giovedì 11 marzo 2021

IL DIAVOLO NELLA MIA LIBRERIA Alfredo Panzini

 


L'eredità di mia zia

Questi libri mi sono pervenuti da una eredità.

Anzi l'inventario dice:

«V° nella legnaia: Un cassone di abete, pieno di vecchia cartaccia e libri, L. 8».

Dunque i libri erano in un cassone di abete, nella legnaia, e il loro valore fu stimato in lire otto nell'inventario.

Povera zia, che la luce del Signore mai per te non si spenga; ma tutta la sua eredità valeva poco di più!

Sul cassone dei libri v'era un'olla olearia ma vuota di olio; v'era il «prete» con cui, la povera zia si scaldava il letto nel tempo felice in cui era in vita la buon'anima di suo marito. Dopo credo che abbia smesso; un po' per economia, un po' perchè per lei così grama, bastava lo scaldino, oramai.

Oltre al «prete», vi era sul cassone enorme un mortaio di marmo, dentro il quale due affezionate galline facevano l'uovo per il caffè della povera zia, e per il fioretto col brodo.

Esisteva anche un gatto di nome Tombolino, che mi parve come il custode del cassone.

Esistevano anche, nell'orto, due peri, che facevano le grosse pere; ma la povera zia le vedeva soltanto e non poteva dire se erano buone, perchè i vicini non aspettavano che fossero mature per rubarle.

La natura era buona con la povera zia; e così il gatto e le galline: ma gli uomini, no. Ella si consolava andando in chiesa a pregare per tutti.

«Quest'autunno – mi diceva la zia con la sua piccola voce – quando verrai quassù, tu rimani un giorno o due, e vedi, se fra quei libri c'è qualche cosa che vada bene per te».

«Ma te li metterò tutti in ordine, cara zia, i tuoi libri».

«No – rispose ella, – non mi fare questa confusione. E poi dove metterli? Una volta c'erano le sue scansie, ma adesso non c'è più niente».

 

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Passarono quattro autunni: io andai bensì a trovare la zia, e lei a mezzodì, per farmi onore e festa, spiegava la tovaglia grossa di bucato e levava da un credenzino il vasetto dei suoi carciofini: trovava anche una qualche bottiglia di quelle che formavano la dolce cura autunnale di suo marito e dicea, «credo che sia l'ultima»; ma dei libri non se ne fece niente. Il quarto autunno, ordinai lei, la povera zia, in una cassa, che era anche lei di abete, ma molto più piccola di quella dei libri. La povera zia Laurina era così mingherlina!

Vi stava comodamente benchè avesse indosso l'abito da sposa: un abito di seta nera cordonata, che ella da cinquanta anni teneva in serbo per quest'ultimo rito, che i suoi occhi non videro. Veramente quando un contadino e una donna sollevarono sul letto mia zia morta per vestirla, come un fantoccio, ebbi paura.

Poi la deposero. Il volto cereo pareva alfine dormire.

 

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La morte di questa mia povera zia non mi addolorò troppo.

Ella per la sua debole costituzione avrebbe dovuto morire già da gran tempo: ma poi quel tempo era passato ed ella aveva continuato a vivere: anzi ogni anno io domandavo: «è sempre viva la zia Laurina?» Ma quando andavo lassù da lei, nel villaggio, mi pareva di volerle bene. Non perchè ella dicesse gran cose; anzi era un po' insipida come quei pesciolini lessi di cui parsimoniosamente si nutriva; ma perchè nel suo volto e nel suono delle sue parole io vedevo passare gli avi e la casa fiorente degli avi, dove io vissi fanciullo.

Ora, contemplando così la zia, nella bara, mi sfilarono davanti, come enormi pietre miliari, le parole della Chiesa: Battesimo, Cresima, Matrimonio, Olio Santo, la Resurrezione nella valle Giosafat.

Ma basta, basta, Signore Iddio! Dopo questa vita, altre pratiche ancora ci attendono? Risorgere ancora? Un Cristo, con la testa penzoloni sopra il letto della povera zia, fu da me consultato in proposito. «Ma sì, basta!», mi rispose quel martire antico.

Allora, per compenso della buona risposta, misi nella cassa anche lui, con tutti i santi e le reliquie che erano sparse qua e là per le pareti. C'era tanto posto che ci stava l'eredità. Ben avrei voluta mettere anche quella e staccarmi da essa e dai morti; ma non mi parve onore.

 

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Quando aprimmo il cassone dei libri, avevo con me due contadini e parecchi sacchi.

«E adesso come si fa?» chiesero.

«Ecco, insaccate» – dissi. Ma era anche quella un'operazione triste, tanto più che frammisti ai libri e alle cartacce, trovai pure due spade, le spalline, il kepì, e una montura della guardia nazionale. Questi istrumenti degli entusiasmi del Quarantotto infradiciavano anch'essi nell'enorme cassone, insieme coi libri.

Così infradiciano le vecchie famiglie! Ma quella era un'operazione triste e mi allontanai, e andai solo per l'orto. Sentivo in ispirito la voce degli uomini nuovi che cantavano: «Brucia tutto e rinnova!».

«Ah sì, signori – io rispondeva loro, – se io potessi bruciare tutto e rinnovare tutto!».

«Poni fra te e il passato una porta di bronzo. Abolisci l'eredità»

«Magari, signori, si potesse abolire l'eredità! Ma intendiamoci: tutte le eredità! Io ho ereditato una mano assai delicata, e magari la potessi abolire per un pugno di buon contadino!»

Pensavo a quel bàlteo, a quelle spade, a quella roba della patria, e mi doleva che la bara della zia fosse già stata chiusa, perchè avrei voluto mettere tutta quella roba della patria insieme con Cristo e con le reliquie.

Camminando per l'orto, m'imbattei nei due peri. C'erano già grosse pere, non rubate ancora, perchè durissime ancora. Le strappai e le scagliai lontano.

C'erano bellissimi carciofi che, nel mezzo del loro fogliame scintillante d'argento, avevano già i loro piccoli carciofi paonazzi.

Dunque i carciofi non sapevano che la zia era morta, e le maturavano i carciofi; ma lei non li avrebbe messi più sotto l'olio.

Perchè lasciarli lì? Perchè il popolo li rubi e li mangi? Ma io non amo il popolo, e divelsi i carciofi.

C'erano anche bianchi giacinti (era tempo di primavera), ma la zia non li avrebbe messi davanti alle sue reliquie, e perciò li strappai.

Sono rossi di sangue i giacinti? No, ero io che mi ero punto nello strappare i carciofi.

– «Vi sfido – esclamai nel mio cuore, contro agli uomini nuovi che vogliono abolire l'eredità –, ad essere più rivoluzionari di me!»

Ma ritornando nella legnaia, vidi che i due contadini non avevano concluso quasi nulla.

«Di questo passo arriveremo a notte!»

Oh, non che essi, bravi e onesti figliuoli, forniti della più fortunata ignoranza, perdessero il tempo nel leggere i frontespizi! Ma non sapevano come fare: fra cartacce e libri era un caos! Tiravano su delicatamente, e mi parve quasi paurosamente perchè i vecchi libri, ammuffiti, si sfasciavano nelle loro mani.

Poi erano esclamazioni di stupore, perchè essi giudicavano i libri alla stregua dei poponi, delle melanzane, delle belle zucche gialle, che da noi, in terra di Romagna, è costume mettere sui tetti delle case coloniche, e stanno così bene. Più i libri erano voluminosi, e più il loro stupore cresceva; proprio come quando nel campo si additano le zucche gialle.

«Chi sa che cosa ci sarà dentro!» dicevano.

Insegnai come dovessero fare: insaccassero così come vien viene, alla rinfusa. Insaccarono.

E i sacchi furono dodici.

Dodici balle di filosofia, di morale, di teologia, di lettere, di scienze (nonchè gli emblemi della patria) debitamente legate, caricate sopra un biroccio tirato da un asinello.

Poi condussi i due contadini a far colazione all'osteria, dove mangiarono una frittata di dodici uova con tanta cipolla soffritta.

Essi erano soddisfatti del lavoro compiuto, e pieni di onesto appetito. Io no!

Dicevano, mangiando la bella frittata:

«Che tanfo di roba marcia!»

«Certo ha più buon odore il grano quando si insacca.»

Bevvero anche: essi con voluttà, io con amarezza. Io ricercavo nella mia mente in che cosa i due contadini fossero superiori a me. «Ah, ecco! Essi non pensano ai Novissimi».

Diedi ordine di portar via, oltre ai dodici sacchi dei libri, le due galline, le quali erano sperdute, perchè non trovavano più il mortaio dove deporre le uova. Ma più sperduto era Tombolino, il gatto nero; perchè non trovava più la sottana nera della povera zia, su la quale si confondeva e nel cui grembo si riposava, nella fiducia di un bene senza fine e senza alterazione. Sono delusioni che accadono oltre che ai gatti, anche agli uomini, quando si fidano troppo dei beni terreni. Ora il nero Tombolino fuggiva via con il pelo irto e miagolava stranamente. Devo supporre che i suoi occhi gialli di animale presciente abbiano visto la morte attraversare la casa, già per tanti anni tranquilla.

Le galline me le portarono via nel biroccio: il gatto no. Gli diedero un colpo di vanga, e sotterrarono anche lui e i suoi occhi.

 

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Durai non breve tempo e fatica a ripassare tutti quei libri: essi documentavano l'evidente benessere e dignità intellettuale di due o tre generazioni. «Comperato ad uso di me, ecc., baiocchi, ecc., paoli, ecc.», dicevano le scritte sui margini. Oppure, spectat ad me dominum, ecc., oppure era tracciata qualche innocua facezia morta e rimasta lì inchiodata su la pagina gialla.

