lunedì 6 dicembre 2021

TORNARE A GALLA Margaret Atwood

 


TORNARE A GALLA

Margaret Atwood

 (“Surfacing”, 1972)


Secondo romanzo di Atwood, più sorprendente e più sperimentale dei suoi maggiori successi. Letto in chiave femminista quando uscì, è soprattutto un viaggio verso le origini. Il luogo dove si è cresciuti attrae inesorabilmente ed è capace di sciogliere nodi esistenziali irrisolti. Ma le origini sono rappresentate anche dalla natura, e il ritorno a essa diventa un’autentica fusione con essa, tra le “Metamorfosi” di Ovidio e quella di Kafka. Opera originalissima, coronata nel clamoroso finale da un’esaltazione psichedelica di panteismo, misticismo, animismo e trascendentalismo. Ma chi conosce il Canada sa che lì la natura è più potente che altrove, e può produrre questi effetti.(Paolo Cairoli)

Trama

La giovane donna protagonista di questo romanzo ritorna dopo molti anni alla casa isolata in cui ha passato infanzia e adolescenza, allarmata dalla notizia dell'improvvisa sparizione del padre. La casa si trova su un'isola deserta, al centro di un grande lago nella regione del Québec, circondata solo dall'acqua e dalla foresta: la porta è aperta, la casa è vuota, l'orto è in abbandono.

In una stanza ci sono dei fogli pieni di indecifrabili disegni, come scarabocchi infantili o primitivi graffiti.

Per i tre amici che accompagnano la ragazza, l'uomo che vive con lei e un'altra coppia, la gita sull'isola ha il sapore di un'avventura turistica. Ma per lei la vicinanza con le forze elementari della terra e dell'acqua e la rivisitazione di luoghi e gesti dell'infanzia hanno l'effetto di una graduale rivelazione.

La ricerca del padre si trasforma in un sofferto pellegrinaggio interiore: la verità cui il fondo del lago e i misteriosi graffiti sembrano alludere non riguardano soltanto la scomparsa del padre ma lei stessa, la sua identità femminile, il suo posto in un mondo che con la natura ha perduto ogni contatto.

La purezza del paesaggio appare minacciata dalla malattia che viene dal Sud, dall'invasione degli americani, alfieri della civiltà tecnologica.

Grande classico della letteratura al femminile, Tornare a galla è forse il romanzo più innovativo della scrittrice canadese: la sua provocatoria visione di un ritorno allo stato di natura, il suo complesso simbolismo, la sua ricerca di un'identità femminile vincente di fronte al fallimento della civiltà della logica e dello straniamento hanno affascinato e fatto discutere i critici.

 

Margaret Atwood, nata a Ottawa nel 1939 e cresciuta nel Québec e a Toronto, è la maggiore scrittrice canadese contemporanea. I suoi romanzi sono stati tradotti in più di venti Paesi. In italiano sono apparsi: La donna da mangiare (Longanesi, 1976, Corbaccio, 2002), Lady Oracolo (Giunti, 1986), Il racconto dell'ancella (Mondadori, 1988), Occhio di gatto (Mondadori, 1990, Ponte alle Grazie, 2002), L'assasino cieco (Ponte alle Grazie, 2001). Baidini&Castoidi ha pubblicato: L'altra Grace (1997), La donna che rubava i mariti (1998) e tre raccolte di racconti: Le uova di Barbablù, Vera spazzatura, Fantasie di stupro.


TORNARE A GALLA


Non riesco a credere di essere di nuovo su questa strada, a zigzagare lungo il lago dove le betulle bianche stanno morendo: la malattia viene dal sud, adesso c'è anche un noleggio di idrovolanti. Ma siamo ancora ai confini della città; non l'abbiamo attraversata, si è estesa tanto da avere una circonvallazione, un bel successo.

Non l'ho mai considerata una città vera e propria, ma semmai un avamposto, l'ultimo o il primo a seconda della direzione in cui viaggiavamo: un agglomerato di capannoni e casupole e una strada centrale con il cinema, il itz, il oyal, la R rossa fulminata, e due ristoranti che servivano identici hamburger grigiastri ricoperti di salsa dall'aspetto fangoso, piselli in scatola acquosi e pallidi come occhi di pesce e patatine a fiammifero grondanti di lardo. Ordina un uovo in camicia, diceva mia madre, così lo vedi dai bordi se è fresco.

In uno di quei ristoranti, prima che io nascessi, mio fratello sgusciò sotto il tavolo e fece scivolare le mani su e giù per le gambe della cameriera che li stava servendo; fu durante la guerra, lei portava delle calze arancioni lucide, di rayon, mio fratello non le aveva mai viste, perché mia madre non le usava. Un altro anno attraversammo di corsa il marciapiede coperto di neve, scalzi, perché non avevamo scarpe, si erano consumate durante l'estate. Quella volta, in macchina, tenemmo i piedi avvolti in coperte, facendo finta di essere feriti. Mio fratello disse che i tedeschi ci avevano smitragliato via i piedi.

Ora però sono in un'altra auto, quella di David e Anna; ha pinne affusolate e strisce cromate, un catorcio pesante, un relitto di dieci anni fa, per accendere i fari David deve allungare la mano fin,sotto il cruscotto.

David dice che non possono permettersene una più nuova, il che probabilmente non è vero. Guida bene, lo so, ma io tengo lo stesso la mano fuori sulla portiera.

Per reggermi e per poter uscire rapidamente, se è necessario. Ho viaggiato altre volte con loro sulla stessa auto, ma su questa strada qualcosa non quadra, qualcuno qui è fuori posto, o loro tre, o io.

Sto sul sedile posteriore, insieme agli zaini; questo qui, Joe, mi siede accanto masticando gomma e tenendomi la mano: due modi per passare il tempo.

Osservo la sua mano: le dita corte si contraggono e si rilassano, gingillandosi con la mia fede, girandola, è uno dei suoi tic. Lui da contadino ha le mani, io i piedi.

Ce lo ha detto Anna. Oggi fanno tutti un po' di magia, e lei legge la mano alle feste, dice che è un surrogato di conversazione. Quando ha letto la mia ha detto: «Hai un gemello?» e io le ho risposto di no. «Ne sei certa?» mi ha detto lei. «Perché hai delle linee doppie.» Il suo indice ha seguito la linea della mia vita: «Hai avuto un'infanzia felice, ma poi c'è questa strana interruzione.» Ha aggrottato la fronte e io le ho detto che volevo soltanto sapere quanto sarei vissuta, e che poteva saltare il resto. Poi ci ha detto che le mani di Joe ispiravano fiducia ma non erano sensibili; io mi sono messa a ridere, ed è stato uno sbaglio.

Di profilo assomiglia al bufalo sulla moneta americana da cinque cents, irsuto e col muso schiacciato, occhi piccoli e serrati e lo sguardo ardito ma folle di una razza un tempo dominante e ora in pericolo di estinzione. Anche lui si vede così: ingiustamente deposto.

Sotto sotto gli piacerebbe che gli costruissero una specie di riserva, tipo paradiso degli uccelli. Il bel Joe.

Sente che lo sto osservando e mi lascia la mano.

Poi si toglie di bocca la gomma, la appallottola nella stagnola, la ficca nel portacenere e incrocia le braccia.

Questo significa che non devo osservarlo; giro la testa e guardo avanti.

Nelle prime ore del viaggio siamo passati tra colline piatte disseminate di mucche, boschi di latifoglie e scheletri di olmi morti; poi tra le conifere, le cave aperte dalla dinamite nel granito rosa e grigio, le fragili casette dei villeggianti e i cartelli con la scritta PORTA DEL NORD: almeno quattro città rivendicano questo titolo. Il futuro è al nord, diceva un vecchio slogan politico; quando mio padre lo sentì disse che al nord c'era tutt'al più il passato, e poco anche di quello.

Ovunque sia ora, vivo o morto, e nessuno lo sa, con gli epigrammi ha chiuso. Non hanno il diritto di invecchiare.

Invidio quelli a cui'sono morti i genitori da giovani: ricordarli è più facile, rimangono immutati.

Io ero convinta che i miei lo sarebbero rimasti comunque, che avrei potuto partire e ritornare molto tempo dopo ritrovando tutto tale e quale. Me li immaginavo come se vivessero in un'altra epoca; badavano alle loro faccende chiusi al sicuro dietro una parete traslucida come gelatina, mammut congelati in un ghiacciaio. Non avrei dovuto fare altro che tornare, quando fossi stata pronta, ma continuai a rimandare, avrei dovuto dare troppe spiegazioni.

Ora stiamo oltrepassando il bivio che porta al cunicolo scavato dagli americani. Da qui sembra un'innocua collina coperta da abeti rossi, ma i grossi cavi elettrici che si inoltrano nella foresta lo tradiscono.

Mi hanno detto che se ne sono andati: forse è uno stratagemma, potrebbero benissimo abitare ancora là sotto, i generali in bunker di cemento e i soldati semplici in casermoni sotterranei con la luce sempre accesa.

Non c'è modo di controllare, è vietato l'accesso.

La città li aveva invitati a rimanere, erano un buon affare, bevevano un sacco.

«Lì ci sono i missili» dico. Anzi, c'erano. Ma non mi correggo.

David dice: «Porci fascisti Yankees del cazzo» come se stesse facendo un'osservazione sul tempo.

Anna non dice niente. Tiene la testa appoggiata alloschienale e le punte dei suoi capelli chiari sventolano nella corrente del finestrino che non chiude bene.

Prima ha cantato House of the Rising Sun e Lili Marlene, tutte e due ripetutamente, cercando di fare una voce gutturale e profonda: invece veniva fuori come quella di un bambino rauco. David ha acceso la radio ma non è riuscito a captare nulla, eravamo tra un'emittente e l'altra. Quando Anna era a metà di Saint Louis Blues lui ha cominciato a fischiettare e lei ha smesso di cantare. È la mia migliore amica; la conosco da due mesi.

Mi sporgo in avanti e dico a David: «La bottiglieria è dopo la prossima curva, a sinistra» e lui annuisce e rallenta. Gliene avevo parlato prima, immaginavo fosse il tipo di cosa che li avrebbe interessati.

Stanno girando un film, Joe fa le riprese, non l'ha mai fatto prima ma David dice che loro due sono i nuovi uomini del Rinascimento, quel che c'è da sapere te lo insegni da te. L'idea è stata soprattutto di David, che si autodefinisce regista: i titoli di testa li hanno già preparati. Vuole riprendere cose in cui si imbattono, campioni sparsi li chiama, e questo sarà anche il titolo del film, Campioni sparsi. Quando avranno esaurito la loro scorta di pellicola (che è tutto quello che potevano permettersi, e la cinepresa l'hanno noleggiata) visioneranno il materiale raccolto e lo monteranno.

«Come fai a decidere che cosa metterci se non sai già di che cosa parla?» ho chiesto a David quando me ne ha parlato. Lui mi ha lanciato una delle sue occhiate da iniziato a profano. «Se ti chiudi la mente in anticipo, rovini tutto. L'importante è restare fluidi.» Anna, che versava il caffè accanto al fornello, ha detto che tutti quelli che conosceva stavano facendo un film, e David ha ribattuto che quello non era un cazzo di motivo per non farne uno anche lui. Anna gli ha risposto: «Hai ragione, scusami»; ma ride del film alle sue spalle, lo chiama Capponi sparsi.

La bottiglieria è costruita con bottigliette di vetro cementate una accanto all'altra con il fondo verso l'esterno, verdi e marroni, disposte secondo un motivo a zigzag simile a quelli che a scuola ci insegnavano a disegnare sui teepee; è circondata da un muro, anche quello fatto di bottiglie, sistemate in forma di lettere, in modo che quelle marroni compongano la scritta VILLA BOTTIGLIA.

«Forte» dice David, ed escono dalla macchina con la cinepresa. Anna e io smontiamo dopo di loro; ci stiriamo le braccia, e Anna fuma una sigaretta. Porta una tunica viola e pantaloni bianchi scampanati, hanno già una macchia, grasso dell'auto. Le avevo consigliato di mettersi dei jeans o qualcosa del genere, ma lei aveva risposto che la fanno sembrare grassa.

«Chi è stato a farla, Cristo, pensa che lavoro» dice Anna, ma io della casa non so nulla, solo che è lì da sempre, in mezzo a un acquitrino nero, fitto di abeti rossi, che la rende ancora più insolita, un ridicolo monumento a qualche esule bizzarro, oppure a un recluso volontario come mio padre, a qualcuno che ha scelto questa palude perché era l'unico posto in cui potesse realizzare il sogno della sua vita, vivere in una casa di bottiglie. Oltre il muro c'è un abbozzo di prato e una bordura di calendule arancioni che assomiglia a un materasso.

«Grande,» dice David «davvero forte» e circonda Anna col braccio stringendola per un attimo per mostrare che è soddisfatto, come se in qualche modo fosse lei la responsabile di Villa Bottiglia. Risaliamo in auto.

Guardo il finestrino come se fosse uno schermo televisivo. Non c'è nulla che io ricordi finché non arriviamo al confine, segnalato da un cartello su cui si legge BIENVENUE da una parte e WELCOME dall'altra.

Sul cartello ci sono dei fori di pallottole dai bordi rossi di ruggine. Ci sono sempre stati: in autunno i cacciatori lo usano per esercitarsi al tiro al bersaglio; per quante volte lo sostituiscano o lo ridipingano i fori ricompaiono, come se nessuno ce li facesse ma crescessero per una specie di logica interna o di infezione, come la muffa o i foruncoli. Joe vorrebbe filmare il cartello ma David dice: «Ma dai, cosa c'entra?» Ora siamo nel mio paese natale, territorio straniero.

Mi si stringe la gola, è un riflesso acquisito quando ho scoperto che la gente poteva pronunciare parole che mi entravano nelle orecchie senza significare niente. Sarebbe più comodo essere sordomuti. Di quelli che quando vogliono un quarto di dollaro ti piazzano davanti il loro mazzo di carte con l'alfabeto manuale. Ma anche in quel caso, occorre imparare l'ortografia.

Il primo odore è quello della segheria, segatura, ce ne sono cumuli nel cortile, insieme alle cataste di sciaveri. Il legno dolce va da un'altra parte, alla cartiera, i tronchi più grossi invece vengono radunati in un recinto galleggiante sul fiume, un anello di tronchi incatenati in cui quelli sciolti sbattono l'uno contro l'altro; scendono verso le seghe lungo uno scivolo sopraelevato che fa un gran fracasso, quello non è cambiato.

Ci passiamo sotto in macchina, e con una curva saliamo fino al minuscolo paese sorto come appendice alla segheria, a pianta ordinata, con giardinetti pubblici e al centro una fontana settecentesca, delfini di pietra e un putto cui manca parte della faccia.

Sembra un'imitazione, ma potrebbe essere autentica.

Anna dice: «Ehi, che forza quella fontana.» «Ha costruito tutto la ditta» dico, e David commenta: «Schifosi capitalisti bastardi» e ricomincia a fischiettare.

Gli dico di girare a destra e lui esegue. La strada dovrebbe essere qui, e invece c'è una transenna sconquassata, il passaggio è sbarrato.

«E adesso?» dice David.

Non abbiamo portato una carta stradale, perché sapevo che non ci sarebbe servita. «Dovrò chiedere informazioni» dico; David fa marcia indietro e percorriamo la strada principale fino a un emporio di generi vari, riviste e caramelle.

«Ah, lei intende la strada vecchia» dice la donna, con un lievissimo accento. «È chiusa da anni, deve prendere quella nuova.» Compro quattro coni alla vaniglia, perché non si possono fare domande senza comprare niente. La donna scava nel fustino di cartone con un mestolo di metallo. Prima, il gelato era confezionato in pezzi di carta che i venditori strappavano via come una buccia, per poi spingere i tronchetti di gelato nei coni con un colpo di pollice. Si vede che quelli sono passati di moda.

Torno alla macchina e comunico a David le istruzioni.

Joe dice che preferisce la cioccolata.

È cambiato tutto, non conosco più la strada. Passo la lingua intorno al gelato cercando di concentrarmi su quello, lo fanno con le alghe adesso, ma sto cominciando a tremare, perché la strada è diversa, lui non avrebbe dovuto permetterglielo, voglio fare marcia indietro, tornare in città e non sapere mai cosa gli è capitato. Sto per scoppiare a piangere, sarebbe tremendo, nessuno di loro saprebbe cosa fare, e io nemmeno.

Dò un morso al cono e per un minuto non sento più niente tranne un dolore lancinante su un lato della faccia. Anestesia, ecco una delle tecniche: se qualcosa ti fa male, inventati un altro dolore. Va meglio.

David finisce il suo cono, getta fuori dal finestrino la punta che sa di cartone e mette in moto. Attraversiamo una zona che si è sviluppata dopo che io me ne sono andata di qui; bungalow quadrati costruiti di recente, simili a quelli di città, tranne che per i cornicioni rosa e celesti, e più avanti qualche baracca rettangolare, carta catramata e assi a vista. Una nidiata di bambini gioca nella melma che c'è al posto dei prati; quasi tutti portano vestiti troppo grandi, che li fanno sembrare rachitici.

«Devono scopare un sacco, da queste parti,» dice Anna «suppongo che sia per via della Chiesa.» Poi aggiunge: «Ma come sono perfida.» David dice: «Il vero nord, libero e selvaggio.» Oltre le case due bambini più grandi, con le facce scure, porgono verso la macchina dei barattoli di latta.

Lamponi, forse.

Arriviamo al distributore di benzina dove la donna ci ha detto di svoltare a sinistra, e David mugola di gioia, «Oddio, guardate là» e tutti e due escono precipitosamente dall'auto, quasi che l'oggetto possa scappare se non si sbrigano. L'oggetto delle loro attenzioni consiste in tre alci imbalsamati su una piattaforma accanto alle pompe: sono vestiti come esseri umani e montati in piedi sulle zampe posteriori, c'è papà alce in trench e con la pipa in bocca, mamma alce con vestito stampato e cappellino coi fiori e bambino alce in pantaloncini, maglione a righe e berretto da baseball, che sventola una bandiera americana.

Anna e io seguiamo a ruota. Mi avvicino a David di spalle e gli dico: «Non è che hai bisogno di benzina?»; non dovrebbe usare gli alci senza sborsare nulla, sono qui allo scopo di attrarre clienti, proprio come i gabinetti.

«Oh, guardate,» dice Anna, portandosi una mano alla bocca, «ce n'è un altro sul tetto» e infatti c'è, una bambina alce in gonnella a volants e parrucca bionda con treccia, che regge con uno zoccolo un parasole rosso. Filmano anche lei. Il padrone del distributore se ne sta in canottiera dietro il cristallo della vetrina e ci guarda torvo attraverso uno strato di polvere.

Quando siamo di nuovo in auto dico, come per discolparmi: «Quelli non c'erano, prima.» Anna gira la testa di scatto, la mia voce deve suonare strana.

«Prima di che?» chiede.

La nuova strada è asfaltata e diritta, due corsie con una striscia bianca nel mezzo. Comincia già ad avere le sue pietre miliari: qualche cartellone pubblicitario, un'edicola con un crocifisso di legno dalle costole sporgenti, il dio straniero, sempre incomprensibile per me. Sotto ci sono un paio di vasetti di marmellata con dentro dei fiori, margherite, tarassachi rossi e quelli bianchi che si fanno seccare, le violette indiane, semprevive, dev'esserci stato un incidente stradale.

Di quando in quando incrociamo la vecchia strada sterrata: piena di sporgenze e di buche, seguiva l'andamento del terreno, su e giù per le colline, aggirando dirupi e massi erratici. Loro la percorrevano sempre alla massima velocità, il padre la conosceva centimetro per centimetro e, diceva, avrebbe potuto farla a occhi chiusi, e spesso sembrava che andassero proprio così, con le ruote che stridevano davanti ai cartelli PETITE VITESSE, tuffandosi oltre i cigli scoscesi, strisciando contro le pareti di roccia, GARDEZ LE

DROIT, strombazzando; i bambini si abbarbicavano all'interno dell'abitacolo con la nausea che aumentava sempre più, nonostante le caramelle Polo distribuite dalla madre, e alla fine vomitavano malfermi sul margine della strada, astri azzurri ed erba di sant'Antonio rosa, quando il padre riusciva a fermarsi in tempo, oppure fuori dal finestrino, se non ci riusciva, o in sacchetti di carta - lui prevedeva sempre le emergenze - se aveva fretta e non voleva fermarsi affatto.

