venerdì 10 dicembre 2021

IL CAPRO ESPIATORIO André Girard

 


IL CAPRO ESPIATORIO

André Girard 

Recensione

In questo saggio Girard spiega quel meccanismo della persecuzione e del sacrificio a cui già aveva dedicato "La violenza e il sacro". Ogni forma di potere, da quello religioso alla coesione sociale, deriva dalla violenza e dai meccanismi di persecuzione. Se avviene una crisi in una società 'sacra' (e qui rientrano anche le società laiche che hanno un che di sacro), bisogna trovare un colpevole e lo si trova in un individuo che in con quella crisi sociale non ha proprio niente a che vedere. Quando nella società insorgono ragioni di paura e insicurezza, un sentimento di odio si diffonde a tutta la società e tende a convergere minacciosamente su una sola vittima: è questa che Girard chiama capro espiatorio, un individuo o un animale che deve pagare al posto di altri, non perché sia particolarmente colpevole, ma perché la comunità non può trovare accordo se non unendosi contro qualcuno o qualcosa. 

[...]Caifa, che in quell’anno era il sommo sacerdote, disse loro: “Voi non capite nulla. Non vedete dunque come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”[...]

 IL CAPRO ESPIATORIO


I

GUILLAUME DE MACHAUT E GLI EBREI

Il poeta francese Guillaume de Machaut scriveva verso la metà del XIV secolo; il suo Jugement dou Roy de Navarre meriterebbe di essere conosciuto meglio. Certo, la parte principale dell’opera non è che un lungo poema in stile cortese, convenzionale quanto alla forma e al soggetto. Ma l’esordio è sorprendente. Descrive un succedersi confuso di avvenimenti catastrofici ai quali Guillaume dice di aver assistito prima di rinchiudersi terrorizzato dentro casa per attendervi la morte o la fine dell’indicibile sciagura. Alcuni avvenimenti sono completamente inverosimili, altri verosimili soltanto in parte. Eppure da questo racconto un’impressione si fa strada: qualcosa di reale dev’essere accaduto.

Ci sono dei segni nel cielo. Piovono pietre che ammazzano gli esseri viventi. Intere città sono distrutte dai fulmini. In quella dove viveva Guillaume – non ci dice quale – gli uomini muoiono in massa. Alcune di queste morti sono dovute alla malvagità degli Ebrei e dei loro complici tra i cristiani. Ma come riuscivano costoro a causare perdite così ingenti nella popolazione locale? Avvelenando i fiumi, fonte di approvvigionamento dell’acqua potabile. La giustizia celeste ha fatto luce su questi misfatti rivelando l’identità dei loro autori alla popolazione, che li ha massacrati dal primo all’ultimo. Eppure la gente continuava a morire, sempre più numerosa, fino a quel giorno di primavera in cui Guillaume sentì della musica per strada e le risate di uomini e donne. Era finito tutto e la poesia cortese poteva ricominciare.

La critica moderna, fin dalle sue origini nel XVI e XVII secolo, tende a non prestare a questi testi una particolare fede, e molte menti brillanti della nostra epoca sono convinte di far progredire ulteriormente questa consapevolezza critica esigendo una diffidenza sempre più forte. Quei testi che un tempo sembravano trasmettere informazioni reali, a furia di essere interpretati e reinterpretati da generazioni successive di storici, appaiono attualmente sospetti. Gli epistemologi e i filosofi, d’altra parte, attraversano una crisi radicale che contribuisce a far vacillare quella che una volta si chiamava la scienza storica. Agli intellettuali abituati a nutrirsi di testi non resta che rifugiarsi in disincantate considerazioni circa l’impossibilità di qualsiasi interpretazione sicura.

A prima vista il testo di Guillaume de Machaut può sembrare vulnerabile all’attuale clima di scetticismo in materia di certezza storica. Eppure ancora oggi non mancano lettori che individuano, dopo qualche riflessione, avvenimenti reali al di là dell’inverosimiglianza del racconto. Non credono né ai segni nel cielo, né alle accuse contro gli Ebrei, ma non considerano tutti i temi parimenti incredibili, non li mettono tutti sullo stesso piano. Guillaume non ha inventato niente. È un uomo credulo, certamente, e riflette un’opinione pubblica in preda all’isteria. Le innumerevoli morti di cui parla non sono meno reali per questo, essendo causate dalla famosa peste nera che devastò la Francia tra il 1349 e il 1350. Il massacro degli Ebrei è ugualmente reale, giustificato agli occhi della folla omicida dalle voci di avvelenamento che circolano ovunque. È il terrore universale della malattia a conferire a queste dicerie una credibilità sufficiente a scatenare simili massacri.

Ecco il passo del Jugement dou Roy de Navarre, dove si parla degli Ebrei:

Après ce, vint une merdaille
Fausse, traïtre et renoïe:
Ce fu Judée la honnie,
La mauvaise, la desloyal,
Qui bien het et aimme tout mal,
Qui tant donna d’or et d’argent
Et promist a crestienne gent,
Que puis, rivieres et fonteinnes
Qui estoient cleres et seinnes
En pluseurs lieus empoisonnerent,
Dont pluseurs leurs vies finerent;
Car trestuit cil qui en usoient
Assez soudeinnement moroient.
Dont, certes, par dis fois cent mille
En morurent, qu’a champ, qu’a ville,
Einsois que fust aperceüe
Ceste mortel decouvenue.

Mais cils qui haut siet et loing voit,
Qui tout gouverne et tout pourvoit,
Ceste traïson plus celer
Ne volt, eins la fist reveler
Et si generauement savoir
Qu’il perdirent corps et avoir.
Car tuit Juïf furent destruit,
Li uns pendus, li autres cuit,
L’autre noié, l’autre ot copée
La teste de hache ou d’espée.
Et meint crestien ensement
En morurent honteusement.1

Le comunità medioevali temevano a tal punto la peste da terrorizzarsi al solo udirne il nome; evitavano quant’era possibile di pronunciarlo e perfino di prendere le contromisure più urgenti, a rischio di aggravare le conseguenze delle epidemie. La loro impotenza era tale che riconoscere la verità non significava far fronte alla situazione, quanto piuttosto abbandonarsi ai suoi effetti disgregativi, rinunciare a ogni parvenza di vita normale. L’intera popolazione si lasciava andare con estrema facilità a false rappresentazioni di questo tipo, in una disperata volontà di negare l’evidenza che favoriva la caccia ai «capri espiatorii».2

In Les animaux malades de la peste, La Fontaine suggerisce mirabilmente questo sacro terrore a pronunciare la spaventosa parola, a scatenare in qualche maniera la sua potenza malefica nella comunità:

La peste (puisqu’il faut l’appeler par son nom)...3

Il favolista ci fa assistere al formarsi della malafede collettiva tramite il convincimento che l’epidemia sia un castigo divino. Il dio della collera è irritato da una colpa di cui non sono tutti ugualmente partecipi, e per allontanare il flagello occorre scoprire il colpevole e trattarlo di conseguenza o piuttosto, come scrive La Fontaine, «offrirlo in voto» alla divinità.

I primi interrogati, nella favola, sono bestie feroci che descrivono bonariamente il loro comportamento di animali da preda, che è immediatamente scusato. L’asino viene per ultimo ed è lui, il meno sanguinario e, per questo, il più debole e il meno protetto, ad essere alla fine prescelto.

Gli storici ritengono che in alcune città gli Ebrei siano stati massacrati prima dell’arrivo della peste, alle voci iniziali dell’avvicinarsi del suo contagio. Il racconto di Guillaume potrebbe corrispondere a un fenomeno di questo genere perché il massacro si verificò ben prima che l’epidemia avesse toccato il suo apice. Ma le numerose morti attribuite dall’autore al veleno giudaico suggeriscono una spiegazione diversa. Se queste morti sono reali – e non vi è ragione di considerarle immaginarie – non potevano essere le prime avvisaglie di un unico e più vasto flagello? Tuttavia Guillaume non prende in considerazione una simile ipotesi, nemmeno retrospettivamente. Ai suoi occhi i capri espiatorii tradizionali conservano il loro potere esplicativo per i primi stadi dell’epidemia. Soltanto per gli stadi successivi l’autore riconosce la presenza di un fenomeno propriamente patologico. L’ampiezza del disastro dovrebbe indebolire la tesi unica del complotto degli avvelenatori, ma Guillaume non reinterpreta l’intera sequenza di avvenimenti in funzione del loro autentico svolgimento.

Ci si può d’altronde chiedere fino a che punto il poeta riconosca la presenza della peste, dato che evita fino alla fine di scrivere nero su bianco la fatale parola. Nel momento decisivo introduce con solennità il termine di origine greca e ancora raro, a quanto sembra: epydimie. Nel suo testo questa parola non funziona, è evidente, come funzionerebbe nel nostro; non è un vero equivalente del termine temuto, è piuttosto una specie di sostituto, un nuovo modo per non chiamare la peste con il suo nome, insomma un nuovo capro espiatorio, ma questa volta puramente linguistico. Non è mai stato possibile – ci dice Guillaume – determinare la natura e la causa della malattia per la quale tante persone morirono in così poco tempo:

Ne fusicien n’estoit, ne mire
Qui bien sceüst la cause dire
Dont ce venoit, ne que c’estoit
(Ne nuls remede n’y metoit),
Fors tant que c’estoit maladie
Qu’on appelloit epydimie.4

Anche su questo punto Guillaume preferisce rimettersi alla pubblica opinione piuttosto che pensare autonomamente. Dal termine colto epydimie si sprigiona sempre, nel XIV secolo, un profumo di «scientificità» che contribuisce a rimuovere l’angoscia, un po’ come quei suffumigi odorosi che furono praticati per molto tempo agli angoli delle strade per attenuare gli effluvi pestilenziali. Una malattia chiamata con il suo giusto nome sembra quasi guarita, e allo scopo di darci una falsa impressione di controllo ribattezziamo frequentemente i fenomeni incontrollabili. Sono esorcismi verbali che non hanno perso il loro potere d’attrazione nelle situazioni in cui la nostra scienza rimane inefficace o illusoria. Rifiutandoci di nominarla, la stessa peste viene «offerta in voto» alla divinità. Vi è qui qualcosa di simile a un sacrificio in termini di linguaggio, piuttosto innocente se paragonato ai sacrifici umani che lo accompagnano o lo precedono, ma pur sempre analogo nella sua struttura essenziale.

Anche retrospettivamente, tutti i capri espiatorii collettivi reali o immaginari, gli Ebrei e i flagellanti, le piogge di pietre e l’epydimie, continuano a svolgere con tale forza la loro parte nel racconto di Guillaume che questi non scorge mai l’unità del flagello da noi denominato «peste nera». L’autore continua a percepire una molteplicità di disastri più o meno indipendenti o collegati soltanto grazie al loro significato religioso, un po’ come le dieci piaghe d’Egitto.

Pressoché tutto quanto ho appena detto risulta evidente, e noi tutti comprendiamo il racconto di Guillaume nello stesso modo: ai miei lettori non serve il mio aiuto. Eppure non è inutile insistere su questa lettura, la cui audacia e potenza ci sfugge, precisamente per la sua accettazione unanime e il suo non essere oggetto di controversie. L’unanimità attorno a questa lettura risale, letteralmente, a diversi secoli fa e non si è mai incrinata, e la circostanza è tanto più rimarchevole se consideriamo che è il frutto della più radicale delle reinterpretazioni. Noi non esitiamo a rifiutare il senso che l’autore attribuisce al suo testo. Affermiamo che non sa ciò che dice. A molti secoli di distanza noi moderni lo sappiamo meglio di lui e siamo in grado di rettificare le sue parole. Ci crediamo capaci di individuare una verità che l’autore non ha visto e, con audacia ancora maggiore, non esitiamo ad affermare che questa verità è lui stesso a fornircela, a dispetto della sua cecità.

Forse che tale interpretazione non merita un’adesione così universale? O siamo noi a mostrare un’indulgenza eccessiva nei suoi confronti? Per screditare una testimonianza giudiziaria è sufficiente provare che anche su un singolo punto il testimone manca di imparzialità, e in generale noi trattiamo i documenti storici alla stregua di testimonianze giudiziarie. Orbene, noi trasgrediamo questa regola in favore di un Guillaume de Machaut che forse non merita di essere considerato un’eccezione, e asseriamo la realtà delle persecuzioni di cui egli ci parla nel Jugement dou Roy de Navarre. Pretendiamo, insomma, di estrarre cose vere da un testo che si sbaglia grossolanamente su punti essenziali. E visto che abbiamo valide ragioni per diffidarne, non dovremmo considerarlo del tutto sospetto e rinunciare a qualunque certezza fondata su di esso, compresa la realtà fattuale della persecuzione?

Da dove deriva dunque la nostra stupefacente sicurezza nell’affermare che alcuni Ebrei sono stati realmente massacrati? Si presenta subito una prima risposta. Noi non leggiamo questo testo isolatamente. Esistono altri testi coevi che trattano lo stesso argomento, e ce ne sono alcuni che valgono più di quello di Guillaume, scritti da autori che si dimostrano meno creduli. Tutti insieme formano una fitta rete di dati storici al cui interno possiamo collocare il testo di Guillaume. Ed è specialmente grazie a questo contesto se riusciamo a separare il vero dal falso nel brano citato.

È vero del resto che le persecuzioni antisemite durante la peste nera sono un insieme di fatti relativamente ben conosciuto. Esiste quindi un sapere già acquisito che suscita in noi una certa aspettativa, alla quale il testo di Guillaume risponde. Una spiegazione del genere non è falsa sul piano dell’esperienza individuale e del contatto immediato con il testo, e tuttavia non soddisfa sotto il profilo teorico.

La rete di conoscenze storiche certamente esiste, ma i documenti che la compongono non sono mai molto più affidabili del testo di Guillaume, per ragioni sia analoghe sia differenti. Né siamo in grado di collocare compiutamente Guillaume in tale contesto poiché non sappiamo, come dicevo, dove si svolgono gli avvenimenti da lui riferiti, se a Parigi, a Reims, o in una terza città. In ogni caso il contesto non gioca un ruolo essenziale, ed è un fatto che il lettore moderno, pur non conoscendolo, pervenga alla stessa lettura da me sostenuta. Deduce la probabilità di massacri di vittime innocenti. Pensa di conseguenza che il testo dica il falso perché queste vittime sono innocenti, ma pensa allo stesso tempo che dica il vero poiché le vittime sono reali. Finisce comunque per distinguere il vero dal falso, esattamente come facciamo noi. Che cos’è a darci questo potere? Non ci converrebbe piuttosto seguire il principio di gettar via il cesto con tutte le mele non appena ne scopriamo una guasta? Non avremmo forse motivo di essere sospettosi per una simile mancanza di sospetto, per un residuo di ingenuità di cui l’ipercritica contemporanea ci avrebbe già liberato se le si fosse dato ascolto? Non dovremmo ammettere che ogni conoscenza storica è incerta e che non si può ricavare nulla da un testo come il nostro, nemmeno la realtà di una persecuzione?

A tutte queste domande bisogna rispondere con un no categorico. Lo scetticismo a oltranza non tiene conto della precipua natura del testo. Tra i suoi dati verosimili e quelli inverosimili esiste un rapporto peculiare. Certo, in un primo momento il lettore non può dire che un singolo elemento sia falso e un altro vero. Vede soltanto temi credibili o non credibili. Le morti che si moltiplicano sono credibili: potrebbe trattarsi di un’epidemia. Ma gli avvelenamenti non lo sono affatto, soprattutto nelle proporzioni massicce descritte da Guillaume. Nel XIV secolo non esistevano sostanze capaci di produrre effetti tanto nocivi. L’odio dell’autore per i presunti colpevoli è dichiarato, e rende la sua tesi estremamente sospetta.

Non si possono riconoscere questi due tipi di dati senza constatarne, almeno implicitamente, l’interazione. Se si tratta effettivamente di un’epidemia, essa potrebbe davvero infiammare i pregiudizi fino a quel momento assopiti. La brama persecutoria si polarizza volentieri sulle minoranze religiose, soprattutto in tempi di crisi. Inversamente, una persecuzione reale potrebbe giustificarsi in seguito al tipo di accuse di cui il credulo Guillaume si fa cassa di risonanza. Un poeta come lui non dovrebbe avere propensioni sanguinarie, e se presta fede alle storie che racconta è probabilmente perché a prestarvi fede sono tutti gli altri. Il testo ci suggerisce dunque l’esistenza di un’opinione pubblica sovraeccitata, pronta ad accogliere le dicerie più assurde. Suggerisce, insomma, uno stato di cose favorevole ai massacri che l’autore puntualmente racconta.

In un contesto di rappresentazioni inverosimili la verosimiglianza di alcune rappresentazioni le conferma e si trasforma in probabilità. Qui avviene l’inverso. In un contesto di rappresentazioni verosimili l’inverosimiglianza di alcune non può dipendere quasi mai da una «funzione affabulatoria» che si eserciterebbe gratuitamente, per il piacere di creare finzioni. Noi riconosciamo con sicurezza l’immaginario, ma non si tratta di un immaginario qualsiasi, bensì dell’immaginario che contraddistingue gli uomini assetati di violenza.

Fra tutte le rappresentazioni del testo esiste quindi una relazione di reciprocità, una corrispondenza di cui non si può dar conto se non seguendo un’unica ipotesi. Il testo che noi leggiamo deve radicarsi in una persecuzione reale, riferita secondo la prospettiva dei persecutori. Questa prospettiva è necessariamente ingannevole per il fatto che i persecutori sono convinti del giusto fondamento della loro violenza; essi si considerano dei giustizieri, e hanno quindi bisogno di vittime colpevoli, senonché questa loro prospettiva è vera solo in parte, perché la certezza di avere ragione incoraggia gli stessi persecutori a non occultare nulla dei loro massacri.

Di fronte a un testo come quello di Guillaume de Machaut è legittimo sospendere la regola generale secondo la quale un testo nella sua globalità, sotto il profilo delle informazioni reali, non ha mai un valore superiore al peggiore dei suoi dati. Se il testo descrive alcune circostanze favorevoli alla persecuzione, se ci presenta delle vittime appartenenti alla tipologia abitualmente scelta dai persecutori, e se, per soprammercato, presenta tali vittime come colpevoli del tipo di crimine che i persecutori attribuiscono in genere ai loro bersagli, ci sono forti possibilità che la persecuzione sia reale. Se il testo stesso afferma questa realtà, non vi è ragione di metterla in dubbio.

Non appena si percepisce la prospettiva dei persecutori, l’assurdità delle accuse, lungi dal compromettere il valore informativo di un testo, ne rafforza la credibilità, seppure soltanto riguardo alle violenze di cui il testo stesso si fa portavoce. Se Guillaume avesse aggiunto delle storie di infanticidio rituale alla sua vicenda di avvelenamento, il suo resoconto sarebbe ancora più inverosimile, ma non ne risulterebbe sminuita la certezza rispetto alla realtà dei massacri di cui ci parla. In questo genere di testi, più le accuse sono inverosimili, più rafforzano la verosimiglianza dei massacri: ci confermano la presenza di un contesto psicosociale in seno al quale i massacri dovevano quasi sicuramente verificarsi. Per converso, il tema dei massacri, giustapposto a quello dell’epidemia, fornisce il contesto storico in seno al quale anche un intellettuale in linea di massima raffinato potrebbe prendere la storia dell’avvelenamento sul serio.

Le rappresentazioni persecutorie indubbiamente mentono, ma in un modo troppo caratteristico dei persecutori in generale, e dei persecutori medioevali in particolare, perché il testo non dica il vero su tutti i punti dove conferma le congetture che è la natura stessa della sua menzogna a rendere verosimili. Quando i probabili persecutori affermano la realtà delle loro persecuzioni, gli si può ben dare ascolto.

È la combinazione di due tipi di dati che genera la certezza. Se si trovasse tale combinazione solamente in pochi casi, questa certezza non sarebbe completa. Ma la frequenza è troppo grande perché qualche dubbio possa sussistere. Solo la persecuzione reale, vista nell’ottica dei persecutori, può spiegare la regolare congiunzione di tali dati. La nostra interpretazione di questa categoria di testi è statisticamente sicura.

Tale carattere statistico non significa che la certezza poggi sull’accumulazione pura e semplice di documenti tutti ugualmente incerti. La qualità della nostra certezza è più alta. Tutti i documenti del tipo di quello di Guillaume de Machaut hanno un valore considerevole poiché vi si ritrovano la verosimiglianza e l’inverosimiglianza connesse in modo tale che l’una spiega e legittima la presenza dell’altra. Se la nostra certezza ha un carattere statistico, è perché qualsiasi documento, considerato singolarmente, potrebbe essere opera di un falsario. Le possibilità sono poche, ma non inesistenti sul piano del documento individuale. Sono invece nulle per quanto riguarda i grandi numeri.

La soluzione realistica che il mondo occidentale e moderno ha adottato per demistificare i «testi di persecuzione» è la sola possibile, ed è sicura in quanto è perfetta: rende perfettamente conto di tutti i dati che compaiono in questo tipo di testi. Non è l’umanitarismo o l’ideologia a dettarci una simile soluzione, sono delle ragioni intellettualmente probanti. Questa interpretazione non usurpa quindi il consenso praticamente unanime del quale gode, né la storia ha risultati più solidi da offrirci. Per lo storico «delle mentalità» una testimonianza in teoria degna di fede, cioè la testimonianza di un uomo che non condivide le illusioni di un Guillaume de Machaut, non avrà mai un valore pari a quello della terribile testimonianza dei persecutori o dei loro complici, tanto più rivelatrice in quanto inconsapevole. Il documento decisivo è quello di persecutori abbastanza ingenui da non cancellare le tracce dei loro crimini, a differenza della maggior parte dei persecutori moderni, troppo avveduti per lasciarsi dietro dei documenti che potrebbero essere utilizzati contro di loro.

Io definisco ingenui quei persecutori ancora sufficientemente convinti del loro buon diritto e non abbastanza diffidenti da camuffare o censurare i dati fondamentali della loro persecuzione. Questi dati appaiono nei loro testi ora in una forma veritiera e direttamente rivelatrice, ora in una forma ingannevole e indirettamente rivelatrice. Tutti i dati sono fortemente stereotipati ed è la combinazione dei due tipi di stereotipo, quello veritiero e quello ingannevole, a darci informazioni sulla natura dei testi.

 

 

Noi tutti oggi sappiamo individuare gli stereotipi della persecuzione. Vi è a questo riguardo un sapere che si è banalizzato, ma che non esisteva o quasi nel XIV secolo. I persecutori ingenui non sanno quello che fanno. Sono troppo provvisti di buona coscienza per ingannare scientemente i loro lettori, e presentano le cose così come le vedono realmente. Nel redigere i loro racconti non immaginano di consegnare alla posterità delle armi contro di loro. Questo è vero nel XVI secolo per la famigerata «caccia alle streghe», ed è ancora vero ai nostri giorni per le aree «arretrate» del nostro pianeta.

Ci muoviamo dunque in mezzo a constatazioni che riteniamo banali, e può essere che il lettore trovi di scarso interesse le prime evidenze che gli sto fornendo. Deve solo avere pazienza, e potrà presto constatare che la sua non è fatica sprecata; basta a volte un minimo spostamento per rendere insolito, perfino inconcepibile, ciò che nel caso di Guillaume de Machaut risulta scontato.

Dicendo questo – e il lettore lo avrà già pensato – contraddico alcuni princìpi che numerosi critici considerano intoccabili. Non ci si stanca di ripetere che non bisogna mai fare violenza a un testo. Ma di fronte a Guillaume de Machaut non ci sono mezze misure: o si fa violenza al testo, oppure si lascia perpetuare la violenza del testo contro vittime innocenti. Certi princìpi, che ai nostri giorni sembrano un antidoto di validità universale contro le intemperanze di alcuni interpreti, possono portare a conseguenze nefaste che chi crede di aver pensato a tutto considerandoli inviolabili semplicemente ignora. Si va ripetendo dappertutto che rispettare il significato dei testi è il primo dovere di un critico. Ma si può sostenere fino in fondo un tale principio di fronte alla «letteratura» di un Guillaume de Machaut?

Un’altra fissazione contemporanea fa una figura meschina alla luce di Guillaume de Machaut, o piuttosto alla luce della lettura che noi tutti ne diamo senza esitare, ed è la maniera disinvolta con cui i nostri critici letterari si affrettano a congedare il cosiddetto «referente». Nel gergo dell’odierna linguistica, il referente è la cosa stessa di cui un testo intende parlare, cioè in questo caso il massacro degli Ebrei, ritenuti responsabili dell’avvelenamento dei cristiani. Da una ventina d’anni ci viene ripetuto che il referente è praticamente inaccessibile. Poco importa d’altronde se siamo capaci o meno di accedervi; l’ingenua preoccupazione per il referente non può che ostacolare, a quanto si dice, lo studio modernissimo della testualità. Ormai importano solo i rapporti perennemente equivoci e scivolosi del linguaggio con se medesimo. Non che tutto sia da rifiutare in questa prospettiva, ma applicandola in maniera scolastica si rischia di vedere in Ernest Hoepffner, il curatore delle opere di Guillaume nella venerabile «Société des anciens textes français», il solo autentico critico di questo scrittore. La sua introduzione parla sì di poesia cortese, ma mai del massacro degli Ebrei durante la peste nera.

Il brano di Guillaume che ho citato costituisce un valido esempio di ciò che nel mio libro Des choses cachées depuis la fondation du monde ho chiamato «testi di persecuzione».5 Con tale espressione intendo i resoconti di violenze reali, spesso collettive, redatti nella prospettiva dei persecutori e quindi contrassegnati da inconfondibili distorsioni. Bisogna individuare queste distorsioni per rettificarle e per stabilire ciò che è arbitrario in tutte le violenze che il testo di persecuzione descrive come pienamente legittime.

Non è necessario esaminare a lungo il resoconto di un processo di stregoneria per constatare che vi si ritrova la stessa combinazione di dati reali e dati immaginari, ma non gratuiti, che abbiamo riscontrato nel testo di Guillaume de Machaut. Tutto è presentato come vero, ma noi non lo crediamo, anche se non per questo crediamo che tutto sia falso. Non abbiamo alcuna difficoltà, per ciò che è essenziale, a distinguere il vero dal falso.

Anche in questo caso i capi d’accusa sembrano ridicoli quantunque la strega li consideri reali, e benché vi sia ragione di pensare che le sue confessioni non siano state ottenute con la tortura. L’accusata può benissimo credersi una vera strega. Può darsi che si sia realmente sforzata di nuocere ai suoi vicini con l’impiego di pratiche magiche. Non per questo noi pensiamo che meriti la morte. Per noi non esistono pratiche magiche efficaci. Ammettiamo senza difficoltà che la vittima possa condividere con i suoi carnefici la stessa fede risibile nell’efficacia della stregoneria, ma questa fede non ci riguarda; il nostro scetticismo non ne viene scosso.

Durante questi processi non si leva nessuna voce per ristabilire, o piuttosto per stabilire, la verità. Nessuno è ancora capace di farlo. Ciò significa che abbiamo contro di noi, contro la nostra interpretazione dei loro testi, non soltanto i giudici e i testimoni, ma le stesse accusate. Questa unanimità non ci impressiona. Gli autori di questi documenti erano là, mentre noi non c’eravamo affatto e disponiamo soltanto delle informazioni che sono stati loro a lasciarci. Eppure, a diversi secoli di distanza, uno storico solitario, o addirittura il primo venuto, si ritiene abilitato ad annullare la sentenza pronunciata contro le streghe.6

È la stessa reinterpretazione radicale che abbiamo visto nell’esempio di Guillaume de Machaut, la stessa audacia nel rovesciamento dei testi, lo stesso tipo di operazione intellettuale e la stessa certezza, fondata sullo stesso genere di motivazioni. La presenza di dati immaginari non ci porta a considerare immaginario il testo nel suo insieme. Al contrario. Le accuse incredibili non sminuiscono ma rafforzano la credibilità degli altri dati.

Abbiamo ancora una volta un rapporto che sembra paradossale, ma in realtà non lo è, tra l’improbabilità e la probabilità dei dati che entrano nella composizione dei testi. È in funzione di questo rapporto, generalmente non formulato e nondimeno attivo nella nostra mente, che noi valutiamo la quantità e qualità dell’informazione che possiamo ricavare dal nostro testo. Se il documento è di natura legale, i risultati sono in genere positivi come nel caso di Guillaume de Machaut, o addirittura di più, ed è un peccato che la maggior parte dei resoconti sia stata bruciata assieme alle streghe. Le accuse sono assurde e la sentenza ingiusta, ma i testi sono redatti con la preoccupazione per l’esattezza e la chiarezza che caratterizza in genere i documenti legali. La nostra fiducia dunque non è mal riposta. E non ammette la possibilità di simpatizzare segretamente per i cacciatori di streghe. Uno storico che considerasse tutti i dati di un processo come ugualmente fantasiosi, con il pretesto che alcuni sono inficiati da distorsioni persecutorie, mostrerebbe di non conoscere il suo mestiere e non verrebbe preso sul serio dai colleghi. La critica più efficace non consiste nell’assimilare tutti i dati del testo al dato più inverosimile, con il pretesto che si peccherà sempre per difetto e mai per eccesso di diffidenza. Ancora una volta il principio della totale diffidenza deve cedere il passo di fronte alla regola aurea dei testi di persecuzione. La mentalità persecutoria suscita un certo tipo di illusione e le tracce di tale illusione, anziché negare, confermano la presenza, dietro il testo che ce ne parla, di un certo tipo di avvenimento, la persecuzione, la condanna a morte della strega. Non è dunque difficile – ripeto – distinguere il vero dal falso, entrambi resi riconoscibili dal loro carattere fortemente stereotipato.

Per comprendere i modi e i motivi della sicurezza straordinaria di cui diamo prova di fronte ai testi di persecuzione, bisogna enumerare e descrivere tali stereotipi. Anche in questo caso il compito non è difficile. Si tratta sempre di rendere esplicito un sapere che già possediamo, ma di cui non immaginiamo la portata perché non lo mettiamo mai in piena luce. Il sapere in questione resta prigioniero degli esempi concreti a cui lo applichiamo, e questi appartengono sempre all’ambito della storia, soprattutto occidentale. Fino ad oggi non abbiamo ancora cercato di applicare questo sapere al di fuori di tale ambito, ad esempio ai cosiddetti universi «etnologici». È per rendere possibile un simile tentativo che mi accingo ora a delineare, in modo peraltro sommario, una tipologia degli stereotipi della persecuzione.

II

GLI STEREOTIPI DELLA PERSECUZIONE

Mi occuperò solo delle persecuzioni collettive o dalle risonanze collettive. Per persecuzioni collettive intendo le violenze commesse direttamente da folle omicide, come il massacro degli Ebrei durante la peste nera. Per persecuzioni dalle risonanze collettive intendo violenze come la caccia alle streghe, legali nella loro forma, ma generalmente incoraggiate da un’opinione pubblica sovraeccitata. La distinzione non è comunque essenziale. Nei terrori politici, come quello della Rivoluzione francese in particolare, ritroviamo sovente entrambi i tipi. Le persecuzioni che ci interessano si svolgono di preferenza durante periodi di crisi che comportano l’indebolimento delle istituzioni esistenti e favoriscono la formazione di folle, cioè di assembramenti popolari spontanei, suscettibili di sostituirsi interamente a istituzioni indebolite o di esercitare su di esse una pressione determinante.

Le circostanze che favoriscono questi fenomeni non sono sempre le stesse. A volte si tratta di cause esterne come epidemie, o siccità prolungate e inondazioni, che provocano una carestia. A volte si tratta di cause interne, discordie politiche oppure conflitti religiosi. Fortunatamente l’individuazione delle cause reali non è per noi necessaria. Quali ne siano le cause effettive, le crisi che scatenano le grandi persecuzioni collettive sono sempre vissute all’incirca nello stesso modo da coloro che le subiscono. A dominare invariabilmente è l’impressione di una totale rovina del sociale stesso, la fine delle regole e delle «differenze» che definiscono gli ordini culturali. Le descrizioni si assomigliano tutte. Possono venire dai più grandi scrittori, ad esempio, nel caso della peste, da Tucidide e Sofocle fino ad arrivare al testo di Antonin Artaud, passando per Lucrezio, Boccaccio, Shakespeare, De Foe, Thomas Mann, e tanti altri ancora. Possono venire da individui privi di ambizioni letterarie, e non differiscono mai molto. Fatto non sorprendente, poiché sono descrizioni che hanno ossessivamente per oggetto la perdita di ogni differenza, l’indifferenziazione della stessa cultura con tutte le confusioni che ne derivano. Ecco ad esempio quanto scrive il monaco portoghese Francisco de Santa Maria nel 1697:

 

«Dal momento in cui divampa in un regno o in una repubblica questo fuoco violento e impetuoso, si vedono i magistrati frastornati, le popolazioni spaventate, il governo politico disarticolato. La giustizia non viene più rispettata; le attività si fermano; le famiglie perdono la loro coesione, e le strade la loro animazione. Tutto è ridotto in uno stato di estrema confusione. Tutto è rovina. Poiché tutto è colpito e sconvolto dal peso e dalla grandezza di una calamità così orrenda. Le persone, senza distinzione di condizione o di ricchezza, affogano in una tristezza mortale... Quelli che ieri seppellivano oggi sono seppelliti... Si nega qualsiasi pietà agli amici perché ogni forma di pietà è pericolosa...

«Dato che tutte le leggi dell’amore e della natura giacciono sommerse o dimenticate tra gli orrori di una confusione così grande, i bambini vengono all’improvviso separati dai genitori, le mogli dai mariti, i fratelli o gli amici tra di loro... Gli uomini perdono il loro coraggio naturale e, non sapendo più quale consiglio seguire, vagano disperati, simili a ciechi che inciampano a ogni passo sulla loro paura e sulle loro contraddizioni».7

 

Il crollo delle istituzioni cancella o appiattisce le differenze gerarchiche e funzionali, conferendo a ogni cosa un aspetto monotono e insieme mostruoso. In una società che non è in crisi, l’impressione della differenza è suscitata allo stesso tempo sia dalle diversità appartenenti al reale, sia da un sistema di scambi che differenzia, e quindi dissimula, gli elementi di reciprocità che esso necessariamente comporta, pena la possibilità di non costituire più un sistema di scambi, ossia una cultura. Gli scambi matrimoniali, ad esempio, o perfino lo scambio dei beni di consumo, non sono molto visibili in quanto scambi. Allorché una società precipita nella rovina, al contrario, i termini temporali si fanno pressanti, una reciprocità più rapida si instaura non solamente negli scambi positivi, che sussistono nella stretta misura del necessario (sotto forma di baratto, ad esempio), ma anche negli scambi ostili o «negativi», che tendono a moltiplicarsi. La reciprocità, che si fa visibile e per così dire si accorcia, non è quella dei buoni comportamenti bensì dei cattivi, è la reciprocità degli insulti, dei colpi, della vendetta e dei sintomi nevrotici. È per questo che le culture tradizionali non vogliono saperne di questa reciprocità troppo ravvicinata.

Anche se oppone gli uomini tra loro, questa reciprocità cattiva rende i comportamenti uniformi ed è all’origine di una predominanza del medesimo, sempre abbastanza paradossale perché essenzialmente conflittuale e solipsistica. L’esperienza dell’indifferenziazione corrisponde dunque a qualcosa di reale sul piano dei rapporti umani, il che non la rende meno mitica. Gli uomini, ed è quanto avviene anche nella nostra epoca, tendono a proiettarla sull’intero universo e ad assolutizzarla.

Il testo che ho appena citato mette bene in evidenza questo processo di uniformazione tramite la reciprocità: «Quelli che ieri seppellivano oggi vengono seppelliti... Si nega qualsiasi pietà agli amici perché ogni forma di pietà è pericolosa...»; «... i bambini vengono all’improvviso separati dai genitori, le mogli dai mariti, i fratelli o gli amici tra di loro...». L’identità dei comportamenti provoca un sentimento di confusione e di indifferenziazione universali: «Le persone, senza distinzione di condizione o ricchezza, sprofondano in una tristezza mortale...», «Tutto è ridotto in uno stato di estrema confusione».

L’esperienza delle grandi crisi sociali non è particolarmente influenzata dalla specificità delle cause reali. Da qui l’uniformità estrema di descrizioni che si basano sull’uniformità stessa. Guillaume de Machaut non fa eccezione. Egli vede nel ripiegamento egoista dell’individuo su se stesso e nel gioco di rappresaglie che ne scaturisce, cioè nelle sue conseguenze paradossalmente reciproche, una delle cause principali della peste. Si può dunque parlare di uno stereotipo della crisi, che va considerato, sotto il profilo logico e cronologico, come il primo stereotipo della persecuzione. È la cultura che in qualche modo si eclissa, indifferenziandosi. Una volta che lo si è compreso, si afferra meglio la coerenza del meccanismo persecutorio e il tipo di logica che collega tra loro tutti gli stereotipi che lo compongono.

Di fronte all’eclissarsi della cultura gli uomini si sentono impotenti; l’immensità del disastro li sconcerta, e non viene loro in mente di interessarsi alle sue cause naturali; l’idea di poter intervenire su tali cause imparando a conoscerle meglio resta allo stadio embrionale.

Poiché la crisi è innanzi tutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e specialmente morali. Sono i rapporti umani a disgregarsi, dopo tutto, e i soggetti di tali rapporti non possono dirsi completamente estranei al fenomeno. Ma, anziché incolpare se stessi, gli individui tendono inevitabilmente a far ricadere la colpa sia sulla società nel suo insieme, il che li porta alla deresponsabilizzazione, sia su altri individui che appaiono particolarmente nocivi, per ragioni non difficili da scoprire. I sospetti sono infatti accusati di un tipo particolare di crimini.

Certe accuse sono talmente caratteristiche delle persecuzioni collettive che al solo sentirle gli osservatori moderni le associano a un clima di violenza, e si mettono a cercare ovunque altri indizi capaci di corroborare il loro sospetto, ovvero altri stereotipi persecutorii.

A prima vista i capi d’accusa sono eterogenei, ma non è difficile riconoscerne l’unità. Vi sono innanzi tutto i crimini di violenza che hanno per oggetto gli esseri verso i quali la violenza è maggiormente esecrabile – vuoi in assoluto, vuoi in rapporto all’individuo responsabile di tali crimini: il re, il padre, il simbolo dell’autorità suprema, e a volte, nelle società bibliche e moderne, anche gli esseri più deboli e disarmati, in particolare i bambini.

Vi sono quindi i crimini sessuali, lo stupro, l’incesto, la bestialità. I crimini più frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più rigorosi vigenti in una determinata cultura.

Vi sono infine alcuni crimini religiosi, come la profanazione delle ostie. Anche in tal caso sono i tabù più severi ad essere trasgrediti.

Tutti questi crimini appaiono fondamentali, nel senso che attentano ai fondamenti stessi dell’ordine culturale, alle differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale. Nella sfera dell’azione individuale corrispondono dunque alle conseguenze globali di un’epidemia di peste o di un disastro analogo. Non si limitano ad allentare il legame sociale: lo distruggono alla radice.

I persecutori finiscono sempre per convincersi che un esiguo numero di individui, persino uno solo, possa arrecare un nocumento esiziale all’intera società, a dispetto della sua debolezza apparente. È l’accusa stereotipata a legittimare e facilitare un tale convincimento svolgendo, con ogni evidenza, un ruolo di mediazione. È tale accusa a fare da ponte tra la piccolezza dell’individuo e le proporzioni enormemente maggiori del corpo sociale. E se questi malfattori hanno il potere, persino diabolico, di indifferenziare l’intera comunità, è perché la colpiscono direttamente al cuore o alla testa, o perché hanno già commesso nella loro sfera individuale crimini contagiosamente indifferenziatori quali il parricidio, l’incesto, e così via.

Non dobbiamo preoccuparci delle cause ultime di questa credenza, ad esempio dei desideri inconsci di cui ci parlano gli psicoanalisti, o della segreta volontà di oppressione di cui parlano i marxisti. Noi ci collochiamo al di qua, e la nostra preoccupazione è più elementare: a interessarci è soltanto la meccanica dell’accusa, e l’intreccio reciproco di rappresentazioni e azioni persecutorie. Ci troviamo dinanzi a un sistema e se, per comprenderlo, abbiamo assolutamente bisogno di cause, è a quella più immediata ed evidente che dobbiamo guardare, al terrore ispirato agli uomini dall’eclissarsi della cultura, alla confusione universale che si traduce nell’insorgere della folla, portandola a non essere altro che una comunità letteralmente in-differenziata, priva di tutto ciò che differenzia gli uomini tra loro nel tempo e nello spazio: e in effetti essi si rassomigliano tutti, in modo disordinato e in un solo luogo nello stesso momento.

La folla tende sempre verso la persecuzione perché le cause naturali di ciò che la sconvolge, di ciò che la trasforma in turba, non possono interessarla. La folla, per definizione, cerca l’azione, ma non può agire sulle cause naturali. Cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza. I membri della folla sono sempre dei persecutori in potenza, poiché sognano di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la insidiano. Il diventare folla della folla è una cosa sola con il richiamo oscuro che la riunisce o che la mobilita, che in altre parole la trasforma in mob. È da mobile, in effetti, che viene questo termine inglese distinto da crowd, come in latino turba è distinto da vulgus.

La mobilitazione è solo militare o partigiana, ossia è rivolta contro un nemico già designato, o che lo sarà ben presto qualora non sia stato ancora identificato, per opera della stessa folla riunita grazie alla sua mobilità.

Durante la peste nera circolavano tutte le possibili accuse stereotipate contro gli Ebrei o altri capri espiatorii collettivi. Eppure Guillaume de Machaut non le nomina nemmeno. Ciò di cui accusa gli Ebrei, come abbiamo visto, è l’avvelenamento dei fiumi. Mette da parte le accuse più incredibili, e la sua relativa moderazione è forse dovuta alla sua qualità di «intellettuale». Questa moderazione può avere anche un significato più generale, legato all’evoluzione delle mentalità alla fine del Medioevo.

Nel corso di questa evoluzione la credenza nelle forze occulte si indebolisce. Più tardi cercheremo di capirne il perché. La ricerca dei colpevoli persiste, ma esige crimini più razionali: cerca di darsi un corpo del reato, di reperire una più convincente sostanza. Per questo – io credo – sfocia così di frequente nel tema del veleno. I persecutori sognano dei concentrati talmente venefici che ne basterebbero quantità minime per avvelenare intere popolazioni. Si tratta di zavorrare di materialità, cioè di logica «scientifica», la gratuità ormai troppo evidente della causalità magica. La chimica sostituisce il demoniaco puro e semplice.

Lo scopo dell’operazione resta sempre lo stesso. L’accusa di avvelenamento permette di addossare la responsabilità di disastri perfettamente reali a gente le cui attività criminali non sono state veramente scoperte. Grazie al veleno è possibile persuadersi che un piccolo gruppo, o anche un solo individuo, riesca a nuocere a un’intera società senza farsi scoprire. Il veleno riesce ad essere nello stesso tempo meno mitico e altrettanto mitico delle vecchie accuse o addirittura del puro e semplice «malocchio», grazie al quale si può attribuire a un qualunque individuo la responsabilità di qualsivoglia sciagura. L’avvelenamento delle fonti d’acqua potabile non è dunque altro che una variante dello stereotipo accusatorio.

La prova che simili accuse rispondono tutte allo stesso bisogno sta nel loro sovrapporsi durante i processi di stregoneria. Le indiziate sono sempre incolpate di partecipazione notturna al famoso sabba. Nessun alibi è possibile dal momento che la presenza fisica dell’accusata non è necessaria per stabilire la prova. La partecipazione alle riunioni criminali può essere puramente spirituale.

I crimini e i preparativi dei crimini di cui si compone il sabba sono ricchi di ripercussioni sociali. Si ritrovano gli abomini tradizionalmente attribuiti agli Ebrei in terra cristiana, e precedentemente ai cristiani nell’Impero romano. Si tratta sempre di infanticidio rituale, di profanazioni religiose, di rapporti incestuosi e di bestialità. Anche la preparazione dei veleni, però, svolge un ruolo importante in queste storie, come pure le trame colpevoli contro personaggi influenti o prestigiosi. A dispetto della sua insignificanza personale, quindi, la strega si dedica ad attività suscettibili di intaccare il corpo sociale nel suo insieme. Ed è per questo che il diavolo e i suoi demoni non disdegnano di allearsi con lei.

Non dirò altro sulle accuse stereotipate. Non è difficile vedere in che cosa consiste il secondo stereotipo e soprattutto il fattore che lo unisce al primo, quello della crisi indifferenziata.

Passo ora al terzo stereotipo. Le vittime di una folla possono essere del tutto aleatorie, come anche non esserlo. Può persino accadere che i crimini di cui le si accusa siano sì reali, ma senza essere per questo determinanti nella scelta dei persecutori, mentre invece lo è l’appartenenza delle vittime a certe categorie particolarmente esposte alla persecuzione. Tra i responsabili dell’avvelenamento dei fiumi, Guillaume de Machaut nomina per primi gli Ebrei. Di tutte le indicazioni che ci fornisce, questa ai nostri occhi è la più preziosa, la più rivelatrice della distorsione persecutoria. Nel contesto degli altri stereotipi, immaginari o reali, noi sappiamo che questo stereotipo dev’essere reale. Nella società occidentale e moderna, in effetti, gli Ebrei sono un ricorrente oggetto di persecuzione.

Le minoranze etniche e religiose tendono a polarizzare contro di sé le maggioranze. Vi è in questo un criterio di selezione vittimaria che è certo peculiare di ogni società, ma che è transculturale nel suo principio. Quasi non vi è società che non sottometta le proprie minoranze, i propri gruppi poco integrati o anche semplicemente distinti, a determinate forme di discriminazione se non di persecuzione. In India sono soprattutto i musulmani ad essere perseguitati e, in Pakistan, gli indù. Esistono quindi degli aspetti universali di selezione vittimaria, e sono questi a costituire il nostro terzo stereotipo.

Accanto ai criteri culturali e religiosi ve ne sono di puramente fisici. La malattia, la follia, le deformità genetiche, le mutilazioni accidentali e perfino le infermità in generale tendono a polarizzare i persecutori. Per rendersi conto che in questo vi è qualcosa di universale basta guardare intorno a sé, o anche dentro di sé. Ancora oggi molte persone non riescono a reprimere, al primo contatto, un leggero ritrarsi di fronte all’anormalità fisica. La parola stessa «anormale», come la parola «peste» nel Medioevo, ha qualcosa del tabù; è insieme nobile e maledetta, sacer in tutti i sensi del termine. Si giudica più decente sostituirla con la parola d’origine inglese «handicappato».

Gli «handicappati» sono ancora oggetto di misure propriamente discriminatorie e vittimarie sproporzionate al turbamento che la loro presenza può arrecare alla fluidità degli scambi sociali. È un segno di grandezza della nostra società che essa ormai si senta obbligata a prendere delle misure in loro favore.

L’infermità appartiene a un insieme strettamente connesso di segni vittimari, e in certi gruppi – come ad esempio in un internato scolastico – ogni individuo che provi delle difficoltà di adattamento, lo straniero, il provinciale, l’orfano, il figlio di famiglia, lo squattrinato o semplicemente l’ultimo arrivato, è più o meno intercambiabile con l’infermo.

Quando le infermità o le deformità sono reali, tendono a polarizzare gli spiriti «primitivi» contro gli individui che ne sono afflitti. Parallelamente, quando un gruppo umano ha preso l’abitudine di scegliere le sue vittime in una certa categoria sociale, etnica, religiosa, tende ad attribuire a tale categoria le infermità o deformità che rafforzerebbero la polarizzazione vittimaria se fossero reali. Questa tendenza si manifesta chiaramente nelle caricature razziste.

Non è soltanto nell’ambito fisico che si può trovare l’anormalità, bensì in tutti gli ambiti dell’esistenza e del comportamento. Ed è in tutti gli ambiti, quindi, che l’anormalità può servire da criterio preferenziale nella selezione dei perseguitati.

Vi è, ad esempio, una anormalità sociale, ed è la media in tal caso a definire la norma. Più ci si allontana dallo statuto sociale maggiormente diffuso, in un senso o nell’altro, e più aumentano i rischi di persecuzione. Lo si vede facilmente in coloro che si trovano in fondo alla scala sociale.

È invece meno visibile la circostanza per cui alla marginalità dei miseri, o marginalità dall’esterno, occorre aggiungerne una seconda, la marginalità dall’interno, quella dei ricchi e dei potenti. Il monarca e la sua corte fanno a volte pensare all’occhio di un uragano. Questa duplice marginalità suggerisce un’organizzazione sociale a vortice. In tempi normali, non v’è dubbio, i ricchi e i potenti godono di ogni sorta di protezioni e di privilegi, da cui i diseredati si trovano esclusi. Ma qui non sono le circostanze normali a interessarci, sono i periodi di crisi. Uno sguardo anche superficiale alla storia universale ci rivelerà che i rischi di morte violenta per mano di una folla scatenata sono statisticamente più elevati per i privilegiati che per qualsiasi altra categoria.

Al limite, sono tutte le qualità estreme ad attrarre, di tanto in tanto, i fulmini collettivi: non solamente gli estremi della ricchezza e della povertà, ma anche quelli del successo e dell’insuccesso, della bellezza e della bruttezza, del vizio e della virtù, del potere di seduzione e del potere di riuscire sgradevoli; è la debolezza delle donne, dei bambini, dei vecchi, ma è anche la forza dei più forti a trasformarsi in debolezza dinanzi al numero. Ed è quasi una legge che le folle si rivoltino contro coloro che hanno esercitato su di esse un eccezionale ascendente.

Penso che alcuni troveranno scandaloso annoverare i ricchi e i potenti tra le vittime delle persecuzioni collettive allo stesso titolo dei deboli e dei poveri. Ai loro occhi, i due fenomeni non sono simmetrici: i ricchi e i potenti esercitano sulla loro società un’influenza che giustifica le violenze di cui possono essere oggetto in periodi di crisi, in nome della sacrosanta rivolta degli oppressi.

A volte è difficile tracciare il confine tra discriminazione razionale e persecuzione arbitraria. Per ragioni politiche, morali, mediche, ecc., certe forme di discriminazione ci sembrano oggi ragionevoli, anche se rassomigliano ad antiche forme di persecuzione; è il caso ad esempio della messa in quarantena, in periodi di epidemia, di tutti gli individui che potrebbero essere contagiosi. Nel Medioevo i medici erano ostili all’idea che la peste potesse propagarsi attraverso il contatto fisico con i malati. Essi appartenevano in genere ad ambienti illuminati e ogni teoria del contagio rassomigliava troppo al pregiudizio persecutorio per non sembrare loro sospetta. Eppure questi medici avevano torto. Perché l’idea del contagio potesse riapparire e imporsi nel XIX secolo in un contesto puramente medico ed estraneo alla mentalità persecutoria, era necessario che non vi si potesse più sospettare il riaffiorare del vecchio pregiudizio sotto mentite spoglie.

La questione è interessante, ma non ha niente a che vedere con il presente lavoro. Il mio unico scopo è di enumerare i tratti che tendono a polarizzare le folle violente contro chi li possiede. A questo riguardo tutti gli esempi da me citati si presentano come indiscutibili. Il fatto che ancora oggi si possano giustificare alcune di queste violenze non ha molta importanza per il tipo di analisi che sto sviluppando.

Io non cerco di circoscrivere esattamente il campo della persecuzione, né cerco di determinare con precisione dove cominci e dove termini l’ingiustizia. Contrariamente a quanto pensano alcuni, non mi interessa assegnare voti buoni o cattivi all’ordine sociale e culturale. La mia sola preoccupazione è quella di dimostrare l’esistenza di uno schema transculturale, e a grandi linee facilmente ricostruibile, della violenza collettiva. L’esistenza di uno schema è una cosa, e un’altra è il fatto che questo o quel preciso avvenimento vi si possa inserire. Non è facile talvolta capirlo, ma non per questo la dimostrazione a cui tendo ne viene influenzata. Allorché si esita a riconoscere uno stereotipo persecutorio in questo o quell’aspetto particolare di un determinato avvenimento, non bisogna affrontare il problema sulla base di quell’unico aspetto, isolandolo dal suo contesto, ma bisogna domandarsi se accanto ad esso non si presentino anche gli altri stereotipi.

Faccio due esempi. La maggior parte degli storici pensa che la monarchia francese non sia senza responsabilità nella Rivoluzione del 1789. L’esecuzione di Maria Antonietta è dunque esterna al nostro schema? La regina appartiene a diverse categorie vittimarie elettive: non soltanto è regina, ma è anche straniera. La sua origine austriaca ricorre costantemente nelle accuse popolari. Il tribunale che la condanna è fortemente influenzato dalla folla parigina. Non manca nemmeno il nostro primo stereotipo: si ritrovano infatti nella Rivoluzione tutti gli aspetti caratteristici delle grandi crisi che favoriscono le persecuzioni collettive. Gli storici non hanno certo l’abitudine di trattare i dati della Rivoluzione francese alla stregua di elementi stereotipati pertinenti a un solo e identico schema persecutorio. Né pretendo che questo modo di pensare debba sostituirsi in assoluto alle nostre idee sulla Rivoluzione francese. Esso tuttavia getta una luce interessante su un’accusa sovente passata sotto silenzio, ma che figura esplicitamente nel processo alla regina: quella di aver commesso un incesto con suo figlio.8

Prendiamo adesso l’esempio di un altro condannato. Egli ha realmente commesso l’atto che scatena contro di lui le violenze della folla. Il Negro ha realmente violentato una donna bianca. La violenza collettiva cessa di essere arbitraria nel senso più evidente del termine. Essa sanziona realmente l’atto che pretende di sanzionare. Si potrebbe immaginare, a queste condizioni, che non vi siano distorsioni persecutorie e che la presenza degli stereotipi di persecuzione non abbia più il significato da me attribuito. In realtà, le distorsioni persecutorie sono presenti e non sono incompatibili con la verità letterale dell’accusa. La rappresentazione dei persecutori resta irrazionale, e inverte il rapporto tra la situazione globale della società e la trasgressione individuale. Se tra i due livelli esiste un legame causale o motivazionale, esso non può che procedere dal collettivo all’individuale. Ebbene, la mentalità persecutoria si muove nella direzione contraria. Invece di vedere nel microcosmo individuale un riflesso o un’imitazione del livello globale, essa cerca nell’individuo la causa e l’origine di tutto ciò che la minaccia. Reale o no, la responsabilità delle vittime subisce lo stesso ingrandimento fantastico. Per quello che ci interessa, insomma, non c’è molta differenza tra il caso di Maria Antonietta e quello del Negro perseguitato.

 

 

Esiste uno stretto rapporto, come abbiamo visto, tra i due primi stereotipi. Allo scopo di riferire alle vittime l’«indifferenziazione» della crisi le si accusa di crimini «indifferenziatori». Ma in realtà sono i loro segni vittimari a designare queste vittime per la persecuzione. Qual è il rapporto di questo terzo stereotipo con gli altri due? A prima vista i segni vittimari sono puramente differenziali. Ma anche i segni culturali lo sono. Devono esserci, dunque, due modi di differenziare, due tipi di differenze.

Non vi è cultura all’interno della quale ciascuno non si senta «differente» dagli altri e non giudichi legittime e necessarie le differenze. Lungi dall’essere radicale e progressista, l’esaltazione contemporanea della differenza non è che l’espressione astratta di una maniera di vedere comune a tutte le culture. In ogni individuo esiste la tendenza a sentirsi «più differente» di ogni altro rispetto agli altri e parallelamente esiste, in ogni cultura, la tendenza a ritenersi non solo differente dalle altre, ma la più differente di tutte, tanto che ogni cultura alimenta negli individui che ne fanno parte questo sentimento di «differenza».

I segni di selezione vittimaria non manifestano la differenza in seno al sistema, bensì la differenza al di fuori di esso, la possibilità per il sistema di differenziarsi dalla propria differenza, cioè di non differenziarsi affatto, di cessare di esistere in quanto sistema.

Lo si vede bene a proposito delle infermità fisiche. Il corpo umano è un sistema di differenze anatomiche. Se l’infermità, anche accidentale, inquieta, è perché trasmette un’impressione di dinamismo destabilizzante. Sembra minacciare il sistema in quanto tale. Si cerca di circoscriverla, ma non si può; essa sconvolge attorno a sé le differenze, che si fanno mostruose, precipitano, si comprimono, si mescolano e, portate al loro limite estremo, minacciano di cancellarsi. La differenza esterna al sistema è terrificante, poiché fa intravedere la verità del sistema, la sua relatività e fragilità, la sua mortalità.

Le categorie vittimarie appaiono pertanto già predisposte ai crimini indifferenziatori. Non è mai la loro differenza specifica a essere rimproverata alle minoranze religiose, etniche, nazionali; ciò che si rimprovera loro è di non differenziarsi nel modo giusto, al limite di non differenziarsi affatto. Gli stranieri sono incapaci di rispettare le «vere» differenze; non hanno buoni costumi o non hanno gusto, a seconda dei casi; non afferrano bene il quid della differenza in quanto tale. Barbaros non è chi parla un’altra lingua, ma chi confonde le sole distinzioni veramente significative, quelle della lingua greca. Dappertutto il vocabolario dei pregiudizi tribali, nazionali, ecc., esprime l’odio non tanto per la differenza, quanto per la sua mancanza. Non è l’altro nomos che si vede nell’altro, ma l’anomalia; non è l’altra norma, ma l’anormalità: l’infermo si muta in deforme, lo straniero diventa apolide. In Russia non è bene passare per cosmopolita. I meteci scimmiottano tutte le differenze perché non ne hanno. I meccanismi ancestrali si riproducono di generazione in generazione nell’inconsapevolezza del loro riprodursi, anche se bisogna ammettere che ciò spesso avviene a un livello meno letale rispetto al passato. Ai giorni nostri, ad esempio, l’antiamericanismo crede di «differenziarsi» da tutti i pregiudizi precedenti perché adotta tutte le differenze contro il virus indifferenziatore di provenienza esclusivamente americana.

Dovunque sentiamo dire che la «differenza» è perseguitata, ma questo discorso non appartiene necessariamente solo alle vittime, è il sempiterno discorso delle culture, che si fa sempre più astrattamente universale nel rifiuto stesso dell’universale, e che non può più presentarsi che sotto la maschera, ormai di rigore, della lotta contro la persecuzione.

Persino nelle culture più chiuse gli uomini si credono liberi e aperti all’universale: il carattere differenziale di ogni cultura fa sì che i campi culturali anche più angusti siano vissuti dal loro interno come inesauribili. Tutto ciò che compromette questa illusione ci terrorizza e risveglia in noi la tendenza immemoriale alla persecuzione. Questa tendenza imbocca sempre le medesime strade, sono sempre gli stessi stereotipi ad attuarla, e risponde costantemente alla stessa minaccia. Al contrario di quanto attorno a noi si ripete, non è mai la differenza a ossessionare i persecutori, è sempre il suo inconfessabile opposto: l’indifferenziazione.

Gli stereotipi della persecuzione sono inseparabili ed è rimarchevole infatti che la maggior parte delle lingue non li separi. Questo è vero per il latino e per il greco, ad esempio, come per il francese e per l’italiano che ci obbligano a ricorrere continuamente, nello studio degli stereotipi, a parole imparentate tra loro: crisecrisicrimecriminecritèrecriteriocritiquecritica. Parole che risalgono tutte alla stessa radice, allo stesso verbo greco, krino, che significa non solo giudicare, distinguere, differenziare, ma accusare e condannare una vittima. Non bisogna mai fidarsi troppo delle etimologie, e io non ragiono mai partendo da esse, ma il fenomeno è così regolare che non credo sia proibito osservarlo. Fa intravedere un rapporto ancora dissimulato tra le persecuzioni collettive e la dimensione culturale nel suo insieme. Se questo rapporto esiste, nessun linguista, filosofo o politico ne ha mai dato una spiegazione.

III

CHE COS’È UN MITO?

Ogniqualvolta una testimonianza orale o scritta documenta violenze direttamente o indirettamente collettive, ci chiediamo se essa includa anche: 1) la descrizione di una crisi sociale e culturale, ovvero la descrizione di una indifferenziazione generalizzata – primo stereotipo; 2) certi crimini «indifferenziatori» – secondo stereotipo; 3) se gli autori designati di questi crimini posseggano segni di selezione vittimaria, tratti paradossali di indifferenziazione – terzo stereotipo. Vi è poi un quarto stereotipo, che è la violenza stessa; ne parleremo più avanti.

È dalla giustapposizione di più stereotipi nello stesso documento che possiamo dedurre la persecuzione. Non è necessaria la presenza di tutti gli stereotipi. Ne bastano tre, sovente anche due. La loro presenza ci porta ad affermare che: 1) le violenze sono reali; 2) la crisi è reale; 3) le vittime sono scelte non in base ai crimini che vengono loro attribuiti, ma in base ai loro segni vittimari e a tutto ciò che suggerisce la loro colpevole affinità con la crisi; 4) il senso dell’operazione consiste nel far ricadere sulle vittime la responsabilità della crisi e nell’agire su questa distruggendo tali vittime o perlomeno espellendole dalle comunità che esse «inquinano».

Se questo schema è universale, dovremmo ritrovarlo in tutte le società. E in effetti gli storici lo ritrovano in tutte le società che rientrano nella loro sfera di competenza, oggi estesa all’intero pianeta e, per le epoche anteriori, nella società occidentale e in quelle subito precedenti, in particolare nell’Impero romano.

Gli etnologi, al contrario, non individuano mai lo schema persecutorio nelle società da loro studiate, e viene da chiedersi il perché. Due risposte sono possibili: 1) Le società «etnologiche» non ricorrono mai alle persecuzioni, o talmente poco da rendere inapplicabile il tipo di analisi condotta su Guillaume de Machaut. Questa è la soluzione preferita dal neoprimitivismo contemporaneo, che all’inumanità della nostra società contrappone la superiore umanità di ogni altra cultura. Nessuno tuttavia è arrivato al punto di sostenere che la persecuzione sia del tutto assente nelle società non occidentali. 2) La persecuzione è presente, ma noi non la vediamo sia perché non possediamo i documenti necessari, sia perché non sappiamo decifrare i documenti in nostro possesso.

Credo sia quest’ultima l’ipotesi giusta. Le società mitico-rituali non sono esenti dalle persecuzioni. E i documenti che dovrebbero permettere di dimostrarlo sono in nostro possesso: essi contengono gli stereotipi persecutorii appena elencati e rientrano nello stesso schema d’insieme a cui è riconducibile il trattamento degli Ebrei in Guillaume de Machaut. A rigor di logica dovremmo dunque applicare ad essi lo stesso tipo di interpretazione.

Questi documenti sono i miti. Per rendere più facile la mia dimostrazione comincerò con un mito esemplare in relazione a ciò che mi interessa. Esso contiene tutti gli stereotipi persecutorii che abbiamo considerato, e in forma clamorosa. Si tratta del mito di Edipo nell’Edipo re di Sofocle. Mi occuperò poi dei miti che riproducono anch’essi lo schema persecutorio ma in una forma meno agevole da decifrare. Passerò infine ai miti che respingono il suddetto schema, ma in maniera così evidente da confermarne la pertinenza. Procedendo dal più facile al più difficile, mostrerò come tutti i miti abbiano le proprie radici in violenze reali, rivolte contro vittime reali.

Comincio dunque con il mito di Edipo. La peste devasta Tebe: ecco il primo stereotipo persecutorio. Edipo ne è responsabile perché ha ucciso suo padre e sposato sua madre: ecco il secondo stereotipo. Per mettere fine all’epidemia, il responso dell’oracolo esige che si cacci via l’abominevole criminale. La finalità persecutoria è esplicita. Il parricidio e l’incesto servono apertamente da intermediari tra l’individuale e il collettivo; questi crimini sono a tal punto indifferenziatori che la loro influenza si estende per contagio all’intera società. Nel testo di Sofocle, constatiamo che indifferenziato e appestato sono tutt’uno.

Terzo stereotipo: i segni vittimari. Innanzi tutto l’infermità: Edipo zoppica. Questo eroe d’altronde è giunto a Tebe nella veste di uno sconosciuto, straniero di fatto se non di diritto. Infine, è figlio di re e re lui stesso, erede legittimo di Laio. Al pari di tanti altri personaggi mitici, Edipo riesce ad assommare in sé la marginalità dall’esterno e la marginalità dall’interno. Come Ulisse alla fine dell’Odissea, egli è ora straniero e mendico, ora onnipotente monarca.

L’unico dato di cui non si trova l’equivalente nelle persecuzioni storiche è la sua qualità di bambino esposto. Ciononostante, tutti concordano nel definire il bambino esposto come una vittima precoce, scelta per alcuni tratti di anormalità che non lasciano presagire nulla di buono e che mostrano una corrispondenza perfetta con i segni di selezione vittimaria sopra elencati. Il destino fatale promesso al bambino esposto è quello di farsi espellere dalla sua comunità. Il bambino esposto conosce solo salvezze provvisorie, il suo destino è tutt’al più differito, e la conclusione del mito verifica l’infallibilità dei segni oracolari che lo avevano votato sin dalla più tenera infanzia alla violenza collettiva.

Quanto maggiore è il numero di segni vittimari che un individuo possiede, tanto maggiori sono le probabilità che su di lui si abbatta la folgore. L’infermità di Edipo, il suo passato di bambino esposto, la sua situazione di straniero, di parvenu e di re, ne fanno un autentico concentrato di segni vittimari. Se il mito avesse i crismi del documento storico, ce ne accorgeremmo immediatamente, e ci interrogheremmo sulla funzione di tutti questi segni e degli altri stereotipi di persecuzione. La risposta non darebbe adito a dubbi: vedremmo certamente nel mito ciò che vediamo nel testo di Guillaume de Machaut, un resoconto di persecuzione redatto nella prospettiva di persecutori inconsapevoli. I persecutori si raffigurano la loro vittima così come la vedono veramente, e cioè colpevole, ma non nascondono le tracce oggettive della loro persecuzione. Penseremmo allora che dietro al testo debba esserci una vittima reale, scelta non in base ai crimini stereotipati dei quali è accusata e che non hanno mai contagiato di peste nessuno, ma in base a tutti i tratti vittimari elencati nel testo, e realmente capaci di polarizzare su chi li possiede il sospetto paranoico di una folla angosciata dalla peste.

Nel mito, come in Guillaume e nei processi per stregoneria, abbiamo accuse specificatamente mitologiche: il parricidio, l’incesto, l’avvelenamento morale o fisico della comunità. Tali accuse sono caratteristiche del modo in cui le folle scatenate si immaginano le loro vittime. Ma queste stesse accuse si combinano con criteri di selezione vittimaria che potrebbero essere reali. Come non credere che vi sia una vittima reale dietro un testo che ce la presenta come tale e che, da un lato, ce la fa vedere quale i persecutori generalmente la immaginano, e dall’altro quale realmente dev’essere pervenire scelta da persecutori reali? E la nostra certezza aumenta quando ci viene detto che l’espulsione di questa vittima accade in circostanze di crisi acuta tali da favorire effettivamente una persecuzione. Sono qui riunite tutte le condizioni che farebbero scattare automaticamente nel lettore moderno il tipo di interpretazione che sopra ho descritto, se il testo fosse «storico», quello stesso tipo di interpretazione che usiamo generalmente per tutti i testi redatti nella prospettiva dei persecutori. Perché mai ce ne asteniamo nel caso del mito?

Nel mito gli stereotipi sono più completi e perfetti di quanto non accada nel testo di Guillaume. Come credere che vi siano così riuniti solamente per caso, o in virtù di un’immaginazione del tutto gratuita, poetica e fantasiosa, che non c’entrerebbe nulla con la mentalità e con la realtà della persecuzione? Eppure è questo che ci chiedono di credere i nostri professori, giudicando me stravagante allorché suggerisco il contrario.

Mi si dirà che il mito di Edipo potrebbe essere un testo manipolato, se non del tutto inventato, forse da Sofocle stesso o da qualcun altro. Tendo sempre a partire dal mito di Edipo perché è esemplare quanto agli stereotipi persecutorii, e una simile perfezione la si deve, forse, all’intervento di Sofocle. Ma questo non cambia nulla, anzi. Se Sofocle migliora il mito per quanto riguarda gli stereotipi persecutorii, è perché a differenza dei nostri etnologi sospetta qualcosa. In lui l’ispirazione più profonda, come hanno sempre pensato coloro che volevano farne un «profeta», tende alla rivelazione di quello che nel mito è più essenzialmente mitico, della «miticità» in generale, che non consiste in una vaga aura letteraria, ma nella prospettiva che i persecutori hanno della propria persecuzione.

Come nelle persecuzioni medioevali, gli stereotipi persecutorii si ritrovano sempre insieme, nei miti – e questa congiunzione, statisticamente, non può non essere rivelatrice. Sono troppi i miti che rientrano nello stesso modello perché si possa attribuirne la ripetizione a qualcosa di diverso da persecuzioni reali. Pensare altrimenti non sarebbe meno assurdo che giudicare puramente immaginario quanto dice degli Ebrei Guillaume de Machaut.

Non appena ci troviamo di fronte a un testo considerato storico, sappiamo che solo un comportamento persecutorio e concepito da una mentalità persecutoria può operare l’accostamento degli stereotipi che caratterizzano molti miti. I persecutori credono di scegliere la loro vittima per i crimini che le attribuiscono e che ai loro occhi la rendono responsabile dei disastri a cui reagiscono perseguitandola. In realtà, essi sono guidati dai criteri persecutorii che poi ci trasmettono fedelmente, non per desiderio di istruirci, ma per mera ignoranza del loro valore rivelatore.

In La violence et le sacré9 ho avanzato per la prima volta l’ipotesi di una vittima reale e di una violenza collettiva reale alla radice del mito. La maggior parte dei critici non ha riconosciuto la legittimità di tale ipotesi. Persino coloro che, in apparenza, dovrebbero essere i più disposti ad accoglierla, l’hanno stranamente considerata soltanto una «favola delle origini alla Rousseau», una ripetizione dei miti fondatori. Non hanno riconosciuto il tipo d’interpretazione che io sposto in direzione del mito. Affermano che mi faccio delle illusioni sulle possibilità della ricerca storica in mitologia. Come potrei dare per certa la realtà della vittima se non dilatando i poteri dell’interpretazione?

Sono obiezioni rivelatrici. La persuasione dei critici è che l’unica regola applicabile a un testo palesemente contaminato da rappresentazioni immaginarie sia quella di avvalersi della «massima suspicione». In un testo – dicono – nessun dato ha una probabilità superiore al dato più improbabile. Se dovessimo attenerci a una simile regola, è evidente che dovremmo rinunciare a ricavare dal mito anche la più piccola informazione reale. Ma ciò che qui è più improbabile è la genesi della peste dal parricidio e dall’incesto, un tema sicuramente immaginario, ma che non rappresenta una buona ragione per dedurne che tutto lo sia. Al contrario. L’immaginazione che escogita tale tema non è di quelle che deliziano il solipsismo dei nostri letterati e non è nemmeno l’inconscio del soggetto psicoanalitico: è invece l’inconscio dei persecutori, quello stesso inconscio che inventa l’infanticidio rituale dei cristiani nell’Impero romano e degli Ebrei nel mondo cristiano. È la stessa immaginazione che inventa la storia dei fiumi avvelenati durante la peste nera.

Quando l’immaginazione dei persecutori prende la parola, non bisogna credere a quello che dice ad eccezione di ciò che potrebbe corrispondere: 1) alle circostanze reali della sua apparizione, 2) agli aspetti caratteristici delle sue vittime abituali, e 3) alle conseguenze che perlopiù ne derivano, ovvero la violenza collettiva. Se l’immaginazione dei persecutori non ci parla solamente di parricidi e di incesti che generano la peste, ma di tutto ciò che accompagna nell’universo reale questo genere di credenza, come di tutti i comportamenti che ne derivano, è probabile che su tutti questi punti essa asserisca il vero proprio perché sul primo punto asserisce il falso. Ecco che ritroviamo i nostri quattro stereotipi persecutorii, la stessa combinazione di verosimile e inverosimile che osserviamo nei testi storici, e che nei testi mitici non può significare altro che quanto le chiediamo di significare: la prospettiva in parte falsa e in parte vera che i persecutori coinvolti hanno della loro persecuzione.

Non è l’ingenuità a indurci a pensare così. La vera ingenuità è semmai quella che si dissimula dietro l’eccesso di scetticismo, incapace com’è di individuare gli stereotipi della persecuzione e di ricorrere all’interpretazione audace quanto legittima che essi richiedono. Il mito di Edipo non è un testo letterario come gli altri e neppure un testo psicoanalitico, ma è certamente un testo di persecuzione, e come tale è dunque opportuno trattarlo.

