IL CACCIATORE CELESTE
Roberto Calasso
I
AL TEMPO DEL GRANDE CORVO
[15] Al tempo del Grande Corvo, anche l’invisibile era visibile. E continuamente si trasformava. Gli animali, allora, non erano necessariamente animali. Poteva darsi il caso che fossero animali, ma anche uomini, dèi, signori di una specie, demoni, antenati. E così gli uomini non erano necessariamente uomini, ma potevano anche essere la forma transitoria di qualcos’altro. Non c’erano accorgimenti per riconoscere chi appariva. Occorreva conoscerlo già, come si conosce un amico o un avversario. Tutto avveniva all’interno di un solo flusso di forme, dai ragni ai morti. Era il regno della metamorfosi.
Il mutamento era continuo, come dopo avvenne soltanto nella caverna della mente. Cose, animali, uomini: distinzioni mai nette, sempre provvisorie. Quando una vasta parte dell’esistente si ritirò nell’invisibile, non per questo cessò di accadere. Ma diventò più facile pensare che non accadesse.
Come poteva l’invisibile tornare a essere visibile? Animando il tamburo. Quella pelle tesa di un animale morto era la cavalcatura, era il viaggio, il turbine dorato. Guidava là dove le erbe ruggiscono, dove i giunchi gemono, [16] dove neppure un ago potrebbe conficcarsi nello spessore del grigio.
Quando la caccia ebbe inizio, non c’era un uomo che inseguiva un animale. C’era un essere che inseguiva un altro essere. Nessuno avrebbe potuto dire con certezza chi erano l’uno e l’altro. L’animale inseguito poteva essere un uomo trasformato o un dio o semplicemente un animale o uno spirito o un morto. E, un giorno, alle tante invenzioni gli uomini ne aggiunsero un’altra: cominciarono a circondarsi di animali che si adattavano agli uomini, mentre per un tempo lunghissimo erano stati gli uomini a imitare gli animali. Diventarono stanziali – e già un po’ stantii.
Perché tanta esitazione prima di intraprendere la caccia all’Orso? Perché l’Orso potrebbe anche essere un Uomo. Cauti bisognava mostrarsi nel parlare, perché l’Orso udiva tutto quello che si diceva di lui, per quanto lontani si fosse. Anche quando si ritirava nel suo antro, anche quando dormiva, l’Orso continuava a seguire gli eventi del mondo. «La terra è l’orecchio dell’Orso» si diceva. Quando ci si riuniva per decidere la caccia, l’Orso non veniva mai nominato. E in genere, se si parlava dell’Orso, non lo si chiamava mai con il suo nome: era «il Vecchio», «il Vecchio Nero», «il Nonno», «il Cugino», «il Venerabile», «la Bestia Nera», «lo Zio». Chi si preparava alla caccia evitava di aprir bocca. Prudenti, concentrati, sapevano che il minimo suono sarebbe bastato a rovinare l’impresa. Se l’Orso appare inaspettatamente nella foresta, è consigliabile farsi da parte, togliersi il cappello e dire: «Vai per la tua via, molto onorevole». Altrimenti si tenta di ucciderlo. Tutto, dell’Orso, è prezioso. Il suo corpo è una medicina. Quando riuscivano ad abbatterlo, subito fuggivano rapidissimi. Poi riapparivano sul luogo, come per caso, come se stessero passeggiando. E scoprivano [17] con grande stupore che ignoti avevano ucciso l’Orso.
Il primo essere divino del quale venne proibito di pronunciare il nome fu l’Orso. In questo il monoteismo non fu un’innovazione, ma una ripresa, un irrigidimento. La novità fu il divieto sulle immagini.
Parlavano con l’Orso prima di attaccarlo – o subito dopo –, sapendo che l’Orso capiva ogni loro parola. «Non siamo stati noi» dicevano alcuni. Ringraziavano l’Orso perché si lasciava uccidere. Spesso si scusavano. Alcuni giungevano a dire: «Sono povero, per questo ti sto cacciando». Alcuni cantavano, mentre uccidevano l’Orso, in modo che l’Orso, morendo, potesse dire: «Mi piace quella canzone».
Appendevano il teschio dell’Orso fra i rami di un albero, a volte con tabacco fra i denti. A volte ornato con strisce rosse. Gli attaccavano nastri, chiudevano le ossa in un fagotto e le appendevano a un altro albero. Se un osso andava perduto, lo spirito dell’Orso ne riteneva responsabile il cacciatore. Il naso finiva in qualche luogo segreto, nei boschi.
Quando catturavano un cucciolo dell’Orso lo mettevano in gabbia. Spesso veniva allattato dalla moglie del cacciatore. Così cresceva, finché un giorno la gabbia veniva aperta e «il caro piccolo essere divino» era invitato alla festa in cui sarebbe stato sacrificato. Tutti danzavano e battevano le mani intorno all’Orso. La donna che lo aveva allattato piangeva. Poi un cacciatore rivolgeva all’Orso qualche parola: «O tu divino, tu sei stato mandato nel mondo perché noi ti cacciassimo. O tu preziosa piccola divinità, noi ti adoriamo; ascolta la nostra preghiera. Ti abbiamo nutrito e ti abbiamo allevato con tante pene, perché ti amiamo. Ora che sei diventato grande, stiamo per mandarti da tuo padre e tua madre. Quando giungerai da loro, parla bene di noi e digli [18] quanto siamo stati gentili; per favore torna da noi e noi ti sacrificheremo». Poi lo uccidevano.
Il pensiero più antico, quello che per la prima volta non sentì il bisogno di offrirsi come racconto, si manifestò nella forma degli aforismi sulla caccia. Come un sussurro, fra tende e fuochi, come filastrocche si sono trasmessi:
«La selvaggina è simile agli esseri umani, solo è più santa».
«La caccia è cosa pura. La selvaggina ama gli uomini puri».
«Come potrei cacciare, se prima non disegnassi?».
«Il più grande pericolo della vita è che il cibo degli uomini è tutto fatto di anime».
«L’anima dell’Orso è un Orso in miniatura che si trova nella sua testa».
«L’Orso potrebbe parlare, ma preferisce astenersene».
«Chi parla con l’Orso chiamandolo per nome lo rende gentile e innocuo».
«Un inetto che sacrifica prende più selvaggina di un abile cacciatore che non sacrifica».
«Gli animali che si cacciano sono come donne che civettano».
«Le femmine degli animali seducono i cacciatori».
«Ogni caccia è caccia di anime».
All’inizio non era neppure chiaro a che cosa servisse la caccia. Come un attore sulla scena che prova a entrare nel personaggio, provavano a diventare predatori. [19] Ma certi animali correvano più veloci. Altri erano imponenti e guardinghi. Uccidere, poi, che cos’era? Non molto diverso da uccidersi. Se l’uomo diventava l’Orso, quando lo uccideva colpiva se stesso. E ancora più oscuro era il rapporto fra uccidere e mangiare. Chi mangia fa sparire qualcosa. Questo era perfino più misterioso dell’uccidere. Dove va ciò che sparisce? Va nell’invisibile. Che alla fine pullula di presenze. Non c’è nulla di più animato dell’assenza. Che cosa fare, allora, verso tutti quegli esseri? Forse occorreva facilitare il loro passaggio all’assenza, accompagnarli per un tratto del loro viaggio. L’uccisione era come un saluto. E, come ogni saluto, esigeva certi gesti, certe parole. Cominciarono a celebrare sacrifici.
La caccia nasce come atto inevitabile, finisce come atto gratuito. Elabora una sequenza di pratiche rituali che precedono l’atto (l’uccisione) e lo seguono. L’atto può soltanto essere accerchiato nel tempo, come la preda nello spazio. Ma il corso della caccia stessa è innominabile e indominabile, come il coito. Non si sa che cosa avviene fra il cacciatore e la preda quando si affrontano. È certo però che, prima della caccia, il cacciatore compie gesti di devozione. E, dopo la caccia, sente l’esigenza di scaricarsi di una colpa. Accoglie nella sua capanna l’animale ucciso come un nobile ospite. Davanti all’Orso appena fatto a pezzi, il cacciatore sussurra una preghiera dolcissima, che dà le vertigini: «Permettimi anche in avvenire di ucciderti».
La preda esige la messa a fuoco: lo sguardo che isola, restringe il campo visivo in un punto. È una conoscenza che procede per cesure successive, ritagliando figure da un fondo. Circoscrivendole, le isola come bersaglio. Anzi, il gesto del ritagliarle è già il gesto che le colpisce. Altrimenti non nasce la figura. I miti sono ogni volta un sovrapporsi di profili recisi. Spingendo all’estremo questo [20] modo della conoscenza, accumulando profili, ricomincia a tessersi la tela del fondo da cui furono strappati. Questa è la conoscenza del cacciatore.
Con la pastorizia e l’agricoltura, l’animale era soltanto animale, separato per sempre dall’uomo. Per i cacciatori, invece, l’animale era ancora un altro essere, né animale né uomo, cacciato da esseri che non erano né animali né uomini. Quando avvenne quell’evento che fu l’evento di ogni storia prima della storia, quando si compì il distacco da qualcosa che si sarebbe chiamato animale da parte di qualcosa che si sarebbe chiamato uomo, nessuno pensò che la sapienza – la vecchia e la nuova sapienza – potesse trovarsi se non in qualcuno che partecipasse delle due forme di vita. Fra le grotte e le foreste del Pelio, Chirone il Centauro divenne la fonte della sapienza, colui che più di ogni altro poteva insegnare la giustizia, l’astronomia, la medicina e la caccia. Era quasi tutto ciò che allora si poteva insegnare.
Per gli eroi allevati da Chirone, la caccia fu il primo elemento della paideía. Ma quella «educazione», quella prima prova della aretḗ, di quella «virtù» che poi così spesso sarebbe stata evocata, si svolgeva tutta al di fuori dei confini della società. E non era utile. La caccia che praticavano gli eroi non serviva a nutrire la comunità. Era un esercizio sanguinoso e solitario, praticato senza altro fine. Nella caccia l’animale si rivolta contro di sé e tenta di uccidersi. Prima che protagonisti di tante storie di metamorfosi, i grandi cacciatori furono essi stessi il risultato di una metamorfosi. Prima di uccidere il lupo o i topi, Apollo fu lupo e topo. Prima di uccidere le orse, Artemis era stata orsa. Il pathos della caccia, la complicità fra cacciatore e preda, risale all’origine, quando il cacciatore era egli stesso l’animale, quando Apollo fu generale di un esercito di topi e capo di un branco di lupi. Il fondamento della caccia fu una scoperta della logica: l’operare della negazione. Questa scoperta fondatrice e inebriante esigeva di essere perennemente ribadita, [21] ripercorsa. Mentre la vita della città pulsava, un’altra – in parallelo – le corrispondeva sulle montagne. Instancabili e solitari, Apollo e Artemis, e anche Dioniso, continuavano a cacciare. L’energia che sprigionavano i loro gesti era il sottinteso necessario, l’intelaiatura nascosta dietro gli scambi del mercato, il sonno delle famiglie, la fatica nei campi. Nulla di tutto ciò che costituiva la vita della città avrebbe potuto sussistere senza quelle corse, quegli agguati per i monti, senza quelle frecce scoccate e quel sangue. Si direbbe che la società non abbia mai sentito di essere sufficientemente viva, e forse reale, senza quella vita parallela e superflua, vagante, degli dèi cacciatori perduti nei boschi. Come l’orazione del monaco, la corsa silenziosa degli dèi cacciatori teneva in piedi le mura che cingevano la città: anzi, era quella corsa che la cingeva, come un mulinello perpetuo.
Gli uomini diventarono animali metafisici durante la caccia. L’agricoltura avrebbe aggiunto al pensiero soltanto un dato essenziale: il ritmo, l’alternarsi tra fiorire e appassire. Molto invece avrebbe contribuito al gravame della società sull’uomo. Le grandi città sono eredi di quei luoghi dove per la prima volta si tennero riserve di cibo in alti orci nei magazzini. I cacciatori non potevano che ignorare le riserve. Non ebbero inventari, né annali.
A Rocky Hill, nel centro della California, il paleoantropologo Jean Clottes si trovò di fronte a una parete rocciosa ornata di pitture. Lo guidava Hector, indiano Yokut, guardiano del luogo. Clottes si concentrò su una figura che lo faceva pensare a uno sciamano con il suo tamburo. «È un orso» disse Hector. Sorpreso, il paleoantropologo replicò: «Avrei creduto che si trattasse di un uomo». «È la stessa cosa» disse Hector – e tacque.
[22] Uno fra i segnali del distacco dall’animale fu il camuffamento di una banda di uomini in un branco di lupi: finalmente intercambiabili, uguali, come i raggi di una ruota. L’ebbrezza fu doppia e simultanea: quella dell’animale cacciato che si trasforma in predatore – un’ebbrezza della potenza e della metamorfosi, pur sempre chiusa nel cerchio animale; e quella dell’essere che scopre l’uguale, la sostituzione, l’equivalenza – un’ebbrezza del conoscere, che non si mostra in alcun segno visibile ma traccia una cesura che sarà, d’ora in poi, invalicabile. I primi uguali furono i lupi e i morti. Quel branco di esseri che sembravano ciascuno una duplicazione dell’altro compì un passo decisivo verso l’astrazione: da allora si impresse sul mondo il marchio dell’identità. Fu il loro stendardo invisibile. Il suo imperio si rivelava in una figura multipla, vagante, ubiqua.
Per separarsi dalla continuità animale, il primo artificio fu la maschera, il travestimento. Quel branco di lupi che si aggirava per la foresta era composto dai primi uomini, dai primi che si sentirono così irreparabilmente uomini che vollero camuffarsi da lupi. Quando l’uomo è diventato soltanto uomo, un ultimo sipario poteva sottrarlo al mondo: una mascherina di seta o velluto, che lasciava scoperta la bocca. In francese si chiama loup: perché certi lupi portano già disegnata sul muso una maschera, quasi invitassero l’uomo a imitarli, mascherandosi da lupo.
Senza tamburo, non si dà sciamano. Ma soltanto lo sciamano sa animare il tamburo. All’inizio il tamburo è nudo, una pelle di animale tesa e cinta da un cerchio di legno. Col tempo, si arricchisce di parti metalliche, piccole figure appese, risonanti. Si sovraccarica, sempre di più. La parte in legno viene tagliata da un tronco di betulla o di larice. Le parti metalliche: è preferibile siano vecchie. Meglio se provengono da altri sciamani. Il primo suono del tamburo è come il ronzio di un nugolo di insetti e un lontano rombo di tuono. Quando si anima, [23] diventa cavallo, poi aquila. Se due sciamani si battono, dal tamburo dello sconfitto gocciola sangue. Alla morte dello sciamano, appendono il suo tamburo ai rami dell’albero più vicino.
Lo sciamano era costretto ad agire in un mondo che agli altri sfuggiva. Lì, se si batteva con un altro sciamano, chiamava a raccolta schiere di spiriti ausiliari. Aveva uno sguardo ardente, che spesso velava con un berretto frangiato. Come l’arco per il cacciatore, così era il tamburo per lo sciamano. L’arco permetteva al cacciatore di trasformarsi in un animale che balza fulmineo, con una presa mortale. Il tamburo era il lago dove lo sciamano sprofondava per entrare in un mondo che gli altri non vedevano. Prima di tutto, occorreva ritrovare il tronco da cui era stato ricavato il cerchio del tamburo. E lo sciamano animava il tamburo raccontando la storia di quell’albero. Anche la pelle del tamburo parlava. Raccontava come aveva vissuto, finché un cacciatore l’aveva trafitta. Il tamburo è l’albero e l’animale che sono stati uccisi. Lo sciamano diventava quell’albero e quell’animale. A questo punto il tamburo cominciava a guidare lo sciamano. Era una piuma, una cavalcatura. Lo sciamano si aggrappava al tamburo come alla chioma di un cavallo.
I mondi sono tre e gli uomini normalmente stanno in quello di mezzo. Gli sciamani invece in tutti e tre. A volte spuntano con la testa in un mondo, ma con i piedi stanno in un altro. In tutti e tre i mondi c’è la stessa quantità di vita, di erba, di selvaggina, di foglie. Gli spiriti, a volte, sono più piccoli delle zanzare. Altre volte, se visti da lontano, sembrano montagne.
Per cacciare, occorreva prima imitare. Danzare il passo della pernice, dell’orso, del leopardo, della gru, dello zibellino. Per diventare predatore, occorreva entrare nei gesti del predatore e della preda. Così l’imitazione introduceva all’uccisione. E, nascosta nell’uccisione, si [24] incontrava l’imitazione. La preda veniva attirata e incantata perché si sentiva chiamata nella sua lingua. In quel momento il cacciatore la colpiva. Cacciatore e sciamano sono gli esseri più affini. Spesso parlano lo stesso linguaggio segreto, che è poi quello degli animali. Lo sciamano li evoca perché lo proteggano e lo aiutino, il cacciatore per avvicinarli e ucciderli. Tutte e due le attività sono sacre – e si illuminano a vicenda. Là dove si incontrano, avviene una profonda commistione. Éveline Lot-Falck non volle andare oltre: «In quale misura il linguaggio del cacciatore si confonda con quello dello sciamano è difficile dire. Una parte del vocabolario ... è probabilmente comune al cacciatore e allo sciamano – e può essere stata insegnata da quest’ultimo al primo. Resta da sapere fino a qual punto lo sciamano si riservi il monopolio di tale scienza». Anche se è indispensabile perché l’impresa abbia successo, lo sciamano non partecipa alla caccia e neppure vi assiste. Come pure non ne trae alcun vantaggio. Il suo ruolo è la conoscenza.
La parola «sciamano» apparve per la prima volta, in russo, nella Vita dell’arciprete Avvakum, scritta fra il 1672 e il 1673. Ma la parola è tungusa – e proviene da un’area immensa, desolata e isolata, della Siberia. L’origine del termine è quanto mai controversa. «Alcuni hanno voluto ricondurre la parola al cinese sha-men, altri al pali samana, trascrizione del sanscrito sramana». Infine Laufer riconduceva la parola al turco kam. Éveline Lot-Falck ricordava che Paul Pelliot aveva incontrato la parola in un documento jurchen del 1130 (e gli Jurchen erano gli antenati dei Tungusi). Inoltre, indagando aveva scoperto che «in tunguso esistono tre altre serie di termini che esprimono l’atto di sciamanizzare, la prima legata all’idea della preghiera al fuoco, la seconda a quella di parola e la terza all’idea di forza sacra». Termini vari per l’atto di sciamanizzare venivano poi isolati dalla Lot-Falck in altre lingue turche, altaiche, mongoliche. Molte le connessioni con ulteriori significati. Ma l’asciutta [25] conclusione della ricerca era questa: «L’etimologia che emerge per i termini tungusi e jakuti mette in luce l’idea di movimento, di agitazione corporea. Con buone ragioni, perciò, tutti gli osservatori dello sciamanismo sono stati colpiti da questa attività gestuale che dà il suo nome allo sciamanismo».
Habent sua fata verba, avrebbe potuto dire Brichot. Nata in una popolazione minuscola e sperduta, la parola «sciamano» è diventata il passe-partout di una sorta di esperanto religioso. E tutto nel giro di pochi decenni, a partire dal libro di Eliade, che è del 1951. Evidentemente il mondo non disponeva più di parole che designassero un viaggio insieme fisico e psichico, uno stato – quello che si chiamerà «sciamanizzare» – dove i confini fra il visibile e l’invisibile tendono a cancellarsi, dove la parola e il suono del tamburo, il movimento del corpo e l’azzardo della mente si sovrappongono e si fondono. Così forte doveva essere il bisogno e la mancanza di questa parola che la sua espansione è stata irresistibile e indifferenziata. In anni recenti, circolava in California un volantino dove si leggeva: «La finanza sciamanica è: integrare il denaro con lo spirito». Alla fine, è diventato arduo definire che cosa non è sciamanico. Quanto agli sciamani, o si sono dileguati o non si fanno riconoscere.
Alcuni considerarono gli sciamani siberiani come poveri malati di mente, afflitti da quel male misterioso che si chiama «isteria artica» e si acutizza tanto più quanto più si va verso il Nord. Altri pensavano che fossero gli unici capaci di guarire i malati, perché sapevano, perché avevano visto l’altro mondo che si spalanca dietro quello che per gli altri è il solo mondo esistente ed erano gli unici capaci di trattare con gli spiriti e con i morti. Quei dubbi non si applicavano soltanto agli sciamani siberiani. Con le dovute trasposizioni e modulazioni, potevano essere applicati a Empedocle o a san Paolo. O a Nietzsche.
Gli sciamani siberiani si differenziano dagli altri che sanno, [26] in altre parti del mondo, innanzitutto perché il loro mondo visibile è ridotto al minimo. Non ci sono città, né regni, né ricchezze, né scambi. Solo la taiga, gli animali, il gelo. Per accedere all’invisibile, occorreva in primo luogo vestirsi, caricarsi di tutto quel poco di palpabile che può avere un potere. Le vesti degli sciamani siberiani potevano pesare anche trenta chili. Ma quelli che le indossavano sapevano muovere i loro passi con leggerezza.
Nel Ṛgveda si parla dei muni dai lunghi capelli, che cavalcavano il vento, avvolti in «sporchi cenci rossi». Lasciavano «gli dèi entrare in loro», guardavano dall’alto due oceani, a oriente e occidente, capivano la mente delle Ninfe, dei Geni e degli animali selvatici. Bevevano da una coppa una bevanda di cui nulla sappiamo, se non che poteva essere droga o veleno. Era chiamata viṣá, veniva dal dio Rudra e a Rudra la passavano. Furono la prima apparizione degli asceti, degli yogin, dei sādhu, che attraversano incessantemente l’India, dai tempi vedici a oggi.
Estasi, possessione, parole accompagnate, a seconda dei luoghi e dei tempi, da connotazioni positive o negative, designano entrambe la conoscenza metamorfica, quella conoscenza che trasforma colui che conosce nel momento in cui conosce. Il presupposto comune: una mente permeabile, soggetta a flussi e riflussi di elementi che all’inizio possono sembrare estranei ma hanno anche la capacità di insediarsi come ospiti perenni. Là dove invece appare un Io provvisto di compartimenti stagni e presunto padrone del suo recinto, né estasi né possessione sono più ammissibili. Ma al tempo stesso si restringe enormemente l’area del conoscibile – o anche solo dell’esperibile. Molti ne furono fieri, ma non è chiaro perché. Se non per un motivo: ebbero una vita più tranquilla, meno soggetta a scosse, come se si fossero applicato un paraocchi – e questo gli sembrasse appartenere all’ordine naturale delle cose.
[27] Apollo vola dagli Iperborei portato dai cigni bianchi, come Abaris giunge dagli Iperborei in Grecia a cavallo di una freccia d’oro. Viaggi sciamanici. Dio della luce, del metro, dei lupi e dei topi, Apollo.
Il cielo era il luogo del passato. Riversi, mentre fissavano nella notte quelle tremanti punte di spillo, ritrovavano ciò che era accaduto: una tela tenebrosa e indifferente, scalfita da minuscole tacche di luce. Soltanto quello rimaneva, fra moltitudini di eventi, di gesti, di esseri. Soltanto quello era stato eletto a mantenere un significato, una forma che ogni notte si riaccendevano. Da qualunque luogo osservassero il cielo, vi incontrarono il Cacciatore. La caccia fu l’ordalia della memoria. Il cielo, il primo ordine mnemotecnico. La volta divenne la casa del passato, intatto museo. Le storie indispensabili baluginavano ogni notte – o rimanevano provvisoriamente occultate dietro un velario di nubi. E un altro cielo fu la superficie della caverna, così come il cielo stesso era la faccia interna della immensa caverna cosmica. Per poter cacciare, occorre disegnare.
Un giorno, un giorno che durò non meno di venticinquemila anni, gli uomini del Paleolitico superiore cominciarono a disegnare. Che cosa? La scelta non si poneva neppure: unico oggetto possibile erano gli animali. Gli animali erano la potenza in movimento, che colpiva o si doveva colpire. Non si trattava di magia, come avrebbero pensato i goffi moderni. Nell’animale ci si trasformava, all’animale si sfuggiva, trasformandosi. L’animale e chi lo disegnava appartenevano allo stesso continuo delle forme. Fu quello il momento in cui la pressione delle potenze impose la più severa disciplina estetica: la linea, per essere efficace, doveva essere giusta. Ingres li avrebbe approvati. Se la linea non era giusta, la potenza non veniva evocata. A volte, in fondo a budelli di roccia dove soltanto una persona poteva insinuarsi, chi disegnava si trovava nella prima camera oscura [28] e osservava il prodigio della forma che affiorava dalle sue mani, a mala pena visibili.
Per lungo tempo preferirono disegnare gli animali più imponenti e temibili, che soltanto di rado venivano cacciati. Disegnarli era un primo accorgimento per imitarli e circoscriverne la potenza. Invece le figure umane disegnate sulle rocce furono a lungo marginali e occasionali. Il modo più usuale, immediato e comprensibile per rappresentare se stessi era, per gli uomini, quello di disegnarsi come animali compositi, circondati da altri animali. Occorsero molti anni perché, attraverso meandri e vie traverse, la statuaria greca giungesse a rappresentare la figura umana da sola – e, oltre tutto, nuda.
Insieme agli animali, era apparsa la geometria. Innumerevoli figure, che si accompagnavano agli animali o spiccavano isolate sulle pareti rocciose. Tutte hanno mantenuto il loro segreto. Ma tutte erano accomunate da un carattere: essere la negazione del mondo quale si manifestava, così come lo fu il primo muro perfettamente perpendicolare al terreno. Erano un altro mondo, che si sarebbe potuto inferire soltanto unendo con tratti alcuni piccoli punti luminosi nel cielo.
Di coloro che vissero durante il Maddaleniano e dipinsero pareti rocciose in Dordogna non molto possiamo dire di certo. Ma almeno questo: sapevano disegnare con stupefacente sicurezza, di rado raggiunta per millenni. Improvvisamente – e ovunque: in Egitto, nella Spagna del Nord, in Francia, in Inghilterra: a Creswell, ultimo limite prima dei ghiacci. Perché accadde? Sarebbe avventato dirlo. Ma se il disegno è un atto dell’intelligenza, quella dei Maddaleniani doveva essere molto alta. E forse dovevano avere qualcosa in comune con i balenieri, che prima di partire aspettano di vedere una balena in sogno. Se non gli apparisse, non potrebbero mai incontrarla nella realtà.
L’uomo del Maddaleniano, per migliaia di anni, non mancò mai di ricorrere a due segni elementari, uno verticale e l’altro curvo: il giavellotto e la ferita. Giavellotto era l’arma con cui il mondo veniva colpito senza essere [29] toccato: un’asta, il segno più semplice. Ferita era un cerchio, un anello insanguinato.
Se la costellazione è un luogo arbitrario a cui si appendono le storie, non diversamente da come i significati si appendono ai suoni, non sarà facile spiegare perché nello stesso spicchio del cielo, non soltanto in Grecia ma in Persia, in Mesopotamia, in India, in Cina, in Australia e anche nel Suriname, per millenni si siano viste ogni volta le imprese di un Cacciatore Celeste che non ci si stancava di contemplare.
L’invisibile è il luogo degli dèi, dei morti, degli antenati, del passato intero. Non esige necessariamente un culto, ma penetra in ogni anfratto della mente. Simile a una corda metallica, può anche non vibrare e rimanere inerte. Se vibra, l’intensità può diventare parossistica. L’invisibile non va cercato lontano. Anzi, si può anche non incontrare perché troppo vicino. L’invisibile finisce nella testa di ciascuno.
Dove è ancora più difficile distinguerlo, protetto da una gabbia di ossa. E si mescola a tutto il resto in un amalgama che può soffocarlo.
Finché non venne inventata la scrittura, era impossibile fissare in una forma di storia ciò che accadeva. Ma «di tutti i bisogni dell’anima umana, nessuno è più vitale del passato». Così il sacrificio, almeno in certe sue forme (i Bouphonia di Atene, le cerimonie del soma nell’India vedica), serviva anche a rammentare e ravvivare il passato. Per alcuni millenni, e nella molteplicità delle sue forme, quei riti hanno compendiato ciò che era avvenuto fra l’uomo e gli animali – e ciò che continuava ad avvenire fra l’uomo e l’invisibile. Nessuna storia avrebbe potuto essere così efficace, così eloquente come quelle sequenze di gesti. Uccisore e adoratore: [30] questi due caratteri erano risultati ineliminabili, dopo una vicenda che era durata centinaia di migliaia di anni. Con quei caratteri occorreva comporre una forma – e questa forma fu il sacrificio. Anche la messa è il ricordo di un giorno passato. E ogni sacrificio è il ricordo di un giorno che è durato quanto ere remote. Non bastava uccidere, occorreva adorare. Non bastava adorare, occorreva ricordare che si uccideva.
Questo raccontò Aua l’eschimese a Knud Rasmussen: «Sebbene già al tempo in cui mi trovavo ancora nel ventre di mia madre tutto fosse già pronto per me, cercai invano di diventare un evocatore di spiriti con l’aiuto di altri. Non riuscì mai. Visitai molti famosi sciamani e offrii loro grandi doni, che essi passarono immediatamente ad altri. Perché, se li avessero tenuti, i loro figli sarebbero morti. Poi cercai la solitudine e presto mi sentii molto malinconico. In modo misterioso, potevo scoppiare in lamenti e diventare infelice, senza capirne il motivo. Poi a volte improvvisamente tutto cambiava, e provavo una grande inspiegabile gioia, una gioia così forte che non potevo dominarla. Dovevo erompere in un canto, in un canto possente, che concedeva soltanto questa parola: Gioia! Gioia! Gioia! E in mezzo a questa misteriosa, travolgente voluttà divenni sciamano, senza sapere come. Ma lo ero, potevo vedere e udire in una maniera del tutto nuova. Ogni vero evocatore di spiriti deve sentire un irradiarsi nel suo corpo, all’interno della sua testa o nel suo cervello, qualcosa che irradia come il fuoco, che gli dà la forza di vedere a occhi chiusi nella tenebra, vedere le cose nascoste o l’avvenire, o anche i segreti degli altri uomini. Sentii che ormai possedevo quella meravigliosa capacità».
La vocazione dell’uomo della conoscenza era un richiamo. Proveniva da un mondo di esseri potenti, che [31] gli altri non sapevano percepire. Quel richiamo agiva come una seduzione, un risucchio nell’invisibile – e insieme un invito alla lotta. L’uomo della conoscenza acquisiva il sapere nel corso di questa lotta o soccombeva. Allora era un povero essere malato. E sapeva che quasi tutte le malattie erano un furto di anime. Ma, se usciva vittorioso dal combattimento invisibile, allora poteva essere lui a evocare gli spiriti, così come un tempo da loro era stato chiamato. Sarebbe stato lui ad attirarli in solitudine, a raccoglierli intorno a sé, sarebbe stato lui a farli agire. Questo era lo scambio che si doveva compiere nella sua vita. Ma prima il suo corpo andava rifatto. Organo per organo, l’unità fisica veniva disarticolata. Il cuore, i polmoni, il fegato, gli occhi: nulla poteva essere usato così com’era. La conoscenza implica uno squartamento, una scomposizione degli elementi, un mutamento nella loro sostanza. Cristalli di quarzo si insediavano in luoghi dominanti, le giunture tornavano ad articolarsi dopo che le ossa ammucchiate erano rimaste avvolte in una corteccia di betulla. Era una tortura che avveniva in solitudine, per il mondo. Ma la scena era affollata di presenze: gli sciamani morti accorrevano intorno a colui che doveva diventare uno di loro. Con lunghi coltelli staccavano la sua carne dalle ossa. Ma non bastava. La carne doveva essere cotta, perché maturasse, perché si perfezionasse. Gli sciamani morti operavano in silenzio, frenetici. A volte drizzavano in piedi il nuovo eletto come un palo, poi si allontanavano e lo trafiggevano con frecce. Poi si riavvicinavano, estraevano le ossa dal suo corpo e cominciavano a contarle, come usurai. Se non ce n’era il numero giusto, l’eletto diventava uno straccio da buttare. Non era una vera vocazione. Era un disgraziato. Spesso la testa del candidato veniva affissa in cima a una capanna. Da lì poteva osservare come il resto del corpo veniva fatto a pezzi. Era indispensabile che il futuro sciamano rimanesse cosciente e potesse osservare, momento per momento, ciò che accadeva. Soltanto se aveva questa capacità di contemplarsi l’aspirante poteva un giorno diventare sciamano. [32] Si diceva inoltre che un vero sciamano doveva lasciarsi fare a pezzi almeno tre volte. Doveva anche guardare come le sue ossa venivano pulite e lustrate. Gli sciamani morti erano esosi. Talvolta, quando avevano gettato un qualche organo dell’aspirante sciamano sulle piste dei mali, che sono numerose e piene di biforcazioni, esigevano un riscatto perché l’organo potesse tornare: chiedevano la morte di un parente o anche solo una grave malattia. Era un periodo rischioso per chiunque avesse legami con l’aspirante sciamano, che subiva in silenzio. Una volta morirono dieci persone perché fossero riscattate le ossa del cranio di un aspirante sciamano. A volte gli sciamani si stancavano degli spiriti. E gli spiriti si stancavano degli sciamani. Allora cambiavano strada e poteva capitare che non si incontrassero più.
Essere sciamano era un’altra vita, che presupponeva l’offerta e la scomposizione del proprio corpo, così simile a quella che subivano gli animali sacrificati. Di fatto, gli sciamani non erano che gli ultimi fra quegli animali. Ogni sciamano aveva un animale-madre che riappariva e gli si avvicinava due o tre giorni prima della morte. Se lo sciamano lasciava che certi spiriti masticassero la sua carne, quegli spiriti erano in seguito obbligati a rispondergli. Non potevano più essere sordi. Lo sciamano era diventato carne della loro carne. Solitario fra i moderni, Artaud disegnò e raccontò che cosa accadeva in quei casi.
Ogni pensiero si misura con i morti. L’altare dei morti nacque da una «piccola fantasia» di Henry James: immaginò «un uomo la cui nobile e bella religione sia il culto dei Morti». Questi «è colpito dal modo in cui vengono dimenticati, vengono profanati – inonorati, negletti, ricacciati lontano dagli sguardi; consegnati a una morte anche più grande di quella a cui la sorte, sorprendendoli, non li abbia destinati. È colpito dal clima gelido, brutale, che circonda la loro memoria».
A Sungir, circa 180 chilometri a est di Mosca, è stato [33] scavato un sito risalente a 27.000 anni fa. Fra i reperti, una tomba con due adolescenti: un ragazzo coperto da fili di perline, in tutto 4903, e alla vita una cintura con più di 250 canini di volpe artica. Accanto al corpo, vari oggetti in avorio, fra cui una lancia troppo pesante per essere usata. La ragazza era coperta da 5274 perline.
Secondo Adolf Loos, l’architettura ebbe origine dalle tombe. Anche l’ornamento, che Loos deprecava, apparve accanto ai morti. O, almeno, lo incontriamo per la prima volta nei morti. Non era fatto per essere visto. Ma per accompagnarli in quel «clima gelido, brutale», che altrimenti circonderebbe la loro memoria. Lo sapevano bene quegli ignoti che vissero a Sungir alcune decine di migliaia di anni prima di Henry James.
Simulacri, amuleti, idoli, talismani, feticci, di ogni tipo di forma e di materia: li chiamavano šajtan, fra la taiga e la tundra. La stessa parola significava «demone» per i musulmani, «satana» per i cristiani. Li trasportavano ammassati su grandi slitte. Le donne non dovevano avvicinarsi. Le renne che trascinavano quelle slitte erano sacre. Non potevano essere usate per alcun lavoro, né vendute, né uccise. Ma altre renne venivano uccise e si spalmava il loro sangue sui šajtan.
Le autorità sovietiche esigevano che venissero consegnati i tamburi. Quando li consegnarono, si sentirono inermi, esposti agli attacchi degli spiriti. Temevano di esserne strangolati. Alcuni provarono a sostituire i tamburi con frasche, archi e frecce, fruste, berretti. Anche coperchi di pentole e mestoli. Alcuni disegnavano tamburi su pezzi di stoffa e li manipolavano in silenzio. O usavano scampoli di tessuto, senza disegni, e li facevano oscillare in aria.
Éveline Lot-Falck, la storica più congeniale dei cacciatori siberiani, scriveva con sobrietà e precisione. Non meno di loro, puntava al bersaglio, all’essenziale: «Niente [34] deve rammentare la vita di ogni giorno, con la quale il cacciatore ha rotto. Nella foresta non c’è posto per nessuno degli oggetti domestici. Grazie a un artificio del linguaggio, si adattano ai luoghi, si fondono nell’ambiente. Le intenzioni del cacciatore sono avvolte nel mistero indispensabile alla riuscita dei suoi progetti ... Così riparato da molteplici divieti, dopo aver rotto i suoi legami con la vita ordinaria, con la vita profana, per penetrare nel dominio della caccia, con la sua identità camuffata, protetto dal suo anonimato come da uno scudo, il cacciatore si avvia ad affrontare le forze misteriose della foresta ... Quando è nella foresta, nella regione delle antiche forze ancestrali, il cacciatore sfugge alla giurisdizione della chiesa ufficiale e evita di svelare la sua qualità di ortodosso, di buddhista o di musulmano». Rispetto alla foresta, tutte le altre credenze sono qualcosa di recente, posticcio. Le loro liturgie ossessive, ronzanti vanno sospese sul limitare della foresta – e del suo silenzio.
Difficile era uscire dalla caccia. Come il corpo della donna sull’uomo, la foresta lasciava una traccia odorosa sul cacciatore. Perciò alcuni masticavano scorze di ontano, altrimenti li avrebbe contaminati la malattia della foresta. Chi aveva ucciso un orso non poteva essere onorato per la sua impresa se non dopo aver passato tre giorni in una tenda preparata per l’occasione. Lentamente, cautamente i cacciatori riuscivano a «sciogliere i legami che avevano forgiato essi stessi, a dissociarsi da quel regno in cui erano penetrati, dove erano riusciti a rimanere e da cui escono come da un altro mondo, con il timore di essere perseguitati». Quel timore di una rappresaglia non fu soltanto il sentimento tenace di certi cacciatori siberiani. Chiunque abbia varcato o continui a varcare il confine con l’invisibile – anche e soprattutto se l’invisibile stesso non è riconosciuto come tale – vivrà nello stato di chi, in ogni momento, si aspetta di essere attaccato. E sa benissimo da dove viene l’attacco – anche se talvolta è il solo a saperlo.
[35] Il cacciatore si preparava alla sua spedizione come per un ballo. Il corpo doveva essere puro, profumato. A ogni animale da cacciare corrispondeva un profumo diverso. Aver avuto a che fare col sesso prima della caccia era proibito. Perché la caccia era il sesso. E gli animali erano gelosi, si accorgevano subito. Muovendo i primi passi, il cacciatore dava inizio a un lungo corteggiamento.
Quando si incontravano due sciamani, non era mai chiaro che cosa succedeva. Potevano stare accanto, su una panca, scambiare parole a bassa voce o anche tacere guardando il vuoto. Ma non c’era da fidarsi. Ciascuno era legato da un invisibile laccio di cuoio a una renna, spesso molto lontana. E, quando la renna vagava nella tundra, il laccio si allungava sempre di più, per miglia e miglia. Le renne dei due sciamani potevano anche incontrarsi – e anche battersi in duelli feroci, senza testimoni. Intanto i due sciamani masticavano tabacco sulla panca e interloquivano con rare parole. Le renne continuavano a colpirsi. Se una si abbatteva, lo sciamano che le era legato sentiva uno strappo al suo laccio. Si alzava e si allontanava in silenzio. Presto sarebbe morto. Si parlava anche di un «fiume della miseria e della rovina», i cui argini dovevano essere rinforzati con i cadaveri dei parenti dello sciamano, usati come pali. «Perché la vita dello sciamano viene riscattata dai parenti».
Per guarire un malato, lo sciamano Narzalé accolse in sé la malattia. Per trafiggerla, si trafiggeva. Il malato guarì. Poi lo sciamano si congedò, uguale a come era arrivato. Presto giunsero sue notizie. Dicevano che Narzalé era andato a far legna nella foresta e un orso lo aveva sbranato. E si spiegavano così l’accaduto: «L’orso lo ha sbranato perché aveva dato la sua anima per il malato. Aveva detto: Tu, katcha [spirito della malattia], [36] prendi la mia anima al posto del malato. Ecco perché è morto. Altrimenti come mai un orso sarebbe uscito dalla sua tana, d’inverno, per sbranarlo?». Éveline Lot-Falck concluse che «il narratore e gli interessati non manifestano eccessivo stupore o riconoscenza innanzitutto perché, in queste popolazioni, si è economi di parole e di dimostrazioni e poi perché Narzalé ha fatto ciò che pochi sciamani fanno, dopo tutto, ha semplicemente adempiuto i suoi impegni e la sua missione».
C’era un malato di nervi, in una stanza sbarrata. Per cinque anni i parenti cercarono uno sciamano capace di guarirlo. Alla fine giunse lo sciamano Küstäch. Un ubriaco entrava e usciva, insultandolo. Lo sciamano era impassibile, si preoccupava solo dei suoi spiriti ausiliari. A un certo punto disse: «Quando il più potente dei miei spiriti ausiliari scende in me, sfilate subito il chiavistello». Così avvenne. Immediatamente il malato si precipitò sullo sciamano, che tese il petto, si piegò indietro e gli soffiò in faccia. Il malato svenne. Lo sciamano gli sfiorò la fronte con le bacchette del tamburo e disse: «Alzati. E ora, vuoi bere un po’ di tè? Vogliamo sederci a un tavolino?». Si sedettero e bevvero il tè.
Gli sciamani vivono su un grande albero, un larice, dai molti piani. Sui più alti si annidano gli sciamani più potenti, gli altri in basso. Su quell’albero vengono allevati gli sciamani di tutto il mondo. Il loro educatore è il Corvo, che passa di ramo in ramo. Quando uno sciamano è stato sconfitto da un altro sciamano, torna a rifugiarsi sull’albero dove è cresciuto. A volte, uno sciamano che si sta battendo con un altro sciamano tenta di distruggere il nido dell’avversario. Gli sciamani non muoiono mai di morte naturale. Soccombono sempre in lotta con un altro sciamano, che li inghiotte.
[37] Il khan Ögödei ordinò che gli disponessero un seggio sul punto più alto della collina. Da lì poteva dominare una distesa che si perdeva nel brumoso Occidente. Uno sterminato territorio di caccia. E, mentre fissava lo sguardo in lontananza, le bestie di tutte le specie uscirono dalle loro tane e nascondigli e mossero verso i piedi della collina, guardando in alto, verso il trono di Ögödei. Si sentì allora salire dalla terra un lamento. Tutte le voci delle bestie si univano, simili a quelle di coloro che implorano giustizia.
Dicevano che il mondo è fatto essenzialmente di cristalli di rocca esagonali, anche – anzi soprattutto – là dove è più oscuro e informe, negli spazi che si aprono al di là della Via Lattea. Quegli stessi cristalli esagonali sono alveoli nel cervello, dove fioriscono immagini. E la commessura centrale dell’encefalo, i due serpenti intrecciati, si ritrova nella Via Lattea.
Altri dicono che la Via Lattea è il luogo delle visioni e la via di passaggio fra cielo e terra, ma anche un luogo terribile, perché lì convergono tutti i morbi. Ed è come una vasta massa di rifiuti. Lì si celano gli avvoltoi, perché vi trovano nutrimento. Perciò la Via Lattea è un luogo altamente pericoloso. Chi vi si avventura deve saperlo.
«Todos los adornos son escrituras» disse Bonifacio Bautista Aragón, guardiano di Mitla, vicino a Oaxaca. La sua casa, un piccolo antro scuro, stava di lato alle rovine. Usciva quando lo chiedeva qualcuno dei suoi visitatori, fermi davanti a una muraglia rosa, gremita di decorazioni. Che stavano «nel cuore del muro» aggiungeva Bonifacio. Ma poi tornava a quella sua frase sugli «adornos». Pochi fra i visitatori la capivano, aggiungeva, fra sé: «Los modernos se creen...». I moderni pensavano che fossero decorazioni, come i cotillons di carnevale. I moderni credono tante cose che non sono. Allora Bonifacio ripeteva la sua frase: «Todos los adornos son escrituras». [38] Non importava che non avesse mai decifrato quelle scritture. Il suo compito era ripetere quella frase.
Il Sovrano degli Animali è malizioso e lussurioso. Spia le donne, segue le ragazzine lungo il fiume, in forma di lucertola. Mentre le guarda, frusta l’aria con la coda. Se riesce a possederle nel sonno, spesso si risvegliano inebetite – e presto muoiono di consunzione. Allora, tutt’intorno, per qualche tempo si avverte un inconsueto tramestio.
Il Sovrano degli Animali è curioso e geloso di tutto ciò che ha a che fare con il sesso. Guata dalle fessure dei muri. Negozia con i cacciatori il numero di animali che permette di uccidere. E chiede in cambio anime di morti, da ospitare in vasti magazzini dentro le montagne.
Il Sovrano degli Animali segue ogni passo dei cacciatori, che non si sentono mai soli. Sanno di essere sorvegliati. A volte si fermano davanti alla corteccia di un albero e vi incidono immagini. Una lumaca, un flauto. Sempre per distrarre il Sovrano degli Animali, che si incanta a guardare quei segni. Allora il cacciatore va avanti, libero per un momento.
Non c’era un solo Sovrano degli Animali. Se ne conoscevano vari, che governavano parti diverse della foresta. Si presentavano come «immagini composite di umano e animale, di preda e predatore», simili talvolta a uomini piumati, Papageni ominosi. Se troppi animali venivano uccisi nella caccia e le regole non erano osservate, annunciavano la loro ira con certe luci giallastre al tramonto e un costante rombo di tuoni. Era indispensabile appendere agli alberi della foresta le teste degli animali uccisi nella caccia. Altrimenti sarebbe stato il Signore degli Animali a mettersi a caccia di uomini. Così lo raccontava Patakuru: «La selvaggina cacciata dal signore della foresta sono gli esseri umani. Il suo aspetto è come quello degli umani. È come noi. Grande come noi. Alcuni sono maschi, altri femmine. Il signore maschio della [39] foresta fotte le donne e fotte gli uomini. Perché appare ingannevolmente come uomo o come donna. Lui o lei appare come nostro marito o nostra moglie, come i falchi cattivi. Se noi la fottiamo o lui ci fotte, siamo come morti. Dopo che sei stato fottuto, non lo sai più. Dimentichi quello che è successo, ma poi muori. Solo certi spiriti ausiliari degli sciamani possono scoprire che cosa è accaduto e curarci, in modo che non moriamo».
Uccidere implicava un continuo pericolo di rappresaglie. Il Sovrano degli Animali poteva sempre predare gli uomini, così come gli uomini avevano predato nel suo regno. Bastava colpirli nella mente, in certi punti precisi e vulnerabili. Allora il Sovrano degli Animali avviava la caccia, facendosi seguire dai maiali selvatici e dai casuari, così come gli uomini andavano a caccia con i loro cani. Questo era l’equilibrio, questa era la legge. Perciò non bastava cacciare, occorreva sacrificare.
Con chi poteva fare amicizia il cacciatore? Per esempio con Mai-kaffo. Nei tempi antichi, Mai-kaffo era il capo dei bufali. Però non era un bufalo. Mai-kaffo aveva qualcosa del bufalo e qualcosa dell’uomo. Aveva qualcosa dell’uccello e qualcosa dell’antilope. Aveva corna. Viveva nella boscaglia, su un albero di tamarindo. Un cacciatore lo incontrò e cominciarono a parlare. Il cacciatore disse: «Non abbiamo medicine contro gli spiriti». Mai-kaffo disse: «Non ti preoccupare. A me appartengono i bufali». Il cacciatore un giorno portò miele a Mai-kaffo. «Che strano, a me appartiene la boscaglia, nessuno può prendere miele senza che io lo sappia» disse Mai-kaffo. Il cacciatore raccontò una storia su come si era procurato il miele. «È buono, però» disse Mai-kaffo con la bocca piena di miele. «Mi hai portato una cosa buona. Sei un amico. Ti regalo un bufalo. Puoi ucciderlo». Così il cacciatore uccise il bufalo e lo portò al villaggio. Ora il cacciatore veniva onorato. Ogni tanto chiamava Mai-kaffo, sacrificando un animale di pelle nera, come piaceva al suo amico. Nel villaggio allora si [40] presentava Mai-kaffo, con suo figlio Mekirabo. Mai-kaffo e il cacciatore parlavano a lungo, soprattutto di medicine. Mekirabo intanto si appartava sotto la tenda con la moglie del cacciatore e amoreggiava con lei.
D’improvviso apparve una cerva. Dietro di lei si stendeva la palude, l’immensa Palude Meotide, che sino allora era sembrata un oceano. La cerva guardò i cacciatori, tranquilla. Poi si volse verso la palude e cominciò a correre. Quando distaccava troppo i cacciatori, si arrestava. Col muso sfiorava gli arbusti e la fanghiglia gelata. I cacciatori così la raggiunsero più volte. E, ogni volta, appena erano vicini, la cerva riprendeva la sua corsa leggera volgendo per un attimo la testa verso di loro, come per invitarli. Hunor e Magor cavalcavano e cavalcavano, pensando solo alla cerva. Dimenticarono gli altri. Guardandosi indietro, si ritrovarono soli. Non si scambiarono una parola e continuarono a cavalcare. Quella palude, di cui da bambini avevano sentito dire che non aveva confini e proseguiva nel cielo, gli appariva ora come una pianura ghiacciata e livida, confusa con l’orizzonte. A tratti la cerva era un piccolo punto nero e mobile, a tratti era talmente vicina a loro che credevano di carezzarla. Il loro sguardo non l’abbandonava mai. Non si accorsero neppure che non stavano più cavalcando sul ghiaccio, ma su una nuova terra, morbida, diversa dalla steppa dove avevano vissuto. Calava la notte e la cerva li teneva sempre più a distanza. Videro il punto nero mescolarsi all’immensità nera intorno a loro. La cerva era scomparsa. Ma continuarono a cavalcare. E presto pensarono di essere entrati in un sogno. Riconobbero un chiarore di fuochi nell’oscurità. Videro ombre che si muovevano. Nascosti dietro a una tenda, sempre aggrappati ai loro cavalli, spiarono la scena. Intorno ai fuochi danzavano uomini e donne. Furono incantati dal clamore della musica. Due vecchi stavano al centro, immobili. Gli occhi di Hunor e di Magor si fissarono su due ragazze guizzanti come lucertole, donne di un’altra [41] razza, più alte e più bianche di quelle che sino allora avevano conosciuto. Sembrava che le due ragazze guidassero la danza. Le seguirono a lungo con gli occhi, come avevano seguito la cerva. Il fuoco balenava sulle loro caviglie magre e i piedi nudi, quando a tratti si scoprivano fra le vesti scure, lunghe e pieghettate.
Poi Hunor e Magor irruppero nel cerchio e i danzatori videro due demoni che afferravano alla vita le due ragazze. Sparirono nella notte, stringendo quei due corpi madidi alle loro casacche di pelle di topo. Quando tornarono dalla loro gente, dopo aver attraversato la palude senza confini come fosse un ultimo lembo della steppa, dissero che finalmente avevano trovato la terra, la terra da sempre cercata, di cui avevano sentito parlare a bassa voce sin da bambini, la terra buona per gli animali e per il cibo. Così avvenne che gli Unni avanzarono verso l’Europa.
Come la cerva degli Unni, l’animale è preda e guida. Inseguendo l’animale, con lo sguardo che tenta di fissarsi su un unico punto, il cacciatore non si accorge che intanto sta inoltrandosi nell’ignoto. Così avviene la scoperta: si segue il richiamo di un altro essere, sempre in fuga davanti all’occhio, senza raggiungerlo mai. Mentre ciò che si scopre è già intorno, è già dietro – e quasi non lo si vede più.
Ci sono due prede: quella che viene uccisa (e il luogo dell’uccisione diventa il luogo della fondazione) e quella che scompare (e provoca l’uccisione dei cacciatori). Ogni tanto l’animale-guida vuole essere raggiunto, accetta di diventare preda. Così dev’essere, se si vuole fondare la città. La città è il luogo dove l’animale-guida viene abbattuto. Efeso fu fondata da chi aveva obbedito a questa parola dell’oracolo: «Un cinghiale indicherà la via». E, là dove il cinghiale cadde trafitto da un giavellotto, «oggi si erge il tempio di Atena». Là oggi è Efeso.
[42] Chi scrive segue l’animale-guida. Nell’opera lo colpisce – e lo uccide: là dove è stato ucciso, sorge l’opera. O altrimenti scopre che l’animale-guida è scomparso. E l’animale si trasferisce nello stendardo. Differenza fra le opere in cui l’animale-guida viene ucciso e quelle in cui scompare. In Balzac: l’animale viene ucciso. In Baudelaire: avanza sullo stendardo. Si scrive un libro quando si è precisato qualcosa che si deve scoprire. Non si sa che cos’è né dov’è, ma si sa che si deve trovarlo. Allora comincia la caccia. Si comincia a scrivere.
Gli stendardi ebbero origine in Egitto, luogo delle cose remote. Dopo essere stati sconfitti più volte per una certa mancanza di ordine nelle truppe, gli Egizi «ebbero l’idea di portare degli stendardi davanti alle varie schiere. Di conseguenza, dicono, i comandanti foggiarono immagini degli animali che oggi venerano e li portarono affissi sulle lance, così ciascuno sapeva qual era il suo posto». Gli animali servono a stabilire il «buon ordine», che si rivela prezioso in battaglia. Ma non solo. Gli uomini guardavano agli animali come all’ordine che avevano violato – e a cui talvolta, quando li coglieva l’angoscia, avrebbero desiderato tornare. O che almeno avrebbero voluto chiamare in aiuto, per esserne protetti.
Così, «intendendo mostrare la loro gratitudine, istituirono l’usanza di non uccidere nessuno degli animali di cui avevano foggiato l’immagine, ma di riservargli rispetto e devozione in quanto oggetti di culto». Perciò gli animali sugli stendardi erano spesso selvaggi, sottratti ai sacrifici, non commestibili.
I Piceni così si chiamavano perché «un picchio mostrò la via ai loro progenitori». Quando andarono in guerra, si vide che «nei loro stendardi stava il picchio». Non furono certo i soli. Negli stendardi delle truppe romane, ai tempi della Repubblica, si riconoscevano aquile, lupi, tori, cavalli, cinghiali. Poi Mario, al suo secondo [43] consolato, impose una riforma: unico animale in testa alle legioni doveva rimanere l’aquila. «Gli altri stendardi venivano lasciati negli accampamenti». Si direbbe che Mario avesse prefigurato l’Impero, che è appunto questo: un solo animale. Ma in precedenza gli animali erano stati molti – e molti sarebbero tornati a essere. Il disgregarsi dell’Impero fu annunciato, accompagnato e seguito dall’apparizione di altri animali sugli stendardi barbarici: cinghiali per i Galli, corvi per i Normanni, serpenti per i Longobardi, draghi per i Franchi, leoni per i Sassoni, tori per i Cimbri. Stendardo è ciò che sta davanti, anche se di un solo passo. Le truppe che lo seguono, i suoi fedeli, sono i cacciatori, che un tempo seguirono le tracce dell’animale-guida senza mai raggiungerlo. Ma quell’inseguimento diede forma alla loro vita, la compose. Non c’è rapporto più intimo di quello fra lo stendardo e il guerriero. Ora l’inseguimento continua, anche se lo stendardo li sopravanza appena e i suoi fedeli non sono più cacciatori, ma soldati. Quando venivano sconfitti, l’animale dello stendardo rimaneva «quietissimus totoque corpore demissus», «totalmente immobile e con tutto il corpo accasciato». Ma quando vincevano, lo stendardo garriva al vento. Il Corvo tornava a dispiegare le ali e a librarsi nell’aria.
II
LA SOVRANA DEGLI ANIMALI
[47] La Sovrana degli Animali, che fu disseppellita in statuette numerose attraverso l’Europa, si imponeva per l’immobilità. Le sue vaste natiche, il petto pesante, le gambe unite nascondevano a mala pena che un tempo era stata un albero. Mentre ora poteva soltanto essere conficcata, con i piedi legati, nella cavità di un tronco. Gli animali, tutti gli animali, tutto ciò che nasce: erano i suoi devoti. La dea li osservava, immota. Sosteneva le creature come un tronco possente sostiene anche le fronde più remote. Tutto era un cerchio rombante intorno a lei. Tutti erano una sua fronda.
A un tratto la dea allungò un braccio, poi l’altro. Le mani si chiusero in una presa ferma sulla collottola di due pantere – o di due uccelli acquatici. O afferrò per le zampe e rovesciò in aria due daini – o anche due leoni. Si offriva come un maestoso spaventapasseri. Seguì un altro momento, il più misterioso, quello che nessuno osò raccontare, la cesura nella vita della dea: quando avanzò il suo primo passo, che fu subito una corsa. Evitò la città e gli uomini. Cercava i luoghi impervi e solitari, schiacciati dal cielo. O le paludi fruscianti di canne. O le radure che si aprivano nella foresta, mai calcate da [48] orma umana. Era la dea dell’intatto. Correva e inseguiva la bestia invisibile. Anche il toro possente si inchinava a lei. Tutti gli animali temevano la sua corsa. Tutti sapevano che la freccia della dea li avrebbe raggiunti. Ma, quando riposava, qualche cerbiatto usciva dal folto e le lambiva le mani.
La Sovrana degli Animali era il supporto di un guardaroba mobile: la natura. Gli animali si aggrapparono al manto della dea e vi rimasero impaniati. Nel simulacro di Efeso soltanto il volto, le mani tese e le punte dei piedi non erano nascosti dalle vesti sovraccariche. E la pelle era nera d’olio, che colava da orifizi unti col nardo. Da quella immobilità coatta, da quelle ponderose figure si sfilò, come spogliandosi con un gesto agile e abbandonando un astuccio, Artemis, la dea più leggera, che corre e colpisce, mentre un corto chitone ondeggia sopra il suo ginocchio.
Abbandonata la guaina asiatica, non più oppressa dalle protomi animali e da quei grevi testicoli di toro che per molti secoli sarebbero stati scambiati per molteplici mammelle, seminuda e luccicante nella sua epidermide tesa, Artemis evocò, mentre correva, un altro che fosse l’altro, il rovescio stesso della natura, di cui era sazia. Un altro che, come lei, sapesse colpire la natura ma a cui la natura non avrebbe mai potuto vischiosamente aderire. Un altro che conoscesse innanzitutto il distacco. Artemis non lo avrebbe mai toccato, il contatto fra loro sarebbe stato una sovrapposizione perenne e invisibile. Evocò un gemello: Apollo.
Artemis correva come un maschio – e negli uomini il desiderio più acuto per una donna fu quello per Artemis che corre. Artemis correva come un maschio finché sapeva che poteva essere vista. Ma entrava nell’acqua come una donna, perché allora nessuno poteva vederla, se non le sue ancelle e compagne di caccia. La pozza [49] d’acqua al centro del locus amoenus è il luogo segreto per eccellenza, il luogo dove la dea torna a immergersi nell’umidità del proprio corpo, il luogo dove accetta che il suo profilo indeperibile si cancelli parzialmente nel flusso da cui è sorto. Allora le compagne di Artemis la guardano – e questo è il segreto di cui soltanto loro sono partecipi. Ma chi sono quelle compagne? Sono Artemis rifratta e moltiplicata, delicatamente variata, dispersa. Non solo alle sue compagne Artemis si mostrava, ma anche ai suoi animali. Perciò Atteone si calò sul capo e sulle spalle una pelle di cervo. Dietro il masso muschioso spuntavano appena le corna, come rami tra le foglie. La sua colpa non fu certo quella, che sarebbe stata assai rozza, di voler stuprare la dea, ma di volerla guardare con lo sguardo dell’animale. Non esiste colpa più grave di questa, che obbligava la dea a ricordare l’età remota in cui era stata essa stessa l’animale, la prodigiosa cerva che fugge. Ma le dee, ancor più che gli dèi, non amano essere costrette a ricordare.
Eros è un «cacciatore prodigioso», «thēreutḕs deinós». Così disse Diotima a Socrate. E al tempo stesso Eros «passa la vita a filosofare». Sin da Platone, caccia e conoscenza sono termini che si inseguono e sovrappongono. Implicito, nella connessione, è un certo carattere assassino del conoscere, che nel raggiungere il suo oggetto può ucciderlo. Ma implicita vi è anche l’idea opposta: che il cacciatore, una volta raggiunta la preda, possa esserne beatamente contaminato, fino a diventare preda egli stesso. Così il cacciatore Atteone diventa la preda del suo sguardo e si lascia sbranare dai suoi stessi cani, che vogliono solo obbedirgli. Ciò che avvenne allora fu così raccontato da Giordano Bruno: «Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo [50] quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina ed universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito. Onde da volgare, ordinario, civile e populare doviene selvatico come cervio ed incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspirando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: Ecce elongavi fugiens, et mansi in solitudine. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vórano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte».
La scoperta della caccia, di ciò che la caccia implicava una volta separata da ogni utilità alimentare, e sorpresa nella purezza e durezza del suo gesto, nello scenario sempre ripetuto di un essere umano che insegue e di un animale inseguito, di una freccia che scocca e di una ferita che si apre, quella scoperta doveva assorbire in sé totalmente un essere divino, distoglierlo dalla sua ecumenica sovranità su ogni forma animale e vegetale. Passare dalla massima estensione alla massima intensità. Dalla superficie della terra alla punta della freccia. Questa fu Artemis. Ripiegate le ali, dimesse le vesti sontuose e asiatiche, abbandonata ogni frontale fissità, guizzava fra gli alberi senza schiantare i rametti – e tornava sempre a esercitare quell’attività violenta, che a nulla serviva. Gli dèi non si cibano di sangue, né gli umani hanno mai potuto mangiare o sacrificare le prede di Artemis. La caccia è una tautologia, l’esercizio che afferma se stesso. E, sepolta nel suo passato, incontriamo la negazione: l’animale che nega se stesso. Tautologia, negazione: non è forse il cerchio [51] del pensiero? Da quel cerchio Artemis non volle più uscire, incantata. Ma quel cerchio sfiorava altri cerchi. Talvolta, sfiorandosi, divampavano. Mai fu così acuminato il desiderio erotico come intorno ad Artemis, come in Artemis, che il sesso negava – e aborriva il contatto. Mentre lo negava, lo esaltava. Artemis era uguale al suo gemello Apollo in tutto, eccetto il sesso: «solusque dabat discrimina sexus». Perciò voleva negare il sesso, abolire quell’unico discrimine per rendersi identica al suo unico amante, l’amante innominabile: Apollo – e separata, insieme a lui, da tutto il resto.
