Non ha un solo capello in te¬sta, e inoltre soffre di mal di schiena... Sai che cos'è un koolokamba?
Lei scosse il capo.
— È una scimmia con la testa calva e i palmi neri. Koko ha tira¬to fuori anche questa.
— Palmi neri? Che simbolismo poetico! — esclamò Cokey. — Te ne vengono in mente altre?
— Non tutte le parole che sce¬glie sono pertinenti alla situazione. A volte salta fuori con "visceropericardiale" o "calorificazione". Ma un giorno ha trovato due parole significative sulla stessa pa¬gina: "rossiccio" e "rubizzo". Tait ha un volto piuttosto acceso.
— Oh Qwill! Quel gatto ci ha davvero azzeccato! Sono sicura che è sulla pista giusta. Non puoi fare qualcosa?
— È un po' difficile. — La guardò con aria avvilita. — Non posso andare alla polizia a dire che il mio gatto ha dei sospetti sul rampollo di una vecchia e rispet¬tabile famiglia. E poi c'è un'altra possibilità...
— Di che si tratta?
— Può darsi che la polizia so¬spetti di Tait e che faccia credere di sospettare del cameriere per non mettere in allarme il vero col¬pevole.

19

Qwilleran rientrò dalla serata in casa di Cokey prima del previsto. Lei lo aveva praticamente scaccia¬to sostenendo che il giorno dopo entrambi dovevano lavorare e che doveva mettersi a posto i capelli e stirare una camicetta.
Quando arrivò a Villa Verandah fu accolto da Koko con i soliti balzi sul tavolo che si conclusero sulla scrivania. La spia rossa del telefono lampeggiava. Sembrava che il gatto volesse fargli capire che qualcuno aveva chiamato ma che non c'era stato nessuno in ca¬sa per rispondere.
Qwilleran formò il numero del centralino.
— L'ha cercata il signor Bunsen alle nove — gli disse la centralini¬sta. — Mi ha pregato di riferirle di chiamarlo a casa, se rientrasse prima dell'una.
Qwilleran guardò l'orologio. Non era ancora mezzanotte. Co¬minciò a fare il numero di Bun¬sen, poi cambiò idea. Decise che Cokey aveva ragione per quanto riguardava l'importanza dell'im¬magine. E si disse che non sareb¬be stato male se avesse rafforzato la propria: quella invidiabile di uno scapolo che ogni notte fa le ore piccole.
Svuotò le tasche della giacca che poi sistemò sullo schienale della sedia, quindi sedette alla scrivania a sfogliare i ritagli di giornale inseriti nella cartelletta Tait. Koko stava a guardare diste¬so sul ripiano in una posizione classica, caratteristica dei leoni e delle tigri, la coda arrotolata at¬torno a un fermacarte di cristallo svedese.
I caratteri tipografici sui ritagli avevano varie sfumature che an¬davano dal giallo al marrone a se¬conda della loro data di pubblica¬zione. Sui ritagli era impresso il timbro con la data. Non era ne¬cessario sforzarsi di leggere la scritta del timbro. Per risalire alla data bastava guardare i caratteri di stampa e la carta ingiallita.
Inizialmente Qwilleran li passò in rassegna rapidamente, speran¬do di trovare qualche titolone scandalistico. Non avendo trovato nulla, dopo la prima scorsa veloce iniziò a leggere sistematicamente: tre generazioni della storia dei Tait in cronologico disordine.
Cinque anni prima Tait aveva tenuto un discorso a una riunione dell'Associazione orafi. Undici anni prima era morto suo padre. C'era un lungo articolo sulla Tait Manufacturing Company, che ri¬sultava essere una delle più anti¬che società a gestione familiare; nata nel 1883 al fine di produrre frustini per calesse, ora fabbrica¬va antenne radio per auto. Trovò vecchi ritagli di rubriche mondane con foto che mostravano i nonni Tait all'opera o a feste di benefi¬cenza. Tre anni prima G. Verning Tait aveva annunciato l'intenzio¬ne di produrre antenne simili a frustini per calesse. Un anno do¬po compariva la notizia che l'in¬dustria Tait aveva chiuso e che era stato dato l'avvio al processo per bancarotta.
Poi c'era un annuncio di matri¬monio di ventiquattro anni prima. Il signor George Verning Tait, fi¬glio del signore e della signora Verning H. Tait di Muggy Swamp, prendeva moglie. Tutta la famiglia Tait era andata in Eu-ropa per la cerimonia. Le nozze erano state celebrate nella resi¬denza dei genitori della sposa, i Victor Thorvaldson di...
Qwilleran sbarrò gli occhi quando continuò a leggere. — I Victor Thorvaldson di Aarhus, Danimarca.
Si appoggiò allo schienale della poltrona e sbuffò nei baffi.
— Koko — disse. — Secondo te che cosa sta combinando Harry Noyton ad Aarhus?
Il siamese aprì la bocca per ri¬spondere, ma il suo commento non fu abbastanza forte per essere udito.
Il giornalista guardò l'orologio e quando vide che era l'una co¬minciò a sfogliare più rapidamen¬te i resti dei ritagli fino a che non trovò quello che cercava. Quindi formò nervosamente il numero di Odd Bunsen.
— Spero di non averti tirato fuori dal letto — disse.
— Com'è andato il tuo appun¬tamento, vecchio gatto in calore? — gli chiese Bunsen.
— Non male. Non male.
— Che cosa ci facevi questa mattina in Merchant Street?
— Come sai che ero in Mer¬chant Street?
— Ti ho visto aspettare l'auto¬bus alle 11.55 all'angolo sud-ovest di Merchant con State.
— Non ti sfugge niente, vero? — commentò il giornalista. — Perché non ti sei fermato per dar¬mi un passaggio?
— Andavo nella direzione op¬posta. Accidenti, hai cominciato a lavorare presto. Non era neanche ora di pranzo.
— Avevo appuntamento con un medico.
— In Merchant Street?
— È per questo che mi avevi chiamato? Sei una vecchia pette¬gola curiosa.
— Nossignore. Ho delle infor¬mazioni per te.
— Anch'io ho notizie per te, Odd. Ho scoperto qual è lo sche¬letro nell'armadio dei Tait.
— Di che si tratta?
— Una causa in tribunale. G. Verning Tait è stato coinvolto in una causa di riconoscimento di paternità.
— Quel vecchio caprone? E la ragazza chi è?
— Una cameriera di casa Tait. Che ha avuto anche dei quattrini. A giudicare dai vecchi ritagli di giornale, dev'essere stato un pro¬cesso che ha fatto sensazione.
— Esperienze del genere pos¬sono essere molto dure.
