giovedì 25 marzo 2021

SCORFANA Estratto da L'UOVO DI BARBABLÙ Margaret Atwood



SCORFANA 

Estratto da L'UOVO  DI BARBABLÙ Margaret Atwood 

[...]Ma, tanto per cominciare, Scorfana era la sua gatta, per la miseria.). «Scorfana» dice. Ce l’ha più o meno da quando ha la poltrona reclinabile Lay-Zee-Boy e il tavolo da ping-pong: ne hanno viste di cose assieme. Lei lo guarda con il suo muso strano, mezzo arancione, mezzo nero, una linea divisoria che scende sul naso, una gatta Yin e Yang, come diceva sempre [...]


Joel odia novembre. Fosse per lui potrebbero tranquillamente buttarlo nel secchio, e non avrebbe niente da ridire. Pioggia e freddo, tutti depressi, e subito dopo un inverno intero da superare. Il proprietario ha spento di nuovo i riscaldamenti, il che significa che Joel ha due scelte: o lasciarsi congelare le chiappe in attesa che si stacchino oppure usare la stufa elettrica, che tradotto vuol dire più soldi, dato che l’elettricità si paga a parte. Il proprietario lo fa per ripicca a Joel, è un fatto personale. Proprio per questo motivo, Joel si rifiuta di traslocare. Agli altri dice che il palazzo gli piace, ed è vero: è un edificio classico, un palazzo che ha visto giorni migliori, con un ingresso ad arco e vetrate colorate. E tuttavia non vuole dare soddisfazione a quella vecchia canaglia del proprietario. Becka sapeva come prenderlo, quando ancora viveva qui. Doveva solo sporgersi dalla ringhiera mentre la vecchia carogna era al piano di sotto, usare la sua bella voce da gattona, e la temperatura schizzava in alto; un trucco impossibile da replicare per Joel.
Gli piacerebbe starsene al caldo, ma chi se lo può permettere? Peccato che avessero tassato le borse di studio, non che, per come vanno le cose, ci sia la possibilità di aggiudicarsene un’altra.
Le cose non vanno granché bene. Inizia a pensare che il teatro di strada dovrebbe restare in California: quassù ci sono solo tre mesi l’anno a disposizione, e alcuni sono fin troppo caldi, in quei costumi ingombranti si va a fuoco. Persino la regia non è una passeggiata di salute. La scorsa estate si è preso una scottatura sulla testa, dove comincia a campeggiare un accenno di calvizie. È stato proprio dopo questo fatto che Becka lo ha sorpreso in bagno, le spalle rivolte allo specchio, a guardarsi la testa da dietro con uno specchietto di plastica con la cornice viola, il suo. Lo ha punzecchiato per settimane. «Hai dato una controllata alla tua bellezza virile, stamane?» «Già pensato a una treccia?» «Staresti una favola anche bionda. Si abbinerebbe bene al colore del cranio.» «Un bel tappetino di peli sul petto, no?» «Potresti tagliarti un po’ di barba e appiccicarti i peli sulla testa, giusto?» Forse se l’era meritato; ricordava che una volta se l’era presa con lei per aver speso venticinque dollari dal parrucchiere, subito dopo essersi trasferita da lui. Quei venticinque dollari erano suoi, ma in teoria avrebbero dovuto dividere le spese. L’aveva definita una debolezza. Si ricordava che lui ricordava, ovviamente. Aveva una memoria come una trappola per topi: piena di topi.
Joel ha le dita ghiacciate. L’appartamento è come una partita di football sotto la pioggia. Appoggia la bic nera con cui non ha scritto niente nell’ultima mezz’ora, si stira, si gratta la testa. Per un istante, e con una certa irritazione, gli torna in mente il periodo in cui Becka si era fissata con una stilografica italiana: fissazione che aveva fatto la fine di tutte le altre. Poi ritorna dov’era rimasto.
Lo spettacolo su cui stanno lavorando sarà messo in scena di lì a due settimane: la Crocifissione secondo Calzino Spaiato S.p.a., con l’amministrazione nel ruolo di Giuda. La realizzeranno proprio accanto alle file dei picchetti, il che tirerà su il morale dei lavoratori, o quantomeno questa era l’idea di fondo. Joel non è proprio sicuro dell’opportunità di questo spettacolo, e ci sono state parecchie discussioni in merito, nel gruppo. L’idea è stata di Becka: l’ha motivata dicendo che avrebbero dovuto attingere a un simbolismo che parlasse ai lavoratori, e la maggior parte di loro sono portoghesi, sanno tutto di Giuda, basta guardare le statuette di gesso nei loro praticelli, tutti quei Gesù sanguinolenti e le Vergini Marie con in braccio un bambino, da brividi. Ciò nonostante, per lo stesso motivo, alcuni pensavano che rappresentare Cristo sotto forma di un grosso calzino di lana a strisce rosse e bianche sarebbe potuto risultare eccessivo. Si rischiava un’interruzione delle comunicazioni. Joel stesso era a disagio, ma aveva votato a favore di Becka, perché stavano ancora tentando di far funzionare il loro rapporto, all’epoca, e aveva ben presente l’inferno che avrebbe dovuto sopportare se avesse votato contro. Ecco un altro esempio, avrebbe detto, di come non mi lasci mai libera di esprimermi.
Spera che non verrà a piovere; dovesse succedere, il calzino gigante si riempirebbe d’acqua, tra l’altro. Forse dovrebbero scartare questa soluzione, tentarne una diversa. Qualsiasi cosa facciano, però, probabilmente si ritroveranno il vicedirettore e il vecchio in persona fuori dall’azienda ad accusarli di antisemitismo. È una cosa che a Joel succede spesso; la sua frequenza è aumentata dopo lo spettacolo sul Libano e la vendita delle armi al Sudafrica che hanno messo in scena davanti alla Beth Tzedec durante lo Yom Kippur. Forse si erano spinti troppo oltre con la fossa comune mobile, piena di bambole e macchiata di vernice rossa. Un paio di membri della troupe si erano chiesti se non fosse di cattivo gusto, ma Joel aveva detto che il cattivo gusto era solo il gendarme interiore dell’ordine costituito.
A Joel non piace risparmiare colpi. E se tu tiri colpi agli altri, loro faranno lo stesso con te. Tanto è vero che non riesce praticamente più ad andare alle feste. Non che debba evitarle proprio tutte, solo quelle di un certo tipo, in cui potrebbe trovarsi davanti i cugini di secondo grado e i tizi con cui andava in shul, che ora sono dentisti o si sono messi in affari. Anche prima dello spettacolo sul Libano non erano affatto gentili con lui. All’ultima festa, una donna che non conosceva, una signora attempata, era venuta a dirgli: «Invece di stringerti la mano, dovrei darti un calcio nello stomaco».
«Perché?» ha chiesto Joel.
«Lo sai il perché» ha detto la donna. «Che coraggio. Mangiare dal nostro piatto. Spero che ti strozzi.»
«Non pensa che dovremmo aprire un dibattito sulla situazione?» ha detto Joel. «Come fanno in Israele?»
«I goy non hanno il diritto» ha detto la donna.
«E chi sarebbero i goy?» ha detto Joel.
«Tu» ha detto la donna. «Tu non sei un vero ebreo.»
«Tutt’a un tratto si è autoeletta membro della commissione per la purezza della razza?» ha detto Joel. «Comunque, legga la Torah. Un tempo i profeti venivano lapidati.»
«Shmuck» ha detto la donna.
Joel cerca di non lasciarsi turbare: anche lui ha le sue belle credenziali. Volete qualche parente morto?, vorrebbe dirgli. Be’, ce l’ho.
