L'estate
felice della signora Forbes
Estratto da "Dodici racconti raminghi"
Gabriel García Márquez.
Estratto da "Dodici racconti raminghi"
Gabriel García Márquez.
Nel
pomeriggio, di ritorno a casa, trovammo un enorme serpente marino
inchiodato per il collo sullo stipite della porta, ed era nero e
fosforescente e sembrava un maleficio di zingari, con gli occhi
ancora vivi e i denti a saracco nelle mascelle spalancate. Io dovevo
avere allora nove anni, e provai un terrore così intenso dinanzi a
quell'apparizione da delirio, che mi si blocco la voce. Ma mio
fratello, che aveva due anni meno di me, mollò le bombole di
ossigeno, le maschere e le pinne e scappò via con un grido di
terrore. La signora Forbes lo udì fin dalla tortuosa scala di pietre
che si arrampicava su per gli scogli dall'imbarcadero fino a casa, e
ci raggiunse, ansimante e livida, ma le bastò vedere l'animale
crocefisso sulla porta per capire la causa del nostro orrore. Lei
diceva sempre che quando due bambini sono insieme, sono tutt'e due
colpevoli di quel che ognuno fa separatamente, sicché ci sgridò
entrambi per le grida di mio fratello, e continuò a rimproverarci
per la nostra mancanza di controllo. Parlò in tedesco, e non in
inglese, come prevedeva il suo contratto di istitutrice, forse perché
pure lei era spaventata e rifiutava di ammetterlo. Ma non appena ebbe
ripreso fiato tornò al suo inglese sassoso e alla sua ossessione
pedagogica.
«E'
una "muraena helena"» ci disse, «così chiamata perché
fu un animale sacro per gli antichi greci.»
Oreste,
il ragazzo del luogo che ci insegnava a nuotare in profondità,
comparve d'improvviso dietro gli arbusti di capperi. Portava la
maschera da subacqueo sulla fronte, un costume da bagno minuscolo e
una cintura di cuoio con sei coltelli, di forme e grandezze diverse,
perché non concepiva altro modo di cacciare sott'acqua che lottando
corpo a corpo con gli animali. Aveva una ventina di anni, passava più
tempo nei fondali marini che sulla terra ferma e lui stesso sembrava
un animale del mare col corpo sempre impiastricciato di olio da
motore. Vedendolo per la prima volta la signora Forbes aveva detto ai
miei genitori che era impossibile concepire una creatura umana più
bella. Tuttavia, la sua bellezza non lo esentava dal rigore: anche
lui dovette subire una reprimenda in italiano per avere appeso la
murena alla porta, senza altra spiegazione possibile che quella di
spaventare i bambini. Poi, la signora Forbes ordinò che la staccasse
col rispetto dovuto a una creatura mitica e ci mandò a vestirci per
la cena.
Lo
facemmo subito e tentando di non commettere un solo errore, perché
dopo due settimane sotto il regime della signora Forbes avevamo
imparato che nulla era più difficile che vivere. Mentre ci facevamo
la doccia nel bagno, in penombra, mi resi conto che mio fratello
stava sempre pensando alla murena. «Aveva occhi da persona» mi
disse. Io ero d'accordo, ma gli feci credere il contrario, e
continuai a cambiare argomento finché non ebbi finito di lavarmi. Ma
quando uscii dalla doccia mi chiese di fermarmi per fargli compagnia.
«E'
ancora giorno» gli dissi.
Aprii
le tende. Era pieno agosto, e attraverso la finestra si vedevano
l'ardente pianura lunare fino all'altra parte dell'isola, e il sole
fermo nel cielo.
«Non
è per questo» disse mio fratello. «E' che ho paura di avere
paura.»
Comunque,
quando arrivammo a tavola sembrava tranquillo, e aveva fatto le cose
con tanta cura che meritò un apprezzamento speciale della signora
Forbes, e altri due punti nel conto del suo profitto settimanale.
Quanto a me, invece, mi tolse due punti dei cinque che avevo già
guadagnato, perché all'ultimo momento mi ero lasciato trascinare
dalla fretta ed ero arrivato in sala da pranzo col respiro affannato.
