mercoledì 19 gennaio 2022

LE CAMPANE DI BICÊTRE Georges Simenon


LE CAMPANE DI BICÊTRE

Georges Simenon

Ed. Adelphi 

Recensione 

Di Michele Fazioli (2016)

Affascinato dal commissario Maigret, dalla sua umanità rassicurante e dalle luci, gli odori, le piogge di Parigi, so bene che Simenon è anche altro, e molto altro. Prolifico in modo straordinario (centinaia di romanzi e racconti), aveva la scrittura nelle vene, metteva giù parole di storie come uno respira, usando un vocabolario asciutto, mai estetizzante. E fu, ed è, un grande. Adelphi sta felicemente ristampando da alcuni anni tutto Simenon (Maigret e non Maigret) ed ecco ora (proprio nel ventennale della scomparsa dello scrittore) questo romanzo di intimistico scavo esistenziale, un ennesimo scandaglio dell’animo umano ovunque esso si trovi ad affrontare la realtà. E’ la storia di un paio di settimane d’ospedale di un celebre giornalista parigino colpito un giorno, nel bel mezzo del successo, da una emiplagia. Tutto il romanzo si svolge nella camera privata d’ospedale dove l’illustre malato viene a poco a poco e faticosamente recuperato all’uso di parola e di gesti. Ma l’essere stato scaraventato in un attimo di là dalla consueta vita concitata rivela di colpo la caducità, l’ipocrisia, la relatività di tutto il precedente scintillìo di carriere, amori, labili rapporti. Tra lontani e decisivi ricordi d’infanzia e giovinezza (pochissimi lampi di felicità, segrete ferite interiori) e di donne desiderate, deludenti o deluse, René si trova a tu per tu con la domanda di fondo ”a che scopo?”. Il medico celebre e amico , la moglie inquieta che beve troppo, gli echi lontani del giornale e del giro sociale, tutto appare a René come separato, non importante. Prende le distanze in modo nuovo e nemmeno tanto doloroso da tutto e la realtà la percepisce piuttosto nella fisicità vicina delle due infermiere che si alternano ad accudirlo (una bella , intuitivamente comprensiva, misteriosa, l’altra un po’ più rozza ma più sensuale e desiderabile). Visto dalla malattia, il mondo è rovesciato. La realtà appare risibile e persino meschina: si salva, dell’esterno, il suono ricorrente delle campane del sobborgo parigino di Bicêtre, anelli sonori e concentrici che si allargano e riportano memorie, risonanze. E, forse, la dimensione di un mistero insondabile. Guarendo, René tornerà forse ai consueti inganni, ma comunque mutato, come avvertito… Notevole e rivelatrice la frase messa da Simenon in epigrafe del romanzo “A tutti coloro che –medici e infermieri- negli ospedali e non solo, cercano di comprendere e di soccorrere l’essere più sconcertante al mondo, l’uomo ammalato”

 

LE CAMPANE DI BICÊTRE

1

 

Le otto di sera. Per milioni di uomini, ciascuno nella sua casa, nel piccolo mondo che si è creato o di cui è ostaggio, sta volgendo al termine, fredda e nebbiosa, una precisa giornata, quella di mercoledì 3 febbraio.

Per René Maugras non c’è né ora né giorno, e solo più tardi la questione del tempo trascorso lo assillerà. Per il momento è ancora in fondo a una voragine scura come gli abissi dell’oceano, privo di contatti con il mondo esterno. Eppure, senza che ne sia cosciente, il suo braccio destro comincia ad agitarsi in modo spasmodico mentre la guancia si gonfia comicamente ogni volta che, respirando, butta fuori l’aria.

Il primo segnale che gli arriva dal di fuori ha la forma di anelli, anelli sonori che si allargano via via e formano onde sempre più lontane. A occhi chiusi, cerca di seguirle, di capire, e allora succede una cosa di cui non oserà mai parlare con nessuno: riconosce quelle onde e ha voglia di sorridere loro.

Quando era bambino, gli piaceva ascoltare le campane della chiesa di Saint-Étienne e, indicando con grande serietà l’azzurro del cielo, diceva:

«I nanelli!...».

Glielo ha raccontato sua madre poco prima di morire. Lui non sapeva ancora pronunciare la parola anelli che, nella sua bocca, diventava «nanelli» e indicava così le campane per via dei cerchi concentrici che esse lanciano nello spazio.

Anche qui ci sono delle campane. Lui non cerca di contarne i rintocchi perché è troppo intorpidito. E neppure quel torpore gli è sconosciuto. Lo ha già vissuto, e per un certo tempo le cose gli si confondono in testa. Forse è ancora il ragazzino di otto anni che è stato portato d’urgenza dalla scuola all’ospedale di Fécamp e al quale, mentre si dibatteva urlando, hanno messo una maschera sul viso per operarlo di appendicite...

C’era stato un buco, poi, molto più tardi, uno strano sapore in bocca, una spossatezza di tutto il corpo, e infine, mentre cominciava a tornare a galla, gli anelli sonori delle campane familiari.

Gli viene da sorridere, adesso, perché l’idea che gli passa per la mente gli sembra buffa e, pur non credendoci davvero, non si rassegna a scartarla del tutto. Ma non è proprio il ragazzino di Fécamp che si sta svegliando in una camera d’ospedale e poserà il suo primo sguardo su una grossa infermiera bionda e rosea che sta lavorando a maglia? Se fosse così, tutto il resto sarebbe stato un sogno. Avrebbe sognato, sotto anestesia, quasi cinquant’anni di vita.

Naturalmente, non è così. Sa che non è vero, sa di essere un uomo di cinquantaquattro anni e di aver lasciato da un pezzo il piccolo appartamento di rue d’Étretat. Per alcuni minuti o secondi, più probabilmente secondi, la confusione c’è comunque stata e, nonostante tutto, lui vorrebbe controllare. Per far questo, gli basta aprire gli occhi, ed ecco che si verifica uno strano fenomeno, per niente tragico, quasi comico, anzi: fa quel che si deve fare per sollevare le palpebre, quello che si fa di solito, ovvero trasmettere un ordine del cervello a certi nervi. Ma le palpebre rimangono immobili.

Non sente dolore. Il suo annichilimento è anzi alquanto piacevole, un po’ come se non fosse più nessuno. Non ha più problemi, né responsabilità. Una sola ragione lo spinge a proseguire nello sforzo: ha bisogno di essere sicuro, assolutamente sicuro, che al suo capezzale non ci sia la grossa infermiera bionda e rosea che lavora a maglia.

Chissà se da fuori si vede quello che sta succedendo dentro di lui... Gli anelli sonori si sono persi nell’aria, in lontananza, e anche il rumore che ora coglie gli ricorda qualcosa. Ma è troppo stanco per chiedersi che cosa sia. C’è stato lo scricchiolio di una sedia, come quando qualcuno si alza precipitosamente, e lui dev’essere riuscito ad aprire le palpebre poiché vede, vicinissimo a lui, un camice bianco, un volto giovane e ciocche di capelli scuri che sfuggono da una cuffia da infermiera.

Non è la sua, e Maugras torna a chiudere gli occhi, deluso. È davvero troppo stanco per far domande e preferisce lasciarsi scivolare in fondo al suo buco.

Chissà se sarà capace, più avanti, fra qualche ora o fra qualche giorno, di distinguere fra ciò che ha realmente percepito durante il coma e ciò che gli hanno raccontato in seguito... Se esiste davvero un telefono nel corridoio, di fianco alla sua camera, per esempio, e se davvero sente una voce di donna che dice:

«Il professor Besson d’Argoulet?... Non è in casa?... Sa per favore dove trovarlo?... Ha raccomandato di avvertirlo non appena...».

Domani verrà a sapere che sì, vicino alla porta della sua stanza, c’è effettivamente un telefono a muro, di modello antiquato. Tutto questo non ha ancora un senso e, quando ne assumerà uno, riguarderà solo lui.

Alle nove e mezzo continua a non sapere che sono le nove e mezzo e il suo risveglio è più brutale, più drammatico, come dopo un incubo, come se avesse sognato che doveva aggrapparsi a ogni costo a qualcosa di solido. Solo che le forze lo hanno abbandonato. Le sue membra si agitano a vuoto, in modo sconnesso, senza che lui possa controllarle. Allora vuole gridare, chiamare aiuto. Apre la bocca. È quasi sicuro di spalancare la bocca, ma non ne esce alcun suono.

Deve assolutamente vedere ciò che ha intorno. Il suo corpo è coperto di sudore, la fronte è madida, eppure ha freddo, trema tutto senza riuscire a dominarsi.

«Non preoccuparti... Va tutto bene... Va tutto benissimo...».

Quella voce la conosce. Cerca di identificarla con precisione e improvvisamente vede, tutto in una volta, non solo un viso e una cuffia bianca, ma anche una camera sconosciuta, dalle pareti verdastre.

In piedi, accanto al letto, Besson d’Argoulet - che lui chiama Pierre, perché sono amici da trent’anni -offre uno spettacolo quasi comico: sotto il camice sbottonato indossa un gilè e la cravatta bianca del frac.

«Sta’ tranquillo, ragazzo mio... Va tutto bene...».

Va tutto bene per il professore, ovvio, che continua distrattamente a sentirgli il polso. Non è lui a star disteso in quello che ha tutta l’aria di essere un letto attorno al quale l’infermiera bruna si dà da fare. Non si è sbagliato poco fa. Deve aver ripreso conoscenza per qualche istante, visto che la riconosce.

«Non hai niente di grave, René... Tutti gli esami lo confermano... Faremo altri accertamenti, qualche piccola seccatura ancora, ma è indispensabile... Da un momento all’altro dovrebbe arrivare Audoire...».

Chi è Audoire? Un nome che dovrebbe essergli noto: non conosce forse tutti, a Parigi? L’infermiera ha posato su un vassoio una siringa con un ago molto lungo e molto spesso; tende ansiosamente l’orecchio ai rumori del corridoio continuando a tenere d’occhio Maugras, e quando si sente una porta aprirsi e richiudersi, si precipita.

«Prima di tutto non meravigliarti se...».

Infatti si meraviglia, perché ha appena aperto la bocca. Non per lamentarsi, né per fare domande. In realtà, aveva intenzione di dire, osservando lo sparato e la cravatta bianca:

«Mi dispiace, vecchio mio, di rovinarti la serata...».

Ma non ha emesso alcun suono. Non ha più voce. Niente! Neanche un rantolo. Giusto una sorta di sibilo, o meglio di gloglottìo, dato che la guancia gli si gonfia e gli si sgonfia in modo grottesco. Sembra un bambino che cerchi di fumare la pipa.

«... Starai probabilmente qualche giorno senza poter parlare...».

Bisbigli nel corridoio. Lui è vigile, i sensi ben desti, quanto meno alcuni, poiché percepisce un odore di sigaretta.

«Ti fidi di me, vero?... Sai bene che non ti mentirei mai...».

Perché fargli la domanda, dal momento che lui non può rispondere? Direbbe sì di buon grado per far piacere all’amico Pierre. Un sì senza convinzione. Un sì educato, apatico, perché non gli importa di niente e preferirebbe rituffarsi nel suo buco, e magari ritrovare i cerchi sonori delle campane.

No! Non lo conosce, questo Audoire. Non lo ha mai incontrato. Lo saprebbe, perché è un buon fisionomista e sa dare un nome, senza esitare, a persone che ha visto anni prima solo per qualche minuto. Indossa un camice bianco e ha in testa una calottina rotonda, quindi è un medico. Il volto non esprime niente. Di rado Maugras ha visto un volto così sereno, così inespressivo, così banale anche, e gesti così automatici.

I due medici si stringono la mano e si guardano senza dire nulla, come se non avessero bisogno di parlare per comprendersi o come se avessero già ripetuto quella scena. Poi Audoire, ai piedi del letto, si rivolge a René.

«Vedo che è calmo... Molto bene... Le infliggeremo ancora qualche piccola seccatura, e poi potrà dormire in pace...».

Dunque si rivolgono a lui come a un essere umano, e la cosa quasi lo stupisce. È anche vero che, contemporaneamente, lo trattano come un oggetto. La giovane infermiera abbassa il lenzuolo che lo copre e lui è molto imbarazzato nel constatare che ha le cosce nude e un pappagallo tra le gambe come un vecchio incontinente.

La donna gli tiene fermo, saldamente, un ginocchio che comincia a muoversi per conto suo e il professor Audoire prende una siringa dal vassoio, non quella grossa dall’ago lungo, ma una più piccola, e gliela conficca nella natica. Lui non sente niente. Gli piacerebbe dir loro anche questo. Non che si preoccupi. Al contrario, non è mai stato così indifferente in vita sua e li fissa, tutti e tre, come se il loro comportamento non lo riguardasse affatto.

È successo qualcosa di cui non conserva alcun ricordo. Non rammenta neppure dove, né quando, la cosa si sia verificata. Aggrotta la fronte, o crede di farlo, non è più sicuro di niente, ora che la sua bocca è muta e le membra non gli obbediscono più.

I due uomini in bianco aspettano, in piedi, e lo osservano; l’infermiera continua a tenergli ferma la gamba, con gli occhi puntati sull’orologio da polso.

Poco importa di cosa si è trattato. Doveva accadere. Ha sempre saputo che sarebbe successo, tanto è vero che si sente sollevato. Adesso è tutto finito. Non deve occuparsene più. Hanno torto, gli altri, a farsi cattivo sangue per lui.

Probabilmente aspettano tutti e tre che si addormenti. Perché? Per operarlo? Non gli fa male niente, ma c’è senz’altro qualcosa che non funziona.

«Ti senti bene?».

Maugras si sforza di mettere un po’ di allegria nello sguardo per ringraziare Besson d’Argoulet, l’infermiera, e anche quello che chiamano Audoire e che trattano con grande deferenza. Un barone, come Besson, forse più illustre di Besson. In che cosa è specialista? Lui ne conosce molti, di luminari della medicina. Cerca di ricordare, per pura curiosità, poi i pensieri si fanno sfocati e gli sembra di risentire in lontananza i cerchi sonori delle campane.

L’ultima immagine è quella dei due uomini che si scambiano un’occhiata come a dire:

«Ci siamo...».

 

 

No, non è morto e c’è un bel sole nella camera in cui Besson d’Argoulet, seduto al posto dell’infermiera, sta fumando una sigaretta. Il professore non è più in frac e non ha infilato il camice bianco. A sessant’anni, è un gran bell’uomo, cortese, raffinato, che veste con gusto squisito.

«Come ti senti?... Aspetta, non sforzarti di parlare... Non agitarti... Vedo, dal tuo sguardo, che hai retto molto bene allo shock».

Quale shock? E perché l’amico Pierre si crede in dovere di adottare il tono mellifluo che riserva ai suoi pazienti?

«Immagino che non ricordi niente...».

È tentato di rispondere:

«Sì, invece!».

Perché a un tratto si ricorda del Grand Véfour, del privé all’ammezzato, sopra la scala a chiocciola, dove all’inizio in tredici, una decina poi per via di quelli che sono passati a miglior vita, si riuniscono a pranzo il primo martedì di ogni mese.

Quanto tempo è passato? Per quel che lo riguarda, potrebbe essere un giorno o una settimana. Non c’era il sole, come questa mattina, perché capisce, dalla qualità della luce, da una sorta di debolezza del sole, che è mattina. Non si preoccupa ancora dell’ora esatta, ma ci sono delle donne che spazzano e spostano dei secchi in prossimità della sua camera.

Erano tutti riuniti al Grand Véfour, e dalla finestra a mezzaluna potevano vedere, sotto una pioggia minuta, il cortile e i portici del Palais-Royal. Besson era seduto di fronte a lui e c’erano quasi tutti, l’avvocato Clabaud, l’accademico Julien Marelle, il cui ultimo lavoro andava in scena in quei giorni proprio nel teatro dirimpetto, Couffé, accademico pure lui, Chabut...

... Potrebbe elencarli uno per uno, collocarli ciascuno nel posto che occupava allora, e rivede Victor, il sommelier che li serve da più di vent’anni, passare intorno al tavolo con un magnum di armagnac.

Si è alzato per andare a telefonare al giornale. Il telefono si trova fra le toilette delle donne e quelle degli uomini. Si è messo in comunicazione con Fernand Colère, il suo caporedattore che, nonostante il nome, è mite come un vitello.

Quando si allontana dal giornale, anche solo per un’ora, prova sempre il bisogno di telefonare e dà istruzioni precise con voce tagliente e un tono un po’ aspro.

«No! Non cambiare niente in prima pagina... Fa’ saltare la terza colonna di pagina tre... Rispondi agli Interni che non possiamo farci niente e non è possibile passare l’incidente sotto silenzio...».

Adesso, continuando a fumare, Besson d’Argoulet si crede in dovere di spiegargli:

«Eravamo tutti a tavola, al Grand Véfour... Sei uscito per telefonare mentre venivano serviti i liquori... Poi sei entrato nelle toilette dove devi aver avuto un malore perché, quando Clabaud, dieci minuti o un quarto d’ora dopo, ci è andato a sua volta, ti ha trovato privo di sensi...».

Perché tutti quei giri di parole, quell’eloquio condiscendente? Lo trattano come un bambino, o come un malato grave, sì, ecco, come un malato grave, quale è in effetti.

Su un punto il professore si sbaglia, pur essendo così sicuro di sé. E anche questo è strano, così strano che, anche se potesse parlare, Maugras non ne farebbe cenno.

È vero che dopo aver riattaccato la cornetta ha aperto la porta delle toilette. Si è messo in piedi davanti all’orinatoio, nella posa un po’ ridicola ma comune a tutti gli uomini. Pensava a Colère e a come si sarebbe mosso il ministero degli Interni quando, senza alcun segno premonitore, aveva barcollato.

Ricorda un particolare alquanto sordido. Prima di crollare si è aggrappato con entrambe le mani, e con tutta la sua forza, allo smalto vischioso dell’orinatoio.

Come ha detto Besson?

«Quando Clabaud ci è andato a sua volta, dieci minuti o un quarto d’ora dopo, ti ha trovato privo di sensi...».

Parole che non precisano in alcun modo in che posa si trovasse. Lui, invece, si vede, disteso di traverso sulle piastrelle di quello spazio angusto, mentre cerca disperatamente, non di rialzarsi, non di chiamare aiuto, ma di abbottonarsi i pantaloni.

Il vero mistero è il fatto che lui si vede realmente come avrebbe potuto vederlo qualcun altro, si vede dal di fuori come deve averlo visto Clabaud quando lo ha trovato. È possibile un simile sdoppiamento?

«Non ti nascondo che in un primo momento ci hai fatto spaventare...».

 

 

È lucido e persino, gli sembra, di una lucidità più acuta che nella vita normale. Capta automaticamente quello che gli succede intorno, le inflessioni di voce del medico, le sue esitazioni e addirittura la forma insolita dei suoi gemelli che raffigurano una lettera greca, non sa quale, perché ha studiato il greco solo per pochi mesi. Mentre li osserva, si chiede se Besson d’Argoulet non sia più a disagio di lui e se, qualunque cosa sostenga, non sia tuttora altrettanto preoccupato che nelle toilette del Grand Véfour.

Certo, Maugras non può parlare e metà del suo corpo è paralizzata. Anche questo lo ha scoperto da solo. Chissà se l’amico si aspettava la sua reazione, o meglio la sua assenza di reazione, la sua calma che rasenta l’indifferenza...

Non rasenta, è realmente indifferenza, come se ciò che avviene in quella modesta cameretta non lo riguardasse, non più di quanto lo riguarda ormai il suo corpo, e non mostra alcuna sorpresa scorgendo un ago conficcato nel suo braccio e un tubo di gomma collegato a un flacone di vetro pieno a metà di un liquido trasparente.

La sua occhiata non è sfuggita al medico che si affretta a spiegare:

«È glucosio. Finché non sarai in grado di alimentarti normalmente (e questo avverrà domani o dopodomani), bisogna evitare che tu ti indebolisca...».

Probabilmente Besson usa quella voce suadente con tutti i pazienti colpiti da malanni gravi. Finora Maugras lo ha consultato solo per piccole indisposizioni e per un check-up annuale, e in quella nuova veste l’amico gli è sconosciuto.

Si direbbe che Besson si sforzi di indovinare gli interrogativi che lui si pone e cerchi di rispondervi in anticipo.

«Ti starai domandando perché ti trovi qui e non nella clinica di Auteuil...».

A Auteuil Besson l’aveva mandato una volta, quattro o cinque anni prima, per una serie di esami a seguito di un esaurimento nervoso. Come al solito, aveva lavorato troppo, si era affaticato in tutti i modi possibili e immaginabili.

«E proprio a Auteuil, figurati, ti ho fatto portare in un primo momento, anzi ti ci ho accompagnato personalmente con l’ambulanza... Ti hanno dato l’appartamento dove eri stato l’altra volta e tua moglie è arrivata subito... Non stare in pensiero per lei... Le ho fatto capire che non corri alcun pericolo... È stata in gamba... Le telefono diverse volte al giorno e lei aspetta solo che le faccia sapere quando potrà venire a trovarti...

«Non sforzarti di parlare... So che è la cosa più sgradevole, la più demoralizzante, ma ti assicuro che, nel tuo caso, si tratta di una afasia passeggera...».

«Doveva succedere». Mentre l’amico parla, René si ripete quelle due parole, assolutamente tranquillo, come se non esprimessero che una banale constatazione.

Perché doveva succedere? Non se lo chiede neppure. Trova persino che sia divertente. Forse che anche le parole assumono un significato diverso? A meno che la sua mente pigra non le confonda... Anziché divertente, per esempio, potrebbe anche dire alleviante, ma non è nemmeno sicuro che quel termine esista. È quasi un gioco che lui fa all’insaputa di tutti mentre sembra ascoltare le parole di Besson.

Da molto tempo, forse da sempre, si aspetta una catastrofe, e negli ultimi mesi la sentiva così imminente che a volte non vedeva l’ora che accadesse.

Besson d’Argoulet ci gira un po’ intorno perché in fondo ha paura delle sillabe che dovrà pur decidersi a pronunciare: e-mi-ple-gi-a.

«Lascia che ti dica in due parole come mai non sei più a Auteuil. Non appena ho diagnosticato una probabile trombosi dell’arteria cerebrale media, ho chiamato il collega Audoire, professore di neurologia e primario qui a Bicêtre... Sicuramente lo conosci di fama, ed è lui che hai visto ieri sera e che ti ha poi fatto una puntura lombare... Audoire ha preferito averti a portata di mano e assistito da un personale specializzato in cui ha piena fiducia... Nel suo reparto ci sono due camere private, e una delle due era libera... Ecco perché, da martedì sera, ti trovi qui...».

Poi fa finta di scherzare:

«Spero che tu non ce l’abbia con me e con Audoire per averti portato in un posto che dal nome può risultare alquanto sinistro... Tua moglie, tanto per dire, all’inizio ne è rimasta impressionata e ho dovuto spiegarle che qui starai meglio che in una clinica privata, anche se l’ambiente è meno gradevole...».

Maugras batte le palpebre, senza un motivo, un semplice battito di palpebre meccanico, e l’amico si domanda se non sia un segnale.

«Ti sto stancando?».

Lui si sforza, con quella sua faccia che non controlla più, di far capire che no, non è stanco, e Besson sembra cogliere il messaggio.

La porta, alla sinistra del letto, è a vetri smerigliati, o meglio attraversati da sottili scanalature che deformano le immagini, e di tanto in tanto si vedono passare ombre che procedono goffamente, uomini che camminano con le stampelle ma si muovono senza far rumore. È un po’ misterioso. Forse hanno pantofole con la suola di feltro...

Besson deve aver preparato il suo discorsetto perché riprende subito il filo.

«Hai sufficienti cognizioni in campo medico perché ti possa mettere al corrente delle conclusioni a cui Audoire e io siamo arrivati... Mi fido soprattutto di Audoire, che è molto più qualificato di me in questo specifico settore...

«Come tutti, sai più o meno che cos’è un’emiplegia ma, come la maggior parte delle persone, non sai che ne esistono diversi tipi, sia per quanto riguarda le cause che gli effetti, e ciascuno di essi presenta un quadro clinico ben definito, con relativa prognosi...».

Perché tante parole? Non stanno per dirgli che l’emiplegia che ha colpito lui è la più banale, la meno grave?

«Nel tuo caso, la puntura lombare ha dato una risposta categorica: non esiste alcun elemento patologico, il che significa che ci troviamo in presenza di un semplice colpo apoplettico con...».

Besson aggrotta la fronte, vagamente indispettito, si accende con calma una sigaretta.

«Mi stai ascoltando?».

Mettendocela tutta, Maugras fa segno di sì.

«Tu non mi credi. Pensi che voglia rassicurarti raccontandoti delle frottole...».

Ma no, è molto più semplice! Il punto è che lui ha superato una barriera invisibile e adesso si trova in un altro universo. Gli fa persino un effetto curioso pensare che quell’eminente personaggio, insignito della Legion d’onore, che sta seduto al suo capezzale e che perde tempo in futili spiegazioni, è suo amico e che, ovviamente, loro due si danno del tu. Vero è che anche a lui è stata conferita la Legion d’onore!

Ma c’è una differenza: uno dei due adesso è e-mi-ple-gi-co.

Come Félix Artaud, il migliore dei suoi reporter, che lui mandava in Amazzonia come in Tibet o in Groenlandia, e che aveva intervistato tutti i capi di Stato viventi - il grande Félix Artaud, infaticabile, chiassoso, capace di passare due o tre notti di seguito senza dormire e di scolarsi, senza fare una piega, un’intera bottiglia di whisky.

Artaud, come lui, aveva perso conoscenza, alle tre del mattino, in un grande albergo degli Champs-Elysées dove stava passando la notte in compagnia di una giovane americana.

Era divorziato. Non risultava che avesse familiari a Parigi, così era stato René Maugras, il suo capo, a essere avvertito nel cuore della notte da una telefonata alquanto misteriosa. Aveva aiutato il dottore dell’albergo e l’infermiera a infilare i pantaloni all’amico e aveva poi seguito con la propria macchina l’ambulanza che lo trasportava all’ospedale americano di Neuilly.

Artaud aveva solo quarantacinque anni; era un atleta, ex giocatore di rugby nonché grande attaccabrighe. Non era stato il professor Audoire a curarlo, ma un primario di cui Maugras non ricordava il nome, un piccoletto dai capelli rossi, magrissimo, che portava dei camici troppo lunghi, così che da sotto gli spuntavano solo i piedi.

Per ore e ore Artaud era stato sottoposto a tutta una serie di esami, e anche a lui era toccata, come a Maugras, la sua brava puntura lombare e poi un elettroencefalogramma.

A proposito, anche a lui ne hanno fatto uno mentre era in coma? Farebbe troppa fatica a domandarlo; ormai è alla mercé degli altri. Spetta a loro indovinare tutto.

Quando era entrato nella camera di Artaud, lo aveva trovato con un ago piantato nel braccio sinistro, collegato, come il suo, a un flacone di vetro.

Alla seconda visita, Artaud non era più in coma ma la sua guancia era percorsa da uno strano tremito, e ogni volta che tentava di parlare, riusciva soltanto a farfugliare qualcosa di incomprensibile.

Era morto il quinto giorno, all’alba, all’ora in cui di solito andava a dormire.

Maugras ne ha conosciuto un altro, Jublin, il poeta perennemente rintanato nella Brasserie Lipp, che è stato colpito da apoplessia sul marciapiede di boulevard Saint-Germain. Jublin doveva essere sulla sessantina, e per sei anni sarebbe vissuto, paralizzato, in balìa degli altri, su una sedia a rotelle.

E anche un famoso attore di cinema... D’accordo! Besson d’Argoulet, così divertente, così ironico durante i loro pranzi del martedì, gli sta confermando, pomposamente, che il suo caso è diverso e che, nel giro di poche settimane...

«... al massimo di qualche mese... Parlo, naturalmente, della guarigione completa... Sei un uomo intelligente e voglio spiegarti tutto nei particolari, perché io e Audoire abbiamo bisogno della tua collaborazione... Per adesso, tu non mi credi, lo sento... Pensi che cerchi di farti coraggio e che stia indorando la pillola... Confessalo!...».

René spalanca gli occhi per far capire che non pensa niente, che la cosa non gli interessa.

Povero Pierre! Quello è un aspetto della sua personalità al quale Maugras non ha mai pensato. Lui conosce il grande barone delle serate ufficiali, il parigino disincantato che si incontra a tutte le prime, il raffinato buongustaio dei pranzi al Grand Véfour, il letterato che, fra una relazione e l’altra all’Accademia di Medicina, si è concesso il lusso di scrivere una trilogia sulla vita intima di Flaubert, di Zola e di Maupassant.

Lo ha sentito parlare, a tavola, di certi «casi» pittoreschi e di vicende tragiche.

Chissà se un giorno racconterà anche la sua...

Ma non lo ha mai immaginato, seduto come in questo momento accanto a un letto, mentre cerca le parole, e con ostinazione si sforza di introdursi nella mente di un malato.

«Ma dài, lascia perdere!» ha voglia di dirgli.

È arrivato al volante della sua automobile, una macchina sportiva inglese. Abita in rue de Longchamp ed è sceso giù per gli Champs-Elysées nell’ora in cui la città si fa bella. Fuori l’aria è fresca. Tra poco Besson ritroverà la sua auto nel cortile dell’ospedale e, con la capote abbassata, oltrepasserà di nuovo la porte d’Italie per raggiungere i suoi allievi a Broussais, dove insegna patologia medica.

«Ti ho scovato un’infermiera privata, la signorina Blanche, che in passato ha lavorato nel mio reparto e che ti assiste da martedì sera... Puoi avere completa fiducia in lei... Un’altra infermiera, altrettanto esperta, la sostituirà durante la notte...».

E aggiunge in tono più leggero:

«Avrai certo notato che la signorina Blanche è molto carina, e questo favorisce la guarigione... Domani comincerà ad alimentarti con dei liquidi, e fra tre o quattro giorni ti obbligherà ad alzarti dal letto per qualche minuto... Ne hai abbastanza, vero?... Speravo di incontrare Audoire, stamattina... Dev’essere stato trattenuto da un caso urgente, ma passerà di qui senz’altro prima di mezzogiorno... Mentre io farò ancora un salto verso sera...».

Come lo capisce bene lo sguardo che l’amico rivolge all’infermiera al momento di uscire! Significa:

«Ho fatto quel che ho potuto, ma purtroppo senza gran risultato...».

Del resto, non ne sembra eccessivamente sorpreso. Chissà, forse è così con la maggior parte degli emiplegici...

Torna sui suoi passi:

«Tra poco ti verrà praticata un’iniezione che ti farà dormire per qualche ora... Poi, a meno che Audoire non decida diversamente, ti porteranno giù, in radiologia, per un’arteriografia cerebrale... Niente di pericoloso. Non te ne accorgerai neppure perché sarai sotto anestesia... Non devi avercela con noi, vecchio mio, se ti infliggiamo queste piccole torture, ma in medicina, come in tutto, come anche nel tuo giornale, esiste una prassi che bisogna rispettare...».

Maugras non protesta, non ha voglia di protestare. Non ce l’ha con nessuno. Neanche con il destino.

Besson e l’infermiera bisbigliano nel corridoio dove continuano a passare ombre goffe e silenziose. Sulla destra dev’esserci una grande sala dove i malati possono andare e venire, e il corridoio sembra essere, per loro, il luogo della passeggiata.

È ansioso di veder tornare in camera la signorina Blanche perché, se appena si sente solo, come nelle toilette del Grand Véfour, viene subito preso dal panico.

Ed è anche ansioso, visto che glielo hanno promesso, che gli facciano quell’iniezione che lo ripiomberà nel suo torpore dove, forse, ritroverà gli anelli sonori delle campane.

Quando lei rientra, fresca, vivace, sorridente, la segue con lo sguardo, e pensa che deve essere così con ogni paziente che le viene via via affidato, e che probabilmente tutti seguono i suoi movimenti con la stessa espressione perché rappresenta per ciascuno la gioventù e la vita.

Se ne fosse capace, mentre lei solleva il lenzuolo per fargli l’iniezione, le sorriderebbe per ringraziarla di esserci, per scusarsi di darle tanto disturbo, per scusarsi soprattutto di non essere fiducioso, di essere un cattivo paziente, di non aver nessuna voglia di lottare.

Perché non ha voglia di lottare. A che scopo?

 

2

 

È ancora notte, ma non c’è modo di indovinare che ora sia. La sua prima sensazione è una sensazione d’angoscia perché crede di essere solo; la camera è rischiarata soltanto da un alone di luce giallastra proveniente dal corridoio attraverso la porta a vetri. Quello che gli fa pensare di essere solo è il fatto che la porta è socchiusa, come se lui fosse sorvegliato, a distanza, unicamente dalla infermiera del piano.

Ma gli basta girare appena un po’ la testa per capire di essersi sbagliato: qualcuno dorme in un letto da campo sistemato fra il suo letto e il muro. Non ne distingue i lineamenti, vede solo dei capelli rossi, e si ricorda dell’infermiera di notte che gli hanno presentato la sera prima, Joséfa. È un’alsaziana, e parla con un forte accento. È meno carina, meno sorridente della signorina Blanche. Sotto l’uniforme si intuisce un corpo bello in carne, appetitoso, e i seni tendono il tessuto inamidato. Maugras aveva una zia, una sorella della madre, dalle carni altrettanto sode, altrettanto compatte, e anche lei aveva dei lineamenti regolari ma privi di grazia.

Non ha visto Joséfa mettersi a letto e ignorava che nella camera ci fosse un lettino da campo. Forse lo hanno portato mentre lui dormiva, perché è sprofondato nel sonno subito dopo l’ultima iniezione. Un’iniezione di cosa? Non glielo dicono. Gliene hanno fatte parecchie, il giorno prima, e ogni volta scrivono qualche parola o tracciano qualche segno convenzionale su un foglio fissato ai piedi del letto.

Dai rumori che vengono dall’esterno capisce che la notte volge al termine. Sulla grande strada che, partendo dalla porte d’Italie, attraversa la periferia prima di diventare la nazionale 7, passano molti camion. Lui l’ha percorsa centinaia di volte, quella strada, per andare in Costa Azzurra, e non si è mai preoccupato di conoscerne il nome. Non si ricorda neppure se lungo i marciapiedi ci sia il mercato tutti i giorni o un paio di volte alla settimana, non solo bancarelle di generi alimentari ma anche baracchini smontabili che espongono indumenti vari.

È lì vicino, a cento metri appena dall’ospizio dove si trova adesso. Passando, gli è capitato di gettare un’occhiata agli edifici grigi che circondano un ampio cortile interno il cui portone è sorvegliato, come una caserma, da uomini in divisa. Ha sempre pensato che ci mettessero solo dei vecchi, dei malati cronici che s’intravedevano nel cortile, soli o in gruppetti silenziosi. E anche dei pazzi. Bicêtre, oltre che un ospizio, non è anche un ospedale psichiatrico?

Il fatto di trovarcisi non lo umilia né lo spaventa. Pur avendogli lasciato un sapore strano in bocca, l’anestesia del giorno prima non gli ha annebbiato la mente, che è ancora pronta e vivace, talché, inerte nel suo letto, Maugras si diverte a seguire per un po’ le idee che gli passano per la testa, a scartarle, ad aggrovigliarle per poi separarle di nuovo.

Non sono pensieri tragici. A differenza di quello che le persone intorno a lui probabilmente immaginano, non è affatto abbattuto, anzi, sarebbe pronto a giurare di non aver mai conosciuto una serenità paragonabile a quella che assapora adesso.

Solo che si tratta di una serenità particolare, che non saprebbe definire e che lo sorprende.

Come avrebbe reagito qualche giorno prima, solo martedì mattina, se gli avessero annunciato:

«Fra qualche ora cesserai improvvisamente di essere un uomo normale. Non camminerai più. Non parlerai più. La tua mano destra non sarà più in grado di scrivere. Vedrai le persone andare su e giù intorno a te senza poter comunicare con loro...».

Non ha mai avuto un cane, un gatto. In fondo non ama gli animali, forse perché non li ha mai considerati con attenzione, non ha mai cercato di capirli. Ma all’improvviso ricorda quel loro sguardo che sembra voler esprimere qualcosa e non ci riesce.

Non prova amarezza. E se analizzasse i suoi sentimenti più profondi scoprirebbe di non avere rimpianti. Tutt’altro! Rievoca di proposito la sua vita di prima, l’ultima mattina, quella di martedì, e si meraviglia di aver condotto un’esistenza simile, di avervi dato importanza, di aver interpretato una parte che adesso gli sembra puerile.

Come per dare una rappresentazione concreta al suo stato d’animo, ripensa a un quadro visto all’epoca in cui trovava ancora il tempo di visitare le gallerie d’arte: una tela di de Chirico che raffigura un personaggio in qualche modo artificiale, un manichino da sartoria con la testa di legno, immerso in una luce fredda e lunare.

Ed è in una luce altrettanto spietata che gli appare la sua ultima giornata di uomo cosiddetto normale. A Parigi, abita da diversi anni in uno degli appartamenti del George V, nell’ala riservata ai clienti che fanno lunghi soggiorni e che viene chiamata La Résidence. Questo evita a sua moglie di doversi occupare dei lavori domestici.

In rue de la Faisanderie, Lina ha cercato di mandare avanti la casa. Ci ha messo molta buona volontà, molta energia ma, in capo a due anni, si è ritrovata sull’orlo di un esaurimento nervoso.

Altro che sull’orlo! Ha avuto un esaurimento nervoso bello e buono e, per diverse settimane, si è rifiutata di uscire dalla sua camera, che teneva costantemente al buio.

Non è colpa di Lina; è colpa sua, è stato lui a sceglierla e a imporle il suo stile di vita.

È venuta a trovarlo, il giorno prima, dopo che lo hanno riportato su da radiologia. Non era emerso del tutto dalle nebbie dell’anestesia e si sentiva ancora più indifferente di adesso.

Eppure ha notato che sotto l’impermeabile foderato di visone lei indossava un vestito di seta nera. Usa così nell’ambiente che frequentano, soprattutto nell’ambiente che frequenta Lina: per una sorta di snobismo a rovescio, si nasconde il costoso visone sotto un tessuto dall’apparenza modesta.

Devono essere circa le sei. L’oscurità della notte comincia a dileguarsi e si vede la nebbia condensarsi sui vetri.

Il giorno prima ha conosciuto anche la caposala: è lei che ha fatto passare Lina. Quella donna non gli piace: è sulla sessantina, ha i capelli grigi, la faccia quasi dello stesso colore, ed è ancora più impersonale del professor Audoire.

Che sia mimetismo? Che voglia imitare il gran capo? Stava in piedi al centro della stanza, che non è grande, e, come certi attori, ha una tale presenza che nient’altro esisteva più. Il suo sguardo calmo ispezionava, giudicava, criticava.

È un monolite che potrebbe reggere sulle sue spalle il peso di tutto l’ospedale.

Lina, impressionata, ha esitato un attimo prima di chinarsi su di lui per baciarlo e, come René si aspettava, si sentiva che aveva bevuto. Doveva aver preso uno o due whisky prima di uscire dalla Résidence George V e, all’approssimarsi dell’ospedale, c’era da scommettere che ha fatto fermare Léonard, il loro autista, davanti al primo bar che hanno incontrato per buttarne giù un altro.

Ancora una volta, non si arrabbia con lei. Ci è abituato. Fino a martedì gli sembrava naturale, come anche tutto quello che fa lui. Hanno ciascuno la propria camera, il proprio bagno, e il salotto costituisce un terreno neutro.

Questa sistemazione si è rivelata necessaria perché raramente vanno a dormire alla stessa ora, e al mattino Lina resta a letto fino a tardi, mentre alle otto e mezzo lui già si infila nella Bentley che lo aspetta giù per portarlo al giornale.

Va sempre di corsa. Sono anni e anni che va di corsa. Non si sofferma neanche a guardare lo spettacolo della strada. Si accorge appena se c’è il sole o se piove. Sul sedile posteriore dell’auto lavora, dà una prima occhiata ai quotidiani del mattino e sottolinea certi articoli con la matita rossa.

È un uomo importante e, almeno fino a martedì, era consapevole di esserlo. I suoi gesti, la voce, quelle sue frasi brevi, il modo che aveva di guardare gli interlocutori come se non li vedesse, erano quelli di un uomo importante; più di un ministro gli telefonava con una familiarità non priva di rispetto e, nei momenti di crisi, lo stesso presidente del Consiglio non esitava a convocarlo a Matignon.

Ministri, segretari di partito, banchieri, accademici, personaggi in vista erano ospiti, ogni domenica, nella sua proprietà di Arneville, vicino ad Arpajon, un vero e proprio castello, più precisamente una «folie» costruita nel XVIII secolo da un esattore delle imposte.

«Buongiorno, signor direttore...».

Prima era il portiere, all’ingresso del palazzo, poi il ragazzo dell’ascensore e gli uscieri.

«Buongiorno, signor Maugras...».

Saliva al piano della redazione e il tono cambiava, diventava meno compassato:

«Salve, René...».

Lì, ritrovava Fernand Colère, il caporedattore, che aveva la sua stessa età ed era già suo collaboratore quando, venticinquenne, Maugras dirigeva la rubrica della cronaca mondana per un piccolo giornale che poi aveva cessato le pubblicazioni e che si chiamava «Le Boulevard».

Fino a martedì era convinto che Colère gli fosse totalmente devoto e che lo ammirasse al punto di avergli praticamente dedicato la propria vita. Maugras poteva chiedergli qualunque cosa... E quando, esasperato per un errore, una dimenticanza, uno sbaglio nell’impaginazione, gli faceva delle tremende lavate di capo, Colère si limitava a chinare la testa...

Ma improvvisamente vede il suo caporedattore sotto una luce diversa, una luce che sembra quella del quadro di de Chirico. Non è più un pacioccone un po’ flaccido, trasandato, ma un testimone che lo ha seguito passo passo per trent’anni e che sotto un’apparente sottomissione nasconde la sua invidia e il suo odio. È la persona che lo conosce meglio, sa quasi tutto di lui, deve aver registrato tutto.

Maugras si è meravigliato nel vederlo arrivare quasi subito dopo Lina, che gli ha portato non solo dei fiori, ma anche un vaso di cristallo dal collo stretto. I fiori sono garofani gialli, da sempre i suoi preferiti. Ce ne sono solo sei, perché non gli piacciono i mazzi. Sulla sua scrivania, al giornale, la segretaria mette ogni mattina un solo fiore. Lina deve aver pensato che all’ospedale non avrebbero avuto un vaso così stretto da contenere solo sei garofani e ne ha portato uno dal George V.

Da quanti anni vivono insieme? Sette? Otto? Per tutto questo tempo è stato convinto di amarla. E invece l’ha guardata senza emozione, più o meno con lo stesso sguardo con cui ha guardato la caposala, e poi Fernand Colère.

«Pierre mi dà tue notizie diverse volte al giorno...».

Pierre è Besson d’Argoulet. Lei lo chiama con il nome di battesimo. Le piace chiamare le persone per nome, specie se sono famose.

«... Non mi ha permesso di venire a trovarti prima. Pare che il professor Audoire abbia dato disposizioni severissime in proposito... Ho fatto una fatica terribile a trovare la tua camera...».

Questo è stato il monologo di Lina, la quale, appena è entrato Colère, ha mosso qualche passo verso la finestra per cedergli il posto accanto al letto.

«E allora, René, è così che spaventi gli amici?...».

Colère parlava con tono falso. Gli parlano tutti così, Besson, Lina, Joséfa e perfino la signorina Blanche, che pure lui sente più vicina degli altri.

Martedì, al giornale, mentre lo portavano alla clinica di Auteuil, il suo caporedattore deve aver preparato febbrilmente una prima pagina diversa da quella programmata, magari listata di nero, con un titolo a cinque colonne, la sua fotografia e un bel coccodrillo.

A chi lo avranno chiesto? Di certo a uno degli amici del Grand Véfour, preferibilmente a un accademico come Daniel Couffé; se lo vedeva benissimo mettersi al lavoro nella saletta in cui avevano appena finito di pranzare. Era urgente. In corridoio, un fattorino del giornale aspettava i fogli per consegnarli via via in bicicletta.

Maugras è quasi sicuro che non sia stato cestinato perché potrebbe venir buono da un momento all’altro.

«Non è facile arrivare fin qui, sai, René...». Quasi le stesse parole di Lina. «Hanno messo un vero e proprio sbarramento, giù...».

Aveva quasi dimenticato che durante i giorni che ha passato lì, ora in coma, ora in una sorta di ebetudine, la vita è andata avanti, la gente ha parlato di lui, chiesto notizie, cercato di raggiungerlo.

La cosa non gli fa né piacere né dispiacere. E non lo turba nemmeno vedere che anche Colère, come Lina, è vestito di nero, o grigio molto scuro, per essere pronto a ogni eventualità. Chissà se Lina ci ha pensato quando ha scelto il vestito da indossare... Se ha pensato ai fotografi che, se l’evento dovesse improvvisamente verificarsi, non mancherebbero di sottoporla a una raffica di scatti...

«Mi permettono di vederti solo per qualche minuto... So dai medici che va tutto bene e che sarai in piedi fra qualche settimana... Ti do un paio di notizie, così, alla rinfusa, perché, da come ti conosco, ti stai certo preoccupando per il giornale...».

Non è vero. Non ci ha pensato una sola volta.

«Ho creduto di interpretare i tuoi desideri non divulgando la notizia del tuo piccolo incidente e ho dato un colpo di telefono ai colleghi pregandoli di non farne cenno... Mi sono mosso allo stesso modo con France-Presse e con le due agenzie americane... Fino a questo momento, tutti hanno osservato la consegna... Poi ho riunito i nostri collaboratori di ogni ordine e grado e ho...».

Lina, in piedi, guardava attraverso la nebbia il tetto grigio di un’ala dell’ospedale che René può scorgere dal letto. È un tetto di ardesia, mansardato, che assomiglia a quelli dei castelli Luigi XIV. Bicêtre risale alla stessa epoca.

«Pare che martedì sera ci sia stata una bella ressa di reporter e di fotografi giù in cortile e nell’androne... Benché stampa, radio e televisione abbiano mantenuto il silenzio, qui e al giornale piovono telegrammi da ogni parte. E le telefonate sono così numerose che al centralino si lamentano del fatto che il sovraccarico delle linee è di ostacolo alle chiamate urgenti...».

Forse Colère ha pensato così di rallegrarlo, di tirargli su il morale... Be’, si è sbagliato: Maugras è rimasto indifferente ed è con lo stesso distacco che, questa mattina, nella penombra della camera, si sforza di immaginare i particolari del suo funerale.

Si sente il rintocco di una campana. Uno solo. È la mezz’ora. Di quale ora? Non proviene dall’interno dell’ospedale, dove peraltro c’è sicuramente una cappella, ma da due o trecento metri di distanza, al di là del viale dove i mezzi pesanti affluiscono sempre più numerosi così come gli autobus di periferia. Ci dev’essere da quelle parti una chiesa o un convento, più probabilmente una chiesa, perché le campane dei conventi hanno di solito un suono più acuto e leggero.

A mano a mano che l’oscurità si dirada, Maugras comincia a sentire dei rumori nella grande sala, in fondo al corridoio, la cui porta è sicuramente aperta. Sono sensazioni confuse, intermittenti. Malati che si svegliano via via e che, nell’attesa, si girano e rigirano nel letto.

Passa un’infermiera, poi un’altra. Dal lato opposto alla sala si levano ben presto delle voci, c’è un tintinnar di tazze e piattini e l’aroma del caffè arriva fino a lui.

Anche Joséfa si muove, si mette silenziosamente a sedere e, servendosi di una torcia elettrica, guarda l’ora sull’orologio da polso. René vede che torna a sdraiarsi e che resta supina come per concedersi un piccolo riposo supplementare. Poi si alza. Lui chiude subito gli occhi, ma ha avuto il tempo di notare che Joséfa ha dormito vestita.

Immagina che stia ripiegando la coperta, le lenzuola. Un cigolio gli dice che sta richiudendo il letto e lo spinge in un armadio di cui Maugras ignorava l’esistenza.

Si china su di lui, gli prende delicatamente il polso per sentire il battito cardiaco. Sa di sudore. René riconosce il particolare odore di chi ha dormito vestito. Non ha ancora voglia di ristabilire il contatto con il mondo esterno e fa finta di dormire.

Alla fine, lei esce in punta di piedi. Una porta si apre e si richiude. Il rumore di uno sciacquone, poi, dopo un silenzio piuttosto lungo - probabilmente si sta mettendo un po’ di cipria -, la porta si apre di nuovo e Joséfa va a raggiungere le infermiere di notte che stanno prendendo il caffè.

Così comincia a scoprire la routine dell’ospedale. È qualcosa che gli occupa la mente e soprattutto prova che il suo cervello e i suoi sensi sono meno intorpiditi del giorno prima.

Altra scoperta: il movimento spasmodico, così angoscioso, della guancia è quasi cessato. Sotto il lenzuolo, riesce a muovere le dita della mano sinistra, e persino a sollevare tutta la mano, a piegare il gomito. E poco dopo muove la gamba.

Ma quando prova a muovere il lato destro non ottiene alcun risultato.

Approfittando del fatto che è solo, si sforza di parlare, e gli esce una nota acuta che ricorda il miagolio di un gattino.

Ora, al di là della finestra, si può vedere la stessa nebbia del giorno prima e ben presto si distinguono anche le tegole del tetto di ardesia. Due finestre sono illuminate, e dietro una di esse una donna compie i gesti di chi si veste in fretta.

Alcune automobili entrano nel cortile, vanno a parcheggiare ai piedi dell’edificio centrale in cui si trova lui. Non lontano dalla sua camera c’è una scala dai gradini che scricchiolano. L’orologio della chiesa batte sei colpi, poi le campane annunciano la prima messa.

Intorno a lui il mondo comincia a muoversi, ancora al rallentatore. Qualcuno trascina i bidoni delle immondizie sul selciato del cortile. Una suoneria elettrica echeggia debolmente, piuttosto lontano, a meno che non si tratti di una sveglia, e dalle cucine, al pianterreno o nel seminterrato, sale un gran fracasso di pentole e pentoloni.

Questo gli ricorda il giornale, alle prime luci dell’alba, quando gli operai si danno il cambio nella sala delle linotype, gli impaginatori si piazzano davanti ai banconi, i tipografi davanti alle casse per la composizione e, in redazione, i giornalisti e le dattilografe del turno di giorno danno il cambio a quelli della notte.

Non sa a che ora avvenga la trasformazione, qui. Quando sente avvicinarsi i passi di Joséfa richiude gli occhi per non essere disturbato. Lei viene a guardarlo da vicino. Già non ha più del tutto lo stesso odore. Approfittando della tregua che lui le lascia, torna nel corridoio e si accende una sigaretta.

Capisce ben presto che il cambio del personale ha luogo alle sei e mezzo, quando si svegliano i malati. C’è un gran camminare di qua e di là, un aprire e uno sbattere di porte, e scopre così che il suo piano, che i giorni precedenti gli era sembrato particolarmente tranquillo, è in realtà molto animato e rumoroso.

Sono diversi minuti che ombre di malati passano dietro il vetro della porta quando Joséfa, che ha finito la sigaretta, viene a infilargli un termometro sotto il braccio sinistro.

Passi rapidi, decisi, scanditi, nel corridoio; passi che contrastano con lo scivolare felpato che sente tutto il giorno. Si fermano davanti alla sua porta: lo spiraglio si allarga e lui, attraverso le palpebre socchiuse, che gli danno la consapevolezza di barare, riconosce la signorina Blanche in elegante tenuta da città.

La signorina Blanche fa cenno a Joséfa di seguirla e tutt’e due, parlando sottovoce, si allontanano nel corridoio e raggiungono lo spogliatoio dove l’infermiera si cambia e abbandona le scarpe dal tacco a spillo per calzarne un paio basse. Deve avere una piccola automobile, che lui immagina di colore chiaro, azzurra o verde pallido.

Quando ritorna, è sola. Gli toglie il termometro. Maugras non ha chiuso gli occhi abbastanza in fretta e lei si accorge che è sveglio.

«Buongiorno!» esclama allegramente. «Mi dicono che ha passato una notte tranquilla. Se fa il bravo, tra poco vedrò di farle bere un succo d’arancia...».

