martedì 16 marzo 2021

NELL'ERBA ALTA Stephen King



NELL'ERBA ALTA 

Stephen King 

Lui voleva un attimo di silenzio invece dell’autoradio, e di conseguenza potrebbe essere stato per colpa sua. Lei voleva far entrare aria fresca al posto di quella condizionata, quindi potrebbe essere stata sua la colpa. Il fatto è che senza entrambe le cose non avrebbero mai sentito il bambino e quindi si trattò di una combinazione di cause, in perfetto stile Cal e Becky, visto che avevano passato le loro intere esistenze appiccicati insieme. Cal e Becky DeMuth, nati a diciannove mesi di distanza. I genitori li chiamavano i gemelli siamesi.

«Becky prende il telefono e Cal dice pronto», amava ripetere il padre.

«Cal pensa a una festa e Becky ha già fatto la lista», scherzava sempre la madre.

Mai uno screzio tra i due, neanche quando Becky, matricola e confinata al dormitorio, un bel giorno si presentò nell’appartamento del fratello per annunciare che era incinta. Lui la prese bene. I loro genitori un po’ meno.

L’alloggio di Cal, esterno al campus, si trovava a Durham perché lui aveva scelto l’Università del New Hampshire. Quando la sorella, due anni dopo (a quel tempo non ancora incinta, anche se non necessariamente vergine) seguì le sue orme, nessun sopracciglio si sollevò per la sorpresa.

«Almeno la pianterà di tornare a casa ogni santissimo fine settimana per uscire con lei», commentò la madre.

«Forse potremo starcene un po’ tranquilli, finalmente», le fece eco il padre. «Dopo vent’anni, tutta quella complicità cominciava a stufare.»

Non è che facessero proprio tutto insieme, perché Cal non era responsabile della pagnotta nel forno della sorella, poco ma sicuro. E l’idea di rivolgersi a zio Jim e zia Anne perché la tenessero con loro fino alla nascita del bambino era stata solo ed esclusivamente di Becky. Ai genitori, confusi e sconcertati dall’inatteso colpo di scena, sembrò una scelta abbastanza sensata. E quando Cal suggerì che anche lui avrebbe potuto saltare l’università per un semestre e accompagnare la sorella all’altro capo del Paese, i due non si opposero. Anzi, gli diedero addirittura il permesso di restare con Becky a San Diego fino al momento del parto. Forse sarebbe riuscito a rimediare un lavoretto per contribuire alle spese.

«Incinta a diciannove anni», disse la madre.

«Proprio come te», ribatté il padre.

«Sì, ma io ero sposata», sottolineò lei.

«E a un gran bravo tipo», si sentì in dovere di aggiungere lui.

«Becky sceglierà il primo nome del bambino e Calvin il secondo», sospirò lei.

«O viceversa», concluse il padre, sospirando pure lui (a volte anche marito e moglie sono gemelli siamesi.)

Poco prima della partenza per la West Coast, la madre portò Becky fuori a pranzo. «Sicura di voler dare il piccolo in adozione?» le chiese. «So che non sono fatti miei, dopotutto sono solo tua mamma, ma papà è curioso.»

«Non ne sono ancora certa. Cal mi aiuterà a decidere.»

«E il padre del bimbo cosa dice, cara?»

Becky sembrò sorpresa. «Oh, lui non ha nessuna voce in capitolo. Si è rivelato un cretino.»

La donna sospirò.

 

Ed eccoli lì nel Kansas, in una tiepida giornata di aprile, a bordo di una Mazda di otto anni con la targa del New Hampshire e un rimasuglio del sale sulle strade del New England ancora incrostato sui parafanghi arrugginiti. Il silenzio invece dell’autoradio, l’aria fresca invece di quella condizionata. Così entrambi udirono la voce, flebile ma distinta.

«Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

I due si scambiarono uno sguardo sorpreso. Cal era alla guida e accostò all’istante. La sabbia crepitò contro la carrozzeria.

Prima di partire da Portsmouth, avevano deciso di tenersi alla larga dalle autostrade. Cal voleva vedere il Drago sputafuoco dei Kaskaskia (l’attrazione di Vandalia, Illinois), Becky fare un salto a Cawker City, Kansas, a rendere omaggio al Gomitolo di Spago Più Grande del Mondo (missione compiuta in entrambi i casi). Tutti e due si sentivano in dovere di raggiungere Roswell per ammirare qualche straordinaria minchiata extraterrestre. In quel momento si trovavano parecchio a sud del Gomitolo – che avevano trovato peloso e profumato, e più imponente del previsto – e viaggiavano su un tratto della Route 400. Era una striscia d’asfalto a due corsie ben tenuta, che li avrebbe accompagnati per il resto del viaggio attraverso le piane del Kansas, fino al confine con il Colorado. Davanti a fratello e sorella, chilometri e chilometri senza una macchina o un camion in vista. E lo stesso alle spalle.

Sul loro lato, qualche casa, una chiesa con le finestre sbarrate da assi battezzata la Pietra Nera del Redentore (secondo Becky un nome bizzarro per un luogo di culto, ma dopotutto quello era il Kansas), e il relitto di una sala da bowling che sembrava avere chiuso i battenti appena dopo che i Trammps avevano proditoriamente incendiato la musica pop con Disco Inferno. Sulla parte opposta della strada, solo alta erba verde che si stendeva lungo un orizzonte anonimo e infinito.

«Era un...» cominciò la ragazza. Aveva addosso una blusa leggera con la cerniera abbassata sulla pancia che si stava facendo prominente. Era al sesto mese avanzato.

Il fratello sollevò una mano senza guardarla. Stava fissando l’erba. «Sst. Ascolta.»

Una musica fioca risuonava da una delle case. Un cane emise tre rauchi latrati (rup rup rup) e si azzittì. Qualcuno stava inchiodando una tavola. E poi il sussurro lieve e costante del vento. Becky si accorse di poterlo letteralmente vedere, il vento, mentre carezzava l’erba sul lato opposto della strada. Sollevava onde che si allontanavano a perdita d’occhio.

Proprio mentre Cal stava per convincersi che in realtà non avevano sentito nulla (non sarebbe stata la prima volta che si erano immaginati qualcosa nello stesso istante), il grido tornò a riecheggiare.

«Aiuto! Per piacere, aiutatemi!» E dopo: «Mi sono perso!»

Si scambiarono un altro sguardo, consapevole e spaventato. L’erba era incredibilmente alta. (Il fatto che sfiorasse i due metri a inizio stagione rappresentava un’anomalia di cui si sarebbero accorti soltanto dopo.) Un bambino – di sicuro uno delle case lì vicino – doveva essersi avventurato là in mezzo per esplorare i dintorni. Aveva perso il senso dell’orientamento, addentrandosi ancora di più nel folto. Dalla voce poteva avere otto anni: troppo basso per ritrovare il cammino spiccando un salto.

«Meglio tirarlo fuori», propose Cal.

«Sì. Una piccola spedizione di salvataggio. Parcheggia lì dentro. Leviamoci dalla strada.»

Lui la fece scendere, poi sterzò nello spiazzo sterrato della chiesa. Vide un gruppetto di auto coperte di polvere, i parabrezza iridescenti come scarabei sotto il sole accecante. Che tutte le macchine, tranne una, sembrassero lì da giorni, se non da settimane, era un’altra stranezza di cui si sarebbero resi conto solo più tardi.

Mentre il fratello posteggiava la Mazda, Becky attraversò la strada. Si portò le mani a coppa attorno alla bocca e urlò: «Bambino! Ehi, bambino! Mi senti?»

Dopo un attimo, un grido di risposta: «Sì! Aiutatemi! Sono qui da giorni!»

Lei, che ricordava come si sente il passare del tempo da piccoli, pensò che si fosse perso da una ventina di minuti. Cercò la scia di steli spezzati o calpestati che doveva essersi lasciato dietro (probabilmente immaginava di trovarsi in un videogioco o in uno stupido film sulla giungla), senza riuscire a scorgerlo. Non che importasse molto: riuscì a localizzare la voce davanti a sé, grosso modo a ore dieci. Non era neanche troppo distante. Logico: se il bambino si fosse avventurato più in là, non l’avrebbero sentito neppure con la radio spenta e i finestrini abbassati.

Fece per scendere dalla sponda verso il limitare del campo quando venne raggiunta da una seconda voce, quella di una donna, rauca e confusa. Aveva il tono rasposo e indistinto di uno che si è appena svegliato e ha urgente bisogno di un bel bicchiere d’acqua.

«No!» strillò la sconosciuta. «No! Allontanatevi, per carità! Tobin, finiscila di chiedere aiuto! Smetti di far baccano, tesoro! Lui ti sentirà!»

«Chi siete?» urlò Becky. «Che succede?»

Alle sue spalle, il rumore di una portiera sbattuta. Ecco che arrivava anche Cal.

«Ci siamo persi!» gridò il bambino. «Per piacere, per piacere! La mia mamma sta male! Vi prego, aiutatemi!»

«No!» ribatté la donna. «No, Tobin, no!»

Becky si guardò attorno per capire perché il fratello ci mettesse tanto.

Cal aveva percorso una decina di metri del parcheggio sterrato, per poi indugiare davanti a quella che gli sembrò una Toyota Prius primo modello. Era così impolverata che il parabrezza era quasi tutto oscurato. Il ragazzo si chinò appena, schermandosi gli occhi con una mano e sbirciando attraverso il finestrino, intravedendo qualcosa sul sedile del passeggero. Aggrottò la fronte e poi sobbalzò, come punto da un tafano.

«Per piacere!» gridò il ragazzino. «Ci siamo persi e non riusciamo a ritrovare la strada!»

«Tobin!» ricominciò la donna, con la voce che le si strozzò all’improvviso, come se non avesse più un goccio di saliva.

O si trattava di uno scherzo molto elaborato o la faccenda era davvero seria. Becky DeMuth non si accorse della propria mano che scendeva a toccare la curva sferica del ventre, teso e duro come un pallone da spiaggia. E neppure collegò la sensazione di quel momento agli incubi che la perseguitavano da quasi due mesi e che non aveva raccontato nemmeno al fratello, quelli dove lei guidava di notte. Anche lì c’era un bambino che gridava.

Si precipitò giù dalla sponda con due ampie falcate. Era più scoscesa di quanto sembrasse, e quando arrivò in fondo si accorse che l’erba era ancora più alta del previsto e superava i due metri.

Il vento aumentò d’intensità. L’oceano verde cresceva e si ritirava in placide onde silenziose.

«Non venite a cercarci!» esclamò la donna.

«Aiuto!» insisté il ragazzino, contraddicendo la madre e quasi coprendone la voce. Non era tanto lontano. Appena alla sinistra di Becky. Non così vicino da allungare una mano e abbrancarlo, ma a meno di una decina di metri dalla riva.

«Sono qui, piccolo», gli gridò lei. «Continua a camminare nella mia direzione. Sei quasi alla strada. Sei quasi fuori.»

«Aiuto! Aiuto! Non riesco a trovarti!» La voce risuonò ancora più vicina, seguita da un’isterica risata singhiozzante che le fece accapponare la pelle.

Cal saltò giù dalla sponda, scivolando e rischiando di atterrare sulle chiappe. Il suolo era umido. Becky indugiava a spingersi oltre e recuperare il bambino solo perché non voleva inzupparsi gli short. L’erba gigantesca tratteneva abbastanza acqua, sospesa in gocce lucenti, da riempire un piccolo stagno.

«Che aspetti?» le chiese lui.

«Non è da solo. C’è anche una donna che si comporta in modo strano.»

«Dove sei?» proruppe balbettando il ragazzino, a pochi metri da lì. Becky si sforzò di cogliere il guizzo di un paio di pantaloni o di una maglietta, invano. L’altro era ancora fuori portata. «Stai arrivando? Ti prego! Non trovo l’uscita!»