Apollo si sollevò fra le mani della madre. Un arco sporse dalle braccia di Leto. Il piccolo dio vi si appoggiava come su un parapetto. Artemis, accucciata nell’altro incavo delle braccia di Leto, guardava il fratello. Poi guardava di fronte a sé e vedeva un’immensa montagna chiazzata, gialla e verde. Quella montagna si gonfiava lentamente e poi si ritraeva. Era una montagna pulsante. Leto continuava a salire, con fatica. Le chiazze si facevano più vicine. Il torso di Apollo era teso, lucente. Nel silenzio puntò una freccia. Era il primo gesto della sua vita. Artemis vedeva per la prima volta quei gesti e già li conosceva. La freccia vibrò nell’aria, unico suono. Artemis la vide conficcarsi in una chiazza piccola e delicata, centrale. La montagna ansimò. Per un attimo sembrava che dovesse espandersi e spaccarsi, inghiottendoli. Poi si contrasse. Un nuovo colore apparve vicino al punto dove si era conficcata la freccia. Colava un liquido opaco, nero, lentamente. La morte. Mentre più in alto, là dove le spire, ora immobili, del serpente lasciavano scoperta una fenditura della montagna, prese a sgorgare un’acqua chiara e perenne. Fu chiamata, un giorno, fonte Castalia.
Eros e caccia sono incompatibili perché troppo simili. Sono un incesto. Sono un esporsi ancora una volta, in [52] tutta la superficie del corpo e della mente, alla natura, rischiando di esserne riassorbiti. Ma se quell’esposizione è doppia, se caccia ed eros coesistono, la tensione finisce per paralizzare e precipita nella rovina. Per questo le prime e le più intense storie erotiche sono storie di cacciatori e cacciatrici, per questo sono storie di amori impossibili che finiscono sempre nella sciagura.
Da sempre ci si domanda il perché della proibizione dell’incesto. E, quanto più dettagliate e convincenti sono le spiegazioni, tanto più elusivo e sfuggente sembra quel fatto. Perché il sentimento dovrebbe rispondere, sempre e ovunque, con tanta precisione, all’esigenza di rispettare le regole dei sistemi di parentela? O forse i sistemi di parentela stessi si riferiscono a qualcos’altro, che non viene nominato ma nutre di inesausta energia il sentimento che impone di rispettare la proibizione? E che cos’è l’altro innominato? La comunanza con gli animali. Da questo stato di colpa perenne, da questa indistinzione metamorfica sorse la proibizione imprescrittibile di tutto ciò che è troppo intimo. Al tempo del Grande Corvo, quando l’uomo era cacciato e cacciava, quando non era l’uomo ma anche un animale o uno spirito o un dio e cacciava un altro essere di natura altrettanto incerta e mutevole, a quel tempo regnava l’incesto con l’animale. Da quel tempo doveva distaccarsi ogni altro tempo, se doveva essere il tempo di una storia di uomini. Ma quando, per un gioco crudele, per il puro piacere, Artemis afferra il suo arco e va in caccia, di nuovo siamo avvolti dall’aura dell’incesto, di nuovo avvertiamo di violare una proibizione che altrimenti nessuno osa violare. E un motto soltanto continua a stagliarsi nell’aria, senza ragione apparente: la caccia è l’incesto.
Si manteneva la parentela con l’animale indossandone la pelle. L’eroe indossava la pelle dell’animale che egli stesso aveva ucciso. Non l’abbandonava mai, come Atena non si mostrava senza l’egida, sigillata dal volto di Medusa. E la testa di Eracle spuntava tra le fauci del leone [53] di Nemea. L’espressione di Eracle e di Atena era sempre doppia. A quella, mobile, del loro volto si accompagnava quella fissa del morto che portavano su di sé. Ma per i molti anonimi bastava cingersi di una pelle animale. Di lupo, orso, pantera, lince. Impregnate di sudore e di polvere, erano garanti di una intatta promiscuità. Scortum, «pelle», «cuoio», è la parola più comune per dire «puttana». Il contatto con la pelle di un animale morto permetteva di comunicare con tutte le altre specie animali. Era la lingua franca della metamorfosi. Tutto questo non poteva non essere mal visto da coloro che stavano inventando una umanità dal profilo netto, irreversibile. Come chiamavano scortum quella parte del corpo femminile «che subisce l’ingiuria del coito», così equipararono a una qualsiasi prostituta chiunque aderisse a un’altra pelle. Sapevano che quei brandelli scorticati testimoniavano una perdurante promiscuità con il regno degli spiriti.
A Sparta i ragazzi erano lupi; in Atene, le bambine erano orse. Ripetono i manuali che l’iniziazione giovanile serviva a introdurre all’ordine della città. Al contrario, era un volgere lo sguardo verso un punto del passato, verso uno stato di commistione con l’animale da cui gli uomini si erano distaccati diventando lupi e orsi – e poi coloro che uccidono lupi e orsi. L’iniziazione era un invito al ricordo. Un giorno, a una certa età, si sarebbe studiata la storia. Ora si scopriva ciò che era avvenuto prima di ogni storia: si diventava per qualche tempo lupi e orse.
A Sparta, andare a caccia era dovere del cittadino; a Atene, la decisione veniva lasciata all’arbitrio del singolo. C’erano cani da caccia di Stato a disposizione di tutti, a Sparta. E i bambini venivano nutriti poco per essere obbligati alla caccia. Eppure l’utilità materiale della caccia era secondaria. La caccia aveva inizio solo dopo che si erano intonate lodi a Artemis.
Perché Artemis, la bella fra tutte, la dea avvolta dall’aura erotica, tanto che Aura è uno dei suoi nomi e una [54] delle sue figuranti, volle immediatamente, come primo desiderio di bambina, la verginità? La verginità è il segno della separazione, della distanza incolmabile. Il mondo non può fare irruzione in Artemis, mentre è Artemis che scocca le sue frecce sul mondo. E Artemis non vuole neppure conquistare il mondo, che già le appartiene, in quanto sovrana delle fiere, delle paludi e dei luoghi inviolati. Artemis vuole soltanto trafiggere il mondo, sceglie volta a volta un suo frammento, un corpo che fugge. Da lontano lo raggiunge – e nel sangue lo riconduce a sé. Chi colpisce, conosce. La mente si distacca dall’intrico naturale, lo osserva, lo spia, ne distacca a sua volta una parte e si ricongiunge a essa nel vincolo più intimo, la morte, che rapisce alla preda il respiro e la isola per sempre. Questa modalità della conoscenza, che poi divenne la modalità usuale della conoscenza, in origine fu un immane sforzo, un inarcarsi della natura contro se stessa. La storia ha finito per attribuire quel gesto ad Apollo. Ma fu la sua gemella, Artemis, nata poco prima di lui, a fargli da levatrice. Fu Artemis a fissare in quel gesto il centro della loro vita, ossessivo, sempre ripetuto, inesausto. Non ebbe neppure bisogno di appendere a quel gesto il cartiglio con la parola «conoscenza». Era la caccia, soltanto la caccia, per lei. Per Apollo, la caccia diventò conoscenza. Il passato più oscuro, ormai respinto verso la steppa, tornava a essere il fuoco dello sguardo, ma con una torsione del significato così brusca che poteva sembrare una recisione del ricordo. Artemis scosse via i suoi paramenti carichi di spoglie animali e scivolò dentro un chitone che si sollevava sopra il ginocchio. Non si trattava più di indossare la natura, ma di penetrarla da lontano. Il corpo di Artemis, che nessuno sino allora aveva visto, più che nudo era scoperto, mentre correva ignorando intorno a sé tutto ciò che non fosse la preda.
Artemis lasciò al suo gemello Apollo i privilegi della conoscenza che dichiara il proprio nome. Nei suoi santuari non vi erano severi sacerdoti, maestri del sillogismo ipotetico, ma bambine-orse e carnefici di stranieri o [55] adolescenti insanguinati dalle fruste. Non per questo, però, il pensiero era assente. Ma soltanto coperto da una cortina opaca. La più affine ad Artemis fra le sue protette, Ifigenia, si rivoltò furiosa contro «i sofismi della dea».
Che i rapporti fra Artemis e Apollo fossero non solo fraterni era ben chiaro a Erofile, la più antica fra le Sibille a Delfi e «prima donna che cantò oracoli». I Deli ricordavano un suo inno, dove Erofile diceva di essere anche Artemis, e come tale «moglie e talvolta sorella e poi figlia» di Apollo. Quando Erofile compose quell’inno era sì «delirante e posseduta dal dio», ma i suoi deliri erano precisi: aveva anche divinato che «Elena sarebbe stata allevata a Sparta per la rovina dell’Asia e dell’Europa e che per lei i Greci avrebbero distrutto Troia».
Per un dio, avere molti nomi è il primo dei desideri. Artemis bambina lo dichiarò quando era ancora seduta sulle ginocchia del Padre. Alla richiesta della verginità eterna associò la polyōnymíē, la «capacità di esser chiamata con molti nomi». Se non altro per disputare e gareggiare con il gemello Apollo. Ogni nome è un lembo di ciò che è, su cui si estende la sovranità del dio. Che è un singolare assoluto, ma esige di essere chiamato ogni volta con il nome giusto, con uno solo fra i suoi molti appellativi. È questa un’ansia perenne del politeista devoto: non solo riconoscere il singolo dio, ma il nome giusto con cui evocarlo in una certa occasione, in un certo luogo. Ansia ignota ai fedeli delle religioni del Libro.
Ipostasi, epiclesi, appellativi: nessun’altra divinità greca ne ha accumulati in pari numero intorno a sé. I nomi diventano per Artemis come gli animali disparati che portava affissi sul suo simulacro in Efeso. Gli studiosi scuotono la testa: che cosa tiene insieme le sue storie? Come può la madre asiatica dai molti seni, immobile, diventare la vergine ragazzina che fugge nel bosco con [56] il chitone rialzato? Ma Artemis non fu mai madre, né ebbe molti seni. È questo il più antico degli equivoci che la circondano. Non fu mai multimammia, come la chiamavano gli autori cristiani. Se mai, poteva essere scambiata per un giovinetto, di quelli che seguivano Apollo o da Apollo erano inseguiti.
Quale fu concepita da Artemis, la caccia fu modello dell’azione gratuita, irriducibile a qualsiasi funzione. L’animale cacciato non veniva poi sacrificato – e neppure mangiato. Certamente non da Artemis, che di altro si nutriva. E neppure dalle sue seguaci, che non furono mai rappresentate mentre banchettavano. Il bagno era la loro unica attività comune, al di fuori della caccia. E necessaria, perché la caccia creava impurità, mescolava sudore, polvere e sangue.
La purezza appare con la caccia e con Artemis: hagnḗ, «pura», la dea per eccellenza evocata con questa parola (soltanto Persefone ha diritto allo stesso appellativo in Omero). Ma che cos’è la purezza? La distinzione, la separazione. Il cacciatore si deterge, prima di partire per la caccia, per separarsi da ciò che non vuole essere, da ciò che lo mescola con il mondo. La donna mestruata non è pura perché il sangue la tiene in obbligato contatto con l’esterno. Puro è ciò che spicca su un fondo, ciò che ha un profilo, ciò che così può diventare bersaglio. La selvaggina ama gli uomini puri perché quegli uomini furono in un altro tempo preda essi stessi. Dal momento in cui l’uomo affila una punta, si impone la purezza. «Superba per aver fatto strage di belve» incede Artemis. Non c’è purezza che non sia accompagnata da una scia sanguinosa. Perciò Artemis non può essere separata dal suo bagno, che lava quelle tracce – e ogni traccia.
Hagnós: categoria greca che non ha equivalenti nelle lingue moderne. «Santo» e «sacro» sono tollerabili approssimazioni a hágios e hierós. Se hagnós si traduce con «puro», non si fa che rinviare l’incertezza. In qual modo [57] hagnós si distingue da katharós, che designa usualmente la purezza? Jean Rudhardt ha fissato alcuni punti: «Hagnós, più frequente di hágios, si dice anch’esso dei santuari, dei boschi sacri e dei riti. Qualifica inoltre certe offerte e certi oggetti cultuali; si applica alla luce, all’etere, al fuoco; si dice di uomini e dèi». Indica uno stato da cui si decade versando il sangue: non c’è un hagnòs phónos, mentre c’è un hágios phónos. Eppure Artemis uccide e al tempo stesso è hagnḗ. Forse perché «occorre essere hagnós ... per sopportare una certa concentrazione di potenza». Wilamowitz traduceva hagnós con «casto», pensando a Ippolito. Traduzione sviante. Hagnós implica un «distacco». E la reverenza davanti all’ignoto. La qualità corrispondente a hagnós è detta hagneía: senza di essa nessun atto cultuale può essere efficace.
Artemis e Dioniso: parenti come tutti gli dèi, ma distanti. Lei vergine, lui promiscuo. Le loro vie si incrociano di rado. E solo in luoghi selvaggi. Entrambi si facevano seguire da un corteo. Clamoroso, quello di Dioniso. Frusciante e soltanto femminile, quello di Artemis. Che cosa li accomunava? L’estremo – e la comunanza con gli animali. L’estremo implica un occasionale acutizzarsi delle emozioni, degli atti – subitaneo, vulnerante. Anche se si tratta di loro simulacri. Guardare una certa statuetta di Artemis o di Dioniso poteva provocare la follia. Accadde a Astrabaco e Alopeco, che trovarono in un folto di canne la statuetta di Artemis che Oreste vi aveva gettato. Dalla Crimea a Sparta, e non più bagnata dal sangue, non aveva perso il suo potere. Accadde a Euripilo, che nell’incendio di Troia aprì una cassetta malignamente abbandonata da Cassandra. Quella cassetta celava un’immagine di Dioniso che nessuno avrebbe dovuto vedere.
Artemis incontrava Dioniso nel toro e nell’acqua. Su alcune monete di Amphipolis, Artemis cavalca un toro e lascia che sopra la sua testa si gonfi, come una vela, il velo che regge con le mani. In una statua mutila del British Museum sta in piedi, con leggerezza, su un toro, [58] di cui rimane solo la testa. È la Artemis Tauropolos. Le donne di Argo evocavano Dioniso come toro che emerge dalle acque. Il bagno di Artemis non era soltanto pausa e detersione dalla caccia. Era il ritorno alla figura di Artemis Lousiatis e Limnaia, alla dea di ciò che scorre e che sfugge. Non meraviglia se negli atti dei funzionari ateniesi che amministravano il santuario di Delos si parla di «una veste porpora ornata d’oro, fabbricata dagli Ateniesi usando le rendite di Apollo», veste che in un primo tempo aveva rivestito una statua di Artemis e in seguito una di Dioniso.
Apollo, Artemis, Dioniso, le tre guide del branco dei predatori: solo attorno a loro, solo dietro di loro appare la Ninfa, la brezza che fa tremare il panneggio. Nýmphai significa «le turgescenti». Mentre i succhi della vita cominciavano a irrorare gli arti infantili e sui corpi si sollevavano cupole e tende di carne, una dea – Artemis – le sequestrava. Quante erano al suo seguito? Ottanta ne chiese al padre Zeus, secondo Callimaco. Ma per Virgilio erano «cento dei boschi e cento delle sorgenti».
Vivevano novemilasettecentoventi anni, sempre giovani, dal seno profondo, dalla capigliatura ben intrecciata, non obbedivano alla sorte dei mortali e neppure degli immortali. Dividevano i loro amori fra gli uomini e gli dèi, talvolta attirando, talvolta fuggendo. Portavano «il dono della vita», dice Eschilo, ma anche la follia quando si insediavano nella mente di un uomo che le aveva viste, nude, al bagno. Abitavano dentro gli alberi o immerse nelle fonti o in grotte odorose. Ma soprattutto accompagnavano, come una milizia, Apollo, Artemis, Dioniso, i tre predatori. La più alta astrazione erotica ed estetica si annunciava nel loro corteo. Nutrici e cacciatrici, profetesse e musicanti, danzatrici e sacerdotesse. A vederle, ricordavano le più belle fra le donne o le dee. Ma il loro elemento non era umano né celeste. Questa tribù onnipresente, ondivaga, multiforme, eppure sempre uguale, era la nube demonica avvolgente, la pluralità delle [59] forze e delle figure che mediano fra gli estremi. Era il liquido mentale che tiene insieme tutto ciò che accade. Cumatilis, «simile alle onde», veniva definito il loro colore. Erano la materia di cui si compongono le storie.
Fra le due adoranti e la dea, nel santuario di Artemis Orthia, non vi era differenza nella fisionomia e nel profilo dei corpi, come se la dea si riflettesse in due specchi. Ma Artemis teneva stretta, in ciascuna mano, la coda di un leone e dalle sue spalle spuntavano ali. Mentre le adoranti reggevano una corona.
Non c’è traccia di morale, in Artemis. È feroce nel punire e nell’esigere, ma non si appella a una legge. Chi la offende – e non è difficile offenderla – sa già perché la offende. A differenza del suo gemello Apollo, Artemis non enuncia sentenze. Né risultano suoi interventi al concilio degli dèi. Anche se assiste a episodi cruciali, come nel caso del ratto di Core. La sua partecipazione alla vita delle città era nulla, ma le città non mancavano di erigere per lei templi e santuari.
Artemis la pura è anche la più feroce. «La sua personalità conserva tracce selvagge più di ogni altra divinità greca» constatò il trattatista Farnell. Anche sulla sua castità è ammesso il dubbio. La Ninfa Cirene, con cui Apollo si congiunse in forma di lupo, era una antica forma di Artemis, come se nel passato dei due gemelli affiorasse un’altra vita di intesa erotica violenta e felice. E Cirene non fu la sola. Poiché Artemis aveva una altissima capacità di scindersi in ipostasi, fece apparire sue emissarie per congiungersi con Apollo: la vaticinante Erofile e Chrysothemis, che generò Parthenos con Apollo. Anche di Callisto, seguace di Artemis, si disse che non aveva generato Arcas con Zeus, ma con Apollo.
[60] Il santuario di Artemis Laphria dominava Patrai dal suo punto più alto. La statua della dea, in oro e avorio, proveniva da Calidone. La mostrava come Amazzone e cacciatrice, con il seno destro scoperto. Ogni anno, in primavera, si celebrava una festa per la dea, preceduta da una processione grandiosa, chiusa dalla sacerdotessa vergine su un carro trainato da cervi. La popolazione partecipava in massa alla festa.
C’erano ceppi verdi, in cerchio, intorno all’altare. E ceppi di legno secco impilati sull’altare. Spargevano terra sui suoi gradini. E gettavano verso l’altare, «vivi, uccelli commestibili, e ogni altro genere di vittime». Anche «cinghiali e cervi e gazzelle». Anche «cuccioli di lupo e di orso» – e gli animali già cresciuti. E anche frutta di alberi coltivati. «Dopodiché appiccano il fuoco alla legna». A questo punto Pausania vide un orso e altri animali tentare di sfuggire alle fiamme. Ma «quelli che ve li avevano gettati li ricacciavano indietro nel rogo». Osservò poi che non si era mai dato il caso di qualcuno che fosse rimasto ferito dagli animali.
Nessuno, fra gli antichi o i moderni, ha saputo chiarire perché la Artemis Laphria esigesse questo olocausto. Anche il suo nome non è chiaro: alcuni lo collegavano a un certo Laphrio, che avrebbe installato la statua della dea in Calidone; altri pensavano che Laphria derivasse da elaphróteron, «più mite», in quanto la dea si sarebbe mostrata più mite nella sua ira verso Oineus, la cui terra aveva lasciato devastare dal Cinghiale Calidonio. Ma non si vede perché un rigoroso e onnilaterale olocausto potesse essere un segno di mitezza.
Con Artemis si entra ogni volta nella più irta metafisica del mito. Il sacrificio di Patrai coinvolgeva animali che la dea al tempo stesso proteggeva e cacciava, destinandoli tutti allo sterminio. Qualsiasi elemento di funzionalità o commensalità era assente nella cerimonia. Gli animali dovevano essere bruciati vivi, senza eccezione. Nulla di più e nulla di meno era richiesto. E si trattava di animali selvatici, quelli che nell’India vedica non era ammesso sacrificare. Al tempo stesso erano [61] quelli con cui Artemis più aveva a che fare. Se osservato da lontano, nel paesaggio mitico della Grecia, quel rito poteva apparire come un sempre rinnovato congedo da un’epoca intera, un’epoca lunghissima, rispetto a cui i fasti agricoli spiccavano come un’intrusione recente: l’epoca della caccia, che ora si riduceva in cenere.
L’eredità dell’Orso fu affidata, dai Greci, a Artemis. Bambine ateniesi fra i cinque e i dieci anni, con vesti di zafferano, venivano condotte a Brauron, sulla costa settentrionale dell’Attica, nel santuario della dea. Le chiamavano «orse».
Per i matematici, si definiscono «singolarità» certi enti – per esempio, funzioni – che a partire da un dato punto «divergono» (così dicono). Se si chiede perché usano quel verbo, rispondono che una funzione di tale genere «tende a infinito». Qualcosa di simile accadeva con gli Olimpi. Hermes e Artemis si presentavano come un uomo giovane, agile, vigoroso, dalla barba a punta, e come una cacciatrice di superba bellezza. Li si poteva incontrare in mezzo ai passanti che giravano per le strade. Alcuni dei quali potevano anche sembrare loro lontani parenti. Ma chi li avesse seguiti, presto si sarebbe perso. Come accade con certe singolarità matematiche, si sarebbe avvicinato a «una punta infinitamente aguzza su una superficie liscia». O sarebbe stato costretto ad assistere al delicato momento in cui il dio diventava inumano.
Quando la pólis si fu stabilita, quando si assoggettò al periodico ritorno dei frutti della terra, quando le comunità cominciarono ad abbandonarsi alla potenza dello scambio, rimaneva comunque una nostalgia per un’altra vita: certo più povera di elementi, ancora più ripetitiva, maniacale. Però irriducibile: la caccia. Ora che non era [62] più necessaria per sopravvivere, poiché si macellavano gli animali domestici, la caccia diventava necessaria per qualcos’altro, che agiva come un richiamo imperioso.
Il giovane più bello, Ippolito, spregiava la città e i suoi poteri, non mangiava carne, ma si dedicava ossessivamente alla caccia. Era l’inverso dell’uomo civilizzato, che non caccia più, ma continua a mangiare la carne degli animali domestici. La caccia, per Ippolito, era un esercizio. Ogni esercizio era una forma della caccia. E la preda, la freccia, l’arco ormai potevano essere sia visibili sia invisibili. Artemis è protettrice e sovrana là dove c’è una tensione, un bersaglio, una distanza. Ma che cosa avviene quando la distanza si annulla nel contatto? Allora nascevano le storie di Artemis e dei suoi amanti sconfessati – e talvolta uccisi.
I Greci non erano come gli Jacuti, per i quali la caccia significava un’attività di importanza vitale. Qualche lepre, un cerbiatto o un occasionale daino ucciso non cambiavano certo l’assetto dell’economia, che era fondamentalmente agricola. Già allora, come molti secoli più tardi in Europa, la caccia era innanzitutto un divertimento, una sfida. Ma perché i miti greci sono così spesso storie di caccia e hanno al loro centro un cacciatore o una cacciatrice o entrambi? Numerosi i miti di Artemis – e in ciascuno appariva la caccia, sua occupazione prediletta e quasi esclusiva. Il suo gemello Apollo doveva anche presiedere alla divinazione, alle Muse, doveva visitare gli Iperborei. Artemis intanto cacciava – o si riposava fra una caccia e l’altra, attorniata dalle sue devote. Non sembra che avesse altra inclinazione e occupazione. Nelle cacce di Artemis i Greci isolarono allo stato puro due atti: la predazione e l’uccisione. Presi in sé, scissi da ogni contesto che non fosse la selva, quei due atti stavano all’origine di pensieri e di storie inesauribili. E, nella nettezza crudele del loro profilo, potevano essere affidati soltanto all’alta protezione di una dea hagnḗ, «pura».
[63] Perché gli dèi dovrebbero cacciare, se non possono mangiare carne? Agiscono così per il puro piacere di uccidere? O per il puro piacere di colpire? Colpire è l’atto peculiare degli dèi. Uccidere ne è solo una variante. Anzi, colpire dà una giustificazione estetica all’uccidere – e al tempo stesso lo statuisce al centro dell’esistenza. Se non ci fosse stata la caccia degli dèi, l’uccisione sarebbe stata soltanto protetta e suggellata dal sacrificio. Ma la caccia la svincolava dagli obblighi rituali. E quel gioco perennemente ripetuto, ma seguendo l’estro e il capriccio, aveva preceduto il sacrificio e la sua fissità. Era qualcosa di grave, definitivo, era il gioco che rivendicarono subito le divinità del distacco: Artemis, Apollo, Atena. Ma Atena prediligeva la guerra e l’azione tessitrice, accorta. Mentre i due gemelli partoriti da Leto irrompevano tra le fronde, la mente fissa su un punto: il bersaglio.
Artemis non si curò mai della caccia come opera civilizzatrice, che mirava a sterminare belve e mostri, bonificando la natura strapotente. Anzi, la avversava. Per la dea la caccia era un gioco che ricominciava ogni volta, monotono e invincibile. Il passo del cacciatore ritrovava le sue piste, il braccio sfilava la freccia dalla faretra, le ginocchia si piegavano nella postura dell’agguato. La caccia era il luogo geometrico di ciò che non ha sviluppo. Partiva da zero e tornava a zero. Gli elementi erano poco numerosi e non tolleravano di moltiplicarsi: l’aurora, le vie non battute, l’inseguimento, la pausa meridiana, la freccia scoccata, il bagno alla sorgente, il sangue.
Non nella pólis o nel villaggio o nel palazzo si giocava la partita con ciò che precedeva ogni pólis, ogni villaggio, ogni palazzo. Sarà chiamato natura, un giorno, quel precedente. Ma all’inizio si presentava soltanto come foresta, come luogo non addomesticato, intatto. E lì si svolgeva una vita parallela a quella della comunità. Una storia [64] di singoli che vagavano e puntavano una preda. O si scontravano fra loro. O si desideravano. Tale è la fittezza delle storie greche di caccia che si può supporre non riuscissero a farne a meno. Erano la scena dove si articolavano e regolavano i rapporti con quell’entità oscura che precedeva e da cui si era distaccata ogni vita associata: gli animali. Ma il punto decisivo era che in quelle storie gli animali apparivano non in quanto rappresentavano ciò che poi veniva mangiato, ma solo in quanto erano ciò che veniva ucciso. La pura uccisione – degli animali e dei cacciatori fra loro – era il perno indispensabile, attorno a cui ruotavano le storie.
Se nel mito avviene tutto ciò che poi si ripete nella storia, la nascita del singolo avvenne in una foresta, quando vi apparve il cacciatore. Fu lui per la prima volta l’essere autosufficiente, che non ha bisogno di dialogare se non con la sua arte. È quello il primo profilo solitario, distaccato da ogni tribù, che ci viene incontro nella natura. Sul fondo: animali e piante.
I cacciatori non conquistano, non fondano, non governano, non celebrano. Cacciano – e non si curano d’altro. Al più, come Orione, possono pretendere che stermineranno tutte le belve. E con ciò vanno già oltre la pura caccia. Per questa via, attraverso Eracle, si arriverà all’eroe fondatore di città: Teseo. Per il resto, l’unica interferenza può essere amorosa. Dafne sfugge ad Apollo perché vuole soltanto cacciare.
A lungo la caccia fu al centro di ciò che accadeva: qualcosa di violento e intimo, di un’intimità che coinvolgeva tutti gli uomini e gli animali. Qualcosa che doveva durare poco, come una convulsione. Qualcosa che doveva essere preparato a lungo, con una serie di gesti: quando sopraggiungeva, creava uno squilibrio, che sarebbe stato sanato con altri gesti. E un giorno ciò che era il centro diventò un ornamento, relegato sulla cornice. La caccia diventò lo svago dei sovrani: nei loro parchi, con un seguito di schiavi e dignitari, si distraevano. Ma per Artemis [65] la caccia era il perno attorno a cui tutto ruotava. Non serviva a nulla, non nutriva una tribù – e neppure la cacciatrice. Era l’attività per eccellenza, che oscurava il resto.
La caccia è uno stato. Il cacciatore sta nella caccia, come potrebbe stare in una nube. E chi entra nella caccia non ne esce, se non con la morte. Talvolta neppure con la morte, perché la caccia prosegue in un simulacro affisso sulla volta del cielo. E prosegue nel mondo sotterraneo, dove Orione, il Cacciatore Celeste, continua ad aggirarsi con la sua clava, inseguendo prede, così come in cielo continua a inseguire le Pleiadi.
Ai tempi di Artemis, cacciatore era il singolo autosufficiente. E questi, osservava Aristotele, non può che essere «o animale o dio». Perciò lo stato del cacciatore è naturalmente oscillante fra estremi: Atteone può tornare a essere cervo, così come Orione può essere sequestrato da Eos in una vita divina.
La caccia artemidica era incestuosa, presupponendo la comunanza, l’intimità estrema fra il cacciatore e l’animale cacciato. L’uccisione era l’ultimo segno di una affinità primordiale che non ammetteva l’esistenza separata né dell’animale né dell’uomo, ma riconosceva soltanto la perenne oscillazione tra le forme.
Caccia e sesso: opposti e sovrapposti. Tutto ciò che si diceva della caccia descriveva il sesso. Tutto ciò che si diceva del sesso descriveva la caccia. Ma incompatibilità: mescolare il sesso e la caccia era rovinoso. Durante la caccia prendeva forma il desiderio triangolare. Il cacciatore, il rivale, la preda. Apollo e Artemis, con Orione. Eos e Artemis, con Orione. Orione a tratti era rivale, a tratti preda.
Per trattare con durezza gli Olimpi, occorre essere almeno una dea. Calipso li chiamò schétlioi, «spietati», perché non le concedevano di rimanere per sempre con Odisseo. E la stessa parola aveva usato Apollo, quando [66] Hera e Atena osservavano senza flettere lo scempio del corpo di Ettore, che Achille trascinava nella polvere all’alba di ogni giorno, intorno alla tomba di Patroclo. E questo soltanto perché Paride aveva preferito a loro colei che gli aveva offerto «la lussuria che fa soffrire», Afrodite. In tutti e due i casi il movente era la gelosia – e Calipso osò aggiungere che gli dèi erano «gelosi più di ogni altro». Non tolleravano che le dee «andassero a letto con gli uomini». Non c’è modo di dire diversamente: eunázesthai, il verbo usato da Calipso, significa «condividere la euné», il «letto». Fra le molte e celebrate storie fra dee e uomini, il primo esempio che Calipso volle scegliere fu quello di Eos e Orione, come se tutti i casi seguenti lo considerassero un modello.
Orione era un cacciatore smodato. Viveva soltanto nella caccia, che poteva trasformarsi in bonifica o in mero sterminio. A Chio, l’isola dei serpenti e della vite, promise a Enopio di liberarlo di quegli animali nefasti. Allora agì da eroe civilizzatore. Ma in altre occasioni Orione pretendeva di sterminare gli animali e li uccideva «amenti corde», «con animo delirante». E così feriva un ordine che lo precedeva, lo includeva e non doveva essere violato. In ogni momento e qualsiasi cosa facesse, Orione oscillava fra il benefico e il malefico.
Corinna, maestra e rivale di Pindaro, disse di Orione che era «il più devoto» fra gli uomini. Ben diversi i moderni. Nel Novecento, Fontenrose lo trovava piuttosto «ottuso»; e in età romantica K.O. Müller scrisse che, a quanto pareva, «per i popoli antichi era molto naturale considerare Orione come un gigante poderoso, però anche come un tipo insolente e stolto». Ma le vicende di Orione vanno misurate su tempi astrali. Senza battere ciglio, Lévi-Strauss puntualizzò: «Gli studiosi della preistoria ritengono che gli Indiani americani siano arrivati dal Vecchio Mondo durante il Paleolitico medio, [67] e noi potremmo ammettere che la mitologia di Orione risalga a un periodo altrettanto antico, e sia giunta con loro».
Orione non era un gigante ma era pelṓrios, parola che indica qualcosa di immane e portentoso. «Le potenze di un tempo», si dice in Eschilo, erano pelṓria. E anche Achille è pelṓrios, come tutto ciò che è soverchiante e incontenibile. Anche i flutti e le armature. Ma soprattutto Orione era bellissimo. Quando Odisseo, nell’Ade, vide Oto e Efialte, disse che mai sulla terra erano apparsi esseri «più alti e più belli, a parte il nobile Orione». Che Odisseo poco dopo sarebbe riuscito a vedere, mentre cacciava sul prato degli asfodeli le belve «che aveva ucciso egli stesso sui monti deserti». Sulla terra come nell’Ade, come in cielo, dove brillava ogni notte, Orione non poteva fare altro che questo: cacciare.
Della nascita di Orione si davano due versioni, che non potevano essere più distanti e incompatibili. E lo stesso vale per ogni episodio della sua vita, di cui sussistono soltanto schegge aguzze e frantumi. Eppure si trattava di una vicenda molto antica e nota a tutti, se Calipso volle evocarla al primo posto fra gli amori funesti di dee e mortali.
Ma già nel quinto secolo, «sebbene i Greci conoscessero la costellazione che portava il suo nome, l’eroe Orione si era confuso nello sfondo, eclissato da Eracle, Teseo, Perseo e altri eroi». I tragici lo ignorarono, salvo in un dramma satiresco di Sofocle, Kēdalíōn, di cui quasi nulla rimane.
Le due versioni della nascita di Orione hanno un solo tratto in comune: il padre – o uno dei padri – Poseidone. Che avrebbe generato Orione con Euriale, figlia di Minosse. Della quale null’altro si può dire, se non che era sorella di Fedra e Arianna. Quelle due principesse audaci e votate alla sventura erano le sue zie.
[68] L’altra versione è un perenne scandalo. Non soltanto K.O. Müller ne parlava come della «ripugnante leggenda della procreazione di Orione, che si vorrebbe molto volentieri espellere da questo ciclo mitico altrimenti così bello». Persino Ovidio, certamente non schifiltoso, giunto al punto cruciale della storia si ritrasse: «pudor est ulteriora loqui», «il pudore impone di non aggiungere altro». Accennava a ciò che era accaduto un giorno, verso la fine del pomeriggio, vicino a Tanagra. Tre uomini camminavano nella pianura. Due erano maturi e possenti, il terzo un giovane dal profilo tagliente. Zeus, Poseidone e lo psicopompo Hermes, in rappresentanza del terzo fratello, Ade. Ma si sa che Ade evita di farsi vedere sulla terra.
Un vecchio contadino stava seduto davanti a una casa angusta. Disse: «La strada è ancora lunga e la nostra porta è aperta per gli ospiti». Gli dèi lo seguirono, dissimulandosi. Pareti affumicate, fuoco quasi spento. Il vecchio provò a ravvivarlo. C’erano due pentole, con fave e cavoli. Cominciarono a bollire. Il vecchio versò un primo bicchiere di vino a Poseidone. La mano gli tremava. Poseidone disse: «E ora tocca a Zeus». Quando udì quel nome, il vecchio sbiancò.
Appena si riprese, non ebbe dubbi. Volle immolare l’unico bue da lavoro che usava per il suo piccolo campo. Mentre le carni arrostivano, i tre dèi si erano allungati su bassi letti, dove il lino copriva strati di alghe. Cominciò a circolare un vino che il vecchio aveva travasato molti anni prima. Ora c’era calore. Zeus disse: «Se hai un desiderio, dillo. Avrai tutto». Il vecchio rispose che era solo. La sua cara sposa, un amore di giovinezza, non c’era più. Un giorno le aveva detto che sarebbe stata la sua unica donna. Voleva tenere la parola. Ma ora desiderava un figlio. I tre dèi annuirono. Poi si alzarono e si disposero attorno alla pelle del bue che Hermes aveva appena scuoiato e disteso come un tappeto sanguinolento. Schizzarono il loro seme sulla pelle del bue. Poi la seppellirono. Dieci mesi dopo vi nacque Orione.
[69] Della nascita di Orione si trova in Ovidio una versione che, secondo Gruppe, era una «parodia». Nell’episodio quale è raccontato nei Fasti, i tre dèi orinano sulla pelle del bue e così fanno nascere Orione. Ma i Greci e i Romani sapevano bene che nessun essere può nascere dall’urina. Mentre avevano accettato che Erittonio, supremo guardiano di Atene, fosse nato da un panno intriso dello sperma di Efesto che Atena, furiosa, aveva scagliato sulla terra. Efesto, in un momento di aberrazione, l’aveva assalita nella sua officina e il suo sperma aveva bagnato una coscia della dea. Inorridita, Atena si era solo preoccupata di detergersi e liberarsi di quel panno umido. Da cui un giorno Ge avrebbe partorito colui che per Atena sarebbe stato non meno caro di un figlio.
Di là dal Mediterraneo e dal Khyber Pass, sotto un cielo remoto, altri dèi fecero nascere Vasiṣṭha, uno fra i Saptarṣi, i Sette Veggenti che poi presero dimora nell’Orsa Maggiore. Erano Mitra e Varuṇa, sovranità terrestre e celeste. A differenza di Zeus, di Poseidone e di Hermes, non conosciamo i loro volti. E di Varuṇa si può dire che era il più misterioso fra tutti gli dèi.
Non si sa quando né perché – il Ṛgveda si astiene di regola dal precisare questi dettagli –, Mitra e Varuṇa evocarono un fantasma femminile, Urvaśī, suprema per bellezza fra le Apsaras, le Ninfe celesti. Come Zeus, Poseidone e Hermes avevano fatto schizzare il loro seme sulla pelle di un bue appena scuoiato, Mitra e Varuṇa lo lasciarono cadere in un orcio, kumbha, da cui sarebbe nato Vasiṣṭha, che poi fu detto kumbhayoni, «nato da un orcio come matrice». Quell’orcio, precisa il Ṛgveda, era la «mente di Urvaśī». Rispetto alla crudezza legalistica della nascita di Orione nella versione di Ovidio, scritta in stile da puro Quirite, siamo qui di fronte a una vicenda molto più articolata e sottile. Mitra e Varuṇa non fecero a meno dell’apporto femminile per far nascere un essere. Anzi, vollero lasciarsi soggiogare dal fantasma [70] rapinoso di una Apsaras perché schizzasse il loro seme «alla vista e nelle vicinanze di Urvaśī».
Caccia e eros componevano il tutto della vita di Orione. Nessun’altra sua attività è testimoniata. E nessun’altra passione. Se non, a momenti, la tracotanza. «Sterminerò tutte le fiere» disse un giorno – e Artemis si offese. «So tirare con l’arco meglio di te» aveva detto un altro giorno alla sua compagna di caccia, che di nuovo si offese. E per Artemis nessuna offesa era parola vana. Una volta, Orione aveva osato sollevare un lembo del suo chitone, che già era corto. E un’altra volta aveva assalito Upi, sua seguace fra gli Iperborei, ed era come avesse assalito lei stessa. Eppure Artemis continuava a cacciare insieme a Orione.
«Pallidus in Side silvis errabat Orion», «Pallido nella foresta errava Orione, cercando Side»: così Ovidio evoca Orione, amante bellissimo e talvolta infelice, alla ricerca di Side, la sua sposa-melagrana (questo significa il suo nome), inghiottita nell’Ade perché aveva osato rivaleggiare in bellezza con Hera. Ma questa apparizione di Orione doveva essere coperta e soppressa da quella del bruto sterminatore di fiere, così quel verso di Ovidio si corruppe, di copista in copista, e al posto di Side si lesse linces, come se si trattasse di una scena di caccia. C’era però una incongruenza. Perché il cacciatore Orione avrebbe dovuto ostentare il pallore che è proprio dell’amante («Palleat omnis amans» secondo il precetto di Ovidio)? E finalmente venne in soccorso Heinsius con la sua editio nova di Ovidio, Amsterdam, 1658. Fu lui a ripristinare il nome di Side. Salus ex philologis.
La freccia elimina il contatto. La verginità di Artemis: astensione dal contatto. Diventa sovrano il luogo dove le cose non si toccano: la mente. Uccisi dalle frecce di [71] Artemis: Tizio, gigantesco figlio di Zeus, mentre tentava di rapire la madre Leto; Coronis, figlia di re, amata dal gemello Apollo; le sei figlie di Niobe; Atteone, cacciatore; Callisto, cacciatrice, amata da Zeus. Con Oto e Efialte, Artemis ricorse a un artificio: guizzò fra loro in forma di cerva e i due possenti cacciatori si uccisero trafiggendosi a vicenda, mentre tentavano di colpire la cerva fuggente.
Ogni sorta di sopraffazioni e malversazioni vengono attribuite agli dèi – e innanzitutto «fabulas illas turpiculas», come scriveva Lobeck. Mai però un autore antico accenna a una pratica che fra loro spesso si ripete: chiamarsi in aiuto come sicari, per uccidere qualcuno, soprattutto donne. Così Dioniso si appella a Artemis perché trafigga Arianna; così Artemis uccide Coronis per volere di Apollo; così Hera persuade Artemis a scoccare la freccia su Callisto. Prediletta fra i sicari è Artemis, con il suo arco che non manca mai il bersaglio.
Qualcosa di abietto e oscuro è all’opera, come se agli dèi mancasse, al momento dell’uccisione, la forza – e avessero bisogno di un complice, fra loro. Non diversamente fanno gli uomini, quando arrivano al momento culminante del sacrificio. Ma per gli dèi il ricorso a un dio-sicario avviene spesso alla fine di una storia amorosa. Si direbbe che certe vicende infauste siano anche per un dio qualcosa che non si può sopportare e impedisce l’atto. Non però il cenno che invita il complice all’intervento.
In un solo caso Artemis uccise senza volerlo. Accadde con Orione, il Cacciatore Celeste. Anche se più volte si erano scontrati, Artemis lo amava. Secondo Istro, sembrava persino che si proponesse di unirsi in nozze con lui. Questo non piacque ad Apollo. Un giorno Orione aveva tuffato nel mare il suo corpo imponente e sola ne emergeva, lontana, la testa. Apollo, malevolo, sfidò la sorella a trafiggere quel piccolo punto nero che si intravedeva nel fulgore delle acque vitree e tremanti. Artemis accettò, perché per lei l’arco era il pensiero stesso. Con la prima [72] freccia trapassò la testa di Orione. Dopo qualche tempo, le onde spinsero sulla riva quel grande corpo inanimato.
Fu Artemis a trasferire Orione in cielo, insieme al suo cane, che diventò Sirio e fu detto Canis Major, «astro più splendente ma sinistro, perché ai poveri mortali porta le febbri» si legge in Omero. La catasterizzazione segnala la fine dell’èra della metamorfosi. Quando qualcuno non può più essere trasformato, ma va salvato, diventa un astro. Sono i casi che non hanno altra via d’uscita, nel mondo di Zeus. Perciò si poteva dire che la vita sulla terra era costellata di storie sospese, affisse alla volta del cielo. Per gli uomini vedici, ciò che era accaduto nello spazio fra Sirio, Orione, Aldebaran e le Pleiadi era la scena che precedeva ogni altra scena e coincideva con il manifestarsi di ciò che appare. Fra Rudra, Prajāpati, Uṣas e i Deva, spettatori stupefatti, si era compiuto ciò che è indispensabile sapere.
Per i Greci dell’età classica, a Orione si associava una storia frantumata in disparati e scaleni tasselli, fra i quali si aprivano vaste lacune. Gli scrittori la evitavano accortamente. Non diedero a Orione neppure il privilegio di diventare un personaggio, come se la sua storia fosse troppo remota. Ma, pur dopo ogni sorta di inversioni, trasposizioni e camuffamenti, la storia rimaneva la stessa: la storia del Cacciatore Celeste.
III
IL GIAVELLOTTO DALLA PUNTA D’ORO
[75] Solitaria e confusa fra mercanti, capre e artigiani, Procri scese a Creta da una nave ateniese. Figlia di re, viaggiava come una giovane donna all’avventura. Fuggiva lo scandalo di un duplice adulterio. Il suo arrivo non poteva eludere l’occhio del re Minosse, che usava mettere le mani sulle fanciulle del continente appena sbarcavano, prima che venissero offerte al suo figliastro, il Minotauro. Secondo le voci che giravano, Procri era bellissima, aveva diviso il letto con suo padre, era una cacciatrice e moglie di un cacciatore che era stato rapito e sequestrato da una dea e aveva occupato nel suo letto l’incavo dei molti amanti precedenti. Si vociferava poi che anche Procri avesse tradito il cacciatore Cefalo, dandosi a un ignoto carico di doni.
Minosse non cercò subito Procri. Gli riferirono che aveva lasciato la città, puntando verso le montagne. E un giorno riapparve. Minosse non ebbe bisogno di sedurla. Con il suo sguardo chiaro e diretto, Procri gli fece capire che era ben disposta. Si comportava come una donna del porto e insieme come una sovrana. Minosse decise di confessarle il cruccio che lo opprimeva. Sentiva di doverne parlare, perché aveva riconosciuto in lei [76] la figlia del re di Atene. La sua natura avida di donne, disse, da qualche tempo era punita. Non solo Pasifae, la sua radiosa consorte, gli preferiva un toro, ma lo aveva colpito con un perfido sortilegio, per impedirgli le sue scorribande amorose. Quando si univa con una donna, proseguì il talassocrate, non poteva mai godere in tranquillità perché a ogni coito scaricava nella vagina dell’occasionale compagna di letto serpenti, scorpioni e scolopendre. Procri non sembrò affatto scossa. Bastava procurarsi una vescica di capra, disse con tono pratico. Quando la ebbe ottenuta, se la applicò nella vagina e invitò Minosse sul letto.
Durarono a lungo gli amori di Minosse e di Procri. Intanto la passione, l’ossessione di Minosse per Procri crescevano. Non cercava altre donne che lei, sempre protetta dalla vescica di capra. Ogni giorno di più, Minosse scopriva in Procri, con inquieta meraviglia, qualcosa di molto somigliante all’unica donna che gli era sfuggita, a quella che più aveva desiderato, anche lei viaggiatrice e cacciatrice: Britomartis. Per tutte le forre di Creta l’aveva inseguita, invano, durante nove mesi, senza interruzione. E quando, nella corsa pazza, erano giunti a una roccia a picco sul mare e la mano di Minosse stava per stringere un lembo del suo chitone, Britomartis si era gettata nel vuoto, sprofondando nei gorghi. Minosse non seppe mai che Britomartis era stata salvata e protetta da alcuni pescatori, che l’avevano tirata su dall’acqua nelle loro reti. Si allontanò cupamente, ripetendosi che non era mai riuscito a sfiorarla. Eppure l’immagine di quella donna si era incisa più di ogni altra nella sua mente. Sempre andava cercandola. Ora sembrava riemersa – e non soltanto non lo sfuggiva, ma aspettava le sue visite con la pazienza dell’amante e accoglieva dentro di sé le bestie velenose e inesauribili che il corpo di Minosse produceva. Quale intimità più delicata poteva immaginare di quel gesto di Procri che ogni volta si alzava dal letto e svuotava in una tinozza gli scorpioni e le scolopendre?
[77] Ma al tempo stesso Minosse sentiva che qualcosa lo separava da Procri, come se quella vescica di capra fosse il lacerto di un velario invisibile. Forse non l’aveva mai toccata, forse si stava rinnovando la storia di Britomartis. Come conquistare ciò che già si dà totalmente? Nella sua fosca mente, Minosse pensò di offrire a Procri un dono senza uguali. Sapeva che Procri amava la ricchezza, ma non voleva trattarla come una delle sue tante concubine. Che cosa c’è al di là della ricchezza? Il dono di un dio. Un giorno si presentò a Procri tenendo in mano un giavellotto e seguito da un cane. «Questo cane, che si chiama Lailaps, e questo giavellotto dalla punta d’oro furono donati da Zeus a mia madre Europa, quando il dio l’abbandonò sola su quest’isola. Nulla può sottrarsi né all’uno né all’altro. Lailaps addenterà sempre la preda che insegue. Tu sei una cacciatrice, ora ti aiuteranno quando caccerai da sola». Procri era commossa. Ma toccava il giavellotto e carezzava il cane pensando ad altro, a qualcosa che sfuggiva a Minosse.
Poi si riscosse. «Anch’io ho per te un dono divino» disse l’amante. Da un cassone dove teneva le vesti di viaggiatrice estrasse un’erba che Minosse non aveva mai visto. «Guarda» disse. «Ora potremo fare a meno di quella vescica di capra che tante volte si è riempita di scorpioni dentro di me. E in fondo anche questo rimedio viene dalla tua famiglia. Ricordi che il gigante Picoloo tentò di scacciare dalla sua isola Circe, la tua cognata? Dal sangue nero di Picoloo crebbe questa radice. Ma Helios ha sbiancato il suo fiore. Se la usi, non emetterai più serpenti. Così potrai passare al letto di tua moglie e anche ingravidarla, se non vuoi che la terra sia cosparsa dei bastardi partoriti dalle tue Ninfe, mentre il palazzo di Cnosso non ha eredi, a parte quel giovane dalla testa di toro, che non è neppure tuo figlio». Minosse al momento non capì che quell’erba prodigiosa era un dono di congedo. Il giorno dopo, Procri era scomparsa. Gli informatori riferirono che si era imbarcata per Atene.
[78] Per un lungo periodo, Minosse aveva visitato regolarmente Procri. Non si videro mai fuori da una stanza, per non sfidare la furia di Pasifae. Parlavano e parlavano, poi si avvinghiavano sul letto. Minosse, il più regale dei re, il primo che raggiunse il dominio dei mari, l’unico che, per consigliarsi, non si rivolgeva a un ministro ma a Zeus, che era suo padre, ora svelava i segreti della sua famiglia e del suo regno a quella impavida ragazza ateniese, che viveva in solitudine nella sua isola, senza altra ragione se non i loro incontri, vani e meravigliosi. Anche Procri raccontò la sua vita. Il suo amore, da bambina, per il padre Eretteo. Il suo amore, da ragazzina, per Cefalo, per la sua bellezza che stordiva. La promessa che si erano fatti di non tradirsi mai. Il suo amore, da sempre, per la caccia. Anche Procri aveva qualche segreto da svelare. Non tacque nulla, eccetto un episodio di cui mai avrebbe fatto parola con alcuno. Era accaduto a Creta, prima di incontrare Minosse. Quando aveva messo piede sull’isola, non era un’avventuriera né una fuggitiva, ma una principessa che vuole raggiungere la sua dea. Aveva subito lasciato il porto e si era messa a vagare per le montagne, alla ricerca di Artemis.
Artemis guardò Procri e proferì queste parole dalla sua bocca piccola e perfetta, di cui Prassitele si sarebbe ricordato: «So che sei mia, so che sei me, anche se per tutta la vita hai fatto ciò che perseguito. Hai offerto il tuo corpo a ogni occasione – e con maggior piacere se l’occasione era illecita, con massimo piacere se per una corona d’oro. Sei una figlia della città, che celebra i suoi misteri fra quattro mura. Sei una figlia di re – e non puoi dissimularti fra le mie Ninfe. Ma, prima di tutto, sei una cacciatrice. Questo è il tuo inizio, questa sarà la tua fine. Sono io che ti ho inviato nella città, mia messaggera clandestina, sono io che ho lasciato ti svergognassi con naturalezza, sono io che, attraverso di te, ho voluto legare per sempre Cefalo, il più bello dei cacciatori. E Cefalo non saprà mai che la sua sorte è sempre [79] stata retta da me. Eos ormai lo esasperava, con le sue braccia rosee, con la mollezza dei suoi cuscini, con il frinire ossessivo della sua cicala – e Cefalo pensava, piagato dalla nostalgia, alla ragazzina che aveva lasciato ad Atene, magra e tesa, beffarda compagna di giochi. Pensava a Procri – e, attraverso di te, mi venerava. Così ora non ti accoglierò nel mio coro, non ti permetterò di abbandonare – come vorresti – la tua vita di donna persa fra gli uomini, ti respingerò come fossi indegna di me. Però a te affido ciò che c’è di più prezioso: vedi questo giavellotto, vedi questo cane. Questo giavellotto dalla punta d’oro si chiamerà un giorno “il giavellotto di Procri”, perché non fallisce un colpo; questo cane si chiama Lailaps, è un uragano e non esiste preda che possa sfuggirgli. Ma non pensare che ti offra un qualsiasi dono delle fate, che serva solo ad accrescere i tuoi poteri. Questo cane ha l’aspetto di un cane qualsiasi: sulla sua lingua però riconoscerai una stella e un’altra sulla fronte. Questo cane è un astro, è Sirio, più potente degli dèi. A questo cane obbediscono il cielo e la terra, a lui si deve se un immenso incendio non li investe. Tu, che sarai ricordata soltanto come la gelosa e l’adultera, che sembri passare la vita in un cerchio funesto di passioni, sarai ancora una volta la mia messaggera clandestina. Questo cane e questo giavellotto non serviranno a te, se non per una sottile vendetta amorosa, ma salveranno il mondo quando le tue mani li cederanno a quelle del tuo sposo, amante, fratello». Mentre Artemis parlava, Procri sentì la fitta di un dolore che l’attraversava come un cuneo. Ma al tempo stesso, era infusa di una beatitudine superiore a ogni altra che mai avesse provato. Si riconosceva in Artemis, come se a lei avesse pervicacemente obbedito, senza saperlo, in tutti i meandri della sua vita. Eppure ora la vedeva per la prima volta, per la prima volta la udiva – e sarebbe stata l’ultima. La gelosia e l’adulterio, i suoi regni, Procri aveva sempre avvertito che non sottostavano, per lei, ad Afrodite, ma a quell’altra dea, che di fronte a tutti li ignorava e spregiava. A quei regni doveva tornare, accompagnata da [80] Lailaps e dal giavellotto. Procri si inchinò in silenzio e scomparve nella selva.
Sulla nave che tornava ad Atene, Procri salì vestita da ragazzo: i capelli cortissimi, la clamide bordata dei cacciatori, il petaso buttato indietro sulle spalle. Stringeva in mano un giavellotto e la seguiva un cane. Arrivata, si diresse a Thorai, sotto l’Imetto. Passò davanti alla casa dove aveva vissuto felicemente con Cefalo. Non si fermò neppure e cominciò a salire lungo le pendici del monte. Cercava i sentieri che Cefalo usava battere. E finalmente lo incontrò. Riposava sotto un pino, in una radura. Si parlarono come due cacciatori che non si conoscono e sanno parlare solo di caccia. Procri fece correre Lailaps, che tornava ogni volta, velocissimo, con la preda. Scagliò tre volte il giavellotto ben più lontano di quello di Cefalo. E ogni volta aveva trapassato un animale. Cefalo guardava il cane e il giavellotto con lo sguardo attonito e concentrato che aveva da bambino, quando Procri gli nascondeva i suoi ricchi giocattoli. Procri gli si avvicinò e disse: «Possono essere tuoi, se ti lasci prendere da me». Cefalo annuì e si distese nell’erba, aspettando le mosse dell’ignoto amante. Allora Procri si scoprì il seno e il suo tono divenne beffardo: «Almeno questo, lo riconosci?». Cefalo capì immediatamente, ma non disse una parola. Ora Procri si era seduta: «Ricorda, eravamo bambini e io uscivo dal letto di mio padre, di nascosto, per giocare con te. Poi vennero le nozze ed eravamo talmente esaltati e sciocchi che ci siamo promessi di non tradirci mai. Poi tu hai ripreso ad andare a caccia – e non volevi che ti seguissi, forse perché temevi che fossi più abile di te. Un giorno sei partito per un viaggio che è durato otto anni. Venni a sapere che Eos ti aveva rapito e ti ospitava nel suo letto. Quando Pteleone si presentò a corteggiarmi, gli ho ceduto per dispetto – e non solo perché mi attirava la corona d’oro che voleva regalarmi. Tu ci hai sorpreso: eri stato tu a farmi incontrare Pteleone, perché cadessi nella [81] trappola. Ma ora voglio dirti che quella volta ho conosciuto un piacere acutissimo, che nessuno prima – né mio padre, né tu stesso – mi aveva rivelato. Era il piacere che si incontra soltanto con il primo che passa – e poi scompare. Tutti ad Atene erano al corrente della nostra storia e ridevano. Così mi sono imbarcata per Creta. Questo cane e questo giavellotto mi sono stati donati due volte, laggiù, da una dea e dal re più potente. Ma a me sono serviti soltanto per mostrarti che non hai bisogno di una dea per tradirmi. Basta il primo ragazzo che incontri sull’Imetto». Allora Cefalo carezzò il seno scoperto di Procri e sorrise. Tornarono alla loro vecchia casa, pensando entrambi che con nessuno al mondo si sentivano bene come con l’altro.
Quando Cefalo era stato rapito da Eos, per qualche tempo lo aveva dominato il terrore. Poi pensò che andava incontro a una vita di perenne beatitudine. E alla fine fu ripreso dal terrore e da una voglia disperata di fuggire. Era accaduto perché una volta, mentre Eos stava viaggiando nel cielo, aveva scoperto un minuscolo rotolo, sulla mensola dove ogni giorno osservava, allineati come soldati, i flaconi e i vasetti che la sua rapitrice usava per il trucco. Così Cefalo lesse queste parole:
«Eos si svegliava ogni giorno in una conchiglia immersa nell’oceano. Subito stirava le braccia, con un gesto indolente. E sentiva il brivido della forza indeterminata, pronta a invadere tutto. Quando le sue dita si distendevano, strisce di luce rosata solcavano la livida volta celeste. Poi, fra un dito e l’altro, traspariva un chiarore e il profilo delle mani abbandonate sul cielo si perdeva in un solo fascio radiante. Era l’aurora.
«In quel momento, Eos si stava già truccando. Poi si volgeva verso occidente e, da un balcone di nubi, mostrava al mondo il suo petto scoperto. Nel silenzio, indossata una veste di zafferano, saliva su un cocchio trainato da quattro cavalli bianchi e partiva per la sua corsa, per la sua caccia. Osservava la terra dall’alto e soprattutto [82] le montagne più aspre, in cerca di amanti. Prediligeva i cacciatori. Titone fu uno di loro, uno dei molti. Eos sapeva che, per ogni uomo, il suo passaggio era stupefacente, ma anche funesto. Ogni nuovo giorno consumava il loro tempo, li aiutava a estinguersi. Sorprendeva giovani bellissimi e solitari, come Cefalo o Clito. Li rapiva sul suo cocchio, tenendoli in braccio come fagotti. Ma presto doveva abbandonare i suoi amanti, perché Afrodite l’aveva condannata a rinnovarli.
«Per Titone volle chiedere a Zeus – e ottenne – una vita senza fine. Ma dimenticò di chiedere la giovinezza senza fine. Volò con lui presso gli Etiopi e, per qualche anno, pensò che sarebbero vissuti insieme per sempre. Ora la mattina si svegliava nello stesso letto con quell’uomo – e sotto i suoi occhi si truccava come una danzatrice. Ma un giorno si accorse che Titone invecchiava. Come per tutte le figlie dei Titani, per Eos era difficile distinguere la sua mente dal resto che la componeva: innanzitutto luce e tempo. Articolare un pensiero era uno sforzo, un’impresa rara e innaturale. Perciò non aveva saputo formulare ciò che avrebbe dovuto chiedere per Titone. Che cos’era, la giovinezza, se non l’essere stesso? Non occorreva nominarla.
«Come una sensazione pericolosa e ignota, provò uno smarrimento del cuore, guardando quell’uomo che si essiccava accanto a lei. Il cacciatore Titone si era fatto più piccolo, il suo corpo raggrinzito. Anche la voce di Titone cambiava, nelle loro lunghe conversazioni. Aveva qualcosa di testardo, dolce e disperato. Eos capì che non avrebbe più potuto dividere il suo letto con quel corpo. Lo prese in braccio, come un bambino malato, e lo adagiò in un’altra stanza. Ogni sera, quando tornava, gli serviva cibi degli uomini, mescolati ad altri, che gli uomini non conoscono. Titone ormai non parlava più. Dietro la parete, Eos udiva, nella notte, un suono tenace, inarticolato, l’unico suono che la raggiungesse. Una volta, aprì la porta della sua stanza e vide il letto vuoto. Poi, nella semioscurità, sentì di nuovo la voce di Titone. Abbassò lo sguardo – e riconobbe un insetto [83] che si stava avvicinando lentamente al suo piede morbido: una cicala. La sollevò e la chiuse in una gabbia. Poi la depose accanto al letto dove continuava ad accogliere i suoi amanti. Ora Titone vedeva accanto a sé, come un paesaggio di massi e di tronchi, le boccette e le minuscole scatole che Eos teneva schierate per truccarsi. Ogni mattina, Eos lo nutriva amorosamente di foglie e di ambrosia. Il frinire della cicala l’accompagnava nel sonno».
Quella sera, al ritorno di Eos, Cefalo le chiese di poter tornare sulla terra. La sua amata annuì.