Ogni cinquanta punti davano diritto a una doppia razione di dolce, ma
nessuno di noi due era riuscito ad andare oltre i quindici punti. Era
un peccato, davvero, perché non trovammo mai più un pudding
delizioso come quello della signora Forbes.
Prima
di cominciare la cena pregavamo in piedi davanti ai piatti vuoti. La
signora Forbes non era cattolica, ma il suo contratto stabiliva che
ci facesse pregare sei volte al giorno, e aveva imparato le nostre
preghiere per esservi ligia. Poi ci sedevamo tutt'e tre, trattenendo
il respiro mentre lei controllava persino il dettaglio più infimo
della nostra condotta, e solo quando tutto le sembrava perfetto
faceva risuonare il campanello. Allora entrava Fulvia Flaminea, la
cuoca, con l'eterna pastina in brodo di quell'estate aborrita.
All'inizio,
quando eravamo soli con i nostri genitori, i pasti erano una festa.
Fulvia Flaminea ci serviva chiocciando intorno alla tavola, con una
vocazione al disordine che rallegrava la vita, e infine si sedeva con
noi e finiva per mangiare un po' dai piatti di tutti. Ma dopo che la
signora Forbes si era fatta carico del nostro destino ci serviva in
un silenzio così buio, che potevamo udire il borboglio della
minestra mentre bolliva nella pentola. Cenavamo con la spina dorsale
appoggiata alla spalliera della seggiola, masticando dieci volte con
una mascella e dieci volte con l'altra, senza scostare lo sguardo
dalla ferrea e languida donna autunnale, che recitava a memoria una
lezione di urbanità. Era come la messa della domenica, ma senza il
conforto della gente che cantava.
Il
giorno in cui trovammo la murena appesa alla porta, la signora Forbes
ci parlò dei doveri verso la patria. Fulvia Flaminea, quasi
fluttuando nell'aria rarefatta dalla voce, ci servì dopo la minestra
un filetto alla brace di una carne nivea, con un odore squisito. Io,
che già allora preferivo il pesce a qualsiasi altra cosa da mangiare
della terra o del cielo, mi ritrovai col cuore blandito da quel
ricordo della nostra casa di Guacamayal. Ma mio fratello respinse il
piatto senza assaggiarlo.
«Non
mi piace» disse.
La
signora Forbes interruppe la lezione.
«Non
puoi saperlo» gli disse, «non l'hai neppure assaggiato.»
Rivolse
alla cuoca uno sguardo di allarme, ma ormai era troppo tardi.
«La
murena è il pesce più saporito del mondo, figlio mio» gli disse
Fulvia Flaminea. «Assaggialo e vedrai.»
La
signora Forbes non si turbò. Ci raccontò, col suo metodo
inclemente, che la murena era un cibo da re nell'antichità, e che i
guerrieri si contendevano il suo fiele perché infondeva un coraggio
sovrannaturale. Poi ci ripeté, come tante altre volte in così poco
tempo, che il buon gusto non è una virtù congenita, e che neppure
lo si insegna a una qualche età, ma che si impone sin dall'infanzia.
Sicché
non c'era alcun motivo valido per non mangiare. Io, che avevo
assaggiato la murena prima di sapere cosa fosse, rimasi per sempre
con quella contraddizione: aveva un sapore terso, sebbene un po'
malinconico,
ma l'immagine del serpente trafitto sullo stipite era più incalzante
dell'appetito. Mio fratello fece uno sforzo supremo col primo
boccone, ma non riuscì a tollerarlo: vomitò.
«Va'
in bagno» gli disse la signora Forbes senza turbarsi, «lavati per
bene e torna a mangiare.»
Provai
una grande angoscia per lui, perché sapevo quanto gli costava
attraversare tutta la casa alle prime ombre e rimanere da solo in
bagno il tempo necessario per lavarsi. Ma tornò molto presto, con
un'altra camicia pulita, pallido e appena scosso da un tremito
recondito, e superò benissimo l'esame severo della sua nettezza.
