sabato 27 marzo 2021

IL CORAGGIO DEL PETTIROSSO Maurizio Maggiani

IL CORAGGIO DEL PETTIROSSO 
Maurizio Maggiani
Feltrinelli, Milano marzo 1995.

Quello del pettirosso è un coraggio umile e testardo come il coraggio di chi dall’incendio della Storia si leva leggero col suo sogno di libertà intatto. Maurizio Maggiani, che si è rivelato uno dei più autentici

«raccontatori» di storie della narrativa contemporanea, fa muovere il suo protagonista, Saverio, in uno scenario dove la Storia incrocia la memoria e apre verso l’utopia. Dall’immobilità della malattia (e del malessere) che lo inchioda al letto, Saverio riafferra il filo perduto della sua esistenza e dei suoi progenitori, e riaggomitola eventi che da Alessandria d’Egitto (città di esuli, di anarchici, di sognatori) lo portano indietro ai fantasmi che allacciano poesia e anarchia. Ma non basta: l’impresa di Saverio impone un ulteriore scarto temporale e lo sbalzare irresistibile sulla pagina di memorie che riaccendono i roghi contro gli eretici nella Lunigiana ribelle del Cinquecento e la violenza dell’imperialismo romano contro il popolo degli Apui. Romanzo di romanzi, saga, cantare, “Il coraggio del pettirosso” è l’omaggio solenne e dolcissimo alla parola dei padri quando tornano ad abbracciarci, al silenzio dei popoli quando tornano a raccontarsi dentro di noi.


INDICE.

Prima parte. Il libro del deserto.

Seconda parte. Il libro di Pascal.

Terza parte. Il libro di Sua.


Prima parte.

IL LIBRO DEL DESERTO.


Mi chiamo Saverio e racconto questa storia perché è così che vuole il dottor Modrian.

Difficile capire se è roba interessante, difficile anche supporre se quello che scrivo uscirà prima o poi di qui; per questo mi rivolgerò a una seconda persona plurale alquanto improbabile. Dirò: «adesso state a sentire questa» oppure «voi vi starete chiedendo…» e intanto sarò intimamente preso dal dubbio che non ci sarà nessun voi. Dire così mi aiuta, ecco tutto; mi fa compagnia, e dio sa se ne ho bisogno.

Del resto è un atteggiamento a cui sono già per certi versi abituato.

Vedete, a me piace, o perlomeno è sempre piaciuto, preparare cibi, cucinare pietanze. Io che ho vissuto per molto tempo da solo, l’ho sempre fatto pensando a un voi, ad almeno uno tra gli improbabili ospiti della mia cena. Non vale la pena, ve lo assicuro, cucinare per una sola persona, soprattutto quando la preparazione richiede del tempo e delle cure. Peraltro un buon piatto di granchi allo zafferano, o un “ful” di fave, non lo si può preparare veramente bene per meno di quattro commensali; è, io credo, per via dei profumi più sottili che richiedono masse consistenti in cui potersi distendere in tutta la loro magnificenza. Senza contare poi che nessuno al mercato vi venderebbe un unico granchio o un pugnetto di riso: da queste parti la solitudine, almeno a tavola, non à considerata granché. Comunque non è detto che preparare per qualcun altro porti sempre e soltanto a degli sprechi. A me è tornato utile saper preparare razioni abbondanti almeno per tutto il tempo che Fatiha ha accettato i miei inviti a cena: non solo le piacevano le cose che preparavo, ma riusciva a farne fuori una quantità impressionante.

Ma lasciamo perdere il cibo, le meraviglie dei grandi piatti di stagno odorosi delle cose buone; lasciamo perdere soprattutto Fatiha.

Per tornare a questa storia, al fatto che la debba raccontare, pare comunque che io non abbia alternativa: è una grave questione di salute. Il dottor Modrian sostiene che potrebbe essere l’unico modo per guarire dalla malattia che mi tiene dopo mesi e mesi ancora qui, in una piccola stanza quasi lussuosa dell’ospedale per stranieri “Nabe al Maja”, Fonte della Salute, di Alessandria; Alessandria nell’Egitto, si intende. Mi sto sfinendo di una specie di abulia per cui non è stata ancora trovata una cura.

Dunque lo faccio come ultimo tentativo di salvarmi la pelle e vi prego di considerarla una ragione sufficiente. Non ne vedo altre plausibili.

Non potrei nemmeno sostenere che quello che scriverò ha il valore di un documento storico. Dire che la mia è una storia vera sarebbe una bugia. In gran parte me la sono sognata; anzi, me la sto ancora sognando. Succede così da quando mi trovo in queste condizioni, ed è una cosa inspiegabile anche per la scienza.

A essere sinceri, non è che in questo posto di scienza ce ne sia abitualmente un gran spiegamento, ma è anche vero che tutte le mattine il dottor Modrian mi dedica una buona mezzora. Ed è molto in un paese dove la gente ha una gran quantità di problemi terribili e assai più visibili, se non addirittura più concreti, dei miei sogni. In effetti la situazione non giova alla mia coscienza: so di essere un privilegiato.

Sta di fatto che ogni mattina alle nove in punto il dottor Modrian entra nella mia camera, si siede sullo sgabello accanto al mio letto con un bel bicchiere di caffè in mano, e mi sorride malignetto.

«Come è andata questa notte, signore? Mi racconti, la prego, gli ulteriori sviluppi. Lei ha irrimediabilmente vincolato il mio interesse, mio signore. Innanzitutto umano, ah, umano e letterario, se così mi posso permettere. L’interesse scientifico, va da sé, è tutto teso alla soluzione del suo caso. Ma purtroppo non si fanno passi avanti, ah, non si fanno passi avanti, purtroppo. Questo nostro antico e rispettato ospedale non ha pane per i suoi denti, se così possiamo dire. Oh, ah!

La scienza dei sogni! Forse Vienna, forse Londra, ma non qui. Qui non attecchisce, mio signore. Io stesso, come lei sa, ho consultato fior di colleghi, ma i risultati tardano, ah, tardano. Ma mi racconti, la prego, prima che gli affanni del giorno che avanza le intorpidiscano le facoltà.»

Tutte le mattine più o meno così. Il dottor Modrian, un armeno sulla settantina alto e nobile, gran curatore di sifilidi e di febbri malariche, gestisce il suo ospedale per stranieri con scrupolo e pulizia encomiabili in un paese che i suoi stessi governanti considerano ancora sulla via dello sviluppo. Io sono capitato qui perché mi ci hanno portato in stato di incoscienza, ma non avrei potuto scegliere di meglio in tutta Alessandria. Modrian ha quello che gli europei chiamano «stile», quel modo di fare che riesce a ridurre la malattia a niente di veramente serio, qualcosa come un’indelicata interferenza tra un gentiluomo e il suo prossimo impegno mondano. La morte nell’ospedale del dottor Modrian si compie apparentemente molto lontano, forse nel seminterrato dove ai pazienti è interdetto l’ingresso.

Comunque io sogno una storia.

Ma non è a causa sua che sono ricoverato in questo posto. Sono qui perché mi hanno trovato mentre battevo la testa sugli scogli della diga al vecchio porto. Embolia: è strano che fossi ancora vivo.

Non sono un sommozzatore di professione e il mio incidente non ha scusanti. Peggio, merito il giusto scherno di tutti a Ras el Tin, il mio quartiere giù ai cantieri navali, perché la ragione delle mie immersioni è la più stupida tra le molte possibili: stavo esplorando le melme dei fondali alla vecchia diga in cerca del porto sepolto. Certo che c’è l’antico porto, ancora perfettamente conservato, laggiù sotto la sabbia dei bassi fondali. Chi non lo sa? Sono quasi cento anni che circolano addirittura delle mappe con molti dettagli di quello che ci si dovrebbe trovare. Vero è che l’hanno cercato in parecchi già molto prima e nessuno ha portato su qualcosa di veramente interessante.

Fior di missioni archeologiche, voglio dire: inglesi, francesi, italiane. E

il fiore dei tombaroli di tutto il Mediterraneo: greci, siriani, e ovviamente gli stessi egiziani. Il porto c’è, lo giuro io che non sono nessuno e lo hanno giurato anche grandi studiosi e illustri delinquenti internazionali. E’ lì da qualche parte, basta trovarlo. E quando accadrà, Alessandria tornerà al suo antico splendore. Un tale, un vecchio zoroastriano che commercia tela da jeans con la Spagna, mi ha detto una volta che è invece tutta una vendetta di Alessandro come è ridotta questa città, e che quindi bisognava cercare prima la sua tomba e dare pace a lui prima di tutto. Questo è un posto fatto così.

Io comunque non sono un ladro e neppure un archeologo dilettante, men che meno un negromante. Ho solo fatto una sciocchezza; una follia, un gioco.

Da quando mi hanno trovato sugli scogli sono qui, a vegetare nell’ospedale del dottor Modrian. Apparentemente l’embolia non ha lasciato postumi; non al cuore, non ai polmoni, non al sistema nervoso periferico. Hanno portato dall’università anche un modernissimo apparecchio per l’elettroencefalogramma e pare che tutto posto. E’

che, semplicemente, mi mancano le forze.

Se mi alzo mi accascio, se agito le braccia mi si ripiegano sul petto.

Posso fare in un giorno soltanto i pochi passi per smaltire i miei rifiuti e le semplici imprese necessarie ad accumularli. E la notte sogno, e il mattino racconto i miei sogni a un vecchio medico che mi ascolta con elegante pazienza.

Non è granché per un uomo. Non potrò accontentarmi di questo “per ancora molto tempo”. Sempre che non peggiori. Fuori ci sono milioni di “fellah” che farebbero molto volentieri il cambio con me: bighellonare sazi in questa stanza tra il letto e il cesso sarebbe per loro un buon paradiso. Ma io non sono loro.

E veniamo al dunque. Quello che è strano, preoccupante, non è ovviamente che io sogni, ma il fatto che sogno una storia a puntate.

Notte dopo notte la riprendo più o meno da dove l’ho lasciata e mi si svolge dentro coerentemente, con personaggi e avvenimenti sempre più complessi. E’ bellissimo. E’ veramente una cosa di inimmaginabile emozione.

A volte penso di essermi ridotto a questo stato di larva per il troppo lavoro notturno. L’armeno dice che è una buona scusa ma non una ragione, e che è più «clinico» supporre che sogno molto perché faccio poco. Poi dice che ci sono alcuni santi uomini della religione mussulmana sparsi per tutto il deserto da qui a Siwa che conducono una vita di contemplazione che li porta a possedere una facoltà simile alla mia; e per questo sono ricercati e venerati dai pellegrini. Perché le loro storie provengono direttamente da Dio e sono dunque sacre e fonte di santità. «Non avvenne similmente allo stesso profeta Mohammad, di ricevere in sogno una parte del santo Corano?»

Dice dunque che forse la mia è una via alla santità. Dopodiché fa tremolare la barbetta con il suo inconfondibile ghigno e aggiunge che invece potrebbe essere un effetto del clima asciutto del deserto, poco adatto alla mia complessione che preferirebbe l’umido.

Conosco anch’io le favole sugli anacoreti del deserto, ma la mia è un’anima molto piccola, troppo piccola per contenere un’illuminazione divina, e i miei sogni sono di conseguenza sogni umani e terreni. E

per quanto riguarda poi il clima, beh, io sono nato e cresciuto qui, anche se qualche mio cromosoma si ricorda certamente del clima mite e umido dov’è cresciuto mio padre.

Sta di fatto che, su ordine del dottor Modrian, mi sono messo a scrivere questi miei sogni. «Un’ottima terapia, mio signore,» mi ha blandito una mattina, accostandosi al mio letto con una vecchia macchina da scrivere Remington e un blocco di fogli, «consigliata dai colleghi dell’università, confermata dalla letteratura specialistica. Una buona cura, ah, eccome. Prima mi racconti di questa notte, ah, che non voglio perdermi niente finché è fresco di illuminato sonno, e poi si metta subito al lavoro di guarigione, ah!». Sospira e squittisce soddisfatto il dottor Modrian. E’ un ruffiano della vita lui, un buon vecchio medico per le carni e le anime delicate degli occidentali.

Bisogna però che faccia un po’ di ordine prima di cominciare. Perché, ad esempio, non è che sia tutto un sogno. Certe cose sono successe e ne hanno fatte succedere delle altre. Anch’io ho una vita, per lo meno ne ho avuta una. Poco interessante che sia, ha pur significato qualcosa.

Dunque mi chiamo Saverio e sono nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani il 10 agosto del 1947.

Mia madre è morta nel giugno del 1953 perché fu scambiata per chissachi da un gruppo di studenti esasperati che manifestavano contro il re Faruk, gli inglesi e gli stranieri in generale. Stava uscendo da un negozio di stoffe nel Midan Tharir, dove si era indebitata per comprarmi la divisa della prestigiosa scuola Suisse. Aveva deciso che ci sarei dovuto andare a costo di qualsiasi ulteriore indebitamento. In questo suo esagerato intento di promozione ci lasciò la pelle, bastonata a morte come un animale.

Usciva da un negozio elegante, questo sì, ma era una fornaia, moglie di un fornaio, di un esule che non sapeva quello che lei stava facendo, cosa stava trescando contro la sua condizione proletaria. Altrimenti non lo avrebbe mai permesso. Mai, credo, avrebbe accettato l’assurda pretesa di consegnare l’unico figlio nelle mani del finocchismo imperialista. Mai avrebbe permesso che mia madre morisse. Lui le voleva molto bene, così mi ha detto, e io ci ho sempre creduto. E che lei fosse finita in un modo così vergognoso, nell’atto di tradire i suoi indomiti principi, non gli è servito di lenimento a un dolore che, per quello che ne so, non si è mai estinto. Immagino che abbia considerato questa sua ultima una delle piccole follie del carattere che facevano la sua donna più bella e affascinante. Eppure lui stava certamente con gli studenti socialisti e odiava gli inglesi e credeva al destino e aborriva la fatalità.

Ovviamente poi non ho mai messo piede nella prestigiosa scuola Suisse, ma in quella meno nobile della colonia italiana, la stupida scuola Dante Alighieri, e non per scelta oculata o patriottica, che non è mai stato il caso di mio padre, ma per la rassegnazione di un fornaio che doveva continuare a fare il pane tutti i giorni senza più la sua aiutante, materialmente impossibilitato dunque a farsi maestro e professore del proprio erede, come avrebbe voluto.

Lui, mi ha detto una volta fin troppo serio, lui e quei tre o quattro compatrioti con cui faceva vita, loro assieme e quei pochi libri che avevano portato con sé, mi avrebbero potuto insegnare meglio ogni cosa. Meglio certamente dei preti lerci e dei fascistoidi imboscati che erano allora il nerbo della scuola italiana Dante Alighieri di Alessandria nell’Egitto.

Mio padre era scappato dal suo paese subito dopo la guerra. Preciso: subito dopo la “sua” guerra, che finì un poco dopo quella di quasi tutti gli altri. Era fornaio già al suo paese, un giovane e aitante fornaio, e come tutti i fornai anche lui era un libertario, un anarchico. Perché tutti i fornai erano anarchici? Perché di notte c’è modo di avere più coraggio e più libertà, perché il pane è la misura della giustizia, perché l’acqua e il fuoco non fanno rumore e non confondono il cervello, e via discorrendo. E poi perché al suo paese lo erano in tanti.

Non ne sapeva dire il motivo, ma era così.

Sotto il fascismo gli squadristi non gli avevano fatto un baffo, perché di giorno lui dormiva e di notte dormivano loro. Quando non dormiva andava a ballare, e siccome era un ballerino di prim’ordine si prendeva tutte le meglio ragazze. Questo faceva ingelosire i fascisti.

Questo e la sua motocicletta, una Bianchi con due cilindri che non aveva rivali. Era anche un fornaio di prim’ordine, la qual cosa invece faceva piacere a tutti, anarchici e fascisti.

Quando gli portarono via la motocicletta, per gelosia o per qualche altro vano motivo, lui se ne risentì a tal punto da lasciare il forno spento tutta la notte e i paesani senza il suo buon pane il giorno dopo.

E poi sparì, e i suoi seppero solo dopo molti giorni, da certi cugini che a loro volta avevano ricevuto la notizia da amici fidati, che era in montagna con i partigiani e che stava bene e che Camilla non doveva preoccuparsi né della sua fedeltà né della sua salute, casomai ci avesse mai pensato. Camilla era il nome di mia madre.

Andò lassù sui monti del marmo che era poco dopo l‘8 settembre del

‘43 e ce lo tirarono giù molto dopo il 25 aprile del ‘45. Era arruolato al battaglione Lucettí e c’è una canzone che dice: «… il battaglion Lucetti son libertari e nulla più, fedeli a Pietro Gori lor scenderanno giù».

Come a dire che sarebbero tornati dalle loro guerriglie solo per l’anarchia e niente di meno. Li andarono a prendere nel rigoglio dell’estate in parecchie centinaia tra carabinieri e badogliani riformati con tanta di quella catena da legarci il Monte Scurone. Altro che anarchia.

Un po’ di galera e poi via, levarsi dai coglioni di corsa.

Mio padre aveva poco più di vent’anni quando, dopo averle chiesto scusa per il molto ritardo, si imbarcò con la Camilla su una bananiera francese alla volta di certi parenti di lei che picchettavano le sentine delle navi in riparazione, nei cantieri di Alessandria, da ormai due generazioni. Non me ne ha mai parlato come di una tragedia o di un dolore. Cosa fosse per lui l’Egitto e quella città spaventevole oltre il mare rimane per me un mistero, perché al proposito non mi ha mai raccontato niente di interessante.

A dire il vero a me è sempre parso che mio padre fosse del posto dove l’ho visto vivere; eppure così diverso da tutti gli altri, eppure così separato da ogni cosa, come potevo constatare ogni volta che lo comparavo a qualcuno o a qualcosa.

Sta di fatto che dopo neppure un anno era già di nuovo fornaio. Io sono nato in una stanza sopra un vecchio forno, un antico forno appartenuto per diverse generazioni a panettieri italiani, dove mio padre cuoceva il pane nelle forme che aveva già preparato quando era ragazzo al suo paese. E mia madre vendeva quel pane straniero agli italiani e ai francesi e ai siriani e ai greci e a chiunque lo volesse.

Il pane spesso e scuro nelle micche rotonde, grandi come ruote di carriola. Mistero che avesse così tanti clienti, perché a me il suo pane non è mai piaciuto granché. Era troppo mollicoso e pesante in confronto ai pani leggeri e croccanti che gli arabi vendevano per la strada; e per due piastre te ne davano uno, quando per una forma di mio padre ce ne volevano dieci.

Mistero anche come sia arrivato a quel forno; lui non me l’ha mai spiegato, e dubito che si fosse portato da casa i soldi per poterselo comprare. Certamente c’entrano gli amici che si è fatto quaggiù e i parenti di mia madre, che da sudici picchettini, si erano fatti piccoli ras della congegneria meccanica nelle officine di riparazione navale. Il più grande business di Alessandria in Egitto, quello di riparare le navi che si rompevano a centinaia nell’impresa di entrare nel suo porto. Il più grande porto del mondo - si diceva - e il più restio a farsi penetrare.

Mia madre Camilla me la ricordo buona e severa, bella e vestita di rosa, con lo stesso odore di fragranza lattea mentre serve al banco della bottega e passeggia la domenica, tenendomi per mano, lungo la riviera di Montáza. E’ da lei che ho avuto il dono di un buon naso in cucina: la Camilla aveva una perizia tutta particolare nel saper convincere le antiche ricette di casa sua ad adattarsi senza stridori ai nuovi profumi africani. Quando lei e la nostra domestica, signora Aminah, riuscivano a mettersi d’accordo, nella nostra cucina nasceva sempre qualcosa di straordinariamente buono.

Per descrivere mio padre invece non saprei da dove cominciare. E’

bello, un bell’uomo alto e massiccio, ma anche peloso e duro. Ora scherza e poi subito s’arrabbia. E’ sempre lì che litiga con gli arabi, ma l’ho sentito difenderli in diverse occasioni con veemenza, come se li amasse. Non gli ho mai visto portare una “gallabiyya”, neppure per fare un po’ di carnevale, ma parlava un arabo fluente e spesso furentissimo, l’arabo micidiale come una mitraglia dei lavoratori del porto.