Mi si obietterà che applicare al mito un procedimento interpretativo elaborato nel campo degli studi storici non è cosa poi tanto ovvia. Ne convengo, ma gli studi di storia, come sopra ho mostrato, svolgono soltanto una parte secondaria nella decifrazione delle rappresentazioni persecutorie. D’altronde, se avessimo dovuto contare sulla storiografia, questa decifrazione non sarebbe mai partita, e in effetti essa ha preso forma solamente agli inizi dell’età moderna.

Se consideriamo reali le vittime di cui ci parlano i cacciatori di streghe, non è, in linea generale, perché siamo informati da fonti indipendenti, da fonti non controllate dagli accusatori. Certo, inseriamo il testo in una rete di conoscenze che lo illumina, ma questa stessa rete di conoscenze non esisterebbe se riservassimo ai testi di persecuzione storici lo stesso trattamento del mito di Edipo.

Noi non sappiamo dove si svolgano esattamente gli avvenimenti narrati da Guillaume de Machaut, come ho già detto, e al limite potremmo ignorarne tutte le circostanze, compresa l’esistenza della peste nera, ma questo non ci impedirebbe di concludere che un testo come il suo debba riflettere un fenomeno di persecuzione reale. La sola congiunzione degli stereotipi persecutorii basterebbe a illuminarci. Per quale ragione allora una simile congiunzione non dovrebbe bastare anche nel caso del mito?

La mia ipotesi non ha nulla di storico nel senso che i miei critici assegnano al termine. Essa è puramente «strutturale», come anche la nostra lettura delle rappresentazioni persecutorie nella storia. Sono la natura e il concatenamento degli stereotipi persecutorii che ci spingono a porre come postulato che un testo risalga a una persecuzione reale. Finché non si postula una simile genesi, non ci si può spiegare come e perché quegli stessi temi ritornino costantemente e si organizzino nello stesso modo. Non appena si postula questa genesi, invece, l’oscurità si dissolve, tutti i temi trovano una spiegazione perfetta e ogni obiezione è superata. Ecco perché abbiamo applicato tale genesi a tutti i testi storici che rientrano nello stesso schema persecutorio, e l’abbiamo fatto senza esitare, con la conseguenza che questo per noi non è più un postulato, bensì la pura e semplice verità dei testi. E abbiamo ragione. Resta da capire perché questa soluzione non ci venga in mente dinanzi a un mito come quello di Edipo.

Questa è la vera domanda e l’esigenza di darvi una risposta corretta mi ha spinto a meditare a lungo sul tipo di interpretazione che la nostra capacità di individuare gli stereotipi persecutorii ci rende naturale seguire. Finché parliamo di testi storici, questa interpretazione a noi risulta ovvia e ci sembra inutile ricostruirne le tappe. È proprio tale atteggiamento a impedirci di prendere le necessarie distanze e di riconoscere come si dovrebbe una intelligenza delle rappresentazioni persecutorie che ormai è in nostro possesso, ma che non padroneggiamo ancora completamente perché non è mai esplicitata sino in fondo.

Sappiamo, ma non sappiamo di sapere, e il nostro sapere resta prigioniero degli ambiti da cui ha preso originariamente le mosse. Non immaginiamo le potenzialità in esso racchiuse una volta fatto uscire da tali ambiti. I miei critici non riescono, alla lettera, a riconoscere il loro stesso sapere quando lo applico al mito di Edipo.

Non posso tuttavia rimproverarli per questa loro incoerenza: io per primo non ho compreso per lungo tempo la vera natura della mia ipotesi. Credevo che il mio lavoro si innestasse su quello di Freud e di altri ermeneuti moderni sempre contestabili e contestati. I miei critici non fanno altro che condividere il medesimo errore. Immaginano che i miei sorprendenti risultati siano dovuti a un nuovo rilancio «metodologico» ancor più contestabile dei precedenti. Se non riconoscono il criterio interpretativo a cui essi stessi ricorrono, non è perché io in qualche modo lo modifichi, ma perché gli assegno un nuovo campo di applicazione, lo faccio uscire dal suo abituale contesto. Tale criterio dovremmo riconoscerlo, ma non lo facciamo. Ne vediamo solamente l’audacia, non ciò che la giustifica. Fa l’effetto di un pesce fuor d’acqua, di cui non si sa bene cosa pensare. I miei critici lo giudicano l’ultima bizzarra creatura partorita dallo spirito contemporaneo. La maggior parte delle obiezioni che mi vengono mosse si basa su questo errore. Io stesso non ho fatto altro che alimentare il malinteso tirandomi fuori con lentezza dalle secche su cui si è arenata l’interpretazione contemporanea.

Tutto quello che dico sulla mitologia risulterebbe evidente, fin troppo evidente, qualora si trattasse di un documento universalmente riconosciuto come «storico». Se i miei lettori non ne fossero ancora convinti, li convincerò subito con un piccolo esperimento. Truccherò rozzamente la storia di Edipo e la priverò del suo abito greco per darle una veste più occidentale, anche se così ne diminuirò l’enorme prestigio. Non preciso né il luogo né la data dell’avvenimento ipotizzato. La buona volontà del lettore farà il resto, e le basterà collocare il mio racconto in un qualche angolo del mondo cristiano tra il XII e il XIX secolo per far scattare automaticamente, come in un congegno a molla, l’operazione interpretativa che nessuno si sogna mai di effettuare su un mito fintanto che risulta nominalmente classificabile come tale.

 

«I raccolti sono scarsi, le vacche abortiscono: regna la discordia. Si direbbe che sul villaggio sia stato gettato il malocchio. È stato sicuramente lo zoppo, la cosa è chiara. Un bel giorno è arrivato, non si sa bene da dove, e si è installato come fosse a casa sua. Si è perfino preso la libertà di sposare l’ereditiera più in vista del villaggio e di farle mettere al mondo due figli: sembra che a casa loro se ne vedano di tutti i colori! Si sospetta lo straniero di aver fatto fare una brutta fine al primo marito della moglie, una specie di signorotto locale, scomparso in circostanze misteriose e sostituito un po’ troppo presto in entrambi i ruoli dal nuovo arrivato. Un bel giorno i giovanotti del villaggio ne hanno abbastanza: imbracciano le loro forche e costringono l’inquietante personaggio a sloggiare».

 

Qui nessun lettore ha la minima esitazione. Tutti vanno d’istinto verso l’interpretazione da me sostenuta. Tutti capiscono che la vittima non ha fatto forse nulla di ciò che le si rimprovera, ma che in lei tutto contribuisce a trasformarla in valvola di sfogo dell’irritazione o dell’angoscia dei suoi compaesani. In questa breve storia tutti intuiscono senza difficoltà il rapporto tra verosimile e inverosimile. Nessuno sosterrà che si tratta di una favoletta innocente; nessuno vi vedrà l’opera di un’immaginazione gratuitamente poetica oppure desiderosa di illustrare «i meccanismi fondamentali del pensiero degli uomini».

Eppure nulla è mutato. Abbiamo la stessa struttura del mito poiché si tratta di un suo rozzo plagio, con la differenza che il criterio interpretativo applicato stavolta non scatta a motivo dell’inserimento o non inserimento del testo in una rete di conoscenze storiche che lo illuminerebbero dal di fuori. È bastato un cambiamento di scenario per orientare l’interprete verso una lettura che egli respingerebbe con indignazione se il testo gli fosse presentato sotto una forma «propriamente» mitologica. Trasportate la nostra storia fra i Polinesiani oppure fra gli Indiani d’America e vedrete riapparire il rispetto cerimonioso che caratterizza i grecisti di fronte alla versione ellenica del nostro mito, unitamente allo stesso ostinato e immancabile rifiuto dell’interpretazione più efficace. Quest’ultima è riservata esclusivamente al nostro universo storico, per delle ragioni che dovremo cercar di scoprire.

A palesarsi dunque è una vera e propria schizofrenia culturale, e la mia ipotesi sarebbe di qualche utilità anche se il suo unico risultato fosse quello di renderla manifesta. Interpretiamo i testi non per quello che sono realmente, ma per la loro veste esteriore, si sarebbe quasi tentati di dire per il loro involucro commerciale. Basta modificare leggermente la presentazione di un testo per inibire o viceversa far scattare l’unica demistificazione veramente radicale a nostra disposizione, e nessuno è cosciente di questo stato di cose.

Finora mi sono limitato a parlare di un mito che io stesso considero esemplare sotto il profilo delle rappresentazioni persecutorie, ma bisogna occuparsi anche dei miti che non lo sono. La loro rassomiglianza con i testi di persecuzione non è altrettanto evidente, e tuttavia, se ci mettiamo alla ricerca dei nostri quattro stereotipi, li troveremo senza difficoltà in un buon numero di essi, sebbene in forme più trasfigurate.

Spesso l’inizio di questi miti si riduce a un unico aspetto. Il giorno e la notte sono confusi. Il cielo e la terra comunicano tra loro: gli dèi circolano tra gli uomini e gli uomini tra gli dèi. Tra la divinità, l’uomo e la bestia non vi è una distinzione netta. Il sole e la luna sono fratelli gemelli: sono in eterna lotta tra loro e non si possono distinguere. Il sole è troppo vicino alla terra: la siccità e il calore rendono la vita insopportabile.

A prima vista, non vi è nulla in questi inizi del mito che si possa ricollegare ad alcunché di reale. È chiaro comunque che si tratta di indifferenziazione, e le grandi crisi sociali che favoriscono le persecuzioni collettive vengono vissute come un’esperienza di indifferenziazione. È appunto l’elemento che ho evidenziato nel capitolo precedente. Ci si può dunque domandare se non ci ritroviamo anche qui di fronte al nostro primo stereotipo persecutorio, questa volta però del tutto trasfigurato e stilizzato, ridotto alla sua espressione più semplice.

Questa indifferenziazione mitica possiede a volte delle connotazioni idilliache di cui mi occuperò in seguito, ma più frequentemente riveste un carattere catastrofico. Il giorno e la notte confusi tra loro significano assenza di sole e deperimento di ogni cosa. Il sole troppo vicino alla terra significa che l’esistenza è ugualmente invivibile per la ragione opposta. I miti a cui si attribuisce l’operazione di «inventare la morte» in realtà non la inventano, ma la distinguono nettamente dalla vita, mentre «in principio» l’una e l’altra sono confuse. Questo significa – credo – che è impossibile vivere senza morire, ossia che, ancora una volta, l’esistenza è invivibile.

L’indifferenziazione «primordiale», il caos «originario» hanno spesso un carattere fortemente conflittuale. Gli elementi indistinti si battono senza tregua per distinguersi gli uni dagli altri. Questo tema è particolarmente sviluppato nei testi post-vedici dell’India brahmanica. Tutto inizia sempre con una battaglia interminabile e incerta tra dèi e demoni che si assomigliano talmente da non poterli distinguere. Insomma, è sempre la cattiva reciprocità, troppo convulsa e troppo visibile, che uniforma i comportamenti durante le grandi crisi sociali suscettibili di scatenare le persecuzioni collettive. L’indifferenziazione non è altro che la traduzione parzialmente mitica di questo stato di cose. Bisogna associarvi il tema dei gemelli o dei fratelli nemici, che illustra l’indifferenziazione conflittuale in modo particolarmente emblematico; è senza dubbio questa la ragione che fa di tale tema uno dei punti di partenza mitologici più classici fra le culture dell’intero pianeta.

È stato Lévi-Strauss a scoprire per primo l’unità di numerosi inizi mitici ricorrendo al concetto di indifferenziazione o indifferenziato. Tuttavia, questo indifferenziato ai suoi occhi ha un valore semplicemente retorico e serve solo da sfondo al dispiegarsi delle differenze. Di riallacciare questo tema a condizioni sociali reali non se ne parla nemmeno. Appare chiaro come non vi sia stata finora alcuna speranza di interrogare concretamente il mito circa i suoi rapporti con la realtà. I nostri quattro stereotipi della persecuzione hanno modificato questo stato di cose, e se ritroviamo gli altri tre stereotipi nei miti il cui inizio ha i caratteri che ho appena descritto, sarà legittimo concluderne – penso – che l’indifferenziazione iniziale costituisca una versione schematica, ma nondimeno riconoscibile, del primo stereotipo.

Non ho bisogno di dilungarmi sul secondo. Tutti i crimini che i persecutori attribuiscono alle loro vittime riappaiono, come regola generale, nei miti. In alcune mitologie, e particolarmente in quella greca, succede che questi crimini non siano davvero trattati come tali; non vi si assegna grande importanza, sono scusati o minimizzati, ma non per questo sono meno presenti, e alla lettera se non nello spirito corrispondono in pieno al nostro stereotipo. Nei miti più «selvaggi» – per non dire più «primitivi», giacché il termine è ormai vietato – i protagonisti sono dei trasgressori temibili che vengono presentati come tali. Per questo motivo attirano su di sé un castigo che assomiglia stranamente al destino che subiscono le vittime delle persecuzioni collettive. Spesso si tratta di una sorta di linciaggio. Su questo punto capitale, insomma, i miti che io definisco «selvaggi» sono ancora più vicini di quello di Edipo ai fenomeni di folla a cui cerco di collegarli.

Non ci resta ormai che un solo stereotipo da ritrovare in questi miti: il segno preferenziale della selezione persecutoria. E non ho certo bisogno di sottolineare che la mitologia mondiale sovrabbonda di zoppi, orbi, monchi, ciechi e infermi di ogni tipo. Né vi è scarsità di appestati.

Accanto a questi eroi segnati dalla sorte ve ne sono anche alcuni di eccezionale bellezza, esenti da difetti. Ciò non vuol dire che la mitologia possa essere letteralmente qualunque cosa, ma che essa privilegia gli estremi, il che, come abbiamo già notato, corrisponde a un altro carattere della polarizzazione persecutoria.

Nei miti ritroviamo l’intera gamma dei segni vittimari. Se non ce ne accorgiamo è perché abbiamo in mente soprattutto l’appartenenza delle vittime a una minoranza etnica o religiosa a noi nota, un segno che non può riapparire tale e quale nella mitologia, dove non troviamo né Ebrei né Negri perseguitati. Ritengo tuttavia che noi disponiamo del loro equivalente in un tema che svolge un ruolo centrale in tutte le parti del mondo: quello dello straniero collettivamente cacciato o assassinato.10

La vittima è un uomo proveniente da un altro luogo, uno straniero di riguardo, invitato a una festa che si conclude con il suo linciaggio. Per quale motivo? Perché ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto: il suo comportamento è considerato funesto, un suo gesto viene mal interpretato. Anche in questo caso, basta presupporre una vittima reale, uno straniero in carne e ossa, e tutto trova la sua spiegazione. Se lo straniero si comporta in un modo strano o offensivo agli occhi dei suoi ospiti, è perché si conforma a norme estranee. Oltre una certa soglia di etnocentrismo, lo straniero si trasforma in un essere propriamente mitologico, nel bene e nel male, per cui il minimo malinteso rischia di far precipitare gli eventi. Si può individuare dietro il tema del forestiero assassinato e poi divinizzato una forma di «provincialismo» talmente estrema da essere per noi irriconoscibile, in modo analogo alla nostra incapacità di percepire i suoni e i colori al di là o al di qua di una certa lunghezza d’onda. Anche in questo caso, per riportare le interpretazioni troppo filosofiche a un livello più facilmente accessibile basterebbe collocare questi temi mitici in un ambiente occidentale e paesano. Si capirebbe allora subito di che cosa si tratta, come nella breve trasposizione edipica precedente. Un’appropriata ginnastica intellettuale e soprattutto una venerazione meno sterile per tutto ciò che non appartiene all’Occidente moderno ci insegneranno rapidamente ad allargare il campo del riconoscibile e dell’intelligibile nella mitologia.

Non è necessario esaminare i miti più da vicino per constatare che un gran numero di essi contiene i nostri quattro stereotipi di persecuzione; ve ne sono alcuni, certo, che ne contengono solamente tre, due, uno, o apparentemente nessuno. Non me ne dimentico, anche se adesso non dispongo ancora degli elementi per analizzarli in modo efficace. Cominciamo a osservare che le rappresentazioni persecutorie già decifrate costituiscono un vero filo d’Arianna utile a orientarsi nel labirinto della mitologia. Esse ci permetteranno di ricondurre alla loro autentica origine, cioè alla violenza collettiva, anche i miti che non contengono alcuno stereotipo di persecuzione. Lungi dal contraddire la nostra tesi, come vedremo più avanti, o dall’esigere improbabili acrobazie per recuperarla, i miti del tutto privi di stereotipi persecutorii ne daranno la più clamorosa conferma. Per il momento bisogna proseguire l’analisi dei miti che contengono i nostri stereotipi ma sotto una forma un po’ meno facile da individuare rispetto alle persecuzioni medioevali o al mito di Edipo, in quanto più trasfigurata.

Questa trasfigurazione più estrema non scava un abisso insanabile tra i miti e le persecuzioni già decifrate. Si può infatti definire in una sola parola il tipo a cui essa appartiene: il suo essere propriamente mostruosa.

Dal Romanticismo in poi si tende a vedere nel mostro mitologico una vera e propria creazione ex nihilo, una pura invenzione. Si attribuisce all’immaginazione il potere assoluto di concepire forme che non esistono da nessuna parte in natura. L’esame dei mostri mitologici non rivela niente di simile. Abbiamo sempre a che fare con elementi presi da alcune forme esistenti, che nel mostro si combinano e mescolano pur aspirando a recuperare la loro specificità. E così il Minotauro è una mescolanza di uomo e di toro. Lo stesso vale per Dioniso, anche se in lui è la divinità a colpire l’attenzione, più che il mostro o la mescolanza di forme.

Bisogna pensare il mostruoso partendo dall’indifferenziazione, ovvero da un processo che di per sé non intacca in alcun modo il reale, ma ne intacca piuttosto la percezione. Accelerandosi, la reciprocità conflittuale non si limita a suscitare l’impressione, in sé ancora vera, di comportamenti identici negli antagonisti, ma arriva a scomporre quanto percepiamo e a farsi vertiginosa. I mostri devono essere il risultato di un frammentarsi della percezione, di una scomposizione seguita da una ricomposizione che non tiene conto delle specificità naturali. Il mostro è un’allucinazione instabile che tende retrospettivamente a cristallizzarsi in forme stabili, in false specificità mostruose, perché la rammemorazione è compiuta in un mondo che ha ritrovato la sua stabilità.

Prima abbiamo visto che le rappresentazioni dei persecutori storici hanno già, sotto questo profilo, qualcosa di mitologico. Il passaggio al mostruoso si realizza nel prolungamento di tutte le rappresentazioni di cui abbiamo detto, quelle riguardanti la crisi in quanto indifferenziata, la vittima in quanto colpevole di crimini indifferenziatori, e i segni di selezione vittimaria in quanto deformità. A un certo punto mostruosità fisica e mostruosità morale si fondono. Il crimine di bestialità, ad esempio, genera mostruose mescolanze tra uomo e animale; nell’ermafroditismo di un Tiresia, la mostruosità fisica non si distingue più dalla mostruosità morale. Sono gli stereotipi stessi, insomma, che si mescolano per dar vita ai mostri mitologici.

Nel mostro mitologico il «fisico» e il «morale» sono inseparabili. La loro unione è talmente perfetta che qualsiasi tentativo di separare i due aspetti sembra condannato all’inanità. Tuttavia, se io sono nel giusto, è proprio lì che bisogna operare la distinzione. La deformità fisica deve corrispondere alle sembianze corporee di qualche vittima, a un’infermità reale: la zoppìa di Edipo o di Vulcano dev’essere, all’origine, non meno reale di quella di una strega medioevale. La mostruosità morale, al contrario, porta a compimento la tendenza di tutti i persecutori a proiettare i mostri da loro percepiti in una crisi, in una sciagura pubblica o persino privata, su un qualche infelice la cui infermità o estraneità suggerisca una particolare vicinanza al mostruoso.

La mia analisi viene giudicata fantasiosa dal momento che il mostruoso è in genere considerato come la prova definitiva del carattere assolutamente fittizio e immaginario della mitologia. Eppure nel mostro ritroviamo la combinazione tra aspetti sicuramente falsi e aspetti plausibilmente veri di cui ho già parlato a lungo in questo saggio. Mi si obietterà che nel presente caso tutti i nostri stereotipi si presentano in un groviglio poco favorevole alla tesi da me sostenuta. Presi nel loro insieme essi vengono a formare una sorta di unità legata a un’atmosfera particolare, l’atmosfera propria della mitologia, i cui elementi non devono essere in alcun modo disgiunti, non foss’altro che per ragioni estetiche. Ed è un fatto che nemmeno i nostri migliori interpreti li hanno mai separati. Ho tuttavia l’impressione che alcuni ricercatori non riescano a mettere questi elementi completamente sullo stesso piano. Sono sulla strada che porta alla separazione decisiva tra i crimini – immaginari – delle vittime e i segni – forse reali – della selezione vittimaria. Per quanto riguarda la mitologia greca, ecco un testo caratteristico di Mircea Eliade che inizia con i segni vittimari degli eroi mitici e chiude sui loro crimini:

 

«Essi [questi eroi] si distinguono per la loro forza e bellezza ma anche per certi aspetti mostruosi (corporatura gigantesca – Eracle, Achille, Oreste, Pelope – ma anche molto inferiore alla media), sono teriomorfi (ad esempio Licaone, il “lupo”), oppure sono suscettibili di metamorfosarsi in animali. Sono androgini (Cecrope), o cambiano sesso (Tiresia), oppure si travestono da donne (Eracle). Inoltre, gli eroi sono caratterizzati da numerose anomalie (acefalia o policefalia; Eracle è provvisto di tre file di denti); sono soprattutto zoppiorbi o ciechi. Molte volte gli eroi cadono in preda alla follia (Oreste, Bellerofonte e anche l’eccezionale Eracle quando massacra i figli che Megara gli aveva dato). Quanto al loro comportamento sessuale, esso è eccessivo o aberrante: Eracle feconda in una notte le cinquanta figlie di Tespio; Teseo è famoso per i numerosi stupri (Elena, Arianna, ecc.). Achille rapisce Stratonice. Gli eroi commettono incesto con le loro figlie o le loro madri e massacrano per invidia, per ira o, molto spesso, senza alcuna ragione; ammazzano anche il padre, la madre o i parenti».11

Il testo è mirabile per la densità di aspetti pertinenti. L’autore riunisce sotto il segno del mostruoso gli aspetti della selezione vittimaria e i crimini stereotipati, ma non li mescola. Sembra che qualcosa in lui si opponga alla fusione dei due elenchi. Di fatto si stabilisce una separazione, che tuttavia non è giustificata di diritto. Questa distinzione silente è più interessante di molti giochi strutturalisti, anche se non può esplicitarsi.

Nella mitologia, mostruosità fisica e mostruosità morale vanno di pari passo. La loro congiunzione sembra normale, e il linguaggio stesso la suggerisce. Nessuno ha alcunché da ridire. Se si trattasse del nostro universo storico, non potremmo escludere la possibilità di vittime reali. La giustapposizione perpetua delle due mostruosità ci sembrerebbe odiosa; sospetteremmo che provenga dalla mentalità persecutoria. Orbene, quale altra potrebbe essere la sua provenienza? Quale altra forza potrebbe far convergere sistematicamente i due temi? Per rassicurarci, diciamo che deve trattarsi di immaginazione. Facciamo sempre affidamento sull’immaginario per sfuggire al reale. Ma, una volta di più, non si tratta dell’immaginazione gratuita cara ai nostri esteti, bensì, in un modo più contorto, di quello stesso immaginario di Guillaume de Machaut che, più si contorce, più ci porta vicino alle vittime vere: ancora una volta, la vecchia immaginazione dei persecutori.

Mostruosità fisica e mostruosità morale si sovrappongono nei miti che giustificano la persecuzione di un infermo. La presenza tutt’attorno degli altri stereotipi di persecuzione non lascia margine al dubbio. Solo se questa congiunzione avvenisse molto di rado sarebbe possibile dubitarne, quando invece la si ritrova in innumerevoli esempi: è il pane quotidiano della mitologia.

Mentre lo zelo maldestro dei nostri spiriti critici si basa sulla componente immaginaria di alcuni dati, all’interno di un testo, per dedurne il quadro immaginario dell’insieme, un atteggiamento di maggior perspicacia cercherà di capire se il tipo di immaginario attivo nei miti non rinvii inesorabilmente, una volta di più, alla violenza reale. Vediamo con chiarezza che la rappresentazione è distorta, ma distorta in un modo sistematico e nel senso stringente dei persecutori. Questa distorsione trova nella vittima il suo punto esclusivo di attrazione, e a partire da tale punto si irradia sull’insieme del quadro. La pioggia di pietre di Guillaume, le sue intere città ridotte in cenere dal fulmine e soprattutto i suoi fiumi avvelenati, non riescono ad allungare l’ombra della finzione né sulla peste nera, né sul massacro dei capri espiatorii.

Vi è chi sostiene che la proliferazione del mostruoso nella mitologia produca una eterogeneità di forme che rende impossibile qualsiasi lettura sistematica, per cui la mia ipotesi dell’origine unica non reggerebbe. Un’obiezione altrettanto seria di quella che, alla teoria dell’evaporazione dell’acqua per spiegare le nuvole, opponesse la forma sempre mutevole di queste ultime, e reclamasse di conseguenza un’infinità di spiegazioni differenti.

Eccettuati alcuni miti esemplari, quello di Edipo in particolare, la mitologia non è assimilabile direttamente alle rappresentazioni persecutorie decifrabili, ma lo è indirettamente. Invece di presentare alcuni aspetti vagamente mostruosi, la vittima si lascia individuare con difficoltà come vittima per la ragione che è completamente mostruosa. Da questa divergenza non bisogna dedurre che i due tipi di testo non possano ricondursi alla medesima genesi. Se si entra nel dettaglio, ci si accorge che si ha necessariamente a che fare con un unico e identico principio di distorsione a livello rappresentativo, solo che nella mitologia questo dispositivo funziona ad un regime più alto che nei documenti storici.

Un attento confronto dei crimini stereotipati nelle persecuzioni storiche e nei miti conferma che così dev’essere. Non v’è dubbio che ovunque la convinzione dei persecutori è tanto più formidabile quanto meno è razionale. Ma nelle persecuzioni storiche non è più abbastanza solida da dissimulare il suo carattere di convinzione e il meccanismo accusatorio da cui risulta. Certo, la vittima è condannata in anticipo, non può difendersi, e l’esito del suo processo è sempre scontato, ma si tratta pur sempre di un processo: per quanto sia iniquo, resta comunque visibile la sua natura giuridica. Le streghe sono oggetto di incriminazioni propriamente legali e anche gli Ebrei perseguitati sono accusati esplicitamente, e di crimini meno inverosimili di quelli degli eroi mitici. Il desiderio di verosimiglianza relativa che suscita «l’avvelenamento dei fiumi» contribuisce, paradossalmente, a illuminarci sulla separazione del vero dal falso che dobbiamo effettuare nel testo per comprenderne la vera natura. È la stessa operazione che esige la mitologia, ma nel suo caso ci vuole ancora più audacia perché i suoi dati sono più aggrovigliati.

Nelle persecuzioni storiche, i «colpevoli» restano sufficientemente distinti dai loro «crimini» da permetterci di non fraintendere la natura del meccanismo. Non così nel mito. Il colpevole è talmente consustanziale alla sua colpa che è impossibile separarlo da essa. Questa colpa appare come una specie di essenza fantastica, un attributo ontologico. In molti miti basta la presenza dello sventurato nei paraggi per contaminare tutto ciò che lo circonda, contagiare di peste uomini e animali, rovinare i raccolti, avvelenare il cibo, far scomparire la cacciagione, seminare la discordia intorno a sé. Al suo passaggio tutto si guasta e l’erba non ricresce. Produce disastri per sua natura, come il fico i suoi fichi. Gli basta essere quello che è.

La definizione delle vittime come colpevoli, o criminali, è così sicura di sé nei miti, il legame causale tra i crimini e la crisi collettiva è così forte, che nemmeno i ricercatori più perspicaci sono ancora riusciti a dissociare questi dati e a individuare il meccanismo accusatorio. Per arrivarci, ci vuole il filo di Arianna che noi stessi stiamo seguendo: il testo di persecuzione medioevale o moderno.

Anche i testi storici più aderenti alla visione persecutoria non fanno che riflettere una credenza indebolita. Più s’impegnano a dimostrare la validità della loro cattiva causa, e meno vi riescono. Se il mito ci dicesse: «Non si può dubitare che Edipo abbia ucciso suo padre, è sicuro che sia andato a letto con la madre», noi riconosceremmo il tipo di menzogna che incarna; ci parlerebbe nello stile dei persecutori storici, quello della credenza. Invece ci parla nello stile tranquillo del fatto indubitabile. Afferma: «Edipo ha ucciso suo padre, è andato a letto con sua madre» con lo stesso tono con il quale si affermerebbe: «Al giorno segue la notte» oppure «Il sole sorge a oriente».

Le distorsioni persecutorie si affievoliscono quando dai miti si passa alle persecuzioni occidentali. È un affievolirsi che ci ha permesso di decifrare innanzi tutto queste ultime. Una prima decifrazione che oggi dovrebbe servire da trampolino per accedere alla mitologia. Mi affido a testi già letti perché più facili da interpretare, come quello di Guillaume de Machaut, per accedere alla lettura in primo luogo del mito di Edipo, e poi di testi sempre più ermetici, in una progressione continua che ci consentirà di individuare tutti gli stereotipi della persecuzione e quindi di postulare violenze reali e vittime reali dietro temi talmente fantastici che sembra quasi impossibile che un giorno si smetta di giudicarli come un puro e semplice gioco dell’immaginazione.

I nostri antenati medioevali prendevano sul serio le favole più demenziali, gli avvelenamenti delle sorgenti da parte degli Ebrei o dei lebbrosi, gli infanticidi rituali, le scope delle streghe, le orge diaboliche al chiaro di luna. Questo miscuglio di crudeltà e credulità ci sembra insuperabile. E invece è superato dai miti; le persecuzioni storiche appartengono a una superstizione degradata. Noi ci crediamo al riparo dalle illusioni mitiche perché abbiamo fatto del nostro meglio per non scorgervi nulla di vero. In realtà, credere che sia tutto illusorio è un modo di eludere le domande imbarazzanti più astuto rispetto a credere che tutto sia vero. L’alibi migliore, anzi definitivo, è quello fornito da questa incredulità astratta, che nega qualsiasi realtà alla violenza suggerita dal mito.

Ci siamo abituati a giudicare necessariamente fittizi anche gli aspetti verosimili degli eroi mitologici in quanto si accompagnano ad aspetti inverosimili. Dettato dalla stessa falsa prudenza, si tratta del solito preconcetto sulla finzione, che ci impedirebbe di riconoscere anche la realtà dei massacri antisemiti se gli permettessimo di dominare la nostra lettura di Guillaume de Machaut. Noi invece non dubitiamo della realtà di questi massacri adducendo il pretesto che sono accostabili a favole più o meno significative di vario tipo. Ma allora non dovremmo nutrire dei dubbi neanche nel caso dei miti.

Nei testi dei persecutori storici il volto delle vittime traspare dietro la maschera. Vi sono lacune e crepe, mentre nella mitologia la maschera è ancora intatta: ricopre così bene l’intero viso che non sospettiamo si tratti di una maschera. Lì dietro non c’è nessuno –pensiamo – né vittime né persecutori. Assomigliamo un po’ a quei ciclopi fratelli di Polifemo, ai quali il gigante, accecato da Ulisse e dai suoi compagni, chiede inutilmente soccorso. Riserviamo il nostro unico occhio a ciò che chiamiamo storia. Quanto alle nostre orecchie, se le abbiamo, non sentono altro che questo nessuno, nessuno..., che ha le proprie radici nella violenza collettiva stessa e ce la fa considerare come nulla e non avvenuta, inventata di sana pianta da un Polifemo in vena di improvvisazioni poetiche.

Per noi i mostri mitologici non sono più delle specie soprannaturali o addirittura naturali, non sono più dei generi teologici o addirittura zoologici, ma sono sempre dei quasi-generi dell’immaginario, degli «archetipi» fantastici accatastati in inconsci ancora più mitici dei miti stessi. La nostra scienza dei miti è in ritardo di quattro secoli rispetto alla critica storica, ma l’ostacolo che la blocca non è invalicabile. Non si tratta di oltrepassare un qualche limite naturale della visione, o di percepire l’equivalente dell’infrarosso o dell’ultravioletto nello spettro dei colori. Vi fu un tempo in cui nessuno sapeva leggere nemmeno le distorsioni persecutorie della nostra stessa storia. Abbiamo finito per imparare. E siamo in grado di datare questa conquista: essa risale all’inizio dell’età moderna e, a mio parere, costituisce soltanto la prima tappa di un processo di decifrazione mai del tutto interrotto, ma che ristagna da secoli, incapace com’è di incamminarsi sulla strada veramente feconda della decifrazione della mitologia.

 

 

Bisogna parlare adesso di una dimensione essenziale dei miti, non assente del tutto, ma quasi, nelle persecuzioni storiche: la dimensione sacra. I persecutori medioevali e moderni non adorano le loro vittime, le odiano soltanto, il che le rende facilmente individuabili. È più difficile individuare la vittima in un essere soprannaturale che è oggetto di culto. Certo, le avventure gloriose dell’eroe talvolta rassomigliano come gocce d’acqua ai crimini stereotipati delle vittime collettive. Come queste vittime, d’altronde, l’eroe si fa qualche volta cacciare o persino assassinare dai suoi. Ma tutti coloro che si qualificano come esperti, dalla tarda grecità fino agli studiosi moderni della classicità, sono unanimi nel minimizzare questi deplorevoli incidenti. Sono cose di importanza trascurabile – affermano – all’interno di carriere così nobili e sublimi che rammentarle è di cattivo gusto.

I miti emanano il sacro e sembra impossibile paragonarli a testi che non lo emanano. Per quanto impressionanti siano le rassomiglianze indicate nelle pagine precedenti, esse impallidiscono di fronte a questa dissomiglianza di fondo. Io cerco di spiegare i miti individuando in essi distorsioni persecutorie più estreme di quelle dei nostri persecutori storici allorché ripercorrono le loro stesse persecuzioni. Fin qui il metodo ha funzionato perché ho ritrovato nei miti, in modo più deformato, tutto ciò che figura anche nei testi di persecuzione. Ma ecco che incontriamo un ostacolo: nei miti c’è la presenza del sacro, mentre nei testi di persecuzione non ve n’è praticamente traccia. Viene da chiedersi se l’essenziale non ci stia sfuggendo di mano. Anche se la mitologia risulta attaccabile dal basso con il mio metodo comparativo, essa gli sfuggirà sempre dall’alto – affermano i nostri idealisti – grazie alla dimensione trascendentale che le appartiene e che resta inafferrabile.

Ritengo non sia affatto così, e lo si può dimostrare in due modi. Partendo dalle somiglianze e dalle differenze tra i nostri due tipi di testi, si può letteralmente dedurre, con un ragionamento assai semplice, la natura del sacro e la necessità della sua presenza nei miti. Tornerò poi ai testi di persecuzione e dimostrerò che, a dispetto delle apparenze, in essi sussistono ancora tracce di sacro, e che tali tracce corrispondono esattamente a ciò che ci si potrebbe aspettare da questi testi se vi si riconoscessero, come ora faccio io, dei miti degradati e in parte disaggregati.

Per comprendere che cosa sia il sacro, bisogna partire da ciò che io ho chiamato lo stereotipo accusatorio: la colpevolezza e la responsabilità illusoria delle vittime. Prima di tutto, bisogna riconoscere in questo stereotipo una vera credenza. Guillaume de Machaut crede sinceramente all’avvelenamento dei fiumi da parte degli Ebrei. Jean Bodin crede sinceramente ai pericoli che la stregoneria fa correre alla Francia del suo tempo. Non c’è bisogno di simpatizzare con tale credenza per ammetterne la sincerità.

Jean Bodin non è un’intelligenza mediocre, eppure crede nella stregoneria. Due secoli dopo, la medesima credenza farà ridere anche individui con una capacità intellettuale molto limitata.

Da dove provengono dunque le illusioni di un Jean Bodin o di un Guillaume de Machaut? Sono evidentemente di natura sociale. Si tratta di illusioni sempre condivise da un gran numero di persone. Nella maggior parte delle società umane la credenza nella stregoneria non si limita a coinvolgere pochi o anche molti individui. Li coinvolge tutti.

Le credenze magiche hanno bisogno di un vasto consenso sociale. Anche se nel XVI e perfino nel XIV secolo è ben lontano dall’essere unanime, esso resta pur sempre ampio, perlomeno in determinati ambienti, ed esercita una forza potentemente costrittiva sugli individui. Le eccezioni non sono ancora abbastanza numerose, non hanno abbastanza influenza per impedire le persecuzioni. La rappresentazione persecutoria conserva alcuni caratteri di rappresentazione collettiva nell’accezione di Durkheim.

Abbiamo visto in che cosa consiste questa credenza. Ampi strati sociali si trovano alle prese con flagelli terrificanti come la peste o anche con fattori di crisi meno visibili. Grazie al meccanismo persecutorio, l’angoscia e le frustrazioni collettive trovano un appagamento sostitutivo in quelle vittime che facilmente coalizzano tutti contro di sé, in virtù della loro appartenenza a minoranze mal integrate, e così via.

La nostra comprensione di tutto questo risulta dall’individuazione in un testo degli stereotipi di persecuzione. Una volta che abbiamo raggiunto questa acquisizione, quasi sempre esclamiamo: La vittima è un capro espiatorio. È un’espressione che tutti sono in grado di intendere perfettamente, senza margini di incertezza sul senso che bisogna darle. L’espressione «capro espiatorio» designa simultaneamente l’innocenza delle vittime, la polarizzazione collettiva contro di esse, e la finalità collettiva di questa polarizzazione. I persecutori si chiudono nella «logica» della rappresentazione persecutoria e non possono più uscirne. Guillaume de Machaut probabilmente non ha mai partecipato in prima persona a violenze collettive, ma aderisce alla rappresentazione persecutoria che alimenta queste violenze e se ne alimenta a sua volta; egli partecipa all’effetto collettivo del capro espiatorio. La polarizzazione esercita una tale costrizione su chi viene polarizzato che per le vittime è impossibile giustificarsi.

L’espressione «capro espiatorio» riassume dunque tutto ciò che ho detto finora sulle persecuzioni collettive. Usarla a proposito del testo di Guillaume de Machaut indica che non ci siamo fatti ingannare da questa rappresentazione e che si è fatto tutto il necessario per smontarne il dispositivo e per sostituirlo con la nostra lettura personale.

Il «capro espiatorio» riassume il tipo di interpretazione che vorrei estendere alla mitologia. Sfortunatamente, però, l’espressione subisce la stessa sorte di questo tipo di interpretazione. Con la scusa che tutti ne conoscono l’uso, nessuno pensa mai di farne un’esatta verifica, e i malintesi si moltiplicano.

Nell’esempio di Guillaume de Machaut e nei testi di persecuzione in genere, questo uso non ha alcun rapporto diretto con il rito del capro espiatorio descritto nel Levitico, né con quei riti detti talvolta «di capro espiatorio» poiché assomigliano in qualche modo a quello del Levitico.

Appena riflettiamo sull’espressione «capro espiatorio» o la collochiamo fuori dal contesto persecutorio, tendiamo a modificarne il senso. Ci viene in mente il rito, e poiché si trattava di una cerimonia religiosa celebrata da sacerdoti in una ricorrenza prestabilita, pensiamo a una manipolazione deliberata. Immaginiamo abili strateghi, ai quali nulla sfugge dei meccanismi vittimari, pronti a sacrificare vittime innocenti sapendo di farlo e con machiavellica astuzia.

Che cose simili accadano, soprattutto nella nostra epoca, è possibile, ma non accadrebbero neppure oggi se gli eventuali manipolatori non avessero a loro disposizione, per mettere a segno le loro trame, una massa spiccatamente manipolabile, ossia gente pronta a lasciarsi rinchiudere nel sistema della rappresentazione persecutoria, gente capace di credere a un capro espiatorio.

Guillaume de Machaut, palesemente, non ha niente del manipolatore. Non è abbastanza intelligente per esserlo. Se nel suo universo esistesse già la manipolazione, bisognerebbe includerlo nella massa dei manipolati. I dettagli rivelatori del suo testo a lui non rivelano nulla; sono tali solamente per noi che ne afferriamo il vero significato. Sopra ho parlato di persecutori ingenui, ma avrei potuto semplicemente dirli inconsapevoli.

Una concezione troppo consapevole e calcolatrice di tutto ciò che sottende all’espressione «capro espiatorio» secondo l’uso moderno elimina l’essenziale, e cioè la credenza dei persecutori nella colpevolezza della loro vittima, la loro condizione di prigionieri dell’illusione persecutoria che, come abbiamo visto, non è un fenomeno semplice, ma un autentico sistema di rappresentazione.

L’esistenza di questa condizione di prigionia ci autorizza a parlare di un inconscio persecutorio, e la prova di essa sta nel fatto che oggi anche i più abili a scoprire i capri espiatorii degli altri, e Dio sa se siamo diventati maestri in quest’arte, non ne scoprono mai in se medesimi. Nessuno o quasi si sente in colpa al riguardo. Per capire l’enormità di questo mistero, non c’è che da indagare su se stessi. Ciascuno provi a chiedersi quale sia il proprio rapporto interiore con i capri espiatorii. Personalmente io non ne conosco e sono sicuro, caro lettore, che per lei sia lo stesso. Noi due abbiamo soltanto inimicizie legittime. Eppure il mondo intero brulica di capri espiatorii. L’illusione persecutoria imperversa più che mai, non sempre in maniera così tragica, certo, come all’epoca di Guillaume de Machaut, ma in maniera più subdola. Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère...

Se ci troviamo in questa situazione noi, che gareggiamo in acume e sottigliezza per scoprire ovunque capri espiatorii individuali e collettivi, possiamo figurarci come poteva trovarsi la gente nel XIV secolo. Nessuno decifrava la rappresentazione persecutoria come la decifriamo noi oggi. L’espressione «capro espiatorio» non aveva ancora il significato che noi le assegniamo. L’idea che una folla, o persino un’intera società, possa rinchiudersi nella prigione delle proprie illusioni vittimarie era inconcepibile. Se si fosse cercato di spiegarla agli uomini del Medioevo, essi non l’avrebbero compresa.

Guillaume de Machaut si spinge più lontano di noi nella dipendenza dagli effetti di capro espiatorio. Il suo mondo affonda più in profondità del nostro nell’inconsapevolezza persecutoria, ma non arriva evidentemente ai livelli dell’universo dominato dalla mitologia. Abbiamo visto che in Guillaume è soltanto il primo insorgere della peste nera, e non il suo picco, a venir addebitato ai capri espiatorii, mentre nel mito di Edipo si tratta di un’intera pestilenza. Agli universi mitologici era sufficiente avere i crimini stereotipati per spiegare le epidemie, beninteso assieme ai colpevoli di tali crimini. Per provarlo basta consultare i documenti etnologici. Gli etnologi si scandalizzano per le mie opinioni sacrileghe, ma da lungo tempo hanno raccolto tutte le testimonianze necessarie alla loro conferma. Nelle cosiddette società etnologiche la presenza di un’epidemia fa immediatamente sospettare delle infrazioni alle regole fondamentali della comunità. È vietato definire primitive queste società, ma abbiamo il dovere di qualificare con tale termine tutto ciò che nel nostro universo perpetua le credenze e i comportamenti persecutorii di carattere mitologico.

La rappresentazione persecutoria è più forte nei miti che nelle persecuzioni storiche ed è la sua stessa forza a sconcertarci. Paragonate a questa credenza granitica, le nostre rappresentazioni sono ben poca cosa. Nel nostro mondo storico le rappresentazioni persecutorie sono sempre vacillanti e residuali, ed è proprio per questo che vengono presto demistificate, al massimo dopo qualche secolo, anziché durare millenni e continuare a farsi gioco dei nostri sforzi di comprensione come il mito di Edipo.

Questa credenza formidabile ci è ormai estranea. Possiamo tutt’al più provare a immaginarla seguendone le tracce nei testi. Constatiamo allora che tutto ciò che viene definito sacro è inseparabile dal carattere inconsapevole e pervasivo di questa credenza.

Interroghiamoci su questo fenomeno e prima di tutto sulle condizioni che lo rendono possibile. Non sappiamo perché questa credenza sia così forte, ma sospettiamo che corrisponda a un meccanismo di capro espiatorio più efficace dei nostri, a un regime di funzionamento persecutorio superiore al nostro. A giudicare dalla preponderanza numerica degli universi mitologici, questo regime superiore è il regime normale dell’umanità ed è la nostra società a costituire l’eccezione.

Una credenza così forte non potrebbe prendere piede, né tanto meno perpetuarsi, quando i persecutori la rammentano nei loro miti dopo la morte della vittima, se i rapporti in seno alla comunità fossero tali da far dubitare di essa, in altre parole se questi rapporti non si fossero pacificati. Affinché i persecutori siano tutti animati dalla stessa fede nella potenza malefica della loro vittima, bisogna che essa polarizzi effettivamente tutti i sospetti, le tensioni e le rappresaglie che avvelenavano i loro rapporti. Bisogna che la comunità sia effettivamente liberata da questi veleni. Bisogna che si senta liberata e riconciliata con se stessa.

La conclusione della maggior parte dei miti ci suggerisce esattamente questo. Ci fa vedere un vero e proprio ritorno all’ordine che era stato compromesso nella crisi, e più spesso ancora la nascita di un ordine completamente nuovo nell’unione religiosa della comunità vivificata dalla prova a cui è stata appena sottoposta.

La congiunzione perpetua, nei miti, tra una vittima assolutamente colpevole e una conclusione violenta e insieme liberatoria non può essere spiegata se non con la forza estrema del meccanismo del capro espiatorio. Questa ipotesi infatti risolve l’enigma fondamentale di ogni mitologia: l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato. Ma sì, è proprio così. È plausibile che una vittima passi per responsabile delle sciagure pubbliche, ed è proprio quello che avviene nei miti, come pure nelle persecuzioni collettive, e tuttavia nei miti, e nei miti soltanto, questa stessa vittima riporta l’ordine, lo simboleggia e addirittura lo incarna.

I nostri specialisti non riescono a riaversi dallo stupore. Il trasgressore si trasforma in restauratore, e addirittura in fondatore dell’ordine che egli ha trasgredito in un certo senso in anticipo. Il supremo delinquente si trasforma in pilastro dell’ordine sociale. Vi sono miti nei quali questo paradosso è più o meno attenuato, censurato o truccato, probabilmente da parte di fedeli che ne erano scandalizzati quasi quanto i nostri etnologi contemporanei, ma nondimeno – lo vedremo più avanti – questo paradosso traspare sotto le alterazioni. È eminentemente caratteristico della mitologia.

È l’enigma che già turbava Platone quando lamentava l’immoralità degli dèi omerici, e gli interpreti non disposti a eludere questo mistero vi si rompono il capo da secoli. Esso fa tutt’uno con l’altro enigma, quello del sacro primitivo, cioè il rovesciamento benefico dell’onnipotenza malefica attribuita al capro espiatorio. Per comprendere questo rovesciamento e risolvere l’enigma, bisognerà riconsiderare la nostra congiunzione di temi, i nostri quattro stereotipi della persecuzione, sia pur deformati, più la conclusione che ci mostra dei persecutori riconciliati. E la loro riconciliazione dev’essere reale. Non c’è ragione di dubitarne, dato che i persecutori dopo la morte della vittima rievocano le loro prove, e non hanno mai la minima esitazione ad attribuirle alla vittima.

A ben riflettere, in questo non c’è niente di sorprendente. Come potrebbero i persecutori spiegarsi la loro riconciliazione, la fine della crisi? Non possono certo attribuirsene il merito. Atterriti come sono dalla loro stessa vittima, si concepiscono come del tutto passivi, puramente reattivi, completamente dominati dal capro espiatorio nel momento stesso in cui si avventano su di lui. Pensano che gli vada attribuita qualsiasi iniziativa. Nel loro campo visivo non c’è posto che per un’unica causa ed essa trionfa in assoluto, assorbe ogni altra causalità: è il capro espiatorio. Nulla può capitare ai persecutori che non sia immediatamente attribuito a lui, e se accade loro di riconciliarsi, è il capro espiatorio a trarne profitto: c’è ormai un solo responsabile di tutto, un responsabile assoluto, che sarà responsabile della guarigione perché è già responsabile della malattia. Non vi è paradosso in questo, se non per una visione dualistica troppo lontana dall’esperienza vittimaria per avvertirne ancora l’unità, e soprattutto sollecita a differenziare nettamente il «bene» dal «male».

Certo, i capri espiatorii non pongono rimedio né alle vere epidemie, né alle siccità, né alle inondazioni. Ma la dimensione fondamentale di ogni crisi, come ho già detto, è il modo in cui essa influisce sui rapporti umani. Si mette in moto un meccanismo di cattiva reciprocità che si autoalimenta e che non ha bisogno di cause esterne per perpetuarsi. Finché le cause esterne continuano ad agire, una pestilenza ad esempio, i capri espiatorii non avranno efficacia. In compenso, appena queste cause cessano di agire, il primo capro espiatorio a disposizione metterà la parola fine alla crisi, liquidandone le conseguenze interpersonali grazie alla proiezione di ogni misfatto sulla vittima. Il capro espiatorio agisce soltanto sui rapporti umani sconvolti dalla crisi, ma darà l’impressione di agire ugualmente sulle cause esterne, le pestilenze, le siccità e altre calamità oggettive.

Al di là di una certa soglia di credenza, l’effetto di capro espiatorio inverte totalmente i rapporti tra i persecutori e la loro vittima, ed è proprio questa inversione a produrre il sacro, gli antenati fondatori e le divinità. Essa fa della vittima, in realtà passiva, l’unica causa agente e onnipotente di fronte a un gruppo che si ritiene completamente manipolato. Se i gruppi umani possono ammalarsi in quanto gruppi per ragioni dipendenti o da cause oggettive o soltanto da se stessi, se i rapporti in seno ai gruppi possono deteriorarsi e poi ristabilirsi grazie alle vittime unanimemente esecrate, è evidente che i gruppi rievocheranno questi mali sociali in conformità alla credenza illusoria che ne facilita la guarigione: la credenza nell’onnipotenza dei capri espiatorii. Ne consegue che all’esecrazione unanime di chi causa la malattia deve sovrapporsi la venerazione unanime per il guaritore di questa stessa malattia.

Nei miti dobbiamo riconoscere sistemi di rappresentazione persecutoria analoghi ai nostri, ma resi poco trasparenti dall’efficacia del meccanismo persecutorio. È proprio questa efficacia che non vogliamo riconoscere perché ci scandalizza doppiamente, dal punto di vista morale e sul piano dell’intelligenza. Sappiamo riconoscere la prima trasfigurazione, malefica, della vittima, ed essa ci sembra normale; non sappiamo invece riconoscere la seconda trasformazione, quella benefica, e non riusciamo a concepire che essa si sovrapponga alla prima senza annullarla, perlomeno inizialmente.

Gli uomini che vivono in gruppo sono soggetti a variazioni repentine nei loro rapporti, nel bene e nel male. Se attribuiscono un ciclo completo di variazioni alla vittima collettiva che facilita il ritorno alla normalità, dedurranno necessariamente da questo duplice transfert la credenza in una potenza trascendente, una e duplice allo stesso tempo, che reca loro alternativamente dannazione e salvezza, castigo e ricompensa. Questa potenza della vittima si manifesta tramite violenze a cui essa soccombe, ma di cui è soprattutto l’istigatrice misteriosa.

Se questa vittima può elargire anche dopo la morte i suoi doni a coloro che l’hanno uccisa, è perché essa è resuscitata, oppure perché non era veramente morta. La causalità del capro espiatorio si impone con tale forza che neanche la morte è in grado di fermarla. Per non rinunciare alla vittima in quanto causa, essa la resuscita se occorre, la rende immortale, almeno per un certo periodo, inventa tutto ciò che noi chiamiamo trascendente e soprannaturale.12

IV

VIOLENZA E MAGIA

Per spiegare il sacro, ho confrontato le rappresentazioni persecutorie che lo contengono con quelle che non lo contengono. Ho riflettuto su ciò che vi è di specifico nella mitologia in relazione alle persecuzioni storiche. Ma tale specificità è relativa, e io ho trascurato questa relatività. Ho parlato delle distorsioni di epoca storica come se fossero assolutamente estranee al sacro. Orbene, esse non lo sono. Nei testi medioevali e moderni, il sacro si affievolisce sempre più, ma sopravvive. Io non ho tenuto conto di queste sopravvivenze per non minimizzare lo scarto tra la mitologia e quei testi che, secondo me, permettono appunto di ridurre lo scarto. Fondarsi su somiglianze approssimative sarebbe in questo caso ancor più discutibile, dato che esiste una spiegazione perfetta per le dissomiglianze, ed essa è il meccanismo del capro espiatorio, autentico generatore di distorsioni persecutorie, inintelligibili o intelligibili, mitologiche o non mitologiche, a seconda che funzioni a un regime più o meno elevato.

Una volta postulata questa differenza di regime, posso passare ad occuparmi delle tracce di sacro che persistono intorno alle distorsioni intelligibili e chiedermi se esse funzionano come nei miti, se confermano la definizione teorica appena esposta.

Nelle persecuzioni medioevali è l’odio ad essere in primo piano, ed è facile scorgere soltanto questo aspetto. In particolare nel caso degli Ebrei. Eppure, durante l’intero periodo, la medicina ebraica gode di un prestigio eccezionale. Probabilmente esiste una spiegazione razionale di questo prestigio, una superiorità reale di medici più aperti di altri al progresso scientifico. Ma una simile spiegazione, specialmente nel caso della peste, non convince molto: in certe situazioni la miglior medicina non ha molta più efficacia della peggiore. In realtà, gli ambienti aristocratici e popolari preferiscono i medici ebrei perché associano il potere di guarire al potere di far ammalare. Non bisogna dunque vedere nel prestigio medico un fatto dovuto a individui che si distinguerebbero dagli altri per la loro assenza di pregiudizi; io penso che prestigio e pregiudizio siano le due facce di un solo e identico atteggiamento. In quel prestigio bisogna vedere una sopravvivenza del sacro primitivo. Persino ai giorni nostri, il terrore quasi sacro che il medico ispira non è estraneo alla sua autorità.

Se l’Ebreo vuole mostrare di essere maldisposto nei nostri confronti, ci darà la peste; se, al contrario, vuole mostrare di essere bendisposto, allora ci risparmierà, oppure, nel caso in cui ci abbia già colpiti, ci guarirà. Egli appare dunque come l’ultima risorsa in virtù, e non a dispetto, del male che può fare o che ha già fatto. Lo stesso vale per Apollo; se i Tebani supplicano questo dio e non un altro per guarire dalla peste, è perché lo ritengono il responsabile ultimo del flagello. Non bisogna dunque vedere in Apollo un dio soprattutto benevolo, pacifico e sereno o, se si vuole, apollineo, nel senso che Nietzsche e i cultori dell’estetica assegnano al termine. Su questo punto, come su tanti altri, essi sono stati tratti in inganno dalla tardiva languidezza delle divinità olimpiche. Malgrado le apparenze e certi raddolcimenti teorici, questo Apollo tragico rimane «il più abominevole» di tutti gli dèi, secondo la formula che Platone rimprovera a Omero di usare, come se si trattasse di una elucubrazione personale del poeta.

Al di là di una certa intensità di credenza, il capro espiatorio non appare più soltanto come il ricettacolo passivo di forze malvagie, ma come un manipolatore onnipotente, di cui la mitologia propriamente detta ci obbliga a postulare il miraggio reso incrollabile dall’unanimità collettiva. Dire che il capro espiatorio passa per l’unica causa del flagello, significa dire che questo flagello diventa letteralmente la sua cosa e che lui ne dispone come vuole per punire o ricompensare a seconda che si susciti la sua ostilità o il suo favore.

Lopez, il medico ebreo di Elisabetta d’Inghilterra, fu giustiziato per tentato avvelenamento e pratica della magia proprio nel momento in cui godeva del massimo prestigio a corte. Al minimo insuccesso, alla minima denuncia, il parvenu può cadere tanto più in basso quanto più in alto era salito. Similmente a Edipo, redentore di Tebe e guaritore accreditato, questo portatore di segni vittimari precipita dal vertice della sua gloria durante un periodo di disordini, vittima di una delle nostre accuse stereotipate.13

All’aspetto soprannaturale della colpa si accompagna un crimine nell’accezione moderna del termine, in risposta a un’esigenza di razionalità caratteristica dell’epoca, un’esigenza tardiva rispetto alla magia. Si tratta soprattutto di avvelenamento, cioè di un’accusa che fa cadere sull’imputato una presunzione di colpevolezza quasi uguale alle accuse magiche vere e proprie: il veleno è così facile da nascondere, soprattutto per un medico, che risulta impossibile provarne l’esistenza, dunque non ha bisogno di essere provato.

Tale vicenda ci riporta a tutti i nostri esempi simultaneamente. Contiene alcuni dati che ricordano il mito di Edipo, altri che rimandano a Guillaume de Machaut e a tutti gli Ebrei perseguitati, altri ancora che assomigliano al falso mito che io stesso ho inventato per «storicizzare» quello di Edipo e dimostrare l’arbitrarietà di ogni ripartizione assoluta fra testi storici e mitologici.

Poiché qui ci troviamo in un contesto storico, noi ci orientiamo automaticamente verso un’interpretazione di tipo demistificatore e psicosociale. Subodoriamo una congiura organizzata da rivali gelosi e, di conseguenza, non vediamo gli aspetti che richiamano il sacro mitologico.

In Lopez, come in Edipo, come nello stesso Apollo, l’arbitro della vita viene a coincidere con l’arbitro della morte, perché è l’arbitro di quel terribile flagello che è la malattia. Lopez è prima dispensatore miracoloso di salute e successivamente dispensatore non meno miracoloso di malattie, che potrebbe sempre guarire qualora lo volesse. L’etichetta storica applicata al testo fa sì che noi ricorriamo senza esitare al tipo di interpretazione che sembrerebbe blasfema e persino inconcepibile se si trattasse di mitologia, e in particolare di quella greca. Sono un uccello, ammirate le mie ali; sono un topolino, lunga vita ai topi! Presentate la cosa sotto forma di mito e avrete un simbolo potente della condizione umana e dei rovesciamenti del destino; ed ecco che i nostri umanisti si esaltano. Riportate il racconto nell’universo elisabettiano ed esso non sarà altro che uno squallido intrigo di palazzo, quanto mai rappresentativo delle ambizioni irrefrenabili, delle violenze ipocrite e delle sordide superstizioni che imperversano nel solo universo occidentale e moderno. La seconda visione è certamente più veritiera della prima, eppure non lo è del tutto: certi residui di inconsapevolezza persecutoria potrebbero, infatti, svolgere ancora un ruolo nella vicenda di Lopez. Eppure questa seconda visione non ne tiene conto e, peggio ancora, diffama il nostro universo storico presentando i suoi crimini, peraltro reali, sul fondo falsamente luminoso di un’innocenza rousseauiana di cui esso soltanto sarebbe privo.

Dietro gli dèi guaritori vi sono sempre delle vittime e le vittime hanno sempre una qualche proprietà curativa. Così come avviene nel caso degli Ebrei, le persone che denunciano le streghe sono quelle stesse che ricorrono al loro aiuto. Tutti i persecutori attribuiscono alle loro vittime una nocività suscettibile di mutarsi in positività e viceversa.

Tutti gli aspetti della mitologia sono presenti nelle persecuzioni medioevali in una forma meno estrema. È il caso del mostruoso che vi si perpetua in un modo facilmente riconoscibile, basta prendersi la briga di confrontare dei fenomeni che una decisione arbitraria ha definito non confrontabili.

La confusione tra l’animale e l’umano costituisce la più importante e spettacolare modalità del mostruoso mitologico. La si può ritrovare nelle vittime medioevali. Streghe e stregoni passano per esseri dotati di un’affinità particolare con il capro, animale estremamente malefico. Nei processi, si osservano i piedi dei sospetti per vedere se sono biforcuti; si tasta loro la fronte per interpretarne le più piccole protuberanze come corna embrionali. L’idea che i confini tra uomo e animale tendano a scomparire nei portatori di segni vittimari si avvale di qualsiasi pretesto. Se la presunta strega possiede un animale domestico, un gatto, un cane o un uccello, le è immediatamente attribuita una rassomiglianza con questo animale e l’animale stesso appare come una specie di avatar, un’incarnazione temporanea o un mascheramento utile al successo di alcune imprese. Questi animali hanno esattamente lo stesso ruolo che il cigno di Giove ha nella seduzione di Leda, o il toro in quella di Pasifae. Ma da questa somiglianza ci distraggono le connotazioni estremamente negative del mostruoso nell’universo medioevale, quasi esclusivamente positive, al contrario, nella tarda mitologia e nella concezione moderna della mitologia. Nel corso degli ultimi secoli della nostra storia, gli scrittori, gli artisti e, infine, gli etnologi contemporanei hanno portato a termine quel processo di edulcorazione e censura già ampiamente iniziato nelle cosiddette epoche «classiche». Riprenderò questo argomento in seguito.

La figura quasi mitologica della vecchia strega illustra bene la tendenza a fondere mostruosità morali e mostruosità fisiche, che abbiamo già osservato nella mitologia propriamente detta. La strega è zoppa, storpia, ha il volto costellato di verruche ed escrescenze che ne accrescono la bruttezza. Tutto in lei invoca la persecuzione. La stessa cosa vale, naturalmente, per l’Ebreo nell’antisemitismo medioevale e moderno. È una vera collezione di segni vittimari interamente concentrati su alcuni individui, che si trasformano in bersaglio per la maggioranza.

Anche l’Ebreo è considerato particolarmente legato al capro e a certi animali. L’idea di un’abolizione delle differenze tra uomo e animale può, anche in questo caso, riapparire in una forma inattesa. Nel 1575, ad esempio, la «Wunderzeitung» illustrata da Johann Fischart, di Binzwangen presso Augusta, mostra una donna ebrea in contemplazione davanti a due maialini che ha appena partorito.14

Ritroviamo questo genere di cose in tutte le mitologie del mondo, ma la somiglianza ci sfugge perché il meccanismo del capro espiatorio non funziona allo stesso regime nei due casi e il risultato sociale non è comparabile. Il regime superiore della mitologia porta a una sacralizzazione della vittima che tende a nasconderci e, qualche volta, persino a cancellare le distorsioni persecutorie.

Analizziamo un mito molto importante in tutto il Nord-Ovest del Canada, vicino al circolo polare. Si tratta del mito fondatore degli Indiani Dogrib. Cito qui il riassunto che Roger Bastide ne ha dato nel volume Ethnologie générale dell’Encyclopédie de la Pléiade (p. 1065):

«Una donna, che ha avuto dei rapporti con un cane, mette al mondo sei cuccioli. Scacciata dalla sua tribù, è costretta a procurarsi il cibo da sola. Un giorno, tornando dalla boscaglia, scopre che i suoi cuccioli sono dei bambini e che, ogni volta che lei lascia la casa, si tolgono di dosso le loro pelli di animali. Così, lei finge di andar via e quando i figli si sono spogliati a quel modo, sottrae loro le pelli, costringendoli così a conservare la loro identità umana».

In questo mito sono presenti tutti i nostri stereotipi della persecuzione, non facilmente distinguibili gli uni dagli altri, ma la loro stessa fusione è rivelatrice. Ciò che io chiamo crisi, indifferenziazione generalizzata, è inseparabile dall’oscillazione tra l’uomo e il cane sia nella madre, sia nei bambini che rappresentano la comunità. Il segno vittimario è la femminilità e il crimine stereotipato è la bestialità. La donna è certamente responsabile della crisi perché è lei che mette al mondo una comunità mostruosa. Senonché il mito confessa tacitamente la verità. Non vi è differenza tra la criminale e la comunità: l’una e l’altra sono ugualmente de-differenziate e la comunità preesiste al crimine, perché è essa a punirlo. Abbiamo dunque a che fare con un capro espiatorio accusato di un crimine stereotipato e trattato di conseguenza: Scacciata dalla sua tribù, è costretta a procurarsi il cibo da sola...

Non riusciamo a scorgere il legame con la donna ebrea di Binzwangen accusata di mettere al mondo dei maiali, perché nel caso del mito il meccanismo del capro espiatorio opera fino in fondo e diviene fondatore; si capovolge in positività. Proprio per questo la comunità è simultaneamente anteriore e posteriore al crimine che punisce: è da questo crimine che essa nasce, non per far sua una mostruosità essenzialmente temporanea, ma per recuperare la sua umanità ben differenziata. Il merito di dare stabilità definitiva alla differenza tra uomo e animale spetta proprio al capro espiatorio, accusato in un primo momento di far oscillare la comunità tra i suoi due poli. La donna-cane diventa una grande dea che punisce non soltanto la bestialità, ma anche gli incesti e tutti gli altri crimini stereotipati, tutte le infrazioni alle regole fondamentali della società. La causa apparente del disordine diviene causa apparente dell’ordine perché è in realtà una vittima quella che ricostruisce, prima contro di sé e poi intorno a sé, l’unità terrorizzata della comunità riconoscente.

Nei miti agiscono due momenti, che gli interpreti non riescono a distinguere. Il primo momento corrisponde all’imputazione di un capro espiatorio non ancora sacro, sul quale si addensano tutte le virtù malefiche. Ad esso si sovrappone il secondo momento, quello della sacralità positiva suscitata dalla riconciliazione della comunità. Io stesso ho fatto emergere il primo momento servendomi del suo corrispettivo nei testi storici che riflettono la prospettiva dei persecutori. Questi testi sono tanto più idonei a guidare l’interprete verso il primo momento in quanto quasi solamente di esso consistono.

I testi di persecuzione fanno sì intravedere che i miti racchiudono una prima trasfigurazione analoga a quella dei nostri persecutori, ma essa, in qualche modo, non è altro che la base della seconda trasfigurazione. I persecutori mitologici, più creduli ancora dei nostri, sono talmente dominati dai loro effetti di capro espiatorio da esserne realmente riconciliati e da far seguire una reazione di adorazione alla reazione di terrore e ostilità che la loro vittima aveva suscitato. Noi abbiamo difficoltà a capire questa seconda trasfigurazione, che non ha equivalenti o quasi nel nostro universo. Eppure, dopo averla nettamente distinta dalla prima, la si può analizzare in modo adeguato partendo dalle divergenze che i due tipi di testo messi a confronto presentano, in particolare nella conclusione. Io stesso ho poi verificato l’esattezza di questa analisi constatando che le sopravvivenze del sacro intorno alle nostre vittime storiche, per quanto esili, somigliano troppo alle forme pienamente sviluppate di questo medesimo sacro perché le si possa attribuire a un meccanismo indipendente.

Bisogna dunque riconoscere, nella violenza collettiva, una macchina per costruire miti che continua a funzionare nel nostro universo, anche se, per ragioni che presto scopriremo, funziona sempre meno bene. Delle due trasfigurazioni mitiche, la seconda, in modo evidente, risulta la più fragile perché è quasi completamente scomparsa. La storia occidentale e moderna si distingue per una decadenza delle forme mitiche, che sopravvivono soltanto allo stato di fenomeni persecutorii, quasi del tutto limitati alla prima trasfigurazione. Se le distorsioni mitologiche sono direttamente proporzionali alla credenza dei persecutori, questa decadenza potrebbe ben costituire l’altra faccia del potere di decifrazione, incompleto ma nondimeno unico e sempre crescente, che ci caratterizza. Questo potere di decifrazione, innanzi tutto, ha decomposto il sacro e, più tardi, ci ha reso capaci di leggere le forme in parte decomposte. Esso continua a rafforzarsi ancora oggi per insegnarci a risalire verso le forme rimaste intatte e a decifrare la mitologia propriamente detta.

A parte il voltafaccia sacralizzante, le distorsioni persecutorie nel mito dogrib non sono certo più forti di quelle presenti nel brano di Guillaume de Machaut. È principalmente sul sacro che inciampa la comprensione. Non potendo seguire la doppia trasfigurazione del capro espiatorio, noi scorgiamo ancora nel sacro un fenomeno certamente illusorio, ma non meno irriducibile di quanto lo fosse per i fedeli del culto dogrib. I miti e i riti contengono tutti i dati necessari all’analisi di questo fenomeno, ma noi non li vediamo.

È forse confidare troppo nel mito il presupporre dietro di esso una vittima reale, un capro espiatorio reale? Come non si mancherà di sottolineare, la situazione dell’interprete di fronte al testo dogrib rimane in fondo uguale a quella degli esempi precedenti. Vi sono troppi stereotipi persecutorii perché una concezione puramente immaginaria sia verosimile. Una diffidenza eccessiva è altrettanto nociva di un’eccessiva fiducia nell’intelligibilità del mito. La mia lettura viene considerata temeraria in virtù di regole inapplicabili agli stereotipi della persecuzione.

Certo, può darsi che io mi sbagli a proposito del mito particolare che ho scelto, il mito della donna-cane. Lo si potrebbe inventare di sana pianta per ragioni analoghe a quelle che prima mi hanno indotto a inventare un «falso» mito di Edipo. In questo caso, l’errore sarebbe assolutamente circoscritto e non comprometterebbe l’esattezza d’insieme dell’interpretazione. Il mito dogrib, anche se non fosse l’emanazione di una violenza collettiva reale, sarebbe comunque opera di un imitatore competente, capace di riprodurre gli effetti testuali di questo tipo di violenza; sarebbe dunque suscettibile di fornire un esempio valido, analogamente al mio falso mito di Edipo. Se io supponessi l’esistenza di una vittima reale dietro al testo che ho appena inventato, potrei, in via eccezionale, sbagliarmi, ma il mio errore, di fatto, non sarebbe per questo meno fedele alla verità della maggioranza dei testi che contengono gli stessi stereotipi, e che sono strutturati allo stesso modo. È statisticamente impensabile che tutti quei testi siano stati redatti da falsari.

Basta pensare alla donna ebrea di Binzwangen accusata di mettere al mondo dei mostri, per capire che qui succede la stessa cosa. Il minimo cambiamento di scena e l’indebolimento del sacro positivo orienterebbero i miei critici verso l’interpretazione a loro giudizio inaccettabile. Allora essi dimenticherebbero il tipo di lettura che esigono per i miti; e sarebbero loro per primi a denunciarne il carattere mistificatore se si provasse ad imporgliela. A dispetto degli avanguardismi chiassosi, tutte le letture estranee al metodo storico già descritto – il metodo della persecuzione demistificata – sono effettivamente regressive.

 

 

L’etnologia degli etnologi crede di essere lontanissima dalla mia tesi, e invece in alcuni punti non ne è distante. Da molto tempo essa ha ravvisato in ciò che chiama «pensiero magico» una spiegazione soprannaturale, e di tipo causale. Hubert e Mauss consideravano la magia «una gigantesca variazione sul tema del principio di causalità». Questo tipo di causalità precede e in qualche modo annuncia quello della scienza. Secondo l’umore ideologico del momento, gli etnologi insistono sulle rassomiglianze o sulle differenze tra i due tipi di spiegazione. In coloro che celebrano la superiorità della scienza prevalgono le differenze, mentre in coloro che ci giudicano troppo vanitosi e vorrebbero ridurci al silenzio prevalgono le rassomiglianze.

Lévi-Strauss appartiene a tutte e due le categorie. In La pensée sauvage egli riprende la formula di Hubert e Mauss e definisce i riti e le credenze magiche «espressioni di un atto di fede in una scienza che deve ancora nascere».15 È interessato unicamente all’aspetto intellettuale ma cita, a sostegno della sua tesi, un testo di Evans-Pritchard che rende del tutto palese l’identità fra pensiero magico e caccia alle streghe:

«Considerato come sistema di filosofia naturale, il pensiero magico [witchcraft] implica una teoria delle cause: la sfortuna dipende dalla stregoneria, operante di concerto con le forze naturali. Sia che un uomo venga incornato da un bufalo, o che gli precipiti sulla testa un solaio di cui le termiti hanno minato i montanti, o che contragga una meningite cerebro-spinale, gli Azandé asseriranno che il bufalo, il solaio, o la malattia sono cause che si sposano alla stregoneria per uccidere l’uomo. Del bufalo, del solaio, della malattia, la stregoneria non è responsabile, poiché essi esistono indipendentemente; ma è responsabile della circostanza particolare che li pone in un rapporto distruttivo con un certo individuo. Il solaio sarebbe crollato in ogni caso, ma è a causa della stregoneria che è crollato in un determinato momento, quando sotto vi si trovava sdraiato un determinato individuo. Tra tutte queste cause, solo la stregoneria ammette un intervento correttivo, poiché è l’unica ad essere emanata dall’uomo. Contro il bufalo o il solaio non c’è niente da fare. Benché li si riconosca come cause, queste però non sono significative sul piano dei rapporti sociali».16

 

L’espressione «filosofia naturale» richiama l’immagine del buon selvaggio di Rousseau che si interroga con innocenza sui «misteri della natura». Il pensiero magico, in realtà, non scaturisce da una curiosità disinteressata. Vi si ricorre, perlopiù, in caso di disastro e costituisce soprattutto un sistema di accusa. È sempre l’altro che fa la parte dello stregone e agisce in modo soprannaturale per fare del male al suo vicino.

