sabato 8 febbraio 2020


LA RAGAZZA DELLO SPUTNIK 
 Haruki Murakami


Traduzione di Giorgio Amitrano 

Sumire è una ragazza impulsiva, disordinata, generosa, con il mito di Kerouac e della scrittura. Myū è una donna matura, sposata, molto ricca e molto bella. Sumire ama Myū come non ha mai amato nessun ragazzo. E Myū parrebbe provare lo stesso sentimento, ma uno schermo invisibile sembra separarla dal sesso, e forse dal mondo.  

Riusciranno a incontrarsi o si perderanno senza lasciare traccia come lo Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre? A raccontarci la storia è un giovane senza nome, prima studente, poi maestro elementare, innamorato di Sumire innamorata di Myū. E cosí i destini dei nostri tre protagonisti s‟inseguono ma non si congiungono mai, simili a satelliti alla deriva per l‟eternità. Murakami scrive una storia d‟amore misteriosa, in bilico fra realismo quotidiano e inquietante trasfigurazione onirica.  


Avvertenza 


Per la trascrizione dei nomi giapponesi, è stato adottato il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Inoltre si noti che: 

ch è un‟affricata come la c nell‟italiano „cesto‟ g è velare come nell‟italiano „gatto‟ h è sempre aspirata 
j è un‟affricata come nell‟italiano „gioco‟ sh è una fricativa come sc nell‟italiano „scelta‟ (sushi va letto „susci‟) y non va letta come la y inglese ma come la i italiana. 
Il segno diacritico orizzontale posto sulle vocali ne indica l‟allungamento. 
Si è mantenuto l‟uso giapponese secondo il quale il cognome precede sempre il nome. 

  
Il 4 ottobre 1957, l‟Unione Sovietica lanciò dalla base spaziale di Baykonur, Repubblica del Kazakistan, il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik. Il satellite, dal diametro di 58 cm e dal peso di 83,6 kg, compiva un‟orbita attorno alla terra in 96 minuti e 12 secondi. 
Anche il lancio dello Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika, il 3 novembre dello stesso anno fu portato a termine con successo. Era la prima volta che una creatura vivente viaggiava nel cosmo, ma il satellite non fu recuperato, e la cagnetta venne sacrificata alla ricerca sugli esseri viventi nello spazio. 

(Dalle Cronache della storia mondiale, Kodansha). 



Nella primavera del suo ventiduesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabile su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non si lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della sua forza, attraversò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un‟esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario, epocale. La persona di cui Sumire si era innamorata aveva diciassette anni più di lei ed era sposata. E come se non bastasse, era una donna. È da qui che tutto cominciò, ed è qui che tutto (o quasi) finì. 

In quel periodo Sumire stava lottando con tutte le sue forze per diventare una scrittrice di professione. Anche se sapeva bene che in questo mondo ci sono infinite possibilità, per lei non vi era altra strada praticabile se non quella per diventare scrittrice, una scrittrice di romanzi. Questa determinazione era più dura delle rocce mesozoiche, e non lasciava spazio a compromessi. La sua fede era così assoluta che tra lei e la letteratura non passava nemmeno un capello. 
Sumire, dopo essersi diplomata in un liceo della prefettura di Kanagawa, si era iscritta alla Facoltà di Lettere di una piccola e tranquilla università privata di Tōkyō. Tuttavia era evidente che non si trattava di una scuola adatta a lei. La mancanza di fantasia e personalità e l‟inutilità pratica – almeno per quanto riguardava gli obiettivi di Sumire – che caratterizzavano quell‟università, le tolsero presto qualsiasi illusione. La maggior parte degli studenti erano di una noia e di una banalità senza scampo, roba di seconda scelta (categoria della quale, a essere onesti, facevo parte anch‟io). Per questa ragione, prima di passare al terzo anno, decise in fretta di ritirarsi, chiudendo per sempre la sua carriera universitaria. Era giunta alla conclusione che stare in un posto del genere fosse per lei solo una perdita di tempo. E penso anch‟io che in fondo avesse ragione. Però, se mi è concessa un‟osservazione banale, in questa vita imperfetta abbiamo bisogno anche di una certa quantità di cose inutili. Se tutte le cose inutili sparissero, sarebbe la fine anche di questa nostra imperfetta esistenza. 

Detto in sintesi, Sumire era un‟inguaribile romantica, testarda e cinica, completamente inesperta della vita e del mondo. Una volta che cominciava a parlare, poteva andare avanti anche all‟infinito, ma quando l‟interlocutore non le andava a genio (come le accadeva con la quasi totalità del genere umano), non apriva bocca. Fumava troppo, e quando prendeva la metropolitana perdeva regolarmente il biglietto. Aveva la tendenza, se era colta da una delle sue ispirazioni, a dimenticarsi di mangiare, e infatti era magra come gli orfani di guerra dei vecchi film italiani, e aveva gli occhi eternamente spalancati. Una foto renderebbe l‟idea meglio di qualsiasi spiegazione, ma purtroppo non ne ho nemmeno una. Aveva un‟avversione viscerale a farsi fotografare, e il desiderio di lasciare ai posteri un «ritratto dell‟artista da giovane» non la sfiorava nemmeno. Ma se ci fosse una foto di Sumire in quel periodo, sicuramente potrebbe fornire una preziosa testimonianza delle caratteristiche uniche di cui possono essere dotate alcune persone. 

Il nome della donna di cui Sumire si era innamorata – non riesco a raccontare le cose per ordine – era Myū. O almeno è così che la chiamavano tutti. Quale fosse il suo vero nome non l‟ho mai saputo (una lacuna che mi avrebbe causato in seguito qualche problema, ma di questo dirò a suo tempo). Di nazionalità era coreana, ma il coreano non lo parlava quasi per niente, almeno finché non decise, intorno ai venticinque anni, di studiarlo. Nata e cresciuta in Giappone, aveva poi frequentato il conservatorio in Francia, e perciò oltre al giapponese parlava correntemente francese e inglese. Era sempre vestita con un‟eleganza straordinaria, indossava con disinvoltura accessori piccoli ma costosi, e guidava un dodici cilindri Jaguar blu scuro. 

La prima volta che incontrò Myū, Sumire le parlò dei romanzi di Jack Kerouac. In quel periodo, era completamente immersa nel mondo di questo scrittore. I suoi idoli letterari cambiavano periodicamente, e adesso a farle compagnia era un autore un po‟ «fuori stagione» come Kerouac. Portava sempre una copia di Sulla strada o Viaggiatore solitario ficcata nella tasca della giacca, e quando aveva un po‟ di tempo ne divorava le pagine. Quando trovava un passaggio per lei significativo, lo sottolineava con la matita, e poi lo imparava a memoria devotamente come una preghiera. Tra questi, quello che l‟aveva più incantata era un passo di Viaggiatore solitario nel quale Kerouac parlava della sua esperienza come vedetta antincendio. Egli aveva trascorso tre mesi in completa solitudine, in una capanna sulla cima di una montagna, impegnato in quell‟occupazione. 
Sumire citò il passo. 
«Nessun uomo dovrebbe vivere senza aver sperimentato almeno una volta la sana anche se noiosa solitudine di una dimora tra i boschi, scoprire di dover dipendere solo da se stessi, e per questo tirar fuori la vera forza interiore». 

Non ti sembra stupendo? – mi disse Sumire. – Stare tutti i giorni in cima a una montagna, volgere intorno lo sguardo di 360 gradi, e accertarsi che da nessuna montagna si levi un filo di fumo nero. Nient‟altro che questo, per tutta la giornata. E per il resto, leggere tutti i libri che si vuole, e scrivere. Con dei grandi orsi pelosi che la notte vagano intorno alla tua capanna. A confronto, la Facoltà di Lettere mi sembra di uno squallore totale. 
Il problema è che chiunque prima o poi deve scendere dalla montagna, – obiettai. Ma come sempre lei non sembrò particolarmente colpita dalla mia realistica e banale osservazione. 

Sumire si chiedeva con apprensione cosa avrebbe potuto fare per diventare eccessiva, e possibilmente wild e cool, come un personaggio dei romanzi di Kerouac. Con le mani ficcate in tasca, i capelli studiatamente in disordine e un paio di occhiali dalla montatura nera di plastica come quelli di Dizzy Gillespie (anche se non aveva nessun problema di vista), guardava il cielo con un‟espressione vacua. Di solito indossava una giacca di tweed troppo larga che sembrava comprata in un negozio di abiti usati, e dei rozzi stivali da lavoro. Se avesse potuto farsi crescere la barba, sicuramente l‟avrebbe fatto. 
Sumire non si poteva definire una gran bellezza nel senso usuale del termine. Aveva le guance scavate e la bocca un po‟ troppo grande. Il naso, piccolo, era leggermente all‟insù. La sua espressione era intensa, e aveva un forte senso dell‟umorismo, ma non capitava quasi mai che ridesse forte. Era piccola di statura, e anche quando era di buon umore aveva un modo di parlare come se volesse fare a botte. Credo che in tutta la sua vita non avesse mai preso in mano un rossetto o una matita per gli occhi. Dubito perfino sapesse che esistono reggiseni di diverse misure. E tuttavia c‟era qualcosa di speciale in Sumire che ti conquistava. È difficile spiegare a parole in che cosa consistesse questa sua speciale qualità, ma bastava guardarla negli occhi per vederla, riflessa nelle sue pupille. 

A questo punto forse farei meglio a dirlo chiaramente: ero innamorato di Sumire. Ne fui subito attratto, dalla prima volta che ebbi occasione di scambiare qualche parola con lei, e questa simpatia a poco a poco si trasformò in un amore senza ritorno. Per molto tempo nella mia vita non ci fu altro che Sumire. Naturalmente pensai molte volte di esprimerle questo mio sentimento. Però per qualche ragione, quando mi trovavo davanti a lei non riuscivo a trovare le parole giuste per dare voce a quello che sentivo. E forse dopotutto per me è stato meglio così. Se fossi riuscito a esprimere i miei sentimenti, sono certo che lei avrebbe liquidato tutto con una risata. 
Nel periodo in cui frequentai Sumire come «amico», ebbi delle storie con due o tre ragazze. Non è che non mi ricordi il numero esatto, ma la cifra può variare a seconda del modo di contare. Se aggiungo anche quelle con cui sono andato a letto una o due volte, la lista si allunga un po‟. Mentre i nostri corpi si stringevano, io pensavo spesso a Sumire. O per meglio dire, la sua immagine era più o meno continuamente presente in un angolo della mia mente. Arrivavo anche a immaginare che la donna con cui facevo l‟amore fosse lei. Mi rendo conto che ciò non era leale nei confronti di quelle donne. Ma giusto o ingiusto che fosse, non potevo in nessun modo evitarlo. Ma torniamo all‟incontro tra Sumire e Myū. 
Myū aveva già sentito nominare Jack Kerouac, e sapeva vagamente che era uno scrittore. Ma non riusciva a ricordare di che tipo. 
Kerouac... Kerouac... non c‟entrava qualcosa con gli Sputnik? Sumire non capì che cosa intendesse Myū. Rimanendo con forchetta e coltello sospesi a mezz‟aria, provò a riflettere. – Sputnik? Ma lo Sputnik è il satellite artificiale, il primo lanciato nello spazio dall‟Unione Sovietica negli anni Cinquanta, no? Jack Kerouac è uno scrittore americano. Va bene che come periodo ci siamo... 
Appunto, non è così che chiamavano un gruppo di scrittori di quel periodo? – disse Myū, e con la punta delle dita disegnò dei cerchi sul tavolo come se frugasse il fondo di un vaso, di chissà quale forma, alla ricerca di un ricordo lontano. 
Sputnik? 
Era il nome di una corrente letteraria. Sai, quei gruppi di scrittori... come in Giappone lo Shirakabaha . 
Fu a quel punto che Sumire finalmente capì. – Beatnik! 
Myū si asciugò delicatamente le labbra con il tovagliolo. 
Beatnik, Sputnik... Mi confondo sempre con questo tipo di parole. Come, che so, la Restaurazione Kenmu o il Trattato di Rapallo. Cose che appartengono al passato. 
Ci fu una breve pausa, che sembrò evocare lo scorrere del tempo. 
Il Trattato di Rapallo? – chiese Sumire. 
Myū sorrise. A Sumire quel sorriso sembrò familiare, intimo, come una cosa tirata fuori dopo tanto tempo dal fondo di un cassetto dove era stata a lungo, gelosamente, custodita. Aveva un modo delizioso di socchiudere gli occhi. Poi Myū allungò la mano, e con le sue dita lunghe e sottili scompigliò un po‟ i già scompigliati capelli di Sumire. Fu un gesto così spontaneo e naturale che Sumire, di rimando, istintivamente sorrise. 

Da allora Sumire ribattezzò dentro di sé Myū «la mia ragazza dello Sputnik». Amava il suono di quell‟espressione. Le faceva pensare alla cagnetta Laika. Il satellite artificiale che attraversa silenzioso il buio del cosmo. Gli occhi neri e lucidi di Laika che si affacciano da un minuscolo oblò. Che cosa avrà visto, la cagnetta, in quello spazio sconfinato e deserto? 

Il discorso sullo Sputnik era venuto fuori al banchetto per le nozze di una cugina di Sumire, in un lussuoso albergo di Akasaka. Non era una cugina a cui fosse particolarmente legata (per essere precisi, la detestava), e per lei partecipare a un banchetto di nozze equivaleva a una tortura, ma in quella particolare occasione, per varie ragioni non aveva potuto sottrarsi. Sumire e Myū si trovarono sedute allo stesso tavolo, L‟una accanto all‟altra. Myū non entrò in particolari, ma sembrava che avesse dato lezioni di piano alla cugina di Sumire, quando questa si era diplomata al conservatorio, o qualcosa del genere. Sebbene non ci fosse tra loro un‟amicizia lunga o intima, c‟erano stati comunque rapporti tali per cui Myū si sentiva in debito con lei. 
Nel momento in cui Myū le sfiorò i capelli, Sumire si innamorò di lei immediatamente. Fu questione di un attimo, come quando uno, attraversando un campo sconfinato, viene all‟improvviso colpito da un fulmine. Fu per lei una rivelazione artistica, un‟illuminazione divina. Per questo, almeno in un primo momento, che la persona in questione fosse una donna, non sembrò costituire un problema. 
Per quanto ne sappia io, Sumire non aveva mai avuto nessuno che si potesse definire un partner. Ai tempi del liceo aveva avuto diversi amici maschi, gente con cui andava al cinema o in piscina. Ma mi ero fatto l‟idea che non si fosse mai trattato di legami profondi. Quasi tutto il suo spazio mentale era occupato da quell‟unico ardente pensiero, diventare una scrittrice, ed era improbabile che potesse lasciarsi conquistare dal fascino di qualcuno. Ammesso che negli anni del liceo Sumire avesse avuto qualche esperienza sessuale (o quasi sessuale), era stata quasi certamente spinta, più che dal desiderio o dalla passione, da una sorta di curiosità letteraria. 
A essere sincera, il desiderio sessuale è una cosa che mi sfugge completamente, – mi confessò un giorno Sumire con una faccia serissima (ciò accadde poco tempo prima che lasciasse l‟università, una volta che era piuttosto ubriaca dopo aver bevuto cinque bicchieri di Banana Daiquiri). – Da che cosa nasce eccetera. Tu che ne pensi? 
Il desiderio sessuale non è qualcosa che si capisce, – dissi io, esponendo come al solito il mio punto di vista saggio e moderato. – O c‟è o non c‟è. 
A queste parole, Sumire scrutò il mio viso per alcuni istanti, con l‟aria di chi guarda un macchinario dal funzionamento incomprensibile. Poi, come se avesse perso interesse, alzò lo sguardo verso il soffitto. Il discorso finì lì. Probabilmente doveva aver pensato che non valeva proprio la pena di discutere con me su quel tema. 

Sumire era nata a Chigasaki. La sua casa era vicina al mare, e a volte un vento carico di sabbia colpiva i vetri delle finestre producendo un suono secco. Suo padre aveva uno studio dentistico nel centro di Yokohama. Era un uomo straordinariamente bello: basti dire che col suo naso perfetto ricordava il Gregory Peck di Io ti salverò. Sfortunatamente – era lei a dirlo – Sumire non aveva ereditato quel naso. E non lo aveva ereditato nemmeno suo fratello più piccolo. A volte Sumire si chiedeva stupita dove diavolo fossero andati a finire i geni che erano riusciti a produrre un naso così meraviglioso. Talmente bello che se erano andati perduti nel fiume della trasmissione genetica, sepolti sul fondo, si poteva parlare di un danno al patrimonio culturale dell‟umanità. 
Ovviamente il papà di Sumire, con il suo splendido aspetto, era un mito tra le donne di Yokohama e dintorni che avessero un qualche problema ai denti. Nel suo studio, indossava un berretto calato fino alla fronte e una maschera che gli nascondeva gran parte del viso. Di lui le pazienti non riuscivano a scorgere che gli occhi e le orecchie. E ciò nonostante, non c‟era modo di camuffare la sua bellezza. Il suo splendido naso si ergeva, virile ed evocativo, attraverso la maschera, facendo arrossire, e innamorare all‟istante, la quasi totalità delle sue pazienti di sesso femminile – che la mutua rimborsasse o meno le spese passava del tutto in secondo piano. 

La madre di Sumire era morta a soli trentun anni, di una insufficienza cardiaca congenita. Quando era morta, Sumire non aveva nemmeno tre anni. Della madre, tutto quello che ricordava era il lieve profumo della pelle. Anche di foto ne erano rimaste appena un paio: la fotoricordo del matrimonio e un‟istantanea scattata subito dopo la nascita di Sumire. Infinite volte aveva tirato fuori il vecchio album con quelle foto e le aveva guardate. Di aspetto, sua madre era, per usare un eufemismo, un tipo insignificante: una donna piccola di statura, con una pettinatura qualsiasi, abiti su cui è meglio stendere un velo, e un sorriso incerto sulle labbra. Sembrava che, se avesse fatto solo un passo indietro, si sarebbe completamente fusa con il muro alle sue spalle. Sumire aveva cercato con tutte le forze di imprimersi bene in mente i suoi lineamenti. Pensava che così prima o poi sarebbe riuscita a vederla in sogno. Magari anche a stringerle la mano, e a parlare con lei. Ma non funzionò. La madre aveva un tipo di faccia che, per quanto si tentasse di memorizzarla, non faceva presa sulla memoria. Altro che sognarla! Anche se l‟avesse avuta davanti per strada in pieno giorno, difficilmente l‟avrebbe riconosciuta. 
Suo padre non aveva quasi mai raccontato nulla della moglie morta. Prima di tutto era un uomo che parlava poco, e inoltre, in qualunque occasione, rifuggiva dal manifestare le emozioni, che trattava alla stregua di infezioni del cavo orale. Ma la stessa Sumire non ricordava di avere mai fatto domande al padre a proposito della madre. Tranne una sola volta quando, ancora piccola, per qualche ragione gli aveva chiesto: – Che tipo era la mamma? – Aveva un chiaro ricordo di quella conversazione. 
Il padre aveva guardato da un‟altra parte ed era rimasto per qualche istante sovrappensiero. Poi, aveva risposto: – Aveva molta memoria, e una bella calligrafia. 
Era uno strano modo di descrivere una persona. Per come la vedo io, in quel momento lui avrebbe dovuto raccontarle qualcosa che potesse lasciare un‟impronta profonda nel piccolo cuore di sua figlia. Parole colme di nutrimento, da cui lei potesse attingere forza e calore, che fossero in grado di diventare un perno, un pilastro, capaci di sostenere, anche se indirettamente, la sua vita così priva di certezze in questo angolo del sistema solare. Sumire le aspettava, il suo quaderno di appunti ancora bianco aperto alla prima pagina. Ma purtroppo suo padre non era capace di una cosa del genere. 
Quando Sumire aveva sei anni, il padre si risposò, e due anni dopo nacque suo fratello. Neanche la seconda moglie era una bellezza. E per giunta non aveva né una grande memoria né una bella calligrafia. Ma era una persona buona e onesta. Per la piccola Sumire, che ne diventava automaticamente la figliastra, fu una vera fortuna. Ma forse fortuna non è la parola adatta. Si trattava di una scelta precisa del padre, il quale come genitore non sarà stato il massimo, ma in fatto di mogli dimostrava infallibilmente saggezza e senso pratico. 
La matrigna, nel corso della lunga e complicata adolescenza di Sumire, le diede sempre affetto incondizionato, e perfino quando lei annunciò: – Voglio lasciare l‟università per dedicarmi completamente a scrivere, – espresse la sua opinione in proposito, ma fondamentalmente rispettò la sua scelta. Del resto già da prima, quando Sumire ancora piccola aveva manifestato la sua passione per la lettura, ne era stata contenta e l‟aveva incoraggiata. 
Le ci volle del tempo, ma la matrigna convinse il marito: stabilirono insieme che finché Sumire non avesse compiuto ventotto anni, l‟avrebbero sostenuta finanziariamente. Se per quell‟età non avesse ottenuto dei risultati, avrebbe provveduto a se stessa da sola. Senza l‟intervento della matrigna, Sumire sarebbe probabilmente stata gettata senza un soldo, priva com‟era dei requisiti minimi di conoscenze sociali e di equilibrio, tra le asperità di un mondo senza grazia e umorismo. D‟altra parte, come è noto, la terra non ruota faticosamente intorno al sole giusto per dispensare sorrisi e gioie all‟umanità. Anche se Sumire probabilmente avrebbe preferito di gran lunga questa seconda ipotesi. 

Sumire incontrò quella che chiamava «la mia ragazza dello Sputnik» poco più di due anni dopo aver lasciato l‟università. 
Aveva preso in affitto a Kichiiōji una monocamera, dove viveva con un minimo di mobilio e un massimo di libri. Si svegliava verso mezzogiorno, e intorno all‟una faceva una passeggiata per il parco di Inokashira, con l‟energia di un asceta che compie un pellegrinaggio sulle montagne. Quando il tempo era bello, si sedeva su una panchina, sbocconcellava del pane, fumava una sigaretta dopo l‟altra e leggeva. Se pioveva o faceva freddo, andava in un vecchio caffè dove veniva sempre diffusa musica classica ad alto volume, e lì, sprofondata in un logoro divano, leggeva tutta concentrata uno dei suoi libri, ascoltando una sinfonia di Schubert o una cantata di Bach. La sera, beveva una birra mangiando qualcosa di pronto comprato al supermercato. 
Quando si facevano le dieci, si sedeva alla scrivania. Davanti a lei un thermos pieno di caffè bollente, una grande tazza (un mio regalo di compleanno, con un‟immagine di Snafkin), un pacchetto di Marlboro, e un portacenere di vetro. 
Nella stanza c‟era un profondo silenzio. La sua mente era limpida come il cielo in una notte d‟inverno. Anche l‟Orsa Maggiore e la Stella Polare erano al loro posto ed emanavano la luce giusta. E Sumire sentiva di avere molte cose da scrivere. Infinite storie. Se solo fosse riuscita ad aprire da qualche parte uno spiraglio, pensieri e idee sarebbero sgorgati di lì come un magma incandescente, e romanzi nuovi e originali avrebbero visto la luce uno dopo l‟altro. Tutti avrebbero spalancato gli occhi ammirati di fronte all‟apparizione improvvisa di un «nuovo autore di straordinario talento». La foto di Sumire sarebbe apparsa nelle pagine culturali dei quotidiani, con un sorriso distaccato sulle labbra, e i redattori delle case editrici si sarebbero disputati l‟onore di incontrarla. 
Ma purtroppo niente di tutto questo si realizzò. In realtà Sumire non riuscì mai a portare a termine un solo romanzo compiuto, che avesse un inizio e una fine. 

Eppure, Sumire poteva andare avanti a scrivere a lungo senza interruzioni. L‟angoscia di non riuscire a scrivere era un problema che non la riguardava. Era capace di trasformare implacabilmente in scrittura tutte le cose che affollavano la sua mente. Il problema, caso mai, era che scriveva troppo. Certo, si può pensare che per risolverlo sarebbe bastato eliminare le parti superflue, ma non era così facile. Perché Sumire non riusciva a distinguere, in ciò che aveva scritto, quali parti fossero necessarie all‟insieme e quali no. Quando il giorno seguente stampava il suo testo e provava a rileggerlo, alcune volte le sembrava di non poter rinunciare neanche a una virgola, altre che fosse tutto da buttare. Una volta, presa dalla disperazione, strappò e gettò via tutti i fogli che aveva davanti. Se fosse stata una sera d‟inverno e nella stanza ci fosse stato un camino, come nella Bohème di Puccini, ci sarebbe stato di che riscaldarsi, ma ovviamente nella sua monocamera non c‟era nessun camino. Anzi, se è per questo non aveva nemmeno il telefono. Di uno specchio nel quale potersi guardare, ovviamente neanche a parlarne. 

Nei weekend Sumire si presentava al mio appartamento carica di manoscritti. Erano solo quelli fortunatamente scampati al massacro, ma anche così si trattava di una discreta mole. In questo vasto mondo lei riteneva di poterli mostrare a una sola e unica persona, che guarda caso ero io. 
All‟università io ero avanti di due anni rispetto a lei e seguivamo corsi diversi, quindi non avevamo molte occasioni per entrare in contatto, e invece per caso ci ritrovammo a chiacchierare come vecchi amici. Era un lunedì di maggio, subito dopo le vacanze, io ero alla fermata dell‟autobus vicina all‟ingresso principale dell‟università, e leggevo un romanzo di Paul Nizan che avevo trovato in una libreria di libri usati. Accanto a me vedo questa ragazza, piccola di statura, che allunga il collo per vedere cosa sto leggendo, e poi mi chiede, con l‟aria di chi vuole attaccar briga: – Nizan? Ti sembra un autore da leggere oggi? – Era come se avesse avuto voglia di prendere a calci qualcosa, e non trovando niente di adatto avesse ripiegato su quella domanda, o comunque questa è l‟impressione che mi diede. 
Io e Sumire avevamo molto in comune. Entrambi amavamo i libri e per noi leggere era naturale come respirare. Appena avevamo un po‟ di tempo, trovavamo un posto tranquillo dove sederci e immergerci nella lettura, divorando le pagine. Leggevamo di tutto, romanzi giapponesi e stranieri, libri vecchi e recenti, l‟avanguardia e i bestseller, qualsiasi cosa che potesse suscitare in noi uno stimolo intellettuale. Trascorrevamo ore nelle biblioteche, ed eravamo capaci di passare piacevolmente intere giornate a Kanda, nelle librerie dell‟usato. Io non avevo mai incontrato prima nessuno che leggesse tanto e con tanta passione e profondità, e anche per Sumire credo fosse la stessa cosa. 
Io mi laureai nello stesso periodo in cui lei lasciò l‟università, ma anche dopo continuò a venire a trovarmi a casa mia due o tre volte al mese. Anch‟io ogni tanto andavo da lei, ma il suo appartamentino era chiaramente troppo piccolo per tutti e due, così preferivamo vederci da me. Quando eravamo insieme, parlavamo di libri e ce li scambiavamo. Spesso la sera facevo da mangiare per lei. Cucinare non mi dispiaceva, e sapevo che Sumire piuttosto che cucinare sarebbe rimasta digiuna. In cambio, lei mi portava spesso ricordini dai posti dove lavorava. Una volta, da una ditta farmaceutica, mi portò sei dozzine di preservativi. Credo di averli ancora, nel fondo di qualche cassetto. 

I romanzi (o i frammenti di romanzi) che Sumire scriveva in quel periodo non erano così terribili come lei credeva. Non era ancora sufficientemente abituata a scrivere, e a volte il suo stile sembrava una specie di patchwork messo insieme da un gruppo di donne ostinate senza nulla in comune tra loro, che cuciono ognuna la sua parte senza parlare con le altre. Questa tendenza, anche per effetto di una propensione di Sumire per la depressione, in alcuni casi progrediva fino a sfuggire al suo controllo. Inoltre, sfortunatamente, il suo principale interesse era quello di scrivere un enorme «romanzo totale» in stile diciannovesimo secolo, che avrebbe abilmente riempito di una fitta serie di fenomeni riguardanti l‟anima e il destino. 
Eppure, per quanti difetti potessero avere, le cose che Sumire scriveva avevano una freschezza unica, e riuscivano a trasmettere sinceramente e fino in fondo quanto di importante aveva dentro di sé. Se non altro la sua prosa non imitava quella di nessuno, né si riduceva a un semplice sfoggio di abilità. Questi aspetti del suo stile mi piacevano. Non sarebbe stato giusto, credo, limare la forza spontanea delle sue pagine per farla entrare in schemi più confortevoli. Aveva ancora abbastanza tempo per tentare altre vie. Non c‟era bisogno di accelerare. Come dice il proverbio, cresce bene ciò che cresce piano. 

Ho la testa piena di cose che vorrei scrivere. È come un assurdo magazzino tutto stipato di roba, – disse Sumire. – Immagini, scene, frammenti di discorsi, figure di persone... a volte queste cose sono così scintillanti, piene di vita, e sento che mi urlano: Scrivici! In quei momenti mi sembra che stia per nascere un romanzo meraviglioso. È come se stessi per andare in un posto completamente nuovo. Ma appena mi siedo al tavolo e provo a scrivere, mi rendo conto che qualcosa di essenziale è andato perduto. L‟esperimento è fallito: non ho prodotto nessun cristallo, e mi ritrovo in mano dei sassi. E non sono andata proprio da nessuna parte –. Sumire, la fronte corrugata, raccolse il duecentocinquantesimo sassolino e lo gettò nel laghetto. – Forse mi manca qualcosa. Qualcosa di assolutamente essenziale per diventare uno scrittore. 
Per qualche attimo scese un profondo silenzio. Sentii che aveva bisogno di una delle mie banali osservazioni. 
Nell‟antica Cina, intorno alle città si erigevano delle alte muraglie, nelle quali venivano costruite delle grandiose e splendide porte, – dissi, dopo aver riflettuto qualche istante. – A queste porte era attribuito un significato molto importante. Il loro scopo non era solo quello di permettere alla gente di entrare e uscire, ma si credeva che in esse abitassero gli spiriti della città. O che avrebbero dovuto abitarvi. Un po‟ come nell‟Europa del Medioevo si riteneva che chiese e piazze fossero il cuore delle città. Per questo ancora oggi in Cina restano molte di quelle magnifiche porte. Sai come facevano gli antichi cinesi a costruirle? 
Non ne ho idea, – disse Sumire. 
Andavano nei luoghi dove in passato si erano svolte delle battaglie, e lì raccoglievano tutte le ossa, sparse per terra o sepolte, che riuscivano a trovare. In un paese ricco di storia come la Cina, i campi di battaglia non mancavano certo. Poi all‟ingresso della città costruivano delle enormi porte in cui venivano incastonate le ossa. Gli abitanti speravano che, grazie a questo tributo in loro onore, i soldati defunti avrebbero protetto le loro città. Ma non era ancora abbastanza. Finito di costruire le porte, radunavano un certo numero di cani vivi e con il pugnale gli tagliavano la gola. Quindi versavano il loro sangue ancora caldo sulle porte. Mischiando le ossa consumate e il sangue fresco, gli antichi spiriti avrebbero acquistato un potere magico. O almeno questo è ciò che credevano. 
Sumire aspettava in silenzio il seguito della storia. 
Scrivere romanzi è un po‟ la stessa cosa. Puoi raccogliere tutte le ossa che vuoi, costruire la porta più splendida del mondo, ma ciò non basta a produrre un romanzo che sia vivo. Una storia, in un certo senso, non appartiene a questo mondo. Per creare una vera storia è necessario un battesimo magico, che riesca a mettere in contatto questo mondo con quell‟altro. 
Cioè, vorresti dire che anch‟io devo trovarmi il mio cane. 
Annuii. 
E che devo far scorrere il suo sangue caldo. 
Può darsi. 
Sumire si morse le labbra e restò per un po‟ a pensare, lanciando ancora molti di quei poveri sassolini nel laghetto. 
Se possibile, vorrei evitare di uccidere animali, – disse infine. 
Naturalmente intendevo solo in senso metaforico, – spiegai. – Non voglio mica farti uccidere davvero un cane. 

Eravamo seduti come sempre uno accanto all‟altra su una panchina del parco di Inokashira, davanti al laghetto. Era la panchina preferita di Sumire. Non c‟era vento. Le foglie cadute nel laghetto non si muovevano, come se fossero state incollate alla superficie dell‟acqua. Un po‟ più in là, qualcuno aveva acceso un falò. Nell‟aria si avvertiva l‟odore di fine autunno, e si udivano con chiarezza rumori lontani. 
Quello di cui tu hai bisogno è solo tempo ed esperienza, ne sono convinto. 
Tempo ed esperienza, – ripeté Sumire, alzando lo sguardo verso il cielo. – Il tempo, vivendo così, passa piano piano. Ma l‟esperienza? Non mi parlare di esperienza. Non ne vado affatto fiera, ma il desiderio sessuale non so neanche cosa sia. Uno scrittore che non ha impulsi sessuali che esperienza potrà mai fare? È come un cuoco che non ha appetito. 
Il tuo desiderio sessuale, dove sia non posso certo dirlo io, – risposi. – Può darsi che si sia solo nascosto da qualche parte. Che abbia fatto un viaggio in un luogo lontano e si sia dimenticato di tornare. Ma innamorarsi è un‟esperienza completamente imprevedibile. Potrebbe arrivare all‟improvviso, spuntando fuori da chissà dove, e travolgerti in qualsiasi momento. Anche domani. 
Sumire distolse lo sguardo dal cielo verso la mia faccia. 
Come un tornado su una pianura? 
Se vuoi, mettila così. 
Per qualche istante Sumire provò a immaginarselo. 
Ma tu l‟hai mai visto nella realtà un tornado su una pianura? 
No, – dissi. Dove abitavo io, a Musashino, di tornado veri e propri fortunatamente non ce n‟erano. 

Poi, circa sei mesi dopo, esattamente come io avevo previsto, Sumire si innamorò, all‟improvviso e in modo violento e travolgente come un tornado su una pianura. Di una donna, sposata e di diciassette anni più grande. La sua «ragazza dello Sputnik». 

Quando Myū e Sumire si trovarono sedute l‟una accanto all‟altra al banchetto di nozze, come si fa tra persone educate, per prima cosa si presentarono. Poiché Sumire odiava il proprio nome, che significa «violetta», faceva di tutto per evitare di pronunciarlo. Ma, naturalmente, quando le veniva chiesto, l‟educazione le imponeva di rispondere. 
Secondo suo padre, a scegliere il nome era stata la mamma morta. Amava molto l‟aria di Mozart La violetta, e aveva giurato che quando avesse avuto una figlia l‟avrebbe chiamata così. In salotto, nello scaffale dei dischi c‟era una raccolta di arie mozartiane (sicuramente quella che la madre ascoltava), e da piccola Sumire poneva spesso sul piatto del giradischi quel pesante LP con la massima cura, e ascoltava infinite volte La violetta. A cantare era Elisabeth Schwarzkopf, con l‟accompagnamento di Walter Gieseking al piano. Sumire ignorava il significato delle parole. Ma a giudicare dalla grazia della melodia, dovevano sicuramente descrivere la bellezza delle violette che adornano i prati in fiore. Sumire immaginava quel paesaggio e lo amava profondamente. 
Ma quando, alla scuola media, aveva trovato in biblioteca un libro con la traduzione dei testo in giapponese, aveva avuto uno shock. La storia narrava di una graziosa violetta che veniva schiacciata senza pietà dalla figlia rozza e crudele di un pastore. La giovane nemmeno si accorgeva della violetta da lei calpestata. E nonostante si trattasse di una poesia di Goethe, i versi non offrivano nemmeno la consolazione di una morale da trarre. 