Noi abbiamo sempre usato l’italiano a casa, ma mai che mi abbia parlato del suo paese, se non incidentalmente. Mai che abbia comprato un giornale italiano, anche se certamente dell’Italia ne parlava con i suoi amici fuoriusciti. Mi ha detto una volta che l’Egitto sotto il re era un bordello in piena libertà e Alessandria il posto più anarchico del mondo, ma quando il generale Naguib ha vinto la sua battaglia e Nasser ha preso il potere, ha dato pane gratis per tre giorni ai combattenti e con i suoi compagni ha fatto la colletta per gli orfani dei martiri. Questo solo pochi giorni dopo la morte di mia madre.

Adesso che ci penso, in un certo senso anch’io sono orfano di una martire, immolata per la causa dell’elevazione sociale e culturale del suo figliolo. Non avesse avuto in mente la scuola Suisse, per una banale questione di ristrettezza di orizzonti, sarebbe stata una ardita nasseriana.

A mio padre è bastato Ras el Tin, il quartiere del porto e di tutti i transfughi del mondo, il Diwan Nabil, il caffè dei compagni, e il suo forno e il suo pane, per rimanere un anarchico fidente nella rivoluzione mondiale? Sembra incredibile, ma pare proprio di sì.

Mi accorgo che qualche volta ne parlo al presente, ma anche lui è morto ormai da un pezzo. Non è stata una cosa terribile come lo fu per sua moglie; no. E’ stata, se così si può dire di un fornaio grande e grosso e vedovo, una ragazzata, un gioco finito male. Io questa volta ero presente e avevo all’incirca vent’anni. E’ successo una sera d’estate, calmato il bollore del giorno.

Mi aveva portato alla nostra spiaggia di rena che si è ancora conservata miracolosamente pulita e fina oltre i depositi di cemento, per nuotare assieme, come gli piaceva fare. Avevamo sbracciato con gusto e poi acceso un fuochetto di detriti per farci il caffè che lui si portava sempre dietro. Quella sera aveva voglia di vantarsi, di fare il buffone come non capitava spesso, anche se in certi momenti gli garbava di recitare davanti agli amici. A un certo punto ha voluto ritornare in acqua. «Vieni - mi ha detto - vieni che ti riporto a casa mia.»

«Non me ne frega niente di casa tua,» gli devo aver risposto, o qualcosa del genere. E con una scrollata di spalle l’ho lasciato andare da solo. Chi poteva immaginarlo che queste sarebbero rimaste le ultime parole tra un padre e il suo unico figlio? Lui s’è buttato e non l’ho più rivisto.

Nessuno l’ha mai ripescato, e questo si spiega con le correnti pazze di quella spiaggia. Forse ha avuto un malore improvviso, forse ha battuto il capo su uno di quei relitti di legno fradicio che qui viaggiano a mucchi sotto il pelo dell’acqua. Quello che rimane sinistramente incomprensibile sono le sue ultime parole, perché a lui dell’Italia, di casa sua, gliene è mai fregato niente, ne sono certo.

A proposito, non ho ancora detto il suo nome: si chiamava Giovanni, Giovanni Pascale, e un passaporto suo non l’ha mai avuto o, comunque, dopo che se ne è andato tra la sua roba non l’ho trovato.

Dunque a vent’anni ho ereditato un forno di pane ben avviato senza la minima idea di cosa farmene. Avevo appena incominciato a studiare ingegneria all’università inglese - hai visto mamma? - perché piaceva anche a me come ai cugini della Camilla aggiustare e congegnare. E

facevo anche piccoli affari di import-export con certi amici più vissuti di me, e più addentro all’interessante mondo del contrabbando.

Erano i tempi della guerra, ma per la mia città erano tempi grassi del traffico di ogni sorta di cose pesanti e leggere, pericolose e innocue, peccaminose e celestiali. Benzina e farina, film pornografici e libri in francese e tedesco, pistole italiane o cecoslovacche, a scelta, e mutandine da donna coreane, e chissà che altro ancora.

Mi piacevano le ragazze e andavo pazzo per una greca di Creta, rampolla un po’ troppo fiera, a onor del vero, di una famiglia di barcaioli. Giravo per il quartiere anch’io come un giovane ras, e battevo gli alberghi per far ballare le turiste svedesi e tedesche che si passavano la voce l’un l’altra, e aspettavano con ansia il giovane poliglotta e mafiosetto che le faceva godere con giudizio e dedizione.

Facevo una bella vita, se così si può dire. E all’improvviso la musica è cambiata. Cosa ci facevo io con un forno? Cosa ci facevo io senza più nessuno?

Andai dagli amici di mio padre, la gente del Diwan, il caffè dei vecchi libertari. Anarchici o che altro? Chi lo sa cosa erano esattamente.

Emigrati, fuoriusciti del ‘46, del ‘28, di prima ancora. Alessandrini di seconda e di terza generazione, figli e nipoti dei primi espatriati dei moti anarchici dell‘82 e delle sovversioni socialiste dei bei tempi di Bava Beccaris. Ora divenuti mezzosangue, per metà italiani e per metà arabi, cretesi, andalusi, etiopi, libanesi e siriani. Figli e nipoti di agenti infiltrati dell’OVRA, si diceva anche questo di qualcuno, delinquenti banditi, commercianti falliti, poveracci scampati dalle Calabrie, dalla Libia, dalle fabbriche restaurate con i manganelli dei celerini di Genova e Torino. E cosa ne sapevo io dell’anarchia, del vero ideale, di socialismo e libertà?

Figurarsi. Quand’ero bambino, mio padre mi parlava in un certo modo che a me l’anarchia sembrava qualcuno come una zia, una zia lontana e buona. Mi parlava di lei senza intenzione, senza voglia di spiegarmi e convincermi, anche quando ho avuto abbastanza cervello per capirci qualcosa. Gli bastava che io fossi e mi sentissi in qualche modo diverso dagli altri, di un’altra famiglia che non fosse quella perversa della benemerita scuola Dante Alighieri.

Mi ricordo di una sua storiella della buona notte, la favoletta che mi ha raccontato per anni - ricordo addirittura il tono della sua voce, l’inflessione del suo italiano - per spiegarmi a suo modo come eravamo «noi libertari»; non mi stancavo mai di starla a sentire, e del resto credo che dovesse essere l’unica storiella che sapeva. Ero molto piccolo, si intende, e i miei genitori aspettavano che io mi addormentassi prima di scendere al forno a preparare il pane della notte.

Da dentro il mio letto lo chiamavo, e lui si fermava accanto alla sponda diritto su di me come un grande e ombroso eucalipto. Non aveva mai voglia lui di fare quello che si vede così spesso nei film: di sedere al capezzale del proprio unico figlio: un po’ perché il mio letto era assai alto - mia madre era molto preoccupata di tutti gli animaletti, a lei ignoti, che strisciavano, si arrampicavano e saettavano qua e là per la stanza - un po’ perché la storia era molto breve e non valeva la pena di sedersi.

«Noi si è i pettirossi, Saverio.» Iniziava sempre così bisbigliandomi dalla sua altitudine questa constatazione che a me suonava insieme misteriosa ed esaltante, non avendo mai visto un pettirosso e immaginandomelo come un uccello meraviglioso. «Noi libertari si è pettirossi, coraggiosi come quell’uccellino di tanto tempo fa che volle andare dal falchetto. Vuoi che te la conto ancora?» Non aspettava mai che io gli dicessi di sì.

«Allora, c’era questo pettirosso, piccolo che lo tenevi nel pugno della mano, ma con le sue idee che nessuno riusciva a togliergliele dal capo. Voleva volare in qua e in là a vedere il mondo, becchettare dove c’era da sfamarsi, e non gli piaceva per nulla che gli avessero assegnato il suo posticino e morta lì. Così che un giorno prese il coraggio a quattro mani e si presentò dal signor falchetto, il re degli uccelli del bosco. ‘Vorrei il permesso, signoria, di andare un po’ dove mi pare, tanto non darei fastidio a nessuno, piccolino come sono.’

Così gli disse, e intanto gli tremavano tutte le penne. Il falchetto s’adombrò immediatamente e fece la voce grossa: ‘Questa è una faccenda che non mi piace per nulla. Tu devi mettere la testa a posto e non star a disturbare con le tue pretese. Fila via o chiamo le gazze’.

E nel dirgli questo, senza neppure farci caso, gli diede una zampata che gli artigliò a sangue un’ala. L’aveva pagata cara quell’uccelletto la sua smania di libertà. Ma testardo com’era, in due o tre giorni era di nuovo in aria a volare. Certo, alla bell’e meglio, che arrancava dietro alla sua aluccia offesa tutto di sghimbescio. Sembrava diventato un pagliaccio tanto era buffo come si era ingegnato di volare con un’ala sola. E tutti gli uccelli giù a ridere. E ridevano a crepapelle anche il signor falchetto e le sue gazze. Così che dal gran ridere nessuno si accorgeva che a ogni giorno che passava il pettirosso volava sempre un po’ più in alto e un po’ più in là del posto che gli avevano assegnato. E il giorno che il falchetto se n’è accorto il pettirosso oramai volava così in su che dall’alto prese a bombardare sul capo il re degli uccelli a colpi di cacatine.»

Credo che sia tutta qui la documentazione che mi rimane dell’educazione politica e morale che mio padre mi ha impartito.

C’eravamo noi, pettirossi libertari, e c’era l’anarchia. Zia Anarchia era lontana, ma i suoi benefici influssi mi avrebbero fatto migliore, più coraggioso e più bello, diverso dalla massa dei servi che non osavano alzare la testa.

A una certa età, aveva cessato di parlamene del tutto, come se avesse raggiunto la quota prestabilita di paterna assistenza e non volesse sprecare tempo in aggiunte superflue. E i suoi discorsi con i compagni si erano fatti sempre più oscuri per le mie doti di comprensione. Come se zia Anarchia si fosse fatta una vecchina stanca di dare buone lezioni a dei nipoti cialtroni e sciocchi e avesse preso la via di una sua elevazione spirituale, dedicandosi a cose aeree appartenenti ormai all’aldilà, il luogo delle sue ultime preoccupazioni.

Del resto, tra i coetanei di mio padre e tra i più vecchi, ben pochi anelavano ancora alla ribellione. Ognuno aveva trovato il suo affrancamento, almeno quello materiale, e tutti si erano ingrassati quel tanto da dedicarsi volentieri alla speculazione astratta. Nella saletta privata del caffè ogni tanto leggevano opuscoli e giornali consunti e discutevano; sembravano una famiglia variopinta e indecifrabile, ma ancora una famiglia libertaria, nel modo che piaceva a mio padre.

A me invece piaceva soprattutto schiamazzare per il quartiere, amare le ragazze e nuotare nella baia, almeno finché lui era ancora vivo per fare il pane e tutto il resto.

Al Diwan Nabil c’erano gli orari dei vecchi e quelli dei giovani, e i giovani il sabato sera ballavano in uno stanzone al primo piano con il juke-box che forse era fuori legge o forse no, a seconda dei miliziani incaricati della sicurezza e di quello che gli si dava da mettersi in tasca. Gli altri giorni gli anziani bevevano granatine con l’uva passa e caffè e i giovani granatine con dentro la Pepsi; gli anziani ascoltavano la radio inglese e i giovani cercavano di vedere qualcosa tra la neve fitta della televisione che Nabil, il druso libanese che gestiva il caffè, si era fatto portare da Aden.

Quando è morto mio padre sono andato a parlare con i vecchi. Erano loro che gli avevano preparato il funerale, con i vessilli delle confraternite operaie, con la banda musicale che era stata forzata a imparare la canzone del battaglione Lucetti. E ancora, nel loro modo libertario, lo piangevano mentre, seduti nei vecchi sofà della saletta privata, si stavano organizzando per dare una risposta adeguata alla mia domanda: «Cosa faccio adesso?».

C’era Guglielmo Dandini, il prete spretato commerciante di lana, grasso e gioviale come il parroco che non è mai stato. C’era Secondo Filippi, capocalafatore ai cantieri navali Mafuh Elj, nero e bellicoso e alcolizzato di “nabit”. E c’erano i fratelli Ruben e Amos Battistini, tipografi figli di tipografi discendenti di tipografi, Ruben anziano e sospirante, Amos più grande di me di una decina di anni e più veloce di me al nuoto e al ballo. E c’era anche Fernando Venturi, con la fissazione di insegnare agli arabi a stagionare il formaggio, vecchio marpione contrito, con più mogli che voglia di tenersele. Tutti delle sperdute parti di mio padre, tutti della stessa fede ideale.

Mi sorridevano con la solita simpatia, ma parlavano soprattutto tra di loro, e dicevano che il forno doveva rimanere degli italiani com’era sempre stato. Ma chi sapeva farlo quel pane? Non certo il figlio di Giovanni. Bevevamo tutti granatine e i risucchi coprivano il gran pensare. Scoprii così che quel forno era molto importante per loro, per via di qualche idea di fedeltà, per via del pane fatto in quel modo. E sì che io gli avevo sempre preferito l‘“esh” che mi toccava comprare di nascosto da mio padre. Scoprii diverse altre cose, anche se subito non me ne accorsi.

«Ma ve lo ricordate chi sono stati i primi a prenderlo quel forno?»

chiedeva Ruben.

La famiglia del traditore, ce l’avevano loro per primi,» gorgogliò faceto Guglielmo.

«L’hanno venduto prima dell’altra guerra, quando il figlio se n’è andato in Francia. Pare che lui sia ancora vivo. Qui non ci ha più messo piede. Vedi te che feste gli farebbero adesso.» Secondo, che sgranocchiava un pezzo di ghiaccio come se fosse stato un trancio di pack, aveva spedito un’occhiata di sufficienza a Ruben.

Ruben raccolse la sfida: «Ha tradito l’idea, questo sì. Ma era un ragazzo. Come fai a dare del traditore a un ragazzo? La guerra l’ha guastato; la guerra ne ha guastati tanti».

Sì, ma in guerra c’è voluto andare lui.» - Guglielmo tendeva a sbrodolarsi di ogni cosa e in quel momento la bibita gli stava colando sul mento mentre tentava di assumere il suo tono predicante abituale.

«Ci sono stati dei compagni che sono venuti qui dentro alle tanke di carbone per non andare in guerra. Lui ha fatto la strada alla rovescia e l’ha fatta in prima classe, sta sicuro. E’ andato alla guerra in prima classe e non è sceso più. Quelli che sono rimasti qui, ragazzi come lui, sono quasi tutti morti senza poter più mettere piede al paese. Lui ha rinnegato e ha fatto la sua fortuna. Ci vorrebbe più coerenza nei giudizi e soprattutto non bisognerebbe mai dimenticare.»

Guglielmo era uno di quei ragazzi arrivati dentro il carbone, anche se nella circostanza di un’altra guerra, ai tempi di El Alamein. E il carbone erano in realtà tanke di benzina di un convoglio inglese che riforniva le retrovie. Cappellano militare dell’esercito italiano in odio innanzitutto fisico del deserto, e conseguentemente della guerra al deserto annessa, era venuto ad Alessandria in quel modo, portando con sé, travestita da chierichetto o qualcosa del genere, un’eritrea di non più di tredici anni. Le modalità della sua defezione furono così poco ragionevoli, oppure così conturbanti per le menti geometriche degli inglesi, che venne tenuto in caldo all’internamento per tutta la guerra.

Fu in quella circostanza di restrizione e calura che maturarono le sue idee sovversive e l’intenzione di sposare la ragazza che nel frattempo si era sistemata in un ostello per sottufficiali. Questo lo sapevano tutti a Ras el Tin, con in più la certezza che anche nel caso di una rivoluzione mondiale il proletariato non avrebbe avuto modo di affrancarsi dalle sue prediche.

Amos, il tipografo che nuotava più veloce e elegante di me e che dall’età di dodici anni stampava con suo fratello tutti i bollettini di informazione politica che giravano nella città, oltre a gran parte delle partecipazioni funerarie e dei quadernetti per la contabilità commerciale, si stava annoiando e così cominciò a parlare con la cadenza lenta e strascicata che era l’imitazione quasi perfetta di un prete copto.

«Va bene Guglielmo, ma qui Saverio è venuto per una ragione precisa e magari vorrebbe concludere qualcosa. Comunque, per inciso, quello là, il traditore come lo chiami, è bravo, e in più mi piace.

E’ diventato fascista, sicuro, e per quello che ne so potrebbe anche esserlo rimasto fino a oggi o aver rinnegato per la seconda volta. Però è bravo e mi piace, non ci posso fare niente. Ha tradito l’ideale per opportunismo o perché è impazzito o per qualche ragione anche più schifosa, ma quello che ha fatto della sua vita non sono state porcate da fascista. Non è andato in giro a bastonare i compagni, ha scritto solo poesie e si dà il caso che erano molto anarchiche, e molto belle.

Forse dentro uno può rimanere anarchico, anzi, non può fare a meno di rimanere anarchico anche se dà il culo a Mussolini. Non è mica stato il solo. Ma le avete mai lette le sue poesie? Bisognerebbe leggerle qui un sabato. E dopo, allora, discutere su chi era veramente.

Tu cosa dici, Ruben?»

Per Amos, Ruben aveva un amore che sorprendeva tutti, perché non era logico che due fratelli così distanti di anni fossero tanto rispettosi e fiduciosi l’uno dell’altro. Si diceva che fosse il lavoro particolare che facevano e la sensibilità speciale che ne avevano ricavato. E questo perché in Alessandria, ancora oggi che si contrabbanda tutta la merce elettronica di ogni porto franco del mondo, la stampa di un libro o di una cedolina della lotteria clandestina è per i più un affare di inquietante e incerta natura.

«Io dico che ora c’è da pensare a Saverio. E del vecchio Ungaretti tu lo sai cosa penso. Era pazzo come tutti gli alessandrini che hanno studiato. Guarda un po’ quell’altro suo amico, il Pea, pure lui delle nostre parti; non era forse pazzo anche lui, con tutti i suoi discorsi sulla religione? Anarchico e baciapile. Ungaretti era anarchico per sbaglio e fascista per sbaglio, e di giusto era solo poeta. Comunque, qui nessuno è stato così scemo da fidarsi di lui per cose delicate, e quindi danni gravi non può averne fatti. Ma hai ragione che bisognerebbe leggerle le sue poesie. Ai vecchi compagni di Ras el Tin e a qualche ragazzo che capisse ancora abbastanza l’italiano. Io non lo so se ne sono rimasti e se hanno voglia di sentirle.

Si rivolse a me con i suoi occhi delicati: «Tu Saverio avresti voglia di leggere qualche bella poesia?».

Per la verità ne avevo abbastanza di tutte le loro chiacchiere. Io, senza più nessuno, ero in balìa di quelli lì che, eccettuato Amos, mi sembravano delle vecchie statuine di gesso, il presepe libertario di mio padre. Avevo voglia soprattutto di andarmene via, se solo avessi saputo cosa fare l’indomani mattina: «No, non ne so niente di poesie e non so di chi state parlando». L’ho detto in tono molto scocciato, era giusto che fossi scocciato.

Allora si era messo a parlare Fernando, il vecchio caprone

“Quattromogli”, convertito all’Islam per potersele godere e infine arrivato alla tristissima convinzione di non aver goduto di niente -

parola di mio padre. Parlava sempre con una voce greve, velata di mestizia, così da indurre chi gli stava intorno ad ascoltarlo con il rispetto che si deve a uno che stia dettando il proprio testamento:

«Pensa, figliolo, che tuo padre l’ha fin conosciuto quell’Ungaretti lì, quand’era ancora al suo paese, in quanto il fascistone era tornato dall’America, o forse ci stava andando e girava da quelle parti che erano vicine alle sue. Ed è forse per aver parlato con lui che quando è arrivato qui si è dato da fare per trovarsi quel forno. Bisognerà leggerle quelle poesie, prima che mi rincretinisca del tutto. Perché, Ruben, non c’è un libro di quello lì in saletta?». Ruben era il responsabile della bibliotechina che allignava da sempre in un mobiletto della sala privata del Diwan.

Aveva risposto Guglielmo, di slancio: «Perché non sarebbe durato un giorno qui da noi quel libro senza che non diventasse carta da culo per la latrina di sotto, mio caro. Comunque, Saverio, bisognerà vendere quel forno a un bravo compagno e ricavarci il giusto.

Bisognerà cercarti un quartierino adatto per te e per le maialate che penserai di farci, trovarti una buona vedova per la casa, giacché Aminah non ci sarà modo di portarla via dalla casa del forno. E poi bisognerà volerti bene, figliolo, volerti bene tutti quanti».

Così si erano messi a pensare alla mia vita, a come rimediarla. Non era quello che mi ero aspettato quando ero andato a incontrarli al Diwan, non credo nemmeno che fosse quello che volevo. Ma li ho lasciati fare.

