lunedì 1 marzo 2021

STELLA DISTANTE Roberto Bolaño


 

STELLA DISTANTE 

Roberto Bolaño 

La prima volta che vidi Carlos Wieder fu nel 1971 o forse nel 1972 quando Allende era presidente del Cile. Chi è Carlos Wieder? È un poeta, un aviatore che scrive versi nel cielo, un killer di poeti, un torturatore, un fotografo surrealista delle vittime, e poi un fuggiasco in Europa, poeta d'avanguardia e forse operatore-assassino di film hard core criminali (quelli in cui si commettono omicidi). Questo è il racconto delle sue imprese, ma soprattutto della caccia condotta, dopo la caduta di Pinochet, da un vecchio poliziotto esiliato: e diventa un viaggio palpitante, seguito come una cronaca dal narratore, nelle diverse identità fittizie del poeta torturatore. 

 

STELLA DISTANTE

Quale stella cade senza che nessuno la guardi?  WILLIAM FAULKNER 

Nota dell’autore

Nell'ultimo capitolo del mio romanzo "La letteratura nazista in America" si raccontava forse troppo schematicamente (non andava oltre le venti pagine) la storia del tenente Ramirez Hoffman, delle Forze Aeree Cilene. Questa storia me l'aveva riferita il mio compatriota Arturo B, veterano delle guerre fiorite e suicida in Africa, che non rimase soddisfatto del risultato finale. Nell'ultimo capitolo de La letteratura nazista" fungeva da contrappunto, forse da anticlimax nei confronti del grottesco letterario che veniva prima, e Arturo desiderava una storia più lunga, non specchio né esplosione di altre storie bensì specchio ed esplosione in se stessa. Così, ci rinchiudemmo per un mese e mezzo nella mia casa di Blanes e con l'ultimo capitolo in mano e sotto la dettatura dei suoi sogni e dei suoi incubi redigemmo il romanzo che adesso il lettore ha davanti a sé. La mia funzione si è limitata a preparar da bere, consultare alcuni libri, e discutere, con lui e col fantasma sempre più vivo di Pierre Menard, il valore di molti paragrafi riprodotti.

La prima volta che vidi Carlos Wieder fu nel 1971 o forse nel 1972, quando Salvador Allende era presidente del Cile. 

Allora si faceva chiamare Alberto Ruiz-Tagle e ogni tanto frequentava il seminario di poesia di Juan Stein, a Concepción, la cosiddetta capitale del Sud. Non posso dire che lo conoscessi bene. Lo vedevo una volta alla settimana, due volte, quando andavo al seminario. Non parlava molto. Io sì. La maggior parte di noi che andavamo lì parlavamo tanto: non solo di poesia, ma anche di politica, di viaggi (che allora nessuno immaginava sarebbero stati quello che poi sono stati), di pittura, di architettura, di fotografia, di rivoluzione e di lotta armata; la lotta armata che ci avrebbe dispensato una nuova vita e una nuova epoca, ma che per la maggior parte di noi era come un sogno o, più esattamente, come la chiave che ci avrebbe aperto la porta dei sogni, gli unici per cui valesse la pena vivere. E sebbene vagamente sapessimo che spesso i sogni si trasformano in incubi, questo non ci importava. Avevamo fra i diciassette e i ventitré anni (io ne avevo diciotto) e quasi tutti studiavamo alla Facoltà di Lettere, meno le sorelle Garmendia, che studiavano sociologia e psicologia, e Alberto Ruiz-Tagle, che come una volta disse era un autodidatta. Sull'essere un autodidatta in Cile nei giorni precedenti il 1973 ci sarebbe molto da dire. Il fatto era che non sembrava un autodidatta. Voglio dire: esteriormente non sembrava un autodidatta. Questi, in Cile, agli inizi degli anni Settanta, nella città di Concepción, non vestivano nel modo in cui vestiva Ruiz-Tagle. Gli autodidatti erano poveri. Lui parlava come un autodidatta, questo sì. Parlava come presumo parliamo adesso tutti noi, quelli di noi che sono ancora vivi (parlava come se vivesse in mezzo a una nuvola), ma vestiva troppo bene per non aver mai messo piede in un'università. Non intendo dire che fosse elegante — anche se a modo suo lo era — né che vestisse in un certo stile; i suoi gusti erano eclettici: a volte indossava giacca e cravatta, altre volte abiti sportivi, non disdegnava i blue-jeans né le magliette. Ma comunque fosse vestito Ruiz-Tagle portava sempre indumenti cari, di marca. In una parola, Ruiz-Tagle era elegante e io allora non credevo che gli autodidatti cileni, sempre in bilico fra il manicomio e la disperazione, fossero eleganti. Una volta disse che suo padre o suo nonno era stato proprietario di una tenuta nei pressi di Puerto Montt. 

Lui, raccontava, o sentimmo Veronica Garmendia raccontarlo, aveva deciso di abbandonare gli studi a quindici anni per dedicarsi ai lavori di campagna e alla lettura della biblioteca paterna. Noi che frequentavamo il seminario di Juan Stein davamo per scontato che fosse un buon cavallerizzo. 

In realtà, tutte le supposizioni che potevamo fare su Ruiz-Tagle erano predeterminate dalla nostra gelosia o forse dalla nostra invidia. Ruiz-Tagle era alto, magro, ma robusto e con bei lineamenti. Secondo Bibiano O'Ryan, era un tipo dai lineamenti troppo freddi per essere belli, ma, ovvio, Bibiano affermò questo a posteriori e così non vale. Perché eravamo gelosi di RuizTagle? Il plurale è eccessivo. A provare gelosia ero io. Forse Bibiano condivideva la mia gelosia. Il motivo, naturalmente, erano le sorelle Garmendia, gemelle monozigote e punte di diamante indiscusse del seminario di poesia. A tal punto, che a volte avevamo l'impressione (Bibiano e io) che Stein tenesse il seminario a loro esclusivo beneficio. Erano, lo riconosco, le migliori. Veronica e Angelica Garmendia, certi giorni così uguali che era impossibile distinguerle e certi altri giorni (ma soprattutto certe altre notti) così diverse che sembravano reciprocamente due sconosciute se non due nemiche. Stein le adorava. Era, insieme a Ruiz-Tagle, l'unico a sapere sempre chi era Veronica e chi Angelica. Io su di loro posso appena parlare. A volte compaiono nei miei incubi. Hanno la mia stessa età, forse un anno di più, e sono alte, magre, con pelle bruna e capelli neri molto lunghi, come credo fosse la moda di quell'epoca. 

Le sorelle Garmendia divennero amiche di RuizTagle quasi subito. Questi si iscrisse nel '71 o nel '72 al seminario di Stein. Nessuno l'aveva visto prima, né all'università né in altri posti. Stein non gli domandò da dove veniva. Gli chiese di leggere tre poesie e disse che non erano male. (Stein lodava apertamente solo le poesie delle sorelle Garmendia.) E rimase con noi. All'inizio gli badavamo poco. Ma quando vedemmo che le Garmendia erano diventate sue amiche, pure noi diventammo amici di Ruiz-Tagle. Fino ad allora il suo atteggiamento era improntato a una cordialità distante. Solo con le Garmendia (in questo assomigliava a Stein) era francamente simpatico, pieno di premure e di attenzioni. Quanto a noi, come già ho detto, ci trattava con una «cordialità distante», ossia ci salutava, ci sorrideva, quando leggevamo poesie era discreto e misurato nei suoi apprezzamenti critici, non difendeva mai i suoi testi dai nostri attacchi (avevamo l'abitudine di essere devastanti) e ci ascoltava, quando gli parlavamo, con qualcosa che oggi non mi azzarderei mai a chiamare attenzione ma che allora ci sembrava tale. 

Le differenze fra Ruiz-Tagle e gli altri erano patenti. Noi parlavamo in argot e in un gergo marxistamandrakista (perlopiù eravamo membri o simpatizzanti del MIR, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria, o di partiti troztkisti, sebbene qualcuno, credo, militasse nelle Gioventù Socialiste o nel Partito Comunista o in qualche partito della sinistra cattolica). Ruiz-Tagle parlava in spagnolo. Quello spagnolo di certi posti del Cile (posti più mentali che fisici) dove il tempo sembra non trascorrere. Noi vivevamo con i nostri genitori (noi di Concepción) o in povere pensioni per studenti. RuizTagle viveva da solo, in un appartamento nei pressi del centro, di quattro vani con le tapparelle perennemente abbassate, in cui io non entrai mai, ma di cui Bibiano e Posadas la Grassa mi raccontarono alcune cose, molti anni dopo (cose ormai influenzate dalla leggenda maledetta di Wieder), e che io non so se credere o imputare all'immaginazione del mio antico compagno. Noi non avevamo quasi mai soldi; a Ruiz-Tagle non mancò mai il denaro. 

Cosa mi raccontò Bibiano dell'appartamento di RuizTagle? Parlò della sua nudità, soprattutto; ebbe l'impressione che l'appartamento fosse stato preparato. Un'unica volta ci andò da solo. Passava da quelle parti e decise (Bibiano è fatto così) di invitare Ruiz-Tagle al cinema. Davano un film di Bergman, non ricordo quale. Prima Bibiano era andato un paio di volte in quell'appartamento, sempre in compagnia di una delle Garmendia, ed entrambe le volte la visita era stata, per cose dire, attesa. Allora, durante quelle visite con le Garmendia, l'appartamento gli era sembrato preparato, disposto per l'occhio di chi arrivava, troppo vuoto, con spazi dove chiaramente mancava qualcosa. Nella lettera in cui mi spiegò queste cose (lettera scritta molti anni dopo) Bibiano diceva che si era sentito come Mia Farrow in Rosemary's Baby, quando va per la prima volta, insieme a John Cassavetes, nell'appartamento dei suoi vicini. Mancava qualcosa. Nell'appartamento del film di Polanski a mancare erano i quadri, staccati prudentemente per non spaventare Mia e Cassavetes. Nella casa di Ruiz-Tagle a mancare era qualcosa di innominabile (o che Bibiano, anni dopo e ormai al corrente della storia o di buona parte della storia, considerò innominabile, ma presente, tangibile), come se l'anfitrione avesse amputato pezzi della sua dimora. O come se questa fosse un meccano che si adattava alle aspettative e alle preferenze di ogni visitatore. Questa impressione si accentuò la volta in cui si recò da solo nell'appartamento. Ruiz-Tagle, ovviamente, non lo aspettava. Tardò ad aprire la porta. Quando lo fece sembrò non riconoscere Bibiano, sebbene questi mi assicuri che Ruiz-Tagle aprì la porta con un sorriso e che non smise mai di sorridere. Non c'era molta luce, lo ammette lui stesso, sicché non so fino a che punto il mio amico si avvicini alla verità. Comunque sia, RuizTagle aprì la porta e dopo uno scambio di parole più o meno incongruo (tardò a capire che Bibiano era lì per invitarlo al cinema) richiuse non senza prima dirgli che aspettasse un momento, e dopo qualche secondo aprì e questa volta lo invitò ad accomodarsi. La casa era in penombra. L'odore era denso, come se la sera prima Ruiz-Tagle avesse preparato cibo molto forte, pieno di grasso e di spezie. Per un momento Bibiano credette di sentire rumore in una delle stanze e pensò che Ruiz-Tagle fosse con una donna. Mentre stava per scusarsi e andarsene, Ruiz-Tagle gli domandò che film pensava di andar a vedere. Bibiano disse che aveva pensato a un film di Bergman, al Cinema Lautaro. Ruiz-Tagle sorrise di nuovo con quel sorriso che a Bibiano sembrava enigmatico e che io trovavo pieno di sufficienza se non di esplicita insolenza. Si scusò, disse che aveva già un appuntamento con Veronica Garmendia e poi, spiegò, non gli piacevano i film di Bergman. In quel momento Bibiano era ormai sicuro che c'era un'altra persona in casa, una persona immobile, che dietro la porta ascoltava la conversazione fra lui e Ruiz-Tagle. Pensò che, per l'appunto, doveva essere Verònica, perché altrimenti come spiegare il fatto che Ruiz-Tagle, in genere così discreto, la nominasse? Ma per quanti sforzi fece non riuscì a immaginare la nostra poetessa in quella situazione. Né Verònica né Angélica Garmendia ascoltavano dietro le porte. Chi, allora? Bibiano non lo sa. In quel momento, probabilmente, l'unica cosa che sapeva era che desiderava andarsene, salutare RuizTagle e non tornare mai più in quella casa nuda e sanguinante. Sono le sue parole. Anche se, così come lui la descrive, la casa non poteva offrire un aspetto più asettico. Le pareti nette, i libri ordinati in una scaffalatura metallica, le poltrone coperte con ponchos del Sud. Sopra una panca di legno la Leika di RuizTagle, quella stessa che un pomeriggio aveva usato per fare foto a noi tutti, membri del seminario di poesia. La cucina, che Bibiano vedeva attraverso una porta socchiusa, dall'aspetto normale, senza il tipico ammucchiarsi di pentole e piatti sporchi tipico della casa di uno studente (ma Ruiz-Tagle non era uno studente). Insomma, nulla che si discostasse dalla normalità, tranne il rumore che poteva benissimo essere venuto dall'appartamento vicino. Secondo Bibiano, mentre Ruiz-Tagle parlava lui ebbe l'impressione che questi non voleva che se ne andasse, che parlava proprio per trattenerlo lì. Questa impressione, senza alcun fondamento oggettivo, contribuì ad aumentare il nervosismo del mio amico fino a un livello, secondo lui, intollerabile. La cosa più strana è che Ruiz-Tagle sembrava godere della situazione: si rendeva conto che Bibiano era sempre più pallido o più sudato e continuava a parlare (di Bergman presumo) e a sorridere. L'appartamento rimaneva in un silenzio che le parole di Ruiz-Tagle non facevano che accentuare, senza mai riuscire a infrangerlo. 

Di cosa parlava?, si domanda Bibiano. Sarebbe importante, scrive nella sua lettera, che lo ricordassi, ma per quanto mi sforzi è impossibile. II fatto è che Bibiano resse finché gli fu possibile, poi disse arrivederci in modo piuttosto precipitoso e se ne andò. Sulle scale, poco prima di ritrovarsi in strada, incontrò Veronica Garmendia. Questa gli domandò se gli succedeva qualcosa. Cosa vuoi che mi succeda?, disse Bibiano. Non so, disse Veronica, ma sei bianco come un lenzuolo. Non dimenticherò mai quelle parole, dice Bibiano nella sua lettera: bianco come un lenzuolo. E il viso di Veronica Garmendia. Il viso di una donna innamorata. 

E triste ammetterlo, ma è così. Veronica era innamorata di Ruiz-Tagle. E può darsi che pure Angélica fosse innamorata di lui. Una volta, Bibiano e io ne parlammo, molto tempo fa. Presumo che a farci male fosse che nessuna delle Garmendia era innamorata di noi o almeno interessata a noi. A Bibiano piaceva Veronica. A me piaceva Angélica. Non osammo mai dir loro neppure una parola in merito, sebbene io creda che il nostro interesse fosse noto a tutti. Una cosa per cui non ci distinguevamo dal resto dei componenti maschili del seminario, tutti, chi più, chi meno, innamorati delle sorelle Garmendia. Ma loro, o almeno una di loro, rimasero soggiogate dallo strano fascino del poeta autodidatta. 

Autodidatta, sì, ma preoccupato di imparare come decidemmo Bibiano e io quando lo vedemmo comparire al seminario di poesia di Diego Soto, un altro seminario molto seguito dell'Università di Concepción, per così dire rivale in etica e in estetica del seminario di Juan Stein, anche se Stein e Soto erano come allora si diceva, e presumo si dica ancora, amici per la pelle. Il seminario di Soto aveva sede nella Facoltà di Medicina, ignoro per quale motivo, in un vano male ventilato e male ammobiliato, con solo un corridoio che lo separava dalla sala in cui gli studenti sezionavano cadaveri durante le lezioni di anatomia. La sala, naturalmente, puzzava di formalina. Anche il corridoio, a volte, puzzava di formalina. E certe sere, perché il seminario di Soto si svolgeva ogni venerdì dalle otto alle dieci, pur finendo in genere dopo la mezzanotte, anche il vano si impregnava di odore di formalina che noi cercavamo inutilmente di attenuare accendendo una sigaretta dopo l'altra. Gli assidui al seminario di Stein non frequentavano il seminario di Soto e viceversa, tranne Bibiano O'Ryan e io, che in realtà compensavamo la nostra assenza cronica alle lezioni partecipando non solo ai seminari ma pure a qualsiasi lettura pubblica o riunione culturale e politica avesse luogo nella città. Sicché veder comparire lì una sera Ruiz-Tagle fu una sorpresa. Il suo atteggiamento fu più o meno lo stesso che aveva al seminario di Stein. Ascoltava, le sue critiche erano ponderate, brevi e sempre espresse con tono educato e cortese, leggeva i suoi lavori con distacco e distanza e accettava senza battere ciglio anche i peggiori commenti, come se le poesie che sottoponeva alle nostre critiche non fossero state sue. Questo lo notammo non solo Bibiano e io; una sera Diego Soto gli disse che scriveva con distanza e freddezza. Non sembrano poesie tue, gli disse. Ruiz-Tagle lo ammise senza turbarsi. Sto cercando, rispose. 

Al seminario della Facoltà di Medicina Ruiz-Tagle conobbe Carmen Villagràn e divennero amici. Carmen era una brava poetessa, sebbene non brava come le sorelle Garmendia. (I migliori poeti o poeti in erba si trovavano nel seminario di Juan Stein). E conobbe e divenne amico anche di Marta Posadas, detta Posadas la Grassa, l'unica studentessa di medicina del seminario di quella facoltà, una ragazza molto bianca, molto grassa e molto triste che scriveva poesie in prosa e che quanto davvero voleva, almeno allora, era diventare una specie di Marta Harnecker della critica letteraria. 

Fra gli uomini non si fece amici. Bibiano e me, quando ci vedeva, ci salutava educatamente ma senza palesare il minimo segno di familiarità, sebbene ci vedessimo, fra il seminario di Stein e il seminario di Soto, otto o nove ore alla settimana. Gli uomini non sembravano interessargli affatto. Viveva da solo, nel suo appartamento c'era qualcosa di strano (secondo Bibiano), era privo dell'orgoglio puerile che in genere gli altri poeti avevano per le loro opere, era amico non solo delle ragazze più belle della mia epoca (le sorelle Garmendia), ma aveva pure conquistato le due donne del seminario di Diego Soto, in una parola era il bersaglio dell'invidia di Bibiano O'Ryan e della mia. 

E nessuno lo conosceva. 

Juan Stein e Diego Soto, che per me e per Bibiano erano le persone più intelligenti di Concepción, non si resero conto di niente. Le sorelle Garmendia neppure, tutto il contrario, in due circostanze Angélica lodò davanti a me le virtù di Ruiz-Tagle: serio, compito, con una mente lucida, con una grande capacità di ascoltare gli altri. Bibiano e io lo odiavamo, ma neppure noi ci rendemmo conto di niente. Solo Posadas la Grassa captò qualcosa di quello che in realtà si muoveva dietro Ruiz-Tagle. Ricordo la sera in cui ne parlammo. Eravamo andati al cinema e dopo il film ci fermammo in un ristorante del centro. Bibiano aveva con sé una cartellina con testi del gruppo del seminario di Stein e del seminario di Soto per la sua undicesima antologia breve di giovani poeti di Concepción che nessun giornale avrebbe pubblicato. Posadas la Grassa e io ci mettemmo a curiosare tra i fogli. Chi ci sarà nell'antologia?, domandai sapendo che io ero uno dei prescelti. (In caso contrario la mia amicizia con Bibiano sarebbe probabilmente finita il giorno dopo). Te, disse Bibiano, Martita (la Grassa), Veronica e Angélica, naturalmente, Carmen, poi nominò due poeti, uno del seminario di Stein e un altro del seminario di Soto, e infine disse il nome di Ruiz-Tagle. Ricordo che la Grassa rimase zitta per un momento mentre le sue mani (perennemente macchiate di inchiostro e con le dita piuttosto sporche, cosa che sembrava strana in una studentessa di medicina, anche se la Grassa quando parlava dei suoi studi lo faceva in termini così languidi da non lasciare dubbi sul fatto che non avrebbe mai raggiunto la laurea) frugavano tra le carte fino a trovare i tre fogli di Ruiz-Tagle. Non includerlo, disse all'improvviso. Ruiz-Tagle?, domandai io senza credere a quanto sentivo perché la Grassa era una sua fervente ammiratrice. Bibiano, al contrario, non disse niente. Le tre poesie erano brevi, nessuna superava i dieci versi: una parlava di un paesaggio, descriveva un paesaggio, alberi, una strada di terra battuta, una casa lontana dalla strada, recinti di legno, colline, nuvole; secondo Bibiano era «molto giapponese»; quanto a me era come se l'avesse scritta Jorge Teillier dopo una commozione cerebrale. La seconda poesia parlava dell'aria (si intitolava Aria) che filtrava attraverso le fessure di una casa di pietra. (In questa era come se Teillier fosse rimasto afasico e si ostinasse nel suo lavoro letterario, il che non avrebbe dovuto stupirmi perché già allora, nel '73, almeno la metà dei figli putativi di Teillier erano rimasti afasici quanto ostinati). L'ultima l'ho dimenticata completamente. Ricordo solo che a un certo punto compariva senza che c'entrasse (o così sembrò a me) un coltello. 

Perché pensi che non devo includerlo?, domandò Bibiano con un braccio teso sopra il tavolo e la testa appoggiata lì sopra, come se il braccio fosse stato il guanciale e il tavolo il suo letto. Credevo che foste amici, dissi io. E lo siamo, disse la Grassa, comunque io non lo metterei. Perché?, disse Bibiano. La Grassa scrollò le spalle. E come se non fossero poesie sue, disse poi. Sue davvero, non so se mi spiego. Spiegati, disse Bibiano. La Grassa mi guardò negli occhi (io ero di fronte a lei e Bibiano, al suo fianco, sembrava si fosse addormentato) e disse: Alberto è un bravo poeta, ma non è ancora esploso. Vuoi dire che è vergine?, disse Bibiano, ma né io né la Grassa gli badammo. Tu hai letto altre cose di lui?, volli sapere io. Cosa scrive, come scrive? La Grassa sorrise fra di sé, come se lei stessa non credesse a quanto stava per dirci. Alberto, disse, rivoluzionerà la poesia cilena. Ma tu hai letto qualcosa o stai parlando di una tua intuizione? La Grassa fece un rumore col naso e rimase zitta. L'altro giorno, disse all'improvviso, sono stata a casa sua. Non dicemmo niente ma vidi che Bibiano, coricato sul tavolo, sorrideva e la guardava con tenerezza. Non mi aspettava, naturalmente, chiarì la Grassa. Lo so cosa vuoi dire, disse Bibiano. Alberto si è confidato con me, disse la Grassa. Non mi immagino Ruiz-Tagle che si confida con nessuno, disse Bibiano. Tutti credono che sia innamorato di Veronica Garmendia, disse la Grassa, ma non è vero. Te l'ha detto lui?, domandò Bibiano. La Grassa sorrise come se fosse stata in possesso di un grande segreto. Non mi piace questa donna, ricordo di aver pensato allora. Avrà talento, sarà intelligente, è una compagna, ma non mi piace. No, non me l'ha detto lui, disse la Grassa, anche se lui mi racconta cose che ad altri non racconta. Vorrai dire ad altre, disse Bibiano. Proprio così, alle altre, disse la Grassa. E quali cose ti racconta? La Grassa ci pensò un momento prima di rispondere. Be', della nuova poesia, di cos'altro? Quella che lui intende scrivere?, disse Bibiano con scetticismo. Quella che lui farà, disse la Grassa. E sapete perché ne sono così sicura? A causa della sua volontà. Per un momento aspettò che le domandassimo qualcos'altro. Ha una volontà di ferro, aggiunse, voi non lo conoscete. Era tardi, Bibiano guardò la Grassa e si alzò per pagare. Se hai così tanta fede in lui, perché non vuoi che Bibiano lo metta nella sua antologia?, domandai. Ci avvolgemmo le sciarpe intorno al collo (non ho mai più usato sciarpe lunghe come allora) e uscimmo nel freddo della strada. 

Perché non sono le sue poesie, disse la Grassa. E tu come lo sai?, domandai esasperato. Perché conosco le persone, disse la Grassa con voce triste e guardando la strada vuota. Mi sembrò il colmo della presunzione. 

Bibiano uscì dietro di noi. Martita, disse, sono sicuro di pochissime cose, una di queste è che Ruiz-Tagle non rivoluzionerà la poesia cilena. Mi sembra che non sia neppure di sinistra, aggiunsi io. A sorpresa, la Grassa mi diede ragione. No, non è di sinistra, ammise con una voce sempre più triste. Per un momento pensai che si sarebbe messa a piangere e cercai di cambiare argomento. Bibiano scoppiò a ridere. Con amiche come te, Martita, non c'è bisogno di nemici. Naturalmente, Bibiano scherzava, ma la Grassa non la prese così e volle andarsene subito. L'accompagnammo fino a casa sua. Durante il tragitto in autobus parlammo del film e della situazione politica. Prima di congedarci ci guardò fissamente e disse che doveva chiederci di prometterle una cosa. Cosa?, disse Bibiano. Non dite ad Alberto niente di quello che abbiamo detto. D'accordo, disse Bibiano, promesso, non diremo che mi hai chiesto di escluderlo dalla mia antologia. Tanto non te la pubblicheranno, disse la Grassa. Questo è probabilissimo, disse Bibiano. Grazie, Bibi, disse la Grassa (solo lei chiamava Bibiano in quel modo) e gli diede un bacio sulla guancia. Non gli diremo niente, lo giuro, dissi io. Grazie, grazie, grazie, disse la Grassa. Pensai che scherzasse. Non dite niente neppure a Veronica, disse, lei poi può dirlo ad Alberto e sapete com'è. No, non glielo diremo. Rimane fra noi tre, disse la Grassa, promesso? Promesso, rispondemmo. Infine la Grassa ci voltò le spalle, aprì la porta del suo edificio e la vedemmo entrare nell'ascensore. Prima di sparire ci salutò per l'ultima volta con la mano. Che donna singolare!, disse Bibiano. Io scoppiai a ridere. Tornammo a piedi alle nostre rispettive case, Bibiano alla pensione dove abitava e io dai miei genitori. La poesia cilena, disse Bibiano quella sera, cambierà il giorno in cui leggeremo correttamente Enrique Lihn, non prima. Ossia, fra molto tempo. 

Pochi giorni dopo ci furono il golpe militare e lo sbando. 

Una sera chiamai per telefono le sorelle Garmendia, senza alcun motivo speciale, semplicemente per sapere come stavano. Ce ne andiamo, disse Veronica. Con un nodo nello stomaco domandai quando. Domani. 

Malgrado il coprifuoco insistetti per vederle quella sera stessa. L'appartamento in cui le due sorelle vivevano da sole non era troppo lontano da casa mia e inoltre non era la prima volta che non badavo al coprifuoco. Quando arrivai erano le dieci. Le Garmendia, con mia sorpresa, stavano prendendo il tè e leggendo (presumo che mi aspettassi di trovarle in mezzo a un caos di valigie e piani di fuga). Mi dissero che se ne andavano, ma non all'estero bensì a Nacimiento, un paese a pochi chilometri da Concepción, a casa dei loro genitori. Che sollievo!, dissi, pensavo partiste per la Svizzera o qualcosa del genere. Sarebbe troppo bello, disse Angélica. Poi parlammo degli amici che non avevamo visto da giorni, facendo le congetture tipiche del momento, quelli che di sicuro erano stati arrestati, quelli che probabilmente erano passati nella clandestinità, quelli che venivano ricercati. Le Garmendia non avevano paura (non avevano motivo di averne, erano solo studentesse e il loro vincolo con gli allora cosiddetti «estremisti» si limitava all'amicizia personale con alcuni militanti, soprattutto della Facoltà di Sociologia), ma se ne andavano a Nacimiento perché Concepción era diventata impossibile e perché, lo ammisero, tornavano sempre alla casa paterna quando la «vita reale» acquisiva tratti di certa laidezza e di certa brutalità profondamente sgradevoli. Allora dovete andarvene subito, dissi loro, perché mi sembra che stiamo entrando nel campionato mondiale della laidezza e della brutalità. Si misero a ridere e mi dissero di andare via. Io insistetti per rimanere ancora un po'. Ricordo quella sera come una delle più felici della mia vita. All'una del mattino Veronica mi disse che era meglio se mi fermavo a dormire lì. Nessuno aveva cenato sicché andammo tutt'e tre in cucina e preparammo uova alle cipolle, pane fresco e tè. Mi sentii all'improvviso felice, immensamente felice, capace di fare qualsiasi cosa, pur sapendo che in quei momenti tutte le cose in cui credevo stavano colando a picco per sempre e che molta gente, fra cui più di un amico, veniva braccata e torturata. Ma io avevo voglia di cantare e di ballare e le brutte notizie (o le elucubrazioni sulle brutte notizie) contribuivano solo ad aggiungere altra legna al fuoco della mia allegria, se mi è concessa l'espressione, di cattivo gusto quant'altre mai, che però esprime il mio stato d'animo e mi azzarderei persino ad affermare che esprime pure lo stato d'animo delle Garmendia e lo stato d'animo di molti che nel settembre del 1973 avevano vent'anni o giù di lì. 

Alle cinque del mattino mi addormentai sul divano. Mi svegliò Angelica, quattro ore dopo. Facemmo colazione in cucina, silenziosi. A mezzogiorno caricarono un paio di valigie nella loro macchina, una Citroen del '68 color verde limone, e partirono per Nacimiento. Non le rividi mai più. 

I loro genitori, una coppia di pittori, erano morti prima che le gemelle compissero i quindici anni, credo in un incidente stradale. Una volta vidi una loro foto: lui era bruno e asciutto, con grossi zigomi sporgenti e con un'espressione di tristezza e di perplessità che ha solo chi è nato a sud del Bío-Bío; lei era o sembrava più alta di lui, grassottella, con un sorriso dolce e fiducioso. 

Morendo avevano lasciato in eredità la casa di Nacimiento, una casa a tre piani, l'ultimo dei quali era un vasto locale mansardato che le gemelle usavano come laboratorio, di legno e di pietra, nei dintorni del paese, e alcuni terreni vicino al Mulchén che permettevano loro di vivere senza ristrettezze. Spesso le Garmendia parlavano dei genitori (a sentirle Juliàn Garmendia era uno dei migliori pittori della sua generazione sebbene io non abbia mai sentito parlare di lui) e nelle loro poesie non era raro che comparissero pittori smarriti nel sud del Cile, impegnati in un'opera disperata e in un amore disperato. Juliàn Garmendia amava disperatamente Maria Oyarzún? Fatico a crederlo quando ricordo la foto. Ma non fatico a credere che negli anni Sessanta ci fossero persone che amavano disperatamente altre persone in Cile. Mi sembra strano. Mi sembra come un film perduto su uno scaffale dimenticato di una grande cineteca. Ma lo do per certo. 

A partire di qui il mio racconto si nutrirà fondamentalmente di congetture. Le Garmendia se ne andarono a Nacimiento, alla loro grande casa nei dintorni del paese dove viveva unicamente la loro zia, una certa Ema Oyarzún, sorella maggiore della madre morta, e una vecchia domestica di nome Amalia Maluenda. 

Sicché se ne andarono a Nacimiento, e si rinchiusero nella casa e un bel giorno, diciamo di lì a due settimane o un mese (anche se non credo che fosse passato così tanto tempo), arriva Alberto RuizTagle. 