Non funziona, non posso dire «loro» come se fosse la famiglia di un'altra persona; devo sforzarmi per raccontare quella storia. Eppure, il solo fatto di vedere la vecchia strada che si snoda in lontananza tra gli alberi (i solchi delle ruote e il tracciato sono già semicancellati da erba e arbusti, presto la strada scomparirà) mi fa allungare la mano nella borsa alla ricerca delle Polo che ho comprato. Ma non ce n'è più bisogno, anche se la nuova strada asfaltata si fa bianca («Devono aver eletto la persona sbagliata l'ultima volta» dice David scherzosamente) e l'odore della polvere che sale a nugoli dietro e intorno a noi si mescola a quello della benzina e dei sedili della macchina.

«Avevi detto che sarebbe stato un brutto tratto, mi pare,» dice David da sopra la spalla «non è brutto per niente.» Ormai siamo qui al paese, qui le due strade si congiungono in una più larga - massi spaccati, alberi abbattuti dal bulldozer, radici divelte, aghi di pino che diventano rossi - oltre la parete rocciosa piatta su cui sono dipinti e ridipinti slogan elettorali, alcuni sbiaditi e illeggibili, altri freschi di vernice gialla e bianca, VOTEZ GODET, VOTEZ OBRIEN, accanto a cuori e iniziali, parole e scritte pubblicitarie, THE SALADA, VILLINI LUNA BLU M 800, VAFFANCULO, BUVEZ

COCA COLA GLACÉ, GESÙ TI SALVA, un misto di appelli e di lingue, a radiografarlo verrebbe fuori tutta la storia del distretto.

Hanno imbrogliato però, ci abbiamo messo troppo poco, e io mi sento defraudata di qualcosa, come se qui non potessi arrivarci davvero senza soffrire; come se il primo sguardo sul lago, che vediamo ora, azzurro e freddo come la redenzione, dovesse essere appannato dalle lacrime e dal vomito.

Scivoliamo lungo l'ultima collina, con la ghiaia che picchia sul fondo dell'auto, e improvvisamente ecco una cosa che non dovrebbe esserci. MOTEL, BARBIERE

BEER dice l'insegna, è addirittura al neon, qualcuno si sta dando da fare; ma non serve a niente, all'esterno non ci sono auto parcheggiate ed è esposto il cartello CAMERE LIBERE. L'edificio assomiglia a qualunque altro motel economico, lungo, intonacato di grigio, con le porte d'alluminio; intorno il terreno è ancora accidentato e nudo, non ancora invaso dalle erbacce della strada.

«Facciamo un po' di scorta» dice David, rivolto a Joe; ha già sterzato.

Ci dirigiamo verso la porta ma poi mi fermo, è il posto migliore per lasciarli, e dico: «Voi entrate, prendete una birra o quel che volete, io torno tra una mezz'ora.» «D'accordo» dice David. Lui sa bene che cosa va evitato.

«Vuoi che venga anch'io?» si offre Joe, ma quando rispondo di no si illumina di sollievo sotto la barba.

Scompaiono tutti e tre oltre la porta a zanzariera del bar e io proseguo a piedi scendendo lungo la collina.

Mi piacciono, mi fido di loro, non conosco nessuno che mi piaccia più di loro, eppure in questo momento vorrei che non ci fossero. Comunque sono necessari: l'auto di David e Anna era l'unico mezzo per arrivare qui, non ci sono né corriere né treni, e io non faccio mai l'autostop. Mi stanno facendo un favore, dissimulato dal pretesto che sarebbe stato divertente, a loro piace viaggiare. Ma il motivo per cui sono qui li mette in imbarazzo, non lo capiscono. Tutti e tre hanno rinnegato i loro genitori molto tempo fa, secondo la prassi: Joe non parla mai di sua madre e suo padre, Anna dice che i suoi erano delle nullità, e David i suoi li chiama i Maiali.

Qui una volta c'era un ponte coperto, ma era troppo a nord per essere pittoresco. Lo hanno smantellato tre anni prima che me ne andassi, per perfezionare la diga, sostituendolo con il ponte di cemento che c'è ora, gigantesco, monumentale, che fa sembrare minuscolo il paese. È la diga che controlla il lago: sessantanni fa alzarono il livello dell'acqua in modo da avere abbastanza energia idrica ogni volta che volevano far defluire i tronchi fino alla segheria attraverso lo stretto emissario. Ma non lavorano più tanto con il legname.

Qualche operaio si occupa della manutenzione della ferrovia, un treno merci al giorno; un paio di famiglie gestiscono i negozi, quello piccolo dove parlano inglese e quello dove non lo parlano. Gli altri fanno affari coi turisti, uomini d'affari in camicie scozzesi che hanno ancora i segni delle piegature nel cellofan e le loro mogli, se vengono, che se ne stanno sedute a due a due sulle verande coperte a prova di tafano dei villini monolocali e si lamentano l'una con l'altra mentre i mariti giocano a fare i pescatori.

Mi fermo per appoggiarmi alla ringhiera lungo il fiume. Le chiuse sono alzate, rapide bianche e marroni come spuma di birra si precipitano fragorosamente sulle rocce. Il rumore è una delle prime cose che ricordo, fu proprio quello a metterli sull'avviso. Era notte, io stavo distesa sul fondo della canoa; erano partiti dal paese, ma poi si era levata una nebbia densa, tanto fitta che quasi non vedevano l'acqua. Ritrovarono la sponda e cominciarono a costeggiarla: c'era un silenzio mortale, sentirono un suono, credettero fosse l'ululato dei lupi attutito dalla foresta e dalla nebbia, significava che avevano preso la direzione giusta. Poi ci fu lo scroscio delle rapide e capirono dov'erano, proprio mentre li afferrava la corrente. Eravamo andati all'indietro, l'ululato era quello dei cani del paese. Se la canoa si fosse capovolta saremmo morti, ma loro rimasero calmi, non fecero scene di panico; a me rimase impresso solo il bianco della foschia, il silenzio dell'acqua e il dondolio della canoa, un senso di sicurezza totale.

Anna aveva ragione, ho avuto un'infanzia felice; si era in piena guerra, quei cinegiornali grigi e granulosi che io non ho mai visto, bombe e campi di concentramento, capi che tuonano davanti alle folle chiusi nelle loro uniformi, dolore e morte senza scopo, bandiere sventolanti al ritmo degli inni nazionali. Ma io queste cose le ho sapute soltanto dopo, quando mio fratello le scoprì e me le rivelò. Allora sembrava di vivere in tempo di pace.

Ora sono in paese, lo attraverso a piedi, aspetto che mi colga la nostalgia, che la manciata di case qualunque si illumini all'interno, a mo' di presepe elettrico, come ha fatto tanto spesso nel ricordo: ma non succede nulla. Il paese non si è ingrandito, al giorno d'oggi probabilmente i giovani si trasferiscono in città.

Le stesse case a due piani con la struttura di legno, i nasturzi sui davanzali delle finestre e gli angoli del tetto squadrati, da cui pendono fili per il bucato multicolori, come code di aquiloni; alcune però sono più graziose e hanno cambiato colore. La chiesa bianca grande come una casa di bambola, alta sul fianco della collina sassosa, è trascurata, l'intonaco è scrostato e una finestra è rotta, il vecchio prete dev'essersene andato. Dev'essere morto, voglio dire.

Giù alla spiaggia ci sono molte barche legate al molo pubblico, ma le auto parcheggiate sono poche: più barche che auto, cattiva stagione. Cerco di capire qual è la macchina di mio padre, ma mentre le esamino una a una mi rendo conto che non so più che genere di auto potrebbe guidare.

Arrivo alla deviazione per la casa di Paul, un viottolo sterrato irregolare con profondi solchi di pneumatici, che attraversa i binari della ferrovia e continua su un campo acquitrinoso, con tronchi accostati l'uno all'altro nei punti più paludosi. Mi vengono intorno un paio di tafani, è luglio, la stagione della riproduzione è finita, ma come al solito qualcuno è rimasto.

La strada sale e io mi arrampico sul retro delle case costruite da Paul per il figlio, il genero e l'altro figlio, il suo clan. Quella di Paul è il prototipo, gialla, con i cornicioni marroni, una specie di tozza casa colonica; anche se questa non è una zona agricola, c'è soprattutto roccia e la terra, dove esiste, è poco profonda e sabbiosa. In quanto ad agricoltura, Paul non è mai andato più in là del possesso di una mucca, uccisa dal latte in bottiglia. La baracca in cui la teneva insieme ai cavalli adesso è un garage.

Sullo spiazzo dietro la casa stazionano due auto degli anni Cinquanta, una rosa e una rossa, sorrette da ceppi di legno, senza ruote; tutto intorno sono sparpagliati i relitti rugginosi di auto ancora più vecchie: come mio padre, Paul conserva tutto ciò che potrebbe essere utile. Alla casa si è aggiunta una struttura aguzza simile alla guglia di una chiesa, composta da quelli che un tempo erano pezzi di auto saldati insieme; in cima alla guglia c'è un'antenna della televisione e sopra ancora un parafulmine.

Paul c'è, è nell'orto sul fianco della casa. Si alza in piedi per guardarmi, la faccia color cuoio e severa come sempre, assomiglia a una valigia chiusa; non credo abbia capito chi sono.

«Bonjour monsieur» dico una volta arrivata allo steccato. Lui fa un passo verso di me, ancora guardingo, e io dico: «Non si ricorda di me?» e sorrido. Di nuovo quella sensazione di strangolamento, la paralisi alla gola: ma Paul l'inglese lo parla, è stato fuori.

«È stato molto gentile a scrivermi.» «Ah,» fa lui, senza riconoscermi, ma riuscendo a ricostruire la mia identità, «bonjour» e poi sorride a sua volta. Congiunge le mani davanti a sé come un sacerdote o un mandarino di porcellana; non dice altro.

Restiamo lì da una parte e dall'altra dello steccato, con i visi impietriti in curve benevole, le bocche stirate in forma di parentesi, finché dico: «È già tornato?» A queste parole gli crolla il mento e la testa gli oscilla sul collo. «Ah. No.» Si mette a fissare obliquamente, con aria d'accusa, una pianta di patata accanto al suo piede sinistro. Poi solleva di nuovo la testa, di scatto, e dice allegramente: «Non ancora? Ma forse presto. Suo padre li conosce i boschi.» Sulla soglia della cucina è comparsa Madame, e Paul le parla nel francese nasale e strascicato che non riesco a decifrare perché tutto quel che so, tranne poche parole elementari, l'ho imparato a scuola. Le canzoni popolari, gli inni di Natale e i passi di Racine e Baudelaire imparati a memoria nelle classi superiori qui non mi sono di nessun aiuto.

«Ma venga dentro,» mi dice Paul, «prenda un tè», poi si china a sollevare il gancio del cancelletto di legno. Mi avvicino alla porta dove Madame mi aspetta con le mani protese in segno di benvenuto, sorridendo e scuotendo tristemente la testa, come se, per una colpa non mia, il mio destino fosse segnato.

Madame fa il tè su un nuovo fornello elettrico, al di sopra del quale è appesa una Madonna di ceramica azzurra con un Gesù Bambino rosa; quando ho intravisto il fornello, passando per la cucina, mi sono sentita tradita: avrebbe dovuto restare fedele alla sua cucina a legna. Ci sediamo sulla veranda coperta, soppesando le tazze di tè e dondolandoci l'uno accanto all'altro su tre sedie a dondolo; mi hanno dato il cuscino degli ospiti, sul quale è ricamata una veduta delle cascate del Niagara. Il collie bianco e nero, lo stesso che un tempo mi spaventava o un suo discendente, è sdraiato ai nostri piedi su uno stuoino intrecciato.

Madame, che è tozza come un ceppo, indossa un vestito con la gonna lunga, calze nere e un grembiule stampato con la pettorina; Paul porta pantaloni a vita alta, bretelle e una camicia di flanella con le maniche rimboccate. Mi dà fastidio che siano tanto simili alle statuette di legno, quelle col tipico colono canadese, che si vendono nei negozi di artigianato per turisti; ovviamente è tutto il contrario, sono le statuette che assomigliano a loro. Mi domando che cosa pensano del mio aspetto: forse i miei jeans, la mia felpa, la mia borsa a tracolla con le frange sembrano loro strani, magari indecenti, anche se può darsi che l'avvento dei turisti e della televisione abbiano reso cose di questo genere più familiari in paese; e poi io posso essere scusata perché la mia famiglia aveva fama di essere bizzarra, oltreché anglais.

Sollevo la tazza, mi osservano con ansia: un accenno al tè è di rigore. «Très bon» mi riesce di tirar fuori in direzione di Madame. «Délicieux.» Mi prende un dubbio, forse thè è femminile.

Mi stanno tornando in mente le visite che nostra madre era costretta a fare a Madame mentre nostro padre si intratteneva con Paul. Mio padre e Paul stavano fuori e discorrevano di barche o di motori, di incendi nei boschi o di qualche loro spedizione, e mia madre e Madame rimanevano in casa sulle sedie a dondolo (mia madre aveva il cuscino con le cascate del Niagara) e ce la mettevano tutta per fare conversazione.

Tutte e due sapevano al massimo cinque parole nella lingua dell'altra, e dopo i Bonjours d'apertura cominciavano entrambe ad alzare la voce senza accorgersene, come se stessero parlando con una persona dura d'orecchio.

«Il fait beau» gridava mia madre, qualunque tempo facesse, e Madame sorrideva forzatamente e diceva: «Pardon? Ah, il fait beau, oui, il fait beau, ban oui.» Finito il ritornello tutte e due si mettevano ad arrovellarsi disperatamente, dondolando le sedie.

«Lei sta come?» strillava Madame, e mia madre, dopo aver decifrato la frase, diceva: «Bene, sto bene.» Poi ripeteva la domanda: «E lei, come sta, Madame?» Ma Madame non rispondeva e tutte e due, continuando a sorridere, lanciavano uno sguardo furtivo oltre la zanzariera per vedere se finalmente gli uomini venivano a salvarle.

Intanto mio padre dava a Paul cavoli o fagiolini che aveva portato dal suo orto e Paul ricambiava con pomodori o lattuga di sua produzione. Dal momento che nei loro orti c'erano le stesse cose questo scambio di verdure era puramente rituale: compiuto il rito, sapevamo che la visita era ufficialmente chiusa.

Madame in questo momento mescola il suo tè e sospira. Dice qualcosa a Paul e Paul dice: «Sua madre era una donna buona, Madame dice che è una cosa molto triste: così giovane, poi.» «Sì» dico. Mia madre e Madame avevano suppergiù la stessa età e nessuno direbbe che Madame è giovane; mia madre però non era mai diventata grassa come Madame.

Ero andata a trovarla in ospedale, dove si era lasciata portare soltanto quando non riusciva più a camminare; me lo disse uno dei dottori. Doveva aver nascosto il dolore per settimane, inducendo mio padre a credere che fosse solo uno dei suoi soliti mal di capo, lei era il tipo da dire una bugia del genere. Odiava medici e ospedali; probabilmente temeva che l'avrebbero usata come cavia, mantenendola in vita più che potevano con tubi e aghi anche se la malattia era quel che chiamano esiziale, lo è sempre quando prende la testa; e in realtà fu proprio questo che fecero.

La tenevano sotto morfina, e lei diceva di avere davanti delle ragnatele che fluttuavano nell'aria. Era magrissima, molto più vecchia di quanto mai avrei creduto possibile, aveva la pelle tesa sul naso curvo e aquilino, le mani sul lenzuolo, adunche come zampe d'uccello aggrappate a un sostegno. Mi scrutò con occhi lucidi e vacui. Forse non aveva capito chi ero: non mi chiese perché me ne ero andata o dove ero stata, anche se è probabile che non mi avrebbe chiesto niente comunque, convinta com'era, da sempre, che le domande personali fossero scortesi.

«Non verrò al tuo funerale» le dissi. Dovevo chinarmi vicina a lei, da un orecchio non ci sentiva più.

Volevo che capisse anticipatamente e mi desse la sua approvazione.

«Non mi sono mai piaciuti» disse, una parola per volta. «Bisogna mettersi il cappello. Non amo gli alcolici.» Evidentemente parlava della chiesa o di ricevimenti.

Sollevò la mano lentamente, come se la spostasse nell'acqua, e si tastò la sommità del capo dal quale spuntava un ciuffo di capelli bianchi e diritti.

«Non ho portato dentro i bulbi. C'è neve fuori?» Sul comodino, vicino ai fiori - crisantemi - vidi il suo diario: ne teneva uno ogni anno. Ci scriveva soltanto delle note sul tempo e sul lavoro compiuto in un dato giorno: niente pensieri, niente sentimenti. Lo consultava quando voleva paragonare le annate, stabilire se la primavera era stata tardiva o precoce, se avevano avuto un'estate piovosa. Mi faceva rabbia vederlo in quella stanza senza finestre dove non serviva a niente: attesi che chiudesse gli occhi e lo feci scivolare nella mia tracolla. Una volta fuori mi misi a sfogliarlo, pensavo che potesse contenere qualcosa che mi riguardava, ma a parte le date le pagine erano bianche, aveva smesso di scriverlo da mesi.

«Fa' come credi» disse al di là dagli occhi chiusi.

«C'è neve?» Ci dondoliamo ancora un poco. Vorrei chiedere a Paul di mio padre ma dovrebbe essere lui a intavolare l'argomento, certamente ha delle notizie da darmi.

Forse vuole evitare il discorso, o magari è solo delicato, e aspetta che io sia pronta. Alla fine dico: «Che cosa gli è successo?» Paul si stringe nelle spalle. «È solo sparito» dice.

«Un giorno vado a trovarlo, la porta è aperta, la barca c'è, penso forse è andato da qualche parte qui intorno e aspetto un po'. Il giorno dopo ci torno, tutto come prima, comincio a preoccuparmi, dove sia non lo so. Allora scrivo a lei, lui lasciato la sua caisse postale e le chiavi, io chiudo tutto. La sua auto è qui, ce l'ho io.» Fa un cenno in direzione del retro, verso il garage. Mio padre si fidava di Paul, diceva che Paul era capace di costruire e riparare qualunque cosa.

Una volta rimasero bloccati da un temporale che durò tre settimane: mio padre diceva che se si riesce a vivere per tre settimane insieme a un uomo dentro una tenda fradicia senza ammazzarlo o farsi ammazzare, quello è un uomo buono. Paul ai suoi occhi dimostrava il valore del suo ideale di vita semplice; ma per Paul quell'esistenza anacronistica era obbligata, non l'aveva mai scelta.

«Ha cercato sull'isola?» chiedo. «Se ci sono le barche non può aver lasciato l'isola.» «Ho cercato, sicuro» dice Paul. «Detto ai poliziotti in fondo alla strada, anche loro cercano, nessuno trova niente. È qui anche suo marito?» chiede in modo poco pertinente.

«Sì, è qui» rispondo, mentendo disinvoltamente anche a me stessa. Vuole dire che di queste cose dovrebbe occuparsene un uomo; Joe come controfigura andrà benone. La mia condizione è un problema, ovviamente pensano che io sia sposata. Ma sono al sicuro, ho la fede al dito, non l'ho mai gettata, è utile per le padrone di casa. Ho mandato una cartolina ai miei dopo il matrimonio, devono averne parlato a Paul; del divorzio no. Non fa parte del vocabolario locale e non c'è alcun motivo per turbarli.

Sto aspettando che Madame mi chieda del bambino, sono preparata, sul chi vive, le dirò che l'ho lasciato in città; e sarebbe la pura verità, solo che è un'altra città, si trova meglio con mio marito, col mio ex marito.

Madame però non ne parla, prende un'altra zolletta dal vassoio al suo fianco ed ecco che s'intromette l'immagine di lui, di fronte a me, in uno snack bar, non in città ma lungo la strada, all'andata o al ritorno da qualche affare o da qualche incontro. Strappa l'involucro pubblicitario dello zucchero e fa cadere una zolletta nella tazza, io parlo e la sua bocca prende una piega compiacente, deve essere stato prima del bambino.

Sorride, e sorrido anch'io, pensando alla fettina di cetriolo sottaceto infilzata in cima al suo panino a due strati, una placca commemorativa sul muro di un supermercato o di un parcheggio che segnala il punto in cui un tempo sorgeva un edificio dove accadde un fatto di scarso rilievo, ridicolo. Lui mette una mano sulla mia, fa del suo meglio, ma liberarsene è facile, sempre più facile. Non ho tempo per lui, confondo i problemi.