Era dunque il Sessantasette, il tempo della guerra disgraziata di Nasser.

Mi fu trovato un piccolo appartamento in una vecchia casa del quartiere. Un secondo piano tutto di veneziane, dove si arrivava ancora con uno di quegli scaloni di legno intarsiato che ormai si vedono solo negli edifici pubblici meglio conservati. Era poco distante dalla tipografia dei Battistini, e spesso pranzavo con loro in bottega o loro venivano da me a mangiare il “ful” di fave che mi veniva alla perfezione.

Per il forno non si è mai trovato un italiano, ma fu invece venduto a un cipriota greco, un comunista condannato a morte in contumacia dai colonnelli di Atene, che era gran compagno della colonia italiana. Col tempo si è scoperto che la sua simpatia per noi italiani era regolarmente pagata dai servizi speciali di informazione dell’Unione Socialista. Ma questo ormai non aveva più importanza, e il pane è sempre rimasto quello stabilito, mai più cattivo e, per quello che mi riguarda, mai più buono. Avevo ereditato, avevo i miei affarucci: ero quasi ricco.

E soprattutto ero solo e libero di ogni cosa.

Poi un giorno ho messo mano alle cose lasciate da mio padre e ho trovato il libro di quell’Ungaretti.

Mi pareva che mio padre non avesse niente di suo oltre al necessario per fare il pane. Quando sgomberai le stanze dove vivevamo non ho trovato nulla, oltre i vestiti e la busta dei certificati di credito della Misr Bank. Dalla spiaggia, la sera che lui se n’era andato in quel modo così poco paterno, avevo portato via le sue ciabatte, i pantaloni e la camicia avvoltolati, con dentro l’orologio Perseo e la caffettiera che si era portati dall’Italia. Non aveva neppure un rasoio suo e la barba gliela veniva a fare al forno un vecchio barbiere del quartiere che una volta al mese si intratteneva un poco di più, per spuntargli la chioma sempre nera e riccia e spettinata. Non c’era neppure un’immagine sua o di mia madre in casa, adesso che ci penso. Ricordo solo una fotografia di lui e lei in posa a una festa di matrimonio con i compagni di Ras el Tin. E questa non era in casa, ma era appesa assieme a delle altre a una parete nella saletta del Diwan.

Quando il cipriota prese il forno, mi passò un involto con la roba che aveva trovato nel cassetto del banco di vendita. L’avevo tenuto senza nemmeno darci un’occhiata, e un paio di mesi dopo me lo sono ritrovato per le mani. Così l’ho aperto e tra le carte ne è venuto fuori quel libro.

Era un libro non grande né spesso che mi si è spalancato tra le mani dando alla luce pagine rugose e giallognole. Nella pagina del frontespizio c’era scritto: 