E allora come fai a tradirli così?, risponderanno loro. Sputi sui tuoi morti.
Pensate che sarebbero d’accordo con quello che sta succedendo?, direbbe allora lui. Due torti non fanno una ragione.
Poi, dentro di lui, si apre il silenzio, perché se questa è la verità, nessuno lo saprà mai.
A Joel fa male la testa. Si alza dalla scrivania, si siede sulla sua poltrona-pensatoio, che è uguale a quella su cui il padre si sedeva a leggere il giornale a casa, una poltrona reclinabile Lay-Zee-Boy di similpelle nera. Joel ha comprato la sua che era almeno di terza mano in un negozio dell’usato, spinto dalla nostalgia e dal desiderio di comodità; anche se Becka lo aveva accusato di averlo fatto solo per sfidarla. Non riusciva a sopportare niente del suo arredamento, specialmente il tavolo da ping-pong; continuava a insistere per un vero tavolo da salotto, anche se, come sottolineava Joel con grande ragionevolezza, avrebbero perso la doppia funzione.
«Parli sempre di borghesia» diceva lei, il che non era vero. «Ma quella poltrona è proprio l’essenza. Eau de Bourgeoise.» La pronunciava dividendola in tre sillabe: buur-giu-as. Forse lo faceva apposta, per dargli addosso mutilando la parola, anche se l’unica volta che lui l’aveva corretta (l’unica, ne era sicuro), gli aveva detto: «Be’, scusa se esisto». Che ci poteva fare se aveva passato un anno a Montréal? E lei no. Che ci poteva fare se aveva fatto delle cose e lei no.
All’inizio pensava che avrebbero intavolato un dialogo nel quale, prima o poi, si sarebbero ritrovati d’accordo. Pensava che fossero entrambi coinvolti in un processo di assestamento e contro-assestamento reciproco. Ma considerando le cose col senno di poi, non si era mai trattato di dialogo. Era semplicemente una continua, degradante lite.
Joel decide di non rimuginare più sui suoi casini personali. Ci sono cose più importanti al mondo. Il giornale del mattino è sparso sul pavimento, lo raccoglie, sapendo che leggerà versioni distorte e censurate della realtà; ma proprio mentre sta per affrontare le ottuse e miopi lettere della rubrica «Il direttore risponde», squilla il telefono. Joel esita prima di rispondere: forse è Becka, e non si può mai sapere di che umore sarà. Ma la curiosità ha la meglio, come spesso accade quando si tratta di Becka.
Solo che non è Becka. «Ti stacco le palle» gli dice una voce maschile, con un tono quasi sensuale, all’orecchio.
«Con chi desidera parlare, prego?» dice Joel, nella sua migliore imitazione di un maggiordomo inglese dei film degli anni Trenta. Joel è un appassionato spettatore dei film che trasmettono a tarda notte.
Non è la prima telefonata di questo genere. A volte sono antisemiti, che vogliono tagliargli quelle palle da ebreo; a volte sono ebrei, che vogliono tagliargli le palle perché ritengono che non sia abbastanza ebreo. In ogni caso il messaggio è lo stesso: resterà senza palle. Forse dovrebbe presentare una fazione all’altra, così potrebbero tagliarsi le palle a vicenda, dato che questa sembra essere la loro shtick. A lui, le sue, piacciono dove stanno.
L’eloquio di Joel spiazza il tizio che borbotta qualcosa sugli sporchi bastardi comunisti. Joel gli dice che Mr Murgatroyd non è in casa al momento; gli dispiacerebbe lasciare nome e numero di telefono? Il vigliacco riattacca e Joel fa altrettanto. È tutto sudato. Non gli succedeva all’inizio, ma le telefonate alle due del mattino lo hanno messo a dura prova.
Joel non vuole trasformarsi in uno di quei paranoici che s’infilano sotto il divano ogni volta che qualcuno bussa alla porta. Non esiste la Gestapo qui, si dice. Ha solo bisogno di mangiare un po’. Va in cucina e rovista nel frigo, senza trovare granché. Di loro due, era Becka che faceva più spesso la spesa. Senza di lei, è regredito alle vecchie abitudini: pizza, pollo fritto da KFC, ciambelle da Dunkin’ Donuts. Sa che non è sano, ma gli piace crogiolarsi nel cibo malsano quasi fosse una sorta di perversa ribellione contro di lei. Di solito giustificava i suoi gusti dicendo che è così che mangia il lavoratore medio, ma persino allora sapeva che stava usando l’ideologia per coprire una dipendenza. Comunque sta arrivando la mezza età, a giudicare dal fatto che ancora prende le vitamine che Becka gli imponeva, paventandogli l’eventualità del beri beri, della costipazione e dello scorbuto, in caso si fosse astenuto. Ricorda con una certa sofferenza la fase della crusca.
La verità è che persino la normale cucina di Becka, per quanto fosse buona, lo metteva sul chi va là. Aveva sempre la sensazione di essere nella casa sbagliata, non nella sua, visto che non aveva mai associato casa sua al cibo commestibile. La madre era stata una cuoca talmente terrificante che la maggior parte delle sere si alzava da tavola più affamato di prima. A mezzanotte, strisciava di nascosto in cucina, a piedi nudi come un ladro, lo stomaco che brontolava così rumorosamente da rischiare di svegliare sua madre. Dopodiché partiva la caccia a quanto c’era di vagamente digeribile, immancabilmente dolci presi da Hunt o alla Woman’s Bakery, fagottini alla mela, muffin, tortine, biscotti. Lei glieli nascondeva; non stavano mai nel frigo o nel portapane, neppure una volta le era venuto in mente che fosse lui a mangiarli di notte. Con cura, come uno scassinatore che tenta di far scattare una chiusura a combinazione particolarmente sensibile, smantellava la cucina, spostando una pentola alla volta, una pila di piatti alla volta. Qualche volta lei arrivava addirittura a nasconderli in salotto; una volta persino in bagno, sotto il lavandino. Quella era davvero una bassezza. Ricorda il senso di sfida, l’eccitazione crescente, il trionfo quando alla fine scopriva quelle dolci buste unte di carta marrone sigillate ermeticamente e che emanavano un leggero odore di muffa. Aveva un’immagine di se stesso, in pigiama, accovacciato accanto alla refurtiva appena trascinata fuori da sotto la poltrona, che si riempiva di Chelsea buns, gongolante. Il giorno dopo lei non ne faceva mai menzione. Una o due volte aveva fallito nel suo intento, ma giusto una o due volte. Nemmeno in quel caso lei aveva fatto allusioni.
Ora, rovistando nel disastro del suo frigo, Joel non trova niente da mangiare. C’è mezzo vasetto di yogurt, ma è un avanzo di Becka e quindi, ormai, di dubbia genuinità. Decide di uscire. Alla fine localizza la giacca, è nel mucchio di vestiti in fondo all’armadio in corridoio. In un modo o nell’altro, le cose non riescono a restare appese quando ad appenderle è lui. Sul dorso della giacca c’è scritto BLUEJAYS, e i polsini sono sfilacciati; è unta di grasso da quando si è infilato sotto la macchina, anni prima, per cercare di dimostrare a chissà chi che lui conosceva il motivo della perdita; esercizio inutile. La scelta della macchina era stata completamente irrazionale; non c’era mai una spiegazione plausibile per nessuna delle cose che le succedevano, per nessuna delle parti che perdeva per strada. Joel aveva la sensazione che guidarla fosse come sbattere il naso contro l’establishment delle macchine, lo snobismo delle macchine, l’idea platonica delle macchine; di conseguenza, rifiutava di dargliela vinta. Era questa la macchina che alla fine gli avevano rubato. «Hanno fatto un favore a tutti noi» aveva detto Becka.
