lunedì 10 settembre 2018



IL PARCO DI PUSKIN
Sergei Dovlatov

A mezzogiorno arrivammo a Luga. Ci fermammo sul piazzale della stazione. La ragazza che ci faceva da guida commutò il suo tono trascendente in uno più terreno:
-    Laggiù a sinistra ci sono i servizi...
Il mio vicino di posto sollevò interessato il busto:
-    Intende i gabinetti ?
Per tutto il viaggio non mi aveva dato tregua: «Sostanza sbiancante di sei lettere?... Artiodattilo in via d’estinzione?... Sciatore austriaco?...».
I turisti scesero sul piazzale inondato di luce. L’autista sbattè la portiera e si accovacciò accanto al radiatore.
Stazione... era un edificio giallo-sporco con le colonne, l’orologio, le tremolanti lettere al neon neutralizzate dal sole...
Attraversai l’atrio con l’edicola e i massicci portarifiuti di cemento. Seguendo l’intuito individuai il bar.
-    Ordini al cameriere, - proferì la barista svogliata. Sul declivio del suo seno penzolava un cavatappi.
Mi sedetti accanto alla porta. Dopo un minuto comparve il cameriere con enormi basette di feltro.
Desidera?
-    Desidero - dissi che siano tutti gentili, disponibili e tranquilli.
Il cameriere, sazio di stranezze quotidiane, restò in silenzio.
-    Desidero cento grammi di vodka, una birra e due sandwich.
-    A che cosa ?
-    Facciamo al salame...
Tirai fuori le sigarette, ne accesi una. Le mani mi tremavano orribilmente. «Speriamo di non far cadere il bicchiere...». Come se non bastasse, accanto a me si sedettero due distinte vecchiette. Mi pare che fossero sul mio stesso pullman.
Il cameriere portò una piccola caraffa, una bottiglia e due cioccolatini.
-    I sandwich sono finiti - pronunciò in tono falsamente ferale.
Pagai. Sollevai il bicchiere e subito lo riposi. Le mani mi tremavano come a un epilettico. Le vecchiette mi osservavano con raccapriccio. Tentai di sorridere:
-    Ama il prossimo tuo!
Le anziane signore ebbero un fremito e cambiarono tavolo. Sentii alcune inarticolate interiezioni critiche.
Vadano al diavolo, pensai. Afferrai il bicchiere con entrambe le mani e lo vuotai. Poi scartai rumorosamente un cioccolatino.
Mi sentii un po’ meglio. Sopravvenne un ingannevole vigore interiore. Mi infilai in tasca la bottiglia di birra, poi mi alzai evitando a malapena di far cadere
la sedia. О meglio, la poltroncina di alluminio. Le due signore continuavano ad osservarmi spaventate.
Uscii sul piazzale. Il giardinetto era recintato da assi incurvate di compensato. I grafici pubblicitari del socialismo preannunciavano un imminente futuro di carne, lana, uova e ogni altro genere di conforto.
Gli uomini fumavano accanto al pullman. Le donne riprendevano i loro posti. La ragazza che ci faceva da guida mangiava un gelato. Mi diressi verso di lei:
-    Possiamo presentarci ?
-    Aurora - disse lei porgendomi la mano appiccicosa.
-    Piacere, signorina incrociatore, io sono il cacciatorpediniere Derbent.
La ragazza non si offese.
-    Sul mio nome ci scherzano tutti. Sono abituata... Che cos’ha? È tutto rosso.
-    Le assicuro che è solo l’aspetto esteriore. Nel mio intimo sono un democratico costituzionalista.
-    No, dico sul serio, si sente male ?
-    Bevo molto... vuole della birra?
-    Perché beve ? - chiese lei.
Cosa potevo rispondere ?
-    È un segreto, un piccolo enigma...
-    Ha deciso di cercare lavoro al Parco di Puskin ?
-    Proprio così.
-    L’ho capito subito.
-    Ho forse l’aspetto del letterato ?
-    Quando siamo partiti era insieme a Mitrofanov, un puskinista di straordinaria erudizione. Lo conosce bene ?
-    Sì, - dissi - il lato peggiore...
Come sarebbe?
Non ci faccia caso.
-    Legga Gordin, Scegolev, la Cjavlovskaja... le memorie della Kern... e un manuale divulgai ivo sui rischi dell’alcolismo.
-    Sapesse quanto ho letto sui rischi dell’alcolismo! Così tanto che ho definitivamente deciso di smettere... di leggere...
-    Ma con lei non si può parlare...
L’autista guardò verso di noi. I passeggeri erano tutti ai loro posti.
Aurora finì il suo gelato e si pulì le dita.
-    D’estate, - disse - al Parco pagano piuttosto bene. Mitrofanov guadagna circa duecento rubli.
-    Esattamente duecento volte più di quello che vale.
-    Ma lei è anche cattivo!
-    Chiunque lo diventerebbe... - dissi.
L’autista suonò due colpi di clacson.
-    Partiamo! - disse Aurora.
Dentro quel dozzinale automezzo sovietico si soffocava. I sedili di tela erano incandescenti, le tendine gialle acuivano il senso di afa.
Io scorrevo i Diari di Aleksej Vul’f: di Puskin parlava bonariamente, a volte con indulgenza. Si sa, se ci si avvicina troppo, si comincia a vedere male. Chiunque capisce che anche un genio deve pur avere degli amici. Ma chi è disposto a riconoscere che un suo amico è un genio?!...
Cominciai a sonnecchiare. Mi giungevano confuse alcune futili informazioni sulla madre del poeta Ryleev...
Mi svegliarono quando ormai stavamo entrando a Pskov. Le mura della fortezza intonacate di fresco suscitavano malinconia. Sull’arco centrale gli scenografi del socialismo avevano fissato un orribile emblema in ferro battuto di sapore baltico. La fortezza sembrava un plastico di dimensione abnorme.
Su un lato della fortezza si trovava l’agenzia turistica locale. Aurora fece vidimare alcuni documenti e ci condussero al ristorante «Zeus», il più chic di Pskov.
Ero incerto se bere ancora oppure no. Nel primo caso, l’indomani sarei stato definitivamente male. Non avevo fame...
Uscii sul viale. I tigli frusciavano bassi e pesanti.
Da tempo sono convinto che, non appena ti metti a pensare, ti viene subito in mente qualcosa di triste. Ad esempio l’ultima conversazione con tua moglie...
-    Persino il tuo amore per le parole è folle, insano e patologico: è un falso amore. È solo un tentativo di giustificare la vita che conduci. E tu conduci la vita di un letterato famoso, senza minimamente disporre delle prerogative indispensabili... Uno coi tuoi vizi come minimo dev’essere Hemingway...
-    Davvero lo consideri un bravo scrittore? Magari anche Jack London è un bravo scrittore ?
-    Santo Cielo! Ma che c’entra Jack London?! L’unico paio di stivali che possiedo è al banco dei pegni... Posso perdonare tutto, neppure la povertà mi spaventa... Tutto, tranne la vigliaccheria!
-    Cosa intendi?
-    Le tue continue sbornie. Il tuo... non voglio neppure parlarne... Non si può essere un artista a spese degli altri... È una vigliaccata! Parli tanto di nobiltà, ma intanto tu stesso sei un uomo freddo, crudele, opportunista...
-    Non dimenticare che sono vent'anni che scrivo racconti.
-    Vuoi scrivere un gran libro ? Su cento milioni di persone soltanto uno ci riesce!
-    E allora ?! Dal punto di vista spirituale, questo tentativo fallito equivale al più grande dei libri. Se vuoi, dal punto di vista morale, è persino più grande. Infatti esclude il compenso...
-    Sono solo parole. Immancabili, eloquenti parole... Sono stufa... Ho una figlia di cui sono responsabile...
-    Anch’io ho una figlia.
-    Che trascuri per mesi interi. Per te siamo solo due estranee...
(Quando parli con una donna c’è un momento disarmante. Tu adduci fatti, considerazioni, argomentazioni. La richiami alla logica e al buon senso. Ma di colpo scopri che a lei dà fastidio il suono stesso della tua voce...).
-    Intenzionalmente, - avevo detto - non ho mai fatto del male a nessuno...
Mi lasciai cadere su una panchina sbilenca. Tirai fuori la penna e un blocco. Dopo un minuto scrissi:
Qui, sui monti del Poeta, anima mia,
senza te provo rimpianto e nostalgia;
vago come un randagio per le radure
col cuore lacerato da orride paure...

Eccetera.
I miei versi anticipavano lievemente la realtà. Al Parco di Puskin mancava un centinaio di chilometri.
Entrai nel bazar e acquistai una busta su cui era raffigurato Magellano. Non so perché chiesi:
-    Scusi, sa mica che ci fa qui Magellano ?
Il commesso rispose con aria pensosa:
-    Forse è morto... о magari l’hanno nominato eroe dell’Unione Sovietica...
Incollai il francobollo, chiusi la busta e la imbucai...
Verso le sei arrivammo all’edificio della stazione turistica. Avevamo costeggiato i colli, il fiume, l’orizzonte spazioso oltre il limitare irregolare del bosco. In sintesi, un bel paesaggio russo al completo. Quella banalità che suscita inspiegabilmente un sentimento di amarezza.
Quel genere di sentimento mi ha sempre insospettito. In generale la passione per gli oggetti inanimati mi irrita... (Ho aperto il mio taccuino mentale). C’è qualcosa di depravato nei numismatici, nei filatelisti, nei viaggiatori accaniti, negli appassionati di cactus e di pesci d’acquario. Mi è del tutto estranea la pazienza certosina e assonnata del pescatore, l’inconcludente e immotivato ardore dell’alpinista, la superba sicurezza dei padroni di barboncini.
Dicono che gli ebrei siano indifferenti alla natura. È uno dei rimproveri mossi al popolo ebraico. Gli ebrei, dicono, non hanno una loro natura e quella degli altri li lascia indifferenti. E forse è proprio così. Evidentemente in me si esprime un costituente della genetica ebraica...
In breve, non amo i contemplatori entusiasti. E non mi fido troppo dei loro entusiasmi. Penso che l’amore per le betulle trionfi al posto dell’amore per gli esseri umani. Per poi trasformarsi in un surrogato del patriottismo...
Convengo che per una madre malata e paralitica si provi più amore e più compassione. Tuttavia compiacersi delle sue sofferenze, esprimerle in termini estetici, è una bassezza...
Ma lasciamo perdere...
Arrivammo alla stazione turistica. Non so chi fosse quel demente che l’aveva costruita a quattro chilometri dal più vicino bacino idrico. Con tutti quegli stagni, quei laghi e il famoso fiume, la stazione turistica si ergeva in uno spiazzo isolato e arroventato dal sole. Ammetto che alcune stanze avevano la doccia... e che ogni tanto c’era pure l’acqua calda...
Entrammo nell’agenzia turistica. C’era una biondona (il sogno di qualsiasi militare in congedo) a cui Aurora porse l’elenco del gruppo; poi firmò, ritirò i buoni per il pranzo e sussurrò qualcosa alla bionda opulenta che subito mi lanciò uno sguardo. Lo sguardo denotava coinvolgimento professionale, interesse furtivo e intransigente, e una lieve apprensione. Si raddrizzò persino sulla sedia. Le carte presero a frusciare più nettamente.
-    Non vi conoscete? - chiese Aurora.
Mi avvicinai.
-    Vorrei lavorare al Parco.
-    Ci serve personale... - disse la bionda.
Al termine di quella replica si percepivano nettamente dei puntini di sospensione. Ovvero: serve personale ben preparato, qualificato, specializzato. Di gente qualunque, intendeva, proprio non ne abbiamo bisogno...
-    Lei conosce la disposizione della mostra ? - chiese la bionda e inaspettatamente si presentò: - Gaiina Aleksandrovna.
-    Sono stato qui tre volte.
-    È poco.
-    Sono d’accordo. Infatti eccomi di nuovo...
-    È necessario prepararsi come si deve. Studiarsi un manuale. Nella vita di Puskin ci sono ancora tanti di quegli enigmi... Dall’anno scorso qualcosa è cambiato...
-    Nella vita di Puskin ? - mi stupii.
-    Mi scusi, - mi interruppe Aurora, - i turisti mi stanno aspettando. Le faccio i miei auguri...
E spari, giovane, sicura di sé, piena di vita. L’indomani in una delle stanze del museo avrei udito la sua onesta voce di ragazza:
«... Riflettete, compagni!... : Io vi ho amato, così teneramente. .. : Aleksandr Sergeevic Puskin contrapponeva al mondo dei rapporti feudali il suo ispirato inno altruistico...».
-    Non nella vita di Puskin, - disse seccata la bionda - ma nella disposizione della mostra. Ad esempio, è stato tolto il ritratto del progenitore di Puskin, del negro Hannibal.
-    E perché ?
-    Qualche funzionario sostiene che non si tratta di Hannibal. Le medaglie, capisce, non corrispondono. Dicono che si tratti del generale Zakomel’skij.
-    E invece chi sarebbe ?
-    Ma in effetti è il generale Zakomel’skij.
-    E perché è così nero ?
-    Combatteva contro gli asiatici, al sud. Là faceva caldo, così si era abbronzato. E poi col tempo i colori scuriscono.
-    Dunque hanno fatto bene a toglierlo ?
-    Ma che importa se è Hannibal о Zakomel’skij!...
