CHINA GIRL
Don Winslow
Prologo
Papà bussa alla porta
Non avrebbe dovuto aprire.
Neal Carey lo sapeva: quando apri una porta non sai mai per certo che cosa entrerà.
Ma si aspettava che fosse Hardin, il vecchio pastore, che veniva ogni giorno a sorseggiare un whisky con lui. Pioveva da cinque giorni di fila e il pastore in quelle situazioni passava sempre per «bagnarsi la gola e combattere il freddo».
Neal si strinse intorno al collo il cardigan di lana, spinse la sedia un po’ piú vicino al fuoco e si chinò sul tavolo a leggere. Il fuoco combatteva valorosamente contro il freddo e l’umidità, ma stava perdendo la battaglia. Era un tempo pessimo anche per lo Yorkshire in marzo. Neal bevve un altro sorso di caffè e provò a immergersi di nuovo nella lettura del Ferdinand Count Fathom di Tobias Smollett, ma in realtà non ne aveva voglia. Aveva letto per tutto il giorno e desiderava proprio un po’ di conversazione e un dito di whisky. Dove diavolo era Hardin?
Guardò fuori dalla piccola finestra del cottage in pietra, ma non vide nulla. Tra la nebbia fitta e la pioggia battente, non si scorgeva nemmeno la strada che saliva dal villaggio. Il suo era l’unico cottage da quella parte della brughiera. La sensazione di isolamento gli piaceva, ma quel pomeriggio desiderava un po’ di compagnia. La casa di solito gli sembrava accogliente, eppure in quel momento la trovava soffocante. L’unica lampada elettrica non faceva molto per illuminare la cupa atmosfera generale. Forse si trattava solo di febbre da solitudine: era lí da sette mesi, con i libri come unica compagnia, a parte le visite di Hardin.
Perciò quando udí bussare alla porta non si fermò a riflettere. Non guardò dalla finestra, non chiese chi era. Semplicemente si alzò e andò ad aprire.
Solo che non era Hardin.
– Figliolo!
– Ciao, papà, – disse Neal.
Quello fu il secondo errore. Restò lí senza fare niente. Avrebbe dovuto sbattere la porta, bloccarla con una sedia, uscire da una finestra sul retro e non voltarsi indietro.
Se avesse fatto tutto ciò, non sarebbe finito in Cina e la donna cinese sarebbe ancora viva.
Parte prima
China doll
1.
Joe Graham aveva un’aria triste e ridicola, sulla soglia. La pioggia gocciolava dal cappuccio dell’impermeabile fino alle scarpe infangate. Posò la sua valigia in una pozzanghera, si asciugò il naso con la mano artificiale e riuscí comunque a sorridere a Neal, o meglio a prodursi nel suo classico ghigno che era una mistura in parti uguali di malevolenza e allegria.
– Non sei felice di vedermi? – chiese.
– Faccio i salti di gioia.
Neal non lo vedeva da agosto quando, all’aeroporto Logan di Boston, Graham gli aveva consegnato un biglietto di sola andata per Londra, un assegno di diecimila sterline e l’ordine di sparire, perché negli Stati Uniti aveva pestato i piedi a gente importante. Neal gli aveva restituito metà della cifra, era andato a Londra, aveva messo il denaro in banca ed era sparito nel cottage in mezzo alla brughiera.
– Qual è il problema? – chiese Graham. – Sei con una ragazza e non vuoi farmi entrare?
– Entra.
Graham entrò nel cottage. Un metro e sessantadue di cattiveria e astuzia, l’uomo aveva cresciuto Neal fin da ragazzino. Si tolse l’impermeabile e lo scosse sul pavimento. Poi aprí l’armadio, spinse da parte i vestiti di Neal e lo appese. Sotto, indossava un completo blu elettrico con una camicia arancione scuro e cravatta bordeaux. Prese un fazzoletto dalla tasca della giacca, pulí la sedia di Neal e si sedette.
– Grazie di tutte le lettere e le cartoline, – disse.
– Mi avevi detto di sparire.
– Era una figura retorica.
– Sapevi dov’ero.
– Figliolo, noi sappiamo sempre dove trovarti.
Di nuovo quel ghigno. Non è cambiato molto in sette mesi, pensò Neal. I suoi occhi azzurri erano ancora piccoli e brillanti e i suoi capelli color sabbia forse un minimo piú radi. La sua faccia da folletto sembrava sempre sbirciare da sotto un fungo velenoso. E poteva indicarti ogni volta la pentola di merda dove finisce l’arcobaleno.
– A cosa devo il piacere, Graham? – chiese Neal.
– Non lo so, Neal. Alla tua mano destra?
Fece il classico gesto osceno con la sua pesante mano di gomma, che era sempre nella stessa posizione semichiusa. Riusciva a fare quasi tutto con quella mano, ma Neal ricordava quando Graham si era fratturato la sinistra in una rissa. – È quando devi pisciare, – aveva detto Graham, – che scopri chi sono i tuoi veri amici –. Neal era stato uno di quegli amici.
Graham si guardò intorno nella stanza, con movimenti esagerati, anche se Neal sapeva che aveva assorbito ogni particolare nei pochi secondi in cui si era tolto l’impermeabile.
– Che posto carino, – disse, sarcastico.
– È adatto a me.
– Questo è vero.
– Un caffè?
– Ce l’hai una tazza pulita?
Neal andò nella piccola cucina e tornò con una tazza. La gettò in grembo a Graham, il quale la esaminò con attenzione.
– Forse è meglio andare fuori, – disse.
– Forse è meglio se mi dici cosa ci fai qui.
– È arrivato il momento di tornare al lavoro.
Neal indicò la pila di libri sul pavimento, accanto al camino.
– Sono già al lavoro.
– Intendevo lavoro lavoro.
Neal ascoltò il gocciolio della pioggia sul tetto di paglia. Era strano, pensò, che potesse udire quel suono e non avesse riconosciuto il modo in cui Graham bussava alla porta. L’uomo aveva usato la sua mano di gomma, perché con la mano vera teneva la valigia. Neal Carey era fuori forma, e lo sapeva.
Sapeva anche che era inutile tentare di spiegare a Graham che i libri sul pavimento erano «lavoro lavoro», quindi si limitò a dire: – L’ultima volta che ci siamo parlati, ero stato «sospeso», ricordi?
– Era solo per darti modo di raffreddare i bollenti spiriti.
– E ora sono abbastanza freddo, mi sembra di capire.
– Come il ghiaccio.
Sí, sono proprio io, pensò Neal. Ghiaccio. Freddo al tatto ma si fonde subito. L’ultimo lavoro per poco non mi ha lasciato in ghiacciaia in modo permanente.
– Non lo so, papà, – disse Neal. – Ormai credo di essere in pensione.
– Hai ventiquattro anni.
– Sai cosa intendo.
Graham si mise a ridere, stringendo gli occhi a fessura. Sembrava un Buddha irlandese, senza la pancia.
– Hai ancora buona parte del denaro, vero? – disse. – Quanto credi che durerà?
– Un bel po’.
– Chi ti ha insegnato a far durare a lungo ogni dollaro?
– Tu.
Mi hai insegnato molto piú di questo, pensò Neal. Come seguire una persona senza farsi scoprire, come entrare e uscire da un appartamento, come aprire uno schedario chiuso a chiave, come perquisire una stanza. E come mettere insieme tre pasti al giorno con pochi soldi, come tenere una casa pulita e vivibile e come avere rispetto per sé stessi. Tutto ciò che un investigatore privato ha bisogno di sapere.
Neal aveva undici anni quando aveva conosciuto Graham. Quel giorno aveva cercato di borseggiarlo, si era fatto pizzicare ed era finito a lavorare per lui. La madre di Neal faceva la puttana e suo padre era sparito dalla circolazione, quindi Neal non aveva una grande autostima, diciamo cosí. E non aveva neppure soldi, cibo o un’idea di cosa fare della sua vita.
– Non c’è di che, – disse Graham, interrompendo i suoi pensieri.
– Grazie, – disse ancora Neal, sentendosi un ingrato. Era cosí che Graham voleva farlo sentire. E aveva un talento di alto livello.
– Voglio dire, alla tua università da fighetti vuoi tornarci, no? – chiese.
Di sicuro ha già parlato con il mio professore, pensò Neal. Joe Graham raramente faceva una domanda di cui non conoscesse la risposta.
– Hai parlato con il professor Boskin?
Graham annuí, allegro.
– E?
– Ha detto quello che diciamo anche noi. «Torna a casa, tesoro, tutto è perdonato».
Perdonato?, pensò Neal. Ho fatto solo quello che mi hanno chiesto di fare. E in cambio ho ricevuto un po’ di soldi e un periodo in esilio. Be’, l’esilio va benissimo, grazie. Mi è costato solo l’amore della mia vita e un anno perso all’università. Ma Diane mi avrebbe lasciato in ogni modo, e avevo bisogno di tempo per la ricerca.
Graham non voleva che si fermasse a pensare troppo a lungo, quindi disse: – Non puoi vivere per sempre come un monco, no?
– Come un monaco, intendi.
– Sai benissimo cosa intendo.
In realtà, pensò Neal, potrei davvero vivere per sempre come un monaco ed essere molto felice.
Era la verità. Ci aveva messo del tempo ad abituarsi, ma adesso era felice di pompare l’acqua, scaldarla sulla stufa e fare bagni tiepidi nella vasca davanti a casa. Era felice di scendere al villaggio due volte alla settimana, per fare la spesa, bere una pinta e magari perdere una partita a freccette, poi mettersi le borse della spesa in spalla e risalire sulla collina.
La sua routine non variava quasi mai, e gli piaceva. Si alzava all’alba, metteva su il caffè e andava a lavarsi. Poi si sedeva fuori con la prima tazza e guardava sorgere il sole. Tornava dentro, preparava la colazione – toast alle uova fritti da entrambe le parti – e leggeva fino all’ora di pranzo. Che di solito era costituito da pane, formaggio e frutta. Dopo pranzo andava a camminare fino all’altro lato della brughiera e poi tornava a studiare. Hardin e il suo cane si facevano vedere verso le quattro, e tutti e tre bevevano un sorso di whisky, visto che il cane e il pastore avevano entrambi un po’ d’artrite. Dopo un’oretta Hardin finiva di raccontare le sue balle da pescatore e Neal riguardava gli appunti che aveva preso nella giornata, dopodiché accendeva il generatore. Per cena si preparava una zuppa in scatola o dello stufato, leggeva ancora, poi andava a letto.
Era una vita solitaria, ma gli piaceva. Stava facendo progressi con la tesi di laurea, che aveva rimandato a lungo, e si godeva la solitudine. Forse era una vita da monaco, ma forse lui era un monaco.
Certo, Graham, potrei vivere cosí per sempre, pensò.
Invece chiese: – Che lavoro è?
– Una stronzata da nulla.
– Sicuro. Sei venuto fin qui da New York per una stronzata da nulla?
Graham si stava divertendo un mondo. Il suo piccolo viso da arpia splendeva come quello di un cherubino che avesse appena ricevuto una pacca sulla schiena da Dio.
– No, figliolo, è davvero una roba da poco.
Lí Neal commise il suo terzo errore: gli credette.
Graham aprí la valigia, tirò fuori un grosso fascicolo e glielo porse.
– Ti presento il dottor Robert Pendleton.
La foto di Pendleton sembrava presa da un notiziario aziendale, uno di quei ritratti a mezzobusto con la didascalia: «Il nostro nuovo vicepresidente allo Sviluppo». Naso affilato, mento affilato e occhi affilati: un viso contro il quale rischiavi di tagliarti. I capelli neri corti erano radi in cima alla testa. Il suo valoroso sforzo di sorridere sembrava un atto innaturale e la cravatta poteva aiutare gli aerei ad atterrare in una notte di nebbia.
– Il dottor Pendleton è uno scienziato, – disse Graham. – Si occupa di ricerca per l’AgriTech, un’azienda di Raleigh, North Carolina. Sei settimane fa, ha preso i suoi appunti, i dischi del computer e lo spazzolino da denti ed è andato a un convegno alla Stanford University, vicino…
– So dov’è.
– Vicino a San Francisco, dove ha preso alloggio al Mark Hopkins Hotel. Il convegno è durato una settimana, ma Pendleton non è mai tornato.
– Cosa dice la polizia?
– Non ho parlato con loro.
– Non è la procedura standard, in un caso di persona scomparsa?
Graham si produsse in un ghigno su misura per farlo sentire un idiota. – Chi ha detto che Pendleton è scomparso?
– Tu.
– No, io ho detto che non è tornato. C’è una differenza. Sappiamo dove si trova. Solo che non vuol tornare a casa.
E va bene, pensò Neal, giochiamo pure.
– Perché?
– Perché cosa?
– Perché non vuol tornare a casa?
– Sono felice di vedere che cominci a fare domande sensate, figliolo.
– Allora rispondi.
– Si è trovato una bambola cinese.
– Intendi dire, – chiese Neal, – che è in compagnia di una donna orientale dall’affetto in affitto?
– Una bambola cinese.
– Quindi, qual è il problema e come mai siamo coinvolti noi?
– Un’altra buona domanda.
Graham si alzò dalla sedia e andò in cucina. Aprí lo stipo centrale, allungò una mano fino alla mensola in alto e prese la bottiglia di whisky di Neal.
– Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa, – disse, allegro. – Un altro dei miei insegnamenti.
Tornò nella sala, infilò la mano in valigia e prese un piccolo bicchiere di plastica, di quelli che si estendono a telescopio. Si versò tre dita di whisky e offrí la bottiglia a Neal.
– È umido da queste parti, – disse.
Neal prese la bottiglia e la posò sul tavolo. Non voleva farsi mettere nel sacco e accettare il lavoro per motivi sentimentali.
Graham sollevò il bicchiere e disse: – Alla regina e a tutta la sua famiglia.
Vuotò due terzi del whisky e lasciò che il calore si diffondesse attraverso il corpo. Se fosse stato un gatto avrebbe fatto le fusa, ma poiché era un cretino, si produsse solo in uno sguardo ammiccante. Ora che si sentiva protetto contro l’umidità, continuò: – Pendleton è la piú grande autorità mondiale in fatto di merda di pollo. L’AgriTech ha destinato a quella roba milioni di dollari.
– Lasciami indovinare, – disse Neal. – La banca ha milioni di dollari investiti nell’AgriTech.
L’arrivo improvviso di Graham cominciava ad avere un senso.
– Ecco il mio ragazzo, – disse Graham.
Questo spiega tutto, pensò Neal. Io sono il ragazzo di Graham, il ragazzo di Levine, ma soprattutto sono il ragazzo della banca.
La banca era un piccolo istituto finanziario di Providence, nel Rhode Island, che ai propri facoltosi clienti faceva due promesse: protezione assoluta dagli occhi della stampa, del pubblico e dei magistrati e un aiuto discreto con quei piccoli problemi della vita che non si potevano sistemare con una semplice elargizione di denaro.
Quella era la parte che riguardava Neal. Lui e Graham lavoravano per un settore della banca chiamato «Amici di Famiglia». Niente targhetta sulla porta, ma chiunque avesse il giusto curriculum finanziario e un problema da risolvere sapeva di potersi recare nell’ufficio sul retro per parlare con Ethan Kitteredge, il quale avrebbe trovato un modo per risolvere la faccenda, a titolo gratuito.
Di solito Kitteredge, che i suoi impiegati chiamavano semplicemente il Capo, risolveva le faccende chiamando Ed Levine, il quale a sua volta telefonava a Joe Graham a New York. E Graham tirava dentro Neal Carey. A quel punto, Neal si metteva in moto per ritrovare la figlia di qualcuno, per scattare foto della moglie di qualcun altro che giocava a «nascondi il salame» all’Hotel Plaza, o per introdursi in un appartamento e recuperare degli importantissimi libri contabili nascosti.
In cambio, gli Amici lo avevano mandato in un’ottima scuola privata, e gli pagavano l’affitto e le tasse universitarie.
– Quindi, – disse Neal, – la banca ha fatto un prestito enorme all’AgriTech e uno dei piú importanti scienziati della suddetta azienda si è preso un anno sabbatico. E allora?
– La merda di pollo.
– Cosa c’è di cosí importante nella merda di pollo?
– Non parliamo di merda di pollo qualsiasi, ma di quella di Pendleton. Si tratta di un fertilizzante, no? Lo spargi sulle piante per farle crescere, un’idea che mi fa un po’ schifo, ma insomma, si tratta di questo. Pendleton ha lavorato per anni e anni a un modo per aumentare il potere fertilizzante della merda di pollo, mescolandola ad acqua trattata con dei batteri particolari. È noto come «processo di incremento».
Ora, in passato non si poteva mescolare la merda di pollo con l’acqua, perché avrebbe perso il suo effetto. Con il sistema di Pendleton, non solo si può mescolare con l’acqua, ma l’effetto si triplica. Ovvio che farebbe un’ottima figura sugli scaffali dell’AgriTech. Magari te ne regalo un po’ per Natale, cosí la spalmi sul tuo pisellino, anche se dubito che sia cosí efficace.
– Grazie.
– Ma non farti troppe illusioni, perché proprio quando al Dottor Guano mancava tanto cosí, – Graham avvicinò indice e pollice, – per ottenere la Supermerda, ecco che va al convegno e incontra la signorina Wong.
– È il suo vero nome?
– E che ne so? Wong, Wang, Ching, Chang, che differenza fa?
– Va bene. Allora anche dottor Tizio o dottor Caio non fa molta differenza, no? Scommetto che all’AgriTech lavorano altri biochimici.
– Non del livello di Pendleton. Inoltre, lui si è portato dietro tutti i suoi appunti.
Neal aveva capito di cosa si trattava e non voleva quel lavoro. Forse Robert Pendleton non intende finire la sua ricerca, pensò, ma io voglio finire la mia. Laurearmi e trovare un posto in qualche piccola università statale e passare il resto della vita a leggere, invece che a fare lavori sporchi per il Capo.
– Fatelo arrestare per furto, allora, – disse. – Gli appunti sono proprietà dell’AgriTech.
Graham scosse la testa. – In quel caso, forse Pendleton ci rimarrebbe troppo male per rimettersi a giocare con le sue provette. Quelli dell’AgriTech non vogliono vedere il professore in cella; vogliono la merda di pollo nel vaso.
Graham prese la bottiglia dal tavolo e si versò un altro whisky. Si stava divertendo immensamente. Far incazzare Neal valeva il viaggio in aereo sopra l’oceano, quello in macchina fino allo Yorkshire e la salita a piedi sulla collina. Era bello rivedere quello stronzetto.
– Se Pendleton non vuol tornare, non vuol tornare, – disse Neal.
Graham ingollò il whisky d’un fiato. – Bisogna convincerlo a tornare.
– Parli in senso collettivo, giusto? Bisogna è impersonale.
– Parlo di te, Neal Carey.
All’improvviso, Neal provò una grande simpatia per il dottor Robert Pendleton. Entrambi erano in compagnia di ciò che amavano, il professore era con la sua donna e Neal con i suoi libri. E adesso venivano entrambi presi per un orecchio, recalcitranti, e riportati alla merda di pollo.
A causa sua, sono arrivati a me, pensò Neal, e a causa mia arriveranno a lui. È tutto un gioco di specchi. Allungò una mano per prendere la bottiglia e si versò una dose generosa nella tazza del caffè.
– E se rifiutassi? – chiese.
Graham cominciò a sfregare la mano finta dentro quella vera. Lo faceva quando era preoccupato o quando doveva dire qualcosa di spiacevole. Neal gli risparmiò la fatica: – In tal caso dovrai convincermi?
Graham ora sfregava la mano a tutto vapore. Una cosa era far incazzare Neal, un’altra ricattarlo. Tuttavia, era d’accordo con il Capo e Levine che Neal era rimasto abbastanza tempo chiuso con i suoi libri e che, se non l’avessero richiamato al lavoro, rischiavano di perderlo. Era una situazione che a volte si verificava. Un agente sotto copertura di alto livello veniva messo a riposo per un periodo dopo un lavoro difficile, e poi non tornava piú. O peggio, tornava demotivato e arrugginito e faceva qualcosa di stupido e finiva male. Capitava spesso, ma Graham non aveva intenzione di lasciare che capitasse a Neal. Perciò era venuto a prenderlo per quel lavoro di merda di pollo.
– Sei stato lontano dalla Columbia University per quanto tempo? Un anno?
– All’incirca. Mi avevate mandato qui per un lavoro, ricordi?
Neal lo ricordava benissimo. Era stato spedito a Londra in cerca della figlia scappata di casa di un politico importante. La ricerca era senza speranza, serviva solo a fare contenta la moglie del politico. Invece lui aveva davvero trovato la ragazza, incasinando tutto. Lei era tossica e si prostituiva, lui l’aveva strappata al pappone e alla droga, e l’aveva riconsegnata alla madre. Era questo che il Capo voleva, ma il politico si era incazzato alla grande, cosí gli Amici avevano dovuto fingere che Neal avesse fregato anche loro. Quindi Neal era dovuto «sparire». E ne era stato felice.
– È una cosa che si può fare? – chiese Graham. – Stare lontano tanto tempo dalla tua università da fighetti senza conseguenze?
– No, Graham, non si può fare. Sono stati gli Amici di Famiglia a sistemare tutto. Ma che te lo dico a fare? Sei stato tu l’artefice.
Graham sorrise. – E adesso ti chiediamo un piccolo favore.
– Altrimenti l’università scoprirà che la mia lunga assenza è irregolare?
Graham fece spallucce, come per dire: «Cosí è la vita».
– Perché io? – si lamentò Neal. – Perché non tu? O Levine?
– Il Capo vuole te.
– Perché?
Perché, pensò Graham, non ce ne staremo a guardare con l’uccello in mano mentre tu ti trasformi in un eremita. Io ti conosco, figliolo. Ti piace startene da solo per poter rimuginare e goderti la tristezza. Invece hai bisogno di tornare al lavoro e all’università, di tornare a stare con la gente. Con i piedi sul cemento.
– Tu e Pendleton siete entrambi dei cervelloni, – disse. – Il Capo ti paga un’istruzione di lusso proprio per lavori come questo.
Neal bevve un sorso di whisky. Graham stava cominciando a riavvolgere la lenza.
– Pendleton è un biochimico. Io studio la Letteratura inglese del XVIII secolo!
Tobias Smollett: il fuoriclasse della letteratura del XVIII secolo. Era il titolo della sua tesi, nonché una cura infallibile per l’insonnia. L’avrebbero trovata interessante solo i fissati del XVIII secolo, cioè due persone in tutto, lui compreso.
– Forse per il Capo tutti i cervelloni sono uguali.
Neal provò un’altra tattica.
– Sono fuori forma, Graham. Arrugginito. Negli ultimi due anni ho lavorato solo a un paio di casi e li ho incasinati tutti e due. Non sono la persona giusta.