Su la pergamena di un grosso volume di teologia era scritto con inchiostro sbiadito: Spectat ad dominium Sanctae Sedis et ad simplicem usum fratris Francisci Antonij ab Arimino. Che vuol dire: «la proprietà è della Santa Sede, cioè della Comune o Stato; io, fraticello, non ne ho che il semplice uso».

È una sciocchezza, ma così bella! In fondo il buon fraticello, anche per il modesto possesso di un libro, rinnegava la proprietà individuale. Semplice uso e nulla più. Nulla dunque di nuovo nel mondo!

 

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I libri segnavano acquisti fatti nel secolo decimosettimo, decimottavo, e andavano sino a tutto il tempo del Regno italico, e del primo periodo della Restaurazione. Poi si vede che l'orologio della dignità intellettuale, o del benessere economico, aveva fermato le sue lancette.

L'ultima generazione era rappresentata da quel kepì di guardia nazionale e da quelle due spade della patria. Fra quei volumi di teologia e di legge, e questi oramai innocui istrumenti rivoluzionari devono essere avvenuti dissidi atroci dentro quel cassone.

Allora ricordai e come rividi il nonno, un volto da cammeo, che faceva la sua professione di fede così: Io sono cristiano, cattolico, apostolico, romano. I contadini venivano la state a portare la manna del grano, e i donativi servili. Venivano sui carri coi grandi buoi e vestivano di rigatino. Ora non portano più nulla. Ricordo un altro vecchio che diceva: Italia libera! Dov'è ella st'Italia? Sarà tanto pianto un giorno!

Ma ormai tutto era polvere e ruggine.

Ben è vero che sbattuti, riordinati, disposti nei palchetti, coi loro dorsi di cartapecora dai forti rilievi, non stavano mica male quei libri su la parete: avevano un'aria venerabile che imponeva rispetto: come uno stemma di nobiltà.

Anche la tinta dell'insieme faceva un bell'effetto: un colore snervato, lustro, come perlaceo, per effetto di tutti quei dossi di cartapecora con qualche interruzione d'oro, e qualche elegante fregio non ancora scancellato; qua e là certe zone nere: i breviari. Dio, che numero enorme di breviari!

Certi in folio mastodontici, che non stavano nei palchetti, li ho disposti in due o tre pile come sedili: poi ho trovato due quadri di santi, cioè un frate che piangeva disperatamente con certe lagrime grosse come perle. Ecco la conseguenza di pensare ai Novissimi! E una monaca che guardava in su. Li ho collocati sopra i libri con la loro cornice d'oro stinto, e completavano la musica dei colori. Con molta sorpresa trovai un piccolo Petrarca del Cinquecento, che mi pareva, dalle sue sestine, cantare tuttavia una musica provenzale su tutti quei libri.

Io fui soddisfatto dell'opera mia. Ma quanto tempo vi impiegai!

Ogni tanto mi fermavo a leggere e curiosare. C'era un libro di conti colonici in finissima carta filogranata, dove era scritto: Mese di Termidoro, anno (quale?) della Repubblica francese. Dunque esistette la Rivoluzione francese!

C'era un atlante, stampato in Germania, dove c'è appena un po' dell'America con disegni ed emblemi: un re dei pellirosse. Si capisce che è un re, perchè è nudo con un manto e la corona. Un servo gli sostiene sul capo un parasole. Sopra volano pappagalli ed uccelli del paradiso. Pare un'America amputata. Si capisce che quando fu stampato quell'atlante, l'America era scoperta solo in parte.

C'è una tavola con l'Italia tutta storta; ma c'è scritto così: Mare adriaticum sive superum, golfo di Venetia. Oh, Italia, cara Italia! Tu eri Italia quando non eri Italia?

C'è un libro dove apro e leggo a caso questo capitolo impressionante: Di molti uomini letterati, antichi e moderni, che infelicemente morirono. C'è un grosso volume stampato in Milano, in su la fine del Seicento, e sono le Lezioni Sacre del padre Carl'Ambrogio Cattaneo della Compagnia di Gesù, dedicate alla eccellentissima signora contessa Clelia Borromea. Contiene tante sentenze contro la ricchezza, contro la gola, contro il lusso! Come è descritta bene la infelicità dei capitalisti! – Thesaurizat, thesaurizat, et ignorat cui congregabit! Quelli che vogliono arricchire cadono nel laccio del diavolo! Nummus doloris et curae filius. Il denaro è figlio del dolore e dell'ansia.

C'è un paragone contro gli affaristi ed arrivisti che mi piace; e dice così: Questi faccendoni si possono paragonare a un morto in piè dalla fame, ovvero ad un tisico. Lo vedete smunto, secco, arido, con le guance incavate, e il naso profilato, e con la pelle del volto così assottigliata che pare trasparente, tutto perchè la febbre e la fame gli ha mangiato l'umore nativo. Così ogni umore di pietà, di tenerezza resta mangiato da quelle gran faccende che consumano tutti gli spiriti, onde la loro anima resta estenuata e cascante. E poi conclude in latino: Non habent pinguedinem, non hanno più olio morale!

Ma perchè questo libro mi produceva delle nausee? Forse quella prosa oratoria? quello stile untuoso? Padre Ambrogio non sente niente di quello che scrive: è un fonografo! La contessa Borromea sente anche meno. La vedevo nel suo abito di broccato su di un seggiolone con la testa servita sopra una gorgiera; e padre Ambrogio, lustro lustro, sur un altro seggiolone. Poi sentivo un odore di risotto mantecato con il pingue cervelàa de Milan, del buon tempo antico.

Vado a vendere i libri; ma nessuno li vuole

Ma perchè perdo io il mio tempo?

Che farò di questi libri? Li porterò a casa? Ma le donne protestano che non c'è posto per tanta carta.

Ecco, li venderò. I breviari li venderò al parroco. Tutti quei libroni neri, così a occhio e croce, potevano arrivare a un trenta chili. Era già un bello scarico. Ma il parroco disse: «Nè meno se me li regala!» «Ma perchè? Non deve lei recitare il breviario?» (Anzi la mia idea era di offrire un breviario ad ogni parroco).

«Sì, ma il breviario ultimo. Gli altri non contano».

Allora è pei breviari come per i nostri testi di scuola. E così tornai a casa con i breviari.

Allora mi venne una felice ispirazione. Andai da un ricco proprietario di terre e di buoi, e lo pregai di venire a vedere tutta questa libreria.

«Senta – gli ho detto, – tutti questi libri, tranne il Petrarca, che tengo per me, andrebbero bene per lei. Non mi guardi di traverso. Le spiego subito. Lei li mette nella stanza da studio della sua casa nuova. Creda a me: quando lei starà seduto al suo tavolo, inquadrato, per così dire, da questa libreria entro bei scaffali nuovi, lei farà un grande effetto su la gente che la viene a trovare. Come no? Lei può anzi dire: questa è la libreria dei miei avi!»

Quel signore mi ringraziò: ma non avrebbe comperato neppure a peso di carta. «Le vecchie famiglie – egli mi disse spiegando – avevano tutte le loro case piene di quella roba lì. Nel mio paese hanno durato per anni e anni a portare, il sabato, in piazzola libri da vendere».

Non mi scoraggiai e dissi:

«Senta: i banchieri, i mercanti, i drappieri del Cinquecento si nobilitavano proprio così comperando delle biblioteche».

«Ma noi non vogliamo mica diventar nobili! Sono democratico io».

«Capisco – risposi, – ma anche gli americani sono democratici, mercanti, anzi la gente più pratica del mondo; eppure quando vengono in Italia comprano libri, quadri, ferravecchi… »

«Ma quelli son matti, e poi hanno dollari a palate».

«Ma crede lei che io domandi molto? Poco più che a peso di carta».

«E che me ne faccio?»

«Ma almeno le serviranno da stufa! Sa lei che le pareti coperte di libri sono come un'imbottitura alla casa? L'inverno lei non sentirà freddo».

«Ho il termosifone».

 

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Fu per questa ragione che quando tornai a Milano, andai in una libreria antiquaria per sapere come avrei potuto vendere tutti quei libri. L'antiquario era un uomo ancor giovane; ma quel vivere dentro quell'imbottitura di libri vecchi probabilmente gli aveva guastato lo sviluppo: la persona era assestatuzza e mingherlina benchè portasse un maestoso camiciotto di lustrino nero, quasi talare; viceversa la barba era cresciuta a dismisura, la voce era fioca, e le lenti enormi. Egli portava, oltre al camiciotto nero, un camice interiore di mansuetudine e di rettitudine: era come un candore che traluceva fuor dalla sua persona nera. Effetto dei libri? Chi sa che un giorno i chimici non riescano ad isolare dai vecchi libri un radium che abbia un'azione morale? Oh, allora come avrei venduto a caro prezzo la biblioteca della povera zia!

Dunque egli con la sua rettitudine e mansuetudine, mi spiegò che tutti i libri seri, teologia, legge, filosofia, medicina del secolo XVII e XVIII non valevano niente: «Lei li può bruciare senza rimorso».

«Ma allora – dissi io, – diranno così nel secolo XXX per tutti i libri seri del secolo XIX e XX!… »

Egli allargò le braccia di lustrino, alzò le lenti al soffitto e scoperse nella barba nera la bocca: «Mah!»

Io ero avvilito.

Egli mi domandò: «Vi sono incunabuli edizioni aldine, giuntine? Lì si potrebbe ricavar qualche cosa».

Risposi che non c'era che un Petrarchino, ma lo tenevo per me.

«Edizioni dell'Ariosto? del Boccaccio? Con tavole?»

«Niente: tutti libri seri di scienza, di teologia, di morale. Si vede che questi libri non potevano andar d'accordo con il Boccaccio e con l'Ariosto, che di fatto non vi sono. Ci sono molti breviari, molti calepini, molte grammatiche».

«Bruci, bruci».

