domenica 28 marzo 2021

IL VALZER DELLA PAURA Milan Kundera



 IL VALZER DEGLI ADDII 

Milan Kundera

In una cittadina termale dal fascino démodé, otto personaggi si stringono sull’onda di un valzer sempre più vorticoso: una graziosa infermiera; un ginecologo dai molti talenti; un ricco americano (insieme santo e dongiovanni); un trombettista famoso; un ex prigioniero politico, vittima delle purghe, e prossimo a lasciare il suo paese... Un «sogno di una notte di mezza estate». Un «vaudeville nero». Le domande più serie vengono poste con una leggerezza blasfema che ci fa capire come il mondo moderno ci abbia sottratto anche il diritto alla tragedia.
«C.S.: Lei non ha parlato quasi per nulla del Valzer degli addii.
M.K.: Eppure è il romanzo che in un certo senso mi è più caro. Come Amori ridicoli, l’ho scritto con più divertimento, con più piacere degli altri. In un altro stato d’animo. Anche molto più in fretta.
C.S.: Ha solo cinque parti.
M.K.: Si fonda su un archetipo formale del tutto diverso da quello degli altri miei romanzi. È assolutamente omogeneo, senza digressioni, composto di una sola materia, raccontato con lo stesso tempo, è molto teatrale, stilizzato, basato sulla forma del vaudeville. In Amori ridicoli, si può leggere il racconto Il simposio, il cui titolo è un’allusione parodistica al Simposio di Platone. Lunghe discussioni sull’amore. Ebbene, questo Simposio è composto in tutto e per tutto come Il valzer degli addii: vaudeville in cinque atti» (Milan Kundera, L’arte del romanzo).

Prima giornata

1

É l'inizio dell'autunno e gli alberi si colorano di giallo, di rosso, di marrone; la piccola stazione termale al centro dell'amena vallata sembra stretta da un incendio. Sotto i portici ci sono donne che vanno e vengono e si chinano verso le sorgenti. Sono donne che non possono avere figli e sperano di trovare in queste terme la fecondità.

Qui tra i pazienti gli uomini sono molto meno numerosi, ma comunque ce ne sono, perché pare che le terme, miracoli ginecologici a parte, facciano bene anche al cuore. Ad ogni modo, la percentuale è di nove donne per ogni maschio, cosa che fa molta rabbia alla giovane infermiera nubile che si occupa, nella piscina, delle signore sterili!

Ruzena è nata qui, è qui che ha i genitori, riuscirà mai ad andarsene da questo luogo così orrendamente pullulante di donne?

É lunedì e l'orario di lavoro sta per finire. Resta da avvolgere nei lenzuoli le ultime grassone, farle sdraiare sul lettino, asciugare loro la faccia, sorridere.

«Allora, telefoni?» chiedono le colleghe a Ruzena; una è formosa, sui trentacinque anni, l'altra è più giovane e magra.

«Perché no?» dice Ruzena.

«Forza, non avere paura» la incoraggia la trentacinquenne conducendola dietro le cabine dello spogliatoio, dove le infermiere hanno il loro armadietto, il tavolo e il telefono.

«Dovresti chiamarlo a casa» dice maligna la magra, e tutte e tre scoppiarono a ridere.

Appena le risa si furono spente, Ruzena disse: «So il numero di quel teatrino».

2

Fu una conversazione tremenda. Lui si spaventò al solo sentire la voce di Ruzena.

Aveva sempre paura delle donne, anche se nessuna gli credeva e questa affermazione veniva presa per una battuta un po' civettuola.

«Come stai?» le chiese.

«Non molto bene» rispose Ruzena.

«Come sarebbe?».

«Avrei bisogno di parlarti» disse lei, patetica.

Era esattamente il tono patetico che già da qualche anno lui si aspettava con terrore.

«Sì» fece con voce angosciata.

Lei ripeté: «Avrei davvero bisogno di parlarti».

«Che cosa è successo?».

«Qualcosa che ci riguarda tutti e due».

Lui non riusciva a spiccicare una parola. Solo dopo un po' disse di nuovo: «Come sarebbe?».

«Ho un ritardo di sei settimane».

Lui, facendo un grosso sforzo per controllarsi, disse: «Magari non è nulla. Succede, a volte, e non vuol dire niente».

«No, questa volta è proprio vero».

«Non è possibile. É semplicemente impossibile. Comunque, non può essere colpa mia».

Lei si offese: «Ma per chi mi prendi, dico!».

Lui aveva paura di offenderla perché aveva paura di lei in generale: «No, non ti voglio offendere, è assurdo, perché dovrei offenderti, dico soltanto che con me non poteva succedere, non devi temere nulla, è semplicemente impossibile, fisiologicamente impossibile».

«E allora non ti arrabbiare» disse lei con tono offesissimo. «Scusa se ti ho disturbato».

«No, no, no». Aveva paura che appendesse. «Hai fatto bene a telefonarmi. Certo sarò felice di aiutarti. Si può sistemare tutto, certamente».

«In che senso sistemare?».

Fu preso dall'imbarazzo. Non osava chiamare la cosa con il suo nome: «Ma sì''' sistemare».

«Ho capito che cosa intendi, ma non ci contare. Toglitelo dalla testa. Anche a costo di rovinarmi la vita, non lo farò».

Fu di nuovo assalito dal terrore, ma questa volta passò timidamente all'offensiva: «Allora perché mi telefoni, se non ne vuoi parlare con me? Vuoi che ne discutiamo o hai già deciso tutto?».

«Voglio discuterne con te».

«Ti vengo a trovare».

«Quando?».

«Te lo faccio sapere».

«Va bene».

«Arrivederci, allora».

«Arrivederci».

Lui attaccò il ricevitore e tornò nella saletta dove c'erano i ragazzi del suo complesso.

«Signori, la prova è finita» disse. «Per oggi, non posso continuare».

3

Quando riappese il ricevitore, Ruzena era rossa per l'agitazione. L'aveva offesa il modo in cui Klìma aveva reagito alla sua notizia. Del resto, era offesa già da un bel po' di tempo.

Si erano conosciuti due mesi prima, quando il famoso trombettista aveva dato nella cittadina termale un concerto con il suo complesso. Dopo il concerto avevano fatto un po' di baldoria, e lei era stata invitata. Il trombettista aveva preferito Ruzena a tutte le altre e aveva passato la notte con lei.

Da allora non si era più fatto vivo. Lei gli aveva mandato due cartoline con i saluti e lui non aveva mai risposto. Un giorno, di passaggio nella capitale, Ruzena aveva telefonato nel teatrino dove lui, come era riuscita a sapere, stava provando con il suo complesso. L'uomo che aveva risposto al telefono le aveva chiesto chi era, poi aveva detto che andava a cercare Klìma. Dopo qualche istante era tornato e le aveva comunicato che le prove erano finite e il trombettista se n'era già andato. Ruzena aveva pensato che lui si fosse fatto negare e tanto più si era indispettita, in quanto cominciava già a temere di essere incinta.

«Dice che è fisiologicamente impossibile! É fantastico, fisiologicamente impossibile! Voglio proprio vedere cosa dirà quando nasce!».

Le due colleghe la approvavano con calore. Dal giorno in cui, nella sala piena di vapori, Ruzena le aveva informate di aver passato una notte indescrivibile con quell'uomo famoso, il trombettista era diventato patrimonio comune di tutte le sue colleghe. Il suo fantasma era sempre presente nella sala dove le infermiere si davano il turno, e, ogni volta che da qualche parte veniva pronunciato il suo nome, ridevano in cuor loro, come se si trattasse di una persona che conoscevano intimamente. E quando avevano saputo che lei era incinta erano state prese da una strana gioia, perché da quel momento lui era fisicamente presente con loro, era presente nelle profondità del corpo di Ruzena.

«Su, su, piccola, calmati» le diceva la trentacinquenne dandole pacche sulle spalle. «Ho trovato qualcosa per te». E le aprì davanti una rivista piuttosto unta e spiegazzata: «Guarda!».

Tutte e tre si misero a guardare la fotografia di una graziosa brunetta che se ne stava su un palcoscenico con un microfono in mano.

Ruzena cercava di decifrare il proprio destino in quei pochi centimetri quadrati. «Non sapevo che fosse così giovane» disse piena di apprensione.

«Ma va'!» rise la trentacinquenne. «É una foto di dieci anni fa. Hanno la stessa età. Quella lì, tu, non la vedi neanche!».


4

Durante la conversazione telefonica Klìma si era reso conto che quell'orribile notizia lui se l'aspettava già da un pezzo. Non che avesse ragionevoli motivi per ritenere di aver fecondato Ruzena in quella fatale serata (al contrario, era certo di essere accusato ingiustamente), ma si attendeva una notizia del genere già da molti anni, da ben prima di aver conosciuto Ruzena.

Aveva ventun anni quando una bionda innamorata di lui aveva pensato di simulare una gravidanza per costringerlo al matrimonio. Erano state settimane atroci che alla fine gli erano costate una colite spastica e un esaurimento nervoso. Da allora, Klìma sa che la gravidanza è un colpo che può arrivare in qualsiasi momento e da qualsiasi parte, un colpo contro il quale non c'è parafulmine che tenga e che si annuncia con una voce patetica per telefono (sì, anche quella volta la bionda gli aveva comunicato l'infausta notizia prima per telefono). Quell'incidente dei suoi ventun anni aveva fatto sì che, in seguito, egli si accostasse sempre alle donne con un senso di angoscia (anche se con molto zelo) e temesse, dopo ogni incontro amoroso, funeste conseguenze. Si diceva, è vero, per confortarsi, che le probabilità di una simile sventura, data la sua morbosa prudenza, erano di un millesimo per cento, ma anche quel millesimo riusciva a spaventarlo.

Una volta, tentato da una serata libera, aveva telefonato a una ragazza che non vedeva da due mesi. Quando lei riconobbe la sua voce, gridò: «Dio mio, sei tu! Non vedevo l'ora che mi telefonassi! Ne avevo tanto bisogno!» e lo disse con tanta insistenza e in modo così patetico che il cuore di Klìma fu stretto dalla familiare sensazione di angoscia ed egli sentì con tutto il suo essere che era giunto il momento temuto. E poiché voleva guardare subito la verità in faccia, passò all'attacco: «Perché me lo dici con quella voce tragica?». «Ieri è morta mia madre» gli rispose la ragazza; e lui provò sollievo, ma sapeva che comunque non sarebbe sfuggito a quello che tanto lo terrorizzava.

5

«Va bene, smettiamo. Ma che cosa significa?» disse il batterista, e Klìma finalmente si riprese. Vide intorno a sé i volti preoccupati dei suoi compagni e spiegò loro che cosa era successo. I ragazzi posarono gli strumenti e si sforzarono di aiutarlo con qualche consiglio.

Il primo consiglio fu radicale: Il chitarrista, un diciottenne, disse che una donna come quella che aveva appena telefonato al loro capo e trombettista andava duramente respinta. «Dille di fare come vuole. Il bambino non è tuo, dunque la cosa non ti riguarda minimamente. E se insiste, l'esame del sangue potrà provare con chi l'ha fatto».

Klìma obiettò che gli esami del sangue non dimostrano quasi mai nulla e che, dopo, resta valida l'accusa della donna.

Il chitarrista rispose che non ci sarebbe stato nessun esame del sangue. La ragazza, respinta in quel modo, sarebbe stata ben attenta a risparmiarsi inutili fastidi, e quando si fosse resa conto che l'uomo che accusava non era un fifone rammollito si sarebbe sbarazzata del bambino a sue spese. «E se anche lo mettesse al mondo, tutto il complesso andrebbe in tribunale a testimoniare che in quel periodo ce la portavamo tutti a letto. Che vengano a scegliersi il padre tra noi!».

Ma Klìma disse: «Sono certo che lo fareste. Solo che, a quel punto, sarei già impazzito da tempo per l'incertezza e la paura. In queste cose sono il più grande vigliacco sulla faccia della terra, e ho bisogno di raggiungere la certezza al più presto possibile».

