sabato 6 marzo 2021

L'estate felice della signora Forbes
Estratto da "Dodici racconti raminghi"
Gabriel García Márquez.

Nel pomeriggio, di ritorno a casa, trovammo un enorme serpente marino inchiodato per il collo sullo stipite della porta, ed era nero e fosforescente e sembrava un maleficio di zingari, con gli occhi ancora vivi e i denti a saracco nelle mascelle spalancate. Io dovevo avere allora nove anni, e provai un terrore così intenso dinanzi a quell'apparizione da delirio, che mi si blocco la voce. Ma mio fratello, che aveva due anni meno di me, mollò le bombole di ossigeno, le maschere e le pinne e scappò via con un grido di terrore. La signora Forbes lo udì fin dalla tortuosa scala di pietre che si arrampicava su per gli scogli dall'imbarcadero fino a casa, e ci raggiunse, ansimante e livida, ma le bastò vedere l'animale crocefisso sulla porta per capire la causa del nostro orrore. Lei diceva sempre che quando due bambini sono insieme, sono tutt'e due colpevoli di quel che ognuno fa separatamente, sicché ci sgridò entrambi per le grida di mio fratello, e continuò a rimproverarci per la nostra mancanza di controllo. Parlò in tedesco, e non in inglese, come prevedeva il suo contratto di istitutrice, forse perché pure lei era spaventata e rifiutava di ammetterlo. Ma non appena ebbe ripreso fiato tornò al suo inglese sassoso e alla sua ossessione pedagogica.
«E' una "muraena helena"» ci disse, «così chiamata perché fu un animale sacro per gli antichi greci.»
Oreste, il ragazzo del luogo che ci insegnava a nuotare in profondità, comparve d'improvviso dietro gli arbusti di capperi. Portava la maschera da subacqueo sulla fronte, un costume da bagno minuscolo e una cintura di cuoio con sei coltelli, di forme e grandezze diverse, perché non concepiva altro modo di cacciare sott'acqua che lottando corpo a corpo con gli animali. Aveva una ventina di anni, passava più tempo nei fondali marini che sulla terra ferma e lui stesso sembrava un animale del mare col corpo sempre impiastricciato di olio da motore. Vedendolo per la prima volta la signora Forbes aveva detto ai miei genitori che era impossibile concepire una creatura umana più bella. Tuttavia, la sua bellezza non lo esentava dal rigore: anche lui dovette subire una reprimenda in italiano per avere appeso la murena alla porta, senza altra spiegazione possibile che quella di spaventare i bambini. Poi, la signora Forbes ordinò che la staccasse col rispetto dovuto a una creatura mitica e ci mandò a vestirci per la cena.
Lo facemmo subito e tentando di non commettere un solo errore, perché dopo due settimane sotto il regime della signora Forbes avevamo imparato che nulla era più difficile che vivere. Mentre ci facevamo la doccia nel bagno, in penombra, mi resi conto che mio fratello stava sempre pensando alla murena. «Aveva occhi da persona» mi disse. Io ero d'accordo, ma gli feci credere il contrario, e continuai a cambiare argomento finché non ebbi finito di lavarmi. Ma quando uscii dalla doccia mi chiese di fermarmi per fargli compagnia.
«E' ancora giorno» gli dissi.
Aprii le tende. Era pieno agosto, e attraverso la finestra si vedevano l'ardente pianura lunare fino all'altra parte dell'isola, e il sole fermo nel cielo.
«Non è per questo» disse mio fratello. «E' che ho paura di avere paura.»
Comunque, quando arrivammo a tavola sembrava tranquillo, e aveva fatto le cose con tanta cura che meritò un apprezzamento speciale della signora Forbes, e altri due punti nel conto del suo profitto settimanale. Quanto a me, invece, mi tolse due punti dei cinque che avevo già guadagnato, perché all'ultimo momento mi ero lasciato trascinare dalla fretta ed ero arrivato in sala da pranzo col respiro affannato. Ogni cinquanta punti davano diritto a una doppia razione di dolce, ma nessuno di noi due era riuscito ad andare oltre i quindici punti. Era un peccato, davvero, perché non trovammo mai più un pudding delizioso come quello della signora Forbes.
