mercoledì 31 marzo 2021

QUANDO TORNERÒ Marco Balzano


QUANDO TORNERÒ 
Marco Balzano 

Parte prima
Dove sei

«Tu non dovevi nascere».

Questa frase Moma me la ripete da sedici anni. Moma è mia madre, la chiamo cosí fin da bambino. Qualche tempo dopo la prima gravidanza l’avevano operata all’utero e le avevano detto che poteva scordarsi di avere altri figli: per evitare che s’illudesse glielo scrissero anche sul foglio di dimissioni. Forse proprio per questo Moma mi ha sempre amato come una pazza, perché da desiderio senza speranza sono diventato carne e ossa.

Intesi, non che Moma non voglia bene a mia sorella. Angelica, poi, è impossibile non volerle bene: se con me non va d’accordo è solo perché pretende ogni minuto di dirmi cos’è giusto e cosa no. Pensa di poter disporre di me, ma io ormai so cucinare e lavarmi i vestiti. Non ho bisogno di nessuno.

Angelica è organizzata e generosa. Se c’è da lavorare non si tira mai indietro. Anzi, è una che si sacrifica. Un giorno stavo disegnando in cucina con Moma, che da sempre sogna una stanza tutta sua da riempire con cavalletti e tavolozze, e le ho chiesto di dipingere la nostra famiglia come fossimo animali: Moma cavallo, papà lupo, io gatto. Per mia sorella, invece, avevo scelto un corpo d’asino, perché Angelica è cosí, tira la carretta finché non stramazza. «Stai in guardia da quelli che sgobbano senza mai lagnarsi, perché un giorno si stufano e tagliano la corda», diceva nonno Mihai.

Prima Angelica mi stava piú simpatica, andavamo quasi sempre d’accordo. Giocava, scherzava, correva con me tra i girasoli… E soprattutto rimaneva al suo posto. Dopo che Moma se n’è andata, invece, ha iniziato a trattarmi come un’educatrice e questa cosa mi faceva saltare i nervi. «È vero, hai otto anni in piú, e allora?» le ribattevo a muso duro. Angelica non rispondeva. Quando si arrabbia mai che risponda, prende la bicicletta e se ne va per campi. In questo è identica a Moma: quelle due si sfogano sempre altrove e non ti dicono la verità neanche se piangi in cinese.

Insomma, mia sorella è un somaro ma ha cervello da vendere e, come tutti quelli che ne hanno, ascolta tanto e parla poco. Quando per esempio non capisco i comportamenti di mia madre o i silenzi di mio padre chiedo a lei, e dopo averla ascoltata ogni cosa diventa chiara perché Angelica ha un’idea della vita, ragiona sui fatti. Io invece no, sono istintivo. Altrimenti non sarei in questo stato.


Partiamo dall’inizio. Quel mattino ci siamo svegliati come al solito alle sei e ci siamo messi a cercare Moma per tutta la casa. A un certo punto abbiamo persino spostato i mobili, come se Moma fosse un anello o un mazzo di chiavi. Quando papà ha capito che sua moglie se n’era andata davvero, ha cominciato a prendere a calci le porte e a tirare pugni contro il muro. Io invece sono uscito sul pergolato, gridavo cosí forte il suo nome che dopo un po’ anche mio padre mi ha ordinato di piantarla.

– Manuel, prendi freddo, torna dentro! – e con le mani callose mi ha afferrato la spalla guidandomi in casa.

Eccole davanti ai miei occhi, le mani di Filip Matei, classe 1972. Aveva lavorato per anni in una fabbrica di carta vetrata, un capannone enorme sul ciglio della strada: sollevava rotoli giganti e stendeva su un tavolaccio di ferro fogli lunghi dieci metri che pungevano la pelle peggio delle spine. A sera si sedeva di fronte alla tv e immergeva le mani in una bacinella piena d’alcol perché l’alcol fa uscire i calli, e i calli proteggono. «Non ti fanno sentire i graffi della colla», mi spiegava a denti stretti sforzandosi di tenerle a mollo. Sono uniche le mani di mio padre, tutti quei calli gli hanno tolto sensibilità e quando per gioco mi tira un pizzicotto sulle cosce non si accorge di farmi male.

Né io né lui, seduti al tavolo della cucina, riuscivamo a parlare. Fuori era ancora scuro e avevamo la faccia rossa per il freddo. La cosa che mi faceva piú rabbia era che Moma non avesse lasciato un biglietto. Chi scappa lascia sempre da qualche parte un pezzo di carta con una motivazione, una frase fatta, una scusa… E se non un biglietto, almeno un messaggio sul cellulare poteva spedirmelo. Invece, nessuna notifica: solo Vlad, il mio compagno di banco, che mi chiedeva perché non fossi sul bus.

Angelica si era truccata e aveva messo i tacchi. Ho sempre pensato che mia sorella si vestisse un po’ da battona e che Moma avesse tutte le ragioni del mondo per sbraitarle contro, ma visto il momento ho lasciato perdere.

– Forza, Manuel, andiamo a scuola, – se n’è uscita all’improvviso.

– A scuola?! Ma il bus è partito da un pezzo!

– Entreremo alla terza ora.

Non che volessi scattare come un soldatino, ma in casa non si accendevano i termosifoni da non so quanto e io, dopo essere rimasto per un pezzo fuori sul pergolato, ero cosí intirizzito che senza fiatare mi sono infilato i jeans e la felpa. Soldi non ce n’erano, la fabbrica di carta vetrata aveva chiuso e l’azienda di Moma non pagava piú gli stipendi. Da un anno tiravamo avanti con gli assegni di disoccupazione.

Non so perché alla fine ho dato retta ad Angelica, mio padre mi avrebbe tranquillamente tenuto a casa. Lui non ha la forza di opporsi, figuriamoci in una giornata come quella. Piuttosto, di una cosa potevo essere certo: a sera l’avrei trovato sbronzo.

Sono uscito senza sciarpa, con Moma non sarebbe mai successo: lei con un’occhiata ti ispeziona meglio di un metal detector. A un certo punto Angelica si è fermata e mi ha messo in mano una busta.

– Avanti, leggi, – ha detto prima che potessi capire.

Ragazzi miei, ho trovato lavoro in Italia. Devo andare, altrimenti non potrete piú studiare e a momenti neanche mangiare come si deve. Io invece voglio che viviate con le stesse possibilità degli altri. Discutere con vostro padre è inutile, per questo sono andata via cosí. Non è un bel modo, lo so, ma se non mi fossi precipitata ne avrebbero presa un’altra. Comunque spero di stare via poco. Manderò un po’ di soldi a papà e un po’ a nonna Rosa, loro vi daranno quel che vi serve. Tu, Manuel, studia e abbi fiducia in me. Tu, Angelica, occupati di tuo padre e di tuo fratello e non volermi male per i sacrifici che ti chiederò. Vi voglio un bene che non so dire. A presto, Mamma.

Abbiamo ripreso a camminare in silenzio e al momento di separarci le ho restituito la busta.

– Scusa Angi, ma perché nel giorno in cui siamo diventati orfani stiamo andiamo a scuola?

– Oh! Non è mica finita sotto un treno!

– Be’, la vedremo una volta all’anno, mi sa che un po’ morta è.