Perché gli parla come a un bambino? Eppure è intelligente. E sa che anche lui lo è. Se si fossero incontrati altrove, non in un ospedale, si sarebbe rivolta a lui con deferenza e non le sarebbe passato per la testa di pronunciare parole stupide come:

«... Se fa il bravo...».

Non reagisce, si limita a seguirla con lo sguardo mentre consulta la cartella ai piedi del letto e vi annota la temperatura. È il solo a ignorare quello che c’è scritto su quel foglio, e dire che la cosa lo riguarda più di chiunque altro.

Insomma, è diventato un oggetto. Pare che sia una regola quella di lasciare la porta socchiusa, non solo la sua, ma anche quella della sala grande di cui sente i rumori.

Ed ecco che un uomo di una certa età, con una vestaglia di grossa lana viola, apre un po’ la porta a vetri e lo fissa con curiosità. Che sia un emiplegico in via di guarigione? Dallo sguardo vacuo, dal lento scuotere del capo sembrerebbe piuttosto un malato di mente. La signorina Blanche non gli presta attenzione, e dopo esser rimasto lì, in silenzio, per un minuto buono, lo strano personaggio se ne va com’è venuto.

Passano carrelli con enormi bidoni che fanno un gran rumore. La porta si apre ancora una volta ed entra la caposala, seguita da un giovane interno.

«Tutto bene, qui? Ha passato una notte tranquilla?».

Non lo chiedono a lui. È anche vero che non sarebbe capace di rispondere. La signorina Blanche porge il foglio fissato a una tavoletta di legno. La virago legge, poi lo passa al medico, che non fa commenti. Tutti e due avanzano verso il treppiede con il flacone di glucosio, a cui viene di nuovo collegato.

«Pensa che possa far venire il barbiere per raderlo?» domanda la signorina Blanche.

Non ci ha pensato, alla barba: in quattro giorni dev’essere cresciuta, tanto più che è di pelo ispido ed è bruno come sua madre. Ma ci hanno pensato gli altri, e lui non prova verso di loro alcuna gratitudine. Sente che quelle attenzioni sono impersonali, che lui è solo l’occupante più o meno temporaneo di un letto e che i riti sarebbero identici per chiunque. Il giorno tale: elettroencefalogramma... Il giorno talaltro: puntura lombare... Poi: radiografia... Poi la barba e il succo d’arancia...

Se Besson, oltre che il suo medico, non fosse suo amico, è probabile che nessuno gli avrebbe parlato della sua malattia e che gli avrebbero semplicemente raccomandato di stare tranquillo e di avere fiducia.

Besson, invece, si è sforzato di dirgli, nel modo più esauriente possibile, pacatamente, come stanno le cose; per di più, attraversare Parigi e oltrepassare la porte d’Italie nel corso delle sue giornate così piene di impegni deve complicargli alquanto la vita.

«E adesso la laviamo un po’... Questa mattina, venendo qui, ho pensato che potremmo portarle una radiolina... Sono sicura che il professore non avrà nulla in contrario, e questo la distrarrà...».

Non ha voglia di ascoltare la radio. Non ha voglia di distrarsi, e lei sbaglia a cercare di pensare al posto suo. La vita del mondo esterno non gli interessa. Gli basta quello che succede negli immediati dintorni, il viavai nel corridoio, certi rumori del piano che comincia a riconoscere.

Pur non essendo alto, né quello che si dice un ciccione, come Colère, è tuttavia piuttosto corpulento e pesa ottanta chili buoni. Eppure la signorina Bianche, che non ne peserà più di cinquanta, lo gira e lo rigira senza difficoltà, lo lava dalla testa ai piedi, e riesce a cambiare il lenzuolo sotto di lui senza recargli alcun fastidio.

Il momento della toilette è il più penoso della giornata e Maugras chiude gli occhi perché si vergogna. Non ha un bel corpo, né un bel viso. Non è mai stato bello. Anche da giovane aveva già quelle forme non ben definite, quella faccia senza carattere con al centro un naso che ha come l’aria di essere incompiuto. In passato ne ha sofferto. Da quando è diventato un uomo importante, però, ci pensa meno e, per una sorta di sfida, accetterebbe persino di essere decisamente brutto.

Ma qui, e solo qui, mentre lei lo lava e lo asciuga, torna a vergognarsi del suo aspetto come quando era adolescente.

«Devo frizionarla con l’alcol... Ho pensato che avrebbe preferito dell’acqua di Colonia, e nell’attesa che lei se la faccia venire da casa ne ho portato con me una bottiglietta...».

Dovrebbe indicare con qualche cenno che gliene è grato ma non ci riesce. Lei non può capire. Neanche gli altri. Crederanno che sia inasprito, o che pensi che tutto gli è dovuto perché dirige il più importante quotidiano di Parigi e due settimanali. Non è così. La verità è molto più complessa e non si spiega.

Inoltre non è affatto contento che il suo letto, la camera, profumino improvvisamente di acqua di Colonia invece di conservare quell’odore indefinito ma non sgradevole della malattia e dei medicinali. È un po’ come se cercassero di ingannarlo. Gli fa piacere che vengano a fargli la barba? Non ne è sicuro.

«Si riposi un momento, intanto telefono al barbiere per sentire se è libero...».

Il barbiere degli incurabili, dei paralitici, dei pazzi e dei morti! Ormai è giorno fatto. La nebbia si va diradando e sta per spuntare il sole. Due ragazze in grembiule azzurro, che fra loro parlano italiano, invadono la camera con secchi e spazzoloni e, senza guardarlo, senza alcuna curiosità, svolgono il loro lavoro quotidiano.

Quando finalmente arriva il barbiere, la camera è pulita, nel vaso con i sei garofani gialli l’acqua è stata cambiata e dal vasistas a lamelle posto al di sopra della finestra entra un po’ d’aria fresca. Il brav’uomo, molto avanti con gli anni, ha anche lui l’aria di un incurabile. Forse lo è. Le dita ingiallite puzzano di nicotina, ha i denti guasti e lavora in silenzio con una concentrazione preoccupante.

«Devo tagliargli anche i capelli?».

La signorina Blanche fa segno di no. Con la sua valigetta in mano, l’uomo sembra aspettare qualcosa; alla fine lei capisce e tira fuori una banconota dalla borsetta.

Quando sono soli, spiega:

«Stavo dimenticando la mancia... Ma non si preoccupi: sistemeremo queste piccole cose più tardi...».

È colpito da quel particolare: ormai non è più in grado di pagare nulla personalmente ed è un po’ come se si trovasse senza soldi. Ha sempre avuto un sogno ricorrente: si trovava in una città straniera e, frugandosi in tasca, si accorgeva di non avere un centesimo...

Sua moglie dev’essere ancora a letto. Chissà se è uscita la sera prima... È più probabile che sia rimasta in casa, perché andare in giro per ristoranti e locali notturni quando si ha un marito all’ospedale è alquanto disdicevole. In questo caso, ha senz’altro invitato almeno un’amica, anzi probabilmente più di una. Non sa stare sola neanche per un’ora. E la bottiglia di whisky, con intorno i bicchieri, campeggia in pianta stabile sul tavolino. Se la porta anche in camera da letto e a volte in bagno.

Il giorno prima sottovoce, e molto rapidamente, come se si stesse impicciando di qualcosa che non la riguardava, gli ha chiesto:

«Non vuoi che telefoni a Colette?».

Deve aver capito il suo cenno, perché ha lasciato perdere. Colette è la figlia che lui ha avuto dal primo matrimonio, quando aveva solo ventitré anni; adesso lei ne ha trentuno, tre più della matrigna.

Le due donne non si sono mai incontrate, né per colpa di Colette né per colpa di Lina. È solo colpa sua.

Al momento del divorzio gli era parso un gesto elegante lasciare che la bambina, di soli tre anni, venisse affidata alla madre. Colette viveva già in campagna, lontano da Parigi, presso un’anziana parente che lo detestava. Era andato a trovarla qualche volta, un po’ di malavoglia perché veniva accolto con ostilità. Il viaggio era lungo e lui stava attraversando il periodo più delicato e importante della sua carriera...

Colette è zoppa dalla nascita. È stata operata inutilmente, e hanno provato a dotarla via via degli apparecchi ortopedici più all’avanguardia. Sfortunatamente, poi, assomiglia a suo padre, ha la stessa corporatura massiccia e il volto un po’ informe.

Un paio di volte all’anno viene a trovarlo al giornale perché si trova a passare di là, e poiché sanno entrambi di non avere niente da dirsi, quelle visite sono più penose che gradevoli.

Colette non gli chiede niente e da lui non accetta niente. Vive sola, in una strada popolare di Puteaux, e lavora in una scuola per bambini handicappati fondata da una specie di missionario, il dottor Libot, di cui Maugras sospetta che sia segretamente innamorata.

Non è particolarmente impressionata dalla carriera del padre. Non che veda più spesso la madre, la quale è diventata un’attrice molto nota e ha realizzato le sue ambizioni, visto che, a diciott’anni, seguiva i corsi di Dullin all’Atelier.

A Colette, simile in questo al dottor Libot, piace darsi arie da santa. Tuttavia lui si domanda se per lei, con quel piede deforme e il corpo così poco femminile, non sarebbe una sorta di vendetta vederlo ridotto all’immobilità e a un grottesco silenzio.

Maugras ha sofferto della disapprovazione che Colette ha sempre manifestato nei suoi confronti, o almeno per molto tempo ne è stato convinto. I genitori non dovrebbero amare i loro figli e i figli amare i genitori?

Non desidera vederla. Non ha voglia di vedere nessuno, neanche Besson, che cercherà ancora una volta di convincerlo che tutto va bene e che tornerà a essere un uomo come gli altri.

Dicevano così anche a Colette da ragazza. Quando era stata operata le avevano garantito che avrebbe camminato normalmente.

Un corteo di persone passa nel corridoio con un gran rumore di passi e di voci.

«È il professore che fa il giro del reparto...» annuncia la signorina Blanche.

In testa cammina Audoire, due o tre metri davanti ai suoi assistenti e a una trentina di allievi fra i quali ci sono tre o quattro ragazze. La scena fa pensare, con minore sacralità, a una cerimonia religiosa. I malati devono stare seduti sul letto e il gruppetto va dall’uno all’altro.

Qualche anno prima, Besson aveva insistito affinché Maugras assistesse alla stessa cerimonia, che si svolge tre volte alla settimana nel reparto che lui dirige a Broussais. I pazienti stavano per la maggior parte coricati, alcuni erano moribondi. Besson d’Argoulet, con il suo camice immacolato, la chioma argentea messa in risalto dal candore della calottina, era ancora più bello e imponente che a un pranzo ufficiale.

In fondo si trattava di un gioco crudele. Una mano indifferente sollevava il lenzuolo e scopriva corpi febbricitanti, malformazioni, piaghe da decubito, mentre il professore, con la voce che aveva in cattedra, esponeva le proprie opinioni al riguardo e gli allievi prendevano appunti.

Il gruppo passava lentamente da un letto all’altro seguito da sguardi che in qualche caso erano a malapena umani e non esprimevano più che una paura animale. Ciascuno aspettava il proprio turno, tendeva l’orecchio, si sforzava di capire i commenti del medico che, per quanto li riguardava, avrebbero potuto essere pronunciati anche in latino.

Eppure Besson era umano. Conosceva il nome della maggior parte dei malati, li interpellava confidenzialmente.

«Ah, ecco il mio vecchio amico che mi farà ancora un sacco di domande...».

Ogni tanto gli capitava di dar loro dei buffetti sulla guancia o sulla spalla, soprattutto se sapeva che alla sua prossima visita il letto sarebbe stato vuoto, o occupato da un altro paziente.

Maugras è spaventato all’idea che tra poco la sua camera sarà invasa dal gruppetto in camice bianco. Probabilmente gli occhi lo tradiscono, perché la signorina Blanche, sempre attenta ai suoi riflessi, lo rassicura.

«Non si preoccupi. Nelle camere private il professore non viene mai con gli allievi. Forse sarà accompagnato da un assistente, ma ne dubito...».

Se ha fatto bene i conti, è venerdì. Ne prende nota, così come prende nota mentalmente di tutto ciò che via via scopre della vita dell’ospedale. Non che sia personalmente interessato alla cosa, ma questo costituisce per lui un esercizio.

«Sarà qui tra poco» annuncia l’infermiera che è andata a dare un’occhiata in corridoio. «Al venerdì» (dunque non si è sbagliato!) «la visita non dura mai troppo. La più lunga è quella del martedì...».

Lui registra: martedì...

La signorina Blanche si dà una ravviata ai capelli davanti allo specchio appeso sopra il lavandino, alla sinistra del letto; nel farlo, lo sfiora con il camice.

Il professore entra nella camera, da solo, mentre gli allievi si allontanano lungo il corridoio e se ne vanno chissà dove facendo quasi altrettanto baccano degli scolari che escono da scuola. Audoire lo saluta con un cenno del capo senza sorridergli, come si era premurato di fare Besson, e già il suo primo sguardo è professionale.

La signorina Blanche gli porge la cartella, ma lui gliela restituisce subito come se da lì non potesse venirgli alcuna informazione supplementare, come se il decorso della malattia fosse determinato una volta per tutte. Avvicinandosi al letto mormora, più per se stesso che per il paziente:

«Vediamo un po’ a che punto siamo...».

Maugras ha indosso la giacca di un pigiama con le sue iniziali, che devono aver fatto venire dal George V a sua insaputa, ma continuano a non mettergli i pantaloni. Audoire tira fuori di tasca un martelletto e batte sulle ginocchia, sui gomiti, poi, con uno strumento appuntito, gli gratta la pianta dei piedi. Ricomincia la manovra due, tre volte, con aria interessata.

«Gli avete dato del Sintrom?».

«Ieri sera alle nove. Stamattina aspettavo di sentire lei. Volevo anche chiederle se posso fargli prendere del succo d’arancia...».

Il professore alza le spalle senza rispondere, il che deve significare che non ci vede niente di male e che la cosa, ai suoi occhi, è priva d’importanza.

«Nel pomeriggio comincerà a fargli fare qualche movimento passivo del braccio e della gamba... Non più di cinque minuti... Tre volte al giorno...».

Sembra evitare lo sguardo di Maugras, che all’improvviso si domanda se da parte del professore non ci sia impaccio, timidezza. Senza il camice e la bustina, in un ambiente diverso, su un autobus, ad esempio, o in metropolitana, deve aver l’aria di un piccolo funzionario scialbo e insignificante.

Con la malattia si sente forte, alla pari. Con il malato è meno a suo agio e tende a evitarlo. A Maugras viene da fare una battuta che dentro di sé trova divertente. Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?

«Ha cercato di parlare?».

«Non da quando ho cominciato il mio turno...».

«Dica qualche sillaba...».

Ed ecco Maugras in preda al panico, come i pazienti di Besson durante quella visita all’ospedale Broussais. Mentre un istante prima il suo pensiero elaborava battute di spirito, adesso la fronte gli si copre di sudore. Esita, apre la bocca.

«Aaaaa...».

È già meglio di quella specie di miagolio del mattino, anche se non riconosce il suono della sua voce.

«Non abbia paura... Dica qualcosa, qualunque cosa...».

La prima parola che gli viene in mente è «dottore».

«Dot...».

Audoire lo incoraggia con un cenno del capo.

La parola esce quasi normalmente.

«Dot-tore».

«Ha visto!... Deve esercitarsi, anche se all’inizio è un po’ deprimente... E deve anche usare la mano sinistra... È per caso mancino?... Poco importa... Si abituerà presto... Signorina, gli dia carta e matita... Badi comunque che non si stanchi...».

Si alza dalla sponda del letto dov’era seduto e si dirige verso la porta. Fa per aprirla, ma si volta e sembra sorpreso di incontrare uno sguardo quasi ostile.

«Tornerò a vederla stasera» dice allora rapidamente.

Anche la signorina Blanche è sconcertata, delusa. È successo qualcosa che le sfugge, qualcosa che non sa definire, e fa una certa fatica a ritrovare il suo sorriso, i suoi gesti vivaci.

Anche a lei sembra che da un momento all’altro, senza una ragione apparente, Maugras sia diventato ostile.

Come potrebbe spiegar loro che lo disturbano, che lui si è rassegnato, che non ha bisogno d’incoraggiamenti, che quello che gli succede doveva succedere, e che lo accetta, anzi gli dà sollievo...

A che scopo, allora, renderlo ridicolo ai suoi stessi occhi costringendolo a farfugliare: «Dot-tore»?

L’unica cosa che hanno ottenuto è fargli venir voglia di piangere.

Ma non piangerà davanti a lei, né davanti ad altri. Preferisce fissare caparbiamente il soffitto.


 

3

 

Non lo lasciano in pace un momento, e questo lo irrita perché è convinto che non sia un caso, che faccia parte della terapia. È un po’ come nelle città termali, Vichy, Aix-les-Bains o qualsiasi altra, dove uomini di solito oltremodo gelosi della loro indipendenza accettano che altri gestiscano il loro tempo, ricorrendo a mezzi puerili per far sì che non si annoino, dai bicchieri d’acqua che devono bere in una quantità stabilita a un determinato chiosco fino alla musica sdolcinata nei saloni, ai tornei di bridge o di altro, e al casino quasi obbligatorio.

Con lui, fanno di tutto per impedirgli di pensare. Se appena se ne sta tranquillo nel suo letto, con gli occhi socchiusi, a baloccarsi con le sue idee o i suoi ricordi, la signorina Blanche guarda l’orologio piegando la testa con un movimento che comincia a essergli familiare, e subito si ricorda che deve praticargli un’iniezione, o cambiarlo di posizione, o anche, come poco prima di mezzogiorno, fargli bere del succo d’arancia.

Lui si chiedeva come diavolo avrebbe fatto, visto che la sua mascella e la sua gola non erano più mobili del braccio e della gamba.

Sorridente, apparentemente sicura di divertirlo, la signorina Blanche si è avvicinata con una strana tazza munita di un tubo di ceramica.

«La tazza-pipa! Vedrà com’è pratica. Ma già domani mangerà un po’ di purè con il cucchiaio...».

Sempre quel tono brioso, al quale lui oppone la sua indifferenza e la sua irritazione, anche se poi se ne pente. Comunque è riuscito a mandar giù, senza piacere, quasi tutto il succo d’arancia.

Dopo, lei ha girato la manovella con cui si solleva la metà superiore del letto. Un’altra governa la parte inferiore. Di tanto in tanto, lei gli fa cambiare posizione. Adesso è quasi seduto e, per la prima volta, non ha più il pappagallo fra le gambe, anche se gli mettono, come ai neonati, un telo di gomma sotto il lenzuolo.

C’è un sole che sembra primaverile. L’aria, filtrata dalle lamine del vasistas, si sta facendo tiepida e sa di nafta per via del traffico sulla nazionale 7.

Nella sua nuova posizione, Maugras scopre non solo il tetto e gli abbaini dell’ala destra ma anche le alte finestre del primo piano. Che, non essendo munite di tende, gli lasciano intravedere il candore dei letti in fila, alcune sagome che si muovono con lentezza come nel corridoio davanti alla sua camera, e ogni tanto un’infermiera i cui movimenti rapidi risaltano per l’evidente contrasto. Qualche paziente sta seduto su una sedia con un’immobilità impressionante. Altri fumano la pipa in silenzio limitandosi a guardare fisso davanti a sé.

Sono anche loro emiplegia? Oppure l’ala destra è riservata ai reparti psichiatrici? Lo scoprirà più avanti. Ha tutto il tempo. C’è solo una finestra aperta, quella più vicina al corpo centrale in cui si trova lui; un interno, seduto a una scrivania chiara, sta chiacchierando con un’infermiera o un’allieva che ogni tanto scoppia a ridere e va a scuotere la cenere della sigaretta sopra il cortile.

Mentre nel corridoio si sentivano passare i carrelli con gli immensi pentoloni, la signorina Blanche gli ha detto:

«La lascio solo per un momento. È l’ora del mio pranzo. Non abbia paura, sarò qui vicino...».

E gli ha fatto scivolare nella mano sinistra, quella che funziona quasi normalmente, un piccolo interruttore a pera.

«Se ha bisogno di qualcosa, non si faccia scrupolo e prema il pulsante...».

Finalmente solo! Anche se in realtà non è che tenga poi tanto all’isolamento. Stamane, per esempio, quando si è svegliato, prima di scoprire che Joséfa era coricata in un letto da campo vicino al suo, è stato assalito da una certa angoscia. E non gli dispiace che, durante la giornata, la signorina Blanche sieda accanto alla finestra o vada su e giù per la camera.

Forse sono destinati a vivere un sacco di tempo confinati insieme, in un’intimità che non sempre conoscono nemmeno marito e moglie. Gli piace guardare il suo viso giovane e allegro, trova molto gradevole che sia carina e civettuola.

Sarebbe stata dura, per lui, passare ore e ore in compagnia di una donna di una certa età, come la caposala, o altre che vede passare e che danno l’impressione di compiere un dovere penoso e di guadagnarsi faticosamente il pane. La scelta della signorina Blanche la deve all’amico Besson, ed è sicuro che anche questo faccia parte della cura.

È appunto quello che lo infastidisce e getta un’ombra sul suo piacere. Vogliono pensare al posto suo. O meglio, immaginano che lui pensi una certa cosa perché hanno stabilito che al giorno tale della crisi gli emiplegici debbano necessariamente attraversare una certa fase, avere un certo stato d’animo.

Sarebbe pronto a scommettere che è stata data una consegna:

«E soprattutto, non lasciate che si rinchiuda in se stesso...».

Credono che abbia voglia di morire, mentre questa è solo una parte della verità. Morire gli è indifferente. La morte, come lui se la figura, ha anche un lato odioso. L’odore, innanzitutto. E quella che chiamano la vestizione del morto. La decomposizione. È mortificato all’idea di infliggere agli altri questo schifo. E poi, deve confessarlo, c’è la bara. Ha un bel ripetersi che a quel punto non si renderà più conto di niente, questo non gli impedisce di soffrire, in anticipo, di claustrofobia.

Non appena potrà parlare, se mai un giorno riacquisterà la parola, o appena avrà imparato a scrivere con la sinistra, dovrà esprimere la sua volontà di essere cremato. Non vuole assolutamente che lo circondino di fiori, che in una camera mortuaria hanno un lezzo lugubre. E niente ceri, paramenti, ramoscelli di ulivo benedetto.

L’ideale, una volta reso l’ultimo respiro, sarebbe venir trasportato al colombario da addetti anonimi, senza essere visto da nessuno di quelli che l’hanno conosciuto.

Lui accetta la morte, ma non tutto il cerimoniale che l’accompagna. Non gli importa se la fine arriverà tra poche ore, cioè il quarto o il quinto giorno come per Félix Artaud, o tra qualche anno, come nel caso di Jublin.

Ci pensa con calma, senza terrore né sentimentalismo. È questo che vogliono impedirgli di fare? Lo capiscono dunque così a fondo, e Audoire, che lo guarda appena, lo conosce forse più di quanto sembri?

È molto importante. Importante per lui. Non per gli altri. Per gli altri - medici, personale dell’ospedale, amici del Grand Véfour, collaboratori del giornale - si tratterà soltanto di un incidente.

«Non c’era niente da fare...» dichiareranno i medici.

Le due italiane prepareranno la camera per un altro paziente del professore, che forse sta già aspettando il suo turno. Gli amici mormoreranno:

«Poveraccio!».

E aggiungeranno, come ha fatto anche lui in occasioni simili:

«Quanti anni aveva esattamente?».

Chi ha meno di quarant’anni troverà abbastanza normale, dopotutto, che lui se ne vada a cinquantaquattro. I più anziani avvertiranno una sottile inquietudine, che però non durerà molto.

Quanto a Lina, distrutta, ricorrerà al whisky e, come è successo tante volte, dovranno chiamare il dottore del George V per praticarle un’iniezione che la farà piombare in un sonno lungo e profondo.

Si abituerà. Lui non le è indispensabile. Si chiede se per lei non sia stato semmai nefasto, e se non sarà più felice, più equilibrata, da vedova.

Delle tre donne che hanno avuto un posto significativo nella sua vita, solo una se l’è cavata senza danni, Hélène Portai, una giornalista che lavora ancora per lui e che si è rifiutata di sposarlo.

Gelosa della propria indipendenza, non ha mai accettato di vivere insieme a lui e, per anni, ciascuno dei due ha conservato il proprio appartamento e la propria cerchia di amici.

Ecco, è così che ha bisogno di pensare, pacatamente, senza essere spiato, senza che l’uno o l’altro si affretti a strapparlo al suo monologo interiore. Non si tratta di un esame di coscienza, né gli interessa fare un bilancio. È un po’, in certi momenti, come sfogliare a casaccio un album di fotografie, senza preoccupazioni di seguire l’ordine cronologico.

Questa mattina, per esempio, poco prima del succo d’arancia e della tazza-pipa, si è rivisto, diciassettenne, in quai Bérigny, a Fécamp. Da poco si era lasciato crescere i baffi, che avrebbe tenuto solo poche settimane.

Era autunno, fine ottobre o primi di novembre, perché i pescherecci, per lo più ancora a vela, cominciavano a rientrare.

Lui indossava un soprabito grigio picchiettato di punti rossicci, di lana scadente e comprato bell’e fatto, il che non gli impediva di esserne alquanto fiero.

Il cielo era gonfio di pioggia, come spesso da quelle parti, e l’acqua del porticciolo quasi nera. C’erano alcuni vagoni attraccati alla banchina, e dai pescherecci si scaricava, alla rinfusa, il merluzzo che impregnava tutta la città del suo odore.

I marinai, sbarcati già dal mattino, se n’erano andati a braccetto con le mogli, che erano venute ad aspettarli in cima al molo, e avevano cominciato a sventolare i fazzoletti appena il peschereccio aveva imboccato il canale.

Non tutti avevano moglie e figli. Molti, che avevano passato mesi e mesi sui banchi di Terranova, erano già seduti ai tavoli dei bistrot del porto a bere caffè corretto o acquavite.

Perché quell’immagine piuttosto che un’altra? Era scialba e piatta come una cartolina illustrata da quattro soldi, e aveva la stessa crudele precisione. Rivedeva ogni facciata, i nomi dipinti sopra i negozi e i ristoranti, la casa, più grande delle altre, che ospitava gli uffici di Firmin Remage, l’armatore per il quale lavorava suo padre.

Risalire all’anno era facilissimo: 1923! Cinque anni dalla fine della guerra, dieci dalla morte di sua madre, un anno e mezzo da quando aveva lasciato il liceo Guy-de-Maupassant per entrare nello studio del notaio Raguet in rue Saint-Etienne.

Da qualche mese era anche il corrispondente a Fécamp del «Phare du Havre» e aveva in tasca il tesserino da praticante, con tanto di fotografia, che lo riempiva di orgoglio.

Quella mattina, suo padre stava in piedi tra i vagoni e la goletta arrivata in porto con la marea, la Sainte-Thérèse, René si ricordava ancora il nome. Tutte le navi del signor Remage portavano il nome di una santa. Munito di una matita viola, suo padre contava le balle di merluzzo che venivano caricate nei vagoni.

Il fatto che anche lui si trovasse sulla banchina anziché nello studio del notaio dipendeva da un incidente avvenuto a bordo quando la goletta navigava ancora in alto mare. Un uomo era sparito in circostanze sospette e la polizia stava svolgendo un’inchiesta sul posto.

Maugras rivedeva ogni cosa, gli alberi e i pennoni, e la macchia nera dei motopescherecci ormeggiati fianco a fianco; gli pareva ancora di sentire i colpi di martello sullo scafo di una barca in costruzione sull’alzaia della Marna.

Suo padre aveva baffi di un biondo spento e l’espressione seria e pacata di un uomo consapevole di compiere il proprio dovere. Per sguazzare nel fango appiccicoso della banchina calzava zoccoli lucidati come scarpe.

Non era il principale collaboratore del signor Remage, ma una delle ultime ruote del carro, uno scritturale, come si dice, e guadagnava meno dei marinai.

René aspettava, accanto a una bitta, che il commissario di polizia finisse di interrogare il capitano della nave per rivolgergli a sua volta alcune domande.

Era giovane. A parte l’appendicite, non si era mai ammalato.

Ma quella mattina, giusto quella mattina, era stato assalito all’improvviso da uno scoraggiamento che gli pareva irrimediabile. Guardava la cittadina grigia, le insegne, le golette e i motopescherecci che vedeva nei bacini fin da bambino, il cantiere navale dall’altra parte della chiusa, il mare, in lontananza, che si alzava e si abbassava indifferente, e infine suo padre, che viveva la propria umiltà o la propria mediocrità con quieta soddisfazione - e di punto in bianco aveva scoperto l’inutilità di tutto.

Lo circondava un mondo senza senso, e a lui sembrava di non farne più parte. Forse non vi aveva mai fatto parte. E lo osservava, quel mondo, non più dall’interno, ma dall’esterno, da estraneo.

A che scopo?

Anche dopo tanti anni, era sicuro di essersi posto quella domanda in quei termini precisi. A che scopo? A che cosa era servito sgobbare su materie che non gli andavano giù, se poi aveva abbandonato gli studi prima della maturità? A che cosa erano servite tutte le ore tetre passate presso il notaio Raguet che gli rivolgeva solo parole brusche e sprezzanti? A che scopo mandare al «Phare du Havre» cronache di cui pubblicavano in genere metà della metà?

«Stringi! Devi imparare a stringere!» gli ripetevano di continuo.

A che scopo vivere?

Da allora, aveva provato lo stesso senso di vuoto molte volte, anche quando metteva in campo tutte le sue energie e otteneva successi clamorosi.

Perché vivere? A che scopo ritrovare al Grand Véfour, ogni primo martedì del mese, una decina di persone che definiva suoi amici ma che per lui non erano niente?

A turno, uno dei commensali sceglieva il menu e pagava il conto. Tranne Dora Ziffer, l’unica donna del gruppo, che peraltro vi era entrata solo per il rotto della cuffia, avevano tutti una posizione brillante, e grandi mezzi economici. Si erano incontrati a metà della scalata al successo, taluni agli esordi.

Se si riunivano così ogni mese, non era forse per cercare conferme, per misurare la strada percorsa? E ciascuno di loro non si confrontava forse in segreto con i compagni? Tanto è vero che avevano dato inizio a una vera e propria gara a chi avrebbe offerto il pranzo più raffinato e costoso!

Nell’atmosfera ovattata del salone all’ammezzato, era tutto un congratularsi reciproco accompagnato da abbracci e pacche sulle spalle.

«E allora, vecchio mio? Come va Yolande? E la tua commedia?...».

O il tuo romanzo. O i tuoi affari. O la casa di campagna in costruzione, la villa a Cannes, a Saint-Tropez.

Ne mancavano già tre. Ormai le file si sarebbero sempre più sfoltite, perché tutti avevano raggiunto un’età delicata e, nel corso di quei pranzi chiassosi, pieni di allegria e di battute a volte quasi infantili, si spiavano l’un l’altro pensando: «Com’è invecchiato, quello! Non camperà a lungo...».

Sarà il prossimo a lasciare un posto vuoto a tavola?

«Lavorava troppo. Non si risparmiava...».

«Negli ultimi tempi sembrava in preda a un’ansia di vivere, come avesse un presentimento...».

Besson non avrebbe mancato di fornire un parere medico:

«Aveva la pressione a 180. Gli avevo detto di stare attento, lo supplicavo di dannarsi meno per il giornale...».

«Che ne sarà di Lina?».

Si sarebbero scambiati sguardi d’intesa. Sapevano tutti che Lina non era felice e che quel suo bere smodato somigliava molto a un lento suicidio.

Avrebbero continuato a parlare di Lina? «Credi che l’amasse?».

«In ogni caso, si faceva in quattro per lei...».

«Mi domando se è mai stata del tutto equilibrata...».

«È una brava ragazza...».

«René ha cercato di plasmarla, come aveva cercato di fare prima con Marcelle...».

«A proposito, che ne è di Marcelle?».

«È in tournée... Si direbbe che non invecchi...».

«Dev’essere vicina ai quarantacinque...».

«Cinquantatré. Ha un anno meno di lui. Mi ricordo ancora di quando è nata la figlia... Erano così poveri che non potevano permettersi una culla, e la bambina dormiva in un cassetto del comò...».

«Aveva una leggera menomazione fisica, vero?».

«Pare di sì, ma lui non amava parlarne...».

La conversazione non sarebbe continuata a lungo su quel tono. Si sarebbero affrettati a cambiare discorso per parlare dei vini, della pietanza che era appena stata servita, della commedia di Julien Marelle o dell’ultima arringa di Clabaud, delle prossime elezioni all’Académie Française dove, per via dei suoi tre saggi su Flaubert, Zola e Maupassant, si ventilava la possibilità di accogliere Besson d’Argoulet, peraltro già membro dell’Accademia di Medicina.

Valeva davvero la pena farsi cattivo sangue per questo? Vivere per che cosa, in fondo? Per il giornale, per quei due settimanali che solleticavano i gusti più abietti del pubblico, per la rete radiofonica di cui era amministratore delegato?

Per le domeniche a Arneville, che assomigliavano, pur essendo più formali, ai pranzi del Grand Véfour, con la differenza che vi si parlava soprattutto di politica e di finanza?

Per l’appartamento al George V, che con tutto il suo lusso era anonimo quanto una stazione o un aeroporto?

Maugras continua ad approfittare dell’assenza della signorina Blanche per sfogliare il suo album e ritorna alla pagina di Fécamp, quella del porto, la mattina dell’arrivo della Sainte-Thérèse, una pagina in bianco e nero, anzi, in grigio e nero. Ci sono anche pagine a colori, ma a imporsi alla sua mente oggi è quella di quai Bérigny, forse perché è la più significativa e attraverso gli anni resta intimamente legata alla sua vita presente.

La sua vita? Se i muscoli della bocca gli obbedissero un po’ di più, sarebbe tentato di sorridere. Non necessariamente con ironia. Con una certa tenerezza per il giovanotto dal cappotto di lana ruvida che si è lasciato crescere i baffi per avere un’aria più matura.

L’immagine è chiarissima, come se l’avesse davanti agli occhi. Il tempo è passato in fretta e gli piacerebbe fare l’inventario di ciò che ne resta.

Nella corsia i pazienti mangiano. Fa una certa impressione, perché nessuno parla e si sente soltanto il rumore dei cucchiai e delle forchette sui piatti.

Le infermiere, invece, nel locale che è loro riservato, sicuramente stanno chiacchierando, forse parlano dei rispettivi malati e, poiché lui è un uomo in vista, quello che si dice una personalità parigina, è probabile che vogliano sapere qualcosa dalla signorina Blanche.

E lei? Si lamenta forse del fatto che lui non manifesti né buona volontà né riconoscenza? Fornisce alle colleghe particolari intimi su di lui, sul suo corpo, per esempio, o sul suo comportamento?

«A che scopo?» come pensava già sulla banchina di Fécamp.

Eppure, si sente bene, sotto il lenzuolo; un raggio di sole ha appena raggiunto un angolo della camera e un lieve alito d’aria entra dal vasistas.

Ahimè, la pace è finita! Riconosce il suo passo. Lei si ferma un attimo per accendersi una sigaretta, forse anche per dare al suo volto l’espressione allegra che fa parte della terapia.

Entra e dice in tono scherzoso:

«Le sono mancata? Ha avuto bisogno di niente?».

Senza chiedergli il suo parere, toglie l’asciugamano che copre il pappagallo, solleva il lenzuolo e gli fa scivolare l’aggeggio tra le cosce. Perfino questo non dipende più da lui!

 

 

La prima seduta di esercizi passivi ordinati dal professor Audoire lo delude. Non che si aspettasse un miracolo o una terapia spettacolare, ma tutto si riduce, di fatto, a sollevare di qualche centimetro il braccio paralizzato, a posarlo di nuovo sul letto, a ricominciare con l’avambraccio, poi con il polso, e infine con la gamba. All’inizio, gli occhi hanno tradito suo malgrado la paura, una paura animale davanti a tutto ciò che è ignoto, e la signorina Blanche lo ha tranquillizzato:

«Si lasci fare... Le assicuro che non sentirà alcun male...».

Si è seduta sulla sponda del letto, e quando si occupa della gamba destra lui ha il sesso scoperto. E ne è tanto più imbarazzato in quanto, senza che alcun pensiero erotico lo sfiori, probabilmente per cause in qualche modo meccaniche, ha una mezza erezione. Lei non sembra accorgersene. Come un istruttore di ginnastica, conta i movimenti:

«... cinque... sei... sette... otto...».

Al dodici si ferma, tira su il lenzuolo.

«Per oggi, basta... È stanco?».

Lui fa segno di no.

«Vuole che le dia carta e matita?».

Accetta, docile, senza entusiasmo, senza gioia. Farà quello che gli dicono di fare, anche se non ci crede. Se solo la smettessero di trattarlo come un bambino! Eccola che ricomincia, esageratamente allegra, mentre lui la osserva incuriosito.

«Faremo insieme una piccola conversazione. Io faccio le domande e lei mi risponde per iscritto. Vedrà che ci si abitua in fretta a scrivere con la sinistra...».

Appoggia un blocco di carta sul letto, gli porge una matita.

«Da ieri, giù in ufficio, continuano ad arrivare fiori per lei. Non ho voluto che li portassero su prima di sentire cosa ne pensa. Ad alcuni pazienti piacciono i fiori in camera, ad altri no. L’avverto che ce ne sono molti, e che costituiscono un piccolo patrimonio. Che cosa decide?».

Il primo tratto è maldestro, tremolante, il secondo già più fermo, e riesce a scrivere in stampatello: «no».

«Le farebbe piacere che le portassi su i biglietti che accompagnano i fiori?».

Non è affatto curioso di sapere chi glieli ha mandati. Dal giorno prima, non ha degnato di un solo sguardo i sei garofani gialli di sua moglie. Poiché la signorina Blanche ci tiene tanto e non si accontenta più di un cenno del capo, traccia di nuovo sul foglio la stessa parola.

«Che cosa devo farne di questi biglietti? Glieli tengo da parte? Magari più avanti...».

Esita, comincia a tracciare una lettera, ma è troppo pigro per mettere insieme una frase intera e, cancellando con un tratto quel primo segno, riassume il suo pensiero in una sola parola: «frego».

Che significa:

«Me ne frego!».

La signorina Blanche dapprima aggrotta la fronte, poi ride.

«Lei è davvero un tipo strano... Non si sa come prenderla... È sempre così nella vita?...».

Maugras tende l’orecchio: dalla scala gli arriva lo stesso scalpiccio che ha avvertito alle sei e mezzo del mattino, al momento del cambio del turno, e questo lo preoccupa. I passi, adesso, sono accompagnati da un gran vociare, e dalla paura istintiva che lo assale capisce di colpo cosa dev’essere il panico di un cane alla catena. Credeva di conoscere ormai la routine dell’ospedale, e quel baccano improvviso lo sconcerta.

«È solo l’ora delle visite...» gli spiega lei. «I malati possono ricevere amici e parenti il pomeriggio alle due...».

Uomini, donne, bambini provenienti da fuori, che hanno voci e gesti del mondo di fuori, irrompono nel piano, passano davanti alla sua porta, si riversano nella sala grande. Per due ore li sentirà, li vedrà passeggiare nel corridoio in compagnia del familiare ammalato.

«Riprendiamo il nostro giochino... Vediamo un po’!... Che cosa potrei chiederle?... A meno che sia lei a farmi una domanda...».

«No!». Questa volta non lo scrive, si limita a dire no con un cenno del capo. In ogni modo, le domande che gli piacerebbe farle sarebbero troppo complicate. Lei penserebbe che lui nutra un interesse particolare nei suoi confronti, e non è così. Si interessa a lei nella misura in cui le sue risposte sarebbero contemporaneamente risposte agli interrogativi che lui stesso si pone.

Mentre stava seduta accanto a lui sul letto, durante gli esercizi, si è chiesto, per esempio, perché mai abbia scelto di passare la vita in mezzo ai malati.

Raramente ha incontrato giovani donne dotate di altrettanta freschezza, equilibrio, gioia di vivere. Dà l’idea di essere pulita dentro come lo è fuori. In lei tutto è limpido e sano.

Deve avere circa venticinque anni, l’età media delle ragazze che lavorano al suo giornale, e Maugras misura tutta la differenza che le separa da lei.

Al giornale, le più attraenti sono già come segnate e mancano di spontaneità quasi che, invece di seguire il proprio ritmo interno, ne avessero adottato uno diverso. Non sono autentiche. Febbrili, sovreccitate, vivono una vita falsa.

Perché, a seguito di quali circostanze, la signorina Blanche ha scelto la sua professione? Per sua figlia Colette, lo capisce. Per lei, no. Si domanda quale sia la sua vera personalità e dove vada, alle sei e mezzo di sera, quando lascia Bicêtre al volante della macchinetta che si figura lei possegga.

Non porta la fede. Ha un fidanzato, un amante? Vive con i genitori, o sola, in un appartamento di cui si occupa dopo la giornata di lavoro?

Va al cinema, a ballare? Frequenta un gruppo di amici e di amiche?

Mentre lei ripone carta e matita, gli affiora alla memoria un ricordo un po’ grottesco. Due anni prima, c’era al giornale una giovane dattilografa dal lungo volto stretto, quel misto di banalità e mistero che caratterizza le Vergini di gesso di Saint-Sulpice.

Aveva un nome buffo: Zulma, e legava poco con le colleghe che l’avevano soprannominata «la madonnina» e si divertivano a punzecchiarla.

Maugras la conosceva perché gli era capitato di dettarle un paio di lettere in assenza della sua segretaria. L’aveva osservata con curiosità, come guardava adesso la signorina Blanche, poi non ci aveva più pensato.

Nei cabaret di Montmartre era di moda, all’epoca, organizzare un paio di volte alla settimana una serata di spogliarello riservata alle non professioniste. Una sera, dopo una prima teatrale, alcuni amici lo avevano trascinato in uno di quei locali, e la terza ragazza che si era presentata alla ribalta altri non era che Zulma, «la madonnina» del giornale, che, chiusa in un tailleur severo, con la faccia smorta e gli occhi azzurri fissi nel vuoto, aveva cominciato a spogliarsi.

Maugras si era spostato un po’ indietro, riparandosi in una zona d’ombra per non metterla a disagio. Precauzione superflua, perché, concentrata com’era nel suo strip-tease, nella progressiva messa a nudo del suo corpo pallido, lei non vedeva niente.

I numeri precedenti avevano scatenato l’ilarità degli spettatori. Per Zulma, invece, regnava il silenzio e serpeggiava per la sala un certo nervosismo, quasi un senso di angoscia, come se tutti sentissero che la cosa poteva anche finir male.

Lei si muoveva a scatti, con gesti goffi. Dallo sguardo vacuo, dalla totale assenza di espressione, si intuiva che stava compiendo una sorta di rito, o addirittura di esorcismo solo per se stessa.

Maugras ignorava se, prima di farle salire sulla pedana, l’organizzazione fornisse alle ragazze alcuni accessori. Fatto sta che, tolti gli ultimi indumenti, Zulma era apparsa con il basso ventre coperto da un triangolino di paillette argentate che sembravano scaglie di pesce. Inoltre, una stella, anch’essa d’argento, le tremava sulla punta di ciascun seno.

Aveva lavorato al giornale ancora per un mese prima di licenziarsi, e nessuno sapeva che fine avesse fatto.

Ma perché gli viene in mente Zulma, che non ha niente in comune con la signorina Blanche? Dell’infermiera gli piacciono la bocca, il labbro inferiore carnoso, la linea della guancia e della nuca.

Ma non la desidera. Se fosse in grado, nel suo stato, di desiderare una donna, sceglierebbe piuttosto di fare l’amore con Joséfa, che si divincolerebbe ridendo prima di allargare le gambe.

Che cosa sarebbe successo se sette o otto anni prima avesse incontrato la signorina Blanche anziché Lina? L’avrebbe notata, nella vita normale? Si pone la domanda senza sforzarsi troppo di trovare una risposta.

Nel corridoio squilla il telefono. Qualcuno stacca il ricevitore. Una testa di donna fa capolino nel riquadro della porta.

«È per lei...» annuncia all’infermiera.

Lui la segue con lo sguardo, pensoso, scontento di sé, scontento di venir distolto ancora una volta dalle sue riflessioni. Lei torna subito.

«C’è sua moglie al telefono; chiede se le farebbe piacere che venisse a trovarla nel pomeriggio...».

Come al giornale! Non passava mai da lui senza aver prima telefonato per chiedergli il permesso.

Indugia, resta immobile, incerto sulla risposta da dare. Lina ha orrore delle camere d’ospedale, dei funerali e persino dei matrimoni. Si sente in dovere di venire a Bicêtre perché è uso far visita a un marito costretto a letto.

Il giorno prima, non potendo chiedere l’autorizzazione a lui, si è rivolta ai medici. Se torna oggi, ci farà l’abitudine e la si vedrà arrivare in ospedale tutti i pomeriggi.

Alla fine, fa un cenno negativo.

«È sicuro?».

Sembra sorpresa, un po’ confusa.

«In questo caso, le rispondo che si sente stanco... No! Potrebbe preoccuparsi... Dirò che da un momento all’altro aspettiamo la visita del professore...».

Quando torna in camera è soprappensiero. Si siede al suo posto, vicino alla finestra, e guarda fuori a lungo prima di domandargli:

«È sposato da molto?».

Lui mostra le cinque dita della mano sinistra, poi ancora tre.

«Otto anni?».

Chissà se ha notato, il giorno prima, che sua moglie aveva bevuto... Se, come infermiera, ha capito che c’è qualcosa che non va, che il nervosismo di Lina non è naturale, che il suo sguardo esprime un’angoscia latente, come se da nessuna parte si sentisse al suo posto...

Dopo alcuni minuti di silenzio, gli fa un’altra domanda, restando sempre girata verso il cortile.

«La ama?».

Ha dimenticato che le sue corde vocali sono fuori uso? Il suo silenzio la sorprende e, quando finalmente si gira, lui ripete il cenno affermativo.

In realtà, è vero e non è vero. Né Lina né lui sanno più come stiano le cose. Solo due mesi prima, mentre tornavano da una delle rare cene alla quale avevano partecipato insieme dopo molto tempo, c’era stata fra loro una violenta scenata.

Lei era ubriaca. E anche lui, benché molto meno di lei, aveva bevuto più del solito, e credeva di avere la perfetta padronanza dei propri nervi.

Poco importa quello che si erano detti. Il significato delle parole non contava. Ciascuno di loro era convinto di essersi rovinato la vita a causa dell’altro. Con la differenza che Lina traduceva diversamente il suo pensiero, accusava se stessa di farlo soffrire, e questo era un modo indiretto di piangersi addosso.

La mattina seguente lui è andato al giornale come sempre. Non rientra mai a pranzo. Si ritrovano solo alla sera, in un bar o in un ristorante, e passano dall’albergo soltanto se devono cambiarsi.

Alle otto lei era già a letto, con l’infermiera del George V seduta al suo capezzale nella penombra. Non hanno più riparlato di quella notte. Ciò non toglie che per la prima volta è stata pronunciata la parola divorzio e che, pure per la prima volta, gli è parso di vedere l’odio negli occhi di sua moglie.

«Solo perché dirigi un grande giornale e sei circondato da un branco di leccapiedi, pensi di essere un grand’uomo e che tutto ti sia permesso...».

Sceglieva le parole più offensive, e qualche minuto dopo strisciava ai suoi piedi chiedendogli perdono e accusandosi di tutte le colpe...

In notti come quelle, per un nonnulla si sfiora il suicidio. E se avesse avuto un’arma a portata di mano forse si sarebbe ucciso. La vita gli sembrava vuota e assurda quanto quella lontana mattina a Fécamp.

Da quell’alba grigia in cui era rientrata la Sainte-Thérèse, si era messo a lavorare accanitamente, tanto da spaventare l’amico Besson d’Argoulet che, a ogni check-up, gli consigliava di non prendere così a cuore il lavoro e di affidare ad altri una parte delle sue responsabilità.

Che cosa sarebbe rimasto se non avesse preso a cuore le cose, anche senza crederci?

È un po’ come la domanda della signorina Bianche:

«La ama?».

Non ha potuto rispondere altro che sì. E forse è vero. Forse è questo l’amore di cui è capace un uomo.

Da due mesi lui e Lina quasi si evitano, cercano di non restare a tu per tu e soprattutto di non parlare dei loro problemi. Lei beve sempre di più. Lui se ne preoccupa, teme un altro esaurimento nervoso, che rischierebbe di essere più grave del primo. Lo sguardo di Lina gli fa paura, è lo sguardo di una creatura braccata, ossessionata da un’idea fissa.

Sembra allontanare un pensiero che si sforza accanitamente di nascondergli. E lui stesso non ha forse cercato per tutta la vita di sfuggire a qualcosa? A partire da Fécamp. Da quando ha avvertito per la prima volta il vuoto intorno a sé.

È a Lina che la signorina Blanche continua a pensare, meditabonda e silenziosa? Stanno entrambi immobili per alcuni minuti, durante i quali lui non ha più piena coscienza del viavai, peraltro rumoroso, nel corridoio. Ne è lontanissimo. Ma non saprebbe dire a che cosa pensa. Comunque, dimentica che giace in un letto d’ospedale e trasalisce, con lo sguardo annebbiato, vedendo entrare in camera Besson, elegante e disinvolto.

«E allora?... Come andiamo qui?... Un po’ depresso?...».

Gli occhi del medico cercano i suoi, si sforzano di metterlo a nudo.

«Tua moglie mi ha telefonato proprio mentre uscivo dallo studio... Era preoccupata perché oggi ti rifiuti di vederla... L’ho rassicurata... Le ho spiegato che sarai soggetto a sbalzi d’umore almeno fino all’ottavo giorno...».

Ecco che ricominciano! Sanno, giorno per giorno, quale dev’essere il suo stato d’animo oltre al suo stato di salute! Perché non l’hanno addirittura scritto sulla cartella ai piedi del letto, alla quale Besson si limita a dare un’occhiata distratta prima di venire a sedersi al suo capezzale?

La signorina Blanche, che si è alzata quando è entrato il professore, aspetta un momento, nel caso ci fosse bisogno di lei, poi esce con discrezione dalla stanza.

«E adesso a noi due, ragazzo mio...».

Besson se n’è uscito con quella battuta usando il tono falsamente brioso tipico del teatro di boulevard, e Maugras lo fissa con la stessa lucida freddezza con la quale poco prima guardava Audoire, scoprendo che dopotutto il famoso barone pieno di medaglie è solo un personaggio grottesco.

 

4

 

«Adesso che stai abbastanza bene, ti posso parlare seriamente... Poco fa ho sentito Audoire al telefono...».

Fin da quando lo ha visto entrare Maugras ha intuito che Besson è venuto con uno scopo preciso e quelle parole glielo confermano. I due medici si sono telefonati a proposito del suo caso. Lina, da parte sua, ha chiamato Besson. C’è intorno a lui un mondo complice di cui tutti fanno parte, comprese la caposala e la signorina Blanche. Lui invece è lì, inerte nel suo letto, alla mercé di individui che si scambiano le loro osservazioni, discutono della sua patologia e lo giudicano.

Un attimo fa Besson interpretava la parte dell’attor comico, del bonaccione: l’entrata in scena è stata affabile, cordiale; mancavano solo le grandi pacche sulle spalle.

Adesso assume un tono preoccupato, che presto diventa burbero. E in tutto questo non c’è niente di improvvisato. Si tratta di una scena preparata, in cui si è accordato con il collega perché ciascuno recitasse la propria parte!

Come con i bambini, ancora una volta! Se la persuasione non funziona, la madre dice al marito:

«Prova un po’ tu! Hai più autorità di me. Forse, se gli dai una scrollata...».

Questo sta facendo Besson: gli sta dando una scrollata.

«Se tu fossi un imbecille, non ti parlerei come sto per fare. Con certi pazienti, siamo costretti a barare perché non sono in grado di capire. Non è il tuo caso...».

Maugras ha pochissima curiosità di sentire dove va a parare. È soprattutto l’uomo a interessarlo, e lo guarda con occhi nuovi come se non lo conoscesse da trent’anni.

«Audoire non è contento di te... Trova che non collabori, che ti rinchiudi in te stesso e ti ostini a crogiolarti nella malattia... Eppure dovresti sapere che per un medico è difficile, se non impossibile, guarire un paziente contro la sua volontà...».