Ora che Cefalo possedeva Lailaps e il giavellotto di Procri, ogni mattina, impaziente, partiva per la caccia. Procri lo lasciava andare. Poi cacciava da sola, in altri luoghi. Un giorno un cacciatore zelante le disse che aveva incontrato Cefalo sull’Imetto. Stava appoggiato a un tronco di pino, immobile, e invocava: «Aura, Aura, vieni da me». O altrimenti: «Nefele, Nefele, vieni da me». «Invoca la brezza o una nebbia protettrice» disse il cacciatore – e parlava in lui l’eterno evemerista. Ma Procri era sbiancata. Cresciuta nelle favole, si era battuta con le favole e sapeva che erano invincibili. «Queste sono donne, peggio ancora che donne» mormorò a se stessa. Chiusa nella sua stanza, si ravvivavano in lei alcune storie crudeli. Aura era una Ninfa, che Dioniso aveva posseduta nel sonno. E chi era questa Nefele? Forse un altro nome di Eos, forse la prima aborrita amante di Cefalo si celava in quella nebbia aurorale? Forse Cefalo smaniava dal desiderio di essere rapito di nuovo, anche se la sua barba ormai era ispida da anni? E non si chiamava forse Nefele anche il simulacro di Hera, su cui si era avventato l’empio e lussurioso Issione? E non erano forse nati da lei i Centauri? Allora un simulacro poteva anche partorire? Ma di che cosa è fatto un simulacro, se non di brezza e di nebbia? Sarà vero che i simulacri non sono meno potenti di coloro da cui si sprigionano? Procri sentì tornare, più torturanti che mai, gli spasmi della [84] gelosia. Ma questa volta presagiva che la ridda dei tradimenti stava per arrestarsi.
Non era più, come credeva, la donna che sa, ma la ragazzina disperata, sola e furente nella sua casa. Calzò gli alti sandali per la caccia e ancora una volta si mosse in cerca di Cefalo. Nella stessa radura che le aveva indicato il cacciatore, appoggiato allo stesso pino, Cefalo invocava Nefele, invocava Aura. La sua voce era come quella di un altro, come se un fantasma abitasse in lui. Procri lo osservava, acquattata dietro un cespuglio. E, senza accorgersi, si lasciò sfuggire un gemito, che non le apparteneva, come se anche in lei parlasse un altro fantasma. Subito Lailaps drizzò le orecchie e si diresse verso il cespuglio. Cefalo si guardò intorno, impugnò il giavellotto. Procri sentì le fronde scosse e la punta del giavellotto che le trapassava il seno. «Mi sono uccisa» pensò. Vide Lailaps che le lambiva un piede e Cefalo che si chinava amorosamente su di lei. Poi morì.
Con il corpo insanguinato di Procri fra le braccia, Cefalo si presentò a Eretteo. Il padre incestuoso guardò in silenzio la figlia. Sulla sua fossa avrebbe conficcato una lancia. Il gesto indicava una morte violenta che attende riparazione. Per gli Ateniesi, l’involontarietà di un omicidio non attenuava né tanto meno cancellava una colpa, anzi la rendeva più sottile, più solenne. Chi viene ucciso per errore ha un significato ulteriore, che va ben al di là della misera fallacia dell’omicida. Ma qual era il significato di Procri? Essere per sempre il modello di ogni commedia o melodramma o dramma dei tradimenti, sino a Così fan tutte e oltre? O c’era in lei qualcosa di più tenebroso, glorioso e segreto? Già Odisseo l’avrebbe scorta nell’Ade, tra Fedra e Arianna. Perché quella ragazzina ateniese stava accanto a figure così eminenti e fatali? Tutto questo ponderava l’Areopago, quando si riunì per giudicare Cefalo. E la sentenza fu: espulsione [85] perpetua da Atene. Imbracciando il giavellotto di Procri e seguito da Lailaps, Cefalo si incamminò, solitario, verso Tebe.
Quando Eretteo conficcò la sua lancia sulla fossa di Procri, tutti pensarono all’antica legge sull’omicidio. Allora il corpo di Procri venne trafitto una seconda volta, come se il primo dei suoi amanti, il padre, volesse ribadire la morte che il secondo amante, Cefalo, le aveva inflitto. Eretteo ignorò lo sposo assassino. Pensava alla storia di Atene, alla sua salvezza, avvolta fin dall’origine in una nube di fanciulle sacrificate o suicide – ma l’una e l’altra causa di morte si confondevano. Prima le figlie di Cecrope, il primo re di Atene: le fanciulle della rugiada, sfracellate sotto l’Acropoli – Aglauro, Herse, Pandroso. Poi le sue figlie: Protogeneia, Pandora, Creusa, Orizia, Ctonia. E ora Procri. Su di loro si era abbattuta la parola dell’oracolo. Eretteo l’aveva consultato a Delfi per sapere che cosa avrebbe dovuto fare perché Atene vincesse la feroce guerra con gli Eleusini. «Sacrifica una tua figlia per la città» era stato il responso. Antiquari e mitografi discordano, come sempre, su chi fosse questa figlia. Una voce anonima indica Procri come la prescelta. Ma tutte furono le prescelte, perché avevano giurato di non sopravvivere al sacrificio della sorella. Vennero dunque sacrificate tutte, ma ciascuna in modo diverso. Sappiamo che Orizia fu rapita da Borea; e Creusa stuprata da Apollo in una grotta dell’Acropoli. E Procri? Già il suo nome significa «la prescelta», ma un lessicografo ci tramanda che prókris era anche un tipo di fico. E «fichi», sykaî, erano chiamate le donne incestuose.
Attirando la figlia nel suo letto, Eretteo aveva scelto di rinchiudere Procri in un recinto di amori proibiti e traditi, perché giungesse alla fine a quella morte che, per il fatto di essere involontaria e accidentale, esaltava il sacrificio, mutandolo nel suo opposto. L’incesto era servito a dilazionare il sacrificio. Così Procri sarebbe morta non come vergine ignara, ma come eroina del [86] romanzo amoroso, come un’adolescente alessandrina che ha attraversato tutto il cerchio delle passioni. Pochi sapevano che Procri aveva avuto una figlia da Eretteo: la chiamarono Aglauro, in memoria di una delle figlie suicide di Cecrope. A Salamina si celebrava una cerimonia in onore di quella fanciulla della rugiada: «Spinto dagli efebi, l’uomo che veniva immolato faceva tre volte il giro dell’altare correndo. Poi il sacerdote lo colpiva con una lancia alla gola, dopodiché lo faceva bruciare interamente sul rogo». Nella muta lingua dei riti, quella lancia rispondeva alla lancia che Eretteo aveva conficcato sulla fossa di Procri. Era il giavellotto che la uccideva – e insieme la lancia che esigeva per lei vendetta e onore.
A partire dal momento in cui avevano espulso dalla città gli eredi di Cadmo, i Tebani subivano un flagello inviato da Zeus. Nascosta fra i cespugli del Teumesso, una volpe magra e famelica stava in agguato e uccideva sistematicamente chiunque incontrasse. L’esiguità dell’animale rendeva ancora più ineluttabile la condanna. Quella volpe era come il focolaio minuscolo di un male che si appresta a devastare un vasto corpo, forse la terra intera. Nella loro desolazione, i Tebani pensarono di rispondere alla ripetizione di quegli assalti con la ripetizione cerimoniale. Ogni mese esponevano un bambino fuori dalle porte della città. Sapevano che presto la volpe sarebbe scesa dal Teumesso e l’avrebbe divorato. Ma il male che si era insediato nella volpe del Teumesso non era mitigabile. Il male stava nel suo destino di inafferrabilità. Avrebbe continuato a uccidere con la stessa monotona pazienza del sole che sorge.
Anfitrione chiese allora aiuto a Cefalo. Aveva sentito parlare del cane di Procri e del suo prodigioso potere: perché non scatenare l’uno contro l’altro l’animale che non si può afferrare e l’animale che non può non afferrare tutto? Era un’incompatibilità da affidare a Zeus, esperto di incompatibili. Se Cefalo avesse aiutato i Tebani, [87] aggiunse Anfitrione, i Tebani lo avrebbero purificato dell’assassinio di Procri.
Così Cefalo sguinzagliò Lailaps. Correva sul Teumesso e la volpe davanti a lui. Zeus osservava la scena. Quei due piccoli animali, nervosi e feroci, pensava, erano il compendio del mondo. Lailaps era Sirio, il cane celeste, intorno al quale si articolava la meccanica delle sfere. Quante vicende intrecciate, quante tortuose avventure per farlo giungere a quella montagna della Beozia, dove finalmente avrebbe rivelato la sua natura cosmica. All’inizio era un cane d’oro, che Zeus aveva lasciato a guardia di Europa, ancora riversa, inebriata sulla forcella del platano di Gortina dove Zeus in forma di aquila l’aveva posseduta. Poi Europa lo aveva dato al figlio Minosse, che amava molto. Era l’unica a non lasciarsi spaventare dal suo sguardo fosco, perché ne conosceva l’origine: era lo sguardo dell’Ade. Minosse lo avrebbe poi donato a Procri, prescelta fra le sue tante amanti. Ed era soltanto la ripetizione di un dono, perché Procri aveva già ricevuto quel cane da Artemis, dalla sua dea. Era quella la figura della salvatrice, pensava Zeus. Tutta la vita aggrovigliata di Procri, che sembrava assorbita senza residui nei tormenti e nelle delizie amorose, era stata un pretesto perché un giorno tornasse da Creta, camuffata da giovane cacciatore, con quel cane – e ne facesse poi dono al suo unico amato: Cefalo. Procri non lo avrebbe mai saputo, ma solo a lei si doveva se la Grecia, quindi il mondo, non sarebbe stata a poco a poco sbranata dalla volpe del Teumesso.
Zeus contemplava dall’alto i due incompatibili che correvano: pietrificò la volpe e dissolse il cane nell’aria, riconducendolo al suo luogo nel cielo, dove Sirio splende, più luminoso di ogni altro astro. Quella corsa poteva solo essere sospesa – e un giorno sarebbe ricominciata, per tutto il tempo in cui Zeus avrebbe mantenuto il suo regno.
Dopo la pietrificazione della volpe del Teumesso, non molto si sa della vita di Cefalo. Si allontanò ancora di più da Atene verso occidente, seguendo Anfitrione, [88] come nobile randagio, nella sua guerra contro i Teleboi. Voleva dimenticare di essere un cacciatore e un amante. Cercava la morte e l’oscurità. Ma la sua audacia incurante lo rendeva celebre, non meno della sua storia, che tutti si raccontavano e avrebbero raccontato per secoli, se ancora Pausania accenna alla «storia di Procri, che tutti cantano». Non sapeva e non voleva sapere nulla dei suoi nemici. Inutilmente: la sera, sotto le tende, i guerrieri ne parlavano sempre. Sentì dire più volte che quella guerra era vana, perché il re nemico – si chiamava Pterelao – aveva un capello d’oro che gli conferiva l’immortalità. Cefalo pensò: «Io voglio solo morire – e non ci riesco. Pterelao non riesce a morire». Sentì una strana simpatia per quell’uomo che immaginava infelice per la sua invulnerabilità. Non sapeva null’altro di lui. Chiese altri dettagli ai suoi compagni. Gli dissero distrattamente che era figlio di Deioneo. Cefalo trasalì. Suo padre si chiamava Deioneo. Stava forse combattendo contro un suo fratello ignoto?
Udì raccontare anche altre storie di Pterelao: dicevano che aveva come amante sua figlia Altea. E che un’altra figlia, Cometò, appariva senza ragione sugli spalti delle mura. Cefalo, che si gettava sempre avanti a tutti, la riconobbe un giorno. Lo guardava fisso, come se fossero soli in una stanza – e quello sguardo riaprì, con suo orrore, la ferita del ricordo. Poi tutto avvenne rapidamente: Cometò sorprese il padre nel sonno e gli strappò il capello d’oro. Poco dopo, Pterelao venne ucciso da Anfitrione in duello. Negli accampamenti si sussurrava che Cometò avesse compiuto quel salutare misfatto per amore di Cefalo. Anche Cometò venne uccisa, con spregio. I guerrieri si dispersero e Cefalo rimase di nuovo solo. «Mi accompagna soltanto il tradimento» pensava.
Non aveva più desiderio di niente al mondo. La sua vita era stata un intreccio di donne, di cui nulla gli rimaneva. Nemmeno un figlio. Perché? Volle chiederlo all’oracolo. E il responso fu che doveva unirsi al primo essere femminile che incontrasse. Chiuso nella sua malinconia, [89] Cefalo riprese a vagare per i monti. Gli venne incontro un’orsa. «Una buona occasione per farmi uccidere» pensò il cacciatore. E le si avvicinò, inerme. Ma la zampa dell’orsa gli carezzò un braccio. Cefalo si accorse che la stava stringendo come una donna. Steso sull’erba, mescolato al pelo di quel grosso e dolcissimo animale, Cefalo trovò i suoi ultimi momenti di ebbrezza. L’orsa lo avvolgeva, lo annegava in un incanto. I loro corpi si muovevano con la sicurezza sonnambolica di un’antica familiarità. Un solo pensiero riusciva, a tratti, a trapassare Cefalo: ricordava Procri e le parole che gli aveva detto sul piacere che danno gli ignoti. Poi perse i sensi. Al risveglio, non vide più l’orsa, che era Procri. Da lei venne partorito Arcisio, padre di Laerte, che generò Odisseo. Quando l’eroe, nell’Ade, la riconobbe fra le donne illustri, non sapeva che Procri era sangue del suo sangue.
Di nuovo solo, Cefalo continuò a vagare. Nell’isola di Leucade si spinse sino a un’alta roccia, a strapiombo sul mare. Da quel punto «era un antico costume degli abitanti di Leucade gettare ogni anno, per allontanare il male, durante il sacrificio in onore di Apollo, un criminale: gli legavano addosso volatili e uccelli di ogni genere, perché sbattendo le ali gli alleviassero la caduta; e molti uomini, che si disponevano in cerchio su piccole barche da pesca sotto la roccia, tentavano, per quanto potevano, di salvare colui che era stato gettato, prendendolo a bordo e portandolo al di là dei confini». Cefalo si guardò intorno. La solitudine era assoluta. Nessuna barca in mare. Si gettò allora dalla roccia, con un senso di sollievo. Ma non venne salvato come Britomartis. Raccontarono che si era ucciso per amore di Pterelao.
Nell’Ade, Procri rappresentava il romanzo. Figlia del re di Atene, innamorata di un giovane che veniva da un porto minore dell’Attica, aveva vissuto in un periodo di [90] guerre, quando per la prima volta gli Ateniesi si erano dati il nome di Ateniesi. Ciò che si tesseva in lei, sin dall’infanzia, era una ragnatela di emozioni: un giorno si sarebbero chiamate sentimenti. Ebbe a che fare con sovrani e con dee, ma la sua vicenda, da un capo all’altro, fu totalmente privata. Soltanto un soffio di brezza la separa da Anna Karenina o da un personaggio di Schnitzler. Anche per questo – o soprattutto per questo? – Omero volle nominarla. E Polignoto, nella léschē di Delfi, dipinse Procri e Climene, un’altra donna di Cefalo, che si davano le spalle, offese dalla gelosia e recriminanti anche negli Inferi. L’arte di quei Greci non compendiava soltanto il passato, ma già sbrogliava, filo per filo, la matassa di ciò che si sarebbe chiamato letteratura.
Cefalo e Procri ormai sono morti. Sospesa, sempre da capire, è la loro storia. Perché questi amanti perfetti non ebbero in sorte una vita felice e anonima? Perché continuarono incessantemente a tradirsi, dopo aver giurato di non tradirsi mai? Quale origine aveva la loro inquietudine perenne? E perché, fra tutte le storie di tradimenti reciproci, nessun’altra è sopravvissuta così a lungo? Erano due cacciatori.
IV
LA BREVE ETÀ DEGLI EROI
[93] Erano cinquanta uomini e una donna. Fra loro, gli eroi più celebrati. Si imbarcarono sulla nave Argo, che Eratostene definì «la prima nave attrezzata e dotata di parola, la prima ad attraversare il mare, sino allora impercorribile». Avrebbero dovuto conquistare il Vello d’Oro, appeso ai rami più alti di una quercia, protetto da un drago nella remota Colchide. Era la prova a cui il re Pelia voleva sottoporre Giasone, convinto che equivalesse a una condanna a morte. Ma da tutte le parti della Grecia altri eroi convennero, per esporsi allo stesso pericolo.
La conquista del Vello d’Oro, la caccia al Cinghiale Calidonio, la guerra di Troia: per tre volte – e soltanto per quelle tre volte – gli eroi si radunarono per un’impresa. Per le spoglie di un animale, per uccidere un animale, per riconquistare una donna. Null’altro poteva essere motivo sufficiente perché gli eroi agissero insieme. Ci furono tre regimi. Nel primo si uccideva un mostro. Nel secondo si cacciava un animale possente. Nel terzo gli uomini si uccidevano tra loro. Prima uccidere il mostro, poi cacciare, poi uccidersi a vicenda. Era il compendio di ciò che era accaduto, a partire dai primordi.
[94] Giasone è l’uomo che non voleva diventare re. Fin dall’inizio mirava a questo. Quando si presentò davanti a Pelia, che aveva usurpato il trono di suo padre, cadde subito nel suo primo tranello, come se lo volesse. «Qual è un’impresa impossibile?» gli era stato chiesto. Conquistare il Vello d’Oro, disse Giasone, per incoscienza – o addirittura «per caso». Parlava per caso nell’incontro che doveva decidere la sua vita? Già questo era strano. E subito Giasone accettò l’impresa impossibile. Era sempre meglio che lo scontro per un trono. Giasone covava un dubbio su tutto ciò che riguarda la sovranità. Eppure fu lui a guidare la spedizione per riconquistare il talismano della sovranità. Di cui, alla fine della sua avventura, non si servì neppure. Quando Giasone tornò a Iolco, non si parlava più del Vello d’Oro. Nessuno sembrava interessarsene. C’era altro da pensare. Regnava sempre il feroce Pelia. Non gli era bastato spodestare il padre di Giasone. Aveva voluto farlo morire, obbligandolo a bere sangue di toro. Morte atroce e inaudita. Ma non era tutto: Pelia aveva ucciso anche il fratello infante di Giasone, Promaco. Voleva essere sicuro su ogni lato. E Giasone sembrava essere l’ultima delle sue preoccupazioni. Correva voce che gli Argonauti fossero tutti morti. Voce plausibile, auspicata.
Occorse a Giasone un lungo, meticoloso giro della Grecia per arruolare gli Argonauti. Dovevano essere non meno di cinquanta, quasi tutti di origine divina, «nati dal sangue dei Beati». Gli toccò anche spingersi fino all’Arcadia, il paese più scabro e il più estraneo al mare. Lì aveva una missione opposta, non persuadere ma dissuadere. Sapeva che la cacciatrice Atalanta nulla desiderava come unirsi agli Argonauti. Giasone usava sempre, all’inizio, il tono della ragionevolezza. Le disse che no – non gli sembrava accettabile che una sola donna, e di folgorante bellezza, salisse sulla stessa nave di cinquanta uomini per un’impresa che tutti consideravano disperata. Sarebbe stata l’origine di dissidi. Precisò che [95] «aveva paura di tremende liti per via dell’amore». Atalanta ascoltò Giasone in silenzio e gli mise in mano un giavellotto. Era il dono che aveva preparato per l’ospite.
Apollonio Rodio non incluse Atalanta nell’elenco degli Argonauti che si radunarono a Iolco. Ma, quando il furibondo re Eete con le sue guardie del corpo raggiunse gli Argonauti sulla riva da cui si preparavano affannosamente a ripartire, nello scontro venne ucciso Ifito e rimasero feriti «il capo Giasone, Laerte, Atalanta e i figli di Tespio», secondo Diodoro Siculo. Atalanta era dunque con gli Argonauti, mescolata a loro, pari a loro. Fu Medea a guarire i feriti, in pochi giorni, con le sue erbe e i suoi intrugli.
Sulla nave Argo, Meleagro e Atalanta si osservavano, si spiavano. Ogni giorno, ogni ora. Ma soltanto loro lo sapevano. Nessuno degli Argonauti se ne accorse. Meleagro e Atalanta sentivano crescere ogni giorno la tensione che li attirava verso l’altro e non si manifestava mai. Tutto era rimandato. Ora dovevano partecipare alla conquista del Vello d’Oro, di cui non molto gli importava. Ma sentivano che ci sarebbe stato, per loro, un altro appuntamento, fatale: la caccia al Cinghiale Calidonio.
Il Pelio: una montagna che entrava nel mare, interamente coperta da una foresta, come da un vello. Una massa verde, scura con chiazze smeraldine. Sulla sua punta, fra le rocce, gli Argonauti scorsero tre figure che li salutavano, ultima immagine prima del mare aperto. Una donna, di severa bellezza; un Centauro; un bambino biondo. Filira, Chirone, Achille. Filira era stata sorpresa da Rea abbracciata a Crono, nell’ultimo spasimo. Crono si era subito rialzato, trasformato in cavallo, ed era caracollato lontano. Voleva evitare una scena coniugale. Dal suo seme era nato Chirone, capostipite dei Centauri. E a Chirone era stato affidato il [96] piccolo Achille, perché fosse educato in tutto ciò che è essenziale.
Chirone, Filira: Giasone li osservava mentre si stavano riducendo a un punto, persi nell’ultimo profilo del Pelio. Anche altri Argonauti li guardavano, ma nessuno di loro sapeva che Chirone, Filira e le foreste del Pelio erano stati, per Giasone, il mondo intero, durante vent’anni. Finché non li aveva abbandonati e si era presentato a Iolco, «con due giavellotti in mano, uomo stupefacente», secondo Pindaro. Che aggiungeva: «Non aveva lasciato tagliare gli splendidi riccioli della sua capigliatura, che incendiavano di luce la sua schiena». Camminava dritto e si fermò al centro della piazza. Era la prima che vedeva. «Nessuno lo conosceva; tutti lo ammiravano».
Ora Giasone pensava a quel minuscolo essere, anche lui biondo, che aveva intravisto fra Chirone e Filira, come in un incavo già predisposto. Non poteva essere che un altro anello nel ciclo degli eroi. Ma prima spettava agli Argonauti chiudere il loro anello. Ormai li circondava soltanto il mare.
Nulla si compie se prima non si sacrifica. Perciò gli Argonauti fecero precedere un sacrificio cruento al loro imbarco. Vennero condotti all’altare due buoi. Allora Eracle «con la sua clava colpì un bue in mezzo alla testa, sulla fronte, e l’animale stramazzò a terra». Dopo di lui Anceo abbatté la sua bipenne di bronzo sul collo dell’altro bue. Uccidere l’animale era un privilegio che spettava in primo luogo all’eroe che aveva più peso (così tanto che a un certo punto si temette che la nave Argo non reggesse a sostenerlo). Ed era l’atto che ha maggior peso.
Quando approdarono a un’isola abitata soltanto da donne avide di maschi stranieri, dopo che avevano ucciso tutti i loro mariti ed espulso tutti gli uomini da [97] Lemno, gli Argonauti non ebbero dubbi. Accettarono subito di rimanere sul posto e vivere «reclusi». La vocazione per le imprese gloriose non era imprescindibile, se per riscuotersi ebbero bisogno delle frecciate che venivano dal più improbabile maestro del sarcasmo: Eracle. Alla fine ripresero a navigare, di mala voglia. Nessuno quanto Giasone, che si congedò dalla sua amante Ipsipile con parole rivelatrici: «Per me è sufficiente vivere in patria, con il consenso di Pelia. Piaccia agli dèi liberarmi dalle imprese». Mai come in questa confessione ci si era avvicinati al segreto dell’eroe. Non solo di Giasone ma degli eroi in genere: il profondo desiderio di sgravarsi delle imprese che gli spettavano, questo onere escogitato dagli dèi, forse soltanto per il loro piacere. Congedandosi dall’amante, l’eroe ricorreva spesso a nobili menzogne. Non così Giasone: fu anzi quello il momento in cui disse con la massima sobrietà ciò che mai più avrebbe potuto dire. Ed era «commosso».
L’oscurità greca era smaltata, blu scura più che nera. Kyáneos la sua parola. E il colore era così significativo che le rocce cozzanti attraverso cui dovevano passare gli Argonauti venivano chiamate Kyáneai, le Blu. Kýanos è lo smalto blu che si trova già descritto per oggetti micenei. Blu scura è la chioma di Poseidone. O il peplo luttuoso di Demetra e di Teti. Platone spiega che per produrre il kyanoûn occorre mescolare al bianco e al nero il lamprón, il «lucente». Anche i piedi di un tavolo possono essere blu o una prua o le nuvole. E anche le sopracciglia di Zeus.
Fineo era un veggente cieco che aiutava gli Argonauti e dagli Argonauti veniva aiutato – o era un nemico degli Argonauti, che lo accecarono? La prima storia è raccontata da Apollonio Rodio, l’altra da Eschilo e Sofocle. Come scegliere? Occorreva trovare un modo per accettarle [98] entrambe. Il caso più difficile, nella storia degli eroi, riguarda i mostri. Ogni eroe deve uccidere un mostro. Anche Giasone, eroe riluttante, dovette uccidere l’immane drago, lungo quanto la nave Argo, che si avvolgeva alla quercia dove, sui rami più alti, era appeso il Vello d’Oro. Ma pochi osano ammettere che, a ogni eroe che uccide il mostro, corrisponde nell’ombra il mostro che uccide l’eroe. Un caso evidente fu offerto dallo stesso Giasone. In una kýlix di Duris, databile intorno al 480, si vede l’eroe che fuoriesce dalle fauci del drago. È un corpo integro, perfettamente abbandonato, come di un dormiente che viene rigurgitato. Atena osserva la scena, assorta. Giasone è nudo, non rivela tracce di ferite, anche se il drago lo stringe fra due file fittissime di denti, piccoli e acuminati. Il drago lo sta restituendo al mondo – e soltanto la dea può testimoniare la scena. Giasone rigurgitato dal drago appare solo nella kýlix di Duris. Quell’immagine è indispensabile per ricostruire la vita segreta di Giasone, là dove le parole non soccorrono.
Secondo gli scrupolosi calcoli di Hermann Fränkel, Medea doveva avere poco più di quindici anni, all’arrivo degli Argonauti. Da che cosa riconoscerla? Era evidente. Come sua sorella Circe, come tutte le figlie del Sole, «irraggiava lontano uno scintillio, come se emanasse uno splendore dorato».
L’impresa degli eroi non era che un pretesto: questo sognò Medea, subito dopo aver visto Giasone. Lo straniero era venuto per lei: «Le sembrò che, se lo straniero aveva accettato la prova, non era per desiderio di portar via il vello dell’ariete». Chi voleva portar via era lei stessa, come «sposa legittima». I cinquanta eroi, la nave che parla, l’ariete volante, le rocce che cozzano, le Arpie: tutto si dissolveva nel sogno di Medea. Sprofondato il mito, subentrava la mitomania amorosa. Sulla scena rimanevano solo due figure: lo straniero e Medea. Era già Racine.
[99] L’ariete dal Vello d’Oro aveva salvato dalla morte Frisso e Elle appena prima che venissero sacrificati. Aveva manifestato un prodigio inaudito per sottrarli a ogni insidia, trasportandoli in volo per centinaia di chilometri, quando nessun uomo era in grado di volare. Sospeso nell’aria, aveva detto parole di consolazione a Frisso quando la sorella era precipitata nel mare che divide l’Europa dall’Asia. Dopo tante imprese, appena atterrarono nella Colchide, paese remoto e ignoto, avrebbe potuto aspettarsi di essere venerato, come un dio egizio. Invece suggerì subito a Frisso che lo uccidesse, sacrificandolo. Colui che l’ariete aveva salvato dal sacrificio doveva diventare il suo sacrificatore. Non c’era modo di uscire dai gesti del sacrificio. Il re Eete si compiacque di accogliere la spoglia prodigiosa dell’ariete e concesse allo straniero Frisso sua figlia Calciope. Non c’era neppure bisogno di doni. Il dono era il Vello d’Oro.
Fra l’epos omerico e le Argonautiche di Apollonio Rodio avviene un rovesciamento divinatorio: nell’Iliade e nell’Odissea i rapaci che hanno ghermito le loro prede sono un segno favorevole e vittorioso. Nelle Argonautiche la «timida colomba» che si sottrae agli artigli del falco e cade in grembo a Giasone segnala la benevolenza degli dèi e il favore di Afrodite: gli Argonauti potranno salvarsi soltanto grazie all’aiuto di Medea. Ma, se lo sguardo si spinge oltre, il favore di Afrodite si rivela rovinoso. Il «dolce uccello» che ora è sfuggito al rapace un giorno ucciderà i suoi figli.
Giasone compie le imprese prescritte e non viene mai meno ai doveri dell’eroe, pur «non desiderandoli». Ma la conquista del Vello d’Oro non è suo merito. Apollonio Rodio fu esplicito: «Giasone portò il vello a Iolco grazie all’amore di Medea». È come se l’eroe fosse un fantoccio necessario, mosso da forze che gli sono esterne. Una volta compiute le sue imprese, dell’eroe [100] rimane una carcassa vuota. E nessuno sembrava avere la vocazione dell’eroe meno di Giasone. Giunto nel regno del feroce Eete, che uccideva sistematicamente gli stranieri appena si avvicinavano, Giasone provò a persuaderlo, con acconce parole, a cedere il Vello d’Oro appunto a un gruppo di stranieri. Illusione di retore. Ascoltando le sue parole, Eete si domandava se ucciderlo all’istante.
Gli Argonauti si accorsero presto di trovarsi su un terreno ominoso e ostile. Appena sbarcati, procedevano in una pianura che portava il nome di Circe. C’erano tamerici e salici, in cima ai quali erano «sospesi cadaveri attaccati con corde». Quei corpi corrosi dagli elementi, avvolti in pelli di bue, stavano sulla soglia di un regno sciamanico. Se considerato nella prospettiva di quei luoghi, dirà la principessa Calciope, sorella di Medea, «il desiderio della Grecia» non era che «funesta infatuazione». I suoi figli volevano tornare a Orcomeno, per rivendicare l’eredità di Atamante. Orcomeno? Dove sarà mai Orcomeno?
In certe occasioni gli dèi preferivano assumere il comando di ciò che accadeva, accantonando gli uomini come irrilevanti. Anche gli eroi, anzi soprattutto gli eroi, che erano per loro i più cari fra i viventi. La nave Argo si stava avvicinando a Scilla e Cariddi, sulla via tormentosa del ritorno. Già nel viaggio verso la Colchide gli Argonauti erano riusciti a passare attraverso le Rocce Blu, le rocce cozzanti. E questo soltanto grazie a Fineo, l’indovino che – per sua sventura – «non aveva scrupolo di rivelare agli uomini con precisione anche il sacro pensiero di Zeus». Ma ora si ripeteva l’ordalia. Per passare da un mondo all’altro bisogna insinuarsi fra rocce in perpetuo movimento, che schiacciano. O attraversare un ponte che è come la lama di un rasoio.
Questa volta gli dèi pensarono che non era più il caso [101] di sottomettere gli Argonauti alla prova. Il Vello d’Oro lo avevano già conquistato. Ora dovevano soltanto sopravvivere, tornare nei loro regni a finire i loro giorni. Al più, si sarebbero riuniti di nuovo per cacciare un prodigioso cinghiale. Non solo per necessità, ma per nostalgia.
Hera sapeva che non poteva agire da sola. Chiese aiuto a Teti, l’unico essere femminile di cui Zeus si era incapricciato invano. Al suo corpo aveva rinunciato perché gli era stato detto che il loro figlio sarebbe stato «migliore del padre». E Zeus intendeva regnare per sempre. Ma Hera non credeva che fosse l’unico motivo di quell’amore incompiuto. Pensava che Teti non avesse ceduto a Zeus anche per riguardo verso la sua consorte. Unica donna, unica dea che aveva avuto quel riguardo. Così Hera, che non aveva amiche, la considerava quasi un’amica.
E ora fra gli Argonauti che stavano per schiantarsi sulle rocce ruggenti c’era anche Peleo, il mortale a cui Teti, alla fine, aveva dovuto congiungersi. Nessun’altra poteva essere altrettanto d’aiuto. Perché Teti era anche il mare. Come in una confidenza fra complici, Hera chiese a Teti di sostituirsi agli Argonauti. Da soli non si sarebbero salvati. Teti annuì.
La videro affiorare dalle onde e salire a poppa della nave Argo. Come un adusto marinaio prese il timone, senza guardare gli Argonauti che la seguivano, attoniti. Ma la sua perizia non sarebbe bastata. Si videro allora su un fondo scuro e confuso, fra schiume e vapori, spuntare in agili drappelli giovani donne dalla pelle bianca, battuta dal vento. Si muovevano come se, invece che fra rocce e flutti, si trovassero su un prato. Erano le Nereidi. Giocavano. Da una sponda all’altra si gettavano la nave, carica degli eroi, come una palla. Ora la nave volava, più che navigare. In alto, come una macchia chiara fra le rocce, si riconosceva una figura maschile, ferma e assorta, appoggiata a un imponente martello: Efesto. Ma c’erano anche altri testimoni. Più in alto ancora, ormai nel cielo, si stagliava la reggitrice degli eventi: Hera stessa. E teneva Atena [102] stretta al petto, quella dea che non poteva considerare sua figlia, ma neppure una delle innumerevoli illegittime di cui Zeus aveva cosparso la terra. Gli occhi freddi e luminosi delle due dee erano fissi sulla scena. Anche loro non sapevano se l’azzardo sarebbe riuscito.
Oppresso da un «grande sgomento», Apollonio Rodio dovette riconoscere che «le malattie e le ferite non sono le uniche vie della morte». Si può uccidere anche soltanto con la mente, «da lontano».
Era venuto il momento di raccontare come Medea avesse abbattuto Talos, il gigante di bronzo, che scaraventava massi in mare per impedire agli Argonauti di attraccare a Creta. Fu allora che Medea decise di agire. Tenendola per mano, Giasone l’accompagnò sul ponte della nave. All’inizio la maga accostò al volto il suo peplo di porpora. Scoperti rimanevano gli occhi irraggianti. Mormorava parole che nessuno capiva. Si rivolse alle «agili cagne dell’Ade, che vagano ovunque dando la caccia ai viventi». Ma era solo l’inizio. Allora assunse «il pensiero malvagio» e diresse lo sguardo verso il gigante metallico che li guatava da terra. Gli occhi di Medea sprigionavano impalpabili «simulacri», eídōla, che andavano ad annidarsi nel corpo immane di Talos.
All’inizio nulla accadde. Regnava un denso silenzio. Poi Talos riprese a correre e gettare macigni nelle acque. Correndo, una pietra aguzza lo ferì vicino alla caviglia. Era il suo unico, minuscolo punto vulnerabile, il foro della cera persa. Da lì cominciò a scorrere un liquido che sembrava piombo fuso. Talos si abbatté come un castello di carte. Così quella notte gli Argonauti poterono sbarcare a Creta. Eressero subito un santuario per Atena Minoica. Appena toccavano terra, ovunque fossero, gli eroi si preoccupavano di celebrare un sacrificio o fondare un luogo sacro.
Ma, quando ripresero a navigare, tornarono con la mente a Medea, al suo «pensiero malvagio». Era una notte sinistra, di quel genere che i marinai chiamano [103] «sepolcrale». Era l’opaco invincibile. Non si vedevano la luna o le stelle, ma nemmeno c’era la nebbia. Gli Argonauti si domandavano se stessero navigando nell’Ade o sul mare. Il cielo si spalancava in un «nero caos». Giasone aveva le guance rigate di lacrime. Invocava Apollo – e continuò finché non vide profilarsi nella tenebra un arco d’oro.
Pelia era stato crudele, per tutta la vita. E anche la sua fine, da vecchio, rivelò una sovrabbondanza di ferocia e di perfidia. Tre delle sue figlie (Alcesti si astenne) lo uccisero a bastonate. Poi lo fecero a pezzi, che gettarono in un calderone bollente. Avrebbe dovuto uscirne integro. Discepole diligenti, applicavano la ricetta suggerita da Medea per restituire al padre la giovinezza. Ma Medea non partecipò alle operazioni. Disse che doveva pregare la Luna. Salì sugli spalti del palazzo e accese un fuoco. Era il segnale convenuto per Giasone e i suoi, che irruppero nel palazzo e se ne impadronirono, versando molto sangue.
Quando tornò a Iolco con il Vello d’Oro, Giasone si trovò in una situazione simile a quando era partito. Anzi, peggiore. La sua famiglia era stata sterminata. E Giasone continuava a essere l’erede legittimo che non riesce a farsi valere. Alla fine, si era disfatto di Pelia soltanto perché Medea aveva fatto agire le sue arti. Ma neppure allora diventò re. Era come se non volesse mai trarre vantaggio dalle sue vittorie. Nei dieci anni che avrebbe passato a Corinto con Medea e i figli, si accontentò di essere trattato come ospite illustre. Però privo di una funzione precisa. E il Vello d’Oro dov’era? Ancora una volta, nessuno lo ha detto.
Anche se, a detta di Omero, la storia degli Argonauti era «sulla bocca di tutti», i testi sopravvissuti che la rac [104] contano sono pieni di lacune e di omissioni. Né Pindaro, né Apollonio Rodio e neppure le scabre cronache di Apollodoro e Diodoro Siculo ci dicono perché fosse così importante conquistare il Vello d’Oro e perché i più gloriosi eroi greci avessero subito obbedito all’araldo che li convocava a Iolco e si fossero lanciati in quella impresa. E nulla si dice su ciò che avvenne del Vello d’Oro una volta riconquistato. L’unico uso a cui venne adibito, per quanto ci risulta, fu quello di morbida, luminosa coperta sul letto di Giasone e Medea durante la loro prima notte coniugale nell’antro dei Feaci. Fu una decisione presa per scaltrezza e necessità. Se Medea fosse rimasta vergine un giorno ancora, Alcinoo l’avrebbe consegnata al suo furioso padre Eete, perché la riconducesse nella Colchide. Ma anche in quella notte il Vello d’Oro non fu più che un ornamento.
Altrimenti, durante i quattro mesi del fortunoso ritorno, il Vello d’Oro rimase appeso a uno degli attrezzi sul ponte della nave Argo. Gli eroi non lo guardavano neppure. E, dopo che Argo riattraccò a Iolco, altri eventi funesti si succedettero, ma del Vello d’Oro ormai non si parlava più. Se era stato un talismano di sovranità, quella sovranità non venne più esercitata. Giasone non si oppose quando venne esiliato a Corinto, insieme a Medea. Finalmente non si trattava più di diventare re.
Ci fu un’epoca in cui il divino non si doveva soltanto riconoscere, ma scorreva in alcuni esseri. Erano i «figli degli dèi», nati perché Zeus – o Poseidone o Afrodite o Teti – si erano «mescolati nell’eros» con mortali, donne e uomini. Fu un’epoca breve e anomala. Durò poche generazioni e non era associata a un metallo, ma al sangue di quelli che furono chiamati eroi. Nome che Omero estendeva a tutti coloro, anche anonimi, che si battevano sotto le mura di Troia.
La mappa e albero genealogico di quell’epoca erano contenuti nel Catalogo delle donne, poema che nell’antichità veniva usualmente attribuito a Esiodo. Ne rimangono [105] solo schegge eloquenti. Gli esseri umani venivano spartiti in vari ceppi, ciascuno dei quali aveva all’origine una incursione erotica di Zeus. Mentre la fine era segnata dal ritorno dei guerrieri greci da Troia. Così si chiudeva il ciclo. Ciò che lo precedeva era una sequenza frastornante di convulsioni legate a nomi generici – Titani, Giganti, Centimani. Ciò che lo seguiva è la storia soltanto umana, dove sarà arduo trovare trame altrettanto dense di significati e di enigmi. E dove mancherà la rete che tiene insieme tutte le trame come quelle di un’unica famiglia, quanto mai ramificata. È quella rete che rende possibile il riverberarsi di ogni trama mitica in tutte le altre. Mentre le trame dei romanzi rimangono pur sempre isolate. Anche se le vicende dei potenti o degli amanti o degli sventurati hanno ogni volta qualche tratto comune. Ma la loro nobiltà sta nella solitudine dei casi singoli.
Se Zeus fosse stato soltanto giusto, non vi sarebbe mai stata commistione con il divino. Suo padre, Crono, non aveva potuto essere giusto perché ai suoi tempi quella parola neppure esisteva. Allora un dio poteva essere soltanto esatto. Quella era la sua virtù suprema. Perciò non si parla mai della giustizia di Crono. Si parla invece della giustizia di Zeus, che incessantemente la violava. Zeus si arrogò il privilegio dell’arbitrio. Isolava una donna, la aggirava, spesso con l’inganno, la invadeva. Con quegli arbìtri sommati si costruiva, a poco a poco, la storia degli uomini. Così sarebbero finalmente riusciti a sfuggire alla rigida e anonima ripetizione della natura. E intanto si manifestava una stirpe altamente ambigua, quella degli eroi. Per ascendenza, gli eroi partecipano del divino, quindi sono portati ad appropriarsi di un qualche scampolo di quell’arbitrio. Ma non sanno mai con certezza se l’arbitrio che praticano appartiene al divino o all’altra parte della loro ascendenza, che è umana. Allora il segno del loro privilegio diventerebbe una semplice violazione dell’ordine – e si attirerebbe una pena. Questa è la perplessità invincibile degli eroi.
[106] La passione di Zeus era il visibile, l’esistenza di profili nella luce. Quello era stato il prodigio che gli orfici attribuivano a Fanes. Ora, una volta giunto a regnare, Zeus tentava di ripeterlo. Una immensa luce radiante – e bagnati dalla luce innumerevoli corpi, cose. Un’aurea catena li teneva legati, ma era quasi una difesa perché le figure non straripassero, erratiche. Zeus sorvegliava le misure. Non era stato però lui a fissarle. La misura apparteneva al regno del padre, a Crono. L’attenzione di Zeus amava fissarsi su altro: sulla metamorfosi, sulla capacità delle forme di vivere molte vite, rapide e fluide. Sulla terra le figure apparivano e sparivano come folgorazioni. Obbedivano a uno slancio, attraversavano l’inganno. Cercavano soltanto ciò che appare – e di esso si saziavano. Anche gli dèi cercavano soltanto ciò che appare. Chiedevano alle figure terrestri di esistere, ancor più che di venerarli. Qualche fumo di sacrificio era sufficiente. Mentre nulla era loro inviso come ciò che sfugge alla gloria dell’apparire. Perché gli uomini lo capissero, spesso gli Olimpi si mostravano sulla terra e sul mare. Così gli uomini sapevano che cosa può essere lo splendore. Così anche gli uomini che vissero in quegli anni furono conquistati dal visibile, di cui facevano parte occasionalmente anche gli dèi. Per gli eroi, questa sembrò una vita desiderabile: fulgente, intensa, breve, come un duello. Una vita che schiumava di forza – e spesso cadeva nell’ebbrezza della forza. Ma appena la vita finiva e il soffio ultimo usciva dalle narici, cominciava una lunghissima e monotona infelicità. Non c’erano il buio e l’incoscienza, ma un fioco bagliore, che faceva male agli occhi, e una vasta spossatezza attraversata da ricordi di un’altra vita, della vita nella luce. Era uno stato simile a quello di chi è esausto e non può dormire. In quell’ombra larvale bramavano tutti una sola cosa: il sangue. E questa avidità ovunque diffusa apparentava le ombre a un branco di bestie pronte a sbranarsi. Se le ombre non si gettavano sulle altre ombre era solo perché non vi avrebbero trovato sangue.
[107] Secondo Esiodo gli uomini sono esseri decaduti, anche se in origine appartengono allo stesso ceppo degli dèi. Sulla loro caduta si danno due storie – una brusca e connessa a un singolo atto, l’altra diffusa nel tempo. Nella prima versione, Prometeo ruba il fuoco dall’Olimpo e Zeus gli risponde donando Pandora agli uomini. La caduta che ne consegue è immediata e irreparabile.
Nell’altra versione, che Esiodo chiama lógos, «discorso» (ed è «la prima occorrenza della parola al singolare» osservò M.L. West), ma altrettanto è myˆthos, a dispetto dei moderni, che vogliono tenere ben lontani i due termini, l’uomo decade attraverso una successione di età. Non è però una caduta graduale e lineare, come un giorno invece si immaginerà, in direzione opposta, il progresso. Anzi, è un percorso capriccioso, tortuoso e frastagliato. Non sempre prevale il deterioramento. Al contrario, l’età degli eroi, che precede l’età del ferro, «è più giusta e migliore» rispetto alla truce età del bronzo. Per la prima volta appaiono i nomi e le storie. Non basta essere un guerriero per avere un nome. Tali erano gli uomini dell’età del bronzo, ma finirono «anonimi nel gelido Ade». Nel male e nel bene, solo con l’età degli eroi si disegnano i precedenti di tutti i gesti. È un’epoca breve e fremente, a cui Zeus decise di mettere fine scrutando gli uomini che si battevano sotto le mura di Tebe e quelle di Troia – e più di una volta si dava il caso che fossero suoi figli e discendenti.
La successione esiodea delle età del mondo ha paralleli indiani, iranici, mesopotamici, ebraici. Ogni suo elemento trova un corrispettivo in altri luoghi. Eccetto uno: non si riscontra alcun equivalente dell’età degli eroi, la quarta età, quella che precede la tormentosa età del ferro, a cui Esiodo stesso appartiene.
Quanto alla letteratura degli inizi, che si tratti dei poemi e degli inni omerici o del Catalogo delle donne e della Teogonia esiodei, dovrà parlare o degli dèi o di un’età inabissata. [108] La sola eccezione è in una parte di Opere e giorni, dove Esiodo racconta la dura esistenza di chi lavora la terra. Esseri oscuri, condannati a ripetere sempre gli stessi gesti.
Gli eroi stentavano a districarsi dalle loro origini animali. Il centauro Chirone fu il maestro di Achille, ma venne ucciso da Eracle. E Eracle stesso finì torturato e indotto a uccidersi dalla tunica intrisa dello sperma, dell’olio e del sangue di un altro Centauro, Nesso, da lui ucciso per difendere una donna, Deianira, che aveva conquistato strappandola a un fiume metamorfosato in toro. Sofocle precisa che una stessa freccia aveva ucciso Chirone e Nesso, come se Eracle riservasse quell’arma per lo sterminio di una razza da cui gli eroi avevano imparato molti segreti. Appena separati dagli animali, prossimi agli dèi, presto estinti – così passarono gli eroi.
Le imprese degli eroi erano esercizi di astuzia e di forza. Ma potevano essere astuzia e forza vane, se non interveniva l’aiuto femminile. Teseo fu il primo a capirlo. Eracle ancora era troppo rudimentale, subiva le donne invece di usarle. Teseo invece sapeva, fin dall’inizio, fin da quando scese su Atene per la via dell’istmo, che gli incontri femminili stanno sulla soglia delle difficoltà ultime, quelle dove non bastano né l’astuzia né la forza. La donna appartiene al nemico, ma se l’eroe riesce a farle tradire la sua parte, la sua patria, il nemico si accascia, come il corpo del Minotauro squarciato dalla spada.
Ricorre spesso nelle Leggi di Platone, per bocca del vecchio Ateniese, la formula «dèi e figli degli dèi». Le danze onorano «gli dèi e i figli degli dèi»; certe forme di vita sono attuabili soltanto da loro. Perché quella insistenza? I «figli degli dèi» sono gli eroi, esseri che appartengono a un’età scomparsa. Ma a loro è dedicato uno [109] speciale culto. Platone non si stanca di ripetere che tutti i culti dovranno essere mantenuti e celebrati nella città che sta disegnando. Quella parte del divino che si era mescolata con donne mortali per far nascere gli eroi è una parte indelebile, acquisita per sempre alla vita.
Come in molti altri casi, e a dispetto dei glottologi, il punto di partenza più giusto, per quanto riguarda gli eroi, fu stabilito da Platone nel Cratilo, dove si legge che herōs deriva da érōs, perché gli eroi «sono nati o da un dio innamorato di una mortale o da un mortale innamorato di una dea». Quindi l’eroe si distingueva perché testimone di un periodo dove era stata particolarmente intensa l’attrazione reciproca fra il divino e l’umano. Breve periodo, che si chiuse nel giro di tre generazioni, il tempo che passò fra l’impresa degli Argonauti e il ritorno di Odisseo a Itaca.
Nessun ritorno da Troia durò più a lungo di quello di Odisseo. E Odisseo si era spinto più in là di tutti gli altri eroi con le armi della mente. Sarebbe stato lui a sigillare l’epoca. E si potrebbe pensare che l’uccisione dei Proci ne fosse la scena finale. Ma i poeti del ciclo epico tenevano in serbo qualche sorpresa.
Telegono era il figlio di una figlia del Sole e dell’ultimo eroe. Figlio di Circe e di Odisseo. Non aveva mai visto il padre. Per anni vide accanto a sé soltanto una donna – la madre – e leoni, orsi e lupi che vagavano attorno alla loro dimora. Ovunque guardasse, il mare. Ma era impaziente di partire. Voleva trovare il padre. Anche la madre lo voleva: «Circe mandò Telegono, il figlio che aveva avuto da Odisseo, alla ricerca del padre». Quando Telegono si congedò, Circe gli mise in mano una strana arma dalla punta ritorta. Era una lancia che aveva come punta l’aculeo di una razza. Un’arma come nessun’altra al mondo, disse Circe. L’aveva forgiata Efesto. E solo Telegono avrebbe potuto usarla. Il giovane figlio partì dall’isola. Non aveva un nome, era Colui-che-è-nato-lontano. Vagò a lungo.
[110] Su che cosa accadde a Itaca si hanno versioni diverse. Secondo alcuni, Telegono venne scaraventato dalle onde sull’isola e cominciò a devastarla. Odisseo gli si parò incontro per fermarlo. Si batterono e l’aculeo della razza penetrò nel fianco di Odisseo, uccidendolo. Secondo altri, Odisseo era stato avvertito dall’oracolo di Dodona che sarebbe stato ucciso da suo figlio. Per questo aveva allontanato Telemaco, prigioniero a Cefalonia. Un giorno sentì un vociare, fuori dal palazzo. Un giovane voleva entrare per vedere suo padre, diceva – e non lo lasciavano passare. Odisseo pensò che fosse Telemaco. Forse era tornato per ucciderlo. Uscì armato. Ma la sua lancia si conficcò nel tronco di un melo. Mentre l’aculeo della razza, sulla punta della lancia di Telegono, gli penetrò nel fianco e lo uccise. Quando Telegono capì che cosa era successo, si disperò. Disse a Telemaco che dovevano dare degna sepoltura al padre. Ma dove? Nell’isola di una donna divina. «Nell’isola di mia madre» disse Telegono.
Fu uno strano viaggio, quello di Telegono, quando tornò dalla madre Circe accompagnato da Penelope e Telemaco. Nella nave ospitavano anche il cadavere di Odisseo. Avevano confabulato a lungo prima di decidere che il luogo giusto per seppellirlo non era Itaca, dove Odisseo era nato e dove era tornato, ma l’isola della maga che voleva sequestrarlo per sempre. Come ora sarebbe avvenuto. La navigazione fu lunga e incerta, perché l’isola di Circe non si trova sulle mappe. Per arrivarci, occorre l’aiuto di un dio. Ma Atena era presente. Accompagnava Odisseo anche nella morte. I tre passeggeri ebbero tempo per studiarsi. E parlavano di un solo argomento: Odisseo. Penelope si sorprendeva sempre più spesso a osservare, con intenzione, il giovane che aveva ucciso suo marito. E non era ovvio perché Telemaco avesse subito assecondato Telegono nel sostenere che l’isola di Circe sarebbe stata la soluzione più adatta per la tomba del padre. Forse perché era un buon pretesto, e forse l’unico possibile, per incontrare la figlia del Sole.
[111] Finalmente i tre naviganti sbarcarono nell’isola di Eea. Circe vide Penelope, di cui molto aveva sentito parlare; e Penelope vide Circe, di cui molto aveva sentito parlare. Seppellirono nell’isola deserta colui che era stato loro marito, padre, amante. Poi si guardarono. Non sapevano che fare delle loro vite. Allora Atena intervenne. Disse che Telegono avrebbe dovuto sposare Penelope e Telemaco avrebbe dovuto unirsi con Circe. «Da Circe e Telemaco nacque Latino, dal quale prese il nome la lingua latina, mentre da Penelope e Telegono nacque Italo, che diede il suo nome all’Italia».
Ancora una volta, l’intelligenza di Atena aveva trovato la via che per chiunque altro sarebbe stata preclusa. Troppo audace, troppo inusuale. Atena sapeva che incombevano gli ultimi momenti dell’età degli eroi, occorreva concluderla con un atto che avesse tutta la potenza di ciò che lo aveva preceduto – e fosse qualcosa di unico e irripetibile, come gli eroi stessi.
Volle che Penelope, dopo aver temuto per anni che uno dei Proci uccidesse Odisseo, sposasse colui che veramente lo aveva ucciso. Volle che il figlio di Penelope si unisse alla donna che aveva tenacemente impedito a Odisseo di tornare dalla sua sposa. Volle che l’amante divina si unisse con il figlio che l’amato aveva avuto da un’altra donna. Tutto doveva rimanere in famiglia. Erano gli ultimi spasimi dell’età degli eroi. Atena volle chiudere Penelope, Telemaco e Telegono nell’isola di Circe come insetti nell’ambra.
Il mondo esterno? Indifferente. Coloro che sarebbero venuti dopo erano innanzitutto estranei. Appartenevano a un’altra storia; anzi, a un’altra èra, da cui le vicende di Odisseo erano separate come da una barriera impercettibile. E al tempo stesso quella nuova storia discendeva legittimamente dall’età degli eroi – anche se si trattava di legittimità paradossale e revocabile in dubbio, come ogni legittimità.
Latino, Italo: le loro figure presto si appannarono. Si confusero con quelle di certi luoghi: il Lazio, Roma, l’Italia. I luoghi dove più si sarebbe scritto intorno agli eroi. [112] E lì si leggeva l’Odissea, ma non vi si trovava menzione di Telegono. Solo i poeti dotti lo ricordavano. Ovidio, nella desolazione dell’esilio, chiamava i suoi tre libri erotici «i suoi Telegoni», perché avevano ucciso il loro padre. Se l’Italia avesse guardato alle sue origini, avrebbe trovato Circe e Penelope. Ma le dimenticò. Romolo non poteva discendere da un uomo che aveva ucciso il padre e sposato la matrigna. Occorrevano il pio Enea, la voce di Virgilio e la discendenza da Afrodite. Ma Atena aveva già agito e lasciato il segno, spostando il baricentro delle storie dalla Grecia a un’altra penisola: l’Italia. Dalla terra prediletta dagli Olimpi si passava alla terra dei giureconsulti e dei legionari.
La pelle del Cinghiale Calidonio finì appesa nel tempio di Atena a Tegea. Pausania poté ancora vederla nel secondo secolo d.C. Era una spoglia consunta, «che il tempo aveva raggrinzito e lasciato senza una sola setola». Quanto alle zanne, erano diventate parte del bottino di Augusto, dopo la vittoria su Antonio, insieme alla statua di Atena in avorio. Una delle zanne era rotta, aggiunge Pausania, mentre «quella superstite è conservata nei giardini dell’imperatore in un santuario di Dioniso, di là dal Tevere, e misura tre piedi».
Pausania non fu colpito né sorpreso, quando vide la pelle del Cinghiale Calidonio. Anche così potevano finire gli animali favolosi. Lo impressionò, invece, il tempio di Atena, «di gran lunga il primo di tutti i templi del Peloponneso, per dimensioni e architettura». Aveva colonne doriche, ioniche, corinzie, come in un compendio dell’arte greca. E il suo architetto era un sommo scultore: Scopas di Paros. Sul frontone si riconoscevano gli eroi della caccia al Cinghiale Calidonio. Anche Anceo, già ferito, che brandiva un’ascia. E, primi fra tutti, Atalanta e Meleagro. Il Cinghiale Calidonio veniva celebrato nella terra di colei che era stata la prima a colpirlo. Era come se la storia più remota e l’arte giunta al suo culmine si fossero riunite in uno stesso luogo. Nel tempio Pausania [113] vide anche una statua della Madre Dindymene «con il volto non d’avorio ma scolpito in denti di ippopotamo».
Del trafugamento del Palladio da Troia circolarono subito versioni contrastanti. Sembra che Odisseo, camuffato da mendicante e accompagnato da Diomede, si sia introdotto a Troia attraverso un cunicolo. Entrato nel palazzo di Priamo, Elena riconobbe in lui uno dei suoi corteggiatori di Sparta. Ma non lo tradì. E neppure Ecuba, che lo vide. Anzi, Elena guidò i due Achei al tempio di Atena. Era il giorno della festa della statua e nella confusione Odisseo poté impadronirsi del Palladio. Ma era il Palladio vero – o la copia? O una delle molte copie? Il Palladio vero era il più piccolo, una statuetta lignea che si poteva tenere in mano. La copia eccita la rissa. Già davanti a Elena, Odisseo e Diomede si disputavano il Palladio. Elena riuscì ad acquietarli per il momento, il suo solo pensiero era di farli sparire senza essere scoperta. Nella notte, tornando verso il campo acheo, Odisseo e Diomede ricominciarono a disputare. Diomede stringeva in mano il Palladio e sosteneva che fosse una copia. Fino a oggi la disputa non si è risolta.
Un talismano abbandonato – il Vello d’Oro; le spoglie scabre e mutilate di un animale prodigioso, esposte come un trofeo di caccia o un ex voto in un tempio di Tegea – il Cinghiale Calidonio; una statuetta della quale nessuno poteva dire se era l’originale o una copia – il Palladio. Così si chiude l’età degli eroi. Là dove si concentrava, la potenza si è dileguata. Ora si insinuerà altrove, in altre forme, clandestina e contraffatta.
Gli Argonauti, la caccia al Cinghiale Calidonio, la guerra di Troia, il ritorno di Odisseo: sono cicli inanellati. Tutto si svolge in poco più di mezzo secolo. Nestore, il vegliardo che Telemaco incontra a Pilo, era «nel fiore degli anni» al tempo della caccia al Cinghiale Calidonio. E aveva combattuto a Troia. Il padre di Achille [114] era uno degli Argonauti, che Achille bambino aveva visto salpare da Iolco. Giasone guida gli Argonauti e partecipa anche alla caccia al Cinghiale Calidonio. Gli Argonauti passano da Scilla e Cariddi, ma così anche Odisseo. I prodigi abbondano, soprattutto all’inizio e alla fine.
In quei pochi decenni, nella breve età degli eroi, la storia si contrasse per offrire materia da cantare, da narrare, da variare. Poi Zeus volle chiudere la partita. Sarebbero rimaste le guerre e i romanzi. E il ricordo di quei pochi anni in cui era accaduto tutto ciò che può accadere, soltanto un po’ più fulgente di prima e di dopo.
V
SAPIENTI E PREDATORI
My lords, a solemn hunting is in hand
SHAKESPEARE, Titus Andronicus
[117] C’era stato, un tempo, un visitatore assassino che faceva sparire i corpi degli uomini in fondo a una caverna e li sbranava. In quella stessa caverna dove erano stati divorati i loro predecessori, gli uomini divorarono altre bestie più piccole e accesero il fuoco. C’era una continuità di uccisioni, in quella oscurità. Ma ora sentivano di poter diventare un altro essere, distaccato da tutti quelli che uccidevano o da cui venivano uccisi. Uccidere senza toccare: di questo nessun altro era capace. Questo era il segreto. Dopo essere fuggiti per millenni, si appostarono in agguato, immobili.
Nella storia di nessun animale è avvenuto uno scarto nel modo di vita così brusco come in quella dell’uomo: da primate raccoglitore di frutti e radici, perseguitato da predatori, ad animale onnivoro, quindi anche carnivoro, un bipede che caccia in gruppo quadrupedi spesso più grandi di lui. L’uomo si distacca dall’animale acquisendo i suoi poteri. Avviene un doppio movimento, incrociato: per operare il distacco – mentre si opera il distacco –, è indispensabile una assimilazione. L’uomo diventa un predatore per potersi distinguere da ogni predatore e da ogni altro animale. Per distaccarsi dall’animalità, [118] l’uomo deve diventare un certo animale. E precisamente quell’animale da cui per lungo tempo era stato ucciso. Questo doppio movimento permane, incancellabile.
Gli animali osservarono gli uomini a lungo, perplessi. Si accorgevano che qualcosa stava cambiando. Gli uomini non erano più un animale fra i tanti che i grandi predatori assalivano e divoravano, nella savana e nelle caverne. Ora anche gli uomini assalivano e divoravano. Ma non lo facevano a mani nude. Si servivano sempre di qualche strano oggetto. Pietre, aste, picche. E alla fine usarono qualcosa di ancora più strano: colpivano da lontano, con punte di ossidiana che penetravano nella pelle. Erano l’unico animale che colpiva da lontano. Quando gli uomini avanzavano, nella boscaglia o nella foresta, si avvertiva un odore speciale, qualcosa di sgradevole e allarmante. Erano i cacciatori.
La caccia è il luogo dove si compie lo sdoppiamento primordiale, la divaricazione da cui tutte le altre discendono. La preda diventa cacciatore nel momento in cui uno sguardo si posa su un essere distinto da sé. In quello sguardo sorge il cacciatore, che fino a quel momento era stato un animale in mezzo agli altri. Era l’animale. Ora, diventando lo sguardo che osserva l’animale, era tenuto anche a ucciderlo.
Il distacco dall’animale fu l’evento fra gli eventi della storia. Ogni altro evento rimanda a quello. Non sussiste un racconto di ciò che accadde. Ma innumerevoli racconti che si sono tramandati presuppongono quel racconto che non si è trasmesso fino a noi e forse non è mai stato raccontato. Prima ancora che un rito, era ciò che precede ogni rito e a cui ogni rito allude.
L’uomo era stato a lungo un primate fra tanti e, come tale, era vissuto a lungo nel terrore di alcuni predatori, per i quali sapeva di essere uno dei cibi prediletti. Come poi sia avvenuto che l’uomo sia diventato – nelle parole di William James – «la più terribile fra tutte le bestie da [119] preda e di fatto l’unica che preda sistematicamente la propria specie» è una storia senza precedenti nelle vicende della terra. Il passaggio alla predazione fu un salto di specie etogrammatico. Immensamente azzardato, dirompente. Mutava i rapporti di Homo con tutte le specie che lo circondavano. Non si sarebbe mai esaurita l’elaborazione di quel passaggio.
