mercoledì 31 marzo 2021

LA TORRE NERA Stephen King

 STEPHEN KING

LA TORRE NERA (The Dark Tower, 2004)

Colui che parla senza un orecchio attento è muto.

Perciò, Fedele Lettore, quest'ultimo libro del ciclo della Torre Nera è dedicato a te. Lunghi giorni e piacevoli notti.

«Non senti? Ma se rumoreggiava il mondo! Clangore

Crescente come di campana. Nomi nelle orecchie

Di tutti gli avventurieri persi, miei pari Come l'uno era forte, l'altro ardito, E un altro fortunato, ma tutti persi, perduti! Un solo rintocco funebre per anni di lutti.

Erano laggiù, allineati ai piedi dei pendii, venuti

A vedermi per l'ultima volta, cornice vivente

All'immagine finale! In una cortina di fiamme

Li vidi e tutti riconobbi. Ciononostante intrepido

Mi portai alle labbra il corno da guerra,

E soffiai. 'Childe Roland alla Torre Nera giunse.'»

ROBERT BROWNING Childe Roland alla Torre Nera giunse

Sono venuto al mondo

Con una sei-colpi in mano Dietro una pistola

Darò l'ultima battaglia.

BAD COMPANY

Cosa sono diventato?

Mio dolcissimo amico

Tutti coloro che conosco

Se ne vanno alla fine

Puoi prendertelo tutto

Il mio impero di sudiciume

Io ti deluderò

Io ti tarò male TRENT REZNOR

19

99

Riproduzione

Rivelazione

Redenzione Ripresa

PARTE PRIMA

IL PICCOLO RE ROSSO

DAN-TETE

1

Callahan e i vampiri

1

Père Donald Callahan era stato un tempo il sacerdote cattolico di un borgo, Salem's Lot si chiamava, che non esisteva più su nessuna carta geografica. Gli era indifferente. Per lui concetti come «realtà» avevano perso ogni significato.

Questo ex prete aveva ora nel palmo un oggetto pagano, una tartarughina d'avorio. Le era saltato via un pezzettino del becco e aveva un graffio a forma di punto interrogativo sulla schiena, ma per il resto era un piccolo gioiello.

Bello e potente. Ne avvertiva la forza nella mano come energia elettrica.

«Quant'è bella», bisbigliò al ragazzo che gli era accanto. «È la Tartaruga Maturin? È lei, vero?»

Il ragazzo era Jake Chambers e aveva compiuto un lungo percorso circolare per ritrovarsi quasi al punto da cui era partito, lì a Manhattan. «Non lo so», rispose. «Lei la chiama sköldpadda, e potrebbe aiutarci, ma non può uccidere i masnadieri che ci stanno aspettando là dentro.» Indicò con un cenno della testa il Dixie Pig, domandandosi se, quando ricorreva a quel generico lei si stesse riferendo a Susannah o Mia. In passato avrebbe detto che non aveva importanza visto com'erano strettamente interconnesse tra loro le due donne. Ora però riteneva che non fosse più così, o che presto non lo sarebbe più stato.

«Lo farai?» chiese Jake al Père, intendendo ti batterai? Resisterai? Ucciderai?

«Oh sì», rispose Callahan con calma. Ripose la tartarughina d'avorio con i suoi occhi saggi e il dorso graffiato nel taschino, dove teneva le munizioni di riserva per la pistola, poi tastò una volta per assicurarsi che fosse al sicuro. «Sparerò finché avrò proiettili e se resterò senza proiettili prima che mi uccidano, li pesterò con... il calcio della pistola.»

L'esitazione fu così lieve che Jake non se ne avvide. Ma in quella pausa, a Père Callahan aveva parlato il Bianco. Era una forza che conosceva da tempo, già dall'infanzia, sebbene ci fossero stati lungo la via anni di fede vacillante, anni in cui la sua comprensione di quella forza elementare si era dapprima affievolita e infine dissolta. Ma quei giorni non c'erano più, il Bianco era di nuovo con lui, e Callahan disse grazie a Dio.

Jake stava annuendo, diceva qualcosa che Callahan udì appena. E ciò di cui Jake parlava non aveva importanza. Ciò che contava, invece, era quello che diceva l'altra voce, la voce di qualcosa

(Gan) forse troppo grande perché lo si potesse chiamare Dio.

Il ragazzo deve andare avanti, gli diceva la voce. Comunque sia, comunque si risolvano le cose qui, il ragazzo deve andare avanti. La tua parte nella storia è quasi conclusa. La sua no.

Passarono sotto un cartello su un palo cromato (CHIUSO PER FUNZIONE PRIVATA), con Oy, l'amico speciale di Jake, che trotterellava tra loro, con la testa alzata e il muso inghirlandato dal suo solito sorriso dentuto. In cima ai gradini, Jake affondò la mano nella sacca che SusannahMio aveva portato da quest'altra parte da Calla Bryn Sturgis e afferrò due dei piatti, gli Oriza. Li batté delicatamente uno contro l'altro, fece un cenno d'assenso al sordo rintocco, quindi disse: «Vediamo la tua».

Callahan sollevò la Ruger che Jake aveva preso da Calla New York e che ora aveva portato indietro; la vita è una ruota e noi tutti diciamo grazie. Per un momento il Père si accostò la canna della Ruger alla guancia destra come un duellante. Poi si toccò il taschino, che era gonfio delle cartucce e della tartaruga. La sköldpadda.

Jake annuì. «Quando saremo dentro, resteremo insieme. Sempre insieme, con Oy tra di noi. Al

tre. E quando cominciamo, non smettiamo più.»

«Non smettiamo più.»

«Giusto. Sei pronto?»

«Sì. L'amore di Dio è con te, ragazzo.»

«E con te, Père. Uno... due... tre.» Jake aprì la porta e insieme entrarono nella luce fioca e nell'odore dolciastro e penetrante delle carni arrostite.

2

Jake andò a quella che era sicuro sarebbe stata la sua morte ricordando due cose che gli aveva detto Roland Deschain, il suo vero padre. Le battaglie che durano cinque minuti generano leggende che vivono mille anni. E: Non è indispensabile che tu muoia felice quando verrà il tuo giorno, ma devi morire soddisfatto, perché hai vissuto la tua vita dall'inizio alla fine e sempre si serve il ka.

Jake Chambers contemplò l'interno del Dixie Pig con una mente soddisfatta.

3

E anche cristallina. I suoi sensi erano così acuiti che non solo sentiva l'odore dell'arrosto ma anche l'aroma del rosmarino con cui la carne era stata strofinata; non udiva solo il ritmo calmo del proprio respiro, ma anche il mormorio oscillante del sangue che saliva verso il cervello da un lato del collo e discendeva verso il cuore dall'altro.

Ricordava anche che Roland gli aveva detto che persino la battaglia più breve, dal primo colpo all'ultimo corpo stramazzato, sembrava lunga a coloro che vi prendevano parte. Il tempo diventava elastico; si estendeva fino a scomparire. Jake aveva annuito come se avesse compreso, ma così non era.

Comprendeva ora.

Il suo primo pensiero fu che ce n'erano troppi, di gran lunga troppi. Calcolò il loro numero intorno al centinaio, per la maggior parte «uomini bassi», come li aveva definiti Père Callahan (c'erano anche donne basse, ma Jake era sicuro che il principio fosse il medesimo). Sparsi tra loro - tutti meno in carne del folken basso e alcuni aguzzi come lame di fioretto, con la carnagione cinerea e il corpo avvolto in diafane aure azzurre - c'erano quelli che dovevano essere vampiri.

Oy era ai piedi di Jake, con un'espressione seria seria sul musetto volpino e un guaito annidato in gola.

L'odore della carne che cuoceva non era di maiale.

4

Tre metri fra noi in qualsiasi momento, tre metri di distanza, Père, così Jake aveva detto in strada e, mentre si avvicinavano alla postazione del maître, Callahan svariò alla destra di Jake aprendo tra loro la distanza richiesta.

Jake gli aveva anche ordinato di urlare più forte e più a lungo che poteva e Callahan stava giusto prendendo fiato per cominciare, quando dentro di lui risuonò di nuovo la voce del Bianco.

Una sola parola, ma fu sufficiente.

Sköldpadda.

Callahan aveva ancora la Ruger contro la guancia destra. Ora fece scivolare la sinistra nel taschino. La sua percezione della scena non era così acutizzata come quella del suo giovane compagno, ma era pur molto ciò che vedeva: i flambeaux elettrici alle pareti, che emettevano luce rossastra, le candele in contenitori di vetro di un brillante arancione-Halloween, il nitore dei tovaglioli. Alla sinistra della sala da pranzo c'era un arazzo raffigurante cavalieri e dame seduti a un lungo tavolo da banchetti. C'era una sensazione in quell'immagine - Callahan non era del tutto certo di che cosa la provocasse, i vari indizi e stimoli rimanevano sottintesi - di persone appena riprese da un breve eccitamento: un principio d'incendio in cucina, per esempio, o un incidente automobilistico in strada.

O una donna che ha partorito, pensò Callahan mentre chiudeva la mano sulla tartaruga. Un parto viene sempre bene come interludio tra l'antipasto e la prima portata.

«Ecco che giungono i ka-mai di Gilead!» gridò una voce vibrante di nervosismo. Non umana, di questo Callahan era quasi certo. Era troppo ronzante perché fosse umana. Vide un mostruoso ibrido in parte uomo e in parte uccello fermo in fondo alla stanza. Indossava un paio di jeans e una semplice camicia bianca, ma la testa che usciva da quel colletto era ornata da lisce piume color giallo scuro. I suoi occhi sembravano gocce di catrame liquido.

«Prendeteli!» comandò quell'essere orribilmente ridicolo, liberando un oggetto da sotto un tovagliolo. Era un'arma di qualche genere. Una pistola, pensò Callahan, ma di quelle che si vedevano in Star Trek. Come le chiamavano? Phaser? Storditori?

Non aveva importanza. Lui aveva un'arma assai migliore e voleva che tutti la vedessero. Fece volar via dal tavolo più vicino i coperti e il contenitore di vetro con la candela, poi fu la volta della tovaglia come un numero di prestidigitazione. L'ultima cosa che voleva era inciampare in un ammasso di lino nel momento fatidico. Poi, con un'agilità che non si sarebbe nemmeno sognato solo una settimana prima, montò su una sedia e da lì sul tavolo. Finalmente alzò la sköldpadda sostenendone la base piatta con le dita e la mostrò a tutti i presenti.

Potrei cantare qualcosa, pensò. Magari Moonlight Becomes You oppure I Left My Heart in San Francisco.

A quel punto si trovavano dentro il Dixie Pig da precisamente trentaquattro secondi.

5

I professori di liceo alle prese con un gruppo consistente di studenti, per esempio in un'aula magna, vi diranno che gli adolescenti, anche se freschi di doccia, emanano l'odore degli ormoni che il loro corpo fabbrica con tanta alacrità. Un odore simile emette un qualsiasi gruppo di persone sotto stress e Jake, con tutti i sensi elevati al massimo della percezione, lo sentì. Quando oltrepassarono la postazione del maître (quella che a suo padre piaceva chiamare la Centrale dell'Estorsione), l'odore dei commensali del Dixie Pig era ancora debole, era l'odore di persone che tornano alla normalità dopo una baruffa. Ma quando la creatura-uccello gridò, Jake l'avvertì più forte. Era un sentore metallico, abbastanza simile a quello del sangue a scuoterlo. Sì, vide Titti spostare il tovagliolo sul tavolo; sì, vide l'arma che c'era sotto; sì, capì che Callahan, in piedi sul tavolo, era un bersaglio facile. Quel pericolo però lo preoccupava di meno di quello strumento di mobilitazione che era la bocca di Titti. Stava portando all'indietro il braccio destro, preparandosi a lanciare il primo dei suoi diciannove piatti e decapitare il proprietario di quella bocca, quando Callahan alzò la tartaruga.

Non succederà niente, non qui dentro, pensò Jake, ma ancor prima che l'idea si fosse articolata del tutto nella sua mente, vide che in effetti funzionava. Lo capì dal loro odore. La componente dell'aggressività non c'era più. E i pochi che avevano cominciato a levarsi dai loro posti - buchi rossi aperti nella fronte degli uomini bassi e aure azzurre più intense e compatte intorno ai vampiri - si risedettero, e lo fecero bruscamente, come se avessero perso all'improvviso il controllo dei muscoli.

«Prendeteli, sono quelli che Sayre...» Poi Titti smise di parlare. La sua mano sinistra, se si poteva definire mano quell'orribile artiglio, toccò il calcio della sua futuristica pistola e scivolò via. La luminosità dei suoi occhi si offuscò. «Sono quelli che Sayre... S-S-Sayre...» Un'altra pausa. Poi l'essere-uccello disse: «Oh sai, cos'è quel bell'oggetto che tieni nella mano?»

«Sai cos'è», gli rispose Callahan. Jake si stava muovendo e Callahan, ricordando bene ciò che il giovane pistolero gli aveva detto in strada - ogni volta che guardo alla mia destra, fai che veda sempre la tua faccia - ridiscese dal tavolo per spostarsi con lui, sempre tenendo in alto la tartaruga. Quasi sentiva il sapore del silenzio nel locale, ma...

C'era un'altra stanza. Risa sguaiate e schiamazzi da gozzoviglia, una festa di qualche genere, a giudicare dal chiasso, e molto vicina. A sinistra. Oltre l'arazzo con i cavalieri e le loro dame a pranzo. Là dietro sta succedendo qualcosa, rifletté Callahan, e probabilmente non una riunione di filantropi.

Sentì il respiro veloce e sommesso di Oy attraverso il suo sorriso perpetuo, un motorino perfetto. E qualcos'altro ancora. Un tramestio secco, frammisto a un rapido ticchettio, una combinazione che aggredì i nervi di Callahan e gli fece gelare la pelle. C'era qualcosa sotto i tavoli.

Fu Oy a vedere per primo gli insetti e si bloccò come un cane da punta, con una zampa sollevata da terra e il muso proteso in avanti. Per un momento di lui si mosse soltanto la pelle vellutata e scura del muso, dapprima raggricciandosi all'indietro a rivelare gli aghi serrati dei denti, poi rilassandosi a nasconderli, quindi tirandosi di nuovo.

Gli insetti vennero avanti. La Tartaruga Maturin nella mano del Père non aveva su di loro alcun effetto. Un grassone che indossava uno smoking con i risvolti a scacchi si rivolse all'essereuccello in un tono timoroso, quasi interrogativo: «Non dovevano venire più avanti di così, Meiman, né andarsene. Ci avevano detto...»

Oy partì con un ringhio tra i denti stretti. Era un verso decisamente estraneo al suo repertorio, che ricordò a Callahan la nuvoletta di un fumetto: Arrrrrr!

«No!» gridò Jake allarmato. «No, Oy!»

A quell'intimazione, gli schiamazzi e le risa dietro l'arazzo cessarono bruscamente, come se quel folken si fosse improvvisamente reso conto che qualcosa era cambiato nell'altra stanza.

Oy non badò alla protesta di Jake. Azzannò tre degli insetti in rapida successione, facendo crepitare in quel silenzio repentino il rumore macabro dei loro carapaci che si spezzavano. Non tentò di mangiarli, limitandosi a lanciare nell'aria i cadaveri di ciascuno, grandi come topi, allentando la contrazione delle mandibole con una frustata del collo.

E gli altri si ritirarono sotto i tavoli.

Ha l'istinto, pensò Callahan. Forse molto tempo fa lo avevano tutti i bimboli. Era predisposto come certi terrier sono predisposti a...

Un grido roco simile a uno starnuto da dietro l'arazzo interruppe quei pensieri: «Um!» proruppe una voce e subito dopo una seconda: «Ka-um!» Callahan provò l'assurdo impulso di gridare Salute!

Prima che potesse pronunciare quella parola o un'altra, all'improvviso la voce di Roland gli riempì la testa.

6

«Jake, va'.»

Il ragazzo si girò verso Père Callahan, incredulo. Camminava con le braccia incrociate davanti a sé, pronto a lanciare gli Oriza al primo essere basso che si fosse mosso, maschio o femmina. Oy era di nuovo ai suoi piedi, sebbene girasse incessantemente la testa di qua e di là e i suoi occhi brillassero dal desiderio di nuove prede.

«Andiamo insieme», rispose. «Hanno paura, Père! E siamo vicini! L'hanno portata per di qui... per questa stanza... e poi attraverso la cucina...»

Callahan non gli prestò attenzione. Sempre tenendo in alto la tartarughina (come tosse una lanterna in una grotta profonda), si era girato verso l'arazzo. Il silenzio là dietro era assai più terribile delle grida e delle risa convulse di prima. Era come un'arma spianata. E il ragazzo si era fermato.

«Vai finché puoi», insisté Callahan cercando di mantenersi calmo. «Raggiungila se puoi.

Questo è l'ordine del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»

«Ma tu non...»

«Vai, Jake!»

Le donne e gli uomini bassi del Dixie Pig, incantati o no dalla sköldpadda, reagirono con un mormorio di disagio all'echeggiare di quel grido ed era giusto che fosse così, perché non era la voce di Callahan quella che usciva dalla bocca del Père.

«Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»

Jake sgranò gli occhi nell'udire la voce di Roland scaturire dalla gola di Callahan. Rimase a bocca aperta. Si guardò intorno stordito.

Nei secondi precedenti al momento in cui l'arazzo alla loro sinistra fu squarciato, Callahan scorse la macabra realtà celata nell'apparenza, vide quello che l'occhio disattento avrebbe mancato a un primo sguardo: l'arrosto che era il piatto principale del banchetto aveva forma umana; i cavalieri e le loro dame mangiavano carni umane e bevevano sangue umano. La scena rappresentata dall'arazzo era quella di una comunione da cannibali.

Poi i vegliardi abbandonarono il proprio banchetto e strapparono l'osceno arazzo e piombarono nella sala lanciando strilli dalle fauci deformate e costrette dalle grandi zanne a restare costantemente aperte. I loro occhi erano neri come la cecità; la pelle di guance e fronte, persino del dorso delle mani, era deturpata dall'affiorare di denti matti. Come i vampiri della sala da pranzo, erano anch'essi circondati da un'aura, ma la loro era di un viola venefico così scuro da rasentare il nero. Dagli angoli di occhi e bocche colava una sorta di pus. Farfugliavano e alcuni di loro ridevano, dando l'impressione non già di produrre suoni, bensì di strapparli all'aria come dilaniando cose vive.

E Callahan li conosceva. Naturale. Non era stato forse uno di loro a mostrargli la via? Lì c'erano i vampiri veri, il Tipo Uno, conservati come un segreto e ora lanciati sugli intrusi.

La tartaruga che teneva nella mano non li rallentò minimamente.

Callahan vide Jake che, di fronte a quei mostri, esitava inorridito, pallido e con gli occhi lucidi e strabuzzati.

Senza sapere che cosa stesse per uscire dalla sua bocca prima di udirlo con le orecchie,

Callahan urlò: «Uccideranno prima Oy! Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»

Sentendo il suo nome, Oy abbaiò. Il latrato parve rianimare gli occhi di Jake, ma Callahan non ebbe tempo di occuparsi della sorte del ragazzo.

La tartaruga non li ferma, ma almeno tiene a bada gli altri. Le pallottole non li possono fermare, però...

Con un sensazione di déjà vu - e perché no, aveva già vissuto tutto questo nella casa di un ragazzo di nome Mark Petrie - Callahan infilò la mano sotto la camicia ed estrasse la croce che portava al collo. Tintinnò sul calcio della Ruger prima di rimanere sospesa nell'aria sotto la pistola. Era illuminata di una brillante luce bianco-azzurra. I due esseri decrepiti in testa al gruppo stavano per afferrarlo, ma a un tratto arretrarono strillando di dolore. Callahan vide la loro pelle sfrigolare e cominciare a liquefarsi. Un fenomeno che lo riempì di selvaggia felicità.

«Indietro!» comandò. «Ve lo ordina il potere di Dio! Ve lo ordina il potere di Cristo! Ve lo ordina il ka del Medio-Mondo! Ve lo ordina il potere del Bianco!»

Uno di loro si fece sotto lo stesso, uno scheletro deforme in un vecchio abito da sera ammuffito. Al collo portava un'onorificenza antica... la Croce di Malta forse? Allungò la mano dalle lunghe unghie cercando di strappare il crocifisso dalle dita di Callahan, il quale lo abbassò all'ultimo istante, cosicché l'artiglio del vampiro sfrecciò nell'aria vuota due centimetri sopra di esso. Allora, senza pensare, Callahan si protese e affondò l'estremità della croce nella pergamena ingiallita che rivestiva la fronte della cosa. Il crocifisso d'oro penetrò come uno spiedo rovente in un panetto di burro. La cosa nello smoking color ruggine lanciò un verso liquido di sgomento e dolore e barcollò all'indietro. Callahan estrasse la croce. Per un momento, prima che il vecchio mostro si portasse le zampe alla fronte, Callahan vide lo squarcio provocato dalla sua croce. Poi fra le dita scheletriche cominciò a fluire una materia densa e giallastra. Le ginocchia della creatura cedettero. Stramazzò al suolo tra due tavoli. I suoi compagni si ritrassero urtando la loro indignazione. La faccia dell'essere si andava già disfacendo sotto le sue mani deformi. L'aura che lo circondava si dissolse come la fiamma di una candela e di esso non restò che una pozza di materia gialla, che fluiva liquefatta come vomito dalle maniche e dai calzoni.

Callahan avanzò deciso verso gli altri. Non aveva più paura. Era scomparsa anche l'ombra di vergogna che lo aveva perseguitato da quando, un giorno lontano, Barlow il vampiro gli aveva preso la croce e gliel'aveva spezzata.

Finalmente libero, pensò. Finalmente libero, grande Dio onnipotente, sono finalmente libero. Poi: Credo che questa sia redenzione. Ed è bello, vero? Molto bello.

«'Uttala via!» gridò uno di loro, proteggendosi il volto con le mani. «Insipido fronzolo del

Dio-'ecora, 'uttala via se ne hai il fegato!»

Insipido fronzolo del Dio-pecora, certo. Allora perché siete così atterriti?

Di fronte a Barlow non aveva osato rispondere a quella provocazione e ne aveva pagato un prezzo altissimo. Al Dixie Pig, Callahan rivolse la croce alla cosa che aveva avuto l'ardire di sfidarlo.

«Non metterò in gioco la mia fede per la brutta faccia di un essere come te, sai», disse e le sue parole risuonarono chiare nella sala. Aveva costretto i vecchi a retrocedere fin quasi all'arco da sotto il quale erano emersi. Grossi tumori scuri erano comparsi sulle mani e il volto di quelli in prima linea, escrescenze che divoravano come un acido la carta della loro vecchia pelle. «E non getterei mai via una vecchia amica come questa in ogni caso. Ma metterla via? Aye, se vi fa piacere.» E lasciò ricadere la croce nella camicia.

Subito alcuni dei vampiri si lanciarono in avanti, torcendo le bocche zeppe di denti in una smorfia che poteva essere un sogghigno. Callahan protese le mani verso di loro. Le dita (e la canna della Ruger) si accesero come fossero state intinte in un fuoco blu. Si erano riempiti di luce anche gli occhi della tartaruga; il suo guscio brillava.

«Lontani da me!» tuonò Callahan. «Il potere di Dio e del Bianco ve lo comanda!»

7

Quando il terribile sciamano si girò verso gli Avi, Meiman dei taheen sentì che l'affascinante, orribile malia della tartaruga perdeva una parte del suo effetto. Vide che il ragazzo non c'era più e questo lo riempì di sgomento, tuttavia forse non tutto era perduto, visto che era andato avanti, penetrando più a fondo nella scena invece che ritirarsi. Ma se avesse trovato la porta per Fedic e se ne fosse servito, Meiman si sarebbe potuto trovare in un gran brutto guaio. Perché Sayre rispondeva a Walter o'Dim e Walter rispondeva solo al Re Rosso in persona.

Pazienza. Una cosa per volta. Prima di tutto bisognava neutralizzare lo sciamano. Scatenargli addosso gli Avi. Poi il ragazzo: magari gridargli che il suo amico ci aveva ripensato e lo voleva indietro, uno stratagemma che avrebbe potuto funzionare...

Meiman (l'uomo canarino per Mia, Titti per Jake) avanzò di soppiatto e afferrò con una mano Andrew, il grassone con lo smoking dai risvolti a scacchi, e la sua ancor più grassa compagna con l'altra. Indicò la schiena girata di Callahan.

Tirana scosse con forza la testa. Meiman aprì il becco e le sibilò qualcosa. Lei si chinò impaurita. Detta Walker aveva già infilato le dita nella maschera di Tirana che ora le pendeva a brandelli dal collo e dal mento. Al centro della fronte una ferita rossa si apriva e chiudeva come la branchia di un pesce in agonia.

Meiman si rivolse ad Andrew, staccandosi da lui per indicare lo sciamano, quindi passandosi l'artiglio che aveva per mano sulla gola pennuta in un gesto di truce eloquenza. Andrew annuì e respinse le mani della moglie che cercavano di trattenerlo. La maschera umana che indossava l'uomo basso nel suo pacchiano smoking era abbastanza naturale da assumere l'espressione tipica di chi fa appello a tutto il proprio coraggio. Dopodiché spiccò il balzo con un verso strozzato e afferrò Callahan per il collo, non con le mani, bensì con i grassi avambracci. Contemporaneamente la sua compagna si lanciò in avanti con un grido e fece volar via la tartarughina d'avorio dalla mano del Père. La sköldpadda rotolò sul tappeto rosso, rimbalzò su uno dei tavoli e lì (come una certa barchetta di carta che qualcuno di voi forse ricorda) uscì per sempre da questa storia.

Gli Avi ancora non intervenivano, né si muovevano i vampiri del Tipo Tre che cenavano nella sala comune, ma i tizi bassi sentirono il momento di debolezza e si fecero sotto, dapprima titubanti, poi con crescente sicurezza. Circondarono Callahan, sostarono per un momento e infine gli furono addosso tutti assieme.

«Nel nome di Dio, lasciatemi andare!» proruppe Callahan, ma naturalmente non servì. A differenza dei vampiri, gli esseri con la ferita rossa sulla fronte non reagivano al nome della divinità invocata da Callahan. La sola cosa che poteva fare era sperare che Jake non si fermasse, o peggio ancora che non tornasse indietro; sperare che lui e Oy proseguissero come il vento fino a Susannah. Che la salvassero, se potevano. Che morissero con lei, altrimenti. E che uccidessero il neonato, se ne avessero avuta l'occasione. Che Dio lo perdonasse, ma si era sbagliato su quel conto. Avrebbero dovuto spegnere quella vita già nel Calla, quando ne avevano avuto la possibilità.

Qualcosa gli penetrò nel collo. Ora i vampiri avrebbero attaccato, nonostante la croce. Alla prima zaffata del suo sangue, lo avrebbero aggredito da quegli squali che erano. Dio aiutami, dammi forza, pensò e la sentì sopraggiungere. Rotolò sulla sinistra mentre cento mani gli laceravano la camicia. Per un momento la sua mano destra fu libera e in essa c'era ancora la Ruger. La ruotò verso il volto sudato e congestionato dall'odio del grassone di nome Andrew e posò la canna della pistola (acquistata per protezione personale in un lontanissimo passato da quel dirigente di rete televisiva un po' paranoico che era stato il padre di Jake) sulla morbida ferita rossa al centro della fronte.

«No-ooo, non t'azzardare!» sbraitò Tirana e, quando si allungò per cercare di strappargli la pistola, il vestito che indossava infine si strappò, rovesciando fuori l'enorme seno. Che era coperto di dure setole.

Callahan premette il grilletto. Nella sala da pranzo la detonazione della Ruger fu assordante. La testa di Andrew esplose come una zucca piena di sangue, inondando le creature che si accalcavano dietro di lui. Ci furono grida di orrore e incredulità. Non doveva andare così, vero?

ebbe tempo di pensare Callahan. E poi: Basta questo a iscrivermi al club? Ora sono un pistolero?

Forse no. Ma c'era l'uomo-uccello, proprio davanti a lui tra due dei tavoli, che apriva e chiudeva il becco sopra la gola che gli pulsava di eccitazione.

Sorridendo, sollevandosi su un gomito mentre il sangue gli usciva a fiotti dalla gola squarciata sul tappeto, Callahan puntò la Ruger di Jake.

«No!» gridò Meiman portandosi le mani deformi al volto in un gesto di protezione assolutamente inutile. «No, non puoi...»

Posso, posso, pensò Callahan con gioia infantile e fece fuoco di nuovo. Meiman indietreggiò barcollando, prima due passi, quindi un terzo. Urtò un tavolo e crollò su di esso. Sopra di lui, librate nell'aria, dondolarono pigramente tre piume gialle.