– Non farà la badante a vita, tornerà presto.

– La madre di Iacob aveva detto che stava via sei mesi ed è in Italia da dodici anni, – ho detto contando sulle dita. – Quando ritorna quella che aveva la merceria ormai nessuno la riconosce, e te la ricordi Georgeta?…

– Ti ho detto che è una situazione temporanea, – ha ripetuto sbuffando.

– Mi spieghi come fai a saperlo?

– E va bene, non lo so! – ha sbottato irritata. – Comunque dobbiamo andare a scuola, mamma è partita per farci studiare, – e mi ha sventolato la lettera sotto il naso.

– Poteva partire papà.

– Papà… – ha sospirato scrollando la testa proprio come un asino.

Quando è arrivato il bus l’ho salutata da sotto la pensilina chiamandola per nome, ma a fatica Angelica ha alzato il mento. L’affetto non lo pratica molto, e se le scappa una parola carina o un abbraccio è per papà, non di certo per me o per Moma.

Ho trascinato i piedi verso la mia fermata, il suo liceo era a Iași, la mia scuola media qui dietro, a Ruscani. Quel mattino il bus non passava, d’inverno capita che si affossi nelle buche della strada e faccia ritardi colossali, cosí mi sono fatto forza e ho preso per i campi. Che freddo… Senza sciarpa, poi. Mordevo il bavero del giubbotto perché il vento non mi congelasse la bocca. D’improvviso, mentre camminavo, mi è venuta una fitta alla pancia cosí forte da non riuscire piú a muovermi. Ho tirato fuori il telefono per provare a chiamare Moma, ma non mi ha risposto. La segreteria era piena, papà doveva avergliela intasata di bestemmie.

La cosa strana, lí sul ciglio della strada bagnata, mentre i crampi mi piegavano in due, era che per la prima volta non trovavo delle buone ragioni al suo comportamento. Fino ad allora ciò che Moma diceva e faceva era vangelo, invece quel giorno, sarà che sono un istintivo, sarà che «l’adolescenza è un’età di merda, amore mio», le ragioni proprio non riuscivo a trovarle. Voglio dire, capivo che l’aveva fatto per noi e capivo che illudersi che papà trovasse lavoro era da idioti, però poteva almeno consultarmi. Non le costava niente chiedermi: vuoi venire con me? Questo pensavo mentre la neve entrava senza pietà anche nel bavero del giubbotto. D’un tratto però mi ha fatto paura darle torto, e siccome la fitta era diventata piú sopportabile ho ripreso a camminare. Meglio dar retta all’asino: – Mamma vuole che andiamo a scuola, punto! – Cosí ho scrollato la neve dai capelli, accelerato il passo e preso per una strada già bianca ai lati.

Sono arrivato in classe con i jeans inzaccherati e le calze fradicie, giusto in tempo per l’intervallo. Ho scroccato pezzi di merenda a questo e a quello, avevo una fame assurda.

– Sí, non è suonata la sveglia, una nottataccia… – rispondevo a chi mi allungava il panino o mi metteva in mano mezzo biscotto.

Mentre la prof di Scienze spiegava per la venticinquesima volta la fotosintesi mi sono tolto le calze e le ho messe ad asciugare sul calorifero. Tanto quella non si sarebbe accorta manco se mi fossi levato le mutande. L’ora dopo c’era la verifica di Storia e io avevo i piedi ghiacciati e ancora tanta fame.

Non sapevo se i messaggi arrivavano fino in Italia e se Moma li leggesse, ma all’uscita, accucciato sui gradini, le ho scritto: Oh Moma, ci sei? Vedrai che in Storia arriva un altro votone.


Mio padre Filip Matei è davvero l’uomo piú imprevedibile che conosca. Pochi giorni dopo la partenza di Moma smette di essere furibondo e comincia a sgomberare la mansarda, che da quando sono nato è solo un gigantesco ammasso di cose vecchie e sporcizia.

Una sera torna a casa con pollo allo spiedo e patate arrosto, fa tre parti, mette il cartoccio in mezzo alla tavola e, come se io e mia sorella non lo sapessimo, inizia a spiegarci che ogni mese Moma gli manderà dei soldi.

– Li userò per ricavare un altro appartamento dal piano di sopra. Costruirò il balcone, cambierò le travi che stanno marcendo e rifarò il tetto. Ma non è finita qui, ragazzi: imbiancherò a calce, metterò il cancello in ferro battuto, pulirò l’aia… Insomma, vostra madre avrà finalmente una casa da signora e un posto dove starsene a dipingere! – conclude entusiasta con l’osso in mano. Io e Angelica non riusciamo piú a masticare, bocca aperta e occhi sbarrati.

Nei giorni successivi guardavo papà con lo stesso stupore con cui osservavo Moma disegnare. Non era piú isterico, lavorava sodo, al telefono con lei era gentile. Progettava, andava per uffici comunali, ferramenta, colorifici… Sembrava un altro. A noi non ci calcolava, è vero, ma non perché non ci volesse bene. Semplicemente l’educazione è sempre stata affare di Moma, tanto che le rare volte in cui lei andava in crisi e chiedeva un consiglio, le ringhiava contro: «Daniela, li hai voluti educare tu? E allora avanti, educa!»

A lavarci i vestiti e a preparare da mangiare adesso ci pensava nonna Rosa. Anzi, prima che sia troppo tardi voglio dire qualcosa anche di lei, di questa donna piccoletta che ho visto soltanto con un vestito scuro, le babbucce di cuoio e un fazzoletto in testa per coprire i pochi capelli rimasti.

Alla nonna piace fare a maglia e curare le piante, passa cosí giornate intere. Siccome suo padre faceva il doganiere è nata a Nisporeni, dietro il confine moldavo, ma si sente rumena come il nonno. Se viene un ospite racconta sempre della sua infanzia in riva alla Nârnova e mostra con orgoglio i diplomi incorniciati di quando lavorava nella fabbrica di scatole e il nonno faceva il trattorista nel kolchoz. Tutti in famiglia sappiamo a memoria cosa c’è scritto su quei diplomi: Grazie compagno per aver contribuito alla costruzione della società comunista e a lasciare un cielo azzurro sulla testa dei tuoi figli. Io e Angelica ripetiamo quella solfa anche quando ci passiamo il sale, ci fa molto ridere. Il modo che la nonna ha di volerci bene è non parlare mai dei problemi, ad esempio di sua figlia. Moma, inutile dirlo, è il problema numero uno.

Tutto è filato liscio pressappoco fino all’estate. Era doloroso stare senza Moma, si capisce, ma stringevamo i denti. Papà lavorava in mansarda, la nonna pensava alle faccende domestiche per lasciar studiare Angelica, io a scuola me la cavavo bene e ogni sera Moma ripeteva la promessa che ci dava coraggio: «A luglio tornerò a casa».

E quando in effetti è tornata – i girasoli si erano aperti ed erano un’unica distesa gialla che inondava di luce il paese – mi si è sciolto il cuore. Vederla arrivare sulla strada di ghiaia, seduta sul carro di Marin, con le valigie sprofondate nei mucchi di paglia, è stata un’apparizione. Mi vergognavo di quanto desideravo abbracciarla, avevo paura di sembrare un moccioso. E mi vergognavo di guardarla in faccia mentre la abbracciavo perché in quelle strette ci mettevo tutta la rabbia che mi bolliva in corpo.

