mercoledì 31 marzo 2021

LE PICCOLE VIRTÙ Natalia Ginzburg



"L'Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi"

 Estratto da "Le piccole virtù"  Natalia Ginzburg 

«L'Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l'incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l'intelligenza, come un vivido sangue. È un'intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d'un ingannevole, e forse insensato, conforto» pag. 41

"E ci sono poi tutte le cose che si fanno per non dover parlare: alcuni passano le serate addormentati in una sala di proiezioni, con al fianco la donna alla quale, cosi, non sono tenuti a dover parlare; alcuni imparano a giocare a bridge; alcuni fanno l'amore, che si può fare anche senza parole. Di solito si dice che queste cose si fanno per ingannare il tempo: in verità si fanno per ingannare il silenzio. (p. 93)

Il libro 

Undici testi tra autobiografia e saggio. ​​Undici modi di «sentire» fatti, cose, gesti, voci.  ​​«In ogni pagina di questo libro c’è il modo di essere donna [di Natalia Ginzburg]: un modo spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco, in mezzo ai dolori e alle gioie della vita... Tra i capitoli del volume si ricorda Ritratto d’un amico, certo la piú bella cosa che sia stata scritta sull’uomo Cesare Pavese. E le pagine scritte subito dopo la guerra, che riportano con una forza piú che mai struggente il senso dell’esperienza d’anni terribili (e sanno pur farlo, serbando, come Le scarpe rotte, un quasi miracoloso senso del comico). Poi, le prove (come Silenzio e Le piccole virtú) d’una Natalia Ginzburg moralista, dove una partecipazione acuta ai mali del secolo sembra nascere dalla matrice d’un calore familiare. E soprattutto, perfetto capitolo d’una autobiografia in chiave obiettiva e ironica, Lui e io, in cui la contrapposizione dei caratteri si trasforma, da spunto di commedia, nel piú affettuoso poema della vita coniugale». ​​Italo Calvino

Prefazione 

«Ho dei fratelli molto maggiori di me e quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Cosí mi ero abituata a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole, sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto». Cosí Natalia Ginzburg ha continuato ad apparire: una bambina e una ragazza e poi una donna circondata da uomini grandi, compresi i suoi figli diventati grandi. A loro competevano le cose di prestigio: politica, storia, economia, matematica, scienza – «la cultura». Di fronte alle cose importanti Natalia si mostrava spaesata e in soggezione, e moltiplicava le dichiarazioni di incompetenza e di ammirazione. Lei stava nella retrovia dei «rapporti umani». Là, benché i colpi arrivino e facciano male, la vita si svolge altrimenti, e prova ogni volta a ricominciare. «C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica». Gli uomini maschi, specialmente quando i tempi sembrano annunciare grandi rivolgimenti, sono insofferenti alle cose che si fanno e si disfano, uguali a se stesse. A volte soccombono per l’incapacità di piegarsi «ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti». Lei scriveva della solitudine delle donne e della fragilità degli uomini. Delle loro famiglie: le sembrava che una persona avesse bisogno di avere alle spalle una famiglia – anche cattiva, repressiva, disastrata… Amava specialmente Čechov e ne riscrisse la vita. Nei racconti di Čechov, ha scritto, la felicità nei matrimoni e l’armonia famigliare non s’incontrano mai. Aveva temuto che dalle cose che scriveva si capisse che era una donna, poi non le importò piú. «Perché avevo avuto i bambini… Mi pareva che le donne sapessero sui loro figli delle cose che un uomo non può mai sapere». Quando scriveva i suoi primi brevi racconti, l’aveva presa un gusto maligno di scovare particolari sui personaggi, «un interesse avido e meschino per le cose piccole, piccole come pulci, un’ostinata e pettegola ricerca di pulci». Ci sono piccole cose meschine e piccole cose buone. C’è un appunto di Simone Weil che dice: «Essere all’altezza delle piccole cose». «Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtú, ma le grandi». Cosí si apre l’articolo scritto nel 1960, che dà il titolo alla raccolta, Le piccole virtú. È un titolo un po’ strano, dato che il testo intima di insegnare «non le piccole virtú, ma le grandi». Non la piccola virtú del risparmio, ma la grande dell’indifferenza al denaro, e la cura della propria vocazione. Dal titolo ci si aspetta di trovare piuttosto un elogio delle piccole virtú. (Anche Italo Calvino, ha osservato Domenico Scarpa, fraintese in una lettera all’autrice: «… piccole dà quel sapore di concreto, di basato sull’esperienza, di familiare, di solidamente umile che c’è nel tuo modo di vedere le cose anche le piú grosse e generali»). C’è una spiegazione semplice: «Le piccole virtú» è un bel titolo, e «Le grandi virtú» no. «Piccolo» del resto è aggettivo caro a Natalia Ginzburg: «C’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore». (Però diverso da tutti gli altri!) Cosí il destino di questo libro è di persuadere alle virtú grandi e di far amare le piccole, che sono le grandi quando incontrano la vita quotidiana. Natalia sceglieva le idee attraverso le persone che stimava e amava. Diceva di non capire niente di politica. Quando entrò in parlamento fu la piú assidua e fedele. Si fidava dei suoi amici che se ne intendevano, ma era fermissima nelle sue convinzioni, e ci portava un tono che era solo suo. Come quando auspicava un partito comunista «che riuscisse a governare senza mai smarrire il bene supremo dell’incertezza e della fragilità». Come quando, rovesciando l’«anticomunismo viscerale», dichiarava tranquillamente un proprio comunismo viscerale. «Dei due partiti a cui ho appartenuto, il Partito d’Azione e il Partito Comunista, mi sembra di avere conservato con essi dei legami viscerali, oscuri e sotterranei, che non saprei chiarire con parole... ma sgorgano dal profondo come gli affetti». Gli uomini grandi della sua vita furono Leone Ginzburg, Felice Balbo, Vittorio Foa… E anche i suoi figli. Preparando l’edizione delle Piccole virtú, scriveva a Calvino di aver scoperto un consigliere nel suo maggiore, che aveva poco piú di vent’anni: «persona dura, intransigente e severa». Piú tardi lo descriverà cosí: «Gli sottopongo ciò che scrivo, lui legge, e immediatamente mi copre di insulti e di contumelie. Lo strano è che le sue contumelie non mi feriscono affatto e mi viene da ridere. […] Essenzialmente mi trova una scrittrice dolciastra e sentimentale… Come mai io mi senta, dopo tanti insulti, ravvivata e rianimata e sollecitata a scrivere ancora, è un mistero per me. Ho l’idea segreta che a volte quello che scrivo in qualche modo lo incuriosisca, lo intrighi e non gli dispiaccia fino in fondo...» In un saggio di qualche anno fa Carlo Ginzburg ha citato in una nota a piè di pagina un brano di una lettera di Madame du Deffand (1697-1780): «Tutte le storie universali e le ricerche delle cause mi annoiano; ho dato fondo a tutti i romanzi, i racconti, i drammi; non restano che le lettere, le vite private e le memorie scritte da chi fa la storia di sé stesso, che mi divertano e m’ispirino qualche curiosità. La morale, la metafisica mi annoiano mortalmente. Che dirvi? Ho troppo vissuto». La vecchia Madame du Deffand precorreva, libri esauriti, vita esausta, il Mallarmé di Brise marine: «La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres», e dichiarava il primato delle scritture personali e della vita privata. Altrove Carlo Ginzburg ha evocato l’impronta femminile, materna, dell’interesse per la «microstoria»: qualcuno l’ha chiamata una «storia matria, adatta a designare il mondo “piccolo, debole, femminile, sentimentale della madre” qual è quello imperniato sulla famiglia o il villaggio...» Non c’è un solo campo di battaglia. Anche tardi, quando sa di aver avuto ragione, e che le cose degli uomini, anche dei grandi che ha frequentato, sono solenni e infantili, Natalia si ritrae come una che abiti nella cucina della scrittura, tra i fornelli, mentre i grandi stanno nello studio, tra gli scaffali e i busti di marmo. Sa scrivere, dice, solo in prima persona. Dice «Non so», «chissà», «chissà perché». «Raccoglie i pezzetti». Con gli eventi della storia, la sua è l’ansia di una madre il cui figlio sta fuori fino a tardi la sera, e chissà dove va. Natalia racconta l’Inghilterra come se fosse la prima esploratrice di un paese esotico, ma l’espediente le serve a dire la sua nostalgia per l’Italia. «Un albero fiorito, in Italia, sulla strada d’una città, sarebbe d’una sorprendente letizia. Sarebbe là per caso, scaturito dall’allegria della terra, e non già per il calcolo d’una volontà determinata». «L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue». Del resto, Natalia prova una nostalgia per l’Italia anche quando la abita e sente di perderla. L’Italia di quei giudizi lucidi e però indulgenti e affezionati è il paese in cui chi ha paura del potere e si sente in esilio può trovare il conforto delle persone. Le è successo. Natalia se ne è ricordata ogni volta che la ragione dello Stato si è misurata con le ragioni delle persone e delle famiglie, dalla vicenda di Aldo Moro a quella della bambina Serena Cruz. «Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai piú la pace… Vorrebbero che circondassimo di veli e di menzogne l’infanzia [dei nostri figli]. Ma noi non lo possiamo fare. Non lo possiamo fare con dei bambini che abbiamo svegliato di notte e vestito convulsamente nel buio, per scappare o nasconderci...». ADRIANO SOFRI Le strade di Natalia Ginzburg a Emilia Persiano 1933: nascita di una narratrice-saggista. In uno dei saggi raccolti in questo libro, Il mio mestiere, Natalia Ginzburg racconta di aver saputo con certezza, già dalla prima infanzia, che sarebbe stata uno scrittore: «Tra i cinque e i dieci anni ne dubitavo ancora, e un po’ mi immaginavo di poter dipingere, un po’ di conquistare dei paesi a cavallo e un po’ d’inventare delle nuove macchine molto importanti. Ma dopo i dieci anni l’ho saputo sempre, e mi sono arrabattata come potevo con romanzi e poesie». La consapevolezza di una vocazione, però, non sempre coincide con quella della propria identità. Esiste un momento, nella vita di ogni vero scrittore, in cui la strada percorsa, con i suoi azzardi ed errori, con gli abbandoni felici e gli inciampi nello sconforto, s’illumina in tutta la sua lunghezza di un significato complessivo. Uno scrittore si può considerare completo e maturo quando all’istinto primordiale della propria vocazione aggiunge la cognizione definitiva del proprio destino, quando nella sua mente s’insedia, come un nucleo che contiene in sé il passato, il presente e ogni possibile futuro, la cifra della sua identità. Per Natalia Ginzburg questo momento cade al principio degli anni sessanta: nel ’61 esce Le voci della sera, nel ’62 Le piccole virtú, nel ’63 Lessico famigliare. Il libro che stiamo per leggere, Le piccole virtú, si trova dunque incassato tra quelli che ancor oggi sono considerati i due libri migliori della Ginzburg romanziere e scrittore di memoria: del romanziere che lascia penetrare nelle sue fibre lo scrittore di memoria, e dello scrittore di memoria che non può fare a meno di sagomare in forma di romanzo i ricordi che va estraendo dalla confusione della vita. Questa posizione mediana, che pure lo ha lasciato alquanto in ombra, è una delle quattro ragioni immediate dell’importanza del nostro libro. Le altre tre sono presto dette: si tratta della prima raccolta di saggi della Ginzburg, del primo volume in cui il pronome ‘io’ rimanda non a un personaggio ma alla persona anagrafica dello scrittore, e della singola sua opera che offre a chi legge lo spaccato piú ampio di una vicenda creativa: tra il testo piú antico (Inverno in Abruzzo, 1944) e il piú recente (Lui e io, 1962) corrono diciotto anni. Diciotto anni sarebbero già molti, ma quando si decide a pubblicare i suoi saggi la Ginzburg ha alle spalle ben trent’anni di scrittura – come lei stessa la definisce – «adulta». Se proviamo a risalire il corso di questi tre decenni, scopriremo che in lei il narratore e il saggista nacquero nello stesso istante, in un precoce parto gemellare. Nel 1933 una Natalia Levi diciassettenne redigeva insieme con l’amica Bianca Debenedetti una rivista chiamata «Il Gallo». (Oltre quarant’anni dopo ritroveremo Bianca, col suo vero nome, tra i personaggi del racconto Luna pallidassi). «Il Gallo» è composto di venti fogli scritti a mano dalle due amiche; e a mano la Ginzburg scriverà sempre, per tutta la vita. Sulla pagina-frontespizio del manoscritto, un disegno appena accennato, il profilo di una testolina di pulcino da cui è assente il minimo tratto gallesco. Nel sommario si alternano tre testi di Bianca Debenedetti e tre di Natalia, che li firma con la sola iniziale «N.»: la novella Settembre, datata settembre 1933, i versi Delirio, del luglio 1931, e il saggio Dire la verità, privo di data. Il triste allucinato pigolio in settenari del Delirio non vedrà mai la luce. Settembre è invece un racconto malinconico, stranito, scritto come in preda a un indolenzimento di nervi, la storia di un incesto appena accennato, qualche bacio in fondo all’ombra di un giardino tra un fratello già adulto che sta partendo per un lungo viaggio e una sorellina adolescente cui basta un attimo per lasciarsi riassorbire dall’insensibilità, dai gesti automatici di ogni giorno, dal brusio dei pensieri senza forma che precedono il sonno. Due anni dopo, Settembre verrà rimaneggiato e pubblicato sul quotidiano genovese «Il Lavoro» e in «Le Grandi Firme», la rivista del glamour italiano anni trenta diretta da Pitigrilli. Fra i tre testi del «Gallo» il piú sorprendente è Dire la verità. Dato che è breve lo si può trascrivere per intero: Dire la verità. L’artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo. Le parole non sono che uno strumento per costruire ai personaggi un mondo artistico uguale al mondo immaginario da cui egli li ha tolti. L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera. E non è un artista chi sacrifica la propria verità per amore di una bella frase o una bella parola. Nel corso degli avvenimenti, l’artista non è guidato dal proprio capriccio: egli sa come veramente sono andate le cose. Nella scelta dei particolari, egli non cerca i piú realistici, o i meno realistici, per essere piú, o meno moderno: egli dipinge il suo mondo, i suoi personaggi quali sono, e non quali vorrebbe che fossero. Se no i personaggi sono falsi, il mondo costruito è falso. Generalmente questo accade a chi non possiede una sua verità, e si diverte a cucinare parole. Ma può accadere anche a chi non è sufficientemente convinto della propria verità. L’insincerità dell’artista può essere mancanza di fede: un tradimento al suo modello ideale. Dire la verità. Solo cosí nasce l’opera d’arte. Dire la verità non è solo un documento d’epoca. La forma, com’è obbligatorio dire delle prime prove di qualsiasi scrittore, è acerba e impacciata: ma a ben guardare nemmeno poi tanto. In compenso, ci sono in questa pagina svariate cose che colpiranno chiunque conosca un poco i libri della Ginzburg. Il tono perentorio e inesorabile di chi, prima di prendere la parola, ha fatto piazza pulita delle idee ricevute. L’equivalenza tra il dominio dell’estetica e quello della morale. Gli imperativi assoluti, i doveri, le alternative radicali. L’aderenza alla realtà – la verità della realtà – che non coincide con il realismo. La consapevolezza che sono le vicende e i personaggi a tenere per le redini il narratore, e non viceversa (e alle necessità, alle scelte autonome dei personaggi e delle vicende, dirà la Ginzburg, bisogna sempre dar retta se non si vuole raccontare in maniera casuale). Infine e soprattutto, la convinzione precoce che scrivere significa servire la verità: «Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede»: e queste parole provengono ancora una volta da Il mio mestiere, saggio datato 1949. Insomma, il clima stilistico e morale di Dire la verità è già quello di tutta l’opera saggistica di Natalia Ginzburg: pochi scrittori possono esibire una pagina d’esordio tanto dichiarata. La sua petrosità biblica, la sua intransigenza domestica – «cucinare parole» – giungono, temprate dagli anni e immutate nella sostanza, fino all’ultimo libro della Ginzburg,fino a quella furente invocazione della verità che è Serena Cruz o la vera giustizia. Dire la verità ha nel ventesimo secolo un precedente illustre. Nel 1911 Umberto Saba, poeta tra i piú amati dalla Ginzburg, scriveva un saggio intitolato Quello che resta da fare ai poeti, aprendolo con una frase isolata in capo alla pagina a mo’ di precetto: «Ai poeti resta da fare la poesia onesta». Saba partiva da un confronto tra il Manzoni degli Inni Sacri e il D’Annunzio delle Laudi e della Nave: «fra versi mediocri ed immortali e magnifici versi per la piú parte caduchi», tra un D’Annunzio che finge le passioni piú estreme pur di ottenere un verso rotondo e sonante e un Manzoni che si tiene «al di qua dell’ispirazione [...] per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto ed il vero». Anche per Saba vita e poesia sono tutt’uno: ma non persegue la vita come opera d’arte di cui proprio D’Annunzio è il modello, e nemmeno anticipa l’impervia macerazione interiore della «letteratura come vita» che avrà fortuna nella Firenze anni trenta dibattuta tra ermetismo, cattolicesimo à la Péguy, guerra incombente ed esistenzialismo incipiente. Il programma di Saba è di un elementare candore: A questa onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un piú austero programma di vita. Il poeta deve tendere ad un tipo morale il piú remoto possibile da quello del letterato di professione, ed avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la piú alta forma di intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. Natalia Ginzburg non poté essere influenzata dal saggio di Saba, rimasto inedito fino al 1959: spedito al suo conterraneo Scipio Slataper per la pubblicazione su «La Voce», diretta allora da Prezzolini, gli fu respinto. Ma accade a volte che opere ignorate dal proprio tempo, ignote al proprio tempo, ne cambino i connotati non appena pervenute alla luce: e infatti, nel Novecento letterario italiano si va precisando una linea di forza sempre piú nitida, una linea che unisce alcuni scrittori per i quali l’estetica tende a coincidere con l’etica, per i quali la vita creativa e i rapporti umani obbediscono a identiche leggi limpide e sacre, per i quali parole come «poesia» e «realtà» sono il contrario della parola «letteratura». Quella linea unisce Umberto Saba a Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Natalia Ginzburg: esiste uno scaffale su cui possiamo allineare le Scorciatoie e raccontini e i Ricordi-Racconti di Saba, Il mondo salvato dai ragazzini e i saggi di Elsa Morante, gli scritti di viaggio e Corpo celeste della Ortese – e, infine, le raccolte saggistiche della Ginzburg. 1938-1950: «fintotontaggine» e semplicità. Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Le visioni della vita e dell’arte (e piú in là della politica, della storia) fondate sull’autenticità, sulla evangelica povertà di spirito, sull’amore e la pietà creaturale, su un relativo disinteresse per l’intelligenza che ordina e distingue, si prestano a critiche, malintesi e sordità. «È difficile trovare una finta tonta piú finta di Natalia Ginzburg. La sua prima preoccupazione è di ostentare la sua ottusità», ha scritto Oreste del Buono, e questo ritornello ha seguito la Ginzburg, con poche varianti, per un lungo tratto della sua vita. Ma che sarà mai questa «fintotontaggine»? È un limite assoluto o piuttosto un genere di rapporto con il mondo, un approccio alla realtà che varrebbe la pena esplorare, di cui sarebbe il caso di fare la cronistoria? Esiste una possibilità di pronunciare l’espressione «finta tonta» come un elogio? Com’era la giovane Natalia Levi? Alcuni non vedevano in lei nient’altro che una ragazzina timida, disadorna e spaurita, «una creatura di Leone»: cioè dello slavista, editore e cospiratore antifascista Leone Ginzburg con il quale si sposò, ventiduenne, nel 1938. Ad altri, viceversa, era nota per l’ispida, frontale drasticità dei giudizi: ne troviamo traccia, in quel medesimo 1938, nel Mestiere di vivere, cioè nel diario di Cesare Pavese, che era il migliore amico di Ginzburg e che apprezzava, in sua moglie, quel limpido temperamento di maschiaccio senza peli sulla lingua. Con queste immagini contraddittorie non fa meraviglia che, malgrado la sua schiettezza, la ventenne Natalia potesse anche risultare indecifrabile: «Natalia è strana ma deve avere un certo fascino: piace a Pav.», annota Giaime Pintor nel suo diario il 30 novembre 1941. L’intelligentissimo Pintor appare, per una volta in vita sua, disorientato; si trova di fronte a un qualcosa che gli sfugge, e decide allora di rimettersi al giudizio di Pavese, cioè della persona che stima sopra ogni altra a Torino. Come a dire: io questa donna qui non la capisco, ma se a Pavese piace... In quegli anni, dunque, Pavese s’intende bene con Natalia (è una sobria amicizia torinese, di quelle dove imperterriti ci si dà del lei), ma a un certo momento comincerà a sentirsi combattuto: le affida compiti di grande responsabilità nella casa editrice Einaudi che va rimettendosi in sesto dopo la guerra e la descrive ai colleghi come «una donna incapace di mentire in fatto di gusto», però alla lunga (siamo al 5 febbraio 1948) finisce pure lui per sbottare nel suo diario: La mia crescente antipatia per N. viene dal fatto ch’essa prende per granted, con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita. Ha sempre il cuore in mano – il cuore muscolo – il parto, il mestruo, le vecchiette. Da quando B. ha scoperto che lei è schietta e primitiva, non si vive piú. In queste righe che cominciano pacate e argomentative e finiscono inacidite e stizzose si può riconoscere, col segno algebrico capovolto, il nucleo di quella che è stata in assoluto la piú brillante intuizione critica su Natalia Ginzburg. La dobbiamo a Cesare Garboli: il primo scandalo della Ginzburg (somma provocazione) è l’innocenza separata dall’ingenuità. [...] la novità del saggismo della Ginzburg consiste nell’uso irritante di un’intelligenza ‘diversa’: un’intelligenza che viene articolata chiaramente, organizzata razionalmente quanto piú ne vengono esaltati, al contrario, gli originari connotati primitivi e emotivi, le oscure e aggrovigliate premesse passionali. L’impressione non è quella di un pensiero infantile o ‘naïf’, ma di un pensiero il cui pigro organismo, attraversato da intuizioni e concatenazioni fulminee, sia costretto a risvegliarsi e a uscire da un lunghissimo letargo. A ogni richiamo, la femminilità si scuote, capricciosa e imperiosa, e si traduce in una forza intellettuale in sé e per sé, in un’arma che impone le sue leggi. Il risultato è che i codici della cultura maschile vengono infranti, nello stesso tempo in cui vengono utilizzati. La gran parte dei lettori odierni della Ginzburg si schiererà con Garboli; e però, se vogliamo osservare da vicino come funzioni questa intelligenza diversa e viscerale, questa intelligenza femmina che non si batte contro gli utensili intellettuali maschili, ma li ignora o piuttosto li scavalca a piè pari, sarà opportuno soffermarsi ancora sul suo rapporto con Pavese, e dopo la digressione potremo tornare a quei primi anni quaranta, a quegli anni di guerra e di lutto in cui si manifestano in pubblico – insieme, ancora una volta – la Ginzburg narratrice e la Ginzburg saggista. La digressione, d’altra parte, è tale fino a un certo punto, visto che uno degli scritti piú belli delle Piccole virtú è quel Ritratto d’un amico dove la Ginzburg, tenendo a briglie strette la commozione, rievoca Pavese a otto anni dal suicidio. Cesare Pavese, dunque, accusa Natalia di compiacersi della propria spontaneità primitiva, di semplificare oltremodo le faccende della vita, di dare per scontate (granted) troppe cose che scontate non sono. Qualche mese piú tardi preciserà il suo pensiero. In data 3 dicembre 1948 Il mestiere di vivere riporta quattro annotazioni. La prima è «un richiamo alla tragicità della vita, che consiste nel fatto che un valore non si concilia con un altro». La seconda rinvia al primo scatto d’insofferenza contro la Ginzburg: «Le persone che take for granted qualcosa ti urtano, in quanto pretendono di sfuggire a questa tragicità». La quarta conclude cosí le riflessioni della giornata: «Però tu take for granted che non bisogna take for granted. Qui viene a punto la purità di cuore, l’umiltà, l’accettazione del mondo di Dio». L’atteggiamento creaturale di Natalia Ginzburg appare a Pavese come una provocazione, un rimprovero perpetuo, una revoca in dubbio della sua concezione tragica della vita. Pavese ha ormai deciso che una inconciliabilità di fondo sussiste tra lui e il vivere: è questa la tragedia che nessuna semplicità gli permette di superare. E lo capisce perfettamente, visto che al 3 dicembre la sua terza annotazione recita, lapidaria: «Si odiano gli altri, perché si odia se stessi». Pavese, dunque, aveva deliberato una volta per sempre e con lucidità che il suo disadattamento non era sanabile, e meno di due anni dopo ne avrebbe tratto le conseguenze. Il rapporto che Natalia intratteneva con l’esistenza era un pruno nel suo occhio, era ciò che a un certo momento lui aveva bandito per sempre dal proprio animo. Lui, dunque, aveva scelto la consapevolezza senza ritorno: ma è proprio l’avere posto tale facoltà al servizio dell’autolesionismo, del pensare e dell’agire contro se stesso, del complicarsi scientemente la vita fino all’impossibilità di continuarla, che la Ginzburg gli rimprovera nel Ritratto, e poi di nuovo nelle pagine di Lessico famigliare: Pavese commetteva errori piú gravi dei nostri. Perché i nostri errori erano generati da impulso, imprudenza, stupidità e candore; e invece gli errori di Pavese nascevano dalla prudenza, dall’astuzia, dal calcolo, e dall’intelligenza. Nulla è pericoloso come questa sorta di errori. Possono essere, come lo furono per lui, mortali; perché dalle strade che si sbagliano per astuzia, è difficile ritornare. Ogni volta che scrive di Pavese, Natalia Ginzburg sembra tornare a rispondere, con pietà e con dolore, alle annotazioni del suo diario: non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e cosí non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze. Il suicidio improvviso di Pavese, il 27 agosto 1950 in una Torino deserta, lascia una traccia profonda nei libri della Ginzburg, ed è forse all’origine delle tante morti repentine e sbilenche dei suoi personaggi, che cadono sempre piú frequenti col passare degli anni e che s’infittiranno nei due romanzi ultimi, Caro Michele e La città e la casa. Ma già in Tutti i nostri ieri, scritto a soli due anni dalla scomparsa di Pavese, la presenza dell’amico incombe, diffusa e disciolta nell’insieme delle vicende, spezzettata nei silenzi, nelle scrollate di spalle, nei sorrisi storti e nei «Me ne infischio» di Ippolito, suicida come Pavese e come Pavese impigliato in una rete di incomunicabili pensieri. Quando si rivolge alla memoria di Pavese, Natalia Ginzburg parla in nome della semplicità della vita, ma non di una sua facilità. Non avrebbe potuto, con la sua storia personale. La tragedia l’aveva toccata eccome; Pavese, che era amico suo come di Leone, avrebbe dovuto ricordarselo quando scriveva e riscriveva il proprio diario. Agli occhi della Ginzburg una vita lineare consiste nell’accettare la gioia e il dolore allo stesso titolo, nell’assumerli su di sé, nel caricarseli indosso portandoli con dignità e coraggio, nel conoscerli entrambi, nell’assorbirne la volubile ricchezza trasformandoli pian piano nella propria identità, nel diventare tutt’uno con essi. Volendo trarre una morale dall’incontro Ginzburg-Pavese, si potrebbe dire che vennero a contatto un poeta che restò un adolescente – che si pose sempre domande da adolescente e si diede risposte da adolescente – e un saggio: perché se i poeti lirici sono coloro che fanno vibrare all’infinito gli interrogativi dolenti e insolubili dell’adolescenza, i saggi sono coloro che rivolgono a se stessi e al mondo le domande elementari e inesorabili dei bambini, ma quando rispondono, rispondono con la voce ferma dell’adulto. Nella Ginzburg i songs of innocence nascono sempre, subito, come songs of experience. È anche in questa saggezza infantile e matura il segreto dell’intelligenza diversa, scandalosa, di cui ha detto Garboli, il mistero di quell’intelligenza che si coglie allo stato nascente nelle Piccole virtú. Forse la fintotontaggine non è che un modo di tenersi a distanza dal mondo, dalle visioni usurate del mondo, da quegli orrori del mondo che noi tutti accettiamo come ovvietà senza rimedio, ma non da quelle semplici difficilissime realtà della vita che sono i rapporti umani, le gioie, i dolori, la sicura presenza della morte. L’«innocenza separata dall’ingenuità» non è che un modo per mantenere acceso un dubbio attivo su se stessi, sul proprio stare al mondo, sul proprio diritto a raccontarlo: sulla possibilità medesima di raccontarlo. Se è vero che l’intelligenza della Ginzburg è viscerale e buia e istintiva, bisognerà concludere che c’è del metodo in quell’istinto. È certo che la Ginzburg ha grandemente contribuito ad alimentare la leggenda della sua ottusità. È vero intanto che per prima cosa, ad apertura di pagina, proclama i suoi limiti e intona la geremiade delle sue incapacità, e quando lo sguardo del lettore cadrà sulle vite parallele di Lui e io se ne accorgerà in pieno. Qualche volta la Ginzburg cede addirittura alla tentazione di giocarci, con questa ottusità, e la volge allora in una sorta di comicità rigida e impassibile alla Buster Keaton: come quando, in La Maison Volpé, traduce alla lettera con spasso garantito alcune espressioni idiomatiche inglesi di cui conosce sicuramente il significato reale: «va’ al lavoro su un uovo». Con altrettanta fermezza, però, rivendica la sua qualità principale: capire la poesia. Ora, dato che nel suo vocabolario «poesia» è l’opposto di «letteratura», capire la poesia vuol dire tout court capire la vita.