Va’ a sapere quando gli mentono e quando gli dicono la verità...

«Guarda che io capisco il tuo atteggiamento meglio di Audoire perché ti conosco da molto più tempo... Non faccio fatica a immaginare quali possano essere i contraccolpi di un trauma come quello che hai subito in un tipo come te, così iperattivo...».

Si sta già sbagliando, il che non gli impedisce di sentirsi soddisfatto di sé e di continuare a inanellare le sue frasi come se pronunciasse un discorso all’Accademia di Medicina.

«Devi metterti in testa, vedi, che il tuo non è il primo caso... Audoire ne ha visti altri, in questa stessa camera, e sa bene quali sono le reazioni di un malato... Tu non ti fidi di quello che ti andiamo dicendo noi due, ammettilo!».

Che cosa gli hanno detto fino a questo momento? Che non morirà. Che guarirà. Che non rimarrà impotente per il resto dei suoi giorni. Che, fra qualche settimana o al massimo qualche mese, riprenderà il suo posto nel mondo degli uomini che continuano la loro concitata esistenza al di là della finestra.

Ma se non gliene importa nulla!

«Ieri ti ho spiegato brevemente la differenza tra un’emiplegia e l’altra. Sono convinto tuttavia che tu ti sia fatto una tua idea... Non penserai per caso di avere un tumore cerebrale?...».

Besson aspetta una reazione, e di fronte all’immobilità di René assume l’aria furbetta di uno che ci ha azzeccato.

«È così, vero? Scommetto che pensi al nostro amico Jublin...».

Per cavarsela, Maugras fa segno di no.

«Il caso di Jublin è completamente diverso dal tuo... Vuoi che ti dia qualche dettaglio tecnico?...».

No e poi no! Ne ha abbastanza. A che scopo, visto che accetta il destino del loro amico? Ascolta distrattamente, sente la voce di Besson, le parole che pronuncia, senza prestarvi attenzione, e frasi intere svaniscono nel nulla perché non si sforza di dare loro un senso.

«Ascoltami bene, René... Non dico che il primo giorno non ci siamo preoccupati, e anche la prima notte... Tutto dipendeva da un certo numero di test e di esami... Per questo Audoire ha preferito averti sottomano, anche se, a Auteuil, l’atmosfera sarebbe stata più congeniale ai tuoi gusti...».

Errore! Da nessuna parte c’è l’atmosfera giusta, per lui.

«Avevi il polso a 60, e questo ci rassicurava; oggi, se la cosa ti interessa, è a 68, vale a dire normale... Quanto alla pressione, superava solo di poco i tuoi valori abituali...

«Ti sto annoiando, ma è indispensabile che tu mi ascolti affinché non ti resti più alcun dubbio...

«Per due giorni non hai avuto la minima consapevolezza di quello che ti succedeva intorno... Poi, ne hai avuto solo nozioni vaghe o falsate... Ti riassumo quello che abbiamo fatto...

«Prima di tutto ti abbiamo iniettato una fiala di Teofillina e proceduto all’aspirazione delle vie respiratorie... Una prassi consolidata... Si tratta di evitare l’ingorgo dei polmoni... E per scongiurare l’insorgere di un’eventuale broncopolmonite, ti è stata somministrata una dose di penicillina da un milione di unità...».

Maugras è sempre lontanissimo.

«Il colesterolo è normale: 220, meglio del mio, che supera i 240... Quanto alla glicemia...».

Lui non lo segue più, e se Besson sapesse la ragione per cui Maugras lo fissa così intensamente ne sarebbe stupito. Il fatto è che cerca di ritrovare, attraverso il barone di oggi, il giovane interno che ha conosciuto un tempo.

È ancora un’immagine a tornargli in mente, come per Fécamp, con la differenza che questa è a colori e animata, con alcune scene venute male come nei filmini dei dilettanti.

Riguardo alle date, però, la sua memoria è meno precisa. 1928? 1929? È quasi sicuro, comunque, che lui e Marcelle, la sua prima moglie, abitassero ancora in rue des Dames, nella piccola camera al quarto piano dell’Hôtel Beauséjour. È quello che tra sé e sé chiama il periodo Batignolles, per via del vicino boulevard. I posti in cui ha via via abitato sono i migliori punti di riferimento per situare gli avvenimenti nel tempo.

Eppure ha l’impressione che sua figlia fosse già venuta al mondo e che lui avesse anche parlato a Besson della sua malformazione. Ora, un po’ prima della nascita di Colette, avevano traslocato in un alloggio di rue des Abbesses, a pochi passi dal teatro dell’Atelier dove Marcelle aveva continuato a recitare in piccole parti fino a che l’avanzato stato di gravidanza non glielo aveva impedito.

Poco importa. Lui scriveva trafiletti di cronaca per «Le Boulevard», un giornale che si occupava soprattutto di teatro. All’epoca gli attori, i giornalisti, i nottambuli si ritrovavano, dopo lo spettacolo, alla Brasserie Graf, di fianco al Moulin Rouge. La sala era molto illuminata, molto rumorosa, e lui si sedeva sempre allo stesso tavolo, vicino all’ingresso, da dove poteva seguire il viavai su boulevard de Clichy.

Julien Marelle, del quale si rappresentava allora la prima commedia, gli aveva fatto conoscere un giovane avvocato, Georges Clabaud, figlio di un consigliere di Stato, che all’epoca faceva pratica presso un famoso civilista. Clabaud, che con gli anni sarebbe diventato grasso e tondeggiante, era inagrissimo, già ironico e caustico, e dava su tutti giudizi feroci e quasi sempre arguti.

Attraverso Clabaud, poi...

Ritrovare quella concatenazione di casi mentre osserva Besson d’Argoulet lo diverte. Quello che sta evocando dentro di sé è, in definitiva, la nascita del gruppo del Grand Véfour.

Clabaud abitava con suo padre alla fine di boulevard Raspail, vicino al Lion de Belfort, in una casa strampalata, con scale inaspettate, recessi misteriosi, corridoi interrotti senza motivo da diversi gradini. In quella strana casa Clabaud disponeva di un seminterrato dal soffitto basso dove riceveva gli amici.

Una sera qualcuno, Maugras non sa chi, gli aveva portato un interno di Bichat che in seguito Clabaud aveva presentato ai compagni della Brasserie Graf.

«Vedrete! È un ragazzo dall’aria tranquilla, ma sotto sotto ha mire molto ambiziose, e sono certo che farà parlare di sé. Ad ogni modo, è sempre utile avere un amico medico...».

Quella sera avevano mangiato zuppa di cipolle a un tavolo in fondo al locale. Mistinguett era seduta lì vicino in compagnia di un uomo con l’aspetto e i modi da notaio o da procuratore il quale, al termine della cena, si era messo a tracciare colonne di cifre sul retro del menu.

Besson era già allora un bell’uomo, meno robusto di oggi, meno prestante, ma con lo stesso vezzo di ascoltarsi parlare e di segnare a volte una battuta d’arresto allo scopo di dare più importanza alle sue parole.

Tra poco, se lo lasciano in pace, Maugras cercherà di ricostruire l’iter completo degli habitué del Grand Véfour. Era stato un periodo complicato. Nella vita degli uni e degli altri i cambiamenti erano più rapidi, più imprevisti. Tutti erano all’inizio delle rispettive attività e ora l’uno, ora l’altro, avanzava nella carriera e veniva guardato con una certa invidia. Capitava che si perdessero di vista e si ritrovassero poi, per caso, qualche anno più tardi.

Non si poteva ancora parlare di stabilità. I destini erano ancora incerti, e fra coloro che Maugras ha conosciuto in quegli anni molti non ce l’hanno fatta e all’improvviso sono spariti dalla circolazione, come Zulma.

Sa che Besson d’Argoulet era meno imponente, meno mellifluo. Ma, mentre ha davanti agli occhi l’immagine di Mistinguett e dell’uomo di legge che sedeva con lei al tavolo vicino, non riesce a ricordare le sembianze esatte dell’amico. Forse perché sono invecchiati insieme, quello che gli torna in mente è un Besson sessantenne.

«... Quanto alle iniezioni che ti fanno, oltre ai sedativi che ti garantiscono notti tranquille, se vuoi saperlo si tratta...».

No, non ha nessuna voglia di saperlo.

«... se vuoi saperlo si tratta di un anticoagulante, il Sintrom, destinato a evitare la formazione di nuovi coaguli del sangue...».

E non finisce lì, perché Besson vuole anche dargli l’esito dell’encefalogramma e dell’arteriografia.

«Bene! Questo è il quadro clinico. Se c’è qualcosa che non ti è chiaro o se hai domande da fare, ti darò carta e matita... No?... Come vuoi!... Sei convinto, adesso, che ti ho detto la verità e che una diagnosi di tumore cerebrale è definitivamente da escludere?...».

Non sono sullo stesso piano. È un dialogo tra sordi, se quello si può chiamare un dialogo. Besson parla di tumori e di arteriografie mentre René, se avesse una domanda da porre e se fosse possibile porre una simile domanda a un uomo, sia pure a un amico, gli chiederebbe:

«Sei soddisfatto di te?».

Non è forse questa, a dispetto delle apparenze, la cosa più importante? Un Besson d’Argoulet è in pace con se stesso? Sente di avere i piedi su un terreno stabile e solido? Crede all’importanza che si dà, alla validità di quello che fa, delle sue lezioni a Broussais, della sua reputazione nell’ambiente medico, delle sue onorificenze, del suo appartamento pieno di mobili rari e di opere d’arte, del suo far parte del Tout-Paris?

Si potrebbe porre la stessa domanda anche agli altri, e non soltanto a quelli del Grand Véfour.

La loro attività non è in qualche modo, com’è la sua per lui, una fuga? Sono consapevoli, magari solo di quando in quando, di aver tradito?

Tradito che cosa? Non ne ha idea e non è il momento di sviscerare un problema di così capitale importanza.

«Ciò detto, veniamo al tuo morale...».

Forse Besson comincia finalmente a occuparsi di ciò che conta... Maugras è attraversato da un barlume di speranza, di sorpresa anche, perché questo cambierebbe il ritratto che ha appena tracciato dell’amico. Un ritratto poco lusinghiero. È convinto che, fin dal suo arrivo a Parigi, Besson avesse un’idea precisa della carriera da intraprendere, del fine da raggiungere e dei mezzi da impiegare, e che fosse deciso a passare per dove sarebbe stato necessario.

Non viene da una famiglia ricca, benché più agiata, più borghese di quella di Maugras. Suo padre è stato per tutta la vita medico condotto a Virieu, nell’Isère. Pierre ha studiato al liceo di Moulins ed è poi entrato alla facoltà di Medicina a Parigi.

Soggetto brillante, come si suol dire, è diventato l’allievo preferito di Elémir Gaude, famoso psichiatra dell’epoca, successore di Charcot alla Salpêtrière.

È stato un caso se ha sposato la figlia del suo capo? Fra tutte le ragazze che ha incontrato, si è davvero innamorato proprio di quella? Potrebbe onestamente affermare che nella sua scelta non c’è stato alcun calcolo?

Grazie al suocero Besson è diventato, a trentadue anni, primario, prima a Bichat, poi a Broussais, e ha abbandonato la psichiatria per la medicina interna. La psichiatria, si sa, non rende molto. Come internista, invece, Besson si è fatto quasi subito una clientela nel bel mondo.

Ed era sempre un caso se si faceva già vedere a tutte le prime, e se a poco a poco si andava ritagliando uno spazio nel Tout-Paris? Chissà che non avesse uno scopo recondito quando si era introdotto, molto tempo prima, nel loro gruppo... Fra quelli che si ritrovavano al tavolo della Brasserie Graf poteva esserci qualche futura celebrità...

E non c’è stato, ancora una volta, lo zampino del suocero quando, a trentaquattro anni, è diventato uno dei più giovani ordinari di Francia e quando, tre anni più tardi, ha ottenuto una cattedra e infine, alla morte di Gaude, è entrato all’Accademia di Medicina?

Nella mente di René, inerte nel suo letto, lo sguardo sempre puntato sull’amico, non importano i fatti, né le intenzioni. Quello che vorrebbe sapere è se Besson si rende conto. È una questione di sincerità e insieme di lucidità.

Se l’è posta spesso per altri, soprattutto per certi uomini politici, quando faceva ancora parte della vita normale. Trovava risposte diverse secondo l’umore, ma la cosa non aveva la stessa urgenza di adesso.

«Il primo stato d’animo di un emiplegico, Audoire te lo direbbe con maggiore autorità di me, è una depressione pressoché assoluta, la quasi certezza della morte o, se questa non avviene nei primi giorni, di una infermità permanente... Immobilizzato com’è, spesso incapace di parlare, il malato immagina che resterà per sempre tagliato fuori dal mondo... Confessa di averlo pensato...».

È vero, ma non come lo dice Besson.

«Che si tratti di un uomo colto o di una persona semplice, ne consegue un atteggiamento di diffidenza nei confronti del medico e in genere di tutto il suo entourage... È la prima fase, la più angosciosa... Bisogna uscirne al più presto... Ed è qui che mi deludi, René... A Audoire e a me, nonché a tutti coloro che ti curano, sembra...».

Tutti coloro, insomma, che costituiscono intorno a lui una sorta di massoneria, che fingono allegria e fiducia mentre lo osservano con occhio freddo, che bisbigliano dietro le porte, si passano misteriosi rapporti e si scambiano telefonate!

«... ci sembra, lasciatelo dire, che tu non voglia guarire, che tu sia ostile nei nostri confronti...».

Non ostile. Indifferente. E non è ancora la parola giusta. Li vede diversamente da come si vedono loro. Non ha più i loro stessi problemi. Li ha superati.

Non servirebbe a niente cercare di comunicare, e la commediola che Besson gli recita mentre la signorina Blanche è da qualche parte a fumare una sigaretta, forse in cortile, a meno che non se ne stia dietro la porta, quella commediola ottiene il risultato contrario a quello che si aspettano.

Più Besson parla e più Maugras si sente lontano da loro.

Medici e specialisti hanno una visione ristretta del problema, per loro comincia nelle toilette del Grand Véfour, nemmeno sospettano che bisognerebbe risalire molto più indietro, che bisognerebbe risalire fino a Fécamp.

Esattamente come, per Besson, sarebbe probabilmente necessario andare a cercare nell’Allier le radici dell’uomo che è diventato.

«Non dico che non esistano casi particolari, che tutti i pazienti reagiscano nello stesso identico modo... Ciò nondimeno, per un ragazzo come te è utile conoscere gli effetti della malattia... Questo ti aiuterà ad allontanare le idee false che certamente ti stai facendo...

«Nella prima fase, dunque, angoscia e depressione, accompagnate spesso, non te lo nascondo, dalla convinzione di una fatalità ineluttabile... "Doveva succedere"... Quasi tutti attraversano questa crisi e, nonostante le assicurazioni dei medici, si persuadono che l’esito sarà fatale...

«Per molti, questa certezza non va disgiunta da un certo sollievo o una morbosa rassegnazione... Non ti parlerei così, capisci, se tu fossi il primo venuto...».

Maugras è seccato che l’altro abbia colto nel segno, o quasi, o che comunque sembri aver colto nel segno. Se tutto questo a prima vista sembra vero, per quanto riguarda lui è senz’altro falso.

«Ho visto casi in cui il malato è convinto di subire una punizione meritata, di pagare per delle colpe che ha commesso...».

Continuano a pensare al posto suo. Lo passano ai raggi X. Cercano di mettere in luce i recessi più segreti della sua coscienza.

«Adesso dunque sai che non rappresenti un’eccezione e che stai seguendo la curva clinica della malattia... È arrivato il momento che tu smetta di crogiolarti in questo tuo tetro compiacimento e che ti decida a collaborare con noi...

«Ti hanno già dato un po’ di succo d’arancia... Fra due o tre giorni potrai alimentarti quasi normalmente... Gli esercizi passivi, che ti sembrano puerili, costituiscono comunque una tappa importante verso la rieducazione...

«Già da oggi, se solo ne avessi voglia, riusciresti a pronunciare qualche frase, anche se impappinandoti un po’ nelle parole...

«Ti ci vorrà molta pazienza, non lo nego, ma vedrai che, a partire da lunedì, con tua grande sorpresa, ti ritroverai in piedi vicino al letto...

«È indispensabile che tu ci creda, che abbia fiducia, invece di guardarci con occhio scettico come adesso. Spetta a te decidere di tornare a essere quello di prima...».

Povero Besson! Sulla fronte gli brillano goccioline di sudore e si è dimenticato di accendere la sigaretta.

«Generalmente, verso l’ottavo giorno i progressi diventano apprezzabili, spesso addirittura spettacolosi. Come amico e come medico, ti chiedo, fino a quel momento, di avere fiducia in Audoire e in me...».

Si alza, quasi sfinito, ritrova il tono di quando è entrato per concludere:

«Questo è quanto dovevo dirti, mio caro René... Tutti i nostri amici aspettano il permesso di venirti a trovare e continuano a telefonarmi per avere tue notizie... Credi di essere solo... Non è affatto vero... Siamo in tanti, vedi, a contare su di te, a cominciare da Lina che, come sai, ha molto bisogno di te...».

Gli tende la mano e sorride. Sembra commosso. Probabilmente lo è. Anche gli attori provano un’emozione reale quando recitano.

A che serve dargli un dispiacere? Maugras tira fuori il braccio sinistro da sotto il lenzuolo e porge a sua volta la mano.

«Non ti chiedo di promettermi niente, ma ti supplico di non chiuderti in te stesso volontariamente...».

Volontariamente!

 

 

Poco fa, al momento di uscire dalla camera, Besson è rimasto un istante con la mano sul pomolo della porta. Gli girava le spalle, ma René non aveva bisogno di vederlo in faccia per sapere che era alquanto disorientato. Se n’è dispiaciuto, e ancora se ne dispiace. Se avesse potuto, lo avrebbe richiamato e gli avrebbe chiesto scusa per il suo atteggiamento.

Non c’è stato alcun conciliabolo, nel corridoio, tra il medico e la signorina Blanche, che è entrata subito in camera. Probabilmente è bastato loro un gesto, uno sguardo mentre si incrociavano.

Per un attimo, è sembrato che cercasse sul volto di Maugras la conferma dell’insuccesso. Anche lei è delusa. Va su e giù per la stanza più del necessario, fa ordine, vuota il posacenere, prepara la prossima iniezione.

Qual è la frase di Besson che lo ha colpito di più?

«Non collabori. Non possiamo guarirti tuo malgrado...».

Non sono le parole esatte, ma il senso è quello, e gli fa tornare in mente il suo professore di matematica al liceo Guy-de-Maupassant.

«È qui con noi, Maugras?».

Lui sobbalzava e quel richiamo scatenava invariabilmente le risate dei compagni. Il professor Marengrot aveva ragione. Ancora una volta, senza volerlo, era partito per la tangente. La cosa più sconcertante era che non avrebbe saputo dire a che cosa stesse pensando.

«Lei ci concede la sua presenza fisica, ma rifiuta di integrarsi alla classe... Con tutta la mia buona volontà, mi è impossibile insegnarle la matematica suo malgrado...».

Non poteva farci niente. All’inizio della lezione si riprometteva di seguirla con la massima attenzione e, quando gli arrivava l’inevitabile: «È qui con noi, Maugras?», era il più stupito di tutti.

La sua pagella riportava valutazioni del tipo: «Mancanza di concentrazione», «Scarso impegno», «Allievo intelligente, ma distratto»...

Gli dispiace molto amareggiare la signorina Bianche. Che cosa potrebbe scrivere sul blocco di carta per rassicurarla?

«Lei mi tiene gli occhi puntati addosso, segue il movimento delle mie labbra eppure la sfido a ripetermi l’ultima frase che ho pronunciato...».

Questo era il professore di inglese, al quale non era simpatico e che gli rimproverava la sua aria cocciuta.

«Mancanza di volontà». Era un’altra menzione riportata sulla pagella. Non ha forse dato prova di volontà tutta la vita? E non è suo diritto, oggi, esprimere una volontà diversa, quella di opporre resistenza a tutti loro?

A chi entrasse nella camera in questo momento lui e la signorina Blanche sembrerebbero probabilmente una coppia che si tiene il broncio per una sciocchezza. Per la prima volta nella giornata, sente le campane alle quali, nelle ore di maggiore animazione, è poco attento. È anche vero che adesso suonano a distesa.

Poiché di solito non si celebrano matrimoni a metà pomeriggio, Maugras suppone che si tratti di un funerale, o forse di un battesimo. Si suonano le campane per un battesimo? Non se ne ricorda.

Anche Besson ha pensato all’amico Jublin. Sapendo che Maugras avrebbe fatalmente posto a confronto il proprio caso con quello del poeta, ha messo le mani avanti.

Poco importa che Jublin abbia avuto un tumore al cervello; non è la questione fisica che conta. L’essenziale è che lui ha vissuto quei cinque anni straordinari che René quasi quasi gli invidia.

Sfortunatamente, anche se lui restasse paralizzato in metà del corpo e riacquistasse solo un uso parziale della parola, il suo caso sarà diverso.

Jublin si era unito al gruppo intorno al 1928, un po’ prima di Besson d’Argoulet e comunque quando frequentavano ancora la Brasserie Graf. Era un ragazzo alto e scheletrico che, a un ballo in maschera dato da un pittore nel suo atelier di boulevard Rochechouart, impersonava Valentin le Désossé, il famoso ballerino di quadriglia del Moulin Rouge dipinto da Toulouse-Lautrec.

Il suo volto, di un pallore terreo, restava imperturbabile mentre dalla bocca gli uscivano le battute più paradossali. Maggiore di Maugras di quattro o cinque anni, Jublin aveva partecipato al movimento Dada, per seguire poi i surrealisti.

Viveva al caffè, senza far parte di un determinato gruppo né privilegiando un determinato quartiere di Parigi: frequentava sia i Deux Magots in boulevard Saint-Germain che i bar degli Champs-Elysées e i bistrot di Montmartre, conosceva tutti mentre nessuno conosceva veramente lui.

Nessuno, per esempio, avrebbe saputo dire dove abitasse né quali fossero i suoi mezzi di sostentamento, e fu per caso che Maugras lo scoprì in una specie di gabbia di vetro, nella tipografia della Borsa, dove Jublin si guadagnava la pagnotta come correttore.

Non parlava mai delle sue opere, benché avesse già pubblicato due o tre volumi di versi. Più tardi, quando la critica aveva cominciato a occuparsi di lui, un editore della Rive gauche lo aveva ingaggiato come lettore per offrirgli maggiori possibilità.

Com’era capitato, dopo la guerra, nel gruppo del Grand Véfour? E il gruppo stesso non si era forse formato per caso?

Ne aveva gettato le basi, senza saperlo, Besson d’Argoulet. Maugras era appena stato nominato cavaliere della Legion d’onore e Besson, che quella onorificenza l’aveva già, si era dato da fare per essere lui a conferirgli la decorazione.

Era più forte di lui. Andava pazzo per le cerimonie, gli onori, i titoli, le medaglie, e quello che doveva farlo maggiormente felice nel suo ruolo di barone era di aggirarsi per le corsie di Broussais seguito da un codazzo di diverse decine di allievi ossequiosi.

Da tempo avevano abbandonato place Blanche e la Brasserie Graf. Non esisteva un gruppo omogeneo: ciascuno aveva seguito la sua strada e si incontravano accidentalmente, nell’una o l’altra delle occasioni offerte dalla vita parigina.

«To’! Cosa fai di bello?...».

Il Grand Véfour, sotto i portici del Palais-Royal, era frequentato da molti uomini arrivati. Maugras, diventato nel frattempo caporedattore, vi pranzava spesso e aveva un tavolo riservato nella sala al pianterreno. Un giorno Besson gli aveva telefonato in ufficio.

«Sei libero martedì prossimo per pranzo?».

Lui aveva risposto di sì e non ci aveva più pensato, tanto che il martedì, quando era arrivato al ristorante, era rimasto alquanto sorpreso di sentirsi dire dal padrone:

«Gli altri signori l’aspettano di sopra...».

Gli avevano preparato una sorpresa. Per festeggiare la sua Legion d’onore, Besson aveva riunito alcuni dei loro amici di vecchia data, quelli che erano sopravvissuti. E si era deciso che la cosa sarebbe stata riservata ai soli uomini.

Per caso, Marelle, il drammaturgo, che non sapeva dire di no a nessuno, scendendo dal taxi si era imbattuto in Dora Ziffer, una delle più velenose giornaliste di Parigi, e anche la più brutta, che si occupava, in un giornale di estrema sinistra, sia della cronaca giudiziaria che della critica teatrale.

«Dove va così di corsa?» gli aveva chiesto.

E lui le aveva accennato al pranzo organizzato per fare una sorpresa a Maugras. Dora Ziffer è una loro coetanea, e anche lei aveva collaborato al defunto «Boulevard».

«Le dispiace se salgo un momento?».

Naturalmente, alla fine si era seduta a tavola con gli altri. Terminato il pranzo, e mentre venivano serviti i liquori, qualcuno aveva osservato:

«A proposito... siamo in tredici a tavola!».

Il seguito è più confuso. Era il momento in cui, dopo un buon pasto annaffiato con abbondanza fin eccessiva, tutti hanno i pomelli rossi e parlano contemporaneamente.

«Perché non ci troviamo qui una volta al mese?».

«Il Pranzo dei Tredici!».

Non ci credevano troppo. Eppure, dopo tanti anni, la tradizione continua. Jublin faceva parte del gruppo, Jublin di cui non si sapeva mai se parlava seriamente o se scherzava, e che forse era un genio o forse un mattacchione. È così che lo consideravano gli amici del Grand Véfour fino all’emorragia cerebrale che l’aveva colpito.

Nessuno se lo immaginava sposato: per tutti era un bohémien, uno che vive tra una camera ammobiliata e l’altra, o nel pittoresco disordine di un appartamento da scapolo.

Così, quando lo hanno portato all’ospedale, sono rimasti di stucco nel veder spuntare una donna sulla quarantina, cicciottella, vestita modestamente, che ha chiesto:

«Dov’è mio marito?».

Non solo Jublin era sposato, ma abitava in un appartamento più che borghese in rue de Rennes, non lontano dalla Gare Montparnasse.

Maugras ci è andato un paio di volte, non di più. La prima volta, era troppo presto. Jublin, che non si era ancora rassegnato alla sua decadenza fisica, non voleva vedere nessuno, soprattutto i vecchi amici.

René rivede l’angusto salottino dalle pareti rivestite di carta da parati a fiori e con una pianta ornamentale in un angolo. La signora Jublin spiegava sottovoce:

«Non se ne abbia a male... Gli fa piacere che chiediate sue notizie, e vi è grato, ma preferisce stare solo... A poco a poco si abitua...».

Lo diceva con una strana serenità.

«Forse, più avanti, avrà di nuovo bisogno di compagnia...».

Jublin era stato sposato per vent’anni senza che nessuno lo sospettasse. Il nottambulo dei Deux-Magots, di Graf e della Brasserie Lipp aveva un porto, un appartamento che sembrava quello di un impiegatuccio. E aveva anche una moglie, una di quelle che al mattino si vedono fare la spesa nelle botteghe del quartiere e sembrano tutte uguali.

Maugras è ritornato un’altra volta in rue de Rennes, ma per una ragione precisa. Sapeva che Jublin era privo di mezzi. La coppia viveva di modesti diritti d’autore. Ora, esiste una medaglia della Città di Parigi, accompagnata da un assegno di un milione di vecchi franchi, che il consiglio comunale conferisce ogni anno a uno scrittore, a un pittore o a uno scultore.

A Maugras erano bastate un paio di telefonate per farla assegnare all’amico. Si rivede per la seconda volta davanti all’appartamento. Il suono stridulo del campanello echeggia all’interno. La porta si apre silenziosamente e la signora Jublin lo guarda sorpresa, senza riconoscerlo, asciugandosi le mani nel grembiule.

Ricorda ogni minimo particolare, come di quella mattina a Fécamp. È l’inizio dell’inverno, le cinque del pomeriggio di un giorno di pioggia, quando si accendono i lampioni, le vetrine si illuminano e i passanti sembrano tutti neri. Il pianerottolo è buio. Nel salottino è accesa una sola lampada, che diffonde una luce arancione. All’improvviso, una voce che René non riconosce dice:

«Accomodati...».

E Jublin spunta dallo studio su una sedia a rotelle che spinge egli stesso. Un plaid scozzese gli copre le gambe. A Maugras sembra che l’amico lo guardi con un occhio solo e questo lo impressiona. La moglie va subito a mettersi accanto a lui come per proteggerlo.

«E allora, vecchio mio?...».

L’occhio brilla. L’espressione non è drammatica ma sempre maliziosa, ironica.

«È la mia carcassa che ti fa questo effetto?».

Non è facile capirlo, bisogna fare uno sforzo, perché certe consonanti non escono e alcune sillabe s’ingarbugliano.

«Sono venuto per...».

Da una porta aperta si intravede uno studio e un camino in cui ardono due ceppi. Tutto è immerso nella semioscurità, con ampie zone di ombra quasi completa. A tratti, da quella penombra esce il volto sbilenco di Jublin.

«Sono venuto a dirti che la Città di Parigi...».

A questo punto, l’amico lo interrompe beffardo:

«Non dirmi che mi hanno dato la medaglia...».

«Proprio così...».

«Questo significa che sono arrivato al capolinea... Non preoccuparti... Me l’aspettavo... È gentile, da parte di quei signori, dato che non ho fatto niente per loro... Peccato che si diano da fare sempre all’ultimo momento... Hai presente la lista dei premiati?...».

«Non stancarti, Charles» gli raccomanda dolcemente la moglie.

Tra gli amici, nessuno lo ha mai chiamato Charles. Per la verità, non lo conoscevano neppure, il nome di battesimo, che sulla copertina dei suoi libri non figura.

«È un po’ un’estrema unzione laica, la loro medaglia... Ma non per questo la rifiuto... Il denaro sarà utile a mia moglie...».

Jublin è morto la primavera seguente e si è saputo che aveva scritto, con la mano sinistra, nella solitudine di quel suo appartamento quasi grottesco tanto era banale, le sue poesie migliori. Non solo le migliori poesie scritte da lui, ma, secondo alcuni critici via via più numerosi, le migliori poesie degli ultimi cinquant’anni.

Ha passato cinque anni a tu per tu con una donna dall’aspetto molto comune, forse anche dall’intelligenza molto comune, cinque anni in cui ha avuto tutto il tempo di pensare, di sfogliare il suo album di fotografie, avendo come orizzonte le facciate grigie delle case di fronte e, come accompagnamento, il frastuono degli autobus e dei taxi in rue de Rennes, e di notte i fischi dei treni della Gare Montparnasse.

Sua moglie continua a vivere nello stesso appartamento, dove niente è cambiato, dove ogni libro, ogni oggetto è rimasto allo stesso posto, compresa la pipa che lei gli caricava e gli accendeva. Anche la sedia a rotelle sta sempre nell’angolo preferito da colui che la usava.

La moglie di Jublin lavora per guadagnarsi da vivere. Maugras le ha proposto di assumerla al giornale; le avrebbe trovato un incarico tranquillo. Altri amici si sono offerti di provvedere a lei. Ha detto grazie a tutti, gentilmente, con aria imbarazzata, ma ha scelto di fare la cassiera in un negozio a cento metri da casa, da quei pochi metri cubi di calma assoluta dove Jublin, quando era stanco di vagabondare per bar e caffè, sapeva di trovarla.

Poteva forse dire a Besson, poco fa, che invidia la sorte dell’amico? Dov’è Lina in questo momento? Non gli importa. E nemmeno gli importa che stia bevendo.

Non c’è una rue de Rennes nella sua vita. Non c’è una donna grassottella e molto comune che al mattino fa la spesa nei negozietti del quartiere. Né ci sono libri, poesie che gli uomini continueranno a leggere.

Ha fatto male, Besson, a parlargli di Jublin.

Senza rendersene conto, Maugras ha chiuso gli occhi. E non si rende conto neppure che la signorina Blanche, preoccupata per la sua lunga immobilità, si china su di lui. Sussulta sentendola pronunciare piano, con voce velata:

«Sta piangendo?».

 

5

 

L’ultimo pensiero, la sera prima, mentre Joséfa, credendolo addormentato, si slacciava il reggiseno sotto il camice, è stato:

«Devo svegliarmi in tempo...».

Era già piuttosto assonnato. Non è strano che, appena uscito da una routine, lui provi subito il bisogno di stabilirne un’altra? Le ore della giornata si susseguono inesorabilmente, scandite via via dalla toilette, dalle cure, dalle visite dei medici, dal viavai nel corridoio. Alcune sono più piacevoli di altre.

Il momento migliore, da quando è qui, è stato il risveglio del venerdì mattina, la mezz’ora che ha passato, da solo, tendendo l’orecchio al suono delle campane e ai rumori dell’ospedale.

Ha voglia di ricominciare, di fare di quella mezz’ora mattutina, come ancora vergine, una mezz’ora tutta sua.

Ha dormito un sonno agitato. Per due volte l’infermiera si è alzata per coprirlo, ma lui ne ha un ricordo incerto. Anche adesso che ha gli occhi aperti la mente e il corpo conservano un che di indefinito.

Sente di non avere la lucidità della mattina precedente, anche se quel torpore è quasi voluttuoso. Non sa che ora sia. Aspetta, sperando solo che non sia già più notte fonda.

Per un minuto abbondante è tutt’orecchi, incuriosito da un rumore monotono che gli è familiare ma che non riesce subito a identificare, e alla fine scopre che si tratta della pioggia che batte sui vetri e dell’acqua che sgocciola, vicino alla sua finestra, in una grondaia di zinco.

A Fécamp, quando era bambino e abitavano nella casetta di rue d’Étretat, raccoglievano l’acqua piovana per il bucato - l’acqua piovana è meno dura, diceva sua madre - e la raccoglievano in una botte sistemata in un angolo del cortile, il che produceva una musica tutta particolare.

Sua madre se la ricorda appena. La rivede solo malata, seduta nella poltrona di vimini, accanto al fornello di cucina, e ha conservato nelle orecchie i suoi accessi di tosse. Aveva sette anni quando lei è morta di tubercolosi. Molta gente, all’epoca, se ne andava così, e si diceva che moriva di mal sottile.

È rimasto stupito, più tardi, quando ha saputo da suo padre che era stata malata solo due anni, e che, prima, lo aveva portato a spasso come tutte le altre madri, all’inizio nella carrozzina, poi, tenendolo per mano, lungo le strade e sul molo nei giorni in cui non tirava troppo vento, e lo aveva accompagnato tutte le mattine all’asilo aspettandolo più tardi all’uscita.

Ha caldo. Il suo corpo è madido di sudore. Si domanda se non gli abbiano per caso somministrato un nuovo intruglio che provoca quel torpore, quello sfalsamento nelle percezioni. Cerca di non riaddormentarsi prima di aver sentito i rintocchi dell’orologio della chiesa. Spera che risuonino sei colpi, come il giorno prima, così avrà la sua mezz’ora.

La nuca è così rigida che fa fatica a girare la testa per assicurarsi che Joséfa sia coricata sul lettino da campo. Nell’alone di luce gialla che filtra dalla porta a vetri, la intravede che dorme placida. I capelli le coprono una parte del viso, la bocca si apre leggermente a ogni respiro, e ogni volta si direbbe che le labbra si gonfino.

È conturbante guardar dormire qualcuno, specie una donna che si conosce appena. Quando gli succede con Lina, si commuove. Le caratteristiche più o meno sgradevoli spariscono, anche l’età, ed è un po’ come se Lina tornasse bambina, una bambina che non ha vissuto, che non ha alcuna esperienza, alcuna difesa.

Joséfa ha sbottonato, consapevolmente o nel sonno, la parte superiore del camice, e lui scopre il pizzo azzurrognolo della sottoveste che nasconde solo metà dei seni: sodi e polposi insieme, si gonfiano come le labbra, allo stesso ritmo.

Sta coricata sul fianco, di fronte a lui, con una mano nascosta tra le cosce, nel loro umido calore.

Gli vengono dei pensieri erotici. Anche Lina a volte dorme così, soprattutto verso mattina, e quando ancora condividevano il letto gli capitava di essere svegliato da un ansimare regolare il cui ritmo si accelerava fino all’arresto finale.

Succede anche a Joséfa? È più femmina della signorina Blanche, ha bisogno di maschi. Probabilmente ne incontra qualcuno durante la giornata, e si accoppia sanamente, focosamente ma con allegria, senza le pastoie di complicazioni sentimentali.

È contento di sentir suonare le campane che, oggi, precedono i sei rintocchi dell’orologio. È un caso se si è svegliato alla stessa ora del giorno prima o bisogna vedervi l’intervento meccanico del suo subconscio?

Respira con una certa difficoltà. La cosa non lo preoccupa, al contrario. Se è più malato del previsto, se intervengono delle complicanze, questo dimostrerà loro che aveva ragione lui.

Riguardo a Besson, forse ieri si è sbagliato, e gli viene qualche rimorso. Ha presunto che l’amico avesse sempre agito per calcolo, ne ha fatto un cinico ambizioso. Ma altri non penseranno la stessa cosa di lui? Anche lui ha fatto una carriera brillante, più straordinaria ancora di quella di Besson, se si tiene conto del punto di partenza.

E certamente qualcuno deve aver pensato che, andandosene da Fécamp, lui avesse in testa, come si dice ironicamente, di conquistare Parigi...

Continua a guardare Joséfa, stregato da quella mano che, nell’innocenza del sonno, lei preme sul sesso. Pensa a diverse cose insieme, a Joséfa, alle donne in generale, a Lina, al ragazzo di Fécamp che, a sedici anni, comprava la sua prima pipa, non tanto per darsi un tono disinvolto quanto perché essa rappresentava per lui un simbolo.

Non ha più idea di come siano nate le sue ambizioni di allora, o di pochi mesi dopo, e i suoi amici di oggi ne sarebbero francamente allibiti. Perché non solo non aveva intenzione di vivere a Parigi, dove peraltro non aveva mai messo piede, ma il solo nome della capitale lo spaventava.

La sua meta, più vicina e modesta, era Le Havre, dove si recava a volte in bicicletta per andarsene a zonzo nelle strade animate e sedersi nei caffè all’aperto.

Non sarebbe rimasto a Fécamp come corrispondente della testata che gli aveva procurato, per una fortunata combinazione, una tessera di giornalista. No, sarebbe andato a Le Havre, sarebbe diventato un vero reporter. Ogni mattina, con le mani in tasca e la pipa tra i denti, avrebbe raggiunto la redazione e si sarebbe seduto alla sua scrivania, soddisfatto di sé, del suo lavoro, in pace con il mondo.

A rigor di logica, le cose sarebbero dovute andare così. A farle andare diversamente è stato, per ben due volte, il caso.

Lui aspettava, per presentare la propria candidatura, di aver fatto il servizio militare. Qualche settimana prima della visita di leva si era ammalato. Senza una ragione apparente, il cuore prendeva a martellargli in petto mentre le gambe diventavano molli e il corpo si copriva di sudore.

Così, era andato dal dottor Valabron, il medico di famiglia che aveva curato anche sua madre. Riguardo a Valabron i pareri erano discordi, perché passava la maggior parte del tempo a giocare a carte nei caffè e non aveva molta cura della sua persona.

Valabron gli aveva ordinato qualche settimana di riposo, gli aveva prescritto delle gocce da prendere tre volte al giorno e aveva dichiarato che disturbi di quel tipo sono molto frequenti negli adolescenti cresciuti troppo in fretta.

Per due mesi non aveva fatto che leggere, passeggiare lentamente, osservare le navi nei bacini di carenaggio e mandare al giornale le notizie locali che andava a farsi dare ogni mattina al commissariato di polizia.

Conserva pochi ricordi di quel periodo, due o tre, e in uno di questi lui è sulla spiaggia, con il rumore ossessivo della risacca e delle sue scarpe sui ciottoli, e i granchi nelle pozze d’acqua lasciate dalla marea.

Quando si era presentato alla visita di leva, si era meravigliato del fatto che il medico militare gli dedicasse più tempo che agli altri e gli ponesse, con aria seria, molte domande su sua madre, per poi riformarlo.

«Quell’ufficiale medico è un idiota!» aveva sentenziato Valabron. «Scommetto che ha diagnosticato una cardiopatia congenita, senza specificare quale. Ma io che ti ho visto nascere ti assicuro che hai un cuore forte come chiunque altro...».

Valabron non era entrato nei particolari. Quanto a lui, a parte suo padre, che beveva sempre di più e che lui vedeva solo alle ore dei pasti, niente ormai lo tratteneva a Fécamp.

Ed era andato a Le Havre dove, come gli aveva risposto il caporedattore, il personale era al completo. Niente di strano, in questo, visto che per fare il giornale bastavano tre persone in tutto.

Allora aveva pensato a Rouen, dove non aveva avuto maggior fortuna e dove non gli avevano lasciato alcuna speranza. Che cosa restava, se non Parigi?

Non si può quindi sostenere che l’abbia voluto. Ha frenato, anzi. Ha fatto di tutto per restare in provincia e condurre l’esistenza modesta alla quale si credeva destinato.

Anche a Parigi, in fondo, il suo sogno era di diventare un giorno segretario di redazione, una sorta di funzionario del giornalismo con un orario regolare e un lavoro monotono...

Nella sala grande qualcuno comincia a muoversi e giù in cortile si scatena il fracasso dei bidoni delle immondizie. Non gli sfugge niente di quella vita che inizia e che non gli impedisce di passare da un’idea all’altra tenendo sempre gli occhi fissi su Joséfa nella speranza che non si svegli troppo presto.

Se un giorno tornasse a essere fisicamente normale, o quasi, vorrebbe tanto, anche solo per una volta, fare l’amore con Joséfa, perché lei rappresenta uno dei due tipi di donna che lo hanno sempre attratto. Per una contraddizione incomprensibile, in tutta la sua vita ha scelto donne di un tipo diverso, quasi opposto.

Che le donne gli facciano paura? Apparentemente, è la spiegazione più plausibile del suo comportamento. Per parte sua, non lo crede ma, a cinquantaquattro anni, è tuttora incapace di formularne un’altra.

La spiegazione giusta la intuisce, e non è la stessa cosa. Probabilmente farebbe ridere gli amici confessando loro che, ai suoi occhi, nonostante gli anni e le molteplici esperienze, la donna conserva il proprio mistero, l’incanto, e lui è ancora tentato, pensando all’amore, di usare le parole del catechismo: l’atto carnale...

Non solo riguardo alla donna il catechismo ha lasciato una traccia dentro di lui: rivede don Vinage, che non aveva neanche trent’anni, dire ai bambini riuniti in sacrestia:

«Tutto conta per l’eternità, niente va perduto, neppure i nostri pensieri più segreti, e un giorno ritroveremo sui piatti della bilancia ogni minuto della nostra vita...».

Maugras è stato battezzato, ha fatto la prima comunione, la cresima. Ha continuato ad assistere alla messa solenne della domenica e, ogni tanto, a comunicarsi. Intorno ai diciott’anni ha smesso a poco a poco di frequentare la chiesa, ma senza che ci fosse una precisa rottura o una crisi.

Verso i quindici anni, quando il desiderio sessuale si è fatto troppo forte, aveva preso a gironzolare, di sera, nei pressi della casa chiusa che all’epoca sorgeva vicino al porto e il cui lampioncino rosso lo sconvolgeva al punto che si sentiva serrare il petto solo a guardarlo da lontano.

La casa era situata tra i due bacini del porto, e per tutta la notte si sentivano cigolare gli alberi e i pennoni; era una casa isolata intorno alla quale vagavano pescatori dal passo pesante e spesso alquanto barcollanti.

Era dotata di due ingressi, uno, sotto il lampione, che dava direttamente sulla grande sala dove i clienti sedevano ai tavoli in mezzo alle donne più o meno discinte, l’altro, più discreto, riservato ai «signori».

Da questa porta era entrato una sera in cui piovigginava e aveva visto una certa perplessità dipingersi sul volto della padrona, Madame Jeanne, che era ancora una bella donna.

Era così emozionato che, in quel momento, aveva sperato che lei lo trovasse troppo giovane. Ma alla fine Madame Jeanne aveva sorriso e aveva chiamato una delle sue ragazze. E lui era salito, come si diceva allora.

Forse quello è il ricordo più preciso della sua vita, più preciso persino del mattino della Sainte-Thérèse: la donna sulla sponda del letto, le gambe aperte come per un sacrificio, la pelle livida, la linea netta dei peli dai quali non riusciva a staccare gli occhi.

Il giorno dopo si era confessato ed era vissuto per settimane nel terrore di essersi preso una malattia. Ciò nonostante ci era tornato. In realtà, durante tutta la sua adolescenza a Fécamp non aveva conosciuto donne diverse da quelle. Non gli veniva in mente di avere un’amica, come la maggior parte dei suoi coetanei, né di andare ad aspettare le ragazze, la sera, all’uscita dalla fabbrica di conserve.

Era forse una forma di pigrizia? O era timidezza? Paura del ridicolo? Timore di non mostrarsi all’altezza?

Il suo ideale, tuttavia, esisteva in carne e ossa, e si può addirittura dire che ne fosse, a suo modo, innamorato. Sì, era innamorato di una donna di trentacinque anni, la signora Remage, moglie dell’armatore presso il quale lavorava suo padre.

La signorina Blanche è più giovane e più espansiva, ma non le assomiglia forse un po’? La signora Remage nasceva Chabut, figlia unica degli Chabut di Le Havre, proprietari delle Galeries Nouvelles, il grande magazzino della città.

L’armatore e sua moglie abitavano in una villa nuova sulla strada di Yport, a picco sulla scogliera. Avevano due bambini, e passando li si vedeva giocare sui prati del giardino.

Lei si chiamava Odile. La si incontrava spesso in città dove andava a fare gli acquisti, seguita dall’autista in macchina, sempre calma, sorridente, come se non avesse che pensieri gradevoli. Il suo volto dalla carnagione chiara e dalle labbra ben disegnate irradiava una gioia interiore, una serena fiducia nel destino e negli uomini.

Adesso sarà una vecchia signora... Ma lui non l’ha mai più rivista e può conservarne l’immagine di un tempo.

Possedeva realmente quella serenità che le attribuisce in base ai suoi ricordi? Quando pensa a lei, le parole che gli vengono in mente sono pulizia, limpidezza, come per la signorina Blanche.

Con una differenza, tuttavia, che deve dipendere dal fatto che lui non ha più la stessa età. Da giovanotto, cercava di figurarsi Odile Remage mentre faceva l’amore, di immaginarsela nelle pose che assumevano per lui le ragazze della casa di tolleranza. Ma non ci riusciva, benché Odile avesse avuto due figli, due ragazze, ora sposate, a loro volta madri di famiglia, quasi anziane signore.

Pensando alla signorina Blanche invece ci riesce, seppure a malincuore. Che sia stato il catechismo a lasciargli la nostalgia di una certa purezza?

Joséfa ha spostato la mano e là dove l’aveva posata l’uniforme è un po’ sgualcita. Lui intuisce che sta per svegliarsi. Il respiro ha cambiato ritmo e il suo volto è percorso da vibrazioni simili al fremito di uno stagno quando si leva il vento.

Maugras ha caldo. La finestra non è più tutta nera. La pioggia ha aumentato d’intensità e l’acqua scorre nella grondaia con un suono di sorgente. Nel cortile si fermano delle automobili, si sentono sbattere le portiere e qualcuno si precipita di corsa verso i portici.

Maugras ritrova la stessa successione sonora del giorno prima, i passi sulla scala, nei corridoi, nelle sale di cui ha solo una percezione uditiva.

Poi gli arriva l’aroma del caffè e al di là della porta passano delle ombre.

Oggi Joséfa si alza di scatto proprio nel momento in cui non la sta guardando, e questo gli dispiace. Quando gira la testa verso di lei, con gli occhi aperti, Joséfa si sta già riabbottonando l’uniforme che ha delle grinze, come la sua guancia.

Non mostra imbarazzo per essere stata osservata mentre dormiva.

«Dormito bene? È sveglio da tanto? Ha bisogno di qualcosa?».

Per lei quella coabitazione è naturale. Per lui no. Ma se ci riflette, se ragiona, sì. E tuttavia gli sembra che lei gli abbia lasciato un po’ della propria intimità. Ne è così poco consapevole che si volta appena per agganciare le calze alle giarrettiere.

A cinquantaquattro anni, è ancora così ingenuo da restare turbato da gesti tanto semplici?

«Stamattina sono in ritardo» dice lei sentendo suonare la mezz’ora. «La mia collega dev’essere già arrivata...».

Si dà qualche colpetto ai capelli con le mani e si precipita fuori lasciando la porta socchiusa. Maugras si chiede se è contento o deluso della sua mezz’ora. Ci sono tanti interrogativi a cui vorrebbe trovare risposta, interrogativi che nella vita normale vengono rimossi e dai quali si rifugge ma che diventano capitali in un letto d’ospedale!

Gli dispiacerebbe andarsene prima di avervi risposto. Andarsene è un eufemismo a cui ricorre per pudore. Il giorno prima, mentre era solo con la signorina Blanche all’imbrunire, gli è venuta un’idea.

A differenza delle altre sere, lei non ha acceso la lampada, forse perché lo aveva visto commuoversi e voleva dargli il tempo di riprendersi, o forse perché lei stessa era turbata dalle lacrime di un uomo della sua età.

Perché, per lei, Maugras è quasi un vecchio. Sono rimasti per un certo tempo nella penombra, con la sola luce del corridoio smorzata dal vetro smerigliato della porta. Per un attimo, ha potuto pensare di essere Jublin nell’appartamento ovattato di rue de Rennes.

Chissà se Jublin ha approfittato di quei cinque anni di solitudine per fare un bilancio, per procedere a una sorta di revisione dell’intera sua vita...

Lui si trova nella stessa situazione dell’amico, ne è convinto nonostante le assicurazioni ottimistiche di Besson, e intende fare anche lui un bilancio della propria esistenza.

Non si tratta di una confessione, né di un esame di coscienza.

«Confesso i miei peccati, padre...».

No! Determinare, piuttosto, con tutta l’obiettività possibile, ciò che resta di cinquantaquattro anni della vita di un uomo.

Animato dalla fede, don Vinage affermava:

«Tutto conta... Niente si perde...».

Invece, vi sono interi periodi di cui non conserva che un ricordo confuso, alquanto sgradevole. Così come non riesce a rivedere Besson qual era negli anni della Brasserie Graf, allo stesso modo non è in grado di tornare a calarsi nei panni del giovane che lui stesso è stato in certe fasi della vita.

Si è molto agitato a vuoto. Si vergogna di certi entusiasmi come di certi scoramenti che adesso gli sembrano futili e risibili.

Se tutto conta, se niente va perduto delle nostre azioni e dei nostri gesti, e addirittura dei nostri pensieri di un istante, non dovrebbe ritrovare dentro di sé tracce più profonde al posto di quelle poche immagini che non ha scelto lui e delle quali si domanda stupito perché mai gli tornino alla memoria proprio quelle piuttosto che altre?

Si agita, a disagio. Ieri, per via del crepuscolo, ha accarezzato un progetto che si è ben presto rivelato assurdo, in ogni modo impraticabile. Non significherebbe darsi troppa importanza ripercorrere la propria vita, anno per anno, con precisione, come nelle biografie di uomini illustri dove tutto è chiaro, logico, ordinato?

Per lui niente è chiaro né ordinato, tutto s’ingarbuglia, compreso il filo del tempo. Tiene gli occhi fissi sullo spiraglio della porta. Qualche minuto prima si augurava la solitudine assoluta e adesso eccolo in preda a una vaga angoscia perché la signorina Blanche tarda ad arrivare!

 

 

Ha le mani fredde, i capelli umidi. Appare distratta come se, arrivata di corsa, non avesse avuto il tempo di calarsi completamente nella vita dell’ospedale. Ha ancora addosso l’odore della strada. Il suo sguardo, tuttavia, diventa presto affettuoso e sembra contenta di rivederlo.

«Che diluvio! E ci si mette anche il vento! Mi son dovuta fermare all’angolo di una strada perché non vedevo più niente attraverso il parabrezza».

Dunque, ha un’automobile. È la prima volta che accenna alla sua esistenza fuori dall’ospedale. Che sia con l’intenzione di fargli tornare il gusto della vita?...