Evans-Pritchard evidenzia ciò che io stesso ho evidenziato, ma nel linguaggio che gli etnologi prediligono. Il pensiero magico cerca «una causa significativa sul piano dei rapporti sociali», ovvero un essere umano, una vittima, un capro espiatorio. Non è necessario precisare la natura dell’intervento correttivo che risulta dalla spiegazione magica.

Tutto ciò che Evans-Pritchard dice non si applica soltanto ai fenomeni di magia quotidiana nell’universo etnologico, ma all’intera gamma dei fenomeni persecutorii, dalle violenze medioevali alla mitologia «propriamente detta».

Tebe non ignora che, di tanto in tanto, le epidemie colpiscono tutte le collettività umane. Ma perché la nostra città, si domandano i Tebani, in questo preciso momento? Le cause naturali non interessano coloro che soffrono. Soltanto la magia ammette «un intervento correttivo» e tutti sono solleciti nel cercare un mago da correggere. Contro la peste in quanto tale o, se si preferisce, contro Apollo stesso, non vi è rimedio. Nulla si oppone, invece, alla correzione catartica dello sventurato Edipo.

Lo stesso Lévi-Strauss suggerisce queste verità nelle sue dissertazioni sul pensiero magico, ma spinge l’arte della litote ancora più lontano di Evans-Pritchard. Egli ammette che, malgrado alcuni risultati «di una certa validità scientifica», la magia fa generalmente una misera figura di fronte alla scienza, non però a causa di ciò che si immaginano i seguaci del «pensiero primitivo». La magia, scrive, «si distingue dalla scienza, più che per ignoranza o disdegno del determinismo, per un’esigenza di determinismo più imperiosa e più intransigente, un’esigenza che, semmai, può essere giudicata dalla scienza irragionevole e avventata».17 Meno che mai si parla di violenza, ma tutti gli aggettivi del passo si applicano perfettamente al modo di essere dei persecutori intrisi di causalità magica. Infatti, è proprio vero che, in ogni loro giudizio e in ogni loro azione, i persecutori sono imperiosiintransigentiirragionevoli e avventati. Il pensiero magico, in linea di massima, percepisce se stesso come un’azione difensiva contro la magia e, di conseguenza, approda allo stesso tipo di comportamento dei cacciatori di streghe o delle folle cristiane durante la peste nera. A buon diritto diciamo, d’altronde, che tutte queste persone ragionano in maniera magica. E mitologica, bisogna ricordarlo. I due termini sono sinonimi, ed ugualmente giustificati. È proprio questo che Evans-Pritchard dimostra senza accorgersene. Non vi è alcuna differenza essenziale tra le rappresentazioni e i comportamenti magici nella storia e nella mitologia.

L’atteggiamento morale delle due discipline, quella storica e quella etnologica, costituisce la vera differenza. Gli storici pongono l’accento sulla dimensione persecutoria e denunciano pesantemente l’intolleranza e la superstizione che rendono possibili simili cose. Gli etnologi si interessano soltanto agli aspetti epistemologici, alla teoria delle cause. Basta invertire i campi di applicazione, senza cambiare niente nei linguaggi, per constatare, ancora una volta, la natura schizofrenica della nostra cultura. Questa constatazione provoca in noi un inevitabile disagio; intacca valori che ci sono cari e che credevamo incrollabili. Il che non è una buona ragione per proiettare questo disagio su coloro che lo evidenziano e per trattare anch’essi alla stregua di capri espiatorii. O piuttosto, si tratta della stessa sempiterna ragione, della ragione immemoriale e fondamentale, ma in versione moderna, intellettualizzata. Tutto ciò che rischia di scuotere in noi l’inconscio del capro espiatorio, la rappresentazione di ogni cosa fondata sul meccanismo del capro espiatorio, tende una volta di più a far scattare questo meccanismo. Per porre rimedio alle fratture e alle lacune che appaiono nel sistema, si ricorre, sempre più o meno inconsciamente, al meccanismo generatore e rigeneratore di questo stesso sistema. Ed è sul meno, evidentemente, che nella nostra epoca bisogna mettere l’accento. Anche se vi sono sempre più persecuzioni, vi è sempre meno un inconscio persecutorio, vi sono sempre meno distorsioni veramente percepite nella rappresentazione della vittima. Ed è proprio per questo che le resistenze alla verità si indeboliscono e l’intera mitologia è sul punto di scivolare nell’intelligibile.

 

 

I miti sono rappresentazioni persecutorie analoghe a quelle che già decifriamo, ma più difficili da decifrare a causa delle distorsioni più forti che li caratterizzano.

Nella mitologia, le trasfigurazioni sono più forti. Le vittime diventano mostruose, dando prova di una potenza fantastica. Dopo aver seminato il disordine, ristabiliscono l’ordine e appaiono come antenati fondatori o divinità. Questo sovrappiù di trasfigurazione non rende i miti inconfrontabili con le persecuzioni storiche; anzi, è esattamente il contrario. Per spiegarlo, basta ricorrere al meccanismo che postuliamo nel caso delle rappresentazioni già decifrate, e addebitargli un funzionamento più efficace. Il ritorno all’ordine e alla pace è attribuito alla medesima causa dei disordini precedenti, alla vittima stessa. Per questo si dice che la vittima è sacra. Per questo l’episodio persecutorio diventa un vero e proprio punto di partenza religioso e culturale. Il fenomeno, considerato nel suo intero svolgimento, servirà in effetti: 1) come modello per la mitologia, che lo rammenta nella sua qualità di epifania religiosa; 2) come modello per il rituale, che si sforza di riprodurlo in virtù del principio che bisogna sempre rifare ciò che la vittima, in quanto creatura benefica, ha fatto, o subìto; 3) come contromodello per i divieti, in virtù del principio che non bisogna mai rifare ciò che ha fatto questa stessa vittima, in quanto creatura malefica.

Non vi è nulla nelle religioni mitico-rituali che non risulti logicamente dal meccanismo del capro espiatorio, funzionante a un regime più elevato di quello attivo in epoca storica. La vecchia etnologia postulava a ragione un rapporto stretto tra miti e rituali, ma non ha mai risolto l’enigma di questo rapporto per il fatto di non aver colto, nei fenomeni persecutorii, il modello e il contromodello di ogni istituzione religiosa: essa scorgeva ora nel mito, ora nel rituale, il fattore principale attribuendo all’altro il semplice valore di riflesso. A furia di fallire, gli etnologi hanno rinunciato a interrogarsi sulla natura e il rapporto delle istituzioni religiose.

L’effetto di capro espiatorio risolve un problema di cui gli etnologi attuali non riconoscono più l’esistenza. Per comprendere il valore della soluzione che io propongo, bisogna pensare al rapporto che il resoconto della persecuzione da parte degli stessi persecutori mantiene con l’avvenimento realmente descritto. L’osservatore distaccato che assiste a una violenza collettiva senza parteciparvi vede soltanto una vittima impotente messa a mal partito da una folla isterica. Ma se si rivolge ai membri di questa folla per chiedere loro che cosa è successo, non sarà più in grado di riconoscere, o riconoscerà a malapena, quello che ha visto con i suoi stessi occhi. Gli verrà riferito della potenza straordinaria della vittima, dell’influsso occulto che essa esercitava ed esercita forse tuttora sulla comunità, giacché è senza dubbio scampata alla morte, e così via.

Tra quello che è accaduto realmente e il modo in cui lo vedono i persecutori, vi è uno scarto che bisogna allargare ulteriormente per comprendere il rapporto tra i miti e i rituali. I riti più selvaggi ci mostrano una folla disordinata che a poco a poco si polarizza contro una vittima e finisce per scagliarsi contro di lei. Il mito ci narra la storia di un dio temibile che ha salvato i fedeli grazie a qualche sacrificio, oppure morendo egli stesso, dopo aver seminato il disordine all’interno della comunità.

Tutti i fedeli di questi culti affermano che nei loro riti ricreano ciò che è successo nei miti e noi non comprendiamo il senso di queste parole perché vediamo nei riti una folla scatenata che colpisce una vittima, mentre i miti ci parlano di un dio onnipotente che domina una comunità. Non capiamo che si tratta dello stesso personaggio in entrambi i casi, poiché non riusciamo a concepire distorsioni persecutorie abbastanza potenti da sacralizzare la vittima.

L’antica etnologia sospettava, a buon diritto, che i riti più brutali fossero quelli più primitivi. Non si tratta necessariamente dei riti più remoti sul piano di una cronologia assoluta, ma di quelli più prossimi alla loro origine violenta e, pertanto, più rivelatori. Benché i miti abbiano per modello la stessa sequenza persecutoria dei riti, non si avvicinano molto a questo modello, persino nello stadio in cui meno se ne discostano. Le parole sono, in questo caso, più menzognere delle azioni. Ed è proprio questo a trarre sempre in inganno gli etnologi. Essi non si accorgono che un solo e identico episodio di violenza collettiva somiglierà a ciò che è accaduto realmente molto più nel rituale che nel mito. Infatti, nei rituali i fedeli ripetono con i loro atti la violenza collettiva dei loro predecessori, mimano questa violenza, e la rappresentazione che essi danno degli eventi non avrà la stessa influenza sul comportamento e sulle parole. Le parole sono completamente determinate dalla rappresentazione persecutoria, ossia dal potere simbolizzatore della vittima espiatoria, mentre le azioni rituali ricalcano direttamente i gesti della folla persecutoria.

V

TEOTIHUACÁN

I miei critici mi accusano di scivolare continuamente dalla rappresentazione di una cosa alla realtà della cosa rappresentata. I lettori che mi hanno seguito fin qui con un po’ di attenzione si saranno invece convinti che io non merito questo rimprovero, e che, se mai lo merito, allora lo meritiamo tutti quanti, quando postuliamo la realtà delle vittime dietro i testi quasi mitologici dei persecutori medioevali.

Comunque, adesso passerò ai miti più difficili per la mia tesi, almeno in apparenza, perché essi negano la pertinenza alla mitologia dell’assassinio collettivo. Un modo di negare questa pertinenza consiste nell’affermare che le vittime sono sì effettivamente morte, ma dandosi la morte volontariamente. Che fare dei miti di autosacrificio nelle società primitive?

Mi occuperò allora di un grande mito americano di autosacrificio: quello della creazione del sole e della luna secondo gli Aztechi. Lo dobbiamo, come quasi tutto ciò che sappiamo degli Aztechi, a Bernardino de Sahagún, autore della Historia general de las cosas de Nueva España. Georges Bataille ne ha fornito in La part maudite una traduzione e un adattamento che riporterò qui abbreviandolo leggermente:

 

«Si racconta che, quando ancora non esisteva la luce del giorno, gli dèi si riunirono in un luogo chiamato Teotihuacán ... e si chiesero: “Chi si assumerà il compito di illuminare il mondo?”. Un dio chiamato Tecuciztecatl rispose: “Io mi assumerò il compito di illuminarlo”. Gli dèi parlarono una seconda volta e dissero: “Chi altri ancora?”. Poi si guardarono l’un l’altro cercando chi sarebbe stato costui, ma nessuno osava offrirsi per quel compito; tutti avevano paura e se ne scusavano. Soltanto uno, del quale non si teneva conto, e che aveva delle bubas (pustole), se ne stava silenzioso ad ascoltare gli altri. Costoro gli rivolsero la parola: “Spetta a te, piccolo buboso”. Egli obbedì volentieri al comando e rispose: “Ricevo il vostro ordine come una grazia; così sia”. I due prescelti cominciarono subito una penitenza di quattro giorni ...

«A mezzanotte, tutti gli dèi si disposero attorno al focolare chiamato Teotexcalli, dove il fuoco bruciò per quattro giorni. Si distribuirono in due file che si sistemarono, separatamente, ai due lati del fuoco. Giunsero i due prescelti che presero posto intorno al focolare, con la faccia verso il fuoco, tra le due schiere degli dèi in piedi che, rivolgendosi a Tecuciztecatl, dissero: “Su, Tecuciztecatl, buttati nel fuoco”. Questi provò a lanciarvisi, ma, siccome il fuoco era grande e ardente, si impaurì sentendo quel grande calore e indietreggiò. Una seconda volta si fece coraggio e riprovò a buttarsi nel fuoco, ma quando si fu avvicinato si fermò e non osò andare oltre. Fece invano il tentativo per quattro volte di seguito. Ora, era stato ordinato che nessuno potesse fare il tentativo più di quattro volte. Concluse quindi le quattro prove, gli dèi si rivolsero a Nanauatzin (era il nome del buboso) e gli dissero: “Su, Nanauatzin, adesso prova tu”. Appena gli ebbero detto queste parole, egli raccolse le forze, chiuse gli occhi, prese lo slancio e si gettò nel fuoco. Si udì subito un crepitio come di un oggetto che viene arrostito. Tecuciztecatl, vedendo che l’altro si era gettato nel fuoco e vi bruciava, immediatamente prese anche lui lo slancio e si precipitò nel braciere. Si dice che un’aquila vi entrò nello stesso momento e si bruciò e che per questo le sue piume adesso sono nerastre; la seguì un giaguaro, che si scottò senza bruciarsi: così rimase macchiato di bianco e di nero.

«Poco dopo, gli dèi, in ginocchio, videro Nanauatzin “diventato il sole” levarsi a oriente. Apparve molto rosso, oscillante da una parte e dall’altra, e nessuno riusciva a fissare lo sguardo su di lui perché accecava, tanto splendevano i raggi che da lui si staccavano e si spandevano ovunque. A sua volta, la luna si levò all’orizzonte. Per aver esitato, Tecuciztecatl ebbe meno splendore. Gli dèi dovettero poi morire, il vento Quetzalcoatl li uccise tutti: il vento strappò loro il cuore, e ne animò gli astri appena nati».18

 

Il primo dio non è incaricato da nessuno, è veramente volontario; ma non così il secondo. Dopo, accadrà l’inverso. Il secondo dio si butta subito nel fuoco senza che sia necessario ripetergli l’ingiunzione, ma non così il primo. Nel comportamento delle due divinità, dunque, entra ogni volta un elemento di costrizione. Quando si passa da un dio all’altro, si verificano inversioni che trovano espressione, allo stesso tempo, in differenze e in simmetrie. Bisogna tener conto delle prime ma, al contrario di ciò che pensano gli strutturalisti, più rivelatrici delle differenze sono le simmetrie, gli aspetti comuni alle due vittime.

Il mito mette l’accento sull’aspetto libero e volontario della decisione. Gli dèi sono grandi e, in buona sostanza, acconsentono in piena autonomia a darsi la morte per assicurare l’esistenza del mondo e dell’umanità. In ambedue i casi, tuttavia, si ritrova questo elemento oscuro di costrizione che fa riflettere.

Dopo essere stato designato dagli dèi, il piccolo buboso dà prova di grande docilità. Si esalta all’idea di morire per una causa così bella come la nascita del sole, ma la sua non è una decisione volontaria. Vi è qui, probabilmente, una colpa comune a tutti gli dèi che, spaventati e intimiditi, non osano «offrirsi per quel compito». Non è che una piccola colpa, si dirà; forse, ma vedremo poi che nei miti vi è la tendenza a minimizzare la colpa degli dèi. Si tratta pur sempre di una colpa e il buboso la fa propria, per breve tempo, prima di assumersi coraggiosamente il compito che gli si affida.

Nanauatzin possiede una caratteristica particolare che non può non attrarre la nostra attenzione: le bubas, pustole, che fanno di lui un lebbroso o un appestato, il rappresentante di una qualche malattia contagiosa. Nella mia prospettiva, quella della persecuzione collettiva, è necessario cogliere un aspetto preferenziale di selezione vittimaria e domandarsi se non sia proprio questo aspetto a determinare la scelta della vittima. Vi sarebbero, allora, una vittima e un crimine collettivo, piuttosto che un autosacrificio. Certo, il mito non ci dice che le cose stanno così, ma non bisogna aspettarsi, naturalmente, che un mito ci riveli questo genere di verità.

Il mito ci conferma, tuttavia, che Nanauatzin ha qui la funzione di capro espiatorio, quando ce lo presenta come un dio «del quale non si teneva conto», che se ne stava in disparte e silenzioso.

Notiamo di sfuggita che il dio del sole per gli Aztechi è anche il dio della peste, come lo è Apollo per i Greci. E forse Apollo assomiglierebbe di più al dio degli Aztechi se la censura olimpica non fosse passata su di lui per cancellare qualsiasi segno vittimario.

Questa congiunzione si ritrova in numerosi luoghi. Che cosa c’è di comune tra la peste e il sole? Per capirlo, occorre rinunciare ai simbolismi insipidi e agli inconsci da paccottiglia sia collettivi sia individuali: vi si trova sempre quel che si vuole, perché non vi si mette altro che quel che si vuole. È meglio guardare bene, e direttamente, la scena che abbiamo sotto gli occhi. Gli uomini hanno sempre bruciato sui roghi i loro bubosos, perché da sempre vedono nel fuoco la purificazione più radicale. Il legame non appare esplicitamente nel nostro mito, ma lo si avverte sottinteso. E altri miti americani lo rendono esplicito. Più il contagio è minaccioso e più è necessaria la fiamma per combatterlo. Se a questo si aggiunge un qualche grande effetto di capro espiatorio, i carnefici si volgeranno come di consueto verso la loro vittima che già ritengono responsabile dell’epidemia e che riterranno poi responsabile della guarigione. Gli dèi del sole sono dapprima dei malati, giudicati tanto pericolosi che si deve ricorrere all’immensa fiamma di Teotihuacán, vero e proprio sole artificiale, per distruggerli fino all’ultimo atomo. Se la malattia si allontana improvvisamente, la vittima diventa divina proprio perché si fa bruciare, perché così si confonde con la brace che dovrebbe annientarla e che misteriosamente la trasforma in una potenza benefica. Eccola dunque metamorfosata nella fiamma inestinguibile che brilla sull’umanità. Dove si ritroverà in seguito questa fiamma? Porre questa domanda significa darle una risposta. Non può trattarsi che del sole o, quanto meno, della luna e delle stelle. Soltanto gli astri danno una luce permanente agli uomini, ma non è detto che questo avverrà sempre: per incoraggiare la loro benevola collaborazione, bisogna nutrirli e mantenerli offrendo loro certe vittime, ripercorrendo le tappe della loro genesi; ci sarà quindi sempre bisogno di vittime.

Il dio compie i suoi misfatti e distribuisce i suoi benefici grazie a un solo e identico procedimento, cioè inviando i suoi raggi sulla folla. I raggi portano sì luce, calore e fecondità, ma anche la peste. Diventano allora le frecce che un Apollo irritato lancia sui Tebani. Alla fine del Medioevo, ritroviamo gli stessi temi nella devozione a san Sebastiano. Essi formano un sistema di rappresentazione persecutoria e sono organizzati, come di consueto, in base a un effetto di capro espiatorio, anche se molto indebolito.19

Si crede che il santo protegga dalla peste perché è crivellato di frecce e perché le frecce significano sempre quello che già significavano per i Greci e probabilmente anche per gli Aztechi: i raggi del sole, la peste. Le epidemie sono frequentemente rappresentate da piogge di frecce lanciate sugli uomini dal Padre Eterno e persino da Cristo.

Tra san Sebastiano e le frecce, ovvero l’epidemia, esiste una specie di affinità e i fedeli sperano che sarà sufficiente la sua presenza, la sua effigie nelle loro chiese, perché il santo attiri su di sé le frecce vaganti e sia colpito al loro posto. Insomma, si propone san Sebastiano come bersaglio preferenziale della malattia; lo si brandisce come un serpente di bronzo.

Il santo svolge quindi la funzione di capro espiatorio, protettore perché appestato, e quindi sacralizzato nel duplice senso primitivo di maledetto e benedetto. Come tutti gli dèi primitivi, egli protegge perché monopolizza il flagello, anzi, al limite lo incarna. L’aspetto malefico di questa incarnazione è quasi sparito. Bisogna dunque astenersi dal dire: «Presso gli Aztechi avviene esattamente la stessa cosa». Non si tratta della stessa cosa, perché qui non vi è violenza effettiva, ma si tratta certamente dello stesso meccanismo, tanto più facilmente individuabile per noi dal momento che funziona a un regime infimo, a un livello di credenza molto basso.

Se si confronta san Sebastiano con gli Ebrei perseguitati e «dispensatori di salute», ci si accorge che gli aspetti malefici e benefici appaiono in proporzione inversa. Le persecuzioni reali e gli aspetti «pagani», primitivi, del culto dei santi sono intaccati in maniera diseguale dalla decomposizione del mitologico.

La sola colpa che si possa rimproverare a Nanauatzin è di aver atteso passivamente il suo incarico. In compenso, questo dio possiede un’indubbia corrispondenza ai criteri di selezione vittimaria. L’inverso vale per Tecuciztecatl, che non possiede alcun elemento di selezione vittimaria, ma dà prova, alternativamente, di estrema vanagloria e di vigliaccheria. Durante i quattro giorni della sua penitenza, moltiplica i gesti di ostentazione e, anche se non commette crimini contro natura, è colpevole di hybris, in un senso non dissimile da quello dei Greci.

Senza vittime, non vi sarebbero né sole né luna; il mondo sarebbe immerso nell’oscurità e nel caos. L’intera religione azteca si basa su questa idea. Il punto di partenza del nostro mito è la temibile indifferenziazione del giorno e della notte. Qui si ritrova dunque, in forma classica, lo stereotipo della crisi, cioè della circostanza sociale più favorevole agli effetti di capro espiatorio.

Abbiamo dunque tre stereotipi su quattro: una crisi, diverse specie di colpe se non di crimini, un criterio di selezione vittimaria e due morti violente che producono, alla lettera, la decisione differenziatrice. Ne risulta non solo l’apparizione dei due astri luminosi, ben differenziati l’uno dall’altro, ma anche la colorazione specifica di due animali: l’aquila e il giaguaro.

Il solo stereotipo che manca è quello dell’assassinio collettivo. Il mito ci assicura che non c’è assassinio perché la morte è volontaria, ma molto opportunamente mescola, come ho detto, un elemento di costrizione alla libera volontà delle due vittime. E per convincerci che si è in presenza di un assassinio collettivo molto superficialmente negato o camuffato, non dobbiamo far altro che osservare la scena cruciale. Gli dèi sono schierati ai due lati, in due file minacciose. Sono loro che organizzano tutto, fissando ogni dettaglio. Agiscono sempre di comune accordo, parlano con una sola voce, prima per scegliere il secondo «volontario», e poi per ordinare alle due vittime di gettarsi «volontariamente» nel fuoco. Che cosa succederebbe se il volontario inadempiente non si decidesse infine a seguire l’esempio del compagno? Gli dèi che lo attorniano lo autorizzerebbero forse a riprendere il suo posto, come se niente fosse, oppure passerebbero a forme di convincimento più brutali? L’idea che le vittime potrebbero sottrarsi del tutto al loro compito demiurgico non è verosimile. Se una di esse cercasse di fuggire, le due file parallele di dèi formerebbero immediatamente il cerchio che farebbe precipitare il delinquente tra le fiamme, richiudendosi su di lui.

Chiedo al lettore di tenere bene a mente questa configurazione circolare o quasi circolare, che riapparirà, con o senza fuoco, con o senza vittima apparente, nella maggior parte dei miti di cui parlerò.

In sintesi: il sacrificio delle due vittime ci è presentato essenzialmente come atto libero, come autosacrificio; ma, in entrambi i casi, un elemento di costrizione intacca sottilmente tale libertà in due momenti diversi della sequenza dell’evento. Questo elemento di costrizione è decisivo poiché si aggiunge a tutto ciò che, già in questo testo, suggerisce un fenomeno di persecuzione mitologizzato nella prospettiva dei persecutori; tre stereotipi su quattro sono presenti e il quarto è fortemente evocato tanto dalla morte delle vittime, quanto dalla configurazione generale della scena. Se questa stessa scena apparisse come un quadro vivente e muto, non dubiteremmo che si tratti della messa a morte di vittime il cui consenso è l’ultima delle preoccupazioni dei sacrificatori. Tanto meno avremmo di che dubitarne, in quanto riconosceremmo in esso l’attività religiosa per eccellenza della civiltà azteca: il sacrificio umano. Alcuni specialisti azzardano la cifra di ventimila vittime all’anno, nel periodo della conquista di Cortés. Anche se questa stima fosse molto esagerata, il sacrificio umano avrebbe avuto, nondimeno, nella civiltà azteca un ruolo propriamente mostruoso. Questo popolo era costantemente impegnato a guerreggiare non per estendere il proprio territorio, bensì per procurarsi le vittime necessarie agli innumerevoli sacrifici registrati da Bernardino de Sahagún.

Gli etnologi posseggono tutti questi dati da secoli, in verità fin dall’epoca in cui furono effettuate le prime decifrazioni della rappresentazione persecutoria nel mondo occidentale. Eppure non traggono le stesse conclusioni nei due casi. Oggi meno che mai. Passano la maggior parte del tempo a minimizzare e addirittura a giustificare pienamente, nella civiltà azteca, quello che, nel proprio universo, a buon diritto condannano. Una volta ancora ritroviamo i due pesi e le due misure che caratterizzano le scienze dell’uomo quando si occupano di società storiche e di società etnologiche. La nostra impotenza a individuare nei miti una rappresentazione persecutoria ancora più mistificata della nostra non deriva soltanto dalla maggior difficoltà dell’impresa, dalla trasfigurazione più compiuta dei suoi dati, ma anche da una straordinaria ripugnanza, da parte dei nostri intellettuali, a guardare le cosiddette società «etnologiche» con la stessa implacabilità che riservano alla loro.

È anche vero che il compito degli etnologi non è facile. Al minimo contatto con la società occidentale e moderna le «loro» culture si frantumano come fossero di vetro, tanto che oggi non esistono quasi più. Questo stato di cose ha sempre comportato, e comporta ancora oggi, forme di oppressione rese più amare dal disprezzo che le accompagna. Gli intellettuali moderni sono ossessionati soprattutto da tale disprezzo e si sforzano di presentare questi universi scomparsi sotto la luce migliore. E la nostra stessa ignoranza torna talvolta utile ai loro fini. Che diritto abbiamo di criticare il modo in cui queste popolazioni vivevano la propria religione? Noi non siamo in grado di contraddirli quando ci presentano le loro vittime come autentici volontari, credenti che immaginavano di prolungare l’esistenza del mondo lasciandosi massacrare senza aprir bocca.

Presso gli Aztechi esiste insomma un’ideologia del sacrificio, e il nostro mito fa vedere chiaramente in che cosa essa consista. Senza vittime, il mondo sarebbe immerso nell’oscurità e nel caos. Le prime vittime non bastano. Alla fine del brano che ho citato, il sole e la luna brillano nel cielo ma restano immobili; per costringerli a muoversi, bisogna sacrificare prima gli dèi, tutti gli dèi senza eccezione, poi le folle anonime che li sostituiscono. Tutto si basa sul sacrificio.

Certamente «qualcosa di vero» c’è, nel mito della vittima consenziente, e il mito stesso ce lo mostra. Il dio fanfarone ha presunto troppo delle proprie forze; indietreggia nel momento cruciale: questo ritrarsi suggerisce che non tutte le vittime fossero così consenzienti come gli etnologi vorrebbero credere. Alla fine Tecuciztecatl vince la propria codardia, e l’esito diverso tra i suoi primi tentativi e quello finale è dovuto all’esempio datogli dal suo compagno. Emerge qui in piena luce la forza che domina gli uomini che vivono in società: l’imitazione, il mimetismo. Fin qui non ne ho parlato perché volevo dimostrare nel modo più semplice quanto sia pertinente la nozione di assassinio collettivo per l’interpretazione della mitologia; volevo attirare l’attenzione soltanto sui dati strettamente indispensabili, e il mimetismo, in verità, non lo è. Segnalo ora la parte notevole che ad esso attribuisce il nostro mito.

È la volontà di superare tutti gli altri dèi, è lo spirito di rivalità mimetica che, visibilmente, spinge il futuro dio-luna a dichiararsi volontario: pretende di essere senza rivali e il primo fra tutti, di servire da modello per gli altri, ma di essere, per quel che lo riguarda, senza modelli. Questa è una hybris, una forma di desiderio mimetico così esasperata da pretendersi al di là di ogni mimetismo, da non volere altro modello se non se stesso. Se il dio-luna non può obbedire all’ingiunzione di gettarsi nel fuoco è perché, evidentemente, dopo aver ottenuto quel primo posto da lui rivendicato, si trova all’improvviso privo di un modello. Benché non possa più ispirarsi a nessuno, deve guidare gli altri; ma non ne sarà capace, per la stessa ragione che lo ha spinto a rivendicare il primo posto: egli è imbevuto di mimetismo. Al contrario, il secondo dio, il futuro sole, non ha cercato di mettersi in luce; è meno istericamente mimetico e per questo, giunto il suo turno, prende risolutamente l’iniziativa che il suo confratello non ha saputo prendere: egli può dunque servire da modello efficace a colui che non è in grado di agire senza modello.

Ovunque, nel mito, gli elementi mimetici circolano in modo sotterraneo. Il moralismo della fiaba non li esaurisce; il contrasto tra i due personaggi si inscrive nel cerchio più vasto di un’altra imitazione, quella degli dèi riuniti, mimeticamente unificati, che governa l’insieme della scena. Tutto quello che fanno gli dèi è perfetto in quanto unanime. Il gioco fra libertà e costrizione risulta in fin dei conti inestricabile, perché è subordinato alla potenza mimetica di tutti gli dèi riuniti. Ho parlato di un agire libero nel caso di colui che, in risposta all’appello degli dèi, si offre volontario o si getta senza esitazione nel fuoco, ma questa libertà è inseparabile dalla volontà divina che non cessa di dire: «Su, buttati nel fuoco». Non si ha mai altro che imitazione – più o meno rapida, più o meno diretta – di questa volontà. La volontà spontanea viene a coincidere con l’esempio irresistibile, con la potenza ipnotica dell’esempio. Per il piccolo buboso, le parole degli dèi: «Su, buttati nel fuoco» si traducono immediatamente in azione, hanno già una forza esemplare. Per l’altro dio, le parole non bastano; ad esse deve aggiungersi lo spettacolo dell’azione stessa. Tecuciztecatl si getta nel fuoco perché vede il suo compagno gettarvisi. Poco fa ci sembrava il più mimetico, ma forse, in definitiva, non sarebbe meglio definirlo il meno mimetico dei due?

La collaborazione mimetica delle vittime con i loro carnefici si perpetua nel Medioevo e persino nella nostra epoca, ma in forme più deboli. Le streghe, nel Cinquecento, scelgono il rogo da sole: le hanno ben convinte dell’orrore dei loro misfatti. Gli eretici stessi richiedono frequentemente il supplizio che meritano per le loro abominevoli credenze; non concederglielo sarebbe una mancanza di carità. Anche nella nostra epoca i nemici del popolo di tutti gli stalinismi arrivano a confessare più di ciò che si chiede loro di confessare, e si rallegrano del giusto castigo che li aspetta. Non credo che la paura basti a spiegare questo tipo di comportamento. Già Edipo si unisce all’accordo unanime che fa di lui la più abominevole delle sozzure; vomita se stesso e supplica la città di Tebe di vomitarlo realmente.

Quando questi atteggiamenti rispuntano nella nostra società, ci rifiutiamo con indignazione di farcene complici, ma li accettiamo senza scomporci quando si tratta di Aztechi o di altri popoli primitivi. Gli etnologi ci descrivono con l’acquolina in bocca la sorte invidiabile di quelle vittime. Nel periodo che precede il loro sacrificio, esse godono di privilegi straordinari, e con serenità, forse perfino con gioia, vanno incontro alla morte. Jacques Soustelle, tra gli altri, raccomanda ai suoi lettori di non interpretare questa carneficina religiosa alla luce dei nostri concetti. L’orribile peccato di etnocentrismo è in agguato e, qualunque cosa avvenga nelle società esotiche, bisogna astenersi da un qualsiasi giudizio negativo.20

Benché sia lodevole preoccuparsi di «riabilitare» mondi misconosciuti, bisogna farlo con discernimento. Gli eccessi attuali fanno a gara, quanto a ridicolaggine, con l’ampollosità orgogliosa di un tempo, solo in direzione contraria. In fondo, è ancora la vecchia condiscendenza: continuiamo a non applicare a queste società gli stessi criteri che applichiamo a noi stessi, ma effettuando stavolta un’inversione demagogica assai tipica del nostro tempo. Tuttavia, o le nostre fonti non valgono niente, e quindi non dobbiamo far altro che tacere e rinunciare a sapere qualcosa di certo sugli Aztechi; oppure esse valgono qualcosa, e allora siamo obbligati per onestà a concludere che la religione di questo popolo non ha certo usurpato il suo posto nel museo universale degli orrori umani. Lo zelo antietnocentrico va fuori strada allorché giustifica le orge sanguinose con l’immagine visibilmente ingannevole che esse danno di se stesse.

Anche se permeato di ideologia sacrificale, il mito atroce e magnifico di Teotihuacán reca in sé una tacita testimonianza contro questa visione mistificatrice. Se c’è qualcosa che può restituire una nota umana a questo testo, non è certo il falso idillio tra le vittime e i loro carnefici che le voghe neorousseauiane e neonietzschiane dei due dopoguerra ci sottopongono in maniera così fastidiosa. A questa visione ipocrita, pur senza arrivare a contraddirla apertamente, si oppongono le esitazioni, da me sottolineate, di singoli studiosi rispetto alle false evidenze che si trovano intorno; l’inquietante bellezza di questo mito è inseparabile da una sorta di vibrazione che lo pervade interamente. Occorre amplificare questa vibrazione per far vacillare l’edificio e costringerlo a crollare.

VI

ASI, CURETI E TITANI

Ho appena commentato un mito in cui manca l’assassinio collettivo, ma non mi sembra che questa mancanza sia di grande vantaggio per gli avversari della mia causa. Non solo, poiché finora non ho fatto molti esempi e mi si rimprovera, non a torto, di non farne abbastanza, ne darò diversi e li sceglierò tutti tra i miti o le varianti mitiche, peraltro innumerevoli, che evitano in modo visibile, quasi caricaturale, di definire come assassinio collettivo una scena assolutamente centrale, che cionondimeno necessita, come si vedrà, di tale definizione. Questa scena presenta sempre la stessa configurazione degli assassini disposti in cerchio intorno alla loro vittima, ma al suo senso evidente sostituisce altri significati molto differenti, accomunati soltanto dal voler omettere proprio l’assassinio collettivo.

Il mio secondo esempio appartiene alla mitologia scandinava. Baldr è il migliore di tutti gli dèi, privo di ogni difetto, ricco di ogni virtù e incapace di qualunque violenza. Certi sogni inquietanti lo avvertono che su di lui pesa una minaccia di morte. Confida la sua angoscia agli Asi, suoi compagni, che decidono di «chiedere per Baldr salvaguardia contro ogni pericolo». Per ottenere questo risultato, Frigg, sua madre,

 

«fa giurare a tutti gli esseri animati ed inanimati – fuoco, acqua, metalli, pietre, terra, legno, malattie, quadrupedi, uccelli, serpenti ... – di non fargli del male. Così protetto, Baldr si diverte con gli Asi, sulla pubblica piazza, in un gioco stupefacente. Gli scagliano addosso dei proiettili, gli vibrano colpi di spada: nulla lo ferisce».

 

Il riassunto che ho appena citato è di Georges Dumézil in Mythe et Épopée.21 Nessuno può stupirsi se l’eminente esegeta definisce stupefacente questo gioco al quale si abbandonano gli Asi. Egli utilizza per lo stesso gioco divino altri due epiteti, «spettacolare» e «truccato». Suscita quindi la nostra curiosità, ma non fa niente per soddisfarla. Che cosa può provocare il nostro stupore di fronte a un simile spettacolo in un mito? Si tratta di una scena eccezionale o al contrario di una scena del tutto consueta e normale, solo provvista di un significato inconsueto? In effetti il gioco sembra truccato, ma non oseremmo definirlo tale se non lasciasse trasparire qualcos’altro che si colloca all’esterno del testo, un’altra scena che in genere non è affatto dissimulata, e che è necessariamente ben nota a tutti gli studiosi che si occupano di mitologia, anche se non la documentano e non la nominano mai, perlomeno in maniera diretta. Facendo intendere che il gioco degli Asi è truccato, senza però spiegare quel che ha in mente, possiamo dire che Dumézil parla a sua volta di questa scena, sia pure in modo indiretto. Si tratta, naturalmente, dell’assassinio collettivo. Se Baldr non fosse invulnerabile, ovviamente non sopravvivrebbe al trattamento che gli infliggono gli Asi; si verificherebbe l’evento che il dio teme e che con lui temono tutti gli Asi. Baldr morirebbe, vittima come tante altre divinità di un assassinio collettivo. Il mito di Baldr non si distinguerebbe in nulla, così, dagli innumerevoli miti il cui dramma centrale consiste nell’assassinio collettivo.

Lungi dal dire qualcosa di veramente originale e inatteso, lo spettacolo di questo mito ci stupisce e il suo gioco ci sembra truccato perché è in tutto e per tutto simile alla rappresentazione più familiare e consueta in tutte le mitologie, l’assassinio collettivo. La convenzione di un Baldr invulnerabile ha semplicemente trasformato la rappresentazione dell’assassinio in un gioco inoffensivo.

Si tratta forse di una semplice coincidenza, di una somiglianza fortuita? Il seguito ci dimostra che non è così. Per capire che questo mito conserva rapporti inevitabilmente strettissimi con i miti caratterizzati da un assassinio collettivo, bisogna arrivare fino alla fine: vedremo così che il gioco degli Asi, in teoria inoffensivo, produrrà le stesse conseguenze che avrebbe qualora si svolgesse sul serio. Baldr cade, colpito a morte da uno di questi dèi, che si comportano come se avessero l’intenzione di ucciderlo, ma che il mito pretende che fingano, per ragioni che forse non è impossibile cogliere.

Che cos’è successo allora? Per saperlo, proseguiremo la nostra lettura di Mythe et Épopée. C’è un dio, o piuttosto un demone, Loki (il trickstero «briccone divino» della mitologia scandinava), che non partecipa al gioco truccato e cerca anzi di disturbarlo. Fedele alle sue fonti, Dumézil scrive: «Quello spettacolo dispiacque a Loki». In tutti gli spettatori il linciaggio simulato di Baldr suscita forti reazioni, in Loki il dispiacere, in Dumézil lo stupore. Ed è colpa di Loki naturalmente, è sempre colpa di Loki se il linciaggio simulato di Baldr, il gioco infantile di questi stimabili Asi conduce alla fine alle stesse conseguenze di un vero e proprio linciaggio.

 

«Il trickster scandinavo ... si traveste da donna e va a chiedere a Frigg se il giuramento universale di non fare alcun male a Baldr non ammetta per caso un’eccezione. E viene a sapere da Frigg che un giovane germoglio chiamato mistilteinn (germoglio di vischio) le era sembrato così giovane che non gli aveva chiesto di prestar giuramento. Loki si impossessa del germoglio e, tornato al thing [il luogo sacro ove si svolge il linciaggio], lo consegna al fratello cieco di Baldr, Hödhr, che fino allora si era astenuto dal colpire il fratello perché non era in grado di vederlo; ma Loki guida la sua mano verso la vittima che muore assassinata da un semplice germoglio di vischio».

 

La perfidia di Loki, dunque, annulla l’effetto delle misure prese dagli dèi per «proteggere» Baldr da ogni violenza. Ma perché questo mito imbocca una strada così bizzarra e inconsueta per giungere allo stesso risultato, o quasi, di mille altri miti, ovvero alla morte violenta di un dio colpito da altri dèi suoi compagni, tutti coalizzati contro di lui? Visto che si tratta di un risultato così ordinario, perché non seguire la strada più ordinaria per raggiungerlo?

L’unica risposta a mio parere verosimile e persino concepibile è che la versione del mito da noi analizzata non sia la versione primaria: bisogna innestarla su versioni più antiche che vedevano in Baldr la vittima dell’assassinio collettivo più banale, più «classico» che vi sia. La nuova versione è probabilmente dovuta a gente che non tollerava più la rappresentazione tradizionale di questo assassinio perché faceva di tutti gli dèi, ad eccezione della vittima, degli autentici criminali. Il pantheon originario non si differenzia da una volgare banda di assassini, e i fedeli, in un certo senso, non ne vogliono più sapere: ma non ne hanno altri e, per mille diverse ragioni, ci tengono, sono anzi appassionatamente legati alle loro rappresentazioni religiose. Vogliono conservare queste rappresentazioni e al tempo stesso disfarsene, o piuttosto rivederle da cima a fondo, perché vogliono eliminare lo stereotipo essenziale della persecuzione, l’assassinio collettivo. Il tentativo di conciliare questi due imperativi sfocia così in miti come quello di Baldr, costruiti in maniera assai curiosa.

La soluzione sta nell’affermare che gli antenati hanno ben visto quel che c’era da vedere nell’epifania primordiale, ma l’hanno interpretato male. Ingenui e barbari com’erano, non hanno colto la sottigliezza di ciò che era accaduto. Hanno creduto che si trattasse di un assassinio collettivo. Sono cascati nella trappola tesa loro dal demoniaco Loki, il solo vero assassino e per giunta ingannatore. Loki si trasforma nell’unico ricettacolo della violenza che prima era ripartita in ugual misura tra tutti i partecipanti al linciaggio e che diviene francamente perversa non appena si concentra in un solo individuo. La reputazione del solo Loki, insomma, è sacrificata alla riabilitazione di tutti gli altri dèi. E la scelta di Loki è tanto più paradossale se è vero, come a me sembra, che egli sia l’unico fra tutti gli dèi a non partecipare al linciaggio nella scena originaria.

A quel che sembra, si deve dunque supporre una manipolazione del mito a detrimento morale di un solo dio e a beneficio di tutti gli altri. La volontà di discolpare gli assassini originari è rivelata anche da diversi indizi supplementari ravvisabili nello strano modo in cui avviene l’effettiva uccisione di Baldr. Tutti i dettagli della vicenda sono chiaramente destinati ad annullare il più possibile la responsabilità di colui che corre più rischi di passare per criminale, dato che è per mano sua (egli è designato infatti come l’assassino mediante la mano, handbani) che Baldr muore.

Nell’assassinio in linea di principio collettivo non tutti i partecipanti sono ugualmente colpevoli; se si riesce a identificare chi ha inferto il colpo fatale, la sua responsabilità sarà incomparabilmente maggiore. Il mito raddoppia allora i suoi sforzi al fine di scagionare Hödhr per la sola ragione evidente che, essendo quello che dà il colpo fatale, è il più colpevole di tutti. Per discolparlo ci vuole uno sforzo molto maggiore rispetto a quello che occorre per discolpare tutti gli altri dèi messi assieme.

Basta ammettere questo disegno perché tutti i dettagli dell’assassinio si chiariscano dal primo all’ultimo. Tanto per cominciare, Hödhr è cieco: «fino allora si era astenuto dal colpire il fratello perché non era in grado di vederlo». Perché lo colpisca bisogna guidare la sua mano verso il bersaglio, ed è Loki, ovviamente, che gli rende il servizio. Hödhr non ha alcun motivo per pensare che il suo colpo possa uccidere Baldr. Come gli altri dèi, crede questo suo fratello invulnerabile a qualsiasi arma o proiettile. E per rassicurarlo ancor più, se possibile, l’oggetto che Loki gli mette tra le mani è il più leggero di tutti, troppo insignificante perché la sua metamorfosi in arma fatale appaia verosimile. Neppure il fratello più attento al benessere e alla sicurezza del fratello potrebbe prevedere le terribili conseguenze della sua condotta se agisse come Hödhr. Insomma, per scagionare quest’ultimo, il mito accumula una scusa sull’altra. Invece del semplice disconoscimento che appare sufficiente nel caso degli altri dèi, la responsabilità di Hödhr è oggetto di almeno tre disconoscimenti successivi.22 E ogni volta è Loki a farne le spese. Tre volte colpevole, insomma, dell’assassinio di cui è tecnicamente innocente, Loki manipola cinicamente lo sventurato Hödhr, lui sì invece tre volte innocente dell’assassinio di cui tecnicamente è il solo colpevole.

Chi vuole dimostrare troppo non dimostra niente. Quel che avviene nel mito di Baldr fa pensare all’imprudente eccesso di scuse di coloro che hanno qualcosa da farsi perdonare. Essi non si rendono conto che un’unica scusa, anche mediocre, vale più di molte ottime scuse. Quando si cerca di ingannare il proprio pubblico, bisogna evitare di fargli capire, appunto, che si cerca di ingannarlo. È sempre il desiderio di dissimulare troppo bene a rivelare la dissimulazione. Questo desiderio diviene tanto più visibile quanto più fa sparire intorno a sé qualsiasi traccia di ciò che vuole occultare, riportandoci subito verso ciò che dissimula. Nulla è più atto a destare sospetti quanto i fattori di irresponsabilità bizzarramente accumulati sul capo del vero colpevole.

È possibile, come si vede, dare una lettura del mito di Baldr che spieghi tutti i dettagli del mito senza eccezione partendo da un principio unico, il più economico e il più semplice che vi sia; ma questo è possibile solo se si va a cercare tale principio, se non nell’assassinio collettivo reale, perlomeno nella ripugnanza rivelatrice che la sua rappresentazione ispira. Il mito è visibilmente ossessionato e completamente determinato da questa rappresentazione, che purtuttavia non appare da nessuna parte nei temi che esso propone. A credere agli studiosi attuali, questo mito si sbaglia. Non ha nessuna ragione valida per respingere la rappresentazione dell’assassinio collettivo, dal momento che l’assassinio collettivo non svolge parte alcuna nella mitologia. Non meno impressionante è la constatazione che il mito di Baldr non tiene in alcun conto il dogma contemporaneo. Lo strutturalismo è l’ultima delle sue preoccupazioni. E penso sia giusto lasciar parlare i miti, soprattutto se le cose che hanno da dire contraddicono i nostri preconcetti.

Bisogna dimostrare adesso che il mito di Baldr non rappresenta un caso aberrante, un’eccezione unica nella mitologia. Soluzioni analoghe si ritrovano non dico ovunque, ma in un certo numero di tradizioni importanti, troppo vicine a quanto abbiamo appena visto per quel che concerne il loro probabile intento, e contemporaneamente troppo diverse nella soluzione adottata e nel contenuto tematico della versione a noi giunta, per non rafforzare l’idea che debba esserci nell’evoluzione di questi mitologemi uno stadio di elaborazione e adattamento caratterizzato dalla cancellazione della nozione di «assassinio collettivo». Questa volontà di cancellazione è particolarmente spettacolare perché si giustappone di regola a un conservatorismo religioso preoccupato di preservare l’integrità, o quasi, di rappresentazioni anteriori, il cui oggetto non può essere altro che l’assassinio collettivo stesso.

Produrrò dunque un secondo esempio tratto, stavolta, dalla mitologia greca. Si tratta della nascita di Zeus. Il dio Crono divora tutti i suoi figli e sta cercando l’ultimo nato, Zeus, che Rea, la madre, gli ha sottratto. I Cureti, feroci guerrieri, nascondono il bambino disponendosi in cerchio intorno a lui. Terrorizzato, il piccolo Zeus piange così forte che il padre potrebbe rintracciare il suo nascondiglio. Per coprire la sua voce e ingannare l’orco divoratore, i Cureti fanno cozzare le loro armi e si comportano nella maniera più rumorosa e minacciosa possibile.23

Più il bambino ha paura e le sue grida si fanno acute, più i Cureti per proteggerlo devono comportarsi in modo da aumentare questa paura. Appaiono quindi tanto più spaventosi quanto più rassicurante e protettivo è, in realtà, il loro comportamento. Si direbbe che si siano disposti in cerchio attorno al bambino per metterlo a morte: in verità è per salvargli la vita.

Una volta ancora la violenza collettiva è assente dal mito, ma non lo è alla stregua di tante altre cose ugualmente assenti a cui questo mito non fa pensare: è assente in un modo analogo, ma non identico, a quello che ho appena analizzato nel mito di Baldr. Disposti in cerchio attorno al bambino, i Cureti ci ricordano la configurazione e il comportamento caratteristici dell’assassinio collettivo. Cos’altro possiamo immaginare di fronte a queste grida selvagge e a queste armi impugnate tutt’intorno a un essere senza difesa? Se si trattasse di uno spettacolo senza parole, di un quadro vivente, non esiteremmo ad attribuirgli il senso che il mito rifiuta di attribuirgli. In modo analogo al gioco truccato degli Asi o al suicidio degli Aztechi, la mimica dei Cureti e la reazione spaventata del bambino assomigliano, fin dove il paragone è possibile, al dramma che statisticamente domina la mitologia mondiale. Ma questo mito, così come quello di Baldr, ci assicura che si tratta di una rassomiglianza illusoria. Sembrerebbe già antropologia contemporanea.

Per eliminare dalla scena il suo significato violento, entrambi i miti conferiscono al gruppo degli assassini un ruolo di «protettori». Ma la rassomiglianza non si spinge oltre. Nel mito scandinavo l’assassinio collettivo presentato come non reale ha le stesse conseguenze di un assassinio reale. Nel mito greco non si ha più alcuna conseguenza. La dignità di Zeus è incompatibile con una morte per mano dei Cureti. Anche in questo caso suppongo debba esistere una versione più primitiva di questo mito che includeva un assassinio collettivo. Una metamorfosi l’ha privata di questo assassinio senza modificare o modificando il meno possibile le rappresentazioni che lo esprimevano. Il problema è lo stesso, ma la soluzione greca è insieme più elegante e più radicale della soluzione scandinava. Riesce a dare un significato protettore alla scena stessa del linciaggio, al cerchio che i linciatori formano intorno alla loro vittima. Il mito scandinavo non aveva altra via d’uscita, lo abbiamo visto, se non quella di presentare come puramente ludico un comportamento che persino gli osservatori più refrattari alla problematica dell’assassinio collettivo riconoscono che debba essere «truccato», ossia che debba possedere un altro senso.

Le due soluzioni sono troppo originali perché uno dei due miti abbia influenzato l’altro. Si tratta di due pensieri religiosi che tendono non proprio al medesimo risultato, ma a due risultati molto simili, in uno stadio analogo della loro evoluzione. Di fronte a questo genere di cose, non bisogna esitare a riabilitare l’idea di un’evoluzione della mitologia o piuttosto, come vedremo, a ricorrere all’idea di rivoluzioni successive riservate, d’altronde, a un numero ristretto di tradizioni religiose.

Come il mito di Baldr, quello dei Cureti deve provenire da interpreti sinceramente convinti di aver ricevuto la loro tradizione mitologica in una forma alterata. L’assassinio collettivo sembra loro troppo scandaloso per essere autentico e non credono di falsificare i testi quando reinterpretano a modo loro la scena che lo conteneva. Anche qui è la trasmissione ad apparire colpevole. Invece di trasmettere fedelmente la tradizione che avevano ricevuto, gli antenati l’hanno probabilmente corrotta perché erano incapaci di comprenderla. Anche qui la violenza, che una volta era spartita tra tutti gli assassini, è rigettata su un unico dio, Crono, che a causa di questo trasferimento diventa propriamente mostruoso. Questo tipo di caricatura non si trova, generalmente, in quei miti dove figura la rappresentazione dell’assassinio collettivo. Si opera in essi una certa spartizione del bene e del male: il dualismo morale sorge congiuntamente alla cancellazione della violenza collettiva. Il fatto che il male sia rigettato su un dio della generazione precedente, nella mitologia olimpica, riflette probabilmente la concezione negativa da parte della nuova sensibilità religiosa nei confronti della rappresentazione che si sente in obbligo di trasformare.

Ho appena dato del mito di Zeus e dei Cureti una lettura interamente basata su un’assenza, quella dell’assassinio collettivo. Ho trattato tale assenza alla stregua di un dato certo, mentre resta un dato inevitabilmente speculativo, e più speculativo che nel caso di Baldr, per la ragione che Zeus, a differenza di Baldr, viene risparmiato e le conseguenze dell’assassinio collettivo non sono presenti. Benché rafforzata dalla somiglianza dei due miti, la mia interpretazione del mito greco è sicuramente più debole di quella del mito scandinavo. Per migliorarla, bisognerebbe scoprire, in prossimità del nostro mito, un secondo mito il più possibile simile e tuttavia differente per non aver cancellato l’assassinio collettivo del bambino divino; il secondo mito dovrebbe lasciar sussistere nella pienezza del senso originario la scena abilmente trasfigurata nel mito dei Cureti. Le probabilità che questa trasfigurazione sia reale e che la mia interpretazione sia esatta ne verrebbero accresciute. È forse chiedere troppo? Niente affatto. Esiste, nella mitologia greca, un mito perfettamente omologo a quello dei Cureti, fatta eccezione per una cosa: la violenza collettiva vi appare e si esercita proprio su un bambino divino; inoltre, possiede ancora il senso che manca chiaramente nel mito dei Cureti. Lascio il giudizio al lettore.

Per attirare il piccolo Dioniso nel loro cerchio, i Titani agitano certi ninnoli. Sedotto da questi oggetti scintillanti, il bambino si fa avanti e il cerchio mostruoso si richiude su di lui. Tutti insieme, i Titani assassinano Dioniso; dopodiché lo fanno cuocere e lo divorano. Zeus, padre di Dioniso, fulmina i Titani e resuscita suo figlio.24

Dai Cureti ai Titani, la maggior parte dei significati si inverte. Protettore nel mito dei Titani, il padre è distruttore e cannibale in quello dei Cureti; distruttrice e cannibale nel mito dei Titani, la collettività è protettrice in quello dei Cureti. In entrambi i miti, davanti al bambino vengono agitati alcuni oggetti. Apparentemente inoffensivi, ma in realtà mortali nel caso dei Titani, sono apparentemente mortali ma in realtà inoffensivi nel caso dei Cureti.

La mitologia è un gioco di trasformazioni. È stato Lévi-Strauss a darne la vera dimostrazione, e il suo contributo è prezioso. Ma l’etnologo immagina, a torto mi pare, che il passaggio si possa sempre effettuare in qualunque direzione. Tutto si situa sul medesimo piano. Nulla di essenziale è mai vinto né perso. Non esiste un indicatore di direzione del tempo.

Si vede qui chiaramente l’insufficienza di questa concezione. I nostri due miti sono effettivamente l’uno la trasformazione dell’altro: l’ho appena mostrato. Dopo aver mischiato le carte, il prestigiatore le dispone una seconda volta in ordine differente. Si ha l’impressione che siano tutte lì, ma è proprio così? Se guardiamo meglio, scopriremo che in realtà ne manca sempre una, sempre la stessa, la rappresentazione dell’assassinio collettivo. Tutto ciò che di diverso accade è subordinato a questa scomparsa, e limitarsi a considerare soltanto il rimescolamento delle carte significa limitarsi all’inessenziale. È d’altra parte impossibile capire fino in fondo l’operazione se non si capisce a quale segreto disegno essa risponda.

L’analisi strutturalista si basa sul principio unico dell’opposizione binaria differenziata. Questo principio non permette di individuare nella mitologia l’importanza fondamentale del tutti contro uno della violenza collettiva. Lo strutturalismo vi vede soltanto un’opposizione fra tante altre e la riconduce alla legge comune. Non dà nessun significato particolare alla rappresentazione della violenza quando è presente e, a fortiori, quando non è presente. Il suo strumento d’analisi è troppo rudimentale per comprendere ciò che si perde nel corso di una trasformazione come quella che ho appena rilevato. Se il prestigiatore mischia le carte a lungo e le fa vedere in un ordine differente, è per impedirci di pensare a quella che ha fatto sparire, o per farcene dimenticare la sparizione qualora ce ne fossimo accorti. Il prestigiatore mitologico e religioso ha nei nostri strutturalisti un ottimo pubblico. Come potrebbero, i nostri studiosi di mitologia, accorgersi del trucco, in una scena che fanno di tutto per non vedere?

Rilevare la scomparsa dell’assassinio collettivo nel passaggio dal mito dei Titani a quello dei Cureti significa comprendere che questo genere di trasformazione può verificarsi soltanto in un senso, quello appena indicato. L’assassinio collettivo può certamente sparire dalla mitologia, anzi è quello che fa sempre; ma, una volta scomparso, è evidente che non può più riapparire, non rispunterà più da qualche rimescolamento di carte, armato di tutto punto come Minerva che esce dalla testa di Giove. Una volta che un mito è passato dalla forma Titani alla forma Baldr o alla forma Cureti, il ritorno alla forma anteriore non avviene mai: è inconcepibile. In altre parole, vi è una storia della mitologia. Posso riconoscere questo fatto senza ricadere nelle vecchie illusioni dello storicismo. È da un’analisi esclusivamente testuale e «strutturale» che scaturisce la necessità di tappe storiche o, se si preferisce, diacroniche. La mitologia cancella l’assassinio collettivo, ma non lo reinventa perché, con ogni evidenza, non lo ha mai inventato.

Tutto questo non mira assolutamente a suggerire che il mito dei Cureti nasca dal mito dei Titani, che esso sia la trasformazione di questo mito e non di un altro. Vi sono abbastanza assassinii collettivi sparsi nella mitologia perché sia necessario ricorrere a uno in particolare. D’altronde, considerando meglio il mito dei Titani, ci accorgiamo che corrisponde a una visione religiosa non molto divergente, forse, da quella del mito di Zeus e, anche se ha mantenuto la rappresentazione dell’assassinio collettivo, dev’essere stato oggetto di una qualche manipolazione. In effetti vi ritroviamo, sempre a profitto di Zeus, la stessa spartizione del bene e del male che troviamo nel mito dei Cureti. La violenza collettiva rimane, ma è dichiarata malvagia allo stesso modo del cannibalismo. Come nel mito dei Cureti, la violenza è attribuita a una generazione mitologica più antica, vale a dire ad un sistema religioso ormai percepito come «primitivo» o «selvaggio».

Di fronte al mito dei Titani, i bambini e le persone ingenue provano un senso di spavento, e quasi indietreggiano. I nostri etnologi moderni direbbero che si lasciano dominare dall’affettività. Anch’io ricado, mi dicono, in un’etnologia affettiva, destinata, senza fallo, all’incoerenza sentimentale. Come i romanzieri realisti del 1850, le nostre scienze dell’uomo considerano la freddezza e l’impassibilità lo stato d’animo più idoneo all’acquisizione di un sapere veramente scientifico. L’esattezza matematica delle cosiddette scienze «rigorose» suscita un’ammirazione che spesso induce a prendere troppo alla lettera la metafora del rigore. La ricerca disdegna dunque i sentimenti, che peraltro non può eliminare senza rischio dal momento che svolgono una parte preponderante nell’oggetto stesso che studia, ossia in questo caso il testo mitologico. Anche se si potesse mantenere una separazione completa tra l’analisi delle «strutture» e l’affettività, non vi sarebbe alcun interesse a mantenerla. Per afferrare il segreto delle trasformazioni mitologiche nei nostri due esempi, bisogna tener conto di sentimenti che l’etnologia disprezza. Fare i rigorosi per non sembrare disarmati significa in realtà privarsi delle armi migliori.

I nostri veri trionfi sulla mitologia non hanno niente a che vedere con questa falsa impassibilità. Risalgono a un’epoca in cui la scienza senza coscienza non esisteva, e sono l’opera anonima di coloro che, per primi, si levarono contro la caccia alle streghe e criticarono le rappresentazioni persecutorie delle folle intolleranti.

Persino sotto il profilo di una lettura esclusivamente formale e di tutto ciò che viene considerato il punto forte della scuola attuale, non si possono raggiungere risultati soddisfacenti senza tener conto sia dell’assassinio collettivo quando è presente, sia del malessere che porta alla sua scomparsa quando non è presente: è intorno alla sua assenza che si organizzano ancora tutte le rappresentazioni. Se non si vuol vedere questo malessere, non si potranno mai evidenziare neppure gli aspetti strettamente combinatori e trasformazionali dei rapporti intercorrenti tra alcuni miti.

VII

I CRIMINI DEGLI DÈI

La volontà di cancellare le rappresentazioni della violenza governa l’evoluzione della mitologia. Per rendersene ben conto è necessario seguire questo processo al di là della tappa che ho appena definito. In questa prima tappa è in gioco soltanto la violenza collettiva; ogni volta che scompare, come abbiamo visto, le viene sostituita una violenza individuale. C’è poi una seconda tappa, in particolare nell’universo greco e romano, che consiste nel sopprimere persino la violenza individuale; ogni forma di violenza appare ormai insopportabile nella mitologia. Coloro che superano questa tappa, lo sappiano o no – e nella maggior parte dei casi, sembra proprio che non lo sappiano –, perseguono tutti un solo e identico scopo: l’eliminazione delle ultime tracce dell’assassinio collettivo, l’eliminazione di ogni traccia di queste tracce, se così possiamo esprimerci.

L’atteggiamento di Platone è particolarmente rilevante per la chiarificazione di questo punto. Nella Repubblica questa volontà di cancellare la violenza mitologica è quanto mai esplicita, e si esercita particolarmente sul personaggio di Crono in un passo che si riallaccia direttamente all’analisi che ho appena concluso:

 

«“Quanto agli atti ... di Crono e a quel che egli subì da parte del figlio, neanche se fosse la verità si dovrebbe, a parer mio, narrarli con una simile leggerezza a persone ingenue e sprovviste di giudizio, ma piuttosto tacerli del tutto; e se esistesse comunque un qualche obbligo di parlarne, bisognerebbe farlo usando le formule segrete dei Misteri, per un uditorio il più ristretto possibile, e dopo aver sacrificato non un porco ma qualche vittima immensa e difficile da procurarsi, di modo che al minor numero di persone accadesse di udire queste cose!”. “Lo credo anch’io,” disse [Adimanto] “simili racconti, questi almeno, sono molto scabrosi”».25

 

A scandalizzare Platone non è più l’assassinio collettivo, già scomparso, bensì la violenza individuale che costituisce il segno spostato di questa scomparsa.

Questa volontà di eliminazione, per il fatto stesso che è esplicita, assume le forme di una vera censura, di un’amputazione deliberata del testo mitologico. Essa non ha più la forza di una riorganizzazione strutturale, né la coerenza straordinaria che possedeva allo stadio precedente. Proprio per questo fallisce nel modificare il testo mitologico. E proprio perché ne prevede il fallimento, Platone propone una sorta di compromesso accompagnato da precauzioni religiose di grande interesse. La raccomandazione di sacrificare una vittima molto grande e preziosa non è motivata semplicemente dalla preoccupazione di ridurre al minimo il numero degli iniziati ai misfatti di Crono e di Zeus. Nel contesto di una religione ancora sacrificale tale raccomandazione corrisponde a ciò che ci si può aspettare da uno spirito sinceramente religioso che si confronti con una violenza di cui teme la potenza contaminatrice; per controbilanciare questa violenza, è necessaria una violenza paragonabile, ma legittima e santa, vale a dire l’immolazione di una vittima che sia la più grande possibile. Nel testo di Platone, insomma, si chiude sotto i nostri occhi, in modo quasi esplicito, il cerchio della violenza e del sacro.

La censura richiesta da Platone non si è mai imposta nella forma da lui immaginata; ma si è comunque imposta e si impone tuttora sotto altre forme ancora più efficaci, ad esempio quella rappresentata dalla disciplina etnologica. La tappa platonica, contrariamente alla precedente, non giunge a una vera e propria rielaborazione del mito, ma ha comunque un carattere fondatore: viene fondata un’altra cultura, non più propriamente mitologica ma «razionale» e «filosofica», è il testo stesso della filosofia.

La condanna della mitologia si ritrova in numerosi autori antichi, generalmente in forme banali derivate dallo stesso Platone, ma capaci di gettare una luce rivelatrice sulla vera natura dello scandalo. Varrone, ad esempio, distingue una «teologia dei poeti» che gli sembra particolarmente infelice perché propone all’ammirazione dei fedeli «dèi ladri, dèi adulteri, dèi schiavi al servizio di un uomo; per farla breve, si attribuiscono agli dèi tutti i disordini in cui cade l’uomo, persino quello più spregevole».26

Ciò che Varrone, dopo Platone, chiama «teologia dei poeti» è il sacro autenticamente primitivo, ossia il sacro duplice che unisce il maledetto e il benedetto. Tutti i passi di Omero criticati da Platone documentano gli aspetti sia malefici sia benefici della divinità. La volontà differenziatrice di Platone non tollera questa ambiguità morale del divino. Oggi è esattamente lo stesso con Lévi-Strauss e lo strutturalismo, con l’unica differenza che la grandezza morale di Platone non c’è più e al suo posto si ritrova una preoccupazione puramente linguistica e logica, una filosofia del miscuglio impossibile in quanto non conforme alle «leggi del linguaggio e del pensiero»... La possibilità che gli uomini non pensino sempre esattamente allo stesso modo non viene neanche presa in considerazione.

Anche Dionigi di Alicarnasso si rammarica per quei miti che rappresentano gli dèi come «cattivi, malfattori, indecenti, in una condizione indegna non soltanto di esseri divini ma anche semplicemente di gente onesta...». In verità, tutti questi autori antichi hanno la sensazione che i loro dèi potrebbero non essere altro che vittime disprezzate e calpestate da tutti gli uomini. Ed è proprio ciò che non vogliono. Scartano con orrore una simile eventualità perché, a differenza dei profeti ebrei e più tardi dei Vangeli, non riescono a concepire che una vittima trattata così possa essere innocente.

Platone tenta esplicitamente di censurare la mitologia, di farla deviare dai suoi temi tradizionali. Vediamo affiorare nel suo testo il tipo di motivi che poco fa ci è stato necessario postulare per spiegare la scomparsa dell’assassinio collettivo nel mito dei Cureti. Le prime trasformazioni risalgono a uno stadio anteriore a quello della filosofia e si effettuano su miti ancora intatti. L’unica testimonianza di cui disponiamo al riguardo sono i miti stessi, i miti già trasformati, perché essi diventano spettacolarmente intelligibili non appena scorgiamo il risultato della trasformazione. I decreti del filosofo non sono dunque la conseguenza di un capriccio individuale; essi illuminano retrospettivamente l’evoluzione di tutte le mitologie nel corso del tempo. Platone ha visibilmente dei predecessori, vicini e lontani, nelle operazioni di ripulitura della mitologia, ma essi lavoravano ancora in modo mitologico; operavano all’interno del quadro mitologico e religioso tradizionale; trasformavano la narrazione mitologica.

Lo stereotipo della violenza subìta dagli dèi e dagli eroi dapprima si attenua perdendo il suo carattere brutalmente e spettacolarmente collettivo, diventa violenza individuale, e infine addirittura scompare. Gli altri stereotipi della persecuzione hanno evoluzioni consimili e per le stesse ragioni. Quegli uomini che non tolleravano più l’assassinio collettivo del dio non si saranno scandalizzati di meno davanti ai crimini che giustificavano tale assassinio. I testi citati mostrano che le due cose vanno di pari passo. Varrone si lamenta dei poeti che «attribuiscono agli dèi tutti i disordini in cui cade l’uomo, persino quello più spregevole». Beninteso, i poeti non sono responsabili di una simile attribuzione. La mitologia mondiale ne è la prova. Già allora, come ai giorni nostri, i «poeti», ovvero gli interpreti del periodo precedente, forniscono capri espiatorii pronti per l’uso e i tradimenti loro addossati legittimano nuove censure.

Si desiderano ormai soltanto divinità che non siano più né criminali né vittime e, nell’impossibilità di capire che si tratta di capri espiatorii, si cancellano poco a poco le violenze e i crimini commessi dagli dèi, i segni vittimari, e perfino la crisi stessa. A volte si inverte il senso della crisi e si dà all’indifferenziazione tra uomini e dèi il senso utopico a cui ho già fatto allusione.

Man mano che una comunità si allontana dalle origini violente del suo culto, il senso del rituale si affievolisce e il dualismo morale si rafforza. Gli dèi e tutte le loro azioni, persino le più malefiche, hanno svolto in un primo momento la funzione di modello nel rito. Ciò significa che nelle grandi occasioni rituali le religioni lasciano un discreto posto al disordine anche se lo subordinano sempre all’ordine. Tuttavia, giunge sempre il momento nel quale gli uomini cercano soltanto modelli di moralità ed esigono dèi ripuliti da ogni colpa. Non bisogna prendere alla leggera le critiche di un Platone o di un Euripide, che vuole anch’egli riformare gli dèi. Esse riflettono la decomposizione del sacro primitivo, ossia la tendenza dualista che, degli dèi, vuole trattenere soltanto l’aspetto benefico; si sviluppa così un’ideologia tesa o a far ricadere il sacro sui demoni e a differenziare sempre più i demoni dagli dèi, come fa la religione brahmanica, oppure a considerare l’aspetto malefico nullo e mai veramente esistito, dichiarandolo sovrapposto a una religione più originaria, l’unica veramente conforme all’ideale del riformatore. In realtà, il riformatore si costruisce un’origine sua personale trasponendo questo ideale in un passato del tutto immaginario. D’altronde, è proprio una siffatta trasposizione che trasfigura la crisi originaria in idillio e in utopia. L’indifferenziazione conflittuale si inverte in una fusione beata.

La tendenza idealizzante, dunque, trasforma o cancella tutti gli stereotipi: la crisi, i segni vittimari, la violenza collettiva e anche, naturalmente, il crimine della vittima. Lo vediamo in modo chiaro nel mito di Baldr. Il dio che non viene fatto uccidere collettivamente non può essere un dio colpevole. È un dio il cui crimine è completamente cancellato, un dio perfettamente sublime, esente da ogni colpa. Non è il gioco del caso a sopprimere i due stereotipi27 in un sol colpo, è la stessa ispirazione nei fedeli. Il castigo e la sua causa sono legati e dovranno sparire assieme, giacché spariscono per una sola e identica ragione.

Non ho allora il diritto di sostenere che vi è stata effettivamente una cancellazione, una sparizione, piuttosto che una pura e semplice assenza? Certo, ho dimostrato di avere questo diritto nel caso dell’assassinio collettivo, ma questa dimostrazione tocca soltanto indirettamente il crimine che io suppongo attribuito, in origine, a ogni divinità. Solo implicitamente affermo che dovette esistere un primo Baldr «criminale» in una versione più primitiva del mito. In se stesso, come abbiamo visto, il mito di Baldr contiene quanto basta per affermare la formidabile pertinenza dell’uccisione collettiva assente, e per dedurne il nascondimento nella versione che ci è pervenuta. Ma le cose non stanno affatto così per il crimine, ugualmente assente. Per dimostrare che gli stereotipi della persecuzione sono tutti realmente universali, bisognerebbe dimostrare che essi restano tutti di estrema pertinenza anche e soprattutto per i miti che non li contengono.

Cerchiamo dunque di farlo con lo stereotipo del crimine. L’esame dei miti suggerisce che una fortissima tendenza a minimizzare e poi a sopprimere i crimini degli dèi «travaglia» le mitologie, in particolare quella greca, molto tempo prima che Platone e i filosofi dessero a tale tendenza un’espressione concettuale.

Anche un confronto superficiale mostra immediatamente che non si possono classificare i miti in due categorie ben distinte in riferimento alla colpa divina, con gli dèi colpevoli da una parte e gli dèi non colpevoli dall’altra. Esiste una moltitudine di gradazioni intermedie, uno spettro continuo che va dai crimini più atroci all’innocenza perfetta passando attraverso colpe insignificanti, sbagli o semplici goffaggini, che tuttavia possono avere, nella maggior parte dei casi, le stesse conseguenze disastrose dei crimini veramente seri.

Penso che questa gamma non si possa interpretare in modo statico: essa deve avere un carattere evolutivo. Per esserne persuasi, basta osservare l’impressionante insieme di temi che visibilmente hanno per comun denominatore una sola e identica volontà di minimizzare e scusare una colpa la cui definizione letterale resta ovunque la stessa, ma che produce su di noi un’impressione talmente diversa, ancora oggi, che l’identità fondamentale di tutti questi crimini non appare. Gli dèi olimpici della Grecia classica non sono più vittime, come abbiamo già visto, eppure commettono ancora la maggior parte dei crimini stereotipati che giustificano l’uccisione del delinquente in altre mitologie. Tuttavia, queste azioni sono oggetto di un trattamento così lusinghiero, così pieno d’indulgenza e di raffinatezza che l’effetto prodotto, ancora oggi, appare completamente dissimile da ciò che si avverte a contatto con le stesse azioni nei miti definiti «etnologici».