Parte prima

  Inverno in Abruzzo

  Deus nobis haec otia fecit.


  In Abruzzo non c'è che due stagioni: l'estate e l'inverno. La primavera è nevosa e ventosa come l'inverno e l'autunno è caldo e limpido come l'estate. L'estate comincia in giugno e finisce in novembre. I lunghi giorni soleggiati sulle colline basse e riarse, la gialla polvere della strada e la dissenteria dei bambini, finiscono e comincia l'inverno. La gente allora cessa di vivere per le strade: i ragazzi scalzi scompaiono dalle scalinate della chiesa. Nel paese di cui parlo, quasi tutti gli uomini scomparivano dopo gli ultimi raccolti: andavano a lavorare a Terni, a Sulmona, a Roma. Quello era un paese di muratori: e alcune case erano costruite con grazia, avevano terrazze e colonnine come piccole ville, e stupiva di trovarci, all'entrare, grandi cucine buie coi prosciutti appesi e vaste camere squallide e vuote. Nelle cucine il fuoco era acceso e c'erano varie specie di fuochi, c'erano grandi fuochi con ceppi di quercia, fuochi di frasche e foglie, fuochi di sterpi raccattati ad uno ad uno per via.


  Era facile individuare i poveri e i ricchi, guardando il fuoco acceso, meglio di quel che si potesse fare guardando le case e la gente, i vestiti e le scarpe, che in tutti su per giú erano uguali.


  Quando venni al paese di cui parlo, nei primi tempi tutti i volti mi parevano uguali, tutte le donne si rassomigliavano, ricche e povere, giovani e vecchie. Quasi tutte avevano la bocca sdentata: laggiù le donne perdono i denti a trent'anni, per le fatiche e il nutrimento cattivo, per gli strapazzi dei parti e degli allattamenti che si susseguono senza tregua. Ma poi a poco a poco cominciai a distinguere Vincenzina da Secondina, Annunziata da Addolorata, e cominciai a entrare in ogni casa e a scaldarmi a quei loro fuochi diversi.


  Quando la prima neve cominciava a cadere, una lenta tristezza s'impadroniva di noi. Era un esilio il nostro: la nostra città era lontana e lontani erano i libri, gli amici, le vicende varie e mutevoli di una vera esistenza. Accendevamo la nostra stufa verde, col lungo tubo che attraversava il soffitto: ci si riuniva tutti nella stanza dove c'era la stufa, e lì si cucinava e si mangiava, mio marito scriveva al grande tavolo ovale, i bambini cospargevano di giocattoli il pavimento. Sul soffitto della stanza era dipinta un'aquila: e io guardavo l'aquila e pensavo che quello era l'esilio. L'esilio era l'aquila, era la stufa verde che ronzava, era la vasta e silenziosa campagna e l'immobile neve.


  Alle cinque suonavano le campane della chiesa di Santa Maria, e le donne andavano alla benedizione, coi loro scialli neri e il viso rosso. Tutte le sere mio marito ed io facevamo una passeggiata: tutte le sere camminavamo a braccetto, immergendo i piedi nella neve. Le case che costeggiavano la strada erano abitate da gente cognita e amica: e tutti uscivano sulla porta e ci dicevano: «Con una buona salute». Qualcuno a volte domandava: «Ma quando ci ritornate alle case vostre?» Mio marito diceva:


  «Quando sarà finita la guerra». «E quando finirà questa guerra? Te che sai tutto e sei un professore, quando finirà?» Mio marito lo chiamavano «il professore» non sapendo pronunciare il suo nome, e venivano da lontano a consultarlo sulle cose più varie, sulla stagione migliore per togliersi i denti, sui sussidi che dava il municipio e sulle tasse e le imposte.


  D'inverno qualche vecchio se ne andava con una polmonite, le campane di Santa Maria suonavano a morto, e Domenico Orecchia, il falegname, fabbricava la cassa.


  Una donna impazzì e la portarono al manicomio di Collemaggio, e il paese ne parlò per un pezzo. Era una donna giovane e pulita, la più pulita di tutto il paese: dissero che le era successo per la gran pulizia. A Gigetto di Calcedonio nacquero due gemelle, con due gemelli maschi che aveva già in casa, e fece una chiassata in municipio perché non volevano dargli il sussidio, dato che aveva tante coppe di terra e un orto grande come sette città. A Rosa, la bidella della scuola, una vicina gli sputò dentro l'occhio, e lei girava con l'occhio bendato perché le pagassero l'indennità.


  «L'occhio è delicato, lo sputo è salato», spiegava. E anche di questo si parlò per un pezzo, finché non ci fu più niente da dire.


  La nostalgia cresceva in noi ogni giorno. Qualche volta era perfino piacevole, come una compagnia tenera e leggermente inebriante. Arrivavano lettere dalla nostra città, con notizie di nozze e di morti dalle quali eravamo esclusi. A volte la nostalgia si faceva acuta ed amara, e diventava odio: noi odiavamo allora Domenico Orecchia, Gigetto di Calcedonio, Annunziatina, le campane di Santa Maria. Ma era un odio che tenevamo celato, riconoscendolo ingiusto: e la nostra casa era sempre piena di gente, chi veniva a chieder favori e chi veniva a offrirne. A volte la sartoretta veniva a farci le sagnoccole. Si cingeva uno strofinaccio alla vita e sbatteva le uova, e mandava Crocetta in giro per il paese a cercare chi potesse prestarci un paiolo ben grande. Il suo viso rosso era assorto e i suoi occhi splendevano di una volontà imperiosa.


  Avrebbe messo a fuoco la casa perché le sue sagnoccole riuscissero bene. Il suo vestito e i capelli si facevano bianchi di farina, e sul tavolo ovale dove mio marito scriveva, venivano adagiate le sagnoccole.


  Crocetta era la nostra donna di servizio. Veramente non era una donna perché aveva quattordici anni. Era stata la sartoretta a trovarcela. La sartoretta divideva il mondo in due squadre: quelli che si pettinano e quelli che non si pettinano. Da quelli che non si pettinano bisogna guardarsi, perché naturalmente hanno i pidocchi.


  Crocetta si pettinava: e perciò venne da noi a servizio, e raccontava ai bambini delle lunghe storie di morti e di cimiteri. C'era una volta un bambino che gli morì la madre.


  Suo padre si pigliò un'altra moglie e la matrigna non amava il bambino. Perciò lo uccise mentre il padre era ai campi e ci fece il bollito. Il padre torna a casa e mangia, ma dopo che ha mangiato le ossa rimaste nel piatto si mettono a cantare: 


  E la mia trista marea


  Mi ci ha cotto in calcarea


  E lo mio padre ghiottò


  Mi ci ha fatto 'nu bravo boccò.


  


  Allora il padre uccide la moglie con la falce, e l'appende a un chiodo davanti alla porta. A volte mi sorprendo a mormorare le parole di questa canzone, e allora tutto il paese mi ritorna davanti, insieme al particolare sapore di quelle stagioni, insieme al soffio gelato del vento e al suono delle campane.


  Ogni mattina uscivo con i miei bambini e la gente si stupiva e disapprovava che io li esponessi al freddo e alla neve. «Che peccato hanno fatto queste creature?» dicevano. «Non è tempo di passeggiare, signò. Torna a casa». Camminavamo a lungo per la campagna bianca e deserta, e le rare persone che incontravo guardavano i bambini con pietà. «Che peccato hanno fatto?» mi dicevano. Laggiù se nasce un bambino nell'inverno, non lo portano fuori dalla stanza fino a quando non sia venuta l'estate. A mezzogiorno mio marito mi raggiungeva con la posta, e tornavamo tutti insieme a casa.


  Io parlavo ai bambini della nostra città. Erano molto piccoli quando l'avevamo lasciata, e non ne avevano nessun ricordo. Io dicevo loro che là le case avevano molti piani, c'erano tante case e tante strade, e tanti bei negozi. «Ma anche qui c'è Girò», dicevano i bambini.


  La bottega di Girò era proprio davanti a casa nostra. Girò se ne stava sulla porta come un vecchio gufo, e i suoi occhi rotondi e indifferenti fissavano la strada.


  Vendeva un po' di tutto: generi alimentari e candele, cartoline, scarpe e aranci.


  Quando arrivava la roba e Girò scaricava le casse, i ragazzi correvano a mangiare gli aranci marci che buttava via. A Natale arrivava anche il torrone, i liquori, le caramelle. Ma lui non cedeva un soldo sul prezzo. «Quanto sei cattivo, Girò», gli dicevan le donne. Rispondeva: «Chi è buono se lo mangiano i cani». A Natale tornavano gli uomini da Terni, da Sulmona, da Roma, stavano alcuni giorni e ripartivano, dopo aver scannato i maiali. Per alcuni giorni non si mangiava che sfrizzoli, salsicce pazze e non si faceva che bere: poi le grida dei nuovi maialetti riempivano la strada.


  In febbraio l'aria si faceva umida e molle. Nuvole grige e cariche vagavano per il cielo. Ci fu un anno che durante lo sgelo si ruppero le grondaie. Allora cominciò a piovere in casa e le stanze erano dei veri pantani. Ma fu così per tutto il paese: non una sola casa restò asciutta. Le donne vuotavano i secchi dalle finestre e scopavano via l'acqua dalla porta. C'era chi andava a letto con l'ombrello aperto. Domenico Orecchia diceva che era il castigo di qualche peccato. Questo durò più d'una settimana: poi finalmente ogni traccia di neve scomparve dai tetti, e Aristide aggiustò le grondaie.


  La fine dell'inverno svegliava in noi come un'irrequietudine. Forse qualcuno sarebbe venuto a trovarci: forse sarebbe finalmente accaduto qualcosa. Il nostro esilio doveva pur avere una fine. Le vie che ci dividevano dal mondo parevano più brevi: la posta arrivava più spesso. Tutti i nostri geloni guarivano lentamente.


  C'è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica. I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci struggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi. La nostra sorte trascorre in questa vicenda di speranze e di nostalgie.


  Mio marito morì a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all'orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m'è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.


  


  Le scarpe rotte


  


  Io ho le scarpe rotte e l'amica con la quale vivo in questo momento ha le scarpe rotte anche lei. Stando insieme parliamo spesso di scarpe. Se le parlo del tempo in cui sarò una vecchia scrittrice famosa, lei subito mi chiede: «Che scarpe avrai?» Allora le dico che avrò delle scarpe di camoscio verde, con una gran fibbia d'oro da un lato.


  Io appartengo a una famiglia dove tutti hanno scarpe solide e sane. Mia madre anzi ha dovuto far fare un armadietto apposta per tenerci le scarpe, tante paia ne aveva.


  Quando torno fra loro, levano alte grida di sdegno e di dolore alla vista delle mie scarpe. Ma io so che anche con le scarpe rotte si può vivere. Nel periodo tedesco ero sola qui a Roma, e non avevo che un solo paio di scarpe. Se le avessi date al calzolaio avrei dovuto stare due o tre giorni a letto, e questo non mi era possibile. Così continuai a portarle, e per giunta pioveva, le sentivo sfasciarsi lentamente, farsi molli ed informi, e sentivo il freddo del selciato sotto le piante dei piedi. È per questo che anche ora ho sempre le scarpe rotte, perché mi ricordo di quelle e non mi sembrano poi tanto rotte al confronto, e se ho del denaro preferisco spenderlo altrimenti, perché le scarpe non mi appaiono più come qualcosa di molto essenziale. Ero stata viziata dalla vita prima, sempre circondata da un affetto tenero e vigile, ma quell'anno qui a Roma fui sola per la prima volta, e per questo Roma mi è cara, sebbene carica di storia per me, carica di ricordi angosciosi, poche ore dolci. Anche la mia amica ha le scarpe rotte, e per questo stiamo bene insieme. La mia amica non ha nessuno che la rimproveri per le scarpe che porta, ha soltanto un fratello che vive in campagna e gira con degli stivali da cacciatore. Lei e io sappiamo quello che succede quando piove, e le gambe sono nude e bagnate e nelle scarpe entra l'acqua, e allora c'è quel piccolo rumore a ogni passo, quella specie di sciacquettìo.


  La mia amica ha un viso pallido e maschio, e fuma in un bocchino nero. Quando la vidi per la prima volta, seduta a un tavolo, con gli occhiali cerchiati di tartaruga e il suo viso misterioso e sdegnoso, col bocchino nero fra i denti, pensai che pareva un generale cinese. Allora non lo sapevo che aveva le scarpe rotte. Lo seppi più tardi.


  Noi ci conosciamo soltanto da pochi mesi, ma è come se fossero tanti anni. La mia amica non ha figli, io invece ho dei figli e per lei questo è strano. Non li ha mai veduti se non in fotografia, perché stanno in provincia con mia madre, e anche questo fra noi è stranissimo, che lei non abbia mai veduto i miei figli. In un certo senso lei non ha problemi, può cedere alla tentazione di buttar la vita ai cani, io invece non posso. I miei figli dunque vivono con mia madre, e non hanno le scarpe rotte finora.


  Ma come saranno da uomini? Voglio dire: che scarpe avranno da uomini? Quale via sceglieranno per i loro passi? Decideranno di escludere dai loro desideri tutto quel che è piacevole ma non necessario, o affermeranno che ogni cosa è necessaria e che l'uomo ha il diritto di avere ai piedi delle scarpe solide e sane?


  Con la mia amica discorriamo a lungo di questo, e di come sarà il mondo allora, quando io sarò una vecchia scrittrice famosa, e lei girerà per il mondo con uno zaino in spalla, come un vecchio generale cinese, e i miei figli andranno per la loro strada, con le scarpe sane e solide ai piedi e il passo fermo di chi non rinunzia, o con le scarpe rotte e il passo largo e indolente di chi sa quello che non è necessario.


  Qualche volta noi combiniamo dei matrimoni fra i miei figli e i figli di suo fratello, quello che gira per la campagna con gli stivali da cacciatore. Discorriamo così fino a notte alta, e beviamo del tè nero e amaro. Abbiamo un materasso e un letto, e ogni sera facciamo a pari e dispari chi di noi due deve dormire nel letto. Al mattino quando ci alziamo, le nostre scarpe rotte ci aspettano sul tappeto.


  La mia amica qualche volta dice che è stufa di lavorare, e vorrebbe buttar la vita ai cani. Vorrebbe chiudersi in una bettola a bere tutti i suoi risparmi, oppure mettersi a letto e non pensare più a niente, e lasciare che vengano a levarle il gas e la luce, lasciare che tutto vada alla deriva pian piano. Dice che lo farà quando io sarò partita.


  Perché la nostra vita comune durerà poco, presto io partirò e tornerò da mia madre e dai miei figli, in una casa dove non mi sarà permesso di portare le scarpe rotte. Mia madre si prenderà cura di me, m'impedirà di usare degli spilli invece che dei bottoni, e di scrivere fino a notte alta. E io a mia volta mi prenderò cura dei miei figli, vincendo la tentazione di buttar la vita ai cani. Tornerò ad essere grave e materna, come sempre mi avviene quando sono con loro, una persona diversa da ora, una persona che la mia amica non conosce affatto.


  Guarderò l'orologio e terrò conto del tempo, vigile ed attenta ad ogni cosa, e baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che così dev'essere se appena è possibile, almeno nell'infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini.


  


  Ritratto d'un amico


  


  La città che era cara al nostro amico è sempre la stessa: c'è qualche cambiamento, ma cose da poco: hanno messo dei filobus, hanno fatto qualche sottopassaggio. Non ci sono cinematografi nuovi. Quelli antichi ci sono sempre, coi nomi d'una volta: nomi che ridestano in noi, a ripeterli, la giovinezza e l'infanzia. Noi, ora, abitiamo altrove, in un'altra città tutta diversa, e più grande: e se ci incontriamo e parliamo della nostra città, ne parliamo senza rammarico d'averla lasciata, e diciamo che ora non potremmo più viverci. Ma quando vi ritorniamo, ci basta attraversare l'atrio della stazione, e camminare nella nebbia dei viali, per sentirci proprio a casa nostra; e la tristezza che ci ispira la città ogni volta che vi ritorniamo, è in questo sentirci a casa nostra e sentire nello stesso tempo che noi, a casa nostra, non abbiamo più ragione di stare; perché qui a casa nostra, nella nostra città, nella città dove abbiamo trascorso la giovinezza, ci rimangono ormai poche cose viventi, e siamo accolti da una folla di memorie e di ombre.


  La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura. Nelle mattine d'inverno, ha un suo particolare odore di stazione e fuliggine, diffuso in tutte le strade e in tutti i viali; arrivando al mattino, la troviamo grigia di nebbia, e ravviluppata in quel suo odore. Filtra qualche volta, attraverso la nebbia, un sole fioco, che tinge di rosa e di lilla i mucchi di neve, i rami spogli delle piante; la neve, nelle strade e sui viali, è stata spalata e radunata in piccoli cumuli, ma i giardini pubblici sono ancora sepolti sotto una fitta coltre intatta e soffice, alta un dito sulle panchine abbandonate e sugli orli delle fontane; l'orologio del galoppatoio è fermo, da tempo incalcolabile, sulle undici meno un quarto. Di là dal fiume s'alza la collina, anch'essa bianca di neve ma chiazzata qua e là d'una sterpaglia rossastra; e in vetta alla collina torreggia un fabbricato color arancione, di forma circolare, che fu un tempo l'Opera Nazionale Balilla. Se c'è un po' di sole, e risplende la cupola di vetro del Salone dell'Automobile, e il fiume scorre con un luccichìo verde sotto ai grandi ponti di pietra, la città può anche sembrare, per un attimo, ridente e ospitale: ma è un'impressione fuggevole. La natura essenziale della città è la malinconia: il fiume, perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee, che fanno pensare al tramonto anche se è mezzogiorno; e in qualunque punto si respira quello stesso odore cupo e laborioso di fuliggine e si sente un fischio di treni.


  La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all'amico che abbiamo perduto e che l'aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare.


  Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua alta figura dal cappotto scuro a martingala, la faccia nascosta nel bavero, il cappello calato sugli occhi. L'amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all'improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia; e celebrava, nei suoi versi, la città: 


  Questo è il giorno che salgono le nebbie dal fiume


  Nella bella città, in mezzo a prati e colline,


  E la sfumano come un ricordo...


  


  I suoi versi risuonano al nostro orecchio, quando ritorniamo alla città o quando ci pensiamo; e non sappiamo neppure più se siano bei versi, tanto fanno parte di noi, tanto riflettono per noi l'immagine della nostra giovinezza, dei giorni ormai lontanissimi in cui li ascoltammo dalla viva voce del nostro amico per la prima volta: e scoprimmo, con profondo stupore, che anche della nostra grigia, pesante e impoetica città si poteva fare poesia.


  Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all'ultimo visse così.


  Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava: e noi che annaspavamo combattuti fra prigrizia e operosità, perdevamo le ore nell'incertezza di decidere se eravamo pigri o operosi. Non volle, per molti anni, sottomettersi a un orario d'ufficio, accettare una professione definita; ma quando acconsentì a sedere a un tavolo d'ufficio, divenne un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile: pur serbandosi un ampio margine d'ozio; consumava i suoi pasti velocissimo, mangiava poco e non dormiva mai.


  Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni.


  Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l'aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c'era riuscito; o se invece si era proposto, semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fosse la sua.


  Conversare con lui, d'altronde, non era mai facile, nemmeno quando si mostrava allegro: ma poteva essere, un incontro con lui anche composto di rare parole, tonico e stimolante come nessun altro. Diventavamo, in sua compagnia, molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze.


  Ci sentivamo spesso, accanto a lui, umiliati: perché non sapevamo essere, come lui, sobri, né come lui modesti, né come lui generosi e disinteressati. Ci trattava, noi suoi amici, con maniere ruvide, e non ci perdonava nessuno dei nostri difetti; ma se eravamo sofferenti o malati, si mostrava ad un tratto sollecito come una madre. Per principio, si rifiutava di conoscere gente nuova; ma poteva succedere che a un tratto, con una persona impensata e mai vista prima, una persona magari vagamente spregevole, lui si mostrasse espansivo e affettuoso, prodigo d'appuntamenti e progetti. Se gli facevamo osservare che quella persona era, per molti aspetti, antipatica o spregevole, lui diceva che lo sapeva benissimo, perché gli piaceva saper sempre tutto, non ci accordava mai la soddisfazione di raccontargli qualcosa di nuovo; ma per qual motivo si comportasse con quella persona così confidenzialmente, e negasse invece la sua cordialità ad altra gente più meritevole, non lo spiegava, e non l'abbiamo saputo mai. A volte si incuriosiva di qualche persona che lui pensava provenisse da un mondo elegante, e la frequentava; forse contava di giovarsene per i suoi romanzi; ma nel giudicare la raffinatezza sociale o di costume, si sbagliava, e scambiava per cristallo dei fondi di bottiglia; e in questo era, ma soltanto in questo, molto ingenuo. Si sbagliava sulla raffinatezza di costume; ma quanto alla raffinatezza di spirito o di cultura, non si lasciava prendere in inganno.


  Aveva un modo avaro e cauto di dare la mano nel salutare, poche dita concesse e ritolte; aveva un modo schivo e parsimonioso di trarre il tabacco dalla borsa e riempirsi la pipa; e aveva un modo brusco e subitaneo di regalarci del denaro, se sapeva che ne avevamo bisogno, un modo così brusco e subitaneo che ne restavamo sbalorditi; era, lui diceva, avaro del denaro che possedeva, e soffriva nel separarsene: ma appena se n'era separato, subito se ne infischiava. Se eravamo lontani da lui, non ci scriveva, né rispondeva alle nostre lettere, o rispondeva con poche frasi recise e agghiaccianti: perché, diceva, non sapeva voler bene agli amici quand'erano lontani, non voleva soffrire della loro assenza, e subito li inceneriva nel proprio pensiero.


  Non ebbe mai una moglie, né dei figli, né una casa sua. Abitava presso una sorella sposata, che gli voleva bene e alla quale lui voleva bene; ma usava in famiglia i suoi soliti modi ruvidi, e si comportava come un ragazzo o come un forestiero. Veniva, a volte, nelle nostre case, e scrutava con cipiglio aggrottato e bonario i figli che ci nascevano, le famiglie che noi ci si costruiva: pensava anche lui a farsi una famiglia, ma ci pensava in un modo che si faceva, con gli anni, sempre più complicato e tortuoso; così tortuoso, che non ne poteva germogliare nessuna semplice conclusione.


  Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l'attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante. Era, qualche volta, così triste, e noi avremmo pur voluto venirgli in aiuto: ma non ci permise mai una parola pietosa, un cenno di consolazione: e accadde anzi che noi, imitando i suoi modi, respingessimo nell'ora del nostro sconforto la sua misericordia. Non fu, per noi, un maestro, pur avendoci insegnato tante cose: perché vedevamo bene le assurde e tortuose complicazioni di pensiero, nelle quali imprigionava la sua semplice anima; e avremmo anche noi voluto insegnargli qualcosa, insegnargli a vivere in un modo più elementare e respirabile: ma non ci riuscì mai d'insegnargli nulla, perché quando tentavamo di esporgli le nostre ragioni, alzava una mano e diceva che lui sapeva già tutto.


  Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all'ultimo, nella figura, la gentilezza d'un adolescente.


  Diventò, negli ultimi anni, uno scrittore famoso; ma questo non mutò in nulla le sue abitudini schive, né la modestia della sua attitudine, né l'umiltà, coscienziosa fino allo scrupolo, del suo lavoro d'ogni giorno. Quando gli chiedevamo se gli piaceva d'essere famoso, rispondeva, con un ghigno superbo, che se l'era sempre aspettato: aveva, a volte, un ghigno astuto e superbo, fanciullesco e malevolo, che lampeggiava e spariva. Ma quell'esserselo sempre aspettato, significava che la cosa raggiunta non gli dava più nessuna gioia: perché era incapace di godere delle cose e di amarle, non appena le aveva. Diceva di conoscere ormai la sua arte così a fondo, che essa non gli offriva più nessun segreto: e non offrendogli più segreti, non lo interessava più. Noi stessi suoi amici, lui ci diceva, non avevamo più segreti per lui e lo annoiavamo infinitamente; e noi, mortificati d'annoiarlo, non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell'esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guadarla come da sconfinate lontananze. È morto d'estate. La nostra città, d'estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. S'alzano dai viali folate di polvere; passano, venendo dal fiume, grossi carri carichi di sabbia; l'asfalto del corso è tutto spalmato di pietruzze, che cuociono nel catrame. All'aperto, sotto gli ombrelloni a frange, i tavolini dei caffè sono abbandonati e roventi.


  Non c'era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d'un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero. Aveva immaginato la sua morte in una poesia antica, di molti e molti anni prima:


  


  Non sarà necessario lasciare il letto.


  Solo l'alba entrerà nella stanza vuota.


  Basterà la finestra a vestire ogni cosa


  D'un chiarore tranquillo, quasi una luce.


  Poserà un'ombra scarna sul volto supino.


  I ricordi saranno dei grumi d'ombra


  Appiattati così come vecchia brace


  Nel camino. Il ricordo sarà la vampa


  Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.


  


  Andammo, poco tempo dopo la sua morte, in collina. C'erano osterie sulla strada, con pergolati d'uva rosseggiante, giochi di bocce, cataste di biciclette; c'erano cascinali con grappoli di pannocchie, l'erba falciata stesa ad asciugare sui sacchi: il paesaggio, al margine della città e sul limitare dell'autunno, che lui amava.


  Guardammo, sulle sponde erbose e sui campi arati, salire la notte di settembre.


  Eravamo tutti molto amici, e ci conoscevamo da tanti anni; persone che avevano sempre lavorato e pensato insieme. Come succede fra chi si vuol bene ed è stato colpito da una disgrazia, cercavamo ora di volerci più bene e di accudirci e proteggerci l'uno con l'altro; perché sentivamo che lui, in qualche sua maniera misteriosa, ci aveva sempre accuditi e protetti. Era più che mai presente, su quella proda della collina.


  


  Ogni occhiata che torna, conserva un gusto


  Di erba e cose impregnate di sole a sera


  Sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare.


  Come un mare notturno è quest'ombra vaga


  Di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora


  E ogni sera ritorna. Le voci morte


  Assomigliano al frangersi di quel mare.


  


  Elogio e compianto dell'Inghilterra


  


  L'Inghilterra è bella e malinconica. Io non conosco, a dire il vero, molti paesi; ma mi è nato il sospetto che sia, l'Inghilterra, il più malinconico paese del mondo.


  È un paese altamente civile. Vi si vedono risolti con grande saggezza i problemi più essenziali del vivere, quali l'infermità, la vecchiaia, la disoccupazione, le tasse.


  È un paese che sa avere, credo, un buon governo, e questo si avverte nei minimi particolari della vita giornaliera.


  È un paese dove regna il massimo rispetto, e la massima volontà di rispetto, per il prossimo.


  È un paese che si è dimostrato sempre pronto ad accogliere gli stranieri, le popolazioni più diverse, e, credo, non li opprime.


  È un paese dove si sanno costruire le case. Il desiderio dell'uomo di godere d'una piccola casa, solo per sé e per la sua famiglia, col giardino che lui stesso può coltivare, è considerato legittimo, e le città sono dunque composte di questa sorta di piccole case.


  Anche le case più modeste possono avere, all'esterno, una parvenza di grazia.


  E una città grande come Londra, mostruosamente immensa, è però combinata in modo che questa grandezza non si avverte e non pesa. L'occhio non si smarrisce nella sua grandezza, ma viene attratto e ingannato dalle piccole strade, dalle piccole case, dai verdi parchi.


  I parchi si aprono nella città come laghi, a riposare lo sguardo, a dargli refrigerio e liberazione, a lavarlo dalla fuliggine.


  Perché dovunque la città non è verde, è subito avvolta in una fitta coltre fuligginosa, e odora come odorano le stazioni, di vecchi treni, di carbone e di polvere.


  Le stazioni sono il punto dove l'Inghilterra è più scopertamente tetra. Vi si accumulano rottami di ferro, detriti di carbone, aggrovigliate e rugginose cataste di binari in disuso. Le circondano desolati orti di cavoli, con povere camiciole stese, e baracche tutte rappezzate al pari di biancheria vecchia.


  Pure assai tetra è la periferia di Londra, dove le strade di casette uguali si moltiplicano e si prolungano fino alla vertigine.


  Uguale vertigine proviamo a vedere qui a Londra certe vetrine di negozi, piene stipate di scarpe tutte simili, con la punta aguzza e i tacchi a spillo. Scarpe, che fanno male i piedi solo a guardarle. O vetrine stipate, traboccanti di biancheria da donna, così stipate da far sparire la voglia di comperare sottovesti o calze, tanto ne hai pieni gli occhi. A guardare tale abbondanza, nasce la sensazione di non aver bisogno di nulla, e un disgusto di calze e sottovesti, che sembra debba durare per sempre.


  


  Contro le mura di mattoni rossi delle piccole case, si stagliano le foglioline verdi degli alberi, piccole, di un verde tenero, un delicato ricamo di foglie.


  Di tratto in tratto s'affaccia sulla strada un albero fiorito, di un rosa tenero o vivacemente acceso, bello a vedersi, gentile adornamento della strada. Tuttavia si sente, guardandolo, che non è là per caso, ma per calcolo, in obbedienza a un preciso disegno. E il fatto che sia là non per caso, ma in obbedienza a un preciso disegno, rattrista la sua bellezza.


  Un albero fiorito, in Italia, sulla strada d'una città, sarebbe d'una sorprendente letizia. Sarebbe là per caso, scaturito dall'allegria della terra, e non già per il calcolo d'una volontà determinata.


  A Londra, in questa città nera e grigia, l'uomo ha posto, con precisa determinazione, qualche colore. Si può incontrare a un tratto un portoncino azzurro, o rosa, o rosso, tra i suoi neri fratelli. Passano, nell'aria grigia, gli autobus dipinti di un vivo rosso. Sono colori che altrove sarebbero allegri, ma qui non sono allegri, imbrigliati da una precisa e determinata intenzione, triste e smorto sorriso di chi non sa sorridere.


  E rossi sono i carri dei pompieri, che non hanno uno strido di sirena, ma un dolce tintinnío di campanelle.


  L'Inghilterra non è mai volgare. È conformista, ma non volgare. Non è mai sguaiata, essendo triste. La volgarità scaturisce dalla sguaiataggine e dalla prepotenza. Scaturisce, anche, dall'estro, dalla fantasia.


  Crediamo di veder affiorare, a volte, la volgarità, nella voce chioccia o nel riso stridulo di una donna, nei colori violenti del suo trucco, o nei suoi capelli di stoppa.


  Ma ci accorgiamo subito che ovunque, in questo paese, la volgarità è schiantata dalla malinconia.


  


  Gl'inglesi mancano di fantasia. Si vestono tutti allo stesso modo. Le donne che si vedono per strada hanno tutte il medesimo impermeabile di cellofane, trasparente e caramellato, simile alle tende dei bagni, alle tovaglie dei ristoranti. Hanno tutte, infilato al braccio, un canestro di vimini. Gli uomini d'affari portano l'uniforme che sappiamo, la bombetta nera, i pantaloni a righe, e l'ombrello. Gli artisti del quartiere di Chelsea, e gli studenti con sogni d'arte, di bohème e di vita dissipata, hanno barbe rossicce, incolte, tagliate in tondo, e giacche a quadri con le tasche sformate. Le ragazze di questo tipo vestono attillati pantaloni neri, maglioni accollati e scarpe, nella pioggia, bianche.


  I giovani credono, vestendosi a questo modo, di affermare come a voce alta la propria situazione libera, sgretolata, anticonformista, l'originalità e l'estro del proprio pensiero. Non si accorgono, tuttavia, che la strada ospita migliaia di personaggi perfettamente identici a loro, con la medesima capigliatura, la medesima espressione di ingenua sfida sul viso, le medesime scarpe.


  Gl'inglesi mancano di fantasia: pure mostrano fantasia in due cose, due sole. I vestiti da sera delle vecchie signore, e i caffè.


  Le vecchie signore portano, per la sera, i vestiti più strani. E si tingono il viso di rosa e di giallo, senza risparmio. Si trasformano, da quieti passerotti, in pavoni e fagiani lussureggianti.


  Non suscitano, attorno a sé, alcuno stupore. Il popolo inglese, d'altronde, non conosce stupore. Mai volta il capo a guardare il suo prossimo, per la strada.


  Anche nei caffè, nei ristoranti, l'Inghilterra esplica il suo estro. Suole dargli nomi stranieri, per renderli più attraenti: «Pustza», «Chez nous», «Roma», «Le Alpi». Vi si vedono, attraverso le vetrate, esili pianticelle rampicanti, lumini cinesi, picchi aguzzi di rocce, azzurrità di ghiacciai. O vi si vedono teschi, ossa incrociate, pareti nere, tappeti neri, mortuarie candele, e vi regna, essendo spesso deserti, un luttuoso silenzio.


  L'Inghilterra, non essendo affatto contenta di sé, si studia di vestire le piume del fascino forestiero, o cerca il brivido d'una seduzione funeraria.


  D'altronde le bevande e i cibi che si trovano all'interno di queste pustze, di queste Alpi, di questi sepolcri, hanno lo stesso, miserando sapore. La fantasia non ha raggiunto le bevande e i cibi, è rimasta impigliata nei cortinaggi, nei tappeti, nei lumi.


  


  Gl'inglesi, per solito, non mostrano stupore. Se a uno accade di svenire per strada, è tutto previsto. Nel giro di pochi secondi gli vien trovata una seggiola, un bicchier d'acqua, e un'infermiera in divisa.


  Son previsti gli svenimenti, e attorno all'infortunato tutto si muove prontamente, automaticamente, per prestare soccorso.


  Si stupiscono invece profondamente gl'inglesi quando, al ristorante, chiediamo un po' d'acqua. Essi non bevono acqua, perennemente dissetati da infinite tazze di tè.


  Non assaggiano vino, né toccano acqua. Perciò la richiesta d'un bicchiere d'acqua li disorienta, quel bicchiere d'acqua così sollecito a giungere quando accade di svenire per strada.


  Infine lo portano, un piccolo bicchiere con poca acqua tiepida, su un vassoio, e con un cucchiaino.


  Forse hanno ragione di camuffare i caffè, i ristoranti, sotto fogge straniere. Perché quando questi luoghi sono dichiaratamente inglesi, vi regna allora una così squallida disperazione, da ispirare a chi entra idee di suicidio.


  Mi sono spesso chiesta quale sia il motivo, nei caffè inglesi, d'una tale desolazione.


  Essa deriva, forse, dalla desolazione dei rapporti sociali. Qualunque luogo dove gl'inglesi si radunano per discorrere, trapela malinconia. Non c'è difatti nulla di più triste al mondo d'una conversazione inglese, sempre assorta a non sfiorare nulla d'essenziale, ma a fermarsi in superficie. Per non offendere il prossimo, penetrando nella sua intimità, che è sacra, la conversazione inglese ronza su argomenti di estrema noia per tutti, purché siano senza pericolo.


  


  Gl'inglesi sono un popolo totalmente privo di cinismo. Essi sono, in fondo, sempre seri, al di là delle loro risate che scoppiano subitanee, e s'infrangono sorde, senza eco.


  Credono ancora in certi valori essenziali che, dovunque altrove, sono stati dimenticati, nella serietà del lavoro, dello studio, della fedeltà a se stessi, agli amici, alla parola data.


  


  La civiltà, il rispetto del prossimo, il buon governo, il saper pensare e provvedere alle esigenze dell'uomo, il prestargli assistenza nella vecchiaia e nell'infermità, tutto questo è certamente il frutto di un'antica, profonda intelligenza. Pure questa intelligenza non è visibile o sensibile in alcun modo nella gente che passa per la strada. Non se ne scorge traccia, guardandosi attorno. Discorrendo, per caso, col primo che passa, invano aspetteremo parole di umana sapienza.


  Quando entriamo in un negozio, la commessa ci accoglie con le parole «Can I help you». Ma si tratta di mere parole. Essa si rivela immediatamente del tutto inabile ad aiutarci, e per nulla disposta a tentare di farlo. Non traluce in lei alcuna volontà di stabilire con noi un'intesa, di collaborare con noi, alcuna volontà di accontentarci. Nel cercare quello che desideriamo, essa non spinge il suo sguardo due centimetri oltre il suo naso.


  Le commesse inglesi sono le più stupide commesse del mondo.


  È una stupidità, tuttavia, dove è del tutto assente il cinismo, l'insolenza, la prepotenza, il disprezzo. È una stupidità del tutto priva di volgarità. Essa non è per nulla ignobile, e perciò non offende. Gli occhi delle commesse inglesi hanno la vuota, attonita fissità che hanno, sulle sconfinate praterie, gli occhi delle pecore.


  Quando usciamo dal negozio, l'occhio della commessa ci segue, attonito, vuoto, senza aver formulato su di noi nessuna specie di giudizio, nessun pensiero. È un occhio che ci dimentica subito, non appena lasciamo il brevissimo raggio della sua iride.


  Così, se per caso accade d'incontrare una commessa meno stupida, ci sentiamo disposti a comprare l'intero negozio, per la meraviglia.


  L'Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l'incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l'intelligenza, come un vivido sangue.


  È un'intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana.


  Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d'un ingannevole, e forse insensato, conforto.


  In Inghilterra l'intelligenza si traduce nelle opere, ma se la cerchiamo attorno a noi per la strada, fra la gente che passa, non ne troviamo un solo barlume, e questo, certo stupidamente e ingiustamente, ci sembra una privazione, e ci fa ammalare di malinconia.


  La malinconia inglese ci contagia prontamente. È una malinconia pecorina, attonita, una sorta di vuoto sbigottimento, sul quale in superficie aleggiano i discorsi sul tempo, sulle stagioni, su tutte le cose di cui si può parlare a lungo senza andare in profondo, senza offendere e senza essere offesi, un lungo e lieve ronzìo di zanzara.


  Il popolo inglese appare tuttavia consapevole, in qualche modo, della propria tristezza, della tristezza che ispira agli stranieri il loro paese. Con gli stranieri, ha l'aria di scusarsene, e appare perennemente ansioso di andarsene via. Vive qui come in un eterno esilio, sognando altri cieli.


  


  Mi stupisce sempre come in Italia, chi ha figli adolescenti, non sogna che di mandarli in Inghilterra nelle vacanze d'estate. Soprattutto se si tratta di ragazzi che stanno attraversando, come sovente avviene nell'adolescenza, un periodo di timidezza, di misantropia, di musoneria, di scontrosità. I genitori italiani pensano all'Inghilterra come a uno specifico rimedio contro questi mali. In verità, in Inghilterra non si compie mai nessuno scatto. È un paese dove si resta assolutamente quello che si è.


  Chi è timido, rimane timido, e chi è misantropo, resta misantropo. In più, sulla timidezza e misantropia iniziale, dilaga ancora la grande, sconfinata malinconia inglese, come una prateria sconfinata dove si perdono gli occhi.


  Inoltre, i genitori sperano invano che i loro figli in quei soggiorni estivi imparino l'inglese, lingua difficilissima ad impararsi, che pochissimi stranieri sanno, e che ogni inglese parla a modo suo.


  


  L'Inghilterra è un paese dove si resta assolutamente quello che si è. L'anima non compie il più piccolo scatto. Resta là, immobile, immutata, protetta da un clima dolce, temperato, umido, senza sbalzi di stagioni, allo stesso modo come vi resta immutata in ogni stagione l'erba verde dei prati, che non sarebbe possibile pensare più verde: che mai punge il morso del gelo, mai divora il sole. L'anima non si libera dei suoi vizi, e neppure ne assume di nuovi. Allo stesso modo dell'erba, l'anima si culla in silenzio nella sua verdeggiante solitudine, abbeverata da una tiepida pioggia.


  


  Vi sono bellissime cattedrali. Non strette fra case e botteghe, ma spazianti su prati verdi. Vi sono bellissimi cimiteri, semplici pietre scritte, sparse nell'erba in una profonda pace, ai piedi delle cattedrali. Non le difende alcun muro, esse sono là, in perpetua intimità con la vita, eppure immerse in una pace suprema.


  Nel paese della malinconia, il pensiero è sempre rivolto alla morte. Non teme la morte, assomigliando l'ombra della morte alla vasta ombra degli alberi, al silenzio che è già presente nell'anima, perduta nel suo verde sonno.


  


  La Maison Volpé


  


  Qui a Londra, nei pressi della mia casa, c'è un luogo chiamato «La Maison Volpé».


  Cosa sia non lo so, non ci sono mai entrata: penso che sia un ristorante o un caffè.


  Forse non ci entrerò mai: quel nome conserverà per me il suo mistero. Ma ho l'impressione che quando ricorderò Londra, e il tempo che qui ho trascorso, vibreranno al mio orecchio quelle sillabe, e tutta Londra sarà per me riassunta in quel nome parigino.


  Da fuori, non si vede che una porta a vetri con fitti cortinaggi di tulle color nocciola spento; di là dai fitti cortinaggi non si vede nulla; i cortinaggi sono vecchi, polverosi e sbiaditi; è forse un ristorante, ma non si avverte passando nessun odore né cattivo né buono; d'altronde non ho mai visto, passando, anima viva entrare o uscire per la porta, al disopra della quale sono tracciati in nero e oro i caratteri di quel nome strano: La Maison Volpé. Si tratti di un caffè, di un ristorante o di una sala da ballo, ho l'idea che qualunque cosa vi si possa bere o mangiare, dev'essere cosa antica e impregnata della polvere e delle tarme di cui sono impregnati i cortinaggi. La strada è quasi di periferia. Fra un distributore di benzina e un negozio di frigoriferi, la Maison Volpé, sempre ermeticamente chiusa, getta il suo mistero notturno, la promessa di piaceri segreti, esotici e forse peccaminosi che si racchiude nei caratteri nero e oro del suo nome.


  Luoghi come la Maison Volpé, a Londra, ce ne sono molti: sorgono nei punti più impensati, hanno nomi stravaganti, e da fuori non si capisce bene cosa sono: spirano una atmosfera notturna, esotica e vagamente peccaminosa, e vi si trova in pieno giorno, entrando, una misteriosa penombra, dissipata appena da fiochi lumi azzurrini; vi sono tappeti di velluto, pareti dipinte di nero, ma siamo subito delusi e smagati dalle zuccheriere sui tavoli, piene d'uno zucchero color marrone, lo zucchero di canna che usano qui. Non tardiamo ad accorgerci che in questi luoghi non avviene assolutamente nulla di strano: e non vi si beve che del caffè chiaro e tiepido, allungato col latte. Ai tavoli siedono persone vestite con un certo impegno: si capisce dal modo come sono vestite che non sono entrate là per caso, passando, ma col fermo proposito di trascorrere alcune ore proprio in quel luogo e, forse, di divertirsi. Quale divertimento possa essere il trascorrere il tempo in un simile luogo del tutto privo d'allegrezza, lo ignoro; non si vedono amanti che si abbracciano, e la conversazione è un educato sussurro; la gente non ha l'aria di gettarsi in una conversazione intima, appassionata, accesa, quelle intime conversazioni che si svolgono, fra uomo e donna o fra amici, nei nostri caffè. Non c'è in quel sussurro educato nessuna sorta d'intimità.


  Tutto l'arredamento, la penombra, i cortinaggi, i tappeti, sembrano là per suggerire l'intimità; ma essa resta un proposito astratto, un sogno remoto.


  Gl'italiani a Londra, quando si incontrano, parlano di ristoranti. Non esiste, in tutta Londra, un ristorante dove sia piacevole riunirsi a chiacchierare e a mangiare. I ristoranti qui sono o troppo affollati, o troppo deserti. E hanno tutti un carattere o di sussiego, o di squallore. A volte i due caratteri si fondono insieme; a volte sullo squallore prevale il sussiego, rigide poltrone dagli alti schienali, signore impellicciate e caraffe d'argento; a volte è lo squallore che prevale, uno smorto abbandono; ovunque, d'altronde, si mangiano press'a poco le stesse pietanze, le stesse bistecche scure e arricciate, con accanto un piccolo pomodoro bollito e una foglia d'insalata senza olio né sale.


  Ci sono ristoranti dove si mangia solo pollo arrosto. Schiere e schiere di polli girano sullo spiedo. I camerieri passano a gran corsa da un tavolo all'altro reggendo caldi piatti di polli. Non si scorge, all'intorno, traccia d'alcuna altra specie di cibo.


  Usciamo con una tale nausea di polli che sembra di non poter assaggiare mai più un pezzetto di pollo per tutta la vita. Ci sono anche ristoranti che si chiamano «The eggs and I» (le uova e io). Lì non c'è che uova, uova sode gelate e marmoree, su cui è stato proiettato un piccolo spruzzo di maionese.


  Si fa in Inghilterra, intorno ai ristoranti e al cibo, grande pubblicità. Al cinematografo, per le strade, nelle stazioni della sotterranea, nelle riviste illustrate, si vedono grandi e colorate immagini di cibi e bevande. Oh, it is luxurious! it is delicious! Assistiamo, al cinematografo, a lunghe visioni pubblicitarie di ristoranti cinesi, indiani, spagnoli, con orchestre, palme, fiori, clienti che mangiano con in testa un fez o un sombrero, estasiandosi davanti a un piatto dove tuttavia ci sembra d'intravvedere la solita bistecca scura e la solita foglia d'insalata. Si susseguono sullo schermo boschi rosseggianti di fragole e pascoli sterminati, che poi diventano il gelato Kiaora (che si può avere «qui e subito») o il bicchiere di cartone del latte Fresko («Fresko is delicious! and-full of vitamins!») La città è piena di inviti a bere e a mangiare. Su ogni angolo di strada si vede un cartello con un uovo alla coque e l'assennato suggerimento «go to work on an egg» (va' al lavoro su un uovo). Oppure


  «Drinka pinta milka day» (bevi una pinta di latte al giorno) «Baby cham? I love Baby cham!» O ancora: «Have a chicken for your week-end» (Abbiti un pollo per le tue vacanze).


  Ma nonostante tutto questo clamore che si fa intorno al cibo, per la gente esso resta semplicemente «food», cibo: qualcosa di generico e di malinconico. Nei romanzi si legge che viene portato «some food»: nessuna affettuosa specificazione. Le mille scatolette esposte nei negozi di alimentari, portano immagini dei più svariati e seducenti animali, fagiani, pernici, daini, caprioli e cervi; portano ghiotti nomi esotici e scorci di paesaggi lontani dove sarebbe molto bello andare. Ma chi vive qui da un po' di tempo, è ormai smaliziato: sa bene che il contenuto di quelle scatolette è sempre «food», cioè nulla. Nulla che si possa mangiare con simpatia cordiale, con piacere tranquillo.


  Ci si rende conto, dopo un po' di tempo che si vive qui, che nel comprare il cibo non si possono fare imprudenze. Non si può entrare in una pasticceria, scegliere qualche dolce, portarlo a casa e mangiarlo. Questo atto semplice e innocente non si può compiere qui. Perché quei dolci, graziosamente rivestiti di cioccolata e incrostati di mandorle, sono, a mangiarsi, come impastati di carbone o di sabbia. Bisogna aggiungere, per amor di giustizia, che non fanno alcun male. Sono soltanto cattivi, innocui ma cattivi, al sapore vecchi di centinaia d'anni, ma innocui. I dolci nelle tombe dei Faraoni, accanto alle mummie, debbono avere quello stesso sapore.


  Nemmeno le caramelle si possono comprare a cuor leggero. Possono esser dure come sassi, e attaccarsi ai denti riempiendo la bocca di uno strano gusto di sale.


  Pesa su ogni luogo dove si venda o si dispensi cibo un'opaca tristezza. Perfino le vetrine dei fruttivendoli, piene di frutta bella a vedersi, cataste di pompelmi e grappoli di banane, queste vetrine di fruttivendoli che si trovano eguali dovunque, nelle stazioni della sotterranea, nei più lontani sobborghi e nei più remoti villaggi perduti fra i campi, sono sempre tristi. Forse perché sono così inesorabilmente identiche l'una all'altra. Forse perché sappiamo che quella frutta, a mangiarsi, è del tutto insapore. Ma forse soltanto perché si tratta di cibo, e cioè di una cosa che qui è triste.