— Si sarebbe portati a pensare che una famiglia con il denaro e la posizione dei Tait avrebbe fatto qualunque cosa per sistemare le cose fuori dalle aule del tribunale. Qualche anno fa dovevo fare un servizio per il giornale su un pro¬cesso del genere a Chicago e le te¬stimonianze sono state piuttosto scioccanti. E adesso dimmi quali sono le informazioni che hai per me.
— Non sono granché, ma se in¬tendi mandare quelle foto a Tait farai bene a spicciarti. Lascia il paese per un paio di giorni.
— Come lo sai?
— Ho incontrato Lodge Kendall al Press Club. Tait parte saba¬to mattina.
— Per il Messico? — chiese Qwilleran, mentre i suoi baffi si mettevano sull'attenti.
— Nossignore. Niente di così ovvio. Ti piacerebbe che fosse di¬retto in Messico, eh? — Lo prese in giro il fotografo.
— Be', dove va?
— In Danimarca.

Qwilleran si svegliò senza diffi¬coltà il mattino seguente, dopo una nottata piena di sogni stupidi ai quali fu lieto di aver posto fine. In uno di questi sognò che stava recandosi in aereo ad Aarhus per fare da testimone a un matrimo¬nio altolocato tra due gatti steri¬lizzati.
Prima di lasciare l'ufficio tele¬fonò a Tait e si offrì di andare a consegnargli le fotografie delle giade l'indomani. Si informò an¬che della gatta e rimase costerna¬to quando Tait gli disse che l'ave¬va cacciata di casa perché era per¬suaso che se la sarebbe cavata be¬nissimo da sola.
— Pensa di riuscire a ripren¬derla? — gli chiese il giornalista, cercando di controllare la collera. Detestava la gente che maltratta¬va gli animali.
— È ancora qua attorno — gli rispose Tait. — Ha urlato tutta la notte. La farò rientrare in casa. Quante foto mi porterà?
Quel giorno Qwilleran lavorò molto e velocemente. La centrali¬nista aveva ricevuto l'ordine di ri¬spondere a chi lo cercava al tele¬fono che non era in ufficio e di spiegare a tutte le persone che si presentavano senza appuntamen¬to che era il giorno di chiusura del giornale, spiegazione che non consentiva suppliche, discussioni, eccezioni.
Si prese un attimo di tempo so¬lo quando telefonò all'ex gover¬nante di casa Tait.
— Signora Hawkins — disse dando alla propria voce l'infles¬sione altezzosa e strascicata da quartieri alti — sono un cono¬scente del signor Tait, di Muggy Swamp. Mi sposo tra poco e a me e a mia moglie serve una gover¬nante. Il signor Tait mi ha dato ec¬cellenti referenze su di lei.
— Ah, sì, davvero? — rispose una voce musicale dalla quale tra¬spariva una punta di impudenza.
— Potrebbe venire stasera per un colloquio a Villa Verandah?
— Chi ci sarà? Solo lei o anche la signorina?
— Purtroppo la mia fidanzata al momento è a Tokio e sono io che devo decidere.
— Va bene, verrò. A che ora?
Qwilleran fissò l'appuntamento per le otto. Era contento di non aver bisogno di governanti e si chiedeva se la signora Hawkins non costituisse un esempio della sgangherata amministrazione di casa Tait.
Quando la signora Hawkins si presentò per il colloquio aveva cominciato a piovere.
Arrivò con l'ombrello sgoccio¬lante e un impermeabile altrettan¬to sgocciolante sotto il quale in¬dossava un vestito dai vistosi colo¬ri rosa e verde. Qwilleran notò che l'abito aveva quel tipo di scol¬latura che tende a scendere giù dalle spalle al minimo incoraggia¬mento, e che aveva anche una spaccatura su un lato. La donna aveva occhi sfrontati e quando camminava civettava con le spal¬le. A lui piacevano le femmine sfrontate e civette quando erano giovani e attraenti, ma la signora Hawkins non era nessuna delle due cose.
Con modi esageratamente ceri¬moniosi le offrì un bicchiere di sherry, come antidoto al maltem¬po, e versò una generosa dose che prese dal bar ben fornito di Harry Noyton, in un bicchiere di una grandezza spropositata, e dopo che tutti i problemi di routine fu¬rono risolti, esperienza, referen¬ze, stipendio, la signora Hawkins finì per rilassarsi sui cuscini di un divano di camoscio, pronta per una serata di chiacchiere.
— Lei è uno di quei giornalisti che è venuto a casa Tait a fare fo¬tografie — gli disse guardandolo con occhi astuti. — Ricordo i suoi baffi. — Indicò con un gesto il lus¬so della stanza. — Non sapevo che i reporter facessero tanti quattrini.
— Mi permetta di riempirle il bicchiere — disse Qwilleran.
— Lei non beve?
— Ulcera — rispose, assumen¬do un'espressione di autocommi¬serazione.
— Dio mio! So tutto sull'ulcera — dichiarò la donna. — A Muggy Swamp cucinavo per due persone malate di ulcera. Qualche volta, quando non c'era il signor Tait, lei mi diceva di prepararle un gran piatto di cipolle fritte alla france¬se, e, se c'è qualcosa che non va d'accordo con l'ulcera sono le ci¬polle fritte alla francese. Ma io non discutevo mai. Nessuno si az-zardava mai a discutere con lei. Tutti giravano per casa in punta di piedi e quando lei suonava quel campanello piantavano lì quello che stavano facendo e si precipita¬vano a sentire che cosa voleva... Ma a me non importava perché, se posso dire la mia, preferisco cucinare per una coppia di invali¬di piuttosto che per una casa pie¬na di bambini famelici. E Paolo mi dava una mano, era davvero un grande aiuto. Un ragazzo mol¬to dolce... peccato che sia saltato fuori che era un poco di buono. Ma con gli stranieri è così. Io non li capisco gli stranieri. Anche lei era straniera. Sebbene fosse ve¬nuta qui molto tempo fa. Ed è stato solo verso la fine che ha co¬minciato a urlare contro tutti noi in una lingua straniera. Urlava anche con suo marito. Dio, quel¬l'uomo aveva la pazienza di un santo! Be', certo, aveva il suo la¬boratorio quando voleva stare tranquillo; andava matto per quelle pietre. Una volta aveva comperato un'intera montagna in qualche posto in Sudamerica. Si pensava che là sotto ci fosse giada a non finire, ma credo che non sia andata così. Una volta mi aveva offerto una grossa spilla di giada, però io non l'ho voluta. Non vole¬vo niente di quella roba! — La si-gnora Hawkins fece roteare gli occhi in modo plateale. — Era tutto eccitato quando siete venuti a fare le fotografie dei suoi ninno¬li... il che mi ha stupito, conside¬rato quello che pensava del Daily Fluxion... — Si interruppe per svuotare il bicchiere. — È buono! Un altro goccetto, dopo di che me ne andrò a casa barcollando.