Allora
la signora Forbes tranciò un pezzo della murena, e diede ordine di
continuare. Io inghiottii un secondo boccone sforzandomi molto. Mio
fratello, invece, non prese neppure le posate.
«Non
la mangerò» disse.
La
sua risoluzione era così evidente, che la signora Forbes la schivò.
«Va
bene» disse, «ma non mangerai il dolce.»
Il
sollievo di mio fratello mi infuse il suo coraggio. Incrociai le
posate sul piatto, così come la signora Forbes ci aveva insegnato
che bisognava fare per finire, e dissi:
«Neppure
io mangerò il dolce.»
«E
neppure vedrete le televisione» replicò lei.
«E
neppure vedremo la televisione» dissi.
La
signora Forbes posò il tovagliolo sulla tavola, e tutt'e tre ci
alzammo a pregare. Poi ci spedì in camera nostra, con l'avvertenza
che dovevamo addormentarci nello stesso tempo che lei impiegava per
finir di mangiare. Tutti i nostri punti buoni furono annullati, e
solo a partire da venti avremmo di nuovo beneficiato dei suoi
pasticcini alla crema, delle sue torte alla vaniglia, delle sue
squisite crostate di prugne, di cui non avremmo conosciuto l'uguale
nel resto delle nostre vite.
Prima
o poi dovevamo arrivare a quella rottura. Per un anno intero avevamo
atteso con ansia quell'estate libera sull'isola di Pantelleria,
all'estremità meridionale della Sicilia, ed era andata proprio così
durante il primo mese, finché i nostri genitori erano rimasti con
noi. Ricordo ancora come un sogno la pianura solare di rocce
vulcaniche, il mare eterno, la casa dipinta di calce viva fino ai
gradini di ingresso, dalle cui finestre si vedevano nelle notti senza
vento le croci luminose dei fari d'Africa. Esplorando con mio padre i
fondali addormentati intorno all'isola avevamo scoperto una fila di
siluri gialli, incagliati lì dall'ultima guerra; avevamo recuperato
un'anfora greca di quasi un metro d'altezza, con ghirlande
pietrificate, nel cui fondo giacevano i residui di un vino immemore e
velenoso, e avevamo fatto il bagno in una gora fumante, le cui acque
erano così dense che vi si poteva quasi camminare sopra. Ma la
scoperta più sconvolgente per noi era stata Fulvia Flaminea.
Sembrava un vescovo felice, e girava sempre con una combriccola di
gatti sonnacchiosi che la intralciavano nel camminare, ma lei diceva
che non li sopportava per amore, quanto per impedire che i topi se la
mangiassero. Di notte, mentre i nostri genitori guardavano alla
televisione i programmi per adulti, Fulvia Flaminea ci portava con
lei a casa sua, a meno di cento metri dalla nostra, e ci insegnava a
distinguere le parlate remote, le canzoni, le raffiche di pianto dei
venti di Tunisi. Suo marito era un uomo troppo giovane per lei, che
lavorava durante l'estate negli alberghi turistici all'altra
estremità dell'isola, e rincasava solo per dormire. Oreste abitava
con i genitori un po' più lontano, e arrivava sempre di sera con
filze di pesci e canestri di aragoste appena pescate, e le appendeva
nella cucina affinché il marito di Fulvia Flaminea le vendesse il
giorno dopo negli alberghi. Poi si risistemava la torcia da subacqueo
sulla fronte e ci portava a cacciare i topi di montagna, grossi come
conigli, che aspettavano i rifiuti delle cucine. Talvolta rincasavamo
quando i nostri genitori si erano coricati, e riuscivamo a stento a
dormire col chiasso dei topi che si contendevano gli avanzi nei
cortili. Ma anche quel disturbo era un ingrediente magico della
nostra estate felice.
