domenica 23 gennaio 2022

LA PANDEMIA E I FILOSOFI di Giovanni Boniolo



 LA PANDEMIA E I FILOSOFI

Giovanni Boniolo
Non sanno nulla del campo in cui oracolano, ma lo fanno senza paura di scadere nel patetico e nel ridicolo. Preferiscono autarchici orgasmi e autarchiche celebrazioni
Ci sono molti tipi di filosofi, anzi di uomini e donne che si occupano o che dicono di occuparsi di filosofia. Ci sono, almeno, i divulgatori della filosofia, i comunicatori della filosofia, gli insegnati di filosofia (sia liceali che universitari), gli storici della filosofia e chi propone teoria filosofica. Non è sempre chiara la linea di demarcazione fra le varie classi, peraltro tutte lodevoli, anche se uno sforzo analitico in tal senso potrebbe essere fatto.
Tuttavia, sembra che nessuno lo voglia fare, anche per timore di offendere chi del glorioso termine “filosofo” si vuol fregiare, magari mettendolo pure nella propria Carta d’Identità nella casella “Professione”. Va da sé, però, che, se si volesse essere proprio precisi, una qualche differenza ci sarebbe fra le caratteristiche individualizzanti le classi menzionate. Ma lasciamo stare; occorrerebbe fare un discorso serio e qui nei nostri lidi non molti sarebbero disposti a farlo, volendosi tutti qualificare, e soprattutto essere qualificati, come “filosofi”.
Lasciamo anche da parte la classe, non indicata sopra, formata da tutte coloro e da tutti coloro che si pensano in grado di parlare di filosofia in quanto appartenenti alla specie Homo sapiens e dotati di un apparato vocale funzionante. Per questi, per far filosofia, non serve studiare. Per questi, bastano loro stessi, non accorgendosi dell’effetto Dunning-Kruger, ossia della distorsione cognitiva che affligge quegli uomini e donne che pur non essendo preparati in un certo campo si autovalutano erroneamente esperti e competenti e vogliono intervenire, cosa che fanno quasi sempre in modo supponente, arrogante e magari criticando ferocemente e con astio chi in realtà esperto lo è.
Peccato che il campo del sapere filosofico necessiti di studio storico (quasi ogni problema filosofico ha una storia, talvolta lunga millenni), di padronanza di tecniche (esiste, anche se alcuni lo vorrebbe negare, un vasto assortimento di tecniche filosofiche codificate nel corso dei secoli), di sapere extrafilosofico (se il problema ha radici fuori dalla filosofia), di un necessario confronto con la comunità filosofica internazionale che si occupa di quel problema (che molti temono, per paura di perdere il ruolo di mejor pensador en la plaza, peraltro costituita da studenti, amanti e fan vari). Ma lasciamo da parte pure tali spinose questioni.
Mi voglio, invece, soffermare su un’altra tipologia di “filosofi”, ossia i filosofi del parlare a vanvera. Ci sono i filosofi della musica, i filosofi della religione, della scienza, dell’arte ecc. E quelli onesti, oltre a conoscere le tecniche filosofiche, conoscono anche l’ambito del sapere di cui si occupano: conoscono la musica, la religione, la scienza, l’arte ecc. E quelli onesti sanno che c’è una storia con cui fare i conti, ci sono delle tecniche filosofiche che si possono o si devono usare, c’è una comunità internazionale con cui confrontarsi. Ma ci sono i “filosofi del parlare a vanvera”. Non sanno nulla del campo in cui oracolano, ma oracolano senza paura di scadere nel patetico e nel ridicolo. Non vogliono confrontarsi con la comunità internazionale che snobbano altezzosamente in nome di una italianità incomprensibile. Preferiscono autarchici orgasmi e autarchiche celebrazioni.
Questi stanno vivendo alla grande in questi tristi tempi di pandemia, ma – ahinoi –  con conseguenze dannose. Piccole orde di “filosofi del parlare a vanvera” hanno occupato i mass media discettando e sputacchiando su scienza, virus, epidemiologia, sperimentazione biomedica ecc. Non sanno nulla di quello di cui stanno parlando. Ma parlano, forse memori e ammiratori di quel Guido Anselmi che, in 81/2 di Fellini, sentenzia “Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso”.
Mi è capitato, a questo proposito, di tenere una conferenza sulla liceità morale dell’uso delle cellule staminali embrionali umane con un filosofo/teologo del parlare a vanvera che va per la maggiore. Al mio chiedergli, prima di iniziare, se volesse lui spiegare che cosa fossero, candidamente mi rispose: “Non ho la più pallida idea di che cosa siano, ma non ti preoccupare”. E lo sventurato parlò, e fra gli applausi degli imboniti presenti! E parlò – ahinoi - della non liceità morale dell’uso di tali cellule. E quanti come lui parlano di sperimentazione e non sanno la differenza fra un trial clinico in fase 1 e in fase 3 o 4? Quanti parlano di virus e non sanno la differenza fra questi e un batterio? Ma, soprattutto, quanti parlano di scienza e non hanno la minima idea di che cosa sia, se non per averla vista menzionata in una qualche opera di Foucault (sto pensando a Michel e non a Leon) o di Heidegger (che bisogna sempre citare)?