Che cosa può aver spinto mia madre a darmi per nome il titolo di un componimento musicale così orribile? – disse Sumire aggrottando la fronte. 
Myū, aggiustando le pieghe del tovagliolo che aveva sulle ginocchia, guardò Sumire negli occhi, con un sorriso inespressivo. Aveva occhi scuri, dove si mescolavano diversi colori, ma non vi era in essi niente di opaco o di torbido. 
Pensi che la musica sia bella? 
Sì, la musica in sé, è bella. 
Io mi accontenterei del fatto che la musica è bella. È impossibile in questo mondo trovare solo cose belle e sublimi. Tua madre amava quella melodia al punto da non curarsi delle parole. Piuttosto, lo sai che se continui a fare quella faccia tutta corrucciata, ti verranno le rughe e non se ne andranno più via... 
Sumire cercò di allentare la tensione che le tirava il viso. 
Forse hai ragione, ma per me a suo tempo fu una grossa delusione. Lo capisci, vero? Quel nome era l‟unica cosa concreta che mia madre mi avesse lasciato. A parte la mia persona. 
Ad ogni modo, Sumire è un bel nome. A me piace, – disse Myū, inclinando leggermente il collo, come a guardare le cose da una prospettiva diversa. – E tuo padre, è anche lui qui? 
Sumire girò intorno lo sguardo e lo vide. La sala era grande, ma alto com‟era non ci voleva molto a trovarlo. Era seduto a due tavoli più in là, di profilo, ed era impegnato in una conversazione con un signore anziano, piccoletto, dalla faccia simpatica, che indossava un abito da cerimonia. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso capace di sciogliere un iceberg. Il suo naso perfetto, illuminato dalla luce dei lampadari, si stagliava delicatamente sullo sfondo come un‟antica silhouette di stile rococò, e nel vederlo in quel momento, perfino Sumire, pur essendo abituata alla sua bellezza, non poté fare a meno di guardarlo con rinnovata ammirazione. I lineamenti di suo padre si addicevano in modo impareggiabile a un‟occasione formale come quella. La sua presenza bastava ad aggiungere un tocco di eleganza all‟atmosfera. Come una composizione di fiori in un grande vaso o una sontuosa limousine nera. 

Nel vederlo, Myū rimase per qualche istante senza parole. Sumire la sentì deglutire. Fu un rumore quasi impercettibile, come una tenda di velluto scostata per svegliare dolcemente, con la luce del mattino, una persona cara che dorme. Forse avrei dovuto portare un binocolo come a teatro, pensò Sumire. Ma era abituata alle forti reazioni che l‟aspetto di suo padre produceva nelle persone – in particolare nelle donne mature. Che cos‟è la bellezza? si chiedeva sempre stupita, che valore ha? Ma nessuno l‟aiutava mai a trovare una risposta. C‟era solo quell‟immancabile reazione. 
Che effetto fa avere un padre così bello? – chiese Myū. – Mi incuriosisce. 
Sumire sospirò – era una domanda che le avevano fatto talmente tante volte! – e rispose: – Non è una cosa che faccia piacere. Tutti in fondo pensano: È un uomo di una bellezza eccezionale, ma in confronto la figlia non è granché. Da lui non ha preso proprio niente. 
Myū tornò a voltarsi verso Sumire e, tirando un po‟ indietro il mento, la guardò con attenzione. Come se si fosse fermata ad ammirare un quadro che l‟aveva colpita in un museo. 
Se è questo che hai pensato fino adesso, lasciati dire che ti sbagli. 
Sei molto carina. Non hai niente da invidiare a tuo padre, – disse Myū. Quindi allungò la mano, e con estrema naturalezza toccò leggermente quella di Sumire posata sul tavolo. – Credo che tu non ti renda conto di quanto sei attraente. 
Sumire si sentì arrossire. E avvertì il battito del cuore rimbombarle in petto come gli zoccoli di un cavallo impazzito che attraversa a galoppo un ponte di legno. 
Da quel momento Sumire e Myū si immersero in una conversazione che escludeva il resto della sala. Quello che c‟era intorno a loro, non lo vedevano nemmeno. Era un banchetto molto animato. Molti fra gli invitati si alzarono a turno per fare un discorso (incluso probabilmente suo padre), e i piatti erano ottimi. Ma di tutto ciò non rimase la minima traccia nella memoria di Sumire. Non avrebbe saputo dire se aveva mangiato carne o pesce, se aveva usato le posate come si deve o se si era servita con le dita e aveva finito col leccare i piatti. 
Parlarono a lungo di musica. Sumire amava la musica classica e fin da piccola non faceva che ascoltare i dischi del padre. Scoprirono di avere molte passioni musicali in comune. Entrambe prediligevano la musica per pianoforte, e consideravano la Sonata per pianoforte op. 32 di Beethoven un‟insuperabile pietra miliare tra questo tipo di composizioni. E tutt‟e due erano convinte che le registrazioni di Wilhelm Backhaus per la Decca ne avessero fissato i canoni interpretativi e le giudicavano esecuzioni mirabili e insuperate. E oltretutto erano pervase di felicità e gioia di vivere! 
Lo Chopin di Vladimir Horowitz, quello dell‟epoca in cui le registrazioni erano ancora in mono, e in particolare gli scherzi, erano impeccabili ed emozionanti. La raccolta dei preludi di Debussy eseguita da Friedrich Gulda era splendida e piena di umorismo, e Grieg suonato da Gieseking era una pura delizia. Il Prokofiev nell‟esecuzione di Sviatoslav Richter, per la sua interpretazione sorvegliata e contenuta, e la straordinaria profondità di alcuni momenti «plastici», meritava di essere ascoltato tutto, integralmente. E che dire delle sonate per pianoforte di Mozart di Wanda Landowska, sottovalutate nonostante l‟attenzione scrupolosa e affettuosa da cui erano animate? 
E tu che cosa fai nella vita? – chiese Myū, quando il discorso sulla musica sembrò essersi un po‟ esaurito. 
Ho interrotto l‟università, e scrivo romanzi, facendo ogni tanto qualche lavoro part-time, spiegò Sumire. Che tipo di romanzi scrivi? chiese Myū. È difficile dirlo in poche parole, rispose lei. Che tipo di romanzi ti piacciono? chiese allora Myū. Sarebbe impossibile elencarli tutti, disse Sumire, ma recentemente amo molto Jack Kerouac. Fu allora che venne fuori il discorso sullo «Sputnik». 
Myū, ad eccezione di qualche cosa di poco impegnativo per ammazzare il tempo, non leggeva quasi mai romanzi. Non riesco mai a dimenticarmi del fatto che si tratta di cose inventate, e questo mi impedisce di immedesimarmi nei personaggi, spiegò, è sempre stato così. Per questa ragione riusciva a leggere solo cose che descrivessero la realtà in termini di realtà, e che magari potevano tornarle utili per il suo lavoro. 
Di che lavoro si tratta? chiese Sumire. 
Lavoro soprattutto con l‟estero, – disse Myū. – Tredici anni fa sono subentrata a mio padre alla guida della sua impresa commerciale, essendo la primogenita. Io studiavo per diventare pianista, ma quando lui morì di cancro, fui costretta ad assumermi la responsabilità della ditta: mia madre, oltre a essere debole di salute, non padroneggiava abbastanza il giapponese, e mio fratello era ancora uno studente liceale. La ditta dava lavoro anche a diversi nostri parenti, e non era facile per me lavarmene le mani. 
A quel punto tirò un breve sospiro, come per andare a capo. 
La ditta di mio padre all‟inizio si occupava soprattutto di importare prodotti dalla Corea: cibi secchi, piante medicinali eccetera, ma oggi trattiamo una gamma di prodotti molto più vasta. Perfino componenti di computer. Ufficialmente continuo a essere io la responsabile, ma in realtà sono mio marito e mio fratello a occuparsi degli affari, quindi non è necessario nemmeno che mi faccia vedere così spesso. È questo che mi permette di dedicarmi a un‟altra attività, mia personale, che non ha legami con la ditta. 
E sarebbe? 
Principalmente importazione di vini. Ma a volte mi occupo anche di organizzare eventi musicali. Il che mi porta a viaggiare spesso in Europa. In questo tipo di attività molti affari si concludono attraverso i contatti diretti con le persone. Grazie a questo riesco da sola a competere anche con imprese di primo piano. Però, ovviamente, creare e mantenere un network privato di questo tipo richiede tempo ed energia –. Myū sollevò il viso come se fosse stata colta da un‟idea improvvisa. – A proposito, come te la cavi con l‟inglese? 
Diciamo che me la cavo. La conversazione non è esattamente il mio forte, ma amo leggere. – Sai usare il computer? 
Non sono un‟esperta, ma siccome sono abituata a usare il computer per scrivere, credo che applicandomi un po‟ ci riuscirei. 
Guidi l‟automobile? 
Sumire scosse la testa. L‟anno in cui era entrata all‟università, nel mettere in garage la Volvo del padre, aveva urtato la portiera posteriore contro un pilastro, e da allora non aveva più messo le mani su un volante. 
Saresti capace di spiegare la differenza tra «segno» e «simbolo» in meno di cento parole? 
Sumire prese il tovagliolo dalle ginocchia, si asciugò leggermente le labbra e tornò a posarlo. Non capiva dove la sua interlocutrice volesse arrivare. 
Segno e simbolo? 
Non c‟è un significato particolare. Era solo un esempio. 
Sumire scosse di nuovo la testa. – Non ne ho la minima idea. Myū sorrise. 
Quello che vorrei sapere da te, è se hai qualche abilità pratica. In altre parole, che cosa sai fare. Oltre a leggere tanti libri e ad ascoltare tanta musica. 
Sumire posò dolcemente coltello e forchetta sul piatto, e fissando un punto imprecisato dello spazio al di sopra del tavolo, provò a riflettere su se stessa. 
Forse, più che le mie abilità, farei prima a elencare le cose che non so fare. Non so cucinare, né fare pulizie. Non so tenere in ordine, e ho la tendenza a perdere le cose. Amo la musica ma sono stonata. Per le attività manuali sono negata, non so neanche piantare un chiodo. Il mio senso dell‟orientamento è un disastro, e confondo regolarmente destra e sinistra. Ho la tendenza, quando mi arrabbio, a fare a pezzi tutto quello che trovo. Piatti, matite, sveglie. Dopo me ne pento, ma sul momento non riesco assolutamente a controllarmi. Non ho una lira da parte. Sono timida senza ragione, e non ho quasi amici. 
Sumire trasse un piccolo respiro, quindi riprese: 
Però so scrivere velocemente al computer, senza neanche guardare i tasti. Non sono brava negli sport, ma a parte gli orecchioni, non mi sono mai ammalata. Sugli orari sono di una precisione maniacale, e non arrivo mai in ritardo a un appuntamento. Mangio di tutto. Non guardo la televisione. A volte mi succede di vantarmi stupidamente di qualcosa, ma in compenso evito lagnose giustificazioni. Una volta al mese può capitarmi di non dormire per un torcicollo o qualcosa, ma di solito dormo benissimo. Le mie mestruazioni sono regolari. Non ho nemmeno una carie. Parlo bene lo spagnolo. Myū la guardò interessata: 
Sai lo spagnolo? 
Ai tempi del liceo, Sumire aveva trascorso un mese a Città del Messico, ospite dello zio che lavorava lì per un‟impresa commerciale. Pensando che si trattasse di una buona occasione, si era dedicata con impegno allo studio della lingua, e l‟aveva imparata bene. Anche all‟università aveva frequentato i corsi di spagnolo. 
Myū prese il calice del vino e lo girò delicatamente tra le dita, come se stesse stringendo una vite in un ingranaggio, 
Di‟, pensi che ti andrebbe di provare a lavorare un po‟ di tempo per me? 
Lavorare? – Non sapendo bene che faccia fare, Sumire mantenne la sua abituale espressione corrucciata. – Ma io non ho mai lavorato nel vero senso della parola. È un‟esperienza che mi manca completamente. Non credo di essere brava neanche a rispondere al telefono. La mattina cerco di non prendere mai il metrò prima delle dieci, e come forse avrai già capito, non so parlare in modo formale. 
Questi non mi sembrano dei problemi, – disse Myū semplicemente. – Di‟ un po‟, saresti libera domani verso mezzogiorno? 
Sumire annuì senza neanche riflettere. Non ne aveva bisogno, considerato che il tempo libero era la sua principale ricchezza. 
Allora facciamo colazione insieme. Prenoterò in un posto tranquillo dalle mie parti, – disse Myū. Poi sollevò il bicchiere in cui il cameriere aveva versato da poco un vino rosso, lo osservò attentamente, ne valutò il profumo, e infine ne assaggiò dolcemente un sorso. La sequenza dei gesti fu eseguita con tanta naturale eleganza da far pensare a una breve cadenza che un pianista sensibile aveva affinato alla perfezione nel corso del tempo. 
Dei dettagli parleremo con calma al momento. Oggi vorrei rilassarmi, dimenticando il lavoro. Questo Bordeaux non so di dove sia, ma non è niente male. 
Sumire, deponendo finalmente l‟espressione corrucciata, disse a Myū in modo molto diretto: 
Ma ci siamo incontrate solo poco fa, e non sai quasi niente di me... 
Sì, forse non so niente, – ammise Myū. 
Allora cosa ti fa pensare che io possa essere all‟altezza di ciò che mi chiedi? 
Myū fece roteare leggermente il vino nel bicchiere. 
La mia regola è sempre stata giudicare le persone dalla faccia, – disse. – Questo vuol dire che i tuoi lineamenti e l‟espressione del tuo viso mi sono piaciuti. Molto. 
Sumire ebbe l‟impressione che l‟aria intorno a lei si fosse improvvisamente rarefatta. Si accorse anche che i suoi capezzoli le si erano induriti sotto la stoffa del vestito. Allungò la mano e in modo quasi automatico prese il bicchiere e in un sorso mandò giù l‟acqua che restava. Un cameriere con la faccia da belva feroce, che era in agguato alle sue spalle, si precipitò a riempirle il bicchiere rimasto vuoto. Il rumore dei cubetti di ghiaccio, nella testa confusa di Sumire, rimbombò come lo stridore di denti di un prigioniero in una caverna. 

È così, mi sono innamorata di questa donna, Sumire lo capì con certezza. Non sto sognando: il ghiaccio è freddo e le rose sono rosse. E sento che questo amore mi porterà da qualche parte. Ma non posso sottrarmi alla sua forte corrente. Non ho nessuna possibilità di scelta. Il luogo dove mi condurrà è un mondo diverso, che non ho mai visto. Potrebbe trattarsi anche di un luogo pericoloso. Le cose che vi si annidano potrebbero ferirmi in modo profondo, irrimediabile. Potrei perdere tutto quello che adesso ho. Ma non posso più tornare indietro. Non mi resta che affidarmi alla corrente che vedo davanti a me. Anche a costo di finire travolta, anche a costo di scomparire. 

Il suo presentimento – ma bisognava che arrivassi fino a oggi per saperlo – si rivelò esatto, esatto al centoventi per cento. 


Sumire mi telefonò giusto due settimane dopo il matrimonio, una domenica, poco prima dell‟alba. Io, al solito, dormivo profondamente, come una vecchia incudine coperta da ragnatele. La settimana prima ero stato preso dall‟organizzazione di una riunione della quale ero responsabile, e per preparare tutta la documentazione necessaria (in realtà perfettamente inutile) avevo passato le notti in bianco. Quindi non aspettavo che il weekend per poter dormire quanto volevo. E fu allora che squillò il telefono. Poco prima dell‟alba. 

Dormivi? – chiese cauta Sumire. 
Hmm, – risposi con una specie di gemito. Automaticamente, il mio sguardo corse alla sveglia accanto al letto. Nonostante le grosse lancette e i numeri che avrebbero dovuto essere fosforescenti, non riuscivo a leggere l‟ora. L‟immagine riflessa sulla retina e la parte del cervello preposta a decodificarla non si incastravano, come quando una vecchietta cerca invano di infilare un ago. Capivo soltanto che intorno a me era buio pesto, come nel momento che Francis Scott Fitzgerald chiama «il buio dell‟anima». 

Sta per spuntare l‟alba. 
Hmm, – mormorai debolmente. 
Vicino a casa mia, c‟è qualcuno che ha un gallo. Un gallo che deve essere ormai centenario. Tra non molto si metterà a cantare, forse tra mezz‟ora. E a dire la verità, è il momento che preferisco in tutta la giornata. A oriente la notte buia comincia lentamente a schiarire, e il gallo si mette a cantare con tutte le sue energie. Anche dalle tue parti c‟è qualche gallo? 
Dall‟altro lato della linea, mi limitai a scuotere piano la testa. 
Ti sto chiamando dalla cabina vicino al parco. 
Hmm, – mormorai. C‟era una cabina telefonica a circa duecento metri da casa sua. Sumire, non avendo il telefono, andava sempre fin lì a chiamare. Era una cabina telefonica di quelle tradizionali. 
Lo so che non avrei dovuto chiamarti a quest‟ora – me ne rendo conto benissimo –, quando nemmeno il gallo si è svegliato, quando la luna se ne sta sconsolata nel suo angolino a oriente come un vecchio rene sciupato. Però per telefonare a te ho dovuto fare a piedi tutta questa strada ancora buia. Stringendo nelle mie piccole dita una carta telefonica ricevuta per ricordo al matrimonio di mia cugina. Una carta telefonica con la foto degli sposi che si tengono per mano. Penso tu ti renda conto di quanto una cosa del genere possa essere deprimente. Ho i calzini spaiati. Uno ha il disegno di Mickey Mouse, l‟altro è di lana a tinta unita. La mia casa è in un caos totale e non riesco a trovare più niente. E poi, lo dico abbassando la voce, perfino la mia biancheria intima è in condizioni vergognose. Roba da scoraggiare perfino i ladri di mutandine. Se nello stato in cui sono venissi aggredita e uccisa, la mia anima non troverebbe pace. Perciò, non ti chiedo di mostrare compassione per me, ma potresti almeno pronunciare qualcosa di più articolato di queste gelide esclamazioni tipo «hmm», «ah»? Non dico molto, mi accontenterei anche di qualcosa di breve tipo «ecco», «dunque»... 
Allora, – dissi. Ero veramente stanco, troppo stanco perfino per sognare. 
Allora, – ripeté lei. – Già va meglio. È pur sempre un passo avanti. 
Piccolo, ma accontentiamoci. 
Allora, avevi bisogno di qualcosa? 
Sì, c‟era una cosa che volevo chiederti. È per questo che ti ho chiamato, – disse Sumire, poi tossì leggermente. – Qual è la differenza tra segno e simbolo? 
Provai una strana sensazione, come se una processione mi stesse sfilando lentamente dentro la testa. 
Scusa, potresti ripetere la domanda? 
Sumire ripeté: qual è la differenza tra segno e simbolo? 
Mi alzai a sedere sul letto, e spostai il ricevitore dalla sinistra alla destra. 
Vorresti dire che mi hai telefonato perché volevi sapere la differenza tra segno e simbolo? Di domenica, prima dell‟alba!? Hmm... 
Alle quattro e un quarto, – disse. – Non riesco a liberarmi di questo pensiero. Quale sarà mai la differenza tra segno e simbolo? Mi è stata fatta questa domanda alcuni giorni fa, da una persona, e me ne ero completamente dimenticata fino a quando, mentre mi stavo spogliando per andare a dormire, mi è tornata in mente tutt‟a un tratto. Non sono più riuscita ad addormentarmi. Tu sapresti rispondere? Qual è la differenza tra segno e simbolo? 
Per esempio... – dissi, guardando il soffitto. Spiegare logicamente le cose a Sumire non era impresa da poco neanche nei momenti in cui avevo la mente lucida. – L‟imperatore è il simbolo del Giappone. Fin qui mi segui? 
Più o meno, – disse. 
Come sarebbe «più o meno»? Questo è un principio stabilito anche nella Costituzione giapponese, – dissi, cercando di controllare il tono della voce. – Si possono avere differenze di idee o dubbi al proposito, ma se non accetti questo come un dato di fatto, il discorso non può continuare. 
Ho capito. Se è così, lo accetto. 
Grazie. Allora, ricominciamo. L‟imperatore è il simbolo del Giappone. Ma questo non significa che l‟imperatore e il Giappone abbiano lo stesso valore. Capisci? 
No. 
Cioè, è come una freccia che indica un senso unico. L‟imperatore è il simbolo del Giappone, ma il Giappone non è il simbolo dell‟imperatore. Questo lo capisci, no? 
Credo di sì. 
Però se tu trovassi scritto «l‟imperatore è un segno del Giappone», la frase implicherebbe che i due termini abbiano lo stesso valore. Cioè, «Giappone» sarebbe un sinonimo di «imperatore» e «imperatore» sarebbe un sinonimo di «Giappone». In altre parole, i due termini diventano intercambiabili. Come a = b corrisponde a b = a. Detto in parole semplici, questo è il significato di «segno». 
Cioè, quello che vuoi dire è che il Giappone e l‟imperatore possono essere scambiati fra loro? Ma com‟è possibile? 
No, non è questo, – dissi scuotendo con forza la testa dal mio lato della linea telefonica. – Sto solo cercando di spiegarti la differenza tra segno e simbolo in maniera facile da capire. Non ho nessuna intenzione di scambiare fra loro Giappone e imperatore. Era solo un esempio. 
Hmm, – fece Sumire. – Comunque, più o meno ho capito, a livello intuitivo. Praticamente è la stessa differenza che c‟è tra senso unico e doppio senso. 
Uno specialista darebbe una spiegazione più precisa. Ma a volerne dare una definizione molto elementare, credo si possa dire così. 
Ho sempre pensato che sei bravo a spiegare le cose. 
È il mio lavoro, – dissi. Le mie parole risuonarono inespressive e scontate. – Dovresti provare anche tu una volta a fare l‟insegnante elementare. Mi fanno le domande più disparate. Perché la terra non è quadrata? Perché la seppia ha dieci piedi e non otto? Ti abitui a tirar fuori una risposta più o meno su tutto. 
Sono sicura che sei un ottimo maestro. 
Boh, chi lo sa, – dissi. Davvero, chissà. 
Beh, visto che ci siamo, perché le seppie hanno dieci piedi e non otto? 
Posso tornare a dormire? Sono davvero stanco. Tenere in mano la cornetta è come sostenere da solo un muro di pietra che ha cominciato a sgretolarsi. 
Sai, – disse Sumire, quindi fece una brevissima pausa. Come il vecchio casellante che chiude il passaggio a livello prima che arrivi il treno diretto a Pietroburgo. – Mi sento una cretina a dirlo, ma la verità è che mi sono innamorata. 
Ah –. Passai di nuovo la cornetta nella mano sinistra. Attraverso il telefono sentivo il respiro di Sumire. Non sapevo cosa rispondere. E come faccio spesso quando non so cosa rispondere, dissi la cosa più inopportuna. – Non di me, vero? 
Non di te, – rispose Sumire. La sentii che si accendeva una sigaretta con un accendino da quattro soldi. – Hai tempo oggi? Vorrei vederti e parlare un po‟. 
Del fatto che ti sei innamorata di qualcuno che non sono io? 
Sì, – disse Sumire. – Del fatto che mi sono innamorata pazzamente. 
Stringendo il ricevitore tra testa e spalla, mi stirai. 
Sono libero oggi pomeriggio. 
Vengo da te verso le cinque, – disse Sumire. Poi aggiunse frettolosamente: – Grazie. 
Di che? 
Di avere risposto gentilmente alle mie domande prima dell‟alba. 
Dopo una replica evasiva, riagganciai e spensi la luce accanto al letto. Fu di nuovo buio. Prima di riaddormentarmi, mi chiesi se Sumire mi avesse mai detto «grazie» prima di allora. Era sicuramente possibile che l‟avesse fatto, almeno una volta, ma io non riuscivo a ricordarmene. 

Sumire arrivò al mio appartamento poco prima delle cinque. Che fosse lei, mi ci volle un po‟ di tempo a capirlo. Aveva completamente cambiato look. Portava i capelli corti, ben tagliati; una frangetta ancora fresca di parrucchiere le copriva la fronte. Un vestito blu scuro a mezze maniche con su un sottile cardigan, scarpe di vernice nera dai tacchi quasi alti. Portava perfino le calze. Le calze? Pur non essendo esperto di abbigliamento femminile, capivo che tutte le cose che indossava dovevano essere piuttosto costose. Vestita così, Sumire sembrava molto più bella ed elegante del solito. Non dava la sensazione di essere a disagio, anzi appariva perfettamente disinvolta. Ciò nonostante, a dire la verità io preferivo la Sumire impresentabile di prima. Questione di gusti. 
Non male, – dissi, dopo averla squadrata dalla testa ai piedi. – Anche se non so cosa ne penserebbe Jack Kerouac. 
Sumire sorrise in modo impercettibilmente più raffinato del solito. – Non ti va di fare due passi? 

Camminammo fianco a fianco lungo la strada dell‟università, in direzione della stazione, e ci fermammo nel nostro bar preferito a prendere un caffè. Sumire, com‟era sua abitudine, insieme al caffè ordinò un montblanc. Era un sereno pomeriggio domenicale di fine aprile. Fuori dai negozi dei fioristi si vedevano esposti crochi e tulipani. Il vento che soffiava leggero sollevava dolcemente l‟orlo delle gonne delle ragazze e diffondeva nell‟aria il profumo dei giovani alberi. 
Le mani incrociate dietro la nuca, guardai Sumire mangiare lentamente e con gusto il suo montblanc. Dei piccoli altoparlanti sul soffitto diffondevano una vecchia bossa nova di Astrud Gilberto. «Take me to Aruanda», cantava. Chiudendo gli occhi, il tintinnio di piatti e tazzine sembrava un lontano rumore di marea. Ma dove diavolo sarà l‟Aruanda? 
Hai ancora sonno? 
No, non ho più sonno, – risposi, aprendo gli occhi. 
Stai bene? 
Sì, sto bene. Fresco come la Moldava in primavera. 
Sumire fissò per qualche istante il piatto vuoto del montblanc. Poi alzò lo sguardo e mi guardò in faccia. 
Ti stai chiedendo sorpreso come mai sono vestita così? 
In effetti... 
Non li ho mica pagati io. Non li avrei nemmeno, tutti questi soldi. 
È che sono successe alcune cose. 
Posso provare un po‟ a immaginare? 
Sentiamo. 
Tu con la tua impresentabile tenuta alla Jack Kerouac eri nella toilette di qualche locale con la sigaretta tra le labbra e ti stavi lavando le mani, quando una donna molto elegante, altezza più o meno 1,55, entra di corsa, tutta ansimante, e ti dice: «La prego, mi aiuti, faccia a cambio con me di tutti i suoi abiti. Adesso non posso spiegarle, ma c‟è della gente cattiva che mi insegue. Cerco di fuggire, e non devono assolutamente riconoscermi. Per fortuna abbiamo più o meno la stessa taglia». 
Ho visto questa scena in un film di Hong Kong. 
Sumire rise. 
E portavamo non solo la stessa taglia di abiti, ma anche la stessa misura di scarpe. Che combinazione! 
E vi siete scambiate tutto, incluse le tue mutandine con Mickey Mouse. 
Non erano mutandine, erano calzini. 
Va bene, quello che era. 
Hmm, – fece Sumire. – Comunque, ci sei andato abbastanza vicino. 
Quanto vicino? 
Si sporse sul tavolo. 
È una lunga storia. Vuoi ascoltarla? 
Che voglia ascoltarla o no, sei venuta fin qui apposta per raccontarmela, vero? Comincia pure, non importa se è lunga, e se oltre alla trama ci sono anche un prologo e una «danza delle fate». Ti ascolterò. 
Sumire iniziò a raccontare. Del banchetto per le nozze della cugina, del pranzo con Myū in un ristorante di Aoyama. Aveva ragione: era una lunga storia. 


Il giorno dopo il matrimonio, un lunedì, pioveva. Aveva cominciato a piovere durante la notte e aveva continuato senza un momento di pausa fino all‟alba. Era una di quelle piogge quiete ma incessanti che in primavera oscurano e impregnano di umidità la terra, risvegliando dolcemente gli istinti delle infinite creature senza nome che la popolano. 

Al pensiero di rivedere Myū, Sumire si sentiva tutta sottosopra, e qualunque cosa cercasse di fare, non riusciva a concentrarsi. Le sembrava di stare in cima a una collina spazzata dal vento. Si sedette alla scrivania, si accese una sigaretta e avviò il computer come sempre, ma per quanto fissasse lo schermo non riusciva a scrivere nulla, nemmeno un rigo. Per Sumire era una cosa quasi inimmaginabile. Rassegnata lo spense, si stese sul pavimento della sua piccola stanza e, una sigaretta non ancora accesa tra le labbra, lasciò vagare i pensieri. 
Per il solo fatto di poter parlare di nuovo da sola con Myū, ho il cuore tanto in subbuglio. Figuriamoci quanto avrei sofferto se ieri, dopo esserci incontrate, ci fossimo separate per non rivederci più. Possibile che quello che provo sia solo l‟ammirazione per una donna più grande, bella e raffinata? No, non si tratta di questo, riconobbe Sumire. Io non desidero che di essere accanto a lei, e toccarla tutto il tempo che voglio. Questo è diverso da una semplice «ammirazione». 
Sospirò, guardò per un po‟ il soffitto, poi si accese la sigaretta. A pensarci, era strano. A ventidue anni si innamorava sul serio per la prima volta di qualcuno, e per caso quel qualcuno era una donna. 

Il ristorante scelto da Myū si trovava a circa dieci minuti dalla stazione della metropolitana di Omotesando. Per chi non ci era mai stato, non era facile trovarlo né entrarvi da solo. Anche il nome si faceva un po‟ di fatica a ricordarlo. Quando all‟ingresso pronunciò il nome di Myū, il cameriere la condusse in una piccola sala privata al primo piano. Myū era già seduta e, bevendo una Perrier con ghiaccio, discuteva animatamente il menu col cameriere. 
Indossava un pullover di cotone blu scuro su una polo dello stesso colore, e tra i capelli aveva un fermaglio d‟argento semplicissimo. Portava jeans bianchi attillati. I suoi occhiali da sole di un azzurro vivace erano posati su un angolo del tavolo. Sulla sedia c‟erano una racchetta da squash e una borsa sportiva Missoni. Probabilmente tornava dopo essere stata a fare qualche partita di squash prima di colazione. Sulle guance indugiava ancora un lieve rossore. Sumire la immaginò che entrava nelle docce della palestra, e lavava via il sudore con una saponetta dal profumo esotico. 
Quando Sumire entrò nella stanza con la sua solita giacca a spina di pesce, i pantaloni kaki, e i capelli in disordine come un‟orfanella, Myū sollevò lo sguardo dal menu e le rivolse un sorriso radioso. 
– Ieri mi avevi detto che mangi tutto, vero? Posso scegliere io? Naturalmente, disse Sumire. 

Myū scelse gli stessi piatti per entrambe. Pesce alla brace, servito con una puntina di salsa verde con funghi. Le fettine di pesce, arrostite in modo perfetto e sapiente, erano vere opere d‟arte. Alcuni gnocchi di zucca accompagnati da un‟insalata di indivia disposta con gusto raffinato. Sumire fu l‟unica a prendere il dessert, una crème brûlée che Myū non toccò neanche. Alla fine furono serviti due espressi. Sumire ebbe l‟impressione che Myū stesse molto attenta al cibo. Il suo collo era sottile come il virgulto di una pianta, e in tutto il corpo non c‟era un filo di grasso superfluo. Non sembrava avesse bisogno di diete. Probabilmente si limitava a usare un criterio di rigore assoluto in tutte le sue scelte, senza mai cedere al minimo compromesso, come una spartana chiusa in una fortezza di montagna. 
Durante il pranzo chiacchierarono del più e del meno, senza soffermarsi su nessun argomento in particolare. Myū era interessata alla storia di Sumire, che rispose francamente alle sue domande. Raccontò dei suoi genitori, delle scuole che aveva frequentato (nessuna delle quali era mai riuscita ad amare), del premio vinto a un concorso di composizione (una bicicletta e un‟enciclopedia), delle ragioni per cui aveva lasciato l‟università, di come si svolgeva la sua vita. Non era, la sua, una vita particolarmente eccitante. Ma Myū sembrava seguirla affascinata. Come se ascoltasse racconti su un paese dove non era mai stata, e i cui costumi erano per lei di straordinario interesse. 
Anche Sumire avrebbe voluto sapere un‟infinità di cose su Myū. Ma sembrava che a quest‟ultima parlare di sé non piacesse molto. – La mia vita non ha niente di interessante, – disse con quel suo sorriso luminoso. – Preferisco sapere di te. 
Alla fine del pranzo, Sumire aveva appreso ben poco sul conto di Myū. Il padre aveva donato gran parte dei soldi da lui guadagnati in Giappone alla cittadina nel nord della Corea di cui era originario, e vi aveva fatto costruire splendidi edifici per la cittadinanza, rendendosi talmente benemerito che gli avevano dedicato una statua in bronzo che ancora oggi si innalza nella piazza di questa cittadina. 
È un piccolo paesino in mezzo alle montagne. Sarà perché ci sono andata d‟inverno, ma mi è sembrato un posto dove si gela. Montagne rossastre piene di rocce, alberi tutti contorti. Mi ci portò una volta mio padre, quando ero piccola. Per la cerimonia di inaugurazione della statua. C‟erano molti miei parenti, che mi abbracciavano piangendo. Ma io ricordo che non capivo niente di quel che dicevano e avevo solo una gran paura. Per me quella non era che un‟oscura cittadina di un paese sconosciuto, di cui non avevo nessuna memoria. 
Che tipo di statua era? chiese Sumire. A nessuno che lei conoscesse era mai stata dedicata una statua. 
Una comune statua di bronzo... Come se ne trovano in tutte le parti del mondo. Però certo fa uno strano effetto vedere la statua del proprio padre. Se nella piazza davanti alla stazione di Chigasaki ci fosse la statua di bronzo del tuo, anche a te sembrerebbe strano, non credi? E anche se mio padre in realtà era piccolo di statura, lo scultore ne aveva fatto una specie di gigante dal portamento maestoso. Fu allora che pensai per la prima volta che le cose che vediamo non sono sempre veritiere. Avevo solo cinque anni. 
Invece, nel caso di mio padre, sotto forma di statua sarebbe sembrato meno sensazionale che dal vero, pensò segretamente Sumire. Lui era un po‟ troppo bello per un uomo in carne e ossa. 

Riprendendo il discorso di ieri, – disse Myū al secondo giro di caffè. – Pensi che ti andrebbe di lavorare per me? 
Sumire avrebbe voluto fumare, ma non c‟era nessun portacenere in vista. Rinunciò, bevve un sorso di Perrier fredda, quindi disse, in tutta franchezza: – Ma che cosa dovrei fare concretamente? Come credo di averti già spiegato, a parte qualche piccolo lavoro fisico o manuale, non ho nessuna esperienza professionale vera e propria. Inoltre non ho nemmeno un vestito adatto per andare a lavorare. Quello che ho messo al matrimonio, me lo sono fatto prestare. 
Myū annuì, senza mutare minimamente espressione. Sembrava avesse previsto una risposta del genere da parte di Sumire. 
Dalle cose che mi hai detto di te credo di aver capito abbastanza bene che tipo sei, e penso che tu possa fare senza difficoltà il lavoro che vorrei affidarti. Il resto non ha molta importanza. Quello che è davvero importante è se tu hai voglia di lavorare con me oppure no, è tutto qui. 
Dovresti semplicemente chiederti questo e rispondere con un sì o un no. 
Sumire, scegliendo con cura le parole, rispose: 
Naturalmente quello che mi dici mi rende molto felice, ma per me adesso la cosa più importante, al di là di tutto, è scrivere. Ho lasciato perfino l‟università per questo. 
Myū la guardò fisso nel viso attraverso il tavolo. Sumire, nel sentire su di sé quello sguardo calmo, arrossì. 
Posso dirti francamente quello che penso? – chiese Myū. 
Certo, qualsiasi cosa. 
Anche se potrebbe dispiacerti? 
Sumire strinse le labbra, sostenendo il suo sguardo, come a farle capire che era pronta a tutto. 
Non credo che tu sia ancora pronta, oggi, per scrivere qualcosa di compiuto, per quanto tempo tu ci possa dedicare, – disse dolcemente, ma con decisione, Myū. – Tu hai talento. Sono sicura che un giorno riuscirai a scrivere qualcosa di meraviglioso. Non è un complimento, ne sono profondamente convinta. Riesco a percepire in te la presenza di questa forza naturale. Ma non sei ancora pronta. Non possiedi ancora l‟energia sufficiente ad aprire quella porta. Hai mai provato tu stessa questa sensazione? 
Tempo ed esperienza, – sintetizzò Sumire. Myū sorrise. 
In ogni caso, per adesso lavora con me. Penso che sia la cosa migliore. Poi, quando sentirai che è arrivato il momento, sarai libera di lasciare tutto senza farti nessuno scrupolo, e dedicarti soltanto a scrivere i tuoi romanzi. Credo che per come sei fatta, per la tua mancanza di furbizia, tu abbia bisogno di più tempo degli altri per poter tirare fuori qualcosa di importante. Ma in fondo, anche se a ventotto anni non avessi ancora dato i tuoi frutti, e senza l‟aiuto dei tuoi ti ritrovassi al verde, non sarebbe poi così grave. Magari soffriresti un po‟ la fame, ma sarebbe un‟esperienza utile per uno scrittore. 
Sumire aprì la bocca per rispondere, ma non le vennero le parole, perciò si limitò ad annuire in silenzio. 
Myū allungò la mano destra verso il centro del tavolo. 
Dammi la mano, – disse. Sumire tese la mano e Myū la strinse come avvolgendola nella sua. Il palmo era caldo e morbido. 
Non c‟è niente di cui preoccuparsi. Perciò non fare quella faccia così seria. Vedrai che noi due andremo d‟accordo. 
Sumire inghiottì la saliva. Poi finalmente rilassò i muscoli del viso. A stare così di fronte a Myū che la guardava, si sentiva rimpicciolire ogni secondo che passava. Se continuava così si sarebbe dissolta come un cubetto di ghiaccio sotto i raggi del sole. 
Da lunedì prossimo, vieni nel mio ufficio tre volte alla settimana. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Verrai alle dieci del mattino e alle quattro del pomeriggio sarai libera. Così eviterai le ore di punta nella metropolitana. Lo stipendio non sarà altissimo, ma in compenso il lavoro non sarà pesante, e quando non avrai nulla da sbrigare, potrai leggere i tuoi libri tranquillamente. Vorrei però che due volte alla settimana prendessi lezioni private di italiano. Visto che già conosci lo spagnolo, imparare l‟italiano non dovrebbe costarti troppa fatica. E se hai tempo cerca anche di fare un po‟ di pratica di guida e di conversazione inglese. Pensi di farcela? 
Credo di sì, – rispose Sumire. Ma la sua voce le sembrò strana, come se a pronunciare quelle parole fosse stata un‟altra al posto suo, una persona a lei sconosciuta, mentre lei non era lì. Qualsiasi cosa le fosse stato chiesto, qualunque ordine avesse ricevuto, in quel momento avrebbe risposto di sì, senza la minima esitazione. Myū la guardava fisso, continuando a tenerle la mano stretta nella sua. Sumire riusciva a vedersi, riflessa in modo nitido in fondo ai suoi occhi neri. Era un po‟ come vedere la propria anima risucchiata nell‟altro lato dello specchio: un‟immagine che le faceva tenerezza e allo stesso tempo le incuteva una profonda paura. 
Quando Myū sorrideva, le si formavano attorno agli occhi delle deliziose increspature. 