Callahan udì urla selvagge, non di collera o di paura, ma di fame. Il profumo del sangue era finalmente penetrato nelle smunte narici dei vecchi e ora nulla avrebbe potuto fermarli. Così, se non voleva finire come loro...

Père Callahan, colui che era stato padre Callahan di Salem's Lot, girò contro di sé la canna della Ruger. Non perse tempo a cercare l'eternità nel buio della canna e senza indugio se la spinse sotto la mascella.

«Hile, Roland!» disse e sentì (l'onda sono sollevati dall'onda) di essere udito. «Hile, pistolero!»

Il suo dito si contrasse sul grilletto nel momento in cui i mostri centenari gli piombavano addosso. Fu sepolto dal tanfo del loro alito freddo ed esangue, ma non ne fu turbato. Mai si era sentito tanto forte. Di tutti gli anni vissuti, i più felici erano stati quando aveva viaggiato da semplice vagabondo, non più sacerdote ma solo Callahan delle Strade, e sentì che presto sarebbe stato libero di riprendere quella vita e vagabondare a piacimento, avendo compiuto il suo dovere, e fu una sensazione appagante.

«Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi, e che tu possa salire fino in cima!»

I denti dei suoi vecchi nemici, quegli antichi fratelli e sorelle di una cosa che si era fatta chiamare Kurt Barlow, affondarono in lui come pungiglioni. Callahan non sentì niente. Sorrideva mentre premeva il grilletto e fuggiva da loro per sempre.

2

Sollevati dall'onda

1

Sulla strada sterrata che li aveva portati all'abitazione dello scrittore nella circoscrizione di Bridgton, Eddie e Roland si imbatterono in un pick-up arancione sulle cui fiancate campeggiava la scritta CENTRAL MAINE POWER MAINTENANCE. Poco distante, un individuo in casco protettivo giallo e giubbotto catarifrangente arancione tagliava i rami bassi che potevano costituire pericolo per le linee elettriche. E non è che Eddie avvertisse qualcosa in quel momento, un'avvisaglia di energia? Forse il precursore dell'onda che scorreva lungo il Sentiero del Vettore venendo verso di loro? Così avrebbe riflettuto in seguito, ma lì per lì non seppe spiegarselo. Dio sa quanto fosse già in uno stato d'animo bizzarro e ne aveva ben donde: a quanti capita di fare la conoscenza del proprio creatore? Be'... Stephen King non aveva propriamente creato Eddie Dean, un giovane la cui Co-Op City si trovava a Brooklyn e non nel Bronx, quanto meno ancora non lo aveva fatto, non nell'anno 1977, ma Eddie era certo che a tempo debito sarebbe accaduto. Altrimenti come si sarebbe potuto trovare lì?

Eddie procedette oltre il veicolo della manutenzione, smontò e chiese all'uomo sudato con la sega a motore come arrivare in Turtleback Lane, in un posto chiamato Lovell. L'uomo della Central Maine Power lo accontentò con simpatica cortesia, poi aggiunse: «Se davvero volete arrivare a Lovell oggi, vi conviene prendere la Route 93. Quella che alcuni chiamano la Strada Grande».

Alzò la mano e scosse la festa come per rintuzzare un'obiezione, sebbene Eddie non avesse più aperto bocca dopo aver chiesto le indicazioni che gli servivano.

«È sette miglia più lunga, lo so, ed è tutta sconnessa, ma oggi non si può passare per East Stoneham. Sono arrivati sbirri da tutte le parti a chiuderla. Gli statali, i locali, perfino gli uomini dello sceriffo della contea di Oxford.»

«Pazzesco», commentò Eddie, rifugiandosi nella reazione che gli sembrò più prudente.

L'addetto alla manutenzione annuì incurvando la bocca. «Nessuno sa bene che cosa sia successo, ma ci sono state sparatorie, forse con armi automatiche, ed esplosioni.» Batté la mano sul walkie-talkie sporco di segatura che portava agganciato alla cintura. «Oggi pomeriggio ho perfino sentito due volte parlare di ti. E non mi sorprende.»

Eddie non aveva idea di che cosa fosse «ti», ma sapeva che Roland aveva fretta. Percepiva nella testa l'impazienza del pistolero; quasi gli pareva di vedere il tipico roteare del dito, il gesto con cui Roland indicava: muoversi, muoversi.

«Sto parlando di terrorismo», precisò l'addetto alla manutenzione, quindi abbassò la voce. «La gente crede che porcate del genere qui in America non possano succedere, ma se vuole dar retta a me, si sbagliano. Se non è oggi, prima o poi ci toccherà. Qualcuno farà saltare in aria la Statua della Libertà o l'Empire State Building, ecco come la penso io, quelli di destra, quelli di sinistra, o quei dannati arabi. Troppi balordi in giro.»

Eddie, che aveva conoscenza saltuaria di un'ulteriore decina d'anni, annuì. «Probabilmente ha ragione. In ogni caso grazie delle informazioni.»

«Ho solo cercato di farvi risparmiare un po' di tempo.» E, mentre Eddie apriva la portiera della

Ford di John Cullum: «Ha avuto qualche problema, mister? La vedo un po' acciaccato. E zoppica, anche».

Sì, qualche problema Eddie lo aveva avuto: aveva ricevuto un colpo di striscio a un braccio ed era stato preso in pieno al polpaccio destro. Nessuna delle due ferite era grave e nel precipitare degli eventi, se ne era quasi scordato. Ora gli facevano di nuovo un male della malora. Perché mai aveva rifiutato il flacone di Percocet che gli aveva offerto Aaron Deepneau?

«Già», rispose, «per questo vado a Lovell. Mi ha morsicato un cane. Vado a fare due chiacchiere con il suo padrone.» Una storia bizzarra, un po' fiacca quanto a trama, ma non era uno scrittore. Quello era il mestiere di King. Bastò comunque a dargli il tempo di riparare dietro il volante della Ford di Cullum prima che l'uomo della manutenzione potesse rivolgergli altre domande e per questo Eddie la giudicò riuscita. Ripartì alla svelta.

«Ti ha spiegato dove?» chiese Roland.

«Sì.»

«Bene, i nodi stanno venendo al pettine tutti assieme, Eddie. Dobbiamo raggiungere Susannah il più presto possibile. E anche Jake e Père Callahan. E il bambino sta arrivando, qualunque cosa sia. Può essere già nato.»

Giri a destra appena sarà tornato su Kansas Road, aveva indicato a Eddie l'addetto alle manutenzioni (Kansas come in Dorothy, Toto e zia Em, un groviglio di nodi al pettine), e così fece. In quel modo procedettero verso nord. Il sole era finito dietro gli alberi alla loro sinistra, lasciando interamente nell'ombra la strada asfaltata a due corsie. Eddie provava la sensazione quasi palpabile del tempo che gli scivolava tra le dita come un tessuto di gran pregio troppo liscio per poterlo afferrare. Pigiò l'acceleratore e la vecchia Ford di Cullum, nonostante le valvole sfiatate, trovò un po' di brio. Eddie la portò a cinquantacinque miglia orarie e la tenne a quell'andatura. Forse avrebbe potuto dare di più, ma Kansas Road era tortuosa e accidentata.

Roland si era tolto dal taschino della camicia un foglio, lo aveva aperto e ora lo stava studiando (sebbene Eddie dubitasse che il pistolero potesse leggere molto di quel documento; per lui le parole scritte di questo mondo sarebbero sempre state quanto mai misteriose). In cima al foglio, sopra la scrittura alquanto tremolante ma perfettamente leggibile di Aaron Deepneau (e l'importantissima firma di Calvin Torre), c'erano il disegnino di un castoro sorridente e l'intestazione COSE MALEDETTAMENTE IMPORTANTI DA FARE.

Non farmi domande sciocche, sciocchi scherzi non ti farò, pensò Eddie e a un tratto sorrise. Era un punto di vista al quale Roland era ancora fedele, ne era certo, nonostante il fatto che, a bordo di Blaine il Mono, avevano avuto salva la vita da alcune tempestive domande sciocche. Aprì la bocca con l'intenzione di sottolineare come quel pezzo di foglietto spiegazzato avrebbe potuto rivelarsi più importante della Magna Charta o della Dichiarazione d'Indipendenza o della Teoria della Relatività di Albert Einstein, ma prima di poter pronunciare una sola parola arrivò l'onda.

2

Il piede gli scivolò via dal pedale dell'acceleratore e fu un bene. Se fosse rimasto al suo posto, sicuramente avrebbero fatto entrambi una brutta fine, a rischio di restare uccisi. Quando l'onda arrivò, il mantenere il controllo della Ford di John Cullum scese a precipizio nella scala delle priorità di Eddie Dean. Fu come quando la navetta giunge al culmine della prima montagna russa ed esita per un momento... s'inclina... piomba giù... e tu cadi colpito dallo schiaffo improvviso dell'aria calda dell'estate, con il petto schiacciato e lo stomaco che ti schizza all'indietro.

In quel momento Eddie vide librarsi tutto ciò che si trovava nell'abitacolo: cenere di pipa, due penne e un fermaglio usciti dal cruscotto, il suo dinh, e - si accorse - il ka-mai del suo dinh, il buon vecchio Eddie Dean. Ovvio che avesse perso lo stomaco! (Non si rese conto che l'automobile stessa, che si era fermata ai bordi della strada, si librava a sua volta, beccheggiando pigramente a una spanna dal suolo come una barchetta su un mare invisibile.)

Poi la strada di campagna e gli alberi che la costeggiavano scomparvero. Scomparve Bridgton.

Scomparve il mondo. Suonarono le campanelle della contezza, ripugnanti e nauseanti, facendogli venire voglia di digrignare i denti per protesta... se non che erano scomparsi anche i suoi denti.

3

Come Eddie, Roland provò la netta sensazione di essere dapprima sollevato e quindi tenuto sospeso, come un oggetto che ha perso i suoi legami con la gravità terrestre. Udì le campanelle e si sentì sollevato attraverso il muro dell'esistenza, ma capì che non era contezza reale, non certo del tipo che avevano sperimentato in precedenza. Questa era molto probabilmente quella che Vannay chiamava aven kal, parole che significavano sollevati sul vento oppure trasportati dall'onda. Solo che l'espressione nella forma kal, invece della più comune kas, stava a indicare una forza naturale di proporzioni rovinose: non un vento ma un uragano; non un'onda ma uno tsunami.

Il Vettore vuole parlarti, Ciarla, gli disse nella mente Vannay: Ciarla, il vecchio soprannome sarcastico che Vannay gli aveva appioppato per deridere la laconicità del figlio di Steven Deschain. Lo zoppo, geniale tutore aveva smesso di usarlo (probabilmente dietro insistenza di Cort) quando Roland aveva compiuto undici anni. Farai bene ad ascoltarlo.

Ascolterò molto bene, rispose Roland e fu lasciato ricadere a terra. Represse un conato di vomito, privo di peso e nauseato com'era.

Altre campanelle. Poi, all'improvviso, era sospeso di nuovo, questa volta sopra una stanza piena di letti vuoti. Uno sguardo gli fu sufficiente per sapere che non era quella dove i Lupi avevano portato i bambini rapiti dai Calla della frontiera. In fondo alla stanza...

Una mano lo afferrò per il braccio, una cosa che in quello stato Roland avrebbe ritenuto impossibile. Guardò a sinistra e trovò Eddie accanto a sé, che fluttuava nudo. Erano nudi entrambi, i loro indumenti erano rimasti nel mondo dello scrittore.

Roland aveva già visto quello che Eddie gli stava indicando. In fondo alla stanza, c'erano due letti ravvicinati. Su uno di essi era distesa una donna bianca. Le sue gambe, le stesse che Susannah aveva usato quando erano andate a contezza a New York, Roland ne era sicuro - erano spalancate. Tra esse si chinava una donna con la testa di topo, senz'altro una taheen.

Di fianco alla donna bianca ce n'era una dalla pelle scura, le cui gambe finivano appena sotto le ginocchia. Nudo o no, sospeso nel vuoto o no, nauseato o no, contezza o no, mai in vita sua Roland era stato tanto felice nel vedere una persona. E lo stesso sentimento era condiviso da Eddie. Roland lo sentì mandare un grido di gioia al centro della testa e allungò la mano per zittire il giovane compagno. Doveva assolutamente farlo tacere, perché Susannah li stava guardando, quasi certamente li aveva visti, e se avesse rivolto loro la parola, era indispensabile udire tutto ciò che aveva da dire. Perché sebbene le parole sarebbero uscite dalla sua bocca, a parlare sarebbe stato con tutta probabilità il Vettore, nella Voce dell'Orso o in quella della Tartaruga.

Entrambe le donne avevano sulla testa una calotta metallica. Le univa un tubo d'acciaio snodabile.

Un aggeggio per fondere le menti, disse Eddie, riempiendo di nuovo il centro della sua testa e oscurando tutto il resto. O magari...

Zitto! intervenne Roland. Zitto, Eddie, per l'amore di tuo padre!

Un uomo in camice bianco prese da un vassoio un forcipe dall'aspetto cruento e spinse via l'infermiera taheen con la testa di topo. Si chinò a scrutare tra le gambe di Mia con il forcipe sospeso sopra la testa. Poco distante, con addosso una T-shirt con una scritta del mondo di Eddie e Susannah, c'era un taheen con la testa di un rapace.

Ci sentirà, pensò Roland. Se ci tratteniamo troppo, di sicuro ci sentirà e darà l'allarme.

Ma Susannah lo stava guardando con occhi febbrili da sotto il peso della calotta. Occhi brillanti. Occhi che li vedevano, aye, dico il vero.

Pronunciò una sola parola e in un momento di inspiegabile ma assolutamente affidabile intuizione, Roland sentì che la parola non proveniva da Susannah bensì da Mia. Ma era anche la Voce del Vettore, una forza forse abbastanza senziente da capire la gravità della minaccia a cui era esposta e da volersi proteggere.

Chassit fu la parola che Susannah disse; lui la udì nella testa perché erano ka-tet e an-tet; la vide anche formarsi senza suono sulle labbra di lei, che guardava in alto, nel punto dov'erano sospesi loro, spettatori di qualcosa che stava avvenendo in un altro dove e quando in quello stesso istante.

Alzò la testa anche il taheen con la testa di falco, forse seguendo il suo sguardo, forse per aver sentito le campanelle grazie alla percezione soprannaturale delle sue orecchie. Poi il dottore abbassò il forcipe e lo spinse sotto la veste di Mia. Lei gridò. Susannah gridò con lei. E come se l'essere essenzialmente incorporeo di Roland potesse essere soffiato via dalla forza di quelle grida come un baccello in balia del vento ottobrino, il pistolero si sentì spingere violentemente verso l'alto, perdendo contatto dal luogo su cui era affacciato, ma conservandolo su quell'unica parola. Portava con sé il ricordo fulgido di sua madre che si chinava su di lui sdraiato sul letto. Accadeva nella stanza dei molti colori, la nursery; e naturalmente ora li comprendeva quei colori che da bambino aveva semplicemente accettato, come è naturale che ogni cosa sia accettata da un bambino appena svezzato: con meraviglia senza riserve, con l'intima certezza che tutto fosse opera di magia.

Le finestre della nursery erano di vetri policromi che rappresentavano le Curve dell'Iride, naturalmente. Ricordò sua madre che si chinava su di lui, il volto di lei variegato da quella bella luce policroma, il cappuccio spinto all'indietro a lasciargli percorrere la linea del collo con l'occhio di un bimbo (è tutto opera di magia)

e l'animo di un innamorato; ricordò di aver pensato a come l'avrebbe corteggiata e conquistata

strappandola a suo padre, se lei fosse stata disposta ad averlo; come si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli e sarebbero vissuti per sempre in quel regno da fiaba che si chiamava Tuttosplende; e come lei avrebbe cantato per lui, come Gabrielle Deschain cantava al suo bambino, che la guardava solenne dal guanciale con gli occhi grandi e già disegnati sul viso i colori mutevoli della sua vita raminga; cantava una filastrocca senza senso che diceva così:

Bimbo caro, bel bambino, Porta tanti frutti grassi.

Chussit, chissit, chassit!

Da riempire il tuo cestino!

Da riempire il mio cestino, pensò mentre veniva spinto, senza peso, attraverso la tenebra e il terribile suono delle campanelle della contezza. Le parole non erano del tutto insensate, perché contenevano antichi numeri, gli aveva rivelato lei quando lui glielo aveva chiesto. Chussit, chissit, chassis, diciassette, diciotto, diciannove.

Chassit è diciannove, pensò. Ovvio, tutto è diciannove. Poi lui e Eddie furono di nuovo nella luce, una luce arancione color della febbre, e c'erano Jake e Callahan. Vide perfino Oy contro il piede sinistro di jake, con il pelo ritto e il muso arricciato a mostrare i denti.

Chussit, chissit, chassit, pensò Roland mentre guardava suo figlio, un maschietto così piccolo, così infinitesimale di fronte all'orda che popolava la sala da pranzo del Dixie Pig. Chassit è diciannove. Da riempire il mio cestino. Ma quale cestino? Che cosa vuol dire?

4

A Bridgton, ai bordi di Kansas Road, la Ford di John Cullum, vecchia di dodici anni (centoseimila sul contamiglia e cominciava appena a scaldarsi, si compiaceva di dire in giro il proprietario) dondolò pigramente sul terreno soffice del ciglio, prima toccando terra con le ruote anteriori e poi sollevandole per baciare brevemente il suolo con quelle posteriori. Nell'abitacolo due uomini che sembravano non solo svenuti ma trasparenti oscillavano pigramente in sintonia con i movimenti dell'automobile come cadaveri in una barca affondata. E intorno a loro fluttuava il bric-à-brac tipico di qualunque vecchio macinino che sia stato usato e abusato: cenere e penne e fermagli e la più vecchia nocciolina americana del mondo e un soldino sbucato dal sedile posteriore e aghi di pino saliti dai tappetini e perfino uno dei tappetini stessi. Nell'oscurità dello stipetto del cruscotto tintinnavano timidamente oggetti vari.

Qualcuno che fosse passato di lì sarebbe rimasto senz'altro costernato alla vista di tutta quella roba - e di esseri umani! Persone che potevano essere morte! - che fluttuavano dentro un'automobile come relitti in una capsula spaziale. Ma non passò nessuno. La gente che abitava su quel lato di Long Lake era quasi tutta intenta ad allungare lo sguardo verso l'altra sponda, quella di East Stoneham, sebbene praticamente ormai non ci fosse più niente da vedere. Perfino il fumo si era quasi dissolto.

Pigramente fluttuava l'automobile e in essa Roland di Gilead salì lentamente al soffitto, dove il suo collo premette contro il rivestimento sporco e le gambe scivolarono dietro il sedile anteriore seguendolo nella sua ascensione. Eddie fu dapprima trattenuto dal volante, finché un movimento laterale del veicolo lo sganciò, cosicché salì a sua volta con il volto disteso come sognando. Un filo argenteo di saliva gli sfuggì dall'angolo della bocca e rimase sospeso, luccicante e ricolmo di minuscole bollicine, a pochi centimetri dalla guancia incrostata di sangue.

5

Roland sapeva che Susannah lo aveva visto e probabilmente aveva visto anche Eddie. Per questo si era tanto sforzata per pronunciare quell'unica parola. Jake e Callahan invece non li videro. Il ragazzo e il Père erano entrati nel Dixie Pig, un'iniziativa che poteva essere o molto coraggiosa o molto stupida, e ora dovevano focalizzare tutta la loro concentrazione su ciò che vi avevano trovato.

Stupido o no, Roland era infinitamente fiero di Jake. Vide che il ragazzo aveva stabilito un canda, tra sé e Callahan, quella distanza (mai la medesima a seconda della situazione) che scongiurava che due pistoleri in inferiorità numerica potessero essere uccisi da un unico colpo. Erano arrivati entrambi pronti al combattimento. Callahan impugnava la pistola di Jake... e aveva in mano un'altra cosa, un piccolo oggetto intagliato. Roland era quasi sicuro che fosse un can-tah, uno dei piccoli dei. Il ragazzo aveva gli Oriza di Susannah e la loro sacca, recuperata da solo gli dei sapevano dove.

Il pistolero scorse una grassona la cui umanità finiva all'altezza del collo. Sopra la sua tripletta di menti flaccidi, la maschera che aveva indossato era a brandelli. Guardando la sottostante testa da topo, Roland comprese all'improvviso molte cose. Alcune gli si sarebbero rivelate prima se la sua attenzione, come quella del ragazzo e del Père in quel preciso istante, non fosse stata concentrata su altre questioni.

Gli uomini bassi di Callahan, per esempio. Erano quasi certamente taheen, creature che non appartenevano né al Prim né al mondo naturale, bensì erano esseri miserabili di una realtà rimasta a metà strada. E non erano nemmeno della stirpe che Roland chiamava Lenti Mutanti, perché costoro erano il risultato delle guerre avventate e degli esperimenti disastrosi degli Antichi. No, erano taheen genuini, talvolta noti come «terza gente» o can-toi, e sì, Roland avrebbe dovuto saperlo. Quanti dei taheen servivano ora l'essere conosciuto come Re Rosso? Alcuni? Molti?

Tutti?

Se la terza risposta era quella giusta, allora la strada per la Torre sarebbe stata davvero ardua. Ma guardare oltre l'orizzonte non era nella natura del pistolero e in questo caso la mancanza di immaginazione era sicuramente una fortuna.

6

Vide ciò che gli serviva vedere. Sebbene i can-toi - quelli che Callahan definiva la «gente bassa» - avessero circondato Jake e il Père (non si erano neppure accorti dei due che avevano alle spalle, quelli che piantonavano la porta sulla Sessantunesima Strada), il Père li aveva congelati con il piccolo amuleto proprio come Jake era stato capace di congelare e stregare con la chiave trovata nel lotto vacante. Un taheen giallo, con il corpo di uomo e la testa di uccello, aveva a portata di mano un'arma strana ma non tentò di afferrarla.

C'era però un altro problema, che l'occhio di Roland, allenato a individuare ogni possibile trappola e imboscata, colse all'istante. Vide la blasfema parodia dell'Ultima Colleganza dell'Eld appesa alla parete e ne comprese a fondo il significato nei secondi precedenti all'attimo in cui fu lacerata. E l'odore: non solo di carni cotte, ma carni umane. Anche questo avrebbe inteso prima, avesse avuto il tempo di pensarci... ma la vita a Calla Bryn Sturgis gli aveva concesso poco tempo per pensare. Al Calla, come in un libro di fiabe, la vita era stata un maledetto susseguirsi di fatti uno via l'altro.

Ma gli era chiaro ora, non è vero? La gente bassa era costituita da semplici taheen; gli orchi di un bambino, orsì. Quelli dietro l'arazzo erano gli stessi che Callahan aveva definito vampiri di Tipo Uno e quelli che Roland conosceva come gli Avi, forse i più cruenti e potenti superstiti dell'antico recedere del Prim. E se forse i taheen sarebbero rimasti prigionieri dell'incantesimo a contemplare il sigul che Callahan mostrava loro, gli Avi non lo avrebbero degnato di un solo sguardo.

Poi da sotto il tavolo uscirono numerose orde di insetti. Erano di un tipo che Roland aveva già visto, e al loro comparire scomparve ogni dubbio che potesse ancora albergare in lui di ciò che si trovava dietro quell'arazzo. Erano parassiti, bevitori di sangue, rastrellatori: i pidocchi degli Avi.

Probabilmente non pericolosi finché c'era un bimbolo nelle vicinanze, ma era pur vero che quando vedevi i piccoli dottori in tal numero, gli Avi non erano distanti.

Mentre Oy attaccava gli insetti, Roland di Gilead fece la sola cosa che seppe pensare: scese su Callahan.

Dentro Callahan.

7

Père, sono qui.

Aje, Roland. Cosa...

Non c'è tempo. MANDALO VIA. Devi. Mandalo via da qui prima che sia troppo tardi!

8

E Callahan ci provò. Naturalmente il ragazzo non voleva andare. Avrei dovuto addestrarlo meglio nell'arte del tradimento, pensò con una punta di amarezza Roland guardandolo attraverso gli occhi del Père. Ma tutti gli dei sanno che ho fatto del mio meglio.

«Vai finché puoi», disse Callahan a Jake, sforzandosi di parlare con voce calma. «Raggiungila se puoi. Questo è l'ordine del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»

Avrebbe dovuto bastare, ma lui recalcitrava - dei del cielo, era quasi cocciuto quanto Eddie! e Roland non poteva aspettare oltre.

Père, lasciami.

Roland assunse il controllo senza attendere una risposta. Già sentiva che l'onda, l'aven kal, cominciava a recedere. E gli Avi avrebbero attaccato da un momento all'altro.

«Vai, Jake!» gridò usando la bocca e le corde vocali del Père come un megafono. Se avesse riflettuto su come fosse possibile una cosa come quella, si sarebbe smarrito, ma la meditazione non era mai stata il suo forte e guardò invece con gratitudine il lampo che si accendeva negli occhi del ragazzo. «Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»

Poi, come all'ospedale con Susannah, si sentì di nuovo proiettato verso l'alto come se fosse privo di peso, soffiato fuori della mente e del corpo di Callahan come una ragnatela o il soffione di un dente di leone. Per qualche istante cercò di indietreggiare, sbracciandosi come un nuotatore che resiste a una corrente forte per tornare alla spiaggia, ma fu impossibile.

Roland! Era la voce di Eddie ed era colma di sgomento. Gesù, Roland, che cosa sono quelli, nel nome di Dio?

L'arazzo era stato strappato. Le creature che stavano invadendo la sala da pranzo erano vecchie e orribili, facce stregonesche deturpate da denti che sporgevano dalle guance, bocche tenute perennemente aperte da zanne enormi, rughe e barbe sporche di sangue e brandelli di carne.

E... oh dei, dei del cielo... il ragazzo era ancora lì!

«Uccìderanno prima Oy!» gridò Callahan, ma Roland ebbe l'impressione che non fosse lui e pensò che fosse invece Eddie che usava la sua voce come lui stesso aveva fatto poco prima. Eddie doveva aver trovato correnti più navigabili o una forza più sicura, una spinta sufficiente a prendere il suo posto quando lui era stato proiettato fuori. «Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»

Finalmente il ragazzo si girò e fuggì con Oy che gli correva accanto. Tagliò davanti all'uomouccello e tra due uomini bassi, ma nessuno tentò di fermarlo. Erano ancora incantati dalla tartaruga nel palmo di Callahan, erano come ipnotizzati.

Gli Avi non badarono minimamente al ragazzo in fuga, come Roland aveva previsto. Dal racconto di Père Callahan sapeva che uno di loro era stato nella cittadina di Salem's Lot, dove il Père aveva predicato per qualche tempo. Callahan gli era sopravvissuto, fatto non comune per coloro che si trovano a dover affrontare simili mostri dopo aver perso le loro armi e i loro sigul di potere; la creatura però lo aveva costretto a bere il suo sangue infetto prima di lasciarlo andare.

Con questo lo aveva segnato per gli altri.

Callahan mostrava loro il suo sigul a forma di croce, ma prima che potesse vedere altro, Roland fu risospinto nel buio. Suonarono di nuovo le campanelle, un tintinnio insopportabile che gli faceva rasentare la follia. In lontananza sentì urlare Eddie. Lo cercò nel buio, gli sfiorò il braccio, lo perse, trovò la sua mano e gliel'afferrò. Rotolarono e rotolarono, stretti l'uno all'altro, sforzandosi di rimanere uniti, sperando di non smarrirsi nell'oscurità priva di porte tra i mondi.

3

Eddie fa una telefonata

1

Eddie si ritrovò nell'abitacolo come talvolta da adolescente emergeva dagli incubi: aggrovigliato e ansimante di paura, del tutto disorientato, avendo perso la memoria di chi era e ancor più di dov'era.

Ebbe un secondo per rendersi conto che, per quanto incredibile, galleggiava nell'aria abbracciato a Roland, quasi che fossero due gemelli in un utero materno. Ma non era un utero quello in cui si trovavano, davanti agli occhi vide fluttuare una penna e un fermaglio. C'era anche un astuccio giallo di plastica, nel quale riconobbe un nastro magnetico a otto tracce. Non perdere tempo, John, pensò. Quella è una bufala, non troverai nessun appiglio lì.

Qualcosa gli grattava la nuca. Era forse la luce di cortesia della vecchia caffettiera di John Cullum? Santo cielo, gli pareva proprio che...

Poi fu ristabilita la forza di gravità e caddero in una pioggia di oggetti disparati. Il tappetino che volteggiava nell'abitacolo della Ford cadde a coprire il volante. Eddie urtò con la bocca dello stomaco lo schienale del sedile anteriore e l'aria gli esplose dalla bocca in un soffio sibilante. Roland piombò giù al suo fianco, sull'anca dolente. Mandò un solo grido, quasi un latrato, poi cominciò a manovrare per riguadagnare il sedile anteriore.