Dev'essere andata in questo modo. In un tardo pomeriggio, uno di quei tardi pomeriggi vigorosi ma al contempo malinconici del Sud, un'auto compare sulla strada di terra battuta, ma le Garmendia non la sentirono perché stavano suonando il piano o erano occupate nel giardino o stavano prendendo legna nel retro della casa insieme alla zia e alla domestica. Qualcuno bussa all'uscio. Dopo diversi colpi la domestica apre ed ecco Ruiz-Tagle. Chiede delle Garmendia. La domestica non lo fa entrare e dice che va a chiamare le ragazze. Ruiz-Tagle aspetta pazientemente seduto su una poltrona di vimini nell'ampia veranda. Le Garmendia, vedendolo, lo salutano con effusione e sgridano la domestica perché non l'ha fatto entrare. 

Durante la prima mezz'ora Ruiz-Tagle viene subissato di domande. Alla zia, di sicuro, fa l'impressione di un giovanotto simpatico, di bell'aspetto, bene educato. Le Garmendia sono felici. Ruiz-Tagle, naturalmente, viene invitato a cena e in suo onore preparano un pasto adatto all'occasione. Non voglio immaginare cos'hanno potuto mangiare. Forse torta di mais, forse pasticcini di carne, ma no, avranno di sicuro mangiato qualcos'altro. 

Naturalmente, lo invitano a fermarsi a dormire. RuizTagle accetta con semplicità. Durante le chiacchiere del dopocena, che si protraggono fino alle ore piccole, le Garmendia leggono poesie davanti al rapimento della zia e al silenzio complice di Ruiz-Tagle. Lui, naturalmente, non legge nulla, si scusa, dice che davanti a tali poesie le sue sono di troppo, la zia insiste, per favore, Alberto, ci legga qualcosa di suo, ma lui non si lascia convincere, dice che è sul punto di concludere qualcosa di nuovo, che finché non l'avrà terminato e corretto preferisce non farlo circolare, sorride, si stringe nelle spalle, dice che no, che gli dispiace, ma no, no, no, e le Garmendia annuiscono, zia, non essere noiosa, credono di capire, innocenti, non capiscono nulla (è sul punto di nascere la «nuova poesia cilena»), ma credono di capire e leggono le loro poesie, le loro stupende poesie dinanzi all'espressione compiaciuta di Ruiz-Tagle (che di sicuro chiude gli occhi per ascoltare meglio) e allo sconcerto, ogni tanto, della zia, Angélica, come fai a scrivere uno sproposito simile?, oppure Veronica, piccola, non ho capito niente, Alberto, vuole spiegarmi cosa significa questa metafora?, e Ruiz-Tagle, sollecito, parlando di segno e di significante, di Joyce Mansour, Sylvia Plath, Alejandra Pizarnik (sebbene le Garmendia dicano no, non ci piace la Pizarnik, volendo dire, in realtà, che non scrivono come la Pizarnik), e Ruiz-Tagle sta già parlando, e la zia ascolta e annuisce, di Violeta e di Nicanor Parra (ho conosciuto Violeta, nella sua tenda, sì, dice la povera Ema Oyarzún), e poi parla di Enrique Lihn e della poesia civile e se le Garmendia fossero state più attente avrebbero visto uno scintillio ironico negli occhi di Ruiz-Tagle, poesia civile, ve la do io la poesia civile, e infine, ormai lanciato, parla di Jorge Càceres, il surrealista cileno morto nel 1949 a ventisei anni. 

E allora le Garmendia si alzano, o forse si alza solo Veronica, e cerca nella grande biblioteca paterna e torna con un libro di Càceres, Sulla via della grande piramide polare, apparso quando il poeta aveva solo vent'anni, le Garmendia, forse solo Angélica, una volta avevano parlato di ripubblicare l'opera completa di Càceres, uno dei miti della nostra generazione, sicché non c'è da stupirsi che Ruiz-Tagle l'abbia nominato (sebbene la poesia di Càceres non abbia niente a che vedere con la poesia delle Garmendia; Violeta Parra sì, Nicanor sì, ma non Càceres). E nomina pure Anne Sexton e Elizabeth Bishop e Denise Levertov (poetesse che le Garmendia amano e che qualche volta hanno tradotto e letto al seminario davanti alla manifesta soddisfazione di Juan Stein) e poi tutti ridono della zia che non capisce niente e mangiano biscotti fatti in casa e suonano la chitarra e qualcuno osserva la domestica che a sua volta li osserva, in piedi, nella parte buia del corridoio ma senza osar entrare e la zia le dice vieni pure, Amalia, non fare la selvatica, e la domestica, attratta dalla musica e dalla baldoria fa due passi, ma non uno di più, e poi cala la notte, si conclude la serata. 

Qualche ora dopo Alberto Ruiz-Tagle, anche se dovrei già cominciare a chiamarlo Carlos Wieder, si alza. 

Tutti dormono. Lui, probabilmente, si è messo a letto con Veronica Garmendia. Non ha importanza. (Voglio dire: non ne ha più, sebbene in quel momento, per nostra disgrazia, l'abbia senza dubbio avuta). Il fatto è che Carlos Wieder si alza con la sicurezza di un sonnambulo e si aggira per la casa in silenzio. Cerca la camera della zia. La sua ombra percorre i corridoi dove sono appesi i quadri di Juliàn Garmendia e di María Oyarzún insieme a piatti e a vari oggetti di artigianato della zona. Wieder, comunque, apre porte con grande cautela. Infine trova la camera della zia, al primo piano, vicino alla cucina. Di fronte, sicuramente, c'è la camera della domestica. Proprio mentre scivola dentro la camera sente il rumore di un'auto che si avvicina alla casa. Wieder sorride e si affretta. Con un balzo è al capezzale del letto. Nella mano destra stringe un pugnale. Ema Oyarzún dorme placidamente. Wieder le sfila il guanciale e glielo preme sul viso. Subito dopo, con un solo taglio, le squarcia il collo. In quel momento l'auto si ferma davanti alla casa. Wieder è già fuori della camera ed entra adesso in quella della domestica. Ma il letto è vuoto. Per un istante Wieder non sa cosa fare: ha voglia di prendere il letto a calci, di fare a pezzi un vecchio cassettone di legno sgangherato su cui stanno ammucchiati i vestiti di Amalia Maluenda. Ma è solo un secondo. Poco dopo è sulla soglia, col respiro normale, e fa entrare i quattro uomini che sono arrivati. Questi salutano con un cenno del capo (che comunque denota rispetto) e osservano con sguardi osceni l'interno in penombra, i tappeti, le tende, come se fin dal primo momento cercassero e valutassero i luoghi più adatti per nascondersi. Ma non sono loro che si nasconderanno. Loro cercano chi si nasconde. 

E dietro di loro entra la notte nella casa delle sorelle Garmendia. E quindici minuti dopo, forse dieci, quando se ne vanno, la notte se ne esce, subito, entra la notte, esce la notte, efficiente e veloce. E non si troveranno mai i cadaveri, oppure sì, c'è un cadavere, un solo cadavere che verrà ritrovato anni dopo in una fossa comune, quello di Angelica Garmendia, la mia adorabile, la mia incomparabile Angelica Garmendia, ma solo questo, come a riprova del fatto che Carlos Wieder è un uomo e non un dio. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quei giorni, mentre colavano a picco le ultime scialuppe di salvataggio di Unità Popolare, venni arrestato. Le circostanze della mia detenzione sono banali, se non ridicole, ma il fatto di ritrovarmi lì e non per strada o in una caffetteria o chiuso nella mia stanza senza mai alzarmi dal letto (e questa sarebbe stata l'eventualità più probabile) mi permise di assistere al primo intervento poetico di Carlos Wieder, anche se allora io non sapevo chi fosse Carlos Wieder né quale sorte fosse toccata alle sorelle Garmendia. 

Accadde durante un imbrunire - Wieder amava i crepuscoli - mentre con altri detenuti, una sessantina di persone, ammazzavamo la noia nel Centro La Pena, un posto di transito alla periferia di Concepción, già quasi a Talcahuano, giocando a scacchi nel cortile o semplicemente chiacchierando. 

Il cielo, mezz'ora prima assolutamente sgombro, cominciava a sospingere lembi di nuvole verso est; le nuvole, come spilli e sigarette, erano bianconere all'inizio, quando ancora planavano sulla costa, per divenire poi, puntando sulla città, rosee, e infine, quando si infilavano su per il fiume, mutare il loro colore in un vermiglio brillante. 

In quel momento, non so perché, io avevo la sensazione di essere l'unico detenuto a guardare il cielo. Probabilmente dipendeva dal fatto che avevo diciannove anni. 

Lentamente, fra le nuvole, comparve l'aereo. All'inizio era una macchia non più grossa di una zanzara. Calcolai che proveniva da una base aerea delle vicinanze, che dopo un periplo aereo sulla costa tornava alla sua base. A poco a poco, ma senza difficoltà, come se planasse nell'aria, si avvicinò alla città, confuso tra le nuvole cilindriche, che fluttuavano molto in alto, e le nuvole a forma di ago che venivano trascinate dal vento quasi a livello dei tetti. 

Dava l'impressione di avanzare piano come le nuvole, ma non tardai a capire che era solo un effetto ottico. Quando passò sopra il Centro La Pena il rumore che fece fu come quello di una lavatrice guasta. Da dove mi trovavo riuscii a vedere la figura del pilota e per un istante credetti che alzasse la mano e ci salutasse. Poi alzò il muso, riprese quota e stava già volando sul centro di Concepción. 

E lì, a quell'altezza, cominciò a scrivere una poesia nel cielo. All'inizio credetti che il pilota fosse impazzito e non mi sembrò strano. La pazzia non era un caso raro in quei giorni. Pensai che girasse nell'aria offuscato dalla disperazione e che si sarebbe poi schiantato contro qualche edificio o in qualche piazza della città. Ma subito dopo, come generate dallo stesso cielo, sul cielo apparvero i caratteri. Caratteri perfettamente tracciati di fumo grigio sopra l'enorme schermo di cielo azzurro-roseo che raggelavano gli occhi di chi li guardava. IN PRINCIPIO... CREAVIT DEUS... COELUM ET TERRAM, decifrai come se stessi dormendo. Ebbi l'impressione — la speranza — che si trattasse di una campagna pubblicitaria. Scoppiai a ridere da solo. Allora l'aereo tornò nella nostra direzione, verso ovest, e poi virò di nuovo e passò ancora su di noi. Questa volta il verso fu molto più lungo e si estese fino alla periferia a sud. TERRA AUTEM ERAT INANIS... ET VACUA... ET TENEBRAE ERANT... SUPER FACIEM ABYSSI... ET SPIRITUS DEI... FEREBATUR SUPER AQUAS... 

Per un momento l'aereo sembrò smarrirsi all'orizzonte, in direzione della Cordigliera della Costa o della Cordigliera delle Ande, giuro che non lo so, verso sud, verso i grandi boschi, ma poi tornò. 

Allora quasi tutti al Centro La Pena guardavano il cielo. 

Uno dei detenuti, uno che si chiamava Norberto e che stava diventando pazzo (almeno questo era quanto aveva diagnosticato un altro dei detenuti, uno psichiatra socialista che in seguito, così mi dissero, fucilarono nel pieno dominio delle sue facoltà psichiche ed emotive), tentò di salire sulla rete che separava il cortile degli uomini dal cortile delle donne e si mise a gridare E un Messerschmitt 109, un caccia Messerschmitt della Luftwaffe, il miglior caccia del 1940. Lo guardai fisso, lui e poi gli altri detenuti, e tutto mi sembrò immerso in un color grigio trasparente, come se il Centro La Pena stesse scomparendo nel tempo. 

Vicino alla porta della palestra dove di notte dormivamo coricati per terra, un paio di poliziotti avevano smesso di parlare e guardavano il cielo. Tutti i detenuti, in piedi, guardavano il cielo, abbandonate le partite di scacchi, l'inventario dei giorni che presumibilmente ci aspettavano, le confidenze. Quel matto di Norberto, aggrappato alla rete come una scimmia, rideva e diceva che la Seconda Guerra Mondiale era tornata sulla Terra, si sono sbagliati, diceva, quelli della Terza, è la Seconda che torna, torna, torna. E toccato a noi, ai cileni, siamo proprio fortunati!, accoglierla, darle il benvenuto, diceva e la saliva, una saliva bianchissima che contrastava col tono grigio dominante, gli colava sul mento, gli bagnava il colletto della camicia e finiva, in una sorta di grossa macchia umida, sul petto. 

L'aereo si chinò su un'ala e tornò sul centro di Concepción. DIXITQUE DEUS... FIAT LUX... ET FACTA EST LUX, lessi con difficoltà, o forse lo indovinai o lo immaginai o lo sognai. Dall'altra parte della rete, con le mani che facevano schermo alla luce, anche le donne seguivano attentamente le evoluzioni dell'aereo con una quiete che opprimeva il cuore. Per un momento pensai che se Norberto avesse voluto andarsene nessuno gliel'avrebbe impedito. Tutti, meno lui, erano immersi nell'immobilità, detenuti e guardiani, col viso rivolto verso il cielo. Fino a quel momento non avevo mai visto tanta tristezza tutta insieme (o così credetti in quel momento; adesso mi sembrano più tristi certe mattine della mia infanzia che non quell'imbrunire perduto del 1973). 

E l'aereo passò di nuovo su di noi. Tracciò un cerchio sopra il mare, prese quota e tornò a Concepción. Che pilota!, diceva Norberto, neppure lo stesso Galland o Rudy Rudler avrebbero fatto di meglio, né Hanna Reitsch, né Anton Vogel, né Karl Heinz Schwartz, né il Lupo di Brema di Talca, né lo Spezza Ossa di Stoccarda di Curicó, né Hans Marseille reincarnato. Poi Norberto mi guardò e mi strizzò un occhio. Aveva il viso congestionato. 

Sul cielo di Concepción rimasero le seguenti parole: 

ET VIDIT DEUS... LUCEM QUOD... ESSET BONA... ET DIVISIT... LUCEM A TENEBRIS. Gli ultimi caratteri si perdevano verso est fra le nuvole a forma di aghi che risalivano il Bio-Bio. Lo stesso aereo, a un certo punto, prese la verticale e si perse, scomparve completamente dal cielo. Come se tutto non fosse che un miraggio o un incubo. Cos'ha scritto, compagno?, sentii che domandava un minatore di Lota. Nel Centro La Pena metà dei detenuti (uomini e donne) era di Lota. Non ne ho idea, gli risposero, ma sembra una cosa importante. Un'altra voce disse: cazzate, ma nel tono si coglievano il timore e la meraviglia. I poliziotti sulla soglia della palestra si erano moltiplicati, adesso erano sei e bisbigliavano fra di loro. Norberto, davanti a me, con le mani agganciate alla rete e senza smettere di muovere i piedi, come se avesse voluto fare un buco nel suolo, sussurrò: questa è la rinascita della Blietzkrieg oppure sto diventando matto senza possibilità di scampo. Tranquillizzati, dissi. Non potrei essere più tranquillo, sto fluttuando in una nuvola, disse. Poi sospirò profondamente e, in effetti, sembrò tranquillizzarsi. 

In quello stesso istante, preceduto da uno strano scricchiolio, come se qualcuno avesse schiacciato un insetto molto grosso o un biscotto molto piccolo, l'aereo ricomparve. Veniva di nuovo dal mare. Vidi le mani che si alzavano a segnalarlo, le maniche sudicie che si levavano indicando la sua rotta, sentii delle voci ma forse era solo l'aria. Nessuno, a dire il vero, si azzardava a parlare. Norberto chiuse gli occhi con forza e poi li spalancò. Santo cielo, disse, padre nostro, perdonaci per i peccati dei nostri fratelli e perdonaci per i nostri peccati. Siamo solo cileni, signore, disse, innocenti, innocenti. Lo disse forte e chiaro, senza che la voce gli tremasse. Tutti, naturalmente, lo sentimmo. Alcuni si misero a ridere. Alle mie spalle sentii qualche frase in cui si mescolavano la canagliata e la bestemmia. Mi girai e cercai con lo sguardo chi aveva parlato. I visi dei detenuti e dei poliziotti giravano come sulla ruota della fortuna, pallidi, smagriti. Il viso di Norberto, al contrario, rimaneva fisso sul suo asse. Era una faccia simpatica che stava sprofondando nella terra. Una figura che a tratti spiccava piccoli salti come quella di uno sventurato profeta che assiste all'arrivo del messia lungamente annunciato e temuto. L'aereo passò ruggendo sopra le nostre teste. Norberto incrociò le braccia e se le strinse ai gomiti come se stesse morendo di freddo. 

Riuscii a vedere il pilota. Questa volta evitò il saluto. Sembrava una statua di pietra chiusa dentro la carlinga. Il cielo si stava rabbuiando, la notte non avrebbe tardato a invaderlo tutto, le nuvole non erano più rosee bensì nere con lembi rossi. Quando sorvolò Concepción la sua sagoma simmetrica era simile a una macchia di Rorschach. 

Questa volta scrisse solo una parola, più grande delle precedenti, su quello che calcolai era il centro esatto della città: IMPARATE. Poi l'aereo sembrò esitare, perdere quota, disporsi a capottare sulla terrazza di un edificio, come se il pilota avesse spento il motore e desse il primo esempio dell'apprendistato cui si riferiva o cui ci incitava. Ma tutto questo durò solo un momento, quanto bastò alla notte e al vento per cancellare i caratteri dell'ultima parola. Poi l'aereo scomparve. 

Per qualche secondo nessuno parlò. Dall'altra parte della rete sentii il pianto di una donna. Norberto, con un'espressione tranquilla, come se non fosse accaduto niente, parlava con due recluse molto giovani. Ebbi l'impressione che gli chiedessero consiglio. Dio mio, chiedevano consiglio a un matto. Dietro di me sentii commenti inintelligibili. Era successo qualcosa ma in realtà non era successo niente. Due professori parlavano di una campagna pubblicitaria della Chiesa. Di quale Chiesa?, domandai. Di quale vuoi che sia?, dissero e mi voltarono la schiena. Io non piacevo a quei due. Poi i poliziotti si ripresero e ci mettemmo in fila nel cortile per l'ultimo appello. Nel cortile delle donne altre voci ordinavano di mettersi in fila. Ti è piaciuto?, mi disse Norberto. Mi strinsi nelle spalle. So soltanto che non me ne dimenticherò mai, dissi. Ti sei reso conto che era un Messerschmitt? Se lo dici tu, ti credo, dissi io. Era un Messerschmitt, disse Norberto, e credo che venisse dall'altro mondo. Gli diedi qualche pacca sulla schiena e gli dissi che era sicuramente così. La fila cominciò a muoversi, tornavamo nella palestra. E scriveva in latino, disse Norberto. Sì, dissi io, ma non ci ho capito nulla. Io sì, disse Norberto, non per niente ho fatto il mastro tipografo per alcuni anni, parlava dell'inizio del mondo, della volontà, della luce e delle tenebre. Lux significa luce. Tenebrae significa tenebre. Fiat significa si faccia. Si faccia la luce, capito? A me Fiat sa di macchina italiana, dissi. Be', non è così, compagno. E, alla fine, ci augurava a tutti buona fortuna. Tu credi?, dissi io. Sì, a tutti, senza eccezioni. Un poeta, dissi. Una persona educata, sì, disse Norberto. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quella sua prima azione poetica nel cielo di Concepción procurò a Carlos Wieder l'ammirazione istantanea di alcune anime inquiete del Cile. 

Non tardarono a chiamarlo per altre esibizioni di scrittura aerea. All'inizio timidamente, ma poi con la franchezza caratteristica dei soldati e dei gentiluomini che sanno riconoscere un'opera d'arte quando la vedono, anche se non la capiscono, la presenza di Wieder si moltiplicò in cerimonie e commemorazioni. Sopra l'aerodromo di Las Tencas, per un pubblico composto da alti ufficiali e uomini d'affari accompagnati dalle rispettive famiglie — le figlie nubili morivano per Wieder e quelle sposate ne morivano di tristezza — disegnò, giusto pochi minuti prima che la notte lo coprisse tutto, una stella, la stella della nostra bandiera, rutilante e solitaria sull'orizzonte implacabile. Pochi giorni dopo, davanti a un pubblico variopinto e democratico che andava e veniva per i padiglioni di gala dell'aeroporto militare di El Condor in un'atmosfera da festa paesana, scrisse una poesia che uno spettatore curioso e colto definì letrista. (Più esattamente: con un inizio che Isidore Isou non avrebbe disapprovato e con un finale inedito degno del Saranguaco di Nicanor Parra). In uno di quei versi parlava velatamente delle sorelle Garmendia. Le chiamava «le gemelle» e parlava di un uragano e di due labbra. E sebbene subito dopo si contraddicesse, chi l'avesse letto attentamente poteva ormai considerarle morte. 

In un altro parlava di una certa Patricia e di una certa Carmen. Quest'ultima, probabilmente, era la poetessa Carmen Villagràn che scomparve nei primi giorni di dicembre. Disse a sua madre, secondo la testimonianza della stessa davanti a un gruppo investigativo della Chiesa, che aveva appuntamento con un amico e non era più tornata. La madre era riuscita a domandare chi era questo amico. Uscendo Carmen aveva risposto che si trattava di un poeta. Anni dopo, Bibiano O'Ryan appurò l'identità di 

Patricia; si trattava, secondo lui, di Patricia Méndez, di diciassette anni, iscritta a un seminario di letteratura gestito dalle Gioventù Comuniste e scomparsa nello stesso periodo di Carmen Villagràn. La differenza fra le due era notevole, Carmen leggeva Michel Leiris in francese e apparteneva a una famiglia della classe media; Patricia Méndez, oltre a essere più giovane, era una devota di Pablo Neruda e le sue origini erano proletarie. Non studiava all'università, come Carmen, anche se aspirava a studiare pedagogia un giorno o l'altro; lavorava, nel frattempo, in un negozio di elettrodomestici. Bibiano andò a trovare la madre e poté leggere in un vecchio quaderno di bella alcune poesie di Patricia. Erano brutte, secondo Bibiano, nella linea del peggior Neruda, un guazzabuglio a base di Venti poesie d'amore e Incitazione al nixonicidio, ma leggendo fra le righe si poteva cogliere qualcosa. Freschezza, stupore, voglia di vivere. Comunque, così Bibiano terminava la sua lettera, non si ammazza nessuno perché scrive male, tanto meno se non ha ancora compiuto vent'anni. 

Nella sua esibizione aerea a El Cóndor, Wieder diceva: Apprendiste del fuoco. I generali che lo osservavano dal palco d'onore della pista pensarono, presumo legittimamente, che si trattasse del nome delle sue fidanzate, delle sue amiche o forse del soprannome di puttane di Talcahuano. Qualche amico più intimo, tuttavia, comprese che Wieder stava nominando, esorcizzandole, delle donne morte. Ma questi ultimi non sapevano nulla di poesia. O così credevano. (Wieder, naturalmente, diceva che invece ne sapevano, che ne sapevano più di molta altra gente, poeti e professori, per esempio, la gente delle oasi o dei miserabili deserti immacolati, ma i suoi ruffiani non lo capivano o nel migliore dei casi pensavano con indulgenza che il tenente parlasse così volendo scherzare). Per loro quello che Wieder faceva a bordo dell'aereo non era nulla di più che un'esibizione pericolosa, pericolosa in tutti i sensi, ma non poesia. 

In quegli anni partecipò ad altre due esibizioni aeree, una a Santiago, dove scrisse di nuovo versetti della Bibbia e della Rinascita Cilena, e l'altra a Los Angeles (provincia di Bio-Bio), dove spartì il cielo con altri due piloti che, a differenza di Wieder, erano dei civili, oltre che molto più anziani di lui e con una lunga carriera come pubblicisti dell'aria, e con i quali disegnò, a più mani, una grande (e a tratti sventolante) bandiera cilena nel cielo. 

Di lui dissero (su qualche giornale, alla radio) che era capace delle maggiori prodezze. Niente gli era impossibile. Il suo istruttore all'Accademia dichiarò che si trattava di un pilota nato, abilissimo, con istinto, capace di pilotare caccia e cacciabombardieri senza la minima difficoltà. Un compagno di scuola nella cui tenuta aveva una volta trascorso le vacanze durante l'adolescenza confessò che Wieder dinanzi allo stupore e alla posteriore ira dei suoi genitori aveva pilotato senza permesso un vecchio Piper sgangherato che aveva poi fatto atterrare su una strada vicinale stretta e piena di buche. 

Quell'estate, presumibilmente quella del '68 (l'estate australe che precedette di qualche mese la genesi, in una modesta portineria di Parigi, della Scrittura Barbara, movimento letterario che negli ultimi anni della sua vita avrà un'importanza decisiva), Wieder la passò senza i suoi genitori, un adolescente coraggioso e timido (secondo il suo compagno di scuola) da cui ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, qualsiasi stravaganza, qualsiasi esplosione, ma che al contempo si faceva voler bene dalle persone che lo circondavano. Mia madre e mia nonna lo adoravano (dice il compagno di scuola), secondo loro Wieder lo si sarebbe sempre detto come appena uscito da un temporale, inerme, inzuppato fino alle ossa dalla pioggia, ma al contempo affascinante. 

Nelle sue frequentazioni sociali, tuttavia, esistevano zone buie: cattive compagnie, gente oscura, parassiti dei commissariati o della malavita con cui Wieder certe volte, sempre di notte, usciva a bere o a chiudersi in locali dalla pessima reputazione. Ma quelle zone erano, a ben guardare, solo questo: zone buie, impercettibili, che non coinvolgevano affatto il suo carattere né i suoi modi, tanto meno le sue abitudini. Erano addirittura qualcosa di imprescindibile, congetturarono alcuni, per la sua carriera letteraria che mirava alla conoscenza e all'assoluto. 

Una carriera che in quel periodo, il periodo delle esibizioni aeree, ebbe l'appoggio di uno dei più influenti critici letterari del Cile (il che letterariamente parlando non vuoi dire quasi nulla, ma che in Cile, fin dai tempi di Alone, significa molto), un certo Nicasio Ibacache, antiquario e cattolico avvezzo alla messa quotidiana sebbene amico personale di Neruda e prima di Huidobro e corrispondente di Gabriela Mistral e bersaglio prediletto di Pablo de Rokha e scopritore (secondo lui) di Nicanor Parra, insomma, un tipo che sapeva l'inglese e il francese e che morì alla fine degli anni Settanta per via di un attacco di cuore. Nella sua colonna settimanale su «El Mercurio» Ibacache scrisse una glossa sulla peculiare poesia di Wieder. Il testo in questione diceva che ci trovavamo (noi lettori del Cile) dinanzi al grande poeta dei nuovi tempi. Poi, com'era consueto in lui, si dedicava a dare pubblicamente qualche consiglio a Wieder e si dilungava in commenti criptici e a tratti incoerenti sulle diverse edizioni della Bibbia — fu così che apprendemmo come nella sua prima apparizione nei cieli di Concepción e del Centro La Pena Wieder avesse usato la Vulgata Latina tradotta in spagnolo «conformemente al senso dei santi padri della Chiesa» dall'Ill.mo Sig. D. Felipe Scio de S. Miguel e pubblicata in più tomi dalla Casa editrice Gaspar y Roig (Madrid 1852), secondo quanto, diceva Ibacache, gli aveva confidato lo stesso Wieder durante una lunga conversazione telefonica notturna nel corso della quale lui gli aveva domandato perché avesse utilizzato la traduzione del reverendo padre Scio e la risposta di Wieder era stata: perché il latino si incideva meglio nel cielo; anche se in realtà Wieder doveva aver usato la parola «incassare», il latino si incassa meglio nel cielo, il che del resto non gli avrebbe impedito di usare lo spagnolo nelle sue successive apparizioni - rinviando, né poteva essere altrimenti, a diverse Bibbie citate da Borges e persino alla Bibbia di Gerusalemme tradotta in spagnolo da Raimundo Pellegri e pubblicata a Valparaiso nel 1875, edizione maledetta che secondo Ibacache presagiva e anticipava la Guerra del Pacifico che pochi anni dopo avrebbe visto lo scontro fra il Cile e l'Alleanza Peruviano-Boliviana. Quanto ai consigli, metteva in guardia il giovane poeta dai pericoli di una «gloria troppo precoce», dagli inconvenienti dell'avanguardia letteraria «che può creare confusione alle frontiere che separano la poesia dalla pittura e dal teatro o, per meglio dire, dal fatto plastico e dal fatto teatrale», dal bisogno di non desistere da una formazione permanente, ossia, in sintesi, Ibacache consigliava a Wieder di non smettere di leggere. Legga, giovanotto, sembrava dire, legga i poeti inglesi, i poeti francesi, i poeti cileni e Octavio Paz. 

L'apologia di Ibacache, l'unica che l'uberrimo critico scrisse su Wieder, era accompagnata da due fotografie. Nella prima si vedono un aereo, o forse era un piccolo aeroplano, e il suo pilota nel mezzo di una pista che si intuisce modesta e presumibilmente militare. La foto è presa da una certa distanza, sicché i lineamenti di Wieder sono sfocati. Indossa un giubbotto di pelle dal collo di pelliccia, un berretto a bustina delle Forze Aeree Cilene, blue-jeans e stivali in tono con i pantaloni. La scritta sotto la foto recita: «Il tenente Carlos Wieder all'aerodromo di Los Muleros». Nella seconda foto si notano, più con volontà che con chiarezza, alcuni dei versi che il poeta aveva scritto sul cielo di Los Angeles, dopo la grande composizione della bandiera cilena. 

Poco prima io ero uscito dal Centro La Pena, in libertà senza imputazioni a carico, come la maggior parte di quanti sono passati per quel posto. Nei primi giorni non mi mossi da casa, non volendo provocare allarme in mia madre e in mio padre ma provocando le beffe dei miei due fratelli più piccoli che con tutta la ragione mi diedero del vigliacco. Di lì a una settimana ricevetti la visita di Bibiano O'Ryan. Aveva, disse quando ci ritrovammo da soli nella mia camera, due notizie, una buona e un'altra cattiva. Quella buona era che ci avevano espulsi dall'università. Quella cattiva era che quasi tutti i nostri amici erano scomparsi. Gli dissi che probabilmente erano stati arrestati o che se n'erano andati, come le sorelle Garmendia, nelle loro case di campagna. No, disse Bibiano, anche le gemelle sono scomparse. Disse «gemelle» e gli si spezzò la voce. Quanto seguì subito dopo è difficile da spiegare (sebbene in questa storia tutto sia difficile da spiegare), Bibiano si buttò fra le mie braccia (letteralmente), io ero seduto ai piedi del letto, e scoppiò a piangere sconsolatamente sul mio petto. All'inizio pensai che gli fosse venuta una crisi di qualcosa. Poi mi resi conto, senza la minima ombra di dubbio, che non avremmo mai più visto le sorelle Garmendia. Dopodiché Bibiano si alzò, si avvicinò alla finestra e non tardò a ricomporsi. Si possono solo fare congetture, disse voltandomi la schiena. Sì, dissi senza sapere a cosa si riferisse. C'è una terza notizia, disse Bibiano, come ci si poteva aspettare. Buona o cattiva?, domandai. Da far venire i brividi, disse Bibiano. Avanti, dissi, ma subito aggiunsi: no, aspetta, lasciami tirare il fiato, che era come dire lasciami guardare la mia camera, la mia casa, il viso dei miei genitori per l'ultima volta. 