«Tobin!» gracchiò la madre, la voce distante e affaticata. «Tobin, smettila

«Tieni duro», lo incitò Cal inoltrandosi nell’erba. «Capitan Cal pronto al salvataggio! Non temere. Quando i bambini mi vedono, vogliono essere come me.»

Becky, che già stringeva in mano il cellulare, stava per chiedergli se era il caso di chiamare la stradale, o comunque la polizia.

Cal fece un primo passo, poi un secondo, e all’improvviso le uniche cose visibili di lui furono i pantaloni corti di tela e il dietro della camicia di jeans. Per quanto fosse assurdo, il pensiero di guardarlo scomparire le fece balzare il cuore in gola.

Lanciò comunque un’occhiata allo schermo del piccolo Android touchscreen nero, constatando che non mancava nessuna delle cinque tacche del segnale. Compose il 911 e sfiorò il tasto di chiamata. Portò il telefono all’orecchio e penetrò nel verde con un lungo affondo.

Dopo un solo squillo, una voce artificiale la informò che la telefonata sarebbe stata registrata. Avanzò ancora per non perdere di vista la camicia blu e i pantaloncini marrone chiaro. Cal era sempre così impaziente. E anche lei, naturalmente.

L’erba umida cominciò a stridere contro la camicetta, gli short e le gambe scoperte. Dalla cabina mobile venne un fracasso come se dentro vi fosse uno spasso, si trovò a ricordare Becky, con il subconscio che rigurgitava la strofa di un limerick mal digerito di Edward Gorey. Lontano giungea… bla bla… la marea...vattelappesca. Alla fine del corso di letteratura inglese del primo anno aveva scritto una tesina sui limerick. Lei pensava che non fosse niente male, ma quello sforzo era stato ripagato solo da un voto da schifo e un sacco di stupide poesie in rima che non volevano uscirle di zucca.

Una donna in carne e ossa sostituì la voce metallica. «Pronto intervento di Kiowa County. Dove si trova e qual è il motivo della sua chiamata d’emergenza?»

«Sono sulla Route 400», rispose Becky. «Non conosco il nome della città, ma ci sono una chiesa, la Pietra del Redentore o qualcosa di simile, e una vecchia pista coperta da pattinaggio... no, una sala da bowling, direi... e un bambino perso tra l’erba. Insieme con la madre. Li abbiamo sentiti gridare. Lui deve essere qui intorno, lei è più distante. Pare spaventato e la donna sembra...» strana, stava per concludere, ma non ne ebbe l’opportunità.

«Il collegamento è molto disturbato. La prego di ripetere la sua...»

E poi basta. Becky si fermò a fissare il cellulare, notando una sola tacca. Sparì sotto i suoi occhi, sostituita da NESSUN SERVIZIO. Quando rialzò lo sguardo, il fratello era stato ingoiato dal verde.

Diecimila metri sopra di lei, un aereo a reazione disegnò una scia bianca lungo il cielo.

 

«Aiuto! Aiutatemi!»

Il bambino era vicino, anche se meno di quanto Cal avesse immaginato. E un po’ più a sinistra.

«Tornate sulla statale!» strillò la donna. Adesso sembrava lei quella a tiro. «Tornate indietro finché siete ancora in tempo!»

«Mamma! Mammina! Ma vogliono aiutarci!»

Poi il ragazzino cacciò un urlo. Il grido aumentò fino a spaccare i timpani, si fece tremulo e di colpo si trasformò in una nuova risatina isterica. Si sentirono rumori frenetici, come di qualcuno in preda al panico, o coinvolto in una lotta. Cal si precipitò verso quel suono, certo di sbucare in una radura brulla, scoprendo Tobin e la madre aggrediti da un maniaco armato di coltello uscito da un film di Quentin Tarantino. Avanzò di una decina di metri e stava giusto pensando di essersi spinto troppo in là quando l’erba gli si avviluppò attorno alla caviglia sinistra. Mentre incespicava cercò di aggrapparsi agli steli, ma ottenne soltanto di strapparne un paio di ciuffi che gli inzupparono palmi e polsi di appiccicoso succo verde. Cascò lungo tirato nella melma che gli si ficcò fin su nelle narici. Stupendo. Perché non c’era mai un albero nei paraggi quando ne avevi bisogno?

Si alzò in ginocchio. «Bambino? Tobin? Canta...» Starnutì via il fango e si strofinò la faccia. Adesso aveva nel naso l’odore della linfa vischiosa. Di bene in meglio. Una vera gioia per i sensi. «Canta a squarciagola! Anche tu, mammina!»

La donna non gli diede retta. Tobin sì.

«Aiutatemi per piace-e-reee!»

Il ragazzino si era spostato alla sua destra, molto più lontano di prima. Com’era possibile? Sembrava così vicino.

Cal si voltò, aspettandosi di vedere la sorella, ma c’era solo erba. Erba bella dritta. Avrebbe dovuto essere spezzata dove l’aveva attraversata di corsa, ma niente di niente. Era schiacciata nel punto in cui ci era caduto sopra, ma pure lì si stava già risollevando. In Kansas avevano dell’erba parecchio resistente. Resistente e alta.

«Becky? Beck?»

«Calma. Sono qui.» Cal non riusciva ancora a scorgerla, ma era questione di attimi. Gli era praticamente addosso e aveva un tono seccato. «Mi sono persa quella del 911.»

«Non importa, basta che non ti perdi me.» Si girò nella direzione opposta, circondando la bocca con le mani. «Tobin!»

Nulla.

«Tobin!»

«Che c’è?» In lontananza. Cristo, che cosa cercava di combinare quel bambino? Di spingersi fin nel Nebraska? «State arrivando? Muovetevi! Io non vi trovo!»

«Sta’ fermo!» Aveva urlato con tanta forza da mettere fuori uso le corde vocali. Come nel bel mezzo di un concerto dei Metallica ma senza la musica. «Anche se sei spaventato, resta dove sei. Aspetta che arriviamo a prenderti.»

Cal si voltò, aspettandosi nuovamente di vedere Becky ma trovandosi davanti un muro verde. Piegò le ginocchia e spiccò un balzo. Riuscì a scorgere la statale, più distante del previsto; doveva avere corso per un bel tratto senza rendersene conto. Poi la chiesa – la Casa dell’Alleluja di Santo Hank o come accidenti si chiamava – e il bowling, ma nient’altro. Non che sperasse sul serio di adocchiare la testa della sorella, dopotutto era alta appena uno e sessanta, ma almeno il cammino che lei si era aperta tra il verde. Peccato che il vento stesse scompigliando l’erba più violento che mai, creando l’illusione di una decina di possibili sentieri.

Saltò di nuovo. Ogni volta che atterrava, il suolo molliccio mandava un ciak. Quelle rapide sbirciatine alla Route 400 erano esasperanti.

«Becky? Dove diavolo sei?»

 

La ragazza sentì Cal urlare al bambino di stare fermo anche se spaventato, aspettando che arrivassero a prenderlo. Un ottimo piano, a patto che quell’idiota del fratello le desse il tempo di rimettersi al passo. Era bagnata, ansimante e per la prima volta si sentiva davvero incinta. Fortunatamente Cal era vicino, davanti sulla destra.

Perfetto, ma mi rovinerò comunque le scarpe da ginnastica. Anzi, sono già da buttare.

«Becky? Dove diavolo sei?»

Che stranezza. Il fratello era ancora a destra, ma quasi a ore cinque. Praticamente alle sue spalle.

«Sono qui. E non mi muoverò finché non mi avrai raggiunta.» Abbassò lo sguardo sull’Android. «Cal, hai qualche tacca sul cellulare?»

«Non lo so. L’ho dimenticato in macchina. Continua a chiacchierare fino al mio arrivo.»

«E il bambino? E quella pazza della madre? Sembra svanita nel nulla.»

«Ce ne preoccuperemo quando saremo di nuovo insieme, d’accordo?» Becky conosceva il fratello e non le andò a genio il suo tono di voce. Era spaventato ma non voleva ammetterlo. «Per il momento, non smettere di parlare.»

Lei ci pensò su e poi attaccò, battendo il tempo con le scarpe infangate: «Un tizio di nome Rossini immerse nel gin i boccini. Con aria giuliva ci aggiunse un’oliva e offrì alla sua bella un Martini

«Un vero capolavoro.» Era esattamente dietro di lei, tanto vicino da poterlo toccare. Perché si sentiva così sollevata? Santo Dio, era solo un prato.

«Ehi, voi due!» Il ragazzino. Si sentiva a malapena. Non rideva più, pareva sperduto e terrorizzato. «Mi state ancora cercando? Ci sei, Capitan Cal? Ho paura!»

«Sì, sì, tieni duro!» gridò di rimando il fratello. «Becky? Becky, continua a parlare.»

Lei si portò le mani al ventre (si rifiutava di chiamarlo panciotta, uno stupido vezzeggiativo delle riviste), circondandolo con delicatezza. «Eccone un’altra. Una tizia alquanto sportivainghiottì una pastiglia esplosi...»

«Aspetta, aspetta. Non so come ma ti ho superata.»

Già, all’improvviso la sua voce le arrivava dal davanti. «Piantala di fare lo scemo, Cal. Non mi sto divertendo.» Aveva la bocca secca. Provò a deglutire. Era secca anche la gola. Mandava quel suono inconfondibile. In auto c’era una grande bottiglia di acqua minerale. E due lattine di Coca sul sedile posteriore. Riusciva a vederle: lettere bianche su fondo rosso.

«Becky?»

«Sì?»

«Qui c’è qualcosa di strano.»

«Cioè?» Come se non lo sapessi.

«Ascoltami bene. Te la senti di saltare?»

«Certo! Ma che ti passa per la testa?»

«Che quest’estate avrai un bambino, ecco cosa.»

«Sono ancora capace di... Cal, smettila di allontanarti!»

«Non mi sono mosso.»

«Devi averlo fatto per forza! E stai continuando!»

«Chiudi il becco e ascoltami. Adesso inizierò a contare. Al mio tre, alza le braccia sopra la testa e salta più in alto che puoi. Io farò lo stesso. Non ti dovrai sforzare troppo perché riesca a vederti le mani, va bene? E così verrò da te.»

Fischia, e verrò da te, ragazzo mio… Cos’era? Forse un altro ricordo del corso di letteratura inglese? Non lo sapeva. Quello che sapeva, e lo sapeva per certo, era che il fratello si stava muovendo, pur sostenendo il contrario, e si allontanava sempre di più.

«Becky? Beck...»

«D’accordo!» esclamò. «Okay, facciamolo!»

«Uno! Due!» rispose lui. «Tre!»

A quindici anni, Becky DeMuth era scesa a trentasette chili (il padre la chiamava Grissino) mentre s’allenava nella corsa a ostacoli con la squadra del liceo. Alla stessa età, era in grado di camminare sulle mani da un capo all’altro della scuola. Voleva convincersi di non essere cambiata; una parte di lei si era illusa che sarebbe rimasta così per il resto della vita. Il suo cervello non aveva ancora capito di appartenere a una diciannovenne incinta... che adesso pesava cinquantanove chili. Avrebbe desiderato alzarsi in volo (lancio riuscito, Houston) ma era come cercare di saltare con un bambino aggrappato al collo. A rifletterci bene, la realtà non era molto diversa.

Sbirciò oltre la cima degli steli solo per un secondo, riuscendo a lanciare un’occhiata fulminea alla strada da cui erano venuti. Quello che vide fu comunque abbastanza per mozzarle il fiato dallo spavento.

Cal e la statale. Cal... e la statale.

Ripiombò al suolo, la scossa dell’impatto ad attraversarla dai calcagni alle ginocchia. Il terreno molliccio le mancò sotto il piede sinistro. Piombò di schianto sul fango spesso e nero, una rottura di culo nel senso letterale del termine.