Quando Zeus si tramuta in cigno per diventare l’amante di Leda, non pensiamo certo al crimine di bestialità, quando Pasifae si unisce al toro questo pensiero ci sfiora solo vagamente e accusiamo di cattivo gusto lo scrittore che lo suscita in noi; eppure, su questo punto, non c’è nessuna differenza con il mito dogrib della donna-cane o anche con l’orribile favola medioevale della donna ebrea di Binzwangen che partorisce una figliata di maiali. Il nostro modo di reagire alle stesse favole non è sempre identico, esso varia a seconda che si abbia la percezione, il presentimento delle loro conseguenze persecutorie o meno. Il trattamento estetico e poetico si riduce ai mille modi di aggiustare gli stereotipi della persecuzione, ossia ad abbellire e dissimulare tutto quello che potrebbe rivelare il meccanismo originario della produzione testuale, il meccanismo del capro espiatorio.

Come tutti i puritanesimi, neanche quello di Platone raggiunge lo scopo, che dovrebbe essere invece la rivelazione del meccanismo vittimario, la demistificazione delle rappresentazioni persecutorie, ma ha pur sempre maggior grandezza e profondità del lassismo morale dei poeti o dell’estetismo degli esegeti contemporanei che dissolve l’essenziale nel problematico. Platone protesta non solo contro l’attribuzione di tutti i crimini stereotipati agli dèi, ma anche contro il trattamento poetico di questi crimini che li fa sembrare ormai solo colpe insignificanti, semplici scappatelle, bagattelle prive di importanza.

La nozione aristotelica di hamartia concettualizza la minimizzazione poetica della colpa. Suggerisce la semplice negligenza, la colpa per omissione piuttosto che la pienezza malefica degli antichi miti. Traducendola con «tragica pecca», in inglese tragic flaw, si evoca un piccolo difetto, un’unica crepa in una massa omogenea d’inattaccabile virtù. La dimensione nefasta del sacro è sempre presente, ma ridotta a quel minimo che è logicamente indispensabile alla giustificazione di conseguenze invariabilmente disastrose. Da qui ai miti in cui il malefico e il benefico si equilibrano, la distanza è grande. La maggior parte dei miti cosiddetti «primitivi» ci è giunta in questo primo stato di equilibrio, e a ragione – credo – la vecchia etnologia li qualificava appunto con tale aggettivo: ne aveva intuito la maggiore prossimità all’effetto di capro espiatorio che li fonda, cioè agli effetti prodotti dalla piena efficacia di una proiezione malefica estremamente violenta.

Perché la volontà di scusare il dio non sfoci immediatamente nell’eliminazione completa della sua colpa – una cosa che, all’altro capo della catena, esige chiaramente un Platone – è necessaria una forza che si eserciti a lungo nel senso di un rispetto estremo per il testo tradizionale, e ciò non può essere che l’effetto prolungato del capro espiatorio, la logica propria del religioso primitivo nella sua fase rituale e sacrificale. Il dio incarna il flagello, come ho detto prima: egli non sta al di là del bene e del male, ma al di qua. La differenza che egli incarna non si è ancora specificata in distinzioni morali; la trascendenza della vittima non si è ancora frammentata in una potenza buona e divina da un lato, cattiva e demoniaca dall’altro.

Solamente a partire dallo stadio in cui questa divisione si attua – e bisogna pure che si attui sotto l’effetto delle pressioni che agiscono in tutti i sensi sul mitologema originario – l’equilibrio si rompe nei miti ora in favore del malefico, ora in favore del benefico, ora nelle due direzioni assieme. L’equivoca divinità primitiva può allora scindersi in un eroe perfettamente buono e in un mostro perfettamente cattivo che devasta la comunità: Edipo e la Sfinge, san Giorgio e il drago, il serpente d’acqua di un mito arawak e il suo uccisore-liberatore. Il mostro eredita tutto ciò che nella vicenda è spregevole, la crisi, i crimini, i criteri di selezione vittimaria: i tre primi stereotipi persecutorii. L’eroe incarna soltanto il quarto stereotipo, l’uccisione, la decisione sacrificale, tanto più apertamente liberatoria quanto più la cattiveria del mostro ne giustifica appieno la violenza.

Questo genere di divisione è visibilmente tardo, giacché sfocia in racconti e leggende, ossia in forme mitiche talmente degenerate da non essere più oggetto di una credenza propriamente religiosa. Torniamo allora indietro.

Non si tratta di sopprimere in un sol colpo il crimine del dio. Effettuata senza precauzioni, questa censura risolverebbe un problema soltanto per crearne un altro. Sempre più perspicaci dei nostri etnologi, coloro che vivevano di queste mitologie capivano benissimo che la violenza inflitta al loro dio si giustificava con la colpa da lui commessa precedentemente. Cancellare questa giustificazione senza un’altra forma di processo significa, certo, assolvere il personaggio più sacro, ma anche criminalizzare la comunità convinta di averlo punito a giusto titolo. Ora, questa comunità di linciatori è sacra quasi quanto la vittima fondatrice, giacché genera la comunità dei fedeli. Il desiderio di moralizzare la mitologia sfocia in un dilemma. Noi possiamo dedurre senza difficoltà questo dilemma dai temi mitici primordiali, ma possiamo anche leggerne direttamente le conseguenze nei testi più palesemente evoluti, dalle sfumature a volte molto sottili della colpevolezza divina, rimaste fino ad oggi incomprensibili, ma che d’improvviso si chiariscono se viste come soluzioni più o meno ingegnose inventate dai fedeli nel corso delle epoche e dei miti per «discolpare» simultaneamente tutti gli attori del dramma sacro.

La soluzione più semplice consiste nel conservare inalterati i crimini della vittima, ma aggiungendo l’artificio che essi non siano stati voluti da lei. La vittima ha effettivamente fatto ciò di cui la si accusa, ma non l’ha fatto apposta. Edipo ha effettivamente ucciso suo padre e fatto l’amore con sua madre, ma credeva di fare tutt’altra cosa. In definitiva, nessuno è colpevole, e tutte le esigenze morali sono soddisfatte nel rispetto quasi totale del testo tradizionale. Giunti a uno stadio abbastanza critico della loro evoluzione, cioè della loro interpretazione, i miti esibiscono frequentemente dei colpevoli innocenti come Edipo, giustapposti a comunità innocentemente colpevoli.

Si ritrova un po’ la stessa cosa nel caso di Hödhr, il dio scandinavo considerato prima. Benché fisicamente responsabile dell’assassinio, l’uccisore dell’ottimo Baldr è persino più innocente di Edipo, se possibile, dato che, come abbiamo visto, egli ha molte valide ragioni per vedere nel proprio atto omicida unicamente una mimica inoffensiva, una divertente parodia senza conseguenze spiacevoli per il bersaglio fraterno sia pur preso di mira. Hödhr non può assolutamente prevedere quel che accadrà.

Agli dèi primitivi la cui colpevolezza è totale succedono dunque altri dèi la cui colpevolezza è limitata o persino inesistente. Tuttavia, non c’è mai davvero un’assoluzione universale. L’eliminazione della colpa in un luogo qualunque della vicenda si salda di solito al suo rinascere altrove, generalmente ai margini e in forma esacerbata. Vediamo allora apparire un dio o piuttosto una specie di demone la cui colpevolezza viene rafforzata, un Loki o un Crono che, in definitiva, ha il ruolo di un capro espiatorio di secondo grado, rigorosamente conforme al testo, in apparenza, ma che in realtà fa sempre riferimento, se risaliamo all’origine, a qualche vittima reale.

Esistono anche altri metodi per ridurre la colpevolezza divina senza addossarla alla comunità violenta e soprattutto senza rivelare il non-rivelabile per eccellenza, il meccanismo del capro espiatorio. Si trovano vittime colpevoli di azioni che non sono intrinsecamente cattive, ma che, a causa di circostanze particolari di cui queste vittime sono all’oscuro, portano a conseguenze tali da giustificare la violenza collettiva. Si tratta, in verità, di una semplice variante del crimine privo di intenzioni criminali.

La forma suprema di questa duplice giustificazione consiste nel leggere i rapporti tra vittima e comunità dei linciatori nei termini di un puro e semplice malinteso, di un messaggio mal interpretato.

Si dà anche il caso che i crimini degli dèi siano considerati reali, ma che i miti attribuiscano loro una causa supplementare, una forza naturale forse, ma irresistibile, che costringe il dio a comportarsi male senza che la sua volontà vi abbia minimamente parte: un liquore inebriante che gli hanno fatto bere o magari la puntura di un insetto velenoso.

Riassumo ciò che dice Eliade, nella sua Histoire des croyances et des idées religieuses, riguardo a un dio ittita punto da un’ape:

 

«Poiché l’inizio del racconto è andato perduto, non sappiamo per quale motivo Telipinu decida di “scomparire” ... Ma le conseguenze della sua scomparsa si fanno sentire immediatamente. Il fuoco si spegne nei focolari, gli dèi e gli uomini si sentono “prostrati”; la pecora abbandona l’agnello e la mucca il suo vitello; “l’orzo e il grano non maturano più”; gli animali e gli uomini non si accoppiano; i pascoli inaridiscono e le sorgenti si prosciugano ... Infine la dea madre manda l’ape; questa trova il dio addormentato in un boschetto e lo sveglia con il suo pungiglione. Furente, Telipinu provoca calamità tali nel paese che gli dèi si impauriscono e per calmarlo ricorrono alla magia. Grazie a certe cerimonie e formule magiche, Telipinu è purgato dalla rabbia e dal “male”. Pacificato, egli ritorna infine tra gli dèi – e la vita riprende i suoi ritmi».28

Saltano agli occhi i due stereotipi persecutorii della crisi e della colpa del dio che la suscita. La responsabilità divina è nello stesso tempo aggravata e attenuata dalla puntura dell’ape. Non è la violenza collettiva a capovolgere direttamente il malefico in benefico, bensì il suo equivalente rituale. Purtuttavia, l’azione magica rivela questa violenza: essa mira sempre a riprodurre l’effetto originario di capro espiatorio, e riveste d’altronde un carattere collettivo. Sono tutti gli altri dèi a impaurirsi e a intervenire contro Telipinu per mettere fine alla sua attività distruttrice. Ma la violenza di questo intervento è velata: gli dèi non sono nemici di Telipinu più di quanto Telipinu sia veramente nemico degli uomini. Vi è disordine nella comunità e la causa è divina, ma nessuno ha un’intenzione sinceramente cattiva, né Telipinu nel suo rapporto con gli uomini, né gli altri dèi nel loro rapporto con Telipinu.

Tra le varianti della colpa minimizzata bisogna includere le attività del tricksternord-americano e di tutti gli dèi «bricconi» un po’ ovunque. Questi dèi sono capri espiatorii alla stessa stregua degli altri. I loro benefici si riducono tutti quanti a un patto sociale rinsaldato a spese della vittima. Sono invariabilmente preceduti da misfatti sentiti come indubitabili e giustamente puniti. Si ha qui, come dappertutto altrove, il paradosso del dio benefico perché nocivo, apportatore di ordine perché fautore di disordine. All’interno di una rappresentazione mitico-persecutoria ancora intatta, il problema delle intenzioni divine non può, alla lunga, mancare di emergere. Per quale motivo il dio mette nei guai coloro che in ultima analisi vuole aiutare e proteggere, e perché lui stesso, per questa medesima ragione, si mette nei guai? Accanto agli dèi che compiono il male perché non sanno che di male si tratta e agli dèi che lo compiono per un irresistibile impulso, sarà inevitabile inventare una terza soluzione: il dio che fa il male per divertirsi, il dio cattivo burlone. Finisce sempre con l’aiutare, ma adora gli scherzi di cattivo gusto e ne tira sempre qualcuno. È proprio in questo che egli si fa riconoscere. Spinge la burla fino al punto di non poterne più controllare le conseguenze. È l’apprendista stregone che appicca il fuoco al mondo accendendo una fiamma minuscola, e che liberandosi della sua urina inonda tutta la terra. Giustifica dunque tutti gli interventi correttivi e, come sempre, è proprio in virtù di tali interventi che si trasforma in benefattore.

Il trickster risulta talmente furbo, o viceversa talmente stupido e goffo nel compiere la sua missione, da provocare degli incidenti, sia involontari sia volontari, che compromettono il risultato desiderato e nel contempo lo assicurano, poiché ricostituiscono contro il maldestro l’unanimità necessaria al buon funzionamento della comunità.

Si deve dunque riconoscere nel trickster la sistematizzazione di una delle grandi teologie che scaturiscono dal capro espiatorio sacralizzato, la teologia del capriccio divino. L’altra teologia è quella della collera divina, altra soluzione al problema posto agli ostaggi della rappresentazione persecutoria dall’efficacia riconciliatrice di colui che a loro appare come il vero colpevole. Se non apparisse tale, se i beneficiari del meccanismo potessero mettere in dubbio la causalità del capro espiatorio, non vi sarebbero né riconciliazione né divinità.

In questa prospettiva il dio è, come sempre, fondamentalmente buono, ma si trasforma temporaneamente in un dio cattivo. È per meglio riportare i suoi fedeli sulla giusta strada che egli li opprime, per correggere in essi quelle mancanze che gli vietano di mostrarsi immediatamente benefico. Chi ben ama, ben punisce. Questa soluzione, pur essendo meno allegra della precedente, è più profonda, poiché introduce l’idea rarissima tra gli uomini che il loro capro espiatorio non sia l’unica incarnazione della violenza. La comunità spartisce fra se stessa e il proprio dio la responsabilità di questo male: comincia a diventare colpevole dei propri disordini. La teologia della collera si avvicina alla verità, ma si situa ancora all’interno della rappresentazione persecutoria. Non si può sfuggire a quest’ultima senza analizzare il meccanismo del capro espiatorio, senza sciogliere il nodo che racchiude la rappresentazione mitologica su se stessa.

Per concludere riguardo alla colpa del dio e mostrare che non bisogna fissare in categorie rigide le soluzioni brevemente descritte, voglio parlare di un mito che ritroviamo in punti della terra lontanissimi tra loro e che, in modo estremamente ingegnoso, riesce a combinare gli aspetti vantaggiosi tra i quali le precedenti soluzioni dovevano invece fare una scelta.

Dopo aver ucciso il drago, Cadmo, l’antenato di tutta la mitologia tebana, semina i denti del mostro e immediatamente dal terreno scaturiscono guerrieri armati di tutto punto. Questa nuova minaccia, figlia della precedente, illustra chiaramente il rapporto tra la crisi persecutoria all’interno delle comunità umane, da un lato, e i draghi e le bestie fantastiche dall’altro. Per sbarazzarsi dei guerrieri, Cadmo ricorre a un’astuzia semplicissima. Di nascosto, raccoglie un sasso e lo getta in mezzo alla truppa. Nessuno dei guerrieri è colpito, ma il rumore prodotto nel cadere dal sasso fa sì che ognuno creda di essere stato provocato dall’altro; un istante dopo si scatenerà la zuffa e quasi tutti si uccideranno a vicenda.

Cadmo appare qui come una sorta di trickster. In un certo senso, è lui la causa della crisi sociale, del subitaneo disordine che devasta un gruppo umano fino alla sua distruzione totale. Il caso in sé non sarebbe gravissimo, il sasso non ha fatto male a nessuno; lo scherzo diventa veramente cattivo soltanto in virtù della stupida brutalità dei guerrieri, della loro cieca propensione a intensificare il conflitto. Una cattiva reciprocità alimenta ed esaspera tanto più rapidamente questo conflitto in quanto i partecipanti non la riconoscono.

Ciò che stupisce in questo mito è il fatto che rivelando in modo spettacolare la reciprocità sempre meno differita, e dunque sempre più accelerata, che si impadronisce delle società in crisi – ne ho parlato prima – svela implicitamente sia la ragion d’essere del capro espiatorio, sia la ragione della sua efficacia. Una volta scatenata, la cattiva reciprocità non può che peggiorare, semplicemente perché tutti i motivi di rancore, non ancora reali in un certo momento, lo diventano subito dopo. Vi è sempre all’incirca una metà dei combattenti che giudica ristabilita la giustizia perché si sente vendicata, mentre l’altra metà si impegna a ristabilire questa stessa giustizia assestando alla metà provvisoriamente soddisfatta il colpo della vendetta risolutiva.

Il meccanismo è tale che per fermarlo bisognerebbe che tutti si accordassero per riconoscere la cattiva reciprocità. Tuttavia, chiedere loro di comprendere che i rapporti in seno al gruppo bastano non soltanto ad alimentare ma a generare la loro sventura, sarebbe davvero chiedere troppo. Una comunità può passare dalla buona alla cattiva reciprocità per ragioni insignificanti o all’opposto travolgenti e fatali, ma i risultati non cambiano. Tutti sono sempre responsabili, pressappoco alla stessa maniera, ma nessuno vuole riconoscerlo. Se anche prendessero coscienza della loro cattiva reciprocità, vorrebbero comunque che essa avesse un autore, un’origine reale e punibile; forse accetterebbero di sminuirne l’importanza, ma vorrebbero sempre una causa primaria suscettibile di «un intervento correttivo», per usare il linguaggio di Evans-Pritchard, una causa «significativa sul piano dei rapporti sociali».

Si comprende facilmente come e perché il meccanismo del capro espiatorio sopraggiunga talvolta a interrompere questo processo. L’istinto cieco delle rappresaglie, la reciprocità demenziale per cui ciascuno si avventa sull’avversario più vicino o più visibile, non si basa su niente di veramente concreto; tutti possono dunque convergere, pressoché in un qualsiasi momento ma di preferenza nel momento più isterico, su chicchessia. Basta un accenno di convergenza del tutto accidentale, o motivato da un qualche segno vittimario; basta che un potenziale bersaglio risulti un po’ più attrattivo degli altri, perché tutti si trovino di colpo in un’improvvisa certezza che li mette miracolosamente d’accordo, nella beata unanimità riconciliatrice...

Poiché per la violenza non c’è mai altra causa che la credenza universale in una causa altra, basta che questa universalità si incarni in un altro reale, il capro espiatorio, trasformato nell’altro di tutti, perché l’intervento correttivo cessi di apparire efficace e lo divenga realmente, risolvendosi nella prodigiosa estinzione di ogni volontà di rappresaglia in tutti i sopravvissuti. Il capro espiatorio è l’unico ad avere dei motivi per vendicarsi, ma è l’unico a non poterlo più fare.

In altri termini, perché nel mito di Cadmo la distruzione reciproca si interrompa, basterebbe che i guerrieri scoprissero la funzione di agente provocatore svolta proprio da Cadmo, e si riconciliassero a sua insaputa. Poco importa che l’agente sia reale o meno, basta che tutti siano convinti della sua realtà e della sua identità. Come assicurarsi di aver individuato il vero colpevole se non è successo altro che la caduta di una piccola pietra, il rumore di un semplice sasso che rotola su altri sassi? Un incidente simile può verificarsi in qualunque momento senza che ci sia un’intenzione perversa da parte del suo responsabile, senza che ci sia un autentico responsabile. Ma qui a contare è solamente la fede più o meno intensa e più o meno universale che ispira l’eventuale capro espiatorio nella sua volontà e capacità di seminare il disordine, e dunque di ristabilire l’ordine. Non riuscendo a scoprire ciò che è realmente successo, o meglio non riuscendo a trovare un capro espiatorio abbastanza convincente, i guerrieri non smettono di battersi e la crisi continua fino all’annientamento.

I sopravvissuti rappresentano la comunità scaturita dal mito di Cadmo, mentre i morti rappresentano il disordine, in opposizione a Cadmo stesso. Per il mito, Cadmo è simultaneamente potenza di disordine – è lui che semina i denti del drago – e potenza d’ordine – è lui che libera l’umanità distruggendo dapprima il drago, e poi la moltitudine dei guerrieri, draco redivivus, il nuovo mostro dalle mille teste sorto dai resti del mostro precedente. Cadmo è dunque uno di quegli dèi che provocano sempre il disordine, ma soltanto per porvi fine. Cadmo non è dunque un capro espiatorio esplicito nel suo mito, e non lo è grazie a quel mito: è un capro espiatorio implicito, un capro espiatorio sacralizzato dal mito stesso, il dio dei Tebani, e questo mito, alla fin fine, non è altro che astuto; non rivela fino in fondo, perché non può farlo, il segreto della propria elaborazione, il meccanismo di capro espiatorio sul quale poggia.

I miti del tipo «piccola causa, grandi effetti», o se si preferisce «piccolo capro espiatorio, grande crisi», si ritrovano nelle cinque parti del mondo e in forme a volte troppo singolari nei dettagli perché ci si possa sbarazzare di essi con il pretesto che sono frutto di influenze reciproche ed effetto del diffusionismo. La versione indiana del mito di Cadmo può anche rientrare tra le «influenze» indoeuropee, ma la faccenda si fa più delicata per la versione sud-americana che appare da qualche parte in Mythologiques di Lévi-Strauss, dove un pappagallo antropomorfo, nascosto in un albero, semina la discordia sotto di sé lasciando cadere dal becco certi proiettili. È difficile sostenere che tutti questi miti si limitino ad avere un significato esclusivamente logico e differenziatore, e che non abbiano nulla a che fare con la violenza tra gli uomini.

 

 

Non tutti i testi che riprendono miti più antichi cancellano l’assassinio collettivo. Vi sono alcune eccezioni importanti tra i commentatori religiosi, i grandi scrittori – i tragici in particolare – e anche gli storici. Nel leggere il mio commento, bisogna tenere ben presenti le analisi che ho appena fatto. Esse gettano una luce nuova – penso – sia sulle «dicerie» a proposito di Romolo, sia su molte «dicerie» analoghe concernenti un certo numero di fondatori di città e di fondatori di religioni. Freud è l’unico autore importante, tra i moderni, che abbia preso sul serio queste dicerie. Nel suo scritto L’uomo Mosè e la religione monoteistica egli ha utilizzato, a fini sfortunatamente troppo polemici, certe «dicerie» marginali della tradizione ebraica, secondo le quali Mosè sarebbe stato a sua volta vittima di un assassinio collettivo. Ma per una strana carenza nell’autore di Totem e tabù, che forse si spiega con la sua critica troppo parziale della religione ebraica, egli non trae mai le dovute conseguenze dalla notevole convergenza tra queste «dicerie» a proposito di Mosè e quelle relative a molti altri legislatori e fondatori di religioni. Alcune fonti suggeriscono, ad esempio, che Zarathustra morì assassinato dai membri, travestiti da lupi, di una di quelle associazioni rituali di cui egli aveva combattuto la violenza sacrificale, una violenza che ha anche qui il carattere collettivo e unanime dell’assassinio fondatore che essa ripete. In margine alle biografie ufficiali, esiste spesso una tradizione più o meno «esoterica» dell’assassinio collettivo.

Gli storici moderni non prendono sul serio simili storie. Non possiamo certo rimproverarli per questo: essi non dispongono dei mezzi che permetterebbero loro di incorporarle nelle loro analisi. Eppure una scelta costoro la avrebbero: o interpretare tali storie in riferimento a un unico autore, il «loro autore», come dicono, e in questo caso possono vedervi soltanto ciò che, per ironia o per prudenza, vi vedono le loro stesse fonti, ossia delle storie inverificabili, delle «chiacchiere da donnette»; oppure, al contrario, interpretarle nell’ambito della mitologia o, se vogliamo, della storia universale. In quest’ultima ipotesi dovrebbero sentirsi costretti a riconoscere che il tema, anche se tutt’altro che universale, ritorna troppo di frequente per non doverne cercare una spiegazione. Non ci si può limitare a definirlo mitologico e basta, giacché sono pur sempre altri miti quelli che contraddice apertamente. Eccoli dunque con le spalle al muro, i nostri uomini di scienza: forse che a questo punto si decideranno ad affrontare questo loro problema, o almeno a riconoscere che un problema esiste? Non è il caso di contarci troppo: quando si tratta di eludere il vero, le risorse si rinnovano con lena infinita. Il rifiuto dell’esistenza del senso ricorre qui alla sua arma suprema, al suo autentico raggio della morte: definire come puramente retorico il tema «perturbante»; decidere che ogni insistenza su questa uccisione collettiva assente, ogni sospettoso indugiare sulla sua mancanza, è una preoccupazione oziosa e fine a se stessa. Sarebbe da ingenui consumarvi del tempo. Di tutte le possibili scialuppe di salvataggio, non ne esiste una più inaffondabile. Dopo essersi fatta a lungo desiderare, eccola attraversare i mari della nostra epoca, e tutte le tempeste dell’apocalisse si accaniranno invano contro di essa: è ancora più ingombra della zattera della Medusa, ma quale naufragio potrebbe colpirla?

Nessuno, insomma, dà all’assassinio collettivo la benché minima rilevanza. Torniamo allora a Tito Livio, più interessante della cultura universitaria che lo tiene in ostaggio. Lo storico romano ci racconta che, durante una forte tempesta, Romolo «fu avvolto da una nube così densa che lo sottrasse agli sguardi dell’assemblea. Da allora, non riapparve mai più sulla terra». Dopo un attimo di sbigottimento «la gioventù romana acclama in Romolo un nuovo dio». Ma:

 

«Vi furono, credo, già allora alcuni scettici che sostennero a bassa voce che il re era stato fatto a pezzi dai Padri con le loro stesse mani: anche questa voce infatti si divulgò, in gran mistero, ma il prestigio dell’eroe e i pericoli del momento resero popolare l’altra versione».29

 

Anche Plutarco riporta numerose versioni della morte di Romolo. Tre di esse sono varianti di un assassinio collettivo. Secondo alcuni, Romolo morì soffocato nel suo letto dai suoi nemici; secondo altri, invece, fu fatto a pezzi dai senatori nel tempio di Vulcano. Secondo altri ancora, la vicenda si svolse nella palude Caprea, durante la forte tempesta di cui parla Tito Livio. La tempesta fece «scappare il popolino» mentre «i senatori serrarono le file». Come in Tito Livio, sono i senatori, ossia gli assassini, che instaurarono il culto del nuovo dio «perché essi avevano serrato le file contro di lui»:

 

«Il grosso della plebaglia prese per buona la spiegazione, furono contenti di udirla e se ne andarono adorando Romolo di tutto cuore e pieni di speranza; ma ci furono alcuni che, cercando la verità dell’accaduto con ostinazione e durezza, misero in gran scompiglio i patrizi, accusandoli di voler ingannare quella rozza moltitudine con vane e folli illusioni, mentre invece erano stati loro stessi a uccidere il re con le proprie mani».30

 

La leggenda, se tale si può dire, è una controleggenda. Nasce da una volontà esplicita di demistificazione analoga, in ultima analisi, a quella di Freud. È la versione ufficiale a passare per leggendaria, ed è il potere che ha interesse a diffonderla per consolidare la sua autorità. La morte di Romolo assomiglia a quella di Penteo nelle Baccanti:

 

«Eppure alcuni supposero che i senatori si fossero avventati tutti insieme su di lui ... e, dopo averlo fatto a pezzi, ognuno ne avesse portato via un pezzo nelle pieghe della propria veste».

 

Questa fine ricorda il diasparagmos dionisiaco: la vittima muore fatta a pezzi dalla moltitudine. Gli echi mitologici e religiosi sono dunque indiscutibili, ma il diasparagmos si riproduce spontaneamente nelle folle in preda alla frenesia assassina. La storia dei grandi tumulti popolari in Francia durante le guerre di religione pullula di esempi analoghi al testo di Plutarco. I rivoltosi si contendono persino i più piccoli brandelli della loro vittima; vedono in essi preziose reliquie che potranno in seguito essere oggetto di un vero commercio e raggiungere prezzi esorbitanti. Innumerevoli esempi indicano l’esistenza di un rapporto stretto tra la violenza collettiva e un certo processo di sacralizzazione che, per formarsi, non ha bisogno di una vittima già potente e famosa. La metamorfosi dei brandelli in reliquie è attestata anche in alcune forme di linciaggio razzista nel mondo contemporaneo.

In breve, sono gli stessi assassini a sacralizzare la loro vittima. Ed è proprio quello che attestano le dicerie relative a Romolo. Lo fanno anche in un modo particolarmente moderno, perché vedono in questa vicenda una specie di complotto politico, una storia inventata di sana pianta da gente che non ha mai perso la testa e che ha sempre saputo ciò che faceva. Il testo riflette la prospettiva plebea. La lotta contro l’aristocrazia riduce la divinizzazione di Romolo a una specie di complotto contro il popolo, a uno strumento della propaganda senatoria. L’idea che la sacralizzazione trasfiguri un avvenimento in realtà sordido è molto importante, ma la tesi di un camuffamento deliberato, per quanto seducente possa essere per lo spirito contemporaneo di cui preannuncia alcune tendenze, non può soddisfare del tutto chi intuisce il ruolo essenziale dei fenomeni di folla e di ipermimetismo collettivo nella genesi del sacro.

Facendo del processo mitologico un’invenzione che in nessuna delle sue tappe smette mai di essere consapevole, le dicerie che Tito Livio e Plutarco documentano ci farebbero ricadere, se le prendessimo alla lettera, negli errori del razionalismo moderno in materia religiosa. Il loro maggior interesse sta invece nel rapporto che esse indicano tra la genesi mitologica e la folla scatenata. Non altrimenti fa l’erudito Ottocento, quando di queste dicerie accoglie soltanto la parte non autentica: il religioso si riduce così a un complotto dei potenti ai danni dei deboli.

Bisogna soffermarsi su tutte le tracce di violenza collettiva senza eccezione e criticarle l’una tramite l’altra. Nella prospettiva aperta dalle analisi precedenti, le dicerie acquistano una dimensione che sfugge al positivismo tradizionale, ossia all’alternativa grossolana tra «vero» e «falso», tra storico e mitologico. Nel quadro di questa alternativa, le nostre dicerie non possono inserirsi da nessuna parte; nessuno è abbastanza competente per poterne trattare. Gli storici non possono tenerne conto: le dicerie sono ancora più sospette di tutto quanto essi possano raccontare sulle origini di Roma. Lo stesso Tito Livio lo riconosce. Neanche gli studiosi di mitologia possono interessarsi a ciò che si presenta esplicitamente come antimitologico piuttosto che mitologico. Le dicerie si insinuano negli interstizi del sapere ufficiale. È quello che succede sempre alle tracce di violenza collettiva. Man mano che la cultura si evolve, le tracce si lasciano espellere e cancellare in misura crescente, e sotto questo profilo la filologia e la critica moderna non fanno che completare l’opera delle mitologie nella loro fase tardiva. È ciò che viene denominato «sapere».

L’occultamento dell’assassinio collettivo continua a essere attivo tra noi con una forza non meno insidiosa e irresistibile che nel passato. Per mostrarlo, dovrò ricorrere una seconda volta al mitologema di Romolo e Remo, che ci permetterà di vedere questo processo in azione e, arriverei a dire, persino oggi e tra noi. Ci aiuterà inoltre a comprendere che l’occultamento delle tracce continua anche per nostra mano e, ovviamente a nostra insaputa, nell’uso stesso che noi facciamo del testo di Tito Livio.

La maggior parte dei miei lettori è convinta, suppongo, che le versioni alternative della morte di Romolo costituiscano l’unica rappresentazione dell’assassinio collettivo nel mitologema in questione. Nessuno ignora, certo, che il mito contiene un’altra morte violenta, da sempre presentata come un assassinio, ma come un assassinio individuale: la morte di Remo.

Romolo è l’unico assassino. Interrogate tutte le persone colte che conoscete e tutte senza eccezione vi diranno che è proprio così. Romolo uccide suo fratello in un impeto di collera perché questi ha varcato con un salto, per farsene beffa, il limite simbolico della città di Roma che lui, Romolo, aveva appena tracciato.

Questa versione dell’assassinio figura effettivamente in Tito Livio, ma non è l’unica né la prima. La prima è una versione collettiva, e, a differenza della seconda, è un esempio classico di mito che non ha ancora eliminato la sua rappresentazione dell’assassinio collettivo. La prima versione si innesta sulla controversia per l’interpretazione dei presagi. Il volo degli uccelli non riesce a dare la supremazia a uno dei gemelli nemici, Romolo e Remo. La storia è risaputa; non è occultata da nessuno perché si combina senza difficoltà con la seconda versione del mito, quella che fornisce al mito la sua conclusione, e che noi tutti scegliamo senza accorgercene perché è la versione che elimina l’assassinio collettivo. Dopo aver raccontato come i due fratelli concepirono il progetto di costruire una nuova città sul luogo stesso in cui «erano stati abbandonati e allevati», Tito Livio aggiunge:

«A questi progetti si mescolò ben presto la passione ereditaria, l’avidità di regnare, e tale passione fece nascere un conflitto criminale da un’impresa inizialmente assai mite. Poiché tra questi due gemelli la scelta non era possibile, neppure in ragione dell’età, toccava agli dèi protettori del luogo designare mediante presagi colui che avrebbe dovuto dare il suo nome alla futura città, fondarla e governarla ...

«Fu per primo Remo, si dice, a ottenere un presagio: sei avvoltoi. Lo aveva appena segnalato quando a Romolo ne apparve il doppio. Ciascuno dei due fu proclamato re dai propri partigiani. Gli uni pretendevano la sovranità facendo valere la priorità, gli altri il numero degli uccelli. Vennero a parole; passarono a vie di fatto; gli animi adirati si esasperarono e degenerarono in una lotta omicida. Fu allora che nella rissa Remo cadde colpito a morte».31

 

Tra i due gemelli tutto è sempre uguale; vi è conflitto perché vi è concorso, concorrenza, rivalità. Il conflitto non sta nella differenza, sta nella sua assenza. Ecco perché lo strutturalismo delle opposizioni binarie differenziate non è in grado di capire il problema dei gemelli nemici più di quanto lo sia la psicoanalisi «strutturata come un linguaggio». Tito Livio capisce esattamente la stessa cosa che capiscono i tragici greci quando ci parlano dei loro gemelli, Eteocle e Polinice, ossia che il tema dei gemelli fa tutt’uno con il tema del conflitto indecidibile perché indifferenziato; significa assenza della separazione intesa come separazione assoluta: poiché tra questi due gemelli la scelta non era possibile, neppure in ragione dell’età, ci si affida agli dèi, ma gli dèi stessi danno solo una parvenza di decisione, una decisione essa stessa indecidibile, che non fa altro che alimentare il litigio e farlo divampare sempre di più. Ciascuno dei due fratelli desidera ciò che desidera l’altro, anche se si tratta di una cosa che non esiste ancora, la città di Roma. La rivalità è puramente mimetica e coincide con la crisi sacrificale che uniforma tutti coloro che sono partecipi dello stesso desiderio conflittuale, trasformandoli tutti, e non soltanto i due fratelli, in gemelli della loro stessa violenza.

La traduzione che ho citato, quella della collezione Budé, non è scorretta, ma ha un non so che di fuorviante, di inadeguato. Essa rende invisibile l’essenziale. Il carattere collettivo dell’assassinio di Remo, nettissimo nel latino di Tito Livio, diventa quasi impercettibile nel testo francese. Le parole latine in turba, ossia «nella folla», sono tradotte in francese «dans la bagarre», «nella rissa».

È stato Michel Serres a farmi notare l’originale latino: ibi in turba ictus Remus cecidit, e anche il notevole processo di attenuazione e di minimizzazione che la traduzione citata adotta. Mi si dirà che la parola bagarre in questo contesto indica di per sé una pluralità di contendenti. È vero. Ma la parola turba ha un valore quasi tecnico: è quella usata quando si vuole mettere in rilievo l’elemento perturbatore e perturbato di una folla; è la parola che torna più spesso nei numerosi racconti di assassinii collettivi nel primo libro di Tito Livio. La sua importanza è tale che il suo equivalente letterale sarebbe indispensabile in ogni traduzione, e la sua assenza costituisce inevitabilmente qualcosa di analogo, meno spettacolare ma altrettanto efficace, alla scomparsa dell’assassinio collettivo in testi come il mito di Baldr o il mito dei Cureti. Ciò equivale a dire che, in tutte le tappe della cultura, ricadiamo sempre nello stesso tipo di fenomeno: l’occultamento dell’assassinio fondatore. È un processo che continua ad essere attivo anche oggi, per il tramite delle ideologie più diverse – l’umanesimo classico, ad esempio, o la lotta contro l’«etnocentrismo occidentale».

Mi si dirà che farnetico. Ma non è vero, e la prova sta nella concezione a cui prima alludevo, l’illusione quasi universale che non vi sia rappresentazione dell’assassinio collettivo in un mito come quello di Romolo e Remo. In realtà questa rappresentazione c’è, ed è anzi assolutamente centrale, ma scompare poco a poco grazie a un processo di soffocamento o strangolamento, vero equivalente intellettuale di ciò che i patrizi fanno subire allo stesso Romolo in una delle versioni dell’assassinio in Plutarco. Ci sono diversi altri assassinii che, come mostra Michel Serres, fluttuano alla deriva, respinti sempre più lontano fino al momento, invero ormai quasi raggiunto, in cui la loro espulsione sarà completa. Alla prima allusione, i «veri esperti» aggrottano le sopracciglia, alla seconda venite automaticamente esclusi dalla comunità dei cosiddetti ricercatori «seri», di coloro, cioè, che ormai sostengono che il fenomeno religioso probabilmente non esiste. Siete trattato come una specie di avventuriero intellettuale, avido di sensazioni oscure e di pubblicità. Nella migliore delle ipotesi sarete considerato uno che sfrutta in modo vergognoso l’assassinio collettivo, questo mostro di Loch Ness degli studi mitologici.

Voglio precisare ancora una volta che, ai miei occhi, l’interesse di Tito Livio non sta nel fatto che le varianti collettive e sovversive della morte di Romolo e soprattutto la versione occultata dell’assassinio di Remo, versione sempre dimenticata e più o meno falsificata, permettono di inserire un altro mito nella schiera dei miti provvisti di una rappresentazione dell’assassinio collettivo. Anche se si potesse dimostrare che tutti i miti sono in origine provvisti di questa rappresentazione, la dimostrazione avrebbe un interesse solamente secondario. Molto più interessante è il processo di cancellazione, perché è troppo costante per essere fortuito. È la mitologia stessa, insomma, a testimoniare, in modo indiretto quanto imponente, contro l’ostinazione di cui diamo prova nel misconoscerne il punto nevralgico.

Tito Livio fa emergere in modo rigoroso quel che potremmo chiamare il dramma mitologico elementare: il (non-)significato dei gemelli, la loro rivalità mimetica, la crisi sacrificale che ne risulta, l’assassinio – collettivo – che la risolve. D’altronde, ritroviamo tutto questo nei grandi autori antichi e in tutti i loro grandi imitatori dell’età classica francese. Riconoscere quest’unità, quella di Tito Livio e di Corneille, ad esempio, o quella di Euripide e di Racine, significa riconoscere un’evidenza che due o tre secoli di miopia da École des Chartes hanno censurato, e non gettare i grandi testi in un nuovo «tritatutto critico» di stile contemporaneo.

È questo che bisogna ammirare e imitare in Tito Livio, come pure il modo in cui egli ci presenta le due versioni dell’assassinio di Remo, quella collettiva e quella individuale, nell’ordine necessario della loro evoluzione diacronica. Diversamente dalle nostre scuole attuali, appiattite sulla sola sincronia, lo storico romano vede che esiste un tempo dell’elaborazione e che esso si muove sempre nella medesima direzione, tende sempre al medesimo fine, che d’altronde non raggiungerà mai nonostante gli innumerevoli aiuti, nonostante l’adesione pressoché unanime che esso incontra; questo fine è la cancellazione dell’assassinio collettivo. La versione sprovvista di assassinio collettivo è percepita come successiva a quella che ancora lo contempla. È quello che io stesso ho tentato di mostrare a proposito di Baldr e dei Cureti. La trasformazione mitologica è a senso unico e si effettua nel senso della cancellazione delle tracce.

È interessante osservare, infine, che a Roma è sempre esistita una tradizione propriamente apocalittica: partendo dall’origine violenta della città, essa ne profetizza la distruzione violenta. Nella sua Histoire des croyances et des idées religieuses, Mircea Eliade parla delle ripercussioni del mito di Romolo e Remo nella coscienza dei Romani:

 

«Di questo cruento sacrificio, il primo che sia stato offerto alla divinità di Roma, il popolo conserverà sempre un ricordo terribile. Più di settecento anni dopo la fondazione, Orazio lo considererà ancora come una sorta di colpa originaria le cui conseguenze avrebbero dovuto ineluttabilmente provocare la perdizione della città, spingendo i suoi figli a massacrarsi fra di loro. In ogni momento critico della sua storia, Roma si interrogherà con angoscia, credendo di sentire pesare su di sé una maledizione. Neppure alla sua nascita essa era stata in pace né con gli uomini né con gli dèi. Questa ansietà religiosa peserà sul suo destino».32

 

La tradizione è interessante in quanto rende responsabile dell’assassinio fondatore l’intera collettività. Essa si basa necessariamente su una versione collettiva dell’assassinio, e anche se nell’idea che si fa delle ripercussioni lontane di quest’ultimo c’è qualcosa di magico, ci comunica una verità indipendente dal suo modo di esprimersi: l’obbligo per qualsiasi comunità di fondarsi e ordinarsi a partire da una violenza radicalmente distruttrice nel suo principio e destinata di per sé ad esserlo fino in fondo, ma di cui grazie a chissà quale miracolo la collettività ha potuto differire la violenza, e grazie a qualche rinvio divinamente concesso questa violenza è divenuta provvisoriamente edificatrice e riconciliatrice.

VIII

LA SCIENZA DEI MITI

Come ormai sappiamo, nelle forme, nelle idee e nelle istituzioni religiose in generale bisogna vedere il riflesso alterato di violenze che eccezionalmente hanno «avuto successo» sotto il profilo delle loro ripercussioni collettive, e in particolare nella mitologia bisogna vedere una rammemorazione di queste stesse violenze, conforme all’unico modo che tale inatteso successo ha reso rappresentabile per i loro autori. Trasmettendosi di generazione in generazione, questa rammemorazione necessariamente si evolve, ma non ritrova mai il segreto della distorsione originaria, che anzi si allontana sempre di più, sprofondando nel tempo e perdendosi. Le religioni e le culture dissimulano questa violenza per fondarsi e perpetuarsi. Portare allo scoperto il loro segreto equivale a dare una soluzione, di valore rigorosamente scientifico, al più grande enigma di tutte le scienze dell’uomo, quello della natura e dell’origine del religioso.

Nell’affermare questo carattere scientifico contraddico il dogma attuale, secondo cui la scienza in senso stretto è impossibile entro l’ambito propriamente umano. La mia affermazione suscita uno scetticismo totale, soprattutto negli ambienti in linea di principio più competenti a giudicarne: gli specialisti delle scienze, ovvero non-scienze, dell’uomo. Persino quelli meno severi nei miei confronti non si stancano di precisare che merito indulgenza a dispetto e non a motivo delle mie esorbitanti pretese. Benevolenza non meno confortante che sorprendente: se la tesi che io difendo non ha alcun valore, cosa possono valere interi libri dedicati alla sua difesa?

Vedo chiaramente di quali circostanze attenuanti potrei beneficiare. In un mondo che non crede più a niente, delle rivendicazioni eccessive non sono in sé e per sé un male: il numero dei libri pubblicati cresce costantemente e un povero autore, per attirare l’attenzione su quello che ha scritto, si vede costretto a esagerarne l’importanza. Deve farsi pubblicità da sé. Non dobbiamo dunque prendercela per qualche eccesso di linguaggio, perché, in realtà, non è lui a delirare, quanto piuttosto le condizioni oggettive della creazione culturale.

Mi dispiace dover smentire questa generosa interpretazione del mio operato. Più ci penso e meno vedo la possibilità di parlare diversamente da come faccio. Devo dunque tornare alla carica, rischiando di giocarmi delle simpatie fondate, temo, su un malinteso.

Nel vortice sempre più veloce dei «metodi» e delle «teorie», nel valzer delle interpretazioni che godono per breve tempo il favore del pubblico prima di cadere in un oblio dal quale probabilmente mai più riaffioreranno, sembra che nessuna specie di stabilità sussista, che nessuna verità sia capace di reggere. L’ultimo dettame della moda asserisce persino che le interpretazioni sono infinite e tutte equivalenti, poiché l’una non è mai più vera o più falsa dell’altra. Di un testo possono esistere, sembra, tante interpretazioni quanti sono i lettori. Esse sono dunque destinate a susseguirsi senza fine una dopo l’altra nell’euforia generale di una libertà conquistata una volta per tutte, senza che nessuna possa mai avere la meglio sulle sue rivali.

Non bisogna confondere lo sterminio reciproco e ritualizzato delle «metodologie» con le possibilità attuali dell’intelligenza. Questo dramma ci distrae, ma è simile a una tempesta nell’oceano, che si svolge in superficie senza turbare minimamente l’immobilità del profondo. Più ci agitiamo, più la nostra agitazione appare come l’unica realtà, e più l’invisibile ci sfugge.

Gli pseudo-demistificatori possono divorarsi tra loro senza smentire il principio critico dal quale dipendono tutti, ma in modo sempre più infedele. Le dottrine recenti provengono tutte da un solo e identico procedimento di decifrazione, il più antico che il mondo occidentale abbia inventato, l’unico veramente duraturo. E per il fatto stesso che è un procedimento al di là di ogni contestazione, passa inosservato e invisibile al pari di Dio. Esercita su di noi un tale ascendente che sembra confondersi con la percezione immediata. Se si attira su di esso l’attenzione di chi lo utilizza, nel momento in cui lo utilizza, non si può che suscitarne lo stupore.

Il lettore ha già riconosciuto una nostra vecchia conoscenza: la decifrazione delle rappresentazioni persecutorie. Nel contesto del nostro mondo storico ci apparirà banale, ma estrapolatela da tale contesto e farà subito la figura di una sconosciuta. Eppure, la nostra ignoranza non ha niente a che vedere con quella di Monsieur Jourdain che faceva della prosa senza saperlo. La banalità circoscritta del procedimento non deve nasconderci quel che vi è di eccezionale e persino di unico in un quadro antropologico. Al di fuori della nostra cultura nessuno lo ha mai scoperto e anche il nostro modo di utilizzarlo senza mai guardarlo ha un che di misterioso.

Nel mondo attuale sprechiamo questo procedimento e ce ne serviamo costantemente per accusarci a vicenda di tendenze persecutorie. Esso è contaminato dallo spirito di parte e dall’ideologia. Proprio per ritrovarlo in tutta la sua purezza e illustrarlo ho scelto dei testi antichi la cui interpretazione non sia inficiata dalle controversie parassitarie relative al nostro mondo. La demistificazione di un Guillaume de Machaut crea l’unanimità intorno a sé. Da lì ho preso le mosse e lì sempre ritornerò, per farla finita con le interminabili vessazioni dei nostri gemelli mimetici testualizzati. Le questioni di lana caprina non possono scalfire la solidità granitica della decifrazione che abbiamo analizzato.

Certo, esistono sempre degli sconsiderati, specie in un’epoca offuscata come la nostra, che disconoscono le evidenze più lampanti, ma i loro sofismi non hanno la minima rilevanza intellettuale. Anzi, è bene essere anche più chiari. Un giorno o l’altro, la rivolta contro il tipo di evidenza di cui parlo potrebbe prendere il sopravvento e potremmo trovarci ancora una volta davanti alle fiaccolate di Norimberga o al loro equivalente. Le conseguenze storiche sarebbero catastrofiche, ma le conseguenze intellettuali sarebbero nulle. Questa verità non sopporta alcun compromesso, e niente e nessuno potrà modificarla in nulla. Anche se domani non ci sarà più un solo essere sulla terra che possa testimoniarla, questa verità resterà la verità. Qualcosa sfugge qui al nostro relativismo culturale e ad ogni critica del nostro «etnocentrismo». Volenti o nolenti dobbiamo riconoscere questo fatto, e la maggior parte di noi lo riconosce se costretta, anche se è una costrizione che non ci piace. Abbiamo il vago timore che essa ci trascini più lontano di quanto vorremmo.

Possiamo dire scientifica questa verità? Molti avrebbero risposto affermativamente nell’epoca in cui il termine scienza si applicava senza contrasti alle certezze più grandi. Persino oggi, se provate a interrogare le persone che vi circondano, vedrete che molti risponderanno senza esitare che soltanto la mentalità scientifica ha potuto porre fine alla caccia alle streghe. È la causalità magica, persecutoria, ciò che sta dietro la caccia alle streghe, e per rinunciare a quest’ultima bisogna simultaneamente smettere di credere a quella. L’inizio della rivoluzione scientifica, di fatto, coincide in Occidente più o meno con la definitiva rinuncia a questa caccia alle streghe. Per usare il linguaggio degli etnologi, diremo che un risoluto orientamento verso le cause naturali prevale sempre più sulla immemoriale preferenza degli uomini per le cause significative sul piano dei rapporti sociali, che sono anche le cause suscettibili di intervento correttivo, vale a dire le vittime.

Tra la scienza e la fine della caccia alle streghe esiste uno stretto rapporto. Perché allora non dovrebbe bastare questa considerazione per definire «scientifica» l’interpretazione che sovverte la rappresentazione persecutoria e la rivela? Negli ultimi tempi siamo diventati più schizzinosi in materia di scienza. I filosofi della scienza, influenzati probabilmente dai tempi, apprezzano sempre meno le certezze stabili. Sicuramente storceranno la bocca davanti a un’operazione così priva di rischi e di difficoltà quale la smitizzazione di Guillaume de Machaut. Diciamolo pure, invocare la scienza, nel presente caso, non dà molta soddisfazione.

Meglio dunque rinunciare a un termine così prestigioso per una faccenda tanto banale? Compiere questa rinuncia giunti a questo punto sarebbe non poco ironico, dato che è proprio l’aspetto di cui sto parlando a rendere manifesto il carattere necessariamente scientifico della mia tesi.

Di che cosa si tratta in effetti? Si tratta di applicare a certi testi, a cui nessuno finora aveva mai pensato, un procedimento di decifrazione antichissimo e di provata efficacia, di una validità mille volte confermata nell’ambito attuale della sua applicazione.

Il vero e proprio dibattito sulla mia ipotesi non è ancora iniziato. Finora io stesso sono stato incapace di dargli una collocazione precisa. Per porre la questione correttamente, dovrei prima riconoscere gli stretti limiti della mia iniziativa. La novità della mia argomentazione non consiste affatto in quello che ci si immagina. Io mi limito ad allargare l’ambito di applicazione di una modalità interpretativa di cui nessuno contesta la validità. La vera questione concerne la fondatezza o meno di un simile allargamento. Quindi, o sono nel giusto e ho veramente scoperto qualcosa, oppure sono in errore e ho veramente perso il mio tempo. L’ipotesi non è stata inventata da me: io mi limito ad applicarla altrove, ed essa esige solo qualche lieve adattamento, come abbiamo visto, per applicarsi al mito come è già stata applicata a Guillaume de Machaut. Io potrò avere ragione o torto, ma non ho bisogno di avere ragione su tutta la linea perché il solo epiteto che si convenga alla mia ipotesi sia quello di scientifico. Se ho torto, la mia ipotesi sarà presto dimenticata; se ho ragione, applicarla alla mitologia non comporterà niente di diverso dalla sua applicazione ai testi storici. L’ipotesi è la stessa, e il tipo di testo è pure lo stesso. Se si impone, si imporrà per ragioni analoghe a quelle che l’hanno imposta altrove allo stesso modo. Ed essa si inciderà nella mente degli uomini con la medesima forza.

Come dicevo, l’unico motivo di scartare l’epiteto di scientifico per la nostra lettura di Guillaume de Machaut non è l’incertezza, bensì la troppa certezza, la mancanza di rischio e l’inesistenza di alternative.

Ma non appena applichiamo all’ambito mitologico la nostra vecchia demistificazione senza problemi, i suoi caratteri cambiano. All’evidenza abitudinaria si sostituisce la categoria dell’avventuroso, l’incognito riappare. Le teorie rivali sono numerose e, almeno per adesso, appaiono più «serie» della mia.

Partendo sempre dal presupposto che io abbia ragione, lo scetticismo che mi si oppone oggi non è più significativo di quanto sarebbe potuto essere, nella Francia del XVII secolo, un referendum nazionale sulla questione della stregoneria. La concezione tradizionale avrebbe certamente trionfato; il ridurre la stregoneria a rappresentazione persecutoria non avrebbe raccolto che un basso numero di suffragi. Meno di un secolo dopo, invece, lo stesso referendum avrebbe dato risultati opposti. Se adesso applichiamo l’ipotesi alla mitologia, avverrà la stessa cosa; ci si abituerà poco a poco a considerare i miti secondo la visuale della rappresentazione persecutoria, come ci siamo abituati a farlo per la caccia alle streghe. I risultati sono troppo perfetti perché il ricorso all’ipotesi non diventi meccanico e «naturale» per i miti, come lo è diventato per le persecuzioni storiche. Verrà il giorno in cui leggere il mito di Edipo in maniera diversa da quella secondo cui leggiamo il testo di Guillaume de Machaut sembrerà non meno strano di quanto sembri oggi la loro equiparazione. In quel giorno, lo sfasamento da noi constatato, e che adesso suscita tanto scalpore, tra l’interpretazione di un mito collocato nel suo contesto mitologico e quella dello stesso mito trasposto in un contesto storico, sarà scomparso.

Allora, il problema della scientificità della smitizzazione della mitologia non esisterà più, come ormai non esiste più a proposito di Guillaume de Machaut. Ma se la scientificità della mia ipotesi non solleverà più obiezioni, ciò accadrà per una ragione inversa a quella per cui oggi mi viene negata: essa sarà infatti divenuta troppo evidente, e risulterà arretrata rispetto alle frontiere più audaci e avanzate del sapere. Ebbene, mi contenterò che sia considerata scientifica durante tutto il periodo intermedio tra l’odierno rifiuto pressoché universale e l’universale accettazione futura. Così come durante un periodo altrettanto intermedio è stata considerata scientifica la demistificazione della stregoneria europea.

Infatti, come abbiamo visto poco fa, esiste una certa riluttanza a definire scientifica un’ipotesi troppo priva di rischi e di incertezze. Ma un’ipotesi che contenesse soltanto rischi e incertezze a maggior ragione non sarebbe scientifica. Per meritare questo titolo glorioso bisogna combinare il massimo d’incertezza attuale con il massimo di potenziale certezza.

Ora, è proprio in questi termini che si presenta la mia ipotesi. Consapevoli delle sconfitte passate, i ricercatori hanno deciso troppo affrettatamente che questa combinazione fosse possibile soltanto negli ambiti matematizzabili e suscettibili di verifica sperimentale. La prova che non sia così ce la fornisce il suo essere già una realtà. La mia ipotesi esiste da secoli e, grazie ad essa, il passaggio dall’incertezza alla certezza in materia di smitizzazione è già avvenuto una prima volta: non potrebbe dunque prodursi una seconda volta?

Accettiamo difficilmente questo dato di fatto perché ormai le certezze ci ripugnano; tendiamo a esiliarle in angoli oscuri della nostra mente, così come tendevamo cent’anni fa a esiliare le incertezze. Dimentichiamo volentieri che la nostra smitizzazione della stregoneria e di altre superstizioni persecutorie costituisce una certezza inattaccabile.

Se questa certezza si estendesse in futuro alla mitologia, saremmo ancora lontani dal sapere tutto, ma avremmo delle risposte rigorose e verosimilmente definitive a un certo numero di domande che la ricerca inevitabilmente si pone, o che si porrebbe se non avesse appunto perduto ogni speranza di risposte rigorose e definitive.

Nell’attesa di un tale risultato, matematizzabile o meno, io non vedo perché bisognerebbe rinunciare al termine «scienza». Quale altro termine si dovrebbe impiegare? Mi rimproverano di servirmene senza capire realmente che cosa farmene. Si irritano per la mia presunta arroganza. Credono possibile insegnarmi la modestia senza correre il minimo rischio: non hanno tempo per riflettere su quanto cerco di far capire.

Mi obiettano anche la «falsificazione» di Popper e altre belle cose che arrivano da Oxford, da Vienna, da Harvard. Per non correre rischi – mi viene detto – bisogna soddisfare certe condizioni così draconiane che nemmeno le scienze più rigorose saprebbero rispettarle.

La nostra demistificazione di Guillaume de Machaut non è certamente «falsificabile» nel senso di Popper. Bisogna dunque rinunciarvi? Se neppure qui si ammette una certezza, se si parteggia senza riserve per la grande democrazia dell’interpretazione mai-vera-mai-falsa che ai nostri giorni imperversa al di fuori del matematizzabile, un simile risultato difficilmente si potrà evitare. Ma allora dovremmo condannare retrospettivamente anche coloro che misero fine ai processi di stregoneria. Erano anche più dogmatici dei cacciatori di streghe e al pari di costoro credevano di essere i depositari della verità. Non dovremmo dunque condannarli per questa loro pretesa? Con quale diritto questa gente si permetteva di dichiarare buona soltanto un’interpretazione particolare, beninteso la propria, quando mille altri interpreti, eminenti cacciatori di streghe, universitari illustri e a volte anche molto progressisti come Jean Bodin, avevano un’idea totalmente diversa del problema? Che arroganza insopportabile, che odiosa intolleranza, che spaventoso puritanesimo! Non bisogna forse lasciar sbocciare i cento fiori dell’interpretazione, strega e non strega, cause naturali e cause magiche, cause suscettibili di un intervento correttivo e cause che non ricevono mai la giusta punizione che meritano?

Spostando di poco i contesti, come sto facendo, senza cambiare nulla nella sostanza, il ridicolo di certi atteggiamenti contemporanei risulta lampante. Il pensiero critico è oggi in uno stato di estrema decadenza, che è sperabile sia temporanea; ma non per questo la malattia è meno acuta, dal momento che questa stessa decadenza viene presentata come l’affinamento supremo dello spirito critico. Se i nostri antenati avessero ragionato nello stesso modo dei maestri ora in auge non avrebbero mai messo fine ai processi di stregoneria. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se proprio in questo momento vediamo che gli orrori meno contestabili della storia recente vengono messi in dubbio da chi trova dinanzi a sé solo una intelligencija resa impotente dai rilanci sterili di cui è prigioniera e dalle tesi che ne risultano. Il carattere autodistruttivo di queste tesi non ci riguarda più, se non come stimolo a uno sviluppo più «positivo».

IX

LE PAROLE CHIAVE
DELLA PASSIONE EVANGELICA

Le precedenti analisi ci impongono questa conclusione: la cultura umana è votata alla dissimulazione perpetua delle proprie origini nella violenza collettiva. È una definizione che ci permette di comprendere sia gli stadi successivi di un’evoluzione culturale sia il passaggio da uno stadio all’altro, per il tramite di una crisi sempre analoga alle crisi di cui troviamo traccia nei miti, a loro volta analoghe a quelle che lasciano traccia di sé nella storia, nelle epoche in cui le persecuzioni si moltiplicano. È sempre durante i periodi di crisi e di violenza diffusa che un certo sapere sovversivo minaccia di diffondersi, ma finendo per cadere ogni volta vittima delle ricomposizioni vittimarie o quasi vittimarie che si verificano nel parossismo del disordine.

Questo modello resta pertinente alla nostra società, ed è addirittura più pertinente che mai, eppure è chiaro che non basta a rendere conto di quella che chiamiamo storia, e che è la nostra storia. La decifrazione delle rappresentazioni persecutorie all’interno di tale storia, anche se in futuro non si allargasse a tutta la mitologia, rappresenta già una grossa sconfitta dell’occultamento culturale, una sconfitta che potrebbe ben presto trasformarsi in disfatta. O la cultura non è quello che ho detto, oppure alla forza d’occultamento che la alimenta si accompagna, nel nostro universo, una seconda forza che si contrappone alla prima, e che tende alla rivelazione della sua immemoriale menzogna.

Questa forza di rivelazione esiste, e noi sappiamo tutti che esiste, ma invece di vedere in essa quello che dico io, la maggior parte di noi la ritiene la forza d’occultamento per eccellenza. Si tratta del più grande malinteso della nostra cultura, che si dissiperà inevitabilmente non appena riconosceremo nelle mitologie la piena espressione di quella stessa illusione persecutoria di cui già decifriamo gli effetti diminuiti in seno alla nostra storia.

È la Bibbia, quale la definiscono i cristiani, cioè l’unione dell’Antico e del Nuovo Testamento, a costituire questa forza di rivelazione. È proprio la Bibbia ciò che ci permette di decifrare quello che abbiamo imparato a decifrare in fatto di rappresentazioni persecutorie, e che al tempo stesso ci insegna a decifrare tutto il resto, ossia il religioso nel suo insieme. Questa volta la vittoria sarà troppo decisiva per non comportare la rivelazione della forza che la suscita. I Vangeli si riveleranno da sé come potenza universale di rivelazione. Da secoli, tutti i pensatori più influenti ripetono che i Vangeli non sono altro che un mito fra tanti, e hanno finito per convincerne la maggior parte delle persone.

È un fatto che i Vangeli gravitano intorno alla passione di Cristo, vale a dire intorno allo stesso dramma che è presente in tutte le mitologie del mondo, e ho già cercato di dimostrare come questo sia vero per tutti i miti. Questo dramma è sempre necessario per generare nuovi miti, ossia per essere rappresentato secondo la prospettiva dei persecutori. Ma occorreva il ripetersi di questo medesimo dramma perché fosse rappresentato nella prospettiva di una vittima fermamente decisa a respingere le illusioni persecutorie. In altre parole, esso doveva ripetersi per generare l’unico testo in grado di sbarazzarci di tutta la mitologia.

Per compiere quest’opera prodigiosa, infatti, ed essa si sta compiendo sotto i nostri occhi, per distruggere definitivamente la credibilità della rappresentazione mitologica, bisognava opporre alla sua forza – tanto più reale in quanto da sempre l’umanità intera ne è ostaggio – la forza ancora più grande di una rappresentazione veritiera. Bisognava poi che l’evento rappresentato fosse lo stesso, senza di che i Vangeli non avrebbero potuto confutare né screditare punto per punto tutte le illusioni caratteristiche delle mitologie, che sono le stesse illusioni degli attori della passione.33

Noi vediamo chiaramente che i Vangeli respingono la persecuzione. Ma non sospettiamo che, così facendo, essi ne smontano gli ingranaggi, e che è la religione umana nel suo insieme a venirne distrutta, unitamente all’intera cultura che ne deriva: in tutte le potenze simboliche che attorno a noi vacillano non riconosciamo il frutto della rappresentazione persecutoria. Ma se l’influenza di queste forme si allenta, se il loro potenziale di illusione si affievolisce, è proprio perché individuiamo sempre meglio i meccanismi di capro espiatorio che le sottendono. E, una volta messi allo scoperto, questi meccanismi non operano più; noi crediamo sempre meno alla colpevolezza delle vittime che essi richiedono e vediamo crollare una dopo l’altra le istituzioni sorte da questi meccanismi, ormai private del nutrimento che le sostiene. Che lo si sappia o no, i responsabili di questo crollo sono i Vangeli. Proviamo adesso a dimostrarlo.

Studiando la passione, si è colpiti dal ruolo che vi svolgono le citazioni dell’Antico Testamento, in particolare dai Salmi. I primi cristiani prendevano sul serio questi riferimenti e, durante tutto il Medioevo, la cosiddetta interpretazione allegorica o figurale costituisce, con esiti più o meno felici, il prolungamento e l’amplificazione di questa pratica neotestamentaria. Di solito i moderni in questo non scorgono nulla di interessante, ed è un grosso errore. Essi si orientano infatti verso un’interpretazione retorica e strategica delle citazioni. Gli evangelisti introducono forti innovazioni teologiche, e appare pertanto legittimo attribuire loro il desiderio di renderle rispettabili riconducendole il più possibile sotto l’insegna prestigiosa dei testi biblici. Per far accettare più facilmente ciò che vi è di inaudito nella loro sconfinata esaltazione di Gesù, essi avrebbero collocato il loro messaggio all’ombra protettrice di testi autorevoli.

Bisogna ammettere che i Vangeli danno un rilievo che può apparire eccessivo ad alcuni passi dei Salmi, talvolta a lacerti di frasi di un interesse intrinseco così esiguo e banale che ai nostri occhi non vi è alcun significato degno di nota che ne giustifichi l’utilizzo.

Quale conclusione dobbiamo trarre, ad esempio, quando vediamo che, alla condanna di Gesù, Giovanni (15, 25) riporta solennemente la seguente frase: «Mi hanno odiato senza una causa» (Sal, 35, 19)? L’insistenza dell’evangelista è pesante. La concentrazione ostile della passione è accaduta – così ci assicura – «perché si adempisse la parola della Legge». La goffaggine della formula stereotipata non fa che rafforzare il nostro sospetto. Non vi è dubbio che sussista un effettivo rapporto tra il salmo e il modo in cui i Vangeli ci riferiscono la morte di Gesù, senonché la frase è talmente convenzionale, la sua pertinenza talmente ovvia, che non si vede il bisogno di aggiungere altro.

Non proviamo un’impressione diversa quando Luca fa dire a Gesù: «Deve compiersi in me ciò che è scritto: “È stato annoverato fra i criminali [o fra i trasgressori]”» (Lc, 22, 37Mc, 15, 28). Questa volta la citazione non è tratta da un salmo ma dal capitolo 53 di Isaia. Che pensiero profondo può corrispondere a riferimenti di questo tipo? Non si riesce a comprenderlo, e si preferisce ripiegare su mediocri secondi fini di cui il nostro mondo è colmo.

In realtà, le nostre due brevi frasi sono di enorme interesse, prese sia in se stesse che in rapporto al racconto della passione, ma per capirlo bisogna capire ciò che è in gioco e viene messo a repentaglio nella passione: il dominio della rappresentazione persecutoria sull’intera umanità. In queste frasi in apparenza troppo banali per recare conseguenze di qualche rilievo, viene semplicemente enunciato il rifiuto della causalità magica e delle accuse stereotipate, ovvero il rifiuto di tutto quello che le folle persecutorie accettano ad occhi chiusi. È il caso dei Tebani, che adottano tutti senza esitare l’ipotesi di un Edipo responsabile della peste perché incestuoso; è il caso degli Egiziani, che imprigionano lo sventurato Giuseppe dando ascolto alle calunnie di una seduttrice di provincia non disposta a lasciare la preda. Questi Egiziani non sanno far altro, e riguardo alla mitologia noi tutti siamo molto egiziani, in particolare con Freud, che cerca in Egitto la verità dell’ebraismo. Le teorie alla moda rimangono tutte pagane nel loro attaccamento al parricidio, all’incesto, ecc., e nel loro essere cieche al carattere menzognero delle accuse stereotipate. Siamo molto in ritardo non solo rispetto ai Vangeli, ma anche rispetto alla Genesi.

Anche la folla della passione accetta a occhi chiusi le vaghe accuse formulate contro Gesù. Per essa Gesù si trasforma subito nella possibile causa di quell’intervento correttivo – la crocifissione – che tutti i seguaci del pensiero magico si affrettano a cercare al minimo segno di disordine nel loro piccolo mondo.

Le nostre due citazioni sottolineano la continuità tra la folla della passione e le folle persecutorie già stigmatizzate nei Salmi. Né i Vangeli né i Salmi accettano le illusioni crudeli di queste folle. Le due citazioni bibliche tagliano corto rispetto a tutte le spiegazioni mitologiche. Le distruggono alla radice, giacché la colpevolezza delle vittime è la molla principale del meccanismo vittimario, e la sua apparente assenza nei miti più evoluti, dove la scena dell’assassinio viene manipolata o elusa, non ha nulla a che vedere con quanto avviene nei testi di cui sto parlando. Lo sradicamento evangelico ha con i giochi di prestigio mitologici nello stile di Baldr o dei Cureti lo stesso rapporto che l’asportazione totale di un tumore ha con i gesti apotropaici di un guaritore di villaggio.

I persecutori credono sempre nell’eccellenza della loro causa, ma in realtà odiano senza causa. E l’assenza di causa nell’accusa (ad causam) è esattamente ciò che i persecutori non vedono mai. Bisogna dunque prendersela con questa illusione, se vogliamo liberare tutti questi infelici dalla loro prigione invisibile, dall’oscuro sotterraneo dove languiscono, e che sembra loro il più splendido dei palazzi.

Per quest’azione straordinaria dei Vangeli, consistente nell’abrogare, cassare e annullare la rappresentazione persecutoria, l’Antico Testamento costituisce una sorgente inesauribile di riferimenti legittimi. Non senza ragione il Nuovo Testamento si ritiene tributario di quello Antico e ad esso si ispira: l’uno e l’altro partecipano a una medesima impresa. L’iniziativa spetta all’Antico, ma è il Nuovo a portarla a termine e a darvi compimento in modo decisivo e definitivo.

In particolare nei Salmi penitenziali, vediamo che la parola passa dai persecutori alle vittime, da coloro che fanno la storia a coloro che la subiscono. Le vittime non si limitano a levare la loro voce, ma gridano nel bel mezzo della loro persecuzione: i loro nemici le circondano e stanno per colpirle. A volte costoro mantengono ancora le fattezze animalesche e mostruose che avevano nelle mitologie: sono mute di cani, orde di tori, «bestie possenti di Bashaan». Eppure questi testi non fanno più parte della mitologia, come ha validamente mostrato Raymund Schwager: respingono in misura crescente l’ambivalenza del sacro per restituire alla vittima la sua umanità e rivelare l’arbitrarietà della violenza che la colpisce.34

La vittima che parla nei Salmi appare ben poco «morale», certo, non abbastanza «evangelica» ai buoni apostoli della modernità. La sensibilità dei nostri umanisti ne resta offesa. Il più delle volte lo sventurato risponde infatti con l’odio a quelli che lo odiano. Si deplora l’ostentazione di violenza e rancore «così caratteristica dell’Antico Testamento», e vi si riconosce l’inconfondibile indizio della risaputa malvagità del Dio d’Israele. A partire soprattutto da Nietzsche, si fa risalire a questi Salmi l’invenzione di tutti i sentimenti negativi che ci contaminano, l’umiliazione, il risentimento. A questi testi avvelenati si contrappone la bella serenità delle mitologie, in particolare di quella greca e germanica. E in effetti, forti del loro buon diritto e persuasi che la loro vittima sia colpevole, che ragione hanno i persecutori di sentirsi turbati?

La vittima dei Salmi è imbarazzante, anzi è fastidiosa, rispetto a un Edipo che almeno ha il buon gusto di uniformarsi alla meravigliosa armonia classica. Come non ammirare l’arte, la delicatezza con cui, al momento giusto, egli fa autocritica? Ci mette l’entusiasmo dello psicoanalizzato sul suo divano o del vecchio bolscevico ai tempi di Stalin. È il vero modello, possiamo esserne certi, del conformismo supremo del nostro tempo, quello inseparabile dalla dittatura dell’avanguardismo. I nostri intellettuali mostravano un tale entusiasmo per la servitù che nei loro cenacoli stalinizzavano ancor prima che lo stalinismo fosse inventato. Perché mai sorprendersi nel vederli aspettare oltre mezzo secolo prima di porsi qualche timida domanda circa le più massicce persecuzioni della storia umana? Per addestrarci al silenzio, d’altronde, disponiamo della scuola migliore, quella della mitologia. Tra la Bibbia e la mitologia non abbiamo mai indecisioni. Siamo di volta in volta classici, romantici, primitivisti quando bisogna, modernisti appassionati, neoprimitivisti quando ci stanchiamo del modernismo: gnostici sempre, biblici mai.

Se consideriamo che la causalità magica è inseparabile dalla mitologia, capiamo che la negazione di quest’ultima diventa impossibile da sopravvalutare. E i Vangeli sanno certamente quello che fanno, perché ogni occasione è buona per ribadire questa negazione. La mettono persino in bocca a Pilato che, dopo aver interrogato Gesù, afferma: «Non vedo alcuna causa». Pilato non è ancora sotto l’influsso della folla: in lui parla il giudice, l’incarnazione del diritto romano, della razionalità legale, che si attiene in modo fugace ma significativo ai fatti.

Ma che cosa c’è di straordinario in questa riabilitazione biblica delle vittime? Non è forse la norma, e non risale alla più remota antichità? Senza dubbio, ma queste riabilitazioni sono il tipico segnale di un gruppo che si schiera contro un altro gruppo. Intorno alla vittima riabilitata rimangono costantemente dei fedeli e la fiaccola della resistenza non arriva mai a estinguersi: la verità non si lascia sommergere. Ed è proprio questo l’elemento di falsità, ciò che fa sì che la rappresentazione persecutoria mitologica non sia mai veramente compromessa o minacciata.