Eddie aprì la bocca per parlare. Non ne ebbe il tempo, perché in quel momento la voce di Callahan gli riempì la testa: Hile, Roland! Hile, pistolero!

Quale sforzo medianico doveva essere costato al Père parlare da quell'altro mondo! E dietro la sua voce, debole ma presente, un coro di grida bestiali e trionfanti. Versi che non erano propriamente parole.

Gli occhi sgranati e stupiti di Eddie incontrarono quelli chiari di Roland. Cercò con la propria la mano sinistra del pistolero, mentre pensava: Se ne sta andando. Dio del cielo, credo che il Père stia andando.

Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi...

«... e che tu possa salire fino in cima!» mormorò Eddie.

Erano di nuovo nell'auto di John Cullum e parcheggiati, di sghimbescio ma nel complesso abbastanza serenamente, ai bordi di Kansas Road nelle ombrose prime ore della sera di una giornata d'estate, ma ciò che Eddie vide fu l'infernale luce arancione di quel ristorante che non era affatto un ristorante bensì una tana di cannibali. Il pensiero che cose del genere potessero esistere davvero, che ci fosse gente che tutti i giorni passava davanti al loro nascondiglio senza sapere che cosa vi si celava, senza accorgersi degli occhi avidi che forse spiavano i passanti valutandoli e scegliendoli...

Poi, prima che potesse portare a termine le sue riflessioni, mandò un grido di dolore sentendosi affondare denti fantasma nel collo e nelle guance e nel ventre; sentendosi sulle labbra un bacio violento di ortiche e uno spiedo che gli infilzava i testicoli. Urlò, annaspando con la mano libera, finché Roland gliel'afferrò trascinandogliela giù.

«Smetti, Eddie. Smetti. Non ci sono più.» Una pausa. Il contatto s'interruppe e il dolore svanì. Naturalmente Roland aveva ragione. A differenza del Père, loro l'avevano scampata. Eddie vide che Roland aveva gli occhi lucidi di lacrime. «E se n'è andato anche lui. Il Père.»

«I vampiri? Quei cannibali? Lo hanno... lo hanno?...» Eddie non poté finire. L'idea di Père Callahan diventato uno di loro era troppo orrenda per poterla articolare.

«No, Eddie. Assolutamente no. Non...» Roland estrasse la pistola. Le incisioni nel metallo scintillarono nell'ultimo scampolo di luce. Si spinse la canna della pistola sotto il mento per un istante guardando Eddie.

«Non si è fatto prendere», mormorò Eddie.

«Aye, e chissà com'erano arrabbiati.»

Eddie annuì, improvvisamente esausto. E gli facevano di nuovo male le ferite. Era come se stessero singhiozzando. «Bene», disse. «Adesso rimetti a posto quell'aggeggio prima che ti spari.» E mentre Roland riponeva la pistola: «Che cosa ci è successo poco fa? Siamo andati a contezza o c'è stato un altro vettoremoto?»

«L'uno e l'altro, credo», rispose Roland. «C'è una cosa chiamata aven kal, che è come un'onda di marea che corre lungo il Sentiero del Vettore. È stata quella a sollevarci.»

«E a permetterci di vedere quello che volevamo vedere.»

Roland rifletté per un momento su quelle parole, poi scosse la testa con grande fermezza.

«Abbiamo visto quello che il Vettore voleva che vedessimo. Dove vuole che andiamo.»

«Roland, queste sono cose che hai studiato da ragazzo? Il vecchio Vannay teneva corsi di... non so, anatomia dei Vettori e Curve dell'Iride?»

Roland stava sorridendo. «Sì, suppongo che queste cose ci siano state insegnate in Storia e Summa Logicales.»

«Logi-cosa?»

Roland tacque. Guardava dal finestrino dell'automobile di Cullum, cercando ancora di riprendere fiato, in senso fisico ma anche figurato. Non era poi molto difficile farlo, non lì; trovarsi in quel punto di Bridgton era come trovarsi nelle vicinanze di un certo terreno edificabile a Manhattan. Perché c'era un generatore poco distante. Non sai King, come Roland aveva creduto all'inizio, bensì il potenziale di sai King... o ciò che sai King avrebbe potuto creare, ne avesse avuto mondo e tempo a sufficienza. Non era forse vero che anche King veniva trasportato dall'aven kal, magari generando lui stesso l'onda che lo sollevava?

Non ci si rialza in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali, per quanto forte si possa tirare, aveva sentenziato Cort, quando Roland, Cuthbert, Alain e Jamie erano ancora solo dei marmocchi. Cort che parlava in un tono di allegra fiducia in se stesso, un tono che sarebbe diventato gradatamente più aspro a mano a mano che il suo ultimo gruppo di ragazzi si avvicinava al momento cruciale della maturità. Ma forse sui quei lacci lui non aveva visto giusto. Forse, in certe circostanze, un uomo poteva tirarsi su da solo. O dar vita all'universo dal proprio ombelico, come si diceva avesse fatto Gan. Come scrittore di storie, non era forse King un creatore? E alla resa dei conti, la creazione non era in fondo fare qualcosa dal nulla, vedere il mondo in un granello di sabbia o rialzarsi in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali?

E che cosa stava facendo lui lì, seduto a indugiare in lunghe meditazioni filosofiche, quando due membri del suo tet mancavano all'appello?

«Metti in moto questa carrozza», ordinò, cercando di ignorare la dolce armonia che gli giungeva all'orecchio, se fosse la Voce del Vettore o la Voce di Gan il Creatore non lo sapeva. «Dobbiamo trovare questa Turtleback Lane a Lovell e vedere se c'è un modo per raggiungere Susannah.»

E non solo lei. Se Jake era riuscito a eludere i mostri del Dixie Pig, anche lui era diretto alla stessa meta. Su questo Roland non aveva dubbi.

Eddie allungò la mano sulla leva del cambio - nonostante le evoluzioni di poco prima, il motore della vecchia Ford di Cullum non si era spento - ma subito la ritrasse. Si girò a guardare Roland con un'espressione contrita.

«Che cosa ti angustia, Eddie? Qualunque cosa sia, parla subito. Il bambino sta nascendo, forse è già nato. Presto non avranno più bisogno di lei!»

«Lo so», ribatté Eddie. «Ma non possiamo andare a Lovell.» Fece una smorfia come se dirlo gli provocasse dolore fisico. Roland pensò che probabilmente soffriva davvero. «Non ancora.»

2

Rimasero in silenzio per un po' ad ascoltare l'armonico mormorio del Vettore, un mormorio che in certi momenti diventava un coro di voci gioiose. Guardarono le ombre sempre più dense tra gli alberi, dove si nascondevano un milione di volti e un milione di storie, O diciamo insieme porta introvata, diciamo insieme perduta.

Eddie si aspettava quasi che Roland lo prendesse a male parole, non sarebbe stata la prima volta, o che magari lo percuotesse con un colpo alla testa, come Cort, il vecchio insegnante del pistolero, era incline a fare quando i suoi allievi erano lenti o recalcitranti. Quasi sperava che lo facesse. Una bella botta al mento gli avrebbe schiarito il cervello, per Shardik.

Ma non c'è nulla di torbido nel tuo cervello e lo sai bene, pensò. La tua testa è più limpida della mia. Se così non fosse, potresti lasciar perdere questo mondo e correre a caccia della tua moglie perduta.

Finalmente Roland parlò. «Che cosa c'è, dunque? Questo?» Si chinò a raccogliere il foglio di carta ripiegato con la scrittura contratta di Aaron Deepneau. Lo guardò per un momento, poi lo lasciò cadere sulle ginocchia di Eddie con una piccola smorfia di disgusto.

«Sai quanto la amo», mormorò Eddie in un tono teso e sommesso. «Lo sai.»

Roland annuì, ma senza guardarlo. Si stava contemplando i vecchi stivali polverosi e screpolati, guardava il pavimento sporco dell'abitacolo. Quegli occhi abbassati, quello sguardo che si rifiutava di girarsi verso l'uomo che era giunto quasi a venerare Roland di Gilead, quasi spezzò il cuore di Eddie Dean. Ma tenne duro. Se mai c'era stato spazio per gli errori, esso si era esaurito. Erano alla fine della partita.

«Correrei da lei immediatamente se pensassi che fosse la cosa giusta. Roland, in questo preciso istante! Ma noi dobbiamo finire la nostra missione in questo mondo. Perché questo mondo è a senso unico. Quando ce ne andremo da oggi, 9 luglio 1977, qui non potremo tornare mai più. Dobbiamo...»

«Eddie, ci abbiamo già ragionato.» Sempre senza guardarlo.

«Sì, ma lo capisci? Solo una pallottola da sparare, un Oriza da lanciare. È per questo che siamo venuti a Bridgton! Dio sa quanto avrei voluto correre in Turtleback Lane appena John Cullum ce ne ha parlato, ma ho pensato che dovevamo prima vedere lo scrittore e parlare con lui. E avevo ragione, no?» Ora quasi supplichevole. «Non avevo ragione?»

Finalmente Roland lo guardò e Eddie ne fu felice. Era già abbastanza dura, abbastanza insopportabile, senza l'aggiunta dello sguardo abbassato del suo dinh.

«E forse non è così importante se ci intratteniamo ancora un po' qui. Se ci concentriamo sulle due donne sdraiate insieme su quei letti, Roland, se ci concentriamo su Suze e Mia come le abbiamo viste, allora forse possiamo entrare nella loro storia in quel punto preciso. Non è vero?»

Dopo un lungo momento di riflessione durante il quale Eddie non si rese nemmeno conto di respirare, il pistolero annuì. Non si sarebbe potuto avverare se in Turtleback Lane avessero trovato quella che in cuor suo il pistolero aveva ribattezzato «porta degli Antichi» perché quelle porte erano dedicate e sfociavano sempre nello stesso luogo. Ma se avessero trovato una porta magica, in quella Turtleback Lane di Lovell, un ingresso rimasto dai tempi in cui il Prim si era ritratto, allora sì, avrebbero potuto entrare in un punto prescelto. Ma quelle erano aperture insidiose, come avevano scoperto nella Grotta delle Voci, quando la porta che si trovava in quell'antro aveva mandato a New York Jake e Callahan invece di Eddie e Roland, stravolgendo così tutti i loro piani nel Paese del Diciannove.

«Che cos'altro dobbiamo fare?» chiese Roland. Non c'era più collera nella sua voce, che alle orecchie di Eddie suonò stanca e insicura.

«Qualunque cosa sia, sarà difficile. Questo te lo garantisco.»

Eddie prese l'atto di vendita e lo fissò con l'aria cupa di un Amieto che contempla il teschio del povero Yorick. Poi alzò gli occhi su Roland. «Con questo entriamo in possesso del pezzo di terra con la rosa. Dobbiamo portarlo a Moses Carver della Holmes Dental Industries. E dov'è? Non lo sappiamo.»

«Se è per questo, Eddie, non sappiamo neppure se è ancora vivo.»

Eddie fece una risata sarcastica. «Tu dici il vero, io dico grazie! Che ne dici se torniamo indietro, Roland? Torniamo a casa di Stephen King. Possiamo spillargli venti o trenta dollari, visto che, caro mio, non so se l'hai notato, ma non abbiamo uno straccio di centesimo tra tutti e due, ma sopratutto possiamo obbligarlo a tirar fuori dal suo cilindro uno di quegli investigatori privati a muso duro, uno con la faccia di Bogart e la spaccaculaggine di Clint Eastwood. Che ci vada lui a scovare Carver per noi!»

Scosse con forza la testa come per schiarirsi le idee. Le voci gli riempivano le orecchie di un dolce sottofondo, l'antidoto perfetto alle orribili campanelle della contezza.

«Dico: mia moglie è in grave pericolo da qualche parte, per quel che ne so ci sono dei vampiri o insetti-vampiro che se la stanno divorando viva, e io sono qui seduto in una macchina in una

strada di campagna con un tizio che fondamentalmente sa solo ammazzare il prossimo a pistolettate, a cercare di pensare a come si fa a metter su una cazzo di società!»

«Calma», disse Roland. Ora che si era rassegnato a rimanere ancora per un po' in quel mondo, sembrava più tranquillo. «Dimmi che cosa secondo te occorre che facciamo prima che ci scrolliamo per sempre dalle scarpe la polvere di questo dove e quando.» E Eddie glielo disse.

3

Roland ne aveva già sentita una buona parte, senza però comprendere appieno la delicatezza della posizione in cui erano. Possedevano il lotto vacante della Seconda Avenue, sì, ma il documento che ne attestava la proprietà era un documento olografico che difficilmente avrebbe retto il vaglio di una corte di tribunale, specialmente se i vertici della Sombra Corporation avessero contrattaccato con un plotone di avvocati.

Eddie voleva portare quella carta a Moses Carver, assieme all'informazione che la sua figlioccia, Odetta Holmes, scomparsa da tredici anni nell'estate del 1977, era viva e in buona salute e sopra ogni altra cosa desiderava che Carver assumesse il ruolo di guardiano, non solo del pezzo di terra, ma anche di una certa rosa che cresceva selvatica entro i suoi confini.

Se era ancora vivo, bisognava convincere Moses Carver a riversare la cosiddetta Tet Corporation nella Holmes Industries (o viceversa). Di più! Era indispensabile che dedicasse quanto restava della sua vita (e secondo Eddie Carver doveva ormai avere più o meno l'età di Aaron Deepneau) alla creazione di un gigante industriale il cui solo autentico scopo fosse quello di mettere a ogni occasione il bastone tra le ruote di altri due colossi, la Sombra e la North Central Positronics. Schiacciarli, se possibile, e impedire che si trasformassero in quel mostro che avrebbe lasciato una scia di distruzione nelle morenti distese del Medio-Mondo e avrebbe ferito a morte la Torre Nera.

«Forse avremmo dovuto lasciare a sai Deepneau l'atto di vendita», commentò Roland dopo aver ascoltato Eddie fino in fondo. «Lui almeno avrebbe potuto trovare questo Carver e raccontargli la nostra storia.»

«No, abbiamo fatto bene a tenerlo noi.» Era una delle poche cose di cui Eddie si sentiva assolutamente certo. «Se avessimo lasciato ad Aaron Deepneau questo pezzo di carta, a quest'ora sarebbe cenere nel vento.»

«Credi che Torre si sarebbe pentito e avrebbe persuaso il suo amico a distruggerlo?»

«Lo so», ribatté Eddie. «Ma anche se Deepneau avesse resistito al tormentone del vecchio amico - me lo vedo a infiammargli l'orecchio ripetendo per ore cose come: 'Brucialo, Aaron, me l'hanno strappato con la forza e adesso hanno intenzione di fregarmi, lo sai bene quanto me, brucialo e facciamo arrestare quei mostri dalla polizia' - credi che Moses Carver avrebbe preso per buona una storia così pazzesca?»

Roland fece un sorriso amaro. «Dubito che ci saremmo dovuti preoccupare della reazione di

Moses Carver, Eddie. Perché, pensaci un momento, quanto della nostra storia pazzesca Aaron

Deepneau ha veramente sentito?»

«Non abbastanza», convenne Eddie. Chiuse gli occhi e vi premette contro la base dei palmi.

Con forza. «Riesco a pensare a una sola persona che potrebbe veramente convincere Moses

Carver a fare le cose che dovremo chiedergli e al momento è in altre faccende affaccendata.

Nell'anno 1999. Quando Carver sarà morto e defunto quanto Deepneau e forse anche Torre.» «E che cosa possiamo fare senza di lei? Che cosa ti soddisferebbe?»

Eddie pensava che forse Susannah sarebbe stata in grado di tornare nel 1977 senza di loro, poiché almeno lei non ci era stata. Be'... ci sarebbe venuta a contezza, ma a suo avviso c'era il rischio di un ostacolo. Era possibile che il 1977 le fosse bandito per il solo fatto di essere ka-tet con lui e Roland. O per qualche altro motivo. Eddie non riusciva a immaginare quale: leggere le scritte in piccolo non era mai stato il suo forte. Si girò verso Roland per chiedergli che cosa ne pensasse, ma egli parlò prima di dargliene il tempo.

«Usiamo il nostro clan-tete», disse.

Sebbene Eddie conoscesse il termine, che significava dio neonato o piccolo salvatore, non capì lì per lì che cosa intendesse Roland. Poi ci arrivò. Non era stato il loro dan-tete di Waterford a prestare loro il veicolo a bordo del quale si trovavano in quel momento, diciamo grazie? «Cullum? È di lui che stai parlando, Roland? Quello con la mania delle palline da baseball autografate?»

«Hai detto il vero», confermò Roland. Aveva parlato in quel tono asciutto che indicava lieve esasperazione. «Non sopraffarmi con il tuo entusiasmo per la mia proposta.»

«Ma... tu gli hai ordinato di andare via! E lui ha accettato!»

«E quanto entusiasta era secondo te di andare a trovare il suo amico nel Vermong?»

«Mont», lo corresse Eddie senza riuscire a sopprimere un sorriso. Ma, con o senza sorriso, ciò che provava soprattutto era sgomento. Sospettava che il rumore sgradevole che udiva nella sua immaginazione fossero le due dita della mano destra di Roland che grattavano il fondo del barile.

Roland alzò le spalle come a dire che poco gl'importava se Cullum avesse parlato del Vermont o della Baronia di Garlan. «Rispondi alla mia domanda.»

«Be'...»

In effetti Cullum non aveva espresso molto entusiasmo all'idea di quella gita. Fin da principio si era comportato più come uno di loro che come uno dei mangiatori d'erba tra i quali viveva (Eddie riconosceva molto facilmente i mangiatori d'erba per esserlo stato lui stesso fino a quando

Roland lo aveva rapito per cominciare a impartirgli le sue lezioni omicide). Era evidente che Cullum era affascinato dai pistoleri e curioso di sapere di più dei motivi che li avevano spinti al suo piccolo borgo. Ma Roland era stato molto enfatico nell'esternare la sua volontà e la gente era solitamente propensa a ubbidirgli.

Ora fece quel movimento rotatorio con la mano destra, quel vecchio gesto d'impazienza. Muoviti, per l'amore di tuo padre. Falla o togliti dalla comoda.

«Direi che non aveva nessuna voglia di andare», ammise Eddie. «Ma questo non significa che sia ancora a casa sua a East Stoneham.»

«Invece sì. Non è partito.»

Solo con un certo sforzo Eddie riuscì a evitare di rimanere a bocca aperta. «Come fai a saperlo? Lo puoi toccare? È così?» Roland scosse la testa.

«Allora come...»

«Ka.»

«Ka? Ka? E che cosa cazzo dovrebbe voler dire?»

La faccia di Roland era tirata e stanca, s'intravedeva il pallore sotto l'abbronzatura. «Chi altri conosciamo in questa parte del mondo?»

«Nessuno, ma...»

«Allora è lui.» Era stata una sentenza, nel tono piatto con cui si enuncia a un bambino un'ovvietà della vita: su è sopra la tua testa, giù è dove i tuoi piedi toccano terra.

Eddie fu sul punto di ribattere che era una stupidaggine, nient'altro che una sciocca superstizione, ma ci ripensò. Tolti Deepneau, Torre, Stephen King e l'odioso Jack Andolini, John Cullum era davvero la sola persona che conoscevano in quella parte del mondo (o a quel livello della Torre, se si preferisce pensarla così). E dopo quello che Eddie aveva visto in quegli ultimi mesi - diavolo, in quell'ultima settimana - poteva veramente deridere una superstizione?

«Va bene», disse. «Vale la pena provare.»

«Come ci mettiamo in contatto?»

«Possiamo telefonargli da Bridgton. Ma in una storia, Roland, non succederebbe mai che a salvare baracca e burattini sia un personaggio marginale come John Cullum. Non verrebbe considerato realistico.»

«Nella vita sono sicuro che succede in continuazione», dichiarò Roland. E Eddie rise. Che cos'altro poteva fare? Era così perfettamente Roland.

4

BRIDGTON HIGH STREET 1

HIGHLAND LAKE 2

HARRISON 3

WATERFORD 6

SWEDEN 9

LOVELL 18

FRYEBURG 24

Avevano da poco superato questo cartello quando Eddie disse: «Fruga un po' nel cruscotto, Roland. Vedi se il ka o il Vettore o che so io ci ha lasciato qualche spicciolo per telefonare». «Cru... Intendi questo pannello qui davanti?»

«Sì.»

Roland tentò prima di ruotare il pulsante cromato, poi capì come funzionava e lo pigiò. Nel portaoggetti c'era un caos che la momentanea perdita di peso della Ford non aveva certo migliorato. C'erano ricevute di carte di credito, un tubetto molto vecchio di quello che Eddie definì «dentifricio» (su di esso Roland lesse distintamente le parole HOLMES DENTAL), la fottergrafia di una bambina sorridente su un pony, la nipotina di Cullum, magari, un candelotto che lì per lì pensò fosse di esplosivo (Eddie gli spiegò che era un segnale luminoso per i casi di emergenza), una rivista che gli parve s'intitolasse Peplo... e una scatola di sigari. La parola che c'era scritta sopra risultò incomprensibile a Roland. Frodi. Possibile? Mostrò la scatola a Eddie, i cui occhi s'illuminarono. «C'è scritto 'FONDI'», disse. «Forse avevi ragione su Cullum e il ka.

Aprila, Roland, se ti è gradito.»

La bimba che aveva fatto dono al vecchio di quella scatola, l'aveva munita di un bel fermaglio (ma non molto pratico). Roland l'aprì e mostrò a Eddie un notevole quantitativo di monete d'argento. «Bastano per chiamare sai Cullum?»

«Sì», rispose Eddie. «Direi che basterebbero per chiamare Fairbanks in Alaska. Ma non ci servirà a molto se Cullum è in viaggio per il Vermont.»

5

Intorno alla piazza di Bridgton c'erano un supermercato e una pizzeria da una parte; un cinematografo (The Magic Lantern) e un grande magazzino (Reny's) dall'altra. Tra il cinema e il supermercato c'era un piccolo spazio con delle panchine e tre telefoni pubblici.

Eddie consegnò a Roland sei dollari in monete da un quarto prelevate dalla scatola delle riserve di Cullum. «Voglio che tu vada là dentro», disse indicandogli il supermercato, «e mi prenda una scatola di aspirine. Saprai riconoscerla?»

«Astina. La conosco.»

«La più piccola che hanno è quella che voglio io, perché sei dollari non sono un gran che. Poi vai di fianco, in quel posto dove c'è scritto 'BRIDGTON PIZZA E SANDWICH'. Se ti sono rimaste almeno sedici di quelle monete, di' che vuoi un Hoagie.»

Roland annuì, cosa che non fu sufficiente a Eddie. «Voglio sentirtelo dire.»

«Hoggie.»

«Hoagie.»

«Hog-gie.»

«Ho...» Eddie desistette. «Roland, fammi sentire come dici 'Poorboy'.»

«Poor boy.»

«Bene. Se ti restano almeno sedici monete, chiedi un Poorboy. Sei capace di dire 'con molta maio'?»

«Molta maio.»

«Bene. Se ti restano meno di sedici monete, chiedi un sandwich al salame e formaggio.

Sandwich, non strozzino.»

«Sandiciamàggio.»

«Meglio che niente. E non dire assolutamente altro se non è strettamente indispensabile.»

Roland annuì. Eddie aveva ragione, meglio se non avesse parlato. Alla gente bastava un'occhiata per sapere, nel segreto del proprio cuore, che non era di quelle parti. Avevano anche la tendenza a stargli alla larga. Meglio non peggiorare la situazione.

Mentre si girava verso la strada, il pistolero abbassò la mano all'anca sinistra, una vecchia abitudine che questa volta non gli arrecò conforto: entrambe le rivoltelle erano nel bagagliaio della Ford di Cullum, avvolte nei loro cinturoni.

Prima che potesse incamminarsi, Eddie lo afferrò per una spalla. Il pistolero si voltò a posare sull'amico gli occhi scoloriti da sotto le sopracciglia inarcate.

«Abbiamo un detto nel nostro mondo, Roland: arrampicarsi sugli specchi.» «E che cosa significa?»

«Questo. Quello che stiamo facendo noi. Augurami buona fortuna, amico.»

Roland annuì. «Aye, così sia. A entrambi.»

Cominciò a girarsi di nuovo e Eddie lo richiamò. Questa volta nell'espressione di Roland comparve un principio di impazienza.

«Non farti ammazzare attraversando la strada», gli raccomandò Eddie. Poi imitò la parlata di Cullum aggiungendo: «I villeggianti sono più asini di un ciuco. E non vanno a cavallo».

«Fai la tua telefonata, Eddie», ribatté Roland, dopodiché attraversò a passo lento e sicuro, con quella camminata elastica che lo aveva portato attraverso mille altre strade principali di mille cittadine.

Eddie lo guardò, poi si girò dall'altra parte e lesse le istruzioni sul telefono. Finalmente staccò il ricevitore e compose il numero del servizio abbonati.

6

Non era partito, aveva detto il pistolero parlando di John Cullum con serafica sicurezza. E perché? Perché Cullum era il loro capolinea, non avevano nessun altro da chiamare. Il vecchio dannato ka di Roland di Gilead, in altre parole.

Dopo una breve pausa, l'operatrice gli diede il numero. Eddie cercò di memorizzarlo, era sempre stato bravo a ricordare i numeri, tanto che Henry lo chiamava talvolta Piccolo Einstein, ma questa volta non seppe fidarsi di se stesso. Aveva l'impressione che fosse successo qualcosa ai suoi processi mentali in generale (cosa che non credeva) o alla sua capacità di ricordare certi manufatti di quel mondo (cosa che era disposto a credere). Mentre chiedeva all'operatrice di ripetergli il numero - e lo scriveva nella polvere accumulatasi sulla mensolina del chiosco - si ritrovò a domandarsi se fosse ancora capace di leggere un romanzo o seguire la trama di un film nella successione delle immagini su uno schermo. Ne dubitava. Ma aveva importanza? Al Magic Lantern lì accanto davano Guerre stellari e Eddie concluse in quel momento che se fosse arrivato alla fine del sentiero della sua vita e nella radura senza più rivedere Luke Skywalker e ascoltare il respiro rumoroso di Darth Vader, non avrebbe avuto di che disperarsi.

«Grazie, signora», disse al telefono e mentre stava per comporre il numero che aveva ricevuto, alle sue spalle ci fu una serie di esplosioni. Ruotò su se stesso, con il cuore già in gola, mentre abbassava la mano destra, aspettandosi di vedere i Lupi, o masnadieri, o magari quel figlio di puttana di Flagg...

Ciò che vide fu una decappottabile piena di liceali con le facce tonte e scottate dal sole. Stavano ridendo. Uno di loro aveva appena buttato fuori una catena di castagnole avanzate dal Quattro di Luglio, quelle che i loro coetanei di Calla Bryn Sturgis avrebbero chiamato banger.

Avessi avuto una pistola a portata di mano, avrei potuto far fuori un paio di quei ragazzi, pensò Eddie. Se ti va di spararle grosse, puoi cominciare da qui. Già. Bene. Ma forse non lo avrebbe fatto. In ogni caso doveva ammettere che forse non era più un elemento affidabile nel mondo più civile.

«Convivici», mormorò, poi aggiunse il consiglio preferito di sua eminenza e saggezza il tossico per i piccoli problemi della vita: «Patteggia».

Compose il numero di John Cullum sul vecchio telefono a disco e quando una voce sintetizzata - la bis-bis-bis-bis-nonna di Blaine il Mono, forse - gli chiese di introdurre novanta centesimi, Eddie ci mise un dollaro intero. Che diamine, stava salvando il mondo.

Il telefono squillò una volta... squillò due volte... e qualcuno rispose!

«John!» quasi gridò Eddie. «Che il cielo ti baci il fondoschiena! John, sono...»

Ma all'altro capo del filo una voce stava già parlando. Da figlio degli anni Ottanta, Eddie sapeva che non è un buon segno.

«... l'abitazione di John Cullum del servizio di manutenzione e sorveglianza Cullum», recitava la voce che ben conosceva nella sua familiare cantilena yankee. «Sono stato chiamato per un intervento urgente e non so prevedere quando sarò di ritorno. Se questo per voi è un problema, vi chiedo scusa, ma potete chiamare Gary Crowell al 926-5555, o Junior Barker al 929-4211.»

L'iniziale smarrimento di Eddie si era dissolto nel momento in cui la tremolante registrazione lo aveva informato che Cullum non era in grado di prevedere quando sarebbe stato di ritorno. Perché Cullum era proprio là, nel suo piccolo cottage da hobbit sulla sponda occidentale del Keywadin Pond, seduto forse sul suo iperimbottito divano da hobbit o in una delle due iperimbottite poltrone da hobbit. Seduto ad ascoltare i messaggi registrati da una segreteria telefonica degli anni Settanta che non poteva non essere un mezzo catafalco. E Eddie lo sapeva perché... be'...