Becky credeva di essersi spinta in là per dieci metri. Quindici al massimo. La strada doveva essere praticamente a tiro di frisbee. Invece era come se avesse percorso per il lungo un intero campo da football, o anche di più. Una scassata Datsun rossa che sfrecciava sulla Route 400 aveva le stesse dimensioni di un modellino. Centotrenta metri d’erba, un oceano di seta verde smeraldo che si muoveva tranquillo, la separavano dalla sinuosa striscia d’asfalto.

Seduta nella fanghiglia, il primo pensiero fu: No. Impossibile. Ti sbagli, non hai visto niente del genere.

Il secondo pensiero fu l’immagine di una nuotatrice stremata colta di sorpresa dalla marea calante, trascinata sempre più lontano dalla riva, ignara di trovarsi in grave pericolo finché non iniziava a urlare e scopriva che dalla spiaggia nessuno riusciva a sentirla.

Per quanto sconvolta dallo spettacolo di quella strada assurdamente lontana, la rapida occhiata a Cal non mancò di disorientarla. Perché il fratello non era chissà dove, ma vicinissimo. L’aveva visto balzare fuori a un paio di metri da lei, anche se erano stati costretti a sgolarsi per farsi sentire.

La melma era tiepida e appiccicosa come una placenta.

L’erba risuonava di insetti impazziti.

«State attenti!» strillò il ragazzino. «Non perdetevi anche voi!»

Seguì, un’altra risatina nervosa, un breve scoppio di singhiozzante, frastornata ilarità. Non era Cal, e neppure il bambino, non stavolta. Nemmeno la donna. Il verso arrivò da un punto imprecisato alla sua sinistra per poi spegnersi di colpo, inghiottito dal ronzio incessante. Era di un uomo, forse ubriaco.

Becky si ricordò all’improvviso delle parole di Strana mamma: Smetti di far baccano, tesoro! Lui ti sentirà.

«Ma che cazzo?...» disse fra sé.

«Ma che cazzo?...» gridò Cal. Lei non se ne meravigliò. «Ale e Vale, la pensano uguale», amava ripetere la madre. «Frick e Frock sull’altalena, con due teste ma una sola schiena», scherzava sempre il padre.

Una pausa segnata solo dal soffio del vento e dallo stridio degli insetti. Poi, sempre lui, a squarciagola: «Ma che cazzo sta succedendo?»

 

Cinque minuti più tardi, Cal perse il controllo per un attimo, appena dopo aver tentato un piccolo esperimento che consisteva in spiccare un salto, lanciare uno sguardo alla strada, toccar terra, contare fino a trenta e saltare di nuovo.

A essere pignoli, si potrebbe obiettare che probabilmente era già andato via di testa quando aveva solo pensato di mettere in pratica quell’idea. Ma ormai la realtà cominciava a somigliare alla terra sotto i suoi piedi: instabile e insidiosa. Nonostante gli sforzi, non riusciva nella banalissima impresa di camminare in direzione della voce della sorella, che veniva da destra quando lui procedeva verso sinistra, e da sinistra quando girava a destra. Un po’ da davanti, un po’ da dietro. E, indipendentemente dalla via scelta, gli sembrava di allontanarsi sempre più dalla strada.

Con un balzo scorse il campanile della chiesa. Era una picca bianco accecante che si stagliava contro l’azzurro limpido di un cielo quasi sgombro da nuvole. Una chiesa del tubo e una guglia superba. La comunità si sarà svenata per quell’affare, pensò. Anche se da lì, a circa quattrocento metri (poco importava che sembrasse una follia, considerando che doveva averne coperti meno di trenta), non poteva scorgere la vernice scrostata o le finestre sbarrate da assi. E neppure la propria auto, infilata tra le altre del parcheggio, rimpicciolite dalla distanza. Riusciva però a vedere in prima fila la Prius polverosa. Si sforzò di non ripensare a quello che aveva adocchiato sul sedile del passeggero... un particolare angosciante che non era ancora pronto a indagare.

Il campanile gli stava proprio davanti, e in una situazione normale l’avrebbe raggiunto facilmente attraversando l’erba in linea retta, con qualche sporadico balzo per correggere la rotta. Un cartello arrugginito e sforacchiato dalle pallottole spiccava tra la chiesa e il bowling, a forma di rombo e con il bordo giallo, probabilmente uno di quelli che dicono: Rallentare-Transito bambini o roba simile. Non ne era sicuro; aveva lasciato anche gli occhiali dentro la Mazda.

Ripiombò nella poltiglia viscida, cominciando a contare.

«Cal?» La voce della sorella alle spalle.

«Aspetta», gridò.

«Cal?» ripeté Becky da sinistra. «Vuoi che continui a parlare?» Non ricevendo nessuna risposta, iniziò a recitare, sfinita, una poesia, proprio di fronte a lui: «C’era una tizia che andava a Yale...»

«Chiudi il becco e aspetta un secondo!»

Aveva la gola chiusa e arida e deglutì a fatica. Dovevano essere quasi le due del pomeriggio, ma il sole era a picco sopra di lui. Se lo sentiva sul cuoio capelluto e sulla punta delle orecchie, delicata e facile alle scottature. Se avesse avuto la possibilità di bere qualcosa, un sorso ghiacciato di acqua minerale o una Coca, forse sarebbe stato meno stanco e ansioso.

Gocce di rugiada sfavillavano nel verde, centinaia di lenti d’ingrandimento in miniatura a rifrangere e concentrare i raggi luminosi.

Dieci.

«Bambino?» La voce di Becky, da un punto sulla sinistra. No. Basta. Non si sta spostando. Non perdere la calma. Suonava rauca. Anche lei sembrava assetata. «Bambino, ci sei?»

«Sì! Avete trovato la mia mamma?»

«Non ancora!» rispose Cal, riflettendo che non avevano più sentito la donna da un pezzo. Non che al momento gliene importasse molto.

Venti.

«Bambino?» riprese Becky, di nuovo dietro al fratello. «Andrà tutto a posto.»

«Avete visto mio padre?»

Un nuovo arrivato, si disse Cal. Fantastico. Forse qui in mezzo c’è anche il capitano Kirk, Mike Huckabee, Kim Kardashian. E quello che fa Opie in Sons of Anarchy e l’intero cast di The Walking Dead.

Chiuse gli occhi e si sentì subito girare la testa, come se fosse in cima a una scala traballante. Sarebbe stato meglio non pensare a The Walking Dead e accontentarsi di Kirk e l’impareggiabile Mike Huckabee. Li riaprì e scoprì che stava barcollando. Si sforzò di non perdere l’equilibrio. Il caldo gli faceva pizzicare il sudore sulla faccia.

Trenta. Era fermo nello stesso punto da trenta secondi. Forse sarebbe stato opportuno aspettare un intero minuto, ma non ci riuscì, e spiccò un salto per una nuova sbirciatina alla chiesa.

Una parte di lui già sapeva che cosa avrebbe visto, anche se si era imposto di ignorarla. Una parte che continuava a perseguitarlo con un allegro commento di sottofondo: Tutto si sarà spostato, Cal, vecchio mio. Il campo si muove e tu con lui. Accetta di diventare parte integrante della natura, amico.

Quando si spinse di nuovo in aria sulle gambe esauste, notò che il campanile era alla sua sinistra. Non molto, giusto un po’. Però lui aveva deviato talmente verso destra da non scorgere più il davanti del cartello a forma di rombo, ma solo il retro di alluminio argentato. E poi, ma non ne era certo, tutto gli sembrava leggermente più distante di prima. Come se avesse indietreggiato di un paio di passi mentre contava.

Da qualche parte, il cane latrò ancora: rup rup. Una radio suonava. Non riconobbe la canzone, ma solo il ritmo del basso. Gli insetti perseveravano con la loro unica folle nota.

«Oh, andiamo!» sbottò Cal. Non aveva mai avuto l’abitudine di parlare da solo (da adolescente aveva attraversato una fase da skater buddista, fiero di restare in silenzio per ore con la massima serenità), però iniziò a farlo quasi senza accorgersene. «E che cazzo. È roba... roba da pazzi

Riprese anche a camminare, diretto alla statale. Neanche di questo si accorgeva.

«Cal?» lo chiamò Becky.

«Roba da pazzi, punto e basta», ribadì lui, ansimando e scostando via l’erba.

Inciampò in qualcosa e cascò sulle ginocchia in due dita d’acqua putrida. Non era tiepida, ma calda come quella di una vasca da bagno, e gli bagnò il cavallo dei pantaloncini, facendogli provare la sensazione di essersi appena pisciato addosso.

L’incidente lo mandò in bestia. Scattò in piedi, partendo di corsa, i lunghi steli a sferzargli il volto. Erano robusti, affilati, e quando una lama verde lo colpì sotto l’occhio sinistro, sentì un bruciore pungente. Sobbalzò per il dolore inatteso, accelerando la marcia, procedendo più in fretta che poteva.

«Ehi, voi! Aiutatemi!» urlò il ragazzino. E questa, poi? Ehi, voi!gli arrivava da sinistra, Aiutatemi! da destra. Il dolby stereo in puro stile Kansas.

«Roba da pazzi! Cazzo, roba da pazzi!» Le parole gli uscivano di bocca in una tiritera confusa, robadapazzipazzipazzi: un’affermazione stupida, una constatazione inutile, eppure non riusciva a smettere.

Cadde di nuovo, con violenza, lungo disteso. Gli abiti erano sporchi di una terra così grassa, calda e scura da avere l’aspetto e il fetore dello sterco.

Si rialzò, corse per un breve tratto, sentì l’erba intrappolargli le gambe, gli sembrò di avere infilato i piedi dentro una matassa di filo di ferro e ovviamente cascò per la terza volta. La testa gli ronzava, come piena di mosconi.

«Cal!» stava urlando Becky. «Cal, fermati! Fermati!»

Certo, fermati. In caso contrario grideresti aiuto insieme con il ragazzino. Un bel duetto del cazzo.

Respirò ansimante. Il cuore gli batteva impazzito. Aspettò che passasse il ronzio, per poi accorgersi che non era nella sua testa. Gruppi di mosconi saettavano in mezzo all’erba, e uno sciame si era raccolto intorno a qualcosa proprio davanti a lui, nascosto dal verde sipario fluttuante.

Lo scostò con le mani.

Un cane, forse ciò che restava di un golden retriever, era disteso su un fianco nel pantano. Il pelo rossastro afflosciato luccicava sotto uno strato brulicante di insetti. La lingua gonfia gli penzolava tra le gengive, gli occhi offuscati e impietriti sporgevano dalle orbite. La targhetta arrugginita del collare brillava nel folto del manto. Cal buttò un secondo sguardo alla lingua, coperta da una patina verdognola. Non ci teneva a scoprirne il perché. La pelliccia sporca dell’animale assomigliava a un lurido tappeto gettato su un mucchietto d’ossa, con piccoli ciuffi spettinati dal vento tiepido.

Tieni duro, si disse, facendo la voce di suo padre. Quel tono rassicurante gli fu di aiuto. Fissò il ventre incavato del cane, attraversato da rapidi guizzi. Un contorcersi frenetico di larve. Come quelle che aveva sbirciato sui resti degli hamburger sopra il sedile della fottuta Prius. Hamburger che erano lì da giorni. Qualcuno li aveva lasciati sull’auto, allontanandosi, e non era mai più tornato, mai e mai più ...

Tieni duro, Calvin. Se non per te, per tua sorella.

«Va bene», promise al padre. «Va bene.»

Si strappò via il groviglio tenace che gli serrava stinchi e caviglie, non badando ai tagli che l’erba gli aveva inflitto. Si alzò.

«Becky, dove sei?»