– Hai riportato a casa Allie Chase.
– Non prima di aver messo in pericolo la vita di entrambi. Non sono piú in grado di fare queste cose, papà, io…
– Basta piagnucolare! Cosa ti stiamo chiedendo, in fondo? Vai a San Francisco e trovi i due colombi, cosa che non dovrebbe essere troppo difficile nemmeno per te, visto che alloggiano all’Holiday Inn di Chinatown, stanza 1016, come è riportato nel fascicolo che ti ho dato. Prendi da parte la ragazza, le offri dei soldi e lei pianta in asso Pendleton. Non è una stupida, sa che prendere dei soldi in cambio di niente è meglio che prenderli in cambio di qualcosa.
Poi ti fai amico Pendleton, bevete qualcosa insieme, ascolti la sua triste storia e lo metti su un aereo di ritorno a casa. Quanto può durare? Tre o quattro giorni?
Neal andò alla finestra. La pioggia si era un po’ calmata, ma la nebbia era piú fitta che mai.
– Sono lieto di vedere che hai già pensato a tutto, Graham. Mi farai anche la ricerca per l’università?
– Fa’ il tuo lavoro, poi torna qui. Se vuoi potrai passare tutta l’estate qui all’Hilton delle muffe. Ma il nove settembre dovrai essere di nuovo a scuola.
Mise una mano in valigia e tirò fuori una busta gialla.
– Qui ci sono i programmi e l’elenco dei libri per i tuoi… come si chiamano? Seminari. L’ho preparata con Boskin.
Graham è davvero in gamba, pensò Neal. Si è portato dietro anche il premio e me lo fa penzolare davanti al naso: seminari, elenco dei libri… devo ammettere che conosce le sue puttane.
– Sei troppo buono con me, papà.
– Oh, lo so bene.
Insomma, qualche giorno di lavoro sporco in California, poi di nuovo nella mia cella monacale nella brughiera. Finisco le mie letture e torno all’università. Gesú, questa doppia vita. A volte mi sento il fratello gemello di me stesso. Il fratello pazzo.
– Sí, va bene, – disse.
– Ascolta me, – disse Graham. – Puoi aggiudicarti la partita con un solo lancio semplice in prima base.
– Già.
Forse è davvero arrivato il momento di scendere dalla collina, pensò Neal. Tornare nel mondo con questo lavoretto. Forse qui è tutto troppo facile, non serve avere a che fare con nulla e nessuno, a parte scrittori morti da un paio di secoli.
Guardò fuori dalla finestra e non capí se quel che vedeva era pioggia o nebbia. Forse tutte e due, pensò.
– Hai notizie di Diane? – chiese Graham.
Neal pensò alla lettera ancora chiusa che se ne stava sul tavolo da sei mesi. Aveva paura di leggerla.
– Non ho mai risposto alla sua lettera, – disse.
– Sei un cacasotto.
– Già.
– Credevi che lei se ne sarebbe stata ferma ad aspettarti?
– No, non lo credevo affatto.
L’aveva lasciata senza spiegazioni, dicendo solo che doveva partire per un lavoro, e ormai era trascorso quasi un anno. Graham l’aveva contattata, le aveva raccontato qualcosa e aveva fatto avere a Neal la sua lettera. Ma lui non l’aveva ancora aperta. Preferiva che la storia tra loro morisse da sola, piuttosto che sapere che lei l’aveva uccisa. Ma non era stata lei a ucciderla, pensò. Lei aveva solo avuto il coraggio di scrivere il necrologio.
Ma Graham non aveva intenzione di lasciar cadere l’argomento. – Diane ha lasciato l’appartamento.
– Lei non è il tipo che resta.
– Ha trovato un posto sulla Centoquattresima, tra Broadway e West End. Abita con un’altra ragazza.
– Come hai fatto? L’hai pedinata?
– Certo. Pensavo che avresti voluto saperlo.
– Grazie.
– Perché non la cerchi, quando torni in città?
– Chi sei, mia madre?
Graham scosse la testa e si versò un altro whisky.
– Per come la vedo io, – disse, – lei è un’amica di famiglia.
Neal sapeva che non avrebbe mai dovuto aprire la porta.
2.
Era davvero una bella donna, Lila.
Si chiamava cosí, o almeno quello era il nome che usava ai congressi. Neal lo scoprí dal fascicolo che gli aveva consegnato Graham. Durante il lungo volo per San Francisco ebbe tutto il tempo di studiarlo. Conteneva anche una polaroid scattata a una cena da uno dei colleghi di Pendleton all’AgriTech. C’era Pendleton seduto a un lungo tavolo con una bellissima donna orientale. L’amico aveva scritto in basso «Robert e Lila».
Guardando la foto, Neal capí come mai Pendleton avesse preferito quella ragazza ai suoi becchi Bunsen. Lila aveva il viso a forma di cuore, i capelli di un nero vellutato, lunghi, lisci e raccolti in alto a sinistra da un pettine cloisonné azzurro. Gli occhi a mandorla fissavano con affetto Pendleton, che lottava per mangiare con i bastoncini. Gli sorrideva. Se era una professionista, pensò Neal, era di classe, e gli piacque già da quella foto.
Di Pendleton non si era ancora fatto un’idea. Le informazioni su di lui erano scarne. Quarantatre anni, single, sposato con il lavoro. Nato a Chicago, laurea in Colorado, master in Illinois, dottorato di ricerca al Mit di Boston. Aveva insegnato un paio d’anni alla Kansas State University e poi aveva scelto i soldi del settore privato. Prima la Ciba-Geigy, poi Archer, Daniels Midland e infine l’AgriTech. Lavorava lí da dieci anni, quando aveva conosciuto Lila. Abitava in un condominio, giocava un po’ a tennis, aveva una Volvo. Niente problemi finanziari, debiti o altro. Al contrario, confrontando stipendio e bonus con le sue spese, si capiva che doveva avere un bel po’ di soldi da parte. Nel fine settimana usciva a bere una birra. Persona amichevole ma senza amici intimi. Niente donne e neppure uomini. Il fertilizzante era la sua vita.
Cristo, pensò Neal, nessuna meraviglia che abbia perso la testa, una volta scoperto il sesso con una donna splendida in una bella città come San Francisco.
Neal era stato a San Francisco nel 1970, sette anni prima, quando la città era la capitale della controcultura. Capelli lunghi, jeans, collana di perline colorate e aspetto affamato da fuggiasco, Neal si occupava per conto di Graham di ritrovare la classica ragazza ricca scappata di casa per andare a vivere nel quartiere hippy di Haight-Ashbury. Aveva localizzato la figlia dei fiori in una comune di Turk Street. Era la figlia di un banchiere di Boston e si sforzava di abbandonare la sua eredità capitalista. Neal aveva condiviso con lei una ciotola di riso integrale e un pavimento per dormire, si era guadagnato la sua fiducia, poi l’aveva tradita. Da quel punto in avanti se n’era occupato Graham e tempo dopo Neal aveva saputo che la ragazza era finita a Harvard. Tutti i tradimenti dovrebbero avere un lieto fine come quello.
Il suo secondo viaggio a San Francisco era stato ancora piú facile. A quell’epoca era un maturo ventenne, e un cliente della banca voleva girare uno spot pubblicitario davanti a una scultura, a Battery Park. Si era scoperto che la scultura era opera di A. Brian Crowe, un artista che non amava aprire la posta o rispondere al telefono. Neal l’aveva trovato in una caffetteria sulla Columbus. L’artista ovviamente era tutto vestito di nero e, quando Neal l’aveva avvicinato, si era nascosto dietro il suo mantello. Ma poi un’offerta di duemila dollari in contanti l’aveva convinto a uscire, e avevano siglato l’accordo davanti a due caffè freddi. A. Brian Crowe se n’era andato tutto contento. Neal era rimasto in città per un’altra settimana e anche lui se n’era andato contento, il che aveva reso davvero insolito quel lavoro.
Neal pensava che solo uno stupido poteva non amare San Francisco, e qualsiasi cosa fosse Robert Pendleton, di sicuro non era stupido. Probabilmente era un uomo che per la prima volta nella sua vita stava vivendo una storia romantica e non voleva abbandonarla. Aveva avuto la rara fortuna di trovare una puttana che era anche una cortigiana, una vera signora della notte, che magari invece di prendere soldi accettava regali, o forse un discreto versamento sul proprio conto corrente.
Neal le avrebbe fatto un altro versamento e la sua storia con Pendleton sarebbe finita lí.
Chiuse il fascicolo e aprí il Fathom. Si addormentò dopo due capitoli. La hostess lo svegliò per chiedergli di raddrizzare il sedile prima dell’atterraggio.
A Neal il Mark Hopkins Hotel non era mai piaciuto. Tariffe grandi e stanze piccole, e il fatto che si trovasse in una zona in non lo impressionava. Ma, se devi corrompere qualcuno, avere un aspetto da ricco è utile. Intendeva invitare Lila a un cocktail sulla terrazza, non lontano dalla stanza in cui avrebbe potuto darle i soldi con la necessaria privacy. Perciò superò il proprio disgusto e si registrò al Mark.
Diede all’impiegato snob la carta oro della banca, confessò di non avere altro che una piccola borsa da viaggio e trovò da solo la sua stanza al sesto piano. Era una stanza d’angolo, abbastanza grande da potersi girare senza dover incrociare le braccia sul petto. Le finestre davano sul ponte di Oakland e su alcune belle case vittoriane restaurate in Pine Street. A Neal non importava della vista, dato che non pensava di passare molto tempo in quella stanza. Voleva solo fare una lenta doccia e un rapido pasto, e poi si sarebbe messo al lavoro.
Chiamò il servizio in camera e ordinò un’omelette al formaggio svizzero con un panino tostato, una cuccuma di caffè e una copia del «Chronicle». Poi si tolse i vestiti che puzzavano di aereo ed entrò nella doccia. Dopo mesi di bagni tiepidi all’aperto, lo spruzzo caldo fu una bella sensazione. La prolungò piú del necessario e, quando suonarono alla porta, stava ancora facendosi la barba.
Firmò la nota lasciando anche la mancia, si versò una tazza di caffè nero e la sorseggiò mentre finiva di radersi. Poi si sedette al tavolino davanti alla finestra per divorare il cibo e il giornale.
Neal era un tossico della carta stampata, secondo lui proveniva dal fatto di essere nato a New York. Saltò la prima pagina del «Chronicle» e lesse subito con piacere l’articolo di Herb Caen, quindi passò alle pagine sportive. La stagione del baseball stava per cominciare e gli Yankees sembravano in ottima forma per il ’77. Questo è uno degli aspetti piú gradevoli della primavera, pensò. Tutte le squadre sembrano avere buone possibilità. È solo nelle afose giornate estive che le speranze cominciano ad appassire, per poi morire in autunno. A meno che, naturalmente, la sostituzione di un lanciatore non riaccenda la fiamma.
Dopo aver letto tutta la cronaca sportiva, Neal tornò alle prime pagine per guardare le notizie. Jimmy Carter era diventato presidente, indossava maglioni alla Ward Cleaver e trattava la nazione come Cleaver trattava il figlio Billy nella serie televisiva Il carissimo Billy. Mao continuava a essere morto e i suoi successori se ne litigavano i resti. Brèžnev era malato. Le stesse vecchie cose di sempre.
Il che gli ricordò che lui aveva lo stesso vecchio lavoro da fare: trovare un tizio che si stava comportando male e riportarlo a casa. Bevendo la terza tazza di caffè tracciò il suo piano.
Non era un piano complicato, in realtà. Doveva solo recarsi all’Holiday Inn, seguire la coppia finché non fosse riuscito a contattare la donna in privato e farle la sua offerta. Poi avrebbe raccolto i pezzi del cuore di Pendleton e lo avrebbe riaccompagnato a Raleigh. Facile quasi come dare dei soldi a un artista morto di fame.
Fu allora che gli venne la grande idea di usare le dita. Perché fare la fatica di scendere dalla collina e perdere tempo a seguirli? Meglio chiamare la loro stanza. Se risponde lui, riattacco, pensò. Se risponde lei, dico qualcosa tipo: «Non mi conosci, ma ci sono mille dollari per te sotto un bicchiere, sulla terrazza del Mark. Chiedi di Neal Carey, all’una. Vieni sola».
Nessuna puttana al mondo, di classe o non di classe, avrebbe rifiutato un appuntamento simile.
Sicuro, semplice, civilizzato, pensò Neal. Non ha senso rendere le cose piú difficili di quanto debbano essere. Trovò il numero dell’hotel nel fascicolo e chiamò il centralino.
– Stanza 1016, per favore, – disse.
– Le passo l’operatore.
Neal bevve un sorso di caffè.
– Operatore. Come posso aiutarla?
– Mi passi la stanza 1016, per favore.
– Certo. Un momento.
Ci volle piú di un momento. Qualcosa come dieci momenti.
– Chi desidera contattare, signore?
Uh-oh.
– Il dottor Robert Pendleton.
– Grazie. Un momento.
Altri dieci momenti. Molto lunghi.
– Mi spiace, signore. Il dottor Pendleton ha lasciato l’albergo.
Fantastico.
– Aaah… quando?
– Stamattina, signore.
Mentre mi facevo la doccia, mi riempivo la pancia e leggevo il giornale, pensò Neal.
– Ha lasciato un indirizzo dove sia possibile contattarlo?
– Un momento.
Ha lasciato un indirizzo? La domanda della disperazione.
– Mi spiace. Il dottor Pendleton non ci ha dato alcun indirizzo. Desidera lasciare un messaggio, nel caso dovesse chiamarci?
– No, non fa niente. Grazie della gentilezza.
– Buona giornata.
– Sí, ottima.
Nel tempo che ci mise a darsi dell’idiota, Neal si versò un’altra tazza di caffè. Pensa, pensa, si disse poi. Pendleton se n’è andato. Come mai? Forse è una questione di soldi. Gli alberghi costano e si è trovato un appartamentino da qualche parte. O magari l’AgriTech continuava a rompergli le palle e ha deciso di cambiare hotel. O forse la festa è finita e sta già tornando a Raleigh. Quella sarebbe la soluzione migliore, ma non puoi permetterti di contarci. Perciò rimettiti al lavoro.
Pendleton non è un professionista, quindi è probabile che non abbia pensato a coprire le tracce. Probabilmente non sa neppure che qualcuno è sulla sua pista. E c’è un solo posto da cui cominciare la caccia.
Neal si vestí in fretta. Camicia blu carta da zucchero, pantaloni cachi, mocassini neri. Si mise al collo una cravatta regimental rossa e blu, senza fare il nodo, e vuotò la sua piccola borsa da viaggio, lasciando dentro solo abbastanza roba da darle un po’ di peso. Infilò il suo biglietto aereo nella tasca della giacca sportiva blu garantita antipiega, una banconota da dieci dollari nella tasca dei pantaloni e corse all’ascensore, che ci mise una vita ad arrivare. Si trovava a dieci minuti di distanza dalla sua unica possibilità di rintracciare Pendleton e non sapeva se quei dieci minuti li aveva.
L’Holiday Inn era in Kearny Street, dal Mark Hopkins bastava scendere un po’ lungo California Street. Normalmente sarebbe andato a piedi, ma il tram arrivò proprio mentre usciva sul marciapiede. Cosí acquistò un biglietto e salí a bordo, tenendosi appeso fuori come aveva visto fare al cinema. Era una giornata fresca e soleggiata, ma stava già sudando. Era in corsa contro le donne delle pulizie dell’Holiday Inn.
Scese all’angolo tra Kearny e California, tre isolati a sud dell’Holiday Inn. Non si mise a correre, ma non andò neppure piano, tre isolati in due minuti. Evitando il portiere, filò dritto agli ascensori e ne vide uno aperto. Salendo trattenne il fiato, o quasi. Voleva avere l’aria affannata per lo show che si preparava a recitare.
Le porte si aprirono. Un cartello con una freccia indicava che le stanze da 1001 a 1030 erano a sinistra. Neal corse lungo il corridoio e vide due carrelli delle pulizie tra le stanze 1001 e 1012. Tutto dipende da dove hanno cominciato, pensò. Si atteggiò a un’espressione preoccupata, agitata e frettolosa. Nulla che richiedesse grandi capacità di recitazione.
– Perderò l’aereo, – disse alla cameriera che stava uscendo dalla 1012. – Ha trovato un biglietto?
Lei gli rivolse uno sguardo confuso. Era giovane e insicura. Lui si diresse alla 1016 e provò la maniglia. La porta era chiusa a chiave.
– Ha trovato un biglietto in questa stanza? Un biglietto aereo?
L’altra donna uscí dalla 1011. – Cos’ha perso?
Era piú anziana. Era lei il capo.
– Il mio biglietto aereo.
– Quale stanza? – chiese lei, squadrandolo.
Neal sapeva che non doveva darle il tempo di collegare Pendleton a quella stanza. Sperava che il buon dottore non avesse lasciato grosse mance.
– Potrebbe farmi entrare, per favore? Devo prendere un volo per Atlanta tra quarantacinque minuti.
– Chiamo il manager.
– Non c’è tempo, – disse Neal, tirando fuori la banconota da dieci e posandola sul bordo del carrello. – La prego.
Lei prese il mazzo di chiavi, ne scelse una e la infilò nella serratura. La piú giovane si mise a blaterare in cinese, ma l’altra la fece tacere con un’occhiata dura.
– Faccia presto, – disse a Neal. Restò sulla soglia mentre lui entrava. La giovane si uní a lei, nel caso quel cliente tentasse di fregarsi un posacenere o il televisore.
Neal aveva perquisito tante stanze nella sua vita, mai però davanti a un pubblico e in una manciata di secondi, a meno di contare le sedute di allenamento con Graham. Era una specie di caccia al tesoro in cui, se avesse superato il primo livello, poteva proseguire per vincere i premi in palio. Sarebbe stato d’aiuto sapere cosa cercava, ma visto che non lo sapeva ci voleva piú tempo.
Il letto era sfatto, ma la stanza era in ordine. Non erano partiti in fretta e furia. Avevano anche lasciato gli asciugamani usati nella vasca e gettato la spazzatura nei cestini.
Neal cominciò dai cassetti del comò. Niente.
– Merda, – disse, per dare un po’ di realismo alla scena.
Controllò il comodino. Tra il telefono e la Bibbia c’era uno di quei bloc-notes degli alberghi. Neal voltò le spalle al pubblico e se lo mise in tasca.
– Non ce la farò mai, – disse.
– Sotto il letto? – suggerí la donna piú anziana.
Neal le diede corda e si mise a quattro zampe per guardare sotto il letto. Non c’era neppure un granello di polvere, figuriamoci un calzino spaiato o un bigliettino con la destinazione della coppia.
– Forse l’ho gettato via per sbaglio, – disse rialzandosi. – Che stupido.
Le due donne annuirono con entusiasmo.
Il cestino della spazzatura era pieno. Dovevano aver riordinato prima di lasciare la stanza. Persone cortesi e civili. Tre lattine vuote di Pepsi light, cartoncini della lavanderia, c’era una mappa tascabile di San Francisco e sul fondo una serie di biglietti usati.
– Gesú, come ho potuto essere cosí stupido? – disse Neal, chinandosi sopra il cestino. Mentre mostrava il culo al suo pubblico, sfilò di tasca il suo biglietto aereo e lo gettò nel cestino, infilando sotto la custodia del biglietto la mappa e i biglietti usati che aveva trovato. Si raddrizzò, mostrando il biglietto alle due donne, poi se lo mise nella tasca della giacca.
– Grazie mille, – disse.
– Deve fare in fretta, – disse la piú anziana.
In fretta, certo, pensò Neal.
Il personale di sicurezza lo bloccò nell’atrio.
In quel caso, il personale di sicurezza era rappresentato da un giovane cinese, piú grosso e muscoloso di quanto Neal avrebbe desiderato. Dal torace, che tendeva la giacca grigia, e dalle grosse braccia, si capiva che dedicava parecchio tempo al culturismo. Neal, che non doveva preoccuparsi di lasciare spazio nella giacca per i suoi muscoli, sapeva che quell’uomo poteva inchiodarlo senza sforzo, malgrado la pancetta che si intravedeva sotto la camicia. Il cinese aveva anche un walkie-talkie alla cintura e probabilmente un manganello infilato dietro la schiena. E sembrava deciso a parlare con lui.
– Mi scusi, signore, – disse, senza nessuna traccia di accento cinese. – Posso chiederle cosa faceva nella stanza 1016?
La cameriera piú giovane non aveva perso tempo e aveva telefonato appena lui se n’era andato.
– Avevo dimenticato il mio…
– Si risparmi la scena. Quella non era la sua stanza.
Neal accennò agli altri ospiti presenti nell’atrio. – Possiamo parlarne fuori?
– Certo.
Il cinese gli aprí la porta, e Neal poté apprezzare meglio il suo fisico imponente. La sua prossima mossa, pensò, sarebbe stata metterlo con le spalle al muro. Quel gesto avrebbe decretato la fine del gioco, perciò non poteva lasciarglielo fare.
Appena uscito, Neal si voltò a sinistra, alzò una mano e gridò: – Taxi!
Il primo taxi della fila cominciò ad avanzare, mentre uno dei fattorini dell’hotel si preparava ad aprirgli la portiera.
– No, no, no! – disse Culturista, agitando le braccia e mettendosi tra Neal e il taxi.
In realtà, Neal non voleva prendere un taxi, ma vedere se il cinese era davvero disposto a portare tutti quei muscoli e la sua pancetta su per una strada in salita, pur di parlare con lui. Visto che si era messo alla sua sinistra, Neal aveva tutto il lato destro libero e sapeva dove una fuga da quella parte l’avrebbe condotto: attraverso North Beach e su per Telegraph Hill, che era una salita abbastanza lunga e ripida per ciò che aveva in mente. Si voltò di scatto e corse via.
Culturista sprecò due secondi immobile accanto al taxi, intento a chiedersi quanto dovesse sentirsi imbarazzato e se l’inseguimento valesse la pena.
Decise di sí.
Neal non fu felice di vedere il cinese che arrancava alle sue spalle, ma non ne fu neppure preoccupato. L’uomo non avrebbe fatto una scenata nei pressi dell’hotel, e non avrebbe chiamato la polizia per una sciocchezza come quella. Ciò nonostante, era meglio fare in modo che diventasse un fatto personale, cosí Neal sacrificò un secondo del suo vantaggio per voltarsi e sorridere a Culturista. Poi si mise in bocca il dito medio, lo girò, lo tirò fuori facendo schioccare le labbra e glielo mostrò.
Culturista la prese in modo personale. Abbassò la testa e accelerò il passo.
Vieni pure, pensò Neal. Ho passato sette mesi a salire e scendere nella brughiera dello Yorkshire, carico di sacchetti della spesa. Nessun poliziotto gonfiato e sovrappeso può raggiungermi su per una collina.