Perché lo sapeva.

La primitiva registrazione non poteva nascondere del tutto la vena sorniona che aveva trapuntato la voce di Cullum sul finire del messaggio. «Certo che se proprio non volete saperne di parlare con nessun altro che con il sottoscritto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.

Siate brevi.»

Eddie attese il segnale e disse: «Sono Eddie Dean, John. So che sei lì e penso che stessi aspettando la mia chiamata. Non chiedermi perché lo penso, perché proprio non lo so, ma...»

Ci fu un clic sonoro, seguito dalla voce di Cullum, la sua voce dal vivo: «Ehi, figliolo, hai trattato bene la mia macchina?»

Per un momento Eddie fu troppo confuso per rispondere, nuovamente colto alla sprovvista dal modo in cui l'accento di Cullum storpiava tutte le parole.

«Ragazzo?» lo sollecitò Cullum, improvvisamente preoccupato. «Sei ancora in linea?»

«Sì», rispose Eddie. «E ci sei anche tu. Credevo che andassi nel Vermont, John.»

«Be', se vuoi saperlo, questo posto era rimasto un mortorio fin da quando nel 1923 un incendio distrusse il South Stoneham Shoe. Gli sbirri hanno bloccato tutte le strade d'uscita.»

Eddie era sicuro che lasciassero transitare dai posti di blocco chiunque fosse in grado di farsi adeguatamente identificare, ma decise di soprassedere, per sottolineare invece un altro aspetto. «Vuoi dirmi che, se lo avessi voluto, non saresti stato capace di trovare un modo per uscire da lì senza incontrare un solo poliziotto?»

Ci fu una breve pausa. In quel mentre Eddie avvertì la presenza di qualcuno al suo fianco. Non si girò a guardare; era Roland. Chi altri in quel mondo avrebbe emanato l'odore, sotterraneo ma indiscutibile, di un altro mondo?

«Oddio», rispose finalmente Cullum, «in effetti forse conosco una o due strade nei boschi che sbucano a Lovell. L'estate è stata secca e suppongo che il mio pick-up dovrebbe farcela.»

«Una o due?»

«Be', diciamo tre o quattro.» Una pausa, che Eddie non interruppe. Si stava divertendo troppo. «Cinque o sei», si corresse Cullum e Eddie scelse di non rispondere nemmeno questa volta. «Otto», concluse finalmente Cullum e quando Eddie rise, rise con lui. «Che cos'hai in mente, figliolo?»

Eddie lanciò un'occhiata a Roland, che fra le tre dita superstiti della mano destra stringeva una confezione di aspirina. Eddie la prese ringraziandolo con gli occhi. «Voglio che tu venga a

Lovell», disse a Cullum. «Sembra che alla fine abbiamo da confabulare ancora un po'.»

«Ayuh, e sembra che quasi quasi lo sapessi anch'io», ribatté Cullum. «Anche se non è che proprio stessi lì a pensarci sopra; quello che continuavo a pensare è che era ora di mettermi in viaggio per Montpelier e invece mi veniva sempre in mente un'altra cosa da fare qui. Se avessi cercato di chiamarmi cinque minuti fa, avresti trovato la linea occupata. Ero al telefono con Charlie Beemer. Erano sua moglie e sua cognata quelle due che rimasero uccise al mercato, sai? E poi ho pensato: Al diavolo, prima di mettere un po' di roba in macchina, meglio dare una bella ripulita qui dentro. Non è che stavo a ragionarci su, se mi spiego, però sotto sotto mi sa che da quando sono tornato qui non ho fatto che aspettare la tua telefonata. Dove vi trovo? In Turtleback Lane?»

Eddie aprì la confezione di aspirina e guardò le compresse pregustandole. Tossicodipendente una volta, tossicodipendente per sempre. Di qualunque cosa si trattasse. «Ayuh», disse, scherzando solo in parte; da quando aveva incontrato Roland a bordo di un Delta in procinto di atterrare al Kennedy Airport, aveva sviluppato una certa tendenza ad assimilare i dialetti regionali. «Avevi detto che era solo una stradina lunga un paio di miglia, un ferro di cavallo che entra ed esce dalla Route 7, vero?»

«Proprio così. Gran belle casette sulla Turtleback.» Una breve pausa riflessiva. «E molte in vendita. Ultimamente ci sono stati parecchi walk-ins da quelle parti. Come mi pare di aver già affermato. Sono cose che rendono la gente nervosa e i ricchi almeno possono permettersi di prendere le distanze da quello che gli rende difficile dormire di notte.»

Eddie non poté aspettare oltre; si mise in bocca tre aspirine e se le fece sciogliere sulla lingua gustandone il sapore amaro. Per quanto insopportabile fosse il dolore in quel momento, avrebbe resistito a sofferenze ben peggiori se solo avesse potuto sentire Susannah. Ma percepiva solo silenzio. Aveva il sospetto che le comunicazioni tra loro, già ondivaghe, avessero cessato di esistere alla nascita del dannato bambino di Mia.

«Voi due farete bene a tenere a portata di mano le vostre bang-bang, se intendete andare alle Turtleback», concluse Cullum. «Quanto a me, credo che butterò sul pick-up il fucile prima di mettermi in moto.»

«Buona idea», convenne Eddie. «Quando sei arrivato, cerca la tua macchina, capito? La vedrai.»

«Ayuh, difficile perdere quella vecchia Ford», rispose Cullum. «Ti dirò una cosa, figliolo. Non andrò nel Vermont, ma ho la sensazione che voi due abbiate intenzione di spedirmi da qualche altra parte, se sarò disposto ad andarci. Ti va di dirmi dove?»

Uno yankee del Maine alla corte del Re Rosso, pensò Eddie: così Mark Twain avrebbe probabilmente scelto di intitolare il prossimo capitolo della vita senza dubbio pittoresca di John Cullum. Decise di tenerlo per sé. «Sei mai stato a New York?»

«Sì, cacchio. Ci ho fatto un permesso di quarantott'ore quand'ero sotto le armi.» Nella sua parlata, «armi» si trasformò in un ridicolo verso inarticolato: «Aaaam». «Andai al Radio City Music Hall e all'Empire State Building, fin qui me lo ricordo. Ma devono esserci state delle altre fermate turistiche, perché mi sono trovato un ammanco di trenta dollari nel portafogli e un paio di mesi dopo mi diagnosticarono un caso di scolo di quelli sodi.»

«Questa volta sarai troppo occupato per prendere lo scolo. Porta le carte di credito. So che ne hai, perché ho visto le ricevute nel portaoggetti della macchina.»

«Hai ficcato il naso là dentro, eh?» lo apostrofò senza malanimo Cullum.

«Ayuh, ci ho trovato quel che resta di solito dopo che il cane si è masticato le scarpe. Ci vediamo a Lovell, John.» Eddie riattaccò. Guardò il sacchetto nella mano di Roland e sollevò le sopracciglia.

«E un 'Poorboy'», disse Roland. «Con molta 'maio', come avevi chiesto. Non so che roba è, certo che io avrei preferito una salsa che non somigliasse tanto a una venuta, ma se è gradita a te...»

Eddie alzò gli occhi. «Uuuh, questo sì che solletica l'appetito.»

«Così dici?»

Eddie dovette ricordare di nuovo a se stesso che Roland era quasi privo di senso dell'umorismo. «Lo dico, lo dico. Vieni. Mangerò il mio sandwich al formaggio e venuta mentre guido. Dobbiamo discutere su come organizzarci.»

7

Il miglior modo per organizzarsi, convennero, sarebbe stato raccontando a John Cullum quanto della loro storia ritenevano che la sua disponibilità a credere (e il suo equilibrio mentale) avrebbe sopportato. Poi, se tutto fosse andato per il meglio, gli avrebbero affidato il prezioso documento di vendita e lo avrebbero spedito da Aaron Deepneau. Con l'ordine preciso di conferire con il suddetto escludendo dal loro abboccamento Calvin Torre, del quale era bene diffidare.

«Cullum e Deepneau possono lavorare insieme per rintracciare Moses Carver», considerò Eddie, «e credo di poter dare a Cullum abbastanza informazioni su Suze, di quelle di carattere privato, intendo, da convincere Carver che è ancora viva. Dopo, però... be', molto dipenderà da quanto sapranno essere persuasivi quei due. E da quanta voglia avranno di lavorare per la Tet Corporation nei loro anni del tramonto. D'altra parte... potrebbero sempre sorprenderci! Cullum in giacca e cravatta non me lo vedo proprio, ma a girare per il paese a incasinare le iniziative della Sombra...» Rifletté, con la testa inclinata su un lato, poi annuì sorridendo. «Sì, sì. Ce lo vedo benissimo.»

«Probabile che il padrino di Susannah sia anche lui un vecchio barbogio», osservò Roland. «Solo di un colore diverso. Quelli così spesso parlano un proprio linguaggio quando sono an-tet. E magari io ho qualcosa da dare a John Cullum con cui convincere Carver a mettersi con noi.» «Un sigul?»

«Sì.»

Eddie era curioso. «Di che genere?»

Ma prima che Roland potesse rispondere, videro qualcosa che spinse Eddie a schiacciare il pedale del freno. Ora erano a Lovell, sulla Route 7. Davanti a loro camminava a passo insicuro sul ciglio della strada un vecchio con in testa un groviglio di capelli bianchi. Indossava un cencio lurido che nessuno avrebbe osato chiamare tunica. Le braccia e le gambe erano magre e coperte di graffi. E anche di ulcere di un color rosso scuro. Era a piedi scalzi e al posto delle dita aveva orribili artigli gialli dall'aria assai pericolosa. Sotto il braccio stringeva un oggetto di legno un po' malconcio che poteva essere una lira rotta. Agli occhi di Eddie nessuno sarebbe potuto apparire più fuori luogo di quell'individuo su una strada dove i soli pedoni che avevano visto fino a quel momento erano persone dall'aria molto composta, fuori per una sgambata; gente evidentemente forestiera, vestita con proprietà con calzoncini da corsa, berretti da baseball e T-shirt (su di una Eddie aveva letto: NON SPARATE AL TURISTA).

La cosa che sopraggiungeva ai bordi della Route 7 si girò verso di loro e Eddie mandò un involontario grido di orrore. Gli occhi erano fusi insieme e gli fecero pensare a un uovo con due tuorli in una padella. Da una narice gli pendeva una zanna come una caccola d'osso. Ma peggio di tutto era l'opaca luce verde che la creatura emanava dal volto. Era come se avesse sulla pelle uno strato sottile di una sostanza fluorescente.

Li vide e immediatamente s'infilò tra gli alberi lasciando cadere la lira rotta.

«Cristo!» strillò Eddie. Se quello era un walk-in, si augurava di non doverne vedere mai più un altro.

«Fermati, Eddie!» ordinò Roland, puntellandosi immediatamente sul cruscotto quando la vecchia Ford di Cullum slittò nella brusca frenata, arrestando la sua corsa più o meno all'altezza del punto in cui la creatura era scomparsa.

«Apri il bagagliaio», disse Roland mentre scendeva dalla macchina. «Prendi la mia creavedove.»

«Roland, avremmo un tantino di fretta, se non sbaglio, e mancano ancora tre miglia a

Turtleback Lane. Credo che faremmo meglio a...»

«Chiudi quella tua bocca da idiota e prendimela!» tuonò Roland. Poi corse verso gli alberi. Trasse un respiro profondo e, quando cominciò a chiamare l'inquietante creatura, Eddie si sentì accapponare la pelle. Aveva sentito parlare Roland in quel modo una o due volte in precedenza, ma era facile dimenticarsi che nelle sue vene scorreva sangue reale.

Pronunciò una serie di frasi che Eddie non riuscì a capire, poi una che gli fu comprensibile: «Dunque vieni avanti, oh tu Figlio di Roderick, tu rovinato, tu perduto, e fai il tuo inchino al mio cospetto, Roland, figlio di Steven, della stirpe dell'Eld!»

Per un momento non accadde nulla. Eddie aprì il bagagliaio della Ford e recuperò la pistola di Roland. Questi si allacciò il cinturone senza degnarlo di un'occhiata, meno che mai di una parola di ringraziamento.

Trascorsero forse trenta secondi. Eddie aprì la bocca per parlare. Prima che lo facesse, il fogliame impolverato ai bordi della strada cominciò a stormire. Pochi istanti dopo l'infelice creatura riapparve. Venne avanti barcollando e a capo chino. Sulla tunica che indossava c'era un'ampia macchia di bagnato. Eddie rabbrividì all'odore forte e selvatico dell'orina di un essere malato.

Questi tuttavia s'inchinò flettendo un ginocchio e portandosi la mano deforme alla fronte, uno sconsolato gesto di lealtà che fece venire a Eddie voglia di piangere. «Hile, Roland di Gilead,

Roland di Eld! Vuoi mostrarmi un sigul, caro?»

In un posto chiamato Crocefiume, una vecchia che si faceva chiamare zia Talitha aveva regalato a Roland una croce d'argento appesa a una catenella dello stesso metallo a maglie sottili. Da allora lui l'aveva sempre portata al collo. Ora infilò la mano nella camicia per mostrarla alla creatura inginocchiata - un Lento Mutante che le radiazioni stavano uccidendo, Eddie ne era più che sicuro -, la quale emise uno spezzato grido di meraviglia.

«Avrai pace alla fine del tuo viaggio, tu Figlio di Roderick? Avrai la pace della radura?»

«Aye, mio caro», rispose il mutante piangendo, aggiungendo poi molto altro ancora in un linguaggio farfugliato che Eddie non capì. Eddie guardò in entrambe le direzioni contro la Route 7, sicuro di vedere veicoli in arrivo - del resto si era in piena stagione estiva - ma almeno per il momento la fortuna li assisteva.

«Quanti di voi ci sono da queste parti?» domandò Roland, interrompendo il walk-in. Contemporaneamente estrasse la sua vecchia macchina di morte e se la appoggiò alla camicia.

Il Figlio di Roderick allungò la mano all'orizzonte senza alzare gli occhi. «Delah, pistolero», rispose, «perché qui i mondi sono sottili, diciamo anro con fa; sey-sey desene fanno billet cobair can. I Chevin devar don do. Perché mi sento triste per loro. Can-toi, can-tah, can Discordia, aven la cam mah can. May-mi? Iffin lah vainen, eth...»

«Quanti dan devar?»

La creatura meditò sulla domanda di Roland, poi distese le dita (che erano dieci, notò Eddie) cinque volte. Cinquanta. Ma cinquanta di che cosa, Eddie non aveva idea.

«E Discordia?» chiese brusco Roland. «Dici il vero?»

«Oh aye, così io dico Chevin di Chayven, figlio di Hamil, menestrello delle Pianure

Meridionali che un tempo erano casa mia.»

«Dimmi il nome della città che si trova vicino al Castello Discordia e ti libererò.»

«Ah, pistolero, sono tutti morti laggiù.»

«Io non credo. Dimmelo.»

«Fedic!» esclamò Chevin di Chayven, un musica ambulante, che mai avrebbe sospettato che la sua vita sarebbe finita in un luogo così lontano e straniero, non le pianure del Medio-Mondo, bensì le montagne del Maine occidentale. Alzò all'improvviso l'orribile faccia luminosa. Spalancò le braccia, come un crocifisso. «Fedic sul lato lontano di Rombo di Tuono, sul sentiero del

Vettore! Su Shardik V, Maturin V, la Via alla Torre N...»

La rivoltella di Roland parlò una sola volta. Il proiettile raggiunse al centro della fronte l'essere genuflesso, completando la rovina del suo volto devastato. Mentre era proiettato all'indietro, Eddie vide le sue carni trasformarsi in fumo verdastro, diafano come l'ala di un calabrone. Per un attimo Eddie vide, sospesi nell'aria, i denti di Chevin di Chayven, come una spettrale chiostra di coralli, poi scomparvero anch'essi.

Roland lasciò ricadere la rivoltella nella fondina, poi si passò sulla fronte le dita della mano mutilata in un gesto in cui Eddie riconobbe una benedizione.

«Ti dia pace», disse Roland. Poi si slacciò il cinturone e cominciò ad avvolgere l'arma nella fondina.

«Roland, quello era... un Lento Mutante?»

«Aye, suppongo che si possa dire così, poveraccio. Ma i Roderick sono di un tempo precedente a tutte le terre da me conosciute, sebbene prima che il mondo andasse avanti rendessero la loro grazia a Arthur Eld.» Rivolse a Eddie un'espressione stanca in cui gli occhi celesti bruciavano di una luce intensa. «Fedic è dove è andata Mia a partorire il suo bambino, ne sono certo. Dove ha portato Susannah. Vicino all'ultimo castello. Dovremo tornare a Rombo di Tuono, prima o poi, ma prima dovremo andare a Fedic. Buono a sapersi.»

«Ha detto che si sentiva triste per qualcuno. Per chi?»

Roland scosse solo la testa e non rispose alla domanda di Eddie. Passò rumoroso un furgone della Coca-Cola e a occidente, lontano, rombò un tuono.

«Fedic della Discordia», mormorò invece il pistolero. «Fedic della Morte Rossa. Se possiamo salvare Susannah, e anche Jake, torneremo in direzione dei Calla. Ma ci torneremo dopo che avremo compiuto la nostra missione laggiù. E quando torneremo di nuovo a sud-est...»

«Cosa?» chiese in modo ansioso Eddie. «Cosa allora, Roland?»

«Allora non ci saranno più fermate finché non avremo raggiunto la Torre.» Protese le mani e le guardò tremare lievemente. Poi alzò gli occhi su Eddie. La sua espressione era stanca ma senza paura. «Non sono mai stato tanto vicino. Sento il bisbiglio di tutti i miei perduti amici e dei loro perduti padri. Bisbigliano sul fiato stesso della Torre.»

Eddie lo fissò affascinato e impaurito, poi dissolse quell'atmosfera di tensione con uno sforzo quasi fisico. «Be'», disse, tornando alla Ford, «se qualcuna di quelle voci ti spiega che cosa dobbiamo dire a Cullum, in quale modo convincerlo di ciò che vogliamo da lui, fammelo sapere.»

Eddie salì in macchina e chiuse lo sportello prima che Roland potesse rispondere. Con gli occhi della mente continuava a vederlo puntare quella sua grossa rivoltella. Lo vedeva prendere la mira sulla figura inginocchiata e premere il grilletto. Era l'uomo che chiamava insieme dinh e amico. Ma poteva affermare con una qualsiasi certezza che Roland non avrebbe fatto lo stesso a lui, o a Suze... o a Jake... se il cuore gli avesse indicato che così si sarebbe avvicinato alla sua Torre? No, non poteva. Ciononostante sarebbe rimasto con lui. Sarebbe andato avanti anche se in cuor suo fosse stato certo - oh, Dio non volesse! - che Susannah era morta. Perché doveva. Perché Roland era diventato per lui ben più che il suo dinh o il suo amico.

«Mio padre», mormorò Eddie un istante prima che Roland aprisse lo sportello sull'altro lato dell'automobile e salisse al suo fianco.

«Hai parlato, Eddie?» chiese il pistolero.

«Sì», rispose Eddie. «'Solo un piccolo padre.' Alla lettera.»

Roland annuì. Eddie inserì la marcia e riprese la via per Turtleback Lane. Ancora lontano, ma un po' più vicino di prima, il tuono brontolò di nuovo.

4

Dan-Tete

1

Mentre l'ora della nascita si avvicinava, Susannah Dean si guardò intorno, contando ancora una volta i suoi nemici come Roland le aveva insegnato. Non devi mai estrarre, aveva detto, finché non sai quanti sono quelli che devi affrontare oppure non ti sarai convinta che non potrai mai saperlo, oppure avrai deciso che è venuto il tuo giorno per morire.

Peccato che dovesse anche vedersela con quell'orribile calotta che le invadeva i pensieri, la quale però, qualunque cosa fosse, sembrava ignorare lo sforzo che Susannah faceva per contare le persone presenti al momento dell'arrivo del tizio di Mia. Ed era un bene che fosse così.

C'era Sayre, il soprintendente. L'uomo basso con uno di quei cerchi rossi che gli pulsava al centro della fronte. C'era Scowther, il medico che, tra le gambe di Mia, si preparava a officiare al parto. Sayre lo aveva aspramente censurato quando Scowther aveva dato segni di eccessiva arroganza, ma probabilmente non tanto da pregiudicare la sua efficienza. C'erano altri cinque uomini bassi, oltre a Sayre, ma aveva colto solo altri due nomi. Quello con la pappagorgia da bulldog e il pancione era Haber. Vicino ad Haber c'era un essere uccellesco con la testa coperta di piume marrone e gli occhi malvagi e acuti di un falco. Il nome di quella creatura era forse Jey o Gee. Sette in tutto, armati di pistole automatiche in prese del portuale. Quella di Scowther spuntava sbadatamente da sorto il camice bianco ogni volta che si chinava. Susannah l'aveva già messa in lista.

Intorno a Mia c'erano anche tre umanoidi pallidi e vigili. Costoro, avvolti in aure blu scuro, erano sicuramente vampiri. Probabilmente di quelli che Callahan chiamava «Tipo Tre». («Pesci pilota», li aveva definiti una volta il Père.) E siamo a dieci. Due dei vampiri erano armati di bah, il terzo aveva una sorta di spada elettrica ora tenuta accesa al livello di flebile lumicino. Se fosse riuscita a impossessarsi della pistola di Scowther (quando te ne sarai impossessata, dolcezza, si corresse: aveva letto Come acquistare fiducia e avere successo e credeva ancora fino all'ultima parola a tutto ciò che il reverendo Peale aveva scritto), l'avrebbe usata prima di tutto sull'uomo con la spada elettrica. Dio forse sapeva che danni era capace di infliggere quell'arma, ma di certo Susannah Dean non aveva voglia di scoprirlo.

C'era poi un'infermiera con la testa di un enorme topo marrone. L'occhio che pulsava rosso al centro della sua fronte fece dedurre a Susannah che la maggior parte del folken basso indossasse maschere dalle sembianze umane, evidentemente per evitare di terrorizzare la selvaggina quando i mostri si aggiravano per i marciapiedi di New York. Forse non erano tutti topi, là sotto, ma nessuno di loro somigliava a quel bellone di Robert Goulet, era pronta a scommetterlo. L'infermiera con la testa di roditore era la sola fra i presenti che, almeno a giudizio di Susannah, non fosse armata.

Il conto totale era di undici. Undici in quella vasta e quasi deserta infermeria che, ne era sicura, non si trovava certo nella giurisdizione di Manhattan. E se lei voleva agire, avrebbe dovuto farlo mentre erano presi dal bambino di Mia, dal suo prezioso tizio.

«Sta uscendo, dottore!» esclamò palpitante l'infermiera, al colmo della tensione.

Era vero. Il conteggio di Susannah s'interruppe nell'esplosione del dolore più forte. Che prese entrambe. Seppellì entrambe. Gridarono all'unisono. Scowther stava ordinando a Mia di spingere, di spingere ADESSO!

Susannah chiuse gli occhi e spinse a sua volta, perché era anche il suo bambino, o lo era stato. Nel momento in cui sentì il dolore defluire da sé come acqua che scivola in un gorgo per uno scarico buio, provò un dispiacere profondo come non aveva mai conosciuto. Perché era in Mia che fluiva il bambino; le ultime poche righe del messaggio vivente a cui il corpo di Susannah era stato assegnato il compito di trasmettere. Stava finendo. Comunque fosse andata da lì in avanti, quella parte stava finendo, e Susannah Dean mandò un grido che era insieme di sollievo e rimpianto; un grido che era esso stesso come una canzone.

Poi, prima che cominciasse l'orrore, una cosa così terrificante che ne avrebbe ricordato ogni minimo particolare come se nel fascio di luce di un riflettore fino al giorno della sua entrata nella radura, sentì una mano piccola e calda che le afferrava il polso. Girò la testa, ruotando con essa lo sgradevole peso della calotta. Si sentì respirare a fatica. I suoi occhi incontrarono quelli di Mia. Mia dischiuse le labbra e pronunciò una sola parola. Susannah non la udì nel ruggito di Scowther (si era chinato ora a scrutare tra le gambe di Mia con il forcipe alzato e appoggiato alla fronte). Però la sentì lo stesso e capì che Mia stava cercando di mantenere la sua promessa.

Ti lascerò libera, se ne avrò la possibilità, aveva promesso la sua rapitrice e la parola che ora Susannah udì nella mente e vide sulle labbra della partoriente fu chassit.

Susannah, mi senti?

Ti sento molto bene, rispose Susannah.

E capisci il nostro patto?

Aye. Ti aiuterò a salvarti da questi con il tuo tizio, se posso e...

Uccidici se non puoi! finì con impeto la voce. Mai era stata così potente. Era in parte dovuto al cavo che le collegava, pensò Susannah. Dillo, Susannah, figlia di Dan!

Vi ucciderò entrambi se non...

S'interruppe lì. Mia parve comunque soddisfatta ed era meglio così, perché Susannah non avrebbe potuto proseguire nemmeno se fosse stata in gioco la vita di entrambe. Il suo sguardo era involontariamente salito al soffitto di quella stanza enorme, in un punto che si trovava a metà della fila dei letti. E lì vide Eddie e Roland. Erano diafani, spuntavano dal soffitto e riscomparivano, guardandola dall'alto come pesci fantasma.

Un altro dolore, ma non così forte. Avvertì le cosce irrigidirsi, poi una spinta, ma erano sensazioni lontane. Non importanti. In quel momento contava solo se stesse vedendo o no quello che le sembrava di vedere. Era stata forse la sua mente iperstressata a creare quell'allucinazione perché portasse conforto al suo anelito di salvezza?

Era quasi disposta a crederlo. E lo avrebbe creduto, con tutta probabilità, se non fossero entrambi stati nudi e attorniati da un'incredibile collezione di cianfrusaglie: una bustina di fiammiferi, un'arachide, ceneri, un soldino. E un tappetino d'automobile, Dio del cielo! Un tappetino con il marchio FORD.

«Dottore, vedo la te...»

Uno squittio sfiatato. Il dottor Scowther, non certo un gentiluomo, allontanò la rattiforme infermiera senza tanti complimenti con una gomitata e si protese ancor di più tra le cosce di Mia. Quasi che volesse estrarre il suo tizio con i denti. La creatura con la testa di falco, Jey o Gee, stava parlando in un dialetto infervorato e ronzante a un tipo chiamato Haber.

Sono lì davvero, concluse Susannah. Il tappetino lo dimostra. Non sapeva nemmeno lei come quel tappetino ne fosse la prova, ma ne era sicura. E formulò la parola che le aveva dato Mia: chassit. Era una parola d'ordine. Avrebbe aperto almeno una porta e forse molte. Chiedersi se Mia avesse detto il vero non le passò neppure per l'anticamera del cervello. Erano legate l'una all'altra, non solo dal cavo e dalle calotte, ma dal più primitivo (e mille volte più potente) atto del parto. No, Mia non aveva mentito.

«Spingi, fottuta fancazzista!» quasi urlò Scowther e Roland e Eddie scomparvero all'improvviso per sempre attraverso il soffitto, come soffiati via dal fiato di quell'uomo. Per quel che Susannah poteva dire, così era stato.

Si girò sul fianco sentendosi i capelli appiccicati a ciocche al cranio, sentendo che il suo corpo versava sudore a litri. Si spinse un po' più vicino a Mia; un po' più vicino a Scowther; un po' più vicino al calcio della pistola di Scowther che sporgeva dal camice.

«Stai ferma tu, odimi ti prego», intervenne uno degli uomini bassi e le toccò il braccio. La mano era fredda e flaccida, piena di grossi anelli. La carezza le fece raggricciare la pelle. «Sarà tutto finito in un minuto e poi tutti i mondi cambieranno. Quando questo si unirà ai Frangitori di

Rombo di Tuono...»

«Zitto, Straw!» latrò Haber e spinse via l'improbabile consolatore di Susannah. Poi tornò con trepidazione a occuparsi del parto.

Mia inarcò la schiena gemendo. L'infermiera con la testa di topo le posò le mani sui fianchi e li spinse dolcemente contro il letto. «Buona, buona, spingi con la pancia.»

«Mangia merda, troia!» strepitò Mia e Susannah avvertì soltanto una debole tensione di dolore. Il collegamento tra loro si andava allentando.

Fece appello a tutta la sua capacità di concentrazione e gridò nel pozzo della propria mente: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì?