Papà le aveva organizzato una festa a sorpresa e Moma ci aveva portato cosí tanti regali che sembrava Natale. Le merendine italiane, buonissime, avevano una confezione talmente bella che una ce l’ho ancora sulla mensola insieme alle scatole di latta del caffè Illy. E poi il cellulare nuovo, le cuffiette bluetooth, il tablet… Era semplice convincerla a comprarci quel genere di cose, bastava dirle: «Cosí sentirsi è piú facile».

L’estate, però, è volata veloce come non mai. I girasoli hanno piegato la testa, nei campi di mais sono rimaste solo le stoppie lucide, l’autunno ha portato i suoi nuvoloni malinconici, la scuola è ricominciata e Moma al telefono non parlava piú di tornare. In classe ero sempre uno dei migliori, passavo i compiti a quella capra di Vlad, con i miei compagni andavo d’accordo e i prof non erano male, ma per dispetto a Moma non volevo andarci. È un’egoista, mi dicevo. Va bene, sgobberà pure dietro a quel vecchio, ma intanto vive in una città stupenda e chissà quante cose farà. Se non le passa per l’anticamera del cervello di portarmi con lei a Milano vuol dire che, a differenza di quello che ho sempre creduto, è proprio una stronza.

Ma non era soltanto questo, era tutto l’insieme. Angelica che voleva fare la capofamiglia era ridicola, certi giorni le avrei mollato due schiaffi. Papà si era stufato in fretta di ristrutturare, non si alzava piú all’alba e se prima di uscire lo andavo a svegliare tirava fuori scuse penose: «A quest’ora fa troppo freddo, il cemento non si impasta», e si girava dall’altra parte. Restava fino a sera sul divano a guardare gli incontri di wrestling e protestava di non riuscire a trovare lavoro. Lo sentivi borbottare: «Era meglio quando c’era Ceaușescu…» A nonna Rosa ero grato per come si occupava di noi e per tutte le cose che ci cucinava – non per niente aveva fatto anche lei la badante a Mosca –, ma non sempre avevo qualcosa da dirle. A volte le davo una mano ad annaffiare le piante perché anch’io volevo imparare a curarle. Quando stavo in casa con lei, però, parlavo piú che altro col gatto. Insomma, mi sentivo strano, storto, in una parola: solo. Non avevo voglia di uscire con gli amici o di andare sul lago con la bicicletta, tutto quello che fino a poco tempo prima mi divertiva, adesso non mi divertiva piú. Se un amico mi invitava a fare un giro o mi veniva a chiamare per una partita a pallone rispondevo che ero impegnato. Sapevo che a furia di fare cosí nessuno mi avrebbe piú cercato, ma non riuscivo a essere diverso.

Mi sentivo in pace solo con nonno Mihai. Stavo bene nell’orto a eseguire i compiti che mi dava: strappare le erbacce, fare delle piccole buche per piantare i semi dei pomodori, bagnare la terra. Oppure mi chiudevo nel vagone. Non sto scherzando, nonno Mihai nel suo orto aveva un vecchio vagone comprato per due soldi al deposito della stazione. Da piccolo, quando arrivava l’ora di cena e non volevo rientrare a casa, andavo a imboscarmi lí dentro. Ci teneva di tutto, dal rastrello alle tronchesi, dalle scatole di latta alle fiaschette di grappa, e in un angolo pile su pile di vecchi giornali sovietici.

– Hai voglia di tornare bambino?

– Tu non ti sei mai chiuso qui?

– Tanti anni fa avevo giurato a tua nonna di smettere di fumare, cosí ogni tanto ci venivo per una sigaretta…

Il nonno si era reso conto che qualcosa non andava. A differenza di mia sorella che pretendeva di comandare, di mia madre che investigava a distanza e di mio padre che non si accorgeva proprio della mia esistenza, lui mi stava vicino senza farmi pesare la mia pesantezza. A volte cercava di capire cosa mi passava per la testa, ma cosí, distrattamente, potando la siepe.

– Cosa ti piacerebbe fare? – mi chiedeva. Se scuotevo le spalle lasciava perdere, ma dopo un po’ insisteva di nuovo: – Avanti, ragazzo, tutti vogliono fare qualcosa –. Allora, raccogliendo da terra i rami e le foglie per non doverlo guardare in faccia, rispondevo che la scuola mi aveva stufato. Oppure gli confidavo che avrei voluto che Moma tornasse indietro, o che mi portasse con sé. Nonno Mihai rimaneva un po’ a ragionare guardando il cielo e alla fine concludeva: – Allora dobbiamo trovare un modo.

Comunque, anche se la noia e la rabbia mi arrivavano fin sopra ai capelli, a scuola ci andavo lo stesso. Per un altro anno ho camminato sulla strada di ghiaia prima di imboccare il sentiero per Ruscani. Il bus non lo prendevo piú, uscivo presto e me la facevo a piedi. Il nonno approvava: «Camminando si risolve ogni problema», diceva. Per strada, con le cuffie nelle orecchie, pensavo a Moma, a come stava e a cosa faceva. Se fosse stata qui magari non le avrei rivolto la parola e senz’altro avremmo anche litigato, ma averla accanto avrebbe cambiato tutto. La vita è solo questione di starsi vicini, come i conigli nell’aia quando fuori si gela.

In casa era tutto un coro di «l’ha fatto per noi», «dobbiamo dirle grazie», «che vitaccia che fa per la famiglia»… A me quelle frasi non convincevano neanche un po’. E quando a pronunciarle era mio padre – «pulisce il culo ai vecchi pur di farti studiare» – volevo rispondergli: e per pagare le birre che ti scoli sul divano.

Odiavo che di lei mi rimanessero soltanto i vocali che ascoltavo andando a scuola e la videochiamata dopo cena. Anche perché Moma, in quelle telefonate serali, chiedeva centomila volte le stesse cose e se ne usciva con commenti tipo «Forse ti sta crescendo la barba», oppure «Mi sembri pallido», «Perché hai su quel maglione se hai detto che hai messo i pantaloni scuri?» E sarà mica uno spasso sorbirsi ogni santo giorno conversazioni del genere. Lei, è chiaro, faceva cosí perché era ansiosa di avere tutto sotto controllo, ma se te ne vai in un altro Paese dovrai pur rassegnarti a non sapere se ho le calze abbinate alla sciarpa! Se aggiungiamo che di sé non raccontava mai niente – «sí sí, qui tutto ok», diceva con un sorriso finto – è chiaro che quelle telefonate erano una vera rottura di palle. Anche perché a nessuno di noi piace stare al telefono. Papà ancora adesso fa fatica a rispondere ed è già buono se ti richiama il giorno dopo. Io e Angelica chattiamo, non ci piace parlare. A nessuno dei nostri amici piace. Cosí a Moma rispondevo solamente per non beccarmi la predica da mia sorella. Ma, a lungo andare, lo sforzo era talmente grande che non mi uscivano le parole, sbuffavo e mi limitavo ai monosillabi. Insomma, se per me era diventata una seccatura, anche per lei non doveva essere chissà che parlare al telefono con suo figlio.