  E tuttavia gl'inglesi sono ossessionati dall'idea del cibo. Percorrendo le strade di campagna più deserte e remote, sul ciglio d'un bosco folto e selvaggio o ai margini d'un pendio sterposo e desolato, s'incontra un cartello con scritto «teas, luncheons, snacks». Ci guardiamo attorno, chiedendoci come e da chi possa essere mantenuta una simile lusinghiera promessa. Non si vede anima viva. Ma ecco che, pochi passi più oltre, ci aspetta una roulotte dove effettivamente si può avere tè, il solito coffee zuccherino e tiepido, e panini al prosciutto. Accanto alla cassa c'è anche un grande globo di vetro, dove gorgoglia dell'aranciata, nella quale hanno messo a galleggiare, forse per dare una più intima idea di frescura, due o tre aranci di gomma.


  A volte, invece d'una roulotte, si incontra in aperta campagna una casetta zebrata, con scritto «farm» e la solita promessa di «snacks». Entriamo, pensando che vi mangeremo cibi rustici e inconsueti. La «farm» è affollata di londinesi di passaggio, che mangiano, alle quattro del pomeriggio, merluzzo con patate fritte. C'è il solito globo di aranciata, e i bicchieri di cartone del latte Fresko (Fresko is delicious!) allineati accanto alla cassa. Gli «snacks» sono panini. Quelli della «farm» sono fatti col solito pane, confezionato in pacchi di carta quadrettata, già tagliato a fettine e tutto mollica, che si vende in ogni Lyon's e in ogni drogheria inglese. Tutt'intorno si stende la campagna, bella, verde, frusciante e umida, selvaggia e nello stesso tempo mite come nessun'altra al mondo, silenziosa, incommestibile e inodore. Non si avverte nessun odore di letame, di bestie, di terra arata o di fieno, non si sente nessuno dei rumori che siamo soliti sentire in campagna, rotolìo di carri o calpestìo di cavalli. Mucche inodori e pulite pascolano in un recinto. Nessuno le sorveglia; non si vedono pastori, cani o contadini. A volte, in piena campagna, possiamo trovare un «pub» sontuosamente addobbato, all'interno, di velluto rosso e cornici dorate. È un «pub» identico a quelli del centro di Londra: niente di diverso. C'è nell'angolo un caminetto, dove arde del finto carbone o un finto ceppo di legno: finto, ma bene imitato. Si beve la birra in bicchieri smerigliati, grandi e pesanti. Portano la birra dalle cantine in secchi di latta o di zinco, che fatalmente fanno pensare all'acqua sporca. Così, d'altronde, succede a volte anche a Londra. Perché non usare un recipiente diverso? Non c'è nessun perché. Gl'inglesi sono insensibili a certe associazioni di pensiero. E poi forse quei secchi sono il segno del profondo disprezzo, dell'odio segreto che gl'inglesi provano per ogni bevanda o cibo. A me pare che perfino certe parole usate per indicare cibi o bevande, abbiano un suono ingiurioso e rivelino odio e disprezzo: «Snackssquash-poultry». Simili parole non sembrano insulti? Significano semplicemente panini, aranciata, pollame.


  A pensarci bene, l'odio degl'inglesi per il cibo è forse la sola origine di quella oscura tristezza, che pesa su ogni luogo dove si vende o si dispensa il mangiare. Un caffè o un ristorante, se appena trascuri in minima parte un certo decoro borghese, assomiglia in modo impressionante a una mensa di poveri. E la notte, certe notti della settimana, sulle porte dei ristoranti anche più eleganti del centro, dinanzi ai locali di ritrovo più misteriosi e dai nomi più strani, perfino dinanzi alla misteriosa Maison Volpé, si vedono grigi bidoni di immondizia, grandissimi e traboccanti. I bidoni d'immondizia non sono lieti in nessun paese del mondo. Ma io credo che in nessun paese del mondo siano come qui grandi, grigi, visibili e traboccanti, impregnati del fumo grigio dell'aria, e carichi d'una desolata malinconia.


  


  Lui e io


  


  Lui ha sempre caldo; io sempre freddo. D'estate, quando è veramente caldo, non fa che lamentarsi del gran caldo che ha. Si sdegna se vede che m'infilo, la sera, un golf.


  Lui sa parlare bene alcune lingue; io non ne parlo bene nessuna. Lui riesce a parlare, in qualche suo modo, anche le lingue che non sa.


  Lui ha un grande senso dell'orientamento; io nessuno. Nelle città straniere, dopo un giorno, lui si muove leggero come una farfalla. Io mi sperdo nella mia propria città; devo chiedere indicazioni per ritornare alla mia propria casa. Lui odia chiedere indicazioni; quando andiamo per città sconosciute, in automobile, non vuole che chiediamo indicazioni e mi ordina di guardare la pianta topografica. Io non so guardare le piante topografiche, m'imbroglio su quei cerchiolini rossi, e si arrabbia.


  Lui ama il teatro, la pittura, e la musica: soprattutto la musica. Io non capisco niente di musica, m'importa molto poco della pittura, e m'annoio a teatro. Amo e capisco una cosa sola al mondo, ed è la poesia.


  Lui ama i musei, e io ci vado con sforzo, con uno spiacevole senso di dovere e fatica. Lui ama le biblioteche, e io le odio.


  Lui ama i viaggi, le città straniere e sconosciute, i ristoranti. Io resterei sempre a casa, non mi muoverei mai.


  Lo seguo, tuttavia, in molti viaggi. Lo seguo nei musei, nelle chiese, all'opera. Lo seguo anche ai concerti, e mi addormento.


  Siccome conosce dei direttori d'orchestra, dei cantanti, gli piace andare, dopo lo spettacolo, a congratularsi con loro. Lo seguo per i lunghi corridoi che portano ai camerini dei cantanti, lo ascolto parlare con persone vestite da cardinali e da re.


  Non è timido; e io sono timida. Qualche volta, però, l'ho visto timido. Coi poliziotti, quando s'avvicinano alla nostra macchina armati di taccuino e matita. Con quelli diventa timido, sentendosi in torto.


  E anche non sentendosi in torto. Credo che nutra rispetto per l'autorità costituita.


  Io, l'autorità costituita, la temo, e lui no. Lui ne ha rispetto. È diverso. Io, se vedo un poliziotto avvicinarsi per darci la multa, penso subito che vorrà portarmi in prigione. Lui, alla prigione, non pensa; ma diventa, per rispetto, timido e gentile.


  Per questo, per il suo rispetto verso l'autorità costituita, ci siamo, al tempo del processo Montesi, litigati fino al delirio.


  A lui piacciono le tagliatelle, l'abbacchio, le ciliege, il vino rosso. A me piace il minestrone, il pancotto, la frittata, gli erbaggi.


  Suole dirmi che non capisco niente, nelle cose da mangiare; e che sono come certi robusti fratacchioni, che divorano zuppe di erbe nell'ombra dei loro conventi; e lui, lui è un raffinato, dal palato sensibile. Al ristorante, s'informa a lungo sui vini; se ne fa portare due o tre bottiglie, le osserva e riflette, carezzandosi la barba pian piano.


  In Inghilterra, vi sono certi ristoranti dove il cameriere usa questo piccolo cerimoniale: versare al cliente qualche dito di vino nel bicchiere, perché senta se è di suo gusto. Lui odiava questo piccolo cerimoniale; e ogni volta impediva al cameriere di compierlo, togliendogli di mano la bottiglia. Io lo rimproveravo, facendogli osservare che a ognuno dev'essere consentito di assolvere alle proprie incombenze.


  Così, al cinematografo, non vuol mai che la maschera lo accompagni al posto. Gli dà subito la mancia, ma fugge in posti sempre diversi da quelli che la maschera, col lume, gli viene indicando.


  Al cinematografo, vuole stare vicinissimo allo schermo. Se andiamo con amici, e questi cercano, come la maggior parte della gente, un posto lontano dallo schermo, lui si rifugia, solo, in una delle prime file. Io ci vedo bene, indifferentemente, da vicino e da lontano; ma essendo con amici, resto insieme a loro, per gentilezza; e tuttavia soffro, perché può essere che lui, nel suo posto a due palmi dallo schermo, siccome non mi son seduta al suo fianco sia offeso con me.


  Tutt'e due amiamo il cinematografo; e siamo disposti a vedere, in qualsiasi momento della giornata, qualsiasi specie di film. Ma lui conosce la storia del cinematografo in ogni minimo particolare; ricorda registi e attori, anche i più antichi, da gran tempo dimenticati e scomparsi; ed è pronto a fare chilometri per andare a cercare, nelle più lontane periferie, vecchissimi film del tempo del muto, dove comparirà magari per pochi secondi un attore caro alle sue più remote memorie d'infanzia. Ricordo, a Londra, il pomeriggio d'una domenica; davano in un lontano sobborgo sui limiti della campagna un film sulla Rivoluzione francese, un film del '30, che lui aveva visto da bambino, e dove appariva per qualche attimo un'attrice famosa a quel tempo. Siamo andati in macchina alla ricerca di quella lontanissima strada; pioveva, c'era nebbia, abbiamo vagato ore e ore per sobborghi tutti uguali, tra schiere grige di piccole case, grondaie, lampioni e cancelli; avevo sulle ginocchia la pianta topografica, non riuscivo a leggerla e lui s'arrabbiava; infine, abbiamo trovato il cinematografo, ci siamo seduti in una sala del tutto deserta. Ma dopo un quarto d'ora, lui già voleva andar via, subito dopo la breve comparsa dell'attrice che gli stava a cuore; io invece volevo, dopo tanta strada, vedere come finiva il film. Non ricordo se sia prevalsa la sua o la mia volontà; forse, la sua, e ce ne siamo andati dopo un quarto d'ora; anche perché era tardi, e benché fossimo usciti nel primo pomeriggio, ormai era venuta l'ora di cena. Ma pregandolo io di raccontarmi come si concludeva la storia, non ottenevo nessuna risposta che m'appagasse; perché, lui diceva, la storia non aveva nessuna importanza, e la sola cosa che contava erano quei pochi istanti, il profilo, il gesto, i riccioli di quell'attrice.


  Io non mi ricordo mai i nomi degli attori; e siccome sono poco fisionomista, riconosco a volte con difficoltà anche i più famosi. Questo lo irrita moltissimo; gli chiedo chi sia quello o quell'altro, suscitando il suo sdegno; «non mi dirai, - dice, -  non mi dirai che non hai riconosciuto William Holden!»


  Effettivamente, non ho riconosciuto William Holden. E tuttavia, amo anch'io il cinematografo; ma pur andandoci da tanti anni, non ho saputo farmene una cultura.


  Lui se ne è fatto, invece, una cultura: si è fatto una cultura di tutto quello che ha attratto la sua curiosità; e io non ho saputo farmi una cultura di nulla, nemmeno delle cose che ho più amato nella mia vita: esse sono rimaste in me come immagini sparse, alimentando sì la mia vita di memorie e di commozione ma senza colmare il vuoto, il deserto della mia cultura.


  Mi dice che manco di curiosità: ma non è vero. Provo curiosità di poche, pochissime cose; e quando le ho conosciute, ne conservo qualche sparsa immagine, la cadenza d'una frase o d'una parola. Ma il mio universo, dove affiorano tali cadenze ed immagini, isolate l'una dall'altra e non legate da alcuna trama se non segreta, a me stessa ignota e invisibile, è arido e malinconico. Il suo universo invece è riccamente verde, riccamente popolato e coltivato, una fertile e irrigua campagna dove sorgono boschi, pascoli, orti e villaggi.


  Per me, ogni attività è sommamente difficile, faticosa, incerta. Sono molto pigra, e ho un'assoluta necessità di oziare, se voglio concludere qualcosa, lunghe ore sdraiata sui divani. Lui non sta mai in ozio, fa sempre qualcosa; scrive a macchina velocissimo, con la radio accesa; quando va a riposare il pomeriggio, ha con sé delle bozze da correggere o un libro pieno di note; vuole, nella stessa giornata, che andiamo al cinematografo, poi a un ricevimento, poi a teatro. Riesce a fare, e anche a farmi fare, nella stessa giornata, un mondo di cose diverse; a incontrarsi con le persone più disparate; e se io son sola, e tento di fare come lui, non approdo a nulla, perché là dove intendevo trattenermi mezz'ora resto bloccata tutto il pomeriggio, o perché mi sperdo e non trovo le strade, o perché la persona più noiosa e che meno desideravo vedere mi trascina con sé nel luogo dove meno desideravo di andare.


  Se gli racconto come si è svolto un mio pomeriggio, lo trova un pomeriggio tutto sbagliato, e si diverte, mi canzona e s'arrabbia; e dice che io, senza di lui, non son buona a niente.


  Io non so amministrare il tempo. Lui sa.


  Gli piacciono i ricevimenti. Ci va vestito di chiaro, quando tutti son vestiti di scuro; l'idea di cambiarsi di vestito, per andare a un ricevimento, non gli passa per la testa. Ci va magari col suo vecchio impermeabile e col suo cappello sbertucciato: un cappello di lana che ha comprato a Londra, e che porta calato sugli occhi. Sta là solo mezz'ora, gli piace, per una mezz'ora, chiacchierare con un bicchiere in mano; mangia molti pasticcini, io quasi nessuno, perché vedendo lui mangiare tanto penso che io almeno, per educazione e riserbo, devo astenermi dal mangiare; dopo mezz'ora, quando comincio un poco ad ambientarmi e a star bene, si fa impaziente e mi trascina via.


  Io non so ballare e lui sa.


  Non so scrivere a macchina; e lui sa.


  Non so guidare l'automobile. Se gli propongo di prendere anch'io la patente, non vuole. Dice che tanto non ci riuscirei mai. Credo che gli piaccia che io dipenda, per tanti aspetti, da lui.


  Io non so cantare, e lui sa. È un baritono. Se avesse studiato il canto, sarebbe forse un cantante famoso.


  Se avesse studiato musica, sarebbe forse diventato un direttore d'orchestra. Quando ascolta i dischi, dirige l'orchestra con una matita. Intanto scrive a macchina, e risponde al telefono. È un uomo che riesce a fare, nello stesso momento, molte cose.


  Fa il professore e credo che lo faccia bene.


  Avrebbe potuto fare molti mestieri. Ma non rimpiange nessuno dei mestieri che non ha fatto. Io non avrei potuto fare che un mestiere, un mestiere solo: il mestiere che ho scelto, e che faccio, quasi dall'infanzia. Neanch'io non rimpiango nessuno dei mestieri che non ho fatto: ma io tanto, non avrei saputo farne nessuno.


  Io scrivo dei racconti, e ho lavorato molti anni in una casa editrice.


  Non lavoravo male, ma neanche bene. Tuttavia mi rendevo conto che forse non avrei saputo lavorare in nessun altro luogo. Avevo, con i miei compagni di lavoro e col mio padrone, rapporti d'amicizia. Sentivo che, se non avessi avuto intorno a me questi rapporti d'amicizia, mi sarei spenta e non avrei saputo lavorare più.


  Ho coltivato a lungo in me l'idea di poter lavorare, un giorno, a sceneggiature per il cinema. Tuttavia non ne ho mai avuta l'occasione, o non ho saputo cercarla. Ora ho perso la speranza di lavorare mai a sceneggiature. Lui ha lavorato a sceneggiature, un tempo, quand'era più giovane. Ha lavorato lui pure in una casa editrice. Ha scritto racconti. Ha fatto tutte le cose che ho fatto io, più molte altre.


  Rifà bene il verso alla gente, e soprattutto a una vecchia contessa. Forse riusciva a fare anche l'attore.


  Una volta, a Londra, ha cantato in un teatro. Era Giobbe. Aveva dovuto noleggiare un frac; ed era là, in frac, davanti a una specie di leggìo; e cantava. Cantava le parole di Giobbe; qualcosa tra la dizione e il canto. Io, in un palco, morivo di paura. Avevo paura che s'impappinasse, o che gli cadessero i calzoni del frac.


  Era circondato da uomini in frac, e di signore vestite da sera, che erano gli angeli e i diavoli e gli altri personaggi di Giobbe.


  È stato un grande successo, e gli hanno detto che era molto bravo.


  Se io avessi amato la musica, l'avrei amata con passione. Invece non la capisco; e ai concerti, dove a volte lui mi costringe a seguirlo, mi distraggo e penso ai casi miei.


  Oppure cado in un profondo sonno.


  Mi piace cantare. Non so cantare, e sono stonatissima; canto tuttavia, qualche volta, pianissimo, quando son sola. Che sono così stonata, lo so perché me l'hanno detto gli altri; dev'essere, la mia voce, come il miagolare d'un gatto. Ma io, da me, non m'accorgo di nulla; e provo, nel cantare, un vivo piacere. Lui, se mi sente, mi rifà il verso; dice che il mio cantare è qualcosa fuori della musica; qualcosa di inventato da me.


  Mugolavo, da bambina, dei motivi di musica, inventati da me. Era una lunga melopea lamentosa, che mi faceva venir le lagrime agli occhi.


  Di non capire la pittura, le arti figurative, non me ne importa; ma soffro di non amare la musica, perché mi sembra che il mio spirito soffra per la privazione di questo amore. Pure non c'è niente da fare; non capirò mai la musica, non l'amerò mai.


  Se a volte sento una musica che mi piace, non so ricordarla; e allora come potrei amare una cosa, che non so ricordare?


  Ricordo, di una canzone, le parole. Posso ripetere all'infinito le parole che amo.


  Ripeto anche il motivo che le accompagna, al mio modo, nel mio miagolare; e provo, così miagolando, una sorta di felicità.


  Mi sembra di seguire, nello scrivere, una cadenza e un metro musicale. Forse la musica era vicinissima al mio universo, e il mio universo, chissà perché, non l'ha accolta.


  Tutto il giorno si sente musica, in casa nostra. Lui tiene tutto il giorno la radio accesa. O fa andare dei dischi. Io protesto, ogni tanto, chiedo un po' di silenzio per poter lavorare; ma lui dice che una musica tanto bella è certo salubre per ogni lavoro.


  Si è comprato un numero di dischi incredibile. Possiede, dice, una delle più belle discoteche del mondo.


  Al mattino, in accappatoio, stillante dell'acqua del bagno, accende la radio, si siede alla macchina da scrivere e comincia la sua laboriosa, tempestosa e rumorosa giornata. È in tutto sovrabbondante: riempie la vasca del bagno fino a farla straripare; riempie la teiera, e la tazza del tè, fino a farle strabordare. Ha un numero stragrande di camicie e cravatte. Raramente, invece, compra scarpe.


  Era, dice sua madre, da bambino, un modello di ordine e precisione; e pare che una volta che doveva attraversare certi rigagnoli pieni di fango, in campagna, in un giorno di pioggia, con stivaletti bianchi e veste bianca, era alla fine della passeggiata immacolato e senza una chiazza di fango sull'abito e gli stivaletti. Ora non c'è in lui traccia di quell'antico, immacolato bambino. I suoi vestiti sono sempre pieni di macchie. È diventato disordinatissimo.


  Conserva però, con puntiglio, tutte le ricevute del gas. Trovo nei cassetti remote ricevute del gas, di alloggi lasciati da tempo, e che lui si rifiuta di buttar via.


  Trovo, anche, dei sigari toscani, vecchissimi e incartapecoriti, e bocchini di legno di ciliegio.


  Io fumo sigarette Stop, lunghe, senza filtro. Lui, a volte, quei sigari toscani.


  Io sono disordinatissima. Sono però diventata, invecchiando, nostalgica dell'ordine e riordino, a volte, con grande zelo gli armadi. Mi ricordo, credo, di mia madre.


  Riordino gli armadi della biancheria, delle coperte, e ricopro ogni cassetto, nell'estate, di teli candidi. Raramente riordino le mie carte, perché mia madre, non usando scrivere, non aveva carte. Il mio ordine, e il mio disordine, son pieni di rammarico, di rimorsi, di sentimenti complessi. Lui, il suo disordine è trionfante. Ha deciso che per una persona come lui, che studia, avere il tavolo in disordine è legittimo e giusto.


  Lui non migliora, in me, l'irresolutezza, l'incertezza in ogni azione, il senso di colpa. Usa ridere e canzonarmi per ogni mia minima azione. Se vado a fare la spesa al mercato, lui a volte, non visto, mi segue e mi spia. Mi canzona poi per il modo come ho fatto la spesa, per il modo come ho soppesato gli aranci nella mano, scegliendo accuratamente, lui dice, i peggiori di tutto il mercato, mi schernisce perché ho impiegato un'ora a fare la spesa, ho comprato a un banco le cipolle, a un banco i sedani, a un altro la frutta. A volte, fa lui la spesa, per dimostrarmi come si può fare velocemente: compra tutto a un unico banco, senza nessuna incertezza; e riesce a farsi mandare il cesto a casa. Non compra sedani, perché non li può soffrire.


  Così, io più che mai ho il dubbio di sbagliare in ogni cosa che faccio. Ma se una volta scopro che è lui a sbagliare, glielo ripeto fino all'esasperazione. Perché io sono a volte noiosissima.


  Le sue furie sono improvvise, e traboccano come spuma di birra. Le mie furie sono anche improvvise. Ma le sue svaporano subito; e le mie, invece, lasciano uno strascico lamentoso e insistente, noiosissimo credo, una specie di amaro miagolìo.


  Piango, a volte, nel turbine delle sue furie; e il mio pianto, invece di impietosirlo e placarlo, lo fa arrabbiare ancora di più. Dice che il mio pianto è tutta una commedia; e forse è vero. Perché io sono, in mezzo alle mie lagrime e alla sua furia, pienamente tranquilla.


  Sui miei dolori reali, non piango mai.


  Usavo scagliare, un tempo, nelle mie furie, piatti e stoviglie per terra. Ma adesso non più. Forse perché sono invecchiata, e le mie furie son meno violente; e poi non oserei ora toccare i nostri piatti, a cui sono affezionata, e che abbiamo comprato a Londra, un giorno, a Portobello road.


  Il prezzo di questi piatti, e di molte altre cose che abbiamo comprato, ha subito, nella sua memoria, un forte ribasso. Perché gli piace pensare d'aver speso poco, e d'avere fatto un buon affare. Io so il prezzo di quel servizio di piatti, ed erano sedici sterline; ma lui dice dodici. Così per il quadro di re Lear, che sta nella nostra stanza da pranzo: un quadro che lui ha comprato pure a Portobello, e che ha pulito con cipolle e patate; e dice ora di averlo pagato una cifra, che io ricordo molto più grande.


  Ha comprato, anni fa, allo Standard, dodici scendiletti. Li ha comprati perché costavano poco, e gli sembrava di doverne fare provvista; li ha comprati per polemica, trovando che io non ero buona di comprare nulla per la casa. Questi scendiletti, di stuoia color vinaccia, sono diventati, in poco tempo, repellenti: son diventati di una rigidità cadaverica; e io li odiavo, appesi al filo di ferro del balcone di cucina. Usavo rinfacciarglieli, come esempio di una cattiva spesa; ma lui diceva che erano costati poco, pochissimo, quasi nulla. C'è voluto del tempo, prima che riuscissi a buttarli via: perché erano così tanti, e perché al momento di buttarli mi veniva il dubbio che potessero servire da stracci. Abbiamo, lui e io, una certa difficoltà a buttar via le cose: in me, dev'essere una forma ebraica di conservazione, e il frutto della mia grande irresolutezza; in lui, dev'essere una difesa dalla sua mancanza di parsimonia e dalla sua impulsività.


  Lui usa comprare, in grande quantità, bicarbonato e aspirina.


  È, qualche volta, malato, di suoi misteriosi malesseri; non sa spiegare che cosa si sente; se ne sta a letto per un giorno, tutto ravviluppato nelle lenzuola; non si vede che la sua barba, e la punta del suo naso rosso. Prende allora bicarbonato e aspirina, in dosi da cavallo; e dice che io non lo posso capire, perché io, io sto sempre bene, sono come quei fratacchioni robusti, che si espongono senza pericolo al vento e alle intemperie; e lui è invece fine e delicato, sofferente di malattie misteriose. Poi la sera è guarito, e va in cucina a cuocersi le tagliatelle.


  Era, da ragazzo, bello, magro, esile, non aveva allora la barba, ma lunghi e morbidi baffi; e rassomigliava all'attore Robert Donat. Era così quasi vent'anni fa, quando l'ho conosciuto; e portava, ricordo, certi camiciotti scozzesi, di flanella, eleganti. Mi ha accompagnata, ricordo, una sera, alla pensione dove allora abitavo; abbiamo camminato insieme per via Nazionale. Io mi sentivo già molto vecchia, carica di esperienza e d'errori; e lui mi sembrava un ragazzo, lontano da me mille secoli. Cosa ci siamo detti quella sera, per via Nazionale, non lo so ricordare; niente d'importante, suppongo; era lontana da me mille secoli l'idea che dovessimo diventare, un giorno, marito e moglie. Poi ci siamo persi di vista; e quando ci siamo di nuovo incontrati, non rassomigliava più a Robert Donat, ma piuttosto a Balzac. Quando ci siamo di nuovo incontrati, aveva sempre quei camiciotti scozzesi, ma ora sembravano, addosso a lui, indumenti per una spedizione polare; aveva ora la barba, e in testa lo sbertucciato cappelluccio di lana; e tutto in lui faceva pensare a una prossima partenza per il Polo Nord. Perché, pur avendo sempre tanto caldo, sovente usa vestirsi come se fosse circondato di neve, di ghiaccio e di orsi bianchi; o anche invece si veste come un piantatore di caffè nel Brasile; ma sempre si veste diverso da tutta l'altra gente.