— Che cosa pensava del Flu¬xion il signor Tait? — chiese Qwil¬leran in tono noncurante.
— Oh, ce l'aveva a morte con quel giornale! Non voleva vederlo girare per casa. Ed era un vero peccato; tutti sanno che il Fluxion pubblica i fumetti più belli. Ma lui è fatto così. In fondo ciascuno di noi ha le proprie stranezze... Oh, credo proprio che quest'ultimo goccetto mi stia dando il colpo di grazia.
Poi passò a parlare del suo ex marito e del recente intervento subito per le vene varicose. A quel punto Qwilleran disse che le avrebbe fatto sapere qualcosa ri¬guardo all'assunzione. Quindi la accompagnò, sorreggendola, a un taxi e le diede cinque dollari per la corsa.
Rientrò proprio nel momento in cui Koko sbucava dal suo na¬scondiglio segreto. Il gatto avan¬zava con circospezione e si guar¬dava attorno con occhi attenti e orecchie ritte.
— Provo la stessa cosa anch'io — gli disse il giornalista. — Su, mettiamoci a giocare e vediamo se tiri fuori qualcosa di utile.
Si avvicinarono al dizionario e Koko cominciò a giocare brillan¬temente. Un esponente dopo l'al¬tro, e schiacciò Qwilleran sce¬gliendo parole tipo "echidna" ed "esubia", "citodiagnosi" e "Czestochova", "onice" e "opale".
Il giornalista stava per gettare la spugna quando la fortuna cam¬biò di colpo. Koko affondò le un¬ghie nella prima pagina del dizio¬nario e scelse "alterco" e "arena". Al secondo giro saltarono fuori "qualità" e "questionare". Qwil¬leran avvertì una vibrazione si¬gnificativa nei baffi.

20

Il mattino dopo la visita della Hawkins e la strabiliante perfor¬mance di Koko col dizionario, Qwilleran aprì gli occhi prima che sonasse la sveglia e saltò giù dal letto. I pezzetti del mosaico stavano cominciando a mettersi a posto.
Tait doveva avercela con il Flu¬xion dai tempi dello scandalo per il processo riguardo l'attribuzione di paternità. La famiglia probabil¬mente aveva cercato di mettere tutto a tacere, ma ovviamente al giornale dovevano aver tenuto duro, puntando sul fatto che il pubblico aveva il diritto di essere informato. Non era stato omesso nemmeno il più piccolo dettaglio increscioso. Forse il Rampage aveva trattato i Tait con maggior riguardo. Il giornale era di pro¬prietà dei Penniman, che faceva¬no parte dell'élite di Muggy Swamp.
Per diciotto anni Tait si era te¬nuto dentro il rancore lasciando che si trasformasse in un'ossessio¬ne. Sebbene all'apparenza sem¬brasse una persona mite, in realtà era un uomo dalle forti passioni. Probabilmente il suo odio per il Fluxion era il contraltare del suo amore per le giade. L'ulcera di cui soffriva era il sintomo evidente del suo rovello interiore. E quan¬do il Fluxion gli aveva proposto di pubblicare le foto della sua casa lui aveva visto in questo la possibi¬lità di vendicarsi. Avrebbe potuto simulare il furto delle giade, na¬sconderle, fare in modo che venis¬sero recuperate dopo che il gior¬nale si fosse ritrovato in una situa¬zione a dir poco imbarazzante.
Quale poteva essere il nascon¬diglio perfetto per una teiera di giada sottile come petali di rosa? Questo era ciò che Qwilleran si chiedeva mentre preparava la pri¬ma colazione per Koko.
Ma possibile che Tait arrivasse a tanto solo per il mero desiderio di vendicarsi? Ci sarebbe dovuto essere un motivo ben più valido di quello. Forse non era così ricco come si sarebbe potuto presume¬re. Aveva perso la fabbrica. Ave¬va puntato parecchio su una mon¬tagna che avrebbe dovuto rivelar¬si una fonte inesauribile di giade e invece era stata un fallimento. Per di più aveva un debito rilevante per la ristrutturazione della casa. Aveva ideato una truffa per incas¬sare il denaro dell'assicurazione? Aveva litigato con la moglie per questo? Possibile che la lite fosse stata tanto violenta da provocare un infarto alla donna? Posò la co¬lazione di Koko sul pavimento della cucina. Si infilò la giacca e cominciò a riempirsi le tasche, passando da una stanza all'altra a prendere la pipa, il tabacco, i fiammiferi, il portafogli, il pettine, un po' di spiccioli, il fermaglio per le banconote e un fazzoletto puli¬to. Ma non riuscì a trovare il bot¬tone di giada verde che di solito gli tintinnava in tasca insieme alle monete. Ricordava di averlo la-sciato sul ripiano della scrivania.
— Koko, chi ha rubato il mio portafortuna?
Gli giunse la risposta dalla cuci¬na: un miagolio che risuonò soffo¬cato perché Koko stava ingozzan¬dosi di rognone trifolato con la panna.
Per l'ennesima volta Qwilleran aprì la busta con le fotografie che stava per consegnare a Tait e le sparpagliò sulla scrivania. Erano state scattate col grandangolare e rendevano bene le magnifiche stanze e i mobili di lusso, oltre al¬le giade. C'era una fotografia per¬fetta della rara teiera bianca e ce n'era una anche dell'uccello posa¬to sulla groppa del leone. C'erano quelle della scrivania nera, di eba¬no e marmo nero dalle pesanti de-corazioni di bronzo dorato, il ta¬volo sorretto da una sfinge e le poltrone di seta bianca che non avevano l'aria di essere comode.
Koko si strofinò contro le cavi¬glie del giornalista.
— Che cos'hai in testa? Ti ho preparato la colazione. Torna a mangiare. In questi ultimi giorni non hai quasi toccato cibo.
Il siamese inarcò la groppa, in¬curvò la coda a punto interrogati¬vo e cominciò ad andare avanti e indietro sulle scarpe di Qwilleran.
— Oggi arriverà la tua compa¬gna di giochi! — gli disse. — Una gattina un po' strabica. Forse do¬vrei portarti con me. Vuoi che ti metta l'imbragatura e ti porti a spasso?
Koko prese a saltellare, for¬mando degli otto con le lunghe zampe eleganti.
— Prima devo fare un altro bu¬co nella tua imbragatura.
In cucina non c'erano utensili per forare cinghie di cuoio. Nes¬sun punteruolo, nessun coltellino per il ghiaccio, nessun cacciavite e nemmeno un antiquato apriscato¬le. Qwilleran eseguì l'operazione con la punta di una limetta.