La cosa peggiore, però, è che Moma passava sopra a tutto. E io, all’idea che non mi rimproverasse, esasperavo quei modi. Mi sforzavo di odiarla per essere amato. Proprio lei, quella che aveva la pazienza di chiarire tutte le incomprensioni: «Finché non ci capiamo non si va da nessuna parte!» ripeteva sempre. Ed era vero. Se prima non si trovava la quadra non ti faceva alzare da tavola, era vietato guardare il cellulare, non potevi neanche andare a pisciare! Il contrario di mio padre, che menava le mani oppure se ne andava al bar. Se Moma si spolmonava a furia di spiegare le sue ragioni e di trovare una soluzione, papà restava sul divano con le braccia conserte e le narici larghe. Poi d’improvviso scattava in piedi e usciva sbattendo la porta. Dalla porta che sbatteva alla vecchia Dyane che si allontanava alzando polvere e rabbia, passavano otto secondi netti.

Io, devo riconoscerlo, sono come papà. Magari non proprio uguale, ma vado d’accordo con le persone finché mi sento compreso, altrimenti lascio perdere. Ecco cos’era successo a me e Moma: avevamo gettato la spugna. Il tempo dei giri in macchina a sbrigare commissioni, musica dalla radio e finestrino abbassato, quello delle serate davanti alla tv a guardare le serie o le domeniche pomeriggio in cui si metteva di fianco a me a fare i compiti, non sarebbero piú tornati. Adesso, anche attraverso gli schermi dei cellulari, si vedevano solo le nostre facce deluse. Un silenzio sconosciuto ci schiacciava e io non sapevo proprio che fare.


Intanto mia sorella aveva preso il diploma e si era iscritta ad Architettura. Faceva avanti e indietro da Iași per non lasciarci soli, forse era Moma che la obbligava a fare cosí. Le lezioni finivano alle cinque e Angelica era sempre su quel bus perennemente in ritardo. Riusciva a studiare poco ed era diventata scorbutica. Non dava piú ordini, eseguiva ogni cosa: scaldava il cibo che portava la nonna, ci metteva il piatto davanti – come ai cani con la ciotola – e se ne andava a stendere i panni. Secondo me un buon modo di misurare il nervoso è osservare come le persone chiudono i cassetti: mia sorella li faceva sbattere molto forte.

Ormai parlavo con Moma soltanto se Angelica mi passava il cellulare. Le rare volte che chiamava sul mio, metteva le mani avanti: «Ti disturbo?», «Hai voglia di parlare un po’?», «Preferisci che ci sentiamo dopo?» A quelle domande rispondevo sempre con altre. Lei: «Tutto bene coi nonni?» Io: «Mi spedisci un’altra felpa della Nike?» Sembrava stanca, aveva occhiaie larghe e azzurrognole, ma non le dicevo niente perché da uno schermo non si può mai capire la verità. Ma la cosa piú stupefacente di quelle telefonate erano certe frasi assurde dette con una convinzione esagerata: «Al massimo tra un anno smetto di fare questo lavoro», «Milano è bella ma si sta meglio a Rădeni», «Vedrai che il liceo ti renderà felice». Riusciva persino a dire che, quando Angelica si sarebbe sposata, poteva andarsene a vivere con suo marito al piano di sopra.

«Poi compriamo un po’ di terreno e costruiamo una casa anche a te, cosí staremo tutti assieme, che ne dici?»

Non so se mi faceva piú ridere o piú pena: quella che parlava non poteva essere Moma. Era davvero convinta che papà continuasse a darsi da fare quando sí e no aveva tirato su un muretto di cartongesso e buttato un po’ di roba vecchia? Le impalcature? Mai montate. La lamiera del tetto? Ancora lí, che vibrava al vento.

Io comunque la lasciavo parlare a ruota libera. Cosí è venuta a saperlo da Angelica: una sera mia sorella l’ha chiamata e le ha detto che papà era partito. Aveva trovato lavoro come camionista, doveva trasportare carichi di merce in Polonia e in Russia su un autotreno lungo quindici metri. Moma è rimasta di pietra, e quando ha gridato che avremmo dovuto dirglielo subito Angelica finalmente ha gridato piú di lei: – Almeno lui ci ha avvisati! – ha detto prima di riattaccarle il telefono in faccia.

Me lo ricordo bene il giorno in cui papà se n’è andato, è un ricordo breve. Dopo che la vecchia Dyane ha alzato polvere imboccando la strada asfaltata ho detto: – Meno due, – e sono rientrato in casa.

Quel mattino Angelica non è andata in università, si è messa in cucina a studiare. A mezzogiorno la nonna ci ha portato un piatto di verdure col formaggio che io e mia sorella abbiamo mangiato in silenzio uno di fronte all’altra. Senza papà la televisione rimaneva spenta.

– Andiamo su a vedere? – le ho domandato scansando il piatto.

– Ok, – ha risposto lei senza voglia.

La porta stava arrugginendo. Dentro c’erano attrezzi sparsi in giro, pile di tegole, sacchi di malta e dalla finestra smontata – che avevo rattoppato con un telo di plastica – entrava un freddo balordo. I barattoli per fare le marmellate, i vestiti e i giocattoli di quando eravamo piccoli… tutto ammucchiato come immondizia. Sembrava di camminare sullo zucchero, da quanti calcinacci scrocchiavano sotto i piedi. Moma di fronte a quello sfasciume avrebbe avuto una crisi di nervi, c’era da giurarci. La mansarda cosí ridotta, piena di polvere e ragnatele, era l’immagine di come finiscono i sogni e, ovviamente, le famiglie. La partenza di papà non era stata un imprevisto, macché, era la pietra tombale su un matrimonio finito da anni, ben prima che Moma facesse quello che avevano già fatto decine di madri di Rădeni e dei paesi qui attorno.

Ci siamo messi a frugare nei sacchi e nei cartoni. Io ho ritrovato la dama, Angelica gli album di fotografie. La foto che ho nel portafogli l’ho presa quel giorno: ci siamo io e Moma sul cofano della Dyane appena ritirata dalla concessionaria. Io avrò sette anni, lei è bellissima, con i capelli lunghi, un cappotto rosso e la mano appoggiata sulla mia giacca a vento per tenermi stretto. Sono felice, si vede dal sorriso sdentato.

Seduta come me sul pavimento sporco, Angelica mi ha passato un’altra foto, piú sbiadita, dove c’eravamo sempre io e Moma. Dietro, con la sua calligrafia ordinata, c’era una scritta di inchiostro scolorito: Chicco di sale, 2003. A volte mi chiama ancora cosí.

A un certo punto ho sentito mia sorella tirare su col naso.

– Be’? Che ti piglia?

– Mi sono rotta le palle.

– Di cosa?

– Di tutto!

– Io di tutti, – le ho risposto abbassando le labbra e lei ha riso con gli occhi pieni di lacrime.

La prima sigaretta l’ho fumata insieme a lei, lí, in mansarda, con quegli spifferi gelati che passavano sotto la porta e il vento che gonfiava il telo di plastica.

– Ti sembra normale, – ho detto, – che invece di ristrutturare ha lasciato questo casino?

– Eppure già mi manca, – ha risposto Angelica cercando di ingoiare i singhiozzi.

