martedì 30 marzo 2021

LA STRAGE DEI POTENTI James Hadley Chase

 


LA STRAGE DEI POTENTI

James Hadley Chase 

(He Won't Need It Now, 1939)


1


Il salone del Princess Hotel era affollato di sfaccendati che face¬vano trascorrere gli ultimi minuti prima d'andare a cena. I came¬rieri erano riuniti vicino alle porte d'ingresso del ristorante, in fondo alla sala, e attendevano con pazienza l'arrivo dei primi clienti. Le sette erano passate da poco.

William Duffy era seduto in un angolo e stava bevendo un Bacardi Crusta. Parecchie bottiglie troneggiavano sul tavolino da¬vanti a lui. Il barman era un suo amico e gli lasciava preparare i cocktail da sé. Duffy aveva la faccia scura e non s'era tolto il cap¬pello. Se ne stava là tutto solo a bere con quella sua espressione nera come il carbone. Alzando improvvisamente lo sguardo, scor¬se Sam McGuire del Tribune che si apriva la strada a fianco del suo tavolino, mormorando scuse a destra e a sinistra. Duffy al¬lungò una mano e toccò il braccio di Sam, che si volse e si fermò.

— Santi numi! Sto diventando cieco, oppure... — sbottò al¬legramente.

— Ci vedi benissimo, Sam! — ribatté Duffy.

McGuire spinse col piede una sedia e si sedette di fronte a Duffy.

— Hai intenzione di scolarti il bar dell'albergo? — chiese con interesse, indicando le bottiglie.

Duffy fece segno al barman, che portò un altro bicchiere e guardò i due con aria preoccupata.

— Non avete mica intenzione di scolarvele tutte, vero? — chiese ai due con voce supplichevole.

— Non ti preoccupare — gli rispose Duffy, prendendo la botti¬glia del rum e versando un po' di liquore nello shaker.

— Spero proprio di non doverlo fare — mormorò il barman, lanciando una lunga occhiata a Duffy prima di tornarsene dietro al suo banco.

— Povero vecchio George! — sospirò Sam. — Da quando è venuto a lavorare in questo albergo pieno di pezzi grossi s'è di¬menticato di noi. Senti Bill, fallo ben forte quel cocktail. Ne ho proprio bisogno. Se sentirai fra poco uno strano odore, non ti preoccupare: vorrà dire che ci sono rimasto secco.

Duffy aggiunse con cura l'assenzio, spremette mezzo limone ed aggiunse qualche cucchiaino di zucchero e del ghiaccio tritato. Chiuse ermeticamente il coperchio dello shaker e prese a scuo¬terlo vigorosamente.

McGuire s'accese una sigaretta e spinse il cappello in avanti sull'arco del naso. Guardava attentamente Duffy che stava scuo¬tendo lo shaker. Duffy incontrò il suo sguardo e gli disse: — Co¬raggio, so quello che mi vorresti dire.

— Non dirmi che è vero, Bill! — esclamò McGuire.

Duffy scosse il capo e versò il contenuto dello shaker nei due bicchieri.

McGuire prese il suo.

— Santi numi! — esclamò. — Vorresti farmi credere che il vecchio barbogio ti ha cacciato via?

— Sì, è proprio così.

Sam si appoggiò allo schienale della sedia.

— Ma che diavolo...!

— Senti — disse Duffy — Arkwright ed io ci siamo detestati reciprocamente dal primo momento in cui ci siamo conosciuti. Non gli ho mai dato l'occasione di sbarazzarsi di me. Ma oggi gliel'ho offerta. Non aspettava altro e non se l'è certo lasciata scappare. Accipicchia se ne è stato contento! M'ha sbattuto fuori con una tale rapidità che mi gira ancora la testa.

— Ma perché?

— Ero giovane e ingenuo quando ho cominciato a lavorare per lui... e sapete come vanno queste cose. Credevo che fosse un brav'uomo e guardate come mi trovo ora.

— Smettila di fare il pagliaccio — disse Sam con voce dura. — Hai fatto qualche sbaglio?

— Mi conosci, Bill. È difficile che sbagli e se per caso ci casco so sempre cavarmi d'impiccio. Ma questa volta m'hanno incastra¬to, non c'è dubbio. Quel farabutto di Arkwright è riuscito ad otte¬nere un'intervista con Bernstein dopo essergli stato dietro per qualche settimana. Sai com'è difficile Bernstein; dice che non c'è arte. Be', con la faccia che si ritrova non gli do tutti i torti! Per far¬tela breve, Arkwright gli è stato appresso finché non è riuscito ad ottenere l'intervista e io sono stato incaricato di fare le foto. Ero sicuro di aver fatto un buon lavoro. Invece quando ho sviluppato le foto, ho avuto la brutta sorpresa di trovarle tutte sfocate. Tutte, capisci? Non ce n'era nemmeno una buona. È stato un sabotag¬gio. Qualcuno m'ha manomesso le lastre. Ho controllato quelle che m'erano rimaste ed erano tutte esposte. — Duffy tacque per bere un sorso. Sam rimase in silenzio. Aveva la faccia rossa e tam¬burellava con la punta della scarpa contro la gamba del tavolo. Duffy sapeva che quanto stava raccontando a Sam l'avrebbe fatto arrabbiare. — Ho spiegato al vecchio barbogio come erano anda¬te le cose e tu credi che m'abbia creduto? Niente affatto! Ci siamo scambiati alcune parole un po' pesanti ed io mi sono incavolato; così quel bastardo m'ha incastrato e m'ha cacciato via. Sam si versò un altro cocktail.

— Potrebbe essere un guaio per te — mormorò soprappensie¬ro. — Quel vecchio barbogio è sempre in contatto con la maggior parte dei direttori artistici della città...

— Sì, lo so. — Duffy vuotò il bicchiere e si versò dell'altro cocktail. — Ma al diavolo tutti quanti — continuò. — È il mio fu¬nerale. Celebriamolo assieme!

Sam si alzò. Sembrava preoccupato.

— Non posso trattenermi. Devo rientrare in ufficio. Fatti vivo di mattina. Alice ci resterà male quando saprà quello che t'è ac¬caduto.

Duffy fece un cenno del capo.

— Verrò. Di' ad Alice di non preoccuparsi: in qualche modo me la caverò.

Sam gli batté una mano sulla spalla e mormorò: — Certo... certo!

Non appena Sam se ne fu andato, Duffy finì il cocktail e si ap¬poggiò beatamente allo schienale della sedia. Aveva bevuto un bel po' e considerava con ottimismo il proprio futuro. Diede un'occhiata al grassone in fondo al salone, che per tutta la serata non l'aveva perso di vista nemmeno un istante. È impossibile starsene seduti per un paio d'ore con gli occhi di uno puntati ad¬dosso senza accorgersene.

Si domandò chi potesse mai essere. Lo sconosciuto doveva es¬sere stato un bell'uomo, ma ormai l'obesità aveva preso il so¬pravvento. Aveva le spalle ampie che, un tempo, dovevano aver¬gli permesso di vibrare dei pugni molto pericolosi. Aveva la fac¬cia grossa e grassa, e la bocca era volta all'ingiù agli angoli, con¬ferendogli un'espressione beffarda. Aveva gli occhi piccoli e neri che si muovevano senza posa.

Duffy pensò che quell'uomo doveva essere sulla cinquantina, e che fosse ricco. Lo sconosciuto, infatti, indossava un abito di buona stoffa, dal taglio perfetto, e lo portava con stile. Aveva l'a¬ria sicura tipica di chi ha molto denaro. Quell'aria che dice chia¬ramente che il conto in banca è notevole.

Alzatosi in piedi, Duffy si mosse con passo incerto per raggiun¬gere il ristorante, e passò di proposito vicino al tavolo del grasso¬ne. Mentre si avvicinava, l'uomo si alzò e rimase fermo in piedi, sbarrandogli il passo. Duffy si fermò e alzò lo sguardo su di lui. Da vicino il grassone era assai meno rassicurante.

— Sono Daniel Morgan — disse l'uomo nello stesso modo in cui avrebbe potuto dire "Sono Rockefeller". — Voi siete il signor Duffy?

Duffy lo fissò sorpreso.

— Sì, sono io.

— Signor Duffy, desidererei parlarvi. Volete cenare con me?

Duffy inarcò le sopracciglia, perplesso. Poi pensando che avrebbe risparmiato i quattrini della cena, rispose che accettava l'invito. Morgan gli fece strada; Duffy intanto si congratulava con se stesso per aver indovinato che il portafogli del grassone era ben rifornito. I camerieri, infatti, si inchinavano profonda¬mente al suo passaggio. Morgan scelse un tavolo tranquillo in un angolo e s'accomodò. Duffy si sedette di fronte a lui. Il maître d'hôtel si avvicinò sollecitamente; i tre camerieri si raggrupparo¬no alle sue spalle. Un servizio da principi, ma non era ancora suf¬ficiente per il nostro signor Morgan; questi fece chiamare lo chef il quale, ovviamente, s'affrettò a venire. Morgan sembrava com¬pletamente a suo agio.

Lo chef e il grassone discussero dettagliatamente il menu. Morgan non chiese a Duffy cosa volesse e lui gliene fu grato. Non appena il pranzo fu ordinato, passarono ai vini e solo quando Morgan fu completamente soddisfatto della scelta parve accor¬gersi nuovamente della presenza di Duffy.

— Mi scuserete se non ho chiesto il vostro parere, ma in que¬ste occasioni sono convinto che la scelta d'un buon pranzo sia più nelle mani dello chef che dell'ospite. Consultarsi con lo chef ed orientarlo sui propri gusti, questo credo che sia il modo migliore per mangiare bene.

Duffy alzò le spalle. Cominciava a sentire il bisogno di bere qualcosa.

— Vorrei accertare alcuni particolari — continuò Morgan. — Mi scuserete se vi farò qualche domanda, ma molto probabilmente sarà a vostro vantaggio; vi prego, quindi, di avere un po' di pazienza.

Duffy si seccò di questo lungo preambolo, ma poi pensò che le ostriche che aveva davanti valevano certo un po' di pazienza.

Morgan non parve attendere una risposta e continuò: — Avete dato le dimissioni dal Tribune questo pomeriggio, vero?

Duffy ridacchiò.

— Be', avete ragione soltanto in parte — rispose. — Non ho dato le dimissioni; mi hanno sbattuto fuori.

— Arkwright è una persona molto difficile.

Sembrava che l'amico avesse una risposta a tutto. Duffy posò sul piatto la forchetta da ostriche.

— E allora? — chiese.

— Forse avrete qualche difficoltà a trovarvi un altro lavoro.

In quel momento il cameriere arrivò con la minestra e lo sher¬ry. Duffy guardò il vino ed alzò quindi lo sguardo su Morgan che capì.

— Forse preferite dello scotch — disse.

— Be', questa roba mi mette lo scompiglio nello stomaco — mormorò Duffy in tono di scusa.

Il cameriere addetto ai vini venne chiamato e in un attimo una bottiglia di scotch comparve sulla tavola. Duffy se ne versò gene¬rosamente e si rimise a mangiare.

— Come stavo dicendo... — riprese Morgan.

Duffy alzò la testa. Il suo sguardo era duro.

— Sembra che sappiate un mucchio di cose — sbottò con voce aspra. — Chi ve le ha dette?

Morgan fece un gesto con la mano.

— Vi prego di lasciarmi continuare. Dicevo che incontrerete delle difficoltà a trovarvi un altro lavoro.

Duffy posò con uno scatto d'ira il cucchiaio.

— Dovete sapere, amico, che uno con la mia esperienza trova lavoro quando vuole. Ho un'apparecchiatura di prim'ordine, co¬nosco il mio lavoro e se la situazione peggiorerà, potrò sempre metter su uno studio privato. Vi ringrazio per la vostra cortese sollecitudine nei miei confronti, ma se fossi in voi non me ne preoccuperei gran che.

— Ne sono più che sicuro — s'affrettò a dire Morgan. — Ma nel frattempo avrei da farvi una offerta che potrebbe tornarvi molto utile per mettere su quel vostro studio.

— Di che cosa si tratta?

— Prima di giungere alla mia proposta, credete di potermi illuminare circa alcuni particolari tecnici del vostro mestiere, signor Duffy?

— Certo — mormorò Duffy, che cominciava ad averne le ta¬sche piene. — Cosa vi interessa sapere?

— Se siete in grado di scattare foto a una persona che non sa della vostra presenza, a normale luce ambiente, in una stanza normale. Ho bisogno di buone fotografie, non roba qualsiasi.

— Molto dipende dalla stanza — mormorò Duffy, versandosi dell'altro scotch e dimenticandosi d'aggiungere la solita acqua. — Non posso dir niente di sicuro senza averla vista prima. Mol¬to dipende anche dalle pareti, voglio dire se riflettono bene la luce. Se non volete fotografie artistiche, penso di potervi accon¬tentare.

— Non m'interessano fotografie artistiche, ma solo fotografie chiare.

— D'accordo, non dovrebbe essere molto difficile procurarvele.

Morgan sembrò molto soddisfatto di quanto aveva appreso e si mise a chiacchierare del più e del meno.

"Forse" pensò Duffy "si deciderà a dir qualcosa alla fine della, cena." Ed indovinò, perché non appena ebbero finito di cenare, Morgan accese un sigaro per Duffy ed uno per sé, e disse: — È una situazione molto delicata. Non voglio che ne sappiate molto di questa faccenda. Meno ne saprete, meglio sarà per entrambi. C'è della gentaglia che ricatta mia moglie ed io voglio aiutarla.

Duffy brontolò qualcosa. Era sorpreso, "ma non si può mai di¬re quel che succede nella vita", si disse.

— Sfortunatamente mia moglie ed io non andiamo molto d'ac¬cordo — aggiunse il grassone, giocherellando con il bicchiere. — Non viviamo assieme. Comunque, ciò non vi riguarda. C'è qual¬cuno che la ricatta, ed io ho intenzione di por fine a questo losco affare. Lei non si rivolgerà mai a me per aiuto, ma ciò non cam¬bia la situazione. Voglio sorprendere il ricattatore con le mani nel sacco. È qui che mi occorre il vostro aiuto. Ho bisogno che voi scattiate delle foto mentre mia moglie consegna dei quattrini al ricattatore; così potrò schiacciarlo. Non servirebbe a nulla chiedere la collaborazione della signora Morgan; lei non ne vor¬rebbe sapere perché non vuole il mio aiuto. Potrò farvi entrare nell'appartamento, ma voi dovrete occuparvi del resto da solo. Vi pagherò bene.

A Duffy non andava quella storia. C'era odor di bruciato. Si agitò a disagio sulla sedia.

— Sembrerebbe un lavoro da investigatore privato — mormo¬rò senza alcun entusiasmo.

— Desidero delle fotografie — disse Morgan con vigore — e per averle ho bisogno di un esperto. A voi serviranno presto dei quattrini e siete un esperto. Mi pare che tutto concordi, no?

Duffy stava dicendosi che se avesse accettato quel lavoro il compenso avrebbe dovuto essere alto.

— Per quanto riguarda il vostro compenso — mormorò Mor¬gan, guardandosi le mani — vi darò cinquecento dollari in anti¬cipo, e mille dollari per ogni buona fotografia che avrete scatta¬ta.

Duffy riuscì a controllarsi bevendo un lungo sorso di scotch. Aveva bevuto un bel po', ma riusciva ancora ad avere la testa a posto.

— Devono proprio servirvi quelle foto per essere disposto a pagarle così tanto — mormorò mentre dentro di sé pensava che qualche bigliettone gli sarebbe tornato comodo.

— Sì — esclamò Morgan senza esitare — e ne ho bisogno pre¬sto. Siete disposto a scattarle, allora?

Duffy fece un segno con la mano.

— Calma — mormorò — non fatemi fretta. Voglio capire bene come stanno le cose. Volete che mi rechi nell'appartamento di vostra moglie, a sua insaputa, la fotografi in compagnia di un uo¬mo, e consegni quindi a voi le foto; è così?

Morgan si stava spazientendo, ma si trattenne con uno sforzo.

— Proprio così — mormorò.

— Cosa succede se lei mi sorprende in casa sua e chiama la po¬lizia?

— Non vi sorprenderà — ribatté secco Morgan. — Vi spiego in quattro parole come stanno le cose. Mia moglie va pazza per la musica ed è abbastanza ricca per permettersi ciò che vuole. Nel soggiorno c'è un soppalco con un piccolo organo. Questo soppal¬co si trova a circa tre metri d'altezza e dà proprio sulla stanza. Vi si sale mediante una scala speciale esterna.

Duffy allungò la mano per prendere la bottiglia di scotch, ma Morgan posò la mano sulla bottiglia.

— Non credete...? — attaccò, ma Duffy, scuro in viso, gli ag¬guantò la mano e gliela staccò dalla bottiglia.

— Sentite — disse con calma — se credete che mi ubriachi, non pensatelo nemmeno. Quando voglio bere, bevo, chiaro?

Morgan alzò le spalle. Aveva il viso pallido e si massaggiò la mano.

— Avete una stretta formidabile — mormorò a fior di labbra.

Duffy ridacchiò.

— Certo — ribatté e si versò da bere. — Continuate.

Morgan tamburellò sul tavolo con le dita grasse.

— Vedete, mia moglie non voleva che l'organista, per raggiun¬gere lo strumento, dovesse attraversare il soggiorno e così ha fatto costruire quella scala d'accesso nel retro. Non avrete altro da fare che salire quella scala, stendervi a terra e mettere a fuoco la vostra macchina fotografica. Nessuno vi potrà scorgere.

Da quel che diceva il grassone, sembrava tutto molto facile. Nello stesso tempo, Duffy non poteva fare a meno di credere che ci fosse qualcosa che non andava. Per prima cosa, Morgan non gli ispirava molta fiducia. Ma d'altra parte il compenso era buono e quei quattrini gli avrebbero fatto molto comodo. Doveva sa¬perne qualcosa di più.

— E se per caso le venisse in mente di mettersi a suonare l'or¬gano?

— C'è solo quella scala d'accesso. Una volta che avete chiuso la porta alle spalle, nessuno può salire. — Si tolse il portafogli di tasca e posò cinque banconote da cento dollari sul tavolo. — Inoltre — aggiunse con tono insinuante — vorrete pur fare qual¬cosa per guadagnarvi questi quattrini...

Duffy allungò la mano ed afferrò le banconote. Se le infilò in tasca.

— Bene — mormorò. — Quando devo cominciare?

Morgan tirò fuori un orologio d'oro e lo guardò. Duffy notò che gli tremava leggermente la mano.

— Sono le dieci appena passate — mormorò. — Avete il tem¬po di andare a casa per prendere il vostro equipaggiamento. Quindi vi metterete subito al lavoro.

Duffy s'alzò.

Morgan lo fissò e disse: — Vorrei ricordarvi che si tratta d'una cosa importante...

Duffy alzò la mano.

— Lasciate perdere — disse. — Non è il caso che me lo ripe¬tiate ancora. Mille dollari per foto, non l'ho dimenticato; questo è il discorso più importante.

Anche Morgan s'alzò.

— Potrete farvi un bel po' di quattrini — disse.

— Speriamo — ribatté Duffy.


2


Morgan aveva avuto proprio ragione. Il soppalco era il posto ideale per scattare fotografie senza essere visti da quelli che si trovavano nel soggiorno.

Duffy se ne stava accovacciato sui calcagni. Aveva la piccola macchina fotografica appesa al collo. La luce della stanza era buona. "Guadagnerò un bel po' di quattrini", pensò. Il soppalco dell'organo era proprio come Morgan gliel'aveva descritto. Da lassù si aveva la vista intera della stanza, ed il soppalco era par¬zialmente nascosto da tende color magenta. Duffy s'era sistema¬to comodamente e con l'aiuto d'una bottiglia di scotch, che aveva portato con sé, riusciva a mantenersi calmo e a prendere in giusta considerazione la parte tecnica del suo lavoro.

Mise a posto la macchina fotografica e s'accinse con calma ad aspettare. Morgan l'aveva accompagnato con l'auto a casa per¬ché potesse prendere la sua attrezzatura e l'aveva quindi accom¬pagnato fino all'ingresso della scala che conduceva al soppalco. Morgan aveva preparato tutto con cura. S'era messo d'accordo con Duffy; l'avrebbe atteso nel salone del Princess Hotel.

Duffy guardò la stanza sotto di sé. Era proprio una bella sala. La tappezzeria era color magenta e crema. Il tappeto color crema e le ampie e comode poltrone, metà magenta e metà crema, da¬vano un aspetto moderno al soggiorno. Duffy pensò che gli sa¬rebbe piaciuto avere una casa del genere. Diede un'occhiata al¬l'orologio. Era quasi mezzanotte. Aveva voglia di fumare, ma sa¬rebbe stato troppo rischioso. Chissà quanto avrebbe dovuto aspettare. Proprio in quel momento una donna entrò camminan¬do in fretta. Attraversò rapidamente il soggiorno e sparì attra-verso un'altra porta. Era passata tanto rapidamente che Duffy non aveva potuto vedere com'era. Duffy si allungò con cautela sul pavimento, stringendo la macchina fra le mani. Da quella posizione avrebbe potuto puntare l'obiettivo fra un elemento e l'al¬tro della balaustra del soppalco e da sotto nessuno avrebbe potu¬to scorgerlo. Si tolse di tasca la bottiglia piatta dello scotch, che gli dava noia.

Un altro quarto d'ora trascorse lentamente. All'improvviso, udì lo squillo d'un campanello. S'irrigidì e guardò con ansia ver¬so la porta. La donna attraversò la stanza. Ora Duffy ebbe il tem¬po di esaminarla. — Accipicchia! — esclamò a fior di labbra. Era alta ed esile ma la vestaglia di seta verde pallido sottolineava le sue curve. Duffy apprezzò molto il suo posto d'osservazione. Ri¬mase incantato dalla carnagione della donna e non poté fare a meno di pensare che con degli occhi così grandi era una vera e propria minaccia per uomini dal cuore debole. Pensò che egli stesso sarebbe stato molto debole con una donna simile. Le lab¬bra scarlatte di quella splendida creatura erano una sensuale pro¬messa e i suoi capelli color fiamma erano il tocco finale di un qua¬dro perfetto. Duffy pensò che Morgan aveva buon gusto in fatto di donne e, nello stesso tempo, non poté fare a meno di chiedersi come una donna di quella bellezza avesse potuto innamorarsi di Morgan. Non lo sorprendeva che avesse piantato quel grassone.

Non le staccò gli occhi di dosso mentre lei si avviava verso la porta e quando tornò indietro, un uomo la seguiva a breve di¬stanza. Duffy guardò con interesse il nuovo arrivato. Era piccolo e smilzo, aveva capelli neri ondulati. Sembrava nervoso ed il suo volto era insolitamente pallido. La donna si sedette sul bracciolo di una poltrona, molto vicino al piedistallo di una lampada a ste¬lo. Duffy notò che la luce la illuminava in pieno. Mise a fuoco la macchina e scattò la prima foto.

L'uomo disse alla donna: — Hai il denaro?

— Sì, ce l'ho — rispose lei con aria di disgusto all'uomo, il quale pareva che si facesse più piccino sotto il suo sguardo fisso.

— Hai portato la roba? — riprese la donna con quella voce un po' roca che piace tanto agli uomini.

— Voglio la grana, prima — disse l'uomo. — E fa' presto; que¬sto non è un posto molto salutare per me.

La donna lo guardò, si voltò verso il tavolo e aprì un cassetto. Duffy vide chiaramente che prendeva un fascio di banconote e premette lo scatto. I rumore gli parve immenso, ma i due sotto di lui non si accorsero di nulla. Vide che la donna porgeva il de¬naro all'uomo il quale le porgeva, a sua volta, un pacchetto. Duf¬fy scattò rapidamente una serie di foto. Abbassò quindi la macchina fotografica. Aveva preso almeno una ventina di fotografie e dovevano essere quasi tutte buone. Calcolò che avrebbe potuto mettersi in tasca almeno cinquemila dollari e soddisfatto allungò la mano per prendere la bottiglia dello scotch. Continuava a te¬nere d'occhio l'uomo e la donna, ma non accadde nulla di parti¬colare. Intanto cercava di ricordare quell'uomo; l'aveva visto da qualche parte, ne era sicuro, ma non ricordava dove.

L'uomo stava muovendosi verso la porta, adesso. Indietreggia¬va lentamente come un gambero senza staccare gli occhi dalla donna dai capelli rossi. Lei lo seguì ed i due sparirono dalla vista di Duffy e dopo pochi secondi la donna riapparve sola. Duffy la guardò. La donna si sedette su una poltrona. La vestaglia di seta verde le si aprì sul davanti, scoprendo le gambe bianche. Duffy si tirò più su per poterla vedere meglio. Quella donna era uno splendore, e Duffy si chiese se sotto la vestaglia indossasse qual¬che altro indumento. Quel pensiero lo sconvolse e ci mancò poco che si facesse venire il torcicollo per riuscire a vedere di più. Gli sarebbe proprio piaciuto tenere un po' di compagnia a quella bel¬la signora solitaria, ma c'era Morgan che l'aspettava. Inoltre con una donna del genere avrebbe avuto bisogno di quattrini e l'uni¬co modo per farli, in quel frangente, era di andarsene al più pre¬sto. Si alzò lentamente in piedi e fece un passo indietro. Sentì qualcosa di duro contro la schiena.

— Non muoverti, amico! — gli mormorò una voce all'orec¬chio.

Di solito, Duffy aveva i nervi saldi, ma in quel momento parve che gli saltasse via il cuore. Si sentì attraversare da un fremito ed alzò subito le mani.

— Non cercare di fare il furbo — mormorò ancora la voce.

Duffy girò lentamente il capo e guardò con la coda dell'occhio l'uomo alle sue spalle. Era un tipo massiccio con un cappello di feltro dalla tesa tirata bassa sugli occhi. Il volto duro e pallido dell'uomo gli provocò un moto interno di repulsione. Udì chiu¬dersi una porta del soggiorno; molto probabilmente la donna aveva lasciato la stanza. Tenendo sempre le mani alzate, disse: — Santi numi! dove l'hanno mai pescato un tipo come te?

L'uomo aveva gli occhi quasi chiusi, ma quel che di essi si vede¬va non rassicurava certo Duffy circa le sue intenzioni.

— Non ti muovere — ripeté nuovamente l'uomo, piantando la pistola nella schiena di Duffy. Aveva una voce roca, come per il troppo fumo. Allungò una mano e agguantò la cinghia della mac¬china fotografica.

— Ehi! — esclamò allarmato. — Non vuoi mica prendermi la macchina, vero?

— Chiudi il becco! — sbottò l'uomo.

Una sorda rabbia invase Duffy.

— M'avete incastrato, eh? Il signor figlio-d'un-cane, quel Morgan, vuole le foto senza pagare!

— Se non la pianti di chiacchierare ti chiudo il becco per sem¬pre — ribatté l'altro. — Cosa diavolo credi di fare qui?

Duffy prese ad abbassare lentamente le mani ma la pistola si ripiantò subito fra le sue scapole.

— Sono qui per un lavoro — disse Duffy. — E tu piuttosto co¬sa credi di fare? — Non poteva fare a meno di chiedersi se quel gorilla aveva l'intenzione di farlo fuori. Non si trovava certo in una situazione allegra!

— Adesso noi due andiamo a fare una bella passeggiata — dis¬se l'altro con una voce dalla quale trapelava evidente la minaccia. Fece un passo indietro, staccando la pistola dalla schiena di Duf¬fy che non ebbe un attimo di esitazione. Inspirò profondamente ed allungò un calcio tremendo all'indietro. Sperava di colpire l'avversario alla gamba, ma il suo piede non incontrò ostacoli e prima che potesse fare qualcosa cadde giù dal basso soppalco, fi¬nendo sul pavimento della stanza sottostante.

Toccò terra con le mani protese in avanti e rotolò sul tappeto soffice. Rimase un attimo stordito per lo choc, ma ben presto si riprese e si mise a sedere.

Udì una porta aprirsi e alzò gli occhi. Scorse la rossa che in¬crociò le braccia sul petto e lanciò un urlo soffocato. Quel grido fece provare a Duffy il desiderio di stringere la donna fra le brac¬cia per tranquillizzarla; be', forse non proprio allo stesso modo di una madre che vuole rassicurare il proprio bambino impaurito... Quando però scorse la .25 che lei stringeva in mano, cambiò pa¬rere.

Le donne armate lo rendevano nervoso. Si ricordava di un'al¬tra donna, una bionda, che gli aveva puntato addosso una pistola e come ci fosse mancato un pelo che non fosse finita poco al¬legramente per lui. Le donne non sanno controllare un'arma. Se ne stette così seduto immobile per non allarmarla.

La donna aveva i grandi occhi impauriti e le labbra rosse soc¬chiuse. Era proprio una bella donna!

— Chi... chi siete? — chiese lei con voce rotta.

— Signora — disse Duffy, stringendosi la testa fra le mani — mi chiedo anch'io la stessa cosa.

— Cosa ci fate qui?

— Vi dispiacerebbe metter via quell'arnese? Sono appena ca¬duto giù dal soppalco ed i miei nervi non ne possono più.

— Volete decidervi a dirmi che cosa ci fate qui? — Ora la sua voce s'era rinfrancata.

— Non arrabbiatevi, vi prego — supplicò lui. — Date un'oc¬chiata a quel tipo lassù prima di prendervela con me.

Lei apparve nuovamente impaurita.

— C'è qualcun altro, lassù?

Duffy si mise a ridere.

— Certo. È stato grazie a lui se son finito quaggiù dopo un bel voletto.

La donna fece un passo indietro e alzò lo sguardo verso il sop¬palco.

— Non c'è nessuno.

— Quel bastardo m'ha portato via la macchina fotografica — mormorò a fior di labbra. — Vi dispiacerebbe se m'alzo? C'è una brutta corrente qui a terra, che certo non mi giova alla salute.

— Non muovetevi — mormorò la donna, puntandogli addosso la pistola. Si avvicinò al telefono.

— Non fatelo — s'affrettò a dire Duffy. — Non chiamerete mica i piedipiatti, vero?

La donna esitò con la mano posata sul telefono.

— Secondo voi, che cosa dovrei fare?

— Sentite, signora Morgan. Posso spiegarvi ogni cosa. È tutto un equivoco.

Lei abbassò la pistola sorpresa.

— Perché m'avete chiamata con quel nome? — chiese.

Duffy s'irrigidì.

— Non siete la signora Morgan?

— No.

Duffy s'affrettò ad alzarsi e le fece un gesto con la mano men¬tre lei puntava di nuovo la pistola.

— Va bene, va bene... — disse con impazienza. — Questo è molto importante. Chi siete allora?

Lei batté un piede per terra.

— Ma si può sapere cos'è tutta questa storia?

— Ve la spiego in breve — disse Duffy. — M'han fatto fesso. Questa è la prima cosa. Sono Duffy del Tribune. Un tizio che m'ha detto di chiamarsi Morgan, m'ha raccontato che voi siete sua moglie e che eravate ricattata. Voleva che io scattassi delle fotografie del tipo che vi ricattava. Io gli ho creduto e lui m'ha fatto arrivare fin nel soppalco da dove ho scattato alcune fotogra¬fie mentre passavate il denaro a quell'uomo. Quando ormai ave¬vo finito il mio lavoro e stavo per andarmene, è arrivato un tipac¬cio che m'ha preso la macchina fotografica; per liberarmi di lui, sono finito di sotto. Ora voi mi dite che non siete la signora Mor¬gan; a questo punto, per il vostro bene, sarà meglio che mi dicia¬te chi siete.

Lei lo fissò ed infine disse: — Credo che siate un po' matto.

— Usate il cervello. — Duffy stava perdendo la pazienza. — Non v'accorgete d'essere nei guai? Morgan voleva delle foto vo¬stre con quell'uomo, ed ora ce l'ha. Sta a voi capire il perché.

Lei continuava a fissarlo, scrollando il capo.

— Non capisco... non credo...

Lui le si fece vicino e spostò la pistola.

— Per Dio! — esclamò. — Volete ascoltarmi? Chi era quel ti¬zio a cui avete dato il denaro?

— Non lo so. Credo che si chiami Cattley...

Duffy fece un passo indietro.

— Cattley... certo! Santi numi, sto proprio rimbambendo. Cattley... — Guardò la donna. — Ma che diavolo avete a che fa¬re voi con un topo di fogna come Cattley?

La donna aggrottò le sopracciglia.

— Quando la smetterete di fare domande? — chiese seccata.

— Sentite — mormorò Duffy, avvicinandosi. La sua voce si fe¬ce tagliente. — Cattley gode di una pessima reputazione in città. In tutti gli affari più loschi c'è il suo zampino. E voi siete stata fo¬tografata con lui, mentre gli passavate del denaro. Vi dice qual¬cosa questo?

— Ma... — S'interruppe, e lui s'avvide che s'era fatta pallida.

— Bene... vedo che cominciate a rendervi conto della situazio¬ne. Raccontantemi tutto. Non c'è tempo da perdere.

La donna lo guardò furente.

— È tutta colpa vostra — disse infuriata. — Se non fosse stato per voi...

— Lasciate perdere! — sbottò lui. — Riavrò quelle foto. Ma voi avete un mucchio di cose da dirmi, prima.

La sfuriata era finita e la donna si sedette, buttando la pistola sul divano. Duffy trasalì un poco. Le donne non ci sanno proprio fare con le armi da fuoco; la pistola aveva ancora la sicura al suo posto.

— Ed ora vediamo un po' di mettere le cose in chiaro — mor¬morò lui. — Prima di tutto, come vi chiamate?

— Annabel English — mormorò lei, tormentandosi le mani.

— Cosa siete? Una signora con molti quattrini alla quale piace divertirsi?

Lei accennò di sì col capo. Duffy s'accese una sigaretta.

— Bene. Ma che cosa ha da spartire con voi Càttley?

La donna esitò un attimo, si fece rossa e quindi mormorò: — Gli... gli ho chiesto del materiale sulla malavita. — Si arrestò. Era rossa come un peperone.

— Santi numi! Non ditemi che state scrivendo un libro o qual¬cosa del genere! — gemette. — Il punto di vista di una signora dell'alta società sulla malavita?

— Ho pensato che avrebbe potuto essere divertente — disse lei. — Riguarda la tratta delle bianche...

Duffy alzò le mani al cielo.

— Così vi siete messa in testa di scrivere un libro sulla tratta delle bianche? E fra tutti i mascalzoni che ci sono in giro doveva¬te andare a scegliere il peggiore per farvi aiutare. Be', penso che vi converrà cambiare idea e scrivere un libro sul ricatto... Presto ne avrete un'esperienza diretta.

La donna lo guardò preoccupata.

— Cosa devo fare?

— Non dovete fare niente. Vedrò di riprendere la macchina fotografica. È la cosa più importante.

Si avvicinò al telefono e sollevò la cornetta. Mentre compone¬va un numero, disse alla donna: — Cercate sull'elenco il numero di Daniel Morgan.

La donna si mosse. Duffy la guardava attentamente mentre at¬tendeva che gli rispondessero. Era una gran bella figliola, dav¬vero.

— Qui il Tribune.

— Salve, Mabel — disse Duffy. — C'è Sam?

— Aspetta, te lo passo.

McGuire gli rispose quasi subito.

— Salve, amico — disse. Duffy ebbe l'impressione che fosse alticcio.

— Senti, bello — attaccò Duffy con voce sicura — si tratta di una cosa molto importante, e ho bisogno di vederti subito. Va bene al Princess Hotel?

— Ehi, cosa credi che sia, un robot? Me ne vado a casa — pro¬testò McGuire. — Cosa dirà Alice se non mi vede? Non sono sta¬to a casa durante tutta la settimana.

Duffy era certo che McGuire era ubriaco.

— Sistemerò io le cose con Alice — disse. — Ci vediamo là, allora, e fa' svelto. — Riattaccò prima che McGuire potesse re¬plicare.

— Ci sono dieci Daniel Morgan sull'elenco — gli comunicò Annabel English.

— Va bene — rispose Duffy. — Troverò il mio. — Le si av¬vicinò. — Ora non ci pensate più. Lasciate che me ne occupi io. Vi telefonerò domani per tenervi informata. — Fece una pausa e la fissò nei suoi grandi occhi blu. — Siete sola?

Accennò di sì col capo.

— Ho fatto uscire la cameriera. Non volevo che vedesse Cattley...

— Non avete paura?

— E perché dovrei averne? — sembrava sorpresa.

Duffy alzò le spalle.

— Be', pensavo che... — Le sorrise all'improvviso. — Se rie¬sco a riavere la macchina, posso tornare a trovarvi questa notte?

Lei fece di no col capo.

— Non sarò sola...

— Chi è il vostro amico?

Lei si mosse lentamente verso la porta. Duffy ne intravedeva il corpo muoversi sotto la vestaglia di seta. Era certo, ora, che non aveva niente sotto. Lei lo guardò appena e gli disse: — Sarà me¬glio che ve ne andiate, ora — mormorò. — Ho sentito dire che a voi giornalisti vengono in mente strane idee quando vi trovate so¬li con una ragazza.

Duffy si guardò attorno in cerca del suo cappello e lo trovò a terra vicino al tavolo.

— Che cosa c'è di male? — mormorò, avvicinandosi alla por¬ta. — Dopotutto, ci vuole pure qualcuno che ci sappia fare con le donne, non vi pare?

Lei gli aprì la porta. Duffy la guardò fissa e disse prima di usci¬re: — Sogni d'oro, bellezza. Ci penso io a sistemare questa fac¬cenda.

Lei stava per chiudere la porta, quando gli domandò all'im¬provviso: — Avete detto di chiamarvi Duffy?

— Sì.

— E poi?

— Bill.

— È un bel nome. — Si appoggiò allo stipite. La vestaglia le si aprì un poco, scoprendo una gamba.

Duffy la guardò dalla punta dei capelli a quella dei piedi.

— È un vecchio cognome quello di Duffy.

Lei sollevò le sopracciglia.

— E con ciò?

Duffy si appoggiò con una mano allo stipite e le fu vicinissimo.

— È tradizione di famiglia: a noi Duffy sono sempre piaciute le rosse.

Lei alzò il viso verso di lui; le sue labbra erano invitanti.

— Ah, sì?

Duffy la baciò. La donna gli buttò le braccia al collo e lo strinse a sé con violenza. Aveva gh occhi spalancati e fissava Duffy, che sconcertato cercò di liberarsi dall'abbraccio; le labbra della don¬na era passionali, ardenti. All'improvviso gli morse il labbro su¬periore e con uno scatto sparì all'interno, chiudendo la porta.

Duffy rimase là perplesso, tamponandosi il labbro sanguinante con il fazzoletto.

— Prima o dopo quella bella signora farà la felicità di qualcu¬no! — mormorò Duffy fra sé.

S'avvicinò all'ascensore e premette il pulsante. Il labbro gh si stava gonfiando. Mentre aspettava che l'ascensore arrivasse, mormorò: — Che nottata!

Prima che l'ascensore si fermasse, Duffy scorse raggomitolato sul tetto dell'ascensore stesso il corpo d'un uomo.

Si sentì il sangue gelare nelle vene.

Si avvicinò alla porta dell'appartamento di Annabel e suonò il campanello.


3


Lei non aprì subito. Duffy dovette tenere a lungo il dito sul pul¬sante. Annabel socchiuse la porta; per sicurezza aveva messo la catena. Non appena ebbe visto di chi si trattava, fece per chiude¬re, ma Duffy fu pronto ad inserire la punta della scarpa fra lo sti¬pite e la porta.

— Aprite — le intimò. — C'è un cadavere sul tetto dell'ascen¬sore.

— Dovete essere pazzo — mormorò la donna con voce rotta — o ubriaco fradicio.

Duffy s'appoggiò con tutto il peso del corpo contro la porta.

— Vi ripeto che c'è un cadavere sul tetto dell'ascensore. È il corpo sfracellato di Cattley. Deve aver fatto un volo fino al pianterreno.

La donna spalancò tanto d'occhi e poi sogghignò. Duffy le avrebbe perdonato tutto, ma quel risolino lo mandò in bestia. Fece un passo indietro.

— Ma bene! Se ve ne fregate voi, immaginatevi io!

Annabel chiuse la porta, tolse la catena e riaprì; poi uscì sul corridoio.

— Aspettate — implorò, posandogli una mano candida sul braccio.

— Basta che qualcuno chiami l'ascensore per notare il cadave¬re ed allora sarete nei guai.

— È veramente... voglio dire... non è che volete spaventar¬mi?

Duffy salì sull'ascensore, chiuse la porta e schiacciò il bottone. Lasciò scendere un po' la cabina ed aprì quindi la porta per bloc¬carla. Riuscì ad uscirne fuori con fatica.

— Credete ancora che v'abbia raccontato delle storie?

Annabel guardò il corpo raggomitolato di Cattley, ma non si mosse. Poi portò una mano alla bocca e disse: — È morto?

— Credete forse che stia dormendo?

La donna allora si rivolse irosamente a Duffy: — Be', vedete di far qualcosa, no?

Lui si spinse il cappello sulla nuca.

— Comincio a chiedermi se siete davvero tanto svampita quanto sembrate. Cosa volete che faccia? Che chiami la polizia?

— Ma voi dovreste sapere cosa fare!

Duffy guardò un attimo il corpo rattrappito di Cattley; gli si avvicinò, l'afferrò per un braccio e lo trascinò con cautela sul pa¬vimento. Le gambe di Cattley, si piegarono, ma non all'altezza del ginocchio, bensì a quella della coscia. Doveva avere ben po¬che ossa intatte. Con un ultimo sforzo, Duffy trascinò il cadavere nell'ingresso.

— Perché l'avete portato in casa mia? — domandò la donna con voce stridula.

— Non parlate ora — disse lui, guardandosi con disgusto le mani insanguinate. — Sporcherete l'appartamento, ma vi salve¬rete dai guai, in questo modo.

S'affrettò ad uscire sul pianerottolo. Il tetto dell'ascensore era sporco di sangue.

— Andate a prendere un asciugamano bagnato.