«C'è tutto Metastasio, molti libri sul Demonio, sul Sant'Uffizio, qualche geografia dell'America senza gli americani di oggi; con l'Africa ancora vuota, cioè non ancora occupata da tedeschi e da inglesi, ma soltanto da leoni e da serpenti. Poi qualche libro strano, curioso».

«Ebbene – mi disse l'omino nero – faccia un elenco, ma ben fatto, veh!, di questi libri di curiosità e poi me lo porti».

«Potrò ricavare un centinaio di franchi?»

«Non posso dir nulla!» esclamò levando in su le maniche di lustrino nero.

Divento bibliofilo, ma i libri mi fanno paura

Ecco, dunque, come io diventai bibliofilo: ma, pur troppo, mi accorsi che erano quasi tutti libri seri. Avrei dovuto farne tutto un falò. Ma mi pareva che ne dovessero venir fuori le anime dei morti, e anche quella della povera zia a rimproverarmi. E anche una compagnia di preti a reclamare i loro breviari.

Avevo già il rimorso di aver fatto gettare su la concimaia – durante il primo spoglio – una metà circa dei dodici sacchi; ed erano le carte e i quinterni i quali, per quanta diligenza avessi posta, non sarebbe stato possibile ridurre più in buon essere di libri. E mi ricordo che vedendo la broda nera della concimaia coprirsi di bianco per i cestoni di carte che il contadino e la donna di casa vi buttavano ridendo, io pensai: «Ecco il caso di dire, come è scritto sui cimiteri, resurgent, rinasceranno. Rinasceranno in piante». E dissi al contadino di affondare con la forca tutto quel bianco giù nella concimaia.

Dai libri così rimasti, e con i quali avevo coperto tutta una parete, come ho detto, riuscii a levarne fuori un centinaio circa, che rispondevano alla intenzione dell'antiquario di Milano.

E poi mi diedi a ripassarli e a leggerli così a caso, pigliandone una mezza dozzina per volta; e in questa faccenda sono durato assai tempo.

Che strani effetti! La mia anima reagiva a quelle letture in modo così buffo che io mi sarei divertito se non si fosse trattato di me stesso. Perchè io soffrivo.

Una notte, per esempio, dopo una lunga lettura, appena spento il lume, mi sognai che la corriera dell'umanità andava pure avanti; e che io ero rimasto a terra, e per quanto chiamassi, non si fermavano per raccogliermi: un'altra notte mi sembrò che tutti quei libri fossero tanti piombi, come quelli che si mettono alle reti, e che mi trascinavano in fondo ad un gorgo: il passato inutile. Un'altra volta ebbi la sensazione di essere mutato in una tròttola, che andava su e giù per i corsi e ricorsi della storia. Assicuro che ne provai uno stordimento di testa dolorosissimo. Altra volta vedevo quella bella colonna d'acqua che viene fuori dalla vasca che è nei giardini pubblici di Milano davanti a quella brutta statua di prete senza piedestallo e rappresenta Antonio Rosmini. Attorno alla vasca stanno le balie e i marmocchi, che varano le loro barchette e gridano: «Avanti!» Ma io vedevo soltanto la colonna dell'acqua. Essa viene fuori con un'enorme forza, prende tante belle inflorescenze bianche, ma quando è arrivata a una certa altezza, vacilla, scherza, ha un invisibile attimo di arresto, e poi inesorabilmente precipita. Non può salire di più. Anche l'uomo con tutti i suoi Avanti! Avanti!, mi pareva che non potesse salire di più, come quella colonna d'acqua.

Che ne pensa lei, Don Antonio Rosmini? Quel prete era di bronzo e non mi rispondeva. Pover'uomo! Quanto deve aver sofferto per conciliare insieme la ragione e la fede! Ma io non leggerò le opere di Antonio Rosmini. «Tu anzi – dicevo a me stesso – se vuoi star bene di salute, dovresti rigettare quel poco che sai». Studiare? Pensare? pensarci su, come insegnano i maestri di scuola agli scolari? Quale sciocchezza! Oh, che Alessandro Manzoni mi perdoni; ma a pensarci suci si ammala di insonnia!

La libreria della mia povera zia, con le nausee che mi produceva, operava su me come un enorme emetico, sì che io concepii la speranza di liberare il cervello del troppo cibo.

 

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Mi parve di capire la necessità delle rivoluzioni. Noi abbiamo bisogno di distruggere; altrimenti con tutte quelle leggi accumulate in tanti secoli, gli uomini si confondono la testa, e stanno male di salute.

Ma altre volte avevo la sensazione di leggi inesorabili, di fatti immutabili, che si pigliano giuoco di tutte le rivoluzioni degli uomini: vermi e farfalle.

Da questo sozzo verme viene fuori una farfalla così bella che nessun gioielliere creerà mai un monile che ne pareggi lo splendore. E una signorina avrà tanto orrore di quel verme che non oserà neppure pestarlo. Viceversa ella vi chiamerà crudele se voi strappate un'ala della farfalla. La signorina non sa che la farfalla porta nel suo ventre tanti ovini da cui nasceranno tanti altri vermi. «E anche lei, signorina, – come la farfalla – porta nella sua pancina tanti ovini da cui nasceranno tanti vermi». Vermi e farfalle! E questa è la metamorfosi: Polifemo e Galatea! Polifemo è il verme orrendo, Galatea è la bianca farfalla che scherza sul mare. Galatea schernisce Polifemo e giuoca con lui, Polifemo la ama e la divora. E come l'ha divorata, ecco ella rinasce e torna a scherzare col mostro. Polifemo non può vivere senza Galatea, nè lei può vivere senza lui. Questo giuoco è monotono. Quando muteremo questa legge monotona? «Ah, Archimede! Archimedes! – esclamai – (aveva aperto un gran libro dove c'era un'incisione di un uomo barbuto, con sotto scritto Archimedes).

Lei domandava un punto d'appoggio fuori del mondo per fare forza con la sua leva. E mentre lei diceva così, ecco entrò nel suo gabinetto da studio un soldato romano, una specie di bolscevico di quei tempi, e la ammazzò. Forse il soldato romano aveva ragione: lei, Archimede, era un rivoluzionario sul serio perchè domandava un punto d'appoggio fuori del mondo.

Anche Gesù Cristo domandava un punto d'appoggio fuori del mondo; e fu ucciso! Forse non è permesso di essere rivoluzionari sul serio».

 

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Tuttavia da quella nausea, da quei terrori mi parve di potere ricavare qualche utile ammaestramento. L'eredità della mia povera zia avrà servito a qualche cosa. Di mano in mano che ripassavo i libri, col lapis prendevo note e appunti. Li ho riordinati, ed eccoli qui:

Le prefazioni. È curioso come in quei secoli, Seicento e Settecento, questi scrittori sentissero un bisogno invincibile di professarsi umilissimi servi di qualche Cardinale, Principe, Monsignore, a cui il libro è dedicato; di essere annoverati tra i servitori di qualche potente: tutti sottomettono se stessi e l'opera propria.

Vedo tutta questa illustre gente, sfarzosamente vestita alla spagnuola, che bacia a usted los pies.

Era tutta formata di cortigiani questa mia patria?

Mi viene una gran voglia di far portare nella concimaia tutti questi libri del Seicento e del Settecento. Nel Seicento la Spagna comandò in Italia, nel Settecento comandò l'Austria, poi comandò la Francia, poi tornò a comandare l'Austria. E in questo secolo chi comanda in Italia?

Sono colpito da amnesia storica: non ho più la sensazione che nel 1861 è stato proclamato il regno d'Italia.

Tricolore! Italia libera, Dio lo vuole! che erano le voci del popolo italiano, settanta, ottanta anni fa, come sono fioche oggidì! Non echeggiano più nel popolo d'Italia. Ma hanno veramente echeggiato mai?

Perchè sei morto, Renato Serra? Una leggenda, che corse fra gli amici, dice che tu andasti volontariamente incontro alla morte. Avanzasti contro il nemico con quella tua fronte dolorosa, finchè la spezzarono quella fronte. Certo quella sera che tu partisti per la guerra, tu eri sotto un'impressione di fatalità.

Guardo questo balteo del Quarantotto, queste spade d'Italia, questa coccarda tricolore sbiadita, e non so in quale posto le collocherò.

Via, addormentiamoci un po' sopra questi inutili libri del Seicento spagnuolo e dell'austriaco Settecento. Tutta questa brava gente erano cortigiani di un uomo divinizzato, come oggi sono cortigiani della massa divinizzata.

Il diavolo si diverte

Ecco questo libro stampato in Venezia nel 1605; a comune utilità posto in luce.

Esso parla del diavolo, cioè delle stupende e mirabili operazioni delli Demoni. Leggo. È un libro infantile, e da principio mi sono messo a ridere.

Il demonio è da per tutto, – nelle foglie, persino, della lattuga, nel vino, nel pevere, nella cannella; e altre cose aromatiche che possono muovere gli spiriti vitali che sono nel corpo.

Adesso capisco perchè la mia povera zia andava tutti i giorni in chiesa a pregare, e lasciava che le rubassero le pere, i carciofi, la biancheria.

Dico anch'io un pater, un ave e un gloria, e vado avanti.

Più terribile è il demonio, quando oltre che nel pevere e nella cannella, appare verbi gratia ad uno che vadi alla Chiesa, in forma di bella donna.

Ma è possibile che nel secolo in cui Galileo Galilei e altri valentuomini ponevano le basi della scienza moderna, ci fossero uomini rispettabili, come teologi, canonici, che scrivessero sì fatti libri intorno al demonio? Ma esiste egli il demonio?

A dire di sì, si rischia di perdere la buona reputazione. Esiste e non esiste, come tante cose vere e anche non vere. Il demonio non esiste? Ma ha la sua storia. E allora esiste!