«Il contatto... è spento», rispose la bella voce femminile. Come la prima volta, parlò al centro della testa di Susannah, ma a differenza della volta precedente suonò ovattata, non più pericolosa di una voce che giunge per radio da lontano per un capriccio atmosferico. «Ripeto: il contatto... è spento. Noi speriamo che ricorderai la North Central Positronics per ogni tua ulteriore necessità di incremento intellettuale. E la Sombra Corporation! Una società leader nella comunicazione mente-a-mente dal diecimila!»

Nella profondità della mente di Susannah risuonò un BIII... BIIIP da far saltare i denti, poi il collegamento s'interruppe. Non fu solo l'assenza di quella voce femminile così orribilmente gradevole; fu tutto. La sensazione che provò fu quella di essere liberata da una dolorosa trappola che le comprimeva il corpo intero.

Mia gridò di nuovo e Susannah le fece eco. In parte era perché non voleva che Sayre e i suoi soci sapessero che il collegamento tra lei e Mia si era spezzato; in parte era dispiacere genuino.

Aveva perso una donna che, in un certo senso, era diventata una sua sorella vera.

Susannah! Suze, sei lì?

All'udire quella nuova voce cominciò a sollevarsi sui gomiti, quasi dimenticando per un momento la donna al suo fianco. Quello era...

Jake? Sei tu, tesoro? Mi senti?

SÌ! gridò lui. Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...

La voce s'interruppe, ma non prima che Susannah udisse il crepitare fantasma di una sparatoria in lontananza. Jake che sparava a qualcuno? Pensava di no. Pensava che fosse qualcuno che stava sparando a lui.

2

«Ora!» sbraitò Scowther. «Ora, Mia! Spingi! Con tutte le forze! Mettici tutto quello che hai! SPINGI!»

Susannah cercò di avvicinarsi all'altra donna girandosi sul letto - Oh, sono preoccupata e in cerca di conforto, guarda come sono preoccupata, preoccupata e desiderosa di conforto, niente di più - ma quello che si chiamava Straw la tirò indietro. Il cavo flessibile oscillò e si tese tra le due. «Mantieni la distanza, troia», l'apostrofò Straw e per la prima volta Susannah pensò che non avrebbe avuto l'occasione d'impossessarsi della pistola di Scowther. O di quella di qualcun altro.

Mia gridò di nuovo, un'invocazione a un dio strano in una lingua strana. Quando cercò di sollevarsi dal tavolo, l'infermiera - Alia, a Susannah sembrava che si chiamasse così - la spinse giù di nuovo e Scowther emise un verso secco che poteva essere di soddisfazione. Abbandonò il forcipe.

«Perché?» volle sapere Sayre. Ora le lenzuola tra le gambe aperte di Mia erano bagnate di sangue e il soprintendente era al colmo della tensione.

«Non ne ho bisogno!» rispose gioviale l'ostetrico. «Questa è fatta per far figli, avrebbe potuto sfornarne una decina in una risaia senza smettere di raccogliere. Ecco che scivola fuori come olio!»

Scowther fece per afferrare il grosso catino in attesa sul letto accanto e decise che non ne avrebbe avuto il tempo e infilò invece le sue mani rosee e senza guanti tra le cosce di Mia. Questa volta, quando Susannah tentò di avvicinarsi a Mia, Straw non la fermò. Tutti, uomini bassi e vampiri, seguivano assolutamente incantati l'ultima fase della venuta al mondo, per la maggior parte assiepati ai piedi dei due letti, accostati per farne uno più grande. Solo Straw rimaneva vicino a Susannah. Il vampiro con la spada di luce fu declassato; decise che il primo ad andarsene sarebbe stato Straw.

«Ancora una volta!» gridò Scowther. «Per il tuo bambino!»

Come gli uomini bassi e i vampiri, Mia si era scordata di Susannah. I suoi occhi feriti e pieni di dolore erano fissi su Sayre. «Posso tenerlo, signore? Ti prego, dimmi che posso tenerlo, anche se solo per un po'!»

Sayre le prese la mano. La maschera che copriva il suo vero volto sorrise. «Sì, mia cara», rispose. «Il tizio è tuo per anni e anni. Solo spingi per quest'ultima volta.»

Mia, non credere alle sue menzogne! gridò Susannah, ma il suo ammonimento si perse nel nulla. Probabilmente era meglio così. Meglio che in quel momento tutti si dimenticassero di lei.

Rivolse i suoi pensieri in una direzione nuova. Jake! Jake, dove sei?

Nessuna risposta. Brutta storia. Volesse Iddio che fosse ancora vivo.

Forse è solo occupato. A scappare... nascondersi... combattere. Il silenzio non significa necessariamente che...

Mentre non smetteva di spingere, Mia sbraitò una sequela di parole incomprensibili, probabilmente una serie di volgarità. Le labbra della sua vagina già dilatate si aprirono ancora di più. Un nuovo fiotto di sangue andò ad alimentare la scura macchia a forma di delta sul lenzuolo su cui era adagiata. Poi, in quel miscuglio di rosso, Susannah scorse l'affiorare del bianco e del nero. Bianco, pelle. Nero, capelli.

Poi il bianco e il nero cominciarono a ritirarsi nel rosso e Susannah pensò che il nascituro scivolasse all'indietro non ancora pronto del tutto a uscire nel mondo, ma Mia non aveva intenzione di aspettare oltre. Spinse con tutte le sue considerevoli forze, con le mani davanti agli occhi, strette in pugni serrati e tremanti, gli occhi ridotti a due fessure, i denti scoperti. Una vena le pulsava pericolosamente al centro della fronte, un'altra le affiorava sulla gola.

«HEEEYAHHHH!» urlò. «COMMALA, BASTARDINO! COMMALA-COME-COME!»

«Dan-tete», mormorò Jey, l'essere-falco, e gli altri risposero in una sorta di bisbiglio riverente: Dan-tete... dan-tete... commala dan-tete. La venuta del piccolo dio.

Questa volta la testa del bambino non si limitò ad affiorare, ma fu sparata in avanti. Susannah vide i pugni minuscoli e tremanti di vita che il neonato teneva contro il petto sporco di sangue. Vide gli occhi blu, spalancati e stupefacenti per quanto erano vivi di consapevolezza e per quanto simili a quelli di Roland. Vide ciglia nere come carbone. Erano imperlate di goccioline di sangue, un barbarico ornamento natale. Susannah vide - e mai avrebbe dimenticato - come il labbro inferiore del bambino restasse momentaneamente impigliato sul labbro inferiore della vulva di sua madre. Nell'istante brevissimo in cui il neonato aprì la bocca, mise in mostra una fila perfetta di dentini. Ed erano denti davvero, non zanne ma dentini perfetti, tuttavia, vederli nella bocca di un neonato, fece provare a Susannah un brivido di gelo. Non meno inquietante fu la vista del pene del tizio, spropositatamente grosso e in piena erezione. Doveva essere più lungo del suo dito mignolo.

Con un urlo di dolore e trionfo, Mia si sollevò sui gomiti, strabuzzando gli occhi colmi di lacrime. Si allungò ad afferrare la mano di Sayre in una stretta ferrea nel momento in cui Scowther prendeva con destrezza il bambino. Sayre gemette e cercò di ritrarsi, ma fu come cercare di liberarsi da... be', da uno sceriffo di Oxford, Mississippi. La cantilena era terminata e ci fu un momento di silenzio sospeso nello stupore. In quella pausa Susannah udì distintamente il rumore delle ossa che scricchiolavano nel polso di Sayre.

«È VIVO?» strillò Mia in faccia a uno sbigottito Sayre. Le volò saliva dalla bocca. «DIMMI, SIFILITICO FIGLIO DI PUTTANA, DIMMI SE IL MIO TIZIO È VIVO!»

Scowther sollevò il tizio portandoselo all'altezza del volto. Gli occhi castani dell'ostetrico incontrarono quelli azzurri del neonato. E nel momento in cui il tizio fu sospeso così, tra le mani di Scowther, con il pene orgogliosamente ritto all'insù, Susannah vide bene il segno rosso sul suo tallone sinistro. Era come se fosse stato intinto nel sangue un attimo prima di uscire dall'utero di Mia.

Invece di sculacciare il neonato, Scowther trasse un respiro e gli soffiò ripetutamente negli occhi. Il tizio di Mia sbatté le palpebre in un gesto comico (e innegabilmente umano) di sorpresa. Trasse un respiro del suo, lo trattenne per un momento e lo esalò. Fosse stato anche il Re dei Re, o un distruttore di mondi, si presentava alla vita come tanti prima di lui, starnazzando indignato. All'udire quegli strilli, Mia scoppiò in lacrime di contentezza. Le diaboliche creature raccolte intorno alla neomamma erano servi giurati del Re Rosso, ma questo non li rendeva immuni a quello a cui avevano appena assistito. Ci furono risa e applausi. Con non poco disgusto, Susannah si ritrovò a unirsi alla celebrazione. A quei suoni il neonato si guardò intorno con un'espressione di chiara meraviglia.

Piangendo, con le lacrime che le rigavano le guance e muco trasparente che le colava dal naso, Mia protese le braccia. «Dammelo!» singhiozzò; così implorò Mia, figlia di nessuno e madre di uno. «Lasciamelo tenere in braccio, io prego, lasciatemi abbracciare mio figlio! Lasciatemi abbracciare il mio tizio! Lasciatemi tenere tra le braccia il mio tesoro!»

E, al suono della voce di sua madre, il neonato girò la testa. Susannah lo avrebbe pensato impossibile, ma naturalmente avrebbe ritenuto impossibile che un bambino nascesse sveglio e vigile, con i denti in bocca e un'erezione. Eppure per ogni altro verso le sembrava del tutto normale: grassottello e ben formato, umano e per questo adorabile. C'era quel segno rosso sul tallone, sì, ma quanti altri bambini, normali in tutto e per tutto, nascevano con una voglia di questa o quella forma? Secondo una leggenda di famiglia, suo padre stesso non era forse nato con una mano rampante? Quello era un segno che non avrebbe visto mai nessuno, se non quando il bambino fosse stato in spiaggia.

Sempre tenendo il neonato all'altezza del proprio volto, Scowther guardò Sayre. Ci fu una breve pausa durante la quale Susannah avrebbe potuto facilmente impossessarsi dell'automatica di Scowther. Non ci pensò neppure. Aveva scordato l'invocazione telepatica di Jake, aveva slmilmente dimenticato la strana visita ricevuta da Roland e suo marito. Era rapita come gli altri, Jey e Straw e Haber e l'intera congrega, incantata in quel momento dall'arrivo di un nuovo nato in un mondo consunto.

Sayre annuì quasi impercettibilmente e Scowther abbassò il piccolo Mordred, che ancora frignava (e ancora guardava oltre la propria spalla, cercando apparentemente la madre), tra le braccia protese di Mia.

Mia lo girò immediatamente per poterlo guardare e il cuore di Susannah fu gelato da una frustata di sgomento e orrore. Perché Mia era impazzita. La pazzia le brillava negli occhi; era nel modo in cui la sua bocca riusciva a ringhiare e sorridere contemporaneamente mentre dai lati le colava verso il mento bava bianca arrossata e addensata dal sangue spillato dal morso che si era data alla lingua; soprattutto era nel suo riso trionfale. Avrebbe forse ritrovato la sanità nei giorni futuri, ma...

«Quella troia non rinsavirà mai più», intervenne Detta non senza commiserazione. «Lo sforzo di arrivare fin qui e scaricare il suo fardello l'ha fottuta. È scoppiata, e lo sai meglio di me!»

«Oh, come sei bello!» tubò Mia. «Oh, guarda questi occhi blu, questa pelle bianca come il cielo prima della prima neve di Grande Terra! Guarda i tuoi capezzoli, piccoli e perfetti frutti di bosco, guarda il tuo pene e le tue palle lisce come pesche novelle!» Guardò intorno a sé, prima Susannah, scivolando con lo sguardo sul viso di lei senza assolutamente riconoscerla, poi gli altri. «Guardate il mio tizio, voi sventurati, voi gonick, il mio tesoro, il mio bambino, il mio maschietto!» Gridava, pretendeva, ridendo con i suoi occhi folli e piangendo con la sua bocca storta. «Guardate la ragione per cui ho rinunciato all'eternità! Guardate il mio Mordred, guardatelo molto bene, perché non ne vedrete mai altro uguale!»

Ansimando pesantemente, coprì di baci il viso insanguinato e sorpreso del neonato, sporcandosi la bocca fino a sembrare un'ubriaca che avesse tentato di applicarsi del rossetto alle labbra. Rise e baciò il tenero collare che era il doppio mento del suo infante, e gli baciò i capezzoli, l'ombelico, la punta protesa del pene e, tenendolo in alto e sempre più su con le braccia tremanti, sotto la buffa espressione di stupore del bambino che intendeva chiamare Mordred, gli baciò le ginocchia e poi, uno dopo l'altro, i piedi minuscoli. Susannah udì quel primo suono di risucchio: non del neonato al seno di sua madre, ma della bocca di Mia su ciascuno di quei ditini dalla forma perfetta.

3

Tuo figlio è la condanna a morte del mio dinh, pensò freddamente Susannah. A costo della vita potrei prendere la pistola di Scowther e sparargli. Sarebbe questione di due secondi.

Data la sua velocità, la sua soprannaturale velocità da pistolera, era probabilmente vero. Ma si ritrovò incapace di muoversi. Aveva previsto molti esiti diversi a conclusione di quella scena, ma non la pazzia di Mia, quella mai, e ne era stata colta completamente alla sprovvista. Indugiò per un istante a riflettere sulla fortuna che aveva avuto per essersi scollegata in tempo. Se il congegno della Positronics fosse stato ancora in funzione, ora probabilmente sarebbe stata pazza anche lei.

E potrebbe essere riattivato in qualsiasi momento, bella mia... non credi che faresti meglio a muoverti finché puoi?

Ma non poteva, quello era il suo problema, era paralizzata dalla meraviglia, inchiodata dall'incantesimo.

«Piantala!» ordinò stizzito Sayre. «Tu devi nutrirlo, non sbavarci sopra! Se vuoi tenerlo, sbrigati! Fallo poppare! O devo chiamare una balia? Ce ne sono molte che darebbero gli occhi per poterlo fare!»

«Mai... e... poi... MAI!» strillò Mia e rise, ma si abbassò il bimbo al seno e scostò con un gesto impaziente la scollatura della semplice casacca bianca che indossava, scoprendo il capezzolo destro. Susannah capì perché potesse esercitare una così irresistibile influenza sugli uomini: anche in quelle condizioni il suo seno era perfetto, una sfera con la punta di corallo che sembrava più adatta alla mano di un uomo, alla sua concupiscenza, che a nutrire un neonato. Mia vi avvicinò il tizio. Per un momento grufolò nella maniera comica con cui l'aveva guardata poco prima, colpendo il capezzolo e dando l'impressione di rimbalzare all'indietro. Quando vi si avvicinò di nuovo, però, la rosa della sua piccola bocca si chiuse sul bocciolo eretto del seno di lei e cominciò a succhiare.

Sempre ridendo, Mia accarezzò i suoi riccioli neri, aggrovigliati e sporchi di sangue. Erano risate che alle orecchie di Susannah suonavano come urla.

Un rumore sordo di passi annunciò l'arrivo di un robot. Somigliava parecchio a Andy, il Robot Messaggero, stessa struttura magra sui due metri e mezzo di statura, stessi occhi blu elettrico, stessa corporatura scintillante e piena di articolazioni. Portava sulle braccia uno scatolone di vetro pieno di luce verde.

«E quello a che cazzo serve?» protestò Sayre. Era insieme adirato e incredulo.

«Un'incubatrice», rispose Scowther. «Ho pensato che fosse meglio non lasciare nulla al caso.»

Quando si girò, la pistola nella fondina ascellare dondolò in direzione di Susannah. Le si presentò così un'occasione ancora migliore, la migliore di tutte, e se ne rese conto, ma prima che potesse estrarla, il tizio di Mia trasmutò.

4

Susannah vide una luce rossa correre sulla pelle levigata del bimbo, dai capelli fino alla macchia sul tallone del piede destro. Non fu un rossore bensì un lampo, che illuminò il bimbo da dentro: Susannah lo avrebbe giurato. Poi, mentre il bambino giaceva sul ventre sgonfiato di Mia con le labbra strette sul suo capezzolo, il lampo rosso fu seguito da un'ombra nera che si levò e si espanse, trasformandolo in uno gnomo buio, la negazione stessa del roseo neonato uscito dall'utero di Mia. Contemporaneamente il suo corpo cominciò ad avvizzirsi, le gambe si ritirarono e si fusero con l'addome, la testa scivolò all'ingiù, trascinando con sé il seno di Mia, rientrando nel collo, che si gonfiò come la gola di un rospo. I suoi occhi passarono dall'azzurro al nero catrame, poi di nuovo al blu.

Susannah cercò di gridare e non poté.

Sulla superficie nera della nuova creatura spuntarono escrescenze, che subito dopo si squarciarono lasciando emergere delle gambe. La macchia rossa del tallone era ancora visibile, ma ora era diventata un grumo come il marchio cremisi sul ventre di una vedova nera. Perché quello era l'essere in cui si era trasformato: un ragno. Eppure il bambino non era scomparso del tutto. Dal dorso del ragno spuntò un tumore bianco. In esso Susannah scorse una minuscola faccia deforme e due scintille blu che erano gli occhi.

«Cosa?...» cominciò Mia e tentò di nuovo di sollevarsi sui gomiti. Dal seno aveva iniziato a uscirle del sangue. Il bambino lo bevve come fosse latte, senza lasciarsene scappare una sola goccia. Vicino a lei, Sayre era immobile come una figura scolpita, con la bocca aperta e gli occhi che gli sporgevano dalle orbite. Qualunque cosa si fosse aspettato da quella nascita, qualunque cosa gli fosse stato detto di aspettarsi, non era quello che vedeva. La Detta che c'era in Susannah trasse un maligno piacere infantile nel guardare quell'espressione sbalordita: sembrava Jack Benny in uno dei suoi numeri strapparisate.

Per un momento solo Mia sembrò rendersi conto di che cosa stava accadendo, perché il suo volto cominciò ad allungarsi in una maschera informe di orrore e, forse, dolore. Poi il sorriso riapparve, quel sorriso angelico da effigie religiosa. Allungò la mano e accarezzò il mostro che ancora si andava trasformando al suo seno. Il ragno nero con la minuscola testa umana e la bolla rossa sul ventre irsuto.

«Non è bellissimo?» proruppe. «Non è bellissimo mio figlio, bello come il sole d'estate?» Furono le sue ultime parole.

5

Non si può dire che il suo volto si paralizzò, ma di certo si fermò. Le sue guance e fronte e gola, colorite fino a poco prima dagli sforzi del parto, si spensero nel biancore cereo di un petalo d'orchidea. I suoi occhi brillanti sostarono fissi al centro delle orbite. E a un tratto fu come se Susannah non stesse guardando una donna distesa su un letto, ma il disegno di una donna. E di straordinaria fattura, se è per questo, ciononostante qualcosa che esisteva solo nella forma di linee di carboncino e qualche pallida coloritura su un foglio di carta.

Ricordò com'era tornata al Plaza-Park Hyatt dopo la sua prima visita al cammino di Castello Discordia e come era giunta lì, a Fedic, dopo il suo ultimo conciliabolo con Mia, al riparo della merlatura. Come il cielo e il castello e ogni pietra della merlatura si fossero spalancati. E allora, come se fosse stato il suo pensiero a provocarlo, il volto di Mia si lacerò dall'attaccatura dei capelli fino al mento. Gli occhi fissi e opachi caddero di sbieco di qua e di là. Le labbra si spaccarono in un folle ghigno raddoppiato. E non fu sangue quello che scaturì dagli squarci che si andavano aprendo nella sua faccia, bensì una polvere bianca dall'odore di stantio. Susannah ritrovò nella memoria un frammento di T.S. Eliot (uomini cavi uomini impagliati teste piene di paglia) e Lewis Carroll

(non siete che un mazzo di carte)

prima che il dan-tete di Mia rialzasse la testa raccapricciante dal suo primo pasto. La sua

bocca lorda di sangue si aprì e le zampe posteriori annasparono cercando presa sul ventre sempre più convesso della madre, mentre quelle anteriori sembravano quasi fingere colpi da pugile in direzione di Susannah.

Squittì di trionfo e se avesse scelto quel momento per aggredire l'altra donna che lo aveva nutrito dentro di sé, Susannah Dean sarebbe certamente morta con Mia. Tornò invece alla sacca sgonfia del seno dal quale aveva prelevato la sua prima poppata e la strappò via. La masticò producendo orribili sciacquii. Un attimo dopo si tuffò nell'apertura rimasta nel petto di lei e la sua bianca faccia umana scomparve mentre quella di Mia finiva di esaurirsi nella polvere che le usciva come ribollendo dalla testa implosa. Ci fu un forte rumore di risucchio, quasi industriale, e Susannah pensò: Sta estraendo da lei tutti i liquidi, tutti quelli che le sono rimasti. E guarda! Guarda come si gonfia! Come una sanguisuga sul collo di un cavallo!

Proprio allora una ridicola voce dall'accento britannico - era il tono compito del paradigma stesso del gentiluomo - cantilenò: «Chiedo scusa, signori, ma pensate ancora di utilizzare questa incubatrice? Perché la situazione si è un po' modificata, se mi è concesso farlo rilevare».

Sciolse Susannah dalla sua paralisi. Si alzò puntellandosi con una mano e con l'altra afferrò l'automatica di Scowther. Tirò con forza, ma l'arma era trattenuta da un laccio. Tastando con l'indice, trovò il minuscolo cursore della sicura e lo spinse. Ruotò quindi la pistola con tutta quanta la fondina verso la scatola toracica di Scowther.

«Cosa dia...» cominciò lui, poi lei premette il grilletto con il medio mentre contemporaneamente strattonava con tutte le forze che aveva l'imbracatura a cui era agganciata la fondina. Le cinghie principali ressero, ma quelle più sottili che trattenevano l'automatica si strapparono e, mentre Scowther cadeva di lato cercando di guardare il foro nero e fumante che aveva nel camice bianco, Susannah s'impadronì del tutto della sua arma. Sparò a Straw e al vampiro che gli era accanto, quello con la spada elettrica. Per un momento il vampiro fu ancora lì, con gli occhi fissi sul dio-ragno che all'inizio era sembrato un bambino, poi la sua aura svanì. Con essa scomparve anche il corpo del vampiro. Per qualche attimo al suo posto rimase una camicia vuota infilata in un paio di blue jeans vuoti. Poi gli indumenti si afflosciarono.

«Uccidetela!» urlò Sayre mettendo mano alla propria pistola. «Uccìdete quella troia!»

Rotolando, Susannah si allontanò dal ragno accovacciato sul corpo della madre che sotto di esso si andava rapidamente sgonfiando. Mentre cadeva dal letto, si strappò dalla testa la calotta. Provò un dolore lancinante quando applicò pressione temendo di non poterla staccare, ma un istante dopo era sul pavimento, libera. La calotta rimase appesa oltre il bordo del letto, orlata dai suoi capelli. L'essere-ragno, strappato per un momento dalla sua sede quando il corpo di sua madre sussultò, mandò uno stridio di collera.

Susannah rotolò sotto il letto mentre sopra di lei partiva una serie di spari. Una pallottola colpì una molla che emise un forte tremolio melodico. Susannah vide i piedi e le gambe pelose dell'infermiera con la testa di topo e le piantò un proiettile in un ginocchio. L'infermiera lanciò un urlo, ruotò su se stessa e cominciò a scappare zoppicando e sbraitando.

Sayre si protese puntando la pistola appena oltre il corpo accasciato di Mia. Nel letto c'erano già tre fori fumanti. Prima che potesse aggiungerne un quarto, una delle zampe del ragno gli accarezzò la guancia, strappando la maschera che indossava ed esponendo il pelo sottostante. Sayre si ritrasse con un grido. Il ragno si girò verso di lui e mandò un miagolio. La cosa bianca che aveva sul dorso, un nodulo con un volto umano, parve ammonire Sayre con lo sguardo a stare lontano dal suo pasto. Poi tornò alla donna, che per la verità non era più riconoscibile in quanto tale; sul letto c'erano ora i resti di una mummia di età incommensurabile, ridotta ormai a polvere e stracci.

«Mi sia concesso, ma tutto questo mi sembra un po' caotico», commentò il robot con l'incubatrice. «Devo ritirarmi? Forse è meglio che torni quando la situazione si sarà chiarita.»

Susannah invertì la direzione, rotolando fuori da sotto il letto. Vide che due degli uomini bassi avevano alzato i tacchi. Jey, l'uomo-falco, sembrava incapace di prendere una decisione. Restare o andare? La prese Susannah per lui, piazzandogli un colpo preciso nella fronte pennuta. Volarono sangue e piume.

Si alzò come meglio poteva, aggrappandosi alla sponda del letto per sostenersi e tendendo il braccio armato davanti a sé. Ne aveva uccisi quattro. L'infermiera con la testa di topo e un altro erano fuggiti. Sayre aveva lasciato cadere la pistola e stava cercando di nascondersi dietro il robot con l'incubatrice.

Susannah liquidò gli ultimi due vampiri e l'uomo basso con la faccia da bulldog. Costui, Haber, non si era scordato di lei; era rimasto al suo posto in attesa del momento propizio. Susannah era stata più veloce di lui e ora, con profonda soddisfazione, lo guardò stramazzare all'indietro. È stato il più pericoloso, pensò.

«Signora, mi chiedevo se potesse spiegarmi...» cominciò il robot e Susannah scaricò due rapidi colpi nella sua testa di metallo spegnendo i suoi occhi blu. Era un trucco che aveva imparato da Eddie. Partì immediatamente una sirena gigantesca. Susannah temette che ascoltandola troppo a lungo ne sarebbe stata assordata.

«SONO STATO ACCECATO DA COLPI D'ARMA DA FUOCO!» tuonò il robot, senza perdere il suo assurdo accento da desidera-un'altra-tazza-di-té-madame. «VISIONE ZERO, HO BISOGNO

DI AIUTO, CODICE 7, RIPETO AIUTO!»

Sayre si allontanò dal robot a mani alzate. Con quella sirena e le esternazioni del robot, Susannah non poteva udirlo, ma lesse le parole sulle labbra del bastardo: Mi arrendo, vuoi accettare la mia parola?

Susannah sorrise a quell'idea divertente, senza accorgersi di sorridere. Fu un sorriso privo di piacere e privo di pietà e significava una sola cosa. Avrebbe voluto obbligarlo a leccarle i moncherini, come lui aveva obbligato Mia a leccargli gli stivali. Ma non c'era tempo. Lui lesse il proprio destino nel sorriso di lei e si girò per scappare e Susannah gli sparò due volte nella nuca, una per Mia e una per Père Callahan. Il cranio di Sayre si sgretolò in un turbinio di sangue e cervello. Si appese al muro, annaspò sul ripiano carico di attrezzature e scorte, e piombò a terra morto.

Ora Susannah puntò l'arma sul dio-ragno. La minuscola testa umana sul dorso ispido e nero si girò verso di lei. Dagli occhi azzurri, così incredibilmente simili a quelli di Roland, si sprigionò un lampo.

No, non puoi! Non devi! Perché io sono il solo figlio del Re!

Non posso? Rispose mentalmente lei spianando l'automatica. Oh, zuccherino, come... ti... SBAGLI!

Ma prima che potesse premere il grilletto, alle sue spalle echeggiò uno sparo. Un proiettile le ustionò il collo. Susannah reagì all'istante, voltandosi e gettandosi lateralmente tra due letti. Uno degli uomini bassi fuggiti poco prima aveva ritrovato il coraggio ed era tornato sui suoi passi. Susannah glielo fece rimpiangere con due pallottole al petto.

Si girò, desiderosa di trovare altri bersagli - sì, era quello che voleva, quello per cui era stata creata, e avrebbe sempre riverito Roland per averglielo fatto scoprire - ma gli altri erano o morti o in fuga. Il ragno corse giù dal letto con le sue molte zampe, lasciando dietro di sé il cadavere di cartapesta di sua madre. Girò per un istante verso di lei la bianca testa da neonato.

Farai bene a lasciarmi passare, muso nero, se non...

Susannah sparò, ma mentre premeva il grilletto inciampò sulla mano protesa dell'uomo-falco. Il proiettile che avrebbe ucciso l'abominevole creatura fu sviato e fece saltar via una delle otto zampe pelose della bestia. Un liquido rosso e giallastro, più simile a pus che a sangue, sprizzò dal punto in cui la zampa era articolata al corpo. L'essere strillò di dolore e sorpresa, la porzione udibile di quel grido fu quasi del tutto ingoiata dal ciclico ululato della sirena del robot, ma Susannah lo sentì forte e chiaro dentro la testa.

Te la farò pagare per questo! Io e mio padre, noi, te la faremo pagare! Ti faremo invocare la morte, credimi!