Quella sera andai con Bibiano a trovare Posadas la Grassa. Al primo colpo d'occhio sembrava quella di sempre, persino meglio, più animata. Iperattiva, non la smetteva di muoversi da una parte e dall'altra, il che alla lunga faceva venire i nervi a chi stava con lei. Non l'avevano espulsa dall'università. La vita andava avanti. Bisognava fare cose (qualsiasi cosa, spostare un vaso di fiori cinque volte in mezz'ora, per non ammattire) e trovare il lato positivo di ogni situazione, ossia affrontare le situazioni una per una e non tutte al contempo come si era abituata fino ad allora. E maturare. Ma ben presto scoprimmo che quella della Grassa era paura. Era più spaventata di quanto lo fosse mai stata in vita sua. Ho visto Alberto, mi disse. Bibiano annuì col capo, lui conosceva già la storia ed ebbi l'impressione che dubitasse della veracità di alcuni brani di quella storia. Mi ha telefonato, disse la Grassa, voleva che andassi a trovarlo a casa sua. Gli ho detto che lui non era mai in casa. Mi ha domandato come lo sapevo e si è messo a ridere. Ho subito notato nella sua voce come un tono velato, ma Alberto è sempre stato uno amante dei segreti e non gli ho dato importanza. Sono andata a trovarlo. Eravamo d'accordo per una certa ora e a quell'ora sono arrivata, puntuale. L'appartamento era vuoto. Ruiz-Tagle non c'era? Sì, disse la Grassa, ma l'appartamento era vuoto, non c'era più neppure un mobile. Traslochi, Alberto?, gli ho detto. Sì, ciccia, mi ha detto lui, si nota? Io ero nervosissima, ma mi sono controllata e gli ho risposto che ultimamente tutti si trasferivano. Lui mi ha domandato a chi mi riferivo dicendo tutti. Diego Soto, gli ho detto, se n'è andato da Concepción. E anche Carmen Villagràn. E ho nominato te (io), che allora non sapevo dove fossi finito, e le sorelle Garmendia. Me non mi hai nominato, disse Bibiano, di me non hai detto nulla? No, di te non ho detto nulla. E Alberto cos'ha detto? La Grassa mi guardò e solo allora mi resi conto che era non solo intelligente ma anche forte e che soffriva molto (ma non per questioni politiche, la Grassa soffriva perché pesava più di ottanta chili e perché contemplava lo spettacolo, lo spettacolo del sesso e del sangue, anche quello dell'amore, da una platea senza via di accesso al palcoscenico, isolata, blindata). Ha detto che i topi scappano sempre. Io non sono riuscita a credere a quanto avevo appena sentito e ho esclamato: cos'hai detto? Allora Alberto si è voltato e mi ha guardata con un gran sorriso sulla faccia. La bazza è finita, ciccia, ha dichiarato. Allora io ho avuto paura e gli ho detto che la piantasse con gli enigmi e che mi raccontasse qualcosa di più divertente. Smettila con le stronzate, figlio di puttana, e rispondimi quando ti parlo. Qualche altra volta ero stata più volgare, disse la Grassa. Alberto sembrava un rettile. No: sembrava un faraone egiziano. Si è limitato a sorridere e ha continuato a guardarmi anche se a tratti ho avuto l'impressione che si muovesse nell'appartamento vuoto. Ma come poteva muoversi se rimaneva fermo? Le Garmendia sono morte, ha detto. La Villagran pure. Non ci credo, ho detto. Perché dovrebbero essere morte? Vuoi spaventarmi, stronzo? Tutte le poetesse sono morte, ha detto. Questa è la verità, ciccia, e tu faresti bene a credermi. Eravamo seduti sul pavimento. Io in un angolo e lui al centro del soggiorno. Ti giuro che ho pensato che mi avrebbe picchiata, che all'improvviso, cogliendomi di sorpresa, avrebbe cominciato a prendermi a ceffoni. Per un momento ho creduto che mi sarei fatta la pipì addosso. Alberto non allontanava lo sguardo da me. Volevo domandargli cosa ne sarebbe stato di me, ma non mi è uscita la voce. Sembrava che aspettasse qualcun altro. Siamo rimasti senza parlare per un bel po'. Senza volerlo, io avevo chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti, Alberto se ne stava in piedi appoggiato alla porta della cucina, e mi guardava. Dormivi, Grassa, mi ha detto. Russavo?, gli ho domandato. Si, ha detto, russavi. Solo allora mi sono resa conto che Alberto era raffreddato. Aveva in mano un enorme fazzoletto giallo con cui si è soffiato il naso due volte. Hai l'influenza, ho detto e gli ho sorriso. Come sei cattiva, Grassa!, ha detto lui, ho solo il naso chiuso. Era il momento opportuno per andarsene, sicché mi sono alzata e gli ho detto che l'avevo già disturbato troppo. Tu non sarai mai un disturbo per me, ha detto. Tu sei una delle poche persone che mi capiscono, Grassa, e io te ne sono riconoscente. Ma oggi non ho né tè né vino né whisky né altro. Lo vedi, sto traslocando. Lo vedo, ho detto. L'ho salutato con la mano, una cosa che non sono abituata a fare quando mi ritrovo fra quattro pareti e non all'aria aperta, e me ne sono andata. 

E cos'è successo alle sorelle Garmendia?, dissi io. Non lo so, disse la Grassa tornando alla sua aria trasognata, come vuoi che lo sappia? Perché non ti ha fatto nulla?, disse Bibiano. Perché eravamo davvero amici, suppongo, disse la Grassa. 

Continuammo a parlare ancora a lungo. Wieder, secondo quanto Bibiano ci raccontò, voleva dire «ancora», «di nuovo», «nuovamente», «per un'altra volta», «di ritorno», in certi contesti «più volte», «la prossima volta» in frasi che vogliono indicare il futuro. E come gli aveva detto il suo amico Anselmo Sanjuàn, ex studente di filologia germanica all'Università di Concepción, solo a partire dal XVII secolo l'avverbio Wieder e la preposizione accusativa Wider si distinguevano ortograficamente per differenziare meglio il loro significato. Wider, in antico tedesco Widar o Widari, significa «contro», «davanti a», talvolta «nei confronti di». E sparava esempi in aria: Widerchrist, «anticristo»; Widerhaken, «gancio», «uncino»; Widerraten, «dissuasione»; Widerlegung, «apologia», «refutazione»; Widerlage, «sprone»; Widerklage, «contraccusa», «controdenuncia»; Widernatürlichkeit, «mostruosità» e «aberrazione». Tutte parole che gli sembravano altamente rivelatrici. E addirittura, ormai lanciato, diceva che Weide significava «salice piangente», e che Weiden voleva dire «pascolare», «pascere», «sorvegliare animali che pascolano», il che lo induceva a pensare alla poesia di Silva Acevedo, Lupi e pecore, e al carattere profetico che alcuni asserivano di cogliervi. E addirittura Weiden voleva anche dire godere morbosamente nella contemplazione di un oggetto che eccita la nostra sessualità e/o le nostre tendenze sadiche. E allora Bibiano guardava noi due e spalancava gli occhi e noi due guardavamo lui, tutt'e tre fermi, con le mani giunte, come se stessimo riflettendo o pregando. E poi tornava a Wieder, esausto, terrorizzato, quasi che il tempo stesse passando accanto a noi come un terremoto, e segnalava la possibilità che il nonno del pilota Wieder si fosse chiamato Weider o che negli uffici dell'emigrazione agli inizi del secolo un errore avesse trasformato Weider in Wieder. A meno che non si fosse chiamato Bieder, «probo», «urbano», dal momento che la labiodentale W e la bidentale B si confondono facilmente all'orecchio. E ricordava pure che il sostantivo Widder significa «montone» e «ariete», e a questo punto si potevano trarre tutte le conclusioni che si volevano. 

Due giorni dopo la Grassa telefonò a Bibiano e gli disse che Alberto Ruiz-Tagle era Carlos Wieder. L'aveva riconosciuto dalla foto sul «Mercurio». Cosa piuttosto improbabile, come mi fece notare Bibiano, settimane e mesi dopo, visto che la foto era sfocata e poco affidabile. Su cosa si basava la Grassa per la sua identificazione? Grazie a un sesto senso, mi sembra, disse Bibiano, lei crede di riconoscere Ruiz-Tagle dall'atteggiamento. Comunque sia, a quei tempi RuizTagle era scomparso per sempre e avevamo solo 

Wieder per riempire di senso i nostri miseri giorni. 

Bibiano cominciò a lavorare in quel periodo come commesso in un negozio di scarpe. Il negozio di scarpe non era né bello né brutto e si trovava in un quartiere vicino al centro, fra librerie dell'usato che a poco a poco avrebbero chiuso le loro porte, ristorantini i cui camerieri davano la caccia ai clienti in mezzo alla strada con offerte favolose e un po' equivoche e botteghe di abbigliamento strette e allungate dall'illuminazione esigua. Naturalmente, non mettemmo mai più piede in un seminario di letteratura. A volte Bibiano mi spiegava i suoi progetti: voleva scrivere in inglese favole che avrebbero avuto per sfondo la campagna irlandese, voleva imparare il francese, almeno per poter leggere Stendhal nella sua lingua, sognava di rinchiudersi dentro Stendhal e di lasciar passare gli anni (sebbene lui stesso, subito contraddicendosi, dicesse che questo era possibile nel caso di Chateaubriand, l'Octavio Paz del XIX secolo, ma non nel caso di Stendhal, assolutamente non nel caso di Stendhal), voleva, insomma, scrivere un libro, un'antologia della letteratura nazista americana. Un libro importante, diceva quando andavo ad aspettarlo all'uscita dal negozio di scarpe, che avrebbe racchiuso tutte le manifestazioni della letteratura nazista nel nostro continente, dal Canada (dove la gente del Québec poteva offrire molti spunti) fino al Cile, dove avrebbe sicuramente trovato tendenze per tutti i gusti. Nel frattempo non dimenticava Carlos Wieder e raccoglieva tutto quanto veniva pubblicato su di lui o sulla sua opera con la passione e la dedizione di un filatelico. 

Correva l'anno 1974, se la memoria non mi tradisce. Un bel giorno la stampa ci informò che Carlos Wieder, sponsorizzato da diverse ditte private, volava verso il Polo Sud. Il viaggio fu difficile e costellato di scali, ma ovunque atterrasse scriveva le sue poesie nel cielo. Erano le poesie di una nuova età del ferro per la razza cilena, dicevano i suoi ammiratori. Bibiano seguì il viaggio tappa per tappa. A me, sia detto il vero, ormai non interessava granché quello che avrebbe potuto fare o smettere di fare quel tenente delle Forze Aeree. Una volta Bibiano mi mostrò una foto: questa era di gran lunga migliore di quella in cui la Grassa aveva creduto di riconoscere Ruiz-Tagle. In effetti, Wieder e Ruiz-Tagle si assomigliavano, ma allora l'unica cosa cui io pensavo era abbandonare il paese. Il fatto è che, sia nella foto sia nelle dichiarazioni, non rimaneva più niente di quel Ruiz-Tagle così riflessivo, così misurato, così fascinosamente insicuro (persino così autodidatta). Wieder era la sicurezza e l'audacia personificate. Parlava di poesia (non di poesia cilena e di poesia latinoamericana, ma di poesia e basta) con un'autorità che disarmava qualsiasi interlocutore (anche se devo dire che i suoi interlocutori di allora erano giornalisti fedeli al nuovo regime, incapaci di contraddire un ufficiale delle nostre Forze Aeree) e sebbene nella trascrizione delle sue parole si cogliesse un discorso pieno di neologismi e di goffaggini, cosa naturale nella nostra lingua avversa, si percepiva pure la forza di quel discorso, la purezza e la tersura terminale di quel discorso, riflesso di una volontà senza crepe. Prima di intraprendere l'ultimo balzo (da Punta Arenas alla base antartica di Arturo Prat) gli venne organizzata una cena-omaggio in un ristorante della città. Wieder, secondo i racconti, bevve più del dovuto e schiaffeggiò un marinaio che non aveva mostrato il debito rispetto nei confronti di una signora; in merito a questa donna circolano diverse versioni; tutte concordano sul fatto che gli organizzatori non l'avevano invitata e che nessuno dei presenti la conosceva; l'unica spiegazione plausibile quanto alla sua presenza lì è che si fosse intrufolata o che fosse arrivata con Wieder. Questi ne parlava come della «mia dama» o della «mia damigella». La donna era sui venticinque anni, alta, capelli neri e corpo ben fatto. A un certo punto della cena-omaggio, forse al dessert, gridò a Wieder: Carlos, domani ti ammazzerai! La cosa sembrò a tutti di pessimo gusto. Allora ebbe luogo l'incidente col marinaio. Poi ci furono discorsi e la mattina successiva, dopo un sonno di tre o quattro ore, Wieder volò fino al Polo Sud. Il suo viaggio fu prodigo di incidenti e più di una volta fu sul punto di avverarsi il pronostico della sconosciuta, che nessuno degli invitati ebbe mai occasione di rivedere. Quando fece ritorno a Punta Arenas Wieder dichiarò che il pericolo maggiore era stato il silenzio. Dinanzi allo stupore finto o reale dei giornalisti, spiegò che il silenzio erano le onde di Capo Horn mentre con le loro lingue lambivano il ventre dell'aereo, onde come enormi balene di Melville o come mani mozze che avevano tentato di toccarlo durante l'intero tragitto, ma silenziose, imbavagliate, come se in quelle latitudini il suono fosse stato appannaggio esclusivo degli uomini. Il silenzio è come la lebbra, dichiarò Wieder, il silenzio è come il comunismo, il silenzio è come uno schermo bianco che occorre riempire. Se lo riempi, più niente di brutto può accaderti. Se sei puro, più niente di brutto può accaderti. Se non hai paura, più niente di brutto può accaderti. Secondo Bibiano, quella era la descrizione di un angelo. Un angelo fieramente umano?, domandai. 

No, scemo, rispose Bibiano, l'angelo della nostra sciagura. Sul limpido cielo della base Arturo Prat Wieder scrisse L'ANTARTIDE E CILE e venne filmato e fotografato. Scrisse pure altri versi, versi sul colore bianco e sul colore nero, sul gelo, sull'occulto, sul sorriso della patria, un sorriso franco, sottile, nitidamente disegnato, un sorriso simile a un occhio e che, in effetti, ci guarda, e poi tornò a Concepción e in seguito si recò a Santiago dove apparve alla televisione (fui costretto a vedere il programma: Bibiano non aveva la tele nella pensione dove viveva e venne a vederlo a casa mia) e sì, Carlos Wieder era Ruiz-Tagle (che faccia tosta farsi chiamare Ruiz-Tagle, disse Bibiano, si era cercato un buon cognome), ma come se non lo fosse stato, così sembrò a me, la tele dei miei genitori era in bianco e nero (i miei genitori erano felici che Bibiano fosse lì, a guardare la televisione e a cenare con noi, come se avessero intuito che io stavo per andarmene e che non avrei mai più avuto un amico come lui) e il pallore di Carlos Wieder (un pallore fotogenico) lo rendeva simile non solo a quell'ombra che era stato Ruiz-Tagle, ma anche a molte altre ombre, ad altri visi, ad altri piloti fantasmatici che volavano pure loro dal Cile all'Antartide e dall'Antartide al Cile a bordo di aerei che dal fondo della notte quel matto di Norberto diceva che erano caccia Messerschmitt, squadre di Messerschmitt sfuggiti alla Seconda Guerra Mondiale. Ma Wieder, lo sapevamo, non volava in squadra. Wieder volava su un piccolo aereo e volava da solo. 

 

 

 

 

 

La storia di Juan Stein, il direttore del nostro seminario di letteratura, è assurda come il Cile di quegli anni. 

Nato nel 1945, prima del golpe aveva pubblicato due libri, uno a Concepción (500 copie) e uno a Santiago (500 copie), che messi insieme non facevano più di cinquanta pagine. Le sue poesie erano brevi, influenzate in parti uguali da Nicanor Parra e da Ernesto Cardenal, come la maggior parte dei poeti della sua generazione, e dalla poesia crepuscolare di Jorge Teillier, sebbene Stein ci raccomandasse di leggere Lihn più che Teillier. I suoi gusti erano in non poche occasioni diversi e addirittura divergenti rispetto ai nostri: non apprezzava Jorge Caceres (il surrealista cileno nei cui confronti noi professavamo adorazione), né Rosamel del Valle, né Anguita. Gli piaceva Pezoa Véliz (alcune delle cui poesie sapeva a memoria), Magallanes Moure (una frivolezza che noi compensavamo frequentando la poesia dell'orribile Braulio Arenas), i versi geografici e gastronomici di Pablo de Rokha (da cui noi - quando dico noi, adesso me ne rendo conto, credo di riferirmi unicamente a Bibiano O'Ryan e a me, degli altri ho dimenticato persino le loro filie e fobie letterarie - ci tenevamo alla larga come da un fosso troppo profondo e perché è sempre preferibile leggere Rabelais), la poesia amorosa di Neruda e Residenza sulla Terra (che a noi, affetti da nerudite fin dalla più tenera infanzia, faceva venire un'allergia ed eczemi sulla pelle). Concordavamo sui già menzionati Parra, Lihn e Teillier, sebbene con sfumature e riserve su alcune parti della loro opera (la comparsa di Artefatti, che ci lasciò ammaliati, fece sì che Stein, fra lo sdegno e la perplessità, scrivesse una lettera al vecchio Nicanor rinfacciandogli alcune delle battute che si era permesso di fare in quel momento cruciale della lotta rivoluzionaria in America Latina; Parra gli rispose con una cartolina di Artefatti dicendogli che non si preoccupasse, che nessuno, né a destra né a sinistra, leggeva, e Stein, per quanto ne so, conservò la cartolina con affetto), e ci piaceva pure Armando Uribe Arce, Gonzalo Rojas e alcuni poeti della generazione di Stein, ossia quelli nati negli anni Quaranta, che frequentavamo più per vicinanza fisica che per affinità estetica, ma che probabilmente furono quelli che più ci influenzarono). Juan Luis Martinez (che ci sembrava una piccola bussola smarrita nel paese), Oscar Hahn (che era nato alla fine degli anni Trenta, ma era lo stesso), Gonzalo Millàn (che due volte venne al seminario a leggerci le sue poesie, tutte brevi, ma moltissime poesie), Claudio Bertoni (che era quasi come della nostra generazione, nata negli anni Cinquanta), Jaime Quezada (che un giorno si era ubriacato con noi e si era messo a recitare a squarciagola una novena in ginocchio), Waldo Rojas (che era stato fra i primi ad allontanarsi da una certa «poesia facile» che in quei tempi aveva fatto furore, i rimasugli di Parra e di Cardenal) e, naturalmente, Diego Soto, secondo Stein il miglior poeta della sua generazione e secondo noi uno dei due migliori. L'altro era Stein. 

Spesso andammo a casa sua, Bibiano e io, una piccola casa nei pressi della stazione che Stein affittava sin dai tempi in cui era studente all'Università di Concepción e che, ormai professore nella stessa università, conservava ancora. La casa, più che di libri, era piena di mappe. Questa fu la prima cosa che attrasse la nostra attenzione, trovare così pochi libri (al confronto, la casa di Diego Soto sembrava una biblioteca) e così tante mappe. Mappe del Cile, dell'Argentina, del Perù, mappe della Cordigliera delle Ande, una mappa delle strade dell'America Centrale che non ho mai più visto altrove, pubblicata da una Chiesa protestante statunitense, mappe del Messico, della Conquista del Messico, mappe della Rivoluzione Messicana, mappe della Francia, della Spagna, della Germania, dell'Italia, una mappa delle ferrovie inglesi e una mappa dei viaggi in treno della letteratura inglese, mappe della Grecia e dell'Egitto, di Israele e del Medio Oriente, della città di Gerusalemme antica e moderna, dell'India e del Pakistan, della Birmania, della Cambogia, una mappa delle montagne e dei fiumi della Cina e una dei templi scintoisti del Giappone, una mappa del deserto australiano e una della Micronesia, una mappa dell'Isola di Pasqua e una mappa della città di Puerto Montt, nel sud del Cile. 

Possedeva molte mappe, come spesso ne posseggono coloro che desiderano con fervore viaggiare e che non sono ancora usciti dal loro paese. 

Accanto alle mappe, incorniciate e appese alla parete c'erano due fotografie. Entrambe erano in bianco e nero. In una si vedevano un uomo e una donna seduti davanti alla porta della loro casa. L'uomo assomigliava a Juan Stein, capelli biondo paglierino e occhi azzurri segnati da occhiaie profonde. Erano, ci disse, suo padre e sua madre. L'altra era il ritratto - un ritratto ufficiale - di un generale dell'Esercito Rosso di nome Ivan Cherniakovski. Secondo Stein, era stato il miglior generale della Seconda 

Guerra Mondiale. Bibiano, che di queste cose se ne intendeva, fece il nome di Zhukov, di Koniev, di Rokossovski, di Vatutin, di Malinovski, ma Stein rimase sulle sue posizioni: Zhukov era stato brillante e freddo, Koniev era duro, probabilmente un figlio di puttana, Rokossovski aveva talento e aveva con sé Zhukov, Vatutin era un buon generale ma non migliore dei generali tedeschi che aveva dovuto affrontare, di Malinovski si poteva dire quasi la stessa cosa, nessuno era paragonabile a Cherniakovski (forse solo se si fossero ritrovati in una stessa persona Zhukov, Vassilievski e i tre migliori comandanti delle truppe blindate). Cherniakovski possedeva un talento naturale (ammesso che questo sia possibile nell'arte della guerra), era amato dai suoi uomini (nella misura in cui i soldati possono amare un generale) e inoltre era giovane, il più giovane dei generali al comando di un esercito (chiamati «fronti» in Unione Sovietica) e uno dei pochi degli alti comandi morto in prima linea, nel 1945, allorché la guerra era già vinta, a trentanove anni. 

Ben presto capimmo che fra Stein e Cherniakovski c'era qualcosa di più di un'ammirazione per le doti strategiche e tattiche del generale sovietico. Una sera, parlando di politica, gli domandammo com'era possibile che lui, un trotzkista, si fosse abbassato a chiedere all'ambasciata sovietica la foto del generale. Parlavamo per scherzo, ma Stein non la prese su questo tono e confessò innocentemente che la foto era un regalo di sua madre, la quale era cugina prima di Ivan Cherniakovski. Era stata lei che l'aveva chiesta all'ambasciata, molti anni prima, in qualità di parente diretta dell'eroe. Quando lui se n'era andato da casa per venire a studiare a Concepción, la madre gli aveva dato la foto senza dirgli nient'altro. Poi parlò dei Cherniakovski dell'Unione Sovietica, ebrei ucraini poverissimi, e dei destini dissimili che li avevano sparsi per il mondo. In chiaro mettemmo che il padre di sua madre era fratello del padre del generale, la qual cosa significava che lui ne era nipote. Stein lo ammiravamo già, direi incondizionatamente, ma a partire da quella scoperta la nostra ammirazione crebbe sino all'infinito. In merito a Cherniakovski, con gli anni, venimmo a sapere altre cose: era stato a capo di una divisione blindata durante i primi mesi della guerra, la 28° Divisione di carri armati, aveva combattuto, sempre indietreggiando, nei Paesi Baltici e nella zona di Novgorod, poi era rimasto senza destinazione finché non gli avevano affidato il comando di un corpo (che nella terminologia militare sovietica equivale a una divisione) nella regione di Voronesh, soggetto al comando del 60° Esercito (che nella terminologia militare sovietica equivale a un corpo) finché durante l'offensiva nazista del '42 non avevano destituito il comandante del 60° Esercito e avevano offerto il posto a lui, l'ufficiale più giovane, suscitando le conseguenti invidie e i relativi rancori, che era rimasto agli ordini di Vatutin (allora al comando del Fronte di Voronesh, che nella terminologia militare sovietica equivale a un esercito, ma questo credo di averlo già detto) da lui rispettato e stimato, che aveva trasformato il 60° Esercito in una macchina da guerra invitta, che era avanzato senza tregua per le contrade della Russia e poi per le contrade dell'Ucraina senza che nessuno fosse riuscito a fermarlo, che nel 1944 era stato promosso al comando di un Fronte, il Terzo Fronte della Bielorussia, che durante l'offensiva del 1944 è a lui che si deve la distruzione del Gruppo degli Eserciti Centro, che comprendeva quattro eserciti tedeschi, e che probabilmente aveva costituito il maggiore di tutti i colpi subiti dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, peggio dell'Assedio di Stalingrado o dello Sbarco in Normandia, peggio dell'Operazione Cobra o della traversata del Diepner (cui lui aveva partecipato), peggio della controffensiva delle Ardenne o della battaglia di Kursk (cui lui aveva partecipato). Venimmo pure a sapere che fra gli eserciti russi che avevano preso parte all'Operazione Bragation (la distruzione del Gruppo degli Eserciti Centro) quello che più si era distinto, di gran lunga, era stato il Terzo Fronte della Bielorussia, che la sua avanzata era stata inarrestabile e di una velocità e di una profondità fino ad allora mai vista, che era stato il primo a raggiungere la Prussia Orientale, che aveva perso i genitori quando era un adolescente, che era stato ospitato in case che non erano la sua casa e presso famiglie che non erano la sua famiglia, che aveva subito le persecuzioni e umiliazioni subite dagli ebrei, che aveva dimostrato a quelli che lo disprezzavano che era non solo uguale a loro ma anche migliore, che durante la sua infanzia aveva visto come i seguaci di Petliura (nazionalisti ucraini) avevano torturato e poi assassinato suo padre nel villaggio di Verbovo (dove le piccole case bianche sono sparse sui fianchi di dolci colline), che la sua adolescenza era stata un miscuglio di Dickens e di Makarenko, che durante la guerra aveva perso il fratello Alexander e che la notizia gli era stata nascosta tutto un pomeriggio e tutta una notte perché Ivan Cherniakovski stava dirigendo un'altra delle sue offensive, che era morto solo in mezzo a una strada, che era stato due volte Eroe dell'Unione Sovietica, che aveva ottenuto l'Ordine di Lenin, quattro ordini della Bandiera Rossa, due ordini di Suvorov del Primo Grado, l'Ordine di Kutuzov del Primo Grado, l'Ordine di Bogdan Jmelnitzki del Primo Grado e altre numerose, innumerevoli medaglie, che per iniziativa del governo e del partito erano stati eretti suoi monumenti a Vilnius e a Vinnitsa (quello di Vilnius sicuramente oggi non esiste più e probabilmente anche quello di Vinnitsa sarà stato abbattuto), che la città di Insterburg nell'antica Prussia Orientale si chiama adesso, in suo onore, Cherniajovsk, che pure il kolchoz del villaggio di Verbovo nel distretto Tomashpolsky porta il suo nome (oggi neanche i kolchoz esistono più), e che nel villaggio di Oksanino del distretto di Umanski della regione di Cherkassi era stato innalzato un busto di bronzo per celebrare il grande generale (mi gioco lo stipendio di un mese che il busto di bronzo è stato sostituito; oggi l'eroe è Petliura; domani chissà). Insomma, come dice Bibiano citando Parra: così passa la gloria del mondo, senza gloria, senza mondo, senza un misero panino alla mortadella. 

Ma il fatto è che la foto di Cherniakovski, incorniciata con una certa ampollosità, era lì, in casa di Juan Stein, e questo probabilmente era molto più importante (oserei dire che era infinitamente più importante) dei busti e delle città col suo nome e delle innumerevoli vie Cherniakovski male asfaltate dell'Ucraina, della Biolorussia, della Lituania e della Russia. Non so perché conservo la foto, ci disse Stein, forse perché è l'unico generale ebreo di una certa importanza della Seconda Guerra Mondiale e perché il suo destino è stato tragico. Ma è più probabile che la conservi perché me l'ha regalata mia madre quando me ne sono andato di casa, come una specie di enigma: mia madre non mi ha detto nulla, si è limitata a regalarmi il ritratto, cos'ha voluto dirmi con questo gesto?, il regalo della foto era una dichiarazione o l'inizio di un dialogo? Eccetera, eccetera. Alle sorelle Garmendia la foto di Cherniakovski sembrava orribile e avrebbero preferito vedere appeso un ritratto di Blok, che a loro sembrava un gran bel ragazzo, o uno di Maiakovski, l'amante ideale. Cosa ci fa un nipote di Cherniakovski a insegnare letteratura nel sud del Cile?, si domandava a volte Stein, preferibilmente da ubriaco. Altre volte diceva che avrebbe utilizzato la cornice per metterci una fotografia che aveva di William Carlos Williams con i ferri del mestiere di un medico di paese, ossia con la valigetta nera, lo stetoscopio che spunta come un serpente bicefalo e quasi cade dalla tasca di una vecchia giacca logorata dagli anni ma comoda ed efficace contro il freddo, mentre cammina su un lungo marciapiede tranquillo fiancheggiato da staccionate dipinte di bianco o di verde o di rosso, oltre le quali si indovinano piccoli cortili o piccole porzioni di prato - e magari una falciatrice abbandonata nel bel mezzo del lavoro -, con un cappello dalla tesa stretta, di colore scuro, e gli occhiali nettissimi, quasi rilucenti, ma con uno scintillio che non invita agli eccessi né agli estremi, né molto felice né molto triste e tuttavia contento (forse perché si sente ben caldo dentro la sua giacca, forse perché sa che il paziente che sta andando a visitare non morirà), mentre cammina sereno, diciamo, alle sei del pomeriggio di un giorno di inverno. 

Ma non cambiò mai il ritratto di Cherniakovski con la presunta foto di William Carlos Williams. Sull'autenticità di quest'ultima alcuni membri del seminario e certe volte lo stesso Stein nutrivano qualche riserva. Secondo le Garmendia più che William Carlos Williams sembrava il presidente Truman travestito da qualcosa, non necessariamente da medico, mentre camminava in incognito per le vie del suo paese. A sentire Bibiano si trattava di un abile fotomontaggio: il viso era di Williams, il corpo era di un altro, forse davvero quello di un medico di paese, e lo sfondo era composto da diversi elementi: le staccionate da un lato, l'erba e la falciatrice dall'altro, gli uccellini sulle staccionate e persino sul manubrio della falciatrice, il cielo grigio chiaro dell'imbrunire, tutto proveniva da otto o nove foto diverse. Stein non sapeva cosa dire sebbene ammettesse tutte le possibilità. Comunque la chiamava «la foto del dottor Williams» e non se ne sbarazzava (a volte la chiamava la foto del dottor Norman Rockwell o la foto del dottor William Rockwell). Era, senza dubbio, uno dei suoi oggetti più preziosi, il che non deve stupire nessuno, perché Stein era povero e possedeva poche cose. Una volta (stavamo discutendo sulla bellezza e sulla verità) Veronica Garmendia gli domandò cosa vedeva lui nella foto di Williams se sapeva che quasi sicuramente non era Williams. Mi piace la foto, ammise Stein, mi piace credere che sia William Carlos Williams. Ma soprattutto, aggiunse dopo un momento, quando noi ci eravamo già lanciati su Gramsci, mi piace la tranquillità della foto, la certezza di sapere che Williams sta facendo il suo lavoro, che sta camminando verso il suo lavoro, a piedi, lungo una strada quieta, senza correre. E anche più tardi, quando noi parlavamo dei poeti e della Comune di Parigi, disse: Non so, quasi in un sussurro e credo che nessuno lo sentì. 

Dopo il golpe Stein scomparve e per molto tempo Bibiano e io lo considerammo morto. 