Sorseggio il tè e mi dondolo, ai miei piedi il cane si agita, in basso il lago si increspa sotto il vento che si sta alzando. Dunque mio padre è semplicemente scomparso, sparito nel nulla. Quando ho ricevuto la lettera di Paul - «Suo padre è partito, nessuno riesce a trovarlo» - mi era sembrata una cosa incredibile, ma evidentemente era vero.

Una volta c'era un barometro sulla parete della veranda, una casetta di legno con due porte, abitata da un uomo e da una donna. Quando si preparava il bel tempo la donna faceva capolino dalla sua porta, se invece stava per piovere rientrava ed usciva l'uomo, portando un'ascia. La prima volta che me lo mostrarono credetti che i due controllassero il tempo, invece di limitarsi a registrarlo. Cerco la casetta con gli occhi adesso, mi serve una predizione, ma non c'è più.

«Penso che andrò sul lago» dico.

Paul alza le mani, con i palmi verso l'esterno.

«Noi cercato già due, tre volte.» Ma deve essergli sfuggito qualcosa, sento che sarà diverso se ci darò un'occhiata di persona. Probabilmente al nostro arrivo mio padre, ovunque sia stato, avrà fatto ritorno, e se ne starà seduto nella casetta ad aspettarci.

Tornando al motel prendo una traversa e mi fermo alla bottega, quella in cui dovrebbero parlare inglese: avremo bisogno di provviste. Salgo i gradini di legno, davanti a un bastardino sonnacchioso col pelo che sembra uno strofinaccio, legato alla veranda con un pezzo di filo da bucato. Sulla porta a zanzariera, la maniglia reclamizza le sigarette BLACK CAT; la apro e mi immergo nell'odore di bottega, l'indefinibile aroma dolciastro esalato dai biscotti in scatola e dal refrigeratore delle bibite. Per un po' questa è stata la sede dell'ufficio postale, c'è ancora un cartello DEFENSE

DE CRACHER SUR LE PLANCHER con il timbro statale.

Dietro il banco c'è una donna più o meno della mia età, ma col seno modellato dal reggipetto e lievi baffi rossicci; ha i capelli avvolti sui bigodini e coperti- da una reticella rosa, porta i pantaloni e un top di maglia senza maniche. Il vecchio prete se ne è andato, non c'è più ombra di dubbio, lui non tollerava i pantaloni, le donne dovevano nascondersi dietro lunghe gonne e calze scure e stare in chiesa a braccia coperte. I pantaloni corti erano fuorilegge, e molte passavano una vita accanto al lago senza imparare a nuotare, perché si vergognavano di mettersi in costume da bagno.

La donna mi guarda, incuriosita ma senza sorridere, e due uomini con i capelli tagliati ancora alla Elvis Presley, sfumatura a punta dietro e ciuffi imbrillantinati che ricadono incurvandosi sulla fronte, smettono di parlare e mi guardano a loro volta; hanno i gomiti piantati sul banco. Esito: forse la tradizione non è più quella, forse non parlano più inglese.

«Avez vous du viande hâché?» le chiedo, arrossendo a causa della mia pronuncia.

La donna allora sorride, e anche i due uomini sorridono, non a me, ma l'uno all'altro. Capisco di aver fatto un errore. Avrei dovuto far finta di essere americana.

«Hamburger, oh sì, ne abbiamo un sacco. Quanto?» mi chiede, calcando sulla pronuncia per dimostrare che può parlare inglese se vuole. Siamo in terra di frontiera.

«Una libbra, no, due» dico arrossendo ancora di più perché mi hanno smascherata così facilmente, mi stanno prendendo in giro e non ho modo di fargli capire che condivido il loro scherzo. Inoltre sono d'accordo con loro, se si vive in un posto bisogna sapere la lingua. Ma io non vivo qui.

Scalfisce con la mannaia un cubo di carne congelata, la pesa. «Du livrees» dice, scimmiottando il mio accento scolastico. I due uomini ridacchiano. Mi consolo ripensando al funzionario del governo che ho incontrato a un vernissage, una mostra dell'artigianato, arazzi di fibra, tovagliette all'americana intessute e servizi da caffelatte di ceramica; Joe era voluto venire per potersi rammaricare di non essere tra gli espositori.

L'uomo sembrava una specie di atfacché culturale, un diplomatico; gli chiesi se conosceva questa regione del paese, la mia regione, o lui scosse la testa e disse: «Des barbares, sono gente incivile.» Lì per lì ci rimasi male.

Prendo una bomboletta di insetticida per gli altri, e poi uova e pancetta, pane e burro, scatolette assortite.

Qui tutto è più caro che in città: non c'è più nessuno che allevi galline, mucche o maiali, importano tutto da regioni più fertili. Il pane lo vendono in confezioni di carta paraffinata, tranché.

Vorrei tanto uscire camminando a ritroso, non voglio che mi squadrino da dietro; ma mi costringo a camminare lentamente, in avanti.

Una volta c'era soltanto una bottega. Si trovava sul davanti di una casa, e la gestiva una vecchia che si chiamava anche lei Madame: a quel tempo le donne non avevano nomi propri. Madame vendeva delle caramelle da un soldo color cachi che ci era proibito mangiare, ma la fonte principale della sua autorità era che aveva una mano sola. L'altro braccio terminava con un muso tenero e roseo come la proboscide di un elefante, e per spezzare lo spago dei pacchetti se lo arrotolava intorno al moncherino e dava uno strattone.

Quel braccio privo di mano era per me un grande mistero, enigmatico quasi quanto Gesù. Avrei voluto sapere come aveva fatto la mano a staccarsi (forse se l'era staccata lei) e dove era finita, e soprattutto se anche la mia mano sarebbe potuta venir via così; ma non glielo domandai mai, avevo paura delle risposte.

Scendendo i gradini, mi sforzo di ricordare qualcos'altro del suo aspetto, il suo viso, ma vedo soltanto le portentose caramelle, irraggiungibili nel loro reliquiario di vetro, e quel braccio, genericamente miracoloso come le dita dei piedi dei santi o gli organi sezionati dei primi martiri, gli occhi sul piatto, le mammelle mozzate, il cuore istoriato che splende come una lampadina attraverso l'oblò dipinto sul petto, ricordi di storia dell'arte.

Ritrovo gli altri nella stanzetta gelida contrassegnata dalla scritta BAR, sono gli unici clienti. Sul loro tavolo dal piano di formica arancione ci sono sei bottiglie di birra e quattro bicchieri. Insieme a loro è seduto un ragazzo con la faccia a chiazze e i capelli tagliati come gli uomini del bar, biondo però.

Al mio ingresso David mi saluta agitando una mano: si vede che è contento di qualcosa. «Prendi una birra» dice. «Lui è Claude, suo padre è il padrone di questa baracca.» Claude, imbronciato, va a prendermi la birra strascicando i piedi. Sotto il bancone c'è un pesce rozzamente scolpito, punteggiato di rosso e di blu, che probabilmente vuol essere un salmerino; col dorso inarcato nel salto sorregge il piano di finto marmo. Al di sopra del bar c'è un televisore, spento o rotto, e il regolamento in una cornice dorata tutta volute, una fotografia ingrandita con un ruscello, alberi, cascatelle e un uomo che pesca. Questo locale è un'imitazione di altri, situati più a sud, i quali a loro volta sono imitazioni: all'origine c'è un vago ricordo di quel che dovevano essere gli aristocratici padiglioni di caccia ottocenteschi inglesi, quelli con i trofei di caccia e i mobili fatti di corna di cervo, la regina Vittoria ne aveva tutta una serie. Ma se è questo che fa vendere, perché non dovrebbero farlo?

«Claude ci ha detto che non va niente bene quest'anno,» dice David «per via che dicono che di pesci non ce n'è più. Vanno su altri laghi, ce li porta il padre di Claude con l'idrovolante, forte no? Mi ha pure detto che in primavera, però, qualcuno ha pescato colle reti a strascico, e ce n'è un casino là sotto, belli grossi anche, solo che si son fatti furbi.» David scivola nel suo dialetto campagnolo; lo fa per scherzo, sta parodiando se stesso e il modo in cui, a suo dire, parlava negli anni Cinquanta, quando voleva fare il sacerdote e vendeva Bibbie porta a porta per mantenersi al seminario teologico: «Ehi signora, te lo compri un libro sporco?» In questo momento però sembra spontaneo, forse lo fa per Claude, in modo da chiarire che anche lui è un uomo del popolo. O magari è un esperimento in Scienza delle Comunicazioni, la materia che insegna, di sera, nello stesso posto in cui lavora Joe; è un programma della Educazione per gli Adulti. David la chiama Alienazione per Adulti; ha avuto quel posto perché un tempo lavorava come speaker alla radio.

«Novità?» mi chiede Joe con un borbottio inespressivo, segno che, qualunque cosa sia successo, mi sarebbe grato se evitassi di esternare le mie reazioni.

«No,» rispondo «niente di nuovo.» Voce piatta, tranquilla. Forse fu questo a piacergli in me, qualcosa dev'essere ben stato, ricostruisco il nostro primo incontro, una volta non mi riusciva: accadde in un negozio, stavo comprando dei pennelli nuovi e una bombola di fissatore. Mi chiese se abitavo da quelle parti e andammo al bar dell'angolo a prendere un caffè, solo che io bevvi una gazosa. A colpirlo quella volta, poi me ne ha anche parlato, fu quello che chiama distacco, il modo del tutto imperturbabile in cui mi tolsi gli abiti e poi me li rimisi, senza tradire la minima emozione.

Il fatto è che non ne provavo nessuna.

Claude ritorna con la birra, io dico «Grazie», alzo lo sguardo verso di lui e dopo un attimo di dissolvenza il suo viso si ricompone: l'ultima volta che sono stata qui aveva otto anni vendeva vermi ai pescatori in lattine arrugginite, vicino al molo pubblico. Adesso è agitato, si è accorto che lo riconosco.

«Vorrei andare giù al lago per un paio di giorni» dico a David, dato che la macchina è sua. «Vorrei dare un'occhiata, se siete d'accordo.» «Fantastico» dice David. «Vedrete se non acchiappo uno di quei pesci furbi.» Si è portato dietro una canna da pesca presa in prestito, anche se Io avevo avvertito che rischiava di non riuscire a usarla: se mio padre fosse finalmente riapparso, saremmo ripartiti senza fargli sapere che eravamo stati qui. Se sta bene non voglio incontrarlo. Non servirebbe a niente, non mi hanno mai perdonata, non hanno capito il mio divorzio; credo che non abbiano capito nemmeno il mio matrimonio, cosa che non mi stupisce dal momento che non l'ho capito neanch'io. È stato il modo in cui mi sono sposata ad addolorarli, così all'improvviso, e poi la mia fuga, abbandonare marito e figlio, la mia vita attraente come una foto in una rivista patinata, degna di essere messa in cornice. Abbandonare mio figlio, quello era il peccato senza remissione; cercare di spiegar loro perché non era veramente mio è stato inutile. Però riconosco di essere stata stupida: la stupidità equivale alla cattiveria, se si guarda alle conseguenze, e io non avevo scuse, non sono mai state il mio forte. Mio fratello invece era bravissimo, se le inventava ancor prima di trasgredire, come vuole la logica.

«Oddio,» dice Anna «David si sente il grande cacciatore bianco.» Lo stuzzica, è una cosa che fa spesso, ma lui non la sente, si sta alzando, Claude insiste perché faccia la licenza, il responsabile delle licenze è lui, a quanto pare. Quando David rientra vorrei chiedergli quanto ha speso, ma è troppo contento, non voglio fare la guastafeste. Anche Claude è contento.

Veniamo a sapere da Claude che Evans, il proprietario dei villini Blue Moon, può portarci sul lago a pagamento.

Paul ci avrebbe trasportati gratis, me l'aveva proposto lui stesso, ma non mi sembrava giusto; inoltre sono sicura che avrebbe interpretato nel modo sbagliato la barba informe di Joe e i baffi e la chioma alla moschettiere di David. Ormai sono soltanto una moda, come i capelli a spazzola, ma a Paul potrebbero sembrare pericolosi, fanno pensare a dei sovversivi.

David imbocca il viottolo, due solchi con in mezzo una gobba sassosa che raschia il fondo della macchina.

Freniamo di fronte alla casetta con l'insegna UFFICIO; Evans, un grosso americano di poche parole con camicia a scacchi, berretto con visiera e spessa giacca di lana con un'aquila sulla schiena, c'è. Sa dove si trova la casa di mio padre, tutte le guide più anziane conoscono ogni casa sul lago. Sposta il mozzicone di sigaretta all'angolo della bocca e dice che può portarci là, dieci miglia, per cinque dollari; per altri cinque ci verrà a riprendere fra due giorni, in mattinata. Così avremo il resto della giornata per tornare in città in macchina. Sa della sparizione, è ovvio, ma non ne parla.

«Forte il vecchio, eh?» dice David una volta fuori.

Si sta divertendo, lui crede che la realtà sia questa: attività marginali e vecchi brizzolati, tale e quale un documentario fotografico della Grande Depressione.

Ha passato quattro anni a New York, e si è politicizzato, ha studiato un po', non so cosa; questo succedeva negli anni Sessanta, non so di preciso quando. Sui trascorsi dei miei amici ho le idee molto vaghe, ed è così anche per loro: uno qualunque tra di noi potrebbe soffrire di amnesia per anni interi, e gli altri non se ne accorgerebbero.

David ha fatto marcia indietro fino al molo Blue Moon, così noi scarichiamo la nostra roba, gli zaini con i vestiti, la cinepresa e i suoi accessori, la valigetta Samsonite che contiene il mio futuro professionale, la mezza dozzina di birre che hanno comprato al motel e il sacchetto di carta con le provviste. Ci arrampichiamo in barca, una lancia sgangherata col timone di legno; Evans avvia il motore e ci allontaniamo lentamente, frullando l'acqua. Cominciano a spuntare delle casette per le vacanze qui, si diffondono come il morbillo, dev'essere per via della strada asfaltata.

David è seduto davanti, vicino a Evans. «Se ne piglia di pesce, eh?» gli chiede, col suo tono casereccio, compagnone, furbesco. «Così così» risponde Evans, che non dà informazioni gratuite; poi mette il motore al massimo e io non sento più niente.

Aspetto fin quando siamo in mezzo al lago. Al momento buono mi guardo alle spalle come ho sempre fatto e il paese appare improvvisamente più lontano e nitido, le case indietreggiano e si raggruppano, la chiesa bianca si staglia sullo sfondo scuro degli alberi.

L'emozione che avevo atteso invano viene adesso è nostalgia per un posto in cui non sono mai vissuta e dal quale sono abbastanza lontana; poi il paese rimpicciolisce, illusione ottica, e noi doppiamo un promontorio e ce lo lasciamo dietro.

Siamo tutti e tre sul sedile posteriore, vicino a me c'è Anna. «Che bellezza,» mi dice, voce stridula che sovrasta il rombo del motore, «ci fa bene evadere dalla città»: quando mi volto a risponderle, però, vedo che ha una guancia bagnata di lacrime e mi chiedo perché, lei che è sempre tanto allegra. Poi capisco che non sono lacrime: ha cominciato a piovigginare. Gli impermeabili sono negli zaini, non mi ero accorta che il cielo si era rannuvolato. Comunque non ci bagneremo molto, con questa barca ci vorrà soltanto mezz'ora; prima, con le barche più pesanti e i motori rudimentali, ci volevano dalle due alle tre ore a seconda del vento. In città la gente diceva a mia madre: «Ma non ha paura? E se succede qualcosa?» Si riferivano a quanto ci sarebbe voluto per raggiungere un medico.

Ho freddo, incurvo le spalle; gocce di pioggia mi rimbalzano sulla pelle. La costa si apre e si ripiega su se stessa al nostro passaggio; a una cinquantina di chilometri da qui c'è un altro paese, e tra i due non c'è che un dedalo contorto, basse colline rotonde alte sull'acqua, insenature ramificate, penisole che diventano isole, isole vere e proprie, lingue di terra protese su altri laghi. Su una carta geografica o in una fotografia aerea l'acqua si espande a raggera, simile a un ragno, ma da una barca se ne vede solo una porzione ridotta, quella in cui ci si trova.

Il lago è infido, il tempo cambia continuamente, il vento si alza in un attimo; ogni anno c'è qualcuno che annega, imbarcazioni sovraccariche o pescatori ubriachi che si scontrano alla massima velocità con le cosiddette teste di morto, vecchi pezzi d'albero fradici e in parte putrefatti che galleggiano sotto la superficie: con il disboscamento e dopo che hanno alzato il livello del lago ne sono rimasti moltissimi. Con tutti quei meandri è facile perdersi se non si sono imparati i punti di riferimento, e io adesso li tengo d'occhio, collina a cupola, punta col pino secco, tagliata di tronchi che spuntano fuori da una secca, di Evans non mi fido.

Finora però ha svoltato nei punti giusti, stiamo entrando nel mio territorio, passiamo per due brevi gomiti, attraverso un canale con le sponde di granito, e usciamo in un'insenatura più ampia. La penisola è là dove l'ho lasciata, protesa fuori dalla spiaggia dell'isola, e la casa non si intravede nemmeno dietro agli alberi, anche se io so dov'è: il mimetismo faceva parte della politica di mio padre.

Evans descrive un arco intorno al capo e dirige lentamente verso il pontile. Il pontile è sbilenco, il ghiaccio ne porta via un pezzo ogni inverno e l'acqua lo guasta e lo fa marcire: è stato riparato tante volte che i materiali sono tutti diversi, ma è lo stesso molo dal quale cadde mio fratello la volta che stava per affogare.

Lo tenevano in un recinto circondato da una rete da pollaio che gli aveva costruito mio pàdre, una grande gabbia, o un piccolo parco giochi, con degli alberi, un'altalena, dei sassi e un monticello di sabbia.

La rete era troppo alta perché lui riuscisse a scavalcarla, ma c'era un cancello, e un giorno lui imparò ad aprirlo. Mia madre era sola in casa: dette un'occhiata dalla finestra, per sicurezza, e lui non era più nella gabbia. Era una giornata tranquilla, il vento taceva, e lei sentì un rumore vicino all'acqua. Corse al molo, lui non c'era, andò fino in fondo e guardò giù. Mio fratello era sott'acqua, con la faccia rivolta verso l'alto e gli occhi aperti e inanimati, che affondava silenziosamente; dalla bocca gli usciva dell'aria.

Accadde prima che io nascessi, ma lo ricordo molto chiaramente, come se l'avessi visto, e forse l'ho visto davvero: io sono convinta che il nascituro ha gli occhi aperti e può guardare attraverso le pareti della pancia di sua madre come un ranocchio in un barattolo di vetro.

Scarichiamo i bagagli mentre Evans tiene il motore in folle. Dopo che David lo ha pagato ci saluta con un cenno indifferente del capo e fa indietreggiare la barca, poi la raddrizza e gira intorno al capo; il rumore si riduce a un mugolio e si affievolisce via via che aumentano la distanza e l'estensione di terraferma che ci separano dalla barca. Il lago fa l'altalena contro la sponda, poi le onde si calmano, non rimane che una diafana pellicola di gasolio iridescente, viola, rosa e verde. Intorno, silenzio: il vento è calato, la superficie del lago è piatta, biancoargentea; per la prima volta in tutta la giornata (da molto tempo, da anni) ci troviamo lontani dai motori. Sento un formicolio nelle orecchie e in tutto il corpo, conseguenza delle vibrazioni, come quando si tolgono dai piedi i pattini a rotelle.

Gli altri se ne stanno lì impalati, apparentemente in attesa che sia io a suggerire la prossima mossa.

«Portiamo su la roba» dico. Li avverto di far attenzione sul pontile; la pioggia, più leggera ora, quasi una nebbiolina, lo ha reso scivoloso e inoltre qualche asse potrebbe essere cedevole e insidiosa.

Ho una gran voglia di gridare «Salve!» oppure «Siamo qui!» ma non lo faccio, non voglio sentire l'assenza.

