OLTRE IL MURO DEL SONNO
Estratto da "TUTTI I RACCONTI 1897-1922"
H.P. Lovercraft
Oltre il muro del sonno è uno dei più suggestivi tra i primi racconti di Lovecraft, forse anche perché il protagonista non è un gentiluomo della Nuova Inghilterra ma un derelitto dei monti Catskill che ricorda altri e differenti outsiders; basti pensare agli "eroi" del Terribile Vecchio dell'anno successivo. Inoltre, il mondo del visionario si apre per la prima volta, esplicitamente, alle dimensioni celesti, dopo che il tentativo della Stella Polare aveva fatto balenare questa possibilità. D'ora in poi la fantasia di Lovecraft si trasferirà così spesso tra stelle e pianeti da giustificare chi parla di narrativa "cosmica": questo primo approccio è interessante per la sua discrezione e la sua quasi mite bellezza. Da notare che l'astronomo citato nelle ultime righe, Garrett P. Serviss (1851-1929), fu piuttosto un giornalista e autore popolare specializzato in astronomia, nonostante la laurea in scienze conseguita alla Cornell University. Noto autore di fantascienza delle origini, scrisse un "seguito" della Guerra dei mondi di Wells intitolato Edison's Conquest of Mars (1898) e il celebre A Columbus of Space (1909, rev.1911).
La traduzione di Beyond the Wall of Sleep è stata condotta sul testo stabilito da S.T. Joshi: del racconto esiste il manoscritto dell'autore, che contiene anche le revisioni apportate dopo la prima pubblicazione in "Pine Cones" (ottobre 1919).
OLTRE IL MURO DEL SONNO
Sento su di me la forza del sonno.
Shakespeare
Mi sono chiesto più volte se la maggior parte della gente si soffermi a riflettere sul significato dei sogni, che a volte è clamoroso e comunque appartiene a un mondo di oscurità e mistero. E se la maggioranza delle visioni notturne non è che il debole e fantastico riflesso delle nostre esperienze di veglia - checché ne dica Freud col suo puerile simbolismo - ve ne sono altre il cui carattere etereo e ultraterreno non consente interpretazioni ordinarie, ma i cui effetti inquietanti, vagamente eccitanti, sembrano aprire uno spiraglio su una sfera d'esistenza mentale non meno importante di quella fisica, e tuttavia separata da quest'ultima per mezzo di una barriera impenetrabile. La mia esperienza non mi consente di dubitare che l'uomo, una volta abbandonata la coscienza terrena, si trasferisca in una dimensione incorporea e profondamente diversa da quella che conosciamo; una dimensione di cui, una volta svegli, rimangono solo vaghissimi ricordi. Da quei frammenti incerti e confusi possiamo intuire molte cose, ma provarne nessuna. Possiamo supporre, ad esempio, che la vita, la materia e l'energia come il mondo le conosce non siano costanti nei sogni, e che il tempo e lo spazio non esistano come li concepiamo da svegli. A volte penso che questa esistenza meno materiale sia quella autentica e che la nostra vana presenza sul globo terracqueo sia di per sé un fenomeno secondario o puramente virtuale.
Un pomeriggio d'inverno, nel 1900 o 1901, ero in preda a fantasticherie giovanili di questo tipo quando, nel manicomio criminale dove lavoravo come interno, fu condotto l'uomo il cui caso non ha smesso da allora di tormentarmi. Il suo nome, stando alle pratiche d'internamento, era Joe Slater, o Slaader, e l'aspetto tradiva il tipico abitante della regione dei monti Catskill: uno di quegli strani, obbrobriosi discendenti delle prime generazioni coloniali, che, per essere rimasti isolati per circa tre secoli nelle loro campagne solitarie, erano regrediti a uno stadio di barbarie e degeneratezza; il contrario, cioè, di quello che era accaduto ai loro fratelli più fortunati e che si erano stabiliti nei distretti a densa popolazione. Fra quella gente, che corrisponde all'elemento decadente che nel Sud chiamano white trash - rifiuti bianchi - legge e morale non esistono e il livello d'igiene mentale dev'essere il più basso tra i gruppi che si sono stabiliti da lungo tempo in America. Joe Slater, che fu portato in ospedale sotto la vigile custodia di quattro poliziotti e che venne descritto come un soggetto molto pericoloso, non mostrava affatto, la prima volta che lo vidi, i segni di questa cattiva disposizione. Benché più alto della media e di corporatura muscolosa, aveva un paio di pallidi occhi azzurri, piccoli e sonnolenti, che gli davano un'assurda aria di bonomia e stupidità, e l'impressione era rinforzata dalla peluria bionda che gli copriva le guance, ma della quale non si preoccupava affatto, e dalla piega infelice del labbro inferiore. La sua età era sconosciuta, dato che fra quelli della sua specie non esistono documenti anagrafici e neppure legami familiari permanenti; ma dalla calvizie incipiente e dalle pessime condizioni dei denti il primario dedusse che era un uomo di circa quarant'anni.
