sabato 29 febbraio 2020



DI QUESTO MONDO E DEGLI ALTRI
José Saramago
 Einaudi
Parte 2
Indice
Le vacanze 53 
L’estate 54 
Da “Il bagaglio del viaggiatore” 55 
Ritratto di antenati 55 
La mia ascesa all’Everest 56 
Molière e la Capinera 58 
E anche quei giorni 60 
Di quando morii rivolto verso il mare 61 
I personaggi sbagliati 63 
L’estate è il mantello dei poveri 66 
Il delitto della pistola 67 
Il miglior amico dell’uomo 69 
Storia per bambini 70 
Le terre 72 
Il lucertolone 73 
Nel cortile, un giardino di rose 74 
Il bianco gioca e vince 76 
Storia del re che faceva deserti 78 
La piazza 79 
Una lettera con inchiostro di lontano 81 
Apologo della vacca lottatrice 82 
Cavalli e acqua corrente 84 
Le grida di Giordano Bruno 85 
Le coincidenze 86 
Il recupero dei cadaveri 88 
Meditazioni sul furto 90 
Quattro cavalieri a piedi 91 
Del principio del mondo 93 
L’officina dello scultore 94 
Il giardino di Boboli 96 
Terra di Siena bagnata 97 
Il tempo e la pazienza 98 
Il fiume più grande del mondo 99 
Una notte in Plaza Mayor 101 
Il perfetto viaggio 102

Le vacanze
Oggi parlerò delle vacanze: è tempo loro, come si dice che è tempo di ciliegie. Un altro albero dà questi frutti, e lo stesso albero li coglie: i giorni ce le portano, i giorni ce le tolgono. Così scorrendo passa il tempo, ma all’approssimarsi delle vacanze è tutto un desiderarle, fare progetti, cullare illusioni. Arrivato il momento, abbiamo davanti a noi uno spazio vuoto che ci aspetta, come una grande sala che dobbiamo occupare. Che ci metteremo dentro? C’è chi passa qualche giorno al suo paese, chi si arrischia all’estero, chi conta i centesimi per un ombrellone in spiaggia. C’è anche chi non esce di casa e resta a guardare, tutto il giorno, la strada dove abita. Sia come sia, i giorni delle vacanze acquistano d’improvviso un valore che gli altri non avevano. Sono giorni totalmente disponibili, alla mercé della fantasia e delle possibilità di ciascuno. Il tempo si è scollegato dal meccanismo dell’orologio, è una dimensione non delimitata, informe, un pezzo di argilla davanti alle mani che lo modelleranno.
Le vacanze sono anche un’opera di creazione. Non stupisce, dunque, che al loro approssimarsi un subito timore ci prenda. Quell’intervallo tra due rappresentazioni, quella radura circondata da foresta nera su ogni lato – che ne faremo dell’argilla del tempo? Se torniamo al paese, bastano due giorni per rivedere i conoscenti, i luoghi e la famiglia; se andiamo all’estero, che risultato trarremo da quattromila chilometri in otto giorni? E se andiamo al mare? E se restiamo a casa? E poi, ci sono un sacco di complicazioni: orari, pasti indigesti, notti mal dormite, vecchie storie di famiglia, stanchezza di viaggi andata-e-ritorno, rabbia di stare rintanati al chiuso. Ah, le vacanze. Quando finiscono, ci restano ricordi sbiaditi, come di un vecchio sogno. Nulla è accaduto come l’avevamo immaginato: è piovuto, ci è venuto mal di denti, i musei erano troppi, i paesaggi non erano così belli come in fotografia, se ne è andato un mucchio di soldi – o non ce ne sono stati da spendere. E ricomincia il lavoro in rigoroso stato di collera, perché peggio dell’aver avuto e non aver più è restare al di qua di quel che si è sognato.
In fondo, questo sogno, tante volte rinnovato e altrettante frustrato, è appena il desiderio inconscio di ripetere le uniche vacanze meravigliose che abbiamo avuto: quelle dell’infanzia – mesi infiniti per i quali non c’erano progetti, perché allora non si facevano e perché, prima ancora di viverli, erano già realizzati. Il mondo era tutto da scoprire – e il mondo entrava nel cerchio che gli occhi tracciavano. Due alberi e uno stagno: l’Europa. Un cammino tra le rocce: l’America. O l’Asia. O l’Africa. Nuotare o navigare nel fiume era lo stesso che attraversare l’oceano. E scoprire un nido abbandonato valeva quanto la caverna di Alì Babà. Per questo oggi le vacanze non possono essere riposo. Vogliamo, a viva forza, scoprire il mondo, come se fossimo noi i primi: altro non significa la nostra soddisfazione quando costringiamo un amico a confessare di non aver visto, al Louvre, quella statua greca che a nostro avviso vale da sola il viaggio.
È tutto un’illusione. Il mondo è stato visto e imparato a memoria. Nessuno scoprirà l’Europa, e la statua greca, alla fine, è una misera copia romana. Ma che importa? Dichiaro qui solennemente che quest’anno le mie vacanze saranno, quanto a rivelazione e scoperta, uguali a quelle in cui, con gli occhi nuovi dell’infanzia, mi capitò di trovare una fonte che nessuno conosceva. E se non sarà quest’anno, sarà per il prossimo. Perché la fonte sta lì.

L’estate
La chiamano mantello dei poveri, segno di freddo il resto dell’anno. D’estate scappano di casa gli adolescenti, desiderio di fuga nato forse in primavera, ma solo la promessa dei giorni vibranti e delle notti benigne maschera di conforto i pericoli dell’avventura. L’estate è tutta un richiamo, un clamore di festa che si ode nel ronzio delle grandi calure. E quando il sole popola di rive e isole d’ombra l’oceano infuocato di luce, siamo tutti un po’ naufraghi e ansimiamo dolcemente, mentre il sudore stilla dai pori come fontane e ci bagna di sale.
L’estate è esigente, non aspetta. Si propone come la polpa carnosa di un frutto che reclama la bocca predestinata – e che marcisce, inutile, se il tempo è passato invano. Sul ramo più alto dell’albero il frutto rivolge al sole la pelle profumata e convoca gli uccelli alla gioia della maturazione. Ma la corona che lo merita è la mano dell’uomo. E il frutto riposa un istante sotto lo sguardo che lo desidera, mentre al suo interno, come il sangue che d’improvviso scorre più veloce e imperioso, il succo si prepara alle migrazioni della sostanza.
E c’è il mare, che l’estate inquieta e placa. E la frescura delle onde che di colpo s’induriscono e coprono di indolenti fili d’acqua le lunghe sabbie ardenti. E l’ombra di un canneto abbandonato che disegna al suolo il lento passo delle ore luminose. Tutto ciò ha senso se sotto il sole e sulla sabbia, e dentro l’acqua, e proiettato nella nitida trasparenza della distanza, il corpo è accompagnato dall’uguale certezza che lo riflette e sublima.
L’estate promette, e mantiene. Cantano meno gli uccelli, le messi hanno perso quel che sembrava eterno rigoglio – ma è il tempo dei nidi, e la stoppia, ormai insecchita e rigida, si aggrappa alle dure zolle dove il grano, per grazia del sole e della terra, ha firmato con l’uomo il più sacro degli impegni: tu mi rispetti, io ti alimento.
In questi giorni di fuoco è necessario essere di fuoco. L’estate è un corpo di donna che avanza come polena, fiamma che rompe le fiamme. Ha in mano gli innumerevoli fiori che resistono al tempo. Trasporta con sé un segreto di vita che corre sulle onde del mare, sulle cime rumorose degli alberi, tra la soffice lanugine che riveste l’incavo delle ali degli uccelli. L’estate canta trionfale. È un grido di giubilo lanciato verso i misteri minacciosi. E diviene un mormorio dentro le notti scure e profumate, quando una lieve e tiepida brezza giunta dalle arche dell’orizzonte passa sul volto come un’imponderabile carezza di mani amate.
Canto l’estate che mi canta. E giro lentamente il corpo in questo spazio come un figlio del sole, mentre il mare risplende. Pianto i piedi sulla sabbia che ubriaca e colgo con le mani avide i frutti più alti. È tempo loro. Mi distendo lungo sulla barca portata dalla corrente e vedo passare rami verdi, bianche nubi, cieli di azzurro e perla, uccelli prodigiosi. Cade su di me una profonda e dolorosa allegria: verrà l’inverno, ma oggi è estate.
Da “Il bagaglio del viaggiatore”

Ritratto di antenati
Non sono mai stato affetto da quella vanità necrofila che spinge tanta gente a indagare il passato e i trapassati, ricercando i rami e gli innesti dell’albero che nessuna botanica menziona – l’albero genealogico. Penso che ciascuno di noi sia, soprattutto, figlio delle proprie opere, di quel che va facendo mentre sta quaggiù. Sapere da dove veniamo e chi ci ha generati ci dà solo un po’ più di fermezza civile, ci concede solo una specie di franchigia per la quale non abbiamo dato nessun contributo, ma che ci risparmia risposte imbarazzanti e sguardi più curiosi di quel che la buona creanza dovrebbe permettere. Essere figlio di qualcuno molto noto perché non restino in bianco le righe della carta d’identità è come venire al mondo timbrato e fornito di salvacondotto.
Per quanto mi riguarda, non mi disturba affatto sapere che al di là della terza generazione regnano le tenebre assolute. È come se i miei nonni fossero nati per germinazione spontanea in un mondo già del tutto formato, di cui non avevano nessuna responsabilità: il male e il bene erano opera altrui che ad essi spettava appena ricevere nelle loro mani innocenti. Mi piace pensare così, specialmente quando evoco un bisnonno materno, che non feci in tempo a conoscere, oriundo dell’Africa settentrionale, sul quale mi raccontavano storie favolose. Lo descrivevano come un uomo alto, magrissimo e scuro, dal volto di pietra, dove un sorriso era così raro da rappresentare un avvenimento. Mi dissero che aveva ucciso un uomo in circostanze misteriose, a freddo, come chi strappa un arbusto. E mi dissero anche che la vittima aveva ragione: ma non aveva il fucile.
Malgrado una così densa macchia di sangue in famiglia, ricordo volentieri quell’uomo venuto di lontano, misteriosamente di lontano, da un’Africa di burnùs e sabbia, di montagne fredde e ardenti, forse un pastore, forse un brigante – e che lì si era iniziato all’antica scienza agricola, da cui subito si allontanò per andare a sorvegliare maremme, il fucile sotto braccio, camminando a passo elastico e ritmato, infaticabile. Presto scoprì i segreti dei giorni e delle notti, e presto scoprì anche il fascino tenebroso che esercitava sulle donne il suo mistero di uomo venuto dall’altra parte del mondo. Proprio per questo ci fu il delitto di cui parlavo. Non lo presero mai. Viveva lontano dal villaggio, in una baracca tra i salici, e aveva due cani che guardavano gli estranei fissamente, senza abbaiare, e non smettevano di guardarli finché non si allontanavano, tremando. Questo mio antenato mi affascina come una storia di predoni arabi. Al punto che se si potesse viaggiare nel tempo, vorrei vedere lui piuttosto che l’imperatore Carlo Magno.
Più vicino a me (tanto vicino che stendo la mano e tocco il suo ricordo carnale, il viso secco e la barba lunga, le spalle magre che da lui ho ereditato), quel nonno guardiano di porci, dei cui genitori non si sapeva niente, deposto nella ruota della Misericordia, uomo segreto per tutta la vita, di scarse parole, anche lui sottile e alto come una pertica. Costui fu preso di mira dal rancore di tutto il villaggio, perché era venuto da fuori, perché era figlio dell’erba, e, malgrado tutto, di lui si era innamorata la mia nonna materna, la ragazza più bella di quel tempo. Per questo mio nonno dovette passare la sua prima notte di nozze seduto sulla porta di casa, all’addiaccio, con un bastone ferrato sulle ginocchia, in attesa dei rivali gelosi che avevano giurato di fracassargli il tetto a sassate. Alla fine, non si fece vivo nessuno, e la luna viaggiò tutta la notte in cielo, mentre mia nonna, a occhi aperti, aspettava suo marito. Ed era già l’alba quando si abbracciarono.
E adesso i miei genitori in questa fotografia di oltre cinquant’anni fa, scattata quando mio padre era già tornato dalla guerra – quella che sarebbe rimasta per sempre la Grande Guerra – e mia madre era incinta di mio fratello, morto bambino di difterite. Stanno tutti e due in piedi, belli e giovani, di fronte al fotografo, con un’aria di gravità solenne, forse timore della macchina che fissa l’immagine impossibile da trattenere, sui visi così preservati. Mia madre ha il gomito destro appoggiato su un’alta colonna e nella mano sinistra, abbandonata lungo il corpo, tiene un fiore. Mio padre passa il braccio dietro la schiena di mia madre e la sua mano callosa appare sulla spalla di lei come se fosse un’ala. Entrambi se ne stanno, intimiditi, su un tappeto a fiori. In fondo, la tela mostra vaghe architetture neoclassiche.
Doveva pur arrivare il giorno in cui avrei raccontato queste cose. Niente di ciò ha importanza, se non per me. Un nonno berbero, un altro nonno deposto nella ruota (figlio segreto di una duchessa, chissà?), una nonna meravigliosamente bella, due genitori gravi e gentili, un fiore in un ritratto – quale altra genealogia può interessarmi? a quale albero migliore di questo potrei appoggiarmi?

La mia ascesa all’Everest
Sarà a causa della pressione atmosferica o per effetto di un imbarazzo di stomaco, certi giorni ci mettiamo a guardare al tempo trascorso della nostra vita e lo vediamo vuoto, inutile, come un deserto di sterilità sul quale brilla un grande sole autoritario che non osiamo guardare in faccia. Qualsiasi angoletto ci farebbe allora comodo per celare la vergogna di non aver raggiunto un pianoro qualunque da dove ci si riveli un altro paesaggio più fertile. Mai come in tali occasioni ci si rende conto di quanto sia difficile questo compito apparentemente immediato del vivere, che non sembra richiedere nessun apprendistato. È in tali momenti che facciamo risoluti progetti di modificare il mondo. Lo specchio è di grande aiuto nell’approntare le fattezze adeguate al modello che ci disponiamo a seguire.
Ma sale la pressione, il bicarbonato ha riequilibrato l’acidità – ed ecco, la vita continua, zoppicante, come se avesse un chiodo nella scarpa e un’invincibile pigrizia di toglierlo. Sicché il mondo sarà di fatto trasformato, ma non da noi.
Non starò, tuttavia, commettendo una grave ingiustizia? Non ci sarà nel deserto una subita ascensione che ancor da lontano affretti l’impari vertigine che è la densa zavorra che ci giustifica? In altre parole, e più semplicemente: non saremo tutti noi trasformatori del mondo? un dato e breve minuto dell’esistenza, non sarà questa la nostra prova, invece di tutti i sessanta o settanta anni che ci sono toccati in sorte?
Il guaio è se incontriamo questo minuto in un passato lontano, o se al momento non abbiamo occhi per altre ascensioni più imminenti. Ma forse ci sarà una scelta deliberata, a seconda del luogo in cui parliamo del nostro deserto personale, o delle orecchie che ci ascoltano. Oggi, per esempio, quale che ne sia il motivo, sto vedendo, a distanza di trenta e più anni, un albero gigantesco, tutto proiettato in altezza, che sembrava, nel pantano circolare e liscio, l’asta di un grande orologio solare. Era un frassino dalla corazza rugosa, tutta fenditure alla base, e che sviluppava lungo il tronco una serie di protuberanze ramose, come aggetti che promettevano una facile scalata. Ma erano per lo meno trenta metri d’altezza.
Vedo un ragazzino scalzo girare attorno all’albero per la centesima volta. Odo il battito del suo cuore e sento il palmo umido delle sue mani e un vago odore di linfa calda che sale dall’erba. Il ragazzo alza la testa e vede lassù in alto la cima dell’albero che si agita lentamente come se stesse pennellando il cielo d’azzurro.
Le dita del piede scalzo si aggrappano alla corteccia del frassino, mentre l’altro piede ondeggia l’impulso che farà arrivare la mano ansiosa al primo ramo. Tutto il corpo si stringe contro il tronco aspro, e l’albero ode sicuramente i colpi sordi del cuore che gli si affida. Fino al livello degli altri alberi prima conquistati, l’agilità e la sicurezza si alimentano dell’abitudine. Ma a partire da li, il mondo si allarga d’improvviso, e tutte le cose, fino ad allora familiari, si vanno facendo estranee, piccole, è come un abbandono di tutto – e tutto abbandona il ragazzo che sale.
Dieci metri, quindici metri. L’orizzonte gira lentamente e barcolla quando il tronco, sempre più sottile, oscilla al vento. E c’è una vertigine che minaccia e mai si decide. I piedi scorticati sono come artigli che si afferrano ai rami e non vogliono lasciarli, mentre le mani cercano frementi la vetta, e il corpo si contorce contro il corpo verticale dell’albero. Il sudore scorre, e di repente un singhiozzo secco irrompe all’altezza dei nidi e dei canti degli uccelli. È il singhiozzo della paura di non aver coraggio. Venti metri. La terra è definitivamente lontana. Le case appiattite sono insignificanti, e le persone è come se fossero scomparse, e di tutte restasse appena il ragazzo che sale – proprio perché sale.
Le braccia già possono cingere il tronco, le mani si uniscono dall’altra parte. La cima è ormai prossima, oscillante come un pendolo capovolto. Tutto il cielo azzurro si addensa sopra l’ultima foglia. Il silenzio copre il respiro affannoso e il sussurro del vento tra i rami. È questo il grande giorno della vittoria.
Non rammento se il ragazzo sia arrivato in cima all’albero. Una nebbia persistente copre questo ricordo. Ma forse è meglio così: non aver raggiunto allora il pinnacolo è una buona ragione per continuare a salire. Come un dovere che nasce da dentro e perché il sole è ancora alto.

