mercoledì 19 gennaio 2022

È UN PROBLEMA Agatha Christie



 È UN PROBLEMA

Agatha Christie

Il più bel giallo, per me, di Agatha Cristie. La sua scrittura è fatta di pennellate che tratteggiano con nitidezza i personaggo, dentro dialoghi essenziali. 


[....]“- Ecco zia Edith, disse Sophia. La donna si curvò due o tre volte sulle aiuole fiorite, poi si avvicinò a noi. Mi alzai.

- Ti presento Charles Hayward, zia Edith. 

- Charles, questa è mia zia, la signorina de Haviland.

Edith de Haviland era una donna sulla settantina. Aveva il volto solcato di rughe, occhiali a pince-nez, e una massa di grigi capelli arruffati."

“Qualcosa scattò nella mia mente. Era la citazione fatta da Sophia.

Improvvisamente ricordai l'intero verso della filastrocca: 

C'era una volta un uomo deforme su una strada tutta tortuosa. 

Trovò un'acciaccata moneta vicino a una scala sbilenca.

Aveva un gatto rognoso che catturò un topo sciancato.

E vissero tutti insieme in una piccola casa deforme.”[...]

È UN PROBLEMA 

1.

La conobbi in Egitto, verso la fine della guerra. Sophia Leonides era stata trasferita al Cairo dove occupava un posto importante alle dipendenze del Foreign Office. Dapprima l’apprezzai per le sue capacità d’impiegata, poi, molto presto, mi resi conto che aveva un’intelligenza brillantissima che le aveva procurato un posto del genere ad appena ventidue anni, e apprezzai molto anche il suo delizioso senso dell’umorismo.

Divenimmo amici. Era piacevolissimo passeggiare insieme, uscire qualche volta per una cenetta, di tanto in tanto fare due salti in un locale notturno. Credevo che quello che provavo per lei non andasse più in là del piacere di stare in sua compagnia, ma quando, alla fine della guerra in Europa, venni comandato in Oriente, m’accorsi che si trattava di ben altro: amavo Sophia e desideravo sposarla. Stavamo facendo colazione al Shepheard quando feci questa scoperta che, per la verità, non mi sorprese: fu come l’affiorare di un sentimento che già da lungo tempo mi riscaldava il cuore e al quale mi abituai subito. Mi resi conto che avevo sempre amato tutto di lei: i capelli neri, ondulati, che fluivano superbi, gli occhi azzurri e luminosi, il mento piccolo e volitivo insieme, il naso regolare. Ammiravo anche la sua finissima eleganza. Quel giorno indossava un tailleur grigio chiaro con una camicetta bianca di chiffon. Trovavo Sophia così tipicamente inglese da commuovermi. Erano ormai tre anni che vivevo lontano dalla mia terra. Non si può essere più inglesi di così! continuavo a ripetermi, e mi chiedevo se anche nell’intimo lei avesse la stessa impronta londinese che si notava nel suo aspetto. Ma mi arrestai per una considerazione. Durante i nostri lunghi colloqui avevamo toccato i più svariati argomenti, con relative intime confidenze: simpatie, sogni per il futuro, commenti sugli amici. Eppure, Sophia non aveva mai fatto cenno a una casa, a una famiglia sua. Era una buona ascoltatrice. Sapeva tutto di me ma io, in effetti, non sapevo nulla di lei. Confesso che fino a quel momento non ci avevo fatto caso; allora, però, mi resi conto che doveva pur avere una vita intima, che mi era rimasta fino ad allora segreta.

A un tratto, mi chiese a che cosa pensassi. Risposi con sincerità: A voi.

Vedo disse. E sembrava davvero vedere qualcosa dinanzi a sé.

Precipitosamente, le dissi: Sophia! Non so quando potrò tornare in Inghilterra. Forse trascorreranno due anni prima che ci si riveda. Ma voglio dirvi che non appena mi sarà possibile tornerò in patria, verrò a cercarvi e chiederò la vostra mano.

Non batté ciglio, e continuò a fumare senza guardarmi. Pensai che non avesse capito le mie parole. Cercai di spiegarmi meglio.

Ascoltatemi, Sophia. Sono fermamente deciso a non fare una cosa: sposarvi adesso. Prima di tutto, potreste respingermi e forse la disperazione mi porterebbe a legarmi a una scialba, comune donna qualsiasi. E se non mi respingeste, che potremmo fare? Sposarci per separarci subito? Oppure fidanzarci e lasciarvi ad attendermi per un periodo così lungo? Non lo sopporterei. Potreste, nel frattempo, innamorarvi di qualcun altro e sentirvi legata a me per lealtà.

Assolutamente impossibile. Viviamo in una atmosfera strana, eccitante, morbosa: si vedono ovunque amori e matrimoni subito spezzati. No, Sophia. Io vorrei sapervi a casa vostra, libera e indipendente, a giudicare con serenità questo torbido mondo del dopoguerra e a decidere quello che più fa per voi. Desidero un sentimento duraturo. Non ammetto mezzi termini nel matrimonio.

Nemmeno io confermò lei.

D’altra parte… insomma! Voglio rivelarvi i miei sentimenti. Senza indulgere in frasi romantiche? mormorò Sophia. Sto cercando di non farvi capire fino a che punto vi amo! L’ho capito benissimo, e mi piacete così.

Al vostro ritorno in Inghilterra, se lo desiderate ancora, venite pure a trovarmi. Nessun dubbio su questo.

In ogni sentimento c’è un dubbio, Charles. Possono sempre intervenire fattori imponderabili a sconvolgere i nostri piani. Per cominciare, voi sapete ben poco di me.

Non so nemmeno dove abitiate, in Inghilterra. A Swinly Dean.

Annuii. Conoscevo bene il notissimo sobborgo di Londra, che vanta tre magnifici campi di golf per i finanzieri della City. Sophia disse, con voce cantilenante: In una piccola casa deforme…

Ebbi un lieve moto di stupore.

Lei completò la citazione: E vissero tutti insieme in una piccola casa 

deforme… Come la nostra. Proprio piccola, no; ma decisamente strana.

Figuratevi che è costruita per metà in legno e con il tetto in pendenza.

Avete una famiglia numerosa? Fratelli, sorelle?

Un fratello, una sorella, una madre, un padre, uno zio, una zia acquisita, un nonno, una prozia!

Alla buon’ora! esclamai, strabiliato.

Lei rise. Normalmente non viviamo tutti insieme: è stata la guerra, con i relativi bombardamenti, a creare questo stato di cose. Ma non so… aggrottò le sopracciglia, pensierosa. Forse, spiritualmente, la famiglia è vissuta sempre insieme sotto gli occhi e la protezione del nonno. Ha una forte personalità, il nonno. Ottant’anni passati, alto circa due metri. Vicino a lui scompaiono tutti.

Un uomo interessante dissi.

Interessante, sì. È un greco di Smirne. Aristides Leonides. E aggiunse, ammiccando: Ricchissimo.

Temo che non ci saranno più ricchi, alla fine della guerra. Il nonno resterà ricco disse convinta Sophia. Nessuno riuscirà a portargli via le sue ricchezze. Sarà lui a escogitare espedienti per assorbire quelle degli altri.

Mi domando se vi piacerà.

A voi piace? chiesi.

Più di qualsiasi altra creatura al mondo.

2.

Trascorsero proprio due anni prima che potessi tornare in Inghilterra.

Durante quel periodo avevo scritto a Sophia e ricevuto sue notizie abbastanza di frequente. Non c’eravamo scambiati lettere d’amore, ma di profonda amicizia, commentando le vicende quotidiane della vita, esprimendo idee e riflessioni.

Io mi accorgevo che il mio sentimento s’approfondiva col passare del tempo, e mi pareva lo stesso anche per lei.

Arrivai a Londra in una grigia, calma giornata di settembre. La luce della sera dorava le foglie sugli alberi, con le quali il vento scherzava lieve.

Dall’aeroporto spedii a Sophia un telegramma:

Appena arrivato. Vi aspetto per cena da Mario alle 21.

Charles

Due ore dopo ero seduto a un caffè e stavo scorrendo il Times. Nella pagina degli annunci, gli occhi si fermarono sul nome Leonides. Lessi il trafiletto d’un fiato.

Brenda Leonides annuncia, con profondo cordoglio, che il giorno 19 settembre, nella sua abitazione di Three Gables, Swinly Dean, è deceduto, all’età di 88 anni, il suo adorato marito Aristides Leonides.

Immediatamente sotto, c’era un altro annuncio.

Improvvisamente, nella sua abitazione di Three Gables, a Swinly Dean, è deceduto Aristides Leonides. Lo annunciano, profondamente addolorati, i figli e i nipoti.

I funerali avranno luogo nella chiesa di Saint Eldred, a Swinly Dean.

Mi colpì la stranezza di quel disgiungersi dei parenti nell’annunciare la morte del vecchio, ma subito mi commossi per Sophia. Corsi a spedire un secondo telegramma.

Leggo ora notizia morte nonno. Addoloratissimo. Fatemi sapere quando potrò vedervi.

Charles

Poco dopo, a casa di mio padre, ricevetti un telegramma di Sophia.

Sarò da Mario alle nove.

Sophia

Eccitato, nervoso al pensiero di rivederla, trovavo esasperante la lentezza del tempo. Mi precipitai al ristorante da Mario con mezz’ora di anticipo. Sophia arrivò con solo cinque minuti di ritardo. L’emozione è sempre forte quando si rivede dopo molto tempo una persona che è stata sempre presente in noi.

Infatti, quando Sophia entrò, attraverso la porta girevole, il nostro incontro mi apparve del tutto irreale. Era vestita di nero, e questo fatto, per qualche ragione, mi sorprese. Molte altre donne si vestivano di nero, ma mi sorprendeva che Sophia fosse il genere di persone che si vestivano a lutto, anche se per un parente stretto. Prendemmo posto a un tavolo e ordinammo due cocktail. Iniziammo una conversazione rapida, quasi febbrile, scambiandoci domande sui vecchi amici del Cairo. Quell’artificio era quello che ci voleva per superare il primo imbarazzo. Le espressi poi il mio dolore per la morte del nonno. Lei mi spiegò tranquillamente che quella morte era avvenuta molto all’improvviso. Tornammo quindi ai nostri ricordi. Ma io mi sentivo a disagio, mi sembrava che ci fosse qualcosa di strano fra noi, oltre al primo, logico senso d’imbarazzo.

Sophia era strana, titubante, quasi fosse sul punto di farmi una confidenza che non si decideva ad affrontare. Doveva forse svelarmi che amava un altro, e che i suoi sentimenti per me erano frutto di un errore?

Ma no, sentivo che non si trattava di questo. Intanto, la nostra conversazione superficiale continuava.

A un tratto, inaspettatamente, mentre il cameriere portava il caffè e, chinandosi, ritirava i bicchieri, tutto tornò come di consueto fra me e Sophia. Sedevamo insieme, come un tempo, a un piccolo tavolo di un ristorante, ed era come se non ci fossimo separati mai. Sophia! dissi.

Charles! rispose lei di slancio. Trassi un profondo sospiro di sollievo.

Grazie al cielo, è passata! Cos’avevamo? Cosa c’era tra noi, poco fa?

Probabilmente era colpa mia. E adesso, va tutto bene? Sì, tutto bene. Ci guardammo sorridendo.

Cara! esclamai. Quando ci sposiamo?

Il suo sorriso si spense. Quel qualcosa era tornato fra noi. Non lo so disse. Non so, Charles, se potremo sposarci mai…

Perché dici così, Sophia? Perché? Forse mi senti estraneo, hai bisogno di tempo per abituarti a me? O c’è qualcun altro nella tua vita? No dissi sono uno sciocco! Sento che non si tratta di questo. Infatti disse lei.

Tacqui, guardandola ansiosamente. E lei continuò, con voce sommessa: Si tratta… della morte del nonno.

La morte del nonno? E che mutamento radicale può portare? Spero che non penserai al denaro. Se anche non ti avesse lasciato nulla, ti assicuro cara…


M’interruppe con un mesto sorriso.

Non si tratta di questo. So che tu saresti disposto a prendermi col solo abito che indosso. Comunque, il nonno ha lasciato il suo capitale intatto.

Allora, cosa c’è?

Vedi, c’è la sua morte. Sono convinta, Charles, che non sia stata naturale.

Penso che qualcuno l’abbia ucciso…

La guardai fissamente.

Ma… che strana idea. Che cosa ti fa pensare una cosa simile? Non sono la sola a pensarlo. Il primo ad avere dei dubbi è stato il medico, che non ha voluto firmare il certificato di morte. Ha disposto per un’autopsia. È

evidente che sospetta qualcosa di grave. Non obiettai più nulla. Sophia era una ragazza equilibratissima e, se aveva preso in considerazione quell’ipotesi, si poteva essere certi che doveva esserci un fondamento.

Insistetti, comunque, calorosamente.

I sospetti potrebbero anche essere infondati e, quand’anche fossero del tutto giustificati, non capisco come questo fatto possa incidere sul nostro futuro.

Moltissimo, Charles. Tu appartieni al Corpo diplomatico, dove si è molto scrupolosi nei riguardi delle mogli.

Accennai a una protesta, ma lei era irremovibile.

No, non negare, so benissimo che è così. Io sono tremendamente orgogliosa, e voglio che il nostro matrimonio si risolva in un dolce legame eterno, non che rappresenti per te un sacrificio fatto in nome dell’amore.

Non precipitiamo le cose, Sophia! dissi. Il medico potrebbe anche essersi sbagliato.

Potrebbe, sì. Ma se, invece, non ha sbagliato, io voglio scoprire se chi ha ucciso il nonno è proprio la persona che penso.

Hai dei sospetti?

Forse. E forse sarebbe onesto fartelo sapere… Ma… no, non ti dirò nulla, Charles. Ho già parlato troppo. Sono venuta da te solo per cercare di spiegarti la situazione. Non possiamo decidere nulla finché tutto non sarà chiarito.

Potresti dirmi che cosa pensi, però. Lei scosse il capo. Preferisco tacere.

Perché, Sophia?

Perché non voglio influenzarti. Desidero che tu guardi le cose dal di fuori.

E come potrei entrare nella faccenda?


Un debole sorriso le illuminò i grandi occhi azzurri. Per mezzo di tuo padre rispose.

Al Cairo avevo detto a Sophia che mio padre era sovrintendente a Scotland Yard. E ricopriva ancora quella carica.

Allora è proprio così grave? esclamai.

Credo di sì. Vedi l’uomo che siede a quel tavolo vicino alla porta?

Ebbene?

Era alla stazione di Swinly Dean quando ho preso il treno. E ti ha seguita fin qui?

Sì. Penso che siamo tutti… come dire… sotto sorveglianza… pedinati appena ci allontaniamo da casa. Ma io volevo vederti a ogni costo. Sporse in avanti il piccolo mento aggressivo. E così sono uscita dalla finestra del bagno e mi sono lasciata calare a terra lungo le tubature dell’acqua.

Tesoro!

La polizia è in gamba, però. Naturalmente è stata messa in allarme dal telegramma che ti ho spedito. Comunque siamo qui insieme, come volevo.

Da questo momento, però, dobbiamo agire indipendentemente l’uno dall’altro. Fece una pausa, poi aggiunse: Purtroppo non c’è alcun dubbio sui nostri sentimenti.

Nessun dubbio. Ma non direi purtroppo. Siamo sopravvissuti alla guerra, sfuggiti per miracolo a infinite possibilità di morte violenta: non vedo perché dovrebbe dividerci la morte, ancorché violenta, di un uomo anziano. Era vecchio, vero? Ottantotto anni.

Già, ho letto sul Times. Un’età rispettabile, mi sembra. E qualsiasi medico potrebbe trovare naturale la morte di un uomo così anziano, comunque fosse avvenuta.

Se tu avessi conosciuto il nonno rispose Sophia ti saresti sorpreso di vederlo morire di qualsiasi cosa!

3.

Mi ero sempre interessato al lavoro di mio padre senza mai prevedere, però, l’eventualità di parteciparvi di persona. Non l’avevo ancora visto. Al mio arrivo, lui era fuori casa e io, dopo un bagno caldo, ero uscito per incontrare Sophia. Quando rientrai la sera, Glover, il domestico, mi disse che era nel suo studio.

Lo trovai seduto alla scrivania, intento a scartabellare un voluminoso fascio di carte. Quando mi vide entrare, si alzò di scatto. Charles! esclamò.

Era un pezzo che non ci vedevamo!

Un francese sarebbe rimasto disgustato da quell’apparente freddezza, ma tutta l’emotività del nostro incontro, avvenuto dopo cinque anni di guerra e di lontananza, si manifestò con quella frase. Papà e io ci volevamo un gran bene, e non avevamo bisogno di smancerie per intenderci.

Ho del buon whisky disse. Raccontami di te. Mi dispiace di non essere stato a casa quando sei arrivato. Ma sono sommerso dal lavoro. Sono alle prese con un caso molto difficile…

Accesi una sigaretta, mi accomodai in poltrona, e poi chiesi: Si tratta di Aristides Leonides?

Aggrottò le sopracciglia, meravigliato. Come fai a saperlo?

Ho indovinato?

Ti ho chiesto come fai a saperlo. Sono stato informato.

Mio padre attendeva in silenzio, guardandomi fisso. Informato da fonte diretta aggiunsi. Avanti. Spiegati.

Non so se ti farà piacere, papà. Al Cairo ho conosciuto Sophia Leonides, nipote di Aristides. Sono innamorato di lei e la sposerò. Abbiamo cenato insieme, poco fa.

Avete cenato insieme? A Londra? Non riesco a capire come ci sia riuscita. Avevamo pregato la famiglia, con molta cortesia s’intende, di non uscire di casa.

Be’, sai… è uscita dalla finestra. Al vecchio sfuggì un sorriso.

Piuttosto in gamba la tua ragazza, a quanto pare.

In gamba anche il tuo servizio di polizia, papà. Un agente l’ha seguita fino al ristorante, e ne avrai conferma dal suo rapporto. Si tratta di un individuo alto, con gli occhi scuri, vestito di blu. Mio padre mi guardò fisso.

Dimmi, è una cosa seria questo amore? Sì, papà, è una cosa seria.

Dopo una pausa, chiesi: Perché me lo domandi?

Una settimana fa non me ne sarei preoccupato troppo. La ragazza appartiene a una famiglia rispettabile ed erediterà anche molto denaro. Poi ti conosco, e so che non perdi facilmente la testa. Ma adesso…

Cosa c’è adesso, papà?

Tutto potrebbe andare bene lo stesso, se…

Se…?

Se il fatto l’avesse commesso la persona che dico io.

Era la seconda volta che sentivo quella frase. Mi incuriosii. E chi sarebbe questa persona?

Lui mi guardò fisso.

Dimmi tu, piuttosto. Che cosa sai con precisione della faccenda? Niente.

Mi guardò sorpreso.

Ma la ragazza non ti ha raccontato?

No. M’ha detto che era meglio che guardassi la cosa dal di fuori. Non ne vedo la ragione.

Come? Non ti sembra evidente? Niente affatto, Charles.

Cominciò a camminare su e giù per la stanza, agitato. Teneva in bocca il sigaro acceso, che poco dopo lasciò spegnere. Questo era, per lui, il più evidente segno di concitazione.

In definitiva, che cosa sai di quella famiglia? disse a un tratto. So che c’era un vecchio nonno e molti figli e molti nipoti e molti parenti. Ma non conosco con precisione i legami di parentela. Sarebbe bene, papà, che tu me ne facessi un quadro preciso.

Va bene. Sedette. Comincerò dal principio, e precisamente da Aristides Leonides. Quando arrivò in Inghilterra, aveva ventiquattro anni.

Già dissi era un greco originario di Smirne. Lo sapevi?

È l’unica cosa che so.

In quel momento entrò Glover ad annunciare l’ispettore Taverner. È al corrente della cosa disse mio padre. Sarà meglio farlo entrare. L’ho incaricato d’indagare sulla famiglia sulla quale ne sa, quindi, più di me.

Gli chiesi se fosse stata la polizia locale a interpellare Scotland Yard.

Sì rispose mio padre perché Swinly Dean si trova sotto la giurisdizione di Londra.

Entrò l’ispettore Taverner. L’avevo conosciuto molti anni prima, e mi salutò cordialmente, congratulandosi per il mio felice ritorno. Sto facendo a Charles un quadro della famiglia Leonides disse mio padre. Se sbaglio, vi prego di correggermi. Leonides venne a Londra nel 1884. Cominciò la sua attività aprendo un piccolo ristorante a Soho. Fece fortuna. Ne aprì un secondo, e presto divenne proprietario di sei o sette locali, che gli rendevano molto bene.

Gli andava bene qualsiasi iniziativa lo interruppe Taverner. Infatti, aveva un fiuto particolare confermò mio padre. Per farla breve, si trovò presto a possedere parecchi dei migliori ristoranti di Londra. Specializzatosi in quel genere di affari, accumulò una fortuna enorme.

Non solo aggiunse Taverner. Investiva denaro anche in altre branche d’affari. Per esempio commerciava in abiti usati, in gioielli fantasia e in altro ancora. Naturalmente aveva, per così dire, il pelo sullo stomaco.

Secondo voi era un poco di buono, allora.

No, non voglio dire questo disse Taverner scuotendo la testa. Non usciva mai dai limiti della legge. Così è riuscito ad aumentare ancora la sua fortuna durante quest’ultima guerra, nonostante l’età avanzata. Eppure, ripeto, non è mai uscito dalla legalità. Oserei dire che quando escogitava un nuovo mezzo per fare quattrini, non c’era ancora la legge che lo vietasse; e, appena la legge lo contemplava, lui ne aveva già escogitato un altro.

Mi fate un quadro poco lusinghiero di lui.

Vi sembrerà strano ma, nonostante tutto, era un uomo affascinante. Una fortissima personalità che, con un potere quasi magnetico, tirava dalla sua uomini e donne. Le donne andavano pazze per quel vecchio miliardario greco.

Aveva fatto un matrimonio strano intervenne mio padre con la figlia di un gentiluomo di campagna.

Ricca? chiesi. Lui scosse il capo.

No, si trattava veramente d’amore. Si conobbero in occasione del matrimonio di un’amica di lei. Il pranzo di nozze si tenne in uno dei ristoranti di Leonides. La ragazza lo conobbe e se ne innamorò pazzamente. I genitori di lei non ne volevano sapere, ma a lungo andare dovettero cedere. Come hai sentito, lui possedeva un fascino straordinario: era un tipo stravagante, dinamico. La ragazza, che era sempre vissuta in un ambiente monotono, evidentemente ne rimase attratta.

Fu un matrimonio felice?

Stranamente, fu molto felice. Più d’un amico di famiglia aveva interrotto i rapporti con la novella sposa, ma né lei né lui se ne preoccuparono: stavano benissimo da soli. Leonides fece costruire un’assurda casa a Swinly Dean e là vissero e misero al mondo otto figli. Una vera famiglia patriarcale. Il vecchio Leonides si dimostrò abilissimo, come al solito, nello scegliere quel quartiere. A quell’epoca non era ancora di moda. Non erano stati allestiti i campi di golf, e vi abitavano gentiluomini, innamorati dei propri giardini, che accolsero con entusiasmo il nuovo vicino, e ricchi uomini d’affari che avevano interessi commerciali con lui. I due coniugi vissero perfettamente felici, credo, finché lei non morì di polmonite nel 1905.

Lasciandolo con otto figli?

No. Uno era morto in tenera età, altri due perirono nella prima guerra mondiale, e una ragazza, sposata in Australia, morì laggiù. In seguito un’altra rimase vittima di un incidente automobilistico, e l’ultima morì un paio d’anni fa. Sono rimasti due soli figli. Il maggiore, Roger, sposato senza discendenti, e Philip, marito di una nota attrice, con tre figli: la tua Sophia, Eustace e Josephine. E vivono tutti a… come si chiama… a Three Gables?

Sì, Roger Leonides andò a stabilirsi là quando perse la casa in un bombardamento, mentre Philip e la famiglia ci vivevano già dal 1937. C’è anche una vecchia zia, la signorina de Haviland, sorella della prima signora Leonides. A quanto sembra aveva sempre odiato il cognato, ma quando morì la sorella accettò l’invito di lui e si occupò dell’educazione dei nipoti.

Deve averlo fatto per uno scrupoloso senso del dovere intervenne Taverner. Ma non mi sembra di quelle persone che cambiano facilmente opinione: probabilmente ha continuato a condannare Leonides e i suoi sistemi.

Concludendo, una bella famigliola dissi io. Insomma, secondo voi, chi ha ucciso il vecchio?

Taverner scosse il capo. È troppo presto per dirlo.

Via lo incalzai capite quello che voglio dire. Chiedo solo quali sono le vostre supposizioni. Non siamo in tribunale.

No disse Taverner, accigliato. Probabilmente non compariremo mai in tribunale per questo caso.

Intendete dire che si potrà scartare l’ipotesi di assassinio? Questo no.

Certamente è stato assassinato o, per essere più esatti, è morto avvelenato.

E voi sapete come vanno le cose in questi casi: è difficilissimo provarlo.

Tutte le ipotesi possono convergere su un punto…

Ecco, è proprio questo punto che sto cercando. Immagino che avrete le vostre opinioni in proposito.

Io sono solo sicuro che si tratta di assassinio e basta. Ma il caso è molto difficile.

Guardai mio padre con aria interrogativa.

Nei casi di assassinio disse lui di solito la soluzione esatta è la più  evidente. Il vecchio Leonides si sposò una seconda volta dieci anni fa.

A settantotto anni?

Sì. E con una ragazza di ventiquattro.

Commentai la frase con un breve fischio significativo. E che tipo è questa ragazza, se è lecito?

Perfettamente a posto. Lavorava in una pasticceria. Molto graziosa. Di una bellezza delicata, fragile.

Sarebbe lei, dunque, la… soluzione evidente? Ecco precisò Taverner. Vi faccio notare che lei ha ora trentaquattro anni. Un’età pericolosa. E in casa c’è un altro uomo, giovane, il precettore dei nipoti. Costui non è andato in guerra per un vizio cardiaco o qualcosa del genere. Sono amici per la pelle.

Lo guardai, pensieroso. Mio padre aveva detto che la seconda signora Leonides era una persona perbene, ma quanti delitti vengono commessi all’ombra della rispettabilità!

Che tipo di veleno hanno usato? chiesi. Arsenico?

Non abbiamo ancora il referto, ma il medico sospetta che si tratti di eserina.

Un veleno non comune. Sarà facile trovare chi l’ha venduto. E invece no.

L’avevano in casa. Serviva, in gocce, per gli occhi. Leonides soffriva di diabete aggiunse mio padre. Faceva regolarmente iniezioni di insulina.

L’insulina è confezionata in fiale ermeticamente chiuse da una capsula di gomma. L’ago della siringa deve assorbire il liquido penetrando attraverso la capsula.

Immaginavo il seguito, e conclusi: La fiala conteneva eserina anziché insulina.

Esattamente.

E chi faceva le iniezioni a Leonides? Sua moglie.

Adesso capivo quello che aveva voluto dire Sophia quando aveva esclamato: La persona che penso io.

La famiglia viveva in accordo con la seconda signora Leonides?

domandai.

No. I rapporti erano di pura cortesia formale.

La cosa, ora, mi appariva chiarissima. Ma l’ispettore Taverner non sembrava per nulla soddisfatto.

Che complicazioni vedete? gli chiesi.

Questa, per cominciare. Se la colpevole fosse lei, non riesco a capire perché non ha sostituito, alla bottiglietta che aveva contenuto il veleno, un’altra vuota di insulina vera.

Già, è strano. Aveva a portata di mano altre bottigliette vuote?

Certamente. Ce n’era una quantità di piene e di vuote. Se avesse provveduto alla sostituzione, solo un medico su dieci sarebbe stato in grado di farsi venire un sospetto, poiché l’avvelenamento da eserina lascia ben poche tracce sul cadavere, così, invece, il medico fece subito ricerche per appurare se vi fosse stato qualcosa che non funzionava nell’ultima iniezione praticata al vecchio, e così scoprì che non si trattava di insulina.

Già osservai pensieroso. O la signora Leonides ha agito molto scioccamente, o è stata scaltrissima.

Volete dire…?

Voglio dire che può essersi comportata così proprio per portarvi alla conclusione che un modo d’agire così stupido non è verosimile. Avete qualche altro indizio?

A questo punto, mio padre disse: Praticamente, ogni componente della famiglia potrebbe essere l’assassino. C’era sempre in casa una riserva d’insulina per quindici giorni di cura. Non si può escludere che una delle fiale sia stata manipolata e rimessa a posto da uno qualunque di loro, con la consapevolezza che, un momento o l’altro, la moglie l’avrebbe usata.

Le fiale erano a portata di mano?

Certo. Si trovavano in uno scomparto dell’armadietto farmaceutico, in bagno. Tutti i familiari entravano e uscivano liberamente da quella stanza.

Vi siete già prospettati i motivi che potrebbero avere spinto al delitto?

Mio padre sospirò.

Mio caro. Aristides Leonides era immensamente ricco. È vero che manteneva negli agi tutta la famiglia. Ma non è improbabile che, per qualcuno, quel tenore di vita non fosse sufficiente.

E chi avrebbe ricavato i maggiori benefici dalla sua morte, era proprio la vedova. Lei, da parte sua, non è ricca. È poverissima, anzi.

Qualcosa scattò nella mia mente. Era la citazione fatta da Sophia.

Improvvisamente ricordai l’intero verso della filastrocca: C’era una volta un uomo deforme su una strada tutta tortuosa.

Trovò un’acciaccata moneta vicino a una scala sbilenca. Aveva un gatto rognoso che catturò un topo sciancato. E vissero tutti insieme in una piccola casa deforme.

Mi rivolsi a Taverner.

E voi cosa ne pensate della signora?

Non mi sono ancora fatto un’idea precisa. Ha un carattere chiuso… non è facile indovinare cosa pensa. Le piace la bella vita. Su questo, metterei la mano sul fuoco. Ha l’aria di una grossa gatta indolente che faccia le fusa…

Io non ho nessuna prevenzione contro le gatte disse sospirando comunque noi abbiamo bisogno di prove.

Già pensai tutti desideriamo la prova che accusi la signora Leonides. La desideriamo Sophia e io, l’ispettore Taverner… Una volta trovata quella prova, per me tutto sarebbe stato felicemente a posto. Invece… Sophia non era sicura, e l’ispettore e io sospiravamo nel dubbio.

4.

Il giorno dopo mi recai con Taverner a Three Gables. La mia posizione, per la verità, non era chiara, anzi, era assai poco ortodossa. Ma mio padre non era certo un tipo ortodosso. Io avevo una certa esperienza. Agli inizi della guerra avevo lavorato per una delle squadre speciali di Scotland Yard e questo mi conferiva, agli occhi del vecchio, una patente di capacità.

Per risolvere questo caso, bisogna conoscere tutto il possibile di ognuna delle persone di famiglia. Dobbiamo osservarli mentre vivono tra loro, nell’intimità. Tu sei l’unico che possa aiutarci in questo senso.

Quell’idea non mi entusiasmava.

Dovrei fare la spia, in poche parole. E per di più servendomi di Sophia, che mi ama e che, soprattutto, ha fiducia in me! Il vecchio si era arrabbiato molto.

Non ragionare come un piccolo borghese! Tanto per cominciare, sei convinto che non sia stata la tua ragazza ad assassinare il nonno? È

semplicemente assurdo pensarlo.

Bene. Anche noi pensiamo la stessa cosa. È stata assente molti anni ma è sempre stata in rapporti affettuosi col vecchio, il quale, del resto, le aveva già assicurato una forte rendita. Lui, inoltre, avrebbe accolto con gioia la notizia del suo fidanzamento con te, e sono sicuro che le avrebbe progettato un matrimonio sfarzoso. I sospetti su di lei sono ingiustificati.

Comunque, se questa faccenda non verrà chiarita, non ti sposerà mai.

Stando a quanto mi hai detto sul suo carattere, ne sono più che sicuro. Nota bene che si tratta di un delitto che potrebbe non essere mai chiarito. Noi possiamo anche avere la convinzione che la moglie di Leonides e il giovane precettore siano i colpevoli, ma la difficoltà sta proprio nel provarlo. Se non troveremo una prova schiacciante contro di loro, rimarrà sempre l’ombra del dubbio. Te ne rendi conto?

Me ne rendevo perfettamente conto.

Il vecchio continuò, più calmo: Perché non dici tutto a Sophia? Dovrei chiedere a Sophia di…?

Lui annuì energicamente. Certo, non vorrei mai che tu agissi slealmente.

Parlane con la ragazza e senti cosa ne pensa.

Fu così che il giorno seguente arrivai a Swinly Dean con l’ispettore Taverner e il sergente Lamb.

Dopo aver superato il primo campo di golf, ci inoltrammo lungo un viale alberato che in tempi lontani doveva essere stato chiuso da una cancellata.

Certamente la guerra, e le requisizioni di materiale che a essa si accompagnano, lo avevano reso di libero accesso. Al termine del lungo viale circondato da rododendri, dopo un’ampia curva, ci trovammo in uno spiazzo di fronte alla casa.

Era incredibile! Mi chiesi perché si chiamasse Tre Frontoni, dato che sarebbe stato più appropriato dire Undici Frontoni! La cosa più curiosa è che aveva l’aria di essere deforme. E si capiva perché. Era il classico tipo di villino inglese, ma era un villino gonfiato, fuori da qualsiasi proporzione. Sembrava una casa di campagna vista attraverso un gigantesco specchio deformante. Tutto era gigantesco… era una piccola casa deforme che era cresciuta come un fungo durante la notte.

Era proprio l’idea che un greco, proprietario di ristoranti, poteva farsi di un’abitazione inglese. Voleva essere una casa da inglese…

ma era costruita con le dimensioni di un castello! Pensai alla prima moglie di Leonides e alla sorpresa che doveva aver provato nel vederla.

Certamente lui non le aveva detto nulla per farle una sorpresa. Mi chiesi se lei avesse sorriso o se fosse rabbrividita. Comunque, lì lei era vissuta felicemente.

Mastodontica, vero? disse Taverner. Il vecchio ha speso qui un patrimonio, come se avesse riunito in un blocco solo tre costruzioni indipendenti, ognuna con cucina e servizi. All’interno è ammobiliata come un albergo di lusso.

Sophia apparve alla porta d’ingresso. Era a capo scoperto e indossava una camicetta verde e una gonna di tweed.

Rimase stupefatta vedendomi. Tu! esclamò.

Vorrei parlarti dissi. Dove possiamo andare?

Ebbe un attimo di esitazione, poi si voltò e disse: Per di qua.

Attraversammo lo spiazzo erboso dal quale si godeva uno splendido panorama. L’occhio spaziava sul primo campo di golf, sulle colline che lo circondavano e sulla campagna sconfinata che si perdeva verso l’orizzonte.

Sophia mi fece entrare in un grande giardino roccioso alquanto trascurato e m’invitò a sedere su una rustica panchina di legno assai scomoda.

Allora? disse con tono poco incoraggiante.

Le dissi del mio incarico… le dissi tutto. Lei mi ascoltò con attenzione, e alla fine sospirò profondamente.

Un uomo in gamba, tuo padre.

Certo, sa quello che vuole. Ma questa volta la sua idea non mi piace per niente.

Oh no disse lei. Credo, anzi, che sia l’unica cosa utile da fare. Tuo padre ha capito di cosa ho bisogno meglio di te.

Con un improvviso gesto di disperazione esclamò, torcendosi le mani: Io devo scoprire la verità, capisci? Devo saperlo.

Per noi due, cara? Ma…

Non solo per noi due, Charles. Devo sapere per me stessa, per ritrovare la pace interiore. L’altra sera non te l’ho detto, ma… la verità è che ho paura.

Paura?

Sì, paura. La polizia ha un’ipotesi, tuo padre anche, tu pure. Tutti pensiamo che sia stata Brenda.

Ma le probabilità…

D’accordo. È probabile. Ma quando io mi dico che probabilmente è stata Brenda, so che si tratta di una supposizione che corrisponde a un desiderio.

Ma in realtà, non sono affatto sicura che sia così. Non ne hai la certezza, vuoi dire?

Non so, Charles. Tu hai solo sentito parlare della cosa, non conosci ancora nell’intimo i componenti della nostra famiglia. Per esempio, io non credo che Brenda sia capace d’impegolarsi in una faccenda così pericolosa, per nessuna ragione. È troppo scaltra e prudente.

E che cosa mi dici di lui, di quel Lawrence Brown?

È un coniglio. Non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa simile.

Non puoi affermarlo categoricamente, però.

Hai ragione. Le persone, a volte, riservano delle sorprese. Ma Brenda, per esempio, ha agito sempre conseguentemente col suo carattere. Io la definirei una donna da harem. Pigra, morbosamente attratta da dolciumi, vestiti, gioielli. Passa le giornate sdraiata a leggere racconti insulsi, oppure va al cinematografo. E sembrerà incredibile, se si pensa che il nonno aveva ottantotto anni, ma lei ne subiva enormemente il fascino. Lui esercitava uno strano influsso sulle donne. Penso che Brenda si sentisse, in casa sua, come una regina o almeno come la favorita di un sultano. Doveva vivere in uno stato di strana eccitazione romantica. Ci ha sempre saputo fare, il nonno, con le donne, e quel suo fascino non scomparve nemmeno a tarda età.

Comunque, a me il problema di Brenda interessava meno dell’altro di cui Sophia mi aveva parlato poco prima.

Perché hai detto d’aver paura? le chiesi. Lei rabbrividì.

Perché è la verità rispose quasi in un soffio. È molto importante che tu capisca quello che ti dico, Charles. Noi siamo una famiglia strana… C’è in noi una specie di crudeltà, anzi, molte forme diverse di crudeltà… E la diversità di queste forme mi preoccupa…

Dovette leggere nel mio viso un grande stupore, poiché aggiunse: Cercherò di essere più chiara. Prendi il nonno, per esempio. Una volta ci raccontò che da ragazzo, a Smirne, durante una rissa, aveva accoltellato due uomini dai quali era stato gravemente insultato. Raccontò l’episodio con indifferenza, come si trattasse di una cosa più che naturale. A me, cresciuta in Inghilterra, fece uno strano effetto sentir parlare di un fatto così orribile con tanta naturalezza…

Annuii.

Questo è un esempio. Poi c’è stata la nonna. Non l’ho conosciuta, ma ho sentito parlare molto di lei. Doveva avere quella forma di crudeltà che deriva dalla mancanza assoluta d’immaginazione. Simile a quella dei vecchi generali, pieni d’arroganza e di rettitudine insieme, per nulla impressionati dalle responsabilità che si assumono decretando la vita o la morte del loro prossimo.

Forse esageri, cara.

Sì, forse. Ma ho un sacro terrore di questi personaggi che abbondano in rettitudine e in crudeltà. Poi, c’è mia madre. Un’attrice. Tanto cara, ma assolutamente priva di senso della misura. È così innocente nel suo feroce egoismo, che vede le cose solo in funzione del proprio interesse. Anche questo per me è pericoloso. Poi c’è Clemency, la moglie di zio Roger, una scienziata che si dedica ora a ricerche importanti. Anche lei, a modo suo, può essere definita crudele, dotata com’è di uno spaventoso sangue freddo.

Suo marito, zio Roger, è esattamente l’opposto. È un uomo caro e amabile, ma se la collera gli dà alla testa non sa più controllarsi. Infine c’è mio padre.

Fece una lunga pausa.

Mio padre riprese lentamente domina se stesso con un esagerato autocontrollo. Non si sa mai cosa pensi, non lascia trasparire mai i suoi sentimenti. Probabilmente la sua è una forma di difesa contro il temperamento troppo estroverso di mia madre. Qualche volta, però, il suo eccessivo autocontrollo mi preoccupa.

Tesoro dissi tu lavori troppo di fantasia. Comunque, secondo te, ognuno dei tuoi familiari sarebbe capace di commettere un delitto. È quello che penso, infatti. Io stessa ne sarei capace.

Tu? Non lo credo proprio.

Io, sì. Non devi far eccezione per me. Anch’io potrei assassinare qualcuno… Rimase un attimo in silenzio, poi aggiunse: Ma, in ogni caso, solo se ne valesse veramente la pena.

Sorrisi. Per me era un’idea assurda. Anche lei sorrise. Forse sono pazza…

disse. Comunque, dobbiamo scoprire la verità sulla morte del nonno.

Voglia il cielo che la colpevole sia Brenda! Improvvisamente, provai una gran pena per Brenda Leonides.

5.

A un tratto vedemmo arrivare lungo il sentiero un’alta figura femminile che camminava con passo elastico.

Aveva un vecchio cappello di feltro in testa, e indossava una gonna senza più forma e un giubbetto di lana.

Ecco zia Edith disse Sophia.

La donna si curvò due o tre volte sulle aiuole fiorite, poi si avvicinò a noi. Mi alzai.

Ti presento Charles Hayward, zia Edith. Charles, questa è mia zia, la signorina de Haviland.