Un silenzio abbastanza lungo da fargli salire il cuore in gola. Poi, incredibilmente distante: «Sono qui! Cal, adesso come ce la caviamo? Ci siamo persi!»

Lui richiuse per un attimo gli occhi. È la battuta del ragazzino, pensò. Tobin, c’est moi. Era quasi divertente.

«Continuiamo a urlare», le rispose, spostandosi verso la fonte del suono. «Finché non saremo di nuovo insieme.»

«Ho così sete!» Sembrava più vicina, ma Cal non si fidava. No, no, no.

«Anch’io. Ma ne usciremo, Beck. Basta tenere la testa sulle spalle.» Non avrebbe mai ammesso che aveva già perso la sua, almeno un pochino, solo un pochino. Dopotutto la sorella non gli aveva mai confessato il nome di chi l’aveva messa incinta, e quindi erano praticamente pari e patta. Un segreto per lei e uno per lui.

«E il bambino?»

Oh, Cristo, la voce di Becky si stava allontanando di nuovo. Era così spaventato che la verità gli uscì di getto, al massimo del volume.

«’Fanculo il bambino! Ora dobbiamo pensare a noi!»

 

Nell’erba alta le direzioni si mescolavano, il tempo si scioglieva: un universo alla Dalí con lo stereo del Kansas. I due si chiamavano a vicenda, inseguendosi, come bambini ormai stanchi ma troppo cocciuti per smettere di giocare e rincasare per cena. Talvolta Becky sembrava a pochi metri, talora distante, sempre invisibile. Di tanto in tanto il ragazzino chiedeva aiuto, in un caso così vicino che Cal si tuffò tra la vegetazione allungando le mani per agguantarlo prima che si dileguasse. Trovò solo un corvo con un’ala e la testa strappate via.

Qui non esistono il giorno o la notte, solo un pomeriggio eterno, constatò Cal. Ma quando ebbe formulato quel pensiero, si accorse che l’azzurro del cielo diventava scuro e il terreno molliccio sotto i piedi inzuppati si faceva indistinto.

Se ci fossero delle ombre, almeno si allungherebbero e potremmo servircene per muoverci nella stessa direzione. Purtroppo non ce n’era traccia. Non in quell’oceano verde. Controllò l’orologio e non fu sorpreso di vederlo fermo anche se era a carica automatica. Colpa dell’erba. Non ne aveva dubbi. Di una vibrazione malefica nel folto del campo: una stronzata paranormale degna di Fringe.

Erano le vattelappesca in punto quando la sorella iniziò a singhiozzare.

«Beck? Beck?»

«Ho bisogno di riposarmi, Cal. Devo sedermi. Ho così sete. E mi stanno venendo i crampi alla pancia.»

«Sono contrazioni?»

«Temo di sì. Oddio, e se avessi un aborto in questo cazzo di posto?»

«Resta ferma dove sei. Passeranno.»

«Grazie tante, dottore. Io...» Poi cominciò a urlare. «Vattene via! Lasciami stare! Non toccarmi!»

Nonostante la stanchezza, Cal ripartì a razzo.

 

Anche se terrorizzata e sconvolta, Becky capì subito chi era quel pazzo che le si parava davanti, spostando l’erba. Era vestito da turista, con un paio di dockers e comodi mocassini incrostati di terra. A tradirlo, però, soprattutto la maglietta. Sporca di melma e di una chiazza marrone scuro che era quasi sicuramente sangue rappreso, lasciava intravedere un rotolo di filo sottile su cui campeggiava una scritta: IL GOMITOLO DI SPAGO PIÙ GRANDE DEL MONDO - CAWKER CITY, KANSAS. Lei ne aveva una identica piegata con cura in valigia.

Il papà del ragazzino. In carne e ossa, lurido di erba e fango.

«Vattene via!» Becky scattò in piedi reggendosi la pancia. « Lasciami stare! Non toccarmi!»

L’uomo sogghignò. Aveva le guance ispide, le labbra rosse. «Calma. Vuoi uscire? È semplice.»

Lei lo fissò a bocca aperta. Cal stava urlando, ma sul momento non ci badò.

«Se fossi capace di andartene, non saresti ancora qui dentro», gli rispose.

L’altro ridacchiò. «Ipotesi corretta. Conclusione errata. Devo ripescare mio figlio. Ho già trovato mia moglie. Vuoi conoscerla?»

Becky restò in silenzio.

«D’accordo. Come desideri.» Si voltò, incamminandosi nel verde. Presto sarebbe sparito, proprio come Cal, e la ragazza venne attanagliata dal panico. Quel tipo era sicuramente pazzo, bastavano il suo sguardo o le sue frasette spezzate per rendersene conto, ma almeno era un essere umano.

Lui si fermò girandosi, con il solito ghigno. «Mi sono scordato di presentarmi. Scusami tanto. Sono Ross Humbolt e lavoro come agente immobiliare a Poughkeepsie. Natalie è mia moglie. Mio figlio è Tobin. Un tesoro! E sveglio! Tu sei Becky, e tuo fratello, Cal. Bene, è la tua ultima possibilità. Vieni con me o resta qui a schiattare.» Abbassò lo sguardo sulla pancia della ragazza. «Lo stesso vale per il bambino.»

Non fidarti di lui.

No di certo, ma lo seguì lo stesso. Mantenendo una distanza di sicurezza o almeno provandoci. «Non hai idea di dove stai andando.»

«Becky? Becky!» Era Cal. Ma lontano. Da qualche parte nel North Dakota. Forse nel Manitoba. Probabilmente avrebbe dovuto rispondergli, ma aveva la gola troppo secca.

«Mi ero perso nell’erba come voi due», affermò Ross. «Ma ne sono uscito. Ho baciato la pietra.» Si girò per una frazione di secondo fissandola con occhietti astuti da folle. «L’ho persino abbracciata. Wishhhh. Poi ho visto quegli omini che ballavano. E tutto il resto. Chiaro come il sole. Tornare sulla strada? Un gioco da ragazzi! Che Dio mi fulmini se sto mentendo. Mia moglie è poco più avanti. Devi proprio conoscerla. È il mio amore, lei. Prepara il miglior martini d’America. Un tipo di nome Rossini immerse nel gin i... ehm! Con aria giuliva aggiunse un’oliva. Immagino tu sappia il resto.» Le strizzò l’occhio.

Al liceo Becky aveva partecipato a un corso facoltativo di ginnastica: Autodifesa per Donne. Cercò di ricordarne le mosse, senza riuscirci. A tornarle in mente, solo...

In fondo alla tasca destra degli short aveva un anello di metallo con infilate le chiavi. La più lunga e spessa apriva la porta d’ingresso della casa dove lei e il fratello erano cresciuti. La separò dalle altre, stringendola tra pollice e indice.

«Eccola qui!» proclamò allegro Humbolt, scostando la vegetazione con entrambe le mani, come l’esploratore di un vecchio film. «Saluta, Natalie! Questa ragazza sta per avere una creatura

Oltre il varco improvvisato luccicavano schizzi di sangue e Becky avrebbe voluto fermarsi ma le gambe non le obbedirono; addirittura Ross si fece leggermente da parte come in quegli altri vecchi film dove lui bisbiglia suadente: «Dopo di te, dolcezza», e la coppia entra in uno sciccoso night club dove suona un complessino jazz, solo che quello non era uno sciccoso night club ma un tratto d’erba calpestata su cui era sdraiata tutta storta Natalie Humbolt, se si chiamava davvero così, con gli occhi fuori dalle orbite e il vestito sollevato a mostrare grandi squarci scarlatti sulle cosce. Becky pensò che ora sapeva perché Ross Humbolt di Poughkeepsie sfoggiasse labbra così rosse e un braccio di Natalie fosse stato strappato via all’altezza della spalla, abbandonato a un paio di metri tra l’erba schiacciata che già ricominciava a sollevarsi, e perché fosse segnato da altri morsi profondi e il sangue sembrasse ancora fresco, perché... perché...

Perché non è successo da molto, concluse. L’abbiamo sentita urlare. L’abbiamo sentita morire.

«Sono qui con la famigliola da un po’», chiarì Ross con un tono amichevole e cordiale, serrando le dita sporche di verde intorno alla gola di Becky. Gli sfuggì un rutto. «La fame è una brutta bestia. Nessun fastfood nei dintorni, nossignore! Puoi bere l’acqua che sgorga dal terreno, è torbida e calda come l’inferno ma dopo un po’ non ci fai più caso... solo che ci troviamo qui da giorni. Però adesso sono bello pieno. Pieno come un bue.» Le labbra macchiate di sangue le si incollarono al padiglione dell’orecchio e la barba ispida le solleticò la pelle. «Vuoi vedere la pietra?» sussurrò. «Vuoi sdraiarti sopra nuda e sentirmi dentro di te, sotto una girandola di stelle, mentre l’erba canta i nostri nomi? Pura poesia, eh?»

Becky cercò di riempirsi il petto d’aria per lanciare un urlo, ma aveva la trachea bloccata. Nei polmoni regnava il vuoto, improvviso e terribile. L’uomo le spinse i pollici contro la gola, comprimendo muscoli, tendini e tessuti molli, continuando a sogghignare. Aveva i denti tinti di rosso ma la lingua era verdognola. Il suo fiato odorava di sangue e di erba falciata.

«L’oceano verde ha parecchio da raccontarti. Devi imparare ad ascoltarlo. A parlare vegetale, tesoro. La pietra conosce quella lingua. Dopo averla vista, capirai. Ho appreso più da lei in un paio di giorni che in vent’anni sui libri.»

Ross la teneva piegata all’indietro sulla schiena, incurvata come un lungo filo d’erba al vento. Becky venne raggiunta da una nuova zaffata del suo respiro erboso.

«Vent’anni passati a studiare, e poi ti sbattono al turno del grande nulla», ridacchiò. «Questo sì che è del buon vecchio rock Bob Dylan. Figlio di Jahveh. Di Hibbing il bardo, mica male il bastardo! Stammi a sentire. Quella al centro del campo è una buona vecchia roccia, anche se assetata. È sempre stata qui, nel grande nulla, fin da prima che i pellirosse si mettessero a cacciare sulle Osage Cuestas, fin da quando un ghiacciaio l’ha trasportata da queste parti durante l’ultima era glaciale e, accidenti ragazza mia, ha una sete fottuta

Becky provò la tentazione di tirargli una ginocchiata nelle palle, ma era esausta. Riuscì soltanto a sollevare il piede di qualche centimetro, per poi riappoggiarlo delicatamente a terra. Solleva e riappoggia. Solleva e riappoggia. Sembrava scalpitare al rallentatore, come una puledra sul punto di partire dal box.

Un firmamento di scintille nere e argento esplose ai margini del suo campo visivo. Girandole di stelle. Era strano e affascinante osservare nuovi universi mentre nascevano e morivano, prendevano vita e si spegnevano. Capì che presto si sarebbe spenta anche lei. Non era una prospettiva così terribile. Non aveva nulla d’urgente da fare.

Cal la stava chiamando da molto distante. Se si trovava nel Manitoba, doveva essere caduto nel pozzo di una miniera.

Strinse in pugno l’anello di metallo. I denti di alcune chiavi le si conficcarono nel palmo. Quasi mordendolo.

«Il sangue va bene, le lacrime ancora meglio, per placare la sete della nostra cara vecchia pietra», continuò Ross. «Quando ti scoperò sopra di lei, avrà un po’ di entrambe le cose. Però bisogna sbrigarsi. Non voglio sbatterti davanti a mio figlio. Siamo dei bravi battisti.» Il suo fiato puzzava.