La donna entrò in casa, facendo bene attenzione ad evitare il cadavere. Lui la guardò mentre s'allontanava. Annabel aveva i nervi molto saldi. Tornò di lì a poco con l'asciugamano. Duffy pulì con cura le macchie sul tetto della cabina; si pulì, quindi, le mani e posò l'asciugamano sul petto di Cattley. Lei lo seguì den¬tro, tenendo la vestaglia ben stretta per evitare che toccasse il ca¬davere.

— Volete vedere se ha ancora i quattrini?

Duffy la guardò duramente.

— Cosa vi fa pensare che non li abbia più?

— Volevo dire se volete prenderli.

Duffy fece una smorfia.

— Non mi va molto di toccare questo cadavere. È maciullato.

La donna si avvicinò e guardò Cattley.

— Non si irrigidirà presto? — chiese. — Non sarà meglio che lo componiate un poco?

— Ma per Dio! — protestò Duffy. Ma non andò oltre e s'ingi¬nocchiò a fianco del cadavere e prese a sistemargli le gambe. Per raddrizzargliele fu costretto ad aiutarsi con un bastone da passeggio che trovò in un portaombrelli. Quando ebbe finito, aveva il volto pallido e sudato.

— Volete che gli incroci anche le braccia sul petto? — chiese con ironia.

La donna era rimasta tutto il tempo al suo fianco a guardare con calma. Disse: — Cercate il denaro.

Duffy la guardò con gli occhi socchiusi.

— Lasciate i quattrini dove si trovano — rispose — e andate a prendermi qualcosa da bere.

La donna si diresse verso il soggiorno e Duffy la seguì. Si ac¬corse così di stringere ancora in mano il bastone da passeggio. Tornò nell'atrio e lo rimise nel portaombrelli. Andò quindi a la¬varsi le mani e poi raggiunse la donna nel soggiorno.

Annabel era in piedi davanti al tavolo e stava versando dello scotch in un bicchiere che lui prese prima che lei vi aggiungesse il seltz. Era buono quel whisky e ne sentiva ora tutto il calore nello stomaco. Se ne versò dell'altro.

— Siete stata voi a ucciderlo? — le chiese all'improvviso.

La donna strinse le mani sul petto e lo guardò trepidante per un attimo; infine disse: — È stato ucciso?

Duffy bevve un altro sorso.

— Usate il cervello — mormorò. — Come volete che abbia fatto a cadere oltre il cancelletto? Non era mica ubriaco, no? Esce dal vostro appartamento. L'ascensore è al piano terreno. L'uomo apre il cancelletto, si sente male e cade giù. Non ci crede¬rebbe nemmeno un bambino.

Annabel si fece di nuovo pallida in viso e si appoggiò al tavolo. La vestaglia le si aprì sul davanti, mostrando una gamba bianca, ma nessuno dei due ci fece caso.

— Ve lo dico io com'è andata — riprese Duffy. — Cattley ha lasciato il vostro appartamento ma sul pianerottolo qualcuno gli ha dato un colpo in testa e l'ha fatto precipitare sopra l'ascensore che in quel momento si trovava a pianterreno. — Duffy posò il bicchiere e accese una sigaretta. — Non m'avete risposto. Siete stata voi ad ucciderlo?

— No — rispose lei.

— C'è una sola persona disposta a credervi — mormorò Duf¬fy. — E quella siete voi.

La donna alzò il capo. Aveva un'espressione di paura negli oc¬chi.

— Non penserete davvero che sia stata io ad ucciderlo? — obiettò concitatamente.

— Ma non vi rendete conto della situazione in cui vi trovate? — ribatté lui con impazienza. — Cercherò di farvi il quadro della situazione. Cattley viene a trovarvi per un certo affare che ha con voi. Mi avete detto che si tratta di materiale per un libro. Lo ac¬compagnate alla porta e poi che cosa succede? Lui precipita sul tetto dell'ascensore.

— Ciò non prova che sia stata io ad ucciderlo — mormorò lei a mezza voce.

Duffy alzò le spalle.

— Però sarete pur sempre nei guai — disse. — Fatemi dare un'occhiata al materiale che vi ha venduto.

Lei si scostò dal tavolo e si recò nella propria camera da letto. Duffy le lasciò qualche minuto di tempo, poi disse ad alta voce: — Ci scommetto che l'assassino lo ha rubato.

La donna uscì dalla sua camera. Aveva il volto bianco. Si arre¬stò nel vano della porta; una mano stretta alla gola, l'altra posata sulla maniglia.

— Non... non trovo più il pacchetto!

Duffy increspò le labbra.

— Ci avrei scommesso... — commentò. Quindi s'alzò e s'av¬vicinò alla donna. L'afferrò per i polsi e la tirò a sé. — Sei pazza se credi di poter continuare a recitare questa parte. Be', il gioco è finito. Non ho mai incontrato nessuno che recitasse meglio di te, ma ora è giunto il momento di smetterla. La storia di scrivere un libro sulla malavita è vecchia come l'arca di Noè. Svegliati, ros¬sa!

Lei si scostò.

— Cos'hai intenzione di fare? — gli domandò con un filo di voce.

Duffy si grattò la testa.

— È stata una serata piuttosto movimentata — disse, passan¬dosi la mano nei capelli. — Mi domando... — s'interruppe, guar¬dando Annabel. — Mi sembra quasi che Morgan voglia far rica¬dere su di te la colpa dell'assassinio di Cattley. — Tacque per un momento, poi aggiunse parlando rapidamente. — Sta' a sentire la mia ipotesi. Morgan mi chiede di fotografarti insieme a Cat¬tley, che poi viene ucciso da uno dei suoi uomini e buttato sul tet¬to dell'ascensore. La macchina fotografica con le foto mi viene rubata. A Morgan non resta che minacciarti di consegnare le foto alla polizia per ricattarti.

Annabel era quasi senza respiro.

— Mi aiuterai?

Duffy sbottò: — Non sei la sola ad aver bisogno di aiuto, no?

— Sei molto gentile, non ti pare?

— Gentile un corno. Sono stato io a scattare le foto. Dovrò si¬stemare questa faccenda, se non voglio trovarmi nei guai.

La donna si lasciò cadere sul divano e si coprì il volto con le mani. Duffy la guardò, prese un bicchiere e vi versò dentro tre dita di scotch. Riempì quindi anche il proprio bicchiere. Poi si avvicinò alla ragazza.

— Bevi questo.

Lei prese con gesto meccanico il bicchiere.

— Non lo voglio.

— Sarà meglio invece che tu lo beva. Dovrai aiutarmi in un la¬voro niente affatto piacevole.

Lei lo guardò, e Duffy fece un gesto col capo in direzione della porta.

— Dovremo sbarazzarci per prima cosa del cadavere.

Lei mormorò: — Non puoi farlo da solo?

Lui sorrise senza pietà.

— Sei anche tu nei guai, sorellina. Ti aiuterò ma non voglio prendere il tuo posto.

Lei bevve il whisky tutto d'un fiato. Duffy le offrì una siga¬retta.

— In un paio d'ore il nostro amico sarà diventato duro come un pezzo di legno. Non sarà certo facile prendersi cura di lui, al¬lora. Ora, potremo invece ficcarlo facilmente in un sacco.

La donna fu scossa da un tremito violento.

— Non so proprio dove potremmo nasconderlo — mormorò Duffy, camminando avanti e indietro a lunghi passi. — Dovremo fare tutto il possibile perché non venga scoperto. Non appena il cadavere verrà trovato, quei bastardi si faranno avanti con le fo¬to per ricattarti.

Guardò la donna.

— Vatti a vestire.

Annabel s'alzò e si diresse verso la camera da letto.

— Dammi un baule, se ce l'hai — le disse Duffy.

Lei si fermò.

— Ne ho uno qui nella stanza.

Lui la seguì nella camera da letto. Lei gli indicò la porta di un grosso armadio a muro. Duffy l'aprì, e vide in un angolo un pic¬colo baule, ricoperto di etichette di moltissimi alberghi. Sembra¬va quasi che avesse fatto il giro del mondo. Duffy mormorò: — A quanto pare, viaggi molto.

Annabel non disse niente. Lui tirò fuori il baule.

— Hai un telo impermeabile per avvolgere il nostro amico? — le chiese.

Lei s'avvicinò alla porta.

— Impermeabile?

— Sì, altrimenti sporcherà il baule.

Lei uscì dalla stanza. Duffy la sentì rovistare e, dopo poco, la vide tornare con un telo impermeabile che serviva per ricoprire una grossa valigia.

— Questo può andare? — domandò Annabel, porgendoglielo.

— Meglio di niente — ribatté Duffy, afferrando il telo imper¬meabile.

— Non dire così.

— Cosa c'è che non va in quel che ho detto?

— Perché sei così sgarbato con me?

Lui la fissò.

— Va bene. Ammettiamo che io sia sgarbato. Non ti pare che non sia questo il momento di farmelo notare?

— Lo credi?

Duffy s'accorse che Annabel aveva lo sguardo completamente vuoto e che respirava affannosamente. Lei, intanto, cercava di slacciare la cintura che le cingeva i fianchi. Infine ci riuscì e la ve¬staglia si aprì. Sotto era quasi nuda. Si sollevò un poco sulla pun¬ta dei piedi, le mani sui fianchi, quasi a protendersi verso di lui.

— Prendimi — sussurrò con un filo di voce. — Prendimi...

Duffy le allungò un ceffone in pieno viso. Poté scorgere l'im¬pronta delle sue dita sulla pelle bianca di lei. Le allungò un se¬condo ceffone. Lei sbatté ripetutamente le palpebre ed i suoi oc¬chi tornarono ad essere normah. Aveva un'espressione sorpresa ed impaurita.

— Vestiti — le ingiunse Duffy. L'unico pensiero che aveva in mente riguardava Cattley.

Lei si voltò e si mosse lentamente, barcollando un poco.

Duffy si passò il fazzoletto sulla faccia. Prese il telo impermea¬bile e si diresse verso l'ingresso. Era già abbastanza dover pensa¬re a Cattley nello stato di nervosismo in cui si trovava e come se non bastasse ci si metteva una matta come quell'Annabel a com¬plicare la situazione. Guardò con disgusto il cadavere.

— Se non avessi temuto che ti irrigidissi come una tavola — mormorò, rivolto al cadavere — avrei potuto divertirmi un bel po'! — esclamò con cattiveria.

Sistemò il telo a fianco del cadavere e poi, con il bastone da passeggio, riuscì a far rotolare il defunto Cattley su di esso. Si in¬ginocchiò, quindi, e avvolse il cadavere con cura.

Quand'ebbe finito, sentì il bisogno di bere ancora qualcosa per potersi reggere in piedi. Dopo aver bevuto un generoso sorso di whisky, riempì il bicchiere di Annabel e si diresse verso la ca¬mera. Quando entrò nella stanza, ci mancò poco che il bicchiere gli cadesse di mano. La donna giaceva sul letto. Era nuda come mamma l'aveva fatta e non c'era dubbio che l'aveva fatta assai bene.

Posò il bicchiere sul tavolino da notte ed uscì dalla stanza. Nella sua mente c'era un unico pensiero. Doveva liberarsi di Cat¬tley prima che il cadavere s'irrigidisse.

Andò in cucina ed accese la luce. Il vano era molto grande e ben ammobiliato. Si mise a cercare nei cassetti fino a che non eb¬be trovato un pezzo di corda. Tornò allora nell'ingresso. Legò ac¬curatamente il cadavere. Andò poi a prendere il baule e lo trasci¬nò nell'ingresso. Sollevò il corpo esanime e lo ficcò dentro.

A metà lavoro dovette fermarsi per riposare. Il cadavere era ridotto a una massa informe ed inerte ma il baule era un po' pic¬colo. Duffy fu costretto a sedersi sul coperchio per poterlo chiu¬dere. Si sentiva un peso allo stomaco. Alla fine il coperchio si chiuse.

Duffy si asciugò col fazzoletto le mani e la faccia madidi di su¬dore.

Annabel venne fuori dalla camera da letto. Indossava una gon¬na nera, una camicetta bianca e una giacca nera a tre quarti. Te¬neva in mano un paio di guanti da guida. Si muoveva lentamente, e sembrava barcollasse un poco. Il whisky cominciava a farle ef¬fetto.

Annabel lo guardò.

— È sistemato dentro al baule — disse lui.

La donna non aprì bocca, ma Duffy fu sorpreso nel notare l'e¬spressione d'odio negli occhi di lei. Rifletté un attimo e non gli ci volle molto a capire che aveva buone ragioni per odiarlo.

— Non sono mai stato molto in gamba quando c'è di mezzo un cadavere — sbottò.

Lei ignorò la sua battuta e volse lo sguardo altrove.

— E ora? — chiese.

— Puoi prendere la tua auto?

— Il garage si trova nello scantinato.

Duffy uscì sul ballatoio e premette il pulsante dell'ascensore. La cabina salì. Questa volta non c'erano altri cadaveri sul tetto. Duffy aprì il cancello e rientrò nell'appartamento per prendere il baule. Lei non mosse un dito per aiutarlo, ma Duffy riuscì lo stesso a trascinarlo fino all'ascensore.

Annabel entrò nella cabina. I due si trovavano a lato del baule, ma evitavano di guardarlo.

Duffy premette il bottone dello scantinato. Contò i piani men¬tre scendevano; erano dodici. Pensò che Cattley era stato fortu¬nato se, dopo quella caduta, gli era rimasta ancora la pelle attac¬cata al corpo.

Il garagista si avvicinò. Era un ometto dai capelli neri simili a fili metallici. Sembrava un cagnetto scodinzolante.

— Prendete l'auto? — chiese, pulendosi le mani unte con uno straccio.

Annabel riuscì a mantenersi calma mentre rispondeva affer-mativamente. Ma le costò fatica.

Duffy rimase nella cabina. L'ometto si mosse con sollecitudi¬ne. Dopo un attimo sentirono il rumore di un motore. Dal rumo¬re doveva trattarsi di una grossa auto, pensò Duffy. Poco dopo apparve infatti una grossa Cadillac. Il garagista fermò la vettura proprio davanti ad Annabel. Era una bella automobile.

Il garagista pulì il sedile e tenne la porta aperta per far salire Annabel. Era come se Duffy non fosse nemmeno esistito. L'o¬metto s'era messo a pulire il parabrezza.

Annabel salì e chiuse la portiera. Duffy afferrò il baule e guar¬dò il garagista.

— Datemi una mano — gli disse.

L'ometto era pieno di buona volontà, ma non possedeva altret¬tanta forza. Quando ebbero finito di sistemare il baule nel porta¬bagagli, Duffy era in un bagno di sudore.

— Se ne va? — chiese il garagista, indicando Annabel.

— No — rispose Duffy. — Deve portar via solo dei vecchi libri.

— È piuttosto tardi.

Duffy lo fissò con sguardo duro. Forse quell'ometto non era tanto idiota quanto sembrava.

— Che cosa ve ne importa? — gli chiese secco.

Il garagista sbatté le palpebre sorpreso e mormorò: — Non avevo intenzione di dir nulla di particolare.

Duffy gli passò un paio di dollari; salì quindi in auto a fianco di Annabel. Lei ingranò la marcia e la grossa Cadillac si mosse dolcemente.

— Dove andiamo? — chiese.

Duffy aveva già pensato a dove recarsi.

— C'è un piccolo cimitero nell'East Side, dietro al Greenwich Village — le disse. — Ci rechiamo là.

Lei gli diede una rapida occhiata.

— Un'ottima idea — mormorò.

Duffy si sistemò comodamente sul sedile.

— Sei una ragazza in gamba — mormorò lui. — Questa è la mia giornata nera.

Lei non disse nulla.

— Non ne parlerò più — aggiunse lui — ma non posso lasciare le cose in sospeso. Voglio che tu sappia che ho apprezzato molto quel che m'hai offerto, ma se l'avessi accettato il cadavere, nel frattempo, si sarebbe irrigidito e non avremmo più potuto rimuo¬verlo. Hai più che ragione d'essere arrabbiata con me.

Annabel rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: — Non sono arrabbiata con te. Penso che tu abbia fatto bene a com¬portarti così.

Duffy sospirò e si mise una sigaretta fra le labbra. Era evidente dall'espressione di lei che i suoi sentimenti erano diversi dalle sue parole.

— Non credi che abbiamo già abbastanza guai per nutrire ran¬core fra di noi?

— Non ho alcun rancore io — fu tutto quello che lei disse.

Procedettero in silenzio per i tre successivi isolati.

— Gira a destra — le disse Duffy.

Annabel girò il volante. Duffy pensò che manovrava la grossa Cadillac come se fosse stata parte di lei stessa. La donna calcola¬va la distanza al millesimo e giungeva davanti ai semafori sempre in tempo per riuscire a non fermarsi. Il motore della Cadillac era molto potente. Bastava schiacciare appena l'acceleratore per far¬la balzare in avanti come una freccia.

Quando giunsero davanti al piccolo cimitero erano le due.

— Vacci piano — Duffy redarguì la donna. — È un quartiere molto isolato, ma potrebbe esserci qualcuno in giro.

Annabel fermò la grossa automobile davanti al cancello di fer¬ro. Duffy aprì la portiera e scese. Non scorse alcuna luce nel ci¬mitero. La notte era fonda.

Duffy era lieto di non essere superstizioso. Quel posto era dav¬vero lugubre.

— Rimani qui — disse ad Annabel, che lo guardava appoggia¬ta al finestrino abbassato. — Vado a dare un'occhiata.

Lei s'affrettò ad aprire la portiera e a scendere.

— Qui da sola non ci resto — esclamò.

Duffy non ne fu affatto sorpreso. Si avvicinò al cancello di fer¬ro e lo spinse. Il cancello si mosse, cigolando sui cardini.

— Sali in macchina ed entra dentro a marcia indietro — disse alla donna mentre spalancava il cancello.

Lei salì sulla grossa Cadillac e la mise in moto. Duffy attese che fosse dentro, chiuse il cancello e le fece segno di fermarsi.

Quando Annabel scese dall'auto, stringeva in mano una picco¬la torcia elettrica. L'aria notturna era soffocante e Duffy si passò un dito dentro al colletto. Annabel gli stava molto vicino e Duffy s'accorse che lei tremava quando la sfiorò.

La luna appariva di tanto in tanto fra le grosse nuvole. Sem¬brava che da un momento all'altro si mettesse a piovere.

— Voglio trovare una grossa tomba di famiglia — mormorò Duffy. — Potremmo nascondere il cadavere in uno dei loculi; così passerà molto tempo, prima che lo trovino, se mai lo tro¬veranno.

S'avviò lentamente lungo la stradina del cimitero. Annabel lo seguiva a breve distanza. Le bianche pietre tombali ai lati del via¬letto avevano l'aspetto di tanti fantasmi.

"Che posticino allegro" pensò Duffy.

Avanzando, il buio si fece ancor più intenso e gli alti cipressi stormivano sulle loro teste.

— Un bel posticino, vero? — disse Duffy questa volta ad alta voce.

L'odore pesante dei fiori appassiti gravava nell'aria. La ghiaia del vialetto scricchiolava sotto i loro piedi con un rumore di pe¬tardi per le orecchie di Duffy.

— Vorrei andarmene da qui — sussurrò Annabel. — Questo posto mi terrorizza.

— Invece a me mette allegria! — sbottò Duffy. — Be', credo che potremmo arrischiarci ad accendere la torcia ora. Non do¬vrebbero vederci dalla strada.

Annabel accese la torcia. Il bianco dei marmi scintillò nella notte.

— Quello potrebbe fare al caso nostro — mormorò Duffy mentre il fascio di luce illuminava un grande mausoleo di marmo nero. Si avvicinarono e controllarono la porta. Era chiusa.

— Questa è la nuova casa di Cattley — mormorò Duffy. — Ma come diavolo faremo ad entrare?

Appoggiò la spalla alla porta e spinse; non c'era niente da fare in quel modo.

— Cosa significa quel numero? — chiese Annabel, illuminando una targhetta col numero sette a fianco della porta. Duffy le rispose che non ne aveva la più pallida idea.

— Forse in portineria ci sono le chiavi di questi mausolei.

Duffy ridacchiò.

— Hai avuto una grande idea. Andiamo a dare un occhiata.

La casetta, all'ingresso, era buia e la porta era sprangata; Duf¬fy riuscì ad aprire una finestra e guardò dentro. Scorse una ra¬strelliera con delle chiavi. Scavalcò la finestra ed entrò. Ad ogni chiave era attaccato un cartellino con un numero. Non gli ci volle molto a trovare il numero sette.

— Credo proprio che ci siamo — mormorò ad Annabel. — Cosa ne diresti di portare la macchina davanti al mausoleo men¬tre io provo la chiave?

Lei salì sull'auto che si mosse lentamente all'indietro. Duffy dovette tornare a farle luce con la tòrcia elettrica perché lei uscì di strada almeno un paio di volte. Raggiunsero infine il mausoleo e Duffy provò la chiave. La porta si aprì con un po' di fatica ed una zaffata d'aria greve di odori investì le narici di Duffy.

— Il nostro amico sarà in buona compagnia. — Fu tutto quel che disse.

Si avvicinò alla macchina e mentre Annabel gli reggeva la tor¬cia elettrica, scaricò il baule. Nonostante il peso, riuscì a far tut¬to senza rumore. Si asciugò la fronte col fazzoletto.

— Credo che un buon sorso di whisky mi farebbe proprio bene — mormorò.

— Ce n'è una bottiglietta nel cassetto del cruscotto — disse Annabel.

Duffy si affrettò a prenderla e ne bevve un lungo sorso. Forse era meglio non offrirlo ad Annabel; le faceva uno strano effetto e chissà cosa sarebbe successo se fosse stato costretto a rifiutare le sue offerte amorose ancora una volta.

— Son certo di poter fare qualsiasi cosa, ora! — sbottò lui, mettendosi la bottiglietta del whisky nella tasca posteriore dei pantaloni.

Si tolse la giacca e slacciò la cravatta. Agguantò il baule e prese a trascinarlo all'interno del mausoleo mentre Annabel, sulla por¬ta, reggeva la torcia elettrica.

Duffy riuscì a tirare il baule dentro al mausoleo e si riposò.

— Sarà meglio che tu mi dia la torcia — disse ad Annabel.

Lei parve molto lieta di ubbidirgli.

— Mi vien da vomitare — mormorò.

— Cerca di resistere — le intimò lui con voce dura. — Vai a se¬derti in auto.

Non appena lei si fu allontanata, Duffy aprì il baule e lo rove¬sciò su di un lato. Il cadavere era pressato dentro e non uscì. Duffy fu costretto ad afferrare il telo impermeabile e a tirare. Il telo si lacerò, e Duffy barcollò all'indietro. S'arrestò, trattenen¬dosi con la mano ad una maniglia. Era la maniglia di ferro di una bara. Lasciò subito la presa, il volto che grondava sudore freddo.

Raggiunse l'ingresso e prese una profonda boccata d'aria fre¬sca. Si rimise quindi selvaggiamente al lavoro. Tirò fuori il cada¬vere, sciolse la corda; il cadavere di Cattley si allungò ai suoi pie¬di. Duffy non lo guardò. Raccolse il telo impermeabile dentro al baule e lo trascinò fuori del mausoleo.

Il whisky stava facendo ora il suo effetto. Duffy barcollava un poco, camminando. Tornò dentro a prendere la torcia elettrica, ma fece di tutto per non guardare il cadavere. Chiuse, quindi, la porta della tomba.

Aveva la camicia incollata al petto, e sentiva che le gambe non lo reggevano più. Annabel gli disse da dentro alla macchina: — Stai bene?

Duffy disse di sì, ma soltanto perché aveva bevuto. A dire il vero non si sentiva bene affatto ed avrebbe voluto bere tanto da crollare a terra e dormire, dormire e dimenticare tutto. Troppi avvenimenti erano avvenuti in una sola nottata.

Lei scese dall'auto e si fermò al suo fianco.

— E il baule? — chiese.

— Vicino alla casa del custode, ho notato un rubinetto con una vasca. Lo portiamo là per lavarlo e quindi ce ne torniamo a casa.

Lei se ne rimase seduta sul sedile dell'automobile. Teneva gli occhi chiusi e fumava; se non fosse stato per la sigaretta stretta fra le labbra avrebbe gridato di paura per essere lì sola mentre lui lavava il baule.

Tornando indietro col baule pulito, Duffy preferì preavvertir¬la del suo ritorno, chiamandola da lontano.

— Son io — le disse. — Adesso ce ne possiamo andare.

Lei si sistemò al volante e guidò con calma fino al cancello. Duffy, invece, camminò a lato della grossa auto, aprì il cancello e non appena la vettura fu passata lo richiuse. Salì, sedendosi a fianco di Annabel che partì come un razzo. Duffy appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi.

Quando si trovarono fra le poche auto del traffico notturno, lui sollevò il capo.

— Fammi scendere qui — mormorò. — Me ne vado a casa.

— Ti accompagno io — mormorò lei.

— No.

Lei fermò la vettura.

— Mi dispiace... — cominciò a dire.

— Me ne vado a casa — l'interruppe con fermezza Duffy. Ne aveva avuto abbastanza per quella notte.

Aprì la portiera e scese. Rimase un attimo fermo, tenendo la portiera aperta.

— Devo riprendere quelle foto. Ci rivedremo.

Chiuse la portiera con un colpo violento e ancora una volta vide gli occhi di lei carichi d'odio. Quindi la Cadillac si mise in moto.

Duffy si guardò intorno in cerca di un tassì.

— Penso proprio che quella donna mi detesti — mormorò a fior di labbra mentre un tassì giallo gli si fermava davanti.


4


Duffy abitava in un appartamentino di tre vani all'ultimo piano d'un vecchio palazzo. Il tassista si fermò davanti al portone pro¬prio sotto un lampione; Duffy scese, lasciando la portiera spalan¬cata.

— È questo il portone? — chiese il tassista?.

— Sì.

Il tassista lo guardò.

— Vi siete divertito?

Duffy guardò assente il tassista. Poi si riprese e sbottò: — Non sapete quanto.

— L'immagino — replicò l'altro.

Duffy pagò la corsa e sbatté la portiera così forte che la vettu¬ra vibrò tutta. Il tassista borbottò qualcosa, ma non disse niente. Aveva capito che vento tirava.

Duffy salì barcollando i pochi gradini fino al portone ed ar¬meggiò per tirare fuori la chiave di tasca ed infilarla nella toppa.

— Maledizione, quello scotch era dinamite! — mormorò men¬tre apriva la porta. L'atrio era buio ma lui conosceva bene la stra¬da. Cominciò a salire le scale; l'orologio a muro batté le quattro. Duffy si teneva con una mano alla ringhiera e con l'altra si ap¬poggiava al muro. Doveva salire quattro piani ma c'era ormai abituato. Non appena ebbe raggiunto il suo pianerottolo si fer¬mò. C'era la luce accesa nel suo appartamento, poteva intrave¬derla da sotto la porta.

Due cose gli attraversarono subito la mente: o s'era dimentica¬to la luce accesa o c'era McGuire che lo stava aspettando. S'era completamente dimenticato di lui. Chissà com'era arrabbiato, pensò mentre apriva la porta di casa. La luce lo accecò per qual¬che istante.

Non appena fu ancora in grado divedere, si trovò di fronte adue uomini seduti comodamente di fronte alla porta. Un terzo era vici¬no alla finestra e stava guardando fuori attraverso l'imposta.

Duffy sussultò.

— Ci scommetto che m'avete bevuto tutto il whisky — escla¬mò.

L'uomo che stava guardando fuori si voltò di scatto. Aveva gli occhi da mongolo, una bocca molto grande e il volto sconquassa¬to tipico del boxeur.

Duffy lo guardò e poi volse lo sguardo agli altri due. Il più vici¬no era un piccoletto dalle labbra strette e dagli occhi freddi e du¬ri. Il volto era bianco come il lardo e se ne stava seduto tranquil¬lamente con le mani unite sulla pancia.

L'altro, seduto a destra del piccoletto, era un ragazzo. Aveva sul volto la prima barba ed un colorito rosa come sarebbe piaciu¬to a tante ragazze. Ma il suo aspetto era truce, come quello che si vede sul volto degli attori di film di gangster.

Il piccoletto disse: — Finalmente è tornato.

Duffy chiuse la porta e vi s'appoggiò con le spalle.

— Se avessi saputo che venivate a trovarmi, sarei tornato prima.

Il piccoletto sbottò: — L'avete sentito? Ha detto che se avesse saputo della nostra visita sarebbe tornato prima.

Gli altri due non aprirono bocca.

— Ed ora che siete qui, si può sapere che cosa volete? — chie¬se Duffy.

— Vuol sapere quel che vogliamo — ripeté di nuovo il picco¬letto, facendogli eco.

Le mani di Duffy si contrassero.

— Te l'ha ordinato il dottore di ripeter tutto quello che dico? — sbottò. — I tuoi due amici non sono capaci di capire da soli?

Il piccoletto si accomodò meglio sulla sedia.

— Tu capisci quel che dice, vero Clive? — disse rivolto al ra¬gazzo.

— Insomma, si può sapere che cosa volete?

— Su — mormorò il piccoletto. Ora il suo viso s'era fatto nuo¬vamente impassibile. — Daccela.

— Darvi che? — domandò Duffy.

— L'hai sentito, Clive? Vuol sapere cosa deve darci.

Il ragazzo, Clive, s'avvicinò al piccoletto e gli disse con rabbia: — In questo modo non otteniamo niente. Lascia che Joe se lo la¬vori un po'.

Il gorilla vicino alla finestra fece un passo avanti. Sembrava che si trattenesse con difficoltà. Il piccoletto fece un gesto con la mano.

— Non precipitiamo le cose — mormorò con voce fredda. — Non c'è bisogno di trattarlo male.

Duffy pensò che fossero tutti matti e voleva proprio non aver bevuto tutto quel whisky. Clive s'allontanò d'un passo da quello che sembrava essere il capo del gruppo.

Fu questi a dire ancora a Duffy: — Svegliati, amico. Siamo ve¬nuti a prendere la macchina fotografica.

Duffy si spinse il cappello sulla nuca. Ora capiva cosa volevano. Si avvicinò al mobiletto bar e prese su una bottiglia di whisky.

— Posso offrire? — chiese.

Clive stringeva in pugno una pistola. Duffy la guardò sorpreso, poi disse al piccoletto: — Di' al ragazzo di metter via quell'arne¬se; potrebbe far male a qualcuno.

— Perché dovrei preoccuparmene? — rispose quello.

Duffy disse con voce dura: — Di' al ragazzo di mettersi in tasca lo scacciacani se non vuole che lo prenda a sberle.

Clive emise un lamento strozzato e scattò in avanti. Aveva il volto contratto e sembrava che stesse per scoppiare. Duffy si sen¬tì raggelare.

Il piccoletto ordinò: — Mettila via.

Il ragazzo volse il capo verso di lui lentamente e mormorò a denti stretti: — Io l'ammazzo... l'ammazzo...

— T'ho detto di metterla via — replicò il piccoletto, sorpreso di dover ripetere l'ordine.

Clive rimase un attimo indeciso, poi obbedì. Quindi, all'improvviso, si mise a piangere e si sedette su una sedia, coprendosi il volto con le mani.

Il piccoletto sospirò. Disse rivolto a Duffy: — Hai visto? L'hai ferito nel suo amor proprio...

Duffy scaraventò il cappello sul divano e si passò una mano fra i capelli.

Il gorilla si avvicinò al ragazzo e gli accarezzò la testa. Non aprì bocca; si limitò ad accarezzargli la testa con la sua zam¬paccia.

Il piccoletto si agitò a disagio sulla sedia.

— Non t'ho mica detto niente di male, no? — mormorò. — Non lo dobbiamo uccidere. Così non te l'ho potuto permettere.

— Già, ma non voglio che mi parli in quel modo! — sbottò il ragazzo, togliendosi le mani dal viso.

— Va bene. Te ne chiedo scusa. Cosa vuoi di più? Mi pare d'essere generoso, no?

Clive smise di piangere e lanciò un'occhiata carica d'odio a Duffy. I suoi due compagni parvero ricordarsi di lui solo ora. Il piccoletto chiese al ragazzo come si sentiva e quello gli disse che andava meglio.

— Forza — mormorò il piccoletto a Duffy — che stiamo per¬dendo tempo.

— Mi dispiace. Credevo che avessimo l'intenzione di farci una bella bevuta tutti insieme.

Il piccoletto ridacchiò, ma smise di colpo; guardò Duffy con un'espressione che non prometteva niente di buono.

— Dacci la macchina fotografica; dobbiamo andarcene.

Duffy s'accese una sigaretta, sbuffò una voluta di fumo verso il soffitto ed esclamò: — Non ce l'ho. Si sarebbe sentita volare una mosca nella stanza.

— Sentimi bene, amico — mormorò quello che sembrava il ca¬po. — Siamo venuti per prendere la macchina fotografica ed è solo con quella che ce ne andremo.

— Non ci posso far niente — rispose Duffy, alzando le spalle — Vi ripeto che non ce l'ho.

Fu il ragazzo a parlare.

— Te l'avevo detto che non c'è niente da fare con questo ba¬stardo.

Duffy si allontanò dal muro. Guardò lentamente attorno a sé nella stanza senza mai perdere di vista i tre che lo fissavano.

— Sta' attento, ragazzino — disse rivolto a Clive — se no fra non molto avrai bisogno di metterti la dentiera in quella tua boc¬cuccia.

Clive guardò il piccoletto.

— Lascia che Joe gli dia una lezione — disse tutto eccitato. — Forza, pesta quel figlio d'un cane!

Duffy gli era abbastanza vicino ora. Sembrava che stesse guar¬dando con attenzione qualcosa.

— Non chiamarmi a quel modo — sbottò e alzò con rapidità sorprendente il destro, colpendo Clive alla bocca. Senza gli altri due forse avrebbe potuto farcela contro il gorilla, pensava Duffy.

Clive finì a terra trascinando con sé nella caduta la sedia. Ri¬mase a terra con le mani strette al volto.

Gli altri due erano troppo sorpresi per muoversi. Duffy colpì il piccoletto in pieno naso. Non aveva potuto regalargli un cazzotto a regola d'arte, ma fu sufficiente per farlo volare a terra se¬dia compresa. E là rimase senza muoversi.

Duffy si mise in guardia pronto a ricevere l'attacco del gorilla il quale dopo aver dato un'occhiata ai suoi due amici, sorrise guar¬dando Duffy e mormorò scoprendo dei denti bianchi e sorpren¬dentemente piccoli: — Ah... finalmente potrò darti quel che ti meriti!

Duffy indietreggiò. Non ce l'avrebbe mai fatta contro quel co¬losso che stava avanzando con la guardia ben chiusa. Era un pu¬gile, un tipo abituato a combattere. Duffy s'arrestò, sentendo il muro alle sue spalle ed allo stesso tempo vibrò un destro. Fu ben portato, ma il gorilla si limitò a muovere un poco il capo e il pu¬gno di Duffy andò a vuoto.

Il gorilla colpì allora Duffy proprio sotto il cuore. Parve a Duffy che la casa gli fosse crollata sulla testa. Si sentì cadere a terra, ma riuscì a stringere in una morsa il gorilla per non per¬mettergli di colpirlo nuovamente. Era evidente che Joe avrebbe potuto liberarsi dalla stretta e colpirlo ancora. Gli diede invece il tempo di riprendersi e gli disse ridendo: — Un bel colpo, ve¬ro?

Duffy lasciò la presa, fece un passo indietro per rimettersi in guardia ma inciampò in un tavolinetto e riuscì a malapena a non finire a terra. Joe venne avanti, scartò il pugno di Duffy, e lo col¬pì alla tempia e Duffy finì a terra vicino al piccoletto che s'era nel frattempo ripreso e che, tirata fuori la pistola, lo colpì al ca¬po con il calcio.

Duffy si raggomitolò su se stesso senza gridare. Si morse le lab¬bra fino a farle sanguinare, ma non gridò. Si sentì quindi rove¬sciare lo stomaco e vomitò.

Il piccoletto voltò il capo disgustato.

— Così adesso vediamo cosa ha da dire — sbottò Clive.

I tre si raggrupparono intorno a Duffy steso a terra. Il piccolet¬to si passava al mano sul naso dove aveva ricevuto il pugno. Clive era inginocchiato a terra con le labbra gonfie. Con la punta della lingua poteva sentire che i denti davanti ballavano. Joe se ne sta¬va immobile, in piedi, con le braccia penzoloni e sembrava un ca¬ne al quale è stato portato via il suo osso.

Duffy alzò lentamente il capo. Aveva il volto luccicante per il sudore. Si sentiva male, ma cercava di tener duro. Un rivolo di sangue gli colava dall'angolo della bocca. Ne sentiva il gusto sala¬to in gola.

Il piccoletto disse: — Dacci la macchina fotografica.

Duffy non aprì bocca; non si fidava della sua voce. Si limitò a fissare il piccoletto con uno sguardo carico d'odio.

— Non ne hai avuto ancora abbastanza? — mormorò quello. Fece un cenno con la mano a Joe. — Rabboniscilo un po'.

Joe sorrise. Doveva proprio divertirsi. Allungò una mano ed afferrò Duffy per la camicia. Lo tirò su come uno potrebbe to¬gliere un tappo da una bottiglia. Un lamento di dolore uscì dalle labbra di Duffy. Joe lo colpì con un ceffone a mano aperta in pieno viso.

Joe sbatté le palpebre.

— Hai visto cosa mi voleva fare? — disse, ridacchiando rivolto al piccoletto, il quale commentò: — Sì, è un tipo molto combat¬tivo.

Duffy cercò di colpire Joe con un debole pugno, che non avrebbe fatto male ad un bambino. Il gorilla sbottò: — Fatti fur¬bo, bel giovane! Non faresti male ad una mosca.

Il piccoletto gli disse: — Sbattilo un po', Joe. Non abbiamo più molto tempo.

— Certo — rispose Joe. Tenne Duffy a distanza di un braccio e allungò il destro. Duffy poteva scorgere il pugno arrivare rapido e potente come una locomotrice, ma non poté far nulla per evi¬tarlo. Un lampo esplose nel suo cervello, e lui vide le stelle e l'ar¬cobaleno. Avrebbe voluto lasciarsi andare ma qualcosa lo faceva star su.

— Non così forte — disse il piccoletto e la sua voce giunse a Duffy come da molto lontano.

— So quel che vuoi — disse il gorilla e mollò una scarica di cef¬foni al malcapitato Duffy.

Il piccoletto mormorò rivolto a Clive: — Se ti si rivolta lo sto¬maco, puoi girarti dall'altra parte.

Clive rispose: — Sto benissimo. Vorrei essere grande e grosso come Joe.

Il piccoletto gli batté una mano sulla spalla.

— Io no — commentò.

Quando Joe fu stanco, disse: — Proviamo a vedere se si decide a parlare.

Il piccoletto fece di sì col capo.

Joe mollò Duffy che si afflosciò a terra come uno straccio. Il piccoletto gli si inginocchiò accanto.

— Furbastro, dov'è la macchina?

Duffy mormorò qualcosa, ma le sue labbra erano così gonfie che il piccoletto non poté capire.

— Stendilo sul divano, Joe; dobbiamo svegliarlo un poco.

Joe agguantò Duffy per un braccio, lo trascinò fino al divano e ve lo sistemò sopra.

— Prendi dell'acqua ed un asciugamano, Clive — ordinò il pic¬coletto.

Clive si recò nel bagno. Duffy se ne stava immobile con gli oc¬chi chiusi e respirava a fatica.

Joe s'avvicinò al mobiletto bar, si versò del whisky in un bic¬chiere e ingollò il liquore in un solo sorso. Si batté, poi, un pugno sul petto.

Clive uscì dal bagno portando con sé un asciugamano bagna¬to. Il piccoletto tese le mani verso di lui, ma Clive fece di no col capo.

— Faccio io — disse.

— Bene, bene... l'hai sentito Joe? — mormorò il piccoletto sorpreso. — Clive vuol fare da solo.

Clive si inginocchiò accanto a Duffy e gli pulì il viso con l'a-sciugamano. Duffy lo guardò attraverso le palpebre gonfie. Poi Clive posò le mani sulle guance di Duffy e gli piantò le unghie nella carne.

Il piccoletto s'avvicinò di fretta e tirò via Clive che aveva la ba¬va alla bocca.

— Questo per insegnargli a fare il furbo con me! — sbottò il ragazzo con voce isterica.

— Avresti potuto romperti le unghie — disse il piccoletto con tono di rimprovero. — Non è questo il modo di fare.

Duffy riuscì a tirarsi su ed appoggiò i piedi sul pavimento. Joe, che lo guardava, disse con ammirazione: — Non è coraggioso?

Gli altri due si voltarono a guardare. Il volto di Duffy era una maschera di sangue. Appoggiò le mani al divano e si alzò in pie¬di. Barcollando si diresse verso Clive che si nascose in fretta die¬tro al piccoletto.

Joe gli sbarrò il passo.

— Sei ancora in cerca di guai?

Duffy cercò di allungare un pugno a Joe che lo colpì alle co¬stole. Duffy spalancò la bocca e cadde sulle ginocchia.

In quell'attimo il telefono cominciò a squillare. I tre trasaliro¬no e guardarono l'apparecchio.

— Questo non ci voleva.

I tre rimasero immobili fino a che il telefono non ebbe finito di squillare. Joe tirò su Duffy e lo accomodò di nuovo sul divano.

— Fagli riprendere conoscenza — gli disse il piccoletto.

Joe afferrò Duffy per le orecchie e gliele tirò fino a che Duffy non cominciò ad agitarsi per liberare il capo dalla presa.

— È sveglio — borbottò Joe.

Il piccoletto si avvicinò a Duffy.

— Forza, canta! Dove hai messo quella dannata macchina fo¬tografica?

— Qualcuno me l'ha presa — mormorò Duffy più di la che di qua.

Il piccoletto fece un balzo indietro.

— Maledizione! Avete sentito quel che ha detto? Qualcuno gliel'ha presa. Il nostro amico dev'esser matto per aver resistito tanto.

