venerdì 12 marzo 2021

GATTI MOLTO SPECIALI Doris Lessing

 


GATTI MOLTO SPECIALI 

Doris Lessing 

[...] Un gatto ha bisogno di una casa tanto quanto ha bisogno di una persona da fare sua.[...]

1

Poiché la casa sorgeva in cima a una collina, falchi, aquile e uccelli da preda che si affidavano volteggiando alle correnti d’aria sopra la boscaglia si trovavano spesso ad altezza d’occhi, a volte un po’ più in basso. Lo sguardo si posava su ali nere e brune che scintillavano al sole, una distesa di circa due metri che si inclinava man mano che gli uccelli si piegavano per curvare. Giù, nei campi, ce ne stavamo immobili, rannicchiati in un solco, sotto uno strato di erba e di foglie, preferibilmente là dove l’aratro aveva affondato più fittamente i denti nel girare. Le gambe, eccessivamente pallide contro il color bruno-rossastro del suolo, nonostante l’abbronzatura, dovevano venir cosparse di terra oppure affondate nella terra stessa. Un centinaio di metri più in alto, una dozzina di uccelli volavano in cerchio, gli occhi fissi sul campo, nel tentativo di cogliere qualche piccolo movimento di un topo, di un uccellino, o di una talpa. Noi ne sceglievamo uno, forse quello che ci volava proprio sopra la testa; forse per un attimo immaginavamo uno scambio diretto di sguardi: il freddo occhio sbarrato del volatile nell’occhio freddamente curioso dell’essere umano. Sotto il corpo stretto e a forma di proiettile, al centro di due grandi ali sospese a mezz’aria, gli artigli erano già in posizione. Dopo circa mezzo minuto, o forse venti, l’uccello piombava dritto sulla minuscola creatura che aveva scelto; poi riprendeva quota per scomparire lontano, con un ampio e regolare battito di ali, lasciando dietro di sé un turbine di polvere rossa e un odore acre e nauseabondo. Il cielo era come sempre: uno spazio azzurro alto e silenzioso cosparso di gruppetti di uccelli che si muovevano roteando. Ma poteva facilmente accadere che in cima alla collina un falco calasse sfrecciando obliquamente dopo essersi distaccato dal cerchio d’aria sul quale era adagiato, per scegliere la propria preda – uno dei nostri polli. O persino che si innalzasse in volo lungo una delle strade che attraversavano la boscaglia, la grande distesa di ali cautamente sorretta per proteggerla dai rami sporgenti: non era forse un uccello che andava contro la sua stessa natura dirigendosi in tal modo, a tanta velocità, lungo un percorso aereo in mezzo agli alberi anziché gettarsi sulla terra attraverso l’aria?

I nostri polli erano, o almeno così credevano i loro nemici, una provvista sempre nuova di carne per falchi, gufi e gatti selvatici per molte miglia all’intorno. Dal sorgere al calar del sole, il pollame razzolava sulla sommità ben visibile della collina, che era percorsa da predoni dalle penne bianche, brune e nere luccicanti, e da un continuo chiocchiare, cantar di galli, raspare e pavoneggiarsi impettiti.

Nelle fattorie, in Africa, vi è l’usanza di tagliar via la sommità delle latte di benzina e di nafta, ed esporre al sole quegli scintillanti quadrati di metallo perché mandino bagliori. Per spaventare e tenere lontani gli uccelli, dicono. Ma io ho visto un falco lanciarsi giù da un albero e sottrarre una gallina grassa e sonnolenta alle uova che stava covando, e questo nonostante che tutt’attorno a lei vi fossero cani, gatti ed esseri umani, neri e bianchi. E una volta, mentre la famiglia era seduta a prendere il tè davanti a casa, una dozzina di persone videro con i loro stessi occhi un gattino già quasi adulto venir sottratto, all’ombra di un cespuglio sotto il quale si trovava, da un falco che si era lanciato a precipizio. Durante i lunghi silenzi nel caldo di mezzogiorno, l’improvviso stridere o gridare o agitarsi eccitato di piume poteva significare altrettanto spesso che un falco aveva acchiappato uno dei nostri animali da cortile oppure che un gallo si era accoppiato con una gallina. A ogni modo c’erano molti polli. E tanti di quei falchi che non aveva senso sparargli contro. In qualsiasi momento ci si mettesse sulla collina con lo sguardo rivolto verso il cielo, si poteva star certi di scorgere nel raggio di mezzo miglio un uccello che volava in tondo. Un centinaio di metri più in basso una piccola chiazza d’ombra svolazzava sugli alberi e sui campi. Seduta quietamente sotto un albero, ho visto alcune creature gelare di paura o correre a mettersi al riparo quando l’ombra minacciosa di grandi ali, che era in alto, li toccava, o per un attimo oscurava la luce sull’erba o sulle foglie. Non era mai un solo uccello alla volta, ma due, tre, o quattro che roteavano in gruppo. Perché mai proprio lì, veniva fatto di chiedersi? Ovvio! perché percorrevano tutti, seppure a livelli diversi, la stessa spirale nell’aria. Un poco più oltre, un altro gruppo. Poi un’occhiata attenta – ed ecco il cielo cospargersi di granelli neri; oppure, se il sole li illuminava, di puntini luminosi, simili a granelli di polvere imprigionati in un raggio di luce che proveniva da una finestra. E in quella immensa distesa di aria azzurra, quanti mai avrebbero potuto essere i falchi? Alcune centinaia? E ognuno di essi sarebbe stato in grado di calare sul nostro pollame nel giro di pochi minuti.

E così ai falchi non si sparava. Eccetto che negli attacchi di rabbia. Ricordo la volta in cui un gattino scomparve miagolando nel cielo tra gli artigli di un falco, e mia madre gli esplose contro un fucile a pallettoni. Inutilmente, come è ovvio.

Se le ore del giorno erano dei falchi, l’alba e il tramonto appartenevano ai gufi. Al calar del sole i polli venivano fatti rientrare nei loro recinti, momento che i gufi trascorrevano standosene seduti sui rami degli alberi, cosicché poteva accadere che un gufo che amava dormire fino a tardi si impossessasse di uno dei volatili al primissimo spuntar del sole, quando venivano aperti di nuovo i recinti.

Per i falchi c’era la luce del giorno; per i gufi la semioscurità; ma la notte era dei gatti, dei gatti selvatici.

E in questo caso c’era motivo di usarlo, il fucile. Gli uccelli erano liberi di spaziare lungo migliaia di chilometri di cielo. Un gatto aveva certamente una tana, un compagno, dei gattini – quantomeno una tana. Quando uno di questi gatti sceglieva la nostra collina per venirci a vivere, noi gli sparavamo. I gatti arrivavano di notte, si dirigevano verso i recinti del pollame, riuscivano a scoprire dei passaggi incredibilmente minuscoli nei muri o nella rete metallica. I gatti selvatici si accoppiavano con i nostri gatti, allettavano dei pacifici gattini domestici ad allontanarsi a vivere delle vite piene di pericoli in una boscaglia per la quale, ne eravamo persuasi, non erano adatti. I gatti selvatici insinuavano seri dubbi circa la reputazione delle nostre tranquille bestiole.

Un giorno l’indigeno che lavorava in cucina disse di aver visto un gatto selvatico su un albero che si trovava a metà della collina. Poiché mio fratello in quel momento non c’era, fui io a imbracciare il fucile calibro 22 e ad andarlo a cercare. Era mezzogiorno inoltrato: non certo l’ora dei gatti selvatici. Su un albero non ancora adulto, disteso su un ramo, c’era il gatto, e soffiava. Gli occhi verdi mandavano lampi. I gatti selvatici non sono creature belle a vedersi. Hanno un brutto pelo marrone-giallastro e ispido. E poi mandano cattivo odore. Quel particolare gatto aveva catturato un pollo, nelle ultime dodici ore, perché il terreno ai piedi dell’albero era cosparso di piume bianche e di pezzetti di carne che già puzzavano. Noi odiavamo i gatti selvatici, che sputavano, graffiavano, soffiavano e odiavano noi. E quello era un gatto selvatico. Gli sparai. Cadde giù pesantemente dal ramo ai miei piedi, si contorse per un poco tra piume bianche che svolazzavano, poi giacque immobile. Normalmente avrei tirato su quella carcassa afferrandola per la coda rognosa e puzzolente e l’avrei gettata nel primo pozzo in disuso che avessi trovato a portata di mano. Ma in quel particolare gatto ci fu qualcosa che mi colpì. Mi chinai a guardarlo. La forma della testa era sbagliata, per essere quella di un gatto selvatico; e anche il pelo, per quanto ispido, era pur sempre troppo morbido per appartenere a una simile bestia. Fui costretta ad ammetterlo. Non si trattava di un gatto selvatico, ma di uno dei nostri. In quel brutto cadavere riconoscemmo Minnie, una deliziosa bestiola che avevamo avuto due anni prima e che era sparita – portata via, pensammo, da un falco oppure da un gufo. Minnie era per metà un gatto persiano, una creatura morbida da accarezzare. E invece la mangiatrice di polli era proprio lei. Poi, non molto distante dall’albero sul quale era stata uccisa, trovammo una nidiata di gattini selvatici. I quali, però, selvatici lo erano davvero, e gli esseri umani erano loro nemici: a riprova di ciò venimmo morsi e graffiati alle gambe e alle braccia. E così li distruggemmo. O, per meglio dire, mia madre fece in modo che venissero eliminati; e questo perché in base a una qualche regola della casa, sulla quale non mi venne fatto di riflettere che molto tempo più tardi, queste sgradevoli incombenze toccavano a lei.

Provate un poco a pensarci: c’erano sempre gatti in giro per la casa. Nessun veterinario nelle vicinanze, se non a Salisbury, a circa cento chilometri di distanza. Nessuna possibilità di “interventi” sui gatti, che io ricordi, certamente non sulle femmine. Tenere dei gatti voleva dire avere gattini, tanti e spesso. Qualcuno doveva liberarci di quelli indesiderati. Può darsi che se ne occupassero gli indigeni che lavoravano in casa e in cucina? Ricordo ancora quanto spesso risuonavano le parole, bulala yena(ammazzalo!). Gli animali e gli uccelli di casa e della fattoria che erano feriti e gracili: bulala yena!

Ma in casa esisteva un fucile da caccia, e anche una rivoltella, ed era mia madre a usarli.

Dei serpenti, per esempio, di solito se ne occupava lei. La presenza dei serpenti era costante, una cosa che a dirla può sembrare drammatica, e io credo che lo fosse; ma era qualcosa con cui si conviveva. Io non avevo tanta paura dei serpenti quanta ne avevo dei ragni, enormi, diversi fra loro e molto numerosi, che mi rendevano la vita infelice. C’erano cobra, mamba neri, vipere soffianti e vipere notturne. E ce n’era uno particolarmente cattivo, detto boomslang o serpente degli alberi, il quale ha l’abitudine di attorcigliarsi attorno a un ramo, a un pilastro della veranda, a qualcosa che si solleva dal terreno, e sputare in faccia a tutti quelli che lo disturbano. Spesso lo si ritrova ad altezza d’occhi, e così la gente rimane accecata. Ma durante venti anni di serpenti, la sola cosa brutta che accadde fu quando uno di questi serpenti sputò negli occhi di mio fratello. La vista gli fu salvata da un indigeno con l’ausilio della medicina tradizionale.

Ma continuamente veniva dato l’allarme. C’è un serpente in cucina; oppure in veranda; o in sala da pranzo; pareva che fossero ovunque. Una volta fui quasi sul punto di raccogliere una vipera notturna, avendola scambiata per una matassa di lana da rammendo. Ma prima che potessi farlo questa si spaventò e il suo sibilo ci salvò entrambi: io scappai via e lei la fece franca. Un’altra volta un serpente si infilò nella scrivania che aveva una serie di nicchie piene di mucchi di carte. Mia madre e i domestici impiegarono ore a spaventare la creatura, e a convincerla a uscire perché lei le potesse sparare. Una volta un serpente, un mamba, si infilò sotto il contenitore delle granaglie, nella capanna che fungeva da dispensa. Mia madre fu costretta a sdraiarsi su un fianco e a sparargli alla testa da una distanza di pochi centimetri.

Un serpente che si era infilato nella catasta della legna ci mise in allarme, e io causai la morte di uno dei nostri gatti preferiti dicendo che lo avevo visto infilarsi in mezzo a due ciocchi di legno. Ciò che avevo visto era la coda del gatto. Mia madre sparò a qualcosa di grigiastro che si muoveva; ed ecco che gridando di dolore uscì fuori il gatto, con un fianco squarciato, tutto rosso e con le carni aperte. Si dimenava gemendo tra i pezzi di legno, con il piccolo cuore sanguinante che si vedeva tra le fragili costole rotte. Il gatto morì, mentre mia madre piangeva e lo accarezzava. Nel frattempo, a un paio di metri di distanza, il cobra se ne stava avvolto intorno a un lungo pezzo di legno.

Una volta si udì un gran trambusto di grida e di avvertimenti; ed ecco che su un terreno roccioso, in mezzo a piante di hibiscus e cespugli spinosi vi era un gatto in pieno combattimento con un serpente ballerino dal corpo affusolato. Il serpente si era insinuato nella siepe spinosa, larga un metro, e se ne stava lì, con gli occhietti luccicanti puntati sul gatto, che non aveva la possibilità di avvicinarsi. Il micio se ne rimase lì tutto il pomeriggio, muovendosi attorno alla massa spinosa che racchiudeva il serpente, soffiando nella sua direzione e miagolando. Ma al sopraggiungere del buio il serpente scivolò via e si allontanò, incolume.

Lampi di ricordi, storie senza inizio o fine. Che ne fu di quel gatto che giaceva disteso sul letto di mia madre, miagolando dal dolore, con gli occhi gonfi per essere stati colpiti dalla saliva di un serpente? O di quella gatta che entrò gemendo in casa, con il petto che pendeva fino a terra per la gran quantità di latte inutilizzato? Noi andammo a cercare i suoi gattini, nella vecchia cassetta nel capanno degli attrezzi, ma erano spariti; l’indigeno esaminò le tracce nella polvere intorno alla scatola e poi disse: “Nyoka”. Un serpente.

Quando si è bambini, le persone, gli animali, gli avvenimenti compaiono, vengono accettati, scompaiono, senza che venga data o chiesta alcuna spiegazione.

Ma oggi, ripensando ai gatti, sempre gatti, un centinaio di episodi che riguardavano i gatti, anni e anni di gatti, mi stupisco se penso alla enorme quantità di lavoro che la loro presenza deve aver comportato. Oggi, a Londra, ho due gatti, e molto spesso mi dico: Che sciocchezza che una debba avere tutti quei fastidi e preoccupazioni per colpa di due bestiole.

E tutta quella fatica veniva compiuta da mia madre. I lavori agricoli erano compito dell’uomo; quelli domestici della donna, anche se la casa comportava un lavoro infinitamente maggiore di quanto normalmente si crede quando si pensa al lavoro domestico in una città. Ed era suo compito, inoltre, per il fatto che l’indole di una persona esige la quantità di fatica che le si adatta. Lei era umana, sensibile, perspicace. Era soprattutto, e in ogni minima cosa che faceva, pratica. Ma non basta: era uno di quegli esseri umani che sanno come vanno le cose; e che a questo si adatta. Un ruolo alquanto difficile.

Mio padre era uno che capiva abbastanza bene certe cose; era un uomo di campagna. Ma il suo modo di fare si manifestava sotto forma di protesta; quando c’era da fare qualcosa, quando c’era da prendere dei provvedimenti, si arrivava a una decisione finale – ed era mia madre che la prendeva. “E così le cose stanno a questo punto, a quel che vedo!” diceva mio padre, con una collera ironica che era anche ammirazione. “La natura,” soleva dire capitolando, “va benissimo, quando è lasciata al suo posto.”

Ma mia madre, poiché la natura era il suo elemento, nonché suo compito e suo fardello, non sprecava tempo in filosofie dei sentimenti. “Tanto, per te va bene tutto, non è vero?” diceva; divertente, davvero divertente, sarebbe stato se tutto questo l’avesse uccisa; ma era anche risentita, naturalmente, perché non era lui ad affogare i gattini, sparare al serpente, uccidere il pollame ammalato, o bruciare lo zolfo nel nido delle formiche bianche: a mio padre le formiche bianche piacevano, e gli piaceva starle a guardare.

Il che rende ancor più difficile capire che cosa portò a quello spaventoso fine settimana nel quale fui lasciata da sola con mio padre e con circa quaranta gatti.

La sola cosa che ricordo, di quel periodo, come spiegazione che me ne fu data, è l’osservazione: “Ha il cuore tenero, e non ce la fa ad affogare un gattino”.

La cosa fu detta con impazienza, con irritazione e – da parte mia – con rabbia fredda e ostile. A quell’epoca ero in lotta con mia madre, una lotta mortale, una lotta per la sopravvivenza, e forse quell’episodio aveva a che fare con questo, non so. Ma oggi mi chiedo, sgomenta, quale sorta di crollo del coraggio fosse intervenuto in lei. O forse si era trattato di una protesta? Quali infelicità dell’anima si erano espresse in quel modo? Che cosa, in realtà, aveva voluto dire durante quell’intero anno nel quale si era rifiutata di affogare i gattini o far uccidere quelli per i quali era davvero necessario? E, alla fine, perché mai se ne andò via lasciando noi due da soli, sapendo perfettamente bene – perché doveva saperlo, dal momento che la cosa veniva minacciata spesso e a voce alta – che cosa sarebbe accaduto?

Un anno, o forse meno, di rifiuto da parte di mia madre di assumersi il suo ruolo di regolatrice, arbitro, elemento equilibratore tra la ragione e l’irragionevole proliferare della natura, avevano prodotto come conseguenza il fatto che la casa, i capanni attorno alla casa, la boscaglia che circondava la fattoria, erano infestati dai gatti. Gatti di tutte le età; gatti domestici, gatti selvatici, gatti di ogni stadio intermedio; gatti rognosi e con occhi piagati, gatti storpi e sciancati. E, come non bastasse, c’erano una mezza dozzina di gatte in procinto di partorire. Niente ci avrebbe salvato dal fatto che nel giro di alcune settimane saremmo divenuti campo di battaglia per un centinaio di gatti.

Bisognava fare qualcosa. Lo diceva mio padre. Lo dicevo io. Lo dicevano i domestici. Mia madre stringeva le labbra, non diceva niente, ma se ne andò. Prima di andarsene salutò la sua gatta preferita, una vecchia soriana che era la capostipite dell’intero gruppo. La accarezzò con dolcezza e pianse. Ed è sicuramente una cosa che ricordo, il mio senso di inutilità per non riuscire a comprendere quanta importanza si celasse dietro quelle lacrime.

Nell’attimo stesso in cui lei se ne andò, mio padre ripeté, svariate volte: “Bene, e così bisogna farlo, non è vero?”. Sì, bisognava farlo; e allora telefonò al veterinario in città. Una faccenda, questa, nient’affatto semplice. Il telefono funzionava con una linea che era comune ad altri venti agricoltori. Si era costretti ad attendere che tacessero pettegolezzi e lo scambio di notizie tra le fattorie; poi si doveva chiamare il centralino e chiedere una linea per parlare con la città. Appena c’era una linea libera l’operatore richiamava. La cosa poteva richiedere un’ora, o anche due. E certo peggiorava la situazione il fatto di dover aspettare, mentre si guardavano i gatti, augurandosi che la sgradevole faccenda si concludesse al più presto. E così ce ne rimanemmo seduti fianco a fianco, al tavolo della sala da pranzo, in attesa dello squillo del telefono destinato a noi. Alla fine riuscimmo a parlare con il veterinario, il quale ci disse che il modo meno crudele per uccidere dei gatti adulti era quello di cloroformizzarli. Ma nei dintorni non c’era una farmacia, e la più vicina si trovava a Sinoia, a trenta chilometri di distanza. Ci mettemmo in macchina e raggiungemmo Sinoia, ma la farmacia era chiusa per il week-end. Da Sinoia telefonammo a Salisbury e chiedemmo a un farmacista di mettere sul treno, il giorno dopo, un bottiglione di cloroformio. L’uomo disse che avrebbe fatto il possibile. Quella notte ci sedemmo fuori, davanti a casa, sotto le stelle, che era poi il luogo in cui trascorrevamo le serate quando non pioveva. Ci sentivamo infelici, rabbiosi, colpevoli. Andammo a dormire prestissimo, per far passare il tempo. Il giorno dopo era sabato. Andammo in macchina alla stazione, ma sul treno il cloroformio non c’era. La domenica una gatta aveva dato alla luce sei gattini. Erano tutti deformi: in ognuno di essi c’era qualcosa che non andava. Accoppiamento fra consanguinei, disse mio padre. E se così era, è straordinario come in meno di un anno la cosa avesse potuto trasformare pochi animali del tutto sani in un esercito di bestie sciancate, deboli e malate. La domestica ci sbarazzò dei nuovi gattini, e noi trascorremmo un’altra giornata terribile. Il lunedì ci recammo alla stazione, aspettammo il treno e tornammo indietro con il cloroformio. Mia madre sarebbe rientrata il lunedì sera. Ci procurammo una grande scatola di metallo a tenuta stagna, di quelle per i biscotti, e ci mettemmo dentro un vecchio gatto triste e malato, insieme a un tampone imbevuto di cloroformio. Non consiglio questo metodo. Il veterinario aveva detto che sarebbe stata una cosa istantanea. Ma non lo fu.

Alla fine radunammo i gatti e li chiudemmo in una stanza nella quale mio padre entrò portando con sé la pistola della prima guerra mondiale, più affidabile, a suo dire, del fucile da caccia. La pistola sparò, poi sparò di nuovo, e così molte altre volte ancora. I gatti che non erano stati catturati avevano capito quale sarebbe stato il loro destino e si disperdevano, furiosi e urlanti, in ogni punto della boscaglia, inseguiti da tutti noi. A un certo momento mio padre venne fuori dalla stanza, molto pallido, le labbra tese e adirate e gli occhi umidi. Stava male. Bestemmiò un bel po’, poi tornò nella stanza e la sparatoria continuò. Alla fine ne uscì. I domestici vi entrarono e portarono via i cadaveri che gettarono nel vecchio pozzo in disuso.

Alcuni dei gatti erano fuggiti via – e poiché tre di essi non tornarono mai più in quella casa assassina, è possibile che si siano inselvatichiti e abbiano in questomodo tentato la sorte. Rientrata dal viaggio, e dopo che il vicino che l’aveva accompagnata se ne fu andato via, mia madre, in silenzio, senza far commenti, fece un giro per la casa, nella quale c’era adesso un solo gatto, la sua vecchia micia prediletta, che le dormiva sul letto. Mia madre non aveva chiesto che questa gatta venisse risparmiata perché era vecchia e non stava molto bene. Ma si capiva che la cercava; poi si sedette, la accarezzò a lungo, parlandole. Quindi uscì sulla veranda. Lì c’era mio padre, seduto, e c’ero anch’io. Due assassini, così ci sentivamo. Lei si mise a sedere. Mio padre si stava arrotolando una sigaretta. Aveva le mani che gli tremavano ancora. Poi alzò lo sguardo verso di lei e disse: “Non deve accadere mai più”. E credo che mai più accadde.

2

Ero arrabbiata per quell’olocausto di gatti, perché si poteva evitare che la cosa si rendesse necessaria; però non ricordo di averne sofferto. Ero protetta contro un sentimento del genere, dal dolore già provato per la morte di un gatto alcuni anni prima, quando avevo undici anni. Era stato allora che su quel corpo freddo e pesante che inspiegabilmente si era rivelato essere la creatura leggera come una piuma di qualche tempo prima, io avevo detto: Mai più. Ma si trattava di un giuramento che avevo già fatto in precedenza, e io lo sapevo. Quando avevo tre anni, raccontavano i miei genitori, ero uscita a fare una passeggiata con la bambinaia, a Teheran, e nonostante le proteste della donna, avevo raccolto dalla strada un gattino che moriva di fame e lo avevo portato a casa. Era il mio gattino, sostenevano che avessi detto, e per quel gattino lottai anche quando tutta la famiglia si rifiutava di accoglierlo. Allora lo lavarono con il permanganato, perché era lercio, e da quel momento in poi dormì sul mio letto. Non permettevo che mi venisse tolto. Ma ovviamente la cosa deve essere accaduta, perché la famiglia lasciò la Persia mentre il gatto rimase lì. O forse morì. Forse – come fare a saperlo? In ogni modo, da qualche parte, laggiù, una bambina piccolissima aveva lottato per tenere con sé un gatto che le teneva compagnia giorno e notte e aveva vinto; e poi lo aveva perduto.

Dopo una certa età – e per alcuni di noi può accadere quando si è molto giovani – non ci sono più persone, bestie, sogni, facce, avvenimenti, che siano nuovi: tutto è già successo prima, ogni cosa è già apparsa in precedenza, camuffata in modo diverso, vestita di abiti differenti, con un’altra nazionalità, un altro colore; la cosa, la stessa cosa e ogni altra cosa diviene un’eco e una ripetizione; e non c’è dolore, persino, che non sia il ripetersi di qualcosa, da tempo dimenticata, che torna a esprimersi attraverso una sofferenza indicibile, attraverso giorni di pianto, solitudine, consapevolezza di esser stati traditi – e tutto per colpa di un gatto, piccolo, magro, moribondo.

Quell’inverno mi ammalai. Cosa che giungeva inopportuna, perché la mia stanza, che era grande, doveva venire imbiancata. Io venni sistemata nella cameretta che si trovava in fondo alla casa. La casa, che sorgeva quasi – ma non completamente – sulla sommità della collina, sembrava sempre sul punto di scivolar giù per andare a finire nei campi di frumento che erano più in basso. Quella stanzetta non più grande di una fetta ritagliata nella parte posteriore della casa aveva una porta, che veniva tenuta sempre aperta, e finestre, anch’esse sempre aperte, nonostante il freddo e il vento di un luglio i cui cieli erano di un azzurro terso e ininterrotto. Il cielo era pieno della luce del sole; i campi, inondati anch’essi di sole. Ma faceva freddo, molto freddo. Il gatto, un persiano grigio-bluastro, arrivò sul mio letto facendo le fusa, e lì si sistemò, a condividere la mia malattia, il mio cibo, il mio cuscino, il mio sonno. Quando aprivo gli occhi, la mattina, la mia faccia si girava verso lenzuola mezzo ghiacciate; l’esterno della coperta di pelliccia, che ricopriva il letto, era freddo; l’odore della tinta data di fresco che proveniva dalla stanza accanto era freddo e asettico; il vento, che sollevava e deponeva la polvere fuori della porta, era freddo anch’esso – ma nell’incavo del mio braccio un calore ronfava lieve. Era il gatto, il mio amico.