Non ne avrai l'occasione, dolcezza, fu il messaggio che inviò Susannah in risposta, cercando di proiettare su di esso tutta la fiducia in sé di cui era capace per impedire alla cosa di intuire il suo timore: che l'automatica di Scowther fosse scarica. Prese la mira con una posa fin troppo plateale e il ragno si diede precipitosamente alla fuga, sfrecciando prima dietro il robot e la sua incessante sirena e quindi attraverso una porta buia.

Bene. Niente di cui rallegrarsi, senz'altro non la migliore delle soluzioni, ma era ancora viva e questo era già un fatto importante.

E il fatto che tutta la ciurmaglia di sai Sayre era morta o fuggita? Anche quello non era malaccio.

Gettò via la pistola di Scowther e ne scelse un'altra, una Walther PPK. La estrasse dalla presa del portuale di Straw, poi frugò nelle tasche del morto, dove trovò una mezza dozzina di caricatori di ricambio. Valutò per un istante se aggiungere al suo arsenale la spada elettrica del vampiro e decise di lasciarla dov'era. Meglio gli strumenti che si conoscono di quelli di cui non si sa nulla.

Cercò di mettersi in contatto con Jake, non riuscì a udire i propri pensieri e si rivolse al robot. Ehi, tu! Spegni quella dannata sirena, vuoi?

Non pensava che sarebbe servito, invece funzionò. Il silenzio fu immediato e splendido, aveva la consistenza sensuale della seta moiré. Il silenzio poteva essere utile. Se ci fosse stato un contrattacco, li avrebbe sentiti arrivare. E la sporca verità? Sperava in un contrattacco, voleva che tornassero, e pazienza se non c'era logica nei suoi sentimenti. Aveva una pistola carica e si sentiva non meno carica lei stessa. Solo quello contava.

(Jake! Jake, mi senti, ragazzo mio! Se mi senti, rispondi alla tua sorellona!) Niente. Nemmeno il crepitare di una sparatoria in lontananza. Era uscito da...

Poi una singola parola... se era una parola:

(wimeweh) ma soprattutto era Jake?

Non poteva giurarlo, ma pensava che fosse lui. E a suo modo anche quella parola le sembrava familiare.

Susannah raccolse tutta la concentrazione con il proposito di chiamare di nuovo ma con maggiore energia, ma in quell'attimo le venne un'idea strana, troppo forte per poterla definire intuizione. Jake si sforzava di non farsi sentire. Si stava... nascondendo? Forse preparandosi a tendere un'imboscata? Balzana, come idea, ma forse anche lui era carico al massimo. Chissà, forse quella parola stramba (wimeweh)

le era stata inviata volutamente, ma forse gli era solo scappata. Meglio comunque non

disturbarlo almeno per un po'.

«Dico, sono stato accecato da colpi d'arma da fuoco!» ripeté il robot. La sua voce era ancora potente, ma il volume era sceso a un livello che quanto meno si avvicinava alla normalità. «Non vedo un fico secco e ho questa incubatrice...» «Mollala», disse Susannah.

«Ma...»

«Mollala, Ferraglia.»

«Chiedo scusa, madame, ma il mio nome è Nigel il Maggiordomo e veramente non posso...»

Durante quel piccolo botta e risposta Susannah si era trascinata più vicina al robot - scoprendo che, solo per aver ottenuto una breve vacanza provvista di gambe, non ci si dimenticavano le antiche manovre di locomozione - e ora lesse il nome e il numero di serie sul suo ventre cromato.

«Nigel DNK 45932, molla quel cazzo di scatola di vetro, dico grazie!»

Il robot (DOMESTICO c'era scritto subito sotto il numero di serie) lasciò cadere l'incubatrice e, quando il contenitore andò in pezzi ai suoi piedi d'acciaio, si mise a piagnucolare.

Susannah lo raggiunse faticosamente e scoprì di dover dominare una momentanea paura prima di allungare la mano verso quella metallica e a tre dita dell'uomo-macchina. Dovette ricordare a se stessa che non era Andy di Calla Bryn Sturgis, né Nigel poteva sapere dell'esistenza di Andy. Forse il robot-maggiordomo non era tanto sofisticato da poter sviluppare desiderio di vendetta com'era stato invece nel caso di Andy - ma sicuramente non poteva avere reazioni a fatti di cui non era a conoscenza.

Così sperava.

«Tirami su, Nigel.»

Il robot si chinò in un ronzio di servomotori.

«No, caro, devi venire un po' più avanti. Lì ci sono cocci di vetro.»

«Chiedo scusa, madame, ma sono cieco. Credo che sia stata lei a spararmi negli occhi.»

«Be'», rispose Susannah sperando che il tono d'irritazione dissimulasse la paura sottostante, «non potrò certo procurartene di nuovi se non mi tiri su, giusto? Ora vieni un pochettino più avanti, se ti è gradito. Il tempo scappa.»

Nigel ubbidì, schiacciando cocci di vetro sotto i piedi, procedendo in direzione del suono della sua voce. Susannah controllò l'istinto di ritrarsi, ma quando il Robot Domestico l'ebbe presa, trovò la sua stretta più che delicata. Fu sollevata tra le sue braccia.

«Ora portami alla porta.»

«Madame, chiedo scusa, ma ci sono molte porte al Sedici. Altre ancora sotto il Castello.» «Quante?»

«Direi...» Una breve pausa. «Direi cinquecentonovantacinque attualmente operative.» Susannah notò subito che sommando cinque più nove più cinque si otteneva diciannove. Si otteneva chassit.

«Ti spiacerebbe trasportarmi a quella che hanno usato per portarmi qui?» Indicò il fondo della stanza.

«No, madame, non mi spiace affatto, ma purtroppo devo dirle che non le servirà.» Nigel lo dichiarò nel suo tono pomposo. «Quella porta, New York #7/Fedic, è a senso unico.» Una pausa. Relè scattarono sotto la cupola d'acciaio della sua testa. «Inoltre, dopo l'ultima volta che è stata usata, è bruciata. È, potremmo dire, andata alla radura in fondo al sentiero.»

«Ah, ma che bellezza!» esclamò Susannah, ma sapeva di non essere veramente sorpresa dalla notizia che le aveva dato Nigel. Ricordava il mugolio distorto che aveva udito un attimo prima che Sayre la spingesse attraverso, ricordava di aver pensato che era il gemito di una cosa morente.

E... sì, era morta. «Che bellezza davvero!»

«La sento contrariata, madame.»

«Puoi dirlo forte, che sono contrariata! Era già una bella fregatura che fosse a senso unico!

Ora si è anche chiusa definitivamente!» «Rimane quella di default», obiettò Nigel.

«Default? Cosa sarebbe questo default?»

«Sarebbe la New York #9/Fedic, rispose lui. «Un tempo c'erano più di trenta portali a senso unico tra New York e Fedic, ma credo che ormai resti solo il numero #9. Tutti i comandi relativi a New York #7/Fedic sono stati trasferiti di default al numero #9.»

Chassit, pensò Susannah... quasi lo pregò. Sta parlando di chassit. Credo. Oh Dio, spero che sia così.

«Intendi parole d'ordine e tutto il resto, Nigel?»

«Oh sì, madame.»

«Portami alla numero nove!»

«Come desidera.»

Nigel risalì a passo sostenuto il corridoio tra le centinaia di letti vuoti, su cui le lenzuola bianche e tese brillavano della luce riflessa delle forti plafoniere. Per un momento l'immaginazione popolò la mente di Susannah di grida di bambini impauriti, appena arrivati da Calla Bryn Sturgis, forse anche dai Calla circostanti. Non vide una sola infermiera con la testa di topo, ma ne vide a battaglioni, ansiose di applicare le calotte sulla testa dei bimbi rapiti e dare inizio al processo che... che cosa? Che li guastava, in un certo senso. Risucchiava dalla loro testa l'intelligenza e sconvolgeva i loro ormoni della crescita, rovinandoli per sempre. Probabilmente all'inizio si sentivano confortati dalla voce piacevole che udivano nel cervello, la voce che dava loro il benvenuto nel mondo favoloso della North Central Positronics e della Sombra. Avrebbero smesso di piangere, con gli occhi colmi di speranza. Forse avrebbero pensato che le infermiere nelle loro divise bianche fossero buone nonostante il loro spaventoso muso ispido e le loro zanne gialle. Buone come la voce della cara signora.

Poi sarebbe cominciato il ronzio e sarebbe cresciuto di volume spostandosi verso il centro della loro testa e lo stanzone si sarebbe riempito di nuovo delle loro urla di terrore...

«Madame? Tutto bene?»

«Sì. Perché me lo chiedi, Nigel?»

«Mi è sembrato di sentirla rabbrividire.»

«Non ci pensare. Tu conducimi alla porta per New York, quella che funziona ancora.»

6

Uscito dall'infermeria, Nigel la trasportò veloce prima per un corridoio, poi per un altro. Giunsero a delle scale mobili che sembravano ferme da secoli. A metà della loro discesa, una sfera d'acciaio con le gambe fece balenare gli occhi ambra. «Howp! Howp!» esclamò a Nigel, il quale rispose: «Howp, howp!» e quindi si rivolse a Susannah (nel tono confidenziale che certi pettegoli adottano quando discutono dei «meno fortunati»): «È un caporeparto Mech ed è inchiodato lì da più di ottocento anni. Schede fritte, immagino. Poveretto! Ma si sforza di fare ancora del suo meglio».

Due volte Nigel le chiese se riteneva che i suoi occhi potessero essere rimpiazzati. La prima volta Susannah gli rispose che non lo sapeva. La seconda, provando un po' di compassione per lui (lo considerava un essere vivente ormai), volle sapere quale fosse la sua opinione.

«Credo che i miei giorni di servizio siano al termine», disse il robot. Poi aggiunse qualcosa che le fece formicolare la pelle delle braccia: «O Discordia!»

I Fratelli Diem sono morti, pensò, ricordando - era stato un sogno? Una visione? Uno scorcio della sua Torre? - qualcosa della sua avventura con Mia. O risaliva ai suoi tempi di Oxford, nel Mississippi? O entrambe le cose? Papa Doc Duvalier è morto. Christa McAuliffe è morta. Stephen King è morto, popolare scrittore ucciso durante passeggiata pomeridiana, O Discordia, O perduta!

Ma chi era Stephen King? E chi era Christa McAuliffe, se è per questo?

A un certo punto incrociarono un uomo basso di quelli che erano stati presenti alla nascita del mostro di Mia. Era raggomitolato come un gambero umano sul pavimento polveroso di un corridoio con la pistola in mano e un foro nella testa. Doveva essersi ucciso da sé. Aveva una sua logica, in un certo senso. Perché era andato tutto storto, no? E se il figlio di Mia non avesse trovato la propria destinazione da solo, Paparone Rosso l'avrebbe presa male. L'avrebbe presa male forse anche se Mordred fosse riuscito a tornare a casa.

Il suo altro padre. Perché quello era un mondo di gemelli e immagini speculari e ora Susannah comprendeva di ciò che vedeva più di quanto realmente desiderasse. Anche Mordred era un gemello, una creatura alla Jekyll-e-Hyde con due personalità, e aveva da ricordare, essere umano o no, i volti di due padri.

S'imbatterono in altri cadaveri, tutti suicidi, a giudizio di Susannah. Chiese a Nigel se era in grado di stabilirlo, dall'odore o da qualcos'altro, ma lui rispose che gli era impossibile.

«Quanti ce ne sono ancora, secondo te?» domandò lei. Aveva avuto tempo di placare un po' l'animo e adesso cominciava a sentirsi nervosa.

«Non molti, madame. Credo che se ne siano andati quasi tutti. Molto probabilmente al

Derva.»

«Che cos'è il Derva?»

Nigel rispose che era profondamente desolato, ma l'informazione era riservata ed era accessibile solo con la giusta parola d'ordine. Susannah provò chassit, ma non funzionò. Non ottenne risultati nemmeno con diciannove o novantanove, che fu il suo ultimo tentativo. Avrebbe dovuto accontentarsi di sapere che per la maggior parte non c'erano più.

Nigel girò a sinistra imboccando un nuovo corridoio con porte su entrambi i lati. Susannah lo fece fermare per provarne una, ma dentro non c'era nulla di particolarmente interessante. Era un ufficio abbandonato da tempo, a giudicare dal denso strato di polvere. La incuriosì il manifesto appeso a una parete con l'immagine di alcuni adolescenti che ballavano freneticamente. Sotto di essa, a grandi lettere blu, c'era questa scritta:

EHI ROCCHETTARI E ROCCHETTINE! IO HO ROCCATO CON ALAN FREED!

CLEVELAND, OHIO, OTTOBRE 1954

Susannah era sicura che sul palcoscenico si stesse esibendo Richard Penniman. I frequentatori di dancing come lei manifestavano disprezzo per ogni forma di rock più duro di quello di Phil Ochs, ma sotto sotto Suze aveva sempre avuto un debole per Little Richard: Good golly, miss Molly, you sure like to ball. Doveva esserci lo zampino di Detta...

Ma questa gente usava le proprie porte per andarsene in vacanza scegliendo di volta in volta un dove e quando? Usavano il potere dei Vettori per trasformare certi livelli della Torre in attrazioni turistiche?

Lo chiese a Nigel, il quale le rispose di essere sicuro di non saperlo. Nigel sembrava ancora rattristato per la perdita degli occhi.

Giunsero finalmente in un'echeggiante rotonda con porte che si aprivano in tutta la sua ampia circonferenza. Le piastrelle di marmo del pavimento formavano una scacchiera bianca e nera che Susannah ricordò di aver visto in certi sogni tormentati nei quali Mia nutriva il suo tizio. Sopra di lei, su e su, costellazioni di stelle elettriche ammiccavano in un firmamento azzurro che ora era devastato da una miriade di crepe. Quel luogo le ricordava la Culla di Lud, ma ancor più la Grand Central Station. Dietro le pareti rumoreggiavano macchinari, condizionatori d'aria o scambiatori. L'odore era vagamente familiare e dopo qualche sforzo Susannah lo identificò: Comet Cleanser. Sponsorizzavano Il prezzo è giusto, che qualche volta guardava alla TV se le capitava di essere a casa di mattina. «Sono Don Pardo, e ora a voi Mister Bill Cullen!» Susannah ebbe un attacco di vertigini e chiuse gli occhi.

Bill Cullen è morto. Don Pardo è morto. Martin Luther King è morto, ucciso a Memphis. Sia fatta la volontà di Discordia!

Oh Cristo, quelle voci, perché non tacevano?

Aprì gli occhi e vide porte contrassegnate con SHANGAI/FEDIC e BOMBAY/FEDIC e una con la scritta DALLAS (NOVEMBRE 1963)/FEDIC. Su altre la scritta era in geroglifici che per lei non avevano alcun significato. Nigel si fermò infine davanti a una scritta che riconobbe.

NORTH CENTRAL POSITRONICS, LTD.

NEW YORK/FEDIC

MASSIMA SICUREZZA

Era la stessa che si trovava sull'altro lato, solo che al posto di RICHIESTO CODICE VERBALE D'ACCESSO, subito sotto lampeggiava sinistra in rosso questo avviso:

#9 DEFAULT FINALE

7

«Che cosa vuole fare ora, madame?» chiese Nigel.

«Mettimi giù, dolcezza.»

Ebbe tempo di domandarsi come avrebbe reagito se Nigel avesse rifiutato di ubbidire, ma il robot non esitò. Strisciò fino alla porta e vi posò contro le mani. La sensazione che provò non fu né di legno né di metallo. Le parve di udire un ronzio molto sottile. Valutò se tentare con chassit, la sua versione dell'apriti sesamo di Alì Baba, ma rinunciò. Non c'era nemmeno una maniglia. Se il passaggio era in un senso solo, c'era poco da rimuginare. (JAKE!)

Lo spedì con tutte le forze.

Nessuna risposta. Neppure quel fievole

(wimeweh)

verso senza senso. Attese ancora un istante, poi si girò a sedersi con la schiena contro la porta. Si lasciò cadere tra le ginocchia divaricate le munizioni di riserva e alzò la Walther PPK nella mano destra. Una buona arma da avere con la schiena a una porta sprangata, rifletté; il suo peso la rassicurava. In un lontano passato lei e altri erano stati addestrati a una tecnica di protesta che si chiamava resistenza passiva. Ci si sdraiava per terra e ci si copriva con le mani ventre e genitali, non si rispondeva a quelli che ti picchiavano e oltraggiavano te e i tuoi genitori. Si cantava «in catene, come il mare». Che cosa avrebbero pensato i suoi amici se l'avessero vista adesso?

«Sai una cosa?» sbottò. «Non me ne frega un cazzo. Anche la resistenza passiva è morta.»

«Madame?»

«Niente, Nigel.»

«Madame, posso chiederle...»

«Che cosa sto facendo?»

«Precisamente, madame.»

«Aspetto un amico, Ferraglia. Semplicemente aspettando un amico.»

Pensò che il robot le avrebbe rammentato che il suo nome era Nigel, ma non lo fece. Le domandò viceversa per quanto tempo avrebbe aspettato il suo amico. Susannah gli rispose fino a quando si fosse ghiacciato l'inferno. Queste parole provocarono un silenzio prolungato. Alla fine Nigel chiese: «Allora posso andare, madame?»

«Come farai a vedere?»

«Sono passato agli infrarossi. È meno soddisfacente della macrovisione tre-X, ma mi basterà per ritrovare l'officina.»

«E in officina c'è qualcuno che può ripararti?» domandò distrattamente Susannah. Schiacciò il bottone che fece scivolare fuori il caricatore dal calcio della Walther, poi lo reinserì, provando un piacere elementare nel rumore metallico e ben lubrificato dello scatto.

«Sono sicuro di non saperlo, madame», rispose Nigel, «sebbene la probabilità di un simile evento sia molto bassa, di certo inferiore all'uno per cento. Se non viene nessuno, allora anch'io, come lei, aspetterò.»

Susannah annuì, improvvisamente stanca e più sicura che mai che lì stesse avendo termine il suo lungo viaggio, in quel luogo, appoggiata a quella porta. Ma non ci si arrende, vero? Arrendersi è per i codardi, non per i pistoleri.

«Che ti sia gradito, Nigel, grazie per avermi trasportata. Lunghi giorni e piacevoli notti. Spero che ti rimettano gli occhi. Mi spiace di averteli distrutti, ma ero in una situazione un po' complicata e non sapevo da che parte fossi.»

«E auguri a lei, madame.»

Susannah annuì. Nigel ripartì e allora fu sola, appoggiata alla porta per New York. In attesa di Jake. In ascolto di Jake.

Tutto quello che sentì fu l'ansimare rugginoso e morente dei macchinari nei muri.

5

«In the jungle, the mighty jungle»

1

Se Jake non morì accanto al Père, fu solo per via della minaccia che gli uomini bassi e i vampiri uccidessero Oy. Non dovette arrovellarsi per prendere la decisione; Jake gridò

(OY, A ME!)

con tutta la forza mentale che aveva e Oy si precipitò alle sue calcagna. Jake passò davanti a

uomini bassi ipnotizzati dalla tartaruga e spalancò con una manata una porta con la scritta RISERVATO AL PERSONALE. Dal bagliore arancione scuro del ristorante, Jake e Oy entrarono in una zona di brillante luce bianca, dove l'aria era pervasa dagli odori penetranti di arrosti e bolliti. Fu investito da una nuvola di vapore, caldo e umido,

(the jungle)

forse preambolo di quanto sarebbe seguito,

(the mighty jungle)

forse no. Al restringersi delle pupille, quando poté vedere di nuovo con chiarezza, riconobbe la cucina del Dixìe Pig. E non era nemmeno la prima volta che la visitava. Non molto tempo prima dell'arrivo dei Lupi a Calla Bryn Sturgis, Jake aveva seguito Susannah (solo che all'epoca era Mia) in un sogno in cui perlustrava una cucina vasta e deserta in cerca di cibo. Questa cucina, solo che stavolta era in piena attività. Su un fuoco aperto cuoceva un enorme maiale allo spiedo. A ogni goccia di grasso, le fiamme guizzavano alte attraverso una grata di ferro imbrattata di condimenti. Ai due lati, su due giganteschi piani cottura, sotto enormi cappe di rame, fumavano pentole alte quasi quanto Jake stesso. A rimestare in una di esse c'era una creatura dalla pelle grigia così raccapricciante che gli occhi di Jake non sapevano come guardarla. A incorniciarle i labbroni grigi, le sbucavano dalla bocca due zanne. Le guance pendevano in lunghi lembi sovrapposti e bitorzoluti. La tenuta bianca e macchiata di condimenti e la nuvola bianca del cappello da cuoco come un grande pop-corn costituivano una sorta di patina di normalità che riusciva solo a metterne in risalto la bruttezza da incubo. Più avanti, quasi perse nel vapore, altre due creature vestite di bianco lavavano piatti fianco a fianco a un lavello a due pozzetti. Entrambe portavano un foulard. Una era umana, un ragazzo di forse diciassette anni. L'altra di umano aveva solo le gambe, su un corpo mostruoso da felino.

«Vai, vai, los mostros pubes, tre cannits en founs!» gracchiò lo chef zannuto agli sguatteri. Non si era accorto di Jake. Uno dei due addetti al lavaggio, il felino, sì. Abbassò le orecchie e soffiò. Senza pensare, Jake scagliò l'Oriza che stringeva nella mano destra. Cantò nell'aria torbida e attraversò il collo dell'essere-gatto come un coltello in una forma di lardo. La testa, con gli occhi verdi ancora brillanti, piombò nel lavello alzando uno schizzo d'acqua insaponata.

«San fai, can dit los!» sbraitò lo chef. O non si era accorto di che cosa era accaduto, o non era in grado di comprenderlo. Si girò verso Jake. Gli occhi sotto la fronte sfuggente e merlata erano di un fosco blu-grigio, gli occhi di un essere pensante. Visto di fronte, Jake capì che cos'era: una mutazione di facocero, provvista di intelligenza. Il che significava che stava cucinando un membro della sua specie. Perfettamente in tono con il Dixie Pig.

«Can foh pube ain-tet con fah! She-so pan! Vai!» Queste parole furono indirizzate a Jake. Poi, per completare la follia: «E se non hai voglia di pulire, non cominciare neanche!»

L'altro sguattero, il ragazzo umano, stava gridando un avvertimento, ma il cuoco non gli badò. Sembrava che secondo lui, ora che aveva ucciso uno dei suoi aiutanti, Jake avesse assunto su di sé l'onore e l'onere di prendere il suo posto.

Jake lanciò l'altro piatto, che tagliò di netto la testa al facocero e mise fine ai suoi vaneggiamenti. Sui fornelli si rovesciò un'ondata di sangue che sfrigolò spargendo nell'aria uno spaventoso odore di bruciato. La testa del facocero ricadde sulla sinistra del collo e poi s'inclinò all'indietro senza staccarsi. La creatura, alta sicuramente più di due metri, barcollò spostandosi sulla sinistra e andando ad abbracciare il maiale che ruotava sullo spiedo. La testa si allentò un po' di più e finì sulla spalla destra di Chef Facocero, con un occhio fisso alle sovrastanti lampade fluorescenti avvolte nel vapore. Le mani del cuoco, incollate dal calore della cottura all'arrosto, cominciarono a fondersi. Poi l'essere cadde in avanti nelle fiamme e la sua casacca prese fuoco.

Jake si girò in tempo per vedere l'altro sguattero che gli veniva incontro armato di un coltello da macellaio e di una mannaia. Jake estrasse un altro Oriza dalla sacca ma indugiò a dispetto della voce che nella testa lo incitava a colpire, lanciare, dare a quel bastardo quello che Margaret Eisenhart aveva una volta definito «una bella rasata». Quell'espressione aveva fatto ridere di gusto le altre Sorelle di Oriza. Eppure, per quanto desiderasse lanciare, trattenne la mano.

Stava guardando un giovane la cui pelle, sotto le luci forti della cucina, era di un pallido grigio giallognolo. Sembrava denutrito e terrorizzato. Jake lo minacciò alzando il piatto e il giovane si fermò. Non stava guardando l'Oriza, però, bensì Oy, fermo tra i piedi di Jake. Il bimbolo, che aveva scoperto i denti, sembrava raddoppiato nelle sue dimensioni per via del pelo drizzato.

«Parli...» cominciò Jake e in quel momento la porta del ristorante si spalancò. Fece irruzione uno degli uomini bassi. Jake scagliò senza esitazione. Fischiò nell'aria luminosa e piena di vapore decapitando l'intruso con micidiale precisione appena sopra il pomo d'Adamo. Il corpo privo di testa s'inclinò prima a sinistra e poi a destra, come un comico che accetta un applauso con una gigioneria, quindi stramazzò.

Jake si munì immediatamente di altri due piatti, uno per mano, incrociando di nuovo le braccia davanti al petto nella posizione che sai Eisenhart chiamava «il carico». Guardò lo sguattero, ancora armato di coltello e mannaia. Tutt'altro che minaccioso, giudicò Jake. Provò di nuovo e questa volta riuscì a formulare l'intera domanda. «Parli inglese?»

«Yar», rispose il ragazzo. Lasciò cadere la mannaia per poter avvicinare il pollice e l'indice, entrambi arrossati dai lavaggi, a misurare un centimetro d'aria. «Tanto così. L'ho imparato da quando sono venuto qui.» Aprì l'altra mano e anche il coltello cadde sul pavimento. «Vieni dal Medio-Mondo?» chiese Jake. «È da lì che vieni, vero?»

Non gli dava l'impressione di essere particolarmente sveglio («Non è un ragazzo prodigio» avrebbe senz'altro malignato Elmer Chambers), ma era comunque abbastanza sensibile da avere nostalgia di casa; Jake scorse un riflesso di quella pena negli occhi del ragazzo, sotto il velo dell'espressione atterrita. «Yar», rispose. «Viene da Ludweg, me.»

«Vicino alla città di Lud?»

«A nord, se ti piace o no», disse lo sguattero. «Tu me uccidere? Io non volere morire, anche se triste.»

«Non sarò io a ucciderti se mi dirai la verità. È passata una donna di qui?»

Lo sguattero esitò. «Aye», confessò poi. «La portavano Sayre e i suoi. Occhi chiusi, quella, la testa tutta ciondoloni...» Glielo mostrò, roteando la testa con l'aria ebete dello scemo del villaggio. Jake pensò a Sheemie, quello di cui Roland aveva raccontato dei suoi giorni a Mejis.

«Ma non morta.»

«Nar. Me l'ha sentita respirare.»

Jake guardò la porta, ma non stava arrivando nessuno. Non ancora. Era meglio che se andasse, ma...

«Come ti chiami, camerata?»

«Jochabim, sarebbe io, figlio di Hossa.»

«Allora, Jochabim, ascolta. Fuori di questa cucina c'è un mondo che si chiama New York, dove i pube come te sono liberi. Ti consiglio di uscire ora che ne hai la possibilità.»

«Loro riportare indietro me e picchiare.»

«No, tu non ti rendi conto di quanto sia grande. Come Lud quando Lud era...»

Guardò l'espressione spenta di Jochabim e pensò: No, sono io quello che non capisce. E se perdo tempo cercando di convincerlo a disertare, va a finire che mi busco esattamente quello che...

La porta dalla parte del ristorante si aprì di nuovo. Questa volta due uomini bassi cercarono di varcare contemporaneamente la stretta soglia e per un momento rimasero incastrati, spalla contro spalla. Jake lanciò entrambi i suoi piatti e li vide incrociare le rotte nell'aria, decapitando entrambi i nuovi arrivati nell'attimo in cui si disincagliavano. Caddero all'indietro e la porta si richiuse un'altra volta. Alla Piper School Jake aveva studiato la battaglia delle Termopili, il passo dove un manipolo di greci aveva tenuto in scacco truppe persiane dieci volte più numerose di loro. I greci avevano attirato il nemico in una stretta gola tra le montagne, lui aveva quella porta. Finché fossero arrivati a uno o due per volta, com'era inevitabile se non esisteva modo per aggirarlo, avrebbe potuto difendersi.

Almeno finché non avesse esaurito gli Oriza.

«Armi da fuoco?» chiese a Jochabim. «Ci sono pistole o fucili qui?»

Jochabim scosse la testa, ma data la sua irritante espressione da tonto, era difficile capire se intendeva che non c'erano armi da fuoco in cucina o che non aveva capito un'acca.

«Va bene, io vado», dichiarò. «E se non vai anche tu ora che ne hai l'occasione, Jochabim, sei ancora più stupido di quel che sembri. E vuol dire stupido parecchio. Ci sono i videogiochi là fuori, ragazzo mio. Pensaci.»

Jochabim continuò a guardarlo con quell'aria da duh e Jake si arrese. Stava per rivolgersi a Oy, quando qualcuno gli parlò attraverso la porta.

