domenica 14 marzo 2021

L'UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO Murakami Haruki



L'UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO

Murakami Haruki

Traduzione di Antonietta Pastore

Parte prima 

La Gazza ladra

1. Dove si parla dell’uccello-giraviti del martedì e di creature con sei dita e quattro seni.

Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza ladra di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, e io l’accompagnavo fischiando. Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. Poteva anche essere un conoscente con qualche nuova proposta di lavoro. -Vorrei dieci minuti del tuo tempo, - disse senza preamboli una voce di donna. Io sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella lì però non l’avevo mai sentita. -Scusi, con chi desidera parlare? - chiesi educatamente. -Proprio con te. Dieci minuti, dammi solo dieci minuti del tuo tempo. Vedrai che riusciremo a intenderci perfettamente -. La donna aveva una voce bassa, morbida, elusiva. -Intenderci? -Parlo di  feeling. Sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore, Abbado continuava a dirigere la Gazza ladra. -Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco, non potrebbe chiamare più tardi? -Spaghetti? - fece lei in tono sconcertato. - Spaghetti alle dieci e mezzo del mattino? -Questo non la riguarda. Ho il diritto di mangiare quello che mi pare all’ora che mi pare, - risposi un po’ irritato. -In effetti, - disse la donna in tono secco e impersonale, molto diverso da prima. L’umore sembrava leggermente cambiato. - Vabbè, non importa, richiamo più tardi. -Aspetti un momento, - risposi in fretta. - Se è per vendermi qualcosa, guardi che perde il suo tempo, mi telefonasse anche cento volte. In questo momento non posso permettermi di comprare niente, sono disoccupato, non ho soldi da buttare via. -Lo so, non ti preoccupare. -Come sarebbe a dire, lo sa? -Significa che so benissimo che sei disoccupato. Per cui vai pure a prepararti i tuoi preziosi spaghetti. -Ma lei, cosa diavolo… - Non feci in tempo a terminare, dall’altra parte avevano sbattuto giù il telefono. Non sapendo dove sfogare il mio malumore, rimasi per un momento a guardare il ricevitore che tenevo in mano. Poi mi venne in mente la pentola sul fuoco, tornai in cucina, spensi il gas e scolai gli spaghetti. Per colpa della telefonata erano un po’ scotti, non si potevano certo dire  al dente.  Non erano neanche un disastro totale, però. Intendersi? pensavo mangiando. In dieci minuti tra di noi si sarebbe dovuto creare un feeling?  Ma cosa aveva voluto dire, quella lì? Magari era solo uno scherzo. Oppure una nuova strategia di vendita. Nell’uno e nell’altro caso, non era cosa che mi riguardasse. Tornai sul divano del soggiorno e mi misi a leggere un romanzo che avevo preso in prestito in biblioteca. Intanto continuavo a gettare occhiate al telefono, domandandomi con un senso di disagio cosa potevano significare le parole di quella donna: «in dieci minuti possiamo intenderci». Cosa potevamo mai capire l’uno dell’altra in dieci minuti? A pensarci bene, lei aveva fissato quel preciso limite di tempo fin dall’inizio. E con grande sicurezza, anche. Poteva darsi che nove minuti fossero troppo pochi e undici troppi. Come il tempo di cottura degli spaghetti. Intanto quelle riflessioni mi avevano fatto passare la voglia di leggere. Decisi di mettermi a stirare le camicie. Ogni volta che mi trovo in uno stato confusionale, io stiro camicie. Da tempi immemorabili. Eseguo l’operazione in dodici fasi, comincio dal collo (1) e finisco con il polsino della manica sinistra (12). Procedo seguendo sempre lo stesso ordine, e contando le fasi a una a una, altrimenti non ottengo un risultato soddisfacente. Stirai tre camicie, che appesi ai rispettivi attaccapanni dopo aver controllato che non avessero pieghe. Staccai il ferro dalla presa di corrente e lo riposi insieme all’asse da stiro nell’armadio a muro. Il mio cervello sembrava essersi considerevolmente rischiarato. Stavo per andare in cucina a bere un bicchier d’acqua, quando squillò nuovamente il telefono. Esitai un attimo. Poi decisi di rispondere, se era ancora quella 

 lì potevo sempre riattaccare con la scusa che stavo stirando, pensai. Invece era mia moglie Kumiko. Le lancette dell’orologio segnavano le undici e mezza. -Stai bene? - mi chiese. -Ho appena finito di stirare. -È successo qualcosa? - Nella sua voce vibrava una leggera apprensione, lei sa bene che quando sono un po’ fuori fase mi metto a stirare. -Ho semplicemente stirato delle camicie, non è successo niente di speciale, - risposi sedendomi su una sedia e spostando il ricevitore nella mano destra. - Ma come mai mi hai telefonato? -Tu scrivi poesie, per caso? -Poesie? - ripetei sorpreso. Come, poesie? Cosa diavolo voleva dire? -Uno che conosco lavora in una casa editrice che pubblica una rivista letteraria per ragazzine. Sta cercando una persona che selezioni e corregga le poesie inviate dalle lettrici. Inoltre ogni mese dovresti scrivere una poesiola per la prima pagina. Per essere un lavoretto facile, non è mal pagato. Ovviamente non si tratta di un posto fisso, ma se la cosa funziona può darsi che ti passino anche dei lavori di  editing. -Facile? - risposi io. - Un momento, per favore. Io sto cercando un’attività nel campo della giurisprudenza. Da dove diavolo salta fuori, ‘sta storia di correggere poesie? -Be’, non hai detto che quando eri al liceo scrivevi delle cose? -Sul giornalino. Sul giornalino della scuola. Commentavo i risultati del torneo di calcio, riferivo che l’insegnante di scienze era caduto per le scale ed era finito all’ospedale… articoli di questo livello, cavolate. Mica poesie. Mica so scrivere poesie, io. -Sì, ma non è che ti chiedano chissà cosa. Delle poesie che vadano bene per delle liceali. Nessuno ti dice di comporre capolavori che restino nella storia della letteratura, basta che butti giù delle cose come ti vengono. Mi spiego? -Buttate giù o no, io poesie non ne so scrivere. Non ne ho mai scritte, e non ho l’intenzione di scriverne, - risposi in maniera definitiva. Io scrivere poesie, roba da pazzi! -Come vuoi, - disse mia moglie in tono di rammarico. -Però un lavoro nel campo della giurisprudenza non è che si trovi così, dall’oggi al domani, non ti pare? -Ho già dei contatti con alcune persone, fra non molto dovrebbero darmi una risposta. Se poi non funziona neanche questo, allora penserò al da farsi. -Davvero? Vabbè, lasciamo perdere. Senti, ma oggi che giorno è? -Martedì, - risposi dopo averci riflettuto un po’. -Allora dovresti andare in banca a pagare le bollette del gas e del telefono. -Va bene, più tardi, quando vado a far la spesa per stasera, passo anche in banca. -Cosa prepari per cena? -Non ho ancora deciso. Ci penserò dopo aver fatto la spesa. -Senti… - fece mia moglie col tono di voler ricominciare, -tutto sommato, non è che tu abbia bisogno di trovare lavoro tanto in fretta. -Come sarebbe? - risposi. Questa era un’altra sorpresa, le donne mi telefonavano tutte per darmi delle sorprese, pareva. - Fra non molto non sarò neanche più in cassa integrazione, mica posso restare indefinitamente a girarmi i pollici tutto il giorno. -Sì, ma io ho avuto l’aumento e di lavoretti supplementari me ne passano in continuazione. Un po’ di risparmi li abbiamo… Non potremo concederci grandi lussi ma ce la caviamo egregiamente. Ti secca stare a casa e occuparti delle faccende domestiche? La vita che fai ora non ti piace? -Non lo so, - risposi sinceramente. Era così, non lo sapevo. -Be’, dovresti cercare di pensarci con calma, - disse mia moglie. - A proposito, il gatto è tornato? A quelle parole mi resi conto che per tutta la mattina quel pensiero non mi aveva neanche sfiorato. -No, non ancora. -Perché non provi a cercarlo un po’ nel quartiere? È già da più di una settimana che è scomparso. Passai di nuovo il ricevitore nella mano sinistra e risposi che lo avrei fatto. -Può darsi che sia nel giardino della casa disabitata in fondo al vicolo. Sai, quella dove c’è la statua di pietra di un uccello. L’ho visto entrare non so quante volte, lì dentro. -Nel vicolo? - feci io. - Ma tu quand’è che ci sei andata, nel vicolo? È la prima volta che ti sento dire… -Senti, scusa ma devo riattaccare, devo proprio andare. Mi raccomando il gatto! La telefonata si interruppe. Restai ancora un attimo a guardare il ricevitore, poi lo misi giù. Cosa diavolo era andata a fare, Kumiko, nel vicolo? Per entrarci bisognava scalare il muro del giardino, che senso c’era a fare una cosa del genere per infilarsi lì dentro? Andai in cucina a bere un bicchier d’acqua, poi uscii sulla veranda a controllare la ciotola del gatto: era piena, le sardine secche che vi avevo messo la sera prima erano ancora lì, non ne mancava neanche una. Il gatto non era tornato, insomma. Rimasi in piedi nella veranda lasciandomi inondare dai raggi del primo sole d’estate, e guardai il piccolo giardino di casa. Non era uno di quei giardini la cui contemplazione potesse placare lo spirito. Il terreno era sempre umido e nero perché il sole vi batteva soltanto per pochissime ore al giorno, e tutta la vegetazione consisteva in due o tre modestissimi cespugli di ortensie in un angolo. E a me, tanto per cominciare, le ortensie non piacciono. Dagli alberi intorno arrivava costantemente il verso di un uccello, stridente come se qualcuno stesse avvitando qualcosa. Noi lo chiamavamo l’uccello-giraviti. Era stata Kumiko a chiamarlo così. Il suo vero nome non lo sapevamo, non sapevamo neanche che aspetto avesse. Ma questo all’uccello-giraviti era indifferente, ogni giorno veniva sugli alberi lì intorno a stringere le viti del nostro piccolo mondo tranquillo. Forza, andiamo a cercare il gatto, pensai. A me i gatti sono sempre piaciuti, e mi piaceva quello lì in particolare. Sono creature tutt’altro che stupide, e hanno uno stile di vita proprio, se un gatto sparisce è perché vuole andare da qualche parte. Quando ha la pancia vuota ed è stanco, torna. In conclusione, era per Kumiko che dovevo mettermi alla ricerca. Tanto non avevo nulla da fare. All’inizio di aprile, senza una ragione particolare avevo lasciato lo studio legale dove lavoravo da alcuni anni. Non si poteva neanche dire che quell’impiego non mi piacesse. Certo le mie incombenze non avevano nulla di esaltante, ma lo stipendio non era male, e l’atmosfera amichevole e simpatica. In una parola, in quello studio fungevo da fattorino specializzato, e dato che sono tutt’altro che un fannullone, penso di non esser restato con le mani in mano. So che suona strano farsi dei complimenti da solo, ma entro i limiti delle mie mansioni avevo un certo talento. Capivo in fretta, agivo prontamente, non facevo storie, e avevo un modo molto realistico di considerare i problemi. Tant’è che quando annunciai che mi volevo licenziare, il vecchio avvocato - cioè il primo dei due titolari dello studio, padre e figlio - mi disse che potevano anche concedermi un piccolo aumento di stipendio. Finii col licenziarmi ugualmente. Non perché avessi qualche precisa speranza o prospettiva per il mio futuro professionale, ma l’idea di chiudermi di nuovo in casa a preparare l’esame di Stato non mi attirava per niente. Tanto per cominciare, al punto in cui ero non avevo neanche voglia di diventare avvocato. Né avevo l’intenzione di restare indefinitamente in quello studio a fare sempre le stesse cose. Perciò se dovevo smettere quello era il momento, altrimenti la mia vita si sarebbe trascinata e probabilmente conclusa lì dentro. Tra l’altro avevo già trent’anni. Una sera a cena avevo bruscamente annunciato che volevo lasciare il lavoro. «Già…» aveva solo commentato Kumiko. Che cosa intendesse, con quel «già…» non mi era chiaro, ma lei non aveva aggiunto altro, e per un po’ era rimasta in silenzio. Anch’io stavo zitto. «Se desideri smettere, fai bene a farlo, - aveva detto allora lei. - Si tratta della tua vita. Fai come ti pare». E dopo quelle parole si era concentrata nell’operazione di togliere con i bastoncini le spine del pesce e posarle in un angolo del piatto. Il lavoro principale di mia moglie consisteva nel collaborare per uno stipendio decente alla redazione di una rivista specializzata in cibi sani e cucina naturale. Un introito supplementare non disprezzabile le arrivava inoltre da lavori saltuari di illustrazione che le passavano alcuni amici, redattori in altre riviste (dopo il liceo lei aveva studiato a lungo design, e il suo obiettivo era di diventare una disegnatrice professionista indipendente). Quanto a me, dopo aver dato le dimissioni, per un certo periodo avrei avuto diritto ai sussidi di disoccupazione. E considerando che stando a casa avrei potuto occuparmi regolarmente dei lavori domestici, si potevano ridurre anche tante spese superflue, ristorante e tintoria, per esempio. Così il nostro tenore di vita non avrebbe dovuto subire grandi cambiamenti rispetto a quando lavoravo e ricevevo uno stipendio. Tali erano le circostanze in cui avevo lasciato il mio impiego. Ero appena tornato dal supermercato e stavo sistemando le provviste nel frigo, quando suonò il telefono. In maniera molto vivace, mi sembrò. Posai sul tavolo la metà del  tofu che avevo tirato fuori dalla confezione di plastica, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. -Chissà se hai finito di mangiare i tuoi spaghetti, - disse la donna di poco prima. -Sì, - risposi. - Però adesso devo andare a cercare il gatto. -Potrà ben aspettare dieci minuti, no, il tuo gatto? Non è che rischia di scuocere come gli spaghetti. Per qualche arcana ragione, non mi decidevo a interrompere quella telefonata. Nella voce di quella donna c’era qualcosa che attirava la mia attenzione. -E va bene, dieci minuti soltanto, - dissi. -Vedi che ci intendiamo, noi due? - Mi sembrava di vederla, all’altra estremità del filo, mentre cambiava indolentemente posizione sulla sedia e incrociava le gambe. -Mah, chi lo sa? - risposi. - A ogni modo, in dieci minuti… -Dieci minuti possono essere molto più lunghi di quanto tu pensi. -Ma tu veramente mi conosci? - provai a indagare. -È evidente. Ci siamo incontrati un sacco di volte. -Quando, dove? -Delle volte, da qualche parte, - rispose lei. - Se ora mi inoltro in questi dettagli, dieci minuti non basteranno mai. Quello che conta è adesso. Non credi? -Ma non puoi darmi qualche prova? Che tu mi conosci, voglio dire. -Per esempio? -Quanti anni ho? -Trenta, - rispose lei prontamente. - Trent’anni e due mesi. Chissà se questo ti basta. Rimasi in silenzio. Quella donna mi conosceva, era esatto. Ma la sua voce non mi diceva niente, per quanto mi sforzassi di riconoscerla. -Be’, questa volta allora prova tu a immaginare me, - disse lei in tono suadente. - Dalla voce lo puoi intuire. Che tipo di donna sono, cioè. Quanti anni ho, dove mi trovo e che cosa ho addosso, questo genere di cose, insomma. -Non ne ho idea, - risposi. -Prova a indovinare. Gettai un’occhiata all’orologio. Erano passati solo un minuto e cinque secondi. -Non lo so, - ripetei. -Allora te lo dico io, - fece lei. - Adesso sono nel mio letto. Mi sono appena fatta la doccia e addosso non ho niente. Per carità, pensai, questa è di sicuro una telefonata porno. -Magari farei meglio a mettermi qualche capo di biancheria intima? O preferisci delle calze di seta? Le trovi più eccitanti? -Per me puoi metterti quello che vuoi. Fai come ti pare, ti puoi vestire, stare nuda, come preferisci, per me va tutto benissimo. Però scusami, ma io non ho proprio nessun gusto per questo tipo di conversazioni al telefono. A parte il fatto che ho anche delle cose da fare. -Ma per dieci minuti! Non credo che la tua vita subirà delle perdite fatali per avermi dedicato qualche minuto, no? Comunque rispondi alla mia domanda. Preferisci che resti nuda, o che mi metta addosso qualcosa? Ho parecchie cosucce, sai, roba in pizzo nero e altro ancora… -Resta pure così, - risposi. -Preferisci che resti nuda, allora. -Sì, resta pure nuda, - feci. Ed erano quattro minuti. -I miei peli intimi sono ancora bagnati, - disse la donna. - Non li ho strofinati bene con l’asciugamano. Per questo sono ancora bagnati. Sono caldi e tutti umidi. Morbidi morbidi. Peli nerissimi e morbidi. Prova ad accarezzarli. -Senti, scusa ma… -Anche lì sotto sono così calda… burro fuso. Caldo caldo. Davvero sai? Adesso in che posizione credi che sia? Ho il ginocchio destro sollevato e la gamba sinistra aperta di fianco. Sul quadrante di un orologio… diciamo le dieci e cinque. Dal tono della sua voce, mi resi conto che non mentiva. Aveva veramente aperto le gambe a un angolo tale da segnare le dieci e cinque, e il suo sesso era caldo e umido. - Accarezza le labbra. Lentamente. Finché si schiudono. Lentamente, eh? Accarezzale adagio con il polpastrello. Così, adagio adagio. Poi con una mano palpami il seno sinistro. Accarezzalo dolcemente, dal basso verso l’alto, poi stringimi piano il capezzolo. Ripetilo ancora. Ancora. Finché ti sembra che io stia per venire… Senza dire nulla misi giù il ricevitore. Poi mi sdraiai sul divano e lanciando un’occhiata alla sveglia feci un profondo sospiro. La telefonata con quella donna era durata cinque o sei minuti. Poco dopo il telefono suonò di nuovo, ma questa volta non risposi. Al quindicesimo squillo tacque. Quando cessò di suonare, calò un silenzio freddo e profondo. Poco prima delle due scavalcai il muro di cemento del giardino e scesi nel vicolo. Non è un vicolo nel vero senso della parola, ma sinceramente non saprei con quale altro termine chiamarlo. A essere precisi non è neanche una via, una via ha un’entrata e un’uscita e porta in un luogo determinato. Invece quel vicolo non ha sbocchi, è chiuso a entrambe le estremità. E non è neppure quel che si dice un  cul de sac,  che ha per lo meno un’entrata. È un sentiero lungo un duecento metri che passa serpeggiando fra i giardini sul retro delle case, la gente del quartiere semplicemente trova comodo chiamarlo  il vicolo.  È largo un metro e qualcosa, ma a causa delle siepi che sporgono e di tutti gli oggetti gettati al suolo, in parecchi punti non si riesce a passare se non sgusciando di lato. A quel che si dice - lo abbiamo appreso da mio zio, che ci affitta la casa in cui abitiamo a un prezzo eccezionalmente basso - anche il vicolo una volta aveva un’entrata e un’uscita, e fungeva da scorciatoia per passare da una via all’altra. Ma quando i prezzi del terreno sono saliti, negli spazi che una volta erano vacanti hanno costruito nuove file di case, e la larghezza delle vie si è ridotta al punto che le abitazioni sembrano schiacciate le une sulle altre. Quelli che ci vivevano, però, non parevano apprezzare molto la vista degli estranei che andavano e venivano tra il proprio giardino e quello di fronte, e fecero casualmente in modo che venissero chiuse le entrate di quella scorciatoia. All’inizio si trattava solo di tranquille siepi, nessuno ci badò, poi a un certo punto uno degli abitanti bloccò uno degli ingressi con un muro di cemento per allargare il proprio giardino, e la reazione immediata fu che anche l’altro ingresso venne chiuso da una solida inferriata, non ci entravano più neanche i cani. Comunque fin dall’inizio quel passaggio era sempre servito solo da scorciatoia e nessuno protestò per la sua chiusura, era meglio così, anche ai fini della prevenzione del crimine. Ormai il vicolo è diventato una sorta di canale abbandonato che nessuno usa, ha solo la funzione di zona neutra di separazione fra casa e casa. Il terreno è invaso dalle erbacce, e dappertutto i ragni hanno attaccato tele appiccicose. A che scopo mia moglie fosse entrata e uscita di lì in continuazione, non riuscivo proprio a immaginarlo, per quel che mi riguardava in quel vicolo ci ero passato solo un paio di volte. E Kumiko, per di più, detestava i ragni. Decisi di lasciar perdere, mi aveva detto di andare lì a cercare il gatto, e così avrei fatto. Per restare a casa ad aspettare che squillasse il telefono, tanto valeva andare a farmi una camminata fuori. Nel vicolo, il sole dardeggiante dell’estate incipiente proiettava sul suolo l’ombra maculata dei rami d’albero sopra la mia testa. Non c’era vento, e quelle ombre sembravano macchie fatalmente fissate sul terreno. Intorno non si sentiva un rumore, avevo l’impressione di percepire persino il respiro dei fili d’erba inondati dalla luce del sole. Nel cielo vagavano alcune nuvolette, semplici e nitide come nei paesaggi delle stampe medioevali. Qualunque cosa colpisse il mio sguardo era miracolosamente limpida, e avevo la sensazione che il mio corpo fosse qualcosa di illimitato che non riuscivo a contenere. Faceva terribilmente caldo. Portavo solo una maglietta, dei pantaloni di cotone sgualciti e delle scarpe da tennis, ma a camminare sotto il sole sentivo il sudore imperlarmi le ascelle e la cavità del petto. Sia la maglietta che i pantaloni li avevo tirati fuori proprio quella mattina dallo scatolone degli indumenti estivi, e l’odore forte della naftalina mi pungeva le narici. Le case intorno si dividevano chiaramente in vecchie e nuove costruzioni. Le case nuove di solito erano piccole con giardini esigui. Le canne di bambù con i panni stesi ad asciugare sporgevano fin nel vicolo, e mi succedeva di dover avanzare sgusciando tra file di asciugamani, camicie e lenzuola. A volte da oltre le siepi arrivava il suono nitido dei televisori e il rumore degli sciacquoni dei gabinetti, altrove si sentiva un odore di cucina al curry. Nelle case più antiche, invece, non si avvertiva quasi alcun segno di vita. Le siepi erano formate da cespugli di diverso tipo accostati con arte e in modo da coprire la vista, i giardini che si intravedevano tra le fessure erano vasti e ben curati. Sul retro di una casa un albero di Natale ormai secco e color marrone era buttato in un angolo. Su un prato erano posati tutti i giochi per bambini possibili e immaginabili, come in un’esposizione collettiva dei ricordi d’infanzia di parecchie persone. C’erano tricicli, cerchi, spade di plastica, palle di gomma, bambole dalla forma di tartaruga, piccole mazze da baseball, e così via. In un giardino era installato un canestro per giocare a basketball, in un altro si vedevano delle bellissime sedie da giardino e un tavolo in terracotta. Le sedie bianche erano coperte di terriccio, non dovevano venire state usate da mesi, se non da anni. Sopra il tavolo, a causa della pioggia, erano rimasti appiccicati dei petali di fior di loto viola. In un’altra casa, attraverso le porte-finestre dal telaio in alluminio potei gettare un’occhiata all’interno del soggiorno. C’erano un divano e due poltrone in pelle, un grande televisore, un mobile decorato sul quale erano posati una vaschetta con dei pesci tropicali e due trofei di chissà cosa, e una lampada a piede. Sembrava l’ambientazione di uno sceneggiato televisivo. In un giardino c’era una grande cuccia per un cane di grossa taglia, ma dentro non si vedevano cani, e la tendina era aperta. Il recinto era sfondato, come se dall’interno qualcuno ci fosse rimasto appoggiato contro per mesi. La casa abbandonata di cui aveva parlato Kumiko si trovava un poco più in là. Alla prima occhiata si capiva che era disabitata da parecchi mesi. Era una costruzione a due piani relativamente recente, ma le imposte di legno ermeticamente chiuse erano vecchie e scrostate, e anche le ringhiere che proteggevano le finestre al primo piano erano macchiate di ruggine. Nel comodo giardino, in effetti, c’era una statua di pietra che raffigurava un uccello con le ali spiegate. Era posta su un piedistallo all’altezza del petto di un uomo, ma le erbacce che le crescevano intorno alla rinfusa erano così alte che arrivavano a toccare i piedi dell’uccello. Questo era di una specie a me ignota, e sembrava spiegare le ali per volar via il più presto possibile da quel luogo tanto sgradevole. Oltre alla statua di pietra, nel giardino non c’erano ornamenti di alcun tipo. Sotto alla tettoia erano accatastate delle sedie in plastica tutte rovinate, e sulla siepe di camelie erano sbocciati fiori di un rosso vivido, che davano la strana sensazione di essere finti. Per il resto, non si vedevano che erbacce. Mi appoggiai alla cancellata di ferro che mi arrivava al petto, e per un po’ rimasi a guardare quel giardino: era proprio uno di quelli che piacciono tanto ai gatti, ma intorno non se ne vedevano. Sul tetto, un piccione si era posato sull’estremità dell’antenna della televisione, e faceva risuonare intorno il suo verso monotono. L’ombra dell’uccello di pietra cadeva sopra le erbacce rigogliose spezzandosi in forme discontinue. Mi tolsi di tasca una caramella al limone, la scartai, e me la infilai in bocca. Quando avevo lasciato il lavoro avevo colto l’occasione per smettere di fumare, ma in compenso dovevo tenere sempre le caramelle al limone a portata di mano. «Sono diventate una droga, quelle caramelle, - aveva detto mia moglie, - ti riempirai di carie». Parole buttate al vento. Mentre osservavo il giardino, il piccione fermo sull’antenna della televisione continuava a tubare costantemente sullo stesso tono, con la monotonia di un impiegato che stampa i numeri sui libretti di assegni. Non so quanto tempo rimasi appoggiato a quella cancellata, ricordo solo che a un certo punto mi sentii nauseato dalla caramella troppo dolce in bocca, e la sputai per terra ridotta a metà. Volsi nuovamente la sguardo verso l’ombra dell’uccello. Nello stesso momento mi sembrò che qualcuno dietro di me mi chiamasse. Quando mi voltai, nel giardino retrostante alla casa di fronte c’era una ragazza. Era minuta, e aveva i capelli legati in una coda di cavallo. Portava degli occhiali da sole color ambra dalla montatura spessa, e una maglietta celeste senza maniche. Ne spuntavano due braccia dalla bella abbronzatura uniforme, nonostante non fosse ancora finita la stagione delle piogge. Stava piegata in avanti in una posizione poco stabile, con una mano posata sul cancelletto di bambù che le arrivava alle reni, l’altra nella tasca dei calzoncini corti. Tra lei e me c’era una distanza di appena un metro. -Fa caldo, vero? - fece. -Già, davvero, - risposi. Scambiate quelle poche parole, lei restò a guardarmi senza cambiare posizione. Quindi dalla tasca dei calzoncini tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne prese una e se la mise in bocca. Una bocca piccolina, col labbro superiore appena appena rivolto all’insù. Con un gesto macchinale strofinò un fiammifero di carta e si accese la sigaretta. Quando piegò la testa si vide nitidamente la forma dell’orecchio, un orecchio bello e liscio; dava l’impressione di essere stato appena fatto. La peluria che ne seguiva il contorno sottile splendeva. Buttato a terra il fiammifero, la ragazza tirò una boccata stringendo le labbra, e alzò lo sguardo verso la mia faccia come se si fosse ricordata di me in quel momento. Le lenti dei suoi occhiali erano scure, e per di più riflettevano la luce, così non potevo vedere i suoi occhi. -Lei abita da queste parti? - mi chiese. -Sì, - risposi, e feci per indicare dove si trovava la mia casa, ma non riuscivo più a orientarmi, ero arrivato fin lì percorrendo quell’angusto passaggio che svoltava spesso ad angolazioni bizzarre. Indicai una direzione a lume di naso. -Sto cercando il mio gatto, - dissi come per giustificarmi, mentre strofinavo il palmo delle mani sudate sul pantaloni. - È già da una settimana che non torna più a casa, e qualcuno lo ha visto da queste parti. -Che tipo di gatto è? -Un grosso maschio. È marrone, tigrato, e ha la punta della coda un po’ storta. -Come si chiama? -Noboru, - risposi. - Wataya Noboru. -Un nome impegnativo per un gatto! -È il nome del fratello di mia moglie. Gliel’abbiamo messo per scherzo perché per certi versi gli assomiglia. -In che senso gli assomiglia? -In certi atteggiamenti. La maniera di camminare, lo sguardo sornione… Per la prima volta la ragazza sorrise. I suoi tratti si distesero e sembrò molto più bambina di quanto mi fosse parso alla prima impressione. Doveva avere quindici o sedici anni. Il labbro superiore leggermente rivolto all’insù puntò verso il cielo a un angolo strano. Mi parve di sentire una voce che diceva «accarezzami», la voce della donna della telefonata. Mi asciugai il sudore con il dorso della mano. -Un gatto maschio marrone, con la punta della coda un po’ storta, - ripetè lei come per assicurarsene. - Ha un collare o qualcosa del genere? -Un collare nero di quelli contro le pulci, - dissi. La ragazza, sempre appoggiandosi con una mano al cancelletto, rifletté per dieci o quindici secondi. Poi gettò a terra la sigaretta che era ormai un mozzicone, e la schiacciò con la suola dei sandali. -Può darsi che l’abbia visto, quel gatto, - disse. - Non ho notato se avesse la coda storta, ma era un gatto marrone tigrato, grosso, forse aveva un collare. -Quand’è che l’hai visto? -Mah, quando sarà stato? In ogni caso son già passati tre o quattro giorni. Il giardino di casa nostra è diventato una via di transito per i gatti del vicinato, ce ne sono tantissimi che vanno e vengono in continuazione. Dalla casa dei Takitani tagliano attraverso il nostro giardino per entrare lì, in quello dei Miyawaki -. Così dicendo la ragazza indicò la casa disabitata di fronte. Dove l’uccello di pietra continuava a dispiegare le ali, le erbacce a prendere i primi raggi di sole dell’estate, e il piccione a fare il suo monotono verso sull’antenna della televisione. - Senta, cosa ne dice di aspettare nel mio giardino? Tanto per i gatti è diventato un passaggio obbligato, per andare lì di fronte. E poi a bighellonare qui intorno rischia di venir preso per un ladro e fermato dalla polizia. È già successo un sacco di volte. Esitai. -Non si preoccupi. Tanto a casa ci sono solo io. Ci possiamo mettere in giardino a prendere il sole e intanto aspettiamo che passi il gatto. Ho una buona vista, io, posso tornare utile. Guardai il mio orologio. Le due e trentasei. In tutta la giornata, quello che mi restava da fare era ritirare il bucato prima che facesse buio e preparare la cena. Aprii il cancelletto ed entrai. Camminando sul prato dietro alla ragazza mi accorsi che trascinava leggermente la gamba sinistra. Dopo qualche passo lei si fermò e si volse verso di me. -Stavo sul sellino posteriore di una moto, e sono stata sbalzata fuori, - spiegò in tono noncurante. - Qualche giorno fa. In un angolo del giardino tenuto a prato c’era una grande quercia, sotto alla quale erano posate due sedie a sdraio di tela. Sullo schienale di una di esse era appoggiato un grande asciugamano blu, sull’altra una scatola nuova di sigarette, un portacenere, un accendino, un grosso stereo e delle riviste, alla rinfusa. Gli altoparlanti dello stereo diffondevano hard rock a basso volume. Lei spostò tutto sul prato, mi fece sedere sulla sdraio, e spense lo stereo. Da lì, fra i rami della quercia, potevo intravedere la casa disabitata dall’altra parte del vicolo. Anche l’uccello di pietra, le erbacce e la cancellata. Di sicuro la ragazza era rimasta seduta così a osservarmi. Era un giardino piuttosto vasto. Il prato formava ondulazioni su tutta la superficie, con alberi piantati qua e là. A sinistra delle sedie a sdraio c’era una grande vasca con un bordo di cemento; sembrava prosciugata già da tanto tempo, il fondo ormai di un verde pallido era illuminato dal sole. Dietro agli alberi alle mie spalle si vedeva una vecchia casa all’occidentale, ma l’edificio in sé non era particolarmente grande, né sembrava lussuoso. Solo il giardino era ampio, e tenuto con molta cura. -Dev’essere una bella fatica, curare un giardino così, - dissi guardandomi intorno. -Mah, chissà… - rispose la ragazza. -Anni fa, ho lavorato saltuariamente per una ditta che curava i prati, - dissi. -Sul serio? - fece lei in tono pieno di interesse. -Sei sempre sola, tu? - mi informai. -Durante la giornata sì, sto sempre qui sola. Il mattino e il pomeriggio viene una donna ad aiutare in casa, altrimenti sono sempre sola. Ma non vuole bere qualcosa di fresco? Ho anche della birra. -No, grazie. -Veramente? Guardi che non deve mica fare complimenti. Scossi la testa. -Ma tu non vai a scuola? -E lei non va a lavorare? -Anche volessi, non ho lavoro. -È disoccupato? -Be’, sì. Ho dato le dimissioni poco tempo fa. -Cosa faceva, prima? -Qualcosa come il fattorino per un avvocato, - risposi. - Andavo al municipio o all’agenzia del palazzo imperiale per procurarmi documenti vari, riordinavo i dati, controllavo i precedenti penali, svolgevo le pratiche burocratiche del tribunale, cose del genere. -Però ha smesso. - S ì . -Sua moglie lavora? -Sì, lavora. Il piccione che tubava sul tetto della casa di fronte nel frattempo era volato via. Mi accorsi a un tratto, di essere circondato da un profondo silenzio. -I gatti passano sempre di lì, - disse la ragazza indicando un punto in fondo al prato. - Vede quell’inceneritore dietro alla siepe dei Takitani? Escono da lì di fianco, attraversano il prato, scivolano sotto al cancelletto di legno, e vanno nel giardino di fronte. Sempre lo stesso percorso. Sa, il signor Takitani è un illustratore famoso. Si chiama Takitani Tony. Lo conosce? -Takitani Tony? Mi spiegò chi fosse Takitani Tony. Quello era proprio il suo nome, era uno molto famoso, un genio dell’illustrazione meccanica. Poco tempo prima aveva perso la moglie in un incidente d’auto, e viveva solo in quella grande casa. Non usciva quasi mai, e non frequentava nessuno dei vicini. -Non è una cattiva persona, - disse la ragazza. - Anche se non gli ho mai parlato. Sollevando gli occhiali da sole sulla fronte si guardò intorno socchiudendo gli occhi, poi si rimise gli occhiali e tirò fuori una sigaretta. Quando aveva mostrato gli occhi, di fianco a quello sinistro avevo notato una cicatrice di un paio di centimetri. Tanto profonda che probabilmente le sarebbe rimasta tutta la vita. Forse era per nasconderla che portava occhiali molto scuri. Il suo viso non era particolarmente bello, ma aveva qualcosa di seducente. Grazie alla mobilità e vivacità degli occhi, forse, o alla forma particolare delle labbra. -E i Miyawaki li conosce? -No, - risposi. -Sono quelli che vivevano in quella casa disabitata. Quel che si dice delle persone per bene. Le ragazze frequentavano tutte e due un liceo prestigioso. Il padre gestiva una catena di ristoranti. -Perché se ne sono andati? Lei fece una smorfia con la bocca come per dire che non lo sapeva. -Magari erano coperti di debiti, o qualcosa del genere. Se la sono svignata alla chetichella in piena notte. Dev’essere passato già un anno. Le erbacce crescono alla rinfusa, i gatti aumentano, è pericoloso, la mamma protesta sempre. -Ci sono così tanti gatti? La ragazza, senza togliersi la sigaretta di bocca, alzò lo sguardo al cielo. -Ce ne sono di tutti i tipi. Alcuni sono spelacchiati, altri senza un occhio… cioè, al posto dell’occhio c’è un ammasso di carne. Pazzesco, vero? Feci un cenno di assenso. -Tra i miei parenti c’è una persona che ha sei dita. È una ragazza un po’ più grande di me, di fianco al dito mignolo ne ha un altro, piccolo come il dito di un neonato. Ma siccome lo tiene sempre ben piegato, non lo si vede quasi. È una bella ragazza. -Ah. -Pensa che siano ereditarie, quelle cose lì? Come si dice… nel lignaggio della famiglia. Dissi che non me ne intendevo molto, di ereditarietà. Per un po’ lei rimase in silenzio. Io succhiavo una caramella e tenevo costantemente d’occhio il percorso dei gatti. Per il momento non se n’era visto neanche uno. -Senta, veramente non vuole bere niente? Io mi prendo una Coca-Cola… - disse lei. Risposi che non desideravo nulla. Lei si alzò dalla sedia a sdraio e trascinando un poco la gamba sparì sotto l’ombra degli alberi, allora presi in mano la rivista che era ai miei piedi e mi misi a sfogliarla. Contrariamente a quanto mi ero immaginato, era un mensile per soli uomini. Nella fotografia centrale, una ragazza con delle mutandine tanto sottili da lasciar intravedere la forma del sesso e i peli pubici era seduta su di uno sgabello e divaricava le gambe in una posizione innaturale. Questa poi! Posai nuovamente la rivista al suo posto, incrociai le braccia sul petto e mi rimisi a controllare il percorso dei gatti. Dopo un bel po’ di tempo, la ragazza fece ritorno con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Era un pomeriggio caldo, a restare seduto sulla sdraio sotto i raggi del sole il cervello mi si stava annebbiando e trovavo sempre più difficile formulare i pensieri. -Senta, se si accorgesse che una ragazza che le piace ha sei dita, cosa farebbe? - chiese la ragazza riprendendo il discorso di prima. -Be’, la venderei a un circo, - risposi. -Davvero? -Ma scherzo, - risposi ridendo. - Non credo che mi importerebbe molto. -Anche se c’è la probabilità che la cosa si trasmetta ereditariamente ai figli? Ci pensai un po’ su. -Non credo che sarebbe importante. Un dito in più, non è un handicap. -E se avesse quattro seni? Riflettei anche su quell’eventualità. -Non saprei, - dissi. Quattro seni? Si poteva andare avanti così indefinitamente, meglio provare a cambiare argomento. -Quanti anni hai? - chiesi. -Sedici, - disse la ragazza. - Li ho appena compiuti. Sono in prima liceo. -È da molto che sei assente da scuola? -Se cammino troppo la gamba mi fa ancora male. E mi sono anche ferita di fianco all’occhio. Nel mio liceo sono dei rompiscatole, per la disciplina, se sanno che mi sono ferita cadendo da una moto chissà quante storie fanno… così mi son data malata. Per quel che mi riguarda posso anche restare a casa un anno, non ho nessuna fretta di passare in seconda. -Ah, - feci io. -Comunque, per tornare al discorso di prima, con una ragazza che ha sei dita potrebbe anche sposarsi, ma con una che ha quattro seni le farebbe senso… -Non ho mai detto che mi farebbe senso. Ho solo detto che non saprei. -Perché non saprebbe? -Be’, non riesco bene a immaginarmela. -Sei dita riesce a immaginarsele? -Più o meno. -Ma che differenza c’è? Tra avere sei dita e avere quattro seni, cioè? Ci riflettei ancora su, ma non mi venne in mente nessuna risposta convincente. -Faccio troppe domande, vero? -Te l’hanno già detto? -Sì, qualche volta. Tornai a osservare il percorso dei gatti. Chiedendomi cosa diavolo stessi a fare lì, di gatti non se n’era visto neanche uno. Sempre a braccia conserte, chiusi gli occhi per venti o trenta secondi. Stando immobile a occhi chiusi, sentivo varie parti del mio corpo imperlarsi di sudore. I raggi del sole cadevano su di me con una strana pesantezza. Quando la ragazza faceva girare il bicchiere, il ghiaccio tintinnava come una campanella. -Se ha sonno può anche dormire. Se vedo un gatto la sveglio, - disse lei a voce bassa. Io annuii in silenzio senza aprire gli occhi. Non c’era vento, e tutt’intorno non si sentiva un rumore. Il piccione sembrava esser volato lontano, ormai, chissà dove. Provai a pensare alla donna della telefonata. Chissà se la conoscevo veramente. La voce e il modo di parlare non mi dicevano niente, però lei sapeva tutto di me. Era come stare in un quadro di De Chirico, l’ombra della donna si allungava verso di me tagliando la strada di traverso, ma lei si trovava in un luogo ben al di fuori della sfera della mia coscienza. Vicino alle mie orecchie la campanella continuava a tintinnare. -Senta, si è addormentato? - chiese la ragazza in tono esitante, come se non fosse sicura che io sentissi. -No, non dormo. -Posso venire più vicino? Per me è più facile, parlare a voce bassa. -Fai pure, - risposi senza aprire gli occhi. La sentii spostare la sua sedia a sdraio e venire a metterla attaccata alla mia. I due telai urtandosi diedero un colpo secco. Che strano, pensai. A occhi chiusi la voce della ragazza suonava del tutto diversa. -Posso parlare un pochino? - chiese lei. - Parlerò a voce bassa, non è necessario che risponda, può anche addormentarsi. -Come vuoi. -È meraviglioso, che gli esseri umani muoiano. Mi parlava vicinissimo all’orecchio, le sue parole scivolavano quietamente dentro al mio corpo insieme al suo fiato caldo e umido. -Perché? - chiesi. Lei pose un dito sopra alle mie labbra come se volesse sigillarle. -Non faccia domande, - disse. - E non apra gli occhi. D’accordo? Io feci un cenno d’assenso lieve come la sua voce. Lei tolse il dito dalle mie labbra, e lo posò sopra al mio polso. -È qualcosa che mi piacerebbe tagliare e aprire con un bisturi. Non un cadavere. Proprio la sostanza stessa della morte. Ho l’impressione che da qualche parte debba esistere, qualcosa del genere. Qualcosa di lento e morbido come una palla da softball, dai nervi paralizzati. Vorrei prelevarla dalle persone morte, e provare ad aprirla. Come sarà dentro, quella cosa lì? Ci penso sempre. Magari all’interno c’è un nucleo indurito e secco. Come il dentifricio nel tubetto. Non pensa? Non fa niente, non risponda. Una cosa molle tutt’intorno, che si indurisce a mano a mano che si va verso l’interno. Prima aprirei la scorza esterna, tirerei fuori la materia molle e la taglierei a pezzi con un bisturi, o un tagliacarte. Poi procederei allo stesso modo verso l’interno, troverei della materia sempre più dura, e alla fine solo un piccolo nucleo. Piccolo come la pallina di un cuscinetto a sfera, e durissimo. Non le fa quell’impressione? La ragazza diede due o tre colpi di tosse. -Di recente ci penso sempre, a questa cosa. Sarà perché ogni giorno ho un sacco di tempo libero. Quando non si ha niente da fare, i pensieri vagano sempre più lontano. E quando si sono allontanati troppo, poi non si riesce più a seguirli. La ragazza tolse il dito che aveva posato sul mio polso, prese il bicchiere e bevve la Coca-Cola che restava. Dal rumore che faceva il ghiaccio capii che il bicchiere era vuoto. -Non si preoccupi per il gatto, sto all’erta. Se vedo comparire Wataya Noboru la avverto, continui pure a tenere gli occhi chiusi. Sono sicura che in questo momento si sta aggirando da queste parti. Scommetto che ora compare. Mi pare di vederlo, Wataya Noboru, sta camminando nell’erba, scivola sotto la siepe, si ferma da qualche parte ad annusare l’odore dei fiori, a poco a poco si sta avvicinando… Ciò che riuscivo a percepire io, invece, era tutt’al più la figura molto sfocata di un gatto, come una fotografia che sia stata esposta alla luce. I raggi del sole attraverso le mie palpebre disperdevano le tenebre in maniera discontinua, e per quanto mi sforzassi non riuscivo a farmi tornare in mente l’immagine precisa del mio gatto. Riuscivo solo a intravedere una figura tremendamente innaturale, come un ritratto mal riuscito. Solamente i suoi tratti caratteristici erano somiglianti, ma nell’insieme non ci azzeccava affatto. Non riuscivo neppure a ricordarmi il suo modo di camminare. La ragazza posò di nuovo il dito sul mio polso e vi tracciò sopra una strana figura dalla forma imprecisa. Quasi per reazione, sentii scivolare la mia coscienza in un’oscurità diversa da quella che l’aveva offuscata fino a quel momento. Probabilmente stavo per addormentarmi, pensai. Non è che avessi sonno, ma finii coll’addormentarmi ugualmente. Sulla sedia a sdraio di tela sentivo il mio corpo pesantissimo, come il cadavere di un estraneo. Dalle tenebre della mia coscienza affioravano solo le quattro zampe di Wataya Noboru. Erano quattro zampe marroni e silenziose, sotto alle quali erano attaccati cuscinetti morbidi come gomma. Da qualche parte, quelle zampe stavano calpestando il suolo senza fare rumore. Il suolo dove? - Soltanto dieci minuti, - aveva detto la donna al telefono. No, non era vero, pensai, ci sono volte in cui dieci minuti hanno una durata diversa. Si allungano e si accorciano. Io lo sapevo bene. Quando mi svegliai ero solo. La sedia a sdraio di fianco alla mia era vuota, e la ragazza non si vedeva. L’asciugamano, le sigarette e la rivista erano sempre lì, ma il bicchiere di Coca- Cola e lo stereo erano spariti. Il sole si era un po’ abbassato a occidente, e proiettava l’ombra dei rami della quercia fino alle mie ginocchia. Il mio orologio segnava le quattro e un quarto. Mi sollevai a sedere e osservai intorno a me il vasto giardino, la vasca prosciugata, la siepe, l’uccello di pietra, le erbacce altissime, l’antenna della televisione. Del mio gatto neanche l’ombra. E neanche della ragazza.