Sul retro della casa un vascone di legno incassato nel terreno, fuori della stanza da bagno, raccoglieva l’acqua di scarico della vasca. In quella fattoria non c’erano tubature che portassero l’acqua ai rubinetti: questa, quando serviva, veniva mandata a prendere con un carro trainato da buoi, da un pozzo distante da casa circa tre chilometri. Durante la stagione asciutta la sola acqua disponibile per il giardino era l’acqua sporca del bagno. La gatta era caduta nel vascone quando questo era pieno di acqua calda. Aveva strillato, era stata tirata fuori dove tirava un vento gelido, e lavata con permanganato perché la vasca era sudicia, piena di foglie e di polvere oltre che di acqua saponata; era stata asciugata e poi infilata nel mio letto perché si riscaldasse. Ma aveva cominciato a starnutire, ad ansimare e a bruciare di febbre. Aveva la polmonite. La curammo con quanto era disponibile in casa, ma tutto questo accadeva prima degli antibiotici, e così la gatta morì. Per una settimana rimase adagiata tra le mie braccia, ronfando con una vocina tremula, roca e affannosa, che si fece prima più debole e poi silenziosa; mi leccava la mano; spalancava gli enormi occhi verdi ogni volta che la chiamavo per nome e la supplicavo di vivere; poi li chiuse, morì, e fu gettata in un pozzo – profondo oltre trenta metri – che si era prosciugato perché un certo anno i flussi d’acqua sotterranei avevano cambiato percorso e al posto di quello che avevamo creduto un pozzo affidabile avevano lasciato una cavità rocciosa, scoscesa e asciutta, che ben presto fu piena a metà di spazzatura, barattoli e cadaveri.

E così finì. Mai più. Per anni continuai a paragonare i gatti che vedevo nelle case degli amici, i gatti dei negozi, i gatti delle fattorie, i gatti che si muovevano sui muri, i gatti del ricordo, con la dolce creatura azzurro-grigia che ronfava, e che per me era il gatto, il Gatto, e che non sarebbe stato rimpiazzato, mai.

E inoltre, per alcuni anni la mia vita non fu in grado di accogliere appendici, cose superflue, abbellimenti. I gatti non avevano posto in una esistenza trascorsa muovendo sempre da una casa all’altra, da una stanza all’altra. Un gatto ha bisogno di una casa tanto quanto ha bisogno di una persona da fare sua.

E così fu solo venticinque anni più tardi che nella mia vita ci fu posto per un gatto.

3

Accadde in un appartamento grande e brutto a Earls Court. Quello che ci serviva, decidemmo, era un gatto robusto, senza complicazioni, non esigente, in grado di badare a se stesso in quella che appariva chiaramente, alla minima occhiata si lanciasse dalle finestre del retro, una lotta selvaggia per il potere lungo muri e cortili posteriori. Avrebbe dovuto acchiappare topi e ratti, e altrimenti mangiare quanto gli veniva messo davanti. Non avrebbe dovuto essere un gatto di razza e quindi delicato.

Tale formula non aveva ovviamente nulla a che vedere con Londra, ma si ricollegava all’Africa. Ad esempio nella fattoria nutrivamo i gatti con ciotole di latte caldo quando i secchi tornavano su dalla mungitura; i gatti del cuore ricevevano rimasugli di cibo dalla tavola, ma mai carne – quella se la procuravano da soli. Se si ammalavano, e nel giro di pochi giorni non erano ancora guariti, venivano soppressi. In una fattoria, inoltre, è possibile tenere anche una dozzina di gatti senza dover pensare a una lettiera. Quanto poi alle battaglie e agli equilibri di potere, questi erano combattuti e difesi per conquistare un cuscino, una sedia, una scatola nell’angolo di una tettoia, un albero, una macchia d’ombra. Si ricavavano dei territori per se stessi, l’uno contro l’altro, contro i gatti selvatici e i cani della fattoria. Una casa di campagna è uno spazio aperto e per questo vi si svolgono molte più lotte che in città, dove un gatto, una coppia di gatti, divengono i padroni di una casa o di un appartamento, che difendono contro visitatori o avversari. Quel che poi avverrà fra i due gatti all’interno di questi confini è un’altra faccenda. Ma la linea di demarcazione contro gli estranei rimane la porta posteriore. Una volta, a Londra, una mia amica fu costretta a tenere in casa, per settimane, una lettiera, perché il suo gatto era assediato da una dozzina di altri felini che se ne stavano seduti tutto attorno ai muri e sugli alberi del giardino, pronti a uccidere. Poi le maree di guerra defluirono in un’altra direzione, ed egli fu in grado di reclamare di nuovo il possesso del suo giardino.

Il mio gatto era una femmina bianca e nera, semiadulta, di origine incerta, della quale ci erano stati garantiti pulizia e buon carattere. Era una bestia abbastanza graziosa, ma io non l’ho mai veramente amata; non ho mai ceduto; in sostanza, mi difendevo. La consideravo nevrotica, eccessivamente ansiosa, schizzinosa, tutte considerazioni ingiuste, perché la vita di un gatto di città è talmente innaturale che la bestia non impara mai quell’indipendenza della quale un gatto gode quando è in una fattoria. Mi infastidiva che si mettesse ad aspettare che le persone rientrassero a casa – come un cane; quando aveva dei gattini richiedeva la presenza degli umani. Quanto poi alle sue abitudini alimentari, quella battaglia la vinse già dalla prima settimana. Perché quella gatta non mangiò mai, neppure una volta, niente altro che fegato di vitella poco cotto, e merluzzo appena bollito. Dove mai aveva preso simili gusti? Lo domandai alla sua ex proprietaria, la quale, ovviamente, non lo sapeva. Io le davo da mangiare cibo per gatti e avanzi della tavola; ma fu soltanto il giorno che mangiammo fegato che la gatta mostrò un certo interesse. Doveva essere fegato. E per giunta non doveva essere cucinato in niente altro che burro. Una volta decisi di affamarla fino a che non si fosse sottomessa. “È ridicolo che un gatto debba venir nutrito, ecc. ecc., quando tanta gente nel mondo muore di fame, ecc. ecc.” Per cinque giorni le presentai cibo per gatti e avanzi di cucina. Per cinque giorni la gatta guardò il piatto con aria critica, e poi si allontanò. Ogni sera toglievo il cibo vecchio, aprivo una nuova scatola e le riempivo la ciotola del latte. La gatta ciondolava per un poco nei paraggi, ispezionava quanto le avevo offerto, assaggiava un po’ di latte e poi se ne andava a zonzo di nuovo. Si fece più magra. Era evidente che aveva molta fame. E alla fine fui io a capitolare.

Sul retro di quella grande casa c’era una scala di legno che dal pianerottolo del primo piano portava giù in cortile. Lei se ne stava seduta su quella scala, che le consentiva di controllare con lo sguardo uno spazio di una mezza dozzina di metri, la strada e una tettoia. Appena arrivata in quella casa, ecco che da ogni punto del circondario si avvicinarono gli altri gatti per esaminare la nuova venuta. Lei se ne stava sul gradino più alto, per poter essere in grado di rifugiarsi in casa se gli altri si fossero avvicinati troppo. Era grande la metà di quei gattoni che erano lì in attesa. Di gran lunga troppo giovane, pensavo, per rimanere incinta; ma prima che fosse cresciuta del tutto lo era, e certo non le faceva bene avere dei cuccioli dal momento che era ancora un cucciolo lei stessa.

Il che mi induce a parlare degli istinti della nostra vecchia amica, istinti che dovrebbe conoscere assai bene. In condizioni naturali una gatta rimane forse incinta prima di essere del tutto cresciuta? Mette forse al mondo dei gattini quattro o cinque volte all’anno, sei per ogni cucciolata? Una gatta, come è ovvio, non serve solo a mangiare topi e uccelli, ma serve anche a fornire cibo per i falchi che se ne stanno in aria, al di sopra degli alberi sui quali lei si nasconde insieme ai gattini. E così un gattino che spinto dal suo primo impulso di curiosità si metta a trotterellare fuori dal riparo, scomparirà tra gli artigli di un falco. Ed è molto probabile che una gatta, impegnata a procurare il cibo a sé e ai suoi gattini, sarà in grado di proteggere solamente uno di essi, forse due. È considerevole il fatto che se una gatta domestica mette al mondo cinque o sei gattini e voi gliene togliete due, difficilmente questa se ne accorgerà: si lamenterà, li cercherà per breve tempo, ma poi la cosa verrà dimenticata. Ma se la gatta ha due gattini, e uno di essi scompare prima che sia arrivato il momento giusto per mandarlo via – e cioè dopo sei settimane – ecco che la gatta sarà preda di un violento attacco di ansia e lo cercherà per tutta la casa. Una cucciolata di sei gattini, nel tepore di un cesto, in una casa di città, può forse essere scorta, magari da un’aquila o da un falco che vadano a caccia di cibo nel posto sbagliato? Ma allora, come è inflessibile la natura, e com’è rigida: se i gatti sono amici dell’uomo da tanti secoli, non avrebbe potuto la natura adattarsi, magari solo un poco, discostandosi dalla formula: cinque o sei gattini per cucciolata, quattro volte l’anno?

La prima cucciolata di quella gatta fu preannunciata da molte rimostranze. Sapeva che qualcosa stava per accadere e voleva esser certa che al momento giusto accanto a lei ci fosse qualcuno. Nella fattoria le gatte se ne andavano a mettere al mondo i loro gattini in qualche posto buio e ben nascosto, per poi riapparire un mese più tardi con la loro nidiata, e presentar loro le scodelle del latte. Non ricordo di aver mai dovuto procurare a nessuna delle gatte della fattoria un posto nel quale andare a partorire. Alla gatta bianca e nera vennero offerti cesti, credenze, il fondo di armadi. Sembrava che a lei nessuno di questi luoghi piacesse, ma per due giorni prima del parto ci seguì in giro per casa, strofinandosi contro le nostre gambe e miagolando. Quando cominciò il travaglio si trovava sul pavimento della cucina, e questo perché in cucina c’era gente. Un freddo linoleum azzurro, e su questo, una gatta grassa che miagolava chiedendo attenzione, faceva ansiosamente le fusa tenendo d’occhio quelli che le stavano intorno per paura che la abbandonassero. Noi portammo un cesto, ce la mettemmo dentro e ci allontanammo per fare le nostre cose. Lei ci seguì, cosicché apparve chiaro che dovevamo rimanere insieme a lei. Il travaglio durò ore e ore. Alla fine comparve il primo gattino, ma era messo in posizione sbagliata. Allora uno di noi tenne ferma la gatta, un altro tirò le zampe posteriori del micio che erano scivolose. Il corpo uscì fuori ma la testa gli rimase incastrata. La gatta mordeva, graffiava, strillava. Una contrazione fece uscire il gattino, e all’improvviso la gatta, quasi folle, si girò, gli dette un morso sul collo, e questo morì. Quando gli altri quattro gattini furono nati e senza pericolo, si vide che il primo era il più grosso e il più forte. Quella gatta ebbe sei cucciolate, ognuna di cinque gattini, e per ciascuna cucciolata uccise il primo nato perché ciò le procurava una grande sofferenza fisica. Ma a parte questo fu una buona madre.

Il padre era un gatto nero molto grosso, insieme al quale si rotolava per tutto il cortile quando era in calore, e che, a parte quei momenti, se ne stava seduto sul gradino più basso della scala di legno a leccarsi la pelliccia, mentre lei, su quello più alto, leccava la propria. Alla gatta non piaceva che lui entrasse in casa, e lo cacciava via. Quando i gattini raggiungevano lo stadio in cui riuscivano a trovare da soli la strada verso il cortile, si sedevano sui gradini, uno, due, tre, quattro, tutte le possibili varietà di nero e di bianco, e con aria spaventata osservavano quel grosso micio dall’aria guardinga. A un certo punto la loro madre si muoveva per prima, con la coda eretta, ignorando il gatto nero. I gattini le andavano appresso, oltrepassandolo. In cortile la gatta dava loro nozioni di igiene, mentre il gatto stava a guardare. Poi lei risaliva per prima i gradini, ed essi la seguivano, uno, due, tre, quattro.

I gattini non mangiavano altro che fegato poco cotto e merluzzo appena bollito, fatto questo che mi curai di nascondere ai loro potenziali possessori.

I topi invece costituivano null’altro che un oggetto di interesse per quella gatta, e per tutti i suoi gattini.

L’appartamento nel quale abitavo aveva un dispositivo quale non ho mai trovato in nessun’altra casa di Londra. Qualcuno aveva tolto una dozzina di mattoni dal muro della cucina, aveva collocato una griglia metallica nella parte esterna e uno sportello in quella interna; cosicché si era creata, nel muro, una sorta di credenza per il cibo, antigienica, se si vuole, ma che aveva preso il posto di quella obsoleta necessità che era la dispensa. In quello spazio il pane e il formaggio potevano venir riposti alla temperatura giusta per loro, fresca ma senza l’ausilio del frigorifero, in modo che rimanessero umidi. In quella piccola dispensa però arrivarono i topi. Questi vivevano nei muri ed erano stati condizionati a tenersi alla larga da tutto tranne che dalla più atavica paura degli umani. Se entravo in cucina all’improvviso e vi trovavo un topo, questo mi guardava con occhietti brillanti e aspettava che me ne andassi. Se invece rimanevo e me ne stavo ferma, lui mi ignorava e continuava la sua ricerca di cibo. Se facevo rumore oppure gli tiravo contro qualcosa, il topo si infilava nuovamente nel muro, ma senza panico.

Non ce la facevo a indurmi a mettere delle trappole per acchiappare delle creature tanto fiduciose, però ritenni che la presenza di un gatto avrebbe significato, per così dire, comportarsi lealmente. Ma la gatta non faceva alcun caso ai topi. Un giorno entrai in cucina e la vidi distesa sul tavolo, che osservava due topi che erano sul pavimento.

Forse la presenza di gattini ne avrebbe sollecitato gli istinti che presumevo essere quelli naturali? Ben presto la gatta partorì, e quando i gattini furono abbastanza grandi da poter essere portati al piano di sotto, io misi la gatta e quattro di essi in cucina e ve li chiusi per tutta la notte dopo aver tolto di mezzo ogni cibo solido. Sul far dell’alba scesi a prendere un bicchier d’acqua, accesi la luce, e vidi la gatta, stesa sul pavimento che allattava i suoi piccoli, uno, due, tre, quattro, mentre a mezzo metro di distanza un topo si tirò su a sedere, disturbato dalla luce ma non dal gatto. Il topo nemmeno scappò via, ma attese che io me ne andassi.

Quella gatta amava, oppure tollerava, la compagnia dei topi; e disarmò un cane piuttosto stupido, che abitava al piano di sotto, il quale, proprio mentre era sul punto di darle la caccia fu costretto a capitolare perché lei – che sembrava non sapere che i cani erano dei nemici – gli si strofinò attorno alle zampe facendo le fusa. Così il cane divenne suo amico, e amico anche di tutti i suoi gattini. Ma ci fu una volta in cui la gatta apparve terrorizzata, una volta in cui, se i gatti sono creature della notte, stando alla quantità di buio, avrebbe invece dovuto rimanere calma.

Un pomeriggio, la notte discese su Londra. Ero in piedi accanto alla finestra della cucina, a bere il caffè del dopopranzo in compagnia di un’amica, quando l’aria si fece buia e sporca e le luci della strada si accesero. Il passaggio dalla piena luce del giorno al buio totale si compì nel giro di dieci minuti, forse meno. Noi eravamo terrorizzati. Avevamo forse perduto il senso del tempo? Oppure quella tale bomba alla fine era caduta, da qualche parte, e aveva ricoperto la nostra terra di una nube di sporcizia? Forse una di quelle fabbriche della morte delle quali questa graziosa isola è cosparsa avevano casualmente lasciato uscire un gas mortale? Erano quelli, in breve, i nostri ultimi istanti di vita? Non avevamo alcuna informazione, e così ce ne rimanemmo alla finestra, a guardare. Era un cielo pesante, senza vita, sulfureo; un buio color giallo-nerastro, con l’aria che ci bruciava la gola, come accade nel pozzo di una miniera dopo un’esplosione.

Era straordinariamente silenzioso. In momenti di crisi, questa quiete carica d’attesa è il primo sintomo di Londra, più allarmante di qualunque altro.

Nel frattempo la gatta se ne stava seduta sul tavolo, tremando. Di tanto in tanto emetteva – non un miagolio, ma un lamento, un gemito che era anche una domanda. Tirata su dal tavolo e accarezzata, la gatta si dibatté, saltò giù, poi strisciò – anziché correre – su per le scale, e si ficcò sotto un letto, dove rimase a tremare. Proprio come un cane.

Una mezz’ora più tardi quel manto buio si sollevò dal cielo. Un intrecciarsi di correnti di vento di direzioni contrarie aveva intrappolato i densi gas di scarico della città, che normalmente si disperdono verso l’alto, sotto una cappa d’aria ostinatamente immobile. Poi il vento era tornato a soffiare, aveva spostato quella massa, e la città aveva potuto respirare di nuovo.

La gatta rimase sotto il letto per tutto il pomeriggio. Quando alla fine la persuademmo a venir giù, nella luce della prima sera, adesso limpida e fresca, la bestia sedette sul davanzale della finestra e guardò calare il buio – quello vero. Poi si leccò e si ricompose il manto arruffato e impaurito, bevve un po’ di latte, e tornò se stessa.

Poco tempo prima di lasciare quell’appartamento fui costretta ad allontanarmi per un fine settimana, e un’amica si prese cura della gatta. Quando tornai, la bestiola era nelle mani di un veterinario, perché aveva il bacino rotto. La casa aveva una tettoia piatta, che sporgeva da una delle finestre in alto, e su quella tettoia la gatta si distendeva a prendere il sole. Non si sa come, era venuta giù da quel tetto, che si trovava al terzo piano, ed era piombata in un seminterrato. Qualcosa doveva averla spaventata all’improvviso. A ogni modo quella gatta dovette essere eliminata, e io decisi che tenere dei gatti a Londra era un errore.

La casa nella quale andai a vivere subito dopo era un luogo impossibile per i gatti. Era una palazzina composta da sette piccoli appartamenti, uno sopra l’altro, lungo una fredda scalinata di pietra. Non c’era un cortile né un giardino e il più vicino spiazzo di terra alla luce del sole si trovava probabilmente a Regent’s Park, a mezzo chilometro di distanza. Una zona non adatta ai gatti, si sarebbe detto; ma invece un enorme gatto color giallo guscio-di-tartaruga decorava un angolo della vetrina di un droghiere; l’uomo diceva che di notte il gatto dormiva lì, tutto solo, e che quando lui se ne andava in vacanza lo metteva per strada a cavarsela da sé. E non aveva senso protestare per questo con lui, che di rimando chiedeva: il gatto non aveva forse un’aria sana e felice? Sì, che ce l’aveva. Eppure viveva in quel modo da cinque anni.

Per alcuni mesi sulla scala che portava agli appartamenti prese a vivere un grosso gatto nero, che a quanto sembrava non apparteneva a nessuno. Lui desiderava appartenere a uno di noi. Se ne stava seduto in attesa che si aprisse una porta per lasciar entrare o uscire qualcuno, e a quel punto miagolava, ma con aria esitante, come di chi avesse ricevuto molti rifiuti. Beveva un po’ di latte, mangiava qualche avanzo, si strofinava attorno alle gambe, chiedendo che gli venisse concesso di rimanere. Ma lo faceva senza insistenza, o, per essere più precisi, senza speranza. Perché nessuno gli chiedeva di restare. C’era, come sempre, il problema degli escrementi del gatto. Nessuno aveva voglia di andare su e giù per quelle scale, fino ai secchioni della spazzatura, trasportando cassette maleodoranti. E inoltre il proprietario di quegli appartamenti non voleva. E poi ancora, ci dicevamo nel tentativo di confortarci, probabilmente apparteneva a uno dei negozi e ci faceva soltanto delle visite. E così veniva solo nutrito.

Durante il giorno sedeva sul marciapiedi, guardando il traffico, oppure entrava e usciva dai negozi: un vecchio gatto di città, un gatto gentile; un gatto senza pretese.

A quell’angolo di strada c’era un punto sul quale si trovavano tre carretti di frutta e verdura gestiti da tre anziani: due fratelli, uno grasso e l’altro magro, e la moglie di quello grasso, che era grassa anche lei. Erano piccoli di statura, all’incirca un metro e mezzo, sempre intenti a dire battute spiritose e sempre sul tempo. Quando il gatto andava a far loro visita se ne stava seduto sotto il carretto, e mangiava dei pezzetti dei loro sandwich. La donna, piccola e grassoccia, con le guance rosse, ma tanto rosse da esser nerastre, e che era sposata a quello dei due fratelli che era piccolo e grassoccio, diceva che avrebbe voluto portare il gatto a casa con lei, ma temeva che al suo Tibby la cosa non sarebbe piaciuta neanche un poco. Al che il fratello piccolo e magro, che non si era mai sposato e che abitava con loro, ribatteva scherzando che avrebbe potuto lui portare a casa il gatto come compagnia, e difenderlo da Tibby: un uomo senza una moglie aveva bisogno di un gatto. Io credo che lo avrebbe fatto, senonché l’uomo morì all’improvviso per un colpo di calore. Qualunque temperatura vi fosse, quei tre personaggi si imbacuccavano con sciarpa, giacca, maglia, cappotto. Il fratello magro, sopra un ammasso di altri abiti, immancabilmente indossava un cappottone. Quando la temperatura esterna saliva sopra i venti gradi l’uomo prendeva a lamentarsi del fatto che ci fosse un’ondata di calore, dicendo che soffriva terribilmente il caldo. Io insinuavo che non avrebbe sentito così caldo se non avesse avuto tanta roba addosso. Ma si trattava di un atteggiamento verso il vestire che gli era visibilmente estraneo: lo metteva a disagio. Un anno avemmo un lungo periodo di bel tempo, una vera ondata di caldo a Londra. Ogni giorno scendevo in strada, una strada che era divenuta allegra, animata, cordiale, piena di gente in abiti estivi. Ma i tre vecchietti continuavano a portare sciarpe in testa, sciarpe al collo e maglie di lana. Le guance della donna si facevano sempre più rosse. I tre continuavano a scherzare sul caldo che faceva. Ai loro piedi, all’ombra, sotto il carretto, il gatto se ne stava sdraiato in mezzo a prugne cadute a terra e foglie di lattuga che avvizzivano. Verso la fine della seconda settimana di quell’ondata dicalore, il fratello scapolo morì di un colpo apoplettico, e questo significò, per il gatto, la fine della probabilità di trovare una casa.

Per alcune settimane ebbe fortuna e fu accolto nel pub. Ciò accadde perché Lucy, la prostituta che abitava l’appartamento a pianoterra del nostro edificio, la sera si serviva di quel pub. La donna lo portava con sé nel locale e poi si sedeva su uno sgabello alto a un angolo del bancone, con il gatto su un altro sgabello, accanto a lei. Era una donna simpatica, molto benvoluta in quel pub; e bene accolto era anche chiunque la donna scegliesse di portare con sé nel locale. Quando vi entravo a comprare le sigarette o una bottiglia di liquore ci trovavo seduti Lucy e il gatto. I suoi ammiratori, che erano molti, e provenivano da tutte le parti del mondo, le offrivano da bere e cercavano di indurre il barista e sua moglie a dare al gatto del latte e delle patatine. Ma quella di avere un gatto in un locale del genere deve essere stata una novità di breve durata, perché ben presto Lucy prese a frequentare il bar senza di lui.

Quando arrivarono il freddo e le notti in cui faceva buio presto, il gatto si faceva trovare ben sistemato in cima alle scale prima che venisse richiuso il portone. Dormiva in un angolo, avvolto in quel poco di calore che riusciva a ricavare da quella disumana sequela di gradini di pietra nuda. Quando faceva molto freddo uno o l’altro di noi invitava il gatto a entrare a trascorrere la notte; e la mattina egli ci ringraziava strofinandocisi attorno alle gambe. Poi, all’improvviso, niente più gatto. Il portiere, con tono difensivo, disse che aveva dovuto portarlo alla Protezione animali per farlo eliminare. Una sera, le ore di attesa prima che la porta si aprisse si erano rivelate troppo lunghe per lui, e il gatto aveva sporcato su uno dei pianerottoli. Il portiere disse che quella era una cosa che non era disposto a tollerare. Era già abbastanza brutto dover pulire lo sporco che facevamo noi; lui non aveva alcuna intenzione di pulire anche quello dei gatti.

4

Sono venuta ad abitare in una casa nel paese dei gatti. Le case sono vecchie e hanno giardini stretti circondati da muri. Dalle finestre posteriori di casa nostra si vedono una dozzina di muri da una parte e una dozzina dall’altra, di ogni grandezza e livello. Alberi, erba, cespugli. C’è un piccolo spazio digradante, con tetti a varie altezze. Qui i gatti prosperano. Ci sono sempre gatti sui muri, sui tetti, e nei giardini, i quali hanno una loro vita segreta e complicata, come lo sono le vite dei bambini che abitano in quei quartieri, vite che procedono secondo modalità segrete, che gli adulti non riuscirebbero neanche a immaginare.

Sapevo che in quella casa ci sarebbe stato un gatto. Proprio come uno sa che quando una casa è troppo grande vi saranno anche altri che arriveranno a viverci dentro, allo stesso modo vi sono case nelle quali non possono non esserci dei gatti. Ma per un certo periodo di tempo respinsi i vari gatti che arrivarono ad annusare in giro per cercare di capire di che tipo di casa si trattasse.

Durante tutto quel terribile inverno del 1962, il giardino e il tetto che sovrastava la veranda posteriore furono oggetto di visite da parte di un vecchio gattone bianco e nero. Il gatto se ne stava seduto sulla neve del tetto che era ridotta in fanghiglia; si aggirava furtivamente sul terreno ghiacciato; quando la porta posteriore veniva lasciata aperta, anche per poco tempo, lui si sedeva lì accanto, di fuori, e guardava all’interno, dov’era il caldo. Era assolutamente privo di qualunque bellezza; aveva una macchia bianca su un occhio, un’orecchia malconcia e la mascella sempre un poco aperta e bavosa. Ma non era un randagio. Quel gatto aveva una casa accogliente in quella stessa strada, e nessuno riusciva a spiegarsi perché mai non ci stesse.

Quell’inverno offrì un’ulteriore occasione per conoscere le incredibili sofferenze che gli inglesi volontariamente patiscono.

Le case delle quali parlo sono soprattutto case popolari, e durante la prima settimana di freddo le tubature erano scoppiate e la gente era rimasta senz’acqua. La rete idrica era congelata. Le autorità misero in funzione un collettore a un angolo della strada, e per settimane le donne, con indosso le pantofole, fecero infiniti viaggi per andare a raccogliere l’acqua con brocche e lattine, lungo marciapiedi ricoperti da cumuli di poltiglia ghiacciata. Le pantofole servivano a tenere caldo. La poltiglia e il ghiaccio non furono tolti dai marciapiedi. Le donne andavano a prendere l’acqua da quel rubinetto, che si ruppe svariate volte, e ripetevano che già da una settimana, poi da due, quindi da tre, quattro, infine cinque settimane, non avevano in casa altra acqua calda che quella che loro stesse mettevano a bollire sul fornello. E naturalmente non c’era acqua calda per poter fare il bagno. E quando si chiedeva loro perché mai non reclamassero, dal momento che dopotutto pagavano l’affitto, e pagavano anche per l’acqua, calda e fredda, le donne rispondevano che i responsabili delle case popolari sapevano del problema delle loro tubature, però non facevano niente. Interpellati, quelli delle case popolari avevano fatto presente che c’era stato un abbassamento della temperatura: e loro si erano trovate d’accordo con quella diagnosi. Avevano voci dai toni lugubri, ma al tempo stesso si sentivano profondamente realizzate, come sempre accade a questa nazione quando patisce, per cause di forza maggiore, dei mali che si possono assolutamente evitare.