— Ecco! — esclamò alla fine andando a cercare Koko. — Ti sfido a venirne fuori... Be', dove diavolo ti sei cacciato?
Si udì un fruscio e qualcosa che sembrava una leccata di lingua. Lui si girò di scatto: Koko era sul ripiano della scrivania, intento a leccare una foto.
— Ehi! — urlò, e il gatto saltò a terra e si allontanò a grandi balzi come una lepre.
Qwilleran osservò le fotografie. Soltanto una era malridotta. — Cattivo gatto! — esclamò. — Hai rovinato questa bella foto.
Koko si era messo sotto il tavo¬lino, raggomitolato.
Aveva leccato con la sua lin¬guetta ruvida l'armadio Biedermeier. La superficie della foto era ancora appiccicosa. Osservato da una certa prospettiva, il danno era quasi invisibile, ma quando la luce la colpiva in un certo modo si poteva vedere il punto non più lu¬cido dove la carta si era legger¬mente gonfiata.
Nel guardarla più da vicino, si stupì di tutti i dettagli che si vede¬vano nell'immagine scattata da Bunsen. La venatura del legno ri¬saltava alla perfezione e, quale che fosse stata l'illuminazione usata dal fotografo, il mobile ave¬va una qualità tridimensionale. Il metallo sbalzato attorno alla piccola serratura appariva nettamen¬te in rilievo. Una sottile linea d'ombra accentuava la parte infe¬riore del cassetto.
Lungo il pannello laterale si ve¬deva un'altra linea scura che il giornalista non aveva notato pri¬ma. Era come se tagliasse il le¬gno, e appariva priva di senso estetico e di funzionalità.
Avvertì una vibrazione nei baf¬fi e se li lisciò nervosamente. Poi afferrò Koko e lo cacciò nell'imbragatura.
— Andiamo! — disse. — Hai leccato una cosa che mi ha dato delle idee!
Il tragitto in taxi fino a Muggy Swamp fu lungo e costoso. Qwilleran ascoltava il ticchettio del tassametro chiedendosi se avreb¬be potuto mettere quella cifra sul conto spese. Il gatto stava sul se¬dile accanto a lui ma appena il veicolo imboccò il vialetto di ac¬cesso di casa Tait, si mise all'erta. Si sollevò sulle zampe posteriori, posò quelle anteriori sul finestri-no e rimase immobile a guardare fuori.
Qwilleran disse all'autista: — Per favore, mi aspetti. Voglio che mi riporti in città. Probabilmente ci metterò una mezz'oretta.
— Ha qualcosa in contrario se vado a far colazione al bar della stazione? — chiese l'uomo. — Blocco il tassametro.
Qwilleran si cacciò il gatto sotto il braccio sinistro, si avvolse il guinzaglio attorno alla mano sinistra e suonò il campanello. Mentre aspettava si guardò attorno e notò che aleggiava un'aria di trascura¬tezza: l'erba aveva un gran biso¬gno di essere tagliata e foglie sec¬che e gialle, le prime della stagio¬ne, volteggiavano per il cortile. I vetri delle finestre erano sporchi. Quando la porta si aprì, sulla soglia comparve un uomo diverso da quello che lui conosceva. No¬nostante avesse il volto acceso, Tait appariva teso e stanco. I ve¬stiti mal ridotti e le scarpe da ten¬nis formavano un contrasto assur¬do con l'eleganza dell'atrio tutto marmo bianco e nero. Sui riqua¬dri si vedevano delle impronte di fango essiccato.
— Entri — disse Tait. — Stavo mettendo via alcune cose. — E in¬dicò con un gesto di scusa il pro¬prio abbigliamento.
— Ho portato Koko — dichia¬rò con pacatezza Qwilleran. — Ho pensato che potrebbe esserle utile per trovare l'altro gatto. — E pensò: "È andato storto qualco¬sa. Oppure è spaventato... O è stato interrogato dalla polizia. Che abbiano collegato l'omicidio dell'arredatore con il furto delle giade?".
— L'altro gatto è in casa. È chiuso nella lavanderia.
Koko si agitò un po' e Qwille¬ran lo trasferì sulla spalla per consentirgli di guardarsi ben at¬torno.
Avvertiva la tensione nel corpicino dell'animale e una sorta di vibrazione che faceva pensare a una corrente elettrica a basso vol¬taggio.
Porse a Tait la busta con le foto e accettò un invito poco caloroso a entrare. Il soggiorno aveva subito una trasformazione notevole. Le poltrone di seta bianca erano state coperte con teli contro la polvere. I drappeggi alle finestre erano ab¬bassati e le bacheche contenenti le giade erano buie e vuote.
Nella stanza in penombra era accesa una sola lampada. Sulla scrivania, dove evidentemente Tait stava lavorando, c'era un re¬gistro aperto e la collezione delle giade meno preziose era sparpa¬gliata sul ripiano: i primitivi ra¬schietti, gli scalpelli e le lame.
Tait tirò via un riparo contro la polvere da una sedia e fece cenno al giornalista di prendere posto. Poi sedette dietro la scrivania e aprì la busta. Qwilleran diede un'occhiata al registro che gli sta¬va davanti capovolto: si trattava del catalogo della collezione di giade; le annotazioni erano fatte con una grafia ordinata e legger¬mente inclinata.
Mentre il collezionista esamina¬va le foto, Qwilleran lo osservava. Si disse che non aveva un'espres¬sione addolorata. Era stremato. Quell'uomo non dormiva bene. Il suo piano non funzionava a do¬vere.
Tait continuava a guardare le foto, la bocca contratta, il respiro affannoso.
— Sono buone, vero? — chiese Qwilleran.
— Sì — mormorò l'altro.
— I particolari risaltano in ma¬niera sorprendente.
— Non mi ero reso conto che il suo amico ne avesse scattate tante.
— Ne facciamo sempre di più di quelle che poi usiamo.
Qwilleran lanciò un'occhiata di sotto le palpebre all'armadio. Non c'era nessuna linea scura lun¬go il pannello laterale. Almeno, da dove si trovava ora, non riusci¬va a vederla.
Tait disse: — La scrivania è ve¬nuta molto bene.
— Ha molto contrasto. Peccato che non ci siano foto dell'armadio Biedermeier. — Osservò attenta¬mente l'altro. — Non so che cosa possa essere successo. Ero sicuro che Bunsen l'avesse fotografato.
Tait contrasse gli angoli della bocca. — È un bel mobile, appar¬teneva a mio nonno.
