OCCIDENTE EUROPA
Estratto da "IN QUESTA LUCE"
Daniele Del Giudice
Nell’autunno del 1946 si riuní a Ginevra un gruppo di uomini assai considerevoli, György Lukács e George Bernanos, Karl Jaspers e Stephen Spender, Julien Benda e Jean Guéhenno, Francesco Flora e Denis de Rougemont, per riflettere se esistesse ancora e cosa fosse lo «spirito europeo». I loro discorsi, poi pubblicati e tutt’oggi conservati nelle biblioteche, erano appassionati e profondi: con le città e le case distrutte, coi cimiteri e i crematori pieni, che ne era di quello spirito e come poteva rinascere? Le loro parole portavano il segno dei tempi e dei sistemi di pensiero cui ciascuno di essi apparteneva, Lukács ripercorrendo la crisi del capitalismo occidentale e auspicando una democrazia socialista, Bernanos proponendo una nuova forma di cattolicesimo, Jaspers centrando tutto su una filosofia esistenziale; ripeto, erano considerazioni di grande spessore, cogenti, ognuna cominciava con un’immagine devastata dello spirito europeo e finiva con l’invocazione di un nuovo umanesimo, con accenti talvolta un po’ generici di spiritualità e in parte di sublimità.
L’immaginario europeo non aveva mai avuto coscienza di sé, per il fatto semplice che non ne sentiva il bisogno; e nel momento stesso in cui avvertiva la necessità di riconoscersi culturalmente e geograficamente come «europeo» si scopriva già tutto al passato, compiuto nella perdita, nello smarrimento di sé, nella memoria. Orfeo che al suono della lira forma le case degli uomini e arresta le belve e incanta l’inferno, l’età minoica con Dedalo e Icaro, l’età micenea con gli eroi dell’Achea e di Ilio, il numero di Pitagora, il concetto in Socrate, l’idea platonica della reminiscenza, la geometria di Euclide, la lettera greca dei Vangeli, l’idea di colpa e l’annuncio di redenzione, la follia di Amleto, il colloquio tra Don Chisciotte e Sancho Panza, l’eterno femminino di Goethe, la bonne foi di Montaigne, il cogito di Cartesio e la clarté, ma anche la beffa di Rabelais, o l’ideale storia eterna di Giambattista Vico: tutto questo è Europa. Tutto questo, ma anche il suo contrario. L’Europa ha sviluppato da sé medesima, dal proprio interno, l’opposizione corrispondente a ogni posizione. Questa è la sua specialità, e in questo lo spirito europeo è unico e può riconoscere la propria diversità dagli altri: per la sua capacità di essere tutto. È capace di martirio per la fede religiosa, di profonda e silenziosa vertigine mistica, ma anche del piú dirompente nihilismus. Sa essere bigotto come nemmeno una comunità di mormoni americani potrebbe, ma è capace del libertinismo piú solare, dionisiaco, spregiudicato e liberatorio. Ha edificato grandi fondamenti di verità, e con la stessa pertinacia ha edificato grandi «sfondamenti», abissi di negazione della verità, e di ascolto dell’essere. Vive nella coscienza della totalità e nel culto supremo del particolare. Non c’è nessun altro immaginario, nessun altro spirito che si sia inventato il liberalismo individualistico, il collettivismo, il socialismo, il capitalismo, il fascismo, la democrazia, la mancanza di democrazia, la fede religiosa e l’ateismo, il predominio del sentimento sulla ragione, della ragione sul sentimento, del sesso su entrambi. L’Europa ha vinto tutto e ha perso tutto, e in questo sí è unica: nell’aver conosciuto fino in fondo il diritto e il rovescio delle cose.
Essenza dello spirito europeo è sempre stata dunque l’idea di conflitto e di contraddizione (da cui, anche, uno struggente rimpianto e desiderio d’armonia). Ed è proprio questa la prima cosa che a me pare oggi rimossa dallo spirito europeo: il conflitto. A dire il vero non è proprio rimossa, ma trasformata, e il conflitto, nel nuovo modo di produrre e di consumare in cui tutti siamo immersi, è diventato semplice competizione. Competizione, inoltre, in un solo gioco. L’eroe del conflitto era tragico e nel suo naufragio, nel suo fallimento produceva consapevolezza, produceva nuovi spazi di pensiero e di linguaggio. L’eroe della competizione economica, nel suo semplice binomio vincere o perdere (naturalmente esiste anche una terza possibilità, quella di pareggiare: pareggiare i bilanci), non produce risonanza, e a me sembra che il suo esito, sia che vinca sia che perda, sia che guadagni sia che ci rimetta, resta, almeno dal punto di vista dello spirito, intransitivo, racchiuso in sé e muto per gli altri.