Questo libro sul demonio contiene cose molto stolte, ma anche cose molto serie. Per esempio dice: Il demonio conosce tutti i segreti del cuore, ed è sottilissimo in tutte le scienze.

I demoni sogliono sollecitare maggiormente le femmine perchè hanno meno forza di ragione a resistere.


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Le mie conoscenze sul demonio andavano poco oltre a quelle che sono contenute nella Divina Commedia di Dante, dove i diavoli sono piuttosto volgari e bestiali, e devono – sia pure di mala voglia – fare sempre quello che Dio vuole.

Qui invece trovo che il diavolo è dottissimo e potentissimo. Direi che a un certo punto il libro pare capovolto allo scopo di dimostrare che il diavolo è dottissimo e potentissimo.

Nella mia ignoranza, io ho sempre creduto che il diavolo fosse brutto, e invece questo teologo mi assicura che egli era bellissimo sopra tutte le altre creature create da Dio.

Io mi domando pensosamente perchè Dio ha creato il diavolo bellissimo sopra tutte le altre creature.

Ora ben mi ricordo che il signor Voltaire si prese gioco del diavolo; e dopo aver affermato che non ci fu impero più universale di quello del diavolo, conclude seriamente a modo di epifonema retorica: Qui l'a detrôné? La raison! «La ragione ha spodestato il diavolo dal suo trono».

Ah, come col tempo svanisce lo spirito, anche negli uomini di maggior spirito!

 

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Il demonio si fa adorare come una vera e propria divinità. Il rituale è un po' diverso dal comune, anzi antitetico, ma il concetto è sempre quello dell'adorazione. Per andar dal demonio, si monta a cavallo di un diavolino che prende forma di montone, il quale velocissimamente porta al luogo della congregazione; e bisogna stare attenti di tenersi bene attaccati ai peli e ai crini di quella finta bestia acciocchè per il velocissimo moto di quella non si sia gettati a terra.

Arrivato al luogo, si vede una gran moltitudine di uomini e di donne avanti a quello demonio che a guisa di re siede nel regal seggio. Fanno reverenza, voltando le spalle al re, ed ergono la fronte e la faccia verso il cielo in segno di sfida. Dopo di che danzano e prendono gli amorosi piaceri carnali. Finite le danze, vanno alle mense, le quali si trovano piene e ornate di lautissimi cibi, ove ciascuno mangia e beve quanto gli piace. Finito il convito, si ammorzano i lumi, e ciascun demonio in forma di uomo piglia la sua donna, e se ivi sono uomini, hanno il suo demonio in forma di donna.

Perchè pare che le donne vadano molto più soggette dell'uomo all'azione del demonio.

Ci fu una volta un marito che s'accorse che ogni tanto la moglie mancava dal letto. Finse di dormire, e vede che la donna si leva, si denuda, si unge con un unguento e scompare.

Il giorno seguente èccola di ritorno. Il marito domanda dove ella è andata. Ella nega. Ma egli, pigliato un pezzo di legno, l'incominciò gravemente a battere, ed ella più indurata che mai, negava.Allora il marito va a pigliare il bussolo dell'unguento e dice: Ecco, maledetta donna, guarda qui. Credi tu che io non sappia le tue sceleritadini? Perchè pare che il marito avesse qualche sospetto su le relazioni di sua moglie col demonio.

Allora lei confessò tutto ingenuamente, e il marito le promise di perdonare purchè ella lo menasse con essa seco alla detta congregazione.

Qualche volta erano i demoni stessi che venivan a trovare le mogli. E i mariti credeano che fossero uomini, e pigliando l'armi per ferirli e ammazzarli, quelli subito dispariano facendosi invisibili. E le mogli gridavano che non era vero niente!

Questo scherzo dei demoni era uno dei più frequenti in quei tempi, e aveva conseguenze gravi, perchè le mogli quando avevano sperimentato i demoni, trovavano mariti assai insulsi. Foeminae in illius amore delectabantur, «le donne si dilettavano nell'amore del demonio»; scrive un antico teologo.

E poi domanda: «Quale era il segreto?»

Risponde: «Io l'ignoro».

Ho il sospetto di una cosa orrenda, che non so come esprimere: pare che i diavoli esercitassero la lussuria su le donne con istrumento a doppia trazione.

Qualche volta i demoni si divertivano a mettere in tentazione i vecchi canonici, perchè facevano vedere loro spettacoli fantastici come questo: streghe ne' campi e selve stare stese in terra supine come chi cerca l'atto venereo.

Ammiro il buon teologo. Egli, benchè seicentista, si guarda bene dal fare una descrizione estetica di questo campo seminato a streghe. Un moderno avrebbe adoperato aggettivi laceranti. Egli no: annota il fatto e basta.

Però c'è del mostruoso in questi campi e selve seminate a streghe.

Le quali si devono supporre bianche, altrimenti non spiccherebbero sul nero delle selve, e anche giovani altrimenti non sarebbero efficaci, e quel cercanti l'atto venereo le fa supporre poco vestite. Descrizione efficace, benchè sobria.

Le povere monache poi non erano lasciate mai in pace. Una povera monaca fu vessata per anni sei con incredibile abuso di lussuria. Altre monache raccontano che gli spiriti immondi vengono mentre elle stanno in orazione. E le baciano, abbracciano con una certa dolcezza di sogno, dormendo. E nello svegliarsi, si trovano pollute come se carnalmente avessero usato con uomini. E dicono non si trovare altro rimedio per resistere a tale vessazione che il vero legno della Croce, nella quale Christo nostro Signore fu crocifisso e morto.

Questo rimedio non doveva esser facile a trovare; e da ciò è agevole argomentare che molte dovevano essere le monache pollute.

Quelle povere monache che quando si avvicinava la sera, attendevano tremando gli spiriti immondi!

E quei poveri eremiti? Dove è che io ho letto di quello che poi fu papa col nome di Celestino V, che quando era giovane fu inseguito da due gran femmine ignude; e lui su per i monti, e loro dietro? Naturalmente erano due diavolesse. E finalmente lui spaurito, tremante, trovò rifugio fra le più inaccessibili balze del monte Maiella. Un vero santo, anzi un eroe, di cui era così grande la fama che lo fecero papa. Ma si deve supporre che in quella gran lotta contro gli spiriti immondi che lo assediavano sotto forma di ridenti femmine grandi, egli rimase sì vittorioso, ma così disfatto da non reggere più nella battaglia contro gli uomini; e fece rinuncia al gran manto e non domandò che la morte.

Io stetti da principio sorpreso nel leggere come uomini di insigne intelligenza, come Giovanni Dun Scoto, San Bonaventura, lo stesso Santo Agostino si occupassero tanto di queste questioni sul diavolo, anche perchè la materia è veramente immonda. Una questione che essi fanno è se il diavolo si diverte mescolandosi in questi sporchissimi atti di lussuria con gli uomini e donne. Si risponde che no: il diavolo non si diverte affatto perchè egli non ha ossa nè carne ove consiste tale dilettazione: cioè non ha materia. E allora sono rimasto lì un po' inebetito perchè rividi quella che fu per tanti uomini e per tanti secoli questione tremenda: vincere la materia! E allora perchè il diavolo fa così, se non si diverte? Per offendere Dio e corrompere l'anima e il corpo. Per amore del male, dunque. Il diavolo si chiama appunto diavolo perchè non domanda altro che il male per il male. Questa definizione la conoscevo perchè la avevo letta in Dante. Ma non ne fui persuaso. Il male per il male, e perchè?

«Questa è una specialità idiota degli uomini e l'avete applicata a me».

Così mi parve udir rispondere dal diavolo.

Un'altra grave questione che fanno quei grandi uomini è sapere se il diavolo può generare. Sembrerebbe di sì, perchè ei prima, succubo all'uomo, prende il seme dell'uomo, e poi facendosi incubo alla donna, lo trasfonde nella matrice di quella.

La cosa assumerebbe un aspetto grandioso perchè il diavolo sarebbe in tale caso un agente della fecondazione, e quei teologi avrebbero anticipata la scoperta degli insetti che trasportano il polline da fiore a fiore.

Ma perchè Iddio, che può tutto, non ha affidato quest'incarico agli angioli?

Questa domanda era ragionevole: il problema della vita sarebbe stato risolto in questo senso, che con gli angioli fecondatori avremmo avuto tutti uomini buoni; invece coi diavoli fecondatori abbiamo gli uomini cattivi.

Trovo questa spiegazione: perchè non piace a Dio che l'angelo buono si intrichi in tali sporchizie.

 

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A prima vista sembrerebbe che il diavolo fosse fornito di una fantasia limitata perchè non sa presentare che i piaceri del senso, sino a cadere nel ridicolo come quando si presenta a una monaca sotto forma di una bellissima lattuga. E questo è raccontato da San Gregorio. Ma si vede che il diavolo sapeva che a quella monaca piaceva molto la lattuga.

Nei grandi ricevimenti che il diavolo dà, che cosa si fa? Si mangia, si beve. E dopo? Sempre quella cosa. Sì, capisco: si possono raddoppiare le dosi, si può arrivare alla raffinatezza moderna. Ma è pur sempre quella cosa! Un senso di sazietà e di stanchezza invade l'uomo. Certo la donna, come colei che ha la voluttà più diffusa, ma assai meno intensa, resiste meglio. Ma infine che poca cosa hai tu da offrire, o Satana, all'uomo!

«Vi posso anche offrire – mi risponde Satana – i piaceri dello spirito: uccellino libero dentro la gabbia di bronzo».

Bisogna riconoscere che Satana dispone anche di altre seduzioni di una sensualità più elevata, di cui si vale con personaggi qualificati e molto onorevoli: la vana gloria, l' orgoglio, l'avarizia sotto lo splendente aspetto dell'oro; e allora accadono quegli spaventosi cataclismi che si chiamano guerre, o se questa parola dispiace ai nostri buoni proletari, diciamo rivoluzione, che è lo stesso.