Gli ha sistemato il pappagallo sotto il lenzuolo, il termometro sotto il braccio sinistro e per un attimo i loro volti si sono trovati così vicini che una ciocca di capelli scuri ha sfiorato la guancia di René.

Mentre lei è impegnata a far ordine come ogni mattina, lui ha il tempo di ritornare alle sue elucubrazioni. E rettifica ciò che ha pensato poco prima, prova di quanto sia difficile essere sinceri con se stessi.

Ha evocato le sue visite alla casa chiusa di Fécamp come se si fossero ripetute fino alla sua partenza dalla città. Non è vero fino in fondo. Certo, non si tratta di una confessione né di una deposizione giurata, ciò nondimeno ha barato.

In realtà, ha cercato di cancellare un’immagine, quella della casa tra i due bacini, di se stesso esitante in una zona d’ombra e di un uomo ubriaco, un marcantonio col berretto da marinaio che esce e si allontana gesticolando e parlando da solo.

Maugras sta per attraversare la strada quando sente avvicinarsi dei passi. Aspetta che la via sia libera e quando il nuovo arrivato passa sotto il lampione, riconosce suo padre, il bavero del cappotto rialzato, il cappello calcato sugli occhi, che si dirige verso l’ingresso dei «signori» e, dopo aver sussurrato qualcosa a Madame Jeanne, sparisce all’interno.

Niente di straordinario in questo. Suo padre, all’epoca, è vedovo da una decina d’anni. Tuttavia René, turbato, scombussolato, va su e giù per le banchine prima di rientrare a casa e, quando sente la porta aprirsi e poi richiudersi, è a letto con gli occhi aperti.

Non è più tornato da Madame Jeanne. Ecco che bara ancora: ci è tornato, invece, una volta che infuriava la burrasca e lui non aveva avuto la forza di percorrere due volte in bicicletta quella trentina di chilometri che separano Fécamp da Le Havre. Perché era là, a Le Havre, che andava ormai quando era sopraffatto dalle vampate di desiderio al punto da avere quasi le allucinazioni.

La signorina Blanche riprende il termometro, lo avvicina agli occhi, ha un moto di sorpresa. Maugras sa di avere la febbre. Lo sospetta da quando si è svegliato. Il suo torpore non assomiglia a quello che gli hanno procurato i calmanti dei giorni precedenti. Ricorda piuttosto l’influenza che lo colpisce ogni autunno e sente la parte superiore del petto tutta congestionata.

«Ha male da qualche parte?».

Gli prende il polso, seduta sulla sponda del letto in una posa che le è abituale. Mentre conta le pulsazioni muove le labbra. Si sforza di nascondere la sua ansia, ma non è affatto tranquilla, tant’è che, pochi minuti dopo, con la scusa di andare a bere un caffè, esce dalla stanza.

Durante la sua assenza, la porta si apre lentamente, senza far rumore, e il paziente del giorno prima, il vecchio con la vestaglia viola, viene di nuovo a guardarlo. Il suo volto inespressivo mette i brividi. Se si tratta di un pazzo, come Maugras suppone, niente gli impedirà di inoltrarsi nella camera, avvicinarsi al letto e...

Riconoscendo il passo dell’infermiera, Maugras si sente sollevato: la signorina Blanche si limita a spingere fuori il visitatore dandogli dei colpetti sulla spalla come si fa sulla groppa di un vecchio cane.

Per via di questo incidente, René si domanda come facciano nelle corsie. A giudicare dalle sagome che vede passare, devono esserci circa quaranta letti e non più di due infermiere per occuparsene. La notte, poi, c’è una sola sorvegliante che dorme in un cantuccio del corridoio.

Lui dispone di un’infermiera tutta per sé ventiquattr’ore su ventiquattro: non sembrerà, agli occhi degli altri, un lusso stravagante? E non è uno sguardo di invidia, più che di curiosità, quello che lanciano dallo spiraglio della porta quando vi passano davanti? Chissà se si domandano chi sia il fortunato occupante della camera privata... Forse lo sanno dal personale e tra loro parlano di lui...

Non capisce come mai la signorina Blanche non si appresti a lavarlo, ma quando vede arrivare la caposala, che non è entrata per caso facendo il suo giro ma è stata chiamata d’urgenza, ne intuisce il motivo: lei infatti gli prende subito il polso osservando attentamente il suo volto.

Deve avere gli occhi lucidi, gli zigomi arrossati. È sveglio da neanche un’ora; il giorno è appena spuntato e lui si sente già meno bene, in preda a un gran torpore e con il respiro sempre più affannoso.

Non lo diverte guardare la pioggia che batte sui vetri in diagonale, né ascoltare il vento che fa sbattere un’imposta da qualche parte.

Quello che succede non dipende certo da lui, ma in fondo non gli dispiace, anzi, dimostra che il giorno prima aveva ragione lui e non Besson d’Argoulet con il suo ottimismo di circostanza. Chissà se adesso si precipiterà lì...

«Le do una mano...» dice la caposala alla signorina Blanche.

Una mano per che cosa? Lui la guarda diffidente. Quella donna non gli piace. Tanto meno quando gli domanda:

«Non ha bisogno di andare di corpo?».

No! Ha solo bisogno che lei se ne vada. Ma non se ne va. Aiuta la signorina Blanche a lavarlo e a cambiare le lenzuola, il che dà tempo all’interno, mandato a chiamare a sua volta, di arrivare con lo stetoscopio appeso al collo.

Come i primi giorni, tra tutti loro c’è un grande scambio di sguardi. Naturalmente, lui ne è escluso. Quello che avviene non lo riguarda, anche se avviene in lui, nel suo corpo.

Lo stetoscopio, ancora caldo del contatto con un altro petto, si posa sui suoi bronchi, sui polmoni, sul cuore.

L’interno sa di tabacco freddo. Si rialza, va a dire qualcosa sottovoce alla virago e tutti e tre si mettono a girare le manovelle del letto. Adesso ha le gambe molto in alto, la testa in basso e del catarro gli scivola lungo la gola, comincia a invadergli la bocca senza che lui riesca a sputarlo.

Loro continuano a bisbigliare in un angolo. Quando la signorina Blanche ritorna vicino al letto, sono di nuovo soli nella camera e lei gli prende la mano, non più per misurargli il polso, ma con un gesto amichevole.

«Non abbia paura... Il professor Audoire un po’ se l’aspettava... Succede nel cinquanta per cento dei casi... Ha una piccola infiammazione della trachea che le dà la febbre...».

Non gli dice quanta.

«Il professore non può venire subito... È stato chiamato d’urgenza in sala operatoria stamattina alle sei... Sta ancora operando...».

Lui si domanda dove si trovi questa sala. Al pianterreno? Allo stesso piano della sua camera? E così, all’alba, mentre lui guardava il seno di Joséfa e pensava a Fécamp, mentre suonavano le campane e poi l’orologio della chiesa, un uomo privo di conoscenza, un uomo a cui, momentaneamente o per sempre, avevano tolto la consapevolezza della propria esistenza, giaceva circondato da fantasmi mascherati che eseguivano una sorta di lento e tragico balletto.

E non è finita, visto che Audoire non è ancora libero. Di che operazione si tratta? È un emiplegico cui viene asportato un tumore?

Maugras è realmente terrorizzato. Non vuole che lo operino, che gli aprano il cranio. Si aggrappa alla mano dell’infermiera, vorrebbe poterle parlare, dirle che non acconsente in nessun modo a essere operato a sua insaputa, supplicarla di impedir loro di farlo.

È troppo facile. Basta un’iniezione per addormentarlo e metterlo poi su uno di quei lettini a rotelle che lo hanno portato giù due volte con il grande ascensore.

Già allora sapeva di essere alla loro mercé; adesso si rende conto fino a che punto lo sia.

«Non si agiti... Lo so che così non sta comodo... Lei non se ne ricorda, ma quando era in coma è rimasto due giorni in questa posizione...».

Forse la temperatura sta aumentando, perché ha sempre più caldo: è strano che la febbre salga così in fretta.

Non gli importa di morire. Be’, non proprio. Sta ancora mentendo. Ad ogni modo, preferisce morire qui, vicino alla signorina Blanche, che in sala operatoria con il cranio aperto.

«Credo che il professore le darà un’altra dose di penicillina e questo piccolo problema sparirà...».

Ma anche lei è in ansia, continua a guardare la porta e poi l’ora sull’orologio da polso. Adesso lui sbava e via via lei gli pulisce la faccia.

Finalmente la porta si apre su un Audoire molto diverso dagli altri giorni, un Audoire impressionante, quasi terrificante, che non ha più niente del piccolo borghese che si può incontrare nel métro.

È tutto vestito di bianco, con dei pantaloni che sembrano quelli di un pigiama, un camice sottile, trasparente, senza bottoni, che si allaccia dietro con dei cordoncini, e calza stivali di gomma verdastra.

Ha gli avambracci nudi, come un macellaio, e sono molto pelosi. Sotto il mento gli pende una mascherina. Dietro di lui entrano la caposala e l’interno. Improvvisamente la piccola camera è piena di gente e la tensione sale.

Audoire lo ausculta a lungo, poi ricomincia daccapo, con il volto impassibile; gli solleva le palpebre, gli tasta le membra, gli gratta ancora una volta la pianta dei piedi...

«Apra la bocca...».

Vi introduce un oggetto metallico che forse è solo un cucchiaio e che comunque a Maugras fa molta paura. Tutto lo spaventa, questa mattina. Non è come le altre volte. È nelle loro mani, non può opporsi.

Non hanno neppure bisogno di parlare per capirsi. Un’occhiata del professore alla caposala e questa si precipita fuori, tornando poco dopo con un aggeggio che lui non ha modo di osservare.

«Stia tranquillo... Adesso le liberiamo la trachea e le alte vie respiratorie... Non è piacevole, ma è una cosa breve e dopo ne proverà un gran sollievo...».

Lo tengono come si tiene fermo un cane dal veterinario. E forse di un cane ha anche lo sguardo... Vede dei visi vicinissimi e si dibatte prima ancora di sentir male, addirittura prima ancora che gli facciano una qualsiasi cosa.

Gli aprono la mascella con un apparecchio e gli introducono un tubo nella gola. Lo sente scendere. Vorrebbe far segno che sta per soffocare, che non può sopportare oltre, che non respira più...

 

 

Sono stati, finora, i dieci o quindici minuti più angosciosi della sua vita. Si è sentito davvero alla stregua di un animale ed è consapevole di essersi anche comportato come tale, prima dibattendosi, poi rimanendo inerte a guardarli l’uno dopo l’altro con occhi da pazzo.

Hanno azionato una sorta di pompa ed è stato come se gli tirassero fuori i polmoni. Quindi, sempre tenendolo fermo, gli hanno introdotto un tubo di gomma prima in una narice, poi nell’altra, e questa volta sembrava che gli risucchiassero il cervello.

Finalmente lo lasciano libero. Rimane soltanto la signorina Blanche, un po’ turbata, a tenergli la mano. Non solo non reagisce più, ma è come svuotato, totalmente esausto, incapace di un qualunque riflesso. Non ha più alcuna curiosità e li guarda con occhio spento, senza domandarsi che cosa facciano e che cosa dicano. L’unica idea pressoché chiara che gli resta è quella di non farsi portare in sala operatoria.

La caposala esce di nuovo, torna con una siringa e una fiala. Il professore in persona conficca l’ago e, lentamente, inietta il liquido senza staccare lo sguardo dal viso di Maugras.

Che rischio corre? Di svenire? Che gli si fermi il cuore? Oppure lo scrutano così per assicurarsi che si addormenti? Stringe i denti talmente forte che li sente stridere ed ecco che, come nei primi giorni, è percorso da movimenti convulsi delle braccia e delle gambe. Tutt’e due le braccia? Tutt’e due le gambe? Chissà.

Cerca di respingerli, di uscire dal letto, di sfuggire loro. Un’occhiata di Audoire è bastata perché qualcuno gli venisse in aiuto e immobilizzasse di nuovo il malato sul letto permettendo così al professore di continuare l’iniezione.

Non si addormenta ancora. La siringa è vuota. Audoire si rialza, la passa alla caposala.

«È finita» mormora tergendosi la fronte. «Non la tormenteremo più...».

Soffre di far soffrire? Il suo disagio lo lascia supporre. Accetta la sigaretta che gli porge la signorina Blanche: probabilmente lei sa quando il professore ha bisogno di una sigaretta.

«Non si preoccupi se si sente meno bene di ieri. Si tratta di una complicanza banale...».

L’infermiera glielo ha già detto. Ma non avrebbe dovuto. Spetta al professore decidere quello che è opportuno o non è opportuno far sapere al malato. Questo mondo è ancora più gerarchizzato del mondo che c’è fuori.

«Adesso che le abbiamo liberato le vie respiratorie respirerà senza problemi... Le hanno somministrato spesso della penicillina, vero?... Questo spiega perché la prima iniezione abbia fatto così poco effetto...».

Se è penicillina quella che gli hanno nuovamente iniettato, perché è così intorpidito? È troppo stanco, e si lascia andare. Non li guarda più. Sente ancora la pioggia sui vetri, l’acqua che scroscia impetuosa nella grondaia, e a un certo punto, come avviene con il rumore monotono del treno, nella sua testa quel rumore diventa una musica.

Com’è stanco! È un’eternità, sono anni e anni che è stanco, che va avanti ugualmente, malgrado la tentazione di mollare, di non resistere più, di rinunciare una volta per tutte.

Continuano a parlare. Le voci si allontanano. La porta si apre e si richiude. Chissà perché, questa volta l’hanno chiusa del tutto invece di lasciare il solito spiraglio. Sarà un cattivo segno? Non sa neppure se è rimasto solo.

Gli hanno fatto molto male, soprattutto molta paura. E gli hanno tolto la poca fiducia che aveva ancora in se stesso e nelle possibilità dell’uomo.

Per dieci minuti che gli sono sembrati interminabili, tenuto fermo sul letto da mani estranee, non è stato che un animale terrorizzato. Se avesse potuto mordere, lo avrebbe fatto.

E questo lo rende infelice. È la prima volta, da quando è lì, che viene pervaso da una simile tristezza.

Una mano tiepida gli accarezza la fronte. Ma è una mano che, poco prima, aiutava a tenerlo fermo. La mano di qualcuno che lo cura per guadagnarsi da vivere.

Adesso vuole solo dormire.


 

6

 

Non ha dormito molto. Ha perso conoscenza diverse volte e i sogni si sono mescolati alla realtà, ma ciò nonostante è rimasto per lo più in una specie di dormiveglia, senza aprire gli occhi, isolandosi da tutto ciò che lo circondava nell’intento più o meno consapevole di punire la signorina Blanche.

Le due italiane sono venute a pulire la stanza e hanno urtato con la scopa le gambe del letto. Poco dopo gli undici rintocchi dell’orologio è passato l’interno, è rimasto in piedi a guardarlo a un metro di distanza e se n’è andato senza dir niente. È entrata anche la caposala, che lui riconosce dall’odore, se non dalla presenza massiccia, e lo ha collegato al flacone di glucosio.

Del barbiere neanche a parlarne. Deve avere le guance e il mento color grigio sporco e, per un processo mentale indiretto, questo lo fa pensare a suo padre, a suo nonno e agli amici del Grand Véfour.

Ecco, basta un punto di partenza banale per mettere in moto delle idee che, nella vita normale, gli sembrerebbero assurde. Tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda.

E trova modo di ironizzare dicendo a se stesso che il suo punto di vista attuale è quello di un uomo che sta con la testa in giù. Non necessariamente ciò che gli viene in mente in quella posizione è senza importanza. Si vedrà più avanti.

In fin dei conti, quelli della sua età hanno conosciuto tre mondi diversi. Quale che fosse il livello sociale in cui sono nati, hanno avuto dei nonni dalla barba lunga, in redingote e cilindro, nonne con le maniche a sbuffo. Hanno visto la propria madre con le gonne lunghe e uno chignon in cima alla testa, il proprio padre con i baffi e almeno uno zio che andava fiero dei suoi folti favoriti.

Gli uomini non uscivano mai senza il bastone da passeggio. Quando si erano viste le prime automobili, fra le pietre del selciato c’era ancora erba e muschio; alcune donne sgattaiolavano fuori di casa, furtivamente, per raccogliere con una paletta lo sterco lasciato sulla strada dai cavalli.

Per lui, quell’epoca si confonde con la Grande Guerra, con il faro spento, il guardacoste grigio ormeggiato davanti ai moli, i lampioni oscurati.

Il periodo seguente è durato fino alla seconda guerra mondiale. È più chiaro, più soleggiato. Le gonne erano corte, le donne più libere. Lui scopriva Parigi, si faceva strada, lentamente, in quella città, senza stancarsi mai dello spettacolo dei Grands Boulevards.

Gli sembra che allora non si desse alla vita e ai problemi individuali tutta l’importanza che gli si dà oggi. Ma forse dipendeva dal fatto che erano più giovani... Non avevano forse l’impressione che fosse tutto un gioco e che, qualunque cosa facessero, non avrebbe avuto alcuna conseguenza?

Il 1940 li ha dispersi. Alcuni sono partiti, chi per la zona non occupata, chi per l’Inghilterra o gli Stati Uniti.

E quando le truppe alleate hanno sfilato sugli Champs-Elysées si è visto che non pochi mancavano all’appello: quelli che erano morti nei campi di concentramento, uno che era stato fucilato dal Comitato di liberazione... Certi erano diventati eroi e altri, tacciati di collaborazionismo, non osavano più farsi vedere in giro.

I Grands Boulevards non erano più il cuore di Parigi, erano stati soppiantati dagli Champs-Elysées e le automobili invadevano i marciapiedi; si andava come niente in aereo a New York o a Tokyo.

Perché tutto è di nuovo più cupo? A causa della minaccia atomica, del ritmo frenetico della vita? Le ragazze portano gli stessi blue-jeans dei ragazzi e pare che gli uni e le altre considerino l’amore una specie di ginnastica.

Gli amici rimasti a galla sono diventati persone importanti o uomini famosi. Sentono il bisogno di riunirsi ogni mese, di osservarsi l’un l’altro, di essere solidali, ma nel corso dei loro pranzi del martedì non si affrontano mai i problemi veri.

L’unico legame fra loro è dunque il fatto di aver attraversato quelle tre epoche, di conservarne gli stessi ricordi e gli stessi rimpianti?

Forse è sempre andata così. Gli uomini che avevano la loro stessa età a metà dell’Ottocento hanno conosciuto mutamenti politici ed economici altrettanto spettacolari, abbigliamenti e stili altrettanto diversi.

È una questione che non gli dà pace, perché vorrebbe riuscire a distinguere la propria evoluzione, quella di cui è responsabile in prima persona, dalla evoluzione generale.

Qualcuno, una donna, ha fatto capolino per chiedere qualcosa alla signorina Blanche. Un quarto d’ora dopo la porta si apre e gli arriva un odore che ha quasi dimenticato: aroma di carne cucinata. È il pranzo dell’infermiera, che le viene portato su un vassoio e che lei consuma in silenzio, davanti alla finestra. Lui segue, in base ai rumori, i movimenti del coltello, della forchetta, delle mascelle.

Non gli hanno dato il succo d’arancia. Intorno all’una, prima di lasciare l’ospedale per andare a casa per il pranzo, il professore passa a vederlo. Quando poi si dirige verso la porta, Maugras apre leggermente gli occhi e lo scorge vestito da città, con un completo scuro, di un marrone piuttosto brutto, tagliato appena un po’ meglio di un abito confezionato in serie.

Due ore prima, furibondo per essere stato tenuto fermo con la forza, in preda a un panico che lo angosciava profondamente, ce l’aveva a morte con tutti loro. Adesso se la prende solo con se stesso. Si è comportato come uno sciocco, non ha neppure cercato di dominare il dolore fisico, di sopportare decentemente i piccoli fastidi che gli hanno inflitto, per dirla come loro.

Sì, è stato altrettanto sciocco del paziente che entra tremebondo dal dentista e, appena installato nella poltrona odontoiatrica, comincia ad agitarsi ancor prima di aprire la bocca. È capitato anche a lui, come a tutti, e ogni volta, terminata la seduta, ha dimenticato la paura e i pochi istanti di dolore.

Succede lo stesso con le malattie. Dichiara spesso, non senza vantarsene, come se la cosa dipendesse da lui, di non essere mai stato malato. Pensandoci bene, scopre che ogni anno ha trascorso diversi giorni a letto, senza contare l’appendicite e i problemi cardiaci dell’adolescenza.

E quante volte, passando dalla sala d’attesa allo studio di un medico, gli sono venuti i sudori freddi al pensiero di un’eventuale diagnosi infausta e, spogliandosi, si è chiesto se non fosse arrivato il momento in cui anche lui avrebbe acquisito lo status di malato.

È un’espressione sua. Sa di cosa parla. Si può essere ammalati senza saperlo, covare per anni un malanno grave continuando a restare un uomo come gli altri.

Poi, per un’inezia, un malessere, un foruncolo, un mal di gola o una fitta al petto, si va dal dottore. Si entra da lui come un essere normale. Si spiano le sue reazioni durante la visita. E, dopo il verdetto pronunciato con voce imbarazzata, si diventa un malato che non vedrà mai più la vita sotto la stessa luce.

È il suo caso? Gentilmente dapprima, con una certa impazienza poi, Besson d’Argoulet ha cercato di dimostrargli che i suoi pensieri e i suoi stati d’animo corrispondono puntualmente alle diverse fasi della sua malattia, e non hanno niente di originale.

Perché mai, pensando a Besson, gli viene in mente suo padre, che, a ottant’anni, vive ancora nella casa di rue d’Étretat dove lui stesso è nato?

Si è offerto diverse volte di sistemarlo più vicino a Parigi, di comprargli, visto che è in pensione, una casetta in campagna, con un giardino, o di prendergli in affitto un appartamento moderno a Fécamp, dove una domestica si sarebbe occupata di lui.

Ma suo padre rifiuta, continua a sbrigare le faccende di casa e a prepararsi i pasti come quando René era piccolo.

Da bambino, tornando a casa da scuola non trovava nessuno e apriva la porta con la propria chiave; sul tavolo di cucina c’era un biglietto per lui, con la lista della spesa, e prima di fare i compiti gli toccava anche pelare le patate, pulire le verdure, mettere la minestra sul fuoco.

Non gli passava nemmeno per la testa di invidiare i compagni che giocavano per strada fino all’imbrunire.

E neanche suo padre si lamentava. Dipendeva forse dall’epoca? Gli umili erano più rassegnati perché sapevano che la loro sorte non poteva cambiare?

Suo padre non invidiava nessuno, non aspirava a salire qualche gradino nella scala sociale. Avrebbe continuato a fare il suo lavoro fino a che l’età glielo avesse permesso, e a contare i colli di merluzzo scaricati dalle navi, e i viveri e i sacchi di sale caricati sulle stesse quando ripartivano.

Conducevano tutti e due, nella casa in cui niente cambiava di posto, un’esistenza grigia.

Poi, ma Maugras ha difficoltà a dire esattamente quando, suo padre aveva preso l’abitudine di rincasare sempre un po’ più tardi con i baffi che puzzavano di acquavite.

Ben presto avrebbero ritardato la cena di un’ora per via della partita a carte da Léon, una bettola del porto.

Non è che fosse proprio un ubriacone, ma le ore che passava al caffè erano diventate, per lui, quelle che contavano davvero, e alla fine ci tornava anche dopo cena.

Il suo sguardo si era fatto più fisso e gli capitava di incespicare nel parlare. Ogni tanto, poi, si commuoveva, e si metteva a piangere guardando la poltrona di vimini.

A René hanno insegnato che non si devono giudicare i propri genitori. Della famiglia gli hanno inculcato, don Vinage soprattutto, un’immagine ideale, come la raffigurano i libri per l’infanzia.

Da ragazzino voleva bene a suo padre, certo, ma aveva scoperto, non senza esserne turbato, che non era intelligente, che aveva una mentalità ristretta, che la sua rassegnazione e la sua mitezza altro non erano che stupidità.

Quando se n’era andato da Fécamp suo padre beveva sempre di più, e un paio di volte René aveva dovuto spogliarlo e metterlo a letto mentre lui ripeteva:

«Tua madre, sai... Se Dio non me l’avesse ripresa...».

Era la sua unica protesta.

«Perché proprio lei?... Che cosa gli ho fatto al buon Dio?...».

A sessantotto anni, quando lo tenevano ancora, per pietà, da Remage, dove uno dei generi aveva preso il posto del vecchio padrone, aveva avuto un attacco di delirium tremens. Maugras lo aveva saputo solo più tardi, quando suo padre era in ospedale già da tre settimane, e si era messo subito in viaggio per uno dei suoi rari ritorni a Fécamp.

In una sala, in mezzo ad altri vecchi in stato vegetativo si era trovato davanti un vecchietto magro magro, con l’aria più cocciuta che mai.

«Perché sei venuto?... Non dovevi disturbarti... Hai cose più importanti da fare, tu...».

Oggi René si domanda se suo padre, invece di rallegrarsi del suo successo, non ne sia segretamente umiliato. Ogni volta che, cedendo alle sue insistenze, è venuto a passare qualche giorno a Parigi, ha guardato all’ambiente in cui vive il figlio con indifferenza, se non con malcelata riprovazione.

«Sei felice, vero?... Buon pro ti faccia... Al mondo deve ben esserci qualcuno che sia felice...».

Ha avuto una ricaduta. È rimasto una settimana tra la vita e la morte. L’ha scampata per il rotto della cuffia e ha smesso di bere.

Adesso non fa più niente, solo le faccende di casa, la spesa, la passeggiata quotidiana lungo i moli. Il suo medico, che non è più il dottor Valabron, morto da un pezzo, gli concede due bicchieri di vino al giorno, e lui aspetta, per ore, che arrivi il momento di berli.

Che cosa lo tiene ancora attaccato alla vita? Che cosa gli dà la forza di rinunciare al suo unico piacere, sapendo che, in ogni modo, non ne ha ancora per molto?

Maugras ne è sconcertato: da quando è entrato qui lui guarda alla morte senza paura né rimpianti.

Lui ha tutto e suo padre non ha niente. Eppure è suo padre, a ottant’anni, che si aggrappa alla vita, e che forse camperà ancora a lungo. Perché?

Qualcuno viene a riprendere il vassoio. La signorina Blanche si avvicina al letto. Ci casca, o sospetta che lui non dorma, che faccia finta? Anche questo è previsto, rientra nei parametri di cui gli ha parlato Besson? Al quinto giorno tutti gli emiplegici si mettono a barare?

Perché quello, per lui, è il quinto giorno di malattia, e la cosa gli sembra incredibile: è passata un’eternità da che un certo René Maugras è stramazzato sulle piastrelle umide della toilette del Grand Véfour...

Oggi è sabato, e lui si chiede se Besson verrà comunque a visitarlo. È poco probabile: il sabato mattina si limita a fare un giro veloce per le corsie di Broussais e non di rado sua moglie lo aspetta in macchina.

Abitano in un grande appartamento di rue de Longchamp, a due passi da avenue Foch e dal Bois de Boulogne. Hanno dei Renoir, dei Gauguin, due Cézanne e un bellissimo Monet.

Besson non ha dovuto comprarli; il vecchio Gaude, suo suocero, era sempre stato appassionato di pittura e quelle tele, che oggi valgono una fortuna, le aveva acquistate a suo tempo per un’inezia. Era amico dei pittori e, uscendo dalla Salpêtrière, li andava a trovare nei vari atelier. Per essere più a contatto con loro aveva comprato un vecchio mulino sulle rive del Loing, vicino a Barbizon.

Da allora La Bluterie si è ingrandita. Besson l’ha ristrutturata e vi ha aggiunto un’ala. A quest’ora, probabilmente, sta già percorrendo la nazionale 7 in compagnia della moglie.

Yvonne Besson è una delle persone più allegre che Maugras conosca, e una delle più indulgenti. Sa benissimo che il marito ha delle avventure, che non può vedere una bella donna senza desiderarla. Le occasioni non gli mancano e, con l’età, correr dietro alle donne è diventata per lui una fissazione.

Chissà come mai, Maugras si è messo a cercare la pecca, il tallone d’Achille in quelli che fanno parte della sua cerchia di amici... Sarà perché è malato? Si parla molto delle avventure galanti di Besson: pare che si sia portato a letto la maggior parte delle sue pazienti e che per lui sia un’autentica ossessione, un po’ come i bicchieri di vino per suo padre.

Anche a René, davanti a una donna, è capitato di soffrire all’idea di non poterla possedere. Non è quello che prova Besson, fatte le debite proporzioni? E Besson ne è consapevole, umiliato? Non è diventato qualcosa di drammatico, da quando le sue prestazioni sessuali sono meno brillanti?

Una sera, dopo cena, quando erano rimasti fra uomini mentre le donne andavano a incipriarsi il naso, Besson gli ha fatto una confidenza.

«Vedi, René, da quando non sono più sicuro di arrivare fino in fondo, faccio in modo di prenderle in posti dove ho un pretesto per fermarmi...».

Forse nel suo studio, in fretta e furia, o nell’ufficio che gli è riservato a Broussais. Ci è passata anche la signorina Blanche? O, se ancora non è successo, verrà anche il suo turno?

Besson d’Argoulet è famoso. Ha tutte le soddisfazioni a cui può aspirare la vanità di un uomo. Non c’è anno in cui non riceva una laurea honoris causa da una qualche università straniera, e presiede a congressi medici un po’ in tutto il mondo.

Eppure, quel che conta di più per lui è che una donna incontrata per caso gli ceda, è sollevare una gonna, scoprire un seno, avviare quegli atti inequivocabili che teme però di non poter portare a compimento.

Maugras si è sbagliato pensando che l’amico insegue onori e gloria per sentirsi sicuro di sé; in realtà, ciò di cui ha più bisogno è lo sfoggio della propria virilità e forse anche la conferma del perdurare del proprio fascino...

Gli dispiace di essere andato a parare lì, è un argomento che gli suscita ricordi penosi. Non è mai stato molto virile, lui. Lo ha sempre saputo, fin da quando usciva dalla casa tra i due bacini, a Fécamp. Gli torna in mente uno sguardo fisso su di lui, una volta che si agitava in modo scomposto per la paura di fare fiasco. La donna era giovane, aveva un bel viso stanco, un corpo gradevole.

«È perché ti preoccupi troppo... Se non ci pensassi tanto...».

Non è impotente. In ogni caso fino a qualche giorno fa non lo era, ma le sue capacità sessuali sono un po’ al di sotto della norma. A dire la verità non ne è neanche troppo sicuro, perché non ha mai osato interrogare gli amici in proposito e, quando raccontano le loro prodezze, sospetta che facciano gli spacconi.

L’unico criterio di cui disponga è l’atteggiamento delle donne nei suoi confronti. E, in genere, alle donne lui piace. Spesso, all’inizio, lo guardano con curiosità, come chiedendosi che cos’abbia di diverso dagli altri.

È davvero diverso dagli altri? Quegli sguardi potrebbero farglielo credere. Ma non è forse vero che ciascuno di noi si considera diverso dagli altri?

Perché la maggior parte delle donne prende subito verso di lui un atteggiamento protettivo, a volte materno? A Fécamp lo si poteva capire: non era che un adolescente, e la sola vista di un corpo nudo bastava a farlo tremare come una foglia.

Ma dopo? Ha sotto di sé centinaia di dipendenti. Occupa una delle posizioni più in vista di Parigi, prende ogni giorno decisioni che influiscono pesantemente sull’opinione pubblica, si tratti di politica, di teatro, di letteratura e persino di Borsa.

Perché Lina non si sente al sicuro con lui? Perché lui non riesce a renderla felice? E perché una donna come la signorina Blanche a volte si mostra intenerita?

Non può continuare a tenere gli occhi chiusi. Non è giusto nei confronti dell’infermiera. Certo, vegliandolo si guadagna da vivere, ma dà anche un po’ di sé. Inoltre, ha sbavato; sente sulla faccia una scia bagnata e ha molta sete.

Si muove appena, senza far rumore, e già lei accorre.

«Dormito bene?».

Ha l’aria ironica, come per fargli capire che non ci è cascata, ma non se la prende.

«Dov’è andato, questa volta?».

Sa che non può rispondere, ma ciò nonostante, mentre gli asciuga la faccia e vi passa dell’acqua di Colonia, continua a parlare:

«Scommetto che era lontanissimo da noi... E il viaggio deve aver avuto momenti piacevoli, perché più di una volta l’ho vista sorridere...».

Lui non se n’è reso conto e si domanda cosa abbia potuto farlo sorridere.

«Il professor Besson ha telefonato per scusarsi se oggi non viene... È stato informato dei suoi problemi di questa mattina e le raccomanda di non preoccuparsi...».

È passato a cento metri dall’ospedale, mentre si dirigeva verso la foresta di Fontainebleau. Chissà se ha gettato un’occhiata agli edifici di pietra grigia e se ha parlato di lui con Yvonne...

Il buonumore di lei, il suo equilibrio, il suo brio, sono del tutto sinceri?

«Povero René! Credi che recupererà l’uso degli arti e della parola?... Per un uomo come lui, dev’essere terribile...».

Poco importa che cosa le abbia risposto il marito. Non è la propria salute quel che interessa a Maugras per il momento. Sono gli altri, di cui sente il bisogno di raschiar via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso.

Ma è possibile?

 

 

Hanno lasciato entrare Clabaud, l’avvocato. Si è rivolto all’amministrazione, o alla caposala? Ha chiesto a qualcuno il permesso di fargli visita?

Poco probabile. Quasi tutti i suoi amici sono arrivati a un livello in cui non si fanno più code davanti al botteghino dei teatri, e una telefonata sostituisce giorni o settimane di pratiche.

Non fanno più parte del pubblico. Stanno dall’altra parte della barricata, sanno quello che gli altri ignorano, quello che agli altri viene tenuto nascosto perché sarebbe pericoloso che ne fossero al corrente.

Clabaud ha chiesto indicazioni con piglio sicuro, da uomo abituato a superare ogni barriera. Forse è passato inosservato, perché è l’ora delle visite e, poiché è sabato, sulla scala e nei corridoi c’è ancora più gente degli altri giorni. Sembra di essere all’uscita di un cinema.

Clabaud ha bussato con discrezione alla porta e l’ha subito aperta senza aspettare una risposta. La signorina Blanche lo guarda sorpresa, poi, non sapendo come regolarsi, interroga Maugras con lo sguardo.

«E così, vecchio mio, ti hanno messo con le gambe all’aria...».

Chissà se l’amico trova che sia smagrito, che abbia una brutta cera, specie oggi che non l’hanno rasato e che ha un po’ di febbre... In ogni modo non lo dà a vedere, porge cappello e cappotto all’infermiera, si piazza a cavalcioni di una sedia.

«Non aver paura... Ho preso le dovute precauzioni, ho telefonato a Pierre... Mi ha detto che, pur non essendo un paziente molto collaborativo, sei comunque sulla buona strada... Vorrebbe che tu cominciassi a vedere qualche amico...».

Per distrarsi un po’ dai suoi pensieri!

«Mi fa effetto trovarti qui... Certo a te deve fare un effetto ancora più strano...».

Volge lo sguardo alle pareti verdastre, al flacone di glucosio e al relativo tubo di gomma, al pappagallo coperto da un asciugamano, e infine alla signorina Blanche, che non sa se uscire o no dalla stanza.

«Mi fermerò solo pochi minuti» le promette. «Non pretendo di sostituirla, ma se il mio amico avesse bisogno di qualcosa la chiamerò senz’altro...».

È quasi calvo, corpulento, ma così solido e tarchiato che non sembra grasso.

Non è venuto per caso. Lo dimostra il fatto che, con la consueta disinvoltura, abbia congedato l’infermiera.

È stato presidente del collegio forense, e anche lui potrebbe entrare all’Académie Française, se lo volesse, o meglio se la sua intransigenza non gli avesse procurato in quel consesso nemici acerrimi.

Fino a cinque o sei anni fa era incontestabilmente l’avvocato più famoso di Francia, e non passava quasi settimana senza che i giornali pubblicassero la sua fotografia.

Dopo, ha dovuto fare i conti con un nuovo venuto, Cantille, considerato un «giovane» perché ha solo quarantadue anni.

Adesso le foto dei due uomini si alternano. I processi che fanno scalpore non sono più monopolio di Clabaud, ed è capitato un paio di volte che i due si affrontassero in aula, l’uno dal banco della difesa, l’altro come parte civile.

Chissà se lui ne soffre, come, in certe specie animali (i leoni marini per esempio), il vecchio maschio che si vede soppiantato alla guida del branco da un esemplare giovane più aggressivo e più possente...

«A proposito, Pierre si scusa... Sai com’è... Il week-end è sacro, soprattutto per Yvonne, che se non vede riuniti alla Bluterie figli e nipoti ci fa una malattia...».

Lui, Clabaud, ha due figli e una figlia. Uno dei figli è sposato, la ragazza fidanzata. Ma non è da lui che Maugras lo ha saputo. Come per tacita convenzione, o per pudore, tra loro non parlano delle rispettive vite private. È un’abitudine che risale all’epoca in cui si incontravano nelle brasserie e non si sapeva chi avesse figli e chi non ne avesse.

Più tardi hanno preso ad andare a casa degli uni e degli altri, quasi sempre alla sera. I bambini erano già a letto o altrimenti venivano tenuti in disparte in un’altra zona dell’appartamento.

Fatto sta che quando di tanto in tanto capitava di ricevere una partecipazione di nozze si era colti un po’ di sorpresa.

Clabaud abita in quai Voltaire, di fronte al Louvre: sotto di lui, ai due lati del portone, ci sono un mercante di libri rari e di stampe e un antiquario specializzato in mobili e oggetti di alta epoca. L’appartamento è vecchiotto, austero, a immagine e somiglianza della signora Clabaud che ricorda un po’ la caposala.

Il marito ne è ancora innamorato? Può essere felice accanto a una donna che in casa comanda a bacchetta? Comunque, è uno dei pochi commensali ai pranzi del primo martedì del mese a cui non si attribuiscono avventure galanti.

Ha un grandissimo studio e uno dei figli lavora con lui. La mattina alle sei è già in piedi e gli piace sostenere che il suo principale atout è il fatto di aver bisogno di appena quattro o cinque ore di sonno.

Oltre al ruolo che svolge in Assise, è consigliere legale di importanti società, e questo gli rende molto di più.

Di tutti i loro amici, Clabaud è l’unico ad avere un ritmo di lavoro più frenetico di quello di Maugras. Perché Maugras, almeno, si limita alla sua professione. Direttore di giornale, fondatore di due settimanali, uno dei quali è una rivista femminile, è normale che si interessi alla radio e che frequenti gli ambienti che si occupano dell’attualità.

Che Clabaud, come Besson, non perda un’anteprima, lo si capisce: è appassionato di teatro e ne conosce i classici quanto li conosce un attore della Comédie-Française.

La cosa stupefacente è che trovi il tempo per soddisfare altre passioni, che sono vere e proprie manie. A lui si deve, per esempio, l’opera più esauriente sui vecchi palazzi del Marais e una voluminosa monografia dedicata alle chiese romaniche di Francia, per scriver la quale si è preso la briga di visitarle una per una.

Quanto ha dato, della sua vita, ai suoi tre figli?

A dire il vero, neanche Maugras si è occupato molto di sua figlia.

Lo colpisce, oggi, constatare che i bambini formano come un mondo a parte. Nei corridoi e nelle sale, questo pomeriggio, ce ne sono molti, non meno degli adulti, e le infermiere sono costrette a moderare la loro vivacità.

«So che non hai ancora il permesso di parlare...».

Besson non ha detto così, questo è certo. Ha detto che lui è colpito da afasia, e che per molto tempo, forse per sempre, non potrà parlare.

Clabaud ha avuto un attacco di cuore, due anni fa, ed è rimasto in clinica una settimana. Niente di grave, gli hanno detto. Un semplice campanello d’allarme. Da allora non fuma più.

Quale sarà la sua reazione vedendo Maugras, di quattro anni più giovane, conciato peggio di lui?

L’avvocato non lascia trapelare niente, è a suo agio e disinvolto esattamente come nel suo studio.

«Non so se segui l’attualità...».

Va con lo sguardo dal comodino al tavolino sul quale ha pranzato la signorina Blanche.

«Vedo che non hai la radio... I giornali li leggi?... Il tuo, quanto meno?... No?...».

Sembra perplesso, contrariato.

«Se capisco bene, stai lasciando la briglia sul collo all’ineffabile Fernand Colère...».

Non ha perso tempo. È venuto con uno scopo preciso.

«A proposito di Colère, stamattina gli ho dato un colpo di telefono... Ti ricordi del caso Campan?... No, naturalmente... Tra il momento in cui scoppia un caso e quello in cui arriva in Corte d’Assise passa tanto di quel tempo che tutti se lo sono dimenticato...».

Istintivamente, Maugras fruga nella memoria. È una deformazione professionale. Campan... Campan... Gli sembra di ricordare una fotografia in prima pagina: un ragazzo alto, magro, distinto...

«Due anni fa... L’antiquario, il "ladro gentiluomo". Ci sei?...».

Sì: all’epoca i giornali hanno titolato: «L’Arsenio Lupin dei castelli».

Per quasi un anno alcuni castelli della Turenna, dell’Angiò, della Normandia e di quasi tutte le province francesi sono stati visitati da un ladro che sceglieva con fiuto sorprendente i pezzi più preziosi, senza lasciarsi mai ingannare da un falso o da una imitazione.

Ogni volta sembrava conoscere i luoghi, la collocazione degli oggetti, sapeva se c’era o no il rischio di incappare in domestici o in cani da guardia.

Una notte, a seguito di un episodio banale, un furto d’auto segnalato in un paese della zona, era stato istituito un posto di blocco con due gendarmi lungo la strada per Chartres. All’improvviso, un’automobile di grossa cilindrata era apparsa in cima alla salita. Il conducente aveva rallentato per un centinaio di metri, poi, cambiando bruscamente idea, era partito a tutta velocità rovesciando come un birillo il gendarme che agitava una torcia in mezzo alla strada.

Il gendarme era rimasto ucciso sul colpo. L’uomo che era al volante l’avrebbe probabilmente fatta franca se, venti chilometri più avanti, in una curva, non si fosse scontrato con una 2 CV riducendola a un rottame e uccidendone gli occupanti, una coppia e un bambino.

Quanto al responsabile di quei quattro morti, giaceva, gravemente ferito, ai piedi di un albero contro il quale era stato proiettato dopo aver sfondato il parabrezza.

Si trattava di Henri Campan, trentotto anni, antiquario in rue des Saints-Pères. Si venne ben presto a sapere che apparteneva a una notissima famiglia di Bordeaux, che il padre era stato generale e il nonno materno senatore della Gironda.

Nell’auto erano stati rinvenuti monete antiche e oggetti d’arte rubati quella notte stessa in un castello della Loira.

Maugras comincia a pensare a Campan come ha pensato a Besson, a Jublin, a Clabaud, a tutti gli altri. Due anni prima, quella storia era stata per lui soltanto uno scoop che, come del resto i suoi colleghi, aveva sfruttato a fondo, pubblicando in esclusiva un’intervista alla madre del ladro, che viveva ancora in Dordogna.

Oggi, invece, si fa delle domande su quell’uomo di trentott’anni, sulle sue imprese solitarie, sull’eccezionale concorso di circostanze che ne hanno fatto un pluriomicida.

Sa già quello che Clabaud sta per chiedergli. Clabaud è l’avvocato di Henri Campan e per lui si tratta di vincere la causa o di ottenere il minimo della pena.

«Mi dispiace che tu non possa incontrarlo... È uno strano ragazzo, e il suo caso presenta degli aspetti psicologici collaterali davvero sconcertanti... Ho ottenuto che venisse visitato da uno psichiatra, ma è molto probabile che il perito ufficiale cercherà di confutare le sue conclusioni... Sai come vanno queste cose in tribunale...».

Maugras ha capito, e non ha più bisogno di ascoltare, se non per curiosità, per vedere come se la caverà Clabaud.

«Mi sono permesso di accennarne a Colère, pensando che si tenesse in contatto con te e che ricevesse quotidianamente le tue direttive... Mi ha detto che le cose non stanno così, che dopo l’incidente ti ha visto solo per pochi minuti... Il processo sarà celebrato mercoledì a Orléans, e come al solito tutto dipenderà dall’opinione di un pugno di giurati...

«Campan può passare tanto per una cinica canaglia quanto per una vittima inconsapevole della fatalità: tutto dipende da come lo si presenta... Naturalmente, nella mia difesa, lo presenterò come una vittima del fato, e più studio il caso, più mi convinco di essere nel giusto...

«Il rischio maggiore, in un caso come questo, è la reazione del pubblico, l’atmosfera del processo... In altre parole, un giornale come il tuo può avere una grande influenza... Non ti chiedo di schierarti... Non mi permetterei mai... Quello che vorrei è una sorta di benevola neutralità...

«Che non si parli troppo, per esempio, della vedova del gendarme, che scoppierà in lacrime in aula; che non si pubblichi la sua fotografia mentre entra in tribunale; che non si insista sulla coppia e sul bambino, soprattutto sul bambino che, da solo, potrebbe fruttarci la condanna a morte...».

Maugras non si indigna. Se avesse dovuto indignarsi, lo avrebbe fatto da un pezzo. Fino a oggi, fino a quando ha preso a vedere il mondo da un letto d’ospedale, quel modo di affrontare le cose gli è parso naturale esattamente come a Clabaud.

«Devi ammettere che non ho mai approfittato...».

È vero. E l’avvocato gli ha fatto dei favori a volte delicati.

«Ieri sera, alla Michodière, ho incontrato uno dei fratelli Schneider, Bernard, credo... Li confondo sempre... Quello che ha una scuderia di cavalli da corsa e aspira a entrare al Jockey Club...».

Non era Bernard, ma François, il maggiore dei tre fratelli che possiedono il novanta per cento delle azioni del suo giornale. Bernard passa la maggior parte dell’anno negli Stati Uniti.

Prima della guerra avevano grossi interessi in Indocina. Si sono ritirati in tempo per metter su, in Francia e non solo, delle raffinerie di petrolio.

«Non gli ho accennato alla cosa... A proposito! Dimenticavo di portarti i suoi saluti... Ti augura una pronta guarigione...».

Sì, per telefonargli continuamente per ogni sciocchezza! François Schneider preferisce non sbandierare i suoi rapporti con il giornale e mette raramente piede nell’ufficio che gli è riservato, attiguo a quello di Maugras. Ciò nonostante, vive nel terrore che il giornale lo comprometta.

«Mi dica, René... Non le pare che l’ultimo consuntivo della Camera fosse un po’ tendenzioso?... Certi amici miei ne sono rimasti sorpresi...».

O ancora, lo spazio accordato in prima pagina a dei sommovimenti internazionali rischia di provocare il ribasso della Borsa...

Clabaud ha pensato a tutto, anche alla paralisi dell’amico. Concluso il suo discorsetto, non senza una velata allusione ai proprietari del giornale ai quali avrebbe potuto rivolgersi, tira fuori di tasca un foglio.

«Prima di venire qui, come avevo promesso stamane a Colère, sono passato da lui in redazione... Ha scarabocchiato un messaggio per te...».

Sul foglio c’è scritto: «D’accordo, capo?».

Già: lo chiamano così. L’aveva quasi dimenticato. Da quando si trova qui, a tutto pensa salvo che al giornale, che pure, fino a una settimana fa, era l’elemento fondamentale della sua vita.

L’avvocato non dubita di lui. Non si conoscono forse da trent’anni?

«Pare che tu possa scrivere con la sinistra...».

Ha chiesto conferma a Besson, per andare sul sicuro. È fermamente deciso a vincere la causa, non tanto per Campan, di cui non gli importa un bel niente, quanto per non essere da meno del collega Cantille che ha appena salvato un parricida dalla condanna a morte.

Ha già in mano una stilografica d’oro e fa scivolare il portafoglio sotto il pezzo di carta per permettere a René di firmare.

«Grazie, vecchio mio... Se la cosa ti diverte, quando avrai voglia di leggere ti manderò una copia della pratica... Vedrai che in questa vicenda ci sono cose al di là di ogni immaginazione... E per di più, a complicare il caso, c’è il fatto che Campan è omosessuale e che...».

Bussano alla porta. La signorina Blanche scambia dei convenevoli con qualcuno che non è ancora visibile, poi entra per prima e annuncia:

«C’è sua moglie...».

Perché per un attimo pensa che si tratti di quella di Clabaud? Ovviamente no, è la sua. L’avvocato si alza tendendo la mano:

«Cara Lina... Come sta?».

Maugras è sempre con la testa in giù e la signorina Blanche viene furtivamente a pulirgli il naso e la bocca per renderlo più presentabile.

«Stanco?» gli domanda sottovoce.

Cosa potrebbe rispondere? Se è rimasta dietro alla porta e ha sentito tutto, avrà capito.

 

 

7

 

Sono rimasti soli nella camera e, come ogni volta che si trovano a tu per tu, provano entrambi un malessere che si sforzano di nascondere. Succede da tempo, da anni ormai. Già in rue de la Faisanderie, quando non dormivano ancora in camere separate, il disagio si manifestava con silenzi, o frasi banali così estranee ai loro rovelli da risultare più penose dell’assenza di parole. Gli sguardi si evitavano e quando, inavvertitamente, si incontravano, ognuno cercava di sorridere.

Fuori continua a piovere. Ci sono gocce d’acqua sull’impermeabile di Lina, sui suoi capelli scuri che scendono dritti, lungo l’ovale stretto del viso, fino alle spalle, dove un’onda larga ne solleva le punte.

Come Clabaud, la sua prima occhiata è andata alle gambe sollevate e lui ha capito benissimo che è rimasta scioccata a vederlo così, a testa in giù, posizione che deve alterare alquanto la sua fisionomia.

«Buongiorno, René... Ti disturbo?... Avevi finito con Georges?...».

La signorina Blanche è uscita dietro all’avvocato e, per discrezione, resta fuori. A lui è sembrato che lo lasciasse un po’ a malincuore, intuendo che quella visita rischia di turbarlo.

Lina è in piedi e dal soprabito aperto si intravede un tailleur di Chanel che lei mette soprattutto nel week-end. Non ha bevuto, o almeno si è limitata al bicchierino indispensabile.

Dev’essersi alzata intorno a mezzogiorno. È uscita, la sera prima? Probabile. Poi avrà chiamato Clarisse, la sua cameriera personale. Quando si sono sistemati alla Résidence George V, che garantisce loro tutti i servizi, lui ha insistito perché Lina tenesse ugualmente con sé Clarisse: lei non sopporta la solitudine.

Ha sempre bisogno di qualcuno con cui parlare. Non di lui. Con lui non parla. Lo fa con chiunque altro, al limite con un barman che non conosce.

Che cosa avrà mangiato? Un uovo e una fetta di prosciutto? Non fa quasi mai un vero pasto. Mangia sempre di meno, non perché sia a dieta, visto che niente la fa ingrassare, ma perché non ha più appetito.

Lui sa che ha bevuto un solo whisky perché le sue mani hanno ancora il tremito della prima parte della giornata, il tremito tipico dei drogati. Un whisky lo attenua appena, e solo a poco a poco, a mano a mano che passano le ore e che i whisky si moltiplicano, Lina acquista sicurezza, ritrova la sua vitalità e persino un’allegria non fasulla.

Rientrando dal giornale nel tardo pomeriggio per cambiarsi, le ha sentite spesso ridere, lei e Clarisse, ma al suo apparire ridiventavano serie.

Di che cosa ha paura Lina? Perché ha paura, questo è certo. Da tempo lui cerca di capirlo, ma invano. Periodicamente gli vengono in mente delle spiegazioni, sempre le stesse, che al momento gli sembrano plausibili; poi un atteggiamento di Lina, una parola sfuggita per disattenzione, o una scenata come sempre più spesso ne scoppiano tra loro, rimette tutto in questione.

Oggi non ha telefonato per sapere se lui avesse voglia di vederla. Questo significa che, come Clabaud, deve chiedergli qualcosa e, per via del tailleur Chanel, lui sa di che si tratta.

«Ti sembrerà che il tempo non passi mai, povero il mio René, specie da quando stai meglio... Non vuoi che ti faccia avere la tua radiolina?... Ti lasciano leggere?... Forse tra un paio di giorni potranno metterti in camera la televisione...».