Koko cominciò ad agitarsi di nuovo ed emise una flebile prote¬sta. Il giornalista si alzò, passeg¬giando avanti e indietro e accarez¬zandogli la groppa morbida. — È la prima volta che questo gatto va in visita. Mi stupisce che sia così beneducato. — Si avvicinò all'ar¬madio, ma non riuscì a vedere nessuna linea scura.
— Grazie per le foto — disse Tait. — Vado a prendere l'altro gatto.
Quando il collezionista ebbe la¬sciato la stanza, la curiosità di Qwilleran arrivò al culmine. Si avvicinò all'armadio ed esaminò il pannello laterale. Effettivamente c'era un'incrinatura verticale che andava da cima in fondo ma era praticamente invisibile. Era più facile sentirla che vederla, come appurò con le dita. Solo la mac¬china fotografica con il suo obiet¬tivo straordinario era riuscita a in¬dividuare quella linea di congiun¬zione sottile come un capello.
Koko ora si stava agitando mol¬to e Qwilleran lo posò a terra, continuando a tenere il guinzaglio per mano. A titolo sperimentale passò la mano libera sull'incrina¬tura, pensando che doveva per forza trattarsi di uno scomparto segreto. Ma come si apriva? Non c'era alcun meccanismo visibile.
Guardò verso l'atrio. Rimase immobile per sentire se si avvici¬nava qualcuno, poi si concentrò sull'armadio. Si trattava di un'a¬pertura a pressione? Ai vecchi tempi cose del genere erano co¬muni. Quel mobile aveva più di cent'anni.
Premette il pannello laterale e si rese conto che aveva un minimo di gioco, come se non fosse fissato bene. Tastò più in alto. Avvertì un vago scricchiolio, come un ru¬more di legno vecchio e secco. Premette con forza il pannello lun¬go la linea dell'incrinatura, prima a livello della spalla, poi più in su, quindi più in basso. Sollevò il braccio e premette in cima. L'anta si schiuse con un cigolio faticoso...
Si era aperta solo di pochi cen¬timetri. Qwilleran allargò il varco quanto bastava per vedere che co¬sa c'era all'interno. Le sue labbra si spalancarono in un'esclamazio¬ne silenziosa. Per un attimo rima¬se allibito. Fu pervaso da un brivi¬do e non fece attenzione ai passi che si avvicinavano. Ma Koko aveva rizzato le orecchie, allarma¬to. Scarpe da tennis stavano avan¬zando silenziosamente lungo il corridoio, ma Qwilleran non se ne rese conto. Non vide Tait entrare nella stanza, fermarsi di colpo e di colpo avventarsi. Udì soltanto un lacerante strillo da soprano, e poi... fu troppo tardi.
Tutto gli si annebbiò davanti agli occhi, ma scorse uno spunto¬ne, udì soffiare e poi degli urli raggelanti. Seguì un lampo di lu¬ce abbagliante e la lampada finì in pezzi per terra. Nell'oscurità vide una mano che impugnava lo spuntone, la macchia bianca vorticante, si sentì tirare violente¬mente il braccio, uno strattone che gli causò un dolore lancinan¬te, avvertì lo sgocciolio del san¬gue e poi qualcosa che sembrava lo scarico di un getto di vapore. Nient'altro.
Il giornalista si appoggiò all'ar¬madio e guardò il pavimento. Il sangue gli stava colando dalle di¬ta. Il guinzaglio gli si era conficca¬to nel palmo della mano e tre me¬tri e mezzo di filo di nylon erano attorcigliati attorno alle gambe di G. Verning Tait, che giaceva a terra ansante. Koko, legato all'al-tro capo del guinzaglio, si dime¬nava per liberarsi dall'imbragatura. Nella stanza silenziosa si udiva solo il respiro pesante del prigio¬niero e il sibilo di una gatta che stava in cima al mobile Biedermeier.

21

L'infermiera del pronto soccorso del Fluxion medicò e bendò la fe¬rita alla mano di Qwilleran.
— Temo che sopravvivrà — gli disse scherzosamente. — È solo un graffio.
— Ho perso molto sangue. Quello spuntone era tagliente co¬me un rasoio e lungo trenta centi¬metri. Doveva trattarsi di un ar¬pione di giada usato per trafiggere le foche nell'Artico.
— Mi sembra un'arma molto appropriata, date le circostanze — dichiarò la donna, lanciando un'occhiata affettuosa ai baffi del giornalista.
— Sono stato fortunato a non essermelo preso nello stomaco!
— La ferita sembra pulita — lo consolò l'infermiera. — Ma se do¬vesse darle fastidio vada da un medico.
— Ometta il solito discorso di rito... lo conosco a memoria.
Lei gli applicò l'ultima striscetta di cerotto, poi si scostò per am¬mirare il proprio capolavoro.
Gli aveva fatto una fasciatura di grande effetto che non peggiorò la sua abilità di dattilografo ma che fece molto colpo quando la sera stessa raccontò la sua avven¬tura a un pubblico attento al Press Club. A un inusitato numero di giornalisti e impiegati del Fluxion venne una gran sete alle 17.30 e Qwilleran fu attorniato da un mucchio di persone al bar. Il suo articolo era comparso nell'edizio¬ne del pomeriggio, ma i suoi col¬leghi sapevano che i migliori par¬ticolari di una storia non vengono mai dati in pasto ai lettori.
Con malcelato orgoglio, Qwil¬leran dichiarò: — È stato Koko che mi ha messo la pulce nell'o¬recchio. Ha leccato una delle foto fatte da Bunsen e ha concentrato la sua attenzione sullo scomparto segreto.
— Ho usato luci di taglio — spiegò Bunsen. — Ho sistemato un flash a sinistra della macchina, con un'angolazione di novanta gradi che ha messo in risalto l'in¬crinatura. L'obiettivo è riuscito a coglierla mentre l'occhio non ce l'avrebbe mai fatta.
— Quando ho scoperto lo scomparto segreto pieno di giade sono rimasto così attonito da non accorgermi dell'arrivo di Tait. La prima cosa che ho sentito sono state le urla del gatto e poi ho vi¬sto quel tipo avventarmisi contro con un arpione da esquimesi, uno spuntone lungo così... — indicò con le dita una lunghezza esagera¬ta di trenta centimetri. — Koko soffiava, l'altro gatto girava come impazzito ed ecco il pazzo che ve¬niva verso di me con quell'arma appuntita... Ogni cosa si è sfoca¬ta, poi si è sentito un gran frago¬re. Tait è crollato sul pavimento. — Qwilleran mostrò la mano fa-sciata. — Deve aver lanciato l'ar¬pione prima di cadere.
Arch Rìker disse: — Racconta come ha fatto il gatto a farlo in¬ciampare e cadere.
Il giornalista si accese la pipa con molta calma, mentre il pub¬blico aspettava che continuasse il racconto riservato ai colleghi.