Furono tutti d'accordo. Il metodo del chitarrista in linea di principio era buono, ma non andava bene per tutti. Soprattutto, era controindicato per chi non aveva i nervi saldi. Né poteva essere raccomandato a un uomo celebre e ricco, per il quale una donna avrebbe potuto anche voler correre un grosso rischio. Arrivarono dunque alla conclusione che, invece di opporre un duro rifiuto, bisognava spingere la ragazza all'aborto con la persuasione. Ma quali argomenti scegliere? Si prospettavano tre ipotesi fondamentali:

Il primo metodo faceva appello al buon cuore della ragazza: Klìma avrebbe parlato all'infermiera come alla sua migliore amica; si sarebbe confidato con lei apertamente; le avrebbe detto che sua moglie era molto malata e che sarebbe stato un colpo definitivo per lei venire a sapere che il marito aveva un figlio da un'altra donna; che lui non avrebbe potuto sopportare né fisicamente né moralmente una simile situazione; che per questo chiedeva all'infermiera di avere pietà di lui.

Questo metodo urtò contro un'obiezione di principio. Non si poteva basare tutta una strategia su una cosa così incerta come la bontà d'animo dell'infermiera. Se la ragazza si fosse di fatto rivelata priva di bontà e di compassione, il metodo si sarebbe rivoltato contro lo stesso Klìma. Offesa dall'eccessivo riguardo che il padre di suo figlio usava nei confronti della moglie, la ragazza avrebbe agito con ancora maggiore risolutezza.

Il secondo metodo faceva appello al buon senso della ragazza: Klìma avrebbe tentato di spiegarle che non aveva, né avrebbe mai potuto avere, la certezza che quel figlio fosse veramente suo. Aveva incontrato una sola volta l'infermiera, di lei non sapeva nulla. Non aveva alcuna idea di chi frequentasse. No, no, non la sospettava di volerlo ingannare deliberatamente, ma non gli venisse a dire che non frequentava altri uomini! E anche se glielo avesse detto, come avrebbe potuto Klìma avere la certezza che diceva la verità? E sarebbe stato ragionevole mettere al mondo un figlio il cui padre non avrebbe mai avuto la certezza di esserlo veramente? Poteva Klìma abbandonare la moglie per un bambino che non sapeva con certezza se fosse suo? E Ruzena voleva forse un figlio che non avrebbe mai potuto conoscere il padre?

Anche questo metodo urtò contro obiezioni puramente di principio. Il bassista (che era il più anziano del complesso) fece osservare che contare sul buon senso della ragazza era ancora più assurdo che fidarsi del suo buon cuore. La logica dell'argomentazione avrebbe colpito un bersaglio vuoto, e intanto il cuore della ragazza si sarebbe spezzato all'idea che l'uomo amato non credeva alla sua sincerità. Il che l'avrebbe spinta a perseverare con ancora maggior accanimento e lacrimosa tenacia nelle sue affermazioni e nei suoi propositi.

C'era, infine, una terza ipotesi: Klìma avrebbe giurato alla ragazza incinta che l'aveva amata e che l'amava. Quanto alla possibilità che il bambino fosse di un altro, neanche un accenno. Klìma, al contrario, avrebbe immerso la ragazza in un bagno di fiducia, amore e tenerezza. Le avrebbe promesso tutto, compreso il divorzio. Le avrebbe descritto il loro splendido avvenire. E, in nome di quell'avvenire, le avrebbe poi chiesto di interrompere cortesemente la gravidanza. Le avrebbe spiegato che la nascita di un bambino era prematura e li avrebbe privati dei primi anni, i più belli, del loro amore.

A questa argomentazione mancava ciò di cui le altre abbondavano: la logica. Se Klìma era tanto innamorato dell'infermiera, come si spiegava che l'avesse evitata per due mesi? Ma il bassista disse che gli innamorati si comportano sempre in maniera illogica, e niente era più semplice che spiegarlo in un modo o nell'altro alla ragazza. Alla fine tutti convennero che il terzo metodo era verosimilmente il più vantaggioso, giacché faceva appello al sentimento d'amore della ragazza e cioè all'unica certezza relativa in quella circostanza.

6

Poi uscirono dal teatro e si separarono all'angolo della strada, ma il chitarrista accompagnò Klìma fino a casa. Era l'unico a disapprovare il piano proposto. Gli pareva indegno del capo, che lui venerava. «Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!» disse citando Nietzsche, delle cui opere conosceva per l'appunto solo questa frase.

«Ragazzo mio,» sospirò Klìma «la frusta ormai ce l'ha lei».

Il chitarrista propose allora a Klìma di accompagnarlo in macchina alla stazione termale, di attirare la ragazza per strada con una scusa e di metterla sotto. «Nessuno riuscirà a dimostrare che non è stata lei a gettarsi sotto le ruote».

Il chitarrista era il più giovane del complesso, amava Klìma, e Klìma fu commosso dalle sue parole: «Sei molto caro» gli disse.

Il chitarrista espose il suo piano nei dettagli, con il viso arrossato dall'emozione.

«Sei molto caro, ma non è possibile» disse Klìma.

«Perché ti fai degli scrupoli? É una stronza».

«Sei veramente molto caro, ma non è possibile» disse Klìma al chitarrista, e lo salutò.

7

Quando si ritrovò solo, rifletté sulla proposta del ragazzo e sui motivi per cui l'aveva respinta. Non che fosse d'animo più nobile del chitarrista, era soltanto più vigliacco. La paura di essere accusato di complicità in un omicidio non era affatto minore della paura di essere dichiarato padre. Si immaginò l'automobile che investiva Ruzena, vide Ruzena riversa sull'asfalto in una pozza di sangue, e per un attimo provò un'effimera sensazione di felicità e di sollievo. Ma sapeva che non aveva senso abbandonarsi al miraggio delle illusioni. E adesso aveva una grave preoccupazione. Pensava a sua moglie. Dio mio, l'indomani era il suo compleanno.

Mancavano pochi minuti alle sei, ora di chiusura dei negozi. Andò di corsa da un fioraio e comprò un gigantesco mazzo di rose. Pensò che sarebbe stato un compleanno tremendo. Avrebbe dovuto fingere di essere vicino alla moglie con il cuore e con i pensieri, avrebbe dovuto dedicarsi a lei, essere tenero, distrarla, ridere con lei, e per tutto il tempo non avrebbe smesso un secondo di pensare a un ventre estraneo e lontano.

Si sarebbe sforzato di dire cose carine ma la sua mente sarebbe stata altrove, prigioniera, come in una cella d'isolamento, di quelle buie viscere estranee.

Si rese conto che era superiore alle sue forze trascorrere a casa quell'anniversario, e decise che non avrebbe più rimandato l'incontro con Ruzena.

Ma certo neanche questa era una prospettiva allettante. Da quelle terme fra le montagne gli giungeva il soffio arido del deserto. Non conosceva nessuno, lì. Eccetto, forse, quel paziente americano che si comportava come i ricchi borghesi di un tempo e che dopo il concerto aveva invitato tutti i musicisti nel suo appartamento all'albergo. Li aveva riempiti di eccellenti liquori e di donne scelte fra il personale delle terme, cosicché era indirettamente responsabile di ciò che in seguito era successo tra Klìma e Ruzena. Ah, se almeno quell'uomo, che gli aveva manifestato una simpatia senza riserve, fosse stato ancora alle terme! Klìma si aggrappò alla sua immagine come alla salvezza, giacché in momenti come quelli che lui stava vivendo non c'è nulla di più necessario, per un uomo, dell'amichevole comprensione di un altro uomo.

Tornò al teatro e si fermò nella guardiola del portiere. Chiese un'interurbana. Poco dopo, sentì la voce di Ruzena all'apparecchio. Le disse che sarebbe andato a trovarla domani stesso. Non fece la minima allusione alla notizia che lei gli aveva annunciato qualche ora prima. Le parlò come se fossero stati due spensierati amanti.

Nel corso della conversazione le chiese: «C'è ancora quell'americano, lì da voi?».

«Sì, c'è» disse Ruzena.

Si sentì sollevato e ripeté con tono un po' più disinvolto che era felice di rivederla. «Che vestito hai?» le chiese dopo.

«Perché?».

Era un trucchetto che usava da molti anni con successo nei suoi flirt telefonici. «Voglio sapere come sei vestita in questo momento. Voglio poterti immaginare».

«Ho un vestito rosso».

«Il rosso ti deve stare benissimo».

«Sì, forse» disse lei.

«E sotto il vestito?».

Lei rise.

Sì, tutte ridevano, quando glielo chiedeva.

«Di che colore sono le mutandine?».

«Rosse anche loro».

«Sono impaziente di vederle» disse, poi la salutò. Gli pareva di aver trovato il tono giusto. Per un po' si sentì meglio. Ma fu solo questione di attimi. Si rese conto che non riusciva a pensare a nient'altro che a Ruzena, e che per quel giorno avrebbe dovuto limitare allo stretto necessario la sua conversazione.

8

Anche se Kamila Klìmovà era molto più bella che malata, era comunque malata. A causa del suo cattivo stato di salute, aveva dovuto abbandonare alcuni anni prima la carriera di cantante, quella che l'aveva condotta tra le braccia dell'attuale marito.

La bella e giovane donna, abituata all'ammirazione, ebbe improvvisamente la testa piena dell'odore di fenolo tipico degli ospedali. Da allora le parve che tra il suo universo e quello del marito si alzassero nove catene di monti.

Quando Klìma vedeva il suo viso triste, si sentiva spezzare il cuore e le tendeva (attraverso quella barriera fittizia) braccia amorevoli. Kamila capiva che nella propria tristezza c'era una forza non sospettata prima, una forza che attirava il marito, lo inteneriva, lo commuoveva. Non c'è da meravigliarsi se aveva cominciato a usare (forse in modo inconsapevole, ma proprio per questo con maggior frequenza) quello strumento inaspettatamente scoperto. Solo nei momenti in cui lui fissava lo sguardo nel suo viso pieno di dolore Kamila poteva essere in qualche modo sicura che nessun'altra donna rivaleggiava con lei nella testa di Klìma.

Infatti questa splendida donna aveva paura delle altre e le vedeva dappertutto. Non le sfuggivano mai, in nessuna occasione. Sapeva scoprirle nel tono con cui Klìma la salutava tornando a casa. Sapeva fiutarle nell'odore dei vestiti del marito. Di recente aveva trovato, sul suo tavolo, un pezzo di carta strappato da un giornale, su cui la mano di Klìma aveva annotato una data. Naturalmente, si poteva trattare degli avvenimenti più diversi, le prove di un concerto, un appuntamento con l'impresario; ma per tutto un mese lei non aveva fatto che chiedersi chi fosse la donna con la quale Klìma si sarebbe incontrato quel giorno, e per tutto un mese aveva dormito male.

Se il perfido mondo delle donne le faceva tanta paura, non poteva cercare conforto nel mondo degli uomini?

Difficile. La gelosia ha lo straordinario potere di illuminare con raggi intensi quell'unico essere e di mantenere la folla degli altri in una totale oscurità. Il pensiero della signora Klìmovà non poteva seguire altra direzione che quella di quei raggi tormentosi e suo marito era diventato l'unico uomo della terra.

Ora sentiva il rumore della chiave nella serratura, e vedeva entrare il trombettista con un mazzo di rose.

Sulle prime le fece piacere, ma subito dopo si risvegliarono i dubbi: Perché le portava dei fiori, se il suo compleanno era l'indomani? Che cosa poteva significare?

E lo accolse dicendo: «Domani non ci sei?».

9

Il fatto che le avesse portato i fiori quella sera non significava necessariamente che il giorno dopo non ci sarebbe stato. Ma le diffidenti antenne della moglie, sempre all'erta, sempre gelose, sapevano intuire con grandissimo anticipo la minima intenzione nascosta del marito. Ogni volta che Klìma avvertiva l'esistenza di quelle terribili antenne che lo mettevano a nudo, lo spiavano, lo smascheravano, veniva inevitabilmente assalito da un senso di stanchezza. Le odiava, quelle antenne, ed era convinto che se c'era qualcosa che minacciava il suo matrimonio, erano proprio loro. Era sempre stato persuaso (e su questo punto aveva la coscienza bellicosamente pulita) che, se qualche volta gli capitava di mentire alla moglie, era solo perché voleva risparmiarla, metterla al riparo da qualunque motivo di inquietudine, e che era lei, con i suoi sospetti, a procurarsi sofferenze.

