LA RAGAZZA DAL CUORE D'ACCIAIO
(Leather Maiden, 2007)
Joe R. Landsdale
La vita è un colabrodo. Il segreto sta nel cercare di vive-re tra un buco e l'altro.
Jerzy Fitzgerald
Gli antefatti
1
Quando cresci in un posto, soprattutto se la tua è una bella infanzia, non ti accorgi di un sacco di brutte cose che si trascinano sotto la superficie e che si contorcono come vermi su un pezzo di carne marcia. Però ci sono. A volte, devi scavare in profondità per scoprirle, oppure devi girare la testa dalla parte giusta per vederle. Ma ci sono, puoi starne certo, e ti sfilano accanto, strisciando. E quello che striscia può includere ricatti, mutilazioni e omicidi. E posso garantirvi che è vero.
Ma il giorno in cui feci ritorno in paese, non notai alcuna traccia di niente che si agitasse sotto la superficie o di qualunque altra cosa che, a eccezione della mia testa, desse la sensazione di essere fortemente agitata. Ero reduce da una sbornia terribile ed era come se qualcuno avesse preso la mia testa in prestito per giocarci a bowling. Mentre attraversavo Camp Rapture, dopo aver superato i binari della ferrovia e la fabbrica di cibo per cani, mi dissi che non avrei mai più toccato una goccia di alcol. Mi ripetevo la stessa cosa ogni volta che mangiavo troppo e mi faceva male lo stomaco. Mai più.
Era una bellissima giornata. La luce del sole si riversava sul marciapiede e sui giardini come un tuorlo d'uovo rotto, soffocando l'erba con il suo tripudio di calore: tutto era caldo e rigoglioso, persino le case dei quartieri più poveri del paese, dalle quali si stavano scrostando i vetusti rivestimenti di vernice bianca come cute ustionata dal sole.
Procedetti strabuzzando gli occhi per proteggermi parzialmente dalla luce estiva, e oltrepassai lentamente l'ambulatorio veterinario di Gabby, cercando di non voltarmi troppo a guardare. Finalmente giunsi di fronte al Camp Rapture Report, scesi, mi fermai accanto alla mia vecchia macchina e diedi un'occhiata intorno, nella speranza che magari stavolta le cose potessero migliorare. Ero uno di quei tipi sempre pieni di speranze.
La sera prima mi ero messo in viaggio in macchina da Houston, dopo aver lasciato Hootie Hoot, Oklahoma, e il mio amico pazzo della guerra in Iraq, Booger, ma ero approdato solo a un bar e, di lì, a un motel di periferia, dove bevvi fino al torpore davanti alla televisione, guardando non so bene cosa. Per quel che me ne fregava, si sarebbe potuto tranquillamente trattare di un programma sul modo di riparare un trattore o su come farsi una lobotomia.
A ogni buon conto, l'indomani mattina, giovedì, mi svegliai con la sensazione che mi fosse morto qualcosa in bocca e qualcos'altro mi si fosse arrampicato su per il culo. Mi feci una doccia e mi lavai i denti per liberarmi di quella sensazione e mi avviai verso l'ultimo colloquio di lavoro in programma, in vista di una possibile assunzione al Camp Rapture Report.
Fermo accanto alla macchina, dopo essermi infilato la giacca sportiva, tutto sudato, a causa della calura estiva, come uno scimmione con un maglione di lana, inspirai una bella boccata d'aria. Era satura della fragranza dei pini situati sull'altra parte della strada statale, e dell'aroma degli hamburger del McDonald's adiacente. Verificai che la cerniera dei pantaloni fosse chiusa, dopodiché controllai le suole, nel caso avessi pestato qualche cacca di cane, poi mi avviai lungo il marciapiede e procedetti oltre le aiuole fiorite, infestate dalle api: il forte odore mi irritò lo stomaco. Entrai.
La sede del Report era sostanzialmente uno stanzone pieno di scrivanie, in buona parte vuote. Solo tre erano occupate. Su un lato, si aprivano porte a vetro che immettevano in alcune stanze dalle grandi vetrate, attraverso le quali si vedevano le persone al lavoro, poi c'erano diverse cataste di casse, e dio solo sa cosa potessero contenere.
Il Report era alquanto demodé. Sembrava uno di quei posti in cui i giornalisti devono indossare dei cappelli di feltro e le giornaliste masticare chewing-gum e chiacchierare vivacemente, muovendo le labbra su cui si sono date del rossetto vermiglio.
All'accettazione, venni accolto da una giovane signora bionda che sarebbe apparsa bella se solo avesse aggiornato l'acconciatura al ventesimo secolo, anche se sarebbe stato sufficiente persino la prima metà del secolo. Mi diede un'occhiata e mi sorrise, mostrandomi un bell'apparecchio. Doveva avere intorno ai venticinque anni, magari qualcuno in più, avvicinandosi forse alla mia età, ma l'apparecchio e i capelli, troppo corti e dal taglio scalato, oltre a una bella quantità di lentiggini sulle gote arrossate, le davano un'aria da studentessa sexy degli anni Cinquanta.
«Signor Statler» disse. «Come sta?»
«Si ricorda di me?»
«Andavamo a scuola insieme.»
«Davvero?»
«Io ero un anno indietro. Però mi ricordo di lei. Faceva parte del club di giornalismo e scriveva per il periodico delle scuole superiori. Se non sbaglio, si occupava di scacchi.»
«A dir la verità, ho scritto solo un articolo.»
«Allora deve essere stato quello che ho letto io... Lei non si ricorda di me, vero?»
«Già, non mi ricordo. Ma, se è per quello, non ricordo un sacco di gente...»