E certo che Satana presentò agli occhi del Kaiser non la solita donna; ma il genere umano da asfissiare, affondare, bombardare: premio, l'impero del mondo. E quel disgraziato si lasciò sedurre!

E dopo tutto questo si è levato nel nostro Parlamento un grande deputato socialista e ha proferito parole come il Papa: ha detto che l'umanità deve espiare il delitto della guerra. Questa cosa ha fatto una grande impressione. Anche a me: ma quando ha detto che è la piccola borghesia italiana quella che deve espiare, che è proprio quella che meno ne ha colpa, ed ha – caso mai – espiato con la sua distruzione, mi è venuto da ridere.

Io avrei capito che il Papa vero, quello che è erede di Colui che pone per fondamento la rinunzia, avesse parlato così. Ma chi vuole la conquista, come sarebbe, ad esempio, la dittaturadel proletariato, come può rifiutare la legge della guerra?

 

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Io non so se il diavolo si diverta nei mescolamenti carnali con la donna; ma mi pare che si debba divertire nel vedere quali effetti di istupidimento si possano produrre sull'uomo con quel meraviglioso balocco che è la donna: la quale, considerata anatomicamente, è a un di presso una povera creatura come l'uomo.

E una cosa spaventevole: c'è da perdere la stima che di sòlito noi conserviamo anche per i grandi uomini. Perchè sono stati appunto i più grandi uomini a manifestare i fenomeni più sconcertanti di questa seduzione.

Dice Napoleone:

«Quante sciocchezze ha commesso Murat per aver stabilito il suo quartier generale in un castello dove c'erano delle donne!»

Ma, e lui?

Le sciocchezze che ha detto, che ha fatto per Giuseppina non le avrebbe commesse un ragazzo.

Sì va, bene: lui dice:

Que voulez-vous que je fasse à cela? On n'est pas homme sans être faible.

Capisco: ma se i suoi soldati avessero avuto un'idea di quella follia erotica, non si sarebbero così generosamente sacrificati per lui.

E mi ricordo che visitando le melanconiche stanze del castello di Mombello che oggi ospita i pazzi, il direttore del manicomio mi osservava che in quelle stanze tenne sua corte il giovane guerriero. «E al mattino aprendo i grandi balconi da cui si domina il gran piano lombardo fino alla guglia del Duomo, qui – dicea – gli si deve essere presentata la conquista del mondo con l'impeto di una conquista femminea».

Doveva essere, anzi era sotto questo aspetto un formidabile maschio!

E c'è poi questo giro vizioso, che non può essere se non un'operazione del diavolo: se un uomo è refrattario alla seduzione della femmina, è poi anche un impotente nelle altre cose.

Quale guerra devono aver combattuto i Santi per dire: Camminerai sopra l'aspide e il basilisco, e calcherai il leone, ed il drago!

Effetti di donna su di un povero giovane

Io ho, direi, sotto gli occhi della memoria un caso compassionevole di questo instupidimento provocato dalla femmina, a danno di un giovane, per cui io nutrivo la più grande ammirazione e coltivavo le più pure speranze per la patria. Questo giovane si era dato alla vita politica con un programma di audaci riforme, ma del tutto accettabile, in quanto che non erano di importazione nè germanica nè russa, ma scaturite dalle necessità della vita italiana. «Ce ne vorrebbero cento di questi giovani!» dicevo fra me.

Era un giovane pieno di fede, di energia, e di vita modesta. Aveva una bella fronte quasi marmorea; due pupille scintillanti; capelli nerissimi, folti, disciplinati. Sventuratamente la sua bocca era deformata da una cicatrice per una ferita, toccata nella guerra. Io ammiravo la sua posizione di combattimento, e ascoltavo quasi come scolaro le sue lucide parole.

Confesso che, se io non fossi arrivato a quella tappa del pensiero in cui tutte le posizioni politiche di combattimento si equivalgono, mi sarei messo al suo seguito. Ma se non lo potevo seguire, lo ammiravo.

Se non che un bel giorno me lo vedo comparire davanti tutto mutato: con gli occhi abbacinati e la fisonomia stravolta.

Che cosa era successo?

Era successo questo: che, non so da chi nè come, era stato condotto ad alcuni balletti dati in certi palazzi aristocratici, in certe halls di grandi alberghi. L'infelice non parlava più dei suoi programmi d'azione, della sua prassi politica (parola a lui cara), ma parlava dei balletti, dei quadri plastici, eseguiti da dame e damigelle, delle quali descriveva minuziosamente le vesti – cioè quel tanto di copertura che è necessario per mettere in valore le parti scoperte, e viceversa. Un'aberrazione! Parlava poi del décolleté di non so quale dama con così acceso stupore che mi venne a mente quella portentosa descrizione che lo Stanley fa delle foreste del bacino sorgentifero del Congo.

«Non l'ha mai visto?» mi domandò.

«Il fiume Congo? Mai.»

«No! il décolleté della contessa.»

E senza essere richiesto me lo descriveva: un velo trasversale, che copre non nasconde le mammelle: tutte le spalle senza velo, ma coperte di cipria azzurra, che alla luce elettrica artificiale è di un effetto sorprendente. Sopra il décolleté, due occhi neri artificiali. Sotto gli occhi, una bocca rossa artificiale: tutto il volto una maschera tragica artificiale, come usa adesso.

Il Carso, il Sabotino, il Calvario, dove egli aveva combattuto, scomparivano dalla sua memoria; o non rimanevano se non nella realtà di quella ferita deforme alla bocca, per cui difficilmente avrebbe potuto aspirare all'amore di quella dama.

Parlava dei petti nudi di altre dame e damigelle e dicea che dànno l'idea di un oceano di latte, dove è dolce il naufragio.

Parlava delle bocche rosse con sì smisurate parole, che io vidi quelle cosine rosse come ventose che si dovessero riempire di sangue.

Assicurava che quelli che a prima vista sembrano lievissimi adornamenti, più e più riguardandoli, ingigantiscono in forme barbariche, guerresche, sacerdotali. Una signorina gli aveva rivelato quale era il motto su la sua giarettiera: Fiat voluntas mea.

Io lo richiamai dolcemente alla sua posizione di combattimento, alla prassi politica, alla sua nobile rivoluzione.

«Non eravamo noi d' accordo, amico – gli dissi – di abolire queste dame, damigelle, marchese, contesse… ?»

«Sì, le aboliremo, – disse dolorosamente, – cioè le sostituiremo con le più illustri operaie nel culto della bellezza, dive parlanti, dive mute, dive mimo-plastiche ecc. ecc.».

Povero mio giovane amico, diventato idiota! Non è il primo caso. Ora mi ritorna in mente un verso di Guido Guinizelli, dove per descrivere l'effetto di stupore prodotto dalla vista della sua donna, dice:

 

Rimango come statua d'ottono.


E anche Dante ha provato qualche cosa di simile, quando dice:

 

Venga Medusa, sì 'l farem di sasso.


Sasso o ottone, cioè insensato come quel mio amico.

Come si è salvato Dante? Con un tratto di spirito, così come i naviganti cambiarono il nome infausto di Capo delle Tempeste nell'altro di Capo di Buona Speranza. Dante chiamò Medusa, Beatrice; e la fece tanto magra che non c'eran che gli occhi, e un manto azzurro.

Sono assalito dal dubbio di aver commesso una mostruosa profanazione.

Ma forse, no! Anzi mi pare che Dante non faccia che ripetere una cosa così antica che risale al principio del mondo.

Fiat voluntas mea

Sono ritornato col pensiero a quello spettacolo di lusso e di lascivia muliebre, che il mio amico mi descriveva con sì accesi colori, e che gli ha fatto girare il cervello.

Esso è generalmente denunciato come un fenomeno di corruzione borghese. Si denuncia anche la depravazione delle fanciulle borghesi che si prostituiscono per una toilette! Si manda un grido di allarme per l'avvenire della razza. Se ne incolpano le copertine dei libri, piuttosto invereconde. Non mancano i profeti che annunciano: Ninive, sarà distrutta! E siccome bisogna creare, così si crea dai profeti il mito della virtù proletaria.

Queste cose sono vere, ma facendole girare un poco, possono essere anche non vere. Tutte le volte che per qualsivoglia cagione una società umana rompe i freni delle antiche leggi, e distrugge le sue gerarchie, e si ignora la legge del domani, appare questo fenomeno che noi chiamiamo di corruzione, e che forse altro non è se non un ritorno all'istinto.

Così il Boccaccio ci racconta che nella pestilenza in Firenze del 1348, essendo la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta, i cittadini erano divenuti lascivi, e vivevano come ogni giorno fosse l'ultimo loro giorno; e anzi che aiutare i futuri loro frutti della terra, di consumare quegli che si trovavano presenti, si sforzavano con ogni ingegno.

E ciò può spiegare lo scarso risultato che ha ottenuto la ripetuta predicazione dell'onorevole ministro, Presidente del Consiglio: «risparmiate e producete.»

Aggiunge il Boccaccio che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna, ogni parte del corpo aprire; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne' monasteri, si davano a diletti carnali.

E girando ancora le cose su la palma della mano, questo della donna che rompe i freni all'antico pudore, può sembrare un grande, un magnifico spettacolo. È un fenomeno rivoluzionario. È il sindacato femminile che domanda la sua libertà e la sua gioia. Ogni volta che la donna domanda la sua libertà, fa esibizione di ciò che le è specifico: le mammelle, ad esempio. Ecco il perchè della moda col petto ignudo.

Anche le popolane di Parigi che inalberavano su le picche una testa di aristocratico, marciavano urlando a petto nudo.