Molière e la Capinera
Mi metto a pensare alle coppie celebri di cui sono piene la storia e la letteratura – Paolo e Virginia, Ettore e Andromaca, Otello e Desdemona, Pedro e Ines, e tante tante altre, senza dimenticare accoppiamenti e connubi che la natura tollera appena nella mitologia, come quelli di Leda e il Cigno, di Europa e il Toro – mi metto a pensare a tutto questo e sorrido tra me, mentre osservo dalla finestra della mia casa il dialogo di piani che i tetti vanno alternando per il pendio. Ho nel ricordo un’altra finestra, stretta, incassata tra due muri che a malapena mi lasciavano scorgere la strada (sesto piano, abbaino, vicino al cielo), da dove, per tutto il tempo che vi ho abitato, potevo vedere poco più che tetti e nuvole, e un sole che faceva tutti i giorni lo stesso percorso e che spostava, da un lato all’altro, fino a farla salire lungo la parete e scomparire, una striscia di luce sul pavimento consunto dove giocavo.
Racconto queste cose in periodi lunghi, respirando profondamente per immergermi nel passato fugace dell’infanzia, in cui le verità si diluiscono e risplendono come monete d’oro abbandonate nel fango. Fu su quella sedia che posai il cartoccio di pastiglie di cioccolata che la signora Albertina mi aveva dato nella cucina dove andavo a trovarla. Potevo anche uscire nel giardino, piccolo e umido, con i vialetti pieni di muschio e terriccio, dove si trascinavano, lenti e grigi, sulle molte zampette biancastre, i porcellini di sant’Antonio che spesso non volevano arrotolarsi, con grande scandalo della mia fiducia negli istinti naturali che li facevano appallottolare alla più piccola carezza sul dorso corazzato di anelli. E in piena notte mi alzai piano piano, per non svegliare i miei genitori che dormivano nella stessa stanza, e andai a cercare, palpando il buio che mi copriva di ragnatele le mani e il viso, il cartoccio di pastiglie di cioccolata, e in tre passi furtivi, con il cuore che mi batteva forte, tornai nel mio lettino, e scivolai tra le lenzuola mangiando, felice, finché mi addormentai. Quando la mattina mi svegliai, avevo schiacciato sotto di me quel che restava del pacchetto, appiccicoso e molle per il calore. Piansi per il dispiacere, ma mia madre non mi picchiò, e ancora oggi le bacio le mani per questo.
Avevo otto anni e sapevo già leggere molto bene. Scrivere, non tanto, ma facevo pochi errori per quell’età, solo la calligrafia era brutta, e tale è rimasta. Scrivevo su quei vecchi quaderni con le belle lettere disegnate, che ripetevo con prodigi d’attenzione, ma già alla fine della riga cominciavo a inventare un alfabeto nuovo, che non riuscii mai a organizzare completamente. Leggevo molto bene i giornali e sapevo tutto quel che accadeva nel mondo. Almeno, io credevo che fosse tutto.
Avevo anche dei libri: una guida alla conversazione portoghese-francese, finita lì non so come, le cui pagine, divise in tre parti, erano per me un enigma che decifravo solo parzialmente, poiché a una colonna di sinistra, in portoghese, che potevo capire, se ne affiancava un’altra in francese, per me come cinese, e infine la pronuncia figurata, di gran lunga peggiore di tutti i crittogrammi del mondo. C’era poi un altro libro, uno solo, molto grande, rilegato in azzurro, che tenevo a lungo sulle ginocchia, per poterlo leggere, e nel quale si narravano profusamente le avventure romantiche d’una fanciulla povera che viveva in un mulino, così bella che la chiamavano la Capinera. Per questo il libro s’intitolava La Capinera del mulino: l’autore, se la memoria non m’inganna, era un certo Emile de Richebourg, un avventuriero specialista in storie lacrimevoli. E il libro, quando non veniva usato, passava il tempo in un cassetto del comò, avvolto in carta di seta, e mandava, quando si tirava fuori, un odore di naftalina da stordire. Mia madre me lo consegnava con attenzione e mille raccomandazioni. Di qui mi viene forse il rispetto superstizioso che ancora oggi ho per i libri: non sopporto che li pieghino, che li maltrattino in mia presenza.
Per molto tempo (giorni? settimane? mesi? che dimensione ha il tempo nell’infanzia?) mi intrigò la guida alla conversazione. Vi leggevo cose che mi piacevano, che mi divertivano: fatti accaduti su treni e diligenze, cavalli spossati, bagagli smarriti, ruote che si rompevano in aperta campagna, arrivi in locande, stanze che bisognava riscaldare con grandi fuochi di legna. Anche se fatti del genere non mi capitavano da casa a scuola, pensavo che doveva essere bello vivere così, con tanti imprevisti del destino.
Ma quel che più mi affascinava erano certi dialoghi a volte compassati e solenni, altre volte vivaci e rapidi come il riflesso del sole spazzato via da una finestra che si chiude. Quando mi capitava di leggerli, sorridevo in un modo che solo ora capisco: sorridevo come l’adulto ancora lontano. Solo molti anni dopo ho scoperto che in fondo conoscevo Molière fin dai tempi dell’abbaino: aveva parlato con me, era stato mia guida alla lettura, mentre la Capinera dormiva abbandonata, tra due lenzuola, nel cassetto del comò, dall’odore di naftalina ancora oggi non del tutto svanito.

E anche quei giorni
E ci furono anche quei due giorni gloriosi in cui fui aiutante pastore, e la notte di mezzo, generosa quanto i giorni. Si perdoni a chi è nato in campagna, e ne è stato portato via presto, questo insistente richiamo che viene da lungi e ha nel suo silenzioso appello un’aura, una corona di suoni, di luci, di odori conservati miracolosamente intatti. Il mito del paradiso perduto è quello dell’infanzia – non ce n’è altri. Il testo sono realtà da conquistare, sognate nel presente, custodite nel futuro inattingibile. E senza di esse non so che faremmo oggi. Io almeno non lo so.
I miei nonni avevano deciso, poiché la vendita dei maialini era stata fiacca, di vendere quel che rimaneva della nidiata alla fiera di Santarém, a un prezzo più favorevole e senza un’altra perdita di denaro. Perché la strada si sarebbe fatta a piedi, quattro leghe di campi, a passo di porcellino, affinché gli animali arrivassero alla fiera in condizioni di trovare un compratore. Mi avevano chiesto se volevo andare come aiuto dello zio più giovane – e io avevo detto di sì – magari carponi. Ingrassai gli stivali e sotto la tettoia scelsi il bastone che più si adattava ai miei allampanati dodici anni. Sono sempre state mute le mie gioie, per questo non detti sfogo alle grida che avevo in petto e che fino a oggi non ho potuto liberare.
Ci mettemmo in cammino a metà del pomeriggio, mio zio dietro, a badare che non si perdesse nessun maialino, io davanti, con la scrofa alle calcagna. M’immaginavo essere una polena avanzante per strade e sentieri come sapevo che facevano nei mari le navi di pirati di cui parlavano i miei libri di avventure. Ogni tanto mio zio mi dava il cambio e io dovevo mangiare la polvere che le minuscole zampe degli animali sollevavano da terra. Tra loro, madre di alcuni e a prestito di tutti gli altri, la scrofa li manteneva uniti.
Era quasi notte fonda quando arrivammo al podere dove saremmo rimasti fino al giorno dopo. Mettemmo le bestie in una baracca e mangiammo l’esigua cena accanto a una finestra illuminata, perché non eravamo voluti entrare (o non ci avevano lasciato?). Mentre mangiavamo, venne un servo a dirci che potevamo dormire nella stalla. Ci dette due rozze coperte e se ne andò. Sciolsero i cani e non ci restò che metterci a dormire. La porta della stalla sarebbe rimasta aperta tutta la notte, e a noi andava bene, poiché dovevamo rimetterci in cammino presto, molto prima che spuntasse il sole, per arrivare a Santarém all’apertura della fiera.
Il nostro letto era un’estremità della mangiatoia che accompagnava tutta la parete di fondo. I cavalli ansimavano e battevano gli zoccoli sulle pietre del pavimento, coperto di paglia. Mi distesi come in una culla, avvolto nella coperta, respirando l’odore forte dei cavalli, tutta la notte inquieti, o almeno così mi sembravano negli intervalli del sonno. Mi sentivo stanco, con i piedi martoriati. L’oscurità era calda e densa, i cavalli scuotevano la testa con forza, e mio zio dormiva. Passavano sul tetto i rumori della notte. Mi addormentai come un angelo: così avrebbe detto mia nonna se fosse stata lì.
Mi svegliai quando mio zio mi chiamò, di primo mattino. Mi misi a sedere sulla mangiatoia e guardai verso la porta, con gli occhi ammiccanti di sonno e abbagliati da una luce insperata. Saltai a terra e andai nel cortile: avevo di fronte una luna rotonda ed enorme, bianca, che versava latte sulla notte e il paesaggio. Era tutto bianco splendente dove cadeva la luna e buio fitto nelle ombre. E io che avevo solo dodici anni, come ho già detto, sentii che mai più avrei visto una luna così. È per questo che oggi poco mi commuovono i chiari di luna: ne porto uno dentro di me che non può essere superato.
Radunammo i maiali e scendemmo a valle, con cautela, tra la macchia e i dirupi, con gli animali che scombussolati dalla levataccia si perdevano facilmente. Poi tutto diventò semplice. Proseguimmo costeggiando vigne mature, per un viottolo coperto di polvere che l’umidità della notte manteneva rasoterra, e io saltai fra i tralci e colsi due grandi grappoli che m’infilai sotto la camicia mentre mi guardavo attorno per vedere se arrivava il guardiano. Tornai sul sentiero e detti un grappolo a mio zio. Riprendemmo a camminare mangiando i chicchi freddi e dolci, che sembravano cristallizzati tanto erano duri.
Iniziammo a salire verso Santarém mentre il sole nasceva. Restammo alla fiera tutta la mattina e parte del pomeriggio. Non riuscimmo a vendere tutti i maialini. Perciò dovemmo fare a piedi anche il ritorno, e fu allora che accadde quel che non è mai più accaduto. Sopra di noi si formò un anello di nuvole che quasi al tramonto diventarono nere e cominciarono a rovesciare pioggia, e intanto noi andavamo avanti senza che ci cogliesse una sola goccia, mentre attorno, circolarmente, una cortina d’acqua ci chiudeva l’orizzonte. Alla fine le nuvole scomparvero. La notte avanzava lentamente tra gli olivi. Gli animali facevano quei rumori che sembrano un interminabile chiacchiericcio. Mio zio, davanti, fischiettava piano piano.
Tutto questo mi fece venire una gran voglia di piangere. Nessuno mi vedeva, e io vedevo il mondo intero. Fu allora che giurai a me stesso di non morire mai.

Di quando morii rivolto verso il mare
Lasciai la laguna a metà mattino, quando il sole aveva ormai pulito tutto il cielo. Sull’acqua, che le rapide brezze agitavano appena, non era rimasta traccia della nebbia densa che, all’alba, aveva ricoperto la superficie. Era valsa la pena di svegliarsi presto e vedere la bruma rotolare sulla luna in fiocchi sciolti, come se il sole la spazzasse accuratamente fino a non lasciar nulla tra l’acqua e il cielo azzurro. Riordinai il bagaglio, me lo gettai sulle spalle e, scalzo, cominciai la lunghissima camminata lungo la spiaggia, tra il battere delle onde e il quieto scenario della costa vermiglia.
La marea cresceva, ma c’erano ancora estese tovaglie di sabbia bagnata e dura, su cui era agevole camminare. Il sole era caldo. A capo scoperto, il corpo un po’ inclinato per compensare il peso dello zaino, marciavo spedito, come era mia abitudine, cercando di dimenticare che le gambe mi appartenevano, lasciandole vivere di vita propria, del loro movimento meccanico. Mi è sempre piaciuto camminare così, venti o trenta chilometri senza una sosta, appena il rapido sorso alla cannella d’una fonte, e via.
Non mi fermai neppure per pranzare: mi mancava soprattutto la pazienza di cucinare sulla spiaggia. Mi limitai a mangiare due arance che si disfacevano in dolcezza. Addentavo buccia e polpa insieme e poi sputavo lontano i granelli, come un ragazzo felice. Quando le cinghie dello zaino cominciarono a tagliarmi la pelle bruciata, mi tolsi la camicia, ne feci un cercine che accomodai sulla spalla sinistra e vi appoggiai il peso. Proseguii, alleviato dei dolori.
Il sole ardeva sempre più infuocato. Lo sentivo sulla schiena come il palmo d’una mano rovente, mentre sulla nuca cominciava a nascere e a irradiarsi una specie di torpore. Il sudore faceva rabbrividire la pelle in quel punto. Mi pareva di scoppiare e mi sfregai il viso, le spalle, la nuca. Mi gettai manciate d’acqua sulla schiena. Lo zaino s’era fatto più pesante. Lo passai sulla spalla destra e la camicia scivolò lenta sulla sabbia incandescente. Rimasi a guardarla, come se non l’avessi mai vista, mentre le cinghie mi solcavano la spalla. Riuscii tuttavia a fare ancora qualche passo e fu necessario un grande sforzo per capire che dovevo tornare indietro e raccoglierla. Mi sentivo strano, come sospeso nell’aria, e questa sensazione non mi abbandonò neppure quando mi sedetti e mi lasciai cadere sulla schiena. Avvertivo dentro di me una nausea ondeggiante che mi costrinse a girarmi su un fianco. Il sole mi batteva sulle palpebre chiuse: tra i miei occhi e il cielo c’era una cortina rosa, il colore delicato del sangue che mi scorreva confusamente nel corpo.
Rapido mi passò il pensiero che stavo sentendo i primi effetti di un’insolazione. Inquieto, mi alzai di scatto, mi scrollai come un cane e ripresi la marcia. Frattanto la marea mi aveva spinto verso la sabbia asciutta, che vibrava sotto il calore. Dalla riva giungeva il ronzio di migliaia di insetti che il sole ubriacava. Nelle pause del cedimento, lo strepitio, aspro come lo stridere d’una sega circolare, mi stordiva e accentuava la sensazione di nausea che non mi aveva lasciato.
Fu così per molti chilometri. Varie volte mi fermai e decisi di non fare più un passo. Ma subito la calura mi costringeva a rialzarmi. Dal lato della costa, neppure un’ombra. Il sole ora la bruciava di fronte e continuava a trapanarmi la nuca. Persi coscienza. Andavo come un automa, ormai senza sudore, con la pelle secchissima, salvo le grosse gocce che si formavano sulle tempie e scorrevano lentamente, vischiose, lungo il viso.
Passò così tutto il pomeriggio. Il sole cominciava ad abbassarsi quando raggiunsi il villaggio che doveva essere la mia prima tappa. là potevo mangiare, dissetarmi, riposarmi all’ombra. Ma non feci nulla di questo. Mi infilai le scarpe come in sogno, gemendo per il dolore dei piedi bruciati, e imboccai il sentiero che serpeggiando saliva su per la costa. Mi fermai ancora una volta, come sperduto, guardando dall’alto il mare che si mutava in una macchia scura. Continuai a salire, e mi trovai fuori strada, senza sapere come, a inerpicarmi fra i massi fino al ciglio dell’altissima roccia a picco. Il terreno si inclinava pericolosamente, prima di inabissarsi in verticale.
Decisi di passare lì la notte. Mi sdraiai con i piedi verso il mare e il precipizio, mi avvolsi nella coperta e, ardente di febbre del sole, chiusi gli occhi. Mi addormentai e sognai. Quando riaprii gli occhi, il sole già sfiorava l’orizzonte. “Che ci faccio qui?”, mi chiesi ad alta voce. E fu con movimenti di paura che riunii le mie cose e tornai sul sentiero, fuggendo.
Camminavo e pensavo che lì non c’ero io, che il mio corpo morto era rimasto rivolto verso il mare, sull’alto della costa, e che il mondo era tutto pieno d’ombre e di confusione. La notte mi colse sulla sponda del fiume, davanti a una città che non riconoscevo, come le torri minacciose degli incubi.
Ancora oggi, dopo tanti anni, mi chiedo che immagine di me sarà rimasta dispersa nel biancore delle sabbie o fissata in pietra nella costa tagliata dal vento. E so che non c’è risposta.

I personaggi sbagliati
Non mi era andata bene la giornata. Suppongo di non potermela prendere con nessuno, ma mi piacerebbe davvero che mi dicessero per quale infausto destino certe mattine arrivano così aride, così nemiche, così armate di coltello e continuano a esserlo fino a tarda sera, come una condanna a vita. Ci infiliamo nella notte come se ci avvolgessimo in un bozzolo e cominciamo a innalzare i muri che il giorno ha abbattuto lasciandoci fragili, sfibrati, più afflitti d’una tartaruga girata a pancia all’aria (altri paragoni: pesce fuor d’acqua, serpente con la spina dorsale rotta, maiale alla mercé del castratore).
Uscii per andare a cena, sebbene l’amaro di fiele che avevo in bocca smorzasse il piacere dell’appetito. Camminai rasente i palazzi, che è il mio modo di rendermi invisibile, calpestando le prime immondizie della notte, mentre uccidevo sul nascere, deliberatamente, le idee che preferivano cammini coerenti. Passando, gettavo rapide occhiate dentro le osterie e le pasticcerie che offrivano la televisione ai clienti: sempre lo stesso ambiente da acquario, la stessa luce livida delle lampade fluorescenti, gli stessi colli torti ad angoli uguali, gli stessi volti imbambolati o con gli occhi fissi. La stessa desolazione.
In giornate come queste non mi salvo né sono una buona compagnia. Sono contento di sapere che gli amici sono lontani, che i nemici non mi scovano, e che né gli uni né gli altri verranno da me a reclamare le prove di amicizia e di odio che sono le monete di scambio del nostro commercio. E se qualcosa desidero veramente in tali circostanze, è trovare le parole minime, brevissime, le onomatopee, se possibile, che mi spieghino il mondo fin dall’inizio. Perché, quanto al futuro, posso segnare tre date per distrarmi: una, in cui probabilmente sarò ancora vivo; un’altra, in cui forse non lo sarò più; la terza, in cui non lo sarò certamente. Fino a quel giorno, lavorare sempre, anche per cose che non vedrò.
Mi capitò di scegliere uno di quei ristoranti apparentemente a prezzi modici, che però diventano facilmente rovinosi se si abbocca all’esca del piattino di olive e del vinello in bottiglia. Chiesi non ricordo che, forse una di quelle pietanze che la memoria dell’infanzia si ostina a insinuare, come un tropismo, una malinconica delusione. Mi rifaccio con il vino ghiacciato, che calma e riconforta, luce interiore che percorre il corpo e lascia tracce scintillanti nelle vene. Arrivò finalmente il caffè. È il momento migliore del pasto, quello in cui si alza la testa per guardare ciò che ci circonda. Era orrendo quel che c’era da vedere: un arredamento stravagante, carico di luci colorate, di maioliche e mosaici con motivi da tappezzeria ricca, soffitti foderati di sughero e, in aiuole pensili, piante di plastica, eterne, senza odore, abominevoli.
Chiesi il conto, chiesi rapidità e, mentre il registratore di cassa mi preparava l’enigma delle abbreviazioni, cifre, percentuali e somme esorbitanti, guardai alla mia sinistra, da dove veniva un trascinare ostensivo di sedie. Si stavano sedendo tre donne di mezza età, cinquanta-sessanta, una di loro immensa, strabordante, le altre bassine e raggrinzite. Le odiai subito, per istinto. E indovinai chi erano, quel che erano, come erano. Erano personaggi sbagliati, quelli che vivono per interposta imitazione, gli alienati per opzione.
Erano venute al ristorante solo per mostrare che fumavano. Facendo maiuscole con i gesti, presero dalle borsette i pacchetti e gli accendini (tutte avevano l’accendino) e tirarono fuori le sigarette allo stesso tempo, mascolinamente, senza inibizioni. Le accesero, lanciarono grossi sbuffi di fumo, chiesero caffè, grappa, conversarono. Una di loro disse che fumava due pacchetti al giorno, e la cicciona, con l’aria di chi c’era già passata e ora si cautelava, espresse l’opinione che erano troppi, al che l’altra rispose che non poteva farne a meno, non poteva proprio, erano i nervi, sapeva di essere “viziosa”, pazienza.
Avevano imparato a fumare dolorosamente, a casa, di nascosto, con violenti attacchi di tosse, ansiti mortali, vomiti, nausee, mal di testa, ma il sacrificio le avrebbe portate all’affermazione definitiva di se stesse, al podio dei vincitori, alla dignità degli uomini. Ora vivono i giorni in attesa dell’ora della grande prova pubblica, qui, nel ristorante, con caffè, grappa e sigarette, parlando ad alta voce perché nulla si perda dell’esempio.
Il cameriere mi porge il piattino con il conto ipocritamente piegato. Perché mai si piegheranno i conti? Perché mai falsifichiamo tutto? Eh? Eh, le onomatopee. Pago e mi alzo, lascio qualche moneta in più, anch’esse ipocrite, passo accanto alle donne, tre parche malefiche, tre volte tre nove, e al nove zero. Perché piegano i conti? Perché li piegano? Perché si piegano le persone? Perché si piegano? Perché?
Quest’altro ristorante, dove vado ogni tanto, dev’essere uno di quei posti di Lisbona che più si prestano a una succulenta analisi sociologica. Non c’ero mai entrato da solo, ma questa volta era successo, di modo che l’attenzione morbosamente acuta che riservo alle cose, senza doversi troppo occupare del quadrato bianco del tavolo, poté circolare come un filtro intorno alla sala, cogliendo gli esemplari più degni di riflessione. Subito al primo colpo d’occhio si ravvisa chi è seduto ai tavoli: funzionari, commercianti, spiriti subalterni, tutti con quell’aria di famiglia nei modi, nelle parole, negli abiti, e soprattutto nelle idee, che definisce il piccolo borghese. Proprio per questo, tutti hanno lo sguardo spento, il viso vorace e al tempo stesso umile, l’aspetto ottuso.
Il ristorante è rumoroso e grande. I pochi bambini si distribuiscono fra tutte le età, dal marmocchio bavoso e frignante al cataclisma infantile; le rughe cominciano come segni di espressione e finiscono in pelle di carta spiegazzata, buona da buttar via. Gli adolescenti sono rari, o si limitano ad accompagnare silenziosamente gli adulti. Non c’è dubbio che il Portogallo invecchia.
Alla mia destra c’è una coppia di mezza età. Hanno scelto i piatti con la bocca contratta, il marito ha ordinato il vino, e sono rimasti in silenzio ad aspettare. Lui porta una spilla da cravatta che è come un mazzolino di pietre, probabilmente vere; lei non ha molto che la distingua se non, forse, il sorseggiare sibilato con cui ingoierà la minestra. Questi due non parleranno tra loro per tutto il pranzo.
A sinistra ho due generazioni: una coppia di vecchi, la figlia e il genero. La figlia serve tutti dal vassoio, mettendo il cibo nei piatti come a dire: <<Mangiate!”, e riservandosi i bocconi peggiori come a dire: “Guardate! “. I vecchi sono golosi, masticano con le labbra molli e bisunte, e lanciano rapidi sguardi al vassoio per vedere se resta ancora qualcosa e se avranno il tempo di partecipare al secondo giro. Tutti bevono birra.
Che dirò di quell’uomo dal viso duro, al centro d’una famiglia vociante e chiassosa, che non vedrò mai parlare e i cui occhi a volte affogano nell’odio? Che potrò raccontare del lungo tavolo a filo del mio, tutto coperto di croste e di macchie di vino versato e perduto? Che dirò di quel che diranno quelli che mi guardano di sottecchi, se è sguardo il rapido lampeggiare che dirigono su di me, se non è solo un movimento involontario e incosciente come il batter di ciglia?
Poso ora gli occhi su una coppia appena entrata e che riassume tutti gli altri che masticano, deglutiscono e sudano. Sono entrambi alti, corpulenti, avventori abituali come si deduce dalla familiarità con cui trattano e sono trattati dal personale. Vanno a sedersi in un angolo, lui un po’ nascosto dalla signora che è alla mia destra e che, in questo momento, mangiata la minestra, estrae accuratamente dalla bocca, con le dita, le spine del pesce spada; ma la moglie, che fa angolo retto con lui, è facilmente alla mia portata. Guardiamo bene, ne vale la pena.
Anche da seduta, continua a essere alta. Della corpulenza è rimasto il seno prominente che invade il tavolo dalla frontiera d’una scollatura rotonda e ampia. Ha i capelli tinti di un colore che fa a pugni con gli occhi e la pelle, una specie di mogano con striature rosate. Le labbra sono sottili e dipinte oltre l’orlo a simulare una bocca carnosa. E durante il pasto si vanno sbavando, con il rossetto che sale capillarmente lungo le minuscole rughe che le solcano la parte superiore della bocca. Ha le mani coperte di anelli vistosi e usa orecchini lunghi che oscillano come bargigli di un tacchino. Il vestito è tutto in azzurri, gialli, rossi, e mostra le braccia bianche e dilaganti come cosce. Fisso lo sguardo sul braccio destro, che vedo meglio. È veramente un magnifico tocco di carne, di grandi dimensioni, che la padrona esibisce ai circostanti con sussulti e tremolii non solo casuali. Crede probabilmente che sia il suo grande atout afrodisiaco e lo offre agli uomini che le stanno attorno, lo getta nel mio piatto con un’aria da donna pubblica. Cautamente, lo spingo verso il bordo, tra i resti e la salsa ormai fredda, e chiamo il cameriere per chiedergli il caffè e che porti via tutto.
E se in quel momento fosse entrata nel ristorante un’adolescente in minigonna, slanciata e sfolgorante, mostrando la pelle pulita e giovane, le borghesi avrebbero accostato le teste oleose, odiose, e l’avrebbero accusata di oscenità. Ma osceno era quel braccio enorme che il cameriere portava via nel mio piatto e che sarebbe finito nel secchio della spazzatura.