Andiamo a casa mia. Ci sono delle cose che vorrei farti vedere, – disse.  


Le vacanze estive del mio primo anno di università le trascorsi girovagando nello Hokuriku. Durante il viaggio conobbi in treno una donna di otto anni più grande e passammo la notte insieme. Ricordo che mi sembrò di rivivere la scena iniziale di Sanshirō, il famoso romanzo di Sōseki. 

Lei lavorava allo sportello del cambio in una banca di Tōkyō. Quando poteva prendere delle vacanze, partiva sempre da sola portando con sé qualche libro. – Viaggiare in compagnia di qualcuno mi stanca, – spiegò. Era una donna piuttosto attraente, e non capivo cosa potesse trovare di interessante in uno studente diciottenne pelle e ossa e taciturno come me. Eppure, mentre seduta nel posto di fronte al mio scambiava con me quattro chiacchiere innocenti, appariva molto a suo agio. Rideva spesso, con una risata squillante. Anch‟io, cosa per me rara, ero abbastanza loquace e rilassato. Per caso dovevamo scendere entrambi a Kanazawa. 
Hai un posto dove dormire? – mi chiese. 
Risposi di no (non avevo mai prenotato un albergo in vita mia). 
Allora lei disse: – Io ho prenotato una camera, se vuoi puoi fermarti anche tu. 
Non farti problemi: che sia da sola o con un‟altra persona, il prezzo della camera non cambia, – aggiunse. 
Ero così teso che quando facemmo l‟amore la prima volta non fu un gran successo. Me ne scusai con lei. 
Non c‟è mica bisogno di scusarsi per queste cose, – disse. – Certo che sei educato, però. 
Uscita dalia doccia indossò l‟accappatoio, tirò fuori due lattine di birra fredda dal frigobar e me ne offrì una. 
Dopo aver bevuto mezza lattina, come colta da un‟ispirazione improvvisa, mi chiese: 
Guidi la macchina? 
Al mio sì, insisté: 
Ma la sai portare bene? 
Ho preso la patente da poco, quindi non è che sia questo gran guidatore. Sono nella media. 
Anch‟io, – rise lei. – O meglio, a me sembra di essere bravissima, ma gli altri non la pensano così. Credo di essere nella media anch‟io. Ma tra le persone che conosci ci saranno alcuni guidatori provetti, no? 
Sì che ci sono. 
E ce ne saranno altri che invece sono completamente negati, giusto? 
Annuii. Lei bevve piano un altro sorso di birra, quindi sembrò riflettere. 
Fino a un certo punto si tratta di qualità innate. Immagino che si possa usare la parola «talento». Per esempio ci sono persone abili nei lavori manuali, e altre no. Ma allo stesso tempo, tra le persone intorno a noi ci sono quelle capaci di attenzione e quelle no. Mi segui? 
Di nuovo annuii. 
Adesso, cerca di immaginare. Tu stai facendo un lungo viaggio in macchina con un‟altra persona. Vi mettete d‟accordo per alternarvi alla guida. In una situazione del genere, che tipo di partner sceglieresti? Uno che è bravo a guidare ma è distratto, o uno che non sarà un asso al volante ma guida con attenzione? 
Il secondo, ovviamente, – risposi. 
Anch‟io, – disse lei. – E penso che anche qui valga lo stesso discorso. Non è importante che uno sia bravo o meno bravo, abile o maldestro, io credo. Per me la cosa più importante è che sia attento. Che sappia prestare ascolto, con calma e attenzione, a diverse cose. 
Prestare ascolto? – chiesi. 
Lei sorrise e non aggiunse altro. 
Quando, poco dopo, facemmo l‟amore per la seconda volta, tutto andò liscio e ci fu tra noi piena sintonia. Ebbi la sensazione di aver capito cosa intendesse con «prestare ascolto con attenzione». E per la prima volta vidi anche come possono rispondere le donne quando il rapporto sessuale funziona. 
Il giorno seguente, dopo aver fatto colazione insieme, ci separammo per prendere ognuno la propria strada. Lei continuava il suo viaggio e io il mio. Al momento di salutarci mi disse che di lì a due mesi si sarebbe sposata con un collega di lavoro. 

È una bravissima persona, – disse sorridendo. – Dopo cinque anni che stiamo insieme, finalmente abbiamo deciso di sposarci. Non credo che avrò più occasioni di viaggiare da sola. Forse questa è l‟ultima volta. 
Io, giovane com‟ero, pensai che avventure «pittoresche» come quella mi sarebbero capitate ancora chissà quante volte nella vita. Che le cose non vanno sempre così, l‟avrei capito molto più tardi. 

Tanto tempo fa raccontai quell‟episodio a Sumire. Non ricordo più in che occasione fosse venuto fuori il discorso. Può darsi che fosse stato quando parlavamo del desiderio sessuale. In ogni caso sono sempre stato uno che, posto di fronte a una domanda diretta, risponde francamente e senza reticenze. 
Non capisco il senso della tua storia, – ricordo che aveva detto Sumire. 
Il senso è imparare a prestare attenzione, credo, – risposi io. – Senza decisioni preconcette, prestare ascolto alla situazione e reagire di conseguenza, mantenendosi aperti con il corpo e con la mente. 
Hmm, – fece Sumire. Sembrava stesse rimuginando fra sé la mia piccola avventura sessuale. Forse si chiedeva se avrebbe potuto utilizzarla in qualche suo romanzo. 
Comunque, tu hai fatto un bel po‟ di esperienze, eh? – disse infine. 
Un bel po‟ non direi, – protestai gentilmente. – Diciamo che ogni tanto è capitato. 
Sumire rifletté per qualche istante mordicchiandosi le unghie. 
Ma come si fa a essere attenti nei confronti di un‟altra persona? Non credo che, quando viene il momento, basti dirsi: «Ecco, adesso starò attenta, presterò ascolto», perché la cosa funzioni. Non puoi spiegarmelo in modo un po‟ più concreto? Magari con qualche esempio? – Prima cosa bisogna rilassarsi. Per esempio... contando. 
Oppure? 
Hmm... pensare a dei cetrioli nel frigorifero in un pomeriggio d‟estate. Naturalmente è solo un esempio. 
Non starai mica dicendo... – Sumire fece una breve pausa, – che ogni volta che fai sesso con una donna visualizzi dei cetrioli nel frigorifero in un pomeriggio d‟estate? 
Non ogni volta. 
Ma alcune volte lo fai. 
Ogni tanto, – ammisi. 
Sumire aggrottò la fronte e scosse la testa. 
Non si direbbe a vederti, ma sei un tipo strano. 
Abbiamo tutti qualche lato strano, – dissi. 

In quel ristorante, mentre Myū mi teneva stretta la mano e mi guardava fisso negli occhi, ho pensato tutto il tempo ai cetrioli. Pensavo: devo rilassarmi, rilassarmi e prestare ascolto. 
Ai cetrioli? 
Non ti ricordi? Eri stato tu a parlarmi tanto tempo fa dei cetrioli freddi nel frigo in un pomeriggio d‟estate. 
Ora che me lo dici, sì, ho detto qualcosa del genere una volta, – mi ricordai. – E ha funzionato? 
Abbastanza, – disse Sumire. 
Mi fa piacere. 
Sumire riprese il filo del racconto. 
La casa di Myū era a pochi minuti a piedi dal ristorante. Un appartamento non grandissimo, ma delizioso. Una veranda piena di luce, molte piante, un divano italiano di pelle, altoparlanti Bose, una serie di stampe, e la Jaguar parcheggiata sotto casa. In questo appartamento lei vive da sola. Ha un‟altra casa insieme al marito a Setagaya, dove passa i weekend. Di solito dorme da sola in questo appartamento di Aoyama. E indovina che cosa mi ha mostrato di questa casa? 
I sandali preferiti di Marc Bolan, in pelle di serpente, che tiene custoditi in una teca di vetro. Una preziosa reliquia senza la quale è impossibile raccontare la storia del rock and roll. Sono in condizioni perfette: non manca nemmeno una scaglia, e c‟è la sua firma autentica sull‟arcata plantare. Un vero oggetto di culto per i suoi fans. 
Sumire corrugò la fronte e sospirò. 
Se inventassero delle automobili che hanno per carburante le battute sceme, la tua avrebbe sempre il serbatoio pieno. 
A questo mondo non siamo tutti dei geni, – dissi modestamente. 
Va bene, ma adesso smettila e cerca di pensare seriamente. Secondo te, che cosa mi ha fatto vedere a casa sua? Se indovini, offro io. 
Diedi un colpetto di tosse e dissi: 
Ti ha fatto vedere i fantastici abiti che indossi ora. E ti ha detto di metterli per andare al lavoro. 
Indovinato! – disse Sumire. – Ha un‟amica che ha più o meno le mie misure, una tipa molto ricca con tanti vestiti da non sapere che farsene. Strano il mondo, non pensi? Ci sono persone che possiedono tanti vestiti da non riuscire a farli entrare tutti negli armadi, e altre, come me, che si mettono calzini spaiati. Ma questo è un altro discorso. In ogni caso lei è andata da questa sua amica e si è fatta dare un mucchio di questi vestiti «in più». Se uno li guarda proprio con attenzione, in effetti sono leggermente fuori moda, ma in generale non si nota, vero? 
La rassicurai: non si notava per niente. 
Sumire sorrise soddisfatta. 
Come misura mi andavano semplicemente a pennello, una cosa incredibile. Tutti: i vestiti interi, le camicette, le gonne. Queste le dovrei stringere solo un pochino in vita, ma se metto la cintura posso indossarle senza fare modifiche. Di scarpe per fortuna porto lo stesso numero di Myū. Quindi me ne sono fatta dare alcune che lei non usa più. Con i tacchi alti, i tacchi bassi, e poi sandali per l‟estate. Tutte scarpe che avevano nomi italiani. Anche borse, e un po‟ di cosmetici. 
Una storia alla Jane Eyre, – commentai. 
E così Sumire cominciò a recarsi nell‟ufficio di Myū tre volte alla settimana. Un completo con la giacca, le scarpe coi tacchi e addirittura un po‟ di trucco, andava in metrò da Kichijōji alla stazione di Harajuku. Che lei riuscisse a prendere la metropolitana di mattino, era una cosa per me davvero incredibile. 

Myū, oltre all‟ufficio nella ditta di Akasaka, ne aveva un altro, più piccolo, tutto per lei, a Jingūmae. Lì c‟erano solo la sua scrivania, quella della sua assistente (cioè Sumire), un armadietto per conservare i documenti, telefono, fax e un PowerBook. L‟appartamento era composto di quell‟unica stanza, a parte una cucina e un bagno microscopici. C‟era un lettore CD, dei piccoli altoparlanti, e una dozzina di CD di musica classica. Era al secondo piano, e dalla finestra rivolta a oriente si vedeva un piccolo parco. A pianterreno c‟era uno showroom di mobili scandinavi. 
L‟edificio era un po‟ defilato rispetto alla strada principale, protetto dal frastuono cittadino. 
Quando arrivava in ufficio, Sumire cambiava per prima cosa l‟acqua ai fiori, e si preparava un caffè con la macchinetta. Quindi ascoltava i 

messaggi registrati nella segreteria, e controllava i messaggi di posta elettronica sul PowerBook. Se ce n‟erano, li stampava e li metteva in fila sulla scrivania di Myū. Nella maggior parte dei casi si trattava di messaggi da ditte o agenti stranieri, quasi sempre in inglese o francese. Se c‟erano lettere le apriva, buttando via quelle evidentemente inutili. Il telefono squillava diverse volte al giorno. C‟erano anche telefonate dall‟estero. Sumire chiedeva il nome, il numero di telefono, lo scopo della chiamata, prendeva nota e riferiva tutto a Myū chiamandola sul suo cellulare. 
Myū veniva in ufficio tra l‟una e le due. Si tratteneva per circa un‟ora, dava a Sumire alcune importanti istruzioni, beveva il caffè, faceva telefonate. Se c‟erano lettere che richiedevano una risposta, la dettava ad alta voce a Sumire che la batteva al computer e poi la inviava tramite posta elettronica o fax. Erano di solito lettere di affari dal contenuto abbastanza semplice. A volte prenotava per conto di Myū il parrucchiere, il ristorante o la sala di squash. Una volta finite queste incombenze, Myū chiacchierava un po‟ con Sumire, quindi se ne andava. 
Sumire trascorreva molto tempo sola in ufficio, e le capitava di stare anche ore intere senza parlare con nessuno, ma non si sentiva sola né si annoiava. Ripeteva quello che aveva imparato nelle due lezioni settimanali di italiano, studiava la coniugazione dei verbi irregolari, e controllava la pronuncia col registratore. Studiava anche le funzioni del computer, e imparò a risolvere da sola dei piccoli problemi. Aprì le informazioni contenute nell‟hard disk, e poté farsi a grandi linee un‟idea dei progetti a cui Myū stava lavorando. 
Il lavoro di Myū era grosso modo come glielo aveva descritto durante il banchetto di nozze. Aveva dei contratti in esclusiva con alcuni produttori di vino stranieri (soprattutto francesi), dai quali importava il vino che poi vendeva ai ristoranti e ad alcuni negozi specializzati di 
Tōkyō. Ma aveva anche un‟attività parallela che consisteva nell‟organizzare concerti di musicisti classici stranieri in Giappone. La parte amministrativa di questo lavoro veniva svolta da grossi agenti specializzati nel campo, mentre lei curava il progetto e i contatti agli stadi iniziali. Myū aveva una particolare capacità nello scoprire e portare in Giappone giovani musicisti di talento che non avevano ancora raggiunto la fama. 
Era difficile capire quanto profitto Myū ricavasse da questa sua «attività privata». La stessa Sumire non aveva accesso alla contabilità, conservata presumibilmente su dischetti separati, per accedere ai quali avrebbe avuto bisogno di una password. In ogni caso, il solo fatto di incontrare Myū e parlarle procurava a Sumire una felicità incontenibile e continue palpitazioni. Quella è la sedia dove lei si siede, quella è la penna che lei usa, quella è la tazza con cui prende il caffè, pensava tra sé. E in qualunque cosa Myū la coinvolgesse, anche la più insignificante, profondeva tutte le sue energie. 

A volte Myū la invitava fuori a mangiare. Dato che si occupava di vino, fare regolarmente il giro dei migliori ristoranti le permetteva di acquisire informazioni utili per il suo lavoro. Myū mangiava sempre pesce (qualche volta ordinava il pollo, ma ne lasciava invariabilmente metà), e non prendeva il dessert. Studiava minuziosamente la lista dei vini, e sceglieva una bottiglia, ma poi non beveva più di un bicchiere. – Tu bevi pure quanto vuoi, – diceva a Sumire, che però anche lei non riusciva a bere più di tanto. Di quelle bottiglie costose restava sempre più della metà, ma Myū non ci badava. 
Non è un peccato prendere una bottiglia in due, se non riusciamo a berne più di metà? – chiese una volta Sumire. 
No, non preoccuparti, – disse Myū ridendo. – Più vino lasciamo, più persone nel ristorante avranno l‟opportunità di assaggiarlo, dal sommelier al maître all‟ultimo cameriere addetto solo a versare l‟acqua. così impareranno a conoscere meglio il gusto dei vini. Ordinare delle bottiglie costose e lasciarne una parte non è dunque uno spreco inutile. Myū osservò il colore del Medoc del 1986, quindi, come se stesse esaminando un testo raro, lo assaporò con attenzione, mutando più volte l‟inclinazione del bicchiere. 
Come per tutte le cose, il metodo più efficace è l‟esperienza diretta: usando i sensi e a proprie spese. Non sono conoscenze che si imparano sui libri. 
Sumire prese il bicchiere e, imitando Myū, bevve un sorso di vino e lo assaporò lentamente prima di mandarlo giù. Il sapore indugiò delizioso nella sua bocca ma dopo qualche istante si dissolse senza lasciare traccia, come rugiada al sole d‟estate. La lingua era pronta a gustare il prossimo boccone di cibo. Ogni volta che mangiavano insieme e si trovava a chiacchierare con Myū, Sumire imparava qualcosa. Non smetteva mai di stupirsi della gran quantità di cose che non sapeva. 
Prima d‟ora non avevo mai pensato di voler essere qualcun altro, – confessò bruscamente una volta Sumire a Myū, complice anche il vino che in quell‟occasione aveva bevuto più del solito. – Ma a volte non so fare a meno di pensare a come sarebbe bello diventare come te. 
Myū per qualche attimo sembrò trattenere il respiro. Poi prese il bicchiere e lo portò alle labbra. Per un gioco di luce, sembrò che i suoi occhi avessero assunto la stessa tinta purpurea del vino. La sua solita espressione intensa era scomparsa dal viso. 
So che non potrai capire quello che sto per dirti, – replicò Myū con voce calma, tornando a posare il bicchiere sul tavolo. – La persona che è qui con te adesso, non sono veramente io. Circa quattordici anni fa io sono diventata la metà della vera me stessa. Magari avessi potuto incontrarti allora, quando ero ancora completamente io... Ma ormai, è inutile pensarci. 
Sumire era talmente stupita che non riuscì a dire nulla. Perse così quell‟occasione unica per chiederle spiegazioni. Che cosa le era successo quattordici anni prima? Perché era diventata «metà» di se stessa? E che cosa intendeva con la parola «metà»? Comunque, quell‟enigmatica dichiarazione ebbe l‟effetto, se possibile, di aumentare ancora l‟adorazione di Sumire per Myū. Che misteriosa creatura, pensò. 

Mettendo insieme frammenti di conversazione quotidiana, Sumire riuscì a raccogliere un certo numero di informazioni riguardanti Myū. Suo marito, che aveva cinque anni più di lei, era giapponese, ma avendo studiato per due anni alla Facoltà di Economia dell‟Università di Seul, parlava correntemente il coreano. Di natura gentile, era particolarmente dotato per gli affari, e in pratica era lui a ricoprire il ruolo chiave nella gestione della società. E anche se lui non era della famiglia, come quasi tutti gli altri componenti della società, nessuno aveva mai avuto niente da ridire su di lui. 
Fin da piccola Myū si era rivelata un‟eccellente pianista. Durante l‟adolescenza aveva vinto il primo premio in diversi concorsi per giovani musicisti. Entrata al conservatorio, aveva studiato sotto la guida di un famoso pianista e grazie alla sua raccomandazione era stata ammessa a una scuola di perfezionamento in Francia. Il suo repertorio andava dai maestri del tardo romanticismo come Schumann e Mendelssohn, per arrivare fino a Poulenc, Ravel, Bartók, Prokofiev. I suoi punti di forza erano un timbro acuto e sensibile, unito a una tecnica solida e perfetta. Aveva cominciato presto a dare concerti, e le critiche erano sempre state positive. Sembrava che un brillante futuro di concertista dovesse schiudersi davanti a lei. Ma mentre stava studiando all‟estero il padre si era ammalato gravemente, e per questa e altre ragioni aveva chiuso il piano ed era tornata in Giappone. Da allora non aveva più messo un dito su una tastiera. 
Come sei riuscita ad abbandonare così facilmente il piano? – chiese timida Sumire. – Naturalmente, solo se ti va di parlarne. È che mi sembra così strano. Immagino che fino ad allora avevi dovuto sacrificare tante cose, per diventare pianista! Myū rispose con voce tranquilla: 
Non «tante cose». Io al piano avevo sacrificato tutto. La mia infanzia, la mia adolescenza. Il piano pretendeva l‟offerta della mia carne e del mio sangue, e io non ho mai potuto tirarmi indietro. Nemmeno una volta. 
E ciò nonostante, abbandonarlo non ti è costato? Anche se ormai eri a un passo dalla meta? 
Myū fissò intensamente negli occhi Sumire, come se cercasse lì la risposta. Fu uno sguardo diretto e profondo. Nelle sue pupille, come sul fondo di un fiume si intrecciarono per qualche istante diverse correnti silenziose. Perché si ristabilisse la pace di prima, ci volle del tempo. 
Mi dispiace, sono stata indiscreta, – si scusò Sumire. – No, figurati. È solo che non riesco ancora a parlarne. L‟argomento fra loro due non venne più affrontato. 

Myū non permetteva che in ufficio si fumasse, e le dava fastidio veder fumare davanti a lei. Perciò, poco dopo aver iniziato il lavoro, Sumire decise di smettere, ma per lei che era abituata a fumare due pacchetti di Marlboro al giorno, l‟impresa si rivelò difficile. Per circa un mese, come un animaletto a cui fosse stata tagliata la folta coda, sembrò aver perso completamente l‟equilibrio (che del resto non era mai stato una sua prerogativa). Com‟era prevedibile, le telefonate in piena notte si fecero più frequenti. 
Non so pensare ad altro che al fumo. Non dormo, se dormo ho gli incubi, e non vado più in bagno regolarmente. Non riesco a leggere, e non scrivo più un rigo. 
È quello che provano tutti quando smettono di fumare Almeno in una certa fase, – dissi. 
È facile per te parlare tranquillamente quando si tratta degli altri, – disse Sumire. – Tu che non hai fumato una sola sigaretta in tutta la tua vita. 
Se non si potesse più parlare tranquillamente degli altri, il mondo diventerebbe un luogo tetro e pericoloso. Prova a pensare a quello che ha fatto Stalin. 
Dall‟altro capo della linea Sumire non rispose. Il silenzio fu lungo e greve, come quello dei caduti sul fronte orientale. 
Ehi, ci sei? – dissi alzando la voce. 
Finalmente riprese a parlare. 
Però, a essere sincera, se non riesco più a scrivere forse non è solo perché ho smesso di fumare. Cioè, ho la sensazione che questa sia una specie di alibi. Come dire: «Non riesco a scrivere a causa dell‟astinenza dal fumo, quindi non posso farci niente». 
Perciò ti arrabbi così facilmente? 
Può darsi, – ammise Sumire, con una docilità per lei insolita. – Ma non è solo che non riesco a scrivere. La cosa che mi fa più male è aver perso la fiducia che avevo nell‟atto di scrivere in sé. Se provo a rileggere le cose che ho scritto, anche poco prima, non solo non ci trovo niente di interessante, ma non capisco nemmeno che cosa avevo cercato di dire. Mi dà la stessa emozione che mi darebbe guardare da lontano i calzini sporchi che mi sono sfilata poco prima e che giacciono inerti sul pavimento. E se penso al tempo e all‟energia che ho sprecato per scrivere quella roba, mi viene una depressione totale. 
Se ti succede, puoi sempre chiamare alle tre del mattino qualcuno che dorme beatamente e buttarlo giù dal letto. A proposito, l‟atto del dormire rappresenta il segno, lo svegliare è il simbolo. 
Di‟ un po‟, ma a te non viene mai il dubbio se quello che stai facendo sia giusto o sbagliato? – chiese Sumire. 
Mai? Sono rare le volte in cui non mi viene. 
Davvero? 
Davvero. 
Sumire si picchiettò i denti davanti con le unghie. Era una delle sue abitudini quando pensava. 
Invece, se devo dire la verità, fino ad ora io non avevo mai avuto di questi dubbi. Non perché avessi fiducia in me o fossi sicura del mio talento. Non sono così presuntuosa. So benissimo di essere una persona inconcludente ed egocentrica. Ma non ero assillata dai dubbi. Potevo fare degli errori, ma in generale credevo di muovermi nella direzione giusta. 
Finora sei stata baciata dalla fortuna, – dissi. – Molto semplicemente. Come i campi bagnati da lunghe piogge quando è il tempo di piantare il riso. 
Sarà come dici tu. 
Però, ultimamente non è più così. 
Infatti: non è più così. A volte mi convinco di avere seguito fino adesso una pista falsa, e questo mi getta nel panico. È come quando ti svegli da un sogno molto vivido e all‟inizio non sai più distinguere qual è la realtà. È questa la sensazione che provo io. Capisci cosa voglio dire? 
Credo di sì, – risposi. 
Forse non riuscirò più a scrivere romanzi. Ultimamente lo penso spesso. Non sono che una delle tante donne stupide e ingenue che infestano l‟atmosfera, dotate solo di un‟esagerata considerazione di sé, perse a inseguire sogni irrealizzabili. Forse è ora anche per me di abbassare il coperchio del piano e uscire di scena. Prima che sia troppo tardi. 
Abbassare il coperchio del piano? 
È una metafora. 
Spostai la cornetta dalla mano sinistra alla destra. 
Io ho una certezza. Anche se tu non ce l‟hai, io ce l‟ho. Un giorno scriverai dei bellissimi romanzi. Basta leggere quello che hai già scritto per capirlo. 
Lo pensi davvero? 
Ne sono assolutamente convinto. È la pura verità, – dissi. – Su queste cose non dico balle. In tutto ciò che hai scritto finora ci sono molte parti bellissime, di forte impatto. Quando descrivi la spiaggia in maggio, si sente il rumore del mare e si respira il suo odore. Sulle braccia si sente il tepore del sole. Se tu scrivi di una piccola stanza piena di fumo, chi legge sentirà l‟aria farsi soffocante e gli occhi che gli bruciano. Non è da tutti scrivere cose che abbiano tanta forza. La tua prosa possiede un flusso e un‟energia naturali che la rendono viva e pulsante. 
È vero, non tutto ancora collima alla perfezione. Ma non è proprio il caso di abbassare il coperchio del piano. 
Sumire restò in silenzio dieci, forse quindici secondi. 
Non me lo dici solo per consolarmi, o tirarmi su? 
Non te lo dico né per consolarti, né per tirarti su: non senti la forza irresistibile della verità? 
Come la Moldava? 
Come la Moldava. 
Grazie, – disse Sumire. 
Prego, non c‟è di che, – risposi. 
A volte sai essere incredibilmente dolce. Come il Natale, le vacanze estive o un cucciolo appena nato. 
Come faccio sempre quando ricevo dei complimenti da qualcuno, in risposta borbottai qualcosa di incomprensibile. 
Però sai, c‟è un pensiero che ogni tanto mi preoccupa, – disse Sumire. – Che prima o poi ti sposerai con una ragazza come si deve e ti dimenticherai completamente di me. E io non potrò più telefonarti in piena notte quando mi pare e piace. 
Se vorrai parlarmi, potrai farlo di giorno. 
Di giorno è impossibile. Non capisci niente. 
Sei tu che non capisci niente. La maggior parte delle persone lavorano con il sole, e la notte spengono la luce e dormono, – protestai. Ma le mie parole ebbero l‟effetto di un monologo recitato in mezzo a un campo di zucche. 
Sumire, ignorandomi, disse: 
Ho letto sul giornale che le lesbiche hanno dalla nascita all‟interno dell‟orecchio un osso dalla forma completamente diversa da quella delle donne normali. Un osso piccolissimo dal nome molto complicato. In altre parole il lesbismo non sarebbe una tendenza acquisita, ma una caratteristica genetica. L‟ha scoperto uno scienziato americano. Non riesco proprio a immaginare che cosa lo abbia spinto a fare una ricerca del genere, ma da quando ho letto questa storia, non posso fare a meno di pensare a questo stupido ossicino, chiedendomi di che forma lo avrò io. 
Non sapendo cosa rispondere, non dissi nulla. Il silenzio durò il tempo che impiega dell‟olio fresco per spandersi sul fondo di una grande padella. – Tu sei sicura che quello che provi per Myū sia desiderio sessuale? – chiesi. 
Sicura al cento per cento, – disse Sumire. – Appena mi trovo davanti a lei, quell‟ossicino dentro al mio orecchio comincia a fare uno strano tintinnio. Come una collana di fragili conchiglie che dondola al vento. Provo il desiderio di essere stretta forte da lei, e di abbandonarmi, affidarmi completamente a lei. Se questo non è desiderio sessuale, quello che mi scorre nelle vene dev‟essere succo di pomodoro. 
Hmm, – mormorai. Di nuovo non sapevo che dire. 
Questo spiegherebbe finalmente molte cose. Perché non ho mai avuto interesse sessuale per i ragazzi. Perché non ho mai provato niente. 
Perché mi sono sempre sentita in qualche modo diversa dagli altri. – Posso dire la mia opinione? – chiesi. 
Certo. 
Ogni ragionamento o teoria che spiega tutto in modo troppo esauriente, nasconde una trappola. L‟esperienza me lo ha insegnato. Come ha detto qualcuno, se c‟è qualcosa che può essere spiegato con un solo libro, forse non merita spiegazione. Insomma, quello che voglio dire è che è meglio non affrettarsi a tirare troppo presto conclusioni. 
Va bene, me ne ricorderò, – disse Sumire. Quindi, in maniera un po‟ precipitosa, chiuse la telefonata. 

La immaginai che riagganciava e usciva dalla cabina telefonica. Le lancette dell‟orologio segnavano le tre e mezzo. Andai in cucina, bevvi un bicchiere d‟acqua, poi mi infilai di nuovo a letto e chiusi gli occhi. Ma non era facile riprendere sonno. Tirai la tenda: la luna, sospesa nel cielo, pallida e taciturna, faceva pensare a un orfano saggio. Capii che non mi sarei riaddormentato. Mi feci un caffè forte, portai la sedia accanto alla finestra, mi sedetti lì e mangiai un po‟ di crackers col formaggio. Poi, leggendo un libro, aspettai che arrivasse l‟alba. 


Adesso vorrei parlare un po‟ di me. 
Naturalmente, questa è la storia di Sumire, non la mia. Ma poiché la Sumire qui descritta è vista attraverso i miei occhi, per raccontare la sua storia potrebbe essere utile spendere qualche parola su di me, spiegare in breve chi sono. 

Ogni volta che mi accingo a parlare di me, vengo colto però da una leggera confusione. A mettermi in difficoltà è il classico paradosso che si racchiude nella domanda «Chi sono io?» Ovviamente, dal punto di vista della quantità di informazioni sull‟argomento, non esiste al mondo nessuno che possa saperne su di me più di me stesso. Ma quando io mi trovo a parlare di me, è inevitabile che il mio io narrato sia filtrato, manipolato, censurato dal mio io narrante, dalla sua scala di valori, dalla sua sensibilità, dal suo spirito di osservazione, nonché da una serie di interessi concreti. Perciò, che grado di verità oggettiva possiederà mai questo io che si racconta da sé? È un problema, questo, che mi sta molto a cuore. Che mi è sempre stato a cuore, fin da quando ho memoria. 
Sembra però che la maggior parte della gente non abbia questa preoccupazione. Le persone, se ne hanno l‟occasione, parlano di sé usando espressioni di una franchezza sorprendente, del tipo: «Io sono uno talmente sincero e aperto da rendermi ridicolo», «Io sono troppo sensibile per trovarmi bene in un mondo come questo», «Io sono bravo a leggere nel cuore degli uomini». Ma mi è capitato molte volte di vedere persone «troppo sensibili» ferire gli altri senza alcuna necessità. E ho visto anche persone «sincere e aperte» usare la logica per imporre i propri interessi, senza neanche esserne consapevoli. Ho visto infine persone «brave a leggere nel cuore degli uomini» lasciarsi ingannare senza sforzo da adulatori visibilmente insinceri. A questo punto mi sembra naturale chiedersi che cosa ognuno di noi alla fin fine conosca di se stesso. 
A forza di ragionare in questo modo, mi sono convinto che sia meglio evitare il più possibile di parlare di me (anche quando potrebbe sembrare necessario). Mentre è cresciuto in me l‟interesse a conoscere fatti obiettivi che riguardano altri, altri diversi da me. Ho pensato che imparando a conoscere il posto che questi episodi e personaggi occupano dentro di me, e trovando un equilibrio personale che comprende anche loro, sarei riuscito a cogliere nel modo più oggettivo possibile anche qualcosa della persona che sono io. 
Queste sono le idee, o per dirla in modo un po‟ più pomposo, la visione del mondo che ho coltivato nella mia adolescenza. Come un operaio che mette un mattone dopo l‟altro, usando il filo a piombo per farli coincidere, costruii dentro di me questo modo di vedere. Basandomi più sull‟esperienza che sulla teoria, più sulla pratica che sul ragionamento. Ma non era facile spiegare agli altri il mio modo di vedere le cose: dovetti impararlo a mie spese in molte situazioni. 
Forse per questo, a partire da un certo momento nella mia adolescenza ho cominciato a tracciare un‟invisibile linea di confine tra me e gli altri. Stabilivo sempre una precisa distanza tra me e la persona con cui avevo a che fare e, stando sempre attento che quella distanza non si riducesse, studiavo l‟atteggiamento dell‟altro. Cominciai a non abboccare più a tutte le cose che mi dicevano. L‟unico spazio nel quale esprimevo un entusiasmo incondizionato era quello dei libri e della musica. E così, come forse era inevitabile, ho finito col diventare una persona piuttosto solitaria. 

Sono nato e cresciuto in una famiglia molto normale. così normale che non so da dove cominciare a descriverla. Mio padre si era laureato alla Facoltà di Scienze nell‟università statale della sua regione, e lavorava nel laboratorio di ricerca di una grande azienda di prodotti alimentari. Il suo hobby era il golf, e ogni domenica andava a giocare. Mia madre amava il tanka , e partecipava spesso a riunioni di appassionati del genere. Quando il suo nome compariva sul giornale, nella rubrica dedicata al tanka, per un po‟ di tempo era di umore radioso. Le piaceva fare pulizie, ma detestava cucinare. Mia sorella, di cinque anni più grande di me, odiava ugualmente pulizia e cucina, e le considerava compiti che spettavano agli altri. Perciò, da quando fui abbastanza grande per stare in cucina, presi l‟abitudine di farmi da mangiare da solo. Cominciai comprando libri di ricette, e presto fui in grado di cucinare un po‟ di tutto. Ero probabilmente l‟unico bambino che lo faceva. 
Sono nato a Suginami, ma quando ero ancora piccolo ci trasferimmo a Tsudanuma, nella prefettura di Chiba, ed è lì che sono cresciuto. Intorno a noi c‟erano solo famiglie di impiegati come la nostra. Mia sorella a scuola aveva voti altissimi, e siccome non poteva ammettere di non essere sempre la prima, evitava tutto ciò che non le serviva a raggiungere questo scopo. Credo non abbia neanche portato una sola volta a spasso il cagnolino. Si è laureata in Legge all‟Università di Tōkyō, e l‟anno successivo ha superato l‟esame di abilitazione alla professione legale. Il marito è un abile consulente finanziario. Vivono in un lussuoso appartamento di quattro stanze che hanno comprato nei pressi del parco di Yoyogi, ma lo tengono talmente in disordine che sembra un porcile. 
A differenza di mia sorella, non ho mai avuto interesse per lo studio, né mi è mai importato nulla dei voti. Siccome non volevo avere noie dai miei genitori, frequentavo diligentemente le lezioni e studiavo il minimo necessario. Per il resto giocavo a pallone e leggevo. Quando tornavo a casa, mi stendevo sul letto a leggere romanzi e potevo continuare per ore e ore senza stancarmi. Non sono mai andato a scuola di recupero, né ho mai preso lezioni private. Ciò nonostante i miei voti non erano così cattivi. Anzi, erano piuttosto buoni. Con queste premesse, pensai che sarei riuscito a entrare in un‟università decente senza dover sprecare troppe energie a prepararmi per gli esami di ammissione, e così fu. 