In effetti, tutti lo considerarono morto, a tutti sembrò naturale che avessero ammazzato lo stronzo ebreo bolscevico. Una sera Bibiano e io ci avvicinammo a casa sua. Avevamo paura di bussare alla porta perché nella nostra paranoia immaginavamo che la casa potesse essere controllata e addirittura che potesse aprirci la porta un poliziotto, invitarci a entrare e non lasciarci uscire mai più. Sicché passammo davanti alla casa tre o quattro volte, non vedemmo luci e ci allontanammo con una pesante sensazione di vergogna e anche con un segreto sollievo. Una settimana dopo, senza dirci niente, andammo di nuovo a casa di Stein. Nessuno rispose ai nostri colpi sulla porta. Una donna ci guardò fuggevolmente da una finestra, nella casa accanto, e la scena oltre a richiamarci alla memoria momenti indeterminati di diversi film riuscì ad accrescere la sensazione di solitudine e di abbandono che ci suscitava non solo la casa di Stein ma pure la via intera. La terza volta che andammo lì ci aprì una donna giovane seguita da un paio di bambini che potevano avere tuttalpiù tre anni: uno camminava e l'altro si muoveva a gattoni. Ci disse che adesso suo marito e lei abitavano lì, che non aveva conosciuto l'inquilino precedente, che se volevamo sapere qualcosa dovevamo parlare con la proprietaria. Era una donna simpatica. Ci fece accomodare e ci offrì una tazza di tè che Bibiano e io rifiutammo. Non vogliamo disturbare, le rispondemmo. Dalle pareti erano scomparse le mappe e le foto del generale Cherniakovski. Era un vostro buon amico e se n'è andato all'improvviso, senza avvertire?, disse la donna con un sorriso. Sì, rispondemmo, più o meno è così. 

Poco dopo me ne andai definitivamente dal Cile. 

Non ricordo se risiedevo in Messico o in Francia quando ricevetti una lettera di Bibiano molto breve, in stile telegrafico, quasi un enigma o un nonsenso (ma da cui si intuiva, se non altro, un Bibiano allegro), accompagnata da un ritaglio di giornale, probabilmente un quotidiano di Santiago. Il ritaglio accennava a diversi «terroristi cileni» che erano entrati nel Nicaragua attraverso Costa Rica con le truppe del Fronte Sandinista. Uno di loro era Juan Stein. 

A partire da quel momento le notizie su Stein non scarseggiarono. Compariva e scompariva come un fantasma in tutti i luoghi dove c'erano scontri, in tutti i luoghi dove i latinoamericani, disperati, generosi, impazziti, coraggiosi, aborriti, distruggevano e ricostruivano e di nuovo distruggevano la realtà in un tentativo ultimo destinato al fallimento. Lo vidi in un documentario sulla presa di Rivas, la città nel sud del Nicaragua, con i capelli tagliati a colpi di forbici, più magro di un tempo, vestito metà da militare e metà da professore di un corso universitario estivo, mentre fumava la pipa, con gli occhiali rotti e tenuti insieme con un fil di ferro. Bibiano mi spedì un ritaglio in cui si diceva che Stein e altri cinque vecchi militanti del MIR avevano combattuto in Angola contro i sudafricani. In seguito ricevetti due pagine fotocopiate di una rivista messicana (allora mi trovavo sicuramente a Parigi) in cui si parlava delle differenze dei cubani in Angola rispetto ad alcuni gruppi internazionalisti, fra cui due avventurieri cileni, unici sopravvissuti (secondo loro, e la chiacchierata col giornalista presumo avesse avuto luogo in un bar di Luanda, così deducendo pure che dovevano essere ubriachi) di un gruppo chiamato I Cileni Volanti, nome che mi fece evocare quello del circo Le Aquile Umane e le sue interminabili tournée annuali nel sud del Cile. Stein, naturalmente, era uno dei sopravvissuti membri del movimento. Di lì, presumo, passò in Nicaragua. In Nicaragua ci sono momenti in cui lo si perde di vista. E uno dei luogotenenti di un sacerdote capo della guerriglia che muore durante la presa di Rivas. Poi è alla testa di un battaglione o di una brigata oppure è il comandante in seconda di qualcosa oppure passa nella retroguardia ad addestrare giovani appena reclutati. Non partecipa all'entrata trionfale a Managua. Per un certo tempo scompare di nuovo. Si dice che è uno dei membri del commando che assassina Somoza nel Paraguay. Si dice che prende parte alla guerriglia colombiana. Si dice persino che è tornato in Africa, che si trova in Angola o in Mozambico o che è nella guerriglia in Namibia. Vive nel pericolo e come nei film western non esiste ancora la pallottola capace di ucciderlo. Ma torna in America e per qualche tempo si installa a Managua. Secondo Bibiano, un poeta argentino, suo corrispondente, gli spiega che durante una lettura di poesia argentina, uruguayana e cilena organizzata da questo stesso poeta (un certo Di Angeli) nel Centro Culturale di Managua uno dei partecipanti, «un tipo biondo e alto, con gli occhiali», aveva espresso diverse osservazioni sulla poesia cilena, sul criterio di scelta dei testi letti (gli organizzatori, fra cui lo stesso Di Angeli, si erano opposti per motivi politici all'inclusione di poesie di Nicanor Parra e di Enrique Lihn), in una parola, aveva smerdato i promotori della lettura, almeno per quanto riguarda il settore della lirica cilena, ma, bisogna riconoscerlo, con molta calma, senza toni violenti, io direi - diceva Di Angeli - con molta ironia e una certa tristezza o stanchezza, va' a sapere. (Fra parentesi, il nostro Di Angeli, una delle innumerevoli antenne epistolari che Bibiano dal suo negozio di scarpe a Concepción aveva nel mondo, era uno svergognato, cinico e divertente quant'altri mai; tipico arrivista di sinistra, era pronto, tuttavia, a chiedere scusa per le sue omissioni ed esagerazioni di ogni genere; le sue goffaggini, secondo Bibiano, erano antologiche e all'epoca di Stalin la sua triste vita sarebbe sicuramente servita da modello per un romanzo picaresco, sebbene nell'America Latina degli anni Settanta fosse solo quello, una vita triste, piena di piccole meschinità, alcune compiute senza neppure cattiva intenzione. Gli sarebbe andata meglio, diceva Bibiano, nella destra, ma, mistero, i Di Angeli sono una legione fra le schiere della sinistra; almeno, diceva, non si dedica ancora alla critica letteraria, ma c'è tempo per ogni cosa. In effetti, durante gli spaventosi anni Ottanta sfogliai alcune riviste messicane e argentine e vi trovai diversi lavori critici del nostro Di Angeli. Credo che avesse fatto carriera. Negli anni Novanta non ho più visto traccia della sua penna, ma c'è da dire che leggo sempre meno riviste). Il fatto è che Stein era tornato in America. Ed era, secondo Bibiano, lo stesso Juan Stein di Concepción, lo stesso nipote di Ivan Cherniakovski. Per qualche tempo, il tempo di un sospiro troppo lungo, lo si era visto in posti come la già rammentata lettura di poeti del Cono Sud, in mostre di pittura, in compagnia di Ernesto Cardenal (due volte), in uno spettacolo teatrale. Poi scompare e in Nicaragua non lo si vede più. Non è andato molto lontano. C'è chi dice che partecipa alla guerriglia guatemalteca, altri assicurano che si batte sotto la bandiera del Fronte Farabundo Martí. Bibiano e io siamo del parere che una guerriglia con quel nome meritava di avere Stein dalla sua parte. Anche se Stein avrebbe probabilmente ucciso con le sue stesse mani (nella distanza la sua ferocia, la sua implacabilità si ingigantivano e si distorcevano come quelle di un personaggio di un film hollywoodiano) i responsabili della morte di Roque Dalton. Come conciliare nello stesso sogno o nello stesso incubo il nipote di Cherniakovski, l'ebreo bolscevico dei boschi a sud del Cile, con i figli di puttana che uccisero Roque Dalton mentre dormiva, per mettere fine ai diverbi e perché così conveniva alla loro rivoluzione? Impossibile. Ma il fatto è che Stein è lì. E partecipa a diverse offensive e a diversi colpi di mano e un bel giorno scompare e questa volta per sempre. Allora io vivevo già in Spagna, facevo lavori ingrati, non possedevo un televisore e neppure compravo molto spesso un giornale. Secondo Bibiano, Juan Stein l'ammazzarono durante l'ultima offensiva dell'FMLN, il Fronte Farabundo Marti di Liberazione Nazionale, quella che riuscì a conquistare alcuni quartieri di San Salvador e che godette di un'ampia campagna informativa. Ricordo di aver visto brani di quella lontana guerra in bar di Barcellona dove mangiavo o dove entravo a bere, ma sebbene la gente guardasse la tele il rumore delle conversazioni o del cozzar dei piatti che andavano e venivano impediva di ascoltare. Persino le immagini che conservo nella memoria (le immagini riprese da quei corrispondenti di guerra) sono sfocate e frammentate. In tutta chiarezza ricordo solo due cose: le barricate nelle vie di San Salvador, certe barricate poverissime, più postazioni di tiro che barricate, e la figura piccola, bruna e nervosa di uno dei comandanti del Fronte. Si faceva chiamare comandante Achille o comandante Ulisse e so che poco dopo aver parlato alla televisione lo ammazzarono. Secondo Bibiano, tutti i comandanti di quell'offensiva disperata avevano nomi di eroi e di semidei greci. Quale poteva essere quello di Stein, comandante Patroclo, comandante Ettore, comandante Paride? Non lo so. Enea sicuramente no, Ulisse neppure. Al termine della battaglia, durante il recupero dei cadaveri, apparve un tipo biondo e alto. Negli archivi della polizia figura una descrizione sommaria: cicatrici su braccia e gambe, vecchie ferite, un tatuaggio sul braccio destro, un leone rampante. La qualità del tatuaggio è buona. Un lavoro da artigiano, com'è vero Dio, di quelli che non si fanno a El Salvador. Nel Centro Informativo della polizia lo sconosciuto biondo figura col nome di Jacobo Sabotinski, cittadino argentino, antico membro dell'ERP, l'Esercito Rivoluzionario del Popolo. 

Molti anni dopo Bibiano si recò a Puerto Montt e cercò la casa paterna di Juan Stein. Non trovò nessuno con quel nome. C'erano uno Stone e due Steiner e tre Steen della stessa famiglia. Lo Stone lo scartò subito. Andò dai due Steiner e dai tre Steen. Questi ultimi poterono dirgli assai poco, non erano ebrei, non sapevano niente di nessuna famiglia Stein o Cherniakovski, domandarono a Bibiano se lui era ebreo o se c'entrava il denaro nella faccenda. A quei tempi, presumo, Puerto Montt era tutto preso dalla crescita economica. Gli Steiner invece erano ebrei, ma la loro famiglia veniva dalla Polonia e non dall'Ucraina. Il primo Steiner, un ingegnere agronomo alto e in sovrappeso, non gli fu di molto aiuto. La seconda Steiner, zia del precedente e insegnante di piano al liceo, ricordava una vedova Steiner che nel 1974 si era trasferita a Llanquihue. Ma questa signora, dichiarò la pianista, non era ebrea. Un po' confuso, Bibiano si recò a Llanquihue. Probabilmente, pensò, l'insegnante di piano confondeva la vedova Stein per via del suo ebraismo non praticante. Conoscendo Juan Stein e i suoi precedenti familiari (lo zio generale dell'Esercito Rosso) non c'era da stupirsi che fossero atei. 

A Llanquihue non dovette faticare molto per trovare la casa della vedova Stein. Era una piccola casa di legno dipinta di verde, alla periferia del paese. Quando varcò il cancello un cane amichevole, color bianco e con macchie minuscole come una mucca in miniatura, uscì a riceverlo e di lì a poco, dopo aver suonato un campanello che riecheggiava come una campana o che forse era una campana, aprì la porta una donna sui trentacinque anni, una delle donne più belle che Bibiano avesse mai visto. 

Domandò se lì abitava la vedova Stein. Ci abitava, ma molto tempo fa, rispose la donna allegramente. Che peccato!, disse Bibiano, sono dieci giorni che la sto cercando e fra poco dovrò tornare a Concepción. La donna allora lo fece accomodare, gli disse che stava per fare uno spuntino e se voleva farle compagnia, Bibiano rispose di sì, naturalmente, e poi la donna gli confessò che la vedova Stein era morta già da tre anni. All'improvviso la donna sembrò rattristarsi e Bibiano si disse che la colpa era sua. La donna aveva conosciuto la vedova Stein e sebbene non fossero mai state amiche ne conservava un buon ricordo: una donna un po' dominatrice, una di quelle tedesche squadrate, ma in fondo una brava persona. Io non l'ho conosciuta, disse Bibiano, in realtà la cercavo per comunicarle la notizia della morte di suo figlio, ma forse è meglio così, è sempre terribile comunicare a qualcuno che suo figlio è morto. Questo è impossibile, disse la donna. Lei aveva un solo figlio, che era ancora vivo quando lei è morta, di lui sì che posso dire di essere stata amica. Bibiano sentì che il pane e marmellata lo stava strozzando. Un solo figlio? Sì, uno scapolone molto attraente, non so perché non si sia mai sposato, penso che fosse molto timido. Allora devo essermi di nuovo confuso, disse Bibiano, credo che stiamo parlando di due famiglie diverse. Il figlio della vedova non vive più a Llanquihue? È morto l'anno scorso in un ospedale di Valdivia, così mi hanno detto, eravamo amici ma non sono mai andata a trovarlo all'ospedale, non avevamo un'amicizia così stretta. Di cos'è morto? Penso di cancro, disse la donna guardando le mani di Bibiano. Ed era di sinistra, vero?, disse Bibiano con un filo di voce. Può darsi, disse la donna, improvvisamente di nuovo allegra, le brillavano gli occhi, diceva Bibiano, come non ho mai visto brillare gli occhi di nessuno, era di sinistra ma non un militante, era della sinistra silenziosa, come tanti cileni dopo il 1973. Non era ebreo, vero? No, disse la donna, ma chissà, a me le questioni di religione a dire il vero non interessano, ma no, non credo che fossero ebrei, erano tedeschi. Come si chiamava lui? Juan Stein. Juanito Stein. E cosa faceva? Era un professore, anche se la sua passione era aggiustare motori, di trattori, di trebbiatrici, di pozzi, di qualsiasi cosa, un vero e proprio genio dei motori. E si guadagnava dei buoni extra con quei lavoretti. A volte fabbricava lui stesso i pezzi di ricambio. Juanito Stein. E sepolto a Valdivia? Mi sembra di sì, disse la donna e di nuovo si rattristò. 

 

Sicché Bibiano andò al cimitero di Valdivia e per un'intera giornata, accompagnato da uno dei guardiani cui aveva offerto una buona mancia, cercò la tomba di quel Juan Stein, alto, biondo, ma che non si era mai allontanato dal Cile, e per quanto l'avesse cercata non la trovò. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Negli ultimi giorni del 1973 o nei primi del 1974 scomparve pure Diego Soto, il grande amico e rivale di Juan Stein. 

Erano sempre insieme (sebbene non avessimo mai visto l'uno al seminario dell'altro), sempre lì a discutere di poesia anche se il Cile andava a remengo, Stein alto e biondo, Soto tracagnotto e bruno, Stein atletico e robusto, Soto di ossatura delicata, con un corpo in cui già si intuivano rotondità e morbidezze future, Stein nell'orbita della poesia latinoamericana e Diego Soto sempre intento a tradurre poeti francesi che in Cile nessuno conosceva (e che in molti temo continuino a non conoscere). E questo, com'è naturale, faceva rabbia a parecchia gente. Com'era possibile che quell'indio tracagnotto e brutto traducesse e intrattenesse una corrispondenza con Alain Jouffroy, Denis Roche, Marcelin Pleynet? Chi erano, in nome di Dio, Michel Bulteau, Mathieu Messagier, Claude Pelieu, Franck Venaille, Pierre Tilman, Daniel Biga? Che meriti aveva un certo Georges Perec i cui libri pubblicati da Denoèl quel minchione pretenzioso di Soto si portava sempre dietro? Il giorno in cui si smise di vederlo per le vie di Concepción, con i suoi libri sotto braccio, sempre correttamente vestito (al contrario di Stein, che vestiva come un vagabondo), mentre andava alla Facoltà di Medicina o faceva la coda davanti a qualche teatro o a qualche cinema, quando svanì nell'aria, insomma, nessuno lo rimpianse. Molti si sarebbero rallegrati della sua morte. Non per questioni strettamente politiche (Soto era un simpatizzante del Partito Socialista, ma solo questo, un simpatizzante, neppure un elettore fedele, io direi un sinistroide pessimista), ma per motivi di ordine estetico, per il piacere di vedere morto chi è più intelligente di te e più colto di te ed è privo della scaltrezza sociale di nasconderlo. Scriverlo adesso sembra una bugia. Ma era così, i nemici di Soto sarebbero stati capaci di perdonargli anche la sua mordacia; quello che non gli perdonarono mai fu la sua indifferenza e la sua intelligenza. 

Ma Soto, al pari di Stein (che di sicuro non rivide mai), ricomparve in esilio in Europa. Dapprima visse nella Repubblica Democratica Tedesca, da cui si allontanò alla prima occasione dopo diversi fatti sgradevoli. Si racconta, nel triste folclore dell'esilio - secondo il quale più della metà delle storie vengono falsificate oppure sono soltanto l'ombra della storia reale -, che una notte un altro cileno lo riempì talmente di botte che Soto finì in un ospedale di Berlino con un trauma cranico e due costole rotte. In seguito si installò in Francia dove sopravvisse dando lezioni di spagnolo e di inglese e traducendo per case editrici senza scopo di lucro alcuni scrittori bizzarri dell'America Latina, quasi tutti degli inizi del secolo, cultori del genere fantastico o di quello pornografico, fra cui era compreso il dimenticato romanziere di Valparaiso Pedro Pereda, che era fantastico e pornografico al contempo, autore di un racconto incredibile in cui a una donna vanno crescendo o più esattamente vanno aprendosi sessi e ani in tutte le parti della sua anatomia, dinanzi al naturale spavento dei suoi familiari (il racconto è ambientato negli anni Venti, ma presumo che almeno la sorpresa sarebbe stata pari negli anni Settanta o Novanta), e che finisce segregata in un bordello del nord, un bordello per minatori, rinchiusa nel bordello e dentro il bordello rinchiusa nella sua camera senza finestre, sin quando alla fine si trasforma in una grande entrata-uscita difforme e selvaggia e liquida il vecchio magnaccia che amministra il bordello e le altre puttane e gli orripilati clienti e poi esce nel patio e si addentra nel deserto (camminando o volando, Pereda non lo chiarisce) finché l'aria la inghiotte. 

Tentò pure di tradurre Sophie Podolski, la giovane poetessa belga suicidatasi a ventun anni (non gli fu possibile), Pierre Guyotat, l'autore di Eden, Eden, Eden e Prostituzione (non gli fu possibile neppure in questo caso), e La scomparsa di Georges Perec, romanzo poliziesco scritto senza la lettera e e che Soto tentò (riuscendovi solo a metà) di tradurre in spagnolo applicandosi in quanto Jardiel Poncela aveva fatto mezzo secolo prima in un racconto in cui la stessa vocale si distingueva per la sua assenza. Ma una cosa era scrivere senza la e e un'altra assai diversa tradurre senza la e. 

Non vidi mai Soto nel periodo in cui entrambi coincidemmo a Parigi. A quei tempi io non ero dell'umore giusto per incontrare vecchi amici. Inoltre, secondo quanto avevo sentito dire, la situazione economica di Soto era sempre migliore, si era sposato con una francese, poi venni a sapere che avevano avuto un figlio (allora io mi trovavo in Spagna, ammesso che la precisazione sia importante), partecipava regolarmente agli incontri di scrittori cileni ad Amsterdam, pubblicava su riviste di poesia del Messico, dell'Argentina e del Cile, credo che avessero persino pubblicato un suo libro a Buenos Aires o a Madrid, poi ancora venni a sapere da un'amica che dava lezioni di letteratura all'università, il che gli forniva stabilità economica e tempo da dedicare alla lettura e alla ricerca, e che aveva già due figli, un bambino e una bambina. Non nutriva alcuna speranza di tornare in Cile. Era, immaginai, un uomo felice, ragionevolmente felice. Non mi costava fatica pensarlo in un confortevole appartamento parigino o magari in una casa di qualche paesino dei dintorni, intento a leggere nel silenzio del suo studio insonorizzato mentre i bambini guardavano la tele o la moglie cucinava o stirava, perché qualcuno doveva ben cucinare, no?, o forse, meglio, a stirare era una domestica, portoghese o africana, sicché Soto poteva leggere nel suo studio insonorizzato e magari scrivere, sebbene lui non fosse mai stato uno di quelli che scrivevano molto, senza rimorsi domestici, e sua moglie, nel proprio studio, quest'ultimo accanto alla camera dei bambini, o su un tavolino del XIX secolo in un angolo del salotto, correggeva esami o programmava le vacanze estive o guardava distrattamente i programmi dei cinema per decidere il film che avrebbero visto in serata. 

Secondo Bibiano (che intratteneva uno scambio epistolare più o meno fluido con lui), non è che Soto si fosse imborghesito, ma che era sempre stato così. La familiarità con i libri, diceva Bibiano, esige una certa sedentarietà, un certo grado di imborghesimento necessario, altrimenti guarda me, diceva Bibiano, che su un'altra scala - lavoro nel negozio di scarpe, sempre più odiato o sempre più amato, non so bene, vivo nella stessa pensione - faccio (o mi lascio fare) più o meno le stesse cose che fa Soto. 

In una parola: Soto era felice. Credeva di essersi sottratto alla maledizione (o almeno è quanto credevamo noi, perché Soto, mi sembra, non credette mai alle maledizioni). 

Fu allora che ricevette l'invito a partecipare a un colloquio su Letteratura e Scienza nell'Ispanoamerica che avrebbe avuto luogo ad Alicante. 

Era inverno. Soto detestava viaggiare in aereo, aveva preso l'aereo solo una volta nella sua vita, per il viaggio che alla fine del 1973 l'aveva portato da Santiago a Berlino. Sicché viaggiò in treno e dopo una notte sbarcò ad Alicante. Il colloquio durò due giorni, un fine settimana, ma Soto, invece di tornare a Parigi la domenica sera, si fermò per un'altra notte ad Alicante. I motivi del rinvio non sono noti. Il lunedì mattina comprò un biglietto ferroviario per Perpignan. Il viaggio si svolse senza incidenti. Arrivato alla stazione di Perpignan, si informò sui treni che partivano la sera per Parigi e comprò un biglietto per quello dell'una di notte. Il tempo dell'attesa lo trascorse passeggiando per la città, entrò nei bar, visitò una libreria dell'usato dove comprò un libro di Guerau de Carrera, un poeta avanguardista franco-catalano morto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma il tempo restante lo passò leggendo un romanzo poliziesco tascabile che aveva acquistato quella stessa mattina ad Alicante (Vázquez Montalbàn, Juan Madrid?) e che non riuscì a finire, una pagina piegata indicava che era arrivato alla 155, sebbene durante il tragitto Alicante-Perpignan si fosse abbandonato alla lettura con la voracità di un adolescente. 

A Perpignan mangiò in una pizzeria. E strano che non fosse andato in un buon ristorante e non avesse assaggiato la famosa cucina del Rossiglione, ma il fatto è che mangiò in una pizzeria. Il rapporto della polizia è esplicito e non lascia adito a dubbi. Soto cenò con un'insalata verde, una porzione abbondante di cannelloni, un'enorme (ma davvero enorme) coppa di gelato cioccolato, fragola, vaniglia e banana e due caffè. Consumò pure una bottiglia di vino rosso italiano (un vino forse poco adatto ai cannelloni, ma io non me ne intendo di vini). Durante la cena alternò la lettura del romanzo poliziesco alla lettura de «Le Monde». Lasciò la pizzeria verso le dieci di sera. 

Secondo diversi testimoni, arrivò alla stazione verso mezzanotte. Gli rimaneva un'ora di tempo prima della partenza del suo treno. Al banco del bar della stazione prese un caffè. Aveva la sua borsa da viaggio e nell'altra mano il libro di Carrera, il romanzo poliziesco e la copia de «Le Monde». Secondo il cameriere che gli servì il caffè, era sobrio. 

Non rimase nel bar per più di dieci minuti. Un ferroviere lo vide camminare lungo i binari, lentamente ma con passo fermo e sicuro. 

Assolutamente non ubriaco. Si suppone che si sia smarrito in quei meandri aperti di cui parlava Dalí. Si suppone che quanto voleva fosse proprio quello. Smarrirsi per un'ora nella magnificenza sovrana della stazione di Perpignan. Percorrere l'itinerario (matematico, astronomico, mitico?) che Dalí aveva sognato che si nascondesse senza nascondersi ai limiti della stazione. In realtà, come un turista. Come il turista che Soto era sempre stato dopo essersene andato da Concepción. Un turista latinoamericano, perplesso e disperato in parti uguali (Gómez Carrillo è il nostro Virgilio), ma comunque un turista. 

Quello che accadde subito dopo è vago. Soto si smarrisce nella cattedrale o in quella grande ricetrasmittente che è la stazione ferroviaria di Perpignan. L'ora e il freddo, è inverno, fanno sì che la stazione sia quasi vuota malgrado l'imminenza del treno per Parigi dell'una di notte. La maggior parte della gente è nel bar o nella sala di attesa principale. Soto, non si sa come, forse attratto dalle voci, raggiunge una sala appartata. Lì scopre tre giovani neonazisti e una sagoma per terra. I giovani prendono a calci la sagoma con applicazione. Soto rimane fermo sulla soglia finché scopre che la sagoma si muove, che dagli stracci esce una mano, un braccio incredibilmente sporco. La vagabonda, perché è una donna, grida non picchiatemi più. Il grido non lo sente proprio nessuno, solo lo scrittore cileno. Forse Soto si ritrova con gli occhi pieni di lacrime, lacrime di autocompassione, perché intuisce di avere incontrato il suo destino. Fra Tel Quel e l'OULIPO la vita ha deciso e ha scelto la pagina di cronaca nera. 

Comunque lascia cadere sulla soglia la borsa da viaggio, i libri e avanza verso i giovani, Prima di intervenire nella zuffa li insulta in spagnolo. Lo spagnolo avverso del sud del Cile. I giovani accoltellano Soto e poi fuggono via. 

La notizia apparve sui giornali della Catalogna, un pezzo molto breve, ma io lo venni a sapere da una lettera di Bibiano, molto lunga, quasi come il rapporto di un detective, l'ultima che ricevetti da lui. 

All'inizio mi dispiacque non ricevere più lettere di Bibiano ma poi, se si considera che io di rado gli rispondevo, mi sembrò normale e non gliene nutrii rancore. Anni dopo venni a conoscenza di una storia che mi sarebbe piaciuto raccontare a Bibiano, sebbene allora non sapessi più dove scrivergli. 

È la storia di Petra e in qualche modo sta a Soto come la storia del doppio di Juan Stein sta al nostro Juan Stein. La storia di Petra dovrei raccontarla come una favola: C'era una volta un povero bambino cileno... Il bambino si chiamava Lorenzo, credo, non ne sono sicuro, e ho dimenticato il suo cognome, ma più di uno se ne ricorderà, e gli piaceva giocare e salire sugli alberi e sui pali dell'elettricità. Un giorno salì su uno di quei pali e si prese una scarica così forte che perse entrambe le braccia. Gliele dovettero amputare quasi all'altezza delle spalle. Sicché Lorenzo crebbe in Cile e senza braccia, il che rendeva di per sé la sua situazione piuttosto critica, ma in più crebbe nel Cile di Pinochet, il che trasformava qualsiasi situazione critica in disperata, ma questo non era tutto, perché ben presto scoprì di essere omosessuale, il che trasformava la situazione disperata in inconcepibile e inenarrabile. 

Con tutti questi condizionamenti non fu strano che Lorenzo divenisse un artista. (Cos'altro avrebbe potuto essere?). Ma è difficile essere un artista nel Terzo Mondo se si è poveri, non si hanno le braccia e inoltre si è finocchi. Sicché Lorenzo si dedicò per qualche tempo a fare altre cose. Studiava e imparava. Cantava per le strade. E si innamorava, perché era un romantico impenitente. Le sue delusioni (per non parlare di umiliazioni, spregi, ingiurie) furono terribili e un giorno — giorno segnato da una pietra bianca — decise di suicidarsi. Una sera d'estate particolarmente triste, mentre il sole calava dietro l'Oceano Pacifico, Lorenzo si buttò in mare da uno scoglio usato esclusivamente dai suicidi (e che non manca mai in ogni tratto di litorale cileno che si rispetti). Colò a picco come una pietra, con gli occhi aperti, e vide l'acqua sempre più nera e le bolle che gli uscivano dalle labbra e poi, con un involontario movimento delle gambe, risalì a galla. Le onde non gli permisero di vedere la spiaggia, solo gli scogli e in lontananza gli alberi di alcune imbarcazioni da diporto o da pesca. Poi colò di nuovo a picco. Neppure questa volta chiuse gli occhi: mosse la testa con calma (la calma di chi è anestetizzato) e cercò con lo sguardo qualcosa, qualsiasi cosa, purché fosse bella, per trattenerla nell'istante finale. Ma il nero velava qualsiasi oggetto scendesse con lui verso le profondità e non vide nulla. La sua vita allora, così come ricorda la leggenda, sfilò davanti ai suoi occhi come un film. Alcuni pezzi erano in bianco e nero e altri a colori. L'amore della sua povera madre, l'orgoglio della sua povera madre, le fatiche della sua povera madre che lo abbracciava di notte quando tutto nelle borgate povere del Cile sembra essere sospeso a un filo (in bianco e nero), i terremoti, le notti in cui orinava nel letto, gli ospedali, gli sguardi, lo zoo degli sguardi (a colori), gli amici che spartiscono il poco che posseggono, la musica che ci consola, la marihuana, la bellezza rivelata in posti inverosimili (in bianco e nero), l'amore perfetto e breve come un sonetto di Góngora, la certezza fatale (ma rabbiosa dentro la fatalità) che si vive solo una volta. Con improvviso coraggio decise che non sarebbe morto. Dice di aver detto adesso o mai più e che tornò in superficie. L'ascesa gli sembrò interminabile; tenersi a galla, quasi insopportabile, ma ci riuscì. Quella sera imparò a nuotare senza braccia, come un'anguilla o come un serpente. Uccidersi, disse, in questa circostanza sociopolitica, è assurdo e ridondante. Meglio trasformarsi in un poeta segreto. 

A partire da allora cominciò a dipingere (con la bocca e con i piedi), cominciò a ballare, cominciò a scrivere poesie e lettere d'amore, cominciò a suonare strumenti e a comporre canzoni (una foto ce lo mostra mentre suona il piano con le dita dei piedi; l'artista guarda l'obiettivo e sorride), cominciò a risparmiare denaro per andarsene dal Cile. 

Dovette faticare ma alla fine riuscì ad andarsene. La vita in Europa, naturalmente, non fu molto più facile. Per un certo tempo, forse anni (sebbene Lorenzo, più giovane di me e di Bibiano e assai più giovane di Soto e di Stein, si fosse allontanato dal Cile quando la valanga dell'esilio era diminuita), si guadagnò da vivere come musicista e ballerino per le vie dell'Olanda (che adorava) e della Germania e dell'Italia. Viveva in pensioni, nelle zone della città in cui vivono gli emigrati magrebini o turchi o africani, per qualche stagione felice in casa di amanti che finiva per lasciare o viceversa, e dopo ogni giornata di lavoro nelle strade, dopo le soste in bar gay o le proiezioni ininterrotte nei cinema d'essai, Lorenzo (o Lorenza, come gli piaceva pure essere chiamato) si rinchiudeva nella sua stanza e si metteva a dipingere o a scrivere. In molti periodi della sua vita visse da solo. Alcuni lo chiamavano l'acrobata eremita. Gli amici gli domandavano come si puliva il culo dopo essere andato al cesso, come pagava dal fruttivendolo, come riponeva il denaro, come cucinava. Come, in nome di Dio, ce la faceva a vivere da solo. Lorenzo rispondeva a tutte le domande e la risposta, quasi sempre, testimoniava il suo ingegno. Con un po' di ingegno uno si arrangiava a fare qualunque cosa. Se Blaise Cendrars, tanto per citare un esempio, con un solo braccio poteva vincere a cazzotti il pugile più tosto, come poteva lui non essere capace di pulirsi - e benissimo - il culo dopo aver cagato? 