Apprendemmo il resto dai documenti medici e legali. L'uomo - un cacciatore vagabondo, un trapper - era sempre parso strano agli occhi dei suoi primitivi compagni. Di notte dormiva più degli altri e quando si svegliava raccontava cose misteriose con un tono che finiva per mettere paura anche nel cuore di gente così poco fantasiosa. Non che usasse un linguaggio insolito, perché si esprimeva nel dialetto corrotto della regione, ma il tono e il tenore delle sue frasi erano talmente fantastici che nessuno poteva ascoltare senza apprensione. Lui stesso era stupito quanto l'uditorio e nel giro di un'ora dal risveglio finiva per dimenticare tutto quello che aveva detto, o almeno la causa delle sue parole; allora sprofondava in una specie di bovina e quasi cordiale normalità, alla pari degli altri montanari.
Man mano che Slater invecchiava le sue scenate mattutine erano cresciute d'intensità e violenza, finché, un mese circa prima del suo arrivo in manicomio, era capitata la tragedia che aveva condotto al suo arresto da parte delle autorità. Un giorno, verso mezzogiorno, dopo un profondo sonno seguito a un'ubriacatura cominciata alle cinque del pomeriggio precedente e a base di whiskey, l'uomo si era svegliato con urla così orribili e disumane che avevano spinto i conoscenti ad avvicinarsi alla sua capanna (una sozza stamberga dove viveva con una famiglia indescrivibile quanto lui). Precipitandosi nella neve, aveva alzato le braccia al cielo e aveva cominciato a saltare nell'aria, gridando la sua determinazione di raggiungere una "grande, grande capanna col tetto, i muri e il pavimento che brillano, e la musica forte e strana che viene da lontano". Quando due uomini di discreta statura avevano cercato di fermarlo, Slater si era dibattuto con forza e furia maniacali, urlando il suo desiderio di trovare e uccidere qualcosa che "brilla, trema e ride". Alla lunga, e dopo aver tramortito uno degli uomini con un colpo improvviso, si era gettato sull'altro in preda a una crisi sanguinaria, urlando a squarciagola che sarebbe "saltato nel cielo" e avrebbe "bruciato chiunque" si fosse messo di mezzo. La famiglia e i vicini si erano dati alla fuga nel panico, e quando i più coraggiosi erano tornati Slater era scomparso, ma aveva lasciato dietro di sé un ammasso di carne maciullata che fino a un'ora prima era stato un uomo vivo. Nessun montanaro aveva osato inseguirlo ed è probabile che tutti avrebbero tratto un sospiro di sollievo a saperlo morto per congelamento; ma quando, alcuni giorni dopo, avevano sentito le sue urla da un crepaccio in lontananza, si erano resi conto che era riuscito a sopravvivere e che bisognava fare qualcosa per liberarsene. Si era dunque formato un gruppo di inseguitori, la cui funzione - quale che fosse in origine - si era tramutata in quella di volontari al servizio dello sceriffo dopo che un funzionario di polizia dello stato (gente non molto popolare, da quelle parti) ebbe per caso osservato, interrogato e infine assecondato i cercatori.