Quando entrai all‟università, presi in affitto un piccolo appartamento e cominciai a vivere da solo, ma anche prima, quando ancora stavo con i miei a Tsudanuma, non ricordo di avere mai avuto una conversazione intima con nessuno di loro. Anche se vivevamo sotto lo stesso tetto, non ho mai veramente capito che persone fossero i miei genitori e mia sorella, e che cosa cercassero nella vita. E credo che anche loro non capissero molto di chi ero io e di che cosa cercassi. Inoltre, se avessi voluto spiegare che cosa cercavo nella vita, io stesso probabilmente non l‟avrei saputo dire. Amavo svisceratamente i libri, ma non credevo di avere sufficiente talento nella scrittura da poter aspirare a diventare un romanziere, e i miei gusti letterari erano troppo dettati dalla passione per poter fare il critico o il redattore in una casa editrice. I romanzi erano per me una gioia privata, che dovevo coltivare in uno spazio separato da quello dello studio e del lavoro. Perciò all‟università, invece che in letteratura, decisi di laurearmi in storia. All‟inizio non avevo una particolare propensione per questa materia, ma studiandola scoprii invece che mi interessava molto. Anche se non fino al punto, dopo la laurea, di entrare nel corso di dottorato, come mi suggeriva il professore che mi faceva da tutor, non me la sentivo, insomma, di dedicarmi totalmente alla storia. Amavo leggere e pensare ma non ero tagliato per fare lo studioso. Per dirla con Puškin: «Non aveva la voglia di frugare nella montagna di polvere della storia mondiale» (Evgenij Onegin). 
Detto questo, non avevo nemmeno intenzione di trovare lavoro in una ditta, farmi strada attraverso una competizione forsennata e scalare, passo dopo passo, la piramide della società capitalistica avanzata. 
Fu così che, per esclusione, scelsi di diventare insegnante. La scuola era a poche fermate di metropolitana dal mio appartamento. Per caso avevo uno zio che faceva parte del Consiglio scolastico provinciale: fu lui a lanciarmi l‟idea di fare l‟insegnante di scuola elementare. All‟inizio, non avendo un titolo specifico, venni assunto in via provvisoria, ma dopo un breve periodo di apprendistato ottenni la qualifica necessaria ed entrai a far parte stabilmente del corpo insegnante. Fare il maestro non era mai stata tra le mie aspirazioni. Devo dire però che dopo esserlo diventato, incominciai a nutrire per questo lavoro un rispetto e un attaccamento molto più forti di quanto potevo immaginare. Scoprire di provare questi sentimenti fu una sorpresa anche per me. 
Quando insegnavo, e davo ai miei piccoli allievi nozioni elementari sul mondo, la vita e la lingua, era come se attraverso gli occhi e le coscienze di quei bambini io ripetessi quelle nozioni elementari anche a me stesso. Questa attività aveva una freschezza e una profondità insospettate. Inoltre di solito riuscivo ad avere un buon rapporto sia con gli allievi e i loro genitori sia con i colleghi. 
Tutto ciò non serviva però a rispondere alle mie domande. Chi ero? Che cosa cercavo? Dove andavo? 
Era solo quando incontravo Sumire e parlavo con lei, che riuscivo ad avere una percezione più chiara di me stesso e della mia presenza nel mondo. Ma più che parlare di me ascoltavo con attenzione lei. Mi poneva molte domande, e pretendeva le risposte. Se non sapevo risponderle protestava, e se la risposta non la soddisfaceva si arrabbiava seriamente. In questo era diversa dalla maggior parte delle persone. Sumire era veramente, sinceramente interessata a conoscere la mia opinione riguardo ai problemi che lei poneva. Perciò mi abituai a prendere sul serio le sue domande e a cercare una risposta adeguata, e attraverso questo scambio cominciai a espormi, ad aprirmi con lei, e allo stesso tempo anche con me stesso. 
Ogni volta che io e Sumire ci trovavamo insieme, eravamo capaci di parlare per ore e ore senza mai stancarci. Gli argomenti non si esaurivano mai. Discutevamo di tutto con più passione e intimità di qualunque coppia di innamorati: di romanzi, di paesaggi, di parole, del mondo. 
Pensavo sempre a come sarebbe stato meraviglioso se anche noi fossimo stati una coppia di innamorati. Sentire il calore della sua pelle sulla mia. Anzi, se fosse stato per me avrei addirittura voluto sposarla, e trascorrere la vita con lei. Ma sapevo bene che Sumire non provava per me nessun sentimento d‟amore, e nemmeno di attrazione sessuale. A volte, quando veniva a casa mia capitava che, presi dalla conversazione, facessimo molto tardi e lei si fermasse a dormire. Ma non si creava mai un‟atmosfera di quel tipo. Quando si facevano le due o le tre, lei sbadigliando si infilava nel letto, seppelliva la faccia nel mio cuscino, e si addormentava all‟istante. Io stendevo a terra il futon e cercavo di dormire, ma inutilmente. Tormentato da fantasie, dubbi, disprezzo di me stesso, e a volte anche da una insopprimibile reazione fisica, restavo sveglio fino a che fuori spuntava il giorno. 
Naturalmente non era facile per me accettare il fatto che lei non avesse quasi nessun (ma eliminiamo pure il quasi) interesse per me come uomo. A volte, stando con lei, provavo un dolore come se fossi stato colpito con una lama molto affilata. Eppure, per tutta la pena che potevano darmi, le ore passate con Sumire erano per me le più preziose della mia vita. Con lei riuscivo a dimenticare temporaneamente il costante sottofondo di solitudine che mi accompagnava da sempre. I confini del mio mondo si dilatavano e potevo respirare più profondamente. Questo accadeva solo grazie a Sumire. 
Perciò, per alleviare il dolore e per evitare complicazioni, cominciai a fare l‟amore con altre donne. Pensavo, così facendo, di impedire che la tensione sessuale diventasse un ostacolo tra me e Sumire. Non che io avessi particolare successo con le donne. Non ero dotato di chissà quale fascino virile, né avevo delle doti speciali. Però alcune donne, per qualche ragione a me inspiegabile, provavano interesse per me e facevano in modo di farmelo capire. A un certo punto scoprii che se coglievo naturalmente quelle occasioni, andare a letto con loro non era poi così difficile. Quei rapporti non si potevano certo definire passioni, ma almeno trovavo in essi un po‟ di conforto. 
A Sumire non nascondevo di avere storie di sesso con altre donne. Non scendevo in particolari, ma a grandi linee sapeva tutto. La cosa però non sembrava turbarla. Il problema, se mai, era che si trattava sempre di donne più grandi di me, che avevano un marito, un fidanzato o un ragazzo fisso. La mia storia più recente era con la madre di uno dei miei allievi. Ci incontravamo di nascosto un paio di volte al mese e andavamo a letto. 
Un giorno o l‟altro ti potresti trovare nei guai, mi mise in guardia una volta Sumire. Io pensai che forse aveva ragione. Ma non potevo farci niente lo stesso. 

Un sabato all‟inizio di luglio ci fu una gita scolastica al monte Okutama. Io accompagnavo il mio gruppo di trentacinque allievi. Come al solito la giornata cominciò sotto il segno di una eccitazione gioiosa e si chiuse in un caos ingovernabile. Arrivati in cima, due degli allievi si accorsero di aver dimenticato di mettere la loro colazione nello zaino. Lassù non c‟era nessun negozio, così fui costretto a dividere tra loro due la colazione di norimaki  che mi avevano preparato a scuola. A me non restava più niente da mangiare. Qualcuno mi offrì un po‟ della sua tavoletta di cioccolata, e quella fu l‟unica cosa che riuscii a mettere sotto i denti durante l‟intera giornata. Poi una bambina disse che non ce la faceva più a camminare, così dovetti percorrere tutta la discesa con lei sulle spalle. Due dei maschi si misero a fare la lotta più che altro per scherzo, ma uno dei due cadde e batté la testa su una pietra, procurandosi una leggera commozione cerebrale e una forte emorragia al naso. Niente di grave, ma la sua camicia era ricoperta di sangue come se fosse uscito da una carneficina. 
Dopo una simile giornata tornai a casa esausto come una vecchia ciabatta. Feci un bagno caldo, bevvi una bibita fredda e senza pensare a niente mi infilai nel letto, spensi la luce e subito scivolai in un sonno tranquillo. Di lì a poco giunse la telefonata di Sumire. Guardai l‟orologio: avevo dormito poco più di un‟ora, ma non protestai. Ero talmente stanco che non avevo neanche l‟energia per farlo. Capitano momenti così. 
Senti, ci potremmo vedere domani pomeriggio? – chiese Sumire. 
Il pomeriggio seguente aspettavo una donna. Per prudenza avrebbe parcheggiato la sua Toyota Celica rossa un po‟ distante, e sarebbe venuta a bussare alla mia porta intorno alle sei. – Solo fino alle quattro, – risposi secco. 

Sumire indossava una camicetta bianca senza maniche e una minigonna blu, e portava dei piccoli occhiali da sole. Il suo unico accessorio era un fermaglio nei capelli. Era semplicissima. Anche di trucco, ne aveva appena un filo. Si mostrava al mondo così com‟era, al naturale. Eppure, in un primo momento non l‟avevo riconosciuta. Anche se erano solo tre settimane che non ci vedevamo, la ragazza che mi guardava dal lato opposto del tavolo non sembrava appartenere allo stesso mondo della Sumire di prima. Dire che era diventata bellissima è poco. Qualcosa dentro di lei era sbocciato. 
Io ordinai un boccale piccolo di birra, lei un succo d‟uva. 
Ormai ogni volta che ti vedo faccio fatica a riconoscerti, – dissi. 
È per la fase in cui sono, – rispose con tono indifferente, bevendo il succo dalla cannuccia. 
La fase in cui sei? 
Sì, una specie di pubertà in ritardo. A volte, quando la mattina mi guardo allo specchio, mi sembra di vedere un‟altra persona. Se non sto attenta, non riuscirò a starle dietro e mi abbandonerà per strada. 
E se invece la lasciassi andare avanti per conto suo? – dissi io. 
E dopo aver perso me stessa, io che fine farei? 
Se si tratta di due tre giorni puoi venire a stare da me. Anche se hai perso te stessa, da me sarai sempre la benvenuta. 
Sumire rise. 
A parte gli scherzi, – disse, – mi chiedo davvero dove sto andando. 
Non lo so. Ma in ogni caso hai smesso di fumare, ti vesti come si deve, hai imparato a metterti i calzini appaiati e parli perfino l‟italiano. Stai diventando una conoscitrice di vini, sai usare il computer e, anche se non so quanto durerà, la notte dormi e al mattino ti alzi. Si direbbe che da qualche parte stai andando. 
Aggiungi pure che continuo a non scrivere nemmeno un rigo. 
In tutto c‟è sempre l‟altra faccia della medaglia. 
Sumire storse le labbra. 
Ma a te tutto questo non sembra una specie di apostasia? 
Apostasia? 
Abbandonare la propria fede, tradire i propri principî. 
Ti riferisci al fatto che lavori, ti vesti bene e hai smesso di scrivere? – Sì. 
Scossi la testa. – Fino ad ora hai scritto perché sentivi di dover scrivere. Se non ne senti più il bisogno, non vedo perché dovresti farlo. Nessun villaggio sarà bruciato perché tu hai smesso di scrivere romanzi. Nessuna nave colerà a picco. Il movimento delle maree non sarà sconvolto, e la rivoluzione non sarà rinviata di cinque anni per causa tua. 
Nessuno parlerebbe di apostasia. 
Allora la parola quale sarebbe? 
Scossi di nuovo la testa. 
Forse il problema è solo che «apostasia» è una parola che non si usa più. Credo che ormai sia caduta completamente in disuso. Magari andando in alcune comuni, ammesso che ve ne siano rimaste, si troverà gente che la usa ancora. Non saprei. Quello che so è che se tu non senti più il bisogno di scrivere, non c‟è nessuna ragione per cui tu debba farlo. 
Le comuni, sarebbero quelle create da Lenin? 
Quelle di Lenin si chiamavano kolchoz. Di quelle credo non ne sia rimasta nemmeno una. 
Non è che io non senta più il bisogno di scrivere, – disse Sumire, poi rifletté per qualche istante. – Vorrei farlo, ma non riesco a scrivere niente. Mi siedo alla scrivania, e non mi viene niente: né idee, né parole, né immagini. Niente, nemmeno il più piccolo frammento. E se penso che fino a poco tempo fa avevo talmente tante cose da scrivere che non riuscivo a contenerle... Ma cosa mi è accaduto? 
Lo stai chiedendo a me? 
Sumire annuì. 
Bevvi un sorso della mia birra fredda, e cercai di fare ordine nei miei pensieri. 
Credo che in questo momento tu stia tentando di mettere te stessa in una nuova struttura narrativa. Sei troppo presa da questa operazione per avvertire la necessità di esprimere le tue sensazioni in forma di scrittura. Non hai lo spazio mentale per farlo. 
Non sono sicura di capire, ma tu per esempio, anche tu metti te stesso in una struttura narrativa? 
Più o meno tutti mettono se stessi in una struttura narrativa di qualche tipo. E naturalmente anch‟io. Pensa all‟albero di trasmissione in un‟auto. È come una trasmissione che si interpone tra te e il duro mondo della realtà. Regola l‟azione della forza che viene dall‟esterno utilizzando un ingranaggio, la accetta e la trasforma con facilità. E grazie a questa funzione protegge il fragile corpo delle persone. Mi segui? 
Sumire annuì leggermente. 
Più o meno. E io non mi sarei ancora adattata a questa nuova struttura narrativa – è questo che vuoi dire? 
Il problema più grosso è che tu non sai ancora di che racconto si tratta. Non conosci la trama, e lo stile è ancora tutto da definire. Conosci solo il nome della protagonista. E tuttavia, ciò ti sta cambiando realmente. Con un po‟ più di tempo, credo che questo nuovo congegno narrativo comincerà a ingranare in modo da proteggerti, e che tu riuscirai a vedere un mondo nuovo. Ma ancora non sei pronta. E naturalmente, sei esposta al pericolo. 
Allora, in pratica, io avrei staccato la mia trasmissione, e non avrei ancora finito di montare la nuova, quella che dovrebbe sostituirla. E nel frattempo il motore continua a girare. È così? 
Credo di sì. 
Sumire assunse la sua solita espressione corrucciata, e con la punta della cannuccia torturò a lungo il povero cubetto di ghiaccio. Poi sollevò il viso e mi guardò. 
Di essere in pericolo, me ne rendo conto anch‟io. Come posso spiegare... A volte mi sento completamente persa. Il senso di disorientamento di una a cui è stata tolta, come dici tu, la cornice. Mi sembra di essere priva di gravità e di andare alla deriva da sola nel buio del cosmo. 
Perduta nello spazio come lo Sputnik? – Qualcosa del genere. 
Però hai Myū, – dissi. 
Per il momento, – ribatté Sumire. 
Ci fu una pausa in cui nessuno dei due parlò. Infine le chiesi: 
Tu credi che anche Myū desideri quello? Sumire annuì: 
Sì, sono sicura che anche lei desidera quello. Con la stessa intensità con cui lo vorrei io. 
Inclusa la parte fisica? 
Difficile dirlo. Non sono ancora riuscita a capirlo. Da parte di lei, voglio dire. È per questo, credo, che sono così smarrita e confusa. 
Una sensazione classica, – dissi. 
Come risposta, Sumire storse ancora di più le labbra. 
Invece, da parte tua, saresti già pronta. 
Sumire annuì una volta sola. Con forza. Faceva sul serio. Sprofondai nella sedia, intrecciando le mani dietro la nuca. 
Però non odiarmi per questo, – disse Sumire. 
Le sue parole risuonarono all‟esterno della mia coscienza, come i dialoghi fuori campo in un vecchio film di Godard. – Però non ti odierò, stai tranquilla, – dissi. 

Incontrai di nuovo Sumire due settimane dopo, la domenica in cui la aiutai a traslocare. Era stato un trasloco deciso all‟improvviso, e ad aiutarla c‟ero solo io, ma non ci volle troppo tempo: a parte i libri possedeva ben poco. Essere poveri ha almeno questo lato positivo. 
Trasportammo tutto nel suo nuovo appartamento su una Toyota Hyatt che avevo preso in prestito da un amico. L‟edificio non era particolarmente nuovo né lussuoso, ma la casa segnava un deciso progresso rispetto all‟appartamentino di legno di Kichijōji. A trovarla era stato un agente immobiliare amico di Myū, e valeva sicuramente la pena di traslocare: il posto era comodo, l‟affitto ragionevole, e si godeva anche di una bella vista. Anche come spazio, era più del doppio di quello di prima. Inoltre era vicino al parco di Yoyogi, e volendo Sumire poteva andare al lavoro anche a piedi. 
Dal mese prossimo ho deciso di andare in ufficio cinque giorni su sette, – disse Sumire. – Andarci solo tre volte mi sembra che mi spezzi la settimana: preferisco lavorare tutti i giorni. Poi c‟è l‟affitto che è un po‟ più caro di prima, e anche Myū dice che da diversi punti di vista mi conviene essere inquadrata come impiegata a tempo pieno. Tanto, anche se sto a casa, non riesco a scrivere niente. 
Sì, può darsi che sia una buona idea, – dissi. 
Lavorando tutti i giorni, mio malgrado farò una vita più regolare, e forse smetterò di telefonarti alle tre e mezzo del mattino. Questo è tra i lati positivi, no? 
Un lato molto positivo, – dissi. – Anche se, devo dire, mi dispiace un po‟ che la tua casa nuova sia più lontana da Kunitachi. 
Lo pensi davvero? 
Certo. Vorrei poterti mostrare le ferite di questo mio povero cuore. 
Ero seduto sul nudo parquet del suo nuovo appartamento, la schiena appoggiata alla parete. A causa della scarsità di mobili, la casa appariva vuota e ancora disabitata. Non c‟erano tende alle finestre, e i tanti libri che non avevano trovato posto negli scaffali giacevano ammassati sul pavimento come intellettuali profughi in cerca di asilo. In quel deserto spiccava un nuovissimo specchio a figura intera attaccato alla parete, regalo di Myū. Dal parco giungevano, trasportate dal vento della sera, le voci dei corvi. Sumire si sedette accanto a me. 
Senti un po‟, – disse. 
Cosa? 
Continuerai a essere mio amico anche se diventerò una lesbicona noiosa? 
Anche se diventerai una lesbicona noiosa, cosa c‟entra con noi? Senza di te la mia vita sarebbe come The Best of Bobby Darin senza «Mack the Knife». 
Sumire mi guardò socchiudendo un po‟ gli occhi. 
Non che la metafora mi sia chiarissima, ma suppongo tu voglia dire che sarebbe terribilmente triste e malinconica. 
Più o meno, – risposi. 

Sumire appoggiò la testa sulla mia spalla. I capelli, riuniti sulla nuca da un fermaglio, lasciavano scoperte le sue orecchie piccole e armoniose. Erano deliziose, come se fossero state appena modellate. Orecchie morbide, fragili. Sentivo il suo respiro sulla mia pelle. Portava dei piccoli shorts rosa e una maglietta azzurra a tinta unita, un po‟ scolorita, che lasciava intravedere la forma dei capezzoli. Si sentiva nella stanza un leggero odore di sudore, nel quale si mescolavano sottilmente l‟odore del suo sudore e del mio. 
Avrei voluto stringerla. Fui assalito da un violento impulso a spingerla con forza sul pavimento. Ma sapevo che sarebbe stato un gesto senza senso, che non avrebbe portato a nulla. Il mio respiro si fece affannoso, ed ebbi la sensazione che il mio campo visivo si fosse di colpo ristretto. Il tempo, non riuscendo a trovare una via d‟uscita, continuava a girare a vuoto intorno allo stesso punto. Il mio desiderio si gonfiò dentro i pantaloni, e si fece duro come una pietra. Ero confuso, non sapevo come fare. Ma in qualche modo riuscii a ricompormi. Mandai un po‟ d‟aria giù nei polmoni, chiusi gli occhi e in quel buio assurdo cominciai pian piano a contare. Il desiderio che mi aveva assalito era stato così violento che avevo gli occhi bagnati di lacrime. 
Anch‟io ti voglio bene, – disse Sumire. – Più di chiunque altro in questo grande mondo. 
Dopo Myū, ovviamente, – dissi io. 
Myū è una cosa diversa. – In che senso? 
Il sentimento che provo per lei è di un‟altra natura, rispetto a quello che nutro per te. Cioè, come posso dire... 
Noi poveri e noiosi eterosessuali abbiamo un‟espressione molto utile per dirlo, – spiegai. – Essere arrapati. 
Sumire scoppiò a ridere. 
A parte il fatto di scrivere romanzi, nella mia vita non avevo mai desiderato intensamente qualcosa. Mi accontentavo di quello che avevo, non sentivo il bisogno di altro. Ma adesso, in questo momento, voglio 
Myū. Ho un desiderio incredibile di lei. Di averla tutta per me, di sapere che è mia. Non posso farne a meno. Non ho scelta. Non capisco neanch‟io come sono potuta arrivare a questo punto. È così che succede? 
Annuii. La mia impressionante erezione non dava segno di mitigarsi. Pregai che Sumire non se ne accorgesse. 
Dissi: – C‟è una bellissima frase di Groucho Marx che dice: «Lei è così pazzamente innamorata di me che non capisce più niente. È per questo che è innamorata di me!» Sumire rise. 
Speriamo che tutto vada bene, – dissi. – Ma per quanto è possibile, cerca di fare attenzione. Non sei ancora abbastanza temprata. Non te ne dimenticare. 

Senza rispondere, Sumire mi prese la mano e la strinse. Era piccola e morbida, leggermente sudata. Mi attraversò il pensiero di quella mano che mi toccava il pene e lo accarezzava. Sapevo che non avrei dovuto immaginarlo, ma era più forte di me. Come Sumire, anch‟io non avevo scelta. Immaginai le mie mani che le toglievano la maglietta, le sfilavano gli shorts e le mutandine. Immaginai la sensazione della mia lingua sui suoi capezzoli tesi e duri. Le aprivo le gambe ed entravo lì dove era caldo e umido. Mi spingevo lentamente, fino alla sua parte più buia e profonda. Che mi attirava, mi avvolgeva, poi mi spingeva fuori. Non riuscivo in nessun modo a frenare quella fantasia. Chiusi di nuovo gli occhi, serrandoli, in attesa che quel denso grumo di tempo si sciogliesse e passasse. Nascondendo il viso, aspettai che quel vento caldo si allontanasse. 

Non ti va di cenare insieme? propose Sumire. Ma dovevo restituire in giornata il furgone che avevo preso in prestito, portandolo a Hino. E soprattutto volevo restare solo il prima possibile con quel mio desiderio violento. Non volevo coinvolgere oltre la vera Sumire e non ero sicuro, restando accanto a lei, di riuscire a controllarmi. Sentivo che mi sarebbe bastato oltrepassare un certo punto, e non sarei stato più padrone delle mie azioni. 
Allora, ti offrirò presto una cena come si deve. Con la tovaglia e il vino. Magari la settimana prossima, – promise Sumire al momento di salutarci. – Ricordati di lasciare un po‟ di tempo per me. Promesso, risposi. 

Nel passare davanti al grande specchio da parete, istintivamente lanciai un‟occhiata e scorsi la mia faccia. Avevo una strana espressione. La faccia era la mia, non c‟era dubbio, ma quell‟espressione non mi apparteneva. In ogni caso, mi mancò la voglia di tornare indietro e approfondire. 
Ferma sulla soglia della sua nuova casa, Sumire mi guardò andar via. Mi salutò agitando la mano, una cosa che non faceva mai. Comunque, come tante belle promesse della nostra vita, quella cena non si fece. 
All‟inizio di agosto ricevetti una lunga lettera da Sumire. 


La busta era affrancata con un grande e colorato francobollo italiano. Nella stampigliatura si leggeva «Roma» ma non si riusciva a distinguere la data. 
Quel giorno ero stato a Shinjuku, quartiere che frequentavo poco, avevo comprato alcuni libri da Kinokuniya e poi ero andato al cinema a vedere un film di Luc Besson. All‟uscita ero entrato in una birreria dove avevo mangiato una pizza alle acciughe e bevuto un boccale medio di birra scura. Poi, prima che arrivasse l‟ora di punta, ero salito sul metrò della linea Chūō per tornare a casa mia a Kunitachi. Avevo intenzione di prepararmi qualcosa per cena e di guardare una partita di calcio in tivù. Un modo ideale per passare una giornata durante le vacanze estive. Accaldato, solitario, libero, senza scocciare né essere scocciato da nessuno. 
Ma arrivato a casa, infilata nella buca dell‟ingresso, trovai la sua lettera. Non c‟era il nome del mittente, ma mi bastò guardare la calligrafia per capire che era di Sumire. Caratteri simili a geroglifici, fitti, spigolosi, senza compromessi. Facevano pensare a quei piccoli scarabei dell‟antichità che vengono scoperti ogni tanto nelle piramidi egizie. Sembra sempre che debbano mettersi in moto da un momento all‟altro, indietreggiando nelle tenebre della storia fino a scomparire. Roma? 

Per prima cosa sistemai in frigorifero quello che avevo comprato al supermercato, quindi mi versai del tè freddo nel bicchiere e lo bevvi. Mi sedetti su una sedia della cucina, con un coltello della frutta che trovai a portata di mano aprii la busta e lessi la lettera. Erano cinque fogli di carta con l‟intestazione «Excelsior Hotel, Roma», fittamente ricoperti di minuti caratteri in inchiostro blu. Probabilmente per scrivere una lettera così lunga doveva averci messo molto tempo. Su un angolo dell‟ultima pagina c‟era una piccola macchia, forse di caffè? 

Come stai? 
Immagino che sarai sorpreso nel ricevere tutt‟a un tratto, senza nessun preavviso, una mia lettera da Roma. Ma forse, sapendo quanto sei cool, ci vuole ben altro che Roma per sorprenderti. Roma è troppo turistica. Per fare effetto su di te ci sarebbe voluta Greenland, Timbuctù o lo Stretto di Magellano. Per quanto riguarda me, invece, ti assicuro che sono sorpresa, che dico, sbalordita, di trovarmi a Roma. 

A proposito, mi dispiace di non aver potuto mantenere la promessa di invitarti a cena che ti avevo fatto quando mi hai aiutato a traslocare. Il punto è che questo viaggio in Europa è saltato fuori all‟improvviso, subito dopo il trasloco. Son dovuta andare in tutta fretta a farmi il passaporto, a comprare la valigia, ho dovuto finire i lavori più urgenti che avevo in sospeso, e in questo gran trambusto i giorni sono volati. Come tu ben sai non sono molto brava a ricordare le cose, ma nei limiti della mia pessima memoria, cerco sempre di mantenere le promesse. Per questo volevo come prima cosa scusarmi. 
Nella mia nuova casa mi trovo benone. Il trasloco è una seccatura terribile (e tale rimane anche se so bene che ti sei preso tu la parte più faticosa; a proposito, grazie ancora!), ma ora che sono sistemata devo dire che sono contenta. Rispetto a Kichijōji, qui mancano i galli, ma in compenso ci sono tanti corvi che fanno un gran chiasso, sembrano delle vecchie che piangono. Verso l‟alba, stormi venuti da chissà dove si raccolgono al parco di Yoyogi con un tale strepito che sembra sia arrivata la fine del mondo, e di continuare a dormire non se ne parla nemmeno. Chi ha più bisogno della sveglia? Perciò ho cominciato a fare come te la vita normale del contadino che si alza presto la mattina e va a dormire presto la sera. Comincio anche ad avere una vaga idea di cosa si può provare a essere svegliati da una telefonata alle tre e mezzo del mattino. Solo una vaga idea, tuttavia, almeno per ora. 

In questo momento sono qui, seduta in un caffè all‟aperto in una stradina di Roma, e ti scrivo sorseggiando un caffè nero e denso come il sudore del diavolo e... non so come dire, ma provo la strana sensazione di non essere io. È difficile spiegarlo, ma è come se, mentre io dormivo profondamente, una mano mi avesse smontato in mille pezzi e poi li avesse rimessi insieme frettolosamente. Capisci cosa voglio dire? 
Certo, se mi guardo non c‟è dubbio che sono io, ma sento che rispetto a prima qualcosa è cambiato. Solo che quel prima non riesco a ricordare com‟era. È da quando l‟aereo è atterrato che sono in preda a questa specie di fantasia – perché credo che lo sia, una fantasia, anche se realistica – decostruzionista. 
E così, se provo a chiedermi «Ma che cosa ci faccio io qui, a Roma?», tutto quello che mi circonda comincia a sembrarmi incongruo, irreale. Ovviamente, se ricostruisco il succedersi degli eventi, so benissimo quali sono le ragioni che mi hanno portato qui, ma questo non basta a darmi il senso della realtà. Per quante spiegazioni possa darmi, la Sumire che si trova qui adesso e quella che io ho sempre pensato di essere non coincidono. Detto in altri termini, «io qui avrei anche potuto non esserci». Lo so, sembra un discorso inconcludente, ma spero che tu possa capirmi lo stesso. 
Ma di un fatto sono assolutamente certa. Che vorrei tanto averti qui. Essere lontana da te – anche se sono con Myū – mi fa sentire sola. E se fossimo ancora più lontani, mi sentirei ancora più sola. E sarei molto felice se anche tu provassi la stessa cosa per me. 

Allora, ti dicevo, io e Myū stiamo viaggiando per l‟Europa. Myū doveva recarsi da sola in Italia e in Francia per due settimane a sbrigare certi affari, ma poi sono stata inclusa anch‟io nel programma come sua segretaria. Me lo ha comunicato all‟improvviso una mattina, cogliendomi totalmente di sorpresa. Non credo proprio di essere all‟altezza delle mansioni di una segretaria, ma Myū ha detto che sarebbe stato un investimento per il futuro, e soprattutto che me lo meritavo per essere riuscita a smettere di fumare. Quindi, era valsa la pena di soffrire tutte quelle pene. 
Prima siamo arrivate a Milano, abbiamo visitato la città, poi abbiamo noleggiato un‟Alfa Romeo blu e con quella abbiamo preso l‟autostrada dirette al sud. Abbiamo visitato diverse aziende vinicole in Toscana, Myū ha discusso di affari, abbiamo passato alcune notti in un albergo delizioso in un paesino, e poi siamo arrivate a Roma. Le discussioni di affari si sono svolte sempre in inglese e francese, quindi non c‟è stato molto lavoro per me, ma per le cose di tutti i giorni con il mio italiano me la sono cavata piuttosto bene. Se andassimo in Spagna (e questa volta purtroppo non è previsto), naturalmente potrei essere ancora più di aiuto. 

L‟Alfa Romeo che abbiamo preso a noleggio aveva il cambio manuale, impossibile per me, così ha dovuto guidare sempre Myū da sola. 
Ma sembra che guidare anche a lungo non la stanchi per niente. Nel guardarla attraversare spedita le strade piene di curve sulle colline toscane, cambiando continuamente e ritmicamente di marcia, avevo il cuore che mi tremava (dico sul serio). Il solo stare seduta accanto a lei, senza fare niente, lontano dal Giappone, basta a farmi sentire appagata. Penso che vorrei continuare questa vita in eterno. 
Se mi mettessi a scrivere di quanto sono fantastici il vino e il cibo in Italia, potrei anche non smettere più, perciò rimando questi racconti a un‟altra occasione. A Milano abbiamo fatto shopping passando da un negozio all‟altro. Vestiti, scarpe, biancheria intima. Io, a parte il pigiama che mi ero dimenticata di portare, non ho fatto altre spese (un po‟ perché non ho molti soldi, e un po‟ perché ci sono talmente tante cose belle che non saprei neanch‟io cosa comprare. In questi casi la mia capacità di giudizio si arresta di colpo, come se mi si fosse fusa una valvola), ma accompagnare Myū nei suoi giri di acquisti era un piacere più che sufficiente. Sa fare shopping con vera maestria: sceglie solo le cose più belle, e ne compra solo una parte. È come gustare di un piatto unicamente il boccone più delizioso. Ha uno stile, un fascino incredibili. Guardarla mentre sceglie biancheria raffinata e calze di seta è una cosa che mi lascia senza fiato. Mi viene perfino il sudore sulla fronte. Strano, non pensi?, considerato che sono una donna. Siccome anche su questo argomento delle spese potrei andare avanti all‟infinito, mi fermo qui. 

In albergo dormiamo in camere separate. Myū sembra tenere molto alla sua privacy. Solo una volta, a Firenze, per un disguido nella prenotazione, abbiamo dormito nella stessa stanza. Era una stanza grande e i letti erano separati, ma per me è stata lo stesso un‟esperienza sconvolgente. L‟ho vista uscire dal bagno, avvolta solo in un asciugamano, e cambiarsi. Naturalmente ho fatto finta di non guardarla e di continuare a leggere il mio libro, ma sono riuscita a sbirciare con la coda dell‟occhio. Ha un corpo stupendo. Non era completamente nuda, indossava della biancheria molto succinta, ma ha un corpo da svenire. Con la sua figura snella e il sedere sodo, sembrava un oggetto d‟arte di squisita fattura. Lo so, è una cosa strana da dire, ma avrei tanto voluto che anche tu la vedessi! 
Ho immaginato di essere tra le sue braccia, stretta a quel corpo snello e liscio. Nel fare queste fantasticherie erotiche mentre ero lì con lei nella stessa stanza, mi sono sentita trasportare in un altro luogo. E può darsi che sia stato per questa eccitazione che quella notte, con molto anticipo sul previsto, mi sono cominciate le mestruazioni, col fastidio che ne è seguito. Forse potrei risparmiarti particolari del genere, ma li includo per dovere di cronaca. 

Ieri sera a Roma siamo state a un concerto. Dato che per la musica siamo fuori stagione, non avevamo grandi aspettative, e invece abbiamo avuto la fortuna di ascoltare un concerto davvero incantevole. Era Marta Argerich che eseguiva il primo concerto di Liszt. È una musica che amo molto. Il direttore era Giuseppe Sinopoli. È stata un‟esecuzione fantastica. Poderosa, fluida, visionaria. Forse perfino un po‟ troppo splendida per i miei gusti. Per questa composizione io immagino un‟esecuzione un po‟ meno nobile e un po‟ più stile festa di paese. Mi piace godermi i momenti più emozionanti, sorvolando sulle parti più sottili. Anche Myū era d‟accordo con me su questo. Siccome a Venezia si è inaugurato il Festival vivaldiano, può anche darsi che faremo un salto lì. Io e Myū possiamo andare avanti a parlare di musica senza mai stancarci, come facciamo io e te quando parliamo di libri. 

Questa lettera sta diventando infinita, lo so. Una volta che comincio a scrivere, non riesco più a fermarmi. Sono sempre stata così. Si dice che una ragazza a modo, quando fa una visita, deve sapere quando è il momento di ritirarsi, ma io per quanto riguarda lo scrivere (e forse anche per altre cose) non sono per niente a modo, anzi sono priva di ogni senso della misura. Anche il cameriere in giacca bianca ogni tanto mi guarda sconcertato. Comunque, a questo punto comincia a farmi male la mano, perciò mi avvio alla conclusione. Anche perché la carta da lettera sta per finire. 

Myū è andata a trovare una sua vecchia amica che vive a Roma, e io stavo facendo due passi dalle parti dell‟albergo, quando ho notato questo caffè, mi sono seduta per riposare un po‟, e adesso sono qui che ti scrivo questa lettera-fiume. Come uno che affida alla bottiglia il suo messaggio da un‟isola deserta. Stranamente, ora che sono sola senza Myū non ho nessun desiderio particolare di andare da qualche parte. Anche se sono per la prima volta a Roma (e per quanto ne so potrebbe anche essere l‟ultima), non ho nessuna voglia di vedere le famose rovine o la tal fontana, e non mi va nemmeno di andare per negozi. E così mi accontento di starmene seduta in un caffè, ad annusare come un cane l‟odore della città, ad ascoltarne le voci e i rumori, e a guardare le facce delle persone che passano. 
E mi sono accorta in questo momento tutt‟a un tratto che mentre ti scrivevo, quella strana sensazione di sentirmi scomposta in mille pezzi, di cui ti dicevo prima, si è notevolmente attutita. Non mi sento più così preoccupata. È la stessa cosa che provavo quando uscivo dalla cabina telefonica, dopo aver parlato a lungo con te nel cuore della notte. Forse sei tu che hai su di me questo effetto di riportarmi alla realtà? 
Tu che ne pensi? In ogni caso, per favore, prega per la mia felicità e la mia fortuna. Penso di avere molto bisogno di entrambe. A presto. 