Becky si sfilò la mano di tasca, la punta della chiave di casa a sporgere tra indice e medio, e colpì Ross Humbolt in pieno volto. Voleva soltanto allontanare da sé la bocca dell’uomo, il suo respiro, quel fetore d’erba. Si sentiva il braccio debole e il pugno fu fiacco, quasi una pacca amichevole, eppure la chiave lo centrò sotto l’occhio sinistro, graffiandogli la guancia, tracciando una linea frastagliata e sanguinolenta.

Ross sussultò, facendo scattare all’indietro la testa. Mollò la presa; per un istante i suoi pollici smisero di tormentarle la pelle sottile dell’incavo del collo. Un attimo dopo le sue dita si serrarono di nuovo, ma lei era già riuscita a tirare un respiro ansimante. Di botto scomparvero le scintille, le girandole di stelle che esplodevano e divampavano. La mente si schiarì, come se qualcuno le avesse gettato in faccia una secchiata d’acqua gelida. Quando lo colpì per la seconda volta, ci andò giù dura con tutta la spalla, affondandogli la chiave nell’occhio. Le nocche urtarono contro lo zigomo. Il metallo gli trapassò la cornea, raggiungendo il centro liquido del bulbo oculare.

L’uomo non urlò. Abbaiò un lamento simile a un latrato, strattonandola con violenza e cercando di sbatterla a terra. Aveva gli avambracci spellati e scottati dal sole. Da vicino, la ragazza notò che il naso era ridotto anche peggio, il setto quasi ustionato. Ross abbozzò una smorfia, sfoderando i denti macchiati di rosa e di verde.

Becky fu costretta a riabbassare la mano, mollando la sua arma improvvisata. La chiave rimase a dondolare dall’orbita gocciolante, con le altre che sbatacchiavano tra loro, rimbalzando contro le guance ispide. Il sangue gli bagnava l’intero lato sinistro del volto, l’occhio una voragine rossa scintillante.

Tra i due l’erba fremeva rabbiosa. Al salire del vento, gli steli giganteschi si dimenarono e si agitarono contro il dorso e le gambe di Becky. L’uomo la raggiunse con una ginocchiata in pancia. Fu come essere percossa con un ciocco di legna da ardere. Provò un forte dolore e anche qualcosa di peggio, giù dove l’addome si univa all’inguine. Una specie di contrazione muscolare, di crampo, come se nel ventre ci fosse un nodo e qualcuno l’avesse stretto ancora di più, fino allo spasimo.

«Oh, Becky! Oh, ragazza mia! Bacerai l’erba con le tue chiappe!» urlò Ross, la voce che gli vibrava per il folle divertimento.

Le sferrò un’altra ginocchiata al ventre, e poi una terza. Ogni colpo scatenava una nuova, cupa, devastante esplosione. Sta uccidendo il mio bambino, pensò lei. Qualcosa le gocciolò lungo l’interno della gamba sinistra. Non riuscì a capire se fosse sangue o urina.

Ballarono insieme, il guercio e la gravida. Ballarono nell’erba, i piedi a sguazzare nel fango, le mani di lui a stringerle la gola. Barcollando in un vacillante girotondo accanto al cadavere di Natalie Humbolt. Becky si accorse della morta alla sua sinistra, notò di sfuggita le cosce pallide e insanguinate e segnate dai morsi, la gonna di jeans sconvolta e le mutandone in bella mostra, imbrattate di verde. E il braccio tra l’erba, appena dietro i piedi di Ross Humbolt. Il braccio sporco e amputato di Natalie (come gliel’aveva tolto? Strappandoglielo via tipo coscetta di pollo?), le dita rattrappite, il lerciume sotto le unghie spezzate.

Becky spostò tutto il peso in avanti, scagliandosi contro l’uomo. Lui indietreggiò, appoggiando il piede sul braccio mozzato, che gli scivolò via da sotto il calcagno. Perse l’equilibrio con un grugnito rabbioso e disperato, trascinando la ragazza con sé. Mollò la presa solo quando cozzò a terra, i denti a sbattere insieme in uno schiocco sonoro.

Ross assorbì la maggior parte dell’impatto, la pancia molle di bravo battista di periferia ad attutire la caduta di Becky. Lei si liberò dell’uomo con uno spintone, iniziando ad arrancare carponi.

Purtroppo si muoveva lenta. Le viscere erano attraversate da spasmi, gravate da un peso tremendo e da una forte tensione, quasi avesse ingoiato una palla medica. Aveva voglia di vomitare.

Ross l’afferrò per una caviglia, strattonandola e facendola cadere in avanti sul ventre dolente e palpitante. Una fitta lacerante le attraversò l’addome, come se qualcosa le fosse scoppiato dentro. Colpì la terra bagnata con il mento. Puntini scuri le si affollarono davanti agli occhi.

«Dove scappi, Becky DeMuth?» Lei non gli aveva rivelato il suo cognome. Non poteva saperlo. «Tanto ti scoverei di nuovo. L’erba mi mostrerebbe dove ti nascondi, gli omini che ballano mi porterebbero dritto da te. Torna qui. Ormai non hai più bisogno di arrivare a San Diego. Non dovrai prendere nessuna decisione riguardo al bambino. È tutto sistemato.»

Le si snebbiò la vista. Proprio davanti a lei, su una zolla d’erba appiattita, c’era una borsetta di paglia con il contenuto sparso in giro e, in mezzo al disordine, un paio di minuscole forbicine da manicure. Sembravano quasi delle pinzette, ma le lame erano incrostate di sangue. Non voleva pensare come se ne fosse servito Ross Humbolt di Poughkeepsie o quale uso avrebbe potuto farne lei.

In ogni caso, le strinse in mano.

«Ti ho detto di tornare qui», le intimò l’uomo. «Adesso, puttana.» Tirandola per il piede.

Becky si girò di scatto, gettandosi di nuovo contro di lui, le forbicine da manicure di Natalie serrate nel pugno. Lo colpì alla faccia una, due, tre volte, prima che si decidesse a urlare. Tempo di disfarsi di Ross e il grido di dolore si era già trasformato in uno sghignazzo fragoroso e singhiozzante. Anche il ragazzino rideva, si disse lei. Poi per un bel po’ smise di pensare. Fino allo spuntare della luna.

 

Cal era seduto tra l’erba, sotto l’ultima luce del giorno, impegnato ad asciugarsi le guance dalle lacrime.

Non scoppiò mai a piangere a dirotto. Si limitò a crollare con il culo a terra, dopo innumerevoli giri a vuoto e inutili tentativi di chiamare Becky (che ormai aveva da tempo smesso di rispondergli), poi si sentì gli occhi umidi che gli pizzicavano e il respiro farsi più pesante.

Il tramonto era splendido. Il cielo, di un blu profondo e solenne, si stava rabbuiando; a ovest, dietro la chiesa, l’orizzonte era illuminato da un bagliore infernale di braci morenti. Lo vedeva a sprazzi, quando trovava l’energia di saltare e dare una sbirciatina, convincendosi che servisse a qualcosa.

Le scarpe da ginnastica erano zuppe, appesantite dall’acqua, e gli facevano male i piedi. Gli prudeva l’interno delle cosce. Si sfilò la scarpa destra, da cui uscì un filo di liquido sporco. Era senza calze e il piede nudo aveva l’aspetto bianchiccio e grinzoso di un animale annegato.

Si tolse l’altra scarpa, pronto a svuotarla, ma poi esitò. Se la portò alle labbra, piegò indietro la testa e si lasciò colare l’acqua torbida sulla lingua. Sapeva di piede puzzolente.

In lontananza aveva sentito Becky e l’Uomo. Lui le aveva parlato con un tono eccitato e brillo, quasi le stesse impartendo una lezione, ma Cal era riuscito ad ascoltare solo una minima parte del dialogo. Qualcosa su una pietra. Su degli omini che ballavano. Su una sete fottuta. Su una strofa di un vecchio pezzo folk. Che si era messo a cantare il tipo? Vent’anni passati a scrivere, e poi ti sbattono al secondo turno di notte. No, sbagliato. Una roba simile, però. La musica folk non rientrava nel suo bagaglio di conoscenze; lui era più un fan dei Rush. Durante la traversata del Paese, avevano navigato sulle note di Permanent Waves.

Poi aveva sentito i due dimenarsi e lottare, le grida soffocate della sorella e il tizio che le sbraitava contro. Alla fine erano arrivate le urla... così simili a risate assordanti. Non di Becky. Dell’Uomo.

A quel punto gli avevano ceduto i nervi e si era messo a correre, a saltare, a chiamarla. Aveva continuato per parecchio prima di riprendere il controllo, costringendosi a fermarsi e a tendere le orecchie. Si era piegato in avanti, afferrandosi le ginocchia e ansimando, la gola arida per la sete, rivolgendo la propria attenzione al silenzio.

L’erba taceva.

«Becky?» aveva gridato per l’ennesima volta, ormai rauco. «Beck?»

Nessuna risposta, solo il vento che sibilava tra il verde.

Azzardò un altro paio di passi. La chiamò di nuovo. Si sedette. Si sforzò di non piangere.

E poi quello splendido tramonto.

Si frugò inutilmente nelle tasche per la centesima volta, disgustato dal terribile pensiero di trovarci solo una striscia secca di Juicy Fruit, piena di pelucchi. Se n’era comprato un pacchetto in Pennsylvania, ma lui e Becky se l’erano spartito prima di raggiungere il confine con l’Ohio. Quelle gomme erano uno spreco di soldi. Il sapore zuccherino di agrumi scompariva in un lampo dopo un paio di masticate e... Sentì qualcosa di rigido e tirò fuori una bustina di fiammiferi. Cal non fumava, ma era stato un omaggio del negozietto d’alcolici di fronte al Drago di Kaskaskia a Vandalia. Sul davanti della confezione, una fotografia della creatura di acciaio inossidabile alta dieci metri. Lui e Becky si erano procurati una manciata di gettoni, passando quasi tutto il tardo pomeriggio a foraggiare il mostro metallico, godendosi le fiammate di propano che gli eruttavano dalle narici. Cal si immaginò l’animale accosciato tra il verde, smanioso di vederlo esalare una vampata di fuoco sterminatore.

Si rigirò in mano la bustina, strofinando il pollice sul cartoncino.

Brucia il campo, pensò. Brucia questo campo di merda. L’erba alta sarebbe sparita, come fa la paglia divorata dalle fiamme.

Vide la distesa data alle fiamme, mentre scintille e bruscoli carbonizzati si spandevano nell’aria. Era un’immagine così potente da sentirne quasi l’odore, il puzzo curiosamente rinfrancante della vegetazione quando viene distrutta a fine estate.

E se il fuoco gli si fosse rivoltato contro? E se avesse sorpreso la sorella da qualche parte? Magari era svenuta e sarebbe stata svegliata dal tanfo dei propri capelli che bruciavano.

No. Becky se la sarebbe cavata. E anche lui. Era convinto di dover far male all’erba, di dimostrarle che ne aveva abbastanza, e così lei li avrebbe lasciati andare. Ogni volta che gli sfiorava la guancia, sembrava quasi deriderlo, sbeffeggiarlo.

Si alzò sulle gambe indolenzite, afferrandone un ciuffo. Gli steli erano duri e taglienti come corda, e gli segarono le mani, ma riuscì a strapparne un po’, a spezzarli e ammonticchiarli. Vi si inginocchiò davanti, un penitente di fronte al suo altare personale. Staccò un fiammifero dalla bustina, lo appoggiò alla striscia ruvida sul fondo, vi ripiegò contro il risvolto per tenerlo fermo e tirò con decisione. Guizzò una fiammella. Cal aveva il volto abbassato e inalò la zaffata acre di zolfo.

Il fiammifero si spense non appena l’avvicinò all’erba bagnata, densa di linfa e carica di una rugiada che non si asciugava mai.

Accese il secondo con la mano tremante.

Quando toccò il mucchietto, la fiamma sibilò e morì. Non era stato Jack London a scrivere un racconto su qualcosa del genere?