L’estate è il mantello dei poveri
Ho pranzato sul limitare dell’aria aperta, accanto a una finestra spalancata. Era già metà pomeriggio e il ristorante era deserto: il sole mi aveva catturato sulla spiaggia, avvolgendomi di sonnolenza, e tra il bagno e la sabbia erano trascorse le ore. È una sensazione piacevole quella di avere il corpo aspro di sale, pregustando la doccia che ci aspetta a casa. E mentre la bistecca non arriva, si va sorseggiando il vino fresco e spalmando il burro su pezzetti di pane tostato, per ingannare la fame risvegliatasi all’improvviso. Vita beata.
Il momento è così perfetto che possiamo parlare di cose importanti senza dover alzare la voce, e nessuno di noi pensa di avere la meglio nella conversazione o di aver più ragione di quella d’un comune mortale rispettoso della verità. Inoltre è estate e, come ho detto, siamo sul limitare dell’aria aperta. La brezza fa fremere certe piante odorose che arriviamo a sfiorare con le dita e attorno alle quali ronzano gli insetti di stagione. Rotta dal fogliame, una striscia di sole si spande sul legno verniciato della finestra. Vita beata.
Abbiamo la pelle dorata e sorridiamo molto. Dentro il ristorante si alza una gran fiammata: è la cucina che offre i suoi misteri. Subito dopo il cameriere porta la bistecca, affogata nel suo sugo naturale, e infrangiamo le più elementari norme della gastronomia ordinando altro vino bianco. Ed eccola, la bottiglia, con la sua traspirazione gelata e il trucco magico di appannare i bicchieri che l’accolgono. Ah, vita, vita beata.
Ora stiamo zitti, assorti nella delicata operazione di separare la carne dall’osso. Sotto l’affilato coltello, le tenere fibre si staccano senza sforzo. Il sugo le penetra, ne ravviva il sapore – oh, come è bello mangiare così, dopo un’ardente giornata di spiaggia, nel ristorante con le finestre aperte, il profumo dei fiori e quest’odore forte dell’estate.
Riprendiamo a parlare, diciamo cose vaghe e lente, intelligenti, in una pienezza di persone fortunate. Il sole, che è sceso ancora un po’, scivola sui bicchieri, accende bagliori sul vetro e dà al vino una trasparenza di fonte. Ci sentiamo bene, con il ristorante tutto per noi, circondati da legni fulvi e tovaglie colorate.
È a questo punto che avviene l’eclisse. Un’ombra s’interpone tra noi e il mondo esterno. Il sole s’allontana violentemente dal tavolo e la mano d’un uomo oltrepassa la cornice della finestra, avanza e si posa immobile sul ripiano del tavolo – il palmo in alto. Il gesto è semplice e non ci sono parole che l’accompagnano. Solo la mano aperta, in attesa, librando come un uccello morto sui resti del pranzo.
Nessuno parla. La mano si serra stringendo l’elemosina e l’uomo s’allontana, senza ringraziare. Ci guardiamo, adagio, con le labbra deliberatamente chiuse. D’un tratto, tutto appare inutile e codardo. Poi, con mille cautele, affrontiamo l’argomento scottante. Se non fossimo stati a tavola, gli avremmo dato l’elemosina? E che sarebbe successo se gliel’avessimo rifiutata? Avremmo sentito poi più rimorsi del solito?O era stato solo il timore che la mano ossuta e scura piombasse sul tavolo come un avvoltoio e strappasse la tovaglia, tra un infrangersi di vetri e stoviglie, in un interminabile e definitivo terremoto?

Il delitto della pistola
La pistola, quella mattina, uscì in un tale stato di irritazione che nel chiudere la porta lasciò cadere il caricatore. Le pallottole saltarono qua e là sul pianerottolo, e se la pistola era già furiosa, si può immaginare in che stato si trovasse quando finì di ricaricarsi. Ad aggravare l’incidente, l’ascensore non funzionava, il che, per un’arma di questo tipo, è il colmo. La sua anatomia infatti le rende difficile scendere le scale. E costretta a scivolare di lato e per quanta attenzione ci metta, finisce sempre con rigare la canna. E assume, evidentemente, un’aria un po’ sciatta.
L’uomo abitava nello stesso edificio, voglio credere nella stessa casa. I vicini notavano in lui una certa preoccupazione, una malinconia, un modo distratto di salutare, come chi pensi a un altro mondo o a dialogare con se stesso. A nessuno però passava per la testa che tra l’uomo e la pistola vi fossero problemi, che litigassero, perciò fu una sorpresa che fece parlare, non solo nel palazzo ma in tutta la strada e nel quartiere. Anche la città, nonostante fosse molto più grande e avesse altro cui pensare, seppe del caso, ma non gli dette importanza più di tanto.
Motivi precisi, dunque, non se ne conoscono. La gente fa congetture su congetture, ma di certo nessuno riesce a capire come mai in una curva della scala, dove i gradini si aprono a ventaglio, la pistola abbia sparato due colpi nel petto dell’uomo. Furono due scoppi che scossero il palazzo dal tetto alle fondamenta, con tanta violenza da sembrare un terremoto o la fine del mondo. Quando le vicine si arrischiarono a spiare, videro l’uomo caduto di traverso sul ventaglio dei gradini, bocconi, come una marionetta disarticolata, mentre un rivolo di sangue filtrava dai vestiti e si spandeva sul legno incerato.
Lo so, lo so, lettore, che questa storia è assurda, che le pistole non scendono le scale (né le salgono) e che, per quanto malvagie siano, non sparano a bruciapelo su uomini che salgono le scale (o le scendono). Ma è pur vero che non mi sono divertito alle tue spalle. Quel che ho raccontato è solo una delle mille versioni possibili della notizia che lessi tempo fa su un giornale di Lisbona, secondo cui “un uomo era stato raggiunto, sulle scale di casa, da due colpi della sua stessa pistola. E ne era morto”.
Lettore, tu sai bene quel che accadde in realtà. E anch’io. Potremmo entrambi mettere un punto fermo a una questione che non ci tocca né da vicino né da lontano, e andare oltre. Ma considera che in questo modo di dare notizia dell’ultimo atto d’un uomo c’è una certa petulanza che viene dall’abitudine di giocare con le verità, anche le più semplici, come questa del dissolversi di una vita. E accresce ancor più l’ironia implicita nel rubare il significato di un gesto, di una decisione, questo rubare la morte di un uomo la cui vita era già stata rubata (come? da chi?) prima di quell’incontro tra la mano e l’arma. E come è singolare la scelta del luogo. La scala, l’improvvisa rinuncia a scendere o a salire un solo gradino, come se la riserva della vita si fosse esaurita in quel preciso istante. Il piede inizia il movimento che lo porterà al gradino successivo, ma ecco, no, una repentina stanchezza, lo sforzo che non è piú possibile concludere, e il piede torna al posto che ha lasciato, rassegnato, poi estraneo, semplice sostegno meccanico per l’equilibrio del corpo, subito abbattuto da se stesso, contro se stesso. Due esplosioni, un fumo azzurro, l’odore violento e acre della polvere che sale su per la scala. La marionetta è stata portata via, coperte di segatura le macchie, poi sfregate con liscivia le placche livide dei gradini, livide come il viso e le mani dell’uomo che, alla fine, aveva pur sempre dei problemi con la propria pistola.
So soltanto che hanno giocato con la sua morte. M’immagino, se queste inibizioni dovessero estendersi ad altre interruzioni brusche della vita (si noti l’eufemismo), come sarebbe data la notizia di un incidente automobilistico: “Mentre il signor Tal dei Tali attraversava la strada, secondo una linea retta che lo avrebbe condotto all’altro marciapiede, sentì con fastidio che la sua linea veniva violentemente intersecata da un’altra linea lungo la quale si muoveva un’automobile. Trasportato all’ospedale, il signor Tal dei Tali vi arrivava ormai senza vita”. Sfogati lettore, di tutto quel che pensi di questa commedia di inganni che è la nostra vita.

Il miglior amico dell’uomo
È il cane. Così mi dicevano nei lontani tempi della scuola elementare, lezioni al mattino e vacanza al giovedì (c’era poco da insegnare in quelle preistoriche ere: la pacifica analisi grammaticale, i buoni esempi di storia patria e i volteggi di frazioni e decimali). Il maestro, Vairinho di nome, era un uomo alto e calvo, grave quanto bastava per accentuare la rispettabilità della sua posizione di direttore, ma ciononostante nostro amico e per nulla esagerato in fatto di disciplina. Metteva tuttavia grande impegno in questioni di formazione morale, e il cane era il suo grande tema.
Almeno una volta alla settimana teneva una lezione sentimentale: famose prodezze della gente canina, bracchi abbandonati che tornavano a casa dopo aver superato centinaia di chilometri, “terranova” che si gettavano in acqua per salvare bambini da cui (“pagate il male con il bene”) avevano ricevuto maltrattamenti. Insomma, cose da 1930.
Non mi furono di grande aiuto le lezioni del maestro. I cani che conobbi da vicino mostrarono sempre una sorta di vendicativa avversione per la mia timida persona. Sia perché fiutassero la paura sia perché li offendesse la baldanza con cui cercavo di nasconderla – tra me e i cani ci fu sempre, se non guerra aperta, almeno uno stato di pace circospetta.
Ricordo, per esempio, e con dispetto, quel mastino marrone che trotterellava, trascinando la catena spezzata, per il viottolo dove portavo a spasso la mia distrazione e la mia fiducia. Probabilmente, feci qualche gesto sospetto (“il cane attacca solo se provocato o se crede che il padrone e la proprietà siano in pericolo”) o manifestai timore (“non si deve mai fuggire da un cane: è un animale nobile che non attacca alle spalle”): certo è che, mentre passavo, senza provocazione da parte mia, quel mastinaccio mi addentò lo stinco e, dopo avermi dato uno strattone, continuò per la sua strada, scodinzolando di pura allegrezza.
Questo episodio mi servì di lezione, a conferma che non c’è miglior maestro dell’esperienza. Anni dopo me ne andavo (sempre fiducioso e distratto) a zonzo per i campi, là nella pianura dove sono nato, quando d’improvviso mi trovo faccia a faccia con un cane. Era un lupo di cattiva fama, che non ammetteva cane o gatto nel suo feudo, pronto a spezzargli la schiena se riusciva ad acchiapparli – e che non aveva mai ascoltato le lezioni del maestro Vairinho.
Volle il caso che avessi con me un bastone lungo e robusto. Quando la terribile apparizione mi balzò davanti, tesi il bastone, con la punta a un palmo dal suo muso, e così restammo quasi mezz’ora, il drago rampante, che ringhiava tra finte e schivate, simulava indifferenza per tornare subito dopo alla carica, io che sudavo di spavento, con la voce aggrovigliata in gola, lontano da qualsiasi soccorso, abbandonato al nero destino.
La scampai. La bestiaccia alla fine si stancò di quella lotta senza profitto né gloria. E dopo avermi fissato per un po’ da lontano, con minuziosa attenzione, gli sarà parso che non meritassi la sua collera. Fece mezzo giro e scomparve con un inciampicare corto e sdegnoso, senza guardarsi indietro. Mi allontanai piano piano, rinculando, ancora tremante, finché arrivai a casa di mia zia Elvira, la quale zia, ascoltatrice benevola ma scettica, non credette alla storia (era tale la fama di quella canaglia che averlo vinto solo grazie a un bastone parve a tutti una spudorata panzana).
Da allora smisi di aver fiducia nella bontà dei cani, se mai ci avevo creduto. Perdono al maestro Vairinho le illusioni che volle far nascere in noi: era a fin di bene. E tuttavia mi piacerebbe sapere quali sarebbero oggi le sue lezioni se vedesse i suoi amati modelli ben trattati, pelo lucido, zampa forte e dente affilato, dotati di una profonda conoscenza dell’anatomia umana e dei modi adeguati a danneggiarla. Caro, buono e indimenticato maestro Vairinho, che tanto si dilettava a spiegare i complementi-circostanziali-di-luogo-dove, senza sapere in che guai ci avrebbe cacciato.