I turisti vogliono vedere il negro Hannibal, pagano per questo! Di Zakomel’skij non frega un fico secco a nessuno! Per questo il nostro direttore aveva appeso Hannibal... cioè Zakomel’skij che faceva la parte di Hannibal. Ma a un certo funzionario la cosa non è piaciuta... mi scusi, lei è sposato?
Galja, cioè Gaiina Aleksandrovna, pronunciò quella frase all’improvviso e, se posso dire la mia impressione, con pudore.
-    Separato, - dissi - perché?
-    Le nostre ragazze vorranno saperlo.
-    Quali ragazze ?
-    Ora non sono qui. La ragioniera, l’istruttrice, le guide...
-    Perché dovrebbero interessarsi a me ?
-    Non si interessano a lei, si interessano a tutti. Sono in molte ad essere sole. I ragazzi se ne sono andati... E chi possono incontrare le nostre ragazze? I turisti? E che se ne fanno dei turisti? Va già bene se il viaggio dura otto giorni. Da Leningrado vengono persino per un giorno о due. Massimo tre... E lei si fermerà a lungo ?
-    Fino all’autunno. Se tutto andrà bene.
-    Dove alloggerà? Vuole che chiami l’albergo? Ne abbiamo due, uno buono e uno cattivo. Quale preferisce ?
-    Dovrei proprio pensarci - dissi.
-    Quello buono è più caro - spiegò Galja.
-    Va bene, - dissi - tanto di soldi non ne ho comunque...
Galja fece subito una telefonata. Insistette a lungo con qualcuno. Alla fine la questione venne risolta. Da qualche parte avevano segnato il mio nome.
-    L’accompagno.
Era tanto tempo che non ero accudito così intensamente da una donna. In seguito le sue cure si sarebbero manifestate in modo ancora più assiduo. Fino a trasformarsi in oppressione.
Dapprima attribuivo la cosa alla mia personalità decadente. Poi compresi quanto enorme fosse in quei luoghi la carenza di uomini. Il trattorista locale, dalle gambe storte e la capigliatura da battona ferroviaria, era attorniato da rosee e asfissianti ammiratrici:
-    Muoio dalla voglio di una birra! - diceva fiaccamente.
E le ragazze correvano a comprare la birra...
Galja chiuse a chiave la porta dell’ufficio. Ci avviammo verso il villaggio passando attraverso il bosco.
-    Lei ama Puskin? - mi chiese d’un tratto.
Qualcosa mi ribollì dentro, ma risposi:
-    Certo... Il cavaliere dì bronzo, la prosa...
-    E i versi ?
-    Mi piacciono molto i versi della maturità.
-    E quelli giovanili ?
-    Anche quelli giovanili, - mi arresi.
-    Qui ogni cosa vive di Puskin e traspira Puskin, -disse Galja, - letteralmente ogni cosa, ogni ramoscello, ogni filo d’erba. Sembra persino che da un momento all’altro spunterà dietro la curva... Il cilindro, la mantella, il suo profilo...
Intanto dietro la curva era spuntato Lenja Gur’janov, ex studente delatore.
-    Ehi, Borja, cazzo di budda, - strillò Lenja come un selvaggio, - sei proprio tu?!
Gli risposi con imprevisto entusiasmo. L’ennesimo stronzo mi prendeva alla sprovvista. Da sempre sono troppo lento a concentrarmi...
-    Sapevo che saresti venuto! - Gur’janov non mollava...
In seguito mi raccontarono questa storia. All’inizio dell’alta stagione, qui al Parco c’era stata una sbornia, un matrimonio о forse il compleanno di qualcuno. Inevitabilmente era presente il funzionario locale dei servizi segreti. Si erano messi a parlare di me. Qualcuno dei comuni conoscenti aveva detto:
-    È a Tallinn.
Qualcuno l’aveva corretto:
-    No, già da un anno è a Leningrado.
-    Io invece ho sentito che è a Riga, me l’ha detto Krasil’nikov...
Le nuove versione si erano succedute.
L’agente del KGB si era oculatamente mangiato il suo stufato d’anatra, poi aveva sollevato la testa e aveva proferito sinteticamente:
-    Abbiamo informazioni precise: verrà al Parco di Puskin...
-    Beh, ora devo proprio andare, - disse Gur’janov come se qualcuno cercasse di trattenerlo.
Guardò Galja:
-    Sei diventata più bella. Ti sei mica rifatta i denti?
Le sue tasche di bevitore erano pesantemente congestionate.
-    Ma che pezzo di merda! - proferì inaspettatamente Galja. E dopo un minuto: - Meno male che Puskin non vede tutto questo.
-    Già, - dissi io, - meno male davvero.
Il pian terreno dell’albergo «Amicizia» era occupato da tre locali: un alimentari, un parrucchiere e il ristorante «Onegin». Sarebbe stato il caso, avevo pensato, di invitare Galja che si era tanto data da fare per me. Di soldi ne avevo una miseria, un solo gesto munifico poteva significare la catastrofe.
Non dissi nulla.
Ci avvicinammo al banco dell’albergo presso cui sedeva la donna dell’amministrazione. Galja mi presentò. La donna mi allungò una chiave massiccia con inciso il numero 231.
-    E domani si troverà un’altra sistemazione, - disse Galja, - magari al villaggio... Oppure al Voronic, ma è un quartiere caro... Magari in uno dei paesi qui vicino, a Savkino, a Gajki...
-    Grazie, - dissi, - mi ha salvato.
-    Beh, io vado.
La frase terminava con un impercettibile punto interrogativo: «Beh, io vado?...».
-    Vuole che l’accompagni?
-    Vivo in un quartiere residenziale, - reagì enigmaticamente la ragazza.
Poi, in modo chiaro e scandito, troppo chiaro e troppo scandito, aggiunse:
-    Non è mica obbligato ad accompagnarmi... E non pensi che io sia una di quelle...
Si allontanò, facendo un cenno altero alla donna dell ’ amministrazione.
Io salii al secondo piano e aprii la porta. Il letto era stato preparato accuratamente. La radio emetteva dei suoni intermittenti. Sul bastone dell’armadio a muro spalancato ballonzolavano le grucce.
In quella stanza, in quell’angusta scialuppa, intraprendevo la mia traversata verso i lidi ignoti di un’autonoma vita da scapolo.
Feci una doccia, lavai via il residuo scabroso delle attenzioni di Galja, la patina dell’umida calca del pullman, la crosta di troppi giorni di eccessi.
L’umore migliorò visibilmente. La doccia fredda mi fece l’effetto di un deciso richiamo alla realtà.
Mi asciugai, mi infilai i pantaloni della tuta e accesi una sigaretta.
In corridoio si udiva un calpestio di passi. Da qualche parte risuonava la musica. Da sotto le finestre arrivava il rumore dei camion e di innumerevoli motorette.
Mi sdraiai sopra la coperta, aprii il volumetto grigio di Viktor Lichonosov. Decisi di chiarire che cosa fosse la famosa prosa contadina, di munirmi di una sorta di manuale di vita rurale...
Leggendo, senza accorgermene, mi addormentai. Mi svegliai alle due di notte. La stanza era pervasa dalla penombra estiva che preannunciava il mattino. Alla finestra si potevano ormai contare le foglie del ficus.
Decisi di riflettere bene su tutto. Di cercare di dissolvere la sensazione di disastro, di paralisi.
La vita era distesa tutt’attorno a me come un immenso campo minato. Io mi trovavo al centro. Si trattava di dividere quel campo in appezzamenti e di mettersi al lavoro. Di spezzare la catena delle circostanze drammatiche. Di analizzare la sensazione di fallimento. Di studiare ogni singolo parametro.
Uno scrive racconti per vent’anni. È convinto di avere delle buone ragioni per tenere in mano la penna. Quelli di cui si fida sono pronti a confermarlo.
Non ti pubblicano, non stampano quello che scrivi. Non ti accettano in loro compagnia. Nella loro cricca banditesca. Ma era davvero quello il traguardo a cui aspiravi quando buttavi giù le tue prime righe ?
Stai perseguendo la giustizia? Mettiti tranquillo, quel frutto qui non cresce. Alcune luminose verità avrebbero dovuto cambiare in meglio il mondo, ma in realtà cos’era successo?...
Hai una decina di lettori. C’è da sperare che diventino ancora meno...
Ma non ti pagano, ecco cosa non va! I soldi sono la libertà, lo spazio, i ghiribizzi... Se hai i soldi, sopportare la miseria è così facile...
Impara a guadagnarli senza ipocrisie. Vai a fare il camionista e scrivi di notte. Il poeta Osip Mandel’stam diceva che la gente conserva sempre ciò di cui ha bisogno. E allora scrivi...
Le capacità le hai. Avresti potuto non averle. Allora scrivi, crea un capolavoro. Evoca nel lettore uno sconvolgimento interiore. A un solo, a un unico lettore esistente... È il compito della tua vita.
E se non ci riesci? Ma se tu stesso hai detto che dal punto di vista morale un tentativo fallito è persino più nobile. Se non altro perché non ha una ricompensa...
Scrivi, visto che ti ci sei messo, porta avanti questo carico. Quanto più è pesante, tanto più è facile...
Sei oppresso dai debiti? E chi non ne ha mai avuti ?! Non disperarti. In fondo è l’unica cosa che ti unisce realmente al tuo prossimo...
Se ti guardi attorno vedi solo rovine? Beh, c’era da aspettarselo, chi vive nel mondo delle parole, con gli oggetti se la cava male.
Invidi chiunque può definirsi scrittore. Chiunque può tirare fuori un attestato e documentarlo.
Ma cosa scrivono i tuoi contemporanei? Tra le frasi dello scrittore Volin hai trovato:
«... mi divenne massimamente chiaro... ».
E alla stessa pagina:
«... con massima chiarezza Kim sentì... ! ».
La parola è messa gambe all’aria. Il contenuto si è polverizzato. О meglio, è venuto fuori che non conteneva nulla. Parole che si allineavano impalpabili, come l’ombra di bottiglie vuote...
Accidenti, non era di questo che stavi parlando!... Che noia questi tuoi immancabili trucchetti!...
Vivere è impossibile. О si vive о si scrive. О la parola, о l’azione. E la tua azione è la parola. Ma qualsiasi Azione con la lettera maiuscola ti disgusta: è circondata da uno spazio inerte, dove muore tutto ciò che ostacola l’azione. Dove muoiono le speranze, le illusioni, i ricordi. Là regna un miserevole, incontrastabile, univoco materialismo...
E di nuovo non ci riesci e non ci riesci di nuovo...
A cosa hai ridotto tua moglie ? Era semplice, frivola, amava divertirsi. L’hai resa gelosa, sospettosa e nervosa. La sua frase immutabile «Che intendi con questo?» è un monumento alla tua doppiezza.
Le tue brutture hanno raggiunto la parodia. Te la ricordi quella volta che eri tornato verso le quattro del mattino ? E mentre ti slacciavi le scarpe tua moglie si era svegliata e con voce lamentosa aveva detto:
-    Santo cielo, dove vai così presto?!...
-    In effetti è un po’ prestino, davvero prestino, - avevi bofonchiato.
Poi ti eri spogliato in fretta e ti eri messo a letto...
Ma cosa stavo dicendo...

Mattina. Dei passi ovattati dalla guida di moquette rossa, l’improvviso gracchiare intermittente della radio, lo scorrere dell’acqua dietro la parete, i camion sotto la finestra, in lontananza l’inatteso canto di un gallo...
Quand’ero bambino l’estate era accompagnata dai fischi delle locomotive. Le dacie fuori città... l’odore bruciaticcio della ferrovia e della sabbia riarsa... il ping-pong sotto i rami... il ticchettio netto e squillante della pallina... i balli sulla veranda (tuo cugino ti aveva incaricato di mettere i dischi)... Gleb Romanov... Ruzena Sikora... È un canto da due soldi, da due lire..., Ti sognavo a Bucarest, ma ero sveglio...
Una spiaggia scottata dal sole... le carici riarse... i mutandoni e i segni dei calzini sui polpacci... i sandali pieni di sabbia...
Bussarono alla porta.
-    Al telefono!
-    Ci dev’essere un equivoco, - dissi.
-    Non è lei Boris Alichanov?
Mi accompagnarono nella stanza della guardarobiera. Afferrai il ricevitore.
-    Stava dormendo? - chiese Galja.
Obiettai tenacemente.
Ho notato da tempo che a questa domanda le persone reagiscono in modo eccessivamente emozionale. Provate a chiedere a uno: «Soffri di crisi di alcolismo?» e quello vi risponde tranquillamente «no». О magari conferma volentieri. Ma alla domanda «Stavi mica dormendo?», la maggior parte delle persone reagisce come fosse un’offesa. Come fosse un tentativo di smascherarti mentre stai commettendo un misfatto...
-    Ho trovato la stanza.
-    Grazie mille.
-    Nel villaggio di Sosnovo. A cinque minuti dalla stazione turistica. Accesso indipendente.
-    È la cosa fondamentale.
-    Il padrone, a dir il vero, beve...
-    Meglio ancora.
-    Si ricordi il cognome: Sorokin. Michail Ivanovic... Dalla stazione turistica deve prendere la strada lungo il dirupo. Dalla colline si vede già il paese. La quarta casa... Forse la quinta. La troverà, vedrà. Lì accanto c’è la discarica...
-    Grazie, lei è proprio cara.
Il tono mutò drasticamente.