«In effetti, mi ha vista anche quando è venuto a sostenere il primo colloquio.»
«Ora sì che mi sento un idiota.»
«Non si preoccupi, lavoravo nel retro. Ero un fattorino. Lei mi ha visto solo di sfuggita. L'ho salutata con la mano perché mi sono ricordata di lei. I miei capelli avevano sfumature rosse.»
«Capisco. Spero di aver risposto al saluto.»
«Lo ha fatto. Ora non lavoro più nel retro. Ma questo l'aveva intuito, vero?»
«Già, quello lo avevo capito.»
«Ho ottenuto una promozione all'accettazione. Non è come fare la giornalista, ma è sempre meglio di preparare caffè, svuotare pattumiere e stasare cessi. Una volta ho dato la caccia a un bacherozzo che si era infilato nell'ufficio pubblicità. È stato un giorno memorabile. Credo di aver avuto realmente paura.»
«Se non ho capito male, vuole fare la reporter...»
«Esatto. Se ci fosse più giustizia al mondo, già dovrei esserlo. L'hanno assunta per tenere una rubrica, giusto?»
«Non mi hanno ancora assunto.»
«Be', mi sento di essere ottimista in proposito. La signora Timpson la sta aspettando» disse.
«Sono leggermente in anticipo.»
«Non c'è certo la coda per andare da lei, signor Statler.»
«Chiamami Cason.»
«E io sono Belinda. Belinda Hickman.»
Mi tese la mano e gliela strinsi. In effetti era proprio una bella ragazza, con uno stile tutto suo.
«Da che parte?» chiesi.
Mi indicò delle cataste di casse e mi diresse da quella parte, dicendomi che avrebbe avvertito la signora Timpson del mio arrivo.
«Consigli?» domandai.
«Tieni mani e piedi dalla parte della scrivania riservata agli ospiti, non fare movimenti bruschi e non cercare di stabilire un contatto oculare diretto.»
2
Girai intorno a una catasta di scatoloni e a un paio di sedie e mi infilai nella zona buia dell'accettazione, illuminata da una luce posta dietro il vetro smerigliato di una porta che esibiva l'intestazione SIGNORA TIMPSON, DIRETTORE, stampigliata a caratteri neri.
Bussai delicatamente, e una voce praticamente simile a un urlo mi disse di entrare.
La signora Timpson era seduta alla scrivania, dalla quale si era allontanata senza alzarsi dalla poltrona, e mi stava studiando attentamente. Il suo sguardo mi fece capire che i suoi occhi avrebbero potuto fulminarmi come dei raggi laser. I capelli erano eccessivamente rossi sui lati ed eccessivamente rosa nei punti in cui erano radi; le labbra sembravano bietole secche e la faccia era solcata da profonde rughe incrostate di una cipria dozzinale, un po' come la sabbia sul volto della Sfinge. I seni le poggiavano comodamente sulle gambe: era come se fossero passati a miglior vita di recente e lei non avesse avuto il tempo di dar loro sepoltura. Sembrava avere un'età compresa tra gli ottanta anni e qualcosa di vicino all'epoca della scoperta del fuoco.
«Si sieda» mi intimò, con un bel movimento di denti finti, come se stessero cercando di trovare una via di fuga.
Presi l'unica sedia disponibile e mi ci sedetti composto, sobbarcandomi tutta la trafila del buon portamento, poi sorrisi e cercai di sembrare il più intelligente possibile, cercando scrollarmi di dosso i postumi di una sbronza a base di Jim Beam e di un quantitativo decisamente eccessivo di birre ghiacciate.
«Si direbbe che lei abbia bevuto» osservò.
«Ieri sera. A una festa.»
«Mi hanno detto che lei ha problemi di alcol.»
«E chi le avrebbe detto una cosa del genere?»
«Il padrone del Fat Billy's Saloon. È mio marito. Sa, quella stamberga ai margini del paese...»
«Ah! Già... Voglio dire... no, non è un problema. Ho bevuto, però non sono un ubriacone.»
«Mi era parso di capire che fosse una festa.»
«Già, una festa per una sola persona. Non si tratta di un'abitudine, mi sono solo sbronzato un po'.»
«Direi più di un po'.»
«Lei ha un bar e dunque sa bene come vanno le cose. Di quando in quando, si finisce per bere più del dovuto.»
«Il bar è di mio marito» replicò, bloccando i denti con il labbro superiore, visto che si erano spostati un po' troppo avanti. «Siamo separati da vent'anni. Semplicemente, non ci siamo mai decisi a divorziare. Andiamo molto d'accordo, fintanto che non viviamo insieme o ci vediamo troppo spesso o comunichiamo in qualche modo. Però, mi ha telefonato e mi ha parlato di lei. Naturalmente, la conosceva e sapeva del suo interesse per un lavoro al giornale. Mi ha detto che, tra un bicchiere e l'altro, lei glielo aveva lasciato intendere diverse volte.»
«Forse ero un po' nervoso.»
«E mi ha riferito che un tempo lei giocava a football.»
«Sì, signora, ero il quarter back dei Bull Dogs.»
«Ho dato una controllata: ha perso buona parte delle partite, giusto?»
«È vero. Ma ho fatto anche qualche bel lancio. Credo di detenere il record della scuola.»
«No. Il figlio dei Johnson lo ha battuto due anni fa. Com'è che si chiama? Cazzo. Non mi viene in mente. Però l'ha battuto. E per giunta è un ragazzo di colore.»
Pensai tra me: Di colore? Un'espressione che non usavo da un bel po' di tempo.
«Glielo assicuro, non sono un ubriacone.»