Certo, questo tipo di eroe economico diffuso, questo miles della moltiplicazione, produce un benessere diffuso della cui ricaduta un po’ tutti godiamo. Almeno nelle regioni sviluppate di questo mondo – e l’Europa ne fa parte, e anche l’Italia, dalla cintola in su – apparentemente nulla ci manca: abbiamo la pace, che è un bene primario, abbiamo l’indispensabile e molto piú dell’indispensabile. Ma soprattutto disponiamo del piú sofisticato meccanismo di produzione: sofisticato perché attraverso affinamenti successivi è giunto a quella soglia in cui il denaro sembra potersi moltiplicare da sé, in modo quasi automatico, sganciato dal lavoro fisico, sicuramente sganciato dalla materia.
Ora, difficile dire se come esseri umani siamo buoni o cattivi, ma certamente siamo degli animali affettivi; la nostra caratteristica, quella che ci distingue dalle altre creature del creato, è la capacità di coltivare passioni non immediatamente legate ai bisogni primari, passioni «gratuite», passioni e ideali, e di poterle esprimere attraverso il linguaggio. Dunque abbiamo bisogno di amare ciò che facciamo; e per poterlo amare dobbiamo, secondo la nostra tradizione culturale, riconoscere ad esso un significato; e di conseguenza attribuirgli un valore.
È in questo modo che il benessere e i molti e sofisticati modi per produrlo e per salvaguardarlo costituiscono oggi per noi, per noi europei e piú in generale «occidentali», un valore. Eppure qualcosa della nostra antica memoria storica ci dice che il benessere, l’appagamento delle necessità e piú che l’appagamento l’agio, costituiscono una base, un punto di partenza, un semplice strumento; per poi dedicarsi a quelle passioni gratuite, non immediatamente necessarie, riflessive, magari a un’indagine del nostro essere, ed essere con gli altri, in questo mondo. Insomma, una volta si sarebbe detto: a tutto questo, al «mercato» e al vincere o perdere (e parlo di mercato perché l’Europa del 1993 nasce all’insegna di questo, non di un sentimento o di un’identità ideale, ma del «mercato unico»), a tutto questo, si sarebbe detto una volta, c’è qualcosa che rimane differente, e che forse vi si può contrapporre: l’immaginario, lo «spirito», e la parola. Ma l’immaginario oggi, nelle nostre società post-industriali, ha preso il posto della metallurgia, è una specie di materia prima come una volta lo erano il legno o la pietra o il ferro o i minerali, ed è esso stesso oggetto di mercato. E cosí pure la memoria: ho detto prima che l’Europa è il principale custode della memoria e della consapevolezza, ma anche la gestione di questa memoria assume spesso oggi il carattere di un’impresa commerciale (si pensi solo ai cosiddetti «giacimenti culturali»). L’immaginario e la parola narrativa o poetica una volta erano l’assolutamente altro in confronto alla materia e in confronto al ciclo produttivo: erano un lusso, o forse uno spreco, ma comunque non finalizzati ad alcunché, se non al piacere di determinare e tenere aperto quello spazio di interiorità, di risonanza interiore, che è comune a chi legge e a chi scrive, che è anzi la natura stessa dello scrivere e del leggere. E se la parola è diventata una materia prima, la motivazione che ci spinge ad essa non è soltanto conoscitiva o comunicativa o affettiva, ma anche diffusamente economica.
Tutto ciò che ho cercato di indicare fin qui – il mutare del conflitto in competizione economica, e il divenire dell’immaginario, della memoria e delle parole, materia ed elemento di questa competizione – è già un argomento per chi vuole narrare l’Europa di oggi. È la prima volta che lo scrittore si trova al centro di una produzione di «beni culturali»; non gli si chiede piú di essere indagatore e narratore di un’idea del mondo o di un’altra, gli si chiede di fare il suo lavoro, di produrre e basta.
Insomma, l’immaginario europeo mi appare oggi come uno spirito senza piú conflitti: è un immaginario di pace, e questo è certamente un bene; è un immaginario di benessere economico, anche se ne sono esclusi quasi tutti i meridioni del mondo; è un immaginario che rimuove e allontana da sé ogni elemento di contraddizione. O almeno ogni contraddizione che non possa essere trasformata in competizione economica.