Sollevo uno zaino e percorro il pontile, scendo a terra e mi avvio verso la capanna, seguendo il sentiero e salendo i gradini conficcati nel fianco della collina, ciocchi di cedro tagliati nel mezzo trattenuti da una parte e dall'altra da pioli ribattuti. La casa è costruita su un dosso sabbioso che fa parte di un crinale formatosi col ritiro dei ghiacciai: sta insieme solo grazie a pochi centimetri di terreno e a un sottile strato di vegetazione. Dalla parte del lago la sabbia si vede, scabra, è sbriciolata via a poco a poco: le pietre e i carboni che usavano all'inizio, quando abitavano nelle tende, sono scomparsi da molto tempo, e gli alberi al limitare dell'acqua cadono uno dopo l'altro, molti che ricordavo ancora diritti ora pendono. Pini rossi con la corteccia desquamata e gli aghi riuniti in ciuffi sui rami più alti; su di uno è appollaiato un martin pescatore che fa il suo verso ritmato come una sveglia: nidificano nella scarpata, perforano la sabbia accelerando l'erosione.

Davanti alla casa c'è ancora il recinto con la rete da pollaio, anche se da una parte quasi oltrepassa il ciglio. Non l'hanno mai tolto, è rimasta persino la mini altalena, con le corde sfilacciate, lente e scolorite dalle intemperie. Non era da loro conservare qualcosa quando non serviva più: forse pensavano che sarebbero venuti in visita dei nipoti. A mio padre sarebbe piaciuto avere una dinastia come quella di Paul, veder proliferare intorno a sé case e discendenti. Il recinto è un rimprovero per me, la prova del mio fallimento.

Ma non avrei potuto portare qui il bambino, non l'ho mai riconosciuto come mio, non gli ho nemmeno trovato un nome prima che nascesse, come succede di solito. Era tutto di mio marito, me l'ha fatto fare con l'inganno e mentre mi cresceva dentro io mi sentivo solo un'incubatrice. Sceglieva scrupolosamente tutto quel che mi autorizzava a mangiare, io ero il cibo del bambino, lui voleva un duplicato di se stesso: una volta nato, io non servivo più a niente. Non potevo dimostrarlo perché lui era stato abile: non faceva che dire di amarmi.

La casa è più piccola perché - noto - gli alberi intorno sono cresciuti. In nove anni si è anche ingrigita, come una capigliatura. I tronchi di cedro di cui è fatta sono disposti verticalmente anziché orizzontalmente, quelli in verticale sono più corti e per un uomo solo sono più facili da maneggiare. Il legno di cedro non è il migliore, si guasta in fretta. Una volta mio padre disse: «Non l'ho costruita perché duri per sempre» e io allora pensai: «Perché no? Come mai non l'hai fatto?» Spero che la porta sia aperta e invece è chiusa col lucchetto, come Paul mi ha detto di averla lasciata.

Estraggo dalla borsa le chiavi che mi ha dato e mi avvicino cautamente: tutto quel che troverò all'interno sarà un'indizio. E se fosse tornato a casa dopo che Paul l'aveva chiusa e non fosse riuscito a entrare? Ci sono altri modi per entrare però, lui avrebbe potuto spaccare una finestra.

Joe e David ora sono qui con gli altri zaini e la birra.

Anna è dietro di loro con la mia valigetta e il sacchetto di carta; sta cantando di nuovo, Mockingbird Hill.

Apro la porta di legno e la zanzariera interna, esamino la stanza con circospezione, poi varco la soglia.

Tavolo coperto da incerata azzurra, panca, altra panca che è un cassone di legno fissato al muro, divano con struttura metallica e basso materasso, che può diventare un letto. Quello era il posto di mia madre: se ne stava tutto il giorno distesa, senza muoversi, sotto un plaid marrone, col viso esangue e scavato. Parlavamo a sussurri, lei era così diversa dal solito, quando le rivolgevamo la parola non ci sentiva; il giorno dopo però ridiventava quella di sempre. Arrivammo ad aver fede nella sua capacità di guarire da qualunque cosa, smettemmo di prendere sul serio i suoi mali, erano soltanto cicli fisiologici, un po' come i bozzoli delle farfalle. Quando morì fui molto delusa.

Tutto è a posto. Dagli alberi cadono sul tetto gocce d'acqua.

Mi seguono all'interno. «È qui che vivevi?» chiede Joe. «È raro che mi domandi qualcosa di me stessa: non riesco a capire se è soddisfatto o sconfortato.

Si avvicina alle racchette da neve e ne tira giù una, rifugiandosi in qualcosa che può toccare con le mani.

Anna posa le provviste sul ripiano della cucina e si stringe le braccia intorno alla vita. «Dev'essere stato pauroso» dice. «Isolati così dal resto del mondo.» «No» dico. Per me era normale.

«Dipende dalle abitudini che hai» dice David. «Io lo trovo stupendo.» Però non è del tutto convinto.

Ci sono altre due camere, e io apro le porte rapidamente.

In ciascuna c'è un letto, delle mensole, indumenti appesi a chiodi: giacche, impermeabili, li lasciavano sempre lì. Un cappello grigio, mio padre ne aveva parecchi. Nella camera a destra c'è una mappa della regione, attaccata alla parete con le puntine da disegno. Nell'altra ci sono dei quadri, acquerelli, ora ricordo di averli dipinti quando avevo dodici o tredici anni: il fatto di- averli dimenticati è l'unica cosa che mi turba.

Torno nel soggiorno. David ha mollato il suo zaino e si è allungato sul divano. «Cristo, sono proprio sfatto» dice. «Chi è che mi allunga una birra?» Anna gliene porta una e lui le dà una pacca sul didietro e fa: «Gente servizievole, ecco quel che mi piace.» Anna tira fuori delle lattine per sé e per noi, ci sediamo sulle panche e beviamo. Ora che abbiamo smesso di muoverci la capanna è gelata.

Odori normali, quello di cedro, del fornello a legna, del catrame di cui è imbevuta la stoppa che ottura le giunte fra un tronco e l'altro per tener fuori i topi.

Alzo gli occhi al soffitto, verso le mensole: accanto alla lampada c'è una pila di carte, forse ci stava lavorando poco prima dell'evento misterioso, prima che se ne andasse. Potrebbe esserci qualcosa per me, un biglietto, un messaggio, un testamento. Dalla morte di mia madre continuo ad aspettarmi qualche parola, non del denaro ma un oggetto, un segno. Per un po' sono andata due volte al giorno a controllare la mia casella postale, l'unico indirizzo che avevo dato loro: ma non è mai arrivato niente, forse a mia madre era mancato il tempo.

Niente piatti sporchi, niente indumenti sparpagliati, nessuna prova. Non ha l'aria di una casa che è stata abitata tutto l'inverno.

«Che ore sono?» chiedo a David. Lui mi mostra il suo orologio: quasi le cinque. Sta a me organizzare la cena, visto che in un certo senso siamo a casa mia, e loro sono miei ospiti.

Nello scatolone dietro al fornello ci sono dei pezzetti di legno e qualche ciocco di betulla; in questa zona la malattia non è ancora arrivata. Ritrovo gli zolfanelli e mi inginocchio davanti al fornello, ho quasi dimenticato come si fa ma dopo tre o quattro zolfanelli lo accendo.

Stacco dal gancio la scodella di smalto rotonda e il coltello grande. Loro mi stanno a guardare: nessuno chiede dove sto andando, Joe però ha l'aria preoccupata.

Forse si aspettava che mi venisse un attacco isterico ed è in pensiero perché ancora non l'ho avuto.

«Vado nell'orto» annuncio per rassicurarli. Sanno dov'è, si vedeva dal lago quando siamo arrivati.

Sul sentiero e davanti al cancello sta spuntando l'erba; le erbacce, a giudicare dall'altezza, hanno un mese di vita. Normalmente dedicherei un paio d'ore a estirparle, ma non vale la pena, rimarremo soltanto due giorni.

Ovunque metta i piedi le rane si tolgono di mezzo saltando, questo è il loro posto preferito, umido, vicino al lago: ho le scarpe di tela zuppe. Colgo un po' della lattuga che non è ancora fiorita diventando amara, poi sradico una cipolla e faccio sgusciar fuori dalla larga buccia esterna marrone il bulbo bianco che somiglia a un occhio.

L'orto è stato risistemato: prima lungo un lato dello steccato c'erano dei fagioli di Spagna. Nell'orto niente era rosso quanto i loro fiori, ci si infilavano i colibrì, sospesi a mezz'aria con le ali vibranti e indistinte.

I fagioli lasciati toppo sulla pianta ingiallivano dopo la prima gelata e si aprivano spaccandosi. Dentro c'erano dei sassolini di un nero rossastro che mi facevano paura. Io sapevo che se fossi riuscita a procurarmene qualcuno e a tenerlo per me sarei diventata onnipotente, ma più avanti, quando fui alta abbastanza e potei finalmente coglierli allungando la mano, non funzionarono. Meglio così, penso, dal momento che una volta ottenuto quel potere non avrei saputo cosa farne: magari sarei diventata come gli altri che avevano potere, cattiva.

Mi avvicino alla fila delle carote e ne strappo una, ma si vede che non sono state diradate come si deve: la radice è tozza e biforcuta. Taglio via il verde della cipolla e la cima della carota e li getto sulla concimaia, poi raccolto tutto nella scodella e mi avvio verso il cancello, facendo dei calcoli mentali sul tempo, il tempo di crescita. A metà di giugno era qui di sicuro, ma non di più, non è possibile.

Trovo Anna fuori dal cancello, è venuta a cercarmi.

«Dov'è il cesso?» chiede. «A momenti scoppio.» La porto all'inizio del viottolo e le indico la strada.

«Tutto bene?» dice.

«Certo» rispondo: la domanda mi stupisce.

«Mi dispiace che non ci sia» dice mestamente, guardandomi coi suoi occhi verdi e rotondi come se si trattasse della sua angoscia, della sua tragedia.

«Va tutto bene,» le dico, per consolarla «tu continua diritta lungo il sentiero e lo troverai, guarda che è un po' lontano però;» aggiungo ridendo «non ti perdere.» Porto al pontile la scodella e lavo le verdure nel lago. Nell'acqua sotto di me c'è una sanguisuga della razza buona, maculata di rosso sul dorso, che ondeggia come un nastro trattenuto ad una estremità e agitato.

La razza cattiva è tigrata di grigio e giallo. Queste distinzioni morali le inventò mio fratello, ci fu un periodo in cui erano diventate un'ossessione per lui, le aveva imparate sentendo parlare della guerra. Di tutto doveva esserci una razza buona e una cattiva.

Cuocio gli hamburger, mangiamo e lavo i piatti nel catino scheggiato mentre Anna li asciuga: si è quasi fatto buio. Tolgo dal cassettone a muro lenzuola e coperte e faccio il nostro letto, l'altro lo può fare Anna.

Mio padre probabilmente dormiva nella stanza grande, sul divano.

Loro non sono abituati ad andare a letto appena fa buio, però, e nemmeno io oramai. Il domino, un mazzo di carte: li ho scovati sotto le coperte ripiegate.

Nelle camere da letto ci sono parecchi libri in brossura, quasi tutti romanzi gialli, letture di intrattenimento.

Accanto ci sono testi specialistici sugli alberi e altre opere di consultazione: Piante e germogli commestibili, Pescare con la mosca secca, I funghi: le varietà comuni, Come costruire una capanna di tronchi, Riconoscere gli uccelli, Conoscere la macchina fotografica: lui era convinto che coi manuali giusti si potesse fare tutto da soli; e poi l'angolo dei suoi libri seri, la Bibbia anglicana, che diceva di apprezzare dal punto di vista letterario, l'opera completa di Robert Burns, la Vita di Boswell, le Stagioni di Thomson e antologie di Goldsmith e Cowper. Ammirava quelli che chiamava i razionalisti del diciottesimo secolo: a suo parere erano uomini che erano sfuggiti alla depravazione della rivoluzione industriale e avevano colto il segreto dell'aurea mediocritas, della vita equilibrata; era convinto che avessero tutti praticato la coltivazione organica.

Rimasi esterrefatta quando molto più avanti scoprii, in realtà fu mio marito a dirmelo, che Burns era un alcolizzato, Cowper un folle, il dottor Johnson un maniaco depressivo e Goldsmith un nullatenente. Non si salvava nemmeno Thomson: «Un poeta d'evasione» disse mio marito. La rivelazione me li rese più simpatici, avevano smesso di essere modelli di perfezione.

«Accendo la lampada,» dico «così possiamo leggere.» Ma David dice: «Noo, perché leggere, possiamo farlo anche in città.» Sta girando la manopola della sua radiolina, ma non trova altro che rumori di fondo, un lamento che forse è musica e va e viene a ondate, e una vocetta da insetto che bisbiglia in francese.

«Merda,» dice David «volevo sentire i risultati.» Vuol dire quelli del baseball, lui è tifoso.

«Potremmo giocare a bridge» dico, ma nessuno ne ha voglia.

Dopo un po' David dice: «Bene ragazzi, è ora di tirare fuori l'erba.» Apre il suo zaino, ci rovista dentro e Anna dice: «Ha scelto il posto più cretino per nasconderla, proprio il primo dove guardano.» «Su per il tuo bel culo,» dice David facendole un sorriso «ecco il primo posto in cui guarderebbero, quelli quando vedono qualcosa di buono se ne approfittano.

Non preoccuparti, bella, so quel che faccio.» «Qualche volta ne dubito» dice Anna.

Usciamo di casa, scendiamo al pontile e ci sediamo sul legno umido, a guardare il tramonto e a fare una fumatina. A ovest le nuvole che stanno svanendo sono gialle e grigie, mentre sul cielo limpido a sud ovest sta sorgendo la luna.

«Grandioso,» dice David «altro che la città. Se solo riuscissimo a sbatter fuori i capitalisti e quei porci fascisti di americani il nostro sarebbe un paese fantastico. Fuori quelli però, chi ci rimane?» «Oh Cristo,» sbuffa Anna «non riattaccare con la solita storia.» «Si può sapere,» chiedo «come faresti a sbatterli fuori?» «L'unica è mobilitare i castori,» dice David «ridurli in poltiglia a suon di morsi. L'agente di borsa Yankee se ne va per Bay Street e i castori gli tendono un'imboscata, gli piombano addosso da un palo del telefono, ciomp ciomp e buonanotte. Avete sentito della nuova bandiera nazionale? Nove castori che pisciano su una rana.»' È vecchia e insulsa, ma rido lo stesso. Un po' di birra, qualche spinello, barzellette, chiacchiere politiche, l'aurea mediocritas; siamo la nuova borghesia, potremmo tranquillamente essere in un salotto. Eppure sono contenta che siano con me, non vorrei essere qui da sola: il senso di perdita e di vuoto potrebbero assalirmi in qualsiasi momento, loro li tengono a bada.

«Ma ti rendi conto» dice David «che questo paese si regge su corpi di animali morti? Pesci morti, foche morte, castori estinti, passati alla storia: il castoro è per il Canada quel che il negro è per gli Stati Uniti.

E non basta, pensa che a New York oggi è una parolaccia, castoro. Io questo lo trovo molto significativo.» Si rizza a sedere e mi guarda nella semioscurità.

«Non siamo i tuoi studenti» gli dice Anna. «Mettiti giù.» David poggia la testa sul suo grembo e lei gli carezza la fronte, vedo la mano che fa su e giù. Sono sposati da nove anni, mi ha detto Anna, devono essersi sposati più o meno nello stesso periodo in cui mi sono sposata io; lei però è più vecchia di me. Devono avere qualche sistema particolare, una formula, delle nozioni che a me sono mancate: può anche darsi che io abbia sposato la persona sbagliata. Io immaginavo che sarebbe successo senza nessun intervento da parte mia, sarei diventata parte di una coppia, due persone con un legame che si controbilanciavano a vicenda, come l'uomo e la donna di legno nel barometro a casetta di Paul. Da principio andava bene, ma lui cambiò dopo che lo sposai, che mi sposò, una volta compiuto l'atto burocratico insomma. Io ancora non capisco che cosa cambia mettere una firma, lui invece cominciava ad avere delle pretese, voleva che lo assecondassi.

Avremmo dovuto continuare ad andare a letto insieme e lasciare le cose come stavano.

Joe mi circonda col braccio e io gli afferro le dita.

Rivedo il rimorchiatore bianco e nero che navigava sempre sul lago, o forse era basso, come una chiatta, e trainava lentamente verso la diga il carico di tronchi: lo salutavo con la mano ogni volta che passavamo sulla nostra barca, e gli uomini rispondevano al mio saluto. A bordo c'era una casetta in cui alloggiavano, con tanto di finestre e un tubo di stufa che usciva dal tetto. Mi sembrava che quella fosse la vita ideale, abitare in una casa galleggiante, portarsi dietro tutto il necessario e qualche persona gradita; a traslocare, poi, non ci voleva nulla.

Joe oscilla avanti e indietro, dondolandosi, segno forse che è allegro. Il vento si leva di nuovo, ci sfiora, l'aria è insieme tiepida e fresca, fluida, gli alberi alle nostre spalle agitano le foglie, un mormorio si diffonde; dall'acqua salgono luci di ghiaccio, la luna di zinco si frange in piccole onde. Un grido di strolaga, rabbrividisco e mi si rizzano tutti i peli del corpo; l'eco rimbalza dappertutto, accerchiandoci, qui ogni cosa ha un'eco.

Mi svegliano i cinguettìi degli uccelli. Non è ancora l'alba, a quest'ora non è ancora cominciato il traffico in città, ma quello ho imparato a sentirlo continuando a dormire. Una volta sapevo riconoscere le specie: ascolto con attenzione, ma ho le orecchie arrugginite, sento solo un guazzabuglio sonoro. Cantano per lo stesso motivo per cui i camion strombazzano, per affermare il loro territorio: un linguaggio rudimentale.

Linguistica avrei dovuto studiare, invece di arte.

Anche Joe è mezzo sveglio e mugola tra sé e sé col lenzuolo tirato fin sopra la testa a mo' di cocolla. Ha strappato le coperte dal fondo del letto e gli sporgono fuori i piedi scarni, con le dita stente che sembrano patate germogliate dentro un sacco. Chissà se si ricorderà di avermi svegliata quando ancora era buio, mettendosi a sedere e dicendo: «Dove sono?» Lo fa ogni volta che siamo in un posto nuovo. «Va tutto bene,» gli ho detto «ci sono qua io» e anche se ha detto: «Tu? Tu?» ripetendolo come un gufo, ha lasciato che lo aiutassi a ridistendersi sul letto. In quei momenti ho paura di toccarlo, potrebbe scambiarmi per uno dei nemici del suo incubo; però sta cominciando a fidarsi della mia voce.

Esamino quel che si vede del suo viso, una palpebra e il profilo del naso, la pelle bianca come se avesse vissuto in una cantina, e in effetti ci viviamo davvero; la barba marrone scuro, quasi nera, che continua sul collo e sotto il lenzuolo si congiunge alla peluria della schiena. Pochi uomini hanno la schiena tanto pelosa, un manto caldo che somiglia al pelouche di un orsacchiotto, eppure quando gliel'ho detto mi è sembrato che lo prendesse come un insulto alla sua dignità.

Sto cercando di capire se lo amo o no. Non dovrebbe essere un problema, ma viene sempre il momento in cui la curiosità per loro diventa più importante del quieto vivere, e non possono fare a meno di chiederlo; lui comunque non l'ha ancora fatto. Meglio avere la risposta già pronta: sia che tu svicoli o la metta giù dura e dica la verità, perlomeno non ti prendono alla sprovvista. Lo passo in rassegna, dividendolo in categorie: a letto è bravo, meglio di quello di prima; cambia spesso umore ma non è troppo fastidioso, dividiamo l'affitto e lui parla poco, questo è un vantaggio. Quando mi ha proposto di convivere non ho avuto esitazioni. Non si è trattato di una decisione vera e propria, è stato un po' come quando si compra un pesce rosso o un vasetto con un cactus, non perché se ne desidera uno, ma perché ci si trova nel negozio e li si vede allineati sul banco. Gli sono affezionata, mi fa piacere averlo intorno: però sarebbe bello se potesse essere qualcosa di più per me. Il fatto che non lo sia mi rattrista: dopo mio marito, nessuno lo è stato.

Un divorzio è come un'amputazione: si sopravvive, ma menomati.

Resto per un poco sdraiata a occhi aperti. Una volta questa era la mia stanza; Anna e David sono in quella con la carta geografica, qui ci sono i quadri.