«Uno che beve fino a sbronzarsi è un ubriacone. Uno che viene al lavoro con i postumi di una sbronza è un ubriacone.»
Annuii. «Non si ripeterà.»
Ruotò sulla poltrona e mi scrutò da un'altra angolatura. «Il primo colloquio l'ha sostenuto con Sofia, la mia assistente, ed è andato bene.»
«Grazie.»
«Tanto perché lo sappia, l'ho licenziata la settimana scorsa. Si prendeva troppe pause per occuparsi del figlio. A me i bambini non piacciono e non mi piacciono le pause in eccesso. Le ho detto che, se non le stava bene, poteva farmi causa. Non deve starsene sempre seduto dietro una scrivania, signor Statler, però mi piace pensare che stia lavorando e che il suo tempo sia il mio tempo e che il mio tempo sia solo mio. Lo sa che questo lavoro non è molto remunerativo?»
«È un inizio. Posso puntare in alto.»
«Dannazione, ragazzo mio, è già quasi sul tetto. Purtroppo lei viene da un posto altissimo, un grattacielo. Aveva un lavoro a Houston e ha ricevuto una nomination per il Pulitzer. Cosa riguardava? Un omicidio?»
«Esatto. Quella nomination è stata una bella fortuna.»
«Era quello che stavo pensando anch'io. Tuttavia, lei a Houston non è durato. Qualche problema, immagino.»
«Sono tornato qui per un po', e dopo mi sono arruolato.»
«Già, ma è il motivo per cui lei è tornato che mi interessa.»
«Qui ci abitano i miei genitori.»
«E allora? Che mi dice della ragazza con cui usciva qui. Una certa Gabby... E non faccia il sorpreso. Tengo il naso attaccato al terreno e gli occhi bene aperti - il che, potrei aggiungere, funziona solo a una certa distanza - e le orecchie dritte. In questo paesino non succede granché a mia insaputa.»
«Se per lei è così importante, non ho nessun problema a tirare nuovamente in ballo certe cose.»
«Non lo è. Sono curiosa, ecco tutto. Dunque, è andato a Houston, ha lavorato per un quotidiano importante, si è guadagnato una nomination al Pulitzer e, d'un tratto, ha mollato tutto, è venuto qui per viversi una bella storia d'amore con una ragazza, poi l'ha piantata e se n'è andato in Afghanistan. Che cosa può averla spinta a mollare improvvisamente quel lavoro a Houston? Che problema ha avuto?»
«Non andavo d'accordo con il mio capo.»
«Perché lei beveva?»
«No, signora.»
«Sa bene che posso telefonargli e chiederglielo.»
«Sì, signora, ma si tratta di una faccenda strettamente personale. Lo chiami pure. Non credo che abbia molto da dire sul bere, però, qualunque cosa dica, dubito che pronunci una sola parola buona, nonostante siano passati diversi anni. Non gli sto simpatico. Non ci sono dubbi in proposito. Di nuovo... si tratta di una faccenda personale.»
«Personale quanto?»
«Strettamente personale.»
«Con me può parlare chiaro.»
«Davvero?»
«Ci può scommettere. Niente che lei possa dire mi imbarazzerà o turberà.»
«D'accordo. Mi scopavo sua moglie.»
«E pure la sua figliastra.» Espirò e arricciò le labbra color bietola. «Non sono sicura di quanto sia personale. Immagino che per la moglie fosse molto personale.»
«Era così che lei la vedeva. Quanto alla figlia, be'... aveva trent'anni. La moglie quarantotto.»
«Niente adolescenti coinvolte?»
«No, signora.»
«E immagino che i suoi distinguo non valgano per il cane di casa...»
«No, signora. Bisogna stabilire un confine...»
«Non me ne può fregare di meno dove infila il pisellino fintanto che fa il suo lavoro. E non le venga in mente di abbassarsi la cerniera lampo e di calarsi le brache in pubblico. Quanto al bere, quello non lo tollererò. Neanche i fumatori mi piacciono. Il fumo, il bisogno costante di una sigaretta, condiziona il lavoro.»
«Non fumo.»
«Bene.» Serrò i denti finti, mi studiò come se stesse decidendo se lasciarmi in vita oppure farmi scomparire da una botola nel pavimento. In effetti, a pensarci bene, mi fece venire in mente uno dei cattivi della serie di James Bond.
«Vorrei inoltre aggiungere che mi sento più saggio, adesso» proclamai. «E che ho bisogno di questo lavoro.»
Una cosa idiota da dire, ma mi venne fuori senza accorgermene.
«Niente suppliche. Sono un segno di debolezza. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Prego?»
«Il lavoro. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Entrambe le cose.»
«Quelle due donne, quella di trenta e quella di quarantotto... Lei che età aveva allora?»
«Ero giovane. Poco più che ventenne.»
«E ora ha grosso modo trent'anni, giusto?»
«Sì, signora.»
«E pensa di essere un gran playboy, vero, ragazzo mio?»
«Lo pensavo allora. Adesso mi sento un idiota.»
Rimasi seduto dov'ero e feci il possibile per sembrare un uomo che avesse appreso la lezione, in attesa solo della sua grande occasione. E, in effetti, le cose stavano sostanzialmente così.
La signora Timpson arricciò nuovamente le labbra color bietola. Sembrava un vulcano furente pronto a eruttare. «Mi chiamo Margot Timpson.»
«Lo so, signora.»
«Lo so che lo sa. Stia zitto e mi ascolti. Lei mi chiamerà signora Timpson. Vada lì fuori da Beverly, la ragazza dell'accettazione, e si faccia...»
«Ci siamo conosciuti. Credo si chiami Belinda.»