IL PORTO SEPOLTO Poesie di Giuseppe Ungaretti Ma guarda, proprio quello là. Ma guarda, mio padre che si tiene un libro di quello là. E se lo è anche letto. E riletto, a giudicare da come è tutto scivertato. Mio padre al forno che impasta e cuoce e legge le poesie di quel fascista. E ne leggeva una e poi infornava i pani, e ne leggeva un’altra e andava a sciogliere il lievito. Poi arrivava mia madre e nascondeva il libro nel cassetto. No, non è possibile, perché in quel cassetto mia madre ci metteva le mani per tutto il giorno; ci infilava i soldi della gente, ci prendeva il resto, ci segnava i pani a credito e ci nascondeva i regali per me. E allora anche mia madre ha visto quel libro, mia madre che mi voleva mandare alla scuola Suisse. Forse ha letto anche lei le poesie di Giuseppe Ungaretti, traditore del proletariato, rinnegato della fede libertaria. Ma la signora Camilla non ci badava, forse, a queste cose. Io quel libro l’ho messo da parte e dopo qualche giorno l’ho ficcato in tasca e me lo sono portato alla spiaggia. Mio padre non c’entrava più niente. Sospetto ora che mi fosse venuto in mente di dargli un’occhiata per vedere se potevo trovarci qualcosa di efficace da dire alle ragazze, qualcosa di romantico sul porto sepolto, il porto fantasma di questa città. Quando, finiti i bagni e stemperata la calura, ho finalmente aperto il libro, da tempo mi si erano cancellate dalla memoria le melense lezioni della scuola Dante Alighíeri. Non avevo conservato il minimo ricordo di una poesia, una che fosse, e ne sono rimasto vagamente stordito e irritato. Della poesia, delle due o tre che ho letto, non del libro. Che mi ha fatto uno schifo immediato, e l’avrei buttato tra le dune se non avesse implicato qualcosa di mio padre e del mio amore per lui. Dico così perché, nell’aprirlo, la prima occhiata mi era andata a sbattere sulla firma di Benito Mussolini. Già; c’era un saluto del capo del fascismo al poeta. Ho pensato a mio padre che si era tenuto - per quante decine di anni? - quel libro nel cassetto, e ho deciso che io potevo tenerlo almeno in mano. Sapete cosa c’è? C’è che ci sono certe cose e sono dei muri in cui si va a battere la testa continuamente, senza rimedio. Altre cose sono invece porte sempre aperte, disposte in qualsiasi momento a ospitarti. Cose che portano noia, fatica, struggimento e maledizione; cose invece che sono lì per la gioia e la grazia, l’abbandono e il sollievo. Al primo tipo appartiene per esempio l’elenco telefonico del Cairo - chiunque ci abbia messo mano ve lo può dire - mentre del secondo fa parte senz’altro la spiaggia dove vado io. Anzi, non tutta la spiaggia, ma quella parte di sabbia rosa, di battigia sbarluccicante e di onda che ancora non approda ma approderà, dove io mi sentivo quella sera principe e padrone. Ora, per quello che ci ho capito io, la poesia è insieme queste cose e quelle altre. E’ carogna giocosa e ballerina, dispettosa, aspra in bocca come i datteri acerbi, e profumata come l’oleandro rosa del deserto; insopportabile e leggera, cattiveria e nostalgia. Così ho pensato, e non ne ho letto che due o tre. E quella sera né mai più ho voluto leggerne altre. Un po’ perché subito dopo ha cominciato a ronzarmi la testa, e il fondo di quel ronzio me lo sento ancora intasato nei timpani - anche se è facile per il dottor Modrian farmi presente che sono reduce da un’embolia. E poi perché, sinceramente, avevo paura che continuando a leggere sarei rimasto deluso, si sarebbe infranta una specie di subdola tresca accesa tra me e quella roba di parole. Sarebbe cessato quel bordegume - come si dice in italiano? - che mi aveva preso a tradimento tra fegato e intestino. Ma soprattutto, lo dico con un po’ di vergogna, io sentivo e detestavo l’intromissione dentro di me di un uomo - di quello là, mai visto né conosciuto, chi era e chi non era, fascista per di più - che con una trentina di parole e anche meno si era permesso il lusso di schiavardarmi il cervello, o magari l’anima, per strisciarmi nei pensieri e nei sentimenti come fosse casa sua. Come se ci fosse tra noi due un’amicizia di quelle che ci si può permettere ogni cosa. Chi gliela aveva chiesta tutta quella intimità? Avevo la sensazione di essere stato preso nella trappola di parole di un mago ipnotizzatore. Parole che oltretutto non avrei dovuto capirci niente, ma che invece mi pareva di capire. Oppure di essere capito, se preferite. Una poesia era intitolata “Finestra sul mare” e un’altra il “Porto sepolto” e un’altra ancora, forse, “Risveglio”, o “Risvegli”. Le so a memoria. Non chiedetemi il perché, visto che le ho lette una volta sola e da allora sono passati parecchi anni. In questa stanza d’ospedale io ogni mattina le recito come se fosse la mia preghiera. Poi racconto il sogno che ho fatto a quella vecchia mummia secca del dottor Modrian. Ma questo succede molto dopo. Ora siamo ancora a quando avevo poco più di vent’anni e devo dire alcune cose che mi sono capitate, altrimenti perdo il filo e quel poco di lucidità che potrebbe finalmente aiutarmi a capire cosa mi sta succedendo. Mi rendo conto che ci ho perso molto tempo dietro tutta questa faccenda della poesia e di quel poeta e tutto il resto. Ho detto delle stupidaggini? Mi sono lasciato andare? E va bene. Ma tenete conto che ero solo un ragazzo di Ras el Tin, una pellaccia di quartiere, senza troppa fantasia di cultura e con l’infarinatura stitica della scuola. Anche se ora, con tutto quello che è successo, sono cambiato parecchio e con i libri, il leggerli e lo scriverli, ho aperto tutta una vicenda che al momento giusto vi dirò. Ma allora il semplice fatto di leggere sulla spiaggia è stato come il rapimento di un ragazzino, come averlo voluto - come si dice? - plagiarlo, confonderlo. Qualcosa del genere, che ha portato poi la mia vita, senza che me ne accorgessi davvero e, peggio ancora, senza che potessi metterci becco, in una certa direzione, per un certo cammino. E tra le tante cose è successo che sono partito per andare a vedere il paese di mio padre. Le circostanze che mi hanno fatto decidere sono state a dir poco strane. Avevo riportato dalla spiaggia quel libro, ma mi pesava trovarmelo in casa: mi dava l’impressione di conservare indebitamente un segreto. Così un giorno me lo sono messo sottobraccio e sono entrato nella tipografia dei Battistini che, nel quartiere dove ora vivevo, era uno dei fondi più vecchi e più stimati. Stampavano lì gli italiani dai tempi dei tempi, e c’è ancora incorniciato sopra la porta di ingresso una specie di diploma rilasciato dal califfo turco con la data del 1102, anno mussulmano, tre secoli fa. Sopra lo stipite c’è anche il cartiglio con il nome della bottega, un nome che nessuno dei molti proprietari ha mai voluto o avuto voglia di cambiare, il nome con cui è conosciuta ancora oggi: “El Meskin”, il Povero, il titolo con cui si chiamano i venerabili superiori del monastero di Abu Makar nel deserto di Uadi Nairun. Il luogo santo non lontano da qui, dove da più di un millennio i monaci copti copiano e ricopiano i loro misteriosi saperi di Dio e dei profeti. I fratelli Battistini erano arrivati ad Alessandria dal paese di mio padre prima ancora della guerra assieme al loro genitore, orbati della madre a causa della difterite che se l’era portata via poco dopo la nascita di Amos. Il vecchio aveva con sé un paio di scatole di caratteri tipografici nuovi di zecca mai visti fino ad allora in città, e con quelli in dote era entrato nella vecchia tipografia del quartiere. Nel giro di un paio di anni ne era diventato socio, tanto potente era la sua arte negli arrangiamenti meccanici e artistici del lavoro di stampa. E con lui lavorava il figlio Ruben, mentre il più piccolo lo tenevano tra le macchine a ruzzare con il piombo e le frange di carta quando ancora non sapeva stare in piedi da solo. Ora che il vecchio se n’era andato, anche lui accompagnato dalla banda e dai vessilli rossi e neri della sua fede, i fratelli sono padroni e io posso dirmi loro amico, se non altro per averli frequentati da quando mi ricordo. Certo è con Amos che avevo più confidenza, per l’età e perché aveva voglia di fare le cose che piacevano anche a me: a Ras el Tin giravamo assieme a far ballare le turiste e assieme cercavamo di farci prestare dai comandanti dei mercantili i film che ci piacevano e altre cose del genere. Ruben non solo era vecchio, ma mi sembrava una specie di prete, un uomo troppo distante e perso nei suoi pensieri per poter fare con lui discorsi normali. Dunque, un giorno sono entrato nella tipografia e ho dato il libro ad Amos: «Guarda cosa aveva mio padre al forno.» Ero inquieto, quasi vergognoso. Amos ha preso il volume dalle mie mani con noncuranza, soppesandolo prima di guardarlo meglio, come fosse stato un muggine della baia da comprare a un ragazzino, e infine si è messo a sfogliarlo con passione, digrignando i denti e schioccando la lingua: «Bello, molto bello. Altroché». Si eccitava man mano che faceva scorrere le pagine tra le dita, finché non ne poté più e, come sempre, ebbe bisogno di Ruben. E i due si sono messi a giocherellare con le pagine e a parlottare tra loro e a tirarsi via il libro l’un l’altro, come due ragazzini, senza badare a me che me ne stavo lì imbarazzato come se avessi portato un topo vivo a una nidiata di gatti. Proprio come capita alla gatta che di scatto smette di far la graziosa con i cuccioli e riprende seria a fare i fatti suoi, d’improvviso Ruben cessò di cincischiare con il fratello e cominciò a parlarmi. E’ stata quella conversazione che ha definitivamente mandato a gambe all’aria la mia vita, quello che io avevo creduto potesse essere la mia vita nella città, negli studi di meccanica, nei promettenti intrallazzi del contrabbando. Ruben aveva proprio il modo di parlare da prete arabo. Voglio dire che era ispirato e ieratico, con un tono di voce basso ma tagliente, che faceva ricordare un monaco “sufi” quando parla ai suoi discepoli all’ombra del carrubo nel cortile della moschea di Abu el At. «E’ davvero bello questo libro, Saverio. E’ un’edizione molto rara ed è la prima volta che mi capita di vederla. Io le conosco queste poesie. E tu le hai lette?» «Qualcuna, l’altro giorno.» Non riuscivo a capacitarmi di come continuassi a vergognarmene. «E ti sono piaciute?» «Sì. Voglio dire sì, ma anche no. Non lo so bene. Certo che sono particolari. Mi hanno fatto uno strano effetto. Devo dire che ho smesso di leggerle perché mi stavano confondendo.» «Sì, ho capito. Capita anche a me, e non solo con quelle poesie, se devo essere sincero. Eppure sono belle, vero?» «Sì, certe parole me le ricordo ancora e mi sembrano molto belle. Ma mio padre, secondo te, cosa c’entra con questa roba?» «Beh, saranno piaciute anche a lui, no? Tuo padre non ha mai parlato granché. Penso che non avesse molta fiducia nelle sue parole. E magari ne aveva invece in quelle di Ungaretti.» «Ma quello lì era un fascista, Ruben. Me lo avete detto voi. Mio padre, figurati, non voleva nemmeno sentir dire la parola. Non credo che ci capisse di poesia da fare dei distinguo. Già mi sembra incredibile che si siano conosciuti, come ha detto “Quattromogli” al Diwan.» «Mi sa, Saverio, che questa non sia una faccenda così semplice. La gente non è mai stata semplice dalle nostre parti. Forse nemmeno dalle altre parti.» A questo punto, con il suo fare pio, il tipografo mi ha preso per un braccio e mi ha spinto in fondo alla bottega, dove su un vecchio piano di composizione Amos stava preparando il tè per il solito spuntino. Sono sempre stati speciali gli spuntini in tipografia, soprattutto per la ricchezza degli stuzzichini. Quei due sapevano dove trovare il meglio delle olive, il formaggio più greco, le acciughe più profumate, il pane più crocchiante. E non c’era caffè in Alessandria dove si poteva star meglio soddisfatti che stravaccati sulle balle di carta del El Meskin. Ecco, ora mi rendo conto che parlo spesso di loro al passato, e confondo le vicende di quegli anni con la loro esistenza, che non è passata. Amos e Ruben sono vivi e vegeti e sempre bravi a stampare e a fare gli spuntini e - credo - mi vogliono bene ancora allo stesso modo. Hanno anche cercato di venirmi a trovare all’ospedale. Mi ha detto il dottor Modrian che ogni tanto vanno da lui a chiedere notizie. Ma io non li ho voluti mai vedere: non me la sento di farmi compatire, non me la sento di farmi vedere da loro ora che sono poco più che un’ameba. Per questa ragione, nel raccontarli, uso il passato: per tenermeli un po’ discosti. Per il momento; poi si vedrà. Ero rimasto al tè. Sì, Ruben mi invita al tè. Ci sediamo e Amos ci serve come al solito. Lo fa sempre, come se avesse nostalgia di una donna di casa che potesse farlo per lui. Mangiamo, beviamo, facciamo frizzi di soddisfazione con la saliva, accendiamo sigarette americane sbarcate da Singapore. E Ruben ricomincia a parlare. «Tu non sai niente del paese di tuo padre, perché lui ha chiuso con quel posto il giorno che se n’è andato. Ha chiuso e basta. Per me ha fatto bene. Altrimenti vivere qui sarebbe stata una tortura. Nessuno di quelli di Carlomagno - ma ti ha mai detto tuo padre il nome del nostro paese? si chiama Carlomagno - nessuno di noi, ti dico, è riuscito a vivere bene nel posto dove è andato a fermarsi. Il dramma è che pure nessuno è mai riuscito a tornare indietro e ognuno pena qua e là per il mondo senza stare veramente tranquillo in nessun posto. Deve essere una questione del carattere del nostro paese, una tara nostra. E così anche per me. Amos era troppo piccolo, ma io me lo ricordo dove sono nato, io posso dire di essere uno di Carlomagno. C’è anche una storia su questa faccenda e dopo, se me lo ricordi, te la racconto. Ma ora ti voglio dire dell’altro. Ti faccio un po’ di scuola se ne hai voglia. Amos, che una parte di questi discorsi già li conosce, può andare a farsi una nuotata. «Il mio e quello di tuo padre è un paese di gente strampalata, fatta a modo suo, insomma. Di paesi così ce ne devono essere ovunque nel mondo, ma Carlomagno lo conoscono in tutto il circondario per come è fatta la sua gente. E’ una tana di anarchici, di presuntuosoni e attaccabrighe. Per quelli di fuori è un paese insieme scostante e seducente. Un posto e della gente molto speciali. Quel poeta non è dei nostri; è di un paese vicino, ma non proprio dei nostri. Nessuno di Carlomagno si sarebbe rimangiato mai una parola, figuriamoci un’idea. Eppure, se dovessi dire, un po’ ci assomiglia. Non lo so bene, anche perché personalmente non l’ho mai conosciuto, ma quelle sue poesie mi dicono qualcosa. Mi risuonano dentro come se ci fosse qualcosa di mio e della mia gente di là. Mah, sarà un’idea stupida, ma è quello che mi è venuto in mente appena le ho lette, parecchio tempo fa; per questo sono stato d’accordo con te quando mi hai detto che ti confondono. Insomma, lui ha avuto qualcosa di profondo - mi capisci? - da spartire con noi. Certamente al paese lui ci è venuto parecchie volte nel tempo e mi sono fatto la convinzione che ci cercasse qualcosa che gli mancava. Credo che lì nessuno abbia mai saputo davvero chi fosse. Tuo padre sì, dato che ha quel libro, e anche mio padre, che aveva la stamperia e se l’è visto capitare in bottega più di una volta. Io l’ho sicuramente incontrato, ma ero troppo ragazzo e non ci ho fatto mai caso, finché non mi ha detto qualcosa mio padre. Ma se uno qualunque l’avesse riconosciuto, Ungaretti l’amico del duce, cosa vuoi che gliene sarebbe fregato della poesia. Lui lo sapeva benissimo questo e penso che venisse da noi per trovare il modo di chiedere perdono e che quel modo non l’abbia mai trovato. Attento, che questo è solo un mio pensiero strano, chissà cos’era che ci invidiava. Perché qualcosa doveva esserci. Mio padre se lo ricordava bene. Si fermava all’osteria a chiedere ai vecchi di questo e di quello, andava in bottega e teneva mio padre delle ore a leggere certi suoi scritti. Chiedeva consigli, impressioni. Prova a pensare, il poeta più famoso d’Italia che dà retta a un tipografo di paese; non poteva essere. Lui cercava il suo porto sepolto, come tutti quanti in questa città, e forse, in un certo punto della sua vita, se lo è andato a cercare a Carlomagno. «Mi immagino Ungaretti e tuo padre. Giovanni era un ragazzo. Bello e sfrontato, senza peli sulla lingua e senza un briciolo di letteratura per la testa. Lui, ormai in su con gli anni. Deve essere passato dal paese prima di andare in America. Aveva già fatto una guerra, era stato in giro per il mondo, era famoso e portato in palmo di mano da Mussolini. Avrà guardato tuo padre e si sarà detto: ‘Ecco come sono stato, ecco come non posso più essere. Ho questo e quello, ma non ho la sua motocicletta e la sua anarchia’. Forse è successo così che lui ha attaccato bottone. Giovanni deve essere rimasto lì per lì a bocca aperta. Ma non per molto, se l’ho conosciuto bene. Avrà risposto a modo suo, con poche parole ma deciso e senza vergogna. E alla fine lui gli ha regalato quel libro. Doveva averlo con sé, perché è un’edizione rara e certamente Giovanni non può averlo trovato da solo. Non c’è dedica, ma si capisce; non era interessato a lasciare tracce al paese. E tuo padre poi l’ha letto. E riletto, si vede bene. Sai cosa ti dico? Ti sembrerà strano, ma per me quelle poesie sono state per tutto il resto degli anni il suo ricordo di Carlomagno.» Era proprio una scuola quella che mi stava facendo Ruben. Aveva davvero il tono di un maestro, un buon maestro di strada che non urla e non picchia perché sa che i ragazzi del quartiere non possono avere niente di meglio da fare che ascoltarlo. Amos era sparito e la bottega era silenziosa e fresca: cosa fare di meglio che stare lì a sentire una storia misteriosa e lontana? In effetti facevo fatica a capire il senso vero, profondo, di quello che Ruben mi andava dicendo. Glielo dissi e gli chiesi di spiegarmi meglio tutta questa storia del paese di mio padre - davvero lui non me ne aveva mai detto il nome, chissà perché - e lo pregai di non divagare troppo, perché già avevo cominciato a perdermi. E lui riprese la sua scuola. «Difficile che tu creda a tutto quanto di queste storie. Tu sei nato qui, ed è giusto che te ne senta distante. In fin dei conti è quello che ha voluto tuo padre, e io avrei fatto lo stesso. Avere troppa memoria non fa star bene nessuno. Si diventa malinconici. E si diventa vecchi troppo presto. Lì per lì può sembrare che i ricordi servano a qualcosa, ma non è vero. In definitiva fanno solo danni. Ti consumano dal di dentro, come la silicosi dei picchettini del porto. Ti sembra di star bene fino a che una mattina ti alzi e ti accorgi di non avere più neanche un tocchetto di polmone: dentro sei tutto una polvere di pietra. E’ così. E poi Carlomagno è davvero dall’altra parte del mondo. Anzi: è, come dire, l’altro mondo. Sta’ a sentire. Quello che in definitiva separava quel poeta da tuo padre e dal paese era una strada, la Via, come la chiamano. Quelli di Carlomagno stanno “di qua” e tutti gli altri stanno “di là”. E’ come una condanna. Nessuno di là può davvero attraversare la strada, e se poi lo fa uno di Carlomagno è certo che non può più tornare di qua. Questa è favola. Ma, ovviamente, a modo nostro di vedere è anche la verità. Carlomagno non era un posto di pazzi. Se c’è ancora, lassù, non penso che lo sia diventato adesso. Io ci sono nato a Carlomagno, e quando sono venuto via con mio padre avevo più di vent’anni. L’ho conosciuto bene quel paese, il suo paesaggio, la gente, i proverbi e i modi di dire che sbeffeggiano i paesi vicini e gli scherzi dei paesi vicini per sbeffeggiare Carlomagno. Ma, come ti dicevo, questo non toglie che Carlomagno sia da sempre giudicato un luogo piuttosto speciale e in qualche modo differente. Lo è innanzitutto la gente, che insieme gode e soffre della sua singolarità. Questo vale anche per me e probabilmente vale ancora per quelli che ci sono restati e per quelli che ancora ci nascono. Anch’io sono stato allevato a riconoscere questa specie di separazione tra noi di Carlomagno e gli altri, perché era il sentire che c’era nell’aria. La nostra ragione soggiacente, la chiamerebbero certi studiosi. Alcuni dicono che è stata la Via a separarci da tutti quanti, dicono altri che invece siamo diversi da sempre, diversi da tutti nella nostra valle, perché siamo i soli resti di quello che è stato il popolo Apuo prima di Roma e del console Aurelio. Dicono pure che siamo stolidi, crudeli e superbi. Tutto questo non è vero, non lo è così. Non siamo pazzi; non fino a quel punto: nessuno a Carlomagno è mai stato abbastanza pazzo da pensare sul serio di essere unico. Sì, c’è stato una volta il popolo Apuo e fu poi annientato. Lo dice anche Strabone, e se apri l’armadio della saletta al Diwan ci dovresti trovare ancora il suo libro che parla di queste cose. Ma adesso perdonami, perché mi fermo un attimo e vado a pisciare.» Mentre Ruben si alzava, i muezzin incominciavano allora a chiamare la preghiera. Era sera e nella bottega arrivava l’odore dei carretti che andavano vendendo “kabab” e il richiamo dei venditori, lamentoso come un pianto. Come poteva Ruben vivere qua e pensare ancora a quel posto lassù? Aveva ragione: avere troppa memoria non deve essere una cosa riposante. Come per le altre botteghe, il pisciatoio era la canaletta al bordo della strada e Ruben aveva lasciato la porta aperta, così che era come essere in mezzo al tramestio di Ras el Tin, nell’ora che faceva la strada gonfia di tutta la gente e di tutte le lingue che la rivoltavano dai secoli dei secoli. I discorsi del paese di mio padre mi stavano mettendo addosso una strana sensazione: la strada mi chiamava da una parte e le parole di Ruben mi strattonavano da un’altra. E io nel mezzo dolorante. Ma quando Ruben ha ripreso il suo posto, non mi ha chiesto se volevo per caso andarmene, per lui era inteso che dovevo starlo a sentire. Il suo tono era ancora un poco cambiato, mi parve adesso quello ispirato del “sufi” che parla ai pensieri ribelli che svolazzano sopra le teste dei suoi discepoli. Un “sufi” sa come vederli e trattarli a modo. Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento; una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende di insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori. Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare duecentocinquant’anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto; si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto tra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia. E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del Sannio, all’altro capo dell’Italia. Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semiuomini che attraversa l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore. E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più. Quello che si sa è che il senato ci ha speso sopra a quella gita quattromila denari; né più né meno che il costo di una bella città di una provincia corredata di tempio, teatro e foro. Ma sono stati soldi spesi bene, perché mai più nessuna delle genti che aveva assistito al passaggio della carovana dei lupi diventati schiavi, è stata presa dalla perversione di opporre alla clemenza di Roma la follia del rifiuto. Eppure, partite le legioni, interrotte le cronache, qualcuno era ancora rimasto. Gli storpi, qualche canaglia di pelle dura inebetita e resa pazza dagli stenti, qualche donna graziata dalle sue tenerezze a buon rendere. Costoro si scelsero, per cercare di sopravvivere, un poggio che si sporgeva dalle alture più dure della valle su una vasta landa di acquitrini. E’ un sito suggestivo che ancora oggi intenerisce a pensarci, ma un recinto stretto e senza scampo di fuga, isolato dalla piana e dal mare dalla palude di gore fangose che il fiume allora si spandeva attorno.» A questo punto mi era chiaro che Ruben non parlava più con me. Guardava con gli occhi appena socchiusi verso la grossa macchina linotype, e la sua voce aveva ora il tono profondo e marcato di uno che recitasse un poema, qualcosa che ha dimenticato di sapere a memoria e gli torna su man mano che lo declama. Intanto Amos era rientrato e armeggiava sul lavabo con un sacco pieno di granchi rossi che gli scappavano da tutte le parti, e che lui tentava di raccogliere muovendosi senza disturbare il racconto di Ruben. Per terra, su un grosso fornello da campo, bolliva una pentola e un poco alla volta ci finivano dentro i granchi ancora ben vivi. Qualcuno ce la faceva a schizzare via, scottando di gocce bollenti Amos, che pure riusciva ancora a non fare il minimo rumore. E Ruben, intanto che i granchi si rassegnavano a bollire, parlava. «E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno di ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori di imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sella, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre. E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, malsepolti tra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti dei cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi lo stava spiando.