Due giorni dopo Slater era stato trovato, privo di sensi, nel tronco cavo di un albero; lo avevano portato nella prigione più vicina e là, non appena riavutosi, era stato esaminato da un gruppo di alienisti venuti da Albany. A costoro Slater aveva raccontato una storia molto semplice. Un pomeriggio era andato a dormire dopo aver bevuto molto liquore e si era svegliato con le mani sporche di sangue davanti alla sua capanna, col cadavere maciullato del vicino Peter Slader che giaceva nella neve. Atterrito, era scappato nei boschi per allontanarsi dalla scenadi quello che doveva essere il suo crimine, ma a parte questo sembrava non sapere niente e l'abile interrogatorio dei medici non aveva aggiunto la conoscenza di un solo particolare. Quella notte Slater aveva dormito tranquillo e il mattino successivo si era svegliato in condizioni di normalità, se si esclude una certa modificazione dell'espressione. Il dottor Barnard, che aveva tenuto il paziente sotto osservazione, ebbe l'impressione che nei suoi occhi brillasse un lampo particolare e nelle labbra cascanti si verificasse una quasi impercettibile contrazione, come voluta da intelligente determinazione. Ma quando fu interrogato Slater ripiombò nell'abituale ignavia del montanaro e si limitò a ripetere quello che aveva detto il giorno precedente.
La terza mattina l'uomo ebbe il primo dei suoi attacchi nervosi. Dopo aver mostrato una certa inquietudine durante il sonno, diede in tali smanie che per chiuderlo nella camicia di forza ci vollero gli sforzi di quattro uomini. Gli alienisti ascoltarono le sue parole con molta attenzione, perché la loro curiosità era stata eccitata dai racconti allusivi, seppur incoerenti e contraddittori, dei suoi vicini e parenti. Slater delirò per una quindicina di minuti, sostenendo che doveva andare in cielo e balbettando nel dialetto dei boschi di grandi edifici luminosi, oceani di spazio, musiche misteriose e monti e valli fantasma; ma si soffermò soprattutto su una misteriosa entità fatta di luce che ammiccava, rideva e lo burlava. Questo essere vago ma eccelso sembrava avergli fatto un terribile torto e il principale desiderio di Slater era di ucciderlo e vendicarsi. Pur di raggiungerlo, diceva, si sarebbe tuffato in abissi di vuoto, bruciando qualunque ostacolo avesse incontrato sul suo cammino. Di questo erano fatti i suoi discorsi, ma all'improvviso tacque; il fuoco della pazzia si spense nei suoi occhi e Slater guardò i suoi catturatori con apatia, chiedendo perché fosse legato in quel modo. Il dottor Barnard sciolse le cinghie di cuoio e lo fece uscire dalla camicia di forza, persuadendolo a rimetterla spontaneamente di sera per il suo bene. Nel frattempo il paziente aveva ammesso che a volte diceva cose strane, anche se non sapeva perché.
Nel corso della settimana ci furono altri due attacchi, dai quali tuttavia si apprese poco. Sull'origine delle visioni di Slater i medici specularono a lungo, perché, dal momento che non sapeva leggere né scrivere e non aveva mai sentito una fiaba, la sua straordinaria immaginazione aveva un che d'inspiegabile. Che la fonte di Slater non fosse un mito o un racconto noto era dimostrato dal fatto che il pazzo si esprimeva invariabilmente nel suo modo semplice: delirava di cose che non capiva e che non riusciva a interpretare, cose di cui dichiarava di avere esperienza ma che non avrebbe potuto apprendere da nessun racconto normale o sensato. Gli alienisti si trovarono d'accordo che alla base del problema c'erano dei sogni anormali, sogni la cui vividezza poteva, per un certo periodo, dominare completamente il cervello di quest'uomo innegabilmente primitivo anche da sveglio. Con le dovute formalità Slater fu processato per omicidio e inviato nell'istituto dove il sottoscritto svolge le sue umili mansioni.