Una volta Becka aveva minacciato di bruciargli la giacca. Se doveva indossare una stupida marca da macho, diceva, quantomeno poteva scegliersene una che non fosse da perdente; il che dimostrava quanto ne sapesse sull’argomento. Ostentazioni con cui riusciva a convivere. Da quel momento lui aveva iniziato a ignorarla; il testo, cioè, non il sottotesto. Fin dove era possibile.
Mentre si sta tirando su la lampo squilla il telefono. Joel pensa che possa essere un altro tagliapalle; dovrebbe procurarsi una segreteria telefonica, di quelle che puoi ascoltare in tempo reale. Ma stavolta è davvero Becka. Stasera ha la voce sottile e triste, quella di cui non si fida mai. È più credibile quando sbraita.
«Ciao, Becka» dice, prudentemente neutro. «Come ti vanno le cose?» Era lei a essersi chiusa la porta alle spalle, anche se «chiusa» è un eufemismo, quindi se uno dei due vuole cercare una riconciliazione, deve essere lei. «Volevi qualcosa?» aggiunge.
«Non fare così» dice lei, dopo una breve pausa di riflessione.
«Così come?» dice. «Cosa sto facendo di così terribile?»
Lei sospira. Li conosce bene, questi sospiri: sospira al telefono meglio di qualsiasi donna abbia mai conosciuto. Se non avesse sospirato così spesso, se non avesse conosciuto il prezzo da pagare per quei sospiri, avrebbe ceduto. Ma lei evita la domanda; un tempo avrebbe risposto di slancio. «Pensavo di fare un salto» dice. «Per parlarne un po’.»
«Certo» dice Joel, sprofondando nella sua vecchia abitudine: mai rifiutare di parlarne un po’. Ma sa già dove li porterà parlarne un po’. Immagina il corpo di Becka, che lei tiene in serbo, come argomento decisivo; quel che per lui è desiderio, per lei è grassezza. Alcune delle loro prime litigate erano state proprio su questa divergenza di opinione. «Tanto di qui non mi muovo» le dice. Se è un’offerta, perché rifiutarla?
Ma dopo aver riattaccato si pente della sua accondiscendenza. Andranno a letto insieme. E poi? Che mi rappresenta una cosa del genere? Sta escogitando un’altra mossa, magari ritrasferirsi da lui? Non sa se ha voglia di infilarsi di nuovo in quella centrifuga. Comunque ora ha fame. Batte a macchina un biglietto – a mano sarebbe stato troppo intimo –, scrive che è stato costretto a uscire all’improvviso per andare a una riunione importante, e che si parleranno più tardi. Non scrive che si vedranno. Apre la porta posteriore, che è quella che usa lei, e attacca il biglietto, accorgendosi nel mentre che qualcuno ha tirato un uovo sulla porta: gli avanzi stanno colando sulla vernice, in parte rappresi, il guscio rotto è sul marciapiede.
Joel torna dentro, chiude la porta. È buio fuori. Qualcuno si è preso un bel disturbo per arrivare sul retro; qualcuno che sa esattamente chi abita dietro quella porta. Non è stato solo un tiro casuale, di una persona di passaggio con un uovo in mano che, d’un tratto, ha sentito l’incontenibile bisogno di tirarlo. Ha qualche idea: forse è un altro affettapalle, pensiero che non lo entusiasma per niente. Forse è il proprietario: gli è venuto in mente anche la settimana prima, quando ha trovato un chiodo piantato nella ruota posteriore della bicicletta. Non pensa si tratti delle forze dell’ordine. Ha il sospetto che la polizia abbia intercettato le sue telefonate, più di una volta, conosce quello scricchiolio sulla linea, e senza dubbio è sulla loro lista, come la maggior parte delle persone che, in questo paese, si prende il disturbo di fare qualcosa. Ma non si sarebbero abbassati alle uova.
O forse è Becka. Tirare un uovo alla sua porta, poi telefonargli per fare pace perché si sente in colpa di qualcosa che non avrà mai il coraggio di confessargli, è nel suo stile. «Quale uovo?» gli direbbe, se interpellata, con la sua espressione da cerbiatto innocente, e lui non saprebbe mai qual è la verità. Una volta, quando erano a una festa insieme, gli era arrivato all’orecchio il pettegolezzo di una tipa che di recente si era lasciata con un tale conosciuto da entrambi. Questa era andata all’ufficio postale e aveva riempito il modulo per il cambio di indirizzo col nome di lui, dirottando tutta la sua posta in una cittadina sperduta dell’Africa centrale. All’epoca, e dato che il tizio non gli era granché simpatico, Joel aveva trovato divertente la storia. Becka no, anche se aveva ascoltato con più attenzione di lui, e aveva fatto anche qualche domanda. Ora lo colpisce l’eventualità che lei abbia potuto mettere da parte queste informazioni per il futuro. Cerca di ricordare il resto della vicenda, cos’altro aveva fatto la donna: intercettare le camicie dell’uomo mentre la lavanderia gliele stava riconsegnando e tagliare tutti i bottoni, mandare corone di fiori alla sua nuova ragazza. Joel è al sicuro su entrambi i fronti: non manda le camicie in lavanderia, non ha una ragazza nuova. Deve solo stare attento alla posta.
Si chiede se uscire proprio adesso sia una buona idea. Becka ha ancora una chiave, un problema che lui stesso dovrà risolvere molto presto. Forse la troverà in casa, al suo ritorno, ad aspettarlo. Decide di rischiare. Quando non lo troverà, potrà restare o andarsene, dipenderà da lei. (Lasciare a lei la scelta è sempre stata una delle sue tattiche migliori. La fa andare fuori di testa.) In ogni caso, lui ha fatto la sua mossa. Le ha dimostrato di non essere impaziente. Stavolta sarebbe toccato a lei fare lo sforzo.
Mentre cerca il portafogli nel guazzabuglio di tascabili, giornali, e calzini accanto al letto, Scorfana gli si strofina sulle gambe, facendo le fusa. Lui le fa qualche grattino tra le orecchie e la tira su lentamente per la coda, convinto com’è che ai gatti piaccia. («Piantala, le spezzerai la schiena» protestava Becka. Ma, tanto per cominciare, Scorfana era la sua gatta, per la miseria.)
«Scorfana» dice. Ce l’ha più o meno da quando ha la poltrona reclinabile Lay-Zee-Boy e il tavolo da ping-pong: ne hanno viste di cose assieme. Lei lo guarda con il suo muso strano, mezzo arancione, mezzo nero, una linea divisoria che scende sul naso, una gatta Yin e Yang, come diceva sempre Becka durante la sua fase tutta cereali biologici ed energia mente-corpo.
Lo segue fino alla porta, quella d’ingresso stavolta; uscirà nel vestibolo condiviso e scenderà le scale, verso la strada illuminata. Lei miagola, ma lui non vuole che esca, non di notte. Anche se è sterilizzata, se ne va in giro e a volte litiga. Forse i maschi non riescono a capire che è femmina; o forse pensano che lo sia, ma lei non è d’accordo. Si lanciava spesso in dettagliate analisi sulle inibizioni sessuali di Scorfana con Becka, a colazione. A prescindere dal motivo, si ritrovava sempre nei pasticci: ha le orecchie sbeccate, e lui gliele cura con la crema antibiotica, ma tanto lei se la lecca via. Pensa a distrarla con il cibo, ma ha finito i croccantini, motivo in più per uscire. Prende il dubbio vasetto di yogurt dal frigo e glielo lascia aperto sul pavimento.