 Egli allora fece compiere alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì, tronfio e testardo. Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo miliare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari. La notte che l’opera fu finita e fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda.» Ruben si era fermato di botto, come morso da un brutto ricordo. Suo fratello gli teneva una mano poggiata leggera sulla spalla: «Prenditela un po’ più comoda, Ruben, hai gli occhi fuori dalle orbite che mi sembri un derviscio in calore. Ci sono i granchi pronti da mangiare e se mi date una mano, mettiamo il tavolo sulla strada e mangiamo al fresco». Così ci siamo messi a tavola nel vicolo, come tutti gli altri. C’era un cielo stellato altissimo quella sera, pulito dal vento asciutto del deserto che aveva ricacciato i fumi delle fabbriche e dei cantieri lontano sul mare, verso l’Europa. «Di tutta la merda che ci viene di là, qualcosa riusciamo a mandarne indietro» - diceva sempre Secondo, il più conservatore dei compagni di mio padre - «ma non è mai abbastanza. Dovremmo fare delle fabbriche che moltiplichino per cento quella che ci mandano; merda fine per l’esportazione. E allora forse riusciremo a pareggiare il conto.» Mi è sempre sfuggita la logica del suo ritornello, e Secondo non è neppure uno molto simpatico. Ma non mi dispiacerebbe, devo dire, se qualcuno riuscisse in un’impresa così economicamente coraggiosa. La strada era accesa con discrezione dai lumi che la gente teneva sopra i bassi tavolini. Il brusio dei commensali saliva lento nel vicolo, come il fumo grasso di un “kabab”; ogni tanto arrivava la folata più intensa di una particolare parlata, e si distingueva il greco di Corfù e il dialetto cretese, lo spagnolo andaluso, l’arabo di Somalia e quello di Siria, l’italiano di Genova e di Sicilia, il russo. I due tipografi succhiavano a dovere i loro granchi e io mi beavo di quella che mi sembrava l’armonia del grande caos di Ras el Tin. Un disordine molto composto, quasi grazioso. Gli arabi hanno un senso della compostezza quasi soprannaturale, gli viene dal deserto, dalla sua perfetta stabilità. Non c’è duna del Sahara che si sposti di un millimetro in mille anni, anche se ogni minuto che passa il suo aspetto muta. E l’uomo che viene dal deserto sa ricondurre ogni disordine occasionale al suo principio regolatore. Finita la cena Ruben ha ripreso a parlare con tono più lento e rilassato, lasciando che ogni tanto le parole incespicassero nel fumo di una sottile sigaretta turca. «Quel suo nome, Carlomagno, è venuto al paese ovviamente molto dopo queste cose che ti ho detto, anche se il perché e il percome la gente incastrata in quel borgo sciagurato potesse essersi invaghita di un nome così pomposo, non c’è scritto da nessuna parte. Probabilmente non c’entra niente con il re che, pure selvatico come dicono che era, avrebbe trovato sgradevole per la sua tempra transitare da quei colli. Oppure ci è passato per davvero Carlo Magno in anima e corpo, ed è stato così magnanimo da fermarsi abbastanza per lasciare che lo ricordassimo. In fin dei conti Alessandro il Biondo ha assistito di persona alla nascita di tutte le Alessandrie del mondo, anche le più sperdute e inutili. Pazzi no, nessuno può dire che siamo pazzi, forse tarati. E in una cosa, in un certo qual modo, anche unici. Nel senso di soli, o solinghi, come diciamo nel nostro dialetto. D’altronde la Via consolare, nell’astruso ghirigoro che gli ha voluto imporre la vendetta del console Aurelio, ha isolato il poggio di Carlomagno dal resto della piana; per sempre. Per il tempo a venire, con tutto quello che è successo, Carlomagno è sempre rimasto “di qua” dalla Via e da ogni altra cosa. Dalla parte “di là”, nella piana ricca e aperta al mare, sulle colline meridiane, lungo i seni grassi del fiume così dolce, tutto il resto del mondo, di qua dalla strada, oltre gli acquitrini e i bozzi, schiacciato sui contrafforti delle montagne di pietra di marmo, Carlomagno. Solo loro. La Via Romana ha segato in due le genti e ha separato un destino e lo ha reso singolare nei secoli dei secoli. Questo è successo, e da quando ero bambino è stata cura di mio padre indicarmi per prima cosa il metro per misurare le distanze e le differenze. Di qua e di là. Semplice: da una parte noi, i libertari dell’anarchia, i montanari col cuore grosso, i cavatori indomiti, i braccianti senza terra; dall’altra i fascisti, i contadini egoisti e grassi, gli avvocati dei padroni. E se non avevo provveduto io a farmene una ragione, ci pensavano i figli di quelli di là a ricordarmelo, a furia di sassi, di gragnuolate, di prendingiro. E anche se per passare la strada bastava fare otto passi - otto di numero - si sapeva che era un valico. La Via Romana. Chi l’attraversava doveva pensarci, perché bisognava parlare con gente fatta in altro modo, altre tribù, uomini e donne con mestieri diversi, bambini che non si sa di cosa si divertivano, cani cattivi e maligni. La Via Romana che portava ogni ben di dio caricato sopra tutti i modelli di veicoli del mondo, e veniva dai confini dell’Italia e andava a Roma. E di più non si poteva dire per noi ragazzi, se non che di là dalla Via c’era fino al mare della terra, tantissima terra, con sopra i peri e i peschi squisiti che da noi non venivano mai così succosi; frutta dolcissima quella, che la potevano prendere solo quelli là perché a noi non ci spettava. Di là l’odore del mare, di qua le ossa indurite dai venti di tramontana. La Via Romana e l’autobus della Brun & Caprini che ci passava sopra. La prima volta che la corriera a motore era arrivata fin davanti al nostro paese, qualcuno gli ha messo davanti al radiatore una balla di fieno per non vedersela imbizzarrire dalla fame in mezzo a tutta la gente. La corriera. Che quando uno del paese si fermava sul ciglio della strada per prenderla al volo, si poteva star sicuri che da qualche parte lontana c’era ad attenderlo un dottore, un ospedale, un avvocato, un colonnello, un padrone: la potenza di Roma che ti tormentava in eterno. La fermata era segnata dal cippo di marmo con sopra incise le quattro grandi C maiuscole. Il blocco di pietra era tutto levigato e lucido per il continuo strusciare della gente, splendente di notte al passaggio dei fari come una cometa che si poteva distinguere anche dal paese. Quando mio padre mi portava sulla Via mi ci faceva sedere in groppa a quella pietra e io ci stavo come un uccellino sopra un picco di montagna. E lui mi faceva toccare certe piccole scalfitture, ogni scalfittura era la vita di un padre di famiglia o di un bravo ragazzo che il cippo si era preso. Non c’era bicicletta, motocicletta o Balilla del paese che non avesse cercato di conficcarcisi dentro, di strapparlo dalla Via. Ma lo scorticavano appena un po’. Molti di quelli che ci provavano se li portava via la “belùa”. Così la chiamavano al paese la crudele “belùa” che abitava quel marmo sin dal giorno che era stato posato dal console Aurelio. La “belùa”, la faina furba e dispettosa che non voleva farsi vedere da nessuno, ma che confondeva la gente con i suoi occhi e le sue malie. Conoscevo tanti che dicevano di averla vista o intravista e mi hanno insegnato a riconoscerla la notte e persino di giorno. Anche se bisognava stare molto attenti ed essere furbi come lei, per indovinare un guizzo, a volte d’oro, a volte scarlatto, a volte come di elettricità, che attraversava il marmo e confondeva l’aria d’intorno. A te, Saverio, sembrerà una favola, e adesso lo sembra anche a me, ma io l’ho vista qualche volta e dunque posso testimoniare che quel cippo ha la sua anima di faina, una bestia cattiva che fa la guardia alla strada e quando gli monta il capriccio e la rabbia si inghiotte le brave persone. E’ per questo che intorno a quel marmo c’è sempre stato un rigoglio di mazzi di calle e gladioli e biglietti listati di nero con su scritti i nomi di gente del paese che ci ha lasciato la pelle. Tutto qui. Tuo padre ha attraversato la Via e non c’è stato modo che potesse tornare indietro. Noi abbiamo fatto lo stesso. Mi dirai che sono storie stupide e non dico che hai torto. Ma quello che riguarda la gente non è mai del tutto stupido: basta frugare dentro a dovere e ci troverai sempre il suo senso. Sicuramente la pensava così quell’Ungaretti, con il suo chiodo fisso che lo faceva venire da noi, anche se apparentemente era così diverso, nato dall’altra parte della Via. Chi è nato di là non poteva essere un buon anarchico, ma magari aveva la nostalgia di quei disgraziati che per forza di cose lo sono. Comunque, ho finito. Io, che quelle poesie le ho lette e rilette, non mi stupisco più di tanto se tuo padre le ha conservate. Anzi, mi sembra quasi naturale, anche se scopro solo ora, ora che se n’è andato, che aveva voglia di leggere. Per il resto sai più o meno le cose che so io. Se vuoi un consiglio, fa la tua vita e aspetta di dimenticartele: non ci troverai mai niente dalle parti di Carlomagno che ti possa aiutare in quello che avrai voglia di diventare.» Dopo la lezione di Ruben forse che la mia vita è cambiata damblé, tutto mi si è rivoltato dentro e il giorno dopo nulla poteva più essere come prima? No, non è stato così, non così semplice. Quella notte sono tornato a casa e il giorno dopo e il giorno dopo ancora ho continuato a fare le cose di sempre. Andavo a qualche lezione, facevo i miei affarucci al Porto, ogni tanto mettevo piede al Diwan Nabil all’ora dei giovani. Nasser aveva perso la guerra. Non c’erano più dubbi, perché anche in Alessandria stavano arrivando le carovane dei profughi del Sinai. Restavano qualche giorno ai margini della città, poi quasi tutti andavano a disperdersi nelle oasi del deserto. Per cinque dollari o due sterline o dodici ghinee egiziane, a piacere, si poteva avere dai marinai norvegesi o coreani o libanesi o argentini un disco a 45 giri dei Beatles o di Sylvie Vartan per il juke-box del Diwan. Con qualcosa in più si poteva avere Wilson Pickett, stando attenti a non suonarlo troppo alto quando c’era la milizia in giro. I pozzi petroliferi di Al Katahra avevano bisogno di ingegneri non troppo “yenky” per pompare su il petrolio disperso in guerra, e io avrei potuto già mettermi in tasca il contratto se avessi assicurato una rapida conclusione della mia carriera di studente. Ma evidentemente non volevo. Così un giorno ho riempito lo zaino di cose alla rinfusa, ho affittato un asino al mercato e sono partito per il deserto. Da queste parti non è una cosa straordinaria fare una gita nel deserto, neanche per un periodo piuttosto lungo. Tutti gli arabi ci vanno ogni tanto; fino a poco tempo fa per i giovani della religione copta era addirittura obbligatorio. Ma in genere non c’è bisogno di costringere nessuno. E’ come una norma igienica, una vaccinazione, e per molti sono gli esercizi spirituali di purificazione. Il deserto è bello, un posto incredibilmente pulito e puro. Nulla ci può marcire lì: se una cosa muore si mummifica immediatamente e si pietrifica. Il suo silenzio è tonificante e squisita è l’aria asciutta che passa sul corpo come una medicina che raschia via tutte le impurità. E anche il sole è puro e mite, è un padre che insegna, dolcemente severo, a rimanere nell’essenziale e a disperdere tutto il superfluo. Quel giorno, di buon mattino, me ne sono partito senza particolari mete e senza ansia. Quel poco di arabo bastardo che avevo imparato nelle strade di Ras el Tin mi sarebbe stato più che sufficiente in un posto dove nessuno parla molto, se non tra sé. Non era la prima volta del resto che ci andavo, anche se per la prima volta ero solo. Avevamo già fatto io e Amos una settimana e più in giro per la Valle del Salnitro e poi ancora più in là, verso Giza e il deserto sporco delle grandi piramidi. Ora avrei preso per Siwa e le oasi dell’interno. Come dicono i bedù, sono rimasto “à la belle étoile” per un mese o poco più. Partendo ero così vuoto che avrei potuto fermarmici un anno, o una vita, per quello che me ne fregava di stare ad Alessandria. Non c’è modo migliore per andare nel deserto che in groppa a un somaro. L’importante è che la bestia non sia una carogna e che voi la trattiate con un po’ di carità e buon senso. Una dolce e robusta asinella vale molto di più di un cammello o di una Land Rover. Io sopra a un cammello non ci ho mai fatto vita, neanche da bambino, quando mio padre cercava di farmi montare uno dei cammelletti castrati che facevano da giostra per i ragazzini nei giardini della villa del re Faruk. E se qualche vostro amico occidentale si pavoneggia di un viaggio nel deserto in groppa a una bestia così, non gli credete: a un cammello bastano pochi chilometri di pista “sahraui” per sfondare la testa e il culo di chicchessia. A meno che a montarlo non sia un beduino che ci è nato sopra e può minacciarlo soffiandogli nell’orecchio le maledizioni che anche quella bestiaccia gibbosa sa riconoscere. Il cammello - che, sia ben chiaro, da noi ha una gobba sola, come quello delle sigarette - va bene per trasportare carichi inerti, e anche gli arabi, se appena se lo possono permettere, usano un’altra cavalcatura: una bella asina bianca se hanno abbastanza soldi, o un somaro qualunque. Anche il mulo è preferibile di gran lunga al perfido cammello, e se proprio siete ricchi e sfaccendati potete usare anche il cavallo, pur essendo una bestia troppo pretenziosa e inefficiente. Comunque io di cammelli basta che ne veda ancheggiare uno nei paraggi che mi viene il mal di mare. Della jeep poi neanche a parlarne: le macchine, oltreché scomode, sono troppo costose e troppo delicate. Lungo le piste se ne trovano diverse con gli assali sfondati che aspettano di essere smembrate e risucchiate dai meccanici di tutte le città e i villaggi del Sahara; le fiutano a centinaia di miglia di distanza, e per riuscire a portarsi via qualche ammennicolo sono disposti a risse stupefacenti. L’asina che avevo noleggiato non era niente di speciale: né troppo vecchia, né troppo rognosa, mansueta quanto bastava per poter essere affittata per qualche viaggio ancora, anche se, gratta gratta, le scoprivi il carattere un po’ spigoloso di chi ha avuto a che fare con troppi padroni e troppi diversi modi di intendersi. Però mi ha portato dove volevo, senza mai perdere la strada e senza scalciare per un nonnulla. Amava i cardi, quei piccoli cardi cesposi che si incontrano quasi dappertutto, ma questo è un vizio di tutta la sua famiglia, e mi sono spesso attardato ai bordi delle piccole “uadi” umide che si incontrano lungo la strada per darle modo di rimpinzarsene. In compenso lei non ha mai cercato di scappare, nemmeno quando le lasciavo la briglia sciolta per andare a fare un po’ di acqua tra le dune. Il deserto non ha quasi mai niente che valga la pena di una fuga solitaria. I solitari, un uomo da solo o una bestia da sola, non hanno nulla da guadagnarci dal deserto. Per arrivare a Siwa non ho preso la nuovissima strada, allora sì che sarebbe andata bene una macchina o un pullman, ma la vecchia pista che collega le piccole oasi che si incontrano prima dell’antica e più famosa città, sfiorando appena le roventi depressioni del El Qattara. Così ci ho messo un bel po’ di giorni, prendendomela comoda e arrivando la sera per tempo nei caravanserragli. Adesso mi dicono che sono un po’ cambiati, fatti di muratura e con sopra scritto “snack bar, ristoro, souvenir”, ma fino a qualche anno fa, al tempo del mio viaggio, erano ancora quelli di sempre: un recinto per le bestie e uno per la gente; una baracca di vecchie assi, o, molto più spesso, un paio di tende beduine per mangiare e ripararsi dal caldo nelle soste meridiane. Si dormiva all’aperto sui tappeti stesi sulla sabbia accostati al recinto: “à la belle étoile”. Il deserto ha molte cose belle, ma niente dà più pace agli uomini che lo trafficano che starsene supini la notte al cospetto del suo cielo. L’aria asciutta ha perso anche i minimi vapori del giorno e le stelle vengono giù a cascata da un soffitto basso basso colorato di un violetto traslucido come acqua; si direbbe che ti piovano addosso a catinelle. I profumi del deserto con il freddo sono svaniti, e non resiste intorno un rumore più consistente del respiro del tuo vicino steso poco più in là. Il giorno hai camminato, la sera hai guardato a oriente verso il tuo dio e ti sei nutrito di poche cose grasse e buone. Hai bevuto l’acqua pura e dolce pescata giù in fondo al cuore del Sahara, e ora non ti resta che sistemarti al centro del cielo e metterti in pace con ogni cosa. Ed è quello che tutti fanno. Io cercavo ogni sera di sistemarmi sempre un po’ discosto dagli altri, per allenarmi a vincere la paura degli scorpioni che si fanno la cuccia sotto i ciottoli di superficie - non sono mai guarito da quella paura - e stretto nel mio sacco a pelo guardavo in su e immancabilmente mi venivano in mente tre o quattro versi di quelle poesie che avevo letto sulla spiaggia. “Vi arriva il poeta e poi ritorna alla luce… … sono lontano colla mia malinconia dietro a quell’altre vite perse”. Quei versi che mi salivano smozzicati alla bocca erano qualcosa come una preghiera; non potrei definirla in altro modo. Io non avevo il mio dio come gli altri. Non potevo cercarmi in mezzo alle dune un posticino, sistemarci il tappeto e alleggerirmi un po’ dello stupore del deserto con una confortante nenia da bisbigliare al sole che tramonta. Arrivavo a notte disarmato e solo. E quello là allora - faccio ancora fatica a pronunciare il suo nome - si prendeva la notte desertica e parlava per me al suo cospetto. Diceva che in mezzo a lei, confuso da tutto quello sbarluccicare di stelle in silenzio, io mi scoprivo da qualche parte un dolore, una piccola fitta misteriosa che mi faceva commuovere per qualcosa che non sapevo bene. E mentre cadevo addormentato, mi sembrava di vedere le stelle che mi calavano addosso senza peso e senza bruciare. Mi svegliavo sempre con la sensazione che uno scorpione stesse frugando tra le pieghe del sacco a pelo. Ma era la prima luce del mattino che cominciava a scaldarmi. Bevevo il latte di cammella e poi il tè molto forte e molto zuccherato, mangiavo galletta cotta sul sasso, e mi rimettevo in viaggio con il mio somaro. Cionc cionc cionc, battevano le mie cosce sulla pancia morbida dell’asinella. E con quel motivetto potevo andare all’infinito, con tutti i miei sensi tranquillamente in attesa di quello che il giorno avrebbe portato. Nel deserto ci sono molte cose da vedere e sentire e odorare. E ognuna ha un grande spazio attorno a sé. Un cespuglio striminzito di mirto manda un profumo molto intenso, ma è il solo cespuglio nel raggio di molti chilometri, ed è l’unico odore che si può percepire in quel momento. Con lo sguardo puoi abbracciare diverse ore di cammino e molte montagne e depressioni e piste che si perdono oltre l’orizzonte, ma niente è ammonticchiato alla rinfusa, niente si sovrappone e confligge come capita in una città. Così ogni rumore è ben distinto e libero di muoversi all’infinito. Tutto questo è molto riposante, tutto questo dà un senso di grande ordine e pulizia che rende agevole il cammino e lascia liberi di pensare in tranquillità. Così il tempo è una cosa molto opinabile e una marcia di dieci giorni può sembrare una breve e piacevole passeggiata. Sempre che tu non voglia cambiare le regole. Lo fanno quelli che dal deserto escono malconci e turbati o non ne escono vivi; sembra quasi impossibile, ma ce n’è ancora qualcuno che prova a fare di testa sua. Io viaggiavo deviando ogni volta che avevo voglia di vedere qualcosa o di inseguire un rumore. La corsa di un coniglio, un gruppo meraviglioso di rocce violette, una depressione scavata da fenditure strane e complicate, una pista appena accennata che porta all’invisibile polla d’acqua protetta da un bedù e da una palma nana. Inezie di questo genere. Nelle ore più calde cercavo un’ombra tra le rocce e mi preparavo il tè con gli stecchetti che avevo raccolto lungo la strada; il somaro aveva il suo orzo e per lui era sempre domenica. Pensavo molte cose, credo in continuazione, ma in modo talmente soffice e leggero che neppure me ne accorgevo. Mi stavo concedendo un lusso: era questa mia marcia, una vacanza da tutto quanto. Così sono arrivato a Siwa. Ci sono arrivato in compagnia di un sacco di gente. Venivano dal Sinai, ed erano con le donne e i bambini in tutto forse duecento, intruppati sopra i cassoni di vecchi camion militari. Li ho incontrati poco prima della discesa dalla collina di Dakrour, quando oltre la prima barriera di palme già si vedeva la piscina di acqua calda che dicono, ma non è vero, fosse stata costruita da Antonio per Cleopatra. Avanzavano sulla strada molto lentamente, preceduti da una camionetta della milizia, i quattro camion zeppi di gente carica di fagotti, e su ognuno un soldato nero e magro tentava di far sventolare nell’aria greve di polvere bollente la bandiera verde della Jiad. Sulle fiancate dei camion erano appesi dei cartelli ormai scoloriti con sopra scritte a caratteri molto grandi delle frasi che non capivo. Quando il convoglio mi si è affiancato arrancando in un sorpasso interminabile, un tale con la faccia tutta grigia di polvere mi ha gridato qualcosa di incomprensibile. Gli ho fatto un cenno di saluto e per tutta risposta quello ha intonato un canto, incoraggiando con ampi gesti la gente a fare altrettanto. Ne è venuto fuori un coro stentato che si è affievolito subito in un nenia stonata e piuttosto lugubre. Dovevano essere tutti quanti sfiniti. Ma dopo un poco quel tale si è proteso dal parapetto e mi ha ripetuto urlando la sua domanda: «Ingle?». No. Adesso finalmente capivo. «”Yenky”?» No, alessandrino, alessandrino della “jumhuriya” araba del Misr, gli ho risposto, sicuro che la mia buffa inflessione lo avrebbe intenerito. E infatti, come tutti gli arabi che hanno una piccola conversazione nella loro lingua con il sottoscritto, anche lui si è messo a ridere. Solo che rideva a crepapelle e tra gli sghignazzi continuava a gridarmi: «Iskandariya, Iskandariya la grassa, Iskandariya la grassa, la grassa puttana, la grassa puttana. Ah, uomo