Un altro. Un altro ancora. Tutti liberavano una nuvoletta di fumo appena sfioravano gli steli bagnati. Uno manco li raggiunse, spento all’istante da un leggero alito di vento.

Alla fine, quando ne restavano solo sei, strofinò un fiammifero e in preda alla disperazione l’accostò alla bustina. Il cartoncino prese fuoco in un lampo accecante e Cal lo lasciò cadere nella montagnola, bruciacchiata ma ancora umida. Per un attimo rimase in equilibrio sulla cima verdastra, sprigionando una lunga fiamma brillante.

Poi la bustina sprofondò in un buco annerito, piombando nel fango ed esalando l’ultimo respiro.

Cal sferrò un calcio al falò improvvisato, dando sfogo al terribile e profondo sconforto. Era l’unico sistema per non ricominciare a piangere.

Dopo si sedette, immobile, le palpebre serrate, la fronte contro un ginocchio. Era stanco e aveva voglia di riposare, di sdraiarsi sulla schiena e vedere apparire le stelle. Allo stesso tempo, non gli andava di stendersi sulla fanghiglia appiccicosa, di sentirsela tra i capelli, di inzupparsi il dietro della camicia. Era già abbastanza lurido. Aveva le gambe segnate dalla sferza dei fili taglienti. Pensò che avrebbe dovuto riprovare a raggiungere la statale, prima del calare delle tenebre, ma riusciva a malapena a muoversi.

Alla fine, a costringerlo a rialzarsi, il rumore distante dell’antifurto di un’auto. Non uno qualsiasi, nossignore. Quello non faceva wah-wah-wah come il resto degli altri, ma WHEEK-honkWHEEK-honkWHEEK-honk. A quanto ne sapeva, solo le vecchie Mazda piantavano un simile baccano quando venivano manomesse, con i fari che lampeggiavano a tempo.

Proprio come la macchina che lui e Becky avevano scelto per attraversare il Paese.

WHEEK-honkWHEEK-honkWHEEK-honk.

Aveva le gambe a pezzi ma saltò lo stesso. La Route 400 sembrava di nuovo più vicina, non che gliene fregasse granché, e sì, scorse i fanali che scintillavano. Non molto altro, però gli bastò per intuire che cosa stava succedendo. La gente che viveva lungo quel tratto di statale era sicuramente a conoscenza del campo incolto sul lato opposto della chiesa e del bowling abbandonato. Di certo sapeva che era meglio far rimanere i bambini dalla parte sicura della strada. E quando un turista di passaggio sentiva delle grida d’aiuto e spariva tra la vegetazione, preso nella parte del buon samaritano, gli abitanti del posto gli frugavano in auto, rubando qualsiasi oggetto di valore.

Probabilmente amano questo vecchio campo. E ne hanno paura. E lo venerano. E...

Cercò invano di fermarsi prima della logica conclusione.

E gli fanno dei sacrifici. Il bottino che recuperano dal bagagliaio e dal cruscotto non è che un piccolo extra.

Voleva Becky. Oddio, quanto la voleva. E pure qualcosa da mangiare. Non riusciva a decidere che cosa desiderasse di più.

«Becky? Becky?»

Nulla. Sopra di lui si illuminarono le stelle.

Cal stramazzò in ginocchio e premette le mani nel fango, ricavandone altra acqua. La bevve, cercando di filtrarla tra i denti. Se mia sorella fosse con me, riusciremmo a uscirne. Ne sono sicuro. Perché siamo Ale e Vale, che la pensano uguale.

Bevve di nuovo, scordandosi di non ingoiare le particelle di terra. Deglutì anche qualcosa che si contorceva ancora. Un insetto o forse un piccolo verme. Be’, e allora? In fondo erano proteine, giusto?

«Non la troverò mai», concluse. Fissò l’erba ondeggiante che cominciava a scurirsi. «Perché non me lo permetterai. Ti piace dividere le persone che si vogliono bene. È la tua missione, vero? Continueremo a girare in tondo e a chiamarci fino a impazzire.»

Peccato che Becky avesse smesso di sgolarsi. Come la mamma, lei era scomp...

«Non deve per forza andare così», disse una vocina squillante.

Cal si voltò di colpo. Di fronte a lui, un ragazzino con i vestiti imbrattati di fango. Aveva il viso smunto e lurido. Reggeva in mano un corvo morto per una zampa.

«Tobin?»

«Sì, sono io.» Si portò la preda alla bocca, affondandogli la faccia nel ventre. Le piume scricchiolarono. La testa esanime dell’uccello ballonzolò, come a dire: Bravo, dacci dentro, sviscera la questione.

Cal era convinto di essere troppo stanco dopo il suo ultimo salto, ma al terrore non si comanda, e si lanciò in avanti. Strappò via il corvo dalle mani lerce di terra del bambino, quasi senza notare le interiora che si srotolavano dalla pancia squarciata. Però vide la piuma appiccicata a un angolo della bocca di Tobin. La vide benissimo, nonostante l’avanzare delle tenebre.

«Non puoi mangiarlo! Gesù Cristo, sei impazzito?»

«No, Capitan Cal, solo affamato. E poi i corvi non sono così male. Con Freddy non potevo: gli volevo bene, sai. Papà ne ha assaggiato un boccone, ma io no. Certo, non avevo ancora toccato la pietra. Quando lo fai, quando l’abbracci, riesci a vedere e a sapere un sacco di cose in più. Però ti aumenta l’appetito. E come dice papà, di carne siamo e mangiare dobbiamo. Dopo aver raggiunto il masso ci siamo divisi, ma secondo lui siamo capaci di ritrovarci ogni volta che ci va.»

Cal lo seguiva con difficoltà. «Freddy?»

«Il nostro golden retriever. Un vero asso ad acchiappare al volo il frisbee. Proprio come un cane della tivù. È più semplice scovare le cose qui in mezzo quando sono morte. Il campo non si preoccupa più di spostarle in giro.» Gli occhi gli brillarono alla luce del crepuscolo mentre fissava il corvo spolpato che Cal ancora stringeva in mano. «Credo che la maggior parte degli uccelli si tenga alla larga. Probabilmente sanno del pericolo e si informano a vicenda. Alcuni, invece, non ci badano. Soprattutto i corvi, perché nei dintorni ce ne sono parecchi stecchiti. Basta una passeggiata per trovarli.»

«Tobin, ci hai attirati qui apposta?» gli chiese Cal. «Dimmelo. Non mi arrabbierò. Scommetto che è stato tuo padre a costringerti.»

«Abbiamo sentito qualcuno urlare. Una ragazzina. Ripeteva di essersi persa. Ecco come siamo entrati noi. Ecco come funziona.» Si ammutolì per un attimo. «Forse papà ha ammazzato tua sorella.»

«Come fai a sapere che è mia sorella?»

«La pietra», rispose semplicemente. «La pietra ti insegna ad ascoltare l’erba, e l’erba alta sa tutto.»

«Allora devi anche avere idea se è morta o no.»

«Se vuoi posso scoprirlo. No, ancora meglio: te lo mostrerò. Ti va di venire a vedere? Di dare una controllatina? Forza, seguimi.»

Senza aspettare una risposta, il bambino si girò, intrufolandosi nel mare verde. Cal lasciò cadere a terra il corvo morto e gli si affrettò dietro, deciso a non perderlo di vista neanche per un secondo. Se gli fosse sfuggito, probabilmente sarebbe stato costretto a vagabondare per l’eternità senza ritrovarlo. «Non mi arrabbierò», aveva promesso a Tobin, anche se lo era già. E alla grande. Non al punto da uccidere un ragazzino, naturalmente no (probabilmente no), ma non intendeva certo lasciarsi scappare il piccolo adescatore.

E invece andò a finire così, per colpa della luna che spuntò sopra l’erba, gonfia e arancione. Pare gravida, pensò, e quando riabbassò lo sguardo Tobin si era dileguato. Si sforzò di correre nonostante le gambe esauste, saettando tra la vegetazione, riempiendosi i polmoni per gridare a squarciagola. A un certo punto i lunghi steli sparirono. Si trovava in una radura, una vera radura, non un tratto d’erba calpestata. Al centro sporgeva da terra un’enorme pietra nera. Grande quanto un pickup, era costellata da graffiti di omini stilizzati che ballavano. Sembravano fluttuare nell’aria, perfettamente bianchi. Sembravano muoversi.

Lì di fianco, Tobin allungò una mano e la toccò. Venne percorso da un brivido; non di paura, si disse Cal, di piacere, piuttosto. «Accidenti, che bella sensazione. Coraggio, Capitan Cal. Provaci anche tu.» Lo invitò con un cenno.

Cal si avvicinò al masso.

 

Per qualche minuto riecheggiò l’antifurto dell’auto, che poi si zittì. Il rumore penetrò nelle orecchie di Becky ma non raggiunse il cervello. Stava strisciando quasi automaticamente. Ogni volta che veniva raggiunta da un nuovo crampo, si bloccava con la fronte premuta contro il fango e il sedere per aria, come un fedele che rende lode ad Allah. Quando il dolore si allentava, riprendeva a trascinarsi. I capelli sporchi di terra le si erano incollati al volto. Le gambe erano bagnate dal liquido che usciva dal corpo, qualunque cosa fosse. Lo sentiva colare fuori ma non ci pensava, proprio come aveva fatto con l’allarme della macchina. Mentre arrancava, leccava l’acqua degli steli, girando la testa da una parte e dall’altra, la lingua che saettava come quella di un serpente, slurp-slurp. Automaticamente.

Sorse la luna, gigantesca e arancione. Quando si voltò a guardarla, fu colpita dal peggior crampo in assoluto. Il dolore non voleva saperne di passare. Si rigirò sulla schiena, artigliando l’orlo di short e mutandine e tirandoseli giù. Erano zuppi, macchiati di scuro. Finalmente un pensiero chiaro e coerente le attraversò il cervello come un lampo di calore: il bambino!

Rimase supina sull’erba, i vestiti insanguinati attorno alle caviglie, le ginocchia allargate e le mani contro l’inguine. Una poltiglia mucosa le sgusciava tra le dita. Poi, insieme con uno spasmo che la lasciò senza fiato, arrivò qualcosa di rotondo e duro. Un cranio. La curvatura dell’osso si adattò alle sue mani con squisita perfezione. Era Justine (se femmina) o Brady (nel caso fosse un maschio). Aveva mentito a tutti, sostenendo di non aver ancora preso una decisione: fin dall’inizio le era stato chiaro che non si sarebbe sbarazzata del piccolo.

Cercò di urlare eppure non le uscì nulla, solo un flebile lamento. La luna la fissava dall’alto, l’occhio iniettato di sangue di un drago. Spinse il più forte possibile, la pancia tesa come un tamburo, il culo affondato nel fango. Qualcosa si lacerò. Qualcosa scivolò via. Qualcosa le scese tra le dita. All’improvviso si sentì vuota là in basso, così vuota, ma almeno aveva le mani piene.

Sotto la luce rossastra della luna, sollevò in alto il frutto del suo ventre, pensando: È tutto a posto, un mucchio di donne partoriscono nei campi.

Era Justine.

«Ehi, bambolina mia», gracchiò. «Oooh, ma quanto sei piccina.»

E silenziosa.

 

Da vicino era semplice capire che quella pietra non era del Kansas. Nera, vetrosa, sembrava una pietra vulcanica. Il bagliore lunare ne rendeva iridescenti gli spigoli, sprigionando sfumature color perla e giada.

Gli omini e le donnine stilizzati si tenevano per mano, ballando tra sinuose onde d’erba.

A cinque metri di distanza, parevano fluttuare attorno a quel grande masso che quasi sicuramente non era di ossidiana.