Joel si pulisce la bocca, scosta il piatto. Si è abbuffato: cotoletta panata, patate fritte, tutto quanto. Ora è sazio e indolente. La sala sul retro del Danubio Blu è sempre stato uno dei suoi posti preferiti per mangiare, prima di andare a convivere con Becka, o meglio, prima che lei andasse a vivere con lui. È economico e il rapporto quantità prezzo è ottimo, e pure la qualità è buona. Ha un altro vantaggio: ci vanno anche altre persone che cercano cibo a buon mercato, studenti di arte, a coppie o da soli, attori o attrici disoccupati, quelli che sperano di rimorchiare ma non sono abbastanza disperati o ricchi o insensibili da andare nei locali per single. A Joel non piacerebbe rimorchiare una ragazza che frequenta i locali per single.
A Becka questo posto non è mai piaciuto, quindi lui ha perso poco a poco l’abitudine di andarci. L’ultima volta che hanno mangiato insieme è stato qui, però: un chiaro segnale per entrambi che il vento stava cambiando.
Becka era tornata dalla toilette e si era seduta di peso di fronte a lui, come se avesse fatto una scoperta devastante. «Indovina cosa c’è scritto nel bagno delle donne?» gli ha chiesto.
«Mi arrendo» ha detto Joel.
«Le donne fanno l’amore. Gli uomini fanno la guerra» ha detto lei.
«E allora?» ha detto Joel. «Il rossetto è rosso o rosa?»
«E allora è vero.»
«E cosa c’è di illuminante?» ha detto Joel. «Non sono gli uomini a fare la guerra, sono alcuni uomini. Pensi che la classe operaia voglia andare a farsi scannare a passo di marcia? Sono i generali, sono i…»
«Ma non sono le donne, giusto?» ha detto Becka.
«Non c’entra niente» ha detto Joel, esasperato.
«Ecco di che parlo» ha detto Becka. «Solo il tuo stramaledetto punto di vista è valido, non è così?»
«Cazzate» ha detto. «Non stiamo parlando di punti di vista. Parliamo di storia
Mentre lo diceva, l’inutilità di quanto stava cercando di fare lo travolse, come talvolta gli accadeva: che senso aveva continuare così, in una società come questa, dove quando fai due passi avanti, subito dopo ti tocca farne due indietro? La frustrazione, la mancanza di soldi, l’indifferenza, e soprattutto l’incessante e puerile battibecco di sinistra su chi è più puro. Se ci fosse un vero scontro (pensa alle «armi», non alla «guerra»), se fosse uno scontro aperto, le cose sarebbero più chiare; ma anche questa può essere considerata una tentazione, l’impulso a romanticizzare le battaglie altrui. È difficile decidere quale sia la forma d’azione più valida. Bisogna essere morti per essere autentici, come sembrano credere i puristi? Eppure non gli è parso di notare nessuno di loro in fila per il plotone d’esecuzione. Forse è lui ad aver scelto la modalità sbagliata; forse il teatro di strada non è adatto a questo posto, dove le strade sono così linde e pinte e nessuno ci vive nelle baracche o nelle fogne o sdraiati sugli zerbini, sui marciapiedi. Qualche volta pensa che stiano tutti recitando, crogiolandosi in una mascherata da adulti alla fine della quale non si conclude niente.
Ma certi stati d’animo non durano quasi mai troppo a lungo. «Le guerre si combattono per far restare al potere quelli che già lo detengono» ha detto a Becka, cercando di fare appello alla pazienza.
«Non penserai mica di poter vincere, vero?» ha detto Becka dolcemente. Gli leggeva nella mente, ma solo nei brutti momenti.
«Non si tratta di vincere» ha detto Joel. «So solo da che parte preferisco stare, ecco tutto.»
«Che ne pensi di stare dalla mia?» ha detto Becka. «Tanto per cambiare.»
«Di che cazzo vai parlando?» ha detto Joel.
«Non ho fame» ha detto Becka. «Torniamo a casa.»
Per Joel è la parola casa che adesso riecheggia nell’aria, lamentosamente, in tono minore. Casa non è un posto, aveva detto Becka una volta, è un sentimento. Forse è proprio questo il problema, gli aveva risposto Joel. Per lui, da adolescente, casa era l’assenza di qualcosa che doveva esserci. Tornare a casa era tornare nel nulla. Stava meglio fuori.
Si guarda intorno, la sala è piena di fumo, le pareti sono spoglie, un’occhiata veloce alle coppie, una più lunga alle donne sole. Perché non confessarlo? Stasera è uscito perché è in cerca, come tante altre volte: di qualcuno con cui tornare a casa, non la sua, nella speranza che questo luogo sconosciuto, o meglio, un altro luogo sconosciuto, conterrà finalmente qualcosa che desidera avere. È stata la telefonata di Becka a fargli scattare certi pensieri: gli fa questo effetto. Ogni mossa volta a circondarlo, inchiodarlo, costringerlo in un angolo, gli suscita una voglia ancor più disperata di fuggire. Lei non lo ha mai detto chiaro e tondo, ma voleva solo continuità, impegno, monogamia, e compagnia bella. Quarant’anni della stessa immagine davanti agli occhi erano troppo lunghi per poterli prendere in considerazione.
Vede una ragazza che conosce appena, ricorda di averla incontrata d’estate, quando hanno messo in scena il Gigantesco Pomodoro Cannibale vicino a Leamington, per i raccoglitori itineranti. (Baracche con acqua fredda. Insetticida nei polmoni. Nessuna assicurazione medica. Intimidazione. È stato un bello spettacolo.) La ragazza recitava in un ruolo minore, portava un cartello. Se ricorda bene, se la faceva con uno della troupe; era l’unica spiegazione che gli sembrasse valida per giustificare la sua presenza tra loro. Spera di avere ragione, spera che lei non sia troppo militante. Becka non era una militante quando l’aveva conosciuta. A quei tempi insegnava arteterapia in un manicomio, aiutava i matti a esprimere loro stessi con carta di giornale umida e colla. Aveva una calma, una pazienza che, ormai se ne era reso conto, era solo una patina professionale, ma su cui lui, all’epoca, si era accoccolato come su un’amaca. Gli era piaciuto provare a plasmarla, e lei si era lasciata coinvolgere ripetendo a pappagallo per compiacerlo. Che errore.
Di recente, ha capito che il tipo di donne che dovrebbero eccitarlo – intellettuali di sinistra che riescono a sostenere il proprio punto di vista in una conversazione, che credono nella parità, che sanno essere buone compagne – non sono quelle che poi, in effetti, lo attraggono. Non si vergogna di questa scoperta, come di sicuro gli sarebbe successo un tempo. Preferisce le donne dalla voce suadente e che non vivono sempre nella loro testa, che non prendono tutto mortalmente sul serio. Ha bisogno di qualcuna che non discuta se sia o meno troppo macho, se usare il deodorante sotto le ascelle equivalga o no a incoraggiare i padroni, se il personale sia politico o il politico sia personale, se lui sia antisemita, antifemminista, antitutto. Qualcuna che non discuta.
Sposta la sedia e si avvicina, pronto a essere respinto. Possono sempre dirgli di andarsene. Non gliene importa granché, non prova mai a insistere. Non ha senso rendersi insopportabile, e lui non vuole stare con una persona che non voglia stare con lui. Non ha mai capito il perché dello stupro.
Questa ragazza ha i capelli ramati, con la riga in mezzo e tirati indietro. È china sui suoi noodle, fingendo di essere assorta in un libro consistente ma tascabile che tiene aperto accanto al piatto. Joel si lancia nei convenevoli di apertura: «Ciao, piacere di rivederti. Ti dispiace se mi siedo?».