«Si faccia indicare la sua scrivania. Lavorare in un giornale è un po' come andare in bicicletta o fare sesso, immagino. Fatto una volta, non dovrebbe avere problemi a rifarlo. Ma le può sempre capitare di cadere da una dannatissima bicicletta e di non riuscire a venire fuori in tempo, sul più bello. Pertanto, l'esperienza non è tutto. Usi anche un po' di buonsenso.»
«Lo farò.»
«Lo spero. Qui di roba per assicurarsi il Pulitzer non ce n'è molta da scrivere. L'ultima cosa che abbiamo avuto sul giornale il mese scorso, a parte le notizie internazionali, l'ultima cosa che fosse anche vagamente stimolante è stata la storia di un procione con la rabbia trovato la scorsa settimana al centro di giardinaggio del Wal-Mart. Si è messo a correre dietro a un magazziniere e l'hanno dovuto abbattere.»
«Il magazziniere o il procione?»
«Il solito senso dell'umorismo, vero?»
«Proprio così, signora. Le prometto che non avrà seguito.»
«Felice di sentirglielo dire.» Strinse gli occhi e restò immobile per un po'. Per un istante pensai che fosse passata a miglior vita. Poi i suoi occhi furono percorsi da un lampo. «Le affido la responsabilità di una rubrica. Era quello che voleva, giusto?»
«Sì, signora.»
«Forse era una puzzola...»
«Prego?»
«L'animale del Wal-Mart. Ora che ci penso, era una puzzola, non un procione.»
«Capisco.»
«Si pettina sempre in quel modo oppure le è morto il barbiere?»
Caspita, questa non l'avevo mai sentita.
«Da quando non sono più militare, li lascio crescere. Credo che me li taglierò.»
«Bene. Ci rifletta. Sulla sua rubrica. Una rubrica che va sull'edizione domenicale. Sarà quasi sempre in giro, però avrà una scrivania. Tuttavia, si presenterà a rapporto da me regolarmente. Come le ho detto, mi va di pensare che lei stia lavorando anche quando non è così. Intesi?»
«Sì, signora.»
Restammo seduti per un po' a studiarci. Io con il mio sguardo appannato da ubriaco e lei con i suoi occhi umidi e grigi. Tuttavia, lei era l'aquila e io il topolino, e avvertii il desiderio di cercare un buco in cui rintanarmi immediatamente.
«Bene,» disse «sa qual è la nostra paga, sa anche battere a macchina e sa come funziona un giornale, anche se questo magari funziona in maniera leggermente diversa, dato che è vecchio come me. L'ho fondato io, sa?»
«Non lo sapevo.»
«Ora lo sa. Prenda contatto con l'ambiente, oggi. Vada a casa quando le pare. Domattina, alle nove in punto, la getteremo nel fuoco.»
Mi alzai, sorrisi e protesi la mia mano per stringere la sua. Lei mi salutò con un cenno di scarsa considerazione.
Mi avviai verso la porta.
«Varnell Johnson» disse.
Mi girai. «Prego?»
«Si chiamava così quel ragazzo di colore.»
«Non capisco...»
«Quello che ha battuto il suo record. Lanciava come una catapulta e correva come un dannato cerbiatto.»
3
Quando uscii dall'ufficio della Timpson, uno dei giornalisti seduto a una delle poche scrivanie occupate, un nero sulla ventina che indossava una camicia giallo canarino con le maniche rimboccate, mi fece cenno di avvicinarmi. Un po' come il presidente che convoca un lacchè; mi avviai comunque verso di lui, avvicinandomi alla sua scrivania mentre lui si alzava in piedi e spostava la sedia. Era piccolo e largo di spalle, i capelli corti con una riga netta nel mezzo. Gli tesi la mano e lui me la strinse. Aveva, una di quelle strette di mano risolute, non tanto intense, ma forti, come se fosse più una competizione che un saluto. Mi mostrò un po' di denti.
«Cason Statler» dissi.
«Lo so. Io sono Oswald, come il tizio che ha sparato a Kennedy.»
«Nessuna parentela?»
«Non che io sappia, a meno che qualcuno abbia saltato la staccionata razziale.»
«È un nome o un cognome?»
«Tutti e due.»
«Conosco un tipo che ha un nome solo. Lo chiamano tutti Booger.»
«Booger, come caccola. Perché? Se le mangia?»
«No. Piuttosto, come Wooly Booger, la tipica larva usata come esca. Sai, roba che fa paura...»
«Ah!»
«È così che ti firmi? Solo Oswald?»
«Niente Solo. Oswald e basta.»
«Felice di conoscerti, Oswald.»
«Scopriremo più tardi quanto sia felice il nostro incontro.»
Non ero tanto sicuro di cosa volesse dire, così decisi che non c'era nulla nel nostro storico incontro da richiedere altre parole, e dunque lasciai perdere.
«Com'è andata là dentro?» chiese.
«Faccio parte della squadra.»
«Oh, ma qui non ci sono giocatori di squadra. In buona sostanza, ciascuno pensa a sé stesso. Prendimi sulla parola. Chinati in avanti e percepirai subito un corpo estraneo. Stammi a sentire, so che la Timpson sembra vecchia e scontrosa e fuori dal mondo, ma voglio che tu lo sappia, quella non è solo l'immagine che trasmette - lei è proprio fatta così.»
«Abbiamo avuto una conversazione particolarmente succosa a proposito della gente di colore.»
Mi sorrise e stavolta parve sincero. «Benvenuto nel 1959.»
«A dir la verità, io sono di queste parti e questo posto lo collocherei piuttosto intorno alla fine degli anni Settanta. Pertanto, smettila di infangarlo.»