Prima di scendere ho staccato la foto dall’album, e mentre lo ributtavo nel cartone ho visto il boomerang rosso, quello di nonno Mihai. L’aveva fatto costruire da Teodor, il falegname di Rădeni. Con quel suo corpo scheletrico, che scompariva sotto la camicia a quadri e lo smanicato marrone, il nonno mi aveva insegnato a stare in posizione, mostrandomi l’inclinazione corretta per le braccia e le gambe.

«Il gioco è questo, – aveva detto mettendomi in guardia. – Prima di lanciarlo esprimi un desiderio, se quando torna indietro riesci a prenderlo, allora ci sono delle possibilità».

«E se non riesco?»

«Cambia desiderio, oppure lavoraci ancora».

L’ho passato ad Angelica. – Ti ricordi? Eri brava anche tu.

Lei l’ha preso in mano, è rimasta un po’ a fissarlo e ha fatto sí con la testa, poi siamo scesi di sotto. Fuori era già buio, altrimenti saremmo andati sulla strada di ghiaia a lanciarlo.


L’anno dopo Angelica si è trasferita a Iași. Non ce la faceva piú a fare avanti e indietro, cosí ha chiesto a Moma il permesso di prendere una stanza in affitto allo studentato e Moma ha detto di sí. Ormai ero grande, potevo cavarmela da solo, e poi di fianco c’erano i nonni. Cosí la settimana successiva ho accompagnato mia sorella alla fermata e dopo che il bus è partito mi sono acceso una sigaretta.

– Meno tre.

Intanto Moma non faceva piú la badante in nero, ma la tata in regola. Io avevo finito le medie e cominciato il liceo internazionale: anni compiuti, quindici. Moma era orgogliosa che facessi quell’istituto privato – «il migliore di Iași» –, nonna Rosa invece per niente. Quando nella buca delle lettere trovava il bollettino della retta strabuzzava gli occhi, borbottando che ormai la gente andava a lavorare per pagare quello che prima dell’89 era gratis per chiunque.

– Bell’affare! – ripeteva sciabattando per la cucina. – Bell’affare…

All’inizio studiavo, andavo avanti fino a sera, mi faceva incazzare prendere votacci. Avevo 6 in Storia e insufficienze in tutto il resto, Ginnastica compresa. Il prof aveva detto davanti a tutta la classe che correvo come un pinguino: – Non è tenendo i piedi in quel modo che occuperai piú spazio nel mondo!

Non ci vuole molto a capire perché andassi cosí male: ero l’unico che veniva dalla campagna, non c’entravo niente con gli altri, né con quel modo di fare scuola. E diciamo la verità, ero anche il piú brutto di tutti, con i capelli lunghi e i brufoli che si moltiplicavano giorno dopo giorno. Infatti l’unico con cui sono diventato amico era un derelitto come me, Petru Popa. Con alcune differenze: lui aveva i capelli da istrice, abitava a Iași e la sua unica sufficienza era Inglese. Per il resto, solo cose in comune: foruncoloso, pagella disastrosa, madre badante a Barcellona. Qualcuno ci chiamava «i condannati». Condannati alla bocciatura, ovviamente. Petru non se la prendeva, l’aveva già messa in conto, ma io assolutamente no, ero sicuro di poter tirare su la media durante le vacanze di Natale. Anche perché a Moma dicevo un sacco di balle sui voti e, nonostante non andassimo piú d’accordo, non volevo darle quella delusione. Balle ne dicevo a tutti, compreso al nonno che a sera, davanti alla minestra di fagioli, domandava: – Ragazzo, come va nella nuova scuola?

Cosí durante le vacanze, mentre fuori cadevano fiocchi di neve grossi come confetti, ho provato davvero a recuperare. Le cose da studiare, però, erano una montagna e io mi sentivo schiacciato. Al tavolo della cucina ci sarebbe voluta Moma, dritta sulla sedia e col pacchetto di Camel accanto. Con lei sarebbe stata un’altra storia, avrei giocato a carte scoperte e le avrei detto: senti Moma, non so che succede ma non sono piú cosí bravo a fare i compiti, mi dai una mano? Ma Moma chissà se mi pensava o se davvero era diventata una stronza che si lavava la coscienza mandandoci quattro soldi alla fine del mese. Magari adesso aveva un’altra faccia, un’altra voce, un altro odore. Magari si scopava un italiano, o faceva la puttana in qualche night club di Milano e di noi non le importava piú niente.

Da quando ero diventato amico di Petru Popa mi facevo le canne, compravo il fumo dagli zingari dietro la stazione, vicino ai centri scommesse e ai pullman che partono per l’Italia. Una volta che ero solo in casa me ne fumai un paio di fila e non so che mi prese, le telefonai e le dissi: – Tu credi di fare il nostro bene, invece ti stai solo facendo i cazzi tuoi!

Un putiferio… Angelica tornò a Rădeni a metà settimana, si mise a gridare se ero andato fuori di testa e Moma telefonò ai nonni per raccontargli tutto.

– Hai parlato da ingiusto, – mi rimproverò a bassa voce nonno Mihai, ordinandomi di venir fuori dal vagone.

Nessuno mi aveva mai dato dell’ingiusto.

Un giorno ho invitato Petru da me, appena entrato in casa ha tirato fuori dallo zaino una bottiglia di grappa. Ce ne siamo scolati metà, e verso le sei siamo andati a prendere l’ultimo bus per Iași. Abbiamo mangiato un panino per strada, poi serata in giro. Finita la bottiglia ne abbiamo comprata un’altra e a furia di camminare siamo arrivati davanti a una discoteca: il buttafuori ci ha riso in faccia e con due spintoni ci ha allontanato dall’ingresso.

– Ma che c’abbiamo, la rogna? – ha detto Petru calciando un sasso senza prenderlo.

– Hanno ragione quegli stronzi a scuola, siamo due condannati.

Né i miei nonni né i suoi zii si sono accorti della nostra assenza e quando, a mattino fatto, siamo rientrati a casa abbiamo dormito fino a sera. Il lunedí abbiamo consegnato la verifica di Matematica in bianco, io avevo mal di testa e ho lasciato perdere anche le cose che sapevo fare.

Dopo un po’ di sabati passati a sconvolgerci per la città ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Cosí un giorno, invece di rientrare dai nonni, mi sono presentato da mia sorella allo studentato.

– Voglio restare con te.

– Non se ne parla.

– Perché?

– Perché qui ci abitano gli studenti universitari, tu fai la prima superiore.

– A Rădeni mi annoio, c’è solo la nebbia e il sole va via alle quattro.

– Anche qui.

– Non ti darò fastidio, giuro.

– Se non vuoi darmi fastidio tornatene a casa.

Ho telefonato a Moma e l’ho pregata di convincere Angelica. – Sono stanco di fare avanti e indietro, cosí non riesco a studiare!

Mia sorella avrebbe pagato oro per sbarazzarsi di me, ma non mi ha mai lasciato solo. La sera le sue amiche passavano a chiamarla per uscire o per studiare assieme, però lei rinunciava.

Una di quelle sere le ho confessato che a scuola mi chiamavano il condannato.

– Angi, mi sa che mi bocceranno.

– Smettila, non sei divertente.