La
decisione di assumere un'istitutrice tedesca era potuta venire in
mente solo a mio padre, che era uno scrittore dei Caraibi, con più
velleità che talento. Abbagliato dalle ceneri delle glorie d'Europa,
era sempre parso troppo ansioso di farsi perdonare la sua origine,
sia nei libri sia nella vita reale, e si era imposto la fantasia che
non rimanesse nei figli alcuna traccia del suo passato. Mia madre
continuò a essere sempre umile come lo era stata quando faceva la
maestra errante nell'alta Guajira, e non si era mai immaginata che il
marito potesse concepire un'idea che non fosse provvidenziale. Sicché
nessuno dei due dovette domandarsi col cuore in mano come sarebbe
stata la nostra vita con una sergentessa di Dortmund, impegnata a
inculcarci a forza le abitudini più viete della società europea,
mentre loro partecipavano con quaranta scrittori alla moda a una
crociera culturale di cinque settimane nelle isole dell'Egeo.
La
signora Forbes era arrivata l'ultimo sabato di luglio col battello
che faceva la spola da Palermo, e già al vederla per la prima volta
ci rendemmo conto che la festa era finita. Arrivò con certi stivali
da soldato, e un vestito a doppiopetto in quel caldo meridionale, e
con i capelli tagliati come quelli di un uomo, sotto il cappellino di
feltro. Puzzava di orina di micco: «E' la puzza degli europei,
soprattutto d'estate» ci disse mio padre. «E' l'odore della
civiltà.»
Ma,
a dispetto del suo abbigliamento marziale, la signora Forbes era una
creatura misera, che forse ci avrebbe suscitato una certa compassione
se fossimo stati più grandi o se lei avesse avuto qualche traccia di
tenerezza. Il mondo si fece diverso. Le sei ore di mare, che dal
principio dell'estate erano un continuo esercizio di immaginazione,
divennero una sola ora sempre uguale, più volte reiterata. Quando
eravamo con i nostri genitori disponevamo di tutto il tempo per
nuotare con Oreste, meravigliati dall'arte e dall'audacia con cui
affrontava i polipi nella loro acqua torbida di inchiostro e sangue,
senza altre armi che i suoi coltelli da combattimento. Poi continuò
ad arrivare alle undici con la barchetta dal motore fuori bordo, come
faceva sempre, ma la signora Forbes non gli permetteva di fermarsi
con noi neppure un minuto più dell'indispensabile per la lezione di
nuoto sott'acqua. Ci proibì di tornare di notte a casa di Fulvia
Flaminea, perché la considerava una familiarità eccessiva con la
servitù, e si dovette dedicare alla lettura analitica di Shakespeare
il tempo che prima impiegavamo cacciando topi. Abituati a rubare
manghi nei cortili e a uccidere cani a colpi di mattone nelle strade
ardenti di Guacamayal, per noi era impossibile concepire un tormento
più crudele di quella vita da principi.
Comunque,
ben presto ci accorgemmo che la signora Forbes non era severa con se
stessa come lo era con noi, e quella fu la prima crepa nella sua
autorità. All'inizio rimaneva sulla spiaggia sotto il parasole
colorato, vestita da guerra, intenta a leggere ballate di Schiller
mentre Oreste ci insegnava a nuotare sott'acqua, e poi ci dava
lezioni teoriche di buona condotta in società, per ore e ore, fino
alla pausa del pranzo.
Un
giorno chiese a Oreste che la portasse con la barchetta a motore fino
ai negozi per turisti degli alberghi, e tornò con un costume da
bagno intero, nero e cangiante, come una pelle di foca, ma non entrò
mai in acqua. Prendeva il sole sulla spiaggia mentre noi nuotavamo, e
si asciugava il sudore con l'accappatoio, senza passare sotto la
doccia, sicché di lì a tre giorni sembrava un'aragosta in carne
viva e l'odore della sua civiltà era diventato irrespirabile.