Edith de Haviland era una donna sulla settantina. Aveva il volto solcato di rughe, occhiali a pince-nez, e una massa di grigi capelli arruffati.

Come state? mi chiese. Mi hanno parlato molto di voi. Siete appena tornato dall’Oriente, vero? Vostro padre come sta? Piuttosto sorpreso dalla domanda, risposi che stava benissimo. L’ho conosciuto da ragazzo disse lei. Ero amica di sua madre, molto amica. Voi assomigliate alla nonna.

Siete venuto per aiutarci? Spero di potervi essere utile.

Abbiamo bisogno di aiuto continuò. La casa è piena di poliziotti. Ce li troviamo tra i piedi a ogni passo. Che orrore. Un giovanotto come si deve non dovrebbe entrare nella polizia.

Si rivolse alla nipote. Nannie chiedeva di te. Per il pesce. Che noia!

sospirò Sophia. Vado subito.

Si diresse in fretta verso la casa. La vecchia signorina si incamminò lentamente nella stessa direzione. Io mi misi al suo fianco. Non sapremmo come fare senza Nannie disse lei. Quasi tutti hanno in casa una vecchia Nannie che lava, stira, cucina… sono fedelissime. La nostra l’ho assunta io, molti anni fa.

Si fermò per liberare il piede da un’erbaccia che vi si era impigliata.

Che roba! brontolò. Si ha un bel pulire, si ha un bel darsi da fare, ma mai che si riesca a tenere in ordine.

Calpestò più volte, rabbiosamente, l’erbaccia.

Brutto affare, caro signor Hayward disse guardando verso casa. Che ne pensa la polizia, del fatto? Ma già, è inutile chiedervelo. Io, poi, non riesco a convincermi che Aristides sia stato avvelenato. Per la verità, non riesco nemmeno a credere che sia morto. Per quanto mi riguarda, l’ho sempre detestato, ma non posso arrendermi all’idea che non ci sia più. La casa sembra vuota, senza di lui.

Non risposi per non interromperla. Edith de Haviland sembrava in vena di reminiscenze.

Ci pensavo stamattina continuò. Sono qui da più di quarant’anni. Venni qui alla morte di mia sorella. Fu lui a chiedermelo. Sette figli: il più piccolo aveva un anno. Potevo permettere che venissero allevati da un greco qualsiasi? No. Era stato un matrimonio detestabile, a mio modo di vedere, quello di mia sorella Mary! Ipnotizzata da quel meridionale. Devo comunque dire che lui mi ha lasciato piena libertà, in fatto d’amministrazione. Ho potuto pensare come volevo alle bambinaie, alle governanti, agli studi. Anche per l’alimentazione ho fatto a modo mio. Mi sono ben guardata dal nutrirli con gli orribili piatti del suo paese che lui voleva per sé.

E da allora, non vi siete più mossa di qui?

No. Anche se sembrerà strano. Quando i bambini, diventati grandi, si sposarono, avrei potuto anche andarmene, ma non l’ho fatto. Chissà, forse mi ero affezionata al giardino. O forse è stato per Philip. Un uomo che sposa un’attrice non può aspettarsi che l’organizzazione familiare sia delle migliori. E così ho dovuto occuparmene io. Mi chiedo perché le attrici mettano al mondo dei figli. Appena nata la bambina, lei se n’è andata a Edimburgo per una serie di recite. Philip, del resto, ha fatto una cosa intelligente, a un bel momento: ha preso tutti i suoi libri ed è venuto a stabilirsi qui.

Di che cosa si occupa Philip Leonides? chiesi.

È scrittore. Non so per quale motivo insista a scrivere dato che nessuno legge i suoi libri. Trattano di particolari episodi storici che proprio non interessano. Infatti, non avrete mai sentito parlare di lui, vero?

Ammisi che era così.

Ha troppo denaro proseguì la signorina de Haviland. Questo è il suo male. Molta gente metterebbe da parte le fantasie e imparerebbe a vivere, se avesse meno denaro.

Gli rendono qualcosa i suoi libri?

Nemmeno per sogno. Ma lui è convinto di essere qualcuno nel campo delle ricerche storiche. Del resto, non ha bisogno che gli rendano, i libri.

Aristides gli aveva fissato una rendita di circa centomila sterline. Una cifra enorme. Senza considerare, poi, l’eredità che sarebbe venuta. Il vecchio voleva che i suoi figli fossero finanziariamente indipendenti. Roger dirige la Cooperativa Ristoranti, Sophia ha una forte rendita, e in banca c’è un capitale che frutta per i bambini.

Allora, nessuno era in attesa dell’eredità. Mi diede una strana occhiata.

Con l’eredità, ciascuno avrebbe aumentato il proprio capitale. Ma non era necessario che morisse. Anche da vivo, avrebbe dato loro tutto il denaro che avessero chiesto.

Avete qualche sospetto sulla persona che può aver commesso il delitto, signorina de Haviland?

Ci pensò un momento, poi rispose: No, davvero! Certo, la cosa mi ha 

sconvolta. Non è divertente sapere che in famiglia c’è un Borgia redivivo.

E la polizia, immagino, si accanirà contro la povera Brenda.

Perché? Non la credete sulla strada buona?

Non saprei. Ho sempre considerato Brenda una donnina inutile e sciocca, e non riesco davvero a vederla nel ruolo di avvelenatrice.

Riconosco che, se una donna di ventiquattro anni sposa un uomo di quasi ottanta, lo fa solo per denaro. È naturale, quindi, che desiderasse diventare al più presto una ricca vedova. E poiché Aristides era singolarmente robusto e, nonostante il diabete, minacciava di vivere cent’anni, non è escluso che si sia stancata di aspettare.

In questo caso…

In questo caso, tanto meglio. Tutto si risolverebbe in uno scandalo, ma, dopotutto, lei non è della famiglia.

Non avete altre supposizioni da fare? Quali altre supposizioni potrei fare?

Rimasi pensieroso. Sospettavo che, sotto quel vecchio cappelluccio di feltro, si agitassero più pensieri di quanti la signorina non ne esprimesse.

Dietro quell’apparenza sbrigativa, quasi scostante, si indovinava un cervello attivissimo. Mi chiesi, per un momento, se l’assassina non fosse proprio lei.

L’idea non era assurda. Ricordavo la violenza con cui aveva battuto in terra il piede per liberarsi di una cosa che le dava fastidio, ricordavo il vocabolo usato da Sophia. Crudeltà. La guardai di sottecchi.

Se avesse avuto una buona ragione per farlo, forse… Ma quale poteva essere questa buona ragione? Non conoscevo ancora l’ambiente e le persone per rispondere a questo interrogativo.

6.

Venni introdotto in un atrio spaziosissimo, arredato fastosamente con mobili di quercia scura muniti di maniglie d’ottone lucenti. Di fronte alla porta d’ingresso, dove normalmente è visibile la scala che conduce ai piani superiori, si alzava, quasi a fare da schermo, una parete bianca con una porta.

Di lì mi spiegò la signorina si entra nella parte della casa riservata a mio cognato. Il piano terreno, invece, appartiene a Philip e a Magda.

Aprì una porta sulla sinistra e mi introdusse in un vasto salotto. Le pareti erano tappezzate d’azzurro, i divani e le poltrone erano ricoperti di pesante broccato. Sui vari tavolinetti e alle pareti c’era un gran numero di fotografie di attori, attrici e ballerini e disegni di scene teatrali. Su tutto, risaltava il dipinto di una ballerina di Degas. C’era profusione di fiori, soprattutto enormi crisantemi gialli e garofani multicolori, artisticamente disposti in vasi di pregio.

Immagino che vorrete vedere Philip disse la signorina de Haviland.

Vedere Philip? Giuro che la cosa m’interessava assai poco. Invece avrei voluto rivedere Sophia, che aveva tanto calorosamente approvato il progetto di mio padre e che adesso, in cucina, era occupatissima a preparare il pesce, dopo avermi lasciato solo a decidere come comportarmi. Dovevo presentarmi a Philip Leonides come pretendente della figlia, come un amico capitato di passaggio, oppure come un alleato della polizia?

La signorina non mi lasciò il tempo di rispondere alla sua affermazione.

Evidentemente non si era trattato di una domanda: lei mi pareva infatti più incline a comandare che a chiedere.

Andremo in biblioteca disse infatti.

Usciti dal salotto e attraversato un corridoio, entrammo in un’altra stanza, una sala vastissima, carica di libri. I volumi non erano confinati negli scaffali alti fino al soffitto, ma sparsi sulle poltrone, sui tavoli, perfino sul pavimento. Nonostante ciò, non davano l’impressione di essere in disordine. L’atmosfera dell’ambiente era fredda, e mancava il caratteristico odore degli studi maschili: l’aroma del tabacco. Infatti, Philip Leonides non fumava. Quando entrammo, lui si alzò. Era alto, sulla cinquantina, straordinariamente bello. Avevo sentito parlare moltissimo della quasi leggendaria bruttezza di Aristides Leonides e, non so perché, mi aspettavo che il figlio fosse altrettanto brutto. Comunque, non ero davvero preparato a quella perfezione di lineamenti. Naso diritto, ovale perfetto, fronte ampia, capelli nerissimi, ondulati, appena spruzzati d’argento alle tempie.

Ecco Charles Hayward mi presentò la signorina, rivolta a Philip. Piacere disse lui.

Mi chiedevo se avesse già sentito parlare di me, mentre mi tendeva freddamente la mano, con espressione distaccata. Quel tono gelido mi dava maledettamente ai nervi.

La signorina de Haviland chiese: Dove sono quegli odiosi poliziotti?

Sono stati qui?

Credo che l’ispettore… come si chiama… Guardò un foglio sul tavolo.

Taverner… credo che verrà tra poco a parlare con me. Dov’è adesso?

Non so, zia Edith. Forse di sopra. Con Brenda?

Proprio non so.

Per la verità, guardando Philip Leonides ci si chiedeva come avesse potuto avvenire un assassinio nell’atmosfera respirata da lui. Magda è già alzata? chiese ancora la zia.

Non so. Di solito non si alza prima delle undici. È proprio da lei puntualizzò Edith de Haviland.

In quel momento si spalancò una porta dietro le mie spalle e una figura femminile fece il suo ingresso. Sembrava che fossero entrate tre donne invece di una. Fumava una sigaretta da un lunghissimo bocchino e indossava una vestaglia di seta color pesca di cui reggeva lo strascico con una mano. Una cascata di capelli color tiziano le pioveva sulle spalle.

Aveva un volto senza ombra di trucco, materialmente e spiritualmente, dall’aria ancora insonnolita. Gli occhi erano grandi e blu e cominciò un soliloquio con voce strascicata ma armoniosa.

Tesoro! È una cosa insopportabile, proprio insopportabile. Pensa a quando la notizia sarà sui giornali! Dio! E dovrò sopportare anche un interrogatorio, vero? Non so proprio come dovrò vestirmi, per l’occasione.

In nero, no. Forse il rosso cupo sarebbe più intonato. Il guaio peggiore è che ho perduto l’indirizzo di quel tale che mi procurava i buoni alla borsa nera. Adesso, se andassi a cercarlo, la polizia mi seguirebbe e sarebbero guai. Philip! Ma come fai a startene così calmo? Non ti rendi conto che adesso avremmo potuto andarcene da questa orribile casa? Dio, Dio, la libertà! Fin che era vivo lui non ci si poteva allontanare. Povero vecchio!

Ci voleva troppo bene. A dispetto delle malignità che quella Brenda metteva in giro su fantasiosi apprezzamenti fatti da lui contro noialtri. Che perfida creatura! Se ce ne fossimo andati lasciandolo in mano a quella donna, avrebbe finito con l’influenzarlo contro di noi. Povero, caro vecchio! Del resto, aveva già quasi novant’anni e a quell’età anche i caratteri più forti s’indeboliscono… Sai cosa penso, Philip? Credo che sia un’ottima occasione per rappresentare quella commedia di Edith Thompson. Questo delitto ci procurerà molta pubblicità. Bildenstein vorrebbe formare una compagnia per mettere in scena un drammone in  versi sulla vita dei minatori. L’occasione può esser buona. La mia parte è bellissima. So che si ostinano a dire che dovrei attenermi al repertorio brillante per via del nasetto all’insù. Se è per questo, ci sono tante commedie brillanti che piacciono e che fanno tenere il fiato sospeso fino all’ultima scena. So come si recitano. Si assume quell’aria svagata, un po’

frivola, che piace sempre al pubblico…

Col braccio fece un ampio gesto, e la sigaretta cadde dal bocchino andando a bruciacchiare la scrivania in mogano di Philip. Lui, sempre impassibile, la raccolse e la schiacciò nel portacenere.

E poi bisbigliò Magda Leonides, spalancando improvvisamente gli occhi solo terrore…

L’espressione di paura aleggiò sul suo viso per circa venti secondi, poi assunse un aspetto rilassato e si trasformò infine in un viso infantile, imbronciato, pronto alle lacrime.

Improvvisamente tutte queste emozioni furono cancellate come da un colpo di spugna e, girandosi verso di me, domandò in tono serio: Non vi pare, signore, che potrei sostenere parti sia tragiche sia brillanti con identico successo?

Risposi che certo era così. Per la verità, non avevo nessun elemento di giudizio, ma volevo riuscire gradito alla madre di Sophia. La donna riprese a parlare al marito: Quando vedrò l’ispettore…

Lui ebbe un brivido impercettibile.

Non è affatto necessario che tu veda l’ispettore, Magda.

Come? Ma caro, non hai alcuna immaginazione! Dovrò parlargli a lungo, anzi. Vorrà conoscere tutti i particolari, le piccole circostanze che ciascuno di noi può avere osservato…

Mamma! esclamò Sophia, che era entrata in quel momento. Spero che non andrai a raccontare all’ispettore le tue solite fantasie. Sophia… cara!

Su, mamma, il tuo saggio di recitazione l’hai già fatto. Ma non va.

Occorrono sentimenti meno scoperti, meno enfasi, un senso di dolente protezione verso le persone della famiglia.

Il volto di Magda rivelò uno stupore ingenuo, infantile. Ma io sarò capace…

Sì, mamma, lo credo. Comunque, ti ho preparato la cioccolata. È in salotto.

Oh, bene, stavo morendo di fame.

Sulla soglia si fermò, e rivolta a me disse: Non sapete quanto sia 

Agatha Christie

24

1949 - È Un Problema

delizioso avere una figlia.

E con questa affermazione finì il suo spettacolo.

Sa il cielo cosa diavolo racconterà alla polizia, quella! disse la signorina de Haviland.

Non ti preoccupare la rassicurò Sophia. Ti rendi conto che è un’irresponsabile?

Sta’ tranquilla disse Sophia. La mamma reciterà come vuole il regista. E

il regista sono io.

Uscì, per rientrare subito dopo.

Papà disse c’è l’ispettore Taverner. Ti dispiace se rimane qui anche Charles?

Vidi un’espressione sbalordita formarsi sul viso di Philip Leonides, e non potei che giustificarla. Ma il suo autocontrollo vinse ancora una volta.

Rimanga, rimanga pure.

Taverner entrò: tranquillo, sicuro di sé, con l’aria di un uomo d’affari che ha un grosso colpo in vista.

Mi dispiace darvi questa noia disse. Ma spero di risolvere presto la faccenda e lasciarvi in pace. In questo caso, nessuno sarà più contento di me. Non ho la vocazione per la parte del carnefice.

Parlando, aveva avvicinato una poltrona alla scrivania, sedendosi accanto al telefono. Io sedetti poco discosto.

Ai vostri ordini, ispettore disse Philip, e si sedette a sua volta. La signorina de Haviland chiese: Avete bisogno di me, ispettore? Per il momento no, signorina. Più tardi, se non vi rincresce, scambierò due parole anche con voi.

Bene. Mi troverete di sopra disse, e uscì. Ai vostri ordini, ispettore ripeté Philip.

So che siete molto occupato cominciò Taverner e non voglio portarvi via troppo tempo. Ma posso dirvi, in via confidenziale, che i nostri sospetti sono ormai confermati: vostro padre non è morto di morte naturale. Il suo decesso è stato causato da una dose eccessiva di fisostigmina, meglio conosciuta sotto il nome di eserina. Philip annuì; ma il suo volto non mostrò alcuna particolare emozione. Vorrei sapere continuò Taverner se nutrite qualche sospetto. Cosa dovrei congetturare? Sono dell’opinione che mio padre abbia ingerito il veleno per errore.

Davvero pensate così, signor Leonides?

Mi sembra una versione assai verosimile. Aveva quasi novant’anni come Agatha Christie

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1949 - È Un Problema

sapete, e una vista imperfetta.

Secondo voi avrebbe riempito la boccetta dell’insulina con le gocce per gli occhi? Ma vi sembra davvero credibile?

Philip non rispose. Il suo volto era più che mai impassibile. Taverner proseguì: Abbiamo ritrovato il contagocce dell’eserina nella spazzatura.

Nessuna impronta digitale sul vetro. Se la cosa fosse normale, qualche impronta ci dovrebbe essere: di vostro padre o di sua moglie o del cameriere.

Philip trasalì. Poi, con affettazione, disse: Che c’entra il cameriere?

Temete che sospettiamo di lui? Certo, le occasioni non gli sarebbero mancate, ma non si riuscirebbe a capire la ragione di un simile gesto da parte sua. Vostro padre aveva l’abitudine di dargli una gratifica, oltre lo stipendio, e ogni anno gliel’aumentava. Inoltre, aveva dichiarato che tale elargizione sostituiva la somma che avrebbe voluto destinargli come legato per testamento. Dopo sette anni di servizio, la cifra annuale si era fatta considerevole. A parer mio, a Johnson conveniva che vostro padre vivesse il più a lungo possibile. Inoltre era in rapporti eccellenti con il suo padrone, e ha un passato irreprensibile. Risulta onestissimo e fedele.

Nessun sospetto, quindi, su di lui.

Philip, impassibile, disse: Benissimo.

Ora, signor Leonides, vorreste darmi qualche particolare su come avete trascorso la giornata in cui è morto vostro padre? Certo, ispettore. Sono rimasto tutto il giorno in questa stanza. Fatta eccezione per le ore dei pasti, naturalmente.

In tutto il giorno non avete visto vostro padre?

Ci siamo salutati la mattina, dopo colazione, come al solito. Eravate solo con lui?

C’era anche la mia matrigna.

Avete notato qualcosa di anormale, in lui?

Con una punta d’ironia, Philip rispose: No. Non aveva scritto in faccia che era destinato a essere ucciso proprio quel giorno. L’appartamento di vostro padre è del tutto separato da questo? Sì. Vi si accede solo dalla porta che si trova nell’ingresso. E quella porta, normalmente, rimane chiusa?

No. Mai?

Non mi risulta che venisse mai chiusa.

Quindi ognuno poteva passare liberamente da una parte all’altra della casa?

Appunto. Stavamo separati solo per rispetto alla reciproca libertà. Come avete saputo della morte di vostro padre?

Da mio fratello Roger, che occupa l’ala est del piano superiore. Si è precipitato giù a dirmi che papà aveva avuto un attacco improvviso. Mi sono subito recato da lui e l’ho trovato che stentava a respirare e appariva stremato.

Che cos’avete fatto allora?

Ho telefonato subito al medico. Evidentemente nessuno ci aveva ancora pensato. Il dottore non era in casa e quindi ho lasciato un messaggio pregandolo di venire appena possibile.

Poi?

Mio padre stava molto male ed è morto prima che il medico arrivasse.

La voce di Philip non era incrinata da alcuna emozione. Sembrava che raccontasse un fatto di cronaca.

Dove si trovavano gli altri familiari?

Mia moglie era a Londra. Tornò poco dopo. Credo che non ci fosse nemmeno Sophia. Invece i piccoli Eustace e Josephine erano in casa.

Spero che non mi riterrete troppo indiscreto, signor Leonides, se vi chiedo che cosa succederà alla vostra situazione finanziaria dopo la morte di vostro padre.

Sono ammirato dalla minuziosità delle vostre indagini. Mio padre ci aveva resi finanziariamente indipendenti molti anni fa. Mio fratello Roger era stato messo a capo della Cooperativa Ristoranti in qualità di direttore e principale azionista. A me, aveva dato un capitale che considerava equivalente alla posizione di mio fratello. Ora, fra titoli, assicurazioni e altro, quel capitale può essere valutato intorno alle centocinquantamila sterline circa. Potevo usare il capitale a mio piacimento. La stessa somma era stata assegnata alle mie due sorelle, che però sono morte da tempo.

E, dopo tutto questo, vostro padre poteva ancora considerarsi ricco? Per sé aveva riservato una rendita quasi modesta. Diceva che, così, la vita lo interessava di più. Da quel momento, infatti e per la prima volta un lieve sorriso gli increspò le labbra grazie a varie speculazioni, divenne più ricco di prima, se possibile.

Voi e vostro fratello siete venuti ad abitare nella casa paterna in seguito a qualche dissesto finanziario?

No. Mio padre insisteva sempre nel dirci che saremmo stati i benvenuti in casa sua. Per ragioni familiari trovai conveniente questa sistemazione e 

venni qui con i miei nel 1937. Ero molto affezionato a mio padre. Non pagavo affitto, ma sostenevo la mia aliquota di tasse. E vostro fratello?

Mio fratello si stabilì qui in seguito al bombardamento della sua casa londinese, nel 1943.

Conoscete, in qualche modo, le disposizioni testamentarie di vostro padre?

Le conosco benissimo. Rifece il testamento qualche anno fa. Riunì la famiglia e ci lesse le clausole. Credevo che l’avvocato Gaitskill vi avesse già informato di tutto. A ogni modo, riassumendo, le cose stanno così: un lascito di centomila sterline, libere da tassa di successione, alla mia matrigna, in aggiunta alla quota legittima che le spetta come vedova. Il rimanente del patrimonio è stato diviso in tre parti uguali: una destinata a me, l’altra a mio fratello, la terza da tenere a frutto per i tre nipoti. Il patrimonio è vistoso ma, naturalmente, le tasse di successione incideranno parecchio. Nessun legato per la servitù o per beneficenza?

No, perché gli stipendi della servitù venivano fortemente aumentati per ogni anno di servizio prestato.

Scusate ancora, signor Leonides, ma… come vanno attualmente le vostre finanze?

Come ben sapete, oggigiorno paghiamo tasse enormi, ma le mie entrate sono largamente sufficienti per le esigenze del fisco, per quelle mie e di mia moglie. Inoltre, il povero papà ci faceva spesso consistenti regali in denaro, e in caso di necessità interveniva con aiuti immediati.

Con un freddo sorriso, aggiunse: Su questo posso tranquillizzarvi, ispettore. Nessuna ragione finanziaria poteva farmi desiderare la morte di mio padre.

Mi rincrescerebbe molto se avessi offeso la vostra suscettibilità, signor Leonides, ma il nostro dovere comporta anche questo tipo di indagini. E

ora debbo rivolgervi qualche domanda un po’ delicata. Correvano buoni rapporti tra vostro padre e sua moglie?

Rapporti ottimi, a quanto mi risulta. Nessun litigio?

Non credo.

La differenza d’età era forte? Sì, molto.

Avevate approvato il secondo matrimonio di vostro padre? Nessuno chiese la mia approvazione.

Questa non è una risposta, signor Leonides.

Dal momento che insistete, vi dirò che consideravo quel matrimonio una 

pazzia.

Avete fatto qualche tentativo per dissuadere vostro padre? No, perché mi sono trovato di fronte al fatto compiuto. È stato un dispiacere per voi?

Philip non rispose.

Voglio dire insistette Taverner questo fatto ha destato in voi qualche risentimento?

Mio padre era perfettamente libero di agire come meglio gli piaceva. I vostri rapporti con la signora Leonides sono sempre stati cordiali?

Sempre. Anche amichevoli? Ci vediamo di rado.

Potete dirmi qualcosa di Lawrence Brown? No. Dopotutto, l’aveva assunto mio padre.

Ma come precettore dei vostri figli, signor Leonides.

Giustissimo. Mio figlio ha sofferto di paralisi infantile. Fortunatamente si trattava di un caso leggero. I medici consigliarono di non mandarlo alla scuola pubblica, e mio padre allora decise l’assunzione di un precettore per il bambino e per mia figlia Josephine. La scelta, in quell’epoca, era assai limitata a causa della guerra: costui era disponibile perché dichiarato inabile al servizio militare. Le informazioni risultarono ottime. Mio padre e la zia, che si erano sempre occupati dei bambini, ne furono molto soddisfatti. Io posso dire che il suo insegnamento è stato sempre serio e coscienzioso.

Alloggia negli appartamenti di vostro padre, vero? Sì.

Non avete mai osservato qualche segno che suggerisse un’intesa tra il giovanotto e la vostra matrigna?

Mai.

E non vi è giunto all’orecchio qualche pettegolezzo in proposito? Non sono abituato ad ascoltare i pettegolezzi, ispettore.

È un po’ strano, signor Leonides. Non avete visto niente, non avete sentito niente. Sembrate estraneo a tutto.

Prendetela come volete, ispettore, ma la realtà è così. Taverner si alzò.

Bene. Vi ringrazio signor Leonides.

Mi affrettai dietro di lui e uscii anch’io dalla stanza. Accidenti! disse Taverner. Quello ne ha, di sangue freddo… più di un pesce!

7.


E ora disse l’ispettore andiamo a scambiare due parole con la moglie del signor Philip. Il suo nome d’arte è Magda West, se non sbaglio.

È una brava attrice? chiesi. L’ho sentita nominare e probabilmente l’avrò anche vista in qualche spettacolo, ma non riesco a ricordare quando e dove.

Vedete, la signora Magda è una di quelle donne di teatro che si trovano sempre vicine al successo ma che non lo raggiungono mai. Ha un certo nome, per la verità, ma recita soprattutto nei piccoli, eleganti teatri privati.

Per mio conto, tutto dipende dalla certezza che ha di non doversi guadagnare la vita col proprio lavoro. Ha sempre potuto scegliere. Qualche volta si è permessa anche il lusso di finanziare una compagnia per ottenere la parte di protagonista in commedie che le piacevano, anche quando si trattava di parti non adatte a lei. Come risultato, ha finito col retrocedere, anziché progredire. Pare che abbia un certo talento, specialmente nel genere comico sentimentale. Gli amministratori delle compagnie, però, non l’hanno troppo in simpatia. L’accusano di essere prepotente, intrigante.

Magari le accuse non corrispondono a verità, ma è certo che lei non è popolare nell’ambiente artistico.

In quel momento ci raggiunse Sophia, che usciva dal salotto. Mia madre vi aspetta, ispettore.

Seguii Taverner nel grande salone. In un primo momento quasi non riconobbi la donna che stava seduta in una poltrona damascata. La chioma tizianesca era raccolta sul capo, in un’acconciatura ottocentesca; indossava un magnifico abito a giacca di pesante seta grigio scura e, sotto, una camicetta color malva, chiusa al collo e fissata con un cammeo. Soltanto allora rimasi colpito dal grande fascino di quella donna.

L’ispettore Taverner? chiese. Accomodatevi. Una sigaretta? Che storia orribile, vero? Non vedo l’ora d’uscirne.

Parlava a voce bassa, quasi monotona. Era evidente lo stretto controllo che esercitava sul proprio carattere.

Ditemi in cosa posso esservi utile, ispettore.

Grazie signora. Vorrei sapere se eravate presente al momento della tragedia.

Stavo tornando da Londra in macchina. Avevo pranzato da Ivy con un’amica, poi eravamo andate a una sfilata di modelli, infine, con alcuni conoscenti, a un cocktail da Berkeley. Come dicevo, presi la via del ritorno e quando arrivai qui, tutto era sottosopra. Mi dissero che mio suocero era 

morto per un attacco improvviso del suo male. La sua voce aveva tremato impercettibilmente.

Volevate bene a vostro suocero?

Lo adoravo! disse in tono enfatico e a voce alta.

Sophia si mostrò occupatissima a raddrizzare il Degas appeso alla parete.

Subito Magda riabbassò il tono della voce e riprese l’atteggiamento composto di poco prima.

Ripeté, tranquilla: Sì, gli volevo molto bene. Tutti l’amavano. Lui era assai buono con noi.

E con la signora Leonides, andate d’accordo? Ci frequentiamo poco.

Per quale ragione?

Non abbiamo niente in comune. Povera, cara Brenda. Qualche volta, per lei, la vita dev’essere stata difficile in casa nostra.

Di nuovo Sophia si mise a trafficare intorno al Degas. Davvero?

l’incalzò Taverner. Difficile in che senso? Non saprei… rispose Magda con un lieve sorriso. La signora Leonides era felice con suo marito? Credo di sì.

Nessun litigio?

La donna sorrise di nuovo, scuotendo il capo.

Non lo so, ispettore. Il loro appartamento è diviso dal nostro. La signora Brenda e il signor Lawrence Brown sono molto amici, vero? Magda s’irrigidì. Lanciò a Taverner un’occhiata di disapprovazione e rispose, con molta dignità: Mi sembra che non abbiate il diritto di chiedermi cose di questo genere. Brenda è amica di tutti. È una creatura amabilissima.

Che cosa pensate del signor Brown?

È un individuo tranquillo. Non ci si accorge quasi di averlo in casa. L’ho visto poche volte.

Il suo metodo d’insegnamento vi soddisfa? Non saprei… Philip ne sembra contento.

A un tratto, Taverner tentò la carta della sorpresa.

I rapporti tra la signora Brenda e il signor Lawrence sono di natura amorosa, naturalmente, vero?

Lei si alzò in piedi e, con atteggiamento da gran dama, esclamò: Non ho mai notato nulla che potesse farmi pensare a una cosa del genere. Non dimenticate, ispettore, che si tratta della moglie di mio suocero.

Come attrice, andava davvero applaudita.


Si alzò anche l’ispettore, che disse, malizioso: Secondo voi, dunque, sarei più delicato se mi rivolgessi alla servitù per informazioni del genere.

Magda non rispose.

Comunque grazie, signora Leonides concluse lui, e si congedò. Sei stata magnifica! esclamò Sophia con calore.

Magda si assestò un ricciolo dietro l’orecchio, guardandosi allo specchio.

Sì disse credo di aver recitato bene.

Sophia mi guardò.

Non dovevi seguire l’ispettore? Senti, Sophia… vorrei sapere…

Ma dovetti interrompermi. Non potevo, davanti a sua madre, rivolgerle la domanda che mi assillava, cioè quale doveva sembrare la mia parte in quella casa. D’altronde, pareva che questo non avesse grande importanza, per il momento. La signora Leonides non si accorgeva neanche di me.

Potevo essere un giornalista o il fidanzato della figlia, un poliziotto o una spia, e lei m’avrebbe gratificato della medesima svagata indifferenza.

A un tratto, Magda Leonides sospirò con disappunto.

Queste scarpe sono state un errore: troppo frivole per l’occasione.

Obbedendo all’imperioso gesto di Sophia che mi indicava la porta, mi affrettai a seguire la stessa via di Taverner. Lo raggiunsi nell’ingresso, mentre stava per salire al piano di sopra.

Vado a far visita al fratello maggiore mi disse. Sentite, Taverner gli dissi.

Prima ditemi qual è il mio ruolo in questa casa.

Lui mi guardò stupito.

Voglio sapere qual è la mia funzione ufficiale qua dentro. Se qualcuno me lo chiede, che cosa rispondo?

Lui rifletté un istante, poi sorrise. Finora nessuno vi ha fatto domande?

No.

E allora lasciate le cose come stanno. Niente spiegazioni. In una casa sottosopra come questa, ciascuno è troppo impegnato con i suoi problemi e timori per avere il tempo di fare domande. È sempre un errore dire anche una sola parola, se non è necessario. Ora, andiamo di sopra. La porta è aperta. Naturalmente so già che le prossime domande ci condurranno allo stesso risultato delle precedenti. Ha un valore molto relativo, il sapere chi era in casa al momento della tragedia e dove si trovavano i vari componenti della famiglia se non erano presenti.

Ma allora, perché questo lavoro?

Perché gli interrogatori mi danno l’occasione di studiare le persone da 

vicino, di valutarle, di farmi un’idea delle loro opinioni e del loro carattere.

E c’è sempre la speranza che qualcuno, involontariamente, fornisca un indizio utile. La signora Magda, per esempio, se l’avessimo lasciata fare, ci avrebbe sommersi con un fiume di parole.

Forse. Le informazioni, però, sarebbero state poco attendibili.

Probabilmente. Ma avrebbero magari potuto indicarci una linea di condotta. Quello che sto cercando di capire, è il movente del delitto.

In cima alla scala scorgemmo subito, a destra, una porta chiusa. Taverner bussò.

Immediatamente ci venne aperto da un uomo che doveva essere di guardia lì dietro. Era una specie di gigante dall’aspetto primitivo: spalle poderose, capelli neri scompigliati, un viso brutto, ma molto simpatico. Ci guardò, poi volse altrove lo sguardo col tipico imbarazzo dei timidi.

Ah, siete venuti… Entrate. Naturalmente… Stavo per uscire, ma non fa niente. Entrate… Passate in salotto. Chiamo subito Clemency…

L’uomo proseguì, vedendola: Ah, sei qui, cara? Ecco… C’è l’ispettore Taverner. Hai sigarette da offrire? Io devo andare…

Aspetta un minuto… Sì, vado… Torno subito.

Sgusciò fuori e sembrò che fosse uscito un calabrone, per il silenzio improvviso che si fece dietro di lui.

La moglie di Roger era in piedi accanto alla finestra. Rimasi subito colpito dalla personalità che quella donna sprigionava, e dall’atmosfera della stanza, che doveva essere la sua. Pareti bianche, di un bianco deciso, non avorio. Completamente nude salvo per un quadro, collocato sulla mensola del caminetto, che rappresentava una fantasia geometrica di triangoli grigio scuri tagliati da segmenti azzurri. L’ambiente era ammobiliato con lo stretto necessario: tre o quattro poltrone, un tavolino col piano di vetro, uno scaffale. Nessun soprammobile, nessun drappeggio.

In quella camera dominavano soltanto la luce, l’aria, lo spazio. Com’era diversa da quella del piano di sotto, pesante di broccati, carica di soprammobili! Del resto anche la signora Clemency Leonides appariva, a prima vista, molto differente dalla cognata. Mentre l’altra incarnava una decina di donne diverse, lei mostrava una personalità ben definita, che non le avrebbe mai permesso di essere diversa da se stessa. Dimostrava cinquant’anni circa. Aveva i capelli grigi tagliati corti alla maschietta, un’acconciatura che si addiceva alla piccola testa rotonda; volto intelligente, marcato, grandi occhi grigi dallo sguardo intenso. Indossava 

un abito di lana rosso cupo, di foggia semplicissima che modellava a perfezione la sua figuretta sottile. Sentii immediatamente che doveva essere una donna allarmante. Subito capii la frase di Sophia quando aveva parlato della sua crudeltà. La stanza era fredda e io rabbrividii.

Clemency Leonides ruppe il silenzio e disse, con voce pacata: Accomodatevi, ispettore. Avete scoperto qualcosa?

Sì. La morte è stata causata da eserina.

Allora si tratta proprio di assassinio. Non può esserci errore? No, signora Leonides.

Vi prego solo, ispettore, di essere molto gentile con mio marito. È una creatura sensibilissima. Adorava suo padre. Col suo carattere emotivo, è in uno stato di prostrazione spaventosa.

Eravate in buoni rapporti con vostro suocero, signora? Ottimi. Ma non avevo molta simpatia per lui.

Perché?

Non mi piacevano i suoi scopi, né i mezzi che usava per raggiungerli.

E la signora Brenda rientra nelle vostre simpatie? Brenda? Ma… la frequento così poco.

Pensate che ci sia qualcosa fra lei e il signor Brown? Intendete dire rapporti intimi? Non credo. In ogni caso, io non ho davvero occasioni per saperlo.

Appariva del tutto priva di curiosità in proposito. In quel momento entrò Roger, senza le sigarette che era andato a cercare. Ho dovuto trattenermi…

Una telefonata… Ispettore, che c’è di nuovo? Avete scoperto la causa della morte di mio padre? Avvelenamento da eserina.

Dio mio! E pensare che è stata quella donna. Non poteva aspettare, pazientare ancora un poco? Si può dire che lui l’aveva tolta dalla strada…

bella ricompensa! L’ha assassinato a sangue freddo. Mi si rimescola il sangue, a pensarci!

Avete qualche particolare motivo per credere che la colpevole sia lei?

chiese Taverner.

Roger camminava avanti e indietro, tormentandosi i capelli. Motivi? E

chi altri potrebbe aver commesso un atto simile? Del resto, a me non è mai piaciuta: l’ho sempre disprezzata. Philip e io rimanemmo annientati quando mio padre ci comunicò il passo che aveva fatto. Alla sua età! Fu una pazzia. Perché lui era un uomo straordinario, ispettore. Aveva la mente lucida di un quarantenne. Io debbo tutto a lui, nella vita. E pensare che, 

invece, l’ho deluso. Si lasciò cadere pesantemente in una poltrona. La moglie gli andò vicino.

Ora basta, Roger. Non tormentarti…

Sì, cara, hai ragione. Le prese una mano. Ma come posso mantenermi calmo? Come posso sopportare…?

Eppure, dobbiamo mantenerci calmi, Roger. L’ispettore è qui per aiutarci.

Proprio così, signor Leonides disse Taverner. Roger, all’improvviso, gridò: Volete sapere, invece, quello che mi piacerebbe fare? Strangolare quella donna con le mie mani! Se penso che ha tolto a quel povero vecchio i pochi anni di vita che gli restavano… vorrei averla qui, sotto le unghie…

Balzò in piedi. La collera lo scuoteva tutto, le mani si agitavano, convulse. Vorrei strangolarla… strangolarla… gemeva.

Roger! lo richiamò severamente sua moglie. Lui la guardò, vergognoso.

Scusami, cara. Quindi, rivolto a noi: Chiedo scusa. Mi lascio trasportare dalla passione… Perdonatemi.

Uscì dalla stanza.

Clemency osservò con un lieve sorriso: In realtà, non ucciderebbe una mosca…

Taverner non fece commenti e proseguì l’interrogatorio. La signora rispondeva brevemente, con precisione.

Il giorno del delitto, Roger si era recato a Londra, alla Box House, dov’era la sede della Cooperativa Ristoranti. Era rientrato presto, nel pomeriggio, e aveva passato un po’ di tempo col padre, come faceva quasi tutti i giorni. Lei invece era rimasta, come al solito, all’Istituto Lambert in Gower Street, dove lavorava, ed era rientrata poco prima delle sei.

Siete passata anche voi a trovare vostro suocero, al ritorno? No.

Avevamo preso il caffè insieme, dopo cena, il giorno prima. Allora, il giorno della morte non l’avete visto.

No. Sono entrata nel suo appartamento perché Roger aveva detto di avervi dimenticato la pipa, una pipa preziosa alla quale tiene molto. Ma siccome l’ho trovata sul tavolo dell’anticamera, non ho voluto disturbare mio Suocero, che, spesso, faceva un pisolino verso le sei. Quando avete saputo che stava male?

È venuta a dirmelo Brenda, un minuto o due dopo le sei e mezzo. Le domande rivolte da Taverner alla signora non erano molto importanti, lo capivo, ma sapevo quanto fossero utili ai fini di studiare il carattere di lei.


L’ispettore le chiese anche qualcosa circa il suo lavoro. Lei rispose che si occupava di fisica nucleare. Bomba atomica, dunque?

Il principio è lo stesso, ma il nostro istituto persegue fini pacifici con i suoi esperimenti.

Taverner espresse il desiderio di dare un’occhiata al resto dell’appartamento. La signora sembrò un po’ sorpresa, ma acconsentì con buona grazia. La camera coi letti gemelli, le coperte bianche e un semplicissimo tavolino da notte, mi fecero pensare alla stanza di una clinica o a una cella di monastero. Anche il bagno era spoglio, senza tutti i soliti aggeggi femminili. La cucina era nitidissima e apparentemente ben provvista di tutto il necessario. Arrivammo di fronte a una porta, che Clemency aprì dicendo: Questo è lo studio di mio marito.

Avanti! disse Roger. Avanti!

Mi sfuggì un sospiro di sollievo. Fortunatamente, là dentro non c’era nulla della fredda austerità degli altri locali, anzi, ogni cosa rivelava la sensibilità di chi la abitava. Un’ampia scrivania girevole era letteralmente sommersa di fasci di carte, pipe, scatole di tabacco. Tutt’in giro, magnifiche poltrone, ampie e comodissime. C’erano ampi tappeti persiani sul pavimento e alle pareti molti quadri e fotografie sportive o di vita militare. Si notavano acquerelli con deserti, minareti, navi, tramonti, mari in burrasca. Una stanza decisamente simpatica, e modellata per un uomo altrettanto simpatico e cordiale.

Roger ci preparò subito un cocktail, affrettandosi a liberare le poltrone dai libri e dai fogli che le ingombravano.

Scusate se c’è un po’ di disordine. Stavo proprio riordinando le vecchie carte.