  Se gli ricordo quell'antica nostra passeggiata per via Nazionale, dice di ricordare, ma io so che mente e non ricorda nulla; e io a volte mi chiedo se eravamo noi, quelle due persone, quasi vent'anni fa per via Nazionale; due persone che hanno conversato così gentilmente, urbanamente, nel sole che tramontava; che hanno parlato forse un po' di tutto, e di nulla; due amabili conversatori, due giovani intellettuali a passeggio; così giovani, così educati, così distratti, così disposti a dare l'uno dell'altra un giudizio distrattamente benevolo; così disposti a congedarsi l'uno dall'altra per sempre, quel tramonto, a quell'angolo di strada.


  


  Parte seconda


  


  Il figlio dell'uomo


  


  C'è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com'era quieta e sicura una volta. C'è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all'improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie.


  È inutile credere che possiamo guarire di vent'anni come quelli che abbiamo passato. Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai più la pace. Una scampanellata notturna non può significare altro per noi che la parola «questura». Ed è inutile dire e ripetere a noi stessi che dietro la parola «questura» ci sono adesso forse volti amici ai quali possiamo chiedere protezione e assistenza. In noi quella parola genera sempre diffidenza e spavento. Se guardo i miei bambini che dormono penso con sollievo che non dovrò svegliarli nella notte e scappare. Ma non è un sollievo pieno e profondo. Mi pare sempre che un giorno o l'altro dovremo di nuovo alzarci di notte e scappare, e lasciare tutto dietro a noi, stanze quiete e lettere e ricordi e indumenti.


  Una volta sofferta, l'esperienza del male non si dimentica più. Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le pareti bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare. Una casa non è molto solida. Può crollare da un momento all'altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, i pavimenti lucidati a cera, c'è l'altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.


  Non guariremo più di questa guerra. È inutile. Non saremo mai più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto delle nostre case. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla.


  Abbiamo conosciuto la realtà nel suo volto più tetro. Non ne proviamo più disgusto ormai. C'è ancora qualcuno che si lagna del fatto che gli scrittori si servano d'un linguaggio amaro e violento, che raccontino cose dure e tristi, che presentino nei suoi termini più desolati la realtà.


  Noi non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo. E forse questo è l'unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci mentano gli altri. Così siamo adesso noi giovani, così è la nostra generazione. Gli altri più vecchi di noi sono ancora molto innamorati della menzogna, dei veli e delle maschere di cui si circonda la realtà. Il nostro linguaggio li rattrista e li offende. Non capiscono il nostro atteggiamento di fronte alla realtà. Noi siamo vicini alle cose nella loro sostanza. È il solo bene che ci ha dato la guerra, ma l'ha dato soltanto a noi giovani. Agli altri più vecchi di noi non ha dato che malsicurezza e paura. E anche noi giovani abbiamo paura, anche noi ci sentiamo malsicuri nelle nostre case, ma non siamo inermi di fronte a questa paura. Abbiamo una durezza e una forza che gli altri prima di noi non hanno mai conosciuto.


  Per alcuni la guerra è cominciata soltanto con la guerra, con le case crollate e i tedeschi, ma per altri è cominciata prima, fin dai primi anni del fascismo e così quel senso di malsicurezza e di continuo pericolo è ancora più grande. Il pericolo, il senso di doversi nascondere, il senso di dover lasciare all'improvviso il calore del letto e delle case, per tanti di noi è cominciato molti anni fa. Si è insinuato negli svaghi giovanili, ci ha seguito sui banchi della scuola e ci ha insegnato a veder nemici dovunque. Così è stato per tanti di noi, in Italia e altrove, e si credeva che un giorno avremmo potuto camminare in pace sulle strade delle nostre città, ma oggi che potremmo forse camminare in pace, oggi noi ci accorgiamo che non siamo guariti di quel male. Così siamo costretti a cercare sempre nuove forze, sempre una nuova durezza da contrapporre a qualsiasi realtà. Siamo spinti a cercare una serenità interiore che non nasce dai tappeti e dai vasetti di fiori.


  Non c'è pace per il figlio dell'uomo. Le volpi e i lupi hanno le loro tane, ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo. La nostra generazione è una generazione di uomini. Non è una generazione di volpi e di lupi. Ciascuno di noi avrebbe molta voglia di posare il capo da qualche parte, ciascuno avrebbe voglia di una piccola tana asciutta e calda. Ma non c'è pace per i figli degli uomini. Ciascuno di noi una volta nella sua vita si è illuso di potersi addormentare su qualche cosa, impadronirsi di una certezza qualunque, di una fede qualunque e riposarsi le membra. Ma tutte le certezze di allora ci sono state strappate e la fede non è mai qualcosa dove si possa infine prender sonno.


  E siamo gente senza lagrime ormai. Quello che commoveva i nostri genitori non ci commuove più affatto. I nostri genitori e la gente più vecchia di noi ci rimprovera per il modo che abbiamo di allevare i bambini. Vorrebbero che mentissimo ai nostri figli come loro mentivano a noi. Vorrebbero che i nostri bambini si trastullassero con fantocci di felpa in graziose stanze riverniciate di rosa, con alberelli e conigli dipinti sulle pareti. Vorrebbero che circondassimo di veli e di menzogne la loro infanzia, che tenessimo loro accuratamente nascosta la realtà nella sua vera sostanza. Ma noi non lo possiamo fare. Non lo possiamo fare con dei bambini che abbiamo svegliato di notte e vestito convulsamente nel buio, per scappare o nasconderci o perché la sirena d'allarme lacerava il cielo. Non lo possiamo fare con dei bambini che hanno veduto lo spavento e l'orrore sulla nostra faccia. A questi bambini noi non possiamo metterci a raccontare che li abbiamo trovati nei cavoli o di chi è morto dire che è partito per un lungo viaggio.


  C'è un abisso incolmabile fra noi e le generazioni di prima. I loro pericoli erano irrisori e le loro case crollavano assai raramente. Terremoti e incendi non erano fenomeni che si verificassero di continuo e per tutti. Le donne lavoravano a maglia e ordinavano il pranzo alla cuoca e ricevevano le amiche nelle case che non crollavano.


  Ciascuno meditava e studiava e attendeva a comporre la sua vita in pace. Era un altro tempo e magari si stava bene. Ma noi siamo legati a questa nostra angoscia e in fondo lieti del nostro destino di uomini.


  


  Il mio mestiere


  


  Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani. Se faccio qualunque altra cosa, se studio una lingua straniera, se mi provo a imparare la storia o la geografia o la stenografia o se mi provo a parlare in pubblico o a lavorare a maglia o a viaggiare, soffro e mi chiedo di continuo come gli altri facciano queste stesse cose, mi pare sempre che ci debba essere un modo giusto di fare queste stesse cose che è noto agli altri e sconosciuto a me. E mi pare d'esser sorda e cieca e ho come una nausea in fondo a me. Quando scrivo invece non penso mai che c'è forse un modo più giusto di cui si servono gli altri scrittori. Non me ne importa niente di come fanno gli altri scrittori. Intendiamoci, io posso scrivere soltanto delle storie. Se mi provo a scrivere un saggio di critica o un articolo per un giornale a comando, va abbastanza male. Quello che allora scrivo lo devo cercare faticosamente come fuori di me. Posso farlo un po' meglio che studiare una lingua straniera o parlare in pubblico, ma solo un po' meglio. E ho sempre l'impressione di truffare il prossimo con delle parole prese a prestito o rubacchiate qua e là. E soffro e mi sento in esilio.


  Invece quando scrivo delle storie sono come uno che è in patria, sulle strade che conosce dall'infanzia e fra le mura e gli alberi che sono suoi. Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c'entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte. Sono molto contenta di questo mestiere e non lo cambierei per niente al mondo. Ho capito che era il mio mestiere molto tempo fa. Tra i cinque e i dieci anni ne dubitavo ancora, e un po' mi immaginavo di poter dipingere, un po' di conquistare dei paesi a cavallo e un po' d'inventare delle nuove macchine molto importanti. Ma dopo i dieci anni l'ho saputo sempre, e mi sono arrabattata come potevo con romanzi e poesie. Ho ancora quelle poesie. Le prime sono goffe e coi versi sbagliati, ma abbastanza divertenti: e invece a mano a mano che passava il tempo facevo delle poesie sempre meno goffe ma sempre più noiose e idiote. Io però non lo sapevo e mi vergognavo delle poesie goffe, e invece quelle non tanto goffe e idiote mi sembravano molto belle, pensavo sempre che un giorno o l'altro qualche poeta famoso le avrebbe scoperte e le avrebbe fatte pubblicare e avrebbe scritto dei lunghi articoli su di me, m'immaginavo parole e frasi di quegli articoli e li scrivevo dentro di me per intero. Pensavo che avrei vinto il premio Fracchia. Avevo sentito dire che c'era questo premio per gli scrittori. Non potendo pubblicare in volume le mie poesie, dato che non conoscevo allora nessun poeta famoso, le ricopiavo bene su un quaderno e disegnavo un fiorellino sul frontespizio e facevo l'indice e tutto. Mi era diventato molto facile scrivere delle poesie. Ne scrivevo quasi una al giorno. M'ero accorta che se non avevo voglia di scrivere bastava che leggessi delle poesie di Pascoli o di Gozzano o di Corazzini per aver subito voglia. Mi venivan fuori o pascoliane o gozzaniane o corazziniane, poi in ultimo molto dannunziane, quando ho scoperto che c'era anche lui. Però non pensavo mai che avrei scritto poesie tutta la vita, volevo scrivere dei romanzi presto o tardi.


  Ne ho scritti tre o quattro in quegli anni. Ce n'era uno intitolato Marion o la zingarella, e un altro intitolato Molly e Dolly (umoristico e poliziesco) e un altro intitolato Una donna (dannunziano: in seconda persona: storia di una donna abbandonata dal marito: mi ricordo che c'era anche una cuoca negra) e poi uno molto lungo e complicato con storie terribili di ragazze rapite e di carrozze, avevo perfino paura a scriverlo quando ero sola in casa: non mi ricordo niente, mi ricordo soltanto che c'era una frase che mi piaceva moltissimo e mi son venute le lagrime agli occhi quando l'ho scritta: «Egli disse: ah! parte Isabella». Il capitolo finiva su questa frase che era molto importante perché la pronunciava l'uomo che era innamorato di Isabella ma non lo sapeva, non l'aveva ancora confessato a se stesso. Non ricordo niente di quell'uomo, mi pare che avesse una barba rossastra, Isabella aveva lunghi capelli neri con riflessi azzurri, non so altro: so che per molto tempo mi prendeva un brivido di gioia quando ripetevo fra me: «Ah! parte Isabella». Ripetevo anche spesso una frase che avevo trovato in un romanzo d'appendice sulla «Stampa» e che diceva così:


  «Assassino di Gilonne, dove hai messo il mio bambino?» Ma dei miei romanzi non ero tanto sicura come delle poesie. Rileggendoli ci scoprivo sempre un lato debole, qualcosa di sbagliato che sciupava tutto e che mi era impossibile modificare. Intanto pasticciavo sempre un po' fra il moderno e l'antico, non riuscivo a piazzarli bene nel tempo: un po' c'erano conventi e carrozze e un'aria da rivoluzione francese e un po'


  c'erano poliziotti con sfollagente; e tutt'a un tratto veniva fuori una piccola borghesia grigia con macchine da cucire e gatti come c'è nei libri di Carola Prosperi, e vicino alle carrozze e ai conventi ci stava proprio male. Ondeggiavo tra Carola Prosperi e Victor Hugo e le storie di Nick Carter: non sapevo tanto bene quello che volevo fare.


  Mi piaceva moltissimo anche Annie Vivanti. C'è una frase nei Divoratori, quando lei scrive allo sconosciuto e gli dice: «La mia veste è bruna». Anche questa è una frase che ho ripetuto molto tempo fra me. Durante il giorno mormoravo fra me queste frasi che mi piacevano tanto: «Assassino di Gilonne», «parte Isabella», «la mia veste è bruna», e mi sentivo immensamente felice.


  Scrivere poesie era facile. Le mie poesie mi piacevano molto, mi parevano quasi perfette. Non capivo che differenza ci fosse tra loro e le poesie vere, pubblicate, dei veri poeti. Non capivo perché quando le davo da leggere ai miei fratelli, ridacchiavano e mi dicevano che avrei fatto meglio a studiare il greco. Pensavo che forse i miei fratelli non s'intendevano gran che di poesie. E intanto dovevo andare a scuola, e studiare il greco, il latino, la matematica, la storia, e soffrivo molto e mi sentivo in esilio. Passavo le giornate a scrivere le mie poesie e a ricopiarle nei quaderni, e non studiavo le lezioni e allora mettevo la sveglia alle cinque del mattino.


  La sveglia suonava ma io non mi svegliavo. Mi svegliavo alle sette, quando non c'era più tempo di studiare e dovevo vestirmi per andare a scuola. Non ero contenta, avevo sempre una paura tremenda e un senso di disordine e di colpa. Studiavo a scuola, nell'ora di latino la storia, nell'ora di storia il greco, sempre così e non imparavo nulla.


  Per un bel pezzo ho pensato che valeva la pena, perché le mie poesie erano così belle, ma a un certo punto m'è venuto il dubbio che non fossero tanto belle, e ho cominciato ad annoiarmi a scriverle, a cercare degli argomenti con sforzo, e mi pareva d'aver già dato fondo a tutti gli argomenti possibili, d'aver già usato tutte le parole e le rime: speranza lontananza, pensiero mistero, vento argento, fragranza speranza. Non trovavo più niente da dire. Allora è cominciato un periodo molto brutto per me, e passavo il pomeriggio a cincischiare fra parole che non mi davano più nessun piacere, con un senso di colpa e di vergogna per quanto riguardava la scuola; non mi passava mai per la testa d'aver sbagliato mestiere, scrivere volevo scrivere, soltanto non capivo perché a un tratto i giorni mi fossero diventati così aridi e poveri di parole.


  La prima cosa seria che ho scritto è stato un racconto. Un racconto breve, di cinque o sei pagine: m'è venuto fuori come per miracolo, in una sera, e quando poi sono andata a dormire ero stanca, stordita e stupefatta. Avevo l'impressione che fosse una cosa seria, la prima che avessi mai fatto: le poesie e i romanzi con le ragazze e le carrozze mi parevano a un tratto molto lontani, in un'epoca scomparsa per sempre, creature ingenue e ridicole di un'altra età. In questo nuovo racconto c'erano dei personaggi. Isabella e l'uomo con la barba rossastra non erano personaggi: io non sapevo niente di loro all'infuori delle frasi e delle parole di cui m'ero servita nei loro riguardi, ed erano affidati al caso e all'estro della mia volontà. Le parole e le frasi di cui m'ero servita per loro le avevo pescate su a caso: era come se avessi avuto un sacco e avessi tirato su a caso ora una barba e ora una cuoca negra o un'altra cosa che si poteva usare. Questa volta invece non era stato un gioco. Questa volta avevo inventato delle persone con dei nomi che non mi sarebbe stato possibile cambiare: niente di loro avrei potuto cambiare e sapevo una quantità di particolari sul loro conto, sapevo com'era stata la loro vita fino al giorno del mio racconto anche se nel racconto non ne avevo parlato perché non era stato necessario. E sapevo tutto della casa e del ponte e della luna e del fiume. Avevo diciassette anni allora, ed ero stata bocciata in latino, in greco e in matematica. Avevo pianto molto quando l'avevo saputo. Ma adesso che avevo scritto il racconto, sentivo un po' meno vergogna. Era estate, una notte d'estate. La finestra era aperta sul giardino e farfalle scure volavano intorno alla lampada. Avevo scritto il mio racconto su carta a quadretti e mi ero sentita felice come non m'era mai successo nella mia vita e ricca di pensieri e di parole. L'uomo si chiamava Maurizio e la donna si chiamava Anna e il bambino si chiamava Villi e c'era anche il ponte e la luna e il fiume. Queste cose esistevano in me. E l'uomo e la donna non erano né buoni né cattivi, ma comici e un po' miserevoli, e mi pareva allora di scoprire che così dovesse essere sempre la gente nei libri, comica e miserevole insieme. Quel racconto mi sembrava bello da qualunque parte io lo guardavo: non c'era nessuno sbaglio: tutto succedeva a tempo, nel momento giusto.


  Adesso mi sembrava che avrei potuto scrivere milioni di racconti.


  E ne ho scritti davvero un certo numero, a intervalli di uno o due mesi, qualcuno abbastanza bello e qualcuno no. Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se no ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio così alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi; e se ha dei sentimenti molto forti che lo inquietano in cuore, se è molto felice o molto infelice per una qualunque ragione diciamo terrestre, che non c'entra per niente con la cosa che sta scrivendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sentimento s'addormenta in lui. Lui non può sperare di serbarsi intatta e fresca la sua cara felicità, o la sua cara infelicità, tutto s'allontana e svanisce ed è solo con la sua pagina, nessuna felicità e nessuna infelicità può sussistere in lui che non sia strettamente legata a questa sua pagina, non possiede altro e non appartiene ad altri e se non gli succede così, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.


  Ho scritto dunque dei brevi racconti per un certo periodo, un periodo che è durato circa sei anni. Siccome avevo scoperto che esistevano i personaggi, mi pareva che avere un personaggio bastasse a fare un racconto. Così andavo sempre a caccia di personaggi, guardavo la gente in tram e per la strada e quando trovavo una faccia che mi pareva adatta a stare in un racconto, c'intessevo intorno delle particolarità morali e una piccola storia. Andavo anche a caccia di particolari sul vestire e l'aspetto delle persone o sugl'interni delle case o sui luoghi; se entravo in una stanza nuova, mi sforzavo di descriverla nel mio pensiero e mi sforzavo di trovare qualche minuto particolare che sarebbe stato bene in un racconto. Tenevo un taccuino dove scrivevo certi particolari che avevo scoperto o piccoli paragoni o episodi che mi ripromettevo di mettere nei racconti. Nel taccuino scrivevo per esempio così: «Egli usciva dal bagno trascinandosi dietro come una lunga coda il cordone dell'accappatoio». «Come puzza il cesso in questa casa, - gli disse la bambina. - Quando ci vado, io non respiro mai, - soggiunse tristemente». «I suoi riccioli come grappoli d'uva». «Coperte rosse e nere sul letto disfatto». «Faccia pallida come una patata sbucciata». Tuttavia ho scoperto che difficilmente queste frasi mi servivano quando scrivevo un racconto. Il taccuino diventava una specie di museo di frasi, tutte cristallizzate e imbalsamate, molto difficilmente utilizzabili. Ho cercato infinite volte di ficcare in qualche racconto le coperte rosse e nere o i riccioli come grappoli d'uva e non m'è mai riuscito. Il taccuino dunque non poteva servire. Ho capito allora che non esiste il risparmio in questo mestiere. Se uno pensa «questo particolare è bello e non voglio sciuparlo nel racconto che sto scrivendo ora, qui c'è già molta roba bella, lo tengo in serbo per un altro racconto che scriverò», allora quel particolare si cristallizza dentro di lui e non può più servirsene. Quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita. E i particolari si consumano, si logorano a portarseli intorno senza servirsene per molto tempo. Non soltanto i particolari ma tutto, tutte le trovate e le idee. In quell'epoca che scrivevo i miei racconti brevi, con il gusto dei personaggi ben trovati e dei particolari minuziosi, in quell'epoca ho visto una volta passare per strada un carretto con sopra uno specchio, un grande specchio dalla cornice dorata. Vi era riflesso il cielo verde della sera, e io mi son fermata a guardarlo mentre passava, con una grande felicità e il senso che avveniva qualcosa d'importante. Mi sentivo molto felice anche prima di vedere lo specchio, e a un tratto m'era sembrato che passasse l'immagine della mia felicità stessa, lo specchio verde e splendente nella sua cornice dorata. Per molto tempo ho pensato che l'avrei messo in qualche racconto, per molto tempo ricordare il carretto con sopra lo specchio mi dava voglia di scrivere. Ma non m'è mai riuscito di metterlo in nessun luogo e a un certo punto mi sono accorta che era morto in me. E tuttavia è stato molto importante. Perché nel tempo che scrivevo i miei racconti brevi mi fermavo sempre su persone e cose grige e squallide, cercavo una realtà disprezzabile e senza gloria. In quel gusto che avevo allora di scovare minuti particolari c'era una malignità da parte mia, un interesse avido e meschino per le cose piccole, piccole come pulci, era un'ostinata e pettegola ricerca di pulci da parte mia. Lo specchio sul carretto m'è sembrato m'offrisse delle possibilità nuove, forse la facoltà di guardare una realtà più gloriosa e splendente, una realtà più felice, che non richiedeva minuziose descrizioni e trovate astute ma poteva attuarsi in un'immagine risplendente e felice.


  In quei brevi racconti che scrivevo allora, c'erano dei personaggi che in fondo io disprezzavo. Siccome avevo scoperto che è bello che un personaggio sia miserevole e comico, a forza di comicità e di commiserazione ne facevo degli esseri così spregevoli e privi di gloria che io stessa non potevo amarli. Quei miei personaggi avevano sempre dei tic o delle manie o una deformità fisica o un vizio un po'


  grottesco, avevano un braccio rotto e appeso al collo in una benda nera o avevano degli orzaioli o erano balbuzienti o si grattavano il sedere parlando o zoppicavano un poco. Mi era sempre necessario caratterizzarli in qualche modo. Era per me un mezzo di sfuggire al timore che risultassero incerti, di cogliere la loro umanità della quale inconsciamente dubitavo. Perché allora non capivo - ma al tempo dello specchio sul carretto cominciavo confusamente a capirlo - che non si trattava più di personaggi ma di burattini, abbastanza ben dipinti e simili agli uomini veri ma burattini.


  Nell'inventarli subito li caratterizzavo, li segnavo d'un particolare grottesco, e c'era in questo qualcosa di un po' malvagio, c'era in me allora come un risentimento maligno nei confronti della realtà. Non era un risentimento fondato su qualcosa di vivo, perché ero allora una ragazza felice, ma nasceva come reazione all'ingenuità, si trattava di quel particolare risentimento che è la difesa della persona ingenua, sempre portata a credere d'essere presa in giro, del contadino che si trova da poco in città e vede ladri ovunque. Sul principio ne andavo fiera, perché mi pareva un grande trionfo dell'ironia sull'ingenuità e su quegli abbandoni patetici dell'adolescenza che si vedevano tanto nelle mie poesie. L'ironia e la malvagità mi parevano armi molto importanti nelle mie mani; mi pareva che mi servissero a scrivere come un uomo, perché allora desideravo terribilmente di scrivere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo. Facevo quasi sempre personaggi uomini, perché fossero il più possibile lontani e distaccati da me.


  Ero diventata abbastanza brava a squadrare un racconto, a soffiarne via tutte le cose inutili, a far cadere i particolari e i discorsi nel momento giusto. Facevo dei racconti secchi e lucidi, portati avanti bene fino in fondo, senza goffaggini, senza errori di tono. Ma è successo che a un certo punto ero stufa. Le facce delle persone per le strade non mi dicevano più niente d'interessante. Qualcuno aveva un orzaiolo e qualcuno aveva il cappello all'indietro e qualcuno aveva la sciarpa al posto della camicia, ma non me ne importava più. Ero stufa di guardare le cose e la gente e di descriverle nel pensiero. Il mondo taceva per me. Non trovavo più parole per descriverlo, non avevo più delle parole che mi dessero molto piacere. Non possedevo più nulla. Provavo a ricordare lo specchio, ma anche questo era morto in me. Portavo dentro di me un carico di cose imbalsamate, facce mute e parole di cenere, paesi e voci e gesti che non vibravano, che pesavano morti nel mio cuore. E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale in un racconto. M'ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia ogni tanto, mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e deriderlo per occuparmi solo dei bambini. Credevo di dover fare così.


  Mi occupavo della crema di riso e della crema d'orzo e se c'era sole o se non c'era sole e se c'era vento o se non c'era vento per portare i bambini a passeggio. I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com'era bello il mio mestiere. Pensavo che l'avrei ritrovato un giorno o l'altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo. Preparavo ancora il sugo di pomodoro e il semolino, ma pensavo intanto a delle cose da scrivere. Stavamo allora in un paese molto bello, nel sud. Ricordavo le strade della mia città e le colline, e quelle strade e quelle colline si univano alle strade e alle colline e ai campi del paese dove stavamo adesso, e ne nasceva una natura nuova, qualcosa che io di nuovo potevo amare. Avevo nostalgia della mia città, e l'amavo molto nel ricordo, l'amavo e ne capivo il senso come forse non m'era mai accaduto quando ci abitavo, e amavo anche il paese dove stavamo adesso, un paese polveroso e bianco nel sole del sud, larghi prati d'erba ispida e arsa si stendevano sotto le mie finestre, e mi soffiava forte in cuore il ricordo dei viali della mia città, dei platani e delle alte case, e tutto questo prendeva a bruciare lietamente dentro di me, e avevo molta molta voglia di scrivere. Ho scritto un racconto lungo, il più lungo che avessi mai scritto. Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore.


  Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice. Nel racconto ci mettevo dentro un po' di gente inventata e un po' di gente vera lì del paese; e anche mi venivano fuori certe parole che dicevano sempre lì e che io non sapevo prima, certe imprecazioni e certi modi di dire: e queste nuove parole lievitavano e fermentavano e davan vita anche a tutte le altre vecchie parole. Il personaggio principale era una donna, ma molto molto differente da me.


  Adesso non desideravo più tanto di scrivere come un uomo, perché avevo avuto i bambini, e mi pareva di sapere tante cose riguardo al sugo di pomodoro e anche se non le mettevo nel racconto pure serviva al mio mestiere che io le sapessi: in un modo misterioso e remoto anche questo serviva al mio mestiere. Mi pareva che le donne sapessero sui loro figli delle cose che un uomo non può mai sapere. Scrivevo il mio racconto molto in fretta, come con la paura che scappasse via. Io lo chiamavo un romanzo, ma forse un romanzo non era. Del resto finora mi è successo sempre di scrivere in fretta e delle cose piuttosto brevi: e a un certo punto m'è sembrato anche di capire perché. Perché ho dei fratelli molto maggiori di me e quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Così mi ero abituata a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole, sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto. Può darsi che sembri una spiegazione un po' stupida: eppure dev'essere stato proprio così.