Prima di cominciare la cena pregavamo in piedi davanti ai piatti vuoti. La signora Forbes non era cattolica, ma il suo contratto stabiliva che ci facesse pregare sei volte al giorno, e aveva imparato le nostre preghiere per esservi ligia. Poi ci sedevamo tutt'e tre, trattenendo il respiro mentre lei controllava persino il dettaglio più infimo della nostra condotta, e solo quando tutto le sembrava perfetto faceva risuonare il campanello. Allora entrava Fulvia Flaminea, la cuoca, con l'eterna pastina in brodo di quell'estate aborrita.
All'inizio, quando eravamo soli con i nostri genitori, i pasti erano una festa. Fulvia Flaminea ci serviva chiocciando intorno alla tavola, con una vocazione al disordine che rallegrava la vita, e infine si sedeva con noi e finiva per mangiare un po' dai piatti di tutti. Ma dopo che la signora Forbes si era fatta carico del nostro destino ci serviva in un silenzio così buio, che potevamo udire il borboglio della minestra mentre bolliva nella pentola. Cenavamo con la spina dorsale appoggiata alla spalliera della seggiola, masticando dieci volte con una mascella e dieci volte con l'altra, senza scostare lo sguardo dalla ferrea e languida donna autunnale, che recitava a memoria una lezione di urbanità. Era come la messa della domenica, ma senza il conforto della gente che cantava.
Il giorno in cui trovammo la murena appesa alla porta, la signora Forbes ci parlò dei doveri verso la patria. Fulvia Flaminea, quasi fluttuando nell'aria rarefatta dalla voce, ci servì dopo la minestra un filetto alla brace di una carne nivea, con un odore squisito. Io, che già allora preferivo il pesce a qualsiasi altra cosa da mangiare della terra o del cielo, mi ritrovai col cuore blandito da quel ricordo della nostra casa di Guacamayal. Ma mio fratello respinse il piatto senza assaggiarlo.
«Non mi piace» disse.
La signora Forbes interruppe la lezione.
«Non puoi saperlo» gli disse, «non l'hai neppure assaggiato.»
Rivolse alla cuoca uno sguardo di allarme, ma ormai era troppo tardi.
«La murena è il pesce più saporito del mondo, figlio mio» gli disse Fulvia Flaminea. «Assaggialo e vedrai.»
La signora Forbes non si turbò. Ci raccontò, col suo metodo inclemente, che la murena era un cibo da re nell'antichità, e che i guerrieri si contendevano il suo fiele perché infondeva un coraggio sovrannaturale. Poi ci ripeté, come tante altre volte in così poco tempo, che il buon gusto non è una virtù congenita, e che neppure lo si insegna a una qualche età, ma che si impone sin dall'infanzia.
Sicché non c'era alcun motivo valido per non mangiare. Io, che avevo assaggiato la murena prima di sapere cosa fosse, rimasi per sempre con quella contraddizione: aveva un sapore terso, sebbene un po'
malinconico, ma l'immagine del serpente trafitto sullo stipite era più incalzante dell'appetito. Mio fratello fece uno sforzo supremo col primo boccone, ma non riuscì a tollerarlo: vomitò.
«Va' in bagno» gli disse la signora Forbes senza turbarsi, «lavati per bene e torna a mangiare.»
Provai una grande angoscia per lui, perché sapevo quanto gli costava attraversare tutta la casa alle prime ombre e rimanere da solo in bagno il tempo necessario per lavarsi. Ma tornò molto presto, con un'altra camicia pulita, pallido e appena scosso da un tremito recondito, e superò benissimo l'esame severo della sua nettezza.