– Dico sul serio.

Lei non ci credeva, a quel punto ho vuotato il sacco e le ho detto che il liceo internazionale mi faceva schifo, che avevo legato solo con Petru Popa e che Moma era convinta che tutto filasse liscio.

Angelica è diventata bianca, stava per mettersi a gridare.

– Cristo santo, Manuel, avere a che fare con te è impossibile! Sei viziato, difficile e anche bugiardo! Fammi un favore, tornatene a Rădeni. Stai col nonno e lasciami in pace, io non ne voglio piú sapere!

– Angi, vieni qui, – ho detto cercando di abbracciarla.

– Sparisci!

Ma io l’ho inseguita per la stanza finché con un abbraccio l’ho afferrata per la schiena. Lei, dopo qualche tentativo di liberarsi, si è arresa e siccome Moma ci aveva appena spedito una mancia, l’ho convinta ad andarci a bere una birra in un pub lí vicino.

Quella notte abbiamo dormito nello stesso letto come quando eravamo bambini.


Qualche giorno andavo a scuola e qualche altro no. I prof ci avevano spostati all’ultimo banco. Che io e Petru Popa fossimo i condannati non era piú un mistero nemmeno per i bidelli. Eravamo due oggetti di arredo della I A, come le carte geografiche o i cartelloni dei lavori di gruppo. Durante le ore di lezione stendevamo la sciarpa sul banco e giocavamo a dadi, prima dell’intervallo rollavamo sigarette. Gli altri ci guardavano con disprezzo e mi stupisco ancora adesso di non aver mai fatto a pugni con nessuno, specialmente con certi della classe a fianco che all’intervallo incrociavo per i corridoi. Come ti sei ridotto?, dicevano le loro facce. Ed era vero: Petru non mi aveva di certo elevato spiritualmente. E nemmeno esteticamente. Giravo con dei pantaloni sbrindellati, un cappellino pieno di fibbie sulla visiera, felpe scure col cappuccio e scarpe senza stringhe. Mia sorella stendendo il bucato li guardava disgustata.

Con Angelica nello studentato stavo bene, mi dispiace se per lei è stato un brutto periodo perché io ho cercato in tutti i modi di darmi da fare: mentre era a lezione pulivo la stanza, se tornava con la luna storta mi toglievo dai piedi e nel frattempo tiravo su qualcosa per la cena. Lei, in cambio, non diceva niente della scuola. Uscivo solo il sabato sera, giurando di tenere sempre sott’occhio il telefono.

– Non farmi preoccupare, ho già le mie ansie.

– Tranquilla, ho la suoneria sempre al massimo, – le dicevo per rassicurarla.

Se tornavo bevuto o fumato, Angelica ripeteva di non esagerare ma non mi faceva mai la predica, la vita a Iași l’aveva cambiata. E poi nello studentato giravano certi fattoni spaventosi e sono sicuro che alcuni le piacevano anche, anzi non escludo che ci sia andata a letto qualche sera che rientrava tardi e io già dormivo sul materassino da campeggio.

Forse saremmo andati avanti a vivere assieme anche dopo la fine della scuola, se non avessi combinato questo casino.

Io e Petru siamo tornati nella stessa discoteca perché ci andavano due ragazze che vivevano in una comunità gestita dalla chiesa. Angelica mi aveva consigliato quel locale perché le ragazze entravano gratis e i maschi il sabato sera pagavano soltanto cinque euro. La notte Irina e Anita uscivano di nascosto, facevano l’autostop ed entravano in discoteca. Le avevamo conosciute a un chiosco di kebab. Anche loro, come tutti quelli che erano in comunità, avevano i genitori chissà dove. Secondo Petru con quelle due ci si poteva scopare. Cosí, invece di comprare il solito tocco di pachistano e la solita bottiglia di grappa, abbiamo pagato l’ingresso e ci siamo piazzati su un divanetto tenendo d’occhio la situazione.

Appena Irina e Anita sono arrivate siamo scattati in piedi, abbiamo offerto da bere e iniziato a ballare con loro. Dovevano essere abituate a vedere gente messa peggio perché non ci guardavano schifate. Anzi, con Irina ci parlavo bene, un paio di volte siamo usciti a prendere aria e ce la siamo raccontata un po’. Era bionda, aveva dei capelli lunghi e vaporosi dove immaginavo di affondare le dita, una vita sottile e gambe lisce. Sulle labbra un rossetto amarena.

– Mio padre fa il muratore in Germania ma non l’ho mai visto, quindi forse non esiste, – ha concluso soffiando il fumo della sigaretta in un modo volgare e dolce allo stesso tempo.

– Il mio invece fa il camionista, ma siccome è una vita che spara cazzate può anche essere che faccia il clown al circo.

Quando ho detto cosí lei è scoppiata a ridere e mi ricordo che in quell’istante ho pensato: forse Irina è uguale a me. Non mi è mai capitato di innamorarmi, quindi non so bene di cosa parlo, ma sono abbastanza sicuro che quella sera mi stava accadendo qualcosa del genere.

Non riuscivo a pensare, ballavo sbilenco e tutte le energie erano concentrate a leggere le sue labbra quando mi parlava nella bolgia della pista.

– Fino a quando devi restare in comunità? – ho gridato.

– Fino a diciott’anni, – ha risposto mettendosi le mani a tubo sulla bocca.

– E se rubo una macchina, ti vengo a prendere e scappiamo?

– Ma magari! – ha detto senza staccare le parole. – Anche se non sembri il tipo che sa rubare una macchina, – ha continuato ridendo da sola prima di avvicinarsi e darmi un bacio, breve come la beccata di un passero.

Era impossibile parlare lí dentro, non si sentiva davvero mezza parola, figuriamoci il cellulare che stava suonando nella mia tasca. E chiaramente non potevo contare su Petru perché anche lui era in orbita, incredulo che Anita gli desse retta. Consideriamo, infine, che mentre ero assorbito dalle cose dell’amore bevevo gin tonic come acqua del rubinetto e ne offrivo a Irina, che forse non voleva soldi per fare sesso come aveva lasciato intendere quel cretino di Petru, ma i cocktail li accettava senza problemi.

Avanti cosí fino alle sei del mattino, quando siamo usciti dalla discoteca mano nella mano come per salire all’altare.

Fuori, alle prime luci del giorno, ho trovato Angelica e nonno Mihai dritti e allineati come due militari.

– Ti stiamo chiamando da tre ore, – ha detto il nonno.

– Il telefono! – ha urlato Angelica.

Non so se in quell’alba primaverile ero piú desolato di vedere mia sorella che piangeva e nonno Mihai scuro in volto o di dover lasciare Irina.

– Scusa, devo andare, poi ti spiego, – ho detto ritirando la mano dalla sua e sentendo il cuore accelerare come dopo una corsa. Sono le ultime parole che le ho rivolto. Le ultime, sí, perché dopo quella volta non l’ho mai piú rivista.

Mi sono messo di fronte a nonno Mihai, ho chiesto scusa strizzando gli occhi convinto che mi tirasse un ceffone. Poi, forse l’agitazione, forse il freddo, mi è venuto da vomitare. Lui, invece che schiaffeggiarmi come avrebbe fatto mio padre, mi ha asciugato la bocca col suo fazzoletto di stoffa.