In attesa che lei tornasse, restai seduto dov’ero e tenni d’occhio il famoso percorso obbligato. Passati dieci minuti, non erano ricomparsi né il gatto né la ragazza. Intorno tutto era immobile. Avevo l’impressione di essere tremendamente invecchiato, mentre dormivo. Mi alzai, e guardai verso la casa. Neanche lì sembrava esserci anima viva. Soltanto i vetri delle porte-finestre, colpiti dai raggi del sole calante, splendevano accecandomi. Pazienza, pensai, attraversai in diagonale il prato, uscii nel vicolo, e tornai a casa. Il gatto non l’avevo trovato, ma non si poteva dire che non l’avessi cercato. Tornato a casa ritirai il bucato, e cominciai a preparare qualcosa di semplice per cena. Alle cinque e mezza il telefono squillò dodici volte, ma non risposi. Anche quando furono cessati, gli squilli continuarono a vibrare nella stanza come polvere nella penombra serale. La sveglia ticchettava regolarmente, la punta dura di un’unghia che batteva su un asse invisibile vagante nel vuoto. E se scrivessi una poesia sull’uccello-giraviti? pensai. Ma non riuscivo assolutamente a ideare neanche il primo verso. E poi non pensavo che a delle liceali potesse far piacere leggere poesie su un uccello che girava le viti, tanto per cominciare. Kumiko tornò verso le sette e mezza. Nell’ultimo mese era rincasata sempre più tardi, spesso alle otto passate, e una volta persino dopo le dieci. Ovviamente non aveva più bisogno di tornare a casa di corsa, ora c’ero io a occuparmi delle faccende domestiche. Comunque mi aveva spiegato che in ufficio, oltre alla solita mancanza cronica di personale, in quel momento uno dei suoi colleghi era assente per malattia, tutto lì. -Scusami, - disse, - ma l’assemblea non finiva mai. La ragazza che viene saltuariamente non è praticamente di alcuna utilità. Io ero in cucina che facevo rosolare in padella il pesce col burro e preparavo la salsa dell’insalata. Nel frattempo Kumiko era venuta a sedersi al tavolo, e se ne stava con le mani in mano. -Di’, dov’eri andato verso le cinque e mezza? - mi chiese, - ti ho chiamato per avvisarti che avrei tardato un po’… -Non c’era più burro e sono andato a comprarlo, - mentii. -In banca ci sei stato? -Certo. -E il gatto? -Non l’ho trovato. Sono andato fino alla casa disabitata del vicolo, come mi avevi detto tu. Niente, neanche l’ombra. Non si sarà mica spinto molto più lontano? Kumiko non rispose. Dopo cena mi feci il bagno, e quando tornai in soggiorno la trovai seduta da sola al buio, aveva spento la luce e se ne stava così, accovacciata immobile nell’oscurità con una camicia grigia addosso. Sembrava un pacco lasciato nel posto sbagliato. Strofinandomi i capelli con un grande asciugamano mi sedetti sul divano di fronte a lei. -Di sicuro il gatto ormai è morto, - disse a bassa voce. -Ma figurati! - risposi. - Si starà divertendo come un pazzo da qualche parte. Quando gli verrà fame tornerà. È già successa una volta, no, una cosa del genere? Quando vivevamo a Kōenji, ricordi? -Questa volta è diverso. Questa volta non è così. Lo so. È morto, e sta imputridendo nell’erba da qualche parte. Hai cercato nel giardino della casa disabitata? -Senti, disabitata o no, è sempre casa d’altri. Mica ci si può entrare così come si vuole. -Insomma, si può sapere dove l’hai cercato? - fece mia moglie. - Tu per trovare quel gatto non hai fatto proprio nessuno sforzo. Per questo non l’hai trovato. Io sospirai e ricominciai a strofinarmi i capelli con l’asciugamano. Stavo per dire qualcosa, ma vedendo che Kumiko piangeva rinunciai. Be’, era inevitabile, pensai. Lo avevamo preso subito dopo il nostro matrimonio, quel gatto, e lei gli voleva molto bene. Cacciai l’asciugamano nella cesta della biancheria sporca nel bagno, andai in cucina, tirai fuori dal frigo una birra e ne bevvi un sorso. Era stata una giornata senza senso. Una giornata senza senso di un mese senza senso di un anno senza senso. Wataya Noboru, dove sarai mai? pensai. L’uccello-giraviti non ha girato la tua vite? Sembravano proprio le parole di una poesia. Wataya NoboruDove sarai mai? L’uccello-giravitiNon ha girato la tua vite? Avevo bevuto solo metà della birra quando il telefono prese a squillare. -Rispondi tu! - gridai rivolto alle tenebre del soggiorno. -No, io non ci vado! Vai tu! - rispose Kumiko. - Non ne ho voglia! - feci io. Il telefono continuò a squillare senza che nessuno andasse a rispondere. Il trillo rimescolava blandamente il pulviscolo stagnante nel buio. Per tutto il tempo né io né Kumiko pronunciammo una parola, io bevevo la mia birra, e lei piangeva in silenzio. Contai fino a venti squilli, poi rinunciai. Continuassero pure, che senso aveva contarli? 2. Dove si parla di pleniluni, eclissi di solee cavalli che muoiono nelle stalleMi domando se sia realmente possibile capire perfettamente un’altra persona. Anche quando ci sforziamo di conoscere qualcuno mettendoci tutto il tempo e la buona volontà possibili, in che misura possiamo cogliere la sua vera natura? Sappiamo ciò che è veramente essenziale riguardo a quell’altro che siamo convinti di comprendere tanto bene? Era stato circa una settimana dopo aver dato le dimissioni dallo studio legale, che per la prima volta in vita mia mi ero posto sul serio queste domande; fino ad allora non avevo mai preso veramente a cuore tali problemi. Chissà come mai. Forse ero già troppo impegnato nel faticoso compito di dare stabilità alla mia esistenza. Ero troppo occupato a pensare agli affari miei. Come succede di solito all’inizio degli avvenimenti importanti nella vita, era stato un fatto estremamente banale a indurmi a tali riflessioni. Kumiko aveva finito in fretta di far colazione ed era uscita, io avevo buttato gli indumenti sporchi nella lavatrice, rifatto il letto, lavato i piatti e passato l’aspirapolvere sul pavimento. Poi ero andato a sedermi nella veranda con il gatto, a dare un’occhiata alle offerte di impiego e agli annunci di saldi. Verso mezzogiorno avevo mangiato qualcosa di semplice, dopo di che avevo fatto un salto al supermercato a far la spesa per la sera. Avevo anche comprato del detersivo nell’angolo dei saldi, poi dei fazzoletti di carta e della carta igienica. Tornato a casa, avevo fatto i preparativi di base per la cena, poi mi ero sdraiato sul divano e aspettando che mia moglie tornasse mi ero messo a leggere un libro. Era da poco che non lavoravo, e quel genere di vita mi era piuttosto nuovo. Non ero più obbligato a stiparmi il mattino in un treno strapieno per recarmi in ufficio, o a incontrare persone che non mi andavano. Non dovevo più ricevere ordini da nessuno, né darne a nessuno. Niente più pasti a menù fisso insieme ai colleghi nei ristoranti sovraffollati del quartiere. Finite le conversazioni sulla partita di baseball della sera prima, ignoravo tutto del quarto battitore degli Yomiyuri Giants, se avesse battuto in campo proprio o no. Alleluia! Ma la cosa più fantastica di tutte era poter leggere i libri che volevo quando volevo. Non sapevo fino a quando sarebbe durata quella pacchia, era passata solo una settimana, ma per il momento mi piaceva, e cercavo di pensare il meno possibile al futuro. Quel periodo era probabilmente la vacanza della mia vita, prima o poi sarebbe finito. Ma nel frattempo me lo volevo proprio godere. In ogni caso, era da un bel po’ che non leggevo un libro solo e unicamente per il mio piacere, soprattutto un libro di letteratura. Le mie letture degli ultimi anni avevano tutte più o meno a che fare con la legge, o erano cosette poco impegnative che si potevano sfogliare in treno andando al lavoro. Senza che nessuno ne avesse mai fatto una regola, nello studio legale il fatto di prendere in mano un’opera letteraria di una certa consistenza in qualche modo non sembrava venire apprezzato. Nessuno era mai arrivato a sostenere che fosse qualcosa di disdicevole, ma se avessero scoperto libri di tal fatta nella mia borsa o nei cassetti della mia scrivania, mi avrebbero sicuramente guardato come si guarda un cane con la scabbia. «Ah, così lei ama la letteratura! - mi avrebbero detto, - anch’io. Da giovane ho letto parecchio». Per loro la letteratura era qualcosa che si leggeva da giovani. Come in primavera si colgono le fragole, e in autunno si vendemmia. Quella sera però non riuscivo a sprofondare secondo il mio solito nel piacere della lettura. Kumiko, infatti, tardava. In genere alle sei e mezza al massimo era di ritorno, e quando pensava di far tardi, anche solo di dieci minuti, non mancava mai di chiamarmi. In queste cose era fin troppo metodica. Ma quel giorno alle sette passate non era ancora tornata, né aveva telefonato. Io avevo preparato tutto in modo da poter cenare appena lei fosse arrivata. Non era un gran menu. In una padella cinese si facevano andare a fuoco basso bue affettato sottile, cipolle, peperoni e germogli di soia, si cospargeva di sale e pepe, e si aggiungeva un po’ di olio di sesamo. All’ultimo minuto si condiva il tutto con uno spruzzo di birra, era un piatto che mi ero preparato spesso quando vivevo da solo. Il riso era cotto, il brodo di  miso 1 era caldo, la verdura era lavata e disposta in un vassoio, pronta per essere buttata in padella in qualsiasi momento. Ma Kumiko non tornava. Avevo fame, quasi quasi ero tentato di prepararmi la mia parte e cominciare a mangiare da solo. Ma per qualche motivo quella soluzione non mi soddisfaceva, avevo la sensazione che non fosse una cosa corretta, anche se non sapevo spiegarmi il perché. Seduto al tavolo della cucina bevvi una birra, e rosicchiai parecchi cracker stantii che trovai in fondo alla credenza. La lancetta corta della sveglia si andava avvicinando alle sette e mezza, e io me ne stavo con le mani in mano a guardarla avanzare. In conclusione, Kumiko tornò alle nove e mezza passate. Aveva l’aria spossata. Gli occhi rossi, come iniettati di sangue. Brutto segno. Quando aveva gli occhi rossi, succedeva sempre qualcosa di brutto. «Stai calmo, - mi dissi, - cerca di non parlare a sproposito. Tranquillo, naturale, cerca di non provocarla». -Scusami, - fece lei. - Non ce l’ho proprio fatta a finire prima. Volevo telefonarti, ma per varie ragioni non sono riuscita a trovare neanche un momento. -Ma no, non fa niente. Non ti preoccupare, - risposi come se non ci facessi caso. E in realtà non è che fossi particolarmente seccato, era successa la stessa cosa anche a me non so quante volte. Andare a lavorare fuori casa comporta tanti problemi, non è una vita limpida e serena… non si tratta di raccogliere la rosa più bella che fiorisce in giardino, portarla alla vecchietta a letto per un’influenza due strade più in là,  et voilà, la giornata è bell’e che passata. No, succede a volte di ritrovarsi con dei buoni a nulla a fare cose assurde. Succede di non riuscire neanche a trovare un momento per telefonare a casa. Bastano trenta secondi, per comporre il numero di casa e dire «questa sera sono in ritardo». Di telefoni ce ne sono da tutte le parti. Eppure non sempre si riesce a farlo. Mi misi a cucinare. Accesi il gas e cosparsi d’olio la padella. Kumiko tirò fuori la 1 Miso:

brodo fatto con una specie di puree di germogli di soia. birra dal frigo e i bicchieri dalla credenza. Esaminò cosa io mi accingessi a preparare per cena. Poi senza dire una parola si sedette al tavolo, e si mise a bere la sua birra. Non doveva essere molto buona, a giudicare dalla sua espressione. -Potevi anche mangiare prima, - disse. -Non fa niente. Non è che avessi tanta fame, - risposi. Mentre facevo saltare in padella la carne e la verdura, Kumiko si alzò e andò nel bagno. Sentii che si sciacquava la faccia nel lavandino, poi si lavava i denti. Poco dopo uscì dal bagno reggendo qualcosa con tutte e due le mani. Erano i fazzoletti di carta e la carta igienica che avevo comprato nel pomeriggio. -Perché hai comprato questa roba? - mi chiese in tono stanco. Senza mollare la padella la guardai in viso. Lei fissò i pacchi che teneva in mano. Non riuscivo a immaginare cosa volesse dire. -Non lo so, - feci. - Sono solo fazzoletti e carta igienica. Ce n’è sempre bisogno, no? Ne avevamo ancora un po’, ma non fa niente, mica sono cose che vanno a male. -Comprare fazzoletti e carta igienica va benissimo, è evidente. Quello che ti sto chiedendo è perché hai comprato dei fazzoletti celesti, e della carta igienica a fiori. -E che ne so? - risposi con pazienza. - Li ho comprati così, perché erano tutte e due scontati, costavano meno. Non è che se uno si soffia il naso con dei fazzoletti celesti gli diventa il naso celeste. Non c’è niente di male, no? -Sì che c’è. A me non piacciono, i fazzoletti di carta celesti e la carta igienica con i disegni. Non lo sapevi? -Non lo sapevo, - risposi. - Ma perché non ti piacciono, c’è una ragione particolare? -No, come faccio a sapere se c’è una ragione? Anche a te non piacciono le fodere per il telefono, i thermos a fiori, e i jeans borchiati a zampa di elefante. E detesti che io mi metta lo smalto sulle unghie. Non è che si possa fornire una ragione per ognuna di queste cose. È semplicemente una questione di gusto. Io a dir la verità per ognuna di quelle! cose avevo una spiegazione ben precisa, ma ovviamente mi guardai bene dal dirlo. -Okay, è solo una questione di gusto, d’accordo. Però in questi sei anni, da quando ci siamo sposati, tu non hai mai comprato una sola volta dei fazzoletti celesti o della carta con dei disegni? -Mai, - rispose Kumiko categoricamente. -Ne sei sicura? -Sicurissima. Io compro solo fazzoletti bianchi, gialli o rosa. Esclusivamente quelli. E la carta igienica che compro io è sempre assolutamente in tinta unita. E tu in tutto questo tempo che hai vissuto con me non te ne sei neanche accorto, è davvero sorprendente. Ne ero sorpreso anch’io. Negli ultimi sei anni non avevo mai usato neanche una volta fazzoletti celesti e carta igienica con dei disegni. -Intanto che ci siamo, se mi permetti di dirti un’altra cosa, - continuò lei, - non mi piace neanche la carne con i peperoni. Questo lo sapevi? -No, non lo sapevo. -Be’, la detesto. E non chiedermene la ragione. Il perché non lo so, ma quando queste due cose cuociono insieme in una padella, mi fa schifo già solo l’odore. -Tu in questi sei anni non hai mai cucinato la carne con i peperoni? Lei scosse la testa. -I peperoni in insalata li mangio. La carne insieme alle cipolle la mangio. Ma carne e peperoni insieme no, non li ho mai cucinati, neanche una volta. -Non mi dire! -E a te non è mai venuto in mente che potesse esserci un problema, vero? -Ma se non ci ho mai neanche fatto caso! - risposi. Cercai di ricordarmi se da quando eravamo sposati lei avesse mai mangiato qualcosa con carne e peperoni. Non mi venne in mente niente. -Vivi con me, - continuò lei, - ma quando mai hai preso a cuore sul serio la mia felicità? Nella vita hai sempre pensato solo a te stesso, è ovvio. Spensi il fuoco, e posai la padella sul forno a microonde. -No, ferma un momento, - dissi. - Vorrei che tu non mischiassi le cose in questo modo. D’accordo, probabilmente non ho fatto caso alla faccenda dei fazzoletti e della carta igienica, e ai rapporti tra la carne e i peperoni. Lo ammetto. Ma non penso che questo significhi che io non ho mai preso a cuore la tua felicità. In realtà non me frega niente, del colore dei fazzoletti di carta. Ovviamente sarei sorpreso di trovare sul tavolo una scatola di fazzoletti neri. Ma che siano bianchi o celesti, me ne infischio. La stessa cosa vale per la carne e i peperoni, il modo in cui vengono cucinati mi è del tutto indifferente. Anche mi dicessero che nessuno li cuocerà mai più insieme da nessuna parte del mondo per il resto dell’eternità, non potrebbe importarmene di meno. È una cosa che non ha quasi nessuna relazione con la natura profonda della tua persona. È così o no? Kumiko non mi rispose. Finì di bere in due sorsi la birra che rimaneva nel suo bicchiere, poi rimase a guardare in silenzio la bottiglia vuota posata sul tavolo. Buttai nella pattumiera il contenuto della padella. La carne, i peperoni, le cipolle e i germogli di soia finirono lì dentro. Che strano, pensai, fino a un secondo prima quelle erano cose da mangiare, e adesso erano solo spazzatura. Stappai una birra e bevvi dalla bottiglia. -Perché hai buttato via quella roba? - chiese Kumiko. -Perché a te non piace. -Potevi mangiarla tu. -Non ne ho voglia, - risposi. - Non ho più voglia di mangiare carne con i peperoni. -Fai come vuoi, - disse lei alzando le spalle. Poi posò tutt’e due le braccia sul tavolo e vi buttò sopra la faccia. Non è che piangesse o dormisse, semplicemente restava ferma così in silenzio. Io guardai la padella vuota sopra il forno a microonde, guardai mia moglie, poi bevvi un sorso della birra che restava. Cose da pazzi, pensai. Cosa diavolo stava succedendo? Dopo tutto si trattava solo di fazzoletti, carta igienica, peperoni… A ogni buon conto mi avvicinai a mia moglie e le misi una mano sulla spalla. -Okay, d’accordo, - dissi. - Non comprerò mai più fazzoletti di carta celesti o carta igienica a disegni. Te lo prometto. Quelli che ho comprato, domani li riporto al supermercato e me li faccio cambiare con degli altri. E se non me li cambiano li brucerò in giardino. Le ceneri le andrò a buttare in mare. Per quel che riguarda la carne e i peperoni, la faccenda è già sistemata. Può darsi che resti ancora un po’ di odore, ma se ne andrà subito. Dai, dimentichiamo tutta questa storia. Lei non rispose nulla. Magari avessi potuto prendere la porta e andarmene, farmi un giro di una settimana, e al mio ritorno ritrovarla del suo solito buon umore. Ma le probabilità che una manovra del genere riuscisse erano nulle, dovevo restare lì e risolvere con lei la situazione. -Sei stanca, - le dissi. - Riposati un po’, poi andiamo a mangiarci una pizza qui vicino, è da un bel po’ che non lo facciamo. Ci mangiamo metà pizza alle acciughe e alla cipolla per uno. Non è che ci mettano in castigo, se ogni tanto ceniamo fuori. Sempre buttata giù con la faccia nascosta, Kumiko continuava a tacere. Non avevo altro da dire. Mi sedetti dall’altra parte del tavolo e guardai la sua testa. Tra i capelli corti e neri si vedevano le orecchie, ai lobi portava piccoli orecchini d’oro a forma di pesce che non le avevo mai visto. Quand’è che li aveva comprati, e dove? Avevo voglia di fumare, era passato solo poco più di un mese da quando avevo deciso di smettere. Mi immaginai nell’atto di tirar fuori dalla tasca un accendino e un pacchetto di sigarette, portarne una alla bocca, accenderla. Avrei aspirato avidamente il fumo e lo avrei mandato giù nel petto. Il fumo mischiato all’odore stagnante della carne e della verdura cotta mi avrebbe stuzzicato le narici. A essere sinceri, avevo una fame spaventosa. Tutt’a un tratto gettai un’occhiata al calendario con le fasi della luna appeso alla parete: eravamo vicini al plenilunio, il che mi fece venire in mente che a Kumiko stavano per venire le mestruazioni. Per la prima volta da quando mi ero sposato sentii intensamente di far parte della specie umana che viveva sulla Terra, il terzo pianeta del sistema solare. Io vivevo sulla Terra, la Terra girava intorno al Sole, e intorno alla Terra girava la Luna. Che mi piacesse o meno, questo sarebbe durato eternamente (anche se parlare di eternità riferendomi alla durata della mia vita era forse spropositato). A indurmi a quel pensiero fu il fatto che le mestruazioni di mia moglie arrivassero ogni ventotto giorni esatti, le quattro fasi lunari pulite pulite, incredibile. Kumiko aveva un flusso molto pesante, alcuni giorni prima che cominciasse diventava nervosa e di umore estremamente variabile, spesso litigioso. Per cui anche per me, seppur indirettamente, il ciclo lunare era importante. Io mi ci preparavo, e cercavo di usare tutta la mia abilità per evitare discussioni inutili. Prima di sposarmi non mi ero quasi mai preoccupato delle fasi lunari. Mi era capitato a volte di alzare tutt’a un tratto lo sguardo al cielo, ma non avevo mai considerato la forma della luna un problema personale. Da quando mi ero sposato invece mi pareva di averla sempre in testa, la forma della luna. In precedenza avevo avuto delle relazioni sentimentali con parecchie ragazze, e ovviamente ognuna di loro aveva il suo ciclo mestruale. C’era chi l’aveva pesante e chi l’aveva leggero, quella a cui durava tre giorni e quella a cui durava tutta una settimana, una era regolare, e un’altra aveva dei ritardi anche di dieci giorni che mi facevano venire i sudori freddi. C’erano ragazze che diventavano di pessimo umore, e altre che non ci facevano quasi caso. Prima di sposarmi con Kumiko, però, non avevo mai vissuto con una donna. L’unico ciclo naturale che esistesse per me era il variare delle stagioni, quando veniva l’inverno tiravo fuori il cappotto, quando veniva l’estate tiravo fuori i sandali. Tutto lì. Dopo il matrimonio, invece, avevo cominciato a fare mio un nuovo concetto di ciclo, le fasi della luna, quello della persona con cui convivevo. Kumiko aveva saltato quel ciclo solo per un periodo di alcuni mesi. Perché era incinta. -Scusami, - disse lei alzando la testa. - Non avevo intenzione di prendermela con te. Sono solo stanca e un po’ nervosa. -Non fa niente, - risposi. - Non ti preoccupare. Quando si è stanchi è meglio prendersela con qualcuno. Così ci si sfoga. Kumiko inspirò lentamente e profondamente l’aria, la trattenne per un po’ nei polmoni, poi espirò con altrettanta lentezza. -Tu come fai? -A fare che cosa? -Tu anche se sei stanco non te la prendi con nessuno. Ho l’impressione di essere solo io a prendermela con gli altri, va’ a sapere perché… -Non me ne sono accorto, - risposi scuotendo la testa. -Magari dentro di te hai un pozzo profondo, nel quale puoi gridare «il re ha le orecchie d’asino!» e così tutto miracolosamente si sistema. Riflettei un momento su quanto lei mi diceva. -Può darsi che sia così, - risposi. Kumiko osservò di nuovo la bottiglia di birra vuota. Guardò l’etichetta, l’imboccatura, poi la fece girare lentamente tenendola per il collo. -Stanno per venirmi le mestruazioni. Penso che sia per questo che sono nervosa. -Lo so, - risposi. - Ma non devi preoccuparti. Non sei la sola a subire l’influsso di certe cose. Prendi i cavalli, ne muoiono tantissimi quando c’è la luna piena. Kumiko tolse la mano dalla bottiglia, e mi guardò a bocca spalancata. -Cos’è questa storia? Perché tutt’a un tratto mi parli di cavalli? -L’ho letto poco tempo fa sul giornale. È da un pezzo che volevo parlartene, ma me ne sono sempre dimenticato. L’ha detto un veterinario di non so dove nel corso di un’intervista, i cavalli sono animali che subiscono in maniera tremenda l’influenza delle fasi lunari, sia fisicamente sia spiritualmente. Quando si avvicina il plenilunio, il loro equilibrio psichico è molto disturbato, e anche fisicamente hanno grossi problemi. Nelle notti di luna piena molti si ammalano, e aumenta drammaticamente il numero di quelli che muoiono. Perché questo succeda, nessuno lo sa con esattezza. Eppure se si guardano le statistiche la cosa si verifica regolarmente. I veterinari specializzati in cavalli, durante il plenilunio, pare che siano subissati di lavoro, non hanno neanche il tempo di dormire. -Ma va…? - fece mia moglie. -Ma ancora peggio dei pleniluni sono le eclissi di sole. Durante le eclissi le condizioni dei cavalli diventano addirittura tragiche. Ne muoiono tanti di quei tanti, in quei giorni, che tu non te lo puoi neanche immaginare. Insomma, quello che voglio dire è che anche in questo momento in qualche parte del mondo un gran numero di cavalli sta morendo. In confronto, cosa vuoi che sia il fatto che tu ti sfoghi con qualcuno? Non c’è da farne un dramma. Prova a immaginare quelle povere bestie. Prova a pensare a quei poveri cavalli che stanno morendo, che giacciono riversi sulla paglia di una stalla in una notte di luna piena, che agonizzano mandando schiuma bianca dalla bocca… Lei per un po’ parve assorta nel pensiero dei cavalli agonizzanti nelle stalle. -Una cosa è certa, hai uno strano potere di persuasione, tu, - disse col tono di cedere le armi. - Non si può fare a meno di ammetterlo. - Be’, allora cambiati che andiamo fuori a mangiare una pizza, - risposi io. Quella notte, sdraiato di fianco a Kumiko nella camera da letto a luce spenta, guardavo il soffitto e mi chiedevo che cosa in realtà sapessi di quella donna. L’orologio segnava le due del mattino. Lei dormiva profondamente. Io nell’oscurità pensavo ai fazzoletti di carta celesti, alla carta igienica a disegni, alla carne cucinata con i peperoni. Per tutto quel tempo l’idea che lei non li potesse sopportare non mi aveva mai sfiorato. Il fatto in sé era un dettaglio senza importanza, una sciocchezza da liquidare con una risata. Non era un problema per il quale far tanto baccano, nel giro di qualche giorno avremmo dimenticato quella stupida lite. Eppure a me quella faccenda non andava giù. Mi faceva sentire a disagio, come una spina di pesce che si è fermata in gola. Perché poteva anche trattarsi di qualcosa di essenziale. Anzi, sicuramente lo era. Poteva darsi cioè che quello fosse solo il segnale di un problema molto più importante, vitale. Magari mi trovavo sulla soglia di un mondo esclusivo di Kumiko, a me sconosciuto, che si dilatava al di là. Me l’immaginai come una vastissima stanza buia, dentro alla quale io mi trovavo con un piccolo accendino in mano. Ma alla fiamma dell’accendino se ne poteva vedere solo un angolo. Chissà se un giorno sarei stato in grado di conoscerla tutta, quella stanza. Oppure sarei invecchiato senza esplorarla fino in fondo, e poi sarei morto. In tal caso, che senso poteva mai avere quella vita matrimoniale? Che senso poteva quindi avere la mia vita, poiché vivevo e dormivo nello stesso letto con una persona che non conoscevo? Queste sono le riflessioni che feci quella notte, e anche in seguito continuai a pensarci su in maniera intermittente. Poi capii, anche se molto più tardi, che quella volta avevo proprio toccato il cuore del problema. 3. Il cappello di Kanō MaltaUna tinta sorbettoAlien Ginsberg e i CrociatiMi stavo preparando qualcosa da mangiare in cucina, quando squillò il telefono. Avevo tagliato due fette di pane, ci avevo spalmato sopra burro e mostarda, e messo dentro del pomodoro affettato e del formaggio. Poi avevo posato il sandwich sul tagliere e stavo per dividerlo a metà col coltello da cucina. Giusto in quel momento suonò il telefono. Lo lasciai squillare tre volte, poi tagliai il pane a metà. Lo posai su un piatto, pulii il coltello e lo riposi nel cassetto. Quindi versai in una tazza il caffè che avevo riscaldato. Ciononostante il telefono continuava a suonare, doveva aver già fatto una quindicina di squilli. Mi rassegnai a sollevare la cornetta. Possibilmente avrei preferito non rispondere alle telefonate, ma poteva darsi che fosse Kumiko. -Pronto? - disse una voce di donna. Non mi ricordavo di averla mai sentita, non era né mia moglie, né la ragazza che mi aveva fatto quella strana telefonata qualche giorno prima, quella volta che avevo gli spaghetti sul fuoco. Era una voce del tutto sconosciuta. -Scusi, posso parlare con il signor Okada Tōru? - chiese la donna. Si esprimeva come se stesse leggendo parola per parola una frase scritta su un pezzo di carta. -Sì, sono io. -È lei il marito della signora Okada Kumiko? -Sì, Okada Kumiko è mia moglie. -Il signor Wataya Noboru è il fratello di sua moglie? -Sì, - risposi con pazienza. - È esatto, Wataya Noboru è il fratello di mia moglie. -Io mi chiamo Kanō. Aspettai in silenzio che lei continuasse. Ero rimasto piuttosto sorpreso nel sentir fare di punto in bianco il nome di mio cognato. Con la punta della matita posata di fianco al telefono mi grattai la nuca. Per cinque o sei secondi la donna restò in silenzio, dal ricevitore non solo non arrivava alcuna voce, ma neanche altri suoni. Poteva darsi che lei avesse coperto con la mano la cornetta del telefono e stesse consultandosi con qualcuno lì di fianco. -Pronto? - feci io preoccupato. -La prego di scusarmi, - disse la donna tutt’a un tratto. - La chiamerò di nuovo. -No, aspetti un momento. Che cosa… - Aveva già messo giù. Per un po’ restai a guardare il ricevitore che tenevo in mano, poi provai a portarlo di nuovo all’orecchio. Ma avevano proprio messo giù, non mi sbagliavo. Seduto al tavolo della cucina, bevvi ingrugnito il mio caffè e mangiai il mio sandwich. Non riuscivo a ricordami a cosa stessi pensando prima di quella telefonata. Nella mano destra tenevo il coltello, stavo per tagliare il pane, e stavo pensando a qualcosa. A qualcosa di importante. Qualcosa che avevo cercato a lungo di ricordarmi senza riuscirci, e al momento di tagliare in due il pane, all’improvviso mi era tornato in mente. Però adesso mi era di nuovo sfuggito. Mangiando il mio sandwich mi sforzai di ritrovarlo. Tutto inutile. Il ricordo era già ritornato nelle tenebre lontane della coscienza da dove era emerso. Avevo appena finito di mangiare e di rigovernare, quando il telefono suonò di nuovo. Questa volta risposi immediatamente. -Pronto? - disse la voce di mia moglie. -Sì? - risposi. -Come va? Hai già pranzato? - chiese lei. -Sì, ho appena finito. E tu cos’hai mangiato? - domandai a mia volta. -Niente, - rispose lei. - Da stamattina non ho avuto un attimo di respiro, neanche il tempo di mangiare un boccone. Magari fra un po’ faccio un salto a comprarmi un sandwich qui vicino. Tu per pranzo cos’hai mangiato? Glielo spiegai. -Ah, - fece lei col tono di non invidiarmi affatto. - Senti, stamattina volevo dirtelo ma me ne sono dimenticata, penso che oggi ti telefonerà una certa Kanó. -Già fatto, - dissi. - Proprio poco fa. Ha chiesto di te, di me, poi di tuo fratello, e ha riattaccato senza dire cosa volesse. Insomma, cosa vuole, quella lì? -Ha riattaccato? -Sì. Dicendo che avrebbe richiamato più tardi. -Be’, se ti telefona di nuovo, fai come ti dice. È una faccenda importante. È probabile che combini un incontro da qualche parte. -Quand’è che la devo incontrare? Oggi, adesso? -Hai qualche impegno, oggi, qualche appuntamento? -No, - risposi. Non avevo né impegni né appuntamenti, io, né oggi, né ieri, né domani. -Ma insomma chi è, questa Kanō, cosa diavolo vuole da me, me lo vuoi spiegare? Piacerebbe sapere anche a me quello che mi succede. Se è qualcosa che ha a che fare con il mio lavoro, gradirei proprio che non venisse coinvolto tuo fratello. Penso di avertelo già detto. -No, non si tratta del tuo lavoro, - disse Kumiko con voce annoiata. - Si tratta del gatto. -Del gatto? -Senti, scusa ma ti devo lasciare, c’è gente che aspetta. È già un miracolo che sia riuscita a chiamarti. Non ho neanche pranzato, te l’ho detto, no? Posso mettere giù? Se ho un attimo di tempo ti telefono più tardi. -Lo so che hai da fare. Però, anche per me, credi che sia facile? Mi sento fare certi discorsi assurdi, di punto in bianco… insomma cos’è successo al gatto? Questa Kanō… -In ogni caso fai come ti dice lei, per favore. Hai capito? È una cosa seria. Resta a casa e aspetta la sua telefonata. Be’ ora metto giù, ciao, - disse Kumiko, e riattaccò. Quando alle due e mezza squillò il telefono, stavo facendo un pisolino sul divano. All’inizio pensai che fosse il suono della sveglia, sporsi la mano per premere il pulsante e farla tacere. Ma non c’era nessuna sveglia. Stavo dormendo sul divano, non nel letto. E inoltre non era mattina ma pomeriggio. Mi alzai e andai fino al telefono. -Pronto? - dissi. -Pronto? - rispose la stessa donna che aveva chiamato prima di mezzogiorno. - Posso parlare con il signor Okada Tōru? -Sì, sono io. Sono Okada Tōru. -Io sono Kanō. -È lei che ha chiamato prima, vero? -Sì, mi scusi ancora per poco fa. A proposito, potrebbe gentilmente dirmi se lei oggi ha qualche impegno, nel pomeriggio? -No, non ho nessun impegno particolare, - risposi. -In tal caso… so che la mia richiesta le sembrerà un po’ strana, così senza preavviso, ma chissà se potrei incontrarla, - disse lei. -Oggi, adesso? - S ì . Guardai l’orologio. L’avevo guardato trenta secondi prima, non c’era alcun bisogno di farlo di nuovo, ma era sempre meglio essere sicuri. Erano già le due e mezza del pomeriggio. -È una cosa che prenderà molto tempo? - domandai. -No, probabilmente no. Ma può darsi che ce ne voglia più di quanto io pensi. Adesso non posso dirle esattamente quanto, però. Mi scusi, - disse la donna. Tanto non avevo possibilità di scelta, che importanza aveva quanto tempo ci avremmo messo? Cosa mi aveva raccomandato Kumiko al telefono? Di fare come mi diceva quella lì. Che era una cosa seria. Quindi da parte mia non avevo che da seguire le istruzioni: se mi aveva detto che si trattava di una cosa seria, doveva esserlo. -Va bene. Allora dove potremmo incontrarci? - chiesi. -Lei conosce l’Hotel Pacific, davanti alla stazione di Shinagawa? -Sì, lo conosco. -Al pianterreno c’è un caffè. L’aspetto lì alle quattro. Le può andar bene? -Benissimo. -Io ho trentun anni, e avrò un cappello rosso di plastica, - disse la donna. Oddio, pensai. Nelle sue parole c’era qualcosa di strano che per qualche secondo mi lasciò interdetto. Ma non riuscivo a capire in cosa consistesse, nulla stonava in ciò che aveva detto o nella sua maniera di esprimersi, non c’era nessun motivo per cui una donna di trentun anni non potesse portare un cappello di plastica rossa. -D’accordo, - risposi. - Penso che la troverò. -Comunque per sicurezza, potrebbe descrivermi qualche particolarità del suo aspetto? - chiese lei. Ci pensai su. Quale «particolarità» potevo mai avere, io? -Ho trent’anni. Sono alto un metro e settantadue, peso sessantatré chili, ho i capelli corti. Non porto gli occhiali -. No, questi non si potevano certo considerare tratti particolari, pensai mentre mi descrivevo. Di uomini come me nel caffè dell’Hotel Pacific di Shinagawa dovevano essercene almeno una cinquantina. Ci ero stato una volta, era un locale enorme. Avevo bisogno di qualcosa di veramente singolare che attirasse lo sguardo della gente. Ma non ne avevo, io, di siffatte singolarità, non me ne veniva in mente neanche una. Era chiaro che avevo anch’io delle cose originali, avevo un disco di Miles Davis,  Sketches of Spain,  con la sua firma. Il mio polso era piuttosto lento, normalmente quarantasette battiti al minuto, anche con trentotto e mezzo di febbre non saliva a più di settanta. Da quando ero disoccupato, mi ricordavo a memoria i nomi dei fratelli Karamazov. Ma erano tutte cose che da fuori non si vedevano. -Come pensa di venire vestito? - chiese la donna. -Ah, già… - dissi. Ma neanche sul mio abbigliamento avevo le idee chiare. - Non lo so. Non ho ancora deciso. Decido sempre all’ultimo minuto. -Non potrebbe venire con una cravatta a pallini? - chiese lei in tono deciso. - Ce l’ha, una cravatta a pallini, signor Okada? -Sì, penso di sì, - dissi. Avevo una cravatta blu a pallini color crema. Era un regalo che mi aveva fatto mia moglie due o tre anni prima, per il mio compleanno. -Allora mi faccia la cortesia di metterla. Bene, avrò il piacere di vederla alle quattro, - disse la donna. E riattaccò. Aprii l’armadio in cerca della cravatta a pallini. Sul portacravatte non c’era. Provai ad aprire tutti i cassetti. Tutti gli scatoloni di vestiti nell’armadio a muro. Ma della cravatta a pallini neanche l’ombra. Se mai era in casa, avrei già dovuto trovarla, non c’erano alternative. Perché Kumiko era molto ordinata nel riporre i vestiti, era impensabile che mettesse una cravatta in un posto diverso da quello solito. Come sempre, sia i miei vestiti sia i suoi erano in ordine perfetto, le camicie riposte nei cassetti senza una piega, le maglie nei loro scatoloni, abbondantemente cosparse di naftalina. Facevano male gli occhi solo ad aprirle. In una scatola trovai i suoi abiti di quando era studentessa. Un vestito mini a fiori, la divisa blu del liceo, altri indumenti. Erano riposti lì come vecchi album, non riuscivo a immaginare perché conservasse quella roba. Magari non aveva avuto l’occasione di buttarla via. Oppure aveva l’intenzione di spedirla nel Bangladesh, prima o poi. O voleva farne un giorno o l’altro del materiale culturale. Comunque la mia cravatta a pallini non c’era. Quand’era stata l’ultima volta che me l’ero messa? Con la mano ancora posata sull’anta dell’armadio cercai di ricordarmene. Niente da fare, non ne avevo la più pallida idea. Era una cravatta elegante e di buon gusto, ma un po’ troppo vistosa per metterla in ufficio. Se l’avessi fatto, c’era da scommettere che durante la pausa di mezzogiorno qualcuno sarebbe venuto alla mia scrivania e mi avrebbe complimentato con insistenza, «che magnifica cravatta, che bel colore, dà un senso di allegria». Era una maniera di mettere in guardia. In quell’ufficio il fatto che una cravatta venisse ammirata non era un titolo di merito. Infatti lì non l’avevo mai messa, la sfoggiavo per andare al concerto, a qualche cena importante, insomma in occasioni rigorosamente private ma relativamente formali. Quando mia moglie mi diceva «oggi ci mettiamo un po’ eleganti». Non è che ce ne fossero tantissime, di occasioni del genere, ma in quei casi mi mettevo la cravatta a pallini. Stava bene con il vestito blu, e a Kumiko piaceva molto. Però non riuscivo assolutamente a ricordarmi quando l’avevo messa l’ultima volta. Dopo aver fatto un’ultima verifica nell’armadio, rinunciai. Per qualche ragione quella cravatta non c’era, chissà dov’era finita. Cosa ci potevo fare? Mi misi il vestito blu, una camicia celeste e una cravatta a righe; in qualche modo me la sarei cavata. Probabilmente quella lì non mi avrebbe riconosciuto, ma bastava fossi io a trovare una donna di trentun anni con un cappello rosso. Tutto vestito com’ero mi sedetti sul divano, e per un po’ restai fermo a guardare il muro. Era da molto che non mi mettevo in giacca e cravatta. Quell’abito blu «autunno-inverno-primavera» in realtà era un po’ troppo pesante per la stagione, ma per fortuna quel giorno pioveva e per essere in giugno faceva piuttosto fresco. Era lo stesso abito che mi ero messo l’ultimo giorno che ero andato a lavorare, in aprile. All’improvviso mi venne lo scrupolo di controllare a una a una tutte le tasche, e in quella interna della giacca trovai una ricevuta che portava la data dell’autunno scorso. Una corsa in taxi da qualche parte. Se l’avessi chiesto l’ufficio me l’avrebbe rimborsata, ma ormai era troppo tardi. L’appallottolai e la gettai nel cestino della carta straccia. Era molto tempo che non mi mettevo in giacca e cravatta, da quando avevo lasciato il lavoro due mesi prima, e provavo la sensazione di essere costretto in una specie di armatura, qualcosa di tremendamente rigido che non si conformava affatto al mio corpo. Mi alzai e camminai un po’ nella stanza, andai davanti allo specchio e cercai di modellare il vestito su di me tirando le maniche e i risvolti dei pantaloni. Allungai bene le braccia, respirai profondamente, mi piegai in avanti, verificai che in quei due mesi la forma del mio corpo non avesse subito cambiamenti. Poi tornai a sedermi sul divano. Tutto inutile, continuavo a sentirmi impacciato. Fino a quella primavera avevo sempre preso il treno ed ero andato al lavoro vestito così, senza mai provare un particolare senso di disagio. Il mio ufficio era molto rigoroso in fatto di vestiario, e pretendeva che persino un impiegato di bassa categoria come me si presentasse in giacca e cravatta, di conseguenza per me quell’abbigliamento era diventato qualcosa di molto naturale. Però ora, seduto da solo in quella tenuta formale sul divano del soggiorno, avevo quasi la sensazione di compiere un’azione sconveniente, addirittura scorretta, in qualche modo. Mi sentivo la coscienza un po’ sporca, come uno che abbia falsificato il proprio  curriculum vitae per un fine vile, o di nascosto si sia vestito da donna. A poco a poco sentivo difficoltà a respirare. Andai nell’ingresso, tirai fuori dalla scarpiera delle scarpe marroni di pelle e me le infilai con l’aiuto del calzascarpe. Erano coperte da un leggero strato di polvere bianca. Non ebbi bisogno di cercare la donna, mi trovò prima lei. Entrando nel caffè, perlustrai la sala con lo sguardo alla ricerca di un cappello rosso, ma non vidi nessuno che portasse un tale copricapo. Guardai l’orologio, mancavano dieci minuti alle quattro. Presi posto, bevvi l’acqua che mi portarono, e ordinai alla cameriera un caffè. In quel momento una voce di donna alle mie spalle mi chiamò per nome. - È lei il signor Okada, vero? Mi voltai sorpreso, non erano passati neanche tre minuti da quando avevo percorso con gli occhi il locale e mi ero seduto. La donna indossava una giacca bianca, una camicetta di seta gialla, e portava un cappello di plastica rossa. Per riflesso mi alzai e mi voltai verso di lei. Era piuttosto bella. Per lo meno molto più bella di quanto mi fossi immaginato sentendo la sua voce al telefono. Era snella, truccata molto leggermente, vestita con buon gusto. Sia la camicetta sia la giacca erano cose fini di buona qualità, sul risvolto di quest’ultima splendeva una spilla d’oro a forma di ala. Avrebbe potuto essere la segretaria di direzione di una ditta di alto livello. Solo il cappello rosso stonava irrimediabilmente. Perché mai era andata a piazzarsi sulla testa un obbrobrio del genere dopo essersi vestita in modo cosi raffinato? La cosa sfuggiva alle mie capacità intellettive. A meno che usasse sempre quel cappello come contrassegno quando doveva incontrare qualcuno. Non si poteva dire che fosse una cattiva idea. Considerato dal punto di vista dell’appariscenza era perfetto, non passava certo inosservato. Lei prese posto di fronte a me, e io mi risedetti dov’ero prima. -Ha fatto in fretta a riconoscermi, - provai a dire senza nascondere la sorpresa. - La cravatta a pallini non l’ho trovata. Son sicuro che da qualche parte ci deve essere, ma non sono assolutamente riuscito a scovarla, ho dovuto rassegnarmi a mettere questa a righe. Pensavo che avrei dovuto essere io a trovarla, come ha fatto a capire chi ero? -È ovvio che l’ho capito, - rispose lei. Poi posò sul tavolino la borsetta di vernice bianca, si tolse il cappello di plastica e lo mise sopra alla borsa. Questa spari completamente sotto il cappello. Si era creata una atmosfera particolare, come se stesse per iniziare qualche gioco di prestigio. Come se, togliendo il cappello, la borsa li sotto non ci dovesse essere più. -Sì, ma avevo una cravatta diversa, - insistetti. -Una cravatta? - fece lei. Poi guardò con aria perplessa quella che portavo, come se si domandasse di cosa diavolo stessi parlando. - Non importa, non si preoccupi per un’inezia del genere, - aggiunse. Pensai che i suoi occhi davano un’impressione strana, come se curiosamente non avessero profondità. Erano belli, eppure sembrava che non vedessero niente. Erano vitrei come occhi artificiali. Ovviamente non lo erano, però, si muovevano benissimo e battevano le palpebre. Non riuscivo assolutamente a spiegarmi come avesse fatto a riconoscermi in un caffè così affollato, la prima volta che mi incontrava. Il vasto locale era quasi pieno, e di uomini press’a poco della mia età ce n’erano ovunque. Come diavolo aveva fatto a trovarmi subito in un posto del genere? Avrei voluto chiederglielo, ma sembrava consigliabile evitare le domande superflue, così non aggiunsi altro. La donna fermò il cameriere che girava indaffarato e domandò una Perrier. Lui rispose che non ne avevano, poteva portarle dell’acqua tonica. Dopo averci pensato un po’, lei disse che andava bene. Poi rimase in silenzio finché l’acqua arrivò. Anch’io tacevo. A un certo punto lei sollevò il cappello rosso posato sul tavolino, aprì il fermaglio della borsetta e tirò fuori un astuccio di lucida pelle nera, un po’ più piccolo di una cassetta stereo. Conteneva dei biglietti da visita, e si chiudeva anch’esso con un fermaglio. Era la prima volta che vedevo quel tipo di astuccio munito di fermaglio. Lei ne trasse con grande considerazione un biglietto e me lo porse. Anch’io feci per tirar fuori i miei, ma dopo aver infilato la mano nella tasca interna della giacca mi ricordai che non ne avevo più. Il biglietto da visita era di plastica sottile, e sembrava emanare un lieve profumo. Provai ad avvicinarlo al naso, l’odore si fece più evidente. Era senza dubbio profumo. Sul biglietto c’era scritto solo un nome in piccoli caratteri nerissimi: Kanō MaltaMalta? pensai. Provai a guardare dietro. Non c’era scritto niente. Mentre facevo mille congetture sul significato di quel nome, il cameriere arrivò, posò davanti a lei un bicchiere che conteneva del ghiaccio e una fetta di limone tagliata a zigzag e lo riempì a metà d’acqua tonica. Poi arrivò una cameriera con un vassoio sul quale troneggiava una caffettiera argentata, posò davanti a me una tazza, vi versò il caffè, depose quietamente un foglietto sul piattino apposito con l’aria di chi consegna a qualcuno un responso di malaugurio, e si ritirò. Io stavo ancora indugiando a contemplare il retro del biglietto da visita, di un bianco immacolato. -Non c’è scritto niente, - disse Kanō Malta. - Solo il nome. Non è necessario che io fornisca né il mio numero di telefono né il mio indirizzo. Nessuno mi chiama. Sono io che telefono alla gente. -In effetti, - dissi. La risposta assunse un significato che non era nelle mie intenzioni, e per un certo tempo rimase sospesa per aria sopra il tavolo, come l’isola vagante nel cielo di Gulliver. Lei bevve solo un sorso con la cannuccia, reggendo il bicchiere con entrambe le mani. Poi fece una piccola smorfia e lo spinse da una parte, come se non le interessasse più. -Malta non è il mio vero nome, - disse. - Kanō invece sì, è il mio cognome. Malta è lo pseudonimo che uso per lavorare. Viene dall’isola omonima. Lei non è mai stato nell’isola di Malta, signor Okada? Dissi di no, non ci ero mai stato. Né avevo in programma di andarci in un prossimo futuro. Non ci avevo mai neanche pensato. Tutto quello che conoscevo dell’isola di Malta, era il pezzo di Herb Alpert  Sands of Malta,  senza esagerazioni una vera schifezza. -Io sì, per tre anni. Ho vissuto lì tre anni, cioè. L’acqua su quell’isola ha un gusto pessimo. È praticamente imbevibile, sembra acqua di mare diluita. Anche il pane è salato, ma non perché ci aggiungano del sale, è l’acqua a essere salata. Il pane però non è cattivo. Mi piace, il pane di Malta. Io annuii, e bevvi il mio caffè. -Malta è un posto particolare. L’acqua di solito è pessima, ma c’è una fonte sull’isola la cui acqua è speciale, ha un effetto meraviglioso sulla costituzione fisica. Si può quasi dire che sia un mistero. Esiste solo a Malta. La sorgente è nelle montagne, dal villaggio più vicino per arrampicarsi fin lì ci vogliono parecchie ore. E poi non la si può trasportare, quell’acqua, lontano dalla sua sorgente perde il suo potere. Chi vuole berla deve andare fin lì. Se ne parla anche in certi documenti dell’epoca delle Crociate. Loro la chiamavano acqua miracolosa. Persino Alien Ginsberg è venuto a provarla. E Keith Richards. Io ho vissuto lì tre anni, in un piccolo villaggio vicino. Coltivavo l’orto, e imparavo a tessere. E poi andavo ogni giorno a bere a quella fonte. Dal ‘76 al ‘79. Mi è capitato anche di non mangiare niente per una settimana, di bere solo quell’acqua. Per una settimana intera non ho messo in bocca altro. È un genere di esercizio necessario, penso che lo si possa definire una pratica ascetica. Per purificare il corpo. È stata un’esperienza straordinaria. È per questo che quando sono tornata in Giappone ho scelto il nome di un luogo, Malta, come pseudonimo professionale. -Mi scusi, ma che tipo di lavoro svolge? - chiesi. Malta piegò la testa da un lato. -A dir la verità non è un lavoro. Non è un’attività che svolgo per guadagnare. Il mio obiettivo è di ascoltare la gente, il loro parere, raccogliere varie opinioni sulla costituzione fisica. Sto anche studiando l’influenza dell’acqua, sulla costituzione fisica. Non ho problemi economici, sono benestante. Mio padre dirigeva una clinica, e ha trasferito a me e a mia sorella azioni e proprietà immobiliari sotto forma di rendita vitalizia. Dell’amministrazione se ne occupa un commercialista. Ogni anno ho un reddito regolare. Inoltre ho già scritto parecchi libri, e anche da lì ho dei proventi, anche se non sono gran cosa. Il mio lavoro sulla costituzione fisica non è assolutamente a fine di lucro, per questa ragione sul mio biglietto da visita non c’è né il mio numero di telefono, né il mio indirizzo. Sono io che telefono alla gente. Feci un cenno di assenso. Ma era solo un gesto. Capivo il significato delle singole parole che uscivano dalla sua bocca, ma il senso globale di tutto ciò mi sfuggiva. La costituzione fisica? Alien Ginsberg? Cominciai a sentirmi a disagio. Non sono dotato di una particolare intuizione, eppure subodoravo qualche grana di un nuovo genere, senza possibilità d’errore. -Mi scusi, ma non potrebbe darmi una spiegazione un poco più precisa? Poco fa mia moglie mi ha solo detto che avrei dovuto incontrarla per parlare con lei del nostro gatto. Perciò queste cose che lei ora mi sta raccontando, non è che non mi interessino, ma a essere sincero, non essendo al corrente delle circostanze… tutto ciò ha qualcosa a che fare con il mio gatto? -Sì, - disse Malta. - Prima però c’è una cosa che desidero lei sappia. Aprì di nuovo la borsa, e ne tirò fuori una busta bianca. Conteneva una fotografia che mi porse. -È una fotografia di mia sorella, - disse. Si vedevano due donne: una era Malta, che anche in quell’istantanea portava un cappello. Un cappello di maglia gialla che di nuovo stonava completamente con il suo abbigliamento. Quanto all’altra donna (la sorella, dedussi da quanto mi aveva detto), indossava un tailleur color pastello come andavano di moda agli inizi degli anni Sessanta, e portava un cappello intonato. Di quel colore particolare che una volta mi pare venisse chiamato «tinta sorbetto». Dovevano amare molto i cappelli, quelle due lì. Il taglio dei capelli della minore assomigliava a quello della moglie del presidente americano dell’epoca, Jacqueline Kennedy. Si vedeva benissimo che doveva essersi messa un sacco di lacca. Il trucco era un po’ troppo pesante, ma aveva sicuramente un bel viso. Quanto all’età, doveva avere tra i venti e i venticinque anni. Dopo averla osservata per un po’, resi la foto a Malta. Lei la ripose nella busta, che mise nella borsa chiudendone il fermaglio. -Mia sorella ha cinque anni meno di me, - disse. - È stata oltraggiata dal signor Wataya Noboru. Stuprata. Oddio, ci mancava anche questa! Avrei voluto alzarmi e andarmene senza dire niente. Ma non era possibile. Tirai fuori il fazzoletto dalla tasca della giacca, mi asciugai la bocca, lo rimisi in tasca. Quindi mi schiarii la gola. -Non sono al corrente delle circostanze, ma se sua sorella è rimasta ferita da questa vicenda, ne sono sinceramente desolato, - dichiarai infine. - Tuttavia, mi consenta, personalmente io ho un rapporto molto superficiale con mio cognato. Perciò se lei a proposito di questa faccenda intende… -Non sto dando a lei la responsabilità della cosa, signor Okada, - disse Malta in tono deciso. - Se c’è qualcuno che dev’essere ritenuto responsabile, questa sono io, più di chiunque altro. Non ho fatto abbastanza attenzione, avrei dovuto badare meglio a mia sorella fin dall’inizio. Ma per una serie di circostanze non sono stata in grado di farlo. Sono cose che succedono, signor Okada, ne conviene? Anche lei sa bene che questo è un mondo violento, confuso. E al suo interno ci sono zone ancora più violente, ancora più confuse. Mi capisce? Quel che è successo è successo. Mia sorella da quella ferita, da quell’offesa, si riprenderà, deve riprendersi. Per fortuna non è stata una ferita letale. Questo l’ho detto anche a lei, poteva succedere qualcosa di molto, molto più tragico. Il problema più importante adesso per me, è la costituzione fisica di mia sorella. -La costituzione? - ripetei. Gira e rigira, la sua conversazione tornava sempre su quell’argomento. Era coerente. -Non posso ora spiegarle nei dettagli qual era la situazione in quel periodo. È un discorso lungo e complicato, e probabilmente, mi scusi se le dico una cosa che può sembrarle offensiva, lei non lo potrebbe interpretare nella maniera giusta, al punto in cui siamo mi sembra difficile. Rientra nella sfera della nostra attività professionale. Perciò se l’ho fatta venire qui, non è per presentarle lamentele a questo proposito, signor Okada. È evidente che lei non ha alcuna responsabilità, non c’è neanche bisogno di dirlo. Semplicemente vorrei che lei riconoscesse che mia sorella ha subito un danno, diciamo temporaneo, dal signor Wataya. È probabile che in futuro lei venga in qualche modo in contatto con mia sorella, che mi aiuta nel mio lavoro, come le ho già detto prima. Nel caso che tra mia sorella e il signor Wataya dovesse sopravvenire qualche altro incidente, era opportuno che lei fosse a conoscenza di ciò che è già successo, signor Okada. E anche che ammetta la realtà dei fatti, cioè che certe cose possono sempre accadere. Per un po’ restammo in silenzio. Malta non diceva nulla, aveva preso un’espressione che sembrava invitarmi a meditare su quanto avevo appena sentito. E io meditai. Sul fatto che Wataya Noboru avesse stuprato la sorella di Malta, sulla relazione tra tale episodio e la costituzione fisica, e sul nesso tra queste cose e la scomparsa del mio gatto. -In conclusione, - dissi infine timidamente, - non avete intenzione di divulgare la cosa, lei e sua sorella, di sporgere denuncia alla polizia o… -No, certo. Noi vogliamo soltanto conoscere con maggior precisione le ragioni che hanno portato a quest’episodio. Se non risolviamo la cosa in piena conoscenza di causa, c’è la possibilità che succeda qualcosa di peggio. A sentire quelle parole mi tranquillizzai un poco. Non che me ne importasse molto che Wataya Noboru fosse accusato di violenza carnale, riconosciuto colpevole e sbattuto in galera. Anzi, pensavo che se lo meritasse. Ma siccome era una persona molto conosciuta, mio cognato, la cosa avrebbe fatto notizia. E Kumiko ne avrebbe avuto certamente uno shock, soprattutto, che desideravo evitare, anche per la salute del mio spirito. -Il motivo del nostro incontro di oggi è solo ed esclusivamente il suo gatto, - disse Malta. - Il signor Wataya si era rivolto a noi per consultarci al riguardo. La signora Okada, sua moglie, aveva chiesto consiglio al fratello riguardo a un gatto scomparso, e il signor Wataya si è rivolto a noi. Ah, adesso capivo. Kumiko aveva voluto consultare un indovino o qualcosa del genere. In casa Wataya da sempre credevano fanaticamente nelle profezie, i presagi, gli oroscopi, e via dicendo. Ovviamente era un campo in cui ogni persona era totalmente libera di pensare quello che voleva. Ma che bisogno c’era di andare a stuprare proprio la sorella di una così? Perché andare a creare quel problema supplementare, che proprio non ci voleva? -Lei è specializzata in questo tipo di ricerche? - domandai. Malta mi fissò in viso con quei suoi occhi senza profondità. Sembrava che sbirciassero dalla finestra all’interno di una casa vuota. A giudicare dal suo sguardo, non pareva aver afferrato il significato della mia domanda. -In che posto strano, vive lei… - disse senza curarsi di quanto le avevo chiesto. -Veramente? - feci. - Come sarebbe a dire, strano? Malta non rispose. -E i gatti sono creature così dolci, - aggiunse spostando dieci centimetri più in là il bicchiere di acqua tonica che non aveva quasi toccato. Per un po’ restammo in silenzio. -D’accordo, io vivo in un posto strano, e i gatti sono creature molto dolci. Fin qui ci sono, - dissi. - Comunque è da un bel po’ che ci abitiamo, in quel posto. Insieme al gatto. Perché ha scelto di andarsene proprio adesso, così? Perché non se n’è andato prima? -Non posso affermarlo chiaramente, ma forse la corrente è cambiata. Per qualche motivo la corrente sarà stata ostacolata. -La corrente, - ripetei. -Se il gatto sia vivo o no, non glielo so ancora dire. Ma una cosa è certa, non si trova nelle vicinanze della sua casa. Quindi è inutile che lo cerchiate da quelle parti, non lo troverete. Io presi in mano la tazza e bevvi un sorso del caffè ormai freddo. Al di là dei vetri della finestra si vedeva cadere una pioggerella leggera. Il cielo era coperto di nuvole scure. La gente saliva e scendeva dalla passerella pedonale sopraelevata, tenendo l’ombrello con aria malinconica. -Mi dia la mano, per favore. Posai la mano destra sul tavolino, col palmo rivolto in su, pensando che lei volesse leggerne le linee. Non ne aveva la minima intenzione. Tese la sua mano ben dritta, e la posò palmo a palmo sulla mia. Poi chiuse gli occhi, e restò ferma in quella posizione. Come se stesse rimproverando in silenzio un amante infedele. Il cameriere si avvicinò, fece finta di non vedere me e Malta che tenevamo in silenzio le nostre mani l’una contro l’altra, e riempì di nuovo di caffè la mia tazza. La gente seduta ai tavolini vicini ci lanciava occhiate furtive. Io avevo un solo timore, che nel locale ci fosse per caso qualcuno che mi conosceva. -Cerchi di ricordarsi una cosa, anche una sola, che ha visto oggi prima di venire qui, - disse Malta. -Una sola? - chiesi. -Una sola. Mi venne in mente il vestito mini a fiori che si trovava nella scatola dei vestiti di mia moglie. Non so perché, ma in ogni caso fu a quello che improvvisamente pensai. Continuammo a tenere le mani unite per altri cinque minuti, un tempo che mi sembrò eterno. Non solo per l’imbarazzo, la gente intorno cominciava a guardarci con sospetto, ma anche per il disagio che provavo a quel contatto. La sua mano era piuttosto piccola, né calda né fredda, e aveva un modo di toccare diverso sia dall’intimità di un’innamorata, sia dalla funzionalità di un medico. Assomigliava molto alla sensazione che davano i suoi occhi. A venir toccati da lei, come a venir guardati da lei, ci si sentiva come una casa vuota, deserta. Un contenitore al cui interno non c’erano né mobili, né tende, né tappeti. Solo uno spazio vacante. Finalmente Malta staccò la sua mano dalla mia, e trasse un profondo respiro. Poi annuì parecchie volte. -Signor Okada, - disse. - Penso che a partire da adesso per un certo periodo le succederanno diverse cose. La storia del gatto probabilmente è solo l’inizio. -Diverse cose? - ripetei. - Cose belle o cose brutte? Lei piegò appena appena la testa di lato con l’aria di riflettere. -Ci saranno cose belle, e anche cose brutte. Ci potranno essere cose brutte che a prima vista sembreranno belle, e cose belle che a prima vista sembreranno brutte. -Onestamente, - risposi, - a me tutto questo suona un po’ come comune buonsenso. Non può darmi qualche informazione più concreta? -Come dice giustamente lei, ciò che le ho annunciato ora suona proprio come comune buonsenso, - disse Malta. - Tuttavia, signor Okada, sono moltissimi i casi in cui la vera natura delle cose la si può esprimere soltanto con parole banali. Cerchi di capirlo. Noi non siamo né indovini, né profeti. Tutto quello che vi possiamo dare, sono indicazioni vaghe di questo tipo. In molti casi sono ovvietà di cui non val la pena di parlare, a volte addirittura luoghi comuni Però, se devo essere sincera, è l’unico modo di progredire. È vero che i fatti concreti hanno più impatto, sulla gente, ma la maggior parte di essi non sono altro che fenomeni banali. Deviazioni inutili, direi. Più ci si sforza di guardare lontano, più le cose si generalizzano. Io assentii in silenzio. Ma ovviamente non capivo una parola di quello che diceva. -Mi permette di telefonarle di nuovo? - chiese Malta. -Certamente, - risposi. Per la verità non desideravo più ricevere telefonate da nessuno, ma non potevo dirle una cosa del genere. Lei afferrò con un gesto rapidissimo il cappello di plastica rossa posato sul tavolino, prese la borsa che era nascosta lì sotto, e si alzò. Non sapendo come reagire, rimasi seduto immobile. -Le voglio dire una sola cosa banale, - disse Malta dopo essersi messa il cappello, guardandomi dall’alto in basso. - La sua cravatta a pallini non la troverà dentro casa. 4. Un’alta torre e un pozzo profondo, ovvero lontano da NomonhanQuella sera Kumiko tornò a casa di buon umore. Anzi, era veramente allegra. Dopo l’incontro all’Hotel Pacific, io ero rincasato verso le sei, troppo tardi per cucinare una cena come si deve prima che tornasse anche lei. Avevo tirato fuori dei cibi congelati e preparato qualcosa di semplice, che mangiammo poi insieme bevendo birra. Lei parlò del suo lavoro, come fa sempre quando è di buon umore, raccontò quello che aveva fatto, chi aveva incontrato quel giorno nel suo ufficio, quale dei suoi colleghi valeva qualcosa e quale no, insomma chiacchiere del genere. Io stavo a sentire, limitandomi ad assentire. Di solito ascoltavo solo a metà, ma non perché quei discorsi mi infastidissero. A prescindere dall’argomento, a me in ogni caso piaceva guardare mia moglie mentre a tavola si infervorava a parlare del lavoro. La famiglia, pensavo. In seno a essa noi svolgevamo i ruoli che ci eravamo assegnati, lei parlava del suo lavoro, io preparavo la cena e ascoltavo. Era una famiglia che non corrispondeva affatto all’immagine che ne avevo prima di sposarmi, ma comunque fosse, me l’ero scelta io. Ovviamente anche da bambino avevo avuto una famiglia, ma non per mia decisione, mi era stata assegnata per legge di natura, imposta, cioè. Invece ora mi trovavo in una realtà acquisita che avevo scelto io di mia volontà: la mia famiglia. Certo difficilmente la si sarebbe potuta definire perfetta, però io ero sostanzialmente pronto ad accettarla, qualunque problema si presentasse. Insomma era qualcosa che mi ero scelto io, e se questa scelta comportava qualche problema, doveva trattarsi di un problema inerente alla mia stessa natura. - Allora com’è andata, per il gatto? Parlai senza dilungarmi del mio incontro con Kanō Malta all’Hotel Pacific. E della cravatta a pallini, che per qualche ragione non avevo trovato nel guardaroba. Raccontai che la Kanō mi aveva comunque individuato subito nel caffè pieno di gente, e com’era vestita, e in che modo parlava, riferii tutto. Kumiko rise del cappello di plastica rossa di Malta, ma rimase un po’ delusa dal fatto che non mi avesse dato una risposta chiara sulla sorte del nostro gatto scomparso. -Insomma, non sa bene neanche lei che cosa gli sia accaduto? - mi chiese con aria preoccupata. - L’unica cosa che sa, è che il gatto ormai non è più da queste parti. -Già, proprio così, - risposi. Decisi di passare sotto silenzio l’informazione datami dalla Kanō che noi vivevamo in un posto dove «la corrente era stata ostacolata», cosa che poteva aver a che fare con la scomparsa del gatto. Probabilmente Kumiko si sarebbe allarmata. Per quel che mi riguardava, avevamo già abbastanza guai, non ci mancava altro che lei si mettesse a dire che quel posto non andava bene e che dovevamo traslocare immediatamente in un altro quartiere. Considerate le nostre condizioni economiche, tanto per cominciare un trasloco era fuori discussione. -Il gatto ormai non si trova più in questo quartiere. A sentire lei, per lo meno. -Il che significa che non tornerà più a casa? -Questo non lo so, - risposi. - Parlava in maniera molto ambigua. Erano tutte solo suggestioni. Ma ha detto che appena avesse saputo qualcosa di più preciso avrebbe telefonato. -Pensi che si possa avere fiducia, in quella lì? -Ah, questo lo ignoro. Non è assolutamente il mio campo, tutta questa faccenda. Mi versai la birra nel bicchiere, e per un po’ rimasi a guardare che la schiuma si riducesse. Nel frattempo Kumiko si era buttata sul tavolo col mento sulle mani. -Non accetta assolutamente nessun compenso, né in denaro né altro, - fece. -Meno male, - risposi. - Allora non ci sono problemi. «Non ti chiedo soldi, non ti rubo l’anima, non ti porto via la principessa». Non abbiamo nulla da perdere. -Vorrei che tu capissi una cosa, io a quel gatto ci tengo, per me è veramente importante, - disse mia moglie. - Il che dovrebbe significare che è importante per  noi, suppongo. L’abbiamo trovato noi due, una settimana dopo che ci siamo sposati. Te ne ricordi, no? Quando l’abbiamo raccolto… -È ovvio che me ne ricordo, - risposi. -Era ancora un gattino, fradicio di pioggia. Pioveva a dirotto e io ti ero venuta incontro alla stazione. Con l’ombrello. L’abbiamo trovato al ritorno, gettato in una cassa di birra di fianco al negozio di alcolici. Era il primo gatto che avessi avuto in vita mia. Per me era un simbolo importante. È per questo che non posso accettare di perderlo. -Lo so, lo so bene, - risposi. -L’abbiamo cercato da tutte le parti, da tutte le parti, sia tu sia io, tutto inutile, non si trova. Sono già dieci giorni che è sparito. È per questo che ho provato a chiamare mio fratello, cos’altro potevo fare? Gli ho chiesto se non conosceva qualche indovino o qualche chiromante capace di aiutarci a ritrovarlo. Lo so che a te non piace chiedere qualcosa a mio fratello, ma lui di queste cose se ne intende, ha preso da mio padre… -Una tradizione di famiglia, - dissi io in tono freddo come il vento della sera che soffia sulla baia. - Ma che razza di relazione c’è, tra tuo fratello e questa Kanō? Mia moglie alzò le spalle. -Si saranno di sicuro incontrati per caso da qualche parte. Negli ultimi tempi pare che lui stia diventando piuttosto famoso. -Sarà andata così. -Avrà pure una capacità intellettiva superiore, quella lì, però è un po’ bizzarra, no? - disse Kumiko infilzando macchinalmente il gratin di maccheroni con la forchetta. - Come ha detto che si chiama, di nome? -Malta, - dissi. - Che ha fatto pratica ascetica nell’isola di Malta. -Ecco, Kanō Malta. A te che impressione ha fatto? -Mah… - feci, guardandomi le mani che tenevo appoggiate sul tavolo. - Per lo meno non mi sono annoiato, a parlare con lei, il che è già qualcosa. Tanto il mondo è pieno di cose incomprensibili, e bisogna pure che qualcuno se ne incarichi. E se non sono persone noiose, tanto di guadagnato. Non credi? Come il signor Honda, per esempio. A quelle parole mia moglie si mise a ridere allegramente. -Be’, era una persona come si deve, quello lì, non pensi? A me piaceva, il signor Honda. -Anche a me, - risposi. Durante tutto il primo anno di matrimonio, soltanto per quell’anno, una volta al mese noi eravamo andati a far visita a un uomo anziano, il signor Honda appunto, a casa sua. Nella famiglia Wataya, quella di mia moglie, lui era considerato una specie di divinità e godeva di grandissima considerazione, ma era quasi sordo e non capiva bene quello che gli si diceva. Portava un apparecchio acustico, ma anche con quello si poteva dire che non ci sentisse quasi niente. Dovevamo parlargli a voce talmente alta da far tremare la carta degli  shoji2.  Se uno è talmente sordo, pensavo, come fa a sentire quello che gli dicono gli spiriti? O che fosse il contrario? Magari un sordo riusciva a sentirli meglio. Il signor Honda aveva perso l’udito a causa di una ferita riportata in guerra. Era stato arruolato come sottufficiale nell’esercito del Kwantung nel ‘39, all’epoca dell’«Incidente cinese», e durante la battaglia di Nomonhan contro le armate alleate dell’Unione Sovietica e della Mongolia, nella zona di frontiera fra questa e la Manciuria, tra i bombardamenti e le bombe a mano gli erano saltati i timpani. Se andavamo a trovarlo, non era perché credessimo nelle sue capacità divinatorie, io in quei fenomeni non avevo il minimo interesse, e anche la fede di Kumiko in quel genere di poteri soprannaturali era piuttosto tiepida, paragonata a quella dei suoi genitori e di suo fratello. Non che lei non fosse superstiziosa, se le predicevano qualche sventura ne faceva una malattia, ma per propria decisione non voleva farsi coinvolgere attivamente in quel genere di cose. Se andavamo dal signor Honda, dunque, era perché ce lo aveva domandato il padre di Kumiko. Per essere più espliciti, quella era la condizione che lui aveva posto per consentire al nostro matrimonio. Piuttosto strana, come condizione, ma noi per evitare grane inutili avevamo accettato. A essere sinceri, né io né Kumiko avevamo mai pensato che i suoi genitori avrebbero acconsentito facilmente alle nostre nozze. Suo padre era un funzionario della pubblica amministrazione. Veniva dalla provincia di Niigata, da una famiglia di agricoltori che non si poteva certo dire ricca, aveva studiato grazie a una borsa del governo, si era laureato a pieni voti all’Università di Tokyo, ed era diventato un pezzo grosso al ministero dei Trasporti. Si fosse trattato solo di quello, per quel che mi riguardava era una cosa magnifica, però, come succede spesso con quel tipo di persona, era estremamente presuntuoso e pieno di sé. Abituato a dare ordini, non si sognava neanche di mettere in dubbio i valori del mondo al quale apparteneva. Per lui la gerarchia era tutto. Come rispettava ciecamente i suoi superiori, non provava la minima esitazione a calpestare quelli che stavano sotto di lui. Né io né Kumiko ci illudevamo che un uomo del genere fosse felice di dare in moglie la figlia a uno come me, un giovane di ventiquattro anni senza né arte né parte, dalla carriera scolastica mediocre, e dalle prospettive per il futuro praticamente nulle. Ma eravamo decisi a sposarci lo stesso, se i suoi genitori si fossero categoricamente opposti ce ne saremmo infischiati, e avremmo fatto la nostra vita. Ci amavamo profondamente, eravamo giovani, ed eravamo convinti che noi due 2 Shòji:

finestre e pareti divisorie scorrevoli formate da un telaio in legno leggero sul quale viene tesa della carta di riso. soli insieme saremmo stati felici, anche se tagliavamo i ponti con la famiglia, anche se non avevamo un soldo. In effetti quando andai a chiedere la mano di Kumiko, la reazione dei suoi genitori fu estremamente fredda. Un’atmosfera glaciale, qualcuno doveva aver spalancato tutti i frigoriferi del mondo contemporaneamente. Fecero fare una scrupolosa indagine sui miei antecedenti familiari. Nella mia famiglia non c’erano stati individui degni di menzione, né di merito né di biasimo, di conseguenza prendere una misura del genere era un totale spreco di tempo e di denaro. Fino ad allora non avevo avuto la più pallida idea di cosa avessero fatto i miei antenati nell’era Edo, ma dalle indagini risultò che tra di loro c’era una prevalenza di bonzi e di studiosi. Il livello di istruzione nell’insieme era alto, ma quanto a utilità pratica, cioè a capacità di fare soldi, lasciavano parecchio a desiderare. Non c’erano dei veri geni, ma neanche dei criminali. Nessuno aveva ricevuto medaglie, ma nessuno si era mai suicidato per amore insieme a qualche attrice. Fra di essi ce n’era stato solo uno, un membro del tutto sconosciuto di un partito reazionario, che al momento della restaurazione Meiji, disperato per le prospettive politiche del Giappone, si era tagliato la pancia sul portale di non so quale tempio. Di tutti i miei antenati era il più pittoresco. Ma sembrava che fra tutti non avessero fatto buona impressione. All’epoca io lavoravo nello studio legale. Mi chiesero se avessi intenzione di passare l’esame da procuratore. Dissi di sì. E in effetti in quel periodo, benché non avessi per nulla le idee chiare, pensavo ancora di provarci, pensavo di fare quel piccolo sforzo in più, visto che ero arrivato fin lì. Anche se dal mio libretto universitario saltava agli occhi quanto scarse fossero le mie probabilità di superare quell’esame. In conclusione, nell’insieme non ero il marito ideale per la loro figlia. A ogni modo, se i genitori di Kumiko avevano finito per acconsentire, seppur con riluttanza, al nostro matrimonio - una cosa vicina al miracolo - era stato grazie al signor Honda. Il signor Honda mi aveva interrogato a lungo, e aveva dichiarato che se Kumiko doveva prender marito, non si poteva trovare un candidato migliore di me; e che non si doveva assolutamente contrastare il nostro desiderio di sposarci, se non si voleva incorrere in conseguenze catastrofiche. I genitori di Kumiko credevano ciecamente a tutto quello che diceva il signor Honda, e non osando contraddirlo furono costretti ad accettarmi come genero. Per loro però restavo tutto sommato qualcuno di un altro ambiente, una persona fuori posto, un ospite non invitato. Nei primi mesi di matrimonio, io e Kumiko ci recavamo ogni due settimane a cena da loro, più per dovere che altro, ma erano serate nauseabonde. Giusto a metà strada tra un’inutile mortificazione e un supplizio crudele. Mentre si cenava, avevo l’impressione che la loro tavola da pranzo fosse lunga come la stazione di Shinjuku, loro stavano all’estremità opposta, mangiavano qualcosa e chiacchieravano. Ma la mia persona era troppo lontana, ai loro occhi doveva apparire minuscola. Dopo un anno di matrimonio, ebbi una violenta lite con mio suocero, e da allora non ci eravamo mai più visti. E così finalmente avevo potuto togliermi quel peso dallo stomaco. Non si dovrebbe essere obbligati a sforzi superflui e senza senso. Eppure, per un certo periodo dopo il nostro matrimonio, io, a modo mio mi ero sforzato di instaurare con la famiglia di mia moglie un buon rapporto. E fra tutti quegli sforzi, incontrare una volta al mese il signor Honda era chiaramente quello che mi era costato meno fatica. Gli onorari del signor Honda li pagava mio suocero, noi dovevamo solo recarci in visita una volta al mese a casa sua a Megurō, portando una bottiglia di sakè. Dopo aver ascoltato quello che aveva da dirci potevamo tornare a casa, tutto lì. A noi il signor Honda piacque subito. A parte il fatto che era sordo e teneva sempre la televisione a tutto volume (era veramente assordante), sembrava proprio un bravo vecchietto. Gli piaceva l’alcol, e quando gli porgevamo la bottiglia assumeva un’espressione tutta contenta. Andavamo sempre la mattina, a casa dal signor Honda. Sia d’estate sia d’inverno, lui era sempre seduto al  kotatsu3, d’inverno acceso e coperto da una trapunta, d’estate spento e senza trapunta. Pareva che fosse un indovino piuttosto famoso, il signor Honda, ma il suo stile di vita era estremamente frugale. Anzi, sarebbe meglio dire che faceva la vita di un eremita. La casa era piccola, e nell’ingresso c’era solo lo spazio per togliersi e infilarsi le scarpe uno alla volta. I  tatami4 erano sciupati, e i vetri incrinati delle finestre erano tenuti insieme col nastro adesivo. Di fronte alla casa c’era un’officina meccanica, dove qualcuno in continuazione urlava a pieni polmoni. Lui portava strani kimono che non avevano l’aria di esser stati lavati di recente, una specie di combinazione tra quelli che si usano per dormire e la tenuta degli uomini di fatica. Viveva solo, ma ogni giorno veniva una governante a fare pulizia e a cucinare qualcosa. Pare però che lui rifiutasse a ogni costo, per chissà quale ragione, di farsi lavare i vestiti. Le guance incavate erano costantemente velate da una sottile barba bianca non rasata. 3Kotatsu:

è un tavolo basso coperto da una trapunta che arriva al suolo, sopra alla quale si posa un secondo ripiano che serve da piano d’appoggio. Riscaldato all’interno, serve a tenere al caldo le gambe e la parte inferiore del corpo. I kotatsù moderni sono dotati di una resistenza elettrica, ma anticamente si usava porre un braciere sotto alla trapunta. 4Tatami:

stuoia di paglia intrecciata su un telaio rigido, dalle dimensioni fisse, centottanta centimetri per novanta, e rifinita da un bordo in stoffa. Serve da unità di misura di superficie nelle abitazioni. Quanto alle suppellettili della casa, se devo proprio indicare un oggetto che avesse una qualche magnificenza, c’era solo un enorme, quasi opprimente televisore a colori. Che trasmetteva sempre qualche programma della NHK. Non ero mai riuscito a capire se questo fosse dovuto al fatto che il signor Honda amasse particolarmente i programmi della NHK, se per lui fosse una seccatura cambiare canale, oppure se si trattasse di un televisore particolare che prendeva solo le reti nazionali. Quando ci recavamo da lui, trovavamo il signor Honda infallibilmente seduto di fronte al televisore, che era posato direttamente sul pavimento. I bastoncini divinatori erano sparsi in disordine sul ripiano del  kotatsu.  Nel frattempo la NHK trasmetteva senza interruzione a tutto volume lezioni di cucina, rubriche sulla cura dei bonsai, telegiornali, tavole rotonde di politica, e via dicendo. La cosa mi metteva un po’ a disagio perché il modo di parlare dei giornalisti della NHK non l’ho mai potuto soffrire, ascoltandoli si ha l’impressione che cerchino artificiosamente di privare gli spettatori delle loro giuste emozioni, che vogliano eliminare le sofferenze di varia natura che derivano dall’imperfezione della società. -Può darsi che tu non sia portato per la giurisprudenza, - mi disse un giorno il signor Honda. Col volume di voce con cui si sarebbe rivolto a qualcuno che si trovasse una ventina di metri dietro di me. -Ah sì? - feci io. -La legge, in ultima analisi, regola i fenomeni entro limiti terreni. È un mondo in cui la luce è luce, e l’ombra è ombra. «Io sono io, lui è lui, e il discorso è chiuso». «Quello non è il tuo posto. Il tuo posto si trova o al di sopra, o al di sotto». -Ma cosa è meglio, al di sopra o al di sotto? - chiesi io per pura curiosità. -Non si tratta di dire che cosa sia meglio, - rispose il signor Honda, che venne scosso da un lungo accesso di tosse. Sputò il catarro in un fazzoletto di carta, vi diede un’occhiata, poi appallottolò il fazzoletto e lo gettò nel cestino della carta straccia. - Non è qualcosa di cui si possa dire cosa è meglio e cosa è peggio. Non bisogna opporsi alla corrente, se si deve andare in alto si va in alto, se si deve andare in basso si va in basso. Quando si deve andare in alto, è bene cercare la torre più alta e arrampicarsi fino in cima. Quando si deve andare in basso, è bene cercare il pozzo più profondo e calarsi nel fondo. Quando non c’è corrente, è bene restare fermi. Se ci si oppone alla corrente, tutto inaridisce. E se tutto inaridisce, questo mondo diventa buio. «Io sono lui, lui è me, e tutto ricomincia». Rinunciando a me stesso, io esisto. -Questo è un periodo in cui non c’è corrente? - domandò Kumiko. -Come? -QUESTO È UN PERIODO IN CUI NON C’È CORRENTE?- gridò Kumiko. -Non c’è, - disse il signor Honda annuendo tra sé. - Perciò è bene restare fermi. Non è necessario fare nulla. A condizione di stare attenti all’acqua. Può darsi che in futuro tuo marito debba soffrire per qualcosa che ha a che fare con l’acqua. Acqua che non c’è dove dovrebbe esserci. Acqua che c’è dove non dovrebbe esserci. In ogni caso, è meglio che faccia molta attenzione all’acqua -. Di fianco a me Kumiko annuì con espressione molto seria, ma io capivo che stava trattenendosi dal ridere. -Di che acqua si tratta? - chiesi. -Non lo so, comunque è acqua, - disse il signor Honda. Alla televisione, un professore di non so quale università sosteneva che l’uso confuso della grammatica giapponese corrispondeva alla confusione che regnava nel modo di vivere. - Per la precisione, non la si può definire confusione, - diceva, - la grammatica è come l’aria, mettiamo che qualcuno decida d’ufficio che d’ora in poi si farà in un certo modo, non è detto che le cose debbano andare proprio in quel modo -. Era un argomento interessante, ma il signor Honda continuò a parlare dell’acqua. -Anche io, a essere sincero, ho sofferto parecchio per l’acqua, - disse. - A Nomonhan di acqua non ce n’era. La linea del fronte di battaglia era complicata, e i cosiddetti rifornimenti si erano interrotti. Non c’era né acqua né cibo. Non c’erano bende. Non c’erano munizioni. È stata una guerra terribile. I superiori dietro di noi pensavano solo a quale zona occupare il più presto possibile. Non c’era assolutamente nessuno che si preoccupasse di bazzecole come i rifornimenti. Mi è successo di non bere per quasi tre giorni. Il mattino si metteva fuori un asciugamano perché si impregnasse leggermente di rugiada, e strizzandolo si ricavavano alcune gocce d’acqua, ma era tutto. Solo quelle poche gocce. Quella volta pensai veramente che era meglio morire. Al mondo non c’è nulla di più terribile della sete. Sono arrivato a pensare che piuttosto che avere tanta sete, era di gran lunga preferibile venire colpiti, e farla finita. I miei compagni feriti alla pancia gridavano che volevano acqua. Alcuni impazzivano. Un inferno. Davanti al nostri occhi scorreva un grande fiume, se fossimo arrivati fin lì, avremmo avuto tutta l’acqua che volevamo. Ma non potevamo arrivarci. Tra noi e il fiume c’era un’interminabile fila di grandi carri armati sovietici muniti di cannoni lanciafiamme. Le postazioni di mitragliatrici sembravano cuscinetti per gli spilli, tante ce n’erano. Sulla collina c’erano anche dei cecchini, che continuavano a lanciare razzi luminosi anche durante la notte. Tutto quello che avevamo noi erano dei fucili da fanteria calibro trentotto, e venticinque pallottole per uno. Tanti miei amici non hanno potuto resistere oltre e con quei fucili sono andati a prendere l’acqua al fiume. Non ne è tornato neanche uno, sono morti tutti. Già, quando bisogna restare fermi, è meglio restare fermi. Il signor Honda tirò fuori un fazzoletto di carta e si soffiò il naso rumorosamente. Guardò un momento quello che gli era uscito dal naso, poi appallottolò il fazzoletto e lo buttò. -Aspettare che affiori 

 la corrente è dura. Ma quando bisogna aspettare, bisogna aspettare. Nel frattempo è meglio fingere di essere morti. -Insomma, significa che a me per un po’ conviene fare come se fossi morto? - chiesi. -Come? -INSOMMA, SIGNIFICA CHE A ME PER UN PO’ CONVIENE FARE COME SE FOSSI MORTO? - urlai. -Proprio così, - disse lui. - È solo con la morte ǀ che affiora la corrente ǀ a Nomonhan. Per un’ora continuò a parlare di Nomonhan. Noi lo ascoltavamo in silenzio. Per un anno una volta al mese ci recammo a casa del signor Honda, ma non succedette quasi mai che lui ci desse dei consigli. Non faceva quasi pronostici o cose del genere. Tutto quello di cui ci parlava, praticamente era la battaglia di Nomonhan. Che le pallottole avevano fatto volar via metà testa al primo luogotenente di fianco a lui, che saltando sui carri armati sovietici si veniva arsi vivi dai lanciafiamme, che i piloti sovietici che facevano un atterraggio di emergenza nel deserto venivano inseguiti e picchiati a morte… faceva solo discorsi di questo tipo. Erano tutti racconti pieni di  suspense, ma quando ci si sente ripetere la stessa storia sette od otto volte, la brillantezza tende ad appannarsi. In più non raccontava in un tranquillo tono discorsivo, dava l’impressione di urlare rivolto all’altra sponda di un precipizio in un giorno di forte vento. Sembrava di guardare un vecchio film di Kurosawa in prima fila in un cinema di periferia. Tanto che anche noi, dopo essere usciti dalla casa del signor Honda, per un po’ non sentivamo bene. Però ci piaceva starlo ad ascoltare, per lo meno a me. Erano discorsi che andavano al di là dei nostri limiti di immaginazione. Quasi tutti avevano l’odore del sangue, ma era sorprendente come il senso della realtà si perdesse, nel racconto dettagliato di una battaglia fatto dalla bocca di un vecchio dai vestiti sporchi, che sembrava dover morire da un momento all’altro. Sembrava di ascoltare una fiaba. Quasi mezzo secolo prima quei soldati avevano combattuto una guerra feroce per un pezzo di terra dove non cresceva neanche l’erba, alla frontiera tra la Manciuria e la Mongolia esterna. Prima di conoscere il signor Honda, io non sapevo quasi nulla sulla battaglia di Nomonhan, eppure era stata una battaglia eroica, al di là di ogni immaginazione. I soldati avevano sfidato quasi a mani nude le possenti unità meccanizzate dell’Unione Sovietica, ed erano stati annientati. Parecchi corpi d’armata erano stati sbaragliati, distrutti. I comandanti che avevano di loro iniziativa deciso di retrocedere per evitare quel massacro, erano morti inutilmente, costretti al suicidio dai loro superiori. Molti dei soldati che erano stati catturati dai sovietici, quando la guerra era finita, per paura di essere incolpati di fuga di fronte al nemico non si erano presentati allo scambio dei prigionieri, ed erano restati in Mongolia. Il signor Honda invece, avendo perso l’udito, era stato riformato, e così era diventato indovino. - Eppure forse fu un bene, - disse. - Se non fossi stato ferito alle orecchie, magari mi avrebbero sbattuto in qualche isola del Sud del Pacifico, e ci avrei lasciato la pelle. In pratica i superstiti di Nomonhan sono stati tutti uccisi nel Pacifico. Nomonhan per l’esercito imperiale era una vergogna, e tutti i soldati che erano scampati alla morte lì furono inviati nei campi di battaglia più pericolosi. Come se dicessero loro «andate un po’ a crepare da quelle parti». Invece quei pazzi che a Nomonhan avevano dato ordini assurdi, poi hanno tutti fatto carriera nel comando centrale. Alcuni di quelli lì dopo la guerra sono diventati persino uomini politici. Ma quei poveracci che avevano combattuto sotto i loro ordini sono stati quasi tutti annientati. -Perché la battaglia di Nomonhan per l’esercito era qualcosa di tanto vergognoso? - provai a chiedere. - I soldati hanno tutti combattuto con straordinario coraggio. Moltissimi sono morti. I pochi che si sono salvati dovevano per forza essere trattati con tanto cinismo? Ma la mia domanda non sembrava arrivare alle orecchie del signor Honda. Si era di nuovo messo a sparpagliare i bastoncini divinatori. -Stai attento all’acqua, stai, - disse. Quel giorno non aggiunse altro. Dopo la lite, dal signor Honda non potemmo più andare. Prima pagava mio suocero, ma continuare con quel sistema ormai era escluso, e noi due con le nostre sole risorse non potevamo certo offrirci un tale lusso, non avevamo neanche idea di quanto costasse. Quando ci eravamo sposati, dal punto di vista economico avevamo letteralmente l’acqua alla gola. A ogni modo finimmo col dimenticarci del signor Honda, come fanno di solito le persone giovani e affaccendate, che a poco a poco si scordano delle persone anziane. Quella sera, dopo essere andato a letto, continuavo a pensare al signor Honda. Provai a confrontare le sue parole con quelle della Kanō. Lui mi aveva raccomandato di fare attenzione all’acqua, lei mi aveva raccontato che per i suoi studi sull’acqua aveva fatto pratica ascetica. Forse era solo un caso, ma tutti e due davano molta importanza all’acqua. La cosa mi preoccupava un po’. Provai a immaginarmi la scena del campo di battaglia di Nomonhan. I carri armati e le postazioni delle mitragliatrici sovietiche, e il fiume che scorreva al di là. E la sete terribile, insopportabile. Nell’oscurità potevo sentire chiaramente il rumore di quel fiume che scorreva. -Di’, - sussurrò mia moglie, - sei sveglio? -Sì, - risposi. -Sai, a proposito di quella cravatta a pallini, mi è venuto in mente adesso. Verso la fine dell’anno l’ho portata in tintoria. Era tutta stropicciata, e ho pensato di farla stirare. Poi mi sono dimenticata di andarla a ritirare. -Verso la fine dell’anno? - feci. - Sono già passati più di sei mesi. -Uhm. Non mi era mai successa, una cosa del genere. Tu mi conosci, no? Certe cose io assolutamente non le dimentico. E pensare che era stupenda, quella cravatta, non me lo posso perdonare, - disse lei allungando una mano e toccandomi il braccio. - È la tintoria che c’è davanti alla stazione, pensi che ce l’abbiano ancora? -Domani passo a vedere. Penso di sì, può darsi. -Cosa te lo fa pensare? Sono già passati sei mesi. Di solito non aspettano tanto, le tintorie, se entro tre mesi non vai a ritirare la roba la danno via. Hanno il diritto legale di farlo. Perché pensi che l’abbiano ancora? -Perché la Kanō ha detto che andava tutto bene, - risposi. - Che avrei trovato la cravatta da qualche parte fuori casa. Nel buio sentii che Kumiko voltava il viso verso di me. -Tu ci credi, a quello che dice? -In questo momento ho l’impressione che ci si possa anche credere. -Magari prima o poi finirai per intenderti bene anche con mio fratello, - disse lei in tono divertito. -Può darsi, - risposi. Kumiko si addormentò, ma io continuai a pensare al campo di battaglia di Nomonhan. I soldati stavano dormendo. Sopra le loro teste il cielo era tutto stellato, miriadi di grilli frinivano. Si sentiva scorrere il fiume. Lo udivo anch’io, lo sciabordio di quell’acqua, e con quel suono nelle orecchie mi addormentai. 5. Intossicazione da caramelle al limoneUccelli che non volano e pozzi prosciugatiDopo colazione finii di rigovernare, poi presi la macchina e andai alla tintoria davanti alla stazione. Il gestore della tintoria era un uomo vicino alla cinquantina, magro, con profonde rughe sul viso, e stava ascoltando una cassetta della Percy Faith Orchestra da uno stereo posato su uno scaffale. L’apparecchio era un grosso Jvc con degli altoparlanti speciali per l’ascolto a basso volume, e di fianco a esso erano posate parecchie cassette. L’orchestra, lanciata in un’apoteosi di archi, suonava il  Tema di