-    Macché cara ?! Roba da matti... cara... ma mi faccia il piacere!... Ha trovato proprio quella giusta...
Successivamente ripensai varie volte, stupito, a quell’istantanea trasfigurazione di Galja. Solidarietà, giovialità e semplicità si erano trasformate di colpo nelle tonalità isteriche del pudore ferito. Il suo eloquio normale era divenuto un cicaleccio dialettale di provincia...
-    E non si faccia venire in mente certe idee!
-    Quelle idee mai e poi mai! Grazie ancora...
Mi avviai alla stazione turistica. Questa volta c’era parecchia gente. Tutt’attorno c’erano automobili variopinte. I turisti coi cappelli da villeggiatura girovagavano in gruppetti о per conto proprio. Al chiosco dei giornali si era formata la coda; dalle finestre spalancate della mensa si sentiva un rumore di piatti e di sgabelli di metallo. Là davanti si rincorrevano alcuni cani randagi ben pasciuti.
Ad ogni passo vedevo l’immagine di Puskin. Persino accanto alla misteriosa nicchia di mattoni con la scritta «infiammabile». La somiglianza era garantita dai tipici basettoni, le cui dimensioni variavano in modo arbitrario. Da tempo ho notato che i nostri pittori hanno alcuni obiettivi preferenziali che non pongono limiti alla magnificenza e all’ispirazione. Per prima cosa mi riferisco alla barba di Karl Marx e alla fronte di Lenin...
La radio era accesa a tutto volume:
-    Attenzione! Parla l’emittente radio della stazione turistica del Parco. Annunciamo il programma di oggi...
Passai in agenzia. Galja era assediata dai turisti. Con la mano mi fece cenno di aspettare.
Presi da uno scaffale l’opuscolo La perla della Crimea. Tirai fuori le sigarette.
Ritirati i documenti, le guide si stavano allontanando. I turisti le inseguivano di corsa verso i pullman. Alcune famiglie autarchiche cercavano di unirsi ai gruppi. Una ragazza alta e magra si occupava di loro.
Un uomo col cappello tirolese si avvicinò a me timidamente:
-    Mi scusi, potrei farle una domanda ?
-    Prego.
-    Sarebbero quelle le distese ?
-    Sarebbe a dire ?
-    Le sto chiedendo se le distese sono quelle ? - il tirolese mi trascinò alla finestra spalancata.
-    In che senso ?
-    In senso letterale. Vorrei sapere se sono le distese oppure no. Se non sono le distese, me lo dica!
-    Non capisco.
L’uomo arrossì leggermente e cominciò a spiegare concitato:
-    Avevo una cartolina... Io sono un filocartista...
-    Cosa?
-    Filocartista... raccolgo cartoline... Filos è amore, kartos...
-    Chiaro.
-    Possiedo una cartolina a colori «Distese di Pskov», e ora che mi sono ritrovato qui, vorrei chiederle se sono quelle le distese.
-    In un certo senso, sono le distese, - dissi.
-    Proprio quelle di Pskov ?
-    Non avrei dubbi.
L’uomo, illuminatosi, si allontanò...
Era l’ora di punta. L’agenzia era deserta.
-    Ogni estate il numero dei turisti aumenta, - spiegò Galja.
E poi, alzando leggermente il tono di voce:
-    Si è avverata la profezia del Poeta: Sul sacro sentier non ricrescerà mai l' erba!...
Non ricrescerà, pensai tra me. E come potrebbe crescere schiacciata da quelle orde di turisti...
-    La mattina qui c’è un casino pazzesco! - disse Galja.
Di nuovo mi stupì l’imprevedibile varietà del suo lessico.
Galja mi presentò al dirigente dell’agenzia, Ljudmila. Avrei segretamente ammirato le sue morbide gambe fino alla fine della stagione. Ljuda si comportava con equilibrio e cortesia. Ciò era dovuto al fatto che aveva un fidanzato. Non era stata deturpata dalla perenne disposizione ad opporre agli uomini una conturbata resistenza. Il fidanzato comunque era in prigione...
Poi comparve una donna brutta, sulla trentina, l’istruttrice. Si chiamava Marianna Petrovna. Marianna aveva un viso trascurato e privo di difetti e una figura impercettibilmente sgradevole.
Spiegai lo scopo del mio viaggio. Con un sorriso scettico Marianna mi invitò in un ufficio distaccato.
-    Lei ama Puskin.
Provai una profonda irritazione.
-    Sì.
Se continuano così, pensai, finirò presto col detestarlo.
-    E posso chiederle perché?
Colsi verso di me un sorriso ironico. Evidentemente da queste parti l’amore per Puskin era la valuta più diffusa. E se per caso io fossi stato un falsario ?
-    Come sarebbe? - chiesi.
-    Cosa le fa amare Puskin?
-    La prego, - non riuscii a resistere - mettiamo fine a questo squallido esame. Ho la licenza superiore. Ho fatto l’università (qui esagerai un po’, mi avevano cacciato al terzo anno). Qualcosa ho letto. In generale, me la cavo... E ambisco semplicemente alle mansioni di guida...
Per fortuna il mio tono seccato passò inosservato. Come avrei compreso in seguito, da quelle parti l’elementare villania era più benaccetta del falso sussiego...
-    Comunque sia? - Marianna voleva una risposta. Per di più una risposta che conosceva già in partenza.
-    Bene, - dissi - ci proverò... Dunque, mi ascolti bene. Puskin rappresenta il nostro Rinascimento tardivo. Come Goethe per Weimar. Entrambi hanno assimilato ciò che l’occidente ha realizzato dal quindicesimo al diciassettesimo secolo. Puskin ha dato voce ai motivi sociali che nel Rinascimento si esprimevano per definizione nella tragedia. É come se Puskin e Goethe fossero vissuti in più epoche: il Werther è un omaggio al sentimentalismo, Il prigioniero del Caucaso è un prodotto tipicamente byroniano; ma il Faust, ad esempio, è già un prodotto elisabettiano, mentre le Piccole tragedie puskiniane sviluppano uno specifico genere rinascimentale. Lo stesso può dirsi della lirica di Puskin, in cui vi è un’amarezza che non è più nello spirito di Byron, ma, direi piuttosto, nello spirito dei sonetti shakespeariani... Espongo in modo accessibile?
-    Ma che c’entra Goethe! - chiese Marianna - e che c’entra il Rinascimento?
-    Non c’entrano nulla! - mi imbestialii definitivamente. - Goethe non c’entra un bel niente! E Rinascimento era il nome del cavallo di Don Chisciotte. Che pure non c’entra niente! E, a quanto pare, non c’entro niente neanch’io...
-    Si calmi, - sussurrò Marianna - com’è nervoso lei... Le ho solo chiesto perché ama Puskin...
-    Amare pubblicamente è una bestialità! - mi misi a urlare. - C’è un termine preciso della patologia sessuale...
Con la mano che le tremava Marianna mi porse un bicchier d’acqua. Lo respinsi.
-    Ma lei, in generale, ha mai amato qualcuno ? Mai successo?...
Non era il caso di parlarne, sarebbe subito scoppiata in singhiozzi e avrebbe gridato:
«Ho trentaquattro anni e sono una ragazza sola!... ».
-    Puskin è il nostro orgoglio! - disse lei. - Non solo è un grande poeta, ma è un grande cittadino...
Evidentemente questa era la risposta preconfezionata alla sua stupida domanda.
Tutto qui?, pensai.
-    Si studi il manuale. E questo è l’elenco dei libri, sono tutti in sala di lettura. E riferisca a Gaiina Aleksandrovna che la conversazione ha avuto esito positivo...
Mi sentii a disagio.
-    Grazie, - dissi - perdoni la mia impertinenza.
Arrotolai il manualetto e lo misi in tasca.
-    Abbia più riguardo, ne abbiamo soltanto tre copie.
Tirai fuori il manuale e cercai di appiattirlo.
-    E un’altra cosa, - Marianna abbassò la voce - lei mi ha chiesto dell’amore...
-    È lei che mi ha chiesto dell’amore.
-    No, è lei che me lo ha chiesto... A quanto capisco, le interessa sapere se sono sposata. Ebbene: sono sposata!
-    Lei mi priva di qualsiasi speranza, - dissi mentre me ne andavo.
In corridoio Galja mi presentò la guida Natella. E di nuovo incontrai un inatteso picco di partecipazione:
-    Lavorerà da noi?
-    Sto cercando.
-    Ha delle sigarette ?
Uscimmo sul portico.
Natella era arrivata da Mosca mossa da finalità romantiche o, per meglio dire, da spirito d’avventura. Di formazione era un ingegnere fisico, faceva l’insegnante in una scuola. Aveva deciso di passare qui i suoi tre mesi di vacanze. Si era pentita. Al Parco c’era troppo trambusto, le guide e le istruttrici erano isteriche, i turisti erano dei maiali ignoranti, tutti adoravano Puskin. Commossi dal loro stesso amore per lui. E dall’amore per il proprio amore. L’unica persona per bene era Markov...
-    Chi è Markov ?
-    È un fotografo. Alcolista terminale. Glielo presento. Mi ha insegnato a bere il vino azerbaigiano. È liquoroso, fantastico! Lo insegnerà anche a lei...
-    Indicibilmente grato. Ma in quest’ambito, temo, sono un vero accademico.
-    Su, facciamoci una bevuta! Proprio in seno alla...
-    Affare fatto.
-    E lei è un tipo pericoloso ?
-    Cioè?
-    L’ho percepito subito. Lei è un tipo terribilmente pericoloso.
-    Quando bevo ?
-    Non parlavo di quello.
-    Non capisco.
-    Innamorarsi di uno come lei è pericoloso.
E Natella mi diede un colpetto col ginocchio che mi fece male...
Santo cielo, pensavo, qui sono tutti fuori di testa. Persino quelli che considerano fuori di testa tutti gli altri...
-    Beva il suo vino azerbaigiano, - dissi, - e si rilassi. Voglio riposare e lavorare un po’. Non rappresento per lei alcun pericolo...
-    Questo è tutto da vedere! - sghignazzò istericamente Natella.
Poi fece roteare in modo civettuolo la sporta di tela con l’immagine di James Bond e si allontanò.
Io mi diressi a Sosnovo. La strada si snodava verso la cima del colle costeggiando un misero campo. Sul ciglio, come colossi informi, si incupivano i massi. Sulla sinistra si spalancava un dirupo coperto di erbacce. Scendendo dal colle vidi alcune casette circondate dalle betulle. Da un lato vagavano delle mucche monocromatiche, piatte come scenografie teatrali. Alcune sudice pecore dai volti decadenti mordicchiavano fiaccamente l’erba. Sopra i tetti volavano le cornacchie.
Camminavo per il villaggio sperando d’incontrare qualcuno. Le case grigie e senza intonaco avevano un aspetto miserevole. I paletti degli steccati sbilenchi erano coronati da vasi d’argilla. Nei recinti coperti di polietilene si dimenavano i pulcini. I polli avanzavano con l’andatura nervosa dei cartoni animati. I cani pelosi e tarchiati latravano sonoramente.
Attraversai il villaggio, tornai indietro. Accanto ad una delle case rallentai il passo. Una porta sbattè e sul portico comparve un uomo con la giubba da ferroviere accuratamente ripulita.
Chiesi come avrei potuto trovare Sorokin.
-    Io sono Tolja - disse lui.
Mi presentai e spiegai nuovamente che stavo cercando Sorokin.
-    E dove abita? - chiese Tolja.
-    Nel villaggio di Sosnovo.
-    Ma Sosnovo è questo.
-    Lo so, ma come faccio a trovarlo?
-    Non sarà mica il Tima, Timofej Sorokin?
-    Si chiama Michail Ivanovic.
-    Il Tima è mancato l’anno passato. Era sbronzo e si è assiderato...
-    Dovrei trovare Sorokin.
-    Si vede che non aveva bevuto abbastanza, altrimenti si sarebbe salvato...
-    Dovrei trovarlo...
-    Non sarà per caso il Micha ?
-    Si chiama Michail Ivanovic.
-    Ma allora è proprio il Micha! Il cognato della Dolli! Ha presente la Dolli, quella col fazzoletto sbilenco ?
-    Vengo da fuori.
-    Dal villaggio di Opocka ?
-    Da Leningrado.
-    Ah sì, ne ho sentito parlare...
-    Allora, come lo trovo Michail Ivanovic ?
-    Il Micha ?
-    Proprio lui.
Tolja con esplicita efficienza urinò giù dal portico, poi socchiuse la porta e tuonò:
-    Ehi! Signor Migiroipollici, ti stanno cercando!
E strizzandomi l’occhio aggiunse:
-    È uno sbirro, per gli alimenti alla tua ex...
Subito spuntò una faccia paonazza, generosamente
decorata da due occhi blu:
-    È per... chi cerca ?... È per il fucile ?
-    Mi hanno detto che lei affitta una stanza.
Il viso di Michail Ivanovic assunse un’espressione di forte smarrimento. In seguito potei convincermi che quella era la sua reazione a qualsiasi affermazione, anche alla più innocua.
-    Una stanza?... Ma... e perché mai?
-    Lavoro al Parco di Puskin. Vorrei affittare la stanza. Per un po’, fino all’autunno. Ce l’ha la stanza?
-    La casa è della mia vecchia. È casa sua. Lei sta a Pskov. Le si sono gonfiate le gambe...
-    Insomma, affitta le stanze oppure no ?