Il telefono squillò di nuovo. Clive disse all'improvviso: — For¬se è il signor Morgan.

Il piccoletto disse: — Sta' zitto. — E guardò Duffy il quale era immobile con gli occhi chiusi, ma aveva sentito. Il piccoletto esi¬tò; poi si avvicinò al telefono e sollevò la cornetta: — Pronto? — disse con voce tesa.

Rimase qualche istante in ascolto e poi rispose: — Avete sba¬gliato numero, amico. — E riattaccò. Scosse il capo. — Era uno che cercava il nostro amico. Cosa ne diresti, Joe, di provare an¬cora a farlo cantare?

Clive fece un passo avanti.

— Perché non lo bruciacchiamo un po'? — chiese. — In que¬sto modo si perde meno tempo.

Il piccoletto guardò Joe.

— Credi di farcela a sciogliergli la lingua una buona volta?

Joe ridacchiò.

— Sì — rispose. — Dammi solo un po' di tempo. Il nostro amico pensa che stiamo scherzando.

Duffy cominciava a riprendersi un poco.

— Un momento — mormorò. — Perché non credete a quel che vi dico? Qualcuno mi ha preso la macchina prima di lasciare la casa della donna. Sono appena tornato. Non ce l'ho con me, lo vedete, no?

Il piccoletto posò la mano sul braccio di Joe.

— Forse dice la verità.

Joe scosse il capo.

— Quello lì non direbbe la verità neppure a un prete.

Il piccoletto diede un'occhiata all'orologio sul caminetto.

— Guarda l'ora — mormorò.

Clive intervenne.

— Son tutte chiacchiere... Sono tutte chiacchiere... — ripeté.

— Ma se non ha la macchina, cosa possiamo farci? — disse il piccoletto.

Duffy si tirò su a sedere con grande fatica. Si passò lievemente le mani sul volto sfigurato. Lì vicino, sul bracciolo del divano, era posato un grosso portacenere. Duffy lo afferrò, e con la poca forza rimastagli riuscì a scagliarlo contro la finestra che andò in frantumi con grande fracasso. Alcuni pezzi di vetro finirono nella strada sottostante.

Il piccoletto sbottò: — Furbo l'amico, eh?

— Andiamocene prima che venga la polizia — sbottò Clive preoccupato e corse verso la porta.

— Sì, è meglio che ce ne andiamo — disse il piccoletto, se¬guendolo. E dalla porta aggiunse: — Ciao, amico; ci rivedremo, non temere.

Joe colpì Duffy alla tempia. Il povero Duffy cadde dal divano e giacque a terra privo di sensi. In quel momento il piccoletto mise dentro la testa dalla porta:

— Forza, Joe; andiamocene, se non vogliamo farci incastrare dai piedipiatti.

Duffy rimase a terra raggomitolato su se stesso. I tre gangster se n'erano andati già da un po' quando prese a singhiozzare de¬bolmente.


5


Una voce disse: — Che ragazzo in gamba!

Duffy cercò di aprire un occhio gonfio per vedere di chi si trat¬tava. Una figura confusa torreggiava su di lui. Avrebbe potuto essere nuovamente Joe; chiuse l'occhio.

— Bill!

Ma quello non era Joe; dalla voce si sarebbe detto che fosse McGuire. Duffy mosse con gran fatica la testa.

— Sei arrivato un po' in ritardo — mormorò con una smorfia di dolore.

McGuire esclamò: — Santi numi! com'è che ti sei conciato?

Duffy si limitò a rispondergli: — Dammi il tempo di riprender¬mi un poco.

McGuire era così sconvolto da non saper cosa fare. Si guardò attorno, osservò i mobili rovesciati, le macchie di sangue contro il muro.

— Ma cosa è mai successo? — mormorò più a se stesso che a Duffy.

McGuire diede un'altra occhiata all'amico e poi andò in ba¬gno. Trovò una piccola bacinella ed un asciugamano. Riempì la bacinella d'acqua tiepida e tornò vicino a Duffy.

— Forza... cercherò di rimetterti un po' in sesto.

McGuire gli lavò la faccia con molta cura.

— Ehi, fa' attenzione al mio naso! — esclamò Duffy.

— E hai il coraggio di chiamarlo naso? — ribatté McGuire.

Non appena ebbe finito di togliergli dal viso tutto il sangue rag¬grumato, portò la bacinella nel bagno per cambiare l'acqua. Dentro di sé bruciava di una rabbia profonda. McGuire era uno di quelli che hanno pochi amici, ma quando ne hanno uno, gli so¬no devoti per tutta la vita. Lui e Duffy avevano spesso litigato e discusso fra di loro, ma bastava che qualcuno si mettesse contro uno dei due, perché l'altro fosse pronto a difenderlo.

Riempì di nuovo la bacinella e tornò nella stanza. Duffy si era steso sul divano.

— Invece di stare lì a farmi bello, dammi qualcosa da bere.

McGuire posò la bacinella sul tavolo.

— Hai ragione — esclamò. — Questa faccenda m'ha scombus¬solato un po'. — Si avvicinò al mobiletto bar e versò del whisky in due bicchieri. Ne portò uno a Duffy e gli resse la testa per farlo bere. Duffy gli strappò il bicchiere di mano.

— Cosa diavolo fai? Vuoi che non sia nemmeno capace di bere il mio whisky?

Si sentirono meglio entrambi dopo aver bevuto. McGuire dis¬se: — È stata qualche donna a conciarti a quel modo?

Duffy posò il bicchiere e si mise a sedere. McGuire lo guardò.

— Come va?

— Bene.

— Però potresti rimanere ancora disteso, non ti pare?

Duffy, per tutta risposta, cercò di mettersi in piedi ma barcol¬lò, e se non fosse stato per McGuire sarebbe finito a terra.

— Mi sto rammollendo — mormorò Duffy col viso madido di sudore.

McGuire lo fece stendere sul divano e gli intimò con voce seve¬ra: — E adesso te ne stai qui tranquillo.

Duffy si sentì subito meglio. McGuire gli versò un secondo whisky; Duffy ingollò anche quello e sentì che le forze gli stava¬no tornando.

— Cosa ne diresti di dirmi cosa è successo?

— Certo. Mi sono scontrato con tre bulli che m'hanno concia¬to così.

McGuire scosse il capo.

— Vuoi che chiami la polizia?

— Non è roba da piedipiatti.

— Va bene; cosa posso fare, allora?

— Che ora è?

— Quasi le dieci.

Duffy mormorò: — Che notte!

McGuire si avvicinò al telefono e alzò la cornetta. Duffy rima¬se a guardarlo incuriosito. Sentì McGuire che diceva: — Sono Sam, tesoro. — Poi, dopo una breve pausa, continuò. — Questo matto s'è cacciato nei guai. Dovresti vedere com'è conciato. Irri¬conoscibile. Sì, tre tizi l'hanno picchiato. Be', non credo che sia in condizioni di aver cura di sé; lo porto a casa nostra. Prepara il letto degli ospiti. — Rimase un attimo in ascolto. — Subito — disse poi. E attaccò.

Duffy s'affrettò a dire: — Se credi di potermi mollare nelle grinfie di tua moglie...

— Smettila — sbottò McGuire spazientito. — Farai come ti di¬rò. Che tu decida di venire con le buone o con le cattive.

— Va bene — borbottò Duffy.

Non fu certo facile per McGuire trasportare l'amico a casa sua. Il tassista si interessò in modo particolare all'aspetto di Duffy. Aiutò McGuire a farlo scendere dalla macchina e l'accompagnò fin sulla porta di casa.

Alice li stava aspettando sul pianerottolo del terzo piano. Era una ragazza alta, dai capelli neri; la pelle olivastra le dava un aspetto lievemente esotico. Aveva gli occhi spaventati.

Quando vide Duffy si portò una mano alla bocca. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Ma non avrebbe mostrato oltre i propri sentimenti.

— Bill Duffy! — esclamò — che cosa ti è successo?

McGuire disse: — Una rissa da ubriachi!

Duffy cercò di sorridere ma non ci riuscì. Mormorò allora: — Questo è niente. Avreste dovuto vedere quando ho tentato di mettere k.o. Dempsey.

— Gli manca proprio una rotella — disse Alice, mentre lo prendeva sottobraccio. — Svelto, Sam; portiamolo dentro.

— Sarà un vero piacere — rispose McGuire. — Da come si ap¬poggia a me, si direbbe quasi che non si regga in piedi.

Lo portarono dentro al loro piccolo appartamento. Un piace¬vole appartamentino di quattro vani, luminoso e comodo. Tutto era pulito ed in ordine; ovunque si vedeva la mano di quella don¬na. Duffy non ne aveva mai fatto mistero: se non fosse stato McGuire a sposare Alice, l'avrebbe chiesta lui in moglie. Erano sempre stati amici loro tre.


Dopo che McGuire l'ebbe spogliato ed infilato sotto le co¬perte, il dolore cominciò ad attenuarsi. Alice gli aggiustò il guan¬ciale.

McGuire diede un'occhiata all'orologio.

— Lascialo dormire, ora — disse ad Alice. — Io devo andare m ufficio. Tienti alla larga da lui. Se vuol fare il furbo chiama un agente — mormorò sorridendo. Quindi rivolto a Duffy, disse: — Riposati, amico. Scamberemo quattro chiacchiere più tardi.

Duffy sbottò: — Ti ruberò tua moglie.

Alice e Sam si scambiarono un'occhiata. Duffy li guardò con occhi lucidi. Era proprio una bella coppia. Socchiuse gli occhi; gli costava troppo riaprirli e rimase con le palpebre abbassate.

Alice lo guardò.

— Cosa gli sarà successo? — chiese sottovoce al marito.

McGuire cinse le spalle alla moglie col braccio ed i due lascia¬rono la stanza.

— M'ha detto che tre tizi l'hanno aggredito — mormorò McGuire alla moglie. — Non appena si sarà ripreso, ci faremo dire qualcosa di più. Tornerò presto questa sera.

McGuire tornò nella stanza da letto, da Duffy.

— Cerca di dormire — gli intimò.

— Senti, Sam. — Duffy sollevò il capo sul guanciale. — Ho bi¬sogno di sapere tutto quel che puoi scoprire sul conto di una certa Annabel English e di un certo Daniel Morgan. Cerca di sapere an¬che chi lavora per lui, e tutto quello che puoi sul conto di Cattley.

McGuire tirò fuori un taccuino e scrisse i nomi.

— Va bene. Non ci capisco niente, ma farò come vuoi tu. Ora riposati.

La sera, quando McGuire tornò, Duffy dormiva ancora.

Alice lo informò subito che aveva riposato tutto il giorno.

— Era il meglio che potesse succedergli. Cosa ne dici di man¬giare?

Mentre Alice preparava la tavola, Duffy si svegliò. Si infilò una vestaglia ed entrò nel soggiorno. Il suo aspetto era assai peg¬giore di come egli si sentiva.

Alice gli intimò: — Bill Duffy, torna subito a letto.

— Vorrei proprio che voi due la smetteste di sgridarmi — mor¬morò Duffy, sedendosi in una poltrona. — Mi sento bene. Cosa ne diresti, Sam, di bere qualcosa?

Gli altri due si guardarono disarmati.

— Non c'è speranza con te — disse Sam mestamente. — La cosa migliore è che te ne torni a letto.

Duffy fece di no col capo.

— È meglio che voi due facciate attenzione. Dopo l'allena¬mento della scorsa notte, non mi ci vuol niente a fare il duro.

McGuire sistemò la discussione, tirando fuori una bottiglia di rum, uno spremilimone, dei limoni freschi ed una bottiglia d'as¬senzio. Si mise a preparare un Bacardi Crusta.

— Fallo ben forte — lo ammonì Duffy. — Voglio tirarmi su di giri questa sera.

Alice aggiunse: — È tutto il giorno che non aspetto altro.

— Mia moglie è una terribile ubriacona — mormorò Sam.

— Lo dici a me? — Duffy si alzò per guardarsi la faccia nello specchio. Fece una smorfia e si sedette di nuovo. — Mi ricordo, prima che tu la conoscessi, che una volta andò su di gin a tal pun¬to che per tenerla ci vollero dieci piedipiatti.

Sam versò gli ingredienti nello shaker.

— Storie vecchie — disse. — Non sai com'è ora. Dalle un po' di rum, e poi ci vuole un intero esercito per tenerla.

— Quando avrete finito di divertirvi alle mie spalle — mormo¬rò Alice — venite in cucina che è pronto da mangiare.

I due uomini la seguirono. Duffy camminava lentamente fa¬cendo ben attenzione a non inciampare. Sam stringeva in mano il grosso shaker.

Si sedettero a tavola. Duffy mangiò con difficoltà, ma man¬giò. Parlarono del più e del meno fino alla fine del pranzo. Sia Alice sia Sam bruciavano dalla curiosità, ma lasciarono che fos¬se Duffy a cominciare. Alice si sedette sul bracciolo della poltro¬na di Duffy, e McGuire se ne stette in piedi davanti al caminetto spento.

— Mi dispiace avervi tenuto sulle spine fino ad ora — comin¬ciò Duffy — ma sarà meglio che cominci dal principio; poi scenderò nei particolari. — Raccontò loro tutto: come aveva in¬contrato Morgan, come aveva accettato di fare le foto per lui, parlò di Annabel, del cadavere di Cattley ed infine dei tre gangster.

Quando ebbe finito, ci fu un lungo silenzio. Fu McGuire a in-terromperlo.

— Questa volta ti sei cacciato proprio in un guaio serio.

— Mi ci son messo e non ho nessuna voglia di uscirne finché non avrò chiarito tutto.

Alice si passò una mano fra i lunghi capelli neri.

— So che sarebbe meglio che io non dicessi niente, ma non credi, Bill, di aver già fatto abbastanza?

Duffy si passò la punta delle dita sulla faccia; i suoi occhi erano freddi.

— Nessuno può permettersi di trattarmi in questo modo senza ricevere poi i miei ringraziamenti.

Alice si avvicinò al caminetto. Abbassò lo sguardo su Duffy; i suoi grandi occhi scuri erano tristi.

— Voi uomini siete tutti uguali — mormorò con un tono di vo¬ce un poco amareggiato.

Duffy guardò Sam.

— Lasciamo un attimo da parte queste considerazioni. Dimmi cos'hai scoperto sul conto di Annabel English.

Sam stava riempiendo la pipa.

— Quella donna si caccerà in brutti guai uno di questi giorni — mormorò, cercando i fiammiferi. — Uno di questi giorni qual¬cuno dei polli che spenna la sistemerà.

— Ho bisogno di fatti — sbottò Duffy — e non di considera¬zioni moralistiche.

— Be', in breve: è la figlia di Edwin English. Suppongo che l'avrai già immaginato da te.

Duffy sembrò sorpreso.

— No — disse serio. — Ci avrei dovuto pensare, ma non l'ho fatto.

— Vuoi dire Edwin English, l'uomo politico? — chiese Alice.

Sam fece di sì con la testa.

— Sì. Annabel è la pecora nera della famiglia. English ha in¬trapreso una campagna politica anti-vizio. Annabel è la sua gros¬sa spina. Circa tre anni fa, decisero di vivere separatamente. Il vecchio le ha messo su una bellissima casa e le passa una ricca rendita purché viva tranquilla senza creare scandali che danneg¬gerebbero la sua carriera politica.

— Non mi piacerebbe essere nei suoi panni con una figlia co¬me quella — mormorò Duffy.

Sam acconsentì.

— Proprio così. La ragazza è una ninfomane.

— Non ti pare di esagerare? — chiese Alice.

— Esagerare? — sbottò Duffy. — Ma se c'è mancato poco che quella... — S'interruppe, cambiò idea e mormorò: — T'assicuro che non è esagerato affatto.

— Il vecchio sta sempre all'erta, e così pure i suoi avversari politici che sperano soltanto che la ragazza susciti qualche scan¬dalo dal quale loro possano trarre vantaggio.

— C'è altro?

Sam scrollò le spalle.

— Be', particolari insignificanti. In questi due ultimi anni, suo padre ha dovuto spendere un bel po' di quattrini per tenere il no¬me della ragazza lontano dalla cronaca scandalistica dei giornali. Lei frequenta tutti i locali più malfamati della città. È stata fidan¬zata due o tre volte con tipi equivoci. Non è affatto quella che si potrebbe dire una brava ragazza.

— Non so perché, ma l'avevo immaginato — mormorò Duffy.

— Ora che sai tutto questo — disse Alice con voce calma — non farai più niente per lei, no?

— Sei una brava ragazza — disse Duffy e, alzatosi, le si av¬vicinò. — Non ti preoccupare tanto. Non m'importa che tipo sia quella donna; sono stato io a mettere in moto tutta questa danna¬ta faccenda. Sono stato così idiota da accettare di fare le foto, e ora le voglio riprendere.

Alice sospirò.

— Son sempre le donne che meno se lo meritano ad avere l'aiuto degli uomini. Suppongo che debba essere facile ingannare un uomo come si deve.

Duffy e Sam si scambiarono una rapida occhiata.

— Smettila, Alice — le disse Sam con voce garbata. — Sai co¬m'è fatto Bill.

Alice si sforzò di sorridere.

— Scusatemi — mormorò con un filo di voce, e si sedette nella poltrona. Duffy si sistemò sul bracciolo.

— E cosa ne sai di Morgan?

Una densa voluta di fumo uscì dalle labbra di Sam.

— Be', quel Morgan è inafferrabile. Deve aver qualcosa a che fare con una catena di night-club. A mio avviso è uno dei pezzi grossi che governa la malavita della città. Comunque, tutto quel che si sa su di lui sono soltanto voci. Quelli della centrale di poli¬zia lo conoscono, ma non hanno potuto mai fargli niente. Però ci sperano sempre. Morgan è pieno di quattrini, ha una casa princi¬pesca e ha della gentaglia alle sue dipendenze.

— Se Morgan è un tipo del genere, è chiaro che cosa intende fare di quelle foto. Gli serviranno per ricattare il vecchio English e per farlo stare buono.

Sam fece di sì.

— Sì. Sarebbe un colpo gobbo per Morgan se potesse mettere le briglie ad English.

— E di Cattley cos'hai saputo?

— Be', poco più di quel che tu non sappia già. Contrabbando e spaccio di droga, favoreggiamento della prostituzione e tratta delle bianche. Un fatto è certo: in questi ultimi tempi guadagna¬va un mucchio di quattrini. È salito in alto dai tempi in cui lo co¬noscevamo noi. Fa, o meglio faceva, tutto su larga scala. I piedi¬piatti non sono riusciti a mettergli le mani addosso, ma lo teneva¬no d'occhio.

— Si noterà la sua assenza?

Sam alzò le spalle.

— No, a meno che qualcuno che lo conosce non si preoccupi e non denunci la sua scomparsa alla polizia; il che non è molto pro¬babile.

— Grazie per le informazioni — mormorò Duffy. — Ma non so da che parte cominciare.

— Se fossi in te, Bill, me ne starei calmo per un po'.

Duffy scosse il capo.

— Devo rimettere le mani su quelle foto ed al più presto possi¬bile.

— Non potrebbe averle Morgan? — intervenne Alice.

— No. Quelli che m'hanno picchiato erano i suoi uomini. No, sembrerebbe che ci sia stato l'intervento di una terza persona. Fi¬no a quando non verrà trovato il cadavere di Cattley, le cose re¬steranno tranquille.

— Non corri il rischio di venire implicato anche tu? — chiese Alice, preoccupata.

— Mi sono trovato in situazioni peggiori — mormorò Duffy.

Sam si alzò da tavola e portò i piatti in cucina, Alice lo seguì. Rimasto solo Duffy si stirò lentamente per saggiare lo stato del proprio corpo. I muscoli gli dolevano in modo bestiale; con una smòrfia cercò di rilassarsi al massimo. Pensò con rabbia a Mor¬gan e con spirito di vendetta a quei tre maledetti che l'avevano ri¬dotto in quello stato. Pensò anche ad Annabel. Si avvicinò al te¬lefono, sollevò il ricevitore e compose un numero dopo aver con¬sultato l'elenco telefonico. Riconobbe subito la voce di lei.

— Sono Duffy.

— Avete le foto? — domandò Annabel con voce ansiosa.

— Senti, bellezza — sbottò lui. — Non hai la più pallida idea di quel che è successo questa notte.

— Cosa?

— Prima di tutto, Morgan non ha le foto. Secondo, è ansioso di averle. Stanotte quando sono arrivato a casa c'erano tre dei suoi uomini ad aspettarmi e m'hanno pestato perché non avevo la macchina fotografica.

Lei rimase in silenzio per un po', poi disse: — Ma chi ce l'ha, allora?

— Non lo so — dovette ammettere lui. — Secondo me, è un piano ideato contro tuo padre. Ma perché non m'hai detto subito chi eri?

— Be', chi sono?

— Sei la figlia di Edwin English.

— Preferisco dire che sono Annabel English.

Duffy non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

— Ho avuto modo di apprendere qualcosa sul tuo conto. Non sei tanto turbolenta, dopotutto.

— Davvero? — La sua voce era molto fredda.

— Comunque, credo che sarà meglio che tu te ne stia calma per un po'. Anzi, la cosa migliore sarebbe che tu te ne andassi dalla città per qualche tempo.

— Non ci penso nemmeno — replicò Annabel in tono deciso.

— Va bene. Ma d'ora innanzi sta' attenta a quel che fai.

— Quand'è che ci vediamo?

— Prima di quanto tu creda — disse Duffy e riattaccò.


6


Gli ci vollero due lunghi giorni per rimettersi a malapena in se¬sto. Infine, Sam e Alice furono costretti a lasciarlo andare.

Con un nuovo abito, il volto ancora pieno di lividi, Duffy uscì in strada seguito da Sam.

— Ho la netta sensazione — gli disse l'amico — che ti caccerai ben presto in grossi guai.

Duffy camminava speditamente.

— Non capisci niente — ribatté secco Duffy. — Mi sento mol¬to bene e non mi andrò a cacciare in nessun guaio.

Sam gli si mise di fianco.

— Ma si può sapere perché hai tanta fretta? Hai forse un ap-puntamento?

— No. Ma devo riabituarmi a muovere le gambe. Su, cam¬mina.

— Non m'hai detto dove vuoi andare.

— Prima voglio andare a casa mia. Poi dovrò trovare qualche informazione su Cattley.

— Ma perché t'interessa tanto Cattley?

— Non lo so di preciso. Ma è evidente che, comunque, sotto tutta questa storia c'è Cattley. Devo scoprire perché è stato ucci¬so. Allora saprò anche chi è il suo assassino e quando l'avrò sco¬perto, avrò trovato pure la mia macchina fotografica.

Sam s'arrestò all'angolo.

— Non ti posso correr dietro per la città tutto il giorno. Devo andare al lavoro. Ci vediamo questa sera; vieni da noi a cena, non è vero?

— Senti, Sam: tu e Alice siete tanto cari. Ma voglio che rima¬niate fuori da tutta questa faccenda. Non voglio che vi occupiate più di me. Chiaro?

— Già, sei proprio un grande egoista. Vuoi divertirti da solo e noi due dovremmo restarcene in disparte a metterti i cerotti. Sentimi bene: ci sono dentro anch'io con te in questa faccen¬da.

Duffy sorrise. Gli faceva ancora male, ma sorrise lo stesso.

— Va bene, verrò questa sera.

Sam sembrò soddisfatto.

— Va bene; allora siamo d'accordo.

Duffy rimase a guardare Sam che s'allontanava e poi si mosse fra la gente.

Quando ebbe raggiunto il suo appartamento, fu lieto di vedere che era stato rimesso in ordine. Sul muro si vedevano ancora del¬le pallide macchie. Fece un giro per la stanza, controllando ogni cosa con cura.

Tornò quindi nel soggiorno. Si sedette sull'orlo del tavolo e si mise a pensare.

Cattley doveva pur avere abitato da qualche parte. Duffy sfo¬gliò l'elenco telefonico e non gli ci volle molto a trovarlo. Fece il numero. Non rispose nessuno.

Scese di nuovo in strada e fermò un tassì di passaggio. Diede l'indirizzo al tassista, un grosso irlandese.

Dopo un po' vide attraverso il finestrino posteriore che una grossa Packard li seguiva a poca distanza.

— C'è un uccellino che ci sta dietro — disse al tassista. — Mi rende nervoso.

— Non preoccupatevi, ci penso io a farlo volar via — rispose il grosso irlandese.

Duffy gli diede cinque minuti di tempo, ma la Packard era sempre dietro.

— È troppo potente.

— Che cosa volete che faccia, capo?

Duffy gli allungò qualche dollaro.

— Vedi di rallentare di fronte al primo bar in modo che io pos¬sa scendere al volo. Se quelli ti fermano, di' loro che non sapevi dov'ero diretto.

— Come al cinema, eh?

— Già, come al cinema.

L'autista schiacciò all'improvviso il freno; Duffy fu pronto ad aprire la portiera e a scendere. Rimase sul marciapiede a guarda¬re il tassì che si allontanava. La Packard rallentò, sembrò che il suo autista fosse incerto; riprese quindi velocità e sparì oltre l'angolo d'una traversa.

Duffy non poté vedere chi si trovava a bordo. Chiamò un altro tassì e disse all'autista di mettersi in moto e solo quando fu ben sicuro che la Packard non lo seguiva più, gli diede l'indirizzo.

L'appartamento di Cattley si trovava al secondo piana d'un grosso palazzo. Duffy preferì salire per la scala. Sulla porta c'era una piccola targa metallica col nome di Cattley. Duffy suonò il campanello. Nessuno rispose.

Suonò una seconda volta e, mentre aspettava, sentì l'ascenso¬re che saliva. Si allontanò rapidamente dalla porta e salì fino al terzo piano.

Udì il cancello dell'ascensore che s'apriva al secondo piano e, sporgendo un poco il capo, poté scorgere una donna davanti alla porta dell'appartamento di Cattley. Non poteva vederla in viso, ma non gli ci volle molto tempo a riconoscerla.

— Salve, bellezza! — esclamò, entrando nell'appartamento subito dopo di lei.

La donna rimase immobile e quindi si voltò di scatto. Aveva il volto teso.

— Mi hai spaventata.

Duffy non poté fare a meno di pensare che lei aveva i nervi di acciaio.

— Lieto di rivederti — disse Duffy.

Annabel English lo fissava intensamente. Posò quindi una ma¬no sul suo braccio.

— La tua faccia! — mormorò. — Ma cosa ti hanno fatto?

Duffy si sfiorò il viso con la punta delle dita e disse sorriden¬do: — T'ho raccontato che dei tizi m'hanno gonfiato la faccia, vero?

— Ma è tremendo — mormorò lei, avvicinandoglisi. — Devo¬no averti fatto molto male.

Duffy alzò le spalle.

— Lasciamo perdere. Piuttosto, che ci fai tu qui?

Lei si allontanò da Duffy per accostarsi alla finestra. Il soggior¬no era mal ridotto. All'esterno tutto era lussuoso, ma dentro... I mobili erano vecchi, le pareti avevano bisogno di restauri e la polvere regnava sovrana, ovunque.

Duffy guardò Annabel.

— Che ci fai qui? — chiese per la seconda volta.

La donna si voltò dando le spalle alla finestra.

— Volevo dare un'occhiata — rispose. — E tu che cosa ci sei venuto a fare?

Duffy s'accese una sigaretta.

— Sai, piccola — mormorò appoggiandosi al tavolo — non credo proprio che andremo d'accordo noi due.

— Oh, ma perché no?

Duffy scosse il capo.

— Ti sei cacciata in guai grossi l'altra notte, ma ho l'impressio¬ne che tu non faccia niente per aiutarmi a cavarti d'impiccio. Non mi dici la verità.

— Hai una sigaretta? — chiese lei, avvicinandosi.

Duffy tirò fuori il pacchetto e gliene accese una.

— La tua povera faccia — mormorò lei.

— Smettiamola di perdere tempo — replicò lui, secco. — Sarà meglio che tu non mi faccia perdere anche la pazienza.

— Non arrabbiarti, ti prego — disse la dònna, sedendosi su una poltrona molto bassa. Accavallò le gambe e Duffy sorrise.

— Voi donne! — esclamò. — Credete che sia sufficiente mo¬strare un po' le gambe perché un uomo vi cada ai piedi. Stammi bene a sentire perché è l'ultima volta che te lo chiedo. Cosa ci fai qui? Chi ti ha dato la chiave dell'appartamento?

Lei si fissava le unghie rosse.

— E se non potessi dirtelo?

— E allora le foto cercatele da te.

Lei aggrottò le sopracciglia e mormorò: — Davvero, Bill, non te lo posso dire. Credimi!

Lui si spostò dal tavolo.

— Darò un'occhiata all'appartamento. Tu rimani lì.

Fece il giro di tutte le stanze, cercò accuratamente in ogni cas¬setto, in ogni angolo. Non sapeva nemmeno lui quel che cercava, ma sperava di trovare qualche cosa che gli fornisse una traccia da seguire.

Non appena rientrò nel soggiorno, ebbe la netta sensazione, dal modo con cui lei lo guardava, che Annabel si fosse mossa dal suo posto.

— Hai trovato qualcosa? — chiese lei, mostrandosi molto inte¬ressata.

Duffy si mise a girare per la stanza.

— Non ancora, ma comincio a scaldarmi.

Lei si alzò.

— Dov'è il bagno? — gli chiese.

Duffy fece un cenno con la testa.

— Vicino alla camera da letto.

Annabel si diresse verso il bagno, e Duffy rimase a guardarla. Attese che lei chiudesse la porta del bagno, poi prese la borsetta della ragazza, l'aprì e rovesciò il contenuto sul tavolo. Dentro c'erano le solite cose che ci sono in ogni borsetta. Rimise tutto a posto con un gesto di stizza.

Riprese allora ad ispezionare la stanza.

In un cassetto notò una scatola di sigari che era stata mossa di recente. La prese. Era vuota. La guardò rigirandola e spinse con la punta delle dita il fondo. Con un piccolo scatto il piano di le¬gno si mosse in su. Il doppiofondo della scatola era completa¬mente vuoto.

Annabel rientrò nella stanza. Si passò una mano fra i capelli rossi. Era molto calma. Lui la guardò con fare pensieroso.

— Hai finito? — chiese lei, avvicinandosi al tavolo e prenden¬do la borsetta. — Cosa ne diresti di andare a bere una tazza di caffè?

Duffy schiacciò il mozzicone della sigaretta nel portacenere. Quindi allungò la mano aperta verso di lei.

— Dammelo.

Lei alzò le sopracciglia.

— Non fare lo sciocco — disse lei arrabbiata.

Duffy le si avvicinò.

— Forza — disse lui secco — dammelo.

— Ma che cosa vuoi? — ribatté lei, muovendosi verso la porta.

— Aspetta, sorellina. Tu ed io dobbiamo scambiare quattro chiacchiere.

Lei lo guardò con la coda dell'occhio.

— Io me ne vado da qui — disse con tono astioso. — Se mi vuoi parlare, potremo farlo al bar.

Duffy si mosse rapidamente e appoggiò le sue larghe spalle alla porta.

— Parleremo qui, invece.

Lei alzò le spalle e si appoggiò al tavolo.

— E va bene, allora. Di che si tratta?

— Per prima cosa, voglio che ti metta bene in testa che potreb¬bero accusarti di omicidio, e che io potrei venire implicato come tuo complice. Chiaro? Quindi smettila di giocare a nascondino con me, rossa!

Lei batté con stizza il piede per terra.

— So tutto questo! Ma non capisco dove vuoi arrivare.

Il sorriso sul volto di lui non era certo d'amore.

— Continui a raccontarmi una bugia dopo l'altra. Se non fosse che potrei venire implicato anch'io e che voglio sistemare un conticino personale con Morgan, ti pianterei in asso. Quindi se vuoi deciderti a parlare, bene; altrimenti son guai per te.

Lei, con la voce all'improvviso carica d'odio, ribatté: — La¬sciami uscire di qui!

Duffy non si mosse.

— C'è un solo modo per uscire di qui ed è che tu ti decida ad aprire la tua bella boccuccia e a raccontarmi tutta la verità. Hai una ventina di minuti di tempo per dirmi cosa sei venuta a fare qui, e come facevi ad avere la chiave dell'appartamento. E dopo t'assicuro che qualcuno si metterà in cerca di Cattley. Mi dici al¬lora cosa farai?

La donna lo guardò a lungo soprappensiero e poi un lieve sor¬riso comparve sulle sue labbra.

— Va bene — disse. — Parliamo.

Duffy scosse il capo sconsolatamente.

— Santi numi! sei proprio una squilibrata! Un attimo, vai su tutte le furie e l'attimo dopo sei calma e sorridente. Sei venuta qui per cercare qualche cosa e l'hai trovato. Bene, lo farai vedere anche a me.

Lei si sedette sul tavolo; la gonna le salì oltre il ginocchio. Duffy pensò che aveva delle gambe magnifiche.

— Sai tutto, allora — mormorò lei. — Hai ragione, sono venu¬ta qui per cercare qualcosa. Suppongo che sia meglio che ti dica tutto.

Duffy sorrise soddisfatto.

— Sì, sono stata una pazza — riprese Annabel, fissandosi le unghie. — Ma è naturale che volessi tenere tutto nascosto. Avrai già capito che non era vero che volessi scrivere un libro, no?

— Saresti sorpresa se conoscessi tutto quel che so sul tuo conto — ribatté Duffy.

— Cattley mi ricattava — la sua voce si fece improvvisamente molto debole. — Dovevo pagare e pagare. Una volta ho com¬messo un grosso sbaglio, e Cattley si trovava presente. Mio padre si sarebbe trovato in una terribile posizione se la cosa si fosse ri¬saputa, e Cattley era abbastanza furbo da saperlo. Così non ave¬vo altro da fare che dargli le somme che mi chiedeva. So che non dovrei dirlo, ma la sua morte è stato un grande sollievo per me.

— Mi stai fornendo un ottimo movente per il suo assassinio.

Lei scivolò giù dal tavolo e gli si avvicinò.

— Sai bene che non sono stata io ad ucciderlo — mormorò. — Mi credi, vero?

— Continua. Quel che sto pensando io non ha nessuna importanza; quello che conta, invece, è quello che penserebbe un'e¬ventuale giuria.

Annabel si allontanò di nuovo e cominciò a passeggiare per la stanza.

— Cattley era un bruto. Mi costringeva a venirlo a trovare. È per questo che m'aveva dato la chiave dell'appartamento. Dove¬vo venire da lui in qualsiasi momento mi chiamasse. Sapevo che aveva delle prove di quel che avevo fatto, così ho pensato di ve¬nir qui per cercarle. È la verità. Mi credi?

— Certamente — disse sorridendo Duffy. — Anche un idiota ti crederebbe.

Lei si sedette improvvisamente nella poltrona e si nascose il volto fra le mani.

— Sono tanto infelice — mormorò con un filo di voce. — Sii gentile con me.

Duffy si sedette sul bracciuolo della poltrona.

— Quando sei andata in bagno, ti sei nascosta addosso qualco¬sa. Ora ci tornerai, la tirerai fuori e me la darai.

Lei si scoprì il viso.

— Non hai alcun diritto di domandarmi una cosa simile. È una cosa privata e tu non hai il diritto di metterci il naso.

Duffy le batté una mano sulla spalla.

— Fa' come t'ho detto. Ti conviene.

Annabel balzò in piedi e gli gridò con rabbia: — Ne ho abba¬stanza di tutta questa storia. Ti ho detto la verità. Una cosa è cer¬ta; non ti darò niente di niente.

Duffy rimase seduto sul bracciuolo della poltrona e, guardan¬do fissamente la ragazza, disse: — Forse non mi sono spiegato bene. Voglio quello che hai trovato.

Annabel cominciò col dire qualche cosa, ma lui l'interruppe subito.

— Se non mi dai con le buone quello che hai trovato, ti assicu¬ro, rossa, che lo prenderò con le cattive.

Annabel cominciò ad indietreggiare verso la porta. Duffy non le diede il tempo di raggiungerla. L'afferrò per un braccio, ma lei lo colpì con un pugno in pieno naso. Duffy si toccò per vedere se stava sanguinando, poi sbottò: — Be', se è così che vuoi...

Dovette difendersi prima dalle sue unghie minacciose, ma infi¬ne riuscì a stringerle i polsi dietro la schiena e a spingerla in came¬ra da letto. Una volta lì, la fece crollare sul letto a faccia in giù.

— Brutta testona d'una rossa! Vuoi comportarti come si deve o devo usare le maniere dure?

Lei mormorò con voce soffocata: — Oh! Dio solo sa quanto ti odio!

— Ti decidi, allora?

Annabel rimase in silenzio per un attimo, poi disse: — Va be¬ne. Te lo darò.

— Davvero?

— Sì... bestione!

Lui sospirò soddisfatto e la lasciò andare. Annabel si sedette sulla sponda del letto. Aveva il viso bianco, e lui si stupì nel ve¬dere come l'odio potesse sconvolgere i suoi lineamenti.

— Forza, tiralo fuori! — disse lui.

— Esci dalla stanza. Devo spogliarmi.

Lui fece di no col capo.

— Non fare la bambina. Non mi fido di te.

Annabel si alzò in piedi con aria battagliera; aveva i capelli ar¬ruffati e il vestito in disordine.

— Non ho nessuna intenzione di spogliarmi davanti ad un fa¬rabutto come te.

Duffy si avvicinò alla porta, la chiuse, girò la chiave nella top¬pa e se la mise in tasca.

— Mi sorprende la tua improvvisa pudicizia. Va bene... mi girerò.

S'avvicinò alla finestra e si mise a guardare fuori; ma un legge¬ro rumore lo fece voltare all'improvviso. Annabel gli era quasi addosso; impugnava una caraffa di vetro vuota. Duffy fece appe¬na in tempo a scansarsi. La caraffa finì contro il muro, andando in mille pezzi. Annabel prese a tempestarlo di colpi, imprecando contro di lui in modo osceno.

Duffy pensò che le stesse dando di volta il cervello. Indietreg¬giò mentre la ragazza gli si scagliava di nuovo addosso, vomitan¬do su di lui tutti i suoi improperi.

Duffy fu allora costretto a colpirla. Non mise molta forza nel pugno, ma bastò un colpo preciso al mento per metterla fuori combattimento. Annabel si piegò sulle ginocchia e cadde a terra.

Duffy sollevò il corpo della ragazza e lo sistemò sul letto. Non gli andava di perquisirla, ma doveva farlo. Si sentiva un po' come uno stupratore, ma come altro avrebbe potuto fare? Le sollevò la gonna. Notò subito, infilato nel reggicalze, un libriccino rosso. Non perse tempo ad esaminarlo. Se lo infilò in tasca, rimise a po¬sto la gonna di Annabel e lasciò l'appartamento.

Solo quando si trovò in strada si sentì nuovamente a posto. Vide una grossa Packard parcheggiata poco lontano. Attraversò la strada e s'avvicinò alla grossa vettura. Era proprio la Packard che l'aveva seguito prima ed era quella di Annabel English.

Fermò un tassì e vi montò su. Diede al tassista l'indirizzo di McGuire. Non appena il tassì si fu messo in moto, tolse di tasca il taccuino e si mise a sfogliarlo. Non gli ci volle molto a rendersi conto che la maggior parte dei nomi segnati erano di pezzi grossi della città, tutta gente con molto denaro. Duffy vi cercò il nome di Annabel English, ma non c'era. Forse il mistero di quei nomi era racchiuso nel numero che ognuno di essi aveva a fianco. Tan¬to per fare qualcosa li contò tutti; erano più di trecento. In fondo al libriccino, scritto a matita c'era un nome ed un indirizzo segna¬to a parte: Olga Shann, Plaza Wonderland Club.

Rimise il taccuino rosso in tasca e si accomodò tranquillamen¬te. Forse quella Olga Shann avrebbe potuto fornirgli la traccia che gli serviva.

Il tassì si fermò lungo il marciapiedi. Duffy scese, pagò e s'av¬viò verso il portone.


7


Quando McGuire tornò dal lavoro, trovò Duffy e Alice in cuci¬na. Duffy era vicino al fornello e stava controllando una grossa bistecca sulla griglia.

McGuire gli diede una rapida occhiata ed esclamò: — Santi numi, gliele hanno suonate di nuovo!

Alice alzò lo sguardo dal lavandino sul quale stava pelando le patate.

— Non vuol dire cosa gli è successo.

— Oh, la volete smettere! — sbottò Duffy. — Cosa posso farci io se la mia ragazza è un tipo passionale?

McGuire scosse il capo sconsolatamente.

— Non ho mai conosciuto uno che sapesse badar meno a se stesso di te.

— Conosci il Plaza Wonderland Club? — gli domandò Duffy.

Sam lanciò un'occhiata ad Alice.

— Ne ho sentito parlare.

— Ci avrei giurato che lo conoscevi — disse Alice. — Sai dove si trovano tutti i locali più malfamati della città.

— Non ci sono mai stato — replicò Sam. — Ne ho sentito sol¬tanto parlare dai colleghi.

— Già.

— Immagina sempre un mucchio di cose che non sono vere — disse Sam rivolto a Duffy. — Come se qualcuno mi avesse mai vi¬sto in uno di quei posti.

— Ti vedranno questa sera — l'informò Duffy, voltando con cura la bistecca sulla griglia.

Sam lo guardò di traverso.

— Che dici? — e lanciò di nuovo una rapida occhiata ad Alice.

Lei alzò le spalle: — Immagino che mi toccherà dire sì — disse.

Duffy le si avvicinò e le batté una mano sulla spalla.

— Sii gentile... è per affari. Non puoi venire anche tu.

— Oh, voi uomini! — protestò. Ma Duffy sapeva che tutto era a posto. Alice era una cara ragazza, molto comprensiva.

— Non cacciarlo nei guai — disse poi lei rivolta a Sam.

— Io? — disse ridendo Sam. — Questa mi piace proprio. Sarei io a metter nei guai lui... Sono certo che sarò io che mi troverò nei guai fino al collo.

Duffy fece cenno di no con la testa.

— Mi servirai soltanto da paravento. Vedrai.