Tara.  In fondo al negozio il gestore stava stirando le camicie con un ferro a vapore, a piccoli tocchi delicati, e intanto accompagnava l’orchestra fischiando. Io mi fermai davanti al banco, e gli spiegai con mille scuse che alla fine dell’anno avevo portato a lavare una cravatta, e me l’ero dimenticata lì. In quel piccolo mondo modesto, la mia apparizione alle nove del mattino doveva equivalere all’arrivo di un messaggero di sventure nel teatro greco. -Ovviamente non ha neanche lo scontrino, - osservò il gestore in tono molto severo. Non lo disse a me, lo disse al calendario che era appeso al muro di fianco al banco. La fotografia di giugno era un paesaggio alpino, c’era una valle verde, e una mandria di mucche che pascolava pacificamente. Sullo sfondo si vedeva una montagna, forse il Cervino o il Monte Bianco, coperta di bianca neve immacolata. Il gestore mi guardò in faccia con un’espressione molto eloquente: visto che me l’ero dimenticata, sembrava dirmi, avrei fatto meglio a dimenticarmela per sempre. Era un’espressione piuttosto franca. -Alla fine dell’anno, eh? Non ci conterei molto. Sono già passati sei mesi. Comunque provo a dare un’occhiata -. Staccò il ferro dalla presa, lo posò verticalmente sull’asse e si mise a frugare negli scaffali del retrobottega fischiando Scandalo al sole insieme allo stereo. Io quel film l’avevo visto con la mia ragazza quand’ero liceale. I protagonisti erano Troy Donahue e Sandra Dee, l’avevano proiettato in revival insieme alla  Nave della

morte con Dinah Shore. Per quel che ricordavo non mi era piaciuto granché, ma ad ascoltarne dopo tredici anni la colonna sonora nell’avanbottega di una tintoria, mi vennero in mente solo le cose belle di quel periodo. Dopo aver visto il film, eravamo entrati in una sala da tè che si trovava in un parco, avevamo bevuto un caffè e mangiato dei dolci. Considerando che al cinema proiettavano in revival due film contemporaneamente, dovevano essere le vacanze estive. C’erano delle vespe. Due piccole vespe si erano fermate sul dolce di lei. Mi ricordavo benissimo il minuto battito delle loro ali. -Come mi ha detto che è, la cravatta? - chiese il padrone della tintoria. - Blu a pallini? Lei si chiama Okada? -Sì, - risposi. -È proprio fortunato, lei. Quando ritornai a casa, telefonai subito a mia moglie in ufficio. -La cravatta era ancora lì, - dissi. -Magnifico! - rispose lei, nella voce la vibrazione artificiale che si ha quando si loda un bambino che ha preso un bel voto. Il che mi mise un po’ a disagio, forse avrei fatto meglio ad aspettare l’ora di pranzo, per telefonare. - Sono proprio contenta che tu l’abbia trovata, - continuò lei. - Senti, adesso ho molto da fare, non posso stare al telefono. Scusami, ma dovresti richiamarmi a mezzogiorno. -D’accordo, - risposi. Posai il ricevitore, e andai a installarmi nella veranda con il giornale. Come al solito mi sdraiai sulla pancia, aprii la pagina delle offerte di impiego, e lessi attentamente da un capo all’altro senza fretta quelle colonne di annunci fatti di simboli arcani e indicazioni sibilline. C’erano tutti i tipi di lavoro possibili e immaginabili a questo mondo. Piccoli riquadri nitidi li dividevano per categorie sulla pagina del giornale, come sulla pianta di un cimitero diviso in lotti. Mi sembrava quasi impossibile trovare lì dentro anche una sola attività che mi fosse congeniale. Quei riquadri infatti contenevano sì informazioni reali, seppur frammentarie, ma non riuscivano mai a formare un’immagine globale. Per me i nomi, i simboli e i numeri allineati lì finivano col perdersi nei dettagli, mi sembravano ossa di animali che non si potevano rimettere insieme. Quando mi soffermavo troppo a lungo a osservare la pagina delle offerte di impiego, finivo sempre col provare una sorta di paralisi. Alla fine non capivo più che cosa cercavo, quale strada volevo prendere, e quale no. Come al solito, l’uccello-giraviti cantava su un albero da qualche parte, lo si sentiva stridere a tratti. Posai il giornale e mi alzai. Appoggiato a un pilastro mi misi a osservare il giardino. Poco dopo l’uccello riprese a cantare, si sentiva il suo verso stridulo in cima a un pino nel giardino dei vicini. Mi sforzai di vedere dove fosse, ma non riuscii a distinguere la sua sagoma. Solo il canto. Come sempre. A ogni modo, anche per quel giorno le viti del mondo erano state strette. Prima delle dieci si mise a piovere. Non molto forte, era una pioggerellina leggera leggera, quasi impercettibile. Bisognava guardare bene, per rendersi conto che stava proprio piovendo. Ci sono fondamentalmente due condizioni, al mondo, quando piove e quando non piove, e al confine tra queste due condizioni bisogna tracciare un linea divisoria. Per un certo tempo rimasi seduto nella veranda a osservare quella linea che da qualche parte doveva pur esserci. Poi pensai a come impiegare il mio tempo fino all’ora di pranzo, esitavo tra andare a farmi una nuotata alla piscina del quartiere, oppure tornare nel vicolo a cercare il gatto. Appoggiato al pilastro della veranda ci meditai un po’ su, mentre guardavo la pioggia cadere sul giardino. Piscina  versus gatto. Alla fine decisi per il gatto. La Kanō aveva detto che ormai non era più nel quartiere, ma quella mattina mi venne voglia di andarlo a cercare lo stesso, così. Cercare il gatto era diventata una delle mie mansioni quotidiane, e inoltre per Kumiko sarebbe forse stata una piccola gioia, sapere che lo avevo fatto. Non avevo voglia di portare l’ombrello, mi misi l’impermeabile. Mi infilai le scarpe da tennis, mi cacciai in tasca le chiavi di casa e alcune caramelle al limone, e uscii. Tagliai attraverso il giardino, ma appena posata la mano sul muro di cinta sentii squillare un telefono. Mi immobilizzai in quella posizione e tesi le orecchie, ma non riuscii a distinguere se quello che stava suonando fosse il telefono di casa mia o quello di qualcun altro. Appena si mette piede fuori di casa, i telefoni sembrano suonare tutti allo stesso modo. Lasciai perdere, scavalcai il muro di cemento e saltai giù nel vicolo. Sotto la suola sottile delle scarpe da tennis sentii l’erba morbida. Il luogo era ancora più tranquillo del solito. Per un po’ rimasi fermo ad ascoltare. Il silenzio era assoluto, anche il telefono ormai aveva smesso di squillare. Non si sentiva né il canto degli uccelli né il brusio di fondo della città. Nel cielo non c’era neanche uno squarcio, solo un’opprimente coltre di un grigio uniforme. Nelle giornate così, pensai, forse le nuvole assorbivano i rumori che arrivavano dalla superficie della Terra. Anzi, non solo i rumori, forse molte altre cose. Chissà che perfino le sensazioni non finissero lì dentro. Con le mani nelle tasche dell’impermeabile, mi inoltrai in quello stretto passaggio. Sgusciando di lato dove le canne cariche di panni sporgevano nello spazio tra i muri, passai sotto la grondaia di case sconosciute, e avanzai in silenzio per quel sentiero abbandonato che sembrava un canale. La suola di gomma delle scarpe da tennis sull’erba non faceva alcun rumore. In una casa a metà strada c’era una radio accesa, era il solo vero suono che si sentisse. Alla radio trasmettevano una rubrica di consigli di vita, la voce di un uomo di mezza età elencava una serie di lamentele nei confronti della suocera. Si sentiva solo frammentariamente, ma capii che la suocera aveva sessant’anni, e le era preso il pallino delle corse di cavalli. Man mano che mi allontanavo da quella casa il suono della radio si faceva più debole, e alla fine svanì. E con esso sembrava che gradualmente fossero spariti anche quell’uomo di mezza età che esisteva da qualche parte nel mondo, e quella suocera impazzita che scommetteva sui cavalli. Alla fine arrivai davanti alla casa disabitata. Se ne stava lì quieta come al solito. Con le basse nuvole grigie sullo sfondo, l’edificio a due piani dalle persiane ermeticamente chiuse aveva un’aria veramente malinconica. Sembrava una nave mercantile incagliatasi su uno scoglio della baia in una sera di tempesta, e lasciata lì da tempo immemorabile. Non fosse stato per le erbacce del giardino che dall’ultima volta erano cresciute, se mi avessero detto che in quel luogo per qualche ragione il tempo si era fermato, probabilmente ci avrei creduto. A causa delle piogge stagionali che continuavano da giorni, i fili d’erba erano di un verde brillante, e diffondevano intorno un odore selvaggio che può venire soltanto da ciò che affonda le sue radici nella terra. In mezzo a quel mare d’erba la statua dell’uccello era esattamente come l’avevo vista la volta precedente, dispiegava le ali come se stesse per prendere il volo da un momento all’altro. Ma era ovvio che non poteva volare, bloccato lì in quella posizione poteva solo aspettare di essere portato via, o di venir rotto, lo sapevamo bene sia io che lui, non aveva altra possibilità di lasciare quel giardino. L’unica cosa che si muovesse lì dentro era una farfalla cavolaia in ritardo sulla stagione, che svolazzava volubile sull’erba. Sembrava una persona in cerca di qualcosa che continui a sfuggirle di mente. Dopo aver cercato per cinque minuti quello che non riusciva a trovare, la farfalla volò via da qualche altra parte. Io restai per un po’ appoggiato alla cancellata di ferro, osservavo il giardino e succhiavo una caramella. Nessuna traccia del gatto. Nessuna traccia di nulla. Quel posto sembrava stagnare, come se una forza gigantesca avesse costretto il corso della natura a fermarsi. Mi voltai bruscamente, mi era sembrato di avvertire la presenza di una persona alle mie spalle. Non vidi nessuno. Al di là del vicolo c’era solo la siepe della casa di fronte, e un cancelletto. Era lì che l’altra volta stava appoggiata quella ragazza. Ma era chiuso, e oltre la siepe non si vedeva anima viva. Ogni cosa era umida e quieta. Si sentiva l’odore della pioggia e delle erbe selvatiche. Quello dell’impermeabile che indossavo. Quello della caramella succhiata a metà che tenevo sotto la lingua. Se respiravo profondamente, tutti questi odori si fondevano in uno. Mi guardai intorno ancora una volta. Nessuno, assolutamente nessuno. Fermo dov’ero tesi le orecchie, un elicottero stava passando lontano, probabilmente volava sopra le nuvole. Ma anche quel rumore a poco a poco si allontanò, e alla fine lì intorno regnò un silenzio profondo. La recinzione di ferro che chiudeva il giardino della casa disabitata terminava in un cancello. Quando provai a spingerlo, si aprì con tale facilità che ne rimasi addirittura deluso. Sembrava che volesse invitarmi a entrare. Non c’è niente di grave, pareva dirmi, è una cosa semplicissima, basta scivolare dentro. Ma anche se la casa era disabitata, quello era sempre terreno altrui, entrarci abusivamente era un atto illegale, non era necessario fare appello alla mia conoscenza giuridica faticosamente acquisita in otto anni per capirlo. Se qualcuno dei vicini insospettito di vedermi lì avesse chiamato la polizia, gli agenti sarebbero venuti subito e mi avrebbero interrogato. Avrei detto che ero venuto a cercare il mio gatto. Che il mio gatto ero sparito e io lo stavo cercando da tutte le parti in giro per il quartiere. Loro mi avrebbe chiesto indirizzo e professione. Avrei dovuto dire che ero disoccupato, circostanza che li avrebbe sicuramente insospettiti. Alla polizia negli ultimi tempi erano estremamente nervosi a causa del terrorismo di estrema sinistra, vedevano terroristi in ogni angolo di Tokyo ed erano convinti che tenessero nascosti fucili e bombe a mano sotto il pavimento. Per verificare la mia versione dei fatti avrebbero magari telefonato all’ufficio di mia moglie. E in questo caso Kumiko si sarebbe di sicuro messa in grande agitazione. Eppure entrai in quel giardino. Chiusi precipitosamente il cancello dietro di me; chi se ne frega, pensai, se succede qualcosa, succede. Poteva accadere quello che voleva, non me ne importava niente. Attraversai lentamente il giardino guardandomi intorno con circospezione. Anche lì le mie scarpe da tennis non facevano alcun rumore. C’erano alcuni alberi da frutta dal tronco corto di cui non conoscevo il nome, e una superficie a prato piuttosto vasta. Ma ormai tutto era invaso dalle erbacce, e non si riusciva quasi a distinguere una cosa dall’altra. I due alberi da frutta più vicini alla casa sembravano essere morti soffocati da brutti fiori della passione rampicanti. La siepe lungo la cancellata era tutta bianca di uova di insetto. Un moscerino per un po’ mi ronzò rumorosamente intorno a un orecchio. Oltrepassai la statua, arrivai sotto la tettoia dove erano accatastate delle sedie di plastica bianche da giardino e provai a prenderne una. La prima era coperta di fango, ma quella sotto non era tanto sporca. Con la mano tolsi un po’ di polvere e mi ci sedetti sopra. Dal vicolo non mi si poteva vedere perché ero nascosto dalle erbacce rigogliose. Seduto al riparo della tettoia non avevo più la preoccupazione di bagnarmi, e mi misi a fischiettare piano, mentre contemplavo il giardino innaffiato dalla pioggerella leggera. Per un po’ non mi resi conto di cosa stessi fischiando. Era il preludio della  Gazza ladra di Rossini, la stessa aria che stavo fischiando quando mi aveva telefonato quella spostata, mentre mi preparavo un piatto di spaghetti. Seduto nel giardino deserto, mentre guardavo le erbacce e la statua dell’uccello fischiettando piuttosto male, mi sembrava di essere tornato bambino. Mi trovavo in un luogo segreto che nessuno conosceva, e nessuno mi poteva vedere. A questo pensiero provavo una tranquillità assoluta. Mi venne voglia di tirare una pietra, prendere di mira una cosa qualunque e colpirla con una pietra. Magari la statua dell’uccello. Ma non dovevo farmi vedere e neanche far rumore. Da bambino mi divertivo spesso da solo in quel modo, posavo una pentola molto lontano, e stavo a tirar pietre finché non la riempivo. Potevo continuare così per ore senza stufarmi. Ma ai miei piedi non c’erano pietre. Pazienza, non esiste un luogo provvisto di tutto quello di cui si ha bisogno. Tirai i piedi sulla sedia e posai le guance sulle ginocchia piegate. Poi chiusi gli occhi e restai un po’ così. Silenzio, ancora silenzio. A occhi chiusi, il buio assomigliava a un cielo coperto di nuvole, ma di un grigio un po’ più scuro. Ah, doveva essere arrivato qualcuno, il grigio aveva preso sfumature leggermente diverse. Aveva toni dorati, verdi, o rosso vivo. Ero affascinato dal fatto che esistessero tante tonalità di grigio. Gli esseri umani erano davvero un mistero, pensai, bastava stare dieci minuti fermi a occhi chiusi per vedere tante varietà diverse di grigio. Per un po’ continuai a fischiare senza pensare a nulla, godendomi tutte quelle sfumature. -Ehi! - disse qualcuno. Riaprii immediatamente gli occhi. Mi sporsi di fianco per guardare il cancello nascosto dalle erbacce. Era aperto. Spalancato. Qualcuno era entrato lì dopo di me. Il cuore mi batteva violentemente. -Ehi! - ripetè la stessa persona, una donna. Sbucò da dietro la statua, e venne verso di me. Era la ragazza che l’altra volta prendeva il sole nel giardino della casa di fronte. Di nuovo portava una maglietta della Adidas, dei calzoncini, e trascinava leggermente la gamba. L’unica differenza era che questa volta non aveva gli occhiali da sole. -Senta, ma cosa ci fa lì? - chiese. -Sono venuto a cercare il gatto, - risposi. -Sul serio? - fece lei. - A me non sembrava. E poi, le pare che il suo gatto lo troverà così, standosene lì seduto a fischiare a occhi chiusi? Arrossii leggermente. -A me non importa nulla, ma se la vede qualcuno che non la conosce, magari penserà che è un maniaco, sa? - disse lei. - Che se non si fa attenzione… non sarà mica un maniaco, lei? -No, non credo, - risposi. La ragazza si avvicinò, scelse senza fretta la sedia meno sporca tra quelle accatastate sotto la tettoia, e dopo un’ulteriore minuziosa ispezione la posò a terra e ci si sedette sopra. -E poi non so cosa diavolo stia fischiando, ma non è mica tanto bravo, sa? Non sarà mica un finocchio lei, per caso? -Non credo, - risposi. - Perché? -Ho sentito dire che i finocchi non sanno fischiare bene. È vero? -Mah, non saprei… - feci. -Intendiamoci, io me ne frego, che lei sia un finocchio, un maniaco, o cos’altro sia, - dichiarò lei. - Ma com’è che si chiama, scusi? Se non so il suo nome, non so come chiamarla. -Okada Tōru, - risposi. Lei ripetè il mio nome fra sé e sé parecchie volte. -Non fa nessuna impressione particolare, il suo nome. -Può darsi, - risposi. - Ma suona un po’ come quello di un ministro degli Esteri di prima della guerra, non trovi? Okada Tōru. -Io me ne frego di queste cose, detesto la storia. Be’, non fa niente. Ma non ha un soprannome o qualcosa del genere, signor Okada? Un modo più facile per chiamarla, insomma. Ci pensai su, ma non mi venne in mente nulla. In tutta la mia vita nessuno mi aveva mai dato un soprannome. Chissà come mai. -Non ne ho, - risposi. -Che ne so, «orso», o «ranocchio»? -Niente. -Non è possibile! - Esclamò lei. - Se ne faccia venire in mente almeno uno.

-Uccello-giraviti, - dissi. -Uccello-giraviti? - ripetè lei sbalordita guardandomi in faccia. - Che razza di roba è? -Un uccello che gira le viti, - risposi. - Ogni mattina in cima a un albero gira le viti del mondo e fa ghiiiiiiiiiiii. Lei continuò a guardarmi in silenzio. -Mi è venuto in mente così, - dissi io facendo un sospiro. - È un uccello che viene ogni giorno davanti a casa mia, si mette sull’albero dei vicini e fa ghiiiiiiiiiiii. Però nessuno l’ha mai visto. -Ah, - fece lei. - Be’, pazienza. È un nome abbastanza difficile anche questo, signor Uccello-giraviti, ma sempre meglio che Okada Tōru. -Grazie, - feci. Lei tirò su entrambi i piedi sulla sedia e posò il mento sulle ginocchia. -E tu come ti chiami? - chiesi. -Kasahara May.  May come maggio. -Sei nata a maggio? -È ovvio, no? Pensi che casino, se fossi nata in giugno e mi avessero chiamata May. -Già, - risposi. - Comunque ancora non sei tornata a scuola? -Sono stata tutto il tempo a guardare quello che faceva, - disse May senza rispondere alla mia domanda. - Dalla mia camera la stavo guardando con un binocolo, mentre apriva il cancello ed entrava qui dentro. Ho sempre un piccolo binocolo a portata di mano, così controllo quello che succede in questo vicolo. Lo sapeva che qui passano tante persone? E non solo persone, anche tanti animali. Ma lei cosa ci faceva seduto tutto ‘sto tempo qui da solo? -Niente, me ne stavo con le mani in mano, - risposi. - Riandavo col pensiero a cosa passate, fischiavo… May si morse un unghia. -È proprio un po’ strano, lei. -Non sono strano. Sono cose che fanno tutti. -Può darsi, ma non c’è nessuno che vada a farle in una casa abbandonata del vicinato. Starsene con le mani in mano, pensare al passato, fischiare, sono tutte cose che uno può fare benissimo nel giardino di casa sua. Questo è vero, pensai. -Comunque, il suo gatto Wataya Noboru ancora non è tornato? - chiese lei. Scossi la testa: - Tu dall’altro giorno non l’hai visto? -È un gatto maschio, marrone, con la punta della coda un po’ storta, vero? Non l’ho visto. Ho sempre fatto attenzione, da quella volta, ma niente. May tirò fuori dalla tasca dei calzoncini un pacchetto di sigarette, e se ne accese una. Per un po’ rimase a fumare in silenzio. -Ehi, non sta mica perdendo i capelli, per caso? - fece a un certo punto guardandomi fisso in faccia. Io per riflesso mi portai la mano alla testa. -No, non lì. All’attaccatura sulla fronte. Non pensa che siano più indietro del normale? -Non ci ho fatto particolarmente caso. -Di sicuro comincerà a perderli di lì. Lo so, io. Nel suo caso, vede, a poco a poco retrocedono in questo modo -. Si afferrò i capelli e tirandoli tutti all’indietro girò verso di me la fronte bianca e scoperta. - È meglio che faccia attenzione. Portai la mano alla fronte, all’attaccatura dei capelli. Forse era un’impressione, ma a sentirmi dire così mi pareva che in confronto a prima fosse indietreggiata. La cosa era un po’ inquietante. -Sì, ma come si fa, a fare attenzione? -Mah, in realtà non ci si può far niente. Non c’è nessun rimedio contro la caduta dei capelli, chi li perde li perde, e quando uno li perde li perde. Non c’è modo di fermare la cosa. Lo so, la gente dice sempre che se uno si prende cura dei propri capelli non li perde. Tutte palle, niente di più falso. Vada un po’ alla stazione di Shinjuku a guardare i vecchi barboni che stanno lì buttati a terra. Non ce n’è uno calvo. Non penserà mica che quelli lì si lavino i capelli tutti i giorni con qualche shampoo di marca? O che ogni giorno si mettano in testa litri di lozione? Sono tutte storie che raccontano i fabbricanti di cosmetici per fregare soldi a quelli che perdono i capelli. -In effetti, - dissi io con ammirazione. - Ma come mai sei tanto informata sulla calvizie? -Negli ultimi tempi lavoro spesso per una fabbrica di parrucche. Tanto non vado a scuola e ho tutto il tempo. Sono incaricata di fare inchieste e ricerche. Per questo so tutto su quelli che perdono i capelli, sono un’enciclopedia. - Ah. -Però sa una cosa? - continuò May buttando la sigaretta per terra e spegnendola con la suola della scarpa. - Nella ditta per cui faccio questo lavoro non bisogna assolutamente pronunciare la parola «calvo». Dobbiamo dire «coi capelli radi». Calvo, be’, è una parola discriminante. Io una volta ho provato a dire «un portatore di handicap nei capelli», ma loro sono andati su tutte le furie. Che non bisogna scherzare su certe cose, che lì tutti svolgono il loro lavoro in maniera molto seria… la gente che lavora è tutta tremendamente seria, lo sapeva? Io tirai fuori dalla tasca le caramelle al limone, me ne misi una in bocca, e ne offrii anche a May. Lei scosse la testa e tirò di nuovo fuori le sigarette. -Senta, signor Uccello-giraviti, - disse. - Lei l’altra volta era disoccupato, vero? Lo è ancora? -Sì, lo sono ancora. -Ha intenzione di lavorare seriamente? -Certo, - risposi perdendo subito fiducia in quel che avevo appena detto. - Non lo so, - mi corressi. - Ho l’impressione di avere ancora bisogno di tempo per pensare. È qualcosa che non so bene neanch’io, quindi non te lo saprei spiegare. May per un po’ mi guardò in viso mordendosi le unghie. -Senta, signor Uccello-giraviti. Se le va, la prossima volta perché non viene a lavorare con me per quella fabbrica di parrucche? La paga non è eccezionale, ma è un lavoro divertente, e di tempo libero ne avrà più che a sufficienza. Voglio dire, non prenda le cose troppo sul serio, provi a fare un lavoro temporaneo, così, per un po’, magari si chiarisce le idee. Anche per distrarsi un po’. Non era una cattiva idea, pensai. -Non è una cattiva idea, - dissi. -Okay. Allora la prossima volta la passo a prendere. Dove si trova, la sua casa? -È un po’ difficile da spiegare, devi andare fino in fondo a questo vicolo, seguirne le curve fino a che sulla sinistra vedi una casa dove c’è parcheggiata una Honda Civic rossa. Sul paraurti c’è attaccato un adesivo con su scritto «Pace alla gente di tutto il mondo». La mia casa è quella subito dopo, ma l’ingresso non dà sul vicolo, quindi bisogna scavalcare il muro di cinta. È un muretto un po’ più basso di me. -Non si preoccupi, non ci metto niente, a scavalcare un muro così. -Non hai più male alla gamba? Lei fece una specie di sospiro, e soffiò fuori il fumo della sigaretta. -Sto benissimo, - disse. - Solo che non ho voglia di andare a scuola e trascino la gamba apposta. Faccio solo finta davanti ai miei. Però intanto è diventata un’abitudine. Anche quando non mi vede nessuno, quando sono sola nella mia stanza, faccio finta di non poter usare bene la gamba. Sono una perfezionista, io. Per ingannare gli altri, prima di tutto bisogna ingannare se stessi. Senta, signor Uccellogiraviti, lei è uno coraggioso? -Non tanto, credo, - risposi. -Non è mai stato coraggioso, neanche da piccolo? -Non lo ero da piccolo, e non penso che lo diventerò mai. -È curioso? -Be’, un po’ curioso lo sono. -Non pensa che si assomiglino, il coraggio e la curiosità? - disse May. - Dove c’è curiosità c’è coraggio, e dove c’è coraggio c’è curiosità, non le pare? -Già. Può darsi che abbiano qualcosa in comune, - risposi. - E magari in certi casi, come dici tu, può darsi che curiosità e coraggio siano la stessa cosa. -Come quando si entra furtivamente in casa d’altri. -Esatto, - risposi spostando la caramella sopra la lingua. - Quando uno si intrufola furtivamente in un giardino altrui, sembra che la curiosità e il coraggio agiscano insieme. A volte la curiosità può risvegliare il coraggio, e rafforzarlo. Però la curiosità nella maggior parte dei casi ha vita breve. Il coraggio deve fare un percorso più lungo. La curiosità è come un amico simpatico in cui non si può avere fiducia. 

Che si limita a istigarti, e al momento buono si dilegua. Allora dopo tu devi mettere insieme il tuo coraggio e in qualche modo tirare avanti. Lei pensò un poco a quello che avevo detto. -Già, - disse. - È un punto di vista possibile, certo -. Poi si alzò dalla sedia e con la mano spazzolò via la polvere che le era rimasta attaccata dietro sui calzoncini. - Non vuole gettare un’occhiata al pozzo, signor Uccellogiraviti? - aggiunse abbassando lo sguardo su di me. -Il pozzo? - chiesi. C’era un pozzo? -C’è un pozzo prosciugato, qui, - disse lei. - A me piace abbastanza. Lei non vuole vederlo, signor Uccello-giraviti? Il pozzo si trovava oltre il giardino, sul lato della casa. Era rotondo, misurava circa un metro e mezzo di circonferenza, ed era chiuso da due spesse assi di legno che formavano un cerchio. Due blocchi di cemento vi erano posati sopra per far peso. Vicino al parapetto, alto più o meno un metro, c’era un vecchio albero, che aveva l’aria di essere stato piantato lì a guardia del pozzo. Doveva essere un albero da frutta, ma non ne conoscevo il nome. Il pozzo, come tutto ciò che apparteneva a quella casa, per un lungo periodo di tempo era rimasto inattivo e sembrava del tutto abbandonato. Si sentiva lì un’atmosfera che si poteva definire «un’apatia opprimente». Come se le cose inanimate diventassero ancora più inanimate quando la gente smetteva di prestarvi attenzione. Se uno avesse preso a modello quella casa e quel giardino per dipingere un quadro intitolato  La casa abbandonata, non avrebbe potuto omettere quel pozzo. Come le sedie da giardino di plastica, la statua dell’uccello e le imposte scrostate, era stato dimenticato, abbandonato dalla gente, e dai tempi felici a poco a poco era silenziosamente, inesorabilmente inclinato fino al crollo definitivo. Avvicinandomi a guardare, mi resi conto che il pozzo era stato costruito in un’epoca molto più antica del resto. Forse esisteva già in quel luogo molto prima che venisse costruita la casa. A giudicare dal coperchio di assi, era veramente vecchissimo. Il parapetto era fatto di solido cemento, ma sembrava aggiunto a una spalletta preesistente, forse per rinforzarla. Persino l’albero che si ergeva di fianco al pozzo era evidentemente stato piantato lì molto prima degli altri alberi intorno. Tolsi i blocchi di cemento, tolsi le due mezzelune di legno che formavano il coperchio, e appoggiandomi al bordo del pozzo mi sporsi a scrutarne l’interno. Non si riusciva assolutamente a vederne il fondo. Sembrava profondissimo, a un certo punto veniva inghiottito dal buio. Provai ad annusare. Si sentiva solo un leggero odore di muffa. Un uccello che non può volare, un pozzo senza acqua, pensai. Un vicolo senza uscita, e poi…? May prese in mano un pezzo di mattone che le era caduto vicino ai piedi, e lo gettò nel pozzo. Poco dopo si senti un leggero rumore sordo. Tutto lì. Un rumore asciutto, secco, di qualcosa che si poteva sbriciolare con le mani. Mi sollevai e guardai in viso May. -Chissà come mai non c’è acqua. Si sarà prosciugato? O qualcuno l’avrà disattivato? Lei alzò le spalle. -Se lo avessero disattivato, lo avrebbero fatto del tutto. Non ha senso fare le cose a metà e lasciare soltanto il buco, c’è il pericolo che qualcuno ci cada dentro. Non le pare? -Sì, penso di sì, - dovetti convenire. - Forse per qualche ragione l’acqua si sarà prosciugata, chissà. Tutt’a un tratto mi venne in mente quello che mi aveva detto una volta il signor Honda. «Quando si deve andare in alto, è bene trovare la torre più alta e salirvi in cima. Quando si deve andare in basso, è bene cercare il pozzo più profondo e calarsi nel fondo». Tanto per cominciare, qui di pozzi ne avevo trovato uno. Mi sporsi di nuovo e guardai in basso nel buio senza nessuno scopo particolare. Un buio tale in un posto del genere, in pieno giorno, pensai. Mi schiarii la gola e inghiottii la saliva. Quel rumore risuonò nel buio come se l’avesse fatto qualcun altro. Avevo ancora in bocca il gusto delle caramelle al limone. Chiusi di nuovo il pozzo con il coperchio, e vi piazzai sopra i blocchi di cemento come li avevo trovati. Poi guardai l’orologio. Erano quasi le undici e mezzo. Dovevo telefonare a Kumiko nella pausa di mezzogiorno. -Adesso devo tornare a casa, - dissi. -Va bene, signor Uccello-giraviti, torni pure a casa, - rispose May aggrottando leggermente la fronte. Attraversammo il giardino in diagonale. La statua dell’uccello volgeva sempre i suoi occhi secchi al cielo, che era sempre coperto da nuvole grigie, senza uno spiraglio. La pioggia però era cessata. May strappò un filo d’erba e lo fece a pezzettini. Poi lanciò i pezzetti d’erba in aria, ma per l’assenza di vento questi ricaddero sparsi ai suoi piedi. -Senta, fino al tramonto c’è ancora tempo, no? - chiese senza guardarmi in faccia. -Sì, certo, - risposi. 

6. 