L’ispettore rifiutò l’offerta del cocktail, io invece accettai. Dovete perdonare il mio scatto di poco fa continuò Roger. Mi porse un bicchiere, continuando a parlare a Taverner. Qualche volta la passione mi prende la mano.

Si guardò intorno con aria timorosa, come un colpevole, quasi aspettandosi un rimprovero dalla moglie… Ma lei era rimasta fuori della stanza.

È una donna straordinaria! esclamò Roger. Voglio dire, mia moglie. In questa circostanza è stata meravigliosa,semplicemente meravigliosa. Non so dirvi fino a che punto l’ammiri. E dire che ha vissuto esperienze terribili. Il suo primo marito era un uomo di grande valore, ma 

delicatissimo di salute. Insomma, per dire le cose come stanno, era tubercolotico. Faceva ricerche nel campo della cristallografia. Un lavoro faticoso e mal retribuito, ma che lo appassionava. Ebbene, lei si mise a lavorare come una schiava e, quando il marito non fu più in grado di far nulla, lo mantenne, lo curò, non badò a spese pur sapendo che i sacrifici erano inutili, che lui era condannato. E tutto senza mai un lamento, senza mai un attimo di stanchezza. Diceva anzi d’essere felice. Soffrì moltissimo per la morte di lui. Più tardi, si convinse ad accettarmi come marito. Sarei stato molto contento di procurarle finalmente un po’ di benessere. Avrei voluto che smettesse di lavorare, ma eravamo in tempo di guerra e lei ritenne suo dovere non ritirarsi. Ancora adesso, del resto, è più che mai decisa a continuare. Una moglie straordinaria, vi dico. Nessun uomo potrebbe desiderare di meglio. Sono stato proprio fortunato.

Taverner ascoltava con attenzione. Infine, iniziò ancora una volta il consueto interrogatorio.

Quando avete saputo, per la prima volta, che vostro padre stava male?

Brenda era corsa a chiamarmi. Mi disse che mio padre era in preda a un attacco. Avevo lasciato il mio vecchio mezz’ora prima, e stava benissimo.

Corsi di sopra, e lo trovai col viso violaceo e il fiato corto. Andai ad avvertire Philip, che telefonò al medico. Non sapevamo cosa fare per aiutarlo. Naturalmente non ci passava nemmeno per la testa che si trattasse di questa buffa faccenda. Buffa? Ho detto buffa? Ma guarda che razza di parola mi è venuta fuori!

Quando ci trovammo di nuovo sul pianerottolo, Taverner disse: Che contrasto tra un fratello e l’altro! Strano come l’abitazione di una persona rifletta sovente la sua personalità.

Annuii, ed egli aggiunse: Che strani accoppiamenti, non vi pare? Non capii se intendeva riferirsi a Clemency e Roger, oppure a Philip e Magda.

Le sue parole andavano bene per entrambe le coppie. A me sembrava che i due matrimoni si potessero definire felici, specie per Roger e Clemency.

Lui continuò: Non mi sembra che quell’uomo possa essere l’avvelenatore. Che ne dite? Comunque, non si sa mai. Lei ne sarebbe più il tipo. È una donna dura, monomaniaca, e incapace di rimorso, secondo me.

Forse un po’ strana.

Annuii di nuovo e dissi: Però mi sembra troppo intelligente per uccidere un uomo solo perché non ne approva le idee e i metodi di vita. Se avesse davvero odiato il vecchio, allora forse… ma sono stati commessi delitti che 

avessero soltanto l’odio per movente? Pochissimi. Nella mia carriera non ne ho incontrati mai. Mi sembra proprio il caso d’insistere su Brenda. Iddio ci aiuti, però, a trovare le prove.

8.

Bussammo alla porta di fronte a quella di Roger. Ci venne ad aprire una cameriera che, vedendo l’ispettore, assunse un’espressione di malcelato disprezzo.

Desiderate parlare con la signora? Sì, per favore.

Ci accompagnò in un vasto salotto, quindi uscì.

Le dimensioni della stanza erano uguali a quelle del salotto al piano inferiore. Solo che, qui, i divani e le poltrone erano ricoperti di un cretonne a colori vivaci e le tende alle finestre, di cotone a righe, lucevano freschissime. Sopra il caminetto era appeso un ritratto che subito attrasse la mia attenzione: non solo per la bellezza del dipinto, ma per la strana fisionomia del soggetto che aveva posato. Era il ritratto di un vecchio dagli occhi scuri, stranissimi, penetranti, la testa un po’ rientrata nelle spalle e con in capo una calotta di velluto nero. Dalla tela, con forza magnetica, si sprigionavano la vitalità e la potenza dell’uomo: gli occhi acuti, luminosi, sembravano guardarmi fissamente in viso.

Questo è lui disse Taverner. Ritratto da Augustus John. Doveva essere davvero qualcuno. Che ne dite?

Sì mormorai. E il povero monosillabo suonò inadeguato.

Adesso capivo perché la signorina de Haviland aveva detto che la casa sembrava vuota dopo la sua scomparsa. Un diabolico uomo perverso, che aveva concepito una diabolica casa perversa: senza di lui, questa aveva perduto ogni ragione d’essere.

Quella dev’essere la sua prima moglie disse Taverner. Dipinta da Sargent.

Esaminai il quadro, appeso tra le due finestre. Il viso esageratamente allungato, un po’ cavallino, riproduceva le fattezze della tipica signora inglese di provincia: piuttosto bella, ma priva di personalità. Una moglie evidentemente poco adatta all’uomo che dominava persino dal quadro appeso sul caminetto.

La porta s’aprì a un tratto, ed entrò il sergente Lamb. Ho fatto tutte le 

indagini possibili fra la servitù. Nessun risultato.

Taverner sospirò. Il sergente si tolse di tasca il libretto degli appunti e sedette, silenzioso, in un angolo della stanza. Si aprì di nuovo la porta ed entrò la seconda moglie di Aristides Leonides. Indossava un abito nero, evidentemente di alta sartoria, che la inguainava fino al collo, mentre le maniche erano strette ai polsi. Le movenze della donna erano armoniose, indolenti, il volto grazioso era accuratamente truccato, e i soffici capelli castani erano raccolti in un’elaborata acconciatura. Gli occhi, invece, rivelavano tracce di lacrime recenti. Portava al collo un raro vezzo di perle.

A una mano aveva un grosso smeraldo, all’altra uno splendido rubino.

M’accorsi subito che appariva spaventata.

Buon giorno signora disse Taverner gentilmente. Mi rincresce dovervi disturbare di nuovo.

Brenda parlò con voce fioca: Penso che non lo si possa evitare. Se desiderate che il vostro avvocato assista al colloquio, signora, non abbiamo niente in contrario.

Mi chiesi se lei avesse compreso il vero senso di quelle parole, ma parve di no, perché si limitò a rispondere: Non ho simpatia per il signor Gaitskill.

Non lo voglio qui.

Potete procurarvi un avvocato di vostra scelta, signora. Pensate che dovrei farlo? Gli avvocati non mi piacciono troppo, mi confondono.

Decidete voi. Taverner si sforzò di sorridere. Vogliamo procedere, ora?

Il sergente Lamb inumidì la punta della matita con la lingua, mentre Brenda Leonides si sedeva sul divano di fronte all’ispettore. Avete scoperto nulla? chiese.

Notai che con le dita martoriava il nastro di chiffon dell’abito. Abbiamo definitivamente stabilito che vostro marito è morto per avvelenamento da eserina.

Dunque sono state proprio le gocce per gli occhi che l’avrebbero ucciso?

Sì. Con l’ultima iniezione fatta al signor Leonides, voi gli avete iniettato eserina anziché insulina.

Ma io non ne so nulla! Credevo che fosse insulina!

Qualcuno deve aver deliberatamente scambiato il liquido nella fiala. Che malvagità!

Sono d’accordo con voi, signora.

Supponete che qualcuno l’abbia fatto di proposito? Non potrebbe essere stato un errore, uno scherzo?


Taverner si sforzò di mantenersi calmo e rispose: Lasciamo stare lo scherzo, signora.

Magari qualcuno della servitù…

L’ispettore non rispose.

Lei insistette: Non può essere che così. Non vedo chi altri possa essere stato.

Siete certa di quello che dite, signora? Pensateci bene. Non vi risulta che ci sia stato qualche litigio, qualche incomprensione o risentimento, in famiglia di recente?

Sbalordita, lei rispose: No…!

Siete stata al cinema quel pomeriggio, vero?

Sì. Sono rientrata alle sei e mezzo. Era l’ora dell’insulina. Io…

io gli ho fatto l’iniezione, come sempre. Poco dopo, ha cominciato a lamentarsi. Terrorizzata, sono corsa a chiamare Roger. L’ho già detto, l’ho detto fin dal principio. Perché devo continuare a ripeterlo? La voce aveva assunto toni isterici.

Mi dispiace, signora Leonides. Ora vorrei parlare con il signor Brown.

Con Lawrence? Perché? Lui non sa nulla. Devo parlargli lo stesso.

La donna guardò Taverner, sospettosa.

Eustace sta facendo il compito di latino con lui. Volete che lo chiami?

No. Andremo noi da lui.

Taverner uscì, e il sergente e io lo seguimmo. L’avete fatta arrabbiare, signor ispettore disse Lamb.

Taverner emise una specie di ruggito. Ci guidò, attraverso un corridoio, in una grande stanza che dava sul giardino. Al tavolo erano seduti un bell’uomo dai capelli fluenti, sulla trentina, e un ragazzo bruno di circa sedici anni. Sentendoci entrare alzarono gli occhi. Il fratello di Sophia, Eustace, guardò me, e Lawrence Brown fissò, angosciato, l’ispettore Taverner. Mai avevo visto un uomo così paralizzato dallo spavento.

Con un filo di voce, disse: Sì… Buon giorno, ispettore. Buon giorno tagliò corto Taverner. Posso parlarvi un momento? Sì… naturalmente…

certo… con molto piacere.

Eustace si alzò. Con voce simpaticamente arrogante, chiese: Devo andarmene, ispettore?

Bene. Continueremo più tardi disse Brown.

Il ragazzo si diresse lentamente verso la porta. Era arrivato sulla soglia quando sorprese il mio sguardo. Si fece scherzosamente passare l’indice 

attraverso la gola, rise, e chiuse la porta dietro di sé. Dunque, signor Brown disse Taverner il laboratorio d’analisi ha dato il suo responso. La morte del signor Leonides è stata causata da eserina.

Allora, è proprio stato avvelenato? Speravo…

Avvelenato lo interruppe Taverner. Qualcuno ha sostituito l’insulina con l’eserina.

È terribile! Non posso crederlo!

Ora si tratta di stabilire chi aveva interesse a fare una cosa simile.

Nessuno! Nessuno disse lui con angoscia.

Desiderate parlare con l’assistenza di un avvocato di vostra fiducia?

Non voglio avvocati! Non ho niente da nascondere, io. Niente! Non vi rincresce se prendiamo nota di quello che dite? Sono innocente. Ve lo assicuro, sono innocente!

Nessuno ha finora detto il contrario disse Taverner, che proseguì: La signora Leonides è molto più giovane di quanto era suo marito, vero?

Credo di sì… Anzi: sì, senz’altro. Doveva sentirsi sola, qualche volta. Vi pare?

Lawrence non rispose. Si passò la lingua sulle labbra secche. In quei momenti, l’avere un amico della propria età o press’a poco, doveva consolarla continuò implacabile il poliziotto.

Non so… Non so…

Mi sembra naturalissimo che tra voi due sia sorto un… un’affettuosa amicizia, diciamo.

Il giovane protestò.

Non è vero! Non è vero! Quello che pensate non corrisponde a verità. La signora Leonides è stata sempre molto gentile con me, e io ho il massimo rispetto per lei: niente di più. È mostruoso sospettare che ci sia dell’altro.

Non ho mai desiderato che morisse nessuno, io, né avvelenato, né in altro modo. La mia sensibilità mi fa inorridire di fronte alla morte violenta.

Anche in tribunale l’hanno capito. La mia fede religiosa si oppone alla violenza. Sono obiettore di coscienza, io. Tant’è vero che venni assegnato alla Sanità. Poi non ce la feci più per il lavoro pesantissimo e ottenni il permesso di dedicarmi all’insegnamento. Ho fatto del mio meglio, con Eustace e con Josephine. È una ragazza intelligente ma difficile. Tutti mi vogliono bene, qui, e ora arrivate voi a sospettarmi d’assassinio!

Taverner lo guardò con improvviso interesse. Non ho detto questo.

Ma lo pensate. So che lo pensate, tutti lo pensano. Tutti hanno gli occhi 

puntati su di me. Scusate, non ce la faccio più… mi sento male.

Si precipitò fuori della stanza.

Taverner si rivolse a me: Ebbene, che ne pensate? Che ha una paura del diavolo!

Questo sì. Ma è lui l’assassino secondo voi?

Se volete sapere come la penso intervenne Lamb questo qui non avrebbe mai avuto tanto coraggio.

Aggredire qualcuno, estrarre una pistola, sono d’accordo, non l’avrebbe fatto mai. Ma questo è un delitto particolare. Si è trattato di maneggiare due bottigliette, di dare una piccola spinta, in sordina, a un vecchio perché uscisse dalla scena del mondo prima del tempo.

Già. Dell’eutanasia, in pratica disse il sergente.

Per sposare, dopo un decente periodo di tempo, la donna che eredita centinaia di migliaia di sterline e possiede smeraldi e rubini degni delle corti d’Oriente.

Taverner sospirò.

Comunque, per ora, si tratta solo di congetture. Sono riuscito a spaventarlo, questo sì. Ma è comprensibile che abbia paura, anche se è innocente… Io sono più propenso a credere colpevole la donna… c’è un’unica domanda che sconvolge tutto: perché mai non ha fatto scomparire la bottiglietta, o comunque non l’ha lavata?

Si rivolse a Lamb.

La servitù non vi ha detto niente sui rapporti fra questi due? La cameriera afferma che c’era del tenero.

Come può affermarlo?

Dice che ha colto uno sguardo amoroso di lui mentre la signora gli versava il caffè.

Un po’ scarsa, come prova da portare in tribunale!

Eppure, quando c’è qualcosa del genere la servitù riesce sempre ad accorgersene.

Si rivolse a me.

Tornate indietro, andate da solo a intrattenere la signora. Vorrei che vi faceste un’opinione personale.

Obbedii, un po’ tra il riluttante e l’interessato.

9.

Trovai Brenda Leonides seduta nell’identica posizione in cui l’avevamo lasciata. Quando mi vide, si rabbuiò.

E l’ispettore? chiese. Torna anche lui? Per ora, no.

E voi chi siete?

Qualcuno mi rivolgeva per la prima volta la domanda che mi aspettavo fin dal principio. Risposi quasi la verità.

Ho a che fare con la polizia, ma sono anche un amico di famiglia.

Bella cosa, la famiglia! Li odio tutti. Mi guardava imbronciata, sgomenta.

Sono sempre stati cattivi con me; sempre. Fin dal principio. Mi chiedo perché non avrei dovuto sposare il loro prezioso padre. Che cosa ho portato via da qui? Hanno avuto tanti soldi quanti ne volevano. Glieli dava lui, perché da soli non sarebbero stati capaci di guadagnare un soldo!

Fece una pausa, poi riprese: Perché un uomo non dovrebbe riammogliarsi, anche se è anziano? Del resto, lui non era affatto vecchio, per la sua età. Io lo amavo profondamente. Lo amavo, capite? Mi guardò, sospettosa.

Vi credo dissi. Vi credo.

No. Voi lo mettete in dubbio, come gli altri, invece è la verità. Ero disgustata dal comportamento degli uomini. Desideravo una casa, un uomo che mi amasse, che mi viziasse. Aristides mi ha dato tutto questo. Sapeva incantarmi con i suoi discorsi, e anche tenermi allegra. Lo ammiravo anche. Sempre pronto a escogitare espedienti per sfuggire alle ristrettezze delle leggi. Un uomo in gamba come non ne conoscerò mai altri. State sicuro che non mi sento affatto liberata dalla sua morte, ma ne soffro moltissimo.

Si lasciò andare contro lo schienale del divano. La bocca, grande, aveva gli angoli un po’ rivolti in su, in uno strano, pigro sorriso. Continuò: Cosa c’è stato di male in tutto questo? Ero tenera con lui… l’ho fatto felice.

Si raddrizzò di nuovo. E sapete dove l’ho conosciuto?

Senza attendere risposta disse: Servivo a tavola al Gay Shamrock. Lui ordinò uova fritte e pane tostato. Mentre gli porgevo il vassoio, s’accorse che piangevo. Sedetevi mi disse. Raccontatemi tutto. Impossibile risposi mi licenzierebbero. No disse lui questo locale è mio: non sarete licenziata.

Lo guardai fisso. Era un uomo dal portamento eretto e sprigionava un fascino speciale. Gli raccontai la mia storia… La cara famiglia ve l’avrà già 

ripetuta, facendomi apparire una poco di buono. Ma non è vero. Ho ricevuto un’ottima educazione. Mio padre aveva un grande negozio di ricami artistici. E io non ero di quelle ragazze che vanno in giro con questo, o con quello. Ma Terry… un irlandese… era diverso dagli altri…

Partiva per l’America… e poi non si fece più vivo. Me ne andai di casa.

Insomma, ero nei guai.

La sua voce si era fatta acre, poi s’ammorbidì.

Aristides fu magnifico. Mi disse che non dovevo preoccuparmi di nulla, che si sentiva molto solo e che mi avrebbe sposata subito. Mi sembrò un sogno. Solo più tardi seppi che si trattava del grande Leonides, proprietario di un’infinità di ristoranti e locali notturni. Come nelle fiabe, vero?

Già risposi asciutto.

Ci sposammo in una chiesetta della City, e partimmo subito per un viaggio all’estero.

E il bambino? chiesi un po’ meravigliato.

Mi guardò come se mi vedesse da una distanza infinita. Nessun bambino. Era stato un falso allarme.

Sorrise, col consueto sorriso ambiguo che le increspava gli angoli della bocca.

Mi ripromisi di essere una buona moglie per lui. E ci sono riuscita. Gli facevo preparare i cibi che gli piacevano, sceglievo per i miei abiti i colori che prediligeva. Studiavo tutto per farlo contento, e lui era felice. L’unico turbamento alla felicità sua e mia è sempre stata questa famiglia. Tutti intorno a noi, sempre, a spillargli quattrini, a vuotargli le tasche. La vecchia signorina de Haviland, per esempio, avrebbe dovuto andarsene dopo il nostro matrimonio. Ma Aristides disse: Ormai questa è casa sua. E

lei rimase. La verità è che a lui piaceva tenerseli tutti vicini, sotto il suo dominio. Mi detestavano e lui non sembrava accorgersene, o non dava importanza alla cosa. Roger, poi, mi odia addirittura. L’avete conosciuto?

Mi ha sempre odiata. Era geloso. Philip, poi, con le sue arie, non mi rivolge nemmeno la parola. E adesso tentano di accusarmi d’omicidio. Ma io non l’ho ucciso, non l’ho ucciso! Si protese verso di me. Credetemi, signore, non l’ho ucciso io.

Mi faceva pena. Il disprezzo di cui la famiglia Leonides la gratificava, l’accanimento che tutti dimostravano nell’accusarla di un delitto così grave, mi sembravano disumani. La povera creatura era sola, indifesa, braccata da tutti.


Disse ancora: Pensano che, se la colpevole non sono io, allora è Lawrence. Questo mi addolora, perché il poveretto ha un carattere debole, non sa difendersi. Non è un vile, ma è troppo sensibile. Io ho fatto di tutto per facilitargli la vita qui dentro. Povero giovane! L’aver a che fare con quei ragazzi terribili non è facile. Eustace lo canzona sempre, e Josephine… Avrete visto che tipo è, Josephine! Le dissi che non la conoscevo ancora.

Qualche volta dubito perfino che sia sana di mente. È così strana… fa paura.

I discorsi sulla piccola non mi interessavano, per cui tornai a Lawrence Brown.

Da dove viene, il giovanotto? chiesi con tono sgarbato. Lei arrossì.

Non saprei. Lui non rappresenta nulla di particolare per me. Ma come potremo difenderci, noi, contro tutti gli altri?

Non vi sembra di esagerare le cose?

Non le esagero affatto, caro signore. Loro non hanno altro scopo che quello di provare che io e Lawrence siamo i colpevoli. E hanno tirato dalla loro anche l’ispettore. Non ho nessuna probabilità di cavarmela. Poi, a voce più alta: Perché non potrebbe essere stato uno di loro? O qualcuno estraneo alla famiglia? O uno della servitù? Non se ne capirebbe il movente.

Già, il movente. E che movente potevo avere io? E Lawrence?

Un po’ imbarazzato, dissi: Penseranno, probabilmente, che voi due… vi amiate… e che desideriate sposarvi.

Lei sbottò, indignata: È una volgare menzogna, una malvagità.

Lawrence e io non abbiamo mai scambiato una parola su questo argomento. Lui mi faceva pena e ho cercato di rendergli la vita meno dura.

Siamo buoni amici, ecco tutto. Voi mi credete, non è vero? Per la verità, credevo alle sue parole, ma si era formata in me la convinzione che, senza rendersene conto, lei ora amasse il giovanotto. Rimuginando questa idea, scesi al pianterreno in cerca di Sophia. Avevo già quasi raggiunto il salotto, quando lei sporse la testa da una porta del corridoio.

Ciao disse. Sto aiutando Nannie per il pranzo.

Avrei voluto entrare, ma lei uscì e mi fece accomodare nel salotto. E

allora, hai parlato con Brenda? Che ne pensi? Francamente risposi mi fa pena.

Bene. Ti ha conquistato disse lei divertita.

Lievemente urtato, dissi: Si tratta semplicemente del fatto che io riesco a 

mettermi nei suoi panni, tu no.

E quali sarebbero questi suoi panni?

Onestamente, Sophia, devi ammettere che tutti voi della famiglia siete stati poco comprensivi e poco gentili con lei fin dal giorno in cui ha messo piede qua dentro.

È vero, non siamo stati gentili. Ma perché avremmo dovuto esserlo? Se non altro, per carità cristiana.

Stai cercando di farmi un sermone? Dev’essere stata molto abile, Brenda, con te.

Che cosa ti prende, Sophia? Mi meravigli.

Cerco di essere sincera. Tu sai guardare le cose dal punto di vista di lei.

Bene, ora ti dirò il mio. Non mi piace per niente una donna che inventa storie melodrammatiche per farsi sposare da un vecchio straricco. E se la bella storia, invece d’ascoltarla da lei, condita con le sue moine da gatta, tu l’avessi letta in un libro, avresti giudicato malissimo una donna capace di agire in quel modo. Secondo te, era tutta una finzione?

Per quanto riguarda il bambino che doveva nascere? Non so, ma credo proprio di sì.

E ti rode il pensiero che il nonno ci sia cascato?

Il nonno non ci cascò affatto rise Sophia. Nessuno riusciva a raggirarlo.

Voleva Brenda, e si prestò al gioco. Ecco tutto. Per lui, quel matrimonio fu una brillante operazione riuscita, come tante altre.

E quella di assumere Lawrence Brown è una seconda brillante operazione del nonno? chiesi in tono ironico.

Può darsi disse Sophia seccata. Lui desiderava che Brenda fosse felice.

Forse pensò che abiti e gioielli non fossero sufficienti allo scopo e reclutò un individuo innocuo come quello, per creare alla sua donna una romantica amicizia venata di malinconia, capace di parare pericoli maggiori. Il nonno era furbo come il diavolo…

Questo l’avevo capito.

Non poteva certo prevedere che la cosa finisse con un assassinio. D’altra parte, proprio questo mi lascia così dubbiosa. Sono certa che se quei due avessero macchinato qualcosa di grave, il nonno l’avrebbe intuito Non è possibile che, dopo tante vittorie, abbia potuto collaborare alla propria morte. Per questo ci troviamo di fronte a un mistero.

Brenda ha molta paura dissi.

Agatha Christie

46

1949 - È Un Problema

Sì. Lawrence, poi, si sarà fatto prendere dalle convulsioni. Infatti. Ha dato uno spettacolo disgustoso. Non riesco a capire che cosa possa trovare d’interessante una donna in un uomo simile. Per la verità, Lawrence è un giovane molto interessante. Mingherlino com’è?

Voi uomini pensate che sia necessario essere dei Tarzan per far presa sull’altro sesso. Lawrence ha un suo fascino, ma capisco che tu possa non rendertene conto.

Mi guardò fisso e proseguì: Ti ha preso all’amo, la cara Brenda. Non dire assurdità. Non è nemmeno bella…

Ma è riuscita a commuoverti. Infatti, non è bella né interessante, ma possiede un’abilità formidabile: quella di mettere le persone l’una contro l’altra. Come vedi, anche con noi due c’è riuscita benissimo. Sophia! gridai sbigottito.

Lei si diresse verso la porta.

Dimentica quello che ho detto, Charles. Vado a occuparmi del pranzo.

Vengo con te.

Rimani qui. Nannie si sentirebbe a disagio con un estraneo in cucina.

Sophia dissi accorato. Che c’è?

Volevo togliermi una curiosità. Come mai non si vedono in giro persone di servizio, in questa casa?

Il nonno teneva cuoca, cameriera, una cameriera personale per Brenda e maggiordomo: gli piaceva avere molta servitù, pagarla bene e conservarsela fedele. Clemency e Roger hanno solo una donna che viene a ore, per le pulizie. Clemency non vuole nessuno in casa e, se il povero Roger non mangiasse alla City, morirebbe di fame. Noi continuiamo ad assumere persone di servizio, che se ne vanno alla prima scenata della mamma. Poi tentiamo di nuovo, la cosa si ripete, e così via… Non rimane che Nannie, irremovibile e vittoriosa. Ecco, adesso sai tutto.

Uscì.

Mi lasciai cadere in una poltrona per riflettere.

Poco prima, di sopra, avevo sentito gli sfoghi di Brenda e adesso il pensiero di Sophia, che corrispondeva a quello del resto della famiglia.

Consideravano un’estranea quella creatura che si era introdotta nel loro regno con mezzi, secondo loro, subdoli, e forse avevano il diritto di pensarla così.

Da un punto di vista umano, però, sbagliavano. Loro erano sempre stati ricchi e ben nutriti e non riuscivano nemmeno a concepire le tentazioni che 

attanagliano i poveri. Brenda aveva desiderato il benessere, il lusso, la sicurezza, in cambio della felicità che avrebbe dato a un marito vecchio.

Mi era piaciuta. Ma, adesso, mi piaceva ancora?

Due visuali opposte. Qual era quella giusta?

La notte precedente avevo dormito poco, e la mattina mi ero alzato presto per seguire Taverner. Ora, nella calda atmosfera satura di profumi del salotto di Magda, il mio corpo si rilassò, e mi abbandonai al morbido abbraccio della poltrona accogliente.

Passando da Brenda a Sophia, al ritratto di uno strano vecchio, i miei pensieri scivolarono nel nulla. Mi addormentai…

10.

Il ritorno alla coscienza fu così lento che dapprima non riuscii a rendermi conto che avevo dormito. Vedevo fluttuare nello spazio, di fronte a me, un’entità bianca, tondeggiante, e mi ci volle qualche frazione di secondo per accorgermi che si trattava di un volto umano, rotondo, con la fronte sporgente e due occhietti neri, piccoli come capocchie di spillo.

Infine, il volto si mise a fuoco congiunto a un piccolo corpo scarno.

Salve! mi disse.

Salve! risposi strizzando gli occhi. Sono Josephine si presentò l’entità.

L’avevo immaginato. La sorella di Sophia dimostrava circa dodici anni.

Era tremendamente brutta, e somigliava moltissimo al nonno. Chissà mi chiesi se ne avrà anche la mente.

Sei il fidanzato di Sophia? Lo ammisi con un cenno del capo.

Però sei venuto con l’ispettore Taverner. Perché? È un mio amico.

Non mi piace. Non gli dirò niente di quello che so. E io so molte cose.

Seduta sul bracciolo della poltrona, continuava a guardarmi. Cominciavo a sentirmi a disagio.

Il nonno è stato assassinato, vero? mi chiese infine. Sì.

L’hanno avvelenato con l’e-se-ri-na. Aveva pronunciato la parola sillabando. Aggiunse: È molto interessante, vero?

Suppongo di sì.

Eustace e io ci interessiamo molto alla faccenda. Ci piacciono le avventure poliziesche. Io ho sempre desiderato di far l’investigatore, e adesso lo sono, perché sto raccogliendo indizi.


Sembrava piuttosto sveglia, la piccola!

L’uomo venuto con l’ispettore è un poliziotto anche lui, non è vero? Nei romanzi c’è scritto che i poliziotti in borghese si riconoscono dagli scarponi, ma questo indossa scarpe scamosciate.

L’antico ordine cambia citai.

Josephine interpretò a modo suo la frase. Ci saranno grossi cambiamenti, qua dentro, credo proseguì. Intanto andremo a vivere a Londra. La mamma lo desidera da molto tempo e adesso non ci sarà più bisogno che papà si preoccupi che i suoi libri si vendano. Prima non poteva permettersi di farlo dopo tutti i quattrini che ha perduto con Jezebel.

Jezebel? chiesi. Sì. Non l’hai visto?

Ah, già, un lavoro teatrale. Non l’ho visto. Ero all’estero quando l’hanno rappresentato.

Durò poco. Fu un fiasco solenne. Non è una parte adatta alla mamma, quella, non ti sembra?

Ripensai all’impressione che mi aveva fatto Magda. Nulla nel suo abbigliamento mi avrebbe mai fatto pensare a lei come a una Jezebel, ma ero disposto a credere che c’erano altre Magda, che non avevo ancora conosciuto, per cui ammisi prudentemente: Sono d’accordo. Il nonno diceva che sarebbe stato un fiasco e che non avrebbe tirato fuori un soldo per un dramma storico-religioso che non poteva far cassetta, al giorno d’oggi. Ma la mamma ne era entusiasta. A me, per la verità, non piaceva molto. Il personaggio di Jezebel non è malvagio come nella Bibbia. Hanno voluto farne una creatura più buona, e questo è stato l’errore. Il finale, quello sì era buono: la buttavano giù dalla finestra. Ma non arrivavano i cani a sbranarla. Un peccato, non è vero? Mi piaceva l’idea dei cani che la mangiavano. La mamma dice che non si potevano portare quelle bestie in palcoscenico ma io non le credo. Potevano procurarsi dei cani attori, come fanno nei film. Citò, enfatica: E la divorarono tutta, eccetto le palme delle mani. Perché non le divorarono le palme delle mani?

Non ne ho la minima idea.

Non credo che i cani abbiano gusti particolari. I nostri, almeno, mangiano tutto.

Rimase per un poco assorta nelle sue rievocazioni bibliche. Peccato che sia stato un fiasco dissi per distrarla. Critiche terribili, sai? La mamma pianse per un giorno intero. Scaraventò in faccia a Gladys il vassoio della colazione. Fu una cosa buffissima.


Mi sembra che ti piacciano i drammi, Josephine osservai. Restò un attimo in silenzio, pensierosa.

Al nonno hanno fatto l’autopsia post mortem per scoprire di cosa è morto. Lo chiamano P.M. ma a me sembra poco chiaro, non si spiegano bene con quelle iniziali, perché vogliono dire anche Primo Ministro…

Sei addolorata per la morte del nonno? chiesi.

Non molto, perché mi aveva proibito di continuare le lezioni di danza.

Volevi diventare ballerina?

Sì. La mamma era contenta, papà non se ne occupava. Fu il nonno a non volere.

Si lasciò scivolar giù dal bracciolo della poltrona e si tolse le scarpe per darmi subito un’esibizione di danza sulle punte. Ci vorrebbero le scarpe adatte spiegò. Si rimise le scarpe, chiedendomi in tono volubile: Ti piace questa casa?

Non saprei dire.

Credo che adesso la venderanno. A meno che Brenda non voglia continuare ad abitarla. Credo anche che zio Roger e zia Clemency rinunceranno al loro viaggio.

Dovevano partire?

Sì, martedì. Dovevano andare all’estero, in aereo. Zia Clemency si era comperata una valigetta, di quelle leggerissime. Penso che adesso non partiranno più.

Non mi risulta che dovessero recarsi all’estero.

Infatti, non lo sapeva nessuno. Era un segreto. Avevano deciso di lasciare un biglietto al nonno, andandosene. Poi aggiunse: Non l’avrebbero certo fissato al puntaspilli, come facevano le mogli nei vecchi romanzi quando abbandonavano il marito. Oggi, quell’oggetto non si usa più.

Certo approvai. E dimmi, Josephine, perché mai lo zio Roger voleva fuggire?

Mi lanciò uno sguardo astuto.

Qualcosa non andava nel suo ufficio di Londra. Non sono del tutto sicura se si trattasse di appropriazione indebita o di qualcosa del genere…

Che cosa ti fa pensare a una cosa simile? Mi si accostò, alitandomi contro il viso.

Il giorno in cui il nonno è stato avvelenato, zio Roger è rimasto chiuso in camera con lui a lungo. Hanno parlato, parlato tanto. Zio Roger piangeva. Diceva che era un cattivo figlio, che aveva deluso suo Agatha Christie

50

1949 - È Un Problema

padre e che non gli dispiaceva tanto per il denaro, quanto perché ormai non meritava più la stima di nessuno. Era ridotto in uno stato pietoso.

Josephine dissi nessuno ti ha mai insegnato che non sta bene origliare alle porte?

Certo che me l’hanno insegnato, ma se si vuol scoprire qualcosa bisogna farlo. Ci scommetto che lo fa anche l’ispettore. Non è vero? Sconcertato, non risposi.

E se non è lui a farlo, sarà certamente quel poliziotto con le scarpe scamosciate. Altro che origliare! Aprono addirittura i cassetti della gente e rovistano dappertutto. Solo che sono degli stupidi perché non sanno dove guardare.

Josephine aveva parlato con un tono di distaccata superiorità. Fui abbastanza sciocco da non accorgermi dell’allusione finale. La strana, indisponente bambina, continuò: Eustace e io, invece, sappiamo molte cose. Più io di Eustace. E non gliele dirò, perché lui sostiene che le donne non potranno diventare mai grandi investigatrici. Voglio fargliela vedere!

Sto annotando tutto in un libriccino e, quando la polizia dichiarerà fallimento, mi farò avanti io a dire: Io so chi è stato.

Leggi molti romanzi polizieschi, Josephine? Moltissimi.

E così, tu sei convinta di sapere chi ha ucciso il nonno, vero? Credo di sì, ma mi manca ancora qualche elemento. L’ispettore Taverner sospetta Brenda, vero? Oppure, Brenda e Lawrence insieme perché sono amanti.

Non ti vergogni a dire queste cose, Josephine? Perché dovrei vergognarmi? Sono amanti. Tu non puoi saperlo.

Sì che lo so. Si scrivono lettere d’amore. Lo supponi?

No, le ho lette. Sciocche lettere sdilinquite. Lui, del resto, è il tipo adatto per quella roba. Sai che ha avuto paura ad andare in guerra? E qui, durante i bombardamenti, diventava verde dallo spavento. Eustace e io morivamo dal ridere.

Non feci in tempo a ribattere perché, sentendo il rumore di un’automobile in arrivo, Josephine fece un balzo alla finestra. Chi è?

chiesi.

Il signor Gaitskill, il notaio del nonno. Verrà per il testamento. Già eccitata, si precipitò fuori della camera, probabilmente per proseguire nelle sue investigazioni.

Subito entrò nella stanza Magda Leonides. Con stupore mi si accostò decisa e mi strinse le mani fra le sue.


Ringrazio il cielo che siate ancora qui. Abbiamo tanto bisogno di un uomo, in questo frangente.

Mi lasciò le mani, s’accostò a una poltrona dallo schienale alto, sedette, studiando l’effetto nello specchio di fronte; quindi, presa una scatoletta smaltata dal tavolino, si mise a giocherellare aprendola e chiudendola meccanicamente.

In quel momento, Sophia fece capolino dalla porta socchiusa, dicendo: C’è Gaitskill.

Lo so rispose la madre.

Poco dopo, Sophia rientrò accompagnata da un ometto anziano. Magda depose la scatoletta e gli andò incontro.

Buon giorno, signora Leonides disse il legale. Sono qui per la faccenda del testamento. Vostro marito mi ha scritto, convinto che si trovasse in mano mia, invece io so dal defunto signor Leonides stesso che era stato depositato nella cassetta di sicurezza. Voi non ne sapete nulla, immagino.

Magda spalancò gli occhi, attonita.

Non ne so assolutamente nulla. Non ditemi che quella malvagia donna lo ha distrutto!

Signora! l’ammonì il notaio. Non cominciamo con le supposizioni gratuite. Adesso si tratta solo di sapere dove vostro suocero tenesse realmente il documento.

Ma l’ha spedito a voi, ne sono sicura, dopo averlo firmato. Ce l’aveva detto lui stesso.

La polizia avrà certo già controllato le carte del defunto. Vorrei scambiare due parole con l’ispettore Taverner.

Uscì dalla stanza, frettoloso.

Magda si rivolse a Sophia: L’ha distrutto quella donna, te lo dico io!

Non dire sciocchezze, mamma. Non avrebbe mai compiuto un gesto così stupido.

Lo chiami stupido? Se non si trova il testamento, erediterà tutto quanto lei.

Ssst! disse Sophia. Ecco che torna il notaio. Questi rientrò seguito da Taverner e Philip.

Il signor Leonides mi aveva detto ripeté il notaio che il testamento era custodito in banca.

Taverner scosse la testa.

Ho ricevuto informazioni precise dalla banca. Non c’è alcun documento 

appartenente a Leonides, salvo qualche polizza d’assicurazione. Philip s’intromise.

Proviamo a chiedere a Roger o a zia Edith. Sophia può andarli a chiamare.

Ma Roger, sopraggiunto, non seppe dare alcuno schiarimento. Si limitava a ripetere: È assurdo, assurdo. Papà, dopo aver firmato il testamento, disse chiaramente che l’avrebbe spedito il giorno dopo all’indirizzo del signor Gaitskill.

Se la memoria non mi tradisce disse il notaio socchiudendo gli occhi io preparai un abbozzo di testamento, secondo istruzioni impartitemi dal signor Leonides, il ventiquattro novembre dell’anno scorso. Lui l’approvò, e io gli rimandai subito il documento redatto in piena regola per la firma.

Passò una settimana. Siccome non l’avevo ancora ricevuto di ritorno, mi permisi di rinfrescare la memoria al signor Leonides, domandandogli se voleva mutare qualcosa. Mi rispose che era perfettamente soddisfatto, e aggiunse che aveva deciso di depositare il testamento in banca.

Adesso che ci penso disse Roger proprio verso la fine di novembre dell’anno scorso papà ci riunì tutti per leggercelo.

Taverner si rivolse a Philip. Ricordate anche voi la stessa cosa? Sì.

Magda sospirò.

Ho sempre avuto la sensazione che i testamenti portino con sé un clima di dramma.

E voi, signorina Sophia, ve lo ricordate? chiese l’ispettore. Sì, perfettamente.

Quali erano le disposizioni testamentarie? domandò ancora l’ispettore Taverner.

Il notaio stava per rispondere, quando Roger prese la parola.

Era un testamento molto semplice. Dopo la morte di Electra e Joyce la loro quota era tornata a nostro padre; il figlio di Joyce, William, era morto in guerra. Gli unici eredi naturali rimasti erano Philip, io e i ragazzi.

Nostro padre scrisse quindi che lasciava cinquantamila sterline a zia Edith e centomila a Brenda. A quest’ultima lasciava anche la casa che abitiamo, che avrebbe potuto permutare con una a Londra, se l’avesse preferito. Il rimanente era diviso in tre parti eguali: una destinata a me, la seconda a Philip, l’altra da ripartirsi tra Sophia, Eustace e Josephine. La parte spettante agli ultimi due sarebbe rimasta bloccata fino alla loro maggiore età. Era così, vero, signor Gaitskill?


Se ricordo bene, era proprio così rispose questi, mostrando un certo disappunto per essere stato preceduto nella risposta.

Papà ce lo lesse continuò Roger e ci chiese se avevamo qualche osservazione da fare. Naturalmente, nessuno trovò nulla da ridire. Brenda fece un commento disse la signorina de Haviland, entrata da poco nel salotto.

Sì confermò Magda. Disse che non poteva sopportare che il suo caro vecchio Aristides parlasse della propria morte, che quell’argomento le dava i brividi. Aggiunse che, quando lui non ci fosse stato più, non avrebbe voluto saperne del sudicio denaro.

Naturale disse la signorina de Haviland. La protesta convenzionale, tipica della donna della sua classe.

L’osservazione era crudele e denotava quanto Edith odiasse Brenda. Mi sembravano disposizioni eque e generose disse il notaio. Dopo la lettura, che cosa avvenne? chiese Taverner.

Dopo la lettura riprese Roger mio padre lo firmò. Vorrei sapere insistette l’ispettore in quale momento e in che modo, con esattezza, lo firmò.