Eppure l’immaginario europeo è stato sempre l’immaginario della contraddizione, del conflitto creativo. Alla base degli altri immaginari, come quello dell’America o della ex Unione Sovietica, sta forse l’idea dell’unificazione dell’uomo, dell’eliminazione dell’antitesi, del trionfo dell’organizzazione. Da noi il punto piú alto della coscienza, cosí come ci è stato tramandato dal mondo greco e da quello giudaicocristiano, è nel santo, nel mistico, nel martire, nell’«artista» che penetra il tragico e il grottesco, mentre in altri immaginari l’eroismo risiede in colui che maggiormente si conforma al modello di felicità. Per noi, almeno fin qui, la vita risultava da un conflitto permanente e il suo scopo non era la felicità ma la coscienza piú acuta, la scoperta o la rappresentazione di un significato, sia pure nella sciagura e nel fallimento, o anche la scoperta che un significato non c’è.
C’era poi un altro elemento: l’affermazione della personalità e la volontà di formare il proprio destino secondo il proprio gusto e secondo il proprio istinto profondo erano connesse all’immaginario europeo. In Europa il distinguersi, se non il rendersi singolari, il fornire alla posterità materia di biografia, il prolungare la propria presenza e la propria azione al di là della tomba erano un’eminente caratteristica dell’immaginario. E in effetti la prima cosa che sta perdendo significato è proprio la morte: nel mondo pacificato del benessere e del consumo, in cui anche l’immaginario e la spiritualità sono diventati materia prima di questo consumo e produzione, la morte – a meno che non si abbia una grande fede religiosa, o una grande fede «lucreziana» nell’infinito trasformarsi della natura – perde davvero significato, è solo un insuperabile accidente, una inspiegabile fine dei giochi, fine del gioco. E la vita? Con la modernizzazione e laicizzazione gli dèi se ne vanno definitivamente; e potrebbe essere un bene, o comunque potrebbe essere inevitabile, solo che le «divinità laicali» che li sostituiscono sono soltanto il buon governo e l’amministrazione da un lato, l’efficienza e il successo dall’altro. Difficile fare racconto o poesia col buon governo o con l’efficienza.
Parafrasando i titoli dei romanzi di uno scrittore che certamente conoscete, Milan Kundera, possiamo dire che narrare l’Europa oggi significa saper raccontare quella particolare infelicità o insoddisfazione che rendono intollerabile la leggerezza del benessere, come intollerabile è per noi la perdita di immortalità, cioè del significato della morte, poiché per morire ed essere immortali occorre confliggere contro qualcosa, sia pure un semplice sentimento di disagio, o un’ossessione, o i fantasmi che popolano la nostra mente, e raccontarli e rappresentarli, rappresentare questo conflitto e la sua «avventura» fino al limite estremo.
Ma è poi vero che non c’è proprio piú conflitto nell’immaginario europeo? O non è forse piú vero che quel poco di conflitto che rimane, o le forme nuove in cui il conflitto si presenta, noi le rimuoviamo? Certamente per anni abbiamo rimosso dal nostro immaginario l’Europa dell’Est, come se non fosse Europa. Oggi aspettiamo, con preoccupazioni e timori, quegli europei sulla soglia del nostro benessere, e del resto essi stessi non chiedono che di essere ammessi. Le migrazioni intraeuropee saranno il vero problema della fine del secolo, in un vecchio continente compattato in un’unica idea del mondo e dei rapporti tra gli uomini. È un bene? Certo che è un bene, poiché tale unificazione avviene almeno all’insegna della libertà e dei diritti umani, che trascendono comunque qualunque sistema ideale, economico o politico, e ne costituiscono nella nostra visione occidentale gli elementi primi e fondamentali.
Ma all’unificazione dell’Occidente pacificato corrisponderà prima o poi l’unificazione di altre e diverse culture, per esempio quella del mondo arabo. Qualunque cosa si possa pensare della guerra del Golfo, credo che non sia casuale che non appena è finita la Guerra fredda tra gli occidentali (cioè non appena è finita di fatto la Seconda guerra mondiale) si è determinata una grave e profonda crisi con le diverse componenti del mondo arabo. A questa crisi abbiamo risposto militarmente in modo forse opportuno, ma culturalmente in modo dissennato, applicando le nostre idee e i nostri giudizi e perfino le ossessioni del nostro passato a culture completamente diverse, altre rispetto a noi. Eppure, una volta, dei sentimenti dell’Europa facevano parte non solo lo spirito di conflitto e di vittoria sul nemico, ma anche una capacità di accogliere la diversità, la diversità culturale, di assimilarla e di rielaborarla.