Storia di Okada Kumiko, storia di Wataya NoboruEssendo figlio unico, non riesco a immaginare bene i sentimenti che possono legare fratelli e sorelle ormai adulti che conducono ciascuno una vita indipendente. Quando il discorso cade su suo fratello Noboru, il viso di Kumiko prende un’espressione un po’ strana come quando si mette per sbaglio in bocca qualcosa dal gusto insolito, ma quale sentimento quell’espressione esprima, non saprei dirlo. A me lui non è affatto simpatico; questo Kumiko lo accetta e pensa che sia del tutto giustificato, lei stessa non pensa che suo fratello possa ispirare simpatia. Se non fossero dello stesso sangue, non credo che tra lei e Noboru avrebbe mai potuto nascere il minimo rapporto di intimità. Ma sono fratello e sorella, e di conseguenza le cose prendono un aspetto un poco più complicato. Attualmente Kumiko e il fratello non hanno quasi occasione di incontrarsi. Io a casa dei miei suoceri non metto piede, come ho già detto abbiamo litigato, e da allora i rapporti sono definitivamente chiusi. Era stata una scenata piuttosto violenta. Le persone con cui in vita mia ho litigato si possono contare sulle dita di una mano, ma in compenso una volta che litigo lo faccio sul serio, non riesco a fermarmi a metà. Stranamente però, dopo che mi ero sfogato e avevo detto in faccia a mio suocero tutto quello che avevo sullo stomaco, non provavo più collera verso di lui. Mi sentivo liberato da un peso che mi portavo dentro da un pezzo, ma non conservavo né odio né rabbia. Pensavo anzi che a modo suo doveva aver avuto una vita molto dura, per quanto assurda e rivoltante potesse sembrare a me. Avevo detto a Kumiko che io i suoi genitori non li volevo più vedere, ma lei era libera di farlo se ne aveva piacere, non erano affari miei. Lei però non sentiva alcun bisogno di andarli a trovare. - Non fa niente, - aveva risposto. - Se fino ad ora ci sono andata, non era perché ne avessi voglia. Noboru da sempre viveva con i genitori, ma quella volta non era intervenuto nella lite con mio suocero; si era allontanato con aria distaccata. In questo non c’era nulla di strano, non avendo il minimo interesse per la mia persona, evitava di avere con me qualsiasi rapporto personale, se si escludono poche circostanze inevitabili. Così quando smisi di andare a casa Wataya non ebbi più occasione di incontrarlo. Quanto a Kumiko, neanche lei aveva motivo di vederlo o sentirlo. Lui era molto occupato, lei pure, e inoltre fin da bambini non erano mai stati in gran confidenza. Ciononostante lei ogni tanto gli telefonava nel suo studio all’università, e a lui succedeva di chiamarla in ufficio (a casa nostra non si faceva assolutamente mai sentire). Kumiko mi riferiva di quelle telefonate reciproche, però di cosa parlassero non me lo raccontava. Io non lo chiedevo, e lei mi dava solo le spiegazioni indispensabili. L’argomento delle loro conversazioni non mi interessava. Né mi dava fastidio che loro si sentissero, anche se a essere sincero non ne capivo la ragione. Che razza di dialogo poteva mai esistere fra due persone come Kumiko e Noboru, che erano sotto ogni punto di vista come il giorno e la notte? O forse il legame di consanguineità stava cominciando a creare tra loro qualche forma di rapporto? Tra mia moglie e Noboru c’erano nove anni di differenza. Inoltre mancava fra loro la confidenza che c’è di solito tra fratelli, perché lei fin da piccolissima era cresciuta con i nonni paterni. In origine erano in tre, fra loro due c’era un’altra sorella, che aveva cinque anni più di Kumiko. Kumiko, però, all’età di tre anni era stata affidata ai nonni paterni, e così aveva lasciato Tokyo per andare a stare nella regione di Niigata. Lì era stata allevata dalla nonna. Visto che era di costituzione debole, era meglio che crescesse in campagna dove l’aria era buona, questa era la ragione ufficiale che le avevano dato in seguito i suoi genitori. Kumiko però non ne era affatto convinta, lei non era mai stata di salute cagionevole, non aveva mai avuto malattie gravi, e anche quando viveva in campagna non si ricordava di essere mai stata trattata con particolari cautele dalle persone intorno a lei. Doveva essere solo un pretesto, aveva detto. Secondo quanto le raccontò molto più tardi uno dei suoi parenti, tra sua madre e la suocera per molti anni c’era stata una forte discordia, e mandare Kumiko nella famiglia paterna a Niigata era stata una sorta di tregua provvisoria fra loro due. Affidandola per un certo periodo alla nonna, i suoi genitori pensavano di calmare un po’ le acque, e la nonna da parte sua, per il fatto di tenere con sé una delle nipoti, aveva la conferma materiale di mantenere il legame con il figlio (cioè col padre di Kumiko). La bambina, insomma, era una sorta di ostaggio. - E poi, - aveva detto Kumiko, - dato che avevo già un fratello e una sorella, il mio allontanamento non costituiva un problema. È evidente che i miei genitori non avevano l’intenzione di abbandonarmi, ma mi hanno affidata ad altri con una leggerezza incredibile, come se la cosa non avesse molta importanza perché ero ancora piccola. In molti sensi, quella era la soluzione migliore per tutti. Non trovi che sia inconcepibile? Non avevano capito niente, quelli lì, va’ a sapere perché, l’idea che un evento del genere potesse avere su una bambina piccola delle conseguenze disastrose non li ha neanche sfiorati. Era rimasta a Niigata dalla nonna dai tre ai sei anni. Non era stata affatto una vita infelice o innaturale. Kumiko era amatissima dalla nonna, e inoltre si trovava molto più a suo agio a giocare con i suoi cugini più o meno della sua stessa età che con i fratelli molto più vecchi di lei. Era tornata a Tokyo quando aveva raggiunto l’età di andare a scuola. I suoi genitori a poco a poco cominciavano a preoccuparsi di quella separazione, e volevano riportarla a casa a ogni costo, sostenendo che poi sarebbe stato troppo tardi. Alcune settimane dopo la fatidica decisione, la nonna fu presa da una tremenda agitazione e divenne estremamente nervosa. Non mangiava più e non dormiva quasi. Non faceva che piangere, irritarsi, o chiudersi nel silenzio. Abbracciava perdutamente Kumiko, e l’attimo seguente la picchiava sul braccio con un righello, tanto forte da lasciarle i segni. E inoltre le diceva nei termini peggiori che sua madre era una donna tremenda. A volte dichiarava che non la voleva lasciare, che se non avesse più potuto vederla, per lei era meglio morire subito. Per poi gridarle in altre occasioni «Non ti voglio più vedere, vattene via, vattene via!» Arrivò perfino a cercare di tagliarsi i polsi con le forbici. Kumiko non riusciva assolutamente a capire che cosa stesse succedendo intorno a lei. Allora aveva provvisoriamente chiuso il suo cuore al mondo esterno. Aveva smesso del tutto di pensare o di sperare in qualcosa, la situazione aveva di gran lunga superato la sua capacità di comprensione. Si era tappata gli occhi e le orecchie, e aveva smesso di riflettere. Con la conseguenza che ora non ha quasi nessuna reminiscenza di quel periodo, non ricorda nessuno degli avvenimenti che accaddero nei mesi seguenti. Tuttavia, a un certo punto, si rese conto di essere in una famiglia nuova. Quella in cui era giusto che si trovasse. Con i suoi genitori, suo fratello e sua sorella. Ma per lei non era la sua famiglia, era semplicemente un nuovo ambiente. In quali circostanze fosse stata separata da sua nonna e portata fin lì, Kumiko non lo sapeva, ma capiva istintivamente che non sarebbe più ritornata alla casa di Niigata. Quel posto nuovo però, per lei che aveva sei anni, era quasi al di là della sua comprensione. Era un mondo del tutto diverso da quello in cui aveva vissuto fino ad allora, e anche le cose che sembravano assomigliare, avevano modalità differenti. Lei non poteva afferrare i valori e i principi basilari su cui era costruito quel mondo. Non poteva neanche partecipare alla conversazione con la sua nuova famiglia. In quell’ambiente a lei estraneo, Kumiko diventò una bambina silenziosa e scontrosa. Non sapeva di chi fidarsi, a chi appoggiarsi incondizionatamente. Quando il padre o la madre a volte la prendevano in braccio, non si sentiva a suo agio, non aveva nessuna reminiscenza dell’odore del loro corpo. Quell’odore la metteva in uno stato di tremendo malessere, arrivava persino a odiarlo. Di tutta la sua famiglia, l’unica persona a cui potesse confidare l’amarezza del proprio cuore era la sorella. I suoi genitori erano disorientati dalla sua scontrosità, e suo fratello in quei giorni non si accorgeva quasi della sua esistenza. Soltanto sua sorella sapeva che lei si sentiva sperduta e passava le giornate seduta in silenzio in un angolo. E si era pazientemente occupata di lei. Dormiva nella stessa stanza di Kumiko, poco per volta le parlava di tante cose, le leggeva dei libri, andava con lei a scuola, e quando tornavano a casa le faceva fare i compiti. E se Kumiko restava ore e ore a piangere in un angolo della stanza, restava lì con lei tutto il tempo tenendola abbracciata, sforzandosi di rallegrare anche solo un poco l’animo della sorellina. Se non fosse morta avvelenata per un incidente l’anno dopo, molte cose sarebbero andate diversamente. - Se mia sorella fosse vissuta, penso che la situazione a casa nostra sarebbe stata un po’ più sopportabile, - aveva detto Kumiko. - Aveva solo dodici anni, ma era una presenza necessaria per la famiglia. Se lei non fosse morta, probabilmente noi tutti saremmo diventati migliori. Per lo meno sarebbe stata tanto d’aiuto a me. Mi capisci, vero? Io da allora ho continuato a provare un senso di colpa verso tutti. Perché non ero morta al posto suo. Tanto anche se ero viva, non ero utile a nessuno, io, e non potevo far felice nessuno. In più i miei genitori e mio fratello, pur intuendo come mi dovessi sentire, non mi rivolgevano neanche una parola affettuosa. Altro che parole affettuose, non perdevano un’occasione di parlare di mia sorella morta. Di quanto era bella, e di quanto era intelligente. Della simpatia che ispirava a tutti. E di quanto fosse sensibile, e di come suonasse bene il piano. Hanno fatto prendere lezioni anche a me, sai? Perché dopo la sua morte in casa era rimasto un pianoforte a coda. Ma a me non piaceva suonare il piano. Perché sapevo che non sarei mai stata brava come lei, e non volevo ogni volta in ogni cosa dare la prova che non valevo quanto lei. Non sarei riuscita a prendere il posto di nessuno, io, né lo volevo. Ma loro non ascoltavano neanche quello che dicevo. Nessuno ascoltava quello che dicevo. Per questo ancora adesso detesto la vista di un pianoforte. Detesto vedere qualcuno che suona il piano. Quando Kumiko mi aveva raccontato questa storia, mi ero sentito pieno di collera verso la sua famiglia. Per la condotta infame che aveva tenuto nei suoi confronti. All’epoca non eravamo ancora sposati, ci conoscevamo da poco più di due mesi. Era una tranquilla mattina di domenica, e stavamo a letto. Lei raccontava la propria infanzia come se disfacesse i nodi di una corda, rivedendo lentamente i fatti a uno a uno. Era la prima volta che parlava tanto a lungo di se stessa. Fino ad allora io non conoscevo quasi nulla della sua famiglia e della sua posizione sociale, tutto quello che sapevo di lei era che parlava poco, le piaceva dipingere, aveva bellissimi capelli molto lisci, e due nei sopra la scapola destra. Inoltre, che io ero il primo uomo con cui facesse l’amore. Mentre parlava Kumiko pianse un po’. Cosa più che comprensibile, l’abbracciai, e le carezzai i capelli. -Se mia sorella fosse vissuta, - disse, - penso che anche a te sarebbe certamente piaciuta. Piaceva a tutti appena la vedevano. -Può darsi, - risposi. - In ogni caso, è di te che io sono innamorato. Senti, qui si tratta solo di te e di me, molto semplicemente. Tua sorella non c’entra nulla. Per un po’ Kumiko era stata in silenzio, assorta nei suoi pensieri. Alle sette e mezza di una domenica mattina, i rumori avevano una dolce risonanza vuota. Sentivo il calpestio dei passi dei piccioni sul tetto dell’appartamento, e la voce di qualcuno in lontananza che chiamava un cane per nome. Kumiko era rimasta per un tempo lunghissimo a fissare un punto sul soffitto. -A te piacciono i gatti? - mi chiese a un certo punto. -Sì, certo, - risposi. - Mi piacciono moltissimo. Ne ho sempre avuti, fin da bambino. Giocavo sempre coi miei gatti. E ci dormivo sempre insieme. -Beato te! Anch’io da bambina morivo dalla voglia di avere un gatto. Ma non mi era permesso. Perché a mia madre i gatti non piacevano. In tutta la mia vita non c’è stata una volta in cui abbia ottenuto una cosa che volevo veramente. Neanche una sola volta. È una cosa pazzesca, non credi? Che tristezza sia, una vita del genere, tu non te lo puoi neanche immaginare. Quando uno si abitua in quel modo, senza mai ottenere quello che desidera, a poco a poco finisce col non capire neanche più bene quello che vuole. Le presi la mano. -È vero, fino a ora può darsi che sia andata così. Ma adesso tu non sei più una bambina. Hai il diritto di vivere come vuoi. Se vuoi avere un gatto, devi costruirti una vita in cui puoi avere un gatto. È molto semplice. Ed è un tuo diritto. Non ti pare? - chiesi. Kumiko mi guardava in silenzio. -Già, - disse -. Alcuni mesi dopo parlavamo di sposarci. Se l’infanzia di Kumiko in quella famiglia era stata difficile e problematica, in un altro senso anche quella di suo fratello Noboru era stata innaturale e stravolta. I suoi genitori amavano moltissimo quell’unico figlio maschio, ma non si limitavano a coccolarlo, nello stesso tempo erano con lui di un’esigenza estrema. Il padre aveva la ferma convinzione che per condurre una vita da persona rispettata nella società giapponese fosse necessario avere il massimo dei voti a scuola, e farsi largo a gomitate. Lo pensava sul serio. Nel primi tempi del nostro matrimonio, quei discorsi li avevo sentiti direttamente dalla sua bocca. Tanto per cominciare, la gente non era tutta uguale, diceva. L’uguaglianza era qualcosa che si insegnava a scuola come principio, ma erano tutte sciocchezze. Il Giappone strutturalmente era una democrazia, ma nello stesso tempo era una società severa, divisa in classi, dove vigeva la legge del più forte. Se non si diventava parte dell’élite, non aveva senso vivere in questo paese. Si andava semplicemente e lentamente a finire dentro la macina, e si veniva schiacciati. Per questo la gente si sforzava di innalzarsi di almeno un gradino. Era un desiderio del tutto sano. Se la gente perdeva quel desiderio, il paese non poteva che peggiorare. Riguardo a queste opinioni di mio suocero io non facevo commenti, tanto più che lui non aveva mai chiesto il mio parere o le mie impressioni. Si era sempre solo limitato a esprimere la propria granitica e incrollabile fede. D’ora in poi dovrò vivere in questo ambiente respirando la stessa aria di gente come costui, pensavo io in quelle occasioni, questo è solo il primo passo, chissà quanti altri episodi del genere ci saranno. A questo pensiero mi sentivo pervadere fin nel midollo da un senso di spossatezza. Era una filosofia terribilmente vuota e superficiale. Mancava di considerazione nei confronti delle persone sconosciute che formavano le vere fondamenta della società, e anche nei confronti della natura interiore e della coscienza della gente. Mancava di fantasia, e di ogni forma di dubbio. Eppure quell’uomo era fermamente, profondamente convinto di essere nel giusto, e qualunque argomento io avessi portato, non avrei potuto smuovere la saldezza della sua fede. Quanto alla madre di Kumiko, era la figlia di un alto funzionario, cresciuta senza mancare assolutamente di nulla nel quartiere Yamanote di Tokyo, e non aveva né un carattere né delle idee sue che le permettessero di opporsi a quelle del marito. Per quanto potevo capire, nei riguardi degli avvenimenti che si trovavano al di fuori del suo campo visivo (in realtà era estremamente miope) non aveva alcun tipo di opinione. E quando era proprio necessario averne una, prendeva sempre a prestito quella del marito. Se si fosse trattato solo di questo, comunque, forse non avrebbe dato fastidio a nessuno. Ma come fanno spesso le donne di quel tipo, lei teneva irrimediabilmente alle apparenze. Non avendo un proprio sistema di valori, se non faceva riferimento a criteri e giudizi altrui, non riusciva a valutare la propria posizione. Ciò che dominava quel cervello era solo la preoccupazione della propria immagine riflessa negli occhi degli altri. E così era diventata una donna nervosa e limitata che non riusciva a vedere altro che la posizione del marito al ministero o la carriera universitaria del figlio. Per cui tutto ciò che non entrava in quel ristretto campo visivo, per lei aveva finito col non aver più alcun significato. Riguardo al figlio, tutto ciò che aveva desiderato per lui era mandarlo in un liceo molto prestigioso, e poi in un’università altrettanto prestigiosa. Che lui avesse una sua personalità, se passasse o no un’infanzia felice, quale concezione della vita avrebbe acquisito crescendo, erano problemi di gran lunga al di là della sua capacità immaginativa. Se qualcuno avesse sollevato anche solo un piccolo dubbio in proposito, lei probabilmente sarebbe andata su tutte le furie. Probabilmente al suo orecchio sarebbe suonato come un insulto personale del tutto ingiustificato. Così padre e madre avevano martellato senza sosta la testa del piccolo Noboru con la loro filosofia e i loro valori sociali distorti e discutibili. Il loro interesse si concentrava tutto sulla persona di Noboru che era il loro unico figlio maschio. Noboru non doveva essere secondo a nessuno, non l’avrebbero permesso. Se uno non sapeva essere il primo in un contesto limitato come la classe o il liceo, diceva suo padre, come sperava di esserlo nella società che era tanto più vasta? Noboru non aveva tregua, a casa era seguito da un precettore molto stimato, e se prendeva dei bei voti, i suoi gli compravano in premio qualsiasi cosa lui desiderasse. Per fortuna almeno materialmente il ragazzo ebbe un’infanzia felice. Però nel periodo estremamente delicato della vita in cui si resta facilmente feriti, non ebbe né il tempo di trovarsi una ragazza, né quello di divertirsi con gli amici e spassarsela un po’. Per continuare a essere il primo, doveva concentrare in quell’unico obiettivo tutte le proprie energie. Se a Noboru quella vita piacesse o meno, non ne avevo la minima idea, e Kumiko neanche, lui non era persona da esternare i propri sentimenti alla sorella, ai genitori, o a chiunque altro. In ogni caso, fosse soddisfatto o no della propria esistenza, non aveva scelta. A mio avviso, certi sistemi di pensiero sono così ridotti e monolitici che diventa impossibile confutarne le ragioni. A ogni modo, Noboru era passato da un prestigioso liceo privato alla facoltà di economia dell’Università di Tokyo, dove si era laureato quasi col massimo dei voti. Suo padre sperava che lui dopo la laurea diventasse funzionario, oppure che entrasse in qualche grande ditta, ma lui scelse di restare all’università e di tentare la carriera accademica. Noboru non era scemo. Piuttosto che buttarsi allo sbaraglio nella società e tra la gente, capì di essere molto più adatto a un ambiente che richiedeva la capacità di trattare il sapere in modo sistematico e dava importanza soprattutto alle facoltà intellettuali di un individuo. Aveva fatto uno stage di due anni all’Università di Yale, poi si era iscritto al corso di dottorato all’Università di Tokyo. Poco dopo essere tornato in Giappone, ligio al volere dei genitori, aveva fatto un matrimonio combinato, matrimonio che era durato solo due anni. Dopo il divorzio era subito tornato a vivere con i suoi. All’epoca in cui lo avevo conosciuto io, era diventato un individuo piuttosto bizzarro e sgradevole. Tre anni prima, a trentaquattro anni, aveva terminato di scrivere un’opera molto spessa che era stata pubblicata. Era un libro d’economia per specialisti, che avevo provato a leggere anch’io, a essere sincero senza capirci niente. Si può dire che non c’era una sola pagina che mi fosse chiara. Mi ero sforzato di procedere nella lettura, ma non riuscivo neanche a decifrare le frasi. Non ero neppure in grado di giudicare se fosse l’argomento a essere complicato, o semplicemente le frasi mal costruite. Comunque fra gli addetti ai lavori il libro ebbe molto successo. Parecchi critici lo recensirono facendone le lodi, ci fu chi lo definì «una dottrina economica del tutto nuova scritta da un punto di vista del tutto nuovo», ma io non capivo un accidenti neanche del significato di quelle recensioni. Fatto sta che i mass media a poco a poco cominciarono a presentare Wataya Noboru come l’eroe dei tempi nuovi. Apparvero libri che interpretavano il suo libro. Le espressioni «economia sessuale» e «economia escretiva», che lui usava nel libro, quell’anno divennero addirittura di moda. Riviste e giornali lo elessero uno degli intellettuali dell’era nuova, e pubblicarono edizioni speciali. Io ero convinto che non capissero affatto il contenuto delle sue teorie economiche, dubitavo persino che ne avessero mai aperto il libro. Ma a loro questo non importava, per loro Wataya Noboru era giovane e non coniugato, e aveva un cervello abbastanza lucido da scrivere un’opera astrusa e incomprensibile. In ogni caso, dopo la pubblicazione del libro, Noboru era diventato famoso. Scriveva articoli di critica per diverse riviste, e compariva alla televisione in veste di commentatore di eventi economici e politici. Per finire, era diventato un ospite regolare di dibattiti e tavole rotonde. Le persone intorno a lui, Kumiko e io per primi, erano piuttosto scettiche sulla sua idoneità a un ruolo tanto in vista. Noboru era stato sempre considerato uno studioso, un tipo introverso, interessato soltanto alla propria materia. Ma una volta entrato nel mondo dei mass media, aveva sostenuto quel suo nuovo ruolo in maniera tanto brillante da lasciare tutti a bocca aperta. Sotto i riflettori di uno studio televisivo non aveva la minima esitazione. Sembrava addirittura che si sentisse più a suo agio davanti alle telecamere che nel mondo reale. Noi tutti contemplavamo sbalorditi quella sua improvvisa metamorfosi. Quando compariva alla televisione, portava sempre vestiti tagliati su misura che dovevano essere costati un occhio della testa, cravatte perfettamente intonate, e occhiali dalla montatura molto distinta. Aveva persino adottato una pettinatura più moderna. Probabilmente si faceva consigliare da un professionista dell’immagine, perché fino ad allora non l’avevo mai visto con qualcosa di decente addosso. Ma anche considerando quel suo nuovo look una specie di veste professionale a beneficio dei telespettatori o chi altro fosse, lui in realtà ci si era perfettamente familiarizzato. Come se da sempre non avesse portato altro. Ma che genere d’uomo era mai quello, pensavo io all’epoca, qual era la sua vera natura? Davanti alle telecamere assumeva un atteggiamento piuttosto reticente. Quando gli veniva chiesta la sua opinione, la esprimeva in maniera accurata, usando parole semplici e una logica di facile comprensione. Anche quando tutti gli altri polemizzavano alzando la voce, lui restava calmo. Non cedeva alle provocazioni, lasciava parlare l’avversario quanto voleva, e alla fine con una parola rigirava i suoi argomenti in proprio favore. Con espressione sorridente e voce pacata, conosceva il trucco di vibrare la stoccata fatale alla schiena del rivale. E poi quando compariva su uno schermo televisivo, va a sapere perché, sembrava molto più intelligente e credibile di quanto fosse in realtà. Non si poteva certo definire un bell’uomo, ma era alto e slanciato, e indubbiamente aveva l’aspetto di una persona distinta. In una parola, Noboru aveva trovato nella televisione il suo ambiente ideale. I mass media lo avevano accolto con gioia, e lui con gioia li ricambiava. A me però non piaceva né leggere ciò che scriveva, né vederlo in tv. Indubbiamente aveva ingegno e talento, questo lo ammettevo. Era estremamente efficace nel mettere fuori combattimento l’avversario in un batter d’occhio e in due parole. Aveva anche un’intuizione animalesca e istantanea per capire da che parte tirasse il vento. Ma ad ascoltare attentamente quanto diceva, a leggere ciò che scriveva, ci si accorgeva che mancava di coerenza. Non aveva profonde convinzioni basate su una sua visione del mondo. Aveva costruito il suo sistema mettendo insieme in modo complesso idee superficiali, di cui poteva istantaneamente riarrangiare la combinazione secondo le circostanze. Un’abile composizione ideologica convertibile, insomma. Quasi un’opera d’arte. Ma, se mi è permesso dirlo, era solo un gioco. L’unica coerenza che si potesse trovare nelle sue opinioni, era il fatto che sistematicamente non ce ne fosse alcuna. A volergli per forza attribuire una visione del mondo, questa consisteva nella sua indifferenza a formarsene una. Però erano proprio queste mancanze a formare paradossalmente il suo patrimonio intellettuale. Una solida e coerente visione del mondo non era richiesta nei programmi intellettuali dei mass media, regolati al minuto secondo, e il fatto che lui non affliggesse nessuno con una tale rottura di scatole ma liquidasse rapidamente le questioni era considerato un titolo di grande merito. Wataya Noboru non doveva difendere nulla. Per questo poteva concentrare tutti i suoi sforzi nella conduzione pura e semplice della battaglia. Lui doveva solo attaccare e mettere l’avversario fuori combattimento. In quel senso sembrava un camaleonte dotato di intelligenza. A seconda del colore dell’avversario, cambiava il proprio, costruiva sul momento una logica adatta alla circostanza, e a tal fine mobilitava ogni possibile dialettica. Di solito era fondamentalmente retorica presa in prestito a qualcun altro, in certi casi smaccatamente priva di contenuto. Ma poiché lui in un attimo tirava fuori dal nulla la sua dimostrazione, come un illusionista estrae un coniglio dal cappello, era quasi impossibile denunciarne sul momento l’infondatezza. Capitava a volte che gli spettatori si accorgessero della fraudolenza della sua logica, ma vi trovavano comunque qualcosa di fresco, che catturava facilmente la loro attenzione. In confronto i validi argomenti laboriosamente e metodicamente sviluppati dagli altri partecipanti al dibattito, probabilmente delle persone serie, facevano un’impressione mediocre. Dove diavolo Noboru avesse acquisito una tale tecnica io non riuscivo a immaginarlo, ma aveva il talento di prendere i telespettatori direttamente alle viscere. Sapeva bene secondo quale logica si muovono le masse. Non era neanche necessario che fosse una logica, bastava che lo sembrasse, l’essenziale era mettere in moto i sentimenti. In alcuni casi, sapeva anche esporre con scioltezza complicate teorie scientifiche. Ovviamente quasi nessuno capiva cosa significassero di preciso. Ma anche in quei casi lui riusciva a creare un’atmosfera tale per cui era la persona che non capiva a sentirsi in colpa. Altre volte sciorinava una serie di cifre, che ricordava tutte a memoria. E quelle cifre avevano una straordinaria forza di persuasione. Ma a ripensarci dopo, anche ammettendo che le sue fonti fossero imparziali e del tutto affidabili, su questo genere di dati lui non aveva mai sostenuto un vero e proprio dibattito, neanche una volta. E alle cifre si fa dire quello che si vuole, fuori dal loro contesto, lo sanno tutti. Ma la sua strategia era troppo abile, così la maggior parte della gente non riusciva ad avvertire il pericolo. Io questa sua abilità strategica non la potevo sopportare, ma non riuscivo a spiegare esattamente agli altri le ragioni della mia avversione. Non riuscivo a fornire delle prove. Mi sembrava di fare a pugni contro un avversario fantomatico e incorporeo; per quanto cercassi di colpire trovavo soltanto aria. Perché mancava un nucleo che facesse resistenza, tanto per cominciare. Ed ero sbalordito nel vedere persone di raffinata intelligenza messe in subbuglio dalle sue provocazioni, la cosa mi irritava a un punto estremo. In questo modo Wataya Noboru era arrivato a essere considerato uno degli intellettuali più validi del momento. Sembrava che per la società qualcosa come la coerenza non contasse un accidenti, tutti volevano solo assistere sullo schermo a uno scontro fra intellettuali, vedere scorrere vivido sangue vermiglio davanti ai loro occhi. Che uno sostenesse il giovedì il contrario di quanto aveva affermato il lunedì non aveva la minima importanza. Noboru l’avevo incontrato per la prima volta quando io e Kumiko avevamo deciso di sposarci. Considerando che era più vicino a me negli anni, avevo pensato di parlare prima a lui, piuttosto che al padre, nella speranza che ci desse una mano. -È meglio che non ci conti troppo, però, - aveva detto Kumiko con una certa riluttanza. - Non so spiegarti bene il perché, ma non è quel tipo di persona, lui. -Tanto prima o poi lo dovrò ben incontrare, no? - avevo risposto io. -Già, anche questo è vero… -Allora perché non posso provare a parlargli? Qualunque cosa debba succedere, se non proviamo non lo sappiamo. -Già. Forse hai ragione tu. Quando gli avevo telefonato, Wataya Noboru non mi era sembrato troppo entusiasta di incontrarmi. Ma se ci tenevo assolutamente, una trentina di minuti me li poteva dedicare. Ci demmo appuntamento in un caffè vicino alla stazione di Ochanomizu. Lui all’epoca non aveva ancora scritto il famoso libro, era un semplice assistente universitario, e anche il suo aspetto non era particolarmente brillante. A forza di tenerci infilate le mani, le tasche della giacca erano sformate, e i capelli avevano bisogno di un buon taglio da almeno un paio di settimane. Portava una polo color mostarda e una giacca di tweed grigio-azzurra che insieme erano un pugno in un occhio. Il tipico assistente di una qualunque università, senza né soldi né relazioni. Era dal mattino che stava in biblioteca a fare certe ricerche, e aveva gli occhi assonnati, come uno che è riuscito giusto giusto a liberarsi un momento. Ma a guardar bene in fondo a quegli occhi si percepiva una luce fredda e tagliente. Dopo essermi presentato, gli dissi che io e sua sorella avevamo l’intenzione di sposarci entro breve tempo. Gli spiegai la situazione il più sinceramente possibile. Al momento lavoravo in uno studio legale, ma non era esattamente il genere di attività che desideravo svolgere. Ero ancora nella fase in cui si cerca a tastoni, dissi. Che uno come me volesse sposare una ragazza come Kumiko, poteva sembrare una pretesa assurda, me ne rendevo conto. Però io l’amavo, e pensavo di poterla fare felice. Pensavo che avremmo potuto darci l’un l’altro forza, comprensione, e aiuto, dissi. Wataya Noboru sembrava non capire bene cosa gli stessi dicendo. Aveva ascoltato il mio discorso a braccia conserte, senza dire nulla. Quando ebbi finito, per un po’ continuò a restare immobile. Come se stesse pensando a qualcos’altro. All’inizio mi ero sentito estremamente teso, davanti a lui. Probabilmente a causa della posizione in cui mi trovavo. Certo non è mai una cosa di tutto riposo annunciare a una persona che si incontra per la prima volta «sa, voglio sposare sua sorella». Però in sua presenza gradualmente la tensione si era allentata per trasformarsi in decisa antipatia. Una sensazione simile a quella che si prova quando una sostanza estranea e maleodorante a poco a poco si deposita sul fondo dello stomaco. Non che ci fosse qualcosa di provocatorio in ciò che lui diceva o faceva, era proprio la sua faccia a non andarmi a genio. In quel momento sentivo intuitivamente che nel volto di quell’uomo c’era qualcosa di artificiale, costruito, falso. Sentivo che quello non era il suo vero volto. Avessi potuto, mi sarei alzato senza aggiungere altro e me ne sarei andato seduta stante. Ma non potevo chiudere il discorso a metà dopo averlo iniziato, ormai avevo mostrato le mie carte, e aspettavo la sua reazione bevendo il mio caffè, già freddo. - A essere sinceri, - attaccò lui con voce bassa e pacata come per risparmiare energie, - non afferro bene quello che lei ora mi ha detto, e neanche mi interessa. Io mi interesso a tutt’altro genere di cose, ma può darsi che lei a sua volta questo non lo capisca, e che non la riguardi. Per arrivare rapidamente al punto, se lei vuole sposare Kumiko, e Kumiko vuole sposare lei, io non ho né il diritto, né ragione alcuna di oppormi. Non lo faccio, e non ci penso neanche. Però vorrei che non ci si aspettasse da me nulla di più. Inoltre, e questo è ciò che mi sta più a cuore, le sarei grato se in futuro non mi facesse perdere altro tempo, - concluse Noboru, poi guardò l’orologio e si alzò. Forse si espresse in maniera un po’ diversa, non ricordo le parole esatte, ma questo era senza possibilità di errore il succo del suo discorso. Un discorso che arrivava al nocciolo della questione in modo estremamente conciso, non c’erano parole superflue, ma non mancava nulla. Avevo capito perfettamente ciò che lui mi voleva dire, e in sostanza anche l’impressione che gli avevo fatto. Su quel chiarimento ci separammo. In seguito al mio matrimonio con Kumiko, Wataya Noboru divenne mio cognato, e ci furono molte occasioni di scambiare qualche parola, ma si trattava sempre di un surrogato di conversazione, comunicare è un’altra cosa. Non avevamo nulla in comune, come aveva detto giustamente lui, e anche se avessimo parlato per giorni interi, non saremmo mai arrivati a un vero dialogo. Era come se parlassimo una lingua del tutto diversa. Se Eric Dolphy con le note del suo clarinetto avesse cercato di spiegare al Dalai Lama sul letto di morte l’importanza della scelta dell’olio in un motore, probabilmente sarebbero riusciti a intendersi meglio di me e Noboru nei nostri scambi verbali. È raro che io resti a lungo agitato per i problemi che possono sorgere nelle relazioni con gli altri. Evidentemente mi succede di sentirmi in collera, di irritarmi con qualcuno per qualche motivo, ma la cosa non dura a lungo. Ho la capacità intellettiva di fare la distinzione fra me e un altro, di vederci come due esseri sostanzialmente indipendenti (penso che sia giustificato chiamarla capacità intellettiva perché non è affatto un’operazione semplice, ma non c’è motivo di farsene vanto). Insomma, quando sono scontento o arrabbiato per qualche ragione, provvisoriamente sposto la causa del mio malumore in una sfera estranea alla mia persona. Poi faccio questa riflessione, okay, adesso sono irritato, ma la ragione di ciò ormai si trova in una zona dove non ho più modo di appurarla o modificarla a posteriori. E in questo modo congelo temporaneamente i miei sentimenti. In un secondo tempo, quando provo a scioglierli e a tentare con calma un’interpretazione, succede raramente che il mio animo sia ancora in subbuglio. Passato il tempo dovuto, la faccenda si riduce a qualcosa di inoffensivo che ha perso la sua virulenza. E prima o poi dimentico tutto. Nel corso della mia vita, fino ad allora avevo sempre usato quel sistema per controllare la mia emotività, evitando così parecchie grane inutili, ed ero riuscito a preservare il mio mondo personale in condizioni di relativa stabilità. E di questa mia abilità ero anche un pochino fiero. Nei confronti di Wataya Noboru, però, quel sistema fu praticamente un fallimento totale. Non riuscivo a relegare la sua persona in una sfera a me estranea, anzi, dovevo ammettere che era stato lui piuttosto a eliminarmi seduta stante dalla sua realtà. Il che mi irritava. Il padre di Kumiko era una persona arrogante e antipatica, d’accordo. Però tutto sommato era un individuo insignificante dagli orizzonti limitati, che viveva arroccato su una filosofia molto rudimentale. Per questo potevo tranquillamente ignorarlo. Con Noboru invece era tutt’un altro paio di maniche, lui era perfettamente conscio delle proprie capacità. E probabilmente aveva anche afferrato la natura della mia personalità. Ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto schiacciarmi, e se non lo faceva era semplicemente perché non aveva per me il minimo interesse. Per lui io avevo così poca importanza che non valeva la pena di sprecare tempo ed energia a eliminarmi. Per questo, probabilmente, ce l’avevo tanto con lui. Era sostanzialmente una persona di poco valore, un egoista senza alcuno spessore morale. Però era chiaramente più abile di me. L’incontro che avevo avuto con lui per un po’ di tempo mi aveva lasciato nell’animo un’impressione sgradevole, come se mi avessero cacciato in bocca un pugno di insetti nauseabondi. Gli insetti li avevo sputati, ma il gusto era rimasto. Per parecchi giorni continuai a pensare a Noboru. Anche se cercavo di distrarmi, gira e rigira il mio pensiero tornava sempre a lui. Andai al concerto e al cinema. Arrivai perfino ad assistere a una partita di baseball con dei colleghi d’ufficio. Bevevo, e leggevo libri di cui mi ero tenuto in serbo il piacere per quando ne avessi avuto il tempo. Ma lui si trovava sempre all’interno del mio campo visivo, a braccia conserte mi guardava con quegli occhi odiosi, spenti come acqua stagnante. Il che mi faceva infuriare, provocava in me un’ira profonda e squassante. La seconda volta che lo incontrai, Kumiko mi chiese che impressione mi avesse fatto suo fratello, ma io non riuscii a esprimere esattamente quello che sentivo. Avevo voglia di porle domande sulla maschera che lui evidentemente portava, e sulla cosa snaturata e contorta che si doveva nascondere lì sotto. Avevo voglia di parlarle chiaramente del mio malessere, senza giri di parole, e del disordine delle mie sensazioni. Ma in conclusione non le dissi nulla. Temevo di non riuscire a farle capire bene il mio pensiero, anche facendo del mio meglio. E se non riuscivo a spiegarmi, non era quello il momento di raccontarle tutto ciò. - È vero che è un po’ strano, - dissi. Poi cercai di aggiungere una cosa qualunque, ma non mi venne in mente nulla. Anche Kumiko non mi chiese altro, annuì solo in silenzio. Le mie impressioni su Noboru da allora a oggi non sono quasi cambiate. Anche ora provo nei suoi confronti quello stesso senso di collera, è sempre presente dentro di me, come una leggera febbre. Io a casa non ho la televisione, ma stranamente ogni volta che da qualche parte mi capita di posare gli occhi su uno schermo televisivo, c’è sempre inquadrato lui che disserta di qualcosa. Ogni volta che in una sala d’aspetto prendo in mano una rivista e mi metto a sfogliarne le pagine, gli occhi mi cadono sulla foto di Noboru, su frasi sue riportate lì. Sono quasi tentato di pensare che dietro a ogni angolo del mondo ci sia lui in agguato ad aspettarmi. Okay, lo riconosco, io Wataya Noboru lo odio. 

7.

Gestori di tintoria feliciEntrata in scena di Kanō CretaPresi la camicetta e la gonna di Kumiko e mi recai alla tintoria davanti alla stazione. Di solito le cose da lavare le porto a quella vicino a casa, non perché ne sia particolarmente soddisfatto, ma è più comoda. A quella davanti alla stazione ci va mia moglie, è sulla sua strada quando va al lavoro. Lascia la roba recandosi in ufficio, e la ritira quando torna a casa. È un po’ più cara, ma lavorano in maniera più accurata delle altre tintorie della zona, così lei i suoi vestiti più belli li porta lì, anche se è meno pratico. Per questo motivo quel giorno presi la bicicletta e andai fino alla stazione; pensavo che lei sarebbe stata contenta. Mi misi dei pantaloni verdi di cotone leggero, le solite scarpe da tennis, una maglietta gialla con l’immagine di Van Halen che Kumiko aveva ricevuto in un negozio di dischi, e uscii di casa con la camicetta e la gonna sul braccio. Il gestore della tintoria, come la volta precedente, teneva lo stereo acceso a tutto volume. Quella mattina stava ascoltando una cassetta di Andy Williams. Quando aprii la porta era appena finita  Hawaiian Wedding Song,  e stava per iniziare  Canadian Sunset.  Lui con una biro stava scrivendo rapidamente qualcosa su un quaderno, e intanto fischiava con aria felice accompagnandosi alla musica. Nella collezione di cassette accatastate su uno scaffale si vedevano i nomi di Sergio Mendez, Bert Kaempfert, o i 101 Strings, era ovviamente un patito dell  ‘easy listening.  Chissà se era concepibile che gli appassionati del jazz di Albert Ayler, Don Cherry o Cecil Taylor diventassero gestori di una tintoria in una via commerciale davanti a una stazione, pensai improvvisamente. Forse sì. Però non sarebbero stati felici. Quando posai la camicetta a fiori verdi e la gonna grigio-verde sul banco, lui le dispiegò e dopo averle velocemente controllate, segnò in bella scrittura una gonna e una camicetta su una ricevuta. A me piacciono i gestori di tintoria che segnano le cose in bella scrittura. E se in più sono degli appassionati di Andy Williams, allora non c’è altro da dire. -Lei si chiama Okada, vero? - chiese. Risposi di sì. Lui scrisse il mio nome, poi strappò il foglio carbone e me lo porse. -Saranno pronte martedì della settimana prossima, - disse. - Questa volta venga a ritirarle, non se le dimentichi. Sono di sua moglie? -Sì, - risposi. -Che bei colori. Il cielo era grigio, nuvoloso. Le previsioni del tempo annunciavano pioggia. Erano già le nove e mezza passate, ma alcune persone si affrettavano ancora verso le scale della stazione con una cartella e un ombrello chiuso, probabilmente si trattava di impiegati che si recavano al lavoro in ritardo. Era una mattinata calda e umida, ma loro non sembravano curarsene, portavano giacca e cravatta e calzavano scarpe nere secondo il regolamento. Tra loro c’erano parecchi uomini più o meno della mia età, sicuramente persone che lavoravano in qualche ufficio perché nessuno portava indumenti del tipo della mia maglietta. Sul risvolto della giacca esibivano il distintivo della loro ditta, e sotto l’ascella stringevano il quotidiano economico. Quando si sentì suonare il campanello su un binario, alcuni di loro si precipitarono di corsa su per le scale. Era parecchio tempo che non vedevo quel genere di persone. Mi venne in mente che io nell’ultima settimana mi ero spostato solo tra la mia casa, il supermercato, la biblioteca e la piscina del quartiere. Tutti quelli con cui avevo parlato in quella settimana erano casalinghe, vecchi, bambini, e alcuni commercianti. Per un po’ rimasi lì fermo a guardare quella gente in giacca e cravatta. Visto che ero venuto fin lì, pensai che potevo anche entrare nel bar davanti alla stazione e prendere magari un caffè con la colazione che veniva servita al mattino. Poi mi parve una seccatura e rinunciai. A pensarci bene non avevo nessuna voglia di un caffè. Guardai il mio riflesso nella vetrina del fioraio. Sul bordo della maglietta, chissà quando, mi ero fatto una macchia di salsa di pomodoro. Inforcai la bicicletta e tornai verso casa, mettendomi a fischiare senza rendermene conto  Canadian Sunset. Alle undici arrivò una telefonata di Kanō Malta. -Pronto? - dissi sollevando il ricevitore. -Pronto? - disse Malta. - Parlo con il signor Okada? -Sì. Sono io -. Avevo capito subito che si trattava di lei. -Sono Kanō Malta. Quella che si è permessa di disturbarla l’altro giorno. A questo proposito, oggi nel pomeriggio ha per caso qualche impegno? Risposi che non ne avevo. Come un uccello migratore che non ha proprietà a garanzia, anche io non avevo alcun tipo d’impegno. -Allora oggi all’una mia sorella Creta può permettersi di venire a casa sua? -Creta? - dissi con voce secca. -Mia sorella. Penso di averle fatto vedere la fotografia l’altro giorno… - disse Malta. -Sì sì, mi ricordo che mi ha parlato di sua sorella. Ma… -Creta è il suo nome. Verrà a casa sua al posto mio. Per lei all’una va bene? -Sì, certo… -Allora tolgo il disturbo, - disse Malta, e attaccò il telefono. Creta? Tirai fuori l’aspirapolvere, pulii per terra, e misi in ordine la casa. Riunii i giornali, li legai con una corda e li cacciai nell’armadio a muro, sistemai in fila nei contenitori le cassette sparse qua e là, e lavai i piatti in cucina. Poi feci una doccia, mi lavai i capelli e indossai dei vestiti puliti. Feci dell’altro caffè, e mangiai dei sandwich al prosciutto e alle uova sode. Poi mi sedetti sul divano, mi misi a sfogliare il  Taccuino

del buon vivere,  e pensai a cosa preparare per cena. Misi un segno alla pagina «Insalata di alghe e  tòfu 5», e scrissi sul notes che usavamo per la lista della spesa gli ingredienti necessari. Quando accesi la radio, Michael Jackson stava cantando  Billy

Jean.  Poi pensai a Kanō Malta e a Kanō Creta. Ma che razza di nomi si erano messe, quelle due? Proprio una bella coppia da  manzai 6. Kanō Malta e Kanō Creta. La mia vita stava senza possibilità di errore prendendo una piega strana. Il gatto era scappato. Mi era arrivata una telefonata assurda da una spostata. Avevo incontrato una ragazza bizzarra, ed entravo e uscivo dalla casa disabitata nel vicolo. Wataya Noboru aveva violentato Kanō Creta. Kanō Malta aveva predetto la comparsa della cravatta. Mia moglie mi aveva detto che non avevo più bisogno di lavorare. Spensi la radio, riposi  Taccuino del buon vivere sullo scaffale dei libri, e bevvi un’altra tazza di caffè. 5Tòfu:

cagliata di fagioli di soja. Di colore bianco, ce ne sono di diversa consistenza e finezza. 6Manzai: dialogo fra due attori che si scambiano battute umoristiche. È un numero tradizionale di teatro o di rivista, ed è tuttora molto popolare, anche alla televisione. All’una precisa Kanō Creta suonò il campanello di casa. Era proprio come nella fotografia. Minuta, probabilmente tra i venti e i venticinque anni, l’aria tranquilla. E, cosa straordinaria, in puro stile inizio anni Sessanta da capo a piedi. In una versione giapponese di  American Graffiti probabilmente avrebbero creato per lei un ruolo supplementare. Aveva i capelli increspati e gonfi, con le punte arricciate, l’attaccatura fortemente tirata all’indietro e fermata con un grosso fermaglio luccicante, esattamente come nella foto. Le sopracciglia nere erano allungate con la matita in una forma bella nitida, il mascara dava un’ombra misteriosa alla base degli occhi, e il rossetto era del colore di moda all’epoca, miracolosamente riapparso. Se le davi un microfono, poteva tranquillamente mettersi a cantare Johnny Angel. I vestiti che portava invece erano estremamente semplici, molto più semplici del trucco, e non avevano nessuna caratteristica particolare. Portava una camicetta bianca, e una gonna diritta verde, quasi la tenuta formale di una segretaria. Non aveva nessun tipo di gioiello. Sotto il braccio teneva una borsetta di vernice bianca, e portava scarpe a punta assortite. Erano di misura piccola, col tacco a spillo dall’estremità sottile come una matita, sembravano le scarpette di una bambola. Ero in ammirazione, riuscire ad arrivare fino a casa mia su dei trampoli del genere! Nella realtà era più bella che in fotografia. Una vera bellezza, la si sarebbe potuta benissimo prendere per una modella. Guardandola, avevo l’impressione di vedere un vecchio film della  Togo Movies,  uno di quelli con Kayama Yuzo e Hashi Yuriko, Sakamoto Kyu che fa il garzone di un negozio di  soba7,  e Godzilla che sta per attaccare. 7Soba: fettuccine fatte con farina di grano saraceno. La feci entrare in casa, la pregai di accomodarsi sul divano del soggiorno, scaldai il caffè e glielo portai. Provai a chiederle se avesse già mangiato, non so perché mi sembrava che avesse fame. Mi rispose che non aveva ancora pranzato. -Ma non fa niente, - aggiunse in fretta, - non si disturbi, a mezzogiorno mangio sempre molto poco. -Veramente? - dissi. - Non ci metto niente a preparare dei sandwich, non c’è bisogno di fare complimenti. Sono abituato a preparare delle cosette veloci, non è nessun disturbo. Lei scosse più volte la testa con movimenti minuti: - La ringrazio per la sua gentilezza. Ma veramente sto bene così. Non si preoccupi. Mi basta il caffè. A ogni buon conto misi dei biscotti al cioccolato su un piatto e li posai sul tavolino. Bevendo il suo caffè Creta se ne mangiò con gusto quattro, io due. Quando finimmo di mangiare e bere, lei sembrava un poco più a suo agio. - Oggi sono venuta al posto di mia sorella Malta, - disse. -Mi chiamo Kanō Creta, sono la sorella minore di Malta. È ovvio che questo non è il mio vero nome, il mio vero nome è Setsuko. Ho cominciato a farmi chiamare Creta da quando aiuto mia sorella nel suo lavoro. È… come si dice? Un nome d’arte. Però io non ho niente a che fare con l’isola di Creta, non ci sono neanche mai andata. Il fatto è che mia sorella usa il nome Malta, allora ne abbiamo scelto uno così, che avesse un nesso con quello. È stata Malta a ribattezzarmi Creta. Lei c’è stato nell’isola di Creta, signor Okada? Risposi che purtroppo non c’ero mai stato, a Creta, non c’ero stato e non avevo in progetto di andarci in un prossimo futuro. -Io invece prima o poi ci voglio andare, - disse lei. Poi annuì con espressione serissima:-Creta è l’isola greca più vicina all’Africa. È molto grande, e nell’antichità c’era una splendida civiltà. Mia sorella Malta ci è andata, dice che è un posto meraviglioso. Tira sempre vento, e il miele pare sia buonissimo. A me piace moltissimo, il miele. Annuii, anche se a me non piaceva tanto. -Oggi sono venuta qui perché avrei un favore da chiederle, - disse Creta. - In pratica vorrei prelevare un campione dell’acqua di casa sua. -L’acqua? - ripetei. - L’acqua del rubinetto? -Sì, l’acqua del rubinetto va bene. E poi se nelle vicinanze ci fosse un pozzo, vorrei prelevare anche un campione da lì. -Qui vicino pozzi non credo ce ne siano. Cioè uno per esserci c’è, ma è nel terreno di un’altra casa, ormai è prosciugato, di acqua non ce n’è più. Creta mi guardò con occhi perplessi. -Veramente in quel pozzo non c’è più acqua? Ne è proprio sicuro? Mi ricordai il rumore sordo e secco che avevo udito quando quella ragazza vi aveva gettato un pezzo di mattone. -Sicurissimo. Senza possibilità di errore. -Va bene. Allora vorrei prelevare un po’ d’acqua dai rubinetti di casa sua. La guidai in cucina. Lei tirò fuori dalla borsetta di vernice bianca due bottigliette che sembravano flaconi per medicine, ne riempì una di acqua del rubinetto, e la chiuse con grande attenzione. Poi disse che desiderava andare in bagno. Ve la condussi. Nello spogliatoio era stesa ad asciugare parecchia biancheria e delle calze di nylon di mia moglie, ma Creta non vi fece attenzione, girò la manopola del rubinetto e riempì d’acqua l’altro flacone. Dopo avervi messo il tappo, lo girò all’incontrario e verificò che non perdesse. I tappi dei due flaconi erano di colore diverso, così si poteva distinguere l’acqua del bagno da quella della cucina. La prima aveva il tappo blu, l’altra verde. Tornata nel soggiorno, Creta mise i due flaconcini in un piccolo sacchetto di plastica da congelatore, di cui fece scorrere la chiusura a cerniera, quindi con molta cautela li ripose nella borsetta di vernice bianca. Il fermaglio scattò con un rumore secco. Dal modo in cui muoveva la mani si capiva che quei gesti doveva averli fatti innumerevoli volte. -La ringrazio molto, - disse. -Non le serve altro? - chiesi. -No, per il momento non mi serve altro, - rispose Creta. Quindi si sistemò l’orlo della gonna, posò la borsa sulle ginocchia, e prese l’espressione di chi sta per togliere il disturbo. -Un momento, - dissi. Non avevo affatto previsto che lei se ne andasse di punto in bianco in quel modo, ed ero rimasto interdetto. - Aspetti un momento, per favore. Mia moglie vorrebbe sapere se c’è qualche novità riguardo al nostro gatto. Sono quasi due settimane che se ne è andato, se avete anche solo il minimo barlume, la prego di mettermene al corrente. Creta per un po’ mi guardò fisso in viso, sempre tenendo con precauzione la borsa sulle ginocchia. Poi annuì leggermente parecchie volte. Quando muoveva la testa, i suoi capelli girati all’insù oscillavano lievemente come le pettinature dei primi anni Sessanta. Se sbatteva le palpebre, le pesanti ciglia tinte di nero andavano lentamente su e giù come ventagli dal lungo manico manovrati da uno schiavo negro. -Se devo essere sincera, mia sorella dice che questa storia rischia di protrarsi molto più a lungo di quanto potrebbe sembrare a prima vista. -Più a lungo di quanto potrebbe sembrare a prima vista? L’espressione «protrarsi a lungo» mi faceva venire in mente un palo molto alto in una pianura deserta. Man mano che il sole tramontava la sua ombra si allungava sempre più, fino a perdersi all’orizzonte. -Proprio così. Il fatto è che questa storia della scomparsa del gatto, c’è da domandarsi se non sia l’inizio di una di quelle vicende che non finiscono mai. Io persi un po’ la pazienza. -Ma noi vorremmo solo sapere dove è andato a finire, il nostro gatto, tutto qui. Ci basta trovare lui. Se è morto, vorremmo esserne sicuri. Perché dovrebbe rischiare di protrarsi, questa storia? Non capisco. -Neanch’io, - rispose Creta. Poi portò la mano al fermaglio che le brillava sopra i capelli, e lo spostò un poco all’indietro. - Però abbia fiducia in mia sorella. Non che lei capisca tutto, è ovvio. Ma se dice che questa storia rischia di protrarsi, significa che è così. Annuii in silenzio, cos’altro potevo aggiungere? -Adesso lei è molto occupato, signor Okada? Ha qualche impegno, oggi? - chiese Creta con voce diversa. Dissi che non avevo nulla da fare, ero del tutto libero. Come una coppia di insetti è libera da preoccupazioni contraccettive, tanto per rendere l’idea. Era vero che dovevo andare al supermercato vicino e fare un po’ di spesa prima che tornasse a casa mia moglie, volevo preparare dei rigatoni con un sugo di pomodoro e scampi, e un’insalata di alghe e  tofu.  Ma c’era ancora tempo, e poi non ero obbligato a preparare per forza quei piatti. -Allora posso parlarle un poco di me? - chiese Creta. Posò la borsa di vernice bianca sul divano, e incrociò le mani sulle ginocchia sopra alla gonna verde. Aveva le unghie smaltate di un bel color rosa. E neanche un anello. La invitai a raccontare. E fu così che il corso della mia vita venne in breve tempo deviato su una rotta bizzarra, del che avevo già avuto il presentimento quando Creta aveva suonato il campanello. 