Allora la signora Forbes tranciò un pezzo della murena, e diede ordine di continuare. Io inghiottii un secondo boccone sforzandomi molto. Mio fratello, invece, non prese neppure le posate.
«Non la mangerò» disse.
La sua risoluzione era così evidente, che la signora Forbes la schivò.
«Va bene» disse, «ma non mangerai il dolce.»
Il sollievo di mio fratello mi infuse il suo coraggio. Incrociai le posate sul piatto, così come la signora Forbes ci aveva insegnato che bisognava fare per finire, e dissi:
«Neppure io mangerò il dolce.»
«E neppure vedrete le televisione» replicò lei.
«E neppure vedremo la televisione» dissi.
La signora Forbes posò il tovagliolo sulla tavola, e tutt'e tre ci alzammo a pregare. Poi ci spedì in camera nostra, con l'avvertenza che dovevamo addormentarci nello stesso tempo che lei impiegava per finir di mangiare. Tutti i nostri punti buoni furono annullati, e solo a partire da venti avremmo di nuovo beneficiato dei suoi pasticcini alla crema, delle sue torte alla vaniglia, delle sue squisite crostate di prugne, di cui non avremmo conosciuto l'uguale nel resto delle nostre vite.
Prima o poi dovevamo arrivare a quella rottura. Per un anno intero avevamo atteso con ansia quell'estate libera sull'isola di Pantelleria, all'estremità meridionale della Sicilia, ed era andata proprio così durante il primo mese, finché i nostri genitori erano rimasti con noi. Ricordo ancora come un sogno la pianura solare di rocce vulcaniche, il mare eterno, la casa dipinta di calce viva fino ai gradini di ingresso, dalle cui finestre si vedevano nelle notti senza vento le croci luminose dei fari d'Africa. Esplorando con mio padre i fondali addormentati intorno all'isola avevamo scoperto una fila di siluri gialli, incagliati lì dall'ultima guerra; avevamo recuperato un'anfora greca di quasi un metro d'altezza, con ghirlande pietrificate, nel cui fondo giacevano i residui di un vino immemore e velenoso, e avevamo fatto il bagno in una gora fumante, le cui acque erano così dense che vi si poteva quasi camminare sopra. Ma la scoperta più sconvolgente per noi era stata Fulvia Flaminea. Sembrava un vescovo felice, e girava sempre con una combriccola di gatti sonnacchiosi che la intralciavano nel camminare, ma lei diceva che non li sopportava per amore, quanto per impedire che i topi se la mangiassero. Di notte, mentre i nostri genitori guardavano alla televisione i programmi per adulti, Fulvia Flaminea ci portava con lei a casa sua, a meno di cento metri dalla nostra, e ci insegnava a distinguere le parlate remote, le canzoni, le raffiche di pianto dei venti di Tunisi. Suo marito era un uomo troppo giovane per lei, che lavorava durante l'estate negli alberghi turistici all'altra estremità dell'isola, e rincasava solo per dormire. Oreste abitava con i genitori un po' più lontano, e arrivava sempre di sera con filze di pesci e canestri di aragoste appena pescate, e le appendeva nella cucina affinché il marito di Fulvia Flaminea le vendesse il giorno dopo negli alberghi. Poi si risistemava la torcia da subacqueo sulla fronte e ci portava a cacciare i topi di montagna, grossi come conigli, che aspettavano i rifiuti delle cucine. Talvolta rincasavamo quando i nostri genitori si erano coricati, e riuscivamo a stento a dormire col chiasso dei topi che si contendevano gli avanzi nei cortili. Ma anche quel disturbo era un ingrediente magico della nostra estate felice.