La guardava in faccia e vi leggeva il sospetto, la tristezza, il cattivo umore. Fu sul punto di gettare per terra il mazzo di fiori, ma si controllò. Sapeva che nei giorni successivi avrebbe dovuto dominarsi in situazioni ben più difficili.

«Ti secca che ti abbia portato i fiori stasera?» disse. Sentendo l'irritazione nella sua voce, la moglie lo ringraziò e andò a riempire un vaso d'acqua.

«Maledetto socialismo!» disse poi Klìma.

«Perché?».

«Sta' a sentire. Ci obbligano sempre a suonare gratis. Una volta in nome della lotta contro l'imperialismo, un'altra per l'anniversario della rivoluzione, un'altra ancora per il compleanno di qualche pezzo grosso, e se non voglio che liquidino il complesso, mi tocca sempre accettare. Non hai idea di come mi sono arrabbiato oggi».

«Che è successo?» chiese lei senza interesse.

«Mentre provavamo, è venuta un'incaricata del Comitato nazionale e si è messa a spiegarci quello che dobbiamo e quello che non dobbiamo suonare, e alla fine ci ha costretto a organizzare un concerto gratuito per l'Unione della gioventù; ma il peggio è che domani devo perdere tutta la giornata per una stupida conferenza in cui ci parleranno del ruolo della musica nell'edificazione del socialismo! Una giornata rovinata, completamente rovinata! E proprio il giorno del tuo compleanno!».

«Non dovrai restar lì anche la notte!».

«Questo no. Ma pensa in che stato tornerò. Per questo volevo starmene un po' tranquillo con te almeno stasera», e così dicendo prese per mano la moglie.

«Sei gentile» disse la signora Klìmovà, e da come lo disse lui capì che non credeva a una sola parola di quanto le aveva appena detto sulla conferenza dell'indomani. Naturalmente, la signora Klìmovà non osava far vedere che non gli credeva. Sapeva che la sua sfiducia lo faceva arrabbiare. Ma già da tempo Klìma aveva smesso di aver fede nella credulità della moglie. Che dicesse la verità o mentisse, la sospettava sempre di sospettarlo. Ma adesso non c'era nulla da fare, doveva continuare a parlare fingendo di credere che lei gli credeva, e lei (con un volto triste ed estraneo) gli faceva domande sulla conferenza dell'indomani per provargli che non dubitava della sua esistenza.

Poi lei andò in cucina a preparare la cena. Ci mise troppo sale. Le piaceva cucinare e lo faceva in modo eccellente (la vita non l'aveva viziata, non aveva perso l'abitudine di occuparsi della casa), e Klìma sapeva che se quella sera la cena non le era riuscita era soltanto perché si stava tormentando. La vedeva, con gli occhi della mente, versare nel cibo una dose eccessiva di sale con un gesto violento, pieno di dolore, e il cuore gli si stringeva. Gli sembrava di riconoscere nei bocconi troppo salati il sapore delle lacrime della moglie, di mandar giù, con quei bocconi, la propria colpevolezza. Sapeva che Kamila era torturata dalla gelosia, sapeva che avrebbe passato un'altra notte senza dormire, e per questo avrebbe voluto accarezzarla, baciarla, consolarla, ma nello stesso tempo si rendeva conto che era inutile, perché le antenne di lei non avrebbero colto nella sua tenerezza altro che la prova della sua cattiva coscienza.

Alla fine andarono al cinema. Klìma trovò un certo conforto nello spettacolo del protagonista che, sullo schermo, sfuggiva con affascinante sicurezza a perfidi pericoli. Immaginava se stesso in quella parte, e a tratti gli pareva che convincere Ruzena ad abortire fosse una cosa da nulla che lui, grazie al suo charme e alla sua buona stella, avrebbe portato a termine senza la minima fatica.

Poi si stesero uno accanto all'altra sul loro grande letto. Lui la guardava. Era stesa supina, con la testa sprofondata nel cuscino, il mento appena sollevato, gli occhi fissi al soffitto, e in quell'estrema tensione del suo corpo (guardandola, aveva sempre pensato alla corda di uno strumento, le diceva che aveva «l'anima di una corda»), lui vide a un tratto, in un solo istante, tutta la sua essenza. Sì, ogni tanto gli succedeva (erano momenti miracolosi) di cogliere all'improvviso, in uno solo dei suoi gesti o dei suoi movimenti, tutta la storia del suo corpo e della sua anima. Erano attimi di assoluta chiaroveggenza, ma anche di emozione assoluta; quella donna lo aveva amato quando ancora lui non contava nulla, era stata sempre pronta a sacrificare tutto per lui, capiva a occhi chiusi tutti i suoi pensieri, lui poteva parlarle di Armstrong o di Strawinsky, di sciocchezze e di cose serie, era fra tutti gli esseri umani il più vicino a lui''' Poi immaginò che quel dolce corpo, quel dolce viso morissero, e gli sembrò che non avrebbe resistito neanche un giorno. Sapeva di essere in grado di proteggerla fino all'ultimo respiro, di essere capace di dare la vita per lei.

Ma questa sensazione di amore soffocante non fu che un lampo debole ed effimero, perché tutta la sua mente era completamente occupata dall'angoscia e dalla paura. Stava disteso accanto a Kamila, sapeva di amarla infinitamente, ma era assente con lo spirito. La accarezzava sul viso ed era come se la accarezzasse da una distanza di molte centinaia di chilometri.

 

Seconda giornata

1

Erano circa le nove del mattino quando nel parcheggio situato alla periferia della cittadina termale (alle automobili era vietato andare oltre) si fermò un'elegante vettura bianca da cui scese Klìma.

Il centro delle terme era attraversato in lunghezza dai giardini pubblici, con radi gruppi di alberi, aiuole, sentieri di ghiaia e panchine colorate. Su entrambi i lati si trovavano gli edifici del centro termale, tra cui la Casa Karl Marx; era lì che l'infermiera Ruzena occupava la stanzetta dove il trombettista aveva passato le due fatali ore notturne. Di fronte alla Casa Karl Marx, sull'altro lato dei giardini, si ergeva il più bell'edificio della stazione termale, una costruzione Liberty dell'inizio del secolo, piena di stucchi ornamentali e con un mosaico sopra l'ingresso. Era l'unico edificio che avesse avuto il privilegio di conservare inalterato il suo nome d'origine: Hotel Richmond.

«É ancora qui il signor Bertlef?» chiese Klìma al portiere e, avendo ottenuto una risposta affermativa, corse lungo il tappeto rosso fino al primo piano e bussò a una porta.

Entrando, vide Bertlef che gli veniva incontro in pigiama. Imbarazzato, si scusò di essere venuto senza avvisarlo, ma Bertlef lo interruppe:

«Amico mio! Non stia a scusarsi! Il suo arrivo è la più grande gioia che io abbia avuto qui in queste ore mattutine».

Strinse la mano a Klìma e continuò: «In questo paese la gente non apprezza il mattino. Si fanno svegliare di prepotenza da una sveglia che spezza il sonno come un colpo di scure e si abbandonano subito a una fretta funesta. Mi dica lei come può andare una giornata che comincia con un simile atto di violenza! Cosa può esserne di persone che giornalmente ricevono, per mezzo di una sveglia, un piccolo elettroshock? Ogni giorno che passa si abituano alla violenza e disapprendono il piacere. Mi creda, è il mattino che decide del temperamento di un uomo».

Bertlef prese delicatamente Klìma per la spalla, lo fece sedere in una poltrona e continuò: «Io, invece, amo talmente queste ore di ozio mattutino, in cui passo lentamente, come per un ponte pieno di statue, dalla notte al giorno, dal sonno alla veglia. É il momento della giornata in cui darei non so che cosa per un piccolo miracolo, per un incontro inatteso che mi persuadesse che i miei sogni notturni continuano e che l'avventura del sonno e quella del giorno non sono separate da un abisso».

Il trombettista osservava Bertlef che camminava su e giù per la stanza, in pigiama, lisciandosi con una mano i capelli brizzolati, e avvertiva nella sua voce sonora un incancellabile accento americano e nelle sue scelte lessicali un che di deliziosamente fuori moda, cosa facilmente spiegabile dal momento che Bertlef non aveva mai vissuto nella sua patria d'origine e solo la tradizione familiare gli aveva insegnato la lingua materna.

«E nessuno, amico mio,» spiegava in quel momento Bertlef chinandosi su Klìma con un sorriso fiducioso «nessuno qui mi può venire incontro. Anche le infermiere, che per altri versi sono alquanto compiacenti, assumono un'aria indignata quando le invito a trascorrere qualche momento piacevole in mia compagnia all'ora della prima colazione, e così devo rimandare tutti gli appuntamenti alla sera, quando peraltro sono sempre un po' stanco».

Poi si avvicinò al tavolino del telefono e chiese: «Quando è arrivato?».

«Poco fa» disse Klìma. «In macchina».

«Avrà sicuramente fame» disse Bertlef, e sollevò il ricevitore. Ordinò due colazioni: «Quattro uova strapazzate, formaggio, burro, panini, latte, prosciutto cotto, tè».

Klìma, intanto, esaminava la stanza. Un grosso tavolo rotondo, sedie, poltrone, uno specchio, due divani, la porta del bagno e quella della stanza adiacente che, ricordava, era la piccola camera da letto di Bertlef. Lì, in quella splendida suite, era cominciato tutto. Lì si erano seduti, ubriachi, i ragazzi del suo complesso, per il piacere dei quali il ricco americano aveva invitato alcune infermiere.

«Sì,», disse Bertlef «il quadro che sta guardando non era qui l'ultima volta».

Solo allora il trombettista notò un quadro che ritraeva un uomo barbuto, con la testa circondata da uno strano disco azzurro, che teneva in mano una tavolozza e un pennello. Il quadro non sembrava un granché, ma il trombettista sapeva che molti quadri che a prima vista sembrano rozzi sono in realtà opere celebri.

«Chi lo ha dipinto?».

«Io» rispose Bertlef.

«Non sapevo che dipingesse».

«Mi piace molto».

«E chi rappresenta?» osò chiedere il trombettista.

«San Lazzaro».

«Ma come? San Lazzaro era pittore?».

«Non è il Lazzaro della Bibbia, ma san Lazzaro, un monaco che visse nel nono secolo a Costantinopoli. É il mio patrono».

«Capisco» fece il trombettista.

«Era un santo molto singolare. Non fu martirizzato dai pagani perché credeva in Cristo, ma da alcuni cattivi cristiani perché gli piaceva troppo dipingere. Come forse saprà, nell'ottavo e nono secolo la chiesa greca fu dominata da un ascetismo rigoroso, intollerante verso tutte le gioie profane. Anche i quadri e le statue venivano considerati oggetti di piacere peccaminoso. L'imperatore Teofilo fece distruggere migliaia di splendidi quadri e proibì al mio amato Lazzaro di dipingere. Ma Lazzaro sapeva che le sue opere erano un modo di glorificare Dio, e non cedette. Teofilo lo fece chiudere in prigione e torturare, pretese che Lazzaro abiurasse il proprio pennello, ma Dio ebbe pietà di lui e gli diede la forza di sopportare quei crudeli supplizi».

«Una bella storia» disse educatamente il trombettista.

«Splendida. Ma lei sarà venuto a trovarmi per altri motivi, e non certo per contemplare i miei quadri».

In quel momento bussarono alla porta ed entrò un cameriere con un grande vassoio. Lo posò sul tavolo e apparecchiò per la colazione dei due uomini.

Bertlef invitò il trombettista a sedersi e disse: «Questa colazione non è poi così buona da impedirci di continuare la conversazione. Mi dica quel che le sta sul cuore!».