Dopo Kearny svoltò di nuovo a destra su Broadway, che era un po’ piú pianeggiante di quanto ricordasse. Accelerò l’andatura, superando una fila di sexy shop e locali di strip-tease che stavano aprendo per attirare i primi clienti della giornata. Culturista non si lasciò distrarre dagli stanchi imbonitori che sorseggiavano caffè da tazze di polistirolo, né dalle ballerine assonnate che stavano arrivando, con l’equipaggiamento da lavoro dentro borse da ginnastica a tracolla. Non inciampò sulle bottiglie vuote di birra e vino, non scivolò sulla carta oleata dei sandwich o sulla spazzatura varia che costellava il marciapiede di North Beach. Dalla baia soffiava una brezza vivace, ma nemmeno questo sembrò rallentare il cinese.
Ridotto ormai a tentare i soliti trucchi, Neal attraversò Broadway in mezzo al traffico, provocando rabbiosi colpi di clacson ma senza imbarazzare Culturista, che tolse una Renault dalla sua strada con una manata e continuò l’inseguimento.
Cristo, pensò Neal, che giornata. Prima ho perso tempo e Pendleton ha tagliato la corda, poi ho trovato l’unico detective d’albergo d’America con un esagerato senso del dovere.
Svoltò a destra su Sansome Street, dove trovò la pendenza che cercava. Come un ruscello spumeggiante che confluisce in un fiume inquinato, Sansome Street sembrava un mondo a parte rispetto a Broadway. Sopra i garage c’erano belle abitazioni bianche o dai colori pastello, con grandi terrazze solarium che davano sulla baia. Molte finestre sfoggiavano autoadesivi di un servizio di guardie giurate, per far sapere agli eventuali ladri che era meglio non provarci, se non volevano ritrovarsi attaccati al culo dei poliziotti privati con manganelli, rottweiler e complessi d’inferiorità per non essere riusciti a entrare all’accademia di polizia.
Sansome Street era graziosa, trendy e ben tenuta, e Neal si chiese da dove arrivassero i soldi. Forse da strade come Broadway, pensò, dalle spogliarelliste e dalle puttane, dai tossici e dai fissati del porno, dai tristi ubriaconi che pagano sei dollari per sbirciare da sopra il bicchiere di bourbon i contorcimenti di una ragazzina. Forse erano i neon aggressivi della strip a pagare i caldi solarium con vista sulla baia.
Quei pensieri di arrampicata sociale lo distrassero dal dolore che cominciava a sentire alle gambe e che gli rammentava che Sansome Street era soprattutto una strada ripida per salire in cima a Telegraph Hill. Strinse i denti e accelerò il passo. C’è un trucco per salire una collina: camminare con le ginocchia leggermente piegate, come Groucho Marx quando sale le scale. Ogni tre o quattro passi, sposti il peso sui talloni. Questa tecnica evita di affaticare troppo ginocchia e caviglie e permette di salire piú in fretta. Abbastanza in fretta da lasciare una massa di muscoli cinese con una pancia da birra ad ansimare sul marciapiede.
Dopo aver castigato Culturista in quel modo per un paio di minuti, Neal si voltò a guardare e lo vide ansimante, borbottante e sudato… che stava riducendo il distacco.
Non sapeva dove il cinese avesse imparato la tecnica Carey per salire su una collina, ma evidentemente il suo brevetto era in pericolo. Cosí come il suo culo, perché cominciava a sentirsi le gambe di legno come Pinocchio. La cuccuma di caffè e l’omelette al formaggio della colazione si misero a protestare sotto forma di crampi allo stomaco, mentre i polmoni chiedevano se quella fosse davvero una buona idea.
Si guardò intorno, in cerca di massi o altri oggetti pesanti da far rotolare addosso a Culturista, come nei film, ma non ne trovò. Allora fece un respiro profondo e provò ad accelerare. Il piano A, lasciare il cinese grasso sul pendio, non aveva funzionato. Mentre tentava di immaginare un piano B, gli venne in aiuto la saggezza di Joe Graham.
«Se non puoi batterli, – aveva detto una volta Graham, – prova a corromperli».
Il vantaggio che aveva su Culturista era di una decina di secondi, ma tendeva a ridursi, mentre gliene servivano almeno quindici. Sarebbe stato fortunato a raggiungere il parco di Coit Tower con un distacco di cinque secondi, che non erano affatto sufficienti per ciò che aveva in mente. Si mise quindi a correre.
«Correre» era un termine esagerato per il passo affrettato e strascicato allo stesso tempo che Neal riuscí a mettere insieme. Il suo cuore si produsse in una buona imitazione di qualcuno che avesse esagerato con le anfetamine, il crampo allo stomaco scese fino all’inguine e i polmoni emisero una vibrata protesta, sotto forma di un ansito sibilante. Ma le gambe continuarono a muoversi, portandolo fino all’angolo con Filbert Street, poi a destra e quindi sul lato nord della strada. Mentre le gambe correvano, la mano destra frugò nella giacca, prese il portafoglio e lo passò alla mano sinistra. Le due mani collaborarono per tirare fuori un biglietto da cento dollari e rimettere in tasca il portafoglio. Dopodiché strapparono in due la banconota: la sinistra mise la sua metà nella tasca anteriore dei pantaloni, la destra strinse la propria nel palmo sudato.
Neal si voltò a metà e vide che Culturista non era ancora arrivato all’angolo con Filbert, quindi era possibile racimolare quei quindici secondi. Entrando nel parco di Coit Tower nascose la mezza banconota sotto un grosso sasso ai piedi di un albero, poi corse alla massima velocità possibile lungo il sentiero pedonale che saliva fino al belvedere e memorizzò il punto in cui si trovava l’albero. Si appoggiò alla ringhiera, accanto a uno dei cannocchiali a pagamento, per riprendere fiato. Mentre incamerava aria a grandi boccate, si tolse il mocassino sinistro e ci mise dentro il bloc-notes dell’hotel e i pezzi di biglietti usati, e poi si rimise la scarpa. Le persone che ti perquisiscono, anche dopo averti pestato a dovere, spesso dimenticano di guardare dentro le scarpe.
Prese un’altra boccata d’aria e approfittò della pausa per affacciarsi al belvedere. Il panorama era bello come lo ricordava. Davanti a lui si stendeva tutta la baia. A sinistra si vedeva una parte del Golden Gate Bridge, che toccava la contea di Marin, e in alto si distinguevano le falde meridionali del monte Tamalpais. A destra della montagna c’era Sausalito e ancora piú lontano delle vele minuscole danzavano nell’acqua azzurra, intorno alla tristemente famosa isola di Alcatraz. Alla propria destra, Neal vedeva tutte le arcate del Bay Bridge, che portava a Oakland. Una grande nave da carico solcava la baia in direzione di San Mateo.
Neal ebbe circa cinque secondi per godersi quello splendore, prima di veder comparire Culturista alla base del sentiero. Notò lo sguardo omicida negli occhi del detective e si domandò se tra poco sarebbe stato ridotto in poltiglia.
In tivú questo non è un gran problema. L’eroe viene pestato da due o tre gorilla grandi il doppio di lui, ma quando lo rivedi dopo la pausa pubblicitaria spesso c’è una bella donna che gli cura le ferite e lui ha già superato il peggio. Ma i pestaggi nella vita reale fanno male davvero. E le ferite ci mettono molto tempo a guarire del tutto, sempre che guariscano. Neal avrebbe preferito evitare quell’esperienza.
Appoggiò la schiena alla ringhiera e a uno dei cannocchiali, mentre Culturista raggiungeva il belvedere e avanzava verso di lui.
– Mi costringerai a inseguirti anche in discesa? – chiese, ansimando, mentre si avvicinava lungo la ringhiera.
– Non lo so, funzionerebbe? – disse Neal.
– Stronzo, lo sai dove abito? A Chinatown. Sacramento Street? Clay Street? California Street? Le conosci?
Sono proprio un cretino, pensò Neal.
– Sono tutte colline, – disse.
– Salgo e scendo da quelle strade fin da quando ero piccolo. Se credi di seminarmi su una collina ti sbagli di grosso.
– Hai ragione. Scusa.
– Va bene. Adesso dimmi cos’hai rubato.
– Nulla.
Culturista ora respirava dal naso, rallentando il ritmo. Si guardò intorno per controllare che fossero soli. Lo erano.
Tirò fuori il suo distintivo e lo mostrò a Neal.
– Cerchiamo di tenerla sul semplice, eh? – disse.
– Stavo cercando qualcosa.
– Investigatore privato?
– E va bene, sí.
– Documento?
Neal tirò fuori la mezza banconota da cento.
– Rilassati, – disse. – Il tuo lavoro l’hai fatto. Io non ho rubato nulla. Tu mi hai inseguito e raggiunto. Qui c’è il tuo premio.
Infilò la mezza banconota nella fessura delle monete del cannocchiale e cominciò a indietreggiare.
– Mi stai offrendo dei soldi?
– Esatto.
– Non ho nulla in contrario, voglio solo capire meglio.
– In pratica, ti pago perché tu non ti senta spinto a pestarmi per difendere il tuo onore offeso.
Il cinese sorrise, accettando la resa di Neal. – Dov’è l’altra metà? – chiese.
– Sotto un albero laggiú.
Culturista era veloce, nonostante il grasso. Sollevò la gamba destra e vibrò un doppio calcio nell’aria, davanti al viso di Neal.
– Non penso di giocare a nascondino con una mezza banconota che probabilmente non esiste.
Neal fece un altro passo indietro. – Facciamo cosí: tu prendi questa metà e cominci a scendere lungo il sentiero. Io resto qui dove puoi vedermi. Quando sarai a… diciamo una ventina di passi, comincerò a darti indicazioni, tipo acqua, fuoco, fuochino, finché non troverai l’altra metà.
Culturista ci pensò su qualche secondo.
– Ci sono solo due strade per scendere da qui, – disse.
– Lo so.
– Se provi a fregarmi, ti prendo.
– So anche questo.
– Se mi costringi a farlo, ti rompo le costole.
Quando è troppo è troppo, pensò Neal, anche per un codardo come me. Forse questo caso mi porterà di nuovo nel territorio di questo tizio, e ho bisogno di un certo status per poter stringere un accordo. Dobbiamo essere su un piano di parità.
– Puoi provarci, Bruce Lee, – disse. – Ma ti avviso che sono armato.
Il cinese restò perplesso. Non aveva considerato la possibilità che quel pagliaccio avesse una pistola.
– Sul serio? – chiese, studiando i contorni della giacca di Neal.
– Nooo.
Ma non ne sei sicuro, vero, Culturista? Cosí va bene.
– Abbiamo un accordo? – chiese.
– Credo che possiamo dire cosí, – rispose il cinese. Allungò una mano e prese la mezza banconota dal cannocchiale. Poi rivolse uno sguardo da duro a Neal e si avviò lungo il sentiero.
Neal contò fino a venti, ad alta voce, poi cominciò a dargli indicazioni. Il gioco durò meno di un minuto, poi Culturista mise la mano sotto il sasso e trovò l’altra metà del centone.
– A posto? – gridò Neal.
– Un momento! Controllo i numeri di serie!
Tipo in gamba, pensò Neal. La prossima volta che torno avrà un lavoro in ufficio.
– A posto! – urlò Culturista. – E adesso?
– Non lo so! – gridò Neal di rimando. – È la prima volta che faccio una cosa del genere! Hai qualche idea?
– Me ne vado e basta, no?
– E chi mi assicura che non ti fermi ad aspettarmi?
– Che mente sospettosa!
– Lo so!
Neal stava decidendo se poteva fidarsi, quando il cinese urlò: – Hai un quarto di dollaro?
Eh?
– Sí!
– Allora facciamo cosí. Io vado al molo trentanove. Tu aspetti un quarto d’ora, poi infili la moneta nel cannocchiale, guardi verso il molo e io sarò lí a farti ciao con la mano.
Idea interessante, pensò Neal. – Come no! – gridò. – Cosí avrai il tempo di risalire dall’altra parte e prendermi a calci in culo fino alla baia!
– Non ti fidi di me?
No, pensò Neal, ma non ho scelta, se non voglio passare dei giorni su questa collina.
– Non puoi raggiungere a piedi il molo trentanove in quindici minuti! – gridò.
– Ci vado in taxi, coglione!
Ah, già, c’era anche quella possibilità.
– Va bene, va bene. Vai!
– È stato un piacere inseguirti!
– Piacere mio!
Neal lo osservò sparire tra gli alberi. Guardò l’orologio. Erano le dieci e quarantacinque, ma gli sembrava che fosse passato molto piú tempo. Riprese fiato, aspettò che il cuore rallentasse e si godé il panorama. Dodici minuti dopo inserí la moneta nella fessura e guardò verso il molo. Culturista doveva aver trovato un tassista velocissimo, perché era già lí che guardava verso Telegraph Hill e salutava con la mano, sorridendo.
Mi piace un uomo che accetta una onesta bustarella, pensò Neal.
Al ritorno se la prese comoda. Scese da Telegraph Hill, passeggiò per Greenwich Street e Columbus Avenue, si fermò ad ammirare le torri color terracotta della cattedrale dei santi Pietro e Paolo e si sedette su una panchina in Columbus Square, accanto a due vecchi che chiacchieravano tra loro in italiano. Nel parco, giovani madri spingevano carrozzine, vecchi cinesi facevano tai chi, e donne italiane ancora piú vecchie e vestite di nero gettavano briciole di pane ai piccioni. Gli piaceva ciò che vedeva, ma preferiva ciò che non vedeva: niente Culturista, niente amici di Culturista in cerca di un giovane bianco in giacca blu e pantaloni cachi. La fiducia è una cosa, pensò, la stupidità un’altra.
Dopo cinque minuti sulla panchina si alzò e proseguí su Columbus verso l’intersezione con Broadway. Superò una serie di caffetterie, bar e panetterie italiane senza fermarsi – ci sarebbe stato tempo dopo, per quello – e si diresse verso la libreria City Lights.
Sapeva dell’esistenza di quella libreria da molto prima di averla mai visitata. La City Lights era per la generazione beat quello che la Shakespeare and Company era stata per la generazione perduta. Era una candela della letteratura, che illuminava il percorso a ritroso da Kesey a Kerouac e in un certo senso fino a Smollett e Johnson e al vecchio Lazarillo de Tormes.
A parte quello, era una bellissima libreria con tavoli e sedie che incoraggiavano i clienti ad accomodarsi e a leggere. Niente viscidi cartelli che annunciavano che si trattava di un negozio e non di una biblioteca. Di conseguenza, acquistare un libro lí era un piacere e un privilegio, e Neal aveva intenzione di farlo, oltre al resto che gli passava per la mente.
Attraversò la stretta porta d’ingresso, salutò con un cenno del capo l’impiegato al bancone e scese le scale di legno che conducevano nel seminterrato. Diversi altri pellegrini sfogliavano i libri sugli scaffali, soprattutto nella sezione contrassegnata «Controcultura», che conteneva tesori difficili da trovare a Cleveland, a Montgomery o a New York.
Anche Neal si dedicò a curiosare, poi prese una copia di Deserto solitario: una stagione nei territori selvaggi, di Edward Abbey, e si sedette a un tavolo. Dopo qualche minuto di lettura fu disturbato da un fastidioso prurito al piede sinistro. Si tolse il mocassino, prese il bloc-notes e i biglietti e li mise sul tavolo. Una delle cose piú belle, alla City Lights, era che a nessuno importava cosa ti sedevi a guardare.
Neal cominciò dal blocco. Non ci volle molto, visto che sopra non c’era scritto nulla, e non c’erano solchi lasciati da qualcosa scritto su altre pagine che poi erano state strappate. Finora, niente di buono.
Le matrici dei biglietti erano piú interessanti: si trattava di viaggi andata e ritorno da tre dollari e cinquanta sull’autobus numero 4 della Blue Line. Sei biglietti, tutti della settimana precedente. Neal non sapeva dove andasse il numero 4, ma non poteva essere lontano, per tre dollari e mezzo. Era Pendleton o era Lila il pendolare? E verso dove?
Neal si mise in tasca blocco e biglietti, comprò la copia di Deserto solitario a spese della banca e tornò sulla Columbus. Sapeva cosa gli serviva per seguire la pista, e li trovò a Le Figaro, un caffè con i tavolini sul marciapiede, dove ordinò un doppio espresso freddo e una fetta di torta al cioccolato. Zucchero, caffeina e carboidrati erano ciò di cui il suo cervello aveva bisogno per trovare l’ispirazione. Era seduto fuori, crogiolandosi nell’autoindulgenza e nella lettura di Edward Abbey, quando una sagoma gli fece ombra e una voce disse: – Per caso hai altri soldi per me?
Neal alzò gli occhi e sorrise.
A. Brian Crowe non era cambiato molto. Frequentava sempre le stesse caffetterie. Era sempre alto e magro, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle, e vestiva sempre di nero. Portava persino la stessa mantella nera di satin sulle spalle.
– Non ci sono altri giganti corporativi che vogliono fare riprese oscene davanti alle mie opere?
– Temo di no, – rispose Neal.
– Allora potresti almeno offrirmi un espresso.
– È il minimo che possa fare.
Crowe fece un gesto alla cameriera, la quale andò dritta verso la macchina dell’espresso. Era evidente che l’artista era un habitué del caffè a scrocco.
– Com’è la vita di un artista affamato? – chiese Neal, dopo che fu arrivato il caffè.
– Sono ingrassato, – rispose Crowe. Fece ruotare in bocca un sorso di espresso, poi lo inghiottí. Assaporò il retrogusto, quindi con un gesto del pollice indicò un grattacielo alle sue spalle, nel distretto finanziario. – Quelli volevano una scultura da mettere nell’atrio. L’hanno commissionata a Crowe, il quale gli ha chiesto una cifra spropositata, che loro hanno pagato senza discutere. E cosí Crowe si è comprato un appartamento.
– Hai comprato un appartamento?
– È una scultura molto grande, – spiegò l’artista. Avvicinò di nuovo la tazza alle labbra e ingollò il resto del caffè. Il suo pomo d’Adamo prominente fece su e giú, facendolo somigliare a un tacchino che ingoiava gocce di pioggia. – Occupa un posto di rilievo in un’area trafficata da persone schiavizzate e ambiziose, alcune delle quali hanno deciso di salire lungo la scala sociale assicurandosi il possesso di un’opera di Crowe. L’espressione monetaria della loro gratitudine permette a Crowe di vivere nel modo al quale ora si è abituato.
– Solarium? Vista sulla baia?
– In breve, adesso sono in, quindi ho fatto i soldi. Offrimi un altro espresso –. Con le dita lunghe estrasse di tasca un biglietto.
– Ma dài, Crowe! Biglietti da visita?
– Tu conosci molti di questi tipi delle corporazioni, no?
– Guarda che gli anni Sessanta sono finiti.
Crowe inarcò un sopracciglio in direzione della cameriera, e poco dopo la ragazza arrivò con altri due caffè. Crowe si chinò sopra la sua tazza e rivolse a Neal uno sguardo triste. Abbandonò le pose da artista e disse: – I miei clienti in giacca e cravatta mi chiedono sempre di procurare loro degli acidi! Acidi! Non me ne faccio uno dal primo festival di Monterrey.
– Quindi sei uscito dal tunnel?
– E sono sul treno dell’abbondanza. Gli anni Sessanta sono finiti, i Settanta stanno finendo e gli Ottanta stanno per arrivare. E per affrontarli ci vuole denaro, ricordalo, giovane Neal. Adesso si tratta solo di fare soldi.
Neal prese il biglietto da visita. – I miei clienti di solito non mi contattano per procurarsi opere d’arte, ma…
– Si tratta di costruire una rete di contatti, capisci? È questo che fa incontrare tra loro quelli giusti.
– «Quelli giusti», Crowe? Stai per iscriverti al country club, per caso? Eri un comunista, porca miseria!
– Ho restituito la tessera. Ho trentotto anni, giovane Neal. non posso piú lavorare in cambio di riso, fagioli e un po’ di fumo. Un giorno mi sono guardato allo specchio e il mio viso da hippy felice era diverso. Patetico. Sembravo un’attrazione turistica, una nota di colore locale per quei visitatori che non hanno ancora capito che il movimento hippy è finito.
Cosí ho smesso di produrre arte per amore dell’arte e ho cominciato a produrla per amore di A. Brian Crowe. Ho imparato degli aspetti interessanti, per esempio che le multinazionali non guardano neppure un pezzo che costa mille dollari, ma se lo litigano ferocemente se ne costa diecimila. E ho cominciato ad aggiungere degli zero ai cartellini dei prezzi. Tu puoi chiamarlo vendersi, io lo chiamo vendere.
Neal evitò il suo sguardo. Crowe sembrava piú vecchio. Il fuoco nei suoi occhi era una brace quasi spenta.
– Per me non c’è problema, Crowe.
L’artista tornò all’istante nella parte. Si alzò, si avvolse la mantella intorno alle spalle e disse: – L’indirizzo e il numero di telefono sono sul biglietto. Fammi uno squillo e andiamo a cena.
Neal lo osservò uscire dalla caffetteria. A. Brian Crowe, artista flamboyant, eroe della controcultura, possessore di una carta oro.
Non c’è problema, pensò. Ognuno di noi è almeno due persone.
3.
Neal tornò al Mark Hopkins, trovò la Blue Line sulle pagine gialle, compose il numero e seppe che l’autobus numero 4 andava dal centro di San Francisco a Mill Valley, dove lasciava i suoi passeggeri davanti al Terminal Bookstore. Si chiese se si trattava di una libreria specializzata in letture per malati terminali, ma in genere era ben disposto a salire su un autobus che finisse la corsa davanti a una libreria. Aveva un’ora e mezzo per prendere il 220 da Montgomery Street, nel distretto finanziario.
Scese al negozio nel seminterrato dell’hotel e acquistò una guida della zona attorno alla baia. Sfogliando l’indice scoprí che Mill Valley, a pagina sessantaquattro, era un affascinante villaggio nella contea di Marin, annidato ai piedi del monte Tamalpais, a pochi minuti di macchina dal Golden Gate Bridge.
Comprò la guida e una borsa tubolare blu con la scritta «Ho lasciato il mio ♥ a San Francisco», poi tornò nella sua stanza.
Ordinò un cheeseburger in camera e cominciò a preparare la borsa. L’ultimo autobus di ritorno da Mill Valley partiva alle nove di sera, e poiché non aveva idea di che cosa andasse a fare laggiú non sapeva se per le nove tutto sarebbe già stato finito, quindi si portò il necessario per la notte: maglioncino nero, jeans neri, scarpe da tennis nere, guanti, kit da scassinatore e duemila dollari in contanti. Fece una rapida doccia, indossò una camicia pulita e rimise i suoi pantaloni cachi, il blazer blu, la cravatta regimental e i mocassini.