La decisione di assumere un'istitutrice tedesca era potuta venire in mente solo a mio padre, che era uno scrittore dei Caraibi, con più velleità che talento. Abbagliato dalle ceneri delle glorie d'Europa, era sempre parso troppo ansioso di farsi perdonare la sua origine, sia nei libri sia nella vita reale, e si era imposto la fantasia che non rimanesse nei figli alcuna traccia del suo passato. Mia madre continuò a essere sempre umile come lo era stata quando faceva la maestra errante nell'alta Guajira, e non si era mai immaginata che il marito potesse concepire un'idea che non fosse provvidenziale. Sicché nessuno dei due dovette domandarsi col cuore in mano come sarebbe stata la nostra vita con una sergentessa di Dortmund, impegnata a inculcarci a forza le abitudini più viete della società europea, mentre loro partecipavano con quaranta scrittori alla moda a una crociera culturale di cinque settimane nelle isole dell'Egeo.
La signora Forbes era arrivata l'ultimo sabato di luglio col battello che faceva la spola da Palermo, e già al vederla per la prima volta ci rendemmo conto che la festa era finita. Arrivò con certi stivali da soldato, e un vestito a doppiopetto in quel caldo meridionale, e con i capelli tagliati come quelli di un uomo, sotto il cappellino di feltro. Puzzava di orina di micco: «E' la puzza degli europei, soprattutto d'estate» ci disse mio padre. «E' l'odore della civiltà.»
Ma, a dispetto del suo abbigliamento marziale, la signora Forbes era una creatura misera, che forse ci avrebbe suscitato una certa compassione se fossimo stati più grandi o se lei avesse avuto qualche traccia di tenerezza. Il mondo si fece diverso. Le sei ore di mare, che dal principio dell'estate erano un continuo esercizio di immaginazione, divennero una sola ora sempre uguale, più volte reiterata. Quando eravamo con i nostri genitori disponevamo di tutto il tempo per nuotare con Oreste, meravigliati dall'arte e dall'audacia con cui affrontava i polipi nella loro acqua torbida di inchiostro e sangue, senza altre armi che i suoi coltelli da combattimento. Poi continuò ad arrivare alle undici con la barchetta dal motore fuori bordo, come faceva sempre, ma la signora Forbes non gli permetteva di fermarsi con noi neppure un minuto più dell'indispensabile per la lezione di nuoto sott'acqua. Ci proibì di tornare di notte a casa di Fulvia Flaminea, perché la considerava una familiarità eccessiva con la servitù, e si dovette dedicare alla lettura analitica di Shakespeare il tempo che prima impiegavamo cacciando topi. Abituati a rubare manghi nei cortili e a uccidere cani a colpi di mattone nelle strade ardenti di Guacamayal, per noi era impossibile concepire un tormento più crudele di quella vita da principi.
Comunque, ben presto ci accorgemmo che la signora Forbes non era severa con se stessa come lo era con noi, e quella fu la prima crepa nella sua autorità. All'inizio rimaneva sulla spiaggia sotto il parasole colorato, vestita da guerra, intenta a leggere ballate di Schiller mentre Oreste ci insegnava a nuotare sott'acqua, e poi ci dava lezioni teoriche di buona condotta in società, per ore e ore, fino alla pausa del pranzo.
Un giorno chiese a Oreste che la portasse con la barchetta a motore fino ai negozi per turisti degli alberghi, e tornò con un costume da bagno intero, nero e cangiante, come una pelle di foca, ma non entrò mai in acqua. Prendeva il sole sulla spiaggia mentre noi nuotavamo, e si asciugava il sudore con l'accappatoio, senza passare sotto la doccia, sicché di lì a tre giorni sembrava un'aragosta in carne viva e l'odore della sua civiltà era diventato irrespirabile.