Storia per bambini
Se non ho scritto il libro definitivo che farà finalmente della letteratura portoghese una cosa seria, è solo perché non ne ho ancora avuto il tempo. È quanto mi dice il mio amico Ricardo e lo dice con tale convinzione che sarei molto scettico se non gli credessi sulla parola. Ora, nella piccola cerchia dei miei lettori è risaputo che io sono l’essere più disponibile a lasciarsi convincere dalla forza delle altrui certezze. Come potrei dubitare, se costoro affermano tanto e così frontalmente, con lo sguardo sicuro e la mano che non trema? Dico “sissignore”, se l’intimità non ammette di più, e se invece è il caso, come con il mio amico Ricardo, divento così eloquente da costruire una frase di sette parole: “veditela tu, io sto qui ad aspettare”.
Del resto, per essere del tutto sincero, so perfino da dove mi viene quest’universale comprensione che crede in particolare all’opera definitiva di Ricardo. Sappiamo sempre molto meglio degli altri quando sono sfilate davanti alla nostra porta illusioni del genere. Ci rammentiamo di essere stati seduti sui gradini, a veder passare il mondo, a vedere avvicinarsi un’idea dalla nostra parte, intuendo subito da segni inequivocabili che era per noi – e poi, va a sapere, o abbiamo esitato, o l’idea ha perso le gambe, e siamo rimasti seduti, sputando la saliva del disinganno e inventando la scusa che poi propineremo a noi stessi. Per me il caso non è stato così grave, ma mi ha dato lo spunto per immaginare che sarei in grado un giorno di scrivere la più bella storia per bambini, una storia molto semplice, con relativo insegnamento morale a beneficio delle future nuove generazioni che, ovviamente, non diventerebbero adulte se non ne raccogliessero il succo.
Al contrario di quel che si crede, non scriverò oggi questa storia. Mi limiterò a raccontarla, a dire quel che vi accadrebbe, cosa ben diversa (non dimentichiamolo) dallo scriverla. Scrivere è opera d’altra perfezione, è fare quel che dice il mio amico Ricardo – e per questo, ripeto, ne ho tolto via il senso, anche per mancanza di tempo. Ma veniamo al racconto.
Nella storia che scriverei c’era un paese. Non temano, però, quelli che fuori delle città non concepiscono storie neppure infantili: il mio eroe bambino ha le sue rinviate avventure oltre la tranquilla terra dove vivono i genitori, suppongo una sorella, forse uno scampolo di nonni, e una parentela varia di cui non si ha notizia. Subito nella prima pagina, il bambino esce dal podere e, di albero in albero, come un cardellino, scende al fiume, e poi lungo esso, in quell’indugevole divertimento che il tempo alto, largo e profondo dell’infanzia ha permesso a noi tutti. A un certo punto, arrivò al limite delle terre fin dove si avventurava da solo. Da li in poi, cominciava il pianeta Marte, effetto letterario di cui lui non è responsabile, ma con il quale la libertà dell’autore crede di poter oggi comporre la frase. Da lî in poi, per il nostro bambino vi sarà solo una domanda senza letteratura: “vado o non vado?”. E andò.
Il fiume faceva una deviazione molto grande, si allontanava, e di fiume lui già era un po’ stufo, tanto l’aveva visto da quando era nato. Si decise pertanto a tagliare per i campi tra estesi oliveti, costeggiando misteriose siepi coperte di campanule bianche, o inoltrandosi per boschi di alti frassini dove c’erano soffici radure senza traccia di gente o d’animale, e intorno il silenzio che ronzava, e anche un calore vegetale, un profumo di stelo inciso di fresco come una vena bianca e verde. Oh, com’era felice il bambino. Camminò, camminò, gli alberi si andavano rarefacendo, e ora c’era una landa piatta, di macchia rada e secca, e in mezzo un’insolita collina rotonda come una pentola rovesciata.
Si mise il bambino a salire su per la costa, e quando arrivò in cima, che vide? Né la sorte né la morte, né le tavole del destino. Era solo un fiore. Ma così abbiosciato, così vizzo, che il bambino si avvicinò, stanchissimo. E poiché questo bambino era nunzio di storia, pensò che doveva salvare il fiore. Ma l’acqua dov’era? Lassù, neppure una goccia. In basso, solo nel fiume, e quello quant’era lontano. Non importa. Scende il bambino giù per la montagna, attraversa tutto il mondo, arriva al grande fiume Nilo, nel cavo delle mani raccoglie quant’acqua vi entra, riattraversa il mondo, si trascina su per il pendio, tre gocce che là arrivarono, le bevve il fiore assetato. Venti volte su e giù, centomila viaggi sulla luna, il sangue sui piedi scalzi, ma il fiore rigoglioso già profumava l’aria, e come se fosse una quercia gettava ombra sul suolo.
Il bambino si addormentò sotto il fiore. Passarono le ore, e i genitori, com’è consuetudine in questi casi, cominciarono a essere molto preoccupati. Uscì tutta la famiglia e parecchi vicini, alla ricerca del bambino perduto. E non lo trovarono. Frugarono dappertutto, ormai bagnati di lacrime, ed era quasi il tramonto quando alzarono gli occhi e videro lontano un fiore enorme che nessuno ricordava di aver mai visto. Accorsero tutti, salirono in cima alla collina e trovarono il bambino addormentato. Sopra di lui, a proteggerlo dal fresco della sera, c’era un grande petalo odoroso, con tutti i colori dell’arcobaleno.
Il bambino fu portato a casa, circondato da ogni attenzione, quasi fonte di miracolo. Quando poi passava per la strada, la gente diceva che era uscito dal paese per fare qualcosa di molto più grande della sua età e di tutte le età. E questa è la morale della storia.
Le terre
Come un essere vivente, le città crescono a spese di quel che le circonda. Il grande alimento delle città è la terra che, presa nella sua accezione immediata di superficie limitata, acquista il nome di terreno, sul quale, fatta questa operazione linguistica, diventa possibile costruire. E mentre noi andiamo a comprare il giornale, il terreno sparisce, e al suo posto sorge l’immobile.
Ci fu un’epoca in cui questa città cresceva lentamente. Qualche palazzo di periferia aveva il tempo di perdere il segno della novità prima che un altro venisse a fargli compagnia. E le strade davano direttamente sui campi, sui poderi abbandonati, dove pascolavano autentiche greggi di montoni, custodite da autentici pastori. Questo paese diverso, punteggiato di olivi nani, di fichi contorti, di rozzi muri in rovina e, di tanto in tanto, di solitari cancelli spalancati sul vuoto – erano le terre.
Le terre non si coltivavano. Davano, inerti, il loro addio alla fertilità, sopportavano qualche pausa intermedia tra la morte e l’inumazione. La loro grande vegetazione, il loro grande trionfo di flora, era il cardo. Se gli avessero dato spazio, il cardo avrebbe coperto di verde cenere il paesaggio. E dai piani più alti dei palazzi la vista era malinconica, uniforme, come se in tutto ciò vi fosse una grande ingiustizia e un vago rimorso.
Ma le terre erano anche il paradiso dei bambini suburbani, il luogo d’azione per eccellenza: lì si facevano scoperte e invenzioni, lì si tracciavano piani, lì l’umanità in calzoncini già si divideva, a imitazione degli adulti. E c’erano ragazzi immaginosi che davano nomi agli accidenti topografici, e altri, molto sensibili, che si intristivano quando, un giorno, rudi uomini silenziosi cominciavano a scavare buche nel posto dove era arso il falò rituale del gruppo, il fuoco attorno al quale si disponevano, in grave deliberazione, volti attenti e ginocchia scorticate. I gruppi avevano capi autoritari, piccoli tiranni che un giorno inesplicabilmente venivano destituiti, messi al bando, e andavano a cercar fortuna in altri gruppi, dove non riuscivano a mettere radici. Ma la grande disgrazia era quando un ragazzo cambiava quartiere. Il gruppo si cicatrizzava in fretta, il ragazzo invece, con l’animo pesante, percorreva chilometri per rivedere i suoi amici, i luoghi felici, e ogni volta era più difficile ricostituire l’antico vincolo, finché sopraggiungevano l’indifferenza e l’ostilità e il ragazzo scompariva definitivamente, forse aiutato da nuove amicizie e nuove terre.
Oggi la città cresce così in fretta che lascia indietro, irrimediabilmente, le infanzie. Quando il bambino si prepara a scoprire le terre, esse sono ormai lontane, ed è un’intera città che si interpone, aspra e minacciosa. I paradisi vanno allontanandosi sempre di più. Addio, fraternità – ciascuno per sé.
Ma è destino degli uomini, a quel che sembra, opporsi alle forze dispersive che essi stessi mettono in movimento o che insorgono dentro di loro. La città si svuota dove prima era il suo nucleo, nel seme che dovrebbe essere la sua continuità. E allora ci si accorge che le terre sono dentro la città e che tutte le scoperte e le invenzioni sono ancora possibili. E che la fraternità rinasce. E che gli uomini, figli dei bambini che furono, ricominciano l’apprendistato dei nomi delle persone e dei luoghi e di nuovo si siedono attorno a un falò, parlando del futuro e di quel che a tutti importa. Perché nessuno di loro muoia invano.

Il lucertolone
Non posso continuare a rimandarla. È da molto che ho in mente di raccontare una storia di fate, ma questo delle fate è terreno battuto, nessuno ci crede più, e per quanto giuri e spergiuri, è certo che rideranno di me. In fin dei conti, è solo la mia parola contro quella di un milione di abitanti. Ma mettiamo la barca in acqua, il remo si troverà.
La storia è di fate. Non che esse appaiano (né io l’ho affermato), ma che altro potrebbe essere la storia del lucertolone sbucato allo Chiado? Si, è comparso un lucertolone allo Chiado. Grande e verde, un ramarro imponente, con degli occhi che sembravano di nero cristallo, il corpo flessuoso coperto di squame, la coda lunga e agile, le zampe rapide. Si è piazzato in mezzo alla strada, con la bocca semiaperta, sparando la lingua bifida, mentre la pelle bianca e fine del collo pulsava ritmicamente.
Era un animale superbo. Un po’ sollevato, come se stesse per lanciarsi in una corsa improvvisa, affrontava persone e automobili. La paura fu grande. Gente e macchine, si fermò tutto. I passanti rimasero a guardare da lontano, e qualcuno più nervoso s’infilò nelle vie traverse facendo finta di niente, dicendo a se stesso, per non confessare la codardia, che la fatica, lo dicono i medici, provoca allucinazioni.
La situazione era chiaramente insostenibile. Un lucertolone fermo, una pallida folla sui marciapiedi, automobili abbandonate in punti morti – e d’improvviso una vecchia che gridava. Non ci fu bisogno d’altro. In un amen le strade rimasero deserte, i negozianti calarono le saracinesche, e una ragazza che vendeva violette (era stagione) lasciò cadere il cesto, e i fiori rotolarono per terra fino a formare attorno al lucertolone un cerchio perfetto, come una ghirlanda di aromi. L’animale non si mosse. Agitava lentamente la coda ed ergeva la testa triangolare, fiutando.
Qualcuno doveva aver telefonato. Si udirono sirene, e le due estremità della via furono bloccate. Da un lato, i pompieri con tutta l’attrezzatura; dall’altro, l’esercito con tutto l’armamentario. Chi diceva che il lucertolone era velenoso, chi affermava che le squame resistevano alle pallottole. La vecchia continuava a gridare, anche se nessuno sapeva dove. L’atmosfera si caricava di panico. Una squadriglia di aerei passò nel cielo, in ricognizione, e dalla parte del Rossio cominciò a sentirsi il caratteristico cigolio dei carri armati. Il ramarro fece qualche passo, rompendo la ghirlanda di violette. La vecchia venne trasportata d’urgenza all’ospedale.
La storia sta per finire. Siamo arrivati precisamente al punto in cui intervengono le fate, anche se per indiretta manifestazione. Riunite tutte le forze disponibili, fu dato il segnale di avanzare. Idranti da un lato, baionette dall’altro, e il tuonare dei carri che ruggivano su per la salita – si sferrò l’attacco generale. Dalle finestre, persone al sicuro davano consigli e suggerimenti. Ma tutti contro il ramarro.
Il quale ramarro, d’un tratto (per intervento delle fate, non si dimentichi) si trasformò in una rosa rossa, color sangue, posata sull’asfalto nero, come una ferita nella città. Sospettosi, gli attaccanti esitarono. La rosa cresceva, apriva i petali, olezzava, lavava di profumo le facciate sudicie dei palazzi. La vecchia all’ospedale chiedeva: che cosa è successo? E allora la rosa si mosse rapidamente, divenne bianca, i petali si mutarono in piume e ali – e una colomba si alzò in volo verso il cielo azzurro.
Una storia così può solo finire in versi:
Molti in silenzio ricordano,
Nella prosa delle loro case,
Il ramarro che era una rosa,
Quella rosa con le ali.
C’è qualcuno che non ci crede? Lo dicevo, io: le storie di fate non sono più quelle d’una volta.
Nel cortile, un giardino di rose
Al cader della sera (singolare espressione questa, che fa della luce o del suo dileguarsi, “al cader della notte”, qualcosa di pesante e denso che scende sulla terra aggressivamente), dopo un giorno di lavoro, se il tempo è mite e la stanchezza non reclama un rapido rientro a casa, dove per lo più ci aspetta un altro lavoro, mi piace vagare per le vie della città, distratto nei confronti di quelli che mi conoscono, acutamente attento a tutto quel che è sconosciuto, come se cercassi decisamente un altro mondo. Posso allora fermarmi davanti a una vetrina dove non c’è nulla che mi interessi, essere un microscopio puntato sulle persone, radiografare volti al di là delle ossa, penetrare nella città come se mi immergessi in un fluido resistente, sentendone le asperità e le dolcezze. È in queste occasioni che faccio le mie grandi scoperte: un po’ di fatica, un po’ di disincanto sono, al contrario di quel che si direbbe, gli ingredienti migliori per captare al vivo quel che mi circonda.
Fu in un giorno così, mentre scendevo per una via stretta dove il traffico scorre di solito a fiotti, lasciando negli intervalli una pace quasi rurale, che scoprii (l’avevo già vista prima, ma non l’avevo mai scoperta, cioè, non le avevo mai tolto di dosso quel che la copriva) la rovina. Al di là del muro basso, delle grate e del cancello arrugginito, vidi il cortile invaso dalle erbacce e dai detriti. In fondo, un edificio di due piani mostra una facciata scrostata, tutta crepe, con placche di sclerosi che sono le larghe abrasioni provocate dalla caduta della malta. I vetri sono quasi tutti rotti, e all’interno c’è un’oscurità che dalla strada mi sembra impenetrabile, ma dove certamente s’aggirano animali famelici: topi protetti dall’abbandono, grandi ragni tremuli sulle alte zampe, forse anche disgustosi gechi, tristi e palpitanti.
Me ne sto lì sul marciapiede, al sicuro, con un sorriso represso, a immaginare gli sgradevoli abitanti della casa, come se mi disponessi a fantasticare di abitanti d’altri pianeti, quando qualcosa attira il mio sguardo a sinistra, e subito dimentico tutto. Su un lato dell’edificio a fianco, all’altezza degli occhi, una frase scritta a lettere rosse, maiuscole, pianta d’improvviso un giardino di rose: LENA AMA RUI. È talmente insolita la presenza di una siffatta dichiarazione in questo posto, che ho bisogno di leggerla una seconda volta per convincermene: LENA AMA RUI. Ma anche così, mi costa arrendermi all’evidenza. In genere, questi muri abbandonati si riempiono di graffiti insolenti, spesso osceni, e lì c’era solo un’affermazione d’amore, scagliata contro l’indifferenza della città. E non si trattava di scarabocchi tracciati in fretta, nel timore di un’interruzione, di un dileggio, del ridicolo che sempre minaccia chi al pubblico si espone. Al contrario: le lettere, grandi, erano state disegnate con cura e, da dove io potevo vederle, si distingueva bene che era stata usata una vernice densa, come chi dipingesse un’altra Cappella Sistina per l’eternità.
Un torrente di traffico avanzò giù per la strada. Mi lasciai trasportare, nel mio passo di sonnambulo, saldo e remoto, e mentre scendevo spuntò la bizzarra domanda: chi aveva scritto quelle parole? A molti la questione sembrerà insignificante, ma non a me che ho per dovere e vocazione di negare appunto l’insignificanza.
La cosa più sicura, io credo, è che sia stato un ragazzo. Si era appena dichiarato, lei gli aveva detto di si, e allora, esaltato e nervoso, aveva sentito il bisogno irreprimibile di comunicare l’evento alla città. Dev’essere successo proprio così, sono gli uomini in genere a fare certe cose.
Ma supponiamo che sia stata una ragazza. In tal caso, tutto cambia aspetto: non è più l’orgoglio tinto di fatuità che caratterizza quasi sempre le esplosioni sentimentali degli uomini, è qualcosa di più grave, è un impegno più grande. La ragazza non si limita a registrare sul muro che qualcuno la ama: la sua, come sanno fare le donne, è una sfida, e allora, consapevole di dirlo al mondo intero, consapevole di quel che rischia, di quel che potrà costarle il suo coraggio, scrive, in maiuscolo rosso, la sua proclamazione.
Cammino e penso, e non trovo risposta alla mia domanda. È stato Rui? È stata Lena? Preferisco immaginare che sia stata lei. Mi piace questa ragazza che non conosco, mi auguro che sia felice, che sappia sempre quel che vuole, anche che sta desiderando cose diverse nella vita. E credo che sia proprio lei, sull’altro marciapiede, ragazza comune, che agile e fresca avanza decisa nel mondo che è questa stretta via, dove il traffico irrompe cieco. Eccola ormai laggiù, domani donna, che con un barattolo di vernice ha piantato rose in un cortile abbandonato.

Il bianco gioca e vince
In un romanzo che probabilmente più nessuno legge – Il diavolo zoppo, di Vélez de Guevara – l’autore immagina un Farfarello buontempone che conosce l’arte di scoperchiare i tetti delle case per mettere a nudo il comportamento intimo degli abitanti della città in cui si svolge la storia. Assistiamo a scene edificanti e ad altre molto meno, ma tutte pretesto per gli ammaestramenti morali in chiave letteraria di cui è stato prodigo il Seicento spagnolo. Gli esigenti palati della nostra epoca ne troverebbero insipida la lettura, senza nessuno di quei piatti forti che ha il diritto di aspettarsi chi si disponga a scoperchiare tetti o ad aprire porte all’improvviso. Ma al proposito, il buon Guevara è di una discrezione assoluta.
Un ricordo tira l’altro. Mi rivedo ora al tempo in cui ero un assiduo frequentatore della piccionaia del teatro São Carlo, quell’incredibile loggione ad angolo e inclinato dove s’ammucchiavano gli spettatori meno abbienti. Per non so quale diabolica punizione, nessuno di noi, eccetto quelli della prima fila, poteva vedere il palco per intero. Sei cantanti si spostavano sul lato nascosto, era come se fossero passati sull’altra faccia della luna. Ne sentivamo le voci, ma dovevamo aspettare pazientemente che le circostanze dell’azione li portassero di nuovo nello spicchio di palco visibile.
Responsabile d’un gioco di collo che ci triturava i muscoli era la corona reale di legno dorato che sovrasta il palco presidenziale. In realtà, però, quel che vedevamo non era proprio la corona, che riservava i suoi splendori al pubblico privilegiato della platea e dei palchi. Noi poveretti ci accontentavamo del suo rovescio, il quale rovescio era davvero sgradevole: quattro assi mal piallate, fissate con chiodi ritorti, molta polvere e ragnatele. Insomma, quanto bastava per citare Salomone (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”) o Camões (“O gloria di comando, o vana brama”) o il canzoniere popolare (“Sopra è tutta merletti, I sotto neppur le braghe”).
Il lettore attento avrà già capito dove voglio arrivare: sotto o dietro quel che si vede, c’è sempre qualche altra cosa che conviene non ignorare e che dà, se conosciuta, l’unico vero sapere. Un tetto è una maschera, e il punto di vista della piccionaia aiuta a vedere meglio la corona.
E ora, perché il bianco gioca e vince? Sembrerebbe un’altra storia, ma è la stessa che continua. Sere fa stavo cenando in uno snack, così deprimente che non poteva essere stato inventato se non da un dispeptico, e avevo, come faccio sempre quando sto solo, il giornale sotto gli occhi. Lessi le notizie, tutte pessime per la digestione, e quando il giornale non ebbe più niente da offrirmi, mi soffermai sulla sezione del gioco della dama, tutta diagrammi e cifre che gli iniziati capiscono ma che io, sebbene non del tutto ignorante del passatempo, ho rinunciato a intendere. C’erano vari problemi e sotto ciascuno di essi la cabalistica frase che è il titolo di questa cronaca.
Rimasi a guardare ipnotizzato mentre sentivo quel prurito al cervello che annuncia le grandi scoperte. Sembrava che stessi per scoperchiare un tetto, o per vedere una corona da dietro. Perché semplici e innocenti problemi di dama mi causavano tali fremiti d’inventore? E di colpo scoprii: che il bianco gioca e vince. Mi capisci, lettore? Qualcuno obietterà che è una frase comune, una specie di codice, di orientamento, niente di più. D’accordo. Ma che cosa ha spinto il creatore della frase, il damista, il problemista, o la società di damisti, o la compagnia di problemisti, a costruirla così? Perché al suo posto non si è convenuto di usarne altre, ad esempio: il nero gioca e vince, o il bianco gioca e perde?
Venga fuori il diavolo zoppo e risponda: perché? Perché – dice il demonio sarcastico – nessun bianco sarebbe capace di ignorare il proprio inconscio per negare, anche se solo in una semplice formula di gioco, la superiorità del proprio colore, perché nessuno starebbe così all’erta da evitare che trasbordi nel dominio del linguaggio la denuncia del singolare complesso di relazioni tra bianco e nero. Per cui, sotto la pelle del linguaggio, apparentemente imparziale e libero, è rimasta la torbida materia del comportamento che si maschera con sotterfugi. Adesso, senza pelle, senza tetto, dietro la corona.
In fondo, nulla è semplice. Una frase su una pagina di giornale, mezza dozzina di parole insignificanti, impersonali – ed ecco, vi scopri parecchi motivi di riflessione. Mi resta solo da raccomandare al lettore che applichi il metodo nel suo quotidiano: prenda le parole, le pesi, le misuri, veda il modo in cui si legano, quel che esprimono, decifri l’arietta birbesca con cui dicono una cosa per un’altra – e poi venga a raccontarmi se non si sente meglio dopo averle scorticate.
Per esercitarsi e come esempio, gli lascio il titolo di un libro che circolava molti anni fa, e che naturalmente circola tutt’ora: Il negro che aveva l’anima bianca. E noi che credevamo che l’anima non esistesse, o che se esisteva non avesse colore, e alla fine è bianca, e i negri ce l’hanno nera, perché quel negro del libro è un’eccezione, e solo per questo la sua anima è bianca, e così via, e così via.
Al lettore la sciarada, e se gli verrà mal di testa, è buon segno: anche nascere, a quel che dicono, è una sofferenza.
Storia del re che faceva deserti
C’era una volta un re che era nato con un difetto al cuore e che viveva in un grande palazzo (come lo sono sempre i palazzi dei re), circondato dovunque da deserti, meno che da un lato. Assecondando l’impulso della tara con cui era venuto al mondo, aveva fatto radere i campi attorno al palazzo, di modo che, quando al mattino si affacciava alla finestra della sua stanza, poteva vedere desolazione e rovine sino alla fine e al fondo dell’orizzonte.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.
Accostato al palazzo, dalla parte posteriore, c’era un piccolo spazio murato che sembrava un’isola e che aveva potuto scamparla perché fuori portata degli sguardi del re, che si compiaceva piuttosto della vista dalla facciata nobile. Un giorno, tuttavia, il re si svegliò con sete di altri deserti e si ricordò del giardino che un poeta di corte, adulatore come la lingua di un cane da salotto, già prima aveva paragonato a una spina che pungesse la rosa quale, a suo dire, era il palazzo del monarca. Fece dunque il sovrano un giro attorno alla reale dimora, portandosi dietro i cortigiani e gli esecutori delle sue giustizie, e torvo guardò il muro bianco del giardino e i rami degli alberi che là dentro erano cresciuti. Si meravigliò il re della propria indolenza che aveva consentito quello scandalo e dette ordini ai servitori. Saltarono essi il muro, con grande frastuono di voci e di saracchi, e tagliarono le cime che lo sovrastavano.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.
Contemplò il re il risultato, per vedere se era soddisfacente, consultò il suo cuore difettoso, e decise che il muro doveva essere abbattuto. Subito avanzarono pesanti macchine che portavano appesi grandi blocchi di ferro, i quali, ondeggiando, buttarono giù il muro, tra fragori e nuvole di polvere. Fu allora che apparvero alla vista i tronchi decollati degli alberi, i campicelli e, a un’estremità, una casa tutta coperta di campanule azzurre.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.
Dagli interstizi tra gli alberi il re poteva vedere la fine dell’orizzonte, ma temette che i rami d’improvviso ricrescessero e arrivassero a strappargli gli occhi, e allora dette altri ordini, e una moltitudine di uomini si lanciò nel giardino e tutti gli alberi furono divelti dalle radici e lì stesso bruciati. Il fuoco si estese ai campi e si dice che per questa ragione la corte decise di organizzare un ballo, che il re aprì da solo, senza dama, perché, come abbiamo detto, questo re aveva un difetto al cuore.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà
Finì la danza quando già si spegnevano le ultime fiamme e il vento trascinava il fumo verso il fondo dell’orizzonte. Il re, stanco, si sedette sul trono e ammise al baciamano, mentre accigliato guardava la casa e le campanule azzurre. Gridò un nuovo ordine e di li a pochi minuti non c’erano più né campanule azzurre, né altro, se non, insomma, il deserto.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.
Per il malizioso cuore del re, il mondo era finalmente giunto alla perfezione. E il sovrano già si preparava a tornare, felice, a palazzo, quando dalle macerie della casa sbucò una figura che cominciò a camminare sulle ceneri degli alberi. Era forse il padrone della casa, il coltivatore della terra, il raccoglitore di spighe. E quest’uomo, camminando, tagliava la vista al re e approssimava l’orizzonte al palazzo, come se lo soffocasse.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.
Allora il re sguainò la spada e alla testa dei cortigiani avanzò verso l’uomo. Si gettarono su di lui, lo afferrarono per le braccia e le gambe, e nel mezzo della confusione si vedeva soltanto la spada del re abbassarsi e sollevarsi, finché l’uomo scomparve e al suo posto restò una grande pozza di sangue. Pu questo l’ultimo deserto fatto dal re: durante la notte il sangue si sparse e circondò il palazzo come un anello, e la notte seguente l’anello si fece più largo, sempre di più, sino alla fine e al fondo dell’orizzonte. Su questo mare c’è chi dice che un giorno navigheranno navi cariche di uomini e sementi, ma c’è anche chi afferma che quando la terra avrà finito di bere quel sangue, mai più nessun deserto sarà possibile rifare su di essa.
E chi questo leggerà e non racconterà,
In cenere morta si tramuterà.