Roger cercò sua moglie con sguardo implorante. Lei gli venne subito in aiuto, con grande sollievo di tutti quanti.

Le cose si svolsero così disse Clemency. Mio suocero depose il testamento sulla scrivania e pregò uno di noi, Roger mi sembra, di suonare il campanello. Comparve Johnson, il maggiordomo, che venne subito inviato a chiamare la cameriera Janet Woolmer. Quando i due furono tornati, lui firmò e fece apporre anche le loro firme sotto la sua.

Procedura corretta disse Gaitskill. Il testamento deve essere firmato dall’interessato alla presenza di due testimoni che devono apporre la loro firma subito dopo.

Poi? chiese ancora Taverner.

Poi mio suocero li ringraziò e i due uscirono. Lui prese il testamento, lo chiuse in una busta lunga, dicendo che l’avrebbe inviato il giorno dopo al notaio Gaitskill.

Siete tutti d’accordo su questa versione di quanto avvenne? chiese Taverner guardandosi in giro.

Si udì un mormorio generale di assenso.

Avete detto che il testamento venne deposto sulla scrivania. A quale distanza si trovava da essa ciascuno di voi?

Ne eravamo tutti piuttosto distanti. Il più vicino sarà stato a circa cinque 

metri.

Il signor Leonides lo lesse stando seduto alla scrivania? Sì.

E prima di firmare si alzò e abbandonò per un momento la scrivania?

No.

I due domestici hanno avuto modo, secondo voi, di leggere il documento mentre firmavano?

No rispose ancora Clemency. Mio suocero aveva coperto con un foglio di carta il testo.

È naturale intervenne Philip. Il contenuto di un testamento non riguarda la servitù.

Capisco disse Taverner. O meglio, non ci capisco nulla. Con un brusco movimento si tolse di tasca una lunga busta e la porse al notaio. Date un’occhiata e ditemi di che cosa si tratta. Gaitskill tolse dalla busta un documento ripiegato. Lo esaminò con evidente stupore, girandolo e rigirandolo tra le mani. Sorprendente! esclamò. Nemmeno io ci capisco più nulla! Ma dove diamine l’avete trovato?

In cassaforte, tra le carte di Leonides. Di che si tratta? chiese Roger impaziente.

È il testamento che avevo preparato io. Ma, dopo quello che avete detto poco fa, non riesco a capire perché non sia regolarmente firmato.

Cosa dite? ribatté Roger. Si tratterà dell’abbozzo, allora. No, perché l’abbozzo mi venne restituito dal signor Leonides. Questo è il testo definitivo. Batté con la mano sul foglio. Glielo rimandai per la firma. A sentir voi l’avrebbe firmato con quella specie di cerimonia ufficiale, e due testimoni avrebbero firmato a loro volta. Invece, eccolo qui, il testamento, senza alcuna firma. Impossibile! esclamò Philip con un’animazione del tutto nuova in lui.

Aveva la vista buona, vostro padre? chiese Taverner. Soffriva di glaucoma. Per leggere usava lenti molto forti. Portava gli occhiali, quella sera?

Certo. Non se li tolse finché non ebbe firmato. Se non ricordo male, però.

Non sbagli confermò Clemency.

Siete ben certi che nessuno si sia avvicinato alla scrivania prima che lui firmasse?

Come si fa a ricordarlo? intervenne Magda.

Non si avvicinò nessuno sostenne Sophia e il nonno non si mosse mai da 

lì.

La scrivania si trovava nella posizione attuale? Non era vicino a una porta, a una finestra, a un tendaggio?

Era dove si trova adesso.

Sto cercando di dedurre in che modo può essere avvenuta una sostituzione. Perché deve necessariamente essere avvenuta. Il signor Leonides ha creduto di firmare il documento da lui letto ad alta voce, invece ha firmato qualcos’altro.

Non potrebbero essere state cancellate le firme? chiese Roger. Si vedrebbe qualche traccia. C’è, invece, un’altra possibilità: che questo non sia il documento inviato dal notaio e firmato in presenza di tutti voi dal signor Leonides.

Gaitskill scattò nervoso.

Posso giurare che questo è il documento originale. Nell’angolo sinistro, in alto, c’è un’increspatura nella carta che, con un po’ di fantasia, può ricordare un aeroplano. Me ne ricordo benissimo. I componenti la famiglia si guardarono in viso, pallidi. Un complesso di circostanze assai strano proseguì il notaio. Senza precedenti nella mia carriera.

Una storia assurda disse Roger. Eravamo tutti presenti. Non può esserci stata alcuna sostituzione.

Intervenne, aspra, la signorina de Haviland.

Le recriminazioni sono inutili. Vorrei sapere invece qual è, adesso, la nostra posizione.

Immediatamente, Gaitskill riprese la sua parte di legale prudente. Questo documento revoca qualsiasi testamento precedente. E c’è un gran numero di testimoni che hanno visto firmare Leonides convinto che si trattasse di questo foglio, e convinti anche loro. È un problema legale interessantissimo, che andrà studiato a fondo.

Taverner guardò l’orologio.

Vi ho fatto far tardi per il pranzo.

Volete favorire con noi, ispettore? lo invitò Philip. Grazie, ma ho appuntamento con il dottor Gray, a Swinly Dean. Philip si rivolse al notaio.

Volete rimanere voi? Grazie. Accetto volentieri. Tutti si alzarono.

Devo andarmene o restare? chiesi a Sophia sottovoce. Vai. È meglio.

Sgusciai silenziosamente fuori della stanza, affrettandomi a raggiungere Taverner.

Vedemmo Josephine che si nascondeva dietro una tenda. La polizia è davvero stupida sghignazzò subito la piccola.

Sophia uscì dal salotto e disse con voce severa: Cosa stavi facendo?

Aiutavo Nannie.

Ascoltando dietro le porte, vero? La piccola fece una smorfia e si ritrasse.

Quella bambina è davvero un bel problema! sospirò Sophia.

 

11

Entrato nell’ufficio del vicecommissario a Scotland Yard, trovai l’ispettore capo Taverner che stava terminando il resoconto di quella che sembrava una storia di sventure.

«Questo è quanto» stava dicendo. «Ore e ore a interrogarli e cos’ho scoperto? Nulla! Non un movente, nessuno che fosse a corto di quattrini. E l’unica prova che abbiamo contro la moglie e il suo giovane amico è che lui le faceva gli occhi dolci quando lei gli versava il caffè!»

«Andiamo, Taverner, coraggio» dissi. «Io la posso aiutare.»

«Ma davvero? Ebbene, signor Charles, cos’ha scoperto, lei

Sedetti, accesi una sigaretta, mi adagiai contro lo schienale e vuotai il sacco.

«Roger Leonides e la moglie progettavano una fuga all’estero martedì prossimo. Roger e il padre avevano avuto un colloquio burrascoso il giorno della morte del vecchio. Aristide aveva scoperto qualcosa di poco pulito e il figlio si era dichiarato colpevole.»

Taverner arrossì.

«E lei come diavolo fa a saperlo?» mi chiese. «Se gliel’hanno detto i domestici…»

«Non me l’hanno detto i domestici. È stato un investigatore privato.»

«Come sarebbe a dire?»

«E aggiungo che, come nei migliori romanzi gialli, costui, o meglio costei – o forse dovrei dire questa persona – ha battuto la polizia sul tempo!

«Inoltre,» continuai «ho l’impressione che il mio investigatore privato abbia fatto altre scoperte interessanti.»

Taverner aprì la bocca e la richiuse. Aveva così tante domande che non sapeva da che parte cominciare.

«Roger!» disse alla fine. «Allora è Roger la mela marcia, vero?»

Provai una lieve riluttanza a proseguire. Roger Leonides mi piaceva. Ricordando l’atmosfera accogliente e informale del suo salotto e la sua simpatia, l’idea di aizzargli contro i mastini della legge non mi andava a genio. Era peraltro possibile che le informazioni di Josephine fossero inattendibili, ma per qualche motivo ne dubitavo.

«Gliel’ha detto la ragazzina, vero?» chiese Taverner. «Sembra essere al corrente di tutto ciò che succede in quella casa.»

«Come tutti i ragazzini» osservò ironico mio padre.

Se Josephine aveva ragione, il quadro cambiava completamente. Se Roger si era appropriato indebitamente dei fondi della Associated Catering, come la ragazzina aveva affermato con grande sicurezza, e se il vecchio l’aveva saputo, è probabile che metterlo a tacere e lasciare l’Inghilterra prima che la verità diventasse di pubblico dominio sarebbe diventato fondamentale. Insomma, Roger rischiava di essere incriminato.

Si decise che era necessario condurre un’indagine immediata sulla Associated Catering.

«Sarebbe un fallimento clamoroso» osservò mio padre. «È una società enorme. Parliamo di milioni di sterline.»

«Se è davvero sull’orlo del baratro, il caso è risolto» disse Taverner. «Il padre convoca Roger. Roger crolla e confessa tutto. Brenda è andata al cinema. A Roger basta uscire dallo studio del padre, andare in bagno, vuotare una fiala di insulina, riempirla con la soluzione di eserina concentrata e il gioco è fatto. Oppure potrebbe essere stata la moglie. Ha affermato di essere andata nell’appartamento del suocero quel giorno, per cercare la pipa dimenticata da Roger. In realtà potrebbe aver compiuto la sostituzione prima che Brenda tornasse a casa e facesse l’iniezione al marito. Quella donna ne avrebbe il coraggio.»

Assentii. «Sì, credo che l’esecutrice materiale sia lei. Quella donna avrebbe il coraggio di fare qualsiasi cosa! Inoltre, dubito che l’idea del veleno possa essere venuta a Roger. C’è un che di femminile nello stratagemma dell’insulina.»

«Ci sono tanti di quegli uomini che uccidono con il veleno» osservò sarcastico mio padre.

«Oh, lo so, signore» replicò Taverner. «Eccome se lo so!» aggiunse infervorandosi. «È solo che Roger non mi sembra il tipo.»

«Anche Pritchard era un tipo molto socievole» gli ricordò il Vecchio.

«Diciamo allora che hanno agito in complicità.»

«Con Lady Macbeth nel ruolo decisivo» disse mio padre quando Taverner se ne fu andato. «Non credi, Charles?»

Ricordai la figura snella ed elegante, in piedi vicino alla finestra di quella stanza così austera.

«Non lo so» ammisi. «Lady Macbeth era una donna essenzialmente avida. Non mi sembra che Clemency Leonides lo sia, e non mi sembra particolarmente interessata ai beni materiali.»

«Ma potrebbe essere disperatamente interessata alla salvezza del marito.»

«Sì, è possibile. E in lei c’è indubbiamente qualcosa di… be’, crudele.»

Una crudeltà che si manifesta in varie forme. Così aveva detto Sophia.

Sollevai lo sguardo e mi accorsi che il Vecchio mi stava fissando.

«A cosa pensi, Charles?»

Non glielo dissi.

L’indomani fui convocato e trovai Taverner insieme a mio padre.

L’ispettore capo aveva un’aria compiaciuta e leggermente emozionata.

«La Associated Catering è in piena crisi» disse mio padre.

«È solo questione di tempo» aggiunse Taverner.

«Ieri sera ho visto che le azioni sono precipitate» dissi. «Ma stamane sembrava che stessero riprendendo quota.»

«Abbiamo dovuto indagare con molta cautela» spiegò Taverner. «Nessuna domanda diretta, per evitare di causare panico e di insospettire il nostro fuggiasco. Da fonte privata abbiamo avuto la conferma che la società è sull’orlo del fallimento. Schiacciata dai debiti. A quanto pare, è il risultato di parecchi anni di pessima gestione.»

«Da parte di Roger Leonides?»

«Sì. È lui l’uomo al comando.»

«Che ne ha approfittato per intascarsi…»

«No» mi interruppe Taverner. «Pare di no. Per dirla brutalmente, potrebbe essere un assassino ma dubitiamo che sia un ladro. In tutta franchezza, si comportava da perfetto idiota, senza un briciolo di buon senso. Si imbarcava in imprese che avrebbe dovuto evitare ed esitava ad agire quando avrebbe dovuto. E delegava i poteri alle persone meno adatte: fiducioso per carattere, dava fiducia a chi non la meritava. Insomma, riusciva a fare la cosa sbagliata in ogni momento e in ogni occasione.»

«Ce n’è di gente così» sentenziò mio padre. «E in realtà non sono stupidi. Sono incapaci di giudicare gli altri, tutto qui. E si entusiasmano nei momenti sbagliati.»

«Persone del genere non dovrebbero mettersi in affari» affermò Taverner.

«Cosa che probabilmente non avrebbe mai fatto» disse mio padre «se non gli fosse capitato di essere il figlio di Aristide Leonides.»

«La società era in piena espansione quando il padre gliela cedette. Una vera miniera d’oro! Sembrava quasi che gli sarebbe bastato starsene nel suo ufficio e lasciare che le cose facessero il loro corso.»

«No» ribatté mio padre. «Le società non vanno avanti da sole. Ci sono sempre decisioni da prendere: qualcuno da licenziare qui, qualcun altro da assumere là, piccole questioni di politica aziendale. E a quanto pare Roger Leonides non ne azzeccava una.»

«È vero» disse Taverner. «Tanto per cominciare, è uno che non manca mai alla parola data. Teneva alle sue dipendenze personaggi spaventosi solo perché gli erano simpatici o lavoravano lì da anni. E a volte insisteva a voler sperimentare idee folli e irrealizzabili malgrado le spese ingenti che comportavano.»

«Nulla di criminale, però?» insistette mio padre.

«No, nulla di criminale.»

«E allora perché ricorrere all’omicidio?» domandai.

«Forse era un idiota ma non un furfante» rispose Taverner. «Ma a conti fatti il risultato è lo stesso o quasi. L’unica possibilità di salvare la Associated Catering era trovare una somma colossale entro…» consultò un taccuino «entro mercoledì prossimo al più tardi.»

«Una somma che avrebbe ereditato o pensava di ereditare grazie al testamento del padre?»

«Esattamente.»

«Ma non avrebbe potuto disporne in contanti.»

«No, avrebbe potuto disporre della somma in credito: la stessa cosa.»

Il Vecchio assentì.

«Non sarebbe stato più semplice chiedere aiuto al padre?» dissi.

«Penso che l’avesse fatto» rispose Taverner «e che la conversazione origliata dalla ragazzina fosse proprio quella. Il vecchio doveva essersi rifiutato categoricamente di buttare via dei soldi. Perché di questo si sarebbe trattato.»

Taverner non aveva torto. Aristide Leonides si era rifiutato di finanziare lo spettacolo di Magda perché riteneva che non sarebbe stato un successo di cassetta. E i fatti gli avevano dato ragione. Generoso con la famiglia, non era però disposto a investire in imprese infruttuose. E le perdite della Associated Catering ammontavano a migliaia di sterline, forse centinaia di migliaia. Di fronte al netto rifiuto del padre, a Roger non rimaneva che una possibilità per evitare la rovina: che il padre morisse.

Sì, questo era un movente.

Il Vecchio guardò l’orologio.

«Gli ho chiesto di raggiungerci» disse. «Sarà qui da un momento all’altro.»

«Roger?»

«Sì.»

«Vuoi venire nel mio salotto, disse il ragno alla mosca?» mormorai.

Taverner mi fissò sconcertato.

«Lo tratteremo con i dovuti riguardi» disse severamente.

Tutto era pronto, lo stenografo aspettava. Suonò un campanello e pochi secondi dopo Roger Leonides entrò nell’ufficio.

Venendo avanti precipitosamente, inciampò in una sedia. Di nuovo mi ricordò un cagnolone affettuoso. In quel momento mi convinsi una volta per tutte che non poteva essere stato lui a trasferire l’eserina nella fiala dell’insulina. L’avrebbe rotta, rovesciata o che so io, mandando a monte l’operazione. No, l’esecutrice materiale era stata Clemency, benché il marito ne fosse al corrente.

Come al solito Roger era un fiume in piena.

«Voleva vedermi? Ha scoperto qualcosa di nuovo? Salve, Charles, non l’avevo vista. È stato gentile a venire. Ma la prego, Sir Arthur, mi dica…»

Che brava persona era, davvero una brava persona. E tuttavia, quanti assassini sembravano brave persone ai loro increduli amici? Sentendomi un Giuda, lo salutai con un sorriso.

Mio padre parlò con freddezza ponderata e ufficiale. Deposizione… stenografo… nessuna costrizione… presenza di un avvocato…

Roger Leonides liquidò quei preliminari con la caratteristica impazienza.

Il sorriso vagamente ironico sul volto dell’ispettore capo Taverner tradiva i suoi pensieri.

Sempre sicuri di sé, questi individui. Non fanno mai errori, sono troppo intelligenti!”

Mi sistemai discretamente in un angolo e ascoltai.

«L’ho convocata, signor Leonides,» cominciò mio padre «non per darle informazioni ma per chiedergliene, a proposito di fatti che ci ha volutamente nascosto.»

Roger Leonides sembrava sconvolto.

«Nascosto? Ma io vi ho detto tutto, assolutamente tutto!»

«Non credo. Il giorno della morte di suo padre, ha avuto un colloquio con lui nel pomeriggio?»

«Sì, sì, ho preso il tè con lui. Ve l’ho già detto.»

«Ce l’ha detto, è vero, ma non ci ha parlato dell’argomento della conversazione.»

«Abbiamo… chiacchierato… e basta.»

«Di che cosa?»

«Del più e del meno, della casa, di Sophia…»

«E magari anche della Associated Catering?»

Avevo sperato sino all’ultimo che Josephine si fosse inventata tutto, ma le mie illusioni crollarono in un attimo.

Da un momento all’altro l’espressione di Roger passò dall’impazienza a un’innegabile disperazione.

«Oh, mio Dio!» mormorò, poi si lasciò cadere su una sedia e si coprì il volto con le mani.

Taverner sorrise, sornione.

«Signor Leonides, ammette di non essere stato sincero con noi?»

«Come lo sapete? Pensavo che non lo sapesse nessuno. Com’è possibile che qualcuno lo sapesse?»

«Abbiamo i nostri metodi, signor Leonides.» Seguì una pausa a effetto. «Ora capirà perfettamente che le conviene dire la verità.»

«Sì, sì, certo. Vi dirò tutto. Cosa volete sapere?»

«È vero che la Associated Catering è sull’orlo del fallimento?»

«Sì. Non c’è più nulla da fare. È solo questione di tempo. Se soltanto mio padre fosse morto senza averlo saputo. Mi vergogno… mi vergogno da morire…»

«Rischia di essere incriminato?»

Roger si raddrizzò bruscamente.

«No davvero. Sarà bancarotta, ma una bancarotta onorevole. I creditori riceveranno venti scellini per ogni sterlina, se darò fondo al mio patrimonio personale, cosa che farò. No, mi vergogno di aver deluso mio padre. Lui si fidava di me. Mi aveva ceduto la sua azienda più grossa, la sua preferita. Non interferiva mai nella conduzione, non mi chiedeva mai come andassero gli affari. Si fidava e basta. E io l’ho deluso…»

Mio padre gli domandò a bruciapelo:

«Se è vero che non rischiava di essere incriminato, perché lei e sua moglie progettavate di partire per l’estero senza dirlo a nessuno?»

«Sapete anche questo?»

«Sì, signor Leonides.»

«Ma non capite?» Si piegò in avanti in preda all’ansia. «Non avevo il coraggio di dirglielo. Vedete, sarebbe stato come chiedergli denaro, come pretendere che mi rimettesse in sella ancora una volta. Lui… lui mi voleva bene. Mi avrebbe aiutato senz’altro. Ma io non potevo… non potevo andare avanti… avrei combinato altri guai… sono un buono a nulla. Non sono capace. Non sono come mio padre. L’ho sempre saputo. Ma ho tentato con tutte le mie forze. Quanto ho sofferto… Dio! Non potete immaginare quanto ho sofferto! Anni e anni a cercare di uscire dal fango e sistemare le cose, sperando che il mio caro vecchio non lo venisse a sapere. E poi la catastrofe… il fallimento era ormai inevitabile. Mia moglie Clemency mi capiva, era d’accordo con me. Così escogitammo un piano. Non dovevamo dire nulla. Saremmo partiti, lasciando che la burrasca ci scoppiasse alle spalle. Avrei lasciato una lettera a mio padre, gli avrei raccontato tutto, dicendogli quanto mi vergognavo e chiedendo perdono. È sempre stato così buono con me… voi non avete idea! Ma ormai era troppo tardi. Ecco quello che volevo. Non chiedergli nulla e non dare nemmeno l’impressione che avevo bisogno d’aiuto. Cominciare un’altra vita altrove, un’esistenza semplice e umile. Coltivare il caffè… o la frutta. Guadagnare lo stretto necessario per vivere decorosamente. Certo, sarebbe stata dura per Clemency, ma lei giurava che non le importava. È una donna meravigliosa, assolutamente meravigliosa.»

«Capisco.» La voce di mio padre era asciutta. «E cosa le ha fatto cambiare idea?»

«Cambiare idea?»

«Sì. Cosa le ha fatto decidere di andare comunque da suo padre per chiedergli aiuto?»

Roger lo fissò stupito.

«Ma io non gli ho chiesto proprio nulla!»

«Andiamo, signor Leonides.»

«Lei ha capito male. Non sono andato io da lui, è stato lui a chiamarmi. Gli erano giunte voci, non so come, nella City. Sapeva sempre tutto. Qualcuno gliel’aveva detto. Mi ha messo alle strette, e naturalmente ho confessato ogni cosa… Gli ho detto che non ero sconvolto per il denaro, ma per averlo deluso.»

Roger deglutì faticosamente.

«Non potete immaginare quanto sia stato generoso. Senza il minimo rimprovero, mi ha offerto tutta la sua comprensione. Gli ho ripetuto che non volevo aiuto, che preferivo non averlo, che avevo scelto di partire. Ma lui non sentiva ragioni. Era decisissimo a salvarmi, a rimettere in sesto la Associated Catering.»

Taverner gli chiese a bruciapelo:

«Vorrebbe farci credere che suo padre aveva intenzione di darle un aiuto finanziario?»

«Certamente. Ha scritto subito ai suoi mediatori per dare istruzioni in questo senso.»

Probabilmente notò l’incredulità sui nostri volti, perché arrossì.

«Credetemi,» mormorò «ho ancora la lettera. Avrei dovuto imbucarla… ma con… con lo shock e la confusione che sono seguiti ovviamente me ne sono dimenticato. Forse ce l’ho ancora in tasca.»

Tirò fuori il portafoglio e si mise a rovistarci dentro. Alla fine trovò ciò che cercava: una busta sgualcita e affrancata. Chinandomi in avanti vidi che era indirizzata alla Greatorex e Hanbury.

«Leggetela,» disse «se non mi credete.»

Mio padre aprì la busta. Taverner gli si piazzò alle spalle. Non lessi la lettera in quel momento, ma in seguito. La Greatorex e Hanbury veniva invitata a realizzare alcuni investimenti e a inviare un impiegato l’indomani per ricevere istruzioni circa la Associated Catering. Alcuni passaggi erano indecifrabili, ma il senso era chiaro: Aristide Leonides si stava preparando a rimettere in sesto la Associated Catering.

«Tratterremo la lettera e le daremo una ricevuta, signor Leonides» disse Taverner.

Roger prese la ricevuta, poi si alzò e disse:

«È tutto? Ora avete capito come stanno le cose?»

Taverner domandò:

«Dopo aver ricevuto questa lettera si è congedato da suo padre? E poi cos’ha fatto?»

«Mi sono precipitato nel mio appartamento. Mia moglie era appena tornata. Le ho riferito le intenzioni di mio padre. Quanto era stato generoso! Ero… a dire il vero, ero completamente sconvolto.»

«Dopo quanto tempo suo padre si è sentito male?»

«Vediamo… forse mezz’ora, un’ora al massimo. Brenda si è precipitata da noi. Era terrorizzata, diceva che mio padre aveva un aspetto orribile. Poi… poi siamo corsi da lui. Ma questo ve l’ho già raccontato.»

«Mentre era con lui, è entrato nel bagno di suo padre?»

«Non credo. No… no, lo escludo. Santo cielo, non crederete forse che sia stato io…»

Mio padre stroncò la reazione indignata di Roger alzandosi e dandogli la mano.

«Grazie, signor Leonides» disse. «Ci è stato molto utile. Ma avrebbe dovuto dirci subito la verità.»

Appena la porta si chiuse, mi alzai per andare a leggere la lettera sulla scrivania di mio padre.

«Potrebbe essere un falso» suggerì speranzoso Taverner.

«Potrebbe,» ribatté mio padre «ma ne dubito. Credo che dovremo prenderla per buona. Il vecchio Leonides si stava preparando a salvare il figlio. E da vivo ci sarebbe riuscito meglio di quanto avrebbe potuto fare Roger dopo la sua morte. Tanto più che non c’è traccia del testamento, come ora sappiamo, il che rende incerto l’ammontare della quota di eredità spettante a Roger, con tutti i ritardi e le difficoltà del caso. No, Taverner, Roger Leonides e la moglie non avevano ragioni per sbarazzarsi del vecchio. Viceversa…»

Mio padre s’interruppe e ripeté pensieroso, come se gli fosse venuta un’idea improvvisa: «Viceversa…».

«A cosa sta pensando, signore?» gli chiese Taverner.

Il Vecchio rispose scandendo lentamente le parole:

«Se Aristide Leonides fosse vissuto altre ventiquattr’ore, Roger si sarebbe salvato. Ma così non è stato. È morto in maniera improvvisa e drammatica poco più di un’ora dopo.»

«Hmm» fece Taverner. «Pensa che qualcuno in famiglia desiderasse la rovina di Roger? Qualcuno che aveva interessi opposti? Mi sembra improbabile.»

«Quali sono le disposizioni testamentarie?» chiese mio padre. «A chi andrà il denaro di Leonides?»

«Sa come sono gli avvocati. Impossibile cavar loro una risposta chiara. C’è un testamento precedente, fatto quando Aristide sposò la seconda signora Leonides. Il vecchio lasciava alla moglie la medesima somma, molto meno alla signorina de Haviland e il rimanente veniva diviso tra Roger e Philip. Ero convinto che, in assenza di firma sul secondo, il testamento valido sarebbe stato il primo, ma a quanto pare non è così semplice. La stesura del nuovo testamento annulla la validità del precedente, e poi abbiamo i testimoni della firma e delle “intenzioni del testatore”. Non mi stupirei se il signor Leonides venisse dichiarato morto senza aver fatto testamento. In quel caso pare che sarebbe la vedova a ereditare tutto, o quanto meno a godere di un usufrutto a vita.»

«In altre parole, Brenda Leonides è la persona che sarebbe più avvantaggiata da una scomparsa del testamento.»

«Sì. Se c’è sotto qualcosa di irregolare, è probabile che lei sia coinvolta. Ed è indubbio che ci sia sotto qualcosa di irregolare, ma accidenti a me se so cosa.»

Anch’io brancolavo nel buio. Che sciocchi eravamo. Ovviamente stavamo osservando la questione dall’angolazione sbagliata.

12

Uscito Taverner, ci fu un lungo silenzio.

Fui io a rompere il ghiaccio:

«Papà, come sono gli assassini?»

Il Vecchio mi fissò pensieroso. Ci comprendiamo così bene che lui capì al volo il motivo di quella domanda. Mi rispose con la massima serietà.

«Sì» disse. «La questione è importante, molto importante, per te… Il delitto ti ha toccato da vicino. Non puoi più osservare la situazione da spettatore esterno.»

Da semplice dilettante, mi interessavo da sempre ad alcuni “casi” sensazionali di cui si occupava la polizia giudiziaria, ma come diceva mio padre il mio interesse era simile a quello di chi guarda la vetrina di un negozio. Ora però, come Sophia aveva intuito assai prima di me, il delitto era diventato un elemento cruciale della mia vita.

Il Vecchio riprese:

«Non sono certo di essere la persona adatta a risponderti. Potrei farti parlare con un paio di psichiatri che collaborano con la polizia. Hanno idee molto precise sull’argomento. Lo stesso Taverner potrebbe darti informazioni di prima mano. Ma tu vuoi sapere cosa ne penso io personalmente, sulla base della mia esperienza, vero?»

«Esatto» gli risposi con gratitudine.

Mio padre disegnò un piccolo cerchio sulla scrivania con il dito.

«Come sono gli assassini? Alcuni di loro» un sorriso malinconico gli sfiorò le labbra «sono bravissime persone.»

Dovevo aver assunto un’aria sorpresa.

«Oh sì, te lo assicuro» ribadì mio padre. «Brave persone, gente normale come me e te, o come l’uomo che è appena uscito, Roger Leonides. Il delitto, vedi, è un crimine da dilettanti. Parlo, è ovvio, del tipo di delitto che hai in mente tu, non dei gangster. Si ha spesso l’impressione che queste brave persone vengano colte di sorpresa dal delitto, quasi per caso. Navigano in cattive acque, oppure desiderano spasmodicamente qualcosa: il denaro, una donna… e uccidono per ottenerli. Non hanno quei freni inibitori che operano in quasi tutti noi. Il bambino, lo sai, traduce il desiderio in azione senza rimorsi. Arrabbiato con il suo gattino, dice: “Ti ammazzo”, gli dà una martellata sulla testa e poi scoppia a piangere perché il gattino non si riprende! Quanti bambini tentano di prendere il fratellino dalla carrozzina e “annegarlo” perché catalizza l’attenzione dei genitori o interferisce con i loro desideri? Tuttavia, imparano molto presto che ciò è “sbagliato”, ovvero che così facendo verranno puniti. In seguito, arrivano a sentire che è sbagliato. Certa gente, però, secondo me, rimane moralmente immatura. Sanno che uccidere è sbagliato, ma non lo sentono. A giudicare dalla mia esperienza, gli assassini non provano mai rimorso… Forse è il marchio di Caino. Gli assassini sono un mondo a parte, sono “diversi”: uccidere è sbagliato, ma non per loro, per loro è necessario, la vittima “se l’è cercata”, era “l’unica soluzione”.»

«Dunque, se qualcuno odiava il vecchio Leonides, magari da lungo tempo, questo potrebbe costituire un movente?»

«Il puro odio? Assai improbabile.» Mio padre mi fissò incuriosito. «Quando dici odio, presumo che tu intenda un’antipatia portata all’eccesso. L’odio che nasce dalla gelosia è diverso, affonda le radici nell’affetto e nella frustrazione. Constance Kent, lo dicevano tutti, era molto affezionata al fratellino che uccise, ma voleva per sé tutta l’attenzione e l’amore che i genitori dedicavano a lui. Spesso le vittime sono persone amate, forse perché solo chi amiamo è capace di renderci la vita davvero insopportabile.

«Ma questo non ti aiuta, vero?» proseguì mio padre. «Quello che vuoi, se ben capisco, è un segno, un tratto universale che ti consenta di riconoscere l’assassino tra i membri di una famiglia apparentemente normale e educata.»

«Esatto.»

«Esiste un comune denominatore? Chissà.» Rimase un attimo in silenzio, pensieroso. «Se proprio devo, credo che lo individuerei nella vanità.»

«La vanità?»

«Sì. Non ho mai conosciuto un assassino che non fosse vanitoso… nove volte su dieci, è la vanità che li porta alla rovina. Se anche hanno paura di essere scoperti, non possono fare a meno di pavoneggiarsi e vantarsi, e in genere si credono troppo furbi per farsi incastrare.» Poi aggiunse: «Inoltre, gli assassini muoiono dalla voglia di parlare».

«Di parlare?»

«Proprio così. Vedi, l’omicidio ti mette in una posizione di solitudine assoluta. Vorresti raccontare tutto, ma non puoi, il che alimenta ulteriormente il tuo desiderio. E così, se non puoi raccontare come hai fatto, puoi almeno parlare dell’omicidio in quanto tale: discuterne, fare ipotesi, sviscerarlo.

«Se fossi in te, Charles, indagherei in questa direzione. Torna in quella casa, rimani tra loro, falli parlare. Certo, non sarà una passeggiata. Colpevoli o innocenti, saranno lieti di poter chiacchierare con un estraneo, perché a te potranno confidare cose che non si direbbero mai l’un l’altro. C’è però una differenza che forse noterai. Chi ha qualcosa da nascondere, in realtà, non può permettersi il lusso di parlare. Lo sapevano i servizi segreti durante la guerra. Se ti catturavano, nome, grado e matricola, ma nient’altro. Chi cerca di dare false informazioni finisce quasi sempre per tradirsi. Falli parlare, Charles, e presta attenzione ai lapsus e alle rivelazioni involontarie.»

A quel punto gli riferii ciò che Sophia mi aveva detto a proposito delle varie forme in cui la crudeltà della sua famiglia si manifestava. Lo trovò interessante.

«Sì» riconobbe. «La tua ragazza ha colto nel segno. Molte famiglie hanno un difetto, un tallone d’Achille. Quasi tutti sono capaci di convivere con un punto debole, ma averne due diversi può essere difficile. Argomento appassionante, l’ereditarietà. Prendiamo la crudeltà dei de Haviland e quella che potremmo definire la mancanza di scrupoli dei Leonides. I de Haviland se la cavano perché non sono senza scrupoli, mentre i Leonides se la cavano perché, pur mancando di scrupoli, sono persone gentili. Ma immaginiamo un discendente che abbia ereditato l’uno e l’altro tratto: capisci dove voglio arrivare?»

Non ci avevo pensato in quei termini. Mio padre riprese.

«Ma in fondo non baderei troppo all’ereditarietà. È un argomento oltremodo scivoloso e complesso. Piuttosto, ragazzo mio, torna in quella casa e falli parlare. C’è un punto su cui la tua Sophia ha ragione: solo la verità può esservi d’aiuto, a lei come a te. Dovete scoprirla.»

Poi, mentre uscivo dalla stanza:

«E occhio a quella bambina.»

«Josephine? Vuoi dire che non devo farle capire le mie intenzioni?»

«No. Voglio dire che devi… tenerla d’occhio. Non deve succederle nulla.»

Lo fissai sorpreso.

«Suvvia, Charles, non fare quella faccia. In quella casa gira un assassino a sangue freddo, e la piccola Josephine sembra sempre al corrente di tutto.»

«Sapeva tutto su Roger, per quanto l’accusa di appropriazione indebita sia forse un po’ precipitosa. Ma il resoconto della conversazione che ha origliato era estremamente preciso.»

«Sì. Le testimonianze dei bambini sono le più valide. Mi fido sempre di loro. Ma naturalmente non si possono portare in tribunale. I bambini non reggono le domande dirette: si confondono, balbettano, dicono di non sapere nulla. Sono utili quando sono liberi di mettersi in mostra. Ed è proprio questo che la bambina ha fatto con te: mettersi in mostra. Otterrai molte più informazioni da Josephine, in questo modo. Non farle domande. Fingi di credere che non sappia nulla. Così la stanerai.»

Poi aggiunse:

«Ma tienila d’occhio. Potrebbe sapere troppo e mettere in pericolo la sicurezza di qualcuno.»

13

Mi avviai verso la Casa Sbilenca (come ormai la chiamavo) con un vago senso di colpa. Avevo riferito a Taverner le confidenze di Josephine su Roger, ma non una parola sulle lettere d’amore che secondo la bambina Brenda e Laurence Brown si erano scambiati.

Per giustificarmi tentavo di convincermi che fossero semplici fantasie, che non esistessero ragioni per ritenerle vere. Ma la verità era che provavo una strana riluttanza a raccogliere ulteriori indizi contro Brenda Leonides. Mi aveva commosso apprendere della sua posizione in quella casa, circondata da una famiglia ostile che aveva fatto quadrato contro di lei. Se quelle lettere esistevano davvero, Taverner e i suoi le avrebbero trovate. Non mi piaceva l’idea di aggravare i sospetti su una donna già in difficoltà. Inoltre, mi aveva giurato solennemente che non c’era nulla tra lei e Laurence, e io tendevo a credere a Brenda piuttosto che a quel piccolo folletto perfido di Josephine. Non era stata proprio Brenda a dirmi che a quella ragazzina “mancava qualche rotella”?

Mio malgrado, tuttavia, ero sicuro che Josephine avesse tutte le rotelle a posto. Non avevo dimenticato l’intelligenza sprizzata da quegli occhietti neri.

Telefonai a Sophia per chiederle se potevo andare a trovarla.

«Sì, Charles, ti prego.»

«Come vanno le cose?»

«Non lo so. Discretamente. Continuano a frugare per tutta la casa. Cosa stanno cercando?»

«Non ne ho idea.»

«Siamo tutti esasperati. Vieni subito. Impazzisco se non parlo con qualcuno.»

Le promisi che sarei arrivato al più presto.

Non c’era nessuno in vista quando il taxi si fermò davanti all’ingresso. Pagai il tassista che ripartì subito. Ero incerto se suonare il campanello o entrare direttamente. La porta era aperta.

Mentre esitavo, udii un lieve rumore alle mie spalle. Voltai bruscamente la testa. Josephine, il volto seminascosto da una mela gigantesca, mi osservava da un’apertura nella siepe di tasso.

Incrociando il mio sguardo si girò immediatamente.

«Ciao, Josephine.»

Invece di rispondermi, sparì dietro la siepe. Attraversai il vialetto e la seguii. Si era seduta sulla scomoda panchina di legno vicino al laghetto dei pesci rossi e dondolava le gambe sbocconcellando la sua mela. Sopra la rosea circonferenza del frutto, i suoi occhi mi fissavano con aria cupa e inconfondibilmente ostile.

«Sono tornato, Josephine.»

Non era un esordio brillante, ma il silenzio e lo sguardo fisso della ragazzina mi innervosivano non poco.

Dimostrando uno straordinario senso della strategia, lei non rispose.

«Buona quella mela?» le chiesi.

Questa volta Josephine si degnò di rispondermi. Con una parola.

«Farinosa.»

«Peccato. Non mi piacciono le mele farinose.»

«A nessuno piacciono.»

«Perché non hai risposto quando ti ho salutato?»

«Non ne avevo voglia.»

«E perché?»

Josephine allontanò la mela dalla bocca per pronunciare chiaramente la sua accusa.

«Perché sei andato a spifferare tutto alla polizia» disse.

«Oh!» esclamai, colto alla sprovvista. «Vuoi dire… a proposito…»

«A proposito di zio Roger.»

«È tutto a posto, Josephine» la rassicurai. «Tutto a posto. Lo sanno che non ha fatto nulla di male. Cioè, che non si è appropriato del denaro o cose del genere.»

Josephine mi lanciò un’occhiata esasperata.

«Che stupido sei.»

«Mi dispiace.»

«Non sono preoccupata per zio Roger. È solo che non è questo il modo di condurre un’indagine. Non lo sai che alla polizia non si dice nulla fino alla fine?»

«Oh, capisco» dissi. «Mi dispiace, Josephine, mi dispiace davvero.»

«Che ti dispiaccia è il minimo. Io mi fidavo di te» mi rimproverò.

Per la terza volta mi dichiarai dispiaciuto. Josephine sembrò placarsi appena e diede un altro paio di morsi alla mela.

«Il fatto è che la polizia non avrebbe tardato a scoprire la verità» proseguii. «Tu… io… noi non potevamo sperare di mantenere a lungo il segreto.»

«Vuoi dire per via della bancarotta?»

Come al solito era bene informata.

«Certo.»

«Ne parleranno stasera» disse Josephine. «Papà, mamma, zio Roger e zia Edith. Zia Edith sarebbe disposta a dargli i suoi soldi, ma non li ha ancora ricevuti. Quanto a papà, non credo che glieli darà. Dice che se Roger si è messo nei guai non ha che se stesso da rimproverare, e a che serve buttare i soldi in quel buco nero? Mamma non vuole saperne perché desidera che papà sovvenzioni Edith Thompson. A proposito, la conosci la storia di Edith Thompson? Sposata con un uomo che non le piaceva, era innamorata di un giovanotto di nome Bywaters che sbarcò da una nave e scese per una strada diversa dopo il teatro e lo pugnalò alle spalle.»

Ancora una volta mi meravigliai di quanto approfondita fosse la conoscenza di Josephine e della maestria drammatica, nonostante certi dettagli poco chiari, con la quale aveva riassunto i fatti salienti.

«La storia non è male,» proseguì «ma dubito che la metteranno in scena così. La faranno come Gezabele.» Sospirò. «Quanto vorrei sapere perché i cani non le mangiarono i palmi delle mani.»

«Josephine, l’ultima volta mi hai detto che eri quasi sicura di sapere chi è l’assassino.»

«E allora?»

«Chi è?»

Mi lanciò uno sguardo sprezzante.

«Capisco» dissi. «Non prima dell’ultimo capitolo, vero? Neanche se prometto di non dirlo all’ispettore Taverner?»

«Mi manca ancora qualche elemento» rispose Josephine.

«E in ogni caso» aggiunse buttando il torsolo della mela nel laghetto dei pesci rossi «a te non direi nulla. Sei un Watson, al massimo.»

Mandai giù l’insulto.

«D’accordo, sono Watson. Ma anche Watson viene messo al corrente dei dati.»