Nel negozio all’angolo, un vecchio, una donna di mezza età e un bambino piccolo trascorrevano i giorni di quell’inverno. Il negozio era gelido, persino più freddo, a causa dei frigoriferi e della temperatura esterna sottozero che la natura andava decretando; la porta era perennemente aperta sui cumuli di neve gelata che si trovavano fuori del negozio. Nel quale non c’era nessuna forma di riscaldamento. Il vecchio si ammalò di pleurite e passò due mesi in ospedale. Ormai perennemente indebolito dalla malattia, nella primavera successiva l’uomo fu costretto a vendere il negozio. Il bambino stava seduto sul pavimento di cemento, piangendo senza posa a causa del freddo, per poi venir schiaffeggiato dalla madre, la quale se ne stava in piedi, dietro il bancone, con indosso un vestito di lana leggera, calze da uomo e una giacchetta, e continuava a ripetere, con gli occhi e il naso che le colavano e le dita gonfie per i geloni, che tutto questo era terribile. Il vecchio della porta accanto, che faceva il facchino al mercato, scivolò sul ghiaccio davanti alla porta di casa, si fece male alla schiena e per settimane campò con il sussidio di disoccupazione. In quella casa, che conteneva nove o dieci persone, compresi due bambini, per combattere il freddo esisteva una sola stufa elettrica a un solo elemento. Tre persone furono ricoverate in ospedale, una di esse con la polmonite.

Nel frattempo le tubature rimanevano rotte, completamente avvolte da stalattiti merlettate; i marciapiedi erano sempre delle lastre di ghiaccio, e le autorità continuavano a non far nulla. Nelle strade borghesi invece, come era naturale, la neve veniva tolta di mezzo non appena cadeva, e le autorità si premuravano di renderne conto a cittadini infuriati che reclamavano i propri diritti e minacciavano azioni legali. Nella zona in cui abitavamo noi, la gente andò avanti a soffrire sino a primavera.

Manifestandosi, come facevano, in una comunità di esseri umani condannati ai rigori dell’inverno quasi fossero stati dei cavernicoli di diecimila anni fa, le bizzarrie di un vecchio gattone che aveva scelto un tetto gelato per trascorrervi le sue notti perdettero qualunque forza.

Nel bel mezzo di quello stesso inverno, a una coppia di amici venne offerto un gattino. Altri amici loro possedevano una gatta siamese la quale aveva avuto una cucciolata da un randagio, e quei cuccioli ibridi venivano dati via. L’appartamento dei miei amici era minuscolo, ed entrambi lavoravano a tempo pieno; ma quando videro il gattino non seppero resistere. Durante il primo fine settimana il micio venne nutrito con zuppa di aragosta in scatola e mousse di pollo, e riuscì a sconvolgere le loro sposatissime notti avendo deciso che doveva dormire sotto il mento, o in qualsiasi altro punto, purché a contatto con il corpo di H., il marito. S., la moglie, al telefono annunciò che stava perdendo l’affetto del consorte per colpa di un gatto, proprio come accade alla moglie del racconto di Colette. Il lunedì successivo i due uscirono per andare al lavoro, lasciando il micio a casa, e quando tornarono lo trovarono lamentoso e triste, per essere rimasto solo tutto il giorno. Dissero che lo avrebbero portato da noi. E così fecero.

Era una gattina di sei settimane. Era incantevole, un tenero micio da racconto di fate, i cui geni siamesi si notavano nella forma del muso, delle orecchie, della coda, e nelle eleganti linee del corpo. La schiena era tigrata: vista dall’alto o da dietro era decisamente una soriana, nei colori grigio e beige. Ma la parte anteriore e lo stomaco erano di quel color crema, tipico dei siamesi, con sfumature che andavano dal grigio fumo al dorato, e accenni di strisce scure sul dorso. Aveva il muso striato di nero – sottili anelli scuri attorno agli occhi, lievi tocchi di nero sulle guance, un minuscolo naso color crema con la punta rosa contornata di nero. Vista di fronte, seduta con le zampe sottili protese in avanti, era una bestiola dalla bellezza esotica. Si accucciò, minuscola com’era, al centro di un tappeto giallo, circondata da cinque adoratori, per nulla intimorita dalla nostra presenza. Poi percorse con incedere solenne il pavimento di casa, ispezionandone ogni centimetro, salì sul mio letto, si infilò sotto la piega del lenzuolo, e fu a casa.

S. andò via insieme ad H. dichiarando: un minuto ancora e non avrei più avuto un marito.

Lui uscì di casa gemendo e dicendo che non c’era niente di altrettanto piacevole dell’essere svegliato dal tocco delicato di una linguetta rosea sul viso.

La gattina scese, o per meglio dire rimbalzò giù lungo i gradini, ciascuno dei quali era due volte la sua altezza: prima le zampe anteriori, poi giù, d’un colpo, con il sedere; poi di nuovo le zampe anteriori, e poi un tonfo con il sedere. Ispezionò il pianoterra, rifiutò il cibo in scatola che le era stato offerto, e poi chiese, miagolando, che le porgessimo una cassetta per i suoi bisogni. Disse di no ai trucioli di legno, ma i pezzetti di giornale lacerato le parvero accettabili – questo sembrava dire il suo atteggiamento schizzinoso – se proprio non c’era niente altro. E infatti non c’era: la terra, fuori, era dura e gelata.

Non mangiava cibo in scatola per gatti. Questo poi no. E io non intendevo mantenerla a pollo e zuppa di aragosta. Ci accordammo su un po’ di carne trita. In fatto di cibo è sempre stata schizzinosa come uno scapolo buongustaio. E man mano che invecchia peggiora. Persino quando era molto piccola riusciva a esprimere irritazione, o piacere, oppure la decisione di tenere il broncio, attraverso il cibo che mangiava, o che mangiava per metà, o che decideva di rifiutare. Le sue abitudini alimentari sono un linguaggio eloquente.

Ma io credo che sia altrettanto possibile che fosse stata sottratta alla madre quando era ancora troppo piccola. E se posso rispettosamente permettermi didare un suggerimento agli esperti di gatti, può darsi che costoro siano in errore quando asseriscono che un gattino è pronto per separarsi dalla madre il giorno in cui compie sei settimane di vita. Questa micia aveva sei settimane, non un giorno di più, quando fu tolta a sua madre. Alla base del suo dandismo in fatto di cibo ci sono la stessa avversione nevrotica e lo stesso sospetto verso il cibo, che hanno i bambini con problemi di alimentazione. Era costretta a nutrirsi, così almeno pensava; e quindi lo faceva; ma mai con gioia, per il piacere di mangiare. E c’è anche un’altra caratteristica che questa gatta ha in comune con coloro che non hanno avuto abbastanza calore materno. Ancora adesso tende a infilarsi istintivamente sotto la piega di un giornale, o in una scatola o in un cestino – qualunque cosa che dia riparo, qualunque cosa che ricopra. Ma non basta; è eccessivamente incline a individuare gli affronti; eccessivamente lesta nel mettere il broncio. Ed è una terribile vigliacca.

I gattini che vengono lasciati con la loro madre per sette oppure otto settimane mangiano con facilità e hanno un’indole fiduciosa. Ma, naturalmente, non sono altrettanto interessanti.

Quando era piccola, questa gatta non dormiva mai fuori dal letto. Aspettava che io mi ci fossi infilata, poi passeggiava su di me da un capo all’altro, considerando le varie possibilità. Quindi si ficcava direttamente sotto le coperte a partire dai piedi, o dalla spalla, oppure si infilava sotto il cuscino. Se mi muovevo troppo cambiava posto, con aria stizzita, facendo in modo che si capisse che era seccata.

Quando rifacevo il letto, le piaceva che lo aggiustassi con lei dentro; e se ne rimaneva tutta contenta fra le coperte – una sorta di piccola protuberanza, a vedersi – talvolta per molte ore. Se si accarezzava quel mucchietto, questo faceva le fusa e miagolava. Ma lei non ne usciva a meno che non fosse costretta.

Quando ciò avveniva, il mucchietto si muoveva sul letto, per fermarsi esitante appena raggiunto il bordo. A volte arrivava un miagolio convulso quando la gatta scivolava sul pavimento. Immagine della dignità offesa, si leccava prontamente, gli occhi gialli che mandavano bagliori, puntati su coloro che la osservavano, i quali avrebbero fatto un errore se si fossero messi a ridere. Poi, ogni pelo consapevole di sé, la gatta incedeva verso un qualche punto, centrale, che fungesse da palcoscenico.

Poi veniva il momento del pasto, pignolo e schifiltoso. Quindi quello della cassetta piena di terra, esecuzione anch’essa altrettanto mirabile. C’era poi il tempo che dedicava a rimettere in ordine il manto color crema. E il tempo dedicato al gioco, che non avveniva mai per il puro piacere di farlo, ma soltanto quando qualcuno la osservava. Era altrettanto altezzosamente consapevole di sé quanto può esserlo una bella ragazza che non abbia altri attributi che la propria bellezza: corpo e viso costantemente atteggiati in sintonia con qualche richiamo interiore – un atteggiamento che è una specie di maschera: no, no, è così che io sono davvero, il seno aggressivo, gli occhi sempre imbronciati e ostili perennemente all’erta per cogliere segnali di ammirazione.

La gatta, in un’età nella quale, se fosse stata un essere umano, avrebbe portato abiti e capelli quasi fossero armi – al contempo fidando nel fatto che, non appena lo avesse scelto, avrebbe potuto ricadere di nuovo in una infanzia indulgente, poiché il suo ruolo era diventato un fardello troppo pesante –, la gatta si metteva in posa, assumeva arie da principessa, si compiaceva di sé in giro per la casa; poi, stanca e un po’ infastidita, si raggomitolava tra i fogli di un giornale, oppure dietro un cuscino, e da lì guardava il mondo, senza correre rischi.

Il trucco più grazioso, del quale faceva sfoggio soprattutto per avere compagnia, consisteva nello sdraiarsi di schiena sotto un divano, e poi spingersi fuori da sola facendo leva sulle zampe, con scatti rapidi e bruschi, fermandosi per volgere l’elegante testina da un lato e dall’altro, gli occhi gialli semichiusi, in attesa dell’applauso. “Oh, che gattina stupenda! Che bestiola deliziosa! Oh, che bella gatta!” E poi via, con un’altra esibizione.

Oppure, disposta sulla superficie giusta, il tappeto giallo, o un cuscino blu, si stendeva sulla schiena rotolandosi lentamente, le zampe ripiegate verso l’alto, la testa all’indietro, affinché si vedessero lo stomaco e il petto color crema, debolmente marcati – quasi fosse una delicata sottospecie di leopardo – da chiazze nere, simili alle rose di quei felini. “Oh, che bella gattina, tu sei proprio bella.” E lei era disposta a continuare fino a che non cessavano i complimenti.

O ancora, sedeva sulla veranda posteriore, non sul tavolo, che era spoglio, ma su un piccolo tavolinetto sul quale si trovavano un narciso e un giacinto in vasi di terracotta. Si metteva in posa in mezzo ai fiori blu e bianchi, fino a che non veniva notata e ammirata. E non soltanto da noi, naturalmente; ma anche dal vecchio gattone reumatico che si aggirava furtivo, sinistro testimone di una vita assai più dura, in un giardino nel quale il terreno era ancora ricoperto di ghiaccio. Egli vide una gatta graziosa, non ancora adulta, al di là di un vetro. E lei vide lui. Sollevò la testa, da una parte e dall’altra; mordicchiò un pezzetto di giacinto, poi lo lasciò cadere; si leccò il mantello con aria negligente; poi, con un’occhiata insolente rivolta all’indietro, saltò giù e rientrò in casa, scomparendo alla vista di lui. Oppure, mentre si recava al piano di sopra, portata su un braccio o su una spalla, la gatta gettava uno sguardo fuori dalla finestra e scorgeva quella povera bestia vecchia, talmente immobile che a volte pensavamo che doveva esser morto ed essere rimasto congelato là dove si trovava. E quando, a mezzogiorno, il sole si faceva un po’ più caldo e lui si sedeva a leccarsi il pelo, ci sentivamo sollevati. A volte la gatta lo osservava dalla finestra,ma la vita che lei conduceva era ancora quella di starsene raggomitolata nelle braccia, sui letti, tra i cuscini, e contro i corpi degli esseri umani.

Arrivò la primavera, la porta sul retro venne aperta, la lettiera, grazie al cielo, divenne superflua, e il giardino posteriore diventò il suo territorio. La gatta aveva sei mesi, e dal punto di vista biologico era completamente cresciuta. Era decisamente bella, in quel periodo, assolutamente perfetta; persino più bella di quella gatta che, tanti anni addietro, avevo giurato che non avrebbe mai potuto essere uguagliata. E che naturalmente non lo è mai stata; poiché l’indole di quella gatta era tutta delicatezza, tatto, calore e grazia, e per questo, come dicono i racconti di fate e le vecchie donne, era destino che morisse giovane.

La nostra gatta, la principessa, era, ed è, bellissima, però è innegabilmente egoista. I gatti se ne stavano allineati sui muri del giardino. Primo, veniva il cupo vecchio gatto d’inverno, re dei cortili. Poi un elegante micio bianco e nero, che vive nella casa accanto, suo figlio, si direbbe, a giudicare dall’aspetto; poi un soriano pieno di cicatrici per le molte lotte; e un gatto bianco e grigio, il quale era talmente sicuro di venire sconfitto che non scendeva mai da quel muro. E infine un agile micio tigrato, che lei visibilmente ammirava. Ma era tutto inutile. Il vecchio re non era stato battuto. Quando la gatta se ne andava a zonzo là fuori, la coda eretta, apparentemente ignorandoli tutti ma tenendo d’occhio il bel tigrotto, quest’ultimo saltava giù per andare verso di lei, ma bastava che il gatto d’inverno facesse un minimo movimento là dove si trovava, sul muro, che il giovane micio facesse un balzo all’indietro, mettendosi in salvo. La cosa andò avanti per settimane intere.

Nel frattempo H. ed S. venivano a trovare la loro beniamina perduta. S. diceva quanto fosse spaventoso e ingiusto che la principessa non potesse scegliere chi voleva, mentre H. sosteneva che la cosa si svolgeva esattamente come era giusto che fosse: una principessa deve avere un re, quand’anche vecchio e brutto. Quel gatto ha una tale dignità, diceva H., una tale presenza; e poi si era conquistato la bella gattina con la sua nobile sopportazione del lungo inverno.

Ormai a quel brutto gatto avevamo messo nome Mefistofele. (Nella casa alla quale apparteneva, ci dissero, lo chiamavano Billy.) Alla nostra gatta erano stati dati vari nomi, ma nessuno reggeva. Melissa e Franny; Marilyn e Sappho; Circe e Ayesha e Suzette. Ma quando si parlava, quando ci rivolgevamo a lei con tono amoroso, lei miagolava, faceva le fusa e porgeva la gola, in risposta alle sillabe, lungamente pronunciate, degli aggettivi – micia beeelliiissima, dolciiissima.

Durante un fine settimana di gran caldo, il solo, a quanto mi pare di ricordare, di una brutta estate, la gatta andò in calore.

Quella domenica erano venuti a pranzo H. ed S., e così ci sedemmo sulla veranda posteriore a osservare le scelte della natura. Non le nostre. E nemmeno quelle della nostra gatta.

Per due notti c’erano state lotte, lotte furibonde, con gatti che gemevano e ululavano e gridavano in giardino. Nel frattempo la gatta grigia era rimasta seduta sul fondo del mio letto, a fissare nel buio, con le orecchie che si alzavano e si muovevano, la coda che commentava, ma solo lievemente e con la punta.

Quella domenica c’era in giro soltanto Mefistofele. La gatta grigia si rotolava estatica per tutto il giardino. Poi si avvicinava a noi e si avvolgeva attorno ai nostri piedi e li mordeva. Poi andava su e giù dall’albero che era in fondo al giardino. Si rotolava, poi gemeva, chiamava, invitava.

“È la più ignobile esibizione di libidine cui abbia mai assistito,” disse S. guardando H. che era innamorato della nostra gatta.

“Oh, povera micia,” diceva H. “Se io fossi Mefistofele non ti tratterei mai così male.”

“Oh, H.,” diceva S., “sei disgustoso; se lo raccontassi nessuno ci crederebbe. Ma io l’ho sempre detto, sei proprio disgustoso.”

“E così è questo, quello che hai sempre detto,” rispondeva H., accarezzando la gatta in estasi.

Era una giornata molto calda, a pranzo avevamo bevuto molto vino, e i giochi amorosi si protrassero per tutto il pomeriggio.

Alla fine Mefistofele saltò giù dal muro e si diresse verso il punto in cui la gatta grigia si contorceva e si rotolava – ma ahimè, la mancò.

“Oh, mio Dio,” disse H., che stava davvero soffrendo. “Una cosa del genere è davvero imperdonabile.”

Molto angosciata, S. osservava i tormenti della nostra gatta, e si chiedeva dubbiosa – e questo spesso, con tono drammatico e a voce alta – se il sesso ne valesse la pena. “Guardatela,” diceva, “quella gatta siamo noi. Ecco come siamo fatti.”

“Noi non siamo affatto così,” ribatteva H. “È Mefistofele che è così. Bisognerebbe sparargli.”

Sparategli subito, dicemmo tutti; o quantomeno chiudetelo a chiave, affinché la giovane tigre della porta accanto possa avere una opportunità.

Ma il gatto giovane e bello non era nei paraggi.

Noi continuavamo a bere vino; il sole continuava a brillare; la nostra principessa danzava, si contorceva, saettava su e giù dall’albero, e quando alla fine le cose andarono bene, fu montata più e più volte dal vecchio re.

“Quello che non va,” disse H., “è che lui è troppo vecchio per lei.”

“Oh, mio Dio,” ribatté S. “Adesso ti porto a casa. Perché altrimenti sono sicura che ti metterai tu stesso a fare l’amore con quella gatta.”

“Magari potessi farlo,” disse H. “Che bestiola stupenda, che creatura adorabile, che principessa, è davvero sprecata per un gatto, e io non lo sopporto.”

Il giorno dopo ritornò l’inverno; il giardino era freddo e bagnato, e la gatta grigia aveva ripreso quei suoi modi schizzinosi e sdegnosi. Il vecchio re se ne stava sul muro del giardino, sotto la lenta pioggia inglese, ancora imbattuto tra tutti, in attesa.

5

La gatta grigia portava avanti la gravidanza spensieratamente. Correva a precipizio in fondo al giardino, poi saliva sull’albero e quindi tornava indietro, e così all’infinito. Scopo di tutto questo era il momento in cui, aggrappandosi saldamente all’albero, volgeva la testa, con gli occhi semichiusi, per ricevere l’applauso. Scendeva i gradini di casa a tre o quattro alla volta. Strisciava sul pavimento facendo leva sulle zampe, partendo da sotto al divano. E siccome aveva capito che chiunque, non appena la vedeva, era probabile che dicesse estatico: Oh, che splendida gatta!– quando arrivavano degli ospiti si collocava sempre accanto alla porta d’ingresso, dopo essersi messa opportunamente in posa.

Ma un bel giorno, quando cercò di infilarsi nella balaustra per saltare da una rampa di scale a quella sottostante, si rese conto che non poteva. Provò di nuovo, e non ce la fece. Rimase umiliata, e allora fece finta di non averci nemmeno provato, ma che preferiva fare il percorso più lungo tutto attorno alla curva delle scale.

Le sue corse su e giù dall’albero divennero più lente, fino a cessare del tutto.

E quando i gattini cominciarono a muoversi nel suo ventre, lei sembrò sorpresa, contrariata.

Di solito, una quindicina di giorni circa prima del parto, le gatte se ne vanno in giro ad annusare negli armadi e negli angoli, cercando, rifiutando, scegliendo. Questa gatta invece non faceva nulla del genere. Io tolsi le scarpe dall’armadio della camera da letto e le indicai il luogo, che era riparato, buio, comodo. Lei vi entrò e poi ne uscì. Le furono offerti altri posti. Non che non le piacessero; la gatta sembrava non sapere che cosa stesse accadendo.

Il giorno prima del parto si rotolò tra vecchi giornali che erano su una sedia, ma i movimenti che faceva erano automatici, senza nulla di intenzionale. Una qualche ghiandola, o quello che è, aveva parlato, stimolato quei movimenti, e lei aveva obbedito, ma ciò che aveva fatto non aveva alcun rapporto con la sua conoscenza della vita, o così almeno sembrava, perché non ci provò più.

Il giorno del parto rimase in travaglio per circa tre ore, prima di rendersene conto. Seduta sul pavimento della cucina miagolava, dando a intendere di essere stupita, e quando le ordinai di andare di sopra, nell’armadio, ci andò. Ma non vi rimase. Si aggirava per casa con aria indecisa, annusando, quando ormai era piuttosto tardi, svariati luoghi possibili, ma perdeva interesse e ritornava di nuovo giù in cucina. Una volta diminuito il dolore, o la sensazione fisica, lei se ne dimenticava, ed era pronta a riprendere di nuovo la vita di sempre – la vita di una gattina coccolata e adorata. Cosa che, dopotutto, ancora era.

La riportai di sopra e la costrinsi a entrare nell’armadio. Lei non voleva. Quella gatta, molto semplicemente, non aveva alcuna delle reazioni previste. E in verità era commovente, assurda – e anche buffa, e ci faceva venir voglia di ridere. Quando le contrazioni diventavano più forti lei era seccata. Quando, verso la fine, il dolore crebbe, la gatta miagolò, ma era un miagolio di protesta, rabbioso. Era arrabbiata con noi che avevamo contribuito a che le venisse inflitta una tale sequela di operazioni.

È affascinante assistere al momento in cui una gatta dà alla luce il suo primo gattino, al momento in cui, non appena la minuscola creatura che si agita convulsamente fa la propria comparsa, ancora avvolta nella sua busta di cellophane bianco, la gatta lecca via l’involucro, taglia con un morso il cordone ombelicale, mangia la placenta, il tutto compiuto in maniera così pulita, perfetta, efficiente, da lei stessa, personalmente, per la prima volta. E poi c’è sempre un momento di pausa. Il gattino, espulso, giace accanto alle zampe posteriori della gatta. Lei guarda – con quella sensazione istintiva di essere in trappola, di voler fuggire – quella nuova cosa che è ancora lì attaccata a lei; quindi guarda di nuovo, e non sa di che cosa si tratta. Poi il meccanismo comincia a funzionare, e lei vi obbedisce, diviene madre, fa le fusa, è felice.

Nel caso di questa gatta vi fu la più lunga pausa che io abbia mai visto, mentre lei guardava il nuovo gattino. Lo guardò, poi guardò me, si mosse un poco, per vedere se riusciva ad allontanare da sé quell’oggetto che le stava attaccato – e poi il meccanismo funzionò. Pulì il gattino, fece tutto quello che ci si aspettava da lei, fece le fusa – poi si tirò su, andò al piano di sotto e là sedette, sulla veranda posteriore, a guardare il giardino. Quella cosa lì era finita, sembrava stesse pensando. Poi i fianchi ebbero una nuova contrazione, e lei si girò a guardarmi – era arrabbiata, furibonda. Che maledetta seccatura!, dicevano, senza ombra di dubbio, la faccia, e i tratti del corpo. Vai di sopra! le ordinai. Di sopra! Lei ci andò, imbronciata. Salì quelle scale con aria furtiva, con le orecchie basse – quasi come fa un cane quando lo si rimprovera oppure è in disgrazia, ma senza avere in alcun modo l’aspetto mortificato che assumono i cani. Al contrario, era arrabbiata con me e con l’intera faccenda. Quando vide di nuovo il primo gattino, lo riconobbe, di nuovo il meccanismo funzionò e lei lo leccò. Ebbe in tutto quattro gattini, e poi andò a dormire, un’immagine incantevole, una splendida gatta acciambellata attorno a quattro piccoli che succhiavano. Erano molto belli. Il primo, una femmina, era in tutto simile a lei, fin nelle linee scure attorno agli occhi, nelle striature nere su petto e zampe, e nello stomaco color crema su cui spiccavano delle righe sottili. Poi fu la volta di un gattino azzurro-grigiastro, il quale più tardi, illuminato da luci diverse, sembrava rosso scuro. Poi uno nero, il quale una volta cresciuto sarebbe diventato un perfetto gatto nero con occhi gialli, tutto forza ed eleganza. E infine un gattino uguale al padre, del tutto simile a lui, un micino sgraziato e piuttosto tozzo, bianco e nero. I primi tre avevano i tratti leggeri della razza siamese.

Quando si svegliò, la gatta guardò i gattini, che in quel momento dormivano, si alzò, si stiracchiò, e scese a girovagare al piano di sotto. Bevve un po’ di latte, mangiò della carne cruda, e poi si leccò ben bene il mantello. Ma non tornò alla sua nidiata.

Venuti ad ammirare i gattini, S. e H. trovarono mamma gatta in posa, di profilo, ai piedi delle scale. Poi questa corse fuori di casa, salì sull’albero e tornò indietro parecchie volte. Quindi salì all’ultimo piano della casa e poi tornò giù a pianoterra, saltando da una rampa di scale a quella inferiore, passando attraverso la ringhiera. Infine si strofinò attorno alle gambe di H., facendo le fusa.

“Tu dovresti fare la mamma,” diceva S. scandalizzata. “Perché non sei con i tuoi gattini?”

Sembrava si fosse dimenticata di loro. Inspiegabilmente, aveva avuto un’incombenza sgradevole da portare a termine; lo aveva fatto; la cosa era finita, ed era tutto. Saltellava e gironzolava contenta per casa fino a quando, quella sera tardi, le ordinai di andare di sopra. Ma lei era decisa a non farlo. Allora la presi in braccio e la portai dai gattini. Si avvicinò a loro senza la minima grazia. Non intendeva stendersi a nutrirli. La costrinsi a farlo. Ma non appena io mi allontanavo, lei li abbandonava. Mi sedetti accanto a lei mentre lo faceva.

Andai a prepararmi per la notte. Quando tornai in camera da letto, lei era già sotto le coperte, e dormiva. La riportai dai suoi gattini. Lei li guardò con le orecchie piegate all’indietro, e si sarebbe allontanata di nuovo se io non fossi rimasta piantata davanti a lei, emblema inesorabile dell’autorità, indicandole i gattini. Entrò da loro, si lasciò cadere giù, come a dire, se proprio insisti. Una volta che i gattini erano attaccati ai capezzoli, però, l’istinto si metteva in moto, anche se inutilmente, e per un poco lei faceva le fusa.

Durante tutta la notte la gatta sgusciò fuori dall’armadio e si collocò al solito posto, sul mio letto. Ogni volta la facevo tornare indietro. Non appena mi addormentavo lei riprendeva il suo posto, mentre i gattini si lamentavano.

La mattina aveva ormai capito di essere responsabile di quelle bestiole. Ma, lasciata a se stessa, nonostante quella grande Madre che è la natura, li avrebbe lasciati morire di fame.

Il giorno dopo, mentre eravamo a pranzo, la gatta grigia entrò di corsa nella stanza con un gattino, che sballottava di qua e di là, tenendolo in bocca. Lo mise a terra al centro del pavimento e andò su a prendere gli altri. Uno dopo l’altro li portò giù tutti e quattro, poi, insieme a loro si mise lunga distesa sul pavimento della cucina. Non aveva alcuna intenzione di essere privata della compagnia, così aveva deciso; e per tutto il mese per quei gattini non vi fu niente da fare, perché chiunque di noi, in qualunque punto della casa si trovasse, vedeva la gatta grigia entrare trotterellando nella stanza con in bocca i gattini che venivano sballottati nel modo più noncurante che si possa immaginare. Di notte, ogni volta che mi svegliavo, trovavo la gatta grigia accoccolata al mio fianco, in silenzio, e in silenzio rimaneva, nella speranza che io non mi accorgessi di lei. Quando capiva che me n’ero accorta, faceva le fusa, sperando che mi addolcissi, poi mi leccava la faccia e mi mordeva il naso. Ma non c’era niente da fare. La rispedivo indietro, e lei ci andava, imbronciata.