P.S. Dovrei tornare in Giappone il 15 agosto. Prima che finiscano le vacanze, andiamo a mangiare insieme com‟era nei patti! 

Cinque giorni dopo, ricevetti una seconda lettera da un paesino della Francia che non avevo mai sentito nominare. Questa volta il testo della lettera era molto più breve. Sumire e Myū avevano lasciato l‟automobile a Roma, ed erano andate in treno a Venezia. Lì per due giorni avevano ascoltato tanto Vivaldi. I concerti si tenevano per la maggior parte nella chiesa dove Vivaldi aveva fatto il prete. «Ne abbiamo ascoltato tanto da non volere più sentire la sua musica per almeno sei mesi», scriveva. Poi riferiva della squisitezza del pesce al cartoccio che avevano mangiato a Venezia. La sua descrizione era così efficace che avrei voluto andarci subito anch‟io per provarlo. 
Dopo Venezia erano tornate a Milano e poi avevano preso l‟aereo per Parigi. Da lì, dopo essersi riposate un po‟, e avere fatto altro shopping, erano andate con il treno in Borgogna, dove un vecchio amico di 
Myū aveva una grande tenuta, e avevano deciso di fermarsi per qualche giorno. Anche lì, come in Italia, Myū aveva visitato diverse aziende vinicole e concluso degli affari. Il pomeriggio, quando erano libere, andavano a passeggiare nei boschi portandosi un cestino con qualcosa da mangiare. Naturalmente senza dimenticare qualche bottiglia di vino: «Il vino da queste parti è semplicemente squisito», scriveva Sumire. 
«A proposito, il progetto iniziale di rientrare in Giappone per il 15 di agosto sarà probabilmente cambiato. C‟è la possibilità che, finito il lavoro in Francia, andiamo in un‟isola greca per una piccola vacanza. Un signore inglese (un autentico signore) che ho conosciuto qui per caso, possiede una villa su quell‟isoletta e ci ha invitato a restare tutto il tempo che vogliamo. La prospettiva mi infiamma. Anche Myū sembra propensa, perché abbiamo bisogno tutt‟e due di qualche giorno di vero riposo, staccandoci completamente dal lavoro. Stese su una spiaggia bianchissima sull‟Egeo, con le nostre belle tettine al sole, sorseggiando vino con resina di pino, a guardare le nuvole che fluttuano in cielo finché ci pare. Non ti sembra un programma stupendo?» 

Sì, effettivamente anche a me sembrava stupendo. 
Quel pomeriggio andai a fare una nuotata alla piscina comunale, e sulla via del ritorno mi fermai in un caffè dove restai un‟oretta a leggere un libro godendomi l‟aria condizionata. Tornato a casa, sentendo un vecchio disco dei Ten Years After da entrambe le facciate, stirai tre camicie. Poi mischiai un vino bianco da quattro soldi che avevo comprato a una svendita con una Perrier, e bevendolo guardai la cassetta di una partita di calcio che avevo registrato. Quando notavo uno di quei passaggi che «non farebbe neanche un bambino», sospiravo e scuotevo la testa. Criticare gli errori di persone che non si conoscono è così facile e rilassante! 
Finita anche la partita, sprofondai nella sedia e, lo sguardo che vagava sul soffitto, immaginai Sumire che si trovava in quel paesino in Francia. O forse, chissà, era già nell‟isoletta greca e, stesa sulla spiaggia, guardava le nuvole bianche fluttuare nel cielo. In ogni caso, dovunque fosse, era in un posto lontanissimo da me. Non cambiava poi tanto che fosse Roma, la Grecia, Timbuctù o l‟Aruanda. Era sempre lontano, infinitamente lontano. E forse avrebbe continuato ad allontanarsi ancora di più da me. Questo pensiero mi diede una sensazione di infinita desolazione. Mi sentivo un insetto insignificante che in una notte di vento forte si tiene attaccato a un muro alto senza ragione, né scopo, né speranza. Sumire aveva scritto che lontano da me si sentiva sola. Ma accanto a lei c‟era Myū. Per me non c‟era nessuno. Per me, non c‟ero che io. Come al solito. 
Sumire non tornò il 15 agosto. Sulla sua segreteria telefonica c‟era il solito freddo messaggio: «Sono in viaggio». Dopo aver traslocato, aveva subito comprato un telefono con segreteria. Per non essere più costretta nelle notti di pioggia a camminare con l‟ombrello fino alla cabina telefonica. Un‟idea saggia. Non lasciai nessun messaggio. 

Il 18 riprovai a telefonare. C‟era ancora lo stesso «Sono in viaggio». Dopo il suono metallico del segnale acustico, dissi il mio nome e aggiunsi semplicemente: – Quando torni, chiamami –. Ma non mi arrivò nessuna telefonata. Forse Myū e Sumire erano state così conquistate dall‟isola che avevano perso la voglia di tornare in Giappone. 

In quei giorni partecipai una volta alla partita di calcio dei miei allievi, e una volta andai a letto con «la mia ragazza». Era appena tornata da una vacanza a Bali con il marito e i due figli, e aveva una bella abbronzatura. Per questa ragione, mentre facevamo l‟amore, non potevo fare a meno di pensare a Sumire, che era ormai sicuramente in Grecia. Mentre entravo in lei, non potevo evitare di immaginare il corpo di Sumire. 
Forse, se non avessi conosciuto Sumire, avrei potuto innamorarmi abbastanza seriamente di quella donna più grande di me di sette anni (e madre di uno dei miei allievi), lasciarmi coinvolgere dalla storia con lei. Era bella, energica, dolce. Portava il trucco un po‟ pesante per i miei gusti, ma aveva stile. Lei pensava di essere grassa, ma in realtà aveva una linea perfetta. Un bel corpo maturo senza nessun difetto. Lei sapeva quello che mi piaceva, e quello che non mi piaceva. Fino a dove ci si poteva spingere, e dove era meglio fermarsi, sia a letto che fuori. Mi faceva sentire come un passeggero di prima classe. 
– Con mio marito è quasi un anno che non lo facciamo, – mi confidò una volta mentre era tra le mie braccia. – Lo faccio solo con te. 

Ma io non potevo amarla. Perché con lei non si era mai creata quella intimità spontanea, quasi incondizionata, che sentivo quando ero con Sumire. Con lei c‟era sempre un velo, così sottile e trasparente da essere quasi invisibile, e che tuttavia ci manteneva divisi. Per questo spesso, quando la incontravo, e ancora di più al momento di separarmi da lei, mi capitava di non sapere che cosa dire. Era una sensazione che con Sumire non avevo mai provato. Incontrarla non faceva che confermare ogni volta un fatto indiscutibile: quanto avevo bisogno di Sumire. 

Dopo che se ne fu andata, scesi a passeggiare da solo, camminando senza una meta precisa, poi entrai in un bar vicino alla stazione e ordinai un Canadian Club on the rocks. Come mi succedeva immancabilmente in quei momenti, mi sentivo l‟uomo più miserabile sulla faccia della terra. Mandai giù in fretta il primo bicchiere, e ne ordinai un secondo. Poi chiusi gli occhi e pensai a Sumire. Sumire che a seno nudo prendeva il sole su una bianchissima spiaggia greca. Al tavolo accanto al mio quattro giovani, ragazzi e ragazze, forse studenti universitari, ridevano e chiacchieravano allegri bevendo birra. Gli altoparlanti diffondevano le note nostalgiche di una vecchia canzone di Huey Lewis and the News. Si sentiva l‟odore della pizza che cuoceva. 
A un tratto cominciai a pensare al passato. Quando era finita la mia giovinezza? Ed era finita davvero? Eppure solo fino a poco prima ero ancora un ragazzo che inciampava sulla via della maturità. Huey Lewis and the News avevano messo a segno un bel po‟ di successi, diversi anni prima. E oggi io mi trovavo chiuso, prigioniero in un circuito. Continuavo a girare in tondo sempre nello stesso punto. Pur sapendo che non sarei arrivato da nessuna parte, non potevo fermarmi. Non avevo alternativa. Dovevo continuare, per sopravvivere. 

Quella notte ricevetti una telefonata dalla Grecia. Alle due. A chiamarmi non era Sumire, era Myū. 


Prima sentii una vigorosa voce maschile che dopo aver pronunciato il mio nome urlò per conferma, in un inglese dal forte accento: – Parlo proprio con lei? – Erano le due del mattino, e naturalmente ero nel pieno del sonno. La mia mente, sconvolta come una risaia sotto una pioggia torrenziale, era incapace di connettere. Tra le lenzuola indugiava ancora il ricordo del sesso di quel pomeriggio e tutto appariva sfasato rispetto alla realtà, come un cardigan abbottonato male. L‟uomo ripeté il mio nome e di nuovo chiese: – Allora è lei in persona, sicuro? 
Sicuro, – risposi. Era il mio nome, anche se pronunciato così sembrava tutta un‟altra cosa. Poi per qualche istante seguì un terribile stridore, come la collisione di due atmosfere incompatibili. Pensai che fosse Sumire che cercava di chiamarmi dalla Grecia. Allontanai leggermente la cornetta dall‟orecchio, in attesa di sentire la sua voce. A venire all‟apparecchio però non fu lei, fu Myū. 
Forse avrai sentito parlare di me da Sumire, vero? Sì, risposi. 

La sua voce attraverso il telefono giungeva lontana, deformata da quel freddo apparecchio, eppure il riverbero della sua tensione si percepiva distintamente. Una sottile angoscia, passando attraverso il telefono, si diffuse nella stanza come il fumo del ghiaccio secco, svegliandomi di colpo. Mi levai a sedere sul letto, raddrizzai la schiena e presi più saldamente in mano la cornetta. 
Non ho il tempo di parlare con calma, – disse rapidamente Myū. – Sto chiamando da un‟isola greca, è molto complicato parlare con Tōkyō, e anche se si riesce ad avere la linea è facile che cada subito dopo. Ho già provato tante volte inutilmente, e adesso finalmente ci sono riuscita. Quindi scusami se salto le formalità, e ti spiego subito di cosa si tratta. D‟accordo? 
Va bene, dissi. 
Potresti venire qui? 
Qui, vorrebbe dire in Grecia? 
Sì, il più in fretta possibile. 
Chiesi la prima cosa che mi attraversò la mente: 
È successo qualcosa a Sumire? 
Myū restò in silenzio per un istante. 
Questo ancora non lo so. Ma credo che a lei farebbe piacere se tu venissi. 
Credo? 
Non posso spiegarti per telefono. La linea potrebbe cadere in qualsiasi momento, e poi si tratta di un problema delicato, perciò se possibile vorrei parlarne di persona. Provvederò io alle spese per il viaggio. Cerca se puoi di prendere un aereo e venire. Il più presto possibile. Cerca di comprare un biglietto, anche di prima classe, qualsiasi cosa. 
Dieci giorni più tardi sarebbe ricominciata la scuola. Per allora sarei dovuto essere di ritorno, ma se volevo andare in Grecia in quel momento, la cosa non era impossibile. In teoria mi sarei dovuto presentare un paio di volte a scuola prima dell‟inizio delle lezioni per sbrigare alcune faccende, ma potevo risolvere in qualche modo questo problema. 
Penso di poter venire, – dissi. – Non dovrei avere difficoltà. Ma dov‟è che dovrei venire esattamente? 
Mi disse il nome dell‟isola. Lo annotai sul retro di un libro che avevo sul comodino. Era un nome che avevo già sentito. 
Devi andare da Atene a Rodi in aereo, e da lì prendere il traghetto. Per l‟isola ci sono solo due navi al giorno, una al mattino e una la sera, perciò cercherò di trovarmi al porto a quegli orari. Allora, verrai? 
Penso di farcela. L‟unica cosa è che... – stavo per proseguire quando la comunicazione si interruppe. All‟improvviso, bruscamente, come una corda tranciata di netto da un‟accetta. Poi ci fu quel suono terribilmente stridulo di prima. Pensando che forse sarebbe tornata la linea, aspettai un minuto con il ricevitore all‟orecchio, ma si sentiva solo quello stridore insopportabile. Rassegnato, posai la cornetta e scesi dal letto. In cucina bevvi un bicchiere di mugicha  freddo, e appoggiata la schiena alla porta del frigorifero, cercai di fare ordine nella mia testa. 
Stavo davvero per mettermi su un aeroplano diretto verso un‟isola greca? La risposta era sì. Non vedevo altra scelta. 

Tirai fuori dalla libreria un grande atlante mondiale e cercai di individuare la posizione dell‟isola greca di cui Myū mi aveva detto il nome. Avendo come unico indizio il fatto che era vicina a Rodi, non era facile identificarla in mezzo alla miriade di isole e isolette disseminate nel mar Egeo. Ma alla fine riuscii a trovarne il nome, scritto a caratteri minuscoli. Era una piccola isola vicino al confine con la Turchia. Talmente piccola che non si capiva bene che forma avesse. 
Tirai fuori da un cassetto il passaporto e verificai che fosse ancora valido. Raccolsi tutti i soldi che trovai in casa e li ficcai nel portafoglio. Non era una grande somma, ma la mattina dopo avrei potuto prelevare altri soldi. Oltre ai risparmi che avevo da prima, c‟era ancora la gratifica che non avevo nemmeno toccato. Comunque avevo anche la carta di credito, quindi avrei potuto comprare il biglietto aereo di andata e ritorno senza difficoltà. Infilai in una borsa sportiva di plastica che usavo per andare in palestra i vestiti e gli accessori da toilette. Aggiunsi due romanzi di Joseph Conrad che mi ero sempre ripromesso di rileggere quando ne avessi avuto l‟occasione. Esitai un po‟ se portare o no il costume, ma alla fine decisi di metterlo. C‟era la possibilità che una volta arrivato sull‟isola, il problema si risolvesse nel migliore dei modi, e prima del mio ritorno si potesse, tutti felici e in buona salute, nuotare spensierati sotto il sole placidamente sospeso nel cielo... questa, inutile dirlo, sarebbe stata la soluzione ideale per ognuno di noi. 
Finiti questi preparativi, tornai a letto. Spensi la luce e affondai la faccia nel cuscino. Erano le tre e fino al mattino avrei potuto dormire ancora qualche ora. Ma era impossibile. Il ricordo di quel rumore stridente mi circolava ancora nelle vene. In fondo alle orecchie la voce di quell‟uomo mi chiamava. Accesi la luce, scesi di nuovo dal letto, andai in cucina e bevvi un tè freddo. Poi cercai di ricordare parola per parola tutta la conversazione che avevo avuto con Myū. Le sue frasi erano state ambigue, vaghe, enigmatiche, e suscettibili di varie interpretazioni. Di fatti concreti, ne aveva detti solo due. Provai a metterli giù su un pezzo di carta. 

1) A Sumire è successo qualcosa. Ma la stessa Myū non sa che cosa le sia successo. 
2) Io devo andare lì il più presto possibile. Anche Sumire lo vorrebbe, pensa Myū. 
Fissai a lungo quell‟appunto. Poi sottolineai con la penna le parole «non sa» e «pensa». 

1) A Sumire è successo qualcosa. Ma la stessa Myū non sa che cosa le sia successo. 
2) Io devo andare lì il più presto possibile. Anche Sumire lo vorrebbe, pensa Myū. 

All‟alba presi la linea Chūō della metropolitana fino a Shinjuku, e da lì con il Narita Express arrivai all‟aeroporto di Narita. Verso le nove, feci il giro degli sportelli di diverse compagnie aeree, ma venni a sapere che da Narita non esistevano voli diretti per Atene. Dopo vari tentativi, riuscii a prendere un biglietto in business class della KLM per Amsterdam. Da lì avrei trovato una coincidenza per Atene. Ad Atene sarei salito su un volo nazionale delle Olimpic Airways che mi avrebbe portato fino a Rodi. Avrebbero provveduto loro a prenotarmi anche quello. Se non fossero sorti intoppi, l‟itinerario non si presentava troppo problematico. Comunque, dal punto di vista dei tempi, era il programma migliore. Il ritorno restava aperto, ma ero libero di scegliere qualsiasi data entro tre mesi dall‟inizio del viaggio. Pagai con la carta di credito. Al check-in mi chiesero se avevo bagagli da consegnare. Nessuno, risposi. 
Poiché mancava un po‟ di tempo alla partenza, andai a fare colazione in un ristorante dell‟aeroporto. Poi con la carta prelevai dei soldi e li cambiai in dollari, prendendo dei traveller‟s cheques. Nella libreria, comprai una piccola guida della Grecia. Il nome dell‟isola dov‟era Myū non era nemmeno riportato, ma a me serviva per avere un minimo di informazioni di carattere generale sulla geografia, la valuta, il clima del paese. A parte qualche nozione di storia antica e alcune tragedie, della Grecia conoscevo ben poco. Come so ben poco della natura geologica di Giove o del sistema di raffreddamento del motore della Ferrari. In vita mia non ero mai neanche stato sfiorato dal pensiero che un giorno sarei potuto andare in Grecia. Mai, fino a quel mattino alle due. 

Prima di mezzogiorno telefonai a una collega con cui ero abbastanza in amicizia. Le spiegai che un mio parente aveva avuto una disgrazia, e per questo motivo mi sarei dovuto allontanare per una settimana da 
Tōkyō, e le chiesi la cortesia di sbrigare al posto mio quello che c‟era da fare a scuola in quei giorni. Certo, rispose lei. Ci eravamo già scambiati più volte favori di questo tipo, perciò tutto il discorso andò liscio. – Dove vai? – mi chiese. – Nello Shikoku, – dissi. Non potevo certo dirle che stavo per andarmene in Grecia. 
Sarà una bella scocciatura, per te. Cerca però di non tardare per l‟inizio delle lezioni. A proposito, se trovi un souvenir carino, portamelo, eh! – disse. 
Certo, – risposi. Al ritorno avrei trovato il modo di procurarmi qualcosa. 
Andai nella sala riservata ai passeggeri di business class, sprofondai in un divano e dormii un poco. Fu un sonno agitato. Il mondo aveva perso il centro della realtà. I colori erano innaturali, e i dettagli sgraziati. Le stelle erano di carta argentata su uno sfondo di cartapesta. Si vedevano la colla e le teste dei chiodi. Si sentiva continuamente un annuncio: «Air France 275, i passeggeri diretti a Parigi...» In quello stato di sogno sconnesso – o di coscienza alterata – pensai a Sumire. I momenti e i luoghi in cui eravamo stati insieme sfilarono nella mia testa frammentari come in un vecchio documentario. Ma nella confusione di quell‟aeroporto, tra l‟andirivieni dei passeggeri, il mondo che io e Sumire avevamo condiviso appariva squallido, destituito di energia e di verità. Eravamo tutti e due privi di qualsiasi saggezza, e anche della capacità di ottenerla. Non avevamo nessun sostegno a cui appoggiarci. Eravamo vicini a un azzeramento totale. Poveri esseri continuamente sospinti da un nulla a un altro nulla. 
Mi svegliai ricoperto da un sudore malsano. La camicia, bagnata, si era attaccata al petto. Il corpo senza forze, e le gambe gonfie. Probabilmente dovevo avere anche una pessima cera. L‟assistente di sala, nel passarmi accanto, mi chiese con aria preoccupata se mi sentivo bene.– Tutto bene. Ho solo avuto un colpo di calore –. Posso portarle qualcosa di fresco da bere? mi domandò, e dopo aver pensato un istante le chiesi una birra. Mi portò una salvietta rinfrescante, una Heineken e una bustina con arachidi salate. Dopo essermi passato la salvietta fredda e umida sul viso, e aver bevuto mezza birra, mi sentii molto meglio. Poi dormii ancora un poco. 

L‟aereo partì dall‟aeroporto di Narita quasi in perfetto orario, sorvolò il Polo Nord, e infine giunse ad Amsterdam. Durante il viaggio, per dormire meglio bevvi due whisky, poi mi svegliai e mangiai parte della cena. Avendo poco appetito, rifiutai la prima colazione. Poiché non volevo pensare a niente, nei momenti in cui ero sveglio mi concentravo nella lettura di Conrad. 
Presi la coincidenza per Atene, e una volta arrivato ebbi appena il tempo di spostarmi nell‟altro terminal che dovetti subito salire sul volo 727 diretto a Rodi. A bordo c‟erano giovani venuti da varie parti del mondo, pieni di energia, che facevano una gran confusione. Tutti in maglietta o canottiera e jeans dall‟orlo sdrucito. Molti dei ragazzi avevano la barba, e i capelli lunghi a coda di cavallo. Io, con la mia polo bianca, i pantaloni beige e la giacca di cotone blu scuro, apparivo rigido e fuori posto. Mi ero dimenticato anche di portare gli occhiali da sole. Ma chi avrebbe potuto criticarmi? Solo poche ore prima ero nella cucina di casa mia a Kunitachi preoccupato di come disfarmi della spazzatura prima della partenza. 
All‟ufficio informazioni dell‟aeroporto di Rodi, domandai dove partisse il traghetto per l‟isola. Il molo si trovava non molto distante dall‟aeroporto. Se mi sbrigavo, forse ce l‟avrei fatta a prendere quello del pomeriggio. – Non c‟è la possibilità che non trovi posto sul traghetto? – chiesi per sicurezza. – Anche se fosse tutto pieno, per una persona sola il posto si trova, – mi rispose la donna dal naso appuntito e di età indefinibile, gesticolando energicamente. – Non è mica un ascensore! 

Andai con un taxi fino al porto. Chiesi all‟autista di fare più in fretta che poteva, ma non sembrò aver afferrato la mia richiesta. L‟auto non aveva aria condizionata, e dai finestrini tutti aperti entrava vento caldo misto a polvere bianca. Per tutto il tragitto l‟autista mi intrattenne con le sue lunghe e tediose opinioni sulla moneta unica europea, in un inglese rozzo e sudato. Io continuavo educatamente ad annuire, ma non ascoltavo una sola parola. Gli occhi socchiusi, guardavo le strade di Rodi sfilare fuori dal finestrino in una luce abbagliante. In cielo non si vedeva nemmeno una nuvola, nessun presagio di pioggia. Il sole bruciava i muri delle case. Gli abitanti, seduti all‟ombra di alberi nodosi ricoperti di polvere, o di tende, guardavano il mondo senza parlare. Nell‟osservare quel paesaggio, cominciava a crescere in me il dubbio di aver sbagliato destinazione. Ma le grandi insegne pubblicitarie di sigarette e ouzo scritte in greco, tutt‟altro che mitologiche, che tappezzavano letteralmente la strada dall‟aeroporto alla città, confermavano il fatto che mi trovavo davvero in Grecia. 
Il traghetto del pomeriggio non era ancora partito. Era molto più grande di quanto mi aspettassi. Alle spalle del ponte c‟era anche uno spazio per le auto, dove c‟erano due camioncini carichi di cibi e vettovaglie e una Peugeot berlina in attesa che il traghetto salpasse. Comprai il biglietto, salii a bordo e mentre prendevo posto in un sedile sul ponte, vennero mollati gli ormeggi che tenevano la nave attraccata alla banchina, e il motore cominciò a emettere forti rumori. Io tirai un sospiro e alzai lo sguardo verso il cielo. Non mi restava altro che attendere che questa nave mi portasse alla meta del mio viaggio. 
Mi tolsi la giacca di cotone impregnata di sudore e polvere, e la infilai piegata nella borsa. Erano le cinque del pomeriggio ma il sole era ancora alto e i raggi cocenti. Ma sotto il tetto di tela, abbandonandomi al vento che soffiava dalla prua, ebbi la sensazione che il mio spirito stesse a poco a poco riacquistando la calma. I pensieri tetri che mi avevano assalito alla sala dell‟aeroporto di Narita erano spariti chissà dove. Mi rimaneva in bocca solo un lieve retrogusto amaro. 

L‟isola verso cui ero diretto non doveva essere una meta turistica particolarmente alla moda, perché di persone che avessero l‟aria di turisti sul ponte ce n‟erano pochissime. La maggior parte dei passeggeri erano abitanti dell‟isola che tornavano dopo aver sbrigato delle faccende a Rodi, e molti di essi erano vecchi. Tenevano ai loro piedi le mercanzie acquistate in città, trattandole con cura come se fossero stati animali delicati. Avevano tutti un aspetto simile: rughe scavate e volti impenetrabili. Era come se quel sole così violento e la dura fatica fisica vi avessero prosciugato ogni espressione. 
Vi erano anche alcuni soldati. Avevano occhi ancora ingenui, come di bambini, e il sudore tingeva di scuro sulla schiena le loro camicie militari kaki. C‟erano due viaggiatori stile hippy, seduti sul pavimento del ponte coi loro zaini che sembravano pesantissimi. Tutti e due magri, dalle gambe lunghe e il cipiglio severo. 
C‟era anche una ragazza greca, con una gonna lunga, che doveva avere meno di vent‟anni. Occhi scuri, profondi, e una bellezza che aveva qualcosa di fatale. I capelli le danzavano al vento, mentre parlava fittamente con un‟amica. Aveva sempre sulle labbra un sorriso dolce che sembrava suggerire cose meravigliose. I suoi grossi orecchini di metallo, colpiti ogni tanto dai raggi del sole, mandavano lampi di luce. I giovani soldati, appoggiati al parapetto, fumando con atteggiamento spavaldo, le lanciavano ogni tanto rapide occhiate. 
Bevendo la lemonsoda che avevo comprato nello spaccio, guardavo il mare tinto di un azzurro profondo, e le isolette che ne emergevano. Quasi tutte, più che isole erano degli ammassi di rocce, e non vi abitava nessuno. Non vi era acqua né vegetazione, vi si fermavano solo gli uccelli che dall‟alto si guardavano intorno alla ricerca di pesci. Al passaggio della nave, gli uccelli non si giravano nemmeno. Le onde lambivano quei gruppi di rocce e vi si infrangevano contro, producendo spruzzi di un biancore abbagliante. Ogni tanto si vedeva anche qualche isola abitata. Vi crescevano alcuni alberi particolarmente resistenti, e le strade che vi si inerpicavano erano punteggiate qua e là di case dai muri bianchi. Nella piccola insenatura galleggiavano alcune barche dipinte di colori vivaci, e i loro alti alberi, dondolandosi al flusso delle onde, disegnavano archi sullo sfondo del cielo. 
Un vecchio dalla faccia ricoperta di rughe che mi sedeva accanto mi offrì una sigaretta. Io gli feci capire a gesti che non fumavo. Quando comprese quello che cercavo di dire, mi offrì un chewing gum alla menta. Lo accettai ringraziando, e masticando la gomma tornai a guardare il mare. 
Il traghetto arrivò all‟isola alle sette passate. Naturalmente i raggi del sole avevano superato il momento di massima forza, ma il cielo era ancora chiaro e la luce estiva appariva sempre più vivida. Sul muro bianco di uno degli edifici, il nome dell‟isola era scritto a caratteri neri cubitali. Il traghetto si accostò al molo, e i passeggeri, con i loro bagagli in mano, attraversarono in fila a uno a uno la rampa scendendo a terra. Lì subito dopo l‟attracco c‟era un caffè all‟aperto, dove la gente del posto aspettava le persone che era venuta a prendere. 
Sceso a terra, cercai subito con gli occhi Myū. Ma non vidi nessuna donna che potesse essere lei. C‟erano solo procacciatori di alberghi che si avvicinavano chiedendo: «Signore, ha bisogno di una stanza?» Io scuotevo la testa rispondendo di no, ma loro insistevano nel darmi i biglietti da visita. 
I passeggeri scesi con me dalla nave si dispersero in fretta, ognuno verso la propria destinazione. Le persone che avevano fatto la spesa alle loro case, i turisti in qualche albergo o pensione. Quelli che erano venuti a prenderli, dopo aver salutato con un abbraccio o una stretta di mano le persone attese, si allontanavano con loro da qualche parte. Anche i due camion e la Peugeot scesero e si allontanarono lasciandosi dietro il rombo del motore. Perfino i gatti e i cani incuriositi che si erano radunati lì, si dileguarono da un momento all‟altro. Rimanevano solo un gruppo di vecchi dalla pelle bruciata dal sole, e io, con la mia incongrua borsa sportiva di plastica. 
Mi sedetti a un tavolo del caffè, e ordinai un tè freddo. Poi cercai di pensare a cosa avrei potuto fare. Ma c‟era ben poco da scegliere. La sera si avvicinava e io non conoscevo niente dell‟isola. In quel momento e nella mia condizione non potevo fare proprio nulla. Se dopo avere aspettato ancora un poco non fosse arrivato nessuno, avrei dovuto trovarmi un posto per dormire, e l‟indomani ripresentarmi lì all‟arrivo del traghetto del mattino. Non ritenevo probabile che Myū non fosse venuta a prendermi per una sua dimenticanza. Dai racconti di Sumire, mi ero fatto l‟idea di una donna molto attenta e precisa. Se non era venuta a prendermi al porto, doveva sicuramente esserci una ragione. O forse 
Myū non immaginava che sarei potuto arrivare così rapidamente. 
Avevo una fame terribile. Mi sentivo la pancia così vuota che mi sembrava di essere trasparente. Forse respirando l‟aria fresca del mare, il mio corpo si era accorto che non mettevo niente nello stomaco dalla mattina. Ma non volevo correre il rischio che Myū e io ci incrociassimo senza trovarci, perciò decisi di resistere e aspettare ancora un po‟ in quel caffè. Ogni tanto qualche abitante del luogo che passava di lì mi gettava uno sguardo incuriosito. 
In un chiosco lì accanto comprai un libretto in inglese con informazioni sulla storia e la geografia dell‟isola. E sorseggiando quel tè freddo incredibilmente insipido, mi misi a leggiucchiarlo. La popolazione dell‟isola variava dai 3000 ai 6000 abitanti a seconda delle stagioni. L‟estate, a causa dell‟afflusso dei turisti, la popolazione aumentava, e d‟inverno, quando gli isolani andavano a lavorare altrove, calava. Sull‟isola non c‟erano industrie, e anche la produzione agricola era molto limitata. Si riuscivano a produrre soltanto olive e alcuni tipi di frutta. Oltre a questo c‟erano la pesca e la raccolta delle spugne. Perciò dagli inizi del secolo molti abitanti dell‟isola erano emigrati in America. La maggior parte viveva ora in Florida, dove erano riusciti a trapiantare le loro attività di pesca e raccolta delle spugne. In Florida c‟era addirittura una città che era stata battezzata col nome dell‟isola. 
Sul punto più alto c‟era una stazione radar dell‟esercito. Vicino al porto civile dove mi trovavo io in quel momento, c‟era un altro piccolo porto militare usato per le motovedette della marina. Poiché si era vicino al confine con la Turchia, servivano per controllare le violazioni territoriali e il contrabbando. Per questo si vedevano in giro diversi militari. Quando sorgevano delle questioni con la Turchia (si verificavano ogni tanto delle scaramucce) il traffico di queste navi si faceva più intenso. 
In epoca precristiana, quando la civiltà greca era al suo apogeo, l‟isola, trovandosi sulla rotta dei traffici con l‟Asia, prosperava come crocevia di scambi commerciali. A quel tempo la montagna era ancora fitta di alberi, che fornivano materiale per una intensa attività di costruzione di navi. Ma col declino della civiltà greca e con l‟esaurimento degli alberi (il territorio non riacquistò mai più la ricca vegetazione originale), anche la gloria dell‟isola rapidamente svanì. Poi ci fu l‟invasione turca. Il loro dominio fu aspro e assoluto. Quando ai turchi non andava bene qualcosa – raccontava il libro – tagliavano i nasi e le orecchie degli abitanti con la facilità con cui si sfrondano i rami degli alberi. Verso la fine del diciannovesimo secolo, dopo una serie di sanguinose battaglie contro le armate turche, l‟isola riconquistò finalmente l‟indipendenza e su di essa tornò a sventolare la bandiera azzurra e bianca della Grecia. In seguito vennero le armate di Hitler, che impiantarono sulla cima della montagna una stazione meteorologica e radar da cui controllare il mare, poiché era la zona da cui si godeva la vista più ampia. Per distruggerla, vennero i bombardieri inglesi che sganciarono diverse bombe, colpendo oltre alla base anche il porto e affondando gli incolpevoli pescherecci e causando la morte di non pochi pescatori. Nel corso dei bombardamenti le vittime greche superarono di gran lunga quelle tedesche. Tra gli abitanti dell‟isola alcuni ricordavano ancora con rancore l‟episodio. 

Come in molte altre isole greche, le zone pianeggianti erano scarse, e la maggior parte del suolo era ricoperta di montagne impervie, e gli insediamenti umani si concentravano nella parte costiera, vicino al porto. Lontano dal villaggio c‟era una spiaggia tranquilla e incantevole, ma per raggiungerla bisognava attraversare scoscesi sentieri di montagna. 
Le spiagge di facile accesso non erano particolarmente belle, e questa era una delle ragioni per cui il flusso dei turisti si manteneva moderato. All‟interno della montagna sorgevano qua e là alcuni monasteri di fede ortodossa, ma i monaci conducevano una vita ascetica ispirata a regole rigorose e non accoglievano visitatori comuni. 
A giudicare da quella guida, nessuna caratteristica particolare distingueva l‟isola dalle tante dell‟arcipelago greco. Sembrava però che alcuni inglesi (come sempre piuttosto eccentrici) avessero provato una speciale attrazione per l‟isola e, spinti da questa passione, su un‟altura sovrastante il porto avevano costruito diverse ville, formando una piccola colonia. In particolare, nella seconda metà degli anni Sessanta, certi scrittori inglesi vi si erano insediati e, contemplando il mare azzurro e le nuvole bianche, avevano scritto dei romanzi, alcuni dei quali avevano ottenuto alta considerazione presso la critica. Grazie a questo, l‟isola aveva finito col guadagnarsi una certa reputazione romantica negli ambienti letterari inglesi. Sembrava però che gli isolani non provassero il minimo interesse per questo brillante aspetto culturale della loro terra. 

Per cercare di dimenticare i morsi della fame, lessi tutte queste informazioni. Poi chiusi il libro e provai di nuovo a guardarmi attorno. I vecchi seduti al caffè continuavano instancabili a fissare il mare, come se stessero misurando la loro capacità di guardare a lungo un oggetto. Si erano fatte le otto, e cominciavo a sentire dei veri crampi allo stomaco. Gli odori di carne alla griglia e pesce arrostito che arrivavano da chissà dove stringevano le mie budella in una tortura insopportabile. Ma proprio quando, non riuscendo più a resistere, mi stavo alzando dalla sedia e prendevo la borsa per andare alla ricerca di un ristorante, vidi una figura femminile venire in silenzio nella mia direzione. 

Illuminata dal sole che finalmente cominciava ad affondare nel mare, scendeva a passo svelto la scalinata, la gonna bianca che ondeggiava leggermente all‟altezza del ginocchio. Aveva piedi piccoli, nelle scarpe da tennis, e le gambe di una ragazza giovane. Indossava una camicetta verde chiaro senza maniche, un cappello dalla visiera stretta, e aveva una borsa di tela a tracolla. Era così in armonia col paesaggio, aveva un modo così naturale di camminare, che in un primo momento la scambiai per una donna del posto. Ma quando, venendo dritta nella mia direzione, fu a pochi passi da me, mi accorsi dei suoi lineamenti orientali. In modo quasi automatico, tornai a sedermi, quindi mi alzai di nuovo. Si tolse gli occhiali da sole e pronunciò il mio nome. 
Scusami per il ritardo, – disse. – Sono stata al posto di polizia, e fare tutte le pratiche ha richiesto un sacco di tempo. Inoltre non immaginavo che saresti riuscito ad arrivare così presto. Pensavo che nella migliore delle ipotesi saresti arrivato col traghetto di domani mattina. 
Sono stato fortunato con le coincidenze, – dissi. Il posto di polizia? 
Myū mi guardò dritto in faccia con un leggero sorriso. – Se sei d‟accordo, potremmo mangiare da qualche parte, e parlare. Hai fame? – Molta, risposi. 