Siamo tornati allo studentato, il nonno ha ordinato a mia sorella di preparare una borsa con le mie cose, intanto mi ha spogliato e mi ha buttato sotto la doccia. Io protestavo ma lui continuava in silenzio a puntarmi il getto d’acqua gelida sul collo, le costole, il pene floscio.

– Asciugati, – ha detto tirandomi una salvietta.

E poi io e lui a piedi, nel mattino freddo, verso la fermata del bus.

A casa la nonna mi ha messo davanti la zuppa di patate, insistendo perché la mangiassi col pane. A me non andava ma anche il nonno voleva cosí. Sono rimasto un po’ ad accarezzare il micio appollaiato sulla stufa e poi me ne sono andato a dormire nella stanza di Moma, che i nonni conservano tale e quale a quando viveva con loro.

Ho chiuso le persiane e mentre guardavo i fili di luce che le attraversavano sono scoppiato a piangere, cosa che non accadeva da anni. Non per Angelica, non per nonno Mihai, non per quello che avevo combinato e non per Moma. Ho pianto solo ed esclusivamente per Irina.


A scuola non ci andavo piú, stavo coi nonni: senza Petru, senza discoteca e senza Irina, a cui scrivevo delle mail che non ho mai inviato. Il mio unico amico era nonno Mihai, un bel cambio rispetto a Petru Popa. I patti erano che gli avrei dato una mano nell’orto e in generale avrei obbedito alle sue richieste.

– Altrimenti ti porto in comunità.

– A Iași? – ho chiesto speranzoso.

– No, da un’altra parte. A Iași è meglio che non ci metti piede per un po’.

Una sera sí e una no chiamavo Moma, non avevo mai voglia di sentirla ma Angelica mi aveva pregato di sforzarmi perché secondo lei Moma ci soffriva, e da quando non faceva piú la tata non se la passava benissimo. I nonni, per non farla preoccupare, mi reggevano il gioco sulla scuola, tanto quell’estate io e lei avremmo affrontato il problema a quattr’occhi. Al liceo internazionale non ci volevo piú andare, volevo trasferirmi all’istituto agrario.

In quel periodo nonno Mihai mi ha insegnato un mucchio di cose: tenere in ordine l’orto, piantare i gerani dentro le lattine di fagioli, bruciare le ramaglie e spargere la cenere. Come mi piaceva guardare i pennacchi di fumo prima di distribuirla sulla terra… Qualche volta, insieme ad altra gente del paese, mi ha portato a raccogliere la frutta, i soldi che guadagnavo me li potevo tenere. A cena, vedendomi stanco e affamato, commentava: – Lavorare fa bene. Sei contento, si vede.

Ho imparato anche a pescare. Ci andavamo la domenica, oppure certi pomeriggi che faceva troppo caldo per stare nell’orto. Per pescare bisognava preparare le esche, i pezzi di pane, i vermi, gli ami. Era fondamentale non dimenticare niente e il nonno mi raccomandava di mettere cura e attenzione in ciò che facevo.

Una volta arrivati al lago stavamo ore sulle seggiole pieghevoli col cappello di paglia in testa. Ascoltavo il rumore dell’acqua, seguivo gli uccelli che ci planavano sopra e mi veniva in mente Irina. Nonno Mihai guardava il cielo e quando stringeva gli occhi la sua faccia diventava rugosa come il cuoio. Mi sentivo al sicuro, lí con lui sul lago gonfio d’acqua. Tutto mi sembrava lontano. Il tempo in cui papà viveva con noi e a prendersi cura di me era Moma, quasi una fantasia.

A giugno, quando sono usciti i quadri, io e Petru siamo rimasti un po’ sulle scale della scuola a guardarli, poi il mio amico mi ha dato una pacca sul braccio per farmi coraggio e ce ne siamo andati a camminare lungo la ferrovia, costeggiando i muri pieni di graffiti, fermandoci di fianco ai tralicci su cui fanno i nidi le cicogne. Petru voleva provare a sniffare la colla ma io non ne avevo voglia, mi bastava starmene con la schiena sulle pietre a fumare il mio pachistano.

I nonni e Angelica non hanno voluto dirlo a Moma, io però ho fatto di testa mia. Sono andato nell’orto e l’ho chiamata.

Era in giro con Oreste, il vecchio con cui abita ancora adesso.

– Moma, mi hanno bocciato.

Lei, non so come, l’aveva già messo in conto, infatti non ha sbraitato. Ha risposto che le dispiaceva per me e che si sentiva in colpa.

– Se avessi potuto aiutarti forse ce l’avresti fatta, invece mi tocca stare in esilio.

– Con te ce l’avrei fatta di sicuro, Moma.

– L’anno prossimo andrà meglio, vero?

– Sí, ma vorrei cambiare scuola.

Solo allora si è arrabbiata, e con la sua voce monotona ha cominciato a ripetere che quello era l’istituto migliore della città e che lei da anni si svenava per darci il meglio.

– Studiare è l’unico modo per non finire come me e tuo padre, lo capisci?

L’ho lasciata sfogare e le ho detto che era soltanto un’idea, di cui potevamo parlare al suo ritorno. In realtà non era un’idea: quella gente, quelle materie, quei professori non facevano per me. Quando guardavo l’orto e la nostra casa vuota pensavo a quanto sarebbe stato bello coltivare la terra e aprire un agriturismo. Certo, a Rădeni non c’è turismo. Anzi, non ci sono proprio piú le persone, è rimasto qualche vecchio come nonno Mihai, e qualche ragazzo spaiato come me. Tutti se ne vanno da qui, lo so. Però magari le cose cambieranno, le madri che lavorano all’estero torneranno indietro e la gente imparerà ad apprezzare questa zona. Anche la dittatura si credeva che non dovesse finire mai. E comunque, da quando vivo coi nonni, Rădeni mi sembra cosí bella… Il lago, i girasoli, le montagne azzurre, i monasteri dipinti, a un tiro di schioppo la Moldavia che come dice la nonna «è il giardino dell’Unione». Magari succederà come per le piante mezze morte che i vicini le danno da curare.

«Ma che le curi a fare se sono spacciate?» le chiede ogni tanto il nonno.

«E a te cosa ti costa dargli un bicchiere d’acqua e dirgli due parole?» risponde nonna Rosa tastando con due dita la terra nel vaso. Dopo qualche settimana eccole lí: dritte, lucenti, di nuovo verdi.

Il nonno a sentire i miei discorsi sull’agriturismo scuoteva la testa.

– Perché fai cosí? Dico scemenze?

– No, Manuel. L’idea è buona, ma non è facile.

– Forse quando c’era il comunismo era piú semplice.

– Ma che dici… – ha risposto liquidandomi con un gesto della mano. – Quelli ti obbligavano a non averli nemmeno, i sogni.

– Non voglio andarmene da qui, per fare cosa poi? Il camionista come papà, o stare dietro ai vecchi come Moma?

– Se studierai non farai quei lavori.

– Non mi piace piú studiare.

– Se lasci la scuola tua madre ne soffrirà, lo sai?

– Sí, però se me ne vado anch’io l’albero coprirà il tetto. Chi guarderà le nostre case se partiamo tutti?