-    L’anno scorso ci sono stati degli ebrei. Non posso dir male, erano gente come si deve... solo bianco, rosso e birra... niente lucidante о dopobarba... personalmente mi piacciono gli ebrei.
-    Hanno crocifisso Gesù - si intromise Tolja.
-    Ma lo sai quanto tempo è passato ? - gridò Michail Ivanovic. - Ancora prima della rivoluzione d’ottobre...
-    La stanza l’affitta oppure no ? - dissi.
-    Accompagnalo! - decise Tolja tirandosi su la cerniera.
Camminavamo in tre lungo la strada del villaggio. Accanto allo steccato c’era una donna che portava una giacca da uomo con la medaglia al valore appuntata sul bavero.
-    Ehi, Zina, prestami un po’ cinque sacchi! - strillò Michail Ivanovic.
La donna fece un gesto di scherno:
-    Ti ci strozzi te col tuo vino... Non hai sentito che hanno fatto una nuova legge? Tutti gli ubriaconi li impiccano ai cavi!...
-    Dov’è che li impiccano?! - sghignazzò Michail Ivanovic. - I cavi non bastano... non basterebbe tutta la metallurgia sovietica...
Poi aggiunse:
-    Vecchia troia che non sei altro, vienimi ancora a chiedere la legna... Sa, io lavoro alla legnaia, sono speranzista!
-    Cosa sarebbe? - chiesi stupito.
-    Uso una segatrice «Speranza»... Due segatine e m’intasco dieci sacchi.
-    Ma sentilo, lo speranzista... - brontolava la donna - l’unica cosa che speri è di bere vino... guarda di non affogarci...
-    È difficile... - ammise Michail Ivanovic con rammarico.
Era un uomo slanciato e con le spalle larghe. Neppure i vestiti sudici e strappati riuscivano a imbruttirlo del tutto: il viso bruno, le clavicole magre e imponenti sotto la camicia completamente slacciata, il passo preciso ed elastico... Senza volerlo lo ammiravo...
La casa di Michail Ivanovic faceva un’impressione orribile. Sullo sfondo delle nuvole si stagliava un’antenna nera incurvata. Il tetto qua e là era sfondato, mettendo a nudo le travi scure e irregolari. Le pareti erano malamente ricoperte di compensato. I vetri rotti erano rattoppati con carta di giornale. Dalle innumerevoli fessure spuntava della stoppa sudicia.
Nella camera del padrone c’era puzzo di cibo inacidito. Sopra il tavolo era appesa una foto a colori di Mao ritagliata dalla rivista «Ogonèk». Accanto sorrideva smagliante Gagarin. Nel lavandino, lungo i cerchi neri dello smalto scrostato, galleggiava della pastasciutta. L’orologio a pendolo era fermo: il ferro da stiro che sostituiva il pendente aveva toccato il pavimento.
Due gatti dall’aria araldica, uno nero come la pece e l’altro rosa pallido, girovagavano smorfiosi sopra il tavolo rovesciando i piatti. Il padrone raccattò uno stivale di feltro e li scacciò. Si udì il rumore dei cocci. I gatti con un ruggito insano volarono in un angolo buio.
La stanza accanto aveva un aspetto ancora più orribile. La parte centrale del soffitto stava minacciosamente per cedere. Due letti di metallo erano tutti coperti di stracci e di luride pelli di pecora. Dovunque biancheggiavano cicche di sigarette e gusci d’uovo.
Francamente restai un po’ sconvolto. Ad essere sincero avrei dovuto dire: «No grazie, non fa per me... ». Ma evidentemente ero pur sempre una persona educata e così mi espressi in termini più lirici:
-    Le finestre danno a sud ?
-    Più a sud di così non si può - annuì Tolja.
Dalla finestra vidi il gabbiotto mezzo sgangherato del bagno a vapore.
-    La cosa più importante è l’entrata indipendente.
-    La porta c’è, ma è inchiodata.
-    Accidenti, - dissi - che peccato!
-    Ain moment bitte! - disse il padrone, prese la rincorsa e buttò giù la porta con un calcio.
-    Quanto costa ?
-    Niente.
-    Come sarebbe? - chiesi.
-    Proprio così. Porta sei bottiglie di veleno e la stanza è tua.
-    Non possiamo definire in modo più concreto ? Diciamo venti rubli le va bene ?
Il padrone si mise a pensare:
-    E quanto fa ?
-    Gliel’ho detto, venti rubli.
-    In liquido, quanto fa? Calcola a uno e quattro la bottiglia.
-    Fa diciannove di rosso forte, un pacchetto senza filtro e due scatole di fiammiferi - stabilì Tolja con precisione.
-    E due rubli di indennità - precisò Michail Ivanovic.
Tirai fuori i soldi.
-    Desidera dare un’occhiata al gabinetto?
-    Dopo, - dissi, - allora, affare fatto? Dove lascia la chiave ?
-    La chiave non c’è, - disse Michail Ivanovic, - l’ho persa. Ma non andartene, facciamo una corsa e torniamo con le bottiglie.
-    No, ho da fare alla stazione turistica. Sarà per la prossima volta...
-    Come ti pare. Alla stazione turistica ci passo stasera, devo dare una lezione a quella stronza della Liza.
-    Chi sarebbe la Liza ? - chiesi.
-    La mia vecchia. Mia moglie, no? Fa l’economa. Ci siamo divorziati.
-    Beh, e non avrà mica intenzione di picchiarla ?
-    A chi?... Anche impiccarla sarebbe poco, comunque non voglio rogne. Volevano portarmi via il fucile, dicevano che le volevo sparare... Credevo che eri venuto per quello...
-    Quella non merita neppure i proiettili - si intromise Tolja.
-    L’hai detto, - convenne Michail Ivanovic, - posso strozzarla con le mie mani, se necessario... ’stinverno la incontro, come va come non va, con le buone, no... e quella strilla «No, dai, lasciami stare...». Il maggiore Dzafarov mi convoca e dice: «Nome e cognome». E io: «Cazzo di budda». Mi son beccato quindici giorni senza sigarette, senza niente... Capirai che cazzo mi frega... Se stai dentro, non lavori... La Liza ha scritto una lettera al procuratore, mettilo dentro se no m’ammazza... Cosa vuole che l’ammazzi a quella lì...
-    Un bel casino non te lo leva nessuno, - convenne Tolja. E aggiunse:
-    Beh, andiamo, altrimenti al negozio chiudono...
Gli amici si diressero verso il quartiere residenziale, esuberanti, ripugnanti e combattivi come parassiti...
Restai in biblioteca fino alla chiusura.
Ci misi tre giorni a prepararmi per la visita guidata. Galja mi presentò a quelle che, secondo lei, erano le due guide migliori. Con loro feci il giro del Parco ascoltando e prendendo qualche appunto.
Il Parco consisteva di tre unità tematiche. La proprietà e la casa dei Puskin a Michajlovskoe; il villaggio di Trigorskoe, dove vivevano gli amici del poeta e dove lui andava praticamente ogni giorno; e, infine, la cappella di famiglia dei Puskin-Hannibal.
La visita guidata a Michajlovskoe veniva suddivisa in alcune tappe: la storia della proprietà; il secondo esilio del poeta; la balia, Arina Rodionovna; la famiglia Puskin; gli amici che facevano visita al poeta esiliato; la rivolta dei decabristi e lo studio di Puskin, con una rapida scorsa alla sua opera.
Trovai la responsabile del museo e mi presentai. Viktorija Al’bertovna dimostrava una quarantina d’anni. Gonna lunga coi volant, ciocche ossigenate, un cammeo e l’ombrellino: un pretenzioso quadro di Benois. Quello stile da nobiltà di provincia in estinzione era coltivato in modo esplicito e intenzionale. In ognuno dei funzionari della cultura del Parco si esprimeva un caratteristico tratto particolare. Qualcuno si annodava sul petto uno scialle zigano di misura inaudita. A qualcuno pendeva sulle spalle un raffinato cappello di paglia. A qualcun altro era finito tra le mani un assurdo ventaglio piumato.
Viktorija Al’bertovna conversava con me con un sorriso perplesso. Ormai cominciavo a farci l’abitudine. Tutti i sacerdoti del culto di Puskin erano oltremodo fervidi. Puskin costituiva una loro proprietà collettiva, l’oggetto venerato della loro infatuazione, il loro
pargolo da trastullare. Qualsiasi attentato al loro idolo personale li irritava. Si affrettavano a convincersi della mia ignoranza, del mio cinismo e del mio opportunismo.
-    A che scopo è venuto qui ? - mi chiese la responsabile del museo.
-    Per soldi - dissi.
Viktorija Al’bertovna per poco non cadde svenuta.
-    Mi scusi, scherzavo.
-    Gli scherzi qui sono del tutto fuori luogo.
-    Sono d’accordo. Posso farle una domanda? Cosa c’è di autentico nell’esposizione del museo ?
-    Perché, le pare importante?
-    Mi sembra di sì. Un museo non è un teatro.
-    Qui tutto è autentico. Il fiume, le colline e gli alberi sono coevi di Puskin, erano i suoi interlocutori, i suoi amici. Tutta la stupefacente natura del luogo...
-    Parlavo degli oggetti esposti nel museo, - la interruppi, - nel manuale la maggior parte delle cose viene commentata in modo evasivo: «Stoviglie rinvenute sul territorio della proprietà...».
-    Cosa le interessa di preciso ? Cosa desidera vedere ?
-    Beh, le cose personali... se ce ne sono...
-    Per caso desidera reclamare ?
-    Ma che reclami vuole che faccia! ? Tanto più nei suoi confronti! Chiedevo soltanto...
-    Le cose personali di Puskin ?... Il museo è stato creato decine di anni dopo la sua tragica fine...
-    Beh, è sempre così, - dissi - prima li sopprimono, poi cercano gli effetti personali. È successo con Dostoevskij, con Esenin... Così sarà con Pasternak. Appena si ricrederanno, cominceranno a cercare gli effetti personali di Solzenicyn...
-    Ma noi ricreiamo un contesto, un’atmosfera, -disse la custode.
-    È chiaro. Ma l’étagère è autentica?
-    Almeno è dell’epoca.
-    E il ritratto di Byron ?
-    È autentico, - si illuminò Viktorija Al’bertovna -era stato donato ai Vul’f... C’è una scritta... Comunque lei ha proprio delle strane esigenze. Effetti personali e ancora effetti personali... secondo me è un interesse morboso...
Mi sentii come un rapinatore sorpreso in casa altrui.
-    E che senso avrebbe altrimenti un museo ? - dissi. - Senza interessi morbosi ? Chi è sano si interessa al prosciutto...
-    Non le basta la natura ? Non le basta che lui passeggiasse per questi pendii? Che facesse il bagno in questo fiume? Che si godesse questo paesaggio stupendo...
Ma perché diavolo, pensai, me la prendo con lei.
-    Bene, - dissi - grazie, Viktorija.
Di colpo lei si chinò, strappò una spiga, mi sferzò il viso, fece una breve risatina nervosa e si allontanò sollevando la maxi-gonna coi volant.
Io mi unii al gruppo che stava andando a Trigorskoe.
I custodi della proprietà, marito e moglie, imprevedibilmente mi piacquero. Essendo sposati, si potevano permettere il gran lusso dell’affabilità. Poiina Fédorovna sembrava autoritaria, energica e leggermente presuntuosa. Nikolaj aveva l’aria di un bestione intimidito e si teneva in disparte.
Trigorskoe si trovava fuori mano. I dirigenti raramente passavano di là. L’esposizione era organizzata con logica e con gusto: il giovane Puskin, le dolci signore innamorate, l’atmosfera di un raffinato flirt estivo...
Aggirai il Parco, poi scesi verso il fiume, in cui verdeggiavano gli alberi rovesciati. Le nubi veleggiavano leggere.
Mi venne voglia di fare un tuffo, ma in quel momento arrivò la corriera di linea.
Mi diressi verso il monastero di Svjatogorsk. All’entrata le vecchiette vendevano fiori. Comprai alcuni tulipani e salii verso la tomba. Presso il recinto i turisti facevano fotografie. I loro visi sorridenti mi parvero ripugnanti. Due pittori mancati avevano sistemato lì accanto i loro cavalletti.
Posai i fiori e me ne andai. Dovevo visitare l’esposizione della cattedrale dell’Assunzione. Nelle nicchie fresche risuonava l’eco. Sotto le arcate sonnecchiavano i piccioni. Il tempio era reale, massiccio e grandioso. Nell’angolo della sala centrale riluceva debolmente una campana spezzata. Un turista la percuoteva sonoramente con una chiave...
Nella cappella meridiana vidi il famoso disegno del Bruni. Sempre lì biancheggiava una maschera mortuaria. C’erano due quadri enormi: il primo riproduceva
il trasferimento segreto di Puskin ferito dopo il duello; l’altro, i suoi funerali. La figura dello storico Aleksandr Turgenev emanava femminilità...
Si avvicinò un gruppo di turisti. Mi diressi verso l’uscita. Dietro di me risuonava:
- La storia della cultura non conosce avvenimento pari a questo per tragicità... Per mano della scelleratezza aristocratica, l’autocrazia...

E così mi stabilii dal buon Michail Ivanovic. Beveva ininterrottamente, fino allo sbalordimento, alla paralisi e al delirio. Inoltre quando delirava utilizzava esclusivamente il turpiloquio. Proferiva le sue oscenità con lo stesso sentimento con cui gli anziani di buona cultura canticchiano a mezza voce. Cioè, per se stessi, senza preoccuparsi dell’approvazione о delle critiche.