Mi portò in una taverna alle spalle del porto. Accanto all‟ingresso c‟era una grande griglia a carbone, su cui arrostivano vari tipi di pesce e frutti di mare freschi. Mi chiese se mi piaceva il pesce. Risposi di sì. Sedemmo al tavolo e ci furono portati subito una caraffa di vino bianco, pane e olive. Ci versammo del vino e lo bevemmo subito, senza brindisi né cerimonie. Per calmare la fame, mi misi subito in bocca un pezzo di quel ruvido pane locale con qualche oliva. 
Myū era bella. La prima cosa che la mia mente registrò fu questo fatto puro e semplice. Anche se in realtà dubito che «puro e semplice» siano gli aggettivi adatti. Può darsi che io sia caduto in un assurdo equivoco. Che io, per una serie di circostanze, sia stato risucchiato nella corrente dei sogni di altri e il cui corso era impossibile mutare. E a pensarci adesso, non credo che questa possibilità sia da escludere. L‟unica cosa che posso dire con certezza, è che la mia percezione di Myū fu quella di una donna molto bella. 
Alle dita sottili portava diversi anelli, uno dei quali era una semplice fede d‟oro. Mentre cercavo di fissare rapidamente nella testa la mia prima impressione di lei, Myū portava ogni tanto alle labbra il bicchiere del vino, guardandomi con un‟espressione calma. 
Ho la sensazione di averti già incontrato, – disse. – Forse perché ho sentito parlare di te così spesso. 
Anch‟io ho sentito parlare di te da Sumire, – dissi. 
Myū sorrise dolcemente. Solo quando sorrideva, le si formavano delle piccole rughe agli angoli degli occhi che trovavo molto attraenti. – Questo ci risparmia la necessità di presentarci. 
Annuii. 
La cosa che più mi ispirava simpatia in lei era che non tentasse in alcun modo di nascondere la sua età. Da quanto mi aveva detto Sumire doveva avere trentotto o trentanove anni. E tanti ne dimostrava. Con la sua bella pelle e il corpo teso e sodo, se solo si fosse servita del trucco, avrebbe potuto facilmente dimostrarne dieci di meno. Ma evidentemente non voleva fare quel tipo di sforzi. Sembrava che avesse accettato il naturale manifestarsi dell‟età, e che vi si fosse adattata armoniosamente. 

Mise in bocca un‟oliva, con le dita ne prese il nocciolo e lo gettò nel portacenere, con grazia, come un poeta che aggiunge una virgola a un sonetto. 
Scusami per averti chiamato improvvisamente nel cuore della notte, – disse. – Avrei dovuto spiegarti meglio, ma in quel momento avevo la testa confusa, e non sapevo nemmeno io cosa dire. Non che adesso abbia le idee più chiare, ma almeno non sono più in quel grave stato di confusione. 
Insomma, che cosa è successo? – chiesi. 
Myū incrociò le dita delle mani sul tavolo, le sciolse, quindi tornò a intrecciarle. 
Sumire è sparita. – Sparita? 
Sì, svanita come fumo, – disse Myū, bevve un altro sorso di vino, quindi aggiunse: – È una lunga storia, e penso sia meglio raccontare tutto dal principio, andando per ordine. Altrimenti non riuscirei a comunicarti le sfumature più delicate. E la storia in sé è piuttosto delicata. Ma intanto finiamo di mangiare. Un minuto in più o in meno non cambia niente, e a stomaco vuoto non si ragiona. E poi qui è un po‟ troppo rumoroso per parlare con calma. 
Il ristorante era affollato della gente del posto, e tutti chiacchieravano a gran voce, gesticolando molto. Io e Myū, per comunicare senza urlare, mentre parlavamo eravamo costretti a stare protesi in avanti sul tavolo, le fronti che quasi si sfioravano. Ci portarono un‟insalata greca servita in una grande scodella, e un grande pesce arrostito alla griglia. 
Myū vi aggiunse del sale, dell‟olio d‟oliva e vi spremette sopra mezzo limone. Anch‟io feci lo stesso. Per un po‟ ci concentrammo soprattutto sul cibo. Come lei aveva giustamente suggerito, io avevo bisogno come prima cosa di riempirmi lo stomaco. 
Mi chiese quanti giorni potevo trattenermi. Le spiegai che di lì a una settimana sarebbero riprese le lezioni, e che per allora dovevo essere di ritorno. Se non l‟avessi fatto, ci sarebbero stati dei problemi. Myū annuì e assunse un‟espressione concentrata, come facendo tra sé dei rapidi calcoli, ma non disse niente del tipo «Stai tranquillo, per allora tutto sarà risolto» o «Chissà se in così poco tempo ogni cosa andrà a posto». Come se avesse studiato il problema, e messo in un cassetto la soluzione, riprese in silenzio a mangiare. 
Finita la cena, mentre prendevamo il caffè, Myū tirò fuori il discorso dei soldi per il biglietto aereo. – Va bene se ti rimborso con dei traveller‟s cheques in dollari? – mi chiese. – Se invece per te vanno meglio gli yen, posso farli accreditare sul tuo conto non appena tornata in Giappone. Cosa preferisci? 
In questo momento non ho problemi di soldi, – risposi. – Perciò posso sostenere questa spesa da solo. 
Vorrei che mi permettessi di pagare, – insisté Myū. – Sono io che ti ho chiamato chiedendoti di venire. 
Scossi la testa. – Non è che voglia fare complimenti. Ma è probabile che se non oggi, sarei venuto qui comunque, di mia spontanea volontà. È questo che cerco di dire. 
Dopo aver riflettuto qualche istante, Myū annuì. – Ti sono profondamente grata, di essere venuto. Più di quanto le parole possano esprimere. 

All‟uscita dal ristorante, il paesaggio era impregnato dei vividi colori del tramonto, come se fosse stato immerso in una tintura. L‟aria era talmente azzurra che a respirarla sembrava ti dovesse colorare fin dentro al petto. In cielo cominciavano appena a brillare le stelle. La gente dell‟isola, dopo cena, usciva dalle case, come stanca di attendere la fine del lungo crepuscolo estivo, e camminava oziosamente nei pressi del porto. C‟erano famiglie, coppie, amici che chiacchieravano. Il dolce profumo del mare al tramonto pervadeva le strade. Io e Myū camminammo per il paese. Sul lato destro della strada si susseguivano negozi, piccoli alberghi e ristoranti con i tavolini all‟aperto. Una minuscola finestra dalle imposte di legno era illuminata da una lampada di una calda tonalità di giallo, e una radio diffondeva musica greca. Sul lato sinistro si apriva il mare, dove le onde scure della sera si infrangevano placide contro il molo. 
Dovremo fare un tratto di strada in salita, – disse Myū. – C‟è una scalinata abbastanza ripida, e una salita più lieve. Con la scalinata si accorcia un po‟ la distanza. Per te va bene? 
Certo, dissi. 
Salimmo la stretta scalinata di pietra che seguiva il pendio della collina. Era lunga e ripida, ma il passo di Myū nelle scarpe da tennis manteneva il ritmo senza mai un momento di stanchezza. Avevo davanti agli occhi la piacevole immagine dell‟orlo della sua gonna che ondeggiava a destra e a sinistra, e i suoi polpacci ben modellati e abbronzati illuminati dal chiarore della luna quasi piena. Fu a me che mancò il fiato per primo. Ogni tanto ero costretto a fermarmi. Man mano che salivamo più in alto, le luci del porto si facevano piccole e lontane. Tutte le occupazioni delle persone che avevo osservato intorno a me fino a poco prima, erano state riassorbite in quel succedersi di luci anonime. Era una vista toccante, che avrei voluto ritagliare con le forbici e attaccare con uno spillo alle pareti della mia memoria. 
La loro casa era un cottage con una veranda che dava sul mare. Muri bianchi, un tetto rosso di tegole e le porte dipinte di verde scuro. Il basso recinto di pietra che circondava la casa era tutto ricoperto di una splendida buganvillea rossa. Myū aprì la porta, che non era chiusa a chiave, e mi invitò a entrare. 
Dentro, la casa era fresca e accogliente. C‟era un soggiorno di media grandezza, una stanza da pranzo e la cucina. Le pareti erano dipinte di bianco, e qua e là vi erano appesi dei quadri astratti. Nel soggiorno c‟era un gruppo di divani, una libreria e un impianto stereo compatto. Vi erano poi due stanze da letto e un bagno non molto grande ma tutto rivestito di immacolate piastrelle di ceramica. I mobili non avevano niente che attirasse particolarmente lo sguardo, ma suggerivano un‟atmosfera di intimità e naturalezza. 
Myū si tolse il cappello, si sfilò la borsa a tracolla dalla spalla e la posò sul tavolo della cucina. Poi mi chiese se volevo bere qualcosa, o preferivo fare prima una doccia. Optai per la doccia. Mi lavai i capelli e mi feci la barba. Asciugai i capelli col phon, e misi una maglietta pulita e dei pantaloncini. Questo mi fece sentire un po‟ più presentabile. Sotto lo specchio del bagno, c‟erano due spazzolini da denti, uno dei quali rosso. Uno dei due era forse di Sumire. 
Quando tornai in soggiorno, Myū era seduta in poltrona con un bicchiere di brandy in mano. Mi chiese se ne volevo uno anch‟io, ma io avevo voglia di una birra fredda. Aprii da solo il frigorifero, tirai fuori una Amstel e me la versai in un bicchiere alto. Myū, il corpo abbandonato nella poltrona, sembrava immersa in ricordi personali senza inizio né fine. 
Da quanto tempo siete qui? – cominciai col chiedere. 
Oggi è l‟ottavo giorno, credo, – rispose dopo aver pensato un attimo. 
Ed è da qui che Sumire è scomparsa? 
Sì, come ho detto prima: svanita come fumo. – Questo quando è successo? 
Quattro notti fa –. Myū girò lo sguardo per la stanza come alla ricerca di un appiglio. – Non so da dove cominciare a raccontare... 
Dei vostri spostamenti da Milano a Parigi, fino a quando siete andate in treno in Borgogna, mi ha già raccontato Sumire nella sua lettera. Vi siete fermate nella tenuta di un tuo amico in un paesino della Borgogna. 
Allora, comincerò da lì, – disse Myū. 


I proprietari dell‟azienda vinicola che si trova nei pressi di quel villaggio sono miei amici da molti anni, e io conosco i loro vini in tutti i particolari, come se fossero i mobili di casa mia. Posso dire quale vino produrrà l‟uva di un certo pendio di un certo vigneto. Che influenza ha avuto sul vino il clima di un determinato anno, chi lavora con onestà, e il figlio di chi dà veramente una mano al padre. So quanti debiti ha fatto uno, e se un altro ha comprato una nuova Citroën. Conosco perfino dettagli come questi. Il vino è come un purosangue: bisogna sapere tutto, dal pedigree alle informazioni più recenti. Per commerciare in vini non basta riconoscere se il sapore è buono o cattivo. 
Myū fece una pausa, come per riprendere fiato. Sembrò esitare, indecisa se continuare o no, ma infine riprese: 
In Europa ho diversi fornitori di fiducia, ma per me quel piccolo paesino della Borgogna è il posto preferito. Per questo almeno una volta all‟anno cerco di trascorrere lì un periodo abbastanza lungo. Per rinnovare le vecchie amicizie, e per raccogliere nuove informazioni. Ci sono sempre andata per conto mio, ma questa volta dovevo passare prima per l‟Italia, e fare tutti questi giri da sola sarebbe stato pesante, così ho deciso di farmi accompagnare da Sumire, che avendo studiato l‟italiano mi avrebbe potuto anche dare una mano. Poi ho avuto un ripensamento, mi sono detta: «Dopotutto è meglio viaggiare da soli», e mi preparavo, prima di partire per la Francia, a far tornare Sumire in Giappone, adducendo qualche ragione convincente. Sono abituata a viaggiare da sola fin da quando ero ragazza, e per quanta intimità possa avere con una persona, vedermela davanti tutti i giorni dalla mattina alla sera mi procura un certo disagio. 
Ma Sumire si è rivelata molto più in gamba di quanto avessi immaginato, e ha saputo sbrigare diverse incombenze al posto mio, dal comprare i biglietti al prenotare gli alberghi, al negoziare sui prezzi, al tenere le note delle spese, fino al cercare buoni ristoranti nei vari posti dove andavamo. Il suo italiano aveva fatto grandi progressi, ma soprattutto era così piena di sana curiosità da spingermi a vivere diverse esperienze che, se avessi viaggiato da sola, sicuramente non avrei fatto. È stata una vera sorpresa per me scoprire che trascorrere tanto tempo con qualcuno potesse essere così piacevole. Credo che tra Sumire e me debba esserci qualche particolare affinità spirituale. 

Ricordo bene che ci eravamo appena conosciute, quando è venuto fuori quel discorso sullo Sputnik. Lei si riferiva a uno scrittore beatnik, e io per errore lo avevo chiamato «sputnik». Eravamo scoppiate a ridere, e questo aveva subito dissolto l‟imbarazzo del primo incontro. Tu sai che cosa significa «sputnik» in russo? È quello che in inglese si direbbe travelling companion. Compagno di viaggio. L‟ho scoperto recentemente, consultando un dizionario. A pensarci, è una coincidenza curiosa. Anche se mi chiedo come mai i russi hanno dato un nome del genere a un satellite artificiale, un povero aggregato metallico che ruota solo soletto attorno alla terra. 
Myū si fermò per un breve istante, come per seguire il filo di un pensiero, quindi riprese il suo racconto. 

Perciò decisi di portarla con me anche in Borgogna. Mentre io ritrovavo i miei amici e trattavo i miei affari, Sumire, che non parla il francese, prese un‟auto a noleggio e cominciò a perlustrare la zona. In un paese conobbe per caso una coppia di anziani coniugi spagnoli molto danarosi, e chiacchierando del più e del meno in spagnolo fecero subito amicizia. La moglie presentò a Sumire un signore inglese che alloggiava nel loro stesso albergo. Un signore di più di cinquant‟anni, che scrive, un uomo bello e di grande classe. Credo che fosse gay, perché girava sempre accompagnato da un segretario che aveva l‟aria di essere il suo compagno. 
Anch‟io li conobbi e andammo a cena insieme. Erano persone molto piacevoli, e chiacchierando scoprimmo di avere diverse amicizie in comune, il che rafforzò ancora di più la simpatia reciproca. 
E fu così che il signore inglese ci fece una proposta: – Io possiedo un piccolo cottage in un‟isola greca, e mi farebbe molto piacere se voleste utilizzarlo –. Mi spiegò che di solito ogni estate lui passava lì circa un mese, ma che quest‟anno aveva molto lavoro, e perciò non gli era possibile andarci. Quando una casa non si usa troppo a lungo, cominciano a venir fuori vari problemi, disse, e il custode non se ne curava. Insisté dicendo che se ciò non interferiva troppo nei nostri programmi, sarebbe stato veramente felice che ci andassimo. Come avrai già capito, si riferiva al cottage dove siamo noi adesso. 
Myū con lo sguardo fece un rapido giro della stanza. 

– Avevo già fatto un viaggio in Grecia, quando ero ancora una studentessa. Con una nave da crociera ci spostavamo da un‟isola all‟altra senza un momento di pausa, ma ciò nonostante fui completamente conquistata dal paese. Perciò l‟opportunità di prendere in prestito una casa in un‟isola greca e potervi soggiornare tutto il tempo che mi pareva, era davvero allettante. Naturalmente anche Sumire voleva venirci. Dissi che se avessimo accettato di prendere in prestito la casa avrei voluto almeno pagare qualcosa per l‟affitto, ma il signore inglese si oppose nettamente. «Non sono mica un agente immobiliare», protestò. Dopo varie discussioni, si decise che gli avrei mandato a casa sua a Londra una cassetta di vini rossi, e con ciò la questione fu chiusa. 
La vita sull‟isola era una specie di sogno. Per la prima volta da tanto tempo potevo godermi una vera vacanza libera da qualsiasi impegno. Ed essendo le comunicazioni sull‟isola quelle che sai, non c‟era modo di poter utilizzare telefono, fax o internet. Spostando la data prevista per il mio ritorno, a Tōkyō avrei forse creato dei disagi a qualcuno, ma una volta arrivata qui, smisi di preoccuparmene. 
La mattina ci svegliavamo presto, mettevamo in una borsa asciugamani, acqua e crema antisolare, e camminavamo a piedi fino alla spiaggia che si trova dall‟altro lato della montagna. La costa lì è di una bellezza da togliere il fiato. La sabbia è di un bianco immacolato, e il mare è una tavola. In più, essendo una spiaggia difficile da raggiungere, ci sono pochissimi bagnanti: soprattutto la mattina, è praticamente deserta. Lì tutti, uomini e donne, nuotavano nudi con la massima disinvoltura. Perciò anche noi ci adeguammo. Nuotare completamente nude in quel mare azzurro e trasparente dava una sensazione di felicità incomparabile. Sembrava di essere approdate in un altro mondo. 
Quando ci stancavamo di nuotare, Sumire e io ci stendevamo sulla sabbia a prendere il sole. Il fatto di mostrarsi nude l‟una all‟altra all‟inizio ci imbarazzava un poco, ma ci abituammo presto, e dopo non ci facevamo neanche più caso. Credo che ci influenzasse anche la particolare energia del luogo. Ci spalmavamo a vicenda la crema sulla schiena e, stese al sole, leggevamo, dormivamo, o parlavamo di quello che ci veniva in mente. Scoprivo per la prima volta che libertà poteva significare soprattutto pace. 
Infine tornavamo a casa ripercorrendo lo stesso sentiero attraverso le montagne, facevamo la doccia, mangiavamo qualcosa di semplice e poi, scendendo per quella scalinata, andavamo in paese. Al caffè del porto prendevamo un tè, compravamo i giornali in inglese e leggevamo. Dopo aver fatto un po‟ di spesa ai negozi di alimentari, rientravamo a casa, dove fino alla sera passavamo il tempo ognuna per conto proprio, a leggere libri in veranda o ad ascoltare musica in soggiorno. A volte Sumire se ne stava in camera sua, dove credo scrivesse, perché sentivo il rumore del PowerBook che veniva aperto e il pat-pat delle sue dita sulla tastiera. Nel tardo pomeriggio, spesso andavamo al porto a vedere l‟arrivo del traghetto. E bevendo qualcosa di fresco restavamo a guardare senza mai annoiarci i passeggeri che scendevano dalla nave. 

Ero giunta in questo posto fuori dal mondo, e vi avevo trovato un riparo tranquillo, dove mi sentivo invisibile. Questa era la mia sensazione. Lì c‟eravamo solo io e Sumire. Non avevo bisogno di pensare a niente. Non vorrei più andarmene di qui, mi dicevo. Non vorrei andare da nessuna parte. Vorrei continuare questa vita per sempre. Naturalmente ero la prima a sapere che ciò non era possibile. Questa vita non era che l‟illusione di un attimo, e prima o poi la realtà sarebbe venuta a riafferrarci. E noi saremmo dovute ritornare al mondo di prima, non c‟era niente da fare. Ma fino a quel momento cercherò di godermi pienamente questi giorni senza pensare ad altro, mi dissi. E me li godetti davvero. Intendo dire, naturalmente, fino a quattro giorni fa. 

La mattina del quarto giorno andarono come al solito alla spiaggia, nuotarono nude, e dopo essere tornate a casa uscirono di nuovo per scendere al porto. Il cameriere del caffè si ricordava di loro (e delle mance generose che lasciava sempre Myū) e le salutò con molta cordialità. Con galanteria, si complimentò anche per la loro bellezza. Sumire comprò al chiosco il giornale in lingua inglese che si stampava ad Atene. Era la loro unica fonte d‟informazioni e il loro unico contatto con il mondo esterno. Leggere il giornale era compito di Sumire. Controllava il tasso di cambio della valuta, e leggeva ad alta voce a Myū, traducendoli, le notizie principali e gli articoli più interessanti. 
Quel giorno, l‟articolo che Sumire scelse e lesse a Myū parlava di una donna di settant‟anni che era stata mangiata dai suoi gatti. Il fatto era accaduto in un paesino nei pressi di Atene. L‟anziana signora, dopo aver perso il marito, un commerciante, undici anni prima, aveva sempre vissuto tranquilla nel suo appartamento di due stanze insieme ai suoi amati gatti. Finché un giorno, colpita da un infarto, si era accasciata sul divano ed era morta così. Non si sapeva quanto tempo era passato dal momento in cui aveva avuto l‟infarto al decesso. In ogni caso il suo spirito si era staccato per sempre dal vecchio nido del corpo in cui aveva vissuto per settant‟anni, attraversando presumibilmente le fasi consuete. Poiché la donna non aveva parenti né amici che la visitassero regolarmente, passò circa una settimana prima che il suo cadavere venisse scoperto. Dal momento che la porta di casa era chiusa e le finestre coperte da inferriate, morta la padrona, i gatti non avevano nessuna possibilità di uscire all‟esterno. In casa non c‟era cibo. Forse nel frigorifero ce ne sarà stato, ma i gatti purtroppo non conoscono i sistemi per aprirne la porta. Gli animali, non potendo più sopportare la fame, divorarono la carne della loro padrona ormai morta. 
Sumire, bevendo ogni tanto un sorso di caffè dalla sua tazzina, tradusse l‟articolo, un paragrafo alla volta. Alcune piccole api si avvicinarono per leccare la marmellata di fragole versata da un cliente prima di loro. Guardando il mare attraverso gli occhiali da sole, Myū ascoltava con attenzione. 
E poi com‟è finita? – chiese. 
Qui non lo dice, – rispose Sumire, piegando in due il giornale e posandolo sul tavolo. – Ti ho letto tutto quello che c‟era scritto. 
Chissà cosa ne sarà stato di quei gatti. 
Chi lo sa, – disse Sumire, piegando le labbra da un lato con aria pensierosa. – I giornali sono uguali dappertutto. Non scrivono mai quello che uno vorrebbe sapere davvero. 
Le api, come se avessero percepito qualcosa, si fermarono tutte insieme restando sospese nell‟aria, poi cominciarono a ruotare in circolo e il rumore del loro cerimonioso battito d‟ali si irradiò nello spazio, ma dopo qualche istante ritornarono sul tavolo e ripresero a leccare la marmellata con la stessa frenesia di prima. 
Davvero, chissà quale sarà stato il destino di quei gatti, – disse Sumire. Quindi tirò la sua maglietta dal collo per aggiustare una piega. 
Indossava una maglietta di alcune misure più grande e pantaloncini sotto i quali, come solo Myū sapeva, non portava nessuna biancheria intima.  
Forse saranno stati uccisi perché i gatti, una volta che hanno assaggiato il sapore del sangue umano, possono sviluppare un istinto cannibale. O invece chissà, magari li avranno rimessi in libertà dicendogli: «Poveretti, avete già sofferto abbastanza...» 
Se tu fossi stata il sindaco, o il capo della polizia di quel paesino, che cosa avresti fatto? 
Sumire rifletté un poco. – Mah, forse li avrei fatti entrare in un istituto e sottoporre a un programma di riabilitazione. In modo da farli diventare vegetariani. 
Non è male come idea, – rise Myū. Poi si tolse gli occhiali, e guardò Sumire. – Questa storia mi ha ricordato la prima volta che ho ascoltato una lezione di morale cattolica, alla scuola media. Ti avevo detto che ho studiato sei anni dalle suore, in un severo istituto femminile? Avevo fatto le elementari in una normale scuola pubblica, ma dalla prima media mi iscrissero in quell‟istituto. E subito dopo la cerimonia di inaugurazione dell‟anno scolastico, una vecchia suora molto anziana riunì tutte noi nuove iscritte in una sala e ci tenne una lezione sulla morale cattolica. Era francese, ma parlava un giapponese impeccabile. Sicuramente ci avrà parlato di vari argomenti, ma quello che mi ricordo ancora oggi è il suo discorso sul gatto e il naufragio su un‟isola deserta. 
Hmm, sembra interessante, – disse Sumire. 
La vostra nave è affondata e siete approdate su un‟isola deserta. Soltanto voi e un gatto siete riusciti a salire sulla scialuppa. Trasportate dalla corrente, siete finalmente arrivate su un‟isola completamente disabitata, dove ci sono solo rocce e non sembra esserci niente di cui potersi nutrire. Non c‟è nemmeno una sorgente d‟acqua. Sulla barca ci sono del pane secco e dell‟acqua, che potrebbero bastare a una persona per una decina di giorni. 
A questo punto del racconto, la suora girò lo sguardo per la sala, e disse a voce alta e forte, scandendo bene le parole: «Chiudete gli occhi e cercate di immaginare la scena. Siete naufragate su un‟isola deserta insieme a un gatto. Un‟isola solitaria e remota, dove ben poca è la speranza che entro dieci giorni qualcuno possa venire a salvarvi. Una volta finiti il cibo e l‟acqua, morirete. Allora, che cosa fareste? Pensando che vi trovate nello stesso guaio, voi e il gatto, dividereste con lui le vostre misere scorte?» Qui la suora tacque e girò di nuovo lo sguardo su di noi. Quindi riprese: «No, questo sarebbe un errore. È chiaro? Non dovreste dividere il vostro cibo col gatto. Perché? Ma perché voi siete creature scelte dal Signore, e la vostra vita è preziosa, mentre quella del gatto no. Per questo è vostro dovere mangiare quel pane da sole», concluse la suora, serissima. 
All‟inizio pensai che fosse uno scherzo. Ed ero lì che aspettavo il colpo di scena, la battuta che avrebbe rivelato il senso della storia. Ma la storia era finita. Il discorso proseguì sul tema del valore e della santità della vita umana, e io rimasi così, confusa e incredula. E ancora oggi non capisco che utilità potesse avere un discorso del genere per delle ragazzine che cominciavano la scuola. 
Sumire ci pensò sopra per qualche istante. – La morale era che alla fine non ci sarebbe stato niente di male a mangiare il gatto? 
Mah, vai a sapere. Lei questo non lo disse. – Sei cattolica? 
Myū scosse la testa. 
No, mi hanno voluto iscrivere a quella scuola solo perché era vicina a casa nostra. E perché la divisa era bella. Io lì ero l‟unica ad avere la cittadinanza straniera. 
E hai avuto dei problemi per questo? 
Per il fatto di essere coreana? – Sì. 
Myū scosse di nuovo la testa. 
Era una scuola molto liberale. Le regole erano rigide, e c‟erano alcune suore bigotte, ma in generale l‟atmosfera era piuttosto progressista, perciò non ho mai subito atti di discriminazione. Anzi, ho trovato delle buone amiche, e direi che nell‟insieme è stato per me un periodo abbastanza felice. Certo, qualche esperienza sgradevole l‟ho avuta, ma è stato più tardi, da grande, quando sono entrata nella società vera e propria. In fondo non esiste nessuno che, entrando in contatto con la società, non abbia avuto esperienze sgradevoli, per una ragione o per l‟altra. 
Ho sentito dire che in Corea si mangiano i gatti. È vero? 
Anch‟io l‟ho sentito dire. Ma non mi è mai capitato di incontrare qualcuno che lo facesse. 
A quell‟ora di primo pomeriggio, nella piazza non c‟era quasi nessu-
no. Era l‟ora più calda della giornata. Gli abitanti del paese si rifugiavano nel fresco delle loro case, e la maggior parte di loro si concedeva anche una siesta. Gli unici pazzi che amassero uscire a quell‟ora erano gli stranieri. 
Nella piazza sorgeva la statua di un eroe. Questi, sull‟onda delle insurrezioni scoppiate in Grecia, aveva capeggiato una rivolta contro l‟esercito turco che occupava l‟isola, ma era stato fatto prigioniero e condannato al supplizio dell‟impalatura. I turchi eressero nella piazza davanti al porto un palo dalla punta molto acuminata, denudarono lo sfortunato eroe e lo posero sulla cima del palo. Per il peso del corpo, il palo penetrò in lui attraverso l‟ano trafiggendolo piano piano fino a uscirgli dalla bocca, ma l‟eroe morì solo dopo una lunghissima agonia. Si diceva che la statua fosse stata posta proprio nel punto dove era stato eretto il palo. Probabilmente al tempo in cui venne costruita, doveva essere una statua bella e imponente, ma a causa del vento salmastro, della polvere, delle cacche dei gabbiani, e anche della inevitabile decadenza causata dal tempo, i tratti dell‟eroe erano ormai irriconoscibili. Gli isolani non degnavano la statua della minima attenzione, e la statua stessa sembrava ormai aver perso ogni interesse per le sorti del mondo. 

Parlando di gatti, una volta ho avuto un‟esperienza molto strana, – disse Sumire, attraversata da un ricordo improvviso. – È successo quando ero piccola, facevo credo la seconda elementare. A casa avevamo un gattino di circa sei mesi, un bel gatto dal pelo variegato. Era quasi sera e io ero seduta sulla veranda a leggere un libro, quando il gatto ha cominciato a correre attorno a un grande pino che avevamo in giardino, come impazzito. I gatti lo fanno spesso, no? Levano dei miagolii strazianti, curvano la schiena prima di spiccare un balzo, e si sollevano sulle zampe, il pelo e la coda rizzati in atteggiamento minaccioso, anche se non c‟è niente e nessuno. 
Il gatto era talmente eccitato che non si accorgeva nemmeno che io lo stavo guardando dalla veranda. Era una scena così strana che posai il libro e mi misi a osservare con attenzione il suo comportamento. Lui però non solo non smetteva quel suo gioco solitario, ma anzi col passare del tempo sembrava accanirsi sempre di più. Era come se fosse posseduto da qualcosa. 
Sumire bevve un po‟ d‟acqua dal bicchiere, e si grattò l‟orecchio. 
Guardandolo, cominciavo a poco a poco ad avere paura. Perché iniziavo a pensare che a procurargli quell‟anormale eccitazione fosse qualcosa che gli occhi del gatto vedevano ma che io non potevo vedere. A un certo punto il gatto cominciò a correre come una furia attorno all‟albero. Con un‟energia spaventosa, come la tigre delle fiabe illustrate che si trasforma in burro. Poi, dopo aver continuato a correre così per un po‟, a un tratto si lanciò verso l‟alto e rapidissimo si arrampicò su per il tronco. Sollevai lo sguardo e intravidi il suo muso tra i rami verso la parte alta dell‟albero. Dalla veranda lo chiamai con tutta la voce che avevo. Ma sembrò non sentire. 
Finalmente calò il sole, e cominciò a soffiare il vento freddo di fine autunno. Seduta sulla veranda, aspettavo che il gatto si decidesse a scendere. Era un animaletto affettuoso, e pensavo che se restavo lì alla fine sarebbe sceso. Ma non scendeva. Non si sentiva nemmeno il suo miagolio. Intanto si stava facendo buio. Spaventata, entrai in casa a chiamare i miei. Loro mi dissero: «Lascialo stare, tanto prima o poi scende». Ma il gatto non tornò. 
Non tornò più? – chiese Myū. 
Mai più. Era svanito come fumo. Dissero tutti che il gatto doveva essere sceso dall‟albero durante la notte e andato da qualche parte a giocare. Capita spesso che i gatti, quando sono eccitati, salgano su alberi alti senza difficoltà, ma che poi guardando in basso abbiano paura e non riescano più a scendere. Dissero che se fosse stato ancora sull‟albero avrebbe miagolato disperatamente per farci sapere che era lassù. Ma io non lo credevo. Pensavo che il gatto fosse attaccato a un ramo, troppo spaventato perfino per miagolare. Perciò il giorno dopo, al ritorno da scuola, andai a sedermi sulla veranda e, lo sguardo rivolto verso il pino, ogni tanto lo chiamavo per nome. Ma non c‟era risposta. Dopo una settimana, mi rassegnai anch‟io. Per me, affezionata com‟ero al gattino, fu un‟esperienza terribilmente triste. Ogni volta che vedevo il pino, immaginavo il povero gatto che era rimasto attaccato a un ramo farsi sempre più rigido e infine morire. Bloccato lì in alto, affamato, il corpo che avvizziva, e poi la morte. 
Sumire alzò il viso e si girò verso Myū. 
Da allora non ho più voluto un gatto. Io amo i gatti, ancora oggi. Ma quella volta decisi che quel povero gattino salito sull‟albero e mai più tornato sarebbe rimasto il mio unico gatto. Dimenticarlo e dedicarmi a coccolarne un altro, era una cosa che proprio non potevo fare. 
Questi sono i discorsi che facemmo quel pomeriggio al caffè del porto, – disse Myū. – Sul momento lo considerai un innocuo ricordo d‟infanzia, ma in seguito cominciai a pensare che in tutte le cose che aveva detto Sumire ci fosse un significato. Però potrei essermi lasciata suggestionare. 
Myū si girò, volgendomi il profilo, e guardò dalla finestra. Il vento che soffiava dal mare faceva tremare la tenda a pieghe. Ebbi la sensazione che quel suo guardare l‟oscurità della notte rendesse ancora più profonda la calma che avvolgeva la stanza. 
Posso farti una domanda? Scusa se cambio un attimo discorso, ma è una cosa che volevo chiederti da prima, – dissi. – Tu hai detto che Sumire è scomparsa su quest‟isola, che è svanita come fumo. Quattro giorni fa. E tu hai fatto denuncia alla polizia. Giusto? Myū annuì. 
E ciò nonostante non hai avvertito la famiglia di Sumire, e hai chiesto a me di venire. Perché? 
Non avevo nessun elemento riguardo a quello che è successo a Sumire. Non sapevo se fosse giusto, prima che si chiarisse la situazione, avvisare i suoi genitori facendoli preoccupare. Ero molto indecisa, e alla fine ho pensato di aspettare ancora un po‟. 
Provai a immaginare il padre bello e fascinoso di Sumire che prendeva il traghetto e arrivava sull‟isola. Sarebbe venuta con lui anche la matrigna di Sumire, addolorata e sconvolta? Vedevo profilarsi all‟orizzonte nuovi problemi. Ma d‟altra parte la situazione era già abbastanza problematica così com‟era. Che su un‟isola così piccola una ragazza straniera fosse scomparsa e in quattro giorni nessuno l‟avesse vista, non era certo uno scherzo. 
Ma perché hai chiamato proprio me? 
Myū tornò ad accavallare le gambe nude, e si tirò giù con le dita l‟orlo della gonna. 
Perché non c‟era nessun altro che potessi chiamare. 
Anche se non c‟eravamo mai incontrati? 
Sumire aveva fiducia in te più che in chiunque altro. Diceva che eri una persona capace di recepire in profondità qualsiasi discorso. 
Non credo che siano in molti a pensarla così, – dissi. 
Myū sorrise socchiudendo gli occhi, intorno ai quali si formarono come sempre delle piccole increspature. 
Mi alzai, mi avvicinai a lei e presi il bicchiere vuoto che aveva in mano. Andai in cucina, vi versai del Courvoisier, tornai in soggiorno e glielo porsi. Myū mi ringraziò e prese il brandy. Il tempo passava, la tenda tremò alcune volte senza rumore. Il vento aveva l‟odore di un paese straniero. 
Dimmi: vuoi davvero sapere tutto? – mi chiese Myū. La sua voce aveva un timbro secco, come di chi con sforzo ha raggiunto una decisione. 
Alzai il viso verso di lei e la guardai. Poi dissi: 
C‟è solo una cosa di cui sono assolutamente sicuro. Che se non avessi voluto sapere tutto, non sarei venuto fin qui. 
Per qualche istante, Myū fissò la tenda con gli occhi un po‟ lucidi. Poi, con voce calma, cominciò a parlare. 
Accadde la sera del giorno in cui avevamo parlato di gatti al caffè del porto.  


Dopo aver parlato dei gatti al caffè, Myū e Sumire avevano fatto un po‟ di spesa ed erano tornate al cottage. Poi, in attesa che arrivasse l‟ora di cena, avevano come al solito passato il tempo ognuna per conto proprio. Sumire era andata in camera sua e si era messa al computer a scrivere. Myū si era seduta sul divano del soggiorno e, le mani incrociate dietro la testa e gli occhi chiusi, aveva ascoltato le ballate di Brahms nell‟esecuzione di Julius Katchen. Era un vecchio LP, ma l‟esecuzione era pervasa di un senso di serenità che la rendeva memorabile. Del tutto priva di effetti esteriori, eppure di grande efficacia. 
A un certo punto, mentre ascoltava, Myū si affacciò alla porta di Sumire e le chiese: – Non è che ti dà fastidio la musica? – La porta era spalancata. 
Brahms non mi dà mai fastidio, – rispose Sumire girandosi verso di lei. 
Era la prima volta che Myū vedeva Sumire concentrata nell‟atto di scrivere. Sul suo viso c‟era una tensione che Myū non le aveva mai visto. Aveva le labbra serrate e le pupille accese, come un animale che sta cacciando la preda. 
Cosa stai scrivendo? – chiese Myū. – Un nuovo romanzo sputnik? 
Sumire distese leggermente le labbra. 
Niente di importante, – rispose. – Prendo nota delle cose che mi passano per la mente, pensando che potrei magari utilizzarle in seguito. Myū tornò sul divano e, immergendosi di nuovo nel piccolo mondo che la musica evocava nella luce del pomeriggio, pensava a quanto sarebbe stato meraviglioso poter suonare così bene Brahms. A quei tempi, ricordò, i pezzi brevi di Brahms, e in particolare le ballate, mi sembravano al di là della mia portata. Non riuscivo a entrare pienamente in quel mondo fragile e cangiante, tutto ombre e sospiri. Oggi potrei suonarlo molto meglio di allora. Ma Myū lo sapeva bene: Io non potrò suonare mai più. 