Ho detto che i sogni costituiscono uno dei miei argomenti preferiti, per cui potrete comprendere l'ansia con cui mi dedicai allo studio del nuovo paziente non appena fui riuscito a ricostruire i particolari del caso. Verso di me Slater manifestava una certa cordialità, nata senza dubbio dall'interesse che mostravo per lui e che non potevo nascondere, ma anche dal modo gentile in cui lo interrogavo. Non che mi riconoscesse durante gli attacchi, quando cercavo di star dietro alle sue immagini verbali caotiche e cosmiche; e tuttavia nei momenti di tranquillità mi distingueva dagli altri, quando sedeva vicino alla finestra con le sbarre a intrecciare canestrelli di paglia e vimini, e a sospirare la libertà fra le montagne che non avrebbe più riavuta. I parenti non venivano mai a trovarlo: forse avevano trovato un altro capofamiglia, come succede fra quei montanari degenerati.
Poco a poco cominciai a provare un grandissimo senso di meraviglia di fronte alle pazzesche, fantastiche idee di Joe Slater. L'uomo in sé era penosamente arretrato sia in fatto di lingua che di mentalità, ma le sue splendide e grandiose visioni, benché filtrate da un dialetto barbaro e disarticolato, erano degne di una mente superiore o addirittura eccezionale. Com'è possibile, mi chiedevo, che la stolida fantasia di un bruto dei Catskill possa evocare immagini la cui semplice concezione indica una scintilla di genio? E come può un montanaro arretrato farsi anche una lontana idea dei meravigliosi reami di luce e di spazio di cui Slater delirava nei momenti di follia? Sempre più mi convinsi che nella pietosa personalità del prigioniero si nascondesse il nucleo disordinato di qualcosa che sfuggiva alla mia comprensione: qualcosa che andava infinitamente oltre le mie congetture o quelle dei colleglli più esperti ma meno fantasiosi del campo medico e scientifico.
Eppure, era impossibile ricavare indizi più precisi da Slater stesso. Il risultato delle mie indagini fu che, durante una fase di vita semicorporea che corrispondeva al momento dei sogni, Slater attraversasse valli splendenti e prodigiose e visitasse prati, giardini, città e palazzi luminosi che si trovavano in una regione sconfinata e sconosciuta all'uomo; che una volta là non fosse più un contadino e un degenerato, ma una creatura importante e dalla vita splendida, un orgoglioso e un dominatore che aveva un solo mortale nemico, un essere dalla struttura senz'altro visibile ma eterea, e che non sembrava avere forma umana dato che Slater non si riferiva a lui come a un uomo ma a una cosa. La "cosa" aveva fatto a Slater un torto orribile ma segreto che il maniaco (se poi maniaco era) desiderava vendicare. Dal modo in cui mi parlava dei loro rapporti, dedussi che Slater e la creatura luminosa si consideravano uguali e che nel mondo del sogno il prigioniero apparteneva alla stessa razza eterea del suo nemico. Questa sensazione era rafforzata dai continui riferimenti di Slater alla capacità di volare nello spazio e alla possibilità di bruciare tutto ciò che impedisse l'avanzata. Naturalmente queste idee mi erano trasmesse con parole del tutto inadeguate, e ciò mi convinse del fatto che, se un mondo di sogno esisteva letteralmente, il linguaggio verbale non era il suo mezzo di comunicazione ideale. Non poteva darsi che l'anima di sogno fosse imprigionata nel corpo inferiore del montanaro e cercasse disperatamente di dire ciò che aveva da dire, ma che la lingua balbettante dell'ospite fosse incapace di esprimerlo? Non potevo trovarmi di fronte a intelligenze in grado di spiegare il mistero, se solo fossi riuscito a individuarle e a comunicare con loro? Non parlai ai medici più anziani di queste cose perché la mezza età è scettica, cinica e poco incline ad accettare idee nuove. Inoltre il capo dell'istituto mi aveva avvertito più volte, nel suo modo paternalistico, che avevo lavorato troppo e che la mia mente aveva bisogno di riposo.