Donne in bizzarre toilettes, boccoli a salsicciotto ricadenti sulla fronte, labbra rosse e tumide e ciglia che sembrano setole di spazzolini da denti: a dieci anni credevo nel fascino e nell'eleganza, era una sorta di religione e quelle erano le mie icone. Braccia e gambe sono irrigidite in pose da mannequin, una tiene una mano sul fianco, l'altra un piede voltato all'insù. Portano delle scarpe con la punta alla Petunia Pig e tacchi diritti, e abiti col bustino a corolla senza spalline, come quelli di Rita Hayworth, e gonne svasate coperte di macchioline che vogliono essere paillettes. Non disegnavo molto bene allora, c'è qualcosa che non va nelle proporzioni, i colli sono troppo corti e le spalle enormi. Probabilmente copiavo le bambole di carta che si trovavano in città, dive del cinema di cartone, Jane Powell, Esther Williams, con costumi da bagno a due pezzi stampati sul corpo e tutto un guardaroba fustellato di abiti da sera e négligés di pizzo. Bambinette in golfino grigio e camicia bianca, le trecce trattenute in testa da fermagli di plastica rosa, le possedevano e le comandavano a bacchetta; le portavano a scuola e le facevano sfilare a ricreazione, poggiandole contro il muro di mattoni consunti, coi piedi nella neve e vestiti di carta che non proteggevano dal vento gelido: per loro inventavano balli e feste, celebrazioni, interminabili cambiamenti d'abito, una corvée del piacere.

Sotto i quadri, ai piedi del letto, c'è una giacca di pelle grigia appesa a un chiodo. È sporca, e il cuoio è screpolato e spellato. La guardo per un momento prima di riconoscerla: era di mia madre molto tempo fa, lei teneva i semi di girasole nelle tasche. Credevo che l'avesse gettata via, non dovrebbe essere qui, mio padre avrebbe fatto meglio a disfarsene dopo il funerale.

Gli abiti dei morti dovrebbero essere sepolti insieme a loro.

Mi volto da una parte e spingo Joe verso il muro, in modo da potermi raggomitolare.

Riemergo dal sonno più tardi; Joe ora è del tutto sveglio, è uscito da sotto il lenzuolo. «Hai di nuovo parlato nel sonno» gli dico. A volte penso che parla di più mentre dorme di quanto non faccia da sveglio.

Emette un grugnito neutrale. «Ho fame.» Poi, dopo un intervallo: «Che cosa ho detto?» «Il solito. Volevi sapere dov'eri e chi ero.» Mi piacerebbe farmi raccontare il suo sogno: una volta sognavo, ma ora non più.

«Una bella seccatura» dice. «Tutto qua?» Scosto lenzuola e coperte e calo i piedi sul pavimento: è una piccola impresa, qui anche in piena estate le notti sono fredde. Mi vesto più in fretta che posso ed esco ad accendere il fuoco. Incontro Anna, ancora in camicia da notte di nylon senza maniche e scalza, che sta in piedi davanti allo specchio curvo e ingiallito.

Sul ripiano davanti a lei c'è un beauty case con la cerniera lampo, si sta truccando. Mi rendo conto che prima d'ora non l'avevo mai vista senza trucco: sfrondata delle guance rosa e del ritocco agli occhi la sua faccia è stranamente ammaccata, come quella di una bambola sciupata, il suo vero viso è quello artificiale.

Ha la pelle d'oca sugli avambracci.

«Qui non ti serve,» le dico «non c'è nessuno che ti guarda.» Frase di mia madre, me la disse una volta, quando avevo quattordici anni, guardandomi costernata mentre mi impiastricciavo la bocca di rossetto Mandarino Marimba. Le risposi che mi stavo solo esercitando.

Anna disse a bassa voce: «A lui non piace vedermi senza» e poi aggiunse, contraddicendosi: «Non sa che mi trucco.» Immagino il sotterfugio, o forse la devozione, che questo deve comportare: è costretta a uscire furtivamente dal letto prima che lui si svegli ogni mattina e, la sera, a infilarsi sotto le coperte a luci spente? Può darsi che David le racconti bugie generose; ma lei è talmente brava a mimetizzare il trucco e a trasformarsi che forse lui potrebbe non accorgersene.

Mentre la stufa si scalda esco; prima vado al gabinetto esterno e al lago per bagnarmi le mani e la faccia, poi al frigorifero: un bidone dell'immondizia interrato con un coperchio molto aderente, a prova di procione, e sopra una pesante botola di legno. Quando arrivavano i guardacaccia sulla lancia della polizia, come facevano una volta l'anno, non volevano credere che non avessimo la ghiacciaia e frugavano dappertutto in cerca di pesce nascosto, pescato di frodo.

Allungo la mano per prendere le uova; la pancetta è in una cassetta di rete metallica sotto la capanna, areata ma protetta dalle mosche e dai topi. Nella casa di un colono ci sarebbero stati il grottino della verdura e l'affumicatoio al posto del bidone e della cassetta; mio padre improvvisa liberamente sui temi classici.

Porto in casa la roba da mangiare e comincio a preparare la colazione. Joe e David si sono alzati, Joe è seduto sulla cassapanca, con la faccia ancora confusa dal sonno, David si esamina il mento allo specchio.

«Posso scaldare dell'acqua, se vuoi raderti» gli propongo, ma lui sorride nello specchio e scuote la testa.

«Noo, voglio farmi crescere la mia cara vecchia barbetta.» «Non t'azzardare» dice Anna. «Non mi piace che mi baci quando hai la barba, mi fa pensare a una fica.» Poi porta la mano sulla bocca come se fosse scandalizzata. «Che orrore!» «Ma che linguaggio osceno, donna» dice David.

«È incolta e volgare.» «Oh, lo so. Lo sono sempre stata.» È una scenetta vivace, il pubblico siamo Joe e io, ma lui è ancora chiuso nel rifugio interiore dal quale esce di rado e io sono ai fornelli a rigirare la pancetta, non posso guardarli, così smettono.

Mi accovaccio davanti alla cucina a legna e apro lo sportello del focolaio per tostare il pane sulla brace.

Le parole sporche non esistono più, sono state sterilizzate, ora sono soltanto parti del discorso: ma ricordo ancora come rimasi sconcertata e confusa quando scoprii che alcune parole erano sporche e le altre erano pulite. Le brutte parole in francese sono quelle religiose, in ogni lingua le peggiori si riferivano a ciò che più si temeva, e in inglese era il corpo, nemmeno Dio era tanto terrificante. Magari si diceva Gesucristo, ma voleva dire che si era in collera o indignati.

Ho imparato qualcosa sulla religione allo stesso modo in cui quasi tutti i bambini a quel tempo imparavano qualcosa sul sesso, non sulla strada, ma nel cortile di ghiaia e cemento della scuola, durante i mesi invernali di scuola effettiva. Gli altri bambini si stringevano in capannelli, tenendosi per le mani guantate di manopole, e bisbigliavano. Mi spaventavano raccontandomi che su nel cielo c'era un uomo morto che osservava ogni mia azione e io, per ritorsione, spiegavo loro come nascono i bambini. Qualche madre telefonò alla mia per reclamare, ma penso di essere stata molto più sconvolta di loro: loro a me non credevano, io a loro sì.

Dò l'ultimo tocco al pane tostato; anche la pancetta è pronta, la dispongo sui piatti e poi verso il grasso nel fuoco, badando a scostare la mano dalla fiammata.

Dopo la colazione David dice: «Che cosa abbiamo in programma?» Dico che vorrei esplorare il viottolo che corre per mezzo chilometro accanto alla riva: mio padre avrebbe potuto prenderlo per andare a far legna.

C'era un altro sentiero che si inoltrava fin quasi alla palude, ma era la pista segreta di mio fratello; ormai dev'essere indecifrabile.

Non può avere lasciato l'isola, le canoe sono tutte e due nella baracca degli attrezzi e il motoscafo d'alluminio è legato con il lucchetto a un albero accanto al pontile; le taniche di benzina per il motore sono vuote.

«Comunque,» dico «ci sono solo due posti in cui può essere: o sull'isola o nel lago.» La ragione mi contraddice: qualcuno avrebbe potuto venire a prenderlo qui per portarlo al paese sull'altra sponda del lago, sarebbe stato il modo ideale per sparire nel nulla; forse non è stato affatto qui durante l'inverno.

Ma queste sono scappatoie, non è raro che un uomo scompaia nella foresta, succede dozzine di volte all'anno. Basta un piccolo errore, allontanarsi troppo da casa in inverno - le tormente sono improvvise - o storcersi una gamba in modo da non poterne uscire, in primavera il colpo di grazia te lo darebbero i tafani, ti si infilano sotto i vestiti e nel giro di una giornata ti ritrovi coperto di sangue e delirante. Eppure non posso accettarlo, era troppo esperto, troppo prudente.

Dò a David la roncola, non so in che stato sarà il sentiero, forse dovremo farci strada tra la sterpaglia; Joe porta l'accetta. Prima di partire passo loro lo spray antinsetti su polsi e caviglie e me ne spruzzo un po' anch'io. Una volta ero immune dalle zanzare, da quando mi avevano punta, ma ora ho perduto l'antidoto: sulle gambe e sul corpo ho parecchie bolle rosa che prudono, risultato della notte scorsa. Il suono dell'amore al nord: un bacio, una pacca.

Il cielo è coperto, una nuvola bassa; soffia un venticello da sud ovest, forse più tardi pioverà oppure il temporale ci mancherà, qui il tempo buono o cattivo arriva a sacche, come il petrolio. Entriamo nell'erba ad altezza d'uomo mista a fusti di lamponi selvatici tra l'orto e il lago, oltre il mucchio del carbone e la concimaia. Avrei dovuto disseppellire i rifiuti, per vedere a quando risalgono; c'è anche un pozzo, in cui vengono schiacciate e sepolte le lattine bruciate, lì si potrebbe fare uno scavo. Mio padre analizzato come un reperto archeologico.

Siamo sul sentiero all'interno della foresta; il primo tratto è abbastanza sgombro, anche se ogni tanto oltrepassiamo ceppi giganteschi, segati al livello del suolo, resti degli alberi che erano qui prima che la regione venisse disboscata. Ormai gli alberi non li lasciano più crescere fino a quell'altezza, li abbattono non appena valgono qualcosa, gli alberi grandi sono rari come le balene.

La foresta si infittisce e io tengo d'occhio i segnavia, ancora visibili dopo quattordici anni; gli alberi su cui sono incisi hanno sviluppato intorno alle ferite dei margini rigonfi, tessuto cicatriziale.

Cominciamo a salire e mio marito mi raggiunge ancora una volta, facendo una delle sue brevi apparizioni, ricordi in cornice in cui è specialista: un'immagine nettissima circondata da un muro nudo. Sta scrivendo le sue iniziali su una staccionata, in leggiadre volute per dimostrarmi che la calligrafia era una delle cose che insegnava. Ci sono altre iniziali sulla staccionata ma lui le sue le sta facendo più grandi, per lasciare il segno. Non riesco a identificare né la data né il posto, accadde in una città, prima che ci sposassimo; io mi curvo al suo fianco, ammirando la luce del sole invernale sul suo zigomo e sul naso scolpito, nobile e diritto come quello di un profilo su una moneta romana; questo succedeva quando tutto quel che faceva era perfetto. La sua mano calza un guanto di pelle.

Diceva di amarmi, la parola magica, che avrebbe dovuto accendere ogni cosa, non mi fiderò mai più di quella parola.

Il mio rancore nei suoi confronti mi sorprende: ero io quel che si chiama l'imputata, quella che se ne è andata, lui non mi aveva fatto nulla. Voleva un bambino, questo è naturale, voleva che ci sposassimo.

Stamattina mentre lavavamo i piatti ho deciso di interrogare Anna. Stava asciugando un piatto e mormorava sottovoce brani di The Big Rock Candy Mountain.

«Come fai?» ho detto.

Ha smesso di mormorare. «A fare cosa?» «Il matrimonio. Come fate a tenerlo insieme?» Mi ha lanciato uno sguardo rapido, come se fosse diffidente. «Ci raccontiamo un sacco di barzellette.» «No, dico sul serio» ho detto. Se esisteva un trucco segreto volevo impararlo.

Allora mi ha parlato, non proprio a me ma a un invisibile microfono sospeso al di sopra della sua testa: le voci della gente prendono un tono radiofonico quando danno consigli. Ha detto che tutto stava ad avere un forte legame emotivo, che era come sciare, non si sa in anticipo che cosa succederà ma bisogna lanciarsi. Lanciarsi dove, volevo chiederle; giudicavo me stessa basandomi su quel che mi diceva. Forse era per questo che avevo fallito, perché non sapevo dove dovevo lanciarmi. Per me non era stato come sciare, piuttosto come saltar giù da una rupe. Era così che mi sentivo sempre, da sposata; per aria, mentre precipitavo giù, aspettando lo schianto sul fondo.

«Come mai non ha funzionato, con te?» ha detto Anna.

«Non lo so,» ho detto «forse ero troppo giovane.» Lei ha annuito con aria comprensiva. «Sei fortunata a non avere bambini, comunque.» «Sì» ho risposto. Nemmeno lei ne ha; se ne avesse non avrebbe potuto dirmelo. Non le ho mai raccontato del bambino; non l'ho detto nemmeno a Joe, non ce n'è motivo. Non lo scoprirà nel solito modo, non tengo sue fotografie, in cui occhieggia da una culla, da una finestra o da dietro le sbarre di un box, nel cassetto della scrivania o nel portafoglio, dove potrebbe trovarle per sbaglio e poi meravigliarsi, offendersi o rattristarsi. Devo comportarmi come se non esistesse, perché non può esistere per me, me l'hanno portato via, esportato, deportato. Un pezzo della mia vita, tagliato via da me come un gemello siamese, la mia carne cancellata. Errore, ricaduta, devo dimenticare.

Il sentiero adesso si snoda attraverso una zona elevata, dal terreno spuntano massi erratici trasportati e abbandonati dai ghiacciai, coperti di muschio e felci, qui il clima è umido. Tengo gli occhi fissi sul terreno, si ripresentano dei nomi, gaulteria, menta selvatica, cetriolo indiano: una volta ero capace di elencare tutte le piante che potevano essere usate o mangiate.

Imparavo a memoria manuali di sopravvivenza, Come cavarsela nella foresta, Impronte e tracce degli animali,I boschi d'inverno, all'età in cui le ragazzine di città leggevano riviste rosa: prima di allora non mi ero resa conto che ci si potesse perdere per davvero. Tornano a galla delle massime: portate sempre con voi dei fiammiferi e non morirete di fame, durante una tempesta di neve scavate una buca, alla larga dai funghi non classificati, mani e piedi sono la cosa più importante, se si congelano siete finiti. Nozioni di nessuna utilità; le riviste dozzinali, con le loro storielle morali, fanciulle che cedono e sono punite con neonati mongoloidi, fratture alla colonna vertebrale, mamme morte o uomini rubati dalle migliori amiche sarebbero state più pratiche.

Il sentiero scende e attraversa un piccolo estuario paludoso al margine di una baia, qui ci sono cedri e giunchi, iris, fango. Cammino lentamente, cercando delle impronte. C'è soltanto la traccia di un cervo, nessun segno di persone: evidentemente Paul e i cercatori non sono arrivati fin qui. Le zanzare hanno seguito il nostro odore e ora ci sciamano intorno alla testa; Joe impreca piano, David ad alta voce, in fondo alla fila sento Anna darsi delle pacche.

Ci allontaniamo bruscamente dalla riva ed ecco la giungla, rami che crescono attraverso il sentiero, nocciolo e acero montano, alberi robusti dal legname poco pregiato. Non ci si vede a un metro di distanza, fusti e rami formano una barriera che si intreccia compatta, verde, grigioverde, marrone grigiastro. Non ci sono rami tagliati o spezzati all'indietro, se mio padre è stato qui deve essere miracolosamente sgusciato attorno ai rami e tra un ramo e l'altro, invece di passarci attraverso. Mi tengo in disparte e David sferra colpi di roncola contro la parete, malamente: trincia e piega più che tagliare.

Sbuchiamo fuori a ridosso di un albero caduto di traverso sulla pista. Si è trascinato dietro molti giovani pioppi balsamiferi: sono tutti intricati, un ginepraio.

«Credo che di qui non sia passato nessuno,» dico, e Joe dice: «Bravissima», è seccato: è ovvio.

Scruto nella foresta per vedere se è stata aperta un'altra pista attorno all'albero caduto ma non ce n'è traccia; o forse ce ne sono troppe, dal momento che a me che sono in ansia qualunque spazio tra due alberi sembra una pista.

David punzecchia il tronco morto con la roncola, bucherellando la corteccia. Joe si siede per terra: ha il fiato grosso, troppa città, e cominciano a pungerlo i tafani, si gratta il collo e il dorso delle mani. «Mi sa che non c'è più niente da fare» dico, perché devo essere io ad ammettere la sconfitta, e Anna dice: «Grazie a Dio, qui mi stanno mangiando viva.» Si torna indietro. Mio padre potrebbe ancora essere là dentro da qualche parte, ma ora mi rendo conto dell'impossibilità di battere tutta l'isola per cercarlo, è lunga più di tre chilometri. Ci vorrebbero almeno venti o trenta uomini disposti in file intervallate, che attraversassero la foresta in linea retta, e anche così rischierebbero di farselo sfuggire, vivo o morto, incidente, suicidio o omicidio che sia. Se poi per qualche impenetrabile motivo quest'assenza è voluta e lui si tiene nascosto, non lo troverebbero mai: niente sarebbe più facile da queste parti che lasciarsi superare dai ricercatori e poi seguirli a distanza, fermandosi quando si fermano, tenendoli d'occhio in modo da restare sempre alle loro spalle, da qualunque parte si voltino. Questo è quel che farei io.

Camminiamo nella luce verde, i passi attutiti dalle foglie umide che stanno marcendo. Al ritorno la fila è cambiata: io ora sono in fondo. Non faccio tre passi senza guardarmi intorno, sforzando gli occhi, esaminando il terreno in cerca di indizi, di qualunque traccia umana: un bottone, una cartuccia, un pezzetto di carta gettato via.

È come quando giocava a nascondino con noi nella semioscurità del dopocena; non era come giocare dentro casa, lo spazio in cui nascondersi era infinito; anche se sapevamo dietro quale albero si era nascosto c'era sempre la paura che quando lo stanassimo potesse uscire qualcun altro.

Nessuno può aspettarsi altro da me. Ho controllato tutto, ho tentato; ora sono dispensata dal sapere.

Dovrei informare qualche autorità, riempire formulari, farmi aiutare come si fa di solito nei casi d'emergenza.

Ma è come ricercare un anello perso su una spiaggia o nella neve: futile. Non posso fare altro che aspettare; domani Evans ci porterà in barca fino al paese, e dopo ritorneremo in città e nella coniugazione presente. Quel che dovevo fare l'ho fatto e non voglio trattenermi qui, voglio tornare nel mondo della corrente elettrica e della distrazione. Ormai ci sono abituata, passare il tempo senza queste cose è una fatica.

Gli altri stanno cercando di divertirsi. Joe e David sono fuori su una delle canoe; avrei dovuto fare in modo che prendessero i giubbotti salvagente, nessuno dei due sa manovrare, spostano le pagaie da una parte all'altra. Li vedo dalla finestra sul davanti e da quella laterale vedo Anna, seminascosta dagli alberi.

È sdraiata a pancia in giù in bikini e occhiali da sole a leggere un romanzo giallo, però deve avere freddo: il cielo si è un po' rasserenato, ma quando le nuvole passano sul sole il calore cessa di colpo.

A parte il bikini e il colore dei capelli potrebbe essere me a sedici anni, stesa sul molo col broncio, indispettita perché ero lontana dalla città e dal ragazzo procurandomi il quale avevo dimostrato la mia normalità; il suo anello, che mi andava troppo largo a tutte le dita, lo portavo intorno al collo appeso a una catenina, come un crocifisso o una medaglia al valore.

Joe e David, una volta che la distanza ha contraffatto i loro visi e la loro goffaggine, potrebbero essere mio fratello e mio padre. L'unico posto rimasto per me è quello di mia madre; un bel problema, quel che faceva il pomeriggio tra la routine del pranzo e quella della cena. Talvolta portava briciole o semi fuori sulla mangiatoia per gli uccelli e aspettava le ghiandaie in piedi, dritta come un albero, oppure estirpava le erbacce dal giardino; ma certi giorni semplicemente scompariva, se ne andava da sola nella foresta a piedi.