Le sue notti erano di liberazione. Fin dall'inizio del suo regime sentivamo che qualcuno camminava nel buio della casa, nuotando nel buio, e mio fratello si inquietò persino all'idea che fossero gli annegati erranti di cui tanto ci aveva parlato Fulvia Flaminea. Ben presto scoprimmo che era la signora Forbes, che passava la notte vivendo la sua vita reale di donna solitaria, che lei stessa si sarebbe censurata durante il giorno. Una mattina all'alba la scoprimmo in cucina, con la camicia da notte da collegiale, intenta a preparare i suoi dolci splendidi, con tutto il corpo impiastricciato di farina fino al viso, e a bere un bicchiere di porto con un disordine mentale che avrebbe causato lo scandalo dell'altra signora Forbes. Già allora sapevamo che dopo esserci coricati non se ne andava nella sua camera, ma scendeva a nuotare di nascosto, oppure rimaneva fino a molto tardi nel salotto, a guardare alla televisione senza audio i film proibiti ai minori, mentre mangiava torte intere e beveva anche una bottiglia del vino speciale che mio padre conservava con tanta attenzione per le occasioni memorabili. Contrariamente alle sue prediche, di austerità e compostezza, si rimpinzava a dismisura, con una sorta di passione sbrigliata. Poi la sentivamo parlare da sola nella sua camera, la sentivamo recitare nel suo tedesco melodioso frammenti completi di
"Die Jungfrau von Orleans", la sentivamo cantare, la sentivamo singhiozzare nel letto fino all'alba, e poi compariva a colazione con gli occhi gonfi di lacrime, sempre più lugubre e autoritaria. Né mio fratello né io fummo mai più sventurati di allora, ma io ero disposto a sopportarla sino alla fine, perché sapevo che comunque la sua ragione avrebbe prevalso sulla nostra. Mio fratello, invece, l'affrontò con tutto l'impeto del suo carattere, e l'estate felice divenne per noi infernale. L'episodio della murena fu l'ultima goccia.
Quella stessa notte, mentre sentivamo dal letto l'andirivieni incessante della signora Forbes nella casa addormentata, mio fratello liberò d'improvviso tutto il carico del rancore che stava marcendogli nell'anima. «La ucciderò» disse.
Mi stupì, non tanto per la sua decisione, quanto per la casualità che io stavo pensando la stessa cosa dopo quella cena. Tuttavia, cercai di dissuaderlo.
«Ti taglieranno la testa» gli dissi.
«In Sicilia non c'è la ghigliottina» disse lui. «Inoltre nessuno saprà chi è stato.»
Pensava all'anfora recuperata dalle acque, dove c'era ancora il sedimento del vino mortale. Mio padre lo conservava perché voleva farlo sottoporre a un'analisi più approfondita per chiarire la natura del veleno, non potendo essere il risultato del semplice trascorrere del tempo. Usarlo contro la signora Forbes era così facile, che nessuno avrebbe pensato che non si fosse trattato di un incidente o di suicidio. Sicché all'alba, quando la sentimmo cadere spossata dalla fragorosa veglia, versammo il vino dell'anfora nella bottiglia del vino speciale di mio padre. Come avevamo sentito dire, quella dose era sufficiente per ammazzare un cavallo.
La colazione la facemmo in cucina alle nove in punto, servita dalla stessa signora Forbes con i panini dolci che Fulvia Flaminea lasciava molto presto sopra il focolare. Due giorni dopo aver sostituito il vino, mentre facevamo colazione, mio fratello mi fece notare con uno sguardo di delusione che la bottiglia avvelenata era intatta sulla credenza. Questo accadde un venerdì, e la bottiglia rimase intatta durante il finesettimana. Ma la notte del martedì, la signora Forbes se ne bevve la metà mentre guardava i film libertini della televisione.
Tuttavia, arrivò puntuale come sempre alla colazione del mercoledì.