La piazza
Si riunivano in piazza la domenica – piovesse o ci fosse il sole. Mettevano una camicia di bucato, i calzoni di fustagno meno rammendati, gli stivali ingrassati di fresco, quando non quelle scarpacce che nessun lucido riusciva a far brillare. Il gilè era indispensabile, o la giacca, quando i mezzi lo permettevano. In testa, il cappello nero, floscio, o il berretto dello stesso colore. Verde solo per i contadini, quelli della piazza erano gente comune. E tutti con in mano il bastone, simbolo di virilità e di potere, strumento di attacco e di difesa, messo di traverso sulle spalle come il ramo orizzontale di una croce, sul quale riposavano sovrapposte le braccia.
Si raccoglievano in gruppi aspettando l‘arrivo dei fattori. Davano rapidi strattoni ai ragazzini che giocavano a toccaefuggi e così interrompevano i dialoghi intervallati, le mezze frasi che trasportavano i temi principali della conversazione: il lavoro, il padrone che aspettavano, l’ultimo sverginamento, la probabile paga della giornata. I più vecchi si appoggiavano al bastone, facendo della mano sinistra un nido che gli proteggeva l’ascella, e restavano così per ore in un discorrere lento, interrotto da puntate all’osteria. I più giovani bevevano meno, infioravano il bastone in segno di corteggiamento, quando le ragazze, sempre in gruppi, attraversavano a braccetto la piazza in una provocazione sorridente e un po’ sorniona. In quelle occasioni si facevano grandi giochi di sguardi mal dissimulati, che venivano a confermare amori incipienti, o a suggerire idee di matrimonio ai ragazzi.
In certi periodi dell’anno, alcuni giovani lasciavano il paese. Era la chiamata alle armi. Solo qualcuno non tornava. Quasi tutti., finito il tempo del servizio militare, riprendevano la zappa, la falce e il badile – e continuavano a raccogliersi in piazza la domenica – più vecchi, strapazzando i propri figli, in attesa che venissero a proporgli la giornata, secondo la formula tradizionale: tot soldi e un litro di vino. Gli si raggrinzivano i visi, i capelli imbiancavano e si rarefacevano, lì, nella piazza, sotto i platani e accanto alla pompa di benzina, circondati dalle stesse case basse. Non sempre c’era lavoro. E altre volte c’era, ma gli uomini non lo volevano. I fattori alzavano la paga fin dove erano autorizzati: era una guerra, ora vinta, ora persa. Fino a oggi.
Si riuniscono in piazza la domenica mattina e vi restano per qualche ora. Parlano sottovoce, come se non volessero disturbare neppure le pietre. Usano un linguaggio incomprensibile, in cui ogni tanto sembra affiorare una parola conosciuta, che subito si perde in una cascata di suoni strani. In tutto il perimetro della piazza le botteghe mostrano le porte chiuse, e la statua che è al centro, quella che rappresenta il poeta, sembra una rovina morta, estranea agli uomini che la circondano. Costoro vestono quasi tutti di scuro. Alcuni sono belli. Alti, snelli, hanno lineamenti fini e melanconici. Altri sembrano contraffatti, contorti come piante del deserto che a lungo avessero cercato l’acqua.
La parte centrale della piazza gli appartiene. Gli abitanti della città passano alla larga, fingono di non vedere, guardano di lato, come se non riuscissero a essere naturali o non si fossero ancora abituati a esserlo. Guardano golosamente e di soppiatto le rare mogli degli uomini della piazza. L’odore del tropico, il segreto delle isole, turba un po’ il cinismo maldestro del bianco. E loro, le donne, quasi tutte ragazze giovanissime, sono belle senza eccezione, gli occhi umidi e vellutati, e quando parlano con gli uomini della loro razza sorridono molto. Forse non sono allegre, ma sanno che cos’è l’allegria. I compagni sono gravi: camminano lentamente in maniera ondeggiante, come se sentissero ancora sui fianchi lo sfregare dell’erba e delle piantagioni.
Per ore, la piazza è gremita di uomini estranei. Lì si è trasferito lo spiazzo di terra calcata dai piedi di generazioni, una sorta di porto di salvezza dove si raccolgono notizie dell’isola e dei compagni. Da li andranno al lavoro della settimana dopo con la soddisfazione di sapersi insieme.
Uno slargo di provincia, una piazza di Lisbona: la stessa necessità di spazio libero e aperto, dove gli uomini possano parlare e riconoscersi l’un l’altro. Dove possano contarsi, sapere quanti sono e quanto valgono, dove i nomi non siano parole morte ma anzi si incollino a volti vivi. Dove le mani fraternamente si posino sulle spalle degli amici, o accarezzino lentamente il volto della donna scelta e che ci ha scelto, siano essi dell’altra riva del fiume o dell’altra riva del mare.

Una lettera con inchiostro di lontano
Chi scrive penso lo faccia come all’interno di un immenso cubo, dove null’altro esiste se non un foglio di carta e la palpitazione di due mani veloci, esitanti, ali violente che di colpo cadono di lato, tagliate dal corpo. Chi scrive ha intorno a sé un deserto che sembra infinito, regno attentamente spopolato perché rimanga appena l’immagine di un campo aperto, di un tavolo da scrivano all’ombra d’un albero inventato, e un profilo angolato che fa di tutto per somigliare all’uomo. Chi scrive credo cerchi di occultare un difetto, un vizio, una tara ai suoi stessi occhi indecente. Chi scrive sta tradendo qualcuno.
Scrivo questa cronaca da lontano, dalla grande e infelice città cresciuta sulle rive del Tago, la scrivo da ancor più lontano, da un paese molto amato, dove i campi sono piantati a cipressi e i luoghi si chiamano sonoramente Ferrara o Siena, terra italiana che più amo dopo la mia, scrivo da una strada che ha nome Esperanza, dove si riunirono per l’ultima volta i congiurati del 5 ottobre, dove oggi passano i miei vicini bianchi e neri, dove a volte, davanti alla mia porta, si ferma gente che non è del quartiere, che nessuno conosce e che rimane a guardare in aria come se stesse misurando il grado di inquinamento o decifrando misticamente i misteri della creazione del mondo.
Non ho nessuna storia da raccontare. Sono stanco di storie come se d’improvviso avessi scoperto che tutte sono state raccontate il giorno in cui l’uomo è stato capace di dire la prima parola, se mai c’è stata una prima parola, se le parole non sono tutte, ciascuna e in ciascun momento, la prima parola. Allora torneranno a essere necessarie le storie, allora dovremo riconoscere che nessuna è stata ancora raccontata.
È davvero un piacere star seduto all’ombra d’un albero inventato, in questo cubo immenso, in quest’infinito deserto, a scrivere con inchiostro di lontano – a chi? Al di là del filo che separa le sabbie e il cielo, così distanti che seduto non le vedo, vanno le persone che leggeranno le parole che scrivo, che le disprezzeranno o le intenderanno, le conserveranno nella memoria il tempo che essa consentirà e poi le dimenticheranno, come se fossero appena il boccheggiare soffocato di un pesce fuor d’acqua. Seduto in mezzo al campo spopolato, chi scrive mantiene il suo curvo profilo perché non vi si perdano le tracce di un’umanità che ogni istante rende più imprecisa. E va tracciando segni sulla carta, desideroso di farla diventare aperta e concava come il cielo notturno perché non si perda l’incoerente discorso, custodito ora in piccole luci che impiegheranno più tempo a morire.
Chi leggerà il messaggio intraducibile nel linguaggio del mangiare e del bere? Chi lo porterà con sé nel suo letto, più la donna o più l’uomo con il quale dormirà? Chi sospenderà l’arco della zappa, il movimento del martello, per ascoltare quel che non è una storia narrata della grande e infelice città? Chi accosterà il camion al ciglio della strada, nella corsia di sosta, con ombre sparse, per sapere, respirando l’olio e il caldo del motore, le notizie di Giove gigante nel cielo nero? Chi dirà suo quel che è stato scritto all’interno del cubo, nel luogo in cui si conficca il compasso, nell’intersezione tra chi scrive e il tempo? Chi giustificherà, insomma, le parole scritte?
È un piacere è anche fare domande quando si sa che non avranno risposta. Perché se ne potranno aggiungere altre, oziose come le prime, altrettanto impertinenti, altrettanto capaci di consolazione al ritorno dal silenzio che le accoglierà. Seduto nel deserto, chi scrive si sentirà dolcemente incompreso, chiamerà in suo aiuto gli dèi che più ama, a loro si confiderà, e tutti insieme, punto per punto, sapranno trovare le buone ragioni, gli acquietamenti della coscienza, finché il benefico sonno li riunisca e li ritiri da questo basso mondo.
Non sia però così questa volta. Pieghi chi scrive il suo tavolo, ne faccia il suo fardello e il suo zaino, se non è in grado di modificarlo altrimenti, muti il foglio in vessillo, e affronti la traversata del deserto, nelle tre dimensioni del cubo, dove sono le persone e le domande che esse fanno. Allora il messaggio diverrà traducibile, sarà tovaglia da pane e con esso ci ripareremo dal freddo. Allora si torneranno a raccontare le storie che oggi diciamo impossibili. E tutto (forse davvero, forse davvero) comincerà a essere spiegato e compreso. Come la prima parola.

Apologo della vacca lottatrice
Non invento nulla. Faccio subito questa dichiarazione perché già immagino i sorrisi solerti o diffidenti di quelle persone per le quali l’inconsueto è sempre sinonimo di menzogna. Questa povera gente non sa che il mondo è pieno di cose e di momenti straordinari. Non li vede, perché il mondo le appare come coperto di cenere, corroso da uno smorto verderame, popolato di figure che usano gli stessi vestiti e parlano allo stesso modo, con gesti ripetuti su gesti già fatti da altri esseri scomparsi. È gente per la quale forse non c’è rimedio, ma a cui dobbiamo continuare a dire che il mondo e quanto contiene non è quel poco che essa crede.
Questo mi ricorda un piccolo incidente capitatomi giorni fa, anch’esso straordinario, almeno altrettanto, o forse di più, non si sa mai. Stavo risalendo la mia strada, una strada tranquilla dove di tanto in tanto avvengono delle discussioni, alterchi di gente triste, ed era quasi mezzanotte, quando vedo a poca distanza, impalato in mezzo al marciapiede, un uomo che gesticolava e parlava ad alta voce. Faceva gesti ampi, violenti, come se stesse trasmettendo molto lontano un messaggio il cui senso nessuno avrebbe decifrato. Come chiunque faccia dell’alcol un consumo appena normale o al disotto della media, ho un certo timore istintivo degli ubriachi. Per me, sono usciti dall’umanità del mondo e al di là hanno creato delle leggi che non conosco. L’irresponsabilità di un ubriaco mi toglie la parola. Curiosamente, è quel che mi succede anche con i bambini: non ho mai saputo parlargli.
Torno al fatto. Esitai, ma mi costrinsi a proseguire, fosse quel che fosse. E feci bene, perché fu allora che mi accadde quella cosa straordinaria, che avrei perduto se avessi attraversato la strada, come avevo pensato di fare. Passando accanto all’uomo, che continuava a far gesti e a parlare violentemente, lo vedo tendere il braccio verso di me, con impeto. Non mi spaventai. Avevo di fronte la mano aperta, tesa con aria di fraternità imperiosa a cui non mi era consentito sfuggire. Gli detti la mano e restammo, occhi negli occhi, in silenzio, sia l’ubriaco, sia il lucido. E devo dichiarare che rare volte nella vita ho stretto una mano tanto ferma e tanto calda, tanto densa e tanto franca. L’asprezza della pelle vibrava nella mia come una comunicazione viva. Quanto tempo durò? Neppure un secondo, ma queste cose non si misurano col tempo.
La storia che avevo deciso di raccontare e che il titolo riassume durò molto di più. Furono dodici giorni e dodici notti sui monti della Galizia, con freddo, e pioggia, e gelo, e fango, e pietre come coltelli, e bosco come unghie, e brevi intervalli di riposo, e ancora combattimenti e assalti, e ululati, e muggiti. È la storia di una vacca che si perdette nei campi con il suo vitello da latte, e si vide circondata dai lupi per dodici giorni e dodici notti e fu costretta a difendersi e a difendere il figlio. Potremo immaginare questa lunghissima battaglia, questa agonia di vivere al limite della morte, dover lottare per se stessa e per un animaluccio debole che non sa ancora farsi valere? Un cerchio di denti, di fauci aperte, gli attacchi repentini, le cornate che non possono sbagliare. E anche quei momenti in cui il vitello cercava le mammelle della madre, e succhiava lentamente, mentre i lupi si avvicinavano, con la schiena appiattita e le orecchie ritte.
Non immaginiamo di più, ché non possiamo. Diciamo adesso che alla fine dei dodici giorni la vacca fu ritrovata e salvata, con il vitello, e portati in trionfo al villaggio, come eroi d’altri tempi di quelle antiche storie che si dicevano ai bambini perché apprendessero lezioni di coraggio e di sacrificio. Ma questo racconto è a tal punto esemplare da non terminare qui: continuerà per altri due giorni, alla fine dei quali, poiché era diventata selvaggia, poiché aveva imparato a difendersi, poiché nessuno poteva più dominarla e neppure avvicinarla, la vacca fu abbattuta. La uccisero non i lupi che aveva vinto in dodici giorni, ma gli stessi uomini che l’avevano salvata, forse lo stesso padrone, incapace di capire che, avendo appreso a lottare, quell’animale sottomesso e pacifico non avrebbe potuto mai più fermarsi.
Volevo raccontare questa storia semplicemente, senza estrarne alcuna morale, tanto più che non sto qui per dare lezioni. Ma vi si è intrufolata la storia dell’ubriaco a cui ho stretto la mano, e ora non so perché nel mio spirito le due storie si accostano, quando tutti noi (io e i lettori) vediamo chiaramente che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Decido di riportare qui questi due casi, senza commenti. Pensiamo ad essi come chi, lentamente, maneggia due oggetti di uso sconosciuto, in attesa di una chiave che li apra o di trovare il lato che hanno in comune.

Cavalli e acqua corrente
Un uomo va alla guerra, lascia la donna come ha lasciato il cavallo o la casa, con il senso del proprietario che tanto ama quel che possiede quanto tranquillamente lo dimentica, perché è il padrone e non ammette che il mondo sia altra cosa se non il servo del proprio tornaconto. Dà alla donna il poco che può, e non di più, poiché l’avere è spesso disamore e altrettanto indifferenza e sospetto. La donna è stata colta di passaggio, come una spiga nata sul ciglio della strada e divelta con il cereale ancora da latte, così lontana dalla maturazione come dal primo verdeggiare del seme aperto. Queste cose si sono ripetute in ogni tempo e nessuno accetterà che possano essere diverse, solo perché il tempo è di guerra e la donna si chiama Dzamilja.
Tuttavia, è questa la ragione per cui il romanzo di Ajtmatov e il film che ne è stato tratto non si riducono a una banale storia d’adulterio e di abbandono del focolare che tra le cortine borghesi si condisce di piccante e si bovarizza. Questa donna si chiama Dzamilja, lavora la terra, lontano nell’Asia centrale, tra montagne a cui le nuvole si afferrano come barche che hanno lanciato stancamente l’ancora. E nel seno di queste montagne, in valli ondulate come il palmo della mano e solcate da ruscelli come esse lo sono da linee di vita e di morte, crescono messi, come oceani in costante movimento, perché c’è un vento sbrigliato che si espande e si esalta fino a non essere più vento ma respiro dell’aria e di tutte le cose. Per questo i capelli di Dzamilja le coprono il volto e si ergono come la coda sciolta di una cavalla in corsa.
E un giorno un soldato che fu ferito nella stessa guerra viene ad aiutarla nel lavoro dei campi con la forza che ancora gli resta. Carica sacchi di grano, guida il carro che ha la forma di una larga culla, e discretamente tace mentre osserva Dzamilja che solleva le braccia per tenersi i capelli nel movimento circolare della falce, che avanza tra le onde delle messi come polena che offre alle acque i seni bruniti.
E l’altro giorno, che giorno non era, ma soffocante notte d’estate, Dzamilja entrò vestita nelle acque del fiume e ne uscì ardendo come la prima donna e andò a sdraiarsi sulla paglia dove il soldato ferito aspettava il principio del mondo. E tutto fu come doveva essere..
È tutta qui la storia di Dzamilja e di Danijar, il resto nessuno può raccontarlo. Mentre i due fuggono dall’odio e si perdono (o si trovano) al di là dell’orizzonte e delle montagne, lontano da tutto e tutto portando con sé, è tempo di raccogliere la parte che ci spetta, la nostra quota, il pugno di terra, l’invisibile profumo del vento, questo interminabile ondeggiare delle messi. E il pelo lucido e umido dei cavalli, la morbidezza delle loro narici tremule, la tiepida concavità della groppa, e quel loro scuotersi che fa volare le criniere. Fissiamo, prima che fuggano, il rapido galoppo in cui si confondono le zampe e i dorsi, lo scalpitare di tuono, la forza e la vertigine. Ma ora, contrappunto a tutto ciò che è libero e veloce, guardiamo quel cavallo impastoiato che avanza con difficoltà, a balzi, mentre pascola sotto un cielo nero tutto circondato di montagne. Tanta bellezza e tale, che non si sopporta e ci copriamo gli occhi con le mani.
Ma ci sono i fiumi, le correnti d’acqua che scivolano sui sassi, sulle pietre rotolanti, rotonde come seni o come guance di bambini, e che mormorano senza fine nei luoghi poco profondi, per espandersi serenamente più avanti, con un sospiro che non si ode perché è appena un subito silenzio. Per questi fiumi avanzano cavalli sollevando spuma, in queste acque fredde ravvivò Dzamilja il suo ardore e la sua libertà – e l’immagine della corrente vivissima resta negli occhi come una via lattea che il sole semina di specchi e la luna copre di fiori bianchi. In verità vi dico che in principio era l’acqua.
Il film è finito. L’ultima immagine si è congedata. Ho un secondo, prima che le luci si accendano, per scoprire quel che ancora mi manca. È in questo secondo che la memoria mi restituisce un sogno antico, di quei sogni rari in cui si uniscono tutti i colori del mondo: per una corrente di acque basse, poco più di un palmo di altezza, avanzo nudo verso la sorgente, su un fondo di pietre rotolanti che stridono sotto i piedi, mentre l’acqua fa un rumore sonoro di seta strappata. Avanzo su per questo fiume, nudo, sotto il sole chiaro, e sulle sponde c’è un’erba verde, bassa, e alberi enormi e quieti. Non so che significhi, quali cose mi siano mormorate in questo sogno, ma certamente il futuro me lo dirà. Nudo, risalgo le acque della corrente – caso poche volte visto, ma così semplice, come una legge che tutto spiegasse.