La conosce, quella voce un po’ atona, quella mollezza del labbro inferiore di quando lei parla senza convinzione, senza pensare a ciò che dice, solo per sfuggire al silenzio.

È anche vero, però, che dev’essere alquanto sconcertante rivolgersi a qualcuno che non è in grado di rispondere e di cui si è costretti a spiare gli sguardi. Non ci aveva ancora pensato. Sarà per questo che tutti quelli che lo avvicinano, medici compresi, si comportano in modo così poco naturale?

È fatale che vi siano dei tempi morti, l’interlocutore non può parlare senza sosta. Solo Clabaud ci è più o meno riuscito, ma è il suo mestiere.

Lina non sa dove mettersi, non sa se restare in piedi o sedersi.

«Posso fumare?».

Lui fa segno di sì e poco dopo sente il rumore caratteristico del portasigarette d’oro che si richiude e lo scatto dell’accendino, anch’esso d’oro.

«Nonostante la pioggia, è pieno di macchine che filano fuori città come in primavera...».

Ha dei begli occhi color nocciola - to’, gli è tornata in mente l’espressione di una delle sue zie... -, ma vi si coglie sempre una sorta di smania, come se Lina non si rilassasse mai, come fosse rosa da un pensiero che si ostina a tenere per sé.

Maugras non vuole pensarci. La visita di Clabaud gli ha lasciato un senso di vergogna, e tra quello e la visita di sua moglie non c’è stata soluzione di continuità.

Non è esattamente vergogna, né disgusto. È sorpreso, scosso, come se avesse appena fatto una scoperta, come se lo avessero messo improvvisamente davanti a una realtà che si è sempre rifiutato di vedere.

Ha fretta che Lina se ne vada. Se potesse parlare, le direbbe:

«D’accordo, cara... Va’ pure... E divertiti...».

Lei lo guarderebbe ancora una volta con l’aria di una colpevole smascherata. Perché è così che si sente, colpevole. A volte lui crede di sapere perché. Anche lui si sente in colpa, in un altro modo, ma non è una questione da affrontare quando si ha la febbre.

Chissà se ce l’ha ancora... Non è particolarmente abbattuto. Si sente come un cane rintanato nella sua cuccia intento a seguire con gli occhi la gente che passa e a fiutarla da lontano.

«Non so cosa fare... Marie-Anne mi ha telefonato alle due... Sai com’è lei... Fa dei progetti e non concepisce che gli altri non vi aderiscano con entusiasmo... Le ho risposto che...».

Poco importa quello che Lina le ha risposto. Il risultato sarà lo stesso, e non solo perché Marie-Anne è effettivamente autoritaria.

A Parigi, le persone che contano, parlando tra loro, la chiamano semplicemente Marie-Anne, come se fosse l’unica al mondo a chiamarsi così. Il suo nome è Marie-Anne de Candines, ed è contessa. Il marito è morto da dieci anni. L’unico ruolo che abbia avuto nella vita di lei è stato quello di darle il suo nome, e Marie-Anne si è sempre comportata come se lui non esistesse.

Era un ragazzo biondo e scialbo, uno degli ultimi parigini a portare il monocolo e a dividere il proprio tempo tra il club, la sala di scherma e l’ippodromo.

Lei è ebrea, imparentata più o meno da vicino con i Rothschild. Suo padre era un banchiere. È morto anche lui, e la madre, a quasi ottant’anni, conduce ancora un’esistenza assai mondana nella sua proprietà di Cap d’Antibes.

Marie-Anne è l’esponente principale di tutti quelli che conducono un certo tipo di vita e ostentano certi gusti. Nel suo palazzetto di place de l’Alma e al castello di Candines riunisce intorno a sé giovani e meno giovani, scrittori e scrittrici, cineasti, sarti, belle ragazze che calcano le scene o vorrebbero farlo, un paio di pittori e un certo numero di omosessuali.

Ha avuto diverse relazioni piuttosto lunghe e non lo nasconde. Tutti sanno che benché abbia quasi sessant’anni, riceve ancora le assidue visite di un diplomatico che non di rado passa anche la notte da lei. Costui, però, non fa parte della combriccola, e ne sta anzi alla larga.

«Adoro gli omosessuali!» le piace dichiarare. «Sono gli unici a capire le donne, i soli che, al di fuori dell’amore, non siano noiosi...».

Maugras vorrebbe dire a Lina:

«Va’, sbrigati... Ti aspetta...».

È sempre così con sua moglie: ha talmente paura di essere fraintesa o giudicata male che impiega un’eternità a esprimere il pensiero più semplice.

«Vanno tutti a passare la domenica a Candines... Marie-Anne parte da casa sua alle cinque...».

Sono le tre e mezzo. Considerando il traffico del sabato, Lina ci metterà quasi un’ora ad arrivare in place de l’Alma. Che vada, dunque!

«Le ho detto che preferivo rimanere a Parigi nel caso tu avessi bisogno di me...».

La frase è maldestra, se ne accorge anche lei, arrossisce e si affretta ad aggiungere:

«Domani, magari, potresti aver voglia di vedermi...».

È un’affermazione un po’ ambigua. Perché dovrebbe avere improvvisamente bisogno di lei? E se qualcuno dovesse telefonare al George V per chiedere a Lina di correre a Bicêtre, questi non sarebbe certo lui. Lo farebbe la signorina Blanche, o la caposala, e vorrebbe dire che lui o è moribondo o è morto.

Quanto al desiderio di vederla, Lina sa benissimo che passano il tempo a evitarsi perché quello è l’unico modo, per entrambi, di conservare il proprio equilibrio.

Perché prima di venire non ha bevuto? Perché, la prima volta, ha capito che lui le sentiva l’alito. Perché sa che lui ogni volta indovina.

Non le rivolge alcun rimprovero, impedisce che dal suo sguardo trapeli la benché minima severità. Lei, quando ha i nervi a pezzi, gli grida:

«Non posso nemmeno più pensare senza che tu mi legga nel pensiero!...».

Contro chi, contro che cosa combatte, da sola, invece di accettare il suo aiuto? No, lui non sa tutto. Tanto è vero che non la capisce ancora e che anche lui si intristisce.

Le sorride. Ma deve anche stare attento al suo sorriso, perché lei, di solito, vi percepisce una sfumatura di ironia, o di indulgenza, e l’indulgenza la irrita più di ogni altra cosa.

Allora fa segno di sì con la testa; e con la mano sinistra cerca a tentoni il blocco e la matita che la signorina Blanche deve aver lasciato alla sua portata. Lina capisce, si alza e gli porge la matita che lui non trovava.

«Riesci già a scrivere? Scommetto che fra una settimana parlerai come prima...».

Sa che lui le dirà di sì. Lo sapeva prima di venire. La sua visita è una pura formalità. Se non si è limitata a telefonare è stato per scrupolo, perché avrebbe dovuto parlargli tramite l’infermiera. Ha preferito attraversare tutta la città sotto il diluvio.

«Non avrò neanche bisogno di servirmi di Léonard, e questo vorrà dire, per lui, un giorno di permesso... Marie-Anne vuole che faccia il viaggio con lei, nella sua macchina...».

Il castello di Candines si trova nell’Eure-et-Loir, vicino a Verneuil, ed è circondato da centinaia di ettari di foresta.

Lui scrive: «Vai».

Cosa potrebbe aggiungere? Divertiti, è troppo lungo. Non ne ha la forza. Esprime il suo augurio con uno sguardo dolce e affettuoso. Doveva prevederlo: Lina si preoccupa. Crede che si burli di lei? O che la giudichi così male da immaginare che non possa passare un giorno senza i suoi amici?

«Vedi, René, se mi decido ad andarci è più per Marie-Anne che per me... In genere, mi fa piacere vederla, e non voglio dirle di no il giorno in cui ha bisogno di me...».

Ma no! Marie-Anne non ha bisogno di lei. Anche lei aborre l’idea di esser sola, ecco tutto, e soltanto in mezzo alla sua piccola corte si sente a proprio agio.

«Ah! Dimenticavo di dirti un’altra cosa... Probabilmente ci hai pensato anche tu, e voglio rassicurarti... Si tratta del pranzo di domani a Arneville... Domenica scorsa ho sentito che invitavi degli amici... Poiché i giornali non hanno fatto parola di quel che ti è successo, ho preferito telefonare loro... Non aver paura... Non ho dato particolari... Mi sono limitata a dire che non ti senti bene...».

Neanche questo è vero. Avrà raccontato tutto, invece, tutto quello che sa, compreso il luogo in cui l’hanno trovato senza conoscenza. È più forte di lei. Si aggrappa a qualunque cosa, a chiunque, al telefono, alla cameriera, al portiere della Résidence con il quale si ferma a chiacchierare a lungo ogni volta che entra o che esce.

Il portiere saprà già che lei va a Candines per il week-end, che è qui per parlarne con lui, che ha degli scrupoli, che si allontana a malincuore ma che, se succedesse qualcosa, sarebbe a Parigi in un’ora e mezzo...

Gli amici di Marie-Anne hanno delle Ferrari, delle Aston-Martin o delle Alfa Romeo, e corrono parecchio.

Vorrebbe gridarle:

«Ma vai, su!».

No: vorrebbe dirglielo teneramente, stancamente. Non capisce che non è il momento giusto per farlo riflettere su certi argomenti? Sono anni che riesce quasi a non pensarci, un po’ come se qualcosa, nel suo intimo, forse l’istinto vitale, rimuovesse un problema pericoloso.

Che per favore non gli rovinino la sua malattia, la sua morte, forse. Ha bisogno di quiete. Anche lei ne avrebbe bisogno, soprattutto perché gli sopravviverà. Ma forse, chissà, quando lui non ci sarà più, la troverà automaticamente, questa quiete.

Non è detto. Forse invece è già troppo tardi. Le mani le tremano più di quando è entrata e lui ne prova compassione. Deve bere qualcosa al più presto.

Lo farà appena esce. Entrerà nel primo bistrot che trova e gli avventori si strizzeranno l’occhio vedendola scendere da una Bentley con tanto di autista in livrea per buttar giù un bicchierino al banco. Non se ne vergogna più. Meglio così! Magari, se lui avesse affrontato la cosa diversamente...

No! Via tutto! Interrompe il contatto, rifiuta di lasciarsi invadere da un turbamento che conosce fin troppo bene. Un sorriso, ancora. Un bel sorriso d’incoraggiamento.

«Sei sicuro, René, di non...».

Ma sì! Ma sì! Va’... Racconta loro che mi hai trovato con la testa in giù, che sei rimasta scioccata, che avevo un’aria rassegnata o insofferente, poco importa... Racconta quello che vuoi, con un bicchiere in mano, gli occhi via via più brillanti... Ma, per favore, va’ via!

Lei sembra aver capito. Cerca un portacenere per schiacciarvi la sigaretta dal bordo macchiato di rossetto.

«Quasi non oso augurarti buona domenica, René... Sarebbe stato più giusto che fosse successo a me...».

Lui chiude gli occhi. Non ne può più. Lei si china per deporgli un bacio sulla fronte.

«A lunedì... Telefonerò a Besson lunedì mattina...».

Maugras sente i suoi passi che si allontanano, la porta che si apre, lo scalpiccio dei visitatori e le voci nel corridoio.

Solleva le palpebre per accogliere l’immagine della signorina Blanche: più seria di poco prima, preoccupata, lo guarda come se lo compiangesse senza capire bene perché.

Deve aver intuito che tra lui e Lina qualcosa non funziona come, in occasione della prima visita, ha intuito che Lina aveva bevuto. Chissà se si domanda chi dei due ne sia responsabile...

«Triste?».

Un energico no con la testa, così energico che lui stesso ne è sorpreso.

«Stanco?».

No, neppure. È stanco, certo, ma non da oggi, né dal suo ingresso in ospedale.

Scombussolato? Sarebbe già più giusto, anche se la parola non esprime tutto. Ma non deve preoccuparsi per lui. Del resto, sa benissimo che, come ha detto Besson, quello è il normale processo della malattia, altrettanto preciso di una curva della febbre...

Guarda la pioggia che cade e questo lo conforta, perché dà una certa intimità alla camera dove gli piace seguire con lo sguardo la signorina Blanche che va su e giù. Cominciano a conoscersi. Chissà se anche a lei è dispiaciuto che nel pomeriggio quell’atmosfera confidenziale che si è creata fra loro sia stata turbata per ben due volte...

Probabilmente si domanda quali siano i veri rapporti tra lui e sua moglie, che legame ci sia ancora tra loro, come e perché un giorno abbiano deciso di passare la vita insieme.

Non è la sola a chiederselo. Se lo chiedono o se lo sono chiesto tutti i loro amici, soprattutto le donne, che osservano Lina con curiosità. Alcune di loro, poi, guardano lui con aria di compatimento.

Sbagliano. Lui non ha rimpianti. Ama Lina. Ha bisogno di lei tanto quanto lei ne ha di lui, e farà di tutto per non perderla.

Meglio pensare a qualcos’altro, a qualsiasi cosa, continuando a seguire con lo sguardo l’uniforme bianca dell’infermiera. Maugras si mette a frugare nella propria mente cercando cosa pensare come un bambino cerca, tra i suoi giocattoli, quale scegliere.

In realtà, non sceglie. Un certo pensiero s’impone, quasi sempre di sorpresa, e capita che ne vengano fuori due alla volta senza che abbiano necessariamente un nesso tra loro.

Anzi, più che pensieri sono domande. Perché lui non la smette di farsi domande, e di cercare risposte.

E spuntano anche delle immagini che credeva di aver dimenticato. Georges Clabaud, in tocco e toga, con una cartella sotto il braccio, che lo trascina in mezzo alla folla della sala d’attesa del Palazzo di Giustizia verso la seconda o la terza sezione dove si svolge un processo di grande interesse.

È accaduto prima della guerra. Lui è già caporedattore, ma di un giornale meno importante di quello che dirige oggi. La gente ha preso d’assalto l’aula per accaparrarsi i posti. Molte donne del bel mondo, compresa Marie-Anne de Candines, alla quale non dà ancora del tu.

Clabaud è andato a prendere una sedia dietro le quinte per sistemare l’amico vicino al banco degli avvocati, separato dal pubblico, così che a Maugras sembra di essere uno dei celebranti.

A un certo punto, una giovane avvocatessa che succhia pasticche di menta gli porge la scatola facendogli segno di passarla all’imputato.

Chissà se Clabaud crede nella Giustizia... Besson d’Argoulet, per esempio, non crede nella Medicina, almeno non come ci crede la maggior parte dei suoi colleghi e men che meno come ci credono i malati.

«Guariamo parecchi dei nostri pazienti, è vero, ma per lo più non sappiamo né come né perché... Ogni volta che pensiamo di aver scoperto qualcosa, sorgono nuovi problemi, così che la scoperta assomiglia più a un passo indietro che a un passo avanti... Fra cento anni, o fra cinque secoli, i nostri discendenti parleranno di noi come noi parliamo degli stregoni africani...».

È solo una forma di civetteria, questo scetticismo? E Clabaud, quando difende una causa, o quando parla con loro dei suoi clienti, prende sul serio il suo ruolo? O recita una parte?

Rispetto ai più, Maugras si trova, a cinquantaquattro anni, in una posizione privilegiata per conoscere gli uomini e la società: la sua professione gli permette di vedere il risvolto della medaglia.

Sono cinque giorni che giace in quel letto con la quasi certezza di non alzarsi più, e da cinque giorni si sforza di capire, di avere finalmente un’opinione su se stesso.

La visita di Lina gli conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che ha ancora parecchia strada da fare, che non è andato molto più avanti di quando, da bambino, le parole di don Vinage, al catechismo, lo facevano tremare.

«I nostri atti, le nostre parole, i nostri pensieri ci seguono... Niente va perduto...».

Ora, nei tribunali dove Clabaud passa la maggior parte del suo tempo, si giudica un uomo in un giorno, al massimo in due o tre, alla presenza di un pubblico che è un po’ come il codazzo degli allievi che segue Besson o Audoire quando fanno solennemente il giro delle corsie.

«Ero il suo maestro... Già a undici anni mostrava certe inclinazioni per...».

«Sono il medico di famiglia... L’ho visto nascere... A tre anni...».

Poi la portinaia, il capufficio, chiunque porti un frammento di verità o di errore.

L’uomo è solo in mezzo a due guardie, con le mani sotto il mento, lo sguardo vacuo o troppo fisso.

Maugras non ha guardie accanto a sé. Per la verità c’è la caposala, che verrà tra poco a vederlo e che potrebbe rivestire quel ruolo.

Audoire è il presidente, sicuro di sé, impassibile, inattaccabile.

E Besson? Uno dei giudici a latere. C’è sempre un giudice dalle tempie argentate e il colorito roseo che ha appena terminato un lauto pranzo e sorride benevolo.

Lina non è in aula. Gli amici le hanno detto che i suoi nervi non reggerebbero a quell’emozione, e lei aspetta che le diano notizie per telefono via via che si susseguono le udienze.

«No! Non ha un’aria abbattuta. Sembra che si disinteressi di tutto quello che gli succede intorno...».

E la signorina Blanche? Potrebbe essere la giovane avvocatessa che passa le pasticche di menta all’imputato...

«È così che mi piace vederla, sereno, quasi sorridente... Adesso misuriamo la febbre...».

Stanno bene, insieme. I visitatori hanno lasciato le corsie e i corridoi. Scende la sera. Il cielo è ancora un cielo di pioggia. L’infermiera guarda il termometro e pare soddisfatta.

«La temperatura è tornata nella norma... Il professore aveva ragione... Se fosse qui, le permetterebbe probabilmente di prendere un po’ di purè, ma io non oso assumermi questa responsabilità... Sarà per domani... Ha fame?...».

No, non ha fame. È tranquillo. Cerca di calcolare quanto tempo gli resti da passare con la signorina Blanche prima che Joséfa venga a sostituirla. Comunque, non è spiacevole neanche sapere che Joséfa dorme accanto a lui e, alla mattina, guardare il suo seno che si solleva placidamente...

Si sentono le automobili, fuori, che continuano a passare, i parigini che lasciano la città, come Besson, come Lina, come quasi tutti i loro amici...

Lui, invece, rimane.

 

 

Questa volta non ce l’ha fatta: si è perso sia la sua mezz’ora mattutina che il risveglio di Joséfa, benché le campane suonino a distesa. Il letto pieghevole è già al suo posto nell’armadio, e quello che lo scuote dal sonno, da un sogno che cercherà invano di riacchiappare per tutto il giorno, è la porta che si apre bruscamente e una voce di donna che esclama, allegra:

«Buongiorno, caro signore... Mi chiamo Angèle, e oggi sostituirò la signorina Blanche...».

Ormai è quasi giorno fatto. La donna è bassina e rotondetta, e scoppia nell’uniforme bianca che la stringe da tutte le parti. Nella camera, di solito così calma e ovattata, esplode la sua vitalità. Ha una faccia simpatica, da popolana, e par di vederla mentre scambia insulti coloriti con la lattaia o la pescivendola.

Guardandola però Maugras ha una stretta al cuore, perché la signorina Blanche, non avvertendolo il giorno prima, si è resa colpevole di una sorta di tradimento. Non ha avuto il coraggio di dirgli che non sarebbe venuta, che si sarebbe presa anche lei la domenica di libertà.

Eppure, proprio il giorno prima si è mostrata così comprensiva e non sono mai stati tanto bene insieme come durante la seconda parte del pomeriggio.

Forse lei ha avuto paura che lui protestasse o cercasse di farle cambiare idea... O che si agitasse e passasse una brutta nottata. O forse la imbarazzava far entrare la sua vita privata nell’universo dell’ospedale...

«Se n’è andata in campagna, come gli altri!».

Maugras non parla. Se la dà dentro di sé la risposta, con amarezza. Solo perché è domenica, lo piantano in asso, lo abbandonano nelle mani di un’estranea!

Angèle - così si chiama quella donna dalle gambe corte che ha fatto irruzione nella sua camera - non perde tempo e gli piazza il pappagallo.

«Non vuole la padella?... Va bene, non insisto... C’è chi ne ha bisogno appena sveglio...».

E parla, parla, non smette di agitarsi con la stessa vivacità, lo stesso buonumore.

«La poverina non trovava nessuno per sostituirla... Alla sua età, quando una resta chiusa tutta la settimana, poi ha bisogno di cambiare aria... Lo sapevo che sarebbe stato deluso di trovarsi davanti, invece di una bella ragazza, una vecchia cicciona come me...».

Dev’essere tra i quaranta e i cinquanta.

«Vedrà che andremo d’accordo... Intanto, la conosco già un po’ per sentito dire, perché mio fratello lavora al suo giornale... È per questo che ho accettato subito di sacrificare la mia domenica...

«Mio fratello si chiama Thévenot, Xavier Thévenot... Fa il tipografo... Forse, in un posto così pieno di gente, lei non l’ha notato... Ha il naso schiacciato e balbetta...».

Termometro. Pulsazioni. Angèle non porta l’orologio al polso, ma puntato sul petto con una spilla da balia.

L’atmosfera, con lei, è cambiata in modo così violento che lui ne è come inebetito. Va, viene, non tace un istante.

«Vedo che la penicillina ha fatto effetto... Il professore sarà contento... Sembra un uomo freddo, a vederlo, ma non ci si immagina a che punto prenda a cuore i suoi malati...».

Lo osserva, non furtivamente, come gli altri, ma guardandolo dritto in faccia con i suoi occhi chiari.

«Lei, almeno, se ne sta buono... Si vede subito che è un uomo intelligente e che capisce... La cosa più difficile è avere a che fare con malati che non credono a quello che gli si dice... Gli si può dare tutte le spiegazioni possibili, ma si incaponiscono come muli e si fanno cattivo sangue per via di tutte le idee che si mettono in testa...

«Le donne, poi!... Mi hanno dato una corsia di donne, dall’altra parte dello scalone... Vicino al reparto di psichiatria... Prima non le accettavano le donne, a Bicêtre... Andavano tutte alla Salpêtrière, e qui c’erano solo gli uomini...

«Adesso l’ospedale è cambiato, è un gran calderone e non ci si capisce più niente: c’è di tutto, i cronici, i pazzi, i malati, le donne...».

Non piove più. L’aria è serena. Sopra il tetto di ardesia che si asciuga a chiazze, il cielo è di un azzurro primaverile, senza una nuvola. Quando le campane tacciono, si resta sorpresi dalla calma che regna fuori, non passano camion e non si sentono i rumori dei giorni feriali.

È la calma di una domenica mattina, e anche nell’ospedale c’è meno movimento degli altri giorni. La caposala non è ancora passata. Maugras si domanda se verrà o se anche lei lo abbia abbandonato alla sua sorte.

Come se, solo perché è domenica, lui non avesse bisogno di attenzione e di cure... Besson è in campagna e non si preoccupa di lui. Audoire non è venuto, la sera prima, il che fa supporre che sia partito per il week-end.

E se il suo stato si fosse aggravato invece di migliorare? La grassa infermiera non lo ha mai visto, di lui sa soltanto quello che sta scritto sulla cartella.

«Come ho detto alla signorina Blanche, è un piacere prendersi cura di un signore come lei... Adesso la lavo un po’... So che devo frizionarla con l’acqua di Colonia...

«Le faccio ancora impressione?... Vedrà che fra un’ora le sembrerà di conoscermi da sempre... Sulle prime, spavento un po’ i malati perché sono grassa e vado per le spicce... Ma quando si ha sulle spalle, come me, un’intera corsia di donne...

«Dovrebbe vederle... Ce n’è che piangono tutto il santo giorno nel loro angolino e si rifiutano di mangiare, altre che si fanno venire delle crisi di nervi e si rotolano per terra per attirare l’attenzione...

«Pazzesco come le donne possono essere gelose l’una dell’altra... Se mi fermo un po’ di più con una, posso star sicura che altre tre o quattro chiederanno con urgenza la padella, per poi non farci niente...

«Ce n’è una che ha più di sessant’anni e ha tirato su cinque figli... Tu t’immagini che una donna così debba avere la testa sulle spalle... Niente affatto!... Mi chiede la padella venti, trenta volte al giorno, e appena è stata in grado di parlare è andata a dire al professore che nessuno si occupa di lei...

«Per fortuna, il professor Audoire sa come stanno le cose... Certo, non è piacevole... Mi metto al loro posto... Comunque, non è perché uno è malato che deve rendere la vita impossibile a tutti quelli che gli stanno attorno...

«Provi a muovere la gamba... Quella che le sto tenendo... Ma sì!... Ci provi!... Non le farà male, vedrà... Per come la vedo io, lei si rimetterà in piedi più presto di quel che pensa... Si fidi di Angèle!... Anche il professor Audoire dice che me ne intendo e qualche volta mi chiede:

«"Che cosa ne pensa, Angèle, del 7?...".

«Me ne sono passati tanti per le mani!... Noi ci stiamo dalla mattina alla sera con i malati... Li vediamo più dei medici, che si fermano con loro solo pochi minuti...

«Non dovrei parlarle così... Con un altro non lo farei... So che lei non se la prenderà... Quando ce ne portano una nuova, be’, dopo due giorni sono capace di dire se quel letto sarà occupato a lungo o no... E, nove volte su dieci, avviso la collega del turno di notte che al mattino la tale non ci sarà più...

«Tra poco, quando il sole sarà più alto, aprirò la finestra... Le ci vuole un po’ d’aria... C’è odore di chiuso, non va bene...».

Lo maneggia come un neonato, gli lava il sesso con cura particolare e ci scherza sopra.

«Bisogna curarlo bene anche lui... Dovrà servire ancora...».

Le altre infermiere, quelle che lavorano nelle corsie, sono come lei, o gli è capitato una specie di fenomeno? Comincia a capire perché Besson si è mostrato soddisfatto per essere riuscito ad assegnargli la signorina Blanche.

Tuttavia, Angèle ha ragione. Un po’ alla volta Maugras si abitua alla sua mancanza di finezza, ai suoi modi diretti e spontanei, ed è così sconcertato da quella vitalità che si dimentica di pensare e di ripiegarsi su se stesso.

«Bene! Eccola tutto pulito e fresco... Adesso chiamo il barbiere, così si farà bello se avrà delle visite...».

Il vecchio barbiere lo rade mentre due inservienti si occupano della pulizia della stanza. Delle due italiane, solo una è di turno. L’altra donna, dall’aria scontrosa, non apre bocca e quando urta con la scopa i piedi del letto non si scusa.

Suonano le campane. Suoneranno per ogni messa. Lasciandolo, il barbiere si dirige verso la grande corsia; poi, a partire dalle nove, c’è una lunga processione di ombre che vanno tutte nella stessa direzione.

«Scendono in cappella» spiega Angèle. «È cattolico, lei? Il cappellano è già venuto a trovarla?... È un brav’uomo, discreto... Non come quello di prima, che spaventava i malati precipitandosi da loro senza che lo avessero richiesto...

«Fa impressione, quando uno non sta bene, veder spuntare un prete ai piedi del letto come se ti portasse l’estrema unzione...

«Io, per me, non credo né in Dio né nel diavolo, e un prete non mi farebbe nessuna impressione... Ma ho visto donne convinte che era arrivata la loro ultima ora, e non c’era verso di farle ragionare...

«Con questo cappellano non c’è pericolo... Viene solo se lo si chiama, con la sua grossa pipa in bocca che lo fa assomigliare ai vecchietti dell’ospizio...».

La caposala non si è ancora fatta viva. Maugras non ha intravisto la sua sagoma al di là del vetro.

«Vado a prenderle il succo d’arancia... Torno subito...».

Il cielo è sempre più azzurro, di un azzurro leggero. Anche l’aria dev’essere leggera, fuori, il diluvio del giorno prima l’ha ripulita dalle polveri e dall’umidità.

Senza interpellarlo, Angèle ha buttato via i garofani gialli che erano appassiti e, quando torna con il succo d’arancia, porta una rosa.

«Non mi piace che un vaso resti vuoto, soprattutto un vaso così bello... Ho sgraffignato un fiore da un mazzo dell’altra camera privata... Non c’è il rischio che il malato se ne accorga perché non ci sta con la testa...».

Chi sarà? Per la prima volta, Maugras è curioso, vorrebbe sapere chi è il suo vicino di stanza. Angèle alza la testata del letto, gli regge la tazza-pipa dalla quale lui beve senza difficoltà.

Tutto lo disorienta. Non ritrova la solita routine. Anche l’interno lo sconcerta. Non è quello che viene di solito; questo porta degli occhiali così spessi che le sue pupille appaiono grosse come biglie.

«Ha bevuto tutto il succo d’arancia, dottore... È un paziente modello... Stiamo facendo conoscenza e diventeremo presto buoni amici... La temperatura è un po’ inferiore alla norma, trentasei e sei... Il polso è buono, regolare...».

Di solito, non parlano di queste cose davanti a lui. Gli altri si scambiano occhiate, bisbigliano in un angolo, vanno a parlare sottovoce in corridoio.

Forse perché la grossa infermiera non lo tratta come un malato a pagamento, ma come trattano quelli delle corsie? Anche il dottore non si limita a chiedergli di aprire la bocca o a mormorare qualche parola rassicurante.

«Leggo anch’io il suo giornale, come tutti... Quello che preferisco sono le brevi di cronaca... Le faccio male?... No?... Alzi il braccio sinistro... Di più... Ancora... Molto bene... Adesso cerchi di muovere le dita della mano destra...

«Suppongo che non sia una sola persona a scrivere tutti i pezzi firmati Dorine... Dovrebbe passare le serate correndo da un teatro all’altro, far notte nei cabaret, il pomeriggio essere alle corse e al tempo stesso alla Camera...

«M’interesserebbe, un giorno, se non sono sfacciato, visitare un grande giornale come il suo e vedere come funziona... Respiri... Dalla bocca... Profondamente... Ottimo!... La trachea è completamente libera, i bronchi sono puliti...».

L’interno prosegue, tanto per Maugras che per l’infermiera:

«Non vedo la necessità di tenerlo ancora in una posizione così scomoda... Può metterlo in piano... Faremo sempre in tempo a tirarlo di nuovo giù se del muco gli impedisse di respirare...».

Lei assume un’aria maliziosa, quasi a significare:

«Cosa le avevo detto?».

Il dottore prosegue, in piedi, come rivolgendosi a una persona normale:

«Sarò di guardia tutta la settimana e avrò occasione di vederla di nuovo... Sono felice di averla conosciuta, anche se per lei, purtroppo, le circostanze non sono piacevoli... È il suo quarto giorno?».

Consulta la cartella.

«Sesto... È già avanti e i progressi, vedrà, saranno sempre più rapidi... Buona giornata!... Se ha bisogno di me, Angèle sa dove trovarmi...».

Appena è uscito, l’infermiera spiega:

«È un ragazzo ammirevole, ha sempre lavorato mentre studiava... Ha fatto persino il baby-sitter, la sera, per le coppie che vanno al cinema... È intelligente e con i malati ci sa fare... Dicono che diventerà ordinario e la cosa non mi stupirebbe... Ha freddo, o posso aprire la finestra?...».

Istintivamente lui si è ripiegato in se stesso, come spaventato dal contatto brutale con l’aria aperta. Non si tratta soltanto dell’aria; è il suo primo contatto con l’esterno e all’improvviso sente il rumore dei passi sulla ghiaia dei viali.

«Vedesse come se la godono i nostri vecchietti!... Nei giorni di pioggia sono annoiati, musoni, non sanno dove mettersi... C’è un tale pienone, qui!... Sa che ne abbiamo più di duemilacinquecento, tra malati e cronici?... Aggiunga le infermiere, le sorveglianti, i medici, il personale delle cucine...

«È bello respirare, vero?... Stamattina sembra di essere in primavera... Ieri tutti avevano i nervi a fior di pelle e ci sono stati problemi in tutti i reparti. Quella pioggia che non smetteva, e il vento, il vento soprattutto, che fa diventare la gente isterica... E poi, in una sola notte... Non ha freddo, è sicuro?...».

«No...».

Non ha fatto un segno con la testa. Ha detto no. Con la bocca. Senza che gli dicessero di farlo. Il suono è stato quasi normale. Trema dall’emozione, sente il bisogno di provarci ancora, articola:

«Non ho freddo...».

Gli viene voglia di ridere, ha le lacrime agli occhi. Ha parlato! Può parlare!

«Ha visto, mio caro signore? Abbiamo fatto un bel po’ di progressi!... Che cosa le aveva detto Angèle?... Aveva ragione o no?...».

La signorina Blanche è stata punita della sua diserzione. Non le ha pronunciate con lei le sue prime parole, perché non si possono considerare parole i balbettii di due giorni prima. Domani le farà la sorpresa, per vendicarsi.

E Audoire? Glielo riferiranno?

«Sa che cosa le dico? Vado a chiedere di prepararle un bel purè, con un po’ di sugo di carne, e le garantisco che lo mangerà e che domani, al più tardi, non dovrà più ricorrere a questo aggeggio...».

Maugras dice ancora qualcosa, per assicurarsi che non è stato un caso.

«Non ho fame...».

«Avrà fame tra poco... Anche se non ha appetito, sarà contento di non alimentarsi più attraverso un ago e un tubo di gomma...».

Lui non sa più cosa pensare. Quando lei lo lascia solo, fissa intensamente la finestra e si sente sconvolto. È cambiato tutto. Niente sta avvenendo come aveva previsto, come era sicuro che sarebbe avvenuto. Dice a voce alta, soltanto per sé:

«Parlo...».

Lo ripete due o tre volte nel silenzio della camera: «Parlo... Parlo...».

Ha paura che la voce gli venga meno. Ma no, non si spegne!

Non solo parla, ma tra poco mangerà, Angèle glielo ha promesso e lui le crede.

Lina è al castello di Candines con Marie-Anne e la sua combriccola. Besson gioca con i nipotini alla Bluterie. Clabaud si è probabilmente chiuso nel suo studio per tutto il week-end. Dove è andata la signorina Blanche? Con chi? Non c’è neanche Audoire, né la caposala.

E lui ne ha approfittato per parlare. Dovrà abituarsi all’idea. Non vi era preparato. È successo così, all’improvviso, in modo strano, quando nemmeno ci pensava.

«Eccoci qua, mio caro signore... Spero che le piacciano le carote... In cucina non avevano altre verdure, e le preparano un purè di patate e carote condito con un po’ di sugo d’arrosto... Il sole le dà fastidio agli occhi?... Sono io che la stanco?».

«No... È...».

Non è la voce che gli manca: sono le parole, è la risposta quella che non trova. Sente il bisogno di chiudere gli occhi, di stare immobile, senza dire niente, senza pensare.

Era così sicuro che fosse tutto finito!

 

8

 

Probabilmente è una sciocchezza, ma a volte certe puerilità assumono, lì per lì, un’importanza maggiore delle preoccupazioni più gravi. È lunedì. Maugras si è svegliato per tempo, proprio quando l’orologio della chiesa batteva i sei colpi.

Joséfa dorme nel suo letto da campo, e lui ha la sua mezz’ora tutta per sé. Può pensare a quello che vuole senza essere disturbato. Perché non è contento, allora?

Il giorno prima ha avuto la tentazione di chiedere ad Angèle di tenere la bocca chiusa a proposito del fatto che adesso lui parla: vuole fare una sorpresa alla signorina Blanche. Ha continuato a rimandare questa richiesta finché non è arrivata Joséfa, con dieci minuti di ritardo e con indosso un soprabito di mezza stagione rosso che metteva per la prima volta e che conservava ancora l’odore del negozio. Il baschetto, sui capelli fulvi, era dello stesso rosso. Ansimava come chi abbia corso.

«Mi scusi, Angèle... Sono in ritardo... L’ho costretta a fermarsi...».

«Oh, non si preoccupi: da quando mia figlia si è sposata e vivo sola...».

«E lei, signor Maugras? Ha passato una buona giornata?».

Angèle gli ha lanciato un’occhiata maliziosa e lui non se l’è sentita di deluderla.

«Ottima...» ha risposto.

Ma parlare non gli procurava già più lo stesso piacere. Verso la fine della giornata, la sua voce gli sembrava meno naturale di quello che aveva pensato all’inizio, suonava rauca, come quando si ha un gran mal di gola. Certe sillabe gli uscivano storpiate, tendevano ad accavallarsi.

«Che cosa ne dice?» aveva esclamato Angèle.

«Sono molto, molto contenta!».

Ricordare tutto questo non gli fa piacere. Si ritrova, al suo risveglio, con più problemi che mai. Continueranno a occuparsi di lui allo stesso modo? E gli lasceranno la signorina Blanche, che forse è necessaria a un altro malato?

Il giorno prima Angèle gli ha detto che c’è carenza di personale, non solo nelle corsie, ma ancor più per i pazienti che possono permettersi il lusso di un’infermiera privata.

«Capirà che non è facile trovare ragazze disposte a lavorare dodici ore al giorno...».

È un lavoro, certo. Maugras tende sempre a dimenticare che la signorina Blanche passa le sue giornate con lui solo perché quella è la sua professione. Neanche Besson si sentirà più tenuto ad attraversare Parigi ogni giorno per andare a trovarlo.

Insomma, ha paura che quel piccolo gruppo di persone che gli si è formato intorno cominci a disgregarsi, lasciandolo più solo che mai. E lui - se n’è reso conto proprio questa mattina - ha perso la facoltà di rinchiudersi in se stesso. Invano si sforza di ritrovare un certo stato d’animo che non sa definire.

Nel tepore del suo letto, ha dato inizio a una sorta di messa a punto, di revisione, che è lungi dall’essere conclusa, e che lui non riesce a continuare a freddo.

Quello che, prima, gli capitava di tanto in tanto non succede forse anche agli altri? Si va a dormire senza pensare a niente di preciso. Si cerca di prendere sonno. Ci si gira e rigira nel letto e alla fine non si sa più se si è svegli o in uno stato di dormiveglia. I pensieri si trasformano e sono sempre più lontani da quelli del giorno. Si intuiscono verità che a mente fredda non si prendono in considerazione e vi è quasi sempre un istante in cui tutto appare chiaro, luminoso.

Al mattino si cerca invano di ricordare, a meno che invece, ricordando, non ci si sforzi di dimenticare, perché quelle verità sconvolgerebbero la vita di tutti i giorni.

Con occhio distratto guarda Joséfa che dorme, ascolta i rumori, senza attenzione né piacere. Audoire, che nel suo reparto dispone di due sole camere private, non avrà bisogno della sua?

Ha avuto appena il tempo di abituarsi. Angèle è stata troppo loquace, gli ha raccontato la sua vita e quella di sua figlia con la stessa estenuante vivacità. Forse anche lui ha parlato troppo, per essere il primo giorno... Passato lo stupore iniziale, non gliene veniva più alcuna gioia.

Joséfa getta indietro le coperte, si strofina gli occhi, guarda l’orologio.

«Buongiorno!... È strano che lei si svegli sempre prima di me... È abituato ad alzarsi presto?...».

«Ieri mi sono svegliato più tardi...».

«Io, nel mio giorno di riposo, me ne sto a letto fino alle dieci... Mi sembra così bello poter dormire di notte come tutti...».

È subito in piedi, si aggancia il reggiseno, si dà una sistemata all’uniforme, ai capelli. Si avvia verso la porta che in quello stesso istante la signorina Blanche, già in divisa da infermiera, sta aprendo. Non sembra più animata del solito? È l’effetto di una giornata passata lontano dall’ospedale?

«Buongiorno!» esclama anche lei piantandosi davanti al letto e guardandolo con aria maliziosa.

Lui esita, si domanda se sa, e alla fine pronuncia con il tono di un bambino imbronciato:

«Buongiorno...».

«Continui... Dica qualcos’altro...».

Non sembra sorpresa. Devono averla messa al corrente.

«Cosa devo dire?».

«Per esempio, che non ce l’ha con me se ho preso il mio giorno di permesso senza avvisarla...».

È vero, si sta comportando in modo ridicolo. Se ne rende conto, contraccambia il sorriso.

«Le chiedo scusa...».

«È contento?».

«Sì... Credo...».

Joséfa lo ha salutato ed è uscita. Ha inizio la routine: pappagallo, termometro, polso...

«Pare che abbia mangiato un po’ di purè...».

Non è stata Joséfa a dirglielo, e non deve aver incontrato Angèle. Questo significa che tutto quello che succede nella sua camera fa il giro dell’ospedale.

«Avrei dovuto avvertirla, sabato, ma non mi sono decisa. Ho avuto paura che passasse una brutta notte. I malati non amano le facce nuove. Ma ero sicura che con Angèle sarebbe andato tutto bene. Che gliene pare di lei?...».

Questa volta lui non risponde, ma perché non ha niente da dire.

«È un po’ chiacchierona, ma sul lavoro vorrei essere brava come lei. Le si possono affidare i casi più difficili...».

Chissà se indovina a cosa sta pensando mentre la osserva con occhio crucciato... Vorrebbe chiederle come ha passato la domenica. Ma non osa. È lei che, indirettamente, entra in argomento.

«Ah! dimenticavo... Ho un regalino per lei...».

Tira fuori dalla tasca un piccolo cono di cartone satinato azzurro, decorato con fregi dorati che formano un nome: Yves. Maugras non capisce, si turba e si domanda se la signorina Blanche abbia un figlio. Ma sono forse fatti suoi?

«Sono confetti... Ieri sono andata a Melun, da mia sorella, e ho tenuto a battesimo il suo terzo bambino, che ha compiuto un mese...».

Si è tormentato inutilmente. Ieri, e ancora questa mattina, prima che lei arrivasse, ha fatto di tutto per immaginare la signorina Blanche con un uomo in posizioni erotiche. Come un tempo con la signora Remage, ha provato il bisogno di sporcarla. Non dovrebbe chiederle scusa?

«Mia sorella, che è più giovane di me, cinque anni fa ha sposato un maestro... Anche lei, allora, faceva la maestra a Origny, un paese vicino a Melun... Per due anni, anche dopo la nascita del primo bambino, hanno continuato a lavorare tutti e due, e ogni sera mio cognato tornava in bicicletta a Origny dalla moglie...

«Al secondo figlio, che all’inizio le ha causato dei grossi problemi, mia sorella ha dovuto rinunciare all’insegnamento...

«Adesso hanno tre maschietti, una casa minuscola nel cortile della scuola e un vecchio tiglio davanti alla porta...».

Tutto questo gli ricorda Fécamp, in un’atmosfera più luminosa. Il giorno prima splendeva il sole, come oggi.

«Se non fossi stata la madrina, non avrei preso il mio giorno di permesso...».

«Grazie...».

La signorina Blanche riporta sulla cartella la temperatura e, per la prima volta, lui chiede:

«Quant’è?».

«Non dovrei dirglielo, ma è trentasei e sei, e il polso è buono. È pronto, per fare un po’ di toilette?».

Anche lei, come Angèle, dopo averlo lavato con la spugna dalla testa ai piedi, gli palpeggia le dita.

«Le muova... Ma sì che può farlo... Provi ancora...».

Si tratta della mano che non funziona, la destra. La guarda e vede che le falangi si piegano leggermente. Poi lei gli chiede di muovere le dita dei piedi, ma questo gli riesce meno bene.

«Aspetti, faccio io... Non abbia paura...».

Gli afferra tutte e due le gambe, le tira fuori dal letto poi, girandogli il busto, gli passa un braccio intorno alle spalle. Preoccupato, lui si lascia fare e si ritrova seduto sulla sponda del letto con le gambe penzoloni.

È colto da un capogiro, e se la signorina Bianche non lo tenesse cadrebbe di lato o in avanti. Completamente appoggiato a lei, sente la forma e il tepore del seno contro la sua spalla.

Quasi non riconosce le proprie gambe, tanto sono dimagrite in così poco tempo. I polpacci sono pressoché spariti.

«Si sforzi di stare dritto... È il primo esercizio della serie... Domani si metterà in piedi...».

Ha la parte inferiore del corpo sempre nuda, e adesso è più imbarazzante di prima. Il contatto con l’infermiera gli fa temere un’erezione e per giustificarla non avrebbe più l’attenuante della semincoscienza o della febbre.

L’idea gli è appena venuta in mente che la cosa si produce, e lui balbetta:

«Le chiedo scusa...».

«Non fa niente... Ci sono abituata...».

Dunque, anche i suoi riflessi intimi fanno parte di un processo di cui ogni tappa è prevista!

«Per oggi basta...».

Lo rimette a letto, tira su il lenzuolo.

«I cereali le piacciono con il latte o li preferisce con l’acqua?».

Ha dato una risposta a caso. La signorina Blanche è andata a prendergli una ciotola di cereali troppo zuccherati e lo ha imboccato con il cucchiaio.

La caposala fa il suo ingresso mentre lei gli sta dando da mangiare.

«Pare che qui si facciano grandi progressi...».

La signorina Blanche le annuncia:

«Poco fa è rimasto seduto sul bordo del letto per quasi cinque minuti...».

«Benissimo! Benissimo!».

E indicando il flacone di glucosio:

«Adesso può toglierlo...».

Ma lui non è convinto, ha paura che corrano troppo. Ha l’impressione di non stare al passo. Hanno una gran fretta di ricacciarlo nel mondo di tutti, quello che per tanto tempo è stato il suo. Non si sente pronto; non ci crede ancora e sospetta che vogliano sbarazzarsi di lui.

Entrano le due italiane munite di secchi e spazzoloni. In corridoio stanno passando l’aspirapolvere. Nei giorni precedenti non lo ha sentito e ne deduce che venga usato solo una o due volte alla settimana. Un uomo spinge l’apparecchio fin nella camera, e per alcuni minuti il ronzio gli riempie la testa.

Concluse le pulizie, è la volta del barbiere.

«Vuole che le tagli i capelli?».

«Oggi no...».

«Ma guarda un po’; adesso parla, il suo malato, signorina Blanche...».

E, rivolto a Maugras:

«Fa piacere, eh?... Ne ho visti che piangevano come fontane dalla gioia...».

Non è sicuro che quel che prova sia gioia. Forse gli altri non sono stati colti, come lui, dalla paura davanti a quella barriera che improvvisamente sparisce... È il primo passo di un ritorno forzato in mezzo agli uomini. A cos’altro lo costringeranno, dopo?

Il dottore del giorno prima, quello dalle pupille come biglie dietro gli occhiali spessi, arriva con passo spedito, e si rivolge prima all’infermiera.

«Ha passato una bella domenica?... Il battesimo è andato bene?...».

«Sì, è stato un pomeriggio molto piacevole...».

«E lei, come si sente stamattina?».

Maugras è di cattivo umore, e lo è ancora di più da qualche istante, da quando è entrato l’interno. Poco prima, quando parlavano della sorella che sta a Melun, ha domandato alla signorina Blanche:

«E lei? Non pensa a sposarsi?».

«Prima di tutto, per sposarsi bisogna essere in due... E poi, ci vogliono circostanze favorevoli...».

Aveva accompagnato questa risposta con uno sguardo nostalgico, e forse adesso lui capisce perché. Gli pare di cogliere, tra lei e l’interno, una familiarità, una complicità che non dipende solo dal fatto che lavorano nello stesso ospedale. Si danno del lei. Ma sembra un gioco. Scommette che gli sguardi si dicono:

«La giornata non è stata troppo lunga?... Hai pensato a me qualche volta?».

«Ti ho pensato tutto il tempo, sciocco... E tu?... Hai avuto molto lavoro?...».

Forse sta prendendo un abbaglio, e tuttavia il loro comportamento gli ricorda certe coppie che si incrociano per la strada e che lo hanno sempre affascinato. Non si tengono a braccetto, camminano come gli altri passanti, eppure si percepisce subito, alla prima occhiata, che sono in perfetta armonia e formano come un nucleo compatto in mezzo alla folla. Gli è capitato di seguirle, di spiarle con occhio invidioso quasi per carpire il loro segreto prima di vederle sparire nel métro o dentro un cinema.

«E così, questa afasia è ormai soltanto un brutto ricordo... Contento?...».

Ci tengono tutti a saperlo contento. Se risponde di sì, è una bugia? Ma sarebbe capace di spiegare loro la verità?

In un certo senso, però, è vero che è contento. Ma resta comunque deciso a difendersi e non permetterà che lo scaraventino fuori, nella vita, prima del tempo. Non è ancora convinto di volerci ritornare.

«Il professore passerà da lei un po’ più tardi, questa mattina, perché è molto occupato... Sono arrivati due casi urgenti a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro...».

I due si scambiano degli sguardi al di sopra del suo letto e ogni volta il loro cuore sembra esultare. Ma, dal momento che non è innamorato della signorina Blanche, non sono fatti suoi... La sua vita privata non lo riguarda. È convinto che Joséfa abbia degli amanti e la cosa non lo turba: ha quasi deciso, se si ristabilirà, di fare l’amore con lei.

«Ha mangiato?».

«Dei cereali... Senza difficoltà...».

«Be’, non mi resta che augurare a tutti e due una buona giornata...».

Lei lo accompagna fino alla porta, non lo segue nel corridoio, e Maugras scommette che non lo fa perché ha capito che lui ha indovinato il loro segreto. E infatti quando ritorna verso il letto ha un’aria un po’ strana, gli lancia uno sguardo indagatore e alla fine mormora:

«È un bravo ragazzo... Il professor Audoire lo considera il suo migliore assistente...».

Ammirevole, per di più! Uno che ha lavorato per pagarsi gli studi! Un futuro ordinario!... Ma sì, Angèle gli ha già raccontato tutto. Che cosa gliene importa? Non ha certo in mente di divorziare per sposare la signorina Blanche.

«Bisogna essere in due...» ha detto lei.

E loro sono in due.

«... e poi ci vogliono circostanze favorevoli...».

Che lui sia sposato? Maugras non ha pensato di guardare se porta la fede al dito. Lei no, non è sposata. Aspettano forse che il giovane dottore abbia una posizione stabile? Sono amanti?

Va tutto in fretta, stamane. Si vede che non è domenica. Si direbbe che, per farsi perdonare il giorno di riposo, si diano da fare il doppio. Dappertutto c’è una grande agitazione. Le porte non fanno che aprirsi e chiudersi, le infermiere continuano ad andare avanti e indietro nel corridoio, quasi di corsa. Ecco Audoire: va di fretta anche lui, ma è più disinvolto degli altri giorni.

«Come si sente?...».

«Bene, dottore...».

«Mi hanno riferito che si è seduto sulla sponda del letto... Ottimo!... E sono anche contento che la leggera infiammazione delle vie respiratorie si sia risolta così presto... Questo le consentirà di cominciare prima la rieducazione... Si è già visto, questa mattina, il nostro amico Besson?...».

Per abitudine, la signorina Blanche risponde per lui.

«Non ancora...».

Anche Besson, a Broussais, deve recuperare il tempo perduto il giorno prima.

«Ho visto che ha cominciato a mangiare con il cucchiaio... La sua vita diventerà più piacevole... Ha appetito?...».

«Poco...».

Per la verità, risponde senza convinzione. Fino a oggi non gli chiedevano il suo parere. Che si rivolgano a lui direttamente lo disorienta. Si sente impacciato, a disagio. Ha bisogno di mettere ordine nei suoi pensieri ma loro non sembrano disposti a lasciargliene il tempo.

Gli fanno già un’altra impressione. Audoire diventa banale. È solo un medico come gli altri, che prende meccanicamente il polso del paziente, piega la testa, con l’orecchio allo stetoscopio, e pronuncia con voce indifferente parole ripetute cento volte al giorno:

«Tossisca... Respiri... Tossisca... Molto bene...».

Anche lui gli augura una buona giornata e si appresta a portare i soccorsi del suo nobile ufficio a un altro malato, poi a un altro ancora, e così via fino al momento di tornare a casa.

È mezzogiorno e René non ha avuto un attimo di pace. Nel corridoio passano i carrelli con un gran sferragliare di casseruole. La signorina Blanche esce un momento, torna con un piatto fondo colmo di un purè verde chiaro e, seduta accanto a lui, prende a somministrarglielo con il cucchiaio.

Besson sceglie proprio quel momento per fare la sua comparsa e Maugras non glielo perdona, è imbarazzato come quando l’infermiera lo lava.

«Che ti avevo detto, vecchio mio?».

Certo che l’aveva detto, e adesso canta vittoria!

«Avrai sicuramente capito perché ieri non sono venuto... La conosci, Yvonne... Se non passa la domenica alla Bluterie con i nipotini, ne fa una malattia... Adesso che hai riacquistato l’uso della parola, la tua vita, qui, cambierà... Non ho niente in contrario, per esempio, a che il tuo caporedattore con quel nome buffo che dimentico sempre...».