8.

Lungo discorso di Kanō Creta Considerazioni sulla sofferenza-Sono nata il 29 maggio, - incominciò a narrare Creta. - La sera del mio ventesimo compleanno, decisi di porre fine alla mia vita. Le posi davanti la tazza dove avevo versato dell’altro caffè. Lei ci mise del latte e lo girò lentamente. Niente zucchero. Io come al solito lo bevvi nero, senza zucchero né latte, in un sorso solo. Le lancette della sveglia battevano contro il muro del tempo con un rumore secco. -Chissà se posso raccontare con ordine dall’inizio, - chiese Creta guardandomi fisso in faccia, - cioè dal luogo in cui sono nata, il mio ambiente familiare, quelle cose lì. -Racconti pure come le pare, - risposi. - Liberamente, come le viene meglio. -Sono l’ultima di tre fratelli, - riprese lei, - io e Malta abbiamo un fratello maggiore. Mio padre dirigeva una clinica nella prefettura di Kanagawa. Non avevamo problemi particolari, la nostra era una famiglia normalissima, come ce ne sono tante. I miei genitori erano persone serie che davano un grande valore al lavoro. La disciplina era piuttosto severa, ma nella misura in cui non davamo fastidio a nessuno, nelle questioni spicciole ci lasciavano agire con la libertà che era compatibile con la nostra età. Economicamente potevamo considerarci dei privilegiati, ma i nostri genitori avevano una concezione di vita che non ammetteva lussi superflui, e non trovavano giusto dare ai figli troppi soldi. Tutto sommato conducevamo una vita piuttosto modesta, insomma. Mia sorella Malta ha cinque anni più di me, e fin da piccola aveva una facoltà particolare, riusciva a indovinare le cose con estrema precisione. In quale camera era appena morto un paziente, per esempio, o dov’era andato a finire un portafoglio scomparso. All’inizio tutti trovavano la cosa pratica e divertente, ma a poco a poco cominciò a suscitare un certo fastidio. Allora i nostri genitori le ingiunsero di non dire più davanti alla gente «cose che non avevano un fondamento chiaro». Nostro padre era il direttore della clinica, e per lui era molto disdicevole che si spargesse la voce che sua figlia era dotata di quel genere di poteri soprannaturali. Da allora Malta tenne la bocca ermeticamente chiusa. Non solo non disse più «cose che non avevano un fondamento chiaro», ma non riusciva quasi a partecipare alla normale conversazione quotidiana. Si confidava e parlava soltanto con me, siamo sempre andate molto d’accordo. Mi preannunciava gli eventi di nascosto, mi diceva che fra breve tempo nel quartiere ci sarebbe stato un incendio, oppure che la signora Setagaya stava peggiorando, raccomandandomi di non dirlo a nessuno. E le sue profezie si avveravano puntualmente. Io ero ancora una bambina piccola e lo trovavo divertente da morire, non mi era mai venuto in mente che la cosa potesse far paura o cattiva impressione. Da quando ero in età di ragionare, stavo sempre attaccata a Malta ad ascoltare le sue predizioni. Quella singolare facoltà andò potenziandosi a mano a mano che Malta cresceva. Però lei non sapeva in che modo usarla e consolidarla, anzi, continuava ad angosciarsi per quel potere che aveva dentro di sé. Né aveva qualcuno con cui confidarsi, a cui chiedere un consiglio. In questo senso, nella sua adolescenza Malta si sentiva estremamente sola. Doveva risolvere ogni problema con le proprie forze, trovare da sola tutte le risposte. In seno alla famiglia non era certamente felice, non poteva mai sentirsi tranquilla, obbligata com’era a reprimere il proprio potere e tenerlo nascosto agli occhi di tutti. Era come far crescere una pianta maestosa in un piccolo vaso. Qualcosa di innaturale, di malfatto. Una cosa sola Malta aveva capito, che doveva andarsene di lì al più presto. Che nel mondo da qualche parte doveva esserci un ambiente giusto, un modo giusto di vivere per lei. Ma doveva sopportare in silenzio con pazienza fino a quando avesse finito il liceo. Preso il diploma liceale, invece di iscriversi all’università decise di andare da sola all’estero e cercare una nuova strada. I nostri genitori però erano persone molto conformiste che conducevano una vita ligia alle norme, non erano i tipi da permettere simili colpi di testa. Allora Malta si rimboccò le maniche, mise da parte un po’ di soldi, e senza dir nulla ai nostri prese e scappò di casa. Prima andò alle Hawaii, nell’isola di Kauai, perché aveva letto da qualche parte che sulla costa nord dell’isola sgorgava un’acqua assolutamente meravigliosa. Ci visse due anni, è lì che ha cominciato a nutrire il profondissimo interesse per l’acqua che ha tuttora. Malta ha la ferma convinzione che la composizione dell’acqua abbia una grande influenza sulla vita della gente. È per questo che rimase due anni su quell’isola, era entrata a far parte di una grande comunità di hippy che viveva lì. L’acqua di quella sorgente a Kauai aveva un forte influsso sui suoi poteri sovrannaturali, quando la beveva sentiva «il suo corpo e il suo potere fondersi in una cosa sola», una sensazione meravigliosa, mi scriveva. Leggendo io ne ero felice per lei. Ma alla fine Malta cominciò a sentirsi insoddisfatta anche di quel luogo. Era certamente un ambiente bello e pacifico, dove la gente rinunciava all’avidità materiale per cercare l’equilibrio dello spirito. Però tutti si lasciavano andare ad abusi di droga e di sesso, e questo a Malta non interessava. Così dopo due anni lasciò l’isola. In seguito si recò in Canada, girovagò per l’America settentrionale, poi passò nel continente europeo. Viaggiando assaggiava l’acqua di sorgenti famose. In parecchi luoghi la trovò eccellente, ma mai perfetta. Così continuava a spostarsi. Quando non aveva più soldi praticava la chiaroveggenza, trovava le cose perdute e le persone scomparse e in cambio si faceva pagare. A lei non piace ricevere compensi, scambiare un dono ricevuto dal cielo con qualcosa di materiale certamente non è una cosa ben fatta. Ma all’epoca non aveva altro mezzo per vivere. La reputazione della sua capacità divinatoria si stava diffondendo ovunque, così non faceva molta fatica a mettere insieme un po’ di denaro. In Inghilterra le capitò persino di collaborare a un’inchiesta della polizia, trovò il posto dove era nascosto il cadavere di una bambina scomparsa, e i guanti dell’assassino che erano caduti lì vicino. L’assassino fu arrestato e confessò subito il suo crimine. La cosa uscì perfino sui giornali. Ho ritagliato l’articolo, glielo farò vedere, se ne avremo l’occasione. Queste sono le circostanze in cui mia sorella girò per l’Europa, e alla fine «approdò» all’isola di Malta. Erano passati cinque anni da quando aveva lasciato il Giappone. Quell’isola divenne la meta finale della sua peregrinazione. Questo però deve averglielo già raccontato lei, vero? Feci cenno di sì. - Malta durante quella vita vagabonda mi scrisse sempre moltissimo. Capitava naturalmente che qualche impegno le impedisse di farlo, ma di solito una volta alla settimana mi scriveva una lunga lettera. Mi raccontava dov’era e cosa faceva. Eravamo molto unite, noi due, anche se ci trovavamo lontane, ed entro un certo limite tramite la scrittura potevamo comunicare e condividere i nostri sentimenti. Erano lettere veramente stupende. Se le leggesse, sono sicura che anche lei capirebbe che meravigliosa persona è mia sorella. Attraverso le sue lettere sono venuta a conoscere diversi aspetti del mondo. Ho appreso l’esistenza di persone estremamente interessanti. Sono state un forte stimolo, le sue lettere, e mi hanno aiutata a crescere. Di questo io sono profondamente grata a mia sorella, non ho intenzione di negarlo. Le lettere però, in fin dei conti sono solo lettere. Io ero in piena adolescenza, un periodo difficile, e avevo bisogno di averla fisicamente vicina, mia sorella maggiore. Ma lei era sempre assente, in qualche posto lontano. La cercavo e lei non c’era. Mi sentivo sola, in famiglia. La mia vita era triste. Provavo grandi sofferenze, di queste le parlerò in seguito più dettagliatamente, e in questo modo ho trascorso l’adolescenza. Non avevo nessuno con cui consigliarmi. In quel senso ero sola come lo era stata Malta. Se a quel tempo avessi avuto mia sorella vicina, penso che la mia vita probabilmente sarebbe stata un po’ diversa da quella che è diventata. Malta mi avrebbe dato validi consigli e mi avrebbe soccorsa. Ma ormai non serve a niente rivangare queste cose. Malta doveva trovare la propria strada da sola, e dopo tutto anche io ho dovuto trovare da sola la mia. Quando compii vent’anni, ero determinata a togliermi la vita. Creta prese in mano la tazza e bevve il caffè che restava. -Che buono, questo caffè! - disse. -Grazie, - risposi io prendendo apposta un tono casuale, - ci sono delle uova sode che ho appena fatto bollire, se ne ha voglia non faccia complimenti. Lei esitò un po’, poi disse che ne avrebbe preso una. Portai dalla cucina le uova e il sale, poi riempii di nuovo le tazze. Lentamente sbucciammo le uova, le mangiammo, e bevemmo il caffè. Nel frattempo suonò il telefono, ma io non risposi. Dopo quindici o sedici volte, gli squilli cessarono. Anche Creta sembrava non far caso al telefono. Quando ebbe finito di mangiare il suo uovo, prese dalla borsetta di vernice bianca un fazzoletto e si asciugò gli angoli della bocca. Poi tirò giù l’orlo della gonna. -Quando presi la decisione di morire, volli scrivere il mio testamento. Mi sedetti alla scrivania e per un’ora cercai di spiegare le ragioni del mio gesto. Volevo lasciare scritto che non era colpa di nessuno, che le ragioni del mio suicidio erano tutte dentro di me. Non volevo che dopo qualcuno si immaginasse a torto di esserne responsabile. Però non riuscii a portarlo a termine, quel testamento. Provai e riprovai a scriverlo non so quante volte, ma quando lo rileggevo mi faceva l’effetto di uno scherzo terribilmente stupido. Al punto che più cercavo di redigerlo seriamente, più aveva l’aria di una farsa. In conclusione decisi di lasciar perdere, non serviva a nulla preoccuparmi di quello che sarebbe successo dopo la mia morte. Strappai in mille pezzi quegli abbozzi di testamento e li gettai. Semplicemente ero delusa della mia vita, mi dissi, tutto lì. Non potevo sopportare oltre le mille sofferenze d’ogni tipo che continuavano ad affliggermi. Avevo patito per tutti quei vent’anni, per vent’anni la mia vita non era stata altro che un seguito ininterrotto di sofferenze. Però fino ad allora mi ero sempre sforzata bene o male di resistere, avevo fatto tutto quello che era in mio potere, su questo avevo la coscienza tranquilla. Potevo dichiararlo a testa alta, ero giunta al limite umano di sopportazione, non ero tipo da abbandonare tanto facilmente la lotta. Ma arrivata a vent’anni, all’improvviso avevo capito che in realtà la vita non valeva tanta fatica. Erano stati vent’anni sprecati, quel supplizio non potevo sopportarlo oltre. In silenzio, Creta si mise a spianare gli angoli del fazzoletto bianco che aveva posato sulle ginocchia. Quando abbassava gli occhi, le ciglia finte nere mettevano un’ombra tranquilla sul suo viso. Io mi schiarii la gola. Forse era il caso di fare qualche commento, ma non sapendo cosa dire stetti zitto. Lontano sentii il verso dell’uccello-giraviti. - La ragione per cui avevo deciso di togliermi la vita, erano tutte quelle sofferenze, quei dolori che mi tormentavano, - riprese Creta. - Non è una metafora, non sto parlando di problemi spirituali, intendo proprio sofferenze fisiche, puramente fisiologiche. Dolori elementari, quotidiani, e soprattutto acutissimi. Per parlare concretamente, mal di testa, mal di denti, dolori mestruali, mal di pancia, blocchi muscolari, sfebbrate, reumatismi, bruciori, geloni, legamenti strappati, fratture ossee, contusioni… questo genere di dolori, insomma. Di cui ho patito molto più frequentemente e in maniera molto più intensa di qualunque altra persona. Prenda i miei denti, dovevano avere dei difetti congeniti perché mi facevano male da qualche parte tutto l’anno. Li lavavo più scrupolosamente possibile non so quante volte al giorno, mi astenevo dal mangiare dolci, tutto inutile, non serviva a nulla. Per quanto me ne prendessi cura, finivano sempre per cariarsi. Per di più la mia costituzione fisica è tale che gli anestetici mi fanno poco effetto, quindi per me andare dal dentista era un incubo. È impossibile spiegare quanto soffrissi, ero terrorizzata. I miei dolori mestruali erano atroci. Io ho un flusso estremamente abbondante che dura una settimana, per una settimana intera tutto il basso ventre mi faceva male come se venissi trivellata da un trapano, e il mal di testa mi tormentava. Probabilmente lei non può capire, ma provavo un dolore tale che mi venivano le lacrime agli occhi. Per una settimana al mese, subivo quella specie di tortura. Quando prendevo l’aereo, per la variazione della pressione atmosferica mi sembrava che la testa mi si dovesse spaccare. Il medico disse che doveva essere a causa della struttura delle mie orecchie, succede, quando l’interno dell’orecchio ha una forma molto sensibile ai mutamenti di pressione. La stessa cosa mi capitava quando prendevo l’ascensore. Perciò non lo prendevo mai, neanche in un grattacielo. Altrimenti venivo assalita da un dolore tale da temere che la testa mi scoppiasse e il sangue schizzasse fuori. Inoltre almeno una volta alla settimana ero presa da tali bruciori di stomaco che il mattino quando mi svegliavo non riuscivo ad alzarmi. Non so quante volte sono andata all’ospedale per fare delle analisi, ma non hanno mai trovato una causa plausibile. Mi dicevano che magari si trattava di un fatto psicosomatico. Psicosomatico o no, il dolore è dolore. Comunque anche in quelle occasioni non mi era permesso saltare la scuola. Se mi fossi assentata ogni volta che avevo male da qualche parte, avrei finito col non andarci più. Se urtavo contro qualcosa, mi restava un livido permanente. Ogni volta che mi guardavo nello specchio del bagno mi veniva da piangere, avevo lividi neri su tutto il corpo, sembravo una mela ammaccata. Per cui detestavo farmi vedere in costume da bagno, non avevo memoria di essere mai andata a nuotare. Altra cosa, i miei piedi sono di grandezza diversa, così per me mettere delle scarpe nuove era un tormento. Il risultato era che non facevo quasi nessuno sport, ma una volta quando ero alle medie mi lasciai convincere dai miei compagni ad andare a pattinare. Feci una brutta caduta urtando violentemente le reni, e da allora all’arrivo dell’inverno quella parte del corpo mi dava fitte lancinanti. Come se venissi brutalmente trafitta da uno spillone. Mi è successo non so quante volte di non riuscire ad alzarmi dalla sedia e rotolare giù per terra. Ero anche terribilmente stitica, e andare di corpo ogni tre o quattro giorni era uno strazio. I muscoli della spalle mi si irrigidivano terribilmente, diventavano duri come pietre e mi facevano così male che non riuscivo a stare in piedi. Stendermi non serviva a nulla. In un libro, ho letto di un’antica tortura cinese che consisteva nel chiudere una persona per anni in una stretta scatola di legno. Doveva essere un dolore molto simile a quello che provavo io. Potrei continuare quest’elenco all’infinito. Ma finirei coll’annoiarla, e quindi smetto qui. Quello che volevo farle capire è che il mio corpo era un vero e proprio campionario di sofferenze. Tutti i dolori possibili e immaginabili erano radunati in me. Pensavo di essere vittima di qualche maleficio. Potevano dirmi quel che volevano, per me la vita era qualcosa di negativo e ingiusto. Se soffrire in quel modo fosse stata la sorte comune a tutti, forse avrei potuto accettarla. Ma non era così. Il dolore è qualcosa di estremamente iniquo. Provai a interrogare al riguardo parecchie persone, ma nessuno in realtà capiva di cosa volessi parlare. A questo mondo la maggior parte della gente passava le sue giornate senza quasi provare dolore. Dovevo avere tredici o quattordici anni quando ne presi coscienza, e mi sentii invadere da una tale tristezza che mi venne da piangere. Perché solo io nella vita dovevo portare un fardello così pesante? Questo pensai. Potendo, avrei preferito morire subito. Contemporaneamente mi dicevo che la situazione non poteva continuare in quel modo indefinitamente, un mattino mi sarei svegliata senza dolori, sarebbero spariti all’improvviso così, senza spiegazioni, non potevo dubitarne. Sarebbe cominciata una vita nuova e facile senza sofferenze. Però non ne ero tanto convinta. Provai a confidarmi spassionatamente con mia sorella Malta, le dissi che ero stufa di condurre quello strazio di esistenza. Cosa potevo fare? Malta ci pensò un po’ su: «Per quel che ti riguarda, - disse poi, - anche a me sembra che ci sia veramente qualcosa di sbagliato. Ma in cosa consista lo sbaglio non lo so neanch’io. E non so neppure cosa sia opportuno fare, non ho ancora la capacità di dare un responso del genere. Tutto quello che posso dire, è che è meglio aspettare che tu abbia vent’anni. Cerca di resistere fino a quando avrai vent’anni, poi potrai decidere molte cose». Così mi disse mia sorella. Per questa ragione, decisi di provare a vivere fino a vent’anni. Ma il tempo passava, e la situazione non cambiava assolutamente in nulla. Anzi, i dolori aumentarono e divennero anche più forti di prima. Una sola cosa mi era chiara, più il mio corpo si sviluppava, più soffriva. Eppure per otto anni tenni duro. In quell’arco di tempo vissi con un solo pensiero in mente, far passare gli anni. Non mi lamentai più con nessuno. Per quanto soffrissi, cercai di mostrarmi sempre sorridente. Mi esercitavo ad assumere un’espressione tranquilla come se nulla fosse anche quando il dolore era troppo forte per stare in piedi. Piangere e lamentarsi infatti non serviva a nulla, non leniva certo il dolore. Anzi, mi sarei solo sentita troppo infelice. Grazie ai miei sforzi, invece, mi facevo amare da tante persone. La gente pensava che io fossi una ragazza tranquilla e simpatica, mi ero conquistata la fiducia degli adulti, e fatta tanti amici della mia età. Se a quel punto il dolore fosse scomparso, avrei potuto ritenermi più che soddisfatta della mia giovinezza. Però il dolore era sempre lì. Era come la mia ombra. Se io me ne dimenticavo anche solo per poco, subito veniva a colpirmi con una staffilata in qualche parte del corpo. Quando entrai all’università mi misi con un ragazzo, e nell’estate del primo anno persi la verginità. Anche quell’esperienza come prevedibile non fu altro che sofferenza. Le mie amiche più esperte mi dicevano «non ti preoccupare, se porti un po’ di pazienza poi ti abitui, e il dolore passa». Invece non passava, per quanta pazienza portassi. Ogni volta che facevo l’amore con il mio ragazzo piangevo per il dolore. Per me avere rapporti sessuali era diventato un supplizio. Un giorno dissi al mio ragazzo che ero innamorata di lui, però una cosa tanto dolorosa non la volevo più fare. Lui ne fu sconcertato, dichiarò che non aveva mai sentito dei discorsi così sconclusionati. «Hai di sicuro dei problemi psicologici, - mi disse, - dovresti cercare di rilassarti di più. Se ti rilassi il dolore passa, e provi anche piacere. È una cosa che fanno tutti, no? Non c’è ragione che non la faccia anche tu. Cerca di sforzarti un po’, non essere così egoista. Tu i problemi li definisci tutti dolori. Non serve a niente, lamentarsi sempre». A sentire quelle parole tutta la pazienza che avevo avuto fino ad allora esplose letteralmente dentro di me. «Non è uno scherzo, - risposi, - cosa ne sai tu del dolore? Quello che provo io non è qualcosa di normale, conosco tutti i tipi possibili e immaginabili di dolore, io. Quando dico che ho male, è perché ho male veramente». Così gli dissi. Poi gli spiegai per filo e per segno, una dopo l’altra, tutte le sofferenze che avevo sperimentato fino ad allora. Però lui non comprese quasi nulla. Il vero dolore, le persone che non ne hanno mai fatto l’esperienza non lo possono capire. E così ci separammo. Arrivò il giorno del mio ventesimo compleanno. Per tutti quegli anni avevo sopportato in silenzio, pensando che a un certo punto poteva anche verificarsi uno stravolgimento della situazione. Ma non c’era stato. Ero veramente delusa. Avrei dovuto morire prima. Con quella diversione avevo solo prolungato le mie sofferenze. Dopo questa dichiarazione, Creta fece un lungo sospiro. Davanti a lei erano posati il piattino con le bucce dell’uovo e la tazza vuota. Sulle ginocchia coperte dalla gonna il fazzoletto accuratamente piegato. Come per una preoccupazione improvvisa, gettò un’occhiata alla sveglia posata sulla scaffale. -Mi scusi, - disse a voce bassa e secca, - il discorso si è fatto molto più lungo di quanto volessi. Se approfitto ancora del suo tempo finirò col diventare importuna. Ho parlato, parlato, e ho detto delle sciocchezze. Non so veramente come scusarmi. Pronunciate queste parole si mise sulla spalla la cinghia della borsa di vernice bianca e si alzò dal divano. -Aspetti un momento, - dissi precipitosamente. Non ci mancava altro che lasciasse il discorso a metà a quel punto! -Se si preoccupa di farmi perdere tempo, stia tranquilla, non ho niente da fare tutto il pomeriggio. Visto che mi ha raccontato tutta questa storia, perché non arriva fino in fondo? Credo che il discorso non finisca qui, no? -Certo che non finisce qui, - rispose Creta restando in piedi e guardando in giù verso di me. Teneva stretta con tutte e due le mani la cinghia della borsa. - Quello che le ho raccontato finora, si può dire che è solo l’introduzione. Le dissi di aspettare un momento lì dov’era, e andai in cucina. Appoggiato al lavello feci due profondi respiri, poi tirai fuori dalla credenza due bicchieri e ci misi del ghiaccio. Presi dal frigo un cartone di succo d’arancia, lo posai con i due bicchieri su un piccolo vassoio e portai il tutto nel soggiorno. Nonostante avessi impiegato un po’ di tempo per compiere con calma quei semplici gesti, Creta era rimasta in piedi dove l’avevo lasciata. Quando posai il succo d’arancia davanti a lei, però, sembrò ripensarci e si sedette nuovamente sul divano con la borsa sulle ginocchia. -Veramente per lei non fa niente? - mi chiese come per assicurarsene, - se le racconto proprio tutto fino alla fine. -È evidente, - risposi. Creta bevve metà del succo di frutta, poi riprese il racconto. -Ovviamente la mia decisione di togliermi la vita fallì, questo ormai credo che l’abbia capito. Se avessi avuto successo, non sarei qui seduta a bere un succo d’arancia con lei, - disse guardandomi fisso negli occhi. In segno di approvazione io sorrisi leggermente. - Se fossi morta secondo il mio piano, per quel che mi riguardava i problemi sarebbero stati definitivamente risolti. La mia coscienza sarebbe scomparsa per sempre, e non avrei mai più sentito alcun dolore. Questo era quanto desideravo. Ma per sfortuna scelsi il mezzo sbagliato. La sera del 29 maggio alle nove andai nella stanza di mio fratello, e gli chiesi di prestarmi la macchina. Lui prese un’espressione un po’ seccata perché la macchina era nuova, l’aveva appena comprata, ma io non ci badai, per comprarla mi aveva chiesto dei soldi in prestito, e non aveva modo di rifiutare. Presi le chiavi, salii su quella Toyota MR2 nuova fiammante, e feci un giro di una mezz’ora. La vettura aveva fatto solo milleottocento chilometri, era leggera, e quando si schiacciava l’acceleratore in un attimo prendeva velocità. Era esattamente quello di cui avevo bisogno. Arrivando vicino all’argine del fiume Tama, vidi un solido e spesso muro di pietre, doveva essere la recinzione esterna di qualche condominio. Inoltre, per una fortunata circostanza si trovava in fondo a una strada che formava un incrocio a T. Mi misi a una distanza sufficiente per prendere velocità, e spinsi a fondo l’acceleratore. Andai a sbattere frontalmente contro quel muro ai centocinquanta all’ora. Appena l’estremità anteriore della macchina lo urtò, io persi conoscenza. Per mia disgrazia, però, quel muro era molto meno solido di quanto sembrasse. Forse gli operai l’avevano costruito male, o non avevano ben piantato le fondamenta. Fatto sta che crollò, e il cofano della macchina letteralmente si appiattì. Ma fu tutto. L’urto era stato completamente assorbito dal muro troppo fragile e in più, forse a causa della confusione che avevo in testa, mi ero dimenticata di slacciarmi la cintura di sicurezza. E così mi salvai. Non solo, non riportai quasi ferite. E la cosa strana è che non sentivo quasi dolore. Avevo l’impressione di essere vittima di un incantesimo. Fui trasportata all’ospedale, dove mi fu prontamente rimessa a posto la costola che mi ero incrinata. La polizia venne a fare la sua inchiesta, ma io dissi che non ricordavo nulla, probabilmente mi ero sbagliata e avevo schiacciato l’acceleratore al posto del freno. Credettero a tutto quello che dichiarai. Avevo appena compiuto vent’anni, ed erano solo sei mesi che avevo la patente. Inoltre dall’aspetto non sembravo tipo da suicidarmi. E tanto per cominciare non c’è nessuno che cerchi di ammazzarsi con la cintura di sicurezza allacciata. Quando lasciai l’ospedale dovetti affrontare diversi problemi pratici piuttosto complicati. Prima di tutto c’erano da pagare le rate di quella MR2 ridotta a un rottame. Per disgrazia, per un piccolo errore nella stesura della pratica, la macchina non era ancora coperta dall’assicurazione. Se il risultato era quello, sarebbe stato meglio noleggiare un’automobile con tutte le carte in regola. Ma figurarsi se avevo la testa a cose del genere, quando l’avevo presa in prestito; come potevo immaginarmi che quella stupida macchina di mio fratello non era assicurata, e in più che avrei fallito il mio suicidio! Mi ero lanciata ai centocinquanta all’ora contro un muro di pietre, era un miracolo che fossi ancora viva. Poco dopo dall’amministrazione del condominio arrivò una richiesta di rimborso delle spese di riparazione del muro. Sulla fattura c’era segnato 1 364 294 yen. Dovevo pagare anche quelli. E immediatamente, in contanti. Non potei far altro che farmi prestare i soldi da mio padre e pagare. Lui però era una persona molto precisa nelle questioni di denaro, mi domandò di restituirgli quella somma chiedendo un prestito in banca. «La responsabilità di quest’incidente è tua, - disse, - devi pagare il tuo debito fino all’ultimo yen». A essere onesti bisogna dire che neanche lui aveva soldi da buttar via, all’epoca; stava facendo dei lavori di ristrutturazione nella clinica, e aveva sempre mal di testa a furia di fare calcoli. Pensai di nuovo al suicidio. Questa volta ero decisa a morire sul serio. Mi sarei buttata giù dal quindicesimo piano dell’edificio principale dell’università, in quel modo sarei morta di sicuro, non correvo il rischio di sbagliarmi. Non so quante volte feci perlustrazioni preliminari, mi assicurai anche che ci fosse una finestra dalla quale poter saltare. Per un pelo, stavo veramente per lanciarmi nel vuoto. Però quella volta qualcosa mi fermò. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa dentro di me che non mi convinceva. È che all’ultimo momento mi trattenne, alla lettera, come se mi frenasse da dietro. Mi ci volle un bel po’ di tempo per capire di cosa si trattava. Non avevo più male. Da quando avevo provocato quell’incidente ed ero finita all’ospedale, non avevo quasi più sentito alcun dolore. Diversi eventi si erano susseguiti uno dopo l’altro, e nell’agitazione di quei momenti non me ne ero resa conto, ma ogni sofferenza fisica era svanita. Andavo di corpo regolarmente, le mestruazioni non erano più dolorose, le spalle non mi si bloccavano più. Persino la costola incrinata non si faceva più sentire. Non riuscivo neppure a spiegarmi perché tutto ciò fosse successo. Ma comunque fossero andate le cose, il dolore vero e proprio se ne era andato. Perché non provare a vivere ancora un po’, già che c’ero? mi dissi. La cosa mi interessava. Volevo sapere che gusto avesse la vita senza dolore, anche solo per poco. Per morire avevo sempre tempo. Continuare a vivere, però, significava che dovevo pagare tutti i miei debiti, che ammontavano a più di tre milioni di yen. È per questa ragione, per restituire quei soldi, che divenni una prostituta. -È diventata una prostituta? - ripetei sbalordito. -Sì, - rispose Creta come se parlasse di un dettaglio insignificante. - Avevo bisogno di denaro entro breve tempo. Volevo saldare i miei debiti il più presto possibile, e non avevo altro mezzo efficace di guadagnare. A quel punto non ebbi alcuna esitazione. Avevo pensato sul serio di morire, dicendomi che tanto prima o poi ci si arriva tutti. Ma proprio nel momento in cui lo pensavo, la curiosità di un’esistenza senza dolore mi aveva temporaneamente prolungato la vita, tutto lì. In confronto alla morte, il fatto di vendere il mio corpo non aveva nulla di drammatico. -In effetti. Creta girò con la cannuccia il succo di frutta dove il ghiaccio si era sciolto, e ne bevve un sorso. -Posso farle una domanda? - chiesi. -Certo. Dica pure. -Lei riguardo a questa storia non si è consigliata con sua sorella? -Mia sorella all’epoca stava facendo pratica ascetica nell’isola di Malta. E in quel periodo non mi comunicò mai il suo indirizzo. Poteva essere d’intralcio agli esercizi, disturbare la concentrazione. Per cui durante i tre anni in cui lei è stata a Malta non ho quasi potuto scriverle. -Ho capito, - dissi. - Vuole ancora un po’ di caffè? -Grazie, volentieri, - rispose Creta. Andai in cucina e scaldai il caffè. Mentre aspettavo sospirai profondamente parecchie volte, osservando il ventilatore. Quando il caffè fu caldo lo versai in due tazze pulite, che misi su un vassoio insieme a un piattino che riempii di biscotti al cioccolato. Portai tutto in soggiorno, e per un po’ bevemmo il caffè e mangiammo i biscotti. -Quand’è stato, che lei ha tentato di suicidarsi? - chiesi. -Quando ho compiuto vent’anni, quindi sei anni fa, nel maggio del ‘78, - rispose Creta. Nel maggio del ‘78. Era quando ci eravamo sposati noi. Proprio in quel periodo Creta pensava al suicidio, e Malta faceva pratica ascetica nell’isola di Malta. -Andavo in un quartiere affollato, mi rivolgevo al primo che mi sembrasse andar bene, - riprese a raccontare Creta, - discutevo il prezzo, lo portavo in un albergo vicino e andavo a letto con lui. Avere rapporti sessuali ormai non mi procurava più il minimo dolore. Neanche il minimo piacere, però. Erano semplici movimenti fisici. Né provavo ripugnanza a ricevere del denaro in cambio di rapporti sessuali, ero anestetizzata da un’insensibilità talmente profonda che non ne capivo neanch’io la gravità. In quel modo mi feci un sacco di soldi. Nel primo mese riuscii a mettere da parte quasi un milione, a quel ritmo, in tre o quattro mesi sarei riuscita a rimborsare facilmente tutti i miei debiti. Tornavo a casa dall’università, poi la sera andavo in centro, sbrigavo il mio lavoro e alle dieci al massimo ero di nuovo a casa. Ai miei genitori avevo detto che lavoravo come cameriera in un ristorante, e nessuno lo metteva in dubbio. Però non potevo rimborsare tutta insieme una somma troppo grande, avrei destato dei sospetti, avevo deciso di restituire diecimila yen al mese. Il resto lo depositavo in banca. Una sera però, vicino alla stazione, stavo per abbordare uno come al solito, quando tutt’a un tratto da dietro due uomini mi afferrarono per le spalle. Due agenti di polizia, pensai, ma mi resi subito conto che invece erano due mafiosi. Mi trascinarono in una strada secondaria, mi minacciarono mostrandomi una specie di coltello, e mi portarono al loro ufficio nel quartiere. Lì mi cacciarono in una stanza in fondo, mi spogliarono e mi legarono. Quindi mi violentarono parecchie volte. E per tutto il tempo ripresero la scena con un video. Io nel frattempo stavo ferma con gli occhi chiusi e cercavo di non pensare a niente. Non era difficile, tanto non sentivo né dolore né piacere. Poi mi mostrarono il video, dicendomi che se non volevo che venisse diffuso pubblicamente, dovevo entrare nella loro organizzazione e lavorare per loro. Presero la tessera studentesca che avevo nel portafogli, e mi minacciarono di mandare una copia di quel video ai miei genitori; se non accettavo, avrebbero estorto loro del denaro ricattandoli. Non avevo scelta. Risposi che non mi importava, avrei fatto quello che mi domandavano. A quell’epoca ormai ero del tutto indifferente a qualunque cosa mi succedesse. «Se entri nella nostra organizzazione e lavori per noi, - dissero loro, - di sicuro guadagni di meno, noi prendiamo il settanta per cento. Però in compenso ti risparmi la fatica di cercarti i clienti. Non hai neanche da preoccuparti della polizia. In più ti mandiamo dei tipi come si deve, ad abbordare il primo che capita come fai tu, prima o poi finisci strangolata in qualche albergo». Non avevo più bisogno di stare all’angolo delle strade. Quando si faceva sera mi recavo al loro ufficio, poi bastava che andassi all’albergo che mi indicavano. Era vero che mi mandavano degli ottimi clienti. Non so per quale ragione venivo trattata in maniera privilegiata. Forse perché dall’aspetto non sembravo una professionista come le altre, ma una ragazza di buona famiglia. Credo che fossero parecchi i clienti a cui piaceva il mio tipo. Le altre ragazze avevano più di tre clienti al giorno, ma io potevo permettermi di averne solo uno o due. Le altre ragazze tenevano sempre un teledrin nella borsa, e quando venivano chiamate dall’ufficio si recavano in fretta in qualche albergo di quart’ordine dove andavano a letto con uomini di dubbia identità. Nel mio caso invece prendevano sempre regolare appuntamento. E quasi sempre in alberghi come si deve, di prima categoria. Mi capitava anche di recarmi in qualche appartamento. I miei partner di solito erano signori di mezza età, raramente uomini giovani. Una volta alla settimana ricevevo i soldi dall’ufficio. Non erano somme ingenti come prima, ma contando le mance che mi davano personalmente i clienti, non guadagnavo male. Ovviamente ce n’erano anche di quelli che avevano pretese strane, ma a me non importava nulla. Più le richieste erano strane, più soldi mi davano. Sono stata con non so quanti uomini non so quante volte. Di solito era gente che pagava bene. I soldi li mettevo da parte depositandoli in banche diverse. Però, ormai, del denaro me ne infischiavo. Mi sembrava di vivere solo per accertarmi della mia insensibilità. Il mattino quando mi svegliavo, ancora coricata, verificavo se non provavo qualche dolore fisico che si potesse veramente chiamare tale. Aprivo gli occhi, recuperavo lentamente la coscienza, poi controllavo le mie sensazioni fisiche dalla testa ai piedi, per ordine. Nessun dolore, da nessuna parte. Non potevo giudicare se veramente il dolore non esisteva, oppure se ero io che non lo sentivo. In ogni caso, era assente. E non solo il dolore, anche qualunque tipo di sensazione. Poi uscivo dal letto, andavo in bagno a lavarmi i denti, mi spogliavo e facevo una doccia calda. Sentivo il corpo terribilmente leggero, impalpabile, come se non fosse mio. Avevo la sensazione che la mia anima fosse parassita di una materia che non mi apparteneva. Mi guardavo nello specchio, ma l’immagine riflessa mi pareva qualcosa di terribilmente lontano. Una vita senza dolore per tanto tempo era stato il mio sogno. Ma quando si era avverato, in quella nuova realtà indolore non riuscivo a trovare il mio posto. C’era ovviamente una discrepanza, qualcosa che creava in me confusione. Sentivo che la mia persona non era ancorata a nulla al mondo. Io fino ad allora il mondo lo avevo sempre fortemente odiato, avevo odiato la sua mancanza di giustizia e di equità. Ma anche in quello stato di cose, per lo meno io ero io, e il mondo era il mondo. Ora invece il mondo non era più il mondo, e io non ero più io. Ero presa da frequenti crisi di pianto. Durante il giorno mi recavo tutta sola ai giardini imperiali di Shinjuku, o in qualche altro parco, mi sedevo sull’erba e piangevo. Mi succedeva di piangere per un’ora o due di fila. A volte anche ad alta voce. La gente che passava mi guardava sconcertata, ma a me non importava. In quei casi, pensavo a come sarei stata felice se quel 29 maggio fossi morta definitivamente. Però ormai non ero più capace di un gesto del genere. Nella mia insensibilità, avevo perso persino la forza di metter fine alla mia vita. In essa non c’era dolore, ma neanche gioia. Non c’era niente. Solo insensibilità. E persino io non ero più me stessa. Creta fece un profondo respiro, poi prese in mano la tazza e si mise a fissarne l’interno. Piegò un poco la testa da un lato e posò nuovamente la tazza sul piattino. -È stato all’incirca a quell’epoca che ho incontrato Wataya Noboru. -Ha incontrato Wataya Noboru? - feci sorpreso. - Cioè… come cliente, vuol dire? Creta assenti in silenzio. -Però… - cominciai a dire. Mi fermai, soppesai in silenzio le parole. - Non capisco bene. Secondo il racconto di sua sorella, Wataya Noboru l’ha violentata. Si tratta di un episodio diverso? Creta prese in mano il fazzoletto che aveva sulle ginocchia, e di nuovo si asciugò gli angoli della bocca. Poi mi guardò fissandomi a lungo negli occhi. Nelle sue pupille c’era qualcosa che mi turbava. -Mi scusi, ma non potrei avere ancora una tazza di caffè? - chiese. -Certamente, - risposi. Spostai la sua tazza dal tavolino sul vassoio, e andai in cucina a fare il caffè. Affondai le mani nelle tasche dei pantaloni, mi appoggiai al lavello e aspettai che il caffè uscisse. Quando tornai nel soggiorno con la tazza, Creta non era più seduta sul divano. Anche la sua borsa era sparita. E il suo fazzoletto, tutto. Andai a vedere nell’ingresso. Sparite anche le sue scarpe. Cose da pazzi. 

9.