Per farla breve, era una madre disastrosa. Noi attribuimmo la cosa al fatto che era giovane. Quando i gattini avevano soltanto un giorno, lei cercava di giocare con loro come farebbe una gatta con cuccioli di un mese o cinque settimane. Quella minuscola pallina cieca, che era un gattino, veniva fatta rotolare qua e là da quelle grandi zampe posteriori, e poi mordicchiata, in un gioco affettuoso, quando la sola cosa che voleva era poter arrivare a quei capezzoli offerti tanto a malincuore. Uno spettacolo triste a vedersi, ve lo assicuro; e per questo ci arrabbiavamo tutti con lei; ma poi ne ridevamo, che era peggio, perché se c’era una cosa che quella gatta non sopportava era che si ridesse di lei.

Nonostante il cattivo trattamento ricevuto, quella prima nidiata fu incantevole, la più bella fra quelle prodotte in questa casa, perché ognuno dei gattini era straordinario, nel suo genere, persino la copia del vecchio Mefistofele.

Un giorno salii al piano di sopra e trovai quest’ultimo nella stanza da letto. Guardava i piccoli. La gatta grigia, naturalmente, non c’era. Lui se ne stava a una certa distanza, la testa protesa in avanti, la mascella bavosa, come al solito, aperta. Ma non voleva far loro del male, era solo curioso.

Essendo così graziosi, i mici trovarono subito una casa. Ma nonostante tutto furono una cucciolata infelice. Nel giro di diciotto mesi tutti quanti finirono male. Il gatto tanto amato, che era il ritratto di sua madre, un bel giorno scomparve dalla casa in cui era, e non fu più ritrovato. Stessa sorte ebbe il gatto nero. Il piccolo Mefistofele, per la forza e il coraggio che aveva, fu portato via perché diventasse il gatto di un magazzino, ma morì di enterite. La gatta rossa, dopo aver messo al mondo la più straordinaria nidiata che io abbia mai visto, tre perfetti siamesi color crema, con gli occhi rosa, e tre miscugli londinesi, piccole accozzaglie di razze diverse, perdette la casa in cui stava. Ma abbiamo saputo che ne ha trovata un’altra in una strada poco lontana.

La gatta grigia, decidemmo, non avrebbe più dovuto avere altri gattini. Non era fatta per la maternità. Ma era troppo tardi, perché era incinta di nuovo. E non di Mefistofele.

Questa zona è conosciuta come il paese dei gatti tra quelli che i gatti li vendono e quelli che li rubano. I quali immagino che girino in macchina per il quartiere portando via tutti gli animali che gli piacciono e che non si trovano in casa, al sicuro. Accade di notte, e fa male pensare a quali sistemi i ladri debbano usare per tenere tranquille le bestie affinché queste non sveglino i loro proprietari. La gente di questa strada sospetta gli ospedali dei quali siamo circondati. Quei vivisezionisti sono passati di qui un’altra volta, dicono; e forse hanno ragione. A ogni modo una certa notte scomparvero sei gatti, e fra questi Mefistofele. E così adesso la gatta grigia poteva incapricciarsi di chi voleva, e cioè del giovane gatto che sembrava una tigre con il panciotto di raso bianco.

Di nuovo il parto la colse di sorpresa, ma non le ci volle tanto tempo per acquietarsi. Si alzò dalla cuccia dove aveva partorito, andò al piano di sotto, senza alcuna intenzione di tornare al suo posto a meno che non le venisse ordinato; ma nel complesso credo che quella seconda cucciolata le fosse piaciuta. Questa volta i gattini erano ordinari, dei miscugli abbastanza graziosi di soriano e di bianco e tigrato, ma non avevano alcuna particolare qualità di discendenza o colore, e quindi fu più difficile trovar loro una casa.

Autunno, i vialetti ricoperti da un fitto manto di foglie brune di sicomoro cadute dal grande albero: la gatta insegnava ai suoi quattro gattini a cacciare, ad appostarsi e saltare, mentre le foglie venivano portate dal vento. Le foglie avevano il ruolo di topi e uccelli – poi venivano portate in casa. Uno dei gattini faceva a pezzi la sua foglia con estrema precisione. Era il modo in cui aveva ereditato la caratteristica più singolare della gatta grigia, la quale era capace di passare un’intera mezz’ora facendo metodicamente a pezzi, con i denti, un giornale, un pezzetto dietro l’altro. Può darsi che questa sia una caratteristica dei siamesi? Ho un’amica che ha due gatti siamesi. Quando le capita di avere delle rose nel suo appartamento, i gatti sfilano le rose dal vaso, con i denti, poi le mettono a terra e ne staccano i petali, uno a uno, come se fossero tutti presi da un necessario impegno di lavoro. È possibile che in natura, la foglia, il giornale, la rosa, fossero dei materiali usati per una cuccia.

Alla gatta grigia piaceva insegnare ai suoi gattini le arti della caccia. Se fossero stati dei gatti di campagna sarebbero stati bene educati. E inoltre insegnava loro la pulizia: nessuno di essi ha mai sporcato un angolo. Ma essendo rimasta schizzinosa riguardo al cibo, non le interessava insegnar loro a mangiare. Quello lo impararono da soli.

Uno dei gattini di quella cucciolata rimase in casa molto più a lungo degli altri, cosicché quell’inverno avemmo due gatti, la gatta grigia e suo figlio, il quale era di color arancione scuro, con un panciotto simile a quello di suo padre.

La gatta grigia tornò di nuovo a comportarsi da cucciolo; i due giocavano insieme tutto il giorno e dormivano acciambellati uno contro l’altra. Il giovane micio era molto più grosso di sua madre, ma lei lo trattava con prepotenza e quando il gatto faceva qualcosa che a lei non andava, lo picchiava. I due se ne stavano sdraiati per ore a leccarsi reciprocamente il muso e a fare le fusa.

Lui era un mangiatore insaziabile, mangiava di tutto. Noi speravamo che il suo esempio inducesse lei a un diverso comportamento verso il cibo, ma non accadde. Come è abitudine dei gatti, lei lasciava mangiare e bere prima lui, suo figlio, mentre lei se ne stava accucciata a guardare. Quando lui aveva finito, lei si avvicinava, annusava il cibo per gatti o gli avanzi di cucina, poi veniva da me e molto delicatamente mi mordeva la caviglia per ricordarmi che lei mangiava coniglio, oppure carne o pesce crudi, in piccole porzioni, adeguatamente servite su un piattino pulito.

E su questo cibo – che le era dovuto, che era suo diritto – lei si accucciava con fare aggressivo, lanciando al gatto delle occhiate ostili, mangiando poco e non di più, senza fretta. È raro che finisca tutto ciò che le si mette davanti; quasi sempre ne lascia un pochino – buona educazione suburbana che, vista così, in un contesto diverso, riferita alla gatta grigia, mi induce per la prima volta a pensare che debba avere origine in una brutta forma di aggressività. “Non intendo mangiare tutto questo cibo – non ho fame, e tu ne hai cucinato troppo e poi è colpa tua se va sprecato.” “Ho abbastanza da mangiare, non ho bisogno di mangiare anche questo.” “Sono una creatura superiore, delicata, e decisamente al di sopra di cose volgari come il cibo.” Quest’ultima enunciazione è della gatta grigia.

Il giovane micio mangiava tutto quello che lei lasciava, senza rendersi conto del fatto che era molto più buono di quello che era stato dato a lui; poi i due correvano via, inseguendosi in giro per la casa e in giardino. Oppure sedevano sul fondo del mio letto e guardavano fuori della finestra, leccandosi reciprocamente di tanto in tanto e facendo le fusa.

Quel periodo costituì l’apogeo della gatta grigia, quello in cui fu all’apice della felicità e del fascino. Non si sentiva sola; il suo compagno non la minacciava, perché lei lo dominava. E poi era bella. Era davvero molto bella.

Era al suo meglio quando se ne stava seduta sul letto e guardava di fuori. Le zampe anteriori color crema, leggermente striate, erano ripiegate all’ingiù, una accanto all’altra, per terminare su due estremità argentee. Le orecchie, lievemente frangiate, con la parte bianca che sembrava d’argento, si alzavano e si muovevano, indietro, in avanti, tese ad ascoltare e a percepire. E a ogni nuova cosa percepita, il muso si girava leggermente, vigile. La coda si muoveva, in un’altra dimensione, quasi che la punta cogliesse dei messaggi che altri organi non riuscivano ad afferrare. Sedeva, in posa, leggera come l’aria, guardando, ascoltando, sentendo, annusando, respirando, con tutta se stessa, con il pelo, con i baffi, con le orecchie – con ogni parte di sé, attraverso una delicata vibrazione. Se un pesce è la personificazione, l’essenza stessa del movimento dell’acqua, allora il gatto è diagramma e modello della leggerezza dell’aria.

Oh, gatta, le dicevo, o per meglio dire invocavo: beeelliiissima gatta! gatta splendida! dolcissima gatta! gatta di seta! gatta che sembri un morbido gufo, gatta con le zampe come farfalline, gatta preziosa come un gioiello, prodigiosa gatta! Gatta, gatta, gatta, gatta.

Sulle prime lei mi ignorava; poi girava la testa, morbidamente arrogante, e a ciascuno di questi elogi, per ognuno di essi, separatamente, socchiudeva gli occhi. Poi, quando avevo finito, sbadigliava, intenzionalmente, con atteggiamento fatuo, mettendo in mostra una bocca rosa come un gelato e la rosea lingua arricciolata.

Oppure, di proposito, si accucciava e mi seduceva con lo sguardo. Io fissavo quegli occhi a forma di mandorla contornati da un sottile tratto di matita scura, attorno al quale si inarcava un secondo tratto color crema. Sotto ciascuno di essi, una pennellata più scura. Verdi, occhi verdi, che nell’ombra si facevano color oro scuro, fumoso: una gatta dagli occhi scuri. Ma alla luce diventavano verdi, un verde smeraldo limpido e freddo. Dietro i bulbi trasparenti degli occhi, guizzi di ali di farfalla, venate e lucenti. Ali che parevano gioielli – l’essenza stessa delle ali. Un insetto-foglia è indistinguibile a un’occhiata superficiale, dalla foglia sulla quale si trova. Ma poi, avvicinate lo sguardo: l’imitazione di una foglia è più foglia della foglia stessa – arricciata, venata, delicata, quasi l’avesse riprodotta un gioielliere, ma un gioielliere che lo avesse fatto con lieve ironia, sì che l’insetto è al limite della parodia. Guardate, dice l’insetto-foglia, cioè la copia: si è mai vista una foglia bella come lo sono io? Ma sì, persino là dove ho ricopiato le imperfezioni di una foglia io rimango perfetto. Vi verrà mai più voglia di guardare di nuovo una semplice foglia, dopo aver visto me, che rappresento l’artificio?

Negli occhi della gatta grigia si rintracciava la verde lucentezza dell’ala di una farfalla di giada, come se un artista avesse detto: che può esservi mai di altrettanto grazioso, di altrettanto delicato di un gatto? Che cosa, naturalmente, se non una creatura dell’aria? E quale creatura dell’aria può mai essere affine a un gatto? Ma la farfalla, la farfalla, naturalmente! E là, in fondo agli occhi di un gatto giace questo pensiero, un pensiero solo accennato con un mezzo sorriso; nascosto dietro la frangia delle ciglia, dietro la sottile palpebra, interna, bruna, e i sotterfugi della civetteria felina.

Gatta grigia, perfetta, magnifica, regale; gatta grigia con tracce di leopardo e di serpente; con cenni di farfalla e di gufo; leone in miniatura con artigli d’acciaio per uccidere, gatta grigia piena di segreti, di affinità, di misteri – a diciotto mesi la gatta grigia, una giovane matrona nel fiore degli anni, ebbe la terza cucciolata, questa volta dal gatto bianco e grigio il quale, quando c’era il vecchio re, aveva avuto troppa paura per scendere dal muro. Ebbe quattro gattini, e per tutta la durata del parto il figlio sedette accanto a lei e la guardò, leccandola durante le pause del travaglio, e leccando anche i gattini. Poi cercò di infilarsi nella cuccia insieme a loro, ma si prese delle botte sulle orecchie per questo scivolone nell’infantilismo.

6

Era tornata la primavera, la porta posteriore era aperta, e la gatta grigia con il figlio grande e i quattro gattini si godeva il giardino. Ma ai gattini lei preferiva la compagnia di suo figlio; e di nuovo aveva scandalizzato S. il fatto che, appena finito di partorire, la gatta si fosse alzata, avesse lasciato i gattini e si fosse gettata direttamente tra le braccia del figlio grande, assieme al quale si era rotolata a lungo per terra, facendo le fusa.

Quanto a lui, il gatto assunse il ruolo di padre verso quei cuccioli che tirò su tanto quanto lei.

Nel frattempo aveva già cominciato a profilarsi, vaga e ammantata d’altre spoglie – come sempre il futuro ci appare ai primi accenni – l’ombra del declino della gatta grigia quale regina incontrastata della casa.

Di sopra, nel mondo degli umani, spaventose burrasche, turbamenti e drammi. Con l’arrivo dell’estate venne ospite in casa una bella ragazza bionda e triste che aveva con sé un piccolo gatto nero, elegante e pulito, quasi un cucciolo, in verità; questa estranea abitava nel seminterrato, solo per breve tempo, naturalmente, perché la sua casa non era disponibile.

La gattina nera aveva un collarino e un guinzaglio rossi, e in quella fase della sua esistenza rappresentava unicamente un accessorio e un elemento decorativo per la bella ragazza. Venne tenuta ben distante dalla regina, che era al piano di sopra: alle due gatte non fu permesso di venire in contatto.

Poi, tutt’a un tratto, le cose andarono male per la gatta grigia. Il figlio, alla fine, fu richiesto dalla persona che lo aveva prenotato, e se ne andò ad abitare a Kensington. I quattro gattini andarono nelle loro nuove case. E noi decidemmo che a quel punto bastava così, e cioè che lei non avrebbe più dovuto avere dei figli.

Non sapevo, all’epoca, che cosa comportasse far sterilizzare una gatta. Conoscevo persone che avevano fatto “operare” dei mici, maschi e femmine. E quando mi rivolsi alla Protezione animali, mi consigliarono caldamente di farlo. Era comprensibile: ogni settimana si vedevano costretti a eliminare centinaia di gatti indesiderati – ciascuno dei quali, immagino, era stato, l’“oh, che bel gattino!”, di qualcuno – fino al momento in cui era cresciuto. Ma nella voce delle signore della Protezione animali si sentiva risuonare esattamente la stessa nota che vi era in quella della donna della drogheria all’angolo la quale, quando me ne andavo in giro alla ricerca di case che volessero accogliere i gattini, diceva sempre: “Ma non l’ha fatta ancora operare? Povera bestia, io dico che è una crudeltà farle passare tutto ciò”. “Ma avere dei gattini è un fatto naturale,” insistevo io, alquanto in malafede, dal momento che qualunque istinto materno la gatta grigia avesse avuto le era stato inculcato con la forza.

I miei rapporti con le signore che abitavano in quella strada riguardavano in gran parte i gatti – gatti che erano andati perduti o che venivano in visita, gattini che i bambini venivano a trovare, o gattini in procinto di appartenere loro. E non c’è una sola persona che non abbia insistito nel dire che è crudele permettere a una gatta di avere dei figli: con impeto, con tono isterico o, nella sua forma più pacata, con la cupa ostilità, al culmine dell’esasperazione, di mia madre quando diceva: “Tanto, per te va tutto bene, non è vero?”. L’anziano scapolo che gestiva il negozio di frutta e verdura all’angolo – che adesso ha chiuso per l’incalzare del supermercato, e anche perché diceva che la sua era un’attività a conduzione familiare e lui non aveva famiglia – un vecchio ragazzo grasso con guance rossoporpora, quasi nere, come la vecchia dei carretti di frutta e verdura, diceva delle donne: “Non la finiscono più di fare figli, poi non se ne occupano, vero?”. Lui non aveva figli ed era intollerante verso quelli di tutti gli altri.

Lui aveva, però, una madre anziana, di oltre ottant’anni, completamente confinata a letto, che andava assistita in tutto – e doveva farlo lui. Suo fratello e le sue tre sorelle erano sposati e avevano dei bambini, e così avevano stabilito che era compito suo, del fratello scapolo, quello di occuparsi della vecchia madre, dal momento che a loro i figli davano abbastanza da fare.

L’uomo se ne stava in quel minuscolo negozio, dietro cumuli di verze, rape, patate, cipolle, carote, cavolfiori – dal momento che, come accade in strade di quel tipo, non si riuscivano a trovare altre verdure che non fossero quelle surgelate – e guardava i bambini che correvano per la strada, dando giudizi davvero poco gentili nei riguardi delle loro madri.

Era favorevole a che la gatta venisse fatta “fare”. Al mondo c’era troppa gente, c’erano troppi animali, troppo poco da mangiare, e poi, di questi tempi, nessuno comprava più nulla, e così facendo dove si sarebbe andati a finire?

Telefonai a tre veterinari per domandare loro se era necessario togliere alla gatta l’utero e le tube – non era possibile chiudere semplicemente le tube e lasciarle almeno la possibilità di accoppiarsi? Tutti e tre, e con tono deciso, insistettero nel dire che la cosa migliore era quella di togliere tutto. “Togliere l’intera faccenda,” disse uno; stessa identica frase che un ginecologo usò nei riguardi di una mia amica. “La libero dell’intera faccenda,” disse lui.

Molto interessante.

In Portogallo, raccontano H. ed S. che sono portoghesi, quando le signore borghesi si riuniscono tra loro per il tè, parlano delle operazioni e dei loro problemi femminili. E l’espressione che usano per parlare dei loro organi è esattamente la stessa che viene usata per i polli, e cioè le interiora. “Le mie interiora, le tue interiora, le nostre interiora.” Davvero molto interessante.

Infilai la gatta grigia in un cesto per gatti e la portai dal veterinario. Non era mai stata rinchiusa così, prima d’allora, e quindi protestava – si sentiva ferita nella dignità e nel rispetto di sé. Io la lasciai e poi tornai a riprenderla più tardi, quello stesso pomeriggio.

La trovai nel suo cesto, che puzzava di etere, zoppicava, era stordita e sofferente. Su un fianco, là dove la pelliccia le era stata rasata, spiccava una larga chiazza, che ne metteva in mostra la pelle grigiobiancastra. Questa era attraversata da uno sfregio rosso, di cinque centimetri, accuratamente cucito con filo di sutura. La gatta mi guardava con due enormi occhi scuri, sconvolti. Era stata tradita, e lei lo sapeva. Era stata venduta da un’amica, dalla persona che la nutriva, la proteggeva, sul cui letto lei dormiva. Le era stata fatta una cosa terribile. Io non sopportavo di guardarla negli occhi. La portai a casa con un taxi, nel quale lei gemette durante tutto il percorso – un miagolio disperato, impotente, spaventato. Una volta a casa, la misi in un altro cesto, non quello da trasporto con i suoi ricordi di veterinario e di dolore. Poi la coprii, misi il cesto vicino a un termosifone, e mi sedetti accanto a lei. Non che fosse malata, o in pericolo. Aveva un brutto stato di shock. E io credo che nessuna creatura possa essere in grado di “superare” un’esperienza come quella.

Rimase lì, immobile, per due giorni. Poi, con difficoltà, si servì della lettiera. Bevve un poco di latte, poi tornò a stendersi di nuovo.

Trascorsa una settimana, su quella brutta chiazza con la cicatrice tornarono a crescere i peli. Ben presto dovetti riportarla dal veterinario perché le togliesse i punti. E questo viaggio fu peggiore del primo, perché ora lei sapeva che il cesto, e il movimento della macchina, significavano dolore e terrore.

La gatta gemeva e si divincolava. Il tassista, servizievole come generalmente accade, stando alla mia esperienza, fermò il taxi per qualche momento, per consentirmi di tentare di calmarla, ma poi convenimmo che era meglio cercare di farla finita al più presto. Io rimasi in attesa mentre le venivano tolti i punti. Poi fu rimessa nel cesto con la forza, perché si divincolava, e con lo stesso taxi la riportai a casa. Si bagnò dalla paura, e ricominciò a strillare. Il tassista, che era un amante dei gatti disse, ma perché quei dottori non inventavano una forma di controllo delle nascite, anche per i gatti? Non era giusto, diceva, che noi li privassimo dei loro istinti più veri, solo perché questo faceva comodo a noi.

Quando entrai in casa e aprii il cesto, la gatta grigia, ora libera di muoversi, corse fuori a rifugiarsi in cima al muro del giardino, sotto l’albero, gli occhi nuovamente sbarrati e sconvolti. Rientrò in casa la sera, per mangiare. Poi andò a dormire, non sul mio letto, ma sul divano. Per giorni e giorni non permise che la si accarezzasse.

Nel giro di un mese dalla data dell’operazione la forma del corpo cambiò. E lei perdette, non lentamente, ma rapidamente, la sua agilità e la sua grazia; e divenne ovunque più ruvida. Gli occhi si rilassarono impercettibilmente e si aggrinzirono; il muso si allargò. Tutto a un tratto era diventata una gatta paffuta seppure graziosa.

Quanto poi ai cambiamenti nel carattere, be’, quelli avrebbero potuto attribuirsi in parte, ed era probabile che così fosse, ad altri colpi che la vita al contempo le aveva inferto – il fatto di aver perduto un amico, il gatto giovane, i suoi gattini, e poi l’arrivo della gatta nera.

Perché è certo che cambiò. Era stata colpita nella sua sicurezza. La bella tiranna di quella casa non c’era più. Il fascino imperioso, quei vezzi, con la testa e con gli occhi, che ti colpivano al cuore – era tutto finito. Aveva ripreso, naturalmente, quel suo antico modo di attrarre con le moine, come rotolarsi di qua e di là sulla schiena per essere ammirata, spingersi da sola da sotto al divano – ma per lungo tempo quei gesti rimasero incerti, quasi fossero dei tentativi. Non era più sicura che sarebbero piaciuti. Per molto tempo non fu più sicura di niente. E per questo insisteva. Nel suo temperamento si insinuò una nota stridente. Divenne stizzosa circa i propri diritti. Si fece dispettosa. Bisognava che la si assecondasse. E divenne irascibile con i suoi antichi ammiratori, i gatti che stavano sul muro di cinta. Per farla breve, si era trasformata in una gatta zitella. Quello che noi facciamo a queste bestie è una cosa orribile. Ma forse non si può fare altrimenti.

7

Per ragioni diverse, e tutte tristi, la gattina nera rimase senza casa e si unì a noi. Per una questione di armonia sarebbe stato meglio se si fosse trattato di un maschio. Stando così le cose, le due gatte si incontrarono da nemiche, rimanendo per ore accucciate a guardarsi l’un l’altra.

La gatta grigia, con metà del fianco ancora leggermente ispido per via del rasoio, si rifiutava di dormire sul mio letto, si rifiutava di mangiare fino a che non la si persuadeva con le lusinghe, era infelice e insicura di sé; su una cosa soltanto era decisa: sul fatto che la gatta nera non avrebbe occupato un posto che era suo.

La gatta nera, dal canto proprio, sapeva che avrebbe vissuto lì e non avrebbe permesso che la si cacciasse via. Non lottò: la gatta grigia era più grossa e più forte. Si collocò sull’angolo di uno sgabello, con la schiena protetta da un muro, senza mai distogliere lo sguardo dalla gatta grigia.

Quando la sua nemica andò a dormire, la gatta nera mangiò e bevve. Poi passò in rassegna il giardino che aveva già conosciuto dall’estremità di un elegante guinzaglio con collare, e lo studiò attentamente. Esaminò la casa, un piano dopo l’altro. Il mio letto, così decise, era il posto per lei. E a questo punto la gatta grigia spiccò un balzo, soffiando, cacciò via la gatta nera e riprese il suo posto sul mio letto. Allora la gatta nera si collocò sul divano.

Il temperamento della gatta nera è del tutto diverso da quello della gatta grigia. La prima è una bestiola modesta, tranquilla e ostinata, la quale non conosceva la civetteria fino a quando non aveva visto quella della gatta grigia: lei non si metteva in posa, non faceva la civetta, non si rotolava, scorrazzava né faceva mostra di sé.

Sapeva di non essere la prima gatta di quella casa; la gatta grigia era quella che comandava. Ma come gatta in seconda alcuni diritti li aveva, e su quelli insisteva. Le due gatte non combattevano mai, in senso fisico. Ma facevano grandi duelli con gli occhi. Sedevano ciascuna su un lato della cucina; occhi verdi e occhi gialli che si fissavano. Se la gatta nera commetteva qualcosa che la gatta grigia giudicava essere al limite di quanto a lei appariva tollerabile, quest’ultima emetteva un debole brontolio, e muoveva i muscoli in alcuni movimenti sottilmente minacciosi. E la gatta nera desisteva. La gatta grigia dormiva sul mio letto. Alla gatta nera questo era vietato; la gatta grigia poteva stare sul tavolo, ma la gatta nera no. Quando c’erano visite, la gatta grigia si presentava per prima alla porta. E inoltre non accettava di mangiare che separatamente, in un piattino appena lavato, con cibo tirato fuori di fresco, e in un punto della cucina. Per la gatta nera, sarebbe andato bene il solito angolo, dove normalmente il cibo veniva deposto.

La gatta nera si sottometteva a tutto ciò, e con gli umani che vivevano in quella casa si dimostrava ragionevolmente affettuosa; ci si avvolgeva attorno alle gambe, faceva le fusa, comunicava – anche lei è per metà siamese; ma tutto questo sempre con un occhio fisso sulla gatta grigia.

Un simile comportamento non si conciliava con il suo aspetto. Nel caso della gatta grigia, aspetto fisico e atteggiamento sono sempre andati di pari passo: l’aspetto fisico ne determinava il carattere.

Ma la gatta nera è ambigua. Ad esempio le sue dimensioni. È una gatta piccola e slanciata. Quando aspetta dei gattini sembra incredibile che possa esserci posto per loro. Ma provate a sollevarla: è solida, pesante; una bestiola forte e compatta. E non sembra affatto modesta, domestica; e tanto materna quanto poi dimostrò di essere.

È elegante. Ha un profilo nobile e ricurvo, come quello dei gatti effigiati sulle tombe. Quando siede, eretta, con le zampe una accanto all’altra, oppure si accuccia, con le palpebre semiabbassate, se ne sta immobile, remota, come se si fosse ritirata in un qualche luogo lontano, dentro di lei. In quelle occasioni si fa cupa, e incute paura. E poi è nera, nera, nera. Baffi neri e lucenti, ciglia nere, non un pelo bianco in alcun punto del corpo. Se l’artefice della gatta grigia doveva essere stato un maestro di finezza, un maestro nel dettaglio amoroso, quello della gatta nera doveva aver detto: io creerò un gatto nero, la quintessenza del gatto nero, un gatto degli Inferi.