«Colère...».

«Non ho niente in contrario a che Colère passi qui tutti i giorni per parlare qualche minuto con te... La signorina Blanche starà attenta a che le visite non si protraggano troppo, per non stancarti... Conosco la passione che hai per il tuo giornale...».

Besson lo conosce male e si sbaglia.

«Non ti sto dicendo che puoi ricevere gente dalla mattina alla sera e trasformare la tua stanza in una specie di redazione, ma due o tre visite al giorno...».

Di chi? E perché? Besson pensa a Lina? Gli ha telefonato ancora?

«Vedo che c’è una presa per il telefono vicino al letto... Immagino che abbiano un apparecchio da poter collegare... Ne parlerò alla caposala...».

Maugras fa no con la testa, perché ha la bocca piena, e questo gli ricorda il tempo così vicino in cui poteva esprimersi solo a quel modo.

«Non ne ho voglia...» articola infine.

In realtà si è impappinato, e ha detto qualcosa come: «Non ne ammoglia...».

Proprio con Besson doveva capitare!

 

 

Finalmente solo! La signorina Blanche è andata a pranzo nella sala riservata alle infermiere. Uscendo, gli ha raccomandato:

«Si riposi... Ha avuto una mattinata faticosa... Quando torno starò attenta a non far rumore e a non svegliarla...».

Ma lui non ha intenzione di dormire. Né vuole starsene con gli occhi aperti a fissare, al di là della finestra, il tetto inondato di sole. Sa esattamente quale grado di assopimento deve raggiungere, sebbene non sia capace di arrivarci a suo piacimento.

Mentre stava già per congedarsi, Besson ha cambiato idea.

«Indovina chi è venuto a pranzo alla Bluterie... Marelle e Nadine... Inauguravano la macchina nuova...».

Maugras aveva assistito alla prova generale della prima commedia di Marelle, nel 1928, e se ne ricorda meglio di come ricorda eventi recenti. Con l’andare del tempo, a mano a mano che invecchia, i mesi, gli anni, lasciano meno tracce e la sua memoria ha dei vuoti; vi sono fatti che riesce a situare solo con un’approssimazione di due o tre anni.

Da allora, Marelle ha scritto una commedia all’anno. In fondo, si tratta sempre della stessa cosa, della stessa formula che ha via via perfezionato e alla fine gli ha permesso di entrare all’Académie.

Chissà se se ne rende conto, se rimpiange di non aver seguito un’altra strada...

Abita da vent’anni nello stesso appartamento di rue Blanche, un po’ più su del Casino de Paris, e quasi a ogni commedia cambia amante. O convive con la primattrice, o scrive una parte per una nuova amante, sempre innamoratissimo, sempre enfaticamente appassionato. In realtà, queste donne che si susseguono, e a cui capita anche di riprendere dopo un certo periodo il posto che occupavano in precedenza, sono fonte per lui di innumerevoli complicazioni.

Maugras non pensa a Lina, si rifiuta di pensarci. Sa che lo farà un giorno, e allora esaurirà l’argomento una volta per tutte, andrà al cuore della verità. Ma non è ancora arrivato il momento.

Non ha voglia di pensare neanche al giornale, né a Colère, meno ancora ai fratelli Schneider. Le immagini non seguono necessariamente il filo delle idee, e sono le immagini, in un certo senso, ad aver ragione. Sono loro, ne è convinto, che corrispondono alle sue inquietudini profonde, come i sogni. Ricorda confusamente una discussione sul sogno e qualcuno che esponeva una teoria affascinante sull’argomento.

Quello che non gli è chiaro è come mai la maggior parte delle immagini siano, oggi, immagini di donne. Perché la signorina Blanche occupa tanto i suoi pensieri? E perché, a causa di lei e del dottore dagli occhiali spessi, è stato di cattivo umore tutta la mattina, tanto da mostrarsi poco gentile con l’amico Besson che se n’è andato via tutto avvilito?

Non è stato innamorato di Pilar. Le donne hanno avuto solo un ruolo secondario nella sua vita. Potrebbe addirittura sostenere che non abbiano avuto alcuna influenza su di lui, sul suo destino, e che soltanto il lavoro abbia contato e l’abbia appassionato.

Non è un maniaco che corre dietro a tutte le donne, come Besson. Né sarebbe capace, come Jublin, di condurre una seconda vita, del tutto separata dalle brasserie e dagli amici, in un appartamentino soffocante di rue de Rennes. E non è neppure tentato, come Marelle, di inventarsi ogni anno un grande amore.

Da quando è in ospedale, neppure una volta si è immaginato di essere alla sua scrivania, o al bancone della tipografia, o in una qualunque delle sue attività professionali.

Eppure, una sua caricatura, apparsa di recente su un settimanale, rispecchia piuttosto bene la realtà. Lo raffigura con un telefono in ogni mano, un visitatore seduto di fronte che gli sciorina la sua vicenda, una segretaria che stenografa quello che lui sta dettando, mentre Fernand Colère fa capolino dalla porta e chiede se può entrare.

Nell’unica occasione in cui ha pensato al giornale, quello che gli è venuto in mente è il volto di Zulma, la dattilografa che ha visto solo un paio di volte.

Adesso, senza ragione, gli tornano alla memoria i suoi esordi. Era sceso alla Gare Saint-Lazare reggendo le sue due valigie, una delle quali, alquanto malridotta, era tenuta chiusa da una cinghia.

Il cielo era grigio e faceva freddo. Sul treno, poco prima di arrivare, era stato spiacevolmente colpito dalla bruttezza dei sobborghi. Tutto questo lo sa, ma non lo rivede. Non rivive in lui. Aveva trascinato le valigie da un albergo all’altro senza trovarne uno abbastanza a buon mercato e così era arrivato in place Clichy.

Non un’immagine gli affiora alla memoria, non un’emozione. Ma, come a illustrare quel periodo grigio della sua vita, ritrova Pilar, la vetrina di rue Auber, la scena dell’albergo.

Se don Vinage ha ragione, quella scelta che si compie a sua insaputa ha un senso. Non è un’immagine che rivede volentieri perché, come quelle della casa fra i due bacini, è umiliante. Non è significativo anche questo?

Era il pomeriggio di Natale, il suo primo Natale a Parigi, e aveva passato la sera della vigilia vagando tutto solo per le strade e invidiando le coppie che si infilavano allegramente nei ristoranti.

Non aveva ancora amici. Si era imbattuto una volta in Marelle, nella sala d’attesa di un giornale di rue du Croissant, e avevano scambiato qualche parola.

Benché passasse la maggior parte del tempo tra i Grands Boulevards e rue Montmartre, dove all’epoca si trovavano le sedi dei giornali, continuava ad abitare all’Hôtel Beauséjour, in rue des Dames, nel quartiere Batignolles, dove avrebbe occupato per tre anni la stessa camera, all’inizio da solo, poi con Marcelle, la sua prima moglie, e dove a momenti nasceva la loro figlia.

Partendo da Fécamp aveva portato con sé il denaro sufficiente per vivere due mesi, e i due mesi volgevano al termine. Era riuscito a far pubblicare solo una mezza dozzina di trafiletti in cronaca, che gli erano stati pagati dieci o venti franchi, non ricorda più la cifra esatta.

È perché giace in un letto, perché ha rischiato di morire e non è sicuro, malgrado quello che gli vanno ripetendo, che tornerà a essere come prima, che si aggrappa tanto a questi dettagli? To’! Ha superato la soglia alla quale il suo reporter Artaud non è arrivato. Artaud è morto al quarto o quinto giorno e lui è al settimo.

Della sera di Natale ricorda un ristorante in rue du Faubourg-Montmartre che esibiva all’esterno un grande striscione: «Cenone - Orchestra - Ballo -Cotillon». Le tende erano accostate e si vedevano solo delle ombre cinesi, come qui dietro la porta a vetri, e si sentivano canzoni e risate.

Era risalito a piedi fino a Batignolles. Si era addormentato tardi. La città era coperta da una foschia grigia e fredda, come se stesse per nevicare. Potrebbe dipingerlo, quel cielo, di colore uniforme, senza luminosità, e quelle case le cui minime crepe risaltavano evidenti, e i tetti dagli spigoli acuti.

Aveva pranzato o mangiato dei croissant da qualche parte, non saprebbe dire dove. Alle tre - l’ora era segnata su un grande orologio - se ne stava in piedi, con le mani in tasca, davanti a una vetrina di rue Auber, la vetrina lunghissima di una compagnia di navigazione in cui era esposto il modellino di un transatlantico.

Chissà perché guardava, affascinato, quella nave lunga un metro, con i suoi oblò, i vari ponti, le scialuppe di salvataggio appese alle gru...

Le strade erano deserte. Solo di tanto in tanto passava qualche famiglia, bambini con il vestito della domenica portati in visita dalla nonna o dalla zia.

A un certo punto, qualcuno si era materializzato al suo fianco, qualcuno di cui, in un primo momento, aveva visto solo l’immagine sfocata riflessa nel vetro. Era una ragazza dai capelli neri con un cappotto troppo leggero, verde acido, che non sembrava tenerle caldo.

Da tre settimane, per risparmiare, resisteva al richiamo delle professioniste che battevano il marciapiede a due passi da casa sua, in boulevard des Batignolles. Era stata quella la ragione che lo aveva spinto a osare? Si guardavano l’un l’altro nel vetro; la loro immagine riflessa era divisa dalla nave nera, bianca e rossa. Chissà quale dei due aveva sorriso per primo.

Non ha la minima idea di quello che si erano detti prima di mettersi a camminare fianco a fianco, quasi senza accorgersene, e senza una meta precisa, lungo i Grands Boulevards semideserti.

In un cattivo francese dalla pronuncia blesa, lei gli aveva raccontato che era spagnola ed era venuta a Parigi con la famiglia di un diplomatico sudamericano in qualità di baby-sitter.

Se dovesse descrivere il suo viso, si troverebbe in difficoltà. Non era bella, nel senso che lui dava allora a questa parola. Ripensandoci, scopre che Lina un po’ le somiglia.

Le aveva fatto ripetere più volte il suo nome, Pilar, che trovava cacofonico.

Certo non sospettava che avrebbe pensato a lei trent’anni dopo, nella solitudine di una stanza d’ospedale. Sul momento, era un incontro senza importanza.

Fa fatica a riconoscersi nel giovane di quel giorno. Al verde com’era, si domandava cosa fare con lei, esitava a proporle il cinema di cui adocchiava le locandine di sfuggita. Era stato lì lì per rifugiarsi in una delle brasserie dai vetri appannati all’interno delle quali si doveva stare bene al caldo.

Un vuoto di memoria. Com’è che l’aveva portata in un albergo a ore di rue Bergère? Si stupisce di tanto ardire. Il primo bacio di Pilar, una volta soli in camera, era così sapiente, così nuovo per lui, che lo aveva scioccato.

Lei era scoppiata a ridere.

«Non sei capace?».

Avranno avuto suppergiù la stessa età, ma lei faceva la parte della navigata. Quante volte ha avuto occasione di ripetere, con quel suo strano accento:

«Non sei capace?».

L’aveva guardata spogliarsi, ma non ne rimane traccia nella sua memoria. Tutto quello che sa è che era piuttosto magra e che i suoi seni erano molto appuntiti. Era la prima volta che lui vedeva seni così a punta e con dei capezzoli così scuri.

Quando aveva voluto prenderla, nel modo in cui era abituato a farlo a Fécamp e a Le Havre, lei ha protestato, sempre comicamente.

«Non bisogna fare amore como un bruto, René...».

Pronunciava «bruto» in modo buffo. Si divertiva. E più lui si mostrava goffo o stupito, più lei se la godeva.

«Giù... Tu estás giù e chiudi gli occhi...».

Erano rimasti tre ore tappati in quella camera, cha a poco a poco si era impregnata del loro odore. Pilar prendeva l’iniziativa, scoppiando a ridere davanti al suo imbarazzo e ai suoi pudori. Quando si erano rivestiti, lei aveva domandato:

«Quanto hai pagato la camera?».

Lui non capiva perché se ne preoccupasse. Lei aveva frugato nella borsetta, aveva tirato fuori del denaro e glielo aveva offerto.

«Sì... Sì... Tu la tua parte... Io la mia parte... Como sul letto...».

Non aveva osato ferirla con un rifiuto. Si erano ritrovati a camminare per le strade dove i lampioni ormai erano accesi. Avevano percorso gli Champs-Elysées fino all’Étoile, e adesso lui si domanda cosa abbiano potuto dirsi.

Faceva buio da un bel pezzo quando avevano raggiunto avenue Hoche, dove Pilar si era fermata davanti a una palazzina sulla cui facciata campeggiavano uno scudo e un’asta di bandiera.

Dopo avergli dato un rapido bacio, lei si era precipitata di corsa, non già verso la porta principale ma verso l’ingresso di servizio, senza nemmeno domandargli dove e quando si sarebbero rivisti.

Mai! Probabilmente non ne aveva nessuna voglia! Un paio di volte René si era appostato davanti alla palazzina. L’office, al piano interrato, aveva una illuminazione violenta, e la seconda volta lui aveva visto Pilar con indosso un’uniforme che chiacchierava allegramente con un cameriere.

Dei suoi primi passi a Parigi è questo che riaffiora alla memoria, e non i tentativi di farsi ricevere nelle redazioni, le attese nelle anticamere, i primi contatti con coloro che oggi sono i suoi amici.

Invece no... C’è un’altra immagine, ed è ancora quella di una vetrina, in boulevard de Clichy, proprio non lontano dalla Brasserie Graf, ma prima dell’epoca in cui la frequentava: la vetrina di una salumeria.

Per risparmiare, mangiava per lo più in camera, pane, salame, formaggio, a volte trippa che riscaldava su un fornello a spirito sistemato sul davanzale della finestra, all’esterno, per evitare che l’odore si diffondesse nell’albergo, dov’era vietato cucinare.

Un sistema che lui e Marcelle avevano continuato ad adottare anche più tardi, e non erano i soli.

Nella vetrina del salumiere facevano bella mostra di sé alcuni piatti preparati, medaglioni di aragosta in gelatina, polli arrosto, conchiglie di gamberetti, pâté in crosta, quasi sempre guarniti con una fettina di tartufo.

Rientrando nella sua camera, la sera, si fermava a contemplare quelle squisitezze inaccessibili, con la fronte appoggiata al vetro freddo appannato dal suo alito.

Anche per Marelle è stata dura, all’inizio, come per Couffé, il romanziere. Loro due ne parlano spesso, ai pranzi del Grand Véfour, con commozione.

Maugras no, non ne è commosso. Ci pensa con serietà, quasi cercasse dei rapporti misteriosi tra il passato e il presente. Qual è, per esempio, il senso del suo incontro con Pilar? Non ha avuto altre avventure del genere. Lei sulle prime lo aveva sconcertato. Ma per quanto ricordi lì per lì non se n’era sentito umiliato.

In seguito, le cose non si sono mai svolte in quel modo, né con Marcelle, la sua prima moglie, dalla quale ha avuto una figlia, né con Hélène Portai, che non ha voluto sposarlo, né poi con Lina.

Che cosa cerca esattamente nella nebbia luminosa del dormiveglia? Si rende conto che la porta si apre, che invece d’esser lasciata socchiusa viene richiusa senza rumore, che la signorina Blanche, in punta di piedi, dopo avergli dato un’occhiata da lontano, va a sedersi accanto alla finestra.

Se si azzardasse a parlarle a cuore aperto, a raccontarle quello che gli passa per la testa quando lei lo crede addormentato, non rischierebbe che lei giudichi quelle divagazioni un effetto della malattia?

Che l’embolia lasci delle tracce nel cervello gli sembra logico. Ma allora, perché molto prima di entrare all’ospedale, e quando era ben inserito nella vita, gli capitava, alla sera, raggomitolato nel suo letto, di inseguire le stesse ombre?

Non è esatto. Non le inseguiva, come adesso. Al contrario, le sfuggiva attribuendole all’insonnia o alla cattiva digestione.

«Padre, confesso di aver peccato contro il sesto comandamento...».

«Con il pensiero?».

«Con il pensiero e con gli atti...».

Le prime volte, la voce attutita, dietro la grata, domandava:

«Da solo, ragazzo?».

«Sì, da solo».

Stamane Lina non ha telefonato come aveva promesso senza che lui glielo chiedesse. Dev’essere tornata dall’Eure-et-Loir. Purché non le salti in mente di venire a trovarlo senza avvertire, come sabato!

Ma non ce l’ha con lei, anzi con lei è più indulgente che con chiunque altro, e si domanda a che cosa stia pensando la signorina Blanche mentre, immobile, guarda dalla finestra i vecchi malati cronici che passeggiano al sole a gruppetti fumando la pipa o se ne stanno seduti sulle panchine.

Per molto tempo ha avuto paura di essere un fallito. Ne conosce tanti. Le redazioni dei giornali li attirano come attirano i pazzi. E del resto non sempre li si distingue, perché gli uni come gli altri vanno lì a esporre le idee più mirabolanti.

La differenza è che i falliti sono rassegnati, non credono in quel che dicono e finiscono per chiedere un po’ di soldi. Ci sono vecchi amici, per esempio, che ogni tanto vanno da lui a batter cassa fingendosi di buonumore.

«Senti, sto passando un brutto momento, ma dalla settimana prossima...».

E quelli che sono completamente spariti dalla circolazione che fine hanno fatto? Chissà che tra gli ospiti di Bicêtre non ce ne sia qualcuno...

Anche lui avrebbe potuto essere un fallito. I suoi esordi sono stati simili ai loro. Quando ha lasciato il liceo Guy-de-Maupassant, senza dare gli esami che era certo di non superare, non aveva alcun programma, alcun progetto, non aveva assolutamente idea di quello che avrebbe fatto nella vita.

Ci è mancato poco che finisse a lavorare dal signor Remage, dove avrebbe ricalcato le orme paterne.

Non ha talento, e i suoi collaboratori sanno benissimo che è incapace di scrivere un buon articolo. Non è forse per questo che, fin dall’inizio, si è istintivamente specializzato nei trafiletti di cronaca?

Lo incuriosiva la vita degli uomini in vista, su di loro si faceva un sacco di domande. E ha cercato di darvi una risposta.

Poiché la sua curiosità era condivisa dal grande pubblico, quegli articoletti di cronaca hanno fatto la sua fortuna.

Molti elogiano il suo fiuto infallibile, che gli schizzinosi tacciano di cattivo gusto. Forse hanno ragione gli uni e gli altri. È comunque vero che ha cominciato col raccogliere pettegolezzi così come si fruga nelle pattumiere...

È troppo. Pensare a questo lo porta a scoprire verità deprimenti. Sente che sta sprofondando e, ancor prima di aprire gli occhi, dice:

«Ho sete...».

Non è vero, ma ha bisogno di ritornare a galla e di ritrovare il volto rassicurante della signorina Blanche.

 

9

 

Questa giornata di lunedì 8 febbraio, il suo settimo giorno d’ospedale, sta per concludersi, e lui neanche sospetta che segna la fine di una parte della sua vita. Gli altri, intorno a lui, lo sanno, e forse è questa la causa del suo malessere. Come avesse le antenne, intuisce, da segnali indefinibili, che c’è nell’aria qualcosa di nuovo, un po’ come un padre di famiglia intuisce, che la moglie e i figli gli stanno organizzando una sorpresa.

È irrequieto, nervoso. Più di una volta, guardando la signorina Blanche, è stato sul punto di interrogarla, di supplicarla di parlargli francamente, come a un adulto. E sta forse per decidersi a farlo quando nel corridoio squilla il telefono. Qualcuno viene a chiamare l’infermiera. Maugras è sicuro che si tratti di Lina ed è contento di aver rifiutato che gli mettessero un apparecchio sul comodino.

«C’è sua moglie al telefono... Si scusa per non aver chiamato questa mattina... Ha preso freddo, in campagna, e così si è messa a letto... Teme di covare un’influenza...».

Lui ascolta imperturbabile, impassibile. Quasi ogni volta che va da Marie-Anne, Lina ha bisogno di stare a letto due giorni e parla invariabilmente di influenza o di bronchite.

«Chiede se le serve qualcosa, se deve mandarle qualche effetto personale, qualche oggetto che desidera avere qui...».

«Biancheria, magari?».

«Gliene hanno portato una valigia piena, e ho sistemato tutto nell’armadio. C’è anche una vestaglia e un paio di pantofole...».

Lui è tentato di accennare all’agenda rossa che si trova sulla sua scrivania alla Résidence, ma cambia idea.

«Un po’ di soldi...» dice ancora.

«Ne hanno già depositato a suo nome... Giù in ufficio lei dispone di un conto aperto, ci ha pensato il suo giornale».

«Non dica a mia moglie che adesso parlo...».

Lei sorride, complice. Ha capito. Specie per ciò che concerne Lina, la signorina Blanche capisce tutto al volo. Sparisce di nuovo e, quando ritorna, si assicura con un’occhiata che quella telefonata non l’abbia troppo turbato. Ma lui non sta già più pensando a sua moglie: pensa all’agenda.

Non è tipo da scartoffie, appunti, promemoria, non è meticoloso. Benché la sua attività sia molto complessa, non ha mai con sé l’occorrente per scrivere. Ha tutto nella testa.

Eppure, da quando è qui, più di una volta gli è venuta voglia non proprio di tenere un diario, ma di scrivere ogni tanto una parola o due per rievocare più tardi le tappe della sua evoluzione.

Può sembrare pretenzioso, ma la verità è semplice. Nel silenzio di quella camera, ha affrontato tanti di quegli argomenti che ora rischia di perdervisi. Molti di quegli argomenti riguardano questioni essenziali, ne è consapevole, anche se non sa come e perché siano tali. Per la prima volta prova il bisogno di dar forma con una parola a certe impressioni, a certe intuizioni improvvise che ha avuto.

È una settimana che cerca qualcosa. Non di giustificarsi, anche se può sembrare che sia così. No, è pronto a riconoscere le sue colpe. Ma quali?

Gli piacerebbe che questo lento percorso lasciasse delle tracce. Tutto cambia troppo in fretta e lui ha paura di nuovi cambiamenti.

«Se rientrando a casa vedesse una cartoleria ancora aperta, mi farebbe la cortesia di comprarmi un’agenda?».

Non vuole quella vecchia che è rimasta al George V e nella quale ritroverebbe appunti che non gli interessano più. Preferisce ripartire da zero.

«Ha intenzione di rimettersi al lavoro?».

«No».

La signorina Blanche capisce anche questo, naturalmente.

«Un’agenda grande?».

«Non ha importanza...».

Non scriverà molto, una parola di quando in quando, che solo lui sarà capace poi di decifrare -del resto scrivere con la sinistra è faticoso.

«Lo sa che il professor Besson d’Argoulet l’ammira molto?... Mi ha fatto l’elogio della sua grande vitalità, che lo ha sempre lasciato sbalordito... Sostiene che lei ha una capacità lavorativa incredibile...».

Non più di Besson, comunque, che trova modo di condurre diverse esistenze simultaneamente!

«Dice anche che sul lavoro è molto esigente, ma che i suoi collaboratori non se ne lamentano perché l’adorano... È vero?».

«Non posso certo essere io a dirlo...».

«Si capisce che per lei l’immobilità dev’essere più penosa che per un altro...».

Maugras si limita a mormorare:

«Crede?».

C’è forse qualcosa che non gli dice? Se accenna così alla sua paralisi, non significherà che... Che cosa? Non lo sa, e il sorriso della signorina Blanche lo mette in ansia...

Ancora una volta vorrebbe confidarle che non ci tiene a guarire, che ne ha paura. Non sarebbe gentile per lei che lo assiste, e lui è incapace di dare volontariamente un dispiacere a qualcuno.

È quasi un fatto fisico. Non sopporta di veder soffrire. In certi casi finisce addirittura per comportarsi da vigliacco. Quando per esempio gli capita di dover licenziare un collaboratore, delega l’incombenza a Colère. L’umiliazione, lo smarrimento lo sconvolgono ancor più della disperazione o del vero dolore.

Ma non è questa la sola ragione per evitare una conversazione più approfondita con l’infermiera. Anche se l’idea della guarigione non gli sorride in modo particolare, non resta tuttavia insensibile ai piccoli progressi che si manifestano e gli capita di muovere furtivamente le dita delle mani e dei piedi sotto le coperte.

«Se dovesse aver bisogno di qualsiasi cosa da fuori, non si faccia scrupolo di chiedermelo...».

«Grazie...».

È un caso, poiché ignora che sta per prodursi un cambiamento. Se la storia di Natale non è propriamente una storia cupa, è comunque piuttosto squallida e scabrosa.

Ma forse per via del sole, di un rosso sontuoso, che può contemplare dal suo letto, le due storie a cui ripensa quel lunedì sono piene di luce, di calore e di benessere.

La prima appartiene, come quella di Pilar, all’epoca di rue des Dames, un anno o un anno e mezzo dopo. Anzi: due anni, dato che era sposato da qualche settimana.

Collaborava regolarmente al «Boulevard», giornale per il quale scriveva la metà delle brevi di cronaca. Marcelle non era ancora incinta e seguiva i corsi di arte drammatica di Dullin, al teatro dell’Atelier.

Una sera che rientravano insieme tenendosi a braccetto, lui aveva proposto:

«E se domani andassimo a passare la giornata in campagna?».

Perché quel desiderio improvviso di campagna? Non se ne ricorda. Forse un cartellone pubblicitario intravisto per strada? Abituato com’è alle spiagge di ciottoli e alle alte falesie della Normandia, la campagna vera e propria gli è sconosciuta.

Ancora oggi, pur avendo comprato il castello di Arneville, della campagna non gli importa granché, nutre addirittura nei suoi confronti una certa ostilità, tranne che per l’orto dove, la domenica mattina, fa il suo giro d’ispezione con il giardiniere.

Come per quel pomeriggio di Natale, non ritrova nella memoria né un «prima» né un «dopo», solo una Parigi che sapeva di polvere e di pernod.

Chissà come l’avevano scelta la meta di quella gita... Molto di buonora, alle prime luci dell’alba, avevano preso il treno per Orléans, attratti dalla Loira per via della storia di Francia. Non avevano un programma. Uscendo dalla stazione avevano visto un trenino locale e avevano chiesto dove fosse diretto.

«A Cléry...».

Ci erano saliti. Erano partiti con indosso degli indumenti pesanti perché alla mattina faceva ancora fresco e, nel vagone che procedeva sobbalzando, avevano cominciato ad avere caldo.

Di Cléry rivede solo la basilica che avevano visitato, le pietre grigie, il fresco all’interno. Poi avevano mangiato in un ristorante con i tavoli senza tovaglia; ricorda in particolare un formaggio di capra secco e duro, ma saporito, che non conosceva.

«È lontana la Loira?».

«Se prendete la provinciale, due chilometri e siete a Beaugency...».

«Non ci sono sentieri?».

«Ce n’è parecchi, ma così allungate...».

Chissà perché, lui che beve poco, si era portato dietro una bottiglia di vino bianco locale che gli pesava in tasca e gli sbatteva sul fianco...

Del sentiero non ha alcun ricordo. Comunque, si erano persi. A Marcelle facevano male i piedi. Erano finiti in mezzo a un canneto, in una terra molle, e li irritava il fatto di non vedere ancora la Loira.

All’improvviso, se l’erano trovata davanti, fresca e luccicante, con i suoi banchi di sabbia e di ciottoli. Dal punto in cui erano vedevano solo la riva di fronte e un uomo, molto lontano, con un cappello di paglia, che pescava, seduto su un seggiolino pieghevole, in una barca a fondo piatto.

Avevano sete. Avevano bevuto a canna un po’ del vino ormai intiepidito. Avevano già bevuto, mangiando, alla locanda. Intorpiditi dal caldo, si erano distesi sulla sabbia in mezzo alle canne che frusciavano.

Rivede la bottiglia di vino che avevano messo in fresco nell’acqua del fiume fino a farne emergere solo il collo. Lui si era tolto la giacca e la cravatta; Marcelle, le scarpe e le calze. Dopo aver sguazzato nell’acqua cercando di schizzargliene un po’ addosso, era andata a distendersi vicino a lui.

Ha un senso tutto questo? Quell’immagine merita davvero di essere rimasta incastonata nella sua memoria?

La pelle di lei, quasi bruciante, aveva quel buon odore che il sudore prende in campagna. Tutto sapeva di buono, il canneto, la terra, il fiume. Anche il vino, che nel frattempo si era raffreddato, aveva un sapore che in seguito non ha più ritrovato.

Con un filo d’erba tra i denti, era rimasto sdraiato sulla schiena, con le mani sotto la nuca, lo sguardo perso nell’azzurro del cielo solcato ogni tanto dal volo di un uccello.

Aveva dormito? Probabilmente no, ma tutto il suo corpo era pervaso di benessere e di pace. E probabilmente non avevano neanche parlato. Si ricorda di un gesto, la sua mano che si muoveva tentoni di lato, toccava la sabbia, poi il corpo di Marcelle. Era così intorpidito che ci aveva messo un bel po’ a decidersi e a scivolare su di lei.

Non aveva amato Marcelle, non di vero amore. L’aveva sposata per non essere più solo, per essere in due, forse anche per avere qualcuno da proteggere. Ma questa è un’altra questione, se ne occuperà più avanti, con calma.

Erano rimasti a lungo quasi immobili, come certi insetti quando si accoppiano, e lui sentiva il sole sulla schiena, udiva lo sciabordio dell’acqua, il frusciare delle canne.

Non era ubriaco, ma aveva bevuto abbastanza perché il suo corpo, dalla testa ai piedi, fosse più percettivo. Agli altri odori si era mescolato un odore di saliva e di sesso.

Tutto qui. Dopo, avevano finito la bottiglia. Avevano provato a sdraiarsi di nuovo, per ritrovare quello stato di grazia che avevano appena conosciuto senza averlo cercato.

Ma l’incanto era rotto. L’aria si era presto rinfrescata, qualche nuvola aveva coperto il sole, e nel far ritorno a Cléry si erano persi un’altra volta. Marcelle, stanca, se l’era presa con lui per aver scelto il sentiero sbagliato.

Quando era nata sua figlia, si era messo a fare dei calcoli: non gli sarebbe dispiaciuto che fosse stata concepita quel giorno, sulle rive della Loira. Ma le date non corrispondevano.

Un’immagine luminosa, dunque, un’ora, forse meno, di qualcosa che è tentato di chiamare la perfetta felicità, una felicità gratuita, che si riceve con totale innocenza e che si vive senza rendersene conto.

Forse, se frugasse nella memoria, troverebbe altri ricordi simili a questo. Ovviamente, ha vissuto non meno estati che inverni, non meno giornate di sole che giornate piovose, ma quello che conta non è tanto la luce quanto un certo accordo con essa, con l’universo, una sorta di fusione.

E quella fusione l’ha conosciuta ancora, un giorno, senza Marcelle questa volta, senza erotismo, ed era così forte che è stato colto da una sensazione di vertigine.

In un certo senso, tuttavia, Marcelle c’entrava ancora. Abitavano in rue des Abbesses. Dalla finestra scorgevano i muri bianchi del teatro dell’Atelier, le botteghe, i bistrot e tutto il popolino di Montmartre, indaffarato e chiassoso, specie al mattino, quando le comari danno l’assalto ai carretti delle erbivendole.

Era da poco nata Colette. Fin dal primo mese, Marcelle aveva parlato di affidarla a una zia in campagna. Si vergognava del piede deforme della bambina, come se ne fosse responsabile lei, e cercava di farne ricadere la colpa sui Maugras.

«Dicono che le malformazioni sono più frequenti nelle famiglie di alcolisti... Tuo padre beve, no? E tua madre è morta di tisi...».

Diventava sempre più nervosa, soprattutto quando la piccola si svegliava piangendo a più riprese durante la notte. Allora era lui che si alzava, e tenendo la testa di Colette appoggiata sulla spalla andava su e giù per la camera rischiarata dal lampione della strada.

Marcelle non era in grado di allevare un bombino. Alla fine, lui si era arreso e Colette era andata a vivere in campagna.

«Senza contare che lì l’aria è certo più sana di quella che si respira a Parigi...».

Non le serba rancore per essere quella che è, così come non ne serba a Lina. Non cerca di attribuirsi meriti che non ha: è lui che si è sbagliato e dunque è lui il vero responsabile.

Ha voluto prendersi cura di una ballerinetta di diciassette anni che sognava di diventare attrice e si è creduto capace di farne una donna e poi una madre.

«Credi che siamo fatti l’uno per l’altro?».

Lei aveva usato il sistema della goccia d’acqua, come per l’allontanamento di Colette. Una frase di quando in quando, come la goccia d’acqua che cade dal rubinetto sempre nello stesso punto. Non insisteva, ma i suoi discorsi erano ogni volta un po’ più precisi.

«Sono sicura che qualcuno si domanda perché mai viviamo insieme... Tu lavori da una parte e io dall’altra... Non siamo liberi nelle stesse ore...».

Tutto vero. A che scopo tornare a casa, dove non trovava mai il pranzo pronto, ma un biglietto in cui lei lo avvertiva che sarebbe rientrata tardi?

«E quando per caso siamo insieme non abbiamo niente da dirci...».

Erano andati avanti così per diversi mesi. Lui aveva tenuto duro, facendo orecchie da mercante. Aveva paura per lei e si chiedeva come sarebbe finita.

Aveva torto, perché Marcelle ha avuto successo proprio nella carriera agognata. Ciascuno di loro è riuscito nel proprio campo. Hanno fatto insieme solo un tratto di strada, al tempo di rue des Dames, in cui giocavano a fare i giovani sposi innamorati e capitava spesso che potessero comprarsi da mangiare solo rivendendo le bottiglie vuote.

«Perché non facciamo una prova?... Viviamo separati per qualche mese... Poi vedremo...».

Bionda e minuta, Marcelle sembrava cagionevole. Quando ballava la quadriglia al Moulin Rouge, per usare un’espressione della madre di René, aveva l’aria di un uccellino caduto dal nido, e i suoi occhi celesti facevano pensare alla prima comunione o al mese mariano.

In realtà, aveva una volontà di ferro e una resistenza fisica straordinaria.

Le aveva lasciato l’appartamento e i mobili ed era andato a vivere all’Hôtel des Anglais, in boulevard Montmartre.

Di nuovo un periodo vuoto, confuso, i Grands Boulevards, le insegne luminose, lo scorrere incessante degli autobus verdi con il tetto argentato, i caffè con i tavolini all’aperto...

Come improvvisamente gli era venuto il desiderio di vedere la Loira, così, di punto in bianco, era stato affascinato dalla parola Mediterraneo e, approfittando del fatto che disponeva di un po’ di denaro, aveva preso il treno alla Gare de Lyon.

Perché si era fermato a Tolone? E perché da lì era poi andato a Hyères? Scopriva un nuovo sole, un caldo nuovo, l’odore degli eucalipti, il canto ossessivo delle cicale e infine le palme, che gli davano l’illusione di essere ai tropici.

Per caso, come a Orléans, era salito, non in un trenino locale, ma in una corriera sgangherata in cui risuonava l’accento musicale del Midi. Aveva visto i grandi quadrati bianchi delle saline, le piramidi di sale scintillanti nella luce.

«Va fino alla Tour Fondue?».

Così era andato fino al capolinea, dove, ai piedi di una roccia, un traghetto bianco con il fumaiolo giallo aspettava i passeggeri della corriera per portarli sull’isola di Porquerolles. Il capitano aveva in testa un casco coloniale. Sul ponte erano accatastate delle gabbie in cui schiamazzavano i polli.

Quando il battello si era staccato dal pontile, lui stava in piedi a prua, chino sull’acqua trasparente. Per un bel tratto era riuscito a vedere il fondo, e per una mezz’ora era vissuto dentro la musica, come nel cuore di una sinfonia.

Quella mattina è diversa da qualunque cosa gli sia successa dopo. È la sua grande scoperta del mondo, di un mondo radioso e senza confini, dai colori accesi, dalle sonorità esaltanti.

Sagome lungo il molo. Case rosse, azzurre, gialle, verdi. L’allegra baraonda che accompagna l’attracco del traghetto, poi una piazza di paese inondata di sole, una chiesa-giocattolo, caffè all’aperto dove la gente passa il tempo a bere vino bianco.

Lui non aveva avuto bisogno di bere per sentirsi ubriaco. Tutto il suo essere esultava. Anche lì aveva provato l’impulso di toccare l’acqua e si era incamminato lungo un sentiero polveroso.

Ogni cosa lo mandava in estasi, dal profilo dei pini marittimi contro l’azzurro quasi cupo del cielo ai fiori che non aveva mai visto, ai cactus, ai fichi d’India, sino a certi arbusti dal profumo inebriante i cui frutti cremisi facevano pensare alle fragole.

Erano corbezzoli, lo aveva scoperto dopo insieme al nome di quella pianta dalle foglie acuminate, il lentischio, che i pescatori usano per cuocere il pesce alla griglia.

Sulle rive del Mediterraneo ci è ritornato spesso, in seguito. E ha visto altri mari altrettanto azzurri, alberi e fiori ancor più straordinari, ma l’incanto era rotto e, di tante scoperte, solo questa ha lasciato una traccia.

Come a Cléry, anche lì aveva rischiato di perdersi, scivolando a volte su rocce lisce e scoscese, aggrappandosi ai cespugli. Finché, sempre come a Cléry, il mare era apparso all’improvviso, con il suo respiro lento e profondo, voluttuoso, così diverso dal mare di Fécamp.

Come aveva fatto Marcelle sulle rive della Loira, si era tolto le scarpe per correre, scalzo, nella sabbia che scottava, scoprendo con stupore di trovarsi su una lunga spiaggia chiusa alle spalle da una fila di pini e alle due estremità da rocce.

Aveva corso come un bambino, ma da bambino non aveva mai conosciuto quella gioia. Aveva camminato nell’acqua. Il fondo di sabbia, increspato dalle onde, sembrava una seta d’oro marezzata. Si era spogliato, rimanendo in mutande, e si era gettato dritto davanti a sé finché la profondità dell’acqua non l’aveva costretto a nuotare.

Nelle sue orecchie suonava un’intera orchestra, e il ritmo era scandito dai colpi trionfanti dei piatti.

Poi... Com’era accaduto in riva alla Loira, qualcosa era andato storto. Non si era coperto il cielo e l’acqua era rimasta limpida. Ma lui aveva fatto un giro d’orizzonte con lo sguardo e si era sentito isolato nell’immensità. In preda al panico, aveva nuotato verso la riva come se rischiasse di andare a fondo, di venir risucchiato nella luce.

Con passo spedito aveva raggiunto la piazza del paese dove un gruppo di pescatori stava giocando a bocce. Aveva mangiato la bouillabaisse, bevuto il vino bianco dell’isola, ma aveva perso il contatto, i fili erano spezzati.

«È quasi l’ora...».

Sobbalza, perché ha dimenticato la signorina Bianche e Bicêtre.

«L’ora di cosa?».

Lei capisce che sta tornando da molto lontano.

«Del termometro... Poi del purè... E tra poco, per me, l’ora di andare a casa... Le prometto di ricordarmi l’agenda...».

L’agenda? Ah sì! Che cosa ci scriverebbe stasera, se l’avesse sottomano? Come riassumerebbe quei due tuffi nel passato?

«Cléry. Porquerolles».

Acqua, in entrambi i casi, e sole, caldo, odori nuovi. E in entrambi i casi un panico irragionevole e un ritorno triste.

Forse basterebbe una parola per le due avventure...

«Innocenza».

È abbastanza, due volte in una vita?

 

 

La giornata di martedì comincia con le campane della prima messa. È il famoso ottavo giorno di cui gli hanno tanto parlato:

«Il peggio è la prima settimana...».

«A partire dall’ottavo giorno, farai progressi spettacolari...».

Di questo ottavo giorno ha finito per farsi un’idea tremenda, come se tutto dovesse cambiare di colpo. Le notti sono già più brevi e al mattino le finestre schiariscono prima. Joséfa dorme di un sonno agitato, con la mano non sul ventre ma sul petto. Ieri sera temeva di essersi presa un raffreddore.

René, al solito, tende l’orecchio ai diversi rumori, e quasi subito si mette a pensare a Marcelle. Non è soddisfatto di come se l’è raffigurata il giorno prima. Si direbbe che, costretto a un ozio forzato, sia diventato alquanto puntiglioso. Chissà, forse comincia ad assomigliare a suo padre che, con aria solenne, contava e ricontava balle di merluzzo e sacchi di sale, ossessionato dalla possibilità di un errore...

Quando, a ventidue anni, si era sposato, non era stato tanto per vivere in coppia. Vorrebbe arrivare a una verità assoluta, a una sincerità totale. In fondo, quando era sbarcato a Parigi, e del mondo non conosceva altro che Fécamp, Le Havre e Rouen, si era comportato come un qualunque provinciale attratto dalle luci e dal movimento. Tanto è vero che passava ore e ore andando su e giù per i Grands Boulevards e provava una vera e propria ebbrezza quando, al calar della sera, si accendevano i lampioni.

E se aveva preso a frequentare la sala da ballo del Moulin Rouge, in place Blanche, era stato anche a causa delle luci e del brulicare della folla. La lunga hall di accesso alla sala, dalle pareti coperte di specchi, scintillava di centinaia di luci. Prima di una certa ora, un cartello, sopra il botteghino, annunciava: Ingresso libero.

Si scostava una cortina rossa, sul fondo, e si scopriva un salone immenso, vibrante, dove due orchestre, una di fronte all’altra sulla balconata, si alternavano senza mai lasciar raffreddare l’atmosfera.

A centinaia di tavoli, davanti alle loro consumazioni, sedevano coppie, gruppi di amici, donne, uomini soli, e c’era un viavai continuo dai tavoli alla pista da ballo, da cui saliva un incessante scalpiccio.

Poteva passare ore e ore seduto al suo posto, guardando, ascoltando, osservando i volti e gli atteggiamenti. Parecchie volte era stato tentato di rivolgere la parola a qualcuna delle ragazze che stavano in attesa di un ballerino e che all’avvicinarsi di un uomo scattavano in piedi.

Verso le dieci e mezzo un fragoroso rullar di tamburi annunciava lo spettacolo, si spegnevano le luci e i riflettori venivano puntati sulla pista che, con grida trionfanti e gonne al vento, veniva invasa dalle ballerine di cancan.

Quante erano? Una ventina, gli sembra di ricordare... Ciascuna indossava un vestito di colore diverso, e ciascuna, a turno, circondata dalle compagne immobili, eseguiva il suo numero.

Quella dal vestito rosso era una bella ragazza bruna, bene in carne, dal seno opulento, dalle labbra sensuali, quella in giallo pareva un’adolescente spilungona dal volto non ancora ben definito, quella in viola era una vera e propria acrobata e inanellava un salto mortale dopo l’altro.

Per una ventina di minuti, era un’orgia di suoni, di mosse, di sete multicolori, di calze nere che spiccavano sul candore delle cosce nude.

Quella in verde, magrolina, anemica, era Marcelle: il suo numero, più semplice degli altri, era il meno applaudito.

Se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito la rossa dalle labbra sensuali? Forse no. Con lei non si sarebbe sentito a proprio agio. Gli avrebbe fatto paura.

Sera dopo sera, aveva guardato la ballerina in verde con una tenerezza mista a pietà. Poi aveva indugiato sul marciapiede, dopo lo spettacolo, tenendo d’occhio l’uscita degli artisti, ed era rimasto deluso vedendo le ragazze in abiti da città, né più né meno attraenti delle commesse e delle dattilografe che frequentavano il locale.

Alcune erano attese, ma non da un ricco amante con l’automobile, bensì da un giovanotto che sbucava dall’ombra e con cui si allontanavano dandogli il braccio. Altre, come Marcelle, si affrettavano verso una stazione della metropolitana.

Portava un baschetto nero sui capelli biondi, un cappotto nero dalla stoffa un po’ consunta. L’aveva seguita, aveva preso il suo stesso métro, le si era seduto di fronte; lei sembrava non pensare a niente.

Era scesa alla fermata Bastille. Quasi correndo, come avesse paura della notte e delle sagome che si aggiravano sui marciapiedi, si era diretta verso rue de la Roquette, dove aveva suonato a una porta che si era subito richiusa alle sue spalle.

Era innamorato di lei o delle luci del Moulin Rouge? O del contrasto tra quelle sottogonne spumeggianti che si alzavano di scatto al suono strepitoso dell’orchestra e la ragazzina impaurita che suonava nervosamente alla porta della casa paterna?

La seconda ipotesi è più vicina alla verità quale la concepisce oggi, a distanza di anni. Che lei non fosse l’immagine della salute, che ispirasse il desiderio di compiangerla e di proteggerla, era stato un elemento fondamentale.

Le aveva rivolto la parola, non in place Blanche, ma sul métro. Lei lo aveva guardato dapprima con fastidio, con diffidenza, e alla fine aveva sorriso della sua goffaggine.

Per settimane, aveva vissuto quel genere di avventure che si vivono di solito a sedici anni e, ogni sera, comprava un mazzolino di violette dalla vecchia fioraia che stazionava davanti al Moulin Rouge.

La madre di Marcelle era portinaia dell’immobile in rue de la Roquette, il padre guardia municipale. A dodici anni le avevano fatto prendere lezioni di danza perché una bambina del quartiere era diventata prima ballerina all’Opéra.

Marcelle non aveva intenzione di restare nel corpo di ballo, né di continuare a ballare. La sua aspirazione era quella di diventare una vera attrice e al mattino seguiva i corsi di Charles Dullin.

Per due mesi tra loro non c’era stato niente. Un pomeriggio, ottenuto un appuntamento, l’aveva portata nella sua camera di rue des Dames.

Si chiedeva se fosse vergine e l’idea lo spaventava. Lei si è spogliata senza fare storie, si è sdraiata sul letto, nuda, con lo sguardo assente.

Dopo, le ha fatto qualche domanda.

«Ti è capitato spesso?».

Lei aveva aggrottato la fronte, sembrava non capisse.

«Che intendi?... Ah, parli di questo... Non sarei al Moulin Rouge se non ci fossi passata...».

«Con chi?».

«Intanto Hector, l’imbonitore... Lo chiamiamo così... È il comico che annuncia i numeri e racconta barzellette...».

Un tipo grasso, quasi calvo, che trasudava imbecillità e autocompiacimento.

«Poi il direttore d’orchestra, anche se ha una fifa blu di sua moglie...».

«E poi?».

«Mi sembri un prete... Che differenza fa? E poi che t’importa?... Se non ne avessi conosciuti altri, non sarei qui...».

«Ti dispiaceva farlo?».

«Non so...».

«E con me?».

«È vero che scrivi sui giornali?... O l’hai detto per far colpo?... Perché non firmi col tuo nome, allora?».

Aveva preso ad andare in rue des Dames due volte alla settimana. Lui aspettava quei giorni con impazienza e, a poco a poco, nella sua mente aveva cominciato a prendere forma l’idea della coppia. Non restare più solo in quella camera. Mangiare l’uno di fronte all’altro, anche se il panno che copre il tavolo è di un’orribile stoffa scura a fiori...

Un giorno che uscivano insieme dall’albergo e lui la riaccompagnava al métro, un uomo dai baffi scuri in un volto dal colorito acceso si parò loro davanti.

«Tu fila a casa... Quanto a lei, ho da dirle due parole...».

Era il padre, la guardia municipale, e aveva un’aria caparbia e minacciosa.

Cerca di ricordare come avessero raggiunto boulevard des Batignolles, dove camminavano in mezzo ai filari d’alberi, salendo verso place Clichy, facendo poi dietrofront per scendere fino alla ferrovia e risalire di nuovo. E chissà per quali passaggi, alla fine, erano arrivati a una certa cordialità...

«Sarà anche un mestiere, il suo, ma quant’è che guadagna?».

Aveva barato, arrotondato le cifre.

«Però! Certo non vale un posto fisso...».

Non è che gli avevano teso una trappola? Perché non aveva parlato del comico dai capelli radi e del direttore d’orchestra? E se la guardia municipale li avesse sorpresi solo per recitare la scena dell’indignazione paterna?

A dir la verità, si era sentito sollevato. Non aveva cercato di tirarsi indietro. Al contrario, aveva dichiarato di avere intenzioni serie e, un’ora dopo, lui e il padre di Marcelle bevevano un aperitivo in un bar-tabacchi.

E così aveva sposato le luci, il Moulin Rouge, il vestito verde, una certa miseria che gli dava la consapevolezza della propria responsabilità e della propria superiorità.

Può bastare, per Marcelle. È andato in fondo alle cose, il più possibile in profondità. E un po’ si vergogna.

È un sollievo veder spuntare il giorno e assistere al risveglio di Joséfa. Ritorna nel presente.

«Buongiorno! Dormito bene?».

«E lei?».

«Mi sono alzata due volte, come al solito, per assicurarmi che stesse bene... Dormiva come un angelo...».

Ripiega il lettino e lo spinge nell’armadio a muro.

«Sarà contento dei suoi progressi, no?».

Gli pare di avvertire un che di misterioso nel suo tono, qualcosa che di nuovo lo preoccupa. E perché, nel salutarlo, Joséfa sente il bisogno di stringergli la mano?

«Buona giornata!... Stia bene...».

Sembra commossa. Quando è già sulla porta si gira ancora una volta.

«Arrivederci...» ripete agitando la mano.

Significa che non la rivedrà? Che gli daranno una sostituta? Non si è congedata esplicitamente, perché dev’essere proibito. Vogliono evitare tutto ciò che può agitare i malati. È più facile metterli davanti al fatto compiuto.

«... Dormiva come un angelo...».

Può voler dire che non ha più bisogno di qualcuno che lo vegli durante la notte. C’è sempre un’infermiera di turno che sta in un cantuccio del corridoio. A Maugras è capitato a volte di sentire un campanello e poi dei passi precipitosi in direzione della corsia.

A mano a mano che torna a essere come gli altri, lo tratteranno come gli altri, lo sente, e alla sola idea già si irrigidisce, decisissimo a difendersi.

«Buongiorno!».

La signorina Blanche è tutta elettrizzata, radiosa, e porta una ventata d’aria fresca annidata nelle pieghe del vestito. Nella notte c’è stata una gelata e sulle tegole del tetto ne resta qualche traccia che il sole sta asciugando.

«Dormito bene?... Ci sentiamo in forma?... Adesso misuriamo la temperatura e sono quasi sicura che sarà l’ultima volta...».

Se l’aspettava. Intendono eliminare il rito del termometro. Ha già visto sparire il flacone di glucosio e gli fanno una sola iniezione al giorno. Aboliranno anche quella. Cos’altro aboliranno poi?

«Trentasei e otto. Polso a settanta... Ma che bravo!».

Il brio che ostenta questa mattina non gli piace.

«Ah, dimenticavo l’agenda!... Ne ho scelta una con due giorni per pagina e le ho comprato due biro, una nera e una rossa...».

L’interno passa mentre lei lo lava, si limita a una rapida auscultazione, e si vede che ha lo sguardo e la testa altrove. Maugras non è più un caso interessante.

«È d’accordo, dottore, a proposito di quello che le ho chiesto ieri?» domanda misteriosamente l’infermiera.

«Assolutamente d’accordo. Ne ho parlato al professore, dice che è arrivato il momento...».

Di sicuro è d’accordo anche la caposala... È qualcosa che lo riguarda, ma a lui non dicono niente. In un altro giorno sarebbe stato contento del fatto che gli infilassero, oltre alla giacca di un pigiama pulito, anche i pantaloni. Stamattina, invece, lo percepisce come una nuova minaccia.

«Il tempo di prendere il succo d’arancia e i cereali, e sarà qui il barbiere... Sappia che nell’armadio, insieme agli effetti personali, c’è anche il suo rasoio... Quando ne avrà voglia, può tentare di radersi con la sinistra... È una questione di abitudine...».

Non aggiunge che questo lo distrarrà. Si ostinano a cercare di distrarlo. Guardando la porta, mossa da una corrente d’aria, si ricorda del malato con la vestaglia viola che veniva a guardarlo fisso e che non ha più rivisto. Si informa dalla signorina Blanche.

«Ha capito di chi sto parlando?... Restava qualche minuto, immobile, come incantato, e se ne andava senza far rumore...».

«Ah, sì! In corsia lo chiamavano "Testa di legno"!» esclama lei ridendo. «Non c’è più... Siamo finalmente riusciti a farlo tornare in famiglia...».