Quel modo di vestire lo rendeva piú anonimo di quanto già non fosse. Con la sua corporatura media, l’altezza media, i capelli e gli occhi castani, Neal avrebbe potuto fare il testimonial per l’Anonima Anonimi.
Divorò il suo cheeseburger da otto dollari, prese la borsa tubolare, la sua copia del Ferdinand Count Fathom e uscí a prendere l’autobus delle due e venti.
Come tanti altri viaggi, anche quello nasceva senza grosse speranze. Non c’era motivo di credere che Pendleton e Lila fossero a Mill Valley, e anche se ci fossero stati Neal non avrebbe avuto modo di rintracciarli. Ma i biglietti per Mill Valley erano la sua unica pista, quindi tanto valeva seguirla. L’unica altra opzione era chiamare gli Amici e dire loro che si era lasciato sfuggire la preda, e non era un’opzione praticabile.
Era dunque necessario recarsi a Mill Valley, curiosare un po’ in giro e vedere ciò che c’era da vedere. Forse gli sarebbe capitato un raro colpo di fortuna e avrebbe trovato Pendleton sull’autobus. O magari al Terminal Bookstore, intento a sfogliare l’ultimo numero di «Merda di pollo illustrata». O forse avrebbe sprecato un pomeriggio in una ricerca vana.
Ma c’erano cose peggiori di una gita oltre il Golden Gate in un soleggiato pomeriggio californiano. Dopo sette mesi tra le nebbie dello Yorkshire, il cielo azzurro e il panorama gli davano quasi le vertigini. Mentre attraversava il ponte, con l’oceano Pacifico a sinistra e la baia di San Francisco a destra, il suo cinico cuore accelerò i battiti, i suoi stanchi occhi newyorkesi si spalancarono e il suo sardonico ghigno da investigatore privato si ammorbidí in un sorriso.
Sono semplicemente un turista in gita, pensò, mentre l’autobus entrava a Mill Valley. Un camaleonte, un’ombra tra le ombre, un osservatore inosservato.
Invece dava nell’occhio come un’erezione in un harem.
Nessuno a Mill Valley portava la cravatta, e le rare giacche avevano frange di pelle. Tutti indossavano camicie scozzesi di cotone con salopette di jeans, o camicie di jeans e pantaloni da pittore, o addirittura tuniche. E sandali, scarpe da ginnastica e stivali da motocicletta.
Neal sembrava un giovane repubblicano che aveva bisogno di un clistere, o un inviato di Ronald Reagan a un raduno del partito comunista, o un giovane assicuratore che volesse vendere un’assicurazione sulla vita a Abbie Hoffman, il leader ricercato della sinistra radicale.
Quando scese dall’autobus, i nativi che si trovavano davanti al Terminal Bookstore lo fissarono a bocca aperta. Era come se avesse al collo un cartello con su scritto: «Rigido mangiatore di carne, neofascista urbano non praticante jogging e meditazione». Persino i cani stesi sotto le panchine drizzarono le orecchie e guairono con ansia, quasi aspettandosi che Neal volesse metterli al guinzaglio o impedire loro in altro modo di crogiolarsi nell’unione con la natura.
Gli intellettuali che giocavano a scacchi ai tavolini di legno fuori dalla libreria interruppero le loro riflessioni per fissare la sua cravatta. Un paio di quelli piú anziani e gentili scossero la testa, nel vago e triste ricordo di quando anche loro erano cosí. Tre adolescenti che si passavano uno spinello sentirono un improvviso bisogno di nascondersi dietro un cassonetto della spazzatura dipinto di verde foresta. Una donna giovane e seducente che suonava un flauto di legno si strinse al petto lo strumento, quasi temesse che Neal glielo portasse via di mano per picchiare a morte un gattino.
Se Neal fosse stato nudo, si sarebbe sentito meno imbarazzato. Ma era completamente vestito, nel bel villaggio di Mill Valley.
Era bello davvero, in una valle circondata da ripide colline verdi di pini, cedri e abeti. Le case costruite con il legno di quegli alberi si fondevano con i pendii, e le loro terrazze sospese sembravano le torri di guardia del villaggio. Caffetterie, ristoranti e gallerie d’arte contornavano la piazza principale, che era triangolare, con al vertice il Terminal Bookstore.
Il rapido torrente che costeggiava la parte occidentale del villaggio funzionava da aria condizionata naturale, rendendo il clima fresco e frizzante, persino freddo nelle zone d’ombra. La gente si sedeva al sole per contemplare il mondo, e il mondo sembrava bello contemplato da Mill Valley, come se i cittadini avessero congelato la parte migliore degli anni Sessanta. Il mondo sembrava bello... cioè, se non indossavi una camicia oxford, un blazer blu e un paio di mocassini neri.
Neal cercò riparo in una caffetteria dall’altro lato della strada, che aveva le vetrine su tre lati. Pareti, pavimenti e bancone erano in legno di pino, e intorno al bancone ricurvo c’erano sgabelli di legno. Vedendolo entrare, una bionda di mezza età gli rivolse un sorriso luminoso e attraente. Indossava una camicia scamosciata rosso fiamma e jeans sbiaditi.
– Cosa bevi? – chiese.
– Un caffè nero da portar via.
– Quale caffè?
– Nero.
La donna indicò la lavagna alle proprie spalle, sulla quale erano scritti i nomi di una dozzina di tipi di caffè.
– Aaaah, – disse Neal. – Mozambique Mocha.
– Decaffeinato?
Neal provò una fitta d’orgoglio e coraggio. – No, – disse. – Anzi, con doppia caffeina, se c’è.
Pochi secondi dopo lei gli porse una tazza di polistirolo. – Dovresti bere il decaffeinato, sai? – disse, ammiccando ai suoi vestiti. – Sembri molto teso.
– Lo sono.
– Vedi?
– Mi piace essere teso.
– È una dipendenza.
– Lo è.
– Prova quello alle erbe, – disse lei, in tono preoccupato. Sembrava sinceramente convinta che lui stesse per morire.
– Caffè alle erbe? – chiese Neal.
– È ottimo. Sai, dovresti meditare, – disse lei, versandogli il suo veleno nella tazza. – Scaricarti.
– Poi dovrei caricarmi di nuovo.
Prese il suo Mozambique Mocha nero e pieno di caffeina e andò a sorseggiarlo su una panchina in piazza, decidendo cosa fare. Era a Mill Valley da almeno cinque minuti e non aveva visto né Pendleton, né Lila. Loro non si rendevano conto che il tempo stringeva? Oh, be’, pensò. Paese che vai… Allentò la cravatta, sbottonò il colletto della camicia, posò il caffè e si rilassò, sollevando il viso verso il sole del tardo pomeriggio. Forse dovrei davvero meditare, pensò. Forse, con la giusta concentrazione, posso far apparire Pendleton, meglio ancora Lila.
Il suo nome in realtà non era Lila, ma Li Lan. Non era una prostituta, ma una pittrice. E non era bella come appariva nella polaroid, ma molto di piú.
Neal fissò le due foto di Li Lan su un poster nel Terminal Bookstore. Il manifesto annunciava una mostra dei suoi dipinti in una galleria locale chiamata Illyria. «Shan Shui di Li Lan», c’era scritto. C’erano anche varie foto in bianco e nero dei quadri: grandi paesaggi con montagne che si specchiavano in fiumi e laghi. Le foto della pittrice erano messe in modo che in una lei sembrava contemplare i propri lavori, mentre nell’altra fissava lo spettatore. Fu quell’immagine a catturare Neal. Il viso della giovane era aperto e indifeso. Tutte le gioie e i dolori che aveva provato erano esposti alla vista, e gli occhi erano illuminati di gentilezza.
Non impariamo mai, pensò. Abbiamo subito creduto che fosse una puttana per via di ciò che siamo noi.
Aveva trovato il poster solo perché si era stancato presto di meditare ed era entrato nella libreria, che era anche una caffetteria, un locale di cabaret e chissà che altro. E c’era una bacheca che pubblicizzava gli eventi locali, e uno di tali eventi era la mostra di Li Lan.
La galleria Illyria era dall’altro lato della piazza, a tre porte di distanza dalla caffetteria. Neal l’aveva vista mentre era seduto sulla panchina. Non perse tempo a sfogliare libri o a bere strane miscele di caffè. Comprò una copia della Dodicesima notte, di Shakespeare, trovò un telefono pubblico con elenco annesso e chiamò l’Asian Art Museum di San Francisco. Gli passarono vari interni e lo misero in attesa un sacco di volte, ma alla fine trovò una donna disposta a rispondere a uno studente che stava preparando una tesina.
La porta in legno bianco dell’Illyria era incassata tra due vetrine che esponevano grandi paesaggi in acrilico di Li Lan. L’interno era una grande sala bianca, con divisori appesi ad angolazioni strategiche per esporre dipinti e stampe. Piedistalli in legno bianco sostenevano piccole sculture, e dal soffitto alto pendevano tessuti colorati, come vele nel vento. Su un cavalletto all’ingresso c’era una versione piú grande del poster che Neal aveva appena visto.
Una donna era seduta a una scrivania e scriveva su un registro.
– «E che farò in Illyria io?»1 – chiese Neal, citando La dodicesima notte.
– Comprerà qualcosa, spero, – disse la donna. Era bassa, sui quaranta, con folti capelli neri tirati indietro in una pettinatura severa, gli occhi azzurri e lucenti, un piccolo naso aquilino e labbra sottili. Indossava un vestito nero di cotone e un paio di ballerine nere.
Neal non capí se l’aveva impressionata con il suo sfoggio di erudizione, ma di sicuro aveva notato la borsa con la scritta «Ho lasciato il mio ♥ a San Francisco».
– Posso mostrarle qualcosa? – chiese la donna.
– Lei è la proprietaria?
– Sí. Olivia Kendall.
– Olivia… Ecco perché il nome della galleria.
– Non molte persone che entrano qui dentro sono in grado di fare il collegamento.
– La dodicesima notte è forse la mia opera preferita di Shakespeare. Vediamo… «Quando i miei occhi videro Olivia per la prima volta l’aria mi parve liberata d’ogni sostanza impura…» Come sono andato?2
La donna uscí da dietro la scrivania. – Bene, direi. Cosa posso fare per lei?
– Sono venuto a vedere i quadri di Li Lan.
– È un mercante d’arte?
– No, è che mi interessa molto la pittura cinese.
Da circa un’ora.
– Bene. Ne abbiamo già venduti parecchi. Domani è l’ultimo giorno della mostra.
– Non so se desidero comprare un quadro.
– Se non lo fa se ne pentirà. Due dipinti sono stati acquistati da un museo.
– Posso vederli?
– Prego.
Neal sapeva poco di arte. Era stato due volte al Met, una volta in gita scolastica e una volta con Diane. Non odiava la pittura, era solo che non gli interessava.
Finché non vide i dipinti di Li Lan.
Erano tutte immagini a specchio. Ripide scogliere riflesse nell’acqua. Mulinelli al centro di un fiume che mostravano immagini riflesse delle montagne in alto. I colori erano forti e drammatici, quasi feroci, pensò Neal, come se fossero passioni in lotta per sfuggire… a qualcosa.
– Shan Shui, – disse. – «Montagne e acqua», un riferimento alla pittura paesaggistica della dinastia Sung?
Era quello che gli aveva detto al telefono la donna del museo.
Olivia Kendall si illuminò in viso, sorpresa. – Chi è lei? – chiese.
Non lo so, signora Kendall.
– E noto anche un’influenza Sung meridionale, Mi Fei, – continuò Neal. Gli sembrava di essere all’università, quando nei seminari gli toccava parlare di un libro che non aveva letto. – Impressionista, ma sempre all’interno della tradizione policroma del Sung settentrionale.
– Sí, sí! – disse Olivia, annuendo, entusiasta. – Ma la cosa piú bella delle opere di Li Lan è che lei ha spinto fino al limite di rottura la tecnica antica, usando vernici moderne e colori occidentali. Il dualismo delle immagini specchiate riflette, letteralmente, il conflitto e l’armonia tra l’antico e il moderno. È questa la metafora, in realtà.
– Una metafora anche della Cina, direi, – osservò Neal, grato che non ci fosse Joe Graham ad ascoltarlo.
Neal e Olivia esaminarono con calma i quadri. Olivia traduceva i titoli cinesi: «Ruscelli bianchi e neri si incontrano»; «Laghetto dove si fonde il ghiaccio»; «Sul sopracciglio del baco da seta». Quest’ultimo mostrava uno stretto sentiero lungo un pendio, sotto il riflesso di un arcobaleno.
Poi arrivarono al dipinto. Una gigantesca parete di roccia riflessa nelle nebbie che velavano l’abisso senza fondo in basso. Sul bordo del precipizio era seduta la pittrice, con un nastro azzurro nei capelli, e guardava nell’abisso. La sua immagine specchiata, il viso piú triste che Neal avesse mai visto, fissava verso l’alto dalla superficie della nebbia. Era la metafora di Li Lan: una donna seduta serenamente a dipingere, e allo stesso tempo persa in un abisso.
Il volto nella nebbia era il punto focale, attrasse Neal verso il basso, dentro il dipinto, finché non sentí di essere intrappolato nell’abisso, guardando in alto verso il viso della pittrice, in cima alla ripidissima parete di roccia. Nella frescura di quel tramonto californiano, cominciarono a sudargli le mani.
– Questo come si intitola? – chiese.
– «Lo specchio di Buddha».
– È incredibile.
– È Li Lan a essere incredibile.
– La conosce bene?
Ecco una buona domanda, quanto bene la conosce? Abbastanza da dirmi dove si trova? E con chi?
– Sta da noi, quando viene negli States.
Attento, si disse Neal. Attenzione e prudenza.
– Quindi non è del posto?
– È di Hong Kong. Viene in America piú o meno ogni due anni.
– Adesso è qui? – Mentre lo chiedeva pensò che forse stava andando troppo in fretta.
Avvertí l’occhiata curiosa della donna al suo fianco, ma tenne gli occhi fissi sul dipinto.
– Sí, – rispose Olivia Kendall.
Che diavolo, pensò Neal. Gettiamo i dadi.
– Ho un’idea, – disse. – Che ne dice se vi invito tutti a cena? Anche il signor Kendall, naturalmente, se c’è un signor Kendall.
Olivia lo guardò fisso per un secondo, poi scoppiò a ridere. – Sí, c’è un signor Kendall. E c’è anche un signor Li, per cosí dire.
– Temo di non capire cosa intende.
Dài, dài, dimmi che lei è impegnata, pensò.
– Le interessano i suoi dipinti o le interessa Li? Non la biasimo, sia chiaro, è una donna bellissima –. Gli diede un colpetto sul braccio. – Ma lei è un po’ troppo giovane, e Li è molto innamorata.
Bingo.
Bene, si disse Neal. Pensa. Libro di Joe Graham, capitolo tre, versetto quindici: Di’ alle persone ciò che vogliono sentire e ti crederanno. La gente di solito non è sospettosa, come te e me, guarda solo in superficie. Fa’ in modo che il primo strato sembri reale e sei a posto.
Guardò Olivia Kendall dritto negli occhi, una cosa sempre utile quando devi mentire.
– Signora Kendall, – disse, – questi sono i quadri piú belli che abbia mai visto. Conoscere la persona che li ha creati mi renderebbe felice.
Quella donna era un’amante dell’arte. Di sicuro voleva credere che un giovane potesse essere cosí toccato dall’arte da voler incontrare l’artista. Neal sapeva che dipendeva non tanto dalla percezione che aveva di lui, ma dalla percezione che aveva di sé stessa.
– È molto gentile, – disse Olivia, – ma purtroppo abbiamo piani diversi. Stasera Lan ci ha invitati a cena. Cucina cinese fatta in casa.
– Posso portare i miei bastoncini.
– Sul serio, chi è lei?
– Domanda complicata.
– Allora cominciamo con una piú semplice. Come si chiama?
Non è tanto semplice nemmeno questa, Olivia. Mia madre mi ha dato il Neal e il Carey è venuto in qualche modo da sé.
– Neal Carey.
– Non è stato difficile, visto? E cosa fa, Neal Carey, quando non si invita da solo in casa d’altri?
– Studio alla Columbia University.
– Cosa studia?
– Storia dell’arte, – rispose Neal, pentendosene subito. Che stupido errore, pensò. Tutto quello che sai di Storia dell’arte è scarabocchiato sul bloc-notes che tieni in tasca. Joe Graham si vergognerebbe di te. Be’, ormai è tardi per fare marcia indietro. – Sto facendo la tesi sui messaggi anti Manchu nascosti nei dipinti della dinastia Qing.
Oh, Dio, era Qing o Ming? O nessuna delle due?
– Sta scherzando.
Dio, fa’ che non l’abbia detto nel senso di «Sta scherzando, anch’io ho fatto la tesi su quell’argomento».
– No.
– È una cosa fuori dal mondo.
– La gente spesso dice lo stesso di me.
– E come mai si è interessato a un tema cosí oscuro?
– Le cose oscure mi attraggono.
Questo è vero, pensò. La mia vera tesi è sull’alienazione sociale nei romanzi di Smollett. Perciò, prova compassione per me e invitami a cena.
– Senta, – disse Olivia, – la cena di stasera è privata. Ma sono sicura che Lan verrà qui domani per aiutarmi a chiudere la mostra. Lei può passare domani? Magari possiamo pranzare insieme.
Sí, e magari tu puoi dire a Li Lan e al dottor Bob dell’interessante visitatore che hai conosciuto oggi, cosí loro tagliano la corda di nuovo. Forse hai già scoperto il mio gioco.
– Domani mattina devo tornare a casa.
– Mi dispiace, – disse lei. Poi, come una specie di premio di consolazione, borbottò: – Le ho dato una brochure? Ci sono le foto dei quadri.
Prese un catalogo patinato a colori da uno dei piedistalli e glielo diede.
– Grazie. Pensa di poter chiedere a Li Lan di autografarmelo?
– Può chiederglielo lei stesso. Eccola.
Non ho nemmeno sentito la porta, pensò Neal. Sono davvero fuori forma.
Poi smise del tutto di pensare e s’innamorò e fu proprio come cadere in un precipizio, verso Li Lan nella nebbia.
Olivia disse: – Li Lan, Neal Carey. Neal Carey, Li Lan. Neal è un grande fan del tuo lavoro.
Lei ci mise un attimo a decifrare il colloquialismo, poi arrossí leggermente, posò sul pavimento con un certo imbarazzo le borse della spesa che aveva in mano e fece un piccolo inchino a Neal. – Grazie.
Neal fu sorpreso di sentirsi arrossire a sua volta, e ancora piú sorpreso di vedersi ricambiare l’inchino. – I suoi dipinti sono bellissimi.
Lei era minuta e un po’ piú magra di quanto apparisse in foto. Indossava una maglietta macchiata di vernice e un paio di jeans neri, eppure sembrava elegante. Aveva i capelli legati a coda, con un nastro blu. I suoi gentili occhi castani brillavano come i raggi di sole sulle foglie in autunno.
– Sono andata in città, – disse a Olivia. – Ho fatto un po’ di spesa per stasera.
– Perché non ti sei fatta accompagnare da Tom o da Bob? Ora chiamo Tom e gli dico di passare a prenderti.
– No, vado a piedi, è una bellissima giornata. E loro due sono occupati a parlare del giardino.
– Li chiamo.
Lei annuí. – Come preferisci.
– Neal è uno studente di storia dell’arte cinese, – disse Olivia.
Oh, merda, merda, merda, merda.
– Davvero? – chiese Li Lan.
No.
– Sta facendo una ricerca sui dipinti della dinastia Qing. Qualcosa di politico.
Se Neal fosse stato attento e in forma, avrebbe notato che Li era trasalita leggermente alla parola «politico». Si voltò verso di lui e disse: – Ah, sí… Dipinti cinesi possono avere molti significati diversi allo stesso tempo. Disegno di un solo fiore è disegno di un solo fiore, ma significa anche solitudine. Quadro Qing di… come si chiama? Ah, sí… pesce rosso, mostra pesce rosso ma senz’acqua. Forse indica i cinesi senza nazione. Forse è solo quadro di pesce rosso.
Lo fissò negli occhi e disse: – È l’unicarealtà. Davvero.
– Vedo che avete molto di cui parlare, – disse Olivia. Era una di quelle domande inespresse che le donne si fanno spesso tra loro. Vuoi invitarlo a cena? A Bob darebbe fastidio? Per me va bene, se va bene per te.
– Penso che potrebbe venire a cena con noi, – disse Li Lan. – Che ne dice?
– Che bella idea! – disse Olivia, come se né lei, né Neal ci avessero mai pensato, e anche se tutti e tre sapevano esattamente cosa era appena successo.
– Devo avvisarla che cucino io, – disse Li Lan. – Vuole ancora venire?
– Ne sarei felicissimo.
– Aspetti a dirlo. Comunque è il benvenuto.
– Alle otto? – chiese Olivia, a entrambi.
– Perfetto, – disse Neal.
– Anche per me, – disse Li Lan. – Ora devo andare a cucinare.
– Chiamo Tom.
– No, per favore. Vado a piedi.
– Quelle borse pesano, – disse Neal.
– Non tanto.
Olivia scosse la testa e disse a Neal: – È una donna forte.
Li Lan fletté i bicipiti e fece una faccia feroce. – Oh, sí, molto forte –. Poi si sciolse in una risata innocente. Neal si sentí del tutto indifeso.
Perciò fece qualcosa che sapeva fare. Andò in biblioteca. Per calmarsi, e anche perché aveva un disperato bisogno di documentarsi sull’arte cinese. Cristo, pensò, perché mi è venuta in mente quella stupida menzogna? Dovrei sapere che è meglio non esagerare.
Calmati, si disse. Li Lan è bellissima, e allora? Lo sapevi anche prima. È un’artista e non una puttana, e allora? Tu conosci artisti stronzi e puttane gentili, perciò non saltare alle conclusioni. Lei ha dipinto un quadro che ti ha risucchiato in un vortice, e allora? Non è molto, per conoscere un’anima.
Quindi, perché non riesci a pensare ad altro che a lei? Il tuo obiettivo è Pendleton. Perciò riprenditi. Questo è solo un lavoro: l’obiettivo è rimandare a casa Pendleton, mettere fine al suo sogno californiano e farlo tornare in laboratorio. Poi anche tu potrai tornare alla tua scrivania. Perciò, fa’ quello che devi fare.
Ma cosa, esattamente? Non puoi darle duemila dollari e dirle di sparire. Questo piano è già fuori questione. Forse a lei piacerebbe seguire Pendleton in North Carolina. Sí, come no. O forse lui vuol andare a Hong Kong con lei. Forse… forse sarebbe meglio parlare con loro, prima di formarti delle opinioni. Spiega tutta la faccenda a Pendleton e vedi cosa succede. Non perdere la testa e fa’ il tuo lavoro, cazzo.