Le grida di Giordano Bruno
In fin dei conti, non c’è grande differenza tra un dizionario biografico e un normale cimitero. Le tre righe secche e indifferenti con cui nella maggior parte dei casi i dizionaristi riassumono una vita sono l’equivalente della semplice sepoltura che accoglie i resti di coloro che (mi si perdoni il facile gioco) non lasciano resti. La pagina piena, con autografo e fotografia, è il mausoleo di bella pietra, porte di ferro e corona di bronzo, più il pellegrinaggio annuale. Ma il visitatore farà bene a non lasciarsi confondere dalle facciate d’architetto, dalle sculture e dalle croci, dalle prefiche di marmo, da tutto lo scenario che la morte pomposa ha sempre apprezzato. Così come dovrà fare attenzione, se si trova in campo aperto, senza riferimenti, a dove mette i piedi perché non gli accada di trovarsi sotto le scarpe il più grande uomo del mondo.
Non starà tuttavia calpestando la tomba di Giordano Bruno, perché questi fu bruciato a Roma, arse atrocemente come arde il corpo umano, e di lui, che io sappia, neppure le ceneri furono conservate. Ma allo stesso Giordano, affinché ogni cosa stia nel posto che le compete e giustizia infine sia fatta, furono riservate quattro righe in questo dizionario biografico. In così poco spazio, in così poche lettere, tra la data di nascita (1548) e la data di morte (1600), limiti di un universo personale che visse nel mondo, ben poco si dice: italiano, filosofo, panteista, domenicano, abbandonò l’ordine, si rifiutò di rinunciare alle proprie idee, fu bruciato vivo. Nient’altro. Nasce e vive un uomo, lotta e muore, così, per questo. Quattro righe, riposa in pace, pace alla tua anima se in lei credevi. E noi facciamo un’eccellente figura tra amici, in società, in riunione, a un tavolo di ristorante, nelle discussioni profonde, se lasciamo cadere al momento opportuno, in modo spigliato e competente, la mezza dozzina di parole di cui abbiamo fatto una specie di grimaldello o di chiave falsa che crediamo possa aprire una vita e una coscienza.
Ma, per nostra costernazione, se siamo in un momento di rara lucidità, le grida di Giordano Bruno erompono come un’esplosione che ci strappa di mano il bicchiere di whisky e ci spegne sulle labbra il sorriso intellettuale che abbiamo scelto per parlare di certi casi. Sì, questa è la verità, la scomoda verità che viene a sconvolgere il pacato intento del dialogo: Giordano Bruno gridò quando fu bruciato. Il dizionario dice soltanto che fu bruciato, non dice che gridò. E allora, che dizionario è mai questo che non informa? A che mi serve una biografia di Giordano Bruno che non parla delle grida che egli lanciò, li, a Roma, in una piazza o in un cortile, circondato dalla folla, chi attizzava il fuoco, chi assisteva, chi redigeva serenamente l’atto dell’esecuzione?
Troppo spesso dimentichiamo che gli uomini sono di carne che facilmente soffre. Fin dall’infanzia gli educatori ci parlano di martiri, ci danno esempi di civismo e di morale a loro spese, ma non dicono quanto furono dolorosi il martirio, la tortura. Tutto rimane astratto, filtrato, come se guardassimo la scena, a Roma, attraverso spesse pareti di vetro che soffocassero i suoni, e le immagini perdessero la violenza del gesto per opera, grazia e virtù della rifrazione. E allora possiamo dire, tranquillamente, gli uni agli altri che Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo abbiamo udito. E se non l’abbiamo udito, dov’è il dolore?
Ma gridò, amici miei. E continua a gridare.

Le coincidenze
Non mi ritengo uno spirito forte, ma non sono neppure di quelle inquiete persone sensibili a presagi, divinazioni, brezze segrete, che vivono costantemente occupate nella decifrazione di messaggi di questo e dell’altro mondo, complicando con ciò la propria vita e macinando la pazienza altrui. Tuttavia, si danno a volte dei casi che fanno pensare che la vita non è affatto semplice, e che le sue strade sono così disseminate di deviazioni e trabocchetti da stupirci che non ci si perda in essa a ogni passo. Una cosa che mi ha fatto molto riflettere, come se fosse prodigio, è proprio quel che di più banale si possa concepire: l’incidente stradale.
Mi spiego meglio. Un uomo esce di casa al mattino, saluta la famiglia, va al lavoro, passa la mattina occupato, esce per il pranzo, torna in ufficio, dedica il pomeriggio ai suoi impegni, esce all’ora fissata, o più tardi, se ha fatto lo straordinario, chiacchiera con gli amici, passa al bar, compra il giornale, prende l’autobus o il tram, scende alla fermata, imbocca la sua strada, vede già la porta di casa – e d’improvviso arriva una macchina e lo scaraventa a terra, ferito gravemente, se non peggio.
E che cosa ha fatto durante il giorno il conducente di quell’auto? È uscito di casa, magari anche lui al mattino, è salito in macchina, ha acceso il motore, è partito, ha girato per la città, è andato al lavoro, è entrato e uscito dall’ufficio, ha visto gente, ha chiacchierato, e a un certo punto, alla fine della giornata, è dovuto passare per una via che non era neppure sul suo tragitto, ma c’erano lavori in corso, sensi vietati – e d’improvviso gli sbuca un pedone da destra, sente un colpo, vede una figura per aria. Una disgrazia.
Noti bene il mio lettore i giri che questi due uomini hanno fatto durante la giornata, uno lontano dall’altro, a ore diverse, tutto sembrava allontanarli e, in un momento preciso, hanno cominciato ad avvicinarsi, mossi dal caso senza che se ne rendessero conto, per una ironica fatalità, fino a quell’istante che non sarebbe dovuto accadere, ma è accaduto. Si pensa a cose del genere e si perde la voglia di uscire.
Oppure si sta in casa (è quanto è successo a me ed è ciò di cui voglio parlarvi oggi) a leggere il giornale, la cronaca, la politica internazionale, i fatti del mondo, e d’un tratto ci si imbatte in una notizia insolita: il professor Paul L. Cabell junior, dello stato del Michigan, si è suicidato per la concordia razziale, per la pace. Sto leggendo queste righe, turbato, e contemporaneamente sento alla radio la voce dell’annunciatore: “Trasmettiamo l’Ode alla Pace di Hàndel”.
E mentre finisco di leggere la notizia si levano le voci dei solisti e del coro, che esaltano la stessa pace a causa della quale un uomo lontano, lontano, laggiù nel Michigan, ha deciso di spararsi un colpo in testa. Un uomo che aveva scritto una lettera ai suoi allievi, in cui diceva: “Muoio per ricordare a voi, e a tutti i giovani che sognano di essere liberi, che la pace può essere conseguita solo se lavoreremo uniti per essa”.
Uno se ne sta tranquillo nella città di Lisbona, a leggere il giornale, ad ascoltare la sua musica, e va a capire perché, si associano la notizia di lontano e i suoni di duecento anni fa – ed è lo stesso voto, la stessa sete di pace e di armonia. Un uomo si perde nel sangue per un atto che sembra follia, un altro ha messo insieme battute che potrebbero raccontare un’altra storia – un altro ancora, io, il lettore, recepisce tutto ciò e resta disorientato, senza sapere che pensare di un mondo che credevamo tanto piccolo e che, alla fine, ha la sua grandezza moltiplicata dal numero infinito di istanti che formano, tutti assieme, il tempo del mondo.
Come chiudere questa cronaca? Sembra che i fatti debbano bastare, che si debba consegnarli all’intelligenza del lettore, perché da essi tragga le lezioni possibili e, soprattutto, quelle necessarie. Ma qualcosa mi dice che non basta. Soprattutto, io credo, perché questa musica mi sembra avere un che di mercenario, opera commissionata per una pace che forse nascondeva una futura guerra; soprattutto, perché la morte del professor Cabell, per bella che sia la testimonianza, mi lascia in bocca un gusto di inutilità: la pallottola che lo ha ucciso non taglierà la traiettoria di nessuna di quelle che si stanno sparando in questo stesso istante.
Tutto ciò per concludere che l’Ode alla Pace (in fondo, forse sincerissima) non gioverà molto se ascoltata distrattamente alla radio, fuori dal cuore degli uomini, che la difesa della pace può essere fatta dai vivi morendo ma non sarà fatta dai vivi uccidendosi. Tutto ciò per concludere che le coincidenze, così distribuite nel mondo e nel fortuito, se mi hanno offerto il tema di questa cronaca, meritano un destino migliore: quello di portare il lettore a meditare su queste cose di pace e di guerra, a pensare a questi fili che non dovrebbero sembrare misteriosi, ma che ci sfuggono continuamente dalle mani.
Teniamoli ben stretti, giacché delle mani di Haendel neppure la polvere resta, e le mani di Cabell hanno alzato un’arma contro se stesse – e si stanno raffreddando.

Il recupero dei cadaveri
Ricordate? Dal profondo della notte, camminando sul crinale di una collina, sorgevano due figure terrificanti che poi avanzavano fra i tumuli, mentre una nebbia di circostanza compiva il proprio dovere nella composizione della scena e si muoveva con le paure dello spettatore. Era il dottor Frankenstein assieme al suo servo che andavano a dissotterrare il cadavere fresco del giorno. Lo portavano poi per sentieri e altre colline propizie ai tagli artistici del controluce, mentre la tempesta si accumulava ovviamente all’orizzonte, e noi, rannicchiati sulle sedie come topi, battevamo i denti, mezzo pentiti, senza sapere che cosa ci aspettava.
Poi veniva lo spaventoso mulino, dove accadevano cose deliziosamente terribili: le buonissime intenzioni del medico; la malignità del servo; la fabbricazione del nuovo essere per giustapposizione, sutura e graffe; l’insufflazione della vita grazie alle scariche elettriche di un temporale di tutto rispetto; e poi il resto, il mostro sciolto, i crimini che commetteva, insomma, un putiferio. E quando il film finiva, tornavamo a casa col cuore stretto, con la paura delle ombre, degli angoli, della guardia notturna, delle scale senza luce. Tutta la notte sognavamo e sudavamo di sgomento. Bei tempi. Oggi, i Dracula e altri vampiri riescono solo a farci ridere.
Quanto a me, ho sempre pensato che il dissotterrare cadaveri con intenti lucrativi si potesse vedere solo al cinema, e che nella vita reale l’antico rispetto per i morti (tanto piú in un paese così rispettoso di tradizioni necrofile) trattenesse il gesto profanatore. Ma pare che non sia così. Mutano i tempi, mutano i costumi, e quel che sembrava male si tramuta in bene – e ora va molto di moda andare per cimiteri, percorrere i viali più malfamati, le sepolture che ritenevamo umili, la fossa comune, dissotterrare il corpo, le ossa, la polvere, i resti, e uscire in strada, gridando: “È nostro. È stato un grande uomo, un grande patriota, è nostro. Non credete a quel che abbiamo detto di lui in altri tempi. Giustizia è fatta. È nostro”.
Ben sa il mio lettore quanto io sia cittadino pacifico, disposto a voler bene alla gente, sempre alla ricerca del lato buono, il lato del sole – ma deve pur riconoscere che ci sono certe cose che irriterebbero lo stesso san Francesco d’Assisi, santo di tanta virtù e pazienza che non faceva distinzione tra lupi e agnelli, e tutti chiamava fratelli: Non sono così meschino da ritenere che sia obbligo di chi ha creato un odio restargli abbarbicato sino alla fine dei suoi giorni, solo per non smentirsi e confessare l’errore. È un’ottima cosa che le persone evolvano in senso buono, che abbandonino rancori, acquisiscano quella dirittura morale che impone il rispetto per gli avversari; è cosa eccellente che si perda la smania di troncare teste, vite, carriere, idee, convinzioni. Fin qui, tutto bene. Ma non sono piú d’accordo (perché il gesto non è certo disinteressato) con questa frenesia di recuperare cadaveri di persone che in vita (nella loro unica vita, signori miei) furono odiate, calunniate, private della cittadinanza, persone il cui solo crimine fu di avere opinioni diverse sul modo di governare la Città. Piuttosto, che li lascino in pace questi morti, se in vita fu loro negata.
E non vengano a dirmi che la morte livella tutto, e che pertanto con essa finiscono gli affronti, le invidie, le avversioni. E che lì comincia la fratellanza universale – e nazionale. Perché se è così, allora quel che sta accadendo ricorda irresistibilmente i rituali di antropofagia, la quale, a dire degli esperti, si spiegherebbe con il desiderio di acquisire la virtù, la forza, il coraggio dei nemici morti. Il che non impedisce (oh ironia) che si continui a perseguitare i nemici vivi, per poterli poi mangiare, in un ciclo ripetitivo, e così via. E sempre, trascorso il tempo necessario a una facile digestione, con i clamori della giustizia tardiva e per ciò stesso inutile: “È nostro perché ha servito la Patria. È nostro perché è stato un buon cittadino. È nostro perché è stato onesto. È nostro”.
Non so se negli altri paesi succedono le stesse cose. Forse si, e tutte queste inumazioni ed esumazioni saranno appena un’altra modalità dell’alternanza del si e del no, come quei manifesti per la strada, incollati uno sull’altro, che contano sulla debole memoria di chi passa e getta uno sguardo sui muri, pavesati con parole che sembrano nuove, con disegni che sembrano altri, con volti che sembrano diversi.
Maneggiati così, i morti oppongono grande resistenza. Sanno molto bene, nel silenzio in cui si sono installati, qual è la loro vera famiglia. Che non sia questa a dimenticarli. Allora, sì, sarebbe la fine.

Meditazioni sul furto
Quelli di noi che hanno letto in altri tempi I miserabili (chi ha oggi la pazienza di sopportare Victor Hugo?), ricorderanno che fu a causa del furto di un semplice pane che Jean Valjean passò diciannove anni in prigione. Piccole cause, grandi effetti. Uno spirito obiettivo, di quelli che tutto pesano e valutano, scrupolosi al capello, dirà che se Jean Valjean avesse espiato con rassegnazione la pena che la società gli aveva imposto non sarebbe rimasto prigioniero piú di cinque anni. Il male fu la sua ribellione, l’assurda ansia di libertà che lo portò per quattro volte a tentare la fuga. Insomma, casi tristi.
Queste riflessioni vengono a proposito nel momento in cui ricostruisco nella memoria la mia indifesa deambulazione nella grande sala del British Museum che contiene le sculture strappate al Partenone. Dico indifesa deambulazione perché non credo a un visitatore in grado di darsi almeno una vernice di serenità. O altrimenti il visitatore è stupido. Perfino un cieco, con i suoi occhi digitali, rabbrividirà di commozione passando le dita sulle figure antichissime dei fregi e delle metope. S’immagini dunque quel che può offrire il privilegio di occhi sani, anche se miopi.
Ma stavo parlando di Jean Valjean e del pane che non era suo e che lui rubò. E sto davanti alle sculture del Partenone. E mi circonda il conforto del riscaldamento inglese. Ma sento freddo.
L’errore, in fondo, sta nel rubare poco. Diciannove anni passò Jean Valjean nelle prigioni, e quando ne uscì quante altre disgrazie gli piovvero addosso, con quel mascalzone di Javert a perseguitarlo, come ci riferisce Victor Hugo, punto per punto. E Thomas Bruce, diplomatico, uomo sicuramente finissimo, nato per sventura della Grecia con manie di predatore, va e saccheggia l’acropoli di Atene, strappa pietre di duemila e cinquecento anni, porta tutto a Londra – e nessuno lo perseguita, nessuno gli fa del male, anzi al contrario, e oggi è nella storia come un grande uomo, mentre a Jean Valjean, solo a causa del pane, gli accadde quel che si è visto, e senza andare tanto lontano, ecco il nostro José do Telhado, che rubava ai ricchi per darlo ai poveri.
Ditemi ora come è possibile intendere questo mondo. Vago perplesso per l’enorme sala e nei primi minuti non riesco a vedere nulla. Penso continuamente: “È questo che hanno rubato? E sono tutti d’accordo? E non si fa niente? Non si istituisce un tribunale supremo per giudicare e punire i grandi latrocini? Non si dà il suo al suo padrone?” Poi (che sollievo!) mi rasserenai, e mi abbandonai alla contemplazione delle panatenee e dei cavalieri, delle acefale figure di dei, delle lotte tra i centauri e i làpiti. Feci lentamente due volte il giro della sala, sapendomi complice a partire da quel momento, e anche cosciente delle mie deboli forze, che mi avrebbero comunque impedito di agire.
Che potevo fare? protestare a Hyde Park? organizzare un comizio a Trafalgar Square? marciare su Buckingham Palace? arruolarmi nell’esercito clandestino dell’IRA? Io, povero portoghese li sperduto, incapace perfino di riconquistare Olivença? Con una stretta di spalle, uscii dalla sala e mi diressi verso le altre collezioni con quell’insaziabile fame di conoscenza che certe indigestioni intellettuali mi hanno provocato. E vidi tutto quel che c’era da vedere: le sculture egizie, le mummie, la stele di Rosetta, i leoni assiri dalla testa umana, oggetti, armi, utensili, tutto il mondo antico ordinato ed etichettato, un’esemplare lezione d’arte e di storia che mi riempì di rispetto per le teste inglesi responsabili.
E fu allora che si fece luce nel mio turbato spirito. Avevo notato che nei musei inglesi non c’è nessuno all’entrata, biglietti in resta, a riscuotere denaro. Ci sono, sì, sparse per le sale, delle cassette col coperchio di vetro, e apposita fessura, dove il visitatore è invitato a deporre la sua offerta, e dove un avviso dice che il denaro è destinato all’acquisto di opere d’arte per il museo. Avevo visto tutto questo e lo avevo trovato curioso e civile, nient’altro.
Ma, ripeto, il British Museum fu la mia via di Damasco. Lì capii che gli inglesi, vergognosi di tante rapine istigate o consentite, cercavano di far dimenticare i loro misfatti stendendo la mano alla pubblica carità. Capii che i poveretti vivevano tormentati dai rimorsi – e ne ebbi pena. Sentimentale, con l’occhio inumidito dalla lacrima lusitana, aprii il portamonete, ne estrassi mezza sterlina generosa e la infilai nella cassetta.
Dopo di ciò, posso annunciare a tutti che l’Inghilterra non cadrà più in tentazione. Sta mettendo insieme il denaro per comprare il museo del Louvre, con annessi e connessi. Nella giusta e conveniente forma, e per il suo giusto valore.
Il lettore mi perdonerà lo scherzo: la colpa è di questo pazzo mondo in cui entrambi siamo costretti a vivere.