In Germania, terra curiosa ma che spesso faceva venire i brividi, si comprò delle protesi. Sembravano braccia vere e gli piacquero più che altro per la sensazione da fantascienza di essere un robot, di sentirsi ciborg che aveva quando camminava con le protesi applicate. Visto da lontano, per esempio mentre avanzava incontro a un amico sullo sfondo di un orizzonte viola, sembrava che avesse davvero le braccia. Ma se le toglieva quando lavorava per strada e ai suoi amanti, quelli ignari che si trattava di protesi, per prima cosa diceva che gli mancavano le braccia. Ad alcuni, addirittura, piaceva di più così, senza braccia. 

Poco prima delle grandi Olimpiadi di Barcellona, un attore o un'attrice catalana o un gruppo di attori catalani in viaggio per la Germania lo videro lavorare in strada, forse in un piccolo teatro, e lo raccontarono alla persona incaricata di trovare chi personificasse Petra, il personaggio di Mariscal e mascotte o forse più precisamente emblema delle gare paraolimpioniche che vennero fatte subito dopo. Dicono che quando Mariscal lo vide inguainato nel vestito di Petra, che sgambettava come un ballerino schizofrenico del Bolscioi, disse: è la Petra dei miei sogni. (Dicono che Mariscal sia sempre così conciso). In seguito, quando parlarono, - un Mariscal affascinato offrì a Lorenzo il suo studio affinché si trasferisse a Barcellona a dipingere, a scrivere, a fare quello che voleva. (Dicono che sia sempre così generoso). In realtà, Lorenzo o Lorenza non aveva bisogno dello studio di Mariscal per essere più felice di quanto lo fu durante la celebrazione dei Giochi Paraolimpionici. Dopo il primo giorno divenne il favorito della stampa, le interviste fioccavano, sembrava che Petra stesse eclissando lo stesso Coby. In quel periodo io ero ricoverato all'Ospedale Valle Hebrón di Barcellona col fegato ridotto a pezzi e venivo a conoscenza dei suoi trionfi, delle sue battute, dei suoi aneddoti, leggendo due o tre giornali quotidianamente. A volte, leggendo le sue interviste, mi venivano accessi di risa. Altre volte mi mettevo a piangere. Lo vidi pure alla televisione. Faceva benissimo la sua parte. 

Tre anni dopo venni a sapere che era morto di AIDS. La persona che me lo disse non sapeva se in Germania o in Sudamerica (non sapeva che fosse cileno). 

A volte, quando penso a Stein e a Soto non posso evitare di pensare anche a Lorenzo. 

A volte credo che Lorenzo sia stato un poeta migliore di Stein e di Soto. Ma di solito quando penso a loro li vedo tutti insieme. 

Anche se l'unica cosa che li unisce è la circostanza di essere nati in Cile. E un libro che forse lesse Stein, che di sicuro lesse Soto (ne parla in un lungo articolo sull'esilio e sull'erranza pubblicato in Messico) e che lesse pure, entusiasta come quasi ogni volta che leggeva qualcosa (come girava le pagine?, con la lingua, come dovremmo fare tutti!), Lorenzo. Il libro si intitola Ma gestaltthérapie e il suo autore è il dottor Frederick Perls, psichiatra, fuggiasco dalla Germania Nazista e vagabondo per tre continenti. In Spagna, che io sappia, non è stato tradotto. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma torniamo al punto di partenza, torniamo a Carlos Wieder e all'anno di grazia 1974. 

In quel periodo Wieder era sulla cresta dell'onda. Dopo i suoi trionfi in Antartide e nei cieli di tante città cilene lo chiamarono affinché facesse qualcosa di spettacolare nella capitale, qualcosa di straordinario che dimostrasse al mondo che il nuovo regime e l'arte di avanguardia non divergevano affatto. 

Wieder vi accorse entusiasta. A Santiago alloggiò a Providencia, nell'appartamento di un collega, e mentre di giorno andava ad allenarsi all'aeroporto Capitàn Lindstrom e faceva vita sociale nei circoli militari o visitava le case dei genitori dei suoi amici dove conosceva (o gli facevano conoscere, in questo c'era sempre qualcosa di forzato) le sorelle, cugine e amiche che rimanevano meravigliate dal suo portamento e da quanto era educato e apparentemente timido, ma anche dalla sua freddezza, dalla distanza che si intuiva nei suoi occhi o come disse Pia Valle: come se dietro i suoi occhi avesse un altro paio di occhi, di notte, finalmente libero, si dedicò a preparare da solo, nell'appartamento, sulle pareti della stanza per gli ospiti una mostra di fotografie la cui inaugurazione fece coincidere con la sua esibizione aerea. 

Qualche anno dopo il proprietario dell'appartamento avrebbe dichiarato di non aver visto fino all'ultimo momento le fotografie che Wieder intendeva esporre. La sua prima reazione dinanzi al progetto di Wieder fu, naturalmente, di offrirgli il soggiorno, la casa intera affinché vi sistemasse le foto, ma Wieder respinse la proposta. Sostenne che le foto richiedevano una cornice ristretta e precisa come la camera del loro autore. Disse che dopo la scrittura sul cielo era opportuno - oltre che maliosamente paradossale - che l'epilogo della poesia aerea fosse circoscritto allo stambugio del poeta. Quanto alla natura delle foto, il proprietario dell'appartamento disse che Wieder voleva fossero una sorpresa e che gli anticipò solo che si trattava di poesia visiva, sperimentale, quintessenziata, arte pura, una cosa che avrebbe divertito tutti. Gli fece promettere, inoltre, che né lui né altri sarebbero entrati nella sua stanza fino alla sera dell'inaugurazione. Il proprietario dell'appartamento gli disse che se voleva poteva cercare in qualche armadio la chiave di quella camera per esserne più sicuro. Wieder disse che non era necessario, che la sua parola di ufficiale gli bastava. Il proprietario dell'appartamento, solennemente, gli diede la sua parola d'onore. 

Gli inviti per la festa a Providencia, ovviamente, furono ristretti, selettivi: qualche pilota, qualche militare giovane (il più vecchio non arrivava al grado di comandante) e colto o almeno con fondati sospetti di esserio, un trio di giornalisti, due artisti plastici, un vecchio poeta di destra che era stato avanguardista e che dopo il colpo di stato sembrava avesse recuperato gli slanci della sua giovinezza, qualche signora giovane e ammodo (che si sappia alla mostra si recò solo una donna, Tatiana von Beck Iraola) e il padre di Carlos Wieder, che risiedeva a Viña del Mar e la cui salute era delicata. 

Tutto cominciò male. Il giorno dell'esibizione aerea si presentò con grandi cumuli di nuvole nere e gonfie che scendevano lungo la valle verso il sud. Alcuni superiori gli sconsigliarono di volare. Wieder non badò ai cattivi presagi e dicono che discusse con qualcuno in un angolo buio di un capannone. Poi il suo aereo si alzò e gli spettatori assistettero, più con speranza che con ammirazione, ad alcune piroette preliminari. Realizzò un volo radente, un looping, un ricciolo al contrario. Ma niente fumo. Quelli dell'esercito e le loro mogli erano felici anche se alcuni degli alti comandi delle Forze Aeree si domandarono cosa stesse davvero succedendo. Allora l'aereo prese quota e scomparve nella pancia di un'immensa nuvola grigia che si spostava lentamente sopra la città come se guidasse le nuvole nere della tempesta. 

Wieder viaggiò dentro la nuvola come Giona dentro la balena. Per qualche momento gli spettatori dell'esibizione aerea attesero la sua ricomparsa tonante. Alcuni, pochi, si sentirono a disagio, come se il pilota li avesse piantati in asso di proposito, lì, seduti nelle tribune improvvisate del Capitàn Lindstrom, a scrutare un cielo che avrebbe dispensato loro solo pioggia e non poesia. Altri, la maggior parte, approfittarono dell'intervallo per alzarsi dai sedili, sgranchirsi le vecchie ossa, stirarsi le gambe, salutare, unirsi a capannelli che si formavano e si disfacevano con rapidità, lasciando sempre qualcuno con la parola sulle labbra, dove si discutevano voci recenti, nuove cariche e nomine, e i problemi più cruciali che il paese si ritrovava ad affrontare. I più giovani, i più entusiasti, si misero a commentare le ultime scorribande e gli ultimi fidanzamenti. Persino gli ammiratori incondizionati di Wieder, invece di aspettare in silenzio la ricomparsa dell'aereo o di interpretare in cento forme diverse quell'ignominioso cielo vuoto, si lanciarono in commenti pratici sulla vita quotidiana che solo molto tangenzialmente concernevano la poesia cilena, l'arte cilena. 

Wieder sbucò lontano dall'aeroporto, sopra un quartiere periferico di Santiago. Lì scrisse il primo verso: LA MORTE È AMICIZIA. Poi planò su certi depositi ferroviari e su quelle che sembravano fabbriche abbandonate anche se nelle vie riuscì a distinguere gente che trascinava cartoni, bambini arrampicati sulla cresta dei muri, cani. A sinistra, alle 9, riconobbe due immense baraccopoli separate dalle rotaie del treno. Scrisse il secondo verso: LA MORTE È CILE. Poi girò alle 3 e si diresse verso il centro. Ben presto comparvero i viali, l'ordito di spade o serpenti dai colori sbiaditi, il fiume reale, lo zoo, gli edifici che erano l'orgoglio povero degli abitanti di Santiago. La vista aerea di una città, lo annotò da qualche parte lo stesso Wieder, è come una foto strappata i cui frammenti, contrariamente a quanto si crede, tendono a separarsi: maschera sconnessa, maschera mobile. Sopra il Palazzo della Moneda, scrisse il terzo verso: LA 

MORTE È RESPONSABILITÀ. Alcuni passanti lo videro, uno scarabeo scuro stagliato su un cielo scuro e minaccioso. Solo in pochi decifrarono le sue parole: il vento le disperdeva in pochi secondi. A un certo punto qualcuno tentò di mettersi in contatto via radio con lui. Wieder non rispose alla chiamata. All'orizzonte, alle 11, vide le sagome di due elicotteri che gli andavano incontro. Volò in tondo finché non si furono avvicinati e poi li seminò in un secondo. Durante il ritorno all'aeroporto scrisse il quarto e il quinto verso: LA 

MORTE È AMORE e LA MORTE È CRESCITA. 

Quando ebbe avvistato l'aeroporto scrisse: LA MORTE È COMUNIONE, ma nessuno dei generali e delle mogli dei generali e dei figli dei generali e degli alti comandi e delle autorità militari, civili, ecclesiastiche e culturali riuscì a leggere le sue parole. Nel cielo si ordiva una tempesta elettrica. Dalla torre di controllo un colonnello gli chiese di affrettarsi ad atterrare. Wieder disse ricevuto e prese di nuovo quota. Per un momento quelli che si trovavano lì sotto credettero che si sarebbe di nuovo cacciato dentro una nuvola. Un capitano, che non si trovava nel palco d'onore, commentò che in Cile tutti gli atti poetici finivano in un disastro. Perlopiù, disse, sono soltanto disastri individuali o familiari ma alcuni si trasformano in disastri nazionali. Allora, all'altra estremità di Santiago ma perfettamente visibile dalle tribune installate nel Capitan Lindstrom, cadde il primo fulmine e Carlos Wieder scrisse: LA MORTE È PULIZIA, ma lo scrisse così male, le condizioni meteorologiche erano così sfavorevoli, che pochissimi fra gli spettatori che già cominciavano ad abbandonare i loro posti e ad aprire i primi ombrelli capirono quanto scritto. Sul cielo rimanevano strisce nere, scrittura cuneiforme, geroglifici, scarabocchi da bambino. Ma ci fu qualcuno che capì e pensò che Carlos Wieder fosse diventato pazzo. Cominciò a piovere e il fuggifuggi divenne generale. In uno dei capannoni si era organizzato un cocktail e a quell'ora e con quell'acquazzone tutti avevano fame e sete. I tramezzini finirono in meno di un quarto d'ora. I camerieri, reclute dell'Intendenza, andavano e venivano con una velocità stupefacente e con una diligenza che risvegliò l'invidia di qualche signora. Alcuni ufficiali commentarono com'era strano quel pilota-poeta, ma la maggior parte degli invitati parlava e si preoccupava di argomenti di importanza nazionale (e persino internazionale). 

Carlos Wieder, intanto, era sempre nel cielo a lottare contro gli elementi. Solo una manciata di amici e due giornalisti che nel loro tempo libero scrivevano poesie surrealiste (o superrealiste, come solevano dire utilizzando uno spagnolismo un po' da cretini) seguirono dalla pista lucida di pioggia, in una scena che sembrava tratta da un film della Seconda Guerra Mondiale, le evoluzioni del piccolo aereo sotto la tempesta. Quanto a Wieder, forse non si rese conto che il suo pubblico era divenuto così esiguo. 

Scrisse, o pensò di scrivere: LA MORTE E IL MIO CUORE. E poi: PRENDI IL MIO CUORE. E poi ancora il suo nome: CARLOS WIEDER, senza timore della pioggia né dei lampi. Senza temere, soprattutto, l'incoerenza. 

E poi non ebbe più fumo per scrivere (da un po' il fumo che usciva dalla fusoliera dava un'impressione, più che di scrittura, di incendio, un incendio che si fondeva con la pioggia), però scrisse: LA MORTE E RESURREZIONE e i fedeli che erano rimasti lì sotto non capirono nulla ma capirono che Wieder stava scrivendo qualcosa, capirono o credettero di capire la volontà del pilota e seppero che pur non capendo nulla stavano assistendo a un intervento unico, a un evento importante per l'arte del futuro. 

In seguito Carlos Wieder atterrò senza alcun problema (coloro che lo videro dicono che sudava come se fosse appena uscito da una sauna), si prese una ramanzina dall'ufficiale della torre di controllo e da alcuni alti comandanti che vagavano ancora fra gli avanzi del cocktail e dopo aver bevuto, in piedi, una birra (non parlò con nessuno, rispose a monosillabi alle domande che gli vennero fatte), se ne andò nell'appartamento di Providencia a preparare il secondo atto della sua cerimonia a Santiago. 

Tutto quanto finora raccontato forse accadde così. Forse no. È possibile che i generali delle Forze Aeree Cilene non avessero portato le loro mogli. È possibile che nell'aeroporto Capitàn Lindstrom non sia mai stato messo in scena uno spettacolo di poesia aerea. Forse Wieder scrisse la sua poesia sul cielo di Santiago senza chiedere il permesso a nessuno, senza avvisare nessuno, sebbene questo sia più improbabile. Forse quel giorno non piovve neppure su Santiago, sebbene ci siano testimoni (oziosi che guardavano in alto seduti sulla panchina di un parco, solitari affacciati a una finestra) che ricordano ancora le parole nel cielo e posteriormente la pioggia purificatrice. Ma forse tutto accadde altrimenti. Le allucinazioni, nel 1974, non erano infrequenti. 

La mostra fotografica nell'appartamento, tuttavia, ebbe luogo così come viene raccontato qui di seguito. 

I primi invitati arrivarono alle nove di sera. Perlopiù erano amici fin dall'adolescenza e da tempo non si ritrovavano tutti insieme. Alle undici c'erano una ventina di persone, tutte ragionevolmente ubriache. Nessuno era ancora entrato nella stanza in cui dormiva Wieder e sulle cui pareti aveva pensato di esporre le fotografie al giudizio dei suoi amici. Il tenente Julio César Munoz Cano, che anni dopo avrebbe pubblicato il libro Con la corda al collo, sorta di narrazione autobiografica e autofustigatrice sulla sua attività negli anni del primo governo golpista, scrive che Carlos Wieder si comportava in modo normale (o forse anormale: era molto più tranquillo del solito, addirittura umile, col viso permanentemente come se se lo fosse appena lavato), si occupava degli invitati quasi che la casa fosse stata sua (il cameratismo era totale, troppo bonario, troppo ideale, scrive Munoz Cano), salutava con affetto gli altri ufficiali suoi amici che non vedeva da tempo, accettava di commentare gli incidenti della mattina all'aeroporto senza attribuirvi e senza attribuirsi grande importanza, tollerava di buon grado le battute consuete (a volte pesanti, a volte francamente di cattivo gusto) in quel tipo di riunioni. Ogni tanto scompariva, si chiudeva nella stanza (e questa volta la stanza era proprio chiusa a chiave), ma le sue assenze non duravano mai molto. 

Infine, a mezzanotte in punto, salì su una sedia e chiese silenzio in mezzo al soggiorno e disse (parole testuali, secondo Munoz Cano) che era ormai giunta l'ora di immergersi un po' nella nuova arte. Era di nuovo il solito Wieder, dominatore, sicuro, con gli occhi come separati dal corpo, come se guardassero da un altro pianeta. Poi si fece strada fino alla porta della sua stanza e fece entrare gli invitati uno alla volta. Uno alla volta, signori, l'arte cilena non ammette agglomerazioni. Quando disse così (secondo Munoz Cano), Wieder usò un tono giocoso e guardò il padre, cui strizzò l'occhio sinistro e poi quello destro. Come se tornato ai suoi dodici anni gli facesse un segno segreto. Il padre aveva un viso sereno e sorrise al figlio. 

La prima a entrare fu Tatiana von Beck Iraola, com'era logico data la sua condizione di donna e il suo carattere impulsivo e capriccioso. Tatiana, scrive Munoz Cano, era nipote, figlia e sorella di militari e nel suo stile un po' sventato una donna indipendente, che faceva sempre quello che voleva, usciva con chi più le garbava e aveva opinioni stravaganti, molte volte contraddittorie, ma spesso originali. Anni dopo si sposò con un pediatra, andarono a vivere a La Serena ed ebbe sei figli. La Tatiana di quella sera, ricorda Munoz Cano con malinconia lievemente tinta di orrore, era una ragazza bella e sicura di sé ed entrò nella stanza aspettandosi di trovarvi ritratti eroici o noiose fotografie dei cieli del Cile. 

La stanza era illuminata nel modo consueto. Neppure una lampada in più, né un faretto extra che desse spicco alle foto. La stanza non doveva assomigliare a una galleria d'arte ma proprio a una stanza, una camera in prestito, l'abitacolo di passaggio di un giovane. Naturalmente, non ci furono luci colorate come disse qualcuno, né musica di tamburi che usciva da un mangianastri nascosto sotto il letto. L'ambiente doveva essere casuale, normale, senza stridori. 

Fuori, la festa proseguiva. I giovani bevevano da giovani e da trionfatori e inoltre sapevano sopportare l'alcol da cileni. Le risate erano contagiose, ricorda Munoz Cano, estranee a qualsiasi minaccia, a qualsiasi ombra. Da qualche parte un trio si mise a cantare, tutti abbracciati, accompagnati dalla chitarra di uno di loro. Appoggiati alle pareti, a gruppi di due o di tre, alcuni parlavano del futuro o dell'amore. Tutti erano contenti di trovarsi lì, alla festa del poeta-pilota; erano contenti di essere quello che erano e di essere, inoltre, amici di Carlos Wieder, anche se non lo capivano del tutto, anche se coglievano la differenza che c'era fra loro e lui. Nel corridoio la coda si frantumava di continuo; gli uni si ritrovavano a secco di alcol e andavano a cercarne, altri si invischiavano in riaffermazioni di amicizia e di lealtà eterne che li riportavano, come un'onda protettrice, al soggiorno, da dove tornavano, traballanti, con i pomelli rossi, a riprendere il loro posto nella coda. Il fumo, soprattutto nel corridoio, era considerevole. Wieder stava in piedi contro lo stipite della porta. Due tenenti discutevano e si spingevano (ma piano piano) nel bagno in fondo al corridoio. Il padre di Wieder era uno dei pochi seri e rispettosi della coda. Munoz Cano si muoveva, secondo le sue stesse parole, in su e in giù, nervoso e pieno di oscuri presagi. I due reporter surrealisti (o superrealisti) chiacchieravano col padrone di casa. In uno dei suoi andirivieni Munoz Cano riuscì a sentire alcune parole: parlavano di viaggi, il Mediterraneo, Miami, spiagge assolate, barche di pescatori, donne esuberanti. 

Non era trascorso un minuto quando Tatiana von Beck uscì. Era pallida e turbata. Tutti la guardarono. 

Lei guardò Wieder - sembrava che stesse per dirgli qualcosa ma che non trovasse le parole - e poi cercò di raggiungere il bagno. Non ci riuscì, Vomitò nel corridoio e poi, incespicando, se ne andò via aiutata da un ufficiale che galantemente si offrì di riaccompagnarla a casa malgrado le proteste della von Beck che preferiva andarsene da sola. 

Il secondo a entrare fu un capitano che era stato professore di Wieder all'Accademia. Non uscì più. Wieder, accanto alla porta chiusa (il capitano, entrando, l'aveva lasciata socchiusa ma lui la richiuse), sorrideva sempre più soddisfatto. Nel soggiorno alcuni si domandarono se Tatiana fosse stata orsa da una tarantola. È ubriaca, disse una voce che Munoz Cano non riconobbe. Qualcuno mise un disco dei Pink Floyd. Qualcun altro disse che fra uomini non si poteva ballare, qui sembra una festa di coscritti, disse una voce. Risposero che la musica dei Pink Floyd era da ascoltare, non da ballare. I reporter surrealisti parlottavano fra di loro. Un tenente propose di uscire subito in cerca di puttane. Munoz Cano scrive che in quel momento ebbe la sensazione di trovarsi esposto all'intemperie, sotto la notte oscura e in piena campagna, perlomeno le voci risuonavano così. Nel corridoio l'atmosfera creatasi era peggiore. Quasi nessuno parlava, come nella sala d'attesa di un dentista. Ma dove si è mai vista la sala d'attesa di un dentista in cui i denti-marci (sic) aspettano in piedi?, si domanda Munoz Cano? 

Il padre di Wieder spezzò l'incantesimo. Si fece avanti educatamente, chiamando gli ufficiali che stavano prima di lui nella coda con i loro nomi di battesimo, ed entrò nella stanza. Il proprietario dell'appartamento lo seguì. Quasi subito questi uscì e si fermò di fronte a Wieder; per un momento sembrò che stesse per colpirlo, l'aveva afferrato per i baveri, e poi fece dietrofront e se ne andò nel soggiorno a bersi un bicchiere. Da quel momento tutti, compreso Munoz Cano, vollero entrare nella camera. Lì, seduto sul letto, trovarono il capitano. Fumava e leggeva degli appunti scritti a macchina che aveva previamente strappato da una parete. Sembrava tranquillo anche se la cenere della sigaretta si spargeva su una delle sue gambe. Il padre di Wieder contemplava alcune delle centinaia di fotografie che decoravano le pareti e parte del soffitto della stanza. Un cadetto, la cui presenza lì nessuno riesce a spiegarsi, forse il fratello minore di uno degli ufficiali, si mise a piangere e a lanciare maledizioni e dovettero trascinarlo fuori. I reporter surrealisti facevano gesti di disappunto ma conservarono la calma. Secondo Munoz Cano, in alcune foto riconobbe le sorelle Garmendia e altri scomparsi. Perlopiù erano donne. Lo sfondo delle foto, quasi non variava dall'una all'altra per cui si deduce che è lo stesso luogo. Le donne sembrano manichini, in alcuni casi manichini smembrati, distrutti, sebbene Munoz Cano non scarti la possibilità che in un trenta per cento dei casi fossero vive nel momento in cui era stata scattata l'istantanea. Le foto, in generale (secondo Munoz Cano), sono di cattiva qualità sebbene l'impressione che suscitano in chi le contempla sia vivissima. L'ordine in cui sono esposte non è casuale: seguono una linea, un intreccio, una storia 

(cronologica, spirituale), un piano. Quelle attaccate al soffitto sono simili (secondo Munoz Cano) all'inferno, ma un inferno vuoto. Quelle attaccate (con puntine da disegno) ai quattro angoli assomigliano a un'epifania. Un'epifania della pazzia. In altri gruppi di foto predomina un tono elegiaco (ma come può esserci nostalgia e malinconia in tali foto?, si domanda Munoz Cano). I simboli sono scarsi ma eloquenti. La foto di copertina di un libro di Francois-Xavier de Maistre (il fratello minore di Joseph de Maistre): Le veglie di San Pietroburgo. La foto della foto di una ragazza bionda che sembra dissolversi nell'aria. La foto di un dito mozzato, buttato sul suolo grigio, poroso, di cemento. 

Dopo lo strepito iniziale d'improvviso tutti tacquero. Era come se una corrente ad alto voltaggio avesse attraversato l'appartamento lasciandoci mutati, dice Munoz Cano in uno dei pochi momenti di lucidità del suo libro. Ci guardavamo e ci riconoscevamo, ma in realtà era come se non ci riconoscessimo, sembravamo diversi, sembravamo uguali, odiavamo i nostri volti, i nostri gesti erano quelli dei sonnambuli e degli idioti. Mentre alcuni se ne andavano senza congedarsi, una strana sensazione di fratellanza rimase a fluttuare nell'appartamento fra quanti scelsero di fermarsi. A titolo di annotazione curiosa Munoz Cano aggiunge che in quel momento particolarmente delicato il telefono prese a squillare. Davanti alla passività del padrone di casa fu lui a rispondere alla chiamata. La voce di un vecchio domandò di un certo Lucho Alvarez. Pronto?, pronto?, c'è Lucho Alvarez, per favore? Munoz Cano, senza rispondere, passò la cornetta al padrone di casa. C'è qualcuno che conosce un certo Lucho Alvarez?, domandò questi dopo una pausa troppo lunga. Il vecchio, dedusse Munoz Cano, probabilmente parlava di altre cose, faceva altre domande forse in merito a Lucho Alvarez. Nessuno lo conosceva. Alcuni si misero a ridere; furono risate nervose che risuonarono irragionevolmente alte. Quella persona non abita qui, disse il padrone di casa dopo avere ascoltato in silenzio ancora per un po' e riattaccò. 

Nella stanza delle foto non c'era più nessuno, tranne Wieder e il capitano, e nell'appartamento, secondo Munoz Cano, rimanevano circa otto persone, fra cui il padre di Wieder che non sembrava particolarmente scosso (il suo atteggiamento era quello di chi partecipa - forse involontariamente - a una festa di cadetti che per un motivo che gli sfuggiva o che non lo concerneva si era rovinata). Il padrone di casa, che conosceva da quando era adolescente, cercava di non guardarlo. Gli altri sopravvissuti alla festa parlavano o bisbigliavano fra di loro ma tacevano se qualcuno si avvicinava. Silenzio imbarazzato che il padre di Wieder tentò di aggirare offrendo alcolici, bevande calde e panini che preparava in cucina, solo e sereno. Non si preoccupi, don José, disse uno degli ufficiali a occhi bassi. Non sono preoccupato, Javierito, disse il padre di Wieder. Nella carriera di Carlos, disse un altro, questa è solo una macchia senza importanza. Il padre di Wieder lo guardò come se non capisse di cosa parlava. Era bonario con noi, ricorda Munoz Cano, era sull'orlo dell'abisso e non lo sapeva o non gliene importava o lo nascondeva con strana perfezione. 

Poi Wieder lasciò la stanza e rimase a parlare col padre in cucina, senza che nessuno li ascoltasse. Ma non più di cinque minuti. Quando ricomparvero entrambi avevano bicchieri pieni di qualche alcolico in mano. Anche il capitano ricomparve per bere qualcosa e poi tornò a rinchiudersi nella stanza delle foto con l'avvertimento che nessun altro entrasse. Uno dei tenenti, dietro indicazione del capitano, stese una lista con i nomi di tutti quanti avevano partecipato alla festa. Qualcuno ricordò un giuramento, un altro si mise a parlare di discrezione e dell'onore dei gentiluomini. L'onore dei veri gentiluomini, disse uno che fino a quel momento sembrava dormisse. E ci fu chi si sentì offeso e protestò che non dei soldati si doveva dubitare bensì dei civili, alludendo alla coppia di reporter surrealisti. Questi signori, rispose il capitano, sanno cosa conviene loro. I surrealisti si affrettarono a dargli ragione e ad affermare che lì, in fondo, non era accaduto nulla, siamo gente di mondo, ci mancherebbe altro. Poi qualcuno preparò il caffè e molto più tardi, ma quando l'alba era ancora abbastanza lontana, arrivarono tre militari e un civile che si identificarono come personale dei Servizi Segreti. Quelli che si trovavano nell'appartamento di Providencia li fecero entrare pensando che avrebbero arrestato Wieder. All'inizio l'arrivo dei membri dei Servizi Segreti fu accolto con rispetto e con un certo timore (soprattutto da parte della coppia di reporter), ma col passare dei minuti senza che succedesse nulla e dinanzi al mutismo di quelli, immersi anima e corpo nel loro lavoro, i sopravvissuti alla festa smisero di occuparsene, come se si fosse trattato di domestici arrivati in un'ora imprevista a fare le pulizie. Per un certo tempo che a tutti sembrò eccessivamente lungo quelli dei Servizi Segreti e il capitano rimasero rinchiusi nella stanza con Wieder (uno degli amici di Wieder volle entrare per «offrirgli sostegno morale», ma quello vestito in borghese gli disse di non fare l'imbecille e di lasciarli lavorare in pace); poi, attraverso la porta chiusa, sentirono imprecazioni, la parola «insensato» ripetuta più volte e poi ancora solo il silenzio. Più tardi quelli dei Servizi Segreti se ne andarono in silenzio così com'erano arrivati, con tre scatole da scarpe, fornite dal proprietario dell'appartamento, piene delle foto della mostra. Bene, signori, disse il capitano prima di seguirli, la cosa migliore è che dormiate un po' e dimentichiate tutto di questa notte. Un paio di tenenti scattarono sull'attenti, ma gli altri erano troppo stanchi per eseguire ordini o rituali di alcun tipo e non gli dissero neppure buonanotte (o buongiorno, perché era ormai l'alba). Proprio nel momento in cui il capitano se ne andava sbattendo la porta, dettaglio umoristico che nessuno apprezzò, Wieder uscì dalla stanza e attraversò il soggiorno senza guardare nessuno fino a raggiungere la finestra. Scostò le tende (fuori era ancora buio, ma in fondo, verso la cordigliera, si vedeva già un debole chiarore) e si accese una sigaretta. Carlos, cos'è successo?, disse il padre di Wieder. Questi non gli rispose. Per un momento sembrò che più nessuno avrebbe parlato (che tutti si sarebbero subito messi a dormire, senza poter allontanare lo sguardo dalla figura di Wieder). Il soggiorno, ricorda Munoz Cano, sembrava la sala d'attesa di un ospedale. Sei agli arresti?, domandò infine il proprietario dell'appartamento. Suppongo di sì, disse Wieder, di spalle a tutti, mentre guardava le luci di Santiago, le poche luci di Santiago. Suo padre gli si avvicinò con una lentezza esasperante, come se non osasse fare quello che stava per fare, e infine lo abbracciò. Un abbraccio breve che Wieder non ricambiò. La gente esagera, disse uno dei reporter surrealisti. Stronzate, disse il proprietario dell'appartamento. E adesso cosa si fa?, disse un tenente. Dormire finché non ci fischia il culo, disse il proprietario dell'appartamento. 