fortunato di Iskandariya!». Scandendo bene le parole, come se intendesse insegnarmi una frase nuova di zecca. E in effetti era la prima volta che qualcuno, rivolgendosi a me, usava il nome arabo di Alessandria. Intanto la mia asina insisteva a ragliare di dispetto per la polvere che si alzava dai copertoni, avvolgendoci in soffici e asfissianti zaffate di borotalco. Per darmi un contegno cercai di calmarla con un paio di secchi colpi di briglia sul grasso deretano. Era la prima volta che provavo la mia autorità in modo così brusco, e lei se la prese così a male che iniziò a trascinarmi in una folle galoppata giù per la discesa, forse volendo mostrare al vasto pubblico dei profughi la sua indomita asinità. La gente dei camion si rianimò all’improvviso e cominciò a incitarla improvvisamente di buon umore, berciando ogni sorta di insulti. Io non potevo che tentare di restare in equilibrio sulla groppa e cercare di salvarmi la schiena. Così sono entrato in Siwa inseguito da un’orda motorizzata di arabi acclamanti, mezzo morto di paura, stretto alle briglie di un somaro che ringhiava come uno sciacallo. Passai una settimana a fare stupendi bagni caldi nelle vecchie piscine, a bighellonare nell’oasi tra le macerie degli antichi monumenti, e a bere vino di tarassaco nel caffè di un piccolo albergo che aveva camere stranamente linde. Siwa era l’Egitto, l’Egitto arabo e africano, l’Egitto di quella sua civiltà troppo vecchia per essere comprensibile, ma che perdurava misteriosamente nelle facce di una razza mai vista in Alessandria: gente che parlava un dialetto di suoni stretti tra le labbra e si vestiva di colori conturbanti. Per me era come essere in viaggio attraverso un tropico che non avevo mai varcato. Vedevo cose assai notevoli attorno a me, cose strane e esotiche, ma la mia curiosità si affievoliva subito in un nonnulla. Bighellonavo piuttosto che osservare. Camminavo a mezz’aria tra i giardini di albicocchi e gli orti di palme grondanti cento meravigliose qualità di datteri. Giocherellavo con i riflessi chiaroscuri dei ruscelli o tra le grandi pietre istoriate del tempio dell’Oracolo, senza realmente cercare e scoprire nulla che mi scuotesse da un profondo disinteresse interiore. Insomma, avevo la testa da qualche altra parte. Solo che non sapevo dove, altrimenti mi sarei orizzontato in qualche modo. Ogni tanto andavo a trovare la mia asinella nella rimessa dove era a pensione, e svogliatamente le confidavo che non mi sentivo niente affatto brillante per la mia età e per la mia condizione. Lei, naturalmente, non rispondeva. Una sera sono andato alla Montagna della Morte. Non che fossi di umore nero o cose del genere, ma il portiere-caffettiere-factotum dell’albergo se ne vantava come di una grande attrazione del posto. E’ una collina sulla strada per Matrouh che in effetti fa un certo colpo a vedersi, perché è tutta inzeppata delle tombe di Siwa, l’antica necropoli e il cimitero moderno assieme. Proprio una città dei morti che da lontano assomiglia a una scenografia di cartapesta di uno di quei film con Christopher Lee, se rendo l’idea. Un’infinità di monumenti funebri di ogni dimensione, e credo sparpagliati senza ordine o accatastati alla rinfusa, in modo da formare vasti isolati di decrepite catapecchie con piccole chiazze di giardino, inselvatichite per lo più. Alla sommità un boschetto di palme spelacchiate lasciava intravvedere i resti ciclopici di un tempio. Quando cominciai a salire il viottolo principale, trovai una animazione che ovviamente non mi aspettavo. C’era gente che andava e veniva carica di ogni possibile oggetto e il tipico trambusto, indecifrabile e chiassoso, degli arabi quando si mettono assieme a combinare qualcosa. Lì per lì non riesci a capire bene se stanno litigando così forte che finiranno con l’ammazzarsi a vicenda, o se invece li hai colti nel magico momento in cui si avvia la laboriosa edificazione di una civile fraternità. Negli stretti passaggi tra le tombe, lungo i vialetti alberati di aranci e palme, in ogni più piccolo interstizio dello sfasciume di pietre e vecchi mattoni, era tutto un turbinare di lamiere ondulate, cartoni sfondati, agnelli legati per le zampe, orci di terra, tanike di latta, frigoriferi senza la spina, panche e sedie spaiate, bambinetti addormentati in panieri di fibra e in bidoni svuotati, galline chioccianti a decine su pagliericci e tappeti. Ragazzini e vecchi, uomini seminudi e donne tappate nei loro “chador”, stracarichi di quella roba, si sospingevano l’un l’altro in un vorticoso saliscendi; tutti a ridere, urlare, imprecare e comandare tra i belati, i latrati, i pianti e i coccodè. Sembrava che lassù, sul cucuzzolo della collina, quella strana forma che si agitava nella foschia sollevata dalla polvere fosse l’arca di Noè, che scalpitava per salpare e tutti quanti quaggiù che si davano da fare per non perdere il posto. Avevo trovato un po’ in disparte uno slargo di terra battuta e mi ero seduto a riposare sui gradini di uno strano edificio, forse un mausoleo, dalla vaga forma a cono. Quel tipo di architettura fatta di fango chiaro che dicono risalga all’antico impero del Mali, prima ancora dell’Islam. Non c’era più buona parte del tetto e al posto della porta si apriva una larga breccia. Zufolavo tra i denti per darmi un contegno e intanto cercavo di capire qualcosa di quello che stava succedendo. Dopo neppure dieci minuti mi si piazza davanti un uomo, scuro, con addosso una camicia militare e un paio di calzoncini corti disegnati a grandi fiori. La faccia coperta di una crosta di sudore impastato alla polvere, si era caricato di un pezzo di lamiera ondulata tutto arrugginito e talmente grande che a malapena riusciva a tenersi in equilibrio dondolandosi sui piedi. Mi osserva un poco in silenzio e poi gli sguscia fuori da quella sua faccia segnata un gran sorriso: «Iskandariya, eh, Iskandariya, eh!». Con gran sforzo riesce ad appoggiare al muro la lamiera e si siede tutto soddisfatto accanto a me. Era quel tale del convoglio, quello che mi aveva fatto ricordare il nome vero della mia città. Gli offro una sigaretta e lui la prende tra le dita con grande delicatezza, ma non se la fa accendere e la depone con cura, come fosse stata - che so? - una farfalla ancora viva e palpitante, nel taschino lacero della camicia. Gliene ho data un’altra e questa s’è messo a fumarla con gran gusto. Cercava di parlarmi evitando di usare il suo dialetto, e ne usciva fuori una miscela di arabo cairota, inglese arabizzato, francese anglizzato, con in più qualche parola che a me pareva berbero per le assonanze con la lingua che parlavano in molti a Siwa. Così seppi quello che stava succedendo. Mi spiegò, prima cosa, che io ero seduto sulla soglia della sua nuova casa e che sarebbe stato un onore per lui se solo gli avessi dato la possibilità di terminarla. Ora era ancora imperfetta, mancava ad esempio il tetto che lui stava giusto portandosi appresso, per sistemarlo prima di notte. Mi indicò poi suo padre, i tre figli e la moglie accovacciati tra le masserizie. Li chiamò tutti per nome e ognuno fece un cenno di saluto. I bambini erano tutti molto chiari e sottili e il più grandicello teneva tra le braccia il più piccolo, completamente nudo. La moglie, a giudicare dalla soddisfazione con cui lui la guardava, doveva essere molto giovane e molto bella, o molto laboriosa ed efficiente. Dai lembi della veste le spuntavano due mani minute, con i polsi fasciati da una quantità di braccialetti carichi di monetine d’argento che tinnavano a ogni piccolo movimento. Gli chiesi con cautela - è molto complicato riuscire a non offendere la suscettibilità di un arabo avendo a disposizione una manciata di parole, per una lingua che fa di una sfumatura d’accento una questione di vita o di morte - se tutta quella gente che vedevo darsi da fare attorno stava mettendo sù casa nella Montagna della Morte. Infatti era così, mi rispose tutto fiero. Avevano avuto dal governo il permesso di stabilirsi lì. Qualcuno nel convoglio aveva preferito spingersi ancora più a sud, verso Farafra, ma la maggior parte aveva intenzione di fermarsi a Siwa, visto che nessuno in vita sua aveva mai visto un posto migliore: Siwa era il giardino di Allah per un beduino del Sinai abituato a risparmiare acqua per mesi per poter fare le abluzioni rituali tutto l’anno. E in quel paradiso il posto più adatto era il cimitero, dove molte case erano praticamente già pronte, dove si poteva stare abbastanza larghi, avere acqua, verde e la benedizione degli antenati. Poi avrebbero trovato tutti un buon lavoro, perché un bedù del Sinai sa fare tutto dappertutto. Mi spiegò che lui era molto stimato da tutte le famiglie del convoglio e che, piacendo a Dio, avrebbe sempre dato buoni consigli a chiunque, traendone la giusta ricompensa nella vita presente e in quella futura. Mi diceva queste cose ammiccando, come se fosse convinto che io avrei potuto diventare il primo cliente nel suo nuovo insediamento. Il sole era già calato oltre la misteriosa costruzione - l’arca di Noè? - sulla sommità della collina, ma pareva che né lui né la sua famiglia avessero una gran fetta di muoversi. In fin dei conti mancava ormai solo un tetto e una porta per sistemarsi come si deve. Continuammo a chiacchierare, mentre il resto della famiglia se ne stava cortesemente in disparte il vecchio lanciando ogni tanto cenni di assenso, come se effettivamente potesse udire e comprendere quello che ci dicevamo, la moglie lavorando qualcosa dentro un vaso, i ragazzini berciando sottovoce tra di loro e sorridendo di soppiatto nella mia direzione. Amin, così si chiamava, “il Fedele”, era di temperamento allegro e curioso; quel tipo di carattere che gli occidentali, quando non sanno acclimatarsi da queste parti, interpretano spesso come iroso e invadente. Ammiccava e gesticolava con grande passione cercando di farmi domande in quel contorto gergo che aveva messo a punto per me. Moriva dalla voglia di sapere tutte le meraviglie di Iskandariya. Era vero che c’erano più di cento migliaia di puttane bianche come il latte? Era vero che non si poteva mangiare con meno di una ghinea? E c’erano televisioni nelle case, e macchine americane nelle strade, e nessuno aveva rispetto di Dio a tal punto che si osava pubblicamente praticare l’ateismo? Era vero che non si trovava neanche a peso d’oro un “cadì” che amministrasse la giustizia rettamente, perché vi erano cento giudici quanti erano i popoli della città? E dunque nessuno andava in galera perché non si potevano costruire cento prigioni? Iskandariya la grassa puttana, questo era il suo chiodo fisso, e voleva che glielo confermassi con particolari raccapriccianti e golosi. Perché era proprio goloso di quello che pensava fosse Iskandariya, come se la città con le sue meraviglie fosse il peccato che il pio e saggio Fedele aveva deciso valesse la pena di commettere a rischio dell’inferno. Gli brillavano gli occhi mentre mi chiedeva. Cercai di spiegargli com’era effettivamente diversa da ogni altra città dell’Egitto e del mondo forse, ma che questa rarità non le veniva soltanto da una gigantesca follia libidinosa, né dalla magnanimità del presidente Nasser, che ancora non si era lasciato andare a raderla al suolo. Ma da molti millenni di promiscuità tra ogni tipo di gente e traffico umano. Certo, quella gente era un po’ strana e in giro si dicevano un sacco di storie senza che nessuno si sognasse di contraddirle, perché erano un po’ come un muro a difesa della città, un sipario che la teneva distante da tutto il resto. Sapeva Amin che la gran parte degli alessandrini erano stati profughi come lui, gente venuta via da altri paesi e altre città?E gli dissi quello che mio padre a suo tempo aveva detto a me. Che chi scappa via da un posto non ha nessuna voglia di fermarsi in un altro che gli ricordi troppo da dove viene. Ha bisogno invece di annebbiarsi e intontirsi il cervello per non soffrire la nostalgia, che è la malattia più stupida che possa capitare. Allora si dà da fare a mettere su una giostra, un baraccone che stia sempre in moto e che ti faccia girare la testa. Un posto fasullo come un luna park, ma dove non ti viene mai la voglia di andartene via. Certo, mio padre non intendeva parlare per sé, che si sentiva fuori da questa storia e ci teneva a dirmelo; cercava invece di giustificare i suoi compagni. C’era tra noi chi si dava agli affari pazzi per mandare tutto in malora il giorno dopo, o chi si faceva mandare le Buick da Beirut e poi andava a scaricare al porto trenta ore al giorno per pagarsi una zuppa di fave; uomini cresciuti sulla strada che si pigliavano quattro mogli e la sera si dimenticavano di andare a casa perché non si ricordavano nemmeno dove le avevano messe. Alessandria era un teatrino che metteva su da duemila anni lo stesso spettacolo di gente sbandata. E la gente così, si sa, è sempre in movimento, sempre a ridere e a piangere. Lo capiva questo Amin? Cosa dici, Amin, hai capito che la storia delle centomila puttane e delle ghinee d’oro che volano giù dalle finestre è una fandonia che ti sei bevuta solo perché sei un bedù innocente del deserto? Forse capiva, forse no. Però voleva sapere, e mi pressava roteando vorticosamente sillabe trilingui tra la soddisfatta ammirazione dei suoi. Ma io chi ero dunque? Cosa facevo? Quale dio pregavo? Perché parlavo in quello strano modo? Ah, sì? e tu Amin? Era questa schifezza la lingua ufficiale di Iskandariya? No, macché, Alessandria non aveva una lingua ufficiale, cioè sì, era l’arabo la sua lingua statale, un arabo un po’ diverso magari dal tuo, un po’ meno di montagna. Ma chi se ne frega ad Alessandria della lingua ufficiale? Lì parlano come viene, bisogna solo capirsi; e gli arabi parlano un po’ di italiano e di greco e di francese e anche di russo, e forse anche lo “swaili” sanno parlare quelli che trafficano in quella porca città. Io, come vedi bene e senti, non sono arabo né cipriota né russo, ma sono un po’ di Alessandria e un po’ di un paese di Italia. Ecco, nello stesso modo che tu ora sei un po’ del Sinai e un po’ di Siwa. Beh, la guerra non l’ho fatta io, l’ha fatta e l’ha persa mio padre. No, non contro gli americani, o forse erano gli americani contro mio padre. Sì, figurati se posso spiegarti, Amin. E la tua guerra come è andata? Ad Amin non piaceva la guerra e la sua allegria s’è tutta adombrata. E damblé si è incupita anche tutta la sua famiglia, come se fosse stata telecomandata da una semplice smorfia della faccia di Amin. No, un arabo non perde la guerra, non lo vorrebbe iddio, anche se contro ha i sionisti alleati con tutti i diavoli dell’inferno. E gli yenky sono diavoli in carne e ossa, chi li ha visti giura che non c’è nessun dubbio. Ma un buon bedù sa quando deve andarsene da un posto. Il “uadi” dell’Arish era pieno di morti e di ferraglia, come potevi tirare su acqua dalle pozze e farci bere le tue bestie? Le pecore abortivano e c’era chi diceva che l’erba fosse stata avvelenata di notte dai guastatori; il latte si inacidiva appena usciva dalla mammella. I bambini non dormivano più e le donne non facevano che strillare di paura al primo lampo dei cannoni. Un beduino sa quando deve cambiare posto, e ora questo è un buon posto per le pecore e per i bambini, fino a che non ci sarà un’altra guerra per Sinai, per il monte sacro, il “gebel” Musa dei profeti. Oh, avrebbe pianto Amin, avrebbe pianto a dirotto dalla voglia di vendetta, se non fosse che non era bene farsi vedere dalla moglie piangere. Del resto non aveva detto il presidente alla radio che nessuno doveva piangere né di rabbia né di dolore? Ma passò in fretta l’ombra scura dalla faccia di Amin, che riprese con vigore a interrogarmi. Voleva innanzitutto che gli parlassi di che cosa era questa parola, la nostalgia, “homiscjckines”, nostalgia insomma, che io non sapevo tradurre in arabo e gliela avevo spiegata con i gesti della mano sul cuore che si invola lassù, verso la casa lontana e gli amici perduti. Speravo proprio che avesse capito, ma insisteva che lui quella cosa non la sapeva o non la capiva. Gli amici lontani si amano, non si ha “homiscjckines”; si amano se sono vivi e si vendicano se sono morti, come i suoi amici, di lui Amin, morti per mano del diavolo americano. Altrimenti si devono lasciare in pace le cose lontane. Si è fatto tardi, Amin, come vedi è notte ormai e la tua famiglia vorrà riposare sotto il tetto che devi ancora sistemare. Bisognerà che tua moglie cuocia la cena e che io me ne procuri una all’albergo. La nostalgia non so bene come spiegartela, era un piccolo inciso nel discorso. Mio padre me ne ha parlato per dirmi che lui non ce l’aveva, mia madre, lei forse sì, una donna è facile che sia nostalgica; io francamente non saprei di cosa avere nostalgia. Parli bene tu dell’amore; ah, certo, l’amore. Ma io non mi sbilancio; cosa ne può sapere un ragazzo della mia età? Ad Alessandria ci pareva di essere tutta una nidiata noi italiani, noi compagni: forse quello era amore? Forse; ma ora io mi sento un po’ scosso, un po’ fuori di casa mia. E’ per via che mio padre se n’è andato, credo; lui che aveva il compito di tenere la nidiata tutta al calduccio sotto la coda. A proposito: mio padre se n’è andato o è morto? Vieni che ti porto a casa, e pluffete, il mare se l’è preso. E dov’era casa sua? In fondo alla diga vecchia? Dunque Amin, bravo pastore e guerriero sfortunato, affaccendato capo di famiglia, lasciamo perdere questi discorsi che non portano da nessuna parte. Beh, non ci crederete, ma di tutti quei miei vaneggiamenti trilingui il beduino credeva di averci capito qualcosa, perché annuiva pensoso. E quando io l’ho fatta finita, si è raccolto un momento in silenzio e poi ha fatto un cenno in direzione dei suoi. A nessuno in particolare, ma evidentemente aveva un codice di telecomandi piuttosto raffinato, perché immediatamente i suoi figli, il più piccolo sempre in braccio al più grandicello, gli sono corsi accanto e mi hanno guardato con un sorriso placido e timido. Chissà cosa pensavano di me, forse che ero un babbuino cresciuto spropositatamente. Lui li ha abbracciati in mucchio, con un gesto virile e brusco, da pastore. Li ha stretti un attimo e poi mi ha guardato duro negli occhi e ha sentenziato più o meno così: «Loro torneranno al “gebel” Musa, questi miei figli pregheranno per me sulla vetta del monte del profeta; è quello che accadrà anche se io non potrò vederlo. Siwa è un buon posto per vivere, un luogo benedetto di cose buone che nessuno di noi ha mai visto. Ma è al monte Musa che torneremo. Non è “homiscickines” che tu dici, è la vita. La vita non ha nostalgia, la vita ha solo andare e tornare». E con questo si è alzato molto soddisfatto di sé, e ha dato mano al lamierone poggiato accanto ai gradini del nostro concilio. Tutta la famiglia era in piedi, pronta a varcare trionfalmente la soglia della nuova casa. Io ho salutato ricambiando i sorrisi generali, ho messo quello che mi restava del pacchetto delle sigarette nel taschino sdrucito di Amin perché capisse che avevo apprezzato i suoi suggerimenti, e sono andato in cerca della mia cena, del mio letto e di quant’altro mi mancava. Era notte fatta e la Montagna della Morte fumava in ogni punto di lumi e lumini, di vapori di fave cotte e agnello arrostito. Dalle tombe più belle e ospitali trapelavano le luci delle lampade a kerosene e i bisbigli serali delle famiglie. I profughi del Sinai finalmente riposavano dopo mille miglia di deserto nelle loro nuove case. Restai a Siwa ancora qualche giorno, incerto sul da farsi e impigrito dal clima umido e quasi mite. Continuavo a fare bagni nelle vasche messe su da Antonio per Cleopatra, e la sera tornavo a controllare che alla mia asina si desse del buon orzo e paglia fresca. All’albergo andavano e venivano funzionari del governo e qualche turista nordico rimasto intrappolato in Egitto prima che chiudessero le frontiere, o che chissà come era riuscito a varcarle durante la guerra, magari solo per sfizio: gente con cui era impossibile scambiare una parola. Continuavo a bere con la dovuta discrezione vino di tarassaco e a rimpinzarmi di uva e albicocche. Ci sarebbe stata l’attrattiva del bordello, che l’uomo dell’albergo stimava abbastanza succulenta da strabuzzare gli occhi e leccarsi i baffi - se li lisciava tirando fuori e arrotando non meno di dieci centimetri di carne grigiastra e odorosa di tabacco rancido -, ma io non ne ho approfittato; a essere sinceri, non ho avuto voglia fino in fondo di servirmene. C’ero stato, sì, in quella casetta di fango che il porco mi aveva indicato nella città vecchia, proprio in fondo al buco di un vicolo. E non mi era dispiaciuto l’ambiente piuttosto ben tenuto e pulito, i tappeti non troppo consunti sparsi dappertutto, con sopra dei cuscini che non mi erano sembrati cimiciosi. L’odore era buono, una fragranza di limone e di rose che non veniva da nessuna parte precisa e si diffondeva dappertutto. Ed era stato gradevole sbirciare dal vano della porta il corpo compatto e grassottello di una ragazza, con la pelle lucida del colore viola abbagliante dei berberi, che stava facendo i gargarismi completamente nuda. No, non mi era dispiaciuto per niente l’insieme. E avevo qualcosa come vent’anni, non dimenticatelo, e mi ero sgroppato la schiena sopra un somaro per un bel po’ di giorni. Ma poi è arrivata la padrona e - come ha fatto a capirlo lì per li? glielo deve aver spifferato l’uomo dell’albergo - mi è saltata al collo senza che io avessi il tempo di dire niente, gridando alla ragazza che avevo visto e ad altre tre che a quegli strilli si erano materializzate da scale e scalette: «Un italiano! Ah, un italiano, che dio ci perdoni tutte quante, un italiano a Siwa! Non c’è posto dove nascondersi dagli italiani!!». E altre frenesie tutte ben scandite nella lingua degli italiani. Era una donna piuttosto insignificante, avreste detto, una madre di famiglia senza velo, non certo il tipo di donna che ci si aspetta in un posto del genere. Vestita castamente e in modo piuttosto andante - avevo un certo qual ricordo delle mussole e dello shantung di un rinomato bordello alessandrino - non rivelava nessuna dote particolarmente adatta alla sua mansione. Mi gettò, letteralmente, su un tappeto e da quel momento fu tutto un fiume di parole e di racconti alitati quasi con furore. Era la moglie, ancora legalmente moglie, di un italiano di Genova che l’aveva trovata e presa a Orano, in Algeria. In un anno era stata resa madre di un maschio e più italiana di lui in tutte le sconcezze e i peccati e le bestemmie degli italiani. Dopodiché si era dissolto. Al di là del mare, presumibilmente, da dove era venuto e dove aveva disperatamente cercato di rintracciarlo per posta e con fidati messaggeri. Niente, sfumato nel nulla. E lei ormai non più araba, non più ragazza, non più niente di buono per Orano e per qualsiasi altro posto del mondo. Ma era dotata di una qualche qualità imprenditoriale e, dopo non più di cinque anni, eccola lì, a quattromila chilometri da casa, ben sistemata per quello che poteva esserlo una donna nelle sue condizioni. Un figlio, a cui non mancava nulla per crescere più delinquente di suo padre, e qualche modesto agio per se stessa. Se non fosse che Siwa era un mortorio, un buco di palme marce in confronto a Orano. Meditava per questa ragione, per godersi qualche distrazione in più, di arrivare ad Alessandria e sistemarsi finalmente in una città che valesse la pena, visto che a causa dei suoi peccati il ritorno nella paterna Orano era inimmaginabile. Io ero mandato dall’iddio protettore delle vedove e degli orfani a spianarle la strada per quella