Ci vollero circa due settimane perché le due antagoniste stabilissero delle regole di precedenza. Le due gatte non si sfioravano mai, né giocavano tra loro o si leccavano a vicenda: crearono un equilibrio in virtù del quale erano sempre consapevoli l’una della presenza dell’altra, in una ostilità vigile. Ed era una cosa triste, se si pensa invece a come la gatta grigia e suo figlio maggiore avevano giocato, si erano puliti a vicenda, attorcigliandosi l’uno all’altra. Forse, pensammo noi, con il tempo quelle due avrebbero potuto imparare a diventare affettuose.

Ma a quel punto la gatta nera si ammalò e la posizione che la povera gatta grigia aveva conquistato lottando con tanta fatica andò completamente perduta.

La gatta nera aveva preso un raffreddore, pensai. Aveva gli intestini in disordine: faceva frequenti visite in giardino. Si era sentita male parecchie volte.

Se l’avessi portata dal dottore in quel momento, non si sarebbe ammalata in modo così grave. Aveva un’enterite. Ma io non sapevo quanto è brutta questa malattia, e non sapevo che pochissimi gatti ce la fanno, almeno quando sono ancora quasi dei cuccioli. Durante la sua seconda notte di malattia mi svegliai e la trovai accucciata in un angolo – che tossiva, così pensai a tutta prima. Invece stava cercando di vomitare, senza che le fosse rimasto più nulla da rimettere. Aveva le mascelle e la bocca ricoperte di schiuma bianca, una schiuma vischiosa che non si riusciva a togliere tanto facilmente. Gliela lavai via. La gatta tornò ad accucciarsi nel suo angolo, guardando davanti a sé. Il mondo in cui stava seduta appariva minaccioso: immobile, paziente, e non dormiva. Aspettava.

La mattina dopo la portai all’ospedale dei gatti che era dietro l’angolo, ormai rosa dal rimorso per non averlo fatto prima. Era molto ammalata, mi dissero. E dal modo in cui lo fecero capii che non era previsto che sopravvivesse. Era molto disidratata e bruciava di febbre. Le fecero un’iniezione per abbassare la temperatura, e dissero che bisognava fare in modo che ingerisse dei liquidi – se possibile. Lei si rifiutava di bere, dissi io. Fanno sempre così, dissero loro, una volta superato un certo stadio della malattia, che era contraddistinto anche da un altro sintomo: i gatti decidono di morire. Si infilano da qualche parte, in un luogo fresco, a causa del calore che emana dal loro corpo, poi si accucciano e aspettano la fine.

Quando riportai a casa la gatta nera, questa si diresse con aria macilenta verso il giardino. Era l’inizio di autunno e faceva freddo. La gatta si accucciò contro il gelo del muro di cinta, con la terra fredda sotto di sé, nella stessa posizione di paziente attesa della notte prima.

La riportai dentro e la deposi su una coperta, non troppo lontano da un termosifone. Lei se ne tornò in giardino: stessa posizione, stessa paziente posizione di morte.

La riportai dentro e la chiusi in una stanza. Lei si trascinò fino alla porta, e si sistemò accanto all’uscio, con il naso verso la porta, aspettando di morire.

La tentai con acqua, acqua e glucosio, succhi di carne. Non è che lei li rifiutasse: ormai ne era al di là; il cibo era qualcosa che si era lasciata dietro di sé. E non voleva ritornare; non voleva.

Il giorno dopo, all’ospedale, dissero che la temperatura era ancora molto alta. Non era scesa. E che la gatta doveva bere.

La riportai a casa e ci pensai su. Era chiaro che quello di tenere in vita una gatta era un lavoro a tempo pieno. E io avevo da fare. E poi, continuavano a ripetere gli altri di casa, era solo una gatta.

Ma lei non era soltanto una gatta. E per una serie di ragioni – tutte umane e per lei irrilevanti – non le si doveva permettere di morire.

Mischiai assieme, in un miscuglio cattivo ma efficace, glucosio, sangue e acqua, e cominciai a lottare con la gatta nera.

Non intendeva aprire le mascelle per mandarlo giù. Una minuscola creatura febbricitante, lieve come un’ombra, che aveva perduto tutta la sana compattezza delle proprie carni, sedette, o per meglio dire, mi crollò in grembo, continuando a tenere i denti chiusi contro il cucchiaio. Era la forza della debolezza: no, no, no.

La costrinsi ad aprire i denti, facendo leva contro i canini. Il liquido le arrivava in gola ma lei non lo voleva inghiottire. Le tenni le mascelle aperte ed esso colò giù dai lati della bocca. Ma una parte però doveva essere scesa, perché dopo il terzo, quarto, quinto cucchiaio, la gatta accennò debolmente a deglutire.

E così continuò. Ogni mezz’ora. Toglievo la povera creatura dal suo angolo e la costringevo a mandar giù del liquido. Temevo di farle male alle mascelle per il fatto di premere tanto contro i denti che le sporgevano. E probabilmente le mascelle le facevano molto male.

Quella notte la misi sul letto accanto a me e la svegliai ogni ora, sebbene non fosse veramente addormentata. Lei si accucciava, il calore della febbre che si spandeva in ondate tutto attorno a lei, gli occhi aperti a metà. Pativa l’avvicinarsi della fine della vita.

Il giorno dopo la febbre non era ancora scesa, ma quello sucessivo sì, e adesso all’ospedale le cominciarono a fare delle iniezioni di glucosio. Ogni iniezione le lasciava una larga protuberanza morbida sotto la pelle indurita. Ma a lei non importava; a lei non importava niente di niente.

Ora che la febbre era passata, la gatta aveva molto freddo. La avvolsi in un vecchio asciugamano e la misi vicino al termosifone. Ogni mezz’ora la gatta nera e io lottavamo. O piuttosto, l’intenzione di morire, della gatta nera, lottava contro la mia intenzione che lei non morisse.

Di notte, si accucciava sul letto al mio fianco, scossa da quel triste e debole tremolio interno che è proprio dell’estrema debolezza, con l’asciugamano avvolto su di lei. Dovunque la mettessi rimaneva ferma. Non aveva la forza di muoversi. Però insisteva nel non aprire le mascelle per ingerire il liquido. Quello non intendeva farlo. Tutta la forza che le rimaneva veniva messa nel dire no.

Trascorsero dieci giorni. Ogni giorno la portavo all’ospedale dei gatti. Era un luogo nel quale venivano addestrati i giovani veterinari, un ospedale con funzioni didattiche. Ogni mattina, tra le nove e le dodici, la gente del vicinato vi portava cani e gatti. Sedevamo su alcune panchine messe in fila, in una sala d’aspetto grande e spoglia, mentre gli animali ammalati si innervosivano, si lamentavano, abbaiavano. A partire dalle malattie di quegli animali nascevano le più diverse amicizie.

Mi sono rimasti in mente ogni sorta di piccoli episodi tristi. Ricordo, ad esempio, una donna di mezza età, i capelli tinti di un color biondo chiaro che sovrastavano una faccia smunta. Aveva un cane grande e bellissimo, in forma smagliante per merito del cibo e delle attenzioni. Non era pensabile che il cane avesse niente di serio, perché era vivace, abbaiava ed era fiero di sé. Ma la donna se ne stava lì con indosso un completino leggero, sempre lo stesso, e senza cappotto. Faceva un po’ di freddo, anche se non molto, e noialtri portavamo vestiti leggeri o golfini. Ma lei tremava senza controllo, e sulle braccia e sulle gambe la carne quasi non c’era più. Era evidente che non mangiava abbastanza e che tutti i suoi soldi e il suo tempo venivano spesi per il cane. Dar da mangiare a un cane di quella taglia costa un mucchio di soldi. Un gatto costa, direi, intorno ai dieci scellini a settimana, anche quando non si tratta di una bestia viziata come lo sono le nostre due. Quella donna viveva attraverso il suo cane. Credo che anche gli altri lo avessero percepito. La gente, in questo quartiere, è in gran parte povera: e il modo in cui la guardavano, mentre se ne stava lì a tremare accanto a quella bestia così vezzeggiata, e poi la invitarono a saltare la fila per togliersi dal freddo ed entrare nell’edificio, mentre noi aspettavamo che si aprissero le porte, diceva che avevano capito la sua situazione e provavano pena per lei.

E poi un altro episodio, estremo in senso opposto, o almeno così sembrava. Un bulldog grasso – ma molto grasso, con rotoli di ciccia dappertutto – arrivò condotto da un ragazzo, di circa dodici anni, grasso anche lui. I medici misero il cane sul tavolo per le visite, e spiegarono al ragazzo che un cane deve mangiare non più di una certa quantità, e soltanto una volta al giorno: il cane non soffriva di niente altro che di un eccesso di alimentazione. E poi che non bisognava dargli da mangiare pezzi di torta, pane e dolci e... Il ragazzo grasso continuava a ripetere senza sosta che sarebbe andato a casa e lo avrebbe riferito alla madre, sì, lo avrebbe detto a sua madre, ripeteva; però quello che lei voleva sapere era perché il cane ansimava e aveva l’affanno, perché dopotutto aveva solo due anni, e perché invece non correva e giocava come facevano tutti gli altri cani. Dunque, dicevano i dottori con tono paziente, nutrire troppo un animale era altrettanto facile che nutrirlo troppo poco. Se tu nutri eccessivamente un cane, vedi...

Sono straordinariamente pazienti; e molto gentili. E pieni di tatto. Le cose che sono costretti a fare agli animali e che potrebbero turbare i loro padroni si svolgono dietro porte chiuse. La povera gatta nera fu portata dentro per le iniezioni e così passarono venti minuti, mezz’ora, prima che mi venisse restituita con quel liquido sottocutaneo che le gonfiava un tratto della pelliccia rigida e sporca.

Da giorni ormai non si leccava più, non si puliva. Non riusciva a muoversi. Né migliorava. E se tutta la mia attenzione, tutte le competenze dell’ospedale non facevano nessuna differenza, ebbene, allora forse dopotutto bisognava concederle di morire, dal momento che era quello che voleva. Se ne stava seduta lì, giorno dopo giorno, sotto il termosifone. La pelliccia somigliava già a quella di un gatto morto, piena di polvere e di batuffoli di lanugine; gli occhi erano appiccicosi; il pelo attorno alla bocca era duro per tutto il glucosio che cercavo di versarle in gola.

Pensai a come ci si sentiva a essere a letto malati, a quella sensazione di disgusto e irritazione, di odio per se stessi che si insinua, fino a che sembra essere diventata la malattia stessa. I capelli hanno bisogno d’esser lavati, e uno sente l’odore acre della malattia nel proprio alito, sulla propria pelle. Ha la sensazione di essere rinchiuso in un guscio di infermità, in un miasma di malessere. Poi ecco che arriva l’infermiera che ti lava la faccia, ti spazzola i capelli e porta via rapidamente le lenzuola con quell’odore acre.

No, naturalmente i gatti non sono umani e gli umani non sono gatti; pure, non riuscivo a credere che una bestiolina schizzinosa come la gatta nera non soffrisse di sapere quanto fosse sporca e maleodorante.

Ma non si può lavare un gatto. Prima presi uno strofinaccio leggero che avevo strizzato dopo averlo immerso nell’acqua calda, e con quello la strofinai dolcemente su tutto il corpo per liberarla della sporcizia, della lanugine e dell’appiccicume. L’operazione richiese molto tempo. La gatta rimase passiva, probabilmente soffrendo, perché ormai la pelle era stata perforata da molte iniezioni. Quando si fu riscaldata, pelo, orecchie e occhi, la asciugai con un panno che avevo intiepidito.

E poi – e credo che fu questa la cosa che fece cambiare la situazione – mi riscaldai le mani immergendole nell’acqua calda, dopo di che la massaggiai, molto lentamente, su tutto il corpo infreddolito, cercando con quel massaggio di infonderle un po’ di vita. Lo feci per un po’ di tempo, circa mezz’ora.

Quando la cosa fu terminata, la coprii con un panno tiepido e pulito. E fu allora che, molto rigida e lenta, la gatta si tirò su e attraversò la cucina, per tornare presto ad accucciarsi di nuovo, nel punto in cui l’energia che l’aveva spinta a muoversi era venuta meno. Però si era mossa, e di sua volontà.

L’indomani chiesi ai dottori se il massaggio poteva aver fatto migliorare la situazione. Risposero che probabilmente no, che pensavano fossero state le iniezioni. Comunque possa essere accaduto, non v’è dubbio che l’unico momento in cui vi fu di nuovo una possibilità che la gatta tornasse a vivere, giunse dopo che questa era stata spazzolata e massaggiata. Per altri dieci giorni le dettero il glucosio, in ospedale, mentre io la costringevo a inghiottire quegli orrendi miscugli di succhi di carne, glucosio e acqua, e poi la spazzolavo e massaggiavo due volte al giorno.

Per tutto questo tempo la povera gatta grigia era stata messa da parte. Prima le cose più urgenti. La gatta nera aveva bisogno di troppa attenzione perché se ne potesse dare molta alla gatta grigia. La quale tuttavia non era disposta ad accettare elemosine, nessuna seconda scelta, per lei, che si limitò a mettersi daparte, fisicamente ed emotivamente, e stare a guardare. A volte si avvicinava cautamente alla gatta nera, la quale pareva a tutti gli effetti già morta, la annusava e poi si ritraeva. A volte, quando la annusava, le si drizzava il pelo. Una volta o due, nelle occasioni in cui la gatta nera era sgusciata fuori, nel freddo del giardino, con l’intenzione di morire, la gatta grigia l’aveva seguita, si era seduta a pochi passi di distanza ed era rimasta a guardarla. Ma non sembrava ostile; non cercava di far del male alla gatta nera.

Per tutto quel periodo la gatta grigia non giocò, né fece alcuno dei suoi trucchi, né avanzò alcuna speciale richiesta in fatto di cibo. Non venne vezzeggiata, e dormiva in un angolo della camera da letto, sul pavimento, non più arrotolata in una voluttuosa palla di pelo, ma accucciata a guardare verso il letto sul quale la gatta nera veniva curata.

Poi la gatta nera cominciò a riprendersi, ed ebbe inizio il periodo peggiore – peggiore dal nostro punto di vista. Ma forse anche da quello della gatta nera che era stata riportata con la forza alla vita, contro la sua volontà. Era come un gattino che dovesse fare ogni cosa per la prima volta, o come una persona molto anziana. Non aveva più alcun controllo sui suoi intestini, e sembrava che avesse dimenticato a che cosa servivano le lettiere. Mangiava penosamente, goffamente, e quando lo faceva spargeva il cibo dappertutto. E dovunque si trovava poteva accadere che si accasciasse all’improvviso e che rimanesse accucciata a fissare davanti a sé. Era una cosa che ci turbava profondamente: una bestiolina ammalata e distante, sempre accucciata rigidamente, che non si raggomitolava mai, né si stiracchiava. E aveva lo sguardo fisso – una gatta che faceva pensare all’immagine della morte, con quei suoi occhi fissi e distanti. Per un certo periodo credetti che fosse diventata un po’ folle.

Ma invece migliorò. Smise di sporcare i pavimenti. Ricominciò a mangiare. E un giorno, invece di fissarsi nella sua solita posizione accucciata, di attesa, si ricordò che ci si poteva anche raggomitolare. La cosa non le venne facile, né immediata. Fece due o tre tentativi, come se i muscoli non ricordassero più come si faceva. Poi si acciambellò, naso contro coda, e si addormentò. Era di nuovo una gatta.

Però non si era ancora leccata. Io cercai di ricordarglielo prendendole la zampa anteriore e strofinandogliela contro la guancia, ma lei la lasciò cadere. Era troppo presto.

Fui costretta ad allontanarmi per sei settimane, e le gatte furono affidate a un’amica perché se ne occupasse.

Quando tornai ed entrai in cucina, la gatta grigia era seduta sul tavolo. Era di nuovo il capo. E sul pavimento c’era la gatta nera, lucida, slanciata, pulita, che faceva le fusa.

L’equilibrio di potere era stato ristabilito, e la gatta nera aveva dimenticato di essere stata ammalata. Ma non del tutto. I suoi muscoli non sono mai completamente guariti. Le è rimasta una certa rigidezza nei fianchi, per cui non riesce a saltare in modo pulito, anche se lo fa abbastanza bene. Sul dorso, sopra la coda, c’è una piccola chiazza priva di pelo. E da qualche parte, nel cervello, è racchiuso il ricordo di quel periodo. Circa un anno più tardi la portai di nuovo in ospedale per una lieve infezione a un orecchio. Esservi trasportata in un cesto non le dette fastidio, né le creò problema la sala d’attesa. Ma quando fu portata nel gabinetto diagnostico cominciò a tremare e a salivare. La portarono in un’altra stanza, per pulirle le orecchie, la stessa nella quale le avevano fatto tante iniezioni, e quando la riportarono indietro era irrigidita dalla paura, con la bocca che sbavava copiosamente; poi continuò a tremare per ore. Ma è una gatta normale, con istinti altrettanto normali.

8

Forse è per il fatto di essersi trovata così vicina alla morte, ma gli appetiti della gatta nera sono enormi: in lei assistiamo al ristabilirsi di un equilibrio.

Mangia tre o quattro volte più della gatta grigia, e quando è in calore il suo appetito è addirittura formidabile. La gatta grigia manifestava il suo amore in maniera voluttuosa. La gatta nera diventa un’ossessa. Per quattro o cinque giorni gli umani stanno a guardare, spaventati, questa forza della natura totalmente diretta a un unico scopo. La gatta annuncia l’insorgere del suo bisogno di un compagno attraverso un frenetico fare le fusa, rotolarsi e richiedere di essere accarezzata. Fa l’amore con i nostri piedi, con il tappeto, con una mano. Si aggira ululando per il giardino. Si lamenta a voce spiegata, gridando che non le basta, che non le basta – e questo fino al momento in cui, non essendo il sesso più una preoccupazione, diviene madre, a tempo pieno e al cento per cento, senza mai il benché minimo impulso verso niente altro.

Il padre della prima nidiata della gatta nera era un gatto nuovo, un giovane soriano. Quell’estate c’era in giro una nuova popolazione di gatti. I vivisezionisti, o i procacciatori di pellicce di gatto, avevano fatto un’altra retata nel nostro isolato, e dalla sera alla mattina sei gatti erano spariti.

Erano ancora disponibili: il bel soriano, il gatto bianco e nero a pelo lungo e un gatto bianco a macchie nere. Lei voleva il soriano, e lo ebbe. Con alcune integrazioni. Verso la fine della seconda giornata in cui era in calore, assistetti alla scena che segue.

La gatta nera era sotto il soriano già da alcune ore, quando entrò correndo nell’ingresso di casa, chiedendo di essere inseguita. E lì cominciò a rotolarsi, in attesa. Il soriano le andò appresso, la guardò, la leccò, e mentre lei continuava a rotolarsi e a mandare segnali di adulazione, la immobilizzò tenendola ferma con una zampa, come a dire sta’ un attimo buona. Indulgente, affettuoso, se ne stava accucciato tenendo ferma con la zampa l’insistente gatta nera, la quale, sotto quella presa, si contorceva e implorava. Sta’ buona, diceva lui. Ma poi, a forza di contorcersi, la gatta si liberò e corse fuori, in giardino, guardandosi indietro per vedere se lui la seguisse. Lui la seguì, ma con comodo. In giardino, in attesa, c’era il gatto bianco e nero. La nostra gatta si rotolava e cercava di sedurre il soriano, il quale sedeva, apparentemente indifferente, leccandosi il pelo. Ma invece la osservava. La gatta cominciò a contorcersi davanti al gatto bianco e nero. Il soriano si avvicinò e si accucciò accanto ai due, guardando. E lì rimase seduto, a osservare la gatta nera che si accoppiava con il gatto bianco e nero. Fu un incontro breve. Quando la gatta nera si liberò del suo nuovo compagno, con il quale era stata, per pura civetteria, il soriano la punì della sua infedeltà, dandole dei colpi sulle orecchie. Poi la montò. In nessun modo accennò ad accorgersi della presenza del gatto bianco e nero, o a volerlo punire; quest’ultimo, nel corso di quei tre o quattro giorni, di tanto in tanto si accoppiava con la gatta nera, che per questo riceveva delle botte sulle orecchie, pur senza eccessiva enfasi.

Le gatte hanno un doppio utero, come i conigli. La gatta nera ebbe sei gattini, uno grigiastro, due neri, e tre bianchi e neri, cosicché a quanto sembrava, il gatto in seconda aveva avuto più influenza sui cuccioli che non il tigrato che lei preferiva.

Come la gatta grigia, anche la nera è assai lontana da quella legge di natura che dice che i gattini dovrebbero venire al mondo in un luogo buio e protetto, perché anche a lei piace partorire in una stanza nella quale vi siano sempre delle persone. A quell’epoca, la stanza in cima alla casa era occupata da una ragazza che studiava per prepararsi agli esami e che di conseguenza vi trascorreva quasi tutto il suo tempo. La gatta nera scelse la sua poltrona di cuoio, e su quella partorì, mentre la gatta grigia stava a guardare. Una volta o due quest’ultima si arrampicò sul bracciolo della poltrona e abbassò una zampa per toccare un gattino. Ma in questa sfera, la sfera del materno, la gatta nera è sicura di sé e può dare ordini alla gatta grigia, la quale infatti fu fatta scendere. I gattini vennero al mondo in modo appropriato, ordinato e veloce. Come al solito, man mano che ne compariva dapprima uno, poi due, poi tre, quattro, cinque e infine sei, noi vivevamo i consueti terribili momenti durante i quali speravamo che questa volta, almeno, la gatta ne avesse soltanto due, al massimo tre. Come al solito decidemmo che tre sarebbero bastati, e che ci saremmo sbarazzati di tutti gli altri; ma poi, quando furono tutti puliti, pronti, con le zampe anteriori puntate contro il petto di mamma gatta, a succhiare energicamente, mentre lei faceva le fusa e si mostrava fiera di sé, decidemmo che proprio non potevamo ucciderli.

A differenza della gatta grigia, lei odiava doverli lasciare, ed era al massimo della felicità quando aveva quattro o cinque persone attorno alla sedia, che la ammiravano. Quando la gatta grigia sbadiglia, accettando le attenzioni, lo fa in modo insolente, languido. La gatta nera contornata dai suoi gattini dice che è intelligente e bella, sbadiglia con aria felice, senza imbarazzo, bocca tanto rosa e lingua rosa sullo sfondo della pelliccia nerissima.

Quando è madre, la gatta nera è impavida. Se in casa ci sono dei cuccioli, ed entrano altri gatti, la nera si lancia giù per le scale e si getta urlando al loro inseguimento, cosicché quelli fuggono via per rifugiarsi sui muri. La gatta grigia invece, all’apparire di un gatto non gradito, comincia a borbottare, minacciare, ammonire, fino a che non compare un umano. Poi, sostenuta da quella presenza – ma mai prima – corre all’inseguimento dell’intruso. E se non arriva nessuno, aspetta che ci sia la gatta nera. La gatta nera attacca; dietro di lei, viene la gatta grigia. Poi la nera trotterella di nuovo verso casa, determinata, indaffarata, a missione compiuta; la gatta grigia, vigliacca, rimane indietro a ciondolare, si ferma per leccarsi il pelo, poi, nascosta da gambe umane, o da una porta, lancia la sua sfida.

Quando la gatta nera è impegnata ad accudire i suoi gattini, la grigia ritorna quasi, ma non completamente, a occupare la posizione che aveva in precedenza. La notte passeggia sul mio letto, tutto attorno, alla ricerca del punto che preferisce; non più, ora, sotto le lenzuola o sulla mia spalla, ma nell’angolo formato dalle ginocchia, o contro la curva dei piedi. La gatta grigia mi lecca delicatamente la faccia, di notte guarda brevemente fuori dalla finestra, riconoscendo l’albero, la luna, le stelle, il vento, o gli amori di altri gatti, amori dai quali lei è adesso infinitamente distante, e poi si mette giù. La mattina, quando vuole che io mi svegli, mi si accoccola sul petto e mi accarezza la faccia con la zampa. Oppure, se sono su un fianco, si accuccia e mi fissa. Morbidi, morbidi tocchi della sua zampa. Io apro gli occhi, le dico che non mi voglio svegliare. Li richiudo. La gatta mi tocca dolcemente le palpebre. Mi lecca il naso. Comincia a fare le fusa, a pochi centimetri dal mio viso. Poi, mentre me ne sto ferma fingendo di dormire, mi morde delicatamente il naso. Io rido e mi metto a sedere. Allora lei salta giù dal letto e corre di sotto. Perché qualcuno le apra la porta del giardino se è inverno, o per essere nutrita se è estate.

La gatta nera, quando pensa che sia arrivato il momento di alzarsi, scende giù dal piano di sopra, poi si siede sul pavimento e mi guarda. A volte percepisco lo sguardo insistente dei suoi occhi gialli. Allora salta sul letto. Intanto la grigia borbotta a bassa voce. Ma la nera, forte dell’esistenza dei gattini, sa bene quali sono i suoi diritti e non ha paura. Va da un punto all’altro del letto, passando dai piedi, poi risale dall’altro lato, dalla parte del muro, ignorando la gatta grigia. Rimane seduta, in attesa. Gatta grigia e gatta nera si rivolgono l’una all’altra lunghi sguardi, verdi e gialli. Poi, se non mi sono ancora alzata, la nera spicca un balzo armonioso, oltrepassando il mio corpo, sul pavimento. E da lì guarda, per vedere se quel gesto mi ha svegliata. Se non lo ha fatto, allora lo ripete. E poi un’altra volta ancora. A quel punto la gatta grigia mal tollerando la mancanza di perspicacia della gatta nera le fa vedere come si fa: si accuccia e mi dà dei buffetti sulla guancia. La gatta nera, però, non è in grado di imparare la finezza della gatta grigia: è una cosa che non sopporta. Lei non è capace di dare dei buffetti su una guancia fino a farla ridere, né sa dare dei piccoli morsi, con dolcezza, e con aria di scherno. Lei sa che se salterà su di me un certo numero di volte, io mi alzerò e la nutrirò, e così lei potrà tornare dai suoi piccoli.

L’ho osservata mentre cercava di imitare la gatta grigia. Quando quest’ultima si stende giù in cerca di ammirazione e noi le diciamo Bella gatta, bbeeeellliiiiissima micia, la gatta nera si butta giù accanto a lei, nella stessa posizione. La gatta grigia sbadiglia; la gatta nera sbadiglia anche lei. Poi la gatta grigia, stesa sulla schiena, sbuca da sotto al divano, e a questo punto la gatta nera è sconfitta, perché quello è un giochetto che lei non sa fare. Allora se ne torna dai suoi piccoli, dove, questo lo sa bene, noi andremo ad ammirare anche lei.

Poi la gatta grigia si trasformò in una cacciatrice. E questo non per necessità di nutrirsi. Il suo andare a caccia non ha mai avuto niente a che fare con il cibo – cibo inteso, cioè, come sostanza che dà nutrimento – quanto piuttosto come espediente utile a far notare, o a esprimere, le proprie emozioni.

In un certo week-end dimenticai di comprare la carne di coniglio, che era ormai la sola cosa della quale si nutriva.

Avevo in casa delle scatolette di cibo per gatti. Quando ha fame, la gatta grigia si siede, non nell’angolo in cui viene deposto il cibo, che è quello, modesto, che lascia alla gatta nera, ma dall’altra parte della cucina, al suo posto. Non miagola mai per chiedere da mangiare. Siede invece accanto a una ciotola immaginaria, e mi guarda. Se io non me ne accorgo, lei mi si avvicina e mi si strofina attorno alle gambe. Se continuo a non accorgermene, lei spicca un salto e con la zampa mi raspa la gonna. Poi, con dolcezza, mi mordicchia una caviglia. E a mo’ di commento finale, va di nuovo verso il piatto della gatta nera, gli volge le spalle, e poi fa segno di grattar via uno sporco immaginario, con questo dicendo che, per come la vede lei, si tratta di escrementi.