Considerate, ad esempio, la morte di Socrate. La «vera» filosofia non ha niente a che fare con questa faccenda, essa sfugge al contagio del capro espiatorio. C’è sempre della verità nel mondo, mentre non ce n’è più nel momento della morte di Cristo. Persino i discepoli più cari non hanno una parola né un gesto per opporsi alla folla: vengono letteralmente assorbiti dalla folla. Grazie al Vangelo di Marco noi sappiamo che Pietro, il capofila degli apostoli, ha rinnegato pubblicamente il suo maestro. Questo tradimento non ha niente di aneddotico, non ha niente a che vedere con la psicologia di Pietro. Il fatto che nemmeno i discepoli possano resistere all’effetto di capro espiatorio rivela l’onnipotenza della rappresentazione persecutoria sull’uomo. Per capire a fondo quello che accade bisognerebbe arrivare quasi a includere il gruppo dei discepoli nel novero di quelle potenze che si alleano, superando le abituali discordie, per condannare Cristo. Sono tutte potenze in grado di dare un significato alla morte di un condannato. È facile enumerarle perché sono sempre le stesse. Le ritroviamo nella caccia alle streghe o negli imbarbarimenti totalitari del mondo attuale. Prima abbiamo i capi religiosi, poi i capi politici, e infine soprattutto la folla. Partecipano tutti all’azione, inizialmente in ordine sparso, poi con compattezza crescente. Intervengono – si osservi bene – nell’ordine della loro importanza reale, dal più debole al più forte. Il complotto dei capi religiosi ha un’importanza simbolica, ma scarsa importanza reale. Erode ha una parte ancora più piccola. È stato il timore di omettere anche una soltanto delle potenze in grado di dar forza alla sentenza contro Gesù a spingere il solo Luca a includerlo nel suo racconto della passione.

Pilato è quello che detiene veramente il potere, ma al di sopra di lui vi è la folla che, una volta mobilitata, ha il primato assoluto, trascina con sé le istituzioni, le costringe a dissolversi entro la sua massa. Eccola, dunque, l’unanimità dell’assassinio collettivo generatore di mitologia. Questa folla è il gruppo in fusione, la comunità che, alla lettera, si dissolve e non può più rinsaldarsi se non a spese della sua vittima, del suo capro espiatorio. Tutto è dunque propizio a far nascere rappresentazioni persecutorie incrollabili. Eppure non è questo il messaggio che il Vangelo ci porta.

I Vangeli attribuiscono a Pilato una volontà di resistenza al verdetto della folla. Forse per renderlo più simpatico e così rendere, per contrasto, antipatiche le autorità ebraiche? La folla di quelli che nel Nuovo Testamento vorrebbero spiegare tutto con i pensieri più ignobili non ha dubbi in proposito. Costoro sono veramente la folla dei nostri giorni, e forse la folla di sempre. E, come sempre, hanno torto.

Alla fin fine, Pilato si unisce alla muta dei persecutori. Non si tratta di studiare la «psicologia» di Pilato, bensì di sottolineare l’onnipotenza della folla, di mostrare l’autorità sovrana costretta a inchinarsi, malgrado le sue velleità di resistenza.

È anche vero che Pilato non ha seri interessi nella vicenda. Gesù non conta nulla ai suoi occhi. È un personaggio troppo insignificante perché uno spirito minimamente politico come lui possa correre il rischio di una sommossa unicamente per salvarlo. La decisione di Pilato è troppo facile, insomma, per dare forte risalto alla subordinazione del sovrano alla folla, al ruolo predominante della folla nel momento di massima effervescenza in cui scatta la meccanica del capro espiatorio.

È per rendere la decisione di Pilato meno facile e più rivelatrice, credo, che Giovanni introduce il personaggio della moglie. Avvertita da un sogno, più o meno convertita alla causa di Gesù, la donna interviene esortando il marito a resistere alla folla. Giovanni vuole mostrarci Pilato fra due influenze, fra due poli d’attrazione mimetica: da un lato la moglie, che vorrebbe salvare l’innocente, e dall’altro la folla, che non è neanche romana, è completamente anonima e impersonale. Nessuno potrebbe essere più vicino a Pilato di sua moglie, più intimamente legato a lui. Nessuno potrebbe avere un’influenza maggiore, tanto più che la donna fa saggiamente appello al timore religioso del marito. Eppure è la folla a vincere: niente è più importante di questa vittoria, niente è più significativo per la rivelazione del meccanismo vittimario. Vedremo in seguito che i Vangeli presentano un’analoga vittoria della folla in un’altra scena di assassinio collettivo, la decollazione di Giovanni Battista.

Ci si sbaglierebbe di grosso se si pensasse a questa folla come esclusivamente composta da rappresentanti delle classi inferiori; essa non rappresenta soltanto le «masse popolari», poiché ne fanno parte anche i gruppi elitari. Per comprendere bene come essa è composta basta, ancora una volta, esaminare le citazioni dall’Antico Testamento; è qui che dobbiamo cercare il commento più illuminante dell’intenzione evangelica.

Nel quarto capitolo degli Atti degli Apostoli – libro che ha un carattere quasi evangelico – Pietro riunisce i compagni per meditare con loro sulla crocifissione, e fa una lunga citazione dal salmo che descrive l’accoglienza infallibilmente ostile che le potenze di questo mondo riservano al Messia:

«Perché mai questo tumulto di nazioni?
e queste vane imprese di popoli?
I re della terra si sono riconciliati
e i capi si sono raccolti
per unirsi contro il Signore
e contro il suo Unto.

«Sì, in questa città si sono veramente radunati, Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele – contro il tuo santo servo Gesù, che tu avevi unto. Hanno così attuato tutti i progetti che la tua mano e la tua volontà avevano stabilito» (At, 4, 27-28).

 

Anche in questo caso il lettore moderno si interroga sull’interesse della citazione. Non capisce, e sospetta qualche mediocre secondo fine. Non si tratterà, forse, semplicemente di nobilitare la morte ignobile di Gesù, di fornire un’orchestrazione grandiosa al supplizio piuttosto insignificante di un piccolo predicatore di Galilea? Prima accusavamo i Vangeli di disprezzare la folla dei persecutori, ed ecco che adesso li sospettiamo di esaltare troppo quella stessa folla allo scopo di elevare il prestigio del loro eroe.

Che cosa credere? Semplicemente, bisogna rinunciare a questo genere di speculazioni. Con i Vangeli, il sospetto sistematico non dà mai risultati interessanti. Torniamo piuttosto alla domanda che guida ogni nostra ricerca: cosa ne è della rappresentazione persecutoria e della violenza unanime che la fonda? Tutto questo viene intenzionalmente sovvertito nel suo punto di massima forza: l’unanimità delle potenze capaci di fondare questa rappresentazione. Abbiamo non solo una sovversione effettiva, ma anche la volontà cosciente di sovvertire ogni mitologia persecutoria e di informarne il lettore: non appena capiamo questo, la pertinenza del salmo parla da sola.

Il salmo ci fornisce l’elenco completo di queste potenze. La componente essenziale sta nella congiunzione tra il fermento popolare, il tumulto delle nazioni, da un lato, e i re e i capi dall’altro, le autorità costituite. E questa congiunzione è irresistibile ovunque, tranne che nella passione di Cristo. Il fatto che questa coalizione formidabile avvenga su scala relativamente ridotta, e in una lontana provincia dell’Impero romano, non diminuisce affatto l’importanza della passione, che fa tutt’uno con l’insuccesso della rappresentazione persecutoria, con l’esemplarità di questo insuccesso.

La coalizione resta invincibile sul piano della forza bruta, ma non per questo è meno «vana» come dice il salmo, perché non riesce a imporre il suo modo di vedere le cose. Non le riesce difficile uccidere Gesù, ma non prevale sul piano del significato. Allo smarrimento del Venerdì santo si sostituisce, nei discepoli, la fermezza della Pentecoste, e il ricordo della morte di Gesù si perpetuerà con un significato opposto a quello voluto dalle potenze, un significato che non riesce, certo, a imporsi immediatamente in tutta la sua prodigiosa novità, ma che nondimeno compenetra poco a poco i popoli raggiunti dal messaggio evangelico, insegnando loro a individuare sempre meglio intorno a sé le rappresentazioni persecutorie e a respingerle.

Facendo morire Gesù, le potenze cadono anzi in una sorta di trappola, giacché nel racconto della passione è descritto a chiare lettere proprio il loro segreto di sempre, già svelato nell’Antico Testamento, nelle citazioni che ho appena commentato e in molti altri passi. Il meccanismo del capro espiatorio viene investito da una luce potente, riceve la massima visibilità pubblica e diviene la cosa più conosciuta al mondo, il sapere più diffuso, quel sapere che gli uomini impareranno, con lentezza proporzionata all’ottusità, a inoculare sotto la superficie della rappresentazione persecutoria.

Se vorremo liberare definitivamente gli esseri umani, è a questo sapere che dovremo appellarci come criterio universale per demistificare dapprima le semi-mitologie della nostra storia e poi, in rapida successione, i miti dell’intero pianeta di cui non ci stanchiamo di proteggere la menzogna, non per sincera adesione ma per timore della rivelazione biblica, ormai pronta a rinascere dalle macerie della mitologia con cui l’abbiamo a lungo confusa. Le «vane imprese» dei popoli sono più che mai all’ordine del giorno, ma sventarle è per il Messia un gioco da bambini. Più ci illudono oggi, più cadranno nel ridicolo domani.

Quindi l’essenziale, mai percepito né dalla teologia né dalle scienze dell’uomo, sta nel mettere sotto scacco la rappresentazione persecutoria. E per raggiungere il massimo effetto la mossa dev’essere eseguita nelle circostanze più difficili, quelle più sfavorevoli alla verità e più favorevoli alla produzione di una nuova mitologia. Ecco perché il testo evangelico insiste instancabilmente sul senza causa della sentenza pronunciata contro il Giusto e, contemporaneamente, sull’unità senza cedimenti dei persecutori, ossia di tutti coloro che credono o fanno finta di credere nell’esistenza e piena validità della causa, l’ad causam, l’accusa, che cercano di imporre a tutti come universale credenza.

Fare come certi commentatori moderni, che si interrogano sul modo, a loro giudizio sempre diseguale, in cui i Vangeli distribuirebbero il biasimo tra i diversi attori della passione, significa perdere il proprio tempo e disconoscere in partenza la vera intenzione del racconto. Non diversamente dal Dio di cui parlano, i Vangeli non fanno distinzioni tra gli uomini, giacché l’unico dato a interessarli davvero è l’unanimità dei persecutori. Tutte le manovre miranti a dimostrare l’antisemitismo, l’elitismo, l’antiprogressismo o chissà quale altro crimine di cui i Vangeli si sarebbero macchiati nei confronti dell’incolpevole umanità, loro vittima designata, sono interessanti soltanto per la trasparenza simbolica. Gli autori di queste manovre non si accorgono che loro stessi sono interpretati dal testo che ogni volta credono di aver liquidato per sempre. Tra le «vane imprese» dei popoli, nessuna è più derisoria di questa.

Vi sono mille modi per non vedere ciò di cui parlano i Vangeli. Psicoanalisti e psichiatri, quando si interessano alla passione, scoprono volentieri nel cerchio unanime dei persecutori un riflesso della «paranoia caratteristica dei primi cristiani», la traccia di un «complesso di persecuzione». Sono sicuri del fatto loro perché hanno alle spalle le autorità più acclamate, i vari Marx, Nietzsche e Freud, per una volta messi d’accordo, sia pure su un solo punto: la necessità di demolire i Vangeli.

Lo strano è che questo tipo di spiegazione non viene mai in mente a quegli stessi psicoanalisti allorché devono affrontare un processo di stregoneria. Non è più sulle vittime, stavolta, che si esercitano affilando le loro armi, bensì sui persecutori. Congratuliamoci con loro per questo cambiamento di bersaglio. Basta intravedere la persecuzione come qualcosa di reale per cogliere l’odioso e il ridicolo delle tesi psichiatrico-psicoanalitiche applicate a vittime reali, a violenze collettive reali. I complessi di persecuzione esistono, eccome, specialmente nelle anticamere dei nostri medici, ma è un fatto che anche le persecuzioni vere esistono. L’unanimità dei persecutori può non essere altro che un fantasma paranoico, soprattutto per i privilegiati dell’Occidente contemporaneo, ma è anche un fenomeno che si produce realmente di tanto in tanto. I nostri superesperti di fantasmi non hanno invece mai la minima esitazione nell’applicare i loro princìpi. Sanno infallibilmente a priori che al di fuori della nostra storia non vi sono che fantasmi: nessuna vittima per loro è reale.

In tutti questi casi si tratta sempre degli stessi stereotipi persecutorii, solo che nessuno se ne accorge. Ancora una volta è solamente l’etichetta esterna – da una parte storica, di là religiosa – a determinare la scelta dell’interpretazione, e non la natura del testo considerato. Ritroviamo la linea invisibile che attraversa tutta la nostra cultura: al di qua, ammettiamo la possibilità di violenze reali, al di là smettiamo di ammetterla, e riempiamo il vuoto così spalancatosi con un indigesto impasto di astrazioni pseudo-nietzschiane cosparse di salsa linguistica derealizzatrice. La cosa sta diventando sempre più chiara: dopo l’idealismo tedesco, tutti gli avatar della teoria contemporanea non sono altro che sofismi finalizzati a impedire la demistificazione delle mitologie, rinnovati congegni volti a differire il progresso della rivelazione biblica.

 

 

La mia tesi è che i Vangeli rivelino il meccanismo del capro espiatorio – ovviamente senza designarlo con il nostro termine, ma anche senza omettere nulla di quanto occorra saperne per proteggersi dalle sue insidie e individuarlo ovunque si annidi, soprattutto in noi stessi – e, se io ho ragione, dovremmo allora ritrovare in essi tutto ciò che abbiamo esposto su questo meccanismo nelle pagine precedenti, in particolare la sua natura inconscia.

Senza questa inconsapevolezza, che fa tutt’uno con la loro fede sincera nella colpevolezza della vittima, i persecutori non si lascerebbero rinchiudere dentro la rappresentazione persecutoria. È una prigione di cui costoro non vedono i muri, una servitù tanto più totale in quanto si prende per libertà, un accecamento che si scambia per perspicacia.

Ma la nozione di inconscio appartiene ai Vangeli? La parola non c’è, ma l’intelligenza moderna non faticherebbe a riconoscerne subito la presenza se dinanzi a questo testo non restasse paralizzata e legata dai fili invisibili della religiosità e irreligiosità tradizionali. La frase che definisce l’inconscio persecutorio appare nel cuore stesso del racconto della passione, nel Vangelo di Luca, ed è il celebre: «Padre mio, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Lc, 23, 34).

I cristiani insistono qui sulla bontà di Gesù. E sarebbe più che giusto, se la loro insistenza non eclissasse il contenuto più specifico della frase, un contenuto che di solito riusciamo a malapena a notare, evidentemente perché lo si giudica privo di importanza. Si commenta insomma questa frase come se il desiderio di perdonare carnefici imperdonabili spingesse Gesù a inventare una scusa abbastanza oziosa, e non del tutto conforme alla realtà della passione.

I commentatori che non credono davvero a quanto recita la frase provano tutt’al più un’ammirazione un po’ finta, e la loro flaccida devozione comunica al testo il sapore della propria ipocrisia. Non c’è davvero niente di peggio che possa accadere ai Vangeli: essere ricoperti da quel non so che di dolciastro che vi cosparge a piene mani la nostra insipida tartufaggine. In realtà i Vangeli non cercano mai scuse che zoppicano, né parlano mai invano: la chiacchiera sentimentale non li riguarda.

Per restituire a questa frase il suo vero sapore, bisogna riconoscerne il ruolo quasi tecnico nella rivelazione del meccanismo vittimario. Essa dice qualcosa di preciso sugli uomini radunati dal loro capro espiatorio. «Essi non sanno quello che fanno». È ben per questo che bisogna perdonarli. Non è il complesso di persecuzione a dettare simili discorsi, né il desiderio di eludere l’orrore delle violenze reali. Qui abbiamo la prima definizione dell’inconscio persecutorio nella storia umana, quella da cui derivano tutte le altre, che tendono sempre e soltanto ad affievolirla: infatti, o relegano in secondo piano la dimensione persecutoria come fa Freud, o la eliminano del tutto come fa Jung.

Gli Atti degli Apostoli mettono in bocca a Pietro la medesima idea quando egli si rivolge alla folla di Gerusalemme, la stessa folla della passione: «Tuttavia, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, e così anche i vostri capi». Questa frase ha un interesse considerevole perché, ancora una volta, attira la nostra attenzione su due categorie di potenze, la folla e i capi, ugualmente inconsapevoli. Rigetta implicitamente l’idea falsamente cristiana che fa della passione un evento unico nella sua dimensione malefica, mentre si tratta di un evento unico soltanto nella sua dimensione rivelatrice. Adottare la prima idea significa farsi un altro feticcio della violenza e ricadere così in una variante del paganesimo mitologico.

X

MUOIA UN SOLO UOMO...

Non ci rimane ormai che un’ultima cosa: formulare direttamente il processo vittimario nei suoi caratteri essenziali, riassumibili nel dover pagare in un modo qualsiasi per gli altri. Al riguardo, la frase più esplicita dei Vangeli è quella che Giovanni mette in bocca al sommo sacerdote Caifa durante il dibattito che si concluderà con la decisione di far morire Gesù. In essa si enuncia senza ambiguità ciò che ho appena detto:

 

«Sommi sacerdoti e farisei riunirono allora il consiglio: “Che facciamo?” dicevano “quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro Luogo Santo e la nostra nazione”. Uno di loro, Caifa, che in quell’anno era il sommo sacerdote, disse loro: “Voi non capite nulla. Non vedete dunque come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Egli non disse questo da se stesso; però, in qualità di sommo sacerdote, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione – e non per la nazione soltanto, ma anche per radunare in un unico insieme i figli di Dio dispersi. Da quel giorno, dunque, furono risoluti ad ucciderlo» (Gv, 11, 47-53).

 

All’ordine del giorno del consiglio è la crisi aperta dall’eccessiva popolarità di Gesù. Ma essa non è che la manifestazione momentanea di una crisi più vasta, quella dell’intera società ebraica, che sfocerà nella distruzione totale dello Stato, meno di mezzo secolo dopo. Il fatto che vi sia dibattito suggerisce già l’impossibilità di decidere. Il dibattito indecidibile riproduce la crisi che si sforza di risolvere. Poiché non approda a nulla, Caifa lo interrompe con una certa impazienza, in modo brusco: «Voi non capite nulla» dice. Ascoltando Caifa, ciascun capo dice a se stesso: «Ma sì, è vero, meglio che muoia un solo uomo e non perisca la nazione. Come mai non ci avevo pensato?». Ci avevano anche pensato, probabilmente, ma soltanto il più audace dei capi, il più deciso e decisivo, poteva rendere esplicito questo pensiero.

Caifa esplicita il principio stesso della ragione, è la ragione politica, la ragione del capro espiatorio. Limitare al massimo la violenza, ma in caso estremo ricorrervi, se necessario, per evitare una violenza maggiore... Caifa incarna il politico nel suo aspetto più alto e non nel più basso. In politica, nessuno ha mai agito meglio.

Eppure vi sono rischi di ogni genere nella violenza; assumendoli, Caifa dimostra di essere un capo. Gli altri si appoggiano a lui. Lo scelgono come modello; imitano la sua serena certezza. Ascoltando Caifa, questi uomini cessano di dubitare. Se l’intera nazione è sicura di perire, è certamente meglio che muoia, per tutti gli altri, un uomo solo, colui che del resto aggrava l’imminenza del pericolo rifiutando di starsene tranquillo.

Il discorso di Caifa suscita, fino a un certo punto, l’effetto di capro espiatorio che esso definisce. Non si limita a rassicurare i suoi uditori, li galvanizza, li «mobilita», nel senso che s’intende oggi quando si parla dei militari o dei «militanti» che si devono mobilitare. Di che cosa si tratta? Di diventare il famoso gruppo in fusione che ha sempre sognato Jean-Paul Sartre, senza mai dire, naturalmente, che esso produce soltanto vittime.

Perché la frase susciti un simile effetto, bisogna capirla in modo superficiale e sempre mitologico. La ragione politica definita sopra resta mitologica perché si fonda su ciò che resta dissimulato nel meccanismo vittimario a livello di interpretazione politica, quella che domina il consiglio di Caifa nello stesso modo in cui domina il nostro mondo. L’effetto di capro espiatorio è visibilmente molto indebolito, nel senso dell’indebolimento storico e moderno che ho già analizzato. Per questo la ragione politica è sempre contestata dalle sue vittime, denunciata come persecutoria anche da coloro che eventualmente, se si trovassero in condizioni analoghe a quelle di Caifa, vi ricorrerebbero senza rendersene conto. È l’estremo esaurimento del meccanismo a «produrre» questa ragione politica e a far perdere al meccanismo ogni carattere trascendente giustificandolo con l’utilità sociale. Di questo processo il mito politico lascia trasparire aspetti veridici sufficienti a dare oggi a parecchia gente l’illusione di possedere, per effetto di una generalizzazione della lettura politica (quella che peraltro talvolta attribuiscono a me), la rivelazione completa dei meccanismi vittimari e la loro giustificazione.

Perché il discorso di Caifa sia veramente rivelatore, bisogna intenderlo non in senso politico, ma in senso evangelico, nel contesto di tutto ciò che ho appena reso esplicito e di tutto quello che si potrebbe esplicitare. Vi si può allora ravvisare una definizione folgorante del meccanismo fatto emergere nel racconto della passione, in tutti i Vangeli, e nell’intera Bibbia. L’effetto di capro espiatorio che si crea sotto i nostri occhi si salda all’effetto di capro espiatorio che è all’origine dei sacrifici ebraici. Caifa è il sacrificatore per eccellenza, colui che fa morire delle vittime per salvare i vivi. Giovanni, mentre ce lo ricorda, sottolinea che ogni decisione vera ha, nella cultura, un carattere sacrificale (decidere, è il caso di ricordare, significa tagliare la gola alla vittima), e di conseguenza si ricollega a un effetto di capro espiatorio non svelato, a una rappresentazione persecutoria di tipo sacrale.

Nella decisione del sommo sacerdote si manifesta la rivelazione definitiva del sacrificio e della sua origine. Ed essa si manifesta all’insaputa di chi parla come di chi lo ascolta. Non solo Caifa e i suoi ascoltatori non sanno quello che fanno, ma non sanno neanche quello che dicono. Bisogna dunque perdonarli. Tanto più che in genere le nostre realtà politiche sono più sordide delle loro; il nostro linguaggio è semplicemente più ipocrita. Evitiamo di parlare come fa Caifa perché comprendiamo meglio il senso delle sue parole senza ancora comprenderlo perfettamente: è qui la prova che la rivelazione si sta facendo strada in mezzo a noi. Eppure, non lo si sospetterebbe consultando lo stato attuale dell’esegesi neotestamentaria, della storia delle religioni, dell’etnologia, della scienza politica. Gli «specialisti» non vedono nulla di tutto quello che andiamo dicendo. Ma fuori dal loro ambito il sapere in questione è la cosa più diffusa che esista, anche se le discipline che ho menzionato non vogliono saperne nulla. Tutte sembrano fatte per limitare e neutralizzare le conseguenze delle vere intuizioni piuttosto che per coltivarle. Così avviene sempre, all’alba dei grandi sconvolgimenti. La cattiva accoglienza riservata al sapere del capro espiatorio non impedirà lo sconvolgimento, è anzi un segno ulteriore del suo approssimarsi.

Per comprendere veramente il passo di Giovanni, e trarre beneficio dalla rivelazione che ci trasmette nel suo contesto evangelico, è necessario non staccarsi mai da tale contesto. Questa comprensione non consiste più in una giustificazione qualsiasi del meccanismo, ma è concepita per accrescere la nostra resistenza alla tentazione vittimaria, alle rappresentazioni persecutorie che l’avvolgono, alle conseguenze mimetiche che la favoriscono. È l’effetto contrario a quello che agisce sui primi ascoltatori. Oggi è possibile osservare nel nostro mondo entrambi gli effetti, ed è questo uno dei segni che la nostra storia, nel bene come nel male, è attraversata per intero dalla rivelazione evangelica.

 

 

L’essenziale della rivelazione, sotto il profilo antropologico, è la crisi da essa provocata dell’intera rappresentazione persecutoria. Nella passione in sé e per sé non vi è nulla di unico, per quanto riguarda la persecuzione. Né vi è nulla di unico nella coalizione di tutte le potenze di questo mondo. È anzi la medesima coalizione che è all’origine di tutti i miti. Il dato sorprendente è che i Vangeli ne sottolineano l’unanimità non per inchinarsi di fronte ad essa, non per sottomettersi al suo verdetto come farebbero tutti i testi mitologici o politici o persino filosofici, ma per denunciare in essa un errore totale, la non-verità per eccellenza.

È questo l’insuperabile radicalismo della rivelazione. Per comprenderlo bisogna evocare brevemente, per contrasto, la riflessione politica nel mondo occidentale e moderno.

Le potenze di questo mondo si dividono visibilmente in due gruppi non simmetrici: da una parte le autorità costituite e dall’altra la folla. In genere, le prime prevalgono sulla seconda; in periodo di crisi, succede l’inverso. La folla non soltanto prevale ma è una specie di crogiolo dove vengono a fondersi anche le autorità più consolidate. Questo processo di fusione assicura il rimodellarsi delle autorità grazie al capro espiatorio, ossia grazie al sacro. La teoria mimetica illumina questo processo che la scienza politica e le altre scienze dell’uomo non riescono a penetrare.

La folla è così potente che non ha bisogno di radunare l’intera comunità per ottenere i risultati più sorprendenti. Le autorità costituite si inchinano di fronte ad essa e le cedono le vittime che il suo capriccio reclama, come fa Pilato con Gesù, o Erode con Giovanni Battista. Così facendo, le autorità si uniscono alla folla e se ne lasciano assorbire. Comprendere la passione significa comprendere che essa abolisce temporaneamente qualsiasi differenza non soltanto tra Caifa e Pilato, tra Giuda e Pietro, ma fra tutti coloro che gridano o lasciano che si gridi: «Crocifiggetelo!».

Il pensiero politico moderno, sia esso «conservatore» o «rivoluzionario», critica sempre solo una delle due categorie di potenze: o la folla o i poteri costituiti. Per far questo deve anche, e necessariamente, appoggiarsi sull’altra. Ed è proprio questa scelta che lo qualifica o come «rivoluzionario» o come «conservatore».

Il fascino durevole del Contrat social non viene dalle verità che potrebbe contenere, ma da quella specie di oscillazione vertiginosa che si produce tra le due categorie. Invece di scegliere in modo risoluto una delle due, e attenervisi, come fanno i «razionali» di tutti i partiti, Rousseau vorrebbe conciliare gli inconciliabili, e la sua opera assomiglia un po’ al turbine di una rivoluzione reale, incompatibile con i grandi princìpi che enuncia.

I conservatori si sforzano di consolidare tutte le autorità costituite, tutte le istituzioni nelle quali si incarna la continuità di una tradizione religiosa, culturale, politica, giudiziaria. Essi sono vulnerabili al rimprovero di essere eccessivamente indulgenti verso i poteri costituiti. Sono invece molto sensibili alle minacce di violenza che vengono dalla folla. Per i rivoluzionari è l’opposto. Sistematicamente critici verso le istituzioni, essi sacralizzano senza vergogna le violenze della folla. Gli storici rivoluzionari della Rivoluzione francese e di quella russa ne mitizzano i crimini. Considerano «reazionaria» qualsiasi ricerca seria sulla folla. Su questo punto non hanno nessuna voglia di «far luce». I meccanismi vittimari hanno bisogno di ombra per «cambiare il mondo». I grandi scrittori rivoluzionari portano nondimeno esplicite conferme sul ruolo simbolico della violenza reale, ad esempio Saint-Just sulla morte del re.

Per il fatto stesso che i rivoluzionari ricorrono apertamente alla violenza, gli effetti desiderati non si producono più. Il mistero è svelato. La fondazione violenta non è più efficace, può mantenersi solo mediante il terrore. Questo era già abbastanza vero per la Rivoluzione francese rispetto alla democrazia angloamericana, ed è ancora più vero per le rivoluzioni marxiste.

Il pensiero politico moderno non può fare a meno della morale, ma non può farsi morale pura senza cessare, con ciò stesso, di essere politico. È dunque necessario un altro ingrediente che si mescoli alla morale. Ma quale? Se si cercasse veramente di saperlo, si giungerebbe inevitabilmente a formule come quella di Caifa: «È meglio che costui o costoro muoiano e non perisca la comunità...».

Non soltanto le opposizioni politiche, ma tutte le critiche antagonistiche poggiano su appropriazioni parziali, e certo non imparziali, della rivelazione evangelica. Nel nostro mondo vi sono soltanto eresie cristiane, ossia divisioni e separazioni. Del resto, è questo il significato della parola eresia. Per utilizzare la rivelazione come un’arma nella rivalità mimetica, per farne una forza di divisione, bisogna prima dividerla. Finché essa è intatta, rimane forza di pace, e passa al servizio della guerra solo allorché è frammentata. Una volta lacerata, la rivelazione fornisce, ai doppi che si affrontano, armi di gran lunga superiori a tutto ciò di cui potrebbero disporre senza di essa: ecco il perché delle dispute infinite attorno ai brandelli del suo cadavere, con il prevedibile risultato che oggi si considera questa stessa rivelazione responsabile delle nefaste conseguenze del cattivo uso che se ne fa. Il capitolo apocalittico di Matteo racchiude in una sola e sorprendente frase l’insieme del processo: «Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi» (Mt, 24, 28).

I Vangeli non cessano di mostrarci ciò che i persecutori storici e, a fortiori, mitologici ci dissimulano, ovvero che la loro vittima è un capro espiatorio, nello stesso senso in cui noi diciamo, degli Ebrei di cui parla Guillaume de Machaut: «Questi sono capri espiatorii».

I Vangeli non si servono, certo, dell’espressione «capro espiatorio», ma ne usano un’altra anche migliore: «agnello di Dio». Essa esprime, come «capro espiatorio», la sostituzione di una vittima a tutte le altre. Ma, sostituendo ai connotati sgradevoli e ripugnanti del capro quelli interamente positivi dell’agnello, indica con efficacia maggiore l’innocenza di questa vittima, l’ingiustizia della sua condanna, il «senza causa» dell’odio di cui è oggetto.

Tutto è dunque perfettamente esplicito. Gesù è continuamente ricollegato, e si ricollega egli stesso, a tutti i capri espiatorii dell’Antico Testamento, a tutti i profeti assassinati o perseguitati dalle loro comunità, Abele, Giuseppe, Mosè, il Servo di Yahvè, ecc. Che egli sia così designato da altri o da se stesso, è sempre il suo ruolo di vittima, misconosciuta in quanto innocente, a ispirare tale designazione. Egli è la pietra scartata dai costruttori che diventerà la pietra angolare. Egli è anche la pietra dello scandalo, quella che fa inciampare persino i più saggi, perché è sempre ambigua, facile da confondere con gli dèi del passato. Neppure il suo titolo di re è esente dal contenere un riferimento – penso – al carattere vittimario della regalità sacra. Coloro che chiedono un segno inequivocabile dovranno accontentarsi del segno di Giona.

Che cos’è il segno di Giona? Il riferimento alla balena, nel testo di Matteo, non è molto illuminante; e bisogna preferirgli il silenzio di Luca, con tutti gli esegeti. Ma, su questo punto, niente ci impedisce di tentare di rispondere meglio di Matteo alla domanda lasciata probabilmente senza risposta dallo stesso Gesù. E lo sappiamo già dalle prime righe. Durante una tempesta, la sorte designa Giona come la vittima che i marinai getteranno in acqua per salvare la nave in pericolo. Il segno di Giona designa, ancora una volta, la vittima collettiva.

 

 

Abbiamo, dunque, due tipi di testi, che hanno entrambi un rapporto con il «capro espiatorio». Essi ci parlano di vittime, ma gli uni non dicono che la vittima è un capro espiatorio e ci obbligano a dirlo al loro posto: ad esempio Guillaume de Machaut e i testi mitologici; gli altri dicono esplicitamente che la vittima è un capro espiatorio: i Vangeli. Io non ho alcun merito né do prova di particolare perspicacia quando dico che Gesù è un capro espiatorio, giacché lo dice il testo, nel modo più chiaro, designando la vittima come l’agnello di Dio, la pietra scartata dai costruttori, colui che soffre per tutti gli altri, e soprattutto presentandoci la distorsione persecutoria come distorsione, in altri termini: come quello che non bisogna credere.

Se invece leggo Guillaume de Machaut, devo dar prova di perspicacia per esclamare, a fine lettura: «Gli Ebrei sono capri espiatorii»; in questo caso affermo qualcosa che nel testo non appare e che contraddice il senso che voleva dargli l’autore. Quest’ultimo infatti ci presenta della versione persecutoria non una distorsione bensì quello che bisogna credere, quella che per lui è la nuda verità.

Il capro espiatorio che è il testo a mettere in evidenza è il capro espiatorio nel testo e per il testo. Il capro espiatorio che siamo noi a dover evidenziare è il capro espiatorio del testo. Esso non può apparire nel testo di cui domina tutti i temi; non è mai nominato in quanto tale. Non può diventare tema nel testo che esso stesso struttura. Non è un tema bensì un meccanismo strutturante.

Ho promesso di essere più semplice possibile, e l’opposizione tra tema e struttura può apparire ad alcuni astratta e gergale. Eppure essa è indispensabile. Del resto, per renderla chiara, basta applicarla al nostro problema.

Quando di fronte a Guillaume si esclama: «Gli Ebrei sono capri espiatorii», si riassume l’interpretazione corretta di questo testo. Si coglie la rappresentazione persecutoria non criticata dall’autore e le si sostituisce un’interpretazione che pone gli Ebrei sullo stesso piano di Gesù nel racconto della passione. Essi non sono colpevoli, sono vittime di un odio senza causa. La folla intera e qualche volta le autorità sono d’accordo nell’affermare il contrario, ma questa unanimità non ci impressiona. I persecutori non sanno quello che fanno.

Quando pratichiamo questo tipo di decifrazione, facciamo tutti dello strutturalismo senza saperlo, e della migliore qualità. La critica strutturalista è più antica di quanto si creda e sono andato a cercarla il più lontano possibile per disporre di esempi incontestabili e incontestati. Nel caso di Guillaume de Machaut, dire «capro espiatorio» dice tutto, perché questa espressione enuncia il principio strutturante nascosto dal quale scaturiscono tutti i temi, tutti gli stereotipi persecutorii presentati nella prospettiva menzognera di un autore incapace di riconoscere negli Ebrei di cui parla i capri espiatorii che noi invece riconosciamo, come fanno i Vangeli per Gesù.

Sarebbe assurdo assimilare i due tipi di testi, Guillaume de Machaut e i Vangeli, con la scusa che ambedue intrattengono un certo rapporto con il «capro espiatorio». Essi descrivono lo stesso avvenimento, ma in un modo talmente diverso che confonderli sarebbe stupido, oltre che odioso. Il primo tipo ci dice che la vittima è colpevole, e quindi riflette il meccanismo del capro espiatorio che lo condanna a una rappresentazione persecutoria acritica: per questo spetta a noi fare tale critica; il secondo invece ci precede in questa stessa critica dato che proclama l’innocenza della vittima.

Bisogna temere ciò che vi è di ridicolo e odioso in una simile confusione. D’altronde ce ne renderemmo altrettanto colpevoli se non distinguessimo ad esempio tra l’antisemitismo di Guillaume e la denuncia dello stesso Guillaume da parte di uno storico moderno, con la scusa che ciascuno dei due testi, quello di Guillaume e quello dello storico, ha uno stretto rapporto con l’espressione «capro espiatorio» in un senso non precisato. Un simile amalgama sarebbe veramente il colmo del grottesco o della bestialità intellettuale.

Prima di invocare il capro espiatorio, a proposito di un testo, bisogna dunque chiedersi se si tratta del capro espiatorio del testo (il principio strutturante nascosto) oppure del capro espiatorio nel testo (il tema chiaramente visibile). Soltanto nel primo caso bisogna definire il testo come persecutorio, completamente sottomesso alla rappresentazione persecutoria. Questo testo è governato dall’effetto di capro espiatorio, che esso non esplicita. Nel secondo caso, invece, il testo esplicita l’effetto di capro espiatorio dal quale non è governato; allora non solo non è più persecutorio, ma rivela la verità di una persecuzione.

Il caso dell’antisemitismo e dei suoi storici fa capire chiaramente questa distinzione molto semplice, quasi troppo semplice. Ma ecco che non appena si sposta questa definizione verso altri tipi di esempi, la mitologia e il testo evangelico, non la capisce più nessuno, nessuno la riconosce più.

I miei censori non ammettono che si possa leggere la mitologia nel modo in cui tutti noi leggiamo Guillaume de Machaut. Non possono concepire di vedere applicato ai miti quel procedimento che loro stessi tuttavia applicano a testi assai simili. Armati di una potente lanterna, cercano invano nei testi da me studiati ciò che non vi troveranno mai, ciò che non possono trovarvi, il tema o il motivo del capro espiatorio. Sono loro, naturalmente, a parlare di tema o di motivo, senza accorgersi che io parlo di principio strutturante.

Mi accusano di vedere cose che non ci sono, di aggiungere ai miti qualcosa che non vi appare. Testo alla mano, mi ingiungono di mostrare loro la parola, la riga, il passo, che designerebbero senza possibile equivoco il famoso capro espiatorio di cui vado parlando. E poiché non posso soddisfarli, mi considerano «definitivamente confutato».

I miti tacciono a proposito del capro espiatorio. Sembra che questa sia una grande scoperta. Avrei dovuto farla, dichiarano i miei censori, perché loro stessi, leggendomi, la fanno. E mi impartiscono una bella lezione. Vedono in me un caso tipico di quella malattia «francese» o «americana» – a seconda dei casi – che si chiama «mentalità sistematica»: quelli come me hanno occhi e orecchi soltanto per ciò che conferma le loro teorie ed eliminano spietatamente il resto. Io riduco tutto a un unico tema. Invento un nuovo riduzionismo. Come tanti prima di me, scelgo un dato particolare e lo esagero enormemente a discapito degli altri.

Questi critici parlano come se fosse possibile che l’espressione «capro espiatorio» figuri nei miti. Forse per non scontentarmi del tutto, sono pronti a fare certe concessioni, accettano di lasciare un posticino al capro espiatorio chiedendo magari agli altri temi e motivi di stringersi un po’ per accogliere il nuovo venuto. Sono troppo generosi. Il capro espiatorio nel senso che mi interessa non ha alcun posto nei miti. Se ne avesse, avrei torto per forza, la «mia teoria» crollerebbe. Non potrebbe essere ciò che ne faccio io, ossia il principio strutturante che governa tutti i temi dall’esterno.

È ridicolo affermare che il testo di Guillaume de Machaut non ha niente a che vedere con la struttura del capro espiatorio per il motivo che non lo menziona. Quanto più un testo è governato da un effetto di capro espiatorio tanto meno ne parla, tanto meno è capace di individuare il principio che lo governa. È in questo caso, e in questo caso soltanto, che esso è stato scritto in funzione dell’illusione vittimaria, della falsa colpevolezza della vittima, della causalità magica.

Non siamo così sciocchi da esigere che il termine capro espiatorio o un suo equivalente figuri espressamente nei testi che lo suggeriscono, dato il loro carattere persecutorio.

Se aspettassimo, per decifrare le rappresentazioni persecutorie, che i violenti abbiano la cortesia di autodefinirsi consumatori di capri espiatorii, correremmo il rischio di attendere a lungo. Ci contentiamo che essi ci lascino dei segni indiretti delle loro persecuzioni, abbastanza trasparenti certo, e che non possiamo evitare di interpretare. Perché pensare che sia diverso nei miti? Perché gli stessi stereotipi persecutorii o la loro evidente elusione non potrebbero costituire anche nei miti i segni indiretti di una strutturazione persecutoria, di un effetto di capro espiatorio?

Al malinteso relativo ai miti si accompagna il malinteso relativo ai Vangeli. Mi si tira per la manica per farmi sapere, con discrezione, che mi sto sbagliando: «Questi Vangeli che lei considera estranei al capro espiatorio e alla struttura sacrificale, non lo sono affatto. Prenda l’agnello di Dio, prenda la frase di Caifa. Contrariamente alla sua opinione, i Vangeli considerano Gesù un capro espiatorio; lei non se ne è accorto, ma è cosa assolutamente certa».

È l’altra faccia del medesimo malinteso. Stando a certi critici, insomma, io invertirei tutti i dati evidenti dei testi che studio; introdurrei capri espiatorii in tutti quelli che non ne posseggono e li sopprimerei in tutti quelli che ne posseggono. Partendo da un’immagine esattamente contraria a quanto la «mia teoria» esige, si dimostra facilmente che brancolo in una totale incoerenza. Mi si richiede del materiale vittimario esplicito ovunque la mia tesi lo esclude, lo si esclude ovunque la mia tesi lo esige. E si conclude frequentemente che misconosco i princìpi cardine della critica contemporanea. Se io fossi come mi dipingono, infatti, misconoscerei l’incompatibilità reciproca fra principio strutturante e temi strutturati. È la cosa più sorprendente, direi, ma forse non lo è affatto, anzi è di una logica luminosa.

Nei miei due ultimi libri35 ho voluto prevenire le confusioni sostituendo sempre «vittima espiatoria» a «capro espiatorio» quando si trattava del principio strutturante; la prima espressione aveva ai miei occhi il vantaggio di suggerire la presenza probabile di vittime reali dietro ogni rappresentazione persecutoria. Ma questa precauzione non è bastata.

Come mai certi lettori che dispongono di tutto il sapere necessario alla comprensione del mio discorso – lo dimostra il modo in cui reagiscono alle persecuzioni storiche – possono fraintendere così grossolanamente la «mia teoria»?

Noi riserviamo l’uso strutturante del capro espiatorio al mondo che ci circonda; risaliamo tutt’al più al Medioevo. Appena passiamo dai testi storici ai testi mitologici e religiosi, dimentichiamo, letteralmente, quest’uso che pure è banale e gli sostituiamo una sorta di capro espiatorio rituale non nel senso della Bibbia, che potrebbe condurci da qualche parte, ma nel senso di Frazer e dei suoi discepoli, che invece ci spinge in un vicolo cieco privo di interesse.

I riti sono azioni misteriose, certo, perfino e soprattutto per chi li pratica, ma sono anche azioni deliberate, intenzionali. Le culture non possono praticare i loro riti inconsapevolmente. I riti sono temi o motivi all’interno del vasto testo culturale.

Considerando l’espressione «capro espiatorio» soltanto in senso rituale, e generalizzandola, Frazer ha fatto un grave torto all’etnologia; egli infatti occulta il significato più interessante dell’espressione, quello che comincia a baluginare agli inizi dei tempi moderni e che non designa mai – lo ripeto – né il minimo rito, né il minimo tema, né il minimo motivo culturale, bensì il meccanismo inconscio della rappresentazione e dell’azione persecutoria, il meccanismo del capro espiatorio.

Inventando i suoi riti di capro espiatorio – perché nemmeno lui ha colto l’origine di tutti i miti nel meccanismo del capro espiatorio – Frazer, come d’altronde tutta la scienza del suo tempo, ha malauguratamente messo in cortocircuito l’opposizione fra tema e struttura. Non si è accorto che l’espressione popolare e volgare, quella che ci sale alle labbra di fronte al testo di Guillaume de Machaut, è infinitamente più ricca, più interessante e più carica di avvenire di tutti i temi e di tutti i motivi offertici dall’enciclopedia, puramente tematica e inevitabilmente ibrida, che egli stava allestendo. Frazer è andato dritto al Levitico, per fare di un rito ebraico il capofila di tutta una categoria rituale – in verità inesistente – senza mai chiedersi se esistesse un rapporto tra il religioso in genere e il tipo di fenomeno al quale tutti noi alludiamo quando affermiamo di un individuo o di una minoranza che essi fanno da «capro espiatorio» a un gruppo di maggioranza. Non si è accorto che vi era qui qualcosa di essenziale, di cui tener conto in qualsiasi riflessione sul capro espiatorio. Non ha notato certi prolungamenti del fenomeno nel nostro universo; ha visto solamente una superstizione grossolana di cui la miscredenza religiosa e il positivismo sarebbero bastati a sbarazzarci del tutto. Ha visto nel cristianesimo un residuo, o piuttosto il trionfo finale, di questa superstizione.

Ancora oggi, non appena con il pensiero passiamo dallo storico al mitologico, scivoliamo irresistibilmente dal capro espiatorio strutturante alla triste piattezza del tema o motivo inventato da Frazer e dai frazeriani. Del resto, se questo lavoro interpretativo non lo avessero fatto loro, lo avrebbero fatto altri. Era già compiuto per tre quarti quando essi hanno cominciato. Non bisogna rafforzare l’errore iniziale immaginandosi che si tratti di un errore facile da correggere. È in gioco qualcosa di essenziale. A giudicare dalla tenacia dei malintesi suscitati dal mio lavoro, la ripugnanza a prendere in considerazione l’uso strutturante, quando si tratta di mitologia e di religione, sorpassa di gran lunga il quadro dell’etnologia. Questa ripugnanza è universale e fa tutt’uno con la schizofrenia culturale di cui parlavo sopra. Ci rifiutiamo di applicare gli stessi criteri di lettura a ciò che è storico, da un lato, e a ciò che è mitologico e religioso, dall’altro.

Gli etnologi di Cambridge cercavano ovunque, e questo è rivelatore, il rito del capro espiatorio che, secondo loro, doveva corrispondere al mito di Edipo. Intuivano che tra Edipo e il «capro espiatorio» il rapporto era stretto, e avevano ragione, ma non riuscivano a capire con quale tipo di rapporto avessero a che fare. Il positivismo dell’epoca consentiva loro di vedere ovunque soltanto temi e motivi. L’idea di un principio strutturante assente dal testo da esso strutturato sarebbe sembrata loro un esempio di metafisica incomprensibile. Così avviene sempre, d’altronde, per la maggioranza dei ricercatori, e neppure io sono sicuro di farmi capire, in questo stesso momento, benché mi riferisca all’interpretazione che tutti noi diamo, senza esitare, di Guillaume de Machaut mediante un capro espiatorio introvabile nel testo.

Da Frazer in poi, altri lettori di grande cultura, tra cui Marie Delcourt e più recentemente Jean-Pierre Vernant, hanno intuito ancora una volta che il mito aveva «qualcosa a che vedere» con il capro espiatorio. Ci vogliono certo una cecità e una sordità non consuete, anche se molto in auge nelle università, per non vedere gli stereotipi persecutorii che brillano ovunque nel mito e fanno di esso il più grossolano tra i processi di stregoneria. Ma nessuno risolverà mai questo povero enigma, se non si orienta verso l’uso strutturante del capro espiatorio, chiave universale della rappresentazione persecutoria. Appena si tratta di un mito – soprattutto, com’è ovvio, del mito di Edipo, tanto più trasfigurato dal sacro psicoanalitico tragico umanistico estetico quanto più è in realtà trasparente –, il pensiero del capro espiatorio ricade infallibilmente nel solito solco del tema e del motivo. Lo strutturalismo spontaneo della persecuzione demistificata svanisce e nessuno riesce più a ritrovarlo.

Malgrado il suo «strutturalismo», anche Jean-Pierre Vernant ricade nel tematismo e vede nel mito soltanto una piatta superficie coperta di temi e motivi, compreso quello del capro espiatorio, al quale egli dà il suo nome greco di pharmakos, credo per non vedersi tacciare dai suoi colleghi di etnocentrismo.36 È certamente vero che il pharmakos è un tema o motivo della cultura greca, ma i filologi tradizionali non mancheranno di osservare che questo tema non compare affatto, per l’appunto, nel mito di Edipo, e se accenna ad affiorare nella tragedia, resta assai problematico, anche perché Sofocle, non diversamente dallo stesso Vernant, «sospetta qualcosa». Io penso che il sospetto di Sofocle vada lontano, ma che nella cornice della tragedia egli non abbia potuto esprimersi direttamente, giacché essa vietava all’autore la minima modifica alla storia che andava raccontando. Aristoteles dixit. Sofocle è probabilmente responsabile di quanto vi è di esemplare nell’Edipo re sotto il profilo degli stereotipi persecutorii. Egli trasforma il mito in processo; fa nascere l’accusa stereotipata da un processo di rivalità mimetica; dissemina il proprio testo di indicazioni che alludono ora all’idea di un re che soffre da solo per tutti i suoi sudditi, ora a quella di un unico responsabile, Edipo stesso, sostituito agli assassini collettivi di Laio. Il poeta, in effetti, allude con straordinaria insistenza al fatto che Laio sia caduto sotto i colpi di numerosi assassini. Vediamo Edipo che confida in questa pluralità per potersi discolpare, e poi Sofocle che rinuncia misteriosamente a rispondere alle domande che egli stesso ha posto.37 Sofocle certamente sospetta qualcosa, ma non si inoltra nella rivelazione del capro espiatorio strutturante quanto i Vangeli o persino i profeti. La cultura greca glielo vieta. Nelle sue mani il racconto mitico non scoppia, per rivelare i suoi ingranaggi: la trappola si richiude su Edipo. E tutti i nostri interpreti restano prigionieri di questa trappola, compreso Vernant, che vede semplicemente temi da aggiungere a temi e non affronta mai il problema vero, quello della rappresentazione mitica nel suo insieme, quello del sistema persecutorio, certamente scosso dalla tragedia, ma mai al punto da essere veramente sovvertito e dichiarato menzognero come lo è nei Vangeli.

Quello che non si riesce mai a vedere è che Edipo non potrebbe essere simultaneamente figlio incestuoso e parricida da un lato, e pharmakos dall’altro. Quando diciamo pharmakos, infatti, intendiamo questo termine nel senso di vittima innocente, in un senso, cioè, sicuramente contaminato di ebraico e di cristiano ma che tuttavia non per questo è etnocentrico, perché convenire con gli Ebrei e i cristiani che il pharmakos, o capro espiatorio, è innocente, significa giungere a una verità dalla quale – ripeto – non possiamo staccarci senza rinunciare alla demistificazione di Guillaume de Machaut e alla negazione del pensiero magico.

O Edipo è un capro espiatorio e non è colpevole di parricidio e di incesto, oppure è colpevole e non è, almeno per i Greci, il capro espiatorio innocente che Vernant chiama pudicamente pharmakos.

Se la tragedia contiene effettivamente elementi che vanno nell’uno e nell’altro senso, è perché è lacerata al suo interno, incapace di aderire al mito e incapace di ripudiarlo nel senso in cui lo ripudiano i profeti, i Salmi e i Vangeli.

È questo, del resto, che fa così bella la tragedia greca, lo strazio insuperabile di questa contraddizione interna e non la coesistenza impossibile di un figlio colpevole e di un capro espiatorio innocente nella falsa armonia estetizzante degli umanesimi assolutorii.

Parlando di pharmakos invece che di capro espiatorio, Vernant spera di eludere il biasimo di chi, tra i suoi colleghi, è assolutamente insensibile al sentore di vittima che si sprigiona dal mito. Ma perché cercare di soddisfare gente dall’olfatto così poco sensibile?

Nel caso di Guillaume de Machaut nessuno penserebbe di sostituire pharmakos a «capro espiatorio». Anche se scrivesse in greco (e in parte lo fa, come un po’ tutti i nostri accademici, quando sostituisce epydimie alla parola «peste»), credo non ci verrebbe in mente di dire che la sua prospettiva sugli innocenti perseguitati è deformata da un effetto di pharmakos. Noi parleremmo sempre di «capro espiatorio». Il giorno in cui comprenderemo di che cosa tratta il mito di Edipo, da quale meccanismo genetico e strutturale nasce, penso che dovremo rassegnarci a dire che «Edipo è un capro espiatorio». Tra questa frase e il pharmakos di Vernant la distanza non è così grande, anche se forti pregiudizi impediscono a molti di colmarla.

Nel parlare di pharmakos, Vernant si discosta dal mito esattamente come faccio io nel parlare di «capro espiatorio». Ma a differenza di lui, io non ho la minima esitazione: posso perfettamente giustificare questo scarto, e posso francamente ridermela dei filologi positivisti. Infatti non mi discosto dal mito più di quanto non di discostino loro stessi da Guillaume de Machaut allorché lo leggono come facciamo tutti.

Perché mai i positivisti eruditi approvano per Guillaume de Machaut ciò che proibiscono, in nome della fedeltà letterale, per Edipo e il suo mito? Essi non sono in grado di rispondere, ma posso farlo benissimo io per loro. Essi capiscono Guillaume de Machaut e non capiscono il mito di Edipo: ebbene, se non lo capiscono è perché trasformano i grandi testi antichi in feticcio, ossia perché di questi testi l’umanesimo occidentale ha bisogno per giustificarsi di fronte alla Bibbia e ai Vangeli. La stessa cosa avviene per i nostri «etnocentrifughi» militanti, che ci mostrano una semplice variante della stessa illusione. Perché allora non condannano, in quanto etnocentrico, l’uso del capro espiatorio a proposito di Guillaume de Machaut?

Se torno sempre a Guillaume, anche a rischio di stancare i miei lettori, non è perché egli abbia in sé una ragione di interesse speciale, ma perché l’interpretazione che ne diamo si discosta decisamente dal testo, per il fatto stesso di essere radicalmente strutturale. Essa si basa su un principio di cui nel testo non si parla mai; nonostante ciò, è ritenuta a ragione intoccabile e incontrovertibile. E poiché sui testi mitici io non faccio mai niente di più di quanto tale interpretazione faccia sui suoi testi di persecuzione, essa è per me una meravigliosa controprova, il mezzo più rapido, il più intelligibile e sicuro per spazzare via tutte le false idee che attualmente proliferano, non solo in ambito mitologico e religioso, ma in tutto ciò che riguarda l’interpretazione. Essa ci fa toccare con mano la senescenza mentale che si cela dietro le pretese «radicali» dell’odierno nichilismo. Ovunque trionfa l’idea perniciosa che non vi sia verità da nessuna parte, e soprattutto che non ve ne sia nei testi che interpretiamo. Per opporci a questa idea bisogna brandire la verità che tutti, senza esitare, ricaviamo da Guillaume de Machaut e dai processi di stregoneria. Bisogna chiedere ai nostri nichilisti se siano disposti a rinunciare anche a questa verità, e se ai loro occhi tutte le affermazioni siano davvero equivalenti tra loro, quelle che provengono dai persecutori come quelle che denunciano la persecuzione.

XI

LA DECOLLAZIONE
DI SAN GIOVANNI BATTISTA

Se ho parlato così a lungo dell’errore di interpretazione di cui è oggetto il mio lavoro, non l’ho fatto per puro spirito polemico, ma perché questo errore ripete, aggravandolo, un errore vecchio di almeno tre secoli nella nostra interpretazione dei rapporti tra la Bibbia e il religioso nel suo insieme. Ed è un errore comune ai cristiani e ai loro avversari: nella sostanza sia gli uni che gli altri si comportano sempre in modo rigorosamente simmetrico, da bravi fratelli nemici quali sono e quali intendono rimanere. Essi tengono veramente soltanto alla loro controversia, perché non vivono che di essa. Meglio starne alla larga, altrimenti li si avrà tutti addosso.

Anticristiani e cristiani si assomigliano in questo: hanno la medesima concezione dell’originalità. Dai romantici in poi – lo sappiamo bene – essere originali significa non dire la stessa cosa che dice il vicino, fare sempre qualcosa di nuovo nel senso della novità tipica delle scuole e delle mode: praticare l’innovazione, secondo il linguaggio odierno dei nostri burocrati e ideologi in un mondo ormai incapace persino di rinnovare le proprie etichette, condannato com’è a oscillare perennemente fra «moderno» e «nuovo» senza poter neanche concepire una terza soluzione.

Questa concezione dell’originale domina le discussioni attorno ai Vangeli. Perché i Vangeli e quindi la religione cristiana fossero veramente originali, bisognerebbe che dicessero qualcosa di diverso da tutte le altre religioni. Ora, essi dicono esattamente la stessa cosa. Da secoli i nostri etnologi e storici delle religioni non dicono altro, ed è questa l’ispirazione profonda di tutta la loro scienza.

Guardate come sono primitivi i Vangeli! – ci ripetono in tutti i modi i nostri eruditi, dall’alto del loro sapere – Guardate questo supplizio collettivo, come nei miti più selvaggi, per non parlare di questa storia del capro espiatorio! Vi è in tutto ciò qualcosa di curioso. Quando si tratta dei miti cosiddetti «etnologici», parlare di violenza è semplicemente inaudito, ed è vietato riservare a qualsiasi mito o religione espressioni come «primitivo» o, soprattutto, «selvaggio». Si rifiuta qualsiasi pertinenza a questo repertorio tipicamente «etnocentrico». Ma ecco che ridiventa possibile e finanche lodevole ricorrere a questi termini non appena si tratta dei Vangeli.

Questo modo di vedere a me va benissimo, e non posso che plaudere a queste affermazioni dei nostri etnologi. Essi infatti sono perfettamente nel vero a sostenere che i Vangeli parlino dello stesso evento dei miti, di quell’assassinio fondatore che si annida nel cuore di ogni mitologia, così come a sostenere che i miti più simili ai Vangeli siano proprio quelli più primitivi, perché sono gli unici, in genere, a parlare esplicitamente di questo assassinio. I miti più evoluti lo hanno cancellato con cura, quando non l’hanno trasfigurato.

Se i Vangeli parlano dello stesso evento dei miti –così prosegue il ragionamento dei nostri etnologi –, essi devono essere immancabilmente mitici. I nostri amici hanno dimenticato un’unica cosa. Si può parlare dello stesso assassinio senza parlarne allo stesso modo. Se ne può parlare come ne parlano gli assassini e come ne parla non una vittima qualsiasi, ma quella vittima incomparabile che è il Cristo dei Vangeli. E questa vittima la si può definire incomparabile al di fuori di ogni sentimentalismo religioso, per il motivo che non soccombe mai, su nessun punto, alla prospettiva persecutoria, né in senso positivo, concordando apertamente con i suoi carnefici, né in senso negativo, adottando nei loro confronti il punto di vista della vendetta, che è sempre la riproduzione rovesciata della prima rappresentazione persecutoria, la sua ripetizione mimetica.

Questo è ciò che conta, questa assenza totale di complicità positiva o negativa con la violenza, affinché possa rivelarsi fino in fondo il sistema della sua rappresentazione, il sistema di ogni rappresentazione al di fuori degli stessi Vangeli.

Vi è in tutto ciò un’originalità vera, consistente in un ritorno all’origine, un ritorno che annulla l’origine mentre la rivela. La ripetizione costante dell’origine, che caratterizza la falsa originalità dell’innovazione, poggia sulla dissimulazione e il mascheramento di questa origine stessa.

I cristiani non hanno compreso l’autentica originalità dei Vangeli, e non fanno altro che sottoscrivere la concezione dei loro avversari. Pensano che i Vangeli sarebbero originali solo se parlassero di tutt’altra cosa rispetto ai miti. Si rassegnano dunque alla nonoriginalità dei Vangeli; adottano un vago sincretismo, e il loro credo personale è molto indietro rispetto a quello di Voltaire. Oppure cercano vanamente di provare l’esatto contrario di ciò che provano gli etnologi, sempre all’interno dello stesso sistema di pensiero. E sempre vanamente si sforzano di dimostrare che la passione ha introdotto qualcosa di radicalmente nuovo sotto tutti gli aspetti.

Tendono a vedere nel processo di Gesù, nell’intervento della folla, nella crocifissione, un evento in sé incomparabile in quanto evento del mondo. I Vangeli, al contrario, dicono che Gesù occupa lo stesso posto di tutte le vittime passate, presenti e future. Per i teologi si tratta soltanto di metafore, più o meno metafisiche e mistiche. Essi non prendono alla lettera i Vangeli e tendono a trasformare la passione di Cristo in un feticcio. Non si accorgono di fare così il gioco dei loro avversari come di ogni mitologia: ri-sacralizzare la violenza desacralizzata dal testo evangelico.

La prova che bisogna mutare atteggiamento ce la fornisce l’esistenza, nel testo stesso dei Vangeli, di un secondo esempio di assassinio collettivo, diverso per quel che riguarda i singoli fatti, ma assolutamente identico alla passione per quanto riguarda i meccanismi in gioco e i rapporti fra i partecipanti.

Si tratta dell’assassinio di Giovanni Battista. Analizzerò il racconto che ne fa Marco. Benché di dimensioni ridotte, questo testo conferisce un sorprendente rilievo ai desideri mimetici, alle rivalità mimetiche, e infine all’effetto di capro espiatorio che ne è il risultato. È impossibile considerare questo testo come un semplice riflesso o un doppione della passione. Le differenze sono troppo grandi perché si possa giungere alla conclusione che i due racconti abbiano una sola e identica origine o persino che l’uno abbia subìto l’influenza dell’altro. Le somiglianze si spiegano meglio grazie alla medesima struttura degli eventi rappresentati e a un’assoluta padronanza di una sola e unica concezione dei rapporti individuali e collettivi che vanno a comporre i due eventi: la concezione mimetica.

L’assassinio di Giovanni Battista fornirà una sorta di controprova alla mia analisi della passione. Inoltre, ci permetterà di verificare il carattere sistematico del pensiero evangelico sulla questione dell’assassinio collettivo e del suo ruolo nella genesi del religioso non cristiano.

Erode desiderava sposare in seconde nozze Erodiade, moglie di suo fratello. Il profeta aveva condannato questa unione. A quanto sembra, Erode lo aveva fatto imprigionare più per proteggerlo che per castigare la sua audacia. Erodiade si accaniva a chiedere la sua testa, mentre Erode opponeva un netto rifiuto. Infine la moglie prevale facendo danzare sua figlia durante un banchetto in presenza di Erode e dei suoi convitati. Istruita dalla madre e sostenuta dagli ospiti, la figlia chiede la testa di Giovanni Battista e Erode non osa rifiutargliela (Mc, 6, 14-28).

Cominciamo dall’inizio:

 

«Erode aveva fatto arrestare e incatenare Giovanni nelle sue prigioni a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposato. Giovanni infatti diceva a Erode: “Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello”».

 

Non è sulla stretta legalità del matrimonio che il profeta fa cadere l’accento. Nella frase «Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello», il verbo echein, «avere», non ha una connotazione legale. Il dogma freudiano-strutturalista favorisce un tipo d’interpretazione che non si addice ai Vangeli. Non inseriamo il legalismo pedante in luoghi dove non ha mai regnato, sotto il pretesto di biasimarlo. Lo spirito e la lettera del testo evangelico vanno nella direzione opposta.

Di che cosa si tratta in realtà? Di fratelli nemici. I fratelli sono votati alla rivalità dalla loro stessa prossimità: si contendono la stessa eredità, la stessa corona, la stessa sposa. Tutto incomincia, come in un mito, con una storia di fratelli nemici. Hanno gli stessi desideri perché si assomigliano oppure si assomigliano perché hanno gli stessi desideri? È il rapporto di parentela a determinare nei miti il gemellaggio dei desideri oppure è il gemellaggio dei desideri a determinare una somiglianza definita fraterna?

Nel nostro testo sembrerebbe che queste proposizioni siano tutte vere contemporaneamente. Erode e suo fratello costituiscono sia il simbolo del desiderio a cui si interessa Marco, sia un esempio storico reale degli effetti di questo desiderio. Erode aveva realmente un fratello e gli aveva realmente sottratto la sposa, Erodiade. Sappiamo da Giuseppe Flavio che il piacere di prendere il posto di suo fratello ebbe per Erode conseguenze pesanti; il nostro testo non ne parla, ma esse sono comunque nello stile delle complicazioni mimetiche e di conseguenza nello spirito dell’ingiunzione profetica. Erode aveva una prima moglie che dovette ripudiare e il padre della donna decise di punire l’incostanza del genero infliggendogli una cocente disfatta.

Per Erode, avere Erodiade, impossessarsene, è un male non in virtù di qualche regola formale, ma perché il suo possesso non può essere ottenuto se non a spese del fratello che dev’esserne spossessato. Il profeta mette in guardia il suo regale interlocutore contro gli effetti nefasti del desiderio mimetico. I Vangeli non si fanno illusioni sulle possibilità di arbitrato tra i due fratelli.

Confronteremo allora questo avvertimento con un passo brevissimo quanto rivelatore del Vangelo di Luca:

«Uno della folla ... disse a Gesù: “Maestro, di’ a mio fratello di spartire con me la nostra eredità”. Egli rispose: “Amico mio, chi mi ha costituito giudice sopra di voi o arbitro delle vostre spartizioni?”» (Lc, 12, 13-14).

Attorno all’eredità indivisibile, i fratelli si dividono, e Gesù si dichiara incompetente. La formula «Chi mi ha costituito giudice sopra di voi o arbitro delle vostre spartizioni?» ricorda una frase all’inizio dell’Esodo. Mosè interviene una prima volta tra un Egiziano e un Ebreo. Uccide l’Egiziano che maltrattava l’Ebreo. Interviene una seconda volta tra due Ebrei e l’interpellato gli chiede: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’Egiziano?».38 Colpisce il fatto che Gesù applichi a se stesso ciò che dice l’Ebreo per contestare l’autorità di Mosè, e non ciò che quest’ultimo dice. Gesù fa capire che la domanda non ha risposta, nel suo caso, come non la aveva avuta nel caso di Mosè. Nessuno lo ha costituito, né lo costituirà mai, giudice sopra i due fratelli e arbitro delle loro spartizioni.

Ciò significa forse che Gesù protesta contro l’idea di essere incaricato di una missione divina come lo fu Mosè? Certo che no: Gesù vuole far capire che la sua missione è molto diversa da quella di Mosè. Il tempo del legislatore e liberatore nazionale è passato. Non è più possibile separare i fratelli nemici con una violenza organizzata che metterebbe fine alla loro. La contestazione dell’Ebreo che ricorda a Mosè il suo assassinio del giorno prima è ormai universalmente valida. Non è più possibile alcuna distinzione tra violenza legittima e violenza illegittima. Non ci sono che fratelli nemici e li si può soltanto mettere in guardia contro il loro desiderio mimetico sperando che vi rinuncino. È quello che fa Giovanni, e il suo avvertimento ricorda la predicazione del Regno di Dio durante la carriera di Gesù.

Difatti, nel testo evangelico, se si esclude il profeta, restano soltanto fratelli nemici e gemelli mimetici: la madre e la figlia, Erode e suo fratello, Erode e Erodiade. I due ultimi nomi suggeriscono foneticamente il gemellaggio e sono costantemente ripetuti, in alternanza, all’inizio del nostro testo, mentre quello della danzatrice non vi appare, probabilmente perché non c’è niente che gli faccia da eco, non apporta niente sotto il profilo degli effetti mimetici.

Il fratello, ovvero il fratellastro al quale Erode cercava di sottrarre Erodiade, non si chiamava Filippo, come afferma Marco per sbaglio, si chiamava anch’egli Erode, aveva lo stesso nome di suo fratello; Erodiade si trova presa tra due Erodi. Se Marco lo avesse saputo, avrebbe probabilmente giocato su questa omonimia. La realtà storica è ancora più bella del testo.

L’avvertimento di Giovanni alla fine della nostra citazione designa il tipo di rapporto che domina l’insieme del racconto e che, giunto al parossismo, sfocia nell’assassinio del profeta. Il desiderio cresce e si esaspera, perché Erode non tiene conto dell’avvertimento profetico e gli altri non fanno che seguire il suo esempio. Tutti gli avvenimenti e i particolari del testo illustrano i vari momenti di sviluppo di questo desiderio, ognuno dei quali è guidato dalla logica demenziale di un rilancio che si nutre dell’insuccesso dei momenti anteriori.

La prova che Erode desidera innanzi tutto trionfare sul fratello sta nel fatto che, una volta conquistata, Erodiade perde ogni influenza diretta su suo marito. Non riesce nemmeno a ottenere che lui faccia morire un piccolo, insignificante profeta. Per giungere al suo scopo, Erodiade deve ricostituire, servendosi della figlia, una configurazione triangolare analoga a quella che aveva assicurato il suo ascendente su Erode, facendo di lei stessa la posta in gioco tra i fratelli nemici. Il desiderio mimetico si spegne in un punto, ma solo per riapparire in un altro sotto forme più virulente.

Erodiade si sente negata, annullata dalle parole di Giovanni, non in quanto essere umano, ma in quanto posta in gioco mimetica. È anche lei troppo assorbita dal mimetismo per poter distinguere. Sottraendo il profeta alla vendetta di Erodiade, Erode si comporta secondo le leggi del desiderio: verifica l’annuncio profetico, e l’odio della donna esclusa raddoppia. Attratto da Giovanni poiché se ne sente respinto, il desiderio diventa desiderio di distruzione, scivola subito nella violenza.

Imitando il desiderio di mio fratello, io desidero quello che lui desidera: ci impediamo così, a vicenda, di soddisfare il nostro desiderio comune. Più cresce la resistenza da una parte e dall’altra, più il desiderio si rafforza; più il modello diventa ostacolo, più l’ostacolo diventa modello, cosicché alla fine il desiderio s’interessa esclusivamente a ciò che lo contrasta. È sedotto soltanto dagli ostacoli che lui stesso suscita. Giovanni Battista è l’ostacolo: inflessibile, inaccessibile a qualsiasi tentativo di corruzione; ed è questo che affascina Erode e ancor più Erodiade. Erodiade incarna il divenire del desiderio di Erode.

Più il mimetismo si esaspera, più aumenta la sua duplice potenza di attrazione e di repulsione, e più si trasmette rapidamente da un individuo all’altro secondo i modi dell’odio. Il seguito fornisce un’illustrazione straordinaria di questa legge.

 

«Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a Erode e ai suoi commensali. Allora il re disse alla ragazzina: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”. E le fece un giuramento: “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, foss’anche la metà del mio regno!”. Lei uscì e disse alla madre: “Che cosa bisogna chiedere?”. “La testa di Giovanni Battista” rispose costei. Rientrata immediatamente e di corsa dal re, la ragazzina gli fece questa richiesta: “Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista”».

 

L’offerta di Erode fa scattare qualcosa di strano. O, per essere esatti, lo strano è che non fa scattare niente. Invece di enumerare le cose preziose o folli che si presume i giovani desiderino, Salomè resta in silenzio. Né Marco né Matteo danno un nome alla danzatrice. Noi la chiamiamo Salomè perché lo storico Giuseppe Flavio parla di una figlia di Erodiade con questo nome.

Salomè non ha alcun desiderio da esprimere. L’essere umano non ha desideri che siano propriamente suoi; gli uomini sono estranei ai loro desideri; i bambini non sanno che cosa desiderare e hanno bisogno di farselo insegnare. Erode non suggerisce niente a Salomè giacché le offre troppo. Proprio per questo Salomè lo pianta in asso e va da sua madre a chiedere che cosa convenga desiderare.

Ma è veramente un desiderio quello che la madre trasmette alla figlia? Salomè sarebbe soltanto un’intermediaria passiva, una brava bambina che esegue docilmente i terribili incarichi della madre? No, lei è molto di più, prova ne sia la sua precipitazione non appena la madre ha finito di parlare. La sua incertezza scompare e lei cambia completamente. Osservatori attenti come padre Lagrange hanno notato questa differenza nel comportamento, ma non ne hanno capito il significato:

 

«Rientrata immediatamente e di corsa dal re, la ragazzina gli fece questa richiesta: “Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista”».

Immediatamentedi corsasubito... Non è senza intenzione che un testo così avaro di dettagli moltiplichi i segnali di febbrile impazienza. Salomè è preoccupata che il re, rotto l’incantesimo della danza e uscita la danzatrice, possa ripensarci. In lei è il desiderio a preoccuparsi, perché il desiderio di sua madre è diventato il suo. Il fatto che il desiderio di Salomè sia in tutto e per tutto la copia di un altro desiderio non toglie niente alla sua intensità; al contrario, l’imitazione è ancora più frenetica dell’originale.

La figlia di Erodiade è una bambina. Nell’originale greco non troviamo la parola kore, fanciulla, ma il diminutivo korasion, fanciulletta. La Bible de Jérusalem traduce correttamente con il termine fillette, ragazzina. Bisogna dimenticare la concezione che fa di Salomè una professionista della seduzione. Il genio del testo evangelico non ha niente a che vedere con la cortigiana di Flaubert, con la danza dei sette veli e il ciarpame orientaleggiante. Benché ancora bambina, o forse proprio perché ancora bambina, Salomè passa istantaneamente dall’innocenza al parossismo della violenza mimetica. Non si può immaginare sequenza più illuminante di questa. Dapprima, in risposta all’offerta esorbitante del monarca, vi è il silenzio della figlia, poi la domanda alla madre, quindi la risposta della madre, il desiderio della madre, e infine l’assunzione di questo desiderio da parte della figlia, il desiderio della figlia. Il bambino chiede all’adulto di supplire non a una mancanza, che sarebbe desiderio, ma alla mancanza del desiderio stesso. Siamo di fronte a una rivelazione dell’imitativo come pura essenza del desiderio, incompresa e sempre incomprensibile perché troppo insolita, altrettanto estranea alle concezioni filosofiche dell’imitazione quanto alle teorie psicoanalitiche del desiderio.