Oswald si produsse in un risolino. Eccomi qua. Il signor Cordialone. Avrei potuto ammorbidire praticamente chiunque. Con Booger non c'ero riuscito, però almeno non mi aveva ammazzato.
«Ti prenderò in parola» disse Oswald. «Mi sono trasferito qui solo un anno fa.»
«Perché?»
«Me lo domando tutti i giorni. Ma la gente non fa altro che dirmi quant'era bello ai vecchi tempi. Probabilmente non tanto bello per i neri, però.»
«Non saprei. Non ti piacerebbe tornartene a casa in una baracca sul retro della piantagione di un uomo bianco e cantare spiritual dopo una dura giornata trascorsa a raccogliere cotone? Rilassarti, facendoti passare il dolore per le frustate prese?»
Quest'ultima frase gli strappò un sorrisino. «L'unica cosa che abbia mai raccolto sono le caccole del mio naso. Mi hanno detto che sei stato nell'esercito...»
«È passato un bel po' di tempo. Ho avuto un incidente e mi hanno dovuto congedare.»
«Mi sembri a posto, adesso.»
«Sono guarito del tutto.»
«Mi hanno detto che ti sei guadagnato delle medaglie.»
«Sai un bel po' di cose sul mio conto.»
«Abbiamo letto tutti il tuo curriculum.»
«Non dovrebbe essere privato?»
«È quello che pensi tu. Ma qualche medaglia te l'hanno data, giusto?»
«Quel giorno le regalavano a tutti.»
Mi mostrò qualche dente. «Laggiù c'ero anch'io. In Iraq. Però mi hanno rimandato a casa e non mi hanno richiamato. Pensavo che prima o poi sarebbe successo, e invece così non è stato. Ho ancora paura di ricevere la chiamata. Adesso prendono chiunque, purché respiri. A ogni buon conto, di medaglie non me ne hanno date.»
«Non è quella gran cosa...»
«Proprio come la penso io.»
«Ci si vede, Oswald.»
«Ci si vede» disse.
Osservai Belinda mettere giù il telefono, e nel preciso istante in cui mi allontanai dalla scrivania, si alzò dalla sua e mi intercettò.
«Era la signora Timpson. Mi ha detto di farti vedere la tua scrivania.»
«Grazie.»
Mi fece strada e io fui sufficientemente sfacciato da osservare il suo incedere e decidere che era davvero una gran bella donna, un po' fuori moda per acconciatura e trucco, ma ben vestita. E comunque, mi piaceva come portava la camicetta: attillata al punto da far sembrare il mondo un posto felice, quanto meno per qualche istante.
«Eccoci» disse.
«Be', è decisamente una scrivania.»
«Esatto.»
Somigliava alla scrivania di chiunque altro. C'era sopra un computer e una serie di cassetti. Li aprii. Quelli sui lati erano vuoti. In quello centrale c'erano matite e penne e graffette e un pacchetto aperto di chewing-gum. Presi un confetto, lo scartai e me lo infilai in bocca. Fu come cercare di masticare un cerotto.
Belinda mi mostrò l'apparecchio per i denti. «Buono, eh?»
Tirai fuori il chewing-gum dalla bocca, lo avvolsi nell'incarto e lo lasciai cadere nel cestino. «Non tanto.»
«È lì dal giorno in cui sono state inventate le gomme da masticare.»
«Non ho dubbi.»
«Allora, come ti pare la nostra intrepida direttrice?» chiese Belinda.
«Molto pittoresca.»
Belinda mi rivolse il suo smagliante sorriso metallico. «Non la definiscono in questo modo quelli che lavorano qui.»
«Davvero?»
«Già.» Si guardò alle spalle, in direzione di Oswald, già seduto sulla poltrona dietro la scrivania. «Che mi dici dell'assassino di John F. Kennedy?»
«Non riesco a stabilire se è solo stizzoso oppure se è uno stronzo.»
Sorrise. «A dir la verità, Cason, è uno stronzo stizzoso.»
Mi feci un giro e conobbi qualcuno dei giornalisti e i tizi dell'ufficio pubblicità; venni a sapere che molti altri erano fuori per lavoro e che li avrei incontrati più tardi. Promisi ad alcuni che sarei uscito a pranzo con loro, poi andai alla mia scrivania e mi ci sedetti per un po' a rigirarmi la penna tra le dita.
Non era bella come quella che mi avevano dato a Houston. Se per quello, nemmeno il giornale era all'altezza di quello di Houston. Per giunta, la penna era di qualità scadente. Ma ero lì. Ero stato io a mandare tutto a puttane e ridurmi in quello stato. Persino dopo essermene andato da Houston avevo avuto la mia grande occasione. Ero tornato a casa e avevo incontrato Gabby. Ma anche in quel caso avevo rovinato tutto e mi ero fatto spedire in Iraq. Avevo perso il lavoro. La mia candidatura al Pulitzer era ormai acqua passata e la mia ragazza faceva la veterinaria, cosa che aveva sempre desiderato.
Quanto a me, ero un ubriacone, e in quello ci sapevo fare, se mi ci mettevo di impegno.
Me l'ero andata a cercare.
Ero pronto a organizzare una bella festicciola privata di autocommiserazione, quando Oswald, lo stronzo stizzoso, venne da me. E dire che avevo sperato di non dover più avere a che fare con lui per quel giorno. Non ero stato tanto fortunato.
«Mi ha appena chiamato la Timpson» disse. «Vuole che ti aiuti ad ambientarti.»
«Sono tutto tuo.»