Alle sei e mezzo prepararono insieme la cena in cucina, e mangiarono sul tavolo della veranda. Zuppa di orata alle erbe, insalata e pane. 
Aprirono anche una bottiglia di vino, e dopo cena presero un caffè caldo. Si vedevano le barche dei pescatori che venivano dall‟altro lato dell‟isola entrare nel porto disegnando brevi scie bianche sull‟acqua. 
Probabilmente un pasto caldo aspettava i pescatori nelle loro case. 
A proposito, quando ce ne andremo da qui? – chiese Sumire, mentre lavava i piatti. 
Mi piacerebbe restare qui a oziare ancora per una settimana, al massimo, – disse Myū, dopo aver guardato un calendario appeso al muro. – Ma se fosse per me, resterei qui a vivere così per sempre. 
Anch‟io, naturalmente, se fosse per me, – disse Sumire con un sorriso. – Ma non è possibile. Tutte le cose belle prima o poi devono finire. 

Anche quella sera, un po‟ prima delle dieci, si ritirarono ognuna nella propria stanza. Myū indossò una lunga camicia da notte bianca di cotone, e appena posò la testa sul cuscino si addormentò. Ma non era passato molto tempo che si svegliò, con la sensazione che il cuore le battesse all‟impazzata. Guardando la sveglia da viaggio che aveva accanto al letto, vide che era mezzanotte e mezzo passata. La stanza era buia e avvolta in un profondo silenzio. E tuttavia avvertì la presenza di qualcuno che era acquattato lì dentro, trattenendo il respiro. Si tirò la coperta fino al mento, e tese le orecchie. Il cuore le batteva in petto così forte da coprire ogni altro rumore. Ma non c‟era dubbio: nella stanza c‟era qualcuno. Ne era sicura: non era solo la sensazione lasciata da un incubo. Allungò la mano e, attenta a non fare rumore, tirò di qualche centimetro la tenda della finestra. Il chiarore lunare scivolò nella stanza come acqua. Immobile, cercò di perlustrare la stanza con lo sguardo. 
Man mano che i suoi occhi si abituavano all‟oscurità, cominciò a distinguere qualcosa dai contorni scuri in un angolo della stanza. Era in un punto, all‟ombra dell‟armadio accanto alla porta, in cui il buio era particolarmente denso. La «cosa» era bassa, un ammasso tondeggiante. Sembrava una di quelle grandi sacche della posta, dimenticata da qualche parte. Ma avrebbe anche potuto essere un animale. Un grande cane? Ma la porta di casa era chiusa a chiave, e anche quella della stanza era chiusa. Era impensabile che un cane fosse potuto entrare. 
Myū, continuando a respirare silenziosamente, fissò lo sguardo su quella «cosa». Aveva la bocca secca, e sentiva ancora un lieve odore del brandy che aveva bevuto prima di andare a dormire. Allungò la mano e tirò ancora un poco la tenda, lasciando che la luce della luna penetrasse di pia nella stanza. Poi in quell‟ammasso nero, come seguendo il filo in una matassa imbrogliata, cominciò gradualmente a distinguere delle forme. Le sembrò di riconoscere una figura umana. Aveva i capelli penzolanti sul davanti, e le gambe sottili piegate ad angolo acuto. Una persona che si era seduta per terra, e aveva messo la testa tra le gambe raggomitolandosi. Sembrava avesse assunto quella forma, rimpicciolendosi per quanto le era possibile, in modo da respingere l‟assalto di qualche oggetto che potesse precipitare dal cielo. 
Era Sumire. Aveva il suo solito pigiama blu e si era accovacciata, arrotolata su se stessa come un insetto, nell‟angolo tra la porta e l‟armadio. Era completamente immobile, e non si sentiva nemmeno il rumore del respiro. 
Nel riconoscerla, Myū trasse un sospiro di sollievo. Ma che cosa ci faceva lì per terra? Myū si sollevò silenziosamente a sedere sul letto, e accese il lume sul comodino. Una luce gialla illuminò senza riguardi la stanza fin nei più riposti angoli. Ma Sumire restò immobile. Sembrava non essersi neanche accorta che si era accesa la luce. 
C‟è qualcosa che non va? – chiese Myū. Prima a bassa voce, poi più forte. 
Nessuna reazione. Sembrava che la voce di Myū non le fosse arrivata all‟orecchio. Si alzò dal letto e si avvicinò a Sumire. Il contatto del piede nudo col tessuto del tappeto le sembrò più ruvido del solito. 
Non ti senti bene? – chiese, accovacciandosi vicino a lei. Ma non ci fu nessuna risposta. 
In quel momento Myū si accorse che Sumire aveva qualcosa in bocca. Era un asciugamano rosa per le mani che stava sempre in bagno. Cercò di tirarlo ma non ci riuscì. Sumire lo stringeva con forza tra i denti. Aveva gli occhi aperti, ma non vedeva nulla. Myū rinunciò a prendere l‟asciugamano e mise una mano sulla spalla di Sumire. Si accorse allora che il pigiama era completamente bagnato. 
È meglio che te lo togli, – disse Myū. – Hai sudato molto, e se resti così ti prenderai un raffreddore. 
Ma Sumire sembrava essere in uno stato di trance. Non sentiva e non vedeva nulla. Ad ogni modo, Myū decise di toglierle il pigiama. Se restava così si sarebbe congelata. Era agosto, ma sull‟isola la notte poteva fare piuttosto freddo. Del resto, ogni mattina nuotavano tutt‟e due senza costume, e ciascuna delle due si era abituata a vedere l‟altra nuda. In una situazione del genere, a Sumire non avrebbe dato fastidio che Myū la spogliasse. 
Sorreggendola, Myū le slacciò i bottoni del pigiama, e poi le fu necessario del tempo per sfilarle la giacca. Dapprima il corpo di Sumire era teso e irrigidito, ma a poco a poco perse la rigidità e alla fine divenne morbido. Myū riuscì a tirarle l‟asciugamano dalla bocca. Era bagnato di saliva e recava l‟impronta dei denti, perfetta come un calco. 
Sotto il pigiama, non portava niente. Myū prese un asciugamano che trovò lì vicino, e con quello le asciugò il sudore. Prima glielo passò lungo la schiena, poi, partendo dalle ascelle, le asciugò il petto. Poi lo passò sull‟addome, e dai fianchi scese verso le cosce, asciugandola sommariamente anche da quelle parti. Sumire, docile, non opponeva nessuna resistenza. Continuava a non avere coscienza, ma a guardare bene gli occhi avevano adesso un vago barlume di discernimento. Era la prima volta che Myū toccava il corpo nudo di Sumire. La sua pelle era tesa e compatta, e liscia come quella di una bambina. Nel tenerla così stretta, il corpo era più duro di quanto avesse immaginato, e odorava di sudore. Mentre la asciugava, Myū si accorse che il battito del proprio cuore si faceva di nuovo più rapido. Anche la sua salivazione era aumentata, e dovette deglutire più volte. 
Inondato dalla luce lunare, il corpo di Sumire splendeva come un‟antica porcellana. I suoi seni erano piccoli ma armoniosi, e i capezzoli ben delineati. I peli neri del pube, intrisi di sudore, luccicavano come l‟erba bagnata di rugiada al mattino. Nel chiarore della luna, il suo corpo privo di forza appariva totalmente diverso da quello che Myū aveva visto alla spiaggia sotto i raggi potenti del sole. I tratti acerbi, infantili ancora presenti in lei, e la nuova pienezza che il corso del tempo vi aveva dischiuso alla cieca, si mescolavano in un vortice, che tracciava sulla sua carne il dolore di crescere. 
Myū ebbe la sensazione di stare spiando il segreto di un‟altra persona, qualcosa che non le era concesso vedere. Continuando a tergerle dolcemente il sudore con l‟asciugamano, cercò per quanto le era possibile di distogliere lo sguardo dalla sua pelle, ripassando nella mente alcuni piccoli pezzi di Bach che aveva imparato a memoria da bambina. Asciugò i capelli che si erano appiccicati sulla fronte bagnata di Sumire. 
Perfino l‟interno delle piccole orecchie era imperlato di sudore. 
Poi Myū sentì le braccia di Sumire muoversi lentamente avvolgendola, e il suo respiro sul collo. 
– Stai bene? – le chiese. 
Sumire non rispose. Aumentò solo leggermente la forza nelle braccia. Myū, quasi sollevandola, la portò fino al proprio letto. La fece distendere, e la coprì con la coperta. Sumire restò immobile, e chiuse gli occhi. 

Myū rimase per un po‟ di tempo a guardarla, ma Sumire continuava a restare perfettamente immobile. Sembrava che si fosse addormentata. Myū andò in cucina e bevve diversi bicchieri d‟acqua minerale, uno dopo l‟altro. Poi andò a sedersi sul divano del soggiorno, e facendo dei lunghi respiri profondi riuscì a ricomporsi. Il battito del cuore si era abbastanza calmato, ma a causa della tensione che si era protratta così a lungo, il torace le doleva all‟altezza delle costole. Tutto era immerso in un silenzio opprimente. Non si sentivano voci umane, nemmeno l‟abbaiare di un cane. Né il rumore delle onde, né il soffio del vento. Myū si chiese stupita perché dappertutto regnasse quell‟innaturale silenzio. 
Andò in bagno, prese il pigiama bagnato di Sumire, l‟asciugamano che aveva usato per tergerle il sudore e quello piccolo che teneva stretto tra i denti, li infilò nella cesta per la biancheria da lavare, quindi si lavò il viso con il sapone. Poi si guardò nello specchio. Poiché da quando era arrivata sull‟isola aveva smesso di tingersi i capelli, alla radice erano candidi come neve fresca. 
Quando tornò nella stanza, Sumire aveva aperto gli occhi. E anche se erano ancora coperti da un sottile velo opaco, avevano riacquistato la luce della coscienza. Giaceva distesa con la coperta tirata fino alle spalle. 
Mi dispiace, a volte mi succede, – disse con voce roca. 
Myū si sedette su un angolo del letto, sorrise, e allungò la mano per carezzare i capelli di Sumire, ancora umidi di sudore. 
Sarà meglio fare una doccia e rinfrescarti: hai sudato molto, – disse. 
Grazie, ma per adesso vorrei restare così, senza muovermi, – rispose Sumire. 
Myū annuì, le porse un asciugamano pulito e, tirando fuori dal suo cassetto un pigiama, lo appoggiò accanto al cuscino. 
Puoi metterti questo. Immagino che non avrai un pigiama di riserva, vero? 
Potrei restare a dormire qui stanotte? – chiese Sumire. 
Certo, resta pure lì. Dormirò io nel tuo letto. 
Temo che il mio letto sia tutto bagnato, – disse Sumire. – Anche la coperta. E poi non vorrei restare sola. Ti prego, non lasciarmi qui da sola. Non potresti dormire accanto a me, solo per stanotte? Non voglio cadere di nuovo in quegli incubi. 
Myū, dopo aver riflettuto un istante, annuì. 
Però, prima infilati il pigiama. Mi metterebbe a disagio in un letto così piccolo stare accanto a una persona nuda. 

Sumire si alzò lentamente, ed emerse dalla coperta. Quindi, stando in piedi nuda sul pavimento, indossò il pigiama di Myū. Prima, piegandosi, infilò i pantaloni, poi la giacca. Ci mise del tempo ad abbottonarla. Sembrava che non avesse abbastanza forza nelle dita. Ma Myū restò a guardarla senza venire in suo aiuto. Vedere Sumire che si abbottonava lentamente il pigiama le fece pensare a una sorta di rituale religioso. Il chiarore lunare conferiva ai suoi capezzoli una singolare durezza. Questa ragazza forse è ancora vergine, pensò improvvisamente Myū. 
Quando Sumire ebbe finito di indossare il pigiama di seta, tornò a coricarsi sul letto, dal lato opposto. Myū, nell‟infilarsi sotto le lenzuola, sentì che ancora indugiava l‟odore di sudore di prima. 
Senti, – disse Sumire. – Posso abbracciarti, solo un poco? – Vorresti abbracciare me? – Sì. 
Mentre Myū esitava su come rispondere, Sumire allungò la mano e le strinse la sua. Anche il palmo della mano era ancora umido. La mano era calda, morbida. Poi Sumire circondò la schiena di Myū con entrambe le mani. I suoi seni premevano su di lei, un po‟ più in alto della pancia, mentre le guance erano tra i seni di Myū. Restarono tutt‟e due così a lungo. Poi Sumire cominciò a essere scossa da un fitto tremito. Myū pensò che stesse piangendo. Ma non piangeva, forse non ci riusciva. Circondò con la mano la spalla di Myū, stringendosi a lei. È ancora una bambina, pensò Myū. È sola e spaventata, e cerca il calore di qualcuno. 
Come quel gattino attaccato al ramo dell‟albero. 
Sumire sollevò un poco il corpo. La punta del naso sfiorava il collo di Myū. I loro seni si toccarono. Myū ingoiò la saliva. Le mani di Sumire si muovevano lungo la sua schiena. 
Ti voglio bene, – disse Sumire a bassa voce. 
Anch‟io ti voglio bene, – disse Myū. Non sapeva che altro rispondere. E in fondo era la verità. 
Poi le dita di Sumire cominciarono a slacciare i bottoni sul davanti della camicia da notte di Myū. Myū cercò di fermarla. Ma Sumire non si fermò. – Solo un poco, – disse. – Ti prego, solo un poco. 
Myū non riuscì a opporsi. Le dita di Sumire le toccarono i seni. Seguirono dolcemente le curve dei seni di Myū. Li accarezzarono delicatamente, li strinsero. Prima esitando, poi con un po‟ più di forza. 

A quel punto Myū si interruppe. Sollevò il viso e mi guardò, come se cercasse qualcosa. Era un po‟ arrossita. 
Forse dovrei spiegarti che una volta mi accadde una cosa strana, in seguito alla quale i miei capelli diventarono bianchi. Tutti i capelli, fino all‟ultimo, nello spazio di una sola notte. Da allora li ho sempre tinti di nero. Sumire sapeva che io li tingevo, ma da quando sono arrivata qui ha cominciato a pesarmi, e così ho smesso di tingerli. Dopotutto su quest‟isola non mi conosce nessuno, perciò chi se ne importa, pensai. Ho ripreso a tingerli solo quando ho saputo che saresti venuto. Al primo incontro non volevo farti una strana impressione. 
Nel silenzio, si percepiva il fluire del tempo. 

Io non avevo mai avuto esperienze omosessuali, e non avevo neanche mai pensato di avere in me questa tendenza. Ma se era questo che Sumire desiderava così fortemente, pensavo che non sarebbe stato difficile per me rispondere. Quantomeno, non provavo nessuna repulsione. Se l‟altra persona era Sumire, voglio dire. Perciò, mentre le sue dita mi carezzavano in tutto il corpo, e la sua lingua entrava nella mia bocca, non opposi alcuna resistenza. Era una strana sensazione, ma pensavo che mi sarei abituata, quindi la lasciai fare. Volevo bene a Sumire, e se ciò poteva renderla felice, pensavo che avrei potuto lasciarmi fare qualsiasi cosa. 
Ma per quanto pensassi così, il mio corpo era su tutt‟un altro piano rispetto alla mia mente. Capisci che cosa voglio dire? Una parte di me provava perfino gioia per il fatto che il mio corpo venisse accarezzato da Sumire con tale adorazione. Ma per quanto la mia mente potesse pensare così, il mio corpo la rifiutava. Si rifiutava di accettarla. Nel mio corpo, a essere eccitati erano solo il cuore e il cervello: tutte le altre parti erano dure e secche come pietre. È triste, ma non potevo farci niente. Naturalmente anche Sumire lo capì. Il suo corpo era caldo, ardente, morbido e umido. Ma io non potevo rispondere. 
Glielo spiegai. Non è che io ti rifiuti. Ma non ci riesco. Dopo quello che mi è accaduto quattordici anni fa, io non posso più unire il mio corpo con nessuna persona di questo mondo. È una cosa che è stata stabilita altrove, in un altro posto, molto tempo fa. Poi le dissi: Se c‟è qualche cosa che posso fare per te, la farò. Usando le mie dita, o la mia bocca. Ma non era questo ciò che lei desiderava, e anch‟io me ne rendevo conto. 

Mi baciò dolcemente sulla fronte e disse: Scusami. È successo perché ti voglio bene. Ho esitato tanto, ma alla fine ho dovuto farlo. Anch‟io ti voglio bene, dissi a Sumire. Perciò non preoccuparti di nulla. Voglio stare ancora con te, le dissi. 
Poi Sumire seppellì la faccia nel cuscino e pianse a lungo, come una diga che si rompe. Per tutto quel tempo, io continuai a carezzarle la schiena nuda, dalle spalle ai fianchi, sentendo con le dita le sue ossa a una a una. Avrei voluto piangere anch‟io come lei. Ma non ci riuscii. 
E in quel momento capii. Eravamo state meravigliose compagne di viaggio, ma in fondo non eravamo che solitari aggregati metallici che disegnavano ognuno la propria orbita. In lontananza potremmo anche essere belle a vedersi, come stelle cadenti. Ma in realtà non siamo che prigioniere, ognuna confinata nel proprio spazio, senza la possibilità di andare da nessun‟altra parte. Quando le orbite dei nostri satelliti per caso si incrociano, le nostre facce si incontrano. E forse, chissà, anche le nostre anime vengono a contatto. Ma questo non dura che un attimo. 
Un istante dopo, ci ritroviamo ognuna nella propria assoluta solitudine. Fino al giorno in cui bruceremo e saremo completamente azzerate. 

– Dopo aver pianto a lungo, Sumire si alzò, raccolse il pigiama che era caduto a terra e lo indossò in silenzio, – raccontò Myū. – Poi disse: Torno in camera mia, voglio restare un po‟ da sola. Mi raccomando, non pensare troppo, le dissi. Domani inizierà una nuova giornata, e tutto andrà bene, come prima. Ma sì, disse Sumire. Poi, piegandosi un po‟, appoggiò la sua guancia alla mia. Era calda e bagnata. Ebbi la sensazione che mi avesse sussurrato qualcosa all‟orecchio. Ma se lo fece, fu così a bassa voce che non riuscii a sentire nulla. Stavo per chiederle cosa avesse detto, ma Sumire si era già girata dall‟altra parte. 
Con un asciugamano si asciugò il viso dalle lacrime e uscì dalla stanza. La porta si chiuse, io tornai ad avvolgermi nella coperta e chiusi gli occhi. Dopo quello che era successo pensavo che non sarei riuscita a dormire, e invece mi addormentai subito e, stranamente, di un sonno molto profondo. 

Quando mi sono svegliata, alle sette del mattino, Sumire non era in casa. Ho immaginato che, essendosi svegliata presto (o forse non avendo dormito per niente), fosse andata da sola alla spiaggia. Aveva detto che voleva restare per un po‟ da sola. Mi ha sorpreso che non avesse lasciato nemmeno un biglietto, ma era probabile che fosse ancora sconvolta per quello che era accaduto la notte prima. 
Ho fatto il bucato, ho steso ad asciugare le lenzuola e le coperte del letto di Sumire, e poi ho aspettato, leggendo un libro sulla veranda, che lei ritornasse. Ma era quasi mezzogiorno e ancora Sumire non si vedeva. Ho cominciato a preoccuparmi e, pur sentendomi un po‟ in colpa, sono andata nella sua stanza a controllare. Mi era sorto il dubbio che potesse avere lasciato l‟isola da sola. Ma i suoi bagagli erano lì aperti come sempre, il portafoglio e il passaporto erano al loro posto, e costume da bagno e calzini erano appesi in un angolo della stanza. Sulla scrivania erano sparsi alcuni spiccioli, fogli per appunti e diverse chiavi. Tra le chiavi c‟era anche quella di questo cottage. 
Qualcosa non quadrava. Quando andavamo in quella spiaggia, per attraversare la montagna calzavamo tutt‟e due robuste scarpe da ginnastica, e indossavamo delle magliette sopra i costumi da bagno. Portando asciugamani e acqua minerale in una borsa di tela. Ma sia la borsa che le scarpe e il costume erano lì nella stanza. Mancavano solo i sandali da quattro soldi che aveva comprato in un emporio del paese, e il sottile pigiama di seta che le avevo prestato io. Forse vestita così avrebbe potuto fare due passi nei paraggi, ma non sarebbe certo potuta restare fuori a lungo. 
Quel pomeriggio sono uscita e l‟ho cercata dappertutto. Ho setacciato la zona dove abitavamo, fatto la strada fino alla spiaggia e ritorno, sono scesa in paese battendo tutti i sentieri, e infine sono tornata a casa. Ma Sumire non era da nessuna parte. Il sole ha cominciato a tramontare, e infine è sceso il buio. Rispetto alla sera prima, il tempo era completamente cambiato, e soffiava un vento forte. Il rumore delle onde non è cessato per tutta la notte. Quella notte mi sono svegliata continuamente, al più piccolo fruscio. Non avevo chiuso a chiave la porta di casa. Ma è venuta l‟alba e Sumire non era ancora tornata. Il letto era esattamente come l‟avevo preparato. Allora sono andata al posto di polizia che si trova vicino al porto. 

Tra i poliziotti ce n‟era uno che parlava bene l‟inglese, così ho potuto spiegargli la situazione. La mia compagna di viaggio è sparita e non torna da due notti, ho detto. Ma non sono stata presa sul serio. Vedrà che la sua amica tornerà presto, mi hanno risposto. Sono cose che capitano spesso. Qui tutti perdono un po‟ la testa. È estate, e se si è giovani... Quando sono tornata lì il giorno seguente, mi hanno ascoltato con un po‟ più di attenzione. Però non hanno mosso un dito. Allora ho telefonato al Consolato giapponese di Atene e ho spiegato il problema. Per fortuna il mio interlocutore era una persona gentile. Ha detto qualcosa in greco al capo della polizia in tono molto deciso, e grazie a questo la polizia finalmente ha dato inizio in modo serio alle indagini. 
Ma non hanno trovato nessuna traccia. Gli agenti hanno fatto ricerche al porto e tra il vicinato, ma non c‟era nessuno che avesse visto Sumire. Anche il capitano del traghetto e il bigliettaio hanno detto che non ricordavano di aver visto salire a bordo della nave una giovane giapponese. Questo faceva pensare che Sumire fosse ancora sull‟isola. Prima di tutto non aveva portato con sé i soldi per pagare il biglietto. E poi in un‟isola così piccola era impossibile che nessuno avesse notato una giovane giapponese in pigiama che vagava confusa per le strade. Poteva essere annegata mentre nuotava in mare. La polizia ha interrogato anche una coppia di coniugi tedeschi di mezza età che avevano passato tutta la mattinata a nuotare su quella spiaggia. Né lì né lungo la strada all‟andata o al ritorno avevano visto una giovane giapponese. La polizia ha detto che per quanto era nelle loro possibilità avrebbero continuato le ricerche, e credo che si siano davvero dati da fare. Ma il tempo è passato e non si è trovato nemmeno il più piccolo indizio. 
Myū trasse un lungo respiro e si coprì la parte inferiore del viso con le mani. 
Non ho potuto fare altro che telefonare a Tōkyō, e chiederti di venire qui. Ero arrivata a un punto in cui da sola non ero più in grado di fare niente. 

Provai a immaginare Sumire che vagava da sola per quella impervia montagna. Nel suo sottile pigiama di seta e con i sandali da spiaggia. 
Di che colore era il pigiama? – chiesi. 
Il colore del pigiama? – ripeté Myū perplessa. 
Il pigiama che portava Sumire al momento della sua scomparsa. 
Ah, già, di che colore era? Non riesco a ricordarlo. Lo avevo appena comprato a Milano, ma non lo avevo mai messo. Di che colore era? Un colore tenue. Forse un verde pallido. Era molto leggero, e non aveva neanche le tasche. 
Io dissi: – Sarebbe opportuno che telefonassi di nuovo al Consolato di Atene e cercassi di far venire qualcuno sull‟isola. Mi raccomando, insisti. E chiedi a loro anche di contattare i genitori di Sumire. Certo, non sarà facile, ma non si può più tenerli all‟oscuro. Myū fece un piccolo cenno di assenso. 
Come tu sai, Sumire può essere eccessiva in alcune delle sue manifestazioni, e comportarsi a volte in modo stravagante. Ma non è da lei scomparire per quattro giorni senza dirti niente, – continuai. – In cose come queste è pienamente affidabile. Se dopo quattro giorni non è tornata, l‟unica spiegazione è che non ha potuto farlo. Quale possa essere la ragione non lo so, ma si deve trattare di una ragione seria. Potrebbe essere caduta in un pozzo mentre camminava, ed essere ancora lì in attesa di aiuto. O essere stata costretta a seguire qualcuno contro la sua volontà. Potrebbe essere stata uccisa e sepolta da qualche parte. A una ragazza giovane che gira di notte per la montagna vestita solo di un pigiama leggero, possono succedere molte cose. Ad ogni modo, è necessario pensare in fretta a un piano. Ma è tardi per oggi, andiamo a dormire. Domani sarà un lungo giorno. 
Secondo te non è possibile che Sumire... possa essersi uccisa? – chiese Myū. 
Naturalmente questa ipotesi non si può del tutto escludere. Ma se Sumire avesse deciso di uccidersi qui, sicuramente avrebbe scritto un messaggio. Non avrebbe lasciato tutto così in sospeso, creandoti tanti problemi. Ci tiene molto a te e avrebbe considerato i tuoi sentimenti e la situazione in cui ti saresti trovata. 
Myū incrociò le braccia e per qualche istante mi guardò negli occhi. – Ne sei davvero convinto? 
Annuii. 
Ne sono sicuro. Conosco il carattere di Sumire. 
Grazie. È quello che maggiormente speravo di sentire. 

Myū mi accompagnò nella stanza di Sumire. Era una stanza perfettamente quadrata, senza decorazioni, una specie di grande cubo. C‟era un piccolo letto di legno, una scrivania con una sedia, un piccolo armadio e dei cassetti per riporre piccoli oggetti. Ai piedi della scrivania c‟era una valigia rossa di media grandezza. La finestra, aperta, dava sulla montagna. Sulla scrivania c‟era un nuovissimo PowerBook. 
Ho messo in ordine le sue cose, per farti dormire qui. 
Appena rimasi solo, sentii di colpo tutta la stanchezza. Era quasi mezzanotte. Mi spogliai e mi infilai sotto le coperte. Ma non riuscii ad addormentarmi. Pensai che fino a pochi giorni prima in quel letto ci aveva dormito Sumire. Inoltre mi restava ancora in tutto il corpo come una scia l‟eccitazione del lungo viaggio. Su quel letto duro fui colto da una specie di allucinazione: mi sembrava di essere ancora in viaggio, un viaggio che non sarebbe finito mai. Sotto le coperte, mi ripassai nella mente il lungo racconto di Myū. Avrei voluto fare uno schema dei punti più importanti, ma il mio cervello non funzionava. Era impossibile pensare in modo sistematico. Pazienza, ci penserò domani, mi dissi. Poi all‟improvviso fui attraversato dall‟immagine della lingua di Sumire che si infilava nella bocca di Myū. Rimandiamo anche questo a domani, pensai. Ma purtroppo non avevo molta speranza che il giorno dopo sarebbe stato migliore di quello. Comunque, era inutile adesso stare a pensare a queste cose. Chiusi gli occhi, e poco dopo caddi in un sonno profondo. 
10 


Quando mi svegliai, Myū stava apparecchiando la tavola sulla veranda. Erano le otto e mezzo, e il nuovo sole riempiva il mondo di nuova luce. Io e Myū facemmo colazione guardando il mare che splendeva abbagliante. Pane tostato, uova e caffè. Due uccelli bianchi, diretti verso la costa, planarono dolcemente lungo il pendio della collina. Da qualche parte nelle vicinanze giungeva il suono di una radio. Si sentiva l‟annunciatore leggere rapidamente le notizie in greco. 

Al centro della testa avevo uno strano torpore dovuto alla differenza di fuso orario. Forse per questo non riuscivo a distinguere con chiarezza il confine tra la realtà e ciò che della realtà aveva solo i connotati esteriori. Ero in questa piccola isola greca e facevo colazione insieme a una bella donna, più grande di me, che avevo incontrato per la prima volta solo il giorno prima. Questa donna amava Sumire. Ma non riusciva a provare desiderio per lei. Sumire la amava e la desiderava. Io amavo Sumire e la desideravo. Sumire mi voleva bene ma non mi amava e non provava desiderio per me. Io riuscivo a provare desiderio per un‟altra donna, ma non l‟amavo. Era molto complicato. Sembrava la trama di un dramma esistenzialista. Tutto finiva in un vicolo cieco e nessuno trovava una via d‟uscita. Nessuno aveva possibilità di scelta. E Sumire, lei sola, era uscita di scena. 
Myū riempì di caffè la mia tazza rimasta vuota. La ringraziai. 
A te piace Sumire, vero? – mi chiese. – Voglio dire, come donna. 
Continuando a spalmare il burro sul pane, annuii semplicemente. Il burro era freddo e duro, ci voleva del tempo a spalmarlo. Poi, sollevando il viso, dissi: – Ci sono cose che non si scelgono. 
Continuammo a mangiare in silenzio. Finite le notizie, la radio trasmetteva adesso musica greca. Soffiò il vento, facendo tremare i fiori della buganvillea. A guardare con attenzione, lontano sul mare si vedevano innumerevoli increspature bianche. 
Ci ho riflettuto a lungo, e ho pensato di andare ad Atene oggi, al più presto, – disse Myū, sbucciando un‟arancia. – Non credo che al telefono otterrei grossi risultati, perciò è meglio che vada al consolato per parlare di persona con qualcuno. Potrei convincere qualche funzionario a venire qui insieme a me, oppure potrei attendere ad Atene l‟arrivo dei genitori di Sumire e tornare qui insieme a loro. In ogni caso, se per te non è un problema, ti chiederei di restare qui mentre io sarò via. La polizia potrebbe avere delle notizie da darci, e poi c‟è sempre la possibilità che Sumire ritorni. Pensi di poterlo fare? 
Certo, risposi. 
Adesso passerò dal posto di polizia a chiedere come procedono le indagini, poi andrò al porto e noleggerò un motoscafo fino a Rodi. Siccome tra il viaggio e le faccende da sbrigare mi ci vorrà del tempo, mi fermerò in albergo ad Atene. Potrei restare due o tre giorni. 
Annuii. 
Myū finì di sbucciare l‟arancia e pulì accuratamente il coltello con un tovagliolo. – A proposito, hai mai incontrato i genitori di Sumire? Nemmeno una volta, risposi. 
Myū tirò un sospiro profondo come un soffio di vento ai confini del mondo. – Che cosa gli potrò mai spiegare? 
Capivo bene la sua difficoltà. Come si poteva spiegare qualcosa che non aveva spiegazione? 

Accompagnai Myū al porto. Aveva una piccola borsa con gli abiti di ricambio, portava scarpe con i tacchi e una borsa a tracolla di Mila Schön. Passai con lei dal posto di polizia, e la sentii parlare coi poliziotti. Inventammo che ero un suo parente, per caso in viaggio da quelle parti. Come nei giorni precedenti, non era stata trovata la minima traccia. – Ma state tranquilli, – ci rassicurarono sorridenti. – Non è il caso di preoccuparsi tanto. Guardatevi intorno: questa è un‟isola pacifica. Non voglio dire che qui i crimini non esistono. Ne abbiamo anche noi, ma si tratta al massimo di baruffe tra innamorati, qualche caso di ubriachezza molesta o qualche lite per motivi politici. Cose che succedono dappertutto quando ci sono gli esseri umani. Ma sono tutti problemi fra noi isolani. Negli ultimi quindici anni, mai un cittadino straniero è stato vittima di un crimine di qualche rilievo. 
Sarà anche stato così, ma quando gli chiedemmo cosa potesse essere accaduto a Sumire, non seppero offrire nessuna spiegazione. 
– A nord dell‟isola c‟è una grande grotta stalattitica, e se qualcuno si perdesse lì dentro potrebbe anche non uscirne più, – dissero. – Perché all‟interno è una specie di labirinto. Ma è molto molto lontana. È impensabile che la signorina sia potuta arrivare lì a piedi. 
Chiesi se era possibile che fosse annegata. 
I poliziotti scossero la testa. – In questa zona non ci sono correnti forti, – dissero. – E poi nell‟ultima settimana il clima è stato mite, e anche il mare non era agitato. Ogni giorno ci sono molti pescatori che escono in mare. Se la signorina fosse annegata, sicuramente qualcuno l‟avrebbe trovata. 
Avete pensato ai pozzi? – chiesi. – Non potrebbe essere caduta in qualche pozzo profondo mentre camminava? 
L‟ufficiale di polizia scosse la testa. – In quest‟isola nessuno scava pozzi. Non ce n‟è la necessità. Le sorgenti danno acqua in abbondanza e per tutto l‟anno. E poi il suolo qui è roccioso, talmente duro che scavarci un buco sarebbe una vera impresa. 

Usciti dal posto di polizia, dissi a Myū che se fosse stato possibile quella mattina sarei voluto andare alla spiaggia dall‟altro versante della montagna, là dove lei e Sumire andavano ogni giorno. Myū comprò al chiosco una mappa dell‟isola e con la penna evidenziò la strada. Mi consigliò di mettere scarpe robuste, dato che ci volevano tre quarti d‟ora solo per arrivarci. Poi andammo al molo dove, mischiando inglese e francese, pattuì velocemente con il pilota di un motoscafo la tariffa per andare a Rodi. 
Sarebbe bello se tutto finisse bene, – mi disse Myū al momento di separarci. Però il suo sguardo diceva altro. Sapevamo bene tutti e due quanto era difficile che ciò potesse accadere. Il motore del motoscafo fu avviato, e Myū, tenendosi fermo il cappello con una mano, mi salutò agitando l‟altra. Appena la sua imbarcazione sparì dalla vista, ebbi la sensazione che qualche brandello di me mi fosse stato strappato via. Vagai per un po‟ intorno al porto, e nel negozio di souvenir comprai un paio di occhiali da sole molto scuri. Poi, salendo per la solita ripida scalinata, tornai al cottage. 

Man mano che il sole saliva più in alto, il caldo si faceva più bruciante. Indossai sul costume una camicia di cotone a maniche corte, misi gli occhiali da sole, ai piedi un paio di scarpe da jogging, e mi incamminai per il sentiero stretto e ripido che conduceva alla spiaggia. Mi pentii di non avere portato anche il berretto, ma ormai era fatta. 
Dopo aver percorso un breve tratto di salita, avevo già sete. Mi fermai, mandai giù un sorso d‟acqua e mi spalmai sul viso e sulle braccia un po‟ dell‟olio antisolare prestato da Myū. La strada era bianca di polvere, che si sollevava nell‟aria quando il vento soffiava più forte. Ogni tanto incrociavo qualche isolano che tirava un asino. Mi salutavano a gran voce dicendo «Kalimera». Io rispondevo allo stesso modo, anche se non ero sicuro di ripeterlo correttamente. 
Sulla montagna cresceva una fitta vegetazione di alberi bassi e contorti. Sul pendio roccioso vagavano capre e pecore dall‟espressione corrucciata. Le campanelle che avevano al collo producevano un suono secco e cantilenante. A pascolarle erano soprattutto vecchi e bambini. Quando passavo, mi lanciavano degli sguardi di traverso, poi sollevavano appena la mano in una specie di saluto. Rispondevo alzando anch‟io la mano allo stesso modo. Era improbabile che Sumire nel suo vagare avesse potuto spingersi fin qui. Non c‟erano posti dove nascondersi e qualcuno l‟avrebbe sicuramente notata. 