Nello schedario della biblioteca trovò la sezione dedicata all’arte asiatica. Prese dei libri dagli scaffali e tentò di concentrarsi sui quadri paesaggistici della dinastia Qing. O almeno, cominciò da lí. E finí fissando la foto di Li Lan sul catalogo.
Prese un taxi a Terminal Square e diede all’autista l’indirizzo dei Kendall.
Venne ad aprirgli Olivia. Si era cambiata e indossava una giacca bianca di broccato e pantaloni di seta nera. – Per l’occasione, – disse, sfiorando la giacca con il dorso della mano.
– Complimenti, – disse Neal.
– È un regalo di Li Lan. Prego, accomodati.
La casa sembrava costruita apposta per le serate magiche. L’ampio soggiorno era dominato da finestre che andavano dal pavimento fino ai soffitti altissimi, da cattedrale. I pavimenti erano di assi di legno lucidate al poliuretano. Grosse travi di cedro attraversavano la sala in alto. Le pareti bianco pastello mettevano in risalto le foto in bianco e nero e i quadri.
Fuori, una terrazza in pino si sporgeva su un ripido pendio. Dalla terrazza si scendeva con una serie di gradini fino a un cortile in pietra circondato da un recinto di cedro, che forniva un po’ di privacy contro i possibili curiosi delle case sulla collina di fronte. Sulla terrazza c’era una vasca idromassaggio incassata nel pavimento e circondata da piante in vaso, fiori e bonsai.
Vicino alla vetrata c’era un grande sofà dai cuscini di iuta con davanti un tavolino e due poltrone, che creavano un salottino. A sinistra del divano c’era un tavolo da pranzo e ancora piú a sinistra, dietro una penisola per la colazione, c’era una spaziosa cucina al centro della quale troneggiava un grosso ceppo da macellaio.
La tavola era già apparecchiata, con piatti neri, bicchieri e un servizio da tè nero. Un grande giglio in un vaso nero faceva da centrotavola.
Li Lan era in cucina, intenta a girare qualcosa in un wok elettrico sfrigolante. Accanto a lei, il dottor Robert Pendleton teneva un piatto di tofu tagliato a dadini.
– Adesso, – gli disse Li Lan, e Pendleton versò il tofu nel wok.
– Altri due minuti, – disse lei.
– Cosí avrai il tempo di conoscere il nostro ospite, – disse Olivia. – Neal, ti presento Bob Pendleton.
– Piacere, – disse Neal.
Pendleton si asciugò le mani con uno strofinaccio, spinse gli occhiali sul naso e gli tese la mano dall’altro lato della penisola. – Piacere, – disse.
Non cosí in fretta, dottore.
– Dov’è andato Tom? – chiese Olivia, a nessuno in particolare.
– È andato ad accendere l’acqua calda per l’idromassaggio, – disse Pendleton. – Posso offrirti qualcosa da bere, Neal?
– Ci sarebbe una birra?
– Dos Equis o Bud?
– Bud, grazie.
– E che Bud sia.
Neal lo osservò andare al frigorifero e cercare la birra. Era ancora piú magro di quanto sembrasse nella foto del fascicolo, con un corpo che pareva non aver mai incontrato una coppa di gelato al cioccolato. Indossava una camicia scamosciata verde brillante e larghi pantaloni cachi, piú un paio di mocassini marroni. Qualcuno doveva avergli comprato quella roba, era troppo informale per un biochimico. I capelli erano appena un po’ piú lunghi che nella foto, e sembrava anche un po’ piú vecchio. Neal era rimasto sorpreso dalla voce, roca e profonda, ma non sapeva perché. Di nuovo un preconcetto, si disse.
Pendleton posò una bottiglia di birra sul bancone della penisola. – Vuoi un bicchiere? – chiese.
– Va benissimo la bottiglia, grazie.
– Stai pronto con la salsa, – disse Li. – Ciao, Neal.
Era impegnata nella preparazione della cena, ed era un bene, cosí Neal poteva fissarla a piacimento. I capelli lunghi e lisci erano sciolti, il pettine cloisonné aveva solo una funzione decorativa. Si era messa un po’ di ombretto e di rossetto. La camicia occidentale nera aveva rose e guarnizioni rosse sulle spalle e gli stivali neri appuntiti da cowboy avevano disegni blu incisi. Era una di quelle combinazioni che potevano risultare ridicole o meravigliose. Addosso a lei era meravigliosa.
Neal era immerso in quelle osservazioni quando entrò Tom Kendall. Era basso e grassottello, con i capelli e la barba prematuramente bianchi. Indossava una camicia verde scamosciata identica a quella di Pendleton, jeans e sandali. Aveva gli occhi azzurri e un colorito rubizzo.
Cosa vorranno dire le camicie uguali?, si chiese Neal. Di chi è innamorato Pendleton, di Li Lan o di Tom Kendall?
– La vasca, – disse Tom, con voce morbida, – sarà calda per quando saremo pronti. Tu sei Neal, giusto? Capisci, Neal, uno strizzacervelli della contea di Marin sposato con una gallerista deve avere una vasca idromassaggio. È un archetipo che non sarebbe saggio violare.
Fece un largo sorriso e tese la mano. – Io sono Tom Kendall.
– Neal Carey.
– La birra che hai in mano fa sorgere la domanda: come mai io non ho una birra? Come mai, Olivia?
– Non saprei, tesoro.
– Devi prendertela da solo, – disse Pendleton. – Se non aggiungo la salsa al momento giusto finisco nei guai.
– Guai grossi, – disse Lan.
– Ah, che barista. Stasera gli anfitrioni ufficiali sono Bob e Lan, – spiegò Kendall a Neal. – Bob non sa cucinare, perciò l’accordo era che si sarebbe occupato del bar.
– È il momento della salsa, – disse Li Lan, e Pendleton vuotò una ciotolina di salsa rossa nel wok. Lo sfrigolio cessò.
Olivia disse, indicando il divano: – Neal, accomodati pure.
– Veramente preferirei osservare la preparazione della cena.
– No, siediti, per favore, – disse Li Lan. – Cena deve essere sorprese.
La cena fu una serie di sorprese.
Le sorprese cominciarono con il primo giro di bevande. Essendo un consumatore di whisky scozzese liscio, Neal non credeva che una tazzina minuscola di vino cinese potesse dargli alla testa, ma quel liquido chiaro e infuocato gli bruciò la gola, affumicandogli il cervello. Non riuscí neppure a dire la frase augurale Yi lu shun feng, pronunciata dagli altri invitati. Invece disse: – Gesú, che diavolo è?
– Ludao shaojiu, – disse Lan. – Vino bianco, molto forte.
– Ah, – rispose Neal.
Poi arrivò in tavola un piatto di antipasti: erano delle specie di frittelle traslucide ripiene di un purè di fagioli rossi. Erano dolci, e aiutarono Neal a spegnere le fiamme che gli ardevano in bocca.
– Sono buonissime! – disse Olivia.
– Xie xie ni, – rispose Li. «Grazie».
– Cosí buone che meritano un brindisi, – disse Tom Kendall, e versò altro vino a tutti. – Qual è un buon brindisi in cinese?
Li sollevò la tazza. – Gan bei, vuol dire «vuotare tazza».
– Gan bei! – dissero tutti.
Stavolta Neal riuscí a brindare con gli altri e a mandare giú il vino senza problemi. Dev’essere quella storia di combattere il fuoco con il fuoco, pensò.
Li era tornata in cucina e ne uscí con la portata successiva, ciotole di tagliolini freddi in salsa di sesamo. Notò il disagio di Neal quando tutti cominciarono a mangiare con i bastoncini. Sorridendo, disse: – Avvicina ciotola a bocca, usa bastoncini per mettere dentro cibo.
– Risucchia, – disse Pendleton. – Avvicina gli spaghetti alla bocca e succhia.
Neal lo fece e gli spaghetti sembrarono saltargli in bocca. Si pulí una goccia di salsa di sesamo dal mento e provò una fitta di senso di colpa. Cosa aspetti?, si disse. Premi il grilletto. Pendleton è seduto proprio di fronte a te, perciò di’ qualcosa tipo: «Dottor Bob, quelli dell’AgriTech sono incazzati con te, cosa pensi di fare?» Perché non lo fai, Neal? Perché non gli dici che sei qui per tormentarlo finché non torna a casa? Perché non sei pronto ad accettare il disprezzo di queste persone. Perché Li Lan ti sta sorridendo. Aprí la bocca per parlare, poi la riempí con altri spaghetti. Ci sarebbe stato tempo dopo per i tradimenti. Forse dopo la prossima portata.
Il piatto successivo era ravioli cinesi fritti. Li Lan ne aveva preparati tre per persona. – Uno di gamberi, uno di maiale, uno di verdure, – disse, posando tre ciotole al centro del tavolo. – Senape, salsa dolce, salsa al pepe, molto piccante.
Fece il giro del tavolo, si fermò alle spalle di Neal, prese i bastoncini neri in legno laccato e glieli sistemò nella mano destra. Gliene mise uno tra pollice e indice e l’altro sotto l’indice. Gli sollevò la mano, gli fece afferrare con i bastoncini uno dei ravioli, e lo guidò fino a tuffarlo nella ciotolina della senape. Poi glielo avvicinò alla bocca. – Capito? – disse.
– Facile.
Neal riuscí appena a inghiottire.
– Lan, – la rimproverò Olivia. – Tu non hai quasi mangiato.
Lan si sedette, afferrò senza sforzo un raviolo, lo passò nella ciotola della salsa al pepe e se lo mise in bocca. – È molto cattivo, – disse, e ne divorò subito un altro.
– È molto buono, – le disse Pendleton. – Aah… hen hao.
– Bravo! Stai imparando il cinese!
Neal vide Pendleton arrossire letteralmente di piacere. Quest’uomo è innamorato cotto, pensò.
– Vado a prendere della birra, – disse Pendleton, vedendo i sorrisi dei Kendall. Tornò con varie bottiglie di Tsingtao e le passò in giro.
La birra era ghiacciata, perfetta per spegnere il piccante della senape e della salsa al pepe. Neal bevve a lunghi sorsi e fece pratica con i bastoncini, mentre Tom Kendall e Bob Pendleton parlavano di come nutrire le rose nel giardino posteriore. Li Lan scomparve di nuovo in cucina e tornò con un’altra portata: un branzino affumicato intero su un vassoio. Mostrò loro come usare i bastoncini per staccare la carne bianca dalle ossa, e ci volle molto tempo, un’altra birra e un altro giro di ludao per finirlo tutto.
Mentre celebravano l’impresa con altre tazzine di vino, Olivia Kendall disse: – Neal, ora parlaci del tuo lavoro.
Bene, Olivia, sono un traditore in affitto che si è introdotto con l’inganno in casa tua per minacciare i tuoi amici.
– È un lavoro noioso, in realtà, – disse.
– Non direi.
– Be’, – disse Neal, cercando di ricordare gli appunti attraverso la nebbia di birra, vino e cibo. – Principalmente mi interessa il sottotesto politico contenuto nei dipinti della dinastia Qing, un contributo allo sforzo di rovesciare il governo dei Manchu.
Va bene?
– E come svolgi la ricerca? Quali sono le fonti? – chiese Tom Kendall.
Tu quoque, Tom?
– Soprattutto nei musei, – disse. – Libri, tesi di dottorato… la solita roba.
Le proprie parole gli sembravano di una stupidità impressionante. Sembravano cosí anche a loro? Forza, Neal, getta la maschera, si disse. Ammetti che non riconosceresti un dipinto della dinastia Qing nemmeno se ce l’avessi tatuato sul testicolo sinistro.
– Hai visto i quadri al museo De Young? – chiese Li Lan.
Il museo De Young… San Francisco.
– Certo, – rispose. – Splendidi.
Guardò Pendleton e chiese: – E tu cosa fai?
Uno sforzo patetico dettato dalla disperazione, pensò.
– Sono un biochimico, – disse Pendleton.
– Dove lavori?
Pendleton spinse gli occhiali sul naso. Sulle sue labbra apparve un accenno di sorriso e disse: – Ho appena lasciato un posto e non ne ho ancora trovato un altro. Cosí al momento abuso dell’ospitalità di queste brave persone.
– Falso, – disse subito Tom. – Bob è il consigliere ufficiale di casa Kendall sulla fertilizzazione delle rose.
– Hai fatto un gran bel lavoro, – disse Olivia. – Ora, se solo riuscissi a trovare un modo per eliminare le erbacce…
– Non è il mio campo. Io le piante so soltanto come farle crescere.
– Puoi mantenere questo lavoro finché vorrai, – disse Tom.
– Lo stipendio è quello che è, – scherzò Pendleton, – ma si mangia benissimo, la birra è fredda e la compagnia…
Premi il grilletto, Neal. Adesso.
– La compagnia è sublime, – disse Neal.
Ed è vero, pensò mentre vuotava la tazza di vino. Tu coltivi la solitudine come un fiore nel tuo giardino, tratti la gente come erbacce da estirpare, eppure esiste un mondo in cui le persone amano mangiare insieme, parlare insieme… stare insieme. Un mondo che immaginavi ma di cui non avevi esperienza. Fino a questo momento. Fino a stasera. Quando hai abusato dell’ospitalità di queste brave persone.
– Pollo con arachidi e peperoncini rossi secchi, – disse la voce di Li Lan. Neal alzò gli occhi e la vide posare un altro vassoio fumante sul tavolo.
– I peperoncini non vanno mangiati, – continuò lei. – Servono solo a dare il sapore.
Il pollo piccante ravvivò le fiamme nella gola di Neal e gli fece salire le lacrime agli occhi. Ogni boccone era piú piccante e piú delizioso del precedente, e rendeva il vino piú dolce e piú fresco.
Osservò Li Lan prendere con grazia le mezze arachidi con i bastoncini e infilarle nella bocca di Pendleton, provando allo stesso tempo commozione e gelosia. Lascialo andare, pensò. E lascia andare anche te stesso. Puoi ricominciare da capo. Prendere il resto dei tuoi soldi in banca e stabilirti qui. Fare domanda alla Berkeley o alla Stanford University. O magari diventare il consigliere ufficiale di casa Kendall sulla letteratura inglese del XVIII secolo. Devi essere un po’ ubriaco. Un po’? Sei ubriaco perso. Di vino, di birra, di cibo, di luci soffuse, di… sei ubriaco.
– Oh, Dio, ancora? – gemette Olivia con finta disperazione, quando Li Lan portò un vassoio di broccoli, germogli di bambú, castagne d’acqua cinesi e funghi in salsa di fagioli.
– La tua mostra si conclude domani? – chiese Neal a Lan, masticando un boccone di broccoli croccanti.
– Sí, – rispose lei, triste.
– È stata un gran successo, – disse Olivia.
– E poi dove andrai? – chiese Neal.
Lei non rispose. La tensione nell’aria si tagliava con i bastoncini.
– A casa, – disse poi Li Lan, a bassa voce.
– Hong Kong?
Lei lo fissò negli occhi. – Sí. A casa. A Hong Kong.
– Non parliamo di questo, – disse Olivia. – Mi intristisce.
E tu, dottor Bob? Significa che anche tu tornerai a casa?
– Propongo un brindisi, – disse Tom. – Riempite le tazze.
Olivia versò il vino.
Tom sollevò la sua tazzina e li guardò tutti negli occhi, uno alla volta. Poi disse: – Alla bellezza, la bellezza dell’arte di Lan, la bellezza dei raccolti che crescono grazie alle conoscenze di Robert, la bellezza dell’amicizia.
Neal vuotò la sua tazza con un pensiero stupido: a Giuda il vino dell’ultima cena era piaciuto?
A Neal aveva sempre dato fastidio essere nudo. La gente non si denudava a New York, non all’aperto, almeno, e in Inghilterra l’idea di togliersi i vestiti in pubblico non sfiorava nessuno. Ma era il momento dell’idromassaggio e gli anfitrioni volevano che si unisse a loro. Nella contea di Marin non si usavano costumi da bagno, e Neal era un agente sotto copertura, per cosí dire, quindi cedette i suoi vestiti in cambio della promessa di asciugamano e accappatoio, poi scivolò nella vasca dalla parte piú profonda. Era grato che la terrazza fosse illuminata da fioche luci blu, e ancora piú grato del fatto che all’inizio fu solo Pendleton a raggiungerlo.
– Non sono un tipo da vasche idromassaggio, – disse Neal.
– Nemmeno io.
– Allora che ci facciamo qui?
– Volevo parlare con te ed essere sicuro di non venire registrato.
Grande, pensò Neal. Li avevi proprio infinocchiati per bene.
– Ti ha mandato la compagnia? – chiese Pendleton.
Neal pensò a una risposta astuta, tipo: «Quale compagnia?» oppure: «Eh?» ma decise che era meglio chiudere la partita.
– Sí.
– È quello che pensavo. Lan dice che non sai nulla sulla pittura cinese.
– So solo quello che mi piace.
Se Pendleton la trovò una battuta divertente, fu bravo a non farlo vedere.
– Cosa vuole la compagnia? – chiese.
– Vogliono che torni.
Cristo se è stupido tutto questo, pensò Neal. Seduto nudo nell’acqua calda, mezzo ubriaco, tentando di persuadere un altro uomo nudo a tornare al lavoro. Devo trovarmi un lavoro vero.
– Non tornerò, – disse Pendleton, gonfiando il petto.
– Qual è il problema?
Pendleton si spinse sul naso gli occhiali, che il sudore faceva scivolare. Poi disse: – L’hai vista, no?
Sí, dottore, l’ho vista e vorrei non averla vista.
– Guarda che in North Carolina l’amore è permesso.
– Con una donna cinese?
Dài, Bob. Unisciti a noi negli anni Settanta. Che problema c’è?
– Certo, perché no?
Pendleton fece una risata sarcastica e scosse la testa. – Io vado con lei, – disse.
– Be’, c’è un problema.
– Sí? E quale?
Neal vide che Pendleton si stava incazzando.
– Hai un contratto che dura ancora un anno e qualcosa. Ti faranno causa.
– Lascia pure che cerchino di prendere i miei soldi a Hong Kong.
L’acqua calda stava cominciando a infastidire Neal. E il vino non aiutava. Si sentiva snervato, stanco.
– Doc, non ti conviene. Ascolta, se è vero amore, può reggere un anno e mezzo. Lei può venire a trovarti, tu puoi andare a trovare lei… Scommetto che l’AgriTech sarà persino disposta a regalarti i biglietti. Finisci il tuo contratto e poi sarai libero e pulito.
Io ho lasciato Diane da circa un anno, pensò, e non credo che reggerà. E chi sono io per parlare di libertà? Non sono mai stato né libero, né pulito in tutta la mia vita. Altrimenti ora non sarei seduto qui.
– Non sei mai libero da quella gente, – disse Pendleton, acido. – Pensano che tu sia una loro proprietà.
Conosco la sensazione, dottore. – È un Paese libero, Robert. Se non vuoi firmare il prossimo contratto, non farlo. Ma la cruda realtà è che devi onorare quello in corso –. O amare ciò che hai, o qualcosa del genere. Ma perché ho fatto tutti quei brindisi?
– Onorare? – disse Pendleton. – Non lo so.
Cadde un silenzio pesante, ma non durò a lungo, perché Li Lan uscí coperta da una vestaglia nera, portando un vassoio con una teiera e tre tazze. Lo posò accanto al bordo della vasca, si rialzò e sciolse la cintura della vestaglia.
In quel momento Neal non riuscí a immaginare se senza la vestaglia Lan sarebbe stata la visione piú bella o piú brutta del mondo; quando lei si sfilò le maniche e la lasciò scivolare a terra, fu entrambe le cose. Il cuore di Neal si fermò, avvertí un nodo alla gola e si sforzò di non fissarla mentre scivolava in acqua accanto a Pendleton, posandogli una mano sulla spalla.
– Ora siamo tutti svestiti, – disse a Neal.
– È della compagnia, – disse Pendleton.
Li Lan annuí.
– Lo hanno mandato per farmi tornare, – proseguí Pendleton.
– Sono venuto per parlare, – disse Neal. – Non posso farti tornare contro la tua volontà, ammanettandoti e caricandoti a forza su un aereo.
– Hai proprio ragione, non puoi, – disse Pendleton. Sembrava un uccello furioso.
– Robert, – disse Lan a bassa voce, accarezzandogli la spalla per calmarlo.
– Ti chiedo solo di andare a parlare con loro, – disse Neal. – Glielo devi, no? Torna e di’ loro che te ne vai, e vedete insieme se riuscite a trovare una soluzione.
Continuò a parlare, presentando la situazione: non era un gran problema, tutto era stato perdonato, Pendleton non era certo il primo uomo a perdere la testa per amore, ma non aveva senso distruggere una bella carriera. Si offrí di aiutarlo a negoziare gli accordi per la visita. Trascinato dalla propria eloquenza, si lanciò a dire che il North Carolina era un posto bellissimo, che un cambiamento di ambiente avrebbe aiutato Lan a crescere come artista, che esisteva una vasta comunità orientale nel Triangolo della Ricerca. Era cosí convincente che finí per convincersi a sua volta: la loro vita sarebbe stata fantastica, e anche la propria, e si sarebbero fatti visita a vicenda per passare magiche serate.
Lan si voltò e cominciò a versare il tè nelle tazze. Il movimento delle sue scapole causò un’altra fitta a Neal. Quando gli porse una tazza, vide una parte dei suoi seni, ma ad attrarlo rimasero sempre i suoi occhi. Lan sembrava vedergli nella mente, forse nell’anima. Diede una tazza anche a Pendleton, poi si mise a sorseggiare il suo tè.
– Forse il pensiero di Neal Carey è giusto, – disse.
– Io non ti lascio, – disse Pendleton. Sembrava un ragazzino dodicenne.
– Robert avrà molti guai, se non torna?
– La sua ricerca è molto importante.
– Sí, è vero –. Lan sorrise a Pendleton, e Neal avrebbe donato il proprio corpo alla scienza per essere il destinatario di quel sorriso.
– Tu sei piú importante, – le disse Pendleton, con voce rotta, e Neal ebbe l’impressione che stesse per piangere.
– Non è una situazione da o questo o quello, – disse Neal.
– Che significa?
– Che non bisogna scegliere per forza una cosa o l’altra.
Lei bevve un altro sorso di tè, posò la tazza e prese tra le mani il viso di Pendleton. Avvicinò il proprio viso fin quasi a toccarlo.
– Wo ai ni, – disse piano. «Ti amo».
Era un momento cosí intimo che Neal desiderava voltarsi. Il suo cinese si limitava a pochi vocaboli, ma sapeva che lei aveva detto a Pendleton che lo amava.
– Wo ai ni, – rispose Pendleton.
Li Lan allungò una mano sott’acqua e prese la mano di Neal, intrecciando le dita con le sue.