Lo vidi sobrio due volte soltanto. In quelle occasioni paradossali, il buon Michail Ivanovic aveva acceso contemporaneamente la radio e la televisione; si era coricato coi pantaloni, aveva tirato fuori una vecchia scatola del dolce «La favolosa» e aveva cominciato a leggere le cartoline ricevute durante tutta la sua vita. Leggeva (e commentava):
«Ciao, vecchio mio!... » (ciao-ciao, figlio d’una capra zoccola!...) «Auguri per il lavoro...» (ma quali auguri, porca d’una madama...) «Per sempre tuo Radik... » (per sempre tuo, per sempre tuo... mica t’ho inchiappettato...).
In paese Michail Ivanovic non era amato, lo invidiavano. «Potessi anch’io farmi un goccetto!» dicevano. «Accidenti, me lo farei proprio un goccetto, s’è vero Iddio! E che goccetto mi farei, in culo alla balena!... Ma c’è da mandare avanti la campagna... Quello invece...».
Il Micha, invece, non aveva niente da mandare avanti: due cani smunti che ogni tanto sparivano per un bel pezzo, un melo rinsecchito e una zolla di cipolline...
Una volta, in una sera piovosa, noi due ci eravamo messi a chiacchierare:
-    Misa, tu l’amavi tua moglie ?
-    A chi?! Alla moglie? Alla femmina, intendi? Alla Liza, vorresti dire? - si affannava Michail Ivanovic.
-    La Liza, sì, Elizaveta Prochorovna.
-    E che c’era da amare? Un colpetto e via...
-    Cosa ti attirava in lei ?
Michail Ivanovic rifletté a lungo.
-    Dormiva come si deve, - proferì lui - muta come una larva...
Prendevo il latte nella casa accanto, dai Nikitin. Loro se la passavano bene: la televisione, una riproduzione di un quadro di Kramskoj... Il padrone di casa alle cinque di mattina cominciava a occuparsi dei lavori. Aggiustava il recinto, zappava l’orto. Una volta avevo visto la giovenca appesa per le zampe, il padrone la stava scuoiando. Il coltello tutto luccicante era insanguinato...
Michail Ivanovic disprezzava i coniugi Nikitin. E loro disprezzavano lui.
-    Continua a bere? - chiedeva Nadezda Nikitina, rimestando nel mastello il cibo per i polli.
-    L’ho visto giù alla stazione turistica, - diceva Nikitin, maneggiando la pialla, - già al mattino era suonato.
Io non volevo dargli corda.
-    In compenso è buono.
-    Certo che è buono, - conveniva Nikitin, - poco ci mancava che sgozzasse sua moglie. Le ha bruciato tutti i vestiti. Coi figli che d’inverno girano con le scarpe di tela... Per il resto sarà anche buono...
-    Misa è un uomo irragionevole, sono d’accordo, ma è buono e interiormente gentile...
Effettivamente in Michail Ivanovic c’era qualcosa di aristocratico. I vuoti delle bottiglie non li rivendeva, li buttava via:
-    Mi vergogno, - diceva - perché dovrei venderli, mica sono un mendicante ?...
Una volta si era svegliato che stava male davvero. Si lamentava:
-    Ho i crampi dappertutto.
Gli avevo dato un rublo. A pranzo gli avevo chiesto:
-    Beh, va meglio ora ?
-    Quale ?
-    Hai interrotto l’astinenza ?
-    Sì, è stato come una schizzatina sulla padella, accidenti se frigolava!
La sera stava male di nuovo.
-    Vado da Nikitin. О mi molla un biglietto о apre una bottiglia...
Ero uscito sul portico. Avevo sentito questa conversazione:
-    Ehi stronzo d’un vicino, mollami cinque sacchi.
-    Me li devi ancora da ottobre.
-    Te li restituisco.
-    Restituiscimeli e ne riparliamo.
-    Te li porto quando prendo l’anticipo.
-    Ma quale anticipo?! Se è un secolo che ti hanno licenziato per ubriachezza...
-    Bah... mi ci pulisco i piedi con quelli lì! E dammi ’sti cinque sacchi. Per una questione di principio devi darmeli, puttana eva! E tira fuori la tempra sovietica!
-    Per la tua vodka, eh?
-    Che? È per un affare...
-    Ma che affari vuoi fare tu? Parassita!
Michail Ivanovic non sapeva mentire e si era addolcito:
-    Devo bere - aveva detto.
-    Non te li do. Legatela pure al dito, non te li do!
-    Ma te li restituisco con l’anticipo.
-    No!
E per finire la discussione, Nikitin se n’era tornato nella sua casetta sbattendo pesantemente la porta con la cassetta azzurra delle lettere.
-    Ma aspetta, vicino! - si agitava Michail Ivanovic. -Aspetta!... Me la pagherai! Oh se me la paghi! Te la ricorderai questa discussione!...
In risposta, nulla. I polli gironzolavano. I fusti dorati delle cipolle sul portico...
-    Oh se te ne pentirai! Io a te ti...
Paonazzo, arruffato, Michail Ivanovic continuava a strillare:
-    Hai dimenticato?! Hai dimenticato tutto, verme schifoso?! Proprio tutto?!...
-    Ma cosa ho dimenticato?! - era spuntato fuori Nikitin.
-    Se l’hai dimenticato, te lo ricorderemo noi!
-    Che cos’avrei dimenticato, eh?
-    Ti faremo pagare tutto. Il millenovecentodiciassette! Noi ti... ti liquideremo come un kulak! Liquideremo tutti gli infiltrati! Ti spediremo dai cekisti, come quello lì... come Machno, l’anarchico... Ne vedrai delle belle laggiù...
E, dopo una breve pausa:
-    Vicino, aiutami, dammi cinque sacchi... Va beh, mi bastano tre rubli... Te lo chiedo in nome di Cristo nostro Signore... carogna pidocchiosa che non sei altro...

Finalmente ebbi l’ardire di prendere servizio. Mi toccò un gruppo di turisti delle Repubbliche baltiche. Erano gente introversa e disciplinata. Ascoltavano soddisfatti, non facevano domande. Cercavo di usare frasi brevi e non ero sicuro che mi capissero.
In seguito mi diedero istruzioni circostanziate: i turisti di Riga sono i più educati. Qualsiasi cosa tu dica, annuiscono sorridenti. Se fanno domande, sono esclusivamente di carattere, per così dire, economico: quanti servi della gleba aveva Puskin? Qual era la rendita di Michajlovskoe ? Quanto era costata la ristrutturazione della casa padronale?
I caucasici si comportano diversamente. Non ti ascoltano per niente. Chiacchierano tra loro e sghignazzano. Lungo il tragitto per Trigorskoe lanciano teneri sguardi alle pecore. Chiaramente ravvisano in loro potenziali spiedini. Se fanno domande, sono del tutto imprevedibili. Per esempio: «Quale fu la causa del duello tra Puskin e Byron?»...
Per quanto riguarda i conterranei russi, è necessario fare delle distinzioni. Al proletariato devi parlare in modo semplice e conciso. Con gli impiegati devi stare più attento, tra loro capita gente assai erudita. Gente che ha letto tutte le opere dei poeti e prosatori sovietici. Che ha attinto informazioni scriteriate dal Puskin in esilio di Novikov...
I laureati sono i più pignoli e infidi. Prima di intraprendere un’escursione, il laureato si istruisce sui manuali e si fissa su qualche futilità di terz’ordine: una lontana parentela, una battutina, una replica, un evento... una citazione insignificante... eccetera.
Alla mia terza giornata di lavoro, una signora con gli occhiali mi chiese di Benkendorf, il capo della polizia che aveva sedato la rivolta decabrista:
-    E quando è nato Benkendorf ?
-    Dovrebbe essere nel Settanta - risposi io.
L’incauto uso del condizionale rifletteva incertezza.
-    Può essere più preciso? - chiese la donna.
-    Purtroppo, - dissi - l’ho dimenticato...
Ma perché fingere? Perché non dirle onestamente: «Ma chi diavolo se ne frega!»... Capirai che gran gioia la venuta al mondo di Benkendorf...
-    Aleksandr Christoforovic Benkendorf - proferì con sdegno la signora, - nacque nel mille e settecentoottantaquattro. E per di più, in giugno...
Assentii, facendole capire quanto considerassi preziosa quell’ informazione.
Da quel momento la signora non abbandonò più il suo sorrisetto ironico. Come se la mia indifferenza per Benkendorf attestasse la mia assoluta indigenza morale...

E così cominciai a lavorare. La prima visita guidata di solito non viene monitorata. Gli istruttori ti danno la possibilità di entrare nel ruolo, di sentirti più sicuro. Questo mi salvò. Ecco cosa accadde.
Riuscii con successo ad evitare l’ingresso. Illustrai il disegno dell’agrimensore Ivanov. Raccontai del primo esilio. E poi del secondo. Passai nella stanza della balia di Puskin Arina Rodionovna: «L’unico essere umano realmente intimo era una serva della gleba, la balia...». Tutto irreprensibile... «... era al tempo stesso indulgente e scorbutica, di una religiosità primitiva e di un attivismo straordinario... ». Il bassorilievo del lavoro di Serjakov... «Le offrirono la libertà, lei rifiutò...».
E infine:
- Ogni tanto nei suoi componimenti il Poeta si rivolgeva alla sua balia. Tutti conoscono, ad esempio, i versi affettuosi...
E qui per un attimo ebbi un vuoto e sussultai nell’udire la mia stessa voce:
Dolce vecchia mia, tu vivi ancora,
io pure vivo e ti saluto tanto,
possa la tua povera dimora...

Mi mancò il respiro. Ora qualcuno avrebbe strillato: «Pazzo ignorante! Ma questo è Esenin, è la Lettera alla madre... ».
Continuai a recitare pensando febbrilmente:
«Sì, compagni, avete completamente ragione. Ovviamente si tratta di Sergej Esenin. Ed è proprio la Lettera alla madre. Ma, fateci caso: com’è simile l’intonazione puskiniana alla lirica di Esenin! Com’è organica nella poetica di Esenin... ». Eccetera.
Continuavo a recitare. A un certo punto, verso la fine della poesia, saltava fuori una minacciosa lama luccicante. .. «Bla-bla-bla e nella rissa d'una bettola, bla-bla-bla al cuor mi serrasse un coltello... ». A un centimetro da quella lama che riluceva minacciosa, riuscii a fermarmi. Subentrò il silenzio. Attendevo la bufera. Tutti tacevano, i volti erano scossi e compunti. Solo un anziano turista proferì con aria greve:
- Quelli sì che erano uomini...
Nella sala successiva attribuii l’almanacco Mnemosina di Kjuchel’becher al poeta Del’vig. Poi chiamai il padre di Puskin con il patronimico di Esenin (il quale, evidentemente, occupava stabilmente il mio inconscio). Ma queste erano vacue sciocchezze. Ed è meglio sorvolare sulle mie tre trovate letterarie di dubbio gusto.
A Trigorskoe e nel monastero l’escursione si svolse felicemente. Si doveva conferire una logica al passaggio da una sala all’altra. Immaginare i cosiddetti collegamenti. In un caso indugiai a lungo: fu tra la stanza di Zizì Vul’f e il salotto. Ma alla fine escogitai quel maledetto collegamento, e anche in seguito lo utilizzai immancabilmente :
«Cari amici, vedo che qui si sta stretti. Su, passiamo alla sala successiva!... ».
Parallelamente seguivo le escursioni altrui. In ognuna rinvenivo qualcosa che mi incuriosiva. Feci amicizia con le guide di Leningrado. Da anni venivano al Parco per l’estate.
Uno di loro era Volodja Mitrofanov. Era stato proprio lui a mettermi in testa di venire qui ed era arrivato subito dopo di me. Su di lui vorrei fornire qualche particolare.
Negli anni della scuola, Mitrofanov era famoso per quella che si suol definire memoria fotografica. Con assoluta facilità imparava a mente interi capitoli dei libri di testo. Lo esibivano come un ragazzo prodigio. E per di più, aveva avuto in dono dal cielo un’insaziabile sete di sapere. L’immenso interesse per la conoscenza si univa in lui a una memoria fenomenale. Lo aspettava una brillante carriera scientifica.
Mitrofanov si interessava a ogni cosa: alla biologia, alla geografia, alla teoria dei campi, al ventriloquio, alla filatelia, al suprematismo, ai fondamenti dell’ammaestramento animale... Ogni giorno leggeva tre volumi importanti... Aveva terminato trionfalmente la scuola ed era stato facilmente ammesso alla facoltà di lettere.
Il corpo docente dell’università si era trovato in seria difficoltà. Mitrofanov sapeva assolutamente tutto ed esigeva nuove conoscenze. Noti studiosi passavano le giornate in biblioteca a sondare per lui teorie dimenticate e nuovi rami della scienza. Parallelamente Mitrofanov seguiva le lezioni alle facoltà di giurisprudenza, biologia e chimica.
Combinate insieme, l’impareggiabile memoria e la smisurata sete di sapere facevano miracoli. Ma a quel punto emerse un fatto sorprendente. L’essenza di Mitrofanov si esauriva tutta, completamente, in quelle sole qualità: non ne possedeva nessun’altra. La sua innata genialità si limitava al sapere puro.