Ci furono due peccati capitali, per Homo: la separazione e l’imitazione. La separazione avvenne quando Homo decise di opporsi al continuum zoologico, prendendo alcuni animali al suo servizio e considerando gli altri come materiale potenzialmente utile per i suoi fini. L’imitazione quando Homo si avvicinò, nel suo comportamento, ai predatori. Una volta compiuto il passaggio alla predazione, Homo non sapeva come trattare quella nuova parte della sua natura. Scelse di circoscriverla nel suo significato letterale e di espanderla indefinitamente come metafora. Inventò la caccia come attività non indispensabile, gratuita. Fu la prima arte per l’arte.
Nel regno animale, gli esseri continuavano a vivere come avevano sempre vissuto. Ripetevano immancabilmente gli stessi gesti. Quando Homo si trasformò in predatore, inferse una lesione in questo ordine delle cose. Da allora ogni uccisione fu anche un segnale che ravvivava il ricordo di quel passaggio. E intorno a quel ricordo si elaborarono altri gesti, ripetuti con regolarità. Il rito permetteva di non discostarsi troppo dagli altri viventi.
Gli animali non imitano gli uomini. Eppure una volta accadde, in età vittoriana, quando Beatrix Potter cominciò a disegnare i suoi personaggi. L’imitazione non era solo nel pensiero e nel gesto, ma nell’abbigliamento. Anzi, i vestiti erano quasi il primo carattere che si [120] notava. Panciotti, cuffie, marsine, scarpette. Tutto concordava nello stile, anche gli ambienti. E tutto si fondava su un’omissione rigorosa: nessun essere umano poteva mostrarsi in quel mondo. L’umanità era stata espunta e sostituita dagli animali, nei più minuti dettagli. Si era rivelata superflua, se non come remoto, e ormai perduto, modello. Si assisteva al trascorrere di una vita post-umana.
Beatrix Potter compì il prodigio di invertire il corso della storia. A lungo gli uomini avevano provato ad addomesticare certi animali, soprattutto di piccole o medie dimensioni, non aggressivi, in certi casi commestibili. Nel cortile, nel giardino, nella campagna, dominavano la loro esistenza. Con Beatrix Potter il rapporto si rovesciò: questa volta erano gli animali a usare gli uomini come un repertorio universale di comportamenti.
Furono due glorie dell’età vittoriana: Darwin collegò gli uomini ai primati; Beatrix Potter distribuì i comportamenti degli uomini fra un certo numero di piccoli animali domestici o rustici.
L’uomo non è un predatore nato, ma un predatore acquisito. Per diventare tale, ha dovuto negare ciò che era, aggiungendo al suo corpo una protesi – una selce scheggiata, un’asta acuminata, un arco. E allora ha cominciato a cacciare. Senza l’aiuto di una qualche protesi la caccia sarebbe stata inefficace. Perciò la negazione è intrinseca alla caccia. Il cacciatore è l’uomo della negazione. Esiste in quanto nega una situazione iniziale. Se l’uomo, come voleva Hegel, è «l’animale malato», la sua malattia implica ugualmente la negazione e la caccia.
Tutte le immagini idilliache di un’umanità primitiva dedita alla raccolta di frutti e bacche sono fondate su un’omissione: i predatori, come se quell’umanità non avesse avuto bisogno di proteggersi. Ben diversa l’immagine del paradiso che, per essere tale, deve proteggersi [121] con un «recinto», pairi-daësa. Il paradiso è tale solo se include in sé una barriera, oltre la quale si estende la pura natura.
Ci fu un momento, intorno a 542 milioni di anni fa, scrisse Oliver Sacks, in cui «i mari pre-cambriani, un tempo pacifici, si trasformarono in una giungla di cacciatori e cacciati, mobili in nuovi modi. E mentre alcuni animali (come le spugne) persero le loro cellule nervose e regredirono verso una vita vegetativa, altri, specialmente i predatori, svilupparono organi di senso, memorie e menti sempre più sofisticati». È questo il momento aurorale verso cui gli uomini, questi ultimi arrivati, si trovarono pronti a risalire, quando da predati si trasformarono in predatori. L’esplosione cambriana era stata un dispiegarsi di forme e di modalità dei comportamenti, le une alle altre intrecciate. E alcune delle qualità di cui gli umani sarebbero andati più fieri fecero allora le prime prove, in acque che erano diventate letali.
Per dissociarsi dal regno animale, Homo ha dovuto ricorrere alla caccia, che non gli apparteneva in origine, mentre apparteneva ad altre specie. Per distinguersi da tutti gli animali, ha dovuto assumere alcuni caratteri, molto vistosi, da certi altri animali. Estendendone però l’applicazione: Homo è diventato predatore non soltanto perché uccideva costantemente alcuni animali, ma perché si preparava a dominare l’intero regno animale. I predatori sono indifferenti agli animali che non uccidono. Non così Homo, che intendeva trarre profitto da tutti gli animali. E lo stesso valeva per la natura inanimata, che veniva assoggettata sottoponendola, con cautela e gradualità, a elaborazioni varie, trasformandola. Un giorno si sarebbe parlato di tecnica.
Erodoto parla di «provvidenza del divino», «toû theíou prónoia», una sola volta – ed è a proposito dei predatori. Scrive che le leonesse possono partorire una sola [122] volta, perché il loro piccolo, prima di nascere, lacera l’utero con le sue unghie. Non può farne a meno. È un predatore. Ma, se così non fosse, i predatori si moltiplicherebbero e divorerebbero gli altri animali, che invece si riproducono in abbondanza. Questo è l’ordine delle cose, che fu violato quando gli uomini divennero predatori che si riproducono in abbondanza.
Come mai Homo non riesce a fare a meno della colpa? La prima ipotesi è che togliere la vita a un altro essere vivente possa segnare l’origine di quel sentimento. Ma l’uccisione di altri esseri viventi è la regola stessa per una vastissima parte del mondo animale. Forse le modalità dell’uccisione? Che avviene, fin da tempi remoti, sotto forma di caccia. Eppure Homo per lungo tempo non si era distinto per la sua capacità di uccidere, mentre era una preda favorita di certi predatori. Poi avvenne un mutamento radicale: Homo diventò un predatore. Più precisamente: un predatore che si differenziava da tutti gli altri perché usava oggetti appositamente concepiti per uccidere. Questo andava contro ogni comportamento osservabile nel regno animale. Homo faceva un uso nuovo ed estremo dell’imitazione. Certi animali imitano foglie o rocce o altri animali, ma per difendersi o comunque per rendersi invisibili – o anche, talvolta, poter tendere agguati. Ma non imitano il comportamento di altri animali dai quali continuano a essere uccisi. Lo scarto senza precedenti dall’ordine del regno animale non stava nell’uccisione, ma in quel genere di imitazione con uso di protesi. Assimilandosi a un’altra categoria di animali, Homo rivelava di non avere una natura propria ben delineata e fissata. Rivelava una inclinazione alla metamorfosi. Che non mirava però, come spesso accade con i travestimenti degli insetti, a eludere un predatore. Al contrario, serviva per diventare un predatore. Homo uccideva, come tanti altri animali, ma uccideva imitando quegli animali che erano i suoi più pericolosi nemici. Da quel gesto, che dissociava Homo [123] dagli altri animali ma anche da se stesso, imponendogli come modello il suo nemico, ebbe origine un groviglio da cui non si riusciva a districarsi: la colpa.
Per molte specie, uccidere è una scansione del tempo. Riposano, giocano, uccidono. Occasionalmente copulano. Poi il ciclo si ripete. Anche Homo uccide e macella. Tuttavia, in una certa zona remota, non precisabile, del tempo e nei luoghi più disparati, si è dedicato a uccidere e macellare rivolgendo certi gesti e certe parole a entità non visibili. E ricominciando a farlo, a intervalli regolari. Era una gloria e una colpa, intrecciate. Se fosse stata soltanto una colpa, sarebbe bastato astenersi dall’uccisione e vivere di piante, bacche e frutti. Ora invece la colpa veniva anche celebrata. Perché? Occorreva guardare indietro, a due fatti sconvolgenti per la specie stessa: il passaggio alla predazione e alla dieta carnea. Dietro queste asciutte definizioni, predilette dagli studiosi moderni, si apriva una landa sterminata e muta del passato. Chi vi si addentrava riconosceva alcune tracce, che si ravvivavano in certi gesti, in certe parole, in certe figure incise o disegnate.
Inevitabilità della colpa, per chi è predatore e preda. Impossibile avere un solo ruolo. C’è la colpa come uccisione e c’è la colpa come debito, che mette nelle mani di qualcuno. Secondo i veggenti vedici, chiunque, sin dalla nascita, è in una situazione di «debito», ṛṇa, quindi deve aspettarsi di essere colpito da un creditore o da un predatore, che sono – in origine – la stessa figura.
Orfeo si rifiuta di cacciare, ma muore come preda. E ogni predatore è predato da qualcun altro. La caccia al leone dei re assiri provava questo circolo. L’ultimo predatore è il dio, che uccide il re quando il destino lo richiede. Ma il dio può anche accettare di farsi uccidere, [124] in un linciaggio. Così accade a Zagreus, «il Grande Cacciatore» che è anche la prima preda.
Homo apprende più difficilmente e più lentamente rispetto agli altri animali. Non finisce mai di nascere e mantiene tracce fisiche della sua esistenza prenatale. Quanto al suo etogramma, non appare così nettamente delineato come quello dei suoi vicini primati. Questo insopprimibile ritardo iniziale, con la sua conseguenza di prolungata inermità, è il presupposto di un apprendimento che, una volta – gradualmente, tardivamente – avviato, può in compenso assumere un numero indefinito di direzioni. Se non disponesse di una radicale indeterminazione, Homo non potrebbe sviluppare le sue enormi capacità di imitazione. Il ritardo nello sviluppo accresce la potenzialità di sviluppi.
Con la metamorfosi si compie una espansione del movimento. E il movimento è una reazione di contrasto all’inanimato, che domina l’universo. Disporre della metamorfosi è un mezzo indispensabile per chi vuole perseverare nella vita. Nulla di meno era implicito nelle pratiche arcaiche della metamorfosi, che si manifestavano come irruzione in un altro essere: per curiosità, per ammirazione, per erotismo, per invidia, per autodifesa, per aggressività. I motivi potevano essere molteplici, il procedimento era costante: l’assimilazione. Qualcosa nell’altro essere veniva fatto risuonare con qualcosa di se stessi. L’imitazione presupponeva l’ubiquità della mente. Chi tentava di entrare in un altro essere da un altro essere poteva trovarsi invaso. Fondamento di ogni metamorfosi era la possessione. Che poteva essere una grave malattia o un dono esaltante. O l’uno e l’altro insieme. Lo sciamano veniva chiamato a guarire i malati di nervi perché soltanto la possessione poteva guarire la possessione.
Un giorno le metamorfosi cominciarono a diradarsi. [125] Poi non furono più ammesse. Ciò che più aveva senso – i passaggi di stato – ora non aveva più senso. Anzi, era meglio non parlarne, se non si voleva essere guardati male. In un solo luogo la capacità di metamorfosi sembrava intatta: nel sogno. Soltanto nel sogno appariva del tutto ragionevole e normale. Moltissimo si perse, molto fu dimenticato. Ma altre virtualità vennero acquisite – e continuarono a essere praticate. Il confronto non era possibile, fra ciò che si era perduto e ciò che si era acquisito, irrimediabilmente aggrovigliati.
Una voce si mimetizza in un’altra, rendendosi irriconoscibile. È una manovra di autodifesa. Lo stesso vale per l’apparenza ottica. È il mimetismo degli insetti, che provano a sfuggire ai loro predatori. Ma imitare significa anche appropriarsi di qualcos’altro, espandere il proprio modo di essere. L’imitazione è possibile soltanto se la mente si lascia infiltrare da ciò che la circonda ed è capace di trasformarsi in altri esseri, che ancora non si chiamavano animali. Homo è diventato predatore applicandosi all’imitazione, finché dall’imitazione è scaturita la metamorfosi. Un certo repertorio di imitazioni si fissava, un processo fluido e ripetitivo finiva per incidersi in una forma, diventando una capacità sempre disponibile. Fra le imprese di Homo questa, che non ha lasciato tracce o testimonianze, se non mitiche o rituali, ha avuto le maggiori conseguenze, avvertibili ovunque, da tempi remoti.
Se viene spinta all’estremo, l’imitazione è metamorfica. Non solo riproduce qualcosa che prima era estraneo, ma gli si assimila. Introduce l’imitante all’interno dell’imitato – e all’inverso. Nella metamorfosi, l’imitante invade una entità da cui egli stesso si lascia invadere. Quando l’imitante tornerà al suo punto di partenza, non sarà più lo stesso. Ormai gli appartiene qualcosa di ciò che ha imitato. E il caso può diventare disperato quando dalla metamorfosi non c’è ritorno. Allora la [126] metamorfosi, invece di espandere un essere, lo imprigiona. Se invece l’imitazione sviluppa una protesi, si sovrappone per un certo tempo a un soggetto – e poi può essere dismessa. Ma, perfezionandosi e aggravandosi, può diventare metamorfosi: qualcosa che modifica la sostanza del soggetto. Talvolta in modo irreversibile. Sostituzione e connessione – i due poli perenni della mente – convivono nell’imitazione e nella metamorfosi, si intrecciano, si fomentano, si sopraffanno. Ai loro estremi: il simulatore incessante – o l’animale, la pianta o la pietra che sono il risultato delle metamorfosi senza ritorno narrate da Ovidio.
Quando l’imitazione è una applicazione temporanea, si interrompe a un certo punto e si cancella nell’imitante, che torna a essere quale prima era stato. Dopo la caccia, l’arco viene abbandonato in un angolo. Dopo la recita, l’attore si spoglia nel camerino e esce a cena con amici. Così si compie il distacco da quella specie dell’imitazione che trasforma in modo irreversibile l’imitante. Non è dato tracciare una linea divisoria netta fra questi due modi dell’imitazione. E tutta la storia umana è un sempre rinnovato tentativo di tracciarla, anche se soltanto in via provvisoria.
In ogni imitazione si annida un residuo del regime della metamorfosi. Residuo potente e pericoloso, come tutti i residui. E ineliminabile, perché nessun ordine è in grado di includere la totalità della materia ordinata, così come la percezione non può che escludere una parte del percepibile.
Imitazione: una somiglianza che può anche sfociare in una sostituzione. La copia è la perfetta imitazione, che può fare a meno dell’originale. Quando la sostituzione si compie, l’atto è violento: non solo perché elimina – o rende comunque superfluo – ciò che viene sostituito, ma perché rivela che il regime della sostituzione [127] alla fine prevale su quello della somiglianza. E addirittura può usarlo ai suoi fini.
Nell’imitazione il polo connettivo, fondato sulla somiglianza, agisce fino al punto di preordinare la sostituzione. Nell’imitante è implicito il falsario, che può sostituire e scambiare la banconota autentica con quella che ha appena fabbricato. Da qui la violenza latente in ogni imitazione.
La protesi si definisce per il fatto che si può sempre staccare dal soggetto che la porta. Ed è innanzitutto imitazione. Tutto ciò che contrassegna l’imitazione la accompagnerà sempre, come un marchio e come un dubbio radicale. Sarà la protesi capace di eguagliare tutto ciò che imita? E se andrà addirittura al di là (questo è il dubbio più angoscioso)? La via occidentale della conoscenza è stata la via della protesi, quindi dell’imitazione. La tecnica non ne è che il momento culminante. Del tutto opposta era la via vedica, che trasformava la totalità del singolo essere nel momento in cui operava il distacco del Sé dall’Io, dell’ātman dall’ahamkāra, che è la «fabbricazione dell’Io».
Quando implica una appropriazione, l’imitazione opera anche una lesione della singolarità. Atto inevitabile, perché la conoscenza è innanzitutto un procedere nel buio, imitando. La violenza dell’imitazione si cela in ogni atto della conoscenza. E innanzitutto nel processo più oscuro e determinante: il passaggio dal regime della metamorfosi al regime della protesi. Passaggio accompagnato da un immenso accrescimento di potenza (ancora in corso) e un progressivo annullamento della comunanza con il resto della natura.
Ciò che l’uomo perse, rispetto ai primati, nella fissità e sicurezza del repertorio gestuale, lo recuperò nella disponibilità alla metamorfosi. E sopravvenne il momento in cui una certa metamorfosi diventò irreversibile: [128] quella in predatore, collegata alla pratica della dieta carnea. Allora la metamorfosi, che era la garanzia di un’oscillazione perenne tra le forme, si rivelò essere un artificio – e una trappola – per isolare una forma e rimanervi chiusi per sempre.
Chi vive dell’imitazione è l’attore. E il primo degli attori è il sacerdote. Non c’è teatro se prima non vi è stata la scena di un rapporto con il dio. Questo disturba e sommuove la visione di Nietzsche sullo Schauspieler, il «commediante» che si scopre essere stato innanzitutto sacerdote. La simulazione – quindi l’imitazione – non sono qualità aggiunte, recenti, ma fondatrici. Senza la mediazione sacerdotale non si può dare accesso al dio. Ma, per i Greci, chiunque poteva essere sacerdote. Fra i nemici dei Misteri, Tertulliano è sempre brutale e illuminante. Sulla questione del sacerdote-attore aveva già detto le parole più urtanti: «Perché viene violentata la sacerdotessa di Demetra se non è questo ciò che era accaduto a Demetra?».
Se per Nietzsche, agli inizi, il nemico principale era il commediante, per Platone tale era il góēs, «mago» o «stregone», l’uomo della metamorfosi, che ospitava in sé, allo stato latente, tutte le possibili trasformazioni che si sarebbero sperimentate e che un giorno si sarebbe dovuto abbandonare, come altrettante spoglie. Nella visione platonica, il commediante era l’uomo quale stava per diventare, mentre il góēs rappresentava l’uomo come in tempi remoti era stato. Due condizioni turbolente, mercuriali. Da fuggire. Non rimaneva altro che fissare una orthótēs, una stabile, ortogonale «giustezza». Platone aborriva innanzitutto la mutevolezza e l’irregolarità, «poiché seguire sempre la stessa via, agire o patire sempre allo stesso modo basta a manifestare una vita intelligente».
Théōsis, il «diventare divini»: via ugualmente seguita da certi pagani e da certi cristiani. Imitatio dei, imitatio Christi. L’imitazione era l’unica pratica che permetteva di avviare un processo di assimilazione a qualcosa di ignoto, [129] remoto e soverchiante. Al tempo stesso l’imitazione veniva condannata insieme a tutto ciò che è secondario, derivato, parassitario, come se fosse dovuta a una fondamentale insufficienza. Eppure il movimento era lo stesso: un tentativo di intrusione, per quanto graduale, in qualcosa d’altro, che poi si scopriva essere accessibile in quanto già appartenente a chi lo imitava: il dio, l’animale, il personaggio.
Per santificarsi, come per diventare colpevoli, occorreva imitare. Non c’era un altro atto che congiungesse in sé gli estremi del male e del bene, il cielo e l’inferno. Chi imita qualcuno è un potenziale emulo. E l’emulo è un potenziale, rovinoso avversario di chi viene imitato. Se l’emulo riesce, può anche rendere superfluo chi viene imitato. O almeno privarlo della sua unicità. E questo può anche non essere meno grave.
Gli Olimpi non furono mai così feroci come con coloro che osarono imitarli ed emularli. Temevano di esserne sopraffatti. Non occorreva, per essere puniti, dichiararsi emuli. Bastava la semplice imitazione. Ceice «si rivolgeva alla sua sposa chiamandola Hera e ne veniva ricambiato col nome di Zeus, perciò Zeus li trasformò in uccelli, mutando lei in alcione e lui in folaga».
La simulazione si distingue dall’imitazione soltanto perché non rinuncia a una riserva mentale: qualunque sia la sua durata, si presuppone un ritorno al punto di partenza, l’imperativo (e la possibilità) di spogliarsene. Mentre l’imitazione non si pone limiti. Potrebbe proseguire indefinitamente. E dall’imitazione potrebbe scaturire la metamorfosi. Con la possessione avviene il movimento inverso: l’irruzione di un’entità che impone un certo comportamento, obbligando a imitare qualcosa di ignoto.
L’estrema complicazione – e gravità – di tutto ciò che riguarda lo snobismo dipende dal suo rapporto strettissimo [130] e arcaico con l’imitazione. La Recherche è piena di storie sanguinose e funeste che si svolgono fra un dîner en ville e una matinée. C’è qualcosa di preistorico nelle vicissitudini mondane che Proust racconta. Lo snob vive nel delirio di qualcosa di irraggiungibile a cui tenta di assimilarsi. È un martire dell’imitazione. Un santo potenziale o un potenziale assassino, che si è bloccato in una tappa intermedia sulla via della santità o del crimine.
Variazione: la forma più affine alla metamorfosi – e ricordo di quell’antico regime. Nella sua purezza si mostra nella musica. Ma anche i Sonetti di Shakespeare possono essere intesi come variazioni. Così anche gli Scherzi di Tiepolo. E certi vasi eleusini, dove le figure divine cambiano ogni volta posizioni e posture, possono esserne un primo esempio.
L’atto che è stato il più potente e continua a manifestare la sua potenza fu un atto silenzioso della mente: l’atto della sostituzione, l’atto con cui venne stabilito che a stava per b, che a prendeva il posto di b, che a rappresentava b, che una pietra sarebbe stata chiamata come un’altra pietra, che una tacca su un legno avrebbe indicato un astro. È l’atto della codifica.
Fondo roccioso di ogni attività mentale, lo stare per è il segreto di Sapiens, che non lo percepisce neppure come tale, anche se la coscienza lo applica costantemente. Lo stare per si manifesta nel momento in cui, guardando qualcosa, gli si sovrappone e sostituisce l’immagine mentale di qualcos’altro. O anche: al sasso si sostituisce il suono della parola «sasso». E tutto questo ha un testimone nella coscienza, un’entità che vede simultaneamente il sasso e il suono che lo indica. È il primo accenno dell’autoriflessione, che abita da sempre nella coscienza, ospite tacito, spesso misconosciuto.
[131] Nel 2014 Chomsky, Lewontin, Tattersall et alii hanno sentito il bisogno di pubblicare un manifesto per mettere in chiaro che tutte le teorie correnti sulle origini del linguaggio sono inadeguate e talvolta ridicole. Ma non è solo il linguaggio a sfuggire alla presa darwinista. Un’altra potenza – più oscura e trascurata – si nasconde dietro di esso, come la sua ombra: la sostituzione. Senza sostituzione non si dà parola. Anzi, prima ancora di articolarsi, la fonazione può già essere il veicolo della sostituzione: il suono può stare per la cosa. Ma qui, ancora una volta, sembra dissolversi la specificità del linguaggio. Perché non solo un fonema, ma qualsiasi cosa può stare per una pietra – e una certa pietra può stare per una certa altra pietra. A questo punto la sostituzione diventa l’ombra che esce dall’ombra. Non è più qualcosa che dipende dal linguaggio ma qualcosa da cui il linguaggio dipende. E non solo il linguaggio. Tutta l’attività mentale è fondata su immagini interne che stanno per qualcosa di esterno. La codifica avviene nella coscienza, anzi è un carattere imprescindibile della coscienza. Il linguaggio non nasce da solo, ma come diramazione di un’attività mentale che ingloba anche ogni sorta di altri fenomeni non verbali. Fra i quali si ritroverebbe puntualmente tutto ciò che è passato come «il proprio dell’uomo».
Punto di svolta, nell’elaborazione di On Computable Numbers, fu per Turing il momento in cui stabilì che gli «stati della mente» ipotizzati per la sua macchina potevano essere contati: «Supporremo inoltre che il numero degli stati della mente che dovranno essere presi in considerazione sia finito». E questo non perché Turing pensasse che tali sono, ma perché «se ammettessimo una infinità di stati della mente, alcuni sarebbero “arbitrariamente vicini” e si confonderebbero». Ancora una volta, occorreva schivare il continuo e perciò trattare gli «stati della mente» come qualcosa che manifestamente non sono: singoli blocchi ben separati, assimilabili alle caselle in cui apparivano i numeri sul nastro della macchina.
[132] Si trattava di una nuova applicazione della messa a fuoco, che è una prima riduzione degli elementi per farli entrare nella percezione. Così si crea un insieme discreto e numerabile, a partire da una totalità indivisa. Ed è l’insieme degli «stati della mente» nella macchina di Turing. Il quale sapeva benissimo che quella formula lo avrebbe messo in difficoltà, se non altro perché introduceva una parola – mente – il cui significato non poteva passare per acquisito. Così inventò un personaggio: il calcolante svogliato, colui che non riesce a stare fermo a un tavolo e «non fa mai più di una mossa per seduta». Ma non c’era da preoccuparsi. Era l’occasione per sbarazzarsi di una parola ingombrante. «Stato della mente» poteva essere sostituito con «nota di istruzioni», senza alcun danno. Così Turing mostrava in un colpo solo la sua disinvoltura nell’eludere la «mente», là dove non era strettamente necessaria, e al tempo stesso le lasciava uno sterminato campo di azione. Dove sarebbe stata, infatti, la mente durante quella sempre rinnovata assenza del calcolante svogliato dal tavolo di lavoro? Nessuno avrebbe potuto dirlo.
Come nasce il trascurabile? In molti modi, ma quello che più riguardava Turing era il passaggio dai dispositivi analogici a quelli digitali. In quella trasposizione il trascurabile non si poteva evitare, perché l’analogico è continuo e il digitale discreto. Ma qual era la potenza all’opera in quel passaggio? La sostituzione. Il cervello apparteneva al continuo, ma aveva bisogno – un bisogno vitale – del discreto per operare. Se la sostituzione era così essenziale, la macchina avrebbe potuto imitare perfettamente, esaltandola e espandendola, quella vasta area che era dominata dalla sostituzione. Il cervello riesce ad agire in modo efficace soltanto se decide di ignorare qualcosa (per esempio le «posizioni intermedie» in un processo: «possiamo dimenticarle» secondo Turing). Il trascurabile è la chiave di ogni efficacia. E il trascurabile è il residuo. Ignorare il residuo è un imperativo del cervello – e lo diventerà della scienza.
[133] Turing disse ad alcuni amici che voleva «costruire un cervello», ma precisò anche che non era interessato a quell’organo dalla consistenza di porridge freddo. Per imitare il cervello, non voleva partire da ciò di cui un cervello era fatto, ma da ciò che un cervello fa. E non da tutto ciò che fa, ma solo da un certo ambito di ciò che fa: quello della sostituzione. La digitalità è la forma più perfetta della sostituzione che si dà in natura. Così il regno della sostituzione sarebbe diventato il terreno dove la macchina si sarebbe insinuata e avrebbe finito per rivelarsi più potente del sovrano che l’aveva preceduta.
Ma Turing sapeva benissimo che il sistema nervoso non era una macchina a stati discreti come la macchina universale da lui stesso ideata nel 1935. Anzi, precisò che «in senso stretto non esistono macchine di quel genere. In realtà tutto si muove in modo continuo. Ma ci sono molti generi di macchine che possono utilmente essere considerate come macchine a stati discreti». Fra queste, anche il cervello. Considerarlo una macchina a stati discreti rimaneva un’idea immensamente fertile e rivelatrice, anche se, a rigore, falsa. Perché? La risposta ha qualcosa di sconcertante: il cervello non è e non potrà mai essere una macchina a stati discreti ma, in varie circostanze e per motivi diversi, simula di esserlo – e riesce a farlo con notevole efficacia. Anche se, in molti casi, con efficacia inferiore a quella delle macchine. Cosicché, «se il cervello lavorava in qualche modo definito, di fatto lo si poteva simulare con tutta l’approssimazione voluta per mezzo di una macchina discreta». La quale macchina avrebbe dunque simulato un’entità (il cervello) còlta nell’atto di simulare.
La macchina di Turing simula una simulazione che già il cervello attua per operare con efficacia entro certi ambiti. Perciò non imita il cervello, ma certe strategie usate dal cervello. Per imitare il cervello, dovrebbe ricostruire perché il cervello ha bisogno di quelle strategie.
[134] La simulazione costantemente all’opera nel cervello e trasmessa alla scienza come suo fondamento è quella del vaso chiuso. Turing riprese quella simulazione e su di essa costruì la macchina universale. Simulazione di altissima potenza, che agisce ugualmente nel mondo mentale e nel mondo fisico. Simone Weil accennò a questo punto in una pagina di note che presuppongono una conoscenza delle elaborazioni di Bourbaki (quindi del fratello André, visto che si parla dell’assioma di scelta): «Contraddizione essenziale nella nostra concezione della scienza: la finzione del vaso chiuso (fondamento di ogni scienza sperimentale) è contraria alla concezione scientifica del mondo. Due esperimenti non dovrebbero mai dare risultati identici. Si sfugge a questo attraverso la nozione di trascurabile. Ma il trascurabile è il mondo...». Quest’ultima frase combacia con la visione dei ritualisti vedici: il residuo è il mondo. Due righe sotto: «La nozione di analogia, di rapporti identici, è centrale per i Greci. Ponte tra il finito e l’infinito».
Con la stessa parola, «simulazione», si indicano due processi che divergono in modo estremo. Si parla di simulazione quando si imita per ingannare. Processo nel quale è doppiamente implicata la volontà: alla volontà di imitare si sovrappone la volontà di ingannare. Ma si parla di simulazione anche per congegni (macchine) che imitano qualcosa: procedimento dove ogni volontà è esclusa in quanto il programmatore agisce prima che scatti il procedimento della simulazione.
Che cosa accomuna le due modalità? L’incompletezza. Ma non solo: si tratta di una incompletezza efficace. La simulazione dimostra che in una vasta parte di ciò che avviene l’incompletezza non è un argomento dirimente e deterrente. Si può andare avanti per approssimazioni successive. E questo primato dell’approssimazione è perfino più importante della distinzione fra azione conscia e non conscia (o non ritenuta tale). Perciò la parola «simulazione» è appropriata, senza alcuna [135] forzatura, in entrambi i casi. È come se il mondo esterno concedesse al cervello non solo la capacità di elaborare costrutti che gli corrispondono, ma si mostrasse così flessibile da accogliere costrutti in larga misura incompleti senza renderli inefficaci.
Simulazione, imitazione, possessione, metamorfosi: la rosa dei venti della psiche. E un serpente che si morde la coda. Sono potenze affini: a volte si amalgamano, a volte si oppongono, a volte si sfiorano. Là dove agiscono, è facile confondersi. L’arte di distinguerle era chiamata discrezione degli spiriti. Per capire la possessione, occorre innanzitutto sottrarla al suo ambiente psicopatologico e parapsicologico, dove è stata rinchiusa da chi la temeva come un’altra via della conoscenza (e questo per secoli, con tenacia e spirito persecutorio). Nulla di più utile, allora, dell’impertinenza di Valéry:
«Rifletto...
«È cosa molto diversa da quella pratica che consisteva (e consiste tuttora) nel consultare gli “spiriti”?
«Aspettare davanti a un tavolo, a un mazzo di carte, a un idolo o a una dormiente e gemente Pizia, o invece davanti a ciò che si chiama “noi stessi”...».
Bastano queste poche parole per ricondurre la questione ai suoi veri termini, che sono quotidiani, incessanti e molto più insidiosi di ogni messa in scena occultistica o etnografica. La possessione è qualcosa che interviene regolarmente nella vita cosciente – e non potrebbe essere altrimenti, perché ogni attimo della coscienza è diviso almeno in due e ospita qualcosa di ulteriore rispetto a «ciò che si chiama “noi stessi”».
La simulazione presuppone, alla fine, un ritorno allo stato da cui si era partiti. Ma questo non garantisce che si possa ripartire in modo efficace. La protesi è un modo per schivare questo inconveniente. Rimane sempre a disposizione. Può essere usata o non usata – e comunque offre la certezza dell’oggetto, la sua fissità.
Sarebbe però ingenuo pensare che le protesi più potenti [136] siano prolungamenti del corpo (strumenti, armi, ecc.). Sono tutte protesi che dipendono da altre protesi (sistemi formali, algoritmi). Che sono sequenze di segni fissati su un medium impalpabile, di cui la carta è un’imitazione. La mente ha la capacità di proiettare segni fuori di sé e di lasciarli agire in conseguenza. La logica stessa è una immensa protesi – e la matematica è assimilabile a una protesi sperimentale in continuo mutamento. Il prodigio della protesi non sta però soltanto nel fatto di trasferire in un oggetto, per esempio il computer, certe operazioni della mente, ma nel fatto che queste operazioni si applicano al mondo. Il quale è esterno sia a noi sia alle nostre protesi. Di questo non è stata data ancora ragione. Per la scienza, la «unreasonable effectiveness of mathematics», l’«irragionevole applicabilità della matematica», è il mistero dei misteri, come E.P. Wigner ebbe l’improntitudine di affermare.
La coscienza viene riconosciuta in una parte infinitesimale della vita dell’universo. E si pone la questione di come sia sorta. Se la coscienza è un’entità diacronica, si dovrà pensare che anche le sue strutture logico-matematiche si siano sviluppate nel tempo. Magari per via di una pressione evolutiva (nessun’altra causa, a rigore dell’opinione scientifica oggi dominante, è ammessa). Ma pressione in vista di quale vantaggio adattativo? L’unica risposta potrebbe essere che tale vantaggio fosse la corrispondenza fra certe configurazioni logico-matematiche e il mondo esterno. In questo caso l’evoluzione dimostrerebbe di essere una mente quanto mai sofisticata, capace non solo di garantire l’applicabilità di certi formalismi matematici, ma di elaborarli. Sulla base di che cosa? Quale sarebbe lo stato della mente che precede l’elaborazione di quei formalismi? D’altra parte, se non si desse corrispondenza fra le strutture matematiche della mente e il mondo esterno, l’uomo sarebbe del tutto inerme, incapace di calcolare, quindi di sviluppare quelle protesi che gli assicurano il controllo su alcuni [137] spicchi del mondo esterno. Se i costrutti matematici fossero invenzioni, il mondo esterno sarebbe una perpetua allucinazione. Se i costrutti matematici fossero scoperte, il mondo esterno sarebbe una prosecuzione della mente con altri materiali.
La filosofia occidentale, a partire da Descartes, si è concepita come protesi, apparato da sovrapporre alla propria mente per mettere ordine nel mondo. L’apparato può essere innatista, empirista, idealista, materialista, ecc. Ciascuno ha un proprio profilo e un proprio carattere. Ciascuno implica vaste conseguenze nelle modalità secondo cui il soggetto al quale si sovrappone l’apparato tratterà il mondo. Questo non vale per Nietzsche. Aprire una qualsiasi sua pagina obbliga a una reazione in chi legge. Può essere rifiuto, consenso, anche una pura scossa. Non c’è una protesi che si sovrappone alla mente del lettore.
Quanto alla scienza, sempre a partire dagli anni di Descartes, si può dire che abbia fondato la sua fortuna su una immane omissione: ignorare la psiche dello scienziato che la elabora – e la coscienza in genere. Ogni volta che si è violata questa regola (ghiandola pineale, homunculi, risorgenze varie del vitalismo) la scienza è fallita. Quando ha rispettato la sua mossa fondamentale, la scienza ha raggiunto risultati stupefacenti. E alla fine ha scoperto, fra gli oggetti da indagare, ciò che aveva omesso. Nell’elenco dei dati di fatto, la coscienza non può essere espunta, essendo pervasiva e onnipresente. Anzi, potrebbe essere anche considerata il dato di fatto primario. Così la scienza ha riconosciuto che non poteva evitarla – e si è trovata davanti a un continente che non solo era ignoto, ma ignorato. L’omissione su cui la scienza si era fondata presupponeva come ovvietà quello che invece è il primo dei misteri: la corrispondenza fra il mondo e certe operazioni della mente, la sua obbedienza alle equazioni. Una volta che l’indagine si rivolge alla coscienza, quel mistero diventa centrale, [138] così come – un tempo – era stata centrale l’opacità e la inintelligibilità del mondo esterno.
Per uscire dal pantano delle teorie sulla coscienza, Colin McGinn ha avanzato una ipotesi così formulata: «Vi sono aspetti specifici della coscienza e aspetti specifici dell’intelligenza umana i quali fanno sì che quest’ultima sia mal equipaggiata a percepire la prima». Quindi l’incapacità della specie umana a render ragione del fenomeno della coscienza sarebbe filogeneticamente fondata. H. Allen Orr non ha trovato nulla da obiettare a questa teoria, anzi la ha ribadita con una certa disinvoltura – e quasi con un senso di sollievo: «Il punto è che non abbiamo alcuna ragione di credere che noi, in quanto organismi i cui cervelli sono evoluti e finiti, possiamo accedere a una risposta per qualsiasi questione possiamo porci. Tutte le altre specie hanno limitazioni cognitive, perché non noi? Così, anche se la materia può dare origine alla mente, può darsi che siamo incapaci di capire come questo avviene. Per McGinn la misteriosità della coscienza potrebbe essere non tanto una sfida per il neodarwinismo quanto un suo risultato».
Questo salvataggio del neodarwinismo potrebbe rivelarsi insidiosamente fallace. Secondo McGinn, la specie umana sarebbe incapace di capire il fenomeno della coscienza così come un’antilope non è capace di far di conto. In tutti e due i casi, si tratterebbe di una limitazione filogenetica, poiché siamo tutti organismi che hanno cervelli «evoluti e finiti». Ma questo argomento nell’istante in cui chiude una questione ne spalanca un’altra ancora più vasta e temibile. Si può capire come la specie umana, provvista di un cervello che è una mucillagine del peso di circa un chilogrammo e mezzo, non sia in grado di rendere conto di un fenomeno come la coscienza. Per contro, ben più incomprensibile appare come lo stesso cervello sia in grado di prevedere e descrivere, con un altissimo grado di precisione, una enorme quantità di fenomeni che avvengono al di fuori del corpo umano. Dietro il problema della coscienza si profila il problema, non meno arduo, dell’intelligibilità. Secondo McGinn [139] l’evoluzione avrebbe fatto sì che la specie umana risultasse incapace di trattare quello che avviene nella propria testa, mentre al tempo stesso avrebbe sviluppato una fortissima capacità di descrivere e prevedere processi che avvengono nella natura. Capacità non condivisa da nessuna altra specie. Si dovrà ammettere che anche questa teoria fa parte delle numerose teorie controintuitive di cui la scienza va giustamente fiera. Ma non basta, a una teoria, essere controintuitiva per essere convincente. E soprattutto non basta per essere vera.
L’omissione della coscienza-che-guarda dalla enumeratio degli elementi da indagare fu il passo decisivo per la scienza moderna. Se si omette la coscienza, tutto torna – o meglio: tutto può tornare. Almeno fino al momento in cui ci si ritrova a cozzare contro una parete invisibile, che è la coscienza stessa. La scienza greca non osò mai giungere all’omissione della mente. Occorreva arrivare alla spregiudicatezza di Descartes perché il passo fosse compiuto. E occorreva arrivare all’inizio del secolo ventunesimo perché si riconoscesse esplicitamente l’abissale lacuna che sta al centro del tessuto della scienza stessa.
Giunto al sesto giorno della Creazione, Elohim disse all’uomo e alla donna: «Avrete autorità sui pesci del mare e gli uccelli del cielo, su ogni essere vivente che si muove sulla terra». Ma non era tutto. Per sopravvivere, l’uomo e la donna avrebbero dovuto nutrirsi. Allora Elohim disse: «Ecco, vi ho dato tutte le erbe che hanno un seme, che si trovano sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero che dà frutto, che ha un seme: saranno il vostro nutrimento». Per l’uomo e per la donna, gli alimenti concessi sarebbero stati piante e frutti. Di carne morta Elohim non parlava.
Ma il suo discorso proseguì – e la parte più sorprendente si manifestò con queste parole: «“A ogni bestia selvaggia, a ogni uccello del cielo, a tutto ciò che striscia sulla terra, a tutto ciò che ha in sé soffio vivente, ho dato come alimento ogni erba verde”. E così fu».
[140] All’inizio, perciò, uomini e animali si nutrivano ugualmente ed esclusivamente di «erbe che hanno un seme» e di frutti. C’erano sì «bestie selvagge», ma si nutrivano di vegetali, come gli uomini. C’erano i predatori, ma non la predazione. Nella natura, nessun essere animato ne uccideva altri. Questa imponente peculiarità dei primordi è stata accantonata e oscurata dalla storia dell’Albero al centro del giardino dell’Eden. Ma le due storie coesistono, anzi la storia degli alimenti prescritti sia agli uomini sia agli animali precede quella dell’Albero.
Che le due storie siano intrecciate si rivela con la massima evidenza dopo la trasgressione di Adamo ed Eva. Fu allora che «Iahvè Elohim fece per l’uomo e per la sua donna tuniche di pelle e con esse li rivestì». Ma quelle tuniche di pelle dovevano essere state scuoiate da un animale. Morto? Ucciso? Nel suo mirabile laconismo, la Genesi non lo dice. Ma si sente subito che quel gesto di Iahvè Elohim segna un passaggio decisivo. Quelle «tuniche di pelle» che Iahvè Elohim confeziona come un abile sarto sono anche il suo primo intervento tangibile nella vita degli uomini. Avrebbero potuto essere conservate come le prime reliquie.
Adamo ed Eva vengono rivestiti non per essere protetti, ma perché ora provano la vergogna che prima ignoravano. E anche la loro veste è una novità assoluta. Presuppone la morte, forse l’uccisione – e presuppone che sia ammesso usare i corpi degli animali per qualche fine utile. Sino allora, di questo non era stata fatta parola.
Il passaggio successivo avverrà dopo varie generazioni e dopo il diluvio. Allora Elohim così parlò a Noè e ai suoi figli: «Tutti coloro che pullulano sul suolo e tutti i pesci del mare sono consegnati nelle vostre mani. Tutto ciò che si muove e vive vi servirà da alimento, come l’erba verde. Vi ho dato tutto questo. Soltanto non mangerete carne con la sua anima, cioè con il suo sangue». Quelle parole istituirono il regime che dura tuttora – e solo agli Ebrei prescriveva quelle regole nella macellazione. Per il resto, tutto ciò che si muove diventava materiale disponibile per l’uomo, che poteva ucciderlo, [141] mangiarlo, usarlo, trasformarlo a suo piacimento. Fra il sesto giorno della Creazione e il discorso a Noè e ai suoi figli un mutamento immane era avvenuto, non solo per gli uomini ma per tutti gli animali. Sui quali però, a questo punto, la Genesi non si sofferma.
Vale per gli animali quello che vale per il paesaggio: si comincia a pensarlo quando è già sfigurato. Così si comincia a pensare gli animali quando non sono più visibili, se non come pets. Da Descartes in poi, i grandi filosofi che si incontrano nei manuali hanno dato una prova meschina nel trattare degli animali. Più che un modo per pensarli, la filosofia era una strategia per difendersi dal doverli pensare. Applicata con la massima consequenzialità da Descartes stesso, ma proseguita senza fondamentali mutamenti anche in Kant e infine da chi più pretendeva di opporsi alla linea di Descartes, fino a Heidegger e oltre, quella strategia induce a concordare con l’osservazione di Derrida: «Non si capisce un filosofo se non si capisce bene ciò che intende dimostrare, e in verità non riesce a dimostrare, sul limite fra uomo e animale». Questo non si applica soltanto ai filosofi. Ciò che tiene insieme e salda, nell’affinità e nell’avversione, ebraismo, cristianesimo e islamismo, prima ancora dell’ossessione per l’unicità divina, modulabile e attenuabile attraverso schiere di angeli, di santi e di sante, è una comune guerra taciuta e costante, la «guerra contro l’animale», una «guerra sacrificale vecchia come la Genesi».
Alla rivelazione cristiana si deve non solo la caduta della reverenza verso il cosmo, che da allora viene assimilato a una serie di postazioni delle potenze nemiche, ma un certo nuovo modo, sbrigativo e quasi brutale, di trattare gli animali: «Numquid de bobus cura est Deo?». «Forse che Dio si prende cura dei buoi?». Come sempre, è in Paolo che si incontra la formulazione più dura. Eppure nei Salmi era scritto: «Homines et jumenta salvabis, Domine», «Salverai gli uomini e gli armenti, Signore».
[142] Per quanto riguardava gli animali, i cristiani erano stati preceduti dagli stoici, propugnatori di un’immagine controllabile dell’umano. Scacciavano tutto ciò che non vi rientrava, non più con timore o con prudenza, ma con puntiglio. Proclamavano che «noi uomini non abbiamo alcuna parentela con gli esseri irrazionali». E sugli animali non avevano dubbi: «“Ma certo” essi [gli stoici] dicono. “Non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli animali”». Questa giustizia che si arresta di colpo appena si trova circondata dagli áloga, esseri sprovvisti di ragione, segna il punto finale del depauperamento greco. L’augusta Dike, la Giustizia che avvolge la rete celeste, è ormai una potenza domestica e scompare del tutto appena si mette piede fuori dalla porta e si incontrano creature di altre specie. Plutarco, che aborriva sottilmente gli stoici, una volta osservò: «Si direbbe che siamo più sensibili agli atti contrari alla convenzione che agli atti contrari alla natura». È un rimprovero sussurrato: ben sapeva che, già allora, la natura era una pallida accolita, di cui si era dimenticata la natura.
Malebranche era emaciato, cagionevole. Soffriva per «la spina dorsale tortuosa e lo sterno estremamente incavato». Aveva ventisei anni quando un libraio della Rue Saint-Jacques gli mise in mano il Traité de l’homme di Descartes, appena pubblicato. Lo lesse «con un tale trasporto che gli venivano le palpitazioni e lo obbligavano a interrompere a tratti la lettura. L’invisibile e inutile Verità non è usa a trovare tanta sensibilità fra gli uomini, e gli oggetti più comuni delle loro passioni sarebbero ben felici di suscitarne altrettanta». A partire da quel momento, Malebranche ebbe cura soltanto di «essere utile alla verità». Secondo Fontenelle, nessuno fu pari a lui nel formare «la catena delle idee», che nel suo caso era «lunga e al tempo stesso stretta», e soprattutto contraria a ogni forma del senso comune. Per Malebranche, «Dio è il solo che agisca, sia sui corpi sia sulle menti». Perché il corpo, da solo, non riesce ad agire sull’anima, [143] né l’anima, da sola, sul corpo. Ogni istante perciò è l’occasione perché Dio agisca, in ciascuna anima e in ciascun corpo. Teoria gloriosamente implausibile, che aveva il singolare merito di mettere allo scoperto le aporie delle successive teorie scientiste (e neuroscientiste) sul rapporto fra mente e corpo. Tutt’intorno, una sterminata popolazione di automi: gli animali.
A tale proposito, l’abate Trublet riportò questo aneddoto su Malebranche: «Fontenelle raccontava che un giorno in cui era andato a trovarlo dai Padri dell’Oratorio della Rue Saint-Honoré, una grossa cagna della casa, che era gravida, entrò nella sala dove si intrattenevano, si accostò al Padre Malebranche e si rotolò ai suoi piedi. Dopo qualche inutile gesto per cacciarla via, il Filosofo le diede una gran pedata, per cui la cagna emise un grido di dolore e M. de Fontenelle uno di compassione. “Ma su,” gli disse freddamente il Padre Malebranche “non sapete che non sente niente?”».
Nel dare un calcio alla cagna gravida, Malebranche non faceva che applicare la dottrina di Descartes. Ma vi aggiungeva una motivazione da teologo, quale Descartes non era: «Se [gli animali] fossero capaci di sentire, accadrebbe che, sotto un Dio infinitamente giusto e onnipotente, una creatura innocente patirebbe il dolore, che è una pena e la punizione di qualche peccato». Se Descartes non avesse ragione, faceva intendere Malebranche, si dovrebbe ammettere che miliardi di esseri viventi, fin dall’inizio dei tempi, avrebbero sofferto e si preparerebbero a soffrire, senza interruzione, pur non essendo stati lesi dal peccato originale. Come poteva avvenire questo per opera di un «Dio infinitamente giusto e onnipotente» – e soprattutto perfetto? Malebranche sollevò la domanda nella Recherche de la vérité, che è del 1674. Nessun teologo cristiano, da allora, è stato in grado di rispondergli.
La questione da porre, secondo Plutarco, non era perché «Pitagora si astenesse dal mangiare carne», ma [144] perché «l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto». Poiché Homo non era un carnivoro per costituzione, il passaggio alla dieta carnea fu un evento nella sua storia. Anzi, il primo evento precisabile. Tutti i cultori del verum ipsum factum dovrebbero considerarlo il factum ineludibile, che invece eludono. Ma non lo eludevano coloro che elaborarono certi riti. Il sacrificio cruento fu innanzitutto un libro di storia.
Il desiderio di mangiare carne è un sentimento su cui gli psicologi non usano diffondersi. Forse lo considerano fisiologico, inevitabile come il fatto di respirare. Ma così non è. Ci fu un’età in cui gli uomini (e i loro antenati dai molteplici nomi latini) erano frugivori. A un certo punto scoprirono che potevano mangiare la carne di animali morti. Fu un passaggio traumatico e irreversibile. Opporsi al desiderio di mangiare carne implica opporsi a un lunghissimo passato. Impresa possibile e praticabile, come dimostrò la prima setta dell’Occidente: i pitagorici. Occorreva fissare i termini di un bíos, di un regime di vita che si opponesse a tutto ciò che lo circondava. Quel regime non era meno importante della geometria. La geometria aiutava a scoprire qualcosa che nessuno aveva visto prima. Il bíos induceva a vivere come nessun altro viveva. Audace, difficile scommessa in tutti e due i casi, contraria all’inclinazione generale al non sapere e al mangiare carne di animali, inclinazione dominante da tempi immemorabili.
Allievo prediletto di Aristotele, esperto in distinzioni, Teofrasto scrisse che il sacrificio cruento poteva fondarsi su tre motivi: «reverenza», timḗ, «riconoscenza», cháris, «utilità», chreía. Motivi contrastanti, inestricabilmente connessi. Già questo rendeva impraticabile ogni spiegazione univoca e non contraddittoria del sacrificio. E comunque, se il sacrificio implicava l’uccisione di animali che non avevano commesso alcuna ingiustizia, l’atto stesso doveva essere considerato un’ingiustizia, che agli [145] dèi non sarebbe sfuggita. Da ciò conseguiva che «in nessun caso si debba sacrificare animali agli dèi».
Come spiegare allora che gli uomini continuassero, fin da tempi remoti, a praticare quei riti? Qui l’argomentazione di Teofrasto si spinse molto in là, in zone che il pensiero, allora e in seguito, ha sempre tentato di evitare. Nel sacrificio, scriveva Teofrasto, c’è un «godimento», apólausis, che consiste nel mangiare carne – quella parte della vittima non riservata agli dèi. E «quei godimenti ci inducono a tentare di oscurare la verità di queste cose». Ma anche questo non sfuggiva agli dèi. I quali ci osservano mentre «massacriamo e facciamo a pezzi sotto il patrocinio del divino» buoi, montoni, cervi, uccelli – tutti animali che ci sono utili e di cui godiamo a mangiare le carni. Estrema durezza, estrema asciuttezza, fino alla conclusione: «Così testimoniamo contro noi stessi che il godimento è l’unico motivo per continuare a praticare questi sacrifici». Questa sembra essere l’ultima parola – e di fatto nessun illuminista ha mai saputo argomentare contro il sacrificio con altrettanta efficacia.
Ma la questione non era risolta, come dimostrava l’olocausto praticato dagli Ebrei e dai Greci stessi: un tipo di sacrificio dove la vittima bruciava interamente – e dove perciò non potevano intervenire «godimenti» degli uomini nel mangiare la carne. Teofrasto riconosceva persino che quella era la forma più antica del sacrificio. E qui si avvicinava alla difficoltà ultima.
La domanda più dura, più acuminata sul sacrificio riguarda la necessità della distruzione, che il sacrificio (ogni sacrificio) implica. Insufficiente ogni risposta morale. Mentre almeno una traccia viene offerta da alcune parole del Timeo, là dove si dice che il mondo «si nutriva di sé procurando la propria distruzione, mentre tutto ciò che esso pativa e operava in sé e da sé avveniva per arte [ek téchnēs]. Colui che lo aveva composto ritenne infatti che sarebbe stato meglio se fosse stato autosufficiente e non bisognoso di altro». L’autosufficienza del mondo implica la sua perenne auto [146] distruzione. Il sacrificio sarebbe allora soltanto l’appena percettibile contributo umano a questo processo. Insignificante in quanto tale. Ma immensamente significativo in quanto riconoscimento della costituzione del mondo, a cui il sacrificio si assimila agendo «per arte».
Il mondo è un vaso spezzato. Il sacrificio tenta di ricomporlo, pezzo per pezzo. Ma certe parti sono sbriciolate. E, anche quando il vaso è ricomposto, lo solcano molte ferite. C’è chi dice che lo rendono più bello.
Lo stato più frequente nell’universo non è la vita, né la morte, ma la non-vita. La morte appare in correlazione con la vita. Se un qualsiasi vivente non preleva qualcosa dall’esterno, in tempi più o meno brevi muore. Perciò si conferma la definizione di Bichat, secondo cui la vita è una forma di opposizione alla morte. Il punto dolente è che per resistere alla morte occorre provocare la morte. Ogni prelievo dal mondo esterno implica una scomparsa – e molto spesso una uccisione. Che venivano equiparate nella visione vedica dell’esistente. Mentre la visione secolare presuppone l’uomo come essere autosufficiente.
Placare un’entità invisibile: sentimento che si può facilmente comprendere. Ma perché il placamento debba avvenire attraverso l’uccisione di un animale è una conseguenza che non è stata mai chiarita fino in fondo. Eppure è stata tratta in un altissimo numero di culture. Ogni altra domanda sul sacrificio è dipendente da questa.
A Delfi, Apollo sgozzò un porcellino, lo sollevò sopra Oreste e lasciò che il sangue dell’animale colasse sulla sua testa, sul torace e sulle mani. Questa fu la purificazione [147] del matricida voluta dal dio. Ma perché doveva essere un atto efficace – e un atto divino?
L’uccisione precede la legge e non può essere sanata soltanto dalla legge: questo era il presupposto. Uccidere contamina, produce un contagio a cui occorre opporsi. Come? Lasciando che il sangue degli animali uccisi sia versato sull’uccisore. Con la macellazione si compiva una continua uccisione di animali, su cui si fondava la sussistenza della comunità. Ma quella uccisione andava compiuta in forma cerimoniale. Era una forma del sacrificio. Il sacrificio cruento era sangue versato su una colpa, per sanarla. Operazione che doveva sempre ripetersi, perché anche la colpa si rinnovava. La colpa era l’uccisione stessa, di uomini e di animali, per disegno malvagio o per necessità alimentare. Le «leggi non scritte» riguardavano anche questo. Nessuno osava metterle in dubbio. Oreste può chiedere giustizia, ma soltanto dopo che il sangue di un animale è colato su di lui. Il sangue viene prima della parola.
Ad Atene, certi funzionari, i peristíarchoi, avevano il compito di uccidere porcellini e farne scolare il sangue in giro nell’agorà, nei luoghi delle assemblee e delle «riunioni del popolo». E anche «nel teatro», aggiunge una glossa a Eschine. Le vittime erano dette kathársia, «purificatrici». Purificati dal sangue di un porco, che aveva bagnato i gradini dove stavano seduti, gli spettatori assistevano a storie dove sangue umano veniva versato. C’erano due purificazioni – una all’inizio, un’altra alla fine. Sempre mediante il sangue. Così nacque il teatro.
Propizio: questa parola che indica una disposizione benevola del nume verso ogni forma di ciò che esiste ha un’origine oscura, perché si presuppone che il nume esiga di essere reso propizio mediante l’effusione di sangue. Occorre uccidere perché il gesto della potenza a cui ci si rivolge e da cui si dipende diventi favorevole. E questo vale non solo per gli dèi, ma per i morti: «Nam olim, quoniam animas defunctorum humano sanguine propitiari c [148] reditum erat, captivos vel mali status servos mercati in exequiis immolabant», «Un tempo, infatti, essendo persuasi che il sangue umano propiziasse le anime dei defunti, durante i funerali immolavano prigionieri o schiavi di poco prezzo acquistati al mercato». Tertulliano chiosava, congiungendo sarcasmo, incisività e concisione: «Così si consolavano della morte con gli omicidi».
Che il sangue servisse per purificare dal sangue era un fatto deprecato già da Eraclito: «Si purificano con il sangue quando sono contaminati dal sangue, come se un uomo immerso nel fango si lavasse con il fango». Ma quella assurdità coinvolgeva l’intera concezione arcaica del sacrificio. Il sacrificio è una colpa che si aggiunge e sovrappone a una colpa, come unico modo per placare – provvisoriamente – la colpa. E la purificazione con il sangue deriva direttamente dalla visione sacrificale. Abbandonare quel gesto incongruo implicava abbandonare una concezione altamente articolata e pervasiva del tutto.
Per secoli si è dibattuto e si dibatte sul perché secondo Aristotele alla fine di una tragedia sopravvenga la kátharsis, «purificazione». Qui serve ricordare che Aristotele non amava discostarsi dalla letteralità. Kátharsis è il risultato di un katharmós, «rito di purificazione». E a un katharmós si doveva ricorrere quando avveniva una uccisione. L’assassinio contamina e produce contagio. Per arrestare quel contagio, prima ancora che la legge intervenisse, occorreva uccidere un animale comune, un porcellino o un agnello. Soltanto versando sangue si bloccava un processo che era stato avviato da chi aveva versato sangue. Era quello il katharmós, sangue che purifica sangue. Processo che già agli antichi poteva sembrare incongruo, come testimonia il frammento di Eraclito. Eppure continuarono a lungo a praticare i katharmoí, confidando nella loro potenza. Aristotele propose che un’uccisione – per assassinio, sacrificio o suicidio – potesse essere purificata dal racconto dell’uccisione stessa. Era soltanto una variante all’interno di un katharmós. Variante carica di conseguenze.
[149] «Ed ecco gli ornamenti di Artemis e gli agnelli appena nati, perché lavi con l’uccisione il contagio dell’uccisione»; «La legge, è vero, impone all’assassino di restare muto, ma soltanto fino al momento in cui il sangue di un giovane animale sgozzato è colato su di lui, per mano di un purificatore del sangue versato»; «Il sangue sulla mia mano si assopisce e si cancella; la macchia del matricidio è lavata. Era ancora fresca quando, davanti al focolare del dio Febo, l’uccisione purificatrice di un porcellino l’ha cacciata via». Sono parole che si incontrano in Euripide e in Eschilo. La tragedia mostrava non solo l’uccisione ma il katharmós che faceva seguito all’uccisione, il sangue che lavava il sangue. La kátharsis della tragedia stessa era una purificazione di secondo grado. «La purificazione è un modo per rendere palpabile il metafisico» ha scritto Robert Parker, con superba asciuttezza. La tragedia faceva sì che il sangue, fluente o rappreso, tornasse a essere impalpabile. Intatta rimaneva la colpa e l’esigenza della purificazione. Che poteva avvenire anche mentre anonimi spettatori sedevano sui gradini di un teatro.
Intorno al Mediterraneo, le civiltà comunicavano nei riti sacrificali, con propri nomi e gesti. Che si fondavano tutti, pur nella loro varietà, sull’uccisione di animali. Se non ucciso, l’animale doveva essere allontanato per sempre, in luoghi deserti (ma questo accadeva solo per il capro espiatorio degli Ebrei e per il pharmakós dei Greci). Altrettanto singolare della affinità dei riti è la coincidenza temporale della loro scomparsa. A partire da una certa epoca (il quarto secolo dell’èra cristiana) i sacrifici non si celebrarono più nella forma che era stata per secoli usuale. Per gli Ebrei, perché il tempio era stato distrutto e la comunità si era dispersa; per i pagani, perché ormai sottomessi ai cristiani e sempre meno numerosi; per i cristiani, perché la morte di Gesù era stato l’ultimo sacrificio, non ripetibile, che si poteva solo commemorare nella messa. Eppure tutti conservavano il linguaggio e l’impianto speculativo del sacrificio. Lo [150] si trova in Nonno come in Agostino come nella letteratura rabbinica. Il sacrificio è qualcosa di cui tutti vogliono disfarsi, ma al tempo stesso è radicato nel lessico e in certe categorie del pensiero, che sembrano irriducibili. E tali rimangono anche nella società secolare, che pretende di essersi sbarazzata non solo del sacrificio, ma di ogni forma di religiosità. Anche la lingua dell’economia, la lingua che regge il mondo (altra non c’è) ed è una lingua arida, eufemistica, priva di immagini (dice «recessione» invece di «depressione», parla di «esuberi» quando intende «licenziamenti»), non riesce a fare a meno della parola «sacrificio», gravata di storia e di preistoria.
Un capo di governo dichiara che non chiede «lacrime e sangue». Ma non può esimersi dal chiedere «sacrifici». «Lacrime e sangue»: l’ultima apparizione, soltanto verbale, del sacrificio cruento. Nel frattempo il sacrificio rituale è diventato una pratica illegale o insensata. «Illegale» se implica l’uccisione di un essere vivente, reato di crudeltà verso gli animali. La loro uccisione è ammessa solo nei mattatoi. «Insensata» se si tratta di una semplice libagione. Ma rimane intatto il termine «sacrificio». Ora significa l’accettazione della perdita, da parte del singolo, di un qualche bene monetario, per sostenere il benessere della società nel suo insieme. Con questa operazione – e con questa deviazione dei significati – si compie il passaggio per cui la società diventa l’orizzonte ultimo della società stessa. Ora la società è l’invisibile a cui il sacrificio va offerto. Nessun altro invisibile è ammesso, si tratti di un dio singolo o di molti dèi o della natura o anche dell’ignoto. Ma il punto è che ancora di «sacrifici» si dovrà parlare. Nessuno è così temerario da affermare che la parola stessa dovrebbe essere accantonata in un deposito di anticaglie. È questo il segno più eloquente che la secolarizzazione non riesce mai a compiersi. Continua sempre a sussistere una entità sovraordinata che assorbe in sé tutte le [151] potenze. Superato un certo meridiano della storia, la scelta è fra una società secolare, che però continua a compiere atti di devozione (ma ormai rivolti a se stessa), e una società devota a qualcosa di divino, che però non sa più riconoscere.