Appena finita la cena, McGuire spinse indietro la sedia e disse: — Andiamo, allora?

Duffy accennò di sì.

— Sarà meglio.

Sam si accese una sigaretta; si alzò, prese il cappello e se lo ag¬giustò sulla nuca.

— Non torneremo tardi — disse ad Alice. — Tienimi il letto caldo.

Lei alzò il viso verso di lui per un bacio.

Duffy li guardava con piacere.

— Devi essere stata matta a sposare un vagabondo come quel¬lo — sbottò alla fine.

— C'era scarsità d'uomini sul mercato in quel tempo — ribatté Sam.

Alice lo minacciò con un filone di pane e lui uscì per prendere l'auto.

— Farai attenzione? — mormorò Alice con un filo di voce.

Duffy la guardò sorpreso.

— Certo, ci divertiremo un mondo!

Lei lo guardò attentamente: — Non mentire, Bill. Sai anche tu quant'è pericolosa l'avventura nella quale ti trovi.

Duffy alzò le spalle.

— In quel locale dovrebbe esserci una donna che conosceva Cattley. Voglio trovarla e farle qualche domanda. Forse ho fatto male a nascondere quel cadavere. Annabel English è una poco di buono... è molto pericolosa.

— Vorrei proprio che tu fossi fuori da questa storia. Anche Sam è preoccupato.

Duffy si mise il cappello in testa.

— Adesso devo andare. Non ti preoccupare per Sam, non gli succederà niente.

— Sono preoccupata per te.

— Smettila, ti prego. Finirà tutto bene, vedrai.

Lei io accompagnò alla porta.

— Non volevo seccarti.

— Lo so. Sei molto cara.

Sam era seduto al volante della sua auto, che aveva certamente veduto giorni migliori.

Duffy salì e domandò: — Dov'è che si trova il night?

Sam ingranò la marcia, grattando. Con un sobbalzo la macchi¬na si allontanò dal marciapiede con uno stridio poco piacevole.

— Il Plaza? Si trova vicino al Manhattan Bridge.

— Conosci il locale? — chiese Duffy.

— Certo... è un posto che scotta. Ci andavo ogni tanto ai vec¬chi tempi. — Sam si riferiva al tempo quando era ancora scapolo. — Ci sono certe donnine! Vedrai!

— È un posto allettante — commentò Duffy.

Sam guidò per un po' in silenzio; poi disse: — Non mi racconti le ultime novità?

Duffy gli porse una sigaretta accesa.

— Sono andato a fare una visita in casa di Cattley e lì ho in¬contrato Annabel English. Cercava qualcosa e l'ha trovata. Io l'ho costretta a consegnarmela. In questo momento, dev'essere ancora schiumante di rabbia.

Sam frenò all'improvviso per evitare una grossa Cadillac, mise la testa fuori e gridò qualcosa al grasso autista.

Duffy non ci fece caso. Non era la prima volta che andava in auto con Sam.

— Cos'è che hai trovato? — gli chiese Sam.

— Un piccolo taccuino pieno di nomi che non significano nien¬te per me.

— E allora?

— È un taccuino importante. Posso dirlo perché ho dovuto usare le maniere forti con la ragazza per farmelo dare. Quella donna mi fa paura. Non è normale.

— Credevo che ti piacessero così — borbottò Sam guardando¬lo sorpreso.

— Tu bada a non perdere di vista la strada — ribatté di riman¬do Duffy. — Dovresti vederla! Quando s'infuria le viene persino la bava alla bocca.

— Davvero?

— Ha cercato di farmi fuori. Secondo me è pazza.

Sam rallentò passando davanti al Municipio, poi voltò in Park Row dove riprese la velocità di prima.

— Non è necessario che sia pazza per volerti far fuori. Cosa ne dici se ci fermassimo a bere qualcosa?

Duffy guardò l'orologio. Erano le nove in punto.

— Berremo là.


Il Plaza Wonderland Club si trovava al secondo piano, sopra a un negozio di ferramenta. L'ingresso era situato in un vicolo late¬rale.

Parcheggiarono l'auto e salirono la scala. In cima al pianerot¬tolo, vendevano i biglietti per le taxigirl. Duffy ne comprò una mezza dozzina. Quindi entrarono nel locale, che era uno dei soli¬ti locali notturni piuttosto squallidi e sporchi.

La pista da ballo era piccola e risultava un paio di gradini più in basso, al centro. I tavolini erano disposti tutt'intorno.

In fondo alla sala stavano sedute le ragazze. Duffy pensò che erano proprio un bel... branco.

Le persone in sala, che si sarebbero potute contare sulle dita d'una mano, seguirono tutte con lo sguardo Duffy che attraversa¬va la pista da ballo ed andava a sedersi ad un tavolino proprio di fronte all'ingresso. Sam si sedette nell'altra sedia.

L'orchestra, composta di tre elementi, suonava senza troppo entusiasmo.

— E secondo te questo è un posto bollente? — chiese Duffy.

— Forse sentono anche qui la congiuntura.

Duffy fece un segno con la mano per richiamare l'attenzione di un cameriere.

— Prendiamo una bottiglia di rum — consigliò Sam.

— Sì, è una buona idea. Una bottiglia di rum — disse al came¬riere.

Il cameriere si allontanò.

— Dai un'occhiata a questo — disse Duffy, porgendo a Sam il libriccino rosso.

Sam lo studiò attentamente e poi glielo restituì.

— Non so cosa possa essere. L'unica cosa certa è che la mag¬gior parte delle persone elencate sono milionarie.

— Riuscirò a chiarire il mistero di questi nomi — disse Duffy.

In quel mentre arrivò il cameriere con la bottiglia di rum.

— Questo locale è cambiato — gli disse Sam.

Il cameriere gli lanciò un'occhiata.

— È ancora presto, amico.

Sam si volse a Duffy.

— Vedi? È ancora presto.

— Va bene. È ancora presto, ma prendiamo un paio di ragazze e facciamo veder loro come si balla.

Non c'era nessuno che ballava. Sam si versò da bere e trangu¬giò il liquore d'un fiato.

— Be', devo ammettere che sono un poco nervoso.

— Ma va' là! — ribatté Duffy. È una scusa per bere.

Sam si alzò e s'avvicinò al gruppo delle ragazze. Le guardò be¬ne una ad una, mentre quelle ridacchiavano fra di loro, e scelse infine una bionda con la quale si mise a ballare. Duffy scelse la sua, una rossa dal naso all'insù, e l'invitò a ballare con un segno della mano, senza muoversi dal suo posto.

Duffy sapeva ballare bene, quando lo voleva, ed il rum l'aveva scaldato a puntino. Non dissero una parola durante tutto il ballo, ma quando l'orchestra smise di suonare Duffy disse alla rossa: — Balli bene.

Lei lo guardò col suo ampio sorriso sulle labbra.

— Anche tu te la cavi.

Aveva un accento simile ad un barile metallico vuoto che roto¬la giù per le scale.

— Andiamo a sederci al mio tavolo.

Sam era già seduto con la sua bionda che a Duffy parve puz¬zasse un poco. Si sedette quindi il più lontano possibile da lei. Sembrava, invece, che a Sam piacesse molto. Mostrava un gran¬de interesse verso la sua compagna.

— Vi piace il rum? — domandò Duffy.

Le due ragazze protestarono. Volevano dello champagne.

Sam scosse il capo.

— Stappatevi bene le orecchie. Noi siamo due ragazzi in gam¬ba, ma se il rum non vi va, potete andare a spasso tutte e due.

Duffy si disse d'accordo.

Così le due ragazze bevvero il rum.

Il posto si andava affollando. La gente cominciava a riempire i tavoli vuoti. Una bruna di proporzioni piuttosto generose cercò di passare davanti al loro tavolo ma non poteva riuscirci nel poco spazio davanti a Sam.

Questi alzò lo sguardo verso di lei e poi disse rivolto a Duffy: — Hai visto che roba? Sembra un carro armato...

Duffy si sentì gelare il sangue nelle vene. Sam era già brillo. La bruna volse lo sguardo verso Sam e poi ridendo sbottò: — Sei proprio spiritoso!

Sam si alzò, s'inchinò e disse: — Mia cara, non posso che inchi¬narmi a tanta grazia!

La bruna poté passare, ora che Sam si era alzato e il suo ac-compagnatore, un piccoletto, la seguì senza dir niente.

— Non puoi comportarti in modo decente? — chiese Duffy a Sam.

Sam sembrò contrito.

— Ma a lei è piaciuto!

La sua bionda guardava fisso davanti a sé e batteva, seccata, un piede sul pavimento.

Duffy si rivolse alla sua rossa.

— Balliamo.

Non appena si trovarono sulla pista, le chiese: — Non c'è Olga questa sera?

Lei lo guardò aggrottando le sopracciglia.

— Olga?

— Sì, Olga Shann. Vorrei rivederla.

— Non c'è questa sera.

— Peccato. Volevo parlarle.

Ballarono per un po' in silenzio, poi lui disse: — Ti piacerebbe guadagnarti venti dollari?

— Ti costerà molto di più.

Duffy la guardò.

— No, hai capito male. Ti offro venti dollari per l'indirizzo di Olga.

Lei sembrò delusa.

— Oh! Credevo che noi due si stesse bene assieme.

— Sono qui per lavoro; devo parlare con Olga.

— Va bene. Te lo faccio avere.

Finito il ballo, lei si allontanò. Duffy vide che Sam stava con la bionda. Decise di andare alla toilette. Aprì il rubinetto e si lavò le mani. Non c'era nessun altro nella piccola toilette dalle matto¬nelle rotte e con il pavimento non troppo pulito. La porta si aprì ed entrò un tizio. La prima cosa che Duffy notò furono i suoi ca¬pelli.

Erano neri ma una ciocca bianca li attraversava dalla fronte fi¬no all'orecchio destro. Quella ciocca dava al volto duro dell'uo¬mo un aspetto distinto. Un paio di baffetti completavano il volto dell'uomo.

Duffy gli diede una rapida occhiata e si voltò per uscire.

— Un momento — disse l'uomo.

Duffy si fermò.

— Dici a me? — domandò sorpreso.

L'uomo stringeva ora in mano una pistola.

— Dammi il taccuino. — La voce dell'uomo era strana, aveva una nota stridula.

— L'avevo, ma ormai l'ho spedito.

Proprio in quell'istante la porta si aprì ed entrò Sam. L'uomo nascose la pistola. Non parve aver molta fretta, ma l'arma sparì.

— Ah, eccoti qui! — esclamò Sam.

L'uomo diede un'occhiata minacciosa a Duffy, girò sui tacchi ed uscì.

— Sai chi sia quel tìzio? — disse Duffy.

— No. Forse la mia bionda lo sa — rispose Sam stupito.

Duffy si affrettò ad uscire seguito da Sam. Raggiunse il tavolo e chiese alla bionda: — Hai visto quel tizio che è appena uscito dalla toilette?

— Sì — rispose la bionda. — È Murray Gleason. Non è un bel¬l'uomo?

Duffy s'asciugò il viso bagnato di sudore con il fazzoletto.

— Be', non ho avuto modo di guardarlo attentamente.

Sam posò un braccio sulle spalle della bionda.

— Non è un gran posto questo? — chiese rivolto a Duffy. Era completamente ubriaco.

— Ce ne dobbiamo andare — disse Duffy.

Un piccoletto con i capelli bianchi attraversò la sala diretto alla toilette. Sam guidò la bionda verso di lui.

— Prenditi cura di questa piccina, amico — disse. — Impara molto presto.

La bionda avvolse letteralmente fra le sue braccia il piccoletto e si mise a piangere. Il rum faceva il suo effetto anche su di lei. La faccia del piccoletto era uno spettacolo. Duffy e Sam lasciaro¬no il locale.

Fuori, Duffy disse: — È pericoloso andare con te in locali del genere. Adesso dobbiamo rientrare ma solo per un momento.

Sam fece un gesto con la mano.

— Credo di aver alzato un po' il gomito — rispose. Tornarono dentro alla sala da ballo. Sam dichiarò all'improvviso: — Quella bionda puzzava un po' o è il mio naso che non funziona?

— Il tuo naso funziona perfettamente — ribatté Duffy.

La ragazza dal naso all'insù era vicino all'ingresso e li stava cercando. Duffy le si avvicinò.

— Ce l'hai? — le chiese.

Per tutta risposta lei gli porse un pezzetto di carta sul quale era scritto un indirizzo. Duffy le diede i venti dollari promessi, che lei nascose nella calza.

— Tornerò una delle prossime sere ed allora ce la spasseremo.

— Se tutti quelli che me l'han dettò fossero tornati...!

Sam si sentì in dovere di intervenire.

— Sei ancora giovane. Vedrai che te lo diranno ancora in mol¬ti!

La ragazza gli diede un'occhiataccia e s'allontanò.

Scesero la scala ed uscirono all'aperto. Duffy si fermò in fondo al vicolo.

— Vai a casa, Sam, e fa' attenzione a come guidi.

Sam sbatté le palpebre.

— Il divertimento é già finito?

Duffy fece di sì con la testa.

— Te l'avevo detto che mi saresti servito solo da paravento. Adesso vattene a casa.

— E tu?

— Devo andare a far visita a questa Shann.

— E in tre saremmo in troppi, eh?

Duffy fece cenno di sì.

— Hai capito l'antifona.

Rimase a guardare Sam che si avvicinava al parcheggio. Si in¬camminò quindi verso la stazione della metropolitana di Frankfort Street. Olga Shann viveva a Brooklyn. Duffy non aveva mai sentito nominare quella strada, così scese dalla metropolitana al¬la stazione di Brooklyn Bridge e prese un tassì.

Arrivò che erano le undici e rimase un po' indeciso se farsi aspettare dal tassista. Decise di pagarlo.

L'indirizzo corrispondeva a una villa a due piani; tutta la strada era fiancheggiata sui due lati da case uguali.

Aprì il cancelletto e s'incamminò lungo il breve viale inghiaia¬to. Al secondo piano scorse una luce accesa. Suonò il campanello e s'appoggiò al muro. Non aveva la più pallida idea di cosa avreb¬be detto.

Passarono due o tre minuti, poi una luce si accese nell'atrio. Udì il rumore della catena e quindi la porta si socchiuse. Non poté distinguere l'aspetto della donna.

— La signorina Shann? — chiese, togliendosi il cappello.

— Dipende! — rispose secca la donna con un tono di voce alla Garbo.

Non era certo un gran che di accoglienza, ma doveva far buon viso a cattiva sorte.

— È tardi lo so, ma spero che vorrete scusarmi.

— Cosa volete?

— Sono Duffy del Tribune. — Tolse di tasca la tessera da gior¬nalista, gliela mostrò e se la rimise in tasca. — Volevo scambiare con voi quattro chiacchiere sul conto di Cattley.

Notò che la donna s'era irrigidita a sentire quel nome.

— Fatemi vedere bene la vostra tessera.

Lui la tirò fuori di nuovo e gliela porse. La donna chiuse la porta. Controllò la tessera alla luce e quindi riaprì.

— Sarà meglio che entriate.

Duffy la seguì in un piccolo soggiorno. Era tutto molto mo¬derno, ma il mobilio non era del più lussuoso. Olga Shann era una bella donna, un tipo che piaceva a Duffy. Aveva i capelli ca¬stani soffici e ben curati. Ma la prima cosa che colpì Duffy furo¬no le sopracciglia che davano al viso della donna una permanente espressione di stupore. Olga aveva le labbra rosse e le ciglia lun¬ghe.

Indossava un abito di seta marrone scuro che le fasciava il cor¬po flessuoso.

— Perché Cattley? — chiese.

Duffy posò il cappello.

— Non c'entra con il lavoro... ma ho una sete da morire.

Lei scosse il capo.

— Niente da fare. — La sua voce non ammetteva repliche. — Di' quel che hai da dire e... addio!

— Santi numi! Voi donne vi fate sempre più scontrose.

Lei fece un gesto impaziente.

— Va bene — s'affrettò a dire Duffy. — Sto cercando Cattley.

— E perché dovrei sapere dove si trova?

— Perché sei la sua ragazza, no?

Lei scosse il capo.

— Son mesi che non lo vedo.

— Però per lui significavi qualcosa, se portava sempre in tasca il tuo indirizzo e il tuo nome.

Lei alzò le spalle.

— Un mucchio di uomini hanno in tasca il nome e l'indirizzo di ragazze. Non vuol dir niente.

Duffy pensò che non aveva tutti i torti.

— Bene. Vuol dire che sono venuto fin qui per niente.

Lei si avvicinò alla porta e l'aprì.

— Non ti trattengo — disse.

Duffy sentì il rumore di un'auto che si fermava davanti alla ca¬sa.

— Hai visite.

Notò un'espressione di sorpresa nei suoi occhi.

— È meglio che te ne vada.

Il campanello squillò. Lei sussultò.

— Non posso uscire da dietro? — domandò Duffy. — Ho la sensazione che altrimenti ci saranno dei guai.

La donna esitava.

— Aspetta qui — implorò. Il campanello suonò ancora con in¬sistenza.

— Vuoi che rimanga? — disse Duffy.

— Sì... non so chi sia.

La donna si avviò verso la porta d'ingresso, lasciandolo nel soggiorno. Duffy scorse un'altra porta e l'aprì. Era quella del¬la cucina. Entrò e accostò la porta, lasciando un piccolo spira¬glio.

Udì la donna che apriva la porta e poi gli giunse la sua voce.

— Oh, salve Max!

— Sei sola? — chiese una voce che non tornò nuova a Duffy. Pensò dapprima che si trattasse di Joe. Ma non era lui.

— Sì... Come mai a quest'ora?

Duffy udì dei passi nell'ingresso e quindi il rumore della porta che si chiudeva.

— Cosa vuoi? — disse la voce incerta di lei.

Un uomo dalle ampie spalle, con il cappello calato basso sugli occhi entrò nella stanza. Duffy lo riconobbe subito. Era quello che gli aveva rubato la macchina fotografica.

Duffy strinse i pugni. Proprio l'uomo che stava cercando.

Olga entrò nel soggiorno e si fermò vicino al tavolo.

— Ma, Max...

L'uomo ispezionò con fare sospetto la stanza e squadrò quindi la donna da capo a piedi. Ma non c'era ammirazione nei suoi oc¬chi.

— È un po' che non ci vediamo... Stai bene. — Sembrava qua¬si che stesse recitando una parte.

Lei cercò di sorridere.

— Sei gentile a dirmi così.

L'omaccione si sedette sull'orlo del tavolo e si guardò le mani.

— Lo sai che Cattley è stato ucciso?

La donna portò una mano alla gola.

— No..., non lo sapevo.

Max sollevò la testa e guardò la porta della cucina. Duffy si sentì gelare il sangue nelle vene.

— Andavi d'accordo con lui una volta, vero?

Lei scosse il capo.

— Non contava niente per me.

— Davvero?

— Sì. Uscivamo insieme ogni tanto. È tutto.

— Ah, uscivate insieme? — Spinse il cappello sulla nuca senza guardare la donna.

— Sì, proprio così... Ma perché mi chiedi tutto questo?

— Oh, curiosità, curiosità... Ti raccontava di sé, di quel che faceva?

Duffy poté notare il panico sul volto di Olga.

— Non mi diceva mai niente... non so quel che faceva...

Max smontò dal tavolo, si avvicinò a un mobile, prese un paio di ninnoli e li guardò con fare indifferente. Si voltò quindi verso di lei.

— Be', credevo che t'avesse raccontato qualcosa. — E tirò fuori di tasca un pezzetto di cordicella rosso scuro con il quale prese a giocherellare.

Olga lo guardava come un coniglio avrebbe guardato un ser¬pente.

— È grazioso, vero? — disse l'omaccione.

— Cos'è? — chiese Olga.

— Questo? Be', non lo so. L'ho trovato — rispose, continuan¬do a farlo girare in mano.

— Ah, sì — mormorò lei con un filo di voce.

— Be', adesso me ne andrò. — Si mosse verso la porta.

— Ma... ma non vuoi...

— Vado — disse, fermandosi vicino alla porta. — Credevo che ti interessasse sapere che Cattley è stato fatto fuori.

Si vedeva chiaramente quanto lei fosse sollevata.

— Be', mi dispiace, ma era tanto che non lo vedevo.

— Va bene — mormorò lui. — Mi ha fatto piacere rivederti. — Si tirò da parte in modo che Olga potesse passare attraverso la porta del soggiorno per fargli strada nell'ingresso. Non appena lei gli fu passata davanti, le buttò la cordicella rossa attorno al collo con la rapidità d'un serpente. Appoggiò un ginocchio alla schiena di lei e si mise a tirare con quanta forza aveva nelle brac¬cia.

Duffy non perse tempo. Balzò fuori dalla cucina e con un pu¬gno preciso colpì Max alla tempia. Max cadde, e Olga lo seguì per terra, rantolando.

Max rotolò su di sé un paio di volte e si fermò contro il muro; cercò subito di tirar fuori la pistola, ma Duffy afferrò una sedia e gliela scaraventò addosso. Colpì soltanto in parte Max che al¬lungò un calcio. Duffy, preso alla sprovvista, barcollò per un atti¬mo. Max ne approfittò per estrarre la pistola, ma Duffy fu pronto con un balzo in avanti a colpirlo con un calcio sotto il mento. Un colpo partì, e il proiettile si conficcò nel soffitto facendo cadere un nuvolo di calcinacci. La pistola cadde di mano a Max che finì con la faccia sul pavimento.

Imprecando Duffy raccolse la pistola di Max e, visto che l'ami¬co ne aveva abbastanza, si occupò di Olga che rantolava a terra. Le tolse la corda che ancora le cingeva la gola e la portò nel sog¬giorno.

— È tutto a posto — le mormorò, battendole una mano sulla spalla.

La fece sedere su una poltrona. In quel momento sentì sbatte¬re la porta dell'ingresso. Corse nell'atrio, aprì la porta e fece in tempo a scorgere un'auto che s'allontanava. Max gli era sfuggito. Tornò nel soggiorno e trovò Olga in piedi che si massaggiava la gola, piangendo sommessamente.

— Hai del liquore? — le chiese.

— È in cucina — mormorò lei con voce soffocata.

Non gli ci volle molto a trovare una bottiglia di grappa di mele. Prese due bicchieri e tornò nel soggiorno. Versò il liquore nei bicchieri e ne porse uno alla donna.

— Butta giù — le disse — ne hai bisogno.

Duffy scolò il bicchiere e per un attimo ebbe l'impressione che gli prendessero fuoco le budella. Quella roba era vera dinamite!

— Accipicchia che sventola! — esclamò, guardando la botti¬glia.

Si riempì di nuovo il bicchiere ma questa volta ci andò cauto nel bere. Fissando la donna le disse: — Sorellina, adesso vieni via con me. Questo posto non è più igienico per te.

La grappa di mele cominciava a farle effetto; il suo viso stava riacquistando lentamente colore. Olga si portò nuovamente una mano al collo.

— Non posso — mormorò.

Duffy le si avvicinò.

— Metti qualcosa in una valigia e fa' presto. Il tuo amico po¬trebbe tornare.

Gli occhi di lei si spalancarono per la paura. Dovette aiutarla fino alla porta perché le gambe non la reggevano. La lasciò quin¬di andare, e la ragazza salì al piano superiore. Duffy si riavvicinò al tavolo per versarsi nuovamente da bere.

Quando lei scese, Duffy era mezzo ubriaco.

— Questa roba farebbe risuscitare un morto! — esclamò, agi¬tando la bottiglia.

Lei esitò in fondo alle scale.

— Mi puoi chiamare un tassì? Andrò in qualche albergo...

Duffy le si avvicinò e le prese la valigia.

— Ma la vuoi capire sì o no che vieni a casa mia? Non stare a discutere.

Duffy mise la testa fuori della porta, ma non scorse alcun tassì di passaggio.

— Andiamo a piedi fino in fondo alla strada. Sarà più facile trovare un tassì.

La donna spense le luci e chiuse la porta. Si incamminarono in silenzio. A Duffy sembrava di camminare su del cotone. La grap¬pa faceva fin troppo il suo effetto. Olga rimase in silenzio lungo tutta la strada. Fu solo quando ebbero raggiunto l'estremità della strada che mormorò: — Grazie.

Duffy fermò un tassì. Aiutò Olga a salire e diede al tassista l'indirizzo di McGuire. Stringeva in una mano la valigia e nell'al¬tra la bottiglia di grappa.

— Non ci pensare. Avevo tanta paura in corpo che non ho quasi pensato a te. — Stappò la bottiglia e bevve un altro sorso. Poi appoggiò il capo alla spalla di lei e s'addormentò. Lei si mise a piangere sommessamente.


8


Quando Sam aprì la porta e li vide, gli uscirono gli occhi fuori dalle orbite.

Duffy entrò ed Olga esitò un attimo a seguirlo. Sam rimase a guardarli, grattandosi la testa. Indossava, sul pigiama verde, un accappatoio giallo.

Duffy disse ad Olga: — Non far caso a lui. Non è tanto imber¬be quanto parrebbe dal suo abbigliamento.

Olga diede un'occhiata intimidita a Sam, ma non aprì bocca.

— Mi vuoi presentare, ubriacone? — disse Sam.

— Signorina Shann, questo è Sam McGuire.

Lei rimase ancora in silenzio.

Alice uscì dalla camera da letto avvolta nella sua vestaglia. Duffy le si avvicinò.

— Questa è Olga Shann — disse. — Si trova nei guai, così l'ho portata qui.

— Ma certo, hai fatto bene — esclamò subito Alice, posando una mano sulla spalla di Olga. — Bill può dormire sul divano e tu potrai avere la sua stanza.

— Ma non... — disse Olga.

Duffy posò la bottiglia di grappa di mele sul tavolo.

— Una bella dormita è la prima cosa che ti ci vuole; ma prima ti devo chiedere una cosa. Chi era quel tizio che ha cercato di si¬stemarti?

— Max Weidmer. Lui e Cattley lavoravano assieme.

Duffy fece di sì col capo.

— Bene. Mettila a letto, Alice, e sii gentile con lei.

Mentre Alice l'accompagnava fuori dalla stanza, Olga disse: — Ma la sua faccia? Come ha fatto a conciarsela così?

Sam voltò il capo.

— Stava parlando di te.

— Sai dove sia possibile trovare questo Weidmer?

Sam aggrottò le sopracciglia.

— Che dici ora?

— Forza. — Duffy aveva il volto duro.

Mentre Sam telefonava, Duffy andò a lavarsi la faccia e le ma¬ni. Sam lo raggiunse un attimo dopo.

— Ha una stanza al Lexingham Hotel.

— Grazie — gli rispose Duffy, tornando nel soggiorno.

Sam lo seguiva a breve distanza.

— Cosa c'è adesso?

— Prestami la tua pistola. Quella di Weidmer l'ho lasciata in casa di Olga.

— No, non ti lascio certo andare in giro con una pistola in ta¬sca...

— Su, dammi la pistola. Presto ci sarà un po' di movimento!

Sam sospirò e cominciò a togliersi l'accappatoio.

— Va bene — disse — ma vengo con te.

Duffy lo afferrò per un braccio.

— No, tu resti. Può darsi che anche qui il terreno si faccia cal¬do. Sarà bene che tu tenga gli occhi aperti qui.

Sam lo fissò attentamente.

— Che cosa mi stai dicendo? — chiese.

— Weidmer ha cercato di strangolare quella ragazza. È con¬vinto che lei sappia troppo. Potrebbe avere una mezza idea di ve¬nire qui. È per questo che non ti devi muovere.

Sam spalancò tanto d'occhi.

— E vuoi la mia pistola? — disse. — Ed io?

— Forza, dammi la pistola prima che torni Alice. Se tu bevi un po' di quella grappa, non avrai bisogno di pistola.

Sam andò nell'atrio, aprì un cassetto d'un tavolo e tornò con una pistola automatica. Duffy ne controllò il caricatore e la infilò quindi nella cintola. Aggiustò le punte del panciotto in modo da nascondere completamente il calcio.

— Può darsi che faccia tardi — disse.

Alice entrò in tempo per vederlo uscire.

— Dove sta andando, quel matto?

Sam posò la bottiglia di grappa.

— Va a prender qualche altra donna — sbottò con rabbia. — Deve aver l'intenzione di riempirci la casa di donne.

Alice lo prese per un braccio.

— Vieni. Hai bisogno di fare una bella dormita.

Non notò l'espressione di preoccupazione sul viso di lui.

Fatti pochi passi, Duffy fermò un tassì, salì e diede l'indirizzo all'autista.

Il tragitto fu lungo e quando la macchina si fermò davanti ad un vecchio caseggiato, la mezzanotte era già passata. Duffy si av¬vicinò al portone. Più che un albergo sembrava una pensione. Schiacciò il campanello ed il portone si aprì automaticamente; entrò. La luce era tenue e riuscì a malapena a leggere nel casel¬lario della reception il nome Weidmer. La sua stanza era al quar¬to piano.

Salì lentamente le scale fino alla porta. Mise la mano sul calcio della pistola e spinse la porta che, con sua sorpresa, si aprì. En¬trò in punta di piedi, trattenendo il respiro. Non sentì alcun ru¬more. Si decise allora ad accendere la luce.

Vide subito il corpo massiccio di Weidmer steso a faccia in giù sul letto, e capì che era morto. Si avvicinò e lo sollevò; aveva la gola squarciata.

Rimase qualche istante senza sapere cosa fare e poi si diede a frugare nella stanza. Forse non gli sarebbe servito a niente, ma non poteva lasciar perdere l'occasione. In fondo ad un cassetto trovò una fotografia. Di primo acchito gli era sembrata la foto di un'attrice; riconobbe poi Annabel English.

— Accidenti! — esclamò.

Sulla foto, con calligrafia precisa era scritto: Al caro Max, da Annabel!

Duffy piegò la foto e se la mise in tasca. Sistemò quindi la pi¬stola nella cintura ed uscì. Di nuovo in strada, fermò un tassì e diede l'indirizzo di Annabel English. Si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi. Aveva la precisa intenzione di mettere le cose in chiaro.

Con la chiave che gli aveva dato Morgan, aprì la porta poste¬riore dell'appartamento che conduceva alla scala dell'organo. Come ebbe raggiunto il soppalco notò subito che la stanza sotto¬stante era illuminata, ma non vide nessuno. Scavalcò la balaustra e si lasciò cadere sul tappeto soffice.

Sentì provenire da una stanza poco distante uno sciacquio di acqua; forse Annabel stava facendo il bagno.

Si mise ad ispezionare con cautela la stanza. Nel mobiletto bar, nascosta dietro ad alcune bottiglie, trovò la sua macchina foto¬grafica. La prima cosa che notò, fu che la pellicola era stata asportata. Si riprese la macchina fotografica e chiuse il mobiletto bar, cercando di non far rumore.

Non udiva più il rumore dell'acqua. Ora, il silenzio più assolu¬to regnava nell'appartamento. Duffy attraversò il grande sog¬giorno, si avvicinò alla porta del bagno, esitò un attimo e infine entrò.

Annabel era stesa nella vasca, gli occhi socchiusi ed una siga¬retta le pendeva dalle labbra. Duffy chiuse la porta e vi si appog¬giò con le spalle.

Lei aprì gli occhi e lo guardò. L'unico segno di stupore da par¬te sua fu la sigaretta che le sfuggì di bocca finendo in acqua con uno sfrigolio.

La donna scostò una gamba per muovere l'acqua e spostare il mozzicone che le si era posato sul ginocchio. Duffy guardava con vivo interesse. Si sedette su uno sgabello molto vicino alla vasca.

— Be', proprio un bel bagno di schiuma, eh?

— Esci subito — sibilò lei con voce minacciosa.

— Dobbiamo fare quattro chiacchiere in famiglia — mormorò Duffy, mostrandole la macchina fotografica e la foto che aveva trovato nella stanza di Weidmer. La donna non si mosse. I suoi occhi erano, come sempre, carichi di odio.

— Adesso so chi ha ucciso Cattley — sibilò Duffy. — Chi aves¬se avuto la macchina fotografica, sarebbe stato l'assassino di Cat¬tley. Avrei dovuto soltanto ritrovare la macchina per scoprirlo. Hai giocato le tue carte molto male, non ti pare?

Lei proruppe, al colmo dell'ira: — Esci di qui, figlio di un ca¬ne!

Duffy la guardò sorridendo.

— Quando lo farò, sarà per far entrare i piedipiatti.

Lei si alzò violentemente, spruzzando acqua attorno a sé.

— Non potrai far cadere la colpa su di me — disse. La sua voce era stridula. — Per prima cosa dovrai trovare il corpo di Cattley.

Duffy aggrottò la fronte.

— Così hai trovato un altro posto per i suoi sonni!

Rimase a guardarla mentre la mano di lei si muoveva lenta¬mente verso una bottiglia trasparente sullo scaffale alle sue spal¬le. La bottiglia conteneva ammoniaca. Duffy estrasse la pistola con gesto deciso.

— Mi farebbe proprio piacere farti un altro ombelico. Muovi ancora quella mano di un solo centimetro e ti garantisco che mi toglierò lo sfizio.

La mano di lei ricadde lungo il fianco. Duffy si alzò.

— Vieni fuori dalla vasca, ora. Abbiamo molte cose di cui par¬lare.

La ragazza uscì dalla vasca e si avvolse in un pesante accappa¬toio. I suoi occhi eran simili a due punte di spillo.

— Ti do cinque minuti per vestirti — le disse Duffy. — Poi raggiungimi nel soggiorno e non tentare di far brutti scherzi. La¬scia la porta aperta.

Uscì dalla stanza, indietreggiando. Una voce alle sue spalle disse:

— Molla la pistola.

Duffy rimase immobile. La voce aggiunse: — Fa' come ti ho detto e non voltarti se non hai prima mollato la pistola.

Duffy lasciò cadere la pistola a terra e si voltò lentamente. Murray Gleason gli stava di fronte, stringendo una Luger in mano.

— Sa troppe cose — disse Annabel.

Gleason ne convenne con un cenno del capo.

— Sì, mi sembra proprio di sì. Vestiti e raggiungici. Mi dovrai dare una mano per sistemare l'amico.

Duffy imprecava dentro di sé per essere stato tanto poco pru¬dente. Il taccuino rosso gli bruciava in tasca. Si era cacciato pro¬prio in un guaio ad alta tensione.

— Allontanati da quella pistola — gli ordinò Gleason.

— Posso sedermi? — chiese Duffy, muovendosi lentamente verso una poltrona. — Qualcosa mi dice che avrò bisogno d'un po' di riposo.

Gleason lo guardava attentamente.

— Non cercare di fare il furbo — mormorò a denti stretti.

Duffy prese una sigaretta dalla scatola sul tavolino e l'accese con l'accendisigaro da tavolo. Si sedette con le mani posate sui bracciuoli della poltrona. Pensò che Gleason era piuttosto nervo¬so. Notò, infatti, un piccolo tic all'angolo della sua bocca.

— M'hai già puntato una pistola addosso un'altra volta — dis¬se Duffy.

— Ma l'altra volta sono stato sfortunato: qualcuno m'ha rotto le uova nel paniere. — Gleason si sedette sul bordo del tavolo.

Annabel uscì dalla stanza da bagno. Si fermò a fianco di Glea¬son. Aveva un'espressione dura sul viso, ma i suoi occhi erano impauriti.

Duffy la guardò e disse: — E ora?

— Voglio il taccuino — mormorò Gleason.

Duffy fece un cenno col capo.

— Certo, ti capisco. Ma te l'ho già detto, l'ho spedito per po¬sta.

— Mente — mormorò Annabel con voce rotta.

Duffy alzò le spalle.

— Ah, sì? Domandati un po' cosa avresti fatto tu al mio po¬sto? Ho subito immaginato che si trattasse d'una cosa importan¬te. Così ho messo il taccuino in una busta e l'ho spedita a un ami¬co in Canada. Quando vorrò riaverlo, dovrò soltanto scrivergli di rimandarmelo.

Gleason lo fissava.

— Potremmo forse persuaderti a scrivere.

Duffy schiacciò la cicca nel portacenere.

— Non fare il bambino, credi davvero di potermi fare parlare? Non capisci che facendolo mi condannerei a morte? Se rivuoi quel taccuino cerca di farmi delle proposte più ragionevoli.

Gleason abbassò leggermente la canna della Luger.

— Quanto vuoi? — domandò.

— Ma sei matto? — intervenne Annabel.

Gleason la guardò corrucciato.

— Lasciami fare.

Duffy si studiò attentamente le unghie.

— Che valore ha per te?

Gleason ridacchiò.

— Ti darò cinquecento dollari — disse con fare noncurante.

Duffy si alzò lentamente in piedi.

— Ma se vale così poco, perché ti dai tanto da fare?

Duffy accennò alla pistola che stringeva in mano.

— Svegliati, amico. Non hai modo di trattenermi e quella non ti serve a niente.

— Sparagli nella pancia — sibilò Annabel a denti stretti.

Duffy la guardò attentamente.

— E pensare che prima mentre ti guardavo mi facevi un certo effetto...

Gleason si scostò dal tavolo. Aveva il volto contratto.

— Ora me ne vado — gli disse Duffy. — Quando vorrai quel taccuino dammi un colpo di telefono. Il mio numero è sull'elenco.

— Fermati — gl'intimo Gleason.

Duffy fece di no col capo. Si avvicinò alla porta.

— Non otterrai nulla, sparandomi. Non riuscirai mai a trovare quel taccuino senza di me.

Gleason lasciò cadere il braccio che stringeva l'arma.

— Be', ti offro cinquemila dollari.

Duffy fece di no e aprì la porta.

— Non aver fretta, pensaci. Aspetterò. — Chiuse la porta alle sue spalle. S'incamminò nel corridoio verso l'ascensore. Si sentì improvvisamente stanco, come se dentro fosse stato vuoto. Aprì il cancelletto, entrò nella cabina e schiacciò il pulsante del pian¬terreno. Un lungo sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra.

Appena in strada incrociò un tassì e non molto tempo dopo saliva le scale per raggiungere l'appartamento di McGuire. Aprì la porta ed entrò. L'orologio sul caminetto segnava l'una e qua¬rantacinque minuti. Buttò il cappello sul divano e cercò la botti¬glia della grappa di mele. La bottiglia era sul tavolo ma era quasi vuota. Sam doveva averne approfittato. Sollevò la bottiglia con un sorriso e scolò il liquore che vi era ancora rimasto. Trattenne un attimo il fiato. Quella roba era davvero il liquore più forte che avesse mai assaggiato in vita sua.

Rimase perfettamente immobile. L'unico rumore era il lonta¬no russare di Sam. Accese una sigaretta e buttò il fiammifero nel camino. Pensando poi ad Alice, lo raccolse e lo posò in un porta¬cenere.

Con le gambe incerte per la stanchezza, si avviò verso la came¬ra degli ospiti. La stanza era al buio. Poté udire il respiro regola¬re di Olga.

Avanzò con cautela al buio ed accese la lampada sul tavolino da notte. Si sedette piano piano sulla sponda del letto.

Olga balzò su all'improvviso con gli occhi dilatati per il terrore, pronta a gridare. Duffy le mise una mano sulla bocca e le mor¬morò: — Sono io. Non gridare.

La ragazza lo guardò e si rilassò.

— Ah, sei tu... M'hai spaventata a morte.

— Parla sottovoce. Non voglio che gli altri si sveglino.

Olga diede un'occhiata all'orologio e poi mormorò: — È già così tardi. Cosa c'è?

— Sono successe molte cose ed ho bisogno di parlarti. Sai che ti trovi nei guai, vero? Max è stato ucciso. Gli hanno tagliato la gola.

La ragazza lo fissava con gli occhi dilatati per il terrore.

— Comincerò a raccontarti dall'inizio. Tu dovrai colmare alcu¬ne lacune. — Si appoggiò con il gomito sul letto. Il suo viso scon¬quassato portava anche i segni evidenti della stanchezza. La don¬na provò un profondo senso di compassione per lui.

— Togliti le scarpe e sdraiati qui a fianco.

Lui fece di no con la testa.

— Mi addormenterei — commentò. — Stammi bene a sentire. C'è questa rossa, Annabel English, figlia dell'uomo politico, che è matta da legare. Aveva dei rapporti con Weidmer ed anche con Cattley. È stata lei che l'ha fatto cadere nel vuoto dell'ascensore. Ma prima che io continui devi dirmi tutto quel che sai su Cattley.

La donna parlò sottovoce.

— Cattley lavorava in un grosso traffico di droga. Aveva co¬minciato facendo i soliti lavoretti, prima come spacciatore e poi come piccolo distributore. È stato in quel periodo che l'ho cono¬sciuto. Weidmer era il suo capo. Gleason era il pezzo grosso, il capo di tutta l'organizzazione. Cattley si stufò di prendere ordini e rubò l'elenco dei clienti...

— Alt! — le disse Duffy e tirò fuori di tasca il taccuino rosso. — È questo l'elenco? — chiese alla donna.

La sorpresa sul volto di lei gli confermò che aveva fatto cen¬tro.

— Capisco tutto adesso — mormorò lui, sfogliando il libriccino. — I nostri amici non possono più continuare la loro attività senza questo... e gli acquirenti della droga staranno recalcitran¬do. — Duffy chiuse gli occhi per meglio concentrarsi.

— Come ne sei entrato in possesso? — chiese lei.

Lui aprì gli occhi.

— Annabel l'ha trovato nell'appartamento di Cattley. C'ero anch'io là e io l'ho portato via a lei. Diavolo! adesso tutto è chiaro. Devono fare ottimi affari... guarda i nomi di questa gente!

Olga gli posò una mano sulla spalla.

— Faranno di tutto per portartelo via — disse angosciata, con gli occhi pieni di lacrime. — Per loro quel libriccino vale milioni.

Duffy la fissò attentamente.

— Sai, ho sempre sognato di avere per le mani un'occasione del genere. Aver l'opportunità di portar via un bel gruzzolo ad una banda di mascalzoni. Be', l'occasione è venuta e non ho al¬cuna intenzione di lasciarmela sfuggire.

— Cosa vuoi dire?