Ma in frigorifero, di coniglio non ce n’era. Io aprii il frigo, con lei seduta lì accanto, in attesa, poi lo richiusi per farle capire che lì dentro non c’era niente che potesse interessarle, e che se aveva davvero fame avrebbe dovuto mangiare del cibo in scatola. Lei non capì, e tornò a sedersi accanto alla ciotola immaginaria. Di nuovo io aprii il frigorifero, poi lo richiusi, indicai il cibo in scatola e tornai al mio lavoro.

A quel punto la gatta grigia uscì fuori dalla cucina, per rientrarvi, dopo pochi minuti, portando con sé due salsicce già cotte, che depose ai miei piedi.

Mascalzona di una gatta! Gatta ladra! Gatta senza principi morali! Gatta ruba-salsicce!

A ogni epiteto la gatta chiudeva gli occhi, in segno di ammissione, poi si girò, fece mostra di grattar via un immaginario sporco delle salsicce, e uscì fuori dalla cucina, furibonda.

Salii di proposito in camera da letto, dalla quale riesco a vedere sia i cortili sul retro delle case, che i giardini e i muri di cinta. La gatta grigia era là fuori e in quel momento attraversava il giardino per raggiungere il muro posteriore con un lungo balzo elegante tipico dei cacciatori. Saltò in cima a quel muro, lo percorse correndo, e poi scomparve. Non mi riuscì di vedere dove fosse andata.

Tornai in cucina. La gatta comparve di nuovo con un’altra salsiccia già cotta, che mise giù accanto alle altre due. Poi, dopo aver grattato via dello sporco dalla salsiccia stessa, uscì dalla cucina e se ne andò a dormire sul mio letto.

Il giorno dopo, sul pavimento della cucina, una filza di salsicce crude, e accanto a esse, la gatta grigia, seduta, ad attendere che io decifrassi le implicazioni della sua affermazione.

Pensai che forse i poveri attori del vicino teatrino erano stati privati del loro pranzo. E invece no, perché dalla finestra della mia camera da letto vidi la gatta grigia trotterellare lungo il muro, poi spiccare un salto e scomparire in una casa che con quel muro confinava. Mi ero accorta che dalla parete esterna di quella casa erano stati tolti un paio di mattoni – forse per creare una forma di areazione all’interno della cucina. Non era facile per un gatto infilarsi in quella piccola apertura e in particolare dopo un salto di un metro da un muro tanto stretto, ma invece era proprio ciò che la gatta stava facendo, e che ancora fa, quando vuole far capire di non venire adeguatamente nutrita.

In quella cucina, la povera donna che ha appena cotto un paio di salsicce per la colazione del marito, si gira e scopre che sono sparite. Colpa dei fantasmi! Oppure picchia, per questo, un cane o un bambino che sono invece innocenti. O magari tira fuori, e poggia su un piatto, una libbra di salsicce crude, pronte per la padella.

Poi si gira un attimo – le salsicce non ci sono più. La gatta grigia attraversa correndo il giardino, trascinandosi dietro una fila di salsicce che deposita sul pavimento della nostra cucina; un gesto che forse aveva origine in antenati cacciatori, ai quali era stato insegnato a catturare il cibo da portare agli umani; ed è possibile che il ricordo di ciò le sia rimasto impresso nel cervello perché potesse mutarsi in linguaggio semiumano.

9

Ogni anno un tordo fa il nido nel grande sicomoro in fondo al giardino. Ogni anno i piccoli escono fuori dalle uova e spiccano il loro primo volo saltando giù dal nido e andando a cadere direttamente tra le mascelle di gatti in attesa. Poi anche mamma uccello, e papà uccello, saltando giù appresso a loro, finiscono per essere acchiappati.

Il cinguettio spaventato e lo squittio di un uccellino che è stato catturato turbano la quiete della casa. La gatta grigia ha portato in casa l’uccellino, ma solo allo scopo di riscuotere ammirazione per la sua abilità, perché lei con quell’uccellino ci gioca, lo tortura – e con quanta grazia. La gatta nera si accuccia sulle scale e rimane a guardare. Lei non ha mai ucciso un uccello. Ma tre, quattro, cinque ore dopo che la gatta grigia ha acchiappato quell’esserino, che ormai è morto, o quasi, la gatta nera lo prende e lo sballotta di qua e di là, emulando i giochi della gatta grigia. Ogni estate salvo degli uccellini dalle zampe della gatta grigia, e li lancio molto lontano da lei, in aria o in un altro giardino – e questo, s’intende, se non sono malamente feriti, in modo che possano avere una possibilità di riprendersi. Quando questo accade la gatta grigia è furiosa, piega indietro le orecchie, manda lampi con gli occhi; lei non capisce, no, non capisce affatto. Quando porta in casa un uccellino è molto fiera di sé. Perché in verità si tratta di un dono; cosa che non capii fino all’estate che trascorsi nel Devon. Io invece la rimprovero e glieli tolgo, perché a me la cosa non fa piacere.

Orribile gatta! Gatta tortura-uccelli! Gatta assassina! Gatta sadica! Degenerata progenie di onesti cacciatori!

Lei manda scintille di rabbia in risposta alla mia voce adirata; poi corre fuori di casa con l’uccellino che squittisce. Allora io chiudo la porta posteriore, e chiudo anche le finestre, mentre la tortura continua. Più tardi, quando tutto è di nuovo tranquillo, la gatta grigia torna indietro. Però non viene a strofinarmisi contro le gambe, o a salutarmi. Mi snobba, sale furtivamente al piano di sopra e ci dorme su, mentre il cadavere dell’uccellino, morto di sfinimento, più che per effetto dei denti e delle zampe della gatta, va irrigidendosi in giardino.

Quando feci potare il grande albero, su richiesta dei vicini, ad alcuni dei quali dava fastidio perché faceva ombra nei loro giardini, e ad altri perché “Sporca dappertutto quando perde le foglie”, il giardiniere passò un po’ di tempo in giardino a lamentarsi. Non direttamente contro di me, la cliente che dopotutto lo avrebbe pagato, ma contro la vita di oggi, la quale, a suo dire, è contro gli alberi.

“Ogni giorno,” diceva l’uomo con infinita amarezza, “qualcuno mi chiama, e io vado. Quando arrivo trovo un bell’albero, un albero che ha impiegato cento anni per crescere – che cosa mai siamo, noi, a paragone di un albero? Eppure la gente mi dice abbattilo, perché mi rovina le rose. Le rose! Che cosa sono le rose, a confronto di un albero? E così sono costretto a buttar giù un albero a beneficio delle rose. Non più tardi di ieri ho dovuto abbattere un frassino, lasciando solo ottanta centimetri di tronco che spuntava dal terreno. Per farne un tavolo, ha detto quella; un tavolo, con un albero che ci ha messo cento anni per crescere. Lei voleva potersi sedere al tavolo a bere il suo tè e a contemplarsi le sue rose. Non ci sono più alberi, di questi tempi, gli alberi vanno scomparendo. E se tu invece cerchi di fare un buon lavoro, la gente non è contenta, lo vuole mutilato della sua vera forma. E gli uccelli, poi? Lo sapeva, lei, che su quel ramo c’era un nido?”

“I gatti,” dissi io. “Sarei molto contenta se gli uccelli nidificassero da qualche altra parte.”

“Eh, già,” ha risposto lui, “non si sente dire altro – i gatti. Tutti vogliono far abbattere i loro alberi, e tengono gatti dappertutto. Ma così facendo, che speranza hanno mai gli uccelli? Parola mia, presto la smetterò con questo lavoro, di questi tempi nessuno vuole più un onesto artigiano – e poi, guardi quei gatti, no, dico, li guardi!”

Per quel giardiniere, alberi e uccelli erano una cosa sola, un insieme sacro, da preferire agli esseri umani – avrei detto – se la decisione fosse spettata a lui. Quanto ai gatti poi, li avrebbe eliminati tutti quanti.

Quell’uomo potò il mio albero, ma senza distruggerlo; e su quell’albero, la primavera successiva, un tordo fece di nuovo il suo nido, e come al solito gli uccellini scesero giù sbattendo freneticamente le ali. Uno di essi, però, volò direttamente nella finestra posteriore dell’ultimo piano, infilandosi nella stanza degli ospiti, dove passò un’intera giornata, così ben disposto verso gli umani, da starsene su una sedia a guardarmi da una distanza di pochi centimetri, quasi con gli occhi negli occhi. Non aveva alcun timore delle persone – o almeno, non ancora. Io tenni la porta chiusa mentre la gatta grigia si aggirava furtivamente di fuori. Più tardi, quella sera d’estate, quando tutti gli altri uccelli erano già silenziosi e addormentati, l’uccellino volò direttamente dalla finestra al suo albero, senza avvicinarsi a terra, e dunque è possibile che sia sopravvissuto.

La cosa mi fa ripensare a una storia che mi fu raccontata da una signora che abita all’attico di un palazzo di sette piani, a Parigi, nei pressi di Place Contrescarpe. La signora ritiene che si debba viaggiare leggeri, senza ingombro di bagaglio, per essere in tal modo liberi di andare ovunque e in qualunque momento. Suo marito fa il marinaio. Dunque, un bel pomeriggio un uccellino, che si trovava sulla cima di un albero, le volò in casa e non dette alcun segno di volersene andare. La signora è una donna molto pulita, l’ultima persona al mondo che accetterebbe di avere in casa escrementi di uccellino. Ma quella volta “in lei accadde qualcosa”. Mise dei fogli di giornale sul pavimento e permise all’uccellino di divenirle amico. E quando arrivò l’inverno questo non emigrò verso il sud come avrebbe dovuto fare; e all’improvviso la mia amica capì di essere stata investita di una responsabilità. Se avesse messo la bestiola fuori della finestra in quel momento, nella Parigi invernale, questa sarebbe morta. Ma lei doveva partire per un viaggio di due settimane, e non poteva lasciare il volatile in casa. Allora comprò una gabbietta e lo portò con sé.

E a quel punto si vide: “Immagina un po’: io! proprio io! Io che arrivo in un albergo di provincia con una valigia in una mano e un uccello in gabbia nell’altra! Io! Ma che altro avrei potuto fare? Tenevo l’uccellino nella mia stanza, il che voleva dire che ero costretta a essere gentile con madame e con le cameriere. Mi ero trasformata in una amante dell’umanità. Buon Dio! Le vecchie signore mi fermavano per le scale, le ragazze mi raccontavano i loro problemi amorosi. Tornai difilato a Parigi e lì rimasi, di malumore, fino all’arrivo della primavera, quando buttai quel dannato uccello fuori dalla finestra, che da allora in poi ho tenuto ben chiusa. Sì, perché non mi va che la gente pensi che sono tanto buona; e questo è quanto!”.

La gatta nera rimase incinta della sua seconda nidiata quando i gattini della prima avevano solo dieci giorni, cosa questa che mi parve antieconomica, ma il veterinario disse che era un fatto consueto. Il micio più piccolo di quella nidiata – e il più piccolo è spesso quello con il carattere più dolce, forse perché è costretto a compensare con la dolcezza quello che gli altri posseggono in termini di forza – finì in un appartamento abitato da studenti. Un giorno il micio era seduto sulla spalla di qualcuno, accanto a una finestra, quando all’improvviso un cane abbaiò nella stanza, dietro di lui. Per un istintivo riflesso dettato dalla paura il gatto spiccò un salto fuori dalla finestra. Tutti corsero in strada, sul marciapiedi, con l’intento di raccoglierne il cadavere. Ma lì trovarono il gattino che si leccava il mantello. Non si era fatto il minimo danno.

La gatta nera, temporaneamente priva di gattini, si trasferì al piano di sotto per riprendere la sua vita di sempre. Ma forse la gatta grigia aveva creduto che la gatta nera si fosse ritirata al piano di sopra per sempre, per dedicarsi alle sue responsabilità e alla maternità, e che di conseguenza lei avrebbe avuto il campo libero, tutto per sé. Capì che le cose non stavano così e che poteva venir minacciata in qualsiasi momento. Di nuovo si combatté una battaglia per le posizioni che avrebbero rispettivamente occupato, e questa volta non fu piacevole. La gatta nera aveva avuto i suoi gattini, era più sicura di sé, e non si faceva intimorire tanto facilmente. Ad esempio non aveva alcuna intenzione di dormire sul pavimento o sul divano.

La questione fu risolta nel seguente modo: la gatta grigia avrebbe dormito sulla parte alta del letto e la gatta nera ai piedi. Ma era la gatta grigia quella che poteva svegliarmi, atto questo che adesso veniva interamente compiuto a beneficio della gatta nera: lo scherzare, l’accarezzare con la zampa, il leccare, il fare le fusa, ogni cosa veniva compiuta mentre la gatta grigia fissava la sua rivale, come a dirle: guarda, sta a vedere quello che faccio. E poi tutti i giochetti che faceva con il cibo: guardami, guardami. E gli uccellini: guarda quante cose riesco a fare che tu invece non sai fare. Io credo che durante quelle settimane le due gatte non fossero consapevoli della presenza degli umani, ma che fossero in relazione l’una all’altra, come i bambini quando competono fra di loro, per i quali gli adulti divengono oggetti manovrabili, corruttibili, esclusi da quella ossessione all’interno della quale i piccoli sono coscienti unicamente di loro stessi. Il mondo intero si restringe all’altro, che deve essere battuto, superato in astuzia. Un piccolo mondo luminoso, caldo e tremendo, come quello della febbre.

Le gatte perdettero il loro fascino. Facevano le stesse cose, compivano le stesse azioni. Ma il fascino – quello era andato perduto.

E allora che cosa è mai il fascino? Il libero dono di una qualità, il dispendio di qualcosa che la natura nel suo ruolo di dissipatrice di doni ci ha consegnato. Ma ecco che in questo vi è qualcosa che crea disagio, qualcosa di intollerabile, una sorta di rugosità e noi capiamo di trovarci al cospetto dell’ingiustizia. È forse per il fatto che ad alcune creature è stato dato tanto più che ad altre, che queste devono restituire quanto hanno ricevuto? Il fascino è una cosa in più, una cosa superflua, non necessaria, fondamentalmente un potere che viene elargito. Quando la gatta grigia si rotola sulla schiena in una chiazza di sole caldo, con atteggiamento sensuale, voluttuoso, incantevole, quello è fascino, ed è una cosa che ti prende alla gola. Ma quando la gatta grigia si rotola per terra, con movimenti assolutamente identici ai primi, ma con gli occhi socchiusi, fissi sulla gatta nera, allora diventa brutta e persino nel movimento stesso che fa vi è qualcosa di duro, di sconnesso. E la gatta nera che osserva, o che cerca di copiare qualcosa per la quale non ha alcun talento naturale, ha un fare invidioso e circospetto, come di chi stesse rubando una cosa che non le appartiene. Quando la natura riversa su una sua creatura, arbitrariamente come ha fatto con la gatta grigia, intelligenza e bellezza, allora la gatta grigia dovrebbe, a sua volta, spargere intorno a sé questi doni, in misura altrettanto prodiga.

Proprio come fa con le sue maternità la gatta nera. La quale, quando è sistemata in mezzo ai suoi gattini, con una zampa flessuosa allungata su di loro, protettiva e tirannica, gli occhi semichiusi, il ronfare delle fusa che sale dal profondo della gola, la gatta appare maestosa, generosa – negligentemente sicura di sé. Nel frattempo, la povera gatta grigia, spogliata del suo sesso, se ne sta seduta all’altro capo della stanza, a sua volta invidiosa e rancorosa, con l’intero corpo, e il muso, e le orecchie, piegate all’indietro che dicono: la odio, la odio.

In breve, per alcune settimane le due gatte non costituirono un elemento di piacere per gli umani che vivevano in quella casa, e certamente non lo furono per loro stesse.

Ma ecco che all’improvviso ogni cosa cambiò, perché vi fu un viaggio in campagna, un luogo nel quale nessuna delle due era mai stata.


10

Ambedue le gatte conservavano ricordi di dolore e paura connessi con il cesto da trasporto, e così pensai che non avrebbero avuto piacere di viaggiare là dentro.

Furono sistemate, libere, nella parte posteriore della macchina. La gatta grigia, con un salto, passò davanti e venne a posarmisi in grembo. Era molto infelice. Durante tutto il tragitto per uscire da Londra, la gatta sedette lì, tremando e miagolando, un lamento ininterrotto e acuto che ci faceva impazzire tutti. Il gemito della gatta nera era basso e dolente ed era direttamente connesso con il suo disagio interiore, e non con quanto si svolgeva attorno a lei. Ogni volta che una macchina o un autocarro comparivano nel vano del finestrino, la gatta grigia lanciava un gemito. Allora la misi giù, accanto ai piedi, un punto dal quale non era in grado di vedere il traffico. Ma la cosa non le garbava, perché lei voleva vedere che cos’era che produceva quei rumori che la spaventavano. Al tempo stesso tuttavia odiava dover vedere. Se ne stava accucciata sulle mie ginocchia, e quando un rumore si faceva più forte, alzava la testa, vedeva l’enorme massa vibrante di qualche grossa macchina superarci, oppure venir superata, e miagolava. Fare esperienza del traffico attraverso le reazioni di un gatto, è una lezione che ci fa capire che cosa mettiamo a tacere ogni qualvolta ci infiliamo in una macchina. Noi non sentiamo il frastuono spaventoso – gli scossoni, il fracasso, lo stridio. Se li sentissimo potremmo quasi perdere il sonno, proprio come la gatta grigia.

Non riuscendo a sopportarla, fermammo la macchina e tentammo di infilarla nel cesto. La gatta, ormai isterica dal terrore, ebbe un moto di estrema violenza. Allora la lasciammo libera di nuovo e provammo con la gatta nera, la quale, al contrario, si dimostrò molto felice di stare in un cesto, con un coperchio calato su di lei. Per tutta la durata del viaggio la gatta nera rimase lì accucciata, con il piccolo naso nero che sporgeva attraverso un’apertura laterale. Noi le accarezzavamo il naso e le chiedevamo come stava; e lei rispondeva con voce bassa e triste, ma non sembrava eccessivamente turbata. Può darsi che il fatto che fosse incinta avesse qualcosa a che fare con la calma che dimostrava.

Nel frattempo la gatta grigia miagolava. Miagolò costantemente per tutto il viaggio fino al Devon, e cioè sei ore di macchina. Alla fine si collocò sotto il sedile anteriore, dove quell’insensato irragionevole miagolio continuò, e a niente valsero i nostri tentativi di parlarle, di placarla, di tranquillizzarla. E così ben presto non la sentimmo più, così come in genere non sentiamo più il rumore del traffico.

Trascorremmo la notte in casa di un’amica, in un villaggio. Le due gatte furono sistemate in una grande stanza nella quale furono posti del cibo e una cassetta per i loro bisogni. Non si poteva lasciarle libere perché in quella casa c’erano altri gatti. La gatta grigia si dimenticò del terrore provato, spinta com’era dalla necessità di avere la meglio sulla gatta nera. Fu lei a servirsi per prima della cassetta, la prima a mangiare; e fu lei a sistemarsi sull’unico letto. Letto sul quale rimase seduta, sfidando la gatta nera a provare a salirci. La gatta nera mangiò, fece i suoi bisogni, e poi sedette sul pavimento guardando verso la gatta grigia. Allorché questa, qualche tempo dopo, scese dal letto per mangiare, la gatta nera vi salì sopra, per essere immediatamente cacciata via.

E così le due gatte trascorsero la notte. Comunque, quando mi svegliai, trovai la gatta nera sul pavimento, lo sguardo rivolto verso la gatta grigia, seduta, in guardia, in fondo al letto, gli occhi rivolti all’ingiù che mandavano lampi.

Ci trasferimmo in un cottage in cima a una brughiera, una casa vecchia, che da qualche tempo era vuota. La mobilia era assai poca, ma in casa c’era un grande camino. Le due gatte non avevano mai visto da vicino un fuoco acceso, e così quando la legna cominciò a bruciare, la gatta grigia mandò un grido di terrore, volò al piano di sopra, si ficcò sotto un letto e lì rimase.

La gatta nera annusò tutto attorno la stanza a pianterreno, scoprì l’unica poltrona disponibile e la fece propria. Il fuoco la interessava, e fintanto che non gli andava troppo vicino non le faceva paura.

Ma invece aveva paura della campagna che circondava il cottage, e cioè dei campi aperti, prati e alberi, lì non racchiusi da ordinati rettangoli di mattoni, ma delle distese di molti acri di terreno delimitati da bassi muretti di pietra.

Si dovettero cacciare le gatte fuori di casa, per qualche giorno, per fare le pulizie. Loro capirono e si diressero autonomamente fuori casa – anche se, all’inizio, solo per pochi momenti e senza spingersi oltre lo spazio che si trovava sotto le finestre, dov’erano aiole e ciottoli. Poi fecero qualche passo avanti, fino a un muretto di pietra fittamente ricoperto di vegetazione. Successivamente raggiunsero uno spiazzo di terra circondato da muri, un punto dal quale la gatta grigia non ritornò immediatamente indietro, dopo la sua prima visita. Quello spiazzo era coperto di alti ciuffi di ortiche, cardi, e cespugli di digitale; ed era pieno di uccelli e di topi. La gatta grigia si accucciò al limitare di questa minuscola foresta, ad ascoltare e a percepire ogni sensazione, con i baffi, le orecchie, la coda, concentrati su questo obiettivo. Tuttavia non era ancora pronta ad accettare la sua stessa natura. Un uccellino che planava improvvisamente su un ramo era sufficiente a farla rientrare in casa di gran carriera, e a rifugiarsi al piano di sopra, sotto a un letto. Dove rimaneva per alcuni giorni. Ma quando arrivavano macchine di amici in visita, o di persone che venivano a consegnare legna, pane o latte, la gatta pareva sentirsi intrappolata in casa, e allora correva fuori, nei campi, dove si sentiva più che altrove al sicuro. In breve, era disorientata; non sembrava più se stessa, né pareva esservi alcun senso negli istinti che provava. E inoltre non mangiava; è incredibile constatare quanto a lungo un gatto sia in grado di sopravvivere senza niente più che una leccata di latte o di acqua, quando disdegna il cibo che non gli piace, oppure è spaventato, o indisposto.

Noi temevamo che potesse fuggir via – magari nel tentativo di ritornare a Londra.

Quando avevo all’incirca sei o sette anni, ricordo che una sera un uomo sedeva nella grande stanza dal tetto di paglia della fattoria, alla luce di una lampada, e accarezzava una gatta. Ricordo ancora come accarezzava quella bestia con la mano, mentre le parlava; e il cerchio che la luce della lampada formava, avvolgendoli, faceva dei due, dell’uomo e del gatto, un quadro che ancora oggi ricordo. Così come oggi riprovo ancora quella stessa sensazione di disagio e di angoscia che allora sentii molto fortemente. Ero in piedi accanto a mio padre, e le sensazioni che provavo erano in sintonia con le sue. Ma che cosa era che stava succedendo? Sollecito la memoria, cerco di coglierla di sorpresa, di indurla a mettersi in moto a partire dall’immagine di quel bagliore caldo su una morbida pelliccia grigia, sentendo di nuovo la voce dell’uomo stracolma di emozione. Ma tutto ciò che mi viene di rimando è un senso di disagio, il desiderio che l’uomo se ne vada. C’era qualcosa di profondamente sbagliato. Come che fosse, egli voleva quella gatta. L’uomo faceva lo spaccalegna. Tagliava il legname vicino ai monti che erano a circa venti miglia da noi. Durante i week-end tornava a Salisbury, dove aveva moglie e figli. Ed è per questo che uno si domanda: Che cosa ci stava a fare un gatto nell’accampamento di uno spaccalegna? E poi perché un gatto già adulto e non un gattino che avrebbe imparato che apparteneva a lui o almeno al campo? E perché proprio quella gatta? E perché mai noi eravamo disposti a separarci da una gatta già cresciuta, che è sempre una cosa rischiosa, e per giunta per darla a un uomo che viveva in quel campo solo temporaneamente, perché con l’arrivo delle piogge sarebbe tornato in città? Perché? Be’, la risposta, naturalmente, sta nella tensione, nella disarmonia che regnava in quella stanza, quella sera.

Facemmo un viaggio fin là, portando la gatta.

In alto, tra le colline ai piedi di una catena di monti, vi era una zona che sembrava un parco naturale, con grandi alberi silenziosi; in basso, tra gli alberi, un nido di tende bianche collocate in uno spiazzo. Le cicale che cantavano. Era verso la fine di settembre, oppure ottobre, perché ben presto arrivarono le piogge. Molto caldo, molto asciutto. Lontano, tra gli alberi, l’uggiolio di una sega, continuo, monotono, come il canto delle cicale. Poi, quando quel suono taceva, un esagerato silenzio. Quindi il tonfo di un altro albero che cadeva, e un odore acuto di foglie riscaldate e di erba, che si levava dai rami che cadevano.

Passammo la notte laggiù, in quel luogo silenzioso, nel caldo. E lì lasciammo la gatta. Al campo non c’era telefono, ma il week-end successivo l’uomo ci chiamò per dirci che la gatta era sparita. La cosa gli dispiaceva; disse che le aveva messo del burro sulle zampe, secondo il consiglio che gli aveva dato mia madre, ma non c’era un posto in cui poterla tenere al sicuro, perché è impossibile rinchiudere un gatto in una tenda; e così la bestia era scappata via.

Due settimane più tardi, nel bel mezzo di una mattinata di gran caldo, la gatta si trascinò fino a casa, sbucando fuori dalla boscaglia. Era stata una gatta grigia, dal corpo flessuoso. Adesso era magra, aveva il pelo ispido, gli occhi inselvatichiti e spaventati. Corse su da mia madre e si accucciò, guardando verso di lei, per esser certa che, in un mondo che la riempiva di terrore, almeno quella persona fosse rimasta la stessa. Poi le si rifugiò tra le braccia, facendo le fusa, gemendo per la felicità di essere di nuovo a casa.

Orbene, il luogo in cui si trovava distava circa quindici chilometri, dieci forse, in linea d’aria, ma non tale che un gatto potesse coprirla. La gatta era sgusciata fuori dal campo, il naso puntato nella direzione verso cui l’istinto le suggeriva di doversi dirigere. Non c’era una strada chiaramente segnata che potesse percorrere. Tra la nostra fattoria e il campo c’era un meandro di strade, tutte piste sterrate, mentre quella che portava sino al campo era un percorso sconnesso di cinque o sei chilometri di pista che attraversava l’erba secca. Ed era improbabile che la gatta fosse stata in grado di percorrere a ritroso il tragitto compiuto in macchina. Deve invece aver attraversato la campagna, un tratto di velddesolato e incolto, ricco di topi, ratti e uccelli dei quali si poteva nutrire, ma pieno anche di nemici dei gatti, come leopardi, serpenti, uccelli da preda. La gatta, probabilmente, si spostava di notte. C’erano due fiumi da guadare, non molto ampi, alla fine della stagione asciutta. In alcuni punti vi erano dei massi, per andare da una sponda all’altra; o può darsi che abbia osservato con cura le rive fino a trovare un punto nel quale i rami, dalle due sponde, si incontravano sull’acqua, e che avesse attraversato servendosi degli alberi. Può darsi che avesse nuotato. Ho sentito dire che i gatti lo fanno, anche se io non li ho mai visti.