Parlando della Grecia antica, Jean Rudhardt scriveva che il sacrificio cruento «è l’atto centrale del culto, il rito intorno al quale si ordinano le feste che impongono alla vita delle città il suo ritmo sacro». Ma perché l’uccisione cruenta di animali dovrebbe essere il centro di una complicata vita religiosa? Perché c’è bisogno del sangue? Perché gli animali sono necessari per stabilire un rapporto con la divinità? Sono le stesse domande che si pongono dinanzi al culto vedico. Non c’è risposta possibile se non si guarda alle spalle del sacrificio, in una zona temporale dove non soccorre la scrittura e sempre meno soccorrono le immagini. Una zona a proposito della quale ogni affermazione è ragionevolmente sospetta di arbitrio. Ma questo non dovrebbe scoraggiare il pensiero.
Quando il pathos delle cerimonie sanguinose finì, attraverso i testi, sotto gli occhi di storici e filologi, gli accadde una disavventura imprevista: venne spiegato. M.P. Nilsson raccontò come il pharmakós, incoronato e profumato, fosse condotto in giro per le strade della città, prima di essere ucciso e bruciato. Commentava poi, pacato: «Proprio come si pulisce con una spugna un tavolo sporco e poi si butta via la spugna». Così una cerimonia fosca e solenne veniva ricondotta all’esperienza della massaia. Non che ciò fosse infondato: già le Leggi di Manu avevano parlato dell’atto di chi fa le pulizie come di un assassinio. Ma era il movimento del pensiero che seguiva ora la via inversa. Prima la pulizia era considerata entro la categoria avvolgente dell’assassinio. Ora l’assassinio era considerato entro la categoria [152] avvolgente della pulizia. Ciò bastava per fondare una estetica comparata del massacro. Le piramidi di teschi, i corpi sventrati intorno alle tende, le teste mozzate: era come una scena sacrificale sfuggita di mano, dove il coltello continuava ad abbattersi per automatismo. Ma entriamo nei recinti dei campi di sterminio che punteggiavano l’Europa centrale: là operavano tanti disinfestatori – e Himmler poteva essere considerato la massaia suprema. Pulivano con ostinazione il tavolo nel tinello germanico e buttavano via ogni volta la spugna, impregnata di ceneri.
Del sacrificio va detto innanzitutto che si tratta di cosa sporca, contaminante. È inaccettabile un sacrificio che non sia connesso a una purificazione. Sostenevano i teologi – secondo Porfirio – che lo stato di purezza rituale era una «difesa preventiva» ovvero un «segno di riconoscimento», «sýmbolon o sigillo divino» che permetteva di non subire alcun male da coloro con i quali si entrava in contatto. Chi erano questi esseri, se non gli animali che stavano per essere sacrificati? Porfirio aggiungeva: «Così lo stato in cui ci si trova è il contrario di ciò che si fa». Se quello stato era la purezza, avrebbe agito «come un baluardo» contro qualcosa che doveva essere quanto di più impuro e più ingiusto: l’uccisione dell’animale inerme. Se è vero, come Porfirio affermava altrove, che «ciò che per natura è più giusto è il divino, altrimenti non sarebbe divino».
Su questa via, Porfirio giunse a parlare di «sacrificio mentale», «noerà thysía», e così descrisse chi lo celebrava: «Si presenta al dio con una veste bianca, con una impassibilità dell’anima veramente pura e un corpo leggero, non oppresso da succhi presi da altri corpi o da passioni dell’anima». Era il punto di massimo avvicinamento fra neoplatonismo e vedismo. Come l’interiorizzazione del sacrificio vedico culminava nella teoria del prāṇāgnihotra, il «sacrificio del soffio», così con la dottrina di Porfirio si compiva l’interiorizzazione [153] del sacrificio pagano. In entrambi i casi scompariva ogni oggetto tangibile del sacrificio (suo ultimo residuo era il respiro, nella dottrina vedica). Per Porfirio, invece, neppure la parola mentale veniva ammessa: l’offerta doveva consistere soltanto nel «puro silenzio» e nei «puri pensieri che lo accompagnano». Comune alle due vie rimaneva però il fatto che il sacrificio stesso non venisse mai messo in questione, anzi permanesse come cardine di tutto il pensiero. Così, secondo Porfirio, «continueremo a imitare i santi antichi, offrendo come primizia quella contemplazione che gli dèi ci hanno donato e che è indispensabile per la nostra vera salvezza».
Scoprire i sacrifici fu, per gli dèi vedici, come per i matematici occidentali scoprire i numeri irrazionali o i transfiniti. Questo implicava che, ben prima degli dèi, il sacrificio esistesse – e non al servizio di qualcuno, ma come pulsazione della vita stessa. Era questa la sorgente della visione vedica. Il sacrificio che fuggiva sotto forma di mṛga, «antilope», era come Uṣas trasformata in antilope che fugge attraverso il cielo dopo essersi congiunta con il padre Prajāpati. C’era sempre un animale – e un animale che fugge – all’origine delle storie degli dèi e degli uomini. Forse a suggerire che le loro figure si erano stagliate per ultime nella storia della creazione. E che il primo passo, per gli uomini, era stato quello di staccarsi dagli animali. All’inizio degli inizi si trovavano solo animali.
«La colpa divina è l’esistenza» disse Utnapishtim quando Sindbad andò a visitarlo nell’isola Dilmun, di là dalle acque della morte. «Quando il Progenitore produceva quei suoi figli nati-dalla-mente, la colpa non c’era e tutto appariva larvale, insipido. Ma quando volle provare la creazione sessuale, sgorgò il desiderio e venne scoccata la freccia. Nello stesso istante si ebbero il [154] desiderio e la ferita. Che non si sarebbe più rimarginata, anche se si doveva tentare di medicarla. A questo servono i riti. E chi li celebra sa che sono insufficienti».
Anche questo disse Utnapishtim a Sindbad: «Gli uomini nascevano in un ordine che era già un immenso disordine, rispetto alla sua origine. Lentamente, con cautela, lo violarono, aggiungendo un ulteriore disordine. Ma se ne consolarono pensando che, dopo tutto, stavano imitando qualcosa che era successo prima ancora che loro nascessero».
Per la cristianità il passaggio alla società secolare è stato molto più agevole, rispetto alle altre due religioni del Libro, perché il cristiano non deve osservare regole vincolanti per la macellazione. Il cristiano non deve attenersi a ciò che è kosher o halal. Obbedisce soltanto a regole per l’astensione da certi animali, non per la loro macellazione.
Il fatto intrattabile, che è l’uccisione, viene eluso. Si agisce come se non ci fosse. Questo è implicito nel digiuno del venerdì. Anche se immersi nella società secolare, gli Ebrei o i musulmani ortodossi si domandano sempre se l’animale morto che viene loro offerto è stato macellato secondo le regole kosher o halal. E basterà questo a fargli avvertire un divario insuperabile fra loro e la società secolare. Il cristiano comune invece non conosce obiezioni di quel genere.
Quanto alla società secolare: si prescrive che l’animale venga stordito prima di essere ucciso. Questo avverrebbe, si dice, per abbreviare e attenuare le sue sofferenze. Ma l’animale soffre soprattutto prima di essere ucciso. Vessato, costretto, pungolato verso la morte, perché non si ribelli, perché non faccia perdere tempo. Lo stordimento serve a stordire chi uccide, più di chi viene ucciso. È una eufemizzazione della morte. Serve a persuadere chi uccide che sta uccidendo un essere quasi già morto. In questa pratica si rende evidente l’elusione [155] cristiana dell’atto di uccidere. Pietà dichiarata per le sofferenze, silenzio sull’uccisione.
Se il punto dolente del sacrificio fosse soltanto l’uccisione, non sarebbe difficile trovare un rimedio: ogni sorta di offerta vegetale potrebbe sostituire l’animale ucciso. Ma l’animale ucciso era anche un animale che occasionalmente si mangiava. E l’abitudine di mangiare carne è per Homo inveterata. È una eredità che discende da rami remoti della sua storia, in una famiglia dove i passaggi non si misurano per generazioni, ma per centinaia di migliaia di anni. Certi tratti anatomici dell’apparato masticatorio «indicano l’inizio di consumi consistenti di carne alla fine del Pliocene». Non basta dichiararsi vegetariani per cancellare quel passato.
I Greci non mangiavano carne cruda, anzi ne avevano orrore. Ma gli «iniziati», mýstai, di Zeus Ideo seguivano «Zagreus che vaga di notte, celebrando le feste della carne cruda». E Zagreus stesso, nell’Etymologicon magnum, è definito «il Grande Cacciatore», «ho megálōs agreúōn». La ferocia delle Baccanti che fanno a pezzi gli animali ripete la ferocia dei Titani che avevano fatto a pezzi Dioniso (il verbo usato è lo stesso, sparássō), poi avevano gettato le sue membra in un calderone e le avevano offerte a suo fratello Apollo a Delfi. «Nel fuoco Bacco gettarono, sopra la coppa» dice un verso superstite di Euforione. Le Baccanti non erano còlte da una ricorrente, dissennata euforia. Ciò che facevano era innanzitutto ripetizione e ricordo dell’«antico lutto» subito dal loro dio. Come Dioniso è toro e uccisore del toro, così è dilaniante e dilaniato.
Chi è il Grande Cacciatore? Oltre a Zagreus, vi sono altri Grandi Cacciatori fra gli dèi. Zeus è il Grande Cacciatore. E Ade è il Grande Cacciatore. Un invisibile filo a piombo scende dall’alto del cielo, attraversa tutta la terra e sprofonda sino all’imo degli Inferi: è il Grande Cacciatore. [156] In nessuna sua parte il divino accetta di separarsi dal gesto dell’inseguire una preda. A nessuna altezza, nell’aria trasparente dell’Olimpo, nell’aria turbolenta della terra, nell’aria perennemente fosca dell’Ade, scompare il profilo aguzzo del Grande Cacciatore.
«Ci sono buone ragioni per sospettare che una gran parte, se non la maggior parte, delle ossa connesse nell’uso a strumenti di pietra del primo Pleistocene sia il risultato dello scavenging e non della caccia». Questa frase del supremo esegeta di ossa del secolo ventesimo, Lewis R. Binford, ha segnato la fine di quella baldanzosa e rudimentale teoria dell’uomo come «possente cacciatore» (un Nimrod ominide) che aveva raggiunto il suo picco con l’articolo di Washburn e Lancaster, The Evolution of Hunting, nel 1968. La testarda ricerca del paleoarcheologo Binford, coincidente negli anni con gli sconvolgenti risultati raggiunti da C.K. Brain sul rapporto fra ominidi e predatori, dissolveva una visione del passato che ancora si incontra nei manuali scolastici e nei musei di storia naturale.
Prima di diventare il cacciatore temuto da tutti gli animali – e favoleggiato sterminatore degli elefanti di Torralba –, l’antenato umano aveva passato varie centinaia di migliaia di anni praticando lo scavenging, con minor efficacia ma uguali intenti delle iene. Se la filogenesi non è parola vana – e certamente non lo è, a differenza di ogni concezione dell’uomo come tabula rasa –, quell’indominabile passato, che risale al confine fra il Pliocene e il Pleistocene, quindi a circa due milioni e mezzo di anni fa, deve essere tenuto in conto da ogni Tucidide della preistoria.
La caccia, allora, non apparirà più come il presupposto e basamento di ogni sequenza dello sviluppo umano, ma come scoperta e acquisizione capitale e tardiva, quasi al punto di poter essere considerata la vera soglia di ogni moderno. Questo però implica una molto più lunga, accidentata, tormentosa vicenda che la precede. [157] Se i riti sacrificali erano anche un modo per calarsi nel pozzo del passato, è plausibile che in essi si ritroveranno le tracce – e gli unici annali superstiti – di quella preistoria della preistoria.
Se «consumi consistenti di carne» sono stati accertati verso la fine del Pliocene e l’attività di caccia in gruppo è accertata intorno a cinquecentomila anni fa (ma Binford spostava la data molto più vicino a oggi), rimane un intervallo immane in cui l’uomo si sarebbe cibato di animali che non aveva ucciso egli stesso. Erano quelle che oggi i paleoantropologi definiscono «carcasse residuali», nelle quali gli uomini si appropriavano dei resti lasciati dai «predatori primari».
C’era perciò una terribile doppiezza nel rapporto fra gli antenati di Sapiens e i predatori. Che erano innanzitutto gli uccisori in agguato, da cui era vano difendersi. Però Homo si nutriva delle loro carcasse residuali. Quindi dipendeva, per sopravvivere, dai suoi tradizionali assassini. Mangiare un corpo che è stato ucciso dal proprio Nemico era come – per interposta carcassa – mangiare se stessi. Origine remota dell’autoriflessione.
Primate frugivoro, poi ominide granivoro, infine predatore: queste sono le fasi riconosciute dai paleoantropologi. Le cesure erano profondamente incise. E, di fatto, ci fu una sola, dissestante cesura: quella fra l’ominide granivoro, che ancora si nutriva di semi e radici, difficili da masticare, e il predatore, provvisto di una dentatura dove non dominavano più premolari e molari, mentre si accentuava la funzione degli incisivi e dei canini. Ma tutta la lunga fase intermedia presupponeva che gli ominidi si trovassero un nuovo posto – quello che i paleoantropologi chiamano una «nicchia ecologica» – nella catena alimentare. Sarebbe stata quella di [158] carnivori saprofagi. Fu il lungo periodo in cui Homo ebbe come modello non le tigri, ma le iene.
Anche il bipedismo, per antica tradizione associato alla nobiltà dell’uomo che alza lo sguardo verso il cielo, può essere connesso all’attività di scarnificazione di carcasse animali, se la maggiore velocità e resistenza alla corsa di Homo ergaster (di molto anteriore ai cacciatori del Paleolitico) viene intesa come «fattore determinante per avvistare carcasse e avvicinarsi rapidamente ad esse, e poi rapidamente sfuggire all’eventuale ritorno del predatore primario».
I primi animali che gli antenati di Sapiens vollero e seppero imitare furono le iene, unici animali capaci di qualcosa che neppure i grandi predatori sapevano fare: con le loro mascelle possenti spezzavano le ossa delle prede e ne succhiavano il midollo, ricco di proteine. Appunto questo si trattava di imitare, servendosi di selci scheggiate e pietre usate come martelli. La scena viene situata dai paleoantropologi nella boscaglia africana, vicino ai corsi d’acqua. In quanto erano i primi animali imitati, le iene furono anche i primi rivali. Blumenschine e Cavallo si sono spinti fino a supporre che la scomparsa di varie specie di iene possa essere ricondotta alla rivalità con gli antenati di Sapiens, che avrebbero potuto «cominciare a soppiantare le iene precedendole nell’arrivare alle carcasse».
Nella preistoria si stagliano due macroeventi, estesi su un numero non precisabile di anni: il passaggio alla dieta carnea e la trasformazione di Homo in predatore. Eventi connessi da un altro macroevento non circoscrivibile: la trasformazione di Homo in scavenger, scarnificatore di carcasse residuali. Vertici di un triangolo che imprigiona una vasta parte della preistoria e rimane conficcato all’interno della storia databile – e prima ancora nella fisiologia di Sapiens. Sono eventi filogenetici. La più lenta, laboriosa, angosciosa conquista nella storia del genere umano è stata l’acquisizione del posto [159] dominante nella catena alimentare. Ogni altra conquista ne discende. E, se si paragonano i tempi, ogni altra conquista è stata rapida come un’incursione.
Che l’uomo non sia un predatore primario, ma tale soltanto per mimesi, si rivela da molti segni. Forse il più eloquente è l’incapacità umana di orientarsi nel buio. Mentre per il predatore primario la notte è il momento della caccia. Nei luoghi dell’abbeverata, che sono il polo magnetico della vita animale nella savana, le iene sono i primi predatori a presentarsi, verso il tramonto. Si guardano intorno, bevono prima della caccia. Nel lungo tirocinio dell’uomo per trasformarsi in predatore, le iene furono plausibilmente il primo modello, il più facile da imitare, quello dove si mescolavano più profondamente il comportamento del divoratore di carcasse, quale l’uomo a lungo è stato (anche se, come osservò Binford, l’uomo rimase sempre «il più marginale fra i divoratori di carcasse»), e quello del predatore che l’uomo stava apprestandosi a diventare.
Ai suoi inizi, la tecnica consisteva in arnesi di macelleria, usati per spolpare le carcasse già spolpate dai predatori. Di molto precedenti ai più sofisticati strumenti dell’Acheuleano, erano selci acuminate o sassi usati per martellare le carcasse da spolpare, come ancora oggi avviene fra gli Hadza e i San dell’Africa subsahariana, o come fanno gli scimpanzé per spaccare le noci.
Le iene furono i primi filologi. Trattavano soltanto corpi la cui vita apparteneva al passato. Andavano subito all’osso e lo spezzavano. Avevano mascelle più forti di quelle di ogni altro mammifero. Cercavano qualcosa che gli altri ignoravano: il midollo. Erano esperte nella frantumazione, anche minuta. Guardavano agli uomini come a provinciali che vogliono farsi strada nella savana. Facevano le loro ricognizioni al tramonto, censivano [160] le carcasse. Questo era l’ordo rerum. Nessuno poteva, nessuno doveva disturbarlo.
Come modello, per Homo vennero prima le iene, poi Dinofelis e le tigri dai denti a sciabola. L’impulso incontenibile verso l’imitazione si manifestò quando Homo si rese conto che il suo corpo non sarebbe mai stato adeguato. Occorreva una protesi, qualcosa di estraneo, da tenere in mano. E poteva essere anche una selce scheggiata. Anche il fuoco era una protesi, ma non si poteva tenere in mano. Era un grado ulteriore, qualcosa che aiutava a inventare o elaborare altre protesi. Le prime protesi erano servite per spolpare le carcasse residuali e soprattutto per inciderne, spezzarne le ossa e succhiarne il prezioso midollo, come una droga fatta di proteine. Allora le selci venivano usate come martelli. Fu una lunghissima fase, dove l’imitazione già agiva ma doveva ancora dispiegarsi. Il suo acme giunse quando gli uomini provarono a diventare essi stessi predatori, dopo essere stati – per qualche milione di anni – predati.
Una casa (chiamata «campo base»), riserve di cibo accumulate, spartizione dei cibi, donne che aspettano il ritorno degli uomini dalla caccia, perfino la monogamia. A lungo si è raccontato tutto questo, dichiarando che era scienza. Dopo decenni di studio delle ossa degli ominidi e di quanto le circondava, Lewis Binford manifestò perplessità: «Anche se le strategie inferenziali oggi usualmente praticate risultassero essere erronee, dubito fortemente che i progressi metodologici ci faranno mai tornare a concepire la vita degli ominidi sul confine del Plio-Pleistocene come una versione annacquata dell’uomo moderno. Una conclusione raggiunta nel corso delle ricerche attuali è che i primi ominidi erano molto diversi da noi». Molto diversi: se già la ricerca stenta a render ragione di esseri di ventimila anni fa, tanto più si può supporre che sia incerta e inadeguata quando [161] considera esseri vissuti più di due milioni di anni fa. Pochi sono i punti fermi e dirimenti: la scoperta che si può vivere (anzi, che forse si vive meglio, per l’apporto di proteine) mangiando anche carne di animali morti e spezzandone le ossa per succhiarne il midollo; l’imitazione di altri animali che sono maestri nel farlo.
Scavenger: parola forte, netta. Indica l’animale o l’uomo che mangia i resti di un animale già in parte mangiato dal predatore che lo ha ucciso. In alcune lingue, come il francese o l’italiano, il termine viene eufemizzato: lo scavenger diventa l’animale «spazzino» o éboueur, come se si trattasse di nettezza urbana. Viene cancellato il fatto che lo scavenger fa pulizia dei resti in quanto li mangia. Con queste distorsioni lessicali viene accantonata e rimossa una parte immensa della storia umana. Le uniche tracce che ne rimangono sono alcuni tagli prodotti da strumenti degli ominidi su ossa già incise dalle zanne dei grandi felini o rosicchiate dalle iene.
Se la iena, questo «interessante animale», è stato il primo passaggio (o almeno uno dei primi) nella scala mimetica che doveva trasformare l’uomo nel sovrano della catena alimentare – all’interno della quale, in tempi precedenti, era stato solo uno degli anelli intermedi –, questo obbliga a riconsiderare come mai, fra gli insulti e i sentimenti di ripugnanza, le iene occupino sempre una posizione altissima. Non c’è dubbio che il loro dorso inclinato verso il basso e le zampe posteriori molto più corte di quelle anteriori suscitano un moto universale di orrore. Ma ciò che agisce è anche qualcos’altro: una storia non detta, non riconosciuta, inaccettabile, che aiuterà anche a capire perché qualcosa di spregiativo sia sempre stato associato all’imitazione, sin da Platone. Non perché gli umani ricordassero di aver a lungo imitato le iene, ma perché il processo stesso dell’imitazione – e soprattutto dell’imitazione come espediente indispensabile per sopravvivere – obbligava gli umani a riconoscere il loro fondamento instabile, che aveva avuto bisogno [162] di assestarsi adeguandosi, in un primo tempo, al modo di vita dei più efficaci spolpatori di carcasse e innalzandosi poi, con azzardo vertiginoso, sino ad assimilarsi al comportamento dei propri persecutori: i predatori.
Non soltanto per il loro aspetto fisico le iene ispiravano ripugnanza e paura negli umani. C’è qualcosa di ancora più grave. Nelle iene si vede l’emblema di coloro che vivono grazie a uccisioni compiute da altri. Ma questo è appunto ciò che si applica anche agli uomini di oggi. Senza uccisioni non si sopravvive, però nessuno vuole partecipare alle uccisioni. Gli uomini sono sì diventati predatori – e ne vanno fieri –, ma nella maggior parte e nella vita di ogni giorno seguono il modello delle iene: mangiano ciò che altri hanno ucciso. E questi altri sono esseri oscuri, non meno remoti delle iene. Non si sa chi siano. Passano gran parte della vita nei mattatoi.
Mangiatori di resti: così appaiono gli antenati umani della Gola di Olduvai, finora il luogo più generoso di testimonianze. Gli assemblages di ossa «erano usualmente dominati da segmenti anatomici delle teste e degli arti inferiori degli animali». Per spiegarlo, Binford «seguì questo ragionamento: se gli ominidi avessero avuto accesso per primi alle carcasse per il fatto di averle uccise, le parti introdotte nei siti identificati come campi base non sarebbero parti di utilità marginale ma al contrario parti anatomiche contenenti quantità molto maggiori di tessuto commestibile». Di conseguenza: quelle ossa dovevano essere quanto rimaneva di carcasse spolpate, ma non interamente, dalle iene. Gli ominidi avevano solamente concluso la loro opera. Questo è lo stato delle cose da cui un giorno si distaccarono per diventare cacciatori – e disporre così finalmente di una preda nella sua interezza. Durante una lunghissima parentesi erano vissuti come parassiti di predatori, preparandosi al passo irreversibile che gli avrebbe concesso di venir accolti a pieno titolo fra i predatori. Comune [163] alle due fasi sarebbe rimasto un elemento: mangiare carne di animali uccisi. Le proteine e gli acidi grassi ingeriti grazie alla scarnificazione delle carcasse residuali agivano come una droga lenta e sicura.
Lunghissimo e non accertabile con sicurezza fu il periodo di incubazione, che preparò il passo fatale: la trasformazione di Homo in predatore. Scansioni della storia umana: all’inizio frugivori, poi scopritori di quella droga che furono le proteine e imitatori di iene, infine imitatori dei loro assassini, con tale abilità da competere con loro, accerchiandoli. Da ultimo, impresari di circhi viaggianti.
Homo come animale malato si manifesta, circa un milione e mezzo di anni fa, nel caso denominato KNM-ER 1808: una donna africana morta per accumulo di vitamina A, «sintomo molto raro in patologia umana perché si manifesta solo dopo ingestione di grandi quantità di fegato crudo di una specie carnivora». Ciò che più colpisce il paleoantropologo è però che la ipervitaminosi, di per sé invalidante, si sarebbe protratta per alcuni mesi. Questo induce a supporre che la donna, immobilizzata dalla malattia, sia stata assistita. Qualcuno deve averla protetta e nutrita, qualcuno deve averle offerto acqua. È il primo segnale dell’esistenza di una comunità. Il fuoco non era ancora sotto controllo, non c’era ancora la caccia in gruppo. Ma alcuni rappresentanti di Homo ergaster aiutarono per qualche mese a sopravvivere una donna condannata da un male. Aveva mangiato troppo fegato crudo, estraendolo dalla carcassa abbandonata di un animale ucciso da quei predatori che erano anche i suoi potenziali assassini.
Il fatto che, per una lunga parte della loro storia, gli uomini abbiano mangiato i resti lasciati da altri animali aiuta a intendere la minuziosa e severa precettistica vedica sui resti alimentari nonché la invincibile ripulsa [164] dei moderni per ogni cibo che sia stato toccato da altri. C’è una parte del passato che occorre misconoscere – e respingere. Ma solo i ritualisti vedici riuscirono a integrare le regole per trattare i resti alimentari in una metafisica del residuo, di ogni residuo. Metafisica che è implicita nella loro teoria e pratica del sacrificio.
Le iene appaiono in un mito vedico, conciso e oscuro a tal punto che gli indologi generalmente lo hanno ignorato o (nei rari casi in cui ne hanno scritto) travisato, finché Stephanie Jamison, con tenace acume, ha cominciato a sbrogliare lo strettissimo nodo. Giungendo a ricostruire in modo persuasivo la sequenza dei fatti, a partire dagli otto testi dello Yajur Veda Nero che ne accennano il profilo in barbagli fra le due e le cinque righe, lasciando intorno vaste zone di tenebra. Tutto potrebbe essere avvenuto così:
Gli Yati, sacerdoti di Indra, stanno celebrando un sacrificio del soma, che implica anche un sacrificio animale. Un gruppo di giovani iene li accerchiano e li attaccano. A questo punto «Indra diede in pasto gli Yati alle iene», frase ripetuta – alla lettera o con minime variazioni – all’inizio di tutti gli otto testi. Stephanie Jamison ha dimostrato in modo convincente come il verbo prāyacchat non significhi in questo caso un generico «consegnare», ma «offrire qualcosa come cibo». Questo è il cardine della storia: Indra, re degli dèi, offre alcuni suoi sacerdoti a un gruppo di iene perché li sbranino. Nulla viene detto sul motivo di questo atto.
Assediati dalle iene nell’area del sacrificio e presi dal panico, gli Yati commettono alcuni errori rituali: rovesciano a terra il prezioso soma, salgono sull’altare per difendersi, vomitano il soma, uno di loro ride (un «riso nervoso» osserva Stephanie Jamison) una volta salito sull’altare. Forse pensa di essere al sicuro. Ma proprio allora le iene, che non si erano azzardate a lanciarsi nell’attacco finale, assaltano gli Yati e li mangiano: «Sbranandoli uno a uno, le iene li mangiarono a sud dell’altare [165] superiore» si legge nella Kāthaka Saṃhitā. Da allora, «lo sciocco riso non deve esserci più» (non voluto ma ancor più temibile sarcasmo vedico).
«Ogni versione è breve, quasi telegrafica, ma leggendole tutte insieme se ne ricava un’immagine di terrore e tumulto, di un’azione còlta nel momento in cui accade, e questo mi sembra raro nella più antica letteratura vedica» è l’asciutto commento di Stephanie Jamison. Ma chi erano gli Yati? Nel Ṛgveda vengono nominati tre volte: in due casi accanto ai Bhṛgu, possente dinastia di ṛṣi, quali fedeli adoratori di Indra. Nel terzo caso si dice che gli Yati, come gli dèi, «fecero espandere i mondi viventi» e «portarono qui il sole, che era nascosto nel mare»: formulazioni fra le più enigmatiche e grandiose, incastonate in un inno che è uno dei picchi metafisici del Ṛgveda.
Perché allora Indra avrebbe dovuto sterminare gli Yati? Era forse un’altra delle sue ben note imprese biasimevoli, come la decapitazione di Viśvarūpa o l’attacco al carro luminoso di Uṣas? Occorre cautela. Intanto gli Yati commettono gravi errori rituali. E questo basterebbe per condannarli. Che quegli errori fossero volontari o involontari, per i ritualisti vedici era del tutto indifferente. Si trattava comunque di errori che rendono «impuri», amedhyá, quindi inadatti per il sacrificio.
A che cosa erano dovuti gli errori degli Yati? Al panico. Accerchiati dalle iene, tentavano di sfuggirgli. Quindi le manchevolezze in cui incorrono e che giustificano la loro uccisione da parte delle iene sono successive all’apparizione delle iene stesse. È un caso vistoso di inversione tra causa ed effetto. Come spiegarlo? Si è indotti a intendere che gli Yati avrebbero avviato un rito di espiazione prima ancora di commettere gli errori che lo avrebbero reso obbligatorio.
Con le iene convocate da Indra per massacrare i suoi sacerdoti riemergeva un tempo – un tempo lunghissimo – in cui gli uomini non si erano rivolti agli dèi celebrando sacrifici cruenti ma avevano imitato le iene. Quel ricordo non voleva svanire e esigeva un compromesso. [166] Che si doveva trovare all’interno del sacrificio, perché il sacrificio non è mai una soluzione garantita, ma una continua ordalia. Ora le iene tornavano per praticare la pura uccisione su coloro che pretendevano di essere sfuggiti all’angoscia dell’uccisione perché la praticavano ritualmente, nel sacrificio. E, anche nel sacrificio, c’era stato un momento di esitazione e di paralisi. Come precisa lo Śatapatha Brāhmaṇa, «all’inizio l’uomo non osava agire contro la vittima». Perché gli uomini potessero tornare alla loro posizione privilegiata di unici animali che sacrificano, occorreva che si ristabilisse la condizione iniziale: gli Yati dovevano essere non più officianti ma vittime, così come era avvenuto con Prajāpati, il Progenitore. Durante quel sacrificio in cui stavano per sacrificare un animale sarebbero stati sacrificati loro stessi, per opera di altri animali. Forse anche per questo erano saliti sull’altare, non solo per difendersi. Forse per questo, e non soltanto per scherno, uno degli Yati si era abbandonato allo «sciocco riso». Forse era il riso consapevole di chi sa che sta per essere ucciso e sa anche perché. Quel riso era un invito rivolto alle iene, che subito lo avrebbero azzannato. Mentre prima esitavano, davanti all’altare «non si azzardavano», esattamente come l’uomo davanti al primo animale che stava per sacrificare. Ma ora, esattamente nel punto dove gli animali venivano usualmente sacrificati, sarebbero stati sacrificati gli officianti: «I sacrifici animali si compiono vicino all’altare superiore, uttaravedi, e gli Yati, sacrificatori di animali, per una sorta di simmetria rituale, diventano vittime di animali».
Proviamo ora a tornare indietro, per ricostruire il decorso degli eventi: Indra aveva dato in pasto alle iene gli Yati come un tempo le iene avevano lasciato in pasto agli uomini le carcasse degli animali uccisi dai grandi felini o da loro stesse. E questo non era ammissibile: avrebbe significato il ritorno alla pura uccisione, mentre il pensiero dei ritualisti vedici aveva come perno la trasformazione della pura uccisione in qualcos’altro: nel sacrificio. Come uscire da un tale vicolo cieco? Facendo [167] sì che il sacrificio di un animale diventasse un sacrificio dove gli officianti sono le vittime e vengono mangiati da animali. Ed è questo appunto che Indra aveva predisposto per gli Yati.
Tutto doveva avvenire nel momento stesso in cui un branco di iene assaliva un gruppo di sacerdoti intenti a celebrare un sacrificio del soma. In una sola unità di tempo si dovevano comprimere l’assalto delle iene, gli errori rituali commessi dai sacerdoti terrorizzati e la forma finale del sacrificio, che diventava un sacrificio di espiazione per gli errori appena commessi e dove i sacerdoti stessi venivano uccisi e abbandonati come carcasse residuali. Una scena convulsa. Se mai un teatro della crudeltà vi è stato, fu allora.
A differenza dei sacerdoti egizi, i ritualisti vedici ignoravano gli annali e la scrittura. Ma avevano una memoria lancinante, che giungeva molto lontano e si depositava nei gesti rituali e nelle storie in essi sottintese. La storia di Indra e degli Yati, marginale, incomprensibile e ripugnante, se osservata con la lente svela una prospettiva abissale. Eppure non era quello lo scenario ultimo. Come spesso accade nei miti vedici, le quinte si aprono su altre quinte, ancora più remote. Che lasciano intravedere per quale motivo Indra si era rivolto alle iene per sterminare gli Yati. Occorrerà risalire agli inizi, quando gli dèi, i Deva, abitavano la terra insieme agli antidèi, gli Asura, loro fratelli maggiori. Erano tutti figli di Prajāpati. «All’inizio questa terra era degli Asura. Gli dèi possedevano solo quello che potevano vedere stando seduti. Gli dèi dissero della iena: “Tutto ciò intorno a cui girerà per tre volte sarà nostro”. La iena fece il giro completo della terra per tre volte. In questo modo gli dèi conquistarono la terra». Gli dèi sono dunque in debito verso le iene, anzi a loro devono ciò che possiedono. Trasposto nella storia umana, questo implica che, se gli uomini non avessero imitato le iene, non sarebbero mai giunti alla loro posizione dominante. C’è poi un prezioso dettaglio etologico che si intreccia nella scena. Come ha osservato Kruuk, le iene usano interrompere i [168] loro pasti con giri circolari entro un raggio di circa venticinque metri. È un esempio eloquente di Übersprungbewegung, quel «movimento di diversione» a cui ricorrono molti animali, come per distrarsi o distogliersi da qualcosa – talvolta essenziale – che stanno facendo. È come se certi animali non tollerassero di fare soltanto ciò che li occupa in un certo momento. Ed è come un primo tentativo, da parte dell’animale, di uscire ritualmente dalla gabbia dei suoi gesti obbligati. Questa singolare abitudine permise ai Deva di conquistare la terra. Ma non era ammissibile che gli dèi si mostrassero così dipendenti dalle iene, esattamente come, più tardi, sarebbe avvenuto con gli uomini, che fecero di tutto per separarsi dalle iene e denigrarle. Doveva intervenire il re degli dèi, Indra. Così accadde che «Indra, essendosi trasformato in una iena femmina, girò intorno alla terra per tre volte». E così gli dèi ottennero il mondo attribuendo l’impresa a Indra e non a una iena. Etichetta celeste.
Una mattina dell’estate 1981 Lewis Binford camminava lungo il letto di un fiume secco, in Sudafrica. E annotò questo: «Ovunque nella vallata, vicino alle pozze d’acqua, si scorgevano gruppi di ungulati. All’ombra dei grandi alberi, sdraiati nei pressi di una particolare pozza, capitava di trovare gruppi di gnu striati: non era insolito vedere dieci, venticinque, addirittura quaranta individui. Al nostro arrivo un grande maschio si alzava in piedi, si scrollava e, avvolto in un nugolo di polvere, abbassava appena la testa per guardare nella nostra direzione. Ogni tanto ci passava davanti uno struzzo. Le onnipresenti antilopi ci fissavano ma continuavano a mangiare, vagando alla ricerca di ombra o di chiazze d’erba giallastra. La vallata, con i suoi acquitrini, era davvero il regno degli ungulati.
«In quel paesaggio l’unico indizio di violenza era un avvoltoio appollaiato su un albero o in volo sopra di noi; alla fine sarebbe arrivato a terra, aggiungendosi a [169] un gruppo piumato che pasteggiava intorno a un animale morto. Se in quell’habitat ci si guarda intorno cercando maggiori dettagli, non è difficile individuare carcasse di animali o loro parti: i segnali silenziosi di morti violente sono una costante dei terreni circostanti le pozze.
«Tuttavia, se si rimane per qualche tempo nella zona, quel ritmo apparentemente placido si rivela ancora più illusorio. Gli ungulati dominano senz’altro le pozze a metà giornata; ma non appena il sole inizia a sfiorare l’orizzonte a occidente, a poco a poco, ma con decisione, si ritraggono verso i margini della vallata, salendo sulle dune per uscirne. Colpisce il loro abbandono del regno diurno, mentre si disperdono nel vasto paesaggio ondulato per allontanarsi dall’acqua e scomparire. Nella luce obliqua del tramonto i predatori, signori della notte, si trasferiscono nella vallata per occupare le pozze ed esercitare il loro dominio sulla terra usata dagli ungulati durante il giorno.
«In genere arrivano prima le iene; si avvicinano lentamente alle pozze e passano accanto alle vecchie carcasse di ungulati precedentemente uccisi dai predatori, o di altri animali morti in modo meno violento vicino all’acqua. Le iene rosicchiano quelle ossa relativamente secche, ma alla fine vanno a bere, perché prima di andare a caccia lo fanno quasi sempre. Tuttavia la vera e propria ricerca del cibo comincia d’abitudine molto più tardi; non è insolito per le iene rimanere nelle immediate vicinanze della pozza, a rosicchiare ossa, a spostare pezzi di carcassa, o a occuparsi in varie attività sociali. Quando fa buio si può udire qualche richiamo (la caratteristica “risata”); più tardi, le iene partono risolute alla ricerca di un po’ di carne fresca. Anche i leoni e i leopardi visitano spesso le pozze nella notte: a loro volta hanno bisogno di acqua durante le ore attive della caccia. I ruggiti dei leoni si sentono comunemente fra le dieci e le due; in quelle ore possono fare lunghi tragitti passando di pozza in pozza prima dei loro agguati.
[170] «Fra le due e le quattro e mezzo del mattino l’attività sembra diminuire: o almeno, i versi dei predatori scemano e la notte diventa silenziosa. Subito prima dell’alba si sentono di nuovo i ruggiti dei leoni; normalmente i predatori seguono piste già battute che li portano di frequente ad attraversare o costeggiare i ruscelli o le pozze d’acqua. Mentre i raggi del sole inondano il paesaggio gli avvoltoi sono già in volo, in cerca della carneficina della notte. A poco a poco, mentre il calore ritorna nelle valli, ricompaiono gli ungulati e tornano alle pozze d’acqua. Il ciclo ricomincia». Acqua e carcasse – il primo paesaggio desiderato.
Dopo essere stati, per oltre centomila anni, i soli rappresentanti di Homo in Europa, i Neanderthal videro infiltrarsi nei loro territori, da est, gruppi di intrusi, con i quali convissero a lungo: i Sapiens. Che cosa accadde poi nei diecimila anni (–45.000/–35.000) che eufemisticamente vengono definiti «la Transizione», anticipando il Dictionnaire des idées reçues di Flaubert, non è accertato e forse non accertabile, anche se mai come negli ultimi decenni la fabulazione dei paleoantropologi si è sbrigliata nel ricostruirlo. Genocidio? Lewis-Williams parla di un «genocidio probabilmente intermittente piuttosto che costante». Ma, secondo Ezra Zubrow, anche un «lieve vantaggio demografico», nell’ordine di «una differenza del due per cento nella mortalità» sarebbe stato sufficiente per causare una «rapida estinzione dei Neanderthal». Altre spiegazioni sono state offerte, puntando sulle strategie di caccia o sulle scelte degli ambienti o su fattori climatici. Ipotesi che hanno tutte un elemento in comune: il vasto arbitrio – e la mancanza di argomenti probanti. Ma questo non toglie che, osservando quei diecimila anni di transizione, in uno scenario che si estende tra la Francia e la Spagna, definito da alcuni paleoantropologi cul de sac, finalmente si tocchi il fondo di tutti i possibili conflitti: un affrontamento primordiale, scaturigine di ogni trama dove gli opposti [171] si scontrano. Per quanto faccia, Sapiens sarà sempre uno straniero, sopraggiunto in terre già abitate da altri.
Sui rapporti fra Sapiens e Neanderthal i paleoantropologi dovrebbero sempre presupporre alcune parole di Simone Weil: «All’epoca dell’avvicendamento delle razze all’alba dell’umanità (es. quando l’“homo sapiens” dei paleontologi si è sostituito agli esemplari precedenti) i vinti possono essere apparsi ai vincitori come una specie animale piuttosto che umana ... Ma uno di quei vinti poteva essere Dio incarnato. È questa forse una delle origini dell’immagine di Dio travestito da animale».
Homo sapiens ha avuto bisogno di un’incubazione di oltre cinquantamila anni per arrivare all’agricoltura, alla domesticazione, alla sedentarietà. Accanto a lui, per circa trentamila anni (l’ultimo ritrovamento neanderthaliano, a oggi, risale a 28.000 anni fa, a Gibilterra), continuava a vivere un parente stretto nella filogenesi, Homo neanderthalensis. Sapiens lo vide sparire. O lo fece sparire. In tutti e due i casi, la storia dei suoi rapporti con i Neanderthal è l’immane, non scritto romanzo nero che sta dietro a tutti i romanzi.
Il Neanderthal di Marillac era un superpredatore che si nutriva soprattutto di quadrupedi erbivori. Non molto diverso era il regime alimentare dei lupi che vivevano nella stessa zona in quel periodo. Nonché di Sapiens, che si sovrappose ai Neanderthal. Ma, poche migliaia di anni dopo, i Neanderthal si estinguevano, mentre Sapiens persiste fino a oggi. Marylène Patou-Mathis, dopo vent’anni di ricerche sui Neanderthal, durante i quali aveva «inseguito, scorticato, interpretato» ogni loro traccia, concluse che tutte le teorie sulla loro scomparsa erano insufficienti. Ma aggiungeva senza battere ciglio che «oggi, fra le teorie più convincenti, si opta per quella [172] di uno stress generato dall’arrivo di uomini diversi (ma che gli assomigliano)». Potenza dello stress.
Chi nasce all’inizio del secolo ventunesimo non differisce di molto, geneticamente e anatomicamente, da un bambino di sessantamila anni or sono. Ma i primi ritrovamenti di abitazioni stabili, in comunità che scoprono e praticano l’agricoltura e addomesticano alcuni animali, si fanno risalire intorno al 10.000 a.C. Perché soltanto allora? Secondo i paleoantropologi questo sarebbe il «sapient paradox», il «paradosso di Sapiens», per il quale tuttora non è stata trovata spiegazione. Eppure il paradosso potrebbe servire anche ad altro, diventando materiale utilissimo per una autoanalisi dei paleoantropologi stessi, che deve ancora cominciare. Il paradosso infatti tale è soltanto se si presuppone che Sapiens, una volta raggiunto il suo assetto anatomico e genetico «moderno» (come usano scrivere gli studiosi), non avesse altro da fare che scoprire e sviluppare l’agricoltura, scegliere la sedentarietà e addomesticare alcuni animali. Abbandonando così finalmente la sua esistenza di cacciatore-raccoglitore, della quale si presuppone che consistesse unicamente in una tenace ricerca del cibo necessario alla sopravvivenza. Quei cinquantamila anni di intervallo, precedenti alla sedentarizzazione, diventano allora una fastidiosa lungaggine. Perché Sapiens avrebbe aspettato tanto prima di mettersi a posto? Addirittura cinquantamila anni? Forse questa ricostruzione molto ha a che fare con l’assetto mentale dei paleoantropologi nel tardo secolo ventesimo e molto poco con ciò che avvenne nelle ultime fasi del Pleistocene.
In mezzo a tutto questo irrompe, nel 1995, la scoperta di Göbekli Tepe: un sito che contraddice radicalmente tutti i presupposti taciuti dei paleoantropologi. A partire dai dati elementari: al centro della Mezzaluna Fertile, quindi della regione dove si situano i ritrovamenti più significativi per capire gli inizi dell’agricoltura (Çatalhöyük), esisteva intorno al 10.000 a.C. una popolazione [173] di cacciatori-raccoglitori dedita a erigere lastre di pietra del peso di varie tonnellate, spesso coperte da rilievi con figure di animali selvaggi e forme geometriche. Nessuna traccia, neppure rudimentale, di una pratica dell’agricoltura; nessuna traccia di domesticazione di animali; nessuna traccia di sedentarizzazione. Göbekli Tepe non era un luogo dove si abitava. Serviva ad altro – e nessuno può dire con certezza a che cosa. Mentre è certo soltanto che creare quel sito deve aver richiesto il lavoro di centinaia di persone. E occorrerà anche ammettere che quella ignota popolazione di cacciatori-raccoglitori si preoccupava anche di qualcos’altro, oltre che di cacciare e svellere tuberi.
Nei rilievi di Göbekli Tepe gli animali sono per lo più ostili all’uomo e temibili: se uccelli, sono rapaci; se insetti, sono scorpioni, ragni e scolopendre; se quadrupedi, sono volpi, lupi, grandi felini o altri esseri compositi che non sembrano innocui. Ma c’è anche una incantevole fila di paperelle. Le pietre squadrate a formare una T, il perfetto cerchio in cui si dispongono: sono già un’alta manifestazione dell’astratto. Sulle superfici delle pietre concrescono gli animali. Anzi, sembra che debbano concrescere. Si evita la pietra nuda. Come se le lastre di pietra, che talvolta pesano tonnellate, non potessero sussistere se non lasciando affiorare sulla loro superficie, quasi vi fossero tatuati – anche se talvolta non sono incisi ma si mostrano in altorilievo –, gli animali.
«Nella grande famiglia degli esseri compositi dell’arte mesopotamica “demoni” e “mostri” vengono distinti come segue: gli esseri che deambulano a quattro zampe come animali vengono detti mostri, quelli che camminano con la tipica postura eretta dell’uomo vengono definiti invece demoni»: così Klaus Schmidt, lo scopritore di Göbekli Tepe, svelava i criteri del suo mestiere – e riconosceva come, di conseguenza, «la vera identità di ciascun essere composito ... non è ancora stata individuata». Mentre i primi esseri umani che presero forma nelle pietre, interi, emanavano sempre qualcosa di spettrale. Occhi vuoti, arti appena sbozzati dall’informe. Se [174] alla statuaria greca è inevitabile attribuire una qualità unica, molto è dovuto al suo essersi sfilata senza lesioni dalla guaina di quel passato nel corso di pochi anni che, in paragone, furono un battito d’ali.
Leopardi, avvoltoi: animali che l’uomo non mangia e che mangiano l’uomo. Dominavano le pitture di Çatalhöyük. Vegliavano sulle pareti domestiche. Erano gli eredi di altri animali temibili, scolpiti sui pilastri a T di Göbekli Tepe. Anche se già consolidati in una società, gli uomini avevano bisogno di contemplare a lungo – o magari di avere sotto gli occhi appena si svegliavano – quegli animali alla cui presa non erano certi di essere sfuggiti.
«Tutto quel che c’è a Çatalhöyük sono case e concimaie e recinti per animali» osservò Ian Hodder, dopo aver passato molte estati a scavare il sito: un grosso villaggio ammassato, senza ragione apparente, certamente non per difesa. Con divisioni indifferenziate, senza spazi specializzati, funzionali. Ogni casa era focolare, dormitorio, cimitero, santuario, laboratorio, magazzino. Si può solo constatare che in molte di quelle case, non grandi e adibite a molteplici usi, gli abitanti hanno sentito il bisogno di raffigurare soprattutto animali per lo più pericolosi – primo fra tutti, per frequenza, il leopardo – o configgerne corna e crani nei muri, dipingendoli e scolpendo rilievi. Mellaart, primo archeologo del sito, definì questi spazi come «santuari». Ma poi si capì che erano zone delle case. E di santuari separati, che fossero solo santuari, non vi era traccia.
Un giorno quando già erano stati scavati 650.000 frammenti di ossa animali, Nerissa Russell identificò il primo osso di leopardo. Era un artiglio, usato come pendente, con un foro circolare. Venne trovato vicino a un cranio umano, intonacato. E vicini entrambi al braccio destro di uno scheletro di donna, che stringeva a sé il cranio. Dopo mezzo secolo di scavi, quell’artiglio-pendente era l’unico frammento di leopardo interrato. Ma [175] leopardi erano visibili ovunque, nel sito: dipinti, in rilievo, scolpiti, in figurine di arenaria. Cavalcati da donne o accostati a donne. E altre donne e uomini si avvolgevano, nelle pitture, in pelli di leopardo.
Erwin Rohde, il più affine tra gli amici di Nietzsche, colse un punto senza il quale non può che sfuggire la terribile novità del mondo omerico: l’alleggerimento della vita, il suo totale abbandonarsi allo splendore, pur in mezzo a ogni atrocità, se è vero – come scrisse Vico – che «l’atrocità delle battaglie omeriche e delle morti ... fanno all’Iliade tutta la maraviglia». Nulla è lacerante come la visione dell’Ade che si spalanca a Odisseo. Sfibrate, vaneggianti, le anime continuano a vivere – e questo è parte del loro tormento. Ma sanno che non potranno più intervenire sulla terra, dove regna la luce. Ed è questa l’origine della radiosità omerica: «Il vivente è lasciato in pace dai morti. Nel mondo regnano soltanto gli dèi, non pallidi spettri, ma figure ben fissate in un corpo, che operano in ogni dove, e abitano su cime serene “e sopra vi si diffonde uno splendido fulgore”». La scena omerica non è un inizio, se mai qualcosa di vicino a una fine. Dietro, si estende una sterminata, oscura regione, infestata da spettri, simulacri vaganti, voci senza corpo. Questa, se mai c’è stata, è l’unica cesura che divide la Grecia da ogni preistoria.
Di fatto, l’ostacolo maggiore, se si vuole capire qualcosa della preistoria, è dato dal fatto che nel frattempo la vita degli uomini si è immensamente alleggerita. A tal punto che il mondo può anche non fare più pressione su chi lo osserva. Almeno in certe situazioni sperimentali, come quella che fu raggiunta stabilmente nell’Ottocento, innanzitutto in chi apparteneva al ceto altoborghese e viveva di rendita, negli anni della regina Vittoria. Era questo il materiale umano prediletto di Henry James. Il quale, invece di selci scheggiate, disponeva di frasi lasciate cadere in conversazione, aneddoti, pettegolezzi, visite, pranzi, cene, passeggiate. Sulla base di [176] tutto questo, James ricostruiva un groviglio di intrecci, che ormai pressoché nulla avevano a che fare con il mondo esterno. La natura era una quinta occasionale. Tutto si svolgeva in interni, anche se talvolta per strada o in luoghi ameni. Ma che cosa poteva accadere, se l’alleggerimento, la scelta di disfarsi del mondo come di una molesta zavorra, diventava una regola di vita consapevolmente praticata?
Fra i più importanti racconti di Henry James ve ne sono alcuni che James non ha scritto. Sono «piccoli sujets de nouvelles», boccioli mai dischiusi se non nella forma contratta dei Taccuini. Eppure si ha talvolta il sospetto che proprio quella forma fosse la forma finale, la più adatta a una storia che, innumerevoli volte, era nata da una frase detta da qualcuno in conversazione, durante una delle innumerevoli occasioni mondane a cui James aveva partecipato – e che erano il terreno stesso, continuamente smosso e rimosso, della sua opera. Così accadde per una frase che gli aveva detto Mrs. Procter, in cui James riconobbe il «minuscolo germe per un minuscolo racconto», di cui ci rimane soltanto il tracciato.
A Torquay, il 28 ottobre 1895, James annotò queste parole sul suo taccuino: «Ricordo come Mrs. Procter una volta mi abbia detto che, dopo una lunga vita segnata da tanti affanni e sofferenze, vicissitudini e sciagure, fosse per lei un piacere singolare, un lusso profondamente sentito, nell’autunno della vita, potersene star seduta a leggere un libro: già il senso stesso di sicurezza che le dava, la sensazione che, con tutto ciò che aveva passato, ormai non poteva succedere più nulla, era fortissimo in lei. Un piacere del genere, a quel modo o in quella misura, se vogliamo non l’aveva mai avuto; e tornava a gustarlo da capo a ogni nuovo giorno. Forse esagero un poco la manifestazione della sua particolare estasi – l’osservazione, però, l’aveva fatta e sul momento mi aveva colpito moltissimo. Adesso mi si ripresenta sotto forma di suggerimento, di minuscolo germe per un minuscolo racconto».
[177] Subito dopo, James delineò il profilo di quel racconto, con una tale perspicuità da non far rimpiangere che non sia mai stato narrato distesamente: «Dovrebbe esserci una persona anziana, o quanto meno attempata, che si ha avuto modo di conoscere, incontrare – una relazione che offriva il destro all’osservazione. La persona anziana – nelle acque chete di un ultimo approdo – manifesterebbe una tale gioia – una letizia così commovente – nelle più normali sicurezze e garanzie offerte dalla vita – una passeggiata, una lettura fatte in santa pace, la visita cortese di un amico o il lusso di una comunissima relazione, da indurre a chiedersi quali possano esser stati gli affanni del passato per dare un simile valore ai più consueti privilegi del presente. Cosa sarà accaduto a quell’anziana persona (uomo o donna che sia), cosa avrà sofferto? Questo rimane un piccolo mistero suggestivo. La persona anziana (l’età precisa è cosa da stabilire opportunamente) è schiva, ombrosa, riservata su certi argomenti – ma tanto più stanca e posata. Ci si stupisce ma in realtà non si vuole sapere – ciò che interessa veramente è difendere e proteggere quelle semplici gioie. Si guarda e si simpatizza, si è divertiti e commossi, fa piacere pensare che l’anziana persona è al sicuro per il resto della vita».
Si può provare a trasporre il «minuscolo racconto» di James nella sterminata storia di Sapiens. Che per alcune decine di migliaia di anni provò, fra tentativi ed errori, e procedendo in molteplici direzioni, ad alleggerirsi del mondo. Allontanandosi innanzitutto dagli animali. E proteggendosi dalla natura in genere. Con progressivo sollievo e concomitante angoscia, perché ogni innovazione contrastava con inveterati comportamenti. Sempre più, l’umanità andava somigliando a Mrs. Procter che, «dopo una lunga vita segnata da tanti affanni e sofferenze, vicissitudini e sciagure» era giunta a concepire «un lusso profondamente sentito», che era questo: «star seduta a leggere un libro». Potrebbe sembrare [178] una cosa da poco, ma non se la colleghiamo a ciò che implicava: «la sensazione che ... ormai non poteva succedere più nulla». Mrs. Procter, dopo la sua vita travagliata, e Sapiens, dopo millenni di storia, aspiravano innanzitutto a una stessa condizione: protetta, separata dal mondo grazie a una insuperabile barriera, che impedisce ogni irruzione dall’esterno – ogni ultimo assalto di predatori. Mrs. Procter e Sapiens coincidevano anche nel lusso che si proponevano: leggere, seduti in una poltrona. Leggere, infatti, qualsiasi cosa si legga, è sempre un ripercorrere le vicissitudini passate, che ormai potevano apparire fascinose. E anche distraenti, come un ininterrotto spettacolo. Ma – soprattutto lontane. Non c’era nulla di meschino in quella sensazione, se si teneva conto dei tormenti e delle protratte lacerazioni a cui faceva seguito. Mrs. Procter avrebbe potuto essere accolta in un museo di storia naturale o da Madame Tussaud come compendio dell’umanità occidentale vivente nel più vasto impero alla fine del secolo diciannovesimo. Che in quegli stessi anni Sapiens continuasse a lanciarsi in imprese di rapacità e di conquista, in vari continenti, non era certo incompatibile. Era un turbine che celava, al suo centro, una scena di quiete perfetta: Mrs. Procter seduta nella sua poltrona mentre legge, barricata contro qualsiasi invadenza e soprattutto appagata dal pensiero che «ormai non poteva succedere più nulla».
Quella sensazione di Mrs. Procter era ovviamente illusoria, se non altro per via dei tre mali che il giovane Buddha percepì prima di abbandonare il palazzo del padre: la malattia, la vecchiaia, la morte. E chiunque sa che il mondo trova sempre l’opportunità per farsi sentire e ogni tentativo di sottrarsi alle sue irruzioni non può che durare poco. Eppure un vasto movimento storico aveva fomentato, nutrito e sviluppato quella illusione, di cui Mrs. Procter era una esemplare rappresentante.
Henry James era conscio di tutto questo, con piena lucidità. Ma non era ciò che avrebbe voluto raccontare. Il suo genio narrativo lo spingeva sempre a cercare quel che rimaneva non detto nelle intercapedini delle altre [179] storie che si scrivevano attorno a lui, anche in quelle che più ammirava, in Stevenson, in Turgenev. Mrs. Procter non poteva servirgli per raccontare come una tarda quiete solitaria poteva andare in pezzi in conseguenza di un qualche evento esterno. James puntava più in alto. Voleva qualcosa di ben più sottile e insidioso: come quella quiete si sarebbe autodistrutta, per opera di un qualche agente corrosivo, dall’interno.
A partire da quel che Mrs. Procter gli aveva detto, James era giunto a scrivere: «Si guarda e si simpatizza, si è divertiti e commossi, fa piacere pensare che l’anziana persona è al sicuro per il resto della vita». Poteva sembrare una conclusione – e invece appunto qui si sprigionava il demone di James, avviando la metamorfosi del «minuscolo germe» in racconto. Era un momento rituale, ricorrente nei Taccuini. Il passaggio all’elaborazione veniva segnalato con una formula che nella sua versione completa si presentava così: «Voyons un peu les détails». In quel preciso istante cominciavano a vibrare le antenne narrative di James – e il taccuino diventava la registrazione stenografica di ciò che quelle antenne percepivano. Così accadde in conseguenza di ciò che James aveva sentito dire da Mrs. Procter. Qui il tono cambia bruscamente. Non è più Mrs. Procter che parla, ma James che segue il suo estro: «E allora ecco la svolta finale. E quale potrebbe essere se non che un orribile pericolo torna a farsi realtà, qualche lontana minaccia o legame troncato riaffiora dal passato? Finite le piccole sicurezze e i piccoli piaceri. Mi sembra di veder riapparire qualcuno, un fatidico qualcuno. Voyons: – mi pare di vedere un vecchio la cui femme rispunta». Voyons: è come se assistessimo al momento aurorale dell’invenzione narrativa. Qualcosa si sta disegnando nell’ombra: «Mi sembra di veder riapparire qualcuno, un fatidico qualcuno». Frase che potrebbe essere il cartiglio del romanzo in genere.
Le parole di Mrs. Procter diventano la postazione da distruggere. Come? Occorre che prenda forma l’«orribile [180] pericolo» che è in agguato sempre – e basta a vanificare ogni pretesa di essere al sicuro. Ma ecco apparire i dettagli: intanto Mrs. Procter si trasforma in un anziano gentiluomo, la cui moglie riappare. Situazione che sembrerebbe assai banale, tanto più se la moglie era «all’origine delle complicazioni e dei crucci di un tempo». Ma non è così – e qui il demone di James ha finalmente libero gioco. La moglie che riappare non è acrimoniosa, rivendicativa. Al contrario è «pentita, riconciliata, contrita, pacificata». Ma appunto questo è, per il vecchio signore, ciò che più paventa: il disturbo. Quella moglie riapparsa «gli arreca addirittura più disturbo con la sua compunzione che con la sua – non so quale pecca di un tempo». Il gentiluomo solitario è costretto a rendersi conto, con raccapriccio, che può avere un doppio: la consorte riapparsa. E tanto basta a distruggere l’architettura della solitudine. Nella sua ostentata mitezza, la moglie non è soltanto un doppio. È un rivale: «È venuta (sinceramente, ma egoisticamente) in cerca di pace e di riposo – vuole leggere un libro, ecc., solo che così pone fine alla pace e al riposo dell’uomo». Frase feroce: come si può distruggere qualcuno semplicemente stando seduta in una poltrona a leggere un libro, non troppo lontano da lui. James sa così bene quanto è feroce che si ferma un attimo, come un torturatore colpito da un accesso di benevolenza: «Mentre lo scrivo, vedo tutto quanto, provo compassione per lui». Scrivere è un vedere tutto quanto e prendere nota.
Con pochi tocchi, James ha creato una situazione insostenibile, non meno di certe scene in Dostoevskij. Come uscirne? «Alla fine, d’improvviso, egli scompare – si dilegua lasciando la moglie padrona del campo». Dove andrà? Forse, come Wakefield nel racconto di Hawthorne, nella casa sull’altro lato della piazza. Proverà di nuovo a essere invisibile.
E la moglie, la terribile moglie, il «fatidico qualcuno»? James precisa, acuisce la sua visione: «Vedo lei – dopo aver sterminato [exterminated] lui – che si abbandona alla stessa quiete di lui. Sta seduta nella sua poltrona, [181] alla luce della sua lampada, al suo tavolo: manifesta proprio la stessa placida, piccola gioia di lui. “Che gran lusso starsene seduti a leggere un libro”. È lo stesso libro – uno che ha visto leggere da lui». Qui si parla dell’origine violenta dell’imitazione, di quell’azzardo primordiale che un tempo lontano ha indotto gli uomini a imitare i loro persecutori. È uno sprofondamento silenzioso nella preistoria. Ma dal picco della «civiltà perfezionata». James vuole subito precisare che il suo vecchio signore e la moglie appartengono al «genere più colto e raffinato» (anzi, insiste, sono dei «raffinés»). Lui, in particolare, è «un uomo di mondo, in tutto e per tutto, come tipo, un uomo di alto rango, per così dire». E proprio questo rende il suo «appagamento trovato nei piccoli piaceri, la felicità della rinuncia, abbastanza singolari». Dal Paleolitico alla décadence, lo sfondo mentale di ciò che accade è rimasto intatto.
Il racconto suscitato da Mrs. Procter rimase allo stato di progetto, ma aveva già un titolo: Les Vieux. Mancava però ancora il «faire, il piccolo processo difficile, delicato, ripetuto»: era il modo di James per nominare la scrittura. Ma forse Les Vieux era già stato scritto, nelle due pagine dei Taccuini. Non occorreva di più.