Carenza di energia elettrica e fognatureConsiderazioni di Kasahara May sulle parruccheIl mattino dopo accompagnai Kumiko, poi andai a fare una nuotata alla piscina del quartiere. Il mattino c’è meno gente. Quando tornai a casa mi preparai un caffè, e mentre lo bevevo in cucina mi misi a pensare ai vari episodi dello strano racconto autobiografico che Kanō Creta aveva lasciato a metà. Mi feci tornare in mente a una a una tutte le cose che aveva detto. Più ci pensavo, più mi sembrava strano. Nel frattempo il mio cervello cominciò a funzionare male. Mi venne sonno. Un sonno tale da offuscarmi la coscienza. Mi stesi sul divano, chiusi gli occhi, e mi addormentai subito. E feci un sogno. Nel sogno mi apparve Creta, ma quella che vidi per prima era Malta. Portava un cappello tirolese sul quale era fissata una grossa penna dal colore vivace. C’era una gran confusione di persone (sembrava essere una specie di grande hall), ma la figura di Malta con quel cappello vistoso saltava subito agli occhi. Stava seduta da sola al banco del bar. Davanti a lei era posato un grande bicchiere pieno di qualcosa che sembrava una bevanda tropicale, ma non riuscivo a capire se l’avesse già assaggiata o no. Io ero in giacca e cravatta, la solita cravatta a pallini. Appena la scorgevo, facevo per andare da lei, ma a causa della folla avanzavo molto faticosamente. Quando finalmente raggiungevo il banco, Malta ormai non c’era più. Era rimasto posato lì solo il bicchiere con la bevanda tropicale. Mi sedevo in un angolo e ordinavo uno scotch con ghiaccio. Il barista mi chiedeva che scotch preferivo. Un Cutty Sark, rispondevo. In realtà qualunque marca sarebbe andata benissimo, ma mi era venuta in mente quella. Prima che arrivasse ciò che avevo ordinato, qualcuno da dietro mi prendeva delicatamente il braccio, come se toccasse qualcosa di fragile. Quando mi giravo, vedevo un uomo senza volto. Cioè non riuscivo a capire bene se l’avesse o no, perché il posto dove avrebbe dovuto esserci la faccia era completamento nascosto da un’ombra buia, e non si riusciva a scorgere cosa ci fosse lì dietro. - È da questa parte, signor Okada, - diceva l’uomo. Io facevo per rispondere qualcosa, ma lui non mi lasciava neanche il tempo di aprire la bocca. - Prego, da questa parte. Non abbiamo molto tempo, si sbrighi -. Sempre tenendomi per il braccio mi guidava in fretta attraverso la sala affollata, e usciva in un corridoio. Io non facevo alcuna resistenza e lo seguivo affidandomi a lui. Per lo meno conosceva il mio nome, non poteva essere una persona qualsiasi che agiva a casaccio, come gli capitava. Doveva avere qualche ragione, un obiettivo. L’uomo senza faccia, dopo aver percorso un tratto di corridoio, si fermava davanti a una porta. Sulla porta c’era una targa col numero 208. - Non è chiusa a chiave. Apra lei, per favore, - diceva. Io aprivo secondo le sue istruzioni. Entravo in una grande stanza, sembrava una suite di un vecchio albergo. Il soffitto era alto, con un lampadario in stile antico. Però non era acceso, solo delle piccole  appliques sulle pareti diffondevano una tenue penombra. Le tende alle finestre erano tutte perfettamente tirate. - Se desidera del whisky lì ce n’è quanto ne vuole. Era del Cutty Sark che voleva, vero? Prego, si serva senza fare complimenti, - diceva l’uomo senza faccia indicando un mobile che si trovava subito di fianco alla porta. Poi mi lasciava solo nella stanza e chiudeva la porta senza far rumore. Io, non so perché, ero rimasto pietrificato in mezzo alla stanza, incapace di prendere una decisione. Su una parete della stanza era appeso un grande quadro a olio. Raffigurava un fiume. Per tranquillizzarmi restavo un po’ a guardarlo. Sul fiume splendeva la luna, che illuminava placidamente la riva opposta, ma non riuscivo a vedere bene che sorta di paesaggio fosse. La luce della luna era troppo debole, e tutti i contorni erano vaghi e indefiniti. Intanto mi era venuta una voglia terribile di bere un whisky. Seguendo l’invito dell’uomo senza faccia, cercavo di aprire il mobile pensando di bere un sorso, ma non ci riuscivo. Quelle che sembravano delle porte erano solo dei  trompe-l’oeil abilmente fabbricati. Per un po’ avevo provato a spingere e tirare in qua e in là le sporgenze, ma non c’era verso, non cedevano assolutamente. -Quel mobile non si apre tanto facilmente, signor Okada, - diceva la voce di Creta. Tutt’a un tratto mi ero accorto che lei era lì. Sempre in puro stile primi anni Sessanta. - Ci vuole tempo, per aprirlo. Per oggi è impossibile. È meglio che ci rinunci. Davanti ai miei occhi Creta si toglieva rapidamente i vestiti e restava completamente nuda. Come se sbucciasse un fagiolo, senza preamboli né spiegazioni. -Senta, signor Okada, non ho molto tempo. Sbrighiamoci e facciamo una cosa veloce. Sono veramente desolata di non potermi occupare di lei con calma, ma le circostanze non lo permettono. È già stato difficile venire fin qui -. Quindi mi si avvicinava, apriva la cerniera dei miei pantaloni, e come se fosse la cosa più naturale di questo mondo mi tirava fuori il pene. Poi abbassando le palpebre dalle ciglia finte lo prendeva tutto in bocca. La sua bocca era molto più grande di quanto avessi pensato. Il mio pene lì dentro diventava subito duro. Quando lei muoveva la lingua, le punte voltate all’insù dei suoi capelli oscillavano leggermente come mosse da un venticello, e mi accarezzavano le cosce. Tutto quello che io vedevo erano i suoi capelli e le sue ciglia finte. Ero seduto sul letto, e lei in ginocchio sul tappeto teneva la faccia affondata nel mio basso ventre. -Non si può, - dicevo io, - fra poco Wataya Noboru sarà qui. Se mi trova qui sono rovinato. Non lo voglio incontrare, quell’uomo. -Non si preoccupi, - rispondeva Creta staccando la bocca dal mio pene, - abbiamo ancora tutto il tempo. Non si deve inquietare. Poi aveva ripreso a strofinare sul mio membro la punta della lingua. Io non volevo avere un’eiaculazione. Ma sentivo che era inevitabile, avevo la sensazione di venir risucchiato dentro qualcosa. Le sue labbra e la sua lingua erano un corpo vivente e scivoloso che mi attanagliava saldamente. Venni. E mi svegliai. Accidenti, pensai. Andai nel bagno, lavai la biancheria che si era sporcata, e per scacciar via la sensazione di quel sogno appiccicoso feci una doccia calda e mi strofinai scrupolosamente. Probabilmente erano anni che non avevo un’eiaculazione nel sonno. Cercai di ricordarmi quando era successo l’ultima volta ma non ci riuscii, talmente era cosa remota. Uscito dalla doccia, mi stavo strofinando con l’asciugamano quando suonò il telefono. Era Kumiko. Ero appena venuto in sogno con un altra donna, e parlare con lei mi imbarazzava un po’. -Hai un voce strana, è successo qualcosa? - chiese. Lei ha un intuito tremendo per questo genere di cose. -No, niente di speciale, - risposi. - Sono un po’ intontito, mi sono appena svegliato. -Uhm, - fece lei in tono sospettoso. Il suo sospetto mi perveniva attraverso il telefono, e mi metteva ancora più a disagio. - Scusa, ma oggi credo che farò un po’ tardi. Può anche darsi che torni verso le nove. In ogni caso ceno fuori. -Non fa niente. Cenerò da solo con quello che c’è. -Mi dispiace, - aggiunse lei. Lo disse come se se ne fosse ricordata all’ultimo momento. Aspettò qualche secondo, poi riattaccò. Io rimasi qualche istante a guardare il ricevitore, poi andai in cucina, mi sbucciai una mela e la mangiai. Da quando mi sono sposato con Kumiko, sei anni fa, non ho mai fatto l’amore con un’altra donna. Con ciò, non voglio dire che non ho mai provato desiderio per nessun’altra. Né mi sono mancate le occasioni, semplicemente non le ho mai colte. Non so spiegarne bene la ragione, ma credo fosse una questione di gerarchia dei valori nella vita. Soltanto una volta, per l’inaspettato sviluppo di una situazione, mi è capitato di dormire a casa di una ragazza. A me quella ragazza era simpatica, e lei voleva fare l’amore con me. Io questo lo sapevo, eppure non cedetti. Era una che da parecchio tempo lavorava nel mio stesso ufficio, penso che avesse due o tre anni meno di me. Le sue mansioni consistevano nel rispondere al telefono, tenere l’agenda degli altri impiegati e così via, e in queste cose era veramente bravissima. Aveva un buon intuito e una memoria eccellente. Se le si chiedeva chi lavorasse su quale caso e con che incarico, o quali documenti stessero in quale armadio, si poteva essere sicuri che lei lo sapeva. Gli appuntamenti li prendeva tutti lei. Era simpatica a tutti, e godeva della fiducia di tutti. Si può quasi dire che tra me e lei ci fosse una relazione di personale amicizia, e parecchie volte eravamo andati a bere qualcosa insieme. Non era una bellezza, è vero, ma a me la sua faccia piaceva. Il suo fidanzato doveva trasferirsi nel Kyushu per ragioni di lavoro, e così lei per sposarsi doveva lasciare il posto. L’ultimo giorno io e altri colleghi dell’ufficio la invitammo a bere qualcosa con noi. Al ritorno lei prese il mio stesso treno, e siccome era già tardi la accompagnai fino a casa. Quando arrivammo all’ingresso del suo immobile, mi chiese se non volevo entrare un momento a bere un caffè. Io ero preoccupato per l’orario dell’ultimo treno, ma non sapevo se ci saremmo incontrati ancora, inoltre volevo anche smaltire un po’ la sbornia con un buon caffè, così accettai. Il suo era il tipico appartamento di una ragazza che vive sola. C’erano un grande frigorifero e un piccolo impianto stereo che rientrava nella libreria, fin troppo lussuosi per quel tipo di alloggio. Lei mi disse che il frigorifero l’aveva ricevuto gratis da una persona che conosceva. Si cambiò nella stanza accanto con vestiti più comodi, e tornò in cucina a preparare il caffè. Ci mettemmo a chiacchierare seduti tutti e due sul pavimento uno di fianco all’altra. - C’è qualcosa che ti fa paura in modo particolare? Fisicamente, cioè, - mi chiese lei in una pausa della conversazione, come ci avesse pensato in quel momento. -In particolare no, penso di no, - risposi io dopo averci riflettuto un po’ su. Cose di cui avevo paura ce n’erano, ma dovendo indicarne una in particolare, non me ne veniva in mente nessuna. - E tu? -A me fanno paura gli acquedotti sotterranei, le fognature, - rispose lei abbracciandosi le ginocchia con tutt’e due le braccia. - Sai come sono fatte, no, le fognature? Sono canali sotterranei. Corsi d’acqua coperti dove fa un buio pesto. -Le fognature, - ripetei io. Con quali ideogrammi si scriveva? Non me lo ricordavo. -Io sono nata e cresciuta in campagna, nella provincia di Fukushima, e vicinissimo alla mia casa scorreva un fiumiciattolo. Vi finivano le acque di scolo dell’agricoltura, credo, e a un certo punto diventava una fognatura sotterranea. All’epoca avevo due o tre anni, e pare che giocassi con i bambini un po’ più grandi delle case vicine. Mi mettevano su una piccola barca e mi spingevano su quel corso d’acqua, era un gioco che probabilmente facevano spesso. Però una volta, a causa delle forti piogge, il livello dell’acqua era salito, così a un certo punto la barca sfuggì loro di mano, e io venni trascinata dalla corrente dritto dritto verso la bocca della fognatura. Se per puro caso uno dei vicini non fosse passato di lì, sarei stata risucchiata là dentro, e poi chissà dove sarei finita, nessuno avrebbe saputo più niente di me. La ragazza si accarezzò la base della bocca col dito della mano sinistra, come per accertarsi ancora una volta di essere viva. -Me ne ricordo come se fosse adesso, ero caduta supina e venivo trasportata dalla corrente. Gli argini del fiume scorrevano come muri di pietra, e sopra di me vedevo il cielo di un bel blu tersissimo. La corrente mi trascinava sempre più veloce. Non sapevo cosa mi stesse succedendo. Però a un certo punto mi resi conto che lì davanti c’era il buio. E c’era per davvero. Alla fine si sarebbe avvicinato e mi avrebbe inghiottito. Avevo la sensazione che un’ombra gelida fosse sul punto di abbracciarmi. Questo è il primo ricordo della mia vita. Bevve un sorso di caffè. -Ho paura, sai? - disse. - Non posso fare a meno di avere una paura tremenda. Una paura intollerabile. Come quella volta. Mi sembra di venire trascinata a poco a poco proprio lì dentro. E di lì non potrò fuggire. La ragazza tirò fuori dalla borsa una sigaretta, la portò alla bocca, e la accese con un fiammifero. Poi soffiò fuori lentamente il fumo. Era la prima volta che la vedevo fumare. -Stai parlando del tuo matrimonio? - le chiesi. Lei annuì. -Sì, sto parlando del mio matrimonio. -Ma c’è qualche problema concreto, al riguardo? Lei scosse la testa. -No, non penso che si possa parlare di un problema concreto. Evidentemente se entriamo nei particolari non la finisco più… Io non sapevo bene che cosa dire, ma l’atmosfera era tale che non potevo esimermi dal fare un commento. -In questi momenti, quando ci si sta per sposare, forse più o meno tutti a un certo punto proviamo qualcosa del genere, - dissi. - Ci domandiamo se per caso non stiamo per fare un grosso errore. Però è un’inquietudine più che giustificata, scegliere di passare tutta la vita con qualcuno è una decisione grave, è ovvio. Non c’è motivo di angosciarti per questa tua reazione. -È facile dire così. Dite tutti così, siete tutti uguali, - fece lei. Poi, prima che potessi rispondere qualcosa, all’improvvisosi voltò verso di me e mi disse che voleva che la abbracciassi stretta. -Perché? - chiesi io sorpreso. -Vorrei che mi ricaricassi di elettricità, - disse lei. -Ricaricarti di elettricità? -Non ho abbastanza elettricità nel mio corpo, - disse lei. - È da un po’ di tempo che la notte non riesco quasi a dormire. Appena mi addormento dopo un po’ mi sveglio, e non riesco più a chiudere occhio. Non riesco neanche a pensare. Nei momenti come questi bisogna che qualcuno mi ricarichi di energia elettrica, altrimenti non ce la faccio più a tirare avanti. Veramente. Pensando che fosse ubriaca la guardai nel profondo degli occhi. Ma erano i suoi soliti occhi intelligenti e tranquilli, non era affatto ubriaca. -Però, senti, la settimana prossima tu ti sposi. Ti potrai far abbracciare da tuo marito quanto vorrai. Anche tutte le sere. Il matrimonio serve proprio a questo. D’ora in poi non succederà mai più che ti manchi l’energia elettrica. Lei non mi rispose. Strinse le labbra e si limitò a guardarsi in silenzio i piedi, perfettamente accostati l’uno all’altro. Sui piccoli piedi bianchi spiccavano dieci unghie ben formate. -Il problema è adesso, - disse. - Né domani, né la settimana prossima, né il mese prossimo. È adesso che mi manca. Dato che sembrava desiderare davvero di essere coccolata da qualcuno, tanto per farla contenta l’abbracciai. Chissà perché era una sensazione terribilmente strana, lei per me era una collega efficiente e simpatica, lavoravamo nella stessa stanza, scherzavamo, e qualche volta andavamo a bere qualcosa insieme. Però tenendola stretta nel suo appartamento, lontano dal luogo di lavoro, il suo corpo mi sembrava solo una massa di carne tiepida. In fin dei conti, pensai, su quel palcoscenico che era l’ufficio dove lavoravamo, avevamo sempre e solo recitato i ruoli che ci erano stati assegnati. Una volta scesi da quel palcoscenico, tolteci le maschere che indossavamo a beneficio gli uni degli altri, tutti quanti noi eravamo soltanto delle masse di carne instabili e maldestre. Semplici masse di carne calde di vita, dotate di un’ossatura, di un organo digestivo, di un cuore, di un cervello, e di organi sessuali. Io le accarezzavo con la mano la schiena, e lei schiacciava forte i seni contro il mio corpo. A toccarli, i suoi seni erano più grossi e teneri di quanto avessi pensato. Io ero seduto sul pavimento, appoggiato al muro, e lei stava completamente abbandonata su di me. Restammo per molto tempo abbracciati così, senza muoverci e senza dire niente. -Basta così? - le chiesi. Non mi sembrava neanche la mia voce, era come se qualcuno parlasse al mio posto. Sentii che lei annuiva. Indossava una felpa e una gonna leggera che le arrivava alle ginocchia. A un certo punto mi resi conto che sotto non portava niente. Quasi automaticamente ebbi un’erezione. Lei sembrò accorgersene. Per tutto il tempo avevo sentito il suo fiato caldo sul collo. Non feci l’amore con lei. In conclusione per un paio d’ore la «ricaricai di energia». Lei mi pregò di non andarmene lasciandola sola così, di restare lì e tenerla abbracciata finché non si fosse addormentata. Si mise in pigiama. Io la accompagnai fino al letto, e cercai di farla dormire. Invano, per tutto il tempo dovetti tenerla abbracciata e «ricaricarla di elettricità». Nelle mie braccia le sue guance erano diventate caldissime, e sentivo il suo petto battere forte. Non sapevo bene se stessi facendo la cosa giusta o no, ma non riuscivo a immaginare un altro modo di risolvere la situazione. La cosa più semplice sarebbe stata andare a letto con lei, ma in qualche modo avevo escluso quella possibilità. Il mio istinto mi diceva che dovevo fare così. -Senti, non mi prendere in antipatia per quello che è successo stasera. È solo che l’elettricità non mi basta, non so proprio come fare, - mi disse lei. -Non ti preoccupare, ho capito, - risposi. Pensai che dovevo telefonare a casa. Ma quale spiegazione potevo dare a Kumiko? Non mi andava di dire una bugia, ma se le avessi spiegato per filo e per segno le circostanze in cui mi trovavo, lei avrebbe capito male, era ovvio. Finché a un certo punto non me ne importò più niente. Finirà come finirà, pensai. Alle due lasciai la ragazza, e quando arrivai a casa erano le tre. Per trovare un taxi avevo impiegato molto tempo. Kumiko, ovviamente, era furibonda. Mi stava aspettando sveglia, seduta al tavolo della cucina. Le dissi che ero andato a bere qualcosa con dei colleghi, poi avevamo giocato a  majong.  Lei mi chiese perché non le avessi neanche fatto una telefonata. Risposi che mi era del tutto passato dalla testa. Ovviamente lei non ne fu affatto convinta, le fu subito chiaro che stavo mentendo. Erano anni che non giocavo più a majong,  e poi non sono bravo a dire bugie. Non mi restava altro da fare che confessare la verità. Raccontai tutto dall’inizio alla fine, saltando ovviamente il particolare dell’erezione. E giurai che con quella ragazza non avevo fatto niente. Kumiko per tre giorni non mi parlò. Non mi disse neanche una parola. Dormiva in un’altra stanza, e mangiava da sola. Posso affermare che nella nostra vita matrimoniale quella è stata la crisi più grave che abbiamo passato. Lei era seriamente in collera con me, e io la capivo benissimo. -Se tu fossi al mio posto, cosa penseresti? - mi chiese Kumiko dopo tre giorni di silenzio. Erano le sue prime parole. - Se io senza farti una telefonata fossi tornata a casa la domenica mattina alle tre, e ti avessi detto: «Sono stata tutto questo tempo in un letto insieme ad un uomo, però non ti preoccupare, non abbiamo fatto niente. Credimi, l’ho solo ricaricato di energia elettrica. Su, ora facciamo colazione, e poi una bella dormita», tu non ti arrabbieresti? Ci crederesti? Io rimasi in silenzio. -Nel tuo caso è ancora peggio, - continuò Kumiko. - Tu all’inizio mi hai detto una bugia. All’inizio mi hai detto che eri andato in un bar con qualcuno e poi avevate giocato a  majong.  Invece era falso. Perché dovrei credere che non hai fatto l’amore con quella lì? Perché dovrei credere che non menti di nuovo? -Ho fatto malissimo a dirti una bugia, - dissi. - Ma se all’inizio ho mentito, era solo perché spiegarti tutto era troppo complicato. Non è facile giustificare una situazione del genere. Però vorrei che tu credessi almeno questo, che non ho fatto niente di male. Kumiko rimase per un po’ con la faccia buttata sul tavolo. L’aria intorno a poco a poco sembrava diventare più leggera. -Non riesco a esprimermi bene, ma vorrei che tu mi credessi, non ho altro modo per convincerti, - aggiunsi. -Se tu mi dici che vuoi che io ti creda, io ti credo, - disse lei. - Però ricordati solo una cosa. Può darsi che un giorno io mi comporti allo stesso modo nel tuoi confronti. Quel giorno dovrai credere a quello che ti dirò. Ho il diritto di domandarti questo. Lei di quel diritto non aveva ancora usufruito. Ogni tanto provavo a pensare a quando sarebbe successo. Chissà se avrei creduto a quello che mi avrebbe detto. Forse. O magari mi sarei sentito disorientato, avrei trovato l’idea insopportabile. Mi sarei chiesto perché mai era andata a fare apposta una cosa del genere. E quello doveva essere esattamente il sentimento che Kumiko aveva provato quella volta nel miei confronti. -Signor Uccello-giraviti! - chiamò qualcuno dal giardino. Era la voce di May. Uscii sulla veranda asciugandomi i capelli. La trovai appoggiata lì, che si mordeva l’unghia del pollice. Portava degli occhiali da sole molto scuri come la prima volta che l’avevo incontrata, dei pantaloni di cotone color crema e una polo nera. In mano teneva un contenitore per fogli. -Sono passata di lì, - disse indicando il muro di cemento. Poi si pulì la polvere che era rimasta attaccata ai pantaloni. - Sono andata un po’ a lume di naso, per fortuna sono atterrata nel suo giardino. Pensi che casino se fossi entrata a casa di qualcun altro scavalcando il muro di cinta. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le sigarette e se ne accese una. -Comunque, lei sta bene, signor Uccello-giraviti? -Più o meno… - risposi. -Senta, sto andando in quella ditta, perché non viene anche lei? È un lavoro che si fa in due, anch’io preferisco farlo con una persona che conosco. Cioè, se è qualcuno che incontro per la prima volta mi fa un sacco di domande. Quanti anni ho, perché non vado a scuola, e tutte quelle cavolate lì, una bella rottura di palle. Magari mi capita un maniaco. Non è esclusa, sa, una cosa del genere. Perciò, se accetta di venire, anche lei fa un piacere a me. -Si tratta di quelle inchieste di cui mi hai parlato l’altra volta, per il fabbricante di parrucche? -Sì, - disse lei. - Bisogna solo contare il numero delle persone calve che passano per Ginza. È semplicissimo. Inoltre potrà tornare utile anche a lei. Perché comunque prima o poi lei i capelli li perde, sa, è meglio che cominci a guardarsi intorno e a farsi una cultura fin da ora. -Ma senti un po’, non dai nell’occhio ad andartene in giro così per Ginza durante il giorno invece di essere a scuola? Qualche poliziotto non ti ha mai detto niente? -Basta che racconti che sto facendo un’inchiesta sul territorio per la lezione di educazione civica. Li frego sempre con questa storia, nessun problema. Non avendo impegni particolari decisi di accompagnarla. May telefonò alla ditta in questione, e disse che saremmo arrivati subito. Al telefono si esprimeva con un linguaggio corretto ed educato. - Sì, conto di svolgere il lavoro insieme a questa persona. Sì, certamente, non si preoccupi. La ringrazio. Sì, capisco. Va benissimo. Penso che arriveremo poco dopo le due -. Lasciai un biglietto che sarei rientrato prima delle sei nel caso Kumiko fosse tornata a casa presto, e uscii di casa insieme a May. La manifattura di parrucche era a Shinbashi. In metropolitana May mi spiegò brevemente le modalità dell’inchiesta. Le istruzioni erano queste, dovevamo metterci all’angolo di una strada e contare i calvi o quelli con pochi capelli che passavano di lì. Quindi dovevamo dividerli in tre categorie secondo il grado di progressione della calvizie: quelli che avevano i capelli un pochino radi, quelli che avevano i capelli molto radi e quelli completamente calvi. Avremmo usato i nomi che nei ristoranti danno ai menu a prezzo fisso:  prugno, bambù, pino.  Lei apri il contenitore, tirò fuori i dépliant che servivano per l’inchiesta e mi mostrò diversi esempi concreti di calvizie. Ogni caso era classificato in  prugno, bambù o  pino a seconda del grado di gravità:-Questi esempi illustrano grosso modo quali criteri si devono adottare, in che categoria classificare una persona a un determinato punto di progressione della calvizie. Più o meno si capisce chi va in che gruppo, no? Certo se uno si mette ad andare per il sottile non si finisce più, basta una cosa approssimativa. -Sì, più o meno penso di aver capito, - risposi io in tono non troppo sicuro. Vicino a lei era seduto un uomo grasso che continuava a lanciare occhiate imbarazzatissime a quei dépliant, doveva essere un impiegato ed era chiaramente arrivato al grado  bambù.  May non sembrava curarsene affatto. -Io sono responsabile della divisione in  prugno, bambù e pino.  Lei mi sta di fianco, e ogni volta che io dico  bambù,  o  pino,  deve segnarlo sul modulo d’inchiesta. Come le pare, è facile, no? -Be’, sì, - risposi. - Ma mi domando di che utilità potrà mai essere, un’inchiesta del genere. -Questo non lo so, - rispose May. - Ne stanno facendo da tutte le parti di queste inchieste, quelli lì. A Shinjuku, a Shibuya, a Aoyama. Magari stanno cercando di stabilire in quale quartiere ci sono più calvi. Oppure in che proporzione la gente si divide nei tre gruppi. Tanto hanno soldi da buttar via, quelli, possono anche sprecarli in queste cose. Il commercio delle parrucche è un settore che rende un sacco. Prenda i bonus,  sono molto più alti di quelli che danno le grandi ditte di import- export da queste parti. Sa perché? - No. -Perché la vita di una parrucca è molto breve. Forse lei non lo sa, ma durano solo due o tre anni. Le parrucche recenti sono veramente perfette, ma in compenso perdono i capelli a un ritmo terrificante. Dopo due o tre anni al massimo sono da buttar via. E poi siccome aderiscono alla pelle perfettamente, i capelli veri che stanno sotto diventano ancora meno folti, e quindi le parrucche non calzano più bene, bisogna cambiarle. Insomma, se lei portasse una parrucca, e dopo due anni non la potesse più usare, crede che si farebbe un ragionamento di questo tipo: «Be’, questa parrucca si è sfoltita, non va più bene, ma se ne compro un’altra devo sborsare altri soldi, quindi da domani ne faccio a meno, vado in ufficio senza». Riesce a immaginare una cosa del genere? Scossi la testa. -No, penso di no. -Già, infatti. Di conseguenza una volta che uno comincia a portare la parrucca, continua a portarla per tutta la vita. È per questo che i fabbricanti di parrucche guadagnano un sacco di soldi. Lo so che non sta bene dirlo, ma sono come i trafficanti di droga. Una volta che si è adescato un cliente, quello resta cliente per sempre. Per lo meno finché vive. È ovvio, non s’è mai sentito che a un calvo tutt’a un tratto siano ricresciuti i capelli. Una parrucca di solito costa sul mezzo milione. Quelle confezionate meglio anche un milione. E la si cambia ogni due anni, un bel salasso, no? Più di un’automobile; un’automobile la si usa per quattro o cinque anni e la si può rivendere. Una parrucca invece ha un ciclo molto più corto. E non la si può neanche rimettere sul mercato. -In effetti. -Inoltre i fabbricanti di parrucche gestiscono in proprio dei saloni speciali di parrucchiere. I clienti vanno lì, per farsi lavare le parrucche e tagliare i capelli, a spese proprie. È evidente, no? Mica uno va da un parrucchiere qualunque, si siede davanti allo specchio, hop! si toglie la parrucca, e fa: «Be’, mi dia un po’ una spuntatina ai capelli!» Sarà un po’ difficile, no? Già solo con quei saloni di bellezza guadagnano un casino. -Ne sai di cose, tu! - dissi pieno di ammirazione. L’impiegato di grado  bambù seduto vicino a noi tendeva spasmodicamente le orecchie alla nostra conversazione. -Sì, be’ con quelli che lavorano lì siamo amici, gli ho chiesto un sacco di cose, - disse May. -In pratica non possono che fare soldi a palate. Le parrucche le fanno confezionare nei paesi del sudest asiatico o in posti del genere, dove il lavoro non costa niente. Anche i capelli li comprano lì. In Thailandia o nelle Filippine. Le ragazze di lì se li tagliano e li vendono ai fabbricanti di parrucche. In certi posti con quei soldi si fanno addirittura la dote per sposarsi. È proprio strano il mondo, vero? Magari i capelli di qualche signore seduto qui vicino a noi, in realtà sono quelli di una ragazza indonesiana. A quelle parole io e l’impiegato  bambù per riflesso ci guardammo intorno nel vagone. Giunti alla ditta di parrucche a Shinbashi, ricevemmo una busta di carta contenente dei moduli e delle matite. La ditta era la seconda come fatturato in quel settore, ma aveva un ingresso estremamente discreto dove i clienti potevano entrare e uscire senza dare nell’occhio, e nessuna insegna sulla facciata. Anche sulla busta e sui moduli il nome della ditta non figurava. Io mi feci registrare come impiegato saltuario, scrissi le mie generalità sul formulario apposito, nome, indirizzo, titolo di studio ed età, e lo consegnai all’ufficio inchieste. Era indubbiamente un posto di lavoro silenzioso, non c’era nessuno che urlasse al telefono, o che battesse trasognato sulla tastiera di un computer con le maniche della camicia arrotolate. Tutti indossavano abiti puliti, e ognuno era assorto in un lavoro tranquillo. Forse in una ditta di parrucche era una cosa normale, ma avevano tutti folte capigliature. Chissà, magari alcuni di loro avevano in testa una parrucca di fabbricazione della casa. Ma non si riusciva a capire chi la portasse e chi no. Di tutte le ditte che avevo visitato fino ad allora, quella era la più strana. Da lì prendemmo la metropolitana e andammo fino alla via principale del quartiere di Ginza. Dato che c’era ancora un po’ di tempo e avevamo fame, entrammo in un Dairy Queen e mangiammo un hamburger. -Dica un po’, signor Uccello-giraviti, - disse May, - se perdesse i capelli, se la metterebbe una parrucca? -Mah, chi lo sa, - risposi. - Non amo le complicazioni, di conseguenza se perdessi i capelli probabilmente resterei senza. -Uhm, molto meglio così, - approvò lei asciugandosi con un fazzoletto di carta il ketchup che le era rimasto agli angoli della bocca. - Perdere i capelli non è una cosa tanto tragica, contrariamente a quanto pensano quelli a cui succede. Non è necessario farne un dramma. -Già, - feci io. Poi andammo a sederci all’ingresso della metropolitana, davanti al Wako Building, e per tre ore contammo le persone con pochi capelli. Sedersi sulle scale di una stazione e guardare dall’alto la testa della gente che sale e scende è il metodo migliore per giudicare esattamente le condizioni dei loro capelli. Quando May diceva  pino,

bambù,  e così via, io lo segnavo sul modulo. Lei sembrava aver l’abitudine a quel lavoro, non fece mai confusione, non ebbe mai esitazioni né le capitò di correggersi. Divideva i gradi di calvizie nei tre gruppi in modo estremamente rapido e sicuro, prugno, bambù, pino,  diceva brevemente e a bassa voce, in modo da non destar sospetti in quelli che passavano. Quando più persone con pochi capelli passavano tutte insieme, doveva essere velocissima,  prugno-prugno- bambù-pino-bambù-prugno. Una volta un signore anziano dall’aria distinta (lui stesso aveva dei magnifici capelli bianchi) dopo aver osservato per un po’ la nostra manovra, mi interpellò:-Mi scusi, potrei sapere cosa state facendo, lì, voi due? -È un’inchiesta, - risposi brevemente. -Che tipo di inchiesta? - chiese lui. -Un’inchiesta sociologica, - spiegai. - Prugno-pino-prugno, - mi disse May a bassa voce. Lui stette a guardarci ancora un po’ con espressione poco convinta, infine rinunciò e se ne andò. Quando l’orologio all’incrocio suonò le quattro smettemmo. Poi andammo di nuovo al Dairy Queen a bere un caffè. Non era stato un lavoro particolarmente faticoso, ma i muscoli delle spalle e del collo mi si erano stranamente irrigiditi. Poteva anche essere dovuto al senso di colpa che provavo a contare di nascosto il numero delle persone senza capelli. Nel vagone della metropolitana che ci riportava alla ditta a Shinbashi, quando vedevo qualcuno con pochi capelli per riflesso lo catalogavo in  pino, bambù, e così via, il che non era certo una cosa simpatica. Ma per quanto cercassi di smettere, ormai era diventato un riflesso condizionato e non ci potevo far niente. Consegnammo i moduli all’ufficio inchieste, e ritirammo la nostra paga. In considerazione delle ore e del livello del lavoro, non era male. Firmai una ricevuta, e mi misi i soldi in tasca. Con la metropolitana andammo fino a Shinjuku, poi prendemmo la linea Odakyu e tornammo a casa. Era già l’ora di punta serale. Era veramente molto tempo che non salivo su un treno affollato, ma non sentii alcuna nostalgia. -Non è male, no, come lavoro? - mi disse May nel treno. È facile, e pagato discretamente. -È vero, - dissi succhiando una caramella al limone. -La prossima volta viene di nuovo? È circa una volta alla settimana. -Sì, si può anche fare. -Sa cosa penso, signor Uccello-giraviti? - disse May dopo esser rimasta un po’ in silenzio, come se fosse un’idea che le era venuta in mente all’improvviso, - che se la gente ha paura di perdere i capelli, forse è perché è una cosa che fa pensare alla vita che finisce. Insomma ho l’impressione che quando uno perde i capelli abbia la sensazione che nello stesso tempo gli venga strappata via la sua vita. Come se si avvicinasse a grandi passi alla propria morte, all’ultimo spreco. Ci riflettei su. -È vero, è un punto di vista possibile. -Sa, signor Uccello-giraviti, io ogni tanto ci penso: chissà che sensazione si avrà a morire a poco a poco, lentamente, mettendoci tanto tempo? Non capii bene il significato della domanda; sempre tenendomi alla maniglia cambiai posizione per guardare in viso May. -Morire lentamente a poco a poco. Cosa vuoi dire? Fammi un esempio concreto. -Be’, per esempio… ecco, come quando si viene chiusi da soli in qualche posto buio, senza niente da mangiare e da bere, e ci si spegne a poco a poco. -Dev’essere certamente qualcosa di straziante e crudele, - dissi. - Possibilmente non vorrei morire in quel modo. -Però, signor Uccello-giraviti, la vita in fondo non è proprio qualcosa di simile? Non veniamo tutti chiusi in qualche posto buio da qualche parte, dove ci tolgono ogni nutrimento, e gradualmente, lentamente ci avviciniamo alla nostra morte? Piano piano, poco per volta. Io risi. -Tu, per la tua età, ogni tanto hai un modo di vedere le cose terribilmente pessimista. -Pessiché? -Pessimista. Significa tirar fuori e considerare soltanto il lato brutto delle cose. Pessimista, ripetè lei tra sé e sé parecchie volte. -Signor Uccello-giraviti? - disse poi alzando gli occhi e guardandomi fisso in viso. - Io ho solo sedici anni, e il mondo non lo conosco ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo sia, in questo mondo, è proprio un cretino. 

10.