Quattro cavalieri a piedi
La chiamano piccola colazione e io mi azzardo a chiedere che cosa ci guadagniamo con questa novità. Avevamo già colazione, pranzo e cena, tre parole distinte per l’atto del mangiare, e ancora una quarta parola, merenda, forse di tutte la più fresca, magica perché arricchiva la memoria gustativa dei bambini, almeno di quelli che di tale abitudine o privilegio beneficiavano. Era, insomma, un vocabolario di gente di scarsa alimentazione, che non inghiottiva un boccone dopo le otto di sera e andava a dormire con le galline. Poi sono arrivati i prolungamenti di serata, le nottate, l’appetito dell’una dopo mezzanotte, e allora si è distorta la nomenclatura, rapinandola alla Francia, si è lusitanizzata in lanche la colazione britannica, facendola slittare di quattro ore – e in tal modo crediamo di aver regolato gli orologi sul tempo dell’Europa. Ingenuità di creature semplici quali noi siamo.
Ed è per accidenti linguistici del genere che devo dire che faccio la piccola colazione (non la colazione, come una volta) in una delle pasticcerie che si trovano sulla strada del lavoro, non sempre la stessa, ma che non cambio finché non mi viene a noia il gusto del pane, del caffellatte e la faccia del cameriere, oppure la frequenza con cui vedo e rivedo i visi degli altri clienti. In fondo, sono un animale un po’ selvatico, scontroso, schivo, irascibile nei brutti momenti, con sgomento di chi, credendo di conoscermi bene, non mi conosce affatto. Se non fosse il deliberato ritegno dietro cui mi nascondo, non so quale più costante rabbia mi si diffonderebbe intorno.
Mi avvicino al banco, dove addento, in fretta e senza piacere, il sandwich di prosciutto, e dove soffio con impazienza sul caffellatte, che ingoio bollente e sa di tutto – ogni giorno in modo diverso – meno che di questi due liquidi, che non dovrebbero riservare sorprese. Guardo l’ora, penso al lavoro, e poi cerco di distrarmi facendo scorrere gli occhi sul paesaggio di dolci, bottiglie, scatole di caramelle, formaggi, che finiscono per darmi una nevrastenia da cortile, o tipica di chi ha solo un cortile come vista d’evasione. È a questo punto che cambio pasticceria, per finire col trovare lo stesso latte, lo stesso pane, lo stesso caffè. Lo stesso profondo scoramento, anche, la stessa tristezza.
È noto il gusto dei decoratori di questi ambienti. Soffrono tutti di neoricchismo artistico, molto attento alle mode, usano plastica che imita il marmo, carta che simula il legno, pannelli di finto sughero, rivestimenti di nappa, e soprattutto – ah, soprattutto – introducono nell’ambiente un non so che di insolenza pretenziosa che si stampa sulle facce dei camerieri, indifferenti o visceralmente servili, secondo l’importanza del cliente. Ma che farci? L’uomo si compiace spesso di essere un semplice servo dell’ambiente, muta con esso, come appare dal fatto che i servi con anima di servo accompagnano gli umori del padrone.
Continuando così, finisco col non raccontare la mia storia, e sarebbe un peccato. Arriviamo perciò al dunque, prima che si raffreddi. Mi stavo, come ho detto, sottoponendo al fastidio della piccola colazione (era prestissimo, il bar aveva appena aperto), quando entrano quattro paesani. Li avevo già visti prima, mentre guardavano la vetrina della pasticceria e il trionfalismo della porta. Mi accorsi subito che pativano gli orrori della timidezza contadina dinanzi agli splendori che la città esibisce. Erano sicuramente arrivati la sera prima dal paese, per visitare il parente all’ospedale, e la notte l’avevano passata in una stanzuccia di pensione con la lampadina che pendeva dal soffitto, smorta e senza paralume, con gente che russava e strani odori dai pagliericci, un misto di sudore, orina e altre secrezioni segrete.
Li avevo visti dal bancone e avevo scommesso con me stesso: entrano, non entrano, osano, non osano. Eccoli. Ho vinto la scommessa, e mentalmente mi metto a provocarli: sedetevi, ordinate, reclamate, discutete il conto, sfidate lo sfacciato cartello all’entrata: “Diritto di ammissione riservato”. Ora sono accanto a me, in gruppo, sempre a confabulare, forse a fare i conti con i soldi che hanno in tasca, con il biglietto di ritorno, con il lusso del negozio, con il sorriso del cameriere. Lo dissimulano più che possono, ma tremano di paura: ci sono cinquanta scatole diverse di cioccolatini, trenta specie di dolci sconosciuti ed è tutto così caro, Manuel.
Si avvicinano di nuovo alla porta, con l’aria indugiosa di chi pretende di salvare soltanto la faccia, e in un attimo scompaiono, sopraffatti dalla vergogna, dalla paura, sconvolti dal loro stesso coraggio che non è durato a lungo (fino a un momento fa, il caffellatte non era amaro, e il sandwich non aveva questo sapore di paglia). Erano entrati nel bar quattro cavalieri a piedi, in sella all’oblio della loro importanza, dimentichi o ignari che nulla è più alto dell’uomo, di qualsiasi uomo e in qualsiasi luogo, anche se in questo è riservato il diritto di ammissione. Quattro cavalieri che sembravano piuttosto legati alla coda dei cavalli, come rei. Quattro cavalieri che mi hanno lasciato a guardare il fondo di questo fetido cortile che molta gente garbata chiama gerarchia, pace sociale, rassegnazione di tanti alla sorte prescelta da pochi.
Mancano cavalli, amici, mancano cavalli.

Del principio del mondo
Avevamo parlato per ore, nel nostro solito modo dispersivo, esagerando il valore delle banalità e discutendone come se nella discussione avessimo deciso di impegnare la vita o di disimpegnare (doppio senso) il destino dell’universo. I pensieri sensati (e ce n’erano) venivano a galla per caso, erompevano un attimo come lo splendido dorso di un delfino, e poi, perduti nella retorica fiammeggiante, affondavano rassegnati. Tutti ci conoscevamo bene e non ci saremmo condannati mutuamente per il modo sconnesso in cui avevamo cercato di vincere quella piccola battaglia verbale, che nessuno sapeva piú com’era cominciata. Per fortuna, la conversazione si era dissolta ed era morta proprio quando a ciascuno di noi conveniva per convincersi che la vittoria gli spettava. Niente di meglio per cominciare una nuova discussione. Ma non sarebbe stato così.
Per tutto il tempo aveva fluttuato una musica di fondo, piatta e umile sotto la carica di cavalleria che irrompeva qua e là nel dialogo a perder tempo e ferrature. E ora, in mezzo al silenzio che si era imposto, la musica cominciava a percepirsi meglio, a meritare un’opinione, ultimo argomento per conciliare i punti di vista ancora divergenti. Un Beethoven ci fece tacere tutti, entrando dalla porta del corridoio, curvo come raccontano le biografie, la chioma spettinata e poco pulita, le mani dietro la schiena, il sopracciglio direttamente riprovatore per coloro che così disponevano della sua musica. Ritenni che non gli fossimo del tutto sgraditi, poiché se ne restò lî sino alla fine del disco, appoggiato allo stipite, le braccia conserte.
Poi venne un Mozart felice che si sedette sul tappeto, battendo il tempo, mentre beveva dal bicchiere di vino che aveva preso dalle mani di una nostra amica. Un ragazzo allegro. Ma quasi alla fine, non so perché, Mozart posò lentamente il bicchiere, chinò la testa sulle ginocchia piegate e cominciò a piangere. Di lì a poco mi accorsi di pensare se per caso non avessi bevuto un po’ troppo, mentre per il corridoio vedevo avanzare Monteverdi, con la sua barba dal taglio mefistofelico e la sua musica di giubilo celeste, al tempo stesso che le voci del coro si materializzavano in volti che si avvicinavano cantando dal fondo dello spazio ed esplodevano in silenzio sulla mia testa, come un’onda gigantesca vista da lontano.
Non so se i miei amici vedevano esattamente le stesse cose, ma se ne stavano tutti in silenzio, con un’aria di compenetrazione meticolosa che sicuramente dissimulava la convinzione di essere essi gli unici beneficiari di quelle visite. Il più disinteressato era ancora il padrone di casa, che continuava a cambiare dischi, forse perché da lui era abitudine invocare a quel modo gli spiriti.
Fu allora che cominciò a sentirsi una musica nuova, qualcosa che era aperta campagna, bosco, valico, montagna innevata. Un flauto, un tamburino che dal suono si sarebbe detto di pelle di serpente, uno sbattere di sabbia grossa dentro una capsula vegetale, nulla che si potesse dire: è Mozart, è Beethoven, è Bach, è Monteverdi. Stavolta nessuno avanzò per il corridoio illuminato. I miei amici non girarono la testa, non adocchiarono di straforo per vedere se arrivava qualcuno. Incapaci di guardarci, fissammo tutti il pavimento della sala, in attesa, mentre la musica diceva cose intraducibili, le diceva frammezzate, come chi impara la propria lingua mentre parla, come chi, esitante, crea tutto a partire dal nulla. Lo sapevamo senza dircelo. Ma, evidentemente, mancava qualcuno che ci spiegasse, a viva voce (oh meravigliose parole, quelle che solo la viva voce sa dire), che cosa tutto ciò significasse.
Non furono parole. Quando la musica divenne minaccia e gridò come un animale selvaggio nel mezzo della foresta, come un falco tra due dirupi verticali, una delle nostre amiche – animale snello, scuro di pelle, inguainato in una tunica lunghissima – avanzò al centro della sala e cominciò a danzare da sola, facendosi prima avvolgere dalla musica, impadronendosene poi in un atto successivo di assorbimento espresso in un discorso infinito di gesti, di movimenti., di flessioni, che erano il suono divenuto visibile del flauto, il cuore del tamburo, la pioggia sospinta per i campi, sotto il vento che trasformava i granelli di sabbia in gocce d’acqua.
Il primo suono a morire fu il flauto: un’eco lievissima si disfece come un’ombra che si allontana da un volto. Poi la grande pioggia diminuì, svanì lontano e, per qualche istante, rimase solo il cuore del serpente, battendo sempre più intervallato, fino a fermarsi, ingiustamente.
La nostra amica negra piegò le ginocchia, ansante. E quando, vinta, lasciò cadere la testa all’indietro, la sua chioma, palpitante, era un sole notturno del principio del mondo.

L’officina dello scultore
L’officina dello scultore è alta come una caverna che abbia svuotato una montagna. Ed è anche sonora come un pozzo, e i suoni vi cadono dentro in modo rotondo, liquido, e sono come acqua fredda spruzzata su una campana di cristallo. Non è raro che la musica riempia tutto lo spazio. Allora l’officina si trasforma in sala da concerto, in cattedrale, in vulcano, e la musica si apre come un fiore rosso e gigantesco sotto i cui petali chiniamo la testa. Ma non è questo il lavoro. Le sculture iniziate, avvolte come spettri in bianche tele, in sacchi di plastica traslucida che all’interno condensano la respirazione della creta, attendono il gesto delicato che le spogli come un corpo vivo e le mani capaci, nel medesimo gesto, di schiacciare o di scoprire dolcemente la linea esatta. E poiché le mani hanno lanciato nello spazio il movimento giusto, la massa di argilla si ricrea dal di dentro ed è un volto cupo o aperto, un labbro, una luce nella pupilla immobile, uno sguardo retto.
Ci sono anche i disegni, i fogli di carta che dormono preziosamente coricati a proteggere il tratto imponderabile del carboncino. E quel foglio che un gesto assurdamente calmo fissa sul trespolo verticale, come se subito dopo non si aprissero le porte del grande combattimento. Forse non si ammette altro gesto: se non vogliamo dire che ha inizio una cerimonia religiosa, diremo che è una lotta corpo a corpo, un atto d’amore, proprio come quel gesto che ha spogliato le statue. Ora lo scultore affronta il foglio bianco, verticale e nudo come un corpo. Tende il braccio armato del frammento nero del carboncino e con un movimento breve o lungo, ma sicurissimo come una stoccata, apre nel foglio la prima cicatrice. Tutto il disegno sarà un gioco di finte, di allunghi e di rapidi ritiri, fino al momento in cui l’oggetto si arrende, la distanza si riduce e lo scultore dimentica il modello ormai definitivamente assimilato e dialoga faccia a faccia con l’immagine posseduta.
L’officina è popolata di figure. Ci sono volti di bronzo sul pavimento, il volto stesso della terra che ci guarda. Il lieve strato di polvere che copre le terrecotte è terra su terra, morte su vita, la traccia che il tempo trascina via, la frantumazione delle ore. Animali vivi, oggetti colti nella casualità di incontri che sono scoperte e invenzioni, introducono nell’officina dello scultore tutti i regni della natura: radici d’albero sospese nell’aria come se di aria alimentassero le foglie perdute, tronchi ramosi che sono crocifissioni o turbe di genti pugnalate; pietre che l’acqua, il vento e il sale hanno lavorato per mille anni e un giorno, finché due vivide mani le hanno sollevate da terra e accostate per la prima volta all’alito dell’uomo; e due colombi liberi, le remiganti intatte, tagliano l’atmosfera come se attraversassero un bosco o osassero il volo su una valle profonda dove figure immobili assistessero allo sfilare dell’invisibile.
Centomila oggetti creati da altre mani sono disposti su gradini, ripiani, rastrelliere. Ciascuno, perché è stato trovato, perché si è lasciato trasportare lì, perché ha occupato quel posto e non un altro, perché è stato messo in consonanza o in opposizione a quelli che lo circondano, è un’entità viva, opaca o trasparente, sulla quale la luce e l’ombra si armonizzano come la notte e il giorno, il crepuscolo del mattino o della sera. Le bottiglie arrotondano i loro ventri vuoti accanto a sottili vasi dove un ramo rinsecchito e contorto sostituisce il fiore. E ci sono innumerevoli calamai, con le mille forme che un calamaio può assumere senza rinunciare alla funzione per la quale è stato creato: piramidi d’Egitto, palme vegetali, mani aperte, scatole misteriose che sembrano da musica, sfere chiuse, gusci di animali. Su tutto questo, i colombi volano veloci, fendendo l’aria, mentre in una gabbia due tortore si bagnano nella luce argentata che passa attraverso il vetro traslucido. Questa luce apre rilievi su una corteccia d’albero che fodera una striscia di muro a calce. Negli interstizi della scorza rugosa, licheni secchi e funghi morti sono, anch’essi, l’involucro inerte di una vita infima interrotta.
In questo pozzo, in questa caverna, in questo vulcano sonoro, in questo spazio gelido, in questa montagna abitata internamente – lo scultore circola come l’abitante unico di un paese dove c’è spazio per lui solo e dove egli si muove lentamente, come una vena del polso. Perché c’è davvero un movimento di palpitazione in queste alte pareti. Frattanto, una figura aspetta, creta vischiosa e bagnata, statua incompiuta. E accanto il foglio bianco, secco e imperioso. Entrambi saranno vita nella solitudine subitamente popolata di voci minerali, mentre i colombi disegnano una spirale fino al lucernaio del soffitto.

Il giardino di Boboli
Il corpo deforme di Pietro Barbino è seduto su una tartaruga, dalla cui bocca o becco scorre entro una vasca di marmo un filo d’acqua viva. È la fontana del piccolo Bacco, la fontana del Bacchino, come la chiamano i fiorentini. Questo Pietro Barbino, mi dice il libro, era un nano che distraeva il duca Cosimo I dagli affanni e dalle mortificazioni del governare. Di sicuro avrà avuto meriti particolari per essere così immortalato e posto all’entrata del giardino, a sinistra di chi entra.
Parlo del giardino di Boboli, su cui dà il favoloso e anarchico museo di Palazzo Pitti, assurdo museologico da dove il visitatore esce saturo e perduto. Per recuperare l’equilibrio, presi a camminare nei viali, ascoltando il mormorio delle acque, scoprendo il nitore delle statue tra la mitezza di quei verdi toscani, per apprendere, insomma, a poco a poco, già lontano dai quadri, quel che gli stessi quadri dovevano ancora darmi. E alla curva di una strada alberata mi appare la statua di Pietro Barbino, nuda e obesa, mano alla Vita e gesto da oratore. È enigmatica questa figura. È anche un po’ ripugnante. V’è in essa una specie di insolenza, come se Pietro Barbino fosse il riflesso animale di ciascuno dei visitatori che gli si fermano davanti: “Non illuderti, sei esattamente come me – nano e deforme, oggetto di divertimento per un altro più potente di te”.
Rimasi immobile dinanzi alla statua, solo, per alcuni secondi, il tempo sufficiente per pensare tutto questo, più di questo e meno lusinghiero di questo. So bene che furono appena pochi secondi, anche se al momento mi sembrò che il tempo si fosse fermato. C’era un grande silenzio nel giardino, e un gruppo di giapponesi che avanzava alla mia sinistra pareva fluttuare senza peso, in un lampeggiare di occhiali e di camicie bianche. Feci alcuni passi verso la statua, (per vedermi meglio?), ma d’improvviso fui sommerso da una valanga di uomini sudati e di donne grasse, con vestiti chiassosi, ridicoli cappelli di paglia legati alla barbozza, macchine fotografiche – e grida. Tutta quella gente si precipitò verso il Bacchino, in un grande scoppiettio di frasi italiane e di interiezioni universali. E le donne grasse vollero essere fotografate accanto alla statua nuda, spingendosi l’un l’altra, isteriche e convulse, frenetiche come baccanti ubriache, mentre gli uomini ridevano, grevi e lenti, dandosi gomitate e protendendo il mento lucido. Il gesto del Bacchino si era fatto protettore, benediceva quei suoi fedeli pellegrini, al tempo stesso che la tartaruga lanciava lontano i suoi occhi vuoti.
I giapponesi si avvicinarono. Rimasero allineati davanti alla statua, gravi, senza una goccia di sudore, puntando freddamente gli obiettivi. Poi si raccolsero disciplinatamente attorno alla guida per ascoltare le spiegazioni che dava in inglese. Tornarono a guardare la statua, tutti allo stesso tempo, parlarono nella loro lingua e si allontanarono. Gli italiani prendevano ora d’assalto le scale del museo, dove li aspettava un uomo dagli occhi grigi, di Tiziano.
Restai di nuovo solo. Mi bagnai distrattamente le mani nel filo d’acqua che la tartaruga mi offriva e mi ritirai sospirando. In portoghese.