La sua prima tesina era rimasta incompiuta. Anzi, aveva portato a termine solo la prima frase. Per la precisione: «Com’è noto...». E qui la sua geniale riflessione si era interrotta.
Mitrofanov cresceva nella pigrizia più fantastica, sempre che possa definirsi pigro uno che ha letto diecimila libri.
Mitrofanov non si lavava, non si faceva la barba, il sabato non faceva volontariato politico. Non restituiva i debiti e non si allacciava le scarpe. Faceva fatica a infilarsi il berretto. Semplicemente se lo appoggiava sulla testa.
Invece di andare con gli altri studenti a lavorare al kolchoz, era sparito senza accettabile giustificazione.
Mitrofanov era stato cacciato dall’università. Gli amici avevano cercato di trovargli un lavoro. Per qualche tempo aveva fatto il segretario personale dell’accademico Firsov. Al principio era andato tutto magnificamente. Sedeva per ore nella biblioteca dell’Accademia delle Scienze e raccoglieva i materiali necessari a Firsov. Gli rendeva generosamente disponibili i dati accumulati nella sua memoria. Il vecchio studioso viveva la sua rinascita. Così aveva proposto a Volodja di elaborare insieme la teoria dell’idatopiromorfismo diatonale (o qualcosa del genere). L’accademico aveva detto:
- Lei prenderà appunti. Io sono miope.
Il giorno seguente Mitrofanov era sparito. Non aveva voglia di scrivere.
Aveva oziato per qualche mese. Aveva letto altri trecento libri. Aveva imparato due lingue, il rumeno e lo hindi.
Pranzava dagli amici, sdebitandosi con brillanti ed estese conferenze. Gli regalavano i vestiti usati...
Poi avevano cercato di far entrare Mitrofanov alla Lenfil’m. Addirittura avevano inventato su misura per lui una nuova mansione ufficiale: «consulente pluritematico».
Era una rara fortuna. Mitrofanov conosceva usi e costumi di ogni epoca. Conosceva la fauna di ogni angolo del pianeta. I più piccoli particolari sull’evoluzione degli avvenimenti preistorici. Gli aforismi paradossali dei più secondari funzionari di Stato. Ad esempio, quanti bottoni aveva il panciotto di Talleyrand. Si ricordava il nome della moglie di Lomonosov...
Mitrofanov non era stato in grado di riempire il modulo. Neppure i riquadri dove era scritto: «sottolineare la risposta selezionata». Era troppo faticoso...
L’avevano sistemato come guardiano in un cinema. Era un lavoro notturno, di quelli che volendo puoi dormire, volendo puoi leggere oppure pensare. Mitrofanov aveva una sola incombenza: dopo mezzanotte doveva chiudere un certo interruttore. Mitrofanov si dimenticava di chiuderlo. О forse faceva fatica. Lo avevano licenziato...
In seguito, con grande dispiacere, eravamo venuti a sapere che Mitrofanov non era semplicemente pigro: gli era stata diagnosticata una rara patologia, l’abulia. Cioè la totale atrofia della volontà.
Apparteneva al mondo vegetale. Era un fiore sgargiante e bizzarro. E un anemone non può concimarsi о innaffiarsi da solo...
Finalmente Mitrofanov aveva sentito del Parco di Puskin. Era venuto a dare un’occhiata. E aveva compreso che quello era l’unico posto in cui avrebbe potuto rendersi utile.
Cosa si chiede a una guida ? Un racconto brillante ed emozionante, nient’altro.
Mitrofanov sapeva raccontare. Le sue escursioni erano dense di improvvisi parallelismi, di ipotesi sconvolgenti, di rare annotazioni d’archivio e di citazioni in sei lingue.
Le sue escursioni duravano il doppio del normale. A volte i turisti svenivano per lo sforzo.
Naturalmente c’erano anche le difficoltà. Mitrofanov faceva fatica a salire sull’altura di Savkino. I turisti si inerpicavano in alto, mentre lui restava in basso e gridava:
- Come pure molti anni fa, questo grande colle verde si innalza sopra Kagan. La straordinaria simmetria della sua forma lascia supporre un’origine artificiale. Per quanto riguarda l’etimologia del toponimo «Kagan», essa è assai curiosa. Seppur non del tutto signorile...
C’era stato un caso in cui i turisti avevano disteso un impermeabile gommato e avevano trascinato Mitrofanov in cima al colle. Lui sorridendo soddisfatto, proferiva:
-    Recita la leggenda che qui sorgesse uno dei monasteri del villaggio di Voronic...
Al Parco era molto apprezzato...
Non meno notevole era la personalità di Stasile Potockij. Era nato nella città di Ceboksary. Fino a sedici anni non si era distinto in nulla. Giocava a hockey e non pensava ai problemi seri. Poi, con una delegazione di giovani atleti, era capitato a Leningrado.
Il primo giorno che era arrivato, una cameriera dell’albergo «Sokol» l’aveva immediatamente privato della verginità. Gli era andata bene, era vecchia e sensibile, e gli aveva offerto del vino georgiano. Al novizio lacrimoso, innamorato e ubriaco aveva sussurrato:
-    Guarda guarda, è piccino ma trombino...
Potockij aveva rapidamente verificato che al mondo c’erano due cose per cui valeva la pena di vivere: il vino e le donne. Tutto il resto non meritava attenzione. Ma le donne e il vino costavano molti soldi e di conseguenza doveva imparare a guadagnarseli. Possibilmente senza particolare fatica, facendosi pagare bene. E senza rischiare la galera.
Aveva deciso di diventare uno scrittore. Aveva letto dodici volumi di letteratura contemporanea. Aveva comprato un quaderno rivestito di tela cerata e una biro con la cartuccia di ricambio.
La sua opera prima era stata pubblicata sulla prestigiosa rivista «Junost’». Il racconto si intitolava La vittoria di Surka Cemodanov. Il giovane protagonista, l’hockeista Cemodanov, si era montato la testa e aveva abbandonato gli studi. Poi ci aveva riflettuto, si era messo a studiare con successo ed era anche migliorato a hockey. L’opera si concludeva così:
 «“L’importante, Surka, è la propria umanità”, disse Luk’janyc e proseguì. A lungo, molto a lungo Surka lo seguì con lo sguardo».
Il racconto era sorprendentemente banale. Decine, centinaia di racconti identici guarnivano le pagine delle riviste giovanili. Verso Potockij erano stati indulgenti. Evidentemente, in quanto autore di provincia, meritava più tolleranza.
Nel giro di un anno era riuscito a pubblicare sette racconti e un romanzo breve. Le sue opere erano triviali, ideologicamente affidabili, squallide. In ognuna risuonava qualcosa di noto. La loro marginalità letteraria costituiva una solida corazza per neutralizzare la censura. Ogni racconto aveva la forza persuasiva di una citazione. La cosa più apprezzabile erano le cadute di stile e i refusi:
«In ottobre Misutka fece i tredici anni...» (dal racconto I dolori di Misutka).
«“Che riposi in pece!!” concluse il suo discorso Odincov... » (dal racconto Il fumo sale al cielo).
« “Non mettetemi i bastioni tra le ruote! ” proferì minaccioso Lepko... » (dal romanzo breve I gabbiani volano verso l’orizzonte).
In seguito, Potockij mi aveva spiegato:
-    ... come scrittore, cazzo, sono tipo Cechov. Cechov aveva assolutamente ragione. Un racconto puoi scriverlo su quel cazzo che ti pare, di argomenti ne hai quanti ne vuoi. Prendi una professione qualsiasi, ad esempio, il medico. Perfetto. Un chirurgo, cazzo, sta facendo un’operazione. E nel paziente riconosce il suo rivale, l’uomo con cui l’ha tradito sua moglie. Il chirurgo, cazzo, si trova davanti a un dilemma morale. Salvargli la vita о tagliarglielo?... No, cazzo, questo sarebbe troppo, sarebbe un eccesso... Insomma, il chirurgo indugia, poi prende il bisturi e fa il miracolo. Il finale, cazzo, fa così: «A lungo, molto a lungo l’infermiera lo seguì con lo sguardo... ».
-    Oppure, ad esempio, prendi il mare - diceva Potockij, - è semplicissimo... Un marinaio, cazzo, va in pensione. Lascia la sua amata nave, dove restano i suoi amici, il suo passato, la sua giovinezza. Cammina cupo lungo un canale di Pietroburgo e vede un ragazzo, cazzo, che sta annegando. Il marinaio senza neppure pensarci si getta nell’abisso gelato. Rischiando la vita tira fuori il ragazzo... Il finale viene così: «Per sempre Vitja ricordò quella mano. Quella mano callosa con l’ancora azzurra tatuata sul dorso...», cioè, un marinaio resta sempre un marinaio, cazzo, anche se è in pensione...
Potockij componeva un racconto al giorno. Aveva pubblicato un libro. Si intitolava: La felicità delle strade difficili. Era stato recensito con benevolenza, alludendo delicatamente alle remote origini dell’autore.
Stasik aveva deciso di lasciare Ceboksary. Voleva spiccare il volo. Si era trasferito a Leningrado. Si era appassionato al ristorante «Europa» e a due indossatrici.
A Leningrado le sue opere erano state accolte con freddezza. Gli stereotipi erano di grado più elevato. La totale inettitudine non pagava, il talento metteva in guardia e la genialità terrorizzava. Più di tutto venivano apprezzate le «evidenti doti letterarie». Le doti di Potockij non erano evidenti. Qualcosa nelle sue opere baluginava, s’intuiva, s’intravedeva. Delle frasi casuali, delle singole repliche... «uno spicchio d’aglio perlaceo... », «le gambe paraffinate della hostess... ». Ma di doti evidenti non ce n’erano.
Avevano smesso di pubblicarlo. Ciò che era stato perdonato a un principiante di provincia era irritante in un letterato della capitale. Stasik aveva cominciato a bere, e non all’«Europa», ma negli scantinati degli artisti. E non con le indossatrici, ma con la vecchia cameriera (che adesso vendeva frutta per la strada)...
Così si era sbronzato per circa quattro anni. Era stato dentro un anno per vagabondaggio. La cameriera (cioè la fruttivendola) lo aveva lasciato. Forse l’aveva picchiata о le aveva rubato qualcosa...
I suoi vestiti si erano trasformati in stracci. Gli amici avevano smesso di prestargli soldi e non gli passavano più i calzoni smessi. La milizia minacciava un nuovo arresto per residenza abusiva. Qualcuno gli aveva fatto venire l’idea di andare al Parco di Puskin. Stasik si era tirato su di morale. Si era preparato. Aveva cominciato a guidare i gruppi. Per di più piuttosto bene. La sua arma vincente era il tono di intima confidenzialità:
«La tragedia umana di Puskin ancora oggi risuona in noi come un tormentoso dolore interiore...».
Potockij abbelliva i suoi monologhi con particolari fantastici. Impersonava la scena del duello. Una volta era persino caduto sull’erba. Terminava la sua escursione con arcane speculazioni metafisiche:
«Alla fine, dopo lunga e dolorosa malattia, il grande cittadino della Russia moriva. Mentre d’Anthès, compagni, vive ancora...».
Di tanto in tanto si ubriacava e mollava il lavoro. Scroccava qualche centesimo all’entrata della birreria. Raccoglieva tra i cespugli le bottiglie vuote. Dormiva sulla lapide incrinata di Aleksej Vul’f.
Il capitano della milizia Sat’ko, quando lo incontrava, gli diceva in tono di rimprovero:
-    Potockij, la sua immagine viola l’armonia di questi luoghi...
Poi Potockij aveva escogitato un nuovo espediente. Vagava per il monastero e si appostava accanto alla tomba in attesa del gruppo di turno. Attendeva che terminasse la visita guidata, chiamava il capogruppo e gli sussurrava:
-    Entre nous, che resti tra noi, raccogliete trenta copechi a testa e io vi mostro la vera tomba di Puskin che i bolscevichi nascondono al popolo!
Poi conduceva il gruppo nel bosco e mostrava ai turisti un insulso monticello. Talvolta qualche turista meticoloso gli chiedeva:
-    E perché ci nascondono la vera tomba ?
-    Perché?! - sogghignava sardonico Potockij. - Le interessa sapere perché?! Compagni, quest’uomo chiede perché...
-    Ah, già, ora capisco... - mormorava il turista.
Il giorno del mio arrivo Stasik era estenuato da una settimana di sbronze. Era riuscito ad estorcermi un rublo e dei sandali marroni traforati. Dopodiché mi aveva raccontato una storia drammatica:
-    Sai, amico mio, per poco non mi arricchivo. Avevo escogitato un eccezionale trucco finanziario. Stai bene a sentire, l’idea era questa. Io faccio amicizia con un pivello qualsiasi. Uno che ha la macchina, i soldi e le solite stronzate. Ci prendiamo una tipa, bada bene, una sola, e ce ne andiamo alla belletual. Là ce la facciamo tutti e due...
-    Non capisco.
-    La tipa, no? A turno... Poi la mattina dopo io corro da lui: «Amico, me l’ha infettato». Quello è terrorizzato. Allora io gli dico: «Su, cazzo, so io come fare. Ci costerà solo un bigliettone a testa». Il pivello salta di gioia. Io prendo una siringa con dell’acqua del rubinetto e faccio una puntura sul suo sedere e sul mio. Il pivello mi porge con gratitudine un bigliettone da venticinque e ci lasciamo da buoni amici. La tipa si becca un paio di collant da sette rubli. E io mi faccio diciotto sacchi di guadagno netto.