Lei alza gli occhi, con quel lieve cipiglio che così spesso vede sul loro viso, quell’espressione da sono-appena-riemersa-da-uno-stato-di-trance, Oh, mi hai spaventato, come se non si fosse accorta che lui si stava avvicinando. Se ne è accorta, invece. Lo riconosce, esita, valuta; poi sorride. Gli è grata, lo capisce, per la compagnia: dev’essere tutto finito con Comesichiamalui. Sollevato, si siede. Pur sapendo che nessuno lo stava osservando, si sarebbe comunque sentito stupido a essere scacciato, come un cucciolo dopo una marachella.
Ora passa al libro: è sempre un buon modo di attaccare bottone. Lo gira per vedere il titolo. Storia della trapunta. Libro tosto: non sa niente e gliene frega ancora meno di come si cuciano le trapunte. Immagina che lei sia il tipo di ragazza a cui piace leggere certe cose ma che in realtà non si cimenterebbe mai con un’attività del genere; anche se esordire con una dichiarazione simile sarebbe un po’ troppo aggressivo. Sminuirle proprio all’inizio è un grave errore.
«Ti va una birra» dice, «o sei vegetariana?»
«In effetti lo sono» dice, con quel sorrisino tirato di superiorità che sono abituate a rivolgerti. Non ha capito la battuta. Joel sospira; sono partiti con il piede giusto.
«Allora non ti dispiace se fumo?» dice.
Lei si addolcisce; evidentemente non vuole allontanarlo. «Prego, fai pure» dice. «La sala è grande.» Non aggiunge che è già satura di fumo, e la cosa gliela fa piacere.
Ha l’impulso di chiedere: «Vivi in questa zona?», ma non ce la fa, non di nuovo. Anche «Dimmi qualcosa di te» è da escludere. E così si ritrova a scivolare quasi immediatamente, più in fretta del solito, nel realismo sociale. «Che giornata di merda» dice. Ci crede davvero, non sta fingendo, è stata davverouna giornata di merda; ma se da un lato sa di volere un po’ di empatia, dall’altro è ben conscio che sta mettendo in pratica un piano efficace: se si dispiacciono per te, come possono avere il coraggio di rifiutarti?
Becka lo accusava di avere il cazzo staccabile. Nella sua versione lui se lo svitava, lo metteva al guinzaglio, e lo portava fuori a passeggiare, come un bassotto senza zampe o una specie di maiale da tartufi (la sua metafora preferita). Secondo lei si infilava in qualsiasi buco o fessura trovasse, qualcosa che avesse vagamente la forma di un imbuto, che fosse lontanamente femminile. Nelle sue più surreali invenzioni (quando ancora stava cercando di convivere con quella che lei definiva la sua abitudine, prima di cambiare parola e passare a compulsione, quando ancora tentava di prenderla con ironia), si sarebbe ritrovato risucchiato chissà dove, in una trappola per topi, in un tronco morto o in un rubinetto esterno, senza riuscire a liberarsi perché il suo cazzo aveva sbagliato buco. Cosa ci si poteva aspettare, diceva, da un animale primitivo senza occhi?
«Se ti portassi una pecora e un paio di galosce, resteresti più tempo a casa?» diceva. «Potremmo tenerla in garage. Se avessimo un garage. Se non fosse troppo buur-giu-as avere un garage.»
Ma si sbagliava, non è il sesso che cerca. Non solo il sesso, almeno. A volte pensa, mentre lo fa, che avrebbe preferito fare una corsetta intorno all’isolato o guardare un film o giocare a ping-pong. Il sesso è semplicemente un preliminare sociale, quello che un tempo era la stretta di mano; è il primo passo per conoscere qualcuno. Quando la pratica è stata espletata, ci si può concentrare sulle cose importanti; anche se senza farlo, in un certo senso, non è possibile. Gli piacciono le donne, a volte gli piace solo parlare con loro. Quelle con cui gli piace parlare e ridere, sono le donne che segretamente definisce «ripetenti».
«Perché non ti basto io?» diceva Becka, subito dopo le prime due o tre, quando aveva capito tutto. Non era un bravo bugiardo; gli scocciava dover fare le cose di nascosto.
«Non ha importanza» diceva lui, cercando di consolarla; era in lacrime. La amava ancora con semplicità, all’epoca. «Non è più importante di uno starnuto. Non c’è coinvolgimento emotivo. Tu sei il mio coinvolgimento emotivo.»
«Se non ha importanza perché lo fai?» diceva lei.
Non era capace di risponderle. «Perché sono fatto così» diceva alla fine. «Fa parte di me. Non riesci ad accettarlo?»
«No, perché è così che sono fatta io» diceva lei, piangendo ancora di più. «Mi fai sentire una nullità. Mi fai sentire di non valere niente per te. Non valgo nemmeno più di uno starnuto.»
«Questo è un ricatto» diceva, allontanandosi. Non riusciva a sopportare di doversi sottoporre a un’estrazione forzata di amore e fedeltà, nemmeno fosse una spremuta d’arancia o un dente. Niente spremiagrumi. Niente pinze. Avrebbe dovuto saperlo bene che era lei la relazione principale: glielo aveva ripetuto a sufficienza.
Il nome di questa ragazza, che lui ha dimenticato ma che riesce a farle dire fingendo di averlo sulla punta della lingua, è Amelia. Lavora, manco a dirlo, in una libreria. A guardarla più da vicino, vede che non è così giovane come pensava all’inizio. Ha minuscoli accenni di rughe intorno agli occhi, le si sta formando una riga dalla narice all’angolo della bocca; più avanti si allungherà al mento, che è piccolo e a punta, e svilupperà quell’espressione scontrosa, affamata. Le rosse hanno la pelle delicata, invecchiano presto. Ha una collana, con un ciondolo di vetro che contiene fiori secchi. Pensa sia il genere di ragazza che appende dei prismi alle finestre e un poster di una balena sopra il letto, e quando vanno a casa sua, si accorge che in effetti è proprio così.
Amelia è una di quelle che a letto vocalizza, e la cosa gli piace: in un certo senso, è una sorta di tributo. Anche lui è stupito: non lo avresti mai detto, guardandola, che quel contegno quasi lezioso e quella compostezza, il modo in cui tiene stretto il piccolo sedere, sarebbero stati spazzati via nel momento in cui lui le mette la mano sul culo mentre sta aprendo la porta. Joel non sa perché si aspetta sempre che le ragazze con le stelline dorate infilate nei lobi bucati, gli zigomi alti e un busto gracile debbano essere tranquille a letto. Di sicuro deriva da un qualche antiquato concetto di buongusto, anche se ormai dovrebbe sapere che le magre hanno più terminazioni nervose per millimetro quadrato.
Dopodiché lei torna a essere sottomessa, come se fosse leggermente in imbarazzo per quei gemiti, per essersi aggrappata a lui così, come se non fosse un mezzo sconosciuto. Si chiede quante volte si sia portata a casa qualcuno che conosce appena; è curioso, vorrebbe chiederglielo: «Lo fai spesso?». Ma sa, per esperienza, che di solito trovano la domanda insinuante, come fosse un oscuro oltraggio alla loro moralità, pure se magari, come lui, lo fanno spesso. Qualche volta, in particolare se sono più giovani, sente che dovrebbe dirgli di non comportarsi così. Non vale la pena di correre un rischio del genere per tutti gli uomini, nemmeno per quelli che mangiano al Danubio Blu. Potrebbero essere violenti, fissati con la frusta e le spille da balia, pervertiti, assassini: non come lui. Ma qualsiasi interferenza da parte sua sarebbe scambiata per paternalismo patriarcale: anche questo lo sa per esperienza. È il loro punto di vista; e comunque, perché dovrebbe lamentarsene?