Durante quelle due settimane arrivò la stagione delle piogge. Ambedue i fiumi tracimarono, all’improvviso e senza che nessuno se lo aspettasse. Accade che ci sia un temporale violento, a monte, quindici, venti, trenta chilometri più su. Il livello sale, e l’acqua si riversa in basso, spazzando via d’un colpo solo qualunque cosa incontri, dai cinquanta centimetri ai venti metri. È assai probabile che al sopraggiungere delle prime piogge della stagione la gatta si trovasse su una sponda, in cerca di un modo per attraversare il fiume. Si era bagnata fino alle ossa: si capiva che il pelo doveva essersi inzuppato e poi asciugato. Quindi, una volta al sicuro, superato il secondo dei due fiumi, aveva dovuto percorrere altri quindici chilometri di veld deserto. Deve averlo attraversato alla cieca, rabbiosa, affamata, disperata, senza sapere niente altro se non che doveva viaggiare, e che stava andando nella direzione giusta.

La gatta grigia invece non scappò, anche se è possibile che ci pensasse ogni volta che in quel cottage arrivavano degli estranei, e lei andava a nascondersi nei campi. La gatta nera, dal canto suo, si sistemò sulla poltrona e lì rimase.

Per noi quello fu un periodo di grande lavoro fisico, poiché tinteggiavamo muri, pulivamo pavimenti, tagliavamo interi acri di ortiche e di erbacce. Mangiavamo solo per necessità, dal momento che non c’era molto tempo per cucinare. E la gatta nera mangiava con noi, felice di farlo, poiché la paura che la gatta grigia provava gliela teneva lontana come rivale. Era la gatta nera a strofinarsi contro le nostre gambe quando rientravamo in casa, era lei che faceva le fusa e veniva accarezzata. Dalla poltrona ci guardava entrare e uscire dalla stanza, con i piedi infilati in pesanti stivali che facevano rumore, mentre contemplava il fuoco, dalle lingue fiammeggianti e rosse, creature in perpetuo movimento, le quali ben presto – ma non immediatamente, perché le ci volle del tempo – la convinsero di una cosa che noi solitamente diamo per scontata, e cioè che un gatto e un caminetto vadano insieme.

Ben presto divenne abbastanza coraggiosa da riuscire ad accostarsi al fuoco, e a sedervisi accanto. Saltò in cima alla catasta di ciocchi che erano ammonticchiati in un angolo, e da lì con un salto andò a infilarsi nel vecchio forno per il pane, il quale – così decise – sarebbe stato certo più adatto della poltrona, per farvi nascere dei gattini. Ma qualcuno in casa se ne dimenticò, e lo sportello di quel forno venne richiuso. Cosicché più tardi, nel bel mezzo di una notte piena di vento, si levò il gemito disperato con cui la gatta nera annuncia il suo essere impotente di fronte al destino. E nessuna lamentela che provenga dalla gatta nera può essere ignorata, perché si tratta certo di qualcosa di serio; e inoltre perché, a differenza della gatta grigia, lei non si lamenta mai se non ha una buona ragione per farlo. Corremmo al piano di sotto. Il triste miagolio proveniva dal muro. La gatta nera era rimasta chiusa nel forno del pane. Niente di pericoloso, ma la bestiola era spaventata; e da quel momento tornò al livello pavimento e poltrona dove la vita era collaudata e sicura.

Quando la gatta grigia si decise finalmente a uscir fuori dal suo rifugio sotto al letto e a scendere al piano di sotto, la nera era ormai diventata la regina di quel cottage.

La gatta grigia tentò di confondere la gatta nera; cercò di spaventarla inducendola a lasciare la poltrona e ad allontanarsi dal focolare, tendendo i muscoli con aria minacciosa e facendo dei movimenti improvvisi e rabbiosi. Ma la gatta nera la ignorò. La gatta grigia cercò allora di ricominciare con i suoi giochetti di precedenza sul cibo, ma fu sfortunata, perché noi eravamo tutti troppo occupati per assecondarla.

C’era dunque la gatta nera, felice davanti al fuoco, e poi c’era la gatta grigia, che se ne stava ben lontana, esclusa.

La gatta grigia sedeva nel vano della finestra e lanciava miagolii di sfida alle fiamme che si muovevano. Poi si fece più vicina – il fuoco non le faceva niente di male. E poi, lì vicino c’era anche la gatta nera, a non più di un tiro di baffo dalle fiamme. La grigia allora si avvicinò, sedette sul tappeto e cominciò a fissare la fiamma, le orecchie piegate all’indietro, la coda che si muoveva nervosamente. Poco a poco anche lei capì che il fuoco del camino era una cosa buona. Allora si stese a terra e cominciò a rotolarglisi davanti, esponendo al calore la pancia color crema, proprio come avrebbe fatto se fosse stata in una chiazza di sole su un pavimento londinese. Era venuta a patti con il fuoco. Ma non con il fatto che la gatta nera potesse avere la precedenza.

Capitò che rimanessi da sola, in quel cottage, per alcuni giorni. Ed ecco che all’improvviso non trovai più la gatta nera. Era la grigia a sedere in poltrona, la grigia quella che stava davanti al fuoco. La gatta nera non si trovava in nessun punto del cottage. La gatta grigia faceva le fusa, mi leccava e mi mordicchiava; la gatta grigia continuava a ripetere quanto era bello essere sola, e come era bello che non ci fosse più la gatta nera.

Mi misi alla ricerca della gatta nera e la trovai che si nascondeva in un prato. Miagolava sconsolatamente. Allora la presi e la riportai in casa, da dove corse via terrorizzata, lontano dalla gatta grigia. Picchiai la gatta grigia.

In seguito, ogni volta che mi mettevo in macchina per andare a fare la spesa o un giro dei dintorni, vedevo la gatta nera seguirmi fino alla vettura, miagolando. E non perché volesse venire in macchina con me, ma perché non voleva che io me ne andassi. E nell’allontanarmi notavo che la gatta si arrampicava su un muro o nel folto di un albero, con la schiena protetta, e non scendeva fino a quando non tornavo. Quando io non c’ero la gatta grigia la picchiava. In quel periodo la nera era molto avanti nella sua gravidanza, e questa seconda cucciolata stava arrivando troppo presto dopo la prima. La gatta grigia era molto più forte di lei. Quella volta picchiai la gatta grigia davvero sodo, e poi le dissi ciò che pensavo di lei. E lei capì abbastanza bene. E così quando mi allontanavo in macchina, mettevo la gatta nera nel cottage, e chiudevo fuori la gatta grigia. La gatta grigia mise il broncio. La gatta nera era stata domata; tuttavia, aiutata da noi, riprese il suo posto sulla poltrona e non permise che la gatta grigia le si avvicinasse.

Allora la gatta grigia uscì in giardino, che adesso si era trasformato in mezzo acro circa di stoppie basse. Catturò alcuni topi e li portò in casa, deponendoli al centro del pavimento. Noi non gradimmo molto la cosa e quindi li gettammo via. Allora la gatta grigia si allontanò dal cottage e cominciò a trascorrere le sue giornate all’aperto.

All’estremità di un piccolo sentiero racchiuso fra muretti di pietra vi è una minuscola radura la quale, quando tagliammo l’erba che la ricopriva e che era cresciuta ad altezza d’uomo, rivelò che nelle sue profondità era incastonato un piccolo stagno liscio e silenzioso. Su quello stagno si incurvava un grande albero; e attorno a questo crescevano erba, cespugli e fitte piante.

Accanto al bordo di quello stagno c’è una pietra. La gatta grigia sedeva su quella pietra e fissava l’acqua. Si trattava forse di una cosa pericolosa? Una distesa d’acqua era una cosa altrettanto nuova per lei quanto lo era stato il fuoco. Un colpo di vento formò delle increspature che si infransero contro il bordo della pietra bagnandole le zampe. La gatta emise un gemito petulante, a mo’ di rimostranza e poi rientrò velocemente in casa. Lì si sedette, proprio fuori dalla porta, muovendo le orecchie e fissando giù lungo il sentiero in direzione dello stagno. Poi, lentamente tornò sui suoi passi – ma senza fretta: la gatta grigia non avrebbe mai ammesso tanto presto di essere in torto su una qualunque cosa.

Cominciò con il mettersi in posa, poi si leccò, si azzimò tutta, allo scopo di esibire indifferenza. Poi si avviò verso lo stagno facendo un circuito tortuoso che attraversava la parte alta del giardino, e poi scendeva giù lungo una sponda rocciosa. La pietra era ancora lì, accanto all’acqua. Questa, che si muoveva leggermente, era anch’essa ancora lì. E sull’acqua, l’albero che pendeva basso. Con fare ostentatamente infastidito, la gatta si fece strada tra l’erba bagnata, con l’incedere di una vecchia signora. Poi sedette sulla pietra e cominciò a guardare fissamente nello stagno. Sopra di lei, i rami dondolavano e si agitavano nel vento; di nuovo arrivò l’acqua a bagnarle le zampe. Lei le ritrasse e poi si sedette, dritta, in posa rigida e sostenuta. Alzò lo sguardo verso la cima dell’albero, che era tutto un fremito di movimento – quello sì che le era familiare. Guardò attentamente l’acqua che si muoveva. Poi fece una cosa che le ho visto fare con il cibo. Sia la gatta grigia che la gatta nera, quando viene loro offerto del cibo che non conoscono, allungano una zampa e lo toccano. Lo spingono, gli danno dei colpetti, si portano la zampa alla bocca, e prima annusano e poi leccano quella sostanza che per loro è nuova. La gatta grigia allungò una zampa fino all’acqua, senza tuttavia arrivare a toccarla. Poi la ritrasse. E quasi fuggì via: i muscoli le si tesero in un impulso di fuga, ma decise di non farlo. Abbassò la bocca e leccò l’acqua, ma non le piacque. Non era come quella che di solito beve, di notte, dal bicchiere che tengo accanto al letto; e nemmeno come le gocce che cadono da un rubinetto, al quale lei avvicina la bocca di traverso, per acchiapparle. Immerse una zampa direttamente nell’acqua, ve la tenne ferma, poi la tirò fuori e se la leccò. Tutto bene, era proprio acqua. Qualcosa che conosceva, o una variante di essa.

La gatta grigia si accovacciò sulla pietra, il muso rivolto verso lo stagno e contemplò il proprio riflesso. Nulla di strano in ciò: ha familiarità con gli specchi. Ma le increspature dell’acqua andavano avanti e indietro e la sua immagine si disintegrava. Allora accostò una zampa alla propria immagine che vedeva sulla superficie dello stagno, ma, diversamente da quanto accade con uno specchio, la zampa la attraversò, andando a finire nel bagnato. Lei si tirò su a sedere, visibilmente seccata. Era tutto troppo, per lei, che con fare grazioso incedette solenne verso casa, passando sull’erba bagnata. E lì, dopo aver comunicato con gli occhi, alla gatta nera, quanto la odiava, sedette davanti al fuoco, la schiena rivolta verso l’altra, che nel frattempo la osservava, dalla sedia, tenendola sotto controllo.

La gatta grigia tornò allo stagno, su quella stessa pietra. Seduta su quel masso si rese conto che quell’albero era un luogo che piaceva molto agli uccelli, i quali, nell’attimo stesso in cui lei abbandonava la radura, si lanciavano a capofitto verso l’acqua, dove bevevano, giocavano e la attraversavano volando avanti e indietro. E così adesso la gatta grigia faceva visita a quello stagno a causa degli uccelli, anche se lì non ne acchiappò mai nessuno. Né credo ne abbia mai acchiappato qualcuno durante la permanenza in quel cottage. Forse perché da quelle parti i gatti sono così numerosi che gli uccelli li conoscono?

Se di notte si percorrono in macchina quei sentieri, i fari continuamente illuminano dei gatti; gatti che si infilano nelle siepi andando a caccia di topi, gatti che sgusciano via a una distanza minima dalle ruote dell’automobile; gatti sulle cancellate; gatti in cima ai muri.

Durante la prima settimana passata in quel cottage, a vederlo un luogo appartato, ben protetto, dietro alberi e muri, dalla strada e dalle altre case, svariati gatti vennero a controllare chi fossero i nuovi venuti, e quali nuovi gatti potevano essere arrivati. Una notte vidi una coda rossiccia sgusciar fuori da una finestra aperta. Dev’essere un gatto, pensai; e tornai a dormire. Ma l’indomani, all’emporio, mi dissero che le volpi andavano a caccia di gatti proprio fuori Dartmoor. E venni a conoscenza di un gran numero di brutti racconti sulle volpi e sui gatti. Ma in campagna è impossibile tener chiusi i gatti; un panorama così pieno di gatti non sembrerebbe deporre a favore di un pericolo proveniente dalle volpi, o da qualunque altra cosa.

La coda rossa si rivelò appartenere a un bel gatto bruno-rossiccio, che la grigia aveva cacciato via dal cottage ormai divenuto casa sua. Ben presto cominciò a cacciar via altri visitatori dal cancello, distante un centinaio di metri dalla casa. Il cottage e i campi che lo circondavano erano adesso territorio della gatta grigia, che ora incrociavamo mentre prendeva il sole nell’erba alta del praticello poco sopra la casa, o accucciata nel campo più grande, di sotto, là dove ci sono chiazze acquitrinose e gli uccelli si avvicinano per bere.

E poi – l’invasione. Lo steccato, su un lato della casa era caduto, e una mattina, quando andai ad accendere il fuoco, trovai le due gatte sul davanzale della finestra, temporaneamente alleate poiché fuori si affollavano, rumoreggiavano e muggivano fortemente delle enormi bestie puzzolenti che le due non avevano mai visto prima. La gatta nera emise il suo gemito triste: È davvero troppo, di che cosa mai si tratterà? Io non ce la faccio, per favore aiutatemi; mentre la gatta grigia, dalla posizione sicura che occupava sul davanzale, mandava miagolii di sfida. Dai campi vicini il bestiame era entrato attraverso lo steccato, volendo dirigersi più a valle, oltre la casa, verso lo stagno e verso quel campo più grande nel quale, come le bestie evidentemente sapevano, l’erba era pronta per il pascolo. Non c’era nessuno che potesse aiutarmi a rimandare indietro quella mandria, almeno non fino a molto più tardi quello stesso giorno; e il contadino non si vedeva. Circa cinquanta bestie fecero come fossero a casa loro, mentre le due gatte sembravano impazzite. Saltavano da un davanzale all’altro e poi fuori della porta, con brevi scatti rabbiosi, continuando a lamentarsi amaramente, fino a quando l’aiuto arrivò ele enormi bestie minacciose furono ricacciate indietro nei loro campi. Era la salvezza. Le gatte avevano imparato che da quel tipo di animali non derivava alcun pericolo. Perché quando un paio di giorni più tardi il cancello rimase aperto ed entrarono dei pony provenienti dalla collina, le micie non protestarono né parvero spaventate. Otto minuscoli pony brucavano nel vecchio giardino; la gatta grigia andò verso di loro, si sistemò sul muretto di pietra e rimase a guardarli. Non ci fu verso di farla scendere da quel muro, perché la cosa la interessava, e quindi vi rimase fino a quando i cavalli decisero di andarsene.

I gatti possono starsene per ore intere a osservare altre creature, le cose che avvengono attorno a loro, o lo svolgersi di attività che a loro non sono note. Un letto che viene aggiustato, un pavimento che viene spazzato, una valigia che viene fatta o disfatta, il cucire, il lavorare a maglia – qualunque cosa si faccia, essi la osservano. Ma che cos’è che vedono? Un paio di settimane fa la gatta nera e due dei suoi gattini si sono seduti al centro del pavimento a vedere me che tagliavo della stoffa. Guardavano le forbici che si agitavano, il modo in cui si muovevano le mie mani, il modo in cui la stoffa veniva disposta in mucchietti diversi. Sono rimasti là, totalmente rapiti, per tutta la mattina. Ma non credo che i gatti vedano quel che noi pensiamo. Che cosa vede, ad esempio, la gatta grigia quando rimane immobile a osservare, per mezz’ora alla volta, i granelli di polvere che si muovono in sospensione in un raggio di sole? O quando guarda le foglie che tremano sull’albero fuori dalla finestra? O quando alza gli occhi verso la luna che si affaccia sopra i comignoli?

La gatta nera, meticolosa educatrice dei suoi gattini, non perde mai occasione per una lezione o un insegnamento morale. Perché mai trascorrerebbe, altrimenti, un’intera mattina, un micio per parte, a guardare lo scintillio del metallo che entra nella stoffa scura, perché mai annusa le forbici, annusa il tessuto, poi fa un giro attorno al teatro delle operazioni e infine comunica qualche osservazione ai suoi gattini, cosicché essi eseguono gli stessi gesti – inframezzati, perché sono dei cuccioli, da ogni sorta di scherzi e di giochi? Ma i gattini annusano le forbici, annusano la stoffa, e fanno ciò che la loro madre ha appena fatto. Poi si siedono e guardano. Non c’è dubbio che la gatta sta imparando qualcosa e al tempo stesso la sta insegnando anche a loro.

11

All’approssimarsi della sua seconda cucciolata, la gatta nera non stava granché bene. Sulla schiena aveva una grossa chiazza priva di pelo, ed era smagrita. E poi era eccessivamente ansiosa: per tutta la settimana che precedette il parto non volle essere lasciata sola. Il cottage era pieno di gente e quindi era facile far sì che lei avesse compagnia. Ma poi, durante il fine settimana, rimasero tre donne, il tempo era cattivo e noi volevamo andare in macchina fino alla costa per vedere il mare freddo e infuriato. Ma la gatta nera non ci permetteva di allontanarci. Noi eravamo tutte e tre di cattivo umore, e nervose perché avevamo intenzione di non lasciarle tenere più di due gattini, dal momento che non era in condizione di poterli nutrire. Il che voleva dire che avremmo potuto ucciderne alcuni.

La domenica, verso le dieci del mattino la gatta entrò in travaglio, e fu una faccenda lunga e sfibrante. Il primo gattino nacque verso le quattro del pomeriggio. La gatta era stanca. Passò un lungo intervallo di tempo tra il momento in cui il gattino venne espulso e l’insorgere del riflesso che la indusse a girarsi e leccarlo. Era un bel micio. Ma noi avevamo deciso di non guardare troppo quei gattini, di non ammirare quelle vigorose briciole di vita. Finalmente arrivò il secondo. E adesso la gatta, molto stanca, emise quel gemito pieno di dolore che dice vi-prego-aiutatemi. Bene, dicemmo noi, allora è deciso: terrà questi due e ci sbarazzeremo degli altri. Tirammo fuori una bottiglia di scotch e ne bevemmo abbondantemente. Poi arrivò il terzo micio: sicuro, sicuro che era l’ultimo. E invece ne arrivò un quarto, e un quinto, e poi il sesto. La povera gatta continuava a faticare, a espellere gattini, poi a leccarli, poi a pulire e mettere in ordine ogni cosa – e tutta quella attività si svolgeva sul fondo di una poltrona. Alla fine la gatta fu pulita, e i gattini, puliti anch’essi, cominciarono a succhiare. Lei se ne stava distesa, fiera di sé, e faceva le fusa.

Gatta coraggiosa, gatta intelligente, bellissima gatta... ma era tutto inutile, perché dovevamo sbarazzarci di quattro gattini.

E così facemmo. Fu una cosa orribile. Poi due di noi uscirono fuori, nel prato grande, al buio, aiutandoci con delle torce; scavammo una buca, mentre la pioggia continuava a cadere fittamente, e seppellimmo i quattro gattini morti, imprecando contro la natura, contro noi stessi e contro la vita; poi ce ne tornammo nella grande stanza di campagna nella quale il fuoco bruciava, e nella quale c’era la gatta nera, distesa su una coperta pulita, una gatta bella, orgogliosa, e con due gattini – la civiltà aveva trionfato di nuovo. Guardammo con aria incredula quei gattini, già così forti e in grado di reggersi sulle zampe posteriori, l’uno a fianco all’altro, con le minuscole rosee zampette anteriori affondate nel petto della loro mamma. Impossibile immaginarli morti, eppure erano stati scelti a caso; e se un’ora prima la mia mano, la mano del destino, fosse discesa dall’alto su di loro – sarebbero stati quei due, adesso, a giacere in un campo piovoso, sotto uno spesso strato di terra bagnata. Fu una notte terribile; noi bevemmo troppo, e stabilimmo che avremmo fatto assolutamente operare la gatta nera, perché davvero, davvero, non era giusto. La grigia si arrampicò sul bracciolo della poltrona, vi si accucciò e allungò una zampa per toccare un gattino; ma la nerale dette un colpo violento con la zampa; e la grigia corse a rintanarsi fuori della casa, sotto la pioggia.

Il giorno dopo ci sentivamo tutti molto meglio, prendemmo la macchina e andammo a vedere il mare, che era calmo e azzurro, perché il tempo, durante la notte era cambiato.

E tutta quella grande stanza risuonava dell’orgoglioso fare le fusa della gatta nera.

La gatta grigia portò in casa svariati topi, che depose sul pavimento di mattoni. Ormai avevo capito che i topi erano parte della sua strategia tesa a mantenere un vantaggio sugli altri, un dono; ma non le dava grande soddisfazione, perché è difficile vedere attraenti dei topi morti. Appena lei li portava in casa, io li buttavo fuori; lei mi guardava tenendo le orecchie piegate all’indietro e gli occhi carichi di risentimento.

La mattina, quando mi svegliavo, trovavo la gatta grigia seduta sul letto, e sul pavimento un topo appena ucciso.

Oh, che gatta gentile. Che brava gatta. Grazie tante, gatta. Ma li gettavo via. E allora la gatta nera andava appresso a loro e se li mangiava.

Ero seduta sul muretto di pietra del giardino quando vidi la gatta grigia che cacciava.

Era una giornata di nuvole sottili che si muovevano veloci, cosicché sui campi, sul cottage, sugli alberi e sul giardino il sole e il buio si alternavano velocemente; sotto un albero di lillà la gatta grigia sembrava un’ombra fra altre ombre. Se ne stava del tutto immobile, ma a guardarla da vicino si riusciva a distinguere una leggera vibrazione dei baffi e delle orecchie; cosicché non era più immobile di quanto non fosse naturale esserlo in un punto in cui le foglie e l’erba vibravano al soffio di un vento leggero. Con gli occhi che si muovevano rapidi, la gatta fissava tra le stoppie, a pochi centimetri di distanza. Mentre anch’io osservavo, la bestia fece uno scatto in avanti, un movimento basso e veloce, come quello di un’ombra che si muove sotto un ramo che oscilla nel vento. C’erano tre topolini che si agitavano strisciando in una cuccia di erba secca. Non si erano accorti di lei. I topi si fermarono a mangiucchiare qualcosa, poi si mossero, e di nuovo si tirarono su a sedere guardandosi intorno. Perché mai allora la gatta non era piombata d’un colpo su di loro? Eppure era a meno di un metro di distanza. Rimasi lì; e lì rimase anche la gatta; i topi continuarono a fare quello che stavano facendo. Trascorse mezz’ora. La punta della coda della gatta si mosse: non con impazienza, ma come espressione visibile di ciò che stava pensando: c’è un mucchio di tempo. Una nuvola luminosa, che nascondeva dietro di sé il sole di mezzogiorno, lasciò cadere un paio di dozzine di grosse gocce, ognuna delle quali sembrava d’oro. Una goccia cadde sul muso della gatta, che parve seccata, ma non si mosse. Le gocce dorate caddero schizzando in mezzo ai topi, i quali rimasero immobili, poi si tirarono su a sedere e si guardarono intorno. Vedevo quei minuscoli occhi neri che guardavano. Un paio di gocce caddero sulla testa della gatta. Lei si sgrullò. I topi rimasero immobili e la gatta, come un lampo grigio, piombò d’un colpo su di loro. Vi fu un piccolo squittio di paura. La gatta si tirò su a sedere con un topo in bocca. La bestia si contorceva. Lei lo lasciò cadere, e questo riuscì a strisciare poco lontano; la gatta lo inseguì. Una zampa saettò in avanti; con tutti i perfidi artigli protesi all’esterno, la micia fece un movimento verso di sé, avvicinando a lei il topolino. La bestia squittì. Lei lo addentò. Lo squittio tacque. La gatta si sedette a leccarsi il pelo, delicatamente. Poi raccolse il topo e venne trotterellando verso di me, gettandolo in aria con la bocca e poi riacchiappandolo proprio come aveva fatto con i suoi gattini. Lo depose ai miei piedi. Per tutta la durata dell’operazione la gatta mi aveva visto lì, ferma, però non aveva dato alcun segno di essersene accorta.

Gli altri partirono e io rimasi da sola in quel cottage. C’era dunque più tempo per accarezzare le gatte e parlare con loro.

Un giorno, in cucina, ero intenta a tagliar loro il cibo nei piattini, sul tavolo, quando la gatta grigia saltò su con uno scatto e cominciò a mangiare da uno dei due piatti. La nera stava sul pavimento, in attesa. Ma quando misi giù i due piattini, la gatta grigia si allontanò: non era tipo, lei, da mangiare del cibo che era stato poggiato sul pavimento.

Il giorno seguente, stessa cosa. La gatta grigia stava cercando di indurmi a nutrirla sul tavolo, che era un luogo superiore, mentre la gatta nera continuava a mangiare dal pavimento. No, le dissi io; la pretesa era assurda; e per tre giorni la gatta non mangiò nulla di ciò che vi era in casa, sebbene è possibile che si nutrisse di topi. Ma in ogni caso non lo aveva certamente fatto quando poteva esser vista. Il quarto giorno saltò, come era sua abitudine, sul tavolo, e io pensai: Bene, la cosa è interessante, vediamo che cosa fa. Mangiò con piacere tutto quello che c’era nel piatto; e per tutto il tempo guardò giù, verso la gatta nera, la quale mangiava invece sul pavimento. Sembrava dire: Guardami, sono io la preferita.

Pochi giorni più tardi anche la gatta nera saltò sul tavolo, cercando di ottenere lo stesso privilegio. E a quel punto la grigia, con le orecchie piegate all’indietro, saltò sul davanzale della finestra che era più in alto del tavolo, e attese che io le mettessi là il piattino. Se la gatta nera aveva conquistato il diritto al privilegio di stare sul tavolo, pensava, allora lei ne avrebbe chiesto uno migliore. E a quel punto perdetti la pazienza, e dissi a quelle due che erano delle rompiscatole, e che avrebbero mangiato sul pavimento, oppure non avrebbero mangiato affatto.

La gatta grigia uscì di casa, e per alcuni giorni non mangiò e non bevve nulla. Rimase fuori casa il giorno; poi il giorno e anche tutta la notte – cominciò a rimanere fuori casa per due o tre giorni alla volta. Arrivati a questo punto, nella fattoria, in Africa, avremmo detto: la gatta grigia sta diventando selvatica. E avremmo fatto qualcosa, ci saremmo preoccupati per lei, l’avremmo chiusa in casa rammentandole la sua natura domestica. Ma probabilmente, nella molto popolosa Inghilterra, diventare selvatici non è così facile. Persino nella zona di Dartmoor è probabile che ci siano sempre le luci di una casa che brillano da qualche parte, non troppo lontano.