Aveva la solita faccia da notte in bianco, e gli occhi erano ansiosi come sempre dietro le lenti massicce, e le divennero ancora più ansiosi quando trovò nel cestino dei panini una lettera con francobolli della Germania. La lesse mentre beveva il caffè, come tante volte ci aveva detto che non bisognava fare, e nel corso della lettura le passavano sul viso raffiche di chiarore che irraggiavano le parole scritte. Poi strappò i francobolli dalla busta e li mise nel cestino con i panini avanzati per la colazione del marito di Fulvia Flaminea. Malgrado la brutta esperienza iniziale, quel giorno ci accompagnò nell'esplorazione dei fondali marini, e restammo a divagare per un mare di acque magre finché non cominciò a esaurirsi l'ossigeno e tornammo a casa senza la lezione di buone maniere. La signora Forbes non solo fu d'animo floreale per tutto il giorno, ma all'ora di cena sembrava più vivace che mai. Mio fratello, dal canto suo, non poteva sopportare quella delusione. Appena ricevuto l'ordine di cominciare, scostò il piatto di pastina in brodo con un gesto provocatore.
«Ne ho le palle piene di questa zuppa di lombrichi» disse.
Fu come se avesse lanciato in tavola una granata da guerra. La signora Forbes divenne pallida, le sue labbra si irrigidirono finché non cominciò a svanire il fumo dell'esplosione, e i vetri delle sue lenti si appannarono di lacrime. Poi se li tolse, li asciugò col tovagliolo, e prima di alzarsi li posò sulla tavola con l'amarezza di una capitolazione senza gloria.
«Fate come più vi piace» disse. «Io non esisto.»
Si chiuse nella sua camera fin dalle sette. Ma prima della mezzanotte, quando ci credeva ormai addormentati, la vedemmo passare con la camicia da collegiale, che si portava in camera sua mezza torta di cioccolata e la bottiglia con oltre quattro dita del vino avvelenato.
Ebbi un tremito di pietà.
«Povera signora Forbes» dissi.
Mio fratello non respirava tranquillo.
«Poveri noi se non muore stanotte» disse.
Quel mattino verso l'alba riprese a parlare da sola a lungo, declamò Schiller ad alta voce, ispirata da una pazzia frenetica, e culminò con un grido finale che occupò tutto lo spazio della casa. Poi sospirò più volte sino in fondo all'anima e crollò con un fischio triste e continuo come quello di una nave alla deriva. Quando ci svegliammo, ancora spossati dalla tensione della notte trascorsa, il sole si infilava a coltellate attraverso le persiane, ma la casa sembrava immersa in uno stagno. Allora ci rendemmo conto che dovevano essere le dieci e non eravamo stati svegliati secondo le consuetudini mattutine della signora Forbes. Non avevamo udito lo sciacquone del gabinetto, né il rubinetto del lavandino, né il rumore delle persiane, né i ferri degli stivali e i tre colpi mortali alla porta col palmo della sua mano da negriero. Mio fratello appiccicò l'orecchio al muro, trattenne il respiro per cogliere il minimo segno di vita nella stanza attigua, e infine cacciò un sospiro di liberazione.
«Sistemata!» disse. «L'unica cosa che si sente è il mare.»
Ci preparammo la colazione poco prima delle undici, e poi scendemmo alla spiaggia con due bombole di ossigeno a testa e altre due di scorta, prima che Fulvia Flaminea arrivasse con la sua combriccola di gatti a far le pulizie in casa. Oreste era già all'imbarcadero, intento a sbudellare un'orata di sei libbre che aveva appena catturato. Gli dicemmo che avevamo aspettato la signora Forbes fino alle undici, e visto che era sempre addormentata avevamo deciso di scendere da soli al mare. Gli raccontammo pure che la sera prima aveva avuto una crisi di pianto a tavola, e che forse aveva dormito male e aveva preferito rimanere a letto. A Oreste non interessò molto la spiegazione, proprio come ci aspettavamo, e ci accompagnò a vagabondare un po' più di un'ora per i fondali marini. Poi ci disse di salire a pranzare, e se ne andò sulla barchetta a motore a vendere l'orata agli alberghi dei turisti. Dalla scala di pietre lo salutammo con la mano, facendogli credere che stavamo per salire a casa, finché non fu scomparso dietro gli scogli. Allora ci sistemammo le bombole di ossigeno e continuammo a nuotare senza il permesso di nessuno.