Amelia è sdraiata accanto a lui, la testa sui suoi bicipiti, i capelli rossi sparsi sul suo braccio, la bocca rilassata; le è grato per la sua sola presenza fisica, per il calore animale. Le donne non apprezzano il termine «topa», lo sa; ma per lui è sia descrittivo che affettuoso: qualcosa di peloso che ti tiene caldo. È di questo che ha bisogno per superare novembre. Lei è persino amichevole, nel suo modo distaccato. Non si può sempre contare sul fatto che dopo siano amichevoli. In genere ce l’hanno con lui, come se avesse fatto tutto da solo, a loroanziché con loro; come se non avessero avuto alcuna parte in ciò che è successo.
Questa gli piace abbastanza per fargli venire in mente che magari potrebbero guardare insieme l’ultimo spettacolo alla tv, esperienza che non è disposto a condividere proprio con tutte. Il sesso sì, i film in seconda serata no. Si chiede se c’è qualcosa di commestibile in casa, una fetta di torta magari, da mangiare direttamente dal piatto davanti allo schermo, leccandosi la glassa a vicenda dalle dita. Ha di nuovo fame ma, più che altro, desidera il conforto del cibo. C’è qualcosa di speciale in una glassa al limone mangiata in una stanza buia. Ma quando lei dice senza sfumature che no, vuole dormire un po’, deve svegliarsi presto per la lezione di fitness prima di andare al lavoro, lui accetta di buon grado. Si rimette i vestiti, a cuor leggero; questa esperienza lo ha tirato molto su di morale. Prova la solita intima sensazione di averla sfangata anche stavolta, così come è entrato dalla finestra della camera da letto ne è uscito, senza venire catturato: niente carta moschicida qui. Ricorda, per un istante, di quando aveva scoperto che la madre gli nascondeva i biscotti non per non farglieli trovare, ma piuttosto perché li trovasse, e di quanto allora si era infuriato, quanto si era sentito tradito. Aveva visto l’orlo del suo accappatoio di ciniglia verde svolazzare rapidamente dietro l’angolo; era nel corridoio fuori la cucina, a sentirlo mangiare. Di certo sapeva che come cuoca faceva schifo, e questo era il suo modo subdolo di assicurarsi che almeno mettesse nello stomaco qualcosa. Ora la pensa così, ma all’epoca aveva avuto solo la sensazione di essere stato sempre controllato, manipolato. Era stato allora che aveva iniziato ad avere i primi dubbi sul libero arbitrio.
Amelia si è girata di fianco e sta per addormentarsi. La bacia, dice che se ne sta andando. Si chiede se le piace abbastanza per rivederla, ma forse no. Ciò nonostante si appunta mentalmente il numero di telefono, memorizzandolo dall’apparecchio sul comodino; lo scriverà più tardi, in cucina, dove lei non potrà vederlo. Non si sa mai quando potrà tornare comodo. Un porto nella tempesta, e se lui dovesse toccare il fondo, raggiungere il punto più basso del grafico, dovrà trovarsi qualcuno con cui stare e, a quel punto, non importerà troppo con chi, entro certi limiti.
Fa la pipì nel suo bagno, tira lo sciacquone, notando l’adesivo antinucleare sullo specchio, il vasetto di odori che lottano per la vita sul davanzale della finestra. Poi va nel cucinino, accende la luce, dando un’occhiata al volo in frigo, nel caso in cui ci fosse qualcosa di malsano e goloso. Ma è una tipa da tofu, e controvoglia se ne va via.
Non pensa a Becka. Non si ricorda di lei finché non infila la chiave nella serratura, quando di colpo si ritrova davanti la sua immagine, in attesa dietro la porta, i capelli neri attorno al viso come in un’opera di Lorca, i grandi occhi feriti che lo fissano, uno strumento mortale nelle sue mani: un cavatappi, un pelapatate oppure, più tradizionalmente, un rompighiaccio, anche se lui non ne possiede. Con cautela, apre la porta, entra, e prova un gran sollievo notando che non succede niente. Forse, finalmente, abbiamo chiuso. Gli viene in mente però che ha dimenticato di comprare da mangiare per la gatta.
Il suo sollievo dura solo finché non mette piede in salotto. Lei è stata lì, è evidente. Guarda l’imbottitura della Lay-Zee-Boy sparsa sul pavimento, il budello di molle sporge da quel che resta dell’intelaiatura, i pezzi di morbida schiuma del divano che sciabordano contro il caminetto, come fosse una riva, come se Becka fosse stata una tempesta, un uragano. In un altro angolo trova tutte le sue palline da ping-pong messe in fila e calpestate; sembrano uova di tartaruga schiuse. Alcuni pezzi della sua biancheria sono nel caminetto, i lembi inceneriti, ancora bruciacchianti.
Scrolla le spalle. Che stronza teatrale. Sostituirà tutto: non c’è niente qui che non possa essere rimpiazzato. Non lo metterà in difficoltà per così poco. Non ha toccato la macchina da scrivere, però: sa esattamente fin dove può spingersi.
Poi vede il biglietto. Rivuoi Scorfana? È in un secchio della spazzatura. Inizia a cercare. Il biglietto è fissato su una grande candela arancione d’artigianato, sulla mensola sopra il camino, una delle prime cose che gli ha regalato. È come se finalmente Babbo Natale fosse venuto a trovarlo, e lui avesse scoperto che era il mostro contro cui sua madre lo metteva sempre in guardia, ogni volta che sembrava desiderare un Natale come tutti gli altri ragazzi del quartiere. Babbo Natale ti porta pezzi di carbone e patate marce. A che ti serve?
Ma non era Babbo Natale, era Becka, che sapeva bene dove affondare la lama. Non spiegava se fosse morta o viva. Non aveva mai veramente amato Scorfana, ma di sicuro non l’avrebbe ammazzata. Teme il peggio, ma non vuole darlo per scontato. Deve andare a cercare. Sente le unghie graffiare il metallo, il pianto primitivo, il panico crescente, mentre si tira su di nuovo la lampo. Alla fine capisce che lei non si fermerà davanti a niente.
Cammina disegnando un cerchio sempre più ampio per le strade che circondano la casa, aprendo ogni bidone dell’immondizia, rovistando tra i sacchi, pronto a cogliere un debole miagolio. Non dovrebbe sprecare il tempo in qualcosa di tanto futile, di tanto personale; dovrebbe risparmiare le energie per le cose importanti. C’è bisogno di mettere tutto in prospettiva. Becka lo sta controllando di nuovo. Forse ha mentito, forse Scorfana è sana e salva a casa sua, a fare le fusa accanto al termosifone. Forse Becka gli sta facendo fare tutto questo per niente, sperando che lui si presenti da lei per avere la possibilità di torturarlo o di ricompensarlo, a seconda dell’umore del momento.
«Scorfana!» chiama. Dice a se stesso che è sotto shock, e che ne sentirà l’effetto domani, quando elaborerà tutte le implicazioni di un futuro senza Scorfana. Al momento, però, pensa soltanto: Perché le ho dato un nome così stupido?
Becka è per strada. La fa spesso questa strada. Si dice che non c’è niente di insolito.