VI
L’ULTIMA NOTTE DI ZEUS SULLA TERRA
[185] Durante sedici generazioni, Zeus si congiunse con donne della terra. La prima fu Niobe, l’ultima Alcmena. Niobe era figlia di Foroneo, «colui che è detto il primo uomo» disse Solone ai sacerdoti egizi quando gli volle raccontare «ciò che abbiamo di più antico». I sacerdoti sorrisero e dissero: «Solone, Solone, voi Greci siete sempre dei bambini». Per gli Egizi erano tutte storie recenti. Ma, per Zeus, Niobe fu la prima donna sulla terra. Non ci fu un tempo in cui una donna non potesse essere insidiata dal dio. Appena il caos si dissolse, il mondo cominciò a essere tempestato dagli amori divini («Aque Chao densos divom numerabat amores» si legge nelle Georgiche). Amori densi, fitti, come i punti sulla retta, addensamenti di frecce sullo stesso bersaglio. Lo stesso aggettivo, densus, indica una successione martellante di colpi e l’informe abbraccio della caligine. Ma, giunto all’epoca di Alcmena, Zeus fu costretto a fare qualcosa di inaudito per lui: camuffarsi da uomo. Abbandonato il regno delle metamorfosi, si entrava in quello della contraffazione. Incipit comoedia.
[186] Spesso gli eroi erano innanzitutto cacciatori. O almeno avviavano le loro imprese esercitandosi come cacciatori. Al contrario di loro, per diventare eroe Eracle dovette rinnegare in sé il cacciatore. Furono le sue frecce avvelenate a decimare e disperdere i Centauri, maestri di ogni cacciatore. Fu ancora la sua freccia che si conficcò, per sbaglio, nel ginocchio di Chirone e fece desiderare la morte a quell’immortale, maestro di ogni Centauro. Alla vuotezza, alla gratuità della caccia Eracle sostituì la funzionalità dell’impresa. Divenne così più goffo, il corpo appesantito. Si distinguevano in lui i singoli muscoli, che agivano ciascuno al servizio di un altro e tutti insieme al servizio di qualcosa. Prima, il corpo del cacciatore era stato una linea fluente, tesa, simile alla freccia dall’asta ondulata, simile al profilo del dorso dell’animale che la freccia avrebbe raggiunto.
Eracle sapeva che non poteva improvvisare nulla. Tutto era già stato predisposto per lui. Non gli era stato concesso il gioco dell’avventura. Fu il primo figlio irrimediabilmente coartato dai disegni del padre – e della matrigna. Ma quanto avventuroso, beffardo e impudente era stato il gioco di Zeus perché Eracle potesse nascere... Forse perché, per Zeus, quella fu l’ultima occasione per giocare con le donne della terra.
Zeus bussò alla porta di Alcmena sotto l’aspetto di Anfitrione, come se tornasse di sorpresa dalla spedizione contro i Teleboi, gravato dal peso delle armi. Alcmena lo accolse con stupore: sul fondo della notte Anfitrione appariva avvolto «in una tormenta d’oro». Nel vano della porta si stagliò la figura possente di Alcmena. In lei si notava la forza ancor prima della bellezza, che pur era grande; e, appena alzava gli occhi, una certa gravità nello sguardo, come di chi conosce il fondo delle cose e lo tacerà, sempre. Qualcosa di simile Zeus aveva incontrato soltanto nello sguardo di Hera.
In quel momento, quando Alcmena aprì la porta a Zeus e riconobbe Anfitrione, lo sposo con il quale non [187] si era neppure una volta «mescolata nell’eros», mentre Zeus riconosceva in Alcmena l’espressione di Hera, la sposa-sorella che ancora una volta era sul punto di tradire, ebbe inizio quell’ultima notte. E continuò espandendosi in tre notti, occupate dal coito di Zeus e Alcmena, mentre le Ore avevano staccato i cavalli e si distraevano nei loro appartamenti celesti, ignorando quell’inammissibile ritardo, e gli uomini erano colpiti dalla sonnolenza che sempre li accompagna quando si trovano a essere testimoni involontari di eventi divini che non sono chiamati a capire. Ma se Zeus quella notte non volle agire, così affermava Diodoro Siculo, «per desiderio erotico, come con le altre donne, ma per procreare il bambino», perché quella notte durò più di ogni altra notte, quasi per concedere al piacere di non avere mai fine? Fu uno di quegli enigmi con cui Zeus cospargeva le sue avventure. Durante quel coito inesauribile Zeus tornò con la mente a un altro piacere – acuto, esasperato, che aveva conosciuto con la bisavola di Alcmena, con Danae, quando era disceso su di lei in una pioggia d’oro dentro una camera sotterranea di bronzo, sigillata dall’esterno. Ricordava sempre quel freddo e quell’oscurità baluginante di verde, quella scatola rigida che ospitava al suo centro un molle mucchio di cuscini e bianche stoffe con animali ricamati, e al di sopra un corpo perlaceo e tiepido che il gelo del metallo circostante non riusciva a domare. Quella cella bronzea era vuota, salvo il ricco letto appena illuminato da una sottile feritoia nel soffitto – e, accanto al letto, sospeso a un filo invisibile, uno specchio rotondo, dove più volte, quella notte, Zeus vide uno scintillio diffuso perdersi sul petto della prigioniera.
Con Danae, Zeus era giunto vicino, più che mai prima, a dimenticare se stesso. Il corpo si disperdeva in gocce che erano anche monete, leggere, tintinnanti, umide al contatto della pelle di Danae, che aderivano a lei e si nascondevano ovunque, sotto le ascelle o all’inguine o dietro il ginocchio. La pioggia scendeva a ondate, costante, nella quiete sepolcrale. Quella principessa [188] di Argo, riversa su due enormi cuscini, lo guardava curiosa, nella penombra, mentre le monete scivolavano sulle stoffe del letto e si ammucchiavano fra le sue cosce. Dalla testa, dalla capigliatura, come da una roccia fasciata di muschio, stillavano gocce grasse lungo la schiena e formavano un lago attorno alle natiche. Fra l’uno e l’altro dito dei piedi si insinuavano altre monete sottilissime, che si avvolgevano poi in un mulinello attorno alle caviglie di Danae, lunghe, sottili, celebri.
Ma ora Zeus non pensava soltanto a Danae. Molto più lontana di lei, e sempre nella stessa stirpe, alla sedicesima generazione prima di Alcmena, Zeus ricordò Niobe figlia di Foroneo, la prima donna della terra con cui si era congiunto. Sempre lo avevano attratto le donne di quella casata di Argo: in quella famiglia erano cominciate, in quella famiglia si sarebbero concluse le sue storie amorose sulla terra. Alcmena era l’ultima mortale che avrebbe toccato. Sapeva che ormai da quegli amori sarebbero nati figli non più all’altezza di quelli di una volta – «e non voleva che al meglio seguisse il peggio». Anche il dio obbediva al corso del tempo.
Quella notte con Alcmena sarebbe stata per Zeus il congedo da un’intera fase della sua vita, quando qualsiasi donna viveva sapendo che le sarebbe potuto toccare di essere terrorizzata e inebriata dalle sue visite. Una lunga complicità si era creata fra lui e quegli esseri, che erano serviti, fra l’altro, ad avviare la storia. Ma la storia ormai stava precipitando da sola, come un masso staccato dalla montagna. Rimaneva un’ultima impresa: far nascere quell’eroe, Eracle, che sarebbe stato l’impresa stessa, la sua incombente, cieca, inarrestabile pena. Zeus stava per abbandonarsi a un nuovo, utile paradosso. Perché nascesse l’eroe più umano, colui per il quale tutto fu fatica, anche gli amori e la gloria, aveva scelto di trasformarsi in un uomo come tutti gli altri, accettando il ruolo del marito in una qualsiasi coppia mortale.
Spogliatosi delle armi, e poi mentre si lavava e si ungeva, Zeus si sentì in dovere di raccontare ad Alcmena, con il tono del guerriero esausto e felice, episodi inventati [189] di una guerra di cui non sapeva nulla. E, mentre parlava, fremeva in lui un’ilarità che non aveva mai provato prima, e perciò nessuno aveva mai provato, mentre ora si presentava nitida come una forma che si sarebbe fissata una volta per sempre. Nasceva la commedia, quell’ultimo dono, il dono del malinteso e del riso, che Zeus avrebbe lasciato in eredità a quei cari esseri che doveva abbandonare. Alcmena continuava ad ascoltarlo, nascondendo il dubbio nello sguardo penetrante. Ora il suo corpo maestoso era allungato sul letto, con la testa reclinata su un braccio bianchissimo. Zeus non sapeva quali nuovi episodi escogitare della sua guerra inesistente con i Teleboi. Si sentiva simile a quegli ubriachi nelle bettole che caparbiamente tornano a soffermarsi su aneddoti che hanno appena finito di raccontare.
Si avvicinava il momento in cui i corpi si sarebbero toccati. Zeus era grave e assorto. Si accinse al coito con Alcmena come a un compito esigente. E intanto si diceva: Quale strana esperienza essere un uomo, senza neppure un bagliore divino. E oltre tutto fare l’attore, agire alla maniera di un guitto itinerante, che improvvisa ogni sera una scena diversa. Quanto più facile, più naturale, essere un cigno, un toro bianco, un’aquila o perfino una donna, come gli era accaduto per sedurre Callisto. Alcmena continuava a guardarlo. Addestrata alla sōphrosýnē, a quella capacità di schivare gli estremi che i Greci tanto più veneravano in quanto la sapevano estranea alle loro inclinazioni, si aspettava un misurato piacere e un piacevole sonno da quella notte. Ma quella notte fu tre notti – e colma soltanto di piacere. Alcmena a poco a poco si riscosse, nel letto, dinanzi al suo sposo che diventava un ignoto e rapinoso amante. Conobbe tutto ciò che, per tante generazioni, le donne avevano conosciuto unendosi con Zeus. A quel punto non parlarono più, non sussurrarono più una sola sillaba. Si spiavano e riflettevano. Zeus, all’inizio impacciato dalla propria forma di semplice uomo, si sentiva ora, con sorpresa, tornare nella sua normalità. E non già come quando vagava multiforme per la terra in cerca di avventure. [190] Ma come usava sentirsi sull’Olimpo, nel suo letto nuziale, o ovunque si trovasse con Hera, perché tutto intorno a lei diventava un letto. Pensò che, in quella ultima notte con una donna della terra, sarebbe stato, ancora una volta, equo. Quella notte finale doveva essere accompagnata da un doppio dono: alle sue compagne di letto e alla sposa che aveva tenuto il conto dei suoi tradimenti. Ad Alcmena, e per lei a tutte le donne, avrebbe regalato l’esaltante capacità di prendere un uomo per un altro come anche di prendere un dio per un uomo o un uomo per un dio. A Hera avrebbe regalato un amante clandestino: Eracle, la «gloria di Hera». Si trattava ora di giungere, con suprema attenzione, a procrearlo. Zeus cesellava la forma del coito con Alcmena, nella sua lentezza e nella sua furia, perché sapeva che a quella forma sarebbe corrisposta la forza di Eracle. «L’immensità del tempo impiegato per procreare prefigurava l’eccesso della forza nell’essere che veniva generato» annotò un giorno Diodoro Siculo.
Fu quella l’avventura più esotica per Zeus. Mai si era spinto così lontano da se stesso – come in uno sconsiderato gesto di omaggio. Eppure, al tempo stesso, si sentiva tornato al letto di Hera, che tanto spesso aveva abbandonato. Quanto più sprofondava in quella notte, tanto più chiaramente Zeus riconosceva Hera in Alcmena, così come Alcmena riconosceva Zeus in Anfitrione. Stava tradendo Hera per conto di Hera. Mai Zeus provò la sua devozione coniugale come in quella notte di tradimento con Alcmena. Hera non poteva ammettere amanti, ma Zeus volle donarle questo amante inconfessabile. E dilatò quella notte come chi cerca un dono – e sa che, quanto più lunga è la ricerca, tanto più prezioso è il dono stesso.
L’incontro di Zeus e Alcmena introdusse un nuovo genere nella letteratura e nelle cose del mondo. Tragedia non era più – e pura commedia non si poteva chiamarla, perché comunque sulla scena, osservò Hermes, [191] apparivano «dèi e re». Con malizia aggiunse: «Sit tragicomoedia». Nel segno dell’ibrido, da allora, si presentarono le forme. Le punte del comico e del tremendo avrebbero convissuto, come vecchi compagni, alternandosi e mescolandosi bruscamente sulla scena.
Ora Alcmena si era addormentata, esausta. Zeus scomparve. Nel sonno Alcmena risaliva le generazioni delle donne della sua famiglia, incontrava per la prima volta Niobe, come una sorella con cui parlava a lungo di qualcosa di noto soltanto a loro; e poi la raggiungeva Danae e discorrevano di scatole metalliche e di bambini, di acque, neve e oro. Guardando Danae, Alcmena avvertiva una delizia e una tortura, un morbido avviluppamento e un’ustione, che non riusciva a spiegarsi. Si risvegliò di soprassalto. Qualcuno bussava con forza. Aprì la porta e vide Anfitrione carico di armi, stanco, con una luce negli occhi. Ma non lo avvolgeva una tormenta d’oro. Alcmena aveva imparato da lungo tempo a sopprimere il primo impulso. Accolse Anfitrione con circospetta affettuosità. Il guerriero cominciò a spogliarsi e a parlare. Raccontava episodi della guerra, a sbalzi, con veemenza, tutte storie che Alcmena ormai già conosceva. Intanto trascorreva la notte, una notte normale. Anfitrione si lavò, si unse e continuava implacabile a raccontare. Alcmena non pensava più nulla. La spossatezza la opprimeva, dopo quella notte amorosa che era durata tre notti. Impossibile la lucidità. Si trovò alla fine distesa sul letto quando il cielo già stava diventando chiaro. Riconobbe accanto a sé il corpo profumato di Anfitrione e sentì una sua mano che la cercava. «Ma non abbiamo chiuso occhio» riuscì appena a dire – e ricadde nel sonno. Anfitrione rimase a vegliarla, cupo. Poi le si avvicinò e la prese, addormentata, senza provare piacere. Per quella donna aveva affrontato ogni sorta di traversie, era stato espulso dalla sua città, aveva condotto una guerra feroce per vendicare i fratelli di lei. E sempre Alcmena gli era stata accanto, ma non aveva potuto toccarla perché sempre una qualche promessa, come un sortilegio, lo proibiva. Ora tutte le promesse erano [192] state mantenute. Tornava a casa e trovava una donna torpida, distratta, che evidentemente aveva prodigato il suo corpo a qualcun altro.
Mentre Alcmena continuava a dormire, persa, naufraga, Anfitrione rifletteva su che cosa avrebbe fatto di lei. L’avrebbe bruciata viva, subito, solennemente. Non vedeva altra soluzione. Alcmena si svegliò – e fuori già stavano erigendo una pira compatta. Accostavano con cura grossi ceppi uniformi. In cima, approntarono un comodo giaciglio, che sarebbe stato l’ultimo per Alcmena. Che non si accorse neppure, sempre confusa nel sonno, che la trascinavano via dal letto e la adagiavano sulla pira.
Zeus guardava dall’alto. Alcmena levò le braccia verso di lui, mentre le fiamme già crepitavano. Zeus fece un cenno a due fanciulle celesti, le Iadi. Dalla volta del cosmo ciascuna lasciò spuntare un’anfora, da cui si rovesciava un flusso ininterrotto d’acqua. Cadeva su un arcobaleno, affiorante nella luce dell’aurora e da lì precipitava sul rogo di Alcmena. Dolcemente lo estinse, prima che le fiamme lambissero il corpo. Alcmena teneva lo sguardo verso il cielo e la bocca aperta in una invocazione muta, mentre rivoli d’acqua le colavano fra le labbra. Riconobbe in quella pioggia la sua salvezza – e insieme un saluto, un’allusione. Pensò a Danae, all’oro che era sceso su di lei dal soffitto, pensò alla tormenta d’oro che avvolgeva Zeus quando le era venuto incontro nella notte. Quell’oro non sarebbe mai più apparso sulla terra, forse. Eppure le gocce che le rigavano il volto, mescolate alle lacrime, serbavano una traccia del suo sapore. L’umile pioggia salvatrice annunciava qualcosa di preciso e di vasto, ancora indistinto: la nuova fase del regno di Zeus si sarebbe fondata sulla metafora. Fondamento saldissimo e insieme labile: perché la metafora è un ricordo.
Anche se gli eroi erano figli o discendenti di Zeus e di una mortale, e questo li avvicinava nella vita agli dèi, al pari degli uomini incontravano la morte. Per diventare [193] immortali, occorreva succhiare il latte di Hera, la prima nemica delle madri degli eroi. Terza consorte di Zeus, Hera aveva generato Ares, Ebe, Ilizia – tutti abitanti dell’Olimpo. Ma il suo latte era perenne. Poteva essere succhiato anche da chi altrimenti era destinato alla morte. In ogni istante, Hera si trovava nella condizione delle donne che hanno appena partorito. E, in quello stato, perseguitava le donne che partorivano o stavano per partorire dal seme di Zeus. Non era uno dei segreti minori della fisiologia divina.
Questo pensava Zeus, mentre Hera dormiva. Le accostò al seno il piccolo Eracle, già condannato alle sue fatiche. Ma Zeus non voleva che un giorno scomparisse nell’Ade. Eracle si attaccò a un capezzolo di Hera e cominciò a succhiare con ardore, come un amante. Hera si riscosse subito e lo respinse. Ma il latte fluiva e in un arco immenso schizzò nel cielo. Le gocce si raggrumarono sulla volta oscura, in un lungo nastro sfrangiato. Altre gocce finirono sulla terra, sparse fra i campi e i deserti. Così si formò la Via Lattea. E sulla terra spuntarono i gigli bianchi, gli stessi che un giorno l’arcangelo Gabriele avrebbe tenuto in mano per Maria, al momento dell’Annunciazione.
Il sotterfugio di Zeus si fondava su una storia precedente. Anche per gli dèi, ogni storia ricalca un’altra. Un giorno, mentre Dioniso stava guidando la sua armata clamorosa di Bassaridi e Sileni verso l’India, la follia lo colpì. Non era il divino delirio, ma la feroce lýssa, la pura pazzia, che lo faceva schiumare dalla bocca. La vendetta di Hera non colpiva soltanto Semele, ma suo figlio. Occorreva impedire a Zeus di accorgersi di ciò che stava accadendo, perché subito avrebbe soccorso Dioniso. E la vendetta sarebbe stata insufficiente.
Allora Hera decise di sedurre Zeus, con gli stessi artifici che aveva usato con lui fin da bambina. Ancora una volta, Zeus le cedette. Incantato, rinnegò Taigete, Niobe, Io – le sue amanti che Hera aveva più aborrito. Lasciò che una nube dorata li avvolgesse, come in una camera nuziale, distesi sull’erba in una morbida cavità, [194] circondati da montagne. Poi Zeus si addormentò. E appunto questo Hera voleva, perché durasse quanto più possibile «la grave pena di Dioniso che non conosce pena».
Ma Zeus alla fine si svegliò, sulle cime del Caucaso, e ricostruì l’inganno di Hera. La minacciò di appenderla ancora una volta al cielo. Le avrebbe legato le mani di nuovo con la stessa catena d’oro. Riservava quella minaccia per i suoi momenti di massima furia. Poi pensò a come punire Hera e salvare Dioniso nello stesso istante. Le ingiunse di offrire il seno a Dioniso e «lasciarlo succhiare con le sue labbra adulte» le sue «sacre gocce». Avrebbe dovuto poi «ungere con il suo latte il corpo di Dioniso e ripulirlo delle brutte macchie del morbo che distrugge la mente». Hera obbedì. Se così era accaduto quella volta, per salvare Dioniso, così doveva succedere di nuovo, per salvare Eracle.
Anche a occhio nudo, la Via Lattea appariva agli antichi come la più vasta, sterminata entità visibile. Alzando gli occhi, di notte, si riconosceva una fascia perlacea che a nulla somigliava come a un fiume immobile, dalle fitte diramazioni. Gli Olimpi non si lasciarono impressionare da quella indominabile immensità. Eccelsi retori, vollero trattarla per antifrasi. Escogitarono l’incidente più implausibile, come spesso accadeva nelle vicissitudini di Eracle, per dare origine a qualcosa di connaturato a ogni vita. Non si trattava dell’immensità degli spazi e della smisuratezza dei numeri, ma del continuo, che un giorno sarebbe diventato il cruccio e il paradiso di Cantor. La Via Lattea lo tracciava nel cielo, proseguendo poi sulla terra e sotto la terra. Perché, dice il Jaiminīya Brāhmaṇa, «in verità il mondo brillante è per così dire continuo [saṃtata]». Era la corrente che fluiva senza tregua dal «secchio celeste» – kośa lo chiamavano i veggenti vedici. E, come agiva nel cielo, così nella mente, incontrandosi e scontrandosi con le singolarità del discreto. Ciò che in India venne evocato da inni enigmatici fu per i Greci una fusciacca di stelle: ciascuna [195] una goccia schizzata dal seno di Hera indispettita. Esempio ineguagliato di sprezzatura cosmica.
A lungo il tempo, sull’Olimpo, era stato scandito da notizie dettagliate sulle imprese di Eracle. E interi periodi erano rimasti segnati da eventi che lo riguardavano. Si diceva: «È successo quando Eracle era schiavo di Onfale», o anche: «Quando Eracle catturò le giumente di Diomede». Ora invece Eracle sarebbe diventato un abitante del cielo, anche se non sempre presente, anche se sprovvisto di un seggio. Zeus gli aveva offerto di far parte dei Dodici. Ma Eracle sapeva ormai troppo di teologia per non avvertire la trappola. «Se divento uno dei Dodici, un dio dovrà essere espulso» disse. «E come potrei accettare un onore che significa disonore per un dio?». Zeus sorrise, con qualche malizia. Chi poteva essere più di Eracle esperto del Dodici? Lo aveva patito sulla sua carne – e molto a lungo. Sempre era stato il Tredicesimo, lo spurgo sacrificale della totalità, il residuo che alla fine si brucia. Eracle era stato colpito dalla follia dopo aver compiuto le sue dodici imprese. Qualcosa in lui, per destino, era di troppo, rispetto a una misura calcolata con vessatoria precisione. Tale sarebbe rimasto anche sull’Olimpo, anche se ora tutto diventava più leggero – ed Eracle avrebbe potuto muoversi come un ospite, un parente, un eroe, un uomo, un dio, senza che mai alcuno potesse avere la malaccortezza di chiedere precisazioni sulla sua natura. La storia di Eracle – pensavano gli Olimpi e pensava soprattutto Zeus – sarebbe rimasta innanzitutto una storia di Hera. Oltre che perenne persecutrice, la dea era già stata anche, almeno per qualche momento, la balia, la matrigna, la suocera di Eracle. In quei ruoli mutevoli, e in quello perenne di guardiana delle leggi cosmiche, lo aveva assediato, in modo che, ovunque Eracle guardasse, non poteva scorgere altro che Hera, quei suoi occhi rotondi. Ma rimaneva una vasta cavità fantomatica, nel cerchio: il ruolo ancora non riconosciuto, da cui tutti gli altri dipendevano: [196] la madre. Zeus si avvicinò a Hera con espressione grave, come accadeva nelle rare occasioni in cui confabulavano in solitudine. E disse: «Ora è il momento. Ora devi compiere l’atto che hai sempre ritardato». Aprì la porta e lasciò entrare Eracle. Aveva il suo solito viso abbrustolito dal sole, grigie le punte dei capelli. Ma, per la prima volta, nel suo sguardo traspariva uno sgomento che nessun mostro gli aveva fatto provare. Hera intanto si era distesa sul letto, senza neppure salutarlo. Inarcò il grande corpo, sollevando il peplo con le braccia, come fosse una tenda. Alla presenza di Zeus, con gesto cauto e timido, Eracle si avvicinò al letto di Hera e nascose la testa sotto le sue vesti. Poi sparì anche il suo torso possente, mentre il peplo di Hera supina si gonfiava. E alla fine anche i piedi di Eracle furono coperti dalle pieghe del tessuto. Ci fu un silenzio – e l’informe montagna bianca, sul letto da cui spuntavano soltanto l’alto seno e la testa beata di Hera, si assestò nell’immobilità. Si udì un lungo gemito, remoto, una voce di donna, di animale e di bambino, e qualcosa di scuro rotolò sul pavimento, come un sacco. Era il corpo raggomitolato di Eracle, che Hera aveva appena partorito. «Colui che un tempo la dea, Hera dalle braccia bianche, odiava fra tutti gli dèi beati e gli uomini mortali ora ama e onora più di tutti gli altri immortali, eccetto il possente figlio di Crono». Gli altri dèi, che Zeus aveva lasciato entrare nella stanza, osservavano la scena in silenzio, come se sapessero da sempre che doveva finire così.
VII.
SPUMA FUI
[199] A vent’anni, Ovidio era un provinciale di buona famiglia in cerca di fortuna a Roma. Recalcitrava all’idea di entrare in una carriera seria, di quelle che piacciono ai genitori. La retorica lo inclinava non dalla parte del foro, ma da quella del verso, che sgorgava dalla sua bocca come la prosa da quella di Monsieur Jourdain. Il primo dio che incontrò fu Cupido. Irridente, il dio aveva sottratto un piede agli esametri e li aveva ammorbiditi in distici elegiaci. Era un furto – e Ovidio avrebbe passato la vita a mostrare come il furto sia innanzitutto un atto erotico. Ora non sarebbe più stata d’obbligo la gravità epica. Ora Ovidio era indotto dal metro alleggerito a cantare qualche «ragazza dalla lunga e ben curata chioma». Nacquero così gli Amores, fedeli soltanto all’irriverenza del dio che aveva invaso il «petto sgombro» del poeta con una sola parola, generica e imperiosa: Amor.
L’improntitudine di Ovidio investì anche il sovrano degli dèi, sin dall’inizio delle Metamorfosi. Nella prima delle sue avventure amorose, Zeus si rivolge a Io chiamandola «vergine degna di Giove» – e fin qui gioca –, ma subito dopo non si trattiene e parla di sé come di un dio «che non viene dalla plebe», «nec de plebe deo». C’era [200] dunque una plebe fra gli dèi? Sconcertante idea, ma il poema vi aveva già accennato pochi versi prima. Sull’Olimpo, a destra e a sinistra del palazzo di Zeus si spalancavano le porte delle dimore degli altri dèi. Poi, disperse e irregolari, le case della plebe («plebs habitat diversa locis»). Non meraviglia che, subito dopo, Ovidio si azzardi a parlare di un «Palatino del cielo». Perché secondo la sua descrizione l’Olimpo è un duplicato celeste della Roma imperiale. Colui che stava per dedicare migliaia di versi a una sequenza ininterrotta di prodigi non riteneva che occorresse segnalare una qualche differenza fra le dimore degli dèi e quelle dei suoi concittadini. Mai la vita degli dèi si era sovrapposta a tal punto, fin nei minimi e intimi dettagli, a quella degli abitanti di una metropoli, di quella città che pretendeva di essere la città. Ma ciò non attenuava in alcun modo la numinosità dei prodigi che stavano per essere narrati. Ed è questo lo scandalo peculiare delle Metamorfosi: racconto di un mondo intessuto di prodigi e abitato da personaggi – innanzitutto gli dèi – che ragionano come se i prodigi si incontrassero ormai soltanto nei poemi. Il giovane Ovidio lo aveva già detto con crudezza, in un distico degli Amores: «Parlo dei prodigi menzogneri degli antichi poeti, / che nessun giorno ha mai visto o mai vedrà».
Elegia respirava in una spessa foresta, con acque e una grotta stillante al centro. Luogo adatto per il nume. Era leggera, amabile nello zoppicare, la veste increspata, inconsistente. Asciutto e nervoso, il poeta di cui molto si chiacchierava a Roma, ma non tanto per ragioni letterarie, stava camminando fra quegli alberi. Pensava a che cosa scrivere. Tutto lo attraeva fuorché la sonora tragedia, con la sua faccia di circostanza, i coturni dipinti, l’uniformità dell’eloquio. E poi, già allora non si potevano più scrivere tragedie, erano un affare da funzionari imperiali, come i sacrifici. Ovidio guardò Elegia, che gli sorrideva di sbieco. Aveva ancora la fragranza [201] del nuovo. Finse di volerla perché era giovane, breve e adatta ai biglietti amorosi. Ma quelli erano pretesti. Se la voleva, era perché per lui figurava la poesia stessa, corsiva, accidentale e molto privata. Quando fu tra i Geti, alla foce ghiacciata del Danubio, continuava a parlare in distici, ed era un farneticare sommesso, scandito ancora da quel fremito. Ma non si offriva più occasione per biglietti amorosi – e anche le lettere a Roma erano un soliloquio.
Sotto un cielo di exempla, euforico perché Cupido aveva azzoppato l’esametro, Ovidio descriveva per la prima volta la stanza in penombra, assediata dalla calura («aestus erat»), un attimo prima che nel varco della porta si scorgesse il piede dell’amante. Ovidio è già pienamente lo scrittore moderno, per lui tutto è materiale per letteratura: l’intera mitologia, i gesti del rito si presentano come una ruota di varianti, un repertorio sempre disponibile di movenze, combinazioni, immagini canoniche. Una vibrazione religiosa si avverte in Ovidio solo all’interno della letteratura. È l’unico numen a cui sempre si inchina. Per il resto, che insofferenza a passare una notte casta perché l’indomani la puella dovrà celebrare i riti di Cerere... Allora, in mezzo alle impudenze amorose, Ovidio accenna a una terribile scoperta: che sia la morte a distruggere il sacro. «Scilicet omne sacrum mors inportuna profanat», «La morte molesta profana tutto quel che c’è di sacro». Come se l’opera incombente della secolarizzazione, che procede da sempre, non fosse dovuta a un’empietà della mente, ma alla naturale empietà della morte, che invade, come un’intrusa, ogni recinto. La pochezza, il depauperarsi dei riti funebri, sino alla miseria a cui si riducono, sarebbe allora il segno di questo infido processo: non solo sfuggita alle cerimonie che la sacralizzano, ma perenne testimone avversa, la morte importuna aggira ogni sacro in attesa di profanarlo.
[202] Ovidio fu tra i primi, se non il primo, a usare tutti gli accorgimenti cautelativi che sono considerati peculiari dei moderni. «Expedit esse deos», «È opportuno che gli dèi ci siano»: così si dice nell’Ars amatoria. Ma se una cosa è «opportuna», dovrà per questo non essere vera? Gli dèi appartengono alle buone maniere dell’esistere. Ma forse questo attenua la loro forza? O inficia la loro necessità? L’urbanità di Ovidio lo pone sullo spartiacque fra la magia e la parodia. Carmen significa per lui «incantamento, evocazione magica», come nelle origini della parola, ma anche «poesia» nel senso di Ronsard o di Mallarmé. E «carmen perpetuum», la formula con cui volle definire le Metamorfosi, significa al tempo stesso «incantesimo senza fine» e «poesia ininterrotta», che si apre con i primordi del cosmo e si chiude nell’istante stesso in cui viene scritta.
Così Ovidio giunse al punto di insinuare che, se gli scrittori hanno bisogno degli dèi, i quali sono la loro prima materia, anche gli dèi hanno bisogno degli scrittori: «Dei quoque carminibus, si fas est dicere, fiunt», «Anche gli dèi, se è lecito dirlo, vengono a essere attraverso i canti». Parole che nominano un rischio nuovo ed estremo – la letteratura assoluta – e Ovidio ne è ben consapevole, con un certo tremore. Perciò intercala quel «si fas est dicere». E scrisse queste parole ex Ponto, dove era stato relegato per aver commesso o per aver visto un nefas, qualcosa di «nefando».
Le Metamorfosi sono l’ultimo dispiegarsi degli dèi nella loro piena variegatezza. L’occasione successiva, quattro secoli dopo, furono le Dionisiache di Nonno, ma lì già tutto era una protratta, sterminata allucinazione. Intorno a Ovidio, invece, nell’Impero da poco insediato, gli dèi mantenevano una loro presenza ufficiale. Nel frattempo in Galilea stava crescendo un bambino ebreo: Gesù. A Roma, se mai, poteva suonare preoccupante la facilità, la familiarità con cui Ovidio trattava gli dèi. «Il meraviglioso diventa plausibile, gli dèi vengono umanizzati, i loro annali sono scritti come se venissero copiati da un registro di parrocchia, i loro eroi potrebbero [203] essere altrettanti conoscenti del padre dell’autore» (annotazione del giovane Ezra Pound).
Fra i Latini, Ovidio fu il più sfrontato verso gli dèi, ma anche il più duttile nel nominare il divino. Afrodite gli appare e gli offre «una foglia e poche bacche» di mirto, che si era tolta dai capelli. Tanto basta per avvertire il numen: «Sensimus acceptis numen quoque», «Appena li presi sentii il divino». E subito tutto cambia: «Purior aether / fulsit et e toto pectore cessit onus», «L’aria più pura / rifulse e qualsiasi peso svanì dal cuore».
Le donne frivole dove potevano comprare parrucche, a Roma? «Sotto gli occhi di Eracle e davanti al coro delle vergini». Così intendendo: al Circo Flaminio, davanti alle statue di Eracle Musagete e davanti al gruppo delle Muse che lo seguono. Parrucche e statue: Ovidio era la guida migliore per trovarle e combinarle. I vari culti erano anche un pretesto perché l’occhio isolasse le più attraenti puellae, le ragazze che sembravano tutte essersi date convegno in quei luoghi. «Roma ha tutto ciò che c’è mai stato al mondo» si diceva Ovidio, con formula simile a quella che in India era stata usata per il Mahābhārata. «Vanno a teatro per guardare e per essere guardate». Ma lo stesso si poteva dire per le cerimonie. Non c’era che da scegliere, fra «i riti del settimo giorno celebrati dagli Ebrei di Siria» o «i templi egizi della giovenca vestita di lino», dedicati al culto di Iside, o anche altre cerimonie, che Ovidio non precisa. E intanto le equiparava, ai fini della caccia amorosa, al «brusio del Foro», là dove discettavano i giureconsulti accanto alla fontana delle Ninfe Appiadi. Segno di una totale disponibilità e duttilità verso ogni forma del sacro e del profano. Era questo il presupposto di Ovidio – e la condizione da lui prediletta, che aveva potuto manifestarsi soltanto con l’età di Augusto.
[204] All’inizio Ovidio volle accodarsi a Tibullo, Properzio, Cornelio Gallo, praticando l’elegia come cronaca delle oscillazioni che avvengono in chi è trafitto da Eros, tra l’euforia e la desolazione. Ma poi concepì un piano che lo distaccava da tutti, azzardato e privo di precedenti: un trattatello che avesse come oggetto il concubitus, la «copula» e il suo piacere. La materia usuale dell’elegia diventava il pretesto per giungere a quell’unico fine. Nessuno a Roma – e anche in Grecia – aveva osato proporsi qualcosa di simile.
Ma come fare? Innanzitutto trasferendo il materiale dell’elegia in un altro regime e registro: quello del genere didascalico. Come Virgilio, nelle Georgiche, aveva insegnato in qual modo coltivare e far germinare la terra, Ovidio avrebbe trattato come giungere al concubitus e goderne. In entrambi i casi, era un insegnamento e al tempo stesso una celebrazione.
L’Ars amatoria lo dichiara senza indugi: tratterà di una caccia, accorta e paziente, dove il concubitus è il bersaglio. Passioni divampanti, amori tenaci: sono occasionali conseguenze, ma non l’oggetto stesso del trattatello. E, come in ogni caccia, vi si mescola una certa ferocia: «barbaria noster abundat amor», «nel nostro amore abbonda la barbarie» (eco anticipata della «ferocia naturale dell’amore», di cui scriverà un giorno Baudelaire). Così anche, come in ogni caccia, perpetuo è il movimento, perché «errat et in nulla sede moratur Amor», «Amore è vagante e non si sofferma in alcun luogo».
Mentre attorno a lui si celebrava il «Pudor priscus», il «pudore di una volta», Ovidio ebbe l’insolenza di trattarlo come «sopravvivenza» della «rusticitas» – ovvero della rozzezza contadina – degli «antichi padri». E aggiungeva, come sfida: «ego me nunc denique natum / gratulor: haec aetas moribus apta meis», «mi rallegro di esser nato ora: / questa è l’epoca adatta alle mie maniere». Ovidio spiccava, solitario cantore del presente, in mezzo a una torma di lodatori dei tempi andati e della «simplicitas rudis», quella «grezza semplicità» a cui era ben felice di sfuggire.
[205] Afrodite aveva avvertito Ovidio: «Praecipue nostrum est quod pudet», «La nostra specialità è ciò di cui ci si vergogna». Ma il poeta non rinunciava, così si apprestò a trattare delle posizioni nel concubitus. E anche questa volta, per via acrobatica, lo soccorse un exemplum mitologico: «Milanion umeris Atalantes crura ferebat», «Melanione si sollevava sulle spalle le gambe di Atalanta», perché quella posizione permetteva più di ogni altra di ammirare le lunghe gambe della grande cacciatrice. E Briseide si lasciava toccare dalle mani di Achille, «sempre intrise di sangue frigio», anzi – suggeriva Ovidio – «proprio questo ti faceva godere, spudorata». Se il mito era un repertorio di atti esemplari, questi dovevano estendersi anche a «quod pudet», a ciò che si ha vergogna a dire.
Che il concubitus – e non il cosmo, come in Lucrezio, o la terra, come in Virgilio – venga eletto a oggetto di un poema didascalico è possibile soltanto se si scrive tongue in cheek. Il sottile veleno della parodia ora penetrava nei capillari di un genere augusto, che risaliva a Esiodo. Ma anche i tormenti amorosi di Properzio o di Tibullo, da cui Ovidio aveva preso le mosse, diventavano casi specifici in un repertorio di possibilità sperimentabili da chiunque. E così perdevano quel carattere di unicità e irripetibilità a cui aspirava la voce del poeta elegiaco. Ormai Properzio non avrebbe potuto dire a Cynthia: «Tu mihi sola places», «Soltanto tu mi piaci», né aspettarsi che Cynthia gli rispondesse come all’unico suo amante.
Concubitus ricorre sette volte nei tre libri dell’Ars amatoria, mentre negli Amores le ricorrenze sono soltanto due. Altre sette volte la parola appare nei quindici libri delle Metamorfosi. E c’è un legame sottile fra le due opere. L’Ars è un trattatello didascalico che si autodistrugge. Insegna regole minuziose su qualcosa che, secondo l’autore stesso, si sottrae a ogni regola, perché occorrono «mille metodi diversi per catturare mille animi diversi». [206] È vano elencare precetti se l’unico argomento sicuro sarebbe quello di addestrarsi all’arte della metamorfosi, finché il cacciatore di ragazze «utque leves Proteus modo se tenuabit in undas, / nunc leo, nunc arbor, nunc erit hirtus aper», «come Proteo si scioglierà in onde leggere, / ora sarà leone, ora albero, ora irto cinghiale».
Il luogo comune sull’uomo come cacciatore amoroso doveva essere ovvio nella Roma di Augusto non meno che in tutte le epoche successive. Ovidio lo trattò come soltanto i veri scrittori sanno fare: lo prese alla lettera, e fin dall’inizio dell’Ars amatoria parlò del cacciatore che «ben sa dove porre le reti per i cervi», ritornando poi costantemente a immagini venatorie. Ma non si trattava solo di trarre profitto da una supposta proverbiale sapienza. Come Bloy, Ovidio cercava nei luoghi comuni l’immagine speculare di verità divine e non temeva di inseguirle, anche là dove lo inducevano a entrare in territori proibiti. E tanto più pericolosi, quanto più leggero era il suo passo.
Ottantatré volte compare la parola puella, «ragazza», nell’Ars amatoria. Lo sappiamo dalla Concordance of Ovid approntata da Roy J. Deferrari e Martin R.P. McGuire insieme a una religiosa, Sister M. Inviolata Barry, of the College of Our Lady of the Lake. Alta concordanza anche di civiltà, pagana e cristiana.
Dopo aver indagato per anni intorno all’epoca di Augusto, Syme scrisse dell’Ars amatoria: «Il trattatello non si proponeva di essere preso sul serio: era solo una specie di parodia. Ma Augusto non vide lo scherzo». O altrimenti si potrebbe dire che lo vide troppo bene. Da eminente politico, sapeva che la parodia non era cosa seria, ma grave. Tanto grave da suffragare, un giorno, una condanna all’esilio.
[207] Pur essendo per costituzione il meno adatto a imprese del genere, toccò a Ovidio scrivere l’opera che si proponeva di penetrare verticalmente nella geologia rituale di Roma per esporla alla luce in forma di racconto scandito dai tempi del calendario: i Fasti. Il poeta più irriverente avrebbe dovuto cantare le cose più sacre. E il primo a dubitare della propria adeguatezza al compito fu Ovidio stesso. Ancora una volta, chiese in soccorso Elegia, sua «indulgente servitrice nell’amore». Ma ora il poeta avvertiva: «sacra cano signataque tempora fasti», «canterò le feste sacre, segnate dai Fasti». E subito sorgeva la domanda: «ecquis ad haec illinc crederet esse viam?», «chi mai crederebbe che da laggiù a queste cose si potesse trovare un passaggio?». Come arrivare dai giochi erotici degli Amores agli arcani di Roma, quando ormai «la marea greca aveva sommerso tutto, distruggendo il gusto e la conoscenza delle spiegazioni tradizionali»? Senza volerlo, e in forma interrogativa, Ovidio aveva definito in quelle parole i punti più distanti del suo territorio e al tempo stesso la peculiarità irriducibile della sua poesia: la capacità di passare con pari efficacia dalla presenza imperiosa del numen a una impavida disinvoltura nel nominare i fatti della vita. L’uno e l’altro elemento sarebbero concresciuti uno sull’altro, come in una vegetazione tropicale, nelle Metamorfosi. O poteva anche darsi il caso che un elemento servisse a occultare e eludere l’altro, come accadde nei Fasti a proposito dei Lupercalia.
Onfale, sovrana d’Oriente, così apparve a Fauno, nome latino di Pan, dio dell’aspra Arcadia: «Ibat odoratis umeros perfusa capillis / Maeonis, aurato conspicienda sinu», «La Meonia incedeva con i capelli profumati sciolti sulle spalle, / mirabile per il seno dorato». Accanto a lei uno schiavo robusto reggeva un ombrellino per proteggere dal sole il suo incarnato lunare. Onfale entrò in una grotta foltamente decorata. Mentre i servi preparavano cibi e bevande, la regina cominciò a rivestire Eracle con i suoi ornamenti più preziosi. Voleva fare di lui [208] una donna il più possibile simile a lei. Non era facile: una cintura, troppo stretta, saltò; i braccialetti non passavano ai polsi; e i grossi piedi non entravano negli esili sandali. Intanto Onfale si era appropriata della clava di Eracle e della pelle del leone di Nemea. Così addobbati, cenarono e si distesero poi su due letti accostati. Giacevano immobili, come fossero due gemelli. Non potevano toccarsi perché il giorno dopo si sarebbe celebrata una festa che richiedeva la purezza rituale.
Fauno aveva spiato tutta la scena, momento per momento. Non desiderava nulla più che toccare il corpo di Onfale. Aspettò che fosse notte fonda e si avvicinò nel buio, procedendo a tentoni. Allungò una mano, sentì il pelo irsuto del leone di Nemea e si ritrasse. Spostandosi, sfiorò vesti morbide e vi si distese accanto. Provò a sollevarle. A quel punto, «tumidum cornu durius inguen erat», «il suo fallo gonfio era più duro del corno». Una mano si insinuò sotto la veste leggera, incontrando una coscia muscolosa, coperta da una fitta peluria. Eracle si svegliò e gettò l’importuno giù dal letto. Onfale rise, appena i servi fecero luce. Da allora Fauno, ingannato dalle vesti, volle che i celebranti partecipassero «nudi alle sue cerimonie».
Ovidio azzardava con impudenza una spiegazione che nulla spiegava dell’origine dei Lupercalia, festa arcaica e selvaggia. Circa millenovecento anni dopo, nella quiete di Cambridge, James Frazer tentò di rendere ragione di quel rito sconcertante. Secondo la sua ricostruzione, giovani nudi, salvo un cinto di pelle sui fianchi, correvano intorno al perimetro della Roma antica. Con le strisce ricavate scuoiando i capri che avevano sacrificato i Luperci frustavano chiunque incontrassero, ma soprattutto le donne, «che offrivano le mani per riceverne i colpi, convinte che fosse un modo sicuro per ottenere prole e un parto facile». Il resoconto di Frazer è eufemistico e tace i dettagli che sino a oggi «restano senza spiegazione», come osservò Dumézil: dopo aver sacrificato i capri, i Luperci devono avere la fronte spalmata di sangue con un coltello, poi altri giovani asciugano [209] il sangue con una pezza di lana imbevuta di latte – e «bisogna che i giovani ridano dopo che il sangue è stato asciugato». Così scriveva Plutarco. Di quel sangue e di quel riso obbligato nessuno ha saputo rendere ragione. Quanto alle donne frustate sulle mani, non sempre il rito doveva limitarsi a questo. In un mosaico trovato in Tunisia si vede una donna sollevata da due giovani sotto le ascelle e le gambe, mentre un Luperco sta per frustarla sulla parte inferiore del corpo, denudata.
Frazer descriveva i Lupercalia con la stessa impassibilità con cui aveva descritto i riti sanguinosi di tante oscure tribù. E quelle descrizioni si giustapponevano agevolmente. Ma nel caso dei Lupercalia era d’obbligo riferirsi anche alla cronaca di Roma, e precisamente a ciò che era accaduto il 15 febbraio del 44 a.C., un mese prima dell’assassinio di Cesare e un anno prima della nascita di Ovidio. Ricordando che a Roma il 15 febbraio era un giorno speciale: «Una volta l’anno, per un giorno, l’equilibrio fra il mondo regolato, esplorato, diviso e il mondo selvaggio si rompeva: Fauno occupava tutto».
Quel giorno di febbraio del 44, su un trono d’oro Cesare, al picco della sua gloria, stava assistendo alla furiosa corsa dei Luperci. Fra i quali Marco Antonio, nudo e lucente d’olio. La folla si aprì davanti a lui quando si avvicinò a Cesare e gli offrì un diadema incastonato in una corona di alloro. Cesare fece un gesto di rifiuto e la folla applaudì. Antonio ripeté il gesto e Cesare rifiutò di nuovo. Cresceva il tumulto degli applausi. Cesare allora si alzò dal trono, si scostò la tunica dal collo e offrì la gola a chi volesse tagliarla. «Secondo Cicerone, che forse vide la scena, Antonio era nudo e ebbro quando tentò di incoronare Cesare re di Roma».
Ovidio scriveva i Fasti dopo anni di feroce guerra civile e quell’episodio, che fu inteso come «un primo abbozzo del culto imperiale», doveva essere ancora nella mente di molti. Secondo Plutarco, i Lupercalia ricordavano i riti del monte Liceo in Arcadia e perciò si connettevano a vicende di cannibalismo e metamorfosi. Frazer si contentava invece della sua parola passe-partout: fertilità. [210] Ma il rito rimaneva indecifrato e ominoso. Ovidio scelse, da accorto etnografo e freddo letterato, di eluderlo del tutto, perché forse significava troppo. E il modo migliore per distoglierne l’attenzione poteva essere per lui quello di tornare al suo ruolo di poeta dei giochi amorosi, talvolta turpi e spesso comici. Nulla poteva essere più distraente della storia oltraggiosa di Fauno, dove Eracle appariva come schiavo di una donna, vestito da donna e scambiato per una donna, seppure per poco. Storia presentata come un «mito colmo dell’antica giocosità». Così antico che soltanto Ovidio lo ricordava.
Con pari scrupolo, Ovidio scrisse un trattatello di cosmesi, dedicato al viso delle donne, e un poema «scavato dagli annali dei primordi», i Fasti. Entrambi in distici elegiaci. «Culta placent», «le cose raffinate piacciono»: poteva essere il suo motto, anche se lo offrì solo come primo consiglio per le belle.
A Roma, l’anno era punteggiato di tempi fasti e nefasti. I giorni e le ore. Fasti erano i giorni in cui il pretore poteva pronunciare tre parole: «Do, dico, addico», e così dava corso alla legge. Nefasti quelli in cui le tre parole «vengono taciute». Immensa, indominabile, in larga parte indecifrata: così si presentava la mole delle tradizioni rituali nella Roma di Augusto. Materia remota, aspra. Ma il princeps, come tutti i potenti, aveva il culto delle origini. E Ovidio mostrò acribia nell’improbo compito – solo a tratti lasciando trasparire una qualche impazienza.
L’anno si apriva con un fico, un dattero, miele in una ciotola bianca e una moneta con una nave su una faccia e Giano bifronte sull’altra. Da quel momento in poi, si inanellavano feste e celebrazioni disparate. Il 15 aprile, giorno dei Fordicidia, il Campidoglio era inondato dal sangue di vacche gravide e la più anziana delle Vestali bruciava i feti dei vitelli. Cenere preziosa, che sarebbe stata usata il 21 aprile per la festa della dea Pales.
Ovidio racconta che aveva tenuto nelle sue mani le [211] ceneri di quei vitelli. Durante un’altra festa, i Robigalia, aveva assistito al sacrificio di una cagna («abbiamo visto le turpi interiora di una oscena cagna»). Ne chiese il perché al flamen, il quale si riferì a Maira, la cagna di Erigone, che poi era diventata Sirio: «al posto del cane astrale si depone sull’altare questo cane, che viene fatto morire soltanto perché ha lo stesso nome». Freddo, tecnico, intimidente nominalismo sacerdotale. Per un altro rito, Ovidio racconta di essere saltato in mezzo a vari fuochi. Non tutto il suo tempo passava davanti alla porta delle puellae.
Molteplici e circoscritte erano le dee: Fornax per i forni; Robigo per la ruggine; Carna per i cardini delle porte. Ma venne anche introdotto un tempio per Mens, la mente, in conseguenza di una sconfitta subita dai Cartaginesi. Ovidio si muoveva con scioltezza in questa smisurata congerie di gesti, reliquie, etimologie, cronache. E a tratti confessava di sentirsi frastornato da una «torma di dubbi». Troppo numerose e incompatibili erano le interpretazioni. Una volta, quasi per sfida, ne elencò nove – e non ne volle scegliere una che ritenesse giusta. Attorno a lui, i Romani continuavano, senza flettere, a celebrare riti i cui significati sempre più ignoravano. Sapevano, con la loro sbrigativa lucidità, che sui riti la città si fondava.
Ai Fasti si potrebbero applicare le parole che vi commentavano un costume oscuro per cui si sguinzagliavano volpi con torce attaccate alle code: «factum abiit, monimenta manent», «il fatto si è dissolto, i memoriali rimangono». Fu la sorte di Ovidio testimoniare quanto di più remoto e catafratto del passato sopravvivesse nella Roma di Augusto e al tempo stesso il suo presente effimero come il trucco su un volto femminile.
Le Metamorfosi sono innanzitutto il ricordo di quell’èra remota del mondo durante la quale tutto si trasformava in tutto. Questo rendeva la vita impossibile per chiunque volesse avere un nome e una forma, senza ulteriori [212] mutamenti. Gli dèi posero fine a questo stato, in quanto ulteriormente lo trasformarono. E furono i primi ad avere un nome e una forma. Se gli uomini possono pretendere a tanto, è solo perché gli dèi lo hanno già raggiunto. Ma gli dèi nulla crearono – anzi l’idea stessa del creare appariva loro estranea e incongrua. Gli dèi furono soltanto maestri della trasformazione. Anche quando il mondo si acquietò, continuarono ad applicare la potenza primordiale della metamorfosi a singoli casi, a singole occasioni, perché la vita non perdesse la sua avventurosità. Così i profili indelebili che gli dèi ostentavano non cessarono mai di mescolarsi con il turbine di apparizioni da cui si erano distaccati.
Le Metamorfosi sono storie dentro storie, incastonate, autosufficienti. Nella loro immediatezza, tutte potrebbero fare a meno delle altre. Ma ciascuna è illuminata dalla sua cornice e solo dalla cornice trae un significato ulteriore. Afrodite dimentica i suoi santuari, ignora persino il cielo pur di seguire il giovane cacciatore Adone. Mentre il figlio Eros le stava dando un bacio, lo stelo di canna di una sua freccia aveva graffiato il seno di Afrodite. Tanto bastò perché la madre cadesse in una passione nuova, che presto avrebbe avvicinato Afrodite alla dea con cui meno aveva a che fare: Artemis, che appare e si dilegua nella macchia, sulle montagne. Anche se volenterosa, Afrodite presto si estenuava in quel «labor insolitus», fatica a cui non era avvezza. Cacciare le era indifferente, soltanto un pretesto per stare accanto a Adone.
Fu allora che lo mise in guardia e volle raccontargli la storia della donna più incompatibile con lei, la bionda Atalanta, che faceva morire chiunque aspirasse alle nozze. Quella storia ammonitrice non servì. Adone venne ucciso da un cinghiale, Atalanta venne trasformata in leonessa. Due belve predatrici. Ma che cosa collegava, più segretamente, Atalanta e Afrodite? L’irresistibile amore fisico. Una volta sconfitta nella corsa da Ippomene, [213] Atalanta era diventata una amante soggetta non meno di Afrodite alla «concubitus intempestiva cupido», alla voglia sessuale inopportuna e intemperante. Insieme a Ippomene, ormai suo sposo, vagavano un giorno nella foresta quando si trovarono davanti a un santuario di Cibele. Solitario, vuoto. Vicino al tempio, una piccola grotta, piena di statuette degli dèi in legno, molto antiche. Lì Ippomene fece stendere Atalanta. I simulacri distolsero gli occhi davanti al piacere degli amanti. Per quella colpa furono trasformati in una coppia di leoni che non potevano accoppiarsi.
Ovidio volle evocare la massima acuità del desiderio sessuale in due figure femminili: Afrodite, che lo propaga e protegge, e Artemis, che lo fugge e castiga. Atalanta, controfigura di Artemis, è la donna che Afrodite evoca poco prima che il suo amante Adone venga ucciso. È il legame più forte, che sfugge alle parole.
Poiché le Metamorfosi di Ovidio raccontano circa duecentocinquanta casi di metamorfosi in quindici libri e ogni metamorfosi è un miraculum, un «prodigio», la prima questione formale che si porrà nell’opera sarà questa: come passare da un prodigio all’altro, anche considerando che le storie accadono in ogni angolo della terra allora conosciuta e in un arco di tempo che va da subito prima del diluvio sino al regno di Augusto? In termini di retorica – e di composizione musicale – è la questione delle transizioni, il più arduo problema formale che Ovidio era chiamato a risolvere. E per uno scrittore nulla ha importanza paragonabile alle sfide della forma.
Più che nel libro I, ancora in parte occupato dalla descrizione di eventi cosmici (l’elaborarsi del caos, le quattro età del mondo, la Gigantomachia, il diluvio universale), è nel II che la narrazione si impiglia in un reticolo di storie – e perciò anche di transizioni dall’una all’altra. Questa è la sequenza: all’inizio la corsa di Fetonte, che non riesce a guidare i cavalli del Sole sulle piste del [214] cielo e va molto vicino a incendiare non solo la terra ma l’universo, prima di precipitare nell’Eridano. Molto più che nei versi sul caos e sul diluvio, qui Ovidio si rivela come stupefacente poeta cosmico. Ma ciò che viene narrato, pur nelle sue immani dimensioni, non cessa mai di essere – questa volta – la storia di un adolescente ossessionato da un cruccio: in quanto figlio illegittimo, esige da Helios un segno di amore incondizionato, che lo convinca per sempre di essere suo figlio. E Helios glielo dà, concedendogli ciò che neppure a Zeus permetterebbe: guidare per un giorno il suo carro. A partire da quel momento, seguiamo ciò che avviene come se fossimo prigionieri nella testa di Fetonte – e con lui ci inabissiamo. Ma, già venti versi dopo, Helios dovrà scuotersi dalla paralisi e riprendere le redini dei suoi cavalli, ancora «deliranti e frementi di terrore». In questa fase del mondo, le pause non vengono concesse, i lutti sono lancinanti e brevissimi. E subito ci si chiede: che cosa seguirà alla catastrofe?
La risposta: un’altra storia di insidie amorose. Come nel libro I alla narrazione del diluvio e all’uccisione di Pitone, ultimo sopravvissuto di un’epoca di mostri, segue la storia di Apollo e Dafne, così questa volta al disastro di Fetonte la storia di Zeus e Callisto. Improvvisamente il mondo si svuota e ciò che accade si concentra su un corpo di donna e un occhio che lo scruta. È l’epifania della bellezza artemidica, origine delle storie più crudeli. Lo schema si ripeterà molte volte (anzi, sarà il filo dorato e cruento, tanto spesso affiorante nell’opera), ma con la prima apparizione di Dafne tutte le sue peculiarità sono già presenti. C’è una cacciatrice, di straordinaria bellezza, che pensa solo alla caccia e corre nelle selve. I suoi capelli sono sciolti, la veste corta, le mani impugnano l’arco o un giavellotto. È questa la visione primordiale del desiderio: una figura che fugge davanti agli occhi e scompare come un’allucinazione (l’originaria passante di Baudelaire).
Ma perché Dafne dovrà essere la prima ad apparire – e non per esempio Siringa o Callisto, la cui storia Ovidio [215] narrerà poco dopo? Forse perché fu «il primo amore» di Apollo? O forse solo perché Apollo la incontrò sulla stessa montagna dove aveva appena trafitto Pitone? C’è un terzo motivo, più plausibile. La storia di Dafne sarà la capostipite di tutte le storie erotiche e metamorfiche perché è l’unica dove un dio abbia osato – per pochi istanti – mettere in dubbio la sovranità di Eros. Il quesito era: chi possiede la freccia più potente? Ancora gonfio di albagia per aver trafitto Pitone, Apollo schernisce Eros, «fanciullo lussurioso», che sta giocando con il suo arco. Il dio straparla. Il piccolo Eros gli risponde con un teorema da sommo teologo: «Febo, il tuo arco può trafiggere tutto, / il mio trafigge te», «Figat tuus omnia, Phoebe, / te meus arcus». E aggiunge un corollario: «quanto minori sono tutti i viventi / rispetto al dio, di tanto la tua gloria è minore della mia». Questa è aritmetica cosmica. Subito verificata, perché una freccia di Eros trafigge Apollo «fino al midollo», mentre Apollo non riesce a colpire Eros. Di fatto, ha già altro da pensare. Già ama Dafne, che lo fugge. Eros ha provveduto a trafiggere anche lei con una freccia dalla punta di piombo, che scaccia l’amore.
Essendo la storia di Dafne soltanto la prima fra molte di amori degli dèi, si potrebbe pensare che Eros frequentemente vi appaia. Ma Ovidio è teologo tanto più rigoroso quanto più dissimulato. Se non ama soffermarsi sulle storie, tanto più sui loro motivi celesti. Per lui la teologia deve dichiararsi solo in rari e proditori squarci. Altrimenti occorre ricostruirla di maglia in maglia della rete. La teologia è onnipresente, ma implicita nella forma. È ciò che accade per Eros. Pur così potente e pervasivo, apparirà solo in tre occasioni. Nel libro V, Afrodite chiede il suo aiuto perché trafigga il re dei morti, Ade. Anche questa volta è una questione di potenza. Afrodite si è accorta che nella tripartizione del mondo fra Zeus, Poseidone e Ade la parte di quest’ultimo sfugge ancora alle frecce di Eros: «Tu vinci e domi gli dèi del cielo e lo stesso Giove, tu vinci e domi le divinità del mare e anche colui che regna sulle divinità del mare. Perché allora [216] non il Tartaro? Perché non espandi l’impero tuo e di tua madre? Si tratta di un terzo del mondo». Quando Eros è in gioco, tutti parlano da teologi, persino Afrodite.
Poi di nuovo Eros scompare, per riapparire nel libro X. È come se le Metamorfosi esigessero la sua presenza ogni cinque libri. Di fatto era rimasta una lacuna. La madre, Afrodite, parlava avventatamente, come se i poteri suoi e del figlio coincidessero. Ma così non era. Lo scoprì la dea, quando il suo petto venne scalfito da una freccia di Eros. Sembrava una cosa da nulla, ma «la ferita era più profonda di quel che sembrava». Ovidio non dà respiro: già nel verso successivo Afrodite è persa in un delirio amoroso e trascura i suoi doveri di dea: «al cielo preferisce Adone», «caelo praefertur Adonis». Così si chiude il cerchio per Eros: non solo su Apollo e tutti gli Olimpi (libro I), non solo su Ade e il regno dei morti (libro V), ma perfino sulla madre Afrodite la sua supremazia è dichiarata, inconcussa (libro X). Ora le Metamorfosi possono procedere verso l’estuario del libro XV, mescolando sempre più le loro acque a quelle torbide e avvelenate della storia.
L’umiliazione di Ovidio (umiliazione della letteratura tutta): essere costretto a concludere le Metamorfosi con il catasterismo di Giulio Cesare e quello, annunciato, di Augusto. Da allora la letteratura vive sotto la minaccia di essere richiamata in servizio. Il finale delle Metamorfosi non può che stingere su tutto il resto, lo svilisce nell’ossequio. Se l’opera culmina nell’assunzione in cielo di Giulio Cesare e del suo figlio adottivo (che qui diventa figlio naturale: ultima, taciuta metamorfosi), anche le riunioni dell’Olimpo non potranno che somigliare alle assemblee del Senato, dove i senatori fingono di decidere e intanto sottoscrivono le volontà del sovrano. Se Augusto si innalzerà verso Zeus, ben di più Zeus si abbasserà verso Augusto. La distanza incommensurabile fra dèi e uomini, pur nati da «una stessa stirpe», come Pindaro scrisse, veniva a ridursi – e potenzialmente [217] a cancellarsi. L’epos del mondo metamorfico, scintillante in duecentocinquanta episodi, sfociava in una scena che implicava il suo definitivo tramonto.