Da tempo ritenevo che il pensiero umano fosse il frutto di movimenti atomici o molecolari convertibili in onde di energia radiante come il calore, la luce e l'elettricità. Questa convinzione mi aveva indotto a prendere in considerazione la possibilità della telepatia, o comunicazione mentale, per mezzo di un apparecchio adatto, e all'epoca dell'università avevo costruito un apparato ricetrasmittente simile ai goffi strumenti usati nella telegrafia senza fili all'epoca in cui non esisteva ancora la radio. Avevo fatto alcuni esperimenti con un collega di facoltà, ma senza risultato: di conseguenza, avevo impacchettato i miei apparecchi insieme ad altre curiosità scientifiche e li avevo messi da parte, aspettando che si presentasse un'altra occasione. Ora, nel mio intenso desiderio di sondare la vita onirica di Joe Slater, rispolverai l'apparato che avevo costruito e trascorsi alcuni giorni a ripararlo e a metterlo a punto per l'azione. Una volta pronto non mi lasciai sfuggire la possibilità di provarlo, e, a ogni scoppio di violenza da parte di Slater, applicavo la trasmittente alla sua tempia e la ricevente alla mia, facendo continui aggiustamenti per cogliere le diverse, ipotetiche lunghezze d'onda dell'energia intellettuale. Sapevo ben poco del modo in cui, se fossi riuscito nell'esperimento, le impressioni mentali avrebbero eccitato una risposta intelligente nel mio cervello; ma ero certo che le avrei individuate e interpretate. Quindi continuai nei miei esperimenti, senza informare nessuno della loro natura.
Il primo febbraio 1901 la cosa finalmente avvenne. Guardando negli anni trascorsi da allora mi accorgo di come sembri irreale e a volte mi chiedo se il vecchio dottor Fenton non avesse ragione quando attribuì tutto alla mia immaginazione esaltata. Ricordo che ascoltò con grande pazienza e cortesia quello che gli dissi, ma dopo mi ordinò un rimedio per il sistema nervoso e stabilì che partissi per una vacanza di sei mesi, cosa che feci la settimana seguente. Quella notte fatale ero agitato e turbato, perché, nonostante le ottime cure che aveva ricevuto, Joe Slater era evidentemente sul punto di morire. Forse gli mancava la libertà delle montagne, forse lo scompiglio nella sua mente era diventato insopportabile per un organismo altrimenti lento: comunque, nel corpo malridotto la vitalità era sempre più bassa. Verso la fine era come insonnolito e al calar della notte sprofondò in un sonno turbolento. Non gli abbottonai la camicia di forza come facevamo di solito quando dormiva, perché, anche se fosse stato assalito da un nuovo attacco prima di morire, era troppo debole per diventare pericoloso. Tuttavia sistemai le estremità della "radio" cosmica sulla sua e la mia fronte, perché speravo, contro ogni buonsenso, in un primo e ultimo messaggio dal mondo di sogno nel breve tempo che rimaneva. Nella cella era con noi un infermiere, individuo mediocre che non conosceva le funzioni dell'apparecchio e non si sognava di intromettersi nei miei esperimenti. Col passare delle ore gli vidi reclinare la testa e mi resi conto che dormiva, ma non lo disturbai. Più tardi, cullato dal respiro del moribondo e dell'uomo sano, devo essermi appisolato anch'io.
Mi svegliò il suono di una strana melodia. Un arpeggio, una serie di vibrazioni armoniche echeggiava ovunque, mentre ai miei occhi si presentava uno spettacolo di bellezza suprema. Mura, colonne e architravi di fuoco vivo splendevano intorno al punto dove io sembravo fluttuare a mezz'aria e svettavano verso un altissimo soffitto a cupola di splendore indescrivibile. Insieme a questa esibizione di magnificenza architettonica, o piuttosto in alternanza con essa, come in un caleidoscopio, si scorgevano vedute di valli incantevoli, alte montagne e grotte invitanti. Erano dotate di ogni piacevole attributo scenografico che si potesse concepire, eppure sembravano fatte di una sostanza eterea, lucente, plastica la cui essenza faceva pensare allo spirito più che alla materia. Mentre guardavo mi resi conto che il mio cervello possedeva la chiave di quelle metamorfosi incantevoli, perché ogni successiva visione era quella che la mia mente volubile più desiderava vedere. In quel paradiso io non ero uno straniero, perché ogni veduta e ogni suono mi era familiare, proprio come era stato per infiniti cicli prima di allora e come sarebbe stato per l'eternità.