Tutte e due le mani sono nude, e sulla destra c’è del sangue, ha anche quattro graffi sottili sulla guancia. Con la mano destra impugna un’ascia. In effetti, è più piccola di un’ascia, è un’accetta, quella che Joel tiene accanto al caminetto per tagliare la legna quando accende il fuoco. Una volta le piaceva fare l’amore con lui sul tappeto davanti al caminetto, nell’aura arancione della candela. Fino a quando lui non aveva detto che c’era sempre uno spiffero e che preferiva farlo nel tepore del letto. Dopo un po’ aveva capito che non gli piaceva per niente essere guardato; aveva una strana specie di pudore, come se sentisse che il suo corpo appartenesse solo a lui. Una volta aveva cercato di adularlo, ma era stata una mossa sbagliata, non bisognava paragonarlo ad altri. Quindi, da quel momento, lo avevano fatto sotto le coperte, come le coppie sposate. Prima aveva l’abitudine di rompergli le scatole perché teneva l’ascia in salotto, voleva che la lasciasse nel cortile posteriore e che tagliasse la legna lì; gli aveva detto che non le piaceva trovarsi le schegge tra i piedi.
Rivedere quell’ascia le ha scatenato qualcosa dentro. Joel non c’era, nonostante avesse detto che sarebbe rimasto a casa. Non sapeva di preciso dove fosse andato ma in generale lo immaginava. Faceva sempre così. Ha aspettato un’ora e mezza, camminando, leggendo le sue riviste, circondata da uno spazio che era anche suo, e che ancora sentiva suo. Il riscaldamento era spento, il che significava che Joel aveva di nuovo aperto le ostilità con il proprietario. Ha pensato di accendere il fuoco. Scorfana è andata a strusciarsi contro le sue gambe e si è lamentata, e quando è entrata in cucina per prenderle qualcosa da mangiare, c’era solo lo yogurt, che aveva comprato lei, aperto sul pavimento.
Si è chiesta quanto avrebbe dovuto aspettare. Anche se fosse tornato subito, avrebbe avuto la solita espressione compiaciuta e ancora quell’odore addosso. Lei avrebbe potuto scegliere di ignorare tutto, nel qual caso avrebbe vinto lui, oppure dire qualcosa, e anche in quel caso avrebbe vinto lui, perché poteva accusarla di aver violato la sua privacy. Sarebbe stato solo un altro esempio, le avrebbe rinfacciato, del perché le cose tra loro non potevano funzionare. Il che l’avrebbe fatta infuriare – invece potevano, potevano funzionare se solo lui ci avesse provato – e poi l’avrebbe criticata per la sua rabbia. La sua rabbia sarebbe stata una prova del potere che lui ancora esercitava su di lei. Lo sa, ma non riesce a controllarla. Stavolta era troppo. È sempre stato troppo.
Becka cammina velocemente, la testa un po’ reclinata e in avanti, come se dovesse spingere l’aria per farsi strada. Il vento le tira indietro i capelli. Sta iniziando a piovere. Nella mano sinistra tiene un sacco della spazzatura verde, di plastica, chiuso ermeticamente e annodato in cima. La via che sta percorrendo è Spadina, la strada in cui, da bambina, il nonno veniva a prenderla quando voleva andare a trovare i suoi vecchi compari. Veniva esibita e riceveva in dono cose da mangiare. Tutto questo accadeva prima che i cinesi spopolassero. Ha un’illuminazione decente, persino a quest’ora della notte, arredamenti in bambù, abbigliamento all’ingrosso, ristoranti, etnici, come si suol dire; ma lei non ha intenzione di comprare da mangiare, sta solo cercando, grazie tante, un cassonetto per buttarci dentro il sacco. Chiede solo un semplice cassonetto; perché non ne trova nemmeno uno?
Non riesce a credere di aver fatto ciò che ha fatto. Quel che la sconvolge è che ci ha provato gusto, l’accetta che trafiggeva la similpelle nera di quella sua poltrona pulciosa, poi il divano, l’imbottitura che aveva strappato e sparso in giro, ecco, poteva essere benissimo Joel. Se fosse stato presente, però, l’avrebbe fermata. Solo per il fatto di essere lì, di stare a guardarla come a dire: Sul serio non riesci a pensare a qualcosa di più importante da fare?
Ecco in cosa mi ha trasformato, pensa. Non sono mai stata così meschina, ero una brava persona, una brava ragazza. Giusto?
Oggi, prima di chiamarlo, il sapore che aveva in bocca le ha fatto venire la nausea. Non ne poteva più della solitudine, della libertà. Una donna senza un uomo è come un pesce senza una bicicletta. Parole coraggiose, le aveva dette anche lei, una volta. Prima di capire che lei non era un pesce. Oggi pensava di amarlo ancora, e l’amore vince su tutto, giusto? Dove c’è amore c’è speranza. Forse potevano rimettere le cose a posto. Adesso non lo sa più.
Pensa di infilare il sacco della spazzatura in una cassetta delle lettere, nello spazio riservato ai pacchi, o in un’edicola. Potrebbe mettere un quarto di dollaro, aprire la cassetta, tirare fuori il giornale, lasciare il sacco. Qualcuno lo troverebbe più in fretta così. Non è proprio senza cuore.
Ma ecco, d’un tratto, comparire un cassonetto, non di plastica, un bidone di metallo vecchio stile, davanti a un negozio di frutta e verdura cinese. Si avvicina, ci appoggia contro l’accetta, posa a terra il sacco, cerca di sollevare il coperchio. O è attaccato, o ha le dita insensibili. Lo sbatte addosso a un palo del telefono; parecchie persone si fermano a guardarla. Alla fine il coperchio si stacca. Per fortuna è mezzo vuoto. Infila dentro il sacco. Nemmeno un suono: ha spruzzato all’interno un po’ di impermeabilizzante per stivali, l’unica cosa che le è venuta in mente: respirare i fumi può stordire. I ragazzi al liceo si sballavano così. Quella stupida gatta ha squarciato con gli artigli i primi due sacchi, prima che le venisse l’idea di legarla con una delle magliette di Joel e spruzzarle addosso l’impermeabilizzante per calmarla. Non sa se abbia perso i sensi; forse non è riuscita a liberarsi della maglietta di Joel e ha semplicemente deciso di non combattere una battaglia persa. Forse è catatonica. Per dirne una. Spera di non averla uccisa. Dà un colpetto al sacco: qualcosa si muove. È sollevata, ma non cede e non la libera. Perché solo lei dovrebbe soffrire? Lasciamo un po’ di dolore anche a lui, tanto per cambiare.
Sa bene che questa è l’unica cosa che lo colpirà a fondo: il furto. Il rapimento della figlia, quella che lui non le ha voluto dare. Non siamo ancora pronti, e stronzate simili. Stronzate! Le è sempre importato più della gatta che di lei. La faceva stare male vedere come la tirava su per la coda e se la faceva scorrere tra le mani, come sabbia, e quanto alla gatta piacesse, da vera, nauseante masochista qual era. Era il tipo di gatta che sbavava di piacere quando la accarezzavi. Faceva la ruffiana con lui. Forse il vero motivo per cui non la sopportava era perché rappresentava una grottesca parodia pelosa in miniatura di se stessa. Forse era così che la vedevano gli altri quando era con lui. Forse era così che la vedeva lui. Pensa a se stessa, sdraiata, con gli occhi chiusi e la bocca mollemente aperta. Si ricordava com’era lei in quei momenti, quando lui stava con le altre?
Non chiude il coperchio del bidone. Lascia l’accetta dov’è, si allontana. Si sente più piccola, sminuita, come se qualcosa sul collo le stesse succhiando via le energie. La rabbia dovrebbe essere liberatoria, così vuole la mitologia, ma la sua rabbia non l’ha liberata in alcun modo visibile. Il flusso che le è uscito da dentro l’ha solo resa più vuota. Non vuole essere arrabbiata; vuole essere consolata. Vuole una tregua.