Usando l’Olimpo come un mirador, Hera scrutava incessantemente ogni spicchio della terra. Sospettava che ovunque potessero compiersi le fraudolente incursioni erotiche del suo compagno di letto, fratello, consorte: Zeus. Un certo giorno, la visione venne impedita da una spessa caligine. Hera sapeva anche essere meteorologa. Indagò sulle ragioni di quel fenomeno, «stupita che rapide nuvole, in uno splendido giorno / avessero finto una notte; capì che non erano effetto / del fiume, e neppure le aveva emanate la terra bagnata». Capì poi che la caligine era un accorgimento di Zeus per nascondersi. Esperta dei «furta mariti», Hera intervenne d’urgenza, usando anche lei i suoi poteri cosmici. Dissipò la nebbia, ma nel frattempo – come in un Feydeau con porte e armadi che si aprono e si chiudono – Zeus aveva già trasformato Io, sacerdotessa nel santuario di Hera in Argo (e questo rendeva tanto più odiosa quell’impresa di seduzione, condotta nel più venerabile territorio della consorte divina), in una «splendida giovenca».
Allora cominciò una scena di trascendentale, sofisticata commedia, fra due consumati attori. Hera girava intorno alla giovenca. Fingeva interesse, ammirazione. «È proprio bellissima. Ma chi è il suo padrone?». Zeus tentava, come molte altre volte, di assumere l’espressione che meno gli si addiceva: quella dell’ignaro. «Non so. Deve essere nata dalla terra». «Allora me la regali» replicò Hera, senza lasciare respiro al consorte. Che si sentì trafitto: «crudele suos addicere amores», «è crudele consegnare il proprio amore». Ma sarebbe altamente sospetto «rifiutare un piccolo dono alla compagna di stirpe e di letto». Così Zeus cedette, in forza di un ragionamento stringente: «si ... vacca negaretur, poterat non vacca videri»: «se ... la vacca fosse stata negata, sarebbe potuta sembrare non vacca». Con la gravità di un giure [218] consulto romano, Zeus arrivò alla conclusione che era più opportuno regalare l’amante alla moglie. Ma tanto non bastava, per Hera, a dismettere i sospetti. La splendida vacca sarebbe stata sorvegliata, come una prigioniera altamente pericolosa, all’interno del recinto dove un tempo Io aveva officiato per Hera.
Fin qui aveva prevalso una formidabile comicità. Mai una lente di tale potenza si era avvicinata ai minimi moti nella commedia coniugale fra Zeus e Hera. Ora, con brusco scarto, si passava al pathos. Io, la bellissima sacerdotessa a cui Zeus aveva detto che sarebbe stata la fortuna di chiunque avesse accolto nel suo letto, era una giovenca solitaria, costretta a vagare nei luoghi della sua infanzia, senza che alcuno la riconoscesse. Suo padre era Inaco, il fiume che scorre vicino a quei pascoli. Io vi si accostò. Lambì l’acqua che era il padre. Si riflesse nelle sue onde e inorridì. Allora, con uno zoccolo, tracciò nella polvere le lettere che raccontavano la sua storia. Il padre le decifrò e capì. Abbracciò piangendo la figlia giovenca, ma presto Argo, lo sgherro incaricato da Hera di sorvegliarla, gliela strappò dalle braccia. Poi la ricondusse in pascoli solitari. Si accucciò su un’altura, ispezionando l’orizzonte con i suoi cento occhi.
Io viene trasformata da Zeus in giovenca; e da Zeus ritrasformata in donna. Suo figlio è Epafo, Contatto. Con lei il tocco di Zeus ha agito due volte: la metamorfosi non era ancora vincolata all’irreversibilità. Tutte le altre metamorfosi narrate da Ovidio sono irreversibili. L’irreversibile è l’umano, ferito dalla freccia del tempo.
Il gesto più delicato per far intendere agli dèi che cos’è l’irreversibile, piaga di tutti gli uomini, è la libagione: versare per terra un liquido nobile, perderlo per sempre. Era un gesto di omaggio: il riconoscimento della presenza e del privilegio di un invisibile. Ma si poteva anche intendere come un accenno di conversazione. Un modo per dire agli dèi: qualsiasi cosa facciamo, noi siamo questo liquido versato. Anche gli dèi talvolta si mostravano con le [219] coppe della libagione in mano. Quel gesto degli dèi traboccava di significati, che non si esauriscono. Ma certamente era anche un modo di riprendere la conversazione: un cenno di approvazione verso quello stesso gesto, che gli uomini compivano tanto spesso sotto lo sguardo degli dèi.
Al pari delle streghe, gli dèi non possono piangere («Non si possono macchiare di lacrime i volti divini»), ma emettono gemiti dal profondo di una fisiologia ignota. Così accadde ad Apollo, che aveva appena trafitto la sua amante traditrice Coronis e ora tentava vanamente di applicare su di lei le sue arti mediche. «Ora moriamo in due» gli sussurrò Coronis, morendo e rivelandogli che era incinta di Asclepio. Seguì allora il gemito di Apollo, più animale che umano o divino. Dice Ovidio che il dio non molto si distingueva dalla «giovenca che osserva come un martello / si sollevi sopra l’orecchio destro del vitellino di latte / per poi colpire il cavo della sua tempia con un suono secco», «haud aliter quam cum, spectante iuvenca, / lactentis vituli dextra libratus ab aure / tempora discussit claro cava malleus ictu».
È un paragone che può aiutare a capire la differenza ultima fra Ovidio e i poeti latini che lo avevano preceduto. Neppure Lucrezio, che ostentava la crudezza verso gli dèi come suo punto d’onore, era arrivato a nominare quel gesto, quel silenzio, quel suono. Era l’istante – l’unico istante – in cui ciò che avviene nel mattatoio e nel sacrificio coincidevano. E nulla somigliava alla fitta di sofferenza di Apollo più che il patimento muto sofferto da un animale che osservava quella scena. Ma non avrebbero detto un giorno Winckelmann e altri con lui che Apollo si situava al di là delle passioni, in una «nobile semplicità e quieta grandezza»?
Quell’istante era l’origine – infaticabilmente nascosta – di tutto il culto. Se non ci fosse stato quell’istante, non ci sarebbe stato bisogno della dottrina – essoterica ed esoterica – del sacrificio. E ora uno scrittore lo nominava, [220] usandolo come una similitudine qualunque incastonata in una delle innumerevoli avventure divine con le donne della terra. Come nessuno aveva osato prima definire un catasterismo «prezzo dello stupro» – e oltre tutto lasciando pronunciare quelle parole da una dea –, così Ovidio pochi versi dopo attribuiva alla sofferenza di un dio la massima affinità con quella di una giovenca che assiste all’uccisione di un suo vitellino durante un sacrificio. Ma non doveva il sacrificio essere un atto che mirava a compiacere gli dèi? E perché Apollo lo percepiva con gli occhi della vittima?
A questo non troveremo risposta in Ovidio, che procede nel turbine della sua narrazione senza guardarsi indietro. Ovidio è colui che vuole soltanto nominare ciò che accade. E, se possibile, tutto ciò che accade. Non solo i miracula, i «prodigi» che contrappuntano le Metamorfosi, ma innumerevoli passaggi intermedi su cui gli scrittori usavano passar sopra – e ora invece spiccavano, in poche, icastiche, indubitabili parole.
Nel mondo pagano, due sono stati gli atti d’accusa più duri contro la dieta carnea: la parte su Pitagora nel libro XV delle Metamorfosi di Ovidio e Sull’astinenza di Porfirio. In tutti e due i casi l’uccisione degli animali per cibarsi appariva come ciò che vi è di più vicino a un peccato originale. «Primusque animalia mensis / arguit imponi», «per primo contestò / che venissero serviti animali in tavola»: per Ovidio era questo il primo punto della dottrina pitagorica, non già la scoperta degli incommensurabili o la metempsicosi. E, quando Pitagora stesso prende la parola, un soffio di alta eloquenza pervade il verso. Le implicazioni speculative sono ramificate. Il primo colpevole, «non utilis auctor», veniva individuato in colui che «invidiò ai leoni le loro prede». Passaggio decisivo: qui si nomina l’imitazione del predatore come origine di ogni male. Quell’ignoto che l’attuò «fecit iter sceleri», «aprì la via al crimine». Non solo: l’intero sistema sacrificale veniva coinvolto nella colpa, con [221] l’aggravante di attribuirne l’istituzione agli dèi: «Nec satis est quod tale nefas committitur; ipsos / inscripsere deos sceleri numenque supernum / caede laboriferi credunt gaudere iuvenci», «E non basta che tale nefandezza [il sacrificio] venga commessa; ma agli stessi / dèi vien fatto risalire il crimine e si crede che le divinità celesti / godano per l’uccisione di un bue da lavoro». Maestro della concisione inequivocabile, con queste parole Ovidio mette in dubbio la giustificazione dell’atto sacrificale, che invece in tutte le altre storie delle Metamorfosi era il fulcro nei rapporti fra dèi e uomini. Rare vi sono le vicende che non abbiano al loro centro o comunque in una posizione strategica un sacrificio. E nessuno dei personaggi, eccetto Pitagora, che appare solo alla fine del poema, aveva osato confutarlo in sé.
Ovidio non solo offre, attraverso Pitagora, alcune formulazioni secche e perentorie che intaccano alla radice la teologia del sacrificio, ma insinua dubbi e dà nome a percezioni psicologiche sottili. Quanta è la distanza fra chi offre «orecchie indifferenti» ai gemiti degli animali toccati dal coltello sacrificale e chi è pronto a uccidere in genere? «Quantum est, quod desit in istis / ad plenum facinus? quo transitus inde paratur?». Dall’uccisione sacrificale si apre il passaggio – transitus – a qualsiasi altra uccisione, alla «pienezza del delitto». E le orecchie indifferenti alle vittime sgozzate sugli altari potranno rimanere tali anche dinanzi a chiunque altro sia toccato dal coltello.
L’esposizione della dottrina di Pitagora alla fine delle Metamorfosi è l’unica digressione metafisica nell’opera. La sua luce investe retrospettivamente le aggrovigliate storie che l’hanno preceduta nel corso dei quindici libri. E non è chiaro come un mondo interamente sacrificale possa convivere con quella argomentazione dirompente rispetto al sacrificio stesso. Il contrasto appare subito in evidenza: appena Pitagora ha concluso il suo discorso divinamente ispirato – «quoniam deus ora movet» – si passa a Numa, presentato come fedele discepolo di Pitagora stesso. Ma qual è il primo atto di Numa reggitore del popolo di Roma? «Sacrificos docuit ritus», «insegnò i riti [222] sacrificali», primo gesto civilizzatore. E addirittura quei riti erano l’artificio grazie a cui Numa «indusse alle arti della pace un popolo abituato alla ferocia della guerra». Con questo si direbbe che l’intera dottrina di Pitagora venga cancellata dal suo discepolo. D’altra parte, Ovidio lo aveva accennato: quelle del maestro erano state parole sapienti, «sed non et credita», «ma non credute».
Se Lucrezio obietta al sacrificio, è un’inevitabile conseguenza della sua opposizione al sistema olimpico. Ma Ovidio e Porfirio, ciascuno a suo modo (con le Metamorfosi Ovidio, con L’antro delle Ninfe Porfirio), celebravano nel suo variegato dispiegarsi l’ordine di Zeus. Come poteva questo accordarsi con il tentativo di scardinarlo dall’interno, affermando l’empietà del sacrificio? E Ovidio, con la sua impavida arte del dettaglio, si spingeva oltre, fissando nel momento culminante l’atto sacrificale stesso, visto dalla parte della vittima: «Victima labe carens et praestantissima forma / (nam placuisse nocet) vittis insignis et auro / sistitur ante aras auditque ignara precantem / imponique suae videt inter cornua fronti, / quas coluit, fruges percussaque sanguine cultros / inficit in liquida praevisos forsitan unda», «La vittima immacolata e di somma bellezza / (venir ammirata, infatti, è stata la sua rovina), ornata d’oro e di bende / viene condotta dinanzi all’altare, ascolta senza capirlo l’orante, / si vede porre tra le corna frutti della terra / che ha coltivato e, appena viene colpita, con il suo sangue / tinge i coltelli che forse un giorno aveva visto immersi nell’acqua trasparente». Nell’Iliade si poteva leggere la descrizione dello sfacelo che si compiva nei guerrieri achei o troiani quando venivano colpiti a morte, mai prima di Ovidio invece si era incontrata la descrizione di ciò che percepiva la vittima sacrificale un momento prima di essere abbattuta.
Immolare è diverso da uccidere. Soltanto perché qualcuno (un sacerdote, un potente, un uomo qualsiasi) ha [223] dichiarato che si tratta di un sacrificio? I Romani, ritualisti rigorosi, non pensavano così. Si immola ciò che è cosparso di mola salsa, un impasto di farro e sale che poteva essere preparato esclusivamente dalle Vestali. La mola salsa si spargeva sulla fronte della vittima, sull’altare e sul coltello sacrificale. Ma perché, in mancanza di quell’impasto, non era ammesso immolare? L’usanza e il divieto erano stati introdotti da Numa, l’unico fra i re di Roma che «passava la maggior parte del suo tempo a celebrare riti e a istruire i sacerdoti». Anche troppo in familiarità con il divino, si diceva, se era vero che Egeria, una Ninfa, non era soltanto sua consigliera, ma «coniuge». Numa era un esperto di sacrifici e di segreti. Insegnò ai Romani a venerare una Musa «che chiamava Tacita, la silenziosa o la muta».
A Numa si attribuisce di aver chiarito direttamente con Zeus come andavano celebrati i sacrifici espiatori. Era una storia che risaliva all’annalista Valerio Anziate. Plutarco la considerava «mitica e risibile». Tuttavia la riportò, da impeccabile antropologo qual era, perché «rivelava l’atteggiamento degli uomini di allora verso il divino». Lo stesso accadde con Ovidio nei Fasti.
Secondo Ovidio, Numa impose innanzitutto di «addolcire i Quiriti, troppo pronti alla guerra». Perché abbandonassero la loro «selvaggeria», feritas, li indusse a versare libagioni su altari cosparsi di mola salsa. Che fu perciò, sin dall’inizio, elemento indispensabile del sacrificio.
Ma un giorno Iuppiter si manifestò con una sequenza terrorizzante di folgori. Il popolo era nel panico. Gli usuali sacrifici non bastavano. Occorreva evocare Iuppiter stesso. Numa allora si dedicò alla prima operazione di teurgia, anche se la parola ancora non esisteva. Occorreva un luogo adatto ad accogliere il nume: una radura che si apriva in un folto bosco sull’Aventino. Occorreva il soccorso di due dèi silvestri, Fauno e Picus. Un aiuto che non si poteva ottenere «senza violenza», «sine vi» – una lezione per tutti i teurghi futuri. E finalmente Iuppiter accettò di farsi tirare giù dal cielo. Per questo lo [224] chiamarono Elicius. Quando calcò l’Aventino, tremarono le cime degli alberi e il suolo cominciò a cedere. Il dialogo che seguì fu un concentrato di brutalità e scaltrezza, una versione romana di quello fra Zeus e Prometeo a Sicione, quando Zeus volle lasciarsi ingannare. Occorre seguirlo come Ovidio lo ha trasmesso. Numa chiese «certa piamina fulminis», un modo sicuro per scongiurare la folgore. Iuppiter: «Caede caput», «Taglia una testa». Numa fa il finto tonto, confonde caput con cepa, «cipolla». Assicura che taglierà una testa di cipolla. «Di uomo» precisa Iuppiter, come al banco di un saloon. Numa finge che Iuppiter gli abbia chiesto i capelli e non la testa di un uomo. Iuppiter precisa ancora e «chiede a questo punto la vita». Questo è il nodo di tutto: agli dèi importa ottenere ciò che vive. Così il sacrificio dovrà togliere la vita a un uomo. Non si potrebbe essere più chiari. Ma Numa è ostinato. Ora fa finta che Iuppiter abbia parlato di pesci. A questo punto la tensione si rompe. Iuppiter ride. Ha apprezzato la commedia di quell’«uomo non inadatto a conversare con un dio». E anche capace di sventare un sacrificio umano.
Non fu così facile, né così rapido, nella storia. Solo novantasette anni prima della nascita di Gesù i sacrifici umani vennero aboliti con un senatoconsulto. I senatori romani avevano pensato a qualcosa di mitico o leggendario? Non era così. Erano sobri, duri e pragmatici. Non usavano i senatoconsulti per raccontare favole. Ricordavano che non molto più di un secolo prima, «per obbedire a oracoli dei Libri Sibillini, due Greci, un uomo e una donna, e due Galli erano stati seppelliti vivi nel Foro Boario». Quel giorno Iuppiter non aveva riso.
Un giorno la metamorfosi, che era stata il prodigio quotidiano, divenne un castigo intermedio fra l’esilio e la morte. Fu Afrodite ad annunciarlo: «Siquid medium est mortisque fugaeque / idque quid esse potest, nisi versae poena figurae?», «Se vi è qualcosa di intermedio fra la morte e l’esilio / che altro potrebbe essere se non il castigo del [225] cambiare aspetto?». Alla fine della sua vita, Ovidio diventava uno dei suoi personaggi.
Ancora per Pausania, un secolo dopo Cristo, che ci fosse stata un’èra della metamorfosi appariva come un’evidenza. E mai ne parlò così chiaramente come all’inizio del suo libro sull’Arcadia: «Gli uomini di allora erano ospiti e commensali degli dèi, per la loro giustizia e devozione. I buoni venivano con evidenza onorati dagli dèi e gli ingiusti ne subivano, con altrettanta evidenza, l’ira. Allora accadeva anche che certi esseri umani diventassero dèi, coloro che ancora oggi conservano questo dono, come Aristeo o Britomartis la Cretese o Eracle figlio di Alcmena o Anfiarao figlio di Ecle, e anche Castore e Polluce. Perciò era credibile anche che Licaone fosse trasformato in belva e che Niobe, la figlia di Tantalo, diventasse una pietra. Oggi però, quando la malvagità ha raggiunto il culmine e si è diffusa su tutta la terra e in tutte le città, nessun uomo diventa più un dio, eccetto nelle parole adulatrici verso il potente, e l’ira degli dèi si sospende fino a quando gli ingiusti hanno lasciato il mondo».
Durante il regno della metamorfosi si diventava ciò che si era. E il mutamento poteva risultare plausibile. Mentre più tardi un velo di opacità si era steso progressivamente sul mondo. Era venuto a cadere ogni rapporto visibile fra ciò che si era e come si appariva. I castighi venivano rinviati a un altro mondo. E non si poteva più aspirare a essere «ospiti» degli dèi. Tutte le storie di prodigi non potevano che suonare dubbie. E solo rimaneva una traccia – beffarda – di quell’altra età, quando qualcuno adulava i potenti trattandoli come esseri divini. Triste farsa, a cui nessuno credeva. A partire dai potenti stessi e dai loro adulatori.
Poros, Passaggio, era figlio di Metis, Sapienza, prima amante di Zeus e da lui inghiottita. Non c’era ancora [226] Dioniso, si ignorava il vino. Gli dèi si inebriarono di nettare. Apparve Penia, Miseria, vestita di stracci. Si aggirava sempre attorno alla festa. Poros si allontanò dal gruppo. Come un sonnambulo, entrò nel giardino di Zeus e si distese fra erbe morbide. Penia lo seguiva e si distese accanto a lui. Poros sentì la sua mano e il profilo del corpo di Penia. Si voltò su di lei e la penetrò, in silenzio. Così venne concepito Eros. Poros continuava a sognare, vaneggiando. Quando si svegliò era solo e non ricordava nulla di preciso della notte, se non la sensazione di qualcosa di fluido, umido, che lo aveva pervaso.
«Michtheîs’ en philótēti», «mescolandosi nell’amore»: è la formula più frequente, nel Catalogo delle donne, per nominare la copula. Usata soprattutto per Zeus. Due sostanze che si mescolano – e possono essere divine o umane, ma nel momento in cui si congiungono non si distinguono più: Eros è questa disposizione a perdersi, sciogliendosi in un composto che prima non esisteva.
Nell’eros il corpo secerne quegli umori che sono il suo sovrappiù sacrificale. La saliva è l’unico elemento in cui le due forme fondamentali del sacrificio – espulsione e comunione – convergono. Espulsa, nello sputo; assimilata ad altra sostanza affine, nel bacio. «Spuma fui» dice Afrodite a Poseidone. Per ricordargli che, se Poseidone è l’onda marina, lei è la sua schiuma. Poteva appellarsi ad altre parentele, ma Afrodite preferì rievocare il momento in cui era stata congiunta a Poseidone nella stessa materia. L’onda diventa schiuma come la liquidità diventa eros. Materia adatta alla fisica metamorfica di Ovidio, più che a quella atomistica di Lucrezio. C’è un’affinità nelle cose, che regge i loro mutamenti. Che non sono soltanto un aggregarsi e disperdersi di particelle.
Camminare fra more, girasoli, gelsi è già un camminare fra storie. E, quando cala la notte, le storie continuano, fra pipistrelli e rocce incombenti. La natura non è muta, ma ammutolita. Basta il precario incanto [227] della parola per rianimare quelle more, quei girasoli, quei gelsi, quei pipistrelli. La parola poetica, secondo Ovidio, «exit in inmensum», «si espande nell’immensità» e non si lascia ostruire la via da una qualsiasi «fedeltà storica», «historica fide». Difficile dire meglio – o più brevemente.
Un vecchio stava osservando il volo degli uccelli marini. Oziava lungo una spiaggia. Vide un alcione e una folaga che volavano e ricordò chi erano un tempo: Ceice e Alcione, sposi fedeli e disperati, ora riuniti nella loro esistenza di volatili. Ma un altro vecchio gli si avvicinò e additò un altro uccello che stava volando sul filo delle onde. Era uno smergo – e un tempo era stato Esaco, selvatico figlio di Priamo. Ceice e Alcione erano vissuti in Tessaglia, Esaco in Frigia. Terre lontane, separate da un vasto mare. E vissuti in epoche diverse. Un giorno si incrociarono come uccelli davanti allo sguardo di un vecchio, su una spiaggia ignota. Erano gli ultimi testimoni dell’èra della metamorfosi.
VIII
CONSIGLIO NOTTURNO
[231] Varcati i settant’anni, quando – secondo regole da lui stesso fissate – non avrebbe più potuto far parte dei «guardiani delle leggi», Platone scrive le Leggi, il più ponderoso, faticoso e prolisso dei suoi dialoghi, in un ultimo, angoscioso tentativo di stabilire per iscritto come dovrebbe essere la società giusta, dopo che per tre volte, a Siracusa, aveva dovuto rinunciare a porla in atto. E rinunciando anche all’immagine della società giusta che aveva tracciata nella Repubblica. Ormai, oppresso da ciò che vedeva intorno a lui, si sarebbe dovuto contentare di un altro modello, «secondo per valore», attenuato e diminuito. Ma tenacemente volle delinearlo.
L’inizio è brusco. Parla un vecchio Ateniese, senza nome, mentre nella Repubblica era Socrate a reggere i fili. Il luogo è Creta, origine di tutto per la Grecia. Gli interlocutori: altri due vecchi, un Cretese (Clinia) e uno Spartano (Megillos), sulla strada da Cnosso alla caverna dove era nato Zeus. La prima parola è theós, «dio». E l’inizio è una domanda, che per Platone è la domanda: «O stranieri, è un dio o qualcuno fra gli uomini che fu all’origine della istituzione delle leggi?». Parole da cui si può cogliere qual è il fine principale delle Leggi: rispondere [232] a una domanda urgente e urtante: è ancora possibile affermare che tò theîon, «il divino», permea e intride le leggi a cui gli uomini si sottomettono? O tali leggi sono dovute soltanto al mutevole arbitrio degli uomini, i quali pensano che gli dèi stessi siano il prodotto del loro mutevole arbitrio? Domanda che equivale a un’altra: sussiste il divino in sé? Già da questo si desume che le Leggi non sono, come la Repubblica, la temeraria proposta di un nuovo ordinamento sociale, ma un estremo sbarramento difensivo, di fronte a un mondo ben preparato e disposto a fare a meno del divino. Quello di Platone è come un ultimo appello, e un appello sconsolato, perché – come osserva Clinia – «alquanto piccola è la parte di persuasione che può valere per queste cose». E l’Ateniese, controfigura di Platone stesso, lo ribadisce: «Se le teorie di cui parliamo [quelle di coloro che sostengono esser tutto nato «non attraverso un dio o un’arte, ma ... dalla natura e dal caso», definizione che si attaglierebbe perfettamente ai darwinisti] non fossero state, per così dire, vastamente disseminate fra tutti gli uomini, non ci sarebbe alcun bisogno del soccorso di teorie che affermano che gli dèi sono; ma ora sono necessarie [nûn dè anánkē]». Con questo richiamo a una necessità Platone svela la sua condizione di legittima difesa. Giunto al momento di concludere l’immenso arco del suo pensiero, si trova costretto a ritornare al suo punto di partenza: affermare «prima di tutto che gli dèi sono», anche se questo difficilmente può avvenire senza «risentimento e astio» verso coloro che obbligano a tale impresa. E sono poi – come apparirà chiaro – «hoi polloí», «i molti», che assediavano e sommergevano Platone e la sua dottrina, vivendo in città che soffrivano «ciò che soffrono molte delle città di oggi». Ora, per un’ultima volta, la dottrina platonica avrebbe provato a esporsi, anche se nei termini più elementari e anche più puntigliosi, lungo l’interminabile e inconclusa passeggiata verso la caverna di Zeus.
[233] Le Leggi si presentano come una conversazione fra tre vecchi saggi, che hanno dismesso ogni intemperanza giovanile. L’andamento è cauto, assennato, di lenta progressione. Ma, nascoste fra le pieghe del testo, come punte avvelenate, si trovano qui alcune delle affermazioni più taglienti e provocatorie che Platone abbia scritto.
L’Ateniese ha appena detto che «le cose degli uomini non sono degne di essere prese con grande serietà». Ed è già un oltraggio, considerando che i tre amici stanno facendo ogni sforzo per trovare la forma migliore per quella che è eminentemente una cosa degli uomini: la società. Come intendere queste parole, che esplodono – del tutto impreviste – in mezzo al contesto circostanziato e didattico del libro VII delle Leggi? È come se il vecchio Platone si fosse forzato a un’impresa contraria alla sua natura – e ogni tanto non reggesse alla finzione. Doveva ancora scrivere cinque libri di quell’opera che sarebbe stata la sua ultima e si rivelerà una delle meno amate e meno lette. Ancora dettagli, prescrizioni, distinzioni. Senso dell’inutilità, pervicacia nel perseguire il proposito. La città giusta, la vita giusta, la costituzione giusta, ma sapendo che nulla di ciò che si evoca è attuabile. Immensa tristezza dell’esposizione – e insieme l’incapacità di darsi per vinto.
L’Ateniese non cede: «Intendo dire che occorre trattare con serietà ciò che è serio e non ciò che non è serio: ora, per natura, il dio è degno di tutta la serietà di cui è degno un essere beato, mentre l’uomo, come già abbiamo detto, è stato inventato come giocattolo del dio, e in verità questo è quanto di meglio gli sia accaduto». Se l’uomo è un giocattolo, la sua più alta aspirazione non potrà essere che quella di partecipare a un gioco. E anche qui Platone non arretra: «Questo è il modo di essere che ogni uomo e ogni donna devono seguire: giocare i giochi più belli, pensati in modo opposto a quelli che oggi si praticano».
Gli uomini non soltanto sono «marionette», thaúmata – prosegue l’Ateniese –, ma la verità gli è accessibile [234] soltanto per «minuscoli frammenti». Questo è troppo. Il vecchio amico di Creta, Clinia, non può fare a meno di intervenire: «Straniero, stai buttando giù l’intero genere umano». Ma l’Ateniese si scusa e si spiega: «Ho detto quel che ho detto perché guardavo e sentivo il dio». Non è l’uomo e la sua società che preoccupano e occupano l’Ateniese. Ma «il dio». Questo il presupposto delle Leggi: costruire un baluardo perché si possa vedere e sentire il dio. Già con Aristotele, uno degli ultimi allievi di Platone, tutto questo era finito. Nella sua Politica si parla del dio e degli dèi perché la religione fa parte della società, non perché la società debba aiutare a percepire il dio. Da allora, tutto è rimasto nei termini di Aristotele. Anche per questo le Leggi sono un’opera finale.
Una novità dirompente introdotta dai sofisti in Atene fu la concezione del nómos come convenzione. Quindi come qualcosa di estraneo alla phýsis e da essa indipendente. La «natura» rischiava per la prima volta di essere subordinata al «nómos týrannos», alla «legge tiranna» a cui accennava Ippia nel Protagora. Al tempo stesso, la convenzione si dichiarava indispensabile per la vita degli uomini. Fu una scossa che non lasciava nulla di intatto e l’opera di Platone può essere letta come una prolungata risposta a quella scossa. Ma la convenzione – agente operativo della sostituzione – una volta entrata in circolo non poteva più esserne espulsa. Occorreva incorporarla e dominarla. Impresa ardua, perché la convenzione è, a sua volta, la prima arma di chi vuole dominare, in quanto presuppone l’arbitrio. Dalla Repubblica alle Leggi, fu una lunga, sfibrante lotta, che non poteva giungere a un verdetto risolutivo. Sospeso, sempre rinnovato, il conflitto fra nómos-convenzione e phýsis (qualsiasi cosa si intenda per «natura») sarebbe diventato cronico, in attesa di raggiungere punte ulteriori di esacerbazione, che ancora ci attendono.
[235] Nelle Leggi Platone ha lo «sguardo penetrante» del vecchio, ma pretende anche di giocare come un «bambino vecchio», provando a dire qualcosa di imprescindibile con il tono del trattatista, rinunciando alle sottigliezze e agli estri del pensiero che usualmente abbondano nella sua opera. È un gesto di accorata sottomissione alle vie comuni, che si propone di salvare pochi punti irrinunciabili. E quei punti ogni tanto affiorano. Anzi, convergono su un punto: ho theós, «il dio». Ciò che va salvato – e da cui tutto il resto dipende – è la presenza del dio. Quando questo diventa esplicito, la prosa ha come un sussulto e si contrae in una formulazione secca: «Per noi il dio è la misura di tutte le cose, in grado supremo e ben più di quanto lo sia, come certi dicono, l’uomo». Quel «come certi dicono» non si riferisce soltanto a Protagora, che aveva proclamato l’uomo come misura di tutto, ma al mondo intero che accerchiava Platone – e aveva già da tempo avviato quel lungo processo che avrebbe reso la presenza attiva di un theós del tutto superflua. Le Leggi sono un estremo tentativo di opporsi a una marea che sale e sommerge.
Non è più tempo, dice l’Ateniese, «di quegli antichi legislatori che legiferavano, stando a quanto ci raccontano oggi, per quei figli degli dèi che erano gli eroi ed essendo essi stessi nati dagli dèi istituivano leggi per altri che erano come loro, mentre oggi non siamo altro che uomini legiferanti per altri nati dal seme degli uomini». Parole durissime. La città di cui si parla non si discosta molto da quelle che sarebbero sorte migliaia di anni dopo. Città secolare. Che però vuole differenziarsi da ogni altra per una sola caratteristica: la sua capacità di custodire, in forma non adulterata, «il divino», tò theîon. A questo, fa intendere l’Ateniese, siamo ridotti. Ma a questo testardamente mirava come all’unica salvezza per gli uomini nati dal seme degli uomini.
Vale per le Leggi ciò che Giorgio Pasquali scrisse della Settima Lettera: «Suscita difficoltà anche la prolissità dello [236] stile, che sarà lecito attribuire all’età senile senza venir meno alla riverenza verso Platone. Che questa prosa sia austera e solenne, nessuno nega, né che abbondino audacie talvolta maggiori che negli scritti giovanili. Ma certi pensieri e certe espressioni ritornano troppo spesso; e le cose sono dette di rado nel modo più semplice e più concreto». Si avverte una sconsolata rinuncia alla grazia, all’estro, all’imperativo della forma – e una tenace inclinazione verso pochi punti, che devono essere salvati. Da che cosa? Da tutta la storia seguente. Non solo Siracusa, era il mondo a sfuggire di mano.
Giunti al momento di decidere che cosa governi gli eventi, si aprono due vie: o ammettere che «ciò che è mortale [tò thnētón] non ammette alcuna legge» e che «tutte le cose umane sono vicissitudini [týchas]». O altrimenti, dichiara l’Ateniese, riconoscere «che sono un dio, e accanto al dio la fortuna [týchē] e l’occasione [kairós], a governare tutte le cose umane». Con l’aggiunta, prosegue, di un altro elemento: l’«arte», téchnē. La formulazione, asciutta e memorabile, sarebbe diventata celebre. Stobeo la cita tre volte. E, a prima vista, sembrerebbe essere questo lo spartiacque. Ma c’è un’insidia: la stessa parola týchē appartiene a entrambe le vie, una volta al plurale e una volta al singolare. Se il dio esclude il caso, come può conviverci, come può tenerlo dalla sua parte, insieme a un altro elusivo elemento: l’«occasione», kairós? E in quale misura il disegno umano, la téchnē, può intervenire per correggere il corso delle cose? Se Zeus si sentiva soggetto soltanto ad anánkē, la «necessità» che è un ordine superiore persino a quello divino, týchē è più ambigua: se indica una necessità, non garantisce però che sia una necessità ordinata. Týchē potrebbe anche solo produrre una serie indefinita di týchai, imprevedibili «vicissitudini» – e allora si ricadrebbe nella prima via, che ignora la legge. Fino all’ultimo, in Platone c’è una indeterminazione, un sovrapporsi di potenze nemiche.
[237] Quale sia il ruolo della téchnē nel governo delle cose, viene precisato subito dopo – e ancora una volta con una impennata imprevista. L’esempio è dato dall’arte del pilota, che «soccorre in occasione di tempesta». La tempesta è il kairós, l’«occasione» che manifesta la týchē – e precede ogni intervento umano. Ma il pilota, se conosce la sua arte, sa assecondare la tempesta, sa seguirla, sa adattarsi alla sua potenza. L’Ateniese a questo punto si ferma e chiede: «Non è meglio questo del suo contrario? Ho ragione?». I suoi due interlocutori annuiscono. Passaggio rapidissimo, che quasi impedisce di percepire la tremenda novità della teoria: l’unico intervento umano possibile nell’ordine delle cose – la téchnē – sarebbe solo un modo di cospirare, appena deviandola, con la «tempesta» del mondo.
L’uguaglianza è un cruccio per Platone. Da una parte, molte procedure di voto la presuppongono e l’impongono; dall’altra, «per i disuguali l’uguaglianza diventerebbe disuguaglianza». Frase fulminea, che presuppone l’esistenza di esseri definibili come «i disuguali». Segue un’altra considerazione, dove Platone sembra confermare i suoi dubbi: «È vero un vecchio detto secondo cui uguaglianza genera amicizia, formula corretta e armoniosa; ma quale sia mai l’uguaglianza che in ciò riesce non è assolutamente chiaro e perciò assolutamente ci tormenta». Quello sphódra, «assolutamente», ripetuto con l’intervallo di due parole, è la spia di un profondo imbarazzo. Platone vuole che la giusta costituzione sia «un incrocio fra quella monarchica e quella democratica». E la democrazia non può sussistere senza applicazione dell’uguaglianza. Ma Platone sa anche che l’uguaglianza non esiste per natura e può essere imposta solo a prezzo di una distorsione. L’uguaglianza che genera amicizia, secondo il detto pitagorico, è soltanto quella che sussiste fra gli iniziati, in quanto partecipi di qualcosa che è essenziale, identico e intangibile. Ma gli iniziati sono anche gli ánisoi, i «disuguali» per eccellenza, [238] rispetto al corpo sociale degli ignari. La democrazia ha un fondamento esoterico, che però si snatura appena si trasforma in una procedura automatica. Per contro, senza procedure automatiche non si dà democrazia. Questo imbarazzo dura tuttora. Platone fu soltanto il primo ad accennarlo, quasi controvoglia.
Chi sono i «disuguali»? Certe persone che si incontrano viaggiando: «Vi sono sempre, in mezzo ai molti, alcuni uomini divini – non molti –, con i quali stabilire rapporti a ogni costo; nascono nelle città ben governate non più che in quelle che non lo sono; sulle loro tracce occorre che si ponga chi abita nelle città ben governate, viaggiando per mare e per terra, e, se non è corrotto, indaghi per rafforzare quel che c’è di buono nelle proprie usanze – o correggere ciò che in esse è manchevole. Senza queste osservazioni e indagini nessuna città rimarrà perfetta, e neppure se quelle osservazioni verranno condotte male».
Parlare di comunismo è futile, se non si risale a Platone; e se, una volta risaliti a Platone, non si segue passo per passo il suo argomentare. Dopo un lungo e divagante «proemio», l’Ateniese era arrivato al punto in cui occorreva proporre un nómos, parola che significa sia «legge» sia «modo» musicale – e su questo doppio significato Platone giocava. Dopo il proemio occorreva intonare un canto. Cominciando da dove? Dalla costituzione più bella, anche se, con «stupore» di chi ascolta, si dichiarava subito che, «a quanto pare, sulla base dell’analogia e dell’esperienza, una città può fondarsi in una forma che è seconda rispetto alla migliore». Frammento di frase mimetizzato, esempio perfetto delle insidie stilistiche di Platone e innanzitutto del Platone delle Leggi, che finge di adeguarsi a un discorso graduale, ma solo per immettervi, qua e là, cariche letali. In poche parole, e con un certo stupore degli ascoltatori, si dice qui che la costituzione migliore non potrà mai attuarsi. Per quale motivo? Il testo non lo precisa, superando l’ostacolo [239] nel silenzio. Ciò che il legislatore può proporsi è soltanto ciò che è «secondo», inferiore rispetto al meglio. Ma come si fonderà il meglio? Anche qui interviene l’astuzia platonica. Nessuna dichiarazione di principio o elaborazione metafisica. Solo il richiamo a «un vecchio detto», di stampo pitagorico: «Si dice che veramente comuni sono le cose degli amici». Per fondare la città migliore non ci sarebbe che da attuare quelle poche parole. Con quale risultato? La risposta non potrebbe essere più diretta: «donne in comune, figli in comune, proprietà in comune». Tanto si sarebbe trasmesso fino al comunismo ottocentesco, umanitario e popolare. Ma Platone ha qualcosa di essenziale da aggiungere: occorrerebbe che «il cosiddetto privato [ídion] fosse totalmente espulso dalla vita». Parole dove il veleno si annida in due punti: innanzitutto in quel «cosiddetto» attribuito al «privato», come se la categoria stessa del privato fosse illusoria; e poi in quella espulsione «dalla vita», «ek toû bíou», che ha qualcosa di feroce e senza rimedio. Di fatto, ogni visione della società come koinōnía, «comunanza» di esseri diversi, conduce subito a risultati talmente radicali da essere improponibili. Che importanza può avere che le donne, i figli e i beni siano in comune, se non lo sono la percezione, il giudizio? Occorrerà avere in comune anche «gli occhi e le orecchie e le mani», quindi la mente? Ma come si potrà stabilire la giustezza in ogni dettaglio, anche minimo, della vita – in ciò che gli occhi vedono, momento per momento, o le orecchie odono? Su questo Platone non ha dato risposta. Non ha spiegato come possa accadere, anzi ha escluso che possa accadere. Ma al tempo stesso ha affermato che sarebbe un bene se accadesse. Anzi, non vi sarebbe nulla «di più giusto [orthóteron] e migliore». È un nodo scorsoio da cui sarebbe arduo liberarsi. Platone non vuole dare indicazioni ulteriori, ma certamente qui si chiarisce perché l’uomo della metamorfosi sia il suo primo nemico, in quanto è colui che non solo non espelle alcun carattere ma è in grado di passare dall’uno all’altro, come giocando su diverse tastiere e [240] tornando infine a se stesso. Secondo Platone, primo di questi uomini era stato Omero.
La pretesa della comunanza esige, se vuol essere rigorosa, che la società sia una sola mente, un superorganismo – diranno un giorno gli etologi – di cui si trovano mirabili esempi nelle società degli insetti. E questo appunto sarebbe per Platone il modello ideale per qualsiasi costituzione. Ma è plausibile che Platone sia così ingenuo o così fanatico? Certamente no – e subito se ne ha la conferma. Una società simile, si dice subito e di sfuggita, è pensabile solo per «dèi o figli di dèi». Qui si svela la malizia platonica: quell’immagine orripilante di società, anche se inattuabile, va tenuta presente come la migliore, a cui avvicinarsi quanto più possibile.
Questo passo delle Leggi va letto in parallelo a un altro passo, che Platone aveva già scritto nella Repubblica. La trasformazione della società in un singolo apparato sensorio e desiderante, in una sola mente che si muove ora in una direzione ora nell’altra, non è l’improbabile, irraggiungibile risultato di una certa costituzione. È invece ciò che naturalmente avviene in una società quando hoi polloí, «i molti», si radunano e diventano un solo organismo produttore di opinioni. Dóxai, «opinioni», è la parola chiave. Una volta che questo processo si sia compiuto e la società sia diventata un solo «grande animale», sarà immediata la comparsa, come in un circo, di un altro personaggio: il domatore, capace di far reagire ogni volta il «grande animale» come vuole lui. Questo domatore, secondo Platone, è il sofista, definito come colui «che non sa veramente che cosa sia bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto fra queste opinioni e questi desideri, ma applica questi termini in funzione delle opinioni del grande animale».
È ovvia la somiglianza fra le due situazioni, quella perfetta e irraggiungibile, dove la società diventa una sola mente e un solo apparato sensorio, e quella in cui spontaneamente si manifesta il «grande animale», che i sofisti-domatori si prenderanno cura di addestrare e pilotare in ogni movimento. Le due immagini sono facilmente [241] sovrapponibili. Rimane solo una differenza: nel primo caso – la società perfetta – gli uomini non sembrano in grado di adeguarsi al modello, applicabile invece per «dèi e figli di dèi» (e i figli di dèi sono tutti scomparsi con la fine dell’età degli eroi); nell’altro caso – il «grande animale» – si tratta di un processo automatico, che si avvia ogni volta che «i molti» si aggregano: processo quindi inevitabile in qualsiasi società che abbia un minimo di coesione. Da cui consegue che quanto inevitabilmente accade in una società è il massimo male, mentre il massimo bene è ciò che comunque in una società non si riesce ad attuare. Ma la profonda malignità di ciò che è fa sì che quelle due immagini – del peggio e del meglio – siano terribilmente vicine.
Il primo nemico, per l’educatore platonico, è la vita «privata e domestica». Dietro i muri di casa si compiono atti che sfuggono al legislatore: «molti e minuscoli e non visibili a tutti». Variabili, secondo «la pena o il piacere» dei singoli. «Così minuscoli e così fitti» che non sarebbe «decente» punirli per legge. Che fare, allora? «Tacerne è impossibile» sentenzia il legislatore. E si sente il dolore nel riconoscimento che una vasta, informe parte della vita sfugge alla legge. Al punto che qui rintoccano parole gravi: quelle continue e lievi infrazioni che avvengono «nell’oscurità» concorrono a «rovinare le leggi scritte».
Da Platone alla Rivoluzione francese, il vizio originale di ogni legislazione che si proponga di essere perfetta è quello di voler rendere i cittadini «massimamente felici» (così si dice nelle Leggi). La felicità collettiva corrompe il pensiero. Basterà allora che l’uomo del sottosuolo obietti, attraverso Dostoevskij, che non vuole la felicità perché l’intero edificio sociale crolli. Anzi, perché si riveli essere una macchina potente per produrre, fra l’altro, l’infelicità.
[242] Anche la teoria dei media e le considerazioni sullo spettacolo come categoria sociale dominante avevano già trovato in Platone un nome e un secco giudizio: «A una aristocrazia musicale si sostituì una incresciosa teatrocrazia». Se Platone ha coniato la parola theatrokratía subito dopo aver affermato che vi sono «due madri delle costituzioni» – la monarchia e la democrazia, l’una esemplificata idealmente dalla Persia e l’altra da Atene –, ciò implica che la teatrocrazia possa insinuarsi fra loro come un terzo tipo fondamentale di regime. Non si tratterà infatti di un semplice mutamento nella maniera di comportarsi del pubblico agli spettacoli musicali, improvvisamente «loquace da muto che era, e convinto di saper discernere il brutto e il bello in musica». Se questo mutamento si fosse confinato nella musica, osserva Platone, «non sarebbe stata una cosa tremenda». Ma si trattava soltanto della prima cellula di un rivolgimento totale: «Ciò che si avviò allora presso di noi nella musica fu l’opinione che chiunque si intendesse di tutto». E le conseguenze furono quelle dell’«impudenza viziosa», nemica di ogni «giustezza», non solo musicale.
Qui la novità non sta tanto nel monito contro gli eccessi della libertà – onnipresente in Platone –, quanto nell’aver individuato nel pubblico degli spettacoli il motore di uno stravolgimento così profondo da costituirsi esso stesso in una nuova forma di regime. È il regno dell’opinione che trova qui enunciata per la prima volta la sua genesi. Per Platone, è il regime adatto a coloro che sono inadatti alla filosofia, esseri «verniciati di opinioni, come quelli i cui corpi sono abbronzati dal sole». È il regno della dóxa, già allora perfettamente definito. A tal punto che Platone lo pone accanto alle due forme fondamentali di costituzione. I sociologi odierni, nonché i feroci «critici della cultura» di stampo francofortese o i nemici impenitenti del «sistema» non devono perciò pretendere di muoversi in un terreno inesplorato. Già il vecchio Platone delle Leggi aveva descritto, nei suoi tratti principali, ciò di cui parlano.
[243] Parola ossessiva per Platone è orthótēs, «giustezza», applicabile ai suoni, alle parole, ai pensieri, ai desideri, a qualsiasi aspetto della vita. Parola sempre minacciata, elusa, irrisa. Ma Platone vi torna con caparbietà, nelle Leggi, cercando di trovarla – e di imporla – in ogni aspetto della vita comune. Talvolta traspare anche una sobria esasperazione: «Deprecare uno stato di cose irrimediabile, dove l’errore si è spinto così lontano, non è affatto compito gradevole, seppur necessario».
Ma non si deve intendere la orthótēs come probità e rettitudine, quasi che dietro di essa si intravedesse la bacchetta di un metafisico maestro di scuola. Occorrerebbe partire, per capirla, dall’estremo opposto, dalla manía, quella multiforme «follia» che, nel Fedro, si presenta come il terreno stesso della conoscenza. E qui si incontrerebbe anche la maniera più temeraria e superba di Platone. Qui si leggerebbero queste parole lancinanti: «I moderni, che non hanno il senso del bello». Nel Fedro culmina l’arte platonica di mimetizzare le frasi più affilate nel flusso della conversazione. Anche a questo serve la forma del dialogo. Ma qual è il contesto? Piuttosto insolente. Socrate sta toccando un punto delicato: «Gli antichi che stabilirono i nomi non ritenevano la follia un male né un obbrobrio. Altrimenti non avrebbero intrecciato questo nome all’arte più bella, la divinazione». Perciò in origine, nella manía, «follia» e «divinazione» erano adiacenti e affini. A questo punto sopraggiungono i moderni, privi del senso del bello, e inseriscono una indebita tau. Così si forma una nuova parola, mantikḗ, che va tenuta lontana dalla «follia». Quando si tratta di etimologie, vere o false che siano, sappiamo dal Cratilo che si sfrena l’ironia platonica. Ugualmente qui, sulla soglia della trattazione più paradossale, in cui Socrate evoca il «delirare correttamente», «orthôs maínesthai». Ed è questa la forma originaria della orthótēs.
Dopo che l’Ateniese ha insistito con tenacia sulla orthótēs, sulla «giustezza» che occorre trovare e applicare [244] in ogni circostanza della vita, è venuto il momento di chiedersi: «Qual è dunque la giustezza?». La risposta è netta – e non poco sorprendente: «Bisogna passare la vita giocando giochi come i sacrifici, i canti e le danze, che ci permetteranno di ottenere il favore degli dèi, respingere i nostri nemici e vincere in battaglia». Il gioco è la serietà suprema e dal gioco dipende tutto il resto, anche la salvaguardia della città dai suoi nemici. Già questo è remoto da ogni severità moralizzante. L’Ateniese vorrebbe che gli uomini fossero giocattoli coscienti di esserlo. Se tali fossero, il loro gioco diventerebbe anche qualcosa che al gioco è estraneo: diventerebbe funzionale, anzi sommamente utile, perché inclinerebbe gli dèi a proteggere la società dai suoi nemici. Teoria di immensa audacia, mai applicata, forse mai applicabile. Ma l’Ateniese la incunea al centro dei suoi pragmatici ragionamenti. Ed è un cuneo che mina la stabilità dell’intero edificio – e alla fine lo lascia crollare. Forte è il sospetto che appunto questo l’Ateniese volesse.
Chiunque abbia visitato Delfi o Olimpia, ma anche lo Heraion di Argo o il tempio di Basse, o anche Epidauro o Dion, o Trezene o Messene, o il santuario di Perachora o Dodona, o anche innumerevoli altri siti greci solcati da qualche rovina, sa che esiste un nesso inscindibile fra i luoghi e gli edifici. All’inizio è il luogo – intatto – e sembra implicare in sé tutto ciò che si aggiungerà: l’intervento umano, la costruzione. Ci si può domandare come questo si formulava nella mente dei Greci. L’Ateniese che parla nelle Leggi, dopo avere con tenace minuzia elencato le giuste divisioni del territorio in parti equivalenti, finisce per fare un’osservazione che vanifica le argomentazioni precedenti: «A proposito dei luoghi, non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che non ve ne siano di più adatti a rendere gli uomini migliori o meno buoni». Perché? Ovviamente per ragioni climatiche, per l’abbondanza o mancanza delle acque, [245] per l’esposizione ai venti. Ma non solo. C’è una ragione più importante, che si aggiunge alla fine. Certi luoghi, dice l’Ateniese, hanno un «soffio divino», «theía epípnoia» – e questo li distingue da tutti gli altri. Ed è il punto a cui il legislatore deve dedicare tutta la sua attenzione. Il resto ne consegue. A riprova, nel corso dei secoli le costruzioni sono state incendiate, abbattute, devastate. Ma il «soffio divino» dei luoghi è rimasto.
I luoghi non soltanto possono avere – o non avere – «un certo soffio divino». Ma possono anche essere «sedi dei demoni», «daimónōn lḗxeis», nel senso che i daímones – potenze e presenze innumerevoli – possono abitarvi. E di conseguenza «accolgono con favore o sfavore i coloni che vi si succedono». Il mondo non è mai disabitato, non è mai una tabula rasa su cui disporre abitanti con sovrano arbitrio. Tutti siamo ospiti di qualcuno, innanzitutto. Ignorarlo può essere soltanto rovinoso. Questo voleva ricordare l’Ateniese, alla fine di una lunga perorazione sulla città perfetta, che era il primo a considerare inattuabile.
Quali sono le questioni «più grandi»? disse l’Ateniese. «Pensare rettamente [orthôs] sugli dèi e vivere bene [zên kalôs]». Ancora una volta, kalós è la parola che prevale. Se la vita non è avvolta nel bello, che comunque è il primo significato di kalós, non potrà aspirare a essere la questione «più grande». Qui non è solo Platone a parlare. Tutta la Grecia è racchiusa in quella formula, che altrove non era stata applicata e dopo non sarà ripetuta.
Che senso ha elencare con puntiglio le purificazioni connesse a ogni sorta di crimini e violazioni, se «dottrine largamente disseminate» affermano che degli dèi si può fare a meno, perché non esistono? E, se non esistono gli dèi, a chi saranno dedicate le purificazioni? L’Ateniese è impaziente: come si può, «senza una qualche [246] irritazione, provare che gli dèi sono?». Ma, pronto ad assumersi ogni compito ingrato, si accingerà anche a questo. Soprattutto perché vuole risalire alla «fonte» a cui si sono abbeverati tutti coloro che «non hanno ragionato bene ma hanno errato» fra i «ricercatori della natura». E qual è l’oggetto dell’errore? L’anima, la convinzione che l’anima venga «dopo» gli elementi, come un loro epifenomeno. Dottrina corrispondente all’opinione che domina, più di duemila anni dopo, nella comunità scientifica. Anche se, invece dell’anima, oggi si parla di mente. Ma basta sostituire «mente» a «anima» – e la dottrina rimane immutata. Qualcosa di simile, ma in senso opposto, aveva già fatto Platone.
Per l’Ateniese, il punto essenziale è riconoscere che l’invisibile – l’anima – avvolge il visibile e lo precede. Perché «l’anima è più vecchia del corpo» e di conseguenza tutte le sue affermazioni vengono prima «del pesante, del leggero, del duro e del molle». Tutto sembrerebbe risolto, ponendo l’anima al primo posto. Ma la scena si complica: «Una sola anima o più d’una? Più d’una, questo dirò al posto vostro. Non poniamone in ogni caso meno di due, quella che agisce bene e quella che può fare l’opposto». Già questo sdoppiamento dell’anima è sorprendente, ma il cretese Clinia annuisce, come se fosse ovvio. E un’altra sorpresa si aggiunge: l’Ateniese spiega che l’anima «si aggrega alla mente [noûs] ... educa [paidagōgeî] tutte le cose guidandole a ciò che è retto e felice».
I due compagni seguono e non chiedono schiarimenti. Ma, dal momento in cui è apparsa la «mente», tutto l’argomentare ha cambiato direzione. Ora si accenna a una mirabile coincidenza fra mondo e mente: «Se tutto il corso e la traslazione del cielo e di tutto ciò che contiene avessero natura simile al movimento e alla circolazione e ai ragionamenti della mente e procedessero in congeniale accordo, si dovrà dire che l’anima migliore si prende cura dell’intero universo e lo guida per quella stessa via». Qui si apre la via per affermare la stupefacente corrispondenza fra i ragionamenti (fra i [247] quali i calcoli matematici) e il mondo esterno. Stupefazione che si rinnoverà in qualche scienziato dei millenni successivi. Però si scopre, con ulteriore stupore, che quel movimento del noûs può anche essere «folle e irregolare». Opera evidentemente di ciò che poco prima l’Ateniese ha definito ánoia, una antimente che produce «il contrario del bene».
Ma sarà il noûs stesso o la psychḗ a guidare il movimento? Qui, come anche altrove in Platone, la questione rimane sospesa. L’Ateniese non ha offerto una dimostrazione, ma una rivelazione. Alla fine della quale bruscamente enuncia qualcosa di simile a un credo. Ma espresso in forma interrogativa: «Poiché un’anima o più anime sono manifestamente causa di tutto questo, e sono buone in quanto hanno ogni virtù, diremo che sono dèi, sia che trovandosi in corpi, come esseri viventi, diano ordine a tutto il cielo, sia che agiscano in qualsiasi altro modo? E ci sarà qualcuno che, una volta riconosciuto questo, continuerà a sostenere che tutte le cose non sono piene di dèi?».
L’Ateniese sapeva bene che i puri e rigorosi negatori degli dèi non sono così numerosi. Anzi doveva ammettere, a denti stretti, che fra loro vi sono alcuni «dal carattere per natura giusto». Ben più facile era incontrare chi riteneva di avere qualcosa a che fare con gli dèi, ma era convinto che non si curassero dei fatti umani. Altrimenti – dicevano – non si spiegherebbe che la malvagità sia così spesso premiata e la virtù punita. Anche verso questi si accendeva l’irritazione dell’Ateniese. Per lui, pensare che il dio trascuri le piccole cose non è meno empio che negare il dio stesso. Attribuire negligenza al dio è come negarne la natura, che è di vegliare sul tutto. Non sono forse gli dèi «i più grandi fra tutti i guardiani»? La risposta, su questo punto, era inflessibile: «Non sarebbe difficile provare, a chi pensi questo, che gli dèi si curano delle piccole cose non meno, anzi di più che delle grandi». Nulla è troppo piccolo per il dio.
[248] Ma c’era un’ultima categoria di empi, la più disprezzabile: quella di chi crede di potersi procurare favori dagli dèi, come fossero funzionari corruttibili. E qui si riaccendeva l’insofferenza dell’Ateniese contro tutto ciò che è privato: piccoli santuari domestici, sacrifici solitari, evocazioni segrete. Era la vita occulta di Atene che ora veniva allo scoperto. E duramente condannata, non tanto per la risibile pretesa di corrompere gli dèi, ma perché era nascosta, opera di uomini e donne pronti a cadere nella trappola degli «escogitatori di riti iniziatici privati». E qui, dietro una scena pullulante di indovini e fattucchiere, si riconosceva anche un altro profilo, ancora potente nella memoria: Alcibiade, che era stato appunto accusato di celebrare riti iniziatici in case private.
Il «guardiano» teorizzato e delineato da Platone è quanto di più vicino al ṛṣi vedico sia stato concepito in Occidente. E come i Saptarṣi vegliano sulla terra dagli astri dell’Orsa, così i guardiani della città, «provvisti di acuità in tutta l’anima, osserveranno circolarmente tutta la città, trasmettendo alla memoria ciò che avranno percepito e annunciando ai più anziani tutto ciò che avviene nella città». Ma se questo faranno i «giovani guardiani», con tale scrupolo inquisitorio, che avverrà con i più anziani? Fra i ṛṣi vedici e il Panopticon di Bentham il punto d’incontro è nelle Leggi di Platone. Nulla deve sfuggire ai guardiani: «Agli estremi momenti di ciascuno dovrà presiedere un guardiano delle leggi». I semplici abitanti della pólis dovranno rassegnarsi a non poter morire da soli.
Come opera il Consiglio Notturno, l’istituzione suprema evocata nelle Leggi? Lo dice già la sua definizione: «Consiglio di coloro che sovrintendono [epopteuóntōn] alle leggi». Sovrintendere, sorvegliare: così normalmente viene tradotto il verbo epopteúein usato da [249] Platone. Quanto basta per assimilare il Consiglio Notturno all’Aufsichtsrat del diritto societario tedesco. Ma la parola platonica implica anche altro: è il verbo corrispondente alla epopteía, «visione», che è il grado supremo dell’iniziazione in Eleusi. I membri del Consiglio Notturno dovevano contemplare non meno che sorvegliare. Era quello il grado supremo della vigilanza politica.
La mira segreta dell’Ateniese è la veglia perfetta. Soltanto la veglia continua garantisce il controllo. Ed è nella notte che si rivelano le differenze. Gli esseri giusti vegliano. Anche per questo non vi è nulla di più alto del Consiglio Notturno. Solo vegliando di notte si riesce a «fare gran parte delle cose politiche e domestiche». Perciò «il tempo della veglia deve essere massimo», minimo il sonno, «per i corpi e per le anime». Sembrano istruzioni per la vita quotidiana, ma qui si svela il disegno ultimo dell’Ateniese. La città ideale è insonne e non lascia sfuggire nulla a una sorveglianza circolare, insieme poliziesca e illuminata: «I capi che vegliano di notte nella città sono terribili per i malvagi, nemici o cittadini che siano, rispettosi e ammirati per i giusti e i temperanti, utili per loro e per tutta la città». Il loro precedente si trova fra i grandi predatori, che agiscono solo di notte e sorprendono le loro prede dormienti. Ma i Guardiani rimangono immobili. Acuiscono la vista e la coscienza, quando per gli altri si obnubilano. Eppure l’affinità con i predatori rimane. Il Consiglio Notturno non sarà mai soltanto benevolo.
Sarebbe però ingenuo pensare al Consiglio Notturno come a una sorta di corpo speciale di polizia. Dietro le forme variegate della vita nella società occorreva delineare il profilo di un pensiero ulteriore, sottratto all’apparenza e reggitore dell’apparenza. I guardiani che compongono il Consiglio Notturno sono quei filosofi che hanno anche facoltà di agire. Dall’invisibile e nell’invisibile. Platone tentò invano di far intendere tutto questo a Siracusa.
[250] Quante saranno le feste, nell’anno? L’Ateniese risponde: trecentosessantacinque, «senza eccezione, in modo che ci sia sempre una qualche autorità che sacrifica a qualcuno degli dèi o dei demoni per conto della città e dei suoi abitanti e dei suoi beni». La festa è perenne – e non c’è festa senza sacrificio. La legge si contenta di stabilirne una per ogni mese, dedicata a ciascuno dei Dodici. Per il resto, saranno «gli esegeti e i sacerdoti con le sacerdotesse e gli indovini a riunirsi con i guardiani delle leggi per stabilire l’ordine di ciò che il legislatore necessariamente non ha precisato». Quindi centinaia di feste e sacrifici dedicati ai vari dèi e demoni. Anche a questo pensano i guardiani.
Il controllo sociale, idolatrato dai potenti del secolo ventesimo e iniettato nella fisiologia del secolo ventunesimo, era già una pratica auspicata da Platone e predisposta in tutti i suoi dettagli.
Perché la società si sovrapponga alla natura e acquisisca così una sorta di naturalezza seconda – tracotante artificio –, occorre che il suo funzionamento abbia una regolarità paragonabile a quella della natura stessa. E ciò si può raggiungere soltanto se si introduce una nuova entità, fatale: il controllo. Anche in questo Platone non arretrava – e la sua formulazione sarebbe potuta servire da modello per gli ingegneri sociali della Russia sovietica o della Cina di Mao Zedong e dei suoi successori: «Non occorrerà forse, poiché tutta la città e l’insieme del territorio sono stati divisi in dodici parti, che le strade della città stessa, le case, gli edifici pubblici, i porti, il mercato, le fontane, e soprattutto i recinti consacrati, i santuari e altri luoghi dello stesso genere abbiano dei loro sovrintendenti, appositamente designati?».