— Se scopriranno che hai parlato, ti spazzeranno via. Vuoi sta¬re anche tu nell'affare?

Gli occhi di lei si socchiusero.

— Come?

— Morgan, di cui non t'ho ancora parlato e che non so cosa c'entri in tutto questo, potrebbe essere interessato perché gli pia¬ce guadagnare denaro molto facilmente.

— Morgan?

Rapidamente Duffy la mise al corrente della parte avuta da Morgan nella sua avventura.

— Penso che avesse intenzione di ricattare Annabel. Avrebbe fatto un certo effetto una foto di Annabel con Cattley su tutti i giornali. All'inizio avevo creduto che fossero stati gli uomini di Morgan ad uccidere Cattley per far ricadere su di lei la colpa, e sono stato tanto idiota da aiutarla a nascondere il cadavere. Co¬munque, questa è la sua fine. Venderò il taccuino rosso al miglior offerente.

— Ma che interesse avrebbe Morgan ad acquistarlo? — do¬mandò Olga.

Duffy ridacchiò.

— Usa il cervello. La gente segnata nel libriccino è piena di quattrini. Sarebbero disposti a pagare qualsiasi cifra per soffoca¬re uno scandalo.

Lei si allungò sul letto e mormorò: — Sì, credo che tu abbia qualcosa di grosso per le mani.

Duffy mise via il taccuino.

— Lo puoi dire ben forte. Perché non dovremmo farci un po' di soldi alla faccia di questi gangster?

— Quanto credi che ci potrebbe rendere?

— Cinquantamila, centomila... quel che vogliamo.

Lei si passò una mano fra i capelli. Duffy la guardò e pensò che era una gran bella donna.

— Potremmo fare un mucchio di cose con quel denaro, non ti pare? — disse con voce eccitata.

Duffy le accarezzò una mano.

— Sì, potremmo fare un mucchio di cose. — Diede un'occhia¬ta all'orologio e si alzò. — Mi farò un sonnellino. Presto ci sarà molta elettricità in giro.

Lei gli posò una mano sul braccio.

— Hai una faccia così stanca! — sussurrò.

— Be', sono... stanco! — esclamò Duffy, sorridendo.

La donna era immobile nel letto. Duffy notò il sollevarsi ritma¬to del suo seno sotto il lenzuolo.

— Potrei farti sentire molto meglio — disse Olga, guardandolo fisso. — Non vuoi venire qui con me?

Lui si sedette di nuovo sulla sponda del letto.

— Sei in gamba — mormorò. — Non questa notte. Domani ce ne andremo di qui. — Fece una pausa ed indicò con un gesto del capo la stanza accanto. — Sono brava gente. Non sarebbe onesto nei loro confronti. Domani.

Le accarezzò il viso.

— Non ti pare che Alice sia una ragazza in gamba? — Fece un passo, allontanandosi dal letto. — Non devono saper niente di tutto questo. È un segreto fra noi due.

Lei rimase a guardarlo mentre s'allontanava, poi spense la lu¬ce. Rimase sveglia a lungo prima di addormentarsi.


9


Duffy entrò nel garage di Ross e si guardò attorno nella semi¬oscurità. Ross uscì dal suo piccolo ufficio in fondo al capannone. Era grande e grasso, aveva il viso lucido di sudore. Si mosse len¬tamente, camminando sul pavimento chiazzato di olio e fece un gesto con la mano grassoccia.

— Non dirmi niente — esclamò non appena ebbe scorto Duf¬fy. — Voglio indovinare.

Duffy sorrise.

— Non ci vediamo da anni.

— Ci scommetto che sei nei guai.

Duffy scosse il capo.

— Ti sbagli. Niente del genere. Son venuto per farti guadagna¬re qualcosa.

Ross posò la sua mano pesante sul braccio di Duffy.

— Molto bene. Vieni nel mio ufficio. Ho una bottiglia di roba che son sicuro ti andrà.

Duffy si sedette nell'unica sedia davanti alla scrivania e si guar¬dò attorno nell'ufficietto che la mole di Ross riempiva quasi per intero.

— Comincia a far caldo, vero? — disse Ross mentre tirava fuori una bottiglia di liquore scuro. — Vacci piano con questa ro¬ba... è sangue di tigre.

Duffy prese la bottiglia, la portò alla bocca e ne bevve un sor¬so.

— Sì, è dinamite!

Ross prese la bottiglia e bevve a sua volta un lungo sorso di li¬quore. Si asciugò la bocca con il dorso della mano e mormorò: — Di che si tratta, allora?

Duffy s'accese una sigaretta e ne passò una a Ross.

— Ce l'hai sempre quella vecchia Buick?

Ross spalancò gli occhi.

— Vuoi dire quella corazzata?

— Proprio quella.

— Certo che ce l'ho ancora — rispose Ross, sorridendo.

— Il motore è in ordine?

— Se ha il motore in ordine? Tutte le mie macchine sono in or¬dine... tutte.

— Vorrei affittarla per un po'.

Ross alzò le spalle.

— Va bene. Ma perché non prendi la mia Packard? È un'otti¬ma vettura.

— Voglio la Buick — mormorò Duffy, alzandosi in piedi. — Ho bisogno di protezione per un po' di tempo.

— Lo sapevo che eri nei guai! — esclamò Ross.

— Fammi vedere il carro armato.

Ross lo guidò nel capannone.

— Eccola.

La Buick era apparentemente un'ordinaria vettura con la car¬rozzeria un po' in disordine.

Duffy disse: — Cos'ha, precisamente, di particolare?

Ross gli lanciò una rapida occhiata, poi si avvicinò alla macchi¬na.

— Prova un po' questa — gli disse, aprendo una portiera.

Duffy faticò a chiuderla.

— È acciaio, per questo è difficile da chiudere. Perché è pe¬sante e non perché è dura. — Ross riaprì la portiera e si sedette al volante. Duffy mise la testa dentro al finestrino aperto. — Il ti¬zio che ha fatto questa macchina sapeva il fatto suo — continuò Ross. — Il tetto è corazzato. Dai un'occhiata ai vetri. Da dentro sembrano normali, ma guarda un po' lo spessore? — Il vetro era almeno un centimetro e mezzo di spessore. — Respinge una pal¬lottola calibro 45 a chi l'ha sparata, questo vetro! — esclamò Ross soddisfatto. Toccò un pulsante nel cruscotto e s'aprì un cassettino nascosto dal quale Ross estrasse due grosse Colt automa¬tiche. — Queste non ti serviranno.

— Lasciale dove si trovano — disse invece Duffy con voce pa¬cata.

Ross lo guardò, strinse le labbra e quindi scrollò le spalle. Ri¬mise le pistole al loro posto.

— Sotto al sedile ci sono quattrocento cartucce.

— Santi numi! — esclamò Duffy.

Ross ridacchiò.

— Non ho mai avuto l'occasione di usarle.

— C'è altro?

Ross scese dalla macchina.

— Il radiatore è a prova di proiettile, il motore è protetto da una corazza. Il finestrino posteriore si alza dal basso, così puoi infilare la canna d'una pistola e far fuoco. Gh pneumatici sono pieni di un liquido autosigillante che chiude immediatamente qualsiasi foratura. È tutto.

Duffy si spinse il cappello sulla nuca.

— Sì, fa proprio al caso mio. Quanto ti devo, Ross?

Ross si grattò la testa.

— Quanto mi puoi dare? — chiese. — M'hai fatto dei piaceri nel passato...

— Ti darò trenta dollari la settimana — disse Duffy.

Ross scosse il capo.

— Troppo. Me ne bastano venti.

Duffy si tolse di tasca quaranta dollari e glieli porse.

— Prendo l'auto per un paio di settimane. Vuoi farmi il pieno?

Ross intascò il danaro.

— È già a posto.

Duffy aprì la portiera e si sedette al volante.

— Ci vediamo, amico.

Ross mise la testa dentro al finestrino.

— Vacci piano con le Colt — disse con fare ansioso. — Non sono registrate.

Duffy fece di sì col capo e ingranò la marcia. La Buick uscì lentamente dal garage. Duffy passò in banca, incassò mille dolla¬ri dal proprio conto e controllò quanto gh restava ancora. Tornò quindi alla macchina. Con i mille che aveva intascato e gh altri tremila ancora in banca, avrebbe potuto tirare avanti per un po'.

Olga l'aspettava allo Stud's Parlour, un bar tranquillo poco di¬stante dalla East 154th Street. Quando lei fece per salire in auto, le aprì lui la portiera e dovette aiutarla dall'interno per richiu¬derla.

— È arrugginita — disse la donna.

— No — le rispose Duffy, sorridendo. — È pesante perché è d'acciaio. Questa auto viene da Chicago. Là sanno come costrui¬re un'auto corazzata.

Lei rimase un po' in silenzio, poi disse: — T'aspetti dei guai?

— Be', prima o dopo ne arriveranno in un affare di questo ge¬nere, e non voglio farmi cogliere impreparato. Non hai paura?

Lei fece di no col capo.

— Non son facile ad impaurirmi — mormorò, portando una mano guantata al collo. E aggiunse: — I tuoi amici sono davvero gentili.

Duffy fece di sì col capo.

— Ho detto ad Alice che ti accompagnavo al treno perché te ne tornavi a casa.

— Non avresti potuto mettere anche loro a parte di quest'affa¬re? — disse Olga.

Duffy scosse il capo.

— A loro non interessa il denaro. Sono felici insieme quei due. Son quelli come te e me che credono che il denaro sia tutto.

Lei gli diede una rapida occhiata.

— Non è che parli così perché sei deluso dalla vita?

Duffy scosse il capo.

— No. Mi sono messo in questa faccenda e voglio andarci fino in fondo. Se non riuscirò a spuntarla, poco importa. Se tutto an¬drà come spero, spenderò i quattrini guadagnati, divertendomi.

— Ed io? — mormorò Olga in un soffio.

Duffy le posò una mano sul ginocchio.

— Tu sei in gamba. Avrai tutto quel che vorrai.

Fermò l'auto davanti a casa sua.

— Vieni. Voglio sapere se ti piace la tua nuova casa.

Salirono le scale, Duffy aprì la porta. Olga guardò all'interno con attenzione prima d'entrare. Poi si avvicinò alla finestra e si voltò verso Duffy.

— È bello. Mi piace.

Duffy buttò il cappello su una sedia e prese una bottiglia di rum da mobiletto bar.

— Ti piace il Bacardi? — chiese.

— Sì, ma non ti pare che sia presto per bere?

Duffy prese due bicchieri e versò del rum. Le si avvicinò e le porse un bicchiere.

— A te, a me e ai soldi!

Bevvero lentamente.

— Mettiti in libertà, cara — le disse lui. — Questa, ora, è la tua nuova casa.

— È la camera da letto quella? — chiese lei, indicando una porta.

— Sì. Va' a dare un'occhiata — le disse. Si accorse che gli tre¬mava la mano mentre la osservava camminare lentamente.

La seguì e rimase a guardarla nello specchio che rifletteva la sua bella immagine. Lei alzò lo sguardo e i loro occhi si incontra¬rono nello specchio. Olga si voltò.

Duffy l'attirò a sé.

— Mi piaci — le sussurrò. — Ti conosco da ventiquattro ore, ma mi pare di averti conosciuta da sempre. Ci scommetto che sei perfida e chissà quanti uomini hai avuto prima di me, ma non m'importa.

— Sì, sono stata tutto ciò e ancora peggio. — Lei strinse fra le sue le mani di Duffy per un istante; poi le lasciò e andò a sedersi sulla sponda del letto.

Duffy la raggiunse e si sedette accanto a lei.

— Dobbiamo imparare a conoscerci. Parlami di te.

Lei lo guardò con occhi ansiosi.

— Credi che sia necessario?

— Voglio sapere tutto di te.

— Sono nata in una piccola città del Montana — cominciò con voce incerta. — La vita era squallida, non accadeva mai nulla. Leggevo avidamente una rivista dopo l'altra, e in ognuna di esse si parlava della splendida vita di Hollywood. Milioni di altre ra¬gazze hanno sognato quel che ho sognato io, allora, e si sono poi comportate come me. Decisi di andare a Hollywood per tentare la fortuna. Così un giorno partii. Attesi che mio padre si fosse recato nei campi, presi tutto il danaro che si trovava in casa, non molto per la verità, e mi dileguai. Non arrivai mai a Hollywood. Finii il danaro a Oakland e ottenni là un lavoro come entraîneuse in una sala da ballo. Dovevo comportarmi gentilmente con i fre¬quentatori del locale. Dovevo farli bere più che potevo; ero pa¬gata a percentuale sulle consumazioni. Non durò molto. Una se¬ra il principale mi chiamò nel suo ufficio e quando ne uscii non avevo più nulla da difendere. Be', sai com'è, una volta che si co¬mincia a scendere, non c'è più modo di fermarsi.

— Quando è avvenuto tutto ciò? — le domandò Duffy.

— Circa otto anni fa. Avevo diciassette anni. Incontrai un tizio di nome Vernor. Come m'ha preso in giro quel tipo! Mi disse che avrei potuto fare un mucchio di quattrini. Bei vestiti, automobili, gioielli e tutto il resto. Avrei dovuto vendere il mio corpo tre o quattro volte per sera. Ci cascai. Cosa m'importava, ormai? M'interessava soltanto riuscire a mettere insieme un po' di dena¬ro per potermene andare da quel posto. M'ha fatto entrare in una casa, a Watsonville, una città nella California del Nord, ed una volta là non mi ci volle molto a rendermi conto che razza di idiota ero stata. Non era più possibile andarmene. Non mi davano i vestiti. Minacciavano di denunciarmi alla polizia. Mi teneva¬no in pugno.

— Non devi aver avuto certo una bella vita — borbottò Duffy.

Lei rimase in silenzio per un attimo, poi continuò: — Per quel che può importare, per tre anni non ho mai visto un uomo bian¬co. Filippini, indiani e cinesi, mai un bianco.

"Ormai ero ridotta all'estremo delle mie forze. Fu allora che venne Cattley. Ti immagini cosa può aver significato per me? Cattley venne nella mia stanza; m'aspettavo una di quelle solite facce colorate. Cattley s'innamorò di me ed io gli diedi tutto quel che avevo. Pensò che avrei potuto tornargli utile, così mi portò via da quel posto e mi mise su casa."

— Ma come potevi essergli utile? — domandò Duffy.

Il volto di lei s'indurì un poco.

— Ti sto raccontando le cose come sono andate, no?

— Sì, e non mi pare che siano andate molto bene.

Lei alzò le spalle.

— Già, non sono andate bene. Cattley aveva bisogno, per i suoi affari, di una donna. Mi faceva intrattenere i suoi ospiti. Riuscii a fargli conoscere gente altolocata. Era merito mio se riu¬sciva a guadagnare un mucchio di quattrini. Cattley era però giu¬sto con me. Mi ha dato molto. — Sospirò, torcendosi le mani. — Ora quel poveraccio è morto.

Il telefono squillò nella stanza accanto. Duffy non fece alcun cenno di muoversi per andare a rispondere.

— Non rispondi? — disse Olga.

— Lascia che suoni — mormorò lui, guardandola.

Lei lo fissò, sorridendo.

— Sì... lasciamolo suonare.

Duffy attirò la donna a sé, e mormorò: — Sono pazzo di te... mi piaci.

Il telefono riprese a squillare, ma nessuno rispose.


Duffy era steso sul letto a occhi aperti. Olga, invece, dormiva. Duffy la guardò. Era molto bella. Il suo corpo era bianco e vellu¬tato.

Le sfiorò con una mano i capelli. Olga si destò e lo guardò, sor¬ridendo.

— M'hai incastrato... — disse Duffy.

— Voglio andar via con te — sussurrò la donna. — Andar via lontano, lontano. Non mi abbandonerai, ora, vero? — Sottoli¬neò quell'"ora", calcando la voce.

Duffy scosse il capo.

— Sarà bello insieme, vedrai.

Il telefono cominciò di nuovo a squillare.

Olga si mise a sedere sul letto. Fu scossa da un rapido tremito.

— No, non rispondere — mormorò.

Duffy esitò ma poi, dopo averle sorriso, s'alzò e raggiunse il soggiorno. Sollevò il microfono.

— Chi parla? — chiese secco.

— Gleason — fu la risposta altrettanto secca alla sua doman¬da.

Duffy si avvicinò una sedia e si mise a sedere. I suoi occhi ave¬vano un'espressione dura e la sua bocca una piega amara.

— Sei tu? Non m'aspettavo che mi chiamassi così presto.

— È un po' che ti telefono. — Dalla voce si sarebbe detto che Gleason era nervoso, molto nervoso.

— Be', adesso m'hai trovato.

— Sono disposto a comprare quella cosa che tu sai a quindici¬mila — disse svelto Gleason.

— Non so se ho capito male... Hai detto quindicimila?

Gleason rimase in silenzio per qualche istante, poi aggiunse: — Non posso far di più. Quindicimila è il massimo.

— Che razza di spilorcio sei! Non ti preme riavere quel taccui¬no? Lo Stato mi pagherebbe di più per una prova di quel genere.

— Stammi bene a sentire — replicò Gleason. — Non posso di¬sporre di più di quel che t'ho offerto. Ma cercherò d'essere one¬sto con te. Ti offro anche il cinque per cento sugli affari.

— Ma usa il cervello! — sbottò Duffy, agitandosi sulla sedia. — Non son mica idiota! A cosa mi servirà il tuo cinque per cen¬to? Non appena avrai il taccuino in mano, la tua prima preoccu¬pazione sarà quella di farmi secco. Cosa se ne fa un cadavere del tuo cinque per cento? No, o contanti, o niente.

— Brutto figlio d'un cane! — sbottò Gleason.

— Piantala! Non sai ancora come stanno le cose. C'è un altro offerente in lizza. Se non mi farai delle buone offerte sarà lui ad avere il taccuino.

Ci fu un lungo silenzio da parte di Gleason. Duffy si accese una sigaretta.

— È così, quindi, che hai intenzione di giocare le tue carte, eh?

— L'hai capita. Non ho fretta, ma sarà bene che ci pensi su at-tentamente.

— Ti caccerai in un mucchio di guai — mormorò Gleason con voce calma. — Ti dirò onestamente quello che penso, Duffy...

— Senti, amico! — esclamò Duffy, interrompendolo. — So quel che sto facendo. Tu mi offri quindicimila ed io t'ho detto che non bastano. Chiaro? — Riattaccò il ricevitore.

Olga uscì dalla camera da letto. Era in sottoveste.

— Sei sicuro che quello sia il modo giusto?

Duffy si alzò, si accostò alla donna e la strinse fra le braccia.

— Sì. Ci vorrà un po' di tempo, ma così potremo fare un bel po' di quattrini.

Lei lo fissò attentamente.

— Non puoi fidarti di lui?

Duffy fece di no.

— Sarà una grossa fatica andarsene con i soldi; ma vedrai che ce la faremo.

Lei si appoggiò al suo petto.

— Non m'importava di quel che poteva accadere, prima. Ma ora...

Lui la condusse in camera da letto.

— Mettiti addosso qualcosa — mormorò. — Non mi riesce di pensare se rimani così.

Rimase a guardarla mentre lei disfaceva la valigetta che aveva portato con sé. Olga tirò fuori una vestaglia che lui resse mentre lei la indossava.

Tornarono in soggiorno.

— Mi pare che tu abbia qualcosa in mente — mormorò Olga, accendendosi una sigaretta.

Duffy trasse di tasca il taccuino e quindi un secondo libretto uguale all'altro. Li posò sul tavolo uno accanto all'altro. Olga li guardò attentamente.

— Vuoi fare il doppio gioco?

— Hai capito subito. Ti mostrerò come si fa a guadagnare un mucchio di soldi — disse Duffy, che tirò fuori una penna e si mise a copiare gli indirizzi del taccuino nell'altro libretto.

Lei si sedette sul bordo del tavolo e rimase a guardarlo.

— Qualcuno si arrabbierà quando avrà scoperto il tuo giochet¬to...

— Già, ma noi saremo lontani — ribatté Duffy, continuando a copiare.

Quando ebbe finito, rilesse alcuni nomi.

— Ma cos'è che vogliono dire questi numeri? Senti: Max Hughson, 5; Johnny Alvis, 7 e così via.

Lei si appoggiò al tavolo.

— Le cifre stanno ad indicare le migliaia di dollari che pagava¬no al mese per la droga e per la protezione.

— Sono grosse cifre. Ma quale protezione?

— Ti spiego il metodo di Gleason. Tutti questi tizi non sono dei veri drogati. Si divertono a giocare con il fuoco. Gleason ha venduto loro la droga la prima volta; poi li ha informati che qual¬cuno sapeva tutto e voleva essere pagato per tenere il becco chiu¬so. A Gleason bastava spaventarli un po' ed assicurarli che poi, con un po' di quattrini, lui avrebbe potuto sistemare tutto. Capito?

Duffy faceva conti fra sé e sé.

— Questo libriccino vale da cinquecentomila a un milione di dollari, se tutti pagano.

Olga fece di sì col capo.

— Quando ero con Cattley, la maggior parte di loro pagava.

— È facile far la grana se sai come farla — sentenziò Duffy, al¬zandosi. — Bene. Vedremo cosa ha da dire Morgan.

Lei scivolò giù dal tavolo.

— Cos'hai intenzione di fare dei due libriccini? — chiese.

— Ne darò uno a te; terrò io l'altro. — Le porse la copia. — Fa' attenzione a non perderlo.

Lei tenne in mano per un attimo il libriccino e poi, con un sor¬riso, lo pose nella mano di Duffy.

— Che fai?

— Speravo che tu lo facessi — disse Olga. — Volevo vedere se ti fidavi di me. È meglio che lo tenga tu, però. È più sicuro.

— Ma che diavolo...! — esclamò lui. Ma vide che lei era con¬tenta e intascò anche l'altro taccuino.

— Vengo anch'io da Morgan con te.

Lui ci pensò un attimo e poi disse di sì.

— Va bene. Ma mi aspetterai in macchina. Passeremo alla mia banca dove depositerò i taccuini.

Olga corse in camera da letto per cambiarsi.

— Mi farò dare l'indirizzo di Morgan dal Tribune. Son certo che loro lo sanno.

La udì trafficare nel bagno mentre chiedeva l'indirizzo al Tri¬bune. Quand'ebbe finito, andò in bagno. Olga era sotto la doccia e teneva il viso verso il getto d'acqua.

Duffy allungò una mano e aprì il rubinetto al massimo. L'ac¬qua fredda colpì Olga con violenza e la donna saltò fuori dalla vasca con il fiato mozzo. Duffy prese un grosso asciugamano e l'avvolse attorno alle sue spalle.

— Vedi di sbrigarti — le mormorò.

— Perché non ti fai anche tu un bel bagno?

— Ora riesco solo a pensare ai quattrini — rispose lui.

Olga si tolse la cuffia che le copriva i capelli e spruzzò Duffy con l'acqua che era rimasta nella vasca. Lui fece per darle una pacca scherzosa sul sedere, ma all'ultimo momento cambiò idea. Attirò la donna a sé e la baciò.

— Ci stiamo comportando come due bambini — esclamò Duf¬fy. E lei, per tutta risposta, sussurrò: — Sarai sempre buono con me?

Lui la strinse forte a sé.

— Andiamo, ora — la esortò. — Ci aspettano molte cose im¬portanti.


10


Duffy scese dalla Buick. Non poteva nascondere a se stesso la sorpresa. S'era aspettato che Morgan vivesse in una bella casa, ma non certo così lussuosa.

La porta d'ingresso era di cristallo protetto da volute di ferro battuto. Il campanello era in alto e andava tirato come la catena di un vecchio sciacquone.

Venne Clive ad aprire la porta.

Duffy disse prontamente.

— Di' al re che voglio vederlo.

Clive fece un passo indietro sorpreso.

— Vattene... — riuscì a farfugliare.

Duffy spalancò la porta, ma non entrò.

— Fa' quel che t'ho detto, se vuoi evitare dei guai.

Clive s'infilò una mano dentro la giacca, ma Duffy fu pronto a fare un passo avanti e ad allungargli un sonoro ceffone. Da in cima le scale giunse la voce del piccoletto.

— Non ti provare a picchiarlo di nuovo.

Clive allontanò la mano dalla giacca ed indietreggiò, guaendo come un cucciolo.

— Cosa aspettate a togliervi questo ragazzino dai piedi? — disse Duffy.

Il piccoletto scese le scale. Aveva il cappello calcato in testa. Duffy non sarebbe riuscito ad immaginarselo senza cappello.

— Dov'è Morgan? — chiese Duffy.

Il piccoletto fu prudente e si tenne a debita distanza dal visita¬tore.

— Non credevo che avessi tanto fegato.

— Non perderti in chiacchiere. Voglio vedere Morgan.

Il piccoletto si rivolse a Clive.

— Hai sentito? Ha detto che è venuto per vedere Morgan.

Duffy fece un balzo in avanti e l'agguantò per il bavero. I suoi occhi erano di granito.

— Da' un taglio a questa farsa!

Il piccoletto ficcò la canna di una automatica nella pancia di Duffy.

— Non fare il duro, amico! — esclamò.

Duffy mollò la presa e indietreggiò.

— Metti via la pistola e usa la testa.

— Avverti Morgan — disse il piccoletto, rivolto a Clive.

Duffy fissava il piccoletto il quale continuò: — Non hai mica intenzione di combinare dei guai, vero?

Duffy scosse il capo.

— Il tuo fiorellino ha cercato di tirar fuori la pistola — rispose. — Non mi va d'esser preso di mira.

Il piccoletto ridacchiò.

— Se lo conoscessi, sono certo che Clive ti piacerebbe.

Duffy era sempre immobile.

— Cosa ne diresti di mettere via la pistola? Non è certo questo il momento per delle sparatorie.

Il piccoletto infilò l'arma nel fodero sotto l'ascella.

— È che a volte divento un po' nervoso — disse, ridendo.

Si aprì una porta in fondo all'atrio, e Morgan apparve.

— Vieni qui.

Duffy attraversò il vasto atrio ed entrò nella stanza. Morgan lo aspettava in piedi. Joe era appoggiato al muro in un angolo e si puliva i denti con uno stecchino.

Duffy fece un cenno del capo a Morgan.

— Oh, ecco che abbiamo di nuovo il ficcanaso fra i piedi! — sbottò Joe.

Morgan fece un cenno con la mano per zittire lo scimmione.

— Ti sei deciso a portare le foto? — chiese rivolto a Duffy.

— Sarà meglio che ti chiarisca subito le idee. Sono venuto per parlarti.

— Gli do una bella spolverata? — s'affrettò a chiedere Joe. — Pare proprio che ci goda...

— Aspetta fuori — gli ordinò Morgan.

Joe alzò le spalle e si mosse per uscire. Passando davanti a Duffy, gli disse a pochi centimetri dalla faccia: — Sei furbo, eh!

Duffy non si spostò di un millimetro.

— Ti puzza il fiato — commentò.

Joe chiuse la porta alle sue spalle. Duffu si sedette in una grossa poltrona senza togliersi il cappello. Morgan si appoggiò al ca¬minetto e rimase in attesa che Duffy iniziasse a parlare. Questi non si fece attendere a lungo.

— È venuto il momento di fare quattro chiacchiere, non ti pa¬re?

Morgan trasse dalla tasca un portasigari, scelse un grosso ava¬na e se lo mise fra i denti dopo averne morso un'estremità. Rimi¬se in tasca il portasigari.

— Fumo anch'io — disse Duffy.

Morgan lo fissò con occhi ostili e fece di no col capo.

— Non i miei sigari. Muoviti a dire quello che hai da dire.

Duffy alzò le spalle e tirò fuori una sigaretta.

— Be', se è così che la prendi...

Una spessa cortina di fumo nascondeva il volto di Morgan, che mormorò: — Non dimenticare che hai ancora cinquecento dolla¬ri che sono miei.

— Hai ragione — confermò Duffy, togliendosi di tasca il por¬tafogli e tirando fuori cinque banconote da cento dollari ciascuna che buttò sul tavolo. — Le avevo pronte per ridartele.

Il volto di Morgan non mostrò alcuna sorpresa.

— Credevo che avessi voluto fare il furbo — disse Morgan.

— Quelli sono spiccioli. Ci puoi comprare un regalo per Clive, se credi.

Morgan s'irrigidì.

— Fa' attenzione a quel che dici — esclamò con voce minac¬ciosa.

— Be', lasciamo perdere le chiacchiere. Da quando m'hai cacciato nei guai con quelle tue foto, ho cominciato a prenderci gusto; inoltre, ho visto che ci si può fare un mucchio di soldi. Se ti accorderai con me, ti accorgerai se quel che ho detto è vero. Tanto per cominciare, sarà bene mettere in chiaro le cose: vole¬vi mettere nei guai il vecchio English, incastrando sua figlia, ve¬ro?

Morgan lo fissò a lungo, poi disse: — Supponiamo pure che sia come tu dici.

— Se ti avessi consegnato le foto della ragazza con Cattley, avresti potuto ricattare il vecchio che sarebbe stato così costretto a tenere il naso lontano dai tuoi affari.

Morgan andò a sedersi, ma non aprì bocca.

— Conosci Murray Gleason?

Un lampo di sorpresa attraversò gli occhi di Morgan.

— Sì, lo conosco.

— Cosa ne sai, di lui?

— Dove vuoi arrivare? — Morgan s'era fatto improvvisamen¬te impaziente.

— Te lo dico subito. Gleason ha un traffico di droga che impli¬ca alcune fra le persone più importanti della città. Le stringe be¬ne in pugno. Così, si è assicurato un vitalizio di circa un milione di dollari. Lo sapevi?

Morgan scosse il capo. Sporse in fuori le sue grosse labbra.

— Questa è una balla — mormorò. — Gleason non è altro che un piccolo spacciatore... almeno lo era quando lo conoscevo.

Duffy scoppiò a ridere.

— Non sei molto aggiornato a quanto pare! Gleason ha fatto molta strada ma è stato così furbo da non farlo sapere a nessuno. Non teme alcun uomo politico, lui!

— Non m'interessa Gleason — scattò Morgan spazientito.

Duffy fece di sì col capo.

— Certo... ma ti piacerebbe avere il suo giro, vero?

— Quando lo vorrò, non farò altro che prendermelo — replicò Morgan, facendo cadere la cenere del sigaro nel portacenere.

Duffy si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò il soffit¬to.

— Gleason aveva un elenco di tutti i suoi clienti con segnate le cifre che pagavano per essere protetti e riforniti.

Morgan alzò di scatto lo sguardo verso di lui.

— Hai detto "aveva"?

Duffy continuò a fissare il soffitto.

— Hai capito giusto. Adesso ce l'ho io.

Morgan assunse un tono indifferente.

— Be', potrebbe tornare utile — mormorò.

Ci mancò poco che Duffy scoppiasse a ridere.

— Utile? Non hai capito niente. La English è legata a Glea¬son, ma è matta da legare. Sono loro due i capi dell'organizzazio¬ne, e fanno un mucchio di soldi. Con quell'elenco, tu puoi elimi¬narli tutti e due, incastrare il vecchio English e guadagnare un sacco di dollari. Saranno trecento i pezzi grossi che ti offriranno soldi a palate, pur di evitare uno scandalo.

Morgan masticava l'estremità del sigaro.

— Da come la metti tu, sembrerebbe un buon affare.

— Ma lo è. È per questo che l'ho offerto a te.

— E perché?

— Perché hai i soldi.

— Quanto vuoi?

— Cinquantamila — disse Duffy. — Non ho alcuna intenzio¬ne di fare meno. Ho detto cinquanta e cinquanta dev'essere

Morgan scrollò le spalle.

— Non credo che riuscirai a farne tanto.

Duffy si alzò.

— Bene. Otterrò i quattrini dagli altri. Perche dovrei preoccu¬parmi?

— Aspetta. C'è ancora qualcosa da dire. — Morgan aveva una strana espressione. — Non c'è dubbio che m'hai fornito delle ot¬time informazioni. Pensaci: pagheresti tu una cifra del genere? Dimentichi che ho tre uomini che si mordono le dita dal deside¬rio di farla finita con te. No, non pagherei mai tanto denaro per quell'elenco. Sai cosa farei se fossi al tuo posto?

— Cosa faresti? — domandò Duffy.

Morgan ridacchiò. Sembrava una volpe.

— Quel che hai fatto tu. Farei un duplice elenco e tenterei di venderlo a tutti e due gli interessati.

Duffy cercò di non rivelare i suoi sentimenti.

— È un'idea — mormorò.

Morgan scosse il capo.

— È un'idea da idiota, ma mi va. E vuoi sapere perché? Per¬ché non appena avrai venduto l'elenco a Gleason glielo porterò via.

Duffy mormorò a denti stretti: — Sei molto sicuro di te, vero?

Morgan alzò le sue grosse spalle.

— E ti dirò un'altra cosa. Manderò Joe a prendere quei cin¬quantamila dollari non appena Gleason te li avrà pagati. Quello dovrebbe insegnarti a stare al mondo.

Duffy si mosse per raggiungere la porta.

— Credo che non potremo mai essere amici — mormorò con simulata tristezza — e me ne dispiace.

— Già... son certo anch'io che ti dispiacerà — commentò Morgan nello stesso tono.

Duffy aprì la porta. Joe si trovava appena fuori. Duffy rivolse un'ultima occhiata a Morgan.

— Non c'è altro, vero?

Morgan scosse il capo. Ma poi un'idea gli attraversò la mente.

— Aspetta.

Duffy attese. Teneva d'occhio intanto Joe che gli era di lato poco distante.

— Sì?

Morgan prese le cinque banconote dal tavolo.

— Cosa ne diresti di beccarti questi cinque bigliettoni e darmi l'elenco?

— E perché? — Duffy era sorpreso.

— Non potrai stare al gioco. Sei un debole. Cosa vuoi fare contro una organizzazione come la mia? Svegliati, ragazzo. Dove prendi il denaro per pagarti chi possa proteggerti? Chi vuoi che si metta con uno squilibrato come te? Devi essere davvero matto per venire da me e farmi una simile proposta. Dai, prenditi i cin¬quecento e dammi l'elenco! È tutto quel che vale, e ti terrai fuori da un mucchio di guai.

Gli occhi di Duffy erano di ghiaccio.

— Secondo te, sono un debole, vero?

Morgan alzò le spalle.

— Ho perso fin troppo tempo con te. Togliti dai piedi. Sbri¬gherò il lavoro da solo. — Intascò le cinque banconote. Quindi alzò lo sguardo. — Voglio quell'elenco questa sera — sbottò. — Non potrai fare niente, hai capito? Voglio l'elenco questa sera, o ti mollerò Joe alle calcagna.

Duffy fece un cenno col capo e s'allontanò mentre Joe ridac¬chiava rumorosamente. Uscì all'aperto e scese i pochi gradini del portico.

Olga lo guardò.

— Così non ha funzionato, vero?

Duffy ingranò la marcia. La grossa Buick si mise in moto lentamente. Duffy imprecava a fior di labbra; Olga guardava davanti a sé.

La Buick filò fra il traffico fino a raggiungere il Central Park dove si fermò di fronte al lago. Duffy spense il motore.

— Non prendertela tanto — disse Olga.

Duffy si tolse il cappello e lo scaraventò sul sedile posteriore.

— M'han fatto proprio girar le tasche, quei maledetti — sbot¬tò, e un leggero sorriso apparve sulle sue labbra.

— Raccontami com'è andata.

— Ben presto l'aria si farà calda. Sarà meglio che tu te ne vada — le disse Duffy.

— Cosa ne diresti di lasciar perdere questi discorsi e mi rac¬contassi invece com'è andata?

— Morgan vuole l'elenco — disse Duffy. — Devo consegnar¬glielo questa sera o altrimenti...

— Niente soldi? — chiese Olga.

— Già, niente soldi.

Lei rimase un attimo in silenzio.

— E allora...?

— Morgan ha grosse idee per la testa. Crede d'essere l'unico pezzo grosso in città. M'ha detto di lasciar perdere i grossi affari se non volevo bruciarmi le penne.

— Me l'aspettavo — mormorò Olga. — Sei disposto a qualsia¬si cosa per quei quattrini?

— Cosa intendi dire?

— I bastardi d'alto bordo come Morgan non possono credere che fai sul serio; per esser preso sul serio da loro, devi avere una reputazione da killer.

— Cosa posso fare?

La donna si piegò in avanti, aprì il cassettino vicino al cruscot¬to e tirò fuori una Colt.

— Un bastardo in più o in meno, conta poco; fallo fuori prima che lui faccia fuori te.

Duffy guardò la pistola con disgusto. Scosse il capo.

— No, non sarei mai capace di usarla.

Per un attimo Olga rimase in silenzio, poi disse: — Morgan ha ragione; sei un debole e un codardo.

Duffy le tolse la pistola di mano e la ripose al suo posto.

— Non c'è denaro al mondo che possa valere la vita di un uo¬mo. Se vogliamo andare d'accordo, dobbiamo vederla alla stessa maniera.

Lei posò la mano sul braccio di lui.

— Hai ragione. Fa' come credi tu.

— Vediamo quel che ha da dirci il nostro amico Gleason. Se riusciamo a fargli fuori un po' di dollari ce la battiamo verso la costa. Ti andrebbe? Un bel posto al caldo con lunghe spiagge gialle sotto il cielo azzurro. Tu ed io soli.

Lei s'appoggiò col capo allo schienale.

— Sarebbe una sciccheria.

— Sarà certo meglio che avere i piedipiatti alle calcagna.

Mentre Duffy avviava la macchina, Olga disse: — Fa' la strada lungo il fiume; è più bella. — Lui l'accontentò. Duffy parcheggiò la Buick lungo il marciapiede, poi lui e Olga salirono le scale che portavano al loro appartamento.

— Mi sembra un secolo che non bevo qualcosa — mormorò Duffy.

— Cosa ne diresti se facessimo un po' di festa e mi portassi fuori? — chiese lei.

— Queste scale sono dure da salire, vero? — mormorò lui, ap-poggiando una mano alla schiena della donna e spingendola. — Certo, ci divertiremo. Ma prima voglio sistemare le cose con Gleason.

Aprì la porta ed entrò. Duffy e Olga si guardarono attorno co¬sternati. L'appartamento era a soqquadro. Chi l'aveva perquisito non si era certo preoccupato di rimettere a posto le cose. Sem¬brava che vi fosse passato un ciclone.

— Gleason sta cercando di risparmiare un po' di soldi — escla¬mò Duffy.

Olga entrò nella stanza, cercando di non inciampare.

— È stata un'ottima idea la tua di depositare in banca i taccui¬ni.

Duffy fece di sì col capo. Il suo viso aveva un'espressione du¬ra.

— Gli darò una lezione a quel bastardo — mormorò.

— C'è tempo per quello. Adesso sarà meglio che tu venga a casa mia.

Duffy diede un'occhiata ai mobili rovesciati e sconquassati.

— Non importa, dopotutto. Domani ce ne andremo. — Entrò nella camera da letto. Qui era ancora peggio perché erano stati tagliati i materassi ed i cuscini.

Olga mise dentro la testa.

— Il nostro nido d'amore è stato distrutto.

— Già e m'hanno rubato il whisky. — Tirò fuori due vecchie valigie da sotto il letto. — Facciamo qualcosa — mormorò. In quel momento il telefono squillò.

Era Sam.

— Ciao, Sam — esclamò Duffy. — Mi fa piacere sentirti.

— Ascoltami bene. — Sembrava che Sam fosse eccitato. — Non venirmi a raccontare che hai lasciato andare quella donna a casa sua.

— È nell'altra stanza — disse Duffy.

— Quella donna ti metterà nei guai. Senti, Bill, lascia perdere quella faccenda. Ho sentito che al Post sarebbero contenti di as¬sumerti.

— Grazie, ma ho per le mani qualcosa di più grosso. Non i so¬liti quattro soldi; roba grossa, capisci? Domani lascerò la città e me ne andrò sulla costa. Quando avrò speso tutto, tornerò. Olga ed io stiamo bene assieme.

— Alice mi uccide questa sera se non torno a casa con te — ri¬batté Sam. — M'ha detto di tirarti per i capelli, se necessario.

— È venuto il momento di lasciarla, se ti parla in quel modo — sentenziò Duffy, ridendo. — No, ho deciso. Voglio andare fino in fondo. Quando avrò soldi in abbondanza, vi inviterò sulla co¬sta.

— È un affare pulito?

— È mai possibile fare molti soldi con le mani pulite? — chiese Duffy. — Ma non ti preoccupare per me. Va tutto bene.

— Immagino già come la prenderà Alice.

— Dille di Olga. Capirà. Dille che Olga è in gamba. Vedrai che non avrà più niente da dire.

— Lo è davvero?

— Che cosa?

— È davvero in gamba?

— O santi numi! Questa ragazza... — Duffy s'interruppe, scorgendo Olga che entrava nella stanza. — Be', Sam, ci vedre¬mo... e mi raccomando, comportati bene! — E con quell'ultima battuta, Duffy posò il ricevitore.

Olga gli sorrise.

— Ho sentito tutto. Sono contenta che tu la pensi così.

— Hai finito di fare le valigie?

— Finito. C'è tanto di quel disordine...

— Lascia stare. Non torneremo.

Le cinse le spalle col braccio.

— Mi piaci — sussurrò.

Lei lo guardò con occhi pieni di trepidazione.

— È proprio vero che sono la donna giusta per te? — chiese con voce incerta.

Lui sorrise.

— Sì... ne sono sicuro.

Lei nascose il viso contro il suo collo.

Rimasero abbracciati a lungo. Poi lui l'allontanò gentilmente, e guardandola in viso mormorò: — Mi domando se non sono matto a mettermi contro una banda come quella di Morgan quando potrei riavere un lavoro e potremmo sistemarci tranquil¬lamente.

— Prendi i soldi da Gleason e poi ce la battiamo.

Duffy alzò le spalle. Andò in camera da letto e chiuse le vali¬gie.

— Già, tu non sei Alice — disse Duffy.

Lei parve sorpresa.

— Alice? Chi è Alice?

Duffy la guardò sorridendo, ma la sua mente era lontana.