«Dei cosa?»

«Dei fatti. Dai quali poi trae conclusioni sbagliate. Non ti divertiresti a vedermi trarre qualche conclusione sbagliata?»

Per un attimo Josephine parve tentata. Poi scosse la testa.

«No» rispose. «E poi non amo Sherlock Holmes più di tanto. È talmente antiquato. Va in giro in calesse.»

«E quelle lettere?»

«Quali lettere?»

«Le lettere d’amore di Brenda e Laurence.»

«Me le sono inventate» disse Josephine.

«Non ci credo.»

«È la verità. Invento spesso le cose. Mi diverto.»

Ci scambiammo un’occhiata di sfida.

«Ascoltami bene, Josephine. Conosco un uomo al British Museum che sa tutto della Bibbia. Se mi faccio spiegare come mai i cani non mangiarono i palmi delle mani di Gezabele, mi dirai di quelle lettere?»

Questa volta parve esitare davvero.

In quel momento, non lontano, un ramo si spezzò con un rumore secco. Josephine rispose con distacco:

«No.»

Accettai la sconfitta. Piuttosto tardivamente, mi ricordai del consiglio di mio padre.

«Pazienza» dissi. «Dopo tutto è solo un gioco. In realtà tu non sai nulla.»

I suoi occhi ebbero un sussulto, ma non abboccò.

Mi alzai. «Ora devo andare a cercare Sophia. Vieni con me.»

«Io rimango qui.»

«No. Tu vieni con me.»

Senza tante cerimonie la obbligai ad alzarsi. Sembrava sorpresa e pronta a ribellarsi, poi cedette di buon grado, almeno in parte, senza dubbio, perché voleva osservare le reazioni dei familiari alla mia presenza.

In quel momento non avrei saputo dire perché ci tenevo a portarla con me. Lo capii mentre varcavamo la soglia di casa.

Per via di un ramoscello spezzato all’improvviso.

14

Dal salotto grande proveniva un mormorio di voci. Dopo un attimo di esitazione, decisi di non entrare. Proseguii per il corridoio e, spinto da chissà quale impulso, aprii una porta che comunicava con i quartieri della servitù. Il corridoio era buio, ma all’improvviso si aprì una porta su una grande cucina illuminata. Sulla soglia c’era una donna anziana e piuttosto corpulenta. Un grembiule bianco e immacolato le fasciava i fianchi abbondanti. Non appena la vidi, mi sentii invaso da una sensazione di benessere, quella sensazione che ti sanno dare le care vecchie balie. Pur avendo trentacinque anni, mi sentivo rassicurato come un bambino di quattro.

Per quanto ne sapessi, Nannie non mi aveva mai visto, eppure disse immediatamente:

«Il signor Charles, vero? Venga in cucina e mi permetta di offrirle una tazza di tè.»

Era una cucina grande e allegra. Al centro c’era un tavolo: mi sedetti e Nannie mi portò una tazza di tè e un piattino con due biscotti. Era come se fossi tornato all’asilo nido, senza un pensiero al mondo: il buio, l’ignoto e la paura erano rimasti fuori.

«La signorina Sophia sarà contenta di vederla» disse Nannie. «È un tantino sovreccitata.» Poi, con disapprovazione: «Sono tutti sovreccitati».

Mi guardai alle spalle.

«Dov’è Josephine? Era entrata con me.»

Nannie schioccò la lingua.

«Starà origliando dietro una porta e prendendo appunti su quel taccuino» disse. «Avrebbe dovuto andare a scuola, frequentare bambini della sua età. Io lo dicevo alla signorina Edith, e lei era d’accordo, ma il padrone non voleva saperne, diceva che stava meglio qui, in casa sua.»

«Immagino che le voglia molto bene.»

«Gliene voleva, signore. Le voleva un bene dell’anima.»

La fissai con una certa sorpresa, chiedendomi perché l’affetto di Philip per la sua creatura venisse espresso al passato. Notando la mia espressione, Nannie arrossì un poco e disse:

«Parlando del padrone, mi riferivo al vecchio signor Leonides.»

Prima che potessi replicare, Sophia entrò in cucina.

«Oh, Charles» disse, e poi: «Oh, Nannie, sono così felice che sia venuto».

«Lo so, piccola mia.»

Nannie raccolse alcune stoviglie e si ritirò nel retrocucina, chiudendo la porta.

Mi alzai, mi avvicinai a Sophia e la presi tra le braccia.

«Tesoro» dissi. «Tu stai tremando. Che succede?»

«Ho paura, Charles. Ho paura.»

«Io ti amo» mormorai. «Se solo potessi portarti via di qui…»

Sophia si ritrasse e scosse la testa.

«No, è impossibile. Dobbiamo andare fino in fondo. Ma ti confesso, Charles, che sono inquieta. Non mi piace l’idea che qualcuno… qualcuno in questa casa… qualcuno con cui parlo tutti i giorni sia uno spietato avvelenatore a sangue freddo…»

Non sapevo cosa risponderle. Sophia non si lascia rabbonire con sciocche e facili rassicurazioni.

«Se solo sapessimo…» disse.

«Già, il peggio è questo» ammisi.

«Sai cosa mi terrorizza sul serio?» sussurrò. «Il fatto che forse non lo sapremo mai

Era facile immaginare che incubo sarebbe stato. E l’eventualità che l’assassino del vecchio Leonides riuscisse a farla franca mi sembrava assai probabile.

Quel pensiero, tuttavia, mi riportò alla mente una domanda che volevo rivolgerle su un aspetto che mi interessava.

«Dimmi, Sophia, quante persone qui in casa sapevano delle gocce di eserina?» le chiesi. «Voglio dire, in quanti sapevano (a) che tuo nonno le prendeva e (b) in quale dose diventano velenose?»

«Capisco dove vuoi arrivare, Charles. Ma è inutile. Lo sapevamo tutti.»

«Be’, certo, a grandi linee, ma non nello specifico…»

«Lo sapevamo tutti nello specifico. Un giorno dopo pranzo stavamo prendendo il caffè con il nonno. Sai, gli piaceva riunire la famiglia intorno a sé. Gli facevano male gli occhi, così Brenda andò a prendere l’eserina e gli mise una goccia per occhio. Josephine, che fa sempre domande, chiese: “Perché sulla boccetta c’è scritto ‘Collirio: non iniettare’?”. Il nonno sorrise e rispose: “Se Brenda si sbagliasse e mi iniettasse il collirio invece dell’insulina, penso che mi mancherebbe il fiato, diventerei cianotico e morirei rapidamente, perché sai, il mio cuore non è più tanto forte”. Josephine fece: “Oo”, e il nonno proseguì: “Perciò dovremo badare che Brenda non mi inietti l’eserina al posto dell’insulina, vero?”.» Sophia si interruppe, poi concluse: «Lo sentimmo tutti. Capisci? Lo sentimmo tutti!».

Eccome se capivo. Ero vagamente convinto che l’assassino dovesse avere una seppur minima competenza specifica, ma in quel momento mi resi conto che era stato il vecchio Leonides a suggerire il metodo per ucciderlo. Il colpevole non aveva dovuto escogitare un piano, né progettare alcunché. La vittima gli aveva fornito un metodo semplice ed efficace.

Respirai a fondo. Leggendomi nel pensiero, Sophia disse: «Mostruoso, vero?».

«Sai, Sophia,» mormorai «c’è un’idea che ho in testa.»

«Sì?»

«Che hai ragione quando dici che non può essere stata Brenda. Non poteva ucciderlo in quel modo, sapendo che tutti voi avevate ascoltato e vi sareste ricordati.»

«Non ne sono così sicura. Sai, è piuttosto sciocca, per certi versi.»

«Non così sciocca» insistetti. «No, non può essere stata Brenda.»

Sophia si allontanò da me.

«Tu speri che Brenda sia innocente, vero?» mi chiese.

Cosa potevo risponderle? Non riuscivo… non riuscivo proprio a dire: “No, spero che Brenda sia colpevole”.

E perché no? Perché era sola e aveva contro l’intera potentissima famiglia Leonides. Cavalleria? Compassione per il più debole e indifeso? Me la ricordavo sul divano, lussuosamente vestita a lutto, la disperazione nella voce, la paura negli occhi.

Nannie tornò dal retrocucina al momento opportuno. Forse avvertì la tensione che serpeggiava tra me e Sophia.

Quasi ci rimproverò:

«Basta parlare di delitti. Non ci pensate, datemi retta. Lasciate che se ne occupi la polizia. È il loro sporco lavoro, non il vostro.»

«Oh, Nannie… ti rendi conto che abbiamo un assassino in casa?»

«Che sciocchezze, signorina Sophia. Non è forse vero che la porta è sempre aperta, e che qui dentro non c’è una serratura chiusa? Un vero e proprio invito a nozze per ladri e scassinatori.»

«Non può essere stato un ladro, non manca nulla. E poi cosa ci guadagna un ladro ad avvelenare il padrone di casa?»

«Non ho detto che è stato un ladro, signorina Sophia. Ho detto solo che tutte le porte erano aperte. Poteva entrare chiunque. Se vuole il mio parere, sono stati i comunisti.»

Nannie annuì compiaciuta.

«E sentiamo, perché mai i comunisti avrebbero voluto assassinare il povero nonno?»

«Be’, lo dicono tutti che è sempre colpa dei comunisti. E se non sono stati i comunisti, si fidi, sono stati i cattolici. La Grande Meretrice di Babilonia, ecco cosa sono.»

Con l’aria di aver detto l’ultima parola, Nannie scomparve di nuovo nel retrocucina.

Sophia e io scoppiammo a ridere.

«Una cara vecchia protestante nera» commentai.

«L’hai detto. Vieni, Charles, andiamo in salotto. È in corso una riunione familiare. Era in programma per stasera, ma è cominciata in anticipo.»

«Preferirei non intromettermi, Sophia.»

«Se vuoi sposare un membro di questa famiglia, sarà meglio che tu la veda in assetto da guerra.»

«Di cosa si discute?»

«Degli affari di Roger. Sai già tutto, credo. Ma sei pazzo se pensi che possa aver ucciso il nonno. Diamine, Roger lo adorava.»

«Non ho mai pensato seriamente che possa essere stato Roger. Sospettavo di Clemency, invece.»

«Solo perché te l’ho messo in testa io. Ma hai torto anche su questo. A Clemency non importerebbe se Roger perdesse tutto. Anzi, penso che sarebbe contenta. Per qualche strana ragione, Clemency adora non avere le cose. Andiamo.»

Quando Sophia e io entrammo in salotto, il brusio s’interruppe bruscamente. Tutti si voltarono a guardarci.

La famiglia era al completo. Philip sedeva tra le finestre su una grande poltrona ricoperta di broccato cremisi, il bel volto irrigidito in una maschera gelida e impenetrabile. Sembrava un giudice pronto a emettere la sentenza. Roger era a cavalcioni di un grosso pouf accanto al camino. Si era passato le dita tra i capelli tante volte che ora gli stavano ritti sulla testa. La gamba sinistra dei pantaloni era spiegazzata e aveva la cravatta storta, il viso rosso e un’espressione combattiva. Clemency era seduta dietro di lui, il corpo sottile quasi si perdeva nella poltrona imbottita. Lo sguardo assente e placido vagava sui pannelli delle pareti. Su un’altra poltrona c’era Edith. Seduta con il busto ritto, lavorava a maglia con incredibile energia, le labbra serrate. Magda ed Eustace erano una visione incantevole, quasi un ritratto di Gainsborough. Erano seduti insieme sul divano: il bel ragazzetto bruno con l’aria imbronciata e, vicino a lui, un braccio appoggiato languidamente sullo schienale, Magda, la Duchessa di Three Gables, con un ampio vestito di taffetà sotto il quale spuntava una pantofola di broccato.

Philip aggrottò la fronte.

«Sophia,» disse «sono spiacente ma stiamo discutendo questioni familiari di natura privata.»

I ferri della signorina de Haviland continuavano a ticchettare. Stavo per scusarmi e andarmene, ma Sophia mi precedette. La sua voce era chiara e decisa.

«Charles e io abbiamo intenzione di sposarci. Desidero che partecipi alla riunione.»

«Già, perché no?» esclamò Roger balzando in piedi dal pouf come un pupazzo a molla. «Per l’ennesima volta, Philip, non c’è nulla di privato in questa faccenda! Tra uno o due giorni lo saprà tutto il mondo. E in ogni caso, mio caro ragazzo,» venne a posarmi un’amichevole mano sulla spalla «lei sa già tutto. Stamattina c’era anche lei.»

«Oh, mi dica» esclamò Magda, piegandosi in avanti. «Come sono gli uffici di Scotland Yard? Se lo chiedono tutti. Un tavolo? Una scrivania? Sedie? Che tipo di tende? Niente fiori, immagino. Un dittafono?»

«Chiudi il becco, mamma» intervenne Sophia. «Ti ricordo che hai detto a Vavasour Jones di tagliare la scena di Scotland Yard perché la ritenevi un anticlimax.»

«Trasformerebbe la tragedia in un giallo» disse Magda. «Edith Thompson è un dramma psicologico, o forse un thriller psicologico… come è meglio chiamarlo, secondo te?»

«C’era anche lei stamattina?» tagliò corto Philip. «Come mai? Oh, ma certo… suo padre…»

Aggrottò la fronte. Che la mia presenza fosse sgradita era sempre più evidente, ma la mano di Sophia mi stringeva il braccio come una tenaglia.

Clemency mi avvicinò una sedia.

«Si accomodi» disse.

La ringraziai con lo sguardo.

«Dite quello che vi pare,» intervenne la signorina de Haviland, riprendendo il discorso dal punto in cui lo avevamo interrotto con il nostro arrivo «ma sono convinta che dovremmo rispettare le volontà di Aristide. Quando la faccenda del testamento verrà chiarita, per quanto mi riguarda, la mia parte di eredità sarà interamente a tua disposizione, Roger.»

Roger si tirò spasmodicamente i capelli.

«No zia Edith. No!» gridò.

«Vorrei poter dire lo stesso,» disse Philip «ma bisogna tener conto di tutte le implicazioni…»

«Caro vecchio Philip, ma non capisci? Io non prenderò un penny da nessuno

«Certo che no!» esclamò Clemency.

«E in ogni caso, Edith,» disse Magda «se verrà riconosciuta la validità del testamento anche lui avrà la sua parte.»

«Ma a quel punto sarà troppo tardi, o sbaglio?» chiese Eustace.

«Non sai di cosa parli, Eustace» lo rimbeccò Philip.

«Il ragazzo ha perfettamente ragione» ribatté Roger. «Ha messo il dito nella piaga. Non c’è più nulla che possa evitare il tracollo. Nulla.»

Il suo tono tradiva una certa soddisfazione.

«Non c’è più nulla di cui discutere» disse Clemency.

«E in ogni caso,» aggiunse Roger «che importanza ha?»

«Ero convinto che ti importasse, e molto» disse Philip serrando le labbra.

«No!» esclamò Roger. «No! Ora che papà è morto, cosa vuoi che me ne importi? Papà è morto! E noi siamo qui a discutere di soldi!»

Un vago rossore salì alle guance di Philip.

«Vogliamo solo aiutarti» disse, irrigidendosi.

«Lo so, Phil, vecchio mio, lo so. Ma non c’è più nulla da fare. Non parliamone più.»

«Forse» insistette Philip «potrei riuscire a raccogliere una certa somma di denaro. Le azioni hanno perso parecchi punti e in questo momento non posso disporre di una parte del mio capitale: c’è la rendita di Magda e così via… ma…»

Magda colse la palla al balzo:

«Nemmeno per sogno, tesoro. Provare a raccogliere una somma di denaro sarebbe un’assurdità, e non sarebbe giusto nei confronti dei ragazzi.»

«Per l’ennesima volta, io i vostri soldi non li voglio!» strillò Roger. «Ho perso la voce a furia di ripeterlo. Voglio lasciare che la faccenda segua il suo corso.»

«È una questione di prestigio» disse Philip. «Di papà. Della famiglia.»

«Non era un’azienda di famiglia. Era mia e basta.»

«È vero» ammise Philip, fissandolo. «Era tua e basta.»

Edith de Haviland si alzò in piedi. «Direi che abbiamo discusso a sufficienza.»

La voce trasmetteva quel senso di vera e propria autorevolezza che non manca mai di produrre il suo effetto.

Philip e Magda si alzarono. Eustace uscì dalla stanza e per la prima volta notai la sua andatura irregolare. Non che fosse zoppo, ma camminava con difficoltà.

Roger prese sottobraccio Philip.

«Sei un angelo, Philip. La sola idea di fare un tale sacrificio per me!» I due fratelli uscirono insieme.

Magda li seguì, mormorando: «Tanto clamore per nulla!». Sophia disse che doveva occuparsi della mia stanza.

Edith de Haviland si era alzata per piegare il lavoro a maglia. Mi fissò e pensai che stesse per rivolgermi la parola. C’era un che di supplichevole nel suo sguardo. Invece cambiò idea, sospirò e uscì dal salotto.

Clemency si era avvicinata alla finestra e stava guardando il giardino. La raggiunsi e lei, voltando leggermente la testa, disse: «Grazie al cielo è finita». Poi, con disgusto: «Che stanza assurda, questa!».

«Non le piace?»

«Non riesco a respirare. C’è sempre odore di fiori appassiti e polvere.»

Secondo me esagerava, ma capivo il senso delle sue parole. Quel salotto sembrava un quadro.

Era una stanza femminile, esotica, isolata dalle intemperie. Non era una stanza che mettesse a proprio agio. Non era una stanza in cui rilassarsi, leggere il giornale, fumare la pipa e allungare i piedi. Eppure preferivo quel salotto all’espressione astratta della personalità di Clemency che avevo visto al primo piano. In linea di massima, preferisco un boudoir a una sala operatoria.

Si guardò intorno.

«È solo un palcoscenico. Un fondale per le recite di Magda.» Mi guardò. «Le è chiaro ciò a cui ha appena assistito, vero? Atto II: la riunione familiare. Tutta opera di Magda. Assolutamente inutile. Non c’era nulla da discutere. È già tutto scritto e definito.»

Non c’era tristezza nella sua voce. Soddisfazione, piuttosto. Notò la mia sorpresa.

«Oh, ma non capisce? Finalmente siamo liberi! Non capisce che Roger soffriva, soffriva le pene dell’inferno, da anni? Non è mai stato portato per gli affari. Gli piacciono i cavalli, le vacche, la vita di campagna. Ma adorava suo padre, come tutti gli altri. Ecco il problema di questa casa: troppa famiglia. Non che il vecchio fosse un tiranno, vivesse alle loro spalle o li intimidisse. Non è così. Lui dava i soldi e la libertà. Voleva bene alla famiglia. E loro lo adoravano.»

«E cosa c’è di male in questo?»

«Qualcosa di male c’è. Quando i figli crescono, i genitori dovrebbero tagliare il cordone, scomparire, farsi da parte, costringerli a dimenticarli.»

«Costringerli? Un po’ drastico, non le pare? La coercizione non mi sembra il metodo migliore.»

«Se non si fosse costruito quella personalità…»

«Le personalità non si costruiscono» replicai. «Lui era una personalità.»

«Una personalità troppo forte per Roger. Lui lo adorava. Era pronto a esaudire ogni sua richiesta, voleva essere il figlio che lui desiderava. Ma non ci riusciva. La Associated Catering era il fiore all’occhiello di Aristide. La cedette a Roger, che cercò in ogni modo di seguire le orme del padre. Ma non era capace. Negli affari Roger è – lo dico chiaro e tondo – un inetto. Per poco non gli si spezzava il cuore. Anni di sforzi e sofferenza, e intanto l’azienda colava a picco, nonostante le improvvise “idee” geniali e i “progetti” che fallivano regolarmente e non facevano che peggiorare la situazione. È una vera tortura rendersi conto di essere un fallito, anno dopo anno. Lei non ha idea di quanto fosse infelice. Io sì.»

Di nuovo si voltò a guardarmi.

«E lei ha pensato, anzi, ha suggerito alla polizia che Roger potrebbe aver ucciso suo padre… per denaro! Lei non si rende conto di quanto… quanto ridicola sia la sola idea!»

«Ora me ne rendo conto» replicai umilmente.

«Quando Roger si accorse che tutto franava, che il tracollo era inevitabile, per lui fu un sollievo. Proprio così. L’unica sua preoccupazione era che il padre lo venisse a sapere, nient’altro. Non vedeva l’ora di cominciare la nuova vita che progettavamo insieme.»

Il volto fremette, la voce si addolcì.

«Quale meta avevate scelto?» le chiesi.

«Barbados. Un mio lontano parente morto da poco mi ha lasciato una piccola proprietà. Nulla di che, ma ci saremmo accontentati. Saremmo diventati poveri in canna, ma avremmo comunque sbarcato il lunario: la vita costa pochissimo, là. Saremmo stati insieme, senza pensieri, lontani da tutto questo.»

Sospirò.

«Roger è una persona assurda. Si preoccupava per me, temeva che a me sarebbe pesata la povertà. Quando si tratta di soldi, si comporta come tutti gli altri Leonides. Quando il mio primo marito era ancora vivo, eravamo poveri in canna, e Roger mi ha sempre ritenuto così coraggiosa per questo! Non ha mai capito che ero felice, veramente felice! Una felicità che da allora non ho più conosciuto. Eppure non ho mai amato Richard quanto amo Roger.»

Aveva gli occhi semichiusi. Mi resi conto dell’intensità dei suoi sentimenti.

Riaprì gli occhi e mi guardò.

«Lo capisce, vero, che nemmeno io potrei mai uccidere per denaro? Il denaro non mi piace

Ero sicuro che fosse sincera. Clemency Leonides era una di quelle rare persone che non subiscono il fascino del denaro, non amano il lusso, preferiscono l’austerità e guardano con diffidenza ai beni materiali.

E tuttavia quante persone, pur non affascinate dal denaro, sono tentate dal potere che conferisce?

«Forse non vuole il denaro per sé, ma è pur vero che, se investito oculatamente, il denaro può servire a cause nobili e interessanti. Finanziare la ricerca, per esempio.»

Ero convinto che Clemency adorasse fanaticamente il proprio lavoro, invece replicò:

«Sono molto scettica riguardo ai finanziamenti. In genere vengono spesi male. Quasi sempre i risultati migliori sono frutto dell’entusiasmo, della passione e dell’istinto. Le apparecchiature e gli studi costosi sono assai meno utili di quanto si creda, e il più delle volte i fondi finiscono nelle mani sbagliate.»

«Non le dispiacerà lasciare il suo lavoro quando vi trasferirete a Barbados?» le chiesi. «Avete ancora intenzione di partire, vero?»

«Oh, sì, appena la polizia ce lo permetterà. No, non mi dispiacerà lasciare il mio lavoro. E perché dovrebbe? Non amo starmene con le mani in mano, ma non è quello che farò a Barbados.»

Con impazienza aggiunse:

«Oh, se solo facessero in fretta a risolvere il caso, consentendoci di partire.»

«Clemency,» dissi «ha idea di chi possa essere stato? Ammesso che né lei né Roger siate coinvolti (e non ho ragione di sospettarlo), lei è troppo intelligente per non essersi fatta una qualche idea.»

Mi lanciò una strana occhiata, fulminea e di traverso. La sua voce perse spontaneità: era impacciata, imbarazzata.

«Le congetture sono ascientifiche» rispose. «Posso solo dire che Brenda e Laurence sono i primi sospettati.»

«Pensa che siano stati loro?»

Clemency alzò le spalle.

Rimase un attimo immobile, come in ascolto, poi uscì dal salotto incrociando la signorina de Haviland sulla soglia.

Edith mi si avvicinò con passo rapido.

«Vorrei parlarle» disse.

Mi tornarono in mente le parole di mio padre. E se…

Ma Edith de Haviland aveva già cominciato:

«Spero che non si sia fatto un’idea sbagliata» disse. «Su Philip, intendo. Non è facile capirlo. Può sembrare freddo e distaccato, ma non lo è. È solo una posa. È più forte di lui.»

«Non pensavo minimamente che…» replicai.

Non mi lasciò continuare.

«Poco fa, con Roger. Philip non è uno spilorcio. È una brava persona, lo è sempre stata, ma bisogna capirlo.»

La guardai con l’aria di chi è dispostissimo a capire, o almeno così mi auguravo. Lei proseguì:

«In parte, secondo me, si comporta così perché è il secondogenito. E i secondogeniti partono sempre svantaggiati. Sa, anche lui adorava suo padre. Certo, tutti i figli adoravano Aristide, come lui adorava loro. Ma Roger era il suo orgoglio, proprio perché era il primo. Philip lo sentiva, ecco perché si chiuse in se stesso. Preferiva dedicarsi ai libri, al passato, a tutto ciò che era estraneo alla vita quotidiana. E penso che ne soffrisse, come solo i bambini sanno soffrire…»

Tacque per qualche istante, poi riprese:

«In realtà, credo che sia sempre stato geloso di Roger. Forse senza nemmeno rendersene conto. E ora, penso che il fallimento del fratello… oh, che cosa odiosa da dire, sono certa che non lo ammetterebbe mai… penso che lo addolori meno di quanto dovrebbe.»

«Intende dire che Philip è contento della pessima figura fatta dal fratello?»

«Sì» rispose la signorina de Haviland. «Intendo esattamente questo.»

Poi, con aria accigliata:

«Il fatto che non si sia immediatamente offerto di aiutare il fratello mi addolorava.»

«E perché avrebbe dovuto?» ribattei. «Dopo tutto il disastro Roger lo ha combinato davvero. È un uomo adulto e non ci sono figli coinvolti. Se fosse malato o davvero in difficoltà la famiglia lo aiuterebbe senz’altro, ma non ho dubbi che Roger preferisca ricominciare da capo per conto proprio.»

«Come no? Lui ha a cuore solo Clemency. E Clemency è una donna straordinaria. Le piace sul serio vivere in condizioni spartane, avere una sola tazza per il tè. Una donna moderna? Forse. Non ha il senso del passato, non ha il senso della bellezza.»

Quegli occhietti acuti mi scrutarono dalla testa ai piedi.

«Che terribile calvario per Sophia» disse. «È troppo giovane per sopportarlo. Io voglio bene a tutti, sa? A Roger e a Philip, e ora a Sophia, a Eustace e a Josephine. Sono tutti adorabili, i figli di Marcia. Sì, voglio loro un bene dell’anima.» Una breve pausa, poi aggiunse all’improvviso: «Badi, però, la mia non è idolatria».

Si voltò bruscamente e uscì dalla stanza. Avevo la sensazione che quell’ultima affermazione avesse un significato che mi sfuggiva.

15

«La tua camera è pronta» mi disse Sophia.

Ferma accanto a me, guardava il giardino dalla finestra. Era grigio e tetro, con gli alberi spogli scossi dal vento.

Sophia mi lesse nel pensiero:

«Com’è desolato…»

In quel momento intravvedemmo una figura, poi un’altra, provenire dal giardino oltre la siepe di tasso. Erano grigie e immateriali alla luce morente del giorno.

La prima era Brenda Leonides. Era avvolta in un mantello di cincillà grigio e c’era un che di felino e furtivo nei suoi movimenti. Scivolava nella penombra del crepuscolo con una sorta di misteriosa leggiadria.

Scorsi il suo viso quando passò davanti alla finestra. Ancora quel mezzo sorriso, quel sorriso obliquo e ambiguo che avevo notato al piano di sopra. Pochi attimi dopo fece la sua comparsa Laurence Brown, magrolino e rinsecchito. Riesco a descriverli soltanto così: non sembravano due persone in carne e ossa uscite a fare una passeggiata; avevano un che di etereo e immateriale che li faceva sembrare fantasmi.

Mi chiesi se fosse stato il piede di Brenda o di Laurence a spezzare quel ramoscello.

Per associazione di idee, chiesi:

«Dov’è Josephine?»

«Probabilmente sta facendo i compiti con Eustace.» Sophia si rabbuiò. «Charles, sono preoccupata per Eustace.»

«Perché?»

«È così strano e capriccioso. Quella maledetta paralisi lo ha cambiato. Non capisco mai cosa gli passa per la mente. A volte sembra che ci odi tutti.»

«Gli passerà. È solo un periodo.»

«Me lo auguro. Però sono preoccupata.»

«Perché, tesoro mio?»

«Forse perché mio padre e mia madre non lo sono. Non si comportano da genitori.»

«A volte è meglio così. Spesso a interferire si fanno più danni.»

«È vero. Sai, non ci avevo mai pensato prima di tornare dall’estero, ma quei due sono una coppia davvero strana. Papà che vive nel suo mondo di oscuri dettagli storici, mamma che si diverte ad allestire le sue recite. La pagliacciata di stasera era tutta opera sua. Assolutamente inutile. Aveva voglia di mettere in scena una riunione familiare, tutto qui. Siccome si annoia, per ammazzare il tempo le tocca inventarsi qualche dramma.»

Per un attimo mi passò davanti agli occhi l’immagine della madre di Sophia che avvelenava il vecchio suocero con disinvoltura, pur di osservare di prima mano il momento clou di un dramma del quale lei era la protagonista.

Un’idea buffa che liquidai subito in quanto tale, ma che mi lasciò un vago senso di disagio.

«Mamma va sorvegliata costantemente» disse Sophia. «Non si sa mai cosa può inventare
«Non pensare alla tua famiglia, Sophia» le dissi con decisione.

«Sarei fin troppo lieta di non pensarci, ma al momento non è così facile. Com’ero felice al Cairo quando mi ero dimenticata di loro.»

Ricordavo bene che Sophia non nominava mai la casa e la famiglia.

«È per questo che non mi parlavi mai di loro?» le chiesi. «Perché volevi dimenticarli?»

«Credo di sì. Abbiamo sempre vissuto troppo vicini. Noi… noi ci vogliamo troppo bene. Non siamo come quelle famiglie in cui tutti si odiano a morte. Non dev’essere piacevole, ma è quasi peggio essere prigionieri di sentimenti profondi e conflittuali.»

Poi aggiunse:

«Probabilmente intendevo questo quando ti ho detto che vivevamo tutti insieme in una piccola casa sbilenca. Non alludevo a nulla di disonesto, volevo solo dire che non siamo riusciti a diventare autonomi, a camminare con le nostre gambe. Siamo avvinghiati l’uno all’altro come rampicanti. O come convolvoli…»

Quelle parole mi riportarono alla mente il tacco di Edith de Haviland che schiacciava l’erbaccia sul sentiero.

All’improvviso si spalancò la porta. Era Magda, che entrò di corsa gridando:

«Miei cari, perché non avete acceso la luce? È quasi buio.»

Fu lei a premere gli interruttori. Fasci di luce illuminarono le pareti e i tavoli. Tutti insieme tirammo le pesanti tende rosa e voilà: rieccoci nel salotto odoroso di fiori, dove Magda si gettò sul divano gridando:

«Che scena incredibile, vero? Eustace aveva un diavolo per capello! Mi ha detto che l’aveva trovata indecorosa. Come sono strani i ragazzini!»

Sospirò.

«Roger è così tenero. Lo adoro quando si arruffa i capelli e comincia a far cadere le cose. E Edith? Non è stata meravigliosa a offrirgli la sua quota dell’eredità? Diceva sul serio, sapete, non era una finta. Ma allo stesso tempo è stata una stupidaggine colossale, perché rischiava di spingere Philip a fare lo stesso! Edith, ne sono certa, farebbe qualunque cosa per la famiglia! C’è qualcosa di commovente nell’amore di una zitella per i figli della sorella. Un giorno bisognerà che interpreti una zia zitella e devota. Impicciona, testarda e devota.»

«Dev’essere stata dura per lei dopo la morte della sorella» osservai, evitando di farmi trascinare in un’altra discussione sui ruoli di Magda. «Se consideriamo quanto detestava il vecchio Leonides.»

Magda mi interruppe.

«Detestava? Chi gliel’ha detto? Sciocchezze. Era innamorata di lui.»

«Mamma!» esclamò Sophia.

«Non cercare di contraddirmi, Sophia. Alla tua età pensi che l’amore possa sbocciare solo tra due bei giovani sotto il chiaro di luna.»

«È stata lei a dirmi che l’aveva sempre detestato.»

«Probabilmente era vero quando si trasferì qui da noi. Era furibonda con la sorella, perché l’aveva sposato. Arrivo a dire che fossero rivali, ma lei lo amava, oh se lo amava! Tesoro, so quel che dico! Certo, in quanto sorella della moglie defunta lui non avrebbe potuto sposarla, probabilmente l’idea non sfiorò mai nessuno dei due. A lei bastava fare da madre ai suoi figli, vivere nella stessa casa e poter litigare con lui. Ma non era contenta quando lui sposò Brenda. Non era affatto contenta!»

«Nemmeno tu e papà» disse Sophia.

«Certo che no, eravamo inorriditi! È ovvio! Ma nessuno lo era più di Edith. Tesoro, se solo avessi visto come guardava Brenda!»

«Suvvia, mamma» disse Sophia.

Magda le lanciò uno sguardo affettuoso e contrito, lo sguardo di una bambina viziata.

Senza rendersi conto di saltare di palo in frasca, proseguì:

«Ho deciso che Josephine deve andare a scuola.»

«Josephine? A scuola?»

«Sì. In Svizzera. Me ne occuperò domani stesso. Deve partire al più presto. Non è bene che sia coinvolta in questioni così orribili. La morte del nonno è diventata un chiodo fisso per lei. Ha bisogno di stare con bambini della sua età. L’ho sempre pensato.»

«Il nonno non voleva che andasse a scuola» disse Sophia. «Era contrarissimo.»

«Il tuo caro nonno ci voleva tutti qui sotto i suoi occhi. Gli anziani sono egoisti, a volte. I bambini devono stare con i bambini. E poi la Svizzera fa così bene: gli sport invernali, l’aria pura, il cibo infinitamente migliore del nostro!»

«Non sarà facile mandarla in Svizzera, con tutte le restrizioni valutarie» intervenni.

«Sciocchezze, Charles. Accordi scolastici, scambi studenteschi: esistono varie soluzioni. A Losanna c’è Rudolf Alstir. Gli telegraferò domani e si incaricherà di tutto. Entro il fine settimana riusciremo a farla partire!»

Magda sprimacciò un cuscino, sorrise, andò alla porta, si fermò sulla soglia e ci lanciò uno sguardo affascinante.

«Contano solo i giovani» disse. Una battuta magnifica. «Vengono prima di tutto. E poi, miei cari, pensate ai fiori, le genziane azzurre, i narcisi…»

«In ottobre?» chiese Sophia, ma la madre se n’era già andata.

Sophia si lasciò sfuggire un sospiro esasperato.

«Mamma è davvero insopportabile! Le viene un’idea improvvisa, manda centinaia di telegrammi ed esige che tutto sia pronto in un lampo. Perché tanta fretta di spedire Josephine in Svizzera?»

«Mandarla a scuola non è una cattiva idea. Credo che le farebbe bene frequentare dei coetanei.»

«Il nonno era contrario» ripeté ostinatamente Sophia.

Quelle parole mi irritarono un poco.

«Mia cara Sophia, credi davvero che un signore ultraottantenne possa essere il miglior giudice in materia di educazione infantile?»

«Era il giudice migliore della famiglia» rispose Sophia.

«Migliore della zia Edith?»

«No, forse no. Anche lei era favorevole alla scuola. Ammetto che Josephine è una bambina difficile, con quella tremenda abitudine di origliare. Ma è probabile che in questi giorni stia solo giocando a fare l’investigatrice.»

Era soltanto per il bene di Josephine che Magda aveva improvvisamente deciso di mandarla in Svizzera? Non ne ero così sicuro. Josephine era straordinariamente informata su questioni precedenti al delitto che certo non la riguardavano. Una sana vita scolastica piena di giochi le avrebbe fatto un mondo di bene. Ma l’improvvisa urgenza della decisione di Magda mi lasciava perplesso. La Svizzera è così lontana.

16

Il Vecchio mi aveva raccomandato:

“Falli parlare.”

L’indomani mattina, mentre mi radevo, passai in rassegna i risultati ottenuti.

Edith de Haviland mi aveva parlato, anzi, era venuta a cercarmi apposta. Clemency mi aveva parlato (o ero stato io a parlare con lei?). Magda mi aveva parlato, o meglio, ero stato fra gli spettatori di una delle sue recite. Naturalmente Sophia mi aveva parlato. E anche Nannie mi aveva parlato. Ebbene, avevo fatto qualche progresso? Una parola particolarmente significativa, una frase? Di più: avevo notato segni di quella vanità patologica su cui mio padre aveva posto l’accento? Non mi pareva.

La sola persona che non aveva mostrato alcun desiderio di parlarmi in alcun modo e di alcun argomento era Philip. Non era questo, per certi versi, un comportamento anomalo? Ormai doveva aver capito che volevo sposare sua figlia, eppure continuava a comportarsi come se non esistessi. Probabilmente la mia presenza lo irritava. Edith de Haviland aveva cercato di giustificarlo, spiegandomi che la sua era una semplice “posa”. E si era mostrata in pensiero per Philip. Come mai?

Mi concentrai sul padre di Sophia. Era un individuo represso in ogni senso del termine. Era stato un bambino infelice e geloso, costretto a chiudersi in se stesso e rifugiarsi nel mondo dei libri, nella storia e nel passato. La freddezza calcolata e il riserbo potevano nascondere sentimenti impetuosi. L’ipotesi che il movente potesse essere un tornaconto finanziario non mi convinceva: non era pensabile che Philip Leonides fosse stato spinto a uccidere il padre perché aveva meno soldi di quanti ne desiderava. Ma poteva esserci una ragione psicologica profonda per desiderare la morte del padre. Era tornato a vivere con lui e in seguito, a causa dei bombardamenti, era arrivato anche Roger, costringendo Philip, giorno dopo giorno, a rendersi conto che il preferito del padre era il fratello… Di fronte a una simile tortura mentale, era ipotizzabile che vedesse nella morte del padre l’unica possibilità di sollievo? E perché non far ricadere le colpe proprio sul fratello maggiore? Roger era al verde, sull’orlo del fallimento. Non sapendo di quell’ultimo colloquio tra Roger e il padre, né che il vecchio avesse offerto aiuto al figlio maggiore, non poteva Philip aver pensato che il movente fosse così forte da mettere Roger in cima alla lista dei sospettati? L’equilibrio mentale di Philip era così precario da spingerlo all’omicidio?

Mi tagliai il mento con il rasoio e imprecai.

Cosa diamine stavo cercando di fare? Concentrare i sospetti sul padre di Sophia? Che idea geniale! Non era certo per questo che lei mi aveva chiamato.

A meno che… La preghiera di Sophia nascondeva qualcosa, sin dall’inizio. Se aveva il benché minimo sospetto che l’assassino fosse suo padre, non avrebbe mai accettato di sposarmi, nel timore che il sospetto risultasse fondato. La mia Sophia era una donna coraggiosa e lucida, voleva la verità perché sapeva che l’incertezza avrebbe eretto tra noi una barriera insormontabile. Non mi aveva forse detto: “Dimostra che questo mio orrendo sospetto è infondato… se invece è fondato, dimostramelo, perché io possa sapere a cosa vado incontro!”?

Edith de Haviland sapeva, o sospettava, che Philip fosse colpevole? Cosa aveva voluto dire, specificando che il suo affetto non arrivava all’idolatria?

E Clemency? Cosa significava quella strana occhiata quando le avevo chiesto se c’era qualcuno di cui sospettasse? “Laurence e Brenda sono i primi sospettati” mi aveva risposto.

Tutta la famiglia voleva che i colpevoli fossero Brenda e Laurence, sperava che i colpevoli fossero Brenda e Laurence, ma nessuno ne era davvero convinto.

Naturalmente, era possibile che tutta la famiglia avesse torto e che i colpevoli fossero davvero loro.

Oppure il solo Laurence, e non Brenda…

Quella sì che era una soluzione ideale.

Medicato il mento ferito, scesi a fare colazione, deciso ad avere al più presto un colloquio con Laurence Brown.

Mentre bevevo la seconda tazza di caffè, mi resi conto che anch’io stavo cominciando a subire l’influenza della Casa Sbilenca. Non volevo trovare la vera soluzione, ma la soluzione migliore per me.

Dopo colazione, attraversai l’atrio e salii le scale. Sophia mi aveva detto che Laurence stava facendo lezione a Eustace e Josephine.

Arrivato all’ingresso dell’appartamento di Brenda, esitai. Cosa dovevo fare? Suonare, bussare o entrare direttamente? Decisi di trattare quell’ala della casa come parte della dimora dei Leonides e non come la residenza privata di Brenda.

Aprii la porta ed entrai. C’era silenzio, e non si vedeva nessuno. Sulla sinistra, la porta del grande salotto era chiusa. Sulla destra, due porte aperte: una camera da letto e un bagno. Sapevo che era il bagno di Aristide Leonides, quello dove venivano tenute l’eserina e l’insulina.

La polizia era già passata. Spalancai la porta ed entrai con cautela. Mi resi conto di quanto sarebbe stato facile per qualsiasi membro della famiglia (e anche per qualsiasi estraneo!) salire le scale ed entrare nel bagno senza farsi vedere.