splendida città. Cominciando, lì e subito, con il raccontarle tutto quello che le premeva, e poi precedendola per trovare adeguata sistemazione a lei e alla sua azienda, tutta di ragazze sane e buone. A meno che - e a questo punto mi aveva assalito brandendomi il bavero della camicia e sputandomi le sue doglianze sugli occhi - non fossi anch’io un traditore e uno spergiuro, e allora come sarebbe finita, lei, una giovane donna con un figlio in tenera età sperduti in una pozza nel mezzo del deserto? Eccetera eccetera. Non c’era niente di eccitante in tutto questo, ve lo posso garantire. Anzi, mi ero proprio scocciato. Le ragazze poi avevano assunto un atteggiamento da sorelle addolorate, e continuavano a servire e a bere tè con malcelati singulti di commozione, additandomi per giunta ogni qual volta la loro padrona rimarcava con strida laceranti le sue ragioni contro gli italiani in genere e i marinai in particolare, artigliandomi con la sua costernazione; proprio io che in fin dei conti non ero né italiano né marinaio. No, non c’era proprio niente d’eccitante in quella situazione e, appena potei, cercai di tagliare la corda. Lo feci, inseguito dalle ragazze che alla fine avevano deciso di dedicarsi a procurarmi i piaceri del loro repertorio nonostante la commozione e il dolore. Non mi sono fatto raggiungere. Dopo due giorni sono partito con l’intenzione di arrivare a Dakla, l’oasi più a sud, nel cuore del deserto nubiano, dove le possibilità di incontrare gente interessata alle mie patrie era vicina allo zero. Avrei voluto starmene tranquillo, veramente tranquillo, ridurre al minimo le sollecitazioni di qualsiasi genere per vivere il più lentamente possibile e avere così il tempo di pensare, di fare qualche progetto. Avevo la sensazione, apparentemente immotivata, che qualcuno - certo non avrei saputo dire né chi né perché - volesse farmi fretta. Avvertivo un fastidio, capite? Quel genere di fastidio che è capace di guastarti una giornata, e poi due e poi tre, e magari una vita intera se non ti muovi con decisione per mettervi fine. Una presenza invisibile che mi alitava sul collo, una mano incorporea che mi spingeva e mi faceva perdere l’equilibrio. Il deserto era il posto giusto per levarmela di torno. Ma non è stato un viaggio piacevole come quello che mi aveva portato a Siwa. Quel qualcosa continuava a guastarmi il piacere del deserto. E’ evidentemente un piacere troppo sottile per reggere alla inconsistenza e volubilità di una mente occidentale, non c’è niente da fare. Cominciai ad allungare le tappe, spronando l’asina ad accondiscendere alla mia irrequietezza. Divenni distratto, sbirciando appena il paesaggio mentre trottavo nervoso senza più riuscire a farmi prendere dalle sue meraviglie, senza lasciarmi andare alla vita intensa di quel silenzio. Mi agitavo troppo e il caldo divenne allora insopportabile, perdendo il suo benefico effetto di depurazione lenta e piacevolmente progressiva. Avevo anche bevuto troppo a Siwa e mangiato fuor di misura, e ora stavo perdendo in modo congestionato tutto quello che avevo accumulato. Altro errore. L’asina invece era stata tenuta bene e non aveva le mie angosce, per cui intendeva attenersi strettamente alla prudenza e al procedere naturale di un viaggio nel Sahara. Cominciammo a non capirci più alla perfezione: s’era dissolta quella complicità assolutamente necessaria a una cavalcata così impegnativa, e questo mi dispiaceva più di ogni altra cosa. Perché non è che non fossi cosciente dei miei sbagli, solo che non potevo farci niente. Ma l’asina no, l’asina andava trattata bene, soprattutto ora che aveva ragione. L’ho già detto: in due si va dappertutto nel deserto, da soli da nessuna parte. Consumavamo più acqua del necessario, facevamo meno soste del dovuto, a volte marciando in pieno mezzodì quando anche alle Land Rover scoppiano le gomme sulla pista ardente, giungevamo alla sera nei caravanserragli sfiniti e nervosi, io e lei inutilmente scorbutici. E sotto le stelle basse sciorinate a profusione sopra la mia cucuzza facevo fatica ad addormentarmi. Poi, a metà strada tra Farafra e Dakla ho perso il mio somaro. Non è stata colpa mia, questo potrei giurarlo. Non lo è stata direttamente, anche se ho avuto le mie responsabilità. Fatto sta che la mia asinella è morta. E’ successo per uno scorpione, uno schifoso scorpione traditore di merda. Io gli scorpioni non li sopporto, semplicemente mi fanno paura da morire, e ho ragione. L’Africa è piena di scorpioni, li trovi dappertutto a milioni di milioni. Piccoli come un mignolo e grossi il palmo di una mano, non te ne liberi, e devi imparare a viverci insieme. Ci sono quelli, di colore bruno, che fanno il nido in casa tua tra le fessure dei muri umidi, e quelli, del colore traditore della sabbia, i più grossi e pericolosi, che vivono da re nel deserto, dove prosperano più e meglio delle vipere. Gli arabi li conoscono bene e sanno come trattarli. Più di una volta ho visto gruppi di ragazzini cercare i loro nidi tra le pietre e con una canna aizzarli a uscire fuori, per trastullarcisi abbastanza da fargli perdere l’orientamento. E poi schiacciarli con i piedi, piedi praticamente nudi dentro quelle loro ciabattine da niente. Roba da brividi. Ma a parte questi giochi idioti, non ho mai visto nessuno, bestia o umano, che prendesse alla leggera l’eventualità di farsi pungere da quelle bestiaccie: nessuno ha voglia di morire nei tormenti del suo veleno. Nel deserto escono la notte dalle loro tane sotto le pietre per cacciare e fare all’amore. Chi ha visto due scorpioni accoppiarsi, la prima volta che incontra una ragazza non riesce a essere abbastanza naturale da cavarci fuori qualcosa di buono. La scena è troppo sconvolgente e non è facile dimenticarsene. E’ una faccenda che può durare anche delle ore. Lui e lei - se si può dire così, ma sono solo orribili macchine per uccidere di un colore e di una misura leggermente diversi - si fronteggiano come due avversari in un film di pistoleri, muovendosi in tondo senza mai abbandonare la guardia delle grosse chele. Ogni tanto attaccano, incrociando le pinze, e allora battono forsennatamente contro il terreno la lunga coda con il pungiglione. Il rumore è agghiacciante, un ritmo serrato di microscopici tamburi di guerra, che ti penetra nelle orecchie come se fosse la personificazione stessa della furia omicida. Tac tac tac tac tac tac tac tac tac, mentre una stilla di veleno goccia sulla sommità dell’aculeo librata in aria brillando anche nel buio di un intenso colore ambra. Dicono gli arabi che i bedù hanno imparato dagli scorpioni il loro grido di guerra, quando vanno all’assalto battendo la sciabola o la canna del fucile contro le borchie della sella dei loro cammelli. E l’urlo lacerante «hajajhajajhajhajahajha», capace di scuotere la terra e di far bagnare le braghe ai loro avversari, simula il grido di dolore di chi è trafitto dalla loro puntura. Ecco, gli scorpioni fanno l’amore così, continuando a minacciarsi finché non sono sfiniti. Allora il maschio depone il suo sperma per terra e la femmina ci caca sopra le uova. Non se la sentono di fare come tutti gli animali, di avvicinarsi abbastanza per penetrarsi. La mia asinella è stata arpionata al collo, poco sotto la mascella. Fosse stata punta da un’altra parte, penso che forse si sarebbe potuto rimediare, ma così non è stato. Io poi non ho saputo fare niente di buono e invece avrei potuto. Ce ne vuole a uccidere un somaro, anche se lo scorpione è lungo venti centimetri come in quel caso, ci vuole molto più che a uccidere un uomo. Un asino pesa più di due quintali, è forte, ha un cuore grosso il doppio del nostro, e quando si tratta della vita è battagliero, molto battagliero. Erano le undici di mattina o poco più e stavamo preparandoci alla sosta. Tra l’altro quel giorno eravamo in ottimi rapporti; ci eravamo fermati già lungo la strada al passaggio di un “uadi” che conservava ancora qualche traccia dell’umidità dell’ultima pioggia. Lei si era trastullata con qualche fogliolina verde tra i bassi cespugli ormai secchi del mirto, e io con le tracce di una gazzella o una capra selvatica che aveva provato a scavare un pozzo. C’era un certo qual buon umore tra noi due; avevamo trovato un buon posto all’ombra di una roccetta, e io le avevo scaricato la soma e stavo preparandole il sacchetto con il suo pranzo di avena e orzo. Come faceva ogni qual volta mi lasciavo intenerire e non le legavo saldamente le zampe anteriori, mi stava dando fastidio. Aveva chinato il suo capoccione, e cercava di portarmi via il sacchetto dalle mani ficcando i suoi grossi denti dappertutto. Fosse stato un altro giorno l’avrei cacciata via e basta, invece mi sono messo a giocare anch’io. Ci contendevamo il sacchetto scalciando e dimenandoci come al ballo degli ubriachi. E’ stato così che a un certo punto, con il muso a terra e il morso ben stretto sulla tela, lei ha strattonato tanto forte da far schizzare via una grossa pietra. Come un lampo ne è saltato fuori uno scorpione grosso così. Disturbato nel torpore meridiano ha iniziato la sua corsa di guerra, battendo furiosamente la coda a terra. Tac tac tac tac tac, le è saltato sul muso, e qui si è fermato un attimo sospeso, con il pungiglione proteso a mezz’aria che fremeva. Si era accorta quella bestiaccia di avere qualcosa di morbido e caldo sotto le sue zampe. In quell’istante noi eravamo immobili. L’asina, la faccia a terra, la bocca spalancata in un raglio che le era gelato addosso prima di uscirle dalla gola. E io, che avevo capito cos’era quell’affare del colore della sabbia solo quando avevo potuto vederlo con le chele distese e la coda arcuata spiccare sul pelo grigio perlaceo: come un tatuaggio in rilievo. Poi è successo quello che doveva succedere. L’asina ha lanciato un urlo altissimo che non aveva niente di asinino - ogni volta che cerco di ricordarlo mi viene in mente il grido di una bambina - e con un colpo tremendo dei pettorali si è inarcata tutta, balzando in aria e scrollando la testa come una ballerina impazzita. Ma lo scorpione, trovando buona presa alle sue zampe nel pelo compatto, era solo scivolato di pochi centimetri. Io allora ho chiuso gli occhi. Non so, forse mi sono accecato per un secondo o forse per un minuto intero, proprio non so: mi sono letteralmente annullato. Quando li ho riaperti, quando ho ripreso coscienza, lo scorpione stava correndo giù per la groppa e l’asina aveva lo sguardo rivolto verso di me, con i suoi grossi occhi pieni di lacrime. Piangeva - per quello che ne sapevo gli asini non piangono - invasa dal dolore che le stava montando dal collo alla testa. Io avevo ancora in mano il sacchetto e con un colpo esageratamente deciso ho spazzato via la bestia. Poi ho fatto la cosa più stupida: mi sono messo a inseguirlo tra i sassi. L’avessi almeno preso. Se un falco o il copertone di una camionetta non l’hanno fatto fuori, oggi è ancora lì a giocarsi la vita della gente. Poi l’asina ha cominciato a contorcersi e a saltare su se stessa scuotendosi in preda ai tremiti. Continuava a ragliare senza sosta i suoi urli che non davano pace e non mi lasciavano nemmeno la possibilità di pensare qualcosa. Se fossi stato un altro, fossi stato un uomo con un po’ di coraggio, fossi stato mio padre, avrei saputo cosa fare e forse - dico solo forse - avrei potuto fare qualcosa di buono. Ci ho pensato molto, e so esattamente cosa sarebbe servito in quella circostanza. Avrei dovuto darle una mazzata tremenda. Con un pugno, con un sasso, con qualunque cosa, in modo da farla calmare, ridurla immobile il tempo sufficiente per farle un taglio con il mio coltello dove lo scorpione l’aveva trafitta - ci sarei riuscito a trovare quel forellino tra il suo pelo corto, ci sarei riuscito - in modo che le sgorgasse abbastanza sangue da eliminare almeno in parte il tossico. Questo non sono riuscito a farlo ed era l’unica cosa che il mio ciuco poteva aspettarsi da me. E’ inutile dire oggi che forse non sarebbe servito, che tener fermo un asino imbizzarrito non è una cosa tanto semplice; in ogni caso quando ho trovato le forze per provarmici, lei era già in agonia. Il veleno dello scorpione è quanto di peggio in fatto di morire. Ti irrigidisce ogni muscolo in uno spasimo che il fisico non può sopportare e alla fine muori asfissiato o ti si crepa il cuore: a piacere. L’agonia del mio somaro è durata parecchie ore, non so quante, ma sicuramente parecchie, perché quando tutto era finito, l’aria si era rinfrescata e il sole era ormai basso, tanto basso che riusciva a indorare anche il suo pelo diventato irto e grigio più che mai. Per quanto tempo è durata lei se n’è stata abbattuta per terra, immobile e rigida come un tronco di palma, con il muso e il pettorale coperti di bava bianca, gli occhi sbarrati e fissi sul suo dolore. Le usciva dalla bocca, assieme al filo della bava, un lamento basso e persistente - «ohoc ohoc ohoc ohoc ohoc » - che aveva perso qualsiasi possibilità di sembrarmi umano: era troppo profondo, e troppo, veramente troppo disperato. L’unica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata di mettermi li con lei, con la presunzione - parecchio stupida - di poterle fare compagnia. Tutte quelle ore le ho passate accoccolato con il corpo appoggiato al suo ventre, senza fare niente di veramente utile, a subire il suo «ohoc ohoc ohoc» e a passarle una mano sul pelo che si ispessiva ogni minuto di più. Il sole andava per la sua strada e faceva caldo, cristo se faceva caldo. Quando io ne sentivo il bisogno, prendevo la pelle di capra con l’acqua e le spruzzavo il muso, dopo essermi bagnato il mio. E’ morta quando a un certo punto ha smesso di lamentarsi. Non mi è neppure venuto in mente di tastarle la vena grossa del collo, ma era così rigido che non avrei sentito niente in ogni caso. Quello che ho fatto allora è stato, semplicemente, di spostarmi un poco. Era ormai sera, dicevo, e io ero lungo la pista per Dakla appoggiato a una pietra che si stava raffreddando, spandendomi per tutto il corpo uno sgradevole senso di spaesamento. Me ne stavo lì seduto con qualche bagaglio attorno e una bestia morta poco distante; la mia asinella riversa nella sua bava a ridosso di una roccetta che non faceva più ombra a niente. E amen. Cosa succede a un uomo, poco più di un ragazzo, se si trova la notte solo in mezzo al deserto vegliando un’asina presa a nolo che gli è spirata praticamente tra le braccia? Prima o poi si addormenta questo è poco ma sicuro. Ma ancora prima, lo voglia o no, gli viene una paura e uno sgomento che si vomita addosso tutta la dignità che pensava di aver messo assieme nella sua onesta gioventù. Me ne stavo accucciato lì, paralizzato, senza aver neppure il coraggio di infilarmi dentro il sacco a pelo - se non siete nella disposizione d’animo giusta, un robusto sacco a pelo dell’esercito inglese può diventare ai vostri occhi una insopportabile trappola, ed è facile che vi faccia venire in mente quello strumento di tortura che avete visto da ragazzo in qualche libro illustrato con il nomignolo inquietante di «vergine di Norimberga» - tremavo dal freddo, ma trattenevo il respiro per non fare rumori che potevo non riconoscere. Stavo in attesa spasmodica che qualcosa venisse a pungermi, a straziarmi, a portarmi via, e a liberarmi così finalmente dal terrore che mi aveva invaso. Questo ho imparato a riconoscere in me quella notte: il terrore nudo e crudo. Ma poi, dato che nella resistenza di un uomo all’angoscia e al dolore c’è sempre un limite, un punto cruciale in cui la vita - la bestia della vita - si prende quello che le spetta o lascia perdere definitivamente, nel mezzo della notte ho cominciato a sentire fame. Una sensazione elementare e più forte di ogni altra: avevo fame e l’unica cosa che volevo fare era mangiare. E’ davvero sorprendente come il bisogno fisico sappia prendere il sopravvento su ogni possibile desolazione della mente. Sono bastati cinque o sei crampi allo stomaco ben assestati, e il terrore che mi aveva aggrinfiato così profondamente da lasciarmi tramortito e indifeso, si è trasformato nel bisogno puro e semplice di mettere sotto i denti qualcosa. Beh, in fin dei conti ero digiuno dall’alba. Feci fuori le provviste che avevo portato con me per la sosta di mezzodì, feci fuori le gallette e i datteri di riserva. Finiti quelli, mi misi a succhiare i semi di cardamomo che mi servivano a profumare il caffè, e quando smisi di succhiare i semi, avevo ancora abbastanza fame da cercare di masticare l’acqua che bevevo. Mi addormentai di colpo con la fiasca di pelle di capra ancora in mano. Mi ha svegliato un pensiero, o forse un sogno: l’asina, dov’è l’asina? Ho aperto gli occhi e mi sono trovato a stringere la pelle di capra ormai del tutto smunta. E il secondo pensiero, o la fine del sogno, è stato: perché è così flaccida? Allora mi sono svegliato del tutto e ho ricordato all’improvviso ogni cosa con la massima precisione. L’asina era ancora là, a non più di quattro o cinque metri, identica a come la ricordavo. Solo la bava le si era asciugata addosso e aveva lasciato sul pettorale e il muso una certa qual lucentezza. Bene, adesso toccava a me non fare la stessa fine. L’esserle sopravvissuto per tutta una notte, non essermi svegliato con uno scorpione tra le pieghe della camicia, era già un buon segno, l’unico per la verità. Mi sono sciacquato la bocca con le ultime gocce d’acqua rimaste e mi sono messo in piedi con la ferma intenzione di vendicare il mio ciuco incominciando col salvare la mia pelle. Una pista, e in particolare la pista che porta a Dakla, non è detto che sia sempre frequentata. Lo è «quasi» sempre in modo regolare, ma non sempre. In certe stagioni dell’anno, basta aspettare un paio d’ore per veder passare un camion o un pastore o una squadra dell’esercito sulle sue vecchie autoblinde. Ci sono certi periodi invece che bisogna aspettare mezza giornata, altri che non basta una giornata intera. Non è una questione di stagioni, o non è semplicemente una cosa del genere. I traffici del deserto da millenni seguono calendari che sfuggono a valutazioni che noi occidentali consideriamo di ordine pratico. Diresti che in piena estate non dovrebbe passarci nessuno sul tavoliere che i bedù chiamano «l’incudine del diavolo», invece non è così. A luglio è facile incontrare i convogli dei sudanesi che salgono a nord ai mercati del bestiame e del contrabbando, e ridiscendono carichi della roba comprata ai pellegrini che ritornano dalla Mecca. Insomma, non è dato sapere, se non a un abituale frequentatore di quelle parti, se ci sarà da aspettare un’ora o una settimana prima di trovare un passaggio. Quello che poi è sommamente incerto è quanto costerà: se sarà un atto di ospitalità noncurante e generosa di un berbero pluriricercato per atti di terrorismo in Ciad, o invece un baratto assai costoso, al limite della rapina, con un ricco venditore di sapone di Luxor. Ma questo è un problema del tutto trascurabile quando sei lì, nel bel sole del primo mattino, sul bordo di una pista, deserta anche delle tracce dell’ultimo passaggio, spazzate via dal vento dell’alba, e ti chiedi se prima di sera e prima di finire disidratato troverai qualcuno che ti porta via. E mentre il sole si alzava sempre più perentorio e splendente, gli avvenimenti del giorno prima, e di ogni altro giorno e notte e mese e anno, erano talmente lontani da appartenere a un altro mondo e a un’altra persona. La testa e la faccia ben fasciate nella sciarpa di cotone verde, le maniche della camicia chiuse ai polsi per salvare più pelle possibile dalle scottature, mi sono messo in cammino a passo lento e regolare con l’intenzione di dedicarmi all’autostop e solo a quello. Ancora una volta era la vita bestia, quella che non vuole sentir storie ma solo vivere, ad aver preso saldamente in pugno la situazione. Vedo che sto scrivendo da ormai dieci giorni e ai miei sogni ancora non ci sono arrivato; anzi, di questo passo ce ne vorrà ancora un bel po’. Naturalmente mi sono fatto prendere la mano: c’è sempre qualcosa di consolante nel fatto di ricordare, quando non c’è niente di concretamente impellente che la mattina ti faccia saltare giù dal letto. Proprio così, niente che mi faccia schizzar via da questa stanzetta. Il dottor Modrian dice che va bene così: «Scriva, scriva, mio signore. Scriva che è tutta salute. Alleni le dita, le fortifichi sui tasti, e vedrà che questo sarà il primo passo verso la completa guarigione. Ah, vedo già dei progressi, la vedo più fresco e vivace. E anche le feci, mi permetta, sono di un colore più consono e più sano. Vada avanti, vada avanti». E io vado avanti. Ma nel deserto effettivamente qualcosa mi è successo, anche dentro, dico. I profughi del Sinai, Siwa e la puttana, il mio somarello e la fine che ha fatto, sono stati come delle esche di polvere pirica, dei detonatori per tutto il resto che ho combinato. I fatti, presi uno per uno, non significano niente, è quando vanno a sedimentarsi dentro di noi che allora succede qualcosa che sfugge alla coscienza. Come la birra, ecco. La vita ci fermenta dentro; e con poco orzo e acqua fresca viene fuori uno schiumone che ti ubriaca. Andiamo avanti allora; e riprendiamo da quando mi incammino sulla pista per Dakla. Sono stato tirato su da un geometra - non da un mercante di schiavi o da una banda di beduini - nel tardo pomeriggio, quando ormai non ce la facevo più, ed ero così stanco che non riuscivo più a tenere gli occhi fissi sulla nuvola di polvere che annunciava l’arrivo di un mezzo. Non ho agitato le braccia, non ho urlato aiuto. Uno che cammina ai bordi di un pista del Sahara è uno che ha solo bisogno di essere portato via di lì. Il vecchio camion militare si è fermato e dal finestrino si è affacciato il geometra, un bel ragazzo moro: in quel momento l’avrei sposato se me l’avesse chiesto. Stavano pigiati in tre nella cabina; scesero tutti, mi presero il bagaglio e lo buttarono nel cassone. Mi hanno dato da bere e una manciata di fichi secchi. Il ragazzo parlava un inglese scolastico uguale identico a quello che avevo imparato io alla scuola Dante Alighieri. Mi spiegò che era geometra con un sussiego quasi infantile, e che tutti e tre erano genieri dell’esercito e che stavano tornando a Siwa. Io ho balbettato il mio nome e la preghiera di portarmi con loro. Mi ha dato una coperta, una borraccia di acqua e mi ha spinto sul cassone del camion dove sono atterrato sul mio bagaglio. Avevano fretta e volevano arrivare a Siwa prima del mattino. A Siwa i miei salvatori non trovarono dignitoso prendere la meritata “bashish”, accettarono solo l’invito a colazione in albergo. Era molto presto e ho dovuto svegliare l’uomo del banco che, con le segrete arti del tuttofare, è riuscito a mettere insieme un tavolo da nababbi. Mai che durante il pasto il giovane geometra o un altro dei suoi abbiano tradito la minima curiosità su quello che poteva essermi capitato laggiù. Ci siamo salutati con molta semplicità, come, appunto, un autostoppista può salutare l’automobilista che gli ha dato un passaggio su un tratto di autostrada. Finalmente me ne sono andato a letto e ho dormito diciotto ore filate. Mi sono svegliato verso mezzanotte con il ricordo di un sogno dove avevo una malattia alle corde vocali per cui non riuscivo più a parlare, ma solo a ragliare «ohoc ohoc ohoc ohoc ohoc ohoc», mentre intorno gli amici di mio padre mi facevano un sacco di domande sul viaggio nel deserto. Ho mangiato qualcosa che chissà chi aveva messo sul tavolino e mi sono ricacciato a dormire. L’indomani ho messo la testa fuori dell’albergo: un minuto prima che partisse il convoglio di camion