E così, masticando, il trombettista raccontò la sua storia, che in alcuni punti indusse Bertlef a porre domande penetranti.

2

Innanzitutto volle sapere perché Klìma non avesse risposto alle due cartoline dell'infermiera Ruzena, perché si fosse fatto negare al telefono e perché non avesse mai fatto di sua iniziativa anche solo una mossa amichevole, che avrebbe prolungato la loro notte d'amore di un'eco sommessa e rasserenante.

Klìma ammise di essersi comportato in modo scortese e irragionevole. Ma, disse, era stato più forte di lui. Qualsiasi ulteriore contatto con quella ragazza gli ripugnava.

«Sedurre una donna» disse Bertlef con aria scontenta «è cosa che sa fare qualsiasi imbecille. Ma bisogna anche saperla lasciare, ed è da questo che si riconosce l'uomo maturo».

«Lo so,» riconobbe tristemente il trombettista «ma questa mia avversione, questo invincibile disgusto sono più forti di tutti i buoni propositi».

«Mi dica,» chiese Bertlef stupito «lei è per caso un misogino?».

«É quello che si dice di me».

«Ma come è possibile? Eppure non sembra né un impotente né un omosessuale!».

«Infatti non sono né impotente né omosessuale. É qualcosa di molto peggio» confessò malinconicamente il trombettista. «Amo mia moglie. É il mio segreto erotico, del tutto incomprensibile per la maggioranza delle persone».

Quella confessione era così commovente che entrambi gli uomini tacquero per qualche istante. Poi il trombettista proseguì: «Non lo capisce nessuno, e tanto meno mia moglie. Lei pensa che un grande amore si manifesti con l'abolizione di ogni rapporto con le altre donne. É una sciocchezza. Sono spinto continuamente verso altre donne; ma, appena le ho possedute, una sorta di potente molla mi strappa da loro per rigettarmi verso Kamila. A volte ho l'impressione che se cerco altre donne è solo per via di questa molla, di questo lancio all'indietro, dello splendido volo (pieno di tenerezza, desiderio e umiltà) che mi riporta da mia moglie, alla quale, dopo ogni nuova infedeltà, voglio ancora più bene».

«E così l'infermiera Ruzena non è stata altro, per lei, che una conferma dell'amore monogamico».

«Sì» disse il trombettista. «Ma una conferma altamente piacevole. Perché Ruzena, la prima volta che la si vede, ha un grande fascino; ed è estremamente vantaggioso che questo fascino si esaurisca completamente nel giro di due ore, così che nulla alletta a un ulteriore incontro e la molla ti proietta potentemente su una splendida traiettoria di ritorno».

«Amico mio, lei è la miglior prova del fatto che un amore eccessivo è un amore colpevole».

«Pensavo che l'amore per mia moglie fosse l'unica cosa che ho di buono».

«E sbagliava. L'amore eccessivo per sua moglie non è il polo opposto e compensatore della sua insensibilità, ma piuttosto la sua sorgente. Per lei sua moglie è tutto, e di conseguenza tutte le altre donne sono niente, cioè, in altre parole, sono delle puttane. Ma si tratta di una grossa bestemmia, significa non avere alcun rispetto per esseri creati da Dio. Amico mio, questo tipo di amore è un'eresia».

3

Bertlef allontanò la tazza vuota, si alzò e andò nella stanza da bagno. Di lì giunse a Klìma il rumore dell'acqua che scorreva e, dopo qualche attimo, la voce di Bertlef: «Crede che l'uomo abbia il diritto di uccidere un bambino che non è ancora venuto al mondo?».

Già prima, quando aveva visto il ritratto del tipo barbuto con l'aureola, era rimasto un po' sconcertato. Ricordava Bertlef come un gioviale gaudente, e non gli era neanche passato per la mente che potesse essere religioso. Adesso si sentiva stringere il cuore all'idea che lo aspettasse una lezione di morale e che la sua unica oasi nel deserto di quelle terme si stesse ricoprendo di sabbia. Disse, con voce stretta dall'angoscia: «Lei è di quelli che lo definiscono un omicidio?».

Bertlef tardò a rispondere. Uscì infine dal bagno in tenuta da passeggio e accuratamente pettinato.

«Omicidio è una parola che puzza troppo di sedia elettrica» disse. «Non è questo che intendo. Vede, io sono convinto che la vita vada accettata così com'è, sempre. É il primo comandamento, anteriore allo stesso Decalogo. Tutti gli avvenimenti sono nelle mani di Dio, e noi ignoriamo la loro sorte futura; con questo voglio dire che accettare la vita così com'è significa accettare l'imprevedibile. E un bambino è un concentrato di cose imprevedibili. Un bambino è l'imprevedibilità stessa. Lei non può sapere che cosa diventerà, che cosa le porterà, e proprio per questo lo deve accettare. Altrimenti potrà vivere solo a metà, vivere come uno che non sa nuotare e sguazza a due passi dalla riva benché il vero mare sia solo là dove non si tocca».

Il trombettista obiettò che quel figlio non era suo.

«Ammettiamolo» disse Bertlef. «Lei, però, vorrà ammettere che avrebbe altrettanto insistito per convincere Ruzena ad abortire se il figlio fosse stato suo. L'avrebbe fatto per sua moglie, e per l'amore peccaminoso che nutre per lei».

«Sì, lo riconosco,» disse il trombettista «tenterei di costringerla ad abortire in qualunque caso».

Bertlef stava in piedi, appoggiato allo stipite della porta del bagno, e sorrideva: «La capisco, e non cercherò assolutamente di farle cambiare parere. Sono troppo vecchio per aver voglia di cambiare il mondo. Le ho detto quello che penso, ed è tutto. Resterò suo amico anche se agirà in modo contrario alle mie convinzioni, e le darò il mio aiuto anche se non sarò d'accordo con lei».

Il trombettista guardò Bertlef, che aveva pronunciato le ultime frasi con la voce vellutata di un saggio predicatore. Lo trovava magnifico. Gli parve che tutto quello che Bertlef diceva avrebbe potuto essere una leggenda, una parabola, un esempio, un capitolo di un moderno vangelo. Aveva voglia (cerchiamo di capirlo, era turbato e portato a gesti eccessivi) di inchinarsi profondamente davanti a lui.

«Farò tutto quello che potrò per aiutarla» riprese Bertlef. «Passeremo un attimo dal mio amico, il primario dottor Skreta, che si occuperà del lato medico della questione. Mi dica, però, come pensa di spingere Ruzena a una decisione che lei rifiuta?».

4

Questo fu il terzo punto sul quale si soffermarono. Quando il trombettista ebbe spiegato il suo piano, Bertlef disse:

«Mi ricorda una storia che io stesso ho vissuto all'epoca della mia avventurosa giovinezza, quando facevo lo scaricatore di porto, e il pranzo ci veniva distribuito da una ragazza che aveva un cuore eccezionalmente buono e non sapeva rifiutare nulla a nessuno. Gli uomini, però, generalmente ripagano più con la brutalità che con la gratitudine una simile bontà di cuore (e di corpo), e così io ero l'unico a trattarla con rispettosa gentilezza, anche se tra me e lei non c'era mai stato nulla. La mia gentilezza la fece innamorare di me. Le avrei procurato dolore e umiliazione se non me la fossi portata a letto. Ma successe una sola volta, e subito dopo le spiegai che avrei continuato ad amarla di un grande amore spirituale, ma che non potevamo più essere amanti. Lei scoppiò a piangere, fuggì via, smise di salutarmi e si diede ancora più ostentatamente a tutti gli altri. Dopo due mesi venne a dirmi che l'avevo messa incinta».

«Allora lei si è trovato nella mia stessa situazione!» gridò il trombettista.

«Ah, amico mio,» disse Bertlef «non ha ancora capito che ciò che lei sta vivendo capita prima o poi a tutti gli uomini del mondo?».

«E cosa ha fatto?».

«Mi sono comportato esattamente come pensa di fare lei, ma con una differenza. Lei vuole fingersi innamorato di Ruzena, io, invece, ero veramente innamorato di quella ragazza. Mi vedevo davanti una povera ragazza, umiliata e offesa da tutti, una povera ragazza che aveva avuto un po' di gentilezza da un solo essere al mondo, e non voleva perderla. Capivo che mi amava e non potevo odiarla se lo dimostrava come sapeva, con gli unici mezzi che le offriva la sua innocente miseria. Stia a sentire cosa le dissi: "So benissimo che sei incinta di un altro. Ma so anche che sei ricorsa a questo stratagemma per amore, e voglio ricambiarti con altrettanto amore. Non mi importa di chi sia il figlio: se vuoi ti sposo"».

«Era una follia!».

«Ma più efficace, forse, delle sue manovre premeditate. Dopo che ebbi ripetuto più volte a quella puttanella che l'amavo e che l'avrei sposata con il suo bambino, lei si mise a piangere e confessò di avermi mentito. Di fronte alla mia bontà, disse, aveva capito che non era degna di me e che non avrebbe mai potuto sposarmi».

Il trombettista taceva, pensieroso, e Bertlef aggiunse: «Sarei felice se questa storia le potesse servire da parabola. Non cerchi di fingere amore con Ruzena, ma provi ad amarla veramente. Provi ad avere pietà di lei. Anche nel caso che lei la inganni, provi a vedere nella sua menzogna solo una forma del suo amore. Sono certo che, dopo, Ruzena non resisterà alla forza della sua bontà, e sistemerà tutto da sola in modo da non farle del male».

Le parole di Bertlef ebbero molto effetto sul trombettista. Ma non appena si raffigurò Ruzena sotto una luce più viva, comprese che la via dell'amore suggerita da Bertlef era impraticabile per lui, che era la via dei santi e non degli uomini comuni.

5

Ruzena era seduta a un tavolino nel grande salone dello stabilimento termale dove le donne, dopo il trattamento, riposavano su lettini allineati lungo le pareti. Aveva appena ricevuto da due nuove pazienti le cartelle di cura. Vi scrisse la data, consegnò alle donne la chiave del loro guardaroba, un asciugamano e un lungo lenzuolo. Poi diede un'occhiata all'orologio e si diresse, passando per la sala in fondo (indossava il camice bianco sulla pelle nuda perché le sale piastrellate erano piene di vapori caldi), verso la piscina, dove una ventina di donne nude sguazzavano nella miracolosa acqua della fonte. Ne chiamò tre per nome, per annunciare che il tempo previsto per il bagno era trascorso. Le signore uscirono docilmente dalla piscina, scossero i grossi seni da cui gocciolava l'acqua e, saltellando, seguirono Ruzena che le ricondusse nell'altra sala. Lì le signore si stesero sui lettini liberi e Ruzena, una dopo l'altra, le avvolse nei lenzuoli, asciugò loro gli occhi con un lembo di stoffa e poi le coprì con una coperta calda. Loro le sorridevano, ma Ruzena non ricambiava quei sorrisi.

Non c'è nulla di piacevole nel venire al mondo in una cittadina per la quale passano ogni anno circa diecimila donne e praticamente nessun uomo giovane; una donna, qui, a quindici anni può già farsi un'idea precisa di tutte le possibilità erotiche che la vita le riserva se non cambia residenza. Ma come cambiare residenza? Lo stabilimento in cui lavorava si privava assai poco volentieri del personale, e gli stessi genitori di Ruzena protestavano vivamente a ogni sua allusione a un trasferimento.

Si può dunque capire che questa ragazza, anche se si sforzava di assolvere con tutto lo zelo possibile le sue mansioni professionali, non traboccasse d'amore per le sue pazienti. Se ne possono indicare almeno tre ragioni:

L'invidia: quelle donne erano venute lì lasciando i mariti, gli amanti, un mondo che le sembrava offrisse migliaia di occasioni, per lei inaccessibili, anche se aveva un seno più bello, gambe più lunghe e lineamenti più regolari di loro.

Oltre all'invidia, l'impazienza: erano venute con i loro lontani destini, mentre lei se ne stava lì senza destino, sempre la stessa anno dopo anno; inorridiva sentendo di vivere in quella piccola città un tempo vuoto di avvenimenti e, sebbene fosse giovane, pensava in continuazione che la vita le sarebbe sfuggita prima di aver potuto cominciare a viverla.