— Oh, niente! È una sciocca. Il denaro non conta per lei. Per lei vale ancora "due cuori e una capanna".

— Quel tipo lì è quasi estinto. Se ne trovano poche di donne così.

Duffy rimase immobile nel mezzo della stanza. Teneva una va¬ligia per mano e si guardava attorno. Rimase così a lungo. Olga gli toccò un braccio.

— Andiamo?

— Sì, andiamo... — rispose Duffy. Si fermò sulla porta e die¬de un'ultima occhiata attorno. — Non rivedrò più questo posto.

Olga l'oltrepassò e uscì nel corridoio.

— Che importa! — mormorò, cominciando a scendere le sca¬le.

Duffy uscì nel corridoio, posò le valigie, chiuse la porta, ripre¬se le valigie e la seguì per le scale.


11


Dopo essere tornati alla casa di Olga, Duffy si affrettò a chiama¬re Annabel al telefono; poteva nel frattempo udire Olga che sta¬va preparando le sue valigie. La ragazza canterellava allegramen¬te.

— Chi parla? — chiese la voce, un po' gutturale, di Annabel.

— Il tuo amico Duffy!

— Prima o poi commetterai qualche sbaglio — affermò la don¬na — ed allora io sarò la prima a spingerti nella fossa.

— Non ho tempo da perdere con te; chiamami Gleason.

— Sai cosa ne fanno di solito dei furbastri come te? Gli versa¬no in testa un bidone di benzina e poi gli danno fuoco.

Gleason doveva averle preso la cornetta di mano. Duffy udì che le diceva: — E piantala, no!

— Gleason? — chiamò Duffy.

— Sei disposto a trattare, allora?

— Sì. La concorrenza non è stata molto calda. M'hanno offer¬to quarantamila; il taccuino è tuo per cinquanta.

Gleason era furibondo.

— Come diavolo vuoi che faccia a mettere insieme cinquanta¬mila dollari!

— Domani me ne vado di qui e non m'importa chi ha avuto l'elenco, ma questa sera voglio i soldi. Cosa vuoi che siano cin¬quantamila dollari per uno come te?

— Me la pagherai, brutto figlio di un cane! — sbottò Gleason al colmo della rabbia.

— Non prima però che tu mi abbia dato i soldi e tu abbia avuto il taccuino. Dopodiché starò bene attento a non farti sapere dove sono diretto.

Gleason rimase in silenzio per un po'.

— Non posso pagarti in contanti. Ti posso però fare un asse¬gno...

— Contanti... — lo interruppe Duffy. — Vado a cena al Red Ribbon, questa sera, verso le otto e trenta. Se non ti farai vivo con i soldi, vorrà dire che venderò alla concorrenza. E non di¬menticare: contanti! — Con quell'ultima parola riattaccò. Salì al piano superiore per raggiungere Olga nella sua stanza. La ragaz¬za era inginocchiata per terra davanti a un grosso baule. Il pavi¬mento era ricoperto letteralmente di vestiti.

— Santi numi...! — esclamò Duffy.

Lei alzò il capo e gli sorrise.

— Dammi una mano.

Duffy guardò l'orologio sul caminetto. Erano le sei e mezzo. Prese la ragazza per le braccia e l'aiutò ad alzarsi in piedi.

— Senti, piccola — disse con pazienza. — Dovremo poterci muovere liberamente. Fatti solo "una" valigia. Lascia qui tutto il resto. Ti comprerò il mondo intero una volta che saremo fuori da tutto quanto.

Lei fece una piccola smorfia.

— Ma son tutti tanto belli! — Volse il capo a guardare i suoi vestiti sparsi per terra.

— Su, non c'è tempo da perdere.

Si misero al lavoro insieme e prepararono due grosse valigie. Quindi Duffy scese al piano terra. Andò in cucina, prese una bot¬tiglia di whisky, due bicchieri e tornò di sopra. Posò la roba sul comodino.

— Beviamo qualcosa.

Fu Olga che aprì la bottiglia e versò il whisky nei bicchieri. Duffy alzò il suo.

— A noi due — mormorò e bevvero. — Andiamo a cena al Red Ribbon.

Lei lo guardava ansiosa.

— E poi?

— Può darsi che Gleason ci porti i soldi. Credo proprio che lo farà. In tal caso, monteremo sulla Buick e lasceremo subito la città.

— E i taccuini?

Lui fece un cenno col capo.

— Non li ho dimenticati. Vado a prenderli subito. Non mi ci vorrà più di mezz'ora. Nel frattempo potrai prepararti. Indossa qualcosa di pratico per viaggiare.

Lei gli si avvicinò e gli cinse il collo con le braccia.

— Cosa c'è?

Lei si sollevò sulla punta dei piedi e gli mormorò qualcosa al¬l'orecchio.

— Non ora — mormorò Duffy con un sorriso.

Le sue braccia lo strinsero ancor più forte.

— Ti prego — mormorò lei in un soffio. — Ora.

Lui la baciò, ma la sua mente era lontana. Pensava a Morgan, a Gleason, ai dollari, a come avrebbero fatto a lasciare la città. Era stupito per il comportamento di lei. Non poteva fare a meno di pensare che quello non era certo il momento per mettersi a fa¬re all'amore. Gentilmente, ma con fermezza, si liberò dalla stret¬ta e le disse: — Questa sera. Guarda che ora è già; devo andare subito alla banca.

Il viso di lei si colorì un poco.

— La banca sarà già chiusa, no? — Duffy notò il tono un po' risentito della sua voce.

— Sì, ma ho pensato a un'evenienza di questo genere. Il cas¬siere è mio amico. L'ho avvertito che forse sarei passato a ritirare i taccuini fuori orario. — La guardò attentamente. — Non sei mi¬ca arrabbiata con me, vero? — mormorò, abbracciandola.

Lei non lo guardò.

— No, non sono arrabbiata. — Poi aggiunse con impeto: — Oh, vorrei tanto che tutto fosse finito, che avessimo già i soldi e ci trovassimo lontani, al sicuro!

— Non perdiamo la testa proprio adesso; vedrai che tutto an¬drà bene. Sta' tranquilla.

— Ma tu non sai, Bill, non sai... — disse Olga con voce rotta. — Non sai quante ne ho passate, la vita che ho avuto fino ad oggi, e ora che ho trovato te... ho paura, paura che accada qualcosa!

— Ehi, ma che cosa stai dicendo? Andrà tutto bene, vedrai! Ce ne andremo di qui con un bel mucchio di quattrini e vivremo assieme una vita da principi.

Lei mormorò con voce tranquilla: — Ho il presentimento che accadrà qualcosa di grave.

— Il whisky ti ha dato alla testa — ribatté Duffy. — Smettila di dire queste cose. — La strinse fra le braccia, baciandola. Poi la lasciò e si avviò verso la porta, dicendo: — Non starò via molto e quando torno ti voglio trovare pronta. — Le rivolse un ultimo sorriso e lasciò la stanza.

Lei rimase immobile dove lui l'aveva lasciata e poi, sottovoce quasi parlasse a se stessa, mormorò: — Bill, torna indietro; ho paura. Non lasciarmi sola, Bill...

Giù in strada Duffy si accese una sigaretta. Buttò via il fiammi¬fero e salì sulla grossa Buick. Mentre metteva in moto scorse nello specchio retrovisore una grossa Packard che svoltava la cur¬va alle sue spalle e avanzava nella sua direzione. La mente di Duffy era impegnata a pensare a quel che avrebbe dovuto fare. Spinse l'acceleratore e la Buick partì velocemente. La Packard rimase indietro e Duffy non ci pensò più.

Alla banca dovette discutere un bel po' per convincere il custo¬de che il cassiere lo aspettava. Alla fine riuscì a convincerlo ad andare a chiedere ad Anscombe, il cassiere. Il custode tornò di lì a poco e gli aprì il cancello di ferro borbottando fra i denti: — Non è regolamentare.

Duffy entrò nella banca. Un impiegato lo aspettava.

— Vorrei riavere dal cassiere quei libriccini che gli avevo con¬segnato.

— Il signor Anscombe viene subito — gli disse l'impiegato.

Anscombe comparve in quel momento in fondo al salone e gli fece un segno con la mano.

— Vuoi questi, vero? Quando il custode m'ha detto che eri qui, ho capito subito che eri tornato a prenderli. Firmami la rice¬vuta. Ti faccio un vero favore, sai. A quest'ora non dovremmo più trattare affari.

Duffy gli firmò la ricevuta e si mise in tasca i taccuini.

— Ti ringrazio. È una cosa urgente.

Anscombe lo accompagnò alla porta. Pareva avesse fretta che se ne andasse. Duffy lo salutò e uscì in strada. L'aria era pesante. Duffy guardò il cielo.

— C'è tempesta in vista — mormorò.

— Già — fu tutto il commento di Anscombe che lo salutò e chiuse la porta alle sue spalle. Duffy saltò sulla Buick e aprì il cassettino del cruscotto. Prese una delle due Colt e controllò che fosse carica. Se l'infilò poi nella cintura. Mise nel cassettino i due taccuini e lo richiuse bloccandolo. Sarebbero stati al sicuro lì.

Erano quasi le sette e mezzo quando arrivò alla casa di Olga. Notò che la luce nella sua camera da letto era ancora accesa.

— Ci scommetto — disse fra sé e sé — che sta ancora piangen¬do su quei vestiti che dovrà lasciare qui. — Aprì la porta con la chiave che lei gli aveva dato.

— Sei pronta? — disse a voce alta. Poi senza attendere una ri¬sposta entrò nel soggiorno per prendere una sigaretta, ma rimase immobile sull'ingresso. — Santi numi! — sbottò. Il soggiorno era nelle stesse condizioni in cui avevano trovato precedentemente il suo appartamento. Diede una rapida occhiata intorno e si lanciò di corsa verso le scale. In cima alle scale esitò un attimo e gridò: — Cara! — La sua voce era incerta.

— Se quei bastardi l'hanno solo sfiorata... — mormorò come se stesse parlando con qualcuno. — Cara! — gridò ancora.

La casa era immersa nel silenzio. Duffy pose la mano sul calcio della pistola e la estrasse lentamente. Camminò in punta di piedi sul pavimento coperto dal tappeto. Raggiunse la porta della ca¬mera da letto, posò la mano sulla maniglia e la girò con cautela. Entrò.

Olga giaceva sul pavimento con un coltello confitto nel cuore. Il colpo era stato vibrato con tale violenza che aveva sigillato la ferita. Non era uscita neppure una goccia di sangue. La vestaglia che s'era messa prima che Duffy fosse andato via, le era stata strappata di dosso e giaceva ammucchiata per terra. Olga aveva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse come in un sorriso. Non c'era terrore nel suo volto, ma sorpresa; una grande, profonda sorpresa.

Duffy rimase a guardarla a lungo. L'unico rumore nella stanza era il ticchettio incessante dell'orologio. Non aveva bisogno di toccarla per verificare che era morta; lo sapeva, lo sentiva.

Un rivolo di sudore gli colava lungo le guance. Sembrava quasi che stesse piangendo. Chissà quanto sarebbe rimasto a guardar¬la, se il telefono non l'avesse scosso con il suo squillo. Raggiunse il soggiorno al piano sottostante. Sollevò il ricevitore.

— Chi parla?

La voce stridula del piccoletto disse:

— Stiamo aspettando quell'elenco. L'ora limite: le undici. Do¬podiché verremo a prendercelo.

Duffy sibilò con violenza a denti stretti: — Va' all'inferno, figlio d'una cagna bastarda! — E riattaccò. Tornò nella camera da letto. Raccolse la vestaglia e ricoprì Olga affettuosamente.

— Mi dispiace, piccola — mormorò come se lei avesse potuto sentirlo. La sollevò sulle braccia e la depose sul letto. Le accarez¬zò i capelli. — T'è andata male anche questa volta, eh? — La ba¬ciò sulla bocca. Le sue labbra cominciavano a farsi fredde. Si tirò su, controllò i suoi abiti; non c'erano macchie di sangue. Si voltò per raggiungere la porta.

— Vacci piano, amico — disse una voce dura.

Duffy alzò gli occhi. Non provò alcuna sorpresa. Nel vano del¬l'uscio c'era un poliziotto che stringeva in pugno una pistola. Alle sue spalle Duffy poteva scorgerne un secondo.

— Era proprio voi che volevo — disse Duffy. — Hanno ucciso la mia donna.

— Tieni ferme le mani — rispose il primo agente. L'altro agente si fece avanti e si avvicinò a Duffy.

— Che cosa avete in mente? — chiese Duffy preoccupato.

Il primo agente disse all'altro: — Perquisiscilo. Avrà certo una pistola.

— Vi sbagliate di grosso — protestò Duffy. Aveva posato la pistola sul divano prima di sollevare Olga dal pavimento ed ora era là, mezzo nascosta dai cuscini.

Il secondo agente si portò con cautela alle spalle di Duffy, pro¬prio come se avesse a che fare con un animale feroce, e lo perqui¬sì attentamente.

— No, non ce l'ha.

— State perdendo il vostro tempo — disse Duffy.

— Un momento — sbottò il primo agente — sei tu Duffy, ve¬ro?

— Sì, sono io.

I due poliziotti si guardarono l'un l'altro come se fossero sor¬presi che lui rivelasse apertamente la propria identità. Il secondo agente si avvicinò al letto e sollevò la vestaglia che copriva Olga.

— Coprila subito, maledetto! — sbottò Duffy.

Il secondo agente volse lo sguardo verso di lui.

— Chiudi il becco. Un'altra uscita del genere e ti faccio star zitto per sempre.

— È morta? — domandò il primo agente.

— Sì. L'ha fatta fuori con un coltello.

— Ero fuori — gridò Duffy. — Quando sono tornato l'ho tro¬vata morta.

— Hai sentito? È tornato e l'ha trovata morta — esclamò il primo agente, ridendo. — Forza, amico. Adesso vieni con noi.

— Non mi accuserete mica d'averla uccisa, vero? — chiese Duffy incredulo.

— Svegliati, amico. — Al primo agente piaceva chiacchierare. — Siamo stati avvertiti.

Duffy si sentì una stretta al cuore.

— Non afferro bene — mormorò.

— La ragazza aveva dei soldi nascosti in casa e tu lo sapevi be¬ne. Hai cercato di prenderglieli con le buone ma non ci sei riusci¬to; allora l'hai fatta fuori e hai buttato la casa all'aria per trovare i soldi. È chiaro? Non è così, Gus?

Il secondo agente fece di sì con la testa. S'avvicinò a Duffy e gli mise una mano in tasca. Ne tirò fuori un mazzo di banconote

— Volete incastrarmi, eh?

Gus lo guardò sorridendo.

— Detto a quattr'occhi, amico, hai ragione. Ti sei messo con¬tro dei pesci troppo grossi per te.

— Non potrete sostenere l'accusa contro di me — disse Duffy.

Il primo agente alzò le spalle.

— Non sai nemmeno la metà di quel che sta per succederti. Andremo a fare un giretto assieme, ora.

— Ci dev'essere una bottiglia di scotch da qualche parte — dis¬se Duffy. — Vi dispiace se ne bevo un sorso?

Gus si passò un dito nel colletto.

— Ne berremo un goccio anche noi.

Duffy si mosse con cautela. Quei due non aspettavano che l'occasione per sparargli e dichiarare poi che avevano dovuto far¬lo perché lui s'era opposto all'arresto. Versò il whisky nei due bicchieri che c'erano sul tavolino. Mentre si voltava notò un'oc¬chiata d'intesa fra i due. Non aveva dubbi circa quanto aveva pensato prima. Porse i bicchieri ai due agenti, mormorando: — Io bevo dalla bottiglia.

La pistola era puntata con mano ferma verso di lui. Duffy non era a più di un metro dall'agente. Con un repentino balzò scattò in avanti, scaraventando il liquore in faccia all'agente.

Il poliziotto con un rantolo sparò, ma Duffy s'era buttato di fianco e con un salto agguantò la mano dell'agente e gliela torse, facendogli mollare l'arma.

L'agente sembrava impazzito; il whisky doveva bruciargli negli occhi. Duffy non gli diede tempo di riprendersi. Lo colpì col cal¬cio dell'arma sulla fronte e si voltò aspettandosi che l'altro fosse pronto a sparargli addosso. Ma Gus si stringeva le mani al ventre dal quale sgorgava un rivolo di sangue. Il proiettile del suo com¬pagno l'aveva colpito in pieno.

— Spero che ti piaccia — gli disse sprezzante Duffy. Poi prese una cinghia della valigia e legò i polsi del poliziotto. Quindi rac¬colse la vestaglia e coprì nuovamente il corpo di Olga.

Si muoveva con rapidità. Aveva ben chiaro davanti agli occhi l'intrigo nel quale si trovava. Prese la sua pistola dal divano e si avvicinò al poliziotto che stava riprendendosi dalla botta che gli aveva dato. Lo spinse sul divano e gli allungò un paio di tremendi schiaffoni.

Il poliziotto aprì gli occhi e sbatté le palpebre, cercando istin¬tivamente di mettersi in piedi.

— Chi è che ha preparato la trappola? — domandò Duffy.

L'agente lo guardò senza dir nulla. Duffy avvicinò la canna del¬la pistola alla sua tempia.

— Senti amico, non ho molto tempo da perdere. Parla se non vuoi che ti faccia saltare le cervella.

L'agente era pallido ed un rivolo di sudore gli attraversava il volto.

— È stata la signorina English — mormorò. — Ci ha dato un bel po' di soldi, perché vi facessimo fuori sotto accusa d'aver resi¬stito all'arresto. È stata lei che ci ha detto dove vi avremmo tro¬vato e per quale motivo avremmo potuto arrestarvi.

— C'è anche suo padre di mezzo? — domandò Duffy.

L'agente scosse il capo: — No, lui non ne sa niente.

Duffy si avvicinò a Gus e rovesciò il corpo con la punta della scarpa. Si chinò e gli frugò in tasca. Ne sfilò dieci bigliettoni da mille.

— Era questo il vostro compenso?

Il poliziotto fece cenno di no.

— No, quella era la prova contro di te. Quella donna vuol ve¬derti morto ad ogni costo.

Duffy udì la macchina che si fermava nella strada sottostante e si avvicinò alla finestra. Quattro piedipiatti stavano scendendo dalla vettura. Duffy non stette a perder tempo. Si lanciò giù per le scale e imboccò la porta posteriore proprio mentre i piedipiatti entravano da quella anteriore. L'ultima cosa che udì fu la voce del poliziotto che aveva lasciato di sopra, il quale gridava con quanta voce aveva in gola per richiamare i suoi colleghi. Duffy doveva raggiungere la sua auto. Si avviò con cautela verso la stra¬da, camminando sulla ghiaia del giardino che circondava la casa. Si arrestò. Da lì vedeva la vettura della polizia. Poco oltre c'era la sua Buick. Si mise a correre a più non posso senza curarsi di non far rumore. Raggiunse la Buick e si buttò dentro. Ormai era al sicuro. Mentre l'auto si muoveva, un agente si affacciò alla fi¬nestra della camera da letto e aprì il fuoco. Ma non avrebbero più potuto fargli niente; la Buick era corazzata. Sentì, infatti, tre proiettili colpire il metallo e rimbalzare.

— Ci sarà un gran finale! — mormorò Duffy. Il suo viso si irri¬gidì in una espressione dura e spietata.


12


Ross stava facendo uno spuntino quando Duffy arrivò al garage. Il garagista uscì dal suo ufficietto con la bocca piena. Fece un cenno del capo a Duffy e gli disse:

— C'è qualcosa che non va?

Ross si aspettava sempre guai. Duffy smontò dall'auto.

— La vettura scotta. Cambiale la targa.

Ross si muoveva con estrema agilità, considerata la sua mole. Si recò in ufficio e tornò di lì a poco con una serie di targhe. Duf¬fy l'aiutò.

— Sei nei guai? — chiese Ross.

— Senti, amico, non chieder niente e non sai niente. Ti com¬pro l'auto. Forse non mi vedrai mai più.

Ross sollevò le sopracciglia e lo guardò sorpreso; riunì quindi le mani sulla grossa pancia.

— Va bene, tienitela pure.

Duffy tirò fuori di tasca un rotolo di banconote, ne prese alcu¬ne e le ficcò nella cintura di Ross.

— Compratici uno yacht — mormorò. Salì quindi sulla mac¬china. Ross cacciò la testa dentro al finestrino. — Se hai bisogno di un buon nascondiglio — disse — recati nel Bronx, a Maddiston e di' a Gilroy che t'ho mandato io.

Duffy ripeté: — Bronx... Maddiston.

Ross tirò indietro la testa e diede un'occhiata alla strada.

— Via libera — disse a Duffy ed aggiunse: — mi dispiace, ami¬co.

Duffy gli sorrise.

— Anche a me! — ribatté. Fece un gesto di saluto con la mano e quindi la Buick saettò via verso il Greenwich Village. Duffy si fermò davanti a un ristorante, ed entrò.

V'erano parecchie persone intente a cenare. Lui si sedette su uno sgabello lungo il banco. Chiese un sandwich di pollo che mangiò innaffiandolo con due o tre sorsi generosi di whisky. Quand'ebbe finito, si avviò alla cabina telefonica e vi si chiuse dentro. Fece il numero del Tribune e chiese di Sam.

— Sam? Hai delle novità?

— Devo vederti — rispose Sam.

— Puoi raggiungermi al Dinty's? Ci vado subito.

Sam gli disse di sì e riattaccò.

Duffy salì in macchina e guidò fino al Dinty's. Parcheggiò la macchina nel garage sotterraneo, prese l'ascensore, e chiese una saletta privata.

— Attendete una signora? — gli domandò il cameriere. Duffy gli chiese di preparare qualcosa da bere e da mangiare. Gli disse poi che avrebbe atteso un amico da basso.

Sam arrivò di lì a poco. Non dissero nulla durante tutto il pe¬riodo che rimasero sull'ascensore, ma Sam continuava ad asciu¬garsi le mani e la fronte con il fazzoletto. Non appena furono nel¬la saletta appartata, e la porta fu chiusa alle loro spalle, Sam sbottò: — Ma sei diventato matto?

Duffy s'avvicinò al tavolo e si mise a preparare da bere.

— S'è già sparsa la notizia? — domandò.

— Va' in macchina ora. Ero al commissariato quando è arriva¬ta la notizia. — Sam cercava di mostrarsi indifferente, ma era nervoso come un drogato.

— Sei nei guai fino al collo — mormorò Sam.

— Dietro a tutto questo c'è Annabel — sbottò rabbiosamente Duffy. — È lei che manovra i fili dietro le quinte.

— Ma che cosa è successo, per dio?

Duffy bevve e riempì di nuovo il bicchiere.

— Eravamo pronti ad andarcene. Sono andato in banca per ri¬tirare i taccuini. Quando sono tornato l'ho trovata morta. Le avevano piantato un coltello nel petto. Devo essere come impaz¬zito e, invece di telefonare alla polizia, sono rimasto lì senza sa¬pere cosa fare. È stato così che sono entrati due piedipiatti. M'hanno accusato di aver ucciso Olga per derubarla; m'hanno perfino trovato addosso il danaro rubato. Già... uno dei due m'ha messo una mano in tasca e l'ha tirato fuori.

Sam lo fissava.

— Ma perché? Non ti avevano già incastrato abbastanza?

Duffy alzò le spalle.

— Volevano farmi fuori. Aspettavano solo che facessi una mossa falsa per spararmi e dichiarare poi che avevo opposto resi¬stenza. Ma sono stato più svelto di loro e nella mischia uno dei due piedipiatti ha premuto il grilletto ed ha fatto fuori il suo com¬pagno. Io sono riuscito a battermela quando sono arrivati gli al¬tri.

— Sei nei guai fino al collo — affermò Sam.

Duffy parve non averlo sentito.

— È stata Annabel, ne sono sicuro. Volevano riprendersi il taccuino senza pagare. Be', non l'avranno. Vedranno...

— Sarà meglio che tu te la batta fin che è possibile. Non puoi farcela contro quella banda. È troppo grossa per te solo.

Duffy mormorò con voce calma: — Voglio mettere una fine a tutta la questione. Fino ad ora sono stati gli altri a divertirsi. Olga m'aveva detto che non avrei combinato niente contro quelle ca¬rogne se non avessi fatto uso della pistola. Aveva proprio ra¬gione.

— Ti piaceva quella ragazza, vero? — domandò Sam.

Duffy fissava il soffitto.

— Cominciavo ad abituarmi a lei. Aveva tutte le mie stesse brutte abitudini.

— Ti chiedo lo stesso di scappare. Non puoi batterti con i pie¬dipiatti e Morgan. Sono troppo forti.

Duffy ribatté: — Tieniti fuori da questa faccenda, Sam. Mi ri¬fugio nel Bronx, a Maddiston; Ross m'ha indicato quel posto per nascondermi. Se le cose si metteranno al peggio, potrai trovarmi là. Aspetterò finché l'aria non si sia un po' rinfrescata.

— Devo andare ora — disse Sam. — Vado alla villa di Olga. Tutti i colleghi sono là.

Duffy gli si avvicinò.

— Di' ad Alice, di non preoccuparsi. Sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa del genere. Non sono tagliato per una vita sedentaria e tranquilla.

Sam si avvicinò alla porta.

— Se hai bisogno di soldi...

— Rimarresti sorpreso se sapessi quanti ne guadagnerò facil¬mente... — disse Duffy.

Non si strinsero la mano. Si guardarono un attimo attentamen¬te e Sam cercò di sorridere.

— Mi farò vivo — gli disse Duffy.

Attese che Sam se ne fosse andato. Si versò ancora da bere, si accese una sigaretta e raggiunse la Buick. Pioveva. Si mise al vo¬lante e guidò con attenzione nel traffico. Gli ci volle un bel po' per arrivare nel Bronx, dove c'era un club in uno scantinato con sopra un comodo garage. Duffy lasciò la Buick nel garage e scese una scala che conduceva al club.

— C'è Gilroy? — chièse all'uomo che dopo avergli aperto la porta lo guardava con sospetto.

— Chi sei, amico? — gli chiese.

— Di' a Gilroy che sono un amico di Ross.

L'uomo, un magrolino, spalancò la porta.

— Entra.

Non appena Duffy fu entrato nello stretto passaggio poco illu¬minato, l'uomo gli sfiorò con le mani la giacca.

— Non puoi entrare armato.

— Va' a dire a Gilroy che c'è un amico di Ross e piantala — sbottò brusco Duffy.

Il magrolino lo guardò titubante. Poi sparì oltre una porta in fondo al corridoio. Duffy s'appoggiò al muro e si mise paziente¬mente ad attendere. Non passò molto che la porta si riaprì e ven¬ne fuori un negro dalla pelle piuttosto chiara. Era alto e agile; aveva un'alta onda nei capelli untuosi. Diede un'occhiata dura a Duffy.

— Mi cercavi?

— È Ross che mi manda — disse Duffy. — Voglio restare al ri¬paro per qualche giorno.

Gilroy si passò una mano dalle dita lunghe e affusolate sul ca¬po.

— Va bene — mormorò. — Ti costerà cento dollari al giorno.

Duffy lo fissò attentamente.

— Grazie lo stesso — mormorò. — Non ho alcuna intenzione di farmi spennare vivo.

Gilroy lo fissò e poi sorrise.

— Va bene. Ross è un mio ottimo amico. Facciamo venticin¬que.

Duffy tolse di tasca un rotolo di banconote e ne prese dieci da dieci.

— Queste dovrebbero bastare per qualche giorno.

Gilroy prese le banconote e s'avvicinò alla luce per controllar¬le. Sorrise soddisfatto e se le mise in tasca.

— Sei in guai grossi? — chiese.

— Quando leggerai i giornali, lo capirai da te — gli disse Duf¬fy. — Vorrei mangiare, bere e un telefono.

Gilroy gli fece strada. Passarono la porta dalla quale il negro era comparso. Scesero tre scale, oltrepassarono una porta chiusa da una spessa tenda e quindi un'altra porta ancora in fondo a un piccolo corridoio appena illuminato. La stanza all'interno era molto piccola. C'era un letto, un tavolo, due poltrone e una pic¬cola radio.

— Ti porto subito da mangiare.

— È sicuro questo posto? — chiese Duffy.

Gilroy roteò gli occhi.

— È più che sicuro. Pago molto per essere protetto. I piedi¬piatti non ti daranno noie, qui.

Gilroy se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle. Nell'angolo della stanza, su di un tavolmetto, c'era una telefono. Duffy lo guardò per un attimo; poi sollevò il ricevitore e compose un nu¬mero.

Riconobbe subito la voce di Gleason.

— T'è andata male. Nonostante abbiate ucciso la mia donna, non siete riusciti a trovare il taccuino.

Gleason replicò subito: — Ah, sei tu, maledetto traditore! Che idea t'è venuta? Son tornato proprio ora dal Red Ribbon. Avevo i soldi ma non ti sei fatto vivo.

— Lascia perdere... Sei stato tu ad uccidere Olga e hai poi cer¬cato di far ricadere la colpa su di me. Sei un furbastro; ma non credere di cavartela a buon mercato.

Gleason lo interruppe.

— Ma che stai dicendo? Chi è questa Olga?

Duffy fissò a lungo il muro poi disse: — Verrò a farti una visi¬ta. Ce li hai sempre i soldi?

— Certo — rispose Gleason.

Duffy attaccò.

Gilroy entrò nella stanza. Portava con sé una bottiglia di whis¬ky, tre bottigliette di soda ed un bicchiere.

— Adesso arriva anche qualcosa da mangiare.

Duffy gli prese di mano la bottiglia e si versò da bere. In quel¬l'attimo il magrolino di prima entrò, stringendo fra le mani un grosso vassoio. Lo posò sul tavolo e s'allontanò dopo aver dato un'occhiata a Duffy.

Duffy si sedette e si mise a mangiare. Gilroy rimase in piedi; ascoltava la radio.

— Conoscevo quella donna — disse.

Duffy alzò lo sguardo verso di lui, la forchetta sospesa davanti alla sua bocca.

— Eh?

— Credo che sia meglio che tu te ne vada — disse Gilroy.

Duffy posò la forchetta.

— Ma che diavolo t'ha preso?

— Olga Shann... La conoscevo.

Duffy riprese la forchetta.

— Era una ragazza in gamba — mormorò. — Non l'ho uccisa io, se è questo che ti rode.

Gilroy non si mosse; grosse gocce di sudore gli imperlavano.il labbro superiore.

— Sembra invece che sia così — mormorò in tono palesemen¬te ostile.

Duffy continuò a mangiare.

— È stata Annabel English a conficcarle quel pugnale nel pet¬to — disse — e hanno cercato di far ricadere la colpa su di me.

Gilroy tirò fuori di tasca un fazzoletto e si asciugò la bocca. Stava in piedi immobile e si guardava la punta delle scarpe gialle.

Duffy finì di mangiare in silenzio. Ingollò quindi un altro po' di whisky. Si accese una sigaretta.

— Se quella donna ti piaceva quanto piaceva a me, so quel che stai provando.

Gilroy parve rilassarsi un poco e s'avvicinò al tavolo.

— Ross non può avermi mandato un delinquente — mormorò. — Credo che tu abbia detto la verità.

— Certo — disse Duffy, scuotendo il capo.

— Vorrei considerare questa faccenda come una cosa persona¬le. — Gilroy si guardava le unghie rosa. — Se vorrai una mano, amico, dispongo di una piccola banda molto efficiente.

Duffy sorrise.

— Dovrò sistemare le cose da solo.

— Certo, certo — commentò Gilroy, scuotendo il capo. — Ma potrai aver bisogno d'aiuto.

Alzandosi in piedi, Duffy gli rispose: — Lo terrò presente. — Si avvicinò alla porta. Si voltò verso il negro. — Fa caldo?

Gilroy fece di sì col capo.

— Il terreno scotta.

Duffy sorrise.

— Non ho ancora intenzione di passare all'azione. Tornerò.

Parcheggiò la Buick lungo il marciapiede davanti alla casa di Annabel. All'angolo della strada notò un agente. Rimase sull'au¬to. Pioveva forte. Dopo un po' il poliziotto si mise al riparo, nel portone. Duffy poté così scendere e raggiungere la porta d'ac¬cesso al soppalco dell'organo. Aveva ancora la chiave. Aprì la porta.

Non appena fu nel soppalco, scorse Gleason nel soggiorno sot¬tostante. Era seduto e giocherellava con un'automatica. Duffy si mise in ginocchio e rimase a guardarlo per qualche minuto.

— Butta a terra quella pistola — intimò — se non vuoi che ti faccia fuori.

Gleason sussultò sorpreso e s'affrettò ad ubbidire. Subito dopo alzò lo sguardo verso il soppalco. Duffy si alzò, emergendo oltre la balaustra.

— Dov'è Annabel?

Gleason rispose con voce rotta: — Non c'è.

Duffy scavalcò la balaustra e rimase in quella posizione.

— Adesso scendo giù. Non fare brutti scherzi perché muoio dalla voglia di farti fuori.

Duffy si lasciò cadere sul tappeto sottostante. Smorzò la cadu¬ta con una mano mentre con l'altra reggeva la Colt sempre pun¬tata verso Gleason che se ne stava seduto immobile.

Duffy si sedette sul tavolo. Teneva la Colt bassa lungo il fian¬co. Allungò un piede e spinse via la pistola di Gleason facendola finire sotto una sedia lontana dal pericoloso personaggio.

— Noi due abbiamo molte cose da dirci — disse.

Gleason lo guardò, fece una smorfia ma non disse nulla.

— Hai cercato di fregarmi, perquisendo prima casa mia e poi quella di Olga; e hai ucciso la mia donna, cercando di far cadere la colpa su di me. Ma ora è venuto il mio turno di divertirmi.

Gleason mormorò con un filo di voce: — Non so di che stai parlando.

Dall'espressione del suo viso si sarebbe detto proprio che non lo sapeva. Duffy lo fissò attentamente.

— Non ne sai niente, eh?

— Ho fatto come eravamo d'accordo. Sono venuto al Red Ribbon con i soldi, ma tu non ti sei fatto vivo. Sono tornato a ca¬sa e tu m'hai telefonato. È tutto.

— Chi ha ucciso Weidmer? — domandò Duffy.

— In questo modo non approderai a nulla.

— Ti sbagli. Chi lo ha ucciso? Forza! Se lo sai, questo ti mette¬rà fuori da questa faccenda.

— Ma io non lo so — replicò Gleason.

Duffy alzò la Colt.

— È la prima volta che uccido un uomo — mormorò con voce fredda. — Spero di farlo come si deve.

Gleason si fece pallido come un morto e quindi sbottò d'un sol fiato: — È stata quella dannata ragazza!

Duffy spinse il cappello sulla nuca.

— Brutto idiota! — mormorò mentre si passava il dorso della mano sul volto madido di sudore. — C'è mancato poco che mi costringessi ad ucciderti.

Gleason si appoggiò con la schiena alla poltrona. Aveva un brutto aspetto.

Duffy gli chiese ancora: — Cos'è per te quella donna?

— È mia moglie — mormorò Gleason, stringendosi le mani per trattenerne il tremito. — Vorrei non averla mai conosciuta.

— Allora stanno così le cose? Ha ucciso Cattley, Weidmer e Olga?

Gleason sussultò: — Ma si può sapere chi è questa Olga di cui parli sempre?

— Non importa chi è. — Duffy si scostò dal tavolo. — Dovre¬sti stare ben attento a quella donna — mormorò. — È pericolosa.

Gleason cercò di accavallare le gambe, ma non ci riuscì.

— È matta da legare — fu la sua risposta. — Non posso mol¬larla. Mi pianterebbe un coltello nella schiena.

— Quanti soldi hai?

Gleason alzò lo sguardo.

— Tu hai detto cinquantamila; ma ho solo venticinquemila con me. — Sfilò una lunga busta chiusa dalla tasca e la posò sul tavolo.

Duffy guardò la busta e disse: — Aprila.

Gleason ci provò due volte, ma gli tremavano troppo le mani. Duffy posò la pistola sul tavolo a portata di mano e lacerò la bu¬sta. Rovesciò le banconote sul tavolo e le controllò. Poi se le mi¬se in tasca. Tirò fuori il taccuino e lo gettò addosso a Gleason.

Gleason lo guardava sorpreso. Duffy scosse il capo.

— Ti aspettavi che facessi il doppio gioco, vero?

Gleason sfogliava il libriccino come se non credesse ai propri occhi e volesse convincersi di quel che vedeva. Duffy raccolse la pistola di Gleason, la scaricò e la ributtò a terra. Infilò, quindi, la sua Colt nella cintola e nascose bene il calcio sotto il panciotto.

Gleason alzò lo sguardo verso di lui.

— Be', è la prima volta che mi capita di lavorare in modo puli¬to.

Duffy lo guardava duramente.

— Non sai una cosa, amico. Non terrai quel taccuino a lungo. Morgan lo vuole per sé.

Gleason balzò in piedi.

— Morgan? E come diavolo fa a sapere dell'esistenza di que¬sto taccuino?

Duffy alzò le spalle.

— Immagino di aver parlato un po' troppo — disse. — Co¬munque, quel taccuino è il tuo funerale.

Si avviò verso la porta.

— Devo sistemare alcune cose e poi me la batto.

Gleason era immobile in mezzo alla stanza e fissava il pavi¬mento. Duffy gli diede un'ultima occhiata ed aprì la porta. Si trovò a faccia a faccia con Annabel che gli puntava una calibro 38 nella pancia.

Duffy si affrettò ad alzare le mani.

— Tieni le manine alzate, bello! — sbottò Annabel.

Gleason si affrettò a raggiungere Duffy e lo disarmò.

— Cammina all'indietro — gli ordinò.

Duffy obbedì. Annabel avanzò verso la luce. Sembrava una vecchia. La stanchezza e l'espressione di odio sul suo volto la rendevano stranamente brutta. Gleason si mise in tasca la pistola di Duffy. Gli prese le banconote e con un sorriso dichiarò: — Mi dispiace!

Duffy fissava Annabel. Mormorò a denti stretti, sillabando le parole una ad una: — Meglio che tu mi spari subito. Altrimenti sarò io a ucciderti.

— Siediti — disse lei.

Duffy si sedette perché lo voleva e non perché glielo aveva or¬dinato lei. Lei disse a Gleason: — Accendi la radio.

Gleason la guardò sorpreso, si avvicinò alla radio che si trova¬va a destra, dietro le spalle di Duffy. Non appena Gleason ebbe girato le spalle, Duffy vide Annabel irrigidirsi. Sembrava che gli occhi le si fossero appannati. Duffy non capiva; guardava la don¬na senza rendersi conto di cosa stesse succedendo. Poi, all'im¬provviso, lo intuì e lanciò un grido d'allarme, ma ormai era trop¬po tardi. Annabel sparò a Gleason due volte. Gleason girò su se stesso e fissò con stupore la moglie. Cadde quindi a terra trasci¬nandosi dietro la radio.

— Non muoverti — intimò la donna, puntando la pistola verso Duffy.

Duffy stava guardando Gleason steso a terra.

— Povero diavolo — mormorò.

Annabel sbottò cinicamente: — Era un pezzo che attendevo un'occasione per sbarazzarmi di quell'idiota.

— Ti manderanno sulla sedia elettrica — disse freddamente Duffy.

— Lo credi davvero? — Annabel scoppiò a ridere. — Non ti rendi conto ancora di quel che voglio fare? Sta' a vedere come faccio ricadere la colpa su di te.

Raccolse la pistola di Gleason. Si allontanò da Duffy, camminando all'indietro.

— Muoio dalla voglia di farti fuori. Fa' una sola mossa falsa e sai come va a finire.

Pulì con cura sulla propria gonna la .38 e la buttò vicino a Gleason.

— Quella è la tua pistola — disse, tenendo Duffy di mira con l'arma di Gleason.

Duffy ridacchiò.

— E allora?

— Non hai ancora capito? Ora ti sparo. Quando chiamerò la polizia dirò che ti ho sparato per legittima difesa dopo che tu ave¬vi ucciso Gleason. Non ti pare che sia ben progettato?

Duffy si alzò.

— Sei matta da legare — disse e avanzò verso di lei.

Annabel attese che l'uomo le si avvicinasse a non più di mezzo metro. Aveva i denti scoperti e la bava alla bocca. Premette il grilletto. L'automatica fece clic, clic, clic. Duffy allungò la mano e le strappò l'arma.

— L'avevo scaricata dopo averla tolta a Gleason — mormorò con calma, e poi le allungò un tremendo schiaffo a mano aperta. La ragazza indietreggiò, batté contro la parete, scivolò a terra e si piegò su di un fianco. Poi si mise a piangere istericamente.

Dal soppalco, giunse una voce dura: — Piantala. Ti ha dato soltanto un ceffone.


13


Il piccoletto domandò: — Come diavolo si fa a scendere da quas¬sù?

Duffy alzò lo sguardo verso di loro. Guardò Clive e Joe. Que¬sti due stringevano in mano la pistola con fare indifferente. Duffy rispose: — Si salta. — Si avvicinò al mobiletto bar e si versò da bere.

Annabel s'era intanto alzata in piedi. Con una mano si copriva la guancia. Aveva le spalle appoggiate al muro e fissava esterre¬fatta i tre uomini sul soppalco.

Il piccoletto scavalcò la balaustra e si lasciò cadere sul tappeto sottostante. Rotolò su se stesso e finì seduto imprecando.

— Vieni giù anche tu Clive; tu, Joe, rimani lassù e tieni d'oc¬chio i nostri amici. Spara se vedi che fanno i furbi. Capito?

Joe si appoggiò alla balaustra.

— Ho capito. Se fanno i furbi, sparo. Non temere, li sorveglierò.

Duffy ingollò un sorso di scotch e si sentì meglio. Intanto an¬che Clive era saltato giù. Duffy disse rivolto al piccoletto: — Non conosci questi due, vero? Il morto è Murray Gleason e la rossa è Annabel.

Il piccoletto ridacchiò.

— Santi numi, ti si trova dappertutto, eh?

— Certo — ribatté Duffy. — Ma adesso che ci siete anche voi che facciamo?