Quando ritornò, la volta successiva, io cedetti; la feci mangiare sul tavolo, la lodai molto; e trascurai un pochino la gatta nera – la quale dopotutto aveva i suoi gattini. E allora la grigia rientrò in casa, e di nuovo trascorse le notti ai piedi del mio letto. E ogni volta che mi portava dei topi, io pronunciavo un discorsetto adulatorio per ognuno di essi.

La gatta nera mangiava i topi morti. La gatta grigia non lo faceva mai. Ed era interessante che la nera non cominciasse mai a mangiare un topo prima che io lo avessi visto. Una volta che quel cadaverino era stato da me accettato, e la gatta grigia era stata lodata, solo a quel punto la nera scendeva giù dalla sedia e lo mangiava ordinatamente, metodicamente, mentre la grigia guardava e non faceva alcun tentativo per fermarla. Anche se, in verità, tentò di poggiarli su un tavolo o sul davanzale di una finestra, dove credo sperava che la gatta nera non li vedesse. Ma la gatta nera li vedeva sempre: e ogni volta saltava su e mangiava il topo.

Poi, una mattina, accadde qualcosa di straordinario.

Ero andata a Okehampton, a far spese. Tornai a casa e vidi, proprio al centro del pavimento, una sorta di piccolo tumulo, una specie di mucchietto di erba verde, accanto al quale era accucciata la gatta grigia, che mi guardava. Intanto la nera stava in attesa, insieme ai suoi gattini, nell’armadio. Ambedue volevano che io prestassi attenzione a quel mucchietto verde.

Mi avvicinai a guardare. Sotto quella roba verde, un topo morto. La gatta grigia aveva acchiappato il topo e lo aveva poggiato sul pavimento come forma di regalo. Ma io avevo tardato a rientrare più di quanto lei si aspettasse; e così la gatta aveva avuto tutto il tempo per le decorazioni – o può darsi che fosse una forma di avvertimento per la gatta nera, come a dire: lascia stare quel topo.

Doveva aver fatto almeno tre viaggi sino alla siepe, che era stata falciata da poco, per trasportare in casa tre ciuffi di geranio selvatico, che aveva diligentemente collocato su quella bestia.

E mentre io mi complimentavo con lei, la gatta non distoglieva gli occhi dalla nera, cui diresse uno sguardo malevolo, di superiorità, di trionfo.

Da allora mi è stato raccontato che a volte i leoni trascinano dei rami su una preda uccisa di fresco. Forse per identificarla? Per proteggerla da iene e sciacalli? Per ripararla dal sole?

Può darsi che dopo migliaia di anni la gatta grigia si fosse ricordata della sua parentela con il leone?

E al tempo stesso mi chiedo: se la gatta nera non fosse mai venuta a vivere nella nostra casa, e se la gatta grigia fosse rimasta la sola padrona di noi, e della casa in cui abitiamo, si sarebbe mai presa la briga – man mano che avanzava verso la mezza età – di sedurre e lusingare? Avrebbe mai sviluppato un così complesso linguaggio, fatto di vanità e di consapevolezza di sé? Avrebbe mai acchiappato un topo o un uccellino? Io credo che molto probabilmente non lo avrebbe fatto.

12

Tempo di tornare a Londra. Lasciata libera, nella parte posteriore della macchina, di nuovo la gatta grigia emise il suo monotono lamento per tutte e sei le ore di viaggio, con brevi intervalli di silenzio per sonnecchiare. Quindi un miagolio particolarmente acuto quando si svegliava e si rendeva conto che stava ancora soffrendo.

Poi di nuovo lo stesso fenomeno che si era manifestato in maniera così prepotente nel viaggio d’andata: alla gatta non bastava percepire il rumore, il movimento, il disagio; lei voleva vedere il terrificante apparire e scomparire di altri veicoli. E potrei giurare che in quei momenti nel suo miagolio vi fosse una sorta di soddisfazione. Proprio come le persone nevrotiche, da tutto ciò quella bestia traeva piacere.

La gatta nera se ne stava tranquilla nel cesto in compagnia dei due gattini; li nutriva, quando infilavo un dito nel cesto per accarezzarle il naso faceva le fusa, e non si lamentava a meno che la voce della gatta grigia non si facesse sentire in modo particolarmente forte, nel qual caso le si affiancava anche lei per alcuni istanti, accompagnando ogni miagolio. Ma nel farlo aveva tutta l’aria di pensare: se lo fa lei, allora vuol dire che è la cosa giusta da farsi. Ma non riusciva a continuare molto a lungo.

Arrivai a casa e lasciai libere le due bestie, le quali furono immediatamente a proprio agio. La gatta nera portò i suoi due gattini nella stanza da bagno, che è il luogo in cui desidera che rimangano durante le due settimane in cui i gatti hanno l’età giusta per ricevere i suoi insegnamenti. La gatta grigia andò immediatamente al piano di sopra e prese possesso del letto.

Autunno. Porte posteriori chiuse, per non disperdere il calore; lettiere collocate all’interno della veranda; gatte lasciate uscire quando lo chiedono. Cioè non molto spesso, perché sembrano abbastanza felici di vivere al chiuso, quando fuori fa freddo.

La gatta nera andò in calore in maniera assai violenta, come di consueto dieci giorni dopo la nascita dei gattini, nel Devon. Accadde mentre la grigia era lontana, a caccia. La nera lasciò i gattini sulla sedia davanti al camino e uscì fuori alla ricerca di un maschio. Tuttavia, non si sa bene perché, in giro non ce n’erano: forse la gatta grigia li aveva definitivamente allontanati. E così nessun maschio arrivò correndo dalla gatta nera, come normalmente fanno a Londra dove si precipitano, dopo aver attraversato giardini e superato muri, ogni volta che lei manda il suo richiamo. La gatta avrebbe dovuto dunque spingersi più oltre, nei campi. Allora portò i gattini al piano di sopra dove ritenne che sarebbero stati al sicuro, e si spinse fino al cancello dove si sedette chiamando e ululando. Poi tornò velocemente indietro per controllare brevemente i suoi piccoli, poiché per la nera neppure il sesso ha mai la precedenza sulla maternità; li nutrì e poi uscì di nuovo. La gatta non mangiava quasi ma continuava a ululare e a dolersi di quella mancanza fino a ridursi tutta pelle e ossa. Quando mi svegliavo, di notte, la sentivo giù, accanto al cancello, gridare il suo richiamo. Ma non riuscì a trovare un compagno; e nel frattempo tornò a essere grassa e flessuosa come prima.

Durante i due mesi nei quali eravamo stati lontano da Londra, la popolazione felina era cambiata, e dei gatti di un tempo non ne era rimasto più alcuno. Era sparito il soriano grigio, e come lui anche il gatto bianco e nero a pelo lungo. Era rimasto invece quello bianco a chiazze nere, che era lì da un tempo relativamente breve. Non c’erano in giro altri gatti per quell’accoppiamento, e noi attendemmo con interesse di vedere in che modo si sarebbe manifestata questa volta la casualità dei geni.

Era un autunno freddo e umido. Quando uscivo in giardino, sia la gatta grigia che la nera venivano con me; incedevano con aria infastidita sulle foglie umide e si rincorrevano spingendosi a vicenda verso casa. Stava cominciando una sorta di amicizia. Le due gatte non si erano ancora mai leccate a vicenda, né avevano mai dormito vicine. Ma stavano cominciando a giocare un poco fra loro; e questo nonostante che il più delle volte quella delle due che aveva dato inizio al gioco venisse snobbata con una delle loro soffiate. Le due bestie si avvicinavano sempre con cautela l’una all’altra, si annusavano il naso a vicenda, come a dire – altolà, amico o nemico? Qualcosa di simile alla stretta di mano fra due rivali.

La gatta nera si era fatta pesante e passava molto tempo a dormire. La grigia era tornata a essere di nuovo il capo, faceva i suoi soliti trucchi, e continuava a mettersi in mostra.

Di nuovo la nera mise al mondo i suoi gattini nella stanza al piano di sopra, e noi le permettemmo di tenerli tutti e sei. Eravamo ancora troppo angosciati dopo l’assassinio dell’ultima cucciolata per essere disposti ad affrontare la cosa di nuovo.

Quando i piccoli cominciarono a muoversi, la gatta nera decise che c’era una cosa che voleva, una soltanto, ed era decisa a ottenerla: i gattini dovevano stare sotto al mio letto. E questo perché nella stanza al piano di sopra – cosa che a lei seccava molto – non c’era la costante presenza di qualcuno, cosicché lei potesse avere compagnia e ammirazione. La studentessa stava trascorrendo delle vacanze di Natale allegre e piene di impegni mondani. La gatta nera è una che non si dà per vinta. Portò giù i gattini. Io li raccolsi, me li misi tutti nella gonna e li portai giù, nella stanza da bagno. La gatta li riportò su di nuovo. Di nuovo li raccolsi e li riportai giù. Lei fece la stessa cosa. Alla fine la forza bruta ebbe la meglio: chiusi a chiave la porta.

E questo è anche il momento in cui, proprio mentre i gattini sono assolutamente incantevoli, uno non vede l’ora che se ne vadano. Gattini perennemente tra i piedi, sui tavoli, sulle sedie, sui davanzali delle finestre, gattini che fanno a pezzi i mobili. Dovunque si volgesse lo sguardo, si vedeva una deliziosa creaturina nera, dal momento che erano tutti neri, sei gatti completamente neri; il padre bianco-grigio non aveva avuto alcuna influenza sul loro aspetto.

E in mezzo a loro, la gatta nera, instancabile, devota, rispettosa, che li controllava ogni momento. Beveva molto più latte di quanto non le andasse, perché ogni volta che un gattino le si avvicinava, lei si sentiva in dovere di insegnargli a bere. E mangiava ogni volta che un gattino si avvicinava al piatto. Ho visto io stessa la gatta nera, che visibilmente non aveva voglia di mandar giù neanche un solo boccone, smettere di mangiare non appena un gattino usciva dalla stanza, quindi leccarsi e prepararsi a dormire. Poi quel gattino, o un altro, entravano nella stanza. La gatta nera si piegava nuovamente sul piattino, e di nuovo mangiava, con quel verso basso e vibrato che usa per persuadere con le lusinghe i suoi piccoli. Questi arrivavano, sedevano incuriositi accanto alla loro mamma, e la guardavano mangiare. La gatta riprendeva a mangiare, più lentamente, costringendosi a farlo. I gattini annusavano il cibo, stabilivano che il latte caldo era più buono, e si avvicinavano ai capezzoli della gatta nera. Lei emetteva un suono basso e imperioso. Obbedienti, i gattini tornavano al piatto dove davano una leccatina o due; poi, dopo aver fatto ciò che era stato loro ordinato, si affrettavano a tornare dalla gatta nera la quale si lasciava cadere su un fianco per poterli nutrire.

Oppure, la gatta nera alle prese con la lettiera. È appena stata in giardino dove ha fatto i suoi bisogni. Ma deve impartire una lezione a uno dei gattini. La gatta allora entra nella lettiera e si mette nella posizione giusta. Poi chiama i gattini: guardatemi. E rimane lì seduta, mentre i piccoli girellano là attorno, guardandola oppure no. Quando si rende conto che uno di loro ha capito, esce fuori dalla cassetta e si siede lì accanto, incoraggia il micio facendo le fusa e lo spinge a fare quanto gli è stato mostrato. E il minuscolo gattino nero imita la mamma. Successo! Il micio ha l’aria sorpresa. E la sua mamma lo lecca.

I piccoli della gatta nera non attraversano mai quella fase nella quale sporcano per casa. Al contrario, proprio come accade ai bambini allevati in maniera ossessiva, i suoi sono ansiosi fino all’eccesso circa l’intera faccenda. Se viene colto da una necessità mentre sta giocando a una certa distanza dalla lettiera, il gattino lancia un miagolio; poi fa il tentativo di assumere la posizione corretta, ma ecco di nuovo un miagolio disperato; non è nel posto giusto. Ma la gatta nera arriva correndo in suo aiuto; lo spinge verso la stanza in cui si trova la lettiera. Il gattino corre in quella direzione, magari perdendosi qualcosa lungo il tragitto, e miagolando. Ma una volta raggiunta la cassetta, che sollievo, con la mamma che siede là vicino, con aria di approvazione. Oh, che bravo gattino pulito che sono, dicono l’atteggiamento e l’espressione del micio. Il quale poi esce dalla cassetta e viene leccato in segno di approvazione, una leccata casuale, distratta ma sicura di sé, che è come un bacio.

Questo gattino è a posto, ma gli altri? Ed ecco la gatta nera uscire di nuovo, sempre più indaffarata, a controllare musi, code, pellicce. E adesso, dove si sono cacciati? Quando hanno quasi l’età giusta per andar via, i gattini si disperdono per tutta la casa. La gatta nera corre affannata dappertutto, su e giù per le scale, dentro e fuori le stanze; dove siete, dove siete finiti? I gattini si acciambellano come piccoli mucchietti dietro gli scatoloni, negli armadi. E non vengono fuori quando lei li chiama. Allora lei si lascia cadere giù, accanto a loro, e rimane di guardia, con gli occhi socchiusi, per paura di eventuali nemici o di semplici intrusi.

La gatta si logora dalla fatica. Poi ne rimane soltanto uno. Ed ecco che la gatta riversa su quell’unico gattino tutta la sua feroce maternità. Se ne va anche l’ultimo. La gatta nera corre per la casa, cercandolo, miagolando. Poi, come se un interruttore venisse girato da qualche parte dentro di lei – la gatta nera ha dimenticato che cosa la turbava. Sale al piano di sopra e se ne va a dormire sul divano, al suo posto. E si comporta come se non avesse mai avuto dei piccoli.

Fino all’arrivo dei successivi. Gattini, gattini, piogge di gattini, invasioni di gattini. Talmente tanti che per te diventano il Gattino, come succede alle foglie che crescono su un ramo nudo, solide e verdi, e poi cadono, ogni anno, sempre allo stesso modo. Gli amici che vengono a trovarti chiedono: Che fine ha fatto quel grazioso gattino? Quale delizioso gattino? Sono tutti dei deliziosi gattini.

Il gattino. Piccola e vivace creatura, avvolta nella sua membrana trasparente, circondata dai residui organici della sua stessa nascita. Poi, dieci minuti più tardi, umido ma pulito, è già attaccato al capezzolo. Dieci giorni dopo è un minuscolo frammento dai morbidi occhi appannati, la bocca che si schiude in un sibilo di sfida coraggiosa verso la minaccia, enorme, che percepisce chinata su di lui. A questo punto, in condizioni di vita selvatiche, il micio confermerebbe la sua selvaticità, diventerebbe un gatto selvatico. Ma qui invece no, perché una mano lo tocca, l’odore umano lo avvolge, una voce umana lo rassicura. Presto esce fuori dal nido, fiducioso che le gigantesche figure che lo circondano non gli faranno alcun male. Poi trotterella, se ne va a zonzo, corre in giro per la casa. Si accovaccia nella lettiera, si lecca, sorseggia il latte, poi affronta un osso di coniglio, lo difende dal resto della cucciolata. Gattino incantevole, grazioso gattino, magnifica deliziosa bestiolina pelosa e infantile – e poi viene dato via. E a quel punto la sua personalità verrà formata dalla nuova famiglia, dal nuovo padrone, perché finché sta con sua madre non è altro che un gattino, anche se, trattandosi del cucciolo della gatta nera, è un gattino allevato davvero molto bene.

Può darsi che, come è accaduto alla gatta grigia, la povera vecchia gatta zitella, anche la nera quando l’avremo fatta “operare” guarderà i gattini come se non sapesse che cosa sono. Può darsi invece che la sua memoria non rinunci a sapere che esistono i gattini, anche se nel momento in cui li ha con sé, le sue giornate, le sue notti, ogni suo istinto è indirizzato a loro, e per loro – se fosse necessario – la gatta affronterebbe qualsiasi morte.

Tanti anni fa avevamo una gatta, la quale si inselvatichì, ormai non ricordo più il perché. Qualche tremenda battaglia deve essere stata combattuta al di sotto dell’attenzione degli umani. Può darsi che le fosse stato fatto un rimprovero, troppo, evidentemente, perché l’orgoglio della gatta potesse tollerarlo. Quella vecchia gatta si allontanò da casa per mesi. Non era una bestia bella, ma una vecchia accozzaglia di chiazze e striature di bianco, nero, grigio e color volpe. Un giorno la gatta ritornò e si fermò al limite dello spiazzo sul quale sorgeva la casa, fissando la casa, le persone, la porta, gli altri gatti, i polli – quella scena familiare dalla quale lei era esclusa. Poi si infilò di nuovo nella boscaglia. All’imbrunire del giorno dopo, un imbrunire silenzioso e dorato, ecco la gatta comparire di nuovo. Era il momento in cui stavamo facendo rientrare il pollame nelle stie per la notte, e così pensammo: forse è a caccia di polli, e la scacciammo via. La gatta si appiattì nell’erba e scomparve. Ma la sera dopo era lì di nuovo. Mia madre andò fino al limite della boscaglia e la chiamò. Ma la gatta era diffidente e non si accostava. Era vistosamente incinta: una bestia larga e macilenta, con le ossa che sporgevano sotto la pelle, la quale si trascinava appresso il pesante rigonfiamento del ventre. Aveva fame. Era un anno di siccità. La lunga stagione asciutta aveva appianato e assottigliato l’erba, bruciando i cespugli: tutto ciò su cui si posava lo sguardo era scheletrico, ovunque erba rinsecchita e indurita su cui tremolavano delle minuscole foglie, null’altro che ombre. I cespugli erano fatti solo di rami, mentre gli alberi, con il loro carico di foglie divenute sottili e secche, mettevano in mostra la sagoma del tronco e dei rami. Il veld era tutt’ossa. E la collina sulla quale sorgeva la casa, che nella stagione umida era ricoperta di erba alta, lussureggiante, morbida e spessa, adesso era nuda. E sotto una frangia rigida di rami e protuberanze secche, si distingueva il contorno della collina, sorta di rigonfiamento basso che confinava con un alto rilievo per poi ricadere di colpo in una vallata. Gli uccelli e i roditori dovevano essersi spostati verso zone più fertili, e la gatta non era sufficientemente selvatica per andare appresso a loro, allontanandosi dal luogo al quale ancora pensava come alla propria casa. O forse era troppo estenuata dalla fame e dal peso dei gattini per poter viaggiare.

Portammo giù del latte e lei lo bevve, ma cautamente, con i muscoli costantemente tesi per esser pronta a fuggire. Gli altri gatti di casa vennero fuori a vedere la fuorilegge. La quale, quando ebbe bevuto il latte, corse via di nuovo nel luogo che usava per nascondersi, ma ogni sera si avvicinava a casa per venire nutrita. Allora uno di noi teneva lontani gli altri gatti, che erano pieni di risentimento, mentre un altro portava latte e cibo. Noi ci tenevamo a distanza fino a che non aveva mangiato. Ma la gatta era nervosa: carpiva ogni boccone come se lo stesse rubando; abbandonava continuamente il piatto e la scodella, per poi ritornarvi, e fuggiva via prima che il cibo fosse finito; non si lasciava accarezzare né si avvicinava.

Una sera la seguimmo, a distanza. A metà di quella collina, giù verso la valle, la gatta scomparve. Era quello un tratto di terreno che – non si sa bene quando – era stato scavato e setacciato da un cercatore d’oro. Alcuni dei cunicoli erano crollati quando le piogge si erano abbattute su quel terreno. I pozzi erano vuoti, al massimo contenevano una cinquantina di centimetri di acqua. Di traverso, sulle imboccature, erano stati poggiati dei vecchi rami per impedire al bestiame di cadervi dentro. La vecchia gatta doveva essersi nascosta in uno di quei buchi. Noi la chiamammo ma lei non arrivò, e così non insistemmo.

La stagione delle piogge si aprì con un potente nubifragio, con forte vento, lampi, tuoni e pioggia a dirotto. A volte il primo nubifragio della stagione può prendere giorni interi, addirittura settimane. Quell’anno avemmo due settimane di temporali continui. Spuntò l’erba nuova. I cespugli, gli alberi, si ricoprirono di un verde carnoso. Ogni cosa era calda, bagnata, e brulicante di attività. Una volta o due la vecchia gatta venne fino a casa; poi non si vide più. Noi pensammo che si fosse messa di nuovo ad acchiappare i topi. Poi, durante una notte in cui infuriava un temporale, si sentirono abbaiare i cani e noi udimmo una gatta che miagolava proprio fuori di casa. Uscimmo, reggendo in mano delle lanterne da pioggia, e ci immergemmo in uno scenario fatto di rami che sferzavano l’aria, erba che si agitava furiosamente e pioggia che ci cadeva addosso avvolgendoci, fitta come una tenda grigia. Sotto la veranda, c’erano i cani; abbaiavano verso la nostra vecchia gatta, la quale era accucciata all’aperto, sotto la pioggia, gli occhi verdi illuminati dalla luce della lanterna. Aveva avuto i gattini ed era nient’altro che una vecchia gatta scheletrica. Portammo fuori del latte per darglielo e allontanammo i cani, ma non era quello ciò che la gatta voleva. La bestia continuava a starsene lì, con la pioggia che la colpiva, e miagolava. Aveva bisogno di aiuto. Noi indossammo degli impermeabili sui pigiami, e ci avviammo nella fanghiglia appresso a lei, in pieno temporale, con i tuoni che rumoreggiavano in alto e i lampi che illuminavano gli spessi strati di pioggia. Al limitare della boscaglia ci fermammo e tentammo di scrutarvi dentro. Davanti a noi c’era quella zona nella quale si trovavano quei vecchi fossati e i vecchi pozzi in disuso, ed era pericoloso andare a infilarsi nel sottobosco. Ma la gatta era lì davanti a noi, e gemeva, con l’aria di darci un ordine. Facendo luce con le lanterne ci inoltrammo cautamente nell’erba, alta fino alla vita, e nei cespugli, mentre la pioggia cadeva a dirotto. A un certo punto la gatta non si vide più, ma se ne sentiva il lamento provenire da qualche parte sotto di noi. Proprio davanti a noi c’era una catasta di vecchi rami, il che voleva dire che ci trovavamo sul ciglio di un pozzo. La gatta doveva essere da qualche parte là sotto. Decisamente non potevamo metterci a tirar via una montagnola di rami secchi e scivolosi dall’imboccatura di un pozzo pericolante nel cuore della notte. Provammo a far luce attraverso gli interstizi dei rami e avemmo l’impressione di vedere la gatta che si muoveva, ma non ne eravamo del tutto sicuri. Allora tornammo a casa, lasciando lì le povere bestiole; a casa bevemmo della cioccolata, nella stanza calda illuminata dalla luce della lampada e continuammo a tremare fino a che non fummo asciutti e non ci fummo riscaldati.

Ma dormimmo male, continuando a pensare alla povera gatta, e l’indomani ci alzammo alle cinque, con la prima luce. Il nubifragio era passato, ma ogni cosa grondava acqua. Uscimmo in un’alba fredda, mentre a oriente, nel cielo, comparivano delle strisce rosse, là dove presto sarebbe spuntato il sole. Ci inoltrammo nella boscaglia totalmente immersa nell’acqua, e ci dirigemmo verso il cumulo di vecchi rami. Non vi era alcun segno della presenza della gatta.

Era un pozzo profondo circa venti metri, attraversato trasversalmente per due volte da gallerie, la prima alla profondità di circa due metri, l’altra molto più in basso. Noi pensammo che la gatta doveva aver messo i gattini nella prima di quelle rientranze, che si inoltrava nella terra per circa quattro metri inclinandosi obliquamente verso il basso. Era difficile sollevare quei pesanti rami bagnati, un’operazione che richiese molto tempo. Ma quando l’imboccatura del pozzo venne scoperta, ci accorgemmo che non aveva più la nitida forma quadrata di prima. La terra era franata all’interno, e alcuni rami leggeri e ramoscelli che facevano parte della copertura erano caduti di sotto, creando una rudimentale piattaforma a circa tre metri di profondità. Su questa, l’acqua e il vento avevano fatto cadere terra e pietruzze. Si era dunque creata una sorta di pavimento sottile, molto sottile, attraverso il quale riuscivamo a vedere il bagliore dell’acqua piovana che era sul fondo del pozzo. Un poco più sotto, ma non molto di più, ora che l’imboccatura del pozzo era franata, a circa un metro e mezzo, individuammo l’apertura di un corridoio laterale, un buco di circa ottanta centimetri quadrati, ora che anche quella parte era franata. Stando stesi a faccia all’ingiù sul fango rosso e scivoloso, reggendosi ai rami per non cadere, si riusciva a scrutare per un buon tratto in quella apertura, circa un paio di metri. E lì dentro si riconosceva, appena visibile, la testa della gatta. Immobile, sbucava fuori dalla terra rossa. Pensammo che la galleria fosse franata all’interno del pozzo, con tutta quella pioggia, e che la gatta fosse rimasta sepolta per metà e che probabilmente fosse morta. La chiamammo: arrivò un debole suono soffocato, poi un altro. Dunque non era morta. Ma a quel punto avevamo il problema di come arrivare fino a lei. Sarebbe stato inutile poggiare un argano su quella terra bagnata, che avrebbepotuto smottare a ogni istante. E nessun essere umano avrebbe potuto calarsi con il suo peso su quella piattaforma tanto precaria di ramoscelli ed erba: difficile credere che quella superficie avesse potuto sostenere il peso della gatta che doveva esserci saltata dentro molte volte al giorno.

Assicurammo a un albero una corda robusta con grossi nodi a intervalli di circa sessanta centimetri, e la calammo oltre l’imboccatura del pozzo, facendo attenzione a che non si infangasse divenendo scivolosa. Poi uno di noi si calò giù su quella corda reggendo un cestino, fino a quando non fu possibile arrivare all’altezza del corridoio laterale. E lì c’era la gatta, accucciata contro la terra rossa e bagnata, irrigidita dal freddo e dall’umidità. E accanto a lei una mezza dozzina di gattini di una settimana circa, con gli occhi ancora chiusi. Era accaduto che i nubifragi di quelle due settimane avevano fatto cadere una tale quantità di pioggia, in quel cunicolo, che le pareti e il soffitto erano parzialmente franati all’interno; e così la cuccia che la gatta si era trovata, e che le era sembrata asciutta e sicura, si era trasformata in una trappola mortale, bagnata e malferma. La gatta era uscita e si era spinta fino a casa per fare in modo che noi potessimo andare a salvare i suoi gattini. Era terrorizzata di doversi avvicinare alla casa, a causa dell’ostilità degli altri gatti e dei cani, e forse perché adesso temeva anche noi, però aveva vinto la paura pur di trovare aiuto per i gattini. Aiuto che non le era stato dato. E così doveva aver perduto ogni speranza quella notte, mentre la pioggia batteva, la terra le franava tutto attorno, e l’acqua continuava a salire, dietro di lei, nel tunnel buio che era sul punto di crollare. Pure, aveva continuato ad allattare i suoi gattini, che erano vivi. I mici soffiarono e sputarono, mentre venivano tirati su nel cestino. La gatta invece era troppo irrigidita e infreddolita per poter uscire con le sue sole forze. Prima furono portati fuori i gattini arrabbiati, mentre lei se ne stava accucciata nella terra bagnata, in attesa. Poi il cestino fu lanciato di nuovo, e la gatta vi fu messa dentro. L’intera famigliola fu trasportata in casa, dove alla gatta fu dato un angolo in cui stare, e poi cibo e protezione. I gattini crebbero e trovarono delle famiglie che li accolsero; la madre rimase come gatta di casa – e forse continuò ad avere dei gattini.


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