In terzo luogo, provava un'istintiva ripugnanza per la loro moltitudine, che diminuiva il valore di una singola donna in quanto tale. Era circondata da una triste inflazione di seni femminili, in mezzo ai quali perfino un seno bello come il suo perdeva valore.

Aveva appena finito di avvolgere, senza un sorriso, l'ultima delle tre signore, quando nel salone si affacciò la collega magra e le gridò: «Al telefono!».

Aveva un'espressione così solenne che Ruzena comprese immediatamente chi la chiamava. Rossa in volto, passò dietro alle cabine, sollevò il ricevitore e disse il proprio nome.

Klìma la salutò e le chiese quando avrebbe avuto un po' di tempo per vederlo.

«Finisco alle tre,» rispose lei «potremmo vederci alle quattro».

Poi si accordarono sul luogo dell'appuntamento. Ruzena propose il più grande caffè delle terme, che restava aperto tutto il giorno. La collega magra, che stava accanto a Ruzena e non staccava gli occhi dalle sue labbra, fece un cenno d'approvazione. Il trombettista obiettò che avrebbe preferito vederla in un luogo dove potessero star soli e propose di portarla da qualche parte in macchina, fuori dalla stazione termale.

«É inutile. Dove vuoi che andiamo?» disse Ruzena.

«Staremo soli».

«Se ti vergogni di me, puoi fare a meno di venire» disse Ruzena, e di nuovo la collega fece un cenno d'approvazione.

«Non è questo che volevo dire» disse Klìma. «Va bene, allora ti aspetto alle quattro davanti al caffè».

«Perfetto» disse la magra quando Ruzena posò il ricevitore. «Voleva incontrarti di nascosto, ma tu devi fare in modo che vi veda quanta più gente è possibile».

Ruzena era ancora molto agitata, il pensiero dell'incontro le dava la tremarella. Non riusciva più in alcun modo a immaginarsi Klìma. Che aspetto aveva, come sorrideva, come si comportava? Del loro unico incontro le era rimasto solo un vaghissimo ricordo. Le colleghe l'avevano riempita di domande sul conto del trombettista, volevano sapere che tipo era, cosa diceva, com'era senza niente addosso, come faceva l'amore. Ma lei non aveva saputo dir nulla e aveva soltanto ripetuto che era stato “come un sogno”.

Non era un semplice luogo comune: L'uomo con il quale aveva passato due ore a letto era sceso dai manifesti pubblicitari. La sua foto aveva acquistato per qualche minuto una realtà tridimensionale, calore e peso, per poi ridiventare un'immagine immateriale e incolore, riprodotta in migliaia di esemplari e per questo tanto più astratta e irreale.

E poiché quella volta le era così rapidamente sfuggito per ritornare al suo segno grafico, le era rimasta soltanto la sgradevole sensazione della sua perfezione. Non riusciva a ricostruire nessun dettaglio che lo riconducesse in basso e glielo rendesse più vicino. Quando lui era lontano, Ruzena era piena di un'energica combattività, ma ora che già avvertiva la sua vicinanza, il coraggio la stava abbandonando.

«Tieni duro» le disse la magra. «Io terrò le dita incrociate».

6

Quando Klìma finì la telefonata con Ruzena, Bertlef lo prese sottobraccio e lo condusse alla Casa Karl Marx, dove il dottor Skreta aveva studio e abitazione. Nella sala d'attesa erano sedute molte donne, ma Bertlef, senza esitare, batté quattro brevi colpi sulla porta del gabinetto medico. Dopo un attimo ne uscì un uomo alto in camice bianco, con gli occhiali e un naso voluminoso. Disse alle donne in attesa: un attimo, per cortesia e condusse i due uomini nel corridoio e da lì nel suo appartamento, che si trovava al piano superiore.

«Come va, maestro?» chiese al trombettista quando tutti e tre si furono seduti. «Quando darà un nuovo concerto qui da noi?».

«Mai più in vita mia,» rispose Klìma «questa città mi porta male».

Bertlef spiegò al dottor Skreta che cosa era successo al trombettista, poi Klìma disse: «Volevo pregarla di darmi una mano. Prima di tutto, vorrei sapere se è veramente incinta. Forse è solo un ritardo. Oppure mi fa la commedia. Una volta, tanto tempo fa, una ragazza ci ha provato. E anche lei era bionda».

«Non bisogna mai mettersi con le bionde» disse il dottor Skreta.

«Sì,» assentì Klìma «le bionde sono la mia disgrazia. Sa, dottore, fu una cosa tremenda quella volta. La costrinsi a farsi fare una visita medica. Solo che allo stadio iniziale della gravidanza non è possibile stabilire nulla con certezza. Allora chiesi che le facessero il test del topo. Ossia, si inietta l'urina alla femmina del topo e se le si gonfiano le ovaie'''».

«'''la signora è incinta» terminò il dottor Skreta.

«Aveva messo l'urina del mattino in una boccetta, io l'ho accompagnata a fare le analisi e lei, davanti all'ospedale, ha fatto cadere la boccetta. Mi sono gettato su quei frammenti per salvare almeno qualche goccia! Mi comportavo come se avesse fatto cadere il Santo Graal! L'aveva fatto apposta, perché sapeva di non essere incinta e voleva far durare il più a lungo possibile il mio supplizio».

«Tipico comportamento da bionda» disse il dottor Skreta senza il minimo stupore.

«Crede che ci sia differenza tra bionde e brune?» domandò Bertlef.

«Naturalmente» disse il dottor Skreta. «I capelli biondi e i capelli neri sono i due poli opposti del carattere umano. I capelli neri significano virilità, coraggio, franchezza, azione, mentre quelli biondi sono il simbolo della femminilità, della tenerezza, dell'impotenza e della passività. Le bionde, quindi, sono doppiamente donne. Una principessa non può avere che i capelli chiari. É per questo che le donne, per essere il più possibile femminili, si tingono di biondo e mai di nero».

«Mi interesserebbe molto sapere in quale modo i pigmenti esercitano il loro influsso sull'anima umana» disse Bertlef in tono dubbioso.

«Non si tratta dei pigmenti. Una bionda, e ancor più una bionda artificiale, si adatta inconsciamente ai propri capelli. Vuole essere fedele al suo colore e si fa passare per una creatura fragile, una bambolina da vezzeggiare, pretende tenerezza e servigi, galanteria e alimenti, è tutta delicatezza di fuori e volgarità di dentro. Se i capelli neri diventassero una moda universale, si vivrebbe di gran lunga meglio a questo mondo. Sarebbe la più utile riforma sociale mai realizzata».

«Allora è molto probabile che anche Ruzena mi prenda in giro» disse Klìma, cercando nelle parole di Skreta una ragione di speranza.

«No. L'ho visitata l'altro ieri. É incinta» disse il dottor Skreta.

Bertlef, notando che il trombettista era improvvisamente illividito, disse: «Dottore, lei è il presidente della commissione che decide gli aborti».

«Sì» disse Skreta. «Abbiamo una riunione venerdì».

«Perfetto» disse Bertlef. «Non bisogna perdere tempo, i nervi del nostro amico, qui, potrebbero cedere. So che in questo paese non autorizzate molto volentieri gli aborti».

«Pochissimo volentieri» disse il dottor Skreta. «In commissione ci sono due vecchie che rappresentano il potere popolare, sono di una bruttezza indescrivibile e odiano tutte le donne che si rivolgono a noi. Sapete chi sono i più grandi misogini su questa terra? Le donne. Signori, nessun uomo, neanche il signor Klìma, a cui già due donne hanno tentato di addossare la loro gravidanza, ha mai provato verso le donne tanto odio quanto le donne stesse nei confronti del proprio sesso. Perché credete che facciano tanti sforzi per conquistarci? Solo per poter ferire e umiliare le loro colleghe. Dio ha inculcato nel cuore delle donne l'odio per le altre donne perché voleva che il genere umano si moltiplicasse».

«Preferisco sorvolare su queste sue parole,» disse Bertlef «perché voglio tornare al problema del nostro amico. É comunque lei ad avere l'ultima parola nella commissione, e quelle due orride vecchie fanno quello che dice lei».

«Sì, ho io l'ultima parola, ma intendo non occuparmene più. Non ci guadagno neanche un centesimo. Mi dica, maestro, lei quanto prende per un concerto?».

La somma che Klìma menzionò lasciò di stucco il dottor Skreta: «Penso spesso» disse «che dovrei arrotondare il mio stipendio con la musica. Suono discretamente la batteria».

«Lei è un batterista?» chiese Klìma sforzandosi di mostrare interesse.

«Sì» fece il dottor Skreta. «Alla Casa del Popolo abbiamo un piano e una batteria. Mi diverto a suonarla nei momenti liberi».

«Splendido!» esclamò il trombettista, felice di avere l'occasione per adulare un po' il primario.

«Ma mi mancano i partner per mettere su un vero complesso. C'è solo il farmacista che suona abbastanza bene il piano. Abbiamo provato spesso insieme. Sa cosa le dico?» e si interruppe un attimo per riflettere. «Quando Ruzena si presenterà davanti alla commissione'''».

«Magari ci venisse!» disse Klìma con un profondo sospiro.

Il dottor Skreta agitò una mano: «Sono sempre felici di venirci. La commissione, però, esige che si presenti anche il padre, così dovrebbe venire anche lei. E per non venire soltanto per questa stupidaggine, potrebbe arrivare il giorno prima e noi organizzeremmo un concerto per la sera. Tromba, pianoforte e batteria. "Tres faciunt orchestram”. Se sui cartelloni apparirà il suo nome, la sala sarà piena. Che cosa ne dice?».

Klìma era ansioso fino all'eccesso quando si trattava del livello professionale delle sue esibizioni, e ancora due giorni prima la proposta del dottore gli sarebbe parsa semplicemente assurda. Ma ora il suo interesse era assorbito unicamente dalle viscere dell'infermiera, e rispose alla domanda del primario con cortese entusiasmo: «Sarebbe splendido!».

«Veramente? É d'accordo?».

«Certo».

«E lei che ne pensa?» disse Skreta rivolgendosi a Bertlef.

«Penso che sia un'idea eccellente. Solo, non so come farà a preparare tutto in due giorni».

Skreta, invece di rispondere, si alzò e andò al telefono. Formò un numero, ma non gli rispose nessuno. «La cosa più importante è far preparare immediatamente i manifesti, ma la nostra segretaria deve essere andata a mangiare» disse. «Per la sala non c'è problema. Questo giovedì l'Associazione per l'educazione popolare organizza una conferenza contro l'alcolismo, e il conferenziere è un mio collega. Sarà felicissimo se gli chiederò di darsi malato. E lei, naturalmente, dovrà essere qui fin da giovedì mattina, in modo che possiamo fare qualche prova tutti e tre insieme. O non è necessario?».

«No, no,» disse Klìma «è necessario. Prima dobbiamo provare un po'».

«Anch'io lo penso» convenne Skreta. «Potremmo suonare il repertorio più d'effetto. Io sono bravissimo in “Saint Louis Blues” e:”When the Saints Go Marchin' In”. Ho già pronti alcuni assolo e sono proprio curioso di sapere come li troverà. Del resto, è occupato oggi pomeriggio? Non vorrebbe fare una piccola prova?».

«Purtroppo, oggi pomeriggio devo persuadere Ruzena a fare il raschiamento».

Skreta agitò una mano: «Non si faccia problemi, per quello. Acconsentirà senza farsi pregare».

«Dottore,» disse Klìma in tono supplichevole «preferirei rimandare a giovedì».

«Anch'io penso che sia meglio aspettare giovedì» intercedette Bertlef. «Il nostro amico non riuscirebbe a concentrarsi, oggi. E, a parte questo, mi pare che non abbia portato con sé la tromba».