Eppure, basterebbe che studiassero un pochettino per sapere che mai la scienza ha fornito verità, ma teorie e modelli congetturali, controllati e controllabili (sia per via teorica che sperimentale). Basterebbe fossero un po’ meno desiderosi di dire stupidaggini e scoprirebbero che la scienza è il miglior sapere che noi abbiamo sul corpo umano, su come funziona e su come curarlo. Basterebbe che studiassero un pochettino per capire che mai è stato fatto uno sforzo così grande e congiunto per creare vaccini sicuri ed efficaci in così breve tempo. Certo, la loro sicurezza ed efficacia non è al 100%, ma ogni sapere scientifico, ogni risultato biomedico e ogni atto medico non sono mai stati contraddistinti da verità e certezza.
Basterebbe che studiassero un pochettino per capire che la scienza è il miglior modo per creare rappresentazioni probabilistiche di situazioni (come la pandemia) caratterizzate dall’incertezza. Tuttavia, la probabilità è una cosa difficile da studiare, meglio leggere o scrivere qualche pagina biofilosoficamente senza capo né coda con oracolanti e apocalittiche affermazioni sul dominio della scienza e della tecnica. Basterebbe che studiassero e capirebbero che non è la stessa cosa essere pro-vax e no-vax.
Studiare? E a che serve se già il parlare a vanvera gratifica l’ego e aumenta le entrate?
I filosofi del parlare a vanvera, esattamente come quelli dell’ultima classe menzionata sopra, sembrerebbero anch’essi afflitti dall’effetto Dunning-Kruger. Ma parrebbero afflitti anche da un secondo bias cognitivo, quello dell’illusione di superiorità dal momento che sovrastimano le loro capacità mentali e il loro sapere. E pure da un terzo bias cognitivo: quello dell’eccessiva sicurezza (direi presunzione) di pensare che ciò che dicono è sicuramente più importante e più corretto di quello che dicono altri, che magari sono esperti in quel campo avendovi lavorato creativamente e studiato per anni.
Abbiamo una grande presenza nei mass media in questi mesi pandemici – ahinoi – di tali filosofi del parlare a vanvera di scienza e medicina.
E fanno danni! Fanno danni a coloro che sono epistemicamente fragili, ossia a coloro che non hanno l’informazione sufficiente e la capacità di ragionare correttamente per non farsi abbindolare da questi parlatori a vanvera. Fanno danni anche alla filosofia stessa, che viene così ridicolizzata dal loro parlare di cose di cui non sanno.
Una terna di commentini prima di chiudere con una noterella storica.
Primo. Forse si dovrebbe capire che i filosofi del parlare a vanvera non rappresentano la filosofia, ma esemplificano solo come patologie dell’ego possano manifestarsi.
Secondo. Come nei pacchetti di sigarette vi è l’iscrizione che nuocciono gravemente alla salute, così quando parlano o scrivono i filosofi del parlare a vanvera forse sarebbe il caso che vi fossero delle avvertenze analoghe: “sta parlando vanvera, sta dicendo stupidaggini che, se credute, potrebbero causare danni”.
Terzo. Alcuni, sebbene non condividano le posizioni di questi filosofi del parlare a vanvera, si meravigliano come tali pensatori di “chiara fama” dicano, a proposito della pandemia, così tante stupidaggini rispetto ai “pensieri profondi e rilevanti” enunciati in altri scritti. A questi chiedo: ma è proprio vero che i signori e le signore del “a vanvera” abbiano una “chiara fama” o sono solo mostri italiani del tutto ignoti al di sopra le Alpi e al di sotto il Canale di Sicilia? Ma è vero che ora dicono stupidaggini socialmente dannose mentre prima cose importanti, oppure si dà il caso che abbiano sempre detto e scritto stupidaggini, che però allora erano irrilevanti socialmente?
La noterella storica. Una volta, siamo nella seconda metà del XIII secolo, Nicolaus Gallicus fu nominato priore dei Carmelitani: uno degli ordini mendicanti assieme ai Domenicani, Francescani, Agostiniani e Serviti. Quando si trovò a governare i confratelli e avendo ben chiara la loro propensione per la mancanza di studio, decise di scrivere una lettera, la Ignea sagitta. Con questa voleva esortarli a cambiare abitudini. Soprattutto li pregava di non insegnare cose che non conoscevano e di non parlare di ciò di cui erano ignoranti. La sua preoccupazione era data dal fatto, come scrive esplicitamente, che molti dei suoi confratelli, sebbene non capissero e non conoscessero quello che volevano trattare, lo sostenevano in pubblico in modo così forte che pareva “avessero digerito tutta la teologia nello stomaco della loro memoria”. Insomma, Nicolaus chiedeva loro un po’ più di umiltà e di studio, specie se desiderassero un ruolo pubblico.
Sfortunatamente, i suoi sforzi non ebbero un gran successo tanto che abbandonò l’impresa, conscio che certi campi di battaglia conviene lasciarli piuttosto che lottarvi sino a inutile e totale esaurimento. Dobbiamo capacitarcene anche noi con i filosofi del parlare a vanvera o possiamo sperare che prima o poi abbiano a tacersi per naturale estinzione?