L’idea era geniale. L’operazione si chiamava «gonorrea immaginaria»... E invece, fanculo, è andato tutto all’aria...
-    Cioè ?
-    Stava andando tutto liscio. Il pivello mi adorava. Prendiamo del cognac, dei panini. Io scritturo la Ljuda, la strabica del bar «La donna di picche»... Ce ne andiamo, cazzo, alla belletual. Trinchiamo, ce la facciamo. E cosa pensi che sia successo? Il mattino dopo è lui, il pivello, a correre da me: «Amico, ce l’ho infetto!...». Poi salta in macchina e se la svigna. Io corro in ospedale da Fima: è andata così e così, gli dico. Fima mi fa: «Un bigliettone!...». Santo cielo! Ma dove lo trovo?! Ho fatto il giro di tutta la provincia di Pskov, li ho messi insieme per un pelo. Per undici giorni non ho potuto bere... Poi, cazzo, l’astinenza è finita... E tu che mi dici, ti andrebbe?
-    Alla belle etoile ?
-    Una bottiglia.
Feci un gesto di diniego. Ci manca solo che inizi. Poi non so smettere. Un autocarro senza freni...
Stasik fece saltare nel palmo il suo rublo di metallo e se ne andò.

-    Domani verranno ad ascoltarla - disse Galja.
-    Di già ?
-    Mi sembra che lei sia pronto. Perché rimandare?
All’inizio, notando che tra i turisti c’era Viktorija, ero nervoso. Lei sorrideva, in parte con bonarietà, in parte con ironia.
Pian piano mi feci coraggio. Mi erano capitati dei turisti esigenti: un gruppo di attivisti dell’Associazione Volontari di Sostegno alle Forze Armate della città di Torzok. Non la smettevano di fare domande.
-    Questo - dissi - è il famoso ritratto dovuto alla maestria di Kiprenskij... Fu commissionato dal barone Del’vig, poeta e amico di Puskin... Una pennellata d’eccezione... tratteggio ornamentale romantico... Come allo specchio io mi vedo... Puskin lo acquistò dalla vedova del barone...
-    Quando ? In che anno ?
-    Direi nel Trenta ?
-    Quanto fu pagato ?
-    Ma che importanza ha?! - non mi trattenni.
Viktorija mi suggeriva qualcosa muovendo le labbra senza parlare.
Passammo nello studio. Mostrai il ritratto di Byron, il bastone, la libreria... Passai alla sua opera... «Il periodo più intenso... Gli articoli... Il progetto della rivista... il Boris Godunov, gli Zingari... La biblioteca... Presto io morrò, invaghito eppur dell’ombra mia... », eccetera.
Di colpo sentii:
-    Le pistole sono vere ?
-    Autentica serie da duello, è di Lepage.
La solita voce:
-    Di Lepage ? Ma io credevo che fosse di Puskin ?
Precisai:
-    Sono pistole d’epoca, la tecnica è quella del famoso armaiolo Lepage. Puskin conosceva e apprezzava le belle armi. Possedeva delle pistole analoghe...
-    E il calibro ?
-    Quale calibro ?
-    Mi interessa il calibro.
-    Il calibro - dissi, - era quanto bastava.
-    Molto bene! - di colpo il turista si acquietò.
Mentre il mio gruppo visitava la casetta della balia di Puskin, Viktorija mi sussurrò:
-    Lei espone bene, con naturalezza... ha il suo approccio personale, ma a volte... mi sento venir meno... lei ha definito Puskin una scimmia squilibrata...
-    Non ho detto proprio così.
-    Glielo chiedo per favore, si moderi.
-    Ci proverò.
-    Nel complesso, non va male.

Cominciai a guidare le escursioni, a volte anche due in un solo turno di lavoro. Evidentemente erano contenti di me. Se venivano esponenti della cultura, insegnanti о persone erudite, le affidavano a me. Le mie escursioni avevano qualcosa di particolare. Ad esempio, una «libera modalità di esposizione», come si esprimeva la custode di Trigorskoe. Chiaramente si trattava della mia cospicua predisposizione alla recitazione. Sebbene dopo quattro о cinque giorni conoscessi a memoria il testo dell’escursione, riuscivo abilmente a simulare una concitata improvvisazione. Mi impappinavo artificiosamente, fingevo di cercare le espressioni giuste, inserivo qualche lapsus, gesticolavo, infarcivo le mie improvvisazioni accuratamente premeditate di aforismi di Gukovskij e Scegolev. Quanto più conoscevo Puskin, tanto meno avevo voglia di discuterne. Per di più ad un livello così meschino. Recitavo la mia parte meccanicamente, ottenendo in cambio una ricompensa di tutto rispetto (un’escursione completa costava circa otto rubli).
Nella biblioteca locale avevo trovato una decina di rari volumi su Puskin. Inoltre avevo riletto la sua prosa e la pubblicistica. La cosa che più mi colpiva era la sovrana indifferenza del poeta. La sua disponibilità ad accettare ed esprimere qualsiasi punto di vista. L’immutabile anelito alla suprema obiettività. Come la luna, che rischiara la via al predatore e alla sua vittima.
Né monarchico, né cospiratore, né cristiano. Puskin era semplicemente un poeta, un genio che partecipava al complessivo moto dell’esistenza.
La sua letteratura è superiore alla moralità. Sconfigge la moralità e persino la supera. La sua letteratura è affine alla preghiera, alla natura... Comunque non sono un letterato...
Il mio lavoro cominciava alle nove del mattino. Restavamo in ufficio ad aspettare i clienti. Si discuteva di Puskin e dei turisti. Per lo più dei turisti, della loro madornale ignoranza.
«Si rende conto che quello mi ha chiesto chi è Boris Godunov?».
Personalmente in quei casi non provavo irritazione. О meglio, la provavo e la reprimevo. I turisti venivano in vacanza. Il comitato regionale del partito gli rifilava dei pacchetti a buon prezzo. Nel complesso a questa gente la poesia era indifferente. Per loro Puskin era un simbolo della cultura, l’importante era sapere che, lì, loro c’erano stati. Era fondamentale segnare mentalmente quella crocetta. Lasciare la propria impronta nel mondo dello spirito...
Era mio dovere procurare loro quella gioia senza stancarli troppo. In cambio di sette rubli e sessanta e un buon giudizio sul registro dei commenti:
«Abbiamo visto Puskin come fosse vivo, grazie alla guida tal dei tali e alle sue modeste conoscenze...».
Le mie giornate trascorrevano monotone. Le escursioni finivano alle due. Pranzavo al ristorante «Onegin» e andavo a casa. Qualche volta Mitrofanov e Potockij mi proponevano una bevuta. Rifiutavo. Non mi costava grande fatica. Resisto facilmente al primo bicchiere. Il problema è che non riesco a fermarmi. Il motore è buono, sono i freni che sono un disastro...
A mia moglie e mia figlia non scrivevo. Non aveva senso. Per ora aspetto, pensavo, poi vedremo...
In poche parole, la mia vita si era un po’ stabilizzata. Cercavo di riflettere di meno sulle questioni astratte. Le mie disgrazie erano rimaste fuori dal mio campo visivo. Erano da qualche parte dietro di me. Finché non ti volti, puoi restartene tranquillo. Volendo puoi non voltarti più...
Nelle pause mi ero letto tutto Lichonosov. Un bravo scrittore, ovviamente. Aveva talento, era brillante, plastico. Riproduceva in modo eccellente la lingua viva (Tolstoj se lo sogna un complimento simile!). Eppure alla base c’era un mesto e fastidioso sentimento di inettitudine. Una tiritera anemica e noiosa: «Dove sei, mia Russia?! Dov’è finita ogni cosa? I trovatori, i ricami sugli asciugamani e i diademi delle contadine? Dove sono l’ospitalità, l’ardore, la munificenza ? Dove sono i samovar, le icone, gli asceti e gli invasati?! Dove sono finiti gli storioni, le carpe, il miele e il caviale?! Dove sono, maledizione, i nostri banalissimi cavalli?! Dove sono i pudichi sentimenti virtuosi?!... ».
Tutti si arrovellano le meningi:
«Dove sei Russia?! Dove sei finita?! Chi ti ha deturpato?!».
Chi, chi?!... Ma se lo sanno tutti...
Non c’è proprio bisogno di arrovellarsi...

I rapporti con Michail Ivanovic erano semplici e razionali. I primi tempi passava spesso da me. Tirava fuori dalle tasche un paio di bottiglie. Io rinunciavo. Beveva direttamente dalla bottiglia con loquaci borbottìi. Io mi sforzavo di afferrare il senso di quei prolissi monologhi.
In generale, il suo eloquio era denso di significato. Scandendo solennemente, Michail Ivanovic pronunciava solo verbi e sostantivi. Per lo più in combinazioni oscene. Usava i costituenti secondari in modo del tutto casuale, come gli venivano. Per non dire delle preposizioni, delle particelle e delle interiezioni: quelle le creava sul momento. Il suo discorso era affine alla musica classica, alla pittura astratta, al canto del cardellino. L’emozione dominava sul senso.
Per esempio io dicevo:
-    Misa, sarebbe ora che smettessi di bere, almeno per un po’.
In risposta si udiva:
-    Man vacca-aldracca saddio n’dove... La mattina pah! cinque sacchi e valà se vado al trinco... l’anticipo ’n mel levano... man va chi la smette!... N’ci cavi ’n bel niente... e nanche ti rinviva...
Gli interventi di Misa ricordavano le provocazioni sonore della prosa surrealista remizoviana.
Le donne chiacchierone le chiamava «taratantole»; le cattive massaie, «casininghe»; le infedeli, «rimorchie». La birra e la vodka le chiamava «sballo», «veleno» e «nafta». I giovani li chiamava «lemmi».
«Alla base que’ lemmi segosi saddio che rondano... ».
Che significava: alla stazione turistica quella ciurma di minorenni ne combina di tutti i colori.
I nostri rapporti erano ben definiti. Dalla suocera Misa mi procurava cipolle, panna acida, funghi e patate. Respingeva con disdegno ogni risarcimento. In compenso ogni mattina gli davo un rublo per il vino. E neutralizzavo i suoi tentativi di sparare alla moglie Liza. Talvolta mettevo a repentaglio la mia stessa vita.
In definitiva eravamo pari.
Che tipo di persona fosse non l’ho mai capito. A vederlo, era un tipo sconclusionato, buono e inetto. Un bel giorno aveva impiccato a un alberello i suoi due gatti. Aveva confezionato i cappi con delle lenze da pesca.
-    Han figliato, - diceva, - una chiassata, sguisciano perdonde...
Una volta per sbaglio avevo chiuso dall’interno il catenaccio della porta e Misa era rimasto sul portico fino al mattino per paura di svegliarmi...
Era sconclusionato tanto nella sua bontà, quanto nei momenti di rabbia. Insultava in faccia i superiori con improperi irripetibili. Ma passando davanti all’immagine di Engels si toglieva il cappello. Malediceva senza sosta il dittatore della Rhodesia Jan Smith. In compenso amava e rispettava la barista dell’osteria chelo imbrogliava sempre sul conto:
-    È inevitabile: l’ordine è ordine!
Il suo insulto più spaventoso suonava:
-    Servo dei capitalisti!
Una volta che era ubriaco, il miliziano Dovejko gli aveva tolto di mano una baionetta tedesca.
-    Verme, servo dei capitalisti! - gli aveva gridato Michail Ivanovic.
Una volta che era fuori casa, la moglie e la suocera si erano portate via la sua radio:
-    Tanto i capitalisti neppure le ringrazieranno! - aveva asserito Michail.
In tutto avrò conversato con lui non più di un paio di volte. Ricordo che Misa diceva (ho leggermente affinato il testo):
-    Quando qui ci stavano i tedeschi ero un novellino. Diciamo la verità, non facevano niente di male. Si eran presi i polli e il maiale del nonno Tima... ma non han fatto niente di male. Non hanno neppure toccato le donne: qualcuna ci è pure rimasta male... Il babbo faceva l’acquavite e la scambiava con le scatolette... Sì, è vero, i giudei e gli zingari loro sì...
-    Li hanno fucilati ?
-    Li hanno portati via, arrivederci e grazie! L’ordine è ordine...
-    E poi dici che non hanno fatto niente di male.
-    Giuro, non hanno fatto niente di male. Coi giudei e gli zingari si fa così...
-    Ma perché ce l’hai con gli ebrei?
-    Gli ebrei li rispetto. Un solo ebreo te lo scambio con una dozzina di truzzi ucraini, ma gli zingari li strozzerei con le mie mani.
-    E perché?
-    Ma come perché?! Sei proprio fuori! Perché sono zingari, no?

A giugno cominciai a scrivere. Erano schizzi e dialoghi strani, alla ricerca della tonalità. Una sorta di schema con figure e motivi abbozzati confusamente. Un amore infelice, i debiti, il matrimonio, la creatività letteraria, il conflitto con lo Stato. E in più, come diceva Dostoevskij, una punta di sublimità.
Pensavo che in quel genere di occupazione avrei dissolto le mie sventure. Così era capitato in precedenza, all’epoca della mia formazione letteraria. A quanto pare si chiama sublimazione. Quando cerchi di rimettere alla letteratura la responsabilità per i tuoi peccati. Uno scrive Re Lear e per un anno ha diritto a non sfilare la spada...