— Koko era legato a un lungo guinzaglio e correva come un matto in tondo, così velocemente che tutto ciò che sono riuscito a vedere è stato una specie di anello di fumo a mezz'aria. Quando Tait è finito a terra aveva le gambe im¬prigionate in tre metri e mezzo di nylon.
— Fantastico! — urlò Bunsen.
— Un vero peccato non esser sta¬to lì con la macchina fotografica.
— Ho raccolto l'arpione di gia¬da e ho lasciato Tait a terra, poi ho chiamato la polizia con il tele¬fono dorato in stile francese.
— Quando fai le cose, le fai al¬la grande! — commentò Bunsen.
Subito dopo arrivò Lodge Kendall dalla sede di polizia. — Qwill aveva ragione sin dall'inizio — disse rivolto agli astanti. — Il ca¬meriere era innocente. Tait ha confessato alla polizia di aver spe¬dito Paolo in Messico con un biglietto di sola andata, poi ha tra¬sferito le giade nel cassetto segre-to e ne ha nascosta una sotto il let¬to di Paolo. Vi ricordate le valigie che erano sparite? Le aveva date lui al ragazzo.
— L'ha fatto per riscuotere i soldi dell'assicurazione?
— Proprio così. Tait non era un uomo d'affari molto abile. Aveva perso tutto il patrimonio della famiglia e aveva bisogno di una grossa cifra in contanti per in¬vestirla in un altro affare strampa¬lato... Ma c'è di più. Lui odia il Fluxion da quando abbiamo pub¬blicato la verità su quel processo per presunta paternità...
— Mi piacerebbe sapere per¬ché non ha sistemato la cosa sen¬za andare in tribunale.
— Ha tentato di farlo, ma si è trovato coinvolto in una sporca storia di politica. Sembra che ci fosse un altro Tait, un suo cugino candidato per quello stesso anno al Congresso, e che il processo sia stato tirato in ballo proprio in quel periodo per danneggiarlo. Qualcuno ha pensato che gli elet-tori non avrebbero distinto un Tait dall'altro, e a quanto pare è andata proprio così. Il cugino ha perso le elezioni.
Qwilleran chiese: — Tait ha detto alla polizia che progettava un viaggio in Danimarca?
— In sede non ne ha parlato nessuno.
— Bene — dichiarò Riker. — Rimandiamo a domani la prossima puntata. Adesso me ne vado a casa a mangiare.
— Io invece vado a servire a Koko un filet mignon... In fin dei conti mi ha salvato la vita.
— Non ti illudere — si intromi¬se Bunsen. — Stava solo rincor¬rendo quella gatta.
— L'ho fatta curare alla clinica veterinaria — spiegò il giornali¬sta. — Aveva una ferita infetta a una zampa. Probabilmente quel mascalzone l'ha cacciata fuori di casa a calci.
Per tutto il pomeriggio Qwilleran aveva vissuto in un'atmosfera di forte eccitazione, ma quando tornò a casa fu colto da una forte spossatezza. Anche Koko aveva avuto la stessa reazione. Stava sdraiato su un fianco, le zampe tese e rigide, un orecchio piegato sotto il muso. Sarebbe potuto passare per un gatto morto, se negli occhi semiaperti non ci fosse stato uno sguardo pensoso. Ignorò la cena.
Qwilleran andò a letto presto e i suoi sogni ebbero una stretta at¬tinenza con i fatti accaduti, molto realistici. Sognò che Percy gli sta¬va dicendo: "Qwill, tu e Koko avete fatto un lavoro così bello per il caso Tait che adesso voglia¬mo troviate l'assassino di David Lyke". E Qwilleran rispondeva: "Le indagini potrebbero portarci fino in Giappone, capo". E Percy ribatteva: "È ci andrete, se sarà necessario, con un conto spese senza limiti". Nel sonno i baffi di Qwilleran fremettero e così pure quelli del gatto. Anche Koko sta¬va sognando.
Sabato mattina, di buon'ora, mentre Qwilleran russava som¬messamente e il suo subconscio si dibatteva con il mistero della morte di Lyke, il telefono prese a squillare insistentemente. Quan¬do, infine, si svegliò raggiunse il comodino, trovò a tastoni il rice¬vitore e dall'altro capo del filo udì la voce della centralinista: — C'è una chiamata per il signor Ja¬mes Qwilleran da Aarhus, Dani¬marca.
— Sono io — gracchiò.
— Qwill, parla Harry — rim¬bombò una voce tonante da ol¬treoceano. — Abbiamo appena sentito la notizia!
— Davvero? In Danimarca?
— È arrivata per radio.
— È un vero peccato, era una persona simpatica.
— Di lui non so nulla — rispose Noyton. — Io conoscevo soltanto lei. Dev'essere impazzito.
— Chi è impazzito?
— Che c'è? Non si è ancora svegliato?
— Sono sveglio — rispose il giornalista. — Di chi sta parlan¬do?
— Lei è Qwill? È Qwilleran, vero?
— Penso di sì. Sono un po' in¬tontito, però. Lei parla dell'omi¬cidio?
— Omicidio? — urlò Noyton. — Quale omicidio?
Dopo un breve silenzio Qwilleran disse. — Non si stava riferen¬do a David Lyke?
— Sto parlando di G. Verning Tait. Cos'è successo a David?
— È morto. Gli hanno sparato lunedì sera.
— David morto? Mio Dio, chi è stato?
— Non si sa. È successo nel suo appartamento, a metà serata.
— Qualcuno si è introdotto in casa?
— Sembra di no.
— Chi mai potrebbe aver volu¬to uccidere David? Era una per¬sona favolosa.
— Che cos'ha sentito alla radio lei? — chiese Qwilleran.
— Dell'arresto di Tait. La fami¬glia della signora Tait non voleva crederci, quando la notizia si è ri¬saputa.
Qwilleran si eresse di colpo. — Conosce la famiglia della signora?
— Li ho appena conosciuti. Bella gente. Il fratello lavora con me per quell'affare segreto a cui le avevo accennato. Non se lo di¬mentichi: le ho promesso che farò fare lo scoop al Fluxion.
— Che genere di affari?
— Sto finanziando un fantasti¬co procedimento di fabbricazio¬ne. Qwill, diventerò l'uomo più ricco del mondo.
— È una nuova invenzione?
— Una scoperta scientifica. Mentre il resto del mondo perde tempo con i progetti spaziali, i da¬nesi stanno facendo qualcosa, qui e adesso per l'umanità.
— Sembra fantastico...
— Fino a quando non sono ar¬rivato qui non sapevo di che cosa si trattasse. Ho creduto alla sua parola solo quando mi ha detto che era qualcosa che avrebbe scosso tutto il mondo.