Allora l'aura splendente del mio fratello di luce si avvicinò e cominciò a parlarmi, da anima ad anima, in un silenzioso ma perfetto scambio di pensieri. Era un momento di trionfo, perché non è forse vero che il mio interlocutore stava per sfuggire a un periodo di degradante e ciclica schiavitù, a sottrarvisi per sempre, in modo da poter affrontare il rivale maledetto nelle distese sconfinate dello spazio e a costringerlo a subire il marchio di una vendetta che avrebbe fatto tremare i cieli? Continuammo a fluttuare finché mi parve che gli oggetti intorno a noi cominciassero a sfocarsi e a confondersi, come se una forza mi richiamasse sulla terra: l'ultimo posto nel quale volevo andare. Anche la figura accanto a me sembrò avvertire il cambiamento, perché cercò di avviare il discorso a una conclusione e si preparò a lasciare la scena, dissolvendosi più lentamente degli altri oggetti. Scambiammo pochi altri pensieri e poi mi resi conto che l'essere ed io eravamo richiamati alle rispettive schiavitù, anche se per il mio fratello di luce era l'ultima volta. Lo spiacevole guscio corporeo che lo intrappolava era ormai logoro e in meno di un'ora il mio compagno sarebbe stato libero di inseguire il suo oppressore nella Via Lattea, superando le stelle vicine e spingendosi al limite dell'infinito.
Una sensazione di shock separa la mia ultima visione della scena di luce e il risveglio imbarazzante al capezzale del moribondo. Cercai di compormi sulla sedia e vidi che Joe Slater si muoveva lentamente. Si stava svegliando anche lui, forse per l'ultima volta. Guardando più da vicino vidi che nelle guance incavate brillavano due chiazze di colore che non c'erano mai state. Anche le labbra, strette da una forza di volontà superiore a quella di Slater, avevano una piega insolita. Il volto si fece più teso e la testa cominciò a muoversi inquieta, con gli occhi chiusi. Non svegliai l'infermiere addormentato, ma sistemai le piastre della mia "radio telepatica" che si erano leggermente spostate: volevo cogliere un eventuale messaggio d'addio del sognatore. All'improvviso la testa si voltò rapidamente verso di me e gli occhi si aprirono, obbligandomi a fissare sbalordito ciò che vedevo. L'uomo che avevo conosciuto come Joe Slater, il bruto dei monti Catskill, mi guardava con un paio d'occhi luminosi e immensi, il cui azzurro sembrava essersi approfondito. Non c'erano né follia né degenerazione in quello sguardo, e mi resi conto oltre ogni dubbio che dietro quel volto si nascondeva una mente attiva di prim'ordine.
Poi il mio cervello prese coscienza di una graduale influenza esterna esercitata su di esso. Chiusi gli occhi per concentrare i miei pensieri più profondamente e fui premiato dalla certezza che il tanto atteso messaggio mentale era finalmente giunto. Ogni idea trasmessa dal sognatore si replicò nella mia mente, e sebbene non venissero usate parole il mio abituale sistema di concatenazione fra concetti ed espressioni era così radicato che mi sembrò di sentire il tutto in inglese.