Si può anche pensare ad un altro perchè della moda col petto nudo; ed è che la donna rinuncia alla fatica della maternità.

Io non dico che le signorine nell'ostentare quanto più possono delle loro mammelle siano comprese da pensieri filosofici; ma involontariamente con quella loro esposizione fanno comprendere che esse intendono destinare il loro seno all'arida lussuria: non all'allattamento.

La donna che dà il latte, occulta nell'atto sacro le sue mammelle.

Il lusso, il piacere, la donna si possono considerare altresì come le spore della fermentazione. Esse incominciano gioiosamente ad agitarsi dopo un gran turbamento della vita.

«Il lusso, il piacere, le arti – osservava Napoleone nel 1795, dopo che il Reggimento del Terrore ebbe troncate tante teste – riprendono il loro impero in modo che fa stupore. Le donne dovunque. Les femmes partout».

Nè d'altronde si vorrà credere che il sindacato delle donne aspiri alla pedagogia, o al Parlamento, o al Soviet, o al Tribunale. Lo dice, ma non è vero. O almeno non è vero per le donne belle. Le brutte non sono donne. Aspira, come ogni sindacato, al fiat voluntas mea, come è scritto su la giarettiera di quella signorina.

Dove si trova più una bella fanciulla che scopi, che lavi, che pulisca amorosamente per casa? Scopano, lavono, puliscono se stesse.

Oppure, girando ancora le cose: nulla! Come nel mare. Le onde si rovesciano e spumano alla superficie: a pochi metri di profondità, tutto è tranquillo.

Pandora

Ecco, ecco un libro, sacerdotale anch'esso. Un cosino smilzo di poche centinaia di versi, ma fa paura. Come ti trovi tu qui o Giorni e Opere di Esiodo? Io ti tradussi con innocenza nella mia gioventù. Conoscevo il greco, ma non ti capii. Ora non ricordo più il greco, ma ti capisco. Oh, immortale discorso di Giove a Prometeo! Giove dice a Prometeo: Tu ti rallegri di avermi ingannato perchè mi hai rapito il fuoco, ma gran sventura ne verrà a te e agli uomini industri. A costoro in cambio del fuoco io darò il Male; ed essi tutti ne gioiranno entro l'animo loro, ed il Male accoglieranno ospitalmente. Così ebbe detto; indi rise il padre degli Dei e degli uomini.

Come è meraviglioso quel rise!

E Giove fabbricò Pandora!

E tutte le Dee e tutti gli Dei dell'Olimpo erano attorno a Pandora, per farla bella! Quale toilette!Tutti i profumi della primavera! La dea Suada le atteggiò il sorriso, le Grazie la adornarono, Minerva diè gli ultimi ritocchi al manto: ma Ermete, per ordine di Giove, inspirò nella bellissima bambola mente da cane e fraudolento costume. Così Pandora fu da Ermete graziosamente presentata all'uomo. E l'uomo non seppe resistere, tutto obliò, e accolse Pandora. Pandora lieve aprì allora l'anfora ove erano rinchiusi tutti i mali, e i mali si scatenarono su la terra. Sventura agli uomini industri! Piena è la terra di mali! pieno il mare!

E gli uomini si vestirono di protervia e si dilettavano delle opere lagrimose di Marte. Dentro il petto avevano un cuore saldo come diamante. Erano armati di armature di rame e avevano case di rame. Ed essi, domati l'uno dal braccio dell'altro, sono discesi nell'ampia e gelida dimora dell'Ade, ombre ingloriose; e la nera Morte, ancor che in vista paurosi, li prese; e la radiante luce del Sole hanno lasciato.

Forse è provvidenziale che l'umanità ignori queste antiche storie, così almeno ha l'illusione di credersi giovane.

Bruciare, bruciare, come diceva l'omarino di lustrino nero della libreria di Milano; oppure marcire nel cassone, come faceva la mia povera zia!

Così si fa in fatti: una generazione seppellisce la generazione precedente; distrugge le cose vecchie; sopra ci fabbrica le cose e le case.

Sventuratamente ciò che non si può sempre distruggere, ciò che si salva è un pezzo di carta: il libro!

Eva e il Serpente

Ecco una Bibbia. È una Bibbia a serie continua che io ho estratto dal cassone di mia zia: una Bibbia che non finisce più. Quanti volumi ne ho trovati? Cinquanta? Cento? Sono tutti fascicoletti con la copertina azzurrina, con un fregio quadrato, e ogni volumetto costa centesimi austriaci cinquanta. È stampata in Venezia nel 1830. Sacra Bibbia di monsignor Antonio Martini.

E proprio quella ortodossa e dentro vi sono due graziose colonnine di stampa, quella latina e quella volgare di fronte. Ma per quanto ortodossa, è sempre un libro che io mi spiego perchè la Chiesa lo consideri proibito, oppure da leggersi con molte cautele.

Essa è chiamata anche Storia Sacra, ed è piena di guerre e di stragi: le quali continuano anche oggi.

Dicono i filosofi che tutta la storia è sacra, quasi fatale. Ma si può intendere anche sacra nel senso latino, cioè esecranda. E infatti tutta la storia Sacra comincia con la maledizione di Dio. Quale delitto ha mai commesso l'uomo per una maledizione così tremenda? Perchè è una tremenda maledizione quella che Dio scaglia contro Eva ed Adamo quando li scaccia dal paradiso terrestre!

Io rileggo ancora queste parole che avevo dimenticato: Maledetta la terra per quello che tu hai fatto. Da lei trarrai con grandi fatiche il nutrimento per tutti i giorni della tua vita. Mediante il sudore della tua fronte mangerai il tuo pane sino a tanto che tu ritorni alla terra dalla quale ti ho tratto, perocchè tu sei polvere ed in polvere ritornerai.

Ma quale delitto hanno mai commesso quei due disgraziati di Eva e di Adamo per provocare un così terribile sdegno?

Io non so che delitto: lo chiamano peccato originale. A me pare lieve, e poi dovuto in gran parte alla tentazione del serpente. Ma per Iddio deve essere stato un gran peccato, come un'irrimediabile infezione per cui egli non poteva più eseguire con Adamo e con Eva quel piano di felicità che egli aveva ideato. Quale? Chi lo sa! Ma da quello che mi pare di capire, di tal natura che il lavoro era escluso. Dunque ozio? No. Una beatitudine di cui noi non possiamo arrivare a formarci una idea. Oggi per noi il lavoro è la sola via di salute. Eppure Dio ha maledetto il lavoro. Di ciò non è dubbio.

Forse egli, Dio, oltre al lavoro per far nascere il grano, oltre al lavoro per elevare la dimora, antivedeva questo martirio del pensiero che cerca e non trova, che crea leggi e poi le distrugge; antivedeva anche questo lavoro della nostra civiltà, di cui tanto ci gloriamo: lavoro diurno e notturno, e per terra, e per l'aria, e pel mare, in cui eserciti di lavoratori lavorano senza varietà accanto alle macchine, e le macchine generano macchine, e l'uomo può bensì ribellarsi contro l'uomo, non contro la macchina, e allora si esalta e celebra non so quale sua comune fratellanza nella servitù della macchina.

E il Serpente? Certo Iddio lo ha maledetto: Maledetto sii tu fra tutti gli animali. E il Serpente, certo, era il demonio.

 

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Deve essere effetto di quel libro del Seicento sulle opere stupende e mirabili del Demonio, e dei demoni che cavalcano le mogli, che ho pensato che Adamo sia stato, in ordine storico, il primo uomo cornuto. E ciò non può essere stato se non per opera del demonio. Chi può garantire la paternità di Abele e di Caino? Ecco un libro del Digesto, pesante come una macina di mulino, che mi insinua questo dubbio. Vi trovo scritto: pater nunquam certus, mater certa. Quante cose impressionanti si dicevano; ma soltanto in latino!

Probabilmente Caino è nato dal Serpente e Abele da Adamo.

La prima cosa che fa Caino è quella di ammazzare Abele.

Non poteva avvenire il contrario? Perchè Abele non è stato capace di ammazzare Caino?

Questo stato di cose era intollerabile, e bisognava pur rimediarci. Ed ecco Eva che si trasforma in Maria Vergine,

 

Che il pianto d'Eva in allegrezza torni.


Come dice bene tutto questo il mio Petrarchino, con quanta poesia nella canzone alla Vergine!

Io non lo venderò questo Petrarchino all'uomo di lustrino nero della libreria antiquaria di Milano. Questo libro habet pinguedinem, piove rugiada di lagrime e di balsami su le nostre miserie.

Guardo questo Petrarchino coi caratteri elzeviri, tutti appiccicati, e penso quanti poeti per tre secoli hanno faticato per diventare poeti come Petrarca.

È che il poeta non è colui che soltanto fa versi; ma colui che consuma nei versi la intera parabola del suo dolore.

La santa inquisizione e le mirabili opere del demonio

Ma quale orribile titolo ha quest'altro libro? Sacro Arsenale ovvero pratica della Santa Inquisizione. È stampato in Bologna nel 1679 ed è di 528 pagine.

È spaventoso! Dentro, vi si arrota, taglia, attanaglia, sospende, brucia…

Questo libro è un codice, una specie di vade-mecum legale di quei tempi. Guardo la cartapecora ingiallita e vi scorgo delle impronte scure. Impronte delle mani degli inquisitori? macchie di sangue?

Il libro mi cade per terra.

Lo raccolgo. È una lettura che attrae e respinge. Ma avvenivano cose pazzesche in quegli antri oscuri dell'Arsenale della Santa Inquisizione! Vedevo quei frati domenicani in quel loro manto, con quei due colori, come l'alfa e l'omega, la morte e la vita, cioè il bianco e il nero. Vedevo quel non so che di impero e di tristezza insieme che hanno certi volti sbarbati dei preti. Stendevano il braccio entro la gran manica candida, fuori del panneggiamento nero e comandavano ai manigoldi di frugare le vive carni. Le grida di strazio e le bestemmie dei martoriati erano come fumo di ebbrezza per gli inquisitori.