Clive si ripiegò su Gleason; voltò il cadavere e lo perquisì. Gli tolse di tasca il taccuino rosso e le banconote; passò il taccuino al piccoletto, che lo sfogliò con vivo interesse.

Duffy non si preoccupava di quel che facevano e si avvicinò ad Annabel. Le disse con voce calma: — Hai commesso un grave errore ad uccidere Olga; non mi darò pace fino a che non ti vedrò sulla sedia elettrica.

Lei lo fissò un attimo e sputò con un gesto di profondo disprez¬zo. Duffy fece un passo indietro e mormorò: — La morte è l'uni¬ca cosa giusta per te.

Il piccoletto porse il taccuino a Clive e gli disse: — Vuoi darci un'occhiata?

— Sì, supposto che sappia leggere — commentò Duffy.

Il piccoletto lo guardò e disse, scrollando il capo: — T'ho già detto di lasciar stare il ragazzo.

Clive sbottò a denti stretti: — Io quel bastardo lo tolgo di mez¬zo!

Il piccoletto si grattò la testa ed alzò lo sguardo verso il soppal¬co.

— Hai sentito quel che ha detto il ragazzo, Joe?

Joe ridacchiò.

— E perché no? È un bel po' che Clive non lavora.

Il piccoletto aggiunse: — Sì, è vero. È un po'. Allora toglilo pure di mezzo.

Clive si mosse leggermente verso Duffy il quale lo osservava con il viso teso. Duffy si trovava poco lontano dalla parete.

— Sì, dategli quel che si merita! — gridò Annabel.

Clive ed il piccoletto girarono un attimo il capo verso di lei e Duffy ne approfittò. Con uno scatto rapido girò l'interruttore della luce e sparò sulla sinistra. Ricordava la posizione dei fili della luce. Li cercò a tentoni e li strappò. La voce secca del picco¬letto ruppe il profondo silenzio che aveva seguito lo sparo.

— Non sparate. Ci mancherebbero anche i piedipiatti. Clive, sta' vicino alla porta. Accenderò la luce.

Duffy ridacchiò. Immobile stava attento al minimo rumore.

— Vengo giù — disse Joe.

— Aspetta, te lo dirò io — rispose il piccoletto.

Duffy si mosse senza far rumore. Si arrestò quando giudicò d'essere abbastanza vicino al piccoletto, e quando questi accese un fiammifero lo colpì all'improvviso con un pugno in pieno vi¬so, facendolo cadere a terra. Il fiammifero si spense subito. Duffy indietreggiò rapidamente di qualche passo e urtò contro una sedia. Joe sparò un colpo e Duffy sentì il proiettile sibilar¬gli vicino.

Muovendosi verso la porta, Duffy s'imbatté in Clive che lanciò un urlo. Duffy fu svelto ad afferrarlo e gli sbatté la testa contro il muro. Clive cadde a terra come un sacco di patate.

Il piccoletto si era ripreso e gridò: — Svelto, Joe! Ha preso Cli¬ve.

— Ma cosa vuoi che faccia? — ribatté Joe. — Non ci vedo...

Duffy reggeva Clive, tenendolo per la camicia. Raggiunse la porta ed entrò nell'atrio, tirandosi dietro il ragazzo. Il ballatoio era al buio. Duffy lasciò andare Clive a terra, chiuse la porta alle sue spalle, girando la chiave nella toppa. Cercò quindi l'interrut¬tore e accese la luce.

Clive era raggomitolato su se stesso. Duffy gli frugò nelle ta¬sche e tirò fuori taccuino e banconote.

— Credo di doverti qualcosa, amico — mormorò Duffy; solle¬vò il piede, pose il tacco della scarpa sul viso di Clive e schiacciò. Clive si rianimò al dolore e lanciò un urlo inumano. Duffy sbot¬tò: — Eccoti, amico; era un po' che ti dovevo un regalino. — Si appoggiò con tutto il peso del corpo sul piede e schiacciò ancora, girando il tacco. Si udì uno scricchiolio di ossa e Clive smise di gridare. Duffy spostò il piede e si pulì il tacco sul tappeto soffice, dove lasciò due tracce rosse. S'affrettò ad uscire sul ballatoio e a buttarsi di corsa giù per le scale, senza aspettare l'ascensore. Udiva intanto i colpi delle spallate di Joe che cercava di abbatte¬re la porta.

Raggiunse la strada. Stava piovendo di nuovo. L'aria era pe¬sante e calda. Raggiunse la Buick, aprì la portiera e si sedette al volante. Mise in moto e si allontanò a tutta birra.

Il traffico era diminuito. Impiegò metà tempo a tornare nel Bronx. Lasciata l'auto in garage, scese le scale che portavano allo scantinato e bussò alla porta.

Gli aprì Gilroy. Il negro gli sorrise.

— Tutto a posto? — chiese.

Duffy accennò di sì.

— Vieni... beviamo qualcosa — disse.

Gilroy lo seguì nella stanzetta. Duffy si sedette sul letto e spin¬se il cappello sulla nuca. Gilroy preparò da bere, si avvicinò e passò un bicchiere a Duffy. Rimase in piedi ad aspettare che Duffy parlasse. Aveva il viso insonnolito, ma interessato.

Duffy lo guardò attentamente a lungo, grattandosi la guancia. Disse all'improvviso: — Forse potresti entrare anche tu nell'affa¬re.

Gilroy alzò le spalle.

— Non ne so niente...

— Gleason è stato fatto fuori questa notte — disse Duffy, agi¬tando il liquore nel bicchiere. — Mi trovavo là; c'era pure la banda di Morgan e la moglie di Gleason. È stata lei a farlo fuori e a cercare di far ricadere su di me la colpa.

— Lavorano forte contro di te, a quanto pare — mormorò Gil¬roy, roteando gli occhi.

Duffy fece di sì col capo.

— Certo, ne hanno il motivo. Sono io che tengo fermo un gi¬ro d'affari d'un milione di dollari. — Trasse di tasca il taccuino rosso e lo buttò sul tavolo. Gilroy lo prese e lo esaminò con viva curiosità. Duffy s'accorse che il negro non riusciva a capire cosa fosse.

Duffy glielo spiegò.

Gilroy s'era seduto e ascoltava con le palpebre nere socchiuse. Strinse le labbra e mormorò: — Devi andarci piano.

Duffy replicò: — Lo sapevo da solo. — S'alzò e si guardò at¬torno. — Se Olga fosse con me, me la batterei; ma cosa faccio ora da solo? Dove posso andare?

Gilroy sfogliò il taccuino.

— Non andresti comunque molto lontano — commentò.

Duffy alzò le spalle.

— Chi lo sa. Forse ce la farei.

— Hai in mente di continuare il gioco?

Duffy fissò Gilroy con sguardo duro.

— Dipende molto da te.

— Che cosa c'entro io? — domandò Gilroy.

— Non molto tempo fa m'hai offerto la tua banda; credo che ora potrebbe tornarmi utile.

Gilroy si passò una mano fra i capelli ricci.

— Come? — chiese con curiosità.

Duffy si appoggiò al tavolo con una mano e batté l'indice del¬l'altra sul legno.

— Vorrei togliere di mezzo la banda di Morgan.

Gilroy sospirò.

— Tu sei matto. Ti ci vogliono molti quattrini per un'operazio¬ne del genere.

Duffy tirò fuori le banconote che aveva ripreso a Clive e i die¬cimila dollari che aveva preso al poliziotto. Posò tutto il danaro sul tavolo. Gilroy guardava le banconote con occhi luccicanti.

— Bastano trentacinquemila dollari? — chiese Duffy.

Gilroy si passò un lungo dito nero dentro al colletto.

— Be', son qualcosa — mormorò. — Dove diavolo hai preso tutti quei soldi?

Duffy afferrò le banconote e se le ricacciò in tasca.

— Mi son cadute in braccio — rispose. — Allora? Ci stai?

Gilroy si versò dell'altro liquore e s'accese una sigaretta.

— Parliamone un po'. Cos'hai in mente di fare?

Duffy si sedette.

— Non lo so — mormorò. — Voglio eliminare Morgan e la sua banda; di questo son sicuro.

Gilroy lo fissava attentamente.

— Perché?

Duffy strinse le labbra.

— Perché Morgan crede che non sia capace di farlo; me l'ha detto in faccia. Be', voglio mostrare a quel ciccione che s'è sba¬gliato sul mio conto.

Gilroy fece un cenno del capo.

— È così che stanno le cose, eh?

— Sì, è così che stanno le cose — ripeté Duffy.

— Non andrai molto lontano con i piedipiatti alle calcagna.

— Potrò sistemare questa faccenda. Per prima cosa, domani, penserò a procurarmi una buona "protezione".

— Protezione? E da chi la puoi ottenere?

— Da English. — Duffy s'appoggiò allo schienale della sedia e bevve un lungo sorso. — Lo metterò al corrente di tutto e poi mi farò proteggere da lui.

Gilroy mormorò: — Sì, forse ce la farai.

— Certo che ce la farò — replicò Duffy. — Non appena avrò ottenuto la protezione. Allora sarò un pezzo grosso. Potrò pren¬dermi cura di Morgan non appena avrò le spalle protette e potrò disporre della tua banda.

— Siamo in tre — disse Gilroy. — Io, Shep e Schultz.

— Bene. Cosa ne diresti se ci vedessimo tutti dopo che avrò messo le cose a posto con English?

Gilroy fece di sì col capo e s'alzò.

— I ragazzi arriveranno verso l'una. Se tu avrai messo a posto le cose con English, potremo discutere subito la faccenda.

Duffy rimase a guardarlo mentre usciva dalla stanza.

— Non sarà una cosa facile — disse il negro.

— Sarà facile — replicò Duffy.

— Può darsi. — Gilroy uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Duffy si alzò e si tolse la giacca. Qualcuno bussò alla porta e l'uomo magro mise dentro la testa.

— C'è una donna che chiede di te.

— Non le hai mica detto che ci sono, eh?

— Le ho detto che non t'ho visto e che non so chi sei. Lei però insiste. "Ditegli che sono Alice" mi ha ripetuto cinquanta volte. E così eccomi qua...

— Santi numi! — sbottò Duffy, rimettendosi la giacca. — Fal¬la entrare subito.

Il magro alzò le spalle e si allontanò. Tornò quasi subito segui¬to da Alice. Duffy le andò incontro e le prese le mani.

— Ma cara... — Non seppe cos'altro dire.

— Me l'ha detto Sam — mormorò lei con voce rotta. — Dove¬vo vederti. Cos'è tutta questa storia, Bill? I giornali dicono che sei stato tu ad uccidere quella donna.

Duffy le batté leggermente una mano sulla spalla.

— Sei stata molto cara a venire fin qui — le disse, guidandola verso il letto. — Siediti, Alice. Riposati.

— Cos'hai intenzione di fare? Sam non m'ha voluto dire nien¬te.

Duffy ridacchiò.

— Ti ha già detto fin troppo — mormorò. — Ascolta: non ho ucciso Olga. Han cercato di mettermi in mezzo. Guarda, sono pieno di soldi. — Tirò fuori le banconote di tasca e gliele pose sulle gambe.

Con un fremito la donna guardò il denaro senza osare toccarlo.

— Toglilo — sussurrò con voce rapida.

Duffy la fissava.

— Senti, son trentacinquemila dollari. Hai mai visto tanti soldi in vita tua?

Lei sussurrò di nuovo con voce dura: — Toglilo.

Duffy riprese il denaro e con espressione stupita mormorò: — Se la prendi così...

Alice posò la mano sul suo braccio.

— Oh Bill, ti stai cacciando in guai sempre peggiori. Non te ne accorgi? Per il tuo bene, torna indietro!

Duffy rimise il denaro in tasca.

— Stammi bene a sentire... — cominciò, ma la donna lo inter¬ruppe subito.

— Il denaro non è tutto. Lo sai anche tu. Ti prego, Bill; costi¬tuisciti. Sono sicura che andrà tutto bene. Troveremo un buon avvocato. Potrai riprendere il tuo vecchio lavoro. Lascia perdere questa brutta faccenda.

Duffy alzò la mano. Alice colse il suo sguardo freddo e assen¬te, reclinò il capo e si mise a piangere sommessamente.

— Non ho nessuna intenzione di far marcia indietro. M'hanno trattato tutti come una pezza da piedi per anni e anni. Ma ora basta... basta! Ho a che fare con una banda di gente dura. Ma io as¬solderò della gente ancor più dura e li metterò a posto quei dan¬nati bastardi. Non appena avrò i miei uomini, toglierò di mezzo quel Morgan una volta per sempre. Sarò io il pezzo grosso da queste parti, d'ora innanzi. Ti va l'idea?

Alice balzò in piedi. Mormorò con voce incerta: — Ti prego, Bill, tieni lontano Sam da questa faccenda.

— Mi dispiace cara — mormorò. — È che sono pazzo di rab¬bia... e di dolore. Perdonami... Dimentica quel che ti ho detto.

Lei lo guardò a lungo.

— Lo so, che non tornerai indietro. Farai del male a molta gente e a te stesso. E tutto per soddisfare quell'io orgoglioso che ti porti dentro. Non ti posso fermare. Quando sarai stanco di tut¬to ciò, vieni a trovarci. Ma sta' lontano da casa nostra finché que¬sto furore ti anima. Ti ho amato molto una volta; non fare che ora ti odii.

Gli accarezzò una mano e quindi uscì dalla stanza. Duffy ri¬mase immobile a fissare la porta chiusa. Si tolse di nuovo la giac¬ca, fece volar via le scarpe e si sdraiò sul letto dopo aver spento la luce.

Al buio rimase a lungo con gli occhi spalancati a pensare. Ad un certo momento mormorò a bassa voce: — Tu ed io soli su una bella spiaggia assolata sotto il cielo azzurro...

La stanza gli parve improvvisamente vuota e fredda. Molto fredda.


14


Edwin English era alto e massiccio, aveva un volto grassoccio e rotondo, i capelli bianchi e gli occhi freddi e acquosi. Era seduto dietro una grossa scrivania, un sigaro stretto fra le dita grassocce e fissava attentamente Duffy seduto innanzi a lui.

Se ne rimase in silenzio quasi una ventina di minuti ad ascolta¬re tutto ciò che Duffy gli stava raccontando. Esaminò attenta¬mente, senza mostrare alcun segno di particolare interesse, il tac¬cuino rosso che Duffy gli aveva dato. Si pose, quindi, il sigaro fra le labbra e socchiuse gli occhi. Se ne rimase là seduto come se guardasse qualcosa al di là di Duffy, il quale era soddisfatto di sé per essere riuscito a esporre tutto in modo conciso e chiaro.

English si tolse il sigaro di bocca e tamburellò sul piano della scrivania con le dita dalle unghie ben curate.

— Potrei farvi cacciar dentro per assassinio, a quanto pare — mormorò.

— Non vi pare di considerare la cosa dal punto di vista sbaglia¬to? — chiese Duffy. — Non è di me che dovete preoccuparvi, ma di vostra figlia.

English mormorò: — Non smetto mai di preoccuparmi per quella ragazza.

Duffy fece un cenno di assenso col capo.

— Certo, ma non lo fate a sufficienza. Cosa ne direste di la¬sciarmi sistemare le cose da solo?

English commentò: — La polizia vi prenderebbe subito. No, non credo che voi potreste far niente.

Duffy si alzò in piedi, sorridendo.

— Bene, bene... — mormorò. — Avevo immaginato che avre¬ste reagito in questo modo. Ma se avete in mente di farmi fare da capro espiatorio, toglietevelo pure dalla testa. Vado subito alla Centrale e vuoto il sacco così forte che mi potrete sentire da qui.

— Non avete prove — ribatté English.

Duffy alzò le spalle.

— Questo lo dite voi. Ne ho a sufficienza per far salire quella cara figliola sulla sedia elettrica.

English alzò una mano.

— Un momento. Forse potremo sistemare le cose altrimenti.

Duffy si avvicinò alla scrivania e vi si appoggiò con ambedue le mani.

— State sbagliando gioco, English — disse, fissando l'uomo. — Non vi rendete conto che c'è un mucchio di gente che paghe¬rebbe dio solo sa quanto per sollevare un bello scandalo su vostra figlia? Un passo falso e siete fregato. La vostra politica non gode di molta popolarità. Non piace nemmeno a me, se lo volete sape¬re. Lasciate che ve lo dica chiaro in faccia: è davvero una strana politica quando si ha una figlia come la vostra!

English spinse indietro la sedia e si alzò di scatto. Duffy notò un lampo nei suoi occhi. Un lampo che mostrava che aveva fatto centro, che per un attimo English aveva tremato dentro di sé. Duffy era soddisfatto.

— Cosa avete da proporre? — chiese English.

— Tanto per cominciare, toglietemi i piedipiatti dalle calca¬gna. Non appena avrò la protezione della polizia, allora potrò dedicarmi anima e corpo a Morgan e lo toglierò di mezzo. Potrò quindi prendere Annabel e farla chiudere in una casa per aliena¬ti... È il posto adatto per lei.

English mormorò soprappensiero: — Non vi basterà la prote¬zione. Avrete bisogno di aiuto e di quattrini.

— Avrò, dalla mia, la banda di Gilroy — rispose Duffy.

— Gilroy? Sì, lo conosco. Ma Gilroy non ha molti uomini.

Duffy si sedette sullo spigolo della scrivania.

— Con me, saremo in numero sufficiente.

— E i quattrini?

— Cosa ne direste se mi riforniste voi? Per voi riuscire a siste¬mare questa faccenda vuol dire molto, no?

English si avvicinò alla porta.

— Vedremo — disse. — Cosa ne direste di venire alla Centra¬le, e stabilire tutto con la persona adatta?

Duffy lo fissò e fece di no con la testa.

— Dovrete pensarci voi ai piedipiatti — disse. — È troppo im¬portante per me per rischiare di essere tradito. Se voi cambiaste idea sarei in trappola senza via di scampo.

English alzò le spalle.

— Come volete. Vi telefonerò.

Duffy guardò l'orologio sulla scrivania.

— Vi chiamerò io — mormorò. Erano le undici appena passate. — Verso l'una. Ho intenzione di mettermi in moto subito dopo.

English accennò di sì col capo; e poi, come se un improvviso pensiero l'avesse colto, aggiunse: — Dove si trova Annabel, ora?

Duffy alzò le spalle.

— L'ultima volta che l'ho vista raccomandava a un ragazzotto un po' effeminato di spararmi nella pancia.

Dopo aver lasciato English, Duffy tornò nuovamente al suo nascondiglio. Mandò il magro a comprargli i giornali. Mentre aspettava, si versò un whisky e accese una sigaretta. Non poté fa¬re a meno di pensare a Olga; la ricordava sul letto con il coltello conficcato nel petto. Cercò disperatamente di pensare ad altro, ma senza molto successo.

Fu ben lieto del ritorno dell'uomo con i giornali. Gli diede la mancia e si mise a scorrerli tutti attentamente. Quand'ebbe fini¬to, accese un'altra sigaretta. Non c'era alcuna notizia riguardante Gleason.

Si alzò, si avvicinò al telefono e fece il numero di Annabel. La¬sciò suonare a lungo e poi posò il ricevitore. La rossa se n'era an¬data.

Duffy si mise a passeggiare per la stanzetta, pensando. Si chie¬se se la banda di Morgan non l'avesse per caso fatta fuori e poi si fosse liberata dei due cadaveri. Era davvero un'idea, ma lui non avrebbe potuto far niente al momento.

Poco prima dell'una. Gilroy entrò nella stanza assieme ad altri due uomini.

— Questo è Shep — disse Gilroy. Duffy guardò l'uomo e fece un cenno col capo. Pensò che Shep aveva un aspetto straordina¬rio. Aveva una testa piccola piccola su di un lungo collo attaccato ad un corpo grasso grasso. Schultz, invece, era alto e asciutto, con i capelli neri tagliati a spazzola.

— Sedetevi, ragazzi, e prendetevi da bere — disse Duffy.

I due si sedettero, guardando il tavolo vuoto. In quel mentre il magrolino mise la testa dentro e Duffy gli ordinò una bottiglia di scotch.

Gilroy era in piedi vicino alla finestra.

— Li ho informati grosso modo della cosa. Ci stanno.

Shep chiese con voce stridula: — Sei tu il tizio che i piedipiatti stanno cercando?

Duffy guardò Gilroy che accennò di sì col capo. Poi disse: — Sì, ma non mi cercheranno più per molto. — Si alzò e si avvicinò al telefono. Prese il ricevitore e fece un numero. Mentre aspetta¬va che qualcuno rispondesse, tornò il magro con la bottiglia. Schultz si mise a preparare i bicchieri.

— English? — disse Duffy. — Avete messo tutto a posto?

English rispose: — Non è stato facile, ma ora tutto è a posto. Dovrete far ricadere l'omicidio su qualcuno, ma non sulla perso¬na che sapete.

Duffy ridacchiò soddisfatto.

— Molto bene. Mi basteranno un paio di cadaveri; saranno lo¬ro i colpevoli di tutto.

— Già, ma prima dovete avere i cadaveri! — ribatté English.

— Se poteste vedere la gente che è qui con me non ve ne preoccupereste molto. E non eravamo anche d'accordo per i sol¬di?

— Se eliminerete Morgan e sistemerete Annabel in un posto dove non la rivedrò mai più, ne avrete molto — disse English.

— No, ne ho bisogno subito.

English rimase in silenzio per un istante.

— Aprirò un conto a vostro nome alla National Bank. Potrete incassare fino a cinquemila dollari.

— Molto bene — disse Duffy e attaccò.

Gilroy si allontanò dalla finestra e prese un bicchiere da Schultz.

— Allora?

Duffy si sedette.

— English mi appoggia. M'ha tolto gli sbirri di dosso per il mo¬mento. É disposto a finanziarmi se lavoreremo come si deve. Credo che potremmo cominciare proprio subito.

— Quant'è la mia parte? — domandò Schultz.

— Cinquemila a testa — rispose Duffy, facendo i conti mental¬mente.

Shep fece di sì col capo.

— Potrebbero proprio tornarmi utili.

— Il tuo primo incarico è di ritrovare Annabel English — disse Duffy, appoggiandosi coi gomiti sul tavolo. — Quella ragazza è pericolosa e dev'essere sistemata in modo che non dia più noia a nessuno.

Gilroy replicò: — Bisogna farla fuori? — Una nota di disgusto trapelava dalle sue parole.

Duffy fece di no col capo.

— No, non voglio nessuna uccisione. Ci penserò io a lei. È matta come un cavallo e non ci vorrà molto a rinchiuderla in una casa di cura dove non farà più del male a nessuno.

— La troveremo — disse Shep — ma sistemare i matti non fa parte delle nostre attività.

— Tu trovala — replicò Duffy. — Al resto ci penserò io.

— Dove cominciamo?

— L'ultima volta che l'ho vista era con la banda di Morgan. Loro sapranno di certo quel che le è capitato.

Shep si alzò in piedi.

— Sarà facile — mormorò. — Conosco quella banda. Ci penso io.

Duffy attese che Shep se ne fosse andato. Poi si rivolse a Gilroy: — Cosa puoi dirmi sul conto di Morgan?

— Dirige tre night club. Ha gli uffici nella Transverse Avenue, lungo il fiume. È là che fa i suoi affari.

— Che affari?

— La società si chiama Morgan Navigation Trust Co. È il suo quartier generale, del contrabbando e del traffico di droga e di ragazze provenienti da Cuba.

Duffy prese l'elenco telefonico e cercò il numero della Morgan Navigation Co. Fece il numero e attese.

— C'è il signor Morgan? — disse.

— Di che si tratta? — rispose una voce decisa.

Duffy ribatté secco: — Gli dirò di dirvelo se vuole che ne siate informata.

La ragazza gli passò la linea ma prima che ciò avvenisse Duffy poté sentire che diceva a qualcun altro: — La gente diventa sem¬pre più spiritosa.

Duffy ridacchiò. Udì la voce di Morgan.

— Sì?

— Senti, Morgan — gli disse Duffy. — La tua gentaglia non ce l'ha fatta.

Morgan disse con voce calmissima: — Ti è andata bene questa volta, Duffy, ma fa' attenzione.

— Gleason è fuori dalla lizza, ormai. Se vuoi quel taccuino ti costerà cinquantamila dollari.

Udì Morgan trattenere un attimo il respiro, e poi replicare: — I miei ragazzi te lo prenderanno senza tirare fuori un dollaro. Ti ho avvertito. Stanno arrivando.

— Ripensandoci... — disse Duffy — farò pervenire il taccuino alle autorità statali.

— Non lo farei se fossi in te. — Morgan fu troppo svelto nel di¬re ciò. Non c'era forza nella sua minaccia.

— Be', lo consegnerò lo stesso. Vedremo poi quel che succe¬derà. Ho incassato venticinquemila dollari da Gleason. Non ho di che preoccuparmi.

— Un momento — esclamò Morgan. — Ti darò cinquemila dollari.

— Fa' venticinquemila ed è tuo — ribatté Duffy.

— Va bene. — La voce di Morgan era molto calma. — Porta¬mi qui l'elenco e ti darò i soldi subito.

— Non sono mica matto — sbottò Duffy. — Te lo consegnerò in un posto pubblico. Mi troverai nell'atrio del Belmont Plaza, alle sei. Faremo là lo scambio della merce.

Ci fu una breve pausa, poi Morgan disse prima di attaccare: — Va bene.

Gilroy era stato ad ascoltare attentamente.

— Non riuscirai a dileguarti facilmente con i soldi.

Duffy prese il cappello.

— Andiamo.

Gli altri due lo seguirono nel garage. Duffy chiese a Schultz: — Sai guidare questo carro armato?

— Certo — sbottò Schultz sorpreso.

— Bene. Mettiti al volante, allora. Gilroy ed io dobbiamo par¬lare.

Duffy e Gilroy si sedettero sui sedili posteriori.

— Dove andiamo? — domandò Schultz, mettendo in moto.

Duffy gli diede l'indirizzo della sua banca. Si rivolse quindi a Gilroy.

— Faremo il doppio gioco con quel pidocchio. Consegnerò l'elenco a English; ci si potrà mettere lui, al lavoro. È un affare troppo grosso perché lo si manipoli noi, direttamente. Poi dia¬mo la copia a Morgan e filiamo con i suoi soldi. Penseremo, quindi, ad Annabel e poi andremo negli uffici di Morgan per ve¬dere di mettere insieme qualche prova contro di lui. Se non ne troveremo, dovremo studiare un altro sistema per toglierlo di mezzo.

Gilroy si era appoggiato allo schienale e stava con gli occhi soc¬chiusi.

— Ti sei preparato un bel programmino, eh?

— Voglio sbrigare la faccenda e poi voi potrete spendere i sol¬di guadagnati come vorrete.

Schultz fermò la macchina vicino al marciapiede. Duffy scese, entrò nella banca. Non tardò molto a tornare. Si guardò attorno prima di risalire sull'auto. Duffy diede a Schultz l'indirizzo di English.

— Va' svelto. — Schultz lo guardò nello specchio retrovisore e fece di sì col capo.

— È un vero peccato consegnare quel taccuino ai piedipiatti — disse Gilroy.

Duffy alzò le spalle.

— Pensi forse di operare un racket così grosso?

Gilroy scosse il capo.

— Io non ho niente a che vedere con la droga — ribatté. — Solo che non mi va di aiutare i piedipiatti.

Duffy ridacchiò.

— Servirà a togliere di mezzo Morgan. Non ti basta?

English rimase sorpreso quando lo vide. Prese il taccuino dalle mani di Duffy, lo guardò e disse: — Così questo sarebbe il primo passo, eh?

Duffy accennò di sì.

— Consegnate il taccuino alla Squadra Narcotici. Non è una prova, ma potrà servire a tenere d'occhio quei drogati. Comun¬que, fermerò anche Morgan.

English fece un cenno affermativo.

— E Annabel? L'avete trovata?

— Non ci vorrà molto. — Duffy si avvicinò alla porta. — Mi farò vivo presto.

Scese in strada e salì in auto.

— Non è ora d'andare a mangiare? — chiese Gilroy.

— Certo! C'è tempo fino alle sei.

Schultz mise in moto e si allontanò di gran carriera. Doveva avere appetito anche lui!


15


Shep tornò poco dopo le cinque. Duffy stava pulendo la sua Colt. Gilroy e Schultz se ne stavan seduti a guardarlo.

Duffy alzò lo sguardo.

— L'hai trovata?

Shep si mise a sedere e si asciugò la fronte col fazzoletto.

— L'ho trovata. E indovina un po' dov'è?

Duffy posò la pistola sul tavolo.

— Dove?

Shep sorrise soddisfatto.

— È buffo. S'è innamorata di quel ragazzotto di Morgan.

Duffy sollevò sorpreso le sopracciglia.

— Clive?

Shep accennò di sì.

— Ora si trova nell'appartamento di quel bel tipo, che si la¬menta perché qualcuno gli ha rovinato la faccia.

Duffy si alzò.

— Andiamo subito là e ce la portiamo via — disse, infilandosi la pistola nella cintura.

— Andiamo tutti? — domandò Gilroy.

Duffy scosse il capo.

— Basteremo Shep ed io.

— Bene! — esclamò Shep. Poi aggiunse qualcosa sottovoce ri¬volto a Gilroy e si mise a ridere.

Duffy scosse il capo.

— Dopo andrò a Belmont Plaza. Cosa ne direste se nel frat¬tempo voi due circolaste nell'atrio e teneste d'occhio la situazio¬ne? Non voglio correre alcun rischio con Morgan.

Gilroy fece di sì col capo.

Duffy e Shep uscirono e montarono sulla Buick.

Duffy si mise al volante.

— Se la ragazza tenta di fare la furba, stendila. Chiaro?

— Va bene — confermò Shep. — È una gran bella figliola, eh? È un vero peccato essere grassi!

Duffy lo guardò con la coda dell'occhio.

— Quella donna è veleno. Stai alla larga da lei.

Shep gli indicò la strada da seguire. Passarono una decina di minuti prima che Duffy imboccasse una via.

— È qui?

Shep guardò fuori del finestrino.

— Sì.

Duffy fermò la macchina lungo il marciapiede. Scesero tutti e due.

— Che numero hai detto?

Shep mise la mano in tasca e tirò fuori un pezzetto di carta.

— Numero 1469 — sillabò.

Duffy controllò il numero della casa più vicina.

— Si trova dall'altra parte della strada e un po' più in giù.

S'avviarono lentamente.

— Son tutti e due pericolosi; dovrai fare attenzione — racco¬mandò Duffy.

— Non ti dico che paura ho! — esclamò Shep, ridendo.

Il numero 1469 corrispondeva a un grande palazzo. Duffy sa¬lì i gradini fino al portone e controllò i nomi a fianco dei cam¬panelli.

— Eccolo qui. Clive Wessen... — Schiacciò il campanello. At¬tese che la porta si aprisse; entrò nell'atrio. Shep lo seguiva.

— Terzo piano — disse Duffy sottovoce.

Salirono lentamente le scale. Il posto era elegante e lumino¬so.

— Ai nostri amici piace il lusso — disse Duffy.

Shep non rispose nulla. Risparmiava il fiato. Giunti al terzo piano, Duffy estrasse la pistola. Fece un cenno col capo verso una porta in fondo al corridoio.

— È quella. Puoi aprirla?

— Non c'è porta al mondo che possa resistermi — ribatté Shep. — Sta' a vedere. — Si mosse con molta cautela. Esaminò la serratura attentamente, voltò il capo verso Duffy e mormorò: — È uno scherzo da bambini.

— Muoviti.

Shep tirò fuori un piccolo strumento, lo fissò alla serratura e girò. Con un debole clic la porta s'aprì.

— Dammi due minuti di tempo e poi vieni dentro — gli disse Duffy, muovendosi.

Shep fece di sì col capo e si tirò di lato per farlo passare. Entrò nel piccolo atrio dell'appartamento. Si trovò di fronte a due por¬te. Rimase un attimo in ascolto. Gli parve di udire dei leggeri ru¬mori provenire da quella di destra. Duffy posò la mano sulla ma¬niglia, girò di scatto ed entrò.

— Sei riuscita a sedurlo?

Annabel si voltò di soprassalto. Era in piedi accanto al divano sul quale era steso Clive che aveva il volto completamente av¬volto in candide bende. Si scorgevano solo due piccoli occhi pieni d'odio. Con voce fredda Duffy raccomandò loro di rimanere fer¬mi.

Clive gridò con una strana voce nasale: — Vattene da casa mia!

Annabel si passò una mano fra i capelli rossi. Sorrise e mormo¬rò a Duffy: — Sei proprio in gamba.

Duffy le ordinò di sedersi.

Shep entrò in quel momento. Si guardò attorno e si tolse il cap¬pello. La ragazza si sedette in fondo al divano e domandò: — Chi è il tuo amico?

Shep la guardò per un attimo e borbottò: — Che bambola! — E strizzò l'occhio a Duffy che teneva il ragazzo sotto controllo. Clive era disteso sul divano e una coperta gli nascondeva intera¬mente le mani.

— Tira fuori le mani — disse Duffy. — Voglio vederle.

— Cosa ne diresti se diventassimo amici? — intervenne Annabel.

Duffy voltò appena il capo verso di lei.

— Tu vieni con me. Abbiamo trovato la casa adatta per te.

— Ora?

— Sì, ora — ribatté Duffy.

Lei si alzò.

— Casa? — ripeté improvvisamente. — Cosa intendi dire con casa?

— Lo saprai quando sarà il momento. Saluta il tuo amico; non lo rivedrai più.

Lei diede un'occhiata a Clive e scrollò le spalle.

— Non me ne importa niente.

Shep ridacchiò.

— Una bella figliola come te non dovrebbe sprecare il suo tempo con ragazzini come quello.

Clive mormorò a voce bassa: — Andatevene tutti al diavolo; toglietevi dai piedi!

— Posso prender la mia roba? — domandò Annabel.

Duffy scosse il capo.

— Puoi benissimo venire come ti trovi. Ti voglio parlare.

Lei sorrise.

— Mi piaci quando fai così. Parliamo: ho un mucchio di cose da raccontarti. — Accennò a Clive. — Su di lui e su Morgan. Ve¬drai che roba...

Clive strinse i denti e sparò alla donna. Duffy fece appena in tempo a scorgere il movimento sotto la coperta mentre la pistola sparava.

Duffy tirò il grilletto, ma la grossa Colt gli sobbalzò in mano ed il proiettile si conficcò nel muro sopra il divano. Muovendosi con incredibile rapidità, Shep si lanciò su Clive.

Duffy si avvicinò con cautela ad Annabel, la guardò, rimise la grossa Colt nella cintura e s'inginocchiò accanto alla ragaz¬za. Annabel giaceva sul dorso, una mano stretta al fianco de¬stro. Aprì gli occhi, lo guardò e si mise a piangere sommessa¬mente.

— Vedrai che non è niente — disse Duffy, sollevandola.

— Mettila qui — gli disse Shep, indicandogli il divano. Clive era stato scaraventato a terra da un pugno di Shep.

Duffy la sdraiò sul divano. Disse a Shep: — Cerca dell'acqua e delle bende. Sanguina maledettamente.

Shep lasciò la stanza. Duffy lo udì che apriva cassetti, cercan¬do le bende nella stanza vicino. Duffy si tolse di tasca un coltelli¬no e tagliò la stoffa attorno alla ferita.

— Fa' presto, dannazione! — gridò, quando s'avvide dove il proiettile era entrato nella carne.

Shep tornò di corsa. Stringeva in mano dei piccoli asciugama¬ni ed una caraffa d'acqua. Duffy glieli tolse di mano e gli disse: — Telefona a English e digli quel che è successo. Fa' presto è urgente.

Mentre cercava di pulire la ferita, lei riaprì gli occhi e lo guar¬dò. Scorse il volto di lui madido di sudore e mormorò con un filo di voce: — Morirò, vero?

Duffy non riusciva a frenare l'emorragia. Non poté fare a me¬no di risponderle: — Sarà la cosa migliore per te.

— Sì, lo penso anch'io. — E si mise di nuovo a piangere.

Duffy fissò un tampone sulla ferita, sapendo che non sarebbe servito a niente.

— Dammi qualcosa da bere — disse Annabel.

Duffy dovette reggerle il capo per permetterle di bere un po' di scotch. — Mi dispiace per tutto quel che è accaduto.

L'espressione sul viso di Duffy era molto dura.

— Voi donne vi dispiacete di quel che avete fatto quando or¬mai è troppo tardi.

— È stata colpa tua, se ho ucciso la tua donna.

— È meglio che per te finisca così — ripeté Duffy. Non sape¬va cosa altro dire.

— Nessun altro uomo m'aveva rifiutata prima — mormorò. — Ricordi? Ti ho offerto me stessa.

— Sì, lo ricordo. Immaginavo che avresti voluto vendicarti.

— Se scriverai tutto quanto è accaduto non potrò metterci la mia firma — soggiunse. — Mi piacerebbe farlo prima di morire.

Duffy raggiunse rapidamente la scrivania, prese un blocco di carta e si avvicinò alla donna.

— Farai svelto? — sussurrò Annabel.

Duffy rispose: — Certo. Sei stata tu ad uccidere Cattley, vero?

— Sì. Cattley faceva il doppio gioco con Gleason, che era mio marito. Nessuno lo sapeva. Gleason era un poco di buono, ma faceva molti quattrini. Ed i quattrini mi interessavano. Venni a sapere che Cattley portava via la metà dei guadagni, e decisi così di farlo volare giù nel vuoto dell'ascensore. Era piccolo e mi fu facile. Tu arrivasti proprio al momento giusto e mi aiutasti a sba¬razzarmi di lui. Poi fu la volta di Max. Capisci, mi erano tutti ap¬presso come le mosche sul miele. Qualche volta, ho ceduto, ma nessuno di loro era davvero in gamba. Così non ne volevo più sapere. Max continuava a farmi pressione. Riuscì a mettere le mani sulle foto e mi chiese di andare nel suo appartamento per barattarle al solito modo. Così sono andata là e l'ho ucciso.

Duffy aveva scritto tutto. Le diede da bere un altro po' di scotch. Shep arrivò e si fermò alle sue spalle.

— English sta arrivando — disse. Duffy gli fece cenno con la mano di stare zitto.

— Ti odiavo — continuò Annabel. — Quando mi sono recata a casa di Olga Shann, ero convinta che foste tutti e due fuori. T'ho visto allontanarti in auto ed ho immaginato che lei fosse con te. Quando sono entrata e mi sono trovata a faccia a faccia con lei, s'è messa a gridare e così sono stata costretta ad ucciderla.

— Ma non ne hai avuto buoni frutti! — esclamò Duffy amaro.

La voce di Annabel s'era fatta tanto flebile che Duffy riusciva a coglierla a malapena.

— Ero così stanca di... Murray... quando sei venuto tu... ho pensato che... forse...

Duffy finì di scrivere, e le mise la penna in mano.

— Ce la fai? — chiese ansioso.

— Non... vedo... — sussurrò.

Duffy le tenne la mano e posò il pennino sul foglio.

— Firma! — le intimò con forza. La penna le scivolò dalla ma¬no, che si abbandonò inanimata lungo il fianco. Duffy si voltò verso Shep ed esclamò con rabbia: — Accidenti! È morta. Que¬sta confessione avrebbe potuto tirarmi fuori completamente dai guai.

— È proprio scalogna nera! — affermò Shep.

Duffy si tirò su.

— Guardala, Shep. Non c'è donna peggiore di lei in tutta la città.

Shep alzò le spalle.

— Come sta Clive? — riprese Duffy.

— Dormirà ancora per un'oretta.

Duffy diede un'occhiata all'orologio. Vide che mancava un quarto alle sei.

— Andiamocene. Abbiamo un appuntamento. Ci penserà English a sistemare le cose qui.

Shep lo seguì fuori dall'appartamento e giù per le scale. Quan¬do si trovarono in strada, Duffy disse: — Morgan s'infurierà con me per tutto questo.

Shep ridacchiò mentre saliva in macchina.

— Cosa pensi? Manderanno il ragazzo sulla sedia elettrica?

Duffy alzò le spalle.

— Chi lo sa... Una cosa è certa: English lo sistemerà per le fe¬ste.

Erano le sei appena passate, quando si fermarono davanti al Belmont Plaza.

— Vieni con me — ordinò Duffy a Shep.

Entrarono nell'atrio affollato. Duffy scorse subito Schultz che stava leggendo il giornale. Schultz fece finta di niente, ma dal modo in cui aveva smesso di leggere ed aveva piegato il giornale, Duffy capì che li aveva visti.

Il piccoletto entrò seguito da Joe che come sempre sembrava riuscire a trattenere a stento la propria violenza.

— Uno di questi giorni la pagherai molto cara — mormorò il piccoletto a denti stretti.

— Lasciamo perdere i convenevoli e occupiamoci di cose serie — ribatté Duffy in tono duro. Si avviò verso il bar. Il piccoletto lo seguì, lasciando Joe nell'atrio.

— Che ci fai, con la gente di Gilroy? — chiese il piccoletto.

Duffy lo fissò freddamente.

— Lo verrai a sapere presto. Avanti, veniamo al sodo, adesso; non mi va il tuo odore.

Il piccoletto ridacchiò. Si infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una busta piena di banconote. Duffy lo guardò mentre le contava. Venticinque bigliettoni. Duffy a sua volta tirò fuori di tasca il taccuino rosso. I due uomini si scambia¬rono la merce. Il piccoletto chiese con voce ironicamente queru¬la: — E il duplicato?

Duffy sorrise. I suoi occhi erano di ghiaccio.

— Ce l'ha lo Stato.

Il piccoletto scosse il capo con fare sconsolato.

— Non avresti dovuto farlo. Morgan si arrabbierà davvero quando glielo dirò.

— Morgan può andare all'inferno — disse Duffy con aria pro¬vocatoria.

Il piccoletto ridacchiò.

— Gli dirò anche questo. — Si cacciò in tasca il taccuino e mormorò poi, come se gli fosse venuto in mente solo in quell'i¬stante: — Ah, le banconote sono fasulle.