«Bene. Francine, la precedente editorialista, aveva alcune idee nel cassetto e la Timpson ha pensato che forse ti andrebbe di darci un'occhiata, magari scovandoci uno spunto per metterti subito al lavoro, fintanto che non ti venga in mente qualcosa di tuo. Non sei tenuto a utilizzarle, ma lei ha detto di vedere se per caso c'era qualcosa in grado di destare la tua attenzione... E dire che speravo di ottenerlo io quel lavoro.»
«Iniziavo a sospettarlo.»
«E invece no! La signora Timpson voleva qualcun altro. Qualcuno esterno alla redazione, come se io fossi nato sotto la scrivania di questo ufficio e non stessi in una stalla a spalare merda da quasi un anno con il badile del mio padrone.»
«Caspita!» esclamai. «Un vero poeta...»
«E invece no, lei voleva qualcuno con un valore aggiunto. Qualcuno che in passato, un passato molto lontano, avesse ricevuto una candidatura al Pulitzer...»
«Che poi sarei io...»
«Che poi saresti tu. Secondo lei, sarebbe stato carino avere un candidato al Pulitzer.»
«Se può essere una consolazione, una candidatura è una bella seccatura.»
«No. Non è una consolazione. Sono abituato a prenderlo nel culo.»
«Non devi pensare che questa faccenda sia collegata a questioni razziali, perché, se la pensi così, voglio che tu sappia, e te lo dico in maniera cortese e dal profondo dell'anima, che sei un grandissimo stronzo.»
Oswald si mise a sedere sul bordo della mia scrivania. «Non lo penso. Sono solo una di quelle persone nate per prenderlo nel culo e per esserne risentiti. Naturalmente, con un timido e simpatico senso dell'umorismo.»
«Non ci credi sul serio, vero?»
«Che sono risentito oppure che ho un simpatico senso dell'umorismo?»
«Mi riferivo al fatto di essere nato per prenderlo nel culo.»
Oswald annuì. «Non si può fare niente per cambiare il mio destino. C'è chi nasce con un bersaglio appiccicato al culo. Nel mezzo del bersaglio, disegnata proprio nel centro, c'è una fessura con la scritta: inserire uccello.»
«Quando attraversi la strada, controlli da tutte e due le parti?»
«Cosa vorresti dire?»
«Hai detto che credi nel destino.»
«Eccolo che arriva...» disse Oswald.
«Lo puoi dire se guardi da entrambe le parti... Sì o no?»
«Certo.»
«Allora credi anche che il tuo destino dipenda, almeno in parte, da te, altrimenti non avresti paura di finire appiccicato al cofano di una macchina, a farle da ornamento. Vorrebbe dire che tutto è stabilito in principio. Pertanto, ti consiglio di staccarti il bersaglio che hai appiccicato al culo.»
Dargli quel consiglio mi parve un paradosso visto che, come Oswald, anch'io avevo la sensazione di portarmi appresso uno di quei bersagli. Era quello il mio guaio. Ero in grado di ragionare quando si parlava del prossimo, ma quando veniva il mio turno, non occupavo una posizione particolarmente alta nella scala della saggezza.
«Hai ragione» disse Oswald. «Sono un grandissimo stronzo.»
«Stavolta non l'ho detto.»
«Però l'hai pensato. Ho visto quell'idea balenarti nei tuoi azzurri occhi ariani.»
«Ho anche una parte di sangue cherokee.»
«Non è quella la parte che sto scrutando.»
«Cambiamo argomento. Cos'è successo a Francine?»
«È stata licenziata, oppure è morta. Non ricordo esattamente. Voglio dire, è morta, ma non sono sicuro se prima è stata licenziata oppure se è stata licenziata perché è morta. La Timpson è molto severa. Non tollera praticamente nulla. Vedi di mandare tutto a puttane e io mi getterò sul tuo lavoro come le mosche sulla merda. Attenderò nell'ombra, pronto a scattare al momento opportuno, puoi esserne certo.»
Nonostante tutto, ero convinto che Oswald si sentisse più che ambizioso quasi predestinato. Pensava di essere più furbo e più capace di chiunque altro e, in quanto tale, di meritarsi il posto. Sotto sotto, l'aspirazione più grande era istruire il suo cane a leccargli le palle.
Tuttavia, non gli regalai quella perla di saggezza. Al contrario. «E dove li trovo questi spunti di Francine?»
Oswald diede un colpetto al mio computer. «In questa vecchia macchina del cazzo.»
«Santo Cielo! Non sapevo che avessi fatto studi classici...»
«Questo era latino.»
«Sono davvero impressionato.»
«Aspetta di sentirmi recitare Little Brown Jug. Roba da far venire giù il tetto.»
«Non avevo dubbi.»
«I codici e le informazioni sono su un taccuino nel cassetto della scrivania. Bene. Ho assolto il mio compito, ora mi rimetto al lavoro.»
Lo stronzo stizzoso se ne tornò alla sua scrivania.
Controllai nel cassetto e trovai il taccuino con le informazioni che mi servivano, poi mi misi all'opera. Buona parte della roba trovata negli appunti del computer di Francine era entusiasmante come contarsi i peli delle ascelle. C'erano forbite indagini sugli ingredienti della torta a base di barrette Snicker. Ingredienti principali: le barrette Snicker e burro a volontà. Fu una bella sorpresa scoprire che la ricetta non includesse un defibrillatore e i preparativi per un bel funerale. C'era qualcosa riguardo a decorazioni floreali e a smacchiatori in grado di eliminare sostanzialmente ogni cosa, persino da biancheria intima e fazzoletti di carta pieni di moccio. Nulla che mi rapisse realmente. Però perseverai.
Non avevo altro da fare in quel momento, e comunque volevo dare la sensazione di essere dannatamente grato per il lavoro ottenuto, non ero semplicemente pronto ad andarmene a casa e a cominciare a lavorare l'indomani.