Impossibile essere come mia madre, ci vorrebbe uno sfalsamento cronologico; rispetto agli altri lei aveva o diecimila anni di ritardo o cinquant'anni d'anticipo.

Mi spazzolo i capelli davanti allo specchio, tergiversando; poi ritorno al mio lavoro, il compito che mi è stato assegnato, la carriera che mi è capitata tra capo e collo, non era nei miei progetti, ma dovevo trovare qualcosa da vendere. Mi sento ancora poco a mio agio, non so come vestirmi per i colloqui d'assunzione: mi sembra di avere il lavoro attaccato addosso con le cinghie, come un respiratore, oppure come un arto supplementare artificiale. Ho un titolo comunque, una qualifica, e questo aiuta: sono quel che chiamano una cartellonista, oppure, se il lavoro è più pretenzioso, un'illustratrice. Faccio manifesti, copertine, un po' di pubblicità e di disegni per le riviste e ogni tanto un libro su commissione, come questo. Per qualche tempo volevo diventare una vera artista; lui pensava che fosse un'idea carina ma fuorviante, diceva che avrei dovuto studiare qualcosa che potessi sfruttare, perché non c'erano mai state artiste donne abbastanza importanti. Questo fu prima che ci sposassimo e io gli davo ancora retta, così passai a Disegno e feci fantasie per i tessuti. Ma lui aveva ragione, non ce ne sono mai state.

Questo è il quinto libro che faccio; il primo era una guida agli impieghi del Ministero del lavoro, giovani con un sorriso da lobotomizzati, estatici nel loro posto ideale: Programmatore di computer, Saldatore, Segretaria d'azienda, Tecnico specializzato. Disegni lineari e qualche grafico. Gli altri erano libri per bambini, come questo, Fiabe popolari del Quebec, che è una traduzione. Non è il mio campo, ma ho bisogno di soldi. Sono tre settimane che ho il dattiloscritto, non ho ancora prodotto nemmeno un'illustrazione definitiva.

Di regola lavoro ad un ritmo più spedito.

Le storie sono diverse da come me le aspettavo; assomigliano alle fiabe tedesche, a parte l'assenza di scarpine di ferro rovente e botti foderate di chiodi. Mi chiedo se questa clemenza risale ai narratori originari, al traduttore o all'editore; probabilmente è stato il signor Percival, l'editore, un uomo prudente che rifugge da tutto ciò che è «inquietante», come dice lui.

Abbiamo avuto una discussione a questo proposito: lui diceva che uno dei miei disegni era troppo pauroso, e io dicevo che ai bambini piace essere spaventati.

«Non sono i bambini che comprano i libri,» disse «sono i loro genitori.» Allora scesi al compromesso; ora i compromessi li faccio prima di accettare il lavoro, si risparmia tempo. Ho capito che genere di cose vuole: eleganti e stilizzate, dai colori decorativi, come torte di pasticceria. È una cosa che so fare, io so imitare qualunque cosa: finto Walt Disney, acqueforti vittoriane in nero seppia, donzellette bavaresi, eschimesi artificiali per il mercato interno. Quel che apprezzano di più comunque sono le cose che possono interessare anche gli editori inglesi e americani.

Acqua pulita in un bicchiere, pennelli in un altro, acquerelli e colori acrilici nei tubetti metallici da dentifricio.

Vicino al mio gomito c'è un moscone azzurro, addome metallico e brillante, proboscide che si muove sulla tela cerata come una settima zampa. Quando pioveva ci sedevamo a questo tavolo e disegnavamo sui nostri album con i pastelli o le matite colorate, tutto quel che ci piaceva. A scuola bisognava fare quel che facevano gli altri.

Sulla cima del colle, per tutti da ammirare Un acero scarlatto Iddio volle piantare scritto in stampatello su trentacinque fogli appesi in fila sopra alla lavagna, e su ogni pagina era incollata una foglia d'acero secca, stirata tra fogli di carta oleata.

Abbozzo una principessa, una normale, busto gracile da indossatrice e viso infantile, come quelle che ho fatto per Le fiabe più belle. Da piccola le trovavo irritanti, mai che i racconti rivelassero le cose essenziali della loro vita, ad esempio cosa mangiavano o se le loro torri e segrete erano dotate di bagno, era come se i loro corpi fossero fatti d'aria pura. Non era la capacità di volare a rendermi poco credibile Peter Pan, era l'assenza di un gabinetto esterno vicino alla sua tana sotterranea.

La mia principessa ha la testa rivolta all'insù: sta contemplando un uccello che sorge da un nido di fiamme ad ali spiegate, come un emblema araldico o il simbolo di una compagnia d'assicurazione contro gli incendi: La fiaba della Fenice d'oro. L'uccello deve essere giallo, e anche il fuoco può solo essere giallo, devono controllare i costi e così non posso usare il rosso; in questo modo perdo anche l'arancione e il viola. Avevo chiesto il rosso al posto del giallo, ma il signor Percival voleva «un tono freddo».

Pausa di valutazione: più che sembrare piena di meraviglia, la principessa ha l'aria sbalordita. La cestino e ci riprovo, ma stavolta è strabica e ha un seno più grosso dell'altro. Ho le dita rigide, forse mi sta venendo l'artrite.

Scorro di nuovo il racconto cercando un altro episodio, ma le illustrazioni non prendono forma. È difficile credere che da queste parti qualcuno, sia pure le nonne, abbia mai conosciuto queste fiabe: questo non è un paese di principesse, la Fontana della Giovinezza e il Castello dei Sette Splendori non c'entrano niente qui. Di sicuro si raccontavano delle storie quando sedevano attorno alla cucina a legna la sera: storie di cani stregati, di alberi malefici e del magico potere dei candidati politici dell'opposizione le cui effigi di paglia venivano bruciate durante le elezioni.

Ma la verità è che non ho idea di che cosa pensasse la gente del paese né di che cosa parlasse, vivevo talmente isolata. I più anziani ogni tanto si facevano il segno della croce quando passavamo, probabilmente a causa dei pantaloni di mia madre, ma anche quella rimase una cosa mai spiegata. Anche se durante le nostre visite giocavamo insieme ai figli di Paul e Madame, seri e un poco ostili, erano giochi brevi e senza parole. Non riuscimmo mai a scoprire che cosa succedeva dentro la minuscola chiesa sul fianco della collina in cui ogni domenica entravano in fila indiana: i nostri genitori ci impedivano di salire di soppiatto a sbirciare dalle finestre, il che rendeva la cosa proibita e piena di attrattiva. Quando mio fratello cominciò ad andare a scuola durante l'inverno mi disse che quella si chiamava Messa, e che là dentro quelli mangiavano; io mi immaginavo una specie di festa di compleanno, con il gelato - a quel tempo le mie esperienze circa i pasti di gruppo si limitavano alle feste di compleanno - ma secondo mio fratello mangiavano soltanto dei crackers.

Quando cominciai la scuola anch'io pregai che mi lasciassero frequentare il catechismo come tutti gli altri; ero curiosa, e poi volevo essere meno anomala.

Mio padre non era d'accordo, reagì come se gli avessi chiesto di andare in una sala da biliardo; lui dal cristianesimo era fuggito, desiderava proteggerci dalle sue deformazioni. Ma dopo un paio d'anni decise che ero abbastanza grande, potevo giudicare da me, la ragione mi avrebbe difesa.

Sapevo cosa bisognava mettersi, calzettoni bianchi che pizzicavano, guanti e cappello; ci andavo insieme ad una compagna di scuola la cui famiglia si occupava di me con sussiegoso spirito apostolico. Era una chiesa degli unitari, si trovava su una lunga strada grigia fiancheggiata da edifici a forma di cubo. In cima al campanile al posto della croce c'era una cosa fatta a cipolla che ruotava, un ventilatore, dicevano, e all'interno si sentiva odore di cipria e di pantaloni di lana umidi. I locali del catechismo si trovavano in cantina; c'erano delle lavagne come in una scuola vera, e una portava la scritta KIKCAPOO I PELLIROSSE

SPRINT in stampatello in gessetto arancione, e sotto, col gessetto verde, le misteriose iniziali A.G.G.C. Forse quello era un indizio, finché non me lo tradussero, Associazione Ginnica delle Giovinette Canadesi. La maestra aveva le unghie smaltate di bordeaux e un cappello azzurro grande quanto una frittella fissato alla testa con due spilloni; ci raccontava sempre dei suoi ammiratori e delle loro automobili. Alla fine distribuiva immaginette di Gesù, che non aveva le spine e le costole sporgenti ma era vivo e paludato in un lenzuolo, con l'aria stanca, certamente incapace di operare miracoli.

Dopo il servizio la famìglia con cui andavo saliva ogni volta in macchina fino a una collina sopra la stazione capolinea per guardare i treni che incrociavano sul piazzale di smistamento; era il loro spasso domenicale.

Poi mi invitavano a pranzo, si mangiava sempre lo stesso, maiale coi fagioli e ananas in scatola per dessert. All'inizio il padre diceva la preghiera: «Per ciò che stiamo per ricevere possa il Signore renderci veramente grati, Amen» mentre i quattro bambini si davano pizzicotti e calci sotto al tavolo; e alla fine diceva: Il maiale coi fagioli ed. i frutti canterini più ne mangi più ti viene da far tanti [strombettini].

La madre, che aveva uno chignon di capelli brizzolati e peli pungenti attorno alla bocca come uno schmoo di Li'l Abner, aggrottava la fronte e mi chiedeva che cosa avevo imparato su Gesù quella mattina, e il padre faceva un pallido sorriso nell'indifferenza generale; era un impiegato di banca, i treni domenicali costituivano il suo unico svago, quella poesiola la sua unica sconvenienza. Per un po' rimasi con la confusa idea che l'ananas in scatola fosse canterino per davvero e facesse cantare meglio, finché mio fratello non mi chiarì le idee.

«Forse diventerò cattolica» dissi a mio fratello; avevo paura di dirlo ai miei genitori.

«I cattolici sono pazzi» disse. I cattolici andavano a una scuola un po' più in giù della nostra, i ragazzi li prendevano a palle di neve d'inverno e a sassate in primavera e autunno. «Credono alla B.V.M.» Io non sapevo che cos'era, e nemmeno lui, perciò aggiunse: «Credono che chi non va alla Messa diventa un lupo.» «Tu diventerai un lupo?» chiesi.

«Noi non ci andiamo,» disse «e non lo siamo ancora diventati.» Forse è per questo che non si sono fatti in quattro a cercare mio padre, hanno avuto paura, hanno pensato che si fosse trasformato in un lupo; lui era un candidato ideale, a Messa non c'era stato mai. Les maudits anglais, dannati inglesi, lo dicono per davvero; sono sicuri che siamo tutti dannati, letteralmente.

Dovrebbe esserci una storia di lupi mannari nelle Fiabe popolari del Quebec, forse c'era e il signor Percival l'ha eliminata, era troppo brutale per lui. In qualche altro racconto però succede il contrario, al loro interno, gli animali sono esseri umani ed escono dal manto peloso senza sforzo, come se si togliessero i vestiti.

Mi tornano in mente i peli sulla schiena di Joe, vestigia primitive, come l'appendicite e le dita dei piedi: fra poco l'evoluzione ci renderà del tutto calvi. Però mi piacciono i suoi capelli, e i denti forti, le spalle massicce, i fianchi sorprendentemente esili, le mani di cui sento ancora il tocco sulla pelle, rese ruvide e coriacee dall'argilla. Si direbbe che tutto ciò che apprezzo in lui sia fisico: il resto è o ignoto, o spiacevole, o ridicolo. Non mi piace molto il suo carattere, che oscilla tra lo scontroso e il malinconico, e nemmeno i vasi giganti che modella con tanta abilità sul tornio e poi mutila perforandoli, strangolandoli, squarciandoli.

Sto esagerando, lui non usa mai i coltelli, soltanto le dita, e quasi sempre si limita a deformarli, piegandoli in due; ma anche così hanno un aspetto sgradevole, da mutanti. Non c'è nessuno che li apprezzi: le casalinghe zelanti cui fa lezione due sere alla settimana, Tornitura e Ceramica 432-A, preferiscono fare portaceneri e piatti con su allegre margheritine, e le sue cose non si vendono per niente, nei pochi negozi d'artigianato disposti a tenerle in magazzino. Così si accumulano nel nostro appartamento al seminterrato già pieno zeppo, come ricordi frammentari o vittime di omicidi. Non posso nemmeno metterci dei fiori, l'acqua colerebbe fuori dalle aperture. La loro, unica funzione è quella di sostenere l'inespressa ambizione di Joe ad una superiore serietà artistica: ogni volta che vendo il disegno di un poster oppure ottengo una nuova commissione lui storpia un altro vaso.

Volevo che la mia terza principessa corresse leggera su un prato ma la carta è troppo bagnata, mi sfugge di mano, le spunta un sederone enorme; tento di recuperarlo trasformandolo in una crinolina, ma non è convincente. Mi arrendo e comincio a scarabocchiare, aggiungo zanne e baffi, le disegno intorno lune, pesci e un lupo ringhiante dalla groppa setolosa; ma non funziona neanche questo, assomiglia più che altro ad un collie troppo grasso. Che alternative ci sono alle principesse, che cos'altro comperano i genitori per i loro bambini? Orsacchiotti antropomorfi e maialini parlanti, trenini ciuf ciuf di stampo protestante che arrivano in cima alle salite e fanno un sacco di strada.

Forse non è soltanto il suo corpo a piacermi, forse è il suo fallimento: anche in quello c'è una specie di purezza.

Accartoccio la mia terza principessa, butto l'acqua sporca nel secchio della risciacquatura e pulisco i pennelli. Dò un'occhiata fuori dalle finestre: David e Joe sono ancora al largo sul lago ma ora sembrano dirigersi verso casa. Anna è sui gradini sul fianco della collina, a metà strada, coll'asciugamano sotto il braccio.

La vedo per un attimo inquadrettata dalla zanzariera della porta e poi entra.

«Ciao,» dice «concluso qualcosa?» «Non molto» rispondo.

Si avvicina al tavolo e spiana le mie principesse accartocciate. «Questo è buono» dice senza convinzione.

«Quelli sono errori» dico.

«Oh.» Rivolta i fogli a faccia in giù. «Ci credevi in queste cose da piccola?» dice. «Io sì, pensavo che in realtà ero una principessa e che prima o poi sarei andata a vivere in un castello. Non dovrebbero dare ai bambini roba di questo genere.» Va allo specchio, si tampona e si liscia il viso, poi si alza in punta di piedi a controllarsi la schiena per vedere se è rossa.

«Ma che cosa ci faceva quassù?» chiede improvvisamente.

Ci metto un momento per capire che cosa intende.

Mio padre, il suo lavoro. «Non lo so» dico. «Insomma, cioè...» Mi dà una strana occhiata, come se avessi fatto uno strappo alle buone maniere, e io rimango confusa, lei una volta mi ha detto che non bisogna definirsi secondo il proprio lavoro ma secondo chi si è. Quando le chiedono che cosa fa, lei parla di fluidità e di Essere-non-Fare; però se la persona non le piace dice solo: «Sono la moglie di David.» «Ci viveva» dico. Ci siamo quasi, la risposta la soddisfa, va in camera da letto a cambiarsi d'abito.

Improvvisamente sono furiosa contro di lui perché è sparito così, lasciando le cose a metà, lasciandomi senza risposte da dare a chi domanda. Se stava per morire avrebbe dovuto farlo in modo visibile, all'aperto, così avrebbero potuto contrassegnarlo con una lapide e farla finita.

Dev'essere strano per loro, un uomo della sua età che rimane da solo tutto l'inverno in una capanna in capo al mondo, a quindici chilometri da tutto; io non me ne sono mai fatta un problema, per me era logico.

Avevano sempre avuto l'intenzione di trasferirsi qui permanentemente non appena avessero potuto, una volta che lui fosse andato in pensione: per lui l'isolamento era una cosa desiderabile. Non odiava la gente, la trovava semplicemente irrazionale: gli animali, diceva, erano più coerenti, il loro comportamento almeno era prevedibile. Per lui era questo che Hitler esemplificava: non il trionfo del male ma il fallimento della ragione. Giudicava irrazionale anche la guerra, i miei genitori erano tutti e due pacifisti, ma lui avrebbe combattuto lo stesso, forse a difesa della scienza, se gli fosse stato permesso; questo dev'essere l'unico paese in cui un botanico può essere classificato come essenziale alla difesa della nazione.

Così come stavano le cose si ritirò; avremmo potuto abitare tutto l'anno nella città della sua ditta, ma lui ci fece vivere divisi tra due luoghi ugualmente anonimi: la città e la foresta. In città cambiavamo casa di continuo e nella foresta scelse il lago più isolato che poté trovare: quando nacque mio fratello la strada non ci arrivava ancora. Anche in paese c'era troppa gente per i suoi gusti, aveva bisogno di un'isola, un luogo in cui ricreare non tanto la sedentaria vita da agricoltore che era stata quella di suo padre, ma quella dei primissimi coloni che arrivarono quando non c'era nient'altro che foresta, e nessuna ideologia tranne quelle che portavano con sé. Quando parlano di Libertà, quel che intendono è più che altro libertà dalle interferenze altrui.

La pila di carte è ancora sulla mensola accanto alla lampada. Me ne sono tenuta lontana, sfogliarla sarebbe un'intrusione, se fosse ancora vivo. Ma adesso che ho ammesso che è morto potrei anche scoprire che cosa mi ha lasciato. Come un'esecutrice testamentaria.

Mi aspettavo un rapporto di qualche genere, sulla crescita e le malattie degli alberi, del lavoro incompiuto, ma sulla pagina in cima c'è soltanto il rozzo disegno di una mano, tracciata a pennarello o con un pennello, e delle annotazioni: numeri, un nome. Scorro ancora qualche pagina. Altre mani, poi una rigida figura infantile, senza volto e priva di mani e piedi, e sul foglio seguente un essere simile, con due cose che somigliano a rami o corna che gli spuntano dalla testa.

I numeri appaiono su tutti i fogli, ed alcuni portano poche parole scribacchiate: LICHENI INDUMENTI

ROSSI SINISTRA. Non capisco cosa significano. La scrittura è quella di mio padre, ma è diversa, più frettolosa o trascurata.

Sento all'esterno il cozzo di legno contro legno della canoa che urta contro il pontile, l'hanno fatta rientrare troppo in fretta; poi la loro risata. Ripongo la pila di carte al suo posto sulla mensola, non voglio che la vedano.

Ecco cosa ha fatto qui tutto l'inverno, è rimasto rintanato in questa capanna a fare quei disegni indecifrabili.

Mi siedo a tavola, ho il cuore che batte più veloce, come se avessi aperto una credenza che ritenevo vuota e mi fossi trovata faccia a faccia con qualcosa che non dovrebbe esserci, come un artiglio o un osso.

Questa è la possibilità dimenticata: potrebbe essere diventato pazzo. Tocco, svitato. Ha il mal del bosco, dicono i cacciatori di pelli di chi rimane troppo a lungo nella foresta da solo. E se è pazzo, forse non è morto: cambierebbero tutte le regole.

Anna esce dalla sua stanza da letto, con indosso di nuovo jeans e maglietta. Si pettina i capelli davanti allospecchio, punte chiare, radici scure, canterellando a bocca chiusa You Are My Sunshine', il fumo sale a volute dalla sua sigaretta. Aiuto, le dico col pensiero, parla. E lei lo fa.

«Cosa c'è per cena?» dice; poi, agitando la mano: «Eccoli che tornano.» A cena diamo fondo alla birra. David vuole andare a pesca, è l'ultima sera, perciò lascio i piatti ad Anna e scendo in giardino con la pala e la lattina dei piselli che ho conservato.

Scavo nel punto in cui crescono più erbacce, vicino alla concimaia, sollevando la terra e lasciando che si sbricioli, passandola al vaglio con le dita per tirar fuori i vermi. Il terreno è grasso, i vermi brulicano, rossi e rosa.

Nessuno mi ama Mi odiano tutti Andrò nell'orto a mangiare vermi.

La cantavano senza sosta a ricreazione: era un insulto, ma forse sono commestibili. Quando è stagione li vendono come noccioline, sui cartelli al margine della strada c'era scritto VERS 5 CENTS, a volte VERS

CENTS, in seguito VERS 10 CENTS, inflazione. A lezione di francese, vers libre la prima volta lo tradussi vermi liberi, e la professoressa pensò che stessi facendo la spiritosa.