«É vero» ammise Skreta, e condusse i due amici al ristorante di fronte. Ma per strada furono raggiunti dall'infermiera di Skreta che pregò il primario di ritornare allo studio. Il dottor Skreta si scusò con gli amici e lasciò che l'infermiera lo riportasse dalle sue pazienti sterili.

7

Erano quasi sei mesi che Ruzena era andata a vivere in una stanzetta della Casa Karl Marx, lasciando i genitori che abitavano in un villaggio vicino. Si era aspettata Dio sa che da quella sistemazione indipendente, ma ben presto si era resa conto che approfittava della stanzetta e della libertà molto meno piacevolmente e intensamente di quanto avesse sperato nei suoi sogni.

Quel giorno, tornando dallo stabilimento dopo le tre, ebbe la sgradevole sorpresa di trovare suo padre che l'aspettava in camera, comodamente sdraiato sul divano. La visita giungeva quanto mai inopportuna, giacché Ruzena contava di dedicarsi completamente al proprio aspetto, mettendo a posto i capelli e scegliendo con cura il vestito da indossare.

«Che ci fai qui?» gli chiese in tono brusco, irritata con il portiere che conosceva suo padre ed era sempre disposto ad aprirgli la stanza quando lei non c'era.

«Avevo un po' di tempo libero» rispose il padre. «Oggi abbiamo un'esercitazione, qui in città».

Era membro del corpo volontario per la tutela dell'ordine pubblico. Tutti i medici ridevano di quei vecchi signori che marciavano su e giù per le strade con un bracciale sulla manica e dandosi arie d'importanza, e per questo Ruzena si vergognava dell'attività paterna.

«Che gusto ci troverai» borbottò.

«Dovresti essere felice di avere un padre che non è mai stato uno scansafatiche e non lo sarà mai. Noi pensionati abbiamo ancora da far vedere a voi giovani di che cosa siamo capaci!».

Ruzena si disse che era meglio lasciarlo parlare e concentrarsi intanto sulla scelta del vestito. Aprì l'armadio.

«Mi piacerebbe proprio sapere di che cosa siete capaci» disse.

«Di un sacco di cose. Queste terme sono famose in tutto il mondo, ragazza mia! E guarda che aspetto hanno! I bambini scorrazzano sulle aiuole!».

«Oh, Signore!'''» disse Ruzena frugando tra i vestiti. Non gliene piaceva nessuno.

«E fossero soltanto i bambini, ma quei cani! Il consiglio municipale ha stabilito già da tempo che i cani possono uscire solo con museruola e guinzaglio. Ma qui nessuno obbedisce, ognuno fa quello che vuole. Basta guardare i giardini pubblici».

Ruzena tirò fuori un vestito e cominciò a spogliarsi dietro le ante semiaperte dell'armadio.

«Pisciano dappertutto! Anche sulla sabbia degli spiazzi per i bambini! Pensa un po' se un bambino, giocando, lasciasse cadere in quella sabbia il suo pezzo di pane e burro. Poi ci si meraviglia se ci sono tante malattie! Ecco, guarda!». Il padre si avvicinò alla finestra: «Solo in questo momento ci sono quattro cani che scorrazzano in libertà!».

Ruzena, uscita da dietro le ante dell'armadio, si guardava allo specchio. Ma non aveva che uno specchietto appeso al muro, e si vedeva solo fino alla cintola.

«Queste cose non ti interessano, vero?» le chiese il padre.

«Ma sì,» disse Ruzena, allontanandosi dallo specchio in punta di piedi per tentare di capire che effetto facessero le gambe con quel vestito «però, non arrabbiarti, è che fra poco devo andare in un posto e ho fretta».

«Io ammetto solo i cani poliziotto, oppure i cani da caccia» disse il padre. «La gente che tiene i cani in casa non riesco proprio a capirla. Tra un po', le donne smetteranno di far figli e nelle carrozzine vedremo i barboncini».

Ruzena non era soddisfatta dell'immagine che lo specchio le restituiva. Tornò all'armadio per cercare un vestito che le stesse meglio.

«Abbiamo deciso che uno potrà tenere un cane in casa solo se tutti gli altri inquilini, alle riunioni di caseggiato, saranno d'accordo. E aumenteremo la tassa sui cani».

«Vedo che hai un sacco di preoccupazioni» disse Ruzena, e si rallegrò al pensiero di non dover più abitare con i suoi. Fin da quando era piccola detestava il padre, con le sue prediche e i suoi ordini. Anelava a un mondo in cui le persone parlassero una lingua diversa dalla sua.

«Non c'è niente da ridere. I cani sono veramente un problema importante, e io non sono il solo a pensarlo, lo pensano anche le più alte autorità politiche. Si vede che si sono dimenticati di chiederlo a te che cosa e importante e che cosa no. Tu, naturalmente, avresti risposto che la cosa più importante al mondo sono i tuoi vestiti» disse accorgendosi che la figlia si nascondeva di nuovo dietro l'anta dell'armadio per cambiarsi.

«Sono sicuramente più importanti dei tuoi cani» ribatté lei, e di nuovo si alzò sulla punta dei piedi davanti allo specchio. E di nuovo non si piacque. Ma la scontentezza di sé si stava a poco a poco mutando in dispetto: pensò malignamente che il trombettista doveva accettarla anche con quel vestitino da poco, e quel pensiero le procurò una strana soddisfazione.

«É una questione d'igiene» continuò il padre. «La nostra città non sarà mai pulita finché i cani cacheranno sul marciapiede. E poi, è anche una questione di morale. É inammissibile che si coccolino dei cani in alloggi costruiti per gli uomini».

Stava succedendo qualcosa di cui Ruzena non si rendeva assolutamente conto: il suo dispetto confluiva, segretamente e impercettibilmente, nell'indignazione del padre. Non provava più, nei suoi confronti, quella viva ripugnanza che le aveva ispirato qualche minuto prima; al contrario, attingeva inconsciamente energia dalle irose parole del vecchio.

«Noi non abbiamo mai avuto cani, a casa, e non ne abbiamo sentito la mancanza» disse il padre.

Lei continuava a guardarsi allo specchio, e sentiva che la gravidanza le conferiva una superiorità mai avuta prima. Che lei si piacesse o no, il trombettista era venuto fin lì e con estrema gentilezza l'aveva invitata al caffè. Anzi (guardò l'orologio), in quel momento era già là ad aspettarla.

«Ma noi, ragazza mia, metteremo ordine, vedrai!» rise il padre, e lei stavolta gli disse con dolcezza, quasi con un sorriso:

«Mi fa piacere, papà. Ma adesso devo proprio andare».

«Anch'io. Tra un attimo riprendiamo le esercitazioni».

Uscirono insieme dalla Casa Karl Marx e si salutarono. Ruzena si avviò lentamente verso il caffè.

8

Klìma non era mai riuscito a identificarsi completamente col personaggio mondano dell'artista famoso che tutti conoscono, e soprattutto in questo momento di gravi preoccupazioni lo sentiva come uno svantaggio, come un peso. Quando entrò con Ruzena nell'atrio del caffè e vide appesa al muro, di fronte al guardaroba, la sua foto in grande formato sul manifesto che era rimasto lì dal suo ultimo concerto, fu preso da un angoscioso imbarazzo. Attraversò la sala con la ragazza cercando automaticamente di indovinare chi, tra i clienti, lo riconoscesse. Aveva paura degli occhi, gli pareva che lo osservassero e lo controllassero da ogni parte, dettandogli l'espressione e il comportamento da tenere. Si sentì addosso sguardi curiosi. Si sforzò di non badarci e si diresse verso un tavolo in fondo alla sala, vicino a una vetrata da cui si vedevano le chiome degli alberi dei giardini pubblici.

Quando furono seduti sorrise a Ruzena, le accarezzò una mano e le disse che il vestito le donava. Lei protestò con modestia, ma lui insistette e tentò di parlare per un po' sul tema del suo fascino. Era, diceva, sorpreso del suo aspetto. Aveva pensato a lei per due mesi interi, al punto che lo sforzo pittorico della memoria gli aveva creato un'immagine di lei lontana dalla realtà. E la cosa straordinaria, diceva, era che, benché avesse pensato a lei pieno di desiderio, il suo aspetto reale superava l'immaginazione.

Ruzena obiettò che il trombettista non si era fatto vivo per due mesi e a lei sembrava che non l'avesse pensata poi tanto.

Lui si era accuratamente preparato a questa obiezione. Fece un gesto stanco con la mano e disse alla ragazza che lei non poteva neanche immaginare come fossero stati terribili per lui quei due mesi. La ragazza chiese cosa gli era successo, ma il trombettista non volle entrare nei particolari. Disse soltanto che aveva sofferto per una grossa ingratitudine e che, all'improvviso, era rimasto solo al mondo, senza amici, senza nessuno.

Aveva qualche timore che Ruzena si mettesse a interrogarlo minuziosamente sui suoi guai, perché avrebbe rischiato di imbrogliarsi nelle bugie. Ma erano timori superflui. Ruzena aveva appreso con grande interesse la notizia che il trombettista aveva passato momenti difficili, e accettava volentieri questa giustificazione di un silenzio durato due mesi, ma l'esatta natura dei suoi problemi le era del tutto indifferente. Di quei tristi mesi che lui aveva appena vissuto, a lei interessava soltanto la tristezza.

«Io ti ho pensato molto, e ti avrei aiutato volentieri» disse.

«Ero così disgustato del mondo intero che avevo paura persino di farmi vedere dagli altri. Un compagno triste non è un buon compagno».

«Anch'io ero triste» disse lei.

«Lo so» disse lui accarezzandole una mano.

«Già da parecchio ero convinta di aspettare un figlio da te. E tu non ti facevi vivo. Ma io mi sarei tenuta il bambino anche se tu non fossi venuto a trovarmi, anche se non avessi voluto vedermi mai più. Mi dicevo che, anche se fossi rimasta completamente sola, almeno avrei avuto tuo figlio. Non avrei mai accettato di sbarazzarmene. No, mai'''».

A questo punto Klìma perse l'uso della parola; un muto terrore si impadronì dei suoi pensieri.

Per fortuna un cameriere che stava pigramente servendo i clienti si fermò al loro tavolo e chiese che cosa ordinavano.

«Un cognac» fece il trombettista con un sospiro, ma subito dopo si corresse: «Due cognac».

Ritornò il silenzio, e Ruzena di nuovo sussurrò:

«Non me lo farei portar via per nulla al mondo».

«Non dire così» replicò Klìma tornando finalmente in sé. «Non è un problema soltanto tuo. Un figlio non riguarda soltanto la donna. Riguarda la coppia. E bisogna decidere in due. Se no, può andare a finir male».

Ma non appena tacque, si accorse che così, indirettamente, aveva ammesso di essere il padre del bambino e che da quel momento, ogni volta che avesse parlato con Ruzena, sarebbe stato ormai sulla base di quella confessione. Sapeva, certo, che agiva secondo un piano e che quella confessione era prevista, e tuttavia era spaventato dalle proprie parole.

Ma già si chinava su di loro il cameriere con i due cognac: «Lei è Klìma, il trombettista!».

«Sì» disse lui.

«Le ragazze della cucina l'hanno riconosciuta. Non è lei, su quel manifesto?».

«Sì» rispose Klìma.

«Dicono che lei sia l'idolo di tutte le donne dai venti ai settant'anni» disse il cameriere, e rivolto a Ruzena aggiunse: «Tutte le donne, qui, ti caveranno gli occhi dall'invidia!». E mentre si allontanava si voltò più volte, sorridendo con sfrontata familiarità.

Ruzena ripeté ancora una volta: «Non accetterei mai di sbarazzarmene. Anche tu, un giorno, sarai felice di averlo. Perché, vedi, io non ti chiedo assolutamente niente. Non penserai che io pretenda qualcosa da te. Puoi stare assolutamente tranquillo. É una cosa che riguarda me soltanto, se vuoi puoi non occupartene».

Non c'è nulla che riesca ad agitare un uomo come queste parole tranquillizzanti. Klìma ebbe all'improvviso la sensazione che salvare la situazione era superiore alle sue forze, che era meglio arrendersi. Taceva, e anche Ruzena taceva, così che le parole da lei appena pronunciate crebbero in quel silenzio e il trombettista, davanti ad esse, si sentì sempre più perso e disarmato.