Munoz Cano non rivide più Wieder. La sua ultima immagine di lui, tuttavia, è indelebile: un soggiorno grande e disordinato, bottiglie, piatti, portacenere pieni, un gruppo di gente pallida e stanca, e Carlos Wieder vicino alla finestra, in perfetta forma, che reggeva un bicchiere di whisky con una mano che sicuramente non tremava e, intanto, guardava il paesaggio notturno. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A partire da quella sera le notizie su Carlos Wieder sono vaghe, contraddittorie, la sua figura compare e scompare dall'antologia mobile della letteratura cilena, avvolta nelle nebbie, si fanno congetture sulla sua espulsione dalle Forze Aeree durante un processo notturno e segreto al quale lui avrebbe partecipato con l'uniforme di gala sebbene i suoi fedelissimi preferissero immaginarselo con un pastrano nero da cosacco, col monocolo, mentre fumava con un lungo bocchino di zanna d'elefante. Le menti più strampalate della sua generazione lo vedono vagare per Santiago, Valparaiso e Concepción dedito alle più dissimili incombenze e partecipe a strane imprese artistiche. Cambia nome. Viene vincolato a più di una rivista letteraria dall'esistenza effimera su cui pubblica proposte di happening che non porterà mai a termine o che, peggio ancora, porterà a termine in segreto. Su una rivista di teatro compare una breve opera in un atto firmata da un certo Octavio Pacheco di cui nessuno sa nulla. L'opera è quanto mai singolare: è ambientata in un mondo di fratelli siamesi dove il sadismo e il masochismo sono giochi da bambini. Solo la morte è penalizzata in questo mondo e a questo proposito - a proposito del non-essere, del nulla, della vita dopo la vita - discorrono i fratelli nel dipanarsi dell'opera. Ognuno si dedica a martirizzare il suo siamese per un certo tempo (o ciclo, come avverte l'autore), trascorso il quale il martirizzato si trasforma in martirizzatore e viceversa. Ma affinché così accada «bisogna toccare il fondo». L'opera non risparmia al lettore, com'è facile supporre, nessuna variante della crudeltà. L'azione si svolge nella casa dei siamesi e nel parcheggio di un supermercato dove si incontrano con altri siamesi che esibiscono una gamma variopinta di cicatrici e di sfregi. L'opera non si chiude, come c'era da aspettarsi, con la morte di uno dei siamesi ma con un nuovo ciclo di dolore. Forse la sua tesi pecca di semplicità: solo il dolore lega alla vita, solo il dolore è capace di rivelarla. Su una rivista universitaria compare una poesia intitolata La bocca zero; la poesia, all'apparenza, un'imitazione creola di Klebnikhov, è accompagnata da tre disegni dell'autore che illustrano il «momento bocca-zero» (ossia l'atto di disegnare con la bocca aperta al massimo possibile uno zero o una o). La firma, di nuovo, è di Octavio Pacheco, ma Bibiano O'Ryan scopre per caso un fascicolo dedicato all'autore negli Archivi della Biblioteca Nazionale e lì, riunite, ci sono le poesie aeree di Wieder, l'opera teatrale di Pacheco e testi firmati con tre o quattro altri nomi apparsi su riviste di scarsa circolazione, alcune marginali e fatte con pochissimi mezzi e altre di lusso, con una carta eccellente, dovizia di foto (in una è riprodotta quasi tutta la poesia aerea di Wieder, con una cronologia di ogni azione) e disegno accettabile. La provenienza delle riviste è diversa: Argentina, Uruguay, Brasile, Messico, Colombia, Cile. I nomi, più che volontà, segnalano strategie: Hibernia, Germania, Tormenta, Il Quarto Reich Argentino, Croce di Ferro, Basta con le Iperboli! (fanzine bonaerense), Dittonghi e Sinalefi, Odino, Des Sängers Fluch (con un ottanta per cento di collaborazioni in lingua tedesca e dove compare, numero 4, secondo trimestre del 1975, un'intervista politico-artistica con un certo K. W., autore cileno di fantascienza, dove questi anticipa parte dell'argomento del suo prossimo, e primo, romanzo), Attacchi Selettivi, La Confraternita, Poesia Pastorale & Poesia Urbana (colombiana e l'unica di un qualche interesse: selvaggia, distruttiva, poesia di giovani motociclisti della classe media che giocano con i simboli delle SS, con la droga, col delitto e con la metrica e la scenografia di certa poesia beat), Spiagge di Marte, L'Esercito Bianco, Don Perico... Lo stupore di Bibiano è enorme: fra le riviste ne trova almeno sette cilene apparse fra il 1973 e il 1980 la cui esistenza, lui che si credeva al corrente di tutto quanto accadesse sulla scena letteraria cilena, non conosceva. Su una di queste, Girasoli di Carne, numero 1, aprile 1979, Wieder, sotto lo pseudonimo di Masanobu (che non evoca, come si potrebbe pensare, un guerriero samurai bensì il pittore giapponese Okumura Masanobu, 16841764), parla dell'umorismo, del senso del ridicolo, degli scherzi cruenti e incruenti della letteratura, tutti atroci, del grottesco privato e pubblico, del risibile, della dismisura inutile, e conclude che nessuno, assolutamente nessuno, può ergersi a giudice di quella letteratura minore che nasce nella beffa, si sviluppa nella beffa, muore nella beffa. Tutti gli scrittori sono grotteschi, scrive Wieder. Tutti gli scrittori sono miserabili, inclusi quelli che nascono all'interno di famiglie agiate, inclusi quelli che vincono il Premio Nobel. Trova pure un libro sottile, dalla copertina marrone, in ottavo, intitolato Intervista con Juan Sauer. Il libro reca il marchio della casa editrice Il Quarto Reich Argentino ed è privo di copyright e di anno di pubblicazione. Non tarda a capire che Juan Sauer, il quale durante l'intervista risponde a domande relative alla fotografia e alla poesia, è Carlos Wieder. Nelle risposte, lunghi monologhi divaganti, viene tratteggiata la sua teoria dell'arte. Deludente, secondo Bibiano, come se Wieder si ritrovasse col morale a terra e rimpiangesse una normalità che non aveva mai avuto, un ruolo di poeta cileno «protetto dallo Stato, che in tal modo protegge la cultura». Da far vomitare, al punto che c'è da credere a quanti dicono di aver visto Wieder che vendeva calzini e cravatte a 

Valparaiso. 

Per un certo tempo Bibiano si reca ogni volta che può e sempre con grande discrezione a consultare quel fascicolo in Biblioteca. Non tarda a constatare che il fascicolo cresce grazie a nuovi (sebbene spesso deludenti) apporti. Per qualche tempo Bibiano si crede in possesso della chiave per rintracciare lo schivo Carlos Wieder, ma (mi confessa in una lettera) ha paura e i suoi passi sono così prudenti e timidi che potrebbero facilmente confondersi con l'immobilità. Desidera incontrare Wieder, desidera vederlo, ma non desidera che Wieder veda lui e il suo peggiore incubo è che Wieder, una notte qualsiasi, trovi lui. Infine Bibiano vince le sue paure e si apposta ogni giorno nella Biblioteca. Wieder non compare. Bibiano decide di consultare un impiegato, un vecchietto il cui maggior svago è conoscere vita, morte e miracoli di tutti gli scrittori cileni, editi o inediti. Questi rivela a Bibiano che ad alimentare irregolarmente il fascicolo di Wieder è, presumibilmente, il padre, un pensionato di Viña del Mar cui l'autore fa recapitare per posta tutti i suoi lavori. Illuminato da questa rivelazione Bibiano torna a frugare tra le carte di Wieder e giunge alla conclusione che alcuni autori che all'inizio aveva considerato eteronimi di Wieder non lo sono affatto: si tratta di scrittori reali, o di eteronimi, ma di un altro, non di Wieder, e che o questi ha ingannato il padre con produzioni che non gli appartengono oppure il padre ha ingannato se stesso con l'opera di un estraneo. La conclusione (provvisoria, in qualche modo definitiva, chiarisce Bibiano) gli sembra triste e sinistra e di lì innanzi, a salvaguardia del suo equilibrio emotivo e della sua integrità fisica, cerca di seguire la carriera di Wieder ma tenendosene discosto, senza mai più tentare un avvicinamento personale. 

Non gli mancano occasioni. La leggenda di Wieder cresce come la schiuma di certi circoli letterari. Si dice che sia diventato rosacroce, che un gruppo di seguaci di Joseph Peladan abbiano cercato di mettersi in contatto con lui, che una lettura in chiave di certe pagine dell'Amphitéàtre des sciences mortes preluda o profetizzi la sua irruzione «nell'arte e nella politica di un paese del Lontano Sud». Si dice che viva rifugiato nella tenuta di una donna più vecchia di lui, dedito alla lettura e alla fotografia. Si dice che ogni tanto (e senza avvertire) frequenti il salotto di Rebeca Vivar Vivanco, più conosciuta come Madame VV, pittrice di estrema destra (Pinochet e i militari, per lei, sono degli smollaccioni che finiranno per mettere la repubblica in mano alla Democrazia Cristiana), sostenitrice di comunità di artisti e soldati nella provincia di Aysén, dilapidatrice di uno dei patrimoni familiari più antichi del Cile e infine ricoverata in un manicomio verso la metà degli anni Ottanta (fra le sue opere peregrine si distinguono il disegno delle nuove uniformi delle Forze Armate e la composizione di un poema musicale della durata di venti minuti che gli adolescenti di quindici anni dovrebbero intonare in un rito di iniziazione alla vita adulta che bisognerebbe fare, secondo Madame VV, nei deserti del nord, fra le nevi della cordigliera e negli scuri boschi del sud, in base alla loro data di nascita, posizione dei pianeti ecc.). Verso la fine del 1977 compare un gioco (un wargame strategico) sulla Guerra del Pacifico che malgrado una più che discreta campagna pubblicitaria attraversa senza infamia e senza lode l'incipiente mercato nazionale. Il suo autore, dicono gli intenditori (e Bibiano O'Ryan non li smentisce), è Carlos Wieder. Il wargame, che comprende in fasi quindicennali la totalità della guerra che dal 1879 mise di fronte il Cile e l'Alleanza Peruviano-Boliviana, viene presentato al pubblico come un gioco più divertente del Monopoly, sebbene i giocatori non tardino a capire che si trovano davanti un gioco a duplice o triplice lettura. La prima, ardua, piena di tavole, è quella di un classico wargame. La seconda coinvolge magicamente la personalità e il carattere dei personaggi che combatterono durante la guerra: si domanda, per esempio (e si accludono foto dell'epoca), se Arturo Prat poteva incarnare Gesù Cristo (e la foto di Prat che viene fornita, in effetti, ha una grande somiglianza con certe rappresentazioni di Gesù Cristo) e subito dopo si domanda se Arturo PratGesù Cristo fosse una casualità, un simbolo o una profezia. (E subito dopo si domanda il significato reale dell'arrembaggio del Huàscar, il significato reale del fatto che entrambi gli avversari, il cileno Prat e il peruviano Grau, fossero in realtà catalani). La terza concerne la gente normale che ingrossò le fila del vittorioso esercito del Cile che invitto sarebbe arrivato fino a Lima e avrebbe fondato, durante una riunione segreta svoltasi in una piccola chiesa sotterranea del periodo coloniale, quanto diversi autori hanno convenuto di chiamare, con maggiore o minore fortuna ma con uno stesso senso del ridicolo, la Razza Cilena. Per l'autore del gioco (probabilmente Wieder), la razza cilena si fonda in una notte buia del 1882, quando Patricio Lynch era generale in capo dell'esercito di occupazione. (Ci sono pure foto di Lynch e una serie di domande che vanno dal significato del suo nome fino ai motivi occulti di alcune sue campagne - perché i cinesi adoravano Lynch? - prima e dopo la nomina a generale in capo). Il gioco, che non si sa come passò la censura ed entrò in commercio, non riscosse sicuramente il successo sperato e mandò in rovina i proprietari della casa editrice che dichiararono il fallimento pur avendo annunciato altri due giochi dello stesso autore, uno relativo alla lotta contro gli araucani e un altro, che non era un wargame, ambientato in una città in cui si riconosceva vagamente Santiago ma che poteva pure essere Buenos Aires (comunque, una Mega-Santiago o una Mega-Buenos Aires), dall'impianto poliziesco ma in cui non mancavano gli ingredienti spirituali, una specie di Fuga da Colditz dell'anima e del mistero della condizione umana. 

Questi due giochi che non videro mai la luce ossessionarono per qualche tempo Bibiano O'Ryan. Prima che smettesse di scrivermi mi informò che si era messo in contatto con la maggiore ludoteca privata degli Stati Uniti nel caso che li avessero messi in commercio lì. A giro di posta ricevette un catalogo di trenta pagine con tutti i giochi apparsi negli Stati Uniti durante gli ultimi cinque anni e il cui genere fosse il wargame. Non lo trovò. Quanto al gioco poliziesco a Mega-Santiago, che rientrava in una classificazione più vasta e al contempo più vaga, non gli dissero neppure una parola. 

Le indagini di Bibiano negli Stati Uniti, inoltre, non si limitarono al mondo dei giochi. Seppi da un amico (pur non sapendo se la storia sia vera) che Bibiano contattò un collezionista di stranezze letterarie, per chiamarlo in qualche modo, della Philip K. Dick Society, di Glen Ellen, California. Bibiano, a quanto pare, raccontò a questo collezionista suo corrispondente, un tipo specializzato nei «messaggi segreti della letteratura, della pittura, del teatro e del cinema», la storia di Carlos Wieder e lo statunitense pensò che un esemplare di tale statura doveva approdare prima o poi negli Stati Uniti. Il tipo si chiamava Graham Greenwood e credeva, alla maniera statunitense, decisa e militante, nell'esistenza del male, del male assoluto. Nella sua personalissima teologia l'inferno era un ordito o una catena di casualità. Spiegava gli omicidi in serie come un'«esplosione del caso». Spiegava le morti degli innocenti (proprio quanto la nostra mente si rifiutava di accettare) come il linguaggio di quel caso in libertà. La casa del diavolo, diceva, era la Ventura, la Sorte. Compariva in programmi televisivi locali, in piccole emittenti radiofoniche della West Coast o degli stati del New Mexico, dell'Arizona e del Texas diffondendo la sua visione del crimine. Per lottare contro il male raccomandava l'apprendistato della lettura, una lettura che comprendeva i numeri, i colori, i segnali e la disposizione degli oggetti minuscoli, i programmi televisivi notturni o mattutini, i film dimenticati. Non credeva, tuttavia, nella vendetta: era contro la pena di morte e a favore di una riforma radicale delle carceri. Girava sempre armato e difendeva il diritto dei Cittadini di portare armi, unico mezzo per arginare una fascistizzazione dello Stato. Non circoscriveva la lotta contro il male agli spazi del pianeta Terra, che nella sua cosmologia certe volte assomigliava a una colonia penale: in alcuni luoghi fuori della Terra, diceva, ci sono zone liberate dove il caso non penetra e dove l'unica fonte di dolore è la memoria; i loro abitanti sono chiamati angeli, i loro eserciti legioni. In un modo meno letterario ma più radicale rispetto a Bibiano, passava la vita ficcando il naso in qualsiasi mondo bizzarro di cui gli giungesse notizia. Le sue amicizie erano svariate: investigatori, militanti per i diritti delle minoranze, femministe esiliate in motel del West, produttori e registi che non avrebbero mai fatto un film e che vivevano una vita impetuosa e solitaria come la sua. I membri della Philip K. Dick Society, gente, sebbene entusiasta, in genere discreta, lo guardavano come un pazzo, ma un pazzo inoffensivo e bonario, oltre a essere uno studioso notevole delle opere di Dick. Sicché, per qualche tempo, Graham Greenwood si tenne all'erta, rimanendo in attesa dei segnali che Wieder avrebbe potuto lanciare nel suo passaggio per gli Stati Uniti, ma senza successo. 

I segnali che lascia nell'antologia mobile della poesia cilena, inoltre, sono sempre più tenui. Una poesia firmata con lo pseudonimo Il Pilota, apparsa in una rivista dall'esistenza effimera e che a prima vista sembra un plagio sfacciato di una poesia di Octavio Paz. Un'altra poesia, più lunga, pubblicata in una rivista argentina di un certo prestigio, su una vecchia domestica indigena che fugge terrorizzata da una casa, dallo sguardo di un poeta, da una nuova forma di amare e che secondo Bibiano, indefesso nelle sue interpretazioni, si riferisce ad Amalia Maluenda, la domestica di etnia mapuche delle sorelle Garmendia che scomparve la notte del loro sequestro e che alcuni collaboratori della Chiesa Cattolica, che indaga sulle persone scomparse, giurano di aver visto nelle vicinanze di Mulchén o di Santa Bàrbara, installata in poveri abitati sulle pendici della cordigliera, protetta dai suoi nipoti e risoluta a non parlare mai più con alcun cileno. La poesia (Bibiano me ne inviò una fotocopia) è strana, ma non prova nulla, è addirittura possibile che non l'abbia scritta Wieder. 

Tutto induce a pensare che abbia rinunciato alla letteratura. 

La sua opera, tuttavia, perdura, alla disperata (forse come sarebbe piaciuto a lui), ma perdura. Alcuni giovani lo leggono, lo reinventano, lo seguono, ma come seguire chi non si muove, chi cerca, a quanto pare con successo, di divenire invisibile? 

Infine Wieder abbandona il Cile, abbandona le riviste minoritarie dove sotto le sue iniziali o sotto pseudonimi inverosimili erano uscite le sue ultime creazioni, lavori realizzati svogliatamente, imitazioni il cui senso sfugge al lettore, e scompare, sebbene la sua assenza fisica (di fatto, è sempre stato una figura assente) non mette fine alle supposizioni, alle letture divergenti e appassionate che la sua opera suscita. 

Nel 1986, dalla cerchia che si riuniva intorno alle ceneri del defunto critico Ibacache, trapela la notizia di una lettera (e la notizia non tarda a divenire pubblica) che si vuole sia stata spedita da un amico di Wieder in cui si comunica la morte di quest'ultimo. Nella lettera si parla confusamente di eredi letterari, ma quelli della cerchia di Ibacache, interessati a mantenere limpido il loro nome e il nome del loro maestro, si chiudono in cerchio e preferiscono non rispondere. Secondo Bibiano, la notizia è falsa, probabilmente inventata dagli stessi seguaci del defunto critico che, a somiglianza del loro maestro, sono rimbecilliti. 

Poco tempo dopo, comunque, appare un libro postumo di Ibacache intitolato Le letture delle mie letture in cui si cita Wieder. Il libro, un campionario di aneddoti probabilmente apocrifo e volutamente leggero, garbato, intende a rivelare le letture chiave degli autori che Ibacache ha glossato con fervore o compiacenza durante il suo dilatato periplo di critico. Così, vengono commentate le letture - e la biblioteca - di Huidobro (sorprendenti), di Neruda (prevedibili), di Nicanor Parra (Wittgenstein e la poesia popolare cilena!, probabilmente uno scherzo di Parra al credulo Ibacache o uno scherzo di Ibacache ai suoi lettori futuri), di Rosamel del Valle, di Diaz Casanueva, e altri ancora fra cui spicca l'assenza di Enrique Lihn, nemico giurato dell'antiquario apologista. Fra i giovani il più giovane è Wieder (il che dimostra la fede riposta in lui da Ibacache) ed è a proposito delle sue letture che la prosa di Ibacache, in genere zeppa di fioriture o generalizzazioni, tipiche di quel recensore da giornale un po' affettato che fu sempre, si asciuga, abbandona a poco a poco (ma senza alcuna pausa!) il tono festosofamiliare con cui se la sbriga col resto dei suoi idoli, amici o seguaci. Ibacache, nella solitudine del suo studio, tenta di fissare l'immagine di Wieder. Tenta di capire, in un tour de force della sua memoria, la voce, lo spirito di Wieder, il suo volto intravisto in una lunga notte di chiacchiera telefonica, ma fallisce, e il fallimento è pure strepitoso e si fa notare nelle sue osservazioni, nella sua prosa che da briosa diviene dottorale (cosa comune negli articolisti latinoamericani) e da dottorale malinconica, perplessa. Le letture che Ibacache attribuisce a Wieder sono varie e probabilmente obbediscono più all'arbitrarietà del critico, al suo sfasamento, che alla realtà: Eraclito, Empedocle, Eschilo, Euripide, Simonide, Anacreonte, Callimaco, Onesto da Corinto. Si permette una burla a spese di Wieder annotando che le due antologie più amate da quest'ultimo erano l'Antologia Palatia e l'Antologia della poesia cilena (sebbene forse, a ben guardare, non sia uno scherzo). Sottolinea che Wieder - quel Wieder la cui voce dall'altra parte del filo telefonico risuonava come la pioggia, come l'intemperie, e questo venendo da un antiquario bisogna prenderlo alla lettera - conosce il Dialogo di un disperato con la sua anima e che ha pure letto attentamente Peccato che sia una sgualdrina, di John Ford, le cui opere complete, incluse quelle scritte in collaborazione, ha annotato con minuzia. (Secondo Bibiano, scettico per natura, la cosa più probabile era che Wieder avesse visto solo il film italiano tratto dal testo di Ford, che in America Latina venne presentato nel 1973, e il cui maggiore e forse unico pregio è la presenza di una giovane e conturbante Charlotte Rampling). 

Il frammento in merito alle letture del «promettente poeta Carlos Wieder» si interrompe bruscamente, come se Ibacache si fosse reso conto all'improvviso di camminare nel vuoto. 

Ma c'è di più: in un articolo su cimiteri marini della costa del Pacifico, testo stucchevole e pettegolo recuperato in un volume dal titolo Acquaforti e acquerelli, Ibacache, senza che ci sia un nesso, fra un cimitero nei pressi di Las Ventanas e un altro nelle vicinanze di Valparaíso, descrive un imbrunire in un paesino senza nome, una piazza vuota dove tremano ombre allungate ed esitanti, e una sagoma, quella di un uomo giovane, con un impermeabile scuro e intorno al collo una sciarpa che gli vela parte del viso. Ibacache e lo sconosciuto parlano, ma tra i due si frappone una frangia, un rettangolo di luce proveniente da un lampione, che nessuno dei due si azzarda a varcare. Le loro voci, malgrado la distanza che li separa, sono nitide. Lo sconosciuto, a tratti, utilizza un gergo violento che contrasta con la sua voce bene impostata, ma in genere i due che parlano si esprimono in termini corretti. L'incontro, che ha richiesto un riserbo assoluto, si conclude con la comparsa nella piazza notturna di una coppia di innamorati seguita da un cane. L'interruzione, che dura il tempo di un sospiro o di un batter di ciglia, lascia Ibacache solo, appoggiato al suo bastone, a meditare sull'estraneità e sul destino. L'incontro, praticamente, avrebbe anche potuto concludersi con la comparsa di una coppia di poliziotti. Fra la vegetazione negletta della piazza, fra le sue ombre, lo sconosciuto svanisce. Era Wieder? E stato un trasognare del critico? Chissà. 

Gli anni e le notizie avverse o la mancanza di notizie, contrariamente a quanto accade di solito, confermano la statura mitica di Wieder, rafforzano le sue presunte proposte. Alcuni entusiasti si lanciano nel mondo volendo trovarlo e, se non è possibile ricondurlo in Cile, almeno farsi fotografare con lui. Tutto invano. La pista di Wieder si perde in Sudafrica, in Germania, in Italia. Dopo una lunga peregrinazione, che altri chiamerebbero viaggio turistico di uno, due e tre mesi, i giovani che si sono mossi alla sua ricerca tornano sconfitti e senza fondi. 

Il padre di Carlos Wieder, presumibilmente l'unico a conoscenza del suo recapito, muore nel 1990. Il suo loculo, che nessuno va a visitare, è in uno dei settori più umili del cimitero comunale di Valparaiso. 

A poco a poco si fa strada nei circoli letterari cileni l'idea, in fondo tranquillizzante perché i tempi cominciano a cambiare, che, in effetti, pure Carlos Wieder sia morto. 

Nel 1992 il suo nome torna alla luce nel corso di un'inchiesta giudiziaria in merito a torture e sequestri. E la prima volta che compare pubblicamente vincolato a cose extraletterarie. Nel 1993 viene associato a un gruppo operativo indipendente responsabile della morte di diversi studenti nella zona di Concepción e di Santiago. Nel 1994 compare il libro di un collettivo di giornalisti cileni sui sequestri e di nuovo viene menzionato. Compare anche il libro di Munoz Cano, che ha abbandonato le Forze Aeree, in uno dei cui capitoli si racconta dettagliatamente (sebbene la prosa di Munoz Cano pecchi a tratti di un fervore eccessivo, di nervi a fior di pelle) la serata delle foto nell'appartamento di Providencia. Qualche anno prima Bibiano O'Ryan pubblica Il nuovo ritorno degli stregoni presso una modesta casa editrice specializzata in libri di poesia a formato ridotto. Il libro è un successo e catapulta la casa editrice verso tirature fino ad allora impensate. Il nuovo ritorno degli stregoni è un saggio ameno (e alla sua scrittura non sono estranei i romanzi polizieschi che Bibiano e io divorammo durante i nostri anni a Concepción) sui movimenti letterari fascisti del Cono Sud fra il 1972 e il 1989. Non scarseggiano i personaggi enigmatici o stravaganti, ma la figura principale, quella che si leva unica in mezzo alle vertigini e ai balbettii del decennio maledetto, è sicuramente Carlos Wieder. La sua figura, come si suol dire assai tristemente in America Latina, brilla di luce propria. Il capitolo che Bibiano dedica a Wieder (il più ampio del libro) si intitola «L'esplorazione dei limiti» e, discostandosi da un tono generalmente oggettivo e misurato, Bibiano vi parla per l'appunto di quella luce propria; si direbbe che stia raccontando un film del terrore. A un certo momento, con non troppa fortuna, lo paragona al Vathek di William Beckford. Cita le parole di Borges in merito: «Io affermo che si tratta del primo Inferno davvero atroce della letteratura». La sua descrizione, le riflessioni che la poetica di Wieder suscitano in lui sono esitanti, come se la presenza di costui lo turbasse e gli facesse perdere ogni sicurezza. E in effetti, Bibiano, che se la ride a gola spiegata dei torturatori argentini o brasiliani, quando affronta Wieder si strozza, aggettiva a sproposito, abusa delle coprolalie, tenta di non battere ciglio affinché il suo personaggio (il pilota Carlos Wieder, l'autodidatta Ruiz-Tagle) non gli svanisca sulla linea dell'orizzonte, ma nessuno, e tanto meno in letteratura, è capace di non battere ciglio per un lasso di tempo protratto, e Wieder svanisce sempre. 

In sua difesa si fanno sentire unicamente tre vecchi compagni d'armi. Tutt'e tre si sono ritirati, tutt'e tre sono mossi dall'amore per la verità e da un disinteressato altruismo. Il primo, un maggiore dell'esercito, dice che Wieder era un uomo sensibile e colto, un'ennesima vittima, a suo modo, ovvio, di quegli anni di piombo in cui si era giocato il destino della repubblica. Il secondo, un sergente dei Servizi Segreti, entra di più in apprezzamenti quotidiani; la sua immagine di Wieder è quella di un giovanotto energico, spiritoso, lavoratore, e guardi che c'erano ufficiali che non facevano niente di niente, corretto con i suoi subordinati, che trattava non le dirò come figli perché eravamo quasi tutti più grandi di lui, ma sì come fratelli minori, i miei fratellini, li chiamava Wieder, talvolta anche a sproposito, con un largo sorriso di felicità - ma felice perché? - che gli solcava il volto. Il terzo, un ufficiale che era stato con lui in alcune missioni a Santiago - poche, come badò a mettere in chiaro - afferma che il tenente delle Forze Aeree fece solo quello che tutti i cileni dovettero fare o vollero e non poterono fare. Nelle guerre interne i prigionieri sono un intralcio. Questa era la massima che Wieder e alcuni altri seguirono, e chi, nel terremoto della storia, poteva accusarlo di avere ecceduto nell'adempimento del dovere? A volte, aggiungeva meditabondo, un colpo di grazia è più un conforto che un ultimo castigo: Carlos Wieder guardava il mondo come da un vulcano, caro signore, guardava tutti voi e vedeva se stesso come da molto lontano, e noi tutti, mi scusi la franchezza, gli sembravamo degli animali miserabili; lui era fatto così; nel suo libro di storia la Natura non aveva una posizione passiva, tutto il contrario, si muoveva e ci bastonava, anche se quei colpi noi, poveri ignoranti, siamo abituati a imputarli alla sfortuna o al destino... 

Infine, un giudice pessimista e coraggioso lo inscrive come colpevole in un processo istruttorio che non andrà avanti. Wieder, ovviamente, non si presenta. Un altro giudice, questa volta di Concepción, lo cita come principale sospetto nel processo per l'assassinio di Angelica Garmendia e per la scomparsa della sorella e della zia. Amalia Maluenda, la domestica mapuche delle Garmendia, si presenta come testimone a sorpresa e per una settimana la sua presenza è una bazza per i giornalisti. Gli anni trascorsi sembrano aver fatto svanire lo spagnolo di Amalia. I suoi interventi sono zeppi di perifrasi mapuche, che due giovani sacerdoti cattolici che le fanno da guardaspalle e che non la lasciano sola neppure un momento, si incaricano di tradurre. La notte del delitto, nella sua memoria, si è fusa con una lunga storia di omicidi e di ingiustizie. La sua storia si ordisce sul ritmo di un verso eroico (epos), ciclico, e quanti l'ascoltano esterrefatti capiscono che in parte è la sua storia, la storia della cittadina Amalia Maluenda, antica domestica delle Garmendia, e in parte la storia del Cile. Una storia di terrore. Sicché, quando parla di Wieder, il tenente sembra sia molte persone al contempo: un intruso, un innamorato, un guerriero, un demonio. Quando parla delle sorelle Garmendia le paragona all'aria, alle piante benefiche, a cuccioli di cane. Quando ricorda la notte funesta del delitto dice che sentì una musica di spagnoli. Essendole richiesto di chiarire la frase «musica di spagnoli», risponde: pura rabbia, signore, pura inutilità. 

Nessuno dei processi va avanti. Troppi sono i problemi del paese per interessarsi alla figura sempre più vaga di un assassino multiplo scomparso da molto tempo. 

Il Cile lo dimentica. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È allora che entra in scena Abel Romero e che rientro in scena io. Anche di noi il Cile si è dimenticato. 