Il cuore di Neal sobbalzò. Poi lei lasciò andare la mano.
– Domani verremo con te, – disse. – Tutti e due.
Pendleton voltò la testa di scatto, come se gliel’avessero tirata con un guinzaglio, e fece per protestare, ma lei gli mise una mano sulla bocca.
– Il tuo lavoro è importante, – disse.
Chiuse gli occhi e si adagiò nell’acqua, l’immagine della calma perfetta.
Pendleton non aveva intenzione di mollare. – Domani…
– È un sogno, – lo interruppe lei, senza aprire gli occhi. – Adesso Tom e Olivia vogliono parlarti.
Era un numero da «Ho sentito tua madre chiamarti». Pendleton uscí dalla vasca, si avvolse un asciugamano intorno alla vita ed entrò in casa. Alla faccia della donna orientale sottomessa, pensò Neal. Poi si rese conto di essere rimasto solo con Li Lan e smise del tutto di pensare. Trascorsero almeno cinque lunghissimi minuti, prima che lei parlasse.
– Non lascerai che gli facciano del male, vero? – chiese.
Fargli del male? Ma che cazzo!
– Nessuno vuole fargli del male, Lan. Vogliono solo che torni al lavoro –. Voglio dire, stiamo parlando di un laboratorio di ricerca, non della famiglia Gambino.
– Ti prego, non lasciare che gli facciano del male, – lo implorò lei.
– Va bene –. Se mi guardi cosí, Li Lan, non lascerò neppure che lo facciano sentire di cattivo umore.
– Lo prometti?
– Lo prometto –. Dovrebbe essere una promessa facile da mantenere, pensò. Vogliono cosí tanto che torni che probabilmente gli daranno un aumento e un bonus. Provette con il monogramma, l’oculare del microscopio bordato di pelliccia.
Li Lan si alzò. Restò in piedi davanti a Neal come invitandolo a guardarla, come se fosse una delle ragazze di un bordello. Neal tentò di girare lo sguardo, ci provò davvero, ma l’alcol, il vapore caldo e quel che provava per lei glielo impedirono. Deglutí a vuoto e fissò prima il suo corpo, poi i suoi occhi.
– Vado a parlare con lui, – disse lei.
Neal guardò in giro in cerca di un asciugamano, ma non ne vide. – Sí, per me è quasi ora di andare.
Lei scosse la testa. – No, aspettami qui. Tornerò.
– Ah… mi porteresti un asciugamano, quando torni?
– Sei timido.
– Sí.
Lan indossò la vestaglia. La seta aderí alla pelle bagnata.
– Non c’è motivo di essere timido. Tornerò per ringraziarti.
Oh, no, no, signora, niente ringraziamenti, faccio solo il mio lavoro.
Restò sbalordito quando lei si chinò per dargli un rapido bacio sulle labbra. – Torno subito… per ringraziarti.
Era un sussurro e una promessa.
– No, – disse, con una riluttanza sincera solo in parte. Lei lo guardò, perplessa.
– Non capisci, – disse Neal. – Non è cosí che funziona. Non c’è bisogno di comprare… un’assicurazione.
Naturalmente, se vuoi lasciarlo e fuggire con me e vivremo a lungo felici e contenti, è un altro paio di maniche.
– Non si tratta di assicurazione. Sei stato molto gentile.
Lei non l’ha bevuta, pensò Neal. Ha ancora paura per Pendleton, ed è disposta a darla via per un po’ di protezione in piú. Dove impara queste cose una pittrice?
– Sul serio, Lan. No, grazie.
Ma ti prego, non chiederlo piú, perché mi sa che i «no grazie» li ho finiti.
Per una frazione di secondo lei sembrò confusa, poi sorrise e scrollò le spalle. Con quel gesto la vestaglia scivolò in basso e lei lanciò a Neal un’altra lunga occhiata, del tipo «pensa a quello che ti perdi», e Neal si sentí scosso. Illuminata dalla luce che veniva dalla vetrata, Li Lan gli sembrò irreale, ultraterrena, separata dal mondo prosaico della realtà, dei lavori da fare, dell’etica noiosa. Divenne parte di una serata magica, di una vita diversa, di un mondo in cui Neal voleva perdersi e galleggiare con lei nello specchio della nebbia. Si disse di alzarsi e uscire dalla vasca, ma lei lo teneva paralizzato, intrappolato nel vortice.
Si chinò per spruzzarsi un po’ d’acqua sul viso e udí appena il sibilo del proiettile che mancò di un soffio la sua testa e si piantò nel muro della casa.
Si immerse nell’acqua.
1 I versi sono tratti da W. Shakespeare, La dodicesima notte, in I capolavori, trad. di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1994, pp. 504-505.
2 I versi sono tratti da W. Shakespeare, La dodicesima notte, in I capolavori, trad. di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1994, pp. 504-505.
4.
Il terrore ha il potere di liberare la mente.
Puoi offuscare il cervello con bevande esotiche e lussuria, ma iniettagli un po’ di terrore e diventerà limpidissimo. L’adrenalina ha conseguenze meravigliose.
Quando s’immerse nella vasca, Neal stava già pensando a tutta velocità. Là sotto era rumoroso, con i filtri, le bolle e tutto il resto, ciò nonostante udí i passi di corsa di Li Lan, e un’auto uscire dal vialetto e allontanarsi sgommando. Dovevano essere i suoi anfitrioni o i suoi mancati assassini, o forse le due cose coincidevano.
Non aveva fretta di riemergere, nel caso in cui il cecchino fosse ancora in attesa, con l’occhio incollato al mirino. Ci volle un forte atto di volontà per lasciarsi risalire in superficie, a faccia in giú, come se fosse morto. Restò lí trattenendo il fiato e tentando di non pensare al secondo proiettile che poteva spaccargli la testa, spruzzando in giro ossa, sangue e cervello.
Non aveva udito una detonazione, quindi si trattava di un’arma con silenziatore, ma l’urto contro la parete l’aveva sentito benissimo. Quello non si poteva silenziare. Perciò non credeva che l’assassino sarebbe rimasto in giro a lungo, o che pensasse di controllare il cadavere. Ma non si può mai sapere. Forse si stava avvicinando a lui proprio in quel momento, stavolta con una pistola, per dargli il colpo di grazia. Neal sapeva che con il rumore dell’idromassaggio non avrebbe potuto udirlo. Non avrebbe udito neppure il rumore dello sparo che lo avrebbe ucciso.
Restò immobile in acqua il piú a lungo possibile, sperando che, se l’assassino era ancora lí, lo stesse osservando da lontano, attraverso il mirino telescopico di un fucile, cosí da non riuscire a vedere che nell’acqua non c’era sangue. Trattenne ancora il fiato. Un altro minuto, solo un altro minuto, poi avrebbe fatto la sua mossa.
Lan mi ha fregato, pensò, mentre i polmoni cominciavano a fargli male. Mi ha fatto alzare in piedi, in un punto dov’ero un bersaglio perfetto mentre lei era al sicuro. Ma perché? Immagino che dovrò trovarla e chiederglielo.
Affondò la testa in acqua e con una bracciata arrivò al bordo della vasca. Ruotò due volte nella direzione da cui era venuto lo sparo, si costrinse a contare lentamente fino a cinque, poi uscí dall’acqua e scattò piegato in due verso la porta a vetri scorrevole, alzò una mano per aprirla e si tuffò dietro il divano.
Sulla pelle sentiva il formicolio della paura.
La casa era silenziosa. È ovvio che lo sia, pensò, se c’è qualcuno in attesa con un’arma. Mentre io me ne sto rannicchiato qui, nudo e gocciolante. Dài, dài, niente piagnistei. Asciugati, mettiti qualcosa addosso e muoviti. Prima le informazioni piú importanti. Vediamo se sono davvero solo in casa.
I primi passi furono i piú difficili. Si alzò in piedi e passò davanti alla grande vetrata. Guardò dietro la penisola, poi andò in corridoio e guardò nelle stanze da letto e nei bagni. Era solo. Dov’erano andati i suoi nuovi amici? Da qualche parte ad aspettare che il sistema di filtraggio ripulisse il sangue? Astuta, l’idea di sparargli in una vasca idromassaggio. Ci sarebbe stato pochissimo da pulire.
Erano cosí sicuri di sé che avevano lasciato i suoi vestiti nella stanza degli ospiti dove se li era tolti. C’era anche la sua borsa di vinile. Gli sembrò strano. Come mai non avevano preso i suoi effetti personali per andare a gettarli da qualche parte? Forse pensavano di liberarsene insieme al cadavere.
Guardò nella borsa. Era evidente che l’avevano perquisita, ma non mancava nulla. I suoi grimaldelli, il suo libro, persino i duemila dollari in contanti. C’era tutto. Strano ma vero.
Prese un telo dal bagno e si asciugò. Ora, cosa mi direbbe di fare Graham in questa situazione?, si chiese. Facile. Mi direbbe di tagliare la corda al piú presto, tenere un profilo basso e chiamare aiuto. «Nessun lavoro è cosí importante, – gli aveva detto piú volte, – da valere la tua vita. Credimi, figliolo, il cliente non lo farebbe per te». Nessuna delle solite battute volgari, solo un ordine diretto: salvati il culo.
Il vangelo secondo Graham, libro primo, capitolo primo, versetto primo, asseriva di portare il culo fuori di lí senza perdere tempo. Ma il terrore di Neal cominciava a essere sostituito da qualcos’altro: rabbia. Era incazzatissimo per il fatto che avessero tentato di ucciderlo, e ci sarebbero anche riusciti, se non si fosse chinato a spruzzarsi un po’ d’acqua sul viso. E voleva vendetta. Gli avevano fatto fare la figura dello stupido, nel modo peggiore. Lo avevano tradito.
L’assurdità di quel pensiero lo colpí. Come possono loro tradire me?, pensò. Sarebbe come se Cristo avesse sparato a Giuda dopo il bacio.
Ciò nonostante, era incazzato. E spaventato. Qualcuno aveva tentato di ucciderlo e lui non sapeva perché, e quella era una situazione pericolosa. Indossò la felpa nera, i jeans e le scarpe da tennis che aveva preparato nella borsa, e si annerí il viso con del cerone. Se erano fuori ad aspettare di piantargli un proiettile in corpo, poteva almeno provare a renderglielo un po’ piú difficile. Poi aprí la finestra e gettò fuori la borsa, poggiò entrambe le mani sul davanzale e saltò con un volteggio, finendo in mezzo ai cespugli. Ci mise dieci minuti a trovare l’albero giusto, un cedro alto e grosso con un ramo pendente sul quale riuscí a inerpicarsi, salendo fin dove il suo timore dell’altezza glielo permise: ovvero, altri tre metri. Da quel punto di osservazione aveva una buona vista sulla casa dei Kendall. Voleva vedere soprattutto cosa sarebbe successo quando fosse arrivato qualcuno per liberarsi di un cadavere che si era già liberato da solo.
Tre ore di appostamento sono lunghe, ma ancora piú lunghe se sei sopra un albero. Neal maledisse tutti quelli a cui riuscí a pensare, cominciando da Joe Graham, il Capo, Levine, Pendleton, i Kendall, e finendo con Li Lan, una vera artista, in ogni senso del termine. Dipingeva dei bei quadri, questo era vero.
Stava ancora pensando a lei quando l’auto, una Saab, ovviamente, entrò nel vialetto e ne scesero i Kendall. Se erano tormentati dal senso di colpa, o eccitati dalla sete di sangue, o almeno un po’ scossi da una serata speciale non si notava. Olivia entrò subito in casa, Tom si recò in terrazza. Neal lo vide tirare la copertura di plastica blu sopra la vasca e spegnere le luci. Se lí dentro doveva esserci un Neal Carey morto, Tom Kendall di sicuro non lo sapeva.
Forse mi sono immaginato tutto, pensò Neal. Poi rivide Li Lan, nuda sulla terrazza coperta solo dal suo sorriso, e risentí il rumore del proiettile, e capí di non aver immaginato nulla. Qualcuno aveva tentato di metterlo fuori gioco in modo permanente, e non sapeva chi o perché. Attese ancora mezz’ora per vedere se succedeva qualcosa di interessante. Non successe nulla, e scese dall’albero.
Mi hanno fregato con la combinazione piú antica nota all’umanità: dell’alcol e una donna. Ma i soldi dell’alcol erano stati spesi male.
Si mosse con cautela ma a passi rapidi, tenendosi su un lato della strada e camminando da un albero all’altro. Sapeva che la cosa si sarebbe fatta piú complessa man mano che si avvicinava a Mill Valley, e il momento piú rischioso sarebbe stato quello in cui si sarebbe trovato esposto dentro una cabina telefonica, ma era un rischio che doveva correre. Ricordò che c’era un emporio dal lato opposto della cittadina, e si diresse da quella parte. Il percorso passava da Terminal Square, dalla libreria e dalla galleria d’arte. Era troppo terreno scoperto, perciò tagliò a nord della piazza e proseguí seguendo il rumore dell’acqua corrente. Scese nel letto del torrente e si diresse a sud. C’era piú torrente che letto, e dovette procedere quasi sempre in mezzo all’acqua alta fino alle caviglie. Ci mise un’ora ad arrivare dove pensava si trovasse il supermercato. Strisciò fino alla riva del torrente e guardò: aveva superato il negozio di quattrocento metri buoni, ma nel modesto parcheggio brillava una cabina telefonica.
Neal tornò sui suoi passi, risalí di nuovo l’argine, controllò che la strada fosse deserta e attraversò il parcheggio fino al telefono.
Compose il numero che aveva trovato nel portafoglio.
Una voce seccata rispose all’ottavo squillo. – Cosa c’è!
– Crowe?
– Chi credevi che fosse?
– Sono Neal Carey. Ho bisogno di una mano.
– Sei nel pieno di una crisi estetica?
– Qualcosa del genere.
La Porsche 911 di Crowe, ovviamente nera, si fermò nel parcheggio appena prima dell’alba. Neal, rannicchiato e infreddolito nell’erba bagnata sulla riva del torrente, attraversò la strada e salí a bordo.
– Parti subito, – disse. – E accendi il riscaldamento.
Crowe fece entrambe le cose, guardando i vestiti neri e il viso annerito di Neal.
– Posso capire che un filisteo come te voglia emulare Crowe, ma non ti sembra di aver esagerato un po’?
– Crowe, saresti d’accordo a ospitare un fuggitivo?
– Sei nei guai con la legge?
– La polizia probabilmente mi sta cercando.
Crowe fece un sorriso da un orecchio all’altro e accelerò. – Un ricercato che cerca rifugio nel nido di Crowe! E noi che credevamo che gli anni Sessanta fossero finiti! Cosa stai facendo?
Neal si era raggomitolato sul pavimento dell’auto. – Mi nascondo. Almeno fino a dopo il ponte.
– Fantastico.
Il nido di Crowe su Telegraph Hill occupava tutto l’ultimo piano di un edificio a tre piani con vista sulla baia.
– Basta una passeggiata a piedi, – spiegò l’artista, – e Crowe può visitare i caffè, i bistrò e i ristoranti italiani che contribuiscono allo splendore della sua esistenza.
Neal si sedette su una sedia da giardino in tela davanti a una scultura gigantesca, creata a partire dai resti di una Plymouth Valiant del 1962, la cui marmitta era posizionata in modo da ottenere un effetto fallico piuttosto impressionante. I muri erano pieni di maschere: maschere africane, maschere dell’opera cinese, maschere da arlecchino, persino maschere da hockey. Muri, moquette e mobili erano di un bianco brillante.
– Lo schema monocromatico fa risaltare Crowe ancora di piú, – spiegò l’artista. – Ora per favore va’ a darti una ripulita, non vorrei che macchiassi la purezza del tuo nuovo e fantastico ambiente.
Neal si fece una meravigliosa doccia calda, lavando via ogni traccia di cerone, fango e sudore. Poi si avvolse in uno degli enormi asciugamani bianchi di Crowe e scoprí che lo scultore aveva appeso all’attaccapanni anche un accappatoio bianco di spugna.
Fu ancora piú sorpreso vedendo che gli aveva preparato la colazione: una variazione texana dei toast alla francese, succo di pompelmo, caffè e champagne. Crowe gli fece cenno di sedersi al tavolo davanti alla finestra a parete. Tovaglia e tovaglioli erano bianchi.
– Non credevo che sapessi cucinare, – disse Neal.
– Non credevi neppure che Rubens sapesse dipingere.
– Ottimo sandwich. Interessante anche il tavolo.
– Ma certo. Albero di trasmissione e parabrezza di una Renault del 1955.
– Bevi sempre champagne a colazione?
– Tutti i giorni, da quando l’America delle multinazionali ha cominciato a riconoscere il genio inarrivabile di Crowe.
– Il toast è veramente ottimo.
– Quando Crowe crea, crea meraviglie.
– Cosa vuoi sapere riguardo alla mia situazione, Crowe?
– Solo in che modo posso aiutarti.
– Lo stai già facendo.
– Allora non ho bisogno di sapere altro.
Dopo colazione, Neal prese un taxi e tornò all’Hopkins. Chi gli aveva sparato probabilmente non aveva modo di collegarlo a quell’hotel, e in ogni caso non avrebbe tentato di ammazzarlo lí. E lui doveva fare i bagagli e una chiamata privata.
Doveva parlare con Graham. Compose il numero, lasciò squillare tre volte e riappese. Aspettò trenta secondi e chiamò di nuovo.
Solo che al posto di Graham rispose Ed Levine.
– Dov’è Graham? – chiese Neal.
– Neal Carey, il mio coglione preferito.
– Dov’è Graham?
– Nel vecchio continente, probabilmente accasciato sul tavolo di qualche sporco pub. Gestisco io i suoi casi.
– Io parlo solo con Graham.
– Sono certo che lui ne sarebbe commosso, testa di cazzo, ma è in vacanza. Quindi parlerai con me.
In vacanza? Neal conosceva Graham da piú di dieci anni e non lo aveva mai visto prendersi un giorno di ferie. «Stai scherzando? – gli aveva detto una volta. – Il mio lavoro è mentire, rubare e truffare. In che modo potrei divertirmi di piú?»
– Neal? Neal, tesoro, – stava dicendo Levine. – Perché hai chiamato? Hai già mandato in vacca il lavoro? Forse hai dato i soldi a Pendleton per restare a Frisco e mandare la puttana all’AgriTech al posto suo, o qualcosa del genere?
C’è qualcosa di strano, pensò Neal. Qualcosa di molto strano. Fa’ attenzione.
– Non ho ancora trovato Pendleton, – disse. – Non è dove mi avevate detto che sarebbe stato.
– Neal, tu non troveresti il tuo braccio dentro la manica.
Che spirito. Quello era l’uomo che una volta per Natale aveva regalato un guanto a Joe Graham.
– Dov’è Graham? – chiese di nuovo Neal.
– Gesú, molla il colpo, no? Cos’è Graham, la tua mammina? Visto che era dovuto andare in Inghilterra per cambiare i pannolini a te, ha deciso di prendere il traghetto per l’Irlanda e visitare la casa degli antenati. Quindi forse adesso è allo zoo di Dublino, va bene?
No, non va bene affatto, pensò Neal. Graham gli aveva ripetuto centinaia di volte che non sarebbe mai andato in Irlanda. «La pioggia e il whisky ce li abbiamo anche a New York», diceva.
– Sí, va bene, – disse.
– Rilassati, caro il mio studente universitario –. Quella era una continua fonte di risentimento. Gli Amici di Famiglia avevano mandato Neal alla Columbia, mentre Levine si era dovuto pagare i corsi serali alla City. – Torna a casa. Il lavoro è finito. Pendleton ha deciso da solo di tornare. Ha chiamato poco fa dall’aeroporto di Raleigh, sta andando in laboratorio.
– Fantastico.
Bugiardo sacco di merda.
– Perciò tornatene al tuo cottage, prendi la tua roba e riporta il culo qui a New York. Potremmo anche decidere di farti lavorare per guadagnarti il pane.
– Sí, sí, ho capito.
– Qual è il problema, Neal? Sei incazzato perché il lavoro è finito prima che potessi fare l’eroe? Guarda il lato positivo: almeno questo qui non l’hai ucciso.
Levine rise e chiuse la comunicazione. Neal fece un altro numero.
– AgriTech. Con chi desidera parlare?
– Con il dottor Robert Pendleton, per favore.
– Un momento.
Ci risiamo.
Un’altra voce, maschile e rude. – Con chi parlo?
– Con chi parlo io?
– Perché chiede del dottor Pendleton?
– Perché mi chiede perché lo chiedo?
– Si identifichi o dovrò terminare la chiamata.
Terminare la chiamata? Che diavolo sta succedendo? Chi dice cose tipo «terminare la chiamata»? Gente della sicurezza, ecco chi.
– Sono l’assistente manager del Chinatown Holiday Inn, – disse Neal. – Il dottor Pendleton ha dimenticato delle medicine, quando ha lasciato la stanza. Volevo sapere se le devo mandare via corriere o va bene anche la posta normale.
– Un momento.
Questi vanno tutti alla stessa scuola, pensò Neal.
– Il dottor Pendleton dice che va bene la posta normale.
– Posso chiedergli conferma di persona, per favore? Sono le regole dell’albergo.
– Al momento è molto occupato.
– Capisco. Grazie mille.
Neal fece i bagagli in fretta e furia. All’improvviso non voleva piú stare in albergo, dove chiunque poteva trovarlo. C’erano troppe contraddizioni, pensò. Joe Graham non va mai in ferie e odia l’Irlanda, ma è in vacanza in Irlanda. Ed Levine dice che Bob Pendleton è tornato al lavoro, ma non è vero, perché il personale di sicurezza dell’AgriTech riporta un messaggio da parte sua riguardo a delle medicine che non esistono. E qualcuno tenta di uccidere me perché ho trovato Pendleton.
La persona che stava forzando la porta era in gamba, perché non fece quasi nessun rumore. Ma Neal Carey aveva forzato un sacco di serrature e udí quel piccolo suono come fosse un campanello d’allarme. E infatti lo era.
Qualcuno aveva trovato le sue tracce e stava progettando di compiere una brutta azione nel Mark Hopkins, e non c’era via di fuga da quella piccola stanza. Il che forse andava bene, pensò Neal.
Afferrò il tagliacarte dalla scrivania e attese dietro la porta. Aveva una paura maledetta, ma era anche stanco di essere un bersaglio, e la persona che sarebbe entrata da quella porta avrebbe trovato una sorpresa, sotto forma di un fendente vibrato con un tagliacarte.
Il cuore di Neal correva come la pallina alla roulette. Udí scattare la serratura e vide la maniglia sollevarsi. Se il tizio aveva una pistola, doveva batterlo sul tempo: disarmarlo, gettarlo a terra e fargli alcune domande.