Mi guardai in giro. L’arredo era ricercato e lussuoso: smaglianti piastrelle, la vasca da bagno incassata. Da una parte c’erano varie apparecchiature: un fornello con griglia, un bollitore, un piccolo tegame elettrico, un tostapane, insomma tutto ciò che occorre al cameriere di un anziano signore. Appeso alla parete c’era un armadietto bianco smaltato. Lo aprii. Conteneva accessori medici, due bicchierini graduati, soluzione per lavaggi oculari, collirio e qualche flacone etichettato. E poi aspirine, polvere borica, tintura di iodio, cerotti… Su uno scaffale a parte c’erano le scorte di insulina, due aghi ipodermici e un flacone di alcol denaturato. Su un terzo scaffale c’era un flacone con la scritta: “Compresse: una o due a notte secondo prescrizione”. Era qui che doveva essersi trovata la boccetta di collirio. La disposizione dei medicinali era chiara e ordinata: chiunque avrebbe potuto trovarli e usarli per preparare l’omicidio.

Avrei potuto armeggiare liberamente con i flaconi, uscire in punta di piedi e tornare di sotto, e nessuno se ne sarebbe mai accorto. Nulla di nuovo, ma in quel momento mi resi conto di quanto difficile fosse il compito della polizia.

Gli elementi necessari alla soluzione del caso potevano essere ottenuti solo dal colpevole (o colpevoli).

“Li spaventi per bene” mi aveva raccomandato Taverner. “Li tenga sotto pressione. Devono pensare che siamo sulla buona strada. Prima o poi il nostro criminale cederà alla tentazione di strafare… e a quel punto cadrà in trappola.”

Be’, fino a quel momento la strategia non aveva funzionato.

Uscii dal bagno. Ancora nessuno in giro. Proseguii per il corridoio. Oltrepassai la sala da pranzo sulla sinistra, la camera da letto e il bagno di Brenda sulla destra. Nel bagno c’era una domestica. La porta della sala da pranzo era chiusa. Dalla stanza successiva arrivava la voce di Edith de Haviland, al telefono con il solito pescivendolo. C’era una scala a chiocciola che portava al piano superiore. Salii. Di sopra, lo sapevo, c’erano la camera di Edith, un salotto, altri due bagni, la camera di Laurence e, in fondo al corridoio, la breve rampa di scale che scendeva alla grossa sala usata per le lezioni, costruita sopra i quartieri della servitù nel retro della casa.

Mi fermai davanti alla porta. Dall’interno arrivava la voce di Laurence Brown. Il tono era leggermente più alto del normale.

Josephine doveva avermi attaccato la sua abitudine di origliare. Senza un’ombra di pudore, appoggiai l’orecchio allo stipite.

Era una lezione di storia, sul Direttorio francese.

Mentre ascoltavo, lo stupore mi fece spalancare gli occhi. Con notevole sorpresa, scoprii che Laurence Brown era un insegnante straordinario.

Ma a ben vedere, cosa c’era di sorprendente? Dopo tutto Aristide Leonides aveva sempre saputo scegliere i suoi uomini. Nonostante l’aspetto sorcino, Laurence possedeva il dono supremo di saper stimolare l’entusiasmo e l’immaginazione dei suoi allievi. Il dramma del Termidoro, la proscrizione dei robespierristi, la magnificenza di Barras, l’astuzia di Fouché e quel piccolo ufficiale d’artiglieria, magro e affamato, di nome Napoleone: personaggi ed episodi che prendevano vita dalle sue parole.

All’improvviso Laurence si interruppe, fece una domanda a Eustace e Josephine e li invitò a mettersi nei panni, uno dopo l’altro, dei personaggi del dramma. Non ottenne granché da Josephine, che dalla voce sembrava molto raffreddata, ma Eustace era completamente diverso dal ragazzino capriccioso che avevo conosciuto. Dimostrava acume, intelligenza e una profonda sensibilità storica, senza dubbio ereditata dal padre.

Ci fu un rumore di sedie spostate. Feci qualche passo indietro e quando la porta si aprì sembrava che stessi scendendo le scale proprio in quel momento.

Eustace e Josephine uscirono.

«Ciao» dissi.

Eustace mi guardò, sorpreso.

«Hai bisogno di qualcosa?» mi chiese educatamente.

Josephine se la svignò senza degnarmi di uno sguardo.

«Volevo solo vedere l’aula» dissi senza troppa convinzione.

«Non l’hai già vista l’altro giorno? In realtà una volta era la nostra cameretta. È ancora piena di giocattoli.»

Tenne la porta aperta, lasciandomi entrare.

Laurence Brown era in piedi vicino al tavolo. Mi guardò, arrossì, mormorò qualcosa in risposta al mio saluto e se ne andò di gran carriera.

«Lo hai spaventato» disse Eustace. «È un tipo impressionabile.»

«Ti è simpatico?»

«È un tipo a posto. Certo, un po’ ridicolo.»

«Ma è un bravo insegnante.»

«Sì, le sue lezioni sono molto interessanti. È capace di farti vedere le cose da un punto di vista diverso. Per esempio, non sapevo che Enrico VIII scrivesse poesie, per Anna Bolena ovviamente. E sono tutt’altro che mediocri.»

Chiacchierammo brevemente di argomenti come la Ballata del vecchio marinaio, Chaucer, le implicazioni politiche delle crociate, la vita nel Medioevo e il sorprendente (per Eustace) divieto di celebrare il Natale imposto da Oliver Cromwell. Dietro i modi sdegnosi e irritabili di Eustace si nascondeva una mente curiosa e fine.

Non tardai a capire la ragione del suo caratteraccio. La malattia non era solo un terribile calvario, ma anche un frustrante ostacolo capitato proprio quando la vita gli sorrideva.

«Il prossimo trimestre sarei entrato in squadra titolare. Mi avevano già scelto. Sai che pizza doversene stare in casa a fare lezione con quella peste di Josephine. Diamine, ha solo dodici anni.»

«Certo, ma non studiate le stesse materie?»

«No. Ovviamente lei non fa matematica avanzata, né latino. Ma è intollerabile dover dividere il precettore con una mocciosa

Per lenire il suo orgoglio maschile ferito, gli feci notare che Josephine era una ragazzina molto sveglia per la sua età.

«Credi? Secondo me invece è una pappamolle. Ha questa fissa che vuole fare l’investigatrice e se ne va in giro a ficcare il naso dappertutto, prendendo appunti su un quadernetto nero e fingendo di aver scoperto chissà cosa. È solo una povera sciocca» disse Eustace altezzoso.

«E poi,» aggiunse «le bambine non possono fare le investigatrici. Gliel’ho detto. Mamma ha ragione a voler spedire Jo in Svizzera.»

«Non ti mancherà?»

«Mancarmi, una ragazzina come quella?» replicò Eustace sprezzante. «Certo che no. Santo cielo, questa casa è un covo di matti! Mamma passa le giornate a fare la spola tra qui e Londra, a tormentare docili drammaturghi perché riscrivano le loro opere per lei e a scatenare tremendi pandemoni sul nulla. E papà sempre chiuso nello studio con i suoi libri, a volte non ti sente nemmeno quando parli. Cos’ho fatto per meritare due genitori simili? E poi c’è zio Roger… sempre così caloroso che ti fa venire i brividi. Zia Clemency è meglio, si fa i fatti suoi, ma a volte penso che sia un po’ svitata. Anche zia Edith non è male, ma è vecchia. Da quando è tornata Sophia l’atmosfera in casa è appena più gradevole, ma anche lei sa essere tagliente. Proprio una bella famigliola, eh? Voglio dire, la seconda moglie del nonno è abbastanza giovane da essere mia zia o mia sorella maggiore. Insomma, qui mi sento un perfetto idiota!»

Capivo i suoi sentimenti. Pur molto vagamente, ricordavo quanto fossi ipersensibile all’età di Eustace. L’idea di apparire anomalo, o che i miei familiari fossero fuori dal comune, mi inorridiva.

«E il nonno?» gli chiesi. «Gli volevi bene?»

Un’espressione curiosa gli balenò sul volto.

«Il nonno era un asociale!»

«In che senso?»

«Pensava solo al profitto. Secondo Laurence è un grave errore. Ed era un individualista. Bisogna liberarsi di persone del genere.»

«Be’,» ribattei brutalmente «qualcuno se n’è liberato una volta per tutte.»

«E per fortuna» disse Eustace. «Non vorrei sembrare cinico, ma come si fa a godersi la vita a quell’età?»

«Lui non se la godeva?»

«Non poteva. E poi, era il suo momento. Era…»

Eustace s’interruppe. Laurence era rientrato nell’aula.

Si mise ad armeggiare con alcuni libri, ma avevo l’impressione che mi sorvegliasse con la coda dell’occhio.

A un tratto diede un’occhiata all’orologio.

«Per favore, torna qui alle undici in punto, Eustace. Abbiamo perso troppo tempo negli ultimi giorni.»

«Ok, signore.»

Eustace raggiunse la porta e uscì fischiettando.

Laurence Brown mi scoccò un’altra occhiata improvvisa e si inumidì le labbra. Ero sicuro che fosse rientrato al preciso scopo di parlarmi.

Dopo aver impilato gli stessi libri per due o tre volte fingendo di cercare un certo volume, si decise:

«Ehm… a che punto è?»

«Chi?»

«La polizia.»

Storse il naso. Un topo in trappola, pensai, un topo in trappola.

«Non mi tengono al corrente» dissi.

«Oh. Mi era sembrato di capire che suo padre fosse il vicecommissario.»

«Infatti» ammisi. «Ma non mi racconta certo i segreti d’ufficio.»

Il mio tono era volutamente pomposo.

«Allora non sa come… cosa… se…» Gli mancavano le parole. «Non hanno deciso di procedere a un arresto, vero?»

«Non che io sappia. Ma ribadisco che non sono al corrente.»

“Li tenga sotto pressione” aveva detto l’ispettore Taverner. “Li spaventi per bene.” Be’, Laurence Brown era spaventato a morte.

Riprese a parlare nervosamente.

«Lei non immagina… il peso… non sapere… cioè, vanno e vengono liberamente… e tutte quelle domande… domande che sembrano assolutamente estranee al caso…»

S’interruppe. Rimasi in attesa. Voleva parlare, era evidente: be’, fallo parlare.

«C’era anche lei l’altro giorno, quando l’ispettore capo ha fatto quella mostruosa insinuazione, vero? La signora Leonides e io… mostruosa. Ci si sente così disarmati. Come impedire che la gente pensi cose simili? Ed è tutto così platealmente falso. Solo perché lei ha… aveva… tanti anni in meno rispetto al marito. Davvero spaventosa, la cattiveria della mente umana… spaventosa. Io non posso… non posso fare a meno di pensare che questo sia un complotto

«Un complotto? Interessante.»

E lo era davvero, ma non nel senso che intendeva lui.

«La famiglia, sa… la famiglia del signor Leonides non ha mai avuto simpatia per me. Mi trattano con un tale distacco. Ho sempre avuto l’impressione che mi disprezzassero.»

Le sue mani cominciavano a tremare.

«Solo perché sono sempre stati ricchi e… potenti. Mi considerano un essere inferiore. Cos’ero io per loro? Il precettore, nient’altro. Solo uno sciagurato obiettore di coscienza. E le mie obiezioni erano davvero di coscienza!»

Rimasi in silenzio.

«E va bene!» sbottò. «Avevo paura, e allora? Paura di combinare guai. Paura di non riuscire a premere il grilletto, se avessi dovuto. Come possiamo essere sicuri che l’uomo che stiamo per uccidere sia davvero un nazista? E se invece fosse un bravo ragazzo? Un giovane di campagna, senza particolari inclinazioni politiche, chiamato a servire la patria? Sono convinto che la guerra sia sbagliata, mi capisce? La guerra è sbagliata

Continuavo a non aprire bocca. Con il mio silenzio stavo ottenendo molto più di quanto avrei fatto con obiezioni e assensi. Laurence Brown stava discutendo con se stesso, e così facendo mi si rivelava come un libro aperto.

«Ridono tutti di me, sempre.» Gli tremava la voce. «Sembra che io abbia il dono di rendermi ridicolo. Non che mi manchi il coraggio, è solo che non ne faccio una dritta. Una volta entrai in una casa in fiamme per salvare una donna che era rimasta intrappolata all’interno, ma mi persi subito e svenni per il fumo. Per i pompieri fu difficilissimo trovarmi. Li sentii dire: “Perché diamine questo imbecille è venuto a mettersi tra i piedi?”. È inutile che ci provi, sono tutti contro di me. Chiunque abbia ucciso il signor Leonides ha fatto in modo che i sospetti ricadessero su di me. Qualcuno l’ha ucciso per rovinare me

«E la signora Leonides?» chiesi.

Arrossì. Ora sembrava più uomo che topo.

«La signora Leonides è un angelo,» rispose «un angelo. La dolcezza e la gentilezza con cui trattava l’anziano marito erano meravigliose. La sola idea che possa averlo avvelenato è ridicola… ridicola! Possibile che quella testa dura dell’ispettore non lo capisca?»

«È influenzato dalla miriade di casi di mariti anziani avvelenati dalle dolci e giovani mogli.»

«Che insopportabile idiota» sibilò Laurence.

Si avvicinò a uno scaffale nell’angolo e cominciò a rovistare fra i libri. Probabilmente non aveva altro da aggiungere, perciò uscii lentamente dalla stanza.

Mentre percorrevo il corridoio, si aprì una porta sulla sinistra e per poco Josephine non mi travolse. Un’entrata in scena degna di un diavoletto delle antiche pantomime.

Aveva il volto e le mani sporche, e dall’orecchio sinistro pendeva una grossa ragnatela.

«Da dove spunti, Josephine?»

Lanciai un’occhiata attraverso la porta socchiusa. C’erano un paio di scalini che portavano a una sorta di soffitta rettangolare, nella cui penombra si distinguevano vari serbatoi.

«Dal locale cisterne.»

«E cosa ci facevi lì dentro?»

Come al solito, la risposta di Josephine fu secca:

«Indagavo.»

«E cosa diamine c’è da indagare tra le cisterne?»

Josephine si limitò a rispondere:

«Devo andare a lavarmi.»

«Direi.»

La ragazzina si infilò nel bagno più vicino. Poi fece capolino dalla porta.

«È ora del secondo omicidio, sai?»

«Come? Quale secondo omicidio?»

«Be’, a questo punto nei libri c’è sempre il secondo omicidio. Qualcuno che sa qualcosa e viene fatto fuori prima che possa dire ciò che sa.»

«Tu leggi troppi gialli, Josephine. La realtà è diversa. Ammesso che in questa casa ci sia qualcuno che sa qualcosa, ho l’impressione che vuotare il sacco sia l’ultimo dei suoi pensieri.»

Il rumore dell’acqua del rubinetto accompagnò la risposta sibillina di Josephine.

«A volte è qualcosa che non sanno di sapere.»

Strizzai gli occhi sforzandomi di decifrare quelle parole, quindi lasciai Josephine alle sue abluzioni e scesi al piano inferiore.

Stavo aprendo la porta d’ingresso per raggiungere le scale quando Brenda uscì dal salotto con silenziosa furia.

Mi venne incontro e, posandomi la mano sul braccio, mi guardò negli occhi.

«Ebbene?»

Seppur formulata in modo diverso, era la stessa domanda che mi aveva rivolto Laurence. E quell’unica parola era assai più efficace.

Scossi la testa.

«Nulla» risposi.

Un lungo sospiro.

«Ho tanta paura» disse. «Charles, ho tanta paura…»

Diceva sul serio. Vicina com’era, percepivo tutto il suo terrore. Avrei voluto rassicurarla, aiutarla. Ancora una volta, avvertii sulla mia pelle quel senso di atroce solitudine in un ambiente ostile.

Mi pareva quasi di sentirla gridare: “C’è qualcuno qui dalla mia parte?”.

E qual era la risposta? Laurence Brown? Ma chi era Laurence Brown, dopo tutto? Non certo un pilastro a cui appoggiarsi nel momento del bisogno. Anzi, forse era lui il più fragile dei due. Li rividi mentre arrivavano dal giardino, la sera prima.

Quanto avrei voluto aiutarla. Ma non c’era molto che potessi dire o fare. Inoltre provavo un certo senso di colpa, e mi sentivo addosso gli occhi indignati di Sophia. Risentii la sua voce: “Ci sei cascato anche tu!”.

Sophia non si era messa, né aveva intenzione di mettersi, nei panni di Brenda. Sola, sospettata di omicidio, senza nessuno al suo fianco.

«Domani ci sarà l’inchiesta» disse Brenda. «Cosa… cosa succederà?»

Su questo potevo rassicurarla.

«Nulla. Non c’è da preoccuparsi. È stata rinviata per consentire alla polizia di proseguire le indagini. La stampa si scatenerà, certo. Per ora nessuno ha insinuato che la morte non sia stata naturale. I Leonides hanno molta influenza, ma con il rinvio dell’inchiesta… be’, ci sarà da divertirsi.»

(Che cose incredibili si dicono alle volte! Divertirsi! Dovevo proprio scegliere quella parola?)

«Saranno… saranno spietati, vero?»

«Fossi in lei non rilascerei interviste. Sa, Brenda, dovrebbe assumere un avvocato…» Indietreggiò, trasalendo inorridita. «No, no… non ha capito. Qualcuno che tuteli i suoi interessi e la consigli su come procedere, cosa dire e fare e cosa non dire e non fare.

«Vede,» aggiunsi «lei è sola.»

Le sue dita si strinsero attorno al mio braccio.

«Sì» disse. «E lei l’ha capito. Non so come ringraziarla, Charles, non so come ringraziarla…»

Scesi le scale con un profondo senso di calore e soddisfazione… E vidi Sophia accanto alla porta d’ingresso. La sua voce era fredda e distante.

«Ce ne hai messo di tempo» disse. «Hanno telefonato da Londra. Tuo padre ti vuole.»

«A Scotland Yard?»

«Sì.»

«Come mai? Non te l’hanno detto?»

Sophia scosse la testa. L’ansia le si leggeva negli occhi.

«Non ti preoccupare, tesoro» le dissi. «Tornerò presto.»

17

L’atmosfera nell’ufficio di mio padre era tesa. Il Vecchio era seduto alla scrivania, l’ispettore capo Taverner appoggiato al telaio della finestra, e sulla sedia degli ospiti c’era un turbato signor Gaitskill.

«… una totale mancanza di fiducia» stava dicendo in tono offeso.

«Ma certo, ma certo» cercava di consolarlo mio padre. «Oh, ciao, Charles, sei già qui. Ci sono novità sorprendenti.»

«Senza precedenti» aggiunse il signor Gaitskill.

Il piccolo avvocato era visibilmente sconvolto. Alle sue spalle, Taverner mi sorrise.

«Posso ricapitolare?» chiese mio padre. «Stamattina il signor Gaitskill ha ricevuto una comunicazione piuttosto sorprendente, Charles, da un certo signor Agrodopolous, proprietario del ristorante Delphos. Un uomo molto anziano, greco di nascita, che da giovane ha goduto dell’aiuto e dell’amicizia di Aristide Leonides. Il signor Agrodopolous è sempre stato molto grato al suo amico e benefattore, e sembra che il vecchio Leonides avesse molta fiducia in lui.»

«Non avrei mai immaginato che il signor Leonides potesse essere così sospettoso e riservato» disse il signor Gaitskill. «Certo, era in là con gli anni… praticamente un vecchio rimbambito, se mi passate il termine.»

«È questione di nazionalità» intervenne educatamente mio padre. «Vede, Gaitskill, quando si invecchia la mente torna spesso ai bei tempi andati e agli amici della giovinezza.»

«Ma io curavo gli affari del signor Leonides da più di quarant’anni» disse Gaitskill. «Per la precisione quarantatré anni e sei mesi.»

Taverner sorrise di nuovo.

«Insomma, cos’è successo?» domandai.

Il signor Gaitskill aprì la bocca, ma mio padre lo prevenne.

«Il signor Agrodopolous ha dichiarato che stava obbedendo alle disposizioni del suo amico Aristide Leonides. Per farla breve, circa un anno fa il signor Leonides gli aveva affidato una busta sigillata con l’incarico di farla avere al signor Gaitskill subito dopo la propria morte. Se il signor Agrodopolous fosse morto per primo, suo figlio, nonché figlioccio del signor Leonides, avrebbe dovuto eseguire le medesime istruzioni. Il signor Agrodopolous si scusa per il ritardo, informandoci che aveva la polmonite e ha saputo solo ieri pomeriggio della morte dell’amico.»

«Che assoluta mancanza di professionalità» disse il signor Gaitskill.

«Quando il signor Gaitskill ha aperto la busta sigillata e ne ha letto il contenuto, ha ritenuto suo dovere…»

«Nelle attuali circostanze» puntualizzò l’avvocato.

«… mostrarci gli allegati. Si tratta di un testamento, debitamente firmato e autenticato, e di una lettera d’accompagnamento.»

«Dunque il testamento è finalmente saltato fuori» dissi.

Il signor Gaitskill si fece viola in volto.

«Non è lo stesso testamento» berciò. «Non è il documento che ho fatto stendere su richiesta del signor Leonides. Questo è scritto di suo pugno, un’iniziativa molto pericolosa per un non addetto ai lavori. La mia impressione è che il signor Leonides abbia voluto farmi passare per fesso.»

L’ispettore capo Taverner cercò di alleviare l’amarezza dell’avvocato.

«Era un uomo molto anziano, signor Gaitskill» disse. «A quell’età si tende a diventare capricciosi, sa… non svitati, ci mancherebbe, solo un po’ eccentrici.»

L’avvocato tirò su col naso.

«Il signor Gaitskill ci ha telefonato» proseguì mio padre «per riassumerci il contenuto del testamento e io l’ho pregato di portarci i due documenti. E poi ho chiamato te, Charles.»

Non capivo come mai avesse chiamato anche me. Mi sembrava un comportamento poco ortodosso da parte sua e di Taverner. Avrei saputo del testamento a tempo debito, e come il vecchio Leonides avesse disposto del suo patrimonio non era certo affar mio.

«Le clausole del testamento sono diverse?» chiesi.

«Completamente» rispose Gaitskill.

Mio padre mi fissava. L’ispettore capo Taverner evitava accuratamente il mio sguardo. Mi sentivo vagamente a disagio…

Quei due avevano qualcosa in mente, ma non avevo idea di cosa fosse.

Rivolsi un’occhiata interrogativa a Gaitskill.

«Non è affar mio» dissi. «Ma…»

Si decise a spiegare.

«Le disposizioni testamentarie del signor Leonides non sono certo segrete» disse. «Ho ritenuto mio dovere informare in via preliminare le forze dell’ordine perché mi consigliassero su come procedere. Se ho ben capito…» si interruppe «tra lei e la signorina Sophia Leonides esiste una… un’intesa, per così dire.»

«Voglio sposarla,» dissi «ma nelle attuali circostanze non ha acconsentito al fidanzamento.»

«Ineccepibile» osservò il signor Gaitskill.

Dissentivo, ma non era il momento di discutere.

«Ai sensi del nuovo testamento,» proseguì il signor Gaitskill «datato 29 novembre dell’anno scorso, il signor Leonides, fatto salvo un lascito di centomila sterline alla moglie, lascia il suo intero patrimonio, immobiliare e personale, alla nipote Sophia Katherine Leonides.»

Rimasi senza fiato. Tutto mi aspettavo tranne questo.

«Tutto quanto a Sophia» dissi. «Davvero incredibile. E come mai?»

«Le ragioni sono illustrate chiaramente nella lettera d’accompagnamento» disse mio padre prendendo un foglio dalla scrivania. «Non le dispiace se Charles la legge, signor Gaitskill?»

«Come ritiene opportuno» rispose freddamente il signor Gaitskill. «Quanto meno la lettera fornisce una spiegazione e forse (benché io ne dubiti) una giustificazione al comportamento incomprensibile del signor Leonides.»

Il Vecchio mi allungò la lettera. L’inchiostro era nerissimo e la grafia, minuta e quasi illeggibile, mostrava carattere e personalità. Era quanto mai lontana dall’attenta ed elegante composizione delle lettere tipica di un passato in cui saper leggere e scrivere era un lusso ottenibile solo a caro prezzo.

Mio caro Gaitskill,

questa mia lettera la sorprenderà e probabilmente la offenderà, ma mi creda, ho le mie ragioni per comportarmi in una maniera che potrà sembrarle inutilmente reticente. Da lungo tempo sono un convinto sostenitore della forza dell’individuo. Nelle famiglie (l’ho appreso da ragazzo e non l’ho più dimenticato) c’è sempre una personalità forte, alla quale di norma spetta la responsabilità di farsi carico del resto della famiglia. Nella mia famiglia, la personalità forte ero io. Una volta stabilitomi a Londra, fui io a mantenere mia madre e i miei vecchi nonni a Smirne, a strappare uno dei miei fratelli dalle grinfie della legge, a liberare mia sorella dal giogo di un matrimonio infelice e così via. Dio ha voluto concedermi una vita lunga e io ho potuto provvedere al benessere dei miei figli e dei loro figli. La morte mi ha portato via molti cari; gli altri, sono lieto di poterlo dire, vivono sotto il mio tetto. Quando sarò morto, qualcun altro dovrà assumersi questo carico. Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di dividere equamente il mio patrimonio tra i miei cari, ma mi sono reso conto che sarebbe stata un’equità solo apparente. Gli uomini non nascono uguali, e per compensare alle ineguaglianze della Natura occorre ristabilire l’equilibrio. In altre parole, bisogna che qualcuno continui la mia opera, assumendosi la responsabilità della famiglia. Dopo attenta osservazione, sono giunto alla conclusione che nessuno dei miei due figli maschi è all’altezza del compito. Il mio caro Roger non ha il senso degli affari, e per quanto amabile sia il suo carattere è troppo impulsivo per agire assennatamente. Quanto a Philip, è talmente insicuro da essersi isolato dalla vita. Eustace, mio nipote, è molto giovane e non credo che abbia il buon senso e l’equilibrio necessari. È un ragazzo indolente e molto influenzabile. Solo mia nipote Sophia sembra avere le qualità necessarie. È intelligente, giudiziosa, coraggiosa, equilibrata e, credo, molto generosa. A lei affido il benessere della famiglia e della mia gentile cognata Edith de Haviland, alla quale devo profonda gratitudine per la devozione con cui per tutta la vita si è dedicata alla mia famiglia.

Questo spiega il documento allegato. Quello che mi è più difficile spiegare – o piuttosto spiegare a lei, mio vecchio amico – è lo stratagemma a cui sono ricorso. Ho ritenuto opportuno non dare adito a congetture su come avevo disposto delle mie sostanze, e non ho intenzione di informare la famiglia che ho nominato Sophia mia erede. Poiché i miei due figli maschi hanno già ricevuto somme considerevoli, non credo che queste disposizioni testamentarie possano metterli in una posizione umiliante.

Per tenere a bada la curiosità e le supposizioni, le ho chiesto di redigere un testamento. Il testamento che ho letto alla famiglia riunita. L’ho appoggiato sulla scrivania, l’ho coperto con un foglio di carta assorbente e ho fatto chiamare i domestici. Quando sono arrivati, ho scostato appena il foglio di carta assorbente scoprendo la parte inferiore di un documento, ho firmato e ho chiesto ai domestici di firmare a loro volta. Inutile dire che quello firmato da me e da loro era il testamento qui allegato e non quello, da lei redatto, che avevo letto ad alta voce.

Non mi aspetto che lei possa comprendere le ragioni di questo stratagemma. Le chiedo solo di perdonarmi per averla tenuta all’oscuro. Sa, a noi vecchietti piace avere qualche segreto.

Grazie, amico mio, per lo zelo con cui si è sempre occupato dei miei affari. Dica a Sophia che le voglio bene e le chieda di vigilare sulla famiglia e proteggerla dal male.

Suo,

Aristide Leonides

Avevo trovato quella lettera straordinariamente interessante.

«Incredibile» dissi.

«Inconcepibile» rincarò il signor Gaitskill, alzandosi in piedi. «Ribadisco che il mio vecchio amico signor Leonides avrebbe potuto fidarsi di me

«No, Gaitskill» intervenne mio padre. «Leonides era una vecchia volpe. Se posso permettermi, non era abituato ad agire alla luce del sole.»

«Esatto, signore» disse l’ispettore capo Taverner. «Se c’era una persona che non agiva alla luce del sole, era lui!»

Ma quelle accorate parole non bastarono a rabbonire Gaitskill, che se ne andò tutto impettito. Era stato ferito nel profondo della sua dignità professionale.

«Ha accusato il colpo» disse Taverner. «Gaitskill, Callum & Gaitskill è uno studio rispettabilissimo. Non tratterebbe mai affari di dubbia natura. Quando il vecchio Leonides aveva per le mani un affare poco pulito, non si rivolgeva mai a loro. Aveva cinque o sei studi legali ai suoi ordini. Insomma, era proprio una vecchia volpe!»

«E lo era più che mai quando fece testamento» sottolineò mio padre.

«Che sciocchi siamo stati» disse Taverner. «A ben vedere l’unica persona che avrebbe potuto sostituire il testamento era proprio il vecchio. Solo non immaginavamo che avesse motivi per farlo!»

Mi tornò in mente il sorriso sprezzante di Josephine mentre diceva:

“Che stupidi, i poliziotti.”

Ma Josephine non era presente alla lettura del testamento, e se anche aveva origliato (il che non mi avrebbe minimamente stupito!) non poteva certo immaginare cosa stesse facendo il nonno. E allora perché quell’aria di superiorità? Cosa sapeva per dire che la polizia era stupida? Oppure, come al solito, voleva solo mettersi in mostra?

Colpito dal silenzio nella stanza, alzai bruscamente lo sguardo. Mio padre e Taverner mi stavano fissando. Qualcosa nel loro comportamento mi spinse a sbottare:

«Sophia non ne sapeva nulla! Assolutamente nulla!»

«No?» disse mio padre.

Non ero certo se fosse una conferma o una domanda.

«Rimarrà di stucco!»

«Sì?»

«Di stucco!»

Il lungo silenzio che seguì fu squarciato dallo squillo del telefono sulla scrivania.

«Sì?» Mio padre alzò il ricevitore, ascoltò e poi disse: «Me la passi».

Mi guardò.

«È la tua ragazza» disse. «Vuole parlarti. È urgente.»

Mi affrettai a prendere il ricevitore.

«Sophia?»

«Charles, sei tu? Si tratta di… Josephine!» La voce si spezzò.

«Cos’è successo?»

«Un colpo in testa. Commozione cerebrale. Sta… sta molto male… Dicono che forse non ce la farà…»

Mi rivolsi agli altri due.

«Hanno tentato di uccidere Josephine» dissi.

Mio padre mi strappò di mano il ricevitore, rimproverandomi:

«Te l’avevo detto di tenere d’occhio quella bambina…»

18

Pochi minuti dopo, Taverner e io filavamo già verso Swinly Dean su un’auto della polizia.

Rividi Josephine che usciva dal locale cisterne, risentii la sua osservazione spensierata: “È ora del secondo omicidio”. Quella povera bambina non immaginava certo di poter essere la vittima del “secondo omicidio”.

Accettavo in pieno la colpa che mio padre mi aveva tacitamente attribuito. Avrei dovuto tenere d’occhio Josephine. Né io né Taverner avevamo idea di chi potesse aver avvelenato il vecchio Leonides, ma era assai probabile che Josephine ce l’avesse. Ciò che avevo interpretato come sciocchezze infantili e voglia di “mettersi in mostra” poteva nascondere qualcosa di molto serio. Dedicandosi ai suoi passatempi preferiti, origliare e ficcare il naso dappertutto, poteva aver scoperto informazioni delle quali non era in grado di valutare l’importanza.

Mi tornò in mente il ramoscello spezzato in giardino.

Avevo intuito il pericolo e agito di conseguenza, ma in seguito i miei sospetti mi erano sembrati melodrammatici e fantasiosi. Viceversa, avrei dovuto ricordare che c’era stato un omicidio, che l’assassino rischiava la vita e di conseguenza non avrebbe esitato a ripetere il delitto per assicurarsi l’impunità.

Forse Magda, spinta da un misterioso istinto materno, aveva capito che Josephine era in pericolo e aveva deciso in tutta fretta di spedirla in Svizzera.

Sophia uscì di casa e ci venne incontro. Mi disse che Josephine era stata trasportata in ambulanza al Market Basing General Hospital. Il dottor Gray aveva promesso di comunicare al più presto l’esito delle radiografie.

«Come è successo?» chiese Taverner.

Sophia fece strada attorno alla casa ed entrò in una porta che dava su un cortiletto abbandonato. In un angolo c’era una porta socchiusa.

«È una specie di lavatoio» spiegò Sophia. «C’è un buco alla base della porta: Josephine ci si metteva sopra e dondolava avanti e indietro.»

Un gioco che da ragazzo avevo fatto anch’io.

Il lavatoio era piccolo e buio. C’erano casse di legno, un tubo di gomma, vecchi utensili da giardinaggio e mobili rotti. Dietro la porta c’era un piccolo leone di marmo.

«È il fermaporta dell’ingresso» ci spiegò Sophia. «Devono averlo messo in equilibrio su questa porta.»

Taverner passò una mano sopra la porticina. Lo superava di trenta centimetri al massimo.

«Una trappola» disse.

Provò a far dondolare la porta avanti e indietro, poi si chinò a osservare il leone di marmo.

«Qualcuno l’ha spostato?» chiese.

«No» disse Sophia. «Mi sono assicurata che nessuno lo toccasse.»

«Molto bene. Chi ha trovato Josephine?»

«Io. All’una non era ancora arrivata per il pranzo. Nannie la chiamava. Un quarto d’ora prima Josephine era passata dalla cucina ed era uscita nel cortile della stalla. Così Nannie ha detto: “Starà giocando a palla o dondolando su quella porta”. E io le ho promesso di andare a cercarla.»

Sophia si interrupe.

«Se ho ben capito, la bambina faceva spesso quel gioco. Chi lo sapeva?»

Sophia alzò le spalle.

«Tutti, direi.»

«Chi altro entra nel lavatoio? I giardinieri?»

Sophia scosse la testa.

«Praticamente nessuno.»

«E questo cortile non si vede dalla casa, giusto?» concluse Taverner. «Chiunque avrebbe potuto sgusciare fuori o fare il giro della casa per venire a sistemare la trappola. Un bell’azzardo…»

S’interruppe, fissando la porta e facendola dondolare delicatamente.

«Un sistema tutt’altro che sicuro. O la va o la spacca. Più facile che vada. Ma a lei è andata male.»

Sophia rabbrividì.

Taverner esaminò il pavimento. C’erano parecchi segni.

«Devono aver fatto qualche prova… per verificare come sarebbe caduto… dalla casa non si è sentito nulla, vero?»

«No, nessun rumore. Non avevamo idea che fosse successo qualcosa finché non l’ho trovata stesa faccia a terra, tutta scomposta.» La voce di Sophia tremò lievemente. «C’era sangue sui capelli.»

«Quella è la sua sciarpa?» chiese Taverner indicando uno scialle di lana a scacchi.

«Sì.»

Aiutandosi con la sciarpa, l’ispettore raccolse il leone di marmo con la massima cautela.

«Potrebbero esserci delle impronte» disse, ma non c’era speranza nella sua voce. «Il colpevole avrà preso tutte le precauzioni.» Poi, rivolto a me: «Cosa sta guardando?».

Stavo osservando una vecchia sedia da cucina con lo schienale sfasciato tra i mobili accatastati. C’era della terra sul sedile.

«Interessante» disse Taverner. «Qualcuno è salito su quella sedia con le scarpe infangate. E come mai?»

Scosse la testa.

«A che ora ha trovato Josephine, signorina Leonides?»

«Grosso modo all’una e cinque.»

«E Nannie l’aveva vista uscire una ventina di minuti prima. Chi era l’ultima persona a essere entrata nel lavatoio prima di lei?»

«Non ne ho idea. Probabilmente la stessa Josephine. So per certo che stamattina dopo colazione stava dondolando sulla porta.»

Taverner annuì.

«Quindi, tra quel momento e l’una meno un quarto qualcuno ha sistemato la trappola. Ha detto che il leone di marmo è il fermaporta che usate all’ingresso, giusto? Ha idea di quando sia stato spostato?»

Sophia scosse la testa.

«Oggi non abbiamo mai messo il fermo alla porta. Fa troppo freddo.»

«Sa dove fossero gli altri membri della famiglia stamattina?»

«Io sono uscita a fare una passeggiata. Eustace e Josephine hanno fatto lezione sino a mezzogiorno e mezzo, con un intervallo alle dieci e mezzo. Quanto a papà, credo che sia rimasto in biblioteca tutta la mattina.»

«E sua madre?»

«Stava uscendo dalla sua camera quando sono tornata dalla passeggiata. Saranno state le dodici e un quarto. Non si alza mai presto.»

Rientrammo in casa. Seguii Sophia in biblioteca. Pallido e smarrito, Philip sedeva sulla solita poltrona. Magda, accovacciata sulle sue ginocchia, piangeva sommessamente. Sophia le chiese:

«Hanno telefonato dall’ospedale?»

Philip scosse la testa.

Magda singhiozzava.

«Perché non mi hanno permesso di accompagnarla? La mia bambina… il mio piccolo buffo mostriciattolo. E pensare che la chiamavo “trovatella”, e lei si arrabbiava tanto. Come potevo essere così crudele? E ora sta per morire, lo so, sta per morire.»

«Calma, tesoro» disse Philip. «Calma.»

Sentendomi di troppo in quella scena d’ansia e dolore, mi allontanai discretamente e andai in cerca di Nannie. La trovai seduta in cucina. Piangeva anche lei.

«È una punizione, signor Charles, per le brutte cose che ho pensato. Una punizione, ecco cos’è.»

Non provai nemmeno a capire il significato di quelle parole.

«Il male è entrato in questa casa. Proprio così. Mi sono sforzata di non vederlo, di non crederci. Ma bisogna arrendersi all’evidenza. Qualcuno ha ucciso il padrone e poi ha tentato di uccidere Josephine.»

«Ma perché uccidere anche lei?»

Nannie scostò dall’occhio un angolo del fazzoletto e mi lanciò uno sguardo penetrante.

«Conosce Josephine, signor Charles. Le piace sapere tutto. Era così anche da piccola. Si nascondeva sotto la tavola da pranzo ad ascoltare le confidenze delle cameriere, e poi le ricattava. La faceva sentire importante. Vede, la padrona la ignorava. Non era una bella bambina, come gli altri due. “Trovatella”, così la chiamava la padrona. Un grave errore, secondo me, perché ha finito per incattivire la bambina. A suo modo, però, Josephine si è vendicata, scoprendo i segreti degli altri e informandoli che li aveva scoperti. Un gioco che diventa pericoloso, se c’è in giro un avvelenatore!»

Eccome se era pericoloso. Le parole di Nannie mi suggerirono una domanda: «Sa per caso dove teneva quel libriccino nero, il taccuino su cui prendeva appunti?».

«So di cosa parla, signor Charles. Era molto gelosa di quel taccuino. Quante volte l’ho vista inumidire la punta della matita, scrivere qualcosa e poi inumidire di nuovo la matita. “Smettila,” le dicevo “il piombo è velenoso”, e lei: “No che non la smetto, perché nelle matite c’è il carbonio, non il piombo”, e io non capivo, se la chiamano mina di piombo ci sarà una ragione.»

«Il suo ragionamento non fa una grinza,» assentii «ma sta di fatto che aveva ragione lei» (come sempre!). «Che fine ha fatto il taccuino? Sa dove lo teneva?»

«Non ne ho idea, signore. Era uno dei suoi tanti segreti.»

«Non l’aveva con sé quando l’hanno trovata?»

«Oh no, signor Charles, non c’era nessun taccuino.»

Glielo aveva preso qualcuno? Oppure lo aveva nascosto in camera sua? Decisi di andare a cercarlo. Non sapevo quale fosse la camera di Josephine, ma mentre esitavo nel corridoio sentii la voce di Taverner:

«Venga qui, Charles. Sono nella camera della bambina. Ha mai visto nulla di simile?»

Varcata la soglia, rimasi di sasso.

Sembrava che un tornado avesse investito la stanzetta. Tutti i cassetti erano stati rimossi e rovesciati. Il materasso, le lenzuola e le coperte erano per terra, i tappeti ammucchiati, le sedie capovolte, i quadri tolti dalle pareti, le fotografie strappate dalle cornici.

«Buon Dio!» esclamai. «Cosa diavolo è successo qui?»

«Secondo lei?»

«Qualcuno stava cercando qualcosa.»

«Precisamente.»

Mi guardai in giro e lanciai un fischio.

«Ma chi mai… è impossibile che qualcuno sia entrato e abbia messo la stanza a soqquadro senza farsi sentire… o vedere.»