— La parola di chi?
— Della signora Tait.
— Lei le aveva rivelato la sco¬perta di suo fratello?
— Be', vede, il dottor Thorvaldson aveva bisogno di finanzia¬menti e la signora Tait sapeva che il marito non aveva tutto quel de¬naro. Pensava che io fossi la per¬sona adatta. Ovviamente mi ha chiesto di essere pagata per que¬sto... sottobanco, diciamo. — Noyton si interruppe — È chiaro che tutto quanto le dico adesso ri¬mane tra noi.
— Tait doveva venire in Dani¬marca. Probabilmente intendeva investire il denaro dell'assicura¬zione.
Ci furono delle interferenze sulla linea.
— È sempre all'apparecchio? — chiese il giornalista.
Ora la voce di Noyton era di¬ventata molto lontana.
— Senta, la richiamo io doma¬ni... Ha capito? Non appena sarà tutto sistemato legalmente... La linea telefonica è in pessime con¬dizioni. Spero che acciuffino l'as¬sassino di David. Arrivederci. Le ritelefonerò entro ventiquattr'ore.
Era sabato, ma Qwilleran andò ugualmente in ufficio per preparare il nuovo numero di Belle Di¬more. Adesso era fermamente de¬ciso a non permettere che Fran Unger gli portasse via la rivista. Sperava anche di vedere Percy per apostrofarlo con un "Te l'ave¬vo detto?", ma il direttore era an¬dato a New York per prendere parte a una riunione di case editri¬ci. Durante la giornata Qwilleran fece due importanti telefonate: una per avere notizie della gatta e l'altra allo studio Middy per invi¬tare a cena Cokey.
Quando nel tardo pomeriggio rientrò a casa per dare da mangia¬re a Koko, si trovò davanti una scena di frenetica attività. Il sia¬mese faceva delle folli corse e dei balzi incredibili per tutto l'appar¬tamento. Giocava con il suo topo fatto in casa, un gioco imparenta¬to con l'hockey, la pallacanestro, il tennis e anche con qualche ele¬mento di lotta libera. Faceva ro¬tolare quell'oggetto piccolo e gri¬gio sul pavimento lustro, ci si but¬tava sopra, lo gettava per aria, correva attraverso la stanza, lo in¬seguiva, lo placcava al volo, lo ar¬tigliava tra le zampe anteriori, lo faceva scorrere avanti e indietro come in estasi, fino a che il topino sfuggiva alla sua presa, dando l'avvio a una nuova caccia.
Quando Koko aveva un pubbli¬co era portato a ostentare le pro¬prie prodezze. Qwilleran si era fermato a osservarlo, ammirato. Il gatto riprese il topo per tutta la stanza, gli diede un colpo ben centrato e fece un gol, proprio sotto il vecchio cassettone spa¬gnolo. Poi si affrettò a infilarcisi sotto per riprenderselo, guardò nello spazio tra mobile e pavi¬mento e sollevò la testa emetten¬do un lungo miagolio che era una richiesta di aiuto.
— Non c'è problema — disse il giornalista. — Questa volta sono attrezzato.
Andò a prendere dallo sgabuz¬zino l'ombrello che fortunata¬mente la signora Hawkins aveva dimenticato. La prima spazzata sotto il cassettone portò fuori sol¬tanto polvere, e Koko aumentò il volume delle sue esigenti lamen¬tele. Qwilleran si distese per ter¬ra, cacciò la punta dell'ombrello negli angoli più lontani, e riuscì a far riemergere il bottone di giada che era scomparso qualche giorno prima. Koko, ora, faceva un cla¬more violento e insistente.
La successiva spazzata ebbe co¬me esito la scoperta di una cosa rosa.
Non esattamente rosa, si disse Qwilleran, ma quasi... E aveva un aspetto vagamente familiare. Aveva un'idea abbastanza precisa di che cosa potesse essere e sa¬peva benissimo com'era finita là sotto.
— Koko — disse severamente. — Che cosa ne sai di questo?
Prima che il gatto potesse ri¬spondergli con un verso gutturale e mettersi a lottare con un nemico invisibile, Qwilleran raggiunse il telefono e formò rapidamente un numero.
— Cokey — disse — sono in ri¬tardo per venirti a prendere. Per¬ché non salti su un taxi e non vieni al Press Club?... No, no, solo una piccola emergenza di lavoro che devo sistemare... D'accordo, ci vediamo tra poco, e può darsi che abbia delle novità per te.
Poi si girò verso il gatto — Koko, quando hai mangiato questa roba rosa? E dove l'hai trovata?

Quando Qwilleran arrivò al Press Club, Cokey lo aspettava nell'atrio, seduta su uno dei logori divani di pelle.
— Ci sono guai — gli disse. — Te lo leggo in faccia.
— Aspetta che ci diano un ta¬volo e ti spiegherò. Sediamoci nella saletta dei cocktail. Aspetto una telefonata.
Poi raggiunsero un tavolo appa¬recchiato con una tovaglia a scac¬chi bianchi e rossi rammendata qua e là.
— C'è uno sviluppo inatteso ri¬guardo all'omicidio di David — cominciò Qwilleran. — E c'è im¬plicato Koko. Era nell'apparta¬mento di David quando è stato sparato il colpo mortale, ed evi¬dentemente ha mangiato della la¬na. Quella notte, quando l'ho ri¬portato a casa, sembrava strano. Io ho attribuito la cosa allo spa¬vento che si era preso. Adesso, invece, sono portato a pensare che si trattasse di mal di stomaco.
Suppongo che anche i gatti abbia¬no mal di stomaco, ogni tanto.
— Non ha digerito la lana?
— Forse la lana ce l'avrebbe fatta a digerirla, ma nel tessuto c'era qualcosa d'altro. Dopo che l'ho riportato a casa deve aver vo¬mitato tutto e poi, probabilmen¬te, ha cacciato il vomito sotto il cassettone spagnolo. L'ho scoper¬to un'ora fa.
Cokey si batté le mani sulle guance. — E tu sei riuscito a rico¬noscere di che cosa si trattava? Non dirmi che ci sei riuscito...
— Sì, e penso che anche a te quella cosa sarebbe apparsa fami¬liare. Era della lana giallo-rosa con dei fili di metallo dorato.
— Natalie Noyton! L'abito tes¬suto a mano che portava al party!
Qwilleran annuì. — A quanto pare, lunedì sera Natalie era nel-l'appartamento di David e può darsi che ci fosse ancora quando gli hanno sparato. Comunque, questa informazione doveva esse¬re passata alla polizia, e così ho portato alla centrale quella lana color pesca. Per questo ho fatto tardi.
— Che cos'hanno detto?