Vi è certamente qualcosa di schematico in questa rivelazione. Essa si compie a spese di un certo realismo psicologico. Per quanto folgorante possa essere la trasmissione di un desiderio da un individuo all’altro, è difficile immaginare che essa poggi soltanto sulla breve risposta della madre alla domanda della figlia. Questo schematismo sconcerta tutti i commentatori: Matteo per primo lo ha accantonato; tra l’offerta di Erode e la risposta di Salomè egli ha soppresso lo scambio di battute tra madre e figlia; ne ha percepito la rozzezza e non ne ha riconosciuto la genialità, o ne ha giudicato l’espressione eccessivamente ellittica per essere ricordata. Egli ci dice semplicemente che la figlia è stata «istruita dalla madre»,39 ed è l’interpretazione corretta di quanto succede in Marco, solo che ci fa perdere lo spettacolo impressionante di una Salomè di colpo metamorfosata, mimeticamente, in una seconda Erodiade.

Dopo essere stata «contagiata» dal desiderio materno, la figlia non si distingue più dalla madre. Le due donne recitano successivamente la stessa parte presso Erode. Il nostro culto del desiderio ci impedisce di riconoscere questo processo di uniformazione, che scandalizza i nostri modi consueti di pensare. Gli adattatori moderni sono anch’essi divisi tra chi esalta la sola Erodiade e chi esalta la sola Salomè, facendo di volta in volta dell’una o dell’altra l’eroina del desiderio più intenso e quindi, secondo loro, più singolare e spontaneo, più liberato e liberatore, il che è tutto quello contro cui il testo di Marco insorge, con una potenza e semplicità che sfuggono completamente alla volgarità – nell’accezione letterale del termine – degli strumenti di analisi che ci siamo forgiati, psicoanalisi, sociologia, etnologia, storia delle religioni, ecc.

Dividendosi tra Erodiade e Salomè, i moderni che hanno il culto del desiderio ristabiliscono silenziosamente quella verità che il loro culto ha la finalità di negare, ossia che lungi dall’essere un principio individualizzante, il desiderio sempre più mimetico rende coloro che investe sempre più intercambiabili, sempre più sostituibili l’uno all’altro, in proporzione alla sua intensità.

Prima di parlare della danza, bisogna evocare ancora una nozione che pervade il nostro testo, anche se non viene mai nominata in modo esplicito. È lo scandalo, ovvero la pietra d’inciampo. Derivato da skazein, che significa zoppicare, skandalon indica l’ostacolo che respinge per attirare e attira per respingere. Non si può inciampare su questa pietra una prima volta senza tornare sempre ad inciampare su di essa, perché l’incidente iniziale e quindi quelli successivi la rendono sempre più fascinatrice.40

Io vedo nello scandalo una definizione rigorosa del processo mimetico. Il significato moderno recupera soltanto in minima parte il significato evangelico. Il desiderio vede perfettamente che, desiderando quello che l’altro desidera, fa di questo modello un rivale e un ostacolo. Se fosse saggio abbandonerebbe la partita, ma se il desiderio fosse saggio cesserebbe di essere desiderio. Non trovando altro che ostacoli sulla propria strada, li incorpora nella sua visione del desiderabile, li mette in primo piano; non può più desiderare senza di loro; li coltiva con avidità. È così che il desiderio diventa passione carica d’odio verso l’ostacolo e si lascia scandalizzare. Il passaggio da Erode a Erodiade, e quindi a Salomè, rende visibile proprio questa evoluzione.

Giovanni Battista è per Erodiade uno scandalo per il solo fatto che dice la verità, e il desiderio non ha nemico peggiore della sua verità. Proprio per questo esso può fare della verità uno scandalo; la verità stessa diventa scandalosa, ed è proprio questo il peggiore degli scandali. Erode e Erodiade trattengono prigioniera la verità, ne fanno una specie di posta in gioco, la compromettono nelle danze del loro desiderio. Beato – dice Gesù – colui per il quale io non sarò causa di scandalo.41

Lo scandalo finisce sempre per investire e incorporare ciò che gli sfugge di più, ciò che dovrebbe essergli più estraneo. La parola profetica ne è un esempio, e l’infanzia ne è un altro. Interpretare Salomè come sto facendo significa vedere in lei una bambina vittima dello scandalo, significa applicarle le parole di Gesù sullo scandalo e sull’infanzia:

 

«Chiunque accolga un fanciullo ... accoglie me. Ma se qualcuno scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una di quelle macine che gli asini fanno girare e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt, 18, 5-6).

 

Il bambino prende inevitabilmente a modello l’adulto più vicino. Se non incontra altro che esseri già scandalizzati, troppo divorati dal desiderio per non essere completamente chiusi in se stessi, egli prenderà a modello la loro chiusura e ne diventerà la riproduzione mimetica, la caricatura sempre più grottescamente accentuata.

Per circuire Erode e ottenere il suo consenso alla morte del Giusto, Erodiade utilizza la propria bambina. Come potrebbe non scandalizzare Salomè? Per proteggersi dallo scandalo la bambina vi sprofonda, facendo suo il desiderio atroce della madre.

Nella citazione precedente, l’inabissarsi con un peso enorme intorno al collo è un’immagine raffigurante lo scandalo. Come le altre immagini, essa suggerisce un meccanismo naturale di autodistruzione e non un intervento soprannaturale. Cadendo nel circolo vizioso dello scandalo, gli uomini si fabbricano il destino che meritano. Il desiderio è un cappio che ognuno si passa intorno al collo, e si stringe allorché lo scandalizzato cerca di allentarlo. L’immagine fisica che meglio corrisponde a questa situazione, la macina che gli asini fanno girare, è meno terribile della situazione reale. L’impiccagione ne è un altro equivalente; infliggendosela, Giuda infligge a se stesso il castigo che prolunga il suo male, lo scandalo di cui è preda, la gelosia mimetica che lo divora.

Gli uomini si scavano da soli il proprio inferno. Vi scendono insieme, appoggiandosi l’uno all’altro. La perdizione è uno scambio tutto sommato equo, perché reciproco, di cattivi desideri e cattivi comportamenti. Le uniche vittime innocenti sono i bambini che ricevono lo scandalo dall’esterno, senza partecipazione preliminare da parte loro. Fortunatamente tutti gli uomini sono stati prima bambini.

Fra scandalo e danza c’è un’opposizione reciproca. Lo scandalo è tutto ciò che ci impedisce di danzare. Gioire della danza è danzare insieme con la danzatrice, è sfuggire allo scandalo che ci tiene prigionieri nei ghiacci mallarmiani, impantanati nelle viscosità sartriane.

Se la danza non fosse mai stata altro che un puro spettacolo nel senso moderno, semplice immagine della libertà che sogniamo, i suoi effetti sarebbero veramente soltanto immaginari o simbolici nel senso più vuoto dell’attuale estetismo. Ma nella danza c’è un’altra potenza.

La danza non sopprime i desideri, li esaspera. Ciò che mi impedisce di danzare non è qualcosa di essenzialmente fisico; ciò che in questi casi ci tiene inchiodati al suolo è l’intrecciarsi, il terribile frammischiarsi dei nostri desideri, e l’altro del desiderio ci appare sempre come il responsabile di questo infortunio; siamo tutti delle Erodiadi ossessionate da un qualsiasi Giovanni Battista. Anche se i nodi del desiderio sono peculiari a ciascuno, anche se ogni singolo individuo ha il proprio modello-ostacolo, la meccanica è sempre la stessa e questa identità facilita le sostituzioni. La danza accelera il processo mimetico. Fa entrare in azione tutti i convitati, fa convergere tutti i desideri su un solo e identico oggetto, la testa sul vassoio, la testa di Giovanni Battista sul vassoio di Salomè.

Giovanni Battista diviene dapprima lo scandalo di Erodiade, poi quello di Salomè, e, grazie alla potenza della sua arte, Salomè trasmette lo scandalo a tutti gli spettatori. Riunisce tutti i desideri in un fascio che dirige verso la vittima scelta per lei da Erodiade. C’è soprattutto il nodo inestricabile dei desideri e, affinché al termine della danza esso si sciolga, occorre che muoia la vittima che momentaneamente lo incarna per ragioni sempre mimetiche, vicine o lontane nel tempo ma quasi sempre insignificanti, tranne forse che per Giovanni e per Gesù, dov’è proprio l’avvertimento veridico a proposito di questo desiderio a far scattare la meccanica fatale.

Dire che la danza piace non soltanto a Erode ma a tutti i suoi convitati è come dire che essi sposano tutti il desiderio di Salomè. Costoro non si limitano a vedere nella testa di Giovanni ciò che la danzatrice chiede, o lo scandalo in genere, il concetto filosofico dello scandalo, che d’altronde non esiste: ciascuno vi riconosce il proprio scandalo, l’oggetto del proprio desiderio e del proprio odio. Non bisogna interpretare il sì collettivo alla decollazione come un assenso di cortesia, un gesto senza reali conseguenze. I convitati sono tutti allo stesso modo ammaliati da Salomè, e immediatamente vogliono anch’essi la testa del Battista: la passione di Salomè è diventata la loro passione. Puro mimetismo. Il potere della danza è simile a quello dello sciamano, che dà ai suoi malati l’impressione di estrarre dai loro corpi la sostanza nociva che vi si era introdotta. Erano posseduti da qualcosa che li incatenava, ed ecco che la danza li libera. La danzatrice può far danzare questi infermi e, danzando, li libera del demone che li possedeva: li porta a scambiare tutto ciò che li travaglia, che li tormenta, per la testa del Battista; non solo porta alla luce il demone che stava dentro di loro, ma esercita al posto loro la vendetta che sognano. Adottando il desiderio violento di Salomè, tutti i convitati hanno l’impressione di soddisfare anche il proprio. In tutti c’è la stessa frenesia per il modello-ostacolo, e tutti accettano di ingannarsi sull’oggetto poiché l’oggetto proposto appaga la loro sete di violenza. Non è la negatività hegeliana o la morte impersonale dei filosofi a suggellare la simbolicità della testa profetica, è il meccanismo mimetico dell’assassinio collettivo.

Esiste una leggenda popolare secondo la quale Salomè muore durante una danza sul ghiaccio. La danzatrice scivola e, cadendo, batte il collo su uno spigolo che le taglia la testa.42

Mentre nel testo evangelico la danzatrice si tiene meravigliosamente in equilibrio, ottenendo per questo la testa desiderata, nella leggenda la vediamo fallire e pagare l’insuccesso con la propria testa. Questo contrappasso si attua senza alcun intermediario, a quanto sembra; è una vendetta senza vendicatori; ma nella trasparenza del ghiaccio possiamo vedere un’immagine degli altri, gli spettatori, uno specchio riflettente, e soprattutto un piano meravigliosamente levigato che favorisce dapprima le evoluzioni più spettacolari. I suoi ammiratori spingono la danzatrice a sfidare la legge di gravità con audacia crescente, ma possono istantaneamente tramutarsi in trappola fatale, testimoni e causa della caduta dalla quale l’artista non si risolleverà.

Se la danzatrice non padroneggia più i suoi desideri, il pubblico le si rivolta contro istantaneamente, e non resta che lei a fare da vittima sacrificale. Come il domatore di belve, chi officia il rito scatena mostri che lo divoreranno se non avrà la meglio su di loro grazie a prodezze incessantemente rinnovate.

La leggenda, nella sua dimensione vendicatrice, non ha niente di evangelico, ma conferma l’esistenza nella coscienza popolare di un legame tra l’assassinio di Giovanni, la danza e lo scandalo, ossia la perdita dell’equilibrio, il contrario della danza riuscita. Essa verifica dunque la lettura mimetica e direi persino, per piacere ai miei critici, il desiderio di semplificazione, la mentalità sistematica, il dogmatismo di questa lettura, in quanto mette ancora in movimento tutti i meccanismi in uno spazio prodigiosamente ridotto, ma non senza mitizzare di nuovo ciò che Marco ha smitizzato, poiché sostituisce l’altro, il doppio, il rivale scandaloso, sempre esplicito nel testo evangelico, con uno dei «simboli» mitici più comuni, la superficie liscia e riflettente, che equivale allo specchio.

Lo scandalo è l’inafferrabile che il desiderio vuole afferrare, è l’indisponibile assoluto di cui vuole assolutamente disporre. In quanto più leggera, più maneggevole, veramente portatile, la testa assicura una rappresentazione migliore dopo che la si è staccata dal corpo, e ancora migliore diventa la sua rappresentazione dopo che la si è posata su un vassoio. Lamina d’acciaio fatta scivolare sotto la testa di Giovanni, questo vassoio mette in risalto la fredda crudeltà della danzatrice. Trasforma la testa in un accessorio della danza, ma è soprattutto il sogno-incubo estremo del desiderio che esso evoca e materializza.

Ritroviamo qui, in parte, quell’ossessione che su certi primitivi esercita la testa dell’antagonista ritualmente designato dall’ordine culturale, il membro della tribù vicina che intrattiene rapporti permanenti di rivalità mimetica con la tribù dell’uccisore. A volte, i primitivi fanno subire a queste teste un trattamento che le rende incorruttibili e le rimpicciolisce, trasformandole in gingilli. È una raffinatezza parallela all’orribile desiderio di Salomè.

La tradizione riconosce in Salomè una grande artista, e se si forma una forte tradizione una ragione c’è sempre. Ma qual è in questo caso? La danza non viene mai descritta. Il desiderio espresso da Salomè non ha niente di originale, perché copia quello di Erodiade. Perfino le sue parole sono quelle di Erodiade. Salomè vi aggiunge un’unica cosa, l’idea del vassoio. «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni Battista». Erodiade aveva nominato la testa, ma non il vassoio. Il vassoio costituisce l’unico elemento nuovo, l’unico dato che appartenga in modo specifico a Salomè. Se serve una causa testuale al prestigio di Salomè, è lì che bisogna cercarla. Non c’è nient’altro che la giustifichi.

Tutto riposa, indubitabilmente, su questo vassoio. È questo l’elemento che ha valso alla scena di Marco la sua fama. È questo l’elemento di cui ci si ricorda quando si è dimenticato tutto. E, del resto, è proprio da questo tipo di segni – non dimentichiamolo, o piuttosto se possibile dimentichiamolo – che l’umanesimo liberale ha elaborato i suoi simboli della Cultura, lo stesso umanesimo che ha trionfato durante la grande epoca moderna con Erodiade e Salomè. Ecco un’idea scandalosa, sorprendente, raffinatissima a furia di essere rozza, un’idea da artista decadente, insomma.

Ma è veramente un’idea originale nel senso moderno della novità? La minima riflessione dissolve la parvenza di originalità per lasciare posto, ancora una volta, all’imitazione, alla mimesis.

Erodiade, nel rispondere alla figlia: «La testa di Giovanni Battista», non sta pensando alla decollazione. In italiano come in greco, chiedere la testa di qualcuno significa esigere che muoia, punto e basta. Significa parlare di una parte per il tutto. La risposta di Erodiade non allude a un determinato tipo di esecuzione. Il testo ha già fatto menzione del desiderio di Erodiade in una lingua neutra, che non rivela alcuna fissazione particolare sulla testa del suo nemico: «Quanto a Erodiade, essa si accaniva contro Giovanni Battista e avrebbe voluto farlo morire».

Anche ammettendo che Erodiade intendesse suggerire il tipo di morte che augurava al profeta nell’esclamare: «La testa di Giovanni Battista», ciò non significa che volesse tenerne la testa tra le mani, che desiderasse l’oggetto fisico. Anche nei paesi che usano la ghigliottina chiedere la testa di qualcuno implica una dimensione retorica che è invece ignota alla figlia di Erodiade. Salomè prende sua madre alla lettera. Non lo fa apposta. Bisogna essere adulti, si sa, per distinguere le parole dalle cose. Questa testa è il più bel giorno della sua vita.

Avere Giovanni Battista in testa è una cosa, avere la sua testa tra le mani un’altra. Salomè si chiede quale sia il modo migliore di liberarsene. Questa testa appena tagliata bisognerà pur metterla da qualche parte, e la cosa più ragionevole è posarla su qualcosa di piatto, su un vassoio. Quest’idea è il massimo della piattezza, è un riflesso da buona casalinga. Salomè osserva le parole troppo rigidamente per poterne riprodurre esattamente il messaggio. Peccare di eccessivo letteralismo è interpretare male, perché è interpretare senza saperlo. L’inesattezza della copia fa tutt’uno con la miope preoccupazione dell’esattezza. Ciò che in definitiva appare più creativo nel ruolo di Salomè è, al contrario, ciò che di più meccanico e di propriamente ipnotico vi sia nella sottomissione del suo desiderio al modello che si è dato.

Tutte le grandi idee estetiche sono di questo tipo, strettamente, ossessivamente imitative. La tradizione lo sapeva, e infatti non ha mai parlato d’arte se non in termini di mimesis. Noi invece lo neghiamo con una passione sospetta da quando l’arte, appunto, ha iniziato a ritrarsi dal nostro mondo. Scoraggiare l’imitazione non vuol dire certo eliminarla, bensì orientarla verso le forme derisorie della moda e dell’ideologia, verso le false innovazioni contemporanee. La volontà di originalità conduce solo a smorfie prive di significato. Non bisogna rinunciare alla nozione di mimesis; bisogna allargarla alle dimensioni del desiderio, o forse bisogna allargare il desiderio alle dimensioni del mimetico. Separando la mimesis dal desiderio, la filosofia ha mutilato entrambi, mentre noi restiamo prigionieri di questa mutilazione che perpetua tutte le false ripartizioni della cultura moderna, come ad esempio ciò che rientra nell’ambito dell’estetica e ciò che non vi rientra, ciò che è pertinente al mito e ciò che è pertinente alla storia.

Della danza in sé il testo non dice assolutamente niente; dice soltanto: e danzò... Eppure deve ben dire qualcosa, dato il fascino che ha sempre esercitato sull’arte occidentale. Salomè danza già sui capitelli romanici e da allora, e in maniera sempre più diabolica e scandalosa via via che il mondo moderno sprofonda nel suo stesso scandalo, non ha più smesso di danzare.

Lo spazio destinato a diventare, nei testi moderni, quello della «descrizione» è occupato qui dagli antecedenti e dalle conseguenze della danza. Tutto qui si riporta ai momenti necessari di un solo e identico gioco mimetico. La mimesis occupa dunque lo spazio, non però nel senso del realismo che copia gli oggetti, ma nel senso dei rapporti dominati dalle rivalità mimetiche, e questo vortice, prendendo velocità, produce il meccanismo vittimario che vi pone termine.

Tutti gli effetti mimetici sono pertinenti, considerati sotto il profilo della danza; sono già effetti di danza, ma non hanno nulla di gratuito, non sono là per «ragioni estetiche»: ciò che interessa a Marco sono i rapporti che intercorrono tra i partecipanti. La danzatrice e la danza si generano reciprocamente. Il progredire infernale delle rivalità mimetiche, il diventare simili di tutti i personaggi, l’incamminarsi della crisi sacrificale verso il suo scioglimento vittimario sono tutt’uno con la prestazione coreutica di Salomè. E così dev’essere, perché le arti non sono altro che la riproduzione di questa crisi, di questo scioglimento, in una forma più o meno velata. Tutto incomincia ogni volta con affrontamenti simmetrici che si risolvono, da ultimo, in vortici danzanti attorno a una vittima.

Il testo ha, nel suo insieme, qualcosa di danzante. Per inseguire con rigore, ma anche con semplicità, gli effetti mimetici, deve compiere un andirivieni continuo tra un personaggio e l’altro, rappresentare insomma una specie di balletto in cui ogni danzatore occupa di volta in volta il proscenio prima di sparire nuovamente nel gruppo, fino a sostenere la propria parte nella sinistra apoteosi conclusiva.

Ma c’è anche e soprattutto – mi si dirà – l’intelligenza calcolatrice. Erode non vuole cedere ma Erodiade, come un ragno al centro della tela, attende l’occasione favorevole:

 

«Venne dunque il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte...» (Mc, 6, 21).

 

Il giorno propizio, il compleanno di Erode, ha un carattere rituale; è una festa che ricorre tutti gli anni, ed è l’occasione di attività celebrative e quindi, a maggior ragione, rituali: la comunità si riunisce attorno a un banchetto; lo stesso spettacolo di danza a conclusione del banchetto ha un carattere rituale. Tutte le istituzioni che Erodiade utilizza contro Giovanni sono di natura rituale.

Come il complotto dei sacerdoti nel racconto della passione, anche quello di Erodiade ha un’importanza secondaria: non accelera gli eventi che di poco, perché va nella direzione del desiderio e della mimesis, come il rito stesso. Una comprensione troppo differenziata, ancora inferiore, immagina che Erodiade manipoli tutti i desideri, ma è la comprensione di Erodiade stessa. Una comprensione superiore, più mimetica e meno differenziata, vede che Erodiade per prima è manipolata dal suo desiderio.

Tutte le attività menzionate nel testo si ritrovano nei riti e culminano come regola generale in un’immolazione sacrificale. L’assassinio di Giovanni occupa il luogo e il momento del sacrificio. Tutti gli elementi del testo potrebbero dunque essere letti in chiave strettamente rituale, ma questa lettura non avrebbe alcun valore esplicativo. Vi fu un tempo in cui una certa etnologia credeva di chiarire un testo come il nostro indicandone gli aspetti rituali. Ma non faceva altro che infittire il mistero, perché non aveva nessuna visione chiara dei riti e della loro ragione d’essere. Nelle scienze dell’uomo succede frequentemente che si dia un valore esplicativo ai dati più opachi, proprio a causa della loro opacità. Ciò che non offre nessun appiglio al ricercatore si presenta come un blocco perfetto e, giacché il dubbio non può insinuarsi da nessuna parte, la sua stessa oscurità lo fa sembrare un’idea chiara.

Lungi dal separarmi dagli aspetti rituali e istituzionali del testo interpretando tutto tramite il desiderio, adopero l’unico schema che renda intelligibile il rituale. Tra questo e gli stadi supremi della crisi mimetica, spontaneamente risolta dal meccanismo vittimario, non c’è soltanto somiglianza, c’è perfetta sovrapposizione, indistinzione pura e semplice. Questa sovrapposizione è sempre possibile perché il rito – l’ho già detto – non fa altro che ripetere mimeticamente una crisi mimetica originaria. E poiché nemmeno questa contiene alcunché di originale – a parte il suo nascondere in sé la scena d’origine, naturalmente – la dimensione rituale si inscrive senza rotture nella storia del desiderio che il nostro testo racconta; è essa stessa interamente mimesis, imitazione, ripetizione scrupolosa di questa crisi. Il rito non apporta nessuna soluzione propria, non fa che ricopiare la soluzione che arriva spontaneamente. Non vi è dunque nessuna differenza strutturale tra il rito propriamente detto e il corso spontaneo, naturale, della crisi mimetica.

Lungi dal frenare o interrompere il gioco mimetico dei desideri, l’attività rituale lo favorisce e lo trascina verso vittime determinate. Ogni volta che si sentono minacciati da una discordia mimetica reale, i fedeli vi prendono parte volontariamente; mimano i loro stessi conflitti e usano ogni tipo di ricetta per favorire la soluzione sacrificale che li riconcilierà a spese della vittima.

La nostra lettura trova allora la sua conferma: il rito e l’arte che ne scaturisce sono di natura mimetica, agiscono mimeticamente, e non hanno un’autentica specificità. Sarebbero dunque esattamente equivalenti alla crisi spontanea, oppure esattamente equivalenti alla complicata manovra di Erodiade? Starei confondendo tutte queste cose? Niente affatto. I veri riti differiscono dal disordine vero grazie all’unanimità creatasi contro una vittima e perpetuatasi sotto la protezione di questa vittima mimeticamente resuscitata e sacralizzata.

Il rito è la ripresa mimetica delle crisi mimetiche in uno spirito di collaborazione religiosa e sociale, ossia nell’intenzione di riattivare il meccanismo vittimario a vantaggio della società, più ancora che a scapito della vittima perpetuamente immolata. Proprio per questo nell’evoluzione diacronica dei riti i disordini che precedono e condizionano l’immolazione sacrificale si vanno attenuando, mentre l’aspetto festivo e conviviale acquista sempre maggiore importanza.

Ma le istituzioni rituali, anche le più diluite, le più edulcorate, restano propizie all’immolazione sacrificale. Una folla rimpinzata di cibo e di bevande aspira a qualcosa di straordinario e questo qualcosa non può essere altro che uno spettacolo di erotismo o di violenza, preferibilmente di entrambi. Erodiade ha del rito una conoscenza sufficiente per poterne risvegliare la potenza e volgerla a vantaggio del suo disegno omicida. Inverte e perverte la funzione rituale, giacché la morte della sua vittima la interessa più della riconciliazione della comunità. I simboli dell’autentica funzione rituale restano presenti nel nostro testo, ma in una forma puramente residuale.

Erodiade mobilita le forze del rito e le dirige scientemente verso la vittima del suo odio. Pervertendo il rito restituisce la mimesis alla sua virulenza primaria, riporta il sacrificio alle sue origini omicide; rivela lo scandalo che è nel cuore di ogni fondazione religiosa sacrificale. Svolge dunque una parte analoga a quella di Caifa nella passione.

Erodiade non è importante in se stessa. È solamente uno strumento della rivelazione, di cui mette in evidenza la natura «paradossale» utilizzando il rito in modo rivelatore perché perverso. È l’opposizione di Giovanni al suo matrimonio con Erode, come abbiamo visto – «Non ti è permesso avere la moglie di tuo fratello» –, a suscitare l’odio di Erodiade contro il profeta. Ma la mistificazione rituale non è mai altro, per principio, che questo occultamento del desiderio mimetico mediante il capro espiatorio. Erodiade e Caifa potrebbero definirsi allegorie viventi del rito costretto a tornare alle sue origini non rituali, all’assassinio senza mascheramenti, grazie all’effetto di una forza rivelatrice che lo snida dai suoi nascondigli religiosi e culturali.

Io parlo del testo di Marco come se dicesse sempre la verità. Ed effettivamente dice il vero. Eppure, al lettore alcuni aspetti sembrano leggendari. Ricordano vagamente una favola oscura dall’epilogo infausto. Lo si avverte nei rapporti fra Salomè e sua madre, in quel miscuglio di orrore e sottomissione infantile. Lo si avverte nel carattere eccessivo, esorbitante dell’offerta fatta per ricompensare la danzatrice. Erode non aveva alcun regno da dividere: in realtà, non era neanche un re ma un tetrarca, e i suoi poteri, peraltro già limitati, dipendevano interamente dalla buona disposizione dei Romani.

I commentatori cercano delle fonti letterarie. Nel libro di Ester, il re Assuero fa all’eroina un’offerta analoga a quella di Erode (Est, 5, 6). Questo testo avrebbe dunque influenzato Marco e Matteo. È possibile, ma il tema dell’offerta esorbitante è talmente comune, nei racconti leggendari, che Marco e Matteo non avevano alcun bisogno di ricorrere a un testo particolare. Sarebbe forse più interessante chiedersi che cosa significhi questo tema.

Nei racconti popolari accade sovente che l’eroe dimostri clamorosamente qualità in precedenza misconosciute superando una prova, compiendo qualche prodezza. Colui che organizza la prova, il sovrano, è tanto più colpito dal successo quanto più a lungo ha resistito al fascino dell’eroe. Gli fa allora un’offerta esorbitante, il suo regno o la sua unica figlia, il che è lo stesso. Se accettata, l’offerta trasforma uno che non possedeva niente in uno che possiede tutto, e viceversa. E se consideriamo che un re, per essere tale, è inseparabile dai suoi possedimenti, dal suo regno, è letteralmente il suo essere che il donatore affida al donatario.

Facendosi spossessare, il donatore vuol fare del donatario un altro se stesso. Tutto ciò che fa di lui quello che è, egli lo dà non tenendo niente per sé. Anche se l’offerta, come qui, si basa soltanto sulla metà del regno, il significato in definitiva non cambia. Una Salomè che possedesse la metà di Erode sarebbe la stessa cosa, lo stesso essere, dell’altra metà, cioè Erode stesso. Vi sarebbe un solo essere intercambiabile.

Nonostante i suoi titoli e le sue ricchezze, il donatore è in posizione di inferiorità. Offrire a una danzatrice di spossessarci significa chiederle di volerci possedere. L’offerta esorbitante è la risposta dello spettatore affascinato. È espressione del desiderio più forte, quello di farsi possedere. Il desiderio lo allontana dalla sua orbita, e il soggetto cerca di inserirsi di nuovo in questa orbita solare che lo acceca, cerca di farsi letteralmente «satellizzare».

Qui bisogna intendere il termine «possedere» nel senso tecnico della trance praticata in alcuni culti, e riconoscere in essa, insieme a Jean-Michel Oughourlian, una manifestazione mimetica troppo intensa perché la prospettiva della alienazione, valida fino a quel momento, mantenga la sua pertinenza. L’alienazione suppone pur sempre la vigilanza di un io, una specie di soggetto non interamente annullato dall’esperienza e che, appunto per questo, la percepisce come alienazione, schiavitù, servitù. Nel caso del posseduto, l’invasione da parte dell’altro, il modello mimetico, si fa così totale che niente e nessuno vi resiste, e la prospettiva si inverte. Non c’è più un io per dichiararsi alienato; c’è soltanto l’altro, che lo ha invaso e ha preso stabilmente il suo posto.43

Il linguaggio dell’offerta è al contempo quello del giuramento e quello della preghiera incantatoria. È il linguaggio del mimetismo ai suoi stadi più alti di intensità. Salomè diventa la divinità che Erode invoca ripetendo sempre le stesse parole, reiterando l’offerta di sé sotto l’influsso delle medesime formule: «“Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”. E le fece un giuramento: “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, foss’anche la metà del mio regno!”».

Colui che compie l’offerta ha sempre un oggetto, o magari un essere, al quale tiene in modo particolare e che vorrebbe serbare per sé. Disgraziatamente, nel pronunciare la sua offerta, Erode non ne fa parola. Forse lo ha realmente dimenticato, sotto l’impulso frenetico del suo desiderio, o forse teme di svilire la generosità della profferta sottraendole anche una minima particella dei suoi beni. O forse teme, menzionando questo oggetto, di renderlo desiderabile. Come che sia, il demone che lo possiede vince e l’offerta è senza restrizioni. La cosa si direbbe non avere alcuna importanza. E poi, rispetto alle immense ricchezze in gioco, codesto essere ha così poco peso che a nessuno verrà in mente di preferirlo a tutto il resto.

Eppure è quel che accade regolarmente. La richiesta si orienta infallibilmente verso quest’essere insignificante che non dovrebbe interessare a nessuno, anche perché nessuno lo ha nominato. Bisogna darne la colpa al destino, alla fatalità, alla perversità del narratore, all’inconscio freudiano? Certo che no. La spiegazione semplice e perfetta esiste, anche se nessuno naturalmente la accetterà: il desiderio mimetico. Ciò che conferisce il suo valore a un oggetto non è il suo prezzo reale, sono i desideri che è stato capace di attrarre e che lo rendono irresistibile anche per i desideri non ancora attivati. Il desiderio non ha bisogno di parlare per tradirsi. I desideri mimetici ci nascondono quel che desiderano perché si nascondono loro stessi, ma non possono nascondersi vicendevolmente: è per questo che la loro interazione reciproca arriva a violare le norme del verosimile portando i personaggi che ne sono investiti a eccessi uguali e contrari di cecità e perspicacia.

Erode crede di dissimulare il suo interesse per Giovanni facendolo gettare in prigione. Ma Erodiade ha capito tutto, anche se il profeta è stato ridotto al silenzio e desta ben poca attenzione dal fondo della prigione dove il re si illude di averlo nascosto. Il desiderio mimetico ha per definizione un’abilità insuperabile nello stringere i grandi nodi drammatici tradizionali, ed è per questo che le vere tragedie e la vita quotidiana si rassomigliano come due gocce d’acqua, per poco che vi si sappia orientare o viceversa smarrire.

All’offerta esorbitante corrisponde sempre una domanda apparentemente modesta, ma, a chi è chiamato a soddisfarla, tale domanda sembrerà costare più di tutti i regni dell’universo. E infatti il valore di tale domanda non si misura con il metro delle cose di questo mondo, giacché essa altro non è che sacrificio, e un sacrificio durissimo per chi deve rinunciare a ciò che gli è più caro. Essa si trasforma in una sorta di idolo, in una Salomè qualsiasi, in una mostruosa semidivinità reclamante la vittima. Ad andarne di mezzo sono la libertà, il benessere e la vita stessa dell’essere così abbandonato, ma più ancora è l’integrità spirituale di tutte le persone coinvolte. E l’integrità di Erode, già compromessa, precipita assieme al profeta nelle fauci insaziabili dell’assassinio collettivo. Il testo è dunque redatto contro il sacrificio, come tutte le grandi leggende che presentano variazioni sul tema dell’offerta esorbitante e della domanda sacrificale, la storia di Faust ad esempio, oppure quella di Don Giovanni.

I rari «miti» del mondo moderno non sono autentici miti perché, invece di chiudersi come i veri miti su soluzioni sacrificali accettate senza riserve, invece di riflettere fedelmente la visione persecutoria, rifiutano questo genere di sacrificio e non smettono di denunciarlo per quello che è, un abominio. È l’influenza dei Vangeli, per il loro tramite, a farsi sentire.

L’essenziale, in queste leggende, è sempre ciò che i nostri liberi pensatori vorrebbero eliminare, ciò che disturba la loro piccola vanità. La problematica sacrificale dà loro fastidio, vi scorgono un residuo di religiosità da sradicare al più presto, una superstizione santimoniosa che la loro spavalderia intellettuale non tollera. Sorridono dell’anima immortale reclamata da Mefistofele, guardano dall’alto in basso la statua del Commendatore e il convitato di pietra. Non vedono che questa pietra d’inciampo è l’unica offa residua capace di creare una qualche condivisione. Non è forse nello scandalo, tenacemente parassitato dai nostri intellettuali, che la società moderna ha trovato il suo ultimo legame pseudo-religioso? Ma ecco che ci pensano costoro a togliere al poco sale rimasto il suo estremo sapore.

Nel cancellare le ultime tracce della problematica sacrificale, l’unica che valga la pena di considerare perché determina tutto, questi interpreti moderni trasformano Faust e Don Giovanni in consumatori irreali di donne e di ricchezze. Il che non impedisce loro – si noti bene – di vituperare incessantemente la cosiddetta società dei consumi, probabilmente perché non è puramente irreale e ha su di loro la superiorità di fornire realmente il tipo di nutrimento che le si chiede.

A contare nella nostra vicenda è l’evidente rapporto tra il mimetismo collettivo, l’assassinio di Giovanni Battista e lo stato di trance provocato dalla danza, uno stato di possessione che fa tutt’uno con il piacere del testo, e con il piacere di Erode e dei suoi convitati: La figlia di Erodiade «danzò e piacque a Erode e ai suoi commensali». Bisogna intendere questo piacere in un senso più forte rispetto all’accezione di Freud e del suo principio del piacere: si tratta di una malìa vera e propria. Quando il posseduto si lascia andare all’immedesimazione mimetica, il demone di quest’ultima si impadronisce di lui e lo «cavalca», come si usa dire in simili casi, lo costringe a danzare con lui.

Sommerso dal mimetismo, il soggetto perde coscienza di sé e dei suoi scopi. Invece di mettersi in rivalità con il modello, egli si riduce ad essere una sua marionetta. Ogni opposizione scompare e la contraddizione del desiderio si dissolve nel nulla.

Ma dov’è finito l’ostacolo che un tempo gli sbarrava il passaggio facendolo sistematicamente cadere? Il mostro deve pur nascondersi da qualche parte, e la completezza dell’esperienza richiede di ritrovarlo e annientarlo. A questo punto c’è sempre un appetito sacrificale da soddisfare, un capro espiatorio da consumare, una vittima da decapitare. A questo livello d’intensità estrema il mimetismo sacrificale regna incontrastato, ed è alla sua soglia che i testi veramente profondi pervengono sempre.

A questo livello il mimetismo assorbe tutte le dimensioni che sembrano in grado di fargli concorrenza a livelli minori di intensità: la sessualità, le ambizioni, le dinamiche psicologiche e sociologiche, persino i riti. Ciò non significa che portando in primo piano il mimetismo si eludano o addirittura si «riducano» queste dimensioni. Esse sono tutte implicitamente presenti nell’analisi mimetica e si può sempre esplicitarle, come abbiamo appena fatto per la dimensione rituale.

Il benefattore non si aspetta mai la richiesta che gli viene fatta. Ne è sorpreso e addolorato, ma è incapace di opporre resistenza. Quando la danzatrice gli chiese la testa del Battista, «il re divenne triste,» ci dice Marco «tuttavia, a causa del giuramento e dei commensali, non volle mancare alla parola data». Erode vorrebbe salvare Giovanni. Ricordo che il suo desiderio appartiene a una fase precoce del processo mimetico. L’intenzione di Erode sarebbe di proteggere la vita di Giovanni e l’intenzione di Salomè è di distruggerla. Il desiderio si fa sempre più omicida man mano che avanza e coinvolge sempre più individui, come avviene alla folla dei commensali. Ed è il desiderio più basso ad avere la meglio. Erode non ha il coraggio di dire di no a invitati il cui numero e il cui prestigio lo intimidiscono. Egli è mimeticamente dominato, in altre parole. Gli invitati rappresentano l’intera élite dell’universo erodiano. Poco prima, Marco non aveva tralasciato di farne l’elenco per categorie: «i grandi della corte, gli ufficiali, e i principali personaggi della Galilea». Cerca di suggerircene l’enorme potenziale di influenza mimetica; la stessa cosa troviamo nel racconto della passione, dove si enumerano tutte le potenze di questo mondo coalizzate contro il Messia. La folla e le potenze si uniscono e si confondono. È da questa massa che arriva il supplemento di energia mimetica necessario alla decisione di Erode. È sempre la stessa energia a percorrere il nostro testo, capillarmente mimetico in ogni suo singolo punto.

Se Marco si sofferma a descrivere tutto ciò nei particolari, non è per il semplice piacere di raccontare, ma per chiarire il percorso decisionale che porta alla decapitazione del profeta. Gli invitati reagiscono tutti nello stesso identico modo. Al culmine della crisi mimetica, rappresentano l’unico tipo di folla che possa svolgere un ruolo determinante. Quando vi è una folla unanimemente omicida, è sempre lei ad avere l’ultima parola. Soggiogato dalla formidabile pressione che lo circonda, Erode non può che ratificarne, volente o nolente, la decisione, come farà più tardi Pilato. Cedendo alla pressione della folla, egli se ne lascia assorbire, non diviene altro che l’ultimo degli individui che contribuiscono a formarla.

Neppure in questo caso bisogna cercare una psicologia dei protagonisti. Non si deve credere che Giovanni Battista e Gesù siano morti perché caduti in mano a cospiratori di particolare malvagità o a governanti di deplorevole debolezza. Occorre svelare e stigmatizzare, invece, la debolezza dell’umanità nel suo insieme di fronte alla tentazione dei capri espiatorii.

In prima battuta, il profeta muore perché enuncia la verità del loro desiderio a persone che non vogliono sentirla, e queste cose nessuno vuole mai sentirle. Ma neanche la verità da lui proferita è una causa bastante per il suo assassinio, è soltanto un altro segno preferenziale di selezione vittimaria, in assoluto il più ironico. Non contraddice al carattere fondamentalmente aleatorio della scelta mimetica, accentuato dal ritardo nella scelta della vittima, che viene compiuta solamente dopo la danza.

Questa scelta a lungo differita permette a Marco di illustrare in un’unica azione l’alfa e l’omega del desiderio, il suo inizio mimetico e la sua conclusione vittimaria e altrettanto mimetica. La domanda su che cosa desiderare rivolta alla madre da Salomè evidenzia che in quell’istante Erodiade, o chi per lei, potrebbe designare chiunque.

La designazione in extremis della vittima nulla toglie all’immediato trasporto con cui Salomè la fa sua, subito seguita da tutti i commensali. A questo punto non vi potrebbe essere più resistenza nemmeno da parte del tiranno più risoluto.

È l’irresistibile potere di unanimità del mimetismo che interessa i Vangeli. Ed è in questo mimetismo unanime del capro espiatorio che bisogna cercare la forza sovrana di tutte le società umane.

Tagliare una sola testa basta qualche volta a suscitare il turbamento universale, ma qualche altra volta basta a calmarlo. Com’è possibile? La convergenza sulla testa di Giovanni non è che un’illusione mimetica, ma il suo carattere di unanimità procura una pacificazione reale, a partire dal momento in cui l’agitazione universalmente diffusa raggiunge un tale livello di intensità da assicurare l’assenza completa di ogni oggetto reale. Al di là di una certa soglia, l’odio si manifesta come senza causa. Non ha più bisogno di una causa e nemmeno di un pretesto, perché non esiste altro che un vortice di desideri in lotta l’uno con l’altro. Se è vero che i desideri si dividono e scendono in guerra fintanto che si concentrano su un oggetto che ognuno vorrebbe preservare intatto esclusivamente per sé – come fa Erode quando imprigiona il profeta –, non è meno vero che questi stessi desideri, una volta divenuti fonte di distruzione, hanno il potere di riconciliarsi tra loro. È proprio questo il paradosso terribile dei desideri umani. Non possono mai intendersi per preservare il loro oggetto, ma possono sempre intendersi sulla sua distruzione: perciò il loro unico accordo è a spese di qualche vittima.

 

«E il re inviò immediatamente una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa del Battista. La guardia andò e lo decapitò in prigione; poi portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazzina e la ragazzina la diede a sua madre» (Mc, 6, 27-28).

 

Chi rimprovera agli uomini il loro desiderio diviene per essi uno scandalo vivente, l’unico ostacolo – pensano costoro – che si interpone sulla strada della felicità. È la stessa cosa che andiamo ripetendo noi oggi. Finché era vivo, il profeta scompaginava tutti i rapporti; una volta morto, li facilita, diventando la «cosa» docile e inerte che circola sul vassoio di Salomè, e che gli invitati si passano a vicenda l’un l’altro al pari delle vivande del banchetto di Erode. Ma questa «cosa» è anche l’impressionante spettacolo che ci impedisce di fare ciò che non si deve fare, e ci sprona a fare ciò che si deve, è l’avvio sacrificale di tutti gli scambi. Siamo di fronte alla verità di tutte le fondazioni religiose, che si lascia leggere in questo testo senza alcuna difficoltà: la verità dei miti, dei riti e dei divieti. Il testo però non fa ciò che rivela, e non vede nulla di divino nel mimetismo che unisce tutti gli uomini. Rispetta infinitamente la vittima, e si guarda bene dal divinizzarla.

Ciò che più mi interessa in un assassinio come quello di Giovanni Battista è la sua potenza fondatrice sotto il profilo religioso, prima ancora che culturale. Vorrei mostrare adesso come il testo di Marco faccia un’allusione esplicita a questa potenza religiosa. Ed è forse questa la circostanza più straordinaria di tutte. Il passo che ho in mente non si trova al termine del racconto, ma subito prima. Il racconto si presenta così come una specie di flash-back. Erode è impressionato dalla fama crescente di Gesù:

 

«Tuttavia il re Erode sentì parlare di lui poiché il suo nome era diventato famoso, e si diceva: “Giovanni il Battista è resuscitato dai morti, per questo il potere dei miracoli opera nella sua persona”. Altri dicevano: “È Elia”. Altri ancora: “È un profeta come gli altri profeti”. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: “Quel Giovanni che ho fatto decapitare è resuscitato”» (Mc, 6, 14-16).

 

Fra tutte le ipotesi in circolazione, Erode sceglie la prima, quella che fa di Gesù un Giovanni Battista resuscitato, e il testo ci suggerisce la ragione di questa scelta: Erode pensa che Giovanni Battista sia resuscitato a causa del ruolo che egli stesso ha avuto nella sua morte violenta. I persecutori non possono credere alla morte definitiva della vittima che li ha uniti. La resurrezione e la sacralizzazione delle vittime sono innanzi tutto fenomeni di persecuzione, esprimono la prospettiva dei persecutori sulla violenza a cui hanno partecipato.

I Vangeli di Marco e di Matteo non prendono sul serio la resurrezione di Giovanni Battista, né vogliono farcela prendere sul serio. Ma rivelano fino in fondo un processo di sacralizzazione stranamente simile, in apparenza, a quello che costituisce l’oggetto principale del testo evangelico, la resurrezione di Gesù e la proclamazione della sua divinità. I Vangeli percepiscono benissimo queste somiglianze, ma non provano per esse alcun disagio, né avvertono alcun tipo di dubbio. I credenti moderni quasi non commentano la falsa resurrezione di Giovanni Battista perché, ai loro occhi, non si distingue abbastanza da quella dello stesso Gesù: pensano che, se non c’è ragione di credere nella resurrezione di Giovanni, non ci sarà neppure ragione di credere in quella di Gesù.

Per i Vangeli invece la differenza è evidente. Il primo tipo di resurrezione si impone ai persecutori ingannati dalla loro stessa persecuzione, laddove Cristo resuscita proprio per liberarci da tutte queste illusioni e superstizioni. Davvero la resurrezione pasquale trionfa sulle rovine di tutte le religioni fondate sull’assassinio collettivo.

La falsa resurrezione di Giovanni ha certamente il senso che le ho assegnato, poiché essa ricompare una seconda volta in un contesto che non lascia adito a dubbi:

 

«Gesù fece questa domanda ai suoi discepoli: “Secondo la gente [Luca: «la folla»], chi è il Figlio dell’Uomo?”. Essi dissero: “Per alcuni Giovanni Battista, per altri Elia, per altri ancora Geremia o qualcuno dei profeti”. “Ma per voi” disse loro “chi sono?”. Simon Pietro, prendendo allora la parola, rispose: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Rispondendogli Gesù dichiarò: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ebbene io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le Porte dell’Ade non prevarranno contro di essa”» (Mt, 16, 13-18).

 

Quando fu fatta questa professione di fede, Giovanni Battista era già morto. Tutti i personaggi che la folla crede di ritrovare in Gesù sono già morti. La folla, dunque, crede che siano tutti resuscitati nella persona di Gesù. Si tratta di una credenza analoga a quella di Erode, una credenza immaginaria nella resurrezione. Luca rende la cosa ancora più esplicita di quanto non faccia Matteo: Gesù – scrive – viene scambiato per uno degli antichi profeti resuscitato.

Il riferimento alle Porte dell’Ade (il regno dei morti per i Greci) mi sembra significativo. Esso non vuol dire soltanto che il male non prevarrà sul bene. Lo si può leggere, anche, come un’allusione alla religione della violenza, che è sempre una religione dei morti e della morte. Pensiamo qui alle parole di Eraclito: «La stessa cosa sono Dioniso e Ade».44

La differenza tra le due religioni la vedono i bambini, perché la violenza fa loro paura, mentre Gesù non fa loro paura. I dottori sottili, invece, non vedono nulla. Dall’alto della loro sapienza confrontano i temi, e poiché quelli che ritrovano sono ovunque gli stessi, non ne scorgono la differenza strutturale pur credendosi strutturalisti. Non vedono la differenza tra il capro espiatorio dissimulato che è il Battista per quelli che dopo averlo ucciso sono pronti ad adorarlo, e il capro espiatorio rivelato e rivelatore che è il Gesù della passione.

Anche Pietro vede la differenza, il che non gli impedirà di ricadere più volte nel comportamento mimetico proprio di chiunque altro. La straordinaria solennità di Gesù in questo passo mostra che la differenza percepita da Pietro non sarà affatto percepita da tutti gli uomini. I Vangeli insistono, insomma, sul paradosso della fede nella resurrezione di Gesù che, per uno sguardo non illuminato da quella stessa fede, nasce in un contesto di estremo scetticismo verso fenomeni in apparenza assai simili.

XII

IL RINNEGAMENTO DI PIETRO

Per descrivere l’effetto che la passione produrrà su di loro, Gesù cita ai suoi discepoli il profeta Zaccaria: «Io percuoterò il pastore e le pecore si disperderanno» (Zc, 13, 7Mc, 14, 27). Subito dopo l’arresto, avviene lo sbandamento. L’unico a non fuggire è Pietro. Egli segue a distanza il corteo e finisce con l’introdursi nel cortile del sommo sacerdote, mentre Gesù viene brutalmente interrogato nello stesso palazzo. Pietro riesce a penetrare in quel cortile grazie alla raccomandazione di un frequentatore abituale del posto, «un altro discepolo» che si è unito a lui.45 L’«altro discepolo» non è nominato ma si tratta probabilmente dello stesso apostolo Giovanni.

Pietro – ci dice Marco – aveva seguito Gesù da lontano, «fino all’interno del palazzo del sommo sacerdote e se ne stava seduto insieme ai servi, scaldandosi al fuoco» (Mc, 14, 54). Niente di più naturale di questo fuoco in una notte di marzo a Gerusalemme. «I servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo e stavano lì a scaldarsi. Anche Pietro era lì con loro e si scaldava» (Gv, 18, 18).

Pietro fa quello che fanno gli altri, per le stesse ragioni degli altri. Imita già gli altri, ma in questo non c’è niente di strano, a quanto sembra. Fa freddo e tutti i presenti si stringono intorno al fuoco. Pietro fa lo stesso, insieme con loro. Sembra davvero che non occorra aggiungere altro. I dettagli concreti, tuttavia, sono tanto più significativi quanto più un testo ne è avaro. Tre evangelisti su quattro parlano di questo fuoco. Devono avere delle buone ragioni per farlo. È nel testo di Marco, il più primitivo, come viene sempre detto, che bisogna provare a scoprirle.

Mentre Pietro era giù nel cortile, giunse una delle serve del sommo sacerdote. Vedendo Pietro che stava lì a scaldarsi, lo fissò e gli disse:

 

«“Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù”. Ma egli negò: “Non so, non capisco quello che vuoi dire”. Andò quindi fuori verso il vestibolo. La serva, avendolo visto, ricominciò a dire ai presenti: “Ecco uno di quelli”. Ma egli negò di nuovo. Dopo un poco, a loro volta, i presenti dissero a Pietro: “Tu sei certo uno di quelli; e d’altronde sei Galileo”. Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco l’uomo di cui parlate”. E, immediatamente, per la seconda volta, cantò un gallo. E Pietro si ricordò delle parole che Gesù gli aveva detto: “Prima che il gallo canti due volte, tu mi rinnegherai tre volte”. E scoppiò in pianto» (Mc, 14, 66-72).

 

Si pensa subito che Pietro menta sfrontatamente, e il rinnegamento di Pietro deriverebbe da questa menzogna; ma niente è più raro della menzogna pura e semplice e qui, a pensarci bene, i suoi contorni non sono affatto chiari. Che cosa viene chiesto a Pietro, in sostanza? Gli viene chiesto di confessare che è con Gesù. Ora, dal momento dell’arresto, appena avvenuto, non c’è più nessuno intorno a Gesù, né discepoli, né comunità. Né Pietro né altri, ormai, sono veramente con Gesù. Come sappiamo tutti, i filosofi esistenziali hanno visto nell’essere con una modalità importante dell’essere. Martin Heidegger usa il termine Mitsein che, letteralmente, si traduce essere con.

L’arresto sembra distruggere ogni possibilità di futuro all’essere con Gesù, e Pietro ha perduto, a quanto sembra, persino il ricordo del suo essere passato. Risponde un po’ come in sogno, come un uomo che veramente non sa più che cosa gli stia succedendo: «Non so, non capisco quello che vuoi dire». Forse è vero che non capisce. Il suo stato di indigenza e di spossessamento è tale da ridurlo a un’esistenza vegetativa, limitata ai riflessi elementari: fa freddo ed egli si gira verso il fuoco. Farsi largo con i gomiti per avvicinarsi al fuoco, tendere le mani verso il fuoco insieme con gli altri significa agire come se fosse già uno di loro, come se fosse con loro. I gesti più semplici hanno una loro logica, che è sempre una socio-logica, una bio-logica, e tanto più imperiosa quanto più si pone molto al di sotto della coscienza.

Pietro aspira soltanto a scaldarsi con gli altri ma, privo com’è di Mitsein, a causa del crollo del suo universo, non può scaldarsi senza aspirare oscuramente all’essere che brilla lì, in quel fuoco, ed è proprio questo essere che indicano silenziosamente tutti gli occhi che lo guardano, tutte le mani che si protendono insieme verso il fuoco.

Un fuoco nella notte è molto di più di una fonte di calore e di luce. Appena si accende, ci si dispone in cerchio intorno a esso: gli esseri e le cose si riformano. Un attimo prima non c’era che un semplice raggruppamento, una specie di folla in cui ognuno era solo con se stesso ed ecco che ora vi è un accenno di comunità. Le mani e i volti si protendono verso la fiamma e in cambio ne sono rischiarati; è come la risposta benevola di un dio alla preghiera che gli viene rivolta. Per il fatto stesso di guardare tutti il fuoco, gli uomini non possono più evitare di guardarsi, e possono ora scambiare sguardi e parole: si stabilisce lo spazio per una comunione e per una comunicazione.

A causa di questo fuoco, sorgono nuove, vaghe possibilità di Mitsein. L’essere con si profila di nuovo per Pietro, ma in un altro luogo, con altri compagni.

Marco, Luca e Giovanni nominano il fuoco una seconda volta, nel momento in cui, in Marco e Luca, la serva interviene per la prima volta. Si direbbe che sia la presenza di Pietro vicino a quel fuoco, piuttosto che la sua presenza nel cortile, a suscitare questo intervento: «Vedendo Pietro che stava a scaldarsi, la serva lo fissò e gli disse: “Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù”».

Pietro si è probabilmente fatto largo tra gli altri, ed eccolo vicinissimo alla fiamma, in piena luce, dove tutti possono vederlo. Pietro, come sempre, ha agito troppo in fretta, si è spinto troppo in avanti. Il fuoco permette alla serva di riconoscerlo nell’oscurità; ma il punto importante non è questo. La serva probabilmente non capisce bene che cosa la scandalizzi nell’atteggiamento di Pietro, che cosa la spinga a rivolgersi a lui con insolenza, è comunque qualcosa che, nel Vangelo di Marco, ha a che fare con il fuoco. Il compagno del Nazareno si comporta come se fosse a casa sua, come se avesse già un proprio posto intorno a quel fuoco. In assenza del fuoco, la serva non proverebbe quella sorta di indignazione che la spinge contro Pietro. Il fuoco è molto di più di un semplice scenario. L’essere con non può diventare universale senza perdere il proprio valore. Per questo poggia su esclusioni. La serva parla soltanto dell’essere con Gesù, ma vi è un secondo essere con, ed è l’essere intorno al fuoco, proprio quello che interessa la serva perché è il suo; lei intende chiaramente difendere la sua integrità; perciò rifiuta a Pietro il diritto di scaldarsi intorno a questo fuoco.

Giovanni fa della serva una portinaia, la guardiana del portone d’entrata. È lei che autorizza Pietro a penetrare nel cortile grazie alla raccomandazione dell’altro discepolo, e fa veramente la parte di una guardiana. In se stessa, l’idea è eccellente, ma porta l’evangelista a sostenere che Pietro venga riconosciuto subito, prima ancora che si avvicini al fuoco. Dunque non è più alla luce di quel fuoco che la serva riconosce l’intruso, non è più il carattere intimo e rituale della scena che suscita la sua indignazione. In Giovanni, d’altronde, non è il coro di tutti i servi a interpellare Pietro per la terza volta, ma un individuo presentato come parente di colui al quale Pietro aveva tagliato l’orecchio (in un vano sforzo di difendere con la violenza Gesù al momento del suo arresto). Giovanni dà la preferenza all’interpretazione tradizionale, che vede nel rinnegamento un solo motivo, la paura. Pur senza escludere del tutto la paura, ovviamente, non bisogna comunque lasciare ad essa un ruolo decisivo. A ben vedere, del resto, le quattro versioni, persino quella di Giovanni che dapprima sembrerebbe confermarla, si oppongono a questa lettura. Se Pietro temesse veramente per la sua vita, come fa notare la maggior parte dei commentatori, non sarebbe mai entrato in questo cortile, soprattutto se fosse stato riconosciuto prima ancora di entrarvi. Si sarebbe sentito subito minacciato e sarebbe fuggito.

Al richiamo della serva, certo, la cerchia perde il suo carattere fraterno e Pietro vorrebbe sgusciare via senza essere visto. Ma c’è molta gente dietro di lui, è troppo vicino al centro e la serva non ha difficoltà a seguirlo con lo sguardo durante la sua ritirata verso il vestibolo. Una volta giunto lì, lui prende tempo, aspetta il seguito degli avvenimenti. La sua condotta non è quella di un uomo che ha paura. Pietro si allontana dalla luce e dal calore perché intuisce oscuramente ciò che preoccupa la serva, ma non va via. Proprio per questo la serva può tornare alla carica. Non cerca di terrorizzare Pietro, ma di metterlo in imbarazzo per costringerlo a sloggiare.

Vedendo che Pietro non se ne va, la serva ci prende gusto ed enunciando una seconda volta il suo messaggio proclama l’appartenenza di Pietro al gruppo dei discepoli: «Ecco uno di quelli!». La prima volta si è rivolta direttamente a Pietro, pur indirizzandosi già a quelli del suo gruppo, a quelli che si scaldano intorno al fuoco, i membri della comunità minacciata dall’invasione di un estraneo. Voleva mobilitarli contro l’intruso. Questa volta si rivolge direttamente a loro e ottiene il risultato sperato; sarà l’intero gruppo a ripetere in coro a Pietro: «Tu sei certo uno di quelli!». Il tuo essere con non è qui, è con il Nazareno. Nello scambio che segue, è Pietro che alza il tono, è lui che comincia «a imprecare e a giurare». Se temesse per la sua vita, o persino per la sua libertà, parlerebbe a voce più bassa.

La superiorità di Marco, in questa scena, sta nel fatto che fa parlare due volte di seguito la stessa serva, invece di dare subito la parola ad altri personaggi. La sua serva ha più spessore. Dà prova di iniziativa, è lei che scuote tutto il gruppo. Diremmo oggi che ha qualità di leader. Ma come sempre bisogna diffidare dello psicologismo; non è la personalità della serva ciò che interessa Marco, ma il modo in cui lei fa scattare un meccanismo di gruppo, il modo in cui aziona il mimetismo collettivo.

Già la prima volta, come dicevo, cerca di risvegliare il gruppo intorpidito dall’ora tarda e dal calore del fuoco. Vuole che il suo esempio sia seguito e, poiché non lo è, è lei stessa che lo segue per prima. La sua lezione non ha avuto esito, ne dà una seconda che è inevitabilmente una ripetizione della prima. I capi sanno che bisogna trattare da bambini coloro che li seguono; bisogna sempre suscitare l’imitazione. Il secondo esempio rafforza l’effetto del primo e questa volta funziona, tutti i presenti ripetono con bella sintonia: «Tu sei certo uno di quelli; e d’altronde sei Galileo».

Il mimetismo non è caratteristico soltanto di Marco, la scena del rinnegamento è completamente mimetica in tutti e quattro i Vangeli, ma in Marco la molla mimetica si evidenzia meglio, già in partenza, nella funzione del fuoco e in quella della serva. Marco è l’unico a costringere la serva ad agire per ben due volte per innescare la macchina mimetica. Essa si pone come modello e per renderlo più efficace lo imita per prima, mette in rilievo il proprio carattere di modello, precisa, mimeticamente, quello che si aspetta dai compagni.

Gli alunni ripetono quanto dice la loro maestra. Le parole della serva vengono dunque ripetute alla lettera, ma viene aggiunto qualcosa che rivela mirabilmente ciò che si svolge sulla scena del rinnegamento: «e d’altronde sei Galileo». Illuminato dapprima dal fuoco e rivelato dall’aspetto, Pietro è definitivamente riconosciuto per il suo linguaggio. Matteo mette i puntini sulle i come al solito, facendo dire ai persecutori di Pietro: «e d’altronde il tuo linguaggio ti tradisce». Tutti coloro che si scaldano intorno al fuoco con la coscienza a posto sono di Gerusalemme. Dunque essi sono dei nostri. Pietro ha parlato solo due volte, e ogni volta per dire soltanto poche parole, ma questo basta perché i suoi interlocutori riconoscano infallibilmente in lui il forestiero, il provinciale sempre un po’ disprezzabile, il Galileo. Chi parla con un altro accento, non è mai uno dei nostri. Il linguaggio è il segnale più sicuro dell’essere con. Proprio per questo Heidegger e quelli delle scuole affini danno grande importanza alla dimensione linguistica dell’essere. La specificità della lingua nazionale o regionale è fondamentale. Ovunque si ripete che l’essenziale, in un testo o anche in una lingua, ciò che gli conferisce valore, è intraducibile. I Vangeli sono sentiti come inessenziali perché scritti in un greco imbastardito, cosmopolita e privo di prestigio letterario. Sono inoltre perfettamente traducibili e si dimentica presto, leggendoli, in quale lingua li si legga, per poco che la si conosca, sia essa l’originale greco, la vulgata latina, il francese, il tedesco, lo spagnolo, l’inglese, ecc. Quando si conoscono i Vangeli, la loro traduzione in una lingua sconosciuta è un eccellente mezzo per penetrare, a buon mercato, nell’intimità di quella lingua. I Vangeli sono tutto per tutti quanti; non hanno accento perché hanno tutti gli accenti.

Pietro è un adulto e il suo modo di parlare è fissato per sempre. Non può cambiarlo. Non riesce a imitare perfettamente l’accento della capitale. Avere il Mitsein voluto non significa semplicemente dire le stesse cose che dicono gli altri, ma dirle nello stesso modo. La minima sfumatura nell’intonazione può tradirvi. Il linguaggio è un’ancella traditrice o troppo fedele, che non smette di gridare l’identità reale di chiunque provi a nasconderla.

Tra Pietro e i suoi interlocutori scatta una rivalità mimetica nella quale è in gioco il Mitsein che danza tra le fiamme. Pietro cerca furiosamente di «integrarsi», ossia di dimostrare l’eccellenza della sua imitazione, ma i suoi antagonisti si dirigono senza esitare verso l’aspetto più inimitabile del mimetismo culturale: il linguaggio, appunto, che appartiene alle regioni inconsce della psiche.

Più l’appartenenza è radicata, «autentica», non sradicabile, più riposa su idiotismi che paiono profondi, ma che forse sono insignificanti, vere e proprie idiozie, non solo nel senso che la parola ha oggi ma anche nel senso del greco idios, che significa «proprio». Più una cosa ci appartiene in proprio e più di fatto le apparteniamo; questo non vuol dire che essa sia particolarmente «inesauribile». Accanto al linguaggio vi è la sessualità. Giovanni ci comunica che la serva è giovane, ed è forse un dettaglio significativo.

Siamo tutti dei posseduti, sia dal linguaggio che dal sesso. Certamente, ma perché dirlo sempre con il tono del posseduto? Potremmo fare di meglio. Pietro vede ormai chiaramente che non inganna nessuno e se si accanisce a rinnegare il suo maestro non è più per convincere, bensì per troncare i legami che lo univano a Gesù e nello stesso tempo stringerne altri con quelli che lo circondano: Pietro «cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco l’uomo di cui parlate”».

Si tratta di un legame propriamente religioso, da religare, legare, ed è per questo che Pietro ricorre alle imprecazioni – come Erode con la sua offerta esorbitante a Salomè. La violenza e i moti di collera non prendono di mira gli interlocutori di Pietro, ma Gesù stesso. Pietro fa di Gesù la sua vittima per non essere più una specie di vittima subalterna in cui è trasformato prima dalla serva e poi dall’intero gruppo. Ciò che costoro fanno a Pietro, Pietro vorrebbe farlo a loro. Ma non può: non è abbastanza forte per vincere con la vendetta. Cerca dunque di conciliarsi i suoi nemici facendo lega con loro contro Gesù, trattando Gesù, secondo la loro intenzione e davanti a loro, esattamente come loro stessi lo trattano. Agli occhi di questi servi leali, Gesù non può essere che un delinquente, se si è creduto opportuno arrestarlo, se lo si interroga con brutalità. Il miglior modo di farsi degli amici, in un universo ostile, è sposare le inimicizie, adottare i nemici degli altri. Ciò che diciamo a questi altri, in casi del genere, non varia mai molto, e il senso delle nostre parole è sempre questo: «Siamo tutti della stessa famiglia, di un solo e identico gruppo perché abbiamo lo stesso capro espiatorio».

All’origine del rinnegamento c’è forse una certa paura, ma c’è soprattutto la vergogna. Come l’arroganza di Pietro poco fa, la vergogna è un sentimento mimetico, è senz’altro il sentimento mimetico per eccellenza. Per provarlo, bisogna che io mi guardi con gli stessi occhi di chi mi fa vergognare. Bisogna dunque immaginare intensamente, il che equivale a imitare servilmente. Immaginare, imitare, in verità questi due termini sono la stessa cosa. Pietro ha vergogna di quel Gesù che tutti disprezzano, vergogna del modello che si è dato, vergogna, di conseguenza, di ciò che lui stesso è.

Il desiderio di essere accettato aumenta in proporzione agli ostacoli che gli vengono frapposti. Pietro è dunque pronto a pagare a caro prezzo l’ammissione che la serva e i suoi amici gli rifiutano, ma l’intensità del suo desiderio è del tutto circoscritta e temporanea, suscitata dall’accanimento del gioco. È questa una delle piccole vigliaccherie nelle quali tutti cadono e che, dopo, nessuno si ricorda di aver commesso. Che Pietro tradisca il suo maestro, in modo così meschino, non dovrebbe dunque sorprenderci: lo facciamo tutti. Ciò che sorprende, invece, è la struttura persecutoria e sacrificale che ritroviamo intatta nella scena del rinnegamento, ritrascritta tutta quanta, e altrettanto fedelmente, come nell’episodio dell’assassinio di Giovanni Battista o nel racconto della passione.

È alla luce di questa identità strutturale – penso –che bisogna interpretare certe parole di Matteo; il loro significato legale è solo un’apparenza. Ciò che Gesù comunica realmente agli uomini è l’equivalenza strutturale di tutti i comportamenti persecutorii:

 

«Avete appreso che è stato detto agli antichi: Non uccidere; e chi avrà ucciso ne risponderà a un tribunale. Ebbene, io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello ne risponderà a un tribunale; ma chi dice a suo fratello: “Raqa!”,46 ne risponderà al Sinedrio; e chi gli dice: “Rinnegato!”,47 ne risponderà nel fuoco della Geenna» (Mt, 5, 21-22).

 

Per non farsi crocifiggere, il modo migliore è, in ultima analisi, fare come tutti gli altri e partecipare alla crocifissione. Il rinnegamento è dunque un episodio della passione, una specie di risucchio, un breve vortice nella vasta corrente del mimetismo vittimario che spinge tutti verso il Golgota.

La temibile potenza del testo viene subito verificata dal fatto che non si può misconoscerne il vero significato senza subirne il contraccolpo, senza riprodurre la struttura del rinnegamento stesso. Il più delle volte questo sfocia in una «psicologia del principe degli Apostoli». Fare la psicologia di qualcuno è sempre, in qualche modo, fargli il processo. Quello di Pietro finisce con un’assoluzione velata da un certo biasimo. Benché non del tutto cattivo, Pietro non è neppure del tutto buono. Non si può contare su di lui. È un tipo mutevole, impulsivo, con un carattere un po’ debole. Assomiglia a Pilato, insomma, e Pilato assomiglia discretamente a Erode, il quale assomiglia a chiunque. Niente di più monotono, in ultima analisi, niente di più semplicistico di questa psicologia mimetica dei Vangeli. Forse non è nemmeno una psicologia. Vista da lontano, è simile all’infinita varietà delle persone, tanto divertente, avvincente, ricca; vista da vicino, è sempre fatta degli stessi elementi, come la nostra personale esistenza, che a dire il vero non ci diverte molto.

Insomma, intorno al fuoco risorge la religione di sempre, inevitabilmente accompagnata da sacrifici, quella che difende l’integrità del linguaggio e dei Lari, la purezza del culto familiare. Pietro è attratto da tutto questo ed è una cosa «naturale»: anche noi ne siamo attratti se rimproveriamo al Dio biblico di volercene privare. Per pura cattiveria, diciamo. Bisogna essere davvero cattivi per rivelare la dimensione persecutoria di questa religione immemoriale che ci tiene ancora in pugno con i suoi inconfessabili vincoli. È vero: il Vangelo non è affatto tenero verso i turpi persecutori, quali noi tutti restiamo. Mette a nudo fin nei nostri più banali comportamenti, oggi stesso, intorno al fuoco, il gesto antico dei sacrificatori aztechi e dei cacciatori di streghe che precipitavano le loro vittime nelle fiamme.

Come tutti i transfughi, Pietro dimostra la sincerità della sua conversione accanendosi sui suoi amici di una volta. Se vediamo le implicazioni morali del rinnegamento, bisogna anche vederne la dimensione antropologica. Con le sue bestemmie e imprecazioni, Pietro suggerisce a quelli che lo circondano di formare insieme a lui una congiura. Qualsiasi gruppo di uomini legati da un giuramento forma una congiura, ma questo termine viene usato preferibilmente quando, all’unanimità, il gruppo si dà come scopo la morte o la scomparsa di un individuo importante. E lo si applica anche ai riti di espulsione demoniaca, alle pratiche magiche destinate a combattere la magia.

In numerosi riti di iniziazione, la prova consiste in un atto di violenza: l’uccisione di un animale, a volte anche quella di un uomo sentito come avversario del gruppo nel suo insieme. Per conquistare l’appartenenza, bisogna trasformare questo avversario in vittima. Pietro ricorre ai giuramenti, ossia a formule religiose, per dare forza iniziatica al suo rinnegamento di fronte ai persecutori.

Per interpretare in maniera corretta il rinnegamento, inoltre, bisogna tener conto di tutto ciò che lo precede nei Vangeli sinottici e in particolare delle due scene che più direttamente lo preparano e lo annunciano. Sono i due principali annunci della passione fatti dallo stesso Gesù. La prima volta, Pietro non vuole sentire niente: «Dio te ne scampi, Signore! No, questo non ti accadrà mai!».48 Questa reazione corrisponde all’atteggiamento di tutti i discepoli. All’inizio, come è inevitabile, l’ideologia del successo domina questo piccolo mondo. Ci si contende i posti migliori nel Regno di Dio. Ci si sente mobilitati per la buona causa. Tutta la comunità è travagliata dal desiderio mimetico e, di conseguenza, incapace di vedere la vera natura della rivelazione. In Gesù vede soprattutto il taumaturgo, il trascinatore di folle, il capo politico.

La fede dei discepoli resta impregnata di messianismo trionfante. Non per questo è meno reale. Pietro lo ha ben mostrato, ma una parte di lui misura ancora l’avventura che sta vivendo con il metro del buon esito mondano. Che senso può avere un impegno che va soltanto verso la sconfitta, la sofferenza e la morte?

In quell’occasione, Pietro viene severamente redarguito: «Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo [ mi sei di ostacolo]» (Mt, 16, 23). Quando gli si fa osservare che si sbaglia, Pietro cambia subito direzione e si mette a correre nell’altro senso alla stessa velocità di prima. Al secondo annuncio della passione, soltanto poche ore prima dell’arresto, Pietro reagisce in modo completamente diverso dalla prima volta. Gesù disse loro: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia, questa notte stessa».

 

«E Pietro prese la parola e gli disse: “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai”. Gli disse Gesù: “In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. Lo stesso dissero tutti i discepoli» (Mt, 26, 33-35).

 

L’apparente fermezza di Pietro è tutt’uno con l’intensità del suo mimetismo. Il «discorso» si è capovolto dopo il primo annuncio, ma il fondo non è cambiato, e la stessa cosa avviene in tutti i discepoli, che ripetono sempre quello che dice Pietro perché sono tutti mimetici come lui. Imitano Gesù per il tramite di Pietro.

Gesù vede che questo zelo è gravido del futuro abbandono. Dopo il suo arresto, lo sa bene, il suo prestigio mondano crollerà, ed egli non potrà più offrire ai suoi discepoli il tipo di modello offerto fino a quel momento. Tutte le sollecitazioni mimetiche verranno da individui e da gruppi ostili alla sua persona e al suo messaggio. I discepoli, e soprattutto Pietro, sono troppo influenzabili per non essere nuovamente influenzati. Il testo evangelico ce lo ha ben mostrato nei passi che ho appena commentato. Il fatto che il modello sia lo stesso Gesù non significa nulla, finché esso viene imitato secondo i modi dell’avidità di conquista, sempre identica fondamentalmente all’alienazione del desiderio.