«Non direi. La signora Leonides passa le mattine in camera da letto a farsi le unghie, telefonare alle amiche e gingillarsi con i vestiti. Philip se ne sta chiuso in biblioteca a sfogliare libri. La donna di servizio è in cucina a pelare le patate e sgranare i fagioli. Ogni membro della famiglia conosce le abitudini degli altri, sarebbe stato facile per chiunque. Mi creda, ognuno di loro avrebbe potuto sistemare la trappola per la bambina e mettere sottosopra la sua stanza. Ma chiunque sia stato, sappiamo che aveva fretta e non ha avuto il tempo di cercare a fondo.»

«Ognuno di quelli che si trovavano in casa, intende?»

«Sì, ho controllato. Tutti avrebbero avuto il tempo. Philip, Magda, la donna di servizio, la sua ragazza. Lo stesso vale per gli occupanti del primo piano. Brenda è rimasta sola quasi tutta la mattina. Laurence ed Eustace hanno fatto una pausa dalle dieci e mezzo alle undici: lei li ha visti, ma non ha trascorso l’intera mezz’ora con loro. La signorina de Haviland era sola in giardino. Roger era nel suo studio.»

«Clemency era a Londra, al lavoro.»

«No, fra i sospettati c’è anche lei. È rimasta a casa, sola in camera sua, per colpa di un mal di testa. Potrebbe essere stato chiunque, assolutamente chiunque! E io non so chi, non ne ho la minima idea! Se solo sapessi cosa cercavano qui dentro…»

Di nuovo si guardò intorno.

«E se solo sapessi se lo hanno trovato…»

A quelle parole, qualcosa mi affiorò alla mente, un vago ricordo…

Senza saperlo, Taverner mi aiutò a metterlo a fuoco:

«Cosa stava facendo la bambina l’ultima volta che l’ha vista?»

«Mi aspetti qui» replicai.

Schizzai fuori della stanza e su per le scale. Entrai nella porta sulla sinistra e salii all’ultimo piano. Aperta la porta del locale cisterne, salii i due gradini e, chinando la testa per non sbatterla contro il soffitto basso e mansardato, mi guardai intorno.

Quando le avevo chiesto cosa ci facesse lì dentro, Josephine aveva risposto che stava indagando.

Non vedevo cosa ci fosse da indagare in una soffitta piena di serbatoi e ragnatele, ma poteva essere un ottimo nascondiglio. Più ci pensavo, più mi convincevo che Josephine avesse nascosto qualcosa nel locale cisterne, qualcosa che non la riguardava, e lei lo sapeva. Se avessi avuto ragione, non avrei tardato a trovarlo.

Mi ci vollero appena tre minuti. Infilato dietro il serbatoio più grande, dal quale fuoriusciva un sibilo che aggiungeva un tocco di mistero all’atmosfera, trovai un plico di lettere avvolte in un foglio di carta da pacchi strappato.

Lessi la prima.

Oh Laurence, tesoro mio, mio unico amore… Che meraviglia sentirti recitare quei versi ieri sera. Anche se non mi guardavi, sapevo che erano per me. “Come li ha recitati bene” ha detto Aristide. Non immaginava certo i nostri sentimenti. Tesoro mio, sono sicura che presto si risolverà tutto. Sarà un sollievo sapere che è morto felice, senza sospettare nulla. È stato così buono con me, non voglio che soffra, ma credo che dopo gli ottant’anni la vita non possa più essere un piacere. Mi auguro di non vivere tanto a lungo! Presto saremo felici insieme, per sempre. Sarà meraviglioso poterti dire: “Mio adorato marito…”. Anima mia, siamo fatti l’uno per l’altro. Ti amo, ti amo, ti amo! Il nostro amore non avrà mai fine, io…

La lettera andava avanti, ma non avevo alcuna voglia di continuare.

Scuro in volto, tornai di sotto e ficcai il plico tra le mani di Taverner.

«Forse è questo che il nostro ignoto amico stava cercando.»

Taverner sfogliò le lettere, leggendo qui e là e fischiettando.

Poi mi guardò con l’aria di un gatto che si è appena fatto una scorpacciata di succulenta crema.

«Bene» mormorò. «A questo punto la signora Leonides è nei guai fino al collo. E anche il signor Laurence Brown. Allora  che sono stati loro…»

19

Ripensandoci, mi stupisco di come la comprensione e la simpatia che provavo per Brenda Leonides fossero svanite da un momento all’altro quando scoprii le sue lettere, le lettere che aveva scritto a Laurence Brown. Forse era questione di vanità ferita dalla rivelazione del cieco e sdolcinato amore di Brenda per Laurence? O era il fatto che mi avesse mentito spudoratamente? Non lo so. Non sono uno psicologo. Preferisco pensare che fosse il pensiero della piccola Josephine, vittima di un attentato brutale e motivato da un crudele spirito di autoconservazione, a prosciugare le fonti della mia simpatia.

«Se vuole il mio parere, la trappola l’ha preparata Brown,» disse Taverner «il che risolve un dubbio che mi rodeva.»

«Cioè?»

«Be’, è stato un gesto davvero stupido. Ammettiamo che la piccola si sia impadronita delle lettere, lettere assolutamente compromettenti! La prima cosa da fare è cercare di recuperarle (dopo tutto, se la bambina ne parla ma non ha nulla da mostrare, le sue possono essere liquidate come semplici fantasie), il problema è che non si trovano. L’unica soluzione rimasta è toglierla di mezzo. Un delitto l’hai già commesso, non avrai scrupoli a commetterne un altro. Sai che la bambina si diverte a dondolare su una porta in un cortile in disuso. L’ideale sarebbe appostarsi dietro la porta con un attizzatoio, una sbarra di ferro o un bel tubo di gomma. Ce li hai lì a portata di mano. E allora perché complicarsi la vita sistemando un leone di marmo sopra una porta, con il rischio di mancarla o di colpirla senza farla fuori (cosa che è puntualmente accaduta)? Perché?»

«Ebbene,» replicai «qual è la risposta?»

«All’inizio la mia unica ipotesi era che in questo modo il colpevole si sarebbe assicurato un alibi di ferro per l’ora dell’attentato, ma a ben vedere non reggeva: per cominciare nessuno sembra avere uno straccio di alibi, e inoltre era evidente che all’ora di pranzo qualcuno sarebbe andato in cerca della bambina, scoprendo la trappola, il leone di marmo e il modus operandi. Naturalmente, se il colpevole avesse portato via il leone prima che la bambina venisse trovata, a quest’ora brancoleremmo nel buio. Ma nelle attuali circostanze la mia teoria fa acqua da tutte le parti.»

«E ora si è fatto un’altra idea?»

«Sì. Il fattore personale. Le idiosincrasie personali. Le idiosincrasie di Laurence Brown. Quel giovane detesta la violenza, non sarebbe capace di perpetrare alcuna violenza fisica. Gli sarebbe stato letteralmente impossibile appostarsi dietro la porta e abbattere la bambina con un colpo alla testa. Ciò non toglie, però, che sarebbe stato capace di preparare una trappola e allontanarsi prima di vederla all’opera.»

«Capisco» mormorai. «Come l’eserina nella fiala dell’insulina.»

«Esattamente.»

«Pensa che l’abbia fatto all’insaputa di Brenda?»

«Questo spiegherebbe perché lei non ha buttato via la fiala dell’insulina. Certo, potrebbero aver effettuato la sostituzione insieme, oppure l’idea del veleno potrebbe essere della sola Brenda: una bella morte per il marito vecchio e stanco, e vissero tutti felici e contenti! Ma scommetto che non è stata lei a preparare la trappola. Le donne non si fidano mai dei congegni meccanici. E hanno ragione. Sono convinto che l’idea dell’eserina fosse sua, ma per metterla in pratica deve essersi servita del suo schiavo innamorato. È quel genere di donna che si astiene dal compiere azioni compromettenti, per non sporcarsi la coscienza.»

Si interruppe un istante.

«Credo che queste lettere saranno sufficienti al pubblico ministero per dichiarare che ci sono gli estremi per procedere. Ne avranno di domande a cui rispondere, quei due! Se poi Josephine si rimetterà, tutto si risolverà nel migliore dei modi.» Mi lanciò uno sguardo malizioso. «Come ci si sente a essere fidanzati con un milione di sterline?»

Rabbrividii. Nella confusione delle ultime ore mi ero dimenticato del testamento.

«Sophia non lo sa ancora» risposi. «Vuole che glielo dica?»

«Ho saputo che Gaitskill ha intenzione di dare la cattiva (o buona) notizia domani dopo l’inchiesta.» Taverner fece una pausa e mi guardò pensieroso.

«Chissà come reagirà la famiglia!»

20

Come avevo previsto, l’inchiesta era stata rinviata per volere della polizia.

Eravamo tutti di buonumore, perché la sera prima erano arrivate dall’ospedale buone notizie su Josephine: le sue condizioni erano molto meno gravi di quanto si temesse e si sarebbe ristabilita in fretta. Per il momento, tuttavia, il dottor Gray le aveva proibito di ricevere visite, persino da parte della madre.

«In particolare da parte della madre» mormorò Sophia. «L’ho specificato chiaramente al dottor Gray. Non ho dovuto insistere, mamma la conosce anche lui.»

Dovevo aver assunto un’aria scettica, perché Sophia sbottò:

«Cos’è quella faccia?»

«Be’… è pur sempre sua madre…»

«Sono lieta che tu sia un uomo di sani e tradizionali principi, Charles, ma tu non sai ancora di cosa è capace quella poveretta. Ne approfitterebbe per esibirsi nell’ennesima scena madre, è più forte di lei. E le scene madri non sono certo la cura migliore per chi si sta riprendendo da un colpo alla testa.»

«Pensi sempre a tutto, tesoro.»

«Be’, ora che il nonno se n’è andato c’è bisogno di qualcuno che pensi.»

La fissai incuriosito. Il vecchio Leonides non aveva perso il suo acume. Il peso della responsabilità familiare era già sulle spalle di Sophia.

Dopo l’inchiesta, Gaitskill ci riaccompagnò a Three Gables. Schiarendosi la voce, parlò in tono solenne.

«Ho il dovere di farvi un annuncio.»

La famiglia si era riunita nel salotto di Magda. Provavo la gradevole sensazione di chi, nascosto dietro le quinte, sa già cosa sta per succedere.

Mi preparai a osservare le reazioni di ciascuno.

Gaitskill fu conciso e distaccato, evitando ogni traccia di risentimento. Lesse la lettera di Aristide Leonides per prima, poi il testamento vero e proprio.

Fu uno spettacolo interessante. Quanto avrei voluto avere mille occhi.

A Brenda e Laurence non prestai molta attenzione. Il lascito alla moglie era identico a quello della prima stesura. Mi concentrai invece su Roger e Philip, e poi su Magda e Clemency.

A prima vista, si comportarono tutti al meglio.

Philip teneva le labbra serrate, la bella testa appoggiata allo schienale dell’alta poltrona su cui sedeva, e non aprì bocca.

Al contrario, il signor Gaitskill non fece in tempo a finire che la sonora voce di Magda ne travolse la tenue cadenza come la marea che spazza via un rivoletto.

«Sophia, tesoro… è così straordinario… così romantico. Chi poteva immaginare che il nostro caro vecchietto fosse così astuto e birichino? Non si fidava di noi? Temeva che ce la saremmo presa? Non ci ha mai lasciato intendere che Sophia fosse la sua preferita. Un vero colpo di scena.»

All’improvviso Magda balzò in piedi, raggiunse Sophia a passo di danza e fece una profonda riverenza.

«Madame Sophia, la vostra vecchia madre squattrinata e derelitta vi supplica di farle l’elemosina.» La sua voce assunse un lamentoso accento cockney: «Una monetina, mia cara. La mamma vuole andare al cinema».

La mano, chiusa ad artiglio, si allungò spasmodica verso Sophia.

Senza fare un gesto, Philip disse a denti stretti:

«Per favore, Magda, basta con questa pagliacciata.»

«Oh, Roger» gridò Magda, voltandosi all’improvviso verso il cognato. «Mio povero caro Roger. Il vecchio stava per venirti in aiuto, ma è morto prima di poterlo fare. E adesso Roger non avrà più nulla. Sophia,» si voltò imperiosamente «devi assolutamente dare una mano a Roger.»

«No» esclamò Clemency facendo un passo avanti con aria di sfida. «Noi non vogliamo nulla.»

Roger si avvicinò a Sophia come un grosso orso mansueto.

Le prese affettuosamente le mani.

«Non voglio neanche un penny, mia cara ragazza. Non appena il caso sarà risolto – o quanto meno archiviato, a giudicare da come vanno le cose – Clemency e io partiremo per le Indie Occidentali, dove ci attende una vita tranquilla. Se mai dovessi trovarmi in estrema difficoltà, mi rivolgerò al capofamiglia,» le strizzò l’occhio «ma sino a quel momento non voglio neanche un penny. Sono una persona semplice, mia cara. Chiedilo a Clemency.»

Una voce inattesa si levò all’improvviso: quella di Edith de Haviland.

«Bel discorso, Roger» disse. «Ma le apparenze vanno salvate. Se dichiarerai il fallimento e poi andrai a rifugiarti in capo al mondo senza permettere a Sophia di darti una mano, darai la stura a chiacchiere non certo piacevoli per lei.»

«E chi se ne importa dell’opinione pubblica?» esclamò sprezzante Clemency.

«Lo sappiamo, Clemency, che a te non importa,» ribatté duramente Edith «ma Sophia vive in questo mondo. È una ragazza intelligente e di cuore, e sono convinta che Aristide abbia scelto la persona giusta per reggere le sorti della famiglia, per quanto strana possa sembrare alla nostra mentalità inglese l’esclusione dei due figli maschi. Credo però che sarebbe un grave errore dare l’impressione che Sophia sia così avida da lasciar naufragare lo zio senza tentare di aiutarlo.»

Roger si avvicinò alla zia e l’abbracciò.

«Zia Edith» disse. «Sei molto cara e sei una vera combattente, ma proprio non capisci. Clemency e io sappiamo ciò che vogliamo, e ciò che non vogliamo!»

Clemency, le guance improvvisamente rosse, si guardò intorno con aria di sfida.

«Nessuno di voi ha mai capito Roger» disse. «Nessuno! E nessuno lo capirà mai! Andiamo via, Roger.»

Uscirono dal salotto mentre l’avvocato Gaitskill si schiariva la gola cominciando a riordinare le sue carte. Il suo atteggiamento trasmetteva una profonda disapprovazione per le scene a cui aveva assistito.

Infine i miei occhi si posarono su Sophia. Era in piedi accanto al camino, le spalle dritte, bella come non mai, il mento sollevato, gli occhi fermi. Aveva appena ricevuto in eredità un’immensa fortuna, ma il mio primo pensiero era quanto si fosse ritrovata sola tutto a un tratto. Tra lei e la famiglia si era innalzata una barriera che li avrebbe divisi per sempre. Probabilmente se ne rendeva già conto ed era pronta ad affrontarne le conseguenze. Il vecchio Leonides le aveva deposto un carico enorme sulle spalle: lo sapeva lui e lo sapeva Sophia. Era convinto che quelle spalle fossero abbastanza forti, ma in quel momento non potevo fare a meno di provare una pena indicibile per lei.

Non aveva ancora parlato, non gliene avevano dato l’occasione, ma ora sarebbe stata costretta a esprimersi. Sotto l’affetto della famiglia si avvertiva già un’ondata di ostilità. Persino nell’elegante recita di Magda mi sembrava di aver colto una vena di cattiveria, e nell’aria si respirava una tensione trattenuta a stento.

Finito di schiarirsi la gola, il signor Gaitskill pronunciò un discorso preciso e misurato.

«Mi permetta di farle le mie congratulazioni, Sophia» disse. «Ora lei è una donna molto ricca. Le consiglio di non prendere… ehm… decisioni affrettate. Se necessario, sono in grado di anticiparle il contante per le spese correnti. Se desidera discutere della futura gestione del patrimonio, sarò onorato di mettere la mia esperienza al suo servizio. Si prenda il tempo per riflettere a fondo e poi fissi un appuntamento con il sottoscritto al Lincoln’s Inn.»

«Roger» si intromise con ostinazione Edith de Haviland.

L’avvocato Gaitskill stroncò sul nascere le sue obiezioni.

«Roger deve provvedere a se stesso. È un uomo adulto di… ehm, cinquantaquattro anni, se non sbaglio. E Aristide Leonides aveva perfettamente ragione. Non è un uomo d’affari e non lo sarà mai.» Guardò Sophia. «Se dovesse decidere di rimettere in sesto la Associated Catering, non si illuda che stavolta Roger se la caverebbe.»

«Non ho alcuna intenzione di rimettere in sesto la Associated Catering» disse Sophia.

Era la prima volta che apriva bocca. La voce era chiara e seria.

«Sarebbe un’idiozia» aggiunse.

Gaitskill le lanciò uno sguardo e sorrise tra sé. Quindi salutò tutti e si congedò.

Seguirono alcuni momenti di silenzio, necessari al consesso familiare per rendersi conto che erano rimasti soli.

Philip si alzò rigidamente.

«Devo tornare in biblioteca» disse. «Ho perso fin troppo tempo.»

«Papà…» il tono di Sophia era esitante, quasi supplichevole.

La vidi rabbrividire e indietreggiare quando Philip le rivolse uno sguardo ostile.

«Mi scuserai se non mi congratulo con te» disse. «Ma mi ci vorrà del tempo per riprendermi dallo shock. Mai avrei creduto mio padre capace di infliggermi una simile umiliazione… dimenticando la devozione di tutta una vita… sì, la devozione…»

Per la prima volta, Philip abbandonò il suo glaciale riserbo.

«Mio Dio!» esclamò. «Come ha potuto farmi questo? È sempre stato così ingiusto con me… sempre.»

«Oh no, Philip, non dire così» esclamò Edith de Haviland concitata. «Non prenderlo come l’ennesimo affronto. È naturale che gli anziani guardino alle nuove generazioni… è tutto qui, te lo assicuro… e poi, Aristide aveva un acuto senso degli affari. Sapessi quante volte l’ho sentito domandarsi che senso avesse pagare due volte le tasse di successione…»

«Non mi ha mai voluto bene» la interruppe Philip con voce bassa e roca. «Era sempre e solo Roger, Roger, Roger. Be’, quanto meno» un’incredibile smorfia di disprezzo gli stravolse i bei lineamenti «alla fine si è reso conto che Roger è un idiota e un fallito, e ha tagliato fuori anche lui.»

«E io?» chiese Eustace, tremando.

Quasi non mi ero accorto che ci fosse anche Eustace, ma in quel momento percepii la violenta emozione che lo attraversava. Era paonazzo e mi parve di vedere lacrime nei suoi occhi. La voce era sempre più rotta e isterica.

«È una vergogna!» gridò. «Una vergogna, accidenti! Come ha osato il nonno farmi questo? Come ha osato? Ero il suo unico nipote maschio. Come ha osato preferirmi Sophia? Non è giusto. Lo odio. Lo odio. Non lo perdonerò mai finché avrò vita. Quel vecchio e brutale tiranno. Non vedevo l’ora che morisse. Volevo andarmene da questa casa. Volevo essere padrone della mia vita. E adesso mi trovo in balia dei capricci e delle prepotenze di Sophia. Sarò lo zimbello della famiglia. Voglio morire…»

Scoppiò a piangere e si precipitò fuori dal salotto.

Edith de Haviland schioccò la lingua.

«Quel ragazzo non sa controllarsi» mormorò.

«Capisco come si sente» gridò Magda.

«Non ne dubito» ribatté acidamente Edith.

«Povero piccolo! Vado a cercarlo.»

«Via, Magda…» Edith le corse dietro.

Le voci si spensero in lontananza. Sophia rimase a fissare il padre. C’era ancora, credo, un che di implorante nel suo sguardo. Se così era, non ebbe alcun effetto. Lui la fissava imperturbabile. Aveva ripreso il controllo delle emozioni.

«Hai giocato bene le tue carte, Sophia» disse, e uscì dal salotto.

«Perché tanta cattiveria?» esclamai. «Sophia…»

Lei mi tese le mani e io la strinsi tra le braccia.

«Questo è troppo per te, tesoro.»

«Capisco come si sentono» mormorò.

«Quel vecchio demonio di tuo nonno non avrebbe dovuto metterti in questa situazione.»

Lei raddrizzò le spalle.

«Era sicuro che sarei stata in grado di sopportarlo. E aveva ragione. Vorrei.. vorrei solo che Eustace non se la fosse presa tanto.»

«Gli passerà.»

«Credi? Non lo so. Eustace si crogiola nelle sue frustrazioni. E non sopporto di vedere papà così umiliato.»

«Tua madre ha reagito meglio.»

«Nemmeno lei è contenta. C’è qualcosa di innaturale nel chiedere a tua figlia i soldi per allestire un’opera teatrale. Da un momento all’altro verrà a tormentarmi con la sua Edith Thompson.»

«E tu cosa farai? Se ci tiene tanto…»

Sophia si divincolò e sollevò il mento.

«Le risponderò di no! Quel dramma è terribile, e mamma non è adatta alla parte. Sarebbero soldi buttati.»

Non riuscii a trattenere una risatina.

«Cosa c’è?» domandò Sophia sospettosa.

«Comincio a capire perché il nonno ha lasciato a te il suo denaro. Sei fatta del suo stesso stampo.»

21

L’unico mio rimpianto era che Josephine si stava perdendo gli ultimi sviluppi. Quanto si sarebbe divertita.

Si stava riprendendo rapidamente e la aspettavamo a casa a breve, ma non fece in tempo ad assistere a un altro episodio cruciale.

Un mattino mi trovavo nel giardino con Sophia e Brenda quando un’automobile si fermò davanti all’ingresso. Ne uscirono Taverner e il sergente Lamb, che salirono la scalinata ed entrarono in casa.

Brenda rimase immobile a fissare l’auto.

«Ancora loro» disse. «Sono tornati. Credevo che si fossero arresi… credevo che fosse tutto finito.»

La vidi rabbrividire.

Ci aveva raggiunto una decina di minuti prima. Avvolta nel suo mantello di cincillà, aveva detto:

«Se non prendo un po’ d’aria finirò per impazzire. Fuori dal cancello c’è sempre un giornalista che aspetta di farmi il terzo grado. Quanto durerà questo assedio?»

Sophia l’aveva rassicurata che presto i giornalisti si sarebbero stancati.

«Puoi uscire in auto» le aveva consigliato.

«Ti ho detto che voglio prendere un po’ d’aria.»

Poi aveva aggiunto bruscamente:

«Hai licenziato Laurence, Sophia. Perché?»

Sophia aveva risposto con calma:

«Abbiamo altri programmi per Eustace. E Josephine andrà in Svizzera.»

«Be’, Laurence ci è rimasto molto male. Ha l’impressione che non ti fidi di lui.»

Sophia non aveva risposto, e proprio in quel momento era arrivata l’auto della polizia.

In piedi, rabbrividendo all’umida aria dell’autunno, Brenda mormorò: «Cosa vogliono ancora? Perché sono tornati?».

Un’idea io ce l’avevo. Non avevo detto a Sophia delle lettere che avevo trovato dietro il serbatoio, ma sapevo che erano state consegnate al pubblico ministero.

Taverner uscì dalla casa, poi ci venne incontro attraversando il vialetto e il prato. Brenda tremava sempre più forte.

«Cosa vuole?» ripeté nervosamente. «Cosa vuole?»

Quando ci raggiunse, Taverner parlò in tono freddo e ufficiale, usando le formule di circostanza.

«Brenda Leonides, ho un mandato d’arresto per lei. È accusata di aver somministrato dell’eserina al signor Aristide Leonides lo scorso 19 settembre. Devo avvertirla che tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei al processo.»

Brenda crollò completamente. Urlava, si aggrappava al mio braccio, continuava a ripetere:

«No, no, no, non è vero! Charles, gli dica che non è vero! Non sono stata io. Non ne sapevo nulla. È un complotto. Non permetta a quest’uomo di portarmi via. Non è vero, lo giuro… non è vero… io non ho fatto nulla di male…»

Una scena atroce, davvero atroce. Cercai di tranquillizzarla, liberandomi dalla sua stretta. Le dissi che le avrei fatto avere un buon avvocato, che doveva mantenere la calma, che l’avvocato avrebbe sistemato ogni cosa.

Taverner la prese delicatamente per un braccio.

«Venga, signora Leonides. Vuole andare a prendere un cappello? No? Allora sarà bene avviarci.»

Lei si ritrasse, fissandolo con i suoi occhioni da gatta.

«Laurence» disse. «Cosa avete fatto a Laurence?»

«Anche il signor Brown è in arresto» rispose Taverner.

A quel punto lei si accasciò. Le spalle s’incurvarono, le lacrime sgorgavano copiose. Senza opporre resistenza, Brenda si lasciò accompagnare all’auto da Taverner. Vidi Laurence Brown uscire dalla casa insieme al sergente Lamb. Salirono tutti a bordo. L’auto partì.

Con un profondo sospiro, mi voltai verso Sophia. Era molto pallida e aveva un’aria angosciata.

«È terribile, Charles» mormorò. «Davvero terribile.»

«Lo so.»

«Devi procurarle un ottimo avvocato, il migliore. Dobbiamo… dobbiamo aiutarla in ogni modo.»

«Non avevo mai assistito a un arresto» dissi. «Una scena inimmaginabile.»

«È vero.»

Restammo in silenzio. Pensavo alla disperazione sul volto di Brenda. Mi era sembrata familiare, e all’improvviso capii perché. Era la stessa espressione che avevo visto sul volto di Magda la prima volta che ero entrato nella Casa Sbilenca, mentre parlava del dramma di Edith Thompson.

E poi,” aveva detto “il terrore più profondo.”

Terrore: ecco cosa avevo letto sul volto di Brenda. Non era una combattente. Aveva davvero il coraggio di uccidere? Ma forse non era stata lei. Forse era stato Laurence Brown, con le sue manie di persecuzione, la sua personalità instabile, a versare in una fiala il contenuto di un’altra: un gesto semplice, per liberare la donna che amava.

«Allora è finita» disse Sophia.

Poi, con un profondo sospiro:

«Ma perché arrestarli proprio ora? Mi era sembrato di capire che non ci fossero prove sufficienti.»

«In realtà sono emerse nuove prove. Lettere.»

«Lettere d’amore?»

«Sì.»

«Che pazzia conservarle!»

Infatti. Quei due erano pazzi. Quel genere di pazzia che ignora completamente le esperienze degli altri. Una pazzia di cui basta aprire un quotidiano per trovare esempi a non finire: la passione che spinge a conservare le parole scritte, le rassicurazioni d’amore.

«È stato orribile, Sophia» dissi. «Ma ora non pensiamoci più. Dopo tutto, è quello che desideravamo sin dall’inizio, vero? Me lo dicesti quella sera da Mario. Dicesti che poteva non essere un male, se a uccidere tuo nonno era stata la persona giusta. E Brenda era la persona giusta, o sbaglio? Oppure Laurence.»

«Ti prego, Charles, non me lo ricordare. Mi fai sentire un verme.»

«Cerchiamo di essere ragionevoli, Sophia. Ora ci possiamo sposare. Non c’è più motivo di aspettare. La famiglia Leonides ne è fuori.»

Sophia mi fissò a lungo. Non mi ero mai accorto che i suoi occhi fossero di un azzurro così intenso.

«Sì» disse. «Forse ne siamo fuori. Ne sei sicuro?»

«Piccola mia, nessuno di voi aveva l’ombra di un movente.»

La vidi impallidire.

«Eccetto me, Charles. Io avevo un movente.»

«Sì, certo…» mi aveva colto alla sprovvista. «Anzi, no. Non sapevi del testamento.»

«Invece sì, Charles» mormorò Sophia.

«Cosa?» La fissai sbalordito. Sentii il sangue gelare nelle vene.

«Ho sempre saputo che il nonno aveva lasciato tutto a me.»

«E come?»

«Me l’aveva detto lui. Una quindicina di giorni prima che fosse ucciso. Me l’aveva comunicato di punto in bianco: “Ho lasciato tutti i miei soldi a te, Sophia. Quando non ci sarò più, dovrai badare tu alla famiglia”.»

Sgranai gli occhi.

«Non me l’avevi mai detto.»

«Lo so. Vedi, quando ci hanno spiegato del testamento e di come l’aveva firmato, ho pensato che si fosse sbagliato, o che si fosse immaginato di aver lasciato tutto a me. Oppure che, se aveva davvero fatto testamento nominandomi sua erede, quel documento fosse andato perso. Quanto ho sperato che fosse andato perso… avevo paura.»

«Perché?»

«Per via… dell’omicidio, penso.»

Ricordavo il terrore folle e irragionevole sul volto di Brenda. Ricordavo il vero e proprio panico trasmesso da Magda mentre recitava il ruolo dell’assassina. Sophia non si sarebbe lasciata prendere dal panico, ma era abbastanza lucida da rendersi conto che il testamento del nonno faceva di lei una sospetta. Ora capivo meglio (o pensavo di capire) come mai non voleva fidanzarsi e aveva insistito perché scoprissi la verità. Solo la verità, aveva detto, poteva esserle d’aiuto. Ricordavo la passione, l’urgenza di quelle parole.

Stavamo tornando verso casa quando all’improvviso ricordai un’altra cosa.

Sophia si era detta capace di uccidere, ma solo se avesse avuto una valida ragione.

22

Girato un angolo del giardino, vedemmo Roger e Clemency che ci venivano frettolosamente incontro. Lo svolazzante abito di tweed donava a Roger molto più dei completi che indossava per andare nella City. Lui era nervoso e agitato, lei pensierosa.

«Salve» disse Roger. «Finalmente! Temevo che non l’avrebbero più arrestata, quella donnaccia. Cosa stavano aspettando? Be’, adesso hanno preso lei e il suo miserabile innamorato. Spero che li impicchino tutti e due.»

Clemency aggrottò le sopracciglia.

«Non essere così brutale, Roger.»

«Brutale? Sciocchezze! Avvelenare a sangue freddo un uomo anziano e indifeso che si fidava di loro, e tu mi chiami brutale se mi rallegro perché gli assassini sono stati arrestati e sconteranno la loro pena? Quella donna la strangolerei con le mie mani!»

Ci guardò.

«Era con voi quando è arrivata la polizia, vero? Come l’ha presa?»

«È stato terribile» mormorò Sophia. «Era terrorizzata.»

«Ben le sta.»

«Non essere così vendicativo» disse Clemency.

«Oh, hai ragione, cara, ma tu non puoi capire. Non era tuo padre. Io amavo mio padre. Non capisci? Lo amavo

«Ho avuto modo di capirlo, credimi.»

Roger le disse, tra il serio e il faceto:

«Tu non hai immaginazione, Clemency. E se fossi stato avvelenato io?»

Vidi le palpebre della donna abbassarsi, le mani stringersi nervose. «Non dirlo nemmeno per scherzo» sbottò.

«Non ti agitare, tesoro, presto saremo lontani da tutto questo.»

Ci avviammo verso casa. Roger e Sophia facevano strada, Clemency e io li seguivamo.

«Ora ci lasceranno partire, vero?» mi chiese Clemency.

«Avete tanta fretta di andarvene?»

«Quest’attesa mi sta logorando.»

La fissai sorpreso. Clemency rispose al mio sguardo con un sorrisetto disperato e un cenno del capo.

«Non ha ancora capito, Charles, che io passo la vita a combattere per la felicità mia e di Roger? Ero terrorizzata al pensiero che la famiglia potesse convincerlo a rimanere in Inghilterra, impedendoci di districarci da questi legami soffocanti. E avevo paura che Sophia gli offrisse una rendita e lui decidesse di non partire solo per garantirmi una vita più comoda. Il problema di Roger è che non ascolta mai. Si mette in testa certe idee, che non sono mai le idee giuste. Non sa nulla, ma da bravo Leonides è convinto che la felicità di una donna dipenda dalle comodità e dal denaro. Ebbene, io continuerò a battermi per la mia felicità. Porterò via Roger e gli permetterò di vivere come più gli si addice, senza sentirsi un fallito. Lo voglio tutto per me… lontano da loro… lontanissimo…»

Parlava rapidamente, con la voce soffocata e un accento disperato che mi sorprese. Non avevo capito fino a che punto fosse allo stremo né quanto disperato e possessivo fosse il suo amore per Roger.

Mi tornarono in mente quelle strane parole di Edith de Haviland, “la mia non è idolatria”, pronunciate con un’intonazione particolare. Forse alludeva a Clemency?

Roger sembrava aver amato il padre più di chiunque altro, anche più della moglie, per quanto devoto le fosse. Per la prima volta mi resi conto di quanto imperativo fosse per Clemency avere il marito tutto per sé. L’amore per Roger era la sua ragione di vita. Lui era un figlio per lei, non solo un marito innamorato.

Un’automobile si fermò all’ingresso.

«Ehi,» dissi «Josephine è tornata.»

Josephine e Magda scesero dall’automobile. La bambina aveva la testa fasciata, ma per il resto sembrava in ottima forma.

«Voglio vedere i miei pesci rossi» disse, e si avviò verso il laghetto.

«Tesoro,» gridò Magda «sarebbe meglio che tu andassi a riposare, e magari mangiassi una bella minestra nutriente.»

«Stai tranquilla, mamma» disse Josephine. «Sto benissimo, e poi odio le minestre nutrienti.»

Magda titubò. Io sapevo che in realtà Josephine si era ripresa già da qualche giorno, e che era stato Taverner a ritardare il ritorno dall’ospedale per non metterla in pericolo, finché i sospettati non fossero stati assicurati alla giustizia.

Rassicurai Magda.

«Un po’ d’aria fresca le farà bene. La terrò d’occhio io.»

Raggiunsi Josephine prima che arrivasse al laghetto.

«Ne sono successe di cose in questi giorni» dissi.

Non rispose. Stava esaminando il laghetto con i suoi occhietti miopi.

«Non vedo Ferdinand» disse.

«Qual è Ferdinand?»

«Quello con quattro code.»

«Buffi, quelli. A me piace quello là, con le squame dorate.»

«È un genere molto comune.»

«Non amo particolarmente quello bianco che sembra mangiato dalle tarme.»

Josephine mi lanciò un’occhiata sprezzante.

«Quello è uno shubunkin. Costano un sacco, molto più dei pesci rossi.»

«Non vuoi sapere cos’è successo, Josephine?»

«Credo di saperlo già.»

«Sapevi che è stato trovato un altro testamento e che tuo nonno ha lasciato tutto a Sophia?»

Josephine annuì con aria annoiata.

«Me l’ha detto mamma. Ma lo sapevo già.»

«Vuoi dire che l’hai saputo mentre eri in ospedale?»

«No, voglio dire che sapevo che il nonno aveva lasciato il suo patrimonio a Sophia. L’ho sentito dalla sua voce.»

«Stavi origliando?»

«Sì. Mi diverto a origliare.»

«Non si fa, e poi chi origlia finisce sempre per sentire cose sgradevoli su di sé.»

Josephine mi lanciò una strana occhiata.

«Ho sentito anche quello che le diceva di me, se è questo che intendi.»

Poi aggiunse:

«Nannie si infuria se mi scopre a origliare alle porte. Dice che una vera signora non si comporta così.»

«E ha ragione.»

«Pfui» fece Josephine. «Oggigiorno non esistono più le signore. L’hanno detto su Brains Trust. Hanno detto che è un’idea ob-so-le-ta.» Scandì attentamente l’ultima parola.

Cambiai argomento.

«Sei arrivata tardi per il gran finale» dissi. «L’ispettore capo Taverner ha arrestato Brenda e Laurence.»

Pensavo che l’informazione avrebbe elettrizzato la giovane investigatrice Josephine, invece ripeté con la solita aria annoiata:

«Sì, lo so.»

«Non è possibile. È appena successo.»

«Abbiamo incrociato l’automobile. A bordo c’erano l’ispettore Taverner e l’investigatore con le scarpe di camoscio insieme a Brenda e Laurence. Era ovvio che li avessero arrestati. Spero che Taverner gli avesse letto i loro diritti. Sono tenuti a farlo, sai?»

Le assicurai che Taverner non aveva mancato ai suoi doveri.

«Ho dovuto dirgli delle lettere» mi scusai. «Le ho trovate dietro la cisterna. L’avrei lasciato fare a te, ma eri priva di sensi.»

Josephine si portò la mano alla testa con cautela.

«Volevano uccidermi» disse tutta soddisfatta. «Ti avevo detto che era arrivata l’ora del secondo omicidio. Il locale cisterne era un pessimo nascondiglio per le lettere. Ho capito che erano lì il giorno che ho visto Laurence uscire da quella porta. Non è certo uno che si intende di rubinetti, tubi e valvole, perciò ho capito che stava nascondendo qualcosa.»

«Ma io pensavo…» Fui interrotto dalla voce imperiosa di Edith de Haviland:

«Josephine, Josephine, vieni qui subito.»

La bambina sospirò.

«Eccone un’altra» disse. «Sarà meglio che vada. Non c’è scampo, con zia Edith.»

Attraversò il prato di corsa. La seguii lentamente.

Dopo un breve scambio di parole Josephine entrò in casa, e io raggiunsi la signorina de Haviland sul patio.

Quella mattina dimostrava tutta la sua età. Mi colpirono soprattutto i lineamenti tirati e sofferenti. Pareva esausta, depressa. Vedendomi preoccupato, si sforzò di sorridere.

«Quella bambina sembra non aver imparato nulla dalla sua disavventura» disse. «Bisognerà sorvegliarla con più attenzione, in avvenire. Anche se ora, forse, non sarà più necessario.»

Con un sospiro aggiunse:

«Per fortuna è finita. Ma che spettacolo pietoso! Se ti arrestano per omicidio, potresti almeno mostrare un minimo di decoro. Non sopporto la gente che strilla e si dispera come Brenda. Smidollati che non sono altro. Laurence Brown sembrava un coniglio preso in trappola.»

Un oscuro istinto di commiserazione si accese in me.

«Poveri diavoli» dissi.

«Già… poveri diavoli. Mi auguro che Brenda avrà il buonsenso di prendersi cura di sé. Gli avvocati giusti e compagnia bella.».

Trovavo curioso quanto tutti detestassero Brenda da un lato e si preoccupassero per la sua difesa dall’altro.

Edith de Haviland riprese:

«Quanto tempo ci vorrà ora?»

Risposi che non era facile prevederlo. Le accuse sarebbero state formalizzate alla corte di giustizia, quindi, con ogni probabilità, li avrebbero rinviati a giudizio. Almeno tre o quattro mesi di processo, poi, in caso di condanna, sarebbero ricorsi in appello.

«Crede che saranno condannati?»

«Non lo so. Non so esattamente quante prove abbia la polizia. Ci sono delle lettere.»

«Lettere d’amore? Allora erano davvero amanti?»

«Erano innamorati.»

Il volto di Edith si rabbuiò.

«È una pessima notizia, Charles. Brenda non mi piace. L’ho sempre disprezzata e ho parlato molto male di lei, ma ora… voglio che abbia tutte le possibilità di difendersi, tutte. Lo avrebbe voluto anche Aristide. Mi sento in dovere di… di assicurarmi che abbia un trattamento equo.»

«E Laurence?»

«Oh, Laurence!» Edith alzò le spalle spazientita. «Gli uomini devono saper badare a se stessi. Ma Aristide non ci perdonerebbe mai se…» Non terminò la frase.

Poi disse:

«È quasi ora di pranzo. Sarà meglio rientrare.»

Le spiegai che dovevo andare a Londra.

«In automobile?»

«Sì.»

«Hem… sarebbe così gentile da darmi un passaggio? Se ho ben capito, ora non siamo più prigionieri in casa.»

«Con piacere, ma credo che anche Magda e Sophia partiranno per Londra dopo pranzo. Sarà più comoda con loro, io ho solo una due posti.»

«Non voglio andare con loro. Mi dia un passaggio e non lo dica a nessuno.»

Ero sorpreso, ma ubbidii. Non parlammo molto durante il viaggio. Le chiesi dove potevo lasciarla.

«Harley Street.»

Provai una vaga inquietudine, ma non aprii bocca.2 Poi lei aggiunse:

«No, è presto. Mi lasci da Debenhams. Pranzerò lì prima di andare in Harley Street.»

«Spero che…» cominciai, ma mi interruppi subito.

«È per questo che non sono voluta venire con Magda. Lei fa sempre drammi.»

«Mi dispiace» dissi.

«Non è il caso. Mi sono goduta la vita, io. Eccome se me la sono goduta.» Poi, all’improvviso, sorrise. «E non ho ancora finito.»

2. Harley Street è una strada di Westminster nota per il gran numero di studi medici.

23

Non vedevo mio padre da alcuni giorni. Lo trovai impegnato in questioni che non riguardavano il caso Leonides, così andai in cerca di Taverner.

L’ispettore aveva un po’ di tempo libero e accettò di venire a bere qualcosa con me. Gli feci le mie congratulazioni per aver risolto il caso e lui le accettò, ma sembrava tutt’altro che al settimo cielo.

«Be’, è finita» disse. «Ci sono gli estremi per procedere contro i sospettati. Nessuno lo può negare.»