Ovviamente, sarebbe stato difficile capire se la Timpson si sarebbe accorta del mio impegno, visto che il suo ufficio era dietro quelle casse e tutto il resto. Tuttavia, ebbi la sensazione che mi stesse osservando, magari attraverso qualche sistema di monitoraggio. Con ogni probabilità, quel sistema si chiamava Oswald.
E fu proprio in quel momento che mi capitò per le mani.
Mi investì immediatamente. Fu come se una mano appiccicaticcia mi avesse stretto la base del collo. Era il vecchio istinto da reporter che saltava fuori come un coniglio.
Un giallo vecchio di sei mesi.
Caroline Allison. Studentessa universitaria. Specializzanda in storia. Ventitré anni. Sparita dopo essere stata fino a tarda notte in un fast food della catena Taco Bell. Una settimana più tardi, la sua macchina era stata ritrovata ai margini del paese, nei pressi della vecchia stazione ferroviaria, non molto lontano dalla casa delle Siegel, sul fianco della collina. Un posto sinistro in cui scomparire.
La casa delle Siegel era stata un luogo leggendario per anni. Era appartenuta a due sorelle. Si narrava che negli anni Venti avessero fatto parte dell'alta società. Al tempo erano adolescenti. Poi era arrivata la Grande Depressione e la loro famiglia, alla caduta del mercato azionario, aveva perso tutti i soldi. Quando le due ragazze avevano raggiunto la cinquantina, i genitori erano morti e le due donne si erano ritrovate a corto di idee su cosa fare per sopravvivere. Ben presto, la gente iniziò a vederle frugare nei bidoni della spazzatura, e siccome non avrebbero accettato la carità, qualcuno prese a buttare cibo nei bidoni, in maniera che loro potessero trovarlo. Alla fine, le due donne vendettero la proprietà di famiglia e si trasferirono in un'altra casa, dove occuparono il piano superiore. Quando la casa prese fuoco e i pompieri accostarono una scala alla finestra, le due donne, ormai sulla sessantina, erano in vestaglia e non ne vollero sapere di uscire dalla finestra vestite in quel modo. Una vera signora non si comportava in quel modo. Una vera signora bruciava come uno stoppino di cotone. Morte per ustioni e pudicizia.
La vecchia casa, quella in cui erano vissute originariamente le due sorelle, era stata acquistata, ma nessuno vi aveva apportato modifiche. Rimase abbandonata a sé stessa, sulla sommità di una collina punteggiata di alberi, il cortile diventato un ammasso di erbacce probabilmente alte un metro. La casa era stata quasi del tutto inghiottita dai rampicanti, e nel complesso sembrava una macchia folta di vegetazione con un paio di occhi rettangolari di vetro. Mi ricordavo che durante il giorno, per come la casa era sistemata sulla sommità della collina, quelle finestre accoglievano i raggi del sole e riflettevano un gioco di luce su tutta la collina, come se fossero dei laser. Con mio fratello Jimmy ci andavamo a giocare da bambini e ci parcheggiavamo la macchina quando avevamo delle ragazze, molti anni prima. Girava voce che quel posto fosse infestato dagli spiriti. Di fantasmi lassù non ne vidi mai, però una volta, mentre cercavo di sfilare le mutandine di Mary Jane William, vidi tra le sue gambe, attraverso il finestrino della mia macchina, un topo di campagna, grosso più o meno come un opossum, sfrecciare tra la vegetazione intorno alla casa e sparire.
Caroline era stata lì, nei pressi di quella vecchia casa, insieme a qualcuno?
Ci era andata in camporella?
Le cose le erano sfuggite di mano?
Era stato qualcun altro a portare la macchina e a lasciarcela, per poi allontanarsi a piedi? Quel qualcuno aveva un complice? Il mio naso di reporter si agitò come un ratto che avesse fiutato del formaggio.
Feci scorrere le note di Francine sullo schermo del computer. Quello che Caroline aveva ordinato al fast food era stato ritrovato all'interno dell'automobile. Non era stato nemmeno toccato. Anche le scarpe erano state trovate lì. Avevano svolto delle ricerche nella vecchia stazione ferroviaria e nella vecchia casa. Avevano tagliato i rampicanti per verificare che il corpo non fosse stato nascosto lì sotto. Nulla di fatto.
Feci scorrere altri appunti.
C'erano delle informazioni su Caroline, sul suo passato. Era stata data in affidamento alla sua famiglia adottiva. Secondo le informazioni raccolte da Francine, aveva un'intelligenza vivida come un'esplosione di luce nucleare. In effetti, Francine aveva raccolto molte informazioni meticolose. Chissà che non avesse finito anche lei per annoiarsi a forza di torte a base di barrette Snicker e vasi di fiori, chissà che non si fosse accorta di avere per le mani qualcosa di interessante.
Nessuno era riuscito a farsi venire in mente un solo motivo per cui qualcuno potesse volerle fare del male. L'unica schermaglia con la legge l'aveva avuta quando si era rifiutata di pagare una multa della biblioteca, per via di un ritardo. Il libro in questione era E la luce riflessa dalle zanne dell'orso è scintillante di Jersey Fitzgerald.
Francine aveva scovato una ragazza che la conosceva bene, una certa Ronnie Fisher. Riferì che Caroline restituiva con un certo ritardo i film ai punti vendita Hastings e Blockbuster, e doveva ancora pagare un paio di multe alla polizia dell'università. Ronnie dichiarò di aver conosciuto Caroline al loro paese natale: erano state date in affidamento allo stesso genitore adottivo e si erano trasferite a Camp Rapture più o meno nello stesso periodo.