La porta si aprí e Neal colpí. La punta del tagliacarte si piantò nel braccio dell’intruso e vibrò.
– Ehi, che ti prende? Hai una ragazza in camera e non vuoi farmi entrare?
Joe Graham lo guardava con curiosità.
– Entra.
Graham tolse il tagliacarte dal braccio di gomma. Guardò disgustato la manica della camicia. – È nuova, Neal. L’ho appena comprata.
Il cuore di Neal rallentò fino a un semplice galoppo. Sbatté la porta alle spalle di Graham e guardando la camicia viola disse: – Ti ho fatto un favore.
– Non sei felice di vedermi, – disse Graham.
– Pensavo fossi in vacanza in Irlanda.
– Quella è una cosa curiosa, figliolo. Appena ti ho tirato fuori dalla tua caverna ho chiamato in ufficio. All’improvviso, Levine comincia a parlarmi di tutte le ferie non godute che ho accumulato. Dice che devo per forza usarne una parte e prendermi una vacanza adesso. Io dico di sí, ma poi penso che forse c’è un motivo per cui non mi vogliono intorno giusto quando tu sei impegnato con un lavoro. Penso che forse dovrei tornare di nascosto e controllare come sta il mio amato figliolo, il quale potrebbe combinare qualche casino e farsi del male, senza il suo vecchio papà ad aiutarlo. E ora, figliolo, in che modo hai incasinato tutto e in che guaio ti sei ficcato?
Neal cominciò dall’inizio e gli raccontò tutta la storia: la perquisizione della stanza 1016, la danza con Culturista, la gita a Mill Valley, la cena dai Kendall, la seducente offerta di Li Lan e lo sparo che per poco non l’aveva ucciso. Graham se ne stette seduto in silenzio per tutto il monologo, limitandosi a schioccare la lingua e a borbottare «vergogna» agli errori piú marchiani di Neal.
Quando il racconto finí, chiese: – Com’era, nuda?
– Cosa?
– La ragazza. La bambola cinese. Com’era?
– Gesú, Graham.
Graham si avvicinò al minibar e prese due mignon di whisky scozzese. Pulí con il fazzoletto il bicchiere dell’hotel, si versò il doppio whisky e bevve un sorso con aria soddisfatta.
– Racconta di nuovo, a partire dalla vasca idromassaggio.
– Graham, se pensi che io asseconderò le tue…
– Asseconda questo, – disse Graham, con un gesto osceno. – Ora di’ tutto a papà. E non saltare neppure un dettaglio succulento.
Quando Neal ebbe finito di nuovo, Graham sorrise, scosse la testa e disse: – Lei non aveva nessuna intenzione di scoparti, idiota. Voleva solo trattenerti mentre Pendleton saliva in macchina. Non ti conosce come ti conosco io.
– Cosa vuoi dire?
– Ti ha detto di aspettarla, ricordi? Ma quando tu hai detto di no – a proposito, sei proprio un idiota –, ti ha dato qualcosa per tenere occupato il tuo… cervello mentre tutti si accomodavano in macchina. Poi è scappata via lasciandoti con in mano… un pugno di mosche, diciamo cosí.
Neal si domandò se sembrasse cosí stupido come si sentiva.
– Non credi che lei volesse davvero fare sesso con me?
– Eri nudo, capisci? Probabilmente ti aveva visto bene.
– E lo sparo? È stata lei a tenermi lí come un bersaglio!
Graham tornò al minibar, prese una lattina di mandorle affumicate da sei dollari e le versò su un piatto. Poi cominciò a infilarsele in bocca mentre parlava.
– Forse sí, forse no. Può anche darsi che nessuno di loro sapesse nulla dello sparo.
– Ma è scappata via!
– È sempre una buona idea, quando volano i proiettili. Cosa volevi, che ti facesse scudo con il suo corpo? Oh, certo, era proprio quello che volevi, eh?
– Passami una mandorla.
– Mangia la roba tua.
– Quella è roba mia.
– Non piú.
Neal trovò in frigo una barretta di cioccolato svizzero che costava come un lingotto d’argento.
Graham continuò: – Se vuoi saperlo, non credo che lei abbia udito lo sparo. Stava solo scappando da te perché quello era il piano. Farti arrapare cosí da impedirti di pensare con il cervello – te lo ripeto, loro non ti conoscono come ti conosco io – e lasciarti nudo e bagnato nella vasca. Niente vestiti, niente asciugamano. Brillante da parte tua, figliolo. Sempre se vuoi saperlo, non credo che il proiettile fosse destinato a te, anche se l’idea può sembrarti seducente.
– Perché lo pensi? – Neal lo chiese in tono quasi indignato, come se all’improvviso non fosse abbastanza importante da valere un proiettile.
– Avrebbero potuto ammazzarti in qualsiasi momento, se era quel che volevano. La ragazza non aveva bisogno di fartela vedere, per quello. Avrebbero potuto farti fuori appena entrato nella vasca.
– Allora chi… – cominciò Neal, ma si interruppe perché non poteva parlare e pensare allo stesso tempo. Perché all’AgriTech gli avevano detto che Pendleton era in ufficio, quando invece non c’era? Forse perché pensavano che fosse morto?
– Ho chiamato Ed, – disse. – Lui mi ha detto che Pendleton è tornato al lavoro, e mi ha ordinato di rientrare.
– E allora?
– Allora ho chiamato l’AgriTech e mi hanno detto la stessa cosa.
– Quindi Ed ha ragione, per una volta. Sono cose che succedono.
– Ma Pendleton non è lí, papà –. Neal gli disse del trucco delle medicine, e restò in silenzio mentre Graham sfregava il pugno di gomma nel palmo dell’altra mano.
– Credo, – disse Graham alla fine, – che dovremmo scoprire qualcosa di piú sull’AgriTech.
Intorno all’AgriTech c’era qualcosa di poco chiaro.
Lo diceva la biblioteca. Una delle cose che Neal amava delle biblioteche era il fatto che fossero tutte uguali. Non nell’architettura o nell’arredamento, ovviamente, ma nel sistema. Una volta imparato il sistema, ogni biblioteca era territorio conosciuto. Territorio di caccia.
Cominciò con i soliti sospetti: Standard & Poor’s, Moody’s, Dun & Bradstreet… e scoprí che l’AgriTech era un’azienda molto piú piccola di quanto pensava, solo al sedicesimo posto nella categoria del mercato agrochimico.
La sorpresa piú grande, tuttavia, fu che era un’azienda privata. Non aveva senso. Le aziende che si impegnano in vasti progetti a lungo termine di solito hanno bisogno dei capitali che possono trovare sul mercato pubblico. Si tratta di investimenti interessanti, e gli investitori iniziali tendono ad assicurarseli in fretta.
Ma le aziende private sono, per l’appunto, private. Difficile trovare dati su di esse, perché sono meno responsabili verso le agenzie di rating. Neal trovò una copia del «Ward’s Directory», specializzato in aziende private. Scoprí che l’AgriTech impiegava 317 persone, poche per avere anche dei laboratori di ricerca, e aveva una ristretta base di mercato: si occupava soprattutto di sviluppare pesticidi per l’industria del tabacco.
Pesticidi?, pensò Neal. E cosa ne è stato dei fertilizzanti? Della vecchia merda di pollo?
Diede un’occhiata ai nomi dei direttori e funzionari principali. Il presidente era un certo Leslie P. Little, laureato in Chimica alle università del Nebraska, dell’Illinois e al Mit di Boston. Curriculum lavorativo impressionante, presso grandi aziende agrochimiche. Il vice presidente, Harold D. Innes, era molto simile. Niente di interessante. Ma il segretario/tesoriere Paul R. Knox, e già il titolo era un’anomalia, era piú stimolante. Istruzione standard, tra cui un master in amministrazione alla Columbia, e una lunga lista di impieghi precedenti. Ma il tutto sembrava nebuloso, sfocato. Knox aveva lavorato per la Trans Pax, una ditta di import-export di San Diego, poi era passato a qualcosa che si chiamava Consiglio per il commercio svedese-americano. Ci era rimasto due anni, quindi era andato a Stoccolma a lavorare per la Internet International, un’azienda americana di consulenza informatica. Dopo tre anni era andato a Hong Kong, come direttore esecutivo della Dawson and Sons Ltd, un importatore di equipaggiamenti per telecomunicazioni. Due anni lí, poi era diventato direttore della Directions in Social Inquiry, una ditta di sondaggi di Silver Spring, nel Maryland. E infine era stato assunto all’AgriTech, dove era anche il controllore di gestione.
A giudicare dal curriculum, pensò Neal, questo tizio di chimica ne sa meno di un liceale.
Guardò il consiglio di amministrazione. Nessun nome gli disse nulla, a parte il quarto: Ethan Kitteredge, il Capo degli Amici. Quindi la banca aveva erogato un grosso prestito e si era assicurata un posto nel consiglio. Ma per cosa?
Segui i soldi. O, in quel caso, l’uomo dei soldi. In qualche punto del percorso, Ethan Kitteredge aveva consegnato un pacco di dollari a Paul Knox, l’uomo con il curriculum di una pallina da flipper.
Neal attraversò la strada per prendere un caffè e un bagel tostato, poi tornò in biblioteca. Era già mezzogiorno e doveva ripetere il sistema seguito per l’AgriTech con tutti i posti in cui aveva lavorato Knox. Pensò che ci avrebbe messo almeno tre ore, ma non fu cosí: nessuna di quelle aziende esisteva.
Controllò tutte le fonti possibili, ma non trovò nulla su Trans Pax, Internet International o Directions in Social Inquiry. La Dawson and Sons non sarebbe stata comunque in elenco, ma Neal sospettava che fosse un’altra azienda di cartone.
E cos’era esattamente il Consiglio per il commercio svedese-americano? Un’agenzia no-profit per stimolare gli affari, un’agenzia sponsorizzata dal governo, o una ditta privata che si infilava in ogni potenziale affare e si prendeva i suoi dieci punti percentuali?
Neal richiese il microfilm con l’elenco telefonico di Washington, ma non trovò alcun numero per il Consiglio. Stessa cosa quando chiamò l’ufficio informazioni. Si fece dare il numero del dipartimento del Commercio e dopo una dozzina di passaggi riuscí a parlare con un tizio dell’International Trade Administration Export Counseling Center, il quale fece almeno finta di essere interessato al brillante progetto di Neal di vendere sul mercato svedese dei termosifoni elettrici ad alta capacità. L’uomo gli passò l’incaricato per la Svezia, il quale si finse affascinato e gli consigliò di contattare il consolato svedese, la camera di Commercio svedese e il ministero degli Interni svedese, ma non menzionò il Consiglio per il commercio svedese-americano.
– Cosa mi dice del Consiglio per il commercio svedese-americano? – chiese Neal, alla fine.
Gli sembrò di vedere il sorriso che precedette la risposta. – Loro non sono nel suo campo di interessi.
– Come mai?
– Tendono a gestire roba di alta tecnologia in grandi volumi.
– Io sto proprio pensando a grandi quantità, – ribatté Neal, con una traccia bellicosa nel tono.
– E quando andrà da loro, sono certo che saranno felici di riceverla. Nel frattempo, le raccomando di dare un colpo di telefono al consolato…
Va bene, va bene, pensò Neal. Cos’abbiamo qui? Un tizio che lavora nel consiglio di amministrazione di una ditta agrochimica ma non ha nessuna conoscenza di agricoltura o di chimica. Lo stesso tizio ha lavorato per una serie di aziende di cui non esiste traccia e per un Consiglio sul commercio svedese-americano a cui non interessa parlare con chi vuol proporre un commercio tra l’America e la Svezia.
Abbiamo un’azienda che dovrebbe essere pubblica e invece è privata, che produce pesticidi e vuole disperatamente riavere un biochimico la cui specialità sono i fertilizzanti. Abbiamo la banca che sottoscrive un grosso prestito alla suddetta compagnia per sviluppare non un nuovo pesticida ma un nuovo fertilizzante, e si assicura un posto nel consiglio di amministrazione. Abbiamo il Capo della banca che mi manda in missione per far tornare lo scienziato. Ma quando ci provo, qualcuno tenta di spararmi.
Abbiamo Levine che mente sul ritorno di Pendleton e la sicurezza dell’AgriTech che conferma la menzogna. Abbiamo Levine che mi dice di lasciar perdere tutto e tornare a casa. Perché l’azienda dovrebbe dire che Pendleton è tornato, se non è vero? Perché Levine non si mette a urlare al telefono, dicendomi di fare il mio lavoro e di riportare a casa lo scienziato?
A meno che, all’improvviso, non abbiano deciso che non lo rivogliono indietro.
A meno che non vogliano assicurarsi che non ritorni.
Mai piú.
La paranoia è come una cintura di sicurezza: è proprio quando non l’allacci che fai un incidente.
Cosí pensava Neal Carey, mentre si sentiva afferrare dalla paranoia professionale. Graham non permetterebbe mai che mi succedesse qualcosa, cosí lo mandano in vacanza. Poi spediscono il loro cane da riporto, cioè me, sulle tracce del professore assente. Io da bravo cagnone lo trovo e qualcuno spara… non a me, ma a quello che credono sia Pendleton. Notte buia, terrazza poco illuminata, io che do le spalle alla collina da dove è venuto lo sparo. È possibile.
Cosí qualcuno va a recuperare il mio cadavere e dà il triste annuncio che Robert Pendleton è morto. Assassinato. L’indagine sfrigola e si spegne.
Ma chi ha il fegato di fare una cosa del genere? Le stesse persone che hanno il fegato di formare aziende fantasma, falsi curriculum e prestiti multimilionari.
Neal riascoltò nella mente la sua conversazione con Pendleton. Ha voluto parlare nell’idromassaggio per essere certo che io non avessi un microfono addosso. «Ti ha mandato la compagnia?» Forse non intendeva l’AgriTech, ma la Compagnia: la Cia.
Paranoia. Pura paranoia del cazzo, pensò Neal. Che diavolo potrebbe fare un biochimico per la Cia? Restiamo nella realtà.
Ma il proiettile era reale eccome, perciò attenzione. Supponiamo che volessero uccidere Pendleton. Questo presenta qualche problema per un certo Neal Carey. Se sono ancora convinti di aver ucciso Pendleton, dovranno occuparsi di me, in qualche modo. E se sanno di aver mancato Pendleton, ci staranno già cercando entrambi. Pendleton sanno dove trovarlo: è con Li Lan.
E di sicuro sanno dove trovare me. Ho un biglietto di ritorno al mio cottage isolato nella brughiera.
Solo che non ci andrò. C’è una sola cosa da fare, quando la paranoia è cosí forte: assecondarla.
Prima di tutto doveva avvisare Crowe, perché gli Amici e i loro nuovi soci della Cia ci avrebbero messo poco a collegare l’artista con lui. Bastava premere un paio di tasti e chiedere i casi precedenti di Neal Carey a San Francisco. Senza volere, Neal aveva messo in pericolo Crowe.
L’artista rispose al primo squillo. – Crowe.
– Sono Neal.
– Vuoi portarmi a cena in un ristorante costoso, vero?
– Crowe, qualcuno ha chiesto di me?
– No.
– Niente di insolito? Riparazioni di cui non sapevi nulla, sondaggisti, testimoni di Geova?
– No! Oggi vorrei cucina francese.
– Sta’ zitto e ascolta. Non tornerò. Grazie mille dell’aiuto. Se viene qualcuno a fare domande, non mi hai visto né sentito da anni, capito?
– Dove andrai?
– È una lunga storia.
– Dove sei ora? Neal, sei nei guai?
Piú o meno, Crowe. Ho la brutta sensazione che la Cia e i miei stessi datori di lavoro vogliano uccidermi, ma a parte questo…
– Devo solo sparire per un po’.
– Lascia che ti aiuti, Neal.
– Mi hai già aiutato. Grazie, Crowe, e arrivederci.
Neal incontrò Graham fuori dal Chinese Crafts Center di Grant Avenue. Gruppi di turisti scesi dagli autobus della Grey Line stavano visitando Chinatown, guardando le vetrine e scegliendo i ristoranti per la cena, mentre calava la sera e si accendevano i neon.
– Facciamo una passeggiata, – disse Neal. Poi gli parlò della sua ricerca e dei sospetti sull’AgriTech.
– E il Capo è nel consiglio di amministrazione? – chiese Graham quando ebbe finito.
– Già.
– Cos’è l’AgriTech per la Cia o la Cia per l’AgriTech?
– Non lo so. Ma intendo scoprirlo.
Graham lo afferrò per il gomito. – Sei pazzo? Non farai proprio nulla. O meglio, farai quello che farò io.
Neal si liberò dalla stretta. – E cioè?
Graham riprese a camminare e mentre passeggiavano gli fece la lezione.
– Neal, ascoltami. Non so se hai ragione su questa storia della Cia. A me sembra pazzesca. Ma di qualsiasi cosa si tratti, è una cosa seria, di quelle in cui è meglio non immischiarsi. Perciò, ecco cosa faremo: prendiamo il prossimo volo per Providence, entriamo nell’ufficio del Capo e diciamo: «Signor Kitteredge, per favore dica alle persone che forse conosce e forse no che Joe Graham e Neal Carey non sanno nulla e non vogliono sapere nulla». Quindi gli chiediamo cosa vuole che facciamo, e lui ci dirà, in termini molto cortesi, di tenere la bocca chiusa e scordarci del dottor Robert Pendleton. Ed è quello che faremo.
– Ma la uccideranno!
– Vuoi dire lo uccideranno.
– Voglio dire tutti e due.
Graham gli diede un’occhiata strana. – Vuoi dire lei.
– E va bene, sí. Lei.
Graham picchiò il pugno di gomma contro un lampione. – Cazzo! Ma che ha questa ragazza, che tutti si innamorano di lei?
– Io non sono innamorato di lei.
– Sí, invece.
Sei innamorato eccome, pensò Graham. Ti conosco, ragazzo, tu sei innamorato cotto.
– Stammi a sentire, Neal. Mettiamo che tu riesca a trovarli e ad avvertirli, poi che farai? Li salverai? E come? Non puoi salvarli, testa di cazzo, puoi solo fare la loro fine: ti troverai nel posto sbagliato al momento sbagliato e stavolta il proiettile non ti mancherà. Figliolo, tu non conosci questa gente, non sai cos’ha fatto Pendleton, cos’ha fatto la bambola cinese. Forse se lo meritano.
– Lei si chiama Li Lan. Ha un nome.
– Solo poco fa pensavi che fosse complice di chi ti aveva sparato e adesso vuoi salvarla. E poi? Vuoi scopartela? Ascolta, Neal, se vuoi della fica cinese accomodati, pago io. Ce n’è dappertutto.
Per un attimo Neal pensò davvero di dargli un pugno.
Sono innamorato di lei?, si chiese. Deve essere cosí, perché pensare a lei mi fa male, e pensare che possa morire… E di Pendleton non me n’è mai fregato un cazzo e me ne frega ancora meno da quando ho visto lei. E il pensiero di non rivederla mai piú…
– Ci vediamo, papà.
Si voltò e cominciò ad allontanarsi. Graham dice sempre che mi ha insegnato tutto quello che so, si disse. Vediamo se mi ha insegnato tutto quello che sa lui. Forse è il miglior uomo di strada mai nato, ma forse io sono il migliore che sia mai diventato tale.
Aveva ragione su entrambe le cose. Graham gli restò attaccato come una zecca a un cane. Neal non riuscí a guadagnare lo spazio che gli serviva per spezzare il collegamento. Lo condusse lungo Grant, poi su Clay fino a Stockton. Passò tra la folla, attraversò la strada, invertí il senso di marcia, entrò in un negozio da una porta e uscí dall’altra, affrettò il passo, lo rallentò, ma Graham gli stava sempre alle costole. Va bene cosí, pensò. In questo gioco vince chi corre, come nel baseball. Neal sapeva di avere il tempo dalla sua. Graham non poteva fermarsi per chiamare rinforzi, perciò non poteva guidarlo in una rete a imbuto. E una volta che Neal fosse riuscito a toglierselo di dosso, la partita sarebbe finita.
Mark Chin aveva lasciato aperta la sua rete per tutto il giorno, ed era contento che fosse arrivato il momento di chiuderla. Aveva lasciato che il kweilo se ne tornasse indisturbato all’Hopkins, aveva lasciato salire il tipo senza un braccio, aveva atteso mentre il kweilo faceva le sue ricerche in biblioteca, e finalmente aveva visto la sua opportunità quando i due kweilo avevano litigato. Era ora. Ci erano voluti sette dei suoi ragazzi migliori per tenere quel Neal Carey in una rete invisibile. Adesso il bersaglio correva, tentando di seminare il suo partner. L’occasione era a portata di mano.
Gli si mise dietro e si fece scoprire, quando il bersaglio si voltò per controllare dov’era il suo partner.
Neal vide Culturista uscire da un androne alle sue spalle, e stavolta gli sembrò un’opportunità. Graham era una quindicina di metri dietro di loro. Neal si voltò di scatto e andò a sbattere contro Culturista.
– Cento dollari se mi togli di dosso quel tipo senza fargli del male. E altri cento se mi dài una mano. Dove ci incontriamo?
Culturista borbottò un indirizzo e si voltò verso Graham.
Graham lo vide arrivare, ma era troppo tardi. Quel bastardo era enorme, e Graham si sentí stretto in un abbraccio mortale che gli tolse il fiato e gli offuscò la vista. In due secondi intorno a lui c’erano altri tre cinesi.
– Non fategli del male, – disse Chin ai suoi assistenti.
– Ti do piú di quello che ti ha dato lui, – disse Graham.
– Questa non è un’asta.
E Neal era sempre piú lontano, lontano, lontano.
Neal controllò l’indirizzo e aprí la porta sotto un’insegna gialla al neon con la scritta XXX in lettere scure. Un nero dall’aria stanca dietro il bancone gli rivolse un cenno di saluto. Nel negozio c’erano tre o quattro clienti, ma nessuno di loro alzò la testa dalle riviste porno.
– Puoi guardare, puoi comprare, puoi prendere dei gettoni, – gli disse l’uomo. – Ma non puoi leggere. Questa non è una biblioteca.
– Devo vedere un tizio.
– Il reparto gay è in fondo a sinistra.
Culturista entrò proprio in quel momento e allungò una banconota da cinque all’impiegato, il quale gli diede in cambio una busta di plastica piena di gettoni. Indicò con il capo a Neal una porta a molla sul retro del negozio.
– Vieni nel mio ufficio.
Chin scelse una cabina, fece entrare Neal e chiuse la porta. Dentro c’era un sedile ribaltabile largo appena abbastanza per una persona. L’arredamento era completato da una scatola di kleenex. Chin inserí due gettoni nella fessura e guardò il selettore dei film.
– Hai preferenze?
Neal scosse la testa.
Chin premette un bottone e il video porno iniziò.