Le
sue notti erano di liberazione. Fin dall'inizio del suo regime
sentivamo che qualcuno camminava nel buio della casa, nuotando nel
buio, e mio fratello si inquietò persino all'idea che fossero gli
annegati erranti di cui tanto ci aveva parlato Fulvia Flaminea. Ben
presto scoprimmo che era la signora Forbes, che passava la notte
vivendo la sua vita reale di donna solitaria, che lei stessa si
sarebbe censurata durante il giorno. Una mattina all'alba la
scoprimmo in cucina, con la camicia da notte da collegiale, intenta a
preparare i suoi dolci splendidi, con tutto il corpo impiastricciato
di farina fino al viso, e a bere un bicchiere di porto con un
disordine mentale che avrebbe causato lo scandalo dell'altra signora
Forbes. Già allora sapevamo che dopo esserci coricati non se ne
andava nella sua camera, ma scendeva a nuotare di nascosto, oppure
rimaneva fino a molto tardi nel salotto, a guardare alla televisione
senza audio i film proibiti ai minori, mentre mangiava torte intere e
beveva anche una bottiglia del vino speciale che mio padre conservava
con tanta attenzione per le occasioni memorabili. Contrariamente alle
sue prediche, di austerità e compostezza, si rimpinzava a dismisura,
con una sorta di passione sbrigliata. Poi la sentivamo parlare da
sola nella sua camera, la sentivamo recitare nel suo tedesco
melodioso frammenti completi di
"Die
Jungfrau von Orleans", la sentivamo cantare, la sentivamo
singhiozzare nel letto fino all'alba, e poi compariva a colazione con
gli occhi gonfi di lacrime, sempre più lugubre e autoritaria. Né
mio fratello né io fummo mai più sventurati di allora, ma io ero
disposto a sopportarla sino alla fine, perché sapevo che comunque la
sua ragione avrebbe prevalso sulla nostra. Mio fratello, invece,
l'affrontò con tutto l'impeto del suo carattere, e l'estate felice
divenne per noi infernale. L'episodio della murena fu l'ultima
goccia.
Quella
stessa notte, mentre sentivamo dal letto l'andirivieni incessante
della signora Forbes nella casa addormentata, mio fratello liberò
d'improvviso tutto il carico del rancore che stava marcendogli
nell'anima. «La ucciderò» disse.
Mi
stupì, non tanto per la sua decisione, quanto per la casualità che
io stavo pensando la stessa cosa dopo quella cena. Tuttavia, cercai
di dissuaderlo.
«Ti
taglieranno la testa» gli dissi.
«In
Sicilia non c'è la ghigliottina» disse lui. «Inoltre nessuno saprà
chi è stato.»
Pensava
all'anfora recuperata dalle acque, dove c'era ancora il sedimento del
vino mortale. Mio padre lo conservava perché voleva farlo sottoporre
a un'analisi più approfondita per chiarire la natura del veleno, non
potendo essere il risultato del semplice trascorrere del tempo.
Usarlo contro la signora Forbes era così facile, che nessuno avrebbe
pensato che non si fosse trattato di un incidente o di suicidio.
Sicché all'alba, quando la sentimmo cadere spossata dalla fragorosa
veglia, versammo il vino dell'anfora nella bottiglia del vino
speciale di mio padre. Come avevamo sentito dire, quella dose era
sufficiente per ammazzare un cavallo.
La
colazione la facemmo in cucina alle nove in punto, servita dalla
stessa signora Forbes con i panini dolci che Fulvia Flaminea lasciava
molto presto sopra il focolare. Due giorni dopo aver sostituito il
vino, mentre facevamo colazione, mio fratello mi fece notare con uno
sguardo di delusione che la bottiglia avvelenata era intatta sulla
credenza. Questo accadde un venerdì, e la bottiglia rimase intatta
durante il finesettimana. Ma la notte del martedì, la signora Forbes
se ne bevve la metà mentre guardava i film libertini della
televisione.
Tuttavia,
arrivò puntuale come sempre alla colazione del mercoledì.
Aveva
la solita faccia da notte in bianco, e gli occhi erano ansiosi come
sempre dietro le lenti massicce, e le divennero ancora più ansiosi
quando trovò nel cestino dei panini una lettera con francobolli
della Germania. La lesse mentre beveva il caffè, come tante volte ci
aveva detto che non bisognava fare, e nel corso della lettura le
passavano sul viso raffiche di chiarore che irraggiavano le parole
scritte. Poi strappò i francobolli dalla busta e li mise nel cestino
con i panini avanzati per la colazione del marito di Fulvia Flaminea.