Ma poi nella sua mente affiorò l'immagine della moglie. Non poteva arrendersi. Spostò quindi la mano sul piano di marmo del tavolino fino a toccare le dita di Ruzena. Le strinse e disse:

«Dimentica per un attimo il bambino. Non è affatto la cosa più importante. Credi che noi due non abbiamo nient'altro da dirci? Pensi che io sia venuto solo per questo bambino?».

Ruzena alzò le spalle.

«La cosa più importante è che senza di te ero triste. Ci siamo visti per così poco tempo. Eppure non c'è stato un solo giorno in cui non abbia pensato a te».

Tacque, e Ruzena disse: «Non ti sei fatto vivo per due mesi e io ti ho scritto due volte».

«Non volermene» disse il trombettista. «L'ho fatto apposta. Non volevo farmi vivo. Avevo paura di quello che stava succedendo dentro di me. Resistevo all'amore. Volevo scriverti una lunga lettera, ho anche riempito tanti fogli, ma alla fine li ho gettati via tutti. Non mi era mai successo di essere così innamorato, e ne ero spaventato. Ma perché non dovrei confessarlo? Volevo anche essere sicuro che il mio sentimento non fosse solo un'effimera infatuazione. Mi dicevo: se continuerò in questo stato per un altro mese, vorrà dire che quello che provo per lei non è illusione ma verità».

Ruzena disse sottovoce: «E adesso cosa ne pensi? É solo un'illusione?».

A questa domanda di Ruzena il trombettista capì che il suo piano stava dando i primi risultati. Così non lasciò la mano della ragazza e continuò a parlare, e le parole gli riuscivano sempre più facili: In quel momento, seduto di fronte a lei, aveva capito che era inutile sottoporre a ulteriori prove i propri sentimenti, che era tutto chiaro. E del bambino non voleva parlarne perché per lui era importante Ruzena, non il bambino. Quel bambino non ancora nato era importante solo perché lo aveva richiamato accanto a Ruzena. Sì, il bambino che lei si portava dentro lo aveva chiamato qui, nella piccola città termale, e gli aveva fatto capire fino a che punto amava Ruzena, e per questo (alzò il bicchierino di cognac) avrebbero bevuto alla salute di quel bambino.

Naturalmente, un attimo dopo era già terrorizzato da quel raccapricciante brindisi cui l'aveva spinto l'esaltazione verbale. Ma ormai le parole erano state dette. Ruzena alzò il bicchiere e sussurrò: «Sì, al nostro bambino» e bevve in un sorso il suo cognac.

Il trombettista si sforzò di allontanare in fretta il discorso da quel disgraziato brindisi, e affermò di nuovo che aveva pensato a Ruzena ogni giorno e ogni ora.

Lei disse che nella capitale il trombettista era sicuramente circondato da donne più interessanti di lei.

Lui le rispose che ne aveva fin sopra i capelli della loro affettazione e della loro arroganza. A tutte preferiva Ruzena, gli dispiaceva soltanto che lei lavorasse così lontano. Non avrebbe voluto trasferirsi nella capitale?

Lei rispose che avrebbe preferito la capitale. Ma non era facile trovarvi lavoro.

Lui sorrise con aria condiscendente e le disse che aveva molti conoscenti negli ospedali e non gli sarebbe stato difficile trovarle un posto.

Le parlò in questo modo per un pezzo, senza lasciarle la mano, e non si accorse che gli si era avvicinata una ragazzina sconosciuta. Senza timore di essere inopportuna, questa disse con entusiasmo: «Lei è il signor Klìma! L'ho riconosciuta subito! Vorrei soltanto chiederle un autografo!».

Klìma arrossì. Si rese conto che stava tenendo la mano di Ruzena e le stava facendo una dichiarazione d'amore in un luogo pubblico, sotto lo sguardo di tutti i presenti. Gli pareva di essere seduto sul palcoscenico di un anfiteatro e che tutto il mondo, trasformatosi in un pubblico divertito, seguisse con risa maligne la sua lotta per la vita.

La ragazzina gli tese un pezzetto di carta e Klìma avrebbe voluto scriverci il suo autografo il più presto possibile, ma né la ragazzina né lui avevano una penna.

«Non hai una penna?» sussurrò a Ruzena, e fu veramente un sussurro, perché non voleva che la ragazzina si accorgesse che dava del tu a Ruzena. Ma poi capì che darle del tu era molto meno intimo che tenerle la mano, e per questo ripeté la domanda a voce più alta: «Non hai una penna?».

Ma Ruzena scosse la testa e la ragazzina ritornò al tavolo dove sedeva con un gruppo di giovanotti e ragazze, i quali approfittarono subito dell'occasione e insieme a lei si precipitarono su Klìma. Gli diedero una penna, e strapparono da un'agendina dei foglietti su cui Klìma dovette mettere la propria firma.

Dal punto di vista del piano prestabilito, tutto andava bene. Più erano i testimoni della loro intimità, più Ruzena avrebbe creduto che lui l'amava. Ma, a onta dei ragionamenti, l'irrazionalità dell'angoscia gettò il trombettista nel panico. Gli passò per la testa l'idea che Ruzena si fosse messa d'accordo con tutta quella gente. In una visione confusa, li immaginava tutti a testimoniare contro di lui in una causa per attribuzione di paternità: “sì, li abbiamo visti, sedevano uno di fronte all'altra come due amanti, lui le accarezzava una mano e la guardava amorevolmente negli occhi”.

L'angoscia era aggravata dalla vanità del trombettista; egli non riteneva, infatti, che Ruzena fosse abbastanza bella da meritare che lui la tenesse per mano. In realtà, le faceva torto. Ruzena era molto più carina di quanto non sembrasse a lui in quel momento. Così come l'amore fa vedere più bella la donna che si ama, l'angoscia ispirata da una donna di cui si ha paura conferisce un rilievo smisurato al minimo difetto dei suoi tratti''' Finalmente i ragazzi se ne andarono e Klìma disse: «Non mi piace per niente questo locale. Non hai voglia di fare un giro in macchina?».

Lei era curiosa di vedere la sua auto e rispose di sì. Klìma pagò e uscirono dal caffè. Proprio di fronte c'era un giardinetto con un largo sentiero ricoperto di sabbia gialla. Una decina di uomini stavano in fila sul sentiero, voltati verso il caffè. Erano per lo più anziani, sulle maniche degli abiti spiegazzati ognuno di loro portava un bracciale rosso, e tenevano in mano lunghi bastoni.

Klìma era stupefatto: «Che roba è?».

Ma Ruzena disse: «Niente, fammi vedere dove hai la macchina» e cercò di tirarlo via in fretta.

Klìma, però, non poteva staccare gli occhi da quegli uomini. Proprio non riusciva a capire a che cosa mai servissero quelle lunghe pertiche che terminavano in cima con un cappio di fil di ferro. Li si sarebbe detti dei lampionai, dei pescatori a caccia di pesci volanti, una milizia dotata di armi segrete.

Mentre li guardava, gli parve che uno di loro gli sorridesse. Ebbe paura, paura perfino di se stesso; si disse che ormai cominciava a soffrire di allucinazioni e a vedere in ogni persona qualcuno che lo seguiva e lo spiava. Si lasciò dunque condurre a passo svelto da Ruzena fino al parcheggio.

9

«Mi piacerebbe andar via con te, lontano» disse. Teneva il braccio destro sulle spalle di Ruzena e col sinistro stringeva il volante. «Lontano, nel Sud. Percorrere lunghe strade che costeggiano il mare. Conosci l'Italia?».

«No».

«Allora promettimi che ci verrai con me».

«Non stai esagerando?».

Ruzena lo disse solo per modestia, ma il trombettista si allarmò subito, come se quello “stai esagerando” si riferisse a tutta la sua demagogia, che lei aveva d'un colpo smascherata. Ma ormai non poteva più tornare indietro:

«Sì, esagero. Ho sempre idee esagerate. Sono fatto così. Ma, a differenza degli altri, io le so anche realizzare, le mie idee esagerate. Credimi, non c'è nulla di più bello che realizzare i progetti più folli. Vorrei che tutta la mia vita non fosse altro che un unico folle sogno. Vorrei che non dovessimo più tornare alle terme, vorrei continuare a guidare senza mai fermarmi, fino al mare. Mi troverei un posto in qualche complesso, e insieme viaggeremmo da una stazione balneare all'altra».

Fermò la macchina in un posto da cui si godeva un bel panorama. Scesero. Lui la invitò a fare una passeggiata nel bosco. Camminarono, e dopo un po' si sedettero su una panchina di legno rimasta lì dai tempi in cui si andava meno in automobile e si apprezzavano di più le gite nei boschi. Lui le teneva sempre un braccio sulle spalle e all'improvviso disse, con voce triste:

«Tutti credono che la mia vita sia immensamente allegra. Si sbagliano di grosso. In realtà sono molto infelice. E non solo in questi ultimi mesi, ma da molti anni».

Se le parole del trombettista a proposito del viaggio in Italia erano parse a Ruzena un po' eccessive (nel suo paese ben poche persone potevano recarsi liberamente all'estero!) e avevano destato in lei una vaga sfiducia, la tristezza che spirava dalle ultime frasi di lui aveva un dolce profumo. E lei la fiutava come un arrosto di maiale.

«Come puoi essere infelice?».

«Come posso essere infelice'''» sospirò il trombettista.

«Sei famoso, hai una bella macchina, hai soldi, hai una bella moglie'''».

«Bella forse sì'''» disse il trombettista con amarezza.

«Lo so» disse Ruzena. «Non è più giovane. Ha la tua stessa età, vero?».

Il trombettista si rese conto che Ruzena si era accuratamente informata sul conto di sua moglie e ne provò rabbia. Ma continuò: «Sì, ha la mia stessa età».

«E allora! Tu non sei vecchio. Sembri un ragazzo» disse Ruzena.

«Solo che un uomo ha bisogno di una donna più giovane» disse Klìma. «E un artista più di chiunque altro. Io ho bisogno di giovinezza; tu, Ruzena, non puoi neanche immaginare quanto io ami la tua giovinezza. A volte mi sembra di non poter più resistere. Ho una voglia pazza di liberarmi. Di ricominciare tutto di nuovo e in un altro modo. Ruzena, quella tua telefonata, ieri''' Ho avuto improvvisamente la sensazione che fosse un segno mandato dal destino'''».

«Davvero?» chiese lei a voce bassa.

«E perché credi che ti abbia subito richiamata? Di colpo ho sentito che non potevo perdere altro tempo. Che ti dovevo vedere subito, subito, subito'''». Tacque e la guardò a lungo negli occhi: «Mi ami?».

«Sì, e tu?».

«Ti amo moltissimo» fece lui.

«Anch'io».

Si chinò su di lei e posò la sua bocca su quella di lei. Era una bocca pulita, una bocca giovane con molli labbra ben disegnate e denti ben curati, una bocca del tutto in regola, tant'è che due mesi prima lui aveva ceduto alla tentazione di baciarla. Ma proprio perché lo aveva tentato, lui l'aveva vista attraverso la nebbia del desiderio, e non sapeva nulla del suo vero aspetto: la lingua gli era parsa una fiamma e la saliva una bevanda inebriante. Ed ecco che quella bocca, che non lo attirava più, era diventata all'improvviso una bocca reale, una pura e semplice bocca, cioè quell'industrioso orifizio attraverso il quale erano entrati nella ragazza quintali di knedlìky, patate e minestra, e i denti avevano le loro piccole piombature, e la saliva non era una bevanda inebriante ma piuttosto la sorella germana dello sputo. Il trombettista aveva la bocca piena della lingua di lei come fosse stato un boccone cattivo che non poteva inghiottire e non osava sputare.