Il primo voltafaccia di Pietro non ha niente di condannabile in sé, naturalmente, ma non è privo di desiderio mimetico, cosa di cui Gesù si accorge. Vi legge il preannuncio di un nuovo voltafaccia, che assumerà inevitabilmente la forma di un rinnegamento, vista la catastrofe che si prepara. Il rinnegamento è dunque razionalmente prevedibile. E Gesù, prevedendolo, non fa che trarre per il futuro più vicino le conseguenze di ciò che ha già osservato. Gesù fa insomma la stessa analisi che facciamo noi: confronta le successive reazioni di Pietro all’annuncio della passione per dedurne la probabilità del tradimento. La prova che le cose stiano così è che la profezia del rinnegamento costituisce una risposta diretta alla seconda esibizione mimetica di Pietro, e il lettore, per formare il proprio giudizio, dispone degli stessi dati di Gesù. Se si capisce il desiderio mimetico, non si può non giungere alle stesse conclusioni. Si è dunque portati a pensare che il personaggio chiamato Gesù capisca questo desiderio così come lo capiamo noi. È questa comprensione a rivelare la razionalità del legame tra tutti gli elementi della sequenza formata dai due annunci della passione, la profezia del rinnegamento e il rinnegamento stesso.

Si tratta proprio del desiderio mimetico, nella prospettiva di Gesù, poiché Gesù ricorre ogni volta al termine che indica questo desiderio, lo scandalo, per descrivere le reazioni di Pietro, compreso il rinnegamento: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia, questa notte stessa». E quanto più vittime dello scandalo siete già, tanto più sicuramente vi scandalizzerete. La vostra stessa certezza di non esserlo, la vostra illusione di invulnerabilità parla chiaramente della vostra condizione reale e dell’avvenire che si prepara. Il mito della differenza individuale che Pietro difende dicendo io è anch’esso mimetico. Pietro si sente il più autentico di tutti i discepoli, il più capace di essere il vero emulo di Gesù, l’unico vero proprietario del suo modello ontologico.

Rivaleggiando sotto i suoi occhi in false espressioni di affetto, le cattive gemelle del re Lear convincono il padre di amarlo appassionatamente. L’infelice si illude che sia il puro affetto a nutrire la loro rivalità, mentre è vero il contrario. È la pura rivalità a suscitare una parvenza di affetto. Gesù non cade mai nel cinismo, ma neppure soccombe di fronte a questo genere di illusioni. Senza confondere Pietro con una gemella di Lear, si deve riconoscere in lui la marionetta di un desiderio analogo, dal quale egli non sa di essere posseduto proprio perché lo è; solo più tardi egli intravede la verità, quando, dopo il rinnegamento, scoppia a piangere al pensiero del maestro e della sua predizione.

In questa scena mirabile dove Pietro e i discepoli danno prova di un falso ardore per la passione, i Vangeli ci propongono la satira ante litteram di un certo fervore religioso che, dobbiamo riconoscerlo, è specificamente «cristiano». I discepoli inventano un nuovo linguaggio religioso, il linguaggio della passione. Rinunciano all’ideologia della felicità e del successo, ma trasformano la sofferenza e l’insuccesso in un’ideologia molto simile, in una nuova macchina mimetica e sociale che funziona esattamente nello stesso modo del trionfalismo precedente.

Tutti i tipi di adesione che gli uomini in gruppo possono dare a un’impresa qualsiasi sono dichiarati indegni di Gesù. E sono proprio gli atteggiamenti che vediamo succedersi circolarmente, interminabilmente, lungo tutto il cristianesimo storico, e in particolare nella nostra epoca. I discepoli seconda maniera ricordano l’antitrionfalismo trionfante di certi ambienti cristiani attuali, il loro anticlericalismo sempre clericale. Il fatto che questo genere di atteggiamenti sia già stigmatizzato nei Vangeli dimostra che nessuno può ridurre la più alta ispirazione cristiana ai propri sottoprodotti psicologici e sociologici.

 

 

L’unico miracolo nell’annuncio del rinnegamento è questa scienza del desiderio che si manifesta nelle parole di Gesù. Ed è l’incapacità degli evangelisti di comprendere fino in fondo questa scienza – temo – ciò che li ha portati a farne un miracolo in senso stretto.

«Questa notte stessa, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte» (Mc, 14, 30). Una precisione tanto miracolosa nell’annuncio profetico mette in ombra la razionalità superiore che l’analisi dei testi consente di evidenziare. Bisogna forse concluderne che questa razionalità in verità non ci sia, che io l’abbia semplicemente sognata? Non credo, i dati che la suggeriscono sono troppo numerosi e il loro accordo è troppo perfetto. Le convergenze tra la sostanza delle parti narrative e la teoria dello skandalon, ossia la teoria del desiderio mimetico, non possono essere fortuite. Bisogna dunque chiedersi se gli autori dei Vangeli colgano veramente, fino in fondo, i meccanismi di questo desiderio che tuttavia i loro testi rivelano.

L’importanza straordinaria attribuita al gallo, dapprima dagli evangelisti stessi e, in seguito, dall’intera posterità, fa pensare a una comprensione insufficiente. È questa relativa incomprensione – credo – che trasforma il gallo in una specie di animale feticcio intorno al quale si cristallizza una specie di «miracolo».

Nella Gerusalemme dell’epoca, il primo e il secondo canto del gallo, ci dicono gli esperti, indicavano semplicemente alcune ore della notte. All’origine, dunque, il riferimento al gallo non aveva forse niente a che vedere con l’animale reale che i Vangeli fanno cantare. Nella sua traduzione latina, Girolamo fa addirittura cantare quel gallo una volta in più rispetto all’originale greco. Uno dei due canti previsti dal programma non è stato menzionato, e il traduttore, di propria iniziativa, corregge un’omissione che gli sembra inammissibile, scandalosa.

Gli altri tre evangelisti sospettano – credo – che Marco dia al gallo un’importanza eccessiva. Per rimettere questo gallo al suo posto, lo fanno cantare una volta sola, ma non osano sopprimerlo. Perfino Giovanni finisce col parlarne, benché abbia eliminato gran parte dell’intero annuncio del rinnegamento, senza il quale il gallo non ha più alcuna ragione di essere.

Non è necessario considerare miracolosa una predizione che si spiega in modo perfettamente ragionevole, a meno che, naturalmente, non si sia riusciti a cogliere appieno le ragioni sempre mimetiche del rinnegamento e dei suoi antecedenti nel comportamento di Pietro.

Per quale motivo un autore dovrebbe trasformare in miracolo una previsione che si spiega in modo razionale? Probabilmente perché egli stesso non afferra o afferra male questa razionalità. È quanto avviene – credo – nel racconto del rinnegamento. Lo scrittore vede chiaramente che, al di là delle discontinuità apparenti nel comportamento di Pietro, esiste una continuità, ma non sa bene quale. Vede l’importanza della nozione di scandalo, ma, poiché non ne padroneggia l’applicazione, si accontenta di ripetere parola per parola ciò che ha sentito in proposito da Gesù stesso o da un primo intermediario. Inoltre, non capisce la funzione del gallo nella vicenda. La cosa è meno grave, ma le due incomprensioni tendono naturalmente ad attrarsi e a combinarsi, per sfociare poi nel miracolo del gallo. Le due opacità si corrispondono e si riflettono, cosicché ciascuna, in fin dei conti, sembra spiegare la presenza dell’altra, ma in modo necessariamente soprannaturale. Così, il gallo, inspiegabile ma tangibile, polarizza ciò che rimane inspiegato in tutta la scena. In ogni sapere che sfugge alla loro comprensione, gli uomini tendono a vedere in qualche modo un miracolo, e basta un particolare apparentemente misterioso, ma molto concreto, perché si realizzi una cristallizzazione mitologica. Ecco che il gallo si trasforma in feticcio.

La mia analisi è necessariamente speculativa. Ma nei Vangeli non mancano indicazioni che la incoraggiano. Gesù si mostra critico verso il gusto eccessivo per i miracoli dimostrato dai discepoli e verso la loro incapacità di comprendere l’insegnamento che viene loro impartito. Sono due difetti abbastanza gravi, o meglio, sono le due facce di un unico difetto, che bisogna postulare se si vuole comprendere l’intrusione di una specie di miracolo in una scena che non ne ha affatto bisogno. La presenza superflua di questo miracolo nuoce alla scena del rinnegamento perché oscura la meravigliosa comprensione dei comportamenti umani che scaturisce dal testo. Il miracolo favorisce la pigrizia intellettuale, e persino spirituale, sia nei credenti che nei non credenti.

Il testo dei Vangeli è stato elaborato nell’ambiente dei primi discepoli. Benché rettificata dall’esperienza della Pentecoste, la testimonianza della prima come della seconda generazione di cristiani ha potuto risentire di certe deficienze, segnalate del resto dallo stesso Gesù. Non è certo per umiliare i discepoli della prima ora o per sminuirli agli occhi della posterità, che i testi sottolineano persino nei migliori l’inintelligenza della rivelazione; se lo fanno, è piuttosto per suggerire la distanza che separa Gesù e il suo autentico spirito da coloro che per primi ricevettero e trasmisero il suo messaggio. È un’indicazione, questa, che a mio parere non va trascurata, allorché ci mettiamo a interpretare i Vangeli, duemila anni più tardi, in un mondo che non possiede certo maggiore intelligenza naturale rispetto all’epoca di Gesù, ma che nondimeno è in grado, per la prima volta, di intendere certi aspetti della sua dottrina perché ne è stato lentamente permeato nel corso dei secoli. Questi aspetti non sono necessariamente quelli che ci vengono in mente quando pensiamo al «cristianesimo» o agli stessi «Vangeli», ma è necessario ricordarli se vogliamo capire meglio certi passi, come appunto la scena del rinnegamento.

Se ho ragione, se gli evangelisti non capiscono perfettamente la razionalità del rinnegamento e della predizione che ne avrebbe fatto Gesù, allora il nostro testo è prodigioso poiché riporta simultaneamente il miracolo imposto alla scena da redattori che non ne capiscono del tutto la logica e i dati che ci permettono oggi di individuare questa stessa logica. I Vangeli ci mettono fra le mani, insomma, tutti i documenti di un dossier che non sono completamente in grado di interpretare, giacché sostituiscono un’interpretazione irrazionale all’interpretazione razionale che noi, partendo dai medesimi dati, riusciamo a porre in evidenza. Non possiamo dire niente su Gesù che non provenga dai Vangeli, questo non lo dimentico mai.

Il nostro testo introduce una spiegazione miracolosa in una scena che è più facile interpretare senza l’aiuto di questo miracolo. Bisogna dunque che, a dispetto della loro incapacità di capire tutto, i redattori dei Vangeli abbiano messo insieme e ritrascritto i documenti del dossier con un’esattezza notevole. Se ho ragione, le loro deficienze in alcuni punti sono compensate da una straordinaria fedeltà in tutti gli altri punti.

Di primo acchito, questa combinazione di qualità e difetti sembra difficile da conciliare, ma basta rifletterci e ci si accorge che è assolutamente verosimile, e persino probabile, considerando che l’elaborazione dei Vangeli è avvenuta proprio sotto l’influenza di questo mimetismo, sempre rimproverato da Gesù ai suoi primi discepoli che con il loro comportamento ne rivelano la presenza, ed è normale che pur con la miglior volontà del mondo essi non ne afferrino fino in fondo il funzionamento, giacché non sono riusciti a sbarazzarsene completamente.

La cristallizzazione mitica intorno al gallo nascerebbe, se la mia lettura è esatta, da un fenomeno di esasperazione mimetica analogo a quelli di cui i Vangeli stessi ci forniscono altri esempi. Nell’assassinio di Giovanni Battista, ad esempio, il motivo della testa sul vassoio viene da un’imitazione troppo letterale. Per essere veramente fedele, il passaggio da un individuo a un altro, la traduzione da una lingua a un’altra, esige una certa distanza. Il copista troppo vicino al suo modello perché troppo assorbito da esso ne riproduce tutti i dettagli con una mirabile precisione, ma di tanto in tanto è soggetto a cedimenti propriamente mitologici. È da un’attenzione mimetica onnipotente, e da un’estrema concentrazione sulla vittima-modello, che deriva la sacralizzazione primitiva, la divinizzazione del capro espiatorio la cui innocenza non è stata riconosciuta.

Le qualità e i difetti della testimonianza evangelica si ritrovano in una forma particolarmente netta e contrastata quando si parla della nozione chiave per la lettura mimetica: lo scandalo.

Gli usi più interessanti di skandalon e di skandalizein sono tutti attribuiti a Gesù e si presentano sotto forma di frammenti distribuiti in modo un po’ arbitrario. Certe frasi importanti non si succedono sempre logicamente, e il loro ordine differisce frequentemente da un Vangelo all’altro. Quest’ordine, come hanno dimostrato gli esperti, può essere determinato dalla presenza in una frase di una semplice parola che trascina con sé un’altra frase, unicamente perché vi appare la stessa parola. Si può pensare a qualcosa di simile alla recitazione di frasi imparate a memoria e legate fra loro con mezzi mnemotecnici.

Di conseguenza, per riconoscere il valore esplicativo dello scandalo, bisogna riorganizzare tutte queste frasi, metterle insieme correttamente come i pezzi di quel puzzle che è la teoria mimetica stessa. Ho cercato di darne una dimostrazione in Des choses cachées depuis la fondation du monde.

Abbiamo dunque a che fare con un insieme di una coerenza straordinaria, ma mai capita dagli esegeti perché gli elementi che lo compongono sono ingarbugliati e, a volte, persino un po’ deformati per l’insufficiente padronanza degli autori. Quando sono lasciati in balìa di se stessi, questi autori ci dicono vagamente che Gesù sa ciò che è nell’uomo, ma chiariscono male questo sapere. Tutti i dati sono nelle loro mani ma un po’ disorganizzati e contaminati dai miracoli, poiché essi li dominano soltanto in parte.

Esiste una dimensione irriducibilmente soprannaturale dei Vangeli e io non cerco di negarla né di eroderla. In nome di questa dimensione soprannaturale non bisogna tuttavia rifiutare le forme di comprensione ormai a nostra disposizione, ed esse, se sono veramente tali, non possono che diminuire la parte del miracoloso. Per definizione, il miracoloso è l’inintelligibile; non è dunque il vero lavoro dello spirito in senso evangelico. Assistiamo a un miracolo più grande del miracolo in senso stretto, quando diventa intelligibile ciò che non lo era, quando l’opacità mitologica si fa trasparente.

Di fronte al testo evangelico, tutti i fanatismi del pro e del contro vogliono vedere soltanto il miracolo, e condannano senza appello anche gli sforzi più legittimi per mostrare che il suo ruolo può venir esagerato. Il sospetto, in questo caso, non ha nulla di antievangelico: i Vangeli stessi ci mettono in guardia contro l’abuso del miracoloso.

La razionalità che ho evidenziato – il mimetismo dei rapporti umani – è troppo sistematica per quanto riguarda il suo principio, troppo complessa nei suoi effetti e troppo visibilmente presente, sia nei passi «teorici» sullo scandalo sia negli episodi che ne sono dominati, per trovarsi lì casualmente. Eppure questa razionalità non è completamente pensata, e dunque certamente non è costruita dalle persone che l’hanno messa nel testo. Se la comprendessero del tutto, non frapporrebbero tra i loro lettori e le scene che abbiamo appena letto lo schermo un po’ grossolano del gallo miracoloso.

In queste condizioni, non si può credere che i Vangeli siano il prodotto di un’elaborazione unicamente interna all’ambiente effervescente dei primi cristiani. All’origine del testo ci deve essere realmente qualcuno esterno al gruppo, un’intelligenza superiore che domina i discepoli e che ispira i loro scritti. Sono le tracce di questa intelligenza che noi incontriamo, e non le riflessioni dei discepoli, quando riusciamo a ricostituire la teoria mimetica in una sorta di andirivieni tra le parti narrative e i passi teorici, cioè le parole attribuite allo stesso Gesù.

Tra noi e colui che essi chiamano Gesù, gli evangelisti sono degli intermediari obbligati. Ma, nell’esempio del rinnegamento di Pietro e in tutti i suoi antecedenti, le loro deficienze stesse si trasformano in qualcosa di positivo. Esse accrescono la credibilità e la potenza della testimonianza. L’incapacità degli evangelisti di comprendere alcune cose, sommata alla loro estrema esattezza nella maggior parte dei casi, ne fa degli intermediari in qualche modo passivi. Superata questa loro incomprensione relativa, non possiamo non pensare di entrare in contatto diretto con un potere di comprensione superiore al loro. Abbiamo dunque l’impressione di una comunicazione senza intermediari. Non è a un’intelligenza intrinsecamente superiore che dobbiamo questo privilegio, ma a duemila anni di una storia lentamente modellata dai Vangeli stessi.

Questa storia non ha affatto bisogno di svolgersi in conformità ai princìpi di condotta enunciati da Gesù; non è necessario che essa si trasformi in utopia per renderci accessibili alcuni aspetti del testo evangelico che erano inaccessibili ai primi discepoli; basta che sia caratterizzata da una presa di coscienza lenta ma continua della rappresentazione persecutoria che, di fatto, non smette mai di approfondirsi senza peraltro impedirci, purtroppo, di praticare noi stessi la persecuzione.

In questi passi che si illuminano di colpo, il testo evangelico ci appare come una parola d’ordine che ci sia giunta per il tramite di persone non partecipi del segreto, e noi, i destinatari, l’accogliamo con gratitudine tanto maggiore in quanto l’ignoranza dei messaggeri ci garantisce l’autenticità del messaggio: abbiamo dunque la gioiosa certezza che niente di essenziale può essere stato falsificato. Ma questa mia immagine non è buona: infatti, perché un segno qualsiasi si trasformi in parola d’ordine, basta modificarne il senso per decisione convenzionale; invece, qui, è tutto un insieme di segni finora inerti e offuscati che a un tratto divampano e brillano di intelligenza senza alcuna convenzione preliminare. È una festa di luce che si accende intorno a noi per celebrare la resurrezione di un significato di cui ignoravamo persino che fosse morto.

XIII

I DEMONI DI GERASA

I Vangeli ci mostrano una grande varietà di rapporti umani che a prima vista ci appaiono incomprensibili ed essenzialmente irrazionali, ma che, in ultima analisi, possono e devono essere tutti ricondotti all’unità di un solo e identico fattore, il mimetismo, fonte primaria di ciò che lacera gli uomini, dei loro desideri, delle loro rivalità, dei loro malintesi tragici e grotteschi, di conseguenza fonte di ogni disordine, ma anche di ogni ordine grazie all’intermediazione dei capri espiatorii, vittime spontaneamente riconciliatrici perché uniscono contro se stesse, in un parossismo finale sempre mimetico ma unanime, coloro che gli effetti mimetici precedenti e meno estremi avevano spinto gli uni contro gli altri.

È lo stesso gioco, ovviamente, che sottende tutte le genesi mitologiche e religiose del pianeta, un gioco che le altre religioni, come abbiamo visto, riescono a dissimularsi e a dissimularci, sopprimendo o camuffando gli assassinii collettivi, attenuando e cancellando gli stereotipi persecutorii in mille modi, mentre i Vangeli, al contrario, lo evidenziano con un rigore e una forza che non hanno equivalenti.

Lo abbiamo appena constatato leggendo il rinnegamento di Pietro e l’assassinio di Giovanni Battista, ma soprattutto rileggendo la passione stessa di Cristo, vero cuore e centro di tutta questa rivelazione, di cui mette in evidenza le linee di forza con un’insistenza che ho definito didattica, volta com’è a mettere bene in testa a popolazioni imprigionate da sempre nella rappresentazione mitologica e persecutoria le poche verità decisive che dovrebbero liberarle, impedendo loro di sacralizzare le proprie vittime.

In tutte queste scene, i Vangeli rendono manifesta una genesi religiosa che, per produrre la dimensione mitologica e rituale, deve restare dissimulata. Questa genesi poggia essenzialmente su una credenza unanime, che i Vangeli infirmano per sempre: la credenza nella colpevolezza della loro vittima. Non c’è paragone tra ciò che avviene nei Vangeli e ciò che avviene nelle mitologie, anche e soprattutto nelle mitologie evolute. Le religioni più recenti attenuano, minimizzano, addolciscono fino a eliminare del tutto le colpevolezze sacre e qualsiasi violenza, ma si tratta di dissimulazioni supplementari, che neanche scalfiscono il sistema della rappresentazione persecutoria. Al contrario, nell’universo evangelico, è proprio questo sistema che crolla; qui non si tratta più di addolcimento e di sublimazione ma di un ritorno alla verità grazie a un processo che la nostra incomprensione considera primitivo, proprio perché deve riprodurre ancora una volta l’origine violenta, per renderla però, questa volta, manifesta e dunque inoperante.

I testi che abbiamo appena letto sono tutti esempi di questo processo. Essi corrispondono perfettamente al modo in cui lo stesso Gesù e, dietro di lui, il Paolo di tutte le epistole definiscono l’azione disgregante della crocifissione sulle potenze di questo mondo. La passione rende visibile ciò che deve rimanere invisibile affinché le suddette potenze si mantengano: il meccanismo del capro espiatorio.

Nel rivelare questo meccanismo, e tutto il mimetismo che lo circonda, i Vangeli costruiscono la sola macchina testuale che possa porre fine all’imprigionamento dell’umanità nei sistemi di rappresentazione mitologica, fondati sulla falsa trascendenza di una vittima sacralizzata in quanto unanimemente considerata colpevole.

Questa trascendenza è nominata direttamente nei Vangeli e nel Nuovo Testamento. Essa ha anzi molti nomi, ma quello più importante è Satana, che non sarebbe stato concepito simultaneamente come «omicida fin dal principio, padre della menzogna» e «principe di questo mondo», se non coincidesse con la falsa trascendenza della violenza. Non è nemmeno un caso se, fra tutti i difetti di Satana, l’invidia e la gelosia sono quelli più evidenti. Si potrebbe dire che Satana incarni il desiderio mimetico, se questo desiderio non fosse, per eccellenza, disincarnazione. È lui che svuota del loro contenuto tutti gli esseri, tutte le cose e tutti i testi.

Quando la falsa trascendenza è considerata nella sua unità fondamentale, i Vangeli parlano di diavolo o Satana, quando invece è considerata nella sua molteplicità si parla soprattutto di demoni e forze demoniache. La parola demone può essere benissimo usata come sinonimo di Satana, ma si applica soprattutto a forme inferiori della «potenza di questo mondo», a manifestazioni degradate, diremmo psicopatologiche. Per il solo fatto che appare multipla e che si frammenta, la trascendenza perde la sua forza e tende a ricadere nel puro disordine mimetico. A differenza di Satana dunque, sentito simultaneamente come principio di ordine e principio di disordine, le forze demoniache sono invocate nei casi in cui il disordine predomina.

I Vangeli conferiscono volentieri alle «potenze» i nomi che provengono dalla tradizione religiosa e dalle credenze magiche, continuando, a quanto sembra, a vedere in esse entità spirituali autonome, dotate di una personalità individuale. In ogni pagina, o quasi, dei Vangeli troviamo demoni che parlano, interpellano Gesù, lo supplicano di lasciarli in pace. Nella grande scena della tentazione nel deserto, che compare nei tre Vangeli sinottici, Satana in persona interviene per sedurre il Figlio di Dio con promesse fallaci e distoglierlo dalla sua missione.

Non bisogna concluderne che, lungi dal distruggere, come io affermo, le superstizioni magiche e tutte le credenze religiose volgari, i Vangeli rilancino questo tipo di credenze in una forma particolarmente perniciosa, anche se fu proprio sulla demonologia e sul satanismo evangelici, dopo tutto, che si fondarono i cacciatori di streghe della fine del Medioevo per giustificare la loro attività.

Per molti, soprattutto nella nostra epoca, il brulichio demoniaco «oscura l’aspetto luminoso dei Vangeli», e le guarigioni miracolose di Gesù mal si distinguono dagli esorcismi tradizionali praticati nelle società primitive. Nessuna scena di miracolo è apparsa finora nei miei commenti. Alcuni critici lo hanno notato e si sono chiesti, com’è naturale, se io non eviti un confronto che forse non tornerebbe a vantaggio della mia tesi. Secondo loro, io sceglierei i miei testi con la massima cura, trascurando tutti gli altri; così facendo riuscirei a dare una falsa verosimiglianza a prospettive troppo contrarie al buon senso per meritare di essere prese sul serio. Eccomi dunque con le spalle al muro.

Per dare alla prova un carattere decisivo, farò di nuovo appello a Marco, perché dei quattro evangelisti è il più ghiotto di miracoli, quello che dà loro più spazio e che li presenta nel modo più contrario alla sensibilità moderna. Di tutte le guarigioni miracolose di Marco la più spettacolare, forse, è l’episodio dei demoni di Gerasa. Il testo è abbastanza lungo e ricco di particolari concreti da offrire al commentatore un’occasione che con passi più brevi verrebbe a mancargli.

Anche i critici più severi dovrebbero approvare una simile scelta. L’episodio di Gerasa è uno di quei testi ai quali non si allude quasi più ai giorni nostri se non per definirlo «selvaggio», «primitivo», «arretrato», «superstizioso», usando insomma tutti quegli epiteti che i positivisti applicavano al religioso in genere, senza distinzione di origine, ma che ormai sono riservati al solo cristianesimo perché giudicati troppo irriguardosi verso le religioni che cristiane non sono.

La mia analisi sarà incentrata sul testo di Marco, ma ricorrerò a Luca e a Matteo ogni volta che le loro versioni presentino varianti di un qualche interesse. Dopo aver attraversato il mare di Galilea, Gesù sbarca sulla riva orientale, in territorio pagano, nella regione detta della Decapoli.

 

«Non appena Gesù scese dalla barca, gli venne incontro, uscendo dalle tombe, un uomo posseduto da uno spirito impuro: egli aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno riusciva più a legarlo, neanche con una catena, perché spesso era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. E continuamente, notte e giorno, se ne stava nelle tombe e sui monti, gridando e tagliuzzandosi con delle pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, si prosternò davanti a lui e gridò a gran voce: “Che cosa vuoi da me, Gesù, figlio di Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”. Gesù gli diceva infatti: “Esci da quest’uomo, spirito impuro!”. E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Il mio nome è Legione” gli rispose “perché siamo in molti”. E subito lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese. Ora, c’era sul monte un grande branco di porci che stavano pascolando. E gli spiriti impuri supplicarono Gesù dicendo: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”. Egli lo permise. Allora uscirono, ed entrarono nei porci e, dall’alto del dirupo, il branco si gettò a precipizio nel mare; erano circa duemila e tutti annegarono. I mandriani fuggirono e portarono la notizia in città e nelle case di campagna, e le genti vennero per vedere che cosa fosse successo. Arrivate da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e nel pieno delle sue facoltà, lui che era stato posseduto dalla Legione, e furono assalite dal terrore. Quelli che erano stati testimoni raccontarono che cosa era successo al posseduto e che cosa era accaduto ai porci. Allora esse si misero a pregare Gesù di andarsene dal loro territorio» (Mc, 5, 1-17).

 

Il «posseduto» ha «la sua dimora nelle tombe»: questo fatto colpisce molto l’evangelista, perché lo ripete tre volte. Continuamente, notte e giorno, l’infelice «se ne stava nelle tombe». E all’inizio viene incontro a Gesù «uscendo dalle tombe». È l’uomo più libero che ci sia, perché spezza tutte le catene, disprezza tutte le regole, e ha rinunciato persino ai vestiti – ci informa Luca –, il che non gli impedisce di essere schiavo della sua possessione, prigioniero della propria follia.

Quest’uomo è un morto vivente. Il suo stato è un fenomeno di crisi, nel senso dell’indifferenziazione mimetica e persecutoria; non vi è più differenza tra la vita e la morte, la libertà e la prigionia. L’esistenza nelle tombe, lontano dai luoghi abitati, non è tuttavia un fenomeno permanente, il risultato di una rottura unica e definitiva tra il posseduto e la comunità. Dal testo di Marco si deduce che i Geraseni e il loro indemoniato si sono da tempo stabilizzati in una patologia di tipo ciclico. Luca ce ne dà conferma presentandoci il posseduto come un uomo della città, e informandoci che il demone lo «trascinava verso i luoghi isolati» soltanto durante le sue crisi. La possessione abolisce anche, tra l’esistenza cittadina e l’esistenza fuori dalle città, una differenza non certo priva di importanza giacché il nostro testo ne parlerà una seconda volta più avanti.

La descrizione di Luca suppone un’affezione intermittente, con periodi di remissione durante i quali il malato torna in città: «Molte volte lo spirito si era impossessato di lui; allora lo legavano, per custodirlo, con catene e ceppi, ma egli spezzava i legami e il demonio lo trascinava verso i luoghi isolati» (Lc, 8, 29).

I Geraseni e il loro indemoniato rivivono periodicamente la medesima crisi, sempre più o meno nella stessa maniera. Quando sospettano una nuova partenza, gli uomini della città si sforzano di ostacolarla legando il loro concittadino con catene e ceppi. Fanno questo «per custodirlo», ci dice il testo. Perché desiderano custodirlo? Apparentemente per una ragione molto chiara: guarire un malato significa far sparire i sintomi del suo male. Ora, qui, il sintomo principale è il vagabondaggio sui monti e tra le tombe. È dunque questo che i Geraseni vorrebbero prevenire con le loro catene. Il male è così atroce che essi non esitano a ricorrere alla violenza. Ma il loro metodo evidentemente non è quello giusto: ad ogni episodio, la loro vittima trionfa su qualsiasi sforzo venga fatto per trattenerla. Il ricorso alla violenza non fa che aumentare il suo desiderio di solitudine e la forza di questo desiderio, tanto che l’infelice diventa presto indomabile. «Nessuno» ci dice Marco «riusciva più a legarlo».

Il carattere ripetitivo di questi fenomeni ha qualcosa di rituale. Tutti gli attori del dramma sanno esattamente ciò che avverrà ad ogni episodio, e si comportano come devono perché effettivamente tutto si riproduca come prima. È difficile credere che i Geraseni non riescano a trovare catene e ceppi abbastanza robusti per immobilizzare il loro prigioniero. Forse si rimproverano un po’ la loro violenza e non vi ricorrono con sufficiente energia per renderla veramente efficace. Comunque sia, sembra che essi si comportino come quei malati che perpetuano con le loro manovre la patologia che hanno la pretesa di interrompere. Tutti i riti tendono a trasformarsi in una specie di teatro, e gli attori recitano la loro parte con tanto più brio quante più volte l’hanno recitata: in questo caso molte volte. Questo non vuol dire che lo spettacolo non si accompagni a sofferenze reali dei partecipanti. Devono essere reali, da entrambe le parti, se si vuole conferire al dramma l’efficacia che visibilmente possiede per tutta la città e i suoi dintorni, ovvero per tutta la comunità. I Geraseni sono visibilmente costernati all’idea di vedersene improvvisamente privati. Bisogna pure che, in qualche modo, si compiacciano di questo dramma e persino che ne abbiano bisogno se supplicano Gesù di allontanarsi immediatamente e di non intervenire più nelle loro faccende. La richiesta è paradossale, in quanto Gesù ha appena ottenuto in un sol colpo e senza la minima violenza il risultato che essi stessi fingono di voler ottenere con le loro catene e i loro ceppi, ma che in realtà non si augurano, ossia la guarigione definitiva del posseduto.

Qui, come dappertutto, la presenza di Gesù rivela la verità dei desideri dissimulati. Si verifica sempre la profezia di Simeone davanti a Gesù bambino: «Ecco, egli è posto come segno di contraddizione ... affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».49

Ma che cosa significa questo dramma, come definirlo sul piano simbolico? Il malato corre tra le tombe e sui monti – ci dice Marco – gridando e «tagliuzzandosi con delle pietre». Nel suo notevole commento a questo testo, Jean Starobinski definisce in modo perfetto questo strano comportamento: si tratta di una autolapidazione.50 Ma perché voler lapidare se stessi? Perché essere ossessionati dalla lapidazione? Quando spezza i suoi legami per allontanarsi dalla comunità, il posseduto forse crede di essere inseguito da quelli che hanno provato a incatenarlo. Forse lo è realmente. Egli fugge le pietre che i suoi inseguitori potrebbero scagliargli. Gli abitanti del suo villaggio inseguivano lo sventurato Giobbe a sassate. Niente di simile è detto nel racconto di Gerasa. Forse perché non è mai stato oggetto di una lapidazione effettiva, l’indemoniato si tagliuzza con delle pietre. Mantiene in modo mitico il pericolo da cui si sente minacciato.

È stato forse oggetto di minacce reali, forse è il sopravvissuto di una lapidazione non terminata, come la donna adultera del Vangelo di Giovanni, oppure nel suo caso si tratta di una paura completamente immaginaria, di un semplice fantasma? Se vi rivolgete ai nostri contemporanei, costoro vi diranno in modo perentorio che si tratta proprio di un fantasma. Probabilmente per non vedere né le cose terribili che succedono intorno a noi, né la protezione forse temporanea di cui godiamo, un’importante scuola ha deciso di spiegare tutto con il fantasma.

Vada pure per un fantasma di lapidazione. Ma faccio allora una domanda ai nostri eminenti psicoanalisti: è proprio lo stesso fantasma ad essere presente sia nelle società che praticano la lapidazione sia in quelle che non la praticano? Forse il posseduto dice ai suoi concittadini: «Non c’è bisogno, vedete, di trattarmi come desiderate fare, non c’è bisogno di lapidarmi; io stesso mi assumo il compito di eseguire la vostra sentenza. La punizione che mi infliggo supera in orrore tutto ciò che voi sognate di infliggermi».

È da notare il carattere mimetico di questo comportamento: come se cercasse di non farsi espellere e lapidare per davvero, il posseduto si espelle e si lapida da sé; egli mima in modo spettacolare tutte le tappe del supplizio che le società del Vicino Oriente infliggevano a coloro che consideravano definitivamente impuri, ai criminali irrecuperabili. Prima la caccia all’uomo, poi la lapidazione e la morte; per questo il posseduto ha «la sua dimora nelle tombe».

I Geraseni devono pur comprendere in qualche modo il rimprovero che gli viene rivolto, altrimenti non si comporterebbero come fanno con chi li rimprovera. La loro violenza mitigata è una protesta inefficace. «Ma no,» essi rispondono «non vogliamo lapidarti, dato che vogliamo custodirti qui con noi. Nessun ostracismo pesa su di te». Purtroppo, come tutti coloro che si sentono accusati a torto ma non senza qualche parvenza di ragione, i Geraseni protestano con violenza, protestano in buona fede mediante la violenza e così facendo accrescono il terrore del posseduto. La prova che hanno una certa consapevolezza della loro contraddizione sono le catene mai abbastanza robuste per convincere la vittima delle loro buone intenzioni nei suoi confronti.

La violenza dei Geraseni non è fatta per rassicurare il posseduto, e viceversa la violenza del posseduto preoccupa i Geraseni. Come sempre, ognuno pretende di porre fine alla violenza con una violenza che dovrebbe essere definitiva, ma che perpetua la circolarità del processo. C’è una visibile simmetria fra tutte queste stravaganze, da una parte l’autolacerazione e le corse in mezzo alle tombe, dall’altra l’eccessiva ostentazione delle catene. Vi è una sorta di complicità tra la vittima e i suoi carnefici nel perpetuare l’equivoco di un gioco visibilmente necessario all’equilibrio del sistema geraseno.

Il posseduto si fa violenza per rimproverare a tutti i Geraseni la loro violenza. I Geraseni gli rimandano il suo rimprovero, e lo fanno con una violenza che rafforza ulteriormente la sua e che conferma, in qualche modo, l’accusa e la controaccusa che circolano senza fine nel sistema. Il posseduto imita questi Geraseni che lapidano le loro vittime, ma i Geraseni imitano di rimando il posseduto. Tra quei persecutori perseguitati e questo perseguitato persecutore sussiste un rapporto di doppi e di specchi, e dunque un rapporto reciproco di antagonismo mimetico. Non è un rapporto fra lapidato e lapidatori, ma è come se lo fosse: da una parte c’è infatti la parodia violenta della lapidazione e dall’altra il suo disconoscimento non meno violento, ossia una variante di espulsione violenta che mira allo stesso fine di tutte le altre espulsioni, ivi inclusa la lapidazione.

Forse sono anch’io «posseduto», se vado ritrovando i miei doppi e il mio mimetismo in un testo che parla solo di demoni? Forse la volontà di sottomettere i Vangeli al mio sistema e di fare di questo sistema il pensiero stesso dei Vangeli mi spinge a un piccolo gioco di destrezza pur di reintrodurre la mia spiegazione preferita?

Non lo credo, e comunque, se mi sbaglio nel ricorrere qui, nel contesto dei demoni di Gerasa, ai doppi mimetici, l’errore che commetto non è soltanto mio: lo condivide almeno uno degli evangelisti, Matteo, il quale ci propone, all’inizio del miracolo, una variante significativa. All’unico indemoniato di Marco e di Luca egli sostituisce due posseduti perfettamente identici e fa parlare loro stessi al posto del demone, anzi dei due demoni che in linea di principio dovrebbero possederli.

Non c’è niente nel testo di Matteo che indichi una fonte diversa da quella di Marco; si tratta piuttosto di un tentativo di spiegazione, ho quasi voglia di dire di demistificazione, del tema demoniaco in generale. Nei testi del tipo di quello di Gerasa accade spesso che Matteo si distacchi da Marco, sia per sopprimere un particolare che giudica inutile, sia per dare un tono più esplicativo ai temi che conserva in modo da far coincidere il tema con la spiegazione che egli ne dà. Ne abbiamo visto un esempio nell’assassinio di Giovanni Battista. Allo scambio di domande e risposte che in Marco indica enigmaticamente la trasmissione mimetica del desiderio tra madre e figlia, Matteo sostituisce l’espressione «istruita dalla madre».

Penso che Matteo faccia qui un po’ la stessa cosa, ma con maggiore audacia. Vuole suggerire ciò che noi stessi abbiamo imparato nel corso delle letture precedenti. La possessione non è un fenomeno individuale, è un effetto di mimetismo esacerbato. Vi sono sempre almeno due uomini che si possiedono reciprocamente, ciascuno in quanto scandalo dell’altro, suo modello-ostacolo. Ciascuno è il demone dell’altro; è per questo che in Matteo, nella prima parte del racconto, i demoni non si distinguono realmente da coloro che essi possiedono:

 

«Giunto [Gesù] all’altra riva [del mare di Galilea], nel paese dei Gadareni, gli vennero incontro, uscendo dalle tombe, due indemoniati, due esseri così selvaggi che nessuno poteva passare per quella strada. Ecco che si misero a gridare: “Che cosa vuoi da noi, tu, Figlio di Dio? Sei venuto qui per tormentarci prima del tempo?”» (Mt, 8, 28-29).

 

La prova che Matteo si sforza di pensare la possessione in funzione del mimetismo dei doppi e della pietra d’inciampo sta in ciò che egli aggiunge e che non compare né nel testo di Marco né in quello di Luca: coloro che vanno incontro a Gesù sono tali che «nessuno poteva passare per quella strada». In altre parole, sono esseri che sbarrano la strada, come fa Pietro con Gesù allorché lo scongiura di evitare la passione. Sono esseri che si scandalizzano reciprocamente e che scandalizzano i loro vicini. Lo scandalo è sempre contagioso: gli scandalizzati rischiano di comunicarvi il loro desiderio, ossia di trascinarvi sulla loro strada per diventare il vostro modello-ostacolo e scandalizzare anche voi. Nei Vangeli, ogni allusione al passaggio ostruito, all’ostacolo insormontabile, alla pietra troppo pesante per essere sollevata, è un’allusione allo scandalo che incombe sull’intero sistema sociale.

Per rendere conto della possessione mediante il mimetismo dello scandalo, Matteo fa appello al rapporto mimetico minimo, a ciò che si potrebbe chiamare la sua unità di base. Prova a risalire alla fonte del male. Compie un gesto che abitualmente non si capisce perché inverte la pratica propriamente mitologica delle nostre psicologie e psicoanalisi. Queste interiorizzano il doppio; hanno sempre bisogno, insomma, di un piccolo demone immaginario all’interno della coscienza o, se si vuole, dell’inconscio. Matteo esteriorizza il demone in un rapporto mimetico reale tra due individui reali.

Matteo migliora – credo – il testo del miracolo su un punto capitale, o piuttosto ne predispone l’analisi. Ci insegna infatti che all’inizio del gioco mimetico non può non esserci la dualità; una cosa interessantissima, certo, ma che in seguito mette l’autore in grave difficoltà, quando deve pur sempre introdurre la molteplicità, indispensabile anch’essa allo svolgimento del miracolo. Sarà perciò costretto a eliminare la frase chiave di Marco: «Il mio nome è Legione perché siamo in molti», quella che contribuisce più di ogni altra alla celebrità del testo, con il suo strano passaggio dal singolare al plurale. Ritroviamo d’altronde questa rottura nella frase successiva, che nello stile del discorso indiretto riporta il seguito delle parole del demone a Gesù: «E subito lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese».

Non si ritrova dunque più in Matteo, e nemmeno in Luca, che pure è più vicino a Marco, l’idea essenziale che il demone sia una vera e propria folla, anche se parla come un sol uomo, anche se, in un certo modo, è uno. Perdendo la folla di demoni, Matteo perde ciò che giustifica l’annegamento, che pure mantiene, di un immenso branco di porci. In fin dei conti, perde più di quanto guadagna. Si direbbe, d’altronde, che sia consapevole del proprio insuccesso, e pertanto abbrevia tutta la fine del miracolo.

Come tutti i colpi di genio di Marco, come la domanda di Salomè a sua madre: «Che cosa bisogna desiderare?», questa giustapposizione del singolare e del plurale nella stessa frase può essere presa per una specie di goffaggine, che viene invece eliminata da Luca, generalmente più abile e corretto di Marco nell’uso della lingua: «“Legione”, rispose, perché molti demoni erano entrati in lui. E lo supplicavano che non ordinasse loro di andarsene nell’abisso» (Lc, 8, 30-31).

Nel suo commento a Marco, Jean Starobinski chiarisce molto bene le connotazioni negative della parola Legione. Bisogna leggervi «la molteplicità guerriera, la truppa ostile, l’esercito occupante, l’invasore romano e forse anche coloro che crocifissero Cristo».51 II critico osserva giustamente che la folla svolge un ruolo importante non soltanto nella storia dell’indemoniato, ma nei testi che vengono subito prima e subito dopo. La guarigione in se stessa, certo, si presenta come un duello tra Gesù e il demone, ma sia prima che dopo c’è sempre folla intorno a Gesù. All’inizio c’è la folla della Galilea, che i discepoli hanno mandato via per imbarcarsi con Gesù. Al ritorno, Gesù ritroverà questa folla. A Gerasa non c’è soltanto la folla dei demoni e la folla dei porci, ma ci sono anche i Geraseni accorsi in folla, sia dalla città sia dalla campagna. Citando la frase di Kierkegaard: «la folla è la menzogna», Starobinski osserva che il male, nei Vangeli, è sempre dalla parte della pluralità e della folla.

Vi è tuttavia una differenza notevole tra il comportamento dei Galilei e quello dei Geraseni. La folla galilea, come quella di Gerusalemme, non ha paura dei miracoli. In un attimo può rivoltarsi contro il taumaturgo, ma per il momento si aggrappa a lui come a un salvatore. I malati affluiscono da ogni parte. In territorio ebraico tutti sono avidi di miracoli e di segni. Vogliono sia beneficiarne personalmente sia farne beneficiare gli altri sia, più semplicemente, esserne spettatori, assistere all’evento fuori del comune come a uno spettacolo teatrale, spesso più straordinario che edificante.

I Geraseni reagiscono in modo diverso. Quando vedono l’indemoniato «seduto, vestito e nel pieno delle sue facoltà, lui che era stato posseduto dalla Legione», sono presi dal terrore. Si fanno spiegare dai mandriani «che cosa era successo al posseduto e che cosa era accaduto ai porci». Lungi dal calmare i loro timori e dal destare entusiasmo o almeno curiosità, il racconto aumenta la loro angoscia. Gli abitanti del luogo esigono la partenza di Gesù. E Gesù acconsente senza aggiungere nulla. L’uomo da lui guarito vuole seguirlo, ma egli gli ingiunge di restare con i suoi. Silenziosamente si imbarca per tornare in territorio ebraico.

Non vi è stata predicazione, né vero scambio, anche ostile, con quegli uomini. È l’intera popolazione locale, a quanto sembra, che reclama la partenza di Gesù. Si ha l’impressione che i Geraseni giungano in buon ordine. Non somigliano affatto alla folla senza pastore che suscita la pietà di Gesù: formano una comunità differenziata, giacché gli abitanti della campagna si distinguono dagli abitanti della città. Si informano pacatamente ed è una decisione meditata quella per la quale chiedono a Gesù di andarsene. Non rispondono al miracolo né con l’adulazione isterica né con l’odio della passione, ma con un rifiuto che non ammette esitazioni. Non vogliono avere niente a che fare con Gesù e con ciò che egli rappresenta.

Non è per ragioni economiche che i Geraseni se la prendono per la scomparsa del loro branco. L’annegamento dei loro porci li turba, visibilmente, meno di quello dei loro demoni. Per capire come stanno le cose, è bene osservare che questo attaccamento dei Geraseni ai loro demoni ha il suo corrispettivo nell’attaccamento dei demoni ai loro Geraseni. «Legione» non ha troppa paura di sloggiare, a condizione che gli si permetta di restare nel paese. «E subito lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese». Poiché i demoni non possono fare a meno della dimora di un vivente, desiderano possedere qualcun altro, preferibilmente un essere umano ma, in mancanza di esso, anche un animale va bene, in questo caso il branco dei porci. La modestia della richiesta mostra che i demoni non si fanno illusioni. Sollecitano come un favore il diritto di stabilirsi in quegli animali ripugnanti: si sentono dunque in una situazione difficile. Sanno quello che li aspetta. Forse riusciranno a farsi tollerare, pensano, se si accontentano di poco. L’essenziale, per loro, è di non essere cacciati via completamentedefinitivamente.

Il legame reciproco fra i demoni e i Geraseni non fa che riprodurre, su un altro piano, quello che la nostra analisi ha rivelato dei rapporti tra il posseduto e gli stessi Geraseni. Gli uni non possono fare a meno dell’altro e viceversa. Per descrivere questi rapporti, ho parlato di rito e, insieme, di patologia ciclica. Non credo che questa congiunzione sia fantasiosa. Degenerando, il rito perde chiarezza di contorni: l’espulsione non è una vera espulsione, e il capro espiatorio – il posseduto – torna in città negli intervalli tra le sue crisi. Tutto si confonde e niente finisce mai. Il rito tende a ricadere in ciò che lo ha generato, i rapporti dei doppi mimetici, la crisi indifferenziata. La violenza fisica tende a cedere il posto alla violenza non fatale, ma anche interminata e interminabile dei rapporti psicopatologici.

Questa tendenza, tuttavia, non giunge fino all’indifferenziazione totale. Resta una differenza sufficiente tra l’espulso volontario e i Geraseni che rifiutano di mandarlo via, un dramma sufficientemente reale in ogni sua reiterazione perché l’intrigo descritto dal nostro testo conservi una certa efficacia catartica. Siamo sulla strada della disgregazione completa, ma essa non si è ancora prodotta. La società gerasena è ancora abbastanza strutturata, più strutturata delle folle della Galilea o di Gerusalemme. Esiste ancora una certa differenziazione nel sistema, tra la città e la campagna ad esempio, ed essa si esprime con la reazione pacificamente negativa al successo terapeutico di Gesù.

Lo stato di questa società non è proprio sanissimo, anzi, è abbastanza traballante, ma non ancora disperato, e i Geraseni intendono conservarlo. Formano ancora una comunità nell’accezione di sempre, un sistema che si perpetua come può con procedimenti sacrificali parecchio degenerati, se dobbiamo giudicare da ciò che vediamo, e tuttavia preziosi e persino insostituibili perché, evidentemente, si è giunti all’esaurimento delle proprie risorse.

Tutti i commentatori ci dicono che Gesù guarisce i suoi posseduti con mezzi classici di tipo sciamanico. Qui, ad esempio, costringe lo spirito impuro a dire il suo nome; acquista dunque su di lui il potere spesso associato, nelle società primitive, alla manipolazione del nome. In questo non ci sarebbe niente di veramente eccezionale, e non è certo questa l’informazione che il testo vuol darci. Se non ci fosse niente di straordinario in ciò che fa Gesù, i Geraseni non avrebbero alcuna ragione di aver paura. Essi hanno certamente i loro guaritori, che operano secondo i metodi che i moderni pretendono di ritrovare nella pratica di Gesù. Se Gesù fosse soltanto un medicine man più capace degli altri, questa brava gente non sarebbe terrorizzata ma felicissima. Supplicherebbe Gesù di restare e non di andarsene.

Questa paura dei Geraseni è una semplice amplificazione retorica? È del tutto priva di contenuto, e destinata soltanto a rendere più impressionante la prodezza del Messia? Io penso di no. La caduta del branco demonizzato ci viene presentata allo stesso modo nei tre sinottici. «Dall’alto del dirupo, il branco si gettò a precipizio nel mare». Il dirupo appare anche in Matteo e in Luca. Perché ci sia un dirupo, bisogna che i porci si trovino su una specie di promontorio. Marco e Luca ne hanno coscienza e, per preparare il dirupo, sistemano quelle bestie su un monte. Matteo non ha il monte ma conserva il dirupo. È dunque quest’ultimo a trattenere l’attenzione degli evangelisti. Aumenta l’altezza della caduta. Più i porci cadranno dall’alto, più impressionante sarà la scena. Ma i Vangeli non si preoccupano del pittoresco e non è certo per ottenere un miglior effetto visivo che parlano tutti di questo dirupo. Si potrebbe allora sostenere che sia per una ragione funzionale. La distanza da percorrere in caduta libera prima di raggiungere la superficie del mare garantisce la scomparsa definitiva della razza porcina: il branco non potrà fuggire, non potrà raggiungere a nuoto la riva. Tutto questo è vero; il dirupo è necessario all’economia realistica della scena. Ma neppure del realismo i Vangeli si preoccupano molto. Vi è dunque qualcosa di più essenziale.

Coloro che sono abituati ai testi mitologici e religiosi riconoscono subito, o dovrebbero riconoscere, questo tema del dirupo.52 Al pari della lapidazione, la caduta dall’alto di una parete scoscesa ha connotazioni collettive, rituali e penali. È una pratica sociale molto comune sia nel mondo antico sia nelle cosiddette società primitive. È un tipo di immolazione sacrificale che più tardi si differenzierà in esecuzione capitale. A Roma, è il principio della Rupe Tarpea. Nell’universo greco, la periodica condanna a morte del pharmakos rituale si svolgeva talvolta in questo modo, particolarmente a Marsiglia. Si costringeva l’infelice a precipitarsi in mare da un’altezza tale per cui sarebbe fatalmente morto.

Nel nostro testo, dunque, e in forma abbastanza esplicita, compaiono questi due modi di messa a morte rituale: la lapidazione e la caduta dall’alto di una rupe. Tra di essi vi sono delle somiglianze notevoli. Tutti i membri della collettività possono e devono scagliare pietre sulla vittima. Tutti i membri della collettività possono e devono avanzare simultaneamente verso il condannato e spingerlo sul bordo della rupe, per non lasciargli altra scelta che la morte. Le somiglianze non si limitano, però, al carattere collettivo dell’esecuzione. Tutti partecipano alla distruzione dell’anatema, ma nessuno entra in contatto diretto, fisico, con lui. Nessuno rischia di essere contaminato. Unico responsabile è il gruppo. Tutti gli individui condividono in parti uguali innocenza e responsabilità.

Tutto questo è vero anche per le altre modalità tradizionali di esecuzione, in particolare per tutte le forme di esposizione, di cui la crocifissione costituisce una variante. Il timore superstizioso del contatto fisico con la vittima non deve, inoltre, impedirci di vedere che queste tecniche risolvono un problema essenziale per le società con un sistema giudiziario debole o inesistente, società ancora impregnate dallo spirito della vendetta privata, che spesso devono quindi confrontarsi con la minaccia di una violenza interminabile in seno alla comunità.

Queste modalità di esecuzione, invece, non offrono alcun pretesto alla sete di vendetta, perché eliminano ogni differenza nei ruoli individuali. I persecutori agiscono tutti allo stesso modo. Chiunque sogni la vendetta è costretto a prendersela con l’intera collettività. È come se la forza dello Stato, ancora inesistente in quel tipo di società, cominciasse a esistere in modo temporaneo ma reale, e non soltanto simbolico, nelle forme violente di unanimità.

Queste modalità collettive di esecuzione capitale rispondono così bene ai bisogni di tali società che inizialmente si fa fatica ad accettare l’ipotesi che siano sorte in modo spontaneo nelle collettività umane. Esse sembrano troppo adatte allo scopo per non essere state pensate prima di venire realizzate. Si tratta sempre o dell’illusione moderna del funzionalismo, che crede che il bisogno crei l’organo, o della più antica illusione delle tradizioni religiose stesse, le quali si rifanno sempre a una specie di legislatore primordiale, un essere che, grazie a una saggezza e a un’autorità sovrumane, avrebbe dotato la comunità di tutte le sue istituzioni fondamentali.

Con ogni probabilità le cose si sono svolte diversamente. È assurdo pensare che un problema come il nostro si sia posto in modo teorico prima di essere risolto nella pratica. Ma è impossibile evitare questa assurdità fin quando non si scopra la soluzione anteriore al problema, fin quando non si veda quale tipo di soluzione abbia potuto precederlo. Ed essa, naturalmente, non può essere altro che un effetto spontaneo di capro espiatorio. Nel parossismo del mimetismo conflittuale, la polarizzazione su un’unica vittima può divenire così potente che tutti i membri del gruppo si sforzano di partecipare al suo assassinio. Questo tipo di violenza collettiva tenderà spontaneamente verso le forme di esecuzione che ho appena definito: unanimi, egualitarie e a distanza.

Ciò vuol dire che i grandi legislatori primordiali di cui tante tradizioni religiose ci parlano non sono mai esistiti? Certo che no. Bisogna sempre prendere sul serio le tradizioni primitive, soprattutto quando si assomigliano. I grandi legislatori sono esistiti, ma non hanno mai promulgato alcuna legislazione da vivi. Evidentemente, essi non sono altro che capri espiatorii, il cui assassinio viene scrupolosamente imitato, ricopiato e perfezionato nei riti, per i suoi effetti riconciliatori. Gli effetti sono reali, perché questo assassinio somiglia già al tipo di esecuzione capitale che da esso deriva e che riproduce i medesimi effetti: taglia corto con la vendetta. Sembra dunque scaturire da una saggezza più che umana e, come tutte le istituzioni che derivano dal meccanismo vittimario, può essere attribuito soltanto al capro espiatorio sacralizzato. Il legislatore supremo è l’essenza stessa del capro espiatorio sacralizzato.

Un esempio di capro espiatorio legislatore è il personaggio di Mosè. La sua balbuzie è un segno vittimario. Possiede delle tracce di colpevolezza mitica: l’assassinio dell’Egiziano (la colpa che causa il divieto di mettere piede nella Terra promessa), la sua responsabilità nelle dieci piaghe d’Egitto, che sono pestilenze indifferenziatrici. Sono presenti tutti gli stereotipi della persecuzione, ad eccezione dell’assassinio collettivo, che tuttavia ricompare in margine alla tradizione ufficiale, come nel caso di Romolo. Freud non ha avuto torto a prendere sul serio questa diceria sull’assassinio collettivo.

Ma torniamo ai demoni di Gerasa. È ragionevole far intervenire la lapidazione e l’esecuzione dall’alto della rupe nella spiegazione di questo testo? È ragionevole associare qui queste due modalità di messa a morte? Penso di sì: il contesto ci invita a farlo. La lapidazione appare ovunque nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli. Ho già menzionato la donna adultera salvata da Gesù. Il primo martire, Stefano, viene lapidato. Anche la passione di Cristo è preceduta da vari tentativi di lapidazione. E c’è anche, fatto molto significativo, un tentativo mancato di precipitare Gesù dall’alto di una rupe.

La scena si svolge a Nazaret. Gesù viene accolto male nella città della sua infanzia; non può farvi alcun miracolo. La sua predica nella sinagoga scandalizza gli ascoltatori. Si allontana senza essere importunato, ma Luca ci racconta quanto segue:

 

«A queste parole [le parole di Cristo], tutti nella sinagoga furono presi da furore. E si alzarono, lo spinsero fuori dalla città e lo condussero fino al dirupo di una collina sulla quale era costruita la loro città, per farlo precipitare. Ma lui, passando in mezzo a loro, proseguì per la sua strada» (Lc, 4, 28-30).

 

Bisogna vedere in questo episodio un abbozzo, e di conseguenza un annuncio, della passione. La sua presenza rivela che Luca e certamente anche gli altri evangelisti ritengono che la caduta dall’alto di una rupe sia, come la lapidazione, un equivalente della crocifissione. Essi capiscono l’importanza di questa equivalenza. Tutte le forme di assassinio collettivo significano la stessa cosa, e Gesù e la sua passione ne rivelano il senso. Quello che importa è questa rivelazione, non la localizzazione reale di tale o talaltro dirupo. Secondo coloro che conoscono Nazaret, la città e i suoi immediati dintorni non si prestano alla funzione che Luca vuole assegnare loro. Non ci sono dirupi.

Questa inesattezza geografica non è sfuggita alla vigilanza storico-positivista. La critica non ha risparmiato i commenti sardonici. Sfortunatamente non ha mai spinto la curiosità fino a domandarsi perché mai Luca abbia dotato la città di Nazaret di un dirupo inesistente. I professori positivisti erano anime piuttosto candide: il loro universo era un vasto esame di storia e di geografia, nel quale bocciavano sistematicamente i Vangeli, credendo con questo di «confutarli» per sempre, di svelare i loro inganni imprudenti. Ciò bastava a farli felici.

I Vangeli si interessano troppo delle diverse varianti di morte collettiva per interessarsi della topografia di Nazaret. La loro attenzione è tutta rivolta all’autolapidazione dell’indemoniato e alla caduta dei porci «dall’alto del dirupo».

Ma in questo caso chi si lancia giù dal precipizio non è il capro espiatorio, né una vittima o un paio di vittime, è la folla dei demoni, sono i duemila porci indemoniati. I rapporti consueti sono invertiti. La folla dovrebbe restare in alto e far cadere la vittima; in questo caso, invece, è la folla che si butta di sotto, e la vittima è salva.

La guarigione di Gerasa inverte dunque lo schema universale della violenza fondatrice in tutte le società del mondo. Questa inversione si produce anche in certi miti, ma non ha gli stessi caratteri; finisce sempre con la restaurazione del sistema che è stato appena distrutto o con l’instaurazione di un nuovo sistema. Qui, invece, tutto è molto diverso; l’annegamento dei porci indemoniati ha un carattere definitivo; è un evento senza avvenire, tranne che per il miracolato stesso.

Il nostro testo intende suggerire una differenza non di gradi, ma di natura tra il miracolo di Gesù e le guarigioni abituali. E questa differenza di natura corrisponde realmente a tutto un insieme di dati concordanti. Ma i commentatori moderni non se ne rendono conto. Gli aspetti fantastici del miracolo sembrano loro troppo gratuiti per trattenere a lungo l’attenzione. Nella richiesta che i demoni fanno a Gesù, nel loro disordinato ripiegare verso il branco e nel capitombolo di quest’ultimo, non vedono che le solite formulette magiche. In realtà, il modo in cui questi temi sono trattati è eccezionale e corrisponde rigorosamente a ciò che esige su questo punto la rivelazione del mimetismo vittimario – tenuto conto dello stile dell’insieme, che resta demonologico.

I demoni sono anche disposti a tollerare che li si mandi via, ma a condizione che non li si cacci «fuori da quel paese». Ciò vuol dire, penso, che gli esorcismi ordinari sono semplici spostamenti locali, scambi e sostituzioni che possono sempre prodursi all’interno di una struttura senza apportare cambiamenti apprezzabili, senza compromettere la perpetuazione dell’insieme.

I guaritori tradizionali hanno un’azione reale ma limitata, nel senso che operano solo per migliorare le condizioni di un individuo X a spese di un altro individuo Y o viceversa. Nel linguaggio demonologico, questo significa che i demoni di X lo hanno abbandonato, e si sono trasferiti in Y. I guaritori modificano certi rapporti mimetici, ma le loro piccole manipolazioni non compromettono l’equilibrio del sistema, che permane immutato. È qualcosa di simile ai rimpasti ministeriali di una compagine governativa ormai estenuata. Il sistema continua a essere quello che è, un sistema non soltanto di uomini, ma di uomini e dei loro demoni.

È questo sistema totale ciò che viene minacciato dalla guarigione del posseduto e dal concomitante annegamento della Legione. I Geraseni lo intuiscono e ne sono turbati. Anche i demoni lo capiscono: anzi, su questo punto si dimostrano più lucidi degli uomini, ciò che peraltro non impedisce loro di essere ciechi su altri punti, e facilmente ingannabili. Lungi dall’essere puramente immaginari e fantasiosi come immaginano gli spiriti mediocri, questi temi sono ricchi di senso. Le qualità attribuite ai demoni corrispondono rigorosamente alle proprietà concrete di questa strana realtà che i Vangeli fanno loro incarnare: la disincarnazione mimetica. Più il desiderio diventa frenetico e demoniaco, meno gli sfuggono le proprie leggi; ma questa lucidità non diminuisce in niente il suo asservimento. Grandi scrittori hanno dimostrato di saper capire e utilizzare questo sapere paradossale. Dai demoni di Gerasa Dostoevskij prenderà a prestito non soltanto il titolo del suo romanzo I demoni, ma anche il sistema dei rapporti tra i personaggi, e il «dinamismo dell’abisso» che ne trascina il sistema.

I demoni cercano di «negoziare» con Gesù, come fanno con i guaritori locali; essi trattano da pari a pari con quanti hanno una potenza o un’impotenza che non si differenzia molto dalla loro. Con Gesù il negoziato è più apparente che reale. Questo viaggiatore non è iniziato a nessun culto locale, né è delegato da nessuno della comunità. Non ha bisogno di fare concessioni per ottenere che i demoni si allontanino dal posseduto. Il permesso di invadere i porci non ha conseguenze, poiché non ha alcun effetto duraturo. Basta che Gesù appaia in qualche posto per fare piazza pulita dei demoni e minacciare l’ordine necessariamente demoniaco di ogni società. I demoni non possono resistere alla sua presenza: entrano in grande agitazione e, dopo un breve periodo di convulsioni agoniche, tendono a disintegrarsi completamente. Questo è il corso inevitabile delle cose che il momento parossistico del nostro miracolo ci mostra.

In tutte le grandi disfatte, le ultime manovre divengono lo strumento perfetto dello sfacelo. È questo duplice significato che il nostro testo riesce a conferire al mercanteggiare tra il taumaturgo e i demoni. Il tema è effettivamente preso in prestito dalle pratiche degli sciamani e di altri guaritori, ma qui esso è soltanto un veicolo per significati che lo superano.

In presenza di Gesù i demoni sperano solo di poter continuare a esistere ai margini di quell’universo dove prima abitavano da padroni, nei suoi recessi più nauseabondi. Insomma, per proteggersi dall’abisso che li minaccia, i demoni vi si dirigono volontariamente. Presi dal panico, decidono in fretta e, in mancanza d’altro, accettano di farsi porci. Questo somiglia stranamente a ciò che succede un po’ ovunque. Ma anche dopo essere diventati porci, come i compagni di Ulisse, i demoni non reggono. L’annegamento è una perdizione definitiva. Esso realizza il peggior timore dell’orda soprannaturale, quello di essere cacciata fuori da quel paese. Tale è l’espressione di Marco ed è preziosa; fa prendere coscienza della natura sociale della posta in gioco, del ruolo che ha il demoniaco in ciò che alcuni chiamano il «simbolico». Ma anche il testo di Luca non è da meno; nel mostrarci i demoni che supplicano Gesù di non spedirli per sempre «nell’abisso», esprime perfettamente l’annientamento definitivo del demoniaco, ovvero il significato principale del testo, quello che spiega la reazione dei Geraseni. Questi sfortunati capiscono che il loro precario equilibrio si basa sul demoniaco, ossia sul tipo di attività che si svolge periodicamente tra loro e quella specie di celebrità locale che il loro posseduto è diventato.

Nella possessione non vi è nulla che non sia il risultato di un mimetismo frenetico. Ce lo suggerisce, come dicevo, la variante di Matteo che sostituisce due posseduti indifferenziati, e quindi mimetici, all’indemoniato solitario degli altri due Vangeli sinottici. In fondo, anche il testo di Marco esprime la stessa cosa, in modo meno visibile ma ancora più essenziale, anzi meno visibile perché più essenziale, mostrandoci un unico personaggio posseduto da un demone che è simultaneamente uno e molteplice, singolo e plurimo. Questo significa che il posseduto non è soltanto il posseduto di un unico altro, come Matteo suggerisce, ma di tutti gli altri in quanto simultaneamente uno e molteplici, cioè in quanto formano una società nell’accezione umana o, se si preferisce, demoniaca del termine, una società fondata sull’espulsione collettiva. È precisamente questo che il posseduto imita. I demoni sono a immagine del gruppo umano, sono l’imago di questo gruppo perché ne sono l’imitatio. La società dei demoni all’inizio del testo, come la società gerasena alla fine, possiede una struttura, una specie di organizzazione; essa è l’unità del molteplice: «Il mio nome è Legione perché siamo in molti». Come un’unica voce si alza, alla fine, per parlare a nome di tutti i Geraseni, così un’unica voce si alza, all’inizio, per parlare a nome di tutti i demoni. E, in verità, dicono la stessa cosa. Giacché tra Gesù e i demoni ogni coesistenza è impossibile, pregare Gesù di non cacciare i demoni, quando si è demoni, equivale a pregarlo di andarsene quando si è Geraseni.

La prova essenziale dell’identità tra demoni e Geraseni risiede nel comportamento del posseduto in quanto posseduto da quei demoni. I Geraseni lapidano le loro vittime e i demoni costringono la loro a lapidarsi da sé, che è la stessa cosa. Questo posseduto archetipico mima la pratica sociale più fondamentale di tutte: quella che genera, alla lettera, la società trasmutando la molteplicità mimetica più atomizzata nell’unità sociale più forte, l’unanimità dell’assassinio fondatore. Nel dire l’unità del molteplice, la Legione simboleggia il principio sociale stesso, il tipo di organizzazione che si fonda non sull’espulsione definitiva dei demoni, ma su espulsioni equivoche e mitigate come quella rappresentata dal nostro posseduto, espulsioni che in realtà finiscono nella coesistenza di uomini e demoni.

Ho detto che Legione simboleggia l’unità molteplice del sociale ed è senz’altro vero ma, nella frase giustamente famosa «Il mio nome è Legione perché siamo in molti», simboleggia questa unità nella fase di disintegrazione, giacché qui prevale l’ordine inverso a quello che genera il sociale. Il singolare che si trasforma irresistibilmente in plurale, all’interno di un’unica frase, è la ricaduta dell’unità nella molteplicità mimetica, è il primo effetto della presenza dissolvente di Gesù. È quasi arte moderna. Io è un altro, dice Matteo. Io è tutti gli altri, dice Marco.

Ho forse il diritto di identificare il branco di porci con la folla dei linciatori? Mi si rimprovererà di alterare i Vangeli nel senso delle mie fastidiose ossessioni? Con che ragione potrebbero dirlo, se questa mia identificazione figura già esplicitamente almeno in un Vangelo, quello di Matteo? Penso a un aforisma molto significativo, che precede di poco il racconto di Gerasa: «Non gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché non le calpestino con le loro zampe e, voltatisi contro di voi, non vi sbranino» (Mt, 7, 6).

Nel racconto di Gerasa sono tuttavia i linciatori, come ho già detto, a subire il trattamento «normalmente» riservato alla vittima. Essi non si fanno lapidare, come il posseduto, ma si lanciano giù dal dirupo, che è lo stesso. Per cogliere l’aspetto rivoluzionario di questa inversione bisogna trasporla in un universo che il nostro umanesimo antibiblico rispetta più di quello ebraico: l’universo dell’antichità classica, greca o romana. Bisogna immaginare il pharmakos che spinge la città greca, filosofi e matematici compresi, verso il dirupo. Dall’alto della Rupe Tarpea, non è più il reprobo che capitombola nel vuoto, sono i maestosi consoli, i virtuosi Catoni, i solenni giureconsulti, i procuratori della Giudea e tutto il resto del Senatus Populusque Romanus. Tutto questo scompare nell’abisso mentre al di sopra l’ex-vittima, vestita e nel pieno delle sue facoltà, osserva con calma la sorprendente valanga.

La conclusione del miracolo soddisfa una certa sete di vendetta, ma è davvero giustificata nell’ambito del pensiero che definisco? Non comporta forse una dimensione, vendicatrice per l’appunto, che contraddice la mia tesi sull’assenza di spirito di vendetta nei Vangeli?

Qual è la forza che catapulta i porci nel mare di Galilea se non il desiderio di tutti noi di vederceli cadere o la violenza dello stesso Gesù? Che cosa può motivare tutto un branco ad autodistruggersi senza esservi costretto da chicchessia? La risposta è evidente. Si chiama spirito gregario, quello che di un branco fa per l’appunto un branco; in altre parole, la tendenza irresistibile al mimetismo. Basta che un primo porco cada in mare, per caso o per una ragione qualsiasi, per effetto di una paura improvvisa o per le convulsioni provocate dall’invasione demoniaca, perché tutti i suoi simili facciano altrettanto. La frenesia di accodarsi va perfettamente d’accordo con la proverbiale mancanza di docilità della specie. Al di là di una certa soglia mimetica, quella stessa che definisce la possessione, l’intero branco riproduce istantaneamente ogni comportamento che gli sembra fuori della norma. È un po’ come il fenomeno della moda nelle cosiddette società avanzate, nel senso in cui diciamo avanzata quella di Gerasa.

Basta che uno qualsiasi del branco scivoli sovrappensiero, ed ecco il lancio di una nuova moda, quella del tuffo negli abissi, che trascinerà nel suo entusiasmo fino all’ultimo dei porcellini. La minima sollecitazione mimetica fa vacillare folle compatte. Più lo scopo sarà fievole, futile o, meglio ancora, fatale, più sarà avvolto nel mistero, e più ispirerà desiderio. Tutti questi porci sono scandalizzati, dunque già in perdita d’equilibrio, inevitabilmente interessati, di colpo, e perfino elettrizzati da una perdita di equilibrio più radicale; eccolo, il bel gesto che oscuramente tutti cercavano, il gesto impossibile da recuperare. Si precipitano tutti quanti sulle tracce dell’«audace innovatore».

Quando parla, Gesù mette quasi sempre il mimetismo dello scandalo al posto di qualsiasi diavoleria. Basta fare la stessa cosa, e il mistero scompare. Quei porci sono degli autentici posseduti: sono mimetizzati fino alle orecchie. Se qualcuno vuole ad ogni costo dei riferimenti non evangelici, non deve andare a cercarli nei manuali di demonologia, e neppure nelle false scienze moderne dell’istinto, quelle che scoprono tristemente il nostro avvenire in oscure storie di lemming; io preferisco rivolgermi a una letteratura più allegra e più profonda. I demoni suicidi di Gerasa sono dei montoni di Panurge al quadrato, perché non hanno nemmeno bisogno di un Dindenault per buttarsi in mare. Alle domande che pone il nostro testo, una risposta mimetica non manca mai, ed è sempre la migliore.

XIV

SATANA DIVISO CONTRO SE STESSO

L’analisi dei testi evangelici non può rivelare nulla sulle guarigioni miracolose.53 Essa può fondarsi soltanto sul linguaggio in cui sono descritte, e i Vangeli parlano il linguaggio del loro universo. Sembra dunque che facciano di Gesù un guaritore tra i guaritori, pur dicendo allo stesso tempo che il Messia è un’altra cosa. Il testo di Gerasa dà loro ragione in questo, dal momento che descrive la distruzione di tutti i demoni e del loro universo, quello stesso universo che fornisce agli evangelisti il linguaggio della loro descrizione, il linguaggio dei demoni e della loro espulsione. Si tratta dunque di un’espulsione... dell’espulsione medesima, cioè della molla costitutiva di questo mondo, si tratta di farla finita per sempre con i demoni e con il demoniaco.

In alcuni rari passi dei Vangeli lo stesso Gesù ricorre al linguaggio dell’espulsione e della demonologia. Il passo più importante si presenta come un dibattito con interlocutori ostili. Si tratta di un testo capitale, che appare nei tre Vangeli sinottici. Eccolo nella versione più ricca, quella di Matteo. Gesù ha appena guarito un posseduto. La folla è in ammirazione ma i membri dell’élite religiosa, i «farisei» per Matteo, gli «scribi» nel testo di Marco, giudicano questa guarigione sospetta:

 

«E tutta la folla sbalordita diceva: “Non è forse costui il figlio di Davide?”. Ma i farisei, sentendo questo, dissero: “Costui scaccia i demoni soltanto per mezzo di Beelzebùl, il principe dei demoni”.