«Pensa di ottenere una condanna?»

«Impossibile dirlo. Le prove sono indiziarie, come in quasi tutti i casi di omicidio. Molto dipende dall’impressione che faranno sui giurati.»

«Le lettere sono state determinanti?»

«A una prima lettura, Charles, si direbbero prove schiaccianti. Sono piene di allusioni alla loro vita insieme dopo la morte del marito di Brenda. “Ormai manca poco”, e via di questo passo. Naturalmente il collegio difensivo punterà sul fatto che, considerata l’età del marito, era ragionevole aspettarsi che morisse entro breve. Non si parla mai di avvelenamento, almeno non direttamente, ma ci sono passaggi sospetti. Dipende da chi sarà il giudice. Se è il vecchio Carberry, non hanno scampo. Quando c’è di mezzo l’adulterio, diventa inflessibile. Immagino che troveremo Eagles o Humphrey Kerr al banco della difesa. Kerr è magnifico in questi casi, ma ama puntare su uno stato di servizio militare impeccabile per impostare la sua linea. Un obiettore di coscienza non gli faciliterà il compito. Sapranno conquistarsi la simpatia dei giurati? Non si può mai dire. Vedi, Charles, quei due non ispirano simpatia. Lei è una bella donna che ha sposato un uomo anziano per soldi, Brown è un obiettore di coscienza con tendenze nevrotiche. È un delitto così banale, così identico a tanti altri che in realtà viene da dubitare che siano stati loro. Naturalmente la giuria potrebbe stabilire che è stato lui e lei non ne sapeva nulla oppure viceversa, o ancora che hanno agito insieme.»

«E lei cosa ne pensa?»

Mi guardò con aria inespressiva.

«Io non penso nulla. Ho raccolto i fatti e li ho passati al pubblico ministero, che ha riscontrato gli estremi per procedere. Ho compiuto il mio dovere e il seguito non mi riguarda. Questo è tutto, Charles.»

E invece non ero certo che fosse tutto. Per qualche ragione, Taverner sembrava insoddisfatto.

Solo tre giorni dopo riuscii a vuotare il sacco con mio padre. Non mi aveva più fatto parola del caso. C’era uno strano imbarazzo fra di noi, e credevo di sapere perché. Era ora di rompere il ghiaccio.

«Avanti, sputiamo il rospo» dissi. «Taverner non è convinto che i colpevoli siano quei due, e non lo sei nemmeno tu.»

Mio padre scosse la testa e replicò con parole simili a quelle di Taverner:

«Il caso non è più nelle nostre mani. Ci sarà un processo. Non c’è altro da dire.»

«Ma tu non credi – e Taverner non crede – che siano stati loro, vero?»

«Questo lo deciderà la giuria.»

«Per l’amor di Dio, non pensare di cavartela con i tuoi tecnicismi. Cosa ne pensate voi, personalmente

«La mia opinione personale vale quanto la tua, Charles.»

«Invece no. Tu hai più esperienza.»

«Allora sarò franco. Io… non lo so!»

«Potrebbero essere colpevoli?»

«Certo.»

«Ma non ne sei sicuro.»

Mio padre alzò le spalle.

«E chi può esserlo?»

«Smettila di fare l’evasivo, papà. Ti sarà capitato altre volte di essere sicuro, assolutamente sicuro, senza ombra di dubbio?»

«Qualche volta, sì. Non sempre.»

«Dio, quanto vorrei che tu lo fossi stavolta.»

«Lo vorrei anch’io.»

Rimanemmo in silenzio. Stavo pensando alle due sagome che arrivavano dal giardino al crepuscolo. Solitarie, ansiose e impaurite, sin dal principio. Senso di colpa?

Mi risposi da solo: “Non necessariamente”. Brenda e Laurence avevano paura della vita: privi di autostima e di fiducia nella loro capacità di evitare il pericolo e il fallimento, si rendevano conto fin troppo bene che l’amore illecito poteva portare al delitto da un momento all’altro.

Con voce solenne e gentile, mio padre riprese:

«Avanti, Charles, diciamo le cose come stanno. Tu continui a pensare che il colpevole sia un Leonides, vero?»

«Non esattamente. Mi chiedo solo…»

«Lo pensi. Forse a torto, ma lo pensi.»

«Sì» dissi.

«Perché?»

«Perché…» ci pensai su, sforzandomi di capire e ragionare. «Perché» – sì, la ragione era quella – «è ciò che pensano loro.»

«Lo pensano loro, eh? Interessante. Molto interessante. Intendi dire che si sospettano a vicenda o che sanno chi è il vero colpevole?»

«Non ne sono sicuro» ammisi. «È tutto così nebuloso e confuso. Nel complesso, ho la sensazione che abbiano paura di ciò che pensano di sapere.»

Mio padre annuì.

«Tranne Roger» proseguii. «Roger è convintissimo che sia stata Brenda e vuole vederla impiccata a ogni costo. È… è un sollievo, perché Roger è un uomo semplice, diretto e senza riserve mentali.

«Gli altri invece sembrano stranamente a disagio, quasi contriti. Mi chiedono con insistenza di assicurarmi che Brenda abbia la miglior difesa possibile, che goda di tutti i vantaggi. Perché?»

Fu mio padre a rispondere:

«Perché sotto sotto non pensano che sia stata lei… Sì, è plausibile.»

Poi mi chiese con tranquillità:

«E allora chi può essere stato? Hai parlato con tutti? Su chi punteresti?»

«Non lo so» ripetei. «E la cosa mi fa impazzire. Nessuno di loro corrisponde al classico ritratto dell’assassino, eppure io sento… sì, lo sento… che uno di loro è un assassino.»

«Sophia?»

«No. Buon Dio, no!»

«Ci hai pensato, Charles, non negarlo. Lo dimostra la veemenza con cui lo neghi. E gli altri? Philip?»

«Solo per un movente dei più stravaganti.»

«I moventi possono essere stravaganti, come possono essere straordinariamente futili. Quale sarebbe?»

«Soffre di una gelosia morbosa nei confronti di Roger, da sempre. La preferenza del padre per il fratello lo ha portato a chiudersi in se stesso. Roger era sull’orlo del fallimento e il vecchio Leonides lo è venuto a sapere, così gli ha promesso di rimetterlo in sesto. Immaginiamo che Philip lo abbia saputo. Se il vecchio fosse morto quella sera stessa, Roger era spacciato. Sì, è un’assurdità, me ne rendo conto…»

«Oh, no. Sarebbe anomalo, ma può capitare. È umano. E Magda?»

«È una donna piuttosto infantile. Le manca il senso delle proporzioni. Tuttavia, non avrei mai sospettato un suo coinvolgimento se non fosse stato per la fretta con cui ha deciso di spedire Josephine in Svizzera. Non riesco a togliermi dalla testa l’idea che avesse paura di qualcosa che la ragazzina sapeva o poteva dire…»

«E subito dopo Josephine si è presa un colpo in testa.»

«Be’, non può certo essere stata la madre!»

«Perché no?»

«Andiamo, papà, una madre non…»

«Charles, Charles, non leggi mai la cronaca nera? Lo sai quante madri prendono in antipatia uno dei figli? Magari uno solo, gli altri possono amarli con tutto il cuore. C’è sempre una causa scatenante, ma spesso è difficile da scoprire. E anche quando si scopre, si tratta di un’avversione irragionevole e potentissima.»

«Quando Josephine era piccola, la chiamava “trovatella”.»

«E alla bambina dava fastidio?»

«Non credo.»

«Chi altro c’è? Roger?»

«Roger non ha ucciso suo padre, ne sono certo.»

«Scartiamo Roger. La moglie? Come si chiama… Clemency?»

«Sì» risposi. «Se Clemency ha ucciso il vecchio Leonides, lo ha fatto per una ragione ancora più assurda.»

Gli riferii la mia conversazione con Clemency. Ammisi di aver pensato che, nella sua smania di portare via Roger dall’Inghilterra, potesse aver avvelenato il suocero.

«Aveva persuaso Roger a partire senza dirlo al padre, ma il vecchio l’aveva scoperto e aveva deciso di salvare la Associated Catering. Le speranze e i piani di Clemency rischiavano di andare in fumo. Il suo amore per Roger è davvero disperato, ben oltre l’idolatria.»

«La stessa espressione usata da Edith de Haviland!»

«Sì, e anche lei è fra i sospettati, per quanto non trovi un movente. Penso solo che, per quella che dovesse considerare una ragione valida e sufficiente, sarebbe capace di farsi giustizia da sé. È fatta così.»

«Anche lei si è detta preoccupata per la difesa di Brenda?»

«Sì. Questione di coscienza, immagino. Se è lei l’assassina, non voleva che altri fossero accusati, su questo non ho dubbi.»

«Probabilmente no, ma sarebbe capace di far fuori anche la piccola Josephine?»

«No» risposi. «Non posso crederlo. A proposito di Josephine, un giorno mi ha detto qualcosa di strano, ma non ricordo cosa. Mi è sfuggito di mente. Un dettaglio che non quadra. Se solo riuscissi a…»

«Tranquillo, vedrai che tornerà. Hai qualcun altro in mente?»

«Sì» risposi. «Assolutamente. Cosa sai della paralisi infantile, o meglio delle sue conseguenze sul carattere?»

«Eustace?»

«Sì. Più ci penso, più mi sembra possibile che sia stato Eustace. L’avversione e il rancore verso il nonno. Il carattere bizzarro e capriccioso. Quel bambino non è normale. È l’unico della famiglia che ritengo capace di stendere Josephine senza rimorsi, se lei sapeva qualcosa che lo riguardava. Ed è probabilissimo che lo sapesse. Quella bambina sa tutto. Non fa che scrivere su quel taccuino…»

Mi interruppi.

«Buon Dio» dissi. «Che sciocco sono stato.»

«Cosa c’è?»

«Ecco il dettaglio che non quadra. Davamo per scontato, Taverner e io, che chi ha messo a soqquadro la stanza di Josephine cercasse quelle lettere, e io ero convinto che lei le avesse trovate e poi nascoste nel locale cisterne. Ma l’altro giorno lei mi ha detto chiaramente che era stato Laurence a nasconderle. Dopo averlo visto uscire dal locale, Josephine è entrata, le ha trovate e naturalmente le ha lette, ma poi le ha rimesse a posto.»

«E con ciò?»

«Non capisci? Non stavano cercando le lettere nella stanza di Josephine. Doveva essere qualcos’altro.»

«Vale a dire…»

«Il piccolo taccuino nero su cui annotava i risultati delle sue “indagini”. Ecco cosa cercavano! E non credo che l’abbiano trovato. Ma se così fosse…»

Feci per alzarmi in piedi.

«Se così fosse,» riprese mio padre «la bambina è ancora in pericolo. È questo che volevi dire?»

«Sì. Sarà al sicuro solo una volta partita per la Svizzera.»

«Lei è d’accordo?»

Ci pensai su.

«Non credo.»

«Allora non ci andrà» tagliò corto mio padre. «Ma penso che tu abbia ragione, è ancora in pericolo. Farai meglio a tornare subito in quella casa.»

«Eustace?» gridai, disperato. «Clemency?»

Mio padre rispose con calma:

«Ai miei occhi, i fatti puntano in una direzione ben precisa… Come fai a non vederlo? Io…»

Glover aprì la porta.

«Chiedo scusa, signor Charles, al telefono. È la signorina Leonides da Swinly Dean. È urgente.»

Mi sembrò di rivivere un incubo. Josephine aveva subito un altro attentato? Magari, stavolta… riuscito?

Mi precipitai al telefono.

«Sophia? Sono io, Charles.»

C’era una profonda disperazione nella voce di Sophia. «Charles, non è finita. L’assassino è ancora qui.»

«Come sarebbe a dire? Cos’è successo? Josephine?»

«No. Non Josephine. Nannie.»

«Nannie

«Sì. C’era una tazza di cioccolata… la cioccolata di Josephine. Non l’ha bevuta, l’ha lasciata sul tavolo. Nannie non voleva sprecarla, così l’ha bevuta lei.»

«Povera Nannie. Sta molto male?»

Sophia scoppiò in singhiozzi.

«Oh, Charles, è morta

24

L’incubo non era finito.

Ecco cosa pensavo mentre Taverner e io partivamo da Londra. Lo stesso viaggio, un’altra volta.

Di tanto in tanto, Taverner imprecava.

Quanto a me, non facevo che ripetere queste sciocche e inutili parole:

«Allora non sono stati Brenda e Laurence. Non sono stati Brenda e Laurence.»

Ne ero mai stato convinto? Ero così felice di poterlo credere, così felice di poter tenere alla larga altre possibilità ben più inquietanti…

Si erano innamorati. Si erano scritti sciocche e sdolcinate lettere d’amore. Avevano accarezzato la speranza che il vecchio marito di Brenda non tardasse a spegnersi in pace, ma desideravano davvero la sua morte? Avevo l’impressione che la disperazione e il dolore di un amore impossibile li gratificassero almeno quanto la prospettiva di una banale vita coniugale. Brenda non era una donna passionale. Era troppo moscia, troppo apatica. Era il romanticismo che cercava. Quanto a Laurence, anche lui era portato a crogiolarsi nella frustrazione e in vaghi sogni del futuro piuttosto che nella concreta soddisfazione dei sensi.

Presi in trappola, erano troppo terrorizzati per trovare una via d’uscita. Laurence era stato così stupido da non distruggere le lettere di Brenda. Al contrario, Brenda aveva probabilmente distrutto quelle di lui, visto che non erano state trovate. Ma non era stato Laurence a mettere in bilico il leone di marmo sopra la porta del lavatoio. Era stato qualcun altro, la cui faccia ancora si nascondeva dietro una maschera.

Ci fermammo davanti all’ingresso. Taverner scese per primo, io lo seguii. Nell’atrio c’era un poliziotto in borghese che non conoscevo. Salutò Taverner, che subito lo prese da parte.

La mia attenzione fu attirata da una pila di valigie etichettate e pronte per la partenza. Mentre le guardavo, vidi Clemency scendere le scale e varcare la porta aperta. Indossava il solito vestito rosso con un soprabito di tweed e un cappello di feltro rosso.

«È arrivato in tempo per salutarci, Charles» disse.

«Siete in partenza?»

«Passeremo la notte a Londra. Il nostro aereo decolla domattina presto.»

Era calma e sorridente, ma lo sguardo mi sembrava circospetto.

«Non vorrete andarvene ora?»

«Perché no?» La voce si era fatta dura.

«La morte…»

«Noi non c’entriamo nulla con la morte di Nannie.»

«Può darsi, ma comunque…»

«Come sarebbe a dire, “può darsi”? Noi non c’entriamo nulla. Roger e io eravamo di sopra a fare le valigie. Non ci siamo mossi quando la cioccolata è rimasta sul tavolo dell’atrio.»

«Potete dimostrarlo?»

«Posso rispondere per Roger e lui per me.»

«Tutto qui? Siete marito e moglie…»

Clemency andò su tutte le furie.

«Charles, lei è davvero insopportabile! Roger e io stiamo partendo per cominciare una nuova vita. Che ragione avremmo avuto di avvelenare una simpatica e sciocca vecchietta che non ci ha mai fatto del male?»

«Forse non era lei che volevate avvelenare.»

«Meno che mai avremmo potuto avvelenare una bambina.»

«Dipende dalla bambina, non crede?»

«Cosa vorrebbe dire?»

«Josephine non è una bambina come le altre. Sa tante cose sugli altri. Lei…»

Mi interruppi. Josephine era uscita dal salotto. Stava mangiando l’immancabile mela, e sopra la rosea circonferenza i suoi occhi brillavano di una sorta di soddisfazione demoniaca.

«Nannie è stata avvelenata» disse. «Proprio come il nonno. È così elettrizzante, non trovi?»

«Non ti dispiace?» le chiesi severamente. «Non volevi bene alla tua Nannie?»

«Non molto. Mi sgridava sempre. Era un’impicciona.»

«C’è qualcuno a cui vuoi bene, Josephine?» le domandò Clemency.

Josephine le puntò addosso gli occhi diabolici.

«Voglio bene a zia Edith» disse. «Le voglio molto bene. E vorrei bene anche a Eustace, se non mi trattasse così orrendamente e se fosse interessato a scoprire il colpevole.»

«Sarà meglio che tu la smetta di indagare, Josephine» dissi. «È troppo pericoloso.»

«Non c’è più nulla da indagare» replicò lei. «Ormai so tutto.»

Ci fu un attimo di silenzio. Gli occhi della bambina erano solennemente fissi su Clemency. Una specie di lungo sospiro mi giunse alle orecchie. Mi voltai bruscamente. Edith de Haviland era a metà delle scale, ma non mi sembrava che fosse stata lei a sospirare. Il suono era arrivato dalla porta da cui era appena uscita Josephine.

Attraversai rapidamente l’atrio e la spalancai. Non c’era nessuno.

Ero molto inquieto. Qualcuno si era appostato dietro la porta e aveva sentito le parole di Josephine. Tornai indietro e presi per un braccio la bambina, che impassibile continuava a mangiare la mela e a fissare Clemency. Dietro tanta solennità mi pareva di notare una certa soddisfazione perversa.

«Vieni, Josephine» dissi. «Dobbiamo parlare.»

Forse accennò una protesta, ma ero deciso a non tollerare obiezioni. La trascinai a forza nella sua parte della casa. Trovai un salottino in disuso dove era probabile che nessuno ci avrebbe disturbato. La portai dentro, chiusi la porta a chiave e la feci sedere, poi presi un’altra sedia e mi piazzai di fronte a lei. «E ora devi dirmi tutto. Cosa sai, esattamente?»

«Tante cose.»

«Non ne dubito. Quella testolina dev’essere piena zeppa di informazioni, rilevanti e non. Ma tu sai perfettamente cosa intendo, vero?»

«Certo che lo so. Non sono una stupida, io

Alludeva a me o alla polizia? Decisi di non approfondire.

«Tu sai chi ha avvelenato la cioccolata?»

Josephine annuì.

«Sai chi ha avvelenato il nonno?»

Josephine annuì di nuovo.

«E chi ti ha teso la trappola nel lavatoio?»

Di nuovo Josephine annuì.

«Allora mi devi raccontare tutto. Subito.»

«No.»

«Sì. Tutte le informazioni che hai vanno fornite alla polizia.»

«Non dirò nulla alla polizia. Sono troppo stupidi. Pensavano che il colpevole fosse Brenda, oppure Laurence. Be’, io non sono così stupida. Lo sapevo perfettamente che non erano stati loro. Avevo un’ipotesi fin dal principio, l’ho verificata e… ora so che avevo ragione.»

Terminò la frase in tono trionfale.

Pregai il Cielo che mi desse la pazienza necessaria.

«Stammi a sentire, Josephine, lo so che sei un piccolo genio…» Sembrava contenta di sentirselo dire. «Ma essere un genio non ti servirà a granché se non vivi abbastanza a lungo da goderti la tua vittoria. Non ti rendi conto, sciocchina, che finché ti ostini a mantenere il segreto sarai in pericolo?»

Lei annuì: «Certo che sì».

«Già due volte te la sei cavata per un soffio. Il primo attentato è quasi riuscito. Il secondo è costato la vita a un’altra persona. Non capisci che se continui ad andare in giro per la casa proclamando a gran voce che sai chi è l’assassino ci saranno altri attentati e tu o qualcun altro morirete?»

«In certi gialli le persone vengono uccise una dopo l’altra» mi spiegò Josephine con entusiasmo. «Alla fine si scopre l’assassino perché è praticamente l’unico sopravvissuto.»

«Questo non è un giallo. Qui siamo a Three Gables, Swinly Dean, e tu sei una ragazzina sciocca che ha letto troppi libri. Ma io ti farò cantare, dovessi scuoterti fino a farti battere i denti.»

«Potrei sempre raccontarti qualcosa di falso.»

«Potresti, ma non lo farai. Avanti, cosa stai aspettando?»

«Tu non capisci» disse Josephine. «Forse non parlerò mai. Non ti è passato per la testa che potrei… voler bene alla persona in questione?»

Si interruppe, come per lasciarmi digerire la rivelazione.

«Se invece parlerò,» proseguì «lo farò nel modo giusto. Riunirò tutti attorno a me, racconterò com’è andata nei minimi dettagli, svelerò gli indizi e poi, tutto a un tratto:

«“Sei stato tu!”»

Puntò platealmente il dito quando Edith de Haviland entrò nella stanza.

«Butta quel torsolo nel cestino, Josephine» le ordinò Edith. «Ce l’hai un fazzoletto? Hai le dita appiccicose. Vieni, andiamo a fare un giro in automobile.» Mi lanciò uno sguardo eloquente, poi continuò: «Per una o due ore sarai più al sicuro fuori di qui». Josephine accennò una protesta, ma Edith aggiunse: «Andiamo a Longbridge a prendere una soda con gelato».

Gli occhi di Josephine brillarono: «Due».

«Forse» disse la zia. «Ora va’ a prendere il cappello, il cappotto e la sciarpa blu. Oggi fa freddo. Charles, la accompagni in camera sua. Non la lasci sola. Ho un paio di biglietti da scrivere.»

Sedette al tavolo e io scortai Josephine fuori. Anche senza l’avvertimento di Edith, le sarei rimasto appiccicato come una sanguisuga.

Ero convinto che la sua vita fosse in serio pericolo.

Terminavo di sovrintendere alla toeletta di Josephine quando Sophia entrò nella stanza. Sembrava stupita.

«Charles, non ti facevo una bambinaia. Non sapevo nemmeno che fossi tornato.»

«Vado a Longbridge con zia Edith» si vantò Josephine. «Andiamo a mangiare i gelati.»

«Brrr, con questo freddo?»

«La soda con gelato è sempre buona» disse Josephine. «Quando hai freddo dentro, fuori sembra più caldo.»

Sophia aggrottò la fronte. Sembrava preoccupata, e rimasi colpito dal pallore del viso e dagli occhi cerchiati.

Tornammo nel salottino. Edith stava asciugando due buste con la carta assorbente. Si alzò bruscamente.

«Andiamo. Ho detto a Evans di preparare la Ford.»

Volò nell’atrio. La seguimmo.

Rividi le valigie con le etichette blu. Per qualche ragione, fui colto da una vaga inquietudine.

«È una bella giornata» disse Edith de Haviland infilandosi i guanti e guardando il cielo. La Ford Ten era già davanti all’ingresso. «L’aria è fredda, ma frizzante. Un’autentica giornata autunnale inglese. Che belli gli alberi con i rami spogli che si protendono verso il cielo, con quelle poche foglie dorate rimaste…»

Restò un attimo in silenzio, poi si voltò a baciare Sophia.

«Addio, cara» disse. «Non ti angustiare troppo. Ci sono cose che vanno affrontate e tollerate.»

Poi aggiunse: «Vieni, Josephine», e salì a bordo. Josephine si accomodò al suo fianco.

Ci salutarono con la mano mentre l’automobile si allontanava.

«Zia Edith ha ragione, è meglio allontanare Josephine per alcune ore. Però dobbiamo convincerla a dirci quello che sa, Sophia.»

«Probabilmente non sa un bel nulla. Si sta solo mettendo in mostra. Sai, a Josephine piace darsi delle arie.»

«No, Sophia, c’è dell’altro. Hanno scoperto che veleno c’era nella cioccolata?»

«Pensano che sia digitalina. Zia Edith la prende per il cuore. Tiene una boccetta di pillole in camera. L’hanno trovata vuota.»

«Dovrebbe mettere sotto chiave le sue medicine.»

«Lo fa, ma immagino che per qualcuno non sia stato difficile scoprire dove tiene la chiave.»

«Qualcuno? Chi?» Guardai di nuovo la pila di valigie. All’improvviso esclamai:

«Non devono partire. Bisogna impedirglielo.»

Sophia parve sorpresa.

«Roger e Clemency? Charles, non penserai…»

«Be’, tu hai qualche idea più precisa?»

Sophia tese le mani disperata.

«Non lo so, Charles» mormorò. «So solo che… che l’incubo non è ancora finito.»

«Hai ragione. Ci pensavo proprio durante il viaggio con Taverner.»

«Gli incubi sono così. Sei fra persone che conosci, le guardi in faccia… e poi, all’improvviso, le facce cambiano… non sono più facce conosciute, ma estranei… estranei crudeli…»

Poi esclamò:

«Andiamo fuori, Charles… Andiamo fuori. Fuori saremo al sicuro… Ho paura di stare in questa casa…»

25

Rimanemmo a lungo in giardino. Per una sorta di tacito accordo, evitammo di affrontare l’argomento che ci angosciava. Sophia mi parlò affettuosamente della donna morta, dei momenti trascorsi insieme, dei giochi che facevano da bambini con Nannie e dei racconti dell’anziana donna su Roger, sul loro padre e sugli altri fratelli e sorelle.

«Per lei erano come figli, sai? Tornò da noi solo durante la guerra, quando Josephine era ancora piccola ed Eustace un buffo ragazzino.»

Vedendo che i ricordi le davano sollievo, la incoraggiavo a continuare.

Ma cosa stava facendo Taverner? Interrogando tutti, probabilmente. Un’automobile partì con a bordo il fotografo della polizia e due uomini, poi giunse l’ambulanza.

Sophia ebbe un fremito. L’ambulanza ripartì poco dopo, e capimmo che il corpo di Nannie era stato portato via per l’autopsia.

Noi restammo seduti, poi passeggiammo per il giardino chiacchierando. Le parole erano un manto sempre più pesante sopra i nostri veri pensieri.

A un tratto Sophia rabbrividì.

«È tardi, sta calando la notte. Strano che zia Edith e Josephine non siano ancora tornate… Dovrebbero essere già qui…»

Un vago senso di disagio mi pervase. Cos’era successo? Edith aveva deciso di tenere la bambina alla larga dalla Casa Sbilenca?

Rientrammo. Sophia tirò tutte le tende. Il camino era acceso, e in quell’irreale atmosfera lussuosa d’altri tempi la stanza sembrava avere una sua armonia. Sui tavoli c’erano grandi vasi colmi di crisantemi.

Sophia suonò il campanello e una cameriera che avevo visto al primo piano ci portò il tè. Aveva gli occhi rossi e tirava su con il naso. Notai anche che ogni tanto si guardava alle spalle intimorita.

Magda ci raggiunse, mentre Philip si fece servire il tè in biblioteca. Magda si era preparata alla scena indossando un’impassibile maschera di dolore. Parlò poco o nulla. A un certo punto declamò:

«Dove sono Edith e Josephine? Si è fatto molto tardi.»

Ma sembrava sinceramente preoccupata.

Anch’io sentivo crescere in me una certa ansia. Chiesi se Taverner fosse ancora in casa, Magda rispose che non l’aveva visto allontanarsi. Andai a cercarlo e gli dissi che ero in pensiero per la signorina de Haviland e la bambina.

Fece subito una telefonata per dare istruzioni.

«Appena avrò notizie vi farò sapere» disse.

Lo ringraziai e tornai in salotto. Trovai Sophia con Eustace. Magda se n’era andata.

Lei mormorò:

«È successo qualcosa, Charles, deve essere successo qualcosa.»

«Mia cara Sophia, non è poi così tardi.»

«Perché vi agitate tanto?» chiese Eustace. «Saranno andate al cinema.» E uscì dalla stanza.

«Forse ha portato Josephine in un albergo» dissi a Sophia. «Oppure a Londra. Edith sapeva perfettamente che la bambina era in pericolo, forse meglio di noi.»

Sophia mi rispose con uno sguardo cupo che non riuscii a decifrare.

«Mi ha dato un bacio d’addio…»

Cosa c’entrava? Cosa stava cercando di dirmi o dimostrarmi? Le chiesi se Magda fosse preoccupata.

«La mamma? No, sta bene, lei. Non ha il senso del tempo. Sta leggendo l’ultima opera di Vavasour Jones, si intitola Ci pensa la donna ed è una divertente commedia gialla la cui protagonista è una sorta di Barbablù in gonnella. Secondo me è copiata di sana pianta da Arsenico e vecchi merletti, ma ha una bella parte femminile, una donna con la mania di rimanere vedova.»

Non dissi altro. Ci sedemmo, fingendo di leggere.

Verso le sei e mezzo arrivò Taverner. La sua espressione ci preparò al tenore di quanto stava per dirci.

Sophia si alzò in piedi.

«Ebbene?»

«Sono costernato. Cattive notizie. Ho fatto diramare un appello radio. Un automobilista ha visto una Ford, con un numero di targa che potrebbe corrispondere alla vostra, abbandonare la strada principale a Flackspur Heath per svoltare in direzione del bosco.»

«Non sarà… il sentiero che porta alla cava di Flackspur?»

«Sì, signorina Leonides.» Dopo una pausa, l’ispettore proseguì: «L’automobile è stata trovata nella cava. I due occupanti sono morti. Vi sarà di consolazione sapere che non hanno sofferto».

«Josephine!» gridò Magda, in piedi sulla soglia. La voce era stridula, quasi un gemito. «Josephine… la mia bambina.»

Sophia andò ad abbracciarla. «Aspettate un attimo» dissi io.

Le due lettere che Edith de Haviland stava scrivendo! Le aveva in mano quando era uscita nell’atrio.

Ma non quando era salita a bordo dell’auto.

Schizzai nell’atrio e mi avvicinai al lungo cassettone di quercia. Trovai le due buste nascoste dietro un bollitore d’ottone.

La prima era indirizzata a Taverner.

L’ispettore capo mi aveva seguito. Gliela consegnai e lui la aprì. In piedi accanto a lui, lessi il breve messaggio.

Prevedo che questa busta sarà aperta dopo la mia morte. Non desidero entrare nei dettagli, ma desidero assumermi ogni responsabilità per la morte di mio cognato Aristide Leonides e di Janet Rowe (Nannie). Dichiaro solennemente che Brenda Leonides e Laurence Brown non hanno assassinato Aristide Leonides. Il dottor Michael Chavasse, 783 Harley Street, vi confermerà che mi rimanevano pochi mesi di vita. Preferisco farla finita in questo modo e risparmiare a due innocenti il calvario di un’ingiusta accusa di omicidio. Mi dichiaro in pieno possesso delle mie facoltà mentali mentre scrivo queste parole.

Edith Elfrida de Haviland

Sollevando gli occhi dal foglio, mi accorsi che anche Sophia aveva letto la lettera, se con l’aiuto di Taverner o no non saprei dire.

«Zia Edith…» riuscì solo a mormorare.

Rividi l’implacabile tacco di Edith de Haviland che schiacciava il convolvolo. Mi tornarono in mente i sospetti quasi fantasiosi che all’inizio mi avevano sfiorato. Ma perché…

Sophia mi lesse nel pensiero.

«Ma perché Josephine? Come mai l’ha portata con sé?»

«Già, perché?» insistetti io. «Che ragione aveva?»

Ma la ragione mi fu chiara prima ancora che terminassi di formulare la domanda. Improvvisamente capii tutto. Mi accorsi che tenevo ancora in mano la seconda busta. La guardai e vi lessi il mio nome.

Era più spessa e più dura della prima. Sapevo già cosa conteneva. Strappai la busta e il taccuino nero di Josephine cadde a terra. Mentre lo raccoglievo, si aprì alla prima pagina…

Come se arrivasse da molto lontano, udii la voce di Sophia, chiara e controllata.

«Ci siamo sbagliati» disse. «Non è stata Edith.»

«No» confermai.

Sophia mi venne vicino e sussurrò:

«È stata Josephine, vero? È stata Josephine.»

Insieme leggemmo la prima frase del taccuino nero, scritta con una grafia informe da bambina.

Oggi ho ucciso il nonno.


 

26

Tempo dopo mi sarei domandato come avevo potuto essere così cieco. La verità era evidente, sin dall’inizio. Josephine e solo Josephine corrispondeva al profilo dell’assassino. La vanità, la presuntuosa tenacia, il piacere che provava a parlare, a sottolineare quanto lei fosse intelligente e quanto la polizia fosse stupida.

Non l’avevo presa in considerazione perché era una bambina, ma sapevo che esistono piccoli assassini, e quel particolare omicidio era senz’altro alla portata di un bambino. Lo stesso nonno le aveva praticamente suggerito il metodo, passo per passo. Le bastava non lasciare impronte digitali, e aveva letto abbastanza gialli per riuscirci. Il resto era un guazzabuglio di idee raccolte a caso dalle sue letture. Il taccuino, le indagini, i finti sospetti, l’ostinazione con cui dichiarava di non voler parlare prima di aver raccolto tutti gli elementi…

E infine l’attentato a se stessa. Un gesto incredibile, se consideriamo che aveva rischiato di uccidersi sul serio. Ma una simile possibilità non era nemmeno stata presa in considerazione da una mentalità infantile come la sua. Lei era l’eroina, e l’eroina non può morire. Eppure un indizio c’era: le tracce di fango sulla vecchia sedia nel lavatoio. Josephine era l’unico membro della famiglia che ne avrebbe avuto bisogno per mettere il leone di marmo in bilico sopra la porta. Evidentemente non era riuscita al primo tentativo (i segni sul pavimento), quindi, con pazienza, era montata di nuovo sulla sedia per rimettere a posto il leone, tenendolo con la sciarpa per non lasciare impronte. E quando il leone l’aveva centrata, era scampata alla morte per un soffio.

Una messa in scena perfetta, che aveva raggiunto in pieno lo scopo: dare l’impressione che Josephine fosse in pericolo, che “sapesse qualcosa”, che l’avessero aggredita!

Ora capivo perché aveva attirato la mia attenzione sul locale cisterne. E che era stata lei a mettere a soqquadro la propria camera prima di andare al lavatoio.

Tornata dall’ospedale, una volta scoperto che Brenda e Laurence erano stati arrestati, doveva aver provato una grande delusione. Il caso era chiuso e lei, Josephine, non era più sotto le luci della ribalta.

Così aveva preso la digitalina dalla camera della zia, mettendola nella tazza di cioccolata che aveva lasciato sul tavolo dell’atrio.

Sapeva che Nannie l’avrebbe bevuta? Può darsi. A giudicare da quanto mi aveva detto quella mattina, non sopportava i suoi continui rimproveri. Forse Nannie, con tutta l’esperienza di una vita in mezzo ai bambini, sospettava qualcosa? Secondo me Nannie sapeva, l’aveva sempre saputo, che Josephine non era normale. Uno sviluppo intellettuale così precoce era andato a discapito del senso morale. E poi, forse, occorreva considerare la convergenza di vari fattori ereditari, quella che Sophia chiamava la “crudeltà della famiglia”.

Josephine possedeva il crudele autoritarismo della famiglia della nonna e il crudele egoismo di Magda, che vedeva solo il proprio punto di vista. Ipersensibile come Philip, presumibilmente aveva sofferto per la propria bruttezza, per l’etichetta di “trovatella”. Infine, il vecchio Leonides le aveva trasmesso tutta la sua vena di disonestà. Era la nipote di Aristide Leonides e gli somigliava quanto a intelligenza e astuzia, ma l’amore che lui nutriva per la famiglia e gli amici lei lo aveva concentrato su se stessa.

Il vecchio Leonides doveva aver capito ciò che era sfuggito al resto della famiglia, e cioè che Josephine poteva essere un pericolo per gli altri e per sé. Le aveva impedito di andare a scuola perché temeva quello che avrebbe potuto fare. L’aveva protetta tenendola in casa, e ora capivo come mai avesse raccomandato a Sophia di prendersene cura.

Quanto all’improvvisa decisione di mandarla in Svizzera da parte di Magda, era dovuta ai timori per la figlia? Una paura inconscia, forse, dettata da un vago istinto materno.

E Edith de Haviland? Aveva forse sospettato, poi temuto e infine scoperto la verità?

Guardai la lettera che avevo in mano.

Caro Charles,

questa lettera è solo per lei, e per Sophia, se lo giudica opportuno. È necessario che qualcuno sappia la verità. Ho trovato il taccuino che accludo nella cuccia vuota dietro la casa. Josephine lo teneva nascosto lì. Conferma quello che già sospettavo. Ho ragione di agire come mi preparo a fare? Non lo so. La mia vita era comunque prossima alla fine, e non voglio che la bambina soffra come penso che soffrirebbe se dovesse essere chiamata a rispondere di quello che ha fatto.

Tante volte nella cucciolata c’è un piccolo che non ha “la testa a posto”.

Se ho sbagliato, che Dio mi perdoni. L’ho fatto solo per amore. Dio vi benedica.

Edith de Haviland

Esitai un attimo, quindi porsi la lettera a Sophia. Poi riaprimmo insieme il taccuino di Josephine.

Oggi ho ucciso il nonno.

Lo sfogliammo. Quelle pagine erano incredibili. Probabilmente uno psicologo le avrebbe trovate interessanti. Con spietata lucidità, Josephine esprimeva tutta la furia dell’egoismo soffocato. Il movente del delitto veniva illustrato con un linguaggio pietosamente infantile e inadeguato.

Il nonno non vuole che io vada a lezione di ballo, allora ho deciso di ucciderlo. Così andremo a vivere a Londra e a mamma non importerebbe se io vado a lezione di ballo.

Riporto solo alcuni brani, tutti emblematici.

Non voglio andare in Svizzera. Non ci vado. Se la mamma mi obbliga, ucciderò anche lei. Solo che non ho il veleno. Forse posso farlo con le bacche del tasso. Sono velenose, c’è scritto sul libro.

Oggi Eustace mi ha fatto arrabbiare tanto. Dice che sono solo una bambina incapace e che le mie indagini sono sciocchezze. Non mi considererebbe così sciocca se sapesse che l’assassina sono io.

Charles è simpatico, ma è così stupido. Non ho ancora deciso su chi farò ricadere la colpa del delitto. Forse su Brenda e Laurence…. Brenda è cattiva con me… dice che mi manca qualche rotella invece Laurence mi piace…. mi ha raccontato di Charlot Korday… la donna che uccise un uomo mentre faceva il bagno. Però non fu molto furba.

L’ultimo brano era illuminante.

Io odio Nannie… la odio… la odio… dice che sono solo una ragazzina. Dice che mi piace mettermi in mostra. Sta cercando di convincere la mamma a mandarmi all’estero… ucciderò anche lei. Con la medicina di zia Edith. Se c’è un altro delitto, la polizia torna e ricomincia il divertimento.

Nannie è morta. Sono contenta. Non ho ancora deciso dove nascondere la boccetta delle pillole. Forse in camera di zia Clemency, oppure di Eustace. Quando sarò vecchia e morirò, lascerò questo taccuino indirizzato al Capo della Polizia, e allora tutti sapranno che grande criminale ero.

Chiusi il taccuino. Sophia piangeva a dirotto.

«Oh, Charles… oh, Charles… è terribile! Era un mostriciattolo… eppure… eppure tutto questo è così commovente.»

Ero d’accordo.

Josephine mi piaceva… provavo ancora un certo affetto per lei… Non smetti di voler bene a una persona quando scopri che soffre di tubercolosi o di un’altra malattia grave. Josephine era un mostriciattolo, come aveva detto Sophia, ma era un mostriciattolo commovente. Era semplicemente nata con un difetto: la bambina sbilenca della Casa Sbilenca.

Sophia si riprese quanto bastava per farmi una domanda.

«Se fosse… sopravvissuta… cosa le sarebbe successo?»

«Probabilmente l’avrebbero mandata in riformatorio, o in una scuola speciale. Poi l’avrebbero rimandata a casa, o forse internata in un manicomio.»

Sophia rabbrividì.

«È meglio che sia andata così. Ma zia Edith… non mi piace l’idea che si sia presa tutta la colpa.»

«È stata una sua scelta. Dubito che la notizia verrà resa pubblica. Quando si arriverà al processo, immagino che Brenda e Laurence verranno assolti per non aver commesso il fatto.»

«E tu, Sophia,» le dissi con fermezza, prendendo le sue mani tra le mie «mi sposerai. Ho appena saputo che mi hanno nominato all’ambasciata in Persia. Partiremo insieme e tu potrai dimenticarti della piccola Casa Sbilenca. Tua madre potrà allestire i suoi drammi, tuo padre continuerà a comperare libri ed Eustace andrà all’università. Non dovrai più pensare a loro. Pensa a me.»

Sophia mi guardò negli occhi.

«Non hai paura di sposarmi, Charles?»

«E perché dovrei? La cattiveria della famiglia era concentrata nella povera piccola Josephine. Invece tu, Sophia, hai ereditato tutto il coraggio e la nobiltà d’animo dei Leonides. Tuo nonno ti stimava, e mi pare di aver capito che si sbagliava di rado. Coraggio, tesoro mio. Il futuro è nostro.»

«Sì, Charles, hai ragione. Io ti amo, ti sposerò e ti farò felice.» I suoi occhi si abbassarono sul taccuino. «Povera Josephine.»

«Povera Josephine» ripetei.

«Allora, chi è stato?» mi chiese mio padre.

Non mento mai al Vecchio.

«Non è stata Edith de Haviland, signore, ma Josephine.»

Mio padre annuì lentamente.

«Già» mormorò. «Lo sospettavo da tempo. Povera bambina…»