Lui si è appoggiato al rastrello, ha allentato il fazzoletto che portava sempre stretto al collo, si è asciugato col polso il sudore che gli gocciolava dal naso e mi ha guardato con attenzione: – Ragazzo, anch’io non saprei vivere lontano da qui. Quello che chiamano progresso mi pare una scemenza che ha solo reso la gente piú cattiva. Ma io parlo da vecchio, se avessi la tua età non starei a fare la guardia a questo mondo che muore.

Moma non tornava in Romania da un anno. Sembrava molto cambiata, la maglietta che le avevamo regalato per il compleanno le pendeva addosso. Mi vergognai dei pensieri che avevo fatto su di lei.

– A Milano mangi? – le ha domandato perplessa nonna Rosa.

– Lo sai che non ho mai avuto un grande appetito, – ha risposto Moma guardando da un’altra parte.

– Prima avevi le guance piene, ora ce le hai scavate, – ha aggiunto il nonno.

– Ricordati una cosa, Daniela, – l’ha incalzata la nonna , – anche se finisci in una famiglia che ti ricopre d’oro, nessuno si cura di chi si prende cura. Perciò sta’ attenta a te, siamo intesi?

– Ci sto attenta, mamma, non ti preoccupare, – ha detto affrettandosi a cambiare discorso.

Moma aveva accettato la bocciatura, ma l’idea di farmi cambiare scuola no. Voleva a tutti i costi che ripetessi l’anno in quel dannato liceo privato: – Cosa continuo a fare questa vita se non vuoi piú studiare? Te lo ricordi quanto eri bravo alle medie?

– Sí, ma sono cambiato.

– Da bambino dicevi che volevi fare il maestro.

– Moma, sono cose che si dicono. Dicevo anche che volevo giocare nello Steaua, ma non so neanche fare due palleggi!

– Facciamo cosí, – ha concluso accendendosi una sigaretta. – Ragioniamoci ancora un po’, e prima che io parta decidiamo.

Ho lasciato perdere, tanto quelle frasi le conoscevo bene, significavano sempre la stessa cosa: sei libero di fare tutto quello che deciderò io.

Non ne abbiamo piú parlato. Moma era sempre indaffarata a chiamare elettricisti e muratori per fare riparazioni in casa e dal mercato tornava ogni volta con stoviglie e mobiletti per abbellire la cucina e la sala, o con delle cornici di legno dentro cui io e Angelica l’avevamo convinta a mettere dei suoi vecchi acquerelli.

Abbiamo passato quasi un mese assieme e la casa si riempiva ogni giorno dei profumi delle cose che lei ci preparava. Io e mia sorella andavamo matti per il cibo italiano, avremmo mangiato solo tagliatelle al ragú e cotoletta impanata. Anche la sua amica Anna era tornata a Rădeni per le vacanze, e Moma, col suo vestito senza maniche e i sandali di cuoio, passava ore con lei a parlare in cucina e a girare in bicicletta tra i frutteti. Stare con Anna le faceva tornare gli occhi sereni.

Un pomeriggio io e Moma ci siamo messi a fare un po’ di pulizia in mansarda e le ho raccontato che mi sarebbe piaciuto aprire un bed and breakfast o un agriturismo.

– Lo chiamerò Il vagone, in onore del nonno, – ho detto convinto.

Lei si è messa a ridere e mi ha abbracciato.

– Smettila di trattarmi cosí! – ho urlato scacciandola.

– Ehi, calmati, ti sto solo abbracciando!

– Mi tratti da idiota!

– Cerco soltanto di essere affettuosa!

– Allora fammi cambiare scuola.

– Senti Manuel, questa fissa ti passerà. Al liceo internazionale imparerai bene le lingue, potrai scegliere qualsiasi facoltà e tenerti aperte molte strade. Davvero pensi di costruirti una vita facendo il contadino a Rădeni? Dài, tesoro, cerca di essere ragionevole!

Mi sono affacciato e sono rimasto a fissare il sentiero pieno di sole. Stavo meglio a darle le spalle che a guardarla in faccia.

Sono tornato giú aspettando sotto il pergolato l’ora di mangiare. Moma si è messa ad apparecchiare la tavola facendo finta di niente e cercando di parlare di cose senza importanza, ma io non volevo nemmeno incrociare il suo sguardo. Alle sette sono arrivati i nonni, per fortuna cenavano sempre con noi. Quella sera c’era anche Mario, il vicino di casa che aveva accompagnato nonno Mihai a Iași la notte della discoteca. Mi stava simpatico Mario, con i baffi a manubrio e la risata da orso.

Angelica faceva fatica piú di me a parlare con Moma, era cosí ossessiva. La scuola, i soldi, il cibo, la pulizia della casa… si arrabbiava per le briciole sul tavolo e i peli del gatto attaccati ai vestiti. Prima di andare a dormire io e mia sorella ci smezzavamo una sigaretta sul pergolato. Di nascosto, perché se Moma avesse saputo che fumavamo ci avrebbe attaccato un predicozzo infinito, ovviamente accendendosi una Camel dietro l’altra.

È arrivato settembre ed è ricominciata la scuola, non c’è nemmeno bisogno di dire quale. Nonostante avessi passato un anno a guardare fuori dalla finestra e a giocare a dadi, molte cose le sapevo già e dunque me la cavavo. In classe ero anonimo, la gente della I C era uguale a quella della I A, ma mi lasciavano in pace. E a me andava bene cosí. Moma aveva una password per controllare il registro e scriveva mail agli insegnanti per accertarsi a distanza di condotta e profitto. Finiti i compiti giocavo un po’ al Nintendo, leggevo un fumetto e poi andavo nell’orto dal nonno. Petru lo vedevo solo ogni tanto – a volte ci mangiavamo un panino dopo la scuola –, ma la sera non sono piú uscito. Ero un sorvegliato speciale, impossibile sgarrare.

I pomeriggi non passavano mai, stavo ore sul letto a guardare il soffitto. Pensavo a Moma lontana, a volte a papà che guidava il camion sulle strade desolate della Siberia, altre ad Angelica che non si stava di certo laureando per passare il resto della sua vita in mansarda. Ma non me ne fregava piú niente. Mi pareva di essere l’unico che non riusciva a farsi una vita. Che se ne vadano tutti affanculo, dicevo, ma senza la rabbia di prima. L’unico pensiero che ancora mi faceva stringere i pugni, semmai, era ricordarmi della nottata con Irina e immaginarla ballare con un altro sulla pista della discoteca. Anzi no, immaginarla in compagnia di un altro mentre fumava una sigaretta raccontandogli quelle cose che aveva confidato a me e rivederla soffiare il fumo in quel modo volgare e dolce che avevo stampato in testa. E mentre ci pensavo ero sicuro che lei non sentiva di certo la mancanza di quello sfigato brufoloso che le aveva lasciato la mano per correre dal nonno. A volte mi mettevo a spulciare i social, gli indirizzi delle comunità e delle chiese di Iași, ma era inutile. Non sapevo il suo cognome, non sapevo l’indirizzo, non sapevo il cognome della sua amica, non sapevo niente! La sera, prima di addormentarmi, mi masturbavo pensando a lei, ma dopo mi sentivo peggio. Vuoto.