Malgrado la brutta esperienza iniziale, quel giorno ci accompagnò
nell'esplorazione dei fondali marini, e restammo a divagare per un
mare di acque magre finché non cominciò a esaurirsi l'ossigeno e
tornammo a casa senza la lezione di buone maniere. La signora Forbes
non solo fu d'animo floreale per tutto il giorno, ma all'ora di cena
sembrava più vivace che mai. Mio fratello, dal canto suo, non poteva
sopportare quella delusione. Appena ricevuto l'ordine di cominciare,
scostò il piatto di pastina in brodo con un gesto provocatore.
«Ne
ho le palle piene di questa zuppa di lombrichi» disse.
Fu
come se avesse lanciato in tavola una granata da guerra. La signora
Forbes divenne pallida, le sue labbra si irrigidirono finché non
cominciò a svanire il fumo dell'esplosione, e i vetri delle sue
lenti si appannarono di lacrime. Poi se li tolse, li asciugò col
tovagliolo, e prima di alzarsi li posò sulla tavola con l'amarezza
di una capitolazione senza gloria.
«Fate
come più vi piace» disse. «Io non esisto.»
Si
chiuse nella sua camera fin dalle sette. Ma prima della mezzanotte,
quando ci credeva ormai addormentati, la vedemmo passare con la
camicia da collegiale, che si portava in camera sua mezza torta di
cioccolata e la bottiglia con oltre quattro dita del vino avvelenato.
Ebbi
un tremito di pietà.
«Povera
signora Forbes» dissi.
Mio
fratello non respirava tranquillo.
«Poveri
noi se non muore stanotte» disse.
Quel
mattino verso l'alba riprese a parlare da sola a lungo, declamò
Schiller ad alta voce, ispirata da una pazzia frenetica, e culminò
con un grido finale che occupò tutto lo spazio della casa. Poi
sospirò più volte sino in fondo all'anima e crollò con un fischio
triste e continuo come quello di una nave alla deriva. Quando ci
svegliammo, ancora spossati dalla tensione della notte trascorsa, il
sole si infilava a coltellate attraverso le persiane, ma la casa
sembrava immersa in uno stagno. Allora ci rendemmo conto che dovevano
essere le dieci e non eravamo stati svegliati secondo le consuetudini
mattutine della signora Forbes. Non avevamo udito lo sciacquone del
gabinetto, né il rubinetto del lavandino, né il rumore delle
persiane, né i ferri degli stivali e i tre colpi mortali alla porta
col palmo della sua mano da negriero. Mio fratello appiccicò
l'orecchio al muro, trattenne il respiro per cogliere il minimo segno
di vita nella stanza attigua, e infine cacciò un sospiro di
liberazione.
«Sistemata!»
disse. «L'unica cosa che si sente è il mare.»
Ci
preparammo la colazione poco prima delle undici, e poi scendemmo alla
spiaggia con due bombole di ossigeno a testa e altre due di scorta,
prima che Fulvia Flaminea arrivasse con la sua combriccola di gatti a
far le pulizie in casa. Oreste era già all'imbarcadero, intento a
sbudellare un'orata di sei libbre che aveva appena catturato. Gli
dicemmo che avevamo aspettato la signora Forbes fino alle undici, e
visto che era sempre addormentata avevamo deciso di scendere da soli
al mare. Gli raccontammo pure che la sera prima aveva avuto una crisi
di pianto a tavola, e che forse aveva dormito male e aveva preferito
rimanere a letto. A Oreste non interessò molto la spiegazione,
proprio come ci aspettavamo, e ci accompagnò a vagabondare un po'
più di un'ora per i fondali marini. Poi ci disse di salire a
pranzare, e se ne andò sulla barchetta a motore a vendere l'orata
agli alberghi dei turisti. Dalla scala di pietre lo salutammo con la
mano, facendogli credere che stavamo per salire a casa, finché non
fu scomparso dietro gli scogli. Allora ci sistemammo le bombole di
ossigeno e continuammo a nuotare senza il permesso di nessuno.