Ben presto avevo spedito a mia moglie settanta rubli. E mi ero comprato una camicia: evento, per quanto mi riguarda, senza precedenti.
Arrivavano alcune voci sulla possibilità che mi pubblicassero in occidente. Cercavo di non pensarci. In fondo mi era indifferente cosa accadesse all’altro mondo. Proprio questo avrei detto se mi avessero convocato...
Inoltre avevo scritto alcune lettere di carattere debitorio: ora sto lavorando, presto restituirò tutto, scusatemi tanto...
Tutti i creditori avevano reagito nobilmente: non ti preoccupare, Borja, soldi ne abbiamo, quando ti pagano li restituisci...
In poche parole, la vita aveva acquisito un suo equilibrio. Cominciava a sembrare più logica e sensata. Infatti la disperazione e l’impotenza non sono la cosa peggiore. La cosa più spaventosa è il caos...
Basta vivere una settimana senza vodka e lo stordimento svanisce. La vita si delinea in modo relativamente nitido. Persino gli inconvenienti più spiacevoli paiono eventi ineluttabili.
Avevo molta paura di alterare quel precario equilibrio. Se mi invitavano a bere, inveivo. Mi irritavo se all’ufficio turistico le ragazze attaccavano discorso.
Potockij diceva:
- Il Borja sobrio e quello ubriaco sono due persone talmente diverse, neppure si conoscono...
Ad ogni modo sentivo che non poteva durare indefinitamente. Non si può sfuggire ai problemi della vita... I deboli oltrepassano la vita, i forti la assimilano...
Se vivi in modo sregolato, prima о poi ti capita qualcosa. ..

Mattina. Il latte con la patina azzurrognola, i latrati dei cani, il cigolio dei secchi...
Dietro la parete la voce astinente di Misa impastata di vodka:
- Ragazzo mio, mollami un piccolissimo rublo!
Gli tirai fuori tutti gli spiccioli che mi restavano e diedi da mangiare ai cani.
Dietro il colle, alla stazione turistica risuonava un grammofono. Le cornacchie attraversavano il cielo terso. Sopra la palude, sotto il colle, si stendeva la nebbia. Sull’erba verde, come tanti gomitoioni grigi, erano distese le pecore.
Attraversai il campo in direzione della stazione turistica. Gli stivali bagnati di rugiada erano gialli di sabbia. Dal bosco soffiava aria fredda e fumo.
Sotto le finestre dell’ufficio c’erano i turisti. Sulla panchina, nascosto dal giornale, era sdraiato Mitrofanov. Persino mentre dormiva si notava quant’era pigro...
Salii sul portico. Nel piccolo atrio si affollavano le guide. Qualcuno mi salutò, qualcuno mi chiese una sigaretta. Dima Baranov mi disse: - Beh, e allora?...
Sotto il quadro orribile, mostruoso e ripugnante del pittore locale Scukin (un cavallo, un cilindro, il Poeta e l’orizzonte infinito), c’era mia moglie che sorrideva.
In quell’istante il mio misero benessere ebbe fine. Compresi cosa mi aspettava. Mi tornò in mente il nostro ultimo discorso...
Ci eravamo separati un anno e mezzo prima. Quel divorzio di moderna raffinatezza ricordava un armistizio. Una tregua che non sempre finisce con la fanfara.
Ricordo che il giudice Cikvaidze si era rivolto alla mia ex moglie:
-    Lei reclama parte delle proprietà ?
-    No, - aveva risposto Tanja.
E aveva aggiunto:
-    In quanto esse non sussistono...
Poi ci eravamo incontrati qualche volta come vecchi amici. Ma mi era parsa una situazione innaturale ed ero partito per Tallinn.
Poi, un anno dopo, c’eravamo incontrati di nuovo. Nostra figlia si era ammalata e Tanja si era trasferita da me. Ormai non era più una questione d’amore, era il destino...
Non avevamo un soldo, litigavamo spesso. Il calderone rigonfio dell’irritazione reciproca ribolliva in sordina a fuoco lento...
Per Tanja l’immagine del genio incompreso era associata a una visione ascetica. Io invece, per usare un eufemismo, ero oltremodo esuberante.
Dicevo:
-    Puskin correva dietro alle donne... Dostoevskij si era dato al gioco d’azzardo... Esenin gozzovigliava e faceva a cazzotti nei ristoranti... I vizi, esattamente quanto le virtù, sono tipici delle persone geniali...
-    Quindi per metà sei un genio, - conveniva mia moglie, - infatti di vizi ne hai parecchi...
Avevamo continuato a restare in bilico sull’orlo della rottura. Dicono che siano i matrimoni più duraturi.
Ma comunque l’amicizia era finita. Non si può dire: «Ciao, cara!» a una donna al cui orecchio hai sussurrato di tutto. Suona stonato...
E con cosa ero arrivato al mio trentesimo compleanno, rumorosamente festeggiato al ristorante «Dnepr»? Conducevo una vita da libero artista. Cioè non avevo un impiego, guadagnavo col giornalismo e dando forma letteraria alle memorie dei generali dell’Armata rossa. Le finestre del mio appartamento davano sui cassonetti della spazzatura. Una scrivania, un divano, un manubrio coi pesi, un grammofono «Tonus» (... però, bel cognome per un direttore commerciale...); una macchina da scrivere, una chitarra, una foto di Hemingway, alcune pipe in un bicchiere di ceramica; una lampada, un armadio, due sedie dell’epoca dei brontosauri e infine il gatto Isaia, da me profondamente stimato per la sua discrezione: a differenza dei miei migliori amici e conoscenti, si era sempre sforzato di avere un comportamento degno di un essere umano...
Tanja viveva nella stanza accanto. Nostra figlia si ammalava, guariva e si ammalava di nuovo.
Il mio amico Bernovic diceva:
- Verso la trentina un artista deve aver risolto tutti i suoi problemi. Eccetto uno: come scrivere.
Io reagivo rispondendo che i problemi fondamentali sono insolubili. Ad esempio, il conflitto tra padri e figli, la contraddizione tra sentimento e dovere...
Eravamo scivolati nella confusione terminologica.
Alla fine Bernovic ripeteva monotono:
-    Tu non sei fatto per il matrimonio...
Eppure eravamo sposati da dieci anni. Quasi dieci...
Tanja era sorta sulla mia vita come un’alba mattutina. Cioè in modo tranquillo, estetico e senza suscitare emozioni smisurate. Di smisurato in lei c’era solo l’indifferenza. La sua illimitata indifferenza ricordava i fenomeni vitali della natura...
Il paesaggista Lobanov festeggiava l’onomastico del suo criceto. Nella sua mansarda dal soffitto reclinato si era accalcata una dozzina di persone. Tutti aspettavano Celkov, che non sarebbe venuto. Erano seduti per terra, sebbene ci fossero sedie a sufficienza. A tarda sera la conversazione sedentaria si era trasfigurata in un impegnato dibattito dalle connotazioni rissose. Un tipo in canotta da marinaio con la testa rasata gridava dimenandosi:
-    Lo ripeto ancora una volta: il colore è un fenomeno ideologico!...
(In seguito risultò che non era affatto un pittore, ma un merceologo del Centro Commerciale «Apraksin»),
Per qualche ragione quella frase innocua aveva fatto imbestialire uno dei convitati, un pittore-grafista. Costui si era gettato a pugni serrati sul merceologo. Quello però, come tutti i tipi con la testa rasata, si era dimostrato un duro e aveva agito con decisione. Aveva istantaneamente estratto dalla propria bocca un dente finto fissato sul perno, l’aveva avvolto velocemente nel fazzoletto da naso, se l’era infilato in tasca e aveva finalmente assunto una postura da pugile.
Nel frattempo il pittore si era calmato. Si era messo a mangiare il gefìlte fìsh esclamando di tanto in tanto:
-    Straordinaria ’sta carpa! Me la sposerei e ci farei tre figli...
Tanja l’avevo notata subito. Avevo sùbito registrato l’immagine del suo viso, al tempo stesso irrequieto e imperturbabile. (Fin da quand’ero ragazzo non sono mai riuscito a capire come in una donna possano convivere l’ansia e l’indifferenza...).
Il rossetto risaltava sul suo viso pallido. Aveva un sorriso infantile e lievemente apprensivo.
In seguito qualcuno si era messo a cantare sforzandosi di imitare un veterano della mala. Qualcuno aveva portato un diplomatico straniero che poi si era rivelato un marinaio greco. Il poeta Karpovskij raccontava sofisticate fesserie. Diceva, ad esempio, che l’avevano cacciato dal Penclub Internazionale per sovversione creativa.
Avevo preso Tanja per mano e le avevo detto:
-    Andiamocene da qui!
(Il miglior modo per combattere l’insicurezza congenita è quello di ostentare sicurezza).
Tanja aveva accettato senza indugio. Ma non come una complice, piuttosto come una bimba remissiva, come una giovane signorinetta che ubbidisce ai grandi.
Mi ero diretto verso la porta, l’avevo spalancata ed ero rimasto annichilito. Dinanzi a me luccicava il declivio bagnato del tetto. Sullo sfondo alto del cielo si stagliavano le antenne corvine.
A quanto pareva, quello studio aveva tre porte. Una portava all’ascensore. La seconda al vano della caldaia. La terza sul tetto.
Non mi andava di tornare indietro. Tanto più che, a giudicare dal volume crescente delle voci, la festa stava commutandosi in una rissa.
Rallentando il passo, mi ero avviato lungo il tetto scricchiolante. Tanja mi seguiva.
-    Da tempo - avevo detto, - desideravo ritrovarmi in un frangente così romantico.
Sotto i miei piedi c’era una pantofola vecchia e lacera. Un triste gatto grigio si teneva in equilibrio sul crinale del tetto.
Le avevo chiesto:
-    E mai stata prima sopra un tetto ?
-    Neppure una volta - aveva risposto Tanja.
E aveva aggiunto:
-    Ma ho sempre invidiato da morire Valentina Tereskova.
-    Laggiù c’è la Cattedrale di Kazan’... dietro l' Ammiragliato... e questo è il Teatro «Puskin»...
Eravamo arrivati alla balaustra. Sotto di noi la Leningrado notturna rumoreggiava in lontananza. Dall’alto la strada perdeva la sua fisionomia. Era animata a malapena dai tram pieni di luce.
-    Dobbiamo andarcene da qui, - avevo detto.
-    Lei pensa che la rissa sia già finita?
-    Non credo... Lei com’è finita qui, cioè in questa compagnia ?
-    Attraverso il mio ex marito.
-    Cos’è, un pittore?
-    Non esattamente... piuttosto è uno stronzo. E lei?
-    Io cosa ?
-    Come è capitato qui.
-    Mi ha convinto Lobanov. Per snobismo ho comprato un suo quadro. Una roba bianca... con delle orecchie... una specie di totano... si chiama «Il vettore del silenzio»... Tra loro c’è qualche pittore di valore?
-    Sì, ad esempio Celkov.
-    Qual è, quello coi jeans ?
-    No, è quello che non è venuto.
-    Chiaro, - avevo detto.
-    Uno di loro un po’ di tempo fa si è impiccato. L’avevano soprannominato il Pesce. Lo chiamavano così... ha preso e s’è impiccato.
-    Santo cielo! Ma perché? Un amore infelice?
-    Il Pesce aveva passato la trentina, i suoi quadri non vendevano.
-    Belli?
-    Non molto. Adesso fa il correttore di bozze.
-    Ma chi?! - e avevo alzato la voce.
-    Il Pesce. Sono riusciti a salvarlo. Un coinquilino era passato a chiedergli delle sigarette.
-    È proprio meglio se ce ne andiamo da qui.
Camminando a piccoli passi mi ero avvicinato alla finestrella del solaio. L’avevo aperta. Avevo porto la mano alla fanciulla:
-    Faccia attenzione!
Tanja era scivolata leggera nell’apertura. L’avevo seguita. Nel solaio c’era polvere e buio. Avevamo proceduto tra i tubi rivestiti di feltro. Ci eravamo chinati sotto le corde dello stenditoio. Raggiunta la scala di servizio, eravamo scesi giù. Poi, passando attraverso i cortili, avevamo raggiunto la fermata dei taxi.
Pioveva e mi era venuto da pensare:
Eccola qui la tradizione letteraria pietroburghese. Questa «scuola» tanto decantata non è altro che una sistematica descrizione del brutto tempo. Tutto il «bagliore appannato dello stile pietroburghese» non è altro che l’asfalto dopo la pioggia...
Poi le avevo chiesto:
-    E che dicono suo padre e sua madre ? Probabilmente saranno in pensiero.
Ormai sono quindici anni che continuo imperterrito a fare alle ragazze carine questa domanda idiota. Tre su cinque rispondono:
«Vivo da sola. Quindi non c’è nessuno che possa stare in pensiero...».
È proprio quello che mi aspetto. Un’antica verità recita:
«In territorio nemico è più facile combattere».
-    Non ho i genitori, - aveva risposto Tanja con aria triste.
Mi ero confuso:
-    Mi scusi, - avevo detto, - se sono stato indiscreto...
-    Vivono a Yalta, - aveva aggiunto Tanja, - mio padre è il segretario locale del partito.
In quel momento era arrivato un taxi.
-    Dove andiamo ? - aveva chiesto il tassista senza girarsi.
-    Via Dzerzinskij, al numero otto