Romero era stato uno dei poliziotti più famosi dell'epoca di Allende. Adesso è un uomo di oltre cinquant'anni, basso di statura, bruno, eccessivamente magro e con i capelli neri pettinati con brillantina o gel. La sua fama, la sua piccola leggenda era legata a due crimini che a suo tempo avevano fatto rabbrividire, come si suol dire, i lettori della cronaca nera cilena. Il primo fu un omicidio (un rompicapo, diceva Romero) commesso a Valparaíso, nella camera di una pensione di Calle Ugalde. La vittima venne rinvenuta con una pallottola nella fronte e la porta della camera aveva il chiavistello tirato ed era sbarrata da una sedia. Anche le finestre erano chiuse dall'interno; chiunque fosse uscito di lì, inoltre, sarebbe stato visto dalla strada. L'arma del delitto fu ritrovata accanto al morto sicché all'inizio il verdetto fu inequivocabile: suicidio, Ma dopo le prime indagini la polizia scientifica appurò che la vittima non si era sparata alcuna pallottola. Il morto si chiamava Pizarro e non gli si conoscevano nemici; conduceva una vita ordinata, piuttosto solitaria e non aveva un'occupazione che gli permettesse di guadagnarsi da vivere, anche se in seguito si appurò che i suoi genitori, una famiglia agiata del sud, gli passavano una somma mensile. Il caso risvegliò la curiosità dei giornali: com'era uscito l'assassino dalla camera della vittima? Tirare il chiavistello da fuori, come appurarono con altre camere della pensione, era quasi impossibile. Tirare il chiavistello e addirittura sbarrare la porta sistemando una sedia contro la maniglia della serratura, era impensabile. Esaminarono le finestre: una su ogni dieci volte, se le si chiudeva dal davanzale con un colpo secco e preciso, la chiusura scattava. Ma per fuggire di lì bisognava essere un equilibrista, e che nessuno in strada, e l'omicidio aveva avuto luogo a un'ora in cui questa era di solito molto frequentata, avesse la cattiva idea di alzare lo sguardo e di individuarti. Alla fine, dinanzi all'impossibilità di altre alternative, la polizia giunse alla conclusione che l'assassino era scappato dalla finestra e sulla stampa nazionale venne battezzato l'equilibrista. Allora, da Santiago, mandarono Romero e questi risolse il delitto in ventiquattro ore (altre otto di interrogatorio, cui lui non prese parte, bastarono perché l'assassino firmasse una confessione che non si allontanava troppo dalla linea investigativa seguita). I fatti, come Romero me li raccontò posteriormente, si svolsero così: la vittima, Pizarro, aveva rapporti non ben chiari col figlio della proprietaria della pensione, un certo Enrique Martinez, detto l'Enriquito o l'Henry, appassionato frequentatore dell'ippodromo di Viña del Mar dove finisce sempre per incontrarsi, secondo Romero, la gente di malavita o quelli che hanno la felicità nera, come scrisse Victor Hugo, la cui opera I miserabili è l'unico «gioiello universale della letteratura» che Romero confessa di aver letto nella sua giovinezza, sebbene sfortunatamente col passare del tempo abbia finito per dimenticarsela del tutto tranne il suicidio di Javert (su I miserabili tornerò più innanzi); il nostro Enriquito, a quanto pare, era carico di debiti e in qualche modo aveva coinvolto nei suoi affari Pizarro. Per qualche tempo, corrispondente alla durata della situazione critica di Enriquito, i due amici spartiscono avventure che vengono sostenute a distanza dai genitori della vittima. Ma un bel giorno le cose cominciano ad andare bene al figlio della proprietaria della pensione e combina una bella fregatura a Pizarro. Questi si considera truffato. Bisticciano, si scambiano minacce, un mezzogiorno Enriquito va nella camera di Pizarro armato di pistola. La sua intenzione è di spaventarlo, non di ucciderlo, ma nel bel mezzo della sceneggiata, quando Enriquito punta la canna alla testa di Pizarro, incidentalmente il colpo parte. Cosa fare? E allora che Enriquito, piombato nel suo peggiore incubo, ha l'unica trovata geniale di tutta la sua vita. Sa che se se ne va, senza fare nient'altro, i sospetti non tarderanno a ricadere su di lui. Sa che se l'assassinio di Pizarro viene presentato privo di fioriture i sospetti non tarderanno a ricadere su di lui. Ha bisogno, quindi, di rivestire il delitto con i panni della meraviglia e dell'inverosimile. Chiude la porta dall'interno, sistema la sedia in modo da rinsaldare la chiusura, mette la pistola in mano al defunto, assicura le finestre e quando crede di aver preparato la scena di un suicidio si infila nell'armadio e aspetta. Conosce sua madre e conosce gli altri pensionanti, che in quel momento mangiano o guardano la tele nel soggiorno, sa, confida che abbatteranno la porta senza aspettare la polizia. In effetti, la porta viene forzata e Enriquito, che non ha neppure chiuso l'armadio, si unisce tranquillamente al resto dei pensionanti che stanno contemplando inorriditi il corpo di Pizarro. Il caso era molto semplice, disse Romero, ma mi dispensò una fama immeritata che in seguito pagai a caro prezzo. 

Maggiore notorietà gli valse la risoluzione del sequestro di Las Carmenes, una tenuta vicino a Rancagua, pochi mesi prima della fine della democrazia. Protagonista del caso fu Cristóbal Sanchez Grande, uno degli impresari più ricchi del paese, che si presumeva fosse scomparso per opera di un'organizzazione sinistroide, la quale per rimetterlo in libertà chiedeva un'enorme somma di denaro che doveva essere pagata dal governo. Per settimane la polizia non seppe cosa fare. Romero, al comando di uno dei tre gruppi operativi che cercavano Sanchez Grande, considerò la possibilità che questi si fosse autosequestrato. Per diversi giorni pedinarono un ragazzo di Patria e Libertà finché questi, incautamente, non li portò alla tenuta Las Carmenes. Lì, mentre la metà dei suoi uomini circondava l'edificio principale, Romero fece appostare i tre che gli rimanevano come tiratori e con una pistola in ogni mano e accompagnato da un giovane detective di nome 

Contreras, che era il più coraggioso di tutti, entrò nella casa e arrestò Sanchez Grande. Per questa azione ricevette la Medaglia al Coraggio dalle mani di Allende, la maggior soddisfazione professionale della sua vita, una vita piena più di amarezze che di gioie, secondo le sue stesse parole. 

Ricordavo il suo nome, certo. Era stato una celebrità. In genere compariva nella cronaca nera — prima o dopo le pagine sportive? — insieme ai nomi che allora ritenevamo ignominiosi (non sapevamo cosa fosse l'ignominia), una scenografia del delitto nel Terzo Mondo, negli anni Sessanta e Settanta: case povere, terreni abbandonati, ville di svago male illuminate. E aveva ricevuto la Medaglia al Coraggio dalle mani di Allende. La medaglia l'ho persa, disse con tristezza, e non ho più alcuna fotografia che lo provi, ma ricordo come se fosse ieri che me l'hanno data. Sembrava ancora un poliziotto. 

Dopo il golpe fu incarcerato per tre anni e poi se ne andò a Parigi, dove visse facendo lavori occasionali. Sulla natura di tali lavori non mi raccontò mai nulla, ma nei suoi primi anni a Parigi aveva fatto di tutto, dall'attaccare manifesti fino all'incerare pavimenti di uffici, un lavoro che si fa di notte, quando i palazzi sono chiusi, e che permette di pensare molto. Il mistero dei palazzi di Parigi. Così chiamava i palazzi di uffici, quando è notte e tutti i piani sono bui, meno uno, e poi pure questo si spegne e se ne accende un altro, e poi ancora questo si spegne e così via. Di tanto in tanto, se il passante notturno o l'uomo che lavorava attaccando manifesti si fermava per un po' poteva vedere qualcuno che si affacciava alla finestra di uno di quei palazzi vuoti e se ne rimaneva lì per qualche tempo, fumando o contemplando la città con le mani sui fianchi. Era un uomo o una donna del servizio notturno di pulizia. 

Romero era sposato e aveva un figlio e nutriva il progetto di tornare in Cile e iniziare una nuova vita. 

Quando gli domandai cosa voleva (ma l'avevo già lasciato entrare in casa e avevo messo a bollire l'acqua per prepararci un tè) disse che stava seguendo le tracce di Carlos Wieder. Bibiano O'Ryan gli aveva fornito il mio indirizzo a Barcellona. Lei conosce Bibiano? Disse che non lo conosceva. Non personalmente. Gli ho scritto una lettera, lui mi ha risposto, poi abbiamo parlato per telefono. Tipico di Bibiano, dissi io e cercai di pensare da quanto tempo non lo vedevo: quasi vent'anni. Il suo amico è una brava persona, disse Romero, e sembra conoscere benissimo il signor Wieder, ma crede che lei lo conosca meglio. Non è vero, dissi. Ci sono di mezzo dei soldi, disse Romero, se mi aiuta a trovarlo. Quando disse così guardava la mia casa come se stesse calibrando la somma esatta con cui poteva comprarmi. Pensai che non avrebbe osato proseguire lungo quella china, sicché decisi di rimanere zitto e aspettare. Gli servii il tè. Lo prendeva col latte e sembrò gradirlo. Seduto al mio tavolo sembrava molto più piccolo e magro di quanto fosse davvero. Posso offrirle duecentomila pesetas, disse. Accetto, ma in cosa posso esserle utile? 

In cose di poesia, disse. Wieder era un poeta, io ero un poeta, ergo per trovare un poeta aveva bisogno dell'aiuto di un altro poeta. 

Gli dissi che per me Carlos Wieder era un criminale, non un poeta. Su, su, disse Romero, non facciamo gli intolleranti, forse per Wieder o per chiunque altro lei non è un poeta oppure è un pessimo poeta mentre lui o loro si sentono tali, tutto dipende dalla lente con cui si guarda, come diceva Lope de Vega, non crede? Duecentomila in contanti, subito?, dissi io. 

Duecentomila pesetas sull'unghia, disse con energia, ma si ricordi che a partire da adesso lavora per me e che voglio dei risultati. Quanto pagano lei? Abbastanza, disse, la persona che mi ha contattato ha molti soldi. 

Il giorno dopo arrivò a casa mia con una busta contenente cinquantamila pesetas e una valigia piena di riviste letterarie. Il resto glielo darò quando mi avranno versato il denaro, disse. Gli domandai perché credeva che Carlos Wieder fosse vivo. Romero sorrise (aveva un sorriso da furetto, da topo di campagna) e disse che era il suo cliente a credere che fosse vivo. E cosa le fa pensare che si trovi in Europa e non in America o in Australia? Mi sono fatto un'idea del nostro uomo, disse. Poi mi invitò a pranzo in un ristorante di Calle Tallers, dove io abitavo (lui aveva preso alloggio in una pensione discreta e ammodo di Calle Hospital, a pochi passi da casa mia) e la conversazione ebbe per oggetto i suoi anni in Cile, il paese che entrambi ricordavamo, la polizia cilena che Romero (con mio grande stupore) collocava fra le migliori del mondo. Lei è un fanatico e un patriottardo, gli dissi mentre mangiavamo il dolce. Le assicuro di no, mi disse, ai miei tempi quand'ero nella Brigata non ci fu un solo omicidio rimasto senza soluzione. E i ragazzi che entravano nell'Investigativa erano gente preparatissima, con una bella laurea a pieni voti e poi tre anni di accademia con eccellenti professori. Ricordo che il criminologo Gonzàlez Zavala, il dottor Gonzalez Zavala che Dio l'abbia in gloria, diceva che le due migliori polizie del mondo, almeno per quanto concerne la Squadra Omicidi, erano quella inglese e quella cilena. Gli dissi di non farmi ridere. 

Uscimmo dal ristorante alle quattro del pomeriggio, dopo aver mangiato e dopo aver bevuto due bottiglie di vino. Vino spagnolo e accompagnato da una bella chiacchierata, disse Romero, meglio di quello francese. Gli domandai se avesse qualcosa contro i francesi. La sua faccia sembrò rabbuiarsi e disse che voleva andarsene, solo questo, ormai sono troppi anni. 

Prendemmo un caffè al Bar Céntrico parlando de I miserabili. Romero considerava Jean Valjean che poi si sarebbe trasformato in Madeleine e poi ancora in Fauchelevent come un personaggio ordinario, incontrabile nelle variegate città latinoamericane. Javert, invece, gli sembrava eccezionale. Quell'uomo, mi disse, è come una seduta psicanalitica. Non faticai a capire che Romero non aveva mai fatto un'analisi, sebbene per lui tale attività fosse adorna di tutto il prestigio del mondo. Javert, il poliziotto di Victor Hugo, che compativa e ammirava, era per lui in un certo senso come un lusso, una «comodità che solo ogni tanto possiamo goderci». Gli domandai se avesse visto il film, francese, molto vecchio. No, disse; so che c'è un musical che danno a Londra, ma non ho visto neppure quello, dev'essere come La pergola dei fiori. Non ricordava, come ho già detto, nulla del romanzo, ma sì che Javert si suicida. Io avevo i miei dubbi. Forse nel film non l'aveva fatto. (Se lo evoco mi tornano in mente solo due immagini: le barricate del 1832 col loro andirivieni di studenti rivoluzionari e di monelli, e la figura di Javert dopo che è stato salvato da Valjean, in piedi accanto allo sbocco di una fogna, con lo sguardo smarrito sull'orizzonte e il rumore come di cataratte, davvero maestoso, delle acque fecali che sprofondano nella Senna. Anche se è assai probabile che confonda o mescoli film diversi). Al giorno d'oggi, disse Romero assaporando le ultime gocce di un caffè corretto, almeno nei film statunitensi, i poliziotti si limitano a divorziare. Javert, invece, si suicida. Nota la differenza? 

Poi salì con me i cinque piani fino a casa mia, aprì la valigia e posò le riviste sul tavolo. Legga con calma, disse, nel frattempo io farò un po' di turismo. Che musei mi consiglia? Ricordo che gli indicai vagamente come arrivare al Museo Picasso e di lì alla Sagrada Familia e poi Romero se ne andò. 

Passarono tre giorni prima che lo rivedessi. 

Le riviste che mi aveva lasciato erano tutte europee. Della Spagna, della Francia, del Portogallo, dell'Italia, dell'Inghilterra, della Svizzera, della Germania. Ce n'erano persino una della Polonia, due della Romania e una della Russia. Perlopiù erano fanzines a bassa tiratura. Quanto ai metodi di stampa, tranne alcune francesi, tedesche e italiane che sembravano professionali e con un solido supporto finanziario, andavano da quelle fotocopiate sino a quelle ciclostilate (una delle rumene) e il risultato balzava agli occhi: la qualità scadente, la carta brutta, il disegno manchevole parlavano di una letteratura da chiavica. Le sfogliai tutte. Secondo Romero, in qualcuna doveva esserci una collaborazione di Wieder, sotto un altro nome, naturalmente. Non erano le consuete riviste letterarie di destra: quattro venivano pubblicate da gruppi di skinheads, due erano organi irregolari di ultrà del calcio, almeno sette dedicavano oltre metà delle loro pagine alla fantascienza, tre erano di club di wargames, quattro si dedicavano all'occultismo (due italiane e due francesi) e fra queste, una (italiana), apertamente all'adorazione del diavolo, almeno quindici erano palesemente naziste, circa sei potevano essere ascritte alla corrente pseudo-storica del «revisionismo» (tre francesi, due italiane e una svizzera in lingua francese), una, quella russa, era una mescolanza caotica di tutte le precedenti, o almeno giunsi a tale conclusione per via delle caricature (numerosissime, come se d'improvviso i suoi potenziali lettori russi fossero diventati analfabeti, ma provvidenzialmente per me che non so il russo), quasi tutte erano razziste e antisemite. 

Il secondo giorno di lettura cominciai a interessarmi davvero. Vivevo da solo, non avevo denaro, la mia salute lasciava piuttosto a desiderare, da parecchio non pubblicavo in alcun posto, ultimamente neppure scrivevo più. Credo avessi cominciato ad abituarmi all'autocompassione. Le riviste di Romero, tutte insieme sul mio tavolo (decisi di mangiare in piedi in cucina per non doverle spostare), a mucchietti secondo la nazionalità, le date di pubblicazione, la tendenza politica o il genere letterario in cui si muovevano, agirono su di me con l'effetto di un antidoto. Il secondo giorno di lettura mi sentii male fisicamente, ma non tardai a scoprire che il malessere dipendeva dalla mancanza di sonno e dalla cattiva alimentazione, sicché decisi di scendere in strada, comprare un panino al formaggio e poi dormire. Quando mi svegliai, sei ore dopo, ero fresco e riposato e pronto a continuare a leggere o a rileggere (o a indovinare, secondo quale fosse la lingua della rivista), ogni volta più invischiato nella storia di Wieder, che era la storia di qualcosa di più, anche se allora non sapevo di cosa. Una notte feci addirittura un sogno a tale proposito. Sognai che ero su una grande nave di legno, un galeone forse, e che attraversavamo il Grande Oceano. Io partecipavo a una festa sulla coperta di poppa e scrivevo una poesia o forse la pagina di un diario mentre guardavo il mare. Allora qualcuno, un vecchio, si metteva a gridare tornado!, tornado!, ma non a bordo del galeone bensì a bordo di uno yacht o in piedi su una scogliera. Proprio come in una scena di Rosemary's Baby, di Polanski. In quell'istante il galeone cominciava ad affondare e tutti i sopravvissuti divenivano dei naufraghi. In mare, aggrappato a un barile di acquavite, vedevo Carlos Wieder. Io mi tenevo aggrappato a un pezzo di legno marcio. Capivo in quel momento, mentre le onde ci allontanavano, che Wieder e io avevamo viaggiato sulla stessa nave, solo che lui aveva contribuito a farla affondare mentre io avevo fatto poco o nulla per evitarlo. Sicché quando tornò Romero, di lì a tre giorni, lo accolsi quasi come un amico. 

Non era andato al Museo Picasso né alla Sagrada Familia, ma aveva visitato il museo del Camp Nou e il nuovo Zoo Acquatico. Nella mia vita, mi disse, non avevo mai visto uno squalo così da vicino, una cosa impressionante, gliel'assicuro. Quando gli chiesi il suo parere sul Camp Nou rispose che lui era sempre stato dell'idea che quello stadio fosse il migliore d'Europa. Peccato che il Barcellona avesse perso l'anno prima col Parigi Saint-Germain. Non mi dirà, Romero, che lei è culé, un tifoso. Non conosceva quella parola. Gliela spiegai e gli sembrò divertente. Per un po' fu come assente. Sono culé provvisorio, disse. In Europa mi piace il Barcellona, ma in fondo al mio cuore sono del Colo-Colo. Cosa possiamo farci?, aggiunse con tristezza e orgoglio. 

Quella sera, dopo aver mangiato insieme in una bettola di Barceloneta, mi domandò se avevo letto le riviste. Ci sto sopra, gli dissi. Il giorno dopo comparve con un televisore e un videoregistratore. Sono per lei, faccia conto che siano un regalo del mio cliente. Non guardo la tele, dissi. Fa male, non sa quante cose interessanti si sta perdendo. Odio i quiz, dissi. Alcuni sono molto interessanti. Sono persone semplici, autodidatte che si battono contro il mondo intero. Ricordai che Wieder era o pretendeva di essere, nei suoi lontani tempi di Concepción, un autodidatta. Io leggo libri, Romero, dissi, e adesso riviste, e a volte scrivo. Si vede, disse Romero. E aggiunse immediatamente: non se la prenda, ho sempre rispettato i preti e gli scrittori che non possiedono niente. Mi ricordo un film di Paul Newman, disse, era uno scrittore e gli davano il Premio Nobel e lui confessava che in tutti quegli anni si era guadagnato la vita scrivendo sotto pseudonimo romanzi polizieschi. Rispetto questo genere di scrittori, disse. Ne avrà conosciuti pochi, dissi con tono beffardo. Romero non se ne accorse. Lei è il primo, disse. Poi mi spiegò che non era conveniente installare il televisore nella pensione dove alloggiava e che io dovevo vedere tre video che aveva portato. Credo di avere riso di pura paura. Dissi: non mi dica che c'è Wieder lì dentro. In tutt'e tre i film, sissignore, disse Romero. 

Installammo la tele, e prima di collegare il videoregistratore Romero cercò di vedere se riusciva a captare qualche canale, ma fu impossibile. Dovrà comprarsi un'antenna, disse. Poi inserì il primo video. Non mi alzai dal mio posto al tavolo, vicino alle riviste. Romero si sedette sull'unica poltrona che c'era nella stanza. 

Erano film pornografici di poche pretese. A metà del primo (Romero aveva portato su una bottiglia di whisky e guardava il film bevendo piccoli sorsi) gli confessai che ero incapace di vedere tre film porno di seguito. Romero aspettò sino alla fine, e poi spense il videoregistratore. Se li guardi stanotte, da solo, senza fretta, disse mentre riponeva la bottiglia di whisky in un angolo della cucina. Devo riconoscere Wieder fra gli attori?, domandai prima che se ne andasse. Romero sorrise enigmaticamente. L'importante sono le riviste, i film sono un'idea mia, lavoro di routine. 

Quella notte guardai i due film che mi mancavano e poi rividi il primo e poi ancora rividi gli altri due. Wieder non compariva in nessuno. Neppure Romero ricomparve il giorno dopo. Pensai che la faccenda dei film fosse uno scherzo di Romero. La presenza di Wieder fra le pareti di casa mia, tuttavia, diveniva sempre più forte, come se in qualche modo i film lo stessero richiamando. Non è il caso di fare tanto teatro, mi aveva detto Romero una volta. Ma io sentivo che la mia vita intera stava andando in vacca. 

Quando Romero tornò sfoggiava un vestito nuovo, appena comprato, e a me aveva portato un regalo. Mi augurai intensamente che non fosse un capo di abbigliamento. Aprii il pacco: erano un romanzo di Garcia Marquez — che avevo già letto, ma non glielo dissi — e un paio di scarpe. Se le provi, disse, spero che il numero sia il suo, le scarpe spagnole sono molto apprezzate in Francia. Con sorpresa mi accorsi che le scarpe mi andavano a puntino. 

Mi spieghi l'enigma dei film pornografici, dissi. Non ha notato niente di strano, di fuori dal normale, qualcosa che abbia attirato la sua attenzione?, domandò Romero. Dalla sua espressione mi resi conto che dei film, delle riviste, di tutto, tranne forse che del suo progettato ritorno familiare in Cile, non gliene importava un cazzo. L'unica cosa indubbia è che sono sempre più ossessionato da quel cornuto di Wieder, dissi. Ed è un bene o un male? Non scherzi, Romero, dissi. Be', le racconterò una storia, disse Romero, il tenente è in tutti quei film, ma dietro la camera da presa. Wieder è il regista di quei film? No, disse Romero, è il direttore della fotografia. 

Poi mi raccontò la storia di un gruppo che girava film porno in una villa sul golfo di Taranto. Una mattina, sarà stato un paio di anni prima, li avevano trovati tutti morti. In totale, sei persone, tre attrici, due attori e l'operatore. Si era sospettato del regista e produttore ed era stato arrestato. Avevano pure arrestato il proprietario della villa, un avvocato di Corigliano legato all'hard-core criminale, ossia ai film porno con delitti non simulati. Tutti avevano un alibi ed erano stati rimessi in libertà. Dopo qualche tempo il caso venne archiviato. Cosa c'entrava Carlos Wieder? C'era un altro operatore. Un certo R. P. English. E questo tipo la polizia italiana non era mai riuscita a localizzarlo. 

English era Wieder? Quando Romero aveva iniziato le sue indagini ne era convinto e per un po' di tempo aveva percorso l'Italia cercando persone che avessero conosciuto English e a cui mostrava una vecchia foto di Wieder (quella in cui Wieder posa accanto al suo aereo), ma non aveva trovato nessuno che ricordasse l'operatore, come se questi non fosse esistito o non avesse avuto un viso da ricordare. Infine, in una clinica di Nimes trovò un'attrice che aveva lavorato con English e che si ricordava del suo aspetto. L'attrice si chiamava Joanna Silvestri ed era un'autentica bellezza, disse Romero, la donna più attraente, glielo giuro, che io abbia mai visto in vita mia. Più attraente di sua moglie?, gli domandai per punzecchiarlo un po'. Cavolo, mia moglie è un po' avanti negli anni e non conta, disse Romero. Anch'io, aggiunse quasi subito. Il fatto è che questa era la donna più attraente che avessi visto. Per dirla giusta: un bel pezzo di femmina. Una donna davanti alla quale bisognava togliersi il cappello, mi creda. Gli domandai com'era. Bionda, alta, con uno sguardo che ti riportava all'infanzia. Sguardo di velluto, con scintille di tristezza e di decisione. Inoltre aveva un'ossatura magnifica e una pelle bianchissima, con quella sfumatura olivastra che si trova soprattutto nel Mediterraneo. Una donna da sognare a occhi aperti, ma anche per viverci insieme e per spartire guai e brutti momenti. Lo assicuravano, disse Romero, la sua ossatura, la sua pelle, il suo sguardo saggio. Non l'ho mai vista in piedi, ma immagino che fosse come una regina. La clinica non era di lusso, comunque aveva un piccolo giardino che di pomeriggio si riempiva di pazienti, in genere francesi e italiani. L'ultima volta, quando più a lungo siamo rimasti insieme, l'ho invitata a scendere (forse per paura che si annoiasse con me, da soli nella stanza). Mi disse che non poteva. Parlavamo in francese ma ogni tanto intercalava espressioni in italiano. Questo lo disse in italiano, caro mio, guardandomi in faccia e io mi sono sentito l'uomo più impotente o disgraziato del mondo. Non so spiegarlo: mi sarei messo subito a piangere. Ma mi sono controllato e ho cercato di continuare a parlare di cose legate alla faccenda che avevo tra le mani. Lei trovava divertente che io fossi cileno e che stessi cercando quel certo English. Il detective cileno, mi diceva con un sorriso. Sembrava una gatta, nel letto, con le braccia conserte e diversi guanciali dietro la schiena. La sagoma delle sue gambe sotto le coperte era di per sé come un miracolo: ma non uno di quei miracoli che ti lasciano confuso, bensì uno di quelli che passano come l'aria e ti lasciano tranquillo, più tranquillo di prima, voglio dire. Accidenti, com'era bella!, disse Romero all'improvviso. Era malata? Stava morendo, disse Romero, ed era più sola di un cane, almeno a quella terribile conclusione sono arrivato io nei due pomeriggi che ho passato nella clinica, e malgrado tutto rimaneva serena e lucida. Le piaceva parlare, si notava che le visite la rincuoravano (non doveva riceverne molte, anche se io cosa vuole che ne sappia?), stava sempre leggendo o scrivendo lettere o guardando la televisione con gli auricolari. Leggeva rotocalchi, riviste femminili. La sua stanza era molto ordinata e aveva un buon odore. Lei e la stanza. 

Presumo che si spazzolasse i capelli e che si mettesse colonia o profumo sul collo e sulle mani prima di ricevere le visite. Questo io posso solo immaginarlo. L'ultima volta che l'ho vista, prima di salutarci, ha acceso il televisore e ha cercato un canale italiano su cui trasmettevano non so cosa. Ho avuto paura che fosse un suo film. Le giuro che allora sì che non avrei saputo cosa fare e la mia vita intera sarebbe finita a pezzi. Ma si trattava di un programma di interviste in cui appariva un suo vecchio amico. Le ho stretto la mano e me ne sono andato. Arrivato alla porta non sono riuscito a evitarlo e mi sono girato a guardarla. Si era già infilata gli auricolari e aveva, pensi che strano!, un'aria marziale, non so come definirla altrimenti, quasi che la stanza della clinica fosse la sala di comando di un'astronave e lei la capitanasse con mano sicura. In sintesi cos'è accaduto?, domandai senza più voglia di prendere in giro Romero. Non è accaduto niente, ricordava English e me l'ha descritto piuttosto bene, ma che assomiglino a quella descrizione devono esserci migliaia di persone in Europa, e non è riuscita a riconoscerlo dalla vecchia foto da aviatore, ovvio, sono ormai passati più di vent'anni, caro mio. No, dissi, cos'è accaduto a Joanna Silvestri. È morta, disse Romero. Quando? Qualche mese dopo che io l'ho conosciuta, ho letto la notizia mentre ero a Parigi, fra i necrologi di «Libération». E non ha mai visto un film di lei?, domandai. Di Joanna Silvestri?, no, caspita, mai, cosa va a pensare? Neppure per curiosità? Neppure, sono un uomo sposato e ormai anzianotto, disse Romero. 

 

Quella sera fui io a invitarlo a cena. Mangiammo in Calle Riera, in un ristorante economico e familiare e poi ci mettemmo a camminare a caso per il quartiere. Passando davanti a una videoteca aperta dissi a Romero di seguirmi. Non vorrà noleggiare un video di lei?, sentii la sua voce dietro di me. Non mi fido delle sue descrizioni, gli dissi, voglio vedere che faccia aveva. I film porno occupavano tre scaffali in fondo al locale. Credo che prima fossi entrato solo una volta in una videoteca. Da tempo non mi sentivo così bene, anche se dentro stavo ardendo. Romero cercò per un po'. Lo vedevo passare le mani, certe mani scure e nodose, sui contenitori e bastava questo a farmi sentire bene. È questa, disse. Aveva ragione, era una donna molto bella. Quando uscimmo mi resi conto che la videoteca era l'unico negozio del quartiere che rimaneva aperto. 

Il giorno dopo, quando Romero passò da casa mia, gli dissi che credevo di avere identificato Carlos Wieder. Se lo rivedesse, saprebbe riconoscerlo? Non lo so, risposi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa è la mia ultima trasmissione dal pianeta dei mostri. Non mi immergerò mai più nel mare di merda della letteratura. D'ora innanzi scriverò le mie poesie con umiltà e lavorerò per non morire di fame e non cercherò di pubblicare. 

Nella serie di riviste che avevo ammucchiato sul tavolo ce n'erano due che attirarono la mia attenzione. Con le altre era possibile comporre un campionario variopinto di psicopatici e di schizofrenici, ma solo quelle due avevano Vélan, la singolarità di impresa che attraeva Carlos Wieder. Entrambe erano francesi: il numero 1 de «La Gazzetta Letteraria di Evreaux» e il numero 3 della «Rivista dei Guardiani Notturni di Arras». In ognuna trovai un lavoro critico di un certo Jules Defoe, sebbene ne «La Gazzetta» assumesse la forma, puramente circostanziale, del verso. Ma prima devo parlare di Raoul Delorme e della setta degli Scrittori Barbari. 

Nato nel 1935, Raoul Delorme fu soldato e venditore ai mercati generali prima di trovare un lavoro fisso (e più conforme a una lieve infermità alle vertebre contratta nella Legione) come portinaio di un palazzo nel centro di Parigi. Nel 1968, mentre gli studenti alzavano barricate e i futuri romanzieri francesi spaccavano a colpi di mattone le finestre dei loro licei o facevano l'amore per la prima volta, decise di fondare la setta o il movimento degli Scrittori Barbari. Sicché, mentre alcuni intellettuali andavano a occupare le strade, l'antico legionario si rinchiuse nel pertugio della sua portineria di Rue Des Eaux e cominciò a dare forma alla sua nuova letteratura. L'apprendistato consisteva in due passi apparentemente semplici. La reclusione e la lettura. Per il primo passo occorreva comprare viveri sufficienti per una settimana oppure digiunare. Occorreva pure, al fine di evitare le visite inopportune, avvertire che non si era disponibili per nessuno o che si era partiti per una settimana o che si era contratta una malattia contagiosa. Il secondo passo era più complicato. Secondo Delorme, bisognava fondersi con i capolavori della letteratura. Questo lo si otteneva in un modo quanto mai curioso: defecando sopra le pagine di Stendhal, soffiandosi il naso con le pagine di Victor Hugo, masturbandosi o spargendo il seme sulle pagine di Gautier o Banville, vomitando sulle pagine di Daudet, orinando sulle pagine di 

Lamartine, tagliuzzandosi con lamette da barba e spruzzando sangue sulle pagine di Balzac o di Maupassant, sottoponendo, insomma, i libri a un processo di degradazione che Delorme chiama umanizzazione. Il risultato, dopo una settimana di rituale barbaro, era un appartamento o una stanza piena di libri rovinati, sporcizia e lezzo fra cui l'apprendista letterato boccheggiava disperatamente, nudo o in mutande, sporco e convulso come un neonato o più esattamente come il primo pesce che abbia deciso di fare il salto e di vivere fuori dall'acqua. 