La
giornata era nuvolosa e c'era un clamor di tuoni scuri all'orizzonte,
ma il mare era liscio e diafano e la sua luce era già sufficiente.
Nuotammo in superficie fino alla linea del faro di Pantelleria,
svoltammo dopo un centinaio di metri a destra e ci immergemmo dove
calcolavamo che avevamo visto i siluri da guerra all'inizio
dell'estate. Erano sempre lì: sei, dipinti di giallo solare e con i
numeri di serie intatti, e adagiati sul fondo vulcanico in un ordine
così perfetto che non poteva essere casuale. Poi proseguimmo girando
intorno al faro, in cerca della città sommersa di cui tanto e con
tanta meraviglia ci aveva parlato Fulvia Flaminea, ma non riuscimmo a
trovarla. Di lì a due ore, convinti che non c'erano nuovi misteri da
scoprire, risalimmo in superficie con l'ultima boccata di ossigeno.
Era
esploso un temporale estivo mentre nuotavamo, il mare era mosso, e
frotte di uccelli carnivori volavano con strida feroci sopra la scia
di pesci moribondi sulla spiaggia. Ma la luce del pomeriggio sembrava
appena creata, e la vita era bella senza la signora Forbes. Tuttavia,
quando finimmo di salire con grande fatica su per la scala degli
scogli, vedemmo molta gente in casa e due automobili della polizia
davanti alla porta, e allora fummo per la prima volta consapevoli di
quanto avevamo fatto. Mio fratello si mise a tremare e cercò di
tornare indietro.
«Io
non entro» disse.
Io,
invece, ebbi l'ispirazione confusa che ci sarebbe bastato vedere il
cadavere e saremmo stati in salvo da ogni sospetto. «Sta'
tranquillo»
gli dissi. «Respira profondamente, e pensa solo a una cosa: noi non
ne sappiamo nulla.»
Nessuno
ci badò. Posammo le bombole di ossigeno, le maschere e le pinne, ed
entrammo dalla veranda laterale, dove c'erano due uomini che fumavano
seduti per terra accanto a una barella da campo. Allora ci rendemmo
conto che c'era un'ambulanza davanti alla porta del retro e diversi
militari armati di fucili. Nel salotto, le donne del vicinato
pregavano in dialetto sedute sulle seggiole che erano state disposte
contro la parete, e i loro uomini erano ammucchiati nel cortile a
parlare di cose che nulla avevano a che vedere con la morte. Strinsi
più forte la mano di mio fratello, che era dura e gelida, ed
entrammo in casa dalla porta del retro. La nostra camera era aperta e
nelle stesse condizioni in cui l'avevamo lasciata al mattino. In
quella della signora Forbes, che veniva subito dopo, c'era un
carabiniere armato sulla soglia, ma la porta stava aperta. Ci
affacciammo all'interno col cuore oppresso, e ci rimase appena il
tempo di farlo che Fulvia Flaminea uscì come una raffica dalla
cucina e chiuse la porta con un grido di terrore:
«Per
l'amor di Dio, figlioli, non guardatela!»
Era
troppo tardi. Mai, nel resto della nostra vita, avremmo potuto
dimenticare quanto vedemmo in quell'istante fugace. Due uomini in
borghese stavano misurando la distanza dal letto alla parete con un
metro a nastro, mentre un altro scattava fotografie con un
apparecchio dalla pezza nera come quella dei fotografi dei parchi. La
signora Forbes non stava sul letto disfatto. Era distesa a terra di
fianco, nuda in una pozza di sangue secco che aveva completamente
tinto il pavimento della stanza, e aveva il corpo crivellato da
pugnalate.
Erano
ventisei ferite mortali, e dalla quantità e dall'accanimento si
notava che erano state inferte con la furia di un amore senza quiete,
e che la signora Forbes le aveva ricevute con la stessa passione,
senza neppure gridare, senza piangere, recitando Schiller con la sua
bella voce da soldato, consapevole che era il prezzo inesorabile
della sua estate felice.