A tre metri, galleggiavano appena sotto la superficie scura e lucente, come oggetti scolpiti nella luce, simili a un ologramma. Era impossibile metterli a fuoco. O distogliere lo sguardo.

A un metro e mezzo, Cal iniziò a sentire la pietra. Emetteva un lieve ronzio, come il filamento attraversato dall’elettricità di una lampadina a incandescenza. Però non si rendeva conto dei suoi effetti; non si accorgeva che il lato sinistro del volto gli si stava arrossando, quasi scottato dal sole. Non aveva nessuna percezione del calore.

Allontanati, si disse, scoprendo che retrocedere era stranamente difficile. I piedi non sembravano più capaci di fare marcia indietro.

«Credevo mi avresti portato da Becky.»

«Ti ho promesso che avremmo dato una controllatina. Stiamo per farlo. Grazie alla pietra.»

«Non me ne frega niente del tuo cazzo di... Voglio solo mia sorella.»

«Se la tocchi, non ti sentirai più perso», gli assicurò Tobin. «Mai più. Verrai redento. Non è fantastico?» Si levò distrattamente la piuma nera appiccicata a un angolo della bocca.

«No, per niente», ribatté Cal. «Meglio restare così.» Forse era solo la sua immaginazione, ma il ronzio sembrò crescere.

«Tutti vogliono essere ritrovati», continuò il ragazzino con un tono suadente. «Anche Becky. Ha abortito. Se non la rintracci, probabilmente morirà.»

«Stai mentendo», rispose lui senza nessuna convinzione.

Doveva essersi accostato di un altro po’. Dal centro del masso aveva iniziato a diffondersi una luce tenue e invitante, proprio dietro i graffiti stilizzati e fluttuanti... come se la lampadina ronzante fosse incastonata sotto la superficie della roccia, e qualcuno ne stesse regolando al massimo l’intensità.

«No», ribatté Tobin. «Avvicinati e potrai vederla.»

Giù nelle viscere di quarzo brunito, il ragazzo colse il contorno indistinto di un volto. Sulle prime pensò di avere davanti il proprio riflesso. Però non era lui, anche se vi somigliava. Era Becky, le labbra ritratte in una smorfia ferina di dolore. Grumi di sporco le segnavano un lato della faccia. I tendini le guizzavano lungo il collo.

«Beck?» chiamò, come se la sorella fosse in grado di sentirlo.

Si accostò di più – impossibile resistere –, curvandosi per vedere meglio. Teneva i palmi sollevati davanti a sé, ma non si accorse che stavano iniziando a coprirsi di vesciche per colpa dell’aura che circondava il masso.

No, troppo vicino, si rese conto, e provò a balzare indietro di scatto, eppure non riuscì a darsi lo slancio. Invece, i piedi sdrucciolarono come se fosse sull’orlo di una china. Ma il suolo era piatto: scivolava in avanti per effetto della roccia, che possedeva una sua forza di gravità e lo attirava verso di sé come una calamita con un pezzo di ferro.

Nel profondo di quell’immensa sfera di cristallo appena sbozzata, Becky spalancò gli occhi, fissando il fratello con un misto di meraviglia e terrore.

Il ronzio gli risuonò assordante in testa.

Anche il vento si fece più forte. L’erba si dimenava flessuosa in preda all’estasi.

Solo all’ultimo momento Cal si accorse che la carne gli bruciava, che la pelle gli stava ribollendo per l’atmosfera innaturale che regnava nelle immediate vicinanze della pietra. Non appena l’avesse sfiorata sarebbe stato come affondare le mani dentro una padella rovente, e cominciò a urlare...

...ma poi si fermò, il grido intrappolato nella gola serratasi di colpo.

La roccia non era per niente calda. Era fresca. Meravigliosamente fresca, e ci appoggiò sopra la faccia, un pellegrino esausto che ha finalmente raggiunto la propria destinazione e può concedersi il lusso di riposare.

 

Quando Becky rialzò il capo, il sole stava sorgendo, o tramontando, e aveva lo stomaco indolenzito, quasi si stesse rimettendo da una settimana di influenza intestinale. Si asciugò il sudore dal volto con il dorso della mano, si drizzò in piedi e uscì dall’erba, raggiungendo l’auto. Scoprì con sollievo che le chiavi ancora dondolavano dal blocchetto. Si allontanò dal parcheggio, imboccando la strada e guidando con calma.

Sulle prime girovagò senza meta. Il dolore all’addome andava e veniva, impedendole di concentrarsi. Era un fastidio sordo, l’indolenzimento tipico dei muscoli affaticati; ogni tanto cresceva senza preavviso, diventando una fitta che si spandeva liquida attraverso l’intestino, facendole bruciare le parti intime. Si sentiva calda, febbricitante, e i finestrini abbassati non l’aiutavano a rinfrescarsi.

Stava calando la sera e il giorno morente sapeva di erba falciata, di barbecue sul retro di casa, di ragazze che si preparavano a uscire con i fidanzati e di partite di baseball sotto i riflettori.

La ragazza proseguì lungo le vie di Durham, New Hampshire, accompagnata da un bagliore rossastro, il sole una panciuta goccia di sangue all’orizzonte. Superò senza fretta Stratham Hill Park, dove aveva corso con la squadra del liceo. Si fece un giro attorno al campo da baseball. Il rumore metallico di una mazza d’alluminio. Urla di ragazzi. Una sagoma scura che si precipitava a capofitto verso la prima base.

Becky guidava svagata, recitando tra sé e sé uno dei suoi limerick, quasi senza accorgersene. Sussurrava il più vecchio che fosse riuscita a trovare mentre preparava la tesina, scritto ben prima che quello stile di poesia scadesse in una serie di squallide rime a sfondo sessuale, anche se già non mancavano i segni premonitori.

 

Una bambina si nascondeva nell’erba alta

Tendendo agguati ai compagni da scaltra

Come un leone con tre gazzelle

mangiava prede grassottelle

ciascuna più gustosa e saporita dell’altra.

 

Una bimba, pensò distrattamente. La sua bambina. A quel punto si ricordò che cosa stava facendo. Era uscita a cercare la piccola che avrebbe dovuto sorvegliare e, Dio santo che cazzo di maledetto casino, lei se l’era svignata sotto i suoi occhi e Becky doveva scovarla prima dell’arrivo dei genitori, e stava facendo buio in fretta e si era pure dimenticata il nome di quella stronzetta.

Si sforzò di ricordare come fosse successo. Per un attimo il passato recente rimase un enigma esasperante. Poi le tornò tutto in mente. La ragazzina voleva giocare con l’altalena nel cortile posteriore e lei le aveva risposto: «D’accordo, vai», senza degnarla di uno sguardo. Era occupata a scambiarsi messaggini con Travis McKean. Stavano litigando. Non aveva nemmeno sentito la doppia porta chiudersi sul retro con un tonfo.

Che cosa racconterò a mia mamma? si lamentava Travis. Non so neanche se continuerò il college, figuriamoci mettere su famiglia.E poi, la chicca: Se ci sposiamo, sarò costretto a dire di sì pure a tuo fratello? Se ne sta sempre seduto sul tuo letto a sfogliare quelle pallose riviste di skateboard, ed è strano che non fosse appollaiato lì a guardare, la notte che ti ho messa incinta. Se vuoi dei bambini, falli con lui.

Becky ringhiò dal fondo della gola, scagliando il cellulare contro la parete, rovinando l’intonaco e sperando che i genitori tornassero sbronzi e non se ne accorgessero. (Quali genitori, poi? Di chi era la casa?) Aveva raggiunto la vetrata che si affacciava sul cortile posteriore, cercando di riacquistare la calma... e vedendo l’altalena vuota dondolare placida al vento, con le catene che cigolavano appena. Il cancello era spalancato sul vialetto.

Uscì nella sera profumata di gelsomini e lanciò un richiamo. Continuò a gridare lungo il vialetto. In giardino. Proseguì fino a sentire male allo stomaco. In mezzo alla strada deserta, strillò: «Bambina! Ehi, bambina!» circondandosi la bocca con le mani. Si affrettò giù dall’isolato e dentro l’erba alta, passando un’eternità a farsi largo tra la vegetazione, alla ricerca della piccola ribelle, della sua responsabilità perduta. Quando finalmente sbucò fuori, l’auto parcheggiata la stava aspettando e lei partì. Ed eccola lì a vagabondare senza meta, passando in rassegna i marciapiedi, con un’angoscia disperata e selvaggia a montarle dentro. Aveva smarrito la sua bambina (la piccola ribelle, la sua responsabilità perduta) e chissà che cosa le stava capitando, magari in quel preciso momento. Non saperlo le faceva venire i crampi allo stomaco. Crampi tremendi.

Un nugolo di piccoli uccelli saettò attraverso il buio sopra la strada.

Aveva la gola secca. E una sete fottuta, insopportabile.

Il dolore la trapassava da parte a parte, dentro e fuori, come un amante.

Quando superò per la seconda volta il campo da baseball, tutti i giocatori erano tornati a casa. Partita sospesa per sopraggiunta oscurità, si disse, una frase che le fece venire la pelle d’oca, e fu allora che sentì il grido della ragazzina.

«È ora della pappa!» Quasi fosse stata Becky a essersi persa. «È ora di venire a mangiare!»

«Che cosa stai combinando, bambina?» strillò lei di rimando, accostando lungo il ciglio della strada. «Vieni qui! Vieni qui subito!»

«Prima dovrai trovaaarmi!» Sembrava divertirsi come una matta. «Segui la mia voce!»

Le urla parevano arrivare dal fondo del campo da baseball, dove l’erba era alta. Non ci aveva già guardato? Non l’aveva perlustrato nel tentativo di trovarla? Non aveva rischiato di perdersi anche lei?

«Un contadino di Loyola!» continuò la ragazzina.

Becky puntò verso il diamante. Dopo un paio di passi, una fitta penetrante al ventre le strappò un grido.

«Di semi mangiò una carriola!» trillò l’altra, la voce che le vibrava per le risate trattenute a stento.

Becky si fermò, buttando fuori il dolore in un sospiro; quando il peggio era ormai passato, azzardò un altro passo. Il dolore si ripresentò all’istante, più forte di prima. Sembrava che qualcosa le si stesse lacerando dentro, come se le sue viscere fossero un lenzuolo troppo teso che iniziava a strapparsi nel mezzo.

«Ciuffi di soffioni», gorgheggiò, «gli spuntaron dai coglioni!»

Dopo un nuovo lamento, Becky arrancò di un terzo passo, quasi a toccare la seconda base, l’erba alta ormai vicina, ma venne raggiunta da un’altra fitta e cadde in ginocchio.

«E da culo una pianta di viola!» scoppiò a ridere la ragazzina.

Becky si strinse la pancia flaccida e pendula come una borraccia vuota, serrando gli occhi e chinando la testa, aspettando che il dolore calasse, e appena si sentì leggermente meglio, sollevò le palpebre...

 

E Cal era lì, sotto il bagliore livido dell’alba, lo sguardo abbassato su di lei. Sul volto, un’espressione pronta e golosa.

«Non cercare di muoverti», le sussurrò. «Non subito. Pensa a riposare. Io sono qui.»

Le era inginocchiato di fianco, nudo dalla cintola in su. Il torace ossuto riluceva candido nella penombra biancastra. Aveva la faccia scottata dal sole (quasi ustionata, con una bolla proprio sulla punta del naso), ma per il resto era riposato e in forma. No, di più, sembrava vispo come un grillo.

La mia bambina, fece per dire Becky, ma le uscì solo uno schiocco stridente, il rumore di qualcuno che cercava di forzare una vecchia serratura con un grimaldello arrugginito.

«Scommetto che hai sete. Prendilo e tienilo in bocca.» Le cacciò tra le labbra un lembo freddo e bagnato della camicia. L’aveva inzuppato d’acqua, attorcigliandolo su se stesso.