Finalmente il bacio ebbe termine, si alzarono e si rimisero in cammino. Ruzena era quasi felice, ma si rendeva conto che il motivo per cui aveva telefonato al trombettista e l'aveva costretto a venire restava stranamente fuori dalla loro conversazione. Non aveva voglia di discuterne a lungo. Al contrario, ciò di cui stavano parlando adesso le pareva molto più bello e importante. Però avrebbe voluto che quel motivo sottaciuto fosse stato almeno presente, sia pure in modo discreto, modesto, sommesso. E così, quando, dopo svariate dichiarazioni d'amore, Klìma affermò che avrebbe fatto tutto il possibile per vivere con Ruzena, lei fece notare:

«Sei molto caro, ma dobbiamo anche pensare che ormai non sono più sola».

«Sì» fece Klìma, e sapeva che era giunto il momento temuto fin dal primo istante: il punto più debole della sua demagogia.

«Sì, è vero» disse. «Non sei più sola, ma non è questo l'essenziale. Voglio stare con te perché ti amo, non perché sei incinta».

«Sì» fece Ruzena con un sospiro.

«Non c'è nulla di più terribile dei matrimoni che hanno come unica ragione d'essere un bambino concepito per sbaglio. Io, tesoro, se devo dire la verità, vorrei addirittura che tu fossi di nuovo come quando ti ho conosciuta. Che si potesse essere solo noi due, e nessun altro fra noi. Mi capisci?».

«Ma no, non è possibile, non potrei farlo mai» protestò Ruzena.

Non che ne fosse veramente convinta, nel profondo. La certezza assoluta che il dottor Skreta le aveva dato due giorni prima era così nuova che non aveva ancora le idee chiare. Non seguiva nessun piano stabilito, era soltanto piena della consapevolezza della propria gravidanza e viveva ciò che le era capitato come un grande avvenimento e soprattutto come una chance e un'occasione che non si sarebbe più ripresentata tanto facilmente. Si sentiva come può sentirsi una pedina che, arrivata al limite opposto della scacchiera, è diventata regina. Assaporava dolcemente il suo improvviso e inopinato potere. Vedeva che a un suo cenno le cose si mettevano in movimento, il famoso trombettista aveva lasciato la capitale per venire da lei, la portava in giro sulla sua splendida macchina, le dichiarava il suo amore. Non poteva dubitare che tra la sua gravidanza e il suo inatteso potere ci fosse un rapporto. E se non voleva rinunciare a quel potere, non doveva rinunciare nemmeno alla gravidanza.

Perciò il trombettista dovette continuare a spingere il suo macigno: «Tesoro, quello che io sogno non è la famiglia. É l'amore. Tu per me sei l'amore, e un bambino trasforma ogni amore in famiglia. In noia. In preoccupazioni. In tran tran. E trasforma ogni amante in madre. Tu per me non sei una madre. Sei un'amante, e non voglio dividerti con nessuno. Neanche con un figlio».

Erano belle parole, Ruzena era felice di sentirle, ma ciò nonostante scuoteva la testa: «No, non potrei. É pur sempre tuo figlio. Io non potrei mai sbarazzarmi di tuo figlio».

Lui si trovava ormai a corto di argomenti e continuava a ripetere le stesse cose, con il terrore che lei ne scoprisse l'ipocrisia.

«Ma tu hai trent'anni» disse lei. «Possibile che tu non abbia mai desiderato un figlio?».

Era vero che non aveva mai desiderato un figlio. Amava tanto Kamila che un figlio accanto a lei gli avrebbe dato fastidio. Ciò che aveva appena detto a Ruzena non era una semplice invenzione. Già da molti anni diceva esattamente le stesse cose a sua moglie, con assoluta sincerità e franchezza.

«Sei sposato da sei anni e non avete figli. Ero così felice di potertene dare uno».

Si rese conto che tutto si stava rivoltando contro di lui. L'eccezionalità del suo amore per Kamila veniva interpretata da Ruzena come sterilità della moglie, e questo le infondeva un'impudente audacia.

Cominciava a far fresco, il sole scendeva all'orizzonte, il tempo fuggiva e lui continuava a ripeterle ciò che le aveva già detto e lei insisteva col suo: “no, no, non potrei mai”. Si sentì in un vicolo cieco, non sapeva dove sbattere la testa e gli sembrava che ormai tutto fosse perduto. Era così nervoso che aveva dimenticato di tenerle la mano, di baciarla, di mettere tenerezza nella voce. Se ne accorse con spavento e tentò di riprendersi. Si fermò, le sorrise e la abbracciò. Era l'abbraccio della stanchezza. La stringeva a sé, il viso contro il viso, ed era in realtà un modo di appoggiarsi, di riposare, di riprendere fiato, giacché gli pareva che davanti a lui restasse ancora un lungo tratto di strada che non aveva più la forza di percorrere.

Ma anche Ruzena era allo stremo. Anche lei, ormai, non aveva più argomenti, e avvertiva che non si può ripetere per troppo tempo un semplice “no” all'uomo che si vuole conquistare.

La stretta durò a lungo, e quando Klìma la lasciò scivolare via dalle sue braccia, Ruzena abbassò la testa e disse con voce rassegnata: «Allora dimmi tu che cosa devo fare».

Klìma non riusciva a credere alle proprie orecchie. Quelle parole erano arrivate inaspettate e improvvise, ed erano un sollievo immenso. Così immenso che dovette fare un grande sforzo per non darlo a vedere. Accarezzò il volto della ragazza e le disse che il dottor Skreta era un suo buon amico e che sarebbe bastato che Ruzena si presentasse fra tre giorni davanti alla commissione. Lui l'avrebbe accompagnata. Non doveva aver paura di nulla.

Ruzena non protestava, e lui ritrovò la voglia di continuare a recitare la sua parte. Le teneva un braccio intorno alle spalle, a ogni momento si fermava per baciarla (la gioia era così grande che il bacio era di nuovo avvolto in un velo di nebbia). Le ripeté che doveva trasferirsi nella capitale. Le ripeté perfino i discorsi sul viaggio verso il mare.

Poi il sole sparì dietro l'orizzonte, il bosco cadde nel buio e sulle cime degli abeti apparve una luna tonda. Tornarono all'automobile. Mentre si avvicinavano alla strada, si trovarono tutti e due in un fascio di luce. All'inizio credettero che si trattasse di un'automobile che passava accanto con i fari accesi, ma poi fu evidente che il fascio di luce li seguiva. Veniva da una motocicletta parcheggiata sull'altro lato della strada; su di essa sedeva un uomo che li osservava.

«Sbrigati, ti prego» disse Ruzena.

Quando furono vicini all'auto, l'uomo che stava seduto sulla moto si alzò e andò verso di loro. Il trombettista non vedeva che una sagoma scura, perché la moto parcheggiata illuminava l'uomo da dietro, mentre lui e Ruzena avevano la luce negli occhi.

«Vieni qui!» fece l'uomo lanciandosi verso Ruzena. «Ti devo parlare! Abbiamo delle cose da dirci! Molte cose!» gridò con voce nervosa e confusa.

Anche il trombettista era nervoso e confuso, e non riusciva a provare altro che una sorta di irritazione per quella mancanza di rispetto. «La signorina è con me, non con lei» dichiarò.

«Ho qualcosa da dire anche a lei, sa!» gridò lo sconosciuto al trombettista. «Pensa di potersi permettere tutto perché è famoso? Crede di poterla infinocchiare! Di farle girare la testa! Per lei è semplicissimo! Ma anch'io ne sarei capace, al suo posto!».

Ruzena approfittò dell'attimo in cui il motociclista si rivolse a Klìma per infilarsi nell'auto. Il motociclista si lanciò verso la portiera. Ma il finestrino era chiuso, e la ragazza schiacciò il pulsante della radio. Nella vettura risuonò una musica rumorosa. Il trombettista saltò a sua volta nell'auto e sbatté la portiera. La musica, nella vettura, era assordante. Attraverso il vetro si vedeva soltanto la sagoma di un uomo che urlava e le sue braccia gesticolanti.

«É un pazzo che mi segue dappertutto» disse Ruzena. «Ti prego, andiamocene in fretta!».

10

Parcheggiò l'auto, accompagnò Ruzena alla Casa Karl Marx, la baciò, e quando lei fu scomparsa dietro la porta si sentì stanco come dopo quattro notti d'insonnia. Era tardi, ormai, aveva fame, e non si sentiva la forza di sedersi al volante e di guidare. Aveva bisogno delle tranquillizzanti parole di Bertlef, e si diresse al Richmond attraverso i giardini pubblici.

Arrivato all'ingresso, gli cadde sotto gli occhi un grosso manifesto su cui batteva la luce di un lampione. Su di esso era scritto il suo nome, in grosse lettere goffe, e sotto, a lettere più piccole, il nome di Skreta e quello del farmacista. Il manifesto era stato fatto a mano e decorato da un disegno dilettantesco che raffigurava una tromba dorata.

La prontezza con cui il dottor Skreta aveva organizzato la pubblicità del concerto parve al trombettista un buon segno, la prova che di Skreta ci si poteva fidare. Corse su per le scale e bussò alla porta di Bertlef.

Nessuno rispose.

Bussò di nuovo, e di nuovo ci fu silenzio.

Prima che avesse il tempo di pensare che forse giungeva in un momento poco opportuno (l'americano era noto per le numerose relazioni femminili), la sua mano era già sulla maniglia. La porta non era chiusa a chiave. Il trombettista fece un passo nella stanza e si fermò di colpo. Non vedeva niente. Non vedeva niente, tranne un chiarore che veniva da un angolo della stanza. Era un chiarore strano; non assomigliava né alla bianca luminescenza del neon, né alla luce gialla delle lampadine elettriche. Era una debole luce azzurrognola che riempiva tutta la stanza.

Ma in quel momento un pensiero tardivo raggiunse la sventata mano del trombettista e gli suggerì che forse commetteva un'indiscrezione entrando a così tarda ora nella stanza di un altro, senza essere stato invitato e senza essersi annunciato. Si spaventò della propria maleducazione, indietreggiò nel corridoio e chiuse in fretta la porta dietro di sé.

Ma era così confuso che invece di allontanarsi restò piantato davanti alla porta, sforzandosi di decifrare quella strana luce. Pensò che forse l'americano se ne stava nudo nella sua stanza e si esponeva ai raggi ultravioletti di una lampada al quarzo. Ma a quel punto la porta si aprì e comparve Bertlef. Non era nudo, portava ancora il vestito che aveva indossato la mattina. Sorrise al trombettista: «Sono felice che sia passato a trovarmi. Entri».

Il trombettista entrò con curiosità, ma la stanza era illuminata da un comune lampadario appeso al soffitto.

«Temo di averla disturbata» disse il trombettista.

«Ma no» rispose Bertlef, e indicò la finestra da cui, un attimo prima, il trombettista aveva creduto che giungesse la luce azzurrognola. «Stavo pensando. Nient'altro».

«Quando sono entrato, e mi scusi se ho fatto irruzione in quel modo, ho visto una luce stranissima».

«Una luce?» e Bertlef scoppiò a ridere. «Non deve prendersela in questo modo per quella gravidanza. Le dà le allucinazioni».

«Forse è perché venivo dal buio del corridoio».

«Forse» disse Bertlef. «Ma mi racconti com'è andata!».

Il trombettista cominciò il suo racconto ma Bertlef, dopo un attimo, lo interruppe: «Ha fame?».

Il trombettista annuì e Bertlef tirò fuori da un armadio un pacchetto di biscotti salati e una scatola di prosciutto che si affrettò ad aprire.

E Klìma continuò a raccontare, mangiando voracemente la sua cena e fissando Bertlef con sguardo interrogativo.

«Penso che andrà a finire tutto bene» lo confortò Bertlef.

«Ma chi crede che fosse quel tipo che ci aspettava vicino alla macchina?» chiese Klìma.

Bertlef alzò le spalle: «Non lo so. Comunque non ha nessuna importanza».

«Giusto. Bisogna piuttosto che pensi a come spiegare a Kamila perché la conferenza è durata tanto».

Era già molto tardi. Rifocillato e rassicurato, il trombettista salì in auto e partì per la capitale. Durante il viaggio lo accompagnò una grossa luna tonda.

Terza giornata