– Siediti, mettiti comodo.
– Grazie.
Neal gli diede altri cinquanta dollari.
– Mi sono fatto l’idea, – disse Chin, su un sottofondo di finti gemiti di passione, – che il tuo non sia un problema da cinquanta dollari.
Neal udiva gemiti simili dalla cabina accanto.
– Alza il volume, – disse.
Mark Chin lo mise al massimo. La colonna sonora faceva vibrare le pareti in compensato.
– Allora?
– Ho bisogno di un posto per nascondermi.
– Non è un problema.
– A Hong Kong.
Grida di «Scopami, scopami!» sembrarono uscire dal petto di Mark Chin, come fosse il bambolotto di un osceno ventriloquo.
– Non è un problema, – disse.
– Perfetto.
Il video salí in un crescendo di passione da spaccare i timpani. Chin chiese: – Si tratta della donna, vero?
– Quale donna?
– Quella della stanza 1016, una cinese bellissima.
Il video si spense di colpo a metà dell’orgasmo. Chin inserí nella fessura un altro gettone e cambiò canale. Due donne in una sauna si facevano reciproche avance. La loro conversazione tranquilla fu un sollievo.
– Quel Pendleton è un uomo fortunato, – proseguí Chin. – A me non dispiacerebbe condividere un po’ della sua fortuna.
Neal si sentí arrossire di rabbia. Cosa sei, geloso?, pensò.
– Lui cosa fa, il chimico? – chiese Chin.
E tu come fai a saperlo?, pensò Neal. Non rispose, e furono i sospiri delle due donne a riempire il silenzio.
Chin disse: – Pendleton testa l’eroina? È lui che dice al capo «Questa è buona, questa non è buona»? Gli dànno un bello stipendio piú alcuni bonus e lei è uno dei bonus? Meglio non immischiarsi, questo è un affare delle Tong, roba grossa.
– Io devo trovarla.
Sí, devo trovarla, per avvertirla. Per farle delle domande. Per scoprire che diavolo sta succedendo e trovare un modo di uscirne vivo.
– Cosa sei, innamorato?
Perché è cosí evidente a tutti e non a me?
– Sí.
Chin scosse la testa, disgustato. Le due donne del video cominciarono a fare sul serio.
– È il tuo funerale, – disse Chin, – quindi spetta a te decidere. Quando vuoi partire?
– Al piú presto possibile.
– Prima che il tuo amico ti ritrovi?
– Quanto è difficile sparire a Hong Kong? – chiese Neal.
– Non molto. Sparisce gente tutti i giorni.
Neal aprí la borsa e ne tolse un fascio di banconote. Contò dieci banconote da cento e le consegnò a Chin.
– Fammi sparire.
Chin piegò le banconote e le infilò nella tasca dei pantaloni. Il vecchio proverbio è vero, pensò: è stupefacente la fortuna che ti tocca se lavori duro. Ma non gli interessavano i vecchi proverbi. La sua metafora preferita erano gli scacchi, e sapeva che per catturare la regina dell’avversario dovevi mandare avanti un pedone. Tese le mani aperte verso Neal, chiuse le dita e le riaprí di scatto.
– Detto fatto!
Uscirono dalla cabina, seguiti da una calda risata femminile.
5.
Xao Xiyang tolse il coperchio alla tazza e bevve un sorso di tè verde. Gli doleva il collo, gli bruciavano gli occhi e persino quel tè di ottima qualità non cambiava le colonne di cifre sulla sua scrivania. Spostò un po’ indietro la sedia e si accese una sigaretta. Il sapore acre del tabacco economico gli bruciò in gola. I suoi colleghi lo prendevano in giro per quello: come segretario regionale del partito avrebbe potuto facilmente procurarsi tutte le Marlboro di contrabbando che voleva, da Hong Kong. Ma lui era abituato alla prudenza. Durante la grande rivoluzione culturale del proletariato aveva visto uomini finire in carcere per «crimini» meno gravi del fumare sigarette americane.
Si tolse gli occhiali e li pulí sulla manica corta della camicia di cotone. Sentiva l’odore rancido del sudore sotto le ascelle. Guardò l’orologio e si rese conto che stava esaminando quelle statistiche agricole da sette ore. E ancora non erano cambiate.
Novantasette milioni di persone popolano questa provincia, pensò Xao. Piú dell’intera dinastia Han nel suo massimo splendore, piú dei Ming, piú di Roma. Io sono responsabile di novantasette milioni di persone. E non so come dar loro da mangiare. Qui, nella cosiddetta Ciotola di Riso della Cina, non riusciamo piú a nutrirci. Bella rivoluzione culturale.
Il suo assistente, Peng, gli aveva ripetuto la frase adulatoria che girava nelle sale da tè: «Se vuoi mangiare, va’ da Xao Xiyang». Ed era vero che lui aveva fatto delle riforme, sbattendo fuori alcuni ideologi che dirigevano malissimo le squadre di produzione. Ma «alcuni» non era abbastanza. Le riforme dovevano essere sistematiche. E il sistema era cosí idiota, pensò Xao, aspirando un’altra lunga boccata dalla sigaretta. Folle, in realtà. E la colpa è tua, vecchio amico, pensò, guardando il ritratto del presidente appeso al muro del suo ufficio, lí come in tutti gli uffici della nazione.
Avevano cominciato come tongmen-ji, compagni, anche se il cliché del partito ora gli faceva schifo. All’epoca ammirava il presidente, lo considerava quasi un fratello maggiore. Si era iscritto al partito, aveva combattuto contro i Kuomintang, aveva perso e si era unito al presidente nella Lunga Marcia. Come sembrava tutto chiaro, in quei giorni, chiaro e puro nell’aria cristallina delle montagne, quando lui e il presidente e tutti gli altri lottavano per costruire una nuova Cina, un nuovo mondo.
Combattere. Prima i Kuomintang, poi i giapponesi, poi di nuovo i Kuomintang. Sotto la guida del presidente, applicando i suoi principî di guerriglia. Come pesci in un mare di gente. E combattendo avevano liberato e portato sotto il loro controllo vaste aree del Paese. E avevano buttato fuori i proprietari terrieri e consegnato le terre ai contadini, e poi avevano reclutato i contadini nel loro esercito. E ricordava che quando si ritiravano da un villaggio, i Kuomintang tornavano e uccidevano tutti i contadini che erano rimasti a casa.
Che battaglie aveva visto! Cadaveri ammucchiati come spighe di riso ai lati delle strade. Interi villaggi decapitati dai giapponesi. Ricordava la pattuglia giapponese che avevano inchiodato su quel passo di montagna: li avevano fatti fuori uno alla volta, nel corso di tre giorni. Quando erano andati a saccheggiare i corpi, avevano visto che alcuni giapponesi non erano stati colpiti dai proiettili, ma erano congelati, i loro corpi ghiacciati contro le rocce, le dita immobili sui grilletti dei fucili.
E tra quelle montagne, Xao aveva conosciuto lei. Era una staffetta, una portatrice di messaggi… una spia. Rischiava di essere torturata dai giapponesi, ma non aveva paura. Lui ne aveva sentito parlare, prima di incontrarla. Sorrise al ricordo. Non l’avevano chiamato «amore», sarebbe stato troppo romantico e decadente. L’avevano chiamato «unità di spirito nel fervore rivoluzionario», ma era amore. Tanta bellezza… c’era dell’anima in ciò che facevano…
Si erano sposati in un prato di montagna, trascorrendo la luna di miele in una tenda sotto alti cedri. Poi erano tornati ciascuno ai loro doveri. Lui temeva per lei, temeva per sé stesso che lei non tornasse da una delle sue missioni pericolose. Per cinque anni si erano visti per brevi incontri appassionati in capanne di contadini, tende, persino grotte. E quando i giapponesi erano stati sconfitti e i Kuomintang distrutti, si erano ritrovati nelle gioiose celebrazioni in piazza Tienanmen, e non si erano piú separati. Avevano formato una famiglia, e non si erano piú lasciati, fino a…
Xao Xiyang si accese un’altra sigaretta. Sto diventando vecchio, pensò. Vivere nel passato, nel regno della memoria, è un’abitudine da vecchi. Ma tu, vecchio amico, pensò guardando di nuovo il ritratto, tu ora sei nel regno delle ombre. Grazie. L’ultima cosa che potevi fare per noi, la migliore, era morire. È un peccato che tu non sia morto prima. Saresti dovuto morire il giorno della vittoria, quando tutti noi, riuniti alla Porta di Tienanmen, abbiamo proclamato la Repubblica. La Nuova Cina.
Prima che decidessi di diventare un imperatore.
Xao bevve un altro sorso di tè verde e pronunciò un’altra maledizione all’indirizzo del suo vecchio amico. La pronunciò in nome di venti milioni di morti. Venti milioni di contadini, venti milioni del «popolo», morti di fame nel Grande Balzo in Avanti del presidente. Un grande balzo davvero, pensò: un balzo da qui all’altro mondo. Da bravo marxista, io non credo nell’altro mondo. Ma ci vedremo all’inferno, vecchio amico.
Il Grande Balzo in Avanti ebbe inizio nel 1957, dopo una stagione di raccolti insolitamente abbondante. Ma il presidente non era soddisfatto della semplice produzione di cibo; la società doveva progredire lungo strade meno «individualiste» ed «egoiste». La collettivizzazione delle terre fu accelerata. L’intera popolazione rurale fu organizzata in squadre di produzione. Nessun contadino osava possedere personalmente neppure un pollo. Peggio, alla fine dell’anno, piú di trecentomila «schifosi intellettuali», tra cui i migliori scienziati ed economisti, furono definiti «di destra» e spediti nei campi di prigionia.
Cosí, quando arrivò la crisi, tutti gli esperti che avrebbero potuto controllarla non c’erano piú, e nessun altro osava parlare. Il presidente stabilí le quote per la produzione di grano, e i nuovi manager delle comuni agricole li rispettarono. Sulla carta. Il presidente guardò le cifre e si vantò del fatto che il nuovo ordine, la Nuova Cina, funzionava proprio come previsto, e comandò, in nome del «popolo», di accelerare le collettivizzazioni. Poi stabilí quote piú alte, e il popolo le rispettò. Sulla carta.
Forse i numeri non mentono, ma le persone che li scrivono sí, e i quadri del partito che riportavano quei numeri mentivano. Temevano di essere bollati come «disfattisti», quindi riferivano la vittoria. Ordinavano che i campi restassero incolti, per evitare un surplus di grano. Toglievano i contadini dai campi e li mettevano a costruire magazzini per tutto il grano che sarebbe stato raccolto. Sulla carta.
Ma nei campi e nelle risaie la storia era diversa, perché si raccoglieva meno della metà del grano riportato dai numeri, e ancora meno ne veniva immagazzinato. I raccolti marcivano nei campi mentre i contadini costruivano inutili magazzini, nessuno curava i campi mentre i contadini erano mandati a lavorare nelle cosiddette «acciaierie da cortile», per contribuire all’industrializzazione del Paese. La collettivizzazione era un caos. Quadri urbani che non sapevano nulla di agricoltura davano ordini stupidi e contraddittori ai contadini. Il già fragile sistema dei trasporti crollò del tutto e preziosi strumenti agricoli e fertilizzanti restavano chiusi dentro vagoni ferroviari, oppure venivano «persi». La produzione di grano calò di oltre il sessanta per cento e, mentre i quadri registravano l’entrata di grano inesistente in magazzini inesistenti, il presidente inviava ai sovietici il grano esistente, per pagare i debiti dell’industrializzazione.
Gli esperti che avrebbero potuto aiutare, agronomi, economisti, statistici e biochimici che avevano studiato in occidente, erano in prigione per il crimine di aver studiato in occidente. I pochi sfuggiti a quel destino furono ridotti al silenzio nel momento in cui dissero la verità, e cioè che il Grande Balzo in Avanti era una truffa, un tragico fiasco lanciato da un folle. L’imperatore era senza vestiti e il popolo era senza cibo.
Il popolo moriva di fame. Venti milioni di morti per fame in tre anni. Piú tanti altri morti per malattie collegate alla malnutrizione negli anni seguenti. E piú della metà di quei morti erano bambini.
Questa era la Nuova Cina, pensò Xao: una terra dove facevamo morire di fame i nostri bambini.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva quelle scene. I suoi incubi non riguardavano gli orrori degli anni di guerra, ma quegli anni. Le madri emaciate, troppo deboli per camminare, accovacciate sul ciglio della strada, che tentavano di dar da mangiare bucce di riso a neonati già morti. I bambini che gli chiedevano l’elemosina di un po’ di cibo, barcollando verso la sua auto ufficiale su gambette scheletriche, con domande negli occhi arrossati alle quali lui non aveva risposte. «Se vuoi mangiare, va’ da Xao Xiyang».
Ci vedremo all’inferno, vecchio amico, pensò Xao. Ci saremo entrambi, perché anch’io mi sono messo in posa davanti all’obiettivo, nei «villaggi modello», quelle comuni agricole finte, che ricevevano soldi, fertilizzanti e pesticidi. Anch’io ho posato accanto agli enormi cumuli di grano, ai maiali grassi e ai contadini sorridenti con figli grassottelli dalle guance rosate. Anch’io mi sono congratulato con i loro leader e li ho indicati come esempio per gli altri, benché sapessi che le cifre da loro riportate erano false. Persino loro, con tutte quelle risorse, erano costretti a mentire. E il resto della nazione doveva vivere al livello di quelle menzogne, e mandare ancora piú grano, e morire di fame ancora di piú. Oh, all’inferno con te ci sarò anch’io, vecchio amico.
Finalmente il massacro fu troppo anche per alcuni alti membri del partito, che sfidarono l’ira del presidente e lo costrinsero a mettere fine a quella follia. La collettivizzazione fu modificata e rallentata. Alcune terre furono concesse in usufrutto a privati. Alcuni esperti sopravvissuti all’epurazione furono reintegrati ai loro posti. Quando i professionisti sostituirono i politici e il pragmatismo ebbe la precedenza sull’ideologia, iniziò un recupero lento e doloroso. Nel 1965 la produzione tornò a livelli normali. La fame c’era ancora, ma la morte per fame era scomparsa. E il presidente intanto se ne stava zitto e aspettava il suo momento.
Ci hai dato appena un anno, vecchio amico. Un anno di pace e prosperità, poi hai ricominciato. Stavolta si trattava della Grande Rivoluzione Culturale del Proletariato.
Xao represse una risata, ripensando a quell’idea brillante. Il presidente era riuscito a far figurare il successo come un tradimento. Gli esperti, i progettisti, gli scienziati, gli intellettuali, i prudenti agricoltori privati furono tutti condannati come «battistrada del capitalismo». La prova? Il loro stesso successo! Che meravigliosa logica invertita! Era come dire che il successo all’interno del sistema era impossibile, perciò chi lo otteneva doveva averlo fatto fuori dal sistema, attraverso la «strada del capitalismo». Si trattava di traditori, ed era il loro tradimento a sabotare il sistema e a impedire che funzionasse! Era un argomento che solo un bambino avrebbe accettato, quindi fu ai bambini che si rivolse il presidente.
In tal modo liberò un torrente di rabbia adolescenziale repressa. In una società che reprimeva i giovani e insegnava loro a rispettare gli anziani, il presidente li incitava a liberarsi degli anziani. Con il radar accurato dello psicopatico, il suo primo bersaglio furono gli insegnanti. Quei semidei confuciani, abituati da secoli alla cieca obbedienza, si svegliarono una mattina ridicolizzati su manifesti a grandi caratteri, con studenti non piú docili che esigevano di poter avere voce nella scuola. Quando la ebbero, accusarono i maestri di non essere abbastanza «puri», di non essere abbastanza «rossi», di non amare abbastanza il presidente. Alla fine, l’accusa principale fu quella di essere istruiti, e una volta che tale pazzia fu accettata, si aprirono le chiuse.
Funzionari denunciati perché facevano progetti, scienziati perché facevano ricerca, giornalisti perché scrivevano, intellettuali perché pensavano… agricoltori perché producevano cibo. Nella «rivoluzione permanente» bisognava rovesciare tutto, per definizione. L’unica cosa importante era il fervore politico. Fervore per cosa? Per il pensiero del presidente. E cosa pensava il presidente? Pensava che dovesse esserci fervore politico.
Cosí il successo divenne sabotaggio, la progettazione divenne complotto, l’istruzione divenne ignoranza. In quel mondo rovesciato, i bambini denunciavano i genitori, gli esperti di agronomia trasportavano secchi di merda, contadini analfabeti «scrivevano» gli orari dei treni.
E tu, vecchio amico, sei diventato un imperatore. «Tutto è caos sotto il cielo, – hai scritto. – La situazione è eccellente». L’imperatore del caos.
Xao si accese un’altra sigaretta. Ricordava quando i ragazzini delle Guardie Rosse erano venuti a prenderlo. Gonfi d’orgoglio, con le loro bandiere rosse e il libretto rosso. Lo avevano denunciato come reazionario.
Il suo superiore aveva aperto loro la porta, facendoli entrare e lodandoli per la loro comprensione del «pensiero di Mao». Non era insolito: molti funzionari avevano aderito alla politica della denuncia. Tradire i subordinati per guadagnare tempo, tradire i propri superiori per salire di grado. Tutto per guadagnare tempo, tutto per sopravvivere, perché stavolta sapevano di dover sopravvivere. Anche se molti non ce l’avrebbero fatta (e cosí fu), alcuni professionisti dovevano restare vivi per poter poi ricostruire. Per questo Xao non aveva provato rabbia quando il suo superiore, che era anche un amico fidato, lo aveva denunciato alla folla come battistrada del capitalismo influenzato dall’occidente. Era seduto in ufficio e fumava una sigaretta, quando le Guardie Rosse locali avevano fatto irruzione, legandogli le mani dietro la schiena. Gli misero in testa un gran cappello da somaro e lo fecero sfilare per le strade, dove la gente gli tirava verdure marce, gli sputava addosso e gli urlava insulti.
Lo torchiarono per cinque giorni, nella sua cella o in «sessioni di lotta» pubbliche. Xao scrisse un’autocritica dopo l’altra, dando loro abbastanza materiale per nutrire la rabbia, ma non abbastanza da ucciderlo. Denunciò come complici altri funzionari, soprattutto quelli che sapeva essere ideologi intolleranti. Lo stesso superiore che aveva denunciato lui fece in modo che fosse condannato all’esilio a Xinxiang, invece che a una morte lenta in un campo di prigionia nelle campagne.
L’esilio durò otto anni. Otto anni di pazienza, progetti, complotti. Di nascosto Xao ricostruí una rete di contatti, inviando e ricevendo messaggi da gente che la pensava come lui. Centinaia di funzionari patriottici avevano trovato un porto sicuro dove attendere il culmine della tempesta, che finalmente arrivò. Fu sfiorata la guerra civile, quando dovette intervenire l’esercito per spegnere le lotte intestine tra gruppi rivali di Guardie Rosse.
Ma l’economia ancora una volta era rovinata. La classe dei professionisti era stata praticamente eliminata. Milioni di Guardie Rosse allo sbando infestavano le campagne e i pazzi dirigevano ancora il manicomio. E stavolta lei non era tornata.
E tu, vecchio amico, finalmente sei morto.
Xao fissò di nuovo le cifre della produzione di grano delle comuni. Altre menzogne, senza dubbio. Altre verità gonfiate ed esagerate. Nessuno vuol fare brutta figura. Temono ancora di essere denunciati. Le vecchie abitudini sono dure a morire.
I migliori agricoltori denunciati come «di destra» e uccisi o gettati in prigione, pensò. Una generazione dei nostri migliori scienziati interamente perduta, le loro ricerche, costate tanto lavoro, tanta passione, tanta pazienza, bruciate in un’esplosione di stupida furia adolescente, scatenata da te, vecchio amico.
Ma poco alla volta, i vecchi compagni di Xao erano emersi dai loro nascondigli. Deng, il suo vecchio superiore, aveva smesso di nascondersi a Canton e aveva fatto in modo di tornare in primo piano, e ora era impegnato in una lotta di potere con Hua. Deng, che ancora di recente era stato denunciato per aver osato proporre di servirsi di esperti stranieri, era un uomo paziente. La posta era troppo alta per permettersi di essere frettolosi, gli aveva detto. In gioco c’era l’anima stessa della Cina.
Xao voltò la sedia e guardò dalla finestra il suo autista, in piedi accanto all’automobile. Citofonò al suo assistente, il sempre arcigno Peng. – Di’ al mio autista che non uscirò almeno prima di due ore. Chiedigli di andare all’Hibiscus a prendersi qualcosa da mangiare e digli di portare del cibo anche per me.
– Sí, compagno segretario –. Peng fece un sorrisetto sprezzante. Il compagno Xao aveva mandato l’autista in quel ristorante tutte le sere, quella settimana. Doveva mangiare almeno quattro yuan al giorno!
– E vedi se riesci a trovare qualcuno che aggiusti questo ventilatore, – continuò Xao. – Qui dentro si soffoca!
Xao tornò alle sue statistiche. Anche se fossero veritiere sarebbero tristi, pensò. Sottrai le esagerazioni e il risultato è vicino al disastro. Frugò nel cassetto della scrivania in basso a sinistra e prese una carpetta blu con l’etichetta: «Statistiche preliminari sulla produzione delle aziende private». Era l’unica copia. Meglio che quei bastardi di Pechino non la vedessero ancora.
Si mise a studiarla di nuovo. Era allettante: le uniche statistiche di produzione della sua provincia che registravano un aumento. E quegli agricoltori avevano tutta la convenienza a mentire per difetto, perché dovevano consegnare alla comune una percentuale della produzione. Eppure… Oh, vecchio amico, mi piacerebbe ravvivare le fiamme del tuo inferno con queste carte, per farti bruciare un po’ di piú.
Era immerso nelle statistiche quando tornò il suo autista, e posò sulla scrivania un piatto coperto di tofu e verdure e una grossa ciotola di zuppa di pesce.
– Grazie, – disse Xao. – Hai mangiato?
– Sí, compagno segretario.
Xao gli offrí il pacchetto di sigarette. L’autista, un giovane soldato alto e atletico che si era portato dietro da Henan, ne prese una con timidezza. Xao sfregò un fiammifero e gliel’accese, accendendone anche una per sé.
– E? – chiese.
– C’era un messaggio.
– Bene.
– «China Doll è in corridoio», – recitò l’autista.
Xao aspirò il fumo, e gli sembrò che avesse un gusto migliore. All’improvviso si accorse di avere una fame da lupo.
– Dille di aspettare.
– Sí, compagno segretario.
L’autista fece il saluto militare e uscí dalla stanza.
Xao prese due bastoncini dal cassetto in alto della scrivania e li pulí sull’orlo del vestito.
– La bambola cinese è in corridoio, – ripeté tra sé e sé. – Bene. Il cibo era delizioso.
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