Ma cosa strana! ho la sensazione che non siano gli uomini in sè ad essere cattivi.

È il demonio!

E allora quegli inquisitori erano bravi impiegati del Santo Ufficio, che adempivano il loro orario e le loro mansioni sociali in buona fede. Essi cercavano di isolare col macchinario della Santa Inquisizione il demonio, così come fanno oggi i batteriologi nei loro gabinetti.

Qualche volta i buoni inquisitori si infettavano, così come avviene che un medico si infetti nelle esperienze di laboratorio. E si è dato il caso di qualche onesto inquisitore che sentendo il demonio entrare anche nelle sue carni, si è messo a gridare ai carnefici: «Bruciate anche me!»

Gran Dio! Ma che cosa dovevano fare quegli inquisitori quando riuscivano a prendere una giovinetta strega bianca, di quelle che essi vedevano per campi e per selve? «Dove si nasconde? dove si nasconde il demonio, o impudica?». Provo una certa pietà anche per gli inquisitori.

Doveva formarsi in loro una diabolica miscela di erotismo e di misticismo. Del resto si fanno anche oggi, in letteratura, eleganti fialette con queste due essenze; e le signore aspirano con molta soddisfazione. E si va dai profumi delicati per le signore per bene e per le giovinette, ai profumi forti, necessari per stimolare chi non gode oramai se non della perversione.

Oggi, non c'è più l'arsenale del Santo Uffizio.

Eppure anche oggi vi sono tante persone che vi parlano tranquillamente di stragi, di fucilazioni, di distruzioni di classi sociali allo scopo di ottenere un vagheggiato miglioramento della società. Queste effusioni di sangue sono chiamate passeggere necessità storiche. Sarà; ma io mi domando: dove fugge il tempo? che cosa è il tempo? un'invenzione degli orologiai di Ginevra? Io mi sono quasi riconciliato con la Santa Inquisizione.

 

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Ecco un altro libro. Il suo titolo è molto confortevole. Vi si parla dei rimedi contro il demonio.

I rimedi contro il demonio sono tanti! Questo dotto teologo in questo libro ne fa l'elenco. Tanti! Ma hanno il difetto che nessuno di essi è sicuro. E – si badi – sono tutti rimedi buoni! La preghiera, la confessione, la comunione.

Uno dei medicamenti che più mi ha fatto impressione è quello del digiuno. Esso doma la ribellione carnale, lega gli appetiti vagabondi, consuma tutte le sozzure che da grassezza procedono. Come è detto bene! Ecco il corpo scarno, quasi diafano e dentro l'anima pingue. Sì, va bene! Mi sono venuti in mente i monaci di Fonte Avellana come li descrive Dante, perchè quella descrizione di cibi pur con liquor d'ulivi, quell'accenno al lieve e quasi inavvertito trascorrere delle stagioni, contiene non so quale voluttà di perfezione claustrale; come una vita in sogno, come una vita musicale, come una vita che sfiora appena la terra.

Certo che questa astinenza non è compatibile con la compagnia della donna! Un signore che per amore di non so quale perfezione, aveva determinato di non mangiare più carne nè assaggiare droghe, si sentì dire dalla moglie: «O tu torni alle bistecche, o io ti pianto».

Ed è curioso il ravvicinamento tra quella che i vecchi medici – non sapendo come chiamare – chiamavano materia peccans, cioè la cagione delle malattie corporali; e il diavolo, il quale per questi teologi è la cagione di tutte le malattie dello spirito.

Esistono somiglianze singolari fra i processi antiparassitari della medicina moderna e certe cure contro il diavolo.

Per esempio: l'isolamento; le altissime temperature per alcuni microbi resistentissimi; come le camere per la sterilizzazione; il fuoco. I buoni teologi ordinavano il rogo, l'incendio di paesi interi con dentro tutti gli abitanti. Ordinavano anche spedizioni militari.

Però si intuisce che queste cure, pur così energiche, non ispirano troppa fiducia.

«Le medicine giovano sì, ma poco».

Trovo questo rimedio molto curioso: la mutazione di luogo. Proprio quello che consigliano i medici, quando non sanno più che cosa fare. Ma dove andare? Fuori della vita? Non è possibile. Forse è per questo che i mistici cercavano di buttarsi fuori della vita.

È anche interessante vedere come questi teologi avessero intuito quell'oscuro fenomeno per cui alcuni individui non possono tollerare certi medicamenti: tali rimedi se non giovano a una persona per qualche occulta causa, non però segue che non possino giovare a un'altra.


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Vedo che fra queste cure contro il demonio, una delle più frequenti è la estirpazione: il diavolo preso con le pinzette: ecco il diavolo! così come il cavadenti mostra al cliente il dente cariato che gli faceva male.

Sarebbe la chirurgia applicata al diavolo.

Questi chirurghi del diavolo si chiamano esorcisti, e la loro arte si chiama esorcismo.

Rimango stupito nel vedere quanti preti, quanti monaci si dedicassero a questa professione. Mi sorprendono in pari tempo queste lettere circolari delle alte autorità ecclesiastiche contro l'abuso dell'esorcismo. Queste circolari si susseguono di anno in anno; ma sono così caute, così blande, si aggirano per tante circonlocuzioni! Si direbbe che sia presente il timore che il popolo capisca che si tratta di impostura. Come pur si capisce, anche se non è espresso per scrittura, che preti e frati facevano dell'esorcismo un vero e proprio commercio.

Proibito, e tollerato, come del resto avviene anche oggi.

I leoni, posti a guardia delle leggi, finiscono sempre col ruggire dolcemente.

Fra queste circolari ce ne è una di un papa che dice che l'esorcismo può essere operato, ma soltanto da quei sacerdoti che sono veramente santi.

Ora a costo di essere deriso dalla mia civiltà senza Dio, io devo confessare che credo nell'azione dei santi: credo nell'imposizione delle mani, credo nelle voci dalle tombe. Anzi questa di parlare dalle tombe è una specialità dei santi.

 

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E mi ricordo molto bene, nei primi tempi della mia dimora a Milano, come annoiandomi di andare a spasso sotto la Galleria, mi recavo fuori di porta Magenta in un cimitero abbandonato, ma con tanti vialetti tranquilli, tante piccole tombe. Di primavera qualche fiorellino, una rosa timida, qualche canzoncina di uccellino dai cespugli. Vi si camminava bene, tanto più che non si era disturbati.

Sul marmo di una di queste tombe, se non è un'illusione della memoria, mi pare ci fosse inscritto il nome di Emilio Praga, un poeta che mi era caro per alcuna sua fiamma di verginità, che non riuscì ad estinguere per quanti liquori ci versasse: di poi anzi ne morì.

Non si vedevano preti, non seppellitori: non si vedevano quelle buche già preparate per accogliere le bare. Da anni e anni non si seppelliva più. Un riposato silenzio di campagna! Mi pare che ci fosse un guardiano, un custode, che non diceva nulla se io entravo, se io uscivo.

Ma un giorno vidi gente per il cimitero: donne e vecchi, per lo più. Portavano via le croci, le lampade votive, le corone, i ritratti dalle tombe: ma non come rapinatori, bensì assai tristamente e con lenti gesti. Ma che succede? Ne chiesi al custode, ed egli mi disse che le cose stavano appunto così: che il municipio aveva dato tre mesi di tempo ai parenti dei morti, per portar via tutti i ricordi delle tombe. «Ma perchè?» «Mi so no» rispose. Allora io interrogai qualcuno degli uomini che passeggiano sotto la Galleria, e ne ebbi maggiori spiegazioni. Cioè mi fu detto che il cimitero sarebbe stato distrutto, e sarebbero sorte tante officine e tante case.

Infatti ora sorgono tante case: grandi case di stile benestante, allineate, tutte con fisonomia uguale.

«Ma non si potrebbe – dissi – lasciare così come è? Il cimitero diventerebbe un poco per volta un giardino».

Gli uomini della Galleria mi dissero che si capiva che io ero un giovane poeta che veniva dall'Italia del sud.

Allora a Milano non c'era il municipio socialista; ma un municipio conservatore, tanto che lo chiamavano la consorteria. Io conoscevo un assessore, che era un banchiere: non perchè io facessi operazioni di banca, ma perchè davo lezioni di latino a un suo nipote. Era un magnifico signore, dal tratto molto cordiale; e talvolta mi invitava a pranzo alla sua bella mensa lombarda. Dopo pranzo accendeva un grosso sigaro, si stendeva su una bella poltrona e scopriva il suo bel gilè. Pareva una di quelle figurine che si ripetono sul giornale l'Avanti! per far capire al popolo cos'è il grasso borghese (ma allora l'Avanti! non c'era), cioè un uomo beato, con un gran sigaro in bocca, una catena d'oro, grossa come un ormeggio, sopra il grosso ventre, e grossi diamanti alle dita che mandano raggi da tutte le parti.

Questa rappresentazione è efficace; però mi ricorda un po' l'artificio usato dai contrabbandieri per ammaestrare i loro cani. Vestono uno di essi da guardia di finanza con un bastone e bastona sempre i cani. È evidente che i cani con la bricolla del contrabbando appena vedono una guardia di finanza, sentono gran furore, e non si fanno certo pigliare.

Ora questo banchiere era una buona e onesta persona, piena anzi di preoccupazioni, tanto è vero che per distrarsi, seduto così come era col sigaro avana in bocca, parlava soltanto di letteratura.

Oggi, ripensandoci, credo che mi invitasse anche per divertirsi con la letteratura. Mi domandava se il tale era un grande uomo, se il tal altro era un grande poeta; e accettava i miei giudizi, benchè io poco allora mi intendessi di vivente letteratura milanese.