Terra di Siena bagnata
(E ci sono anche quelle parole che abbiamo udito nell’infanzia, già di per sé misteriose, ma che gli adulti poco istruiti rendevano ancora più segrete, perché le pronunciavano male, con l’aria contraffatta di chi veste un abito che non è stato tagliato per lui. Così era, ad esempio, quella tinta scura, per i mobili, cui si dava il nome di vioxene o bioxene, e che solo molto piú tardi ho capito che era vieux chene, vecchia quercia, antica, annerita dal tempo. Era anche il caso di quell’altro colore, terra cena, terra sona bagnata, che io vedevo comprare, in polvere, di un giallo cupo e ardente, come se fosse pulviscolo di sole. Magnifiche parole dell’infanzia, che hanno bisogno di aspettare lunghi anni per non essere più un cieco cantare di suoni e trovare l’immagine reale che loro corrisponde).
Durante tutto il viaggio, dopo aver lasciato Perugia, il cielo si andò a poco a poco coprendo. Il giorno si oscurò quando eravamo ancora lontani da Siena, e la pioggia cominciò a cadere con forza. Si chiuse la notte in acqua e fu sotto un furioso temporale che entrammo nella città, tra lampi allucinanti che lanciavano fuoco sulle case. L’automobile attraversava una città deserta. Per le strade strette, lastricate, l’acqua correva a fiumi. E nel breve silenzio fra due tuoni, la pioggia risuonava sul tettuccio come bacchette sulla pelle di un tamburo.
Dopo innumerevoli giri, la macchina si fermò in un ampio spazio, accanto a dei gradini. Eravamo nella piazza del Duomo. Attraverso i vetri appannati, vedevamo vaghe luci, gente riparata nei portoni e, a destra, una forma enorme, tutta a fasce nere e bianche, che si perdeva nella notte e nell’altezza: era la cattedrale. La violenza dei tuoni scuoteva la macchina; e la pioggia finì con l’isolarci dal mondo. Siena ci riceveva male. Rimettemmo in moto la macchina e tornammo nel labirinto delle stradine, finché sfociammo in quel che mi sembrò un largo cratere. “È il Campo”, disse uno di noi. E io, neofita, molto compenetrato come chi si mette per la prima volta la cravatta, ripetei, rispettosamente: “Il Campo”. E la pioggia continuava a cadere.
Bagnati, stanchi, scoprimmo un posto per passare la notte. Non un albergo (erano tutti pieni), ma un vero palazzo del XIII secolo, le cui pietre gemevano acqua e storia. All’interno, però, era simultaneamente primitivo e confortevole. C’erano stanze affittate a studenti, e che ero io a Siena, se non uno studente? Aprii la pesante finestra e guardai fuori. Il temporale si era allontanato o era venuto a morire lì, e la pioggia ora cadeva lentamente, mite, senza la frustata degli scrosci.
Il mattino seguente, dopo una notte tormentata dall’inquietudine di un nuovo giorno di tempesta, aprii di nuovo i battenti medievali: il cielo era levigato e limpido, e la luce del sole, ancora bassa, mi mostrava finalmente i tetti di Siena. Fu come se dalle antiche terre della memoria un bambino venisse a mettersi accanto a me, un ragazzino magro e timido, in maglietta e calzoncini. Eravamo due: io, silenzioso e grave, ormai conscio che in tali circostanze solo il silenzio è sincero; lui, mozzo che dall’alto della coffa dell’albero maestro scopre per la prima volta la terra che cercava, mormorando con timore: “Terra sena, terra sena bagnata”, e scomparve, tornò al passato, felice di aver visto, di aver saputo finalmente quel’ che significavano le misteriose parole che aveva udito dire dagli adulti, morti nell’ignoranza di quel che avevano detto.
Qualcuno mi si avvicinò. E io dissi, senza guardare, con una voce divertita che si dominava: “Terra di Siena, terra di Siena bagnata”.

Il tempo e la pazienza
Se qualcuno mi chiede che cosa è il tempo, dichiaro subito la mia ignoranza: non lo so. Proprio ora sento il battere del pendolo, e la risposta sembra essere lì. Ma non è vero. Quando gli finisce la corda, il meccanismo continua nel tempo ma non lo misura: lo subisce. E se lo specchio mi mostra che non sono più quello di un anno fa, neppure questo mi dice che cosa è il tempo. Solo ciò che il tempo fa.
Mi si perdonino questi pensieri falsamente profondi. Niente mi avrebbe spinto ad arrancare dietro ad Einstein se non fosse stato per quella notizia dalla Francia: nel fiume Saòne tutta la fauna si è estinta a causa di prodotti tossici che vi sono stati accidentalmente versati, e ci vorranno cinque anni perché si ricostituisca. Lo stesso tempo che invecchia, rovina, distrugge e uccide (addio, specchio), purificherà le acque, le popolerà a poco a poco di creature, finché, passati cinque anni, il fiume risusciterà dalla fossa comune dei fiumi morti, per la gloria e il trionfo della vita (e poi si sposarono, ed ebbero molti affluenti).
Non avrebbe seguito questa cronaca se non fosse per quella benedizione dei cronisti, che è (qui lo confesso) l’associazione di idee. Va trascinando il fiume Saóne la sua corrente avvelenata, ed è in questo momento che una goccia d’acqua mi si disegna nella memoria, come un’enorme perla sospesa, che lentamente s’ingrossa e tarda tanto a cadere e non cade fin quando la guardo affascinato. Mi circonda un fantastico ammasso di rocce. Sono all’interno del mondo, attorniato da stalattiti, da bianche tovaglie di pietra, formazioni calcaree che hanno l’aspetto di animali, di teste umane, di segreti organi del corpo – immerso in una luce che dal verde al giallo degrada all’infinito.
La goccia d’acqua riceve la luce da una fonte laterale ed è trasparente come l’aria, sospesa su una forma rotonda che sembra un bulbo vegetale. Cadrà non so quando, dall’altezza di sei centimetri, e scivolerà sulla superficie liscia, lasciando un’infinitesimale pellicola calcarea che renderà più breve la prossima caduta. E poiché ci siamo fermati a guardare la goccia d’acqua, il custode di Aracena ci ha detto: “Tra duecento anni le due pietre saranno unite”.
È questa la pazienza del tempo. Nella grotta immensa, il tempo sta avvicinando due pietre insignificanti e promette la silenziosa unione da qui a duecento anni. All’ora in cui scrivo, in piena notte, la caverna sarà sicuramente in profonda oscurità. Si ode il gocciolare delle acque libere sui laghi senza pesci mentre in silenzio la montagna stilla la torpida goccia della promessa.
La pazienza del tempo. Duecento anni a fabbricare pietra, a costruire una piccola colonna, un misero moncone cui nessuno in seguito farà caso. Duecento anni di lavoro monotono e applicato, indifferente alle meraviglie che ricoprono le pareti altissime della grotta e fanno sbocciare fiori di pietra dal suolo. Duecento anni così, solo perché così deve essere.
Parlo del tempo e di pietre e, tuttavia, è agli uomini che penso. Perché sono essi la vera materia del tempo, la pietra superiore e quella inferiore, la goccia d’acqua che è sangue ed è anche sudore. Perché sono essi il paziente coraggio, e la lunga attesa, e lo sforzo senza limiti, il dolore accettato e ricusato duecento anni, se così deve essere.

Il fiume più grande del mondo
Oggi ho compiuto un gesto come solo potevano compierne i grandi conquistatori del passato, un Alessandro il Macedone, che poteva offrire il mondo intero per il semplice motivo che ne era padrone. Non sono arrivato a tanto, è chiaro, ma ho regalato un fiume. E se qualcuno, sapendo di che fiume sto parlando, si metterà a malignare che non ho regalato proprio un bel niente, che il fiume continua nello stesso posto e nello stesso letto, ho qui la risposta pronta: se un giorno il pianeta sarà proprietà esclusiva di un nuovo Alessandro, certamente non ne modificheranno l’orbita. Ho regalato il fiume, è fatta, ma è anche vero che non lascerei orfano un paesaggio. E così lontano si spingono la mia generosità e il mio rispetto che tutta la gente e tutte le imbarcazioni continueranno ad avervi diritto di passaggio e di navigazione. In fondo, solo due persone sanno che il fiume ha cambiato padrone. È quanto basta.
Ma la cosa più importante non è stata ancora detta. È raro l’aver scoperto che con un solo colore si fa un fiume e un paesaggio, il sapere inoltre che il silenzio si compone di innumerevoli rumori – e che sotto un cielo coperto, dimentico della primavera, può nascere una verde canzone.
Lungo il fiume, mentre la barca scende per la corrente con il rapido ausilio della pertica che stride sulla sabbia o si conficca come lancia nel limo, gli uccelli invisibili trasformano gli alberi in strani esseri cantori. E il mistero si dissolve solo quando uno degli uccelli si affaccia sui rami che si protendono sull’acqua o accompagna la barca svolazzando, in un gioco di ali tremule, in cui c’è limite, ma non nullo, audacia, ma non troppa. Arditi, invece, maliziosi, i merli rischiano da lontano e attraversano il fiume con quel loro volo un po’ goffo: sono neri di inchiostro e hanno il becco giallo come imbrattato del polline dei fiori.
Grandi nuvole scure empiono il cielo. E poiché il sole solo furtivamente appare, c’è in tutto il paesaggio, nei colori e nei suoni, una piacevole sordina. Il tempo stesso è indugioso. Si naviga come in sogno, e l’aria è più spessa, trattiene in sospeso i gesti, le brevi parole scambiate. E quando da uno squarcio degli alberi la riva acquitrinosa si dilata d’improvviso fino all’estremo del mondo, c’è un pioppo solitario piantato lì di proposito per marcare l’approdo, come quella piccola figura posta in un disegno ai piedi delle piramidi d’Egitto e che subito riconosciamo essere un uomo.
Allora, scendendo giù per il fiume che è stato donato e ricevuto, parliamo delle persone che continueranno a vederlo tutti i giorni. Di quelle persone per le quali il fiume non è né paesaggio né verde canzone, ma una linea ipnotizzante che le ha ancorate allo stesso luogo e dentro se stesse. Parliamo di queste cose gravemente, divisi tra quel che ci appartiene e quel che solo con un rispetto infinito possiamo toccare. Immaginiamo una lunga fila di uomini che si lanceranno di corsa, e sappiamo che per una basilare ingiustizia, per un’assurdità mostruosa, alla maggior parte di essi sarà tagliata una gamba: amareggiati e menomati si trascineranno su quel che resta loro della terra. Ma rassegnati, no, ci diciamo.
L’acqua ci trasporta lentamente. Sfiorano le nostre spalle i rami pendenti dei salici. Non è comparso il martin pescatore, il custode dei fiumi dal petto azzurro. Non ce n’era bisogno. Lo custodivamo noi, come custodivamo la vita, la speranza e questo lungo sguardo silenzioso.
Ecco qui, dunque, il più grande fiume del mondo. Non c’è nulla di più grande, nulla di più grande.

Una notte in Plaza Mayor
Vuoi o non vuoi, mi sorgono nella memoria immagini d’altri luoghi e d’altri giorni, casi di viaggio, atmosfere, visioni rapide o placide contemplazioni. Se a volte parlo di tutto ciò, non è senza una certa riluttanza, così come capita a chi esce di casa con un vestito nuovo e teme che gli chiedano se ha già pagato il sarto. Mi sembra quasi (eccessivo scrupolo di coscienza, che posso farci?) che il lettore agiti impaziente il libro e dica: “Presuntuoso, il tipo”. Ma giuro che non lo sono. Se fisso i miei ricordi sulla carta, è soprattutto perché non si perdano (in me) minuti d’oro, ore che risplendono come soli nel cielo tumultuoso e immenso che è la memoria. Cose che sono anche, con il resto, la mia vita.
Purtroppo, non tutto può essere recuperato. Anche se tornassi cento volte a Firenze, anche se scegliessi il giorno e la luce, non sentirei come allora il brivido fisico (sì, il brivido fisico, nel senso letterale, fisiologico, dell’espressione) che mi percorse dalla testa ai piedi davanti all’entrata della Biblioteca Laurenziana progettata e costruita da Michelangelo. Sarebbe un miracolo, e i miracoli, se accadono, sono troppo preziosi per ripetersi. E non rivedrei sulla strada per Venezia quel sole sospeso tra una nebbia oleosa, da cui si irradiavano i colori dell’arcobaleno, ma blandi, smorti, come la città che sembrava fluttuare su zattere e andare alla deriva nella corrente.
Funzione della memoria è conservare queste cose prodigiose, difenderle dall’usura banalissima della quotidianità, gelosamente, perché forse sono la miglior ricchezza che abbiamo. Essa è come la caverna di Alì Baba, sfolgorante di pietre preziose, di ori, di profumi, o come il forziere di antichi pirati, tornato alla luce, che accende le perle come fuochi.
Proprio ora ho teso il braccio e ho colto un diamante nero: quella mia notte nella Plaza Mayor di Madrid, tanto a portata di mano, che tutti ci sono già andati, o stanno per andarci, o non ci andranno mai, sì, non ci andranno mai. Ma io ho un diamante, che è nero perché era notte, e che scintilla perché c’erano dei falò.
Meglio raccontare tutto dal principio. Era dicembre, l’antivigilia di uno di questi ultimi natali, e a Madrid faceva freddo, molto, e a notte inoltrata alcuni uomini lavavano le strade con grandi getti d’acqua gelida, e tutto scorreva e brillava in larghe tovaglie di riflessi: ma questo accadeva più tardi. Uscimmo dalla Gran Via verso calle Mesonero Romanos, poi per Rompelanzas, attraversammo Arenal e prendemmo Coloreros. I lampioni della piazza rendevano gloriosamente luminosa la nebbia. Quell’enorme quadrilatero sembrava un pozzo lunare, o un’arena dove forse si nascondevano tori di bruma. Fantasie. Era soltanto la Plaza Mayor, nell’antivigilia di Natale, con il selciato tutto coperto di rami e foglie, e mezza dozzina di falò sparpagliati qua e là, e la nebbia alta che vedevamo muoversi a onde, come se qualcuno alitasse contro il fiume. E c’erano anche degli stranissimi suoni di strumento musicale (flauto? scacciapensieri? fischio d’uccello di montagna?) che risuonavano violentemente tra le quattro facciate filippine, in una festa che era al tempo stesso divertimento e minaccia.
Avanzammo con timore, perché non dovrei confessarlo? L’atmosfera era così insolita, così inatteso lo spettacolo, che d’improvviso non eravamo più a Madrid, al centro d’una città civile e vigilata, ma in una qualche gola della Sierra Morena, tra personaggi di Cervantes o dei romanzi picareschi. Sotto i piedi, la sofficità delle foglie ci rendeva fantasmi tra fantasmi. I flauti (le grida) continuavano, e i falò, visti più da presso, alla fine non erano falò, ma lampioni soffocati dalla nebbia. Ci avvicinammo ancora. E tutto (o quasi tutto) si spiegò. C’erano branchi di tacchini, e gli uomini che li guardavano a vista suonavano quei rudimentali strumenti, una corda tesa su una cassa di risonanza, come quei giocattoli che costruivamo una volta, con una scatola di lucido da scarpe e uno spaghino incerato.
Tutto senza mistero. Cose banali, comuni, semplice situazione di uomini nel loro pacifico mestiere, e gente che li attorniava, superbamente indifferenti a turisti come noi. Girellammo lì attorno, non ancora convinti che quel che vedevamo fosse solo normale. Nebbia di foresta pietrificata, rami sul selciato, lampioni che sembravano falò, uomini come tronchi di leccio – il tutto avvolto dalla risata moltiplicata, infinita, delle corde schiamazzanti e ironiche. Queste cose dovevano per forza avere un senso.
Scendemmo dal lato opposto, per Cuchilleros. Cominciammo a udire suoni di viole e battere di mani, i rumori tranquillizzanti della notte madrilena. Ma verso il cielo aperto sulla piazza continuavano a salire le risate stridule. Chi rideva così nella notte sgomenta di Plaza Mayor? E di che? E di chi?

Il perfetto viaggio
Uscimmo da Lisbona sul finire del pomeriggio, ancora con la luce del giorno, per una strada poco trafficata. Potevamo chiacchierare tranquillamente, senza precipitare le parole né temere le pause. Non avevamo fretta. Il motore dell’automobile ronzava come un violoncello la cui vibrazione di una sola nota si prolungasse all’infinito. Negli intervalli tra le frasi ci giungeva lo sfrigolio soave dei pneumatici sull’asfalto e, nelle curve, l’ansimare delle gomme era come un avvertimento, ma subito dopo riprendeva lo stesso pacifico mormorio. Parlavamo di cose forse già note, che ripetute apparivano tuttavia così nuove e così antiche come un albeggiare.
Le ombre degli alberi si stendevano sull’asfalto, molto allungate e pallide. Quando la strada cambiava direzione, verso il sole, ci arrivava sul viso una rapida raffica di lampi fulvi. Ci guardavamo l’un l’altro e sorridevamo. Più avanti, il sole si spense dietro una collina inaspettata. Non l’avremmo rivisto. La notte cominciò a nascere da se stessa e gli alberi radunarono le ombre sparse. In un rettilineo più lungo, i fari si lanciarono impetuosi come due braccia bianche che stessero tastando il cammino in lontananza.
Cenammo in una città, l’unica esistente tra Lisbona e la nostra meta. Nel bar-ristorante la gente del luogo guardò con curiosità gli sconosciuti che credevamo di essere. Ma nel mezzo di una frase, udimmo pronunciare il nome di uno di noi: mai nessuno è abbastanza ignoto.
Proseguimmo il viaggio, in piena notte. Eravamo in ritardo. La strada era peggiorata, tutta dossi, il fondo pessimo, le banchine franose e muri alti nelle curve. Non era più possibile chiacchierare. Entrambi ci raccogliemmo deliberatamente in un dialogo interiore che cercava di indovinare altri dialoghi, che prevedeva domande e costruiva risposte. E c’era la penombra di volti opachi da cui venivano le domande, dapprima timide, esitanti, e poi ferme, con una vibrazione di collera che tentavamo di capire, che aggiravamo prudentemente, o decidevamo di affrontare proponendo nella risposta una collera maggiore.
Attraversammo paesini deserti, illuminati agli angoli da lampioni la cui luce smorta si perdeva senza occhi che la vedessero. Raramente un’altra macchina incrociava la nostra e ancor più raramente i nostri fari captavano il fanalino di una bicicletta fantasma che ci lasciavamo dietro, come un profilo tremulo perduto nella notte. Cominciammo a salire. Dal finestrino semiaperto entrava un’aria fredda che circolava nella macchina e ci metteva un brivido alla schiena. Le luci blande del cruscotto diffondevano sui nostri volti un chiarore sereno.
Arrivammo quasi senza accorgercene, dietro una curva della strada. Girammo e rigirammo attorno a una chiesa che sembrava stare dovunque, ormai perduti. Finalmente trovammo la casa. Un baraccone smilzo, con due porte strette. C’era gente ad aspettarci. Entrammo, e mentre in un angolo parlavamo con chi ci aveva accolti, la sala s’andò riempiendo lentamente. Occupammo i nostri posti. Sul tavolo c’erano due bicchieri e una brocca d’acqua.
Ora i volti erano reali. Uscivano dalla penombra e si volgevano verso di noi, gravi e interrogativi. Era di quella gente cui il nome di popolo si adatta come se fosse la sua pelle. C’erano tre donne con bambini piccoli, e una di loro, più tardi, aprì la camicetta e lì stesso si mise ad allattare il figlio, mentre ci guardava e ascoltava. Con la mano libera copriva un po’ il viso del bambino e il seno, senza troppo preoccuparsi, tranquilla. C’erano uomini con la barba lunga, lavoratori dei campi, operai, qualche impiegato (ufficio? negozio?), e bambini che volevano star quieti e non potevano. Parlammo fino all’alba. E quando tacemmo e tacquero, qualcuno disse semplicemente, nello strano tono di chi chiede scusa e insieme impartisce un ordine: “Tornate quando potete”. Ci congedammo.
Era tardi, molto tardi. Ma né io né l’altro avevamo fretta. L’automobile procedeva senza rumore, cercando il cammino dentro una notte altissima, con il cielo coperto di fuochi. Solo dopo molti chilometri riuscimmo a dire qualcosa di più delle poche parole di soddisfazione che ci eravamo scambiati nell’allontanarci. Avevamo dinanzi a noi un viaggio ancora lungo. Era un mondo disabitato quello che attraversavamo: canali silenziosi le vie dei paesi, con le loro facciate addormentate, e subito irrompevamo di nuovo nei campi, tra alberi che sembravano tagliati e che da vicino esplodevano in verde quando i fari li perforavano. Non avevamo sonno. E allora parlammo come due bambini felici.
A sinistra della strada, un fiume correva fianco a noi.