Un tocco magicoMorte nella vasca da bagnoOggetti-ricordoFu nell’autunno del secondo anno di matrimonio che ci trasferimmo nella casa dove viviamo ora. Fino ad allora avevamo abitato in un appartamento a Kōenji, ma l’immobile doveva essere ricostruito, e abbiamo dovuto andarcene. Così ci siamo messi alla ricerca di un alloggio comodo e non troppo caro, ma non era facile trovare qualcosa alla portata della nostra borsa. Saputolo, mio zio mi chiese se provvisoriamente non volevamo abitare nella villetta che lui possedeva a Setagaya. L’aveva comprata quando era ancora giovane e ci aveva vissuto per dieci anni, ma la casa ormai era vecchia e lui avrebbe voluto distruggerla per costruirne una nuova un po’ più funzionale. A causa del piano regolatore, però, non poteva farlo secondo i suoi desideri. Si diceva che entro breve tempo il piano regolatore sarebbe cambiato, ed era proprio ciò che mio zio aspettava, ma se nel frattempo la casa restava disabitata le tasse sarebbero aumentate. E affittarla a estranei non conveniva, al momento di mandarli via sarebbero sorti inevitabilmente dei problemi. Perciò, in compenso delle tasse che pagava lo zio, sarebbe bastato che noi gli versassimo una somma corrispondente all’affitto dell’appartamento a Kōenji, invero piuttosto basso. In cambio, se lo zio ci avesse chiesto di andare via, entro tre mesi dovevamo liberare la casa. Noi non avevamo obiezioni. Non capivamo bene la faccenda delle tasse, ma eravamo già grati di poter vivere anche solo per un tempo limitato in una villetta tutta per noi per un affitto modesto. La stazione della linea ferroviaria Odakyu era piuttosto distante, ma la casa si trovava in un quartiere residenziale molto tranquillo, e aveva anche un giardino. Piccolo, ma c’era. È vero, non eravamo i proprietari, ma una volta trasferitici lì, provammo la sensazione di avere anche noi una casa nostra. Lo zio era il fratello di mia madre, uno che non rompeva le scatole. Credo lo si potesse considerare una persona dal carattere socievole e franco, ma aveva anche un lato un po’ indecifrabile, forse perché non diceva mai nulla di superfluo. Di tutti i miei parenti era il più simpatico. Dopo essersi laureato all’Università di Tokyo, era stato assunto come annunciatore in una stazione radiofonica, dove aveva lavorato per dieci anni, fino al giorno in cui aveva dichiarato che ne aveva abbastanza e aveva lasciato il posto per aprire un bar nel quartiere di Ginza. Era un piccolo bar senza pretese, ma dato che vi si servivano degli ottimi cocktail aveva molto successo, e nel giro di alcuni anni lo zio aveva potuto aprire parecchi altri locali. Pareva che avesse un gran talento per quel genere di attività, e tutti i suoi locali andavano a gonfie vele. Quando ero studente una volta gli avevo chiesto il segreto di tanto successo. A Ginza venivano aperti in continuazione locali come il suo, ma alcuni funzionavano bene e altri fallivano. Non ne capivo la ragione. Lo zio mi mostrò il palmo delle mani: - È un tocco magico, - disse con espressione seria. E non aggiunse altro. È possibile che avesse proprio un tocco magico. Ma non si trattava solo di quello, aveva anche ereditato non si sa da chi il talento di scovare collaboratori veramente capaci. Li pagava bene e li trattava anche meglio, quanto a loro lo adoravano e lavoravano con zelo. - Quando pensi che uno sia la persona giusta, - mi aveva detto una volta, - devi spendere senza remore, e cogliere l’occasione. Ciò che si può comprare col denaro, compralo, è la cosa migliore, non stare tanto a pensare se fai un profitto o una perdita. L’energia superflua, riservala per le cose che non si possono comprare con i soldi. Si era sposato tardi, si era finalmente sistemato quando aveva raggiunto il successo economico, verso la metà della quarantina. Sua moglie era una donna divorziata che aveva tre o quattro anni meno di lui, e anche lei economicamente stava piuttosto bene. Mio zio non diceva dove e in che modo l’aveva conosciuta, né io riuscivo a immaginarlo, ma all’apparenza era una donna tranquilla di buona famiglia. Non avevano figli loro, e lei dal matrimonio precedente pare non avesse potuto averne. Poteva anche darsi che fosse quella la ragione per cui il matrimonio non aveva funzionato. In ogni caso lo zio aveva già più di quarant’anni, e nella sua situazione poteva permettersi di non continuare ad ammazzarsi di lavoro, anche se non si poteva dire che fosse veramente ricco. Oltre a quello che guadagnava con i bar c’erano le rendite delle case e degli appartamenti che affittava, e introiti fissi che gli venivano da investimenti vari. A causa della sua attività nel settore dell’intrattenimento notturno veniva considerato con un po’ di sconcerto nella nostra parentela, che aveva sempre svolto professioni serie e condotto vita riservata, né lui era il tipo che frequentava volentieri i parenti. Però fin da quando ero piccolo si era sempre occupato di me che ero il suo solo nipote. E ancor più dopo la morte di mia madre, l’anno in cui ero entrato all’università. Anche perché con mio padre, che si era risposato, non andavo più tanto d’accordo. Durante il periodo in cui ero studente universitario e vivevo da solo a Tokyo con pochi soldi, lo zio mi faceva spesso mangiare gratis in uno dei tanti locali che possedeva a Ginza. Abitava con la moglie in un appartamento, in un immobile in cima a una collina nel quartiere di Azabu, perché una casa col giardino richiedeva troppe cure. Lui non aveva gusti particolarmente lussuosi, ma aveva un hobby, uno solo, comprare automobili rare, nel garage teneva una vecchia Jaguar e una vecchia Alfa Romeo. Entrambe ormai erano quasi dei pezzi d’antiquariato, ma erano state ben restaurate, e splendevano come neonati. Gli avevo telefonato per non so quale faccenda, e già che c’ero, per curiosità, gli chiesi di Kasahara May. - Kasahara…? - disse lo zio pensandoci un po’ su. - Non mi ricordo di questo nome. Quando abitavo lì non ero ancora sposato, e non frequentavo nessuno dei vicini. -Dietro alla casa di questa Kasahara, dall’altra parte del vicolo, c’è una casa disabitata, - dissi io. - Prima ci abitava un certo Miyawaki, ma adesso non ci sta nessuno, e le persiane sono inchiodate con delle assi. -Miyawaki lo conosco bene, - rispose lo zio. - È uno che una volta aveva parecchi ristoranti. Ne aveva pure uno a Ginza. Ci siamo parlati un sacco di volte, anche per questioni di lavoro. Nei suoi ristoranti, a essere sinceri, non si mangiava un granché, ma erano posti piacevoli gestiti bene. È uno simpatico, quel Miyawaki. Il tipico ragazzo viziato, però… uno di quelli che non invecchiano in maniera adeguata ai loro anni, vuoi che non abbiano mai conosciuto la fatica, vuoi che non la sentano. Si è messo a giocare in Borsa, ha dato retta a uno che gli ha fatto investire una grossa somma in una speculazione rischiosa, così ha perso tanti di quei soldi che ha dovuto vendere tutto, il terreno, la casa, i ristoranti… In più ha scelto proprio il momento sbagliato per aprire un nuovo locale, aveva appena messo un’ipoteca sulla casa e sul terreno. La classica raffica di vento quando hai tolto i puntelli alla staccionata. Mi sembra che avesse due figlie in età da marito. -Da allora non ci abita più nessuno in quella casa, vero? -Sul serio? - fece lo zio. - Non ci abita nessuno? Allora è sicuro che ci sono dei problemi per la proprietà, i beni sono stati bloccati o è successo qualcosa. Però quella casa è meglio che non la compri, sai? Anche se ti facessero un buon prezzo. -Stai tranquillo, buon prezzo o no non c’è pericolo, - risposi ridendo. - Ma perché dici così? -Be’, quando ho comprato la mia casa ho fatto anch’io qualche indagine, sono successe parecchie cose brutte, lì dentro. -Tipo fantasmi o roba del genere? -Non so se siano apparsi dei fantasmi o meno, ma su quel posto non si raccontano storie edificanti, - disse lo zio. - Fino alla fine della guerra ci abitava un militare piuttosto noto di cui non ricordo il nome. Un pezzo grosso dell’esercito, un colonnello che durante la guerra era stato nella Cina settentrionale. Pare che il battaglione comandato da lui si sia distinto per valore, da quelle parti, ma non solo per quello, anche per le atrocità che ha commesso. Si dice che abbiano ammazzato tutti in una volta quasi cinquecento prigionieri di guerra, che abbiano messo ai lavori forzati centinaia di contadini e ne abbiano fatti morire più della metà. Mah, sono solo discorsi che ho sentito fare, di conseguenza non so quanto ci sia di vero. Lui era stato richiamato in patria poco prima che finisse la guerra, e aveva aspettato la fine delle ostilità a Tokyo, ma a giudicare dall’aria che tirava c’erano forti probabilità che venisse accusato di crimini di guerra dal tribunale militare delle Nazioni Unite. Gli MP arrestavano uno dopo l’altro generali e colonnelli che in Cina avevano commesso atrocità. Lui non aveva nessuna intenzione di subire un processo in tribunale. Essere messo alla gogna pubblicamente come un criminale per poi venire impiccato? No grazie. Piuttosto preferiva metter fine da solo alla propria vita. Perciò quando vide una jeep dell’esercito americano fermarsi davanti alla sua casa e scenderne un soldato, non ebbe esitazioni, prese la pistola e si fece saltare le cervella. In realtà avrebbe voluto tagliarsi la pancia, ma non c’era tempo per una tale messinscena. Con una pistola la morte è veloce e definitiva. La moglie seguì il marito e si tagliò la gola in cucina. -No… -Invece quel soldato era un semplice GI che cercava la casa della sua ragazza e aveva sbagliato strada. Aveva solo fermato un momento la jeep perché voleva chiedere informazioni a qualcuno del quartiere. Come sai anche tu, le strade da quelle parti sono un po’ complicate per chi ci va per la prima volta. Già, non è poi tanto facile capire quando è arrivato il proprio momento. -Veramente. -In seguito la casa rimase temporaneamente disabitata, ma alla fine la comprò un’attrice del cinema. Una d’altri tempi, neanche tanto famosa, non credo che il suo nome ti dica qualcosa. Quell’attrice in quella casa ci avrà vissuto… mah, diciamo una decina d’anni. Non era sposata, e viveva sola con una domestica. Alcuni anni dopo essersi trasferita lì, le venne una malattia agli occhi. Le si erano appannati, e vedeva tutto confuso, anche le cose molto vicine. Ma siccome era un’attrice, sul lavoro non poteva mettere gli occhiali. Le lenti a contatto all’epoca non erano tanto perfezionate, e neanche tanto comuni. Perciò prima di ogni ripresa lei faceva sempre una ricognizione sul set dello studio cinematografico, calcolava quanti passi ci volevano per arrivare a un oggetto, poi da quello a un altro… insomma si metteva a recitare solo dopo essersi messa bene in testa tutte quelle misure. Con quel sistema in qualche modo se la cavava, erano quei melodrammi di una volta prodotti dalla Shochiku; a quei tempi non facevano tante storie, non stavano a guardare tanto per il sottile. Un giorno lei aveva già controllato l’ambiente dove si girava, come al solito, ed era tornata nel suo camerino, tranquilla che tutto fosse a posto. Be’, un giovane cameraman che non era al corrente della situazione non le va a spostare tutti gli oggetti che si trovavano sul set? -Non mi dire… -Così lei inciampò in qualcosa e cadde malamente, restò paralizzata. Per di più, forse per effetto di quell’incidente, la vista le si indebolì ulteriormente. Alla fine era quasi cieca. E per sua disgrazia era ancora giovane e bella. Ovviamente non poteva più lavorare nel cinema, stava tutto il tempo seduta immobile dentro casa. E mentre lei passava così le sue giornate, la domestica nella quale aveva una fiducia assoluta la derubava. Scappò con un uomo portandole via tutto, i soldi del conto corrente, quelli del deposito azionario, non le lasciò nulla. Una cosa infame. Allora lei cosa credi che abbia fatto? -Seguendo il filo logico del discorso, non dev’esser stata una fine allegra. -Già. Riempì d’acqua la vasca da bagno, vi cacciò dentro la testa e si affogò. Ti rendi conto della forza di volontà che bisogna avere per uccidersi in quel modo? -Lo sapevo che non era una fine allegra. -Proprio per niente, - disse lo zio. - Qualche tempo dopo, la casa la comprò Miyawaki. È una bella zona, il terreno è grande, su un’altura ben soleggiata… piacerebbe a chiunque, quel posto. Però, quando venne a conoscenza delle tragedie che erano successe là dentro, Miyawaki fece distruggere la casa dalle fondamenta e ne costruì una nuova. Fece fare tutte le cerimonie propiziatorie. Be’, pare sia stato tutto inutile. Non è un posto per viverci, quello, al mondo esistono, i luoghi così. Io non lo vorrei neanche se me lo dessero gratis. Andai a fare la spesa al supermercato vicino, poi cominciai a preparare qualcosa per la cena. Ritirai i panni asciutti, li piegai e li riposi nei cassetti. Bevvi un caffè in cucina. Fu una giornata tranquilla durante la quale il telefono non suonò neanche una volta. Mi stesi sul divano a leggere un libro. Nessuno mi disturbò. Di quando in quando nel giardino l’uccello-giraviti faceva il suo verso, ma non si sentivano altri rumori. Verso le quattro qualcuno suonò il campanello dell’ingresso. Era il postino. - Stampe, - mi disse tendendomi una busta spessa. Io misi il mio timbro sulla ricevuta, e la presi. Sulla magnifica carta di riso, il mio nome e il mio indirizzo erano stati tracciati col pennello all’inchiostro di china. Guardai sul retro, c’era il nome del mittente, Mamiya Tokutaro. L’indirizzo era di una città nella prefettura di Hiroshima. Né il nome né l’indirizzo mi dicevano qualcosa. Inoltre a giudicare dallo stile degli ideogrammi, questo Mamiya doveva essere molto più anziano di me. Mi sedetti sul divano, e con la forbice tagliai il bordo della busta. La lettera era ugualmente scritta col pennello in caratteri eleganti su un rotolo di carta di riso all’antica. Era un capolavoro di calligrafia, sicuramente opera di una persona molto raffinata, ma per me che tanta raffinatezza non la possedevo, leggerla fu un vero e proprio rompicapo. Mi ci volle un sacco di tempo per decifrare quegli ideogrammi all’antica, molto aggraziati, e riuscire grosso modo a capire il contenuto della lettera. Diceva che il signor Honda, l’indovino dal quale noi una volta andavamo, era mancato due settimane prima nella sua casa a Megurō. Un ictus. A sentire il medico, doveva aver cessato di respirare in un tempo molto breve senza soffrire. Considerando che viveva solo, forse si poteva parlare di fortuna nella disgrazia. Lo aveva trovato al mattino la signora che andava a fare le pulizie, morto accasciato sul kotatsu,  scriveva Mamiya; il quale durante la guerra era stato in Manciuria col grado di tenente, ed era lì che aveva conosciuto per puro caso il caporale Honda Oishi durante un’azione nella quale avevano rischiato insieme la vita. Così in quella circostanza, in occasione del decesso del signor Honda, e in ottemperanza alle sue ultime volontà, si era assunto al posto degli eredi l’incarico di distribuire alcuni oggetti in ricordo del defunto. Il signor Honda aveva lasciato indicazioni estremamente dettagliate al riguardo. «È un testamento molto accurato, - diceva la lettera, - come se lui avesse sentito l’avvicinarsi della morte. Anche nei suoi confronti, signor Okada, ha lasciato scritto che sarebbe stato molto felice se lei avesse accettato un oggetto in suo ricordo. Mi rendo conto che il lavoro le lascia pochissimo tempo, signor Okada, ma per rispetto alle ultime volontà del defunto, se lei fosse tanto gentile da accettare, non potrebbe dare una gioia più grande a un vecchio cui restano pochi anni da vivere, e che fu compagno in guerra del signor Honda». Questo il contenuto della lettera. In fondo era indicato un indirizzo di Tokyo, c/o Mamiya Tal dei Tali, Bunkyōku, Hongo 2 chōme, e il numero. Forse si trattava di parenti. Mi sedetti al tavolo della cucina a scrivere la risposta. Pensavo di buttare giù rapidamente qualche riga su un biglietto, ma quando presi la penna in mano le parole non mi venivano. Il signor Honda l’avevo conosciuto, quand’era in vita si era occupato di me, e al pensiero che ormai non c’era più tanti cari ricordi mi tornavano in mente. Era molto più vecchio di me, ed ero andato a trovarlo soltanto per un anno, ma chissà perché lui sembrava avere il dono di toccare il cuore della gente. A essere sinceri non avevo affatto previsto che lasciasse qualcosa a me personalmente. Inoltre non sapevo se avessi o no il diritto di ricevere l’oggetto in questione. Comunque, se questo era il suo desiderio, era ovvio che avrei accettato umilmente. Sarei stato felice di incontrare il signor Mamiya quando meglio gli conveniva. Andai a imbucare il biglietto nella buca delle lettere più vicina. «È solo con la morte ǀ che affiora la corrente ǀ a Nomonhan…» dissi tra me e me. Quando Kumiko tornò a casa erano già quasi le dieci di sera. Mi aveva telefonato prima delle sei, per dirmi che anche quel giorno probabilmente sarebbe tornata tardi, era meglio se cominciavo a mangiare, lei si sarebbe arrangiata, avrebbe preso qualcosa fuori. Le avevo risposto di non preoccuparsi, e mi ero preparato una cena molto semplice. Poi mi ero di nuovo messo a leggere. Quando Kumiko tornò disse che voleva solo un po’ di birra, così facemmo a metà di una bottiglia. Sembrava stanca. Io le parlavo, ma lei non era molto loquace, stava buttata sul tavolo della cucina col mento sulle mani, come se pensasse a qualcos’altro. Le dissi che il signor Honda era morto. -Oh, il signor Honda è mancato… - rispose lei con un sospiro. - Però era già vecchio, e non ci sentiva bene… Quando le dissi che lui mi aveva lasciato un suo ricordo, restò sbalordita, come se fosse caduto qualcosa giù dal cielo. -Ha lasciato un ricordo a te, lui? -Sì. Perché mai l’abbia fatto, non riesco a immaginarlo. Kumiko aggrottò le sopracciglia e per un po’ stette a riflettere. -Questo magari significa che aveva della simpatia per te, no? -Però io con lui non mai avuto una vera conversazione, - dissi. - Per lo meno da parte mia non ho mai potuto dire niente. E anche quando dicevo qualcosa, lui non sentiva. Una volta al mese ci sedevamo davanti a lui, e stavamo ad ascoltare quello che lui ci raccontava. E si trattava quasi sempre della battaglia di Nomonhan. Le bombe che lanciavano, i carri armati che bruciavano, quelli che non bruciavano, solo discorsi del genere. -Chi lo sa, qualcosa di te gli è andato a genio, di sicuro. Non si capisce bene quello che pensano le persone come lui. Kumiko fece di nuovo silenzio. Era un silenzio in un certo modo imbarazzato. Gettai un’occhiata al calendario appeso al muro. Le mestruazioni erano ancora lontane. Immaginai che alla ditta doveva essere successo qualcosa di spiacevole. -Hai troppo lavoro? - chiesi. -Un po’, - rispose lei guardando dentro il bicchiere la birra rimasta. Ne aveva bevuto solo un sorso. Nel suo tono c’era una risonanza leggermente provocatoria. - Mi spiace di aver fatto tardi. È un lavoro complesso, e in certi periodi c’è proprio un sacco da fare. Ma non succede spesso che io arrivi a quest’ora, no? Di straordinari ne faccio meno degli altri, con la scusa che sono sposata cerco sempre di ottenere un trattamento di favore. -Quando si lavora succede, di tornare tardi, - risposi annuendo. - Non fa niente. Mi stavo solo preoccupando che tu fossi stanca. Kumiko stette a lungo sotto la doccia. Io bevvi la mia birra, sfogliando la rivista che lei aveva comprato. All’improvviso mettendo la mano nella tasca dei pantaloni trovai la paga che avevo ricevuto per l’inchiesta delle parrucche, era ancora lì. Non l’avevo neanche tirata fuori dalla busta. Né ne avevo accennato a Kumiko. Non è che avessi l’intenzione di nasconderglielo, avevo solo perso l’occasione di parlargliene, e la cosa per il momento era finita lì. Poi col passare del tempo, stranamente mi era diventato difficile entrare in argomento. Bastava dire che avevo conosciuto una ragazza di sedici anni che abitava nel quartiere, che ero andato con lei a fare un’inchiesta per un fabbricante di parrucche, e avevo guadagnato più di quanto mi fossi aspettato. - Davvero? Be’, tanto meglio, - avrebbe detto Kumiko con ogni probabilità, e il discorso sarebbe finito lì. Però poteva anche darsi che volesse saperne di più, su Kasahara May. Che il fatto che io avessi conosciuto una sedicenne non le quadrasse molto. In quel caso probabilmente avrei dovuto spiegare per filo e per segno, dall’A alla Z, che tipo di ragazza fosse May, quando, dove e in che modo l’avevo conosciuta. E io non sono molto bravo a spiegare le cose con ordine. Tirai fuori i soldi dalla busta, li misi nel portafogli, appallottolai la busta e la gettai nel cestino della carta straccia. Era proprio in quel modo che si finiva col creare dei segreti, pensai. Non che avessi l’intenzione di nascondere a Kumiko quel fatto in sé insignificante, dirlo o non dirlo era uguale. Però qualunque fosse l’intenzione originaria, quell’omissione percorrendo qualche canale delicato avrebbe finito col meritare la torbida definizione di segreto. Per quel che riguardava Creta era la stessa cosa. Avevo raccontato a mia moglie che la sorella di Malta mi aveva fatto visita, che si chiamava Creta, che aveva uno stile alla moda dei primi anni Sessanta, e che era venuta per prelevare dei campioni dell’acqua del rubinetto. Però le avevo taciuto che lei dopo si era messa a farmi confidenze senza senso, e che a metà discorso era scomparsa improvvisamente senza una spiegazione. Perché nel racconto di Creta c’erano troppe discordanze, e tanto per cominciare era impossibile riferirlo mantenendo inalterate tutte le piccole sfumature. Poteva anche darsi che Kumiko non fosse affatto contenta che Creta, dopo aver terminato quello che era venuta a fare, si fosse trattenuta ancora a lungo in casa e mi avesse fatto tortuose confidenze personali. Così per me quello era diventato un piccolo segreto. Pensai che anche Kumiko nei miei confronti doveva avere dei segreti dello stesso tipo. Non potevo biasimarla, succede a chiunque. Ma era probabile che ne avessi più io, è più nella mia natura. Kumiko è piuttosto il tipo che finisce col raccontare quello che pensa. Anzi, è una che le cose le racconta mentre le pensa. Io invece no. Cominciai a inquietarmi, e andai fino al bagno. La porta era spalancata. Mi fermai sulla soglia e guardai mia moglie che mi voltava la schiena. Si era messo un pigiama celeste in tinta unita, e si stava asciugando i capelli davanti allo specchio con un asciugamano. - Senti, a proposito del mio lavoro… - le dissi, - anch’io da parte mia sto valutando varie possibilità. Ne ho parlato a degli amici. Ho anche provato a cercare io stesso diverse volte. Non è che non ci sia lavoro, se mi decido posso mettermi a lavorare in qualunque momento. Potrei cominciare anche domani, se veramente lo volessi. Però non so, non riesco a prendere una decisione. Non so neanch’io se sia bene o no scegliere un lavoro così, pur che sia. -Infatti cosa ti ho detto poco tempo fa? Puoi fare come vuoi, -rispose Kumiko guardando la mia faccia riflessa nello specchio. -Non c’è nessun motivo che tu scelga un lavoro dall’oggi al domani. Se è la nostra situazione economica che ti preoccupa, non è necessario. Però se mi dici che senza un impiego non ti senti spiritualmente a tuo agio, che per te è difficile accettare che io sola vada fuori a lavorare, mentre tu resti a casa a fare le faccende domestiche, puoi anche trovare qualcosa di provvisorio, no? Per me entrambe le soluzioni vanno bene. -Prima o poi un lavoro lo devo trovare, è ovvio. Questo lo so benissimo. Non è concepibile che io passi tutta la vita a girarmi i pollici, e a occuparmi della casa. Prima o poi un lavoro lo trovo. Ma a essere sincero, adesso non so bene quale tipo di attività vorrei fare. Quando ho lasciato l’ufficio ero tranquillo, pensavo di trovarmi un altro impiego nel campo della giurisprudenza. Qualche persona nel settore la conosco anch’io. Però adesso non ne ho più voglia. Più tempo passa da quando mi sono allontanato da quel tipo di attività, più il mio interesse nei confronti della legge diminuisce. Ho l’impressione che non sia quello che fa per me. Lei mi guardò nello specchio. -Questo però non significa che io abbia voglia di fare qualcosa in particolare, - continuai. - Se proprio dovessi dire, non c’è nulla che veramente mi attiri. Ho l’impressione di poter fare la maggior parte delle cose che mi potrebbero eventualmente proporre, ma non ho un’immagine ben definita di un lavoro che mi vada a genio. Questo è attualmente il mio problema. Non ho un’immagine. -Ma tu, perché in origine avevi pensato di studiare legge? -Così, per una ragione piuttosto vaga, - risposi. - A me è sempre piaciuto leggere, di conseguenza in realtà ero piuttosto incline a fare lettere, all’università. Ma al momento di scegliere il mio corso di studi ho pensato che la letteratura… come dire? È qualcosa di più spontaneo. -Spontaneo? -Sì. Insomma la letteratura non è qualcosa che si possa studiare come una specializzazione, o su cui fare ricerca. Qualcosa che viene naturale, che nasce dall’esistenza quotidiana. È per questo che ho scelto giurisprudenza. Ovviamente avevo anche un vero interesse per la legge. -Adesso però quell’interesse ti è venuto meno, vero? Bevvi un sorso di birra dal bicchiere che tenevo in mano. -È strano. All’epoca in cui ero impiegato nell’ufficio legale, nonostante tutto lavorare lì mi piaceva abbastanza. La legge è come mettere insieme un puzzle, bisogna combinare i dati nella maniera giusta. Ci sono le tattiche, e ci sono i trucchi. A farlo sul serio è qualcosa di abbastanza divertente. Ma una volta che mi sono allontanato da quel mondo, non sono più riuscito a sentire alcun fascino, in tutto ciò. -Be’, - disse lei posando l’asciugamani e voltandosi verso di me, - se la legge ti è venuta in odio, non hai nessun bisogno di trovare un lavoro nel settore legale. Puoi benissimo dimenticare completamente di avere esperienza in quel campo. Che fretta c’è? Se non hai un’immagine, aspetta di formartene una. Nulla ti impedisce di fare così, no? Annuii. - Volevo solo illustrarti bene la situazione, così, per spiegarti. Cioè qual è il mio modo di vedere le cose. -Ah, - fece lei. Andai in cucina e lavai il bicchiere. Kumiko uscì dal bagno e si sedette al tavolo. -Sai, oggi pomeriggio mi ha telefonato mio fratello, - disse. -Ah sì? -Sembra proprio che voglia presentarsi alle elezioni. Cioè, ormai pare che sia una cosa quasi decisa. -Alle elezioni? - chiesi in tono sorpreso. In realtà ero rimasto di stucco, per qualche momento la voce mi si era bloccata in gola. - Ma per cosa si candida? Non vorrai mica dire come deputato al parlamento, per caso? -Sì, nelle prossime elezioni. Da Niigata, dal distretto elettorale dello zio, gli è arrivato un invito a porre la sua candidatura. -Ma non avevano già deciso di presentare la candidatura di tuo cugino, come successore di tuo zio, in quel distretto elettorale? Non dicevano che doveva dimettersi dalla direzione della Denzu o cosa diavolo sia, e ritornare a Niigata? Lei tirò fuori un cotton fioc e cominciò a pulirsi le orecchie. -Sì, in un primo momento si era ventilato quel progetto, ma poi mio cugino ha detto che non ne voleva sapere. A Tokyo ha moglie e figli, e al suo lavoro tiene molto, non ha nessuna voglia di piantare baracca e burattini per andare a fare il deputato a Niigata. Una delle ragioni principali è anche che la moglie è fortemente contraria a questa sua candidatura. E lui non ha nessuna intenzione di sacrificare la sua famiglia per non perder l’occasione. Il fratello maggiore del padre di Kumiko per quattro o cinque legislature di fila era stato eletto alla Camera dei deputati, in rappresentanza di un distretto elettorale della provincia di Niigata. Non si poteva dire che al parlamento fosse tra i più influenti, ma aveva fatto una carriera più che soddisfacente, e una volta era persino arrivato ad avere un incarico di ministro, anche se non di primo piano. Era già abbastanza avanti con gli anni, però, e soffriva di una malattia di cuore, per cui era difficile che si candidasse alla prossime elezioni. In tal caso qualcuno doveva succedergli nella rappresentanza del distretto elettorale. Aveva due figli, ma il primo non aveva mai avuto la minima intenzione di dedicarsi alla politica, quindi la scelta era caduta sul secondo. -E poi in quel distretto elettorale vogliono a tutti i costi mio fratello. Vogliono uno giovane, intelligente, rampante. Un uomo di talento che possa tenere l’incarico per parecchie legislature, e acquisire un potere reale nel centro. Mio fratello è già molto conosciuto, avrà il voto dei giovani, a sentir loro è già cosa fatta. È ovvio che lui non potrà occuparsi delle piccole grane locali, ma le associazioni di elettori sono molto forti e questo per loro non è un problema, se lui non vuole vivere a Niigata a loro non importa. Basta solo che ci vada per la campagna elettorale. Non riuscivo a immaginarmi bene la figura di Wataya Noboru in veste di membro del parlamento. -Tu cosa ne pensi? - chiesi. -Quello che fa lui non mi riguarda. Per me può diventare quello che vuole, deputato, astronauta, mi è indifferente. -Ma perché è venuto a consigliarsi con te su una faccenda del genere? -Ma figurati, mica è venuto a consigliarsi su quello! - disse lei in tono secco. - Non ha bisogno di chiedere consigli a me, lui. Mi ha solo informato che c’è questo progetto. Perché sono un membro della sua famiglia, tutto lì. -Ah, - feci io. - Però il fatto che sia divorziato, e che non si sia risposato, per un candidato alla Camera dei deputati non è un ostacolo? -Mah, chissà… - disse Kumiko. - Non ci capisco granché, io, di politica e di elezioni, né mi interessano. Ma a parte queste considerazioni, non è probabile che lui si risposi. Con nessuno. Già in partenza non era uno che si doveva sposare. Perché lui cerca qualcos’altro. Qualcosa di molto diverso da quello che possiamo cercare tu o io. Io lo so bene. -Ah sì? - dissi. Kumiko avvolse i due cotton fioc in un fazzoletto di carta e li gettò nel cestino. Poi alzò il viso e mi guardò fisso. -Tanto tempo fa mi è capitato di coglierlo sul fatto mentre si masturbava. Aprii la porta di una stanza pensando che non ci fosse nessuno, e invece lui era lì. -Capita a tutti di masturbarsi, - risposi. -Non si tratta di quello, - disse lei. Poi fece un sospiro. - Dovevano esser passati circa tre anni dalla morte di mia sorella. Lui era studente d’università, e io facevo la quarta elementare, più o meno l’epoca era quella. Nostra madre era indecisa se dare via o no i vestiti di nostra sorella morta, ma alla fine li aveva conservati. Per quando io fossi diventata più grande, magari potevo metterli io. Li aveva riposti in un armadio, chiusi in una scatola di cartone. Mio fratello li aveva tirati fuori, li stava annusando, e intanto si masturbava. Io ascoltavo in silenzio. -All’epoca io ero ancora piccola, di sesso non ci capivo niente, non mi resi conto di cosa stesse trafficando lui lì. Capii soltanto che quello era un atto indecente che non bisognava guardare. E inoltre che era molto più grave di quanto apparisse -. Così dicendo Kumiko scosse in silenzio la testa. -Lui sa che tu l’hai visto? -Be’, gli occhi li aveva. Annuii. -Cosa ne è poi stato, di quei vestiti di tua sorella? Quando sei diventata più grande li hai messi? -Non ci mancava altro, - disse Kumiko. -Lui era innamorato, di tua sorella? -Chi lo sa. Se abbia avuto o no con lei dei rapporti sessuali, non ne ho idea, ma di sicuro qualcosa tra di loro c’è stato. E ho l’impressione che lui da quel qualcosa non riesca a staccarsi. È questo che intendo quando dico che non si doveva sposare. Rimanemmo entrambi a lungo in silenzio. -Lui in quel senso ha dei problemi psicologici piuttosto gravi, - riprese Kumiko dopo un po’. - È ovvio che in una certa misura dei problemi psicologici li abbiamo tutti. Ma i suoi sono qualcosa di molto diverso da quelli che possiamo avere tu e io. Sono molto più profondi e resistenti. Inoltre lui non esporrebbe mai allo sguardo di altri le sue ferite e le sue debolezze, potrebbe cascare il mondo. Capisci quello che voglio dire? Anche riguardo a questa candidatura alle elezioni, sono un po’ preoccupata. -Di che cosa, ti preoccupi? -Non lo so, di cosa, - rispose Kumiko. - Ora sono stanca, non riesco a pensare più a niente. Andiamo a dormire. Andai nel bagno e mentre mi strofinavo i denti con lo spazzolino osservai la mia faccia nello specchio. In quei tre mesi da quando avevo lasciato il lavoro, non mi ero quasi mai avventurato al di fuori del mio piccolo mondo. Ero andato e venuto soltanto tra i negozi del quartiere, la piscina, la mia casa. A parte la spedizione a Ginza e quella all’Hotel Pacific, al massimo mi ero spinto fino alla tintoria davanti alla stazione. In tutto quel tempo non avevo quasi incontrato nessuno. In tre mesi le sole persone che si poteva veramente dire che avessi incontrato, a parte mia moglie, erano le sorelle Kanō e Kasahara May. Era un mondo davvero ristretto. E quasi immobile, per di più. Ma più l’ambiente nel quale mi trovavo si restringeva, si immobilizzava, più sembrava riempirsi di avvenimenti e persone strane. Come se questi avessero atteso acquattati nell’ombra che io smettessi di avanzare. Inoltre, ogni volta che l’uccello-giraviti veniva nel giardino ad avvitare le sue viti, il grado di confusione del mondo subiva un’improvvisa accelerazione. Mi sciacquai la bocca, e rimasi ancora un po’ a guardarmi. - Non hai un’immagine, - dissi rivolto a me stesso. All’età di trent’anni mi ero fermato, ed ero rimasto senza un’immagine. Uscii dal bagno e andai in camera da letto. Kumiko era già addormentata. 

11.

Entrata in scena del tenente MamiyaQualcosa che viene dal fango caldoAcqua di coloniaTre giorni dopo mi telefonò Mamiya Tokutard. Erano le sette e mezza del mattino, e io stavo facendo colazione con mia moglie. -Mi scusi molto se l’ho chiamato a un’ora così mattiniera. Spero di non averla tirata giù dal letto, - disse il tenente Mamiya in tono mortificato come se avesse commesso una scorrettezza imperdonabile. Risposi che non faceva niente, il mattino mi alzavo sempre poco dopo le sei. Lui mi ringraziò per le mie parole, spiegandomi che mi aveva chiamato così presto per timore che io uscissi per andare al lavoro. È che se nella giornata avesse potuto incontrarmi anche solo brevemente, magari nell’intervallo di mezzogiorno, me ne sarebbe stato profondamente grato. Il fatto era che possibilmente voleva prendere il TGV e tornare a Hiroshima in serata. Il suo programma originario gli permetteva di prendersela un po’ più comoda, ma a causa di un impegno improvviso doveva rientrare il giorno stesso, prima di sera. Gli dissi che in quel momento non andavo a lavorare, ero libero tutto il giorno, e potevo incontrarlo in qualunque momento, il mattino, a mezzogiorno, il pomeriggio, quando gli era comodo. -È sicuro di non avere programmi per oggi? - si informò ancora lui educatamente. Risposi che non ne avevo, di nessun tipo. -In questo caso, cosa ne direbbe se venissi io a casa sua verso le dieci? Potrebbe andarle bene? -Benissimo. -Allora a fra poco. Di nuovo, - disse lui, e riattaccò. Accidenti, avevo dimenticato di spiegargli come si arrivava dalla stazione a casa mia, pensai dopo aver posato il ricevitore. Be’, pazienza, l’indirizzo lo conosceva; se proprio ci teneva, in qualche modo sarebbe arrivato. -Chi era? - chiese Kumiko. -La persona che si è incaricata di distribuire i ricordi del signor Honda. Ha detto che viene apposta qui a casa questa mattina. -Ma va? - disse lei. Poi bevve il suo caffè, e spalmò del burro sul suo toast. - È veramente gentile. -Infatti. -Di’, non sarebbe opportuno andare a offrire anche solo dell’incenso a casa del signor Honda? Almeno tu. -È vero. Magari chiedo consiglio a questo Mamiya, - risposi. Prima di uscire Kumiko venne da me e mi chiese di tirarle su la cerniera del vestito. Era un abito che la fasciava stretta e tirare su la cerniera sulla schiena richiese un po’ di cautela. Da dietro le sue orecchie veniva un profumo molto buono. Un odore che si addiceva meravigliosamente a una mattina d’estate. -È un’acqua di colonia nuova? - chiesi. Ma lei non rispose. Gettò una rapida occhiata all’orologio che aveva al polso, e stese una mano a sistemarsi i capelli. -Be’, ora devo andare, - disse prendendo la borsa che era sul tavolo. Mentre riordinavo la piccola stanza che Kumiko usava per lavorare, raccogliendo delle cartacce lo sguardo mi cadde su un nastro giallo che era stato buttato nel cestino. Sporgeva appena sotto i fogli di brutta scartati e i dépliant pubblicitari. Me ne accorsi perché era di un colore molto vivido e intenso, era uno di quei nastri che si usano per i pacchi regalo, arrotolato a spirale. Lo tirai fuori dal cestino e lo guardai. Insieme al nastro era stata buttata via una carta da pacchetti dei grandi magazzini Matsuya. Sotto c’era una scatola con il marchio di Christian Dior. L’aprii. Vidi una cavità a forma di bottiglia. Solo a guardare la scatola era chiaro che il contenuto doveva costare un sacco di soldi. Con la scatola in mano andai nel bagno e aprii il beauty case dove Kumiko teneva i suoi prodotti di bellezza. Vi trovai una bottiglia di acqua di colonia quasi intatta, sempre di Christian Dior. La bottiglia si adattava perfettamente alla cavità nella scatola. Aprii il tappo dorato. Era esattamente lo stesso profumo che avevo sentito poco prima dietro l’orecchio di Kumiko. Mi sedetti sul divano, e bevendo quel che restava del caffè preparato a colazione provai a mettere ordine nei miei pensieri. Probabilmente qualcuno aveva regalato a Kumiko dell’acqua di colonia. Un’acqua di colonia molto cara. L’aveva comprata ai grandi magazzini Matsuya, dove si era fatto fare una confezione regalo con un bel nastro. Se la persona in questione era un uomo, doveva avere un rapporto piuttosto stretto con Kumiko. Un uomo che non sia in termini tanto intimi con una donna, soprattutto con una donna sposata, non le regala dell’acqua di colonia. Se invece era un regalo da parte di un’amica… ma era normale che una donna regalasse a un’amica un’acqua di colonia? Non lo sapevo. L’unica cosa che sapessi, era che in quel periodo non c’era nessun motivo speciale di fare regali a Kumiko. Il suo compleanno era in maggio. Idem per il nostro anniversario di matrimonio. Poteva anche darsi che lei si fosse comprata da sola un’acqua di colonia e si fosse fatta fare un bel pacchetto con un bel nastro. Ma perché? Sospirai e guardai il soffitto. Dovevo provare a farle delle domande in proposito? Chiederle da chi avesse ricevuto quell’acqua di colonia? Ma lei probabilmente avrebbe risposto «ah, sì, quella… ho dato una mano a una ragazza che lavora con me, in una faccenda personale. Spiegarti tutto adesso sarebbe troppo lungo, ma era veramente nei guai, poveraccia, l’ho fatto per amicizia. Per ringraziarmi lei mi ha regalato quell’acqua di colonia. È un odore delizioso, vero? Dev’essere costata un sacco di soldi». Okay, la logica filava. Con questo l’argomento era chiuso. Allora perché dovevo mettermi a farle domande? Perché mi dovevo preoccupare di una cosa del genere? Però c’era qualcosa che non quadrava. Sarebbe bastato che lei mi avesse detto anche solo una parola, a proposito di quell’acqua di colonia. Se aveva avuto il tempo, tornata a casa, di andare nel suo studio, togliere il nastro, disfare il pacchetto, aprire la scatola, buttare tutto nel cestino, e andare a mettere la bottiglia nel beauty case, avrebbe anche potuto dirmi, che so… «guarda, questo è un regalo che mi ha fatto oggi una collega». Invece niente, non una parola. Magari pensava che non valesse la pena di parlarne, era possibile. Ma anche supponendo che fosse cosi, il suo comportamento ormai aveva preso un significato vile, era diventato un segreto. E la cosa mi inquietava. Per un bel po’ rimasi con le mani in mano a guardare il soffitto. Cercavo di pensare ad altro, ma non riuscivo a concentrarmi su nulla, il cervello non mi funzionava bene. Mi ricordavo della schiena lattea e satinata di Kumiko quando le avevo tirato su la cerniera del vestito, del profumo dietro l’orecchio. Mi venne voglia di fumare, dopo tutto quel tempo. Di portarmi una sigaretta alla bocca, accenderla, e mandare giù il fumo dentro i polmoni. Se avessi potuto fumare mi sarei sentito un po’ più calmo, pensai. Ma non avevo sigarette. Mi rassegnai ad andare a prendere le caramelle al limone e me ne misi in bocca una. Alle nove e cinquanta suonò il telefono. Doveva essere il tenente Mamiya, la nostra casa era in una strada abbastanza difficile da trovare, si sbagliavano persino le persone che ci erano già venute parecchie volte. Ma non era lui. Al telefono sentii la voce della spostata che alcuni giorni prima mi aveva fatto quella telefonata senza senso. - Ciao, è da tanto che non ci sentiamo, - disse lei. - Com’è andata, l’altra volta? Bene? Chissà se sei riuscito a provare qualcosa… ma perché hai messo giù il telefono a metà? Proprio quando ero quasi sul più bello… A quelle parole, per un attimo ebbi l’impressione assurda che parlasse di quando ero venuto nel sonno, quando avevo sognato Creta. Ma ovviamente quella era un’altra storia, stava parlando di quando mi aveva telefonato mentre mi preparavo un piatto di spaghetti. -Senti, scusami, ma ora sono occupato, - dissi. - Fra dieci minuti arriva un ospite, e devo preparare varie cose. -Da quando sei disoccupato hai sempre tanto da fare, vero? - disse lei in tono ironico. Come la volta precedente, il timbro della sua voce era cambiato improvvisamente - Cucinare spaghetti, ricevere ospiti… Ma non importa, a me bastano dieci minuti. Non vuoi chiacchierare con me per dieci minuti? Quando arriva il tuo ospite basta che riattacchi, no? Io avrei voluto riattaccare subito senza dire nulla. Ma non ci riuscii, ero ancora un po’ disorientato per la storia dell’acqua di colonia di mia moglie, probabilmente avevo voglia di parlare con qualcuno, chiunque fosse. -Scusa, ma tu chi sei? - dissi prendendo in mano la matita che era posata di fianco al telefono e facendola girare tra le dita. - È proprio vero che ci conosciamo? -È ovvio. Io conosco te e tu conosci me. Non mento su queste cose. Cosa credi, che abbia il tempo di telefonare a degli sconosciuti? Nella tua memoria ci dev’essere di sicuro un angolo morto o qualcosa del genere. -Cioè, non riesco a capire… -Dai, lascia perdere, - disse lei interrompendo bruscamente le mie parole. - Smettila di farti tutti questi problemi. Tu mi conosci, e io ti conosco. Quello che conta è che… sai, io posso essere molto molto gentile con te. E tu non hai bisogno di fare nulla. È meraviglioso, non pensi? Non hai bisogno di fare nulla e non hai nessuna responsabilità, sono io che faccio tutto. Tutto. Fantastico, vero? Smettila di farti tanti scrupoli, fai il vuoto dentro di te. Immagina di rotolarti nel fango molle in una tiepida serata di primavera. Rimasi in silenzio. -Per dormire, per sognare, ti stai rotolando nel fango caldo… non pensare più neanche a tua moglie. Non pensare più al lavoro che non hai, al futuro… Dimentica ogni cosa. Noi siamo tutti quanti venuti dal fango caldo, e prima o poi nel fango caldo ritorneremo. E poi dimmi un po’, caro il mio signor Okada, quand’è che hai fatto l’amore l’ultima volta con tua moglie? Te lo ricordi? Non è già passato un bel po’ di tempo? Non sono già passate due settimane, per caso? -Scusami, ma sta arrivando la persona che aspetto, - dissi. -Uhm, allora devono essere più di due. Lo capisco dalla tua voce. Quante sono, tre? Io non risposi. -Be’, lasciamo perdere, - fece lei. La sua voce aveva la leggerezza di un piumino che spazza via a colpettini la polvere sulle veneziane della finestra. - Comunque sia, questo è un problema tra te e tua moglie. Io però farei qualunque cosa, per aiutarti. E tu non hai bisogno di sentire nessuna responsabilità per questo. Subito dietro l’angolo esistono spazi così, mondi nuovi che tu non hai neanche mai visto. Ti ho detto che in te c’è un angolo morto, no? Ancora non lo capisci. Io ascoltavo in silenzio sempre tenendo stretto il ricevitore. -Prova a guardarti intorno, - disse lei. - E poi spiegami. Che cosa vedi, che cosa c’è, lì? In quel momento il campanello della porta suonò. Io sobbalzai, e senza rispondere nulla interruppi la comunicazione. Il tenente Mamiya era un signore anziano, alto, completamente calvo, e portava degli occhiali dalla montatura dorata. Era leggermente abbronzato, senza grasso superfluo, e aveva un colorito veramente sano, doveva fare regolarmente dell’esercizio fisico non troppo faticoso. Tre rughe profonde e regolari sotto agli occhi davano l’impressione che stesse sempre per socchiudere le palpebre abbagliato da qualcosa. Non riuscivo a dargli un’età precisa, ma sicuramente aveva già passato i settanta. Da giovane doveva essere stato molto robusto, lo indovinavo dal suo aspetto vigoroso e dai gesti spicci. Le sue maniere e il suo modo di esprimersi erano estremamente educati, ma in essi c’era una sorta di autenticità senza ornamenti. Sembrava uno abituato a giudicare le cose da solo, e a prendersene da solo la responsabilità. Portava un normale vestito grigio chiaro, una camicia bianca e una cravatta a righe grigia e nera. Quell’abbigliamento correttissimo era forse un po’ pesante per un mattino caldo e umido di luglio, ma lui non sembrava sudato. La mano sinistra era un arto artificiale. Era coperta da un guanto sottile dello stesso grigio chiaro del vestito, ma a paragonarla con il dorso della mano destra pelosa e abbronzata, quella mano avvolta da quel guanto grigio sembrava un po’ troppo fredda e inanimata. Lo feci accomodare sul divano del soggiorno e portai del tè. Lui si scusò di non avere biglietti da visita. -Ero insegnante di educazione civica in un liceo della provincia di Hiroshima, ma ormai sono andato in pensione, per limiti di età, e da allora non ho più svolto altri lavori. Possiedo qualche campo, così coltivo un po’ l’orto, più che altro per passatempo. Ma non ho più motivo di avere biglietti da visita, mi scusi. Dissi che non ne avevo neanch’io. -Mi perdoni, signor Okada, ma potrei chiederle la sua età? -Ho trent’anni, - risposi. Lui annuì. Poi bevve il suo tè. Mi chiesi che effetto gli facesse sapere che avevo trent’anni. -Vive in un posto veramente tranquillo, - disse lui come per cambiare discorso. Gli spiegai che avevo in affitto quella casa da uno zio per una cifra modesta, normalmente i nostri introiti non ci avrebbero permesso neanche un alloggio la metà di quello. Lui annuì, e si guardò un po’ intorno con aria imbarazzata. Anch’io. «Prova a guardarti intorno», aveva detto la voce di quella donna. In questa nuova ottica, mi parve di percepire nell’aria qualcosa di non familiare. -Sono rimasto a Tokyo due settimane, - disse il tenente Mamiya. - Lei era l’ultima persona a cui dovevo consegnare un ricordo del signor Honda, così ora posso ritornare a Hiroshima tranquillo. -Pensavo appunto di andare a casa del signor Honda per portare qualcosa, anche solo dell’incenso… -Le sono veramente grato di questo pensiero, ma lui era di Asahikawa, a Hokkaido, e anche la sua tomba è lì. La casa di Megurō non c’è più, sono venuti i suoi familiari da Hokkaido per liquidare tutto, hanno portato via ogni cosa. -Capisco, - dissi. - Allora il signor Honda a Tokyo abitava solo, lontano dai suoi? -Sì. Il figlio maggiore sta ad Asahikawa. Non era affatto contento che il padre vivesse da solo, alla sua età, tanto più che ci sentiva anche male. Pare che gli abbia chiesto spesso di andare a vivere con lui, ma il signor Honda non ne voleva sapere. -Aveva dei figli? - chiesi io un po’ meravigliato. Mi aveva sempre fatto l’impressione di essere uno scapolo senza famiglia. - Allora la moglie era morta in precedenza? -È una storia un po’ complicata, la moglie del signor Honda in realtà si è uccisa insieme a un altro uomo poco dopo la guerra. È stato forse nel ‘50 o nel ‘51. I particolari non li conosco bene neanch’io, il signor Honda non era tipo da fare troppe confidenze, né io potevo chiedergli spiegazioni in proposito. Annuii. -Ha tirato su i figli da solo, un maschio e una femmina, poi quando loro si sono resi entrambi indipendenti è venuto a stare a Tokyo, e come sa anche lei si è messo a fare la professione di indovino. -Ad Asahikawa che tipo di lavoro faceva? -Aveva una tipografia insieme al fratello. Provai a immaginare il signor Honda in abiti da lavoro, in piedi davanti a una stampante, che esaminava la grafica di un foglio. Il signor Honda che conoscevo io era un vecchio un po’ sporco, che mescolava i bastoncini divinatori sempre seduto al kotatsu,  estate e inverno, con dei vestiti non molto puliti, e una sorta di fusciacca da kimono arrotolata intorno alla pancia. Il tenente Mamiya con una mano sola slegò con destrezza il fagotto che aveva portato, e ne tirò fuori un pacco che aveva le dimensioni di una scatola di dolci. Era avvolto in carta robusta, e legato ben bene con una corda. Lui lo posò sul tavolino. -Questo, - mi disse, - è un ricordo per lei da parte del signor Honda, gliel’ho tenuto in serbo io. Ringraziai, e presi in mano il pacco. Non aveva quasi peso. Impossibile immaginare cosa contenesse. -Posso aprirlo qui, adesso? Il tenente Mamiya scosse la testa. -No, mi perdoni, ma la volontà del defunto è che lei lo apra quando sarà rimasto solo. Annuii, e posai nuovamente il pacco sul tavolino. -A dire la verità, - fece tutt’a un tratto il tenente Mamiya, - la lettera del signor Honda l’ho ricevuta un giorno prima che lui morisse. In quella lettera mi scriveva che stava per morire. È che non temeva affatto la morte, quello era il suo destino, e lui doveva accettarlo, come ognuno di noi. Diceva di aver lasciato alcune cose in un armadio a muro di casa sua, dei… degli oggetti come questo. Aveva sempre pensato di consegnarli lui stesso alle persone interessate, ma non pensava che sarebbe riuscito a portare a termine il suo compito. Così aveva pensato di servirsi di me, mi pregava di distribuire gli oggetti-ricordo secondo le istruzioni che aveva scritto su un foglio a parte. Sapeva di chiedermi molto, ma aveva avuto ripetute premonizioni. Considerando però che questa era la sua ultima richiesta, era sicuro che io avrei fatto per lui tutto quello che potevo. Questo c’era scritto. Io sono rimasto molto sorpreso, era già da molti anni, saranno stati sei o sette, che col signor Honda avevamo cessato ogni corrispondenza, e tutt’a un tratto lui mi mandava una lettera del genere. Gli ho risposto subito. Ma ci siamo incrociati, quando la mia lettera è arrivata, il figlio mi informava che lui era morto. Io presi la mia tazza, e bevvi un sorso di tè. -Quell’uomo conosceva l’ora della sua morte. Di sicuro aveva acquisito delle facoltà di cui io non afferro neanche l’estensione. Come ha scritto anche lei nel suo biglietto, aveva il dono di toccare il cuore della gente. Io questo l’avevo già sentito quando l’incontrai per la prima volta, nella primavera del ‘38. -Era nella stessa unità del signor Honda, durante la battaglia di Nomonhan? -No, - disse il tenente Mamiya, mordendosi leggermente le labbra. - Non è così. Eravamo stanziati in unità diverse, e in reggimenti diversi. Fu in una piccola operazione militare precedente quella di Nomonhan che ci trovammo insieme. Il caporale Honda in seguito fu ferito durante la battaglia di Nomonhan, e poi rimpatriato. Io a quella battaglia non partecipai. Questa mano… - e così dicendo il tenente Mamiya alzò la mano sinistra rivestita dal guanto, - l’ho persa nell’agosto del ‘45, durante l’avanzata dell’esercito sovietico. Fui colpito alla spalla da una mitragliatrice in uno scontro tra carri armati, momentaneamente persi i sensi, e la mano mi rimase schiacciata sotto i cingoli di un carro armato. Poi venni fatto prigioniero dai sovietici, mi curarono nell’ospedale di Cita e mi mandarono in un campo di concentramento in Siberia, dove rimasi fino al 1949. Da quando mi avevano mandato di stanza in Manciuria nel ‘37, passai sul continente dodici anni. In tutto quel tempo non misi neanche una volta i piedi sulla mia terra. La mia famiglia pensava che fossi morto in qualche battaglia contro l’esercito sovietico. Nel cimitero del mio paese natale c’era la mia tomba. Prima di andar via dal Giappone, avevo scambiato una promessa con una ragazza, anche se un po’ di corsa, ma la ritrovai sposata con un altro. Cos’altro poteva fare? Dodici anni sono tanti. Io annuii. -Ma è da sciocchi parlare di un passato ormai lontano a lei che è così giovane, - disse il tenente Mamiya. - Vorrei dire solo una cosa: noi eravamo solo dei ragazzi come lei, del tutto normali. Io non avevo mai pensato, neanche una volta, di entrare nell’esercito. Volevo diventare insegnante. Ma appena laureato ricevetti la convocazione, e volente o nolente mi dovetti arruolare, e poi lasciare il mio paese. La mia vita è stata solo un sogno effimero, - concluse, poi per un po’ non aprì più bocca. -Se non le spiace, - chiesi, - non mi potrebbe raccontare come ha conosciuto il signor Honda? - Ero veramente curioso di sapere com’era stato un tempo il vecchio indovino. Il tenente Mamiya, sempre con le mani compostamente posate sulle ginocchia, rimase qualche secondo assorto in riflessione. Non è che esitasse se raccontare o meno, stava semplicemente pensando a qualcosa. -È possibile che il discorso si faccia molto lungo, - disse. -Non fa niente, - risposi. -Sono cose che finora non ho mai raccontato a nessuno. Neanche il signor Honda, sono sicuro che non ne ha mai fatto parola. La ragione è che noi… di tutto questo avevamo giurato di non parlare mai ad anima viva. Però il signor Honda ormai è morto. Sono rimasto solo io. Anche se parlo, ormai non rischio di danneggiare più nessuno. 

12.