— Quando io me ne sono anda¬to loro si stavano precipitando a Lost Lake Hills. Il nostro cronista di nera ha promesso di telefonar¬mi, se ci fossero stati sviluppi.
— Mi chiedo come mai Natalie non si sia presentata spontanea¬mente alla polizia a far la sua di¬chiarazione.
— È quello che preoccupa an¬che me — rispose il giornalista. — Se lei avesse avuto delle informa¬zioni da darmi e il killer lo avesse saputo, avrebbe potuto cercare di chiuderle la bocca.
Il soffitto a volte del club molti¬plicava le conversazioni della folla del sabato sera, trasformandole in un fragoroso boato. Ma anche questo fu sommerso da un annun¬cio proveniente da un altoparlan¬te.
— Il signor Qwilleran è deside¬rato al telefono.
— È il nostro uomo che fa il turno di notte alla centrale. Sarò di ritorno subito.
Si precipitò verso la cabina. Quando tornò al tavolo nei suoi occhi c'era un'espressione seria.
— Cos'è successo, Qwill? Qualcosa di terribile?
— La polizia è arrivata troppo tardi.
— Troppo tardi?
— Troppo tardi per trovare Na¬talie viva.
— Assassinata?
— No, si è tolta la vita. Sem¬bra che si tratti di una dose ecces¬siva di alcool e di sonniferi.
A Cokey sfuggì un gemito me¬sto. — Ma perché? Perché?
— Pare che abbiano trovato la spiegazione nel suo diario. Era innamorata senza speranza del suo arredatore e lui non era certo tipo da incoraggiare una relazio¬ne.
— Lo so...
— Natalie pensava che fosse di¬sposto a sposarla, dal momento che lei aveva ottenuto il divorzio. Desiderava questo al punto di aver accettato le condizioni impo¬stele dal marito. Niente alimenti e la rinuncia ad avere con sé il bam¬bino. Poi lo scorso fine settimana si è resa conto che David non avrebbe mai sposato né lei né al¬tre donne. Quando Odd Bunsen e io siamo andati a casa sua lunedì mattina e lei si è rifiutata di ve¬derci, doveva essere sconvolta, probabilmente colta da un panico disperato.
— Io sarei stata accecata dalla furia — dichiarò Cokey.
— È stata tanto folle da illuder¬si di poter sistemare tutto ucci¬dendo David.
— Ma allora è stata Natalie?
— Sì, è stata Natalie. Subito dopo l'omicidio è tornata a casa, ha allontanato la cameriera e de¬ve aver passato le successive ventiquattr'ore in una sorta di infer¬no, prima di farla finita. Era mor¬ta da martedì sera.
Seguì un lungo silenzio.
Di lì a un po' Qwilleran disse: — La polizia ha trovato nel suo armadio l'abito color pesca. Allo scialle mancavano molte frange.
Quando portarono il menu, Cokey bisbigliò: — Non ho fame. Su, andiamo a fare due passi e parliamo d'altro.
Passeggiarono e parlarono di Koko e della nuova gatta che chiamavano ora Yu ora Freja.
— Spero che saranno felici in¬sieme — disse Cokey.
— Spero che saremo tutti felici insieme — dichiarò lui. — Io le cambierò il nome in Yum Yum. E devo cambiare anche il tuo.
La ragazza lo guardò con aria sognante.
— Vedi, a Koko non piace che ti chiami Cokey. Trova questo no¬me troppo simile al suo.
— Allora sarà sufficiente che tu mi chiami Al — disse Alacocque Wright, in tono sommesso e mesto, inarcando le sopracciglia con aria rassegnata.

Era lunedì quando la notizia dell'investimento di Harry Noyton in Danimarca comparve sulla prima pagina del Daily Fluxion, a firma di Qwilleran. Nella edizione del mattino per un errore di stam¬pa invece della parola "diversi" si leggeva la parola "discutibili". Ma si trattava di uno di quegli errori così comuni nei giornali che se non ci fosse stato sarebbe apparso persino deludente.
"Harry Noyton, finanziere e promotore di discutibili affari" di¬ceva l'articolo, "ha acquisito i di¬ritti internazionali per la fabbrica¬zione e la produzione di una gran¬de scoperta fatta da uno scienzia¬to danese, una birra senza calorie e contenente vitamina C."
Quello stesso giorno, durante una piccola cerimonia al Press Club, a Qwilleran fu consegnato un tesserino di socio onorario intestato a Koko. Su di esso c'era la fotografia del siamese, con gli oc¬chi spalancati, le orecchie ritte e i baffi tesi.
— Gliel'ho scattata quella sera nell'appartamento di David Lyke — disse Bunsen.
E Lodge Kendall aggiunse: — E non pensare che mi sia stato fa¬cile convincere il capo della poli¬zia e quello dei pompieri a firma¬re quel tesserino!

Quando quella sera Qwilleran tornò a Villa Verandah, entrò nel-l'appartamento tenendo le dita in¬crociate.
Nel pomeriggio aveva portato via Yum Yum dalla clinica veteri¬naria e i due gatti avevano avuto parecchie ore di tempo per annu¬sarsi, girarsi attorno con circospe¬zione e familiarizzare.
Nel salone regnava il silenzio. Sulla poltrona verde danese era sdraiata Yum Yum, dolce e delica¬ta. Il musetto era un commovente triangolo scuro e gli occhi sembra¬vano grandi cerchi di un viola az¬zurrino vagamente strabici.
Le orecchie marrone erano puntate in modo civettuolo verso l'alto e là dove il suo manto vellu¬tato formava triangoli di contra¬sto col ventre bianco si vedeva un ciuffo di peli morbidi come piu¬mini.
Koko era seduto sul ripiano del tavolino ben eretto, e in posa au¬torevole, con un collarino di peli arruffati attorno al collo.
— Sei un bel furbacchione, pe¬rò! — esclamò Qwilleran. — Non c'è nulla di nevrotico in te e non c'è mai stato. Hai sempre saputo quello che stavi facendo.
Koko saltò giù dal tavolino e con andatura tranquilla si avvici¬nò a Yum Yum, balzando sulla poltrona. Rimasero immobili, l'uno accanto all'altro, nella me¬desima posizione, come due fermalibri, con le code arrotolate verso destra, le orecchie ritte a mo' di diademi e gli occhi che ignoravano Qwilleran con osten¬tata noncuranza. Poi Koko diede due affettuose leccatine sul muso di Yum Yum e abbassò il pro¬prio inarcando elegantemente il collo.
Socchiuse gli occhi che diven¬nero l'immagine dell'estasi felina, mentre la femminuccia, capita l'antifona, cominciava a lavargli l'interno delle orecchie con la lun¬ga linguetta rosata.

FINE