«Ehi, ragazzo!» Brusco, sicuro di sé. Smaliziato. La voce di un uomo capace di farti fesso in qualsiasi momento o andare a letto con la tua ragazza, pensò Jake. «Il tuo amico padre è morto. O per meglio dire, il padre, lo abbiamo finito. Ora vieni fuori senza tante storie e magari puoi evitare di fare da dessert.»

«Giratelo di sghimbescio e schiaffatelo su per il culo», rispose Jake. Il senso della frase fece breccia nel muro di stupidità di Jochabim: era scioccato.

«Ultima occasione», lo ammonì la voce ruvida e smaliziata. «Vieni fuori.»

«Vieni dentro tu!» ribatté Jake. «Ho piatti a volontà. In verità dominava a stento la voglia matta di avventarsi su quella porta, irrompere nel ristorante e dare battaglia agli uomini e alle donne basse che lo presidiavano. Né l'idea era così folle, come avrebbe ammesso lo stesso Roland; era l'ultima cosa che si sarebbero aspettati e c'era almeno la discreta possibilità che, con cinque o sei lanci ben piazzati, riuscisse a seminare il panico e indurii a una ritirata precipitosa.

Il problema era costituito dai mostri che banchettavano dietro l'arazzo. I vampiri. Quelli erano insensibili al panico e Jake lo sapeva. Aveva il sospetto che se gli Avi fossero riusciti a entrare in cucina (forse era solo la mancanza di interesse a trattenerli in sala da pranzo... e gli ultimi brandelli del cadavere del Père), a quell'ora sarebbe stato già morto. E anche Jochabim, con tutta probabilità.

Si abbassò su un ginocchio. «Oy», mormorò, «trova Susannah!» e rafforzò l'ordine con una rapida immagine mentale.

Il bimbolo rivolse a Jochabim un'ultima occhiata diffidente, poi cominciò ad annusare il pavimento. Le piastrelle erano umide dell'ultimo passaggio di uno straccio bagnato e Jake temette che ogni traccia fosse andata persa. Poi Oy emise un verso secco, più simile a un latrato che a una parola umana, e cominciò a trotterellare lungo un percorso che attraversava la cucina tra i fornelli e i tavoli, tenendo il naso a contatto con il pavimento, e deviando solo quando si trattò di passare intorno ai resti fumanti di Chef Facocero.

«Ascoltami, piccolo bastardo!» gridò l'uomo basso dall'altra parte della porta. «Sto perdendo la pazienza con te!»

«Bene!» lo sfidò Jake. «Entra allora! Vediamo se riesci a tornare indietro!»

Guardò Jochabim portandosi il dito alle labbra per esortarlo a fare silenzio. Era sul punto di voltarsi e seguire Oy (non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito lo sguattero prima di urlare che il ragazzo e il suo bimbolo non tenevano più il Passo delle Termopili), quando Jochabim gli parlò a voce così bassa, che non fu sicuro di aver capito bene.

«Come?» chiese guardandolo titubante. Gli era sembrato di sentire qualcosa come attento alla trappola mentale, ma non aveva senso. O si sbagliava?

«Attento alla trappola mentale», disse Jochabim, questa volta molto più distintamente, prima di tornare alle sue stoviglie e all'acqua insaponata.

«Quale trappola mentale?» chiese Jake, ma Jochabim diede l'impressione di non aver udito e Jake non poteva trattenersi oltre per sottoporlo a un interrogatorio. Corse per raggiungere Oy, lanciandosi sguardi dietro le spalle. Se qualche altro uomo basso avesse fatto irruzione in cucina, voleva essere il primo a saperlo.

Ma non arrivò nessuno, almeno non prima che avesse seguito Oy attraverso un'altra porta e nella dispensa del ristorante, un locale buio pieno di scatoloni e odoroso di caffè e spezie. Era come il magazzino dietro all'East Stoneham General Store, solo più pulito.

2

In un angolo della dispensa del Dixie Pig c'era una porta chiusa. Da quella parte si accedeva a una scala piastrellata che scendeva Dio solo sapeva fin dove. Era illuminata da lampadine di bassa potenza protette da paralumi opachi e punteggiati di insetti. Oy cominciò a scendere senza esitare con un gioco ritmico di quarti anteriori e quarti posteriori che era quanto mai comico. Teneva il naso contro gli scalini e Jake sapeva che era sulla scia di Susannah; riceveva il messaggio dalla mente del suo piccolo amico.

Jake cercò di contare i gradini, arrivò fino a centoventi, poi perse il filo. Chissà se erano ancora a New York (o sotto di essa). A un certo punto gli parve di udire un brontolio sommesso che aveva qualcosa di familiare e concluse che se quello era un treno della metropolitana, allora erano nelle viscere della metropoli.

Arrivarono finalmente in fondo alle scale. Lì c'era una vasta area con il soffitto a volta che somigliava a una gigantesca hall d'albergo, solo senza l'albergo. Oy l'attraversò, sempre tenendo il muso rasente il suolo e agitando l'esile coda. Jake dovette correre per stargli dietro. Ora che la sacca non era più piena, gli Oriza tintinnavano al suo interno. In fondo alla hall c'era un chiosco con un cartello in una vetrina polverosa che diceva: ULTIMA OCCASIONE PER SOUVENIR DI NEW YORK e un altro con la scritta: VISITATE L'UNDICI SETTEMBRE 2001! BIGLIETTI

ANCORA DISPONIBILI PER QUESTO FANTASTICO EVENTO! VIETATO AGLI ASMATICI SENZA CERTIFICATO MEDICO! Jake si chiese che cosa ci fosse stato di così fantastico l'undici settembre del 2001 e subito dopo decise che forse preferiva non saperlo.

All'improvviso, nella testa, ma forte come se qualcuno gli urlasse direttamente dentro l'orecchio, una voce disse: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì!

Jake non aveva idea di chi fosse la signora della Positronics, ma riconobbe la voce che faceva la domanda.

Susannah! gridò fermandosi improvvisamente all'altezza del chiosco di souvenir. Il sorriso sorpreso e gioioso che gl'increspò il volto tirato lo fece ridiventare ragazzino. Suze, sei lì?

E la sentì mandare un grido di felice sorpresa.

Oy, accortosi che Jake non era più dietro di lui, si girò a lanciare un impaziente Eik-Eik! Per un momento almeno, Jake lo ignorò.

«Sì!» gridò. «Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...»

Alle sue spalle, forse dalla cima delle scale o forse già dai gradini, qualcuno urlò: «È lui!» Ci furono degli spari, ma Jake quasi non li udì. Era alle prese con l'orrore di qualcosa che gli si era intrufolato nella testa. Qualcosa come una mano mentale. Pensò che fosse l'uomo basso che gli aveva parlato attraverso la porta. Che la mano dell'uomo basso avesse trovato le manopole di qualche misterioso Jake Chambers Dogan e le stesse manipolando. Stesse cercando

(di congelarmi sul posto congelarmi i piedi) di fermarlo. E quella voce si era intromessa perché mentre inviava e riceveva, era aperto...

Jake! Jake, dove sei?

Non c'era tempo per risponderle. Una volta, mentre cercava di aprire la porta introvata nella Grotta delle Voci, Jake aveva evocato la visione di un milione di porte che si spalancavano. Ora evocò quella di una porta che si richiudeva sbattendo e provocando un tonfo potente come il bang sonico di Dio stesso.

Giusto in tempo. Per un istante ancora i piedi rimasero inchiodati al pavimento, poi qualcosa mandò un grido di dolore e si staccò da lui. Che se ne andasse pure.

Jake era di nuovo in movimento, dapprima a scatti, poi con gesti sempre più fluidi. Dio, come ci era stato vicino! Udì lontanissima la voce di Susannah che ripeteva il suo nome, ma non osò aprirsi di nuovo per rispondere. Doveva limitarsi a sperare che Oy non perdesse la sua scia e che lei continuasse a inviare messaggi.

3

Avrebbe poi concluso di essersi messo a cantare la canzone trasmessa dalla radio della signora Shaw, la governante, poco dopo l'ultima debole invocazione di Susannah, ma era un ipotesi per la quale era impossibile trovare conferma. Tanto sarebbe valso cercare di determinare il momento della genesi di un'emicrania o l'attimo preciso in cui ci si rende perfettamente conto che ti sta venendo il raffreddore. Di sicuro Jake sapeva che c'erano stati altri spari, compreso il sibilo di un colpo di rimbalzo, ma tutto questo era avvenuto a notevole distanza, cosicché a un certo momento smise di tenere la testa incassata tra le spalle (e anche di guardare indietro). Inoltre ormai Oy correva veloce, mulinando con vigore quei suoi piccoli e veloci quarti posteriori. I macchinari invisibili pompavano e sbuffavano. Nel pavimento affioravano rotaie d'acciaio che indussero Jake a pensare che una volta per di lì era passato un tram o qualche altro tipo di navetta. A intervalli regolari sulle pareti apparivano comunicati ufficiali (PATRICIA AL PROSSIMO NODO; FEDIC; HAI IL TUO PASS BLU?). Qua e là il rivestimento mancava, per certi tratti le rotaie non c'erano più, e in diversi punti vecchia acqua verminosa riempiva quelle che in tutto il mondo sarebbero state considerate tipiche buche stradali. Passarono oltre due o tre veicoli in panne, incroci tra un golf-cart e un vagone a pianale. Oltrepassarono anche un robot con la testa a forma di rapa che fece balenare i bulbi rossi degli occhi e mandò un singolo suono gracchiante che poteva essere un alt. Jake alzò un Oriza, domandandosi se sarebbe servito a qualcosa nel caso in cui il robot lo avesse inseguito. Ma non successe niente, quel solitario lampo rossastro doveva aver esaurito le ultime poche energie delle sue batterie, o cellule energetiche o pappa atomica o qualunque cosa fosse ad alimentarlo. Qua e là c'erano dei graffiti. Due gli furono familiari. Il primo era AVE RE ROSSO, con l'occhio rosso al posto delle due O. L'altro era BANGO SKANK, '84. Cribbio, pensò distrattamente Jake, gran bel giramondo questo Bango. Fu allora che si accorse che stava cantando sottovoce. Non erano parole, non proprio, era solo un vecchio refrain che ricordava vagamente d'aver sentito alla radio della cucina della signora Shaw: «A-wimeweh, a-wimeweh e, a-weee...»

S'interruppe, messo a disagio dall'eco lamentosa e talismanica di quella cantilena e si rivolse a

Oy. «Devo fare pipì! Dammi un momento, vuoi?»

«Oy!» Il resto del messaggio era nelle orecchie drizzate e nel brillio degli occhi: Non metterci troppo.

Jake spruzzò orina su una delle pareti piastrellate, dalle cui fughe filtrava una porcheria verdastra. Tese anche l'orecchio e udì come previsto i suoi inseguitori. Quanti potevano essere? Roland probabilmente lo avrebbe saputo, ma lui non ne aveva idea. L'eco li faceva sembrare un reggimento.

Mentre si scrollava, gli venne da pensare che quella era una manovra che il Père non avrebbe fatto mai più, né gli avrebbe sorriso o puntato il dito, né si sarebbe fatto il segno della croce prima di desinare. Lo avevano ucciso. Gli avevano preso la vita. Gli avevano fermato respiro e polso. Tolti forse i sogni, il Père era ormai fuori della storia. Jake cominciò a piangere. Come quando sorrideva, anche le lacrime lo fecero ridiventare bambino. Oy si era voltato, ansioso di riprendere la corsa, ma ora era fermo con una chiara espressione preoccupata sul musetto.

«Va tutto bene», lo rassicurò Jake, riabbottonandosi la patta e quindi asciugandosi le guance con il dorso della mano. Solo che non andava tutto bene. Era peggio che triste, peggio che infuriato, peggio che preoccupato degli irriducibili uomini bassi che lo stavano rincorrendo. Ora che non era più sotto gli effetti dell'adrenalina, si rese conto di non essere solo triste, ma anche affamato. E stanco. Stanco? Ai limiti dell'esaurimento fisico. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta che aveva dormito. L'essere stato risucchiato a New York attraverso quella porta, questo lo ricordava, e che Oy era stato quasi investito da un taxi, e quel prete della bomba di Dio con quel nome che gli rammentava Jimmy Cagney nei panni di George M. Cohan in quel vecchio film in bianco e nero che aveva visto alla TV nella sua stanza quand'era piccolo. Perché, gli veniva in mente adesso, c'era una canzone su un certo Harrigan. H-A-double-R-I; Harrigan, that's me. Tutte queste cose, le ricordava, ma non quando aveva messo per l'ultima volta sotto i denti qual...

«Eik!» abbaiò Oy, implacabile come il destino. Se i bimboli avevano un punto di rottura, rifletté stancamente Jake, Oy ne era ancora lontanissimo. «Eik-Eìk!»

«Sì, sì», rispose staccandosi dalla parete. «Eik-Eik adesso farà un bel corri-corri. Vai. Trova Susannah.»

Avrebbe voluto limitarsi a camminare, ma sapeva che non sarebbe bastato. Si costrinse al piccolo trotto e riprese a cantare sottovoce, questa volta mettendo anche le parole nella canzone: «In the jungle, the mighty jungle, the lion sleeps tonight... In the jungle, the quiet jungle, the lion sleeps tonight... ohhh...» Dopodiché ripartì con: a-wimeweh, a-wimeweh, a-wimeweh. Parole senza senso prese da una radio di cucina che era sempre sintonizzata sui vecchi successi della WCBS... Ma quella canzone in particolare non resuscitava nella sua memoria ricordi di qualche film? Non era una canzone tratta da Ribalta di gloria, vero? Era di un altro film, vero? Un film di mostri spaventosi? Qualcosa che aveva visto quand'era piccolo, forse quand'era ancora

(in fasce) tanto piccolo da portare il pannolino? «Near the vìllage, the quiet village, the lion sleeps tonight... Near the village, the peaceful village, the lion sleeps tonight... HYH-oh, a-wimeweh, a-wimeweh...»

Si fermò a massaggiarsi il fianco, con il fiato corto. Sentiva una fitta ma non era grave, non ancora almeno, non gli si era affondata nell'articolazione tanto da bloccarlo. Ma quella schifezza... quella porcheria verdastra che scivolava dalle fughe tra le piastrelle... trapelava dal vecchio stucco e dalla ceramica crepata perché era

(la giungla)

in profondità sotto la metropoli, come una catacomba

(wimeweh) oppure come...

«Oy» disse dalle labbra screpolate. Dio, che sete! «Oy, questa non è muffa, questa è erba. O erba... oppure...»

Oy abbaiò il nome del suo amico, ma Jake non lo sentì nemmeno. L'eco degli inseguitori persisteva (si era per la verità avvicinato un po'), ma per la prima volta ignorò anche loro.

Erba che cresceva dal muro piastrellato.

Sopraffaceva il muro.

Guardò giù e vide altra erba, un verde brillante che era quasi viola sotto le lampade fluorescenti, erba che cresceva dal pavimento. E cocci di piastrelle sgretolate in frammenti come i resti di vecchi, gli antenati che erano vissuti e avevano costruito prima che i Vettori cominciassero a infrangersi e il mondo cominciasse ad andare avanti.

Si chinò. Affondò le dita nell'erba. Raccolse cocci aguzzi di piastrelle, sì, ma anche terra. La terra

(della giungla) di qualche profonda catacomba o tomba o forse...

C'era uno scarafaggio nella manciata di terra che aveva raccolto, uno scarafaggio con un segno rosso sul guscio come un sorriso insanguinato, e Jake lo buttò via con un grido di disgusto. Il marchio del Re! Diciamo il vero! Tornò in sé e si ritrovò abbassato su un ginocchio a esercitarsi in archeologia come un eroe di qualche vecchio film mentre i bracchi arrancavano sulle sue tracce. E Oy lo stava guardando con gli occhi lucidi di ansietà.

«Eik! Eik-Eik!»

«Sì», disse rialzandosi in piedi. «Arrivo. Ma Oy... che posto è questo?»

Oy non capiva perché avvertisse ansia nella voce del suo ka-dinh; quello che vedeva lui era lo stesso posto di prima e quello che fiutava era lo stesso odore, l'odore di lei, l'odore che il ragazzo gli aveva chiesto di cercare e seguire. Ed era più fresco ora. Corse sulla sua viva scia.

4

Cinque minuti dopo Jake si fermò di nuovo. «Oy!» gridò. «Aspetta un momento.»

Aveva di nuovo la fitta al fianco ed era più profonda, ma anche questa volta non era stata la fitta a fermarlo. Era cambiato tutto. Ovvero stava cambiando. E, Dio lo assistesse, credeva di sapere in che cosa stesse cambiando.

Sopra di lui le lampade fluorescenti brillavano ancora, ma le pareti piastrellate erano fitte di verzura. L'aria era diventata umida e ora la camicia si era inzuppata e gli si era incollata al corpo. Davanti ai suoi occhi sbigottiti transitò una splendida farfalla arancione di dimensioni incredibili. Cercò di acchiapparla, ma la farfalla lo evitò senza difficoltà. Quasi allegramente, gli parve.

Il corridoio a mattonelle si era trasformato in un sentiero nella giungla. Davanti a loro saliva a un varco frastagliato nella fitta vegetazione, probabilmente una radura. Più avanti scorgeva grandi alberi che si alzavano in una bruma, alberi con il tronco ricoperto di muschio e i rami agghindati di rampicanti. Vedeva felci gigantesche e, attraverso le trine verdi delle foglie, un ardente cielo da giungla. Sapeva di essere sotto New York, doveva essere sotto New York, però...

Udì uno stridio di scimmia, tanto vicino da farlo sussultare e fargli alzare di scatto la testa, sicuro di trovarne una direttamente sopra di sé, a sogghignare da dietro una plafoniera. Poi, a gelargli il sangue, giunse il ruggito fondo di un leone. Che sicuramente non stava dormendo.

Era sul punto di tornare indietro, e a tutta birra, quando si rese conto di non poterlo fare; da quella parte c'erano gli uomini bassi (probabilmente guidati da quello che gli aveva detto che il padre era finito). E Oy lo guardava con gli occhi vibranti di impazienza, chiaramente desideroso di proseguire. Oy non era certamente stupido, tuttavia non aveva mostrato segni di allarme, almeno non riguardo a quanto potesse trovarsi sulla loro strada.

Per parte sua, Oy ancora non riusciva a capire dov'era il problema del ragazzo. Sapeva che era stanco, lo sentiva dall'odore, ma sapeva anche che Eik aveva paura. Perché? C'erano odori cattivi in quel posto, l'odore di molti uomini assieme, soprattutto, ma a Oy non sembrava che rappresentassero un pericolo immediato. Inoltre c'era anche l'odore di lei. Che ora era molto fresco. Quasi nuovo.

«Eik!» abbaiò di nuovo.

Jake aveva ripreso a respirare. «Va bene», rispose guardandosi intorno. «Okay. Ma adagio.» «Gio», disse Oy, ma anche a Jake non sfuggì il suo tono di totale disapprovazione.

Jake si incamminò perché non aveva scelta. Risalì il pendio sul sentiero in mezzo alla vegetazione (nella percezione di Oy la via era perfettamente dritta e lo era da quando avevano lasciato le scale) verso l'apertura tra rampicanti e felci, verso il capriccioso chiacchiericcio della scimmia e il ruggito gelatesticoli della belva cacciatrice. Nella testa riprese a girargli la canzone

(in the village... in the jungle... hush my darling, don't stir my darling...) e adesso ne ricordò il titolo, ricordò persino il nome del gruppo

(sono i Tokens in The Lion Sleeps Tonight, usciti di classifica ma non dai nostri cuori) che l'aveva interpretata, ma qual era il film? Come diavolo s'intitolava quel...

Arrivò in cima alla salita e sul bordo della radura. Allungò lo sguardo attraverso un intreccio di grandi foglie verdi e vivaci fiori viola (dentro uno dei quali era in viaggio un minuscolo bruco verde) e, mentre guardava, gli sovvenne il titolo del film e la pelle gli s'increspò dalla nuca giù fino ai piedi. Un attimo dopo dalla giungla («la maestosa giungla») uscì il primo dinosauro ed entrò nella radura.

5

Molto molto tempo fa

(per la dama e il suo signore) quando era ancora bambino; (merendina per favore)

molto molto tempo fa quando mamma andò a Montreal con il suo circolo artistico e papà

andò a Vegas per l'annuale presentazione degli show d'autunno;

(marmellata e tè di more) molto molto tempo fa quando 'Bama aveva tre anni...

6

'Bama, è così che l'unica persona buona (signora Shaw signora Greta Shaw)

lo chiama. Lei gli taglia via le croste dai sandwich, lei appende i disegni che lui fa all'asilo allo sportello del frigorifero con delle calamite che hanno la forma di piccoli frutti di plastica, lei lo chiama 'Bama ed è un nome speciale per lui

(per loro)

perché un sabato pomeriggio, ubriaco, suo padre gli ha insegnato a cantare: «Go wide, go

wide, roll you Tide, we don't run and we don't hide... siamo i 'Bama Crimson Tide!» e così lei lo chiama 'Bama, è un nome segreto e sapere che cosa significa quando non lo sa nessun altro è come avere una casa dove potersi rifugiare, una casa sicura nel bosco che fa paura dove tutte le ombre fuori sembrano mostri e orchi e tigri.

(«Tigre, tigre! Divampante fulgore nelle foreste», gli recita la mamma, perché questa è la sua idea di ninna nanna, assieme a: «Morendo, ho udito ronzare una mosca», che mette addosso a 'Bama Chambers una fifa terribile, anche se lui non glielo ha mai detto; certe volte di notte, a letto, e certe volte di pomeriggio, all'ora del sonnellino, sta lì a pensare sentirò una mosca e sarà quella della mia morte, il mio cuore si fermerà e la mia lingua mi cascherà dentro la gola come un sasso in un pozzo e questi sono ricordi che respinge)

È bello avere un nome segreto e quando scopre che mamma deve andare a Montreal per amore dell'arte e che papà va a Vegas ad aiutare a presentare i nuovi programmi del network, prega sua madre perché chieda alla signora Greta Shaw di rimanere con lui e finalmente sua madre cede. Il piccolo Jakie sa che la signora Shaw non è la mamma e in più di un'occasione la signora Greta Shaw stessa gli ha detto che non è la mamma

(«Spero che tu sappia che io non sono la tua mamma, 'Bama», dice, dandogli un piatto, e sul piatto c'è un sandwich al burro di arachidi, bacon e banana con le croste di pane tagliate via, come solo Greta Shaw sa tagliarle via, «perché questo non c'è nel mio contratto di lavoro.»)

(E Jakie - solo che qui è 'Bama, lui è 'Bama tra loro due - non sa bene come risponderle che lo sa, questo, lo sa, lo sa, ma si accontenterà di lei finché non arriverà quella vera o finché sarà diventato abbastanza grande da superare la sua paura della Mosca della Morte)

E Jackie dice non ti preoccupare, non c'è problema, ma è lo stesso contento che la signora Shaw abbia accettato di rimanere invece di essere consegnato all'ultima au pair che porta le sottane corte e gioca sempre con i capelli e il rossetto e non gliene frega un cazzo di lui e non sa che nel suo cuore segreto lui è 'Bama e ragazzi se quella piccola Daisy Mae

(che è come suo padre chiama tutte le ragazze alla pari)

non è stupida stupida stupida. La signora Shaw non è stupida. La signora Shaw gli dà una merenda che certe volte chiama Afternoon Tea o anche High Tea, e qualunque cosa sia - ricotta e frutta, un sandwich con le fette di pane senza crosta, budino di crema e torta, canapè avanzati dal cocktail party della sera prima - gli canta sempre la stessa canzoncina, mentre prepara la tavola: «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more».

Nella sua stanza c'è una TV e ogni giorno quando i suoi non ci sono lui va lì con la sua merenda e guarda guarda guarda e ascolta la sua radio in cucina, sempre le vecchie canzoni, sempre la WCBS, e qualche volta sente lei, sente la signora Greta Shaw che canta con i Four Seasons Wanda Jackson Lee «Yah-Yah» Dorsey, e qualche volta lui fa finta che i suoi siano morti in un incidente aereo e che lei sia diventata davvero sua madre e che lo chiami povero piccolo e povero marmocchio smarrito e poi grazie a qualche trasformazione magica lo ami invece che accudirlo soltanto, lo ami lo ami lo ami come lui ama lei, lei è la sua mamma (o magari sua moglie, non ha chiara nella mente la differenza che corre tra le due cose), ma lei lo chiama 'Bama invece di tesorino (la sua vera mamma) o campione (papà)

e sebbene sappia che è un'idea stupida, pensarci quando è a letto è divertente, pensarci è

pisciosamente meglio che pensare alla Mosca della Morte che verrà a ronzare sul suo cadavere quando morirà con la lingua in gola come un sasso in fondo a un pozzo. Di pomeriggio quando torna a casa dall'asilo (quando sarà abbastanza grande da sapere che in realtà è una scuola materna ne sarà già fuori) guarda Million Dollar Movie in camera sua. A Million Dollar Movie mostrano esattamente lo stesso film a esattamente la stessa ora - le quattro - di tutti i giorni della settimana. La settimana prima che i suoi genitori partissero e la signora Greta Shaw rimanesse per la notte invece di tornare a casa sua

(oh che felicità, perché la signora Greta Shaw è la negazione di Discordia, diciamo amen) giungeva musica da due fonti diverse, c'erano i vecchi successi in cucina

(WCBS diciamo bomba di Dio)

e in TV James Cagney in bombetta si pavoneggia e canta di Harrigan - «H-A-double R-I, Harrigan, that's me!» - E poi anche quella del vero nipote in carne e ossa di mio Zio Sam.

Poi è una settimana nuova, la settimana in cui i suoi sono via, e c'è un nuovo film, e la prima volta che lo vede gli prende una fifa che è un miracolo che non se la faccia sotto. Questo film s'intitola Il continente scomparso e il protagonista è Cesar Romero, e quando Jake lo vedrà di nuovo (e ormai avrà dieci anni) si domanderà come sia stato possibile che si fosse fatto spaventare da un film così idiota. Perché, vedete, racconta di certi esploratori che si smarriscono nella giungla e in quella giungla ci sono dei dinosauri e a quattro anni non si era accorto che quei dinosauri non erano che fottuti DISEGNI ANIMATI, tali e quali a Titti e Silvestro e Braccio di Ferro, ak-ak-ak, diciamo Poldo, datemi Olivia. Il primo dinosauro che vede è un triceratopo che sbuca al galoppo dalla giungla e la giovane esploratrice

(tettona mozzafiato, avrebbe senzaltro dichiarato suo padre, è così che dice sempre suo padre di Quel Certo Tipo Di Ragazza, come le chiama la mamma) strilla con quanto fiato ha in corpo e strillerebbe anche Jake se potesse, ma ha il petto

bloccato dal terrore, o questa è l'incarnazione di Discordia! Negli occhi del mostro vede il nulla assoluto che significa la fine di ogni cosa, perché con un simile mostro le suppliche non servirebbero a niente e un simile strillare non servirebbe a niente, è troppo stupido, strillare otterrebbe solo di attirare l'attenzione del mostro, ed è proprio così, si gira verso Daisy Mae con quelle tettone mozzafiato e poi si avventa su Daisy Mae con le tettone mozzafiato e nella cucina («la maestosa cucina») sente i Tokens, usciti dalle classifiche, ma non dai nostri cuori, stanno cantando della giungla, la pacifica giungla, lì davanti agli occhi del bambino ingigantiti dall'orrore c'è una giungla che non è niente affatto pacifica e non c'è un leone ma un colosso pencolante che somiglia un po' a un rinoceronte ma è molto più grosso, e ha una specie di collare osseo intorno al collo e più tardi Jake scoprirà che quel tipo di mostro è un triceratopo, ma al momento non ha un nome, che è ancora peggio, anonimo è peggio. «Wimeweh», cantano i Tokens, «a-wimeweh», e naturalmente Cesar Romero uccide il mostro un attimo prima che sbrani la ragazza con le tettone mozzafiato pezzo a pezzo, e fin lì va tutto bene, se non che quella notte il mostro ritorna, il triceratopo torna, adesso è nel suo armadio, perché anche a quattro anni capisce che certe volte il suo armadio non è il suo armadio, è una porta che può aprirsi su luoghi disparati dove ci sono in agguato cose orribili.

Comincia a gridare, di notte può gridare, e nella sua stanza accorre la signora Greta Show. Si siede sul bordo del letto, ha la faccia resa spettrale da una maschera di bellezza azzurrognola, e gli chiede che cosa succede 'Bama e lui riesce anche a spiegarglielo. Non avrebbe mai potuto dirlo a papà o a mamma, ci fosse stato uno di loro, e naturalmente non ci sono, ma può dirlo alla signora Shaw perché anche se non è molto diversa dalle altre assistenti, le ragazze alla pari le badanti le sorveglianti - è un po' diversa, abbastanza diversa da applicare i suoi disegni sul frigorifero con quelle piccole calamite, abbastanza da fare una grande differenza, da sostenere la torre dell'equilibrio mentale di uno sciocco bambinello, diciamo alleluia, diciamo trovato non perso, diciamo amen.