La sorella lo succhiò avida, un neonato che poppa vorace.

«Adesso basta. Altrimenti vomiterai.» Le sfilò il rotolo umido di cotone, lasciandola a boccheggiare come un pesce in un secchio.

«La bambina», sussurrò lei.

Cal le rispose con il suo ghigno più stralunato e accattivante. «Non è meravigliosa? Ce l’ho qui con me. Semplicemente perfetta. La pagnotta è uscita dal forno cotta a puntino!»

Allungò la mano di lato, sollevando un fagottino avvolto in una maglietta. Becky scorse un nasino a patata bluastro spuntare dal sudario. No, sbagliato, i sudari erano per i morti. Era una fasciatura. Lei aveva partorito tra l’erba, senza neanche il bisogno di una stalla.

«Sei la mia piccola Vergine Maria?» le chiese Cal, grazie alla solita linea diretta con i pensieri più nascosti della sorella. «Chissà quando arriveranno i Re Magi! Chissà quali doni ci porteranno!»

Alle sue spalle comparve un ragazzino con la faccia scottata e lentigginosa. Anche lui aveva il petto scoperto. Probabilmente era sua la maglietta che avvolgeva la bimba. Si piegò in avanti, i palmi sulle ginocchia, per ammirare la neonata avvolta nella fasciatura.

«Non è meravigliosa?» gli domandò Cal, mostrandogliela.

«Davvero deliziosa, Capitano», rispose il ragazzino.

Becky chiuse gli occhi.

 

Guidava al tramonto, i finestrini abbassati, i capelli scompigliati dal vento. L’erba alta fiancheggiava i lati della strada, stendendosi davanti a lei all’infinito. Ci avrebbe guidato attraverso per il resto della vita.

«Una bambina si nascondeva nell’erba alta», declamava da sola, «tendendo agguati ai compagni da scaltra.»

Gli steli frusciavano, sfiorando il cielo.

 

Aprì gli occhi per qualche minuto, poco più tardi.

Cal stringeva la gamba di una bambola lurida di fango. Fissava la sorella con un’aria affascinata e instupidita, continuando a masticare. La gamba sembrava vera, paffuta, ma un po’ troppo piccola e di uno strano colore cianotico, come il latte ghiacciato. Cal, non puoi mangiare la plastica, pensò di avvertirlo lei, ma la fatica sarebbe stata eccessiva.

Il ragazzino gli era seduto dietro, girato di profilo, impegnato a leccarsi via qualcosa dalle mani. Sembrava gelatina di fragole.

Nell’aria c’era un odore pungente, come di una scatoletta di pesce appena aperta, che le faceva borbottare lo stomaco. Però era troppo debole per alzarsi a sedere o parlare, e quando riappoggiò la testa al suolo e abbassò le palpebre si riaddormentò di colpo.

 

Quella volta non ci furono sogni.

 

Da qualche parte un cane latrò: rop rop. Un martello cominciò a picchiare, un colpo secco dopo l’altro, risvegliando Becky.

Aveva le labbra secche e screpolate ed era di nuovo assetata. Assetata e affamata. Le sembrava che le avessero preso a calci lo stomaco tante e tante volte.

«Cal», mormorò. «Cal.»

«Hai bisogno di mangiare», le rispose lui, infilandole tra le labbra una strisciolina fredda e salata. Aveva le dita macchiate di sangue.

Se solo fosse stata lontanamente in sé, le sarebbe andata di traverso. In realtà quella roba non era cattiva, saporita e assieme dolciastra, con la consistenza grassa di una sardina. Ne aveva anche l’odore. La ciucciò come aveva fatto con il lembo della camicia bagnata del fratello.

Cal ruttò mentre lei risucchiava in bocca quella cosa, come si fa con gli spaghetti. Il retrogusto non era il massimo, acido e amarognolo, ma in fondo neanche sgradevole. Era un po’ come bere un margarita e leccare il sale dal bordo del bicchiere. I rutti del fratello sembravano una risata singhiozzante.

«Dagliene ancora», disse Tobin, sporgendosi sopra la spalla di Cal.

Lui obbedì. «Gnam gnam. Manda giù un altro pezzetto di questo buon fagottino.»

Lei deglutì e richiuse gli occhi.

 

Quando si risvegliò di nuovo, scoprì che si stava muovendo. Cal se l’era messa in spalla. A ogni passo, le ballonzolava la testa e le si rivoltava lo stomaco.

«Abbiamo mangiato?» bisbigliò.

«Sì.»

«Che cos’era?»

«Un manicaretto delizioso. Deli-super-zioso.»

«Cal, che cosa abbiamo mangiato?»

Lui non rispose, scostando l’erba segnata da schizzi rosso scuro e penetrando in una radura. Al centro si stagliava un’enorme pietra nera. Di lato c’era Tobin.

Eccoti qui, pensò lei. Ti ho rincorsa per tutto il vicinato.

Solo che non aveva rincorso una pietra, sarebbe stato impossibile, ma una bambina.

Una bambina. La mia bambina. La mia respons...

«Che cosa abbiamo mangiato?» Becky iniziò a tempestare il fratello di pugni, ma era debole, troppo debole. «Oddio! Oddio!»

Lui la posò a terra, fissandola prima sorpreso e poi divertito. «Secondo te?» Spostò lo sguardo verso il ragazzino che sogghignava scuotendo la testa, come si fa quando qualcuno prende una cantonata colossale. «Becky... tesoro... abbiamo mangiato un po’ d’erba. Erba e semi e così via. Le mucche la brucano di continuo.»

«Un contadino di Loyola», canticchiò Tobin, portandosi le mani alla bocca per soffocare i risolini. «Per sfamarsi aveva una cosa sola.»

«Non ti credo», ribatté Becky con un filo di voce. Stava guardando la roccia. Era costellata di graffiti di omini danzanti. Sì, alla prima luce del mattino parevano ballare sul serio. Salendo a spirale, come le strisce di una vecchia insegna di un barbiere.

«Davvero, Beck. La bimba... la bimba sta benone. È al sicuro. Mi sono già calato nella parte di zio. Tocca la pietra e vedrai. Capirai. Toccala e sarai...»

«Redenta!» strillò il ragazzino, sghignazzando insieme con Cal.

Ale e Vale, pensò lei. Ridono uguale.

Si incamminò verso il masso... allungò le mani... e poi le ritrasse. Quello che aveva mangiato non sapeva d’erba. Sapeva di sardine. Aveva lo stesso gusto salato-dolciastro-amarognolo dell’ultimo sorso di un margarita. Aveva il sapore...

Aveva il sapore di me. È stato come leccarsi il sudore dalle ascelle. Oppure... Oppure...

Cominciò a strillare. Provò a tornare indietro, ma Cal la teneva per un braccio e Tobin per l’altro, nonostante avesse preso a dimenarsi. Avrebbe dovuto essere in grado di sbarazzarsi almeno del ragazzino, eppure era ancora debole. E poi anche la pietra la stava attirando a sé.

«Toccala», le sussurrò il fratello. «Non ti sentirai più triste. Ti accorgerai con i tuoi occhi che la bimba è a posto. La piccola Justine. Sta alla grande. Adesso è una figlia degli elementi. Becky... lei scorre con il tutto

«Sì», la incitò Tobin. «Tocca la pietra. Non ti sentirai più sperduta qui in mezzo. Capirai l’erba. Ne diventerai parte. Proprio come Justine.»

L’accompagnarono fino al masso, che ronzava industrioso. Felice. Dalle sue viscere si sprigionò un bagliore da mozzare il fiato. Sulla sua superficie omini e donnine stilizzati ballavano sollevando le braccia stecchite. Nell’aria risuonava una musica. Becky DeMuth si disse: Tutta la carne è erba.

E abbracciò la pietra.

 

Erano in sette dentro un vecchio camper tenuto insieme con lo sputo, il fil di ferro e probabilmente la resina di tutta l’erba fumata tra le sue pareti rugginose. Su una fiancata spiccava la scrittaOLTRE in mezzo a un caos psichedelico rosso-arancio, in omaggio allo scuolabus datato 1939 dell’International Harvester sul quale i Merry Pranksters di Ken Kesey avevano visitato Woodstock nell’estate del 1969. A quei tempi solo due dei nostri hippie erano già nati.

I Nuovi Pranksters erano appena stati in pellegrinaggio a Cawker City per Il Gomitolo di Spago Più Grande del Mondo. Da quando erano ripartiti, si erano sparati tonnellate di maria e avevano tutti una fame boia.

Fu Twista, il più giovane della compagnia, ad avvistare la Pietra Nera del Redentore, con il campanile bianco che svettava imponente e il parcheggio che sembrava fatto apposta per loro. «Picnic davanti alla chiesa!» urlò dalla postazione accanto a Pa’ Cool, impegnato a guidare. Iniziò a saltare su e giù con le fibbie della salopette a tintinnargli. «Picnic davanti alla chiesa! Picnic davanti alla chiesa!»

Gli altri si unirono in coro. Pa’ lanciò un’occhiata a Ma’ dallo specchietto retrovisore. Quando la donna fece spallucce e annuì, lui si fermò nello spiazzo, posteggiando il camper di fianco a una Mazda impolverata con la targa del New Hampshire.

I Pranksters del ventunesimo secolo si precipitarono fuori, con addosso la puzza di super skunk e le magliette ricordo del Gomitolo di Spago. Pa’ e Ma’, i più anziani dell’equipaggio, erano il capitano e il primo ufficiale del buon vecchio scuolabus, e gli altri cinque (MaryKat, Jeepster, Eleanor Rigby, Frankie Wiz e Twista) ne seguirono alla lettera gli ordini, scaricando il barbecue, la borsa termica della carne e naturalmente la birra. Jeepster e Wiz avevano appena iniziato a montare la griglia quando udirono il primo flebile richiamo.

«Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

«Sembra una voce di donna», disse Eleanor.

«Aiuto! Per piacere, aiutatemi! Mi sono perso!»

«Non è una donna, è un ragazzino», la corresse Twista.

«Che storia», biascicò MaryKat. Era fatta come una biscia e non le uscì di meglio.

Pa’ guardò Ma’. Ma’ guardò Pa’. Ormai avevano quasi sessant’anni e stavano insieme da un pezzo, tanto da leggersi nel pensiero come molte altre coppie.

«Il bambino si è avventurato nell’erba», incominciò Ma’.

«La mamma l’ha sentito urlare ed è corsa a cercarlo», continuò Pa’.

«Probabilmente sono troppo bassi per ritrovare la strada verso la statale. E così...»

«...si sono persi entrambi.»

«Minchia, che casino», intervenne Jeepster. «Una volta io mi sono infognato dentro un centro commerciale.»

«Che storia», ribadì MaryKat.

«Aiuto! Qualcuno ci aiuti!» Di nuovo la donna.

«Andiamo a prenderli», decise Pa’. «Li tireremo fuori e offriremo la pappa a entrambi.»

«Che ideona, fratello», rispose Wiz. «Amore per il prossimo. Per me non esiste niente di meglio, cazzo.»

Da secoli Ma’ Cool non si portava più dietro la sua cipolla, ma era brava ad azzeccare l’ora in base alla posizione del sole. Lo fissò strizzando gli occhi, calcolando la distanza tra la sfera rosso fuoco e il campo erboso che si perdeva all’orizzonte. Scommetto che l’intero Kansas era così prima che certa gente arrivasse a rovinarlo, pensò.

«Una vera ideona», concordò. «Sono quasi le cinque e mezzo e avranno lo stomaco vuoto. Chi resta qui a sistemare il barbecue?»

Nessun volontario. Nonostante una terribile fame chimica, tutti volevano partecipare alla missione misericordiosa. Alla fine l’equipaggio al gran completo marciò attraverso la Route 400, penetrando nell’erba alta.

Oltre.