«Non voleva andar via?».

«Erano la figlia e il genero a non volerne più sapere di lui, con la scusa dei bambini... Ma è del tutto inoffensivo... Mi hanno raccontato che domenica è scappato dalla villetta in cui abitano, a Joinville, ed è arrivato chissà come fin qui... Lo hanno trovato seduto sul suo letto di prima, occupato da un nuovo paziente, e hanno dovuto riportarlo a casa...».

Mentre il barbiere lo rade, la signorina Blanche apre l’armadio e tira fuori la sua vestaglia blu dai profili bianchi che Lina ha messo nella valigia con i pigiami. Posa le pantofole ai piedi del letto, esce dalla camera e torna accompagnata da un infermiere che lui non ha mai visto e che lo saluta portandosi la mano alla bustina come fosse un chepì. Un ex sottufficiale, probabilmente. Ne ha tutta l’aria e gli è subito antipatico.

Vuole protestare e balbetta qualcosa.

«Il professore non le ha detto, ieri, che deve cominciare a stare in piedi per qualche minuto?».

Gli infilano la vestaglia, gli mettono le pantofole. L’infermiere gli circonda le spalle con il suo braccio muscoloso, la signorina Blanche lo aiuta a sostenerlo ed eccolo in piedi sul pavimento, in preda all’angoscia e alla vertigine all’idea di reggersi sulle gambe.

«Non si lasci andare... Stia su... Non abbia paura, non rischia di cadere...».

Si apre la porta. È la caposala. Tutto stabilito in anticipo, a meno che il programma sia uguale per tutti gli emiplegici. L’ottavo giorno!

Ormai lo tengono solo sotto le braccia, l’uomo da una parte, la signorina Blanche dall’altra.

«Ottimo!» approva la virago, con lo stesso tono con cui esorterebbe un barboncino a stare ritto sulle zampe posteriori. «Si appoggi bene su tutt’e due le gambe... È importante...».

Perché ci si liberi presto di lui? Aborre il contatto fisico con un uomo ed è furibondo che abbiano mandato a chiamare quell’infermiere. Ma è altrettanto irritato per l’intrusione dell’anziana donna, che lo osserva e che viene addirittura a tastargli i polpacci l’uno dopo l’altro.

In piedi, girato com’è verso la finestra, scopre una porzione più grande degli edifici che compongono l’intero complesso e un gruppetto di alberi in un angolo del cortile.

«Ancora un minuto e basta...» dice la caposala.

Se ne va lasciando la porta spalancata e torna un attimo dopo spingendo una sedia a rotelle rivestita di similpelle consunta e con un’imbottitura tutta incavata dal susseguirsi degli occupanti.

Eccola, la loro bella sorpresa! Il grande cambiamento dell’ottavo giorno! Non osa neppure lasciar trasparire il suo smarrimento, perché il volto della signorina Blanche, vicinissimo al suo e inizialmente raggiante come se desse per scontata la sua gioia, si rannuvola.

«Non è contento di poter finalmente lasciare il letto?».

L’infermiere lo solleva e lui si ritrova sulla sedia a rotelle, le braccia appoggiate ai braccioli, le gambe semidistese.

Dev’essere una prassi consolidata quella di sistemare il paziente vicino alla finestra. Per distrarlo!

«Ero così sicura che...» dice la signorina Blanche con aria quasi supplichevole.

Lui la ringrazia con lo sguardo, finge di contemplare il cortile ma lo scorge appena. L’infermiere se ne va. La caposala sembra aspettare una buona parola, un ringraziamento, ma non l’avrà.

Ha l’impressione di essere inclinato verso destra, che tutto il suo corpo sia inclinato, e che si inclini sempre di più, e finirà per trascinare con sé la sedia.

La signorina Blanche posa una mano sulla sua.

«Si abituerà presto, vedrà...».

Lui si sforza di girarsi verso di lei e di sorridere.

«Grazie».

 

10

 

L’agenda non è rossa come quella che aveva al George V. È rilegata in finta pelle grigioverde e la carta è ruvida. La signorina Blanche l’ha scelta apposta così dozzinale? Se è così, ha avuto l’ispirazione giusta e lui gliene è grato.

Ha subito cercato la pagina di martedì 2 febbraio e vi ha segnato una crocetta rossa. È stato in dubbio se annotarvi qualcosa, poi, sorridendo con un’ombra di amarezza, si è risolto a scrivere, con la sinistra, la parola «orinatoio». Parola che ha sempre odiato. Non ha scritto né «gabinetto», né «pisciatoio».

Per i giorni seguenti, il 3, il 4, il 5, il 6, il 7 e l’8, altre crocette. E basta. Dà un’impressione di vuoto e vi è qualcosa di ironico nel contrasto fra quelle mezze pagine contrassegnate solo da una crocetta davanti alla data e le giornate così piene che esse rappresentano. Proprio perché sono state troppo piene, lui preferisce non scrivere niente. È impossibile riassumere le ore passate dentro quel letto, perché tutto ha contato, tutto ha avuto pari importanza, i capelli dell’infermiera che gli sfioravano la guancia, i passi nel corridoio, i cerchi che le campane disegnavano nell’aria, le sagome che si profilavano dietro la porta a vetri, una visita di Audoire o di Besson, e infine i suoi pensieri, a volte sfilacciati, a volte invece così concentrati da diventare una sorta di stenografia.

Una semplice crocetta. Meglio così. Più tardi, poiché sembra che ci sarà un più tardi, questo gli basterà. Può darsi anche che non capisca più, e se ne infischierà.

La giornata è altrettanto densa di eventi delle precedenti, anzi di più. Tuttavia, tra poco si accontenterà di riassumerla in tre parole: «Eppure sono vivi».

Poi, dopo una breve riflessione, aggiungerà, con un leggero sorriso sulle labbra: «Pipa».

Adesso sa come si chiama l’infermiere dai grossi bicipiti, dal mento bluastro e dall’aria da sottufficiale: Léon. Lo hanno fatto venire ancora tre volte, la prima per rimetterlo a letto dopo un quarto d’ora di sedia a rotelle, la seconda, dopo la siesta, per risistemarlo di nuovo sulla sedia, infine per farlo tornare a letto. Ogni volta, sentendo guizzare contro di sé i muscoli dell’uomo, Maugras ha avuto un moto di disgusto.

Al mattino c’è stata la grande visita del martedì. Il professore, seguito dal codazzo degli allievi, si è fermato a lungo nella corsia prima di venire da lui, da solo e con l’aria preoccupata.

Devono esserci dei casi gravi, nel suo reparto, casi che forse esigono una decisione difficile. È sembrato soddisfatto di trovare Maugras seduto sulla sedia a rotelle, gli ha tastato con calma gli arti muscolo per muscolo e ha controllato lentamente la funzionalità di tutte le articolazioni.

«Va tutto a meraviglia... L’amico Besson passerà a visitarla tra poco...».

Quando hanno qualcosa da dirgli, tocca sempre a Besson. All’inizio questo lo irritava. Tuttavia è logico. Audoire si occupa, come specialista, della patologia che lo affligge al momento. Besson, che è il suo medico da un pezzo e ha curato tutti i suoi piccoli malanni, lo conosce meglio.

Adesso deve ammettere che questa spartizione delle responsabilità, questa gerarchia, che ha suscitato molte volte la sua indignazione nei loro confronti e nei confronti dell’intero ospedale, è indispensabile.

Se avesse potuto disegnare, giorno per giorno, il ritratto dei due medici così come li vedeva, si sarebbe trovato davanti una serie di volti diversi. E se avesse fatto il proprio, di ritratto? Non ci sarebbe stato un René Maugras diverso di ora in ora?

Besson d’Argoulet è apparso rilassato e non si è sentito in dovere di assumere un tono allegro. È stato quasi naturale, oggi, non proprio come ai pranzi del Grand Véfour, ma neppure come un medico al capezzale di un paziente cui bisogna tirar su il morale.

«Non preoccuparti se per qualche giorno ti sentirai disorientato... Sappi che è normale... Per un’intera settimana sei stato in tutto e per tutto dipendente dalle persone che ti stavano intorno, come fossi privo di personalità... Ora riprendi a poco a poco la tua vita di uomo e devi aspettarti altri momenti di sconforto... A proposito, Joséfa...».

«Non verrà più...».

«Chi te l’ha detto?».

«Nessuno... L’ho capito stamattina quando se n’è andata...».

Le frasi lunghe sono ancora difficili. Non sempre trova le parole, mentre dentro di sé è capace di destreggiarsi brillantemente con le idee.

«Le dispiace molto, ma non può farci niente... Joséfa è un’infermiera specializzata e c’è bisogno di lei da un’altra parte... Le tue notti sono tranquille... Hai un campanello a portata di mano, devi solo premere il pulsante... Però, se ci tieni, ti troverò un’infermiera per la notte... Decidi tu...».

«E la signorina Blanche?».

«Lei rimarrà con te per tutto il tempo che starai qui...».

È una sorta di baratto: lui accetta di stare solo di notte e loro gli lasciano la signorina Blanche.

«Ah, dimenticavo... C’è un’altra cosa... Te ne parlo perché tua moglie mi ha espresso le sue preoccupazioni al riguardo... Ha paura che l’atmosfera dell’ospedale finisca per deprimerti... Sei abituato a un altro ambiente, a un trattamento diverso, a gente per la quale ogni tuo desiderio è un ordine...

«A questo punto, non è più indispensabile che tu resti sotto il controllo costante di Audoire... A partire da questa settimana, puoi entrare in una clinica privata a tua scelta, a Neuilly per esempio... Non sono attrezzati come qui per la rieducazione, ma per questo ci si può organizzare...».

Il suo no è stato così spontaneo e così categorico che Besson è scoppiato a ridere.

«Bene!... Perfetto!... Non aver paura, Audoire non ha intenzione di sbarazzarsi di te... Resta Fernand Colère, che mi ha chiamato anche questa mattina...».

Non lo ha lasciato finire.

«No!».

«In questo caso, immagino che tu non voglia vedere neanche i nostri amici... Anche loro non fanno che telefonarmi...».

«Preferisco stare solo...».

Parlare lo stanca, e allora le sillabe s’ingarbugliano. Ha fatto il possibile perché Besson se ne andasse soddisfatto e dopo si è dedicato all’osservazione del cortile, che lo affascina.

La vista di quel cortile ha già cambiato il suo umore e comincia a gettare una luce diversa sui suoi problemi.

È molto più grande di quanto pensasse: un immenso quadrilatero delimitato tutt’intorno da edifici grigi dei quali si ripromette, non appena lo lasceranno in pace, di contare le finestre.

Di fronte a lui, un andito a volta dà accesso all’esterno e due uomini in divisa montano la guardia.

Al di là sfrecciano le automobili, si incrociano, si superano, la gente cammina in fretta e gesticola.

I vecchi, che un tempo vedeva di sfuggita da lontano passando in macchina sulla nazionale 7, indossano tutti un completo grigioblu di stoffa pesante, con una pistagnina colorata lungo la cucitura esterna dei pantaloni; e, come si fa per differenziare i reggimenti, queste pistagnine sono di due o tre colori diversi. Ne ha già individuate alcune gialle e alcune rosse.

Quello che invece è uguale per tutti è una certa lentezza o immobilità molto particolare. Lanciando al cortile un’occhiata superficiale, verrebbe da pensare che ciascuno di loro stia immobile al proprio posto, rigido come un soldatino di piombo.

Approfittando del sole, molti siedono sulle panchine, ma senza quell’abbandono che si nota nelle persone sedute sulle panchine in città. Si ha l’impressione che non parlino, che non abbiano alcun contatto gli uni con gli altri, che ciascuno resti chiuso in se stesso.

Questa espressione, che prima impiegava come tutti, ora ha assunto per lui un significato preciso. Sono chiusi in se stessi. Non sono malati. La signorina Blanche gli ha spiegato che si tratta di soggetti presi in carico dall’assistenza pubblica. Lei, comunque, preferisce chiamarli «i nostri vecchietti».

Molti fumano la pipa, come i vecchi pescatori di Fécamp che passano le giornate a guardare il porto, e spesso sono pipe riparate con il fil di ferro o il nastro isolante e che a ogni tirata fanno sentire un gloglottìo di saliva.

Sembra che la signorina Blanche, non contenta di seguire il suo sguardo, segua anche i suoi pensieri, perché gli chiede:

«Lei ha mai fumato?».

«Sì».

«Sigarette?».

«Prima la pipa, a sedici anni... Poi, a Parigi, sigarette... E alla fine tutt’e due... Ho smesso tre anni fa, quando si è cominciato a parlare di cancro ai polmoni...».

È paradossale: il suo giornale è stato il primo, in Francia, a fare una campagna contro il tabacco, e mentre lui si è lasciato convincere dalla sua stessa propaganda, Besson, che oltretutto è un medico, ha continuato a fumare una sigaretta dietro l’altra.

Un pensiero sgradevole, come ogni volta che evoca la vita di fuori. Quella campagna gli ha procurato una serie di telefonate, poi di visite di personaggi più o meno di spicco, che gli hanno fatto capire come essa danneggiasse grossi interessi, e addirittura l’interesse nazionale.

Gli hanno persino presentato delle statistiche volte a dimostrare che i danni causati dalle sigarette non erano scientificamente provati. Naturalmente è stata sollevata la questione dei contratti pubblicitari, e lui ha ceduto. La campagna ha avuto vita breve.

All’epoca non se n’è vergognato. Gli sembrava naturale. Viveva in un mondo in cui non valgono le stesse regole che per i comuni mortali.

Adesso il suo orizzonte è delimitato da una serie di edifici regolari e monotoni come quelli di una caserma e la sua attenzione si concentra sul cortile e sulle sagome mute che lo popolano.

Il vecchio che veniva a fissarlo al mattino è stato riportato, non senza difficoltà, in famiglia. Come un cagnone di cui ci si è voluti sbarazzare, è tornato a sedersi, Dio sa come, sulla sua branda. Forse ritornerà ancora, perché non si può legarlo, e bisognerà riportarlo un’altra volta dalla figlia.

«Eppure sono vivi».

È la sua grande scoperta della giornata. Hanno tutti superato la sessantina. Per la maggior parte sono molto più anziani o lo sembrano. Alcuni trascinano le gambe e altri avanzano con un’andatura a scatti buttando un piede di lato come pupazzi meccanici che funzionino male.

Hanno lavorato per anni e anni. Sono quelli che si vedono, sulle impalcature, tirare su i muri di una casa mattone dopo mattone, o emergere dal tombino di una fogna, o forare biglietti, trasportare casse o sacchi. Ce ne sono probabilmente di tutti i mestieri.

Pensa agli annunci economici che rendono così bene al giornale.

«Pensionato, ottima forma, cerca...».

Benché non abbiano alcuna possibilità, s’intrufolano tra i giovani, fermi sul marciapiede, per consultare la lista delle offerte di lavoro non appena viene affisso il giornale ancora umido di stampa.

Sono stati sposati e hanno avuto dei figli. Sono corsi a dichiararli, esultanti, all’ufficio comunale del loro quartiere o del loro sobborgo e hanno offerto da bere a tutti i clienti del bistrot di fronte.

Suo padre non è forse uno di loro? Anche lui vive, a Fécamp, una vita vegetativa, aspettando per ore il momento in cui si concederà un bicchiere di vino rosso...

Suo padre è vivo! Fino a ieri lo considerava una specie di imbecille passivo e rassegnato. Ma se lui è vivo, se quelli, là nel cortile, sono vivi, non significa forse che...

Non riesce a completare la domanda, e a maggior ragione a trovare la risposta. È turbato, perché capisce che sta per fare una scoperta.

Il suo nonno materno, però, non ce l’ha fatta. Era un pescatore di Yport, un uomo tarchiato, robusto, alle cui guance il mare aveva dato un color mattone.

Per vent’anni, ogni primavera, si era imbarcato su un peschereccio, calzando alti stivali dalla suola di legno.

Spesso, al ritorno, nella casetta sulla scogliera trovava un nuovo bambino. Ne ha avuti nove e uno solo è morto in tenera età.

Le ragazze, a tredici o quattordici anni, andavano a servizio. Dei maschi, uno è diventato guardia municipale a Le Havre, un altro capocameriere su un transatlantico.

L’uno dopo l’altro si sono sposati tutti, mentre il padre, col passare degli anni, rinunciava ai banchi di Terranova per dedicarsi alla pesca delle aringhe.

Quando aveva raggiunto l’età della pensione, lui e la moglie erano ormai rimasti soli in casa; allora aveva preso a coltivare un pezzetto di giardino, e usciva in mare con la sua barca per sistemare le nasse per la pesca dei gamberi.

Una volta alla settimana si metteva il completo di panno blu, il maglione più bello e andava a bere, a Fécamp, con i vecchi amici.

Non era, a un altro livello, l’equivalente dei pranzi al Grand Véfour?

Una mattina la moglie, pensando che stesse lavorando in giardino, lo ha chiamato per riparare qualcosa in casa (non un rubinetto, perché l’acqua la tiravano su dal pozzo). Ha gridato il suo nome in tutte le direzioni e, un’ora dopo, lo ha trovato impiccato nel deposito per gli attrezzi e le reti.

Non si è mai saputo perché. Quelli che stanno qui sono vivi. Non posseggono niente. Non hanno più casa, moglie, figli disposti a occuparsi di loro. Non ricevono una pensione.

Per evitare di vederli morire su un marciapiede, la società li rinchiude. Per la verità, non sono davvero rinchiusi. In certe ore possono andare a gironzolare davanti ai negozi di Bicêtre. Gli danno del tabacco, li curano, li lavano, medicano le loro piaghe. Ogni tanto c’è un barbiere che li rade.

Sono vivi! È questa la scoperta che ha appena fatto, e che susciterebbe l’ironia dei suoi amici. Non si sente la coscienza a posto, gli viene da chiedere perdono a qualcuno. Ma a chi? Non appartiene forse di diritto proprio a quel mondo? In quel mondo è nato e ha più o meno imparato a vivere. Poi li ha traditi...

Ogni giorno, al giornale, controlla i titoli dei fatti di cronaca più sensazionali, la madre che annega i quattro figli prima di buttarsi a sua volta nella Senna, la vecchia che si suicida col gas in rue Lamarck ottenendo così un momento di celebrità, il ferroviere addetto agli scambi che si taglia le vene perché è convocato dal giudice istruttore a seguito di un incidente... C’è solo l’imbarazzo della scelta, e quella roba fa vendere.

Ed è stato lui a insegnare ai suoi collaboratori a fare la scelta giusta.

«No... Questo non farà piangere nessuno...».

Il suo famoso fiuto! Ha naso nell’individuare il fatto di cronaca che susciterà la commozione, il titolo che farà presa. Appartiene alla categoria di quelli che stanno al di fuori, che giudicano dal di fuori, senza sentirsi in causa.

Vive nell’albergo più lussuoso e più anonimo di Parigi dove, se si chiama un medico nel cuore della notte, è per curare un cliente che ha bevuto troppo champagne o troppo whisky, abusato di droghe o ingerito barbiturici, o anche per niente, per gioco, per noia, a volte per scioccare un marito o un amante.

I vecchietti della signorina Blanche restano seduti sulla loro panchina, con lo sguardo perso nell’immensità del nulla, a tirare ogni tanto qualche boccata dalla pipa.

È per via di quei vecchietti che adesso lui ha una pipa. L’infermiera gli ha domandato:

«Non sente la mancanza del fumo?».

Tre anni fa, sì, ne ha sentito la mancanza, e gli è capitato di fumare una sigaretta dietro una porta, come di nascosto da se stesso.

«Non so... Forse...».

Ma non è stato solo per sentirsi più vicino ai vecchi nel cortile che poco dopo ha mormorato:

«Mi chiedo se...».

«Vorrebbe una sigaretta?».

No. Non una sigaretta.

«Crede che il professore me lo permetterebbe?».

«Nelle corsie la maggior parte fuma...».

«Mi andrebbe a comprare una pipa?».

«Stasera?».

«No, adesso... Ci sarà pure una tabaccheria qui intorno...».

«Ce n’è una di fronte all’ingresso principale... Che genere di pipa?... Ho paura che, in questa zona...».

«Una qualunque... E del tabacco comune, del semplice trinciato...».

Come a Fécamp. Anche se dopo averla lasciata ha fumato miscele inglesi, quello che vuole ritrovare è il gusto del trinciato.

La signorina Blanche si è infilata il cappotto sull’uniforme ed è uscita. L’ha vista attraversare il cortile nei due sensi e, al ritorno, gli ha rivolto da giù un piccolo cenno.

La pipa è corta, con una fascetta di metallo e un’estremità di corno.

«Non c’era niente di meglio...».

Una pipa da vecchio, come ce l’hanno giù in cortile.

«Vuole provarla?».

Poiché dispone solo di una mano, gliela deve caricare lei, e il suo impaccio lo diverte.

«Devo pigiare il tabacco?... Così?...».

Tira qualche boccata, deluso. Doveva aspettarselo. Si è dimenticato di non avere una perfetta padronanza delle mascelle. Non appena la sua mano si stacca dalla pipa, questa gli cade dalle labbra e l’infermiera deve spegnere le briciole di tabacco che gli si sparpagliano sulla vestaglia.

«Per qualche giorno dovrà reggerla con la mano... Vuole riprovare...?».

Scambia quella voglia di fumare per un segno di ripresa. Questo dimostra che, nonostante tutto, la signorina Blanche non è in grado di seguire il corso dei suoi pensieri. Il fumo acre lo fa tossire. Insiste ancora un momento, alla fine rinuncia.

«Basta così per la prima volta...».

«Ci ha ripreso gusto?».

Ad ogni modo, nella camera c’è un odore nuovo.

La sera gli spetta un brodo, un purè di rape e marmellata di ribes. Sono più di trent’anni che non mangia marmellata di ribes, e si domanda perché.

Sonnecchia, né triste né allegro, né fiducioso né disperato. È la giornata più sconcertante da che si trova all’ospedale, e quando vengono a portar via il lettino da campo ha come un senso di vuoto.

Lina non ha telefonato. Ha sicuramente trovato un’amica o un amico, forse più di uno, per farle compagnia. Le piace restare a letto e avere gente intorno. È possibile che a pranzo si sia accontentata di una minestrina e di un frutto. Circa una volta al mese pensa al suicidio.

Anche lui ci ha pensato, ma non così spesso. In certi periodi è stato convinto che un giorno sarebbe successo, ma anziché affliggerlo quella prospettiva lo confortava.

Gli dava la certezza che, qualunque cosa accadesse, poteva scegliere, aveva la possibilità di andarsene.

Nella sua mente, quel gesto non aveva nulla di tragico. Era solo un modo di abbandonare il campo. Non potevano negargli quel diritto.

Un’ora dopo, chino sul bancone tipografico, buttava all’aria l’impaginazione dell’ultima edizione o, nel suo ufficio, come lo raffigurava la caricatura, teneva un telefono per mano davanti all’indaffarata segretaria e a un Fernand Colère che faceva regolarmente capolino dalla porta.

Nel cortile dove gli alberi sono tagliati in forme geometriche, in tutte quelle cellette invase dalla penombra in cui i letti quasi si toccano e in cui si agitano infermiere e dottori, loro sono vivi!

Ed è vivo, quell’uomo che deve avere la sua stessa età e che, con le spalle curve, la mascella cascante, va dritto davanti a sé, come un allucinato, sotto l’occhio vigile di un infermiere.

È possibile che questo non significhi niente?

 

 

Sull’agenda verde chiaro non fa cenno delle due visite che ha ricevuto, come se non dovessero lasciare traccia, mentre in qualunque altro giorno esse avrebbero attirato la sua attenzione.

Devono aver allentato il cordone sanitario intorno a lui e alla sua camera, visto che sua figlia Colette è venuta a bussare alla porta senza alcun preavviso. La signorina Blanche è accorsa, ha guardato stupita quella donna massiccia e sgraziata, piuttosto mal vestita e con una scarpa ortopedica.

«La faccia entrare...» ha detto lui e, dopo una breve pausa, ha aggiunto:

«Le presento mia figlia...».

Colette si è appesantita. La sua faccia, ingrossata, la fa già assomigliare a certe donne dei quartieri popolari che, a trentacinque anni, sono senza età.

«Buongiorno...» fa guardando verso di lui.

Non lo chiama padre, né tanto meno papà. Da piccola si ostinava a considerarlo un estraneo, incoraggiata in questo dalla zia che non lo ha mai potuto soffrire. Però gli dà del tu.

«Ti disturbo?».

Lo vede controluce perché è seduto davanti alla finestra, e solo dopo essersi seduta di fronte a lui scopre la sua faccia. Gli altri, Audoire, Besson, Clabaud, la signorina Blanche, tutti quelli che sono entrati in contatto con lui, hanno cercato di non sembrare colpiti dal suo aspetto. Colette è la prima a mostrarsi impressionata e si affretta a dire:

«Come sei dimagrito... Solo ieri ho saputo che sei qui dal dottor Libot, e anche lui l’aveva saputo per caso...».

È più rilassata di quando veniva a trovarlo al giornale. Un pensiero cattivo passa per la testa di Maugras: non sarà una sorta di rivincita, per sua figlia, vederlo più handicappato di lei?

«Hai sofferto molto?».

«No... Non è una malattia che provochi dolori...».

Anche se si danno del tu, si parlano come due estranei. Non hanno mai avuto niente da dirsi, o non ci sono riusciti. Lei lo guarda con maggiore attenzione del solito, non come un padre poco amato ma piuttosto come un uomo nuovo, appena scoperto.

«Ti curano bene?... Secondo il mio capo, il professor Audoire è il miglior neurologo di Francia, e riuscire ad avere un letto nel suo reparto è una bella fortuna...».

Osserva la camera tutt’altro che lussuosa, la tinteggiatura delle pareti che si scrosta, la poltrona malandata.

«Come ti senti, non sei troppo spaesato?».

Dopo, ironizza su se stessa.

«So che non si usa andare a trovare un malato a mani vuote... Tutte le donne che ho incontrato nei corridoi portavano arance, uva, caramelle... Non mi vedo molto entrare qui con in mano una scatola di cioccolatini...».

Diventa meno brutta. La sua faccia resta banale, ma meno sgradevole adesso che non ci si aspetta più di trovarvi lo splendore della gioventù. Perché non sorride più spesso?

Il suo sguardo, seguendo quello del padre, si posa sul cortile, sui vecchi con l’uniforme grigioblu che sono tornati a sedersi sulle panchine o hanno ripreso la loro monotona passeggiata.

«È un po’ come nella nostra piccola clinica... Non c’è paragone, naturalmente... Da noi è tutto molto modesto e le sovvenzioni ci arrivano col contagocce...».

Anche lui osserva la scena con più attenzione delle altre volte.

«Cominci a capire perché il mio lavoro mi appassiona tanto?... Immagina che al posto di questi vecchi ci siano dei bambini che non hanno ancora avuto la fortuna di vivere...».

Ma naturalmente! Eppure lui continua a nutrire una certa diffidenza nei confronti delle persone che si sacrificano per il prossimo, uomini o donne che siano. Già a Fécamp provava un’istintiva ripugnanza per gli insegnanti dell’oratorio che ha frequentato una sola estate.

Non gli piacciono i predicatori, le dame di carità, tutti quelli che gravitano intorno alle opere pie. Li sospetta di avere un’alta stima di se stessi e di credersi migliori degli altri.

È così anche per Colette? A volte lo ha pensato. Era persino convinto che avesse scelto apposta di vivere in una squallida strada di periferia, per farlo vergognare di lei. Come se si dicesse:

«Potrei avere da mio padre tutto il denaro che voglio, circondarmi di ogni comfort, vestirmi nelle migliori sartorie, frequentare i suoi stessi ambienti, dove mi farebbero la corte perché sono sua figlia... Sono io che non voglio...».

Ha visto la pipa e il pacchetto di trinciato già aperto sul davanzale della finestra.

«Ti sei rimesso a fumare?».

«Ci ho provato...».

«Che effetto ti ha fatto?».

«Strano...».

«Hai cominciato gli esercizi di rieducazione?».

Queste cose lei le sa. Del resto si occupa di bambini anormali, e fra loro ci devono essere dei paralitici.

Tutto sommato, la visita non è andata male. Le parole non avevano un gran senso; Colette è rimasta più di un quarto d’ora e lui non saprebbe dire di che cosa hanno parlato. Si sono soprattutto guardati, senza nascondere una reciproca curiosità.

«Penso che non mi permettano di fermarmi a lungo... Tua moglie viene a trovarti tutti i giorni?...».

È per questo che si è girata più volte a guardare la porta? Temeva forse di trovarsi faccia a faccia con Lina, che non conosce? Maugras ha risposto con un’altra domanda:

«Come sta tua madre?».

«Bene, stando alle ultime notizie... Ho ricevuto una cartolina dal Libano, dov’era di passaggio con la sua compagnia... Fanno tutto il Medio Oriente e hanno molto successo...».

Non hanno affrontato, neanche alla lontana, le questioni essenziali. Alla fine Colette si è alzata.

«Tornerò la settimana prossima... Se non ti disturbo...».

«Al contrario...».

Non si sono abbracciati, né stretti la mano. L’ha seguita con lo sguardo mentre si dirigeva verso la porta. La signorina Blanche è tornata dentro, ma non per molto: qualche istante dopo qualcuno è venuto a chiamarla.

«C’è una signora che chiede di vederla...» è il giorno delle donne! «Hélène Portai... La faccio entrare?...».

Perché no? A questo punto, tanto vale abituarsi. Hélène entra, sorridente e bella: sì, perché, a quarantacinque anni, è più bella di quando ne aveva venti. Si sfila il guanto per stringergli la mano.

«Buongiorno, René...».

Al giornale lo chiama capo. Non sono più amanti da anni. Adesso è sposata con un avvocato più giovane di lei, di cui è follemente innamorata.

«La informo che ho chiesto il permesso di venire al professor Besson...».

Per anni hanno passato la maggior parte delle loro notti nella più stretta intimità fisica, e non si sono mai dati del tu.

La loro storia era cominciata nel 1936, quando lui dirigeva la pagina parigina del giornale di cui stava per diventare caporedattore e che, dopo la guerra, aveva cessato le pubblicazioni. Hélène Portal si era appena diplomata. Aveva un volto dall’espressione vivace, un corpo sempre in movimento, e si poteva affidarle qualunque intervista.

I colleghi maschi erano invidiosi di lei perché riusciva a farsi ricevere dai personaggi più riottosi, e l’accusavano di servirsi del suo fascino.

C’era voluto un bel po’ perché Maugras se ne innamorasse e smettesse di trattarla semplicemente come una collaboratrice e un’amica. Una sera che avevano cenato insieme dopo un lavoro massacrante al giornale, al momento di augurarle la buonanotte, aveva mormorato:

«Dobbiamo proprio lasciarci?».

«Dipende».

«Da cosa?».

«Da quello che ha in testa... Se è capace di non dare importanza alla cosa e di dimenticarsene domani, d’accordo... Altrimenti, ragazzo mio, è no...».

All’epoca lui occupava un appartamento in boulevard Bonne-Nouvelle, vicino alla porte Saint-Denis: era già il suo quarto domicilio a Parigi. Lei era uscita da lì alle otto del mattino.

Ci sarebbe tornata spesso senza che la cosa, come aveva stabilito fin dall’inizio, diventasse importante. Al giornale, in tipografia, nelle serate mondane in cui capitava che si incontrassero, i loro rapporti non erano cambiati.

La guerra li aveva avvicinati ancora di più perché erano sfollati insieme, con una parte del personale, prima a Clermont-Ferrand, poi a Lione. La vita era precaria e ci si aiutava a vicenda. Per mancanza di alloggi, avevano vissuto insieme per un certo tempo. Hélène è ebrea, e René era preoccupato per lei.

«Che cosa le impedisce di sposarmi?».

«Niente, René... Proprio niente... Ma se un giorno mi sposerò...».

Non ha finito la frase per non ferirlo. Lui ha tradotto:

«Non sono innamorata di lei...».

È vero. Lo conosce troppo bene. Dei personaggi più famosi o più prestigiosi Hélène scopre sempre il tallone d’Achille, ed è quello che fa di lei una giornalista temibile.

Come lo vede? Ha accettato di dividere il suo letto ma rifiutato di dividere la sua vita. Quando lui è salito di grado, lei ha preso il suo posto alla pagina parigina e, dopo la Liberazione, lo ha seguito al nuovo quotidiano che Maugras ha avuto l’incarico di fondare.

Qualche mese dopo, Hélène si era innamorata. Lo sapevano tutti, ma ignoravano di chi. Compreso lui, che la vedeva cambiare, diventare nervosa, aggressiva, scoppiare in lacrime all’improvviso.

Senza avvertire nessuno, aveva piantato tutto ed era sparita per un mese.

In seguito erano venuti a sapere che si era rifugiata in un paesino del Morbihan per dimenticare. L’uomo che amava aveva dieci anni meno di lei e nessuna intenzione di sposarla.

Ma dopo un po’ aveva cambiato idea: c’era stato un ricongiungimento, lei era riapparsa, trasfigurata, e il matrimonio era stato celebrato qualche settimana più tardi.

«Inutile dirle che il povero Colère è sperduto come un cane senza padrone... Sostiene che lei si rifiuta di vederlo e persino di sentirlo al telefono...».

Non si sta sforzando. Se parla con brio è perché ha un carattere allegro.

«Ho rischiato non poco venendo qui e cercando la strada in questo casermone in cui ci si perde e si fanno incontri allucinanti... Pazienza se mi caccerà via!

«Non le chiedo niente della sua salute perché mi ha già detto tutto Besson... In questo momento è l’uomo più richiesto di Parigi, perché tutti vogliono avere sue notizie, e lui è il grande dispensatore di notizie... Allora?».

Lo guarda negli occhi, come se volesse assicurarsi che nonostante tutto lui tiene duro.

«Il morale non è dei migliori, mi pare...».

«Non ho di che lamentarmi».

«Non è questione di lamentarsi o meno... Mi ha capito benissimo... E Lina?».

«Sabato sera è andata da Marie-Anne, ha preso freddo e si è messa a letto...».

Hélène sa tutto dei rapporti tra René e sua moglie.

«È venuta a trovarla?».

«Una volta...».

«Non le va di ricevere visite?».

«No».

«Neanche la mia?... Non faccia complimenti... Sono abbastanza grande per sopportare la verità...».

Una mezz’ora prima, seduta al suo posto c’era Colette, sgraziata, vestita alla meno peggio.

Hélène, invece, che si veste dai grandi sarti, è una delle donne più eleganti di Parigi. In particolare, è lei che, per una sorta di sfida, ha lanciato la moda degli impermeabili con l’interno di visone.

Lui la studia attentamente come prima ha fatto con sua figlia, come si è abituato a spiare tutti, ogni volta con la speranza di una scoperta.

Questo non la mette in imbarazzo.

«Fatto? Mi ha fotografata?... Bene! Adesso mi dica a che cosa pensa...».

Anche se volesse, avrebbe qualche difficoltà a rispondere. Hélène ha probabilmente occupato lo spazio più grande nella sua vita, e tuttavia, davanti a lei, si sente come un estraneo. Perché?

Tutto conta, sosteneva don Vinage, i nostri atti, le nostre parole, i nostri pensieri.

Come mai, allora, non resta più alcuna traccia della loro intimità, se non un certo tipo di amicizia, di complicità e nessun imbarazzo, nessuna vergogna? Davanti a lei, infatti, Maugras non si vergogna di essere invalido.

«Immagino che non desideri avere notizie del giornale, né del nostro amato signor Schneider... Si aspetti di vederselo spuntare davanti uno di questi giorni, perché sente terribilmente la sua mancanza e pensa che la sua assenza porterà il giornale alla catastrofe...».

Tralasciando le avventure passeggere, Maugras ha avuto tre donne nella sua vita. Delle tre, Hélène è la sola ad aver capito. Non precisa il concetto. Ci sono pensieri, come questo, che preferisce lasciare in sospeso.

Come per ciò che riguarda Lina, benché si tratti di un caso diverso. Avere Hélène Portai davanti a lui lo fa pensare a sua moglie e al George V.

«Tra poco mi rimetteranno a letto...» dice vedendo i vecchietti, nel cortile, dirigersi verso le varie porte come scolari alla fine della ricreazione.

Non vorrebbe che lei vedesse l’infermiere sollevarlo dalla poltrona e metterlo a letto. Si domanda se è felice. O se il suo equilibrio non sia artificioso e in realtà non abbia paura di invecchiare, con quel marito tanto più giovane di lei...

«Sono comunque contenta di esser venuta...».

«Perché "comunque"?».

«Non è facile stabilire un contatto... Ma non è un rimprovero... In bocca al lupo, ragazzo mio...».

Dice anche lei «ragazzo mio», come Besson. Lo ha sempre chiamato così nell’intimità, benché lui sia più vecchio, e di molto.

«Passerà, vedrà...».

Non le chiede cosa passerà, perché ha indovinato il suo pensiero. Dentro di sé sorride, deciso com’è a che non passi...

 

Nient’altro, quel giorno. Solo l’appunto che ha scritto con grande applicazione sull’agenda:

«Eppure sono vivi!».

Anche lui è vivo. Stanotte non ci sarà Joséfa accanto al suo letto, solo un campanello a portata di mano nel caso fosse colto da un attacco di panico. Perché a volte gli capita. Per due volte nella vita si è sentito in perfetta armonia con la natura. Per due volte si è quasi fuso in essa. Ne era pervaso. Ne faceva parte.

E tutt’e due le volte ha avuto paura!

La prima volta sulle rive della Loira, nello scenario più dolce e rassicurante che ci sia, la seconda in un Mediterraneo limpido e luminoso, da cartolina.

Sulla Loira, dove un uomo con un cappello di paglia in testa pescava con la lenza, era bastata una nuvola e una folata d’aria fresca. A Porquerolles, la sola vista della riva che sembrava allontanarsi gli aveva fatto venire un groppo alla gola e una gran voglia di fuggire.

È questo che Hélène ha capito a suo tempo?

«Arrivederci, ragazzo mio...».

I compagni, al liceo Guy-de-Maupassant, gli gridavano:

«Coglione!».

Ha cinquantaquattro anni e questa sera, addormentandosi, si domanderà se si diventa mai adulti.

  

11

 

Gli hanno fatto un prelievo di sangue e, contrariamente al solito, ha chiesto a che serviva. Ha voluto conoscere anche i valori della pressione, che Audoire definisce eccellente.

Sulla mezza pagina del mercoledì, solo due annotazioni, una sopra l’altra.

«Seno».

«Non sopporto Léon».

Per via di ciò che queste parole significano è depresso per tutto il giorno. In realtà, la seconda annotazione avrebbe dovuto venire per prima, essendo la causa, diretta o indiretta, dell’altra.

L’infermiere dalle braccia pelose gli è stato antipatico fin dal loro primo incontro, e l’essere maneggiato da lui come un oggetto inerte gli fa patire le pene dell’inferno. Adesso è ancora peggio. Non si era sbagliato a pensare che ce ne sarebbe stata ogni giorno una nuova. Hanno cominciato a fargli i massaggi, non solo alle gambe e alle braccia, ma a tutto il corpo, e il massaggiatore che gli è stato assegnato è proprio Léon.

Maugras è nudo sul letto, indifeso, mentre le mani ruvide lo manipolano e il sudore dell’infermiere gli dà la nausea.

Ma non trova insopportabile solo Léon, bensì tutti gli uomini che gli assomigliano, quelli che lui definisce i maschi trionfanti, che hanno sempre l’aria di brandire con orgoglio il proprio membro virile.

Non ha mai invidiato l’intelligenza degli altri, o la loro bravura; a suscitare la sua invidia sono i loro muscoli e la loro virilità.

Ecco la verità, e non gli fa piacere guardarla in faccia. Questa constatazione l’ha messo di cattivo umore, e si è vendicato. Non su Léon, ma sulla signorina Blanche che, secondo lui, lo ha in qualche modo lasciato in balìa di quell’uomo.

Dopo il massaggio, ci si sono messi in due per sistemarlo sulla sedia a rotelle. La mano sinistra di Maugras si è trovata vicinissima al seno dell’infermiera in un momento in cui Léon non poteva vederla.

Allora, cinicamente, con cattiveria, ha afferrato il seno della signorina Blanche e lo ha strizzato più forte che ha potuto.

Lei non ha fatto una piega. Per almeno un’ora lui non ha osato guardarla. Anche quando sono rimasti soli, la signorina Blanche non ha fatto alcuna allusione al suo gesto, mentre lui non osa neppure chiederle scusa, tanto si sente ridicolo e odioso.

Specie perché nuovi indizi gli confermano quanto aveva già intuito, e cioè che è innamorata del dottore dagli occhiali spessi, che si chiama Gaston Gobet.

Nell’agenda potrebbe aggiungere: «Brutta giornata».

Ma bastano le altre due annotazioni. I suoi pensieri cominciano a perdere quei contorni sfumati, misteriosi che avevano acquisito all’ospedale.

Anche se quel mistero era a volte angoscioso, lui lo rimpiange. Si sente smarrito. Sradicato. Sospeso tra due esistenze.

Lina non ha telefonato. Non ha sue notizie, perché Besson non è venuto e lui non si aspetta più di vederlo ogni giorno.

La pagina del giorno seguente, giovedì, ha rischiato di restare vuota, tanto la giornata è stata neutra. Cielo coperto, tempo mite e uggioso. Alla fine ha scritto, senza convinzione: «Panchine».

Si domanda se riuscirà a raccapezzarvisi, più avanti, quando e se sfoglierà quell’agenda come un album di fotografie... Normalmente non guarda mai le sue vecchie fotografie, soprattutto quelle da dilettanti in cui ci si rivede in compagnia di gente che si è persa di vista, con la quale ci si tiene confidenzialmente per la vita, o con un braccio intorno alle spalle, in riva al mare, in campagna, o in chissà quale altro scenario dimenticato.

«Panchine» dovrebbe fargli ricordare una riflessione alla quale si è abbandonato per un bel po’, seduto davanti alla finestra.

Adesso comincia a distinguere i vecchietti gli uni dagli altri anche da lontano. All’inizio, per via della distanza, erano tutti uguali, come formiche.

Ad aiutarlo sono le barbe, i baffi, il diverso grado di invalidità, l’andatura. Ci sono quelli che stanno sempre soli e quelli che vanno in coppia, quelli che si riuniscono in piccoli gruppi, quelli che continuano a camminare e quelli che restano seduti.

L’appunto riguarda questi ultimi. Ha notato che stanno immobili, indifferenti, come certi pesci che gli è capitato di vedere nell’acqua chiara del Mediterraneo. E proprio come succede con i pesci, non appena si avvicina un altro vecchio, si produce una sorta di fremito: diventano inquieti, pronti a difendere il loro spazio vitale. Solo quando l’intruso se n’è andato, l’uomo seduto sulla panchina, che lo segue con gli occhi, si sente rassicurato e riprende pian piano a fantasticare in solitudine.

Tutto questo avrà ancora un senso fra qualche mese, qualche settimana, o addirittura fra qualche giorno? Sempre alla data di giovedì, ha aggiunto le parole: «Corridoi, no».

Si tratta, ancora una volta, di un fatto insignificante. Appena sistemato nella sua sedia a rotelle, verso le undici, poiché Audoire era passato dopo il massaggio e si era trattenuto un bel po’, la signorina Blanche gli ha proposto:

«Non vuole fare un giro fuori dalla camera?».

Il corridoio e la corsia li conosce solo dai rumori e dalle ombre che passano davanti alla porta. Ha guardato l’infermiera con una sorta di terrore, come se la sospettasse di volerlo spingere verso nuovi pericoli, e dalle sue labbra è scaturita una protesta.

«No!».

Poi ha soggiunto, confuso:

«Non ancora...».

Perché intuisce che non gli perdoneranno più i suoi sbalzi d’umore. Ormai si aspettano che si comporti decentemente, da persona normale. Come spiegare loro che non è ancora arrivato il momento, che ha bisogno di abituarsi, di rassegnarsi? Potrebbero mai seguirlo nei meandri della sua mente?

Al di là della porta c’è un gruppo, come c’è un altro gruppo in cortile. Lui li osserva entrambi da lontano, al riparo di uno schermo protettivo, senza farne parte. Ma cosa succederà il giorno in cui lo porteranno in giro nel corridoio e lui vedrà la corsia con i propri occhi?

Quello di appartenere a una comunità non è forse un bisogno insito nell’uomo? Se suo padre aveva preso l’abitudine di andare al caffè ogni giorno alla stessa ora, non era tanto per bere quanto per avere il suo posto in mezzo agli altri. Lo aspettavano per cominciare la partita. Gli portavano il bicchiere di vino prima che lui lo ordinasse. Se guardava l’orologio, sopra il banco, qualcuno gli diceva:

«Tuo figlio può ben aspettare dieci minuti...».

È vero a tutti i livelli. Anche al Grand Véfour loro costituiscono un gruppo. Chissà, forse non è per vanità, per brama di onorificenze e di medaglie che un Besson presiede tanti comitati, che un Marelle e un Couffé sono entrati all’Académie e assegnano premi letterari.

Cumulano cariche, frequentano diversi ambienti, e questo dà loro l’illusione di possedere una personalità multipla.

Anche lui fa parte di diversi gruppi. Tutte le sere Lina corre in cerca del suo piccolo mondo personale e la domenica lo trova da Marie-Anne.

Di lei non ha notizie. È in dubbio se chiedere o no alla signorina Blanche di telefonare alla Résidence George V, e se alla fine decide di lasciar perdere non è né per orgoglio né per indifferenza.

Almeno un paio di volte l’infermiera gli tiene un fiammifero acceso sopra la pipa, che comincia ad avere un sapore più buono e che lui riesce a fumare quasi fino in fondo.

Se continua così, ci saranno molte pagine bianche nell’agenda. Le giornate diventano più corte nella misura in cui gliele riempiono di più. Adesso lo lasciano in piedi vicino al letto per diversi minuti. Ci ha preso gusto e ha imparato a farsi la barba con la mano sinistra. Ci mette parecchio, e si è fatto un taglietto sopra il labbro.

Venerdì mattina, una visita. Avrebbe dovuto aspettarselo perché Hélène Portai gliel’aveva annunciata. Dalla finestra ha visto una Rolls spuntare fuori dall’ingresso a volta e attraversare maestosamente il cortile.

Si è fermata sotto la sua finestra, in un punto in cui la potrebbe vedere solo sporgendosi. Ma, oltre al fatto che lui non è ancora in grado di sporgersi, la finestra è chiusa perché è tornato il freddo e sembra che debba nevicare.

La caposala in persona fa entrare François Schneider, impeccabile, rasato di fresco. È un uomo asciutto, vigoroso malgrado i sessantacinque anni, e i capelli cominciano appena a ingrigire.

Nella sua residenza privata di avenue Foch ha allestito per uso personale un vero e proprio salone di parrucchiere, nonché una specie di palestra dotata di tutti gli attrezzi. Ogni mattina riceve il barbiere, la manicure, il maestro di yoga. Ha il passo sciolto e armonioso di un atleta o di un ballerino.

«E così, ha deciso di disinteressarsi del giornale... Non abbia paura... Non insisterò perché se ne occupi da qui...».

Anche lui frequenta diversi ambienti: la Borsa, l’ippodromo, i salotti mondani e i consigli d’amministrazione, ma l’unico gruppo che veramente gli interessi, il Jockey Club, non lo ha ancora ammesso fra i soci.

La moglie, che è sua coetanea, è una donna enorme che ostenta la sua ciccia come una sfida. Non lo segue da nessuna parte, se ne infischia che lui abbia delle amanti e che le copra di gioielli, benché il grosso del patrimonio venga da lei.

Mangia: mangiare è diventata la sua unica passione. Si rimpinza, soprattutto di dolci, passa il tempo distesa su una sdraio o a giocare a canasta con amiche golose come lei, e non fa neanche cento metri a piedi in tutto il giorno.

Non è che questo significhi qualcosa. Del resto, lui non cerca più il senso delle cose. Le registra. O le tira fuori dal fondo della memoria, ci gioca un momento e le ributta via.

Perché è venuto François Schneider? È terribilmente fuori posto, lì. In netto contrasto con gli invalidi del cortile e i malati delle corsie.

Eppure si ammalerà anche lui un giorno, anche lui sarà moribondo, collegato con un tubo al flacone di glucosio o sotto una tenda a ossigeno.

Ha voluto vederlo di persona, forse per perorare la causa di Colère, spaventato dalle nuove responsabilità che gli sono capitate tra capo e collo.

Conoscendolo, Maugras è convinto che si sia fatto ricevere da Audoire e gli abbia posto delle domande precise.

Uscendo, lascia nella camera un leggero profumo. Alla signorina Blanche quell’uomo non piace. Non ha bisogno di parlare perché Maugras lo capisca, e questo gli fa piacere. In fondo, non deve neanche apprezzare granché gli uomini del genere di Léon...

Lo hanno rimesso a letto, ed è quasi ora di pranzo quando gli portano una lettera priva di francobollo su carta intestata del George V. Riconosce la scrittura di Lina. L’ha recapitata Victor, l’autista, che non ha neanche chiesto di vederlo e se n’è andato subito.

«René,...».

Non scrive: «Caro René», e Maugras lo apprezza. Il semplice «René» è più diretto, più intimo. «Caro» lo si scrive a chiunque.

«Non so più cosa mi succede. Non sono mai stata così infelice. Ho bisogno di te. Te ne supplico, fatti vivo!

«Ti amo, René.

Lina».

 

 

Mentre lui rilegge più volte il biglietto, la signorina Blanche, per discrezione, guarda da un’altra parte. La scrittura è tremolante, il che significa che Lina non aveva bevuto; in questi casi non è in grado di dominare il tremito delle mani.

È ancora a letto? Ma è lui che ha rischiato di morire, ed è stato così male che può senz’altro dire, senza esagerare, che si è trattato di una svolta capitale nella sua vita. Ciò nonostante, benché non sia affatto guarito, è lei che chiede aiuto!

Tipico di Lina. Non si è mai interessata d’altro che di sé. Ha bisogno che ci si occupi di lei, come del resto fa lei stessa dalla mattina alla sera, e i problemi non le mancano dato che li inventa di sana pianta.

La vita le fa paura. La solitudine le fa paura. Ma anche la folla le fa paura, le persone che non conosce e quelle che conosce troppo. E poiché ha paura, anche davanti a una Marie-Anne, beve e parla, parla, cerca di convincersi che esiste e che ha anche lei, malgrado tutto, un briciolo d’importanza.

«Le porto il pranzo?».

Perché no? Non è certo nella condizione di correre al George V!

«Tra poco le chiederò la cortesia di telefonare a mia moglie per dirle che ho ricevuto il suo biglietto e che può venire quando vuole...».

La signorina Blanche sente che ci sono complicazioni in vista, ma non lo fa capire.

Tuttavia, quando un po’ più tardi lo imbocca con il cucchiaio, non può fare a meno di interrogarlo.

«È tanto che siete sposati?».

Gliel’ha già detto. Lo ha dimenticato o è lui che si sbaglia?

«Otto anni il mese prossimo...».

Se osasse spingersi più in là, la sua domanda suonerebbe probabilmente:

«E lei era già così?».

«Più o meno».

A parte il fatto che non beveva ancora.

«Dove l’ha incontrata?».

«In un corridoio della televisione, in rue Cognacq-Jay...».

Proprio così. Quella mattina, in televisione, c’era stata la registrazione di una tavola rotonda alla quale lui partecipava come rappresentante della grande stampa. Uscendo dallo studio, si era fermato in corridoio con uno dei suoi ex collaboratori. Davanti alla porta di uno studio adiacente una trentina di ragazze, tutte pressappoco della stessa età, facevano la fila.

«Che cosa aspettano?».

«C’è bisogno di un paio di comparse per uno sceneggiato, e quelle sono le candidate...».

Avevano ripreso a chiacchierare, sempre lì, in piedi, e alla fine Maugras si era reso conto che stava guardando solo una delle ragazze, la penultima della fila.

Che cosa, in lei, aveva attratto la sua attenzione? Il suo aspetto triste o addirittura tragico? Il lungo viso pallido che sembrava ancora più lungo per via dei capelli spioventi sulle guance e che le scendevano in disordine sulle spalle?

Indossava un cappotto spiegazzato, i tacchi delle scarpe erano consumati e lungo una calza correva una smagliatura.