  Ho detto che allora quando scrivevo quello che io chiamavo un romanzo, era un'epoca molto felice per me. Non era mai successo niente di grave nella mia vita, ignoravo e la malattia e il tradimento e la solitudine e la morte. Niente era mai crollato nella mia vita, se non delle cose futili, niente m'era stato strappato che fosse caro al mio cuore. Avevo sofferto soltanto delle oziose malinconie dell'adolescenza e del guaio di non saper come scrivere. Allora ero felice in un modo pieno e tranquillo, senza paura e senz'ansia, e con una totale fiducia nella stabilità e nella consistenza della felicità nel mondo. Quando siamo felici, noi ci sentiamo più freddi, più lucidi e distaccati dalla nostra realtà. Quando siamo felici, tendiamo a creare dei personaggi molto diversi da noi, a vederli nella gelida luce delle cose estranee, distogliamo gli occhi dalla nostra anima felice e paga e li fissiamo senza carità su altri esseri, senza carità, con un giudizio scanzonato e crudele, ironico e superbo, mentre la fantasia e l'energia inventiva agiscono con forza in noi. Riusciamo facilmente a fare dei personaggi, molti personaggi, fondamentalmente dissimili da noi e riusciamo a fare delle storie solidamente costruite e come prosciugate in una luce chiara e fredda.


  Quello che ci manca allora, quando siamo felici di quella particolare felicità senza lagrime, senz'ansia e senza paura, quello che ci manca allora è un rapporto intimo e tenero coi nostri personaggi, con i luoghi e le cose che raccontiamo. Quello che ci manca è la carità. Apparentemente siamo molto più generosi, nel senso che troviamo sempre la forza d'interessarci agli altri, di prodigare agli altri le nostre cure, non ci occupiamo tanto di noi stessi non avendo bisogno di nulla. Ma quel nostro interesse per gli altri così privo di tenerezza non coglie che pochi aspetti abbastanza esteriori della loro persona. Il mondo ha una sola dimensione per noi, è privo di segreti e di ombre, il dolore che ci è ignoto riusciamo a indovinarlo e a crearlo in virtù della forza fantastica di cui siamo animati ma lo vediamo sempre in quella luce sterile e gelida delle cose che non ci appartengono, che non hanno radici dentro di noi.


  La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrestre, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l'essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svogliatamente e con languore, con i deboli moti dei malati, con la stanchezza e la cautela delle membra dolenti e febbricitanti; ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall'inquietudine che ci pervade. Nelle cose che scriviamo affiorano allora di continuo ricordi del nostro passato, la nostra propria voce risuona di continuo e non riusciamo ad imporle silenzio. Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto particolare, tenero e come materno, un rapporto caldo e umido di lagrime, d'un'intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà. Il nostro rischio è allora di naufragare in un buio lago d'acqua morta e stagnante, e trascinarvi con noi le creature del nostro pensiero, lasciarle perire con noi nel gorgo tiepido e buio, tra topi morti e fiori putrefatti. C'è un pericolo nel dolore così come c'è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo. Perché la bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d'ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d'oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.


  E, badate, non è che uno possa sperare di consolarsi della sua tristezza scrivendo.


  Uno non può illudersi di farsi accarezzare e cullare dal suo proprio mestiere. Ci sono state nella mia vita delle interminabili domeniche desolate e deserte, in cui desideravo ardentemente scrivere qualche cosa per consolarmi della solitudine e della noia, per essere blandita e cullata da frasi e parole. Ma non c'è stato verso che mi riuscisse di scrivere un rigo. Il mio mestiere allora m'ha sempre respinta, non ha voluto saperne di me. Perché questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta sempre di darci retta quando abbiamo bisogno di lui.


  M'è accaduto di conoscere bene il dolore dopo quel tempo che stavo nel sud, un dolore vero, irrimediabile e immedicabile, che ha spezzato tutta la mia vita e quando ho provato a rimetterla insieme in qualche modo, ho visto che io e la mia vita eravamo diventati qualcosa d'irriconoscibile rispetto a prima. D'immutato restava il mio mestiere, ma anche lui è profondamente falso dire ch'era immutato, gli strumenti erano sempre gli stessi ma il modo come io li usavo era un altro. Sul principio lo detestavo, mi dava ribrezzo, ma sapevo bene che avrei finito col tornare a servirlo e che m'avrebbe salvato. Così m'è successo a volte di pensare che non sono stata poi tanto disgraziata nella mia vita, e sono ingiusta quando accuso il destino e gli nego ogni benevolenza verso di me, perché m'ha dato tre figli e il mio mestiere. Del resto non potrei neppure immaginare la mia vita senza questo mestiere. C'è stato sempre, mai neppure per un momento m'ha lasciata, e quando lo credevo addormentato, pure il suo occhio vigile e splendente mi guardava.


  Così è il mio mestiere. Denaro, vedete, non ne frutta molto, e anzi sempre bisogna fare contemporaneamente anche un altro mestiere per vivere. Pure a volte ne frutta un poco: e avere del denaro per virtù sua è una cosa molto dolce, come ricevere denaro e doni dalle mani dell'essere amato. Così è il mio mestiere. Non so molto, dico, sul valore dei risultati che m'ha dato e che potrà darmi: o meglio, dei risultati già ottenuti conosco il valore relativo, non certo assoluto. Quando scrivo qualcosa, di solito penso che è molto importante e che io sono un grandissimo scrittore. Credo succeda a tutti.


  Ma c'è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore. Giuro che lo so. Ma non me ne importa molto. Soltanto, non voglio pensare dei nomi: ho visto che se mi chiedo: «un piccolo scrittore come chi?» mi rattrista pensare dei nomi di altri piccoli scrittori. Preferisco credere che nessuno è mai stato come me, per quanto piccolo, per quanto pulce o zanzara di scrittore io sia. Quello che invece è importante, è avere la convinzione che sia proprio un mestiere, una professione, una cosa che si farà per tutta la vita. Ma, come mestiere, non è uno scherzo. Ci sono innumerevoli pericoli oltre a quelli che ho detto.


  Siamo continuamente minacciati da gravi pericoli proprio nell'atto di stendere la nostra pagina. C'è il pericolo di mettersi a un tratto a civettare e a cantare. Io ho sempre una voglia matta di mettermi a cantare, devo stare molto attenta a non farlo. E


  c'è il pericolo di truffare con parole che non esistono davvero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi. C'è il pericolo di fare i furbi e truffare. È un mestiere abbastanza difficile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo. I giorni e i casi della nostra vita, i giorni e i casi della vita degli altri a cui assistiamo, letture e immagini e pensieri e discorsi, lo saziano e cresce in noi. È un mestiere che si nutre anche di cose orribili, mangia il meglio e il peggio della nostra vita, i nostri sentimenti cattivi come i sentimenti buoni fluiscono nel suo sangue. Si nutre e cresce in noi.


  


  Silenzio


  


  Ho sentito Pelléas et Mélisande. Di musica non ne capisco niente. Soltanto m'è venuto fatto di confrontare le parole dei vecchi libretti d'opera (Sconto col sangue mio - l'amor che posi in te), parole grosse, sanguinose, pesanti, con le parole di Pelléas et Mélisande ( J'ai froid - ta chevelure), parole fuggevoli, acquatiche. Dalla stanchezza, dal disgusto per le parole grosse e sanguinose, sono nate queste parole acquatiche, fredde, sfuggenti.


  Mi sono chiesta se non è stato quello ( Pelléas et Mélisande) il principio del silenzio.


  Perché tra i vizi più strani e più gravi della nostra epoca, va menzionato il silenzio.


  Quelli di noi che oggi hanno provato a scrivere dei romanzi, conoscono il disagio, l'infelicità che coglie quando è il momento di far parlare dei personaggi tra loro. Per pagine e pagine, i nostri personaggi si scambiano delle osservazioni insignificanti, ma cariche d'una desolata tristezza: «Hai freddo?» «No, non ho freddo». «Vuoi un po' di tè?» «Grazie, no». «Sei stanco?» «Non so. Sì, forse sono un po' stanco». I nostri personaggi parlano così. Parlano così per ingannare il silenzio. Parlano così perché non sanno più come parlare. A poco a poco vengono fuori anche le cose più importanti, le confessioni terribili: «Lo hai ucciso?» «Sì, l'ho ucciso». Strappate dolorosamente al silenzio, vengono fuori le poche, sterili parole della nostra epoca, come segnali di naufraghi, fuochi accesi tra colline lontanissime, flebili e disperati richiami che inghiotte lo spazio.


  Allora, quando vogliamo far parlare tra loro i nostri personaggi, allora misuriamo il profondo silenzio che s'è addensato a poco a poco dentro di noi. Abbiamo cominciato a tacere da ragazzi, a tavola, di fronte ai nostri genitori che ci parlavano ancora con quelle vecchie parole sanguinose e pesanti. Noi stavamo zitti. Stavamo zitti per protesta e per sdegno. Stavamo zitti per far capire ai nostri genitori che quelle loro grosse parole non ci servivano più. Noi ne avevamo in serbo delle altre. Stavamo zitti, pieni di fiducia nelle nostre nuove parole. Avremmo speso quelle nostre nuove parole più tardi, con gente che le avrebbe capite. Eravamo ricchi del nostro silenzio.


  Adesso ne siamo vergognosi e disperati, e ne sappiamo tutta la miseria. Non ce ne siamo liberati mai più. Quelle grosse parole vecchie, che servivano ai nostri genitori, sono moneta fuori corso e non l'accetta nessuno. E le nuove parole, ci siamo accorti che non hanno valore, non ci si compra nulla. Non servono a stabilire rapporti, sono acquatiche, fredde, infeconde. Non ci servono a scrivere dei libri, non a tener legata a noi una persona cara, non a salvare un amico.


  Fra i vizi della nostra epoca, è noto che c'è il senso della colpa: se ne parla e se ne scrive molto. Tutti ne soffriamo. Ci sentiamo coinvolti in una faccenda di giorno in giorno più sudicia. Si è detto anche del senso di panico: anche di questo, tutti ne soffriamo. Il senso di panico nasce dal senso di colpa. E chi si sente spaventato e colpevole, tace.


  Del senso di colpa, del senso di panico, del silenzio, ciascuno cerca a modo suo di guarire. Alcuni vanno a fare dei viaggi. Nell'ansia di veder paesi nuovi, gente diversa, c'è la speranza di lasciare dietro a sé i propri torbidi fantasmi; c'è la segreta speranza di scoprire in qualche punto della terra la persona che potrà parlare con noi. Alcuni s'ubriacano, per dimenticare i propri torbidi fantasmi e per parlare. E ci sono poi tutte le cose che si fanno per non dover parlare: alcuni passano le serate addormentati in una sala di proiezioni, con al fianco la donna alla quale, così, non sono tenuti a dover parlare; alcuni imparano a giocare a bridge; alcuni fanno l'amore, che si può fare anche senza parole. Di solito si dice che queste cose si fanno per ingannare il tempo: in verità si fanno per ingannare il silenzio.


  Esistono due specie di silenzio: il silenzio con se stessi e il silenzio con gli altri.


  L'una e l'altra forma ci fanno egualmente soffrire. Il silenzio con noi stessi è dominato da una violenta antipatia che ci è presa per il nostro stesso essere, dal disprezzo per la nostra stessa anima, così vile da non meritare le sia detto nulla. È chiaro che bisogna rompere il silenzio con noi stessi se vogliamo provarci a rompere il silenzio con gli altri. È chiaro che non abbiamo nessun diritto di odiare la nostra stessa persona, nessun diritto di tacere i nostri pensieri alla nostra anima.


  Il mezzo più diffuso per liberarsi del silenzio, è andare a farsi psicanalizzare.


  Parlare incessantemente di se stesso a una persona che ascolta, che è pagata per ascoltare: mettere a nudo le radici del proprio silenzio: sì, questo forse può dare un momentaneo sollievo. Ma il silenzio è universale e profondo. Il silenzio, lo ritroviamo subito appena usciti dalla porta della stanza dove quella persona, pagata per ascoltare, ascoltava. Ci ricaschiamo subito dentro. Allora quel sollievo di un'ora ci sembra superficiale e banale. Il silenzio è sulla terra: che ne guarisca uno solo di noi, per un'ora, non serve alla causa comune.


  Quando andiamo a farci psicanalizzare, ci dicono che dobbiamo smetterla di odiare così fortemente la nostra stessa persona. Ma per liberarci di questo odio, per liberarci del senso di colpa, del senso di panico, del silenzio, ci viene suggerito di vivere secondo natura, di abbandonarci al nostro istinto, di seguire il nostro puro piacere: di fare della nostra vita una pura scelta. Ma fare della vita una pura scelta non è vivere secondo natura: è vivere contro natura, perché all'uomo non è dato scegliere sempre: l'uomo non ha scelto l'ora della sua nascita, né il proprio viso, né i propri genitori, né la propria infanzia: l'uomo non sceglie, di solito, l'ora della sua morte. L'uomo non può che accettare il proprio viso così come non può che accettare il suo proprio destino: e la sola scelta che gli è consentita è la scelta fra il bene e il male, fra il giusto e l'ingiusto, fra la verità e la menzogna. Le cose che ci dicono quelli da cui andiamo a farci psicanalizzare non servono perché non tengono conto della nostra responsabilità morale, della sola scelta che è consentita alla nostra vita: chi di noi è andato a farsi psicanalizzare, sa bene come quell'atmosfera d'effimera libertà di cui si godeva a vivere secondo il nostro puro piacere, fosse un'atmosfera rarefatta, innaturale, in definitiva irrespirabile.


  Di solito questo vizio del silenzio che avvelena la nostra epoca, lo si esprime con un luogo comune: «Si è perduto il gusto della conversazione». È l'espressione futile, mondana, di una cosa vera e tragica. Dicendo «il gusto della conversazione» noi non diciamo niente che ci aiuti a vivere: ma la possibilità di un libero e normale rapporto fra gli uomini, questo sì ci manca, e ci manca al punto che alcuni di noi si sono ammazzati per la coscienza di questa privazione. Il silenzio miete le sue vittime ogni giorno. Il silenzio è una malattia mortale.


  Mai come oggi, le sorti degli uomini sono state tanto strettamente connesse l'una all'altra, così che il disastro di uno è il disastro di tutti. Si verifica dunque questo fatto strano: che gli uomini si trovino strettamente legati l'uno al destino dell'altro, così che il crollo di uno solo travolge migliaia d'altri esseri, e nello stesso tempo tutti soffocati dal silenzio, incapaci di scambiarsi qualche libera parola. Per questo - perché il disastro di uno è il disastro di tutti - i mezzi che ci sono offerti per guarire dal silenzio si rivelano insussistenti. Ci viene suggerito di difenderci con l'egoismo dalla disperazione. Ma l'egoismo non ha mai risolto nessuna disperazione. Siamo anche troppo avvezzi a chiamare malattie i vizi della nostra anima, e a subirli, a lasciarcene governare, o a blandirli con sciroppi dolci, a curarli come fossero malattie. Il silenzio dev'essere contemplato, e giudicato, in sede morale. Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna scegliere di non essere diabolicamente infelici. Il silenzio può raggiungere una forma d'infelicità chiusa, mostruosa, diabolica: avvizzire i giorni della giovinezza, fare amaro il pane. Può portare, come si è detto, alla morte.


  Il silenzio dev'essere contemplato, e giudicato, in sede morale. Perché il silenzio, come l'accidia e come la lussuria, è un peccato. Il fatto che sia un peccato comune a tutti i nostri simili nella nostra epoca, che sia il frutto amaro della nostra epoca malsana, non ci esime dal dovere di riconoscerne la natura, di chiamarlo col suo vero nome.


  


  I rapporti umani


  


  Al centro della nostra vita sta il problema dei nostri rapporti umani: appena ne diventiamo consapevoli, cioè appena ci si presenta come un chiaro problema, e non più come confusa sofferenza, prendiamo a ricercarne le tracce e a ricostruirne la storia lungo tutta la nostra vita.


  Nell'infanzia, abbiamo soprattutto gli occhi fissi al mondo degli adulti, buio e misterioso per noi. Esso ci sembra assurdo, perché non capiamo nulla delle parole che gli adulti si scambiano fra loro, né il senso delle loro decisioni e azioni, né le cause dei loro mutamenti d'umore, delle loro collere improvvise. Le parole che si scambiano gli adulti fra loro non le capiamo e non ci interessano, anzi ci annoiano infinitamente. Ci interessano invece le loro decisioni che possono spostare il corso delle nostre giornate, i malumori che offuscano i pranzi e le cene, lo sbattere improvviso di porte e lo scoppio di voci nella notte. Abbiamo capito che in un momento qualunque, da un tranquillo scambio di parole può scatenarsi una tempesta improvvisa, con rumori di porte sbattute e di oggetti scagliati. Noi vigiliamo inquieti ogni minima incrinatura violenta nelle voci che parlano. Succede che siamo soli e assorti in un gioco, e d'improvviso s'alzano nella casa quelle voci di collera: seguitiamo meccanicamente a giocare, a conficcare sassi ed erbe in un mucchietto di terra per fare una collina: ma intanto non ce ne importa più niente di quella collina, sentiamo che non potremo essere felici finché la pace non sarà tornata in casa; le porte sbattono e noi sussultiamo; parole rabbiose volano da una stanza all'altra, parole incomprensibili per noi, non cerchiamo di capirle né di scoprire le ragioni oscure che le hanno dettate, confusamente pensiamo che dovrà trattarsi di ragioni orribili: tutto l'assurdo mistero degli adulti pesa su di noi. Tante volte complica i nostri rapporti col mondo dei nostri simili, i bambini: tante volte abbiamo con noi un amico venuto a giocare, facciamo con lui una collina, e una porta sbattuta ci dice che è finita la pace; ardendo di vergogna, fingiamo d'interessarci moltissimo alla collina, ci sforziamo di distrarre l'attenzione del nostro amico da quelle voci selvagge che risuonano per la casa: con le mani diventate a un tratto molli e stanche, conficchiamo accuratamente dei legnetti nel mucchio di terra. Siamo assolutamente certi che in casa del nostro amico non si litiga mai, non si gridano mai selvagge parole; in casa del nostro amico tutti sono educati e sereni, litigare è una particolare vergogna di casa nostra: poi un giorno scopriremo con grande sollievo che si litiga anche in casa del nostro amico allo stesso modo come da noi, si litiga forse in tutte le case della terra.


  Siamo entrati nell'adolescenza quando le parole che si scambiano gli adulti fra loro ci diventano intelligibili; intelligibili ma senza importanza per noi, perché ci è diventato indifferente che in casa nostra regni o no la pace. Ora possiamo seguire la trama delle liti domestiche, prevederne il corso e la durata: e non ne siamo più spaventati, le porte sbattono e non sussultiamo; la casa non è più per noi quello che era prima: non è più il punto da cui guardiamo tutto il resto dell'universo, è un luogo dove per caso mangiamo e abitiamo: mangiamo in fretta prestando un orecchio distratto alle parole degli adulti, parole che ci sono intelligibili ma che ci sembrano inutili; mangiamo e scappiamo nella nostra stanza di corsa per non sentire tutte quelle parole inutili: e possiamo essere molto felici anche se gli adulti intorno a noi litigano e si tengono il muso per giorni e giorni. Tutto quello che ci importa non succede più fra le pareti di casa nostra, ma fuori, per la strada e a scuola: sentiamo che non possiamo essere felici se a scuola gli altri ragazzi ci hanno un po' disprezzato.


  Faremmo qualunque cosa per salvarci da questo disprezzo: facciamo qualunque cosa.


  Scriviamo delle strofette comiche per piacere ai nostri compagni, e le recitiamo loro con buffe smorfie di cui dopo ci vergognamo; facciamo raccolta di parole sconce perché ci stimino un poco, andiamo a caccia di parole sconce per tutto il giorno fra i libri e i vocabolari che abbiamo in casa; e poiché ci sembra che fra i nostri compagni abbia successo un modo di vestire vistoso e sfarzoso, noi contro la volontà di nostra madre ci sforziamo d'insinuare nei nostri abiti sobri qualcosa di un po' vistoso e volgare. Confusamente sentiamo che se ci disprezzano, è soprattutto per colpa della nostra timidezza: chi sa, forse quel lontano momento in cui facevamo una collina di terra col nostro amico, e le porte sbattevano e risuonavano voci selvagge e la vergogna ci bruciava le guance, quel momento forse ha gettato in noi le radici della timidezza: e pensiamo di dover spendere la vita intera a liberarci dalla timidezza, a imparare a muoverci nello sguardo degli altri con la stessa baldanza e sbadataggine di quando siamo soli. La nostra timidezza ci appare come il più grave ostacolo a ottenere la simpatia e il consenso universale: e abbiamo fame e sete di questo consenso: nelle nostre fantasticherie solitarie, ci vediamo andare a cavallo trionfalmente per le città, in una folla che ci acclama e ci adora.


  A casa, quegli adulti che per tanti anni ci avevano pesato addosso col loro assurdo mistero, noi li castighiamo ora con un profondo disprezzo, col mutismo e l'impenetrabilità del nostro viso; ci hanno ossessionato per tanti anni col loro mistero, e noi ora ci vendichiamo opponendo loro il nostro mistero, un viso impenetrabile e muto, degli occhi di pietra. E anche ci vendichiamo sugli adulti di casa nostra, del disprezzo che hanno i nostri compagni per noi. Quel disprezzo ci sembra che investa non la nostra sola persona, ma tutta la nostra famiglia, la nostra condizione sociale, i mobili e le suppellettili di casa nostra, i modi e le consuetudini dei nostri genitori.


  Scoppiano di tanto in tanto per casa le collere d'una volta, magari adesso destate da noi, dal nostro viso di pietra: ci assale un turbine di parole violente, le porte sbattono ma non sussultiamo: le porte sbattono adesso per noi, contro di noi che restiamo a tavola immobili, con un superbo sorriso: più tardi, soli nella nostra stanza, si scioglierà d'un tratto quel nostro sorriso superbo e scoppieremo a piangere, fantasticando sulla nostra solitudine e sull'incomprensione degli altri per noi; e sentiremo uno strano piacere a versare lagrime scottanti, a soffocare nel cuscino i singhiozzi. Sopraggiunge allora nostra madre, si commuove alla vista delle nostre lagrime, ci offre di portarci a prendere un gelato o al cinematografo; con gli occhi rossi e gonfi ma di nuovo il viso impietrito e impenetrabile, sediamo accanto a nostra madre al tavolino d'un caffè mangiando il gelato a piccolissimi cucchiaini: e tutt'intorno a noi si muove una folla di gente che ci sembra serena e leggera, mentre noi, noi siamo quello che c'è di più tetro, goffo e detestabile sulla terra.


  Chi sono gli altri e chi siamo noi? ci chiediamo. Restiamo a volte tutto un pomeriggio soli nella nostra stanza, a pensare: con un vago senso di vertigine, ci chiediamo se gli altri esistano veramente, o se siamo noi che li inventiamo. Ci diciamo che forse, in nostra assenza, tutti gli altri cessano di esistere, scompaiono in un soffio: e miracolosamente risorgono, scaturiti d'un tratto dalla terra, non appena guardiamo. Non ci potrà succedere forse che un giorno, voltandoci d'improvviso, non troveremo niente, nessuno, sporgeremo la testa sul vuoto? E allora non c'è ragione, ci diciamo, di sentire tanta tristezza per il disprezzo degli altri: degli altri che forse non esistono, che dunque non pensano nulla né di noi né di sé. Mentre siamo assorti in questi pensieri vertiginosi, viene nostra madre a proporci di uscire a prendere un gelato: e ci sentiamo allora inesplicabilmente felici, smodatamente felici, per quel gelato che mangeremo fra poco: e come mai una tale felicità in noi, ci chiediamo, per la prospettiva d'un gelato, in noi che siamo così adulti nei nostri vertiginosi pensieri, così stranamente perduti in un mondo di ombre? Accettiamo la proposta di nostra madre, ma ci guardiamo bene dal mostrarle che ne abbiamo un grande piacere: a labbra sigillate camminiamo con lei verso il caffè.


  Sempre dicendoci che gli altri non esistono forse, che siamo noi a inventarli, seguitiamo inesplicabilmente a soffrire per il disprezzo che ci dimostrano i nostri compagni di scuola, per la pesantezza e la goffaggine della nostra persona, così degna di sprezzo a nostro stesso giudizio da fare vergogna: quando gli altri ci parlano, vorremmo coprirci il viso con le due mani tanto ci sembra brutto, informe il nostro viso: e tuttavia sempre fantastichiamo che qualcuno s'innamori di noi, ci veda mentre prendiamo il gelato con nostra madre al caffè, ci segua di nascosto fino a casa e ci scriva una lettera d'amore: aspettiamo questa lettera, ogni giorno ci stupiamo profondamente di non averla ricevuta ancora; ne sappiamo delle frasi a memoria, tante volte le abbiamo mormorate dentro di noi; allora, quando questa lettera sarà arrivata, avremo davvero un ricco mistero fuori di casa, una storia segreta che s'intreccerà tutta fuori di casa, perché adesso, dobbiamo confessare a noi stessi che il nostro mistero è una povera cosa, è ben poco quel che si nasconde dietro la nostra fronte di pietra, che presentiamo ai nostri genitori per il bacio serale; dopo quel bacio, scappiamo di gran corsa nella nostra stanza, mentre i nostri genitori si bisbigliano domande sospettose su di noi.


  Al mattino, ce ne andiamo a scuola dopo aver fissato con preoccupazione nello specchio il nostro viso: il nostro viso ha perduto la vellutata delicatezza dell'infanzia; noi pensiamo allora con rimpianto all'infanzia, a quando facevamo delle colline di terra, e il nostro solo dolore era se litigavano in casa; adesso in casa non si litiga più così spesso, i nostri fratelli maggiori sono andati ad abitare per conto proprio, i nostri genitori sono diventati più vecchi e tranquilli; ma della casa non ce ne importa più niente; camminiamo verso la scuola, soli nella nebbia; quando eravamo piccoli, nostra madre ci accompagnava a scuola, ci veniva a prendere: adesso siamo soli nella nebbia, terribilmente responsabili di tutto quel che facciamo.