Duffy trasse di tasca la busta e prese una banconota. La esami¬nò. A lui sembrava buona.

— Ma a chi la racconti! — esclamò, sorridendo.

Il piccoletto era serio.

— Certo! Vuoi forse che Morgan paghi uno scalzacane come te con quattrini buoni?

Duffy si rimise la busta in tasca. Gli era venuta un'idea.

Il piccoletto aggiunse: — Be', vedo che te la prendi con filoso¬fia. Bravo.

Duffy sibilò a denti stretti: — Ascolta il mio consiglio: sparisci.

Il piccoletto fece di sì col capo.

— Certo, certo... Ma non dubitare, ci ritroveremo; e allora, forse, non ci sarà tanta gente nei dintorni.

Duffy rimase a guardare il piccoletto che s'allontanava insieme a Joe. Chiamò con un cenno del capo Shep e ordinò due whisky al barman.

— Ce l'hai fatta? — chiese Shep con ansia.

Per tutta risposta Duffy trasse di tasca una banconota e gliela porse.

— È stato facile, eh?

Duffy afferrò il bicchiere e trangugiò d'un fiato il liquore. Or¬dinò un altro whisky.

— Bevi troppo svelto — lo rimproverò Shep.

— Se bevessi troppo... allora sì che dovresti preoccuparti.

Shep restituì con riluttanza la banconota a Duffy. I due usciro¬no dall'albergo e trovarono Gilroy e Schultz che li stavano aspet¬tando nella Buick.

— Tutto bene? — chiese subito Gilroy.

Duffy gli porse la busta con le banconote.

— Tutto liscio come l'olio.

Gilroy prese le banconote e le contò.

— Secondo me, è andata troppo liscia.

Duffy guardava fuori del finestrino.

— Forse!

Gilroy esaminò attentamente una banconota, poi esclamò: — Sono fasulle.

Duffy fece di sì col capo.

— Sì. Me l'ha detto prima di andarsene.

— E allora?

— Allora ho avuto un'idea. Quelle banconote false ci serviran¬no per far finire al fresco Morgan; e sta' pur certo che English sa¬rà ben lieto di pagare venticinquemila dollari per un regalo del genere.

— E come?

— Ci recheremo negli uffici di Morgan di nascosto e nasconde¬remo le banconote da qualche parte. C'è una bella condanna per chi falsifica o spaccia banconote di quella taglia. Poi informere¬mo English, il quale provvederà al resto. Chiaro?

Gilroy borbottò fra i denti: — Se i soldi fossero stati buoni sa¬rebbe stato meglio.

Shep intervenne: — Si potrebbero mettere in circolazione quelle lì. Sono ben fatte e andrebbero di sicuro...

— No, non è questo il modo di stare al gioco — ribatté Duffy. — Avrete i soldi lo stesso; ci vorrà soltanto un po' più di tempo, ecco tutto.

Non appena furono arrivati nel Bronx, Duffy telefonò a En¬glish, che gli disse: — Abbiamo preso Clive.

— E Annabel?

— Dimenticatevi di lei. Ho versato altri cinquemila dollari sul vostro conto. Dovrebbero bastarvi per un bel pezzo.

Duffy ridacchiò soddisfatto.

— Sentite, English. Per quale motivo avete trattenuto Clive? Per omicidio?

— Omicidio? — English sembrava sorpreso. — No, è al fresco per spaccio di droga.

Duffy ridacchiò e strizzò l'occhio a Gilroy.

— Scommetto che quel ragazzo aveva le tasche piene di busti¬ne di polverina bianca, non è vero?

— La polizia ha reperito le prove necessarie per effettuare l'arresto — mormorò con voce suadente English.

Ci fu una breve pausa e quindi la voce di English raggiunse Duffy con tono vagamente minaccioso: — Sapete quel che le è successo. La mia povera figliola è stata uccisa in un incidente mo¬tociclistico da un pirata della strada che non è stato identificato perché l'ha abbandonata senza prestarle soccorso.

— Mi dispiace proprio di cuore — mormorò Duffy e non sape¬va nemmeno lui se aveva voluto essere sarcastico o che altro. — Ben presto avrò altro lavoro per voi — concluse e riattaccò. — Ci ha pensato lui a sistemare tutto — disse Duffy a Gilroy. — Han¬no arrestato Clive per spaccio di droga; hanno simulato la morte di Annabel come incidente stradale.

Gilroy scosse il capo.

— Devi fare attenzione a quell'uomo. Per me è pericoloso.

Duffy alzò le spalle.

— Siamo dalla sua parte. — Si versò da bere. — Fa piacere avere un tipo simile che ti protegge le spalle.

Gilroy fece di sì col capo e se ne andò. Non appena si trovò so¬lo, Duffy pensò attentamente alla situazione. Si alzò e si avvicinò alla scrivania. Aprì la serratura del cassetto superiore e tirò fuori, il danaro che vi aveva lasciato. Si avvicinò alla porta e la chiuse a chiave. Si sedette vicino al tavolo e si mise a contare le bancono¬te. Aveva trentaquattro bigliettoni ed alcune banconote di picco¬lo taglio. Fece tre pile da cinquemila dollari l'una. Gli restavano così diciannovemila dollari. Li divise in quattro parti. Ne infilò una parte nella tasca posteriore dei calzoni, un'altra nella tasca laterale e una terza nella tasca della giacca. La quarta parte, tre¬mila dollari, la piegò con cura e se l'infilò in una scarpa.

Si avvicinò di nuovo alla porta e l'aprì. Prese i quattrini sul ta¬volo e si avviò al bar.

Gilroy parlava con Schultz e Shep. Stavano tutti bevendo bir¬ra. Alzarono lo sguardo versò di lui con espressione di attesa.

Duffy si appoggiò al banco.

— Qui c'è la vostra parte — mormorò. Passò a ciascun uomo un rotolo di banconote. — Sono cinque bigliettoni. Non contateli ora.

Shep prese il bicchiere e rovesciò la birra a terra.

— Dammi dello champagne — disse rivolto al barman. — Ho intenzione di far follie.

Schultz afferrò le sue banconote e se le infilò in tasca. Quindi fece un cenno del capo a Duffy e si allontanò.

Gilroy si voltò a guardarlo.

— Quel ragazzo ci tiene al proprio danaro. Non voglio dire che è tirchio. Ci va piano, ecco tutto.

Duffy diede un'occhiata all'orologio.

— Io mi faccio un sonno. Ci muoveremo verso le undici.

— Ci sarà altro danaro in vista?

Duffy fece cenno di sì.

— Certo, Voglio che voi facciate soldi finché è possibile.

Shep tolse il naso dal bicchiere e affermò: — Queste son le pa¬role che mi va di sentire!

Duffy ridacchiò: — Già, ma bisognerà che ve li guadagniate, però.

— Certo, ma non sarà un lavoro molto duro.

Duffy tornò nella sua stanzetta e telefonò a Sam.

— Credi di potermi fare un favore? — disse.

— Ma certo — rispose Sam.

— Vorrei che tenessi le orecchie ben aperte alla Centrale, e che sorvegliassi English — riprese Duffy. — Fa un po' troppo tutto quel che gli chiedo. Sospetto che abbia in mente di combi¬narmi qualche brutto scherzo. Mi farai questo piacere, Sam?

Sam pareva sorpreso.

— Certo, stai tranquillo.

— Se sentirai qualcosa di nuovo, mi avvertirai subito. Va be¬ne?

— D'accordo. Sai quel che fai, vero? — chiese Sam preoccu¬pato.

— Ho in mente di incastrare qualcuno che pensa d'essere trop¬po grosso per me, ma non lo è affatto. Ti saluto. — E riattaccò.

Si stese sul letto.

Il picchiettare incessante della pioggia lo cullava dolcemente.


16


Quando la grossa Buick si fermò accanto al marciapiede, l'orolo¬gio di una chiesa poco lontana batté le dodici e trenta. La pioggia tamburellava sul tetto della macchina.

Shep sbottò: — Accipicchia, che tempaccio!

— Mi pare che dovresti essere contento; è l'ideale per noi. — Duffy mise la testa fuori del finestrino. La pioggia gli bagnò il vi¬so. La strada era deserta. Aprì la portiera e scese dalla vettura seguito da Gilroy.

— Tu resta in macchina, Shep.

Shep annuì con la sua piccola testa.

— D'accordo — mormorò. Tirò fuori una Luger dalla tasca in¬terna della giacca e se la pose sulle gambe.

Anche Schultz scese. I tre si avviarono verso un palazzo per uf¬fici.

— Dalla parte posteriore — ordinò Duffy.

Attraversarono un vicolo scuro e raggiunsero il retro del palaz¬zo. Sopra le loro teste c'era la scala di sicurezza. Gilroy si appog¬giò al muro, riunì le mani davanti a sé e fece un cenno col capo a Schultz il quale posò la punta del piede sulle mani di Gilroy che lo sollevò. Schultz riusciva a toccare la scala con la punta delle di¬ta.

— Più su — mormorò.

Con uno sforzo Gilroy sollevò ancora Schultz che riuscì ad ap¬pendersi così alla scala.

Il peso del suo corpo fece abbassare la rampa ripiegata della scala di sicurezza.

Duffy salì per primo seguito da Gilroy e poi da Schultz. Sul primo pianerottolo, Duffy si tirò da parte. Schultz si mise al lavo¬ro e aprì con estrema facilità una finestra.

Si calarono tutti e tre in un corridoio buio.

Duffy mormorò: — È al primo piano.

Si incamminarono con cautela. Duffy davanti e gli altri due a qualche passo di distanza, ai lati. Duffy reggeva una grossa torcia elettrica che illuminava il pavimento davanti a lui.

Giunti in fondo al corridoio, Duffy alzò la torcia e illuminò una porta su cui spiccava la scritta Morgan Navigation Trust Co.

— Ci siamo — mormorò.

Schultz esaminò la serratura con molta attenzione. Si piegò, la¬vorò qualche attimo e disse, retrocedendo di un passo: — Entra pure.

Duffy estrasse la Colt e aprì la porta. Entrò. L'ufficio era grande. Dei classificatori metallici erano allineati lungo la pare¬te. Vi erano tre scrivanie sulle quali troneggiavano alcune mac¬chine per scrivere. Sulla scrivania di mezzo c'erano numerosi te¬lefoni.

Duffy mormorò: — Credo che l'ufficio di Morgan sia là.

Si avvicinò ad una porta e l'aprì. La stanza era più piccola del¬l'altra, ma arredata con maggior lusso.

Duffy aggirò la scrivania e si sedette. Cercò di aprire i cassetti ma erano chiusi a chiave.

— Sarà meglio non toccare niente o altrimenti Morgan potreb¬be insospettirsi. Sistemiamo le banconote da qualche parte e poi ce la battiamo.

Schultz disse: — Ci scommetto che c'è un mucchio di soldi, da qualche parte.

Duffy non fece caso alle sue parole. Trasse di tasca le bancono¬te false. Si piegò sulla scrivania, prese un calendario incorniciato, tolse il cartone che lo chiudeva a tergo, vi infilò le banconote e ri¬mise a posto il cartone.

— Che te ne pare? — chiese.

Gilroy approvò con un cenno del capo.

— Sarà difficile trovarle.

— Ma non per chi saprà dove si trovano — commentò Duffy mentre tirava a sé il telefono. Compose un numero e rimase in attesa.

Una voce secca rispose: — Chi parla?

— Ho sistemato Morgan — disse Duffy senza preamboli. — Se i vostri ragazzi gli faranno una visitina in ufficio troveranno di che incriminarlo.

— Dove vi trovate?

— Non importa dove sono. Statemi bene a sentire. Morgan ha venticinque bigliettoni falsi nascosti dietro un calendario sulla sua scrivania. Vi basta?

English rimase in silenzio per un attimo e poi disse: — Non perdete tempo, eh? Certo che ci basterà.

Duffy aggiunse: — Recatevi alla Morgan Navigation Trust Co.

— Lo so. — English riattaccò.

Duffy riattaccò il ricevitore.

— Andiamocene.

Lasciarono l'ufficio, facendo ben attenzione a richiudere le porte alle loro spalle. Scesero per la scala di sicurezza e raggiun¬sero la Buick.

Shep era seduto all'interno con la pistola pronta in mano. Schultz si sedette al volante e partirono.

— Tutto a posto? — chiese Shep.

— È stato facile — rispose Duffy, accendendosi una sigaretta. — Domani Morgan avrà una brutta sorpresa.

Gilroy mormorò dal suo angolo buio: — English dovrà agire con prontezza se vuol riuscire a farla a quel Morgan.

— Lascia fare a lui — ribatté Duffy. — Vedrai che sistemerà tutto come si deve.

— Torniamo indietro, vero? — disse Schultz.

Duffy disse di sì.

Mentre Schultz guidava Shep disse a Duffy in tono confiden¬ziale: — Avevo una mezza idea di cercarmi una donna, questa notte. Sai, per celebrare i cinque bigliettoni.

Duffy gli fece di sì col capo. Era assonnato e pensava a Olga.

— È una nottataccia per cercare una donna, no? — continuò pensieroso Shep.

Duffy borbottò qualcosa fra i denti. Avrebbe voluto che Shep chiudesse il becco. Schultz aveva sentito.

— Ma per dio — sbottò — cosa te ne fai di una donna? Shep ridacchiò un po' imbarazzato. Intervenne allora Gilroy: — Ha i soldi e perché non dovrebbe divertirsi? Lascialo in pace — concluse secco.

Continuarono in silenzio per un po', poi Shep chiese a Duffy: — E tu ce l'hai una donna?

Duffy voltò leggermente il capo verso di lui. Scorgeva la faccia di Shep illuminata ad intervalli regolari mentre passavano sotto i lampioni.

— Perché non pensi agli affaracci tuoi? — rispose sgarbata¬mente. — Ai miei ci penso io.

— Va bene — s'affrettò a mormorare Shep. — Non avevo in¬tenzione di ficcare il naso in cose che non mi riguardano.

Gilroy intervenne di nuovo: — English t'ha detto qualcosa ri¬guardo ai soldi, quando gli hai parlato?

— No — rispose Duffy.

La grossa Buick si fermò accanto al marciapiede.

— Scendete — disse Schultz. — Ci penso io a mettere l'auto in garage.

Scesero dalla vettura e s'affrettarono a scendere la scala che conduceva allo scantinato. La pioggia continuava a cadere inces¬santemente. Gilroy aprì la porta con una chiave, e s'affrettò ad entrare. Gilroy imprecò sottovoce.

— Dove diavolo s'è cacciato Jock? — esclamò, riferendosi al magrolino. — Dovrebbe essere ancora in piedi.

— Forse s'è ubriacato. Gli ho regalato dieci dollari — mormo¬rò Shep.

Gilroy cercò al buio l'interruttore e accese la luce.

— Vieni a bere qualcosa? — domandò a Duffy.

— Sì, mi sento le ossa umide e un goccio di whisky servirà a farmi sentire meglio.

Gilroy fece strada lungo il corridoio ed entrò nel bar. La prima cosa che scorse fu Jock. Era steso sul dorso, e il suo viso era una maschera di sangue.

— Alzate le zampe — disse il piccoletto.

Gilroy e Duffy obbedirono. Shep si lasciò cadere sulle ginoc¬chia, tirò fuori la Luger e sparò al piccoletto mancandolo. Joe che era dietro alla porta, lo colpì alla testa col calcio della pisto¬la, e Shep cadde a terra con un sordo lamento.

Duffy intimò fra i denti: — Non toccarlo una seconda volta.

Joe lo guardò sorpreso e quindi sorrise.

— Sei un tipo in gamba, eh? — esclamò ammirato.

Il piccoletto mormorò con voce minacciosa.

— Andateci piano. Non fate un solo movimento. Non vorrei proprio farvi un buco nella pancia.

Gilroy domandò con voce calma e senza muoversi: — Cosa diavolo volete?

— Il tuo amico — rispose Joe. — Ha cacciato nei guai Clive e ora lo rivogliamo. — Guardò con fare trionfante il piccoletto. Si mosse quindi verso Duffy. Lo colpì con un tremendo pugno pro¬prio sopra l'orecchio.

— Spaccagli la faccia, Joe — mormorò il piccoletto. — Faglie¬la pagare per quel che ha fatto a Clive.

Joe si piegò su Duffy che era caduto a terra e lo sollevò, sbat¬tendogli la testa contro l'impiantito di legno.

— Portiamolo via di qui — disse il piccoletto.

Joe afferrò Duffy sotto le ascelle e lo trascinò come un mani¬chino privo di vita. Gilroy fissava la scena con occhi terrorizzati.

Il piccoletto lo guardò con disprezzo e poi sbottò: — Eccoti quel che ti meriti, negro! — E premette il grilletto.

Gilroy, colpito in pieno ventre, cadde sulle ginocchia e stralu¬nò gli occhi. Cercò di rimanere in quella posizione ma le forze gli mancarono e cadde ansimando a faccia in giù.

— Lo finisco? — chiese il piccoletto a Joe.

Joe si fermò sull'uscio dove si trovava.

— Lascialo lì a sanguinare. Ci metterà di più a morire, no?

— Già — convenne l'altro, ridacchiando. — A volte ti vengon certe idee!

— Non è vero? — sbottò Joe, tutto pieno di sé. E si mosse di nuovo trascinando sempre il corpo inanimato di Duffy. — Con questo qui mi ci voglio proprio divertire.

Il piccoletto lo seguiva a ruota. Uscirono all'aperto sotto la pioggia. L'acqua fredda rianimò Duffy. Joe stava salendo i gradi¬ni che portavano al marciapiede. Duffy puntò i piedi contro un gradino e arcuò il corpo. Joe fu costretto a fermarsi. Imprecò contro Duffy che vibrò un pugno alla cieca. Joe fu colpito in pie¬no viso, e mollò la presa.

Duffy si affrettò a battersela proprio mentre Schultz apriva il fuoco dall'altra parte della strada. La .45 di Schultz tuonò tre vol¬te. Duffy sentì il fischio di un proiettile che andò a conficcarsi nel muro poco sopra la sua testa.

Il piccoletto rispose con due colpi agli spari di Schultz. Duffy infilò una mano nella cintura e tirò fuori la sua Colt. Si accovac¬ciò al buio, cercando di vedere dove si trovava Joe. La pioggia lo accecava e la luce del lampione, distante una decina di metri, era troppo debole.

Stringendo con fermezza la pistola, Duffy prese a indietreggia¬re sempre più nel buio. Voleva raggiungere Schultz. In quel mo¬mento quello sparò altri tre colpi. Duffy notò i lampi della sua pi¬stola, e ciò gli servì per dirigersi verso di lui.

Udì in distanza il sibilo lacerante di un fischietto.

— I piedipiatti! — gli gridò Schultz.

Duffy gli era ormai vicino. Fu Schultz ad afferrarlo per una manica e a trascinarlo sull'uscio di una casa dove lui stesso aveva trovato riparo.

— Devo battermela — disse a Duffy. — I piedipiatti mi cono¬scono.

— I piedipiatti non ti possono far niente — disse Duffy. — So¬no protetto.

— Ma la mia pistola scotta — ribatté Schultz.

Duffy gli porse la sua.

— Scambiamola. A me non la controlleranno.

Schultz gli passò la sua e prese quella di Duffy. Udirono il sibi¬lo lacerante di una sirena e poi lo stridore dei pneumatici mentre l'auto della polizia prendeva la curva all'inizio della strada. Duffy uscì allo scoperto e fece un segno con le mani. L'auto si fermò.

Quattro solide facce lo squadrarono con sospetto dalla macchi¬na. Duffy avvertì la minaccia nascosta delle loro pistole. Rimase immobile.

Quindi uno dei quattro disse: — Conosco questo tizio.

Duffy si avvicinò alla macchina.

— La banda di Morgan ha appena attaccato Gilroy. Mi trova¬vo là anch'io. Siete proprio arrivati al momento giusto.

Dopo un attimo di esitazione tre poliziotti scesero dalla vettura e si avviarono verso il locale di Gilroy.

Duffy fece un segno di richiamo a Schultz e li seguì. Schultz, camminando con cautela, raggiunse Duffy.

Una volta dentro, i tre poliziotti guardarono il corpo di Gilroy steso a terra in un mare di sangue. Il poveraccio era spacciato. Poi uno di loro si avvicinò a Shep e lo girò con la punta dello sti¬vale.

— Non ha niente, questo. Solo una botta in testa.

Il sergente che comandava il gruppo notò in quell'attimo Schultz e il suo volto si rannuvolò.

— Dov'eri tu? — gli chiese.

Duffy fu pronto ad intervenire.

— Lui è a posto. Stava mettendo via la mia auto.

Il sergente fissò Duffy con le sopracciglia aggrottate.

— Ora sei al sicuro; ma fa' attenzione a quel che fai. — C'era una latente minaccia in quella voce. Duffy ne fu sorpreso.

— È tutto a posto — disse.

Shep lo guardò con occhi assenti e si massaggiò la nuca. Co¬minciava a imprecare a fior di labbra in modo osceno. Quando ebbe scorto Gilroy, guardò Duffy e quindi si alzò in piedi.

Il sergente aveva dato istruzioni di chiamare un'autoambulan¬za, e adesso girava per il locale, guardandosi in giro con sospet¬to.

Duffy disse a Shep: — Se la sono battuta sotto la pioggia.

Shep si passò una mano sugli occhi per schiarirsi le idee e quin¬di mormorò: — Gliela farò pagare a quelle carogne — vedrai! Gliela farò pagare salata!

Schultz non perdeva di vista gli sbirri. Mormorò sottovoce: — A me non pare che abbiano un aspetto molto amichevole.

Duffy attraversò la stanza e versò da bere: — Ne volete mentre aspettate? — disse rivolto agli agenti.

I volti dei due agenti s'illuminarono, ma il sergente fu pronto a replicare: — Quando vorremo bere, te lo diremo!

Duffy fu stupito di quella risposta. L'autoambulanza stava arri¬vando. Si udiva la sirena che si avvicinava. Non passò molto che due infermieri in camice bianco arrivarono con una barella sulla quale posarono il corpo di Gilroy e lo portarono via.

Il sergente si avvicinò a Schultz: — Hai una pistola tu? — gli chiese con fare volutamente sgarbato.

Schultz tirò fuori la Colt di Duffy e la porse al sergente, che la esaminò attentamente.

— La farò controllare — mormorò il sergente; Duffy si fece avanti e togliendogli l'arma di mano ribatté con voce ferma e du¬ra: — Di' a English che sono stato io a prenderti la pistola. Ne avrò bisogno ancora per un po'.

Le vene del collo del sergente si gonfiarono. Non disse nulla ma si allontanò, facendo un cenno del capo agli altri due.

Non appena se ne furono andati, Schultz dichiarò: — Quelli ci detestano cordialmente!

Duffy fissava la porta; aveva la fronte aggrottata.

— Non mi va... — mormorò. — Non mi va; forse English sta perdendo la sua presa.

Raggiunse la sua stanza e prese il ricevitore. Fece il numero di English e quando quello gli rispose, gli disse: — C'è stata una sparatoria qui. — La sua voce era tesa e tagliente. — La banda di Morgan ha ucciso Gilroy ed ha cercato di fare la festa anche a me. Sono riusciti a fuggire.

— Dovete fare attenzione.

Duffy ridacchiò.

— Non è il caso che me lo diciate! Quello che volevo dirvi è che i poliziotti non mi sono parsi tanto amichevoli. Mi avete pro¬messo protezione, ma quelli sono riusciti a tenere le mani lonta¬ne da me con un vero sforzo.

English disse, scandendo le parole una ad una: — Siete ricer¬cato per un assassinio. Non potete pretendere di più.

Duffy fissava il muro di fronte a sé: — Quanto durerà la vostra protezione una volta che Morgan sarà stato tolto di mezzo?

English si affrettò a rispondergli.

— Non dovete preoccuparvi di niente. Sto preparando le carte per mettere a posto tutto quanto, lasciando voi completamente al pulito. Vedrete, domani stesso sarà tutto finito.

Duffy aggiunse: — Vi ho dato la possibilità di sistemare Mor¬gan. Verserete domani venticinquemila dollari sul mio conto?

— Certo. Non appena avranno messo le mani addosso a Mor¬gan, lo farò.

— Bene. — Duffy riattaccò.

Si mosse per raggiungere la finestra. In quel momento il telefo¬no squillò così forte che Duffy trasalì.

— Oh, Bill! — Era la voce di Alice.

— Santi numi! Sono quasi le due. Com'è che mi telefoni a que¬st'ora?

La voce di lei era incerta: — Ho appena appreso da Sam che c'è stata una sparatoria e temevo per te...

— Dov'è Sam?

— L'hanno chiamato. È andato alla Centrale. Stai bene?

— Certo, certo. Avevi ragione tu, sai. Questa vicenda non mi condurrà a niente. Ho un po' di soldi, diciannove bigliettoni, e gli altri dovrei prenderli domani. English mi ha promesso che mi farà uscire pulito da quest'affare.

— Ne sono... ne sono proprio contenta, Bill. Va tutto bene, vero? — Duffy ebbe l'impressione che stesse piangendo.

— Vedrai; domani facciamo una festa. Tu, Sam ed io. Andrà tutto bene. Verrò nel pomeriggio, tu ed io andremo a far spese. Potrai comprare tutto quel che vuoi. Ti va?

La voce di lei era ansiosa.

— Non avrò pace fino a che non sarai di nuovo con noi.

— Buonanotte. Ti preoccupi per niente. A domani.

Dopo che ebbe posato la cornetta, si sentì scosso da un tremi¬to convulso.


17


Duffy si svegliò di soprassalto. Il sole illuminava la stanza attra¬verso le persiane, e il telefono squillava. Avrebbe voluto dormire ancora, ma si decise ad alzare il microfono.

— Chi parla? — chiese seccato.

Sam parlava in modo così concitato che non gli riuscì di capi¬re niente.

— Calmati, Sam. Cosa succede?

— Succede che la bomba è scoppiata. English sta facendo il doppio gioco. Ha addossato a te tutte le colpe che ha potuto.

— Raccontami con calma — gli raccomandò Duffy.

— Hanno arrestato Morgan sotto accusa di spaccio di valuta falsa. Quindi English è andato alla Centrale e ha ritirato la sua parola. Mi trovavo là anch'io. Ti ha buttato in pasto alle tigri. Ti rinvieranno a giudizio per l'assassinio di Olga, di Gleason e di Annabel.

Duffy fissava il vuoto davanti a sé.

— Quella sporca carogna — mormorò.

Sam si affrettò ad aggiungere: — Devi agire con molta cautela. Non potranno sostenere tutte quelle accuse.

Duffy fece una smorfia.

— Mi porteranno alla Centrale, vero?

— È English che manovra i fili dietro le quinte — aggiunse Sam. — Non attendono altro che tu scappi per poterti sparare al¬le spalle.

— Già, morto io, English potrà attribuire ogni colpa a me, senza timore d'essere smentito.

— Cosa intendi fare?

— Battermela — disse Duffy. — Forse ce la farò con la mia Buick.

— Molto probabilmente, il tuo nascondiglio è già sotto con¬trollo — replicò Sam. — La notizia è arrivata dieci minuti fa e gli agenti si sono messi subito in moto.

— Sanno che tu sei al corrente? — domandò Duffy.

— No. Non sanno neppure che ti conosco.

— Se non ce la faccio a battermela, potrò nascondermi a casa tua?

— Certo — disse Sam senza un attimo di esitazione. — Perché non ti nascondi da noi finché le acque non si saranno calmate?

— Prima tenterò di lasciare la città — rispose Duffy. — Gra¬zie. Mi sei stato di grande aiuto. Salutami Alice. Non dirle più dello stretto necessario. — Riattaccò.

Guardò l'orologio. Erano le dieci passate da poco. Si vestì con calma. Controllò che i soldi fossero al loro posto e si mise il cap¬pello in testa.

Mentre attraversava il bar deserto, udì in distanza il sibilo di una sirena. Non si affrettò più di quanto aveva fatto fino a quel momento. Mentre saliva i gradini, scorse in fondo alla strada un'auto che avanzava veloce. Allora sgattaiolò alla svelta nel ga¬rage. Si avvicinò alla Buick.

— Aspetta! — intimò Schultz con voce stridula.

Schultz era quasi nascosto da una grossa Packard. Duffy lo in¬travide alla tenue luce.

— I piedipiatti stanno arrivando — disse a bassa voce. — Io me la batto. Vuoi venire con me?

Schultz disse di no. Duffy abbassò lo sguardo e vide che ora stringeva in mano un mitra.

— Che significa? — chiese Duffy.

— Posa i soldi per terra, e poi te la potrai battere!

— I piedipiatti sono già in strada; non potrai far niente.

Schultz era pallidissimo.

— Lascia stare le chiacchiere e fa' quel che t'ho detto.

Duffy infilò una mano nella giacca. Sentì il calcio freddo della pistola. Il desiderio di estrarre l'arma e di far fuoco fu più forte di lui.

Estrasse rapidamente la Colt e sparò. Nello stesso tempo, an¬che Schultz sparava. Duffy avvertì un dolore lancinante al fianco e si sentì cadere sul cemento sporco di olio. Non riusciva più a pensare a niente. Avvertiva solo quel terribile dolore.

Gii parve di udire una voce lontana che imprecava contro di lui, poi gli parve che una mano frettolosa lo perquisisse. Si ripre¬se un poco e poté vedere Schultz che usciva di corsa dal garage.

Duffy riuscì a mettersi in piedi. Subito dopo udì provenire dall'esterno un paio di raffiche. Era Schultz. Gli fecero eco le pi¬stole dei poliziotti. Duffy raggiunse a fatica la Buick e si sedette al volante. Aveva in bocca il sapore del sangue; si sentiva il fian¬co e la gamba bagnati.

Mise in moto e quando fu in strada scorse Schultz che, al ripa¬ro di un'auto, sparava agli agenti che rispondevano al fuoco. Quando Duffy passò a tutta birra, sia Schultz sia gli altri spararo¬no contro di lui, ma i proiettili si schiacciarono contro la Buick corazzata. Prima di svoltare in fondo alla via, poté scorgere nello specchietto retrovisore Schultz che barcollava, stringendosi le mani sul petto.

Andava più forte che poteva, stringendo il volante con tutt'e e due le mani. Sarebbe riuscito a raggiungere l'abitazione di Sam e là sarebbe stato al sicuro. Sperava che i poliziotti, occupati a ri¬spondere al fuoco di Schultz, non fossero riusciti a prelevare il numero della targa. Raggiunse la casa di Sam e imboccò il vicolo che conduceva sul retro.

Fermò la macchina e allungò una mano per prendere l'imper¬meabile sul sedile posteriore. Ci mancò poco che svenisse per lo sforzo. Si riposò qualche minuto. Era debole. Ma doveva, dove¬va farcela a ogni costo.

Gli ci volle un po' per aprire la pesante portiera. Mise i piedi a terra e cadde sulle ginocchia. Con un tremendo sforzo si rialzò ed indossò l'impermeabile per coprire il vestito tutto sporco di san¬gue. Si avviò quindi lentamente, appoggiandosi al muro per rag¬giungere la porta. Fu costretto a riposarsi tre volte prima di poter entrare nell'ascensore. Schiacciò il pulsante e si lasciò scivolare sul pavimento.

Quando l'ascensore fu arrivato al piano, si attaccò alla mani¬glia e si tirò su. Riuscì ad aprire il cancelletto, e barcollando rag¬giunse la porta di Sam. Bussò leggermente, Alice aprì quasi su¬bito.

Dapprima il suo viso si illuminò, ma subito dopo, viste le con¬dizioni di Duffy, si fece serio.

— Bill, cosa è successo?

Prima di poter rispondere, Duffy fu colto da un violento attac¬co di tosse e fu costretto ad appoggiarsi allo stipite.

— Oh, dio! — esclamò Alice, e facendosi passare un braccio di lui sulle spalle lo aiutò a camminare dopo aver chiuso la porta con un piede. Lo guidò in camera da letto, lo fece stendere e gli mise un guanciale sotto il capo.

— Cosa è successo? — chiese.

— Dammi qualcosa da bere — chiese Duffy in un soffio.

Lei s'affrettò ad andare nell'altra stanza dalla quale tornò qua¬si subito con una bottiglia e un bicchiere. L'aiutò a bere. Il whis¬ky lo rianimò e riuscì a sorridere.

— Toglimi i vestiti, per favore — mormorò. — Mi sono imbat¬tuto in un nugolo di proiettili.

Spogliarlo fu faticoso. Dovette lasciarlo riposare di tanto in tanto e finalmente riuscì a togliergli l'impermeabile e la giacca. Alla vista della camicia tutta insanguinata ci mancò poco che Ali¬ce non svenisse.

— Non ti spaventare — le raccomandò Duffy. — Non credo che sia una brutta ferita. Mi fa male, quello sì. — Si sentiva però più forte.

Alice andò nel bagno a prendere degli asciugamani e delle bende. Dovette tagliargli la camicia. Sul fianco destro c'erano sei fori di pallottola. Alice fissava terrorizzata quei fori neri.

— Dovrai tirar fuori i proiettili — disse lui.

— Non posso — mormorò Alice. — Non so come fare.

— Hai delle pinzette. Prendile.

Lei lo guardò e fece di no.

— È importante, piccola.

Lei sospirò a lungo e si mosse. Duffy allungò la mano e prese la bottiglia. Bevve un lungo sorso. Alice tornò di lì a poco con un paio di pinzette.

— Disinfettale sulla fiamma di un fiammifero.

Mentre lei provvedeva, Duffy ingollò dell'altro whisky. Quando lei fu pronta, Duffy aveva bevuto tanto da essere quasi ubriaco.

Il dolore era tremendo; il sudore gli colava a rivoli sul volto, ma non si mosse e non diede un solo lamento per farle credere che non gli faceva male. Infine la udì mormorare: — Ce l'ho fat¬ta... Li ho tolti tutti e sei. — La sua voce era così tenue, che Duf¬fy voltò il capo per vedere come stava. Era pallida e si reggeva con le mani appoggiate sul tavolo.

— Fatti coraggio... Bevi qualcosa e ti sentirai meglio — mor¬morò lui.

Lei si sedette sul pavimento.

— Ora... mi... passa. Non ti preoccupare... Un attimo e sto meglio.

Con mano tremante, Duffy versò del whisky in un bicchiere e glielo porse.

— Forza, bevi questo! — Lo sforzo gli fece girar la testa.

Duffy udì il vetro tintinnare contro i denti di lei mentre beve¬va. Riuscì ad alzarsi; Alice posò il bicchiere sul tavolo.

— Sto meglio — mormorò.

— Fasciami le ferite ora — disse Duffy.

Lei si sedette sulla sponda del letto.

— Non posso chiamare un dottore?

Lui fece di no con la testa.

— No, sono ricercato.

Lei tagliò una benda, mordendosi le labbra per trattenere il pianto. Duffy giaceva immobile; fissava il soffitto. La testa gli gi¬rava per l'alcool.

— Fisso la garza con del cerotto — disse lei.

— Bene — assentì Duffy.

Alice finì il lavoro con mani inesperte. Lui la guardava con at¬tenzione e quando lei ebbe finito le disse: — Dammi un vestito di Sam.

Alice spalancò tanto d'occhi.

— Cosa vuoi dire?

— Me ne vado.

— Niente affatto. Tu non ti muoverai da questo letto.

Lui scosse il capo con impazienza.

— Se mi troveranno qui, finirete anche voi nei guai.

Lei era irremovibile.

— Tu non ti muovi da qui.

Duffy chiuse gli occhi.

— E va bene. Ma solo per un po'.

Lei si piegò su di lui e gli baciò la fronte calda per la febbre

— Sapessi quanto mi dispiace!

Duffy sollevò a fatica le palpebre.

— È tutta colpa mia... Immagino che non sarebbe potuto fini¬re altrimenti. — Poi gli venne in mente qualcosa all'improvviso. — Guarda nella mia giacca. Dovrebbe esserci del danaro.

Alice controllò.

— Non c'è niente.

Duffy storse la bocca.

— Se l'è preso Schultz allora. — Chiuse di nuovo gli occhi.

— Cerca di riposare — disse lei.

— Nella mia scarpa destra. Ci sono tre bigliettoni. Sono per te.

— Non pensarci adesso.

Lui sollevò il capo.

— Toglimi la scarpa destra e prendi il denaro — disse. — È tutto quel che ho ricavato da questa faccenda. È tuo.

Lei gli slacciò la scarpa e trovò le tre banconote. Le tenne in mano, guardandolo con gli occhi pieni di lacrime.

Duffy si lasciò cadere di nuovo sul guanciale.

— Avevi ragione tu, piccola — mormorò. — Il denaro non conta.

Lei rispose, controllandosi: — Ora ti lascio solo. Devi riposa¬re. Se hai bisogno chiamami.

— Va bene. Non chiamare Sam. Sto bene... sono soltanto stanco. — Le accarezzò una mano. — Sono stato un idiota — mormorò.

Alice strinse i denti per non scoppiare a piangere. Guardò il vi¬so di lui, pallido e contratto dal dolore e sussurrò: — Non ci pen¬sare più. Si sistemerà tutto, vedrai.

Lei lasciò la stanza. Duffy si sentiva stanco, molto stanco e vo¬leva dormire, dormire.

Quando si svegliò non sapeva quanto avesse dormito. Avreb¬bero potuto essere minuti come molte ore. Alzò il capo e si guar¬dò in giro. Quando i suoi occhi ebbero raggiunto la finestra, capì subito perché si era svegliato.

Joe ed il piccoletto erano in piedi sul ballatoio della scala di si¬curezza e lo guardavano. Proprio mentre Duffy li guardava, Joe tirò su la finestra ed entrò nella stanza. Mormorò sottovoce: — Abbiamo visto il tuo carro armato e abbiamo pensato di venirti a fare una visitina. Ti abbiamo cercato, sai.

Duffy guardò preoccupato la porta.

— Non le farete del male, vero?

Joe sorrise.

— No, se rimane fuori — disse, parlando sempre sottovoce. — Ma se entrerà nella stanza avrà una bella sorpresa.

Duffy lasciò cadere la testa sul cuscino.

— Chiudete la porta a chiave — disse.

— No, Joe — intervenne il piccoletto. — Se sa che la donna può entrare, non griderà. — Sorrise a Duffy. Un sorriso crudele.

Joe si avvicinò al letto e strappò via la coperta. Quando scorse la garza sbottò, sorridendo: — Sei ferito! Oh, come mi dispiace!

Duffy non disse nulla. Si limitava a fissare Joe con occhi lucidi. Qualsiasi cosa Joe gli avesse fatto, non avrebbe dovuto gridare. Altrimenti Alice sarebbe accorsa.

Joe allungò una mano. Duffy si tese, ma subito si rilassò ben sapendo quanto vana sarebbe stata ogni resistenza. Si limitò a guardare Joe in faccia. La mano di Joe afferrò la garza che gli co¬priva le ferite e la strappò brutalmente.

Il piccoletto ridacchiò.

Duffy si morse le labbra per non gridare. Dai sei piccoli fori cominciò a uscire il sangue.

Joe si sedette sulla sponda del letto.

— Hai fatto finire al fresco prima Clive, poi Morgan. Ti meriti una bella lezione, lo sai ficcanaso?

Duffy mormorò a denti stretti: — Fa' quello che vuoi... ma sbrigati.

— Sì, Joe, sbrigati — intervenne il piccoletto.

Duffy fissava il soffitto. Joe lo prese per la gola con le sue manacce e si mise a stringere con tutta la sua forza. Il piccoletto si mosse dalla finestra e si mise al fianco di Joe per osservare la scena.

— Ecco... ora prendi un po' d'aria, amico — mormorava in¬tanto Joe, allentando la stretta.

Il piccoletto drizzò all'improvviso le orecchie.

— Ascolta — disse a Joe.

Dall'altra stanza proveniva il rumore di Alice che si muoveva per la cucina, e un tintinnio di piatti.

— Gli sta preparando da mangiare — mormorò il piccoletto.

Joe ridacchiò.

— Ma il nostro amico sta perdendo l'appetito! Vero, ficcana¬so? — Aveva il viso rosso per lo sforzo. Riprese a stringere.

Il piccoletto si mosse verso la finestra. Joe diede un'ultima stretta e si mosse anche lui. Il piccoletto arrivò alla finestra, ma se ne allontanò in tutta fretta.

— Joe...!

Delle forme scure apparvero fuori della finestra, poi tre poli¬ziotti balzarono nella stanza con sorprendente velocità.

Joe li guardò sbalordito.

— Non sparate! — si affrettò a dire, alzando le mani.

Il sergente che comandava il gruppo si fece avanti. I suoi occhi avevano un'espressione sbalordita.

— Proprio un bel gruppetto!

Il sergente si avvicinò al letto mentre gli altri due agenti tene¬vano le pistole spianate.

Il sergente esclamò: — Che mi venga un accidente!

Si avvicinò al piccoletto e lo colpì alla fronte con il calcio della pistola. Il piccoletto sbatté contro il muro e scivolò a terra. Si co¬prì il viso con le mani.

Joe si inginocchiò e mormorò con voce tremula: — Capo, non avevamo intenzione...

Il sergente lo guardò.

— Certo, non intendevate far niente, brutte carogne. È tanto tempo che speravo di potervi mettere le unghie addosso e ora, fi¬nalmente, vi ho presi con le mani nel sacco. — Fece un cenno del capo ai suoi due uomini. — Portate via questi due delinquenti.

In quel momento la porta si aprì e Alice comparve nel vano. Il sergente si affrettò ad andare verso di lei e a trascinarla in cucina.

— Non potete portarlo via — mormorò Alice. — Sta male. Vi prego...

— Quello sul letto... è Duffy? — domandò il sergente.

Alice fece di sì.

— Gli hanno sparato... è ferito gravemente. Vi prego, lascia¬telo qui. Gli ho appena preparato la minestra. Posso dargliela?

Il sergente si spostò il berretto sulla nuca. Il volto terrorizzato della donna lo imbarazzava.

— Non preoccupatevi per la minestra — mormorò, rimetten¬dosi la pistola nella fondina. — Lui non ne ha più bisogno.


FINE