Essendo dunque un'autorità, io venni fuori, una sera, con l'affare del cimitero e lo pregai di esaminare se ne era possibile la conservazione.

Egli fu molto più gentile con me degli uomini della Galleria. Si rese conto della mia giovane età (avevo poco più di vent'anni), mi espose i dati statistici: l'area del cimitero, il prezzo per metro quadrato a cui l'area era già stata venduta, per concludere che il mio progetto era fantastico.

«Sì, ma allora, scusi, lei non è conservatore», dissi. E infatti, dopo, i conservatori caddero e vennero su i socialisti.

 

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In questi ultimi tempi, poi, ho conosciuto un signore dottissimo che non ammette altra civiltà che quella cinese. Essa, come è noto, rispetta le tombe.

Ho conosciuto anche, recentemente, un altro signore, ancor giovane e del tutto rivoluzionario e che vuole distruggere tutto. Egli mi raccontava la travagliata sua vita per quasi tutta l'Europa; ma ogni tanto interrompeva il suo racconto, dicendo:

«Io avrei potuto essere ladro, micidiale, falsario. E sa lei perchè non l'ho fatto? Per la società? Ah, no! Unicamente per la memoria di mio padre, che era un santo».

Io gli volevo rispondere che se si vuole distruggere tutto, bisogna cominciare col disperdere i santi e le tombe.

Ma non mi parve il caso di turbare una fede così sincera; come era la sua.

L'azione dei santi e delle tombe è molto misteriosa; e può ricordare quella di certe glandole del corpo umano, che non si sa bene che cosa stiano a fare; ma non si possono estirpare senza pericolo.

 

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Ma la conclusione di tutto questo volume di terapia generale sul diavolo è che essa è scarsamente efficace; perchè quando si scrive così: se non si potrà scacciare la malvagità del demonio, allora si dovrà sopportare in carità, sì come anche si fa con gli altri mali che di tal maniera ci premono, vuol dire che non esiste una cura specifica.

E perchè?

Questa mi è sembrata enorme: perchè il demonio è voluto da Dio.

E sono sei le dimostrazioni che i teologi adducono per provare la necessità del demonio. Ma a me comincia a girare la testa.

Portano l'autorità del dottor Angelico, che Iddio eziandio nel peccato ci appare laudabile; chè per molte cause gli uomini sono permessi fare il peccato.

Portano l'autorità di Sant'Agostino, che Iddio benedetto giudicò essere meglio dai mali cavarne il bene, che di non permettere niun male essere, il che non si poteva fare se Iddio non avesse permesso che la creatura avesse peccato.

Sono belle ragioni ma non mi persuadono. Dunque il diavolo esiste per permissione divina.

E allora?

Questi teologi non protestano affatto: sono rassegnati.

È che i loro occhi vedevano al di là della vita terrena profilarsi la bella città di Dio, negli azzurri infiniti, e sotto di noi ruggire la Babilonia infernale.

I nostri occhi non vedono più niente.

L'azzurro è un'illusione ottica, gli angioli sono stati fugati per tutti i sette cieli. Sopra di noi nel cielo sta la necessità con le sue unghie di bronzo.

Dante oggi non troverebbe più posto per il suo solitario monte del Purgatorio perchè in quel posto la geografia ci ha messo l'America con gli americani, non quelli nudi con le piume di pappagallo attorno alla testa, ma quelli così ben vestiti, con tanti dollari, con tante macchine.

 

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«Ma avete di Satana un'idea del tutto medievale! Ma che cosa credete che io stia proprio a raccattar le anime per la concorrenza a Dio, come un vostro mercantuzzo qualsiasi? Credete proprio che Dio sia un così potente signore? Ma se così fosse che bisogno avrebbe egli avuto di tanti avvocati, quanti ne ebbe da Sant'Agostino in poi?».

Era il diavolo che parlava dai libri della mia biblioteca.

La gallina cova

La mia commozione fu tanta che mi son dovuto muovere, e sono disceso con quel libro in cucina. Lì ho trovato la Marta, che è la donna di casa, ed è molto devota, ed ha i capelli assai lunghi; e così ho trovato in cucina la Pilla o Palla, non Pallade – per carità –; ma è un diminutivo nostro di Paola. Questa Pilla o Palla, o Pallina, è una vera pallina, sì è grassoccia. Ha vent'anni oramai; ride per un'inezia; ed ha i capelli abbastanza lunghi anche lei. Non credo che sia devota perchè… Non so perchè. Forse perchè nelle nostre campagne non è più di moda. Hanno sparso la voce che sono le vecchie e le brutte che vanno in chiesa, la domenica, con l'abito nero e il fazzoletto nero. Ora la Pallina porta gloriosa, quando è domenica, una giubbetta color tango.

Io dunque dissi alle due donne non ricordo bene quali parole intorno al diavolo.

Ma tanto la Marta come la Pilla non si commossero affatto; e i loro capelli, benchè lunghi, non si rizzarono su la testa.

Anzi la Pilla mi domandò, come chi crede di essere beffato, se io credevo nel diavolo.

Io volevo rispondere, forse sì. Ma poi ho cambiato discorso perchè quella ridarella non ode cosa che non la vada a dire.

Dunque domandai: «Dove sono andate a finire quelle due galline?»

Io intendevo le due galline della povera zia, che le vedevo razzolare attorno.

«L'una – rispose la Marta – l'ha pur mangiata lei una settimana fa».

«Mi dispiace. E l'altra?»

«L'altra cova».

E le donne mi condussero dove l'altra gallina covava.

Sopra un paniere posava la gallina immobile e rigonfia.

La testa rossa sul corpo tutto bianco, pareva uno strano monile di corallo. Io ho inteso al mattino le galline fare cocodè, ed è un suono allegro, perchè è come una diana del lavoro e del risveglio. Questo animale che va a dormire con le prime tenebre e si leva con la prima luce, è pure il simbolo della buona massaia.

Ora io rimasi sorpreso come al nostro avvicinarsi, la gallina, non più il gaio suo cocodè, ma un lugubre gorgoglio emettesse, di terrore e di minaccia. Non fuggì, ma tremava e fremeva per tutte le penne.

Qui le donne mi spiegarono molte cose: che la chioccia aveva sotto venti uova e tutte le riscalda e rimuove; che dal suo ventre ha strappato le penne per fare soffice il nido; che immota così essa sta per un mese o quasi, insonne.

«Povero animale – dissi accarezzando la rossa cresta –, e dire che gli uomini col tuo nome chiamano le cocottes

Ma, e la sozzura? Questo lo sanno tutti: la gallina vuota ad ogni breve intervallo il suo intestino, mentre l'uomo, e anche la donna, hanno una specie di serbatoio… : anzi a quel povero mio amico innamorato del décolleté della contessa, volevo regalare questo pensiero a modo di antidoto: «Pensa al serbatoio che la contessa porta con sè. E non è artificiale.» Ebbene, la gallina, quando cova, trattiene la sua sozzurra, e si nutre appena – essa voracissima – di quel tanto che è necessario al suo sostentamento.

Come e dove si compie questa trasformazione? Nel cervello della gallina, il quale è tanto piccolo che si dice per proverbio cervello di gallina? E quando è cotto, v'è chi lo dà al gatto, chi lo dà alla serva, chi gli piace, e se lo mangia levando dalla scatoletta i lobi con lo steccadenti! Questo movimento è lì? E se è lì, è certamente una cosa materiale: un'alterazione materiale vi deve essere. Forse si deve vedere col microscopio, ma sinora nulla si è veduto.

«Coccona bella – disse la Marta accarezzando con affetto la gallina, – dopo mangeremo anche te».

La gallina ode immobile lì nel paniere. La Pallina dice che i pulcini romperanno il guscio alla fine dell'aprile: alla fine di giugno assicura che saranno maturi per essere messi in padella, alla cacciatora; e che venti galletti rappresentano oggi una bella somma.

Essa ha assolto la terza elementare e sa fare il suo computo.

Comprerà un paio di scarpette.

Perchè – io mi domando – la gallina non comprende questi pensieri della Pallina?

 

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Io mentirei come un uomo politico, se dicessi che mi sento prossimo della Pilla o Pallina – osservavo ritornando nella stanza dei libri. – Eccola lì: il guadagno, il guadagno! Vendere i galletti. Poi il godimento. Come il più spregevole borghese: guadagnare e godere. E scommetto che a domandarle: Chi sei?, risponde: Sono socialista.

Ma poi subentrò altro pensiero: adesso quella scioccherella andrà a sparger la voce fra questi contadini che io credo nel diavolo. Non sono screditato abbastanza! E la cosa è seccante; non per la cattiva riputazione, ma per le conseguenze pratiche: questi contadini credono fermamente che un uomo che vive sui libri possa – e perciò deva – essere imbrogliato anche nei più piccoli contratti.

«Vuole comperare un bel pesce fresco?»

E perchè io dimostrai che non era fresco, la pescivendola mi guardò stupefatta, e disse: «Capisce anche lei?».

Ma poi pensandoci bene, riconosco che in città avviene lo stesso: i contadini ve lo fanno capire; i cittadini, no.

In una repubblica ideale quelli che vivono sui libri dovrebbero essere esenti da tasse.

«Il contrario, anzi! Tassa speciale, con particolare inasprimento per quei sempliciotti che si permettono di dire al pubblico la verità: est tempus loquendi et tempus tacendi».

Siccome avevo in mano la Bibbia, ho creduto che fosse il sapiente Salomone a parlare così:

Io domandai: «E Cristo che disse: ego sum Veritas?».

«E ha ben pagato con la vita!»

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Forse era Satana, e non Salomone a parlarmi. Comunque è vero: la verità rimane cosa esoterica