Secondo Delorme, lo scrittore barbaro usciva rinvigorito dall'esperienza e, quel che era davvero importante, ne usciva con una certa istruzione nell'arte della scrittura, una sapienza acquisita, mediante la «vicinanza reale», l'«assimilazione reale» (come la chiamava Delorme) dei classici, una vicinanza corporale che infrangeva tutte le barriere imposte dalla cultura, dall'accademia e dalla tecnica. 

Non si sa come ma non tardò ad avere alcuni seguaci. Era gente come lui, senza studi e di bassa estrazione sociale e a partire dal maggio '68 due volte all'anno si rinchiudevano, soli o a gruppi di due, tre e persino quattro persone, in soffitte minuscole, portinerie, camere di albergo, casupole di periferia e retrobotteghe e preparavano l'avvento della nuova letteratura, una letteratura che poteva essere di tutti, secondo Delorme, ma che in pratica sarebbe stata solo di quanti si dimostrassero capaci di superare la prova del fuoco. Nel frattempo, si accontentavano di pubblicare fanzines che vendevano loro stessi in precari chioschetti installati in qualsiasi spazio degli innumerevoli mercatini di libri usati e riviste che pullulavano per le vie e le piazze della Francia. Perlopiù i barbari, naturalmente, erano poeti sebbene alcuni scrivessero racconti e altri si lanciassero con piccole opere teatrali. Le loro riviste avevano nomi anodini o fantastici (su «La Gazzetta Letteraria di Evreaux» c'era una lista di pubblicazioni del movimento): «I Mari Interni», «Il Bollettino Letterario Provenzale», «La Rivista delle Arti e delle Lettere di Tolone», «La Nuova Scuola Letteraria» ecc. Sulla «Rivista dei Guardiani Notturni di Arras» (pubblicata, in effetti, da un gruppo di guardiani notturni di Arras) c'era un'antologia barbara piuttosto esemplare e meticolosa; col sottotitolo «Quando la passione diventa professione» erano pubblicate poesie di Delorme, Sabrina Martin, Ilse Kraunitz, M. Poul, Antoine Dubacq e Antoine Madrid: ognuno era rappresentato da una sola poesia tranne Delorme e Dubacq, rispettivamente con tre e due. Come per sottolineare il grado di passione dei poeti, sotto i loro nomi e accanto a curiose foto formato tessera, fra parentesi, si informava il lettore del loro mestiere quotidiano, sicché si poteva sapere che la Kraunitz era infermiera ausiliaria in un geriatrico di Strasburgo, che Sabrina Martin faceva servizi domestici in varie case di Parigi, che M. Poul faceva il macellaio e che Antoine Madrid e Antoine Dubacq si guadagnavano i loro franchi come edicolanti ognuno nel suo chiosco di giornali in un boulevard nel centro di Parigi. Le foto di Delorme e della sua combriccola avevano qualcosa che attirava impercettibilmente l'attenzione: primo, tutti guardavano fissamente l'obiettivo e quindi gli occhi del lettore come se fossero impegnati in un infantile (o perlomeno vano) tentativo di ipnosi; secondo, tutti, senza eccezione, sembravano fiduciosi e sicuri, soprattutto sicuri, agli antipodi del ridicolo e del dubbio, la qual cosa, a ben pensarci, forse non era poco normale trattandosi di letterati francesi. La differenza di età era palese, il che eliminava un'affinità generazionale fra gli Scrittori Barbari. Fra Delorme, che aveva compiuto (sebbene non li dimostrasse) sessant'anni e Antoine Madrid, che sicuramente non ne aveva ventidue, c'erano di mezzo almeno due generazioni. I testi, nell'una come nell'altra rivista, erano preceduti da una «Storia della Scrittura Barbara», di un certo Xavier Rouberg e da una sorta di manifesto dello stesso Delorme intitolato «La passione dello scrivere». In entrambi si informava, con pedanteria e goffaggine nel testo di Delorme ma, a sorpresa, con agilità ed eleganza in quello di Rouberg (che una piccola nota bibliografica, probabilmente redatta da lui stesso, presentava come ex surrealista, ex comunista, ex fascista, autore di un libro sul «suo amico» Salvador Dalí intitolato Dalí contro e pro l'Opera del Mondo, e attualmente ritirato nel Poitou), sulla genesi della scrittura barbara e di alcune pietre miliari che segnavano il suo sotterraneo e non sempre tranquillo percorso. Senza le note di Rouberg e di Delorme sarebbe stato facile prenderli per membri attivi (o forse più volenterosi che attivi) di un gruppo poetico di qualche quartiere operaio della periferia. I loro volti erano ordinari: Sabrina Martin si aggirava su una triste trentina, Antoine Madrid aveva un'arietta da bullo riservato e discreto, di quelli che vogliono mantenere le distanze, Antoine Dubacq era calvo, miope e sulla quarantina, la Kraunitz, dietro un aspetto da impiegata di età indefinibile, sembrava nascondere un'enorme fonte di energia instabile, M. Poul era un teschio, col viso fusiforme, i capelli tagliati a spazzola, il naso lungo e ossuto, le orecchie appiccicate al cranio, il pomo d'Adamo sporgente, sui cinquant'anni, e Delorme, il capo, sembrava esattamente quello che era, un ex legionario e un tipo con una grande forza di volontà. (Ma come aveva potuto passare per la testa a un uomo così che profanando libri si poteva migliorare il francese parlato e scritto? In quale momento della sua vita aveva definito le linee portanti del suo rituale?). Accanto ai testi di Rouberg (che l'editore della «Rivista dei Guardiani Notturni di Arras» chiamava il Giovanni Battista del nuovo movimento letterario) comparivano i testi di Jules Defoe. Sulla «Rivista» c'era un saggio e su «La Gazzetta» c'era una poesia. Nel primo si propugnava, in uno stile tagliente e feroce, una letteratura scritta da gente estranea alla letteratura (alla stessa stregua della politica che, come l'autore si compiaceva che stesse accadendo, doveva farla gente estranea alla politica). La rivoluzione relativa alla letteratura, finiva per dire Defoe, segnerà in qualche modo la sua scomparsa. Allorché la Poesia la faranno i non-poeti e la leggeranno i non-lettori. Poteva averlo scritto chiunque, pensai, anche lo stesso Rouberg (ma il suo stile era agli antipodi, Rouberg, lo si notava, era vecchio, era ironico, era velenoso, era stato elegante, era europeo, la letteratura, per lui, aveva la forma di un fiume navigabile, dal letto accidentato, senza dubbio, ma un fiume e non un uragano contemplato nella lontananza immensa della Terra) o lo stesso Delorme (supponendo che questi dopo aver sbudellato centinaia di libri di letteratura francese del XIX secolo avesse infine imparato a scrivere in prosa, il che era una supposizione azzardata), chiunque avesse avuto voglia di bruciare il mondo, ma ebbi l'impressione che quel duce dell'ex portiere parigino fosse Carlos Wieder. 

Sulla poesia (una poesia narrativa che mi ricordò, Dio voglia perdonarmi, pezzi del diario poetico di John Cage mescolato a versi che riecheggiavano Julian del Casal o Magallanes Moure tradotti in francese da un giapponese rabbioso) c'è poco da dire. Era l'umorismo terminale di Carlos Wieder. Era la serietà di Carlos Wieder. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10 

 

 

 

 

 

Non rividi Romero fino a due mesi dopo. 

Quando tornò a Barcellona era più magro. Ho localizzato Jules Defoe, disse. E sempre stato qui vicino, accanto a noi, disse. Sembra impossibile, vero? Il sorriso di Romero mi spaventò. 

Era più magro e sembrava un cane. Andiamo, ordinò in quello stesso pomeriggio del suo ritorno. Lasciò la valigia a casa mia e prima di uscire si assicurò che chiudessi la porta a chiave. Non mi aspettavo che tutto fosse così rapido, riuscii a dire. Romero mi guardò dal corridoio e disse si prepari, dobbiamo fare un viaggetto, le racconterò tutto per strada. L'abbiamo trovato davvero?, dissi. Non so perché usai il plurale. Abbiamo trovato Jules Defoe, disse e scosse il capo con un gesto ambiguo che poteva significare molte cose. Lo seguii come un sonnambulo. 

Credo fossero mesi, forse anni, che non uscivo da Barcellona e la stazione di Plaza Cataluna (a pochi metri da casa mia) mi sembrò completamente sconosciuta, luminosa, piena di nuovi marchingegni la cui utilità mi sfuggiva. Sarei stato incapace di cavarmela da solo con la prestanza e la rapidità con cui lo faceva Romero e questi se n'era accorto o aveva previamente calcolato la mia prevedibile goffaggine di viaggiatore e si occupò di farmi strada attraverso i macchinari che sbarravano l'accesso ai binari. Poi, dopo avere atteso per qualche minuto in silenzio, prendemmo un treno locale e costeggiammo il Maresme fino all'inizio della Costa Brava, Blanes, passato il fiume Tordera. Mentre uscivamo da Barcellona gli domandai chi era che pagava. Un compatriota, disse Romero. Passammo oltre due stazioni della metropolitana e poi uscimmo nella periferia. D'improvviso apparve il mare. Un sole fioco illuminava le spiagge che si susseguivano come conterie di una collana senza collo, sospesa nel vuoto. Un compatriota? E qual è il suo interesse in tutto questo? Meglio che lei non lo sappia, disse Romero, ma se lo immagini. Paga molto? (Se paga molto, pensai, è che il risultato finale di questa indagine può essere solo uno). Abbastanza, è un compatriota che è diventato ricco negli ultimi anni, sospirò, ma non all'estero, proprio in Cile, si figuri com'è la vita, sembra che in Cile ci sia parecchia gente che sta arricchendosi. Questo l'ho sentito, dissi con un tono che voleva essere sarcastico ma che fu solo triste. E lei cosa farà con i soldi, pensa sempre di tornare? Sì, tornerò, disse Romero. Di lì a poco aggiunse: ho un progetto, un affare che non può fallire, l'ho studiato a Parigi e non può fallire. E che progetto sarebbe?, domandai. Un affare, disse. Questa volta mi metterò in proprio. Dal finestrino del treno vidi una casa di una grande bellezza, di architettura modernista, con un'alta palma nel giardino. Farò l'impresario di pompe funebri, disse Romero, comincerò con qualcosa di piccolo ma ho speranza di progredire. Credetti che scherzasse. Non mi prenda per il culo, dissi. Parlo sul serio: il segreto consiste nel fornire alla gente con pochi mezzi un funerale dignitoso, direi addirittura con una certa eleganza (in questo i francesi, mi creda, sono il numero uno), una sepoltura da borghesi per la piccola borghesia e una sepoltura da piccoli borghesi per il proletariato, è lì il segreto di tutto, non solo delle imprese di pompe funebri: della vita in generale! Trattare bene i clienti, disse poi, mostrar loro la cordialità, la classe, la superiorità morale di qualsiasi salma. All'inizio, disse mentre il treno si lasciava dietro di sé Barcellona e io cominciavo a pensare che quanto avremmo fatto era una cosa seria, inesorabile, mi basteranno tre vani ben sistemati, uno per l'ufficio e anche per ritoccare il defunto, un altro come camera ardente e l'ultimo come sala d'attesa, con sedie e portacenere. L'ideale sarebbe affittare una casetta a due piani vicino al centro, la parte superiore per abitarci e quella inferiore per l'impresa di pompe funebri. La conduzione sarebbe familiare, la mia signora e mio figlio possono dare una mano (sebbene quanto a mio figlio non ne sia così sicuro), ma sarebbe pure opportuno assumere una segretaria, giovane e discreta, oltre che lavoratrice, lei sa quant'è rincuorante durante una veglia o lo stesso funerale la vicinanza fisica della gioventù. Naturalmente, l'impresario (o in sua assenza qualsiasi aiutante) deve di continuo andare a offrire qualcosa da bere ai familiari e agli amici del defunto. Bisogna farlo con simpatia e con finezza. Senza fingere che il morto sia un tuo parente, ma mettendo in chiaro che il mediatore non è estraneo a quell'esperienza. Bisogna parlare a mezza voce, bisogna evitare gli eccessi, bisogna dare la mano e con la sinistra stringere all'altezza del gomito, bisogna sapere chi abbracciare e in quale momento, bisogna intervenire nelle discussioni, che siano sulla politica, sul calcio, sulla vita in generale o sui sette peccati capitali, ma senza prendere partito, come un bravo giudice in pensione. Nelle bare il guadagno può anche essere del trecento per cento. A Santiago ho un compare dei tempi della Brigata che si dedica a fare sedie. L'altro giorno gli ho parlato per telefono della faccenda e ha detto che dalle sedie alle bare c'è solo un passo. Per il primo anno posso arrangiarmi con un furgoncino nero. Il lavoro, gliel'assicuro, più che sudore esige capacità di parlare con la gente. E se uno ha vissuto per tanti anni all'estero e ha cose da raccontare... In Cile vanno matti per storie del genere. 

Ma io non ascoltavo più Romero. Pensavo a Bibiano O'Ryan, alla Grassa Posadas, al mare che avevo davanti al naso. Per un istante mi immaginai la Grassa che lavorava in un ospedale di Concepción, sposata, ragionevolmente felice. Era stata, contro la sua volontà, la confidente del diavolo, ma era viva. La immaginai persino con figli e divenuta una lettrice prudente ed equilibrata. Poi vidi Bibiano O'Ryan, che era rimasto in Cile e che aveva seguito i passi di Wieder, lo vidi che lavorava nel negozio di scarpe, che faceva provare calzature col tacco a dubitose donne di mezza età o a bambini inermi, col calzante in una mano e una scatola di povere scarpe Bata nell'altra, che sorrideva ma con la mente altrove, fino a trentatré anni, come Gesù Cristo, né più né meno, e poi lo vidi che pubblicava libri di successo e ne firmava esemplari alla Fiera del Libro di Santiago (che non so se esiste) e che veniva invitato a tenere lezioni in università statunitensi, che dissertava in uno slancio di frivolezza sulla nuova poesia cilena o sulla poesia cilena attuale (frivolezza in quanto serio sarebbe stato parlare di romanzo) e che mi citava, sia pure fra gli ultimi della lista, per pura lealtà o per pura pietà: un poeta strano, smarrito nelle fabbriche dell'Europa...; lo vidi, insomma, che avanzava come uno sherpa verso la vetta della sua carriera, sempre più rispettato, sempre più conosciuto e con sempre più soldi, nella disposizione ideale per sistemare definitivamente i conti col passato. Non so se fu una crisi di malinconia, di nostalgia o di sana invidia (che in Cile, del resto, è sinonimo dell'invidia più crudele), ma per un momento pensai che dietro Romero poteva esserci Bibiano. Glielo dissi. Il suo amico non mi ha ingaggiato, disse Romero, non avrebbe neppure i soldi sufficienti perché cominciassi. Il mio cliente, abbassò la voce sino a conferirle un tono confidenziale che tuttavia risuonava falso, ha davvero soldi, capisce? Sì, dissi, che tristezza la letteratura! Romero sorrise. Guardi il mare, disse, guardi la campagna, che belli! Guardai dal finestrino, da una parte il mare sembrava una distesa di olio, dall'altra, nei giardini del Maresme, c'erano negri che si arrabattavano. 

Il treno si fermò a Blanes. Romero disse qualcosa che non capii e scendemmo. Mi sentivo dei crampi alle gambe. Fuori della stazione, in una piazzetta quadrata ma che sembrava rotonda, erano parcheggiati un autobus rosso e un autobus giallo. Romero comprò gomma da masticare e notando la mia faccia tirata, presumo per rianimarmi, mi domandò su quale dei due autobus credevo che saremmo saliti. Su quello rosso, dissi. Esatto, disse Romero. 

L'autobus ci lasciò a Lloret. Eravamo a metà di una primavera asciutta e non si vedevano molti turisti. Prendemmo una strada in discesa e poi salimmo per due strade che si inerpicavano fino a un quartiere di appartamenti per i turisti estivi, in genere vuoti. Il silenzio era strano: si sentivano, distanti, rumori di animali, come se ci fossimo trovati nei pressi di un'aia o di una masseria. In uno di quegli edifici derelitti c'era Wieder. 

Com'è arrivato fin qui?, pensai. Quante strade ha dovuto seguire per arrivare fino a questa strada? 

Sul treno avevo domandato a Romero se gli fosse costato molto trovare Delorme. Aveva detto che no, che era stato semplice. Lavorava ancora a Parigi, come portiere, e per lui ogni visita era una fonte di pubblicità. Mi sono fatto passare per un giornalista, disse Romero. E le ha creduto? Certo che mi ha creduto. Gli ho detto che avrei pubblicato su un giornale colombiano tutta la storia degli Scrittori Barbari. Delorme era qui a Lloret l'estate scorsa, disse. Di fatto l'appartamento che occupa Defoe appartiene a uno degli scrittori del suo movimento. Povero Defoe, dissi. Romero mi guardò come se avessi appena detto una stupidaggine. A me quella gente non fa pena, disse. Adesso l'edificio era lì: alto, largo, ordinario, la classica costruzione degli anni del boom turistico, con balconi vuoti e una facciata anonima e trascurata. Lì sicuramente non viveva nessuno, conclusi, naufraghi dell'estate precedente e poco più. Insistetti per sapere quale sarebbe stata la sorte di Wieder. Romero non mi rispose. Non voglio che ci sia sangue, mormorai, come se qualcuno avesse potuto sentirmi anche se eravamo le due uniche persone che passavano per la strada. In quel momento evitavo di guardare Romero e l'edificio di Wieder e mi sentivo come dentro un incubo ricorrente. Quando mi sarò svegliato, pensai, mia madre mi preparerà un panino alla mortadella e andrò al liceo. Ma non mi sarei svegliato. Abita qui, disse Romero. L'edificio, il quartiere intero era vuoto, in attesa dell'inizio della successiva stagione turistica. Per un istante credetti che saremmo entrati e feci come per fermarmi, come per entrare nell'atrio della casa di Wieder. 

Continui a camminare, disse Romero. La sua voce risuonò tranquilla, come quella di un uomo che sa che la vita finisce sempre male e che non vale la pena di esaltarsi. Sentii che la sua mano mi sfiorava il gomito. Vada avanti dritto, disse, senza guardarsi indietro. Presumo che formassimo una strana coppia. 

L'edificio sembrava un uccello fossilizzato. Per un momento ebbi la sensazione che da tutte le finestre mi guardassero gli occhi di Wieder. Sono sempre più nervoso, dissi a Romero, si nota molto? No, amico mio, disse Romero, lei si sta comportando benissimo. Romero era tranquillo e questo contribuì a rasserenarmi. Ci fermammo, qualche isolato oltre, all'entrata di un bar. Sembrava l'unico locale aperto del quartiere. Il bar aveva un nome andaluso e dentro si tentava di riprodurre più con malinconia che con efficacia l'ambiente tipico di una taverna sivigliana. Romero mi accompagnò fino alla porta. Guardò il suo orologio. Fra un po', non so fra quanto, lui verrà a prendere un caffè. E se non si fa vivo? Viene qui tutti i giorni, disse Romero, questo è sicuro e anche oggi verrà. Ma se oggi non viene? Be', allora, dovremo tornare domani, disse Romero, ma verrà, non ne dubiti. Annuii col capo. Lo guardi con attenzione e poi mi dirà. Si sieda e non si muova. Sarà difficile non muovermi, dissi. Ci provi. Gli sorrisi: scherzavo solo, dissi. Devono essere i nervi, disse Romero. Verrò a cercarla quando farà buio. Un po' stupidamente ci stringemmo forte la mano. Si è portato un libro da leggere? Sì, dissi. Che libro? Glielo mostrai. Non so se è una buona idea, disse Romero, d'improvviso dubbioso. La cosa migliore sarebbe una rivista o il giornale. Non si preoccupi, dissi, è uno scrittore che mi piace molto. Romero mi guardò per l'ultima volta e disse: a più tardi, allora, e non dimentichi che sono passati più di vent'anni. 

Dai finestroni del bar si vedevano il mare e il cielo azzurrissimo e qualche barca di pescatori affaccendati lungo la costa. Ordinai un caffelatte e cercai di calmarmi: sembrava che il cuore stesse per balzarmi fuori dal petto. Il bar era semivuoto. Una donna leggeva una rivista seduta a un tavolino e due uomini parlavano o discutevano con quello che serviva al banco. Aprii il libro, lOpera completa di Bruno Schultz tradotta da Juan Carlos Vidal, e cercai di leggere. Dopo qualche pagina mi resi conto che non ci capivo nulla. Leggevo ma le parole passavano come scarafaggi incomprensibili, indaffarati in un mondo enigmatico. Ripensai a Bibiano, alla Grassa. Non volevo pensare alle sorelle Garmendia, ormai così lontane, né alle altre donne, ma pensai pure a loro. 

Nessuno entrava nel bar, nessuno si muoveva, il tempo sembrava essersi fermato. Cominciai a sentirmi male: sul mare i pescherecci si trasfigurarono in velieri (quindi, pensai, dev'esserci vento), la linea della spiaggia era grigia e uniforme e di tanto in tanto vedevo gente che passeggiava o ciclisti che preferivano pedalare sul grande marciapiede vuoto. Calcolai che camminando ci avrei messo circa cinque minuti per raggiungere la spiaggia. Tutto il percorso era in discesa. 

Nel cielo si vedeva solo qualche nuvola. Un cielo ideale, pensai. 

Allora arrivò Carlos Wieder e si sedette vicino a un finestrone, a tre tavolini di distanza. Per un istante (durante il quale mi sentii mancare) vidi me stesso vicinissimo a lui, che guardavo da sopra la sua spalla, orrendo fratello siamese, il libro che aveva appena aperto (un libro a carattere scientifico, un libro sulla temperatura della Terra, un libro sull'origine dell'universo), così vicino a lui che era impossibile che non se ne accorgesse, ma, proprio come aveva predetto Romero, Wieder non mi riconobbe. 

Lo trovai invecchiato. Sicuramente quanto lo ero io. Lui era invecchiato molto di più. Era più grasso, più rugoso, dimostrava almeno dieci anni più di me quando in realtà era più vecchio solo di due o tre. Guardava il mare e fumava e a tratti posava lo sguardo sul suo libro. Proprio come me, scoprii allarmato e spensi la sigaretta e cercai di fondermi tra le pagine del mio libro. Le parole di Bruno Schultz acquistarono per un momento una dimensione mostruosa, quasi insopportabile. Sentii che gli spenti occhi di Wieder mi stavano scrutando e al contempo, sulle pagine che voltavo (forse troppo in fretta), gli scarafaggi che prima erano le lettere si trasformavano in occhi, negli occhi di Bruno Schultz, e si aprivano e si chiudevano di continuo, certi occhi chiari come il cielo, scintillanti come il dorso del mare, che si aprivano e si socchiudevano, di continuo, in mezzo al buio totale. No, totale no, in mezzo a un buio lattiginoso, come dentro una nuvola nera. 

Quando guardai di nuovo Carlos Wieder questi si era girato di profilo. Pensai che sembrava un duro, come possono esserlo solo - e solo dopo i quaranta - certi latinoamericani. Una durezza così diversa da quella degli europei e dei nordamericani. Una durezza triste e irrimediabile. Ma Wieder (il Wieder che almeno una delle sorelle Garmendia aveva amato) non sembrava triste e proprio da questo dipendeva la tristezza infinita. Sembrava adulto. Ma non era adulto, lo capii immediatamente. Sembrava padrone di se stesso. E a modo suo e all'interno della sua legge, qualunque fosse, era più padrone di se stesso di tutti noi che eravamo seduti in quel bar silenzioso. Era più padrone di se stesso di molti fra quanti camminavano in quel momento accanto alla spiaggia o lavoravano, invisibili, per organizzare l'incipiente stagione turistica. Era duro e non possedeva nulla oppure possedeva pochissimo e non sembrava importargliene molto. Sembrava che stesse passando un brutto momento. Aveva la faccia di quei tipi che sanno aspettare senza perdere il controllo dei nervi e senza mettersi a sognare, involgariti. Non sembrava un poeta. Non sembrava un ex ufficiale delle Forze Aeree Cilene. Non sembrava un assassino leggendario. Non sembrava lo stesso che era volato fino in Antartide solo per scrivere poesie nell'aria. Neanche lontanamente. 

Se ne andò mentre cominciava a far buio. Cercò in una tasca dei pantaloni una moneta e la lasciò sul tavolino come esigua mancia. Quando sentii che, dietro di me, la porta si chiudeva, non seppi se mettermi a ridere o a piangere. Respirai con sollievo. Era così intensa la sensazione di libertà, di problema risolto, che temetti di suscitare la curiosità di quanti si trovavano nel bar. I due uomini erano sempre al banco che parlavano a mezza voce (in qualche modo discutendo), con tutto il tempo del mondo a loro disposizione. Il cameriere aveva una sigaretta fra le labbra e osservava la donna che a tratti alzava lo sguardo dalla sua rivista e gli sorrideva. La donna doveva essere sulla trentina e il suo profilo era molto bello. Sembrava una greca pensierosa. O una greca scontrosa. Mi sentii, d'improvviso, affamato e felice. Feci un cenno al cameriere. Ordinai un panino al prosciutto crudo e una birra. Quando me li servì scambiammo qualche parola. Poi cercai di continuare a leggere ma ne ero incapace, sicché decisi di aspettare Romero mangiando e bevendo e guardando il mare da uno dei finestroni. 

Di lì a pochi minuti arrivò Romero e ce ne andammo. All'inizio sembrava che ci stessimo allontanando dal palazzo di Wieder ma in realtàfacemmo solo un giro. E lui?, domandò Romero. Sì, gli dissi. Senza alcun dubbio? Senza alcun dubbio. Stavo per aggiungere qualcos'altro, considerazioni etiche ed estetiche sul trascorrere del tempo (una scemenza, perché il tempo, nel caso di Wieder, era come una roccia), ma Romero allungò il passo. Sta lavorando, pensai. Stiamo lavorando, pensai con orrore. Percorremmo vie e viuzze, sempre in silenzio, finché il palazzo di Wieder si stagliò contro il cielo illuminato dalla luna. Singolare, diverso dagli altri palazzi che dinanzi a questo sembravano scontornarsi, svanire, toccato da una bacchetta magica o da una solitudine più potente di quella del resto. 

D'improvviso entrammo in un parco, piccolo e frondoso come un giardino botanico. Romero mi indicò una panchina quasi nascosta fra i rami. Mi aspetti qui, disse. All'inizio mi sedetti con docilità. Poi cercai il suo viso nel buio. Va ad ammazzarlo?, mormorai. Romero fece un gesto che non riuscii a vedere. Mi aspetti qui o se ne vada alla stazione di Blanes e prenda il primo treno. Ci vedremo più tardi a Barcellona. È meglio che non lo ammazzi, dissi. Una faccenda così ci può rovinare, lei e me, e inoltre non è necessario, quel tipo non farà più male a nessuno. Me non mi rovinerà, disse Romero, al contrario, mi frutterà un bel capitale. Quanto al fatto che non può far male a nessuno, cosa vuole che le dica?, non lo sappiamo, non lo possiamo sapere, né lei né io siamo Dio, facciamo solo quello che possiamo. Nient'altro. Non potevo vedergli il viso ma dalla voce (una voce che usciva da un corpo completamente immobile) seppi che stava sforzandosi per essere convincente. Non ne vale la pena, insistetti, è tutto finito. Più nessuno farà male a nessuno. Romero mi diede qualche pacca sulla schiena. È meglio che lei non si immischi, disse. Torno subito. Rimasi seduto a guardare i cespugli scuri, i rami che si allacciavano e si intersecavano formando un disegno secondo il vento mentre sentivo i passi di Romero che si allontanava. Accesi una sigaretta e mi misi a pensare a cose senza importanza. Il tempo, per esempio. La temperatura della Terra. Le stelle sempre più distanti. Cercai di pensare a Wieder, cercai di immaginarlo solo nel suo appartamento, che volli impersonale, al quarto piano di un edificio di otto piani vuoto, intento a guardare la televisione o seduto su una poltrona, a bere, mentre l'ombra di Romero scivolava senza esitare verso di lui. Cercai di immaginarmi Wieder, ripeto, ma non ci riuscii. O non volli. Mezz'ora dopo Romero tornò. Sotto il braccio aveva una cartellina piena di carte, di quelle che usano gli studenti e che si chiudono con gli elastici. Le carte facevano volume, ma non troppo. La cartellina era verde, come i cespugli del parco, ed era sciupata. Questo era tutto. Romero non sembrava diverso. Non sembrava né migliore né peggiore di prima. Respirava senza difficoltà. Guardandolo mi sembrò identico a Edward G. Robinson. Come se Edward G. Robinson fosse entrato in un tritacarne e ne fosse uscito trasformato: più magro, la pelle più scura, più capelli, ma con le stesse labbra, lo stesso naso e soprattutto gli stessi occhi. Occhi che sanno. Occhi che credono a tutte le possibilità ma che al contempo sanno che nulla ha rimedio. Andiamocene, disse. Prendemmo l'autobus che collega Lloret alla stazione di Blanes e poi il treno per Barcellona. Durante il viaggio Romero tentò di parlare un paio di volte. La prima, lodò l'estetica «francamente moderna» dei treni spagnoli. La seconda, disse che era un peccato, ma che non avrebbe potuto vedere una partita al Camp Nou. Io non dissi nulla o risposi a monosillabi. Non ero in vena di conversare. Ricordo che la notte, dal finestrino del treno, era bella e serena. In alcune stazioni salivano ragazzi e ragazze che scendevano alla fermata successiva, come se stessero giocando. Probabilmente si dirigevano in discoteche vicine, attratti dal prezzo e dalla prossimità. Tutti erano molto giovani e alcuni avevano una faccia da eroi. Sembravano felici. Poi ci fermammo in una stazione più grande e salì un gruppo di operai che avrebbero potuto essere i loro padri. E poi, ma non so in quale momento, attraversammo diversi tunnel e qualcuno gridò, un'adolescente, quando le luci del vagone si spensero. Guardai allora la faccia di Romero, aveva la solita espressione. Infine, una volta giunti alla stazione di Plaza Cataluna, ci fu possibile parlare. Gli domandai com'era andata. Be', così come vanno queste cose, disse Romero, sono difficili. Camminammo fino a casa mia. Lì aprì la sua valigia, ne prese una busta e me la porse. Nella busta c'erano trecentomila pesetas. Non ho bisogno di tutti questi soldi, dissi dopo averli contati. Sono suoi, disse Romero mentre riponeva la cartellina fra la sua roba e poi richiudeva la valigia. Se li è guadagnati. Io non mi sono guadagnato niente, dissi. Romero non rispose, entrò in cucina e mise dell'acqua a bollire. Dove va?, gli domandai. A Parigi, disse, ho un volo a mezzanotte; così dormirò nel mio letto. Bevemmo un ultimo tè e poi lo accompagnai in strada. Per un po' aspettammo che passasse un taxi, in piedi sul bordo del marciapiede, senza sapere cosa dirci. Non mi era mai successa qualcosa di simile, gli confessai. Non è vero, disse Romero molto dolcemente, ci sono successe cose peggiori, ci pensi un po'. Può darsi, ammisi, ma questa faccenda è stata particolarmente spaventosa. Spaventosa, ripeté Romero come se assaporasse la parola. Poi si mise a ridere piano, con una risata da coniglio, e disse certo, come avrebbe potuto non essere spaventosa? Io non avevo voglia di ridere, ma mi misi a ridere anch'io. Romero guardava il cielo, le luci degli edifici, le luci delle automobili, le pubblicità luminose e sembrava piccolo e stanco. Mancava pochissimo, pensai, perché compisse sessant'anni. Io avevo passato i quaranta. Un taxi si fermò accanto a noi. Abbia cura di sé, mio caro, disse infine e se ne andò.