Aveva un’aria misera e patetica. Fissava con tanta intensità la porta al di là della quale si sarebbe deciso il suo destino che veniva voglia di rassicurarla.

«Le conosci?».

«Qualcuna, quelle che vengono sempre... Ce ne sono che si presentano automaticamente non appena sentono dire che c’è in programma uno sceneggiato...».

«La penultima?...».

«Quella con i capelli grassi?... Mai vista... Dev’essere la prima volta che viene qui...».

Forse aveva intuito che parlavano di lei... Oppure aveva capito di aver toccato una corda sensibile in uno dei due uomini che si muovevano lì con la stessa disinvoltura che a casa propria... Fatto sta che il suo sguardo aveva indugiato su Maugras, implorante e rassegnato insieme.

Per due, tre volte lui aveva girato la testa dall’altra parte, per poi tornare a fissarla di nuovo.

«Sembra una arrivata al capolinea...».

«Alcune svengono perché non mangiano da ventiquattr’ore...».

«Credi che abbia qualche possibilità?».

«Ne dubito... Si tratta di un dramma in costume e non me la vedo alla corte di Luigi XVI...».

Bodin era alquanto stupito dell’interesse che il suo ex capo mostrava per la ragazza in coda, così che Maugras stava per andarsene senza occuparsi più di lei. Ma qualcuno aveva richiamato Bodin nello studio dal quale erano appena usciti i due e si sono salutati.

«Alla prossima...».

Rimasto solo, Maugras aveva esitato un momento. Adesso erano in diverse a guardarlo con aria speranzosa, pensando che fosse un pezzo grosso della televisione. Perché una di loro era scoppiata a ridere? Anche quella risata aveva rischiato di cambiare il destino di Lina.

Lui però, vincendo l’imbarazzo, si era accostato alla ragazza e aveva detto sottovoce:

«Vuole seguirmi, signorina?».

«Io?».

Hanno camminato insieme fino in fondo al corridoio, girato a sinistra, poi ancora a sinistra. Non sapeva dove portarla. Era convinto di obbedire solo alla curiosità o alla pietà. Cercando un ufficio vuoto, aveva aperto invano due o tre porte.

«Usciamo da qui...».

Lei lo seguiva come una sonnambula. Fuori, Léonard si era affrettato ad aprire la portiera dell’auto.

«Non subito... Resta qui e aspettami...».

E aveva fatto entrare la ragazza nel caffè più vicino.

«Che cosa prende?».

«Un café crème...».

Lui aveva ordinato mentre lei continuava a guardarlo con la stessa intensità.

«Lei non è della televisione, vero?».

«Esatto».

«È direttore di un giornale... L’ho già vista in fotografia... Perché mi ha portata via?...».

«Mi hanno detto che non c’era alcuna probabilità che la prendessero...».

«Cosa vuole da me?». Era diffidente, aggressiva.

«Far due chiacchiere...».

«Tutto qui?».

«Forse potrei trovarle qualcosa come comparsa, o magari una particina...».

«Non lo pensa veramente...».

«Forse potrei trovarle un posto al giornale...».

«Non so fare niente... Né stenografare, né dattilografare, sono disordinata e sbaglio l’ortografia...».

Fissava il cestino dei croissant sul tavolo.

«Posso?...».

«Prego, si serva pure...».

«Si vede così tanto che ho fame?... Mi ha portata qui perché l’ha capito?... Fa molto romanzo popolare, lo so, ma è da ieri che non mangio...».

«Dove abita?».

«Da stamattina sono in mezzo alla strada...».

«I suoi genitori?».

«Non li ho più... Ho solo una zia, che mi ha allevata...».

«A Parigi?».

«No, a Lione...».

«E non si occupa più di lei?».

«Sono scappata...».

«Quando?».

«Il mese scorso...».

«Non vuole ritornare a Lione?».

«Punto primo, la zia non mi riprenderebbe mai perché le ho portato via tutto il denaro che sono riuscita a trovare... Non è una grossa somma... Tant’è che non ho più un soldo... Punto secondo, voglio vivere a Parigi...».

«Perché?».

Aveva alzato le spalle, allungando la mano verso un secondo croissant.

«E lei, perché ci sta, a Parigi?... Ci è forse nato?...».

Aveva mangiato otto croissant, e alla fine faceva fatica a mandar giù gli ultimi bocconi. Aveva seguito con lo sguardo le mani di lui mentre tirava fuori di tasca il portafoglio e vi prendeva delle banconote.

«Le sue cose sono rimaste all’albergo?».

«Per forza. Me le ridaranno solo quando pagherò quello che gli devo...».

«Questo basterà?».

«È anche troppo. Mi vuol dare tutti questi soldi?».

«Sì».

«Perché?».

Non sapeva cosa rispondere a quelle domande così dirette e, dei due, il più a disagio era lui.

«Per niente... Perché riprenda fiducia... Venga a trovarmi domani al giornale...».

«Ma mi lasceranno passare?».

Era abituata a fare anticamera e a vedersela con la boria degli uscieri. Lui le aveva dato un biglietto con qualche parola scritta di suo pugno.

«Preferibilmente dopo le quattro».

«Grazie...».

Lei era rimasta ferma sul marciapiede a guardarlo salire in macchina e non si era mossa finché l’auto non aveva svoltato l’angolo della strada.

Era cominciata così.

 

L’infermiera fa la spola tra la camera e il telefono del corridoio.

«Sua moglie chiede a che ora è meglio che venga, per lei...».

Preferisce riceverla seduto in poltrona. L’ultima volta stava con la testa in giù.

«Fra le tre e le quattro...».

Il suo rifiuto di farsi mettere un telefono in camera non sarà visto dalla signorina Blanche come qualcosa di egoistico e di assurdo? Ma ci arriverà. Finirà col cedere. Già prevede il momento in cui farà tutto quello che vogliono loro, e resiste solo per principio.

E anche per guadagnare un po’ di tempo. Non si sente pronto, combattuto com’è tra passato, presente e futuro. Non può nemmeno più ricorrere all’espediente del dormiveglia. Durante l’ora della siesta, infatti, resta terribilmente vigile, con gli occhi al soffitto, mentre l’infermiera gira ogni tanto le pagine del libro che sta leggendo.

Lina sta per arrivare e lui non ha idea di che cosa le dirà, non sa che contegno terrà con lei. La ama, questo è certo. L’ha probabilmente amata, senza saperlo, fin dal primo giorno.

Tant’è vero che all’indomani del loro incontro in rue Cognacq-Jay, mentre nel suo ufficio si domandava se sarebbe venuta o no, si era sentito smarrito, con i nervi a pezzi, come non gli era mai capitato.

Si dava dello stupido per non aver preso il suo indirizzo, la immaginava sperduta nella città, era a tal punto impaziente che aveva messo tutti alla porta ed era andato su e giù per l’ufficio fumando una sigaretta dopo l’altra.

Lei era arrivata, e quando l’aveva vista seduta davanti a lui, non sapeva più cosa dirle. Alla fine le aveva fatto delle domande maldestre, tra l’altro sui suoi genitori, e lei gli aveva detto che erano morti tutti e due in un incidente ferroviario, vicino ad Avignone, quando lei era piccola.

Si sentiva ancora irrequieto, smanioso come poco prima? L’aveva portata nell’ufficio a vetri dove vengono smistate le risposte agli annunci economici. Era l’unico posto in cui poteva darle un lavoro.

Lì dentro parecchie ragazze facevano lo spoglio delle lettere recapitate più volte al giorno da un camioncino delle Poste, e le classificavano in base ai numeri scritti sulle buste. A quell’epoca a dirigere le ragazze in camice grigio c’era una virago che assomigliava alla caposala.

«Quando devo cominciare?».

«Anche domattina, se vuole...».

Deluso? Non deluso? Il giorno seguente si era limitato a telefonare alla virago per assicurarsi che Lina avesse preso servizio. Credeva di non pensarci più. Poi, tre giorni dopo, tre giorni di profondo conflitto interiore, era sceso all’ora in cui lei smetteva di lavorare.

«L’accompagno...» aveva detto, mentre lei si apprestava a uscire.

Sapeva benissimo che le altre si scambiavano delle occhiate, ma non gli importava di quello che potevano pensare. L’aveva portata a pranzo in un ristorante del Quartiere Latino dove nessuno lo conosceva e le aveva fatto altre domande, come se fosse un bisogno, per lui, scoprire tutto della sua vita.

Che cosa lo ha attratto tanto in lei? Dopo otto anni non trova ancora una spiegazione soddisfacente. O meglio: ne trova troppe, e sono contraddittorie.

Anche lei gli aveva rivolto delle domande, precise, indiscrete.

«Deve avere un bell’appartamento, vero?».

«Per il momento, no. Abito ancora in una vecchia casa di boulevard Bonne-Nouvelle in attesa che mi sistemino un appartamento in una palazzina d’epoca di rue de la Faisanderie...».

«È un quartiere chic?».

«Così dicono...».

«È sposato? Divorziato?».

«Divorziato».

«Vive con un’amante?».

«No».

«Va a letto con le sue segretarie?».

Aveva detto di no. Per la verità, era sì e no. Con alcune sì, di sfuggita. Se aveva tenuto così a lungo quel suo appartamento della porte Saint-Denis, dove non riceveva nessuno, era un po’ perché esitava a dare un taglio definitivo al suo passato.

Non per un fatto sentimentale. Per scaramanzia, piuttosto. Quelle finestre gli consentivano la vista su un mondo plebeo, su un brulichio umano rumoroso e volgare.

La sua posizione lo obbligava a una certa vita mondana, e due mesi dopo, terminati i lavori, aveva traslocato.

«Viene da una famiglia povera?».

«Mio padre era un impiegato...».

Lei seguiva con aria grave un suo pensiero, come se sapesse dove voleva andare a parare.

«Mi desidera, vero?... Perché non lo ammette?... Se non fosse così, non mi avrebbe aspettata all’uscita... Dove andiamo?...».

Non era come le altre. Ma lui stesso era proprio come gli altri? E del resto ciascuno di noi non si considera forse diverso dagli altri, e in realtà non lo è?

L’aveva portata a casa sua e, per prima cosa, Lina gli aveva chiesto il permesso di fare un bagno. A notte fonda, lei da una parte, nuda sul letto sfatto, e lui dall’altra, in pigiama, seduto in poltrona, continuavano ancora a parlare.

«Avevo dodici anni quando mio zio ha cominciato a toccarmi costringendomi a fare lo stesso con lui... A tredici anni e mezzo mi ha presa con la forza e mi ha fatto molto male... Mi avevano accolta in casa loro per pietà, non potevo oppormi...

«Mia zia l’ha scoperto, perché ha l’abitudine di guardare dal buco della serratura... È una donna cattiva... Mi ha fatto fare una vita d’inferno... E anche a lui...

«Mio zio, comunque, trovava il modo di stare ogni tanto con me... Non poteva farne a meno e certe volte, a tavola, quando mi guardava, si metteva a tremare...

«Sono sicura che è stata lei a mandarlo al Creatore avvelenandolo a poco a poco, perché prima non è mai stato ammalato...».

«Quando è morto?».

«Un anno fa... Da allora la zia non mi ha più lasciato uscire, e quando andava a fare la spesa mi chiudeva dentro a chiave...».

Una settimana più tardi lui aveva ricevuto il rapporto del suo corrispondente a Lione. Lina aveva dovuto mostrare al capo del personale la carta d’identità per l’iscrizione alla previdenza sociale. Il suo indirizzo a Lione era rue Voiron, in fondo al quartiere della Guillotière, una zona popolare come rue des Dames o porte Saint-Denis.

Il cognome era Delaine e, all’indirizzo indicato, viveva effettivamente una signora Delaine che lavorava come cassiera in un cinema di avenue Gambetta.

Non era la zia di Lina, ma la madre, e la ragazza aveva vissuto con lei fino a quando se n’era andata, il mese precedente. La donna era vedova di un capo-montatore che, dieci anni prima, era rimasto schiacciato sotto una gru. A Lione, Lina lavorava in un cartonificio.

Non esistevano né una zia, né uno zio. Solo una ragazzina, che dall’età di dodici anni gironzolava per le strade con i ragazzi.

«Perché ha inventato quella storia?».

«Perché lei si interessasse a me... Nessuno si è mai interessato a me, a parte mia madre, che mi riempiva di botte quando rientravo troppo tardi... Non conto niente... È come se non esistessi... Adesso mi butterà fuori, vero?... È colpa mia... Non avrei dovuto nascere...».

Era realmente infelice, anche quando recitava una parte. Adesso, dopo otto anni di vita in comune, cerca ancora sicurezza. È come se tra lei e gli altri ci fosse un abisso e lei, incapace di superarlo, sprofondasse in se stessa.

Ha tentato di proteggerla? Si è sentito responsabile nei suoi confronti? È stato attratto dalla sua stranezza in parte artificiosa? Non lo sa più. Lina sta per arrivare e lui non è preparato a prendere una nuova decisione.

Nella sua scelta iniziale ha probabilmente contato il fatto che lei gli doveva tutto... È andata così anche con Marcelle, che lui aveva tirato fuori da una portineria, seppur solo per trasferirla in una camera ammobiliata di rue des Dames.

È inutile rompersi la testa. Nessuna risposta lo soddisfa. Né per ciò che lo riguarda, né per ciò che riguarda Lina. Lei gli mente, poi chiede perdono. Passa la vita a torturarsi, senza rendersi conto che contemporaneamente tortura anche lui.

Si sente fuori luogo dappertutto e pensa che tutti la giudichino male. Perché riconduce ogni cosa a se stessa, anche frasi di una conversazione banale che non la riguardano e in cui vede un attacco personale...

Subito, fin dalla prima settimana, aveva litigato con la donna che dirigeva lo spoglio della posta. Allora, rinunciando a trovarle un altro posto, lui l’aveva sistemata in boulevard Bonne-Nouvelle, dove Lina aveva giocato a fare la donna di casa.

Si era messa in testa di cucinare, di preparargli ogni giorno una sorpresa, e lui la ritrovava in lacrime perché aveva lasciato bruciare lo spezzatino...

«Per una volta che qualcuno cerca di capirmi, io gli do solo dei dispiaceri...».

«Ma no, Lina... Ascolta...».

«Ecco, mi parli ancora come a una bambina...».

Non riusciva a fare a meno di lei, ma al tempo stesso non sapeva cosa fare di lei. Ha cercato di interessarla a qualcosa, di ottenere che leggesse, per esempio, ma i libri l’annoiavano subito, o la gettavano nella disperazione perché vi trovava delle analogie con la sua situazione. Una sera le ha persino insegnato a giocare a carte!

«Che cosa facevi dopo il lavoro, quando non mi avevi ancora raccattata per strada?».

«Sai bene che non ti ho raccattata per strada...».

«Be’, siamo lì... Se non volevo dormire all’aperto, sarei comunque dovuta andare con il primo venuto... Che cosa facevi, prima di me?...».

«Uscivo...».

«Perché non esci più?».

«Per restare con te...».

Era vero. Aveva bisogno della sua presenza.

«Che cosa ti impedisce di uscire con me?... Ti vergogni?...».

Si era ripromesso di pensarci a lungo, di scavare in profondità, ed è già troppo tardi. Avrebbe dovuto farlo quando era ancora confinato nel suo letto, prima di rivedere il mondo dalla finestra.

Il dramma dei loro otto anni sta forse nel fatto che Lina ha bisogno che ci si occupi di lei e lui ha lo stesso bisogno nei confronti di se stesso. Ha creduto di farne un animale domestico, obbediente al suono della sua voce, e in realtà ha legato la propria vita a un essere che agisce solo di testa sua.

Lei vorrebbe vederlo felice. E lui sa che è sincera. È convinto che lei lo ami e che sarebbe disposta a morire per lui.

Morire, ma non vivere!

Ha paura di essere una palla al piede per lui, ne soffre e, torturandosi, lo tortura.

Dieci, cento volte, ha pensato che Lina è un mostro di egoismo. Poi, tenendola singhiozzante fra le braccia, si è odiato per quel pensiero.

Lui dev’essere al giornale alle otto e mezzo, la mente fresca, padrone di sé, pronto a prendere decisioni impegnative. E quante volte è andato a letto solo alle tre o alle quattro del mattino, dopo una scenata logorante in cui lei minacciava di uccidersi e alla fine anche lui voleva morire...

Un po’ alla volta l’ha presentata agli amici. Si è gettata al collo di alcuni, che poi non ha più voluto vedere. Con altri, al contrario, si è mostrata sin dall’inizio, senza ragione, diffidente e aggressiva. Il suo atteggiamento ha creato situazioni imbarazzanti, dissapori.

«Mi accettano solo perché sono la tua amante, e alle nostre spalle si chiedono come tu abbia potuto accollarti una poco di buono come me... Ma sì! Sono una poco di buono... Lo hai detto anche tu, la sera in cui mi hai schiaffeggiato per strada dopo il teatro...».

Sì, le aveva urlato di tutto, esasperato, salvo chiederle perdono qualche ora più tardi. Questo non gli ha impedito di sposarla, appena aveva traslocato in rue de la Faisanderie.

Contava di educarla, di farne una brava padrona di casa, di iniziarla alla vita parigina... Le ha insegnato a vestirsi, a compilare un menu e, se avevano ospiti, ad assegnare i posti a tavola in modo adeguato...

«Cosa vuoi che faccia se mi lasci sola tutto il giorno...».

«Ma, tesoro, devo lavorare, e non posso certo...».

«Lo so, lo so... Tu esisti... Dai ordini... Ti ascoltano... Fai un lavoro interessante... Tutti ti conoscono e ti rispettano... Mentre i tuoi amici che vengono qui mi guardano come una bestia rara...».

È andata avanti così finché non ha scoperto la combriccola di Marie-Anne, e lì si è sentita al suo posto perché tutto vi è permesso e non esistono regole.

Rientrando alla sera gli capitava spesso di non trovarla a casa.

«La signora mi ha incaricato di dire al signore che cenerà fuori...».

«Sa da chi è andata?».

«Si è fatta accompagnare agli Champs-Elysées...».

Ci hanno provato, tutti e due, perché bisogna ammettere che, da parte sua, Lina ci ha provato. Ma è più forte di lei, è come una droga. Non può resistere all’atmosfera confidenziale dei bar alla moda, dove l’accolgono con un:

«Ah! Ecco Lina...».

Eppure lo sa che questo non la porta da nessuna parte, che si sta perdendo, che l’alcol la distrugge.

«Faremmo meglio a divorziare, René... Recupererai la tua libertà e non dovrai più occuparti di una pazza... Credi che io sia veramente pazza?... Io me lo chiedo... Il tuo amico Besson ne è convinto...

«Quando sono caduta in depressione e mi ha prescritto la cura del sonno, voleva che andassi a passare sei mesi in una clinica svizzera dove curano la gente come me...

«In fondo, sarebbe meglio che io fossi completamente pazza... Ci arriverò... E spero di arrivarci presto, così tu sarai libero... Ma ti amo, René... Ti giuro che ti amo e che non ho mai amato altri che te...».

Mentre evoca quelle scenate incoerenti, ha davanti agli occhi il profilo dolce e sereno della signorina Blanche, immersa nella lettura.

È l’ora. Entra Léon. Lo sollevano, lo mettono in piedi. L’infermiera gli propone di mettergli un pigiama pulito, come se dovesse farsi bello per Lina, e, benché la cosa gli sembri assurda, accetta.

Eccolo nella sua poltrona, che viene spinta davanti alla finestra, ed ecco che ritrova i suoi vecchi che il grigiore del cielo rende malinconici e più lenti.

«È preoccupato?».

«No».

«Cerchi di non innervosirsi. La sua vita privata non mi riguarda, ma nella sua situazione il morale ha un’importanza enorme...».

La rassicura con un sorriso. Non ci saranno litigi. Con Lina sarà molto gentile, molto affettuoso.

Non è forse quello che lei continua a ripetergli: che ha bisogno di affetto? Le ha dato tutto il resto, il suo nome, e vestiti, pellicce, gioielli, amici. Le ha dato l’amore di cui è capace. E indulgenza. Pietà, anche, ed è una cosa che la fa infuriare.

Che cosa intende, Lina, per affetto? Lui guarda tutti con affetto, e lei più di chiunque altro, poiché ai suoi occhi rappresenta un compendio di tutte le debolezze.

Gli capita di prenderla per le spalle e di guardarla con commossa curiosità. Si direbbe allora che lei aspetti. Ma che cosa aspetta? Se sono parole, lui non ne trova.

Lui stesso avrebbe bisogno, ogni tanto, che qualcuno...

Non deve farsi venire pensieri amari. Dev’essere rilassato, quando arriva. Vede la Bentley che attraversa il cortile, distingue i baffetti di Léonard.

Lei sale. Ben presto sente i suoi passi, e prova una stretta al cuore come quando l’aspettava per la prima volta nel suo ufficio e pensava che non sarebbe venuta e che lui non aveva modo di ritrovarla.

Quando bussa, la signorina Blanche ha già la mano sul pomolo della porta.

«Ah, sei seduto...».

Questo la sconcerta. Le brillano gli occhi. Da quando ha scritto quel biglietto, ha avuto il tempo di bere. È tesa, ha i nervi a fior di pelle, non riesce a stare ferma, non sa dove guardare, né a cosa aggrapparsi.

«Scusami se ti ho importunato... Come stai?... Dunque accetti ancora di vedermi?...».

«Siediti...».

«Posso fumare?».

Fuma così nervosamente che sembra mordere la sigaretta.

«Lascia che ti guardi... Sei calmo... Non sembra che tu ce l’abbia con me...».

Cerca di dominarsi, ma lui capisce che sta per piangere. Piange, infatti, con il viso sul bracciolo della poltrona e le spalle magre scosse dai singhiozzi.

«Ho tanto bisogno di te, René!... Ed ero sicura che non volessi più vedermi... È così stupido!... Non so neanche come sia successo... Abbiamo bevuto molto, come sempre da Marie-Anne, e io mi sono innervosita perché avevo l’impressione che si prendessero gioco di me...».

La guarda come affascinato. Non è curioso di sapere cosa sia accaduto al castello di Candines, né perché lei provi vergogna. La guarda e pensa che lei e lui... È difficile da mettere a fuoco... Hanno, tutti e due, cercato il loro posto, confusamente... Lui ha trovato il suo, almeno così sembra... Tutti ne sono convinti...

«Allora mi sono spogliata, perché Jean-Luc mi sfidava a farlo... Poi...».

Lui alza la mano sinistra, la posa sulla testa di sua moglie, sui suoi capelli lisci che non sono più grassi.

«Sss...».

«No! Ho bisogno che tu sappia... Jean-Luc mi ha portata sulle spalle e gli altri sono venuti dietro con dei candelabri...».

«Ma sì... Lo so... Sss!... Non pensarci più...».

Lei piange, piange come se non dovesse più fermarsi, e lui, tenendole la mano sulla testa, fissa dritto davanti a sé il muro scrostato.

 

12

 

Le pagine bianche sono sempre di più. C’è da credere che questo nuovo periodo cominci ad assomigliare alla sua vita di prima perché è fatto di giorni senza importanza, senza sapore, senza odore.

Tuttavia, traccia una crocetta rossa vicino a ogni data, e su quasi tutte le mezze pagine c’è una lettera in nero: «L».

Significa Lina. È definitivo? È solo un tentativo? Lei arriva alle tre in punto del pomeriggio e si siede accanto a lui, di traverso, così da vederlo in faccia.

«Non mi lamento, René... È tutta colpa mia... Ti faccio solo una domanda: a parte i primi tempi, quando mi interrogavi sulla mia vita, hai mai veramente parlato con me?... Sono stupida, è vero, non ho studiato...».

Tutti e due fanno uno sforzo. Ci sono ancora lunghi silenzi, durante i quali lei schiaccia la sigaretta nel portacenere per accenderne subito un’altra, e per darsi un contegno guardano fuori, nel cortile, o fingono di interessarsi a ciò che avviene nel corridoio.

Alla data del 16 febbraio, scrive: «Falsi deboli».

Chissà se un giorno anche quelle parole non avranno più nessun significato... Ma nel momento in cui le traccia sull’agenda, con la mano sinistra, hanno un significato chiarissimo nella sua mente. Un’ora prima, lei ha sospirato:

«Tu sei forte! Non hai bisogno di nessuno...».

È questa l’impressione che dà? Be’, è falsa. Oppure la sua è forza solo se confrontata con la debolezza degli altri. E sono i deboli a dover essere invidiati, perché si appoggiano sui forti.

I forti, nessuno li aiuta, né li incoraggia, né li commisera. Se cadono, gli altri non hanno pietà, e anzi, con un certo compiacimento, vedono nel loro crollo il segno di una sorta di giustizia immanente.

E lui, è un forte o un debole? Si pone le domande senza cercare una risposta. Quello che sa è che poco prima nella voce di Lina c’era una vena di rancore, nonostante la dolcezza che lei manifesta durante le sue visite quasi quotidiane e che dà a quei tête-à-tête coniugali un carattere tranquillo, come smorzato.

Fisicamente, malgrado l’aspetto fragile, gli eccessi e il desiderio ricorrente di morire, Lina è più resistente di lui. Tant’è che all’ospedale ci sta lui, e lei viene solo in visita. La sua malattia lascerà degli strascichi. Un giorno avrà una ricaduta dalla quale non si rimetterà, e lei sarà vedova.

«Nessun contatto».

Compare alla data del 19 febbraio, ma il fatto deve essere accaduto il 18, un giovedì. La signorina Bianche ha spinto la sedia a rotelle nel corridoio e Maugras ha scoperto il settore del piano dove si trova la sua camera.

Ha visto la corsia, grande come la immaginava, ha visto malati coricati, altri seduti sulla sponda del letto o sulle sedie, altri ancora su poltrone a rotelle simili alla sua.

Vi sono rappresentati tutti gli stadi dell’emiplegia, così che lui ha potuto, con un’occhiata, avere una panoramica sulle diverse tappe della sua malattia, sulla fase iniziale, la fase presente e ciò che l’aspetta.

Non ha varcato la soglia della corsia, ma quasi tutti gli sguardi si sono girati verso di lui. Di quella esperienza conserva un ricordo amaro.

Probabilmente sapevano chi era: il malato della camera a pagamento. Lo vedevano per la prima volta e sui loro visi non c’è stata benevolenza, né un accenno di benvenuto, né un vago tentativo di contatto.

Neppure ostilità, del resto. Indifferenza. La signorina Blanche lo ha avvertito così bene che lo ha spinto in fretta nella direzione opposta dove c’è un ambulatorio e un piccolo locale piuttosto triste dove mangiano le infermiere.

Si è forse ingannato sugli occupanti della corsia? Durante il breve lasso di tempo in cui li ha osservati, non ha colto alcun contatto neanche tra loro. Si direbbe che si siano chiusi nella malattia, come tende a fare lui.

«Gemme».

Qualche pagina più in là. Di nuovo un cielo primaverile e uccelli che cantano già dalle cinque e mezzo del mattino, perché fa giorno sempre più presto. Probabile che il grande ippocastano di boulevard Saint-Germain cominci già a fiorire.

Nelle ultime settimane il tempo è stato eccezionalmente bello. Per la prima volta in vita sua ha visto le gemme gonfiarsi sugli alberi del cortile.

Ha seguito il loro lavorio interno, lo sforzo delle foglie ancora fragili per liberarsi dall’involucro scuro. Ha passato così tante ore a osservarle che ne conserva un’immagine animata, come quei filmati che mostrano lo sbocciare di un fiore.

Prima e ultima volta. Ben presto non avrà più il tempo per osservare le gemme. Non ci penserà più.

I giorni volano. Besson viene raramente a trovarlo e passa come un fulmine. Quanto a Audoire, continua a studiarlo come studierebbe l’evoluzione di una coltura in laboratorio.

Pare che lui sia in anticipo rispetto alle previsioni e rispetto all’evolversi normale della malattia, e in certi giorni questo gli dispiace, mentre in altri si spazientisce per la lentezza dei progressi.

Ora riesce ad appoggiarsi sulla gamba destra, a muovere le dita, che guarda con un po’ di emozione, come se ritrovasse un pezzetto di sé.

Ce l’ha con la signorina Blanche e non sempre glielo nasconde. Ha preso a lasciarlo solo sempre più spesso, non soltanto all’ora del pranzo ma in altri momenti della giornata. Va a chiacchierare con le altre infermiere? Corre dal dottor Gobet, l’interno dagli occhiali spessi?

È stata assegnata a lui, e deve dedicargli tutto il suo tempo. Il suo buonumore non è più così costante e quasi quasi rimpiange il bene che ha pensato di lei. È una donna come le altre. Appena lui si sente meglio, ecco che lo trascura.

Alla data del 26 febbraio c’è un appunto che la riguarda, riassunto, come i precedenti, in una parola enigmatica.

«Suocera».

Si sono scambiati delle confidenze partendo da Lina, che sembra più calma e beve un po’ meno.

«Sta facendo la cosa giusta con sua moglie» gli ha detto la signorina Blanche, come se fosse a conoscenza di tutto quanto riguarda i suoi rapporti con Lina. «Ha bisogno di essere rassicurata...».

«E lei?» ha risposto Maugras.

È arrossita. Poi ha riso.

«Gliel’hanno detto?».

«Non mi hanno detto niente».

«Lo ha capito da solo?».

«Perché non vi sposate?».

«Dovremo aspettare ancora diversi anni... Lui vive con la madre, che è molto malandata... Inoltre, la sua situazione economica non è brillante perché, volendo dedicarsi all’ospedale e alla ricerca, rifiuta di farsi una clientela privata...

«Come molte donne che hanno avuto una vita difficile, sua madre è gelosa, non sa vivere da sola... E non sopporterebbe neppure di dover dipendere da una giovane coppia...».

Lui ascolta senza trarre conclusioni. Tutto questo va a collocarsi in un angolo del suo cervello, e forse un giorno, chissà, tutti questi piccoli fatti, queste impressioni, si riuniranno a formare un quadro coerente...

Allora, capirà! Ma che cosa capirà? Che cosa cerca confusamente? Non è troppo tardi?

Adesso ce l’ha un po’ meno con la signorina Blanche se ogni tanto lo abbandona al suo destino. Ma non la compiange.

«In fila».

26 febbraio. Avrebbe dovuto essere un gran giorno. Gliene avevano parlato troppo prima, e alla fine non ne ha ricavato alcun piacere.

Al contrario. Lo hanno spinto sulla sedia a rotelle nel grande ascensore sul quale è stato fatto salire, privo di conoscenza, il primo giorno e che ha preso poi per andare in radiologia.

Questa volta lo portano in cortile e vede da vicino i vecchietti, che lo guardano con la stessa indifferenza con cui l’hanno accolto i pazienti in corsia.

Ciò che lo colpisce è l’imponenza degli edifici, di cui lui non occupa che una minuscola casella. Si sente un po’ sminuito... Insomma, è stato, ed è tuttora, solo una unità in una moltitudine.

Si era ripromesso, non appena ne avesse avuta l’occasione, di contare le finestre. Ma ce ne sono troppe, così come ci sono troppe porte, scale numerate, corridoi, pazienti che aspettano davanti a diversi ambulatori, uomini e donne in bianco che corrono non si sa dove.

Attraversa una parte del cortile, passa sotto uno dei passaggi a volta, perché ce ne sono parecchi, sbuca in un cortile più piccolo e si trova davanti a una costruzione che sembra una palestra.

Lo è, infatti. Si tratta del reparto di rieducazione, dove dovrebbero fargli riacquistare l’uso degli arti.

Chissà, magari sperava che anche questo si sarebbe svolto in privato, come il primo periodo della sua malattia... Invece, accanto alla porta, c’è un’infermiera, seduta a un tavolo, che spunta un elenco di nomi scritto a macchina.

«Maugras?... Un momento... È la prima seduta?...».

La signorina Blanche risponde sottovoce, lasciandolo in corridoio, e lui ha paura che i malati che gli passano vicino zoppicando, buttando i piedi in fuori o appoggiandosi alle stampelle, rovescino la sua sedia.

Lo conducono verso le sbarre parallele, al centro della sala. Il pavimento è dipinto a grandi quadrati bianchi e neri, come una scacchiera. Uomini e donne fanno la fila.

«Dobbiamo aspettare il nostro turno...» gli sussurra lei.

Così che anche lui si mette in fila, lui che da più di trent’anni non la fa da nessuna parte.

Degli altri, alcuni sono venuti con i propri mezzi e si comportano da habitué. Le donne sono per lo più anziane. Di giovani ce ne sono solo due, tutt’e due brutte.

Un tizio, non sa se un medico o un infermiere, guida i malati, a uno a uno, in mezzo alle parallele, e loro vi si aggrappano per avanzare in linea retta: quello che lo colpisce di più è la loro serietà, la loro aria compresa.

Potrebbe sembrare un gioco, ma non lo è, e tutti ne sono consapevoli. Si spingono per avanzare di un posto. Assistono, freddi, ai progressi degli altri.

Per quanto può giudicare, la maggior parte appartiene a un ceto modesto, e perfino decisamente povero, con il quale lui ha perso il contatto da molto tempo.

«Maugras...» chiamano.

E la signorina Blanche, aiutandolo a uscire dalla poltrona:

«Tocca a lei... In bocca al lupo!...».

Qui lei non deve far niente: è venuta solo per accompagnarlo e lo affida agli specialisti.

«Metta la mano sulla sbarra... Sì, così... Il pollice più divaricato... Ma certo che lo può allargare di più...».

Chissà se i bambini provano la stessa angoscia quando muovono i primi passi... Peccato che nessuno se ne ricordi...

Passa da un quadrato all’altro con la stessa concentrazione di quelli che lo hanno preceduto. Più in là c’è una bicicletta fissata al pavimento e un uomo dai baffi grigi pedala in una specie di surplace senza vedere niente di quanto gli sta intorno.

Maugras è terrorizzato all’idea che ci mettano anche lui, su quell’aggeggio. Ma no, oggi non gli tocca. Lo allontanano ancora di più dalla signorina Bianche per portarlo davanti a una ruota di legno che lui deve far girare servendosi di una manovella.

«Non con la mano sinistra... Con la destra...».

Gli appoggiano la mano sull’impugnatura.

«Adesso giri... Non abbia paura di fare uno sforzo...».

Lui cerca con gli occhi l’infermiera per chiamarla in aiuto. Qui non è un malato speciale, come lassù. Non ci sono malati a pagamento e malati dell’assistenza pubblica. Si ritrova intruppato. Non ha fatto il servizio militare, ma è così che immagina la vita in caserma.

Quando esce è in un bagno di sudore, non tanto a causa degli esercizi quanto per il profondo turbamento che gli ha procurato questa prima esperienza. Dipendesse da lui, non ci tornerebbe più.

 

 

Alla data del 28 febbraio: «Iniziali».

I suoi pigiami sono di seta, con le iniziali ricamate a sinistra. Quando va in palestra per la rieducazione quell’eleganza lo mette in imbarazzo e cerca di chiudere bene la vestaglia.

Non sono gli altri a condurre una vita anormale, né è la loro povertà a costituire un’eccezione. Sono quelli che, come lui, conducono un’esistenza lontana dalla realtà, o peggio uomini come i fratelli Schneider, a costituire un’eccezione, a essere immorali.

Non ha niente in comune, lui, con gli Schneider. Perché ha scelto di stare dalla loro parte? Non è stato una specie di tradimento?

Per tutta la sera è in preda al malessere. E se ne sente oppresso anche al mattino sentendo le campane che non sentiva da diversi giorni. Non sono state loro a tacere; è lui che non vi presta più attenzione, che ha perso interesse. Allora, aggiunge sull’agenda: «Cruna dell’ago».

La cosa risale a don Vinage: René sarebbe capace di riconoscere la sua voce in mezzo a una folla, soprattutto quell’eloquio martellante che vi faceva penetrare le parole nel petto ancor più che nella testa.

«È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel...».

Che gli importa del regno di Dio, al quale non crede più? Davvero non ci crede più? Fatto sta che si sente in colpa, e ormai fa la fila con piacere e si lascia perfino superare da altri malati.

Qui è lui a non essere al suo posto; è lui l’intruso.

Il suo posto non è neppure alla Résidence George V, né al castello di Arneville. Dov’è, esattamente?

A volte ha nostalgia di rue des Dames: non di Marcelle, che non rimpiange, ma del piacere che gli dava mangiare, o bere un café crème al banco di un bistrot, o contemplare con l’acquolina in bocca la vetrina di una salumeria e concedersi una piccola ghiottoneria da tempo desiderata.

Quando viveva in rue des Dames, però, sognava solo di scappar via!

Qual è il livello ragionevole, il livello giusto? Quando, in quale momento si perde la percezione degli odori, dei suoni, delle gemme che si schiudono?

I vecchi assistiti, giù nel cortile, le guardano, le gemme? E questi uomini, queste donne, che in palestra si trascinano da un attrezzo all’altro, non si preoccupano forse solo della vita che rinasce nei loro muscoli?

Certo, nelle varie epoche, ci sono stati individui che hanno abbandonato tutto per farsi eremiti o per imporre a se stessi la disciplina e la povertà della vita monastica.

Diffida di loro, non crede né ai santi né a chi si consacra alle opere pie.

Comunque, non può tornare a essere un modesto redattore nel giornale di cui è direttore responsabile. Non può neppure, in quanto dirigente, condurre la vita dei suoi impiegati e prendere il métro...

 

 

Martedì 6 marzo. Non ci ha pensato, ma è qui da più di un mese. Ci pensano per lui i suoi amici, riuniti al Grand Véfour come tutti i primi martedì del mese.

Besson deve aver annunciato loro che è entrato in convalescenza e che la rieducazione richiede un grosso sforzo di volontà.

Per spronarlo a guarire in fretta gli hanno mandato il menu del pranzo, firmato da tutti.

Non si rendono conto di che cosa voglia dire, per chi sta qui, sapere quello che certa gente mangia, fuori:

 

Mousse di gamberi alla Nantua

Involtini di salmone alle ostriche

Pasticcio di animelle di vitello Montglas

Insalata di lattuga e tartufi

Cupola di gelato Palais-Royal

 

Un fattorino gli ha recapitato questo menu, stampato su carta pregiata, e lui, senza neanche mostrarlo alla signorina Blanche, lo strappa in mille pezzi arrossendo di vergogna.

Eppure, è con la Bentley, guidata da uno chauffeur in divisa, che Lina viene a trovarlo tutti i pomeriggi e che lui se ne andrà da Bicêtre.

E non prova ormai una certa impazienza quando guarda la vita che scorre, rumorosa, al di là dell’ingresso dell’ospedale?

Due giorni dopo si lascia installare il telefono in camera. Con la scusa che sua moglie potrebbe aver bisogno di parlargli. Glielo ha chiesto lei.

«La sera, al pensiero che non posso mettermi in contatto con te...».

L’apparecchio è sul comodino. Non se n’è servito. È ancora solo un simbolo.

 

13

 

Primo martedì di aprile. Eccoli di nuovo riuniti al Grand Véfour, dove il suo posto è vuoto. Probabilmente non è l’unico assente, perché ci sono le vacanze di Pasqua. Questa volta nessuno pensa a mandargli il menu. Forse uno dei convitati ha domandato, all’improvviso:

«A proposito, come sta René?».

E un altro avrà sussurrato:

«Ma tornerà mai quello di prima...?».

Che cosa avrà risposto Besson?

Nell’agenda le pagine bianche sono sempre di più. Nessuna «L» in questi giorni.

«Continua a telefonarmi, René... Non so più cosa risponderle...».

Si tratta di Marie-Anne, che Lina ha evitato per sei settimane, per punirsi o per riscattare la sua cattiva condotta.

«Perché non dovresti rivederla?».

«Credi?».

Così Lina è andata per qualche giorno a Cannes con Marie-Anne. Sono partite da sole. Lui ha pensato molto alla moglie, benché provi sempre maggiore difficoltà, quasi ripugnanza, a concentrarsi.

Quando Lina si sveglia a mezzogiorno, con la testa pesante, la bocca impastata, il petto attraversato da crampi di angoscia, non le vengono alla mente certe immagini, come succedeva a lui quando si svegliava, qui, i primi giorni e tendeva l’orecchio al suono delle campane?

E così come a lui è capitato di evocare Fécamp commuovendosi su se stesso, non evoca anche lei le strade popolose della Guillotière dove una ragazzina si formava alla scuola della vita?

Ciascuno ha la sua Fécamp, le sue immagini in bianco e nero, dure, desolanti.

Il 10 aprile ha scritto nell’agenda: «Ciascuno uno».

Un’altra annotazione che tra qualche mese non capirà più, o di cui si vergognerà.

Alla possibilità di votarsi al bene dell’intero genere umano lui non ci crede, questo è vero: ma non si può intravedere la possibilità, per ciascuno, di amare un solo essere e di renderlo felice?

Questi pensieri gli sembrano già così semplicistici e irrisori che cerca parole enigmatiche per riassumerli.

La primavera è al culmine. Il sabato e la domenica, a duecento metri dalla sua finestra, c’è una fila di automobili, paraurti contro paraurti. Entro un’ora, forse meno, nonostante gli ingorghi che rallentano la circolazione, i loro occupanti saranno in aperta campagna.

Ha scritto anche: «Joséfa».

Per via di una vampata di desiderio sessuale che gli ha ricordato l’infermiera di notte. Non riesce già più a ricostruire il suo viso. Ne rivede il corpo disteso sul lettino pieghevole, le labbra turgide, l’attaccatura del seno, la mano nascosta nell’incavo caldo dell’inguine.

Si era ripromesso di fare l’amore con lei e invece non l’ha più rivista. Chissà in quale ospedale, in quale clinica, passa le sue notti adesso...

A causa di Joséfa e del risveglio della sua vita sessuale, l’indomani scrive: «Barbès».

È il nome di un boulevard, di un crocevia, di una stazione del métro. A lui ricorda Dora Ziffer, la sola donna dei pranzi al Véfour.

È successo venticinque o più anni fa. Aveva lavorato parte della notte con lei, in tipografia, sul menabò della rivista femminile che tuttora dirige.

In strada avevano cercato un taxi, e quando finalmente ne avevano trovato uno, lui le aveva chiesto:

«La lascio a casa?».

«No. A Barbès».

Non aveva capito. Che cosa ci andava a fare, alle quattro del mattino, in un quartiere alquanto malfamato?

«A lei posso dirlo, René... Con lei non mi vergogno... Stanotte ho bisogno di un uomo...».

Con semplicità, gli ha spiegato di non aver mai avuto relazioni amorose perché, una volta concluso l’atto sessuale, prova disgusto e odio per il partner.

«Forse è orgoglio... Non lo so... Ma, in mancanza di amanti e poiché, lo confesso, ho esigenze sessuali piuttosto forti, ogni tanto vado a gironzolare in certe strade, davanti a certi alberghi... Capisce?...».

Allora, no. Adesso, sì.

Ma, anche ammesso che un uomo si metta in testa di cambiare Dora Ziffer, di salvarla suo malgrado...

Ha il diritto, lui, di cambiare Lina? Non è proprio quello che ha cercato di fare? A volte ci si è messa di buzzo buono e a volte si è irrigidita, arrivando fino a odiarlo.

Deve prenderla così com’è.

Gli ha mandato un baule pieno di vestiti e di effetti personali, e poiché l’armadio è troppo piccolo per farci entrare tutto, il baule resta aperto in un angolo della camera.

All’inizio indossa pantaloni di flanella e una giacca da camera, e così vestito cammina appoggiandosi al braccio della signorina Blanche. Ha ancora una certa difficoltà ad alzare il piede e si muove descrivendo un semicerchio con la gamba, come se fosse una falce.

Sono in molti a camminare così, nella palestra per la riabilitazione, e Maugras comincia a riconoscere certe facce. C’è, in particolare, una donna anziana, con pochi denti in bocca, quasi calva e con una spalla più bassa dell’altra, che non appena lo vede gli sorride.

Si direbbe che aspetti il suo arrivo. Le risponde anche lui con un sorriso e va a prendere posto davanti agli attrezzi.

Per una lunga settimana si sente scoraggiato perché, anziché registrare dei progressi, gli sembra di essere tornato indietro.

«Capita a tutti...» lo consola la signorina Blanche.

È tentato di non crederle. Li ritiene responsabili in massa, è persuaso che non facciano del loro meglio, crede che il personale addetto alla rieducazione lo abbia preso in antipatia e gli dedichi meno tempo che agli altri.

Arriva a spiare i suoi compagni di sventura, a contare gli esercizi di ciascuno di loro come un bambino conta le caramelle che vengono date a sua sorella.

Passa anche questo. E passa così bene che un pomeriggio, mentre Lina è seduta vicino a lui in un raggio di sole, le dice:

«Aiutami ad alzarmi...».

È la prima volta e lei ne è colpita. Si fa accompagnare fino al letto, si sdraia, mentre lei continua a non capire.

«Vieni...».

«Vuoi...?».

Lei guarda la porta, senza chiave né lucchetto, che chiunque può aprire in qualunque momento.

«Devo spogliarmi?».

«Togliti solo le mutandine...».

Non si aspettava di renderla tanto felice. È stata lei, ovviamente, a svolgere la parte attiva, e a spiare così il manifestarsi del piacere sul volto del marito.

Chissà? Forse le cose andranno a posto, tra Lina e lui. Lui è paziente. Le dimostra tutto l’affetto di cui è capace.

«Balletti».

L’annotazione è del 27 aprile. C’è stato un nuovo arrivo, alle undici del mattino.

Dalla finestra della sua camera, a volte dal cortile stesso, ha assistito a numerosi arrivi e ad altrettante partenze. Le cose si svolgono sempre allo stesso modo. Gli arrivi hanno luogo in ambulanza e il personale si trova immancabilmente schierato al momento giusto nel cortile, gli infermieri con la barella, l’interno di turno con lo stetoscopio al collo, la caposala...

È una scena che gli ricorda i riti dei grandi alberghi, portiere, addetti ai bagagli, reception, lift, fattorini indaffarati... Tutto si svolge con una precisione da balletto, il professor Audoire viene cercato di sala in sala, e intanto si preparano le siringhe, il flacone di glucosio a capo del letto...

Chi viene dimesso, invece, è spesso accompagnato dalla moglie e dai figli. Il paziente se ne va camminando ancora di traverso, e qualcuno della famiglia porta il fagotto delle sue cose. Alcuni hanno un taxi che li aspetta. Gli altri attraversano il cortile a piedi e vanno alla fermata dell’autobus all’angolo della strada.

I pantaloni di flanella vengono sostituiti da un paio più leggero e tutte le mattine gli vengono portati i giornali. Alle undici telefona a Colère.

Non sopporta le ore vuote. Già cinque minuti prima di scendere alla rieducazione è lì che frigge, e se la prende con la signorina Blanche che lo fa ritardare.

L’ultimo appunto è del 18 maggio. Un nome. Un nome proprio per l’esattezza, come per Joséfa. Questo però non evoca alcun pensiero erotico: «Delphine».

Delphine è l’enorme signora Schneider, che a momenti non riesce più a camminare tanto è grassa, e che pensa solo a mangiare.

Scrivendo quel nome, prende in giro se stesso perché comincia ad assomigliarle. Non è che stia ingrassando, ma, appena apre gli occhi al mattino, si preoccupa già di quello che gli serviranno a pranzo. E poiché i menu dell’ospedale sono scipiti e monotoni, li arricchisce con cibi saporiti provenienti da fuori che lui incarica Lina di comprargli.

La prima cosa di cui ha avuto improvvisamente una gran voglia è stato il salame. Ben presto ha preso l’abitudine di aggiungere ogni giorno qualcosa al menu, e adesso il pacchetto è così pesante che non è più Lina a portarlo.

Con lei sale Léonard, e Maugras non prova alcun imbarazzo, di fronte agli altri, nel far arrivare il suo autista fin dentro l’ospedale.

Ha sostituito il vino che passano a Bicêtre con il bordeaux che beveva prima. Oliver, il padrone del Véfour, gli manda ogni tanto una terrina di pâté, così che finisce per monopolizzare un considerevole spazio del frigorifero.

«Quanto manca, dottore?».

«Ce la fa a resistere ancora sei settimane?... Altrimenti sarà costretto a venire qui ogni giorno per gli esercizi...».

Non sarebbe pratico. Non si possono vivere parallelamente due vite tanto diverse. Ripete:

«Sei settimane...».

Siamo a fine maggio.

«Forse cinque... Dipende molto da lei...».

Se lo lasciassero fare, si aggrapperebbe agli attrezzi di rieducazione fino a sentirsi sfinito. Non capisce perché la palestra sia chiusa la domenica e i giorni festivi. Con quale diritto gli fanno perdere uno e a volte due giorni alla settimana?

Uscirà all’epoca delle vacanze. Da quando non è più immobilizzato, sua figlia ha smesso di venire a trovarlo. Fernand Colère, invece, viene più volte alla settimana portando fascicoli e bozze, così che la camera è sempre più piena di oggetti, e a Maugras capita di restare anche due ore senza vedere la signorina Blanche.

Continua, per scaramanzia, a fare crocette nell’agenda. Audoire ha detto sei settimane, forse cinque, e lui conta i giorni, come i carcerati.

Probabilmente, al giornale, colleghi e personale riuniti hanno intenzione di dargli il benvenuto stappando bottiglie di champagne.

I medici lo hanno avvertito: per diversi mesi continuerà a buttare il piede di lato e la mano destra non riacquisterà mai una piena funzionalità.

Perché dovrebbe esserne umiliato?

È la fine. Quattro settimane. Tre. Arrivi. Partenze. I vecchi con l’uniforme grigioblu continuano a sedersi sulle panchine, cercando l’ombra, e per loro non c’è partenza, se non quella definitiva.

«Dove vuoi andare, René?... A Arneville?...».

No. E neppure a Porquerolles. Non lo sa. Non ha importanza. Forse non andrà da nessuna parte.

In luglio e in agosto non c’è il pranzo del martedì al Grand Véfour. Rivedrà gli amici solo in settembre o in ottobre.

Lo troveranno cambiato? E i suoi collaboratori, che sono stati tanto tempo senza vederlo?

Al giornale qualcuno terrà sicuramente un discorso, e comunque ci sarà un brindisi.

Un’ambulanza si ferma sotto la sua finestra. Trambusto nei corridoi e in corsia. Si tratta di un nuovo arrivo, un uomo in coma che non sa niente dell’agitazione che provoca e che attraverserà tutte le fasi che ha attraversato lui.

Stranamente, questo lo spaventa e lo immalinconisce al tempo stesso. Se ne sta andando. Anche la sua camera, piena di oggetti personali, non appartiene più del tutto all’ospedale.

Per un certo periodo di tempo ha ascoltato i rumori del corridoio, il suono delle campane, e, immobile nel letto, spiava l’apparizione dell’uomo dalla testa di legno che la mattina veniva a fissarlo in silenzio.

Quante mattine? Molto poche, in realtà, ma che tuttavia costituiscono una parte importante, se non la parte essenziale, della sua vita.

Si è sentito molto vicino ai vecchi con l’uniforme che fumano la pipa sulle panchine del cortile. Ora non concede loro più che un’occhiata distratta e la pipa acquistata dalla signorina Blanche è chiusa in un cassetto.

È Lina a comprargli le sigarette. Gli ha regalato un portasigarette e un accendino d’oro con incise le sue iniziali.

Si spazientisce. Gli capita di farsi prendere dal panico.

Sarà ancora capace? Di vivere come gli altri, intende. Perché non è più del tutto uguale a loro e non tornerà mai più a esserlo.

Lo sa anche Audoire, che lo guarda con aria grave. Forse che i malati che vede andarsene, portati via dalle famiglie...

Anche se non ha trovato sempre le risposte, si è posto delle domande, troppe forse, che continuerà a tenersi dentro.

Ma non erano già lì?

Farà come prima, vivrà in modo frenetico per non pensarci.

Ha già cominciato.

«Pronto, Colère!... Sei tu?... Chi è quell’imbecille che...».

Lina è accanto a lui, lo guarda e lo ascolta, aspettando il suo turno. Ma sì! Sarà affettuoso! Non trabocca forse di affetto?

Se solamente avesse potuto...

Basta! Si fa quello che si deve fare, ecco tutto. Si fa quel che si può.

Un giorno andrà a trovare suo padre a Fécamp, insieme a Lina.

 

Noland (Vaud), 25 ottobre 1962