La giornata era nuvolosa e c'era un clamor di tuoni scuri all'orizzonte, ma il mare era liscio e diafano e la sua luce era già sufficiente. Nuotammo in superficie fino alla linea del faro di Pantelleria, svoltammo dopo un centinaio di metri a destra e ci immergemmo dove calcolavamo che avevamo visto i siluri da guerra all'inizio dell'estate. Erano sempre lì: sei, dipinti di giallo solare e con i numeri di serie intatti, e adagiati sul fondo vulcanico in un ordine così perfetto che non poteva essere casuale. Poi proseguimmo girando intorno al faro, in cerca della città sommersa di cui tanto e con tanta meraviglia ci aveva parlato Fulvia Flaminea, ma non riuscimmo a trovarla. Di lì a due ore, convinti che non c'erano nuovi misteri da scoprire, risalimmo in superficie con l'ultima boccata di ossigeno.
Era esploso un temporale estivo mentre nuotavamo, il mare era mosso, e frotte di uccelli carnivori volavano con strida feroci sopra la scia di pesci moribondi sulla spiaggia. Ma la luce del pomeriggio sembrava appena creata, e la vita era bella senza la signora Forbes. Tuttavia, quando finimmo di salire con grande fatica su per la scala degli scogli, vedemmo molta gente in casa e due automobili della polizia davanti alla porta, e allora fummo per la prima volta consapevoli di quanto avevamo fatto. Mio fratello si mise a tremare e cercò di tornare indietro.
«Io non entro» disse.
Io, invece, ebbi l'ispirazione confusa che ci sarebbe bastato vedere il cadavere e saremmo stati in salvo da ogni sospetto. «Sta'
tranquillo» gli dissi. «Respira profondamente, e pensa solo a una cosa: noi non ne sappiamo nulla.»
Nessuno ci badò. Posammo le bombole di ossigeno, le maschere e le pinne, ed entrammo dalla veranda laterale, dove c'erano due uomini che fumavano seduti per terra accanto a una barella da campo. Allora ci rendemmo conto che c'era un'ambulanza davanti alla porta del retro e diversi militari armati di fucili. Nel salotto, le donne del vicinato pregavano in dialetto sedute sulle seggiole che erano state disposte contro la parete, e i loro uomini erano ammucchiati nel cortile a parlare di cose che nulla avevano a che vedere con la morte. Strinsi più forte la mano di mio fratello, che era dura e gelida, ed entrammo in casa dalla porta del retro. La nostra camera era aperta e nelle stesse condizioni in cui l'avevamo lasciata al mattino. In quella della signora Forbes, che veniva subito dopo, c'era un carabiniere armato sulla soglia, ma la porta stava aperta. Ci affacciammo all'interno col cuore oppresso, e ci rimase appena il tempo di farlo che Fulvia Flaminea uscì come una raffica dalla cucina e chiuse la porta con un grido di terrore:
«Per l'amor di Dio, figlioli, non guardatela!»
Era troppo tardi. Mai, nel resto della nostra vita, avremmo potuto dimenticare quanto vedemmo in quell'istante fugace. Due uomini in borghese stavano misurando la distanza dal letto alla parete con un metro a nastro, mentre un altro scattava fotografie con un apparecchio dalla pezza nera come quella dei fotografi dei parchi. La signora Forbes non stava sul letto disfatto. Era distesa a terra di fianco, nuda in una pozza di sangue secco che aveva completamente tinto il pavimento della stanza, e aveva il corpo crivellato da pugnalate.
Erano ventisei ferite mortali, e dalla quantità e dall'accanimento si notava che erano state inferte con la furia di un amore senza quiete, e che la signora Forbes le aveva ricevute con la stessa passione, senza neppure gridare, senza piangere, recitando Schiller con la sua bella voce da soldato, consapevole che era il prezzo inesorabile della sua estate felice.