Ascolta tutto quello che lui ha da raccontare, annuendo, e gli fa dire tri-CER-a-TOPO finché finalmente riesce a pronunciarlo a dovere. Dirlo giusto è meglio. E poi dice: «Quelle bestie erano reali molto tempo fa, ma sono morte da cento milioni di anni, 'Bama. Forse anche più. Ora non disturbarmi più perché ho bisogno di dormire».

Quella settimana Jake guarda Il continente scomparso su Million Dollar Movie tutti i giorni. Ogni volta che lo vede, ne è un po' meno impaurito. Un giorno la signora Greta Shaw si siede a vederne un pezzo con lui. Gli porta la sua merenda, una scodellona di Hawaiian Fluff (lo mangia anche lei) e gli canta quella splendida canzoncina «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more». Non ci sono more nell'Hawaiian Fluff ovviamente, e invece del tè bevono un avanzo di succo di pompelmo, ma la signora Greta Shaw dice che è il pensiero che conta. Gli ha insegnato a dire Rooty-tooty-salutie prima di bere, e a far tintinnare i bicchieri.

Per Jake è una figata, il massimo del massimo.

Presto arrivano i dinosauri. 'Bama e la signora Greta Shaw sono seduti vicini a mangiare l'Hawaiian Fluff e a guardarne uno enorme (la signora Greta Shaw dice che quelli si chiamano tirannosorbi) mangiare l'esploratore cattivo. «Li hanno disegnati, i dinosauri», sbuffa la signora Greta Show. «Che bambinata.» Dal punto di vista di Jake, questa è la critica cinematografica più geniale che abbia mai udito in vita sua. Geniale e utile.

Poi tornano i genitori. Per tutta la settimana su Million Dollar Movie danno Cappello a cilindro e dei terrori notturni del piccolo Jakie non si parla mai. Con il passare del tempo dimentica le sue paure dei triceratopi e del tirannosorbo.

7

Ora, sdraiato nell'erba alta a spiare nella radura nebbiosa attraverso le foglie di una felce, Jake scoprì che ci sono cose che non si dimenticano mai.

Attento alla trappola mentale, lo aveva ammonito Jochabim e guardando quel goffo dinosauro Jake capì di che cosa parlava. Un triceratopo disegnato in una giungla vera come un rospo immaginario in un giardino vero. Era quella la trappola mentale. Il triceratopo non era reale per quanto impressionante fosse il suo ruggito, per quanto forte l'odore che arrivava alle narici di Jake - i brandelli di vegetazione che marcivano nelle pieghe molli delle articolazioni delle sue tozze zampe, gli avanzi di sterco che imbrattavano il lato posteriore della sua possente armatura, la bava che gli colava incessantemente dalle fauci zannute - e per quanto all'orecchio gli giungesse il suo ansimare. Non poteva essere reale, era un disegno animato, Dio del cielo!

E tuttavia sapeva che era abbastanza reale da poterlo uccidere. Se fosse entrato in quella radura, il triceratopo di carta lo avrebbe dilaniato come avrebbe fatto con Daisy Mae con le tettone mozzafiato se Cesar Romero non fosse intervenuto in tempo a piantargli una pallottola in quell'Unico Punto Vulnerabile con il suo potente fucile da caccia grossa. Jake aveva neutralizzato la mano che aveva cercato di manomettere i controlli del suo motore - aveva sbattuto tutte quelle porte con tanta violenza da maciullare le dita dell'intruso, per quel che ne sapeva - ma qui la situazione era diversa. Non poteva chiudere gli occhi e passare oltre, quello creato dalla sua mente traditrice era un mostro vero e poteva veramente sbranarlo.

Lì non c'era un Cesar Romero a impedirlo. E nemmeno Roland.

C'erano solo gli uomini bassi che lo stavano inseguendo ed erano sempre più vicini.

Come a sottolineare quell'aspetto, Oy si girò a guardare da dove erano arrivati e abbaiò una volta, un latrato forte e penetrante.

Il triceratopo lo sentì e ruggì in risposta. Jake si aspettava che a quel verso terribile Oy si sarebbe precipitato a nascondersi al suo fianco, invece il bimbolo continuò a guardare oltre la spalla del suo padroncino. Era preoccupato degli uomini bassi, non del triceratopo poco distante o del tirannosorbo che sarebbe potuto arrivare di lì a poco, o...

Perché Oy non lo vede, pensò.

Si baloccò con quell'ipotesi e non riuscì a liberarsene. Oy non ne aveva neppure sentito l'odore o il ruggito. La conclusione ineludibile: per Oy, il tremendo triceratopo nella maestosa giungla sottostante non esisteva.

Ma non cambia il fatto che esiste per me. È una trappola che è stata tesa per me, o per chiunque altro provvisto di immaginazione che fosse passato per di qui. Un congegno degli Antichi, senza dubbio. Peccato che non si fosse guastato come quasi tutto il resto. Purtroppo questo funziona. Io vedo quel che vedo e non ci posso fare nien...

No, aspetta.

Un momento.

Non aveva idea di quanto salda fosse la sua connessione mentale con Oy e decise di scoprirlo subito.

«Oy!»

Ormai i richiami degli uomini bassi erano orribilmente vicini. Presto avrebbero visto il ragazzo e il bimbolo fermi laggiù e avrebbero dato l'assalto. Oy ne sentiva l'odore, ma guardò lo stesso Jake con sufficiente calma negli occhi. Era il suo amato Jake, per il quale, se necessario, avrebbe dato la vita.

«Oy, puoi scambiarti di posto con me?» Scoprì che poteva.

8

Oy vacillò dritto sulle zampe posteriori con Eik tra le braccia, rollando pericolosamente di qua e di là, orripilato dalla scoperta di quanto precario fosse l'equilibrio del piccolo umano. L'idea di percorrere anche una breve distanza su due zampe sole era di per sé da brividi, ma andava fatto e andava fatto subito. Così voleva Eik.

Per parte sua, Jake sapeva che avrebbe dovuto chiudere gli occhi che aveva preso in prestito. Era nella testa di Oy ma vedeva lo stesso il triceratopo; ora vedeva anche uno pterodattilo attraversare l'aria calda sopra la radura, con le coriacee ali distese sulla corrente ascensionale che saliva dagli scambiatori.

Oy! Devi farlo da solo. E se vogliamo sperare di non farci raggiungere devi farlo ora.

Eik! Rispose Oy e fece un primo passo titubante. Il corpo del ragazzo oscillò da una parte all'altra, fino al limite estremo dell'equilibrio e poi oltre. Lo stupido corpo bipede di Eik cadde di lato, Oy cercò di salvarlo e riuscì solo a peggiorare il ruzzolone, finendo sul fianco destro del ragazzo e facendo sbattere la sua testa pelosa.

Cercò di esprimere con un latrato la sua frustrazione. Dalla bocca gli scaturì una stupidaggine che somigliava più a parole che versi: «Bah! Bau! Merdau!»

«L'ho sentito!» gridò qualcuno. «Corriamo! Avanti, muovetevi, inutili pappamolle! Prima che quel piccolo bastardo arrivi alla porta!»

Le orecchie di Eik non erano particolarmente sensibili, ma lo aiutavano le pareti a piastrelle che amplificavano i suoni. Oy sentiva i rumori dei loro passi in corsa.

«Devi alzarti e andare!» cercò di gridare Jake e, quello che gli scaturì dalla gola, fu un latrato distorto: «Eik-Eik, art! Are-are!» In altre circostante sarebbe stato anche buffo, ma non in quel momento.

Oy si rialzò appoggiando la schiena di Eik al muro e spingendo con le gambe di Eik. Stava cominciando a capire come funzionava il sistema motorio; erano in un posto che Eik chiamava Dogan e i comandi erano abbastanza semplici da usare. A sinistra, tuttavia, un corridoio ad arco portava a uno stanzone pieno di macchinari scintillanti come specchi. Oy sapeva che se fosse entrato là dentro - la stanza dove Eik teneva tutti i suoi pensieri meravigliosi e la sua scorta di parole - si sarebbe perso per sempre.

Fortunatamente non ci doveva andare. Tutto quello di cui aveva bisogno era nel Dogan. Piede sinistro... avanti. (E pausa.) Piede destro... avanti. (E pausa.) Sostieni la cosa che somiglia a un bimbolo ma in realtà è il tuo amico e usa l'altro braccio per mantenerti in equilibrio. Resiste all'istinto di mettersi a quattro zampe. Se lo facesse, gli inseguitori lo raggiungerebbero; non ne avverte più l'odore (non con quell'incredibilmente insensibile patatina di muso che ha Eik), ma ne è sicuro lo stesso.

Per parte sua, Jake ne sentiva l'odore distintamente, almeno una decina e forse anche fino a sedici inseguitori. I loro corpi erano perfette macchine da puzzo, che li precedeva come una zaffata di discarica. Sentiva gli asparagi che uno di loro aveva mangiato per cena; sentiva l'olezzo carnoso del cancro che cresceva in uno degli altri, probabilmente nella testa ma forse in gola.

Poi udì di nuovo il ruggito del triceratopo. A esso rispose l'animale alato che veleggiava sopra di loro.

Jake chiuse gli occhi... di Oy. Al buio, l'incedere ondulatorio del bimbolo era ancora peggiore. Cominciò a temere che, se fosse andata avanti così per troppo tempo (specialmente con gli occhi chiusi), avrebbe vomitato l'anima. Si sentiva 'Bama il Marinaio con il mal di mare.

Vai, Oy, pensò. Più veloce che puoi. Non cadere di nuovo, ma... corri più forte che puoi!

9

Ci fosse stato Eddie, gli sarebbe forse tornata alla mente la signora Mislaburski che abitava qualche casa più in là: la signora Mislaburski in febbraio, dopo una tempesta di neve, quando il marciapiede era glassato di ghiaccio e non ancora cosparso di sale. Ghiaccio o non ghiaccio, nessuno però avrebbe potuto sottrarle la sua quotidiana costoletta o filetto di pesce al Castle Avenue Market (ovvero la messa della domenica, perché la signora Mislaburski era forse la più pia di tutti i cattolici di Co-Op City). Eccola, allora, a gambe ben larghe, serrate nelle calze elastiche rosa confetto, un braccio a schiacciarsi la borsetta contro il petto immenso, l'altro proteso per tenersi in equilibrio, a testa abbassata, occhi a caccia degli isolotti di cenere rovesciati fuori dai custodi di stabili più mattinieri e zelanti (Gesù e Maria madre di Dio, che benedicessero quella brava gente), e anche alle lastre più infide che avrebbero potuto tradirla, che avrebbero potuto mandarla a patapunfete con le grosse ginocchia rosa slanciate di qua e di là e lei sbam, una deretanata, o magari una schienata, roba che una donna può spezzarsi la spina dorsale, una donna può rimanere paralizzata come la povera figlia della signora Bernstein in quell'incidente d'auto a Mamaroneck, guai che capitano. Dunque ignorava i lazzi dei bambini (spesso c'erano anche Henry Dean e il suo fratellino Eddie) e andava per la sua strada, a testa china, con il braccio teso per non perdere l'equilibrio, la solida borsetta nera da vecchia signora strizzata contro il seno, risoluta a proteggere la borsetta e il suo contenuto a ogni costo, fosse finita a patapunfete, decisa a caderci sopra come Joe Namath sapeva cadere sulla palla quando veniva placcato.

Così camminava Oy del Medio-Mondo nel corpo di Jake in un tratto di tunnel sotterraneo che (almeno a lui) sembrava in tutto e per tutto uguale a quello che aveva percorso fino a quel momento. La sola differenza che vedeva era nei tre fori su entrambi i lati, con grossi occhi di vetro che li guardavano, occhi che emettevano un costante e sommesso ronzio.

Tra le braccia sosteneva qualcosa che somigliava a un bimbolo con gli occhi strizzati, chiusi chiusi. Fossero stati aperti, Jake avrebbe forse riconosciuto le lenti di proiettori. Più probabilmente, però, non li avrebbe visti affatto.

Camminando lentamente (Oy sapeva che gli inseguitori guadagnavano terreno, ma sapeva anche che camminare adagio era meglio che cadere), con le gambe divaricate e dondolandosi di qua e di là, sostenendo Eik rannicchiato contro il petto come la signora Mislaburski stringeva la sua borsetta nei giorni di gelata, passò davanti agli occhi di vetro. Il ronzio si affievolì. Bastava? Sperò di sì. Camminare come un umano era semplicemente troppo arduo, roba da far saltare i nervi. Insopportabile anche essere così vicino al macchinario che produceva i pensieri di Eik. Aveva la tentazione di girare e guardare da quella parte, guardare tutte quelle brillanti superfici a specchio, ma non lo fece. Rischiava di restarne ipnotizzato. Se non peggio.

Si fermò. «Jake! Guarda!»

Jake cercò di rispondere okay e invece abbaiò. Molto divertente. Aprì con cautela gli occhi e vide pareti piastrellate su entrambi i lati. D'accordo, qua e là cresceva ancora erba nelle fughe e c'erano piccoli ciuffi di felci, ma erano comunque piastrelle. Ed erano in un corridoio. Guardò dietro di sé e vide la radura. Il triceratopo si era dimenticato di loro. Era impegnato in una battaglia mortale con il tirannosorbo, una scena che ricordava chiaramente di aver visto in Il continente scomparso. La ragazza con le tettone mozzafiato aveva seguito lo svolgersi della battaglia fra le braccia protettive di Cesar Romero e, quando il tirannosorbo di cartapesta aveva stretto le enormi fauci sulla testa del triceratopo in un morso fatale, aveva nascosto il volto contro il petto virile di Cesar Romero.

«Oy» abbaiò Jake, ma abbaiare era una cosa rozza e decise di ricorrere invece al pensiero.

Cambia di nuovo con me!

Oy lo accontentò molto volentieri, mai aveva desiderato tanto farlo, ma prima di poter effettuare lo scambio, gli inseguitori li videro.

«Là!» gridò quello con l'accento di Boston, quello che lo aveva informato che il Padre era finito. «Eccoli là! Prendeteli! Uccideteli!»

E, mentre Jake e Oy si riscambiavano le menti restituendo ciascuna al proprio corpo, intorno a loro cominciarono a volare le pallottole come uno schioccar di dita.

10

A guidare il drappello c'era un uomo di nome Flaherty. Dei diciassette componenti, era l'unico umano. Gli altri erano uomini bassi vampiri, eccetto uno. Quest'ultimo era un taheen con la testa di una faina, occhi intelligenti, e due enormi zampe pelose coperte per metà da un paio di bermuda. In fondo alle gambe aveva piedi lunghi e stretti che terminavano in corni affilatissimi. Un calcio di Lamla avrebbe segato un uomo adulto in due.

Flaherty - cresciuto a Boston ma per quegli ultimi vent'anni uno degli uomini del Re in una manciata di New York di fine ventesimo secolo - aveva riunito la sua squadra il più velocemente possibile, in preda a una lancinante crisi di paura e furore. Niente entra al Pig. Così aveva detto Sayre a Meiman. E se per caso qualcosa fosse entrato lo stesso, per nessun motivo sarebbe potuto uscire. E questo valeva il doppio per il pistolero o per chiunque del suo ka-tet. Le loro interferenze avevano superato da tempo i limiti della semplice seccatura, e non c'era bisogno di far parte dell'elite per saperlo. Intanto Meiman, quello che i pochi amici chiamavano il Canarino, era morto e il ragazzo era miracolosamente riuscito a passare. Un moccioso, santa pace! Un moccioso del cazzo! Ma come avrebbero potuto sapere che erano in possesso di un totem potente come quella tartaruga? Se quel ninnolo maledetto non fosse finito sotto uno dei tavoli, forse ora sarebbero ancora tutti lì come impietriti.

Flaherty sapeva che sarebbe andata così, ma sapeva anche che Sayre non lo avrebbe mai accettato come giustificazione valida. Non gli avrebbe neppure permesso di formularla. No, sarebbe morto molto prima, lui e tutti gli altri assieme. Morto stecchito per terra, a farsi bere il sangue dagli insetti-dottori.

Facile obiettare che il ragazzo si sarebbe fermato davanti alla porta, perché non conosceva, non poteva conoscere nessuna delle parole d'ordine che l'aprivano, ma Flaherty non si fidava più di queste rassicurazioni teoriche, per quanto tentatrici. Restava una sola cosa da fare e Flaherty si sentì sommergere dal sollievo quando scorse il ragazzo e il suo piccolo amico peloso fermi in fondo al tunnel. Alcuni della sua squadra fecero fuoco, ma andarono a vuoto. Non se ne sorprese. C'era una zona verde tra loro e il ragazzo, un fottuto scampolo di giungla sotto la città, così sembrava, e si stava alzando una nebbia che rendeva difficile prendere la mira. E poi... quei ridicoli dinosauri a disegni animati! Ne vide uno sollevare il crapone lordo di sangue e ruggire portandosi le minuscole zampe anteriori al petto squamoso.

Sembra un drago, pensò Flaherty, e davanti ai suoi occhi il dinosauro di carta diventò un drago. Ruggì di nuovo e vomitò una fiammata che incendiò liane e muschio. Intanto il ragazzo aveva ripreso a correre.

Lamla, il taheen con la testa di faina, si fece largo tra gli altri per raggiungere il capo e si portò alla fronte il pugno peloso. Flaherty ricambiò il saluto con impazienza. «Cosa c'è laggiù, Lam? Lo sai?»

Flaherty non era mai stato sotto il Pig. Quando viaggiava per affari, era sempre tra una New York e l'altra, vale a dire usando o la porta sulla Quarantasettesima Strada, tra la Prima e la Seconda, quella nel magazzino perennemente vuoto di Bleecker Street (solo che in certi mondi era uno stabile eternamente incompiuto), oppure quella che si trovava più su, nella Novantaquattresima. (Sempre difettosa quest'ultima, e naturalmente nessuno sapeva come ripararla.) C'erano altre porte in città - New York era infestata di portali per altri dove e quando ma quelle due erano le sole che funzionavano ancora.

E quella per Fedic, naturalmente. Quella in fondo al tunnel.

«C'è un miraggiatore», rispose l'essere con la testa da faina. La sua voce era un gorgoglio che non aveva niente di umano. «È una macchina che intercetta le tue paure e le fa diventare reali. Deve averla messa in funzione Sayre quando è passato di qui con il suo tet e la donna con la pelle nera. Per coprirsi le spalle.»

Flaherty annuì. Una trappola mentale. Molto furbo. Ma a che cosa era servito alla fine? Quel marmocchio merdoso era passato lo stesso, no?

«Quello che ha visto il ragazzo si trasformerà in quello di cui abbiamo paura noi», spiegò il taheen. «Sfrutta l'immaginazione.»

Immaginazione. «Benissimo. Qualunque cosa vedano laggiù, digli di ignorarlo.»

Levò il braccio per ordinare ai suoi uomini di avanzare, molto risollevato da quanto gli aveva detto Lam. Perché non potevano demordere, giusto? Quasi certamente Sayre (o Walter o'Dim, che era ancora peggio) li avrebbe ammazzati tutti se non fossero stati capaci di fermare quel moccioso. E i draghi facevano veramente paura a Flaherty, questo era l'altro aspetto; ne aveva paura fin da quando suo padre gliene aveva letto una fiaba quand'era ancora bambino.

Il taheen lo trattenne prima che potesse completare il gesto.

«Cosa c'è ora, Lam?» sbottò Flaherty.

«Non capisci. Quello che c'è laggiù è abbastanza reale da ucciderti. Da uccidere tutti noi.»

«Tu che cosa vedi?» Non era il momento adatto a togliersi qualche curiosità, ma quello era sempre stato il lato debole di Conor Flaherty.

Lamla abbassò la testa. «Non mi va di dirlo. È già abbastanza brutto così. Il fatto è, sai, che se non stiamo attenti va a finire che laggiù faremo tutti una brutta fine. Visto da fuori, potrà anche sembrare un infarto o un colpo apoplettico, ma sarà quello che vedrai tu. Chiunque pensi che l'immaginazione non può uccidere è uno sciocco.»

Ora alle spalle del taheen si erano riuniti anche gli altri. Alternavano sguardi verso la radura brumosa a occhiate lanciate a Lamla. A Flaherty piacque poco ciò che lesse sui loro volti, molto poco. Ammazzare uno o due di quelli meno disposti a velare la loro contrarietà avrebbe restituito forse l'entusiasmo al resto del branco, ma se Lamla aveva ragione, a che cosa sarebbe servito? Maledetti Antichi, loro e i loro giocattoli! Quei giocattoli pericolosi che avevano abbandonato in ogni dove! Come complicavano la vita di un brav'uomo! Che gli venisse un canchero, dal primo all'ultimo!

«Allora come passiamo?» esclamò Flaherty. «Anzi, mi sai dire come ha fatto quel moccioso a passare?»

«Del moccioso non so», rispose Lamla, «ma a noi basta sparare ai proiettori.»

«Di che cazzo di proiettori parli?»

Lamla indicò la giungla... o il corridoio, se quel brutto bastardo diceva la verità. «Laggiù», rispose Lam. «So che non li vedi, ma credimi, ci sono. Su entrambi i lati.»

Flaherty stava osservando non poco affascinato la radura di Jake che, immersa nella nebbia, continuava a cambiare davanti ai suoi occhi nel folto della foresta buia, come in C'era una volta, quando tutti vivevano nella profonda foresta buia e nessuno viveva altrove, un drago terribile.

Flaherty non poteva sapere che cosa stessero vedendo Lamla e tutti gli altri, ma davanti ai suoi occhi il drago (quello che era stato un tirannosorbo non molto prima) diede debita prova della sua terribilità incendiando alberi e guardandosi intorno in cerca di un cristiano-cristianuccio da divorare.

«Io non vedo NIENTE!» gridò a Lamla. «E credo che a te abbia dato di volta quel po' di cervello che hai!»

«Li ho visti quando erano spenti», insisté pacato Lamla. «E ricordo abbastanza bene dove si trovano. Se mi lasci prendere quattro uomini, credo che potremo distruggerli tutti in poco tempo.»

E come reagirà Sayre quando andrò a dirgli che abbiamo fatto a pezzetti la sua preziosa trappola mentale? Avrebbe potuto ribattere Flaherty. E Walter o'Dim, che cosa dirà lui? Perché una volta guasti, non si potranno più riparare, non certo da gente come noi capace al massimo di far sprizzare una scintilla sfregando due legnetti.

Così avrebbe potuto ribattere, ma non lo fece. Perché prendere il ragazzo era più importante di qualunque vecchio gingillo degli Antichi, fosse anche un congegno stupefacente come una trappola mentale. Ed era stato Sayre ad attivarla, no? Di' aye! Se c'era da dare spiegazioni, le desse Sayre! Che s'inginocchiasse davanti ai pezzi grossi e parlasse fino a quando gli avessero chiuso il becco loro! Intanto quel bimbino moccioso e maledetto dagli dei stava ricostruendo bellamente il vantaggio che Flaherty (che aveva fantasticato gli onori guadagnati con il tempismo della sua azione) e i suoi uomini avevano così radicalmente ridotto. Se solo uno del branco fosse stato tanto fortunato da colpire il ragazzo quando era ancora a tiro con il suo irsuto amichetto! Ah, ma riempiti una mano di merda e l'altra di sogni e dimmi tu quale pesa di più!

«Prendi i più bravi», ordinò Flaherty nel suo accento alla John F. Kennedy. «E vai.»

Lamla chiamò a sé tre uomini bassi e uno dei vampiri, li schierò due per parte e parlò loro rapidamente in un'altra lingua. Flaherty ne dedusse che un paio di loro erano già stati lì e, come Lam, ricordavano dov'erano nascosti i proiettori nelle pareti.

Intanto il drago di Flaherty, o per meglio dire il drago di suo padre, continuava a devastare la foresta fitta e buia (ora la giungla era scomparsa completamente) incendiando questo e quello.

Finalmente - anche se a Flaherty sembrò che passasse un tempo lunghissimo, non potevano essere stati più di trenta secondi - i tiratori scelti cominciarono a sparare. Quasi immediatamente la foresta e il drago impallidirono sotto lo sguardo di Flaherty, trasformati in una specie di pellicola fotografica sovresposta.

«Eccone uno, camerati!» belò Lamla, la cui voce, quando cambiava registro, diventava disgraziatamente ovina. «Dateci addosso! Dateci addosso per l'amore dei vostri padri!»

Metà di questa gente non ne ha mai avuto uno, rifletté con malanimo Flaherty. Udì quindi distintamente uno schianto di vetri infranti e il drago si bloccò all'improvviso, mentre gli scaturivano ancora fiamme da bocca e narici e anche dalle branchie ai lati della bocca corazzata.

Incoraggiati, i cecchini cominciarono a sparare più velocemente e pochi istanti dopo radura e drago scomparvero. Al loro posto riapparve un semplice tratto di corridoio piastrellato, dove la polvere, posata sul fondo, conservava le impronte di chi vi era transitato di recente. Dall'una e dall'altra parte c'erano gli oblò distrutti dei proiettori.

«Ottimo!» gridò Flaherty con un cenno d'approvazione rivolto a Lamla. «Ora inseguiremo il ragazzo e lo raggiungeremo e, quando l'avremo preso, lo porteremo indietro con la testa conficcata su un palo! Siete con me?»

Gli rispose un coro selvaggio e famelico, nel quale spiccava, più potente di tutte, la voce di Lamla, i cui occhi ardevano dello stesso feroce giallo-arancio del fiato del drago.

«Bene, dunque!» Flaherty si lanciò in avanti, tuonando . un motivetto che tutte le reclute dei marines avrebbero riconosciuto: «Corri corri finché vuoi...»

«CORRI CORRI FINCHÉ VUOI!» latrarono i suoi soldati passando al trotto, in fila per quattro, attraverso il luogo da cui era scomparsa la giungla di Jake. Pestarono cocci di vetri.

«Ti prendiamo prima o poi!»

«TI PRENDIAMO PRIMA O POI!»

«Fosse a Lud, fosse in un Calle...»

«FOSSE A LUD, FOSSE IN UN CALLE!»

«Ci rimetterai le palle!»

La truppa ripeté l'ultimo verso e Flaherty allungò il passo.

11

Jake li sentì riprendere l'inseguimento cantando come-come-commala. Li sentì giurare che gli avrebbero mangiato le palle.

Poveri spacconi, pensò, ma cercò comunque di accelerare. Si spaventò nello scoprire che non poteva. Lo scambio mentale con Oy lo aveva molto stancato...

No.

Roland gli aveva insegnato che l'autoinganno altro non era che orgoglio travestito, un'indulgenza da respingere. Jake aveva fatto del suo meglio per seguire il suo consiglio, cosicché ora ammise che «sentirsi stanco» non bastava più a descrivere le sue condizioni. La fitta al fianco aveva sviluppato zanne che gli si erano affondate fin sotto l'ascella. Sapeva di aver guadagnato terreno; sapeva anche dal loro canto cadenzato che gli inseguitori lo stavano recuperando. Presto avrebbero cominciato a sparare di nuovo a lui e a Oy e per quanto male si potesse prendere la mira correndo, a qualcuno poteva sempre scappare un colpo casuale ma fortunato.

Vide qualcosa davanti a sé, qualcosa che bloccava il corridoio. Una porta. Mentre vi si avvicinava, si concesse di chiedersi che cosa avrebbe fatto se dall'altra parte non ci fosse stata Susannah. O se ci fosse stata ma non avesse saputo come aiutarlo.

Pazienza, in quel caso avrebbe dato battaglia. Senza copertura, senza più la possibilità di reinterpretare il Passo delle Termopili, avrebbe lanciato i suoi piatti e decapitato nemici finché non fosse stato abbattuto.

Se fosse stato costretto.

Ma forse no.

Corse dunque verso la porta, con il fiato che ormai gli scorticava la gola, quasi infuocato. Meglio così, pensò. Non ce la facevo più comunque.

Arrivò Oy per primo. Appoggiò al legno fantasma le zampe anteriori e guardò su come leggendo le parole incise o stampate sulla porta e il messaggio lampeggiante. Poi si girò a guardare Jake, che lo raggiunse ansimando con una mano premuta sul fianco e gli Oriza che tintinnavano rumorosamente nella loro sacca.

NORTH CENTRAL POSITRONICS, LTD.

New York/Fedic

Massima Sicurezza

RICHIESTO CODICE VERBALE D'ACCESSO

#9 DEFAULT FINALE