Ricorda, solo a malapena, di aver avuto fiducia in se stessa. Non riesce a rammentare come. Vivi la vita a bocca aperta, era il suo motto. Vivi il momento. Abbraccia pienamente le esperienze. Spalanca le braccia in segno di accoglienza. Una volta era convinta di saper gestire tutto.
Stasera si sente sudicia, vecchia. Tra poco farà il suo ingresso nel mondo delle creme rassodanti; inizierà a preoccuparsi delle palpebre. Ricominciare da capo dovrebbe essere eccitante, una sfida. Ricominciare, dal punto di vista teorico, è bello, ma a che serve? Le scorte sono finite; lei è finita.
Tuttavia, le piacerebbe essere capace di amare qualcuno; le piacerebbe sentirsi ancora abitata. Stavolta non sarebbe così esigente, si accontenterebbe di un uomo forse appena consumato attorno ai bordi, di seconda scelta, con qualche crepa, qualche filo pendente, un articolo in svendita, qualcuno solo leggermente danneggiato. Come quelle pubblicità di bambini adottabili sullo Star: «Il bambino di oggi». Il fidanzato di oggi. Un uomo sconvolto, un maschio maltrattato. Prenderebbe un divorziato, più grande di lei, qualcuno a cui viene duro solo a farlo strano, qualsiasi cosa, purché sia riconoscente. Ecco cosa vuole, in buona sostanza: una gratitudine pari alla sua. Ma anche in questo si sta illudendo. Perché un uomo simile dovrebbe essere diverso dagli altri? Sono tutti un po’ danneggiati. In ogni caso, si attaccherebbe anche solo a un filo, e chi vorrebbe mai essere quel filo?
Non avrebbe mai dovuto chiamarlo. Ormai dovrebbe sapere che quando è finita è finita, quando si legge FINE al termine di un libro non ci sono più pagine; è a questo che non riesce a rassegnarsi. Il problema è che ha investito così tanto dolore in lui, e non è in grado di togliersi di dosso il concetto secondo cui tanto dolore debba valere una ricompensa. Forse l’infelicità è una droga, come qualsiasi altra: si sviluppa una soglia di tolleranza, e a quel punto se ne vuole sempre di più.
La gente arriva a esaurire tutto quello che ha da dirsi, aveva dichiarato Joel una volta, durante una delle loro tante sedute sul fatto di continuare a stare insieme o no; quella volta stava provando la parte della saggezza. Dopodiché, aveva proseguito, è solo ripetizione. Ma Becka aveva protestato; Becka non aveva esaurito quel che aveva da dire, o perlomeno così credeva. Era questo il guaio: non arrivava mai alla fine di quel che aveva da dire. Lui la esasperava al punto di farla parlare d’impulso, diceva cose che non poteva ritrattare, commetteva errori clamorosi, che non avrebbe mai commesso con altri, con il proprietario per esempio, col quale sfoderava un tatto miracoloso. Ma con Joel l’irrevocabile era sempre in procinto di accadere.
Una volta lui le aveva detto che voleva dividere la sua vita con lei. Che non lo aveva mai chiesto a nessuna, prima. Quanto si era sciolta, quanto si era beata! Ma non aveva mai detto di volere che lei dividesse la sua vita con lui; cosa che infatti, quando era successa, si era rivelata tutt’altra storia.
E adesso, adesso che lo aveva fatto? Il tempo sarebbe passato. Sarebbe tornata alla vecchia casa a schiera di Cabbagetown che condivide con altre due donne. Solo questo può permettersi; quantomeno ha una stanza solo per sé. Non incontra quasi mai le altre due; le riconosce più che altro dagli odori, di toast bruciati al mattino, incenso (in particolare una, quella con il trombamico) la notte. La situazione trasuda di impermanenza. Ha avuto la stanza rispondendo a un annuncio sul giornale: «Cercasi terza coinquilina, cucina in comune, no droghe, no schizzate», dopo aver lasciato l’appartamento che ancora sente suo, e dopo una tristissima settimana con la madre, che aveva pensato, ma non detto, che le stava bene per non aver insistito con il matrimonio. Cosa si aspettava, comunque, da un uomo simile? Non aveva un vero lavoro. Non era un vero ebreo. Non era vero.
Quando arriverà a casa sarà sfinita, l’adrenalina scomparsa, sostituita da una sensazione piatta e grigia di affaticamento. Indosserà la camicia da notte più penitenziale, di flanella a fiori blu, quella che Joel odia perché è da affittacamere. Si preparerà una bottiglia di acqua calda e si infilerà in un letto che ancora non ha il suo odore e si crogiolerà nel suo dolore. Forse dovrebbe uscire a rimorchiare, sedersi in un bar, cosa che non ha mai fatto anche se c’è sempre una prima volta. Ma ha bisogno di dormire. Domani dovrà andare al lavoro, al suo nuovo lavoro, al vecchio lavoro, mescolare tempere per gli squilibrati, categoria in cui al momento è compresa anche lei. Lo stipendio non è buono e si corre qualche rischio, ma di questi tempi è fortunata ad averlo.
Non riesce a stare con la troupe, anche se ha dato il meglio di sé con i cadaveri decapitati per lo spettacolo su El Salvador in primavera, anche se era stata lei a uscirsene con l’idea di rappresentare Cristo come un calzino lavorato a maglia. Sarebbe stato perturbante per la troupe, erano entrambi d’accordo ad averla lì; la tensione, l’equilibro instabile di ego conflittuali. O di parole, se è per questo. Era bravo con certe cazzate, e il risultato finale era stato che lei aveva perso il lavoro e lui no, e per un po’ le era sembrato persino di aver acquisito prestigio.
Ora Becka è a quattro isolati di distanza dal bidone della spazzatura, e sta piovendo sul serio. Si ferma sotto una tenda per aspettare che la pioggia rallenti, cercando di decidere se arrendersi e prendere il tram o no. Vuole tornare indietro, per scrollarsi di dosso tutta questa furiosa energia.
Joel starà tornando a casa, a quest’ora. Lo immagina mentre apre la porta e butta la giacca sul pavimento; vede quello che si troverà davanti. Ora ha la sensazione di aver commesso un sacrilegio. Perché dovrebbe sentirsi così? Perché per almeno due anni ha creduto che lui fosse Dio.
Lui non è Dio. Ora lo vede, con la sua giacca bisunta, correre per le strade, con il fiato corto, avrà mangiato troppo a cena con la puttana che ha rimorchiato per l’occasione, affondare le mani nella spazzatura gelata, gridando come un pazzo: Scorfana! La gente penserà che è matto. Invece è solo in preda a un dolore folle.
Come lei, che appoggia la fronte alla vetrina fredda del negozio, a fissare dietro il vetro scuro, ingiallito da quelle cose di plastica che mettono per impedire che il sole sbiadisca i colori, la donna con la pelliccia che è dentro, le lacrime che le colano sulle guance. Non riesce nemmeno a ricordare in quale bidone ha ficcato quel maledetto sacco, non lo ritroverebbe nemmeno se si mettesse a cercarlo. Avrebbe dovuto portarsela a casa. Una volta è stata anche la sua gatta, più o meno. Faceva le fusa e sbavava anche per lei. Le teneva compagnia. Come aveva potuto farle una cosa del genere? Forse lo spray la rincretinirà. Ecco di cosa ha bisogno lui, di una gatta cretina. Non che qualcuno possa mai accorgersi della differenza.
Nemmeno in lei, se va avanti così. Si asciuga il naso e gli occhi sulla manica umida, si raddrizza. A casa si dedicherà alla respirazione yoga e si concentrerà sul nulla per un po’, sforzandosi ancora una volta di raggiungere la serenità, poi farà un bagno. Il mio cuore non sanguina, si dice. E invece sì.