dove il portiere aveva trovato a caro prezzo un posto per me. Destinazione Alessandria. Alessandria nell’Egitto. Beh, sapete com’è quando si torna a casa dopo un viaggio in cui ve ne sono capitate di tutti i colori. Si apre la porta, si mette piede nel territorio familiare delle proprie stanze, e gli oggetti della vostra vita quotidiana vi vengono incontro come un potente tonificante. Scostare una tenda, alzare la ciambella del water, prendere una camicia dal secondo cassetto dell’armadio, sentire il “greeeck” della porta della camera da letto che nessun olio è mai riuscito a domare, fa tutt’uno con una sensazione di pace e sicurezza che non vedete l’ora di ritornare a godere. Poi ritornerete alle solite beghe e al solito trantran, ma per qualche giorno almeno vi sentite veramente a posto: re appagati nel vostro regno. Cosa volete che vi dica? Per me non è stato così, punto e basta. Lì per lì mi sembrava di poter trovare pace nella mia casa e nel mio quartiere, ma è stata un’idea di pochi istanti. Già la sera del mio arrivo ero in giro a cercare qualcosa per calmarmi. Avevo poche faccende da sbrigare e queste le ho fatte subito. Prima cosa, ho sistemato i conti con il trafficante che mi ha affittato l’asino giù al mercato. Ho pagato senza battere ciglio le cento ghinee che sarebbero state sufficienti ad acquistare un puledro da parata, pur di non sottomettermi alla tortura delle domande sul perché e il percome che quel vecchio ladro mi sputava addosso per pura sporca curiosità, per avere la sua da dire, quella sera al caffè, sulla stupidità dei giovinastri abbastanza ricchi da permettersi di far crepare un asino. Aveva intascato il malloppo benedicendo iddio per avermi incontrato: del suo asino non poteva fregargliene di meno. E poi le solite cose. Un passo al Diwan per salutare la vecchia gente, una riunioncina riservata in un ristorante del porto per riprendere i contatti col contrabbando, un passo all’università, un’occhiata alle ragazze sulla passeggiata per vedere se c’era qualcosa di pronto da mettere sotto i denti, per usare l’espressione che allora era in voga tra la gioventù bruciata di Alessandria. Non mi restava più niente da fare. Stavo malvolentieri in casa e in qualsiasi altro posto. In capo a una settimana, il tempo di riprendere due chili e di far cessare i dolori alle ossa, postumi delle scottature di sole, avevo deciso di ripartire. Questa volta avevo chiaro dove andare: al paese di mio padre; solo che non sapevo come arrivarci. Quell’idea mi era maturata dentro quasi a mia insaputa, e si era fatta troppo ingombrante per poterla ricacciare da dove era venuta con un semplice atto di volontà. Non mi restava che assecondarla. La sera che gliene parlai, Amos e Ruben non fecero una piega. Beh, forse era una buona idea. Soprattutto Amos era entusiasta della cosa, lo vedevo dai suoi occhi, dal modo generoso con cui intendeva aiutarmi. Andare in Italia non era fare un viaggio al Cairo, o arrivare ad Assuan: era qualcosa di molto più compromettente e complicato, definitivo. Aveva usato questa espressione: un passo molto lungo che prima o poi valeva la pena di fare, se uno se la sentiva. Lui non c’era mai stato, nessuno di noi c’era mai stato, tranne Ruben e i vecchi, ma solo prima di partire per Alessandria. Ruben invece stava molto più sulle sue, ma dire che mi avesse sconsigliato o fatto obiezioni di qualsiasi natura, questo no. Aveva preso una carta dell’Italia da una scansia e l’aveva dispiegata sul bancone di composizione. Poi si era messo a ragionare su come arrivare a Carlomagno e da dove. Nella carta, una grande carta abbastanza recente del “Touring” francese, Carlomagno non era segnato, ma Ruben con la punta di uno stilo mi indicava un punto piuttosto in alto nello stivale, tra le ombreggiature marrone intenso di rilievi montuosi che finivano in una strisciolina di verde che si congiungeva con l’azzurro del mare. Erano segnate strade e ferrovie che univano città piuttosto vicine a quel punto, ma nessuna che passasse proprio di lì. C’era un filino blu, che ci passava a fianco, e quello era un fiume. «Stai tranquillo, la strada c’è. Devi trovare un mezzo in questa città qui vicino, e poi fartici portare; non sono molti chilometri. Puoi prendere gli autobus, c’era la corriera allora, ne abbiamo già parlato. L’unico problema è arrivare in Italia, poi con il treno è facile arrivarci vicino e trovare i mezzi che ti ci portano.» Sulla carta, nel punto in cui doveva trovarsi Carlomagno, lo stilo aveva lasciato un forellino, e io lo guardavo chiedendomi se per caso attraverso quel foro fosse stata inghiottita la vita di mio padre. Non erano state le correnti a portarlo via quella sera davanti alla spiaggia; no: aveva trovato nel fondale un piccolo foro e da lì era passato per tornare a casa. «Ti porto a casa mia,» mi aveva detto. Ecco, era proprio quello che stava facendo. E’ per questa ragione che voglio arrivare fin lì? mi chiedevo accarezzando con l’indice il buco nella geografia dell’Italia. Non lo sapevo. E intanto Ruben stava ripiegando la carta e bruscamente mi invitava alle questioni organizzative. A quel tempo - la guerra dei carri armati allora era appena finita, ma ancora non c’era nessun segno di qualche pace - le comunicazioni con l’Italia e con il resto del mondo erano molto difficili. Non c’era ad esempio un volo diretto neppure tra le due capitali. Si poteva scegliere di arrivarci con un giro, facendo tappa prima in un paese amico dell’Egitto e poi di lì in un altro, amico anche dell’Italia, che avesse un volo per Roma. Oltretutto i voli non erano sicuri: la guerra dalla nostra città non si era mai vista davvero, ma il clima era arroventato dappertutto e si diceva che gli israeliani continuassero a mitragliare qualunque cosa gli arrivasse a tiro. Senza contare che si era già cominciato a parlare di terrorismo e dirottamenti. E poi c’era la questione più importante: i documenti. Io ero un apolide. Mio padre aveva voluto così per sé, per mia madre e anche per me. Non aveva mosso un dito per farmi avere la cittadinanza italiana, ed era impossibile che io avessi quella egiziana. Io possedevo un passaporto rilasciato dal governo egiziano, ma privo di cittadinanza, figlio di rifugiato senza nazionalità. Con un documento del genere era praticamente impossibile passare una frontiera occidentale.
E nel caso in cui fossi riuscito ad arrivare in Italia, era essenziale che non avessi a che fare con la polizia, se non volevo godermi qualche mese di quarantena in galera. Dovevo stare molto attento, ad esempio scegliere un albergo non troppo vistoso e non troppo infame, dove per ragioni opposte erano molto attenti ai documenti. Ruben mi spiegava queste cose con il fervore di un cospiratore all’opera dopo un periodo di forzato riposo. Una buona idea era trovare un imbarco su una nave sicura, una bandiera di un paese tranquillo, che facesse scalo a Napoli o a Genova. Preferibile Genova, perché era molto più vicina a Carlomagno. Si poteva provare a trovarne uno già l’indomani. C’era poi la questione dei soldi. Le ghinee erano spazzatura fuori d’Egitto. Bisognava con calma, senza farsi strozzare, mettere insieme un mucchietto di lire o di dollari o di sterline sufficienti per il viaggio e per rimanere in Italia. Quanto tempo? Boh, non sapevo. Una settimana, un mese, quanto sarei rimasto? Era una cosa che era meglio decidere subito. Ruben fu molto perentorio al riguardo. Decidemmo che quindici giorni era il massimo che potevo permettermi. «E il massimo che può farti bene,» aggiunse. Tornai alla tipografia l’indomani e l’indomani ancora, tutte le sere per più di una settimana: non mi piaceva restarmene a casa da solo, né mettermi a fare le solite cose, come se non fossi ormai completamente preso da questa pazza idea del viaggio in Italia. Ruben si era incaricato dell’organizzazione e ogni sera mi aggiornava sui suoi progressi. Cenavamo nel vicolo davanti alla bottega e poi io e Amos giravamo nei caffè, nei ristoranti e nei casini più eleganti a comperare denaro. Cercavamo gli ufficiali dei mercantili e i grossi commercianti di macchinari, che allora pullulavano negli uffici dei burocrati governativi, per cercare di vendergli ogni genere di roba esotica: papiri, ori e stoffe, falsi reperti archeologici, chincaglieria. Tornavamo all’alba e facevamo i conti con le banconote tutte stropicciate stese sotto il torchio e divise per valuta. Andavamo a letto all’alba, e più di una volta mi sono fermato a dormire lì, su un sofà sfondato che doveva risalire al tempo dei primi tipografi. Amos prima di salutarmi mi faceva la solita domanda: «Ma cosa pensi che ti succederà lassù?». E io rispondevo sempre la solita cosa, era diventato un gioco: «Vado a prendere la motocicletta di mio padre e me la porto via». Di meglio non pensavo che avrei potuto fare. In capo a una settimana Ruben aveva trovato il passaggio giusto. Era un bastimento portoghese piuttosto ben messo che ripartiva vuoto per le Azzorre, e avrebbe fatto scalo a Napoli per caricare dei caterpillar. Arrivato lì avrei dovuto fare un lungo viaggio in treno, ma era un’occasione da non perdere perché lo stesso mercantile sarebbe ritornato dieci giorni dopo ad Alessandria, rifacendo lo scalo di Napoli. E, soprattutto, il comandante era un compagno, un oppositore del dittatore Salazar, e mi avrebbe trattato con riguardo al passaggio della dogana. Per ogni evenienza Ruben contava di affidargli in custodia, prima della partenza, un passaporto con la mia fotografia e le generalità di un ingegnere portoghese; un lavoro fine di stampa e ritocco che faceva di notte quando noi andavamo per soldi. In quella tipografia, eravamo in pieno clima insurrezionale; questo era il piccolo gioco di Ruben. Dieci giorni. Avevo dieci giorni per salire e ridiscendere quel paese, e riuscire a fare qualcosa che non doveva deludermi. Qualcosa di abbastanza importante da essere raccontato ai fratelli che si stavano facendo in quattro per assecondarmi in quello che, troppo spesso, mi sembrava un capriccio infantile. Eppure, ogni volta che mi costringevo a ragionarci, finiva sempre per apparirmi come l’unica cosa che sentivo intimamente doverosa. Intanto Ruben mi aveva preparato il suo programma di viaggio. L’Italia non era Carlomagno; dovevo fermarmi almeno a Roma qualche giorno per vedere questo e quello, e poi Firenze, Siena, Napoli di nuovo. Lui non si aspettava che al paese di mio padre potessi stare più di due o tre giorni - a cosa fare? non troverai niente, Saverio, che ti dica qualcosa, dài retta a me. Vacci, è giusto, ma ci sono altre cose più interessanti per un ragazzo come te. L’importante è che tu non ti fissi su qualcosa che non c’è: sarebbe tutto sprecato - e allora valeva la pena che seguissi i suoi buoni consigli. Avevo anche delle commissioni, comprare libri e inchiostri introvabili qui da noi. E dovevo guardare e leggere e chiedere e capire. Altrimenti, perché non ci mettevo una pietra sopra come tutti gli altri? Partii la notte del lunedì. Per evitare le infinite discussioni che ne sarebbero seguite, non avevamo informato nessuno dei compagni del Diwan: partivo solo con la fervida complicità di Amos e Ruben. Amos mi ha stretto il braccio e mi ha consegnato la valigia che portava per me, senza dire una parola, Ruben ha voluto lasciarmi il suo viatico: «Quando passerai la Via per salire su al paese non te ne accorgerai nemmeno. Però ricordati di quello che ti ho raccontato: vedrai lì se senti qualcosa», Ha fatto una pausa come se volesse spiegarmi qualcosa di più, ma ha lasciato perdere. «Mi raccomando la lista delle cose da comprare, ciao.» Il comandante mi aveva preso a bordo con grande cortesia, consegnandomi di persona, come si fa con i passeggeri della prima, la mia cabina, stretta ma pulita, e gli orari dei pasti. In un’ora eravamo fuori dal porto, e dal ponte delle scialuppe me ne sono stato un bel po’ a osservare le iridescenze dell’acqua lucente sotto le solite stelle. Come tutti - sempre - non mi sono dimenticato di dare un’occhiata se per caso non si vedesse qualcosa sul fondo. Prima o poi sarebbe pur toccato a qualcuno di avvistare il porto sepolto. Siamo arrivati a Napoli la mattina del quarto giorno, dopo una traversata lenta e noiosa, riempita da un torneo di dama giocato dall’equipaggio giorno e notte tra i turni dei quarti di guardia. Sono entrato in Italia praticamente senza accorgermene: la stazione marittima di quel porto era la sorella di quella alessandrina, solo meno vasta e con qualche fronzolo in più nel vecchi edifici. Le voci, addirittura, sembravano le stesse, solo un po’ più concitate e alte. Ho poi passato la dogana con l’equipaggio senza che nessuno mi chiedesse niente. Nel salutarmi il comandante mi ha infilato in tasca il passaporto portoghese, e mi ha lasciato lì con la valigia tra le gambe, in mezzo alla stessa indescrivibile confusione di uomini e cose a cui ero abituato sin da bambino. Avevo dieci giorni da ben usare; dovevo sbrigarmi. Italia. L’Italia. I ta li a. Come mai, dottor Modrian, rievocare questo suono non suscita in me particolari emozioni? C’è sotto qualche problema, che lei sappia? Sono qui che sto scrivendo da un bel po’ di giorni e mi viene giù tutto di filato - anche troppo dottore; a volte mi sembra di avere la diarrea nelle dita - e quando oggi arrivo all’Italia, e cerco di ricordare le cose salienti che ho visto e le impressioni che mi sono rimaste, mi inchecco. Ecco, non so cosa dire. Mi sforzo di ricordare dottore, ma non è solo una questione di ricordi: è come non ci fossi neppure stato. Certo, è anche per quello che è successo a Roma, praticamente appena arrivato, ma non posso cavarmela semplicemente così. Tra i miei conoscenti sono stato uno dei primi a fare questo viaggio e non è detto che potrò mai ripeterlo. Ma è troppo lontano quel posto, dico che è troppo lontano da me, se mi intende, e non so se è una cosa buona. Che cosa mi dice l’Italia? Quell’affare bislungo srotolato sopra l’Africa che alla Dante Alighieri ci tengono tanto a chiamarlo «lo stivale», e se lo guarda bene sopra la carta geografica non può non venirle il sospetto che l’abbiano messo in quel dato posto solo per tirare calci all’Africa, anche se all’Egitto ci può arrivare solo di tacco, per fortuna. Cosa dice a me che parlo questa lingua così simpatica a tutti gli altri popoli di Alessandria, tanto simpatica che non ci penso nemmeno a impararne altre? A me, che sono nato e cresciuto straniero fraterno di questa città, cosa mi rappresenta l’I ta li a? Nel mio viaggio, per breve che possa essere stato, non ho trovato nulla da vedere e sentire e capire di cui potessi affermare: è mio, mi appartiene segretamente e totalmente mentre lo osservo scorrere dal finestrino del treno, mentre lo calpesto sul selciato della strada, mentre gli parlo per avere un’indicazione. E allora il mio sguardo gli si è rivolto e tuttora gli si rivolge dalla distanza dell’oggettività, di ciò che appare di quel paese facendo scorrere un mappamondo. E da qui, oggi che possiamo avere giornali non più vecchi di dieci giorni, e la televisione di Sadat ogni tanto ne parla, l’Italia è ancora troppo lontana e imprecisa per dirmi qualcosa. La verità è che il mondo incomincia dove uno si mette con l’anima, caro il mio dottore, con l’anima o lo spirito o come si chiama quell’affare lì. Quando Ruben ha fatto quel foro con lo stilo sulla carta geografica per indicarmi il suo paese, il suo Carlomagno, era da quel buchetto che si irradiavano le coordinate del mondo. Carlomagno era il cuore nel cuore di quell’uomo. Non era un governo, non era una geografia di strade e case e montagne: era il paese, il tabernacolo, della sua anima intera. Ma se il tuo sguardo interiore non coglie questa intimità, allora si ristabiliscono le giuste proporzioni. E forse gli italiani si credono chissà chi - faranno anche bene, non dico mica di no - ma da questo paese infinitamente più grande, più antico e più doloroso e immensamente più importante per tutti i popoli che ci vivono intorno, l’Italia è un cazzetto che si spinge dentro il mare lassù. E sia ben chiaro, io che sono ancora oggi apolide posso tranquillamente osservare che nemmeno questo è il centro del mondo. Eppure mi sto convincendo che ciascuno dovrebbe avere il suo paese dell’anima. Ne vorrei avere uno per me, subito, per non consumarmi di solitudine. Altrimenti perché, dottor Modrian, ogni notte io sogno Carlomagno? E sì che nel mio viaggio non ci sono nemmeno arrivato a vederlo da lontano. Ricordo che ho preso il treno per Roma nel primo pomeriggio. Le ore trascorse dallo sbarco le ho praticamente passate nel tentativo di arrivare alla stazione. Il percorso non è affatto lungo, ma attraversa la parte vecchia della città che è un unico immenso mercato di ogni ben di dio. Cose che ad Alessandria occorrono mesi per avere, lì te le offrivano per la strada come fossero pani. Mi fermavo molto spesso a chiedere informazioni, e questo era per tutti occasione di una lunga conversazione che solo di sfuggita toccava la ragione della mia domanda: mi venivano offerte cose da comprare, gite turistiche, e molte altre considerazioni, gratuite, sulla vita e sul mondo, circa le quali non potevo avere un’opinione adeguata. Mi sembrava brava gente e avrei speso tutto quello che avevo se mi fossi lasciato andare. Ho mangiato la famosa pizza seduto sui gradini di una vecchia chiesa cadente, in una stradina con cinque o sei ragazzini che mi stavano intorno commentando ad alta voce tra loro, come fossi stato un animale. A un certo punto li ha cacciati via una donna che aveva da offrirmi qualcosa di confidenziale: non era niente male, anzi, ma aveva un che di inquietante nel modo di fare che mi ha allarmato; ho avuto paura che intendesse picchiarmi, come se il mio rifiuto fosse stato un gesto di imperdonabile immoralità. Arrancando su per il quartiere di Forcella, ormai finalmente vicino alla stazione, mi è venuto in mente Amin. Eccoti Amin, la tua Iskandariya. Non è Alessandria, la grassa che sogni, ma è Napoli. E tu non ci arriverai mai, temo. Peccato Amin, qui ci sono davvero centomila puttane bianche, oro e argento sparso per le strade, e tutto il resto che tu immagini. O magari è anche questo un teatrino, il sipario che nasconde ciò che i napoletani come gli alessandrini vogliono tenere per sé. Il viaggio verso Roma è stato breve, veloce e piuttosto comodo. Questo me lo ricordo bene perché chi conosce le ferrovie dell’Egitto e i suoi treni può andare letteralmente in visibilio per un viaggio come quello. Sono arrivato che non era ancora sera. Prima di salire a Pisa e più su, avevo da vedere la città e da comprare le cose per Ruben. Non sapevo come cominciare e all’edicola ho comprato una cartina della città per farmi un’idea. In un riquadro erano segnati gli alberghi; ecco da dove partire. Me ne sono scelto uno con due stelle molto vicino alla stazione, ricordo ancora il nome: hotel Danubio. Il portiere era un mezzosangue eritreo ossuto, dalla testa ricciuta spropositatamente triangolare. Ha preso i documenti, quelli regolarmente rilasciati dalla “Jumhurija”, tra la punta del pollice e dell’indice come fossero stati pescati nella merda, li ha sfogliati con molta calma dandomi certe occhiate che nessun miliziano di Alessandria si sarebbe mai permesso di rivolgere all’indirizzo del più balordo degli ubriaconi, e si è messo a ricopiare sul suo registro i dati, senza una parola. Per una cifra spaventosa avevo affittato un cubicolo stretto e puzzolente di varechina. Però ero a Roma e dovevo sbrigarmi. Ho steso la cartina sul letto. La città era grande, sì, ma quello che impressionava non era la sua vastità - Il Cairo era almeno tre volte più grande già allora - ma lo stupefacente cumulo di rovine, chiese, palazzi e ogni altro resto della storia che era riportato con la sua sagoma, ingombrando il tracciato di ogni via e di ogni piazza. C’era disegnato tutto quello per cui i professori della Dante Alighieri andavano in deliquio, c’erano tutti i punti esclamativi della storia dell’occidente, dai due gemelli che tettano alla lupa ai sontuosi ministeri italiani. Eccola qui dunque, la potenza di Roma: come ci si poteva raccapezzare in quel groviglio? Così ho deciso di buttare a mare i consigli di Ruben. Tanto valeva mettersi in strada e girare a caso. La mattina dopo ero pronto già all’alba. Dovevo però prima sbrigare le commissioni. Trovare gli inchiostri tipografici è stato facile perché la ditta era segnata sull’elenco telefonico, e sono riuscito a farmeli recapitare in albergo entro sera. C’erano i libri da cercare e sull’elenco telefonico le librerie erano centinaia. Ruben voleva libri italiani: Pavese, Silone, Vittorini, Moravia, così c’era scritto nel suo biglietto, e li avrei sicuramente trovati strada facendo. Ho passato tre giorni per le strade di Roma e avrei dovuto invece fermarmi un giorno solo. Se mi chiedete cosa c’è stato di sensazionale da farmi trattenere, non saprei cosa rispondere. Andavo in giro perdendomi regolarmente dopo pochi passi, muovendomi come se avessi avuto gli occhi immersi in una soluzione di oppio. Tutto aveva un significato e niente ne aveva uno preciso. Credo di essere passato almeno tre volte attorno alle grandi rovine del foro romano senza accorgermi di ritornare sui miei passi. Potrei aver visto tutto il vedibile e potrei non aver visto che poche cose: ero costantemente preda di una sensazione di sovrabbondanza fiabesca. Storie che si innalzavano in pinnacoli di vertiginosa bellezza per poi essere seppellite da un «no, così non va» e da altre successive bellezze, che poi finivano per essere sbagliate e seppellite sotto altre ancora… Come se i romani, o gli italiani, fossero stati per millenni dei bambini mattacchioni e perfidi e pieni di rimorsi, e ora io stessi girovagando attraverso il frutto dei loro giochi dispettosi e delle conseguenti autopunizioni. Per questo sentivo di avere lo sguardo come drogato: perché in quei cumuli di cose accatastate in modo che le belle e le orribili si riflettessero le une nelle altre, non c’era una direzione, un senso. Badate che io vengo dall’Egitto e di monumenti e antiche civiltà ne ho visti. Avete mai sentito parlare di Giza, di Luxor, Deitr el Bahari, Karnak, Cairo? Bene, nel ramo delle pietre vecchie ho avuto il mio bel vaccino. Ma non sta qui il punto. Ciò che mi affascinava, e insieme mi faceva perdere l’orientamento, era l’accanimento con cui quella città pareva aver cercato di seppellire se stessa, epoca dopo epoca, secondo le fantasie del momento. Ero abituato in Egitto a vedere le immensità di certi periodi della storia riposare tranquille accanto a piccole cose, a momenti meno grandiosi o semplicemente diversi. La vita ha una sua cronologia lineare che si snoda quieta da settemila anni. E un tempio della Diciannovesima dinastia non si insuperbisce al cospetto di una piramide della terza, come una moschea di quattro muri di fango e un tappeto non è gelosa del monastero di Abu Makar, che ogni mattina risplende sulla collina di fronte. Non so se mi capite, ma il modo degli arabi di sentire la propria storia - e la vita, la vita ovviamente - l’avvertivo più adulto, più equilibrato e ragionevole. Roma era per me in quei tre giorni una vertiginosa precarietà, uno spettacolo al di là del comprensibile. Una esagerazione e un’angoscia. Mangiavo per la strada, seduto su una panchina dei tanti giardini che incontravo, o sui gradini delle chiese. Per risparmiare compravo nei negozi il pane - quanti pani fanno a Roma e così diversi dai nostri - e un po’ di fette di quell’enorme salsiccione che chiamano mortadella.