  Ama il prossimo tuo come te stesso, ha detto Dio. A noi questo sembra assurdo: Dio ha detto una cosa assurda, ha imposto agli uomini una cosa che è impossibile attuare. Come amare il nostro prossimo, che ci disprezza e non si lascia amare? E


  come amare noi stessi, spregevoli e pesanti e tetri come siamo? Come amare il nostro prossimo, che non c'è forse ed è solo una folla di ombre, mentre Dio ha fatto noi, noi soli, e ci ha messi qui su una terra che è un'ombra, soli a nutrirci dei nostri vertiginosi pensieri? Abbiamo creduto in Dio da bambini, ma adesso ci diciamo che forse non esiste: oppure esiste e non gliene importa niente di noi, perché ci ha messo in questa situazione crudele: e allora è come se non esistesse per noi. Pure rifiutiamo a tavola una pietanza che ci piace, e passiamo la notte sdraiati sul tappetino della nostra stanza, per mortificarci e punirci dei nostri pensieri odiosi e per essere cari a Dio.


  Ma Dio non esiste, pensiamo, dopo una intera notte passata sul pavimento, con le membra tutte indolenzite e lunghi brividi di freddo e di sonno. Dio non esiste, perché non avrebbe potuto inventare questo mondo assurdo, mostruoso, questa complicata macchinazione dove un essere umano cammina solo, al mattino, nella nebbia, fra case altissime abitate dal prossimo, dal prossimo che non ci ama e che è impossibile amare. E del prossimo fa parte anche quella razza mostruosa, inesplicabile, che è di un sesso diverso dal nostro, dotata di una terribile facoltà di farci tutto il bene e tutto il male, dotata di un suo terribile potere segreto su di noi. Potremo mai piacere noi a questa razza diversa, noi che siamo così disprezzati dai compagni del nostro stesso sesso, giudicati così noiosi e da nulla, così inetti e goffi in ogni cosa?


  Succede poi un giorno che il più ammirato, il più stimato fra tutti i compagni di scuola, il primo della classe, si lega a un tratto di amicizia con noi. Come sia accaduto, non sappiamo: ha posato su di noi a un tratto il suo sguardo azzurro, ci ha accompagnato fino a casa un giorno e si è messo a stimarci. Il pomeriggio, viene da noi a fare i compiti: abbiamo fra le mani il prezioso quaderno del primo della classe, scritto nella sua bella calligrafia aguzza, in inchiostro azzurro: possiamo copiare il suo compito, che è tutto senza errori. Come ci è toccata una simile felicità? Come l'abbiamo conquistato, questo compagno così superbo con tutti, così difficile da avvicinare? Adesso si aggira fra le pareti della nostra stanza, scrollando accanto a noi la sua criniera fulva, tendendo ai noti oggetti della nostra stanza il suo profilo aguzzo, disseminato di lentiggini rosee: a noi sembra che un raro animale dei tropici sia venuto, miracolosamente addomesticato, fra le pareti di casa nostra. Si aggira per la nostra stanza, ci chiede la provenienza degli oggetti, ci chiede in prestito qualche libro: fa merenda con noi, sputa con noi i noccioli delle prugne giù dalla terrazza. Noi che eravamo disprezzati da tutti, siamo stati prescelti dal più inarrivabile, dal più insperato compagno. Perché non si annoi in nostra compagnia e non ci lasci per sempre, convulsamente gli parliamo: buttiamo fuori tutto quel che sappiamo di parole sconce, di film e di sport. Rimasti soli, ripetiamo insaziabilmente le sillabe del suo bel nome sonoro; e prepariamo mille discorsi da fargli domani: pazzi di gioia, prendiamo a immaginarlo in tutto simile a noi: l'indomani, ci proviamo a fare con lui quei discorsi che avevamo pensato, gli raccontiamo tutto di noi, perfino i nostri vertiginosi sospetti che non esistano gli uomini né le cose: lui ci guarda sconcertato, ridacchia, ci canzona un po'. Allora ci rendiamo conto che abbiamo sbagliato, che di questo con lui non si può parlare: ripieghiamo sulle parole sconce e gli sport.


  Intanto a scuola, la nostra situazione è cambiata di colpo: tutti si mettono a stimarci, vedendoci altamente stimati dal più stimato fra i compagni; adesso, le strofette comiche che abbiamo scritto e che recitiamo, sono accolte con applausi e alte strida; la nostra voce prima non riusciva a farsi udire nel frastuono delle voci, adesso si tace in ascolto quando noi parliamo; adesso ci fanno delle domande, ci tengono a braccetto, ci aiutano nelle cose in cui siamo meno abili, negli sport o nei compiti che non sappiamo fare. Il mondo non ci appare più come una mostruosa macchinazione, ma come un'isoletta semplice e ridente, popolata di amici: di un così fortunato mutamento nella nostra sorte, noi non ringraziamo Dio perché adesso a Dio non pensiamo: ci sembra impossibile pensare a qualcosa che non sia i visi dei nostri compagni festosi intorno a noi, il fluire facile e lieto delle mattinate, le frasi buffe che abbiamo detto e che hanno fatto ridere; e il nostro stesso viso nello specchio non è più qualcosa di tetro e d'informe, è il viso che i nostri compagni salutano allegramente al mattino. Sorretti così dall'amicizia dei compagni del nostro stesso sesso, noi guardiamo l'altra razza, le persone di un sesso diverso dal nostro, con meno orrore: ci sembra quasi che potremo facilmente fare a meno di questa razza diversa, esser felici anche senza la sua approvazione: quasi desideriamo di trascorrere la nostra vita intiera in mezzo a questi nostri compagni di scuola, a dire frasi buffe e a farli ridere.


  Poi a poco a poco, in mezzo alla folla di questi compagni, ne scopriamo uno che è particolarmente contento di stare con noi, e al quale ci accorgiamo d'avere infinite cose da dire. Non è il primo della classe, non è molto stimato dagli altri, non porta abiti vistosi: i suoi abiti sono però di un tessuto fine e caldo, simili a quelli che sceglie per noi nostra madre: e camminando con lui verso casa, ci accorgiamo che le sue scarpe sono identiche alle nostre, robuste e semplici, non vistose e leggere come quelle degli altri compagni: glielo facciamo notare ridendo. Scopriamo a poco a poco che in casa sua ci sono le stesse abitudini che in casa nostra: e che lui fa il bagno sovente, e sua madre non gli permette di andare a vedere i film d'amore come non lo permette a noi la nostra. È uno come noi: è uno della nostra stessa condizione sociale.


  Siamo ormai molto stufi della compagnia del primo della classe, che continua a venirci a trovare il pomeriggio: siamo ormai stufi di ripetere le solite parole sconce, e al primo della classe buttiamo addosso sdegnosamente i discorsi che ci interessano, i nostri dubbi sull'esistenza: così sdegnosamente e sbadatamente, e con superbia, che il primo della classe non ci capisce bene, ma sorride timido: vediamo sulle labbra del primo della classe un sorriso timido e vile: ha paura di perderci. Non più incantati dal suo sguardo azzurro, adesso accanto al primo della classe abbiamo voglia dei rotondi occhi color nocciola dell'altro compagno: e il primo della classe se ne rende conto e ne soffre, e noi siamo fieri di farlo soffrire: dunque siamo capaci anche noi di far soffrire qualcuno.


  Col nostro nuovo amico dagli occhi rotondi, disprezziamo il primo della classe e gli altri compagni, così chiassosi e volgari, con tutte quelle parole sconce che ripetono sempre: noi adesso vogliamo essere molto distinti, col nostro nuovo amico valutiamo la gente e le cose dal punto di vista della distinzione e della volgarità.


  Scopriamo che è distinto restare ragazzi il più a lungo possibile: con grande sollievo di nostra madre, abbandoniamo tutto quello che avevamo insinuato di chiassoso e vistoso nel nostro vestire: nel vestire come nel contegno e nelle abitudini cerchiamo un'infantile semplicità. Passiamo pomeriggi straordinari col nuovo amico; non siamo mai sazi di parlare e ascoltare. Ripensiamo stupiti alla nostra breve amicizia col primo della classe, che ormai abbiamo smesso di frequentare: stare col primo della classe era così faticoso che alla fine ci sentivamo i muscoli del viso irrigiditi dallo sforzo di ridere falso, e un bruciore alle palpebre, un pizzicore alla pelle: era faticoso dover fingere malizia, inghiottire confidenze, scegliere di continuo fra le nostre parole quelle poche che potevano essere destinate al primo della classe; stare col nuovo amico è un benessere, non abbiamo niente da fingere né da inghiottire e lasciamo fluire libere le nostre parole. Anche gli confidiamo i nostri vertiginosi sospetti riguardo all'esistenza: e allora ci racconta stupito che ha gli stessi sospetti anche lui; «ma tu esisti?» chiediamo, e lui giura di esistere; e siamo infinitamente contenti.


  Ci rammarichiamo col nostro amico di essere dello stesso sesso, perché ci saremmo sposati se fossimo stati di sesso diverso, per poter stare sempre sempre insieme. Non avremmo avuto paura uno dell'altro, né vergogna, né orrore: così invece resta un'ombra sulla nostra vita, che adesso potrebbe anche essere felice: il non sapere se un giorno una persona dell'altro sesso ci potrà amare. Le persone dell'altro sesso ci camminano accanto, ci sfiorano passando per strada, hanno forse dei pensieri o dei disegni su di noi che non potremo mai sapere; hanno in mano il nostro destino, la nostra felicità. C'è fra loro forse la persona che va bene per noi, che potrebbe amarci e che noi potremmo amare: la persona giusta per noi; ma dov'è? come riconoscerla, come farci riconoscere nella folla della città? In quale casa della città, in quale punto della terra, vive la persona giusta per noi, in tutto simile a noi, pronta a rispondere a tutte le nostre domande, pronta ad ascoltarci all'infinito senza noia, a sorridere dei nostri difetti, ad abitare per tutta la vita con il nostro viso? Che parole dovremo pronunciare perché ci riconosca tra mille? Come dovremo vestirci, in quali luoghi dovremo andare per incontrarla?


  Tormentati da questi pensieri, soffriamo d'un immensa timidezza in presenza delle persone di un sesso diverso dal nostro, nella paura che una di loro sia la persona giusta per noi e che possiamo perderla con una parola. Pensiamo a lungo tutte le parole prima di pronunciarle, e le pronunciamo in fretta con voce strozzata; la paura ci dà uno sguardo cupo e dei piccoli gesti secchi; ce ne rendiamo conto, ma ci diciamo che la persona fatta per noi dovrà riconoscerci, anche a quei gesti secchi e a quella voce strozzata; se non mostra d'accorgersi di noi, è perché non è la persona giusta; la persona giusta ci riconoscerà e ci sceglierà fra mille. Aspettiamo la persona giusta; ogni giorno alzandoci al mattino ci diciamo che potrà essere proprio per quel giorno l'incontro; ci vestiamo e ci pettiniamo con cura infinita, vincendo la voglia d'uscire con un vecchio impermeabile e delle scarpe sformate: la persona giusta può trovarsi all'angolo della strada. Mille e mille volte ci crediamo in presenza della persona fatta per noi: il nostro cuore batte tumultuosamente al suono d'un nome, alla curva d'un naso o d'un sorriso, solo perché dentro di noi abbiamo deciso di colpo che quello è il naso e il nome e il sorriso della persona fatta per noi: un'automobile con le ruote gialle, una vecchia signora, ci fanno impetuosamente arrossire, perché noi li crediamo l'automobile e la madre della persona giusta per noi: l'automobile dove faremo il nostro viaggio di nozze, la madre che dovrà benedirci. Di colpo ci accorgiamo d'esserci sbagliati, non era quella la persona giusta, le siamo assolutamente indifferenti e non ne soffriamo perché non abbiamo il tempo di soffrire: di colpo l'automobile con le ruote gialle, il nome e il sorriso scoloriscono e precipitano fra le mille cose inutili che circondano la nostra vita. Ma non abbiamo tempo di soffrire: stiamo partendo per la villeggiatura e siamo assolutamente certi che in villeggiatura incontreremo la persona giusta; ci separiamo quasi senza dolore dal nostro amico con gli occhi rotondi, sicuri come siamo che il treno ci porterà dalla persona giusta; e l'amico dal canto suo è sicuro della stessa cosa per sé: chissà perché d'un tratto siamo certi che la persona giusta s'incontra in villeggiatura d'estate.


  Passano i lunghi mesi dell'estate, noiosi e in solitudine; scriviamo al nostro amico delle lettere interminabili, per consolarci del mancato incontro raccogliamo accuratamente giudizi favorevoli su di noi dati da vecchi conoscenti di famiglia o da vecchi parenti e li trascriviamo al nostro amico; lui dal canto suo ci scrive lettere simili, con giudizi favorevoli sulla sua intelligenza o bellezza, dati da suoi vecchi parenti. Nell'autunno, dobbiamo confessare a noi stessi che non è successo niente di straordinario: ma non siamo delusi, è l'autunno, si ritrova con animazione e piacere l'amico e gli altri compagni; ci buttiamo contenti nell'autunno, la persona giusta ci aspetta forse all'angolo del viale.


  Poi ci distacchiamo dal nostro amico, a poco a poco. Lo troviamo piuttosto noioso, «borghese»: ha sempre la mania della distinzione, della finezza. Noi adesso vogliamo essere poveri: ci interessiamo a un gruppo di compagni poveri, ci rechiamo ogni giorno con orgoglio alla loro casa non riscaldata. Portiamo adesso il nostro vecchio impermeabile, con orgoglio: la persona giusta contiamo sempre d'incontrarla, ma deve amare il nostro vecchio impermeabile, deve amare le nostre scarpe sformate, le nostre sigarette da pochi soldi, le nostre mani rosse e nude. Vestiti del nostro vecchio impermeabile, camminiamo soli, verso sera, lungo le case di periferia: abbiamo scoperto la periferia, le insegne delle piccole osterie sul lungofiume, sostiamo assorti davanti a certi negozietti dove sono appese delle lunghe camiciole rosa, delle tute da operaio e delle mutande color caffelatte; ci incantiamo davanti a una vetrina dove giacciono vecchie cartoline e vecchie forcine: ci piace tutto quello che è vecchio, polveroso e povero: di cose povere e polverose noi andiamo a caccia per la città.


  Piove intanto a dirotto sul nostro vecchio impermeabile che lascia passare l'acqua, sulla nostra testa nuda; noi non abbiamo ombrello, piuttosto che uscire con un ombrello ci faremmo ammazzare; non abbiamo ombrello, né cappello, né guanti, né soldi per prendere il tram: tutto quello che abbiamo è in tasca un fazzoletto sporco, delle sigarette pestate e dei fiammiferi da cucina.


  D'improvviso ci siamo detti che i poveri sono il prossimo, i poveri sono il prossimo che bisogna amare. Vigiliamo il passaggio dei poveri intorno a noi: spiamo l'occasione d'accompagnare un mendicante cieco che deve attraversare la strada, di offrire il nostro braccio a qualche vecchia scivolata in una pozzanghera; carezziamo timidamente, con la punta delle dita, i sudici capelli dei bambini che giocano nei vicoletti; torniamo a casa fradici di pioggia, infreddoliti e trionfanti. Noi non siamo poveri, non passiamo la notte sulla panchina d'un giardino pubblico, non mangiamo una zuppa scura in un tegame di stagno; non siamo poveri, ma solo per caso: saremo poverissimi domani.


  Intanto l'amico che abbiamo smesso di frequentare soffre per causa nostra: così come aveva sofferto il primo della classe quando avevamo smesso di frequentarlo.


  Noi lo sappiamo, ma non ne abbiamo rimorso: anzi ne abbiamo una specie di piacere sordo, perché se qualcuno soffre per causa nostra, è segno che abbiamo nelle nostre mani il potere di far soffrire, noi che ci eravamo creduti per tanto tempo così deboli e insignificanti. Non ci viene il dubbio che siamo forse cinici e cattivi, perché non ci viene il dubbio che anche quel nostro amico sia il prossimo: e neppure pensiamo che siano il prossimo i nostri genitori: il prossimo, sono i poveri. I nostri genitori, li guardiamo severamente mentre mangiano dei buoni cibi alla tavola illuminata; anche noi mangiamo quei buoni cibi, ma pensiamo che è un caso, e sarà così ancora per pochissimo tempo: fra poco, non avremo che un po' di pane scuro e un tegame di stagno.


  Un giorno incontriamo la persona giusta. Restiamo indifferenti, perché non l'abbiamo riconosciuta: passeggiamo con la persona giusta per le strade di periferia, prendiamo a poco a poco l'abitudine di passeggiare insieme ogni giorno. Di tanto in tanto, distratti, ci chiediamo se non stiamo forse passeggiando con la persona giusta: ma crediamo piuttosto di no. Siamo troppo tranquilli; la terra, il cielo non sono mutati; i minuti e le ore fluiscono quietamente, senza rintocchi profondi nel nostro cuore. Noi ci siamo sbagliati già tante volte: ci siamo creduti in presenza della persona giusta, e non era. E in presenza di quelle false persone giuste, cadevamo travolti da un tale impetuoso tumulto che quasi non ci restava più la forza di pensare: ci trovavamo a vivere come al centro d'un paese incendiato: alberi, case e oggetti divampavano intorno a noi. E poi di colpo si spegneva il fuoco, non restava che un po' di brace tiepida: alle nostre spalle i paesi incendiati sono tanti che non possiamo più nemmeno contarli. Adesso niente brucia intorno a noi. Per settimane e mesi, passiamo i giorni con la persona giusta, senza sapere: solo a volte, quando rimasti soli ripensiamo a questa persona, la curva delle sue labbra, certi suoi gesti e inflessioni di voce, nel ripensarli, ci danno un piccolo sussulto al cuore: ma non teniamo conto d'un così piccolo, sordo sussulto. La cosa strana, con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata così aggrottata e torva per tanti anni, d'un tratto distesa; e non siamo mai stanchi di parlare e ascoltare. Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un poco così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli.


  E lasciamo la nostra casa, e andiamo a vivere con questa persona per sempre: non perché ci siamo convinti che è la persona giusta: anzi non ne siamo affatto convinti, e abbiamo sempre il sospetto che la vera persona giusta per noi si nasconda chissà dove nella città. Ma non abbiamo voglia di sapere dove si nasconde: sentiamo che ormai avremmo ben poco da dirle, perché diciamo tutto a questa persona forse non giusta con cui adesso viviamo: e il bene e il male della nostra vita noi vogliamo riceverlo da questa persona e con lei. Scoppiano fra noi e questa persona, ogni tanto, violenti contrasti: eppure non riescono a rompere quella pace infinita che è in noi. Dopo molti anni, solo dopo molti anni, dopo che fra noi e questa persona si è intessuta una fitta rete di abitudini, di ricordi e di violenti contrasti, sapremo infine che era davvero la persona giusta per noi, che un'altra non l'avremmo sopportata, che solo a lei possiamo chiedere tutto quello che è necessario al nostro cuore.


  Adesso, nella nuova casa dove siamo venuti a vivere e che è nostra, non vogliamo più essere poveri, anzi abbiamo un po' di paura della povertà: sentiamo uno strano affetto per gli oggetti che ci sono intorno, per un tavolo o per un tappeto, noi che rovesciavamo sempre l'inchiostro sui tappeti dei nostri genitori; questo nostro nuovo affetto per un tappeto ci preoccupa un poco, ne abbiamo un po' di vergogna; andiamo ancora qualche volta a passeggio per le strade di periferia, ma ritornando a casa ci puliamo con cura sullo stuoino le scarpe infangate: e sentiamo un piacere nuovo a sederci a casa, sotto la lampada, con le imposte serrate sulla città buia. Non abbiamo più molta voglia d'amici, perché tutti i nostri pensieri li raccontiamo alla persona che vive con noi, mentre mangiamo insieme la minestra alla tavola illuminata: agli altri, ci sembra che non valga la pena di raccontare più niente.


  Ci nascono dei figli, e cresce in noi la paura della povertà: anzi crescono in noi paure infinite, d'ogni possibile pericolo o sofferenza che possa colpire i nostri figli nella loro carne mortale. La nostra stessa carne, il nostro corpo, non l'avevamo mai sentito in passato fragile e mortale: eravamo pronti a scagliarci nelle più impreviste avventure, pronti sempre a partire per i luoghi più lontani, fra i lebbrosi e i cannibali: ogni prospettiva di guerre, di epidemie o di catastrofi cosmiche ci lasciava del tutto indifferenti. Non sapevamo che ci fosse nel nostro corpo tanta paura, tanta fragilità: mai avevamo sospettato di poterci sentire così legati alla vita da un vincolo di paura, di tenerezza straziante. Com'era forte e libero il nostro passo, quando si camminava soli, all'infinito, per la città! Guardavamo con grande commiserazione le famiglie, i padri e le madri a passeggio pian piano con le carrozzelle dei bambini la domenica sui viali: ci parevano una cosa noiosa e triste. Adesso siamo noi una di queste famiglie, camminiamo pian piano per i viali, spingendo la carrozzella: e non siamo tristi, siamo anzi forse felici, ma di una felicità che ci è difficile riconoscere, nel panico in cui siamo di poterla perdere da un momento all'altro per sempre: il bambino nella carrozzella che spingiamo è così piccolo, così debole, l'amore che ci lega a lui è così doloroso, così spaventato! Abbiamo paura d'un soffio di vento, d'una nuvola in cielo: non verrà la pioggia? Noi che avevamo preso tanta pioggia, a testa nuda, coi piedi nelle pozzanghere! Adesso abbiamo un ombrello. E ci piacerebbe avere anche un portaombrelli, a casa, nell'anticamera: ci colgono i desideri più strani, che mai avremmo supposto di poter avere quando andavamo soli e liberi per la città; vorremmo un portaombrelli e degli attaccapanni, delle lenzuola, degli asciugamani, un forno da campagna, una ghiacciaia. Non cerchiamo più la periferia; andiamo per i viali, tra ville e giardini; stiamo attenti che ai nostri bambini non s'accosti la gente troppo sudicia e povera, per paura di pidocchi e di malattie; sfuggiamo i mendicanti.


  Amiamo i nostri figli in un modo così doloroso, così spaventato, che ci sembra di non avere mai avuto altro prossimo, di non poterne avere mai altro. Siamo ancora poco abituati alla presenza dei nostri figli sulla terra: siamo ancora stupefatti e sconvolti per la loro comparsa nella nostra vita. Non abbiamo più amici: o meglio a quei pochi amici che abbiamo pensiamo subito con odio se il nostro bambino sta male, ci pare quasi che sia colpa loro, per il fatto che in loro compagnia ci siamo distratti da quell'unica, straziante tenerezza; non abbiamo più vocazione: avevamo una vocazione, un caro mestiere, e adesso se appena vi prestiamo orecchio subito ci sentiamo colpevoli, torniamo a precipizio su quell'unica tenerezza straziante; una giornata di sole, un paesaggio verde, significa per noi soltanto che il nostro bambino potrà abbronzarsi al sole o giocare nel verde; noi, per conto nostro, abbiamo perso ogni facoltà di godimento o di contemplazione. Gettiamo sulle cose uno sguardo sospettoso e convulso; guardiamo se non ci sono chiodi arrugginiti, scarafaggi, pericoli per il nostro bambino. Vorremmo abitare paesi puliti e freschi, con animali puliti e abitanti gentili: il selvaggio universo che ci affascinava non ci affascina più.


  E come siamo diventati stupidi, pensiamo con rammarico certe volte, guardando la testa del nostro bambino che ci è così familiare, familiare come non ci è stata mai nessuna cosa al mondo, guardandolo mentre è seduto a fare una collina di terra con le sue grasse mani. Come siamo diventati stupidi e come sono piccoli e torpidi i nostri pensieri, piccoli che potrebbero entrare in un guscio di nocciola, eppure così faticosi, così soffocanti! Dov'è andato il selvaggio universo che ci affascinava, la nostra forza e il ritmo vivo e libero della nostra giovinezza, l'ardita scoperta delle cose giorno per giorno, il nostro sguardo risoluto e glorioso, il nostro passo trionfante? Dov'è adesso il prossimo per noi? Dov'è adesso Dio? Dio, noi ci ricordiamo di parlargli soltanto quando il nostro bambino è malato: allora gli diciamo che ci faccia cascare tutti i denti, tutti i capelli, ma guarisca il nostro bambino. Appena il bambino è guarito, dimentichiamo Dio: abbiamo ancora denti e capelli e riprendiamo i nostri piccoli pensieri torpidi e faticosi: chiodi arrugginiti, scarafaggi, praticelli freschi, pappette di farina. Anche siamo diventati superstiziosi: di continuo facciamo le corna, siamo seduti a lavorare e a scrivere e di colpo ci alziamo, facendo le corna accendiamo e spegniamo la lampada per tre volte, perché d'improvviso ci siamo detti che solo questo potrà salvarci dalla sventura. Ci rifiutiamo al dolore: lo sentiamo venire e ci nascondiamo dietro le poltrone, dietro le tende, per non farci trovare.


  Ma viene allora il dolore per noi. L'avevamo aspettato, eppure non lo riconosciamo subito: non lo chiamiamo subito col suo nome. Storditi e increduli, fiduciosi che tutto si potrà rimediare, scendiamo le scale della nostra casa, chiudiamo quella porta per sempre: camminiamo interminabilmente per strade di polvere. Ci inseguono, e noi ci nascondiamo: ci nascondiamo nei conventi e nei boschi, nei granai e nei vicoli, nelle stive delle navi e nelle cantine. Impariamo a chiedere aiuto al primo che passa: non sappiamo se sia un amico o un nemico, se vorrà soccorrerci o tradirci: ma non abbiamo scelta, e per un attimo gli affidiamo la nostra vita. Anche impariamo a dare aiuto al primo che passa. E sempre custodiamo in noi la fiducia che tra poco, tra qualche ora o tra qualche giorno, torneremo alla nostra casa coi tappeti e le lampade; saremo carezzati e consolati; i nostri figli siederanno a giocare con un grembiule pulito, con delle pantofole rosse. Dormiamo coi nostri figli nelle stazioni, sulle gradinate delle chiese, negli alberghi dei poveri: siamo poveri, pensiamo senza nessuna fierezza: scompare in noi a poco a poco ogni traccia di orgoglio infantile.