C’è poi una marginalità che noi rimuoviamo dalla nostra sublime idea d’Europa. E non è solo la marginalità delle razze altre che sempre piú popolano le nostre città e le nostre strade, né la vecchia marginalità dei poveri o dei poco abbienti; è una marginalità nuova e piú sottile, che può attraversare ogni ceto sociale e riguarda coloro che si escludono (perché vengono esclusi o si autoescludono) dalla «competizione economica» per il proprio comportamento, per il proprio dissenso, per il proprio dolore – che è dolore puro, che non trova piú risposta nelle motivazioni tradizionali: la Storia, la Religione, la «società».
Ma l’immaginario europeo ha rimosso un altro elemento di contraddizione e di conflitto, di diversità: penso alla Scienza e alla tecnologia. È curioso: la Scienza in questo secolo ha vinto sul piano delle cose, come la tecnologia ha vinto nel determinare la nostra vita e il nostro benessere, ma né l’una né l’altra hanno saputo vincere sul piano del senso comune, non hanno saputo diventare senso comune. La nostra sensibilità e la nostra cultura e il nostro immaginario non hanno fatto nulla per conoscere, per capire, per elaborare un sentimento di una Scienza e di una tecnologia che andavano cambiando la nostra vita, il nostro lavoro, i nostri rapporti. Eppure una volta la letteratura era capace di cogliere le modificazioni principali del proprio tempo e di rappresentarle: ha saputo narrare l’epoca della caccia e quella dell’agricoltura, quella dell’industria e perfino l’epoca degli interni Biedermaier, ma assai poco ha saputo narrare questo secolo, che è appunto il secolo della Scienza e della tecnologia realizzate, penetrate nella nostra vita di ogni giorno, inconsapevolmente nella nostra esperienza quotidiana, portando a contatto della nostra mano strumenti e oggetti di cui non sappiamo nulla, basati su idee di tempo e di spazio del tutto estranee alla nostra percezione, e che neppure riusciamo a immaginare. Sono anche questi oggetti a modificare i nostri sentimenti. La natura dei sentimenti è quella di essere perennemente identici a se stessi e perennemente mutabili, di avere una specie di patrimonio fisso e immodificabile da che ne abbiamo consapevolezza e memoria, e una piccola parte che viene modificata di epoca in epoca anche dall’apparire di oggetti nuovi (una storia d’amore prima del telefono è molto diversa da una storia d’amore dopo la diffusione del telefono). In fondo la letteratura racconta sempre e solo una cosa: il mutamento dei sentimenti perennemente identici a se stessi.
Eppure l’Europa, proprio per le idee di conflitto e di accoglimento che sempre l’hanno caratterizzata, sarebbe forse il luogo piú adatto per narrare i mutamenti prodotti da questa Scienza e da questa tecnologia, per elaborarne una risonanza. Proprio per la profondità del suo passato e la radicalità del suo interrogarsi, potrebbe accogliere in sé ciò che è piú moderno senza miti di «magnifiche sorti e progressive», ma con maturità, con capacità di sentire.
L’Europa ha questo di speciale rispetto a qualunque altro continente, a qualunque altra cultura: ha vinto tutto e ha perso tutto e, come ho già detto all’inizio, ha esperienza e memoria del diritto e del rovescio delle cose. Per questo penso che l’Europa sia ancora oggi, se abbandona la sua unilateralità, se ritrova la ricchezza della molteplicità e del conflitto, un luogo adatto per accogliere e narrare le cose nuove; ripeto, senza miti di un grande futuro, ma senza neanche infinite nostalgie del passato. Proprio per questo a me piacerebbe narrare (e forse ho cercato di farlo nei miei libri) un’Europa di nuovo centrale nella qualità della sua intelligenza, della sua attenzione, nella sua capacità di accogliere ed elaborare la diversità, un’Europa proprio per questa maturità non «eurocentrica». E magari anche un’Europa meno antropocentrica: in questo secolo, con grande presunzione, abbiamo pensato di aver raggiunto la piú assoluta capacità di potenza, quella cioè di cancellare e distruggere la presenza umana dal pianeta. Ormai ci illudiamo di poterci aspettare il peggio solo dall’infinitamente grande, immani esplosioni o collisioni astrali. Eppure basterebbe un’insurrezione degli insetti, di una delle infinite specie di esseri non antropomorfi, una rivolta degli insetti o dei microbi per farci sparire per sempre dalla faccia della terra. Ecco, mi piacerebbe narrare un’Europa che avesse la capacità di essere presente e vitale, accogliente e materna, capace di sentire e pensare la diversità e il conflitto, e di affrontare con tenacia e leggerezza l’imperturbabile precarietà di ciascuno di noi su questa terra.