L’Ateniese si proponeva innanzitutto di dare istruzioni pratiche. Se possibile, univoche e di facile applicazione. Quindi, se l’imitazione era – come sembrava – l’origine [251] di tutto il male (e di tutto il bene), occorreva far sì che nessuno fosse tentato di usarla nel modo errato. Gli uomini tendono a imitare «gli dèi e i figli degli dèi», ma se di questi si dice, nelle loro storie tramandate, che avevano fatto uso di «inganni e violenze», chiunque si sarebbe sentito giustificato a ripetere quelle imprese. Ma chi aveva messo in giro quelle storie? I «poeti» e «certi mitologi». Qui per la prima volta poeti e mitologi vengono appaiati senza nette distinzioni, in quanto «ingannatori». Ma l’Ateniese tronca il discorso: «Di queste cose il legislatore sa più, come si conviene, di tutti i poeti messi insieme». In queste poche parole, sbrigative e brutali, si riassume e si chiude, con uno schianto secco, l’antica disputa fra poesia e filosofia che la Repubblica aveva sviluppato con profusione di argomenti e sottigliezze. È come se ormai, giunti a un punto in cui non contava più ragionare ma soltanto agire, l’Ateniese si accollasse il compito di porre in atto, dandone una giustificazione sommaria, quella che già era stata la conclusione della Repubblica. Ma si dava il caso che ciò avvenisse nel momento stesso in cui ogni prospettiva di azione pratica si mostrava vana. Incombeva già Filippo di Macedonia. E, dietro di lui, Alessandro. Era questione di pochi anni.
Non soltanto la musica – e i mutamenti nella musica – hanno conseguenze che si ripercuotono su tutta la società. La Cina arcaica non pensava diversamente. Ma Platone aggiunge anche «i giochi» (innanzitutto quelli dei bambini), in quanto «materia di suprema importanza per chi dispone le leggi». È imperativo che i giochi siano sempre gli stessi e che «si gioisca per gli stessi divertimenti». Di fatto, se i giochi cambieranno – o anche soltanto le «forme e colori» che piacciono ai giovani –, ne risentirà tutto il resto. Anzi, «non vi sarà rovina maggiore per la città». Ulteriore effetto – e qui si tocca il punto nevralgico: «Si disprezzerà ciò che è antico, si apprezzerà ciò che è nuovo». Occorre partire dai giochi, da quei giochi che in parte per i bambini sono «innati», [252] autophyeîs, e in parte «vengono scoperti quando si trovano insieme». Soltanto così si stabilirà l’ordine giusto. Non si parte dal lavoro per giungere al gioco come un suo epifenomeno, ma all’inverso. Così come non si parte dalla guerra per capire la ginnastica. Perché «le lotte ginniche sono utili sia per la pace sia per la guerra, sia per la vita pubblica sia per la vita privata, mentre tutte le altre fatiche fisiche, che si facciano per scherzo o sul serio, sono indegne di chi è libero».
L’immenso ascendente esercitato dagli Egizi su tutta la Grecia dipendeva, per Platone, innanzitutto da un loro principio: espungere, a ogni costo, il nuovo. In che modo? Sequestrando «ogni danza e ogni canto» nel sacro. «Sacralizzare» la musica, «preordinare le feste», la sequenza degli inni e delle danze. «Chi presentasse altri inni e altre danze per celebrare certi dèi verrebbe espulso dai guardiani delle leggi insieme ai sacerdoti e alle sacerdotesse». È questa nella storia la massima approssimazione a un mondo perfetto.
L’Ateniese afferma tutto questo con tono di sicurezza. Ma poi si frena, diventa improvvisamente cauto («poiché siamo arrivati a questo punto del discorso, sottomettiamoci a ciò che sarebbe conveniente per noi»). Qual è il dubbio? Certo, si può essere tentati di trasporre il principio egizio in Atene: «Ma come si potrebbe legiferare su queste cose senza diventare totalmente ridicoli?». È la paura del ridicolo a bloccare il discorso. Ormai Atene è fuggita in avanti. Irrecuperabile la fissità egizia. L’Ateniese lo sapeva. A tratti si lasciava sfuggire il suo pensiero segreto, poi tornava sui suoi passi per cercare un aggiustamento, un compromesso. Pensava alla sua città, feroce nel deridere.
Le danze ammesse dall’Ateniese nella sua città sono quelle guerriere e quelle pacifiche (o semplicemente «non guerriere», apólemoi, perché evidentemente la pace [253] è più difficile da definire, rispetto alla guerra). Ma c’è anche un terzo genere, che guasta l’ordine: sono le danze connesse a Ninfe, Pan, Sileni e Satiri per celebrare «certe purificazioni e iniziazioni». «Questo genere di danze non è adatto ai cittadini». «Ouk ésti politikón», «non è politico», perciò «meglio lasciarlo stare».
Come sempre nelle Leggi, è negli angoli e meandri delle prescrizioni più dettagliate che si rivelano i presupposti: qui si riconosce che qualcosa sfugge all’ordine sociale e tendenzialmente lo disturba. Sono «certe purificazioni e iniziazioni» – e le danze che le accompagnano. Meglio lasciarle dove stanno, nelle selve, con le Ninfe e i Sileni. La città si accontenti di celebrare le sue guerre e la sua pace. Ma soprattutto occorrerà accertarsi che «tutto sia stabilito nell’ordine, e in seguito non si cambi più nulla né della danza né del canto». Bandito è il mutamento: «Così, dedicandosi agli stessi piaceri, la città stessa e i cittadini rimarranno, per quanto possibile, uguali e vivranno bene e felicemente».
La pretesa di immutabilità si ritrova in tutte le argomentazioni dell’Ateniese. Ma qui affiora anche un altro elemento, non meno significativo: le danze connesse a «purificazioni e iniziazioni» vanno escluse, anche se fanno parte del culto di «dèi e figli degli dèi». L’ordine sociale e l’ordine iniziatico evidentemente non si sovrappongono e non coincidono. L’iniziazione non è politica, direbbe l’Ateniese. Perciò la società può pretendere all’immutabilità soltanto se allontana da sé ciò che appartiene all’iniziazione. È un punto critico, da cui dipende larga parte della costruzione appena evocata.
Così come le iniziazioni, anche la tragedia è esclusa dalla città. La scena viene raccontata dall’Ateniese: un giorno gli autori di tragedie arrivano alla nuova città e chiedono se possono esservi ammessi. Come occorrerebbe rispondere a questi «uomini divini»? L’Ateniese suggerisce le parole, cortesi e ferme: «Eccellenti stranieri, noi stessi siamo autori di tragedie e, per quanto possiamo, [254] delle più belle e migliori; tutta la nostra costituzione infatti è imitazione della vita più bella e migliore, e secondo noi è questa la tragedia più vera». Risposta di alta tracotanza e implicita comicità. Gli autori di tragedie vengono respinti, che siano Eschilo o Sofocle o il malfamato Euripide, perché la loro arte è già applicata dalla costituzione della città. Che si rivela essere «imitazione della vita più bella e migliore». Non era forse questo il proposito della tragedia? Certamente no, se si guarda alla sua storia. Ma l’Ateniese sovranamente lo ignora. E soprattutto non vuole permettere a una compagnia di giro di «piantare i suoi palcoscenici sulla piazza» e introdurvi i suoi «attori dalle belle voci». La costituzione della città è già in sé un’opera d’arte. Anzi, è l’opera d’arte, che rende ogni arte superflua. Come eguagliare, infatti, quella «imitazione di ciò che è più bello e migliore»? E quale altro fine potrebbe darsi l’arte, seppure vi operino quegli «uomini divini» che usano scrivere tragedie? Impassibile, l’Ateniese nega l’evidenza.
A Euripide, il «figlio della verduraia», non si perdonava di aver introdotto nella tragedia le «cose di ogni giorno». Perciò era diventato «il flagello delle famiglie». Chi parla è sempre la voce di Aristofane. Dietro la farsa sessuale, trattata con impassibile sicurezza, si profilava il vecchio cruccio metafisico: la mímēsis. Aristofane la evoca subito per bocca del tragediografo Agatone, che si presenta liscio e profumato come una cortigiana: «Se si scrivono drammi di donne, / bisogna che il proprio corpo partecipi di quelle maniere».
Parole a cui Aristofane fa subito replicare, da sapiente critico letterario: «Così, quando componi una Fedra, ti metti a scuotere il culo». La battutaccia compendia la teoria letteraria implicita nelle Donne alle Tesmoforie. Aristofane lascia intendere che Euripide non va condannato perché parla male delle donne. Di fatto, le donne combinano ogni giorno malefatte ben peggiori di quelle che vengono esposte nelle sue tragedie. Euripide va [255] condannato perché parla troppo delle donne, cosa inevitabile per chi vuole trattare delle cose di ogni giorno. E, se si parla continuamente delle donne, si finisce per assimilarsi a loro, come dimostravano il caso di Agatone, ma anche quello, più remoto e insidioso, dei poeti come Anacreonte, Ibico, Alceo, inclini alla morbidezza ionica. Nel racconto è insita l’imitazione. E l’imitazione è il prodromo della metamorfosi. Quindi del male che per primo va fuggito. L’attacco di Aristofane sarebbe proseguito con Platone.
«La stirpe dei poeti non sa riconoscere in modo adeguato le cose buone e quelle che non lo sono». Ancora una volta l’Ateniese dice qualcosa di rivelatore, celandolo fra prescrizioni e ingiunzioni. In poche parole si precisa qui ciò che, neppure nella Repubblica, Platone si era azzardato a dire in modo così netto: la «stirpe dei poeti» è semplicemente incapace di distinguere il bene dal male. Perciò va trattata con sospetto e con cautela. Che l’arte in genere si ponesse al di là del bene e del male viene ora presentato come pura affermazione da cui trarre le dovute conseguenze. L’«antico dissidio fra poesia e filosofia» ha un fondamento etico: la poesia non può che perseguire i suoi fini, obbedendo a una spinta irresponsabile. Perciò non potrà mai confinarsi nella orthótēs, in quella «giustezza» a cui Platone mira in ogni mossa del suo pensiero. Tuttavia continuava ad agire: gli Ateniesi imprigionati nelle cave di Siracusa alleviavano le loro sofferenze recitando passi di Euripide che conoscevano a memoria, così come Sinjavskij si ripeteva versi di Puškin nel gulag o Czapski ricostruiva gli intrecci di Proust per i suoi compagni nel campo di Grjazovec.
Nel Sofista, il sofista è colui che sa dare una risposta a tutto. Nella Repubblica, il poeta è colui che sa trasformarsi in tutto. Esseri «prodigiosi», che non hanno però nulla di «sano». Affini al góēs, al «mago», più che al sapiente. Nel poeta si riconosce il retaggio sciamanico, l’eco dell’èra della metamorfosi. Nel sofista si apre la prospettiva su un avvenire dove qualcuno – il politico – [256] dovrà dare risposta a tutto. E allora il politico non potrà che ascoltare i suggerimenti sussurrati dal sofista.
Perché il magistrato che sovrintende alla paideía, all’«educazione», deve sapere che «questa carica è di gran lunga la più importante fra quelle supreme della città»? Perché «la prima crescita, se è ben avviata», dà un forte vantaggio se si vuole raggiungere il télos, la «perfezione», che è l’insopprimibile esigenza greca – e platonica. Non c’è in questo alcuna risonanza umanistica (nel senso moderno della parola). Il principio si applica all’intera natura, a «tutte le piante e animali domestici e selvaggi e agli uomini». E qui Platone prosegue con un mirabile a parte: «L’uomo, lo affermiamo, è un animale addomesticato, ma se dispone di una giusta educazione e di una felice natura ama diventare il più divino e più dolce animale, mentre se non è allevato in modo appropriato e bello diventa il più selvaggio fra quanti ospita la terra». I casi della vita sono in buona parte decisi dalla paideía. Che è una sorta di artificio utile perché, nell’oscillazione fra il selvaggio e il divino, che è insita nell’uomo in genere, prevalga la spinta verso il divino. Nulla si dice qui della società e dei servizi che occorre renderle. Quando si giunge alle scelte ultime, si tratta di discriminare fra due sole possibilità: l’uomo come l’animale più feroce e l’uomo come l’animale più divino. Per Platone, come sempre, si tratterà di inclinare le sorti verso tò theîon, «il divino». A questo serviva l’educazione.
Con estrema pacatezza l’Ateniese compendia in poche righe i paradossi del sacrificio: da una parte, dice, l’uso di «sacrificare uomini» è qualcosa che ancora sussiste al suo tempo «in molti casi»; dall’altra si afferma che in passato «non si osava neppure assaggiare carne di bue». E «non si sacrificavano esseri viventi agli dèi», ma soltanto dolci o frutti intrisi di miele, per evitare di [257] «contaminare con il sangue gli altari degli dèi». Da una parte il sangue umano era il presupposto del sacrificio; dall’altra il sangue in genere era considerato come contaminante. Eppure a entrambe le pratiche si applicavano gli stessi termini: thýein, thýmata. Il sacrificio perciò riusciva a contenere in sé i contrasti più radicali. Ma questo non turbava l’Ateniese – e il suo interlocutore Clinia gli fa eco: «Hai nominato cose molto diffuse e degne di fede».
Distinzioni: il nome usuale per le leggi è nómima, «consuetudini», «tradizioni». Platone precisa che non bisogna definirle «né leggi [nómous], né indicibili [árrēta]» (e árrēta è termine specifico dei Misteri). Perché? Le tradizioni non sono leggi univocamente formulate, ma una sorta di membrana avvolgente e protettiva che permette alle leggi di vivere. Ovvero, con altra immagine, sono i «puntelli» dell’edificio delle leggi. Se quei puntelli venissero a mancare, franerebbe l’intero edificio. La politeía (quella che un giorno si chiamerà «società») è fatta di vincoli, nessi, legami. Le leggi sono uno fra questi nessi. Ma a loro volta hanno bisogno di essere sostenute da altri «vincoli». Così si costituisce la vita comune. Le leggi che l’Ateniese prova a elaborare potrebbero essere la parte visibile e formulabile, ma certamente non il tutto.
Due sono, per lui, le difficoltà principali: innanzitutto ciò che conta non è la composizione di un certo tipo umano, ma di «colui che vorrà diventare divino», essendo tò theîon una categoria intraducibile in qualsiasi altra e irriducibile; poi il riferimento a «leggi non scritte», che rendono indominabili i presupposti delle leggi scritte, soprattutto se si aggiunge che le leggi non scritte sono i «vincoli di ogni costituzione», quindi le uniche forze che tengono insieme le leggi scritte. Il che equivale ad affermare che le leggi scritte non sono autosufficienti né tali da sostenersi da sole. Qui si mostra la spaccatura non superabile fra il legislatore platonico e i moderni [258]– anche se, al tempo stesso, Platone aveva predisposto quasi tutti i congegni poi usati dai moderni.
Pindaro sedeva su una sedia di ferro, nella cella del tempio di Delfi, e lì cantava i suoi inni ad Apollo. Accanto a lui, statue delle Moire. «Ma, al posto della terza Moira, stanno Zeus Moiragétēs e Apollo Moiragétēs». Il cantore aveva di fronte agli occhi l’immagine del dio e del destino, uniti. Un giorno le Moire avevano perfino combattuto accanto a Zeus contro i Giganti dai piedi serpentini. Ma non sempre era stato così. Talvolta Zeus aveva dovuto inchinarsi davanti a loro, come quando era morto suo figlio Sarpedonte.
Pindaro aveva cantato il «nómos basileús», «la legge che regna su tutti, / sui mortali e gli immortali, / e li guida con mano suprema, giustificando ciò che è più violento». Ma quella legge era il dio o la necessità – o tutti e due? Secondo Filemone, «gli uomini sono schiavi dei re; un re lo è degli dèi; un dio, della necessità». Zeus poteva guidare le Moire, come un padre premuroso (Ate, affine alle Moire, era la sua «figlia primogenita»), ma la Pizia avrebbe risposto come testimonia Erodoto: «Anche al dio è impossibile sfuggire alle Moire» – o «alla moira», quindi a quella «porzione» che è il destino.
Nel sistema divino dei Greci vale la regola secondo cui, nelle parole di Simonide, «gli dèi non lottano con la necessità». L’arbitrio di Zeus riconosce e accetta soltanto questo limite. E su questa tensione è intessuto il tutto. Tensione drammatica, di cui Platone diede nella Repubblica la formulazione più asciutta e memorabile accennando a «quanto differiscono in realtà la natura del necessario e quella del bene». Traducendo questo frammento di frase, Simone Weil scrisse in margine: «Rivelazione», sottolineando la parola tre volte. Se si vuole toccare il fondo della Grecia, questo è il fondo.
Nelle Leggi il tema non poteva non affiorare, come [259] tutti gli altri grandi temi platonici. Ancora una volta, l’andamento è colloquiale, ma tanto più è evidente la direzione del pensiero. La necessità, dice l’Ateniese, «non si può respingere». Anche gli dèi non la combattono (e qui cade l’allusione al verso di Simonide). Ma poi subito riappare l’asse attorno a cui ruotano le Leggi: tò theîon, «il divino». Occorre infatti capire «quali delle necessità sono divine»: questa potenza che sfugge agli dèi e occasionalmente gli si oppone è essa stessa divina. È questo che sta a cuore all’Ateniese: deve essere ben distinta la necessità sottesa nell’ordine del mondo dalle «necessità umane, a cui guardano i molti». Altrimenti nascerebbe un equivoco deprecabile. Ma c’è anche un doppio movimento verso la necessità: da parte degli dèi e da parte degli uomini. Le «necessità divine» si definiscono per il fatto che il dio «non potrà fare a meno di applicarle e in genere di impararle, se vorrà essere capace di curarsi seriamente degli uomini». Dal che si desume che il dio vorrà imparare dalla necessità e che dovrà anche «curarsi seriamente» degli uomini: due princìpi che non sono affatto ovvi – e l’Ateniese invece qui presenta come tali. Da parte degli uomini, invece, la necessità va imparata se l’uomo vuole «diventare divino». C’è un chiasmo, al centro del quale risiede la necessità: occorre impararne qualcosa, se si vuole diventare divini (per gli uomini) o agire come tali (per gli dèi). Anche qui, ciò che nella Repubblica si presentava come tensione irrisolta e forse insanabile viene assorbito in una parola che tutto avvolge e tutto include: il divino. Pur ribadendo che contro la necessità «nessun dio si batte né si batterà mai».
Il mondo è fatto di pesci che si mangiano fra loro, si diceva nell’India antica. «Pesci e bestie ed esseri alati / si mangiano a vicenda, perché Giustizia [Díkē] non è con loro; / ma agli uomini [Zeus] ha dato Giustizia, che è di molto la migliore». Tutto mutò da quando «questa legge [nómos] stabilì per gli uomini il figlio di Crono». [260] Così parlava Esiodo a Perse. Finché il nómos – o il dharma, nella versione indiana – non intervengono, la regola è la sopraffazione reciproca, quale domina incontrastata fra gli animali. Ma il nómos che interviene fra gli uomini è qualcosa di occasionale, revocabile e sovrapposto alla natura – o fa anch’esso parte della necessità, così come alla necessità obbediscono gli animali che si divorano fra loro?
All’altezza del secolo quinto, la parola nómos designa in Atene sia la legge di cui Pindaro dice che è «re dei mortali e degli immortali» sia la convenzione che impone, per arbitrio, il potere della sostituzione. Due concezioni potenti e consequenziali, che sino allora non avevano avuto occasione di convivere, in nessun’altra parte del mondo. E potevano convivere soltanto nel conflitto più acuto, che divenne la materia stessa della storia ateniese, fra la guerra persiana e la battaglia di Cheronea. Fu il nómos in quanto convenzione a vincere. Come poi avrebbe vinto ovunque. E già quando era apparso, annunciato dai sofisti, si può dire che avesse vinto. Ma il «nómos basileús» di Pindaro, come il «theîos nómos», la «legge divina» di Eraclito, non erano destinati a estinguersi. Platone fu anche il tentativo di rimanere fedele a quella visione, ormai accerchiata e vulnerata, fino alla sua estrema, e quasi disperata, variante nelle Leggi. Eppure quella visione si sarebbe ritrovata, illesa, in Plotino.
«La pietà non è dovuta a chi soffre la fame o qualcos’altro del genere»: non c’è frase dell’Ateniese che segni più chiaramente il divario con ciò che sarà il precetto evangelico. Non tanto per la crudezza del dettato, ma per la precisazione che subito segue: la pietà va riservata a chi, «praticando la temperanza [sōphronôn] o qualche virtù o una parte di qualche virtù, è tuttavia vittima di sventura». La novità dirompente di Gesù è la pietà non selettiva. Si darà da mangiare e da bere a chiunque sia affamato o assetato. Mentre qui l’Ateniese [261] rivela con dura chiarezza il carattere punitivo della aretḗ: senza «qualche virtù o una parte di qualche virtù» (il tratto rivelatore è nella parola «parte», come se il propugnatore della aretḗ si contentasse di poco, pur di sentire che qualcuno è suo alleato) non si dà pietà. Ma allora la forza del sentimento si perde – e la pietà diventa una sorta di premio per i meritevoli. Mentre Gesù lascerà la porta aperta all’ignoto e agli ignoti, senza pretendere certificati di buona condotta.
È sempre utile osservare le modulazioni dell’Ateniese, i suoi passaggi spesso imprevisti da un tema all’altro. Aveva appena finito di parlare di scienza – e dell’educazione alla scienza –, quando il discorso si dirige verso la caccia. Perché? Per somiglianza. «Della caccia e di ciò che le è connesso occorrerà ora trattare in modo simile». Il motivo della somiglianza non viene però specificato. Certo, al pari della scienza, la caccia è «cosa quanto mai molteplice». Ma di quali elementi si compone? Segue un elenco, dove l’Ateniese ha dissimulato ben più di quanto dichiari. C’è dunque la caccia agli animali acquatici, la caccia ai volatili, la caccia ai mammiferi – o meglio «agli animali che camminano», e fra questi ai bipedi: gli uomini. «Occorre includere anche la caccia agli uomini, sia in guerra sia nella frequente ricerca di amicizia, che può essere lodevole o biasimevole». Il discorso è piano, didattico, apparentemente senza scosse. Ma qui l’Ateniese ha già introdotto, come di sotterfugio, una lamina di pensiero sconcertante: la guerra viene considerata una variante della caccia; soprattutto la molteplice «ricerca di amicizia» appare come una ulteriore variante, l’unica di cui si dice che può essere «lodevole o biasimevole». In poche righe, e senza farlo notare, l’Ateniese ha giustapposto la caccia alla scienza, come se la caccia alle lepri fosse quanto di più vicino alle dottrine sugli «dèi del cielo»; ha incluso la guerra nella più vasta categoria della caccia, come se uccidere nemici in battaglia non differisse essenzialmente da una [262] battuta di caccia; infine ha avvicinato alla guerra la «ricerca di amicizia», che nelle sue svariate forme include il corteggiamento amoroso. Dall’eros rivolto agli «amati», erṓmenoi, alla guerra, alla caccia alle lepri, allo studio dei corpi celesti: un unico filo lega queste attività. È la caccia. Ma l’Ateniese non si arresta a tali imprese, che possono essere considerate tutte nobili: della caccia, aggiunge, fanno parte «i furti, il brigantaggio e gli attacchi in gruppo». La categoria della caccia appare alla fine come un vero mostro policefalo. E, con tono deciso, si precisa che, dinanzi a un tale groviglio di forme, il legislatore non potrà imporre «regole e punizioni per tutti questi generi», ma «biasimare o lodare ciò che riguarda la caccia», a seconda che convenga o no ai lavori e alle occupazioni dei giovani. Comunque, ben più delle singole prescrizioni legislative, essenziale sarà aver raccolto sotto una sola parola la caccia agli animali, la guerra e gli stratagemmi erotici.
Platone non perde mai occasione per connettere la caccia alla conoscenza. Anche quelli che definisce «agronomi o cripti» (termine ominosamente connesso alla krypteía spartana), questo corpo di sorveglianti che «dovranno esplorare tutto il territorio, estate e inverno, armati, per salvaguardia e ricognizione di tutti i luoghi», si prepareranno a queste funzioni attraverso la caccia, praticata «non per il piacere che vi si trova ma per l’utilità che se ne trae».
La connessione stretta fra caccia e conoscenza non implica soltanto una esaltazione della ricerca e delle sue avventure. Alla fine della caccia c’è sempre una preda uccisa. Non conta solo l’esercizio, conta l’individuazione di un’entità da colpire. E il nesso ultimo è questo: fra la conoscenza e l’atto di colpire. Si esclude così che la conoscenza possa lasciare intatto il suo oggetto, come avviene con la contemplazione. O anche con la conoscenza misterica, definita epopteía, «visione», quindi assimilabile al puro atto del guardare. Si assiste qui a una [263] biforcazione fondamentale: quando si parla di conoscenza, si dovrà precisare se è una conoscenza che trafigge il suo oggetto o semplicemente lo guarda.
«Non è certo la cosa più facile definire il sofista» dice subito lo Straniero (nel Sofista). Sarà una «difficile e penosa caccia» ricercarlo. Ma in quale direzione? Fra i cacciatori. E, fra le tante specie di cacciatori, quale sarà la più vicina al sofista? La pesca vulnerante. E nemmeno quella con il tridente, che colpisce la preda in punti qualsiasi del corpo, ma la pesca con l’amo, che ferisce la preda «in un qualche punto della testa o della bocca». L’Ateniese dice della caccia ciò che un giorno si dirà della tecnica: che, a seconda di come viene usata, «rende migliori le anime dei giovani» o altrimenti può produrre l’effetto contrario. Implicito è il nesso strettissimo fra la caccia e l’anima. Chi sceglie una certa forma di caccia plasma anche, in una certa direzione, la propria anima.
Seguono subito le esclusioni: si raccomanda di evitare – nell’ordine – la pesca in alto mare o con l’amo, le «cacce all’uomo sul mare» (quindi la pirateria), come anche il furto «in campagna o in città». Che cosa rimane? La caccia ai quadrupedi, quella dove le prede alla fine verranno catturate «con le proprie mani», se si appartiene a «coloro che praticano il divino coraggio». Questi cacciatori vengono definiti addirittura «sacri». E del tutto opposti al cacciatore «notturno», che opera solo con reti e trappole. Di questi l’Ateniese ingiunge che «nessuno mai lo lasci cacciare in alcun luogo». Ma perché tante cautele e distinzioni, quando alla fine tutto convergeva sulla caccia a quadrupedi neppure tanto temibili (i grandi felini avevano da tempo abbandonato la Grecia)? Evidentemente dovevano esserci altre cacce a cui l’Ateniese pensava.
Il sofista è il cacciatore cacciato, stretto in un angolo da un altro cacciatore, che è Platone: «Se il sofista ... trova qualche rifugio dove rintanarsi, occorrerà seguirlo [264] passo per passo, dividendo in due senza tregua ogni luogo che lo accoglie, finché non sia preso. In nessun modo lui o chiunque altro potrà vantarsi di essere sfuggito a una ricerca così condotta nel dettaglio e nell’insieme». È la descrizione di una caccia serrata e feroce, dove la diaíresis, l’incessante «divisione in due», è il mezzo più efficace per individuare e catturare la preda. La diaíresis è quel «metodo», méthodos, che è la ricerca stessa. E il suo risultato non è così diverso da quella pesca con l’amo a cui la sofistica era stata fin dall’inizio equiparata. Anche questa volta si tratta di trafiggere una preda «in qualche punto della testa o della bocca».
Giunti al libro VIII, la passeggiata dei tre amici verso la caverna di Zeus deve superare un tratto particolarmente tedioso e sfibrante. Tramite l’Ateniese, Platone vuole mostrare di essere uomo pratico: raccomanda di non spostare le pietre che segnano i confini fra i terreni e di evitare in genere le liti fra vicini, fastidiosissime; parla di commercio all’ingrosso e al minuto; di importazioni ed esportazioni (da ridurre entrambe al minimo indispensabile); di amministrazione delle acque; della disposizione dei quartieri e delle singole case. Ogni volta le sue affermazioni sono ponderate e assennate. Inconsuete per colui che ha passato la vita a dire cose estreme e sconcertanti. La sua pazienza non si lascia scalfire. Come spiegare questa insistenza sul particolare, anche sul più ovvio? C’era in Platone una brama incontenibile di dominio e di controllo, che interferiva continuamente con il suo pensiero. Che il sofista, il filosofo e il politico fossero una sola entità a tre facce non era forse dottrina da applicare al mondo, ma certamente a Platone stesso. Le Leggi ne sono la dimostrazione e confessione finale, quasi il sommesso delirio di una volontà implacata.
L’Ateniese aborre il commercio al minuto. Cosa non da uomini liberi. Una legge dovrà stabilire che «solo un [265] meteco o uno straniero potranno avviare un commercio al minuto». Non vengono esplicitati i motivi di questa ripulsa. Unico esempio offerto è quello dell’albergatore (sempre assimilato al commerciante al minuto) che estorce somme eccessive ai suoi ospiti. Ma imbrogli e inganni si riscontrano anche in altre attività. Perché allora infierire sul commercio al minuto come attività «indecorosa»? Se il commercio dovrà essere ammesso, sarà soltanto «per stretta necessità» e comunque si ammetterà soltanto «il minimo numero di commercianti». Anche se, controvoglia, viene riconosciuta alla «potenza della moneta» la capacità di creare un equilibrio nella distribuzione dei beni. Il vero nemico che si profila dietro il commerciante è lo scambio in sé, come se l’Ateniese presagisse che quell’attività indecorosa e marginale, circoscritta a coloro che non sono pienamente liberi, potrebbe insinuarsi nelle vene della città, stravolgendone la natura. Ed è quello che poi puntualmente accadde – e che già accadeva, anche se in misura rudimentale rispetto agli sviluppi ulteriori. Ma, contrariamente ad Aristotele, che volle entrare nel merito, Platone si arresta sulla soglia della questione, con un gesto di rifiuto che pretende di essere morale, ma è innanzitutto metafisico.
Ossessionato dalla completezza – e dalla necessità di applicare un giudizio e la giustezza a ogni caso della vita –, l’Ateniese si trova a trattare tre casi spinosi, che riunisce: il suicida, l’animale che uccide, l’oggetto che uccide.
Per il suicida, rinuncia a indicare quali «purificazioni», katharmoí, sono richieste. «Il dio lo sa» dice, ma non precisa che cosa. E consiglia ai parenti di rivolgersi agli «esegeti» per avere istruzioni. Unico caso in cui evita di dare le sue prescrizioni. Non però per quanto riguarda la sepoltura: «Le tombe saranno isolate, senza vicini, ai margini dei dodici distretti, in luoghi deserti e senza nome. Saranno sepolti senza gloria, senza stele e [266] senza nomi che indichino quali sono le tombe». Tutta la crudezza e la durezza dell’Ateniese si concentrano in queste parole.
A cui segue la trattazione del caso in cui «un animale, da soma o di altro genere, uccida un uomo». Anche qui, «i parenti del morto perseguiranno l’assassino per omicidio». E l’Ateniese prescrive che i parenti designino una giuria di agronomi: «una volta condannato, l’animale verrà ucciso e gettato fuori dai confini del territorio». Ma la furia del giudicare non si arresta qui. Rimane il caso in cui «un qualcosa di inanimato priva un uomo dell’anima». Con eccezione del fulmine o di «qualsiasi altro corpo mandato dal dio». Ma negli altri casi? Ancora una volta, il parente del morto «sceglierà come giudice il suo primo vicino e così si purificherà egli stesso con tutta la sua famiglia. Quanto all’oggetto colpevole, lo si getterà fuori dai confini, come si fa con gli animali». Che cosa si potrà espellere allora: alberi schiantati dal vento, muri crollati, macigni franati? Fuori dai confini, si cammina fra tombe mute di suicidi, carcasse di animali e «oggetti colpevoli».
A questo punto l’Ateniese non si lascia sfuggire una parola sull’incongruità della situazione in cui si è venuto a trovare. Ma si blocca un momento, come se volesse scacciare un dubbio. Di fatto, il più grande fra i dubbi: perché le leggi sono necessarie? Dandosi subito risposta: «Come preambolo a tutte queste cose occorre dire che è necessario per gli uomini istituire leggi e vivere secondo tali leggi, altrimenti non si distinguerebbero in nulla dagli animali più feroci». Come se avesse dimenticato che, all’inizio dei suoi discorsi, aveva accettato il principio che le leggi erano state stabilite «dal dio», ora l’Ateniese proponeva una teoria minima, che permettesse di sostenere «l’ordine e la legge», «táxin te kaì nómon» (che diventerà il law and order), in quanto difesa ultima per differenziarsi dagli «animali più feroci»: tale, alla fine, era la sua sfiducia nella capacità degli uomini di vivere insieme.
[267] «Poiché abbiamo convenuto che il cielo è pieno di molte cose buone, ma anche delle cose opposte, seppur non più rumorose, vi è là – noi diciamo – una battaglia immortale, che esige una mirabile vigilanza, e noi combattiamo avendo come alleati gli dèi e i demoni, noi che siamo proprietà degli dèi e dei demoni».
È abitudine dell’Ateniese immettere talvolta una scheggia tratta da un qualche meteorite esoterico all’interno di un discorso altrimenti piano e graduale, che subito si riavvia dopo le parole abbaglianti, di cui non viene data ragione. Anzi possono presentarsi come qualcosa di sottinteso (qui: «Poiché abbiamo convenuto che...», ma non c’è un luogo dove sia stato convenuto ciò che segue).
Le Leggi hanno un fondo amaro, desolato. Presuppongono che l’azione radicale e rigorosa che Platone aveva a lungo agognato, che aveva provato per tre volte a sperimentare a Siracusa e prospettato nella Repubblica, si era rivelata impraticabile. Rimaneva un altro compito, molto meno esaltante: provare ad arginare, circoscrivere, respingere – se mai possibile – un nuovo ordine delle cose che si stava imponendo, senza aver bisogno di dichiararsi. Pochi anni dopo, svanito il turbine di Alessandro, quel nuovo ordine si sarebbe stabilizzato nella forma alessandrina: spregiudicata, poliedrica, parodica, plurale, agevolmente comprensibile per chi sarebbe nato più di duemila anni dopo. Con una sola, ma notevole differenza: a quel tempo i culti – i molteplici culti – erano ancora vivi, anche se stavano diventando sempre più una questione privata.
Platone non riuscì a dare una forma definitiva alle Leggi, ma vi appose un breve e grandioso epilogo: l’Epinomis. Mentre gli ultimi libri delle Leggi emanano un senso di cupa insistenza, l’Epinomis torna a una maniera superbamente perentoria, ben più congeniale a Platone. [268] Tale era lo scarto fra l’Epinomis e le Leggi che molti ne trassero un argomento per definire apocrifo il testo. Presuntuosa filologia. L’argomento avrebbe potuto valere per dimostrare il contrario, come se Platone avesse avuto un sussulto di fierezza, che gli imponeva di tornare ai termini della sua dottrina più nascosta e irrinunciabile, come in un congedo. Il rapporto fra l’Epinomis e le Leggi fa molto pensare a quello delle Upaniṣad con i relativi Brāhmaṇa: passaggio dall’espansione nel dettaglio alla condensazione aforistica.
In Diogene Laerzio, l’Epinomis ha come sottotitolo «Consiglio Notturno». A questo sarebbe opportuno attenersi. Tutto il dialogo, di fatto, andrebbe letto come se Platone avesse finalmente deciso di rivelarvi qualche frammento della dottrina fondatrice di quell’enigmatico Consiglio. L’avvio è brusco: il cretese Clinia dice all’Ateniese che sino allora i tre amici erano senz’altro riusciti a trattare «tutto ciò che riguardava l’istituzione delle leggi». Ma ciò facendo si erano lasciati sfuggire «ciò che è più importante scoprire e dire»: che cosa significa «per un uomo mortale essere un sapiente [sophós]». È come se parlare dell’ordinamento ideale di una società impedisse, invece di favorire, la scoperta di che cos’è la sapienza. Ciò che rischiava di crollare era l’intero, imponente edificio delle Leggi. E qui si precisava un punto capitale: il pensiero non è una virtù sociale.
L’Ateniese risponde, in un primo momento, che l’anima non sa bene come trovare la sapienza, anche se ha una vaga percezione che «appartenga alla sua natura possedere la sapienza». Certamente non le saranno d’aiuto le téchnai: dall’agricoltura alla caccia, alle arti, nessuna di queste attività rende sapienti. E soprattutto «l’imitazione non rende sapienti in alcun modo».
Che cosa rimane, allora? Il numero. «Se togliessimo il numero dalla natura umana, non potremmo giungere ad alcun pensiero». La conseguenza è immediata: «Così per necessità dobbiamo porre il numero alla base del tutto». Il procedimento è apodittico – e l’Ateniese avverte che, se quella necessità dovesse essere giustificata [269] passo per passo, «richiederebbe un discorso ancora più lungo di tutti i precedenti».
Ci si avvicina, dice Clinia, a «grandi discorsi su grandi cose». Sì, risponde l’Ateniese – e «la cosa più difficile è che devono essere totalmente veri». È il segno che la parola sta attraversando una soglia irreversibile. Allora Clinia, perfetta antifona, invita l’Ateniese a pronunciare «le belle parole che gli vengono in mente sugli dèi e le dee». Perché ora occorre che «il dio stesso ci guidi». Segue una preghiera silenziosa dei tre amici. Dopo la quale il testo non ha più nulla a che fare con le puntigliose trattazioni precedenti, come se ora l’Ateniese volesse dedicarsi a ciò che non poteva che sfuggire a ogni teoria della società. Perché non riguardava solo gli uomini ma il cosmo e quel «singolo vincolo che per natura lega il tutto». Vincolo che si poteva riconoscere soltanto attraverso il numero. Accertare in che cosa consistesse e come si formasse era l’impresa più alta e azzardata per il pensiero. Simone Weil la descrisse con parole terse in una lettera al fratello André: si trattava di «stabilire una identità di struttura fra la mente umana e l’universo». Con vibrante eloquenza, che nel corso dei suoi ragionamenti sulla società raramente affiorava, l’Ateniese si lancia allora in una fantasmagoria su quell’ordine che si rivela nei moti della «stirpe divina degli astri», quali erano apparsi innanzitutto nel cielo smaltato dell’Egitto. Questo passo, «una pagina splendida sulla danza degli astri», secondo Simone Weil, era anche il variegato involucro di un numero: √2, rapporto fra la diagonale del quadrato e il suo lato. Rapporto non definibile mediante un numero razionale. √2 era il numero che manifestava la scoperta degli incommensurabili. E a essa Platone volle dedicare alcune densissime righe alla fine dell’Epinomis (990 c-991 a), come se, prima di sigillare la vasta compagine delle Leggi, avesse voluto inserirvi un cristallo di diamante. Perché l’incommensurabile non era altro che il diabolus o il deus in Mathematica. O l’uno e l’altro. Secondo Giamblico, la scoperta degli incommensurabili «adirò la divinità». Il suo [270] autore «perì in mare, come un malfattore», perché – dicevano alcuni – «aveva rivelato il segreto dell’irrazionale e dell’incommensurabile». Certamente quella scoperta apparve come uno scandalo per la ragione, che da allora non si è placato, fino al giovane Törless. Secondo Paolo Zellini, l’incommensurabilità «generò uno scompiglio nella scienza, facendo crollare l’idea di poter dominare la natura con il solo ricorso al numero intero». Secondo André Weil, l’incommensurabilità fu un «dramma» e di conseguenza «segnò la rovina del pitagorismo». La sorella Simone gli replicò che senz’altro c’era stato «un dramma degli incommensurabili, e di una portata immensa». Ma subito aggiunse: «Penso che quella emozione sia stata gioia e non angoscia ... Penso che siano stati non stupefatti perché vi erano rapporti indefinibili dai numeri, ma intensamente felici nel vedere che anche ciò che non si definisce attraverso i numeri è pur sempre rapporto». Forse era quella la sapienza di cui i tre amici erano andati in cerca. O almeno questo si può supporre dalle parole conclusive dell’Epinomis: «Sarà cosa quanto mai giusta [orthótata] se noi richiameremo a questa sapienza coloro che fanno parte del Consiglio Notturno, una volta che li avremo opportunamente vagliati e valutati». Parole che Platone affidò all’ultima frase di quella che sarebbe stata la sua ultima opera.
IX
LA NOTTE DEGLI ERMOCOPIDI
C’è qualcosa di infinito in questa città: da qualunque parte vi entriamo, incontriamo tracce di qualche storia
CICERONE, Il sommo bene e il sommo male
[273] Hermes, con barba a punta e fallo eretto, era una presenza ubiqua nella città. Assisteva ai sacrifici, riceveva vassoi con offerte. I vasi mostrano personaggi che gli parlano, lo carezzano, gli mostrano qualcosa, lo interrogano. Una ragazza gli stringe le spalle, mentre lo guarda negli occhi. Un ragazzo gli sfiora la punta della barba e gli ha appeso una lieve collana al fallo, come al pennone di una bandiera. C’è familiarità, affettuosità, giocosità verso queste pietre, non meno che verso certi animali – o certi dèi. Sfigurare le erme, recidere i falli: era un gesto che colpiva la vita più segreta e la più palese della città. Quando gli Ateniesi, un mattino di primavera dell’anno 415 a.C., si svegliarono e videro lo scempio, avvertirono subito la gravità di quello che era successo. Cominciò un periodo di panico. Molti non si azzardavano a farsi vedere in piazza, per paura di essere arrestati. Non pochi furono condannati a morte. Alcuni fuggirono. Le liste dei patrimoni sequestrati si possono leggere tuttora, incise su stele.
Tre anni e mezzo dopo la notte degli ermocopidi, venne rappresentata per la prima volta la Lisistrata di Aristofane. A un certo punto il corifeo si trovava in mezzo [274] a un gruppo di uomini con i falli eretti e gli diceva: «Siate ragionevoli, copritevi con i vostri mantelli, / che non vi veda qualcuno degli ermocopidi». Da questo passo gli studiosi hanno ragionevolmente desunto che le erme, quella notte, non erano state soltanto sfigurate nei volti. Anche i falli eretti sarebbero stati recisi. Con puntiglio accademico, Debra Hamel precisa che nella messa in scena della Lisistrata i falli «non erano reali, ma delle protesi».
Secondo la Lisistrata di Aristofane (e nessuno è più attendibile sul clima psichico ateniese) la tragedia è innanzitutto cosa di donne: «Non a caso le tragedie sono roba nostra; / non siamo altro che Poseidone e battello». La battuta è fulminante, se si riconosce l’allusione. Sofocle aveva dedicato due tragedie – oggi perdute – alla storia di Tiro. Si può immaginare che cosa sarebbe accaduto se si fossero salvate, al posto di Edipo re e di Edipo a Colono. Tiro, innamorata del fiume Enipeo, sospirava sulla sua riva quando Poseidone, dio del mare camuffato da fiume, la sedusse. Poi il dio tornò a immergersi nelle onde. Tiro partorì in segreto due gemelli e li espose in una culla a forma di battello. Perciò, dice Lisistrata, noi donne «non siamo altro che Poseidone e battello». In tre parole – e con sfrontato riferimento a una storia due volte trattata da un grande tragico – Aristofane aveva condensato l’inclinazione femminile a farsi dominare da un’idea fissa. E l’aveva definita come materia principe per ogni tragedia. Lisistrata lasciava intendere che i maschi non sarebbero stati capaci di offrire un materiale letterario altrettanto ricco. Più che alle sue origini dionisiache, la tragedia veniva ricondotta da Aristofane all’ossessività: nel desiderio di vendetta, nel ricordo di un orrore, nella smisuratezza di una passione. Elettra, Ecuba, Medea: in queste figure si riconosceva la peculiarità della tragedia. Aristofane teneva a mostrarsi irrispettoso verso ciò che più suscitava reverenza [275] e terrore. Così non poteva perdere l’occasione di riferirsi agli ermocopidi.
Le eterie erano «compagnie» informali di giovani, per lo più appartenenti alle classi alte. Il numero dei soci oscillava fra i quindici e i trenta. Quando gli Ateniesi si accorsero della mutilazione delle erme, pensarono subito a qualche eteria. Ma dovevano essere state più d’una, perché la devastazione era ovunque nella città. Vari giorni dopo, un certo Dioclide raccontò che in piena notte, vicino al teatro di Dioniso, si era imbattuto in un assembramento di circa trecento uomini, divisi in gruppi di quindici o venti. Li illuminava la luna piena. Veniva subito da pensare a una riunione di varie eterie che complottavano qualcosa. Dioclide nominò quarantadue uomini che aveva riconosciuto. In seguito fu accertato che la sua versione era falsa. Quella notte non c’era la luna piena, ma la luna nuova. Eppure, al momento, la sua versione suonò plausibile. E fu subito collegata, secondo Tucidide, a un tentativo di rovesciare il regime democratico. Questo era Atene: le erme non soltanto stavano davanti ai templi e ai santuari, ma davanti ai crocicchi o alle case dei privati. Erano qualcosa che chiunque non poteva non vedere ogni giorno. Nulla di più consueto. Ma erano l’immagine di un dio. Colpirle significava colpire il sensorio della città, che stava per lanciarsi in una guerra temeraria: la spedizione in Sicilia. Alcuni studiosi moderni hanno provato a sostenere che la notte degli ermocopidi fu una bravata di giovani viziati e insolenti. Ma era una bravata per cui ventidue uomini furono condannati a morte e vari altri dovettero fuggire in esilio. Una volta scoperto che la sua storia era inventata, anche Dioclide subì l’esecuzione capitale. La notte degli ermocopidi rimane un caso irrisolto. Il primo a dirlo fu Tucidide, che poteva saperne più di chiunque altro sia vissuto dopo di lui: «Nessuno, né allora né in seguito, ha potuto dire con certezza qualcosa su coloro che commisero il crimine». Un punto [276] tuttavia è sicuro e fa pensare: la notte degli ermocopidi era strettamente connessa con lo scandalo dei Misteri, che invischiò Alcibiade. Teucro, l’accusatore degli ermocopidi che alla fine venne creduto e con la sua testimonianza fece condannare a morte quindici uomini, aveva riconosciuto di essere stato coinvolto in una celebrazione privata dei Misteri.
Quando avvenne la notte degli ermocopidi, ci si trovava alla vigilia della partenza della flotta per la spedizione in Sicilia, che doveva essere comandata da Alcibiade. E proprio in quei giorni Alcibiade venne posto sotto accusa, perché sospettato di aver celebrato i Misteri in case private, inclusa la sua. Nello stesso momento in cui Atene stava per lanciarsi in un’impresa militare fredda e rapace, la città era scossa da due scandali per empietà, che intaccavano i suoi fondamenti religiosi.
Alcibiade chiese di essere giudicato prima di partire per la Sicilia. Gli fu negato. Allora Alcibiade partì, ma quando venne richiamato ad Atene per essere processato, passò agli Spartani. Ai quali diede consigli per attaccare Atene. Intanto seduceva la moglie di uno dei due re di Sparta. Poi tradì anche gli Spartani per passare ai Persiani. Infine tradì i Persiani per tornare ad Atene. Ma nel 407 Alcibiade guidava il corteo da Atene verso Eleusi, proteggendolo con una scorta armata. Per alcuni anni il corteo era stato sospeso, perché gli Spartani avevano occupato le zone vicine. Si giungeva allora a Eleusi via mare. Ma il corteo faceva parte dell’iniziazione. Il compimento perfetto che Eleusi concedeva non era tale se il corteo non lo preparava. Secondo Plutarco, fu uno «spettacolo solenne e degno degli dèi» quel settembre, quando gli Ateniesi tornarono a calcare la Via Sacra. Si riconobbero grati ad Alcibiade e lo definirono loro «ierofante», così come otto anni prima lo avevano accusato di aver agito da «ierofante» celebrando i Misteri in case private e lo avevano fatto maledire dai sacerdoti e dalle sacerdotesse di Eleusi. Una di loro, Teano, si rifiutò. Disse che era suo compito pregare, non maledire.
[277] Alla fine della guerra fra Eleusi e Atene, tre secoli prima della notte degli ermocopidi, l’accordo fu che «gli Eleusini sarebbero stati soggetti per tutto il resto agli Ateniesi, ma avrebbero compiuto i Misteri a modo loro [idíā teleîn tḕn teletḗn]». Ídios qui vuol dire che gli Eleusini avrebbero agito, per i Misteri, al di fuori della giurisdizione di Atene. Ma ídios vuol dire anche «privato» – e Alcibiade verrà accusato di aver celebrato i Misteri in privato. Già era una enorme concessione che a ventun chilometri da Atene sussistesse qualcosa totalmente sottratto al potere della pólis. Ma inaccettabile sarebbe stato che quella extraterritorialità si annidasse fra le mura di case private, in città.
La politica, a Atene, era pervasiva e feroce. Chi le si sottraeva, lo faceva anche perché non voleva rischiare di essere ucciso. Questo disse chiaramente Socrate ai suoi giudici: non sarebbe mai arrivato alla sua età se si fosse occupato di politica perseguendo il giusto. E ora la politica stava per ucciderlo comunque. Era un gioco mortale, che non risparmiava neppure chi se ne teneva lontano. O lo risparmiava soltanto per qualche tempo. Nessuno dei tranelli e dei sotterfugi praticati fino ai tempi del cardinale di Retz, e da allora fino al Partito comunista cinese oggi al potere, non ebbe una prima sperimentazione in quei brevi anni in cui Atene si immaginò di essere imperiale. Basta una lettura attenta di Tucidide per constatarlo. Riducendo al minimo gli spazi e le persone coinvolte, l’agorà fu il definitivo laboratorio in cui si saggiarono tutte le varianti dell’azione politica, perfide o magnanime che fossero, ma soprattutto contorte e ritorte. Le fondamentali impostazioni di gioco furono stabilite in pochi anni e sarebbero rimaste come l’intelaiatura di ogni futura partita. La politica rientrava fra le cose passibili di evoluzione soltanto nei suoi rami secondari.
Ma nel gioco politico ateniese, rispetto a quelli che gli fecero seguito, c’era un elemento in più: l’«empietà», [278] asébeia, delitto capitale che obbliga a entrare nei segreti di Atene. Spregiudicati e sfrontati, gli Ateniesi erano anche capaci di usare l’empietà come arma letale – e perciò di riferirsi a una sfera sacra che doveva essere protetta e tutelata. Anassagora, Fidia, Aspasia: tutti e tre accusati di empietà. Tutti e tre vicinissimi a Pericle. Ma era stato lo stesso Pericle – secondo lo Pseudo-Lisia – a chiedere agli Ateniesi di «impegnarsi a giudicare gli empi non soltanto in rapporto alle leggi scritte che li riguardano, ma anche alle leggi non scritte secondo le quali gli Eumolpidi fanno le loro esegesi». Pericle si richiamava a una doppia giustizia e a una doppia legge. La prima: scritta e amministrata dal popolo obbedendo a regole formalizzate e note a tutti; la seconda: non scritta e amministrata soltanto da una famiglia di Eleusi, gli Eumolpidi. Nessun altro – neppure l’altra famiglia sacerdotale di Eleusi, i Kerykes – era autorizzato alla exḗgēsis, quindi all’interpretazione e applicazione di quella legge. Gli amici di Pericle furono processati e condannati dai tribunali normali: Anassagora costretto all’esilio, Fidia a finire la vita in prigione. E Pericle stesso pianse davanti al tribunale mentre difendeva Aspasia. Si dà qui un urto e una sovrapposizione di altissima intensità fra legge scritta e legge non scritta. Ed è la tensione che definisce la peculiarità irriducibile della legge ateniese, nel suo periodo rovente e glorioso, almeno fino all’arcontato di Euclide, nel 403-402 a.C., quando viene decretato che «le autorità non potranno applicare la legge non scritta in alcun caso». Di fatto, la legge non scritta, così come il richiamo ad altre antiche leggi non scritte, poteva diventare il pretesto per qualsiasi arbitrio. Ma finiva così anche l’epoca in cui l’esegesi di un testo non scritto, compiuta da una sola famiglia di sacerdoti eleusini, poteva applicarsi come legge. Una legge che colpiva innanzitutto chi non mostrava sébas, «reverenza», dinanzi a ciò che è: il sentimento primo «per tutti, per gli dèi immortali e per gli uomini mortali», che aveva suscitato la visione di Core mentre coglieva «rose, croco e le belle viole». Dove il dettaglio essenziale [279] è quel «per tutti»: anche gli dèi provano sébas, la reverenza dinanzi a ciò che appare. È questo che stabilisce la comunanza fra uomini e dèi. E questo è il senso ultimo di ogni asébeia: l’empietà consiste nel mancato riconoscimento di quella reverenza. Tre anni dopo l’arcontato di Euclide, Socrate veniva condannato a morte.
Si terrorizzava accusando qualcuno di empietà; e lo si condannava per qualche altro motivo. Aspasia per prossenetismo; Socrate per aver corrotto i giovani; Fidia per malversazioni finanziarie. Ma la gravità della condanna era dovuta all’empietà che la avvolgeva come una nube e dava al reato un rilievo non implicito nella legge scritta. Empietà indicava un comportamento che intaccava i fondamenti della vita comune. E, via via che quei fondamenti si assottigliavano e diventavano inconsistenti, si ricorreva all’empietà come a un sotterfugio per giustificare l’arbitrio. Come Eschilo aveva detto: «La reverenza [sébas] di una volta, invincibile, indominabile, inattaccabile, / che penetrava nella mente e nelle orecchie del popolo, / è svanita. / Rimane la paura. Il successo, / questo per i mortali è il dio e più che il dio».
Per Burckhardt la pólis ateniese, «come la monarchia in Spagna, era qualcosa di divinizzato, una religione che contro ogni eresia ricorre a misure estreme». Avevano scoperto la libertà – e insieme i modi per perseguitarla. Avevano scoperto l’eccellenza del singolo – e subito avevano predisposto le procedure per esiliarlo. Chiunque spiccasse sugli altri viveva in un perenne stato d’assedio. Sapeva di essere alla mercé dei delatori, che erano una professione riconosciuta. Si viveva all’interno di un «terrorismo pubblico». Se Sparta aveva inventato certe istituzioni feroci come la krypteía, che equivaleva a una licenza di assassinare gli iloti, Atene non era stata da meno nell’ispirare paura, anche se per altre vie. Comune alle due città era il proposito di porre al di [280] sopra di tutto l’«utilità pubblica» (altrimenti detta «utilitas populi», quando Odisseo rivendicò di averla propugnata e consigliò a Agamennone di sacrificare Ifigenia). A quel punto anche la religione diventava ornamentale. E la stessa «utilità pubblica» sarebbe stata il primo lascito politico greco all’Europa, ben prima che la rivendicassero gli ignari e feroci utilitaristi alla scuola di Bentham.
A proposito degli ermocopidi, da Tucidide a oggi, gli storici si sono accaniti ad analizzare le denunce e le controdenunce che si susseguirono per sedici anni, portando non pochi alla morte o all’esilio. Definitive rimangono soltanto alcune parole di Tucidide: «Non è chiaro se coloro che patirono tutto questo siano stati colpiti ingiustamente, ma certo è che il resto della città vi trovò sul momento un manifesto sollievo». Tanto più spicca il fatto che, sia nelle fonti contemporanee sia nella storiografia successiva, si sorvoli sul senso delle azioni stesse. Che cosa significava mutilare le erme che si ergevano in gran numero davanti a templi e case private? E perché sia Tucidide sia Plutarco precisano che «per la maggior parte mutilarono i volti»? Mentre nulla dicono dei falli, a cui invece Aristofane non mancò di alludere. Quanto alla celebrazione dei Misteri «en oikíais», «nelle case», non si precisa che cosa vi avvenisse e perché. C’è poi un dettaglio rivelatore: scrive Tucidide che certi «meteci e servi», oltre a denunciare la celebrazione privata dei Misteri, avevano segnalato che «altre statue» (agálmata questa volta, non Hermeía) erano state mutilate da gruppi di giovinastri. Subito «l’affare si gonfiò» e l’intreccio di quei fatti fu inteso come un funesto presagio per l’imminente spedizione in Sicilia e come avvisaglia di un complotto. Non si può dire che il tempo abbia portato chiarezza. Ma rimane il fatto che per gettare nel panico gli Ateniesi occorreva innanzitutto attentare alle statue e ai Misteri.
[281] Si definiscono embólima le «digressioni liriche» che, nella tragedia, interrompono di sorpresa il corso degli eventi per cantare altri eventi, altre storie, le quali possono anche non avere alcun nesso plausibile con la storia in corso. E usualmente gli embólima appaiono quando le vicende della tragedia sono arrivate a un punto critico e delicato, quando sembra che non ci sia via d’uscita. Più di ogni altro, Euripide prediligeva questo accorgimento formale. Così, nell’Ifigenia in Tauride, un peana per Apollo sopravviene quando il segreto deve coprire i piani della protagonista; nell’Elettra, si incontrano due digressioni sull’agnello d’oro e sulle Nereidi. Ma il caso più eloquente si dà nell’Elena, questa «nuova Elena», come disse Aristofane, opera che sin dall’inizio apparve sconcertante e bizzarra.
Menelao e Elena, in Egitto, hanno appena concepito un piano altamente rischioso per fuggire. E sono riusciti a farsi credere dall’egizio Teoclimene, convinto di essere il futuro sposo di Elena. Ma il piano potrebbe essere scoperto in qualsiasi momento. A questo punto irrompe il coro e parla di Demetra alla ricerca di Core. Non è chiaro che cosa colleghi le vicende di Demetra, origine dei Misteri eleusini, con la storia di Elena. Ma il nesso si scopre, alla fine: sono i Misteri stessi.
Di quasi tutti i malefici era stata incolpata Elena, nel corso del tempo. Mai però, fino a questo coro, di aver celebrato i Misteri «nella stanza da letto», «en thalámois». Un’accusa simile a quella che in quegli stessi anni era stata mossa al più bello degli Ateniesi: Alcibiade. Di lui si diceva che aveva osato celebrare i Misteri nelle case di altri e anche nella sua. E il verbo usato era poieîn, «fare», «compiere». Non imitare o parodiare, come spesso hanno inteso i moderni. La colpa stava in questo: nello spostare i Misteri in un luogo privato, intimo. Non diversamente da come si trovarono a fare, negli Orti Oricellari, alcuni neoplatonici fiorentini, circa milleottocento anni dopo. Con la differenza che, una volta usciti da quegli Orti, nessuno sapeva dei Misteri.
Appena ci si avvicina alla storia degli ermocopidi e [282] dei Misteri celebrati in certe case di Atene da Alcibiade, si avverte che siamo vicini al segreto degli Ateniesi. Fra le «cose strane» della loro storia nulla è così strano e altrettanto inspiegato di queste due vicende. L’Elena di Euripide parla anche di questo, sovrapponendo le due figure di Elena e Alcibiade. Ma con ciò non chiarisce il loro doppio mistero, anzi lo esalta. Tucidide non commenta la celebrazione dei Misteri nelle case. Dice solo che avveniva «eph’ hýbrei», «per tracotanza». Ma la hýbris può essere intesa in molti modi. Può essere mera empietà. O può essere la convinzione di poter trattare da soli, nel segreto di una casa, la potenza che agiva soltanto in un luogo – Eleusi – e in un tempio. Secondo Euripide, era stata questa appunto l’unica colpa di Elena: celebrare i Misteri «nella stanza da letto» e confidando «soltanto nella bellezza». Altra forma della hýbris.
Gli embólima erano un artificio che irritava Aristotele. Il coro, si legge nella Poetica, «dovrebbe essere parte del tutto e intervenire nell’azione, come in Sofocle e non come in Euripide». E subito segue una condanna degli embólima, trattati come digressioni arbitrarie: «Che differenza ci può essere fra cantare queste digressioni e trasferire un discorso o un episodio da un’opera all’altra?». Come spesso nella Poetica, Aristotele individua con clinica precisione lo spartiacque che divide le forme. Qui il nemico è l’apparente sconnessione fra un intermezzo lirico e il resto dell’opera. Ma il vero oggetto della critica è la stereoscopia mitica: finché la narrazione mitografica sussiste (e in Euripide così è ancora), ogni evento è inscatolato in un altro – e non vi è modo di uscire da questa allucinazione dove qualsiasi storia è l’ingrandimento del dettaglio di un’altra e continuamente si scambiano contenente e contenuto. L’albero mitico è una rete e non si riduce mai a una sequenza lineare. In Aristotele parlava invece la voce di ciò che la letteratura, svincolatasi dal mito, sarebbe diventata: una concatenazione plausibile. Ma Euripide aveva già anticipato la risposta (e l’autodifesa) proprio negli ultimi [283] versi dell’Elena: «Molte sono le forme delle cose divine, / molte cose insperate ordiscono gli dèi. / E ciò che sembrava verosimile non si è compiuto, / per l’inverosimile trovò un passaggio il dio».
Nel secolo ventunesimo, le stragi hanno sostituito i sacrifici. Punteggiano il corso del tempo, di un tempo informe, convulsivo, così come le cerimonie sacre punteggiavano il corso circolare del calendario. L’officiante può immolarsi con le sue vittime; o altrimenti può tenersi distante, quanto lo concede un telecomando. La strage può essere un atto finale, conclusivo; o può essere elemento di una serie. Il fondamento rimane uguale. Rispetto a ogni altro atto – politico, bellico, diplomatico, sedizioso –, la strage offre una certezza: la garanzia dell’efficacia. È l’unico atto indubitabilmente efficace, in mezzo a innumerevoli altri atti di cui si può dubitare. È l’ancoraggio sicuro del significato. Il movente può essere totalmente privato e segreto; oppure totalmente pubblico e dichiarato. Ma la differenza è molto minore di ciò che accomuna i due atti: la certezza che l’uccisione sia l’unico fondamento incrollabile, l’unico gesto provvisto di un senso sicuro.
Anche questo ha avuto origine in Grecia: a Sparta, dove «gli efori hanno licenza di scegliere tutti quelli che vogliono mettere a morte senza giudizio», secondo Isocrate. Atene, come sempre, fu più articolata – e certamente meno efficace: insinuò il concetto di strage distruggendo non vite umane, ma simulacri, nella notte degli ermocopidi. Ma ciò che accadde ai simulacri preannunciava quello che sarebbe accaduto ai viventi. Così una notte misteriosa, il cui segreto non venne mai svelato, annunciava la fine di Atene stessa.