Metto i vermi nella lattina insieme a un po' di terra per loro. Mentre torno alla capanna tengo il palmo della mano sull'apertura; stanno già spingendo su le teste, cercano di uscire. Confeziono un coperchio con un pezzo di carta strappato dal sacchetto della drogheria trattenuto da un elastico. Mia madre conservava tutto: elastici, spago, spille di sicurezza, vasetti della marmellata, per lei la Depressione non era mai finita.

David sta montando i pezzi della canna da pesca noleggiata; è in fibra di vetro, e non mi dà affidamento.

Stacco la canna d'acciaio per la pesca a rimorchio dai ganci sul muro. «Dai,» dico a David «quella la puoi usare per la pesca da fermo.» «Fammi vedere come si fa ad accendere la lampada» dice Anna. «Io rimango qui a leggere.» Non voglio lasciarla sola. Ho paura che mio padre, nascosto in qualche recesso dell'isola e forse attratto dalla luce, appaia incombente alla finestra come un'enorme falena cenciosa; oppure, se conserva un minimo di lucidità, le chieda chi è e le ingiunga di uscire da casa sua. Finché rimaniamo in quattro si terrà alla larga, i gruppi non gli sono mai piaciuti.

«Un po' scarso come sport» dice David.

Io le dico che ho bisogno di lei sulla canoa per fare zavorra, il che è una bugia perché saremo già troppo pesanti, ma lei si fida della mia parola di esperta.

Mentre salgono sulla canoa torno nell'orto e catturo una piccola rana leopardo come arma d'emergenza.

La metto in un vasetto da marmellata e faccio sul coperchio qualche foro di ventilazione.

Scatola degli arnesi da pesca che odora di pesce stantio, antiche prede; lattina dei vermi e barattolo con la rana, coltello e mucchio di fronde di felce per metterci a sgocciolare il sangue del pesce. Joe a prua, Anna dietro di lui su un giubbotto salvagente, girata verso di me, David su un altro giubbotto con le gambe aggrovigliate tra quelle di Anna, che mi dà le spalle.

Prima di staccarmi dal molo assicuro alla lenza di David un'esca di metallo argento e oro con occhi di vetro color rubino e ci infilzo un verme, annodandolo in un cappio invitante. Testa e coda si arricciano.

«Puah» dice Anna, che vede quel che sto facendo.

«Non gli fa male,» diceva mio fratello «non sentono niente.» «E allora perché si contorcono?» dicevo. Lui rispondeva che era la tensione nervosa.

«Qualunque cosa succeda,» dico «restate nel mezzo.» Usciamo pesantemente e laboriosamente dall'insenatura.

Ho voluto strafare: sono anni che non salgo su una canoa, ho i muscoli a pezzi, Joe rema come se stesse rimestando il lago con un cucchiaio e abbiamo la prua bassa. Ma nessuno di loro se ne accorgerà.

Penso che è una fortuna che le nostre vite non dipendano dalla cattura di un pesce. Se muori di fame, morditi il braccio e succhia il sangue, come fanno sulle scialuppe di salvataggio; o alla maniera dei pellirosse, se non hai l'esca prova con un pezzetto della tua carne.

La costa dell'isola si allontana dietro di noi, lui non può seguirci qui. Al disopra degli alberi si allargano sul cielo nuvole a pecorelle screziate, come colore su un foglio bagnato; niente vento a livello del lago, aria mite che preannuncia la pioggia. Ai pesci piace, e anche alle zanzare, ma non posso usare lo spray contro gli insetti perché andrebbe a finire sull'esca e i pesci ne sentirebbero l'odore.

Dirigo la canoa lungo la costa del lago. Un airone azzurro si alza in volo dalla baia in cui stava pescando e passa su di noi sbattendo le ali, collo e becco allungati in avanti, lunghe zampe tese all'indietro, un serpente alato. Prende nota di noi con un gracchio rauco da pterodattilo e sale più in alto, dirigendosi a sud ovest; una volta ce n'era una colonia, dev'esserci ancora. Ma adesso devo badare di più a David. La lenza color rame scende obliquamente, fende l'acqua, vibra appena.

«Si muove qualcosa?» chiedo.

«Solo una specie di tremolio.» «Quello è il cucchiaino che gira» dico. «Tieni giù la punta; se senti che abbocca aspetta un secondo e poi dai uno strappo secco, okay?» «D'accordo» dice.

Ho le braccia stanche. Dietro di me sento il toctoc della rana che salta e sbatte il muso contro il coperchio del vasetto.

Quando ci avviciniamo alla roccia a picco gli dico di riavvolgere la lenza, pescheremo da fermi e lui può usare la sua canna.

«Sdraiati, Anna,» dice «che adesso uso la mia canna.» Anna dice: «Oh Cristo, ogni momento è buono per te, vero?» Lui ridacchia, riavvolge e la lenza risale sgocciolando acqua; il pallido brillio dell'esca esce ondeggiando dal lago. Quando oscilla verso di noi sulla superficie mi accorgo che il verme non c'è più. Su uno degli ami c'è un brandello di pelle del verme; una volta mi meravigliavo che le esche con i loro rozzi occhi da idolo africano riuscissero a trarre in inganno i pesci, ma forse hanno imparato.

Siamo di fronte alla scarpata, una lastra di roccia grigia diritta come un monumento, un poco sporgente, a metà altezza un cornicione a gradino, lichene marrone che cresce nelle crepe. Aggancio un piombino, un altro cucchiaino e un verme fresco alla lenza di David e la lancio; il verme affonda, rosa, bruno-rosato, finché scompare nell'ombra della scarpata. Le scure sagome a forma di siluro dei pesci lo vedono, lo annusano, lo spingono coi nasi. Credo nei pesci come altri credono in Dio: non li vedo ma so che ci sono.

«Rimani immobile» dico ad Anna, che comincia ad agitarsi per la scomodità. Loro ci sentono.

Luce calante, silenzio; nel fondo della foresta sale a spirale il verso armonioso di un tordo, che canta al tramonto. David muove il braccio su e giù.

Visto che non succede nulla gli dico di riavvolgere; il verme è sparito di nuovo. Tiro fuori la rana, la soluzione definitiva, e la infilzo saldamente mentre quella strilla. Erano sempre gli altri a farlo per me.

«Dio, che sangue freddo hai» dice Anna. La rana affonda nell'acqua, scalciando come un uomo che nuota.

Tutti si concentrano, persino Anna: sentono che questo è il mio ultimo trucco. Io fisso l'acqua, per me è sempre stata una specie di meditazione. Mio fratello pescava con la tecnica, prevedeva le mosse dei pesci, io pescavo con la preghiera, tendendo le orecchie.

Padre nostro che sei nei cieli Ti prego fa' che il pesce abbocchi.

Più avanti, una volta capito che non funzionava, dicevo soltanto Ti prego fatti prendere, invocazione o formula ipnotica. Lui prendeva più pesci ma io potevo far finta che i miei fossero venuti spontaneamente, che avessero scelto di morire e mi avessero perdonata in anticipo.

Comincio a pensare che la rana ha fatto cilecca.

Ma la magia si ripete, la canna si piega come la bacchetta di un rabdomante e Anna lancia uno strillo di sorpresa.

Dico: «Tieni tesa la lenza», ma David è smemorato, sta girando il mulinello come fosse un frullatore e dice tra sé e sé «Uau, uau», ed eccolo in superficie, salta fuori completamente e rimane appeso per aria come in una foto in cornice esposta in un bar, solo che si muove. Il pesce si tuffa a capofitto e tira, la lenza si allenta, si piega su se stesso cercando di sganciarsi con uno scossone; ma quando salta di nuovo David dà uno strattone alla canna con tutto il suo peso e il pesce arriva volando e atterra mollemente nella canoa, una mossa stupida, rischiava di perderlo, diritto su Anna, e lei si tira da una parte urlando: «Toglimelo di dosso! Toglimelo di dosso!» e quasi ci ribaltiamo. Joe dice: «Santa merda», e si aggrappa al bordo, io mi piego dall'altra parte, equilibrandolo, David tenta di agguantarlo. Il pesce guizza sui fianchi della canoa, sbattendo le pinne e muovendosi a scatti.

«Tieni,» dico «colpiscilo dietro agli occhi.» Gli allungo il coltello inguainato, preferirei non essere io ad ucciderlo.

David sferra un colpo, lo manca, Anna si copre gli occhi e fa «Uh uh.» Il pesce mi casca davanti e io ci metto un piede sopra, afferro il coltello e lo picchio rapidamente col manico, frantumandogli il cranio, lui si irrigidisce con un tremito, il colpo l'ha finito.

«Che cos'è?» chiese David, sbalordito dalla sua preda ma anche fiero. Ridono tutti, imbaldanziti dalla vittoria e dal sollievo, come i cinegiornali delle parate al termine della guerra, e questo mi fa piacere. Le loro voci rimbalzano sulla scarpata.

«Un occhiogrigio» dico. «Una lucioperca. Lo mangeremo a colazione.» È abbastanza grosso. Lo tiro su, con le dita agganciate sotto le branchie e tenendolo saldamente, sono capaci di mordere e guizzar via anche dopo morti. Lo poso sulle foglie di felce e mi sciacquo la mano e il coltello. Ha un occhio che sporge e mi viene un po' di nausea, è perché ho ucciso qualcosa, ho dato la morte; però so che è illogico, ammazzare certe cose è permesso, quelle che si mangiano e quelle ostili, pesci e zanzare; anche le vespe, se ce ne sono troppe si versa dell'acqua bollente nei loro nidi. «Lasciatele in pace e loro lasceranno in pace voi» ci diceva mia madre quando atterravano sui nostri piatti. Questo successe prima che fosse costruita la casa, vivevamo all'aperto, nelle tende. Mio padre diceva che le vespe avevano un andamento ciclico.

«Forte, eh?» dice David agli altri; è emozionato, vuole degli elogi. «Bleah,» dice Anna «è viscido, io quello non lo mangio.» Joe borbotta, mi domando se è invidioso.

David vuole fare un altro tentativo; è come giocare d'azzardo, si smette solo se si perde. Non gli ricordo che non ho più rane magiche; tiro fuori un verme per lui e lascio che lo inneschi da sé.

Pesca per un po', ma non ha fortuna. Proprio mentre Anna ricomincia a dimenarsi sento un mugolio, è una barca a motore. Mi metto in ascolto, forse va da qualche altra parte, ma doppia un promontorio e diventa un rombo che punta verso di noi, un grosso motoscafo con la prua che fende in due ali l'acqua bianca. Il motore si arresta di colpo e la barca scivola accanto a noi, sollevando un'onda che ci fa oscillare violentemente. Davanti una bandiera americana, dietro un'altra, due uomini d'affari dall'aria irritata con le facce rincagnate e vestiti come figurini, con un uomo del paese magro e male in arnese, che li guida. Vedo che è Claude del motel, ci guarda torvo, ha l'impressione che stiamo pescando di frodo nella sua riserva.

«Si prende niente?» urla uno degli americani scoprendo i denti, cordiale quanto uno squalo.

Rispondo: «No» e dò un colpetto col piede a David.

Lui glielo racconterebbe, se non altro per dispetto.

L'altro americano getta il mozzicone del suo sigaro fuoribordo. «'Sto posto non mi pare un granché» dice a Claude.

«Una volta lo era» dice Claude.

«L'anno prossimo me ne vado in Florida» dice il primo americano.

«Riavvolgi» dico a David. Non ha senso rimanere qui adesso. Se pescano un pesce staranno qui tutta la notte, se non prendono nulla entro un quarto d'ora partiranno a razzo e faranno baccano su tutto il lago con la loro barca truccata, assordando i pesci. Sono gente che pesca più di quanto può mangiare e lo farebbero con la dinamite, se fosse permesso.

Un tempo noi pensavamo che fossero innocui, buffi, inetti e vagamente simpatici, come il presidente Eisenhower. Una volta ne incontrammo un paio che andavano al lago dei branzini e trasportavano via terra il loro motoscafo di latta e il motore per non dover remare una volta arrivati sul lago interno: la prima volta che li sentimmo tramestare nel sottobosco credemmo che fossero orsi. Un altro spuntò con una canna a mulinellq,e camminò sul nostro fuoco di campo, abbrustolendo i suoi stivali nuovi; quando cercò di lanciare mandò a finire l'esca, un pesciolino vero sigillato nella plastica trasparente, tra i cespugli sull'altra sponda della baia. Gli ridemmo dietro e gli chiedemmo se andava a pesca di scoiattoli, ma lui non se la prese, ci mostrò il suo acciarino automatico, il fornelletto coi manici smontabili e la sedia pieghevole.

Andavano matti per tutte le cose pieghevoli.

Al ritorno ci teniamo sottocosta, evitando il lago aperto in caso agli americani saltasse in testa di sfrecciarci accanto più veloci possibile, a volte lo fanno per divertimento, la scia potrebbe farci ribaltare. Ma prima che arriviamo a metà strada spariscono nel nulla frusciando, come marziani di un film della notte, e io mi rilasso.

Quando saremo a casa appenderò il pesce e mi laverò via dalle mani le squame e l'odore di sudore ascellare col sapone. Poi accenderò la lampada e il fuoco e farò della cioccolata. Per la prima volta mi sembra giusto essere qui, e so che è perché domani partiamo. Mio padre avrà l'isola per sé; la pazzia è qualcosa di privato, io la rispetto, comunque viva è sempre meglio di un ospizio. Prima della nostra partenza brucerò i disegni, sono indizi a carico.

Il sole è tramontato, rientriamo scivolando nell'oscurità che aumenta gradualmente. Richiami di strolaghe in lontananza; dei pipistrelli ci superano svolazzando, sfiorano la superficie dell'acqua, ora calma e piatta; le cose sulla riva, rocce di un bianco grigiastro e alberi morti, si duplicano nello specchio scuro. Ci circonda il miraggio di uno spazio infinito, o dell'assenza di spazio: noi e la sponda oscura che ci sembra di poter toccare, l'acqua che ce ne separa, un'assenza.

Il riflesso della canoa galleggia con noi, i remi si raddoppiano nel lago. È come muoversi sull'aria, nulla ci sostiene dal basso; sospesi, scivoliamo verso casa.

Di prima mattina Joe mi sveglia; le sue mani almeno sono intelligenti, si muovono su di me delicatamente come quelle di un cieco che legge il braille, abili, modellandomi come un vaso, mi studiano; riproducono modelli che ha già sperimentato, hanno scoperto che cosa funziona, e il mio corpo reagisce allo stesso modo, lo previene, ammaestrato, efficiente come una macchina da scrivere. Mi viene in mente una frase, allora una battuta spiritosa, ma ora desolante, detta da qualcuno in una macchina parcheggiata dopo una festa da ballo del liceo: Con un sacchetto di carta sulla testa sono tutti uguali. Lì per lì non capii quel che voleva dire il ragazzo, ma da allora ci ho riflettuto sopra.

Sembra quasi un'insegna araldica: due persone che fanno l'amore con le teste coperte da sacchetti di carta, senza nemmeno i fori per gli occhi. Sarebbe bello o brutto?

Dopo che abbiamo finito e dopo che ci siamo riposati mi alzo, mi vesto ed esco a preparare il pesce.

È rimasto appeso tutta la notte, agganciato al ramo di un albero con uno spago che gli passa tra le branchie, fuori dalla portata dei predatori di carogne, procioni, otarie, visoni, puzzole. Uno schizzo di escrementi, simili a quelli degli uccelli ma più scuri, scola dall'apertura anale del pesce. Sciolgo lo spago e porto il pesce al lago per pulirlo e tagliarlo a filetti.

Mi inginocchio sulla pietra piatta vicino al lago, con accanto il coltello e il piatto per i filetti. Non ero mai io a fare questo lavoro; lo faceva qualcun altro, mio padre o mio fratello. Taglio la testa e la coda, incido l'addome e apro il pesce in due parti. Dentro lo stomaco c'è una sanguisuga semidigerita e qualche pezzetto di gambero di fiume. Lo divido lungo la spina dorsale, poi lungo le linee laterali: quattro pezzi, azzurrini, traslucidi. Le interiora si sotterreranno in giardino, sono concime.

Mentre sciacquo i filetti David scende placidamente al pontile con il suo spazzolino da denti.

«Ehi,» dice «è quello il mio pesce?» Osserva gli intestini sul piatto con interesse. «Non li buttare,» dice «sono Campioni sparsi.» Va a cercare Joe e la cinepresa e tutti e due riprendono solennemente le viscere del pesce, vesciche sgonfie, condotti e molli filamenti, aggiustandoli tra un'inquadratura e l'altra per migliorare l'angolazione. A David non verrebbe mai in mente di farsi fotografare con una macchinetta da quattro soldi mentre tiene il suo pesce per la coda e sorride, e certamente non lo farebbe imbalsamare e montare; eppure, a suo modo, vuole immortalarlo.

L'album fotografico, ci sono anch'io da qualche parte, un susseguirsi di mie incarnazioni salvaguardate e appiattite, come fiori compressi tra le pagine dei dizionari; era l'altro libro che teneva mia madre, un album di pelle, un giornale di bordo, come i diari. Detestavo stare immobile ad aspettare il clic.

Passo i filetti nella farina, li friggo e li mangiamo con fettine di pancetta. «Buono il crudo, buono il cotto, lode al buon Dio e facciamoci sotto» dice David; e dopo, schioccando le labbra: «Roba così non si trova in città.» Anna dice: «Certo che si trova, surgelata. Lì si trova tutto, oggi.» Dopo colazione entro nella mia stanza e comincio a fare i bagagli. Oltre la parete di compensato sento Anna che cammina, che versa dell'altro caffè, il divano che cigola quando David ci si sdraia.

Probabilmente dovrei ripiegare tutte le lenzuola, gli asciugamani e i vestiti abbandonati, legarli in fagotti e portarli via. Adesso qui non ci vivrà più nessuno, e finiranno per entrarci le tarme e i topi. Se mai ha deciso di non ritornare suppongo che la casa appartenga a me, oppure metà a me e metà a mio fratello; ma mio fratello non vorrà occuparsene, dopo la sua partenza li ha sfuggiti quanto me. Si è organizzato meglio, però, è semplicemente andato più lontano che poteva: se infilassi un ferro da calza attraverso la terra la punta emergerebbe dove lui si trova ora, accampato nelle regioni interne dell'Australia, inaccessibile; probabilmente non ha nemmeno ricevuto la mia lettera, non ancora. Concessioni minerarie, ecco quel che esplora, per conto di una grossa multinazionale, fa il ricercatore; ma io non ci credo, da quando siamo cresciuti nulla di quel che ha fatto mi è parso reale.

«Mi piace qui» dice David. Gli altri non aprono bocca. «Restiamoci per un po', una settimana, sarebbe grande.» «Ma non hai quel seminario?» dice Anna, dubbiosa.

«L'uomo e il suo ambiente elettrico, o qualcosa del genere?» «Elettrizzante davvero. Non comincia prima di agosto.» «Penso sia meglio non rimanere» dice Anna.

«Com'è che ogni volta che mi va che facciamo qualcosa tu non vuoi?» dice David, e segue una pausa.

Poi chiede: «Tu che ne pensi?» e Joe dice: «Per me va bene.» «Grande,» dice David «andremo di nuovo a pescare.» Mi siedo sul letto. Avrebbero potuto chiedere prima il mio parere, è casa mia. Ma forse aspettano che esca, e allora me lo chiederanno. Se dico di no, non possono certo rimanere, ma che pretesto posso trovare?

Non posso raccontare di mio padre, tradirlo; e comunque potrebbero pensare che mi sto inventando tutto. C'è il mio lavoro, ma loro sanno che me lo sono portato dietro. Potrei partire da sola con Evans, ma non andrei più in là del paese, la macchina è di David, sarei costretta a rubare le chiavi e per giunta, ricordo a me stessa, non ho mai imparato a guidare.

Anna fa un ultimo, debole tentativo. «Resterò senza sigarette.» «Tutta salute,» dice David allegramente «è un pessimo vizio. Così ti rimetti in forma.» È più vecchio di noi, ha più di trent'anni e comincia a preoccuparsene; di quando in quando si dà una pacca sullo stomaco e dice «pappamolla».