«Egli, conoscendo i loro sentimenti, disse loro: “Ogni regno diviso contro se stesso va verso la rovina, e nessuna città, nessuna casa, divisa contro se stessa può reggersi. Ora, se Satana scaccia Satana, vuol dire che è diviso contro se stesso; ma allora, come potrà reggersi il suo regno? E se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebùl, i vostri adepti per mezzo di chi li scacciano? Così loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni grazie allo Spirito di Dio, allora per voi è giunto il Regno di Dio”» (Mt, 12, 23-28).

 

È impossibile leggere in una sola volta questo testo. La lettura immediata sfocia in una lettura mediata, più profonda. Cominciamo con la lettura immediata. Nella prima frase vediamo dapprima soltanto un principio indiscutibile ma banale, quello che la saggezza delle nazioni ha conservato. La lingua inglese ne ha fatto una specie di massima: Every kingdom divided against itself... shall not stand.

La frase successiva appare dapprima come un’applicazione dello stesso principio: «Ora, se Satana scaccia Satana, vuol dire che è diviso contro se stesso; ma allora, come potrà reggersi il suo regno?». Gesù non risponde, ma la risposta è evidente. Se è diviso contro se stesso, il regno di Satana non si reggerà. Se i farisei sono veramente ostili a Satana, non dovrebbero rimproverare a Gesù di scacciare Satana per mezzo di Satana; anche se avessero ragione, ciò che Gesù ha appena fatto contribuirebbe alla distruzione finale di Satana.

Ma ecco adesso un’altra supposizione e un’altra domanda: «E se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebùl, i vostri adepti per mezzo di chi li scacciano?...». Se la mia azione viene dal diavolo, da dove viene la vostra e quella dei vostri adepti, dei vostri figli spirituali? Gesù ritorce l’accusa sui suoi critici: sono loro che scacciano per mezzo di Satana, mentre lui rivendica per se stesso un tipo di espulsione radicalmente diverso, un’espulsione per mezzo dello Spirito di Dio: «Ma se io scaccio i demoni grazie allo Spirito di Dio, allora per voi è giunto il Regno di Dio».

Gesù sembra impegnato in un rilancio polemico necessariamente sterile. Tra guaritori rivali, ognuno pretende di essere l’unico a praticare la «giusta espulsione», quella più efficace, più ortodossa, quella che viene da Dio, mentre tutti gli altri praticano quella che viene dal diavolo. Ci troviamo in un gioco di concorrenza mimetica nel quale ciascuno, appunto, espelle l’altro, un po’ come Edipo e Tiresia, i profeti rivali nell’Edipo re di Sofocle. La violenza è quindi dovunque, e tutto si riduce a una questione di forza. Proprio questo suggerisce il seguito del brano che non ho ancora citato, dove i rapporti tra le due espulsioni sono rappresentati in modo caricaturalmente violento:

 

«O ancora, come potrebbe qualcuno penetrare nella casa di un uomo forte e rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa» (Mt, 12, 29).

 

Il primo uomo forte, qui, è il diavolo presentato come il proprietario legittimo o perlomeno il primo occupante della dimora. L’uomo ancora più forte che domina il primo è Dio. Questo non è il modo di vedere di Gesù. Dio non è un volgare scassinatore. Gesù adotta il linguaggio dei suoi interlocutori, il linguaggio delle espulsioni rivali, per metterne in evidenza il sistema, quello della violenza e del sacro. Dio è certamente più forte di Satana, ma se lo è nel senso qui indicato, è soltanto un altro Satana.

I Geraseni danno proprio questo tipo di interpretazione dell’azione clamorosa di Gesù nella loro comunità. Hanno con sé un uomo forte, la Legione demoniaca. Questo proprietario rende loro dura la vita, ma mantiene una specie di ordine. Ecco adesso Gesù, che dev’essere ancora più forte perché riduce il loro uomo forte all’impotenza. I Geraseni hanno paura che Gesù si impadronisca di tutti i loro beni. Per questo gli chiedono senza esitazione di andarsene. Non hanno voglia di scambiare un primo padrone tirannico con un secondo più tirannico ancora.

Gesù adotta il linguaggio del suo universo, che d’altronde è sovente il linguaggio degli stessi Vangeli. Gli evangelisti non sanno molto bene in quale punto si trovano. Il loro testo è straordinariamente ellittico, forse mutilato. Ciononostante, Matteo intuisce chiaramente che non bisogna prendere ogni cosa alla lettera. Nelle parole che abbiamo appena citato c’è tutta un’ironia che aspetta di essere liberata, tutto un carico di senso che sfugge al livello polemico più immediatamente visibile, probabilmente l’unico che gli interlocutori di Gesù, e oggigiorno la maggior parte dei lettori, percepiscono. Matteo fa precedere la citazione da un avvertimento significativo: «conoscendo i loro sentimenti, [Gesù] disse loro...».

Marco non inserisce questo avvertimento, ma ne ha un altro ancora più rivelatore: ci avverte che si tratta di una parabola (Mc, 3, 23). Ritengo che il passo sia importante anche per la definizione del discorso parabolico: si tratta di un discorso indiretto che può ricorrere a elementi narrativi, ma non necessariamente, giacché qui non ve ne sono. L’essenza della parabola, nel suo uso evangelico, è il rinchiudersi volontario da parte di Gesù nella rappresentazione persecutoria a beneficio di persone che non possono intendere altro, essendovi loro stesse rinchiuse. Gesù utilizza le risorse del sistema in modo tale da avvertire gli uomini di ciò che li aspetta nell’unico linguaggio che capiscono e, così facendo, rivela sia la fine prossima del sistema in questione, sia le incoerenze, le contraddizioni interne dei loro discorsi. Allo stesso tempo, egli spera di far vacillare il sistema nella mente dell’ascoltatore e di portare quest’ultimo a conferire alle sue parole un secondo senso – più vero ma più difficile perché estraneo alla violenza persecutoria –, il senso che questa violenza rivela e l’effetto di chiusura che essa produce in ciascuno di noi.

Alla luce delle nostre analisi, vediamo facilmente che l’idea di un secondo senso non è illusoria. Il testo dice veramente molte più cose di quelle che finora ne abbiamo ricavato. Riassume l’essenziale dei nostri risultati e formula chiaramente il principio che io stesso ho messo in evidenza, quello della violenza che si autoespelle, mediante la violenza, per fondare tutte le società umane.

A prima vista – l’ho appena detto – l’idea che ogni comunità divisa contro se stessa corra verso la propria perdizione appare veridica, ma si tratta di un luogo comune. Per avviare il dibattito, Gesù enuncia una proposizione sulla quale chiunque è d’accordo.

La seconda frase appare allora come un caso particolare della prima. Ciò che è vero per ogni regno, per ogni città, per ogni casa, dev’essere vero anche per il regno di Satana.

Ma il regno di Satana non è un regno come gli altri. I Vangeli affermano espressamente che Satana è il principio di ogni regno. In quale modo Satana può essere questo principio? Come principio dell’espulsione violenta e della menzogna che ne risulta. Il regno di Satana non è altro che la violenza che si autoespelle, in tutti i riti e gli esorcismi a cui i farisei hanno appena fatto allusione, ma anche, e più originariamente, nell’azione fondatrice e nascosta che serve da modello a tutti quei riti, l’assassinio unanime e spontaneo di un capro espiatorio. La seconda frase ci presenta dunque la definizione complessa e completa del regno di Satana. Non enuncia soltanto ciò che un giorno finirà per distruggere Satana, ma ciò che lo fa nascere e ne instaura il potere, il suo principio costitutivo. Il fatto strano, naturalmente, è che il principio costitutivo e il principio della distruzione ultima siano tutt’uno. C’è di che sconcertare chi non capisce, ma niente che possa sconcertare noi. Noi infatti sappiamo con certezza che il principio del desiderio mimetico, delle sue rivalità, delle divisioni interne che suscita, è tutt’uno con il principio dell’unificazione sociale, anch’esso mimetico, il principio del capro espiatorio.

Si tratta di quello stesso processo a cui abbiamo già assistito più volte. Ecco perché all’inizio dell’assassinio di Giovanni Battista c’è una lite tra fratelli nemici, come ce n’è una all’inizio di un’infinità di miti. Un fratello finisce normalmente con l’uccidere l’altro, per dare agli uomini una norma.

Invece di essere la semplice applicazione di un principio posto nella prima frase, la seconda frase pone il principio di cui la prima enuncia le applicazioni. Bisogna invertire l’ordine delle frasi e rileggere il testo cominciando dalla fine. Si capirà allora perché la prima frase sia rimasta presente nella memoria dei popoli. In essa c’è in verità un che di insolito che suggerisce qualcosa al di là della saggezza banale che per prima balza agli occhi. La Bible de Jérusalem mal suggerisce questo «al di là», perché non ripete l’aggettivo iniziale ogni che appare due volte nell’originale greco. «Ogni regno diviso contro se stesso va verso la rovina, e ogni città, divisa contro se stessa...». La ripetizione di ogni accentua l’impressione di simmetria fra tutte le forme di comunità qui menzionate. Il testo enumera tutte le società umane dalla più grande alla più piccola, il regno, la città, la casa. Per ragioni che dapprima ci sfuggono, si preoccupa di non ometterne alcuna e la ripetizione di ogni accentua questa volontà di cui non vediamo il significato a livello di senso immediato. Eppure non si tratta di qualcosa di fortuito o di un effetto stilistico privo di ricadute sul senso. Vi è un secondo significato che non può sfuggirci.

Ciò che il testo suggerisce con insistenza è il fatto che tutti i regni, tutte le città e tutte le case sono effettivamente divise contro se stesse. In altri termini, tutte le comunità umane senza eccezione dipendono dallo stesso principio, simultaneamente edificatore e distruttore, posto nella seconda frase: sono tutti esempi del regno di Satana, e questo regno di Satana, ovvero questo regno della violenza, non è certo un esempio qualsiasi di società, nell’accezione empirica dei nostri sociologi.

Le prime due frasi sono dunque più ricche di quanto non sembri; in esse si riassume un’intera sociologia, un’intera antropologia fondamentale. Ma non è tutto qui. Grazie a questa luce iniziale si illuminano parimenti la terza e soprattutto la quarta frase, apparentemente la più enigmatica: «E se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebùl, i vostri adepti per mezzo di chi li scacciano? Così loro stessi saranno i vostri giudici».

L’originale greco non dice adepti, ma figli. Perché mai i figli spirituali, ossia i discepoli, gli imitatori, diventerebbero i giudici dei loro maestri e modelli? In greco, giudici è kritai, una parola che evoca l’idea di crisi e di divisione. Sotto l’effetto dei rilanci mimetici, la divisione interna di ogni comunità «satanica» si acuisce; la differenza tra violenza legittima e violenza illegittima si affievolisce, le espulsioni diventano reciproche; i figli riproducono e rafforzano le violenze dei loro padri con risultati sempre più deplorevoli per tutti; finiscono dunque per capire quanto c’era di nefasto nell’esempio paterno e maledicono i loro padri. Danno su tutto ciò che li precede, come noi stessi facciamo oggi, un giudizio negativo anch’esso ugualmente implicito nella parola kritai.

A prima vista sembra che dal nostro testo emerga l’idea che esista una violenza divina e che essa sia la più forte di tutte; è un’idea addirittura esplicita, qui come nel racconto del miracolo di Gerasa, ma al di là di una certa soglia la lettura si inverte e ci accorgiamo che non c’è affatto espulsione divina, o piuttosto che essa c’è unicamente per la rappresentazione persecutoria, per lo spirito di accusa reciproca, ossia per Satana stesso. La forza d’espulsione viene sempre da Satana e Dio non ha niente a che vedere con essa: questa forza è più che sufficiente per porre fine al «regno di Satana». Sono gli uomini divisi dal loro mimetismo, «posseduti» da Satana, che si espellono reciprocamente fino all’estinzione totale.

Ma se la divisione contro se stessi (la rivalità mimetica) e l’espulsione dell’espulsione (il meccanismo del capro espiatorio) non sono soltanto princìpi di decomposizione per le società umane, ma anche princìpi di ricomposizione, perché Gesù non tiene in nessun conto questo secondo aspetto alla fine delle sue frasi, tutte annunciatrici di distruzione soltanto, tutte puramente apocalittiche? Non mi sarò forse sbagliato credendo di individuare in questo testo il paradosso della violenza mimetica, fonte sia di ordine sia di disordine? Il testo non sarà forse grossolanamente polemico, inconsciamente mimetico e bassamente dualista come la lettura immediata suggerisce, quella che la pigrizia malevola adotta subito e non cerca mai di superare?

Satana non finisce mai, a quanto sembra, di espellere Satana e non c’è ragione perché debba finire in un avvenire prevedibile. Gesù parla come se il principio satanico avesse esaurito la sua potenza di ordine, come se ogni ordine sociale dovesse ormai soccombere al proprio disordine. Il principio d’ordine figura senz’altro nelle nostre due frasi, ma allo stato di semplice allusione, per un effetto di stile, come se si trattasse di una cosa più o meno compiuta, condannata dalla corsa alla distruzione che costituisce qui il solo messaggio esplicito, l’unico accessibile alla maggior parte dei lettori.

Il significato di ordine è certo presente, ma è questa presenza, appunto, a determinare il carattere propriamente di vestigia del trattamento di cui è oggetto. Perché? Perché l’ordine violento della cultura rivelato dappertutto nei Vangeli, principalmente nella passione ma anche in tutti i testi che abbiamo letto e infine in questo, non può sopravvivere alla propria rivelazione.

Il meccanismo fondatore rivelato, il meccanismo del capro espiatorio – l’espulsione della violenza mediante la violenza –, è reso caduco dalla sua rivelazione. Non ha più molto interesse. Ciò che interessa i Vangeli è l’avvenire aperto all’umanità da questa rivelazione, dalla fine del meccanismo satanico. Se i capri espiatorii non possono più salvare gli uomini, se la rappresentazione persecutoria crolla, se la verità brilla nelle prigioni, non è una cattiva notizia, ma una buona: non c’è un Dio violento; il vero Dio non ha niente a che vedere con la violenza e non si rivolge più a noi tramite lontani intermediari, bensì direttamente. Il Figlio che egli ci invia è tutt’uno con lui. L’ora del Regno di Dio è suonata.

Se io scaccio i demoni grazie allo Spirito di Dio, allora per voi è giunto il Regno di Dio. Il Regno di Dio non ha niente in comune con il regno di Satana e con i regni di questo mondo fondati sul principio satanico della divisione contro se stessi e dell’espulsione. Il Regno di Dio non pratica nessuna espulsione.

Gesù accetta di discutere il suo agire in termini di espulsione e di violenza perché questi sono gli unici termini che i suoi interlocutori sono capaci di intendere. Ma lo fa per comunicare loro un evento che non è misurabile con questo stesso linguaggio. Se io scaccio i demoni grazie allo Spirito di Dio, allora presto non si parlerà più né di demoni né di espulsioni, perché il regno della violenza e dell’espulsione va verso la sua rovina ora, nell’immediato: l’attesa è finita. Per voi è giunto il Regno di Dio. Gli ascoltatori sono coinvolti direttamente. Il Regno arriva come il fulmine. Ha tardato a lungo, come lo sposo delle vergini folli e delle vergini sagge, ma tutto a un tratto eccolo qui.

Il Regno di Dio è giunto per voi che mi ascoltate in questo momento, ma non ancora per quei Geraseni che ho lasciato senza dire loro niente, perché non si trovano al vostro stesso livello. Gesù interviene quando i tempi sono maturi; in altri termini, quando la violenza non può più espellere la violenza, e quando la divisione contro se stessi raggiunge il punto critico, ossia il punto della vittima espiatoria, che diviene stavolta il punto di non ritorno, perché, anche se questa vittima riporta in apparenza e per un certo tempo l’antico ordine, in realtà lo distrugge per sempre, senza minimamente espellerlo, facendosene al contrario espellere e rivelando agli uomini il mistero di questa espulsione, il segreto che Satana non si sarebbe dovuto lasciar sfuggire: su questo segreto infatti poggia la dimensione positiva del suo potere, la potenza ordinatrice della violenza.

Sempre attento agli aspetti storici della rivelazione, Matteo fa fare ai suoi due posseduti, nel racconto di Gerasa, discorsi che compaiono solamente nel suo testo e che indicano uno scarto temporale tra l’universo sottomesso alla legge e gli universi che non lo sono: «Che cosa vuoi da noi, tu, Figlio di Dio? Sei venuto qui per tormentarci prima del tempo?» (Mt, 8, 29).

Questo lamento è significativo, nel contesto delle nostre analisi. La folla di Gerasa, come dicevo, è meno folla rispetto alle folle senza pastore alle quali Gesù è abituato a predicare. La comunità resta più «strutturata». E lo deve al suo paganesimo. Non si tratta naturalmente di esaltare il paganesimo a spese dell’ebraismo, quanto piuttosto di indicare che non è giunto allo stesso punto critico della sua evoluzione.

La crisi ultima che determina la rivelazione ultima è specifica e insieme non lo è. Nel suo principio non si distingue dall’usura di tutti i sistemi sacrificali fondati sull’espulsione «satanica» della violenza mediante la violenza. La rivelazione biblica, e poi evangelica, rende questa crisi irrimediabile, nel bene e nel male. Svelando il segreto della rappresentazione persecutoria impedisce, alla lunga, al meccanismo vittimario di funzionare e di generare, nel parossismo del disordine mimetico, un nuovo ordine di espulsione rituale suscettibile di sostituire quello che si è decomposto.

Presto o tardi, il fermento evangelico deve provocare il crollo della società dove penetra e di tutte le società analoghe, anche di quelle che sembrano a prima vista dipendere esclusivamente dalla sua rivelazione, le cosiddette società cristiane, che effettivamente dipendono da questo fermento, ma in modo ambiguo e sulla base di un malinteso parziale, un malinteso necessariamente sacrificale, radicato nella somiglianza ingannevole dei Vangeli con tutti i testi religiosi mitologici. «Le case crollano l’una sull’altra» ci dice Marco, ma questo crollo non è un’espulsione più forte perché venuta da Dio o da Gesù, è al contrario la fine di ogni espulsione. Proprio per questo l’avvento del Regno di Dio significa distruzione per coloro che non intendono altro che distruzione, e riconciliazione per coloro che cercano di riconciliarsi.

La logica del regno che non regge se si divide continuamente contro se stesso è stata sempre vera in assoluto, ma non è mai stata vera nella storia reale grazie al meccanismo dissimulato della vittima espiatoria, che ne ha ogni volta allontanato la scadenza restituendo vigore alla differenza sacrificale, all’espulsione violenta della violenza. Ma adesso questa scadenza arriva nella realtà storica, dapprima per gli Ebrei, che sono i primi a intendere Gesù, e poi per i pagani, i Geraseni del mondo moderno, che si sono sempre comportati con Gesù un po’ come quelli del Vangelo nel momento stesso in cui ufficialmente si richiamano a lui. Essi si rallegrano nel vedere che non succede niente di irrimediabile alle loro comunità, e pensano di aver provato che i Vangeli peccano di catastrofismo immaginario.

 

 

Una prima lettura dei demoni di Gerasa ci dà l’impressione che tutto poggi sulla logica della doppia espulsione. La prima espulsione non raggiunge mai risultati decisivi: è il piccolo intrigo dei demoni e dei loro Geraseni, che in fondo si intendono a meraviglia. La seconda è quella di Gesù, ed è una bonifica così radicale che finisce col portarsi via anche la casa assieme ai suoi abitanti. Questa doppia espulsione, l’una interna al sistema e che lo stabilizza, l’altra esterna a questo stesso sistema e che lo distrugge, appare esplicitamente nel testo che abbiamo appena letto: «E se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebùl... se io scaccio i demoni grazie allo Spirito di Dio...». Una comprensione più profonda mostra che la potenza divina non è distruttrice: essa non espelle nessuno. È la verità offerta agli uomini a scatenare le forze sataniche, il mimetismo distruttivo, privandolo del suo potere di autoregolazione. L’equivoco fondamentale di Satana comporta un equivoco superficiale quanto spiegabile a proposito dell’azione divina. Gesù porta la guerra nell’universo satanico in sé sdoppiato, perché fondamentalmente porta la pace. Gli uomini non capiscono, oppure fanno finta di non capire. Il nostro testo è mirabilmente costruito per adattarsi nello stesso tempo ai lettori che capiscono come a quelli che non capiscono. Le frasi sui gruppi umani, tutti quanti divisi contro se stessi, e su Satana che scaccia Satana, stanno a significare sia il potere di autoregolazione del mimetismo satanico sia la perdita di questo potere. Il testo non enuncia esplicitamente l’identità del principio dell’ordine con il principio del disordine, ma la realizza in frasi a doppio senso, con un potere di fascinazione inesauribile perché presentano in chiaroscuro una verità sulla quale non bisogna attirare troppo l’attenzione, allo scopo di farla funzionare nel testo esattamente come funziona nella realtà. Se non la si vede, si è nell’universo satanico e si resta al livello della prima lettura, si crede che esista una violenza divina, rivale della violenza di Satana: si resta dunque prigionieri della rappresentazione persecutoria. Se la si vede, si comprende che il regno satanico va verso la perdizione per il fatto stesso che questa verità è rivelata, e si sfugge alla rappresentazione persecutoria.

Si comprende allora che cosa sia il Regno di Dio, e perché non rappresenti per gli uomini un beneficio esente da contropartita. Esso non ha nulla a che fare con la visione edenica di mandrie al pascolo su prati eternamente fioriti. Impegna gli uomini nel confronto più difficile della loro storia. Rispetto a noi, gli abitanti di Gerasa hanno qualcosa di onesto e di simpatico. Non si comportano ancora come capricciosi clienti della società dei consumi. Ammettono che avrebbero qualche difficoltà a vivere senza demoni e capri espiatorii.

In tutti i testi che abbiamo letto sussiste ancora la prospettiva demonologica, ma essa si scardina da sola. Per completare la sua disfatta, basta estendere appena la giurisdizione di questo skandalon, che lo stesso Gesù teorizza e la cui prodigiosa potenza operativa abbiamo constatato ovunque. I testi che ho commentato sono rappresentativi – credo – di tutto ciò che si trova nei Vangeli sinottici.

Per completare, insomma, la disfatta del demonio, basta orientare il testo nella direzione che Gesù stesso raccomanda, quella dello skandalon e di tutto ciò che questo termine esprime, ossia la problematica del mimetismo e delle sue espulsioni.

Non è dunque senza ragione che Marco e Matteo ci avvertono di non fermarci alla lettera, davanti al più grande di tutti i testi demonologici messi in bocca a Gesù. Basta consultare un dizionario per constatare che la distorsione operata in questo testo sul significato corrente della nozione di parabola deve pur riallacciarsi a ciò che fa di esso una specie di concessione alla rappresentazione mitologica e violenta, quella proveniente dall’assassinio collettivo del capro espiatorio.

Aprite il vostro dizionario di greco alla voce paraballo. Il primo significato del verbo dimostra subito quanto abbiamo detto, giacché ci riporta appunto all’assassinio collettivo. Paraballo significa gettare qualcosa in pasto alla folla per placare la sua sete di violenza, preferibilmente una vittima, un condannato a morte: è così, evidentemente, che ci si tira fuori da una situazione spinosa. Per impedire alla folla di rivoltarsi contro l’oratore, questi ricorre alla parabola, ossia alla metafora. Non c’è discorso che, al limite, non sia una parabola: anzi, il linguaggio umano nel suo complesso, insieme alle altre istituzioni culturali, non può che derivare dall’assassinio collettivo. Del resto, dopo le parabole più sferzanti di Gesù, quelle che fanno più colpo, la folla minaccia talvolta di reagire con la violenza, alla quale tuttavia egli sfugge perché la sua ora non è ancora venuta.

Avvertire i lettori che Gesù si esprime in parabole significa annunciare loro la distorsione persecutoria perché ne tengano conto. Significa cioè metterli in guardia contro il linguaggio dell’espulsione. Non c’è alternativa. Non vedere la dimensione «parabolica» dell’espulsione significa restare ingannati dalla violenza, significa dunque fare il tipo di lettura che lo stesso Gesù ci avverte di evitare, pur dichiarando allo stesso tempo che è pressoché inevitabile: «I discepoli gli si avvicinarono e gli chiesero: “Perché parli loro in parabole?”. “Perché a voi è dato conoscere i misteri del Regno dei Cieli” egli rispose “mentre a costoro non è dato ... Io parlo loro in parabole perché pur vedendo non vedono e pur udendo non odono e non comprendono”» (Mt, 13, 10-13).

Su questo punto Marco ancora più strettamente di Matteo lega la parabola al sistema di rappresentazione che i Vangeli combattono. A coloro che vivono in questo sistema – egli scrive – tutto avviene in parabole. Di conseguenza, lungi dal tirarci fuori da questo sistema, la parabola, se presa alla lettera, non fa che consolidare i muri della prigione. È questo che le frasi successive esprimono. Sarebbe inesatto dedurne che la parabola non si pone come scopo la conversione dell’ascoltatore. Anche qui Gesù si rivolge ai suoi discepoli: «A voi è stato confidato il mistero del Regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto avviene in parabole, affinché essi abbiano un bel guardare e non vedano, abbiano un bel sentire e non capiscano, di modo che non si convertano» (Mc, 4, 11-12; in corsivo, Is, 6, 9-10).

 

 

Anche nei testi generalmente definiti «arcaici», la credenza nei demoni, che sembra ancora fiorente, tende incessantemente ad annullarsi. È il caso del dialogo sull’espulsione che abbiamo appena letto, e anche il caso del miracolo di Gerasa. Questo processo di annullamento ci sfugge perché si esprime nel linguaggio contraddittorio dell’espulsione espulsa e del demone scacciato. Il demone è respinto in un nulla che in qualche modo gli è «consustanziale», il nulla della sua esistenza.

È proprio questo ciò che significa, in bocca a Gesù, un’espressione quale: «Io vedevo Satana cadere come la folgore».54 Vi è una sola trascendenza nei Vangeli, quella dell’amore divino che trionfa su tutte le manifestazioni della violenza e del sacro, rivelandone il nulla. L’esame dei Vangeli mostra che Gesù preferisce il linguaggio dello skandalon a quello del demoniaco, ma nei discepoli e nei redattori dei Vangeli avviene il contrario. Non bisogna dunque sorprendersi nel constatare un certo scarto tra le parole attribuite a Gesù, quasi sempre folgoranti ma presentate in un ordine non sempre molto coerente, e i passi narrativi, in particolare i racconti dei miracoli, meglio organizzati dal punto di vista letterario ma un po’ meno avanzati rispetto al pensiero che emerge dalle citazioni dirette. Tutto questo si spiegherebbe se i discepoli fossero stati veramente come ci sono descritti nei Vangeli, attenti e pieni di buona volontà, ma non sempre capaci di intendere pienamente ciò che il loro maestro dice. Il racconto del rinnegamento di Pietro mi ha già portato in questa direzione. Si può pensare che dai discepoli dipenda più direttamente l’elaborazione dei passi narrativi che non la trascrizione delle parole di Gesù.

Gesù è l’unico a padroneggiare il linguaggio dello skandalon: i passi più significativi rivelano chiaramente che i due linguaggi si applicano agli stessi oggetti e ci mostrano Gesù intento a tradurre il logos demoniaco in termini di scandalo mimetico. È ciò che fa la famosa apostrofe a Pietro, già citata: «Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo [mi sei di ostacolo], perché i tuoi pensieri non sono quelli di Dio, ma quelli degli uomini». Forse che in questo istante Gesù vede in Pietro il posseduto da Satana, nel senso in cui i cacciatori di streghe usavano questa espressione? La prova che non sia così ce la forniscono le parole che seguono, e che descrivono il comportamento di Pietro come tipicamente umano: «i tuoi pensieri sono quelli degli uomini e non quelli di Dio».

Il linguaggio dello skandalon sostituisce alla paura delle potenze infernali, sicuramente salutare ma cieca, un’analisi delle ragioni che spingono gli uomini a cadere nella trappola della circolarità mimetica. Esponendo Gesù al contagio tentatore del proprio desiderio mondano, Pietro trasforma la sua missione divina in un’impresa mondana, inevitabilmente destinata a scontrarsi con le ambizioni rivali che non può non suscitare o che l’hanno suscitata, a cominciare dall’ambizione di Pietro. Costui svolge dunque il ruolo di scherano, suppositus, di Satana, il modello-ostacolo del desiderio mimetico.

Esiste una corrispondenza rigorosa tra ciò che i Vangeli ci dicono intorno ai demoni e la verità dei rapporti mimetici formulata da Gesù, e successivamente rivelata da alcuni nostri capolavori letterari e, attualmente, da un’analisi teorica di questi rapporti. Diverso è il caso per quasi tutti i testi che riflettono una credenza nei demoni, anche se la maggior parte dei nostri commentatori non percepisce la distinzione e fa di ogni erba un fascio. Qualsiasi testo che documenti questo genere di credenza sembra loro portatore della medesima superstizione e per ciò stesso viene sdegnosamente rifiutato. In realtà, non lo leggono nemmeno.

Al contrario, i Vangeli non soltanto sono superiori a tutti i testi che recano ancora l’impronta del pensiero magico: sono superiori anche alle interpretazioni moderne proposte da psicologi e psicoanalisti, da etnologi e sociologi, e da ogni altro specialista di scienze umane. E sono superiori sia nella concezione mimetica sia nella capacità di combinare mimetismo e demonologia, come abbiamo visto a proposito dell’episodio dei demoni di Gerasa. La visione demonologica associa l’unità e la diversità di certi atteggiamenti individuali e sociali a una potenza che ci resta inaccessibile. Per questo tanti grandi scrittori, come Shakespeare, Dostoevskij o, ai nostri giorni, Bernanos, hanno dovuto far ricorso al linguaggio dei demoni per sfuggire alla piattezza inefficace del sapere pseudoscientifico della loro epoca e della nostra.

Affermare l’esistenza del demonio significa riconoscere anzitutto che negli uomini opera una certa forza di desiderio e di odio, di invidia e di gelosia, molto più insidiosa e astuta nei suoi effetti, più paradossale e subitanea nei suoi rovesciamenti e nelle sue metamorfosi, più complessa nelle sue conseguenze e più semplice nel suo principio, o persino più semplicistica se vogliamo – il demonio è insieme intelligentissimo e ottuso – rispetto a tutto ciò che ha potuto concepire, da allora, l’ostinazione di certi uomini nel cercar di spiegare gli stessi comportamenti umani senza intervento soprannaturale. La natura mimetica del demonio è esplicita perché, fra l’altro, egli è la scimmia di Dio. Affermando il carattere uniformemente «demoniaco» della trance, della possessione rituale, della crisi isterica e dell’ipnosi, la tradizione afferma un’unità di tutti questi fenomeni che è reale e, se si vuole veramente far progredire la psichiatria, occorrerà scoprirne il fondamento comune. Jean-Michel Oughourlian intende dimostrare quale sia questo fondamento: il mimetismo conflittuale.

C’è un punto, tuttavia, nel quale il tema demoniaco rivela la sua superiorità: nella sua capacità, finora ineguagliabile, di riunire in un’unica entità sia la forza di divisione – diabolos –, gli «effetti perversi», la potenza generatrice di ogni disordine a tutti i livelli nei rapporti umani, sia la potenza di unione, la potenza ordinatrice del sociale. Questo tema compie senza sforzo ciò che sociologia, antropologia, psicoanalisi, come pure ogni teoria della cultura, cercano di compiere senza mai riuscirci. I Vangeli sono portatori del principio che permette di distinguere la trascendenza sociale dall’immanenza delle relazioni individuali e, simultaneamente, di unificarle, ossia di dominare il rapporto tra ciò che la psicoanalisi francese chiama oggi il simbolico e l’immaginario.

Il demoniaco rende giustizia, da un lato, a tutte le tendenze al conflitto nei rapporti umani, a tutte le forze centrifughe in seno alla comunità e, dall’altro, alla forza centripeta che riunisce gli uomini, al cemento misterioso che tiene assieme questa stessa comunità. Per trasformare questa demonologia in un vero sapere, bisogna seguire la strada indicata dai Vangeli e portare a termine l’opera che essi hanno iniziato. Ci si accorgerà allora che si tratta precisamente della stessa forza che nelle rivalità mimetiche divide, e nel mimetismo unanime del capro espiatorio riunisce.

Giovanni parla evidentemente di questo, quando presenta Satana come «mentitore e padre della menzogna» nella sua veste di «omicida fin dal principio» (Gv, 8, 44). È proprio questa menzogna che la passione di Cristo scredita, mostrando l’innocenza della vittima. Se la disfatta di Satana è stata localizzata con estrema precisione nell’istante stesso della passione, è perché il racconto veridico di questo evento fornisce agli uomini ciò di cui hanno bisogno per sfuggire all’eterna menzogna, per riconoscere la calunnia di cui la vittima è oggetto. È grazie alla sua ben nota abilità mimetica che Satana riesce ad accreditare la menzogna di una vittima colpevole. Satana in ebraico significa l’accusatore. Tutti i significati, tutti i simboli si incastrano rigorosamente per costruire un unico edificio di una razionalità senza aporie. Dovremmo dunque credere che si tratti di pure coincidenze? Come può un esercito di ricercatori appassionati di comparativismo e di strutture che si incastrino fra loro restare insensibile a questa perfezione?

Man mano che la crisi mimetica si aggrava, che il desiderio e i suoi conflitti diventano immateriali e privi di oggetto, l’evoluzione si fa sempre più «perversa», incoraggiando così la credenza nel mimetismo come uno spirito in sé, cioè la tendenza inevitabile a trasformare rapporti sempre più ossessivi in un’entità relativamente autonoma. La prova che la demonologia non si è fatta ingannare del tutto da questa autonomia è che essa ha da sempre rivelato il bisogno assoluto che hanno i demoni di possedere un essere vivente al fine di perpetuarsi. Il demonio non ha un grado di essere sufficiente per esistere al di fuori di questa possessione. Ma meno gli uomini resistono alle sollecitazioni mimetiche – la grande scena della tentazione nel deserto ne enumera le modalità principali – e più il demonio acquista esistenza e vigore. La modalità più significativa è l’ultima, quella che ci mostra Satana desideroso di sostituirsi a Dio come oggetto di adorazione, cioè come modello di un’imitazione perennemente sottoposta all’ostacolo della rivalità. La prova che questa imitazione fa di Satana lo skandalon mimetico sta nella risposta di Gesù, quasi identica a quella che riceve Pietro allorché si fa trattare da Satana: è lo stesso verbo greco, hypage, «sta’ lontano, indietreggia», che appare in entrambi i casi e indica l’ostacolo scandaloso. Adorare Satana significa aspirare alla dominazione del mondo, cioè ad entrare con l’altro in rapporti di idolatria e di odio reciproci, rapporti che porteranno necessariamente ai falsi dèi della violenza e del sacro finché gli uomini potranno perpetuarne l’illusione, e alla distruzione totale il giorno in cui questa illusione non sarà più possibile:

 

«Il diavolo conduce di nuovo [Gesù] sopra un monte altissimo, gli mostra tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli dice: “Tutto questo io te lo darò, se tu cadrai ai miei piedi e mi adorerai”. Allora Gesù gli risponde: “Lungi da me, Satana! Perché sta scritto:

Adorerai il Signore Dio tuo
E a lui solo renderai culto”».

 (Mt, 4, 8-10)

XV

LA STORIA E IL PARACLETO

Tutti i passi dei Vangeli che abbiamo esaminato si ricollegano a fenomeni di persecuzione collettiva screditati e condannati nello stesso senso in cui screditiamo e condanniamo fenomeni analoghi della nostra storia. I Vangeli contengono tutta una serie di testi che possono applicarsi a situazioni molto diverse, tutto ciò insomma di cui gli uomini hanno bisogno per considerare criticamente le loro rappresentazioni persecutorie e per resistere ai meccanismi mimetici e violenti che li rinchiudono dentro queste rappresentazioni.

L’azione concreta dei Vangeli su questi problemi comincia visibilmente con le violenze contro coloro che i cristiani chiamano i loro martiri, nei quali noi vediamo degli innocenti perseguitati. La storia ci ha trasmesso questa verità. La prospettiva dei persecutori non ha prevalso, e questa è la constatazione fondamentale. Perché ci sia del sacro in senso mitologico, bisogna che la glorificazione della vittima si effettui sulla base stessa della persecuzione. Bisogna che i crimini immaginati dai persecutori siano considerati veri.

Nel caso dei martiri, le accuse non mancano. Su di loro circolano le dicerie più deliranti, alle quali prestano fede persino scrittori illustri. Si accusano i cristiani dei crimini classici degli eroi mitologici e delle violenze popolari: l’infanticidio e i crimini contro la propria famiglia. La loro intensa vita comunitaria li rende sospetti di violare i tabù dell’incesto. Queste trasgressioni, unite al rifiuto di adorare l’imperatore, acquistano agli occhi delle folle, nonché delle autorità, una portata sociale: se Roma brucia, probabilmente sono stati i cristiani ad appiccare il fuoco.

Se tutti questi crimini venissero incorporati nell’apoteosi finale, si assisterebbe a una genesi mitologica, e il santo cristiano sarebbe allora un eroe mitologico. Riunirebbe in sé il benefattore soprannaturale e l’agitatore onnipotente, capace di castigare ogni trascuratezza, ogni indifferenza nei suoi confronti, inviando qualche flagello; infatti, ciò che caratterizza essenzialmente il sacro mitologico è la sua natura malefica e benefica a un tempo. Se, quando lo prendiamo in considerazione, abbiamo l’impressione di una doppia trascendenza, di una congiunzione paradossale, è perché esaminiamo la cosa da un punto di vista cristiano, da noi considerato come la norma, mentre in realtà è un punto di vista unico.

L’innocenza del martire non è mai messa in dubbio. «Mi hanno odiato senza una causa». Le conquiste della passione si trasformano in verità concrete. Lo spirito di vendetta combatte vigorose lotte di retroguardia, ma non per questo i martiri cessano di pregare per i loro carnefici: «Padre mio, perdonali perché non sanno quello che fanno».

Certo, gli uomini non hanno aspettato il cristianesimo per riabilitare alcune vittime innocenti. Si citano sempre Socrate, Antigone, e altri ancora, e con ragione. Sotto qualche aspetto, i loro casi presentano una certa somiglianza con la visione cristiana del martirio, ma in realtà sono sempre casi molto personali e non riguardano la società umana in sé e per sé. La singolarità del martirio cristiano deriva dal fatto che la sacralizzazione fallisce nelle condizioni più favorevoli al suo successo: l’emozione della folla, la passione persecutoria e religiosa. Prova ne sia la presenza di tutti gli stereotipi della persecuzione: agli occhi della maggioranza, infatti, i cristiani sono una minoranza inquietante, ricca di segni di selezione vittimaria. Non solo appartengono perlopiù alle classi inferiori, ma sono in gran parte donne e schiavi.

Ma nulla viene trasfigurato. La rappresentazione persecutoria si manifesta per quello che è. La canonizzazione non è una sacralizzazione. Nella glorificazione dei martiri, e più tardi nelle vite dei santi medioevali, esistono certamente alcune sopravvivenze di sacro primitivo. Ne ho menzionate alcune a proposito di san Sebastiano. D’altronde, i meccanismi della violenza e del sacro hanno una parte nel fascino che esercitano i martiri. Si dice che vi sia nel sangue anticamente versato una virtù che tenderebbe a esaurirsi, se del sangue fresco di tanto in tanto non venisse a riattivarla. È perfettamente vero nel caso dei martiri cristiani ed è un fattore importante nell’espansione del fenomeno, nella sua potenza di diffusione. Ma l’essenziale sta altrove.

Per la maggior parte, gli interpreti, anche cristiani, insistono ormai solo sulle vestigia sacrificali. Essi credono di aver scoperto la cerniera tra gli aspetti teologici del cristianesimo, che sarebbero puramente sacrificali, e la sua efficacia sociale, anch’essa sacrificale. Hanno colto un aspetto reale ma secondario, che nelle loro indagini non dovrebbe coprire la specificità del processo cristiano, che agisce nella direzione contraria a quella del sacrificio, ossia nella direzione della rivelazione.

Il fatto che due azioni opposte possano combinarsi è paradossale soltanto in apparenza. O meglio, esso riproduce il paradosso della passione e dei Vangeli nella loro interezza, i quali si prestano a cristallizzazioni mitologiche secondarie e superficiali in quanto devono riprodurre il processo mitologico con la massima esattezza possibile, così da portarlo alla luce e sovvertirlo nel profondo.

Anche una teologia puramente sacrificale dei Vangeli deve fondarsi in ultima analisi sull’Epistola agli Ebrei, e questa non legittima affatto l’importanza esclusiva data alle frange sacrificali nel fenomeno dei martiri. L’Epistola non riesce – credo – a cogliere la vera singolarità della passione, ma ottiene il notevole risultato di presentare la morte di Cristo come il sacrificio perfetto e definitivo, che rende caduco ogni altro sacrificio e, di conseguenza, irricevibile ogni impresa sacrificale posteriore. Questa definizione lascia ancora in ombra quello che sto cercando di delimitare, ossia l’assoluta specificità del cristianesimo, ma è sufficiente a impedire la ricaduta pura e semplice nella tradizione primitiva e ripetitiva del sacrificio, proprio ciò che si ottiene con una lettura del martirio che si limiti ai meccanismi della violenza e del sacro.

Il fallimento della genesi mitologica, nel caso dei martiri, permette agli storici di cogliere, per la prima volta su vasta scala, le rappresentazioni persecutorie, e le corrispondenti violenze, sotto una luce razionale. Sorprendiamo le folle in piena attività mitopoietica, e la cosa non è poi così bella come immaginano i nostri teorici del mito e della letteratura. Fortunatamente per l’umanesimo anticristiano, è ancora possibile negare che in questo caso si tratti di quel processo che ovunque altrove genera la mitologia.

Per il solo fatto di essere rivelato dalla passione, il meccanismo del capro espiatorio non ha più efficacia bastante a produrre un autentico mito. Non si può dunque dimostrare direttamente che si tratta dello stesso meccanismo generatore. Se, per converso, tale meccanismo avesse conservato la sua efficacia, ora non vi sarebbe cristianesimo, bensì un’altra mitologia, e tutto ci apparirebbe sotto la forma ogni volta trasfigurata dei temi e motivi autenticamente mitologici. Il risultato finale non cambierebbe: nemmeno in questo caso saremmo in grado di riconoscere il meccanismo generatore. Chi riuscisse a coglierlo sarebbe accusato di prendere le parole per cose e di inventare una persecuzione reale dietro la nobile immaginazione mitologica.

La dimostrazione è possibile, e spero di averla data, essa è anzi del tutto certa, ma deve servirsi delle vie indirette che noi abbiamo seguito.

Nelle vite dei santi, è sempre la passione a fungere da modello, e a insinuarsi sotto le circostanze particolari di questa o quella persecuzione. Ma non è soltanto un esercizio retorico, di pietà formale, come immaginano i nostri pseudo-demistificatori. La critica delle rappresentazioni persecutorie non poteva che iniziare da qui, e se i suoi risultati sono all’inizio rigidi, maldestri e persino parziali, bisogna considerare che riguardava un processo fino ad allora inconcepibile e tale da esigere un lungo apprendistato.

Mi si obietterà che la riabilitazione dei martiri è un affare di parte, radicato nella comunità di fede tra le vittime e i loro difensori. Il «cristianesimo» difende soltanto le sue vittime. Una volta vittorioso, diventa anch’esso oppressore, tiranno e persecutore. Nei confronti delle proprie violenze, dà prova dello stesso accecamento di coloro che lo avevano perseguitato.

Tutto questo è vero, come lo è la connotazione sacrificale del martirio, ma, ancora una volta, si tratta soltanto di una verità secondaria che dissimula la verità primaria. È in corso una rivoluzione formidabile. Gli uomini, o almeno certi uomini, non si lasciano più sedurre dalle persecuzioni, nemmeno da quelle che fanno appello alle loro credenze, e soprattutto al «cristianesimo». È dal seno dell’universo persecutorio che scaturisce la resistenza alla persecuzione. Penso, naturalmente, al processo che ho descritto all’inizio del presente saggio, alla demistificazione dei cacciatori di streghe, all’abbandono da parte di tutta una società delle forme più grossolane del pensiero magico-persecutorio.

Lungo tutta la storia occidentale, le rappresentazioni persecutorie si indeboliscono e crollano. Questo non sempre significa che le violenze diminuiscono di quantità e di intensità; significa tuttavia che i persecutori non possono più imporre durevolmente il loro modo di vedere agli uomini che li circondano. Ci vollero secoli per demistificare le persecuzioni medioevali, bastano pochi anni per screditare i persecutori contemporanei. Anche se qualche sistema totalitario, in futuro, estendesse la sua influenza sull’intero pianeta, non riuscirebbe a far prevalere il suo mito, ovvero l’aspetto magico-persecutorio del suo pensiero.

È lo stesso processo che si è avuto nel caso dei martiri cristiani, ma ripulito delle ultime tracce di sacro e radicalizzato, giacché non esige nessuna comunità di fede tra le vittime e coloro che demistificano il sistema della loro persecuzione, come dimostra il linguaggio usato, lo stesso linguaggio che usiamo anche noi. Non ne esiste un altro.

In latino classico non c’è alcuna implicazione d’ingiustizia nel termine persequi, che significa semplicemente «perseguire davanti ai tribunali». Saranno gli apologisti cristiani, in particolare Lattanzio e Tertulliano, a dare a persecutio un’inflessione in senso moderno. È l’idea, molto poco romana, di un apparato legale al servizio non della giustizia ma dell’ingiustizia, sistematicamente alterato dalle distorsioni persecutorie. Anche in greco, martyrsignifica soltanto testimone, e sarà l’influenza cristiana a far evolvere la parola verso il senso attuale di innocente perseguitato, di vittima eroica di una violenza ingiusta.

Quando esclamiamo: «La vittima è un capro espiatorio», ricorriamo a un’espressione biblica, che però non ha più, come dicevo, il senso che aveva per i partecipanti al rito omonimo. Ha il senso della pecora innocente di Isaia, o dell’agnello di Dio dei Vangeli. Ogni riferimento esplicito alla passione è scomparso, ma è sempre la passione che viene collocata accanto alla rappresentazione persecutoria; è sempre lo stesso modello che serve da griglia di decifrazione, benché esso sia ormai così ben assimilato che, anche là dove sappiamo servircene, lo facciamo in modo meccanico, senza un esplicito riferimento alle sue origini ebraiche e cristiane.

Quando i Vangeli affermano che Cristo, ormai, ha preso il posto di tutte le vittime, noi vediamo in questa affermazione solamente una religiosità sentimentale ed enfatica, mentre sotto il profilo epistemologico essa è vera alla lettera. Gli uomini hanno imparato a identificare le loro vittime innocenti soltanto quando le hanno messe al posto di Cristo: Raymund Schwager lo ha capito benissimo.55 Naturalmente, l’interesse principale dei Vangeli non sta nell’operazione intellettuale in se stessa, bensì nel cambiamento di atteggiamento che essa rende non necessario, come vorrebbero alcuni, ma almeno possibile.

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, scortato da tutti gli angeli, allora prenderà posto sul trono della sua gloria.

«E saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni, ed egli separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai capri. E porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il Re dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero uno straniero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, incarcerato e siete venuti a trovarmi”.

«Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere, straniero e ti abbiamo ospitato, nudo e ti abbiamo vestito, malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il Re darà loro questa risposta: “In verità vi dico, nella misura in cui avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

«Allora dirà poi a quelli alla sua sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero uno straniero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.

«Allora costoro a loro volta domanderanno: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato, straniero o nudo, malato o in carcere e non ti abbiamo soccorso?”.

«Allora Egli risponderà loro: “In verità vi dico, nella misura in cui non avete fatto queste cose a uno dei fratelli più piccoli, non l’avete fatto nemmeno a me”.

«E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna» (Mt, 25, 31-46).

 

Il testo ha il carattere di una parabola, dato che per rivolgersi ai violenti che ignorano di essere tali ricorre al linguaggio della violenza, ma il suo senso è chiarissimo. Non è il riferimento esplicito a Gesù ormai a contare. Soltanto il nostro atteggiamento concreto di fronte alle vittime determina il nostro rapporto con le esigenze suscitate dalla rivelazione, e quest’ultima può diventare effettiva senza che Cristo stesso venga mai nominato.

Quando il testo evangelico parla della sua diffusione universale, ciò non significa che esso si faccia delle illusioni utopistiche sulla natura delle adesioni di cui sarà oggetto, o sui risultati pratici della lenta e sotterranea penetrazione che parallelamente si compirà. Esso prevede sia l’adesione superficiale di un universo ancora pagano, il Medioevo «cristiano», sia il rigetto indifferente o rabbioso dell’universo posteriore, maggiormente colpito in cuor suo dalla rivelazione e sovente indotto a reagire innalzando contro l’antico cristianesimo paganizzato delle parodie anticristiane dell’universo evangelico. Non è con il grido «Crocifiggetelo» che la morte di Gesù viene infine decisa, bensì con il grido «Liberate Barabba» (Mt, 27, 21Mc, 15, 11Lc, 23, 18).

L’evidenza dei testi mi sembra inconfutabile, ma non la si può segnalare senza sollevare una vera tempesta di proteste, un concerto di vociferazioni pressoché universale, perché anche gli ultimi seguaci dichiarati del cristianesimo vi si uniscono volentieri. Forse i testi sono talmente potenti, ormai, che sembra esserci qualcosa di polemico e di persecutorio nel puro e semplice atto di citarli, di rendere manifesta la loro pertinenza.

Molta gente, d’altra parte, si aggrappa ancora alla visione modernista tradizionale di un cristianesimo essenzialmente persecutorio. Questa visione si basa su due generi di dati troppo diversi in apparenza perché la loro concordanza non sembri decisiva.

A partire da Costantino, il cristianesimo trionfa al livello dello Stato stesso, e molto presto coprirà con la sua autorità persecuzioni analoghe a quelle di cui i cristiani dei primi tempi erano stati vittime. Come tante imprese religiose, ideologiche e politiche successive, un cristianesimo ancora debole subisce le persecuzioni, un cristianesimo forte si trasforma in persecutore.

Questa visione di un cristianesimo altrettanto persecutore, se non addirittura più persecutore, delle altre religioni è rafforzata, anziché diminuita, dalla capacità del mondo occidentale e moderno di decifrare le rappresentazioni persecutorie. Finché questa capacità resta limitata alle immediate vicinanze storiche, ossia all’universo superficialmente cristianizzato, la persecuzione religiosa, cioè la violenza sanzionata o suscitata dal religioso, appare in qualche modo monopolio di questo universo.

D’altra parte, dal XVII secolo gli Occidentali hanno fatto della scienza un idolo, per meglio adorare se stessi. Essi credono in uno spirito scientifico autonomo, del quale sarebbero simultaneamente gli inventori e il prodotto. Ai miti antichi sostituiscono quello del progresso, ovvero il mito di una superiorità moderna propriamente infinita, il mito di un’umanità che si libera e si divinizza a poco a poco con i propri mezzi.

Lo spirito scientifico non può primeggiare. Presuppone una rinuncia alla vecchia preferenza per la causalità magico-persecutoria così ben definita dai nostri etnologi. Alle cause naturali, lontane e inaccessibili, l’umanità ha sempre preferito le cause significative dal punto di vista sociale, e che ammettono un intervento correttivo, vale a dire le vittime.

Per orientare gli uomini verso l’esplorazione paziente delle cause naturali, bisogna innanzi tutto distoglierli dalle loro vittime, e come fare a distoglierli se non mostrando loro che i persecutori odiano senza causa e, ormai, senza risultati apprezzabili? Per operare questo miracolo, non in pochi individui eccezionali come in Grecia, ma presso vaste popolazioni, è necessaria quella straordinaria combinazione di fattori intellettuali, morali e religiosi che è il testo evangelico.

Gli uomini non hanno smesso di dare la caccia alle streghe perché hanno inventato la scienza, ma hanno inventato la scienza perché hanno smesso di dare la caccia alle streghe. Lo spirito scientifico, come lo spirito d’iniziativa in economia, è un sottoprodotto dell’azione esercitata in profondità dal testo evangelico. L’Occidente moderno dimentica la rivelazione per interessarsi unicamente ai suoi sottoprodotti. Ne ha fatto delle armi, degli strumenti di potenza, ed ecco che oggi il processo gli si ritorce contro. Si credeva liberatore e si scopre persecutore. I figli maledicono i padri e si trasformano in loro giudici. In tutte le forme classiche del razionalismo e della scienza, i ricercatori contemporanei trovano sopravvivenze di magia. Lungi dall’uscire di colpo dal cerchio della violenza e del sacro, come immaginavano, i nostri predecessori hanno ricostituito varianti meno forti di miti e rituali.

I nostri contemporanei criticano tutto questo; condannano con durezza l’orgoglio dell’Occidente moderno, ma per cadere in una forma d’orgoglio peggiore. Per non riconoscere le nostre responsabilità nel cattivo uso dei prodigiosi vantaggi che ci sono stati dati, neghiamo la loro realtà. Rinunciamo al mito del progresso per ricadere nel mito ben peggiore dell’eterno ritorno. A giudicare tutto ciò con gli occhi dei nostri sapienti, ormai noi non siamo più fecondati da alcun fermento di verità: la nostra storia non ha senso, la nozione stessa di storia non significa niente. Non vi sono segni dei tempi. Non viviamo la singolare avventura che crediamo di vivere. La scienza non esiste; il sapere non esiste.

La nostra recente storia spirituale somiglia sempre più agli irrigidimenti convulsi di un posseduto che sembra preferire la morte alla guarigione che lo minaccia. Il timore per l’avvento di un sapere percepito come una pericolosa minaccia dev’essere evidentemente assai forte, se ci si barrica in tal modo contro qualsiasi possibilità di sapere. Ho cercato di mostrare che molte cose, nel nostro mondo, sono determinate dall’arresto subìto dalla decifrazione delle rappresentazioni persecutorie. Da secoli ne leggiamo alcune e non ne leggiamo altre. Il nostro potere di demistificazione non si estende al di là dell’ambito che esso stesso definisce storico. Esso si esercita innanzi tutto, e ciò è comprensibile, sulle rappresentazioni più vicine, quelle più facili da decifrare perché già indebolite dalla rivelazione evangelica.

Ma le difficoltà non sono più sufficienti ormai a spiegare il nostro ristagno. La nostra cultura è letteralmente schizofrenica, come ho dimostrato, con il suo rifiuto di estendere alla mitologia classica e alla mitologia primitiva i procedimenti interpretativi che sarebbe legittimo applicarvi. Così facendo, noi cerchiamo, in realtà, di proteggere il mito dell’umanesimo occidentale, il mito rousseauiano della bontà naturale e primitiva dell’uomo.

Di fatto, questi miti non contano poi molto. Sono i meri avamposti di una resistenza più ostinata. Decifrare la mitologia, scoprire il ruolo dei «capri espiatorii» in ogni ordine culturale, risolvere l’enigma del religioso primitivo, significa preparare il ritorno in forze della rivelazione evangelica e biblica. Quando avremo capito veramente i miti, non potremo più considerare il Vangelo un altro mito, dato che è proprio il Vangelo a permetterci di capirli.

Tutta la nostra resistenza è rivolta contro questa luce che ci minaccia. Per tanto tempo ha rischiarato molte cose attorno a noi, ma non rischiarava ancora se stessa. Ci eravamo abituati a credere che provenisse da noi, e ce ne eravamo indebitamente appropriati. Consideravamo luce noi stessi, mentre eravamo solamente testimoni della luce. Ma basterà che il suo splendore e la sua forza aumentino ancora perché essa si volga verso se stessa per illuminarsi. E la luce evangelica manifesterà la sua forza man mano che la useremo per spiegare la mitologia.

Il testo evangelico, insomma, è in procinto di giustificare se stesso, al termine di una storia intellettuale che ci sembrava essergli estranea perché trasformava la nostra visione in un senso estraneo a tutte le religioni della violenza con le quali persistiamo assurdamente a confonderlo. Ma ecco che un nuovo progresso della storia, di per sé minore ma gravido di conseguenze importanti per i nostri equilibri intellettuali e spirituali, dissipa la confusione e rivela che questa critica del religioso violento è il senso stesso della rivelazione evangelica.

Se questo non fosse il senso dei Vangeli, essi tradirebbero la storia stessa che narrano, non sarebbero ciò che noi vi leggiamo, e di cui invece si parla con la designazione di Spirito. I grandi testi sul Paracleto rischiarano il processo che stiamo vivendo. Proprio per questo la loro apparente oscurità comincia a dissiparsi. Non è la decifrazione della mitologia che illumina i testi sullo Spirito, sono i Vangeli che, annullando i miti dopo averli trafitti con la loro luce, ci fanno comprendere parole che sembravano insensate, intrise di violenza e di superstizione, perché annunciano questo processo come una vittoria di Cristo su Satana, ovvero dello Spirito di Verità sullo Spirito di menzogna. I passi del Vangelo di Giovanni consacrati al Paracleto condensano tutti i temi di questo nostro saggio.

Sono passi che si trovano negli addii di Gesù ai suoi discepoli, e costituiscono l’apice del quarto Vangelo. I cristiani moderni sono un po’ imbarazzati – penso – a veder riapparire Satana in un istante così solenne. Giovanni dice che la giustificazione di Gesù nella storia, la sua autenticazione, è tutt’uno con l’annullamento di Satana. Questo evento uno e duplice ci è presentato come già consumato dalla passione e nello stesso tempo come non ancora consumato, un evento che deve ancora venire perché invisibile agli occhi degli stessi discepoli.

E quando verrà [il Paracleto],
egli confonderà il mondo
quanto al peccato,
quanto alla giustizia
e quanto al giudizio:
quanto al peccato,
perché non credono in me;
quanto alla giustizia,
perché vado al Padre
e non mi vedrete più;
quanto al giudizio,
perché il Principe di questo mondo è stato condannato.

 (Gv, 16, 8-11)

Tra il Padre e il mondo c’è un abisso che proviene dal mondo stesso, dalla violenza di questo mondo. Il fatto che Gesù torni al Padre significa la vittoria sulla violenza, l’attraversamento di questo abisso. Ma gli uomini inizialmente non se ne accorgono. Per loro, che sono nella violenza, Gesù è soltanto un morto come gli altri. Nessun messaggio folgorante giungerà né da lui né dal Padre, dopo il ritorno presso il Padre. Anche se Gesù viene divinizzato, lo sarà sempre un po’ nello stile degli dèi antichi, entro il ciclo perpetuo della violenza e del sacro. A queste condizioni, la vittoria della rappresentazione persecutoria sembra assicurata.

Eppure – afferma Gesù – non è così che le cose si svolgeranno. Nel mantenere la parola del Padre sino in fondo e nel morire per essa, contro la violenza, Gesù valica l’abisso che separa gli uomini dal Padre. Diventa egli stesso il loro Paracleto, ossia il loro protettore e manda loro un altro Paracleto che non cesserà di operare nel mondo per portare lo splendore della verità in piena luce.

I nostri dotti ed esperti sospettano qui una di quelle vendette immaginarie che i vinti della storia si concedono nei loro scritti. Eppure, anche se il linguaggio ci sorprende, anche se l’autore del testo sembra preso a volte da vertigine di fronte alla grandezza della propria visione, non possiamo non riconoscere ciò di cui abbiamo noi stessi parlato. Lo Spirito opera nella storia per rivelare quel che Gesù ha già rivelato, il meccanismo del capro espiatorio, la genesi di ogni mitologia, la nullità di tutti gli dèi della violenza; il che equivale a dire, nel linguaggio evangelico, che lo Spirito completa la sconfitta e la condanna di Satana. Fondato com’è sulla rappresentazione persecutoria, il mondo inevitabilmente non crede in Gesù, o lo fa malamente. Non può concepire la potenza rivelatrice della passione. Nessun sistema di pensiero può veramente concepire il pensiero capace di distruggerlo. Quindi, per confondere il mondo, e per mostrare che è ragionevole e giusto credere in Gesù in quanto inviato del Padre che torna al Padre dopo la passione, ossia in quanto divinità imparagonabile a quelle della violenza, ci vuole lo Spirito nella storia che si adoperi a disgregare il mondo e a screditare a poco a poco tutti gli dèi della violenza; tanto da screditare in apparenza persino Cristo, nella misura in cui la Trinità cristiana, per colpa di noi tutti fedeli e infedeli, sembra compromessa nella sacralità violenta. In realtà, solamente l’incompiutezza del processo storico perpetua e addirittura rafforza la miscredenza del mondo, nonché l’illusione di un Gesù demistificato dal progresso del sapere, eliminato dalla storia assieme agli altri dèi. Basterà un minimo procedere della storia per rendere chiaro che è la storia a verificare il Vangelo, che è «Satana» a venir screditato e Cristo giustificato. La vittoria di Gesù è dunque conseguita subito, fin dall’inizio, al momento della passione, anche se per la maggior parte degli uomini si concretizza solo al termine di una lunga storia segretamente governata dalla rivelazione. Tale vittoria si fa evidente nel momento in cui constatiamo che effettivamente, grazie ai Vangeli e non contro di essi, possiamo mostrare l’inanità di tutti gli dèi violenti, spiegare e annullare ogni mitologia.

Satana regna soltanto in virtù della rappresentazione persecutoria, ovunque sovrana prima dei Vangeli. Satana è dunque essenzialmente l’accusatore, colui che inganna gli uomini facendo loro considerare colpevoli delle vittime innocenti. Ma chi è il Paracleto?

In greco, parakletos è l’equivalente esatto dell’italiano avvocato, o del latino ad-vocatus. Il paracleto è chiamato presso l’imputato, la vittima, per parlare al suo posto e in suo nome, per fargli da difensore. Il Paracleto è l’avvocato universale, il patrocinatore di tutte le vittime innocenti, il distruttore di ogni rappresentazione persecutoria. È dunque lo Spirito di Verità, colui che dissipa le nebbie di ogni mitologia.

Vale la pena di chiedersi come mai Girolamo, questo formidabile traduttore che generalmente non manca di audacia, sia indietreggiato davanti alla traduzione di un nome comune così consueto come parakletos. Egli è letteralmente vinto dallo stupore. Non vede la pertinenza di questo termine e opta per una traslitterazione pura e semplice, Paracletus. Il suo esempio è religiosamente seguito nella maggior parte delle lingue moderne, per cui abbiamo Paracleto, ParacletParaklet, ecc. Da allora, questo vocabolo misterioso non ha smesso di rendere intuitiva, con la sua opacità, non l’inintelligibilità di un testo invero perfettamente intelligibile ma l’inintelligenza degli interpreti, quella stessa che Gesù rimprovera ai suoi discepoli e che si perpetua, sovente aggravandosi, nei popoli evangelizzati.

Sul Paracleto, beninteso, esistono innumerevoli studi, ma nessuno dà una soluzione soddisfacente, perché tutti definiscono il problema in termini strettamente teologici. Il prodigioso significato storico e culturale del termine resta inaccessibile, e generalmente si finisce per concludere che, se è veramente avvocato di qualcuno, il Paracleto deve farsi avvocato dei discepoli presso il Padre. Questa soluzione invoca un passo della prima Epistola di Giovanni: «Ma se qualcuno ha peccato, noi abbiamo come avvocato presso il Padre Gesù Cristo, il giusto...» (1 Gv, 2, 1).

Parakletos: il testo di Giovanni fa di Gesù stesso un Paracleto. Nel Vangelo dello stesso autore, Gesù appare effettivamente come il primo Paracleto inviato agli uomini:

Io pregherò il Padre
ed egli vi manderà un altro Paracleto,
perché rimanga con voi per sempre,
lo Spirito di Verità,
che il mondo non può ricevere,
perché non lo vede e non lo conosce.

 (Gv, 14, 16-17)

Cristo è il Paracleto per eccellenza nella lotta contro la rappresentazione persecutoria, giacché ogni difesa e riabilitazione delle vittime si fonda sulla potenza rivelatrice della passione, ma, dopo la sua partenza, lo Spirito di Verità, il secondo Paracleto, farà brillare per tutti gli uomini la luce che è già presente nel mondo, e che gli uomini cercheranno il più a lungo possibile di non vedere.

I discepoli non hanno certo bisogno di un secondo avvocato presso il Padre, se hanno lo stesso Gesù. L’altro Paracleto è mandato tra gli uomini e dentro la storia; non bisogna sbarazzarsi di lui spedendolo devotamente nel trascendentale. La natura immanente della sua azione è confermata da un testo dei Vangeli sinottici:

 

«E quando verrete portati via per essere consegnati, non preoccupatevi di ciò che direte, ma dite ciò che vi sarà dato in quel momento perché non sarete voi a parlare ma lo Spirito Santo» (Mc, 13, 11Lc, 12, 11-12Mt, 10, 18-19).

 

Questo testo è in sé problematico. Non dice completamente ciò che vuole dire. Sembra dire che i martiri non hanno da preoccuparsi della loro difesa poiché lo Spirito Santo sarà lì per dar loro ragione. Ma non può trattarsi di un trionfo immediato. Le vittime non sconfiggeranno i loro accusatori durante il processo: saranno martirizzate, e numerosi testi sono lì ad assicurarcelo; i Vangeli non credono affatto che faranno cessare le persecuzioni.

Non si tratta né dei processi individuali né di qualche processo trascendentale, dove il Padre avrebbe la parte dell’Accusatore. Pensare così, sia pur con le migliori intenzioni del mondo – l’inferno ne è lastricato –, significa avere ancora del Padre una raffigurazione satanica. Non può trattarsi dunque che di un processo intermedio tra cielo e terra, il processo delle potenze «celesti» o «mondane» e di Satana stesso, il processo della rappresentazione persecutoria nel suo insieme. Gli evangelisti, proprio perché non sono sempre capaci di definire il luogo di questo processo, lo rendono a volte o troppo trascendente o troppo immanente, e i commentatori moderni non sono mai usciti da questa duplice esitazione perché non hanno mai capito che nella battaglia tra l’Accusatore, Satana, e l’Avvocato della difesa, il Paracleto, è in gioco il destino di tutto il sacro violento.

Le parole dei martiri non hanno molta importanza poiché essi sono i testimoni non di una credenza determinata, come ci si immagina, ma della terribile propensione degli uomini associati in gruppo a versare sangue innocente, pur di ripristinare l’unione della loro comunità. I persecutori si sforzano di sotterrare tutti i morti nella tomba della rappresentazione persecutoria, ma più numerose sono le vittime del martirio, più questa rappresentazione si indebolisce, e più la loro testimonianza si fa luminosa. Proprio per questo utilizziamo sempre il termine martire, che significa testimone, per tutte le vittime innocenti, senza tener conto delle differenze di credenza o di dottrina, conformemente all’annuncio evangelico. Come per capro espiatorio, l’uso popolare del termine martire va oltre le interpretazioni colte e suggerisce alla teologia cose che non conosce ancora.

Il mondo, finché non è trasformato, non può capire niente di ciò che trascende la rappresentazione persecutoria; non può vedere il Paracleto né conoscerlo. Gli stessi discepoli sono ancora appesantiti da illusioni che solamente la storia può dissipare, rendendo via via più profonda l’influenza della passione. Provvederà l’avvenire a ricordare ai discepoli le Parole che sul momento non riescono a fermare la loro attenzione perché apparentemente prive di senso:

Io vi ho detto queste cose,
quando ero ancora tra voi.
Ma il Paracleto, lo Spirito Santo,
che il Padre manderà nel mio nome,
vi insegnerà tutto
e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.

 (Gv, 14, 25-26)

 

Ho ancora molte cose da dirvi,
ma per il momento non siete capaci di portarle.
Quando verrà lui, lo Spirito di Verità,
egli vi guiderà alla verità tutta intera,
perché non parlerà del suo,
ma dirà tutto ciò che avrà udito,
e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà,
perché prenderà del mio
e ve lo annuncerà.

 (Gv, 16, 12-14)

Ecco, infine, la sequenza più straordinaria fra tutti i passi sul Paracleto. Sembra fatta di pezzi e frammenti eterogenei, quasi fosse il frutto incoerente di una sorta di schizofrenia mistica. In realtà, è la nostra schizofrenia culturale che ce la fa apparire in questa maniera. Non riusciremo a capirne nulla finché pensiamo di interpretarla partendo da princìpi e metodi che necessariamente appartengono al mondo e non possono quindi avere accesso al Paracleto. Giovanni ci colpisce con verità straordinarie a un ritmo tale che non possiamo, né vogliamo, assorbirle. Vi è il grosso rischio di proiettare su questo testo la confusione e la violenza da cui siamo sempre un po’ posseduti. Può darsi che esso sia intaccato, in alcuni dettagli, dai conflitti tra la Chiesa e la Sinagoga, ma il suo vero soggetto non ha niente a che vedere con i dibattiti odierni sull’«antisemitismo giovanneo».

Chi odia me, odia anche il Padre mio.
Se non avessi fatto in mezzo a loro opere
che nessun altro mai ha fatto,
non avrebbero alcun peccato;
ora invece hanno visto
e hanno odiato me e il Padre mio.
Ma questo perché si adempisse la parola della Legge:
Mi hanno odiato senza una causa.
Quando verrà il Paracleto,
che io vi manderò dal Padre,
lo Spirito di Verità che procede dal Padre,
egli mi renderà testimonianza.56
E anche voi mi renderete testimonianza57
perché siete stati con me fin dal principio.

Vi ho detto queste cose per preservarvi dallo scandalo.
Vi escluderanno dalle sinagoghe.
Anzi, verrà l’ora in cui
chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.
Arriveranno a questo punto
perché non hanno conosciuto né il Padre né me.
Ma io vi ho detto queste cose,
perché, quando giungerà l’ora,
vi ricordiate che ve le ho dette.

 (Gv, 15, 23-27; 16, 1-4)

Questo testo evoca, certo, le lotte e le persecuzioni contemporanee alla sua elaborazione, e direttamente non può non evocarle. Ma indirettamente ne evoca altre, tutte le altre, perché non è la vendetta a dominarlo, è lui piuttosto a dominarla. Farne una prefigurazione pura e semplice dell’antisemitismo contemporaneo, con il pretesto che non è mai stato capito, vuol dire abbandonarsi allo scandalo, trasformare in scandalo ciò che ci è stato detto e consegnato per preservarci dallo scandalo, per anticipare i malintesi causati dall’apparente fallimento della rivelazione.

La rivelazione sembra fallire, e conduce a persecuzioni apparentemente in grado di soffocarla, ma che alla fine la adempiono. Finché non veniamo raggiunti dalle parole di Gesù, non abbiamo in noi alcun peccato: restiamo allo stadio dei Geraseni e la rappresentazione persecutoria conserva una sua legittimità relativa. Ma il peccato è la resistenza alla rivelazione, e questa resistenza si esteriorizza necessariamente nella persecuzione del rivelatore, ossia del vero Dio, poiché è lui che sconvolge i nostri miseri e dubbi patteggiamenti con i demoni a noi familiari.

La resistenza persecutoria – ad esempio quella di Paolo prima della sua conversione – rende manifesto proprio ciò che dovrebbe nascondere per resistere efficacemente, cioè il meccanismo vittimario. Essa realizza la parola fra tutte rivelatrice, quella che confuta l’accusa persecutoria: «Mi hanno odiato senza una causa».

Queste parole sono, a mio parere, l’epitome teorica dell’intero processo evangelico: lo stesso processo che tutti i testi commentati nelle pagine precedenti descrivono, lo stesso processo che si svolge nella nostra storia e che è la nostra storia, ormai sotto gli occhi di tutti, e che coincide con l’avvento del Paracleto. Quando verrà il Paracleto – dice Gesù – mi renderà testimonianza, rivelerà il senso della mia morte innocente, e di tutte le morti innocenti, dal principio alla fine del mondo. Coloro che vengono dopo Cristo testimonieranno al pari di lui, meno con le loro parole o le loro credenze che con il loro martirio, morendo come lo stesso Gesù.

Sono certamente i primi cristiani perseguitati dagli Ebrei o dai Romani, ma sono anche gli Ebrei perseguitati più tardi dai cristiani, sono tutte le vittime perseguitate da tutti i carnefici. E di che cosa tutti costoro danno testimonianza? Della persecuzione collettiva generatrice delle illusioni religiose. È esattamente a questo che allude la frase: «Anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio». Nello specchio delle persecuzioni storiche, medioevali e moderne, noi cogliamo, se non la violenza fondatrice in se stessa, almeno i suoi succedanei, tanto più omicidi in quanto ormai incapaci di qualunque vero ristabilimento dell’ordine. I cacciatori di streghe cadono sotto il colpo di questa rivelazione, non diversamente dai burocrati totalitari della persecuzione. Ogni violenza rivela ormai quello che rivela la passione di Cristo, la genesi ottusa degli idoli cruenti, di tutti i falsi dèi delle religioni, delle politiche, delle ideologie. Non per questo gli assassini hanno smesso di credere che i loro sacrifici siano meritori. Neppure loro sanno quello che fanno, e dobbiamo perdonarli. È venuta l’ora di perdonarci l’un l’altro. Se aspettiamo ancora, non ne avremo più il tempo.