  Abbiamo della vera fame e del vero freddo. Non sentiamo più paura: la paura è penetrata in noi, è una cosa sola con la nostra stanchezza: è lo sguardo inaridito e immemore che gettiamo alle cose.


  Solo a tratti, dal fondo della nostra stanchezza, risale in noi la coscienza delle cose, così pungente da farci venire le lagrime: forse guardiamo la terra per l'ultima volta.


  Mai abbiamo sentito con tanta forza l'amore che ci lega alla polvere delle strade, agli altissimi gridi degli uccelli, a quel ritmo affannoso del respiro in noi: ma ci sentiamo più forti di quel ritmo affannoso, lo sentiamo in noi così sordo, così lontano, come se non fosse più nostro: mai abbiamo tanto amato i nostri figli, il loro peso fra le nostre braccia, la carezza dei loro capelli sulle nostre guance, pure non sentiamo più paura nemmeno per i nostri figli: diciamo a Dio che li protegga, se vuole. Gli diciamo di fare come vuole.


  E adesso siamo veramente adulti, pensiamo un mattino, guardando nello specchio il nostro viso solcato, scavato: guardandolo senza nessuna fierezza, senza nessuna curiosità: con un po' di misericordia. Abbiamo di nuovo uno specchio fra quattro pareti: chi sa, forse fra poco avremo anche di nuovo un tappeto, una lampada forse.


  Ma abbiamo perduto le persone più care: e allora cosa ci importa ormai di tappeti, di pantofole rosse? Impariamo a riporre e a custodire gli oggetti dei morti; a tornare da soli nei luoghi dov'eravamo stati con loro; a interrogare, sentendoci intorno il silenzio. Non abbiamo più paura della morte: guardiamo nella morte ogni ora, ogni minuto, ricordando il suo grande silenzio sul più caro viso.


  E adesso siamo veramente adulti, pensiamo, e ci sentiamo stupiti che essere adulti sia questo, non davvero tutto quello che da ragazzi avevamo creduto, non davvero la sicurezza di sé, non davvero un sereno possesso su tutte le cose della terra. Siamo adulti perché abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone morte, a cui chiediamo un giudizio sul nostro comportamento attuale, a cui chiediamo perdono delle passate offese: vorremmo strappare dal nostro passato tante nostre parole crudeli, tanti gesti crudeli che abbiamo compiuto quando pure temevamo la morte ma non sapevamo, non avevamo capito com'era irreparabile, senza rimedio la morte: siamo adulti per tutte le mute risposte, per tutto il muto perdono dei morti che portiamo dentro di noi. Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l'ultima volta tutte le cose della terra, e abbiamo rinunciato a possederle, le abbiamo restituite alla volontà di Dio: e d'un tratto le cose della terra ci sono apparse al loro giusto posto sotto il cielo, e così anche gli esseri umani, e noi stessi sospesi a guardare dall'unico posto giusto che ci sia dato: esseri umani, cose e memorie, tutto ci è apparso al suo posto giusto sotto il cielo. In quel breve momento abbiamo trovato un equilibrio alla nostra vita oscillante: e ci sembra che potremo sempre ritrovare quel momento segreto, ricercare là le parole per il nostro mestiere, le nostre parole per il prossimo; guardare il prossimo con uno sguardo sempre giusto e libero, non lo sguardo timoroso o sprezzante di chi sempre si chiede, in presenza del prossimo, se sarà suo padrone o suo servo. Noi tutta la vita non abbiamo saputo essere che padroni o servi: ma in quel nostro momento segreto, in quel momento di pieno equilibrio, abbiamo saputo che non c'è vera padronanza né vera servitù sulla terra. Così adesso, tornando a quel nostro momento segreto, cercheremo negli altri se già è toccato loro di vivere un momento identico, o se ancora ne sono lontani: è questo che importa sapere. Nella vita d'un essere umano, è il momento più alto: ed è necessario che stiamo con gli altri tenendo gli occhi al momento più alto del loro destino.


  Con meraviglia, ci accorgiamo che adulti non abbiamo perduto la nostra antica timidezza di fronte al prossimo: la vita non ci ha per niente aiutato a liberarci della timidezza. Siamo ancora timidi. Soltanto, non ce ne importa: ci sembra d'esserci conquistato il diritto d'essere timidi: siamo timidi senza timidezza: arditamente timidi. Timidamente cerchiamo le parole giuste in noi. Ci rallegriamo tanto di trovarle, di trovarle con timidezza ma quasi senza fatica, ci rallegriamo d'avere così tante parole in noi, così tante parole per il prossimo, che siamo come ubriacati di facilità, di naturalezza. E la storia dei rapporti umani non è mai finita in noi: perché a poco a poco succede che ci diventano fin troppo facili, fin troppo naturali e spontanei i rapporti umani: così spontanei, così senza fatica che non sono più ricchezza, né scoperta, né scelta: sono solo abitudine e compiacimento, ubriacamento di naturalezza. Noi crediamo sempre di poter tornare a quel nostro momento segreto, di poter sempre attingerci giuste parole: ma non è vero che ci possiamo sempre tornare, tante volte i nostri sono falsi ritorni: accendiamo di falsa luce i nostri occhi, simuliamo sollecitudine e calore al prossimo e siamo in realtà di nuovo contratti, rannicchiati e gelati sul buio del nostro cuore. I rapporti umani si devono riscoprire e riinventare ogni giorno. Ci dobbiamo sempre ricordare che ogni specie d'incontro col prossimo, è un'azione umana e dunque è sempre male o bene, verità o menzogna, carità o peccato.


  Noi siamo ora così adulti, che i nostri figli adolescenti già prendono a guardarci con occhi di pietra: ne soffriamo, pur sapendo bene che cos'è quello sguardo: pur ricordando bene d'avere avuto un identico sguardo. Ne soffriamo e ci lamentiamo, bisbigliamo domande sospettose, pur sapendo ormai così bene come si svolge la lunga catena dei rapporti umani, la sua lunga parabola necessaria, tutta la lunga strada che ci tocca percorrere per arrivare ad avere un poco di misericordia.


  


  Le piccole virtù


  


  Per quanto riguarda l'educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l'indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l'astuzia, ma la schiettezza e l'amore alla verità; non la diplomazia, ma l'amore al prossimo e l'abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere.


  Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda: perché le piccole virtù non racchiudono alcun pericolo materiale, e anzi tengono al riparo dai colpi della fortuna. Trascuriamo d'insegnare le grandi virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto d'una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate.


  In realtà la differenza è solo apparente. Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell'incolumità personale. Le grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione.


  L'educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi insensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. Le piccole virtù, in se stesse, non hanno nulla da fare col cinismo, o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un'atmosfera che porta a quelle conseguenze. Non che le piccole virtù, in se stesse, siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare e non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, per la natura umana un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l'uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell'aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell'aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell'educazione. Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere il grande.


  Non giova che cerchiamo di rammentare e imitare, nei rapporti coi nostri figli, i modi tenuti dai nostri genitori con noi. Quello della nostra giovinezza e infanzia non era un tempo di piccole virtù: era un tempo di forti e sonore parole, che però a poco a poco perdevano la loro sostanza. Ora è un tempo di parole sommesse e frigide, di sotto alle quali forse riaffiora il desiderio d'una riconquista. Ma è un desiderio timido, e pieno di paura del ridicolo. Così ci rivestiamo di prudenza e d'astuzia. I nostri genitori non conoscevano né prudenza, né astuzia; non conoscevano la paura del ridicolo; erano inconseguenti e incoerenti, ma non se ne accorgevano mai; si contraddicevano di continuo, ma non ammettevano mai d'essersi contraddetti.


  Usavano con noi un'autorità, che noi saremmo del tutto incapaci di usare. Forti dei loro principi, che credevano indistruttibili, regnavano con potere assoluto su di noi.


  Ci assordavano di parole tuonanti; un dialogo non era possibile, perché appena sospettavano d'aver torto ci ordinavano di tacere; battevano il pugno sulla tavola, facendo tremare la stanza. Noi ricordiamo quel gesto, ma non sapremmo imitarlo.


  Possiamo infuriarci, urlare come lupi; ma in fondo alle nostre urla di lupo c'è un singhiozzo isterico, un rauco belato d'agnello.


  Noi dunque non abbiamo autorità: non abbiamo armi. L'autorità, in noi, sarebbe un'ipocrisia e una finzione. Siamo troppo consapevoli della nostra debolezza, troppo malinconici e malsicuri, troppo consci delle nostre inconseguenze e incoerenze, troppo consci dei nostri difetti: abbiamo guardato troppo in fondo dentro di noi e abbiamo visto in noi troppe cose. E poiché non abbiamo autorità, dobbiamo inventare un altro rapporto.


  Oggi che il dialogo è diventato possibile fra genitori e figli - possibile benché sempre difficile, sempre carico di prevenzioni reciproche, di reciproche timidezze e inibizioni - è necessario che noi ci riveliamo, in questo dialogo, quali siamo: imperfetti; fiduciosi che loro, i nostri figli, non ci rassomiglino, che siano più forti e migliori di noi.


  Poiché siamo tutti assillati, in un modo o nell'altro, dal problema del denaro, la prima piccola virtù che ci viene in testa di insegnare ai nostri figli è il risparmio.


  Regaliamo loro un salvadanaio, spiegando com'è bello conservare il denaro invece di spenderlo, in modo che, dopo mesi, ce ne sia molto, un bel gruzzolo di denaro; e come sia bello resistere alla voglia di spendere, per poter comprare, alla fine, qualche oggetto di pregio. Ricordiamo d'aver ricevuto in regalo, nella nostra infanzia, un salvadanaio eguale; ma dimentichiamo che il denaro, e il gusto di conservarlo, era al tempo della nostra infanzia meno orribile e sudicio di oggi: perché il denaro, più passa il tempo, e più è sudicio. Il salvadanaio, dunque, è il nostro primo errore: abbiamo installato, nel nostro sistema educativo, una piccola virtù.


  Quel salvadanaio di coccio dall'aspetto innocuo, a forma di pera o di mela, abita per mesi e mesi nella stanza dei nostri figli ed essi si abituano alla sua presenza; s'abituano al piacere di introdurre, giorno per giorno, il denaro nella fessura; s'abituano al denaro custodito là dentro, che là, nel segreto e nel buio, cresce come un seme nel grembo della terra; s'affezionano al denaro, dapprima con innocenza, come ci s'affeziona a tutte le cose che crescono grazie al nostro zelo, pianticelle o bestiole; e sempre vagheggiando quel costoso oggetto visto in una vetrina, e che sarà possibile comperare, come noi gli abbiamo detto, col denaro così risparmiato. Quando infine il salvadanaio viene infranto e il denaro speso, i ragazzi si sentono soli e delusi: non c'è più il denaro nella stanza, custodito nel ventre della mela, e non c'è più nemmeno la rosea mela: c'è invece un oggetto a lungo vagheggiato in vetrina, e di cui noi gli abbiamo vantato l'importanza e il pregio: ma che ora, nella stanza, sembra grigio e disadorno, appassito dopo tanta attesa e dopo tanto denaro. Di questa delusione i ragazzi non incolperanno il denaro, ma l'oggetto stesso: perché il denaro perduto conserva, nella memoria, tutte le sue lusinghiere promesse. I ragazzi chiederanno un nuovo salvadanaio e nuovo denaro da custodire; e rivolgeranno al denaro dei pensieri e un'attenzione che è male gli siano rivolti. Preferiranno il denaro alle cose. Non è male che abbiano sofferto una delusione; è male che si sentano soli senza la compagnia del denaro.


  Non dovremmo insegnare a risparmiare: dovremmo abituare a spendere.


  Dovremmo dare spesso ai ragazzi un po' di denaro, piccole somme senza importanza, sollecitandoli a spenderle subito e come gli piace, seguendo un momentaneo capriccio: i ragazzi compreranno qualche minutaglia, che dimenticheranno subito, come dimenticheranno subito il denaro speso così in fretta e senza riflettere, e al quale non si sono affezionati. Trovandosi fra le mani quelle minutaglie, che saranno subito rotte, i ragazzi rimarranno un po' delusi, ma dimenticheranno rapidamente sia quella delusione e le minutaglie, sia il denaro; anzi associeranno il denaro a qualcosa di momentaneo e di stupido; e penseranno che il denaro è stupido, come è giusto nell'infanzia pensare.


  È giusto che i ragazzi vivano, nei primi anni della loro vita, ignorando che cos'è il denaro. A volte questo è impossibile, se siamo troppo poveri; e a volte è difficile, perché siamo troppo ricchi. Tuttavia quando siamo molto poveri, quando il denaro è strettamente legato a un fatto di sopravvivenza quotidiana, a una questione di vita o di morte, allora esso si traduce così immediatamente agli occhi d'un bambino in cibo, carbone o panni, che non ha il modo di guastargli lo spirito. Ma se siamo così così, né ricchi né poveri, non è difficile lasciare che un ragazzo viva, nell'infanzia, senza saper bene che cos'è il denaro e senza curarsene affatto. E tuttavia è necessario, non troppo presto e non troppo tardi, spezzare questa ignoranza: e se abbiamo delle difficoltà economiche, è necessario che i nostri figli, non troppo presto e non troppo tardi, ne siano messi al corrente; così come è giusto che a un certo punto dividano con noi le nostre preoccupazioni, e le nostre ragioni di contentezza, e i nostri progetti, e tutto quanto concerne la vita famigliare. E abituandoli a considerare il denaro famigliare come una cosa che appartiene a noi e a loro in egual misura, e non a noi piuttosto che a loro, o il contrario, potremo anche invitarli ad essere sobri, a stare attenti al denaro che spendono: e in questo modo l'invito al risparmio non è più rispetto per una piccola virtù, non è astratto invito a portare rispetto ad una cosa che non merita rispetto in se stessa, come il denaro; ma è un ricordare ai ragazzi che non è molto il denaro di casa, è un invito a sentirsi adulti e responsabili di fronte a una cosa che appartiene a noi come a loro, una cosa non specialmente bella né amabile, ma seria, perché legata alle nostre necessità quotidiane. Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell'educazione sta nell'indovinare i tempi.


  Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro. E non c'è dubbio che, nelle famiglie dove il denaro viene guadagnato e prontamente speso, dove scorre come limpida acqua di fonte, e, praticamente, non esiste come denaro, è meno difficile educare un ragazzo ad un simile equilibrio, a una simile libertà. Le cose diventano complicate là dove il denaro esiste ed esiste pesantemente, acqua plumbea e stagnante che esala fermenti e odori. Presto i ragazzi avvertono la presenza in famiglia di questo denaro, potenza nascosta, di cui non si parla mai in termini chiari ma alla quale i genitori alludono, discorrendo fra loro, con nomi complicati e misteriosi, con una plumbea fissità negli occhi, con una piega amara sulle labbra; denaro che non è semplicemente riposto nel cassetto dello scrittoio, ma grandeggia chissà dove, e potrebbe da un momento all'altro essere risucchiato dalla terra, sparire senza rimedio per sempre, inghiottendo la famiglia e la casa. In simili famiglie, i ragazzi vengono di continuo ammoniti a spendere con parsimonia, ogni giorno la madre li invita all'attenzione e al risparmio, nel consegnargli pochi spiccioli per il tram; e c'è nello sguardo della madre quella plumbea preoccupazione, sulla sua fronte quella ruga profonda, che sempre vi appare quando entra in argomento il denaro; c'è l'oscuro spavento che tutto il denaro si dissolva nel nulla, e che anche quei pochi spiccioli possano significare le prime polveri d'un crollo subitaneo e mortale. I ragazzi di simili famiglie, non di rado vanno a scuola con abiti consumati e scarpe logore, e debbono sospirare a lungo, a volte invano, per una bicicletta o per una macchina fotografica, oggetti che alcuni loro compagni certo più poveri posseggono da tempo. E quando poi gli viene regalata la bicicletta che desiderano, il regalo è però accompagnato dalla severa raccomandazione di non sciupare, di non prestare a nessuno un oggetto così di lusso, e che è costato tanto denaro. I richiami all'economia, in casa, sono perenni e insistenti: c'è l'ordine di comprare i libri di scuola usati, i quaderni allo Standard. Questo avviene in parte perché i ricchi spesso sono avari, e perché si credono poveri; ma soprattutto perché le madri, nelle famiglie ricche, più o meno inconsapevolmente, hanno timore delle conseguenze del denaro e cercano di proteggerne i figli foggiandogli attorno una finzione di abitudini semplici, perfino avvezzandoli a piccole privazioni. Ma non c'è sbaglio peggiore che far vivere un ragazzo in una simile contraddizione: il denaro parla ovunque, nella casa, il suo linguaggio inconfondibile: è presente nelle porcellane, nella mobilia, nella pesante argenteria, è presente nei comodi viaggi, nelle sfarzose villeggiature, nei saluti del portinaio, nelle cerimonie dei servi; è presente nei discorsi dei genitori, è la ruga sulla fronte del padre, la plumbea perplessità dello sguardo materno; il denaro è ovunque, intoccabile perché forse spaventosamente fragile, è qualcosa su cui non è consentito scherzare, un funebre dio a cui non ci si può rivolgere che con un sussurro; e per onorare questo dio, per non molestare la sua luttuosa immobilità, bisogna portare il cappotto dell'anno prima diventato stretto, studiar la lezione su libri sfasciati e cenciosi, divertirsi con la bicicletta del contadino.


  Se vogliamo educare i nostri figli, essendo ricchi, ad abitudini semplici, dev'essere però ben chiaro che tutto il denaro risparmiato usando simili abitudini viene speso senza parsimonia per altra gente. Simili abitudini hanno un senso soltanto se non sono avarizia o timore, ma libera scelta, in mezzo alla ricchezza, della semplicità. Un ragazzo di famiglia ricca non impara la sobrietà perché gli si fanno portare dei vestiti vecchi, o perché gli si fanno mangiare a merenda delle mele verdi, o perché lo si priva d'una bicicletta che desidera da lungo tempo: quella sobrietà in mezzo alla ricchezza è una pura finzione, e le finzioni sono sempre diseducative. In questo modo imparerà soltanto l'avarizia e la paura del denaro. Privandolo d'una bicicletta che desidera e che potremmo comprargli, non faremo che frustrarlo d'una cosa legittima per un ragazzo, non faremo che render meno lieta la sua infanzia in nome d'un principio astratto, senza giustificazione nella realtà. E tacitamente verremo ad affermare di fronte a lui che il denaro è migliore d'una bicicletta: e invece è necessario che lui sappia che una bicicletta è sempre meglio del denaro.


  La vera difesa dalla ricchezza non è la paura della ricchezza, della sua fragilità e delle viziose conseguenze che può portare: la vera difesa dalla ricchezza è l'indifferenza al denaro. Per educare un ragazzo a questa indifferenza, non c'è altro modo che dargli del denaro da spendere, quando esiste denaro: perché impari a separarsene senza cruccio e senza rimpianto. Mi si osserverà che così un ragazzo s'abitua ad avere denaro da spendere, e non potrà più farne senza; se domani non sarà più ricco, come farà? Ma è più facile non aver denaro quando abbiamo imparato a spenderlo, quando abbiamo imparato come vola via in fretta fra le mani; è più facile fare a meno del denaro quando l'abbiamo ben conosciuto, che non quando gli abbiamo tributato, nell'infanzia, reverenza e paura, abbiamo sentito la sua presenza all'intorno e non ci è stato permesso di alzare gli occhi a guardarlo in viso.


  Appena i nostri figli cominciano ad andare a scuola, noi subito gli promettiamo denaro in premio, se studieranno bene. È un errore. Noi così mescoliamo il denaro, che è una cosa senza nobiltà, ad una cosa meritevole e degna, quale è lo studio e il piacere della conoscenza. Il denaro che diamo ai nostri figli, dovrebbe esser dato senza motivo; dovrebbe esser dato con indifferenza, perché imparino a riceverlo con indifferenza; e dev'esser dato non perché imparino ad amarlo, ma perché imparino a non amarlo, a intenderne il vero carattere, e la sua impotenza ad appagare i desideri più veri, che sono quelli dello spirito. Elevando il denaro alla funzione di premio, di punto d'arrivo, di obiettivo da raggiungere, noi gli diamo un posto, un'importanza, una nobiltà, che non deve avere agli occhi dei nostri figli. Affermiamo implicitamente il principio - falso - che il denaro è il coronamento d'una fatica e il suo termine ultimo. Invece il denaro dovrebbe essere concepito come il salario d'una fatica: non il suo termine ultimo, ma il suo salario, cioè il suo legittimo credito: ed è evidente che le fatiche scolastiche dei ragazzi non possono avere un salario. È un errore minore - ma è un errore - offrire denaro ai figli in cambio di piccoli servizi domestici, di piccole prestazioni. È un errore perché noi non siamo, per i nostri figli, dei datori di lavoro: il denaro famigliare è altrettanto loro quanto nostro: quei piccoli servizi, quelle piccole prestazioni dovrebbero essere senza compenso, volontaria collaborazione alla vita famigliare. E in genere, credo si debba andare molto cauti nel promettere e somministrare premi e punizioni. Perché la vita raramente avrà premi e punizioni: di solito i sacrifici non hanno alcun premio, e sovente le cattive azioni non sono punite, ma anzi a volte lautamente retribuite in successo e denaro. Perciò è meglio che i nostri figli sappiano fin dall'infanzia, che il bene non riceve ricompensa, e il male non riceve castigo: e tuttavia bisogna amare il bene e odiare il male: e a questo non è possibile dare nessuna logica spiegazione.


  Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare una importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo.


  Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la barriera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta una offesa. Allora i nostri figli, tediati, s'allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d'un'ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c'è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d'essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d'ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d'esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno.


  Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell'orgoglio, frustrati d'una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l'aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati su un prato a giocare a foot-ball, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell'energia e dell'ingegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito.


  Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell'insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo là per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani.


  Quello che deve starci a cuore, nell'educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l'amore alla vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non è senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos'è la vocazione d'un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Noi dobbiamo allora aspettare, accanto a lui, che la sua vocazione si svegli, e prenda corpo. Il suo atteggiamento può assomigliare a quello della talpa o della lucertola, che se ne sta immobile, fingendosi morta: ma in realtà fiuta e spia la traccia dell'insetto, sul quale si getterà con un balzo. Accanto a lui, ma in silenzio e un poco in disparte, noi dobbiamo aspettare lo scatto del suo spirito. Non dobbiamo pretendere nulla: non dobbiamo chiedere o sperare che sia un genio, un artista, un eroe o un santo; eppure dobbiamo essere disposti a tutto; la nostra attesa e la nostra pazienza deve contenere la possibilità del più alto e del più modesto destino.


  Una vocazione, una passione ardente ed esclusiva per qualcosa che non abbia nulla da vedere col denaro, la consapevolezza di poter fare una cosa meglio degli altri, e amare questa cosa al di sopra di tutto, è la sola e unica possibilità, per un ragazzo ricco, di non essere per nulla condizionato dal denaro, di essere libero di fronte al denaro: di non sentire, fra gli altri, né l'orgoglio della ricchezza né la sua vergogna.


  Egli non s'accorgerà neppure degli abiti che porta, dei costumi che lo circondano, e domani sarà capace di qualunque privazione, perché l'unica fame e l'unica sete sarà in lui la sua passione stessa, che avrà divorato tutto quanto è futile e provvisorio, l'avrà spogliato di ogni abitudine o atteggiamento contratto nell'infanzia, e regnerà sola sul suo spirito. Una vocazione è l'unica vera salute e ricchezza dell'uomo.


  Quali possibilità abbiamo noi di svegliare e stimolare, nei nostri figli, la nascita e lo sviluppo d'una vocazione? Non ne abbiamo molte: e tuttavia ne abbiamo forse qualcuna. La nascita e lo sviluppo d'una vocazione richiede spazio: spazio e silenzio: il libero silenzio dello spazio. Il rapporto che intercorre fra noi e i nostri figli, dev'essere uno scambio vivo di pensieri e di sentimenti, e tuttavia deve comprendere anche profonde zone di silenzio; dev'essere un rapporto intimo, e tuttavia non mescolarsi violentemente alla loro intimità; dev'essere un giusto equilibrio fra silenzio e parole. Noi dobbiamo essere importanti, per i nostri figli, e tuttavia non troppo importanti: dobbiamo piacergli un poco, e tuttavia non piacergli troppo: perché non gli salti in testa di diventare identici a noi, di copiarci nel mestiere che facciamo, di cercare, nei compagni che si scelgono per la vita, la nostra immagine.


  Noi dobbiamo essere, con loro, in un rapporto d'amicizia: eppure non dobbiamo essere troppo i loro amici, perché non gli diventi difficile avere dei veri amici, a cui possano dire cose che tacciono con noi. La loro ricerca d'amici, la loro vita amorosa, la loro vita religiosa, la loro ricerca d'una vocazione, è necessario che siano cinte di silenzio e d'ombra, che si svolgano in disparte da noi. Mi si dirà che allora la nostra intimità coi nostri figli si riduce a ben poca cosa. Ma nei nostri rapporti con loro, dev'essere contenuto tutto questo per sommi capi, e la vita religiosa, e la vita dell'intelligenza, e la vita affettiva, e il giudizio sugli esseri umani; noi dobbiamo essere, per loro, un semplice punto di partenza, offrirgli il trampolino da cui spiccheranno il salto. E dobbiamo essere là per soccorso, se un soccorso sia necessario; essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere come sappiamo ad ogni interrogazione possibile, ad ogni richiesta.


  E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l'abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell'amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l'abbiamo, o se l'abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si è installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco dell'albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi è mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell'ombra e dello spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio d'un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l'amore alla vita genera amore alla vita