«Diventerò bisbetica» dice Anna, ma David si limita a ridere e dice: «Prova.» Potrei dir loro che non abbiamo abbastanza da mangiare. Ma si accorgerebbero che è una bugia, c'è l'orto e tutte le lattine allineate sulle mensole, manzo sotto sale, prosciutto in scatola, fagioli precotti, pollo, latte in polvere, tutto.

Vado alla porta, la apro. «I cinque dollari a Evans glieli dovrete pagare lo stesso» dico.

Per un attimo rimangono sorpresi, si rendono conto che ho ascoltato. Poi David dice: «Roba da poco.» Mi lancia un'occhiata veloce, di trionfo e apprezzamento, come se avesse appena vinto qualcosa: non una guerra, ma un premio della lotteria.

Quando Evans arriva all'ora stabilita David e Joe scendono giù al pontile a sistemare le cose con lui. Mi sono raccomandata che non facciano accenni al pesce: se ne parlano quest'angolo di lago verrà invaso da frotte di americani, si passano parola in un modo incredibile, come formiche intorno allo zucchero, o come le aragoste. Passato qualche minuto sento la barca che si rimette in moto, che accelera e svanisce, se ne è andato.

Ho evitato Evans, le spiegazioni e le contrattazioni, andando al gabinetto e chiudendomi dentro. È qui che venivo quando c'era qualcosa che non mi andava di fare, tipo diserbare l'orto. È il gabinetto nuovo, quello vecchio si era disfatto. Questo è costruito con i tronchi; mio fratello ed io scavammo la fossa, lui scavava con la pala e io tiravo su la sabbia in un secchio.

Una volta ci cadde dentro un porcospino, amano rosicchiare i manici delle asce e le assi delle toilettes.

In città non mi nascondevo mai nei bagni, non mi piacevano, erano troppo duri e bianchi. L'unico posto in cui ricordi di essermi nascosta in città è dietro le porte aperte durante le feste di compleanno. Le disprezzavo, tutti quei vestiti di velluto viola da banco di chiesa coi colletti di pizzo buono per ricoprire le poltrone, i regali che una volta aperti suscitavano gridolini invidiosi, i giochetti insulsi, ritrovare un ditale o ricordare una serie di cianfrusaglie su un vassoio.

Si poteva essere soltanto due cose, vincitori o vinti; le madri si sforzavano di barare perché tutti vincessero un premio, ma non sapevano assolutamente come fare con me, dal momento che io non volevo giocare. Da principio fuggivo, ma quando mia madre mi disse che dovevo andarci per forza mi toccò imparare a essere gentile: «civile» diceva mia madre. Così me ne stavo a guardare dietro la porta. Quando finalmente mi unii a loro per giocare alle Sedie Musicali venni salutata trionfalmente, come una convertita o un politico che abbraccia una nuova causa.

Qualcuno rimase deluso, trovavano divertenti le mie abitudini da granchio eremita, mi trovavano divertente in generale. Ogni anno arrivavo in una scuola diversa, a ottobre o in novembre, quando sul lago cadeva la prima neve, e io ero quella che non conosceva gli usi locali, come una persona proveniente da un'altra cultura: su di me potevano sperimentare i trucchi e le piccole angherie che si erano fatti l'uno con l'altro fino alla noia. Quando i ragazzi rincorrevano e catturavano le ragazze dopo la scuola e le legavano con le loro corde per saltare, io ero quella che dimenticavano a bella posta di slegare. Trascorsi vari pomeriggi attaccata a staccionate, cancelli e alberi, aspettando il passaggio di un adulto benevolo che mi liberasse; più avanti diventai una specie di artista della fuga, un'esperta nel disfare nodi. In giorni migliori facevano capannello e rivaleggiavano per me.

«Adamo ed Eva e Pizzicottone» gridavano: AI fiume a fare il bagno sono andati E dentro Adamo ed Eva son cascati; Dimmi chi è stato Che si è salvato?

«Non lo so» dicevo.

«Devi rispondere,» dicevano «sono le regole.» «Adamo ed Eva» dissi astutamente. «Si sono salvati loro.» «Se non lo fai bene con te non ci giochiamo» dissero.

Essere socialmente ritardati è come essere mentalmente ritardati, suscita negli altri disgusto e compassione e il desiderio di tormentare e correggere.

Fu più difficile per mio fratello: nostra madre gli aveva insegnato che era sbagliato azzuffarsi e lui ogni giorno tornava a casa pesto di botte. Alla fine fu costretta ad abbandonare le sue posizioni: mio fratello poté fare a botte, ma soltanto se erano gli altri a colpirlo per primi.

Non ressi molto a catechismo. Una ragazza mi raccontò di aver pregato per avere una Barbie con i pattini da ghiaccio e la tutina bordata di pelouche e di averla ricevuta per il suo compleanno; così decisi di pregare anch'io, non come quando dicevo il Padre Nostro o la preghiera dei pesci, ma chiedendo qualcosa di concreto. Pregai di diventare invisibile, e siccome la mattina mi vedevano ancora tutti capii che il loro Dio era quello sbagliato.

Una zanzara atterra sul mio braccio e io lascio che mi punga, aspetto che il suo addome diventi un globo pieno di sangue prima di farlo scoppiare col pollice, come un chicco d'uva. Hanno bisogno del sangue prima di deporre le uova. Dalla finestra a zanzariera filtra la brezza; è meglio qui che in città, con le esalazioni dei tubi di scappamento, l'afa, l'odore di gomma bruciata della metropolitana, l'unto marrone che ti si appiccica alla pelle se fai quattro passi fuori.

Non so come ho fatto a vivere tanto a lungo in città, non è un posto sicuro. Qui mi sentivo sempre sicura, anche di notte.

Questa è una bugia, esclama la mia voce. Ci penso a lungo, ci rifletto su, ed è davvero una bugia: certe volte ero sconvolta dal terrore, puntavo la torcia sul sentiero davanti a me, sentivo un fruscio nel bosco e sapevo che mi si dava la caccia, un orso, un lupo o una cosa indefinita e priva di nome, quello era il peggio.

Guardo le pareti intorno a me, la finestra: è lo stesso, non è cambiato, ma le forme sono imprecise, come se tutto si fosse leggermente deformato. Devo stare più attenta ai miei ricordi, assicurarmi che siano proprio i miei, e non quelli degli altri che mi raccontano cosa sentivo, come agivo, cosa dicevo: se i fatti sono sbagliati anche le sensazioni che ne ricordo saranno sbagliate, comincerò a inventarle e non ci sarà rimedio, quelli che potrebbero aiutarmi non ci sono più. Ripasso rapidamente la mia versione, la mia vita, verificandola come un alibi; quadra, c'è tutta fino al momento in cui me ne sono andata. Poi un'interruzione, come se avessi saltato un'impronta, e per un attimo la perdo, è del tutto cancellata; persino la mia età precisa, chiudo gli occhi, quanti anni ho? Avere il passato ma non il presente è segno che si sta diventando senili.

Mi rifiuto di lasciarmi prendere dal panico, mi costringo ad aprire gli occhi, e anche la mano su cui è incisa la mia vita, un punto di riferimento: spiano il palmo e le linee si spezzettano, allargandosi come onde.

Mi concentro sulla ragnatela vicino alla finestra, in cui sono impigliate delle crisalidi di mosca che catturano la luce del sole, mentre in bocca la lingua articola il mio nome, ripetendolo come una cantilena...

Poi qualcuno bussa alla porta. «Ucci ucci, sento odor di cristianucci» dice una voce, è quella di David, riesco a identificarlo, sollievo, mi riprendo in un attimo.

«Solo un minuto» dico, e lui bussa di nuovo e dice: «Datti una mossa a farla là dentro» con una risata da Picchiatello.

Prima di pranzo dico loro che vado a fare il bagno.

Gli altri non vogliono, dicono che farà troppo freddo, ed è freddo davvero, come ghiaccio fuso. Non dovrei andarci da sola, ce l'hanno insegnato, potrebbe venirmi un crampo.

Di solito correvo fino in fondo al pontile e saltavo giù, era come avere un infarto o essere colpiti dal fulmine, ma mentre scendo verso il lago scopro che non me la sento di farlo.

Fu qui che andò sotto, si salvò solo per caso, se ci fosse stato vento mia madre non l'avrebbe sentito. Si sporse, allungò il braccio e lo afferrò per i capelli, lo tirò fuori e gli fece espellere l'acqua. L'annegamento non sembrò mai toccarlo quanto mi sarei aspettata, non se lo ricordava nemmeno. Se fosse successo a me avrei pensato di avere qualcosa di particolare, per essere resuscitata in quel modo; avrei fatto ritorno con dei segreti, avrei saputo cose ignorate dai più.

Quando mi raccontò questa storia, chiesi a mia madre dove sarebbe finito mio fratello se lei non l'avesse salvato. Mi rispose che non lo sapeva. Mio padre aveva una spiegazione per tutto, mia madre invece non spiegava mai nulla, il che non fece altro che convincermi che lei sapeva le risposte ma non voleva dirle. «Sarebbe andato al cimitero?» domandai. A scuola c'era una filastrocca anche sui cimiteri: Friggilo in padella Rompigli la mascella Ora è al cimitero Trallallallero.

«Nessuno lo sa» disse lei. Stava facendo la pastafrolla per lo sformato e mi dette un pezzo di pasta per distrarmi. Mio padre avrebbe risposto di sì; lui diceva che si muore quando muore il cervello. Mi domando se è ancora dello stesso parere.

Mi allontano dal molo ed entro a guado da riva, lentamente, spruzzandomi dell'acqua sulle spalle e sul collo, mentre il freddo mi sale su per le cosce; sotto le piante dei piedi sento la sabbia e i rametti e le foglie sommerse. A quel tempo mi tuffavo e scivolavo lungo il fondo del lago ad occhi aperti, con l'orizzonte e il mio corpo che sfumavano e andavano dissolvendosi; oppure più al largo, tuffandomi dalla canoa o dalla zattera e voltandomi a schiena in giù sott'acqua per guardare in alto, con le bolle che mi sfuggivano dalla bocca. Restavamo dentro finché la pelle non ci diventava insensibile, prendendo uno strano colore, viola bluastro. Devo essere stata un fenomeno, oggi non sarei più in grado di farlo. Forse sto diventando vecchia, finalmente, è mai possibile?

Rimango ferma a tremare, vedo il mio riflesso e oltre il riflesso i piedi, bianchi come le carni di un pesce sulla sabbia, finché rimanere all'aria è un tormento peggiore che stare in acqua, e io mi piego e mi spingo con riluttanza nel lago.

Il problema sta tutto nel bozzo in cima ai nostri corpi. Non ho nulla contro il corpo, e nemmeno contro la testa: solo contro il collo, che crea l'illusione che siano separati. La lingua sbaglia, non dovrebbe chiamarli con parole diverse. Se la testa si prolungasse direttamente nelle spalle come quella delle rane o dei vermi, senza quella strettoia, quella menzogna, non potrebbero guardare i loro corpi dall'alto in basso e farli andare qua e là come se fossero robot o burattini: sarebbero costretti a capire che se la testa è staccata dal corpo muoiono sia l'una che l'altro.

Non so di preciso quando ho cominciato a sospettare la verità, riguardo a me stessa e riguardo a loro, a capire cos'ero io e in che cosa si stavano trasformando loro. Alcuni frammenti di verità sono comparsi presto, come le mazzesorde, come i funghi, schiudendosi e crescendo improvvisamente, ma era già dentro di me, la prova, aveva solo bisogno di essere decifrata. Dal punto in cui sono ora mi sembra di averlo sempre saputo, di sapere tutto, il tempo è compresso come il pugno che chiudo sul mio ginocchio nella camera da letto che diventa buia, e nel quale stringo gli indizi, le soluzioni e la forza per compiere quel che devo fare ora.

Ci vedevo poco, traducevo male, era un problema di dialetto, avrei dovuto usare il mio. Con gli esperimenti che hanno compiuto sui bambini, segregandoli insieme a delle governanti sordomute, rinchiudendoli in stanzini, privandoli delle parole, hanno scoperto che dopo una certa età la mente è incapace di assimilare qualsiasi linguaggio; ma come facevano ad essere sicuri che il bambino non se ne fosse inventato uno, riconoscibile soltanto per lui? Questo era scritto su un libro verde del liceo, La tua salute, insieme alle fotografie di ritardati mentali e di individui con insufficienze tiroidee, di storpi e di sciancati, le illustrazioni, con dei rettangoli neri sopra gli occhi come delinquenti pregiudicati: le uniche foto di corpi nudi che venissero considerate adatte a noi. Il resto erano diagrammi, diapositive, con scritte e frecce, le ovaie violacee creature marine, l'utero una pera.

Le voci degli altri e il rumore di carte mescolate e distribuite mi giungono attraverso la porta chiusa.

Risata registrata, incorporata, le bobine miniaturizzate e l'interruttore sono nascosti da qualche parte dentro il loro torace, riascolto istantaneo.

Dqpo la partenza di Evans, quel giorno, mi sentivo inquieta: l'isola non era sicura, noi eravamo in trappola. Loro non se ne rendevano conto ma io sì, erano sotto la mia responsabilità. La sensazione di essere spiati, la sua presenza in agguato dietro la verde cortina di fogliame, pronto a saltarti addosso o darsi alla fuga, lui era imprevedibile, stavo cercando di escogitare dei modi per tenerli lontani dal pericolo; finché non si muovevano da soli non correvano rischi.

Forse era inoffensivo ma non potevo esserne certa.

Finimmo di mangiare e io portai le briciole alla mangiatoia per gli uccelli. Le ghiandaie avevano scoperto che nella capanna abitava qualcuno; sono intelligenti, capivano che una figura accanto alla mangiatoia era indizio di cibo; o forse alcune erano abbastanza vecchie da ricordarsi l'immagine di mia madre con la mano protesa. In quel momento ce n'erano due o tre appostate, a una certa distanza, guardinghe.

Joe mi seguì e mi osservò mentre spargevo le briciole.

Mi mise le dita sul braccio, aggrottando le sopracciglia, il che forse significava che voleva dirmi qualcosa: parlare per lui era un cimento, una battaglia, le parole si radunavano dietro la sua barba e venivano fuori una per una, pesanti e quadrate come carri armati. La sua mano mi strinse in uno spasmo introduttivo, ma arrivò David con l'accetta.

«Ehi signora,» disse «vedo che la catasta della legna sta calando. Potresti mettere al lavoro un tuttofare.» Voleva fare qualcosa di utile; e aveva ragione, se fossimo rimasti una settimana avremmo avuto bisogno di una nuova scorta. Gli chiesi di cercare degli alberi ancora in piedi, morti ma non troppo vecchi o marci e lui mi disse: «Sissignora», facendomi un burlesco saluto militare.

Joe prese l'accetta piccola e andò con lui. Erano cittadini, avevo paura che si ferissero i piedi; però sarebbe stata una scappatoia, pensai, saremmo dovuti tornare per forza. Ma non li misi in guardia contro mio padre, avevano delle armi. Le avrebbe viste e sarebbe fuggito.

Quando scomparvero lungo il sentiero che si inoltrava nella foresta dissi che sarei andata a diserbare il giardino, un altro dei lavori da fare. Volevo tenermi occupata, salvaguardare almeno i segni esteriori dell'ordine, nascondere la mia paura, sia agli altri che a lui. La paura ha un odore caratteristico, come l'amore.

Anna capì di essere tenuta a darmi una mano; abbandonò il suo giallo e spense la sigaretta fumata a metà, le razionava. Ci legammo dei foulards intorno alla testa e andai a cercare il rastrello nel capanno degli attrezzi.

L'orto era in pieno sole, fumante, umido come una serra. Ci inginocchiammo e cominciammo ad estirpare le erbacce: resistevano, aggrappandosi alle zolle di terra o tirandosele dietro o spezzandosi e lasciando le radici nel terreno a rigenerarsi; io scavavo cercando le radici nella terra calda, con le mani verdi della linfa delle erbacce. Pian piano apparvero le verdure, la maggior parte pallide e patite, tutte quasi soffocate.

Con il rastrello facemmo dei mucchi di erbacce tra i filari, dove appassirono, morendo lentamente; più tardi le avremmo bruciate, come streghe, perché non ritornassero. C'era qualche zanzara e i tafani accecanti con gli occhi iridescenti come l'arcobaleno e pungiglioni che sembrano aghi roventi.

Ogni tanto mi fermavo, dando un'occhiata allo steccato, alla frontiera, ma non c'era nessuno. Magari era diventato irriconoscibile, il suo aspetto di un tempo trasfigurato dall'età e dalla follia, un fagotto cencioso di abiti sbrindellati, la pelle del viso coperta da una coltre di foglie morte. Svelta, pensai, ritorna ai fatti.

Ci misero due anni a fare l'orto, il terreno naturale era troppo sabbioso e anemico. Questo rettangolo di terra è artificiale, frutto dell'esperienza e del concime aggiunto a forza di vangare, limo nero dragato dalla palude, sterco di cavallo trasportato fin qui in barca dagli accampamenti invernali dei tagliaboschi, quando ancora tenevano dei cavalli per trascinare i tronchi fino al lago ghiacciato. Mio padre e mia madre lo portavano in cesti da uno staio sulla lettiga, due pali su cui erano inchiodate delle assi, tenendone un capo per uno.

Ricordavo cose accadute ancora prima, quando vivevamo nelle tende. Fu suppergiù qui che trovammo il secchiello del lardo squarciato come un sacchetto di carta, lo smalto intaccato da unghiate e segni dei morsi. Mio padre era partito per un lungo viaggio, come spesso gli accadeva, per fare delle ricerche sugli alberi per conto della cartiera o del governo, non ho mai saputo con certezza per chi lavorasse. A mia madre aveva lasciato provviste per tre settimane. L'orso si introdusse nella tenda dei viveri dal retro, lo sentimmo durante la notte. Calpestò uova e pomodori, scassinò tutte le scatolette di riserva, sparpagliò il pane nella carta incerata e fracassò i vasetti di marmellata: al mattino recuperammo quel che potevamo.

Aveva trascurato soltanto le patate, e noi ce le stavamo mangiando per colazione intorno al fuoco quando lui si materializzò di colpo sul sentiero, massiccio e con i piedi piatti, un'enorme pelle d'orso armata di zanne che veniva a prendersi il resto. Mia madre si alzò in piedi e mosse qualche passo verso di lui; l'orso esitò e grugnì. Lei gli urlò una parola che suonava come: «Fila!» e agitò le braccia, e l'orso fece dietrofront e scomparve trotterellando nella foresta.

Questa è l'immagine che ho conservato, mia madre vista di spalle con le braccia alzate come se stesse volando, e l'orso in preda al terrore. Quando più avanti ci raccontava la storia ci diceva di essere morta di paura ma io non riuscivo a crederlo, era stata tanto sicura di sé, tanto imperturbabile, come se avesse avuto una formula magica assolutamente infallibile: un gesto e una parola. Aveva indosso la sua giacca di pelle.

«Prendi la pillola?» chiese Anna all'improvviso.

Io la guardai, stupita. Non capii subito, perché voleva saperlo? Era quel che si diceva una domanda personale.

«Ho smesso» dissi.

«Anch'io» disse malinconicamente. «Tutte quelle che conosco hanno smesso. Mi è venuto un coagulo in una gamba, tu cosa hai avuto?» Aveva uno sbaffo di fango su una guancia, lo strato di rosa che aveva sulla faccia si ammorbidiva col calore, come catrame.

«Io non ci vedevo» risposi. «Era tutto sfocato. Mi avevano detto che in un paio di mesi l'offuscamento se ne sarebbe andato, ma non è stato così.» Era come avere della vaselina sugli occhi, ma questo non lo dissi.

Anna fece di sì con la testa; dava strattoni alle erbacce come se stesse tirando dei capelli. «Bastardi» disse. «Intelligenti come sono, si direbbe che dovrebbero inventare qualcosa che funziona senza farti fuori.

David vuole che ricominci a prenderla, dice che non fa peggio dell'aspirina, ma la prossima volta potrebbe essere al cuore o qualcosa del genere. Voglio dire, io non li corro certi rischi.» Amore senza paura, sesso senza rischio, è questo il sogno che volevano realizzare; e ce l'hanno quasi fatta, pensai, ci sono quasi arrivati, ma proprio come per i giochi di prestigio o per le rapine, un successo parziale è un fiasco e noi ritorniamo agli altri rimedi.