Mi misi comodo sulla poltrona e aspettai di capire se il reporter che era in me mi avrebbe detto di lasciar perdere, tanto non sarei approdato da nessuna parte.
Il reporter che era in me non si fece sentire e non mi disse di lasciar perdere. Non mollò la presa. Ero ancora convinto di avere una storia per le mani. Una studentessa universitaria scomparsa da sei mesi senza lasciare traccia. Un passato senza famiglia. O, quanto meno, un passato in una famiglia adottiva. Era andata all'università per avere una vita migliore, e poi era sparita senza lasciare una sola traccia.
C'era qualcosa di sinistro in quella vicenda, roba buona per un giornale. Forse ottima. E magari non solo per quel giornale scalcinato. E se avessi scritto una serie intera di articoli per il giornale sulla scomparsa, sull'illusione della sicurezza di una cittadina, per poi realizzare un articolo più ambizioso su quanto scritto nella mia rubrica, mettendoci dentro delle cose lasciate volutamente fuori dal giornale locale? Avrei potuto fare delle interviste interessanti a persone che la conoscevano, avrei potuto trovare qualche foto della macchina e del sacchetto della Taco Bell negli archivi, una fotografia della ragazza, e poi avrei potuto mandare il pezzo a qualche testata, come il Texas Monthly. Lì avevo dei contatti. La candidatura al Pulitzer continuava ad avere un certo peso. Come uno che avesse partecipato a un Super Bowl e non avesse agganciato la palla giusta, ma comunque aveva preso parte alla partita; allo stesso modo, continuavo a vantare qualche credito.
Se avessi lavorato bene, se avessi fatto in modo da farlo vedere alle persone giuste, forse sarebbe stato proprio quello che mi avrebbe consentito di fare il salto di qualità, proiettandomi in alto. C'ero già riuscito una volta, prima di lasciare che fosse il glande a ragionare al posto della testa. Avrei potuto farlo di nuovo, giusto?
Mi era stata offerta una nuova opportunità. Decisi di approfittarne.
Un'opportunità che per poco non mi uccise.
Quando uscii, le api erano ancora al lavoro, i fiori emanavano un aroma forte e la mia macchina continuava a essere vecchia e gli hamburger che friggevano al McDonald's mi misero lo stomaco in subbuglio. Ma ora avevo un lavoro, ed ero sicurissimo che le mie scarpe non fossero sporche di merda di cane e che la storia di Caroline Allison potesse essere uno scoop.
Pensai a Caroline Allison, poi tirai fuori il cellulare, chiamai mamma e papà, gli dissi che avevo ottenuto il lavoro, cosa di cui parvero doverosamente entusiasti. Avrei voluto chiamare qualcun altro, ma in realtà non conoscevo nessuno. Mio fratello e sua moglie, forse, però Jimmy era al lavoro, non lo vedevo da un po' e mi stavo preparando psicologicamente per quel momento.
E poi c'era Booger. Non so bene perché, ma pensai a lui. Stavo cercando di togliermelo di torno, di sbarazzarmi di tutte le vecchie amicizie della guerra. Ma sapevo che gli avrebbe fatto piacere sentire come era andata, anche se pensava che scrivere per un giornale fosse un tipo di lavoro strano per un adulto. Booger era convinto che l'uomo fosse stato piazzato sulla terra per stabilire se era un dominatore oppure uno schiavo e per mangiare carne, specialmente pollo fritto. Gli piacevano anche le donne, ma le donne venivano al terzo posto nel suo progetto commerciale e, comunque, in quello non c'era assolutamente niente di romantico. Una mera questione di servizi.
Non c'era nulla di paragonabile alla guerra per il suo potere di confonderti, di farti domandare da che parte stavi realmente e quanto eri umano. Ma per Booger la guerra era come scavare un fosso, solo che era decisamente più divertente. Tutti gli orrori che le giornate avevano in serbo per noi che ci trovavamo laggiù, non erano niente per Booger. Dormiva ogni notte come se il mondo non esistesse nemmeno, con le mani infilate tra le gambe a stringersi le palle. Aveva la coscienza di un bambolotto marziale in plastica. In un certo senso mi mancava, eppure era trascorso poco tempo dall'ultima volta in cui l'avevo visto e mi ero accomiatato da luì con l'intenzione di non rivederlo e di non parlarci mai più. Stavo iniziando a pensare che lui rappresentasse l'ennesima mia cattiva abitudine. Qualcosa di cui avrei dovuto sbarazzarmi, anche se non riuscivo a farne a meno.
In realtà, però, era Gabby che volevo chiamare. E non per parlare del mio lavoro. Volevo soltanto sentire la sua voce. Passai con l'auto accanto al suo ambulatorio. La sua macchina c'era, la stessa che aveva quando me n'ero andato in Afghanistan. Era tenuta bene, come tutte le sue cose. C'erano altre due macchine e un pick-up. Un bastandone nero era sistemato in una gabbia piazzata sul retro del pick-up e una donna, che dall'aspetto si sarebbe tranquillamente potuta guadagnare da vivere lottando con gli alligatori e insegnandogli a trainare un carro mentre recitava sonetti di Shakespeare, stava mettendo il guinzaglio al cane per farlo scendere.
Senza fermarmi, guardai attraverso lo specchietto laterale. La porta dell'ambulatorio si aprì e la lottatrice e il cane entrarono. Pensai di aver colto una vaga immagine di Gabby, ma la visione fu così fugace che non potei essere certo. Poteva trattarsi di un orso danzante oppure di un uomo nudo con un trombone in mano. Poteva trattarsi di chiunque.