«Joe Slater è morto» disse la voce o intelligenza che pietrificava l'anima, e che veniva da oltre il muro del sonno. Cercai con lo sguardo la branda del disgraziato, aspettandomi di vedere qualcosa di orribile, ma gli occhi azzurri mi guardavano con la stessa calma di prima ed erano animati d'intelligenza. «Ed è meglio così, perché non era fatto per sopportare l'intelletto attivo di una personalità cosmica. Il suo corpo grossolano non poteva sottoporsi all'adattamento che è richiesto per conciliare vita eterea e vita planetaria. Era in gran parte un animale, in misura troppo piccola un uomo. Eppure, è proprio grazie alle sue deficienze se tu sei riuscito a scoprirmi, perché le anime planetarie e quelle cosmiche non dovrebbero mai incontrarsi. Slater è stato il mio tormento e la mia prigione diurna per quarantadue dei vostri anni terreni: io sono un'entità simile a quella che tu stesso sei diventato nella libertà del sonno senza sogni. Sono il tuo fratello di luce e ho volato con te sulle fulgide valli; non mi è permesso rivelare al tuo io terrestre qual è la tua vera personalità, ma siamo tutti trasvolatori dei grandi spazi e viaggiatori nel tempo. L'anno prossimo, forse, abiterò nell'Egitto che tu chiami antico o nel crudele impero di Tsan-Chan che verrà fra tremila anni. Tu e io ci siamo spinti sui mondi che girano intorno alla rossa Arturo e abbiamo abitato nei corpi degli insetti filosofi che strisciano orgogliosamente sulla quarta luna di Giove. Quanto poco conosce l'io terreno della vita e della sua estensione! Quanto poco, in verità, è bene che conosca per conservare la pace! Del mio rivale non posso parlarti, ma sulla Terra ne avete intuito l'esistenza: infatti, con inaudita leggerezza, avete dato al suo simbolo il nome di Algol, la stella-demonio. È per affrontare e sconfiggere l'oppressore che ho combattuto invano nei millenni, sempre frenato da gabbie corporee. Stanotte partirò come la Nemesi, portando con me il cataclisma della vendetta. Guardami nel cielo, vicino alla Stella-demonio. Non posso dirti altro: il corpo di Joe Slater diventa freddo e rigido e il suo rozzo intelletto sta per spegnersi, come io voglio. Tu sei stato mio amico nel cosmo e l'unico che mi sia stato vicino su questo pianeta; il solo che abbia sentito la mia presenza e mi abbia cercato nel corpo ripugnante che adesso giace sulla branda. Ci incontreremo di nuovo, forse nelle nebbie splendenti della Spada di Orione o su un altopiano deserto dell'Asia preistorica; forse in un sogno di questa notte che non riuscirai a ricordare o in una forma completamente diversa, fra un intero ciclo cosmico. E per allora, magari, il sistema solare sarà stato cancellato.»
A questo punto le emanazioni mentali cessarono e gli occhi pallidi del sognatore (o dovrei dire del morto?) si velarono di una pellicola trasparente. Ancora stupito mi chinai sulla branda e gli tastai il polso, ma era freddo, rigido e senza battiti. Le guance incavate erano impallidite di nuovo e le labbra si erano aperte, rivelando gli orribili denti guasti del degenerato Joe Slater. Rabbrividii, gli tirai la coperta sul volto e svegliai l'infermiere; poi abbandonai la cella e tornai silenziosamente in camera mia. Avevo un grande, inspiegabile desiderio di dormire e di fare sogni che non avrei dovuto ricordare.
Il culmine della storia? Ma quale racconto scientifico può vantare un effetto simile? Mi sono limitato a trascrivere una serie di avvenimenti che ai miei occhi hanno il valore di fatti, e che ognuno può costruire nel modo che crede. Come ho già ammesso il mio superiore, il vecchio dottor Fenton, nega la realtà di quello che ho raccontato e giura che è tutta colpa dell'esaurimento nervoso: per questo, generosamente, mi ha concesso una lunga vacanza pagata. Mi assicura sul suo onore professionale che Joe Slater era soltanto un paranoico di basso livello, le cui fantastiche storie devono essere derivate dai racconti popolari che circolano anche nelle comunità più imbarbarite. Tutto questo mi dice... eppure, non posso dimenticare quello che vidi nel cielo la notte dopo che Slater morì. E perché non pensiate che la mia sia una testimonianza viziata, lascerò che sia un'altra penna ad aggiungere l'ultimo tassello, quello che forse costituirà il tanto atteso "climax" della storia. Citerò un resoconto dell'avvistamento di Nova Persei dalle pagine di un'eminente autorità, il professor Garrett P. Serviss:"Il 22 febbraio 1901 una nuova e meravigliosa stella è stata scoperta dal dottor Anderson di Edimburgo a non molta distanza da Algol. In quella regione non si conoscevano altre stelle, ma nel giro di ventiquattr'ore la sconosciuta era diventata così brillante da offuscare Capella. In una settimana o due era visibilmente sbiadita e, nel corso di qualche mese, la si riconosceva a stento a occhio nudo".
(Beyond the Wall of Sleep,
1919)