Sulla spiaggia non c‟era anima viva. Mi tolsi la camicia e il costume e mi tuffai nudo in mare. L‟acqua era piacevole e trasparente. Anche spingendosi al largo, si riuscivano a distinguere chiaramente le pietre sul fondo. All‟ingresso della baia era ancorato un grosso yacht con le vele abbassate, e l‟alto albero che oscillava lentamente da sinistra a destra come un gigantesco metronomo. Il ponte era deserto. Ogni volta che l‟onda si ritirava, si sentiva il rumore degli innumerevoli sassolini che trascinava con sé. 
Dopo aver fatto una nuotata, ritornai sulla spiaggia, mi stesi, nudo com‟ero, sull‟asciugamano, e guardai il cielo azzurro e infinito che mi sovrastava. Gli uccelli sorvolavano in cerchi la baia tentando di avvistare i pesci. In cielo non c‟era neanche l‟ombra di una nuvola. Restai steso così, appisolandomi anche un po‟, per una trentina di minuti, durante i quali non arrivò nessun altro. Poco dopo in quella pace assoluta si insinuò una sensazione di inquietudine. Quella spiaggia era troppo tranquilla, troppo bella per una persona sola. Vi era qualcosa in quel luogo che sembrava suggerire un modo di morire. Mi rivestii e, per la stessa strada da cui ero venuto, mi diressi al cottage. Il caldo si era fatto ancora più intenso. Mentre muovevo i piedi meccanicamente, cercai di immaginare che cosa pensasse Sumire quando camminava insieme a Myū per quel sentiero. 
Può darsi che fantasticasse del suo desiderio per Myū. Come io a volte fantasticavo del mio desiderio per Sumire, mentre ero insieme a lei. Potevo indovinare ciò che provava in quei momenti. Immaginando il corpo nudo di Myū che era accanto a lei, avrà desiderato stringerla. Con un misto di speranza, eccitazione, rassegnazione, dubbio, confusione, paura. Una sensazione che si espandeva e si rimpiccioliva. A volte le sarà sembrato che tutto potesse andare bene, altre volte si sarà convinta che tutto sarebbe finito male. E sicuramente bene non era andata. 

Salii fino alla cima della montagna, lì feci una piccola pausa, bevvi un sorso d‟acqua, e incominciai la discesa. Quando arrivai nel punto in cui si vedeva il tetto del cottage, mi ricordai di quello che Myū aveva detto a proposito del fatto che da quando era arrivata sull‟isola Sumire si chiudeva in camera sua a scrivere febbrilmente. 
Mi chiesi che cosa stesse scrivendo. Myū non aveva aggiunto altro, e io non le avevo fatto domande. Ma in quello che Sumire aveva scritto avrebbe potuto esserci qualche indizio utile sulla sua scomparsa. Perché non ci avevo pensato prima? 

Tornato al cottage, andai nella stanza di Sumire, accesi il PowerBook e aprii l‟hard disk. Ma non trovai niente di interessante. C‟erano i dettagli delle spese per il viaggio in Europa, una lista di indirizzi e il programma di viaggio, tutti dettagli pratici che riguardavano il lavoro di Sumire. Non c‟era nessuna traccia di annotazioni personali. Provai ad aprire la cartella «Ultimi documenti», ma non vi trovai registrato nulla. Forse li aveva cancellati intenzionalmente. Non voleva che venissero letti da qualcuno. In questo caso era da supporre che avesse copiato quello che aveva scritto su un floppy disk, e che lo avesse conservato da qualche parte. Era difficile pensare che Sumire fosse potuta scomparire portandosi dietro il dischetto. Il suo pigiama non aveva tasche. 
Provai a cercare nel cassetto della scrivania. Vi erano diversi dischetti, ma contenevano solo il back up di tutto quello che c‟era nell‟hard disk, o altri documenti di lavoro. Non c‟era niente che sembrasse in qualche modo rilevante. Mi sedetti alla scrivania e cercai di mettermi al posto di Sumire per capire dove avesse potuto infilare il dischetto. La stanza era piccola e non c‟erano posti in cui nascondere qualcosa. Ma Sumire ci teneva moltissimo a proteggere i suoi scritti dagli sguardi degli altri. 
Ma certo, nella valigia rossa! Era l‟unica cosa in quella stanza che potesse essere chiusa a chiave. 
Provai a sollevare la valigia, ancora nuova fiammante: era talmente leggera che doveva essere vuota, e anche a scuoterla non si sentiva nessun rumore. Però era chiusa con un lucchetto dalla combinazione a quattro cifre. Provai alcuni numeri che Sumire avrebbe potuto scegliere come codice segreto. La sua data di nascita, il suo numero di telefono, il codice postale... nessuno però era quello giusto. Del resto era ovvio: perché avrebbe dovuto scegliere una combinazione che chiunque avrebbe potuto indovinare? Doveva essere un numero che lei conosceva a memoria ma che non facesse parte dei suoi dati personali. Dopo aver pensato a lungo, finalmente mi venne un‟idea. Provai i numeri del prefisso telefonico di Kunitachi (cioè il mio): 0425. Subito, il lucchetto fece uno scatto e si aprì. 
In una tasca laterale della valigia era infilata una piccola pochette nera di stoffa. Tirai la lampo e vi trovai un piccolo taccuino verde e un dischetto. Provai prima a sfogliare il taccuino. La scrittura era inconfondibilmente la sua. Ma non c‟era scritto niente di particolarmente rilevante. Dov‟era andata, cosa aveva fatto. Chi aveva incontrato. I nomi degli alberghi. Il prezzo della benzina. I menu delle cene. Le marche dei vini con qualche annotazione sul sapore. Tutte queste informazioni erano scritte in maniera schematica. La maggior parte delle pagine non conteneva più di un rigo. Si sarebbe detto che il diario non fosse il genere in cui Sumire eccelleva. 

Il dischetto non aveva titolo. Sull‟etichetta c‟era scritta solo, nella particolare grafia di Sumire, la data: agosto 19**. Inserii il dischetto nel PowerBook e provai ad aprirlo. Nella cartella comparvero due documenti. Nessuno dei due aveva un titolo. C‟erano solo i numeri 1 e 2. 
Prima di aprire i documenti, mi guardai lentamente intorno nella stanza. Nell‟armadio era appesa la giacca di Sumire. C‟erano i suoi occhiali subacquei, il suo dizionario di italiano e il suo passaporto. Nel cassetto c‟erano la sua penna e un portamine. Dietro la finestra di fronte alla scrivania si vedeva il pendio roccioso della montagna. Un gatto nero passeggiava sul cornicione della casa vicina. E quella stanza spoglia e quadrata era avvolta nel silenzio del primo pomeriggio. Chiusi gli occhi: avevo ancora nelle orecchie il rumore delle onde che avanzavano e si ritiravano su quella spiaggia solitaria al mattino. Riaprii gli occhi, tendendo questa volta l‟orecchio al mondo reale. Silenzio assoluto. 
Feci un doppio clic sull‟icona, e il documento si aprì.  
11 


DOCUMENTO 1 

Quando uno è colpito da una pistola, sanguina. 

Come effetto temporaneo di una serie di eventi del destino che sarebbe lungo raccontare (se il destino produca effetti che non siano temporanei è un‟interessante questione che affronterò in un‟altra occasione), mi trovo adesso su un‟isola greca. Una piccola isola di cui fino a pochi giorni fa non conoscevo neanche il nome. Sono passate da poco le quattro del mattino. Naturalmente non è ancora spuntata l‟alba. Le capre sono immerse nel loro sonno collettivo, tranquillo e innocente. Gli ulivi che si susseguono nei campi al di là della finestra staranno assorbendo il nutrimento notturno del buio. E poi, come sempre c‟è la luna. Se ne sta fredda sopra i tetti come un prete malinconico, le mani tese verso l‟arido mare. 
In qualunque posto del mondo mi trovi, questa è l‟ora che preferisco. È un‟ora tutta mia. E io sono seduta alla mia scrivania e scrivo queste parole. Credo che tra non molto sorgerà l‟alba. Come Buddha nato dal fianco di sua madre (se destro o sinistro non ricordo), il nuovo sole si affaccerà tutt‟a un tratto dal profilo della montagna. Anche Myū, la sensibile e attenta Myū, si sveglierà dolcemente. Verso le sei prepareremo una leggera colazione, mangeremo, e poi attraverseremo la montagna per raggiungere anche oggi la nostra bella spiaggia. Prima che la giornata inizi così come sempre, vorrei rimboccarmi le maniche e finire questa mia parte di lavoro. 

Ad eccezione di alcune lunghe lettere, è molto tempo che non scrivo qualcosa di esclusivamente mio, perciò non ho affatto la sicurezza di riuscire ad arrivare fino in fondo. Anche se, a pensarci bene, dubito di avere mai avuto questa sicurezza in vita mia. Ho sempre scritto solo perché dovevo farlo. 
Perché è così imperativo per me scrivere? La ragione è semplice. Perché per pensare a qualunque cosa ho bisogno di metterla prima di tutto per iscritto. 
È stato così fin da quando ero piccola. Quando c‟era qualcosa che non capivo, raccoglievo a una a una tutte le parole che avevo ai miei piedi, e le mettevo in ordine in forma di frase. Se il risultato non mi convinceva, le mischiavo di nuovo e le disponevo in una forma diversa. Ripetendo questo procedimento diverse volte, alla fine riuscivo a elaborare un pensiero come facevano tutti. Scrivere per me non era complicato né faticoso. Io mi dedicavo alla scrittura con la stessa passione con cui gli altri bambini collezionavano bei sassolini o ghiande. Per me scrivere, usando carta e matita, era naturale come respirare. E in questo modo potevo pensare. 
Certo, potresti obiettare (oppure no, non lo so) che se per pensare è necessario fare tutto questo, ci vorrà un sacco di tempo per arrivare a delle conclusioni. E in realtà ce ne voleva tanto. Più o meno nel periodo in cui sono entrata alle elementari, molti avevano il sospetto che fossi un po‟ ritardata. Non riuscivo a mantenere il passo con gli altri bambini della mia classe. 
Ma il senso di diversità che mi procurava questa mia mancata sincronia con gli altri, quando finii le elementari si era notevolmente attenuato. Almeno fino a un certo punto, avevo imparato delle strategie per adeguarmi alle abitudini del mondo che mi circondava. Però quel divario è rimasto in me come un serpente silenzioso nell‟erba, fino a quando non ho abbandonato l‟università e tagliato i ponti con la «società ufficiale». 

È così? 
Esattamente così! 

Finora ho scritto un‟enorme quantità di roba. A ritmo più o meno quotidiano. Come uno tutto preso a falciare da solo l‟erba di un prato immenso che continua a crescere rapidissima e senza interruzione. Oggi taglio qui, domani lì... e quando, finito il giro, ritorni al punto di partenza, l‟erba è ricresciuta più fitta di prima. 
Ma dopo avere incontrato Myū, ho smesso quasi completamente di scrivere. Perché? La teoria di K (narrazione = trasmissione) potrebbe essere giusta. È giusta almeno per quanto riguarda un aspetto della questione. Però non credo che basti a spiegare tutto. Dovrei provare a ragionarci in modo più semplice. 
Più semplice, più semplice. 
Credo, dopo aver incontrato Myū, di avere smesso di pensare (naturalmente uso la parola pensare in una mia personale accezione del termine). Stando accanto a Myū, in una condizione di corrispondenza perfetta, come due cucchiai sovrapposti, mi sono lasciata trasportare con lei in un altro luogo (che, devo ammettere, non so minimamente dove si trovi), pensando: «Ma sì, dopotutto che importa?» 
In altre parole, per essere più vicina a Myū, ho bisogno di diventare estremamente leggera. Anche un atto fondamentale come quello di pensare diventa per me una specie di ingombrante fardello. Penso che si tratti semplicemente di questo. 
Anche se l‟erba del prato può crescere a dismisura, io non me ne curo. Invece di tagliarla, nell‟erba mi ci stendo, alzando gli occhi verso l‟alto per guardare le nuvole bianche che fluttuano in cielo. Affido a loro il mio destino. E il cuore al profumo dell‟erba fresca e al vento che mi sussurra nelle orecchie. Non mi importa più niente di sapere o non sapere, e nemmeno se tra le due cose c‟è qualche differenza. 
Anzi, per essere precisi, non me n‟è mai importato, fin dall‟inizio. 
Devo cercare di essere un po‟ più precisa. 
Più precisa, più precisa. 

A pensarci, scrivere anche le cose che conoscevo (o credevo di conoscere) come se non le conoscessi, è sempre stata la mia prima regola come scrittrice. Se avessi cominciato a pensare: «Ah, questa cosa la conosco, perciò non vale la pena di perdere tempo ed energia a scriverne», mi sarei fermata lì. Non sarei andata da nessuna parte. Per dirla in termini più concreti, se di una persona che frequento pensassi: «Lui lo conosco bene, quindi non è necessario che perda tempo a pensarci», e fossi tranquilla così, potrei prepararmi (potresti prepararti) a subire un duro tradimento. Dietro tutte le cose che crediamo di conoscere bene, se ne nascondono altrettante che non conosciamo per niente. 
La comprensione non è altro che un insieme di fraintendimenti. Questo è il mio piccolo metodo segreto per conoscere il mondo. 

In questo nostro mondo, le «cose che sappiamo» e le «cose che non sappiamo» sono fatalmente inseparabili come gemelle siamesi, e la loro stessa esistenza è confusione. 
Confusione, confusione. 
Chi può distinguere il mare da ciò che vi si riflette? O dire dove finisce la pioggia e comincia la malinconia? 
È così che, di buon grado, ho smesso di fare differenza tra il sapere e il non sapere. Anzi, è diventato il mio punto di partenza. In un certo senso, un terribile punto di partenza. Seguendo questo ragionamento diventa impossibile separare forma e contenuto, soggetto e oggetto, causa ed effetto, me e le nocche delle mie dita. Come è impossibile separare sale e pepe, farina e fecola, indissolubilmente mischiati sul pavimento della cucina. 

Io e le nocche delle mie dita... A questo proposito, mi sono accorta che mettendomi davanti al computer ho ricominciato a far scrocchiare le dita. Ho ripreso questa brutta abitudine qualche tempo dopo aver smesso di fumare. Dopo aver fatto scrocchiare le dita della mano destra, passo a quelle della mano sinistra. Non che ne vada fiera, ma riesco a produrre un rumore veramente notevole (un rumore in verità piuttosto sinistro e sordo, come di un collo spezzato). Già alle elementari, facevo un rumore così forte da battere tutti i maschietti della mia classe. 
Qualche tempo dopo che ero entrata all‟università, K mi ha fatto capire diplomaticamente che non si trattava di una dote molto apprezzata in società. Mi spiegò che non stava bene che una ragazza, dopo una certa età, scrocchiasse così fragorosamente le dita, almeno in pubblico. Disse che avrei dato l‟impressione di Lotte Lenya nel film A 007, dalla Russia con amore. Non capivo perché fino ad allora nessuno me lo avesse fatto notare, ma in ogni caso imparai la lezione e mi sforzai di togliermi il vizio. Per quanto mi potesse piacere Lotte Lenya, essere paragonata a lei non era proprio il mio sogno. Ma mi sono accorta che da quando ho smesso di fumare, appena mi trovo davanti al computer, inconsciamente mi rimetto a scrocchiare le dita. Cric crac cric crac. My name is Bond, James Bond. 

Riprendiamo il filo del discorso. Non ho molto tempo. Non c‟è spazio per digressioni. Lasciamo stare Lotte Lenya per adesso. Non c‟è spazio neanche per le metafore. Come ho scritto prima, in noi le «cose che sappiamo (o crediamo di sapere)» e le «cose che non sappiamo» convivono, inestricabilmente legate. E molti se la cavano mettendo un comodo schermo tra di esse. Si capisce, è più facile e conveniente. Ma io questi schermi li tolgo tutti. Non posso fare altrimenti. Detesto gli schermi. O non sarei io. 

Se mi è concesso usare ancora una volta l‟esempio delle gemelle siamesi, non è che tra loro regni sempre l‟armonia. Né che cerchino sempre di capirsi a vicenda. Anzi, succede più spesso il contrario. La mano destra non sa cosa fa la sinistra, e la sinistra non sa cosa fa la destra. E così noi siamo preda della confusione, ci perdiamo... ed è allora che andiamo a urtare con violenza contro qualcosa. Bang! 

Insomma, quello che cerco di dire è che quando tentiamo di far convivere armoniosamente le «cose che sappiamo (o crediamo di sapere)» e le «cose che non sappiamo», è necessario elaborare una valida strategia. E quella strategia – come avrai già capito – è pensare. In altre parole, legare saldamente se stessi a qualcosa. Altrimenti ci troveremmo sicuramente sottoposti a un terrificante trattamento d‟urto. 

Domanda. 
Allora che cosa si può fare per evitare di andare a urtare con violenza contro qualcosa (bang!), se non si ha voglia di mettersi a pensare seriamente, e si preferisce stare stesi sul prato a guardare placidamente le nuvole che passano, ascoltando il rumore dell‟erba che cresce? Difficile? No: se si segue la logica, la soluzione è piuttosto semplice. C’est simple. Basta sognare. Entrare nel mondo dei sogni e non uscirne più. Continuare a vivere lì per sempre. 
Nel mondo dei sogni non è necessario distinguere le cose. Non è per niente necessario. Tanto per cominciare, lì non esistono linee di confine. Perciò nei sogni è difficile andare a urtare violentemente contro qualcosa, e se per caso questo accade, non ci si fa male. La realtà è diversa. La realtà morde. 
La realtà, la realtà. 

Molto tempo fa, dopo la prima del Mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, durante la conferenza stampa una giornalista alzò la mano per fare una domanda. – Che bisogno c‟era di far vedere tanto sangue? – chiese con tono indignato. Ernest Borgnine, che recitava nel film, con un‟espressione perplessa sul viso rispose: – Mi perdoni, signora, ma quando uno è colpito da una pistola, sanguina –. Il film era stato realizzato in piena guerra del Vietnam. 

Questa risposta mi piace. Si potrebbe dire che è il fondamento della realtà. Le cose difficili da comprendere, accettarle come tali, e sanguinare. Pistolettate e sangue che scorre. 

Mi perdoni, signora, ma quando uno è colpito da una pistola, sanguina. 

È per questo che scrivo. Io penso normali pensieri quotidiani, ma questi pensieri si prolungano in uno spazio senza nome dove io concepisco un sogno, una specie di feto cieco: la comprensione che galleggia nell‟immenso, cosmico liquido amniotico dell‟incomprensione. Credo sia a causa di questo che i miei romanzi sono esageratamente lunghi, e io alla fine ne perdo il controllo (almeno è andata in questo modo fino ad ora). Non ho ancora i mezzi per sostenere un‟impresa su così vasta scala. Né tecnicamente né moralmente. 

Ma questo non è un romanzo. Come definirlo... un semplice testo. Non ho bisogno di trovargli un buon finale. Sto solo dando voce ai miei pensieri. Qui sono libera da ogni responsabilità morale. Io... sto solo pensando. Era da tanto tempo che non pensavo più e probabilmente anche da ora in avanti, almeno per qualche tempo, non penserò più a niente. Ma sto pensando adesso. Continuerò fino allo spuntare dell‟alba. 

Detto questo, non posso buttare via così i miei vecchi, cari, oscuri dubbi. Non starò sprecando tempo ed energia in uno sforzo completamente inutile? Non mi starò affannando a portare pesanti secchi d‟acqua in un posto già battuto da piogge torrenziali? Non farei meglio a lasciar perdere gli sforzi superflui e abbandonarmi al corso della natura? 
Urto violento? Che vorrebbe dire? 
Provo a spiegarlo in un altro modo. 
Allora, vediamo... 
Ecco, ho trovato. 
Piuttosto che scrivere questo testo senza capo né coda, non sarebbe molto più sano tornare a infilarmi nel mio letto caldo, e magari masturbarmi pensando a Myū? 
Mi piacciono moltissimo la forma del suo sedere e i suoi capelli candidi come neve. I peli del pube, in contrasto con il bianco dei capelli, sono nerissimi e hanno una forma deliziosa. Il suo sedere, inguainato in quelle piccole mutandine nere, è così sexy. Come quel triangolino nero di peli, su cui non riesco a smettere di fantasticare. 
Ma adesso basta pensare a queste cose. Devo assolutamente smettere. Spegnere l‟interruttore che tiene acceso il mio circuito di inconcludenti fantasie sessuali (clic!) e concentrarmi su quello che sto scrivendo. Vorrei usare al meglio questo tempo prezioso prima dell‟alba. Sarà qualcun altro in qualche altro posto a decidere che cosa è valido e che cosa no. Di quella persona a me adesso non me ne importa un bel niente. 
È così? 
Esattamente così. Allora, andiamo avanti. 
Dicono che inserire in un romanzo dei sogni (veri o inventati) sia molto rischioso. Che sono pochi gli scrittori dotati del talento necessario a ricreare, usando le parole, la struttura irrazionale dei sogni. Anch‟io mi trovo abbastanza d‟accordo. Ma ciò nonostante, qui vorrei raccontarne uno. È un sogno molto recente. Lo vorrei riportare qui come un fatto che mi riguarda personalmente. Senza considerare il suo valore letterario, semplicemente come un referto. 

A dire la verità, ho fatto molte volte sogni simili a questo nella trama. Ogni volta variano i dettagli, e il luogo. La struttura invece è sempre la stessa. Anche il dolore che provo al risveglio, come pure la sua intensità e durata, non cambia. È un unico tema ripetuto più volte. Come un treno di notte che avvicinandosi a una curva dove la visibilità è scarsa lancia sempre lo stesso fischio di sirena. 

Sogno di Sumire. 

(Scriverò questa parte in terza persona. Ciò darà una sensazione di maggior precisione). 
Sumire stava salendo su una lunga scala a chiocciola per incontrare la madre, morta molto tempo prima. Sapeva che la stava aspettando in cima alla scala. C‟era qualcosa che la madre voleva dire a Sumire. Un‟importante verità che Sumire doveva assolutamente conoscere per continuare a vivere. Aveva paura di incontrare sua madre. 
Era la prima volta che incontrava qualcuno che era morto, e poi non sapeva che tipo di persona fosse. Forse sua madre (per ragioni che Sumire ignorava completamente) provava nei suoi confronti ostilità oppure odio. Ma non poteva fare a meno di incontrarla. Era la prima e ultima occasione che le era concessa. 
La scala è lunga. Per quanto continui a salire, non arriva mai alla cima. Sumire è ormai senza fiato, ma continua lo stesso a salire più veloce che può. Il tempo sta per finire. La madre non potrà stare dentro quell‟edificio in eterno. Sumire si asciuga il sudore dalla fronte. Finalmente è arrivata in cima alla scala. 
La scala finisce su una grande piattaforma che ha sul fondo un muro. Un solido muro di pietra. Proprio all‟altezza del viso di Sumire, c‟è un buco rotondo che sembra un‟apertura per la ventilazione. È stretto, non più di cinquanta centimetri di diametro. Sua madre è lì dentro, come se qualcuno l‟avesse tirata con forza dall‟interno prendendola dai piedi. Sumire si rende conto che il tempo a lei accordato è finito. 
La madre era distesa in quello spazio stretto, il viso rivolto verso di lei. Guardava la figlia come se volesse dirle qualcosa. Sumire aveva capito al primo sguardo che quella donna era sua madre. È lei che mi ha dato la vita e questo corpo. Però per qualche ragione la madre era una persona totalmente diversa da quella che compariva nelle foto dell‟album di famiglia. La vera madre era una donna bella e giovanile. Allora quella delle foto non era mia madre, pensò Sumire. Mio padre mi ha imbrogliata. 
– Mamma! – gridò con forza Sumire. Aveva la sensazione che una specie di barriera dentro di lei fosse stata abbattuta. Ma nel momento stesso in cui pronunciò questa parola, la madre venne trascinata all‟interno del buco, come se dall‟altra parte l‟avessero risucchiata con un gigantesco aspiratore. La madre aprì la bocca e gridò qualcosa a Sumire. Ma le sue parole, a causa del suono vacuo del vento che soffiava dalle fessure del buco, non le arrivarono all‟orecchio. Un istante dopo, la madre fu risucchiata nel buio di quel buco e sparì. 
Quando Sumire si girò, la scala era sparita. Adesso il muro di pietra la circondava da ogni lato. Dove prima c‟era la scala, vide una porta di legno. Girò la maniglia e aprì la porta, ma dall‟altra parte c‟era solo il cielo. Lei era in cima a un‟alta torre. A guardare in basso, l‟altezza dava le vertigini. Nel cielo si vedevano molti oggetti che volavano, simili a piccoli aeroplani. Erano semplici aeroplani monoposto che chiunque avrebbe potuto costruire, fatti di bambù e legno leggero. Dietro il sedile c‟erano il motore, della grandezza di un pugno, e l‟elica. Sumire, rivolta ai piloti che le passavano davanti, gridò, pregando che la aiutassero a uscire di lì. Ma i piloti non giravano nemmeno la faccia nella sua direzione. 
Forse è per il vestito che indosso, che nessuno si accorge di me, pensò Sumire. Portava una lunga camicia da notte bianca, anonima, di quelle che fanno indossare negli ospedali. Sotto non portava niente. Se la sfilò, rimanendo nuda. Buttò al di là della porta la camicia da notte che si era tolta. Questa, come un‟anima liberata da ogni legame, vagò per un po‟ sospinta dal vento, poi si perse nella distanza. Lo stesso vento accarezzava il corpo di Sumire e faceva fremere i peli del suo pube. In quel momento i piccoli aeroplani, che fino ad allora avevano volato nelle vicinanze, si trasformarono di colpo in libellule. Il cielo era pieno di libellule di tutti i colori. I loro giganteschi occhi sferici ruotavano in tutte le direzioni scintillando. Poi il battito delle loro ali cominciò a risuonare sempre più forte, come una radio a cui viene alzato il volume, fino a diventare un fragore insostenibile. Sumire si acquattò per terra, chiuse gli occhi e si tappò le orecchie. 
In quel momento si svegliò. 

Sumire ricordava vividamente quel sogno, in tutti i particolari. Avrebbe anche potuto disegnarlo. Solo la faccia della madre, che scompariva risucchiata in quel buco di tenebra, non riusciva in nessun modo a richiamarla alla memoria. Anche le parole importanti che le aveva detto in quel momento si erano perse nel nulla. Nel suo letto Sumire morse con violenza il cuscino e pianse. 

Il barbiere non scava più buchi. 

Dopo aver fatto questo sogno, ho preso una decisione importante. Finalmente la punta del mio piccone colpirà con forza la solida roccia. Voglio esprimere con chiarezza a Myū i miei desideri. Non posso continuare all‟infinito in questo limbo. Non dirò «Io amo Myū!» sottovoce mentre scavo un buco nel giardino dietro casa, come un barbiere timido. Continuare così significherebbe perdere me stessa, inesorabilmente. 
Ogni alba, ogni tramonto, porterebbero via un poco alla volta una parte di me. In breve tempo il mio intero essere sarebbe trascinato via dalla corrente e di me non resterebbe un bel niente. 

Adesso tutto è chiaro come il cristallo. Cristallo, cristallo. 
Vorrei stringere Myū tra le mie braccia, essere stretta da lei. In passato ho già rinunciato a molte cose importanti. Ora non voglio più privarmi di niente. Non è troppo tardi. Per questo devo fare l‟amore con Myū. Per questo devo entrare dentro di lei. E vorrei che lei entrasse in me. Come due serpenti luccicanti e avidi. 
E se Myū non mi accetterà, cosa farò? 
In quel caso dovrò per forza scendere a patti con la realtà. 
«Mi perdoni, quando uno è colpito da una pistola, sanguina». 

Il sangue deve essere versato. Devo affilare il coltello, e da qualche parte pugnalare un cane alla gola. 

È così? 
Esattamente così. 

Questo è un messaggio indirizzato a me stessa. È come un boomerang. Lanciato in aria, lacerando l‟oscurità arriverà lontano, gelerà il piccolo cuore di qualche povero canguro, e poi tornerà indietro nella mia mano. Ma il boomerang che ti torna indietro non è lo stesso che hai lanciato. Su questo non ho dubbi. Boomerang, boomerang. 
12 


DOCUMENTO 2 

Sono le due e mezzo del pomeriggio. Il mondo, fuori, è caldo e incandescente come l‟inferno. Rocce, cielo e mare brillano dello stesso biancore abbagliante. A guardarli a lungo, i loro confini si assottigliano fino a fondersi in un‟unica massa caotica. Tutti gli esseri coscienti fuggono da questa luce cruda e sprofondano nella siesta, al riparo dell‟ombra. Anche gli uccelli smettono di volare. Ma in casa fa fresco e si sta bene. Myū è in salotto che ascolta Brahms. Indossa un abito estivo con le spalline e ha i capelli bianchi legati sulla nuca. Io sono seduta al mio computer e sto scrivendo. 
– Ti dà fastidio la musica? – mi chiede Myū. 
Brahms non mi dà mai fastidio, rispondo. 

Vorrei ricostruire, ripercorrendo i miei ricordi, la storia che Myū mi ha raccontato alcuni giorni fa in quel paesino della Borgogna. Non è un‟impresa facile. La sua narrazione era frammentaria, e tendeva a confondere i tempi e la successione degli eventi. A volte faticavo a capire in che ordine fossero avvenuti i fatti o a distinguere tra causa ed effetto. Ma questo è più che comprensibile. Il crudele rasoio di quell‟intrigo, tanto a lungo sepolto nella sua memoria, le lacerava la carne. Man mano che le stelle nel cielo sopra il vigneto impallidivano alla luce dell‟alba, il colore della vita defluiva sempre di più dalle sue guance. 
L‟ho convinta a raccontare. Usando ogni mezzo: l‟incoraggiamento, le minacce, la tenerezza, le lusinghe, la seduzione. Sorseggiando il vino rosso, siamo rimaste a parlare fino all‟alba. Tenendoci per mano, abbiamo ripercorso le tracce della sua memoria, analizzando, cercando di ricostruire. Ma c‟è una parte che Myū non riesce assolutamente a ricordare. Appena provava ad addentrarsi in quella zona, la sua mente si confondeva e lei beveva altro vino. È un terreno delicato. Abbiamo rinunciato a insistere oltre, siamo uscite in punta di piedi e ci siamo spostate su territori meno rischiosi. 

Tutto è cominciato quando mi sono accorta che Myū si tingeva i capelli di nero. È così attenta che nessuna delle persone che la conoscono – salvo pochissime eccezioni – l‟ha mai saputo. Ma io me ne sono accorta. Facendo un lungo viaggio insieme e vivendo a stretto contatto ogni giorno, era fatale che prima o poi lo notassi. Può anche darsi che semplicemente non abbia cercato di nasconderlo, perché volendo avrebbe potuto: le sarebbe bastata solo un po‟ di attenzione in più. Magari avrà pensato che tanto prima o poi me ne sarei accorta. O forse, chissà, desiderava addirittura che io lo sapessi (ma questa naturalmente è solo un‟ipotesi). 

Gliel‟ho chiesto direttamente. Si sa, io non posso fare a meno di chiedere le cose in modo diretto. Ne hai molti, di capelli bianchi? Da quanto tempo te li tingi? Da quattordici anni, mi ha risposto. Quattordici anni fa i miei capelli sono diventati tutti bianchi, dal primo all‟ultimo, ha detto. A causa di una malattia? ho chiesto. E lei: No. È successa una cosa, in seguito alla quale i miei capelli sono diventati bianchi di colpo, nello spazio di una notte. 
Vorrei che mi raccontassi cosa è successo, le ho chiesto. L‟ho implorata. Vorrei sapere tutto di te. Come io ti racconto tutto di me, senza nasconderti nulla. Ma Myū ha scosso la testa dolcemente. Ha detto che non l‟aveva mai raccontato a nessuno in tutta la sua vita. Neanche a suo marito lo aveva detto. Per quattordici anni, aveva mantenuto quel segreto da sola. 

Invece poi abbiamo finito col parlare di quella storia fino all‟alba. C‟è sempre un momento in cui una storia va raccontata, ho insistito. Altrimenti per tutta la vita si resta prigionieri di un segreto. 
A queste mie parole, Myū mi ha guardato come si guarda un paesaggio lontano. Qualcosa è affiorato nelle sue pupille, poi piano piano si è inabissato. Ha detto: – Io non ho conti da saldare. Se c‟è qualcuno che ha conti da saldare sono loro, non io. 

Non capivo cosa intendesse. Gliel‟ho detto francamente. 
– Se ti racconto questa storia, – ha detto Myū, – d‟ora in poi noi divideremo questa storia per sempre. Ma non so se questo sia davvero giusto. Se adesso sollevo il coperchio della scatola, anche tu sarai in qualche modo coinvolta. È questo che vuoi? Vuoi davvero conoscere questa vicenda che ho cercato di dimenticare a costo di qualsiasi sacrificio? 
Sì, ho risposto, di qualunque cosa si tratti voglio dividerla con te. Vorrei che non mi nascondessi nulla. 
Myū ha bevuto un sorso di vino e ha chiuso gli occhi. C‟è stato un silenzio in cui è sembrato che la pressione del tempo si allentasse. Myū esitava. 
Alla fine, però, ha cominciato a parlare. Piano piano, un frammento alla volta. Alcuni di questi frammenti si sono poi sviluppati, altri si sono persi per strada. Ogni tanto si aprivano delle falle. In alcuni casi, erano molto significative. Tocca a me, il narratore, mettere insieme tutti questi elementi con attenzione. 

Il racconto di Myū sulla ruota panoramica. 

Quell‟estate Myū andò a trascorrere un periodo da sola in una cittadina svizzera vicino al confine con la Francia. Aveva venticinque anni e all‟epoca viveva a Parigi, dove studiava il piano. Era stato il padre a chiederle di recarsi in Svizzera per sbrigare un affare al posto suo. L‟affare era piuttosto semplice, e si concluse con una cena insieme al responsabile dell‟altra ditta, e la firma del contratto. Ma Myū si era innamorata di quella città al primo sguardo. Era così bella e raccolta. C‟era un lago, e accanto al lago un castello medievale. Pensò che le sarebbe piaciuto vivere lì per qualche tempo. Tra l‟altro nel paese vicino ogni estate si teneva un festival di musica classica. Noleggiando un‟automobile, ci sarebbe potuta andare ogni giorno. 
Per una coincidenza fortunata, c‟era un appartamento libero già ammobiliato che veniva affittato per brevi periodi. Si trovava in una graziosa, simpatica palazzina che sorgeva sulla collina ai bordi della città. Anche la vista era bella, e c‟era nelle vicinanze un posto dove avrebbe potuto esercitarsi al piano. L‟affitto non era economico, ma se avesse chiesto un contributo al padre, sicuramente le avrebbe dato una mano. 
Myū iniziò così la sua vita, temporanea ma piacevole, in quella piccola città. Andava al festival, faceva passeggiate nei dintorni, e cominciava a conoscere di vista alcune persone. Scoprì dei ristoranti e dei caffè di suo gusto. Dalla finestra del suo appartamento si vedeva un parco dei divertimenti che si trovava nei sobborghi della città, con una grande ruota panoramica che faceva pensare alla ruota del destino. Vi erano attaccate numerose cabine variopinte, ognuna con la sua porta, che giravano lentamente sullo sfondo del cielo. Quando una cabina raggiungeva il punto più alto, cominciava la discesa. La ruota non andava da nessuna parte. Tutto il suo viaggio consisteva in quel movimento di salita e discesa. Era proprio in questo, però, il suo strano fascino. 
La sera, sulla ruota si accendevano infinite luci. Anche quando il parco dei divertimenti chiudeva e la ruota smetteva di girare, le luci restavano accese. Fino all‟alba la ruota continuava a brillare, quasi a voler competere con le stelle del cielo. Myū si sedeva in una sedia accanto alla finestra, e ascoltando la musica alla radio guardava senza mai stancarsi il movimento della ruota, o, quando era ferma, la sua monumentale immobilità. 

In città fece conoscenza con un uomo. Un bell‟uomo di origini latine sui cinquant‟anni. Alto, un naso scultoreo, capelli lisci e neri. Fu lui a rivolgerle la parola in un caffè. Le chiese da dove venisse. Dal Giappone, rispose lei. Cominciarono a parlare. Le disse di chiamarsi Ferdinando. Era nato a Barcellona, ma da cinque anni lavorava in quella città dove disegnava mobili. 
Chiacchierava con tono leggero, a volte scherzava. Dopo aver parlato del più e del meno, si salutarono. Due giorni dopo si incontrarono di nuovo nello stesso caffè. Seppe che era divorziato e adesso viveva solo. Raccontò che era andato via dalla Spagna perché voleva ricominciare da capo in un posto nuovo. Myū si accorse di provare una certa diffidenza per quell‟uomo. Sentiva che lui era attratto da lei sessualmente. Percepiva nell‟aria l‟odore del desiderio, e questo le faceva paura. Decise di non andare più in quel caffè. 
Ma le capitava ripetutamente di incontrare Ferdinando per strada. Aveva perfino la sensazione che lui la pedinasse. Ma forse era solo una sua assurda fantasia. In una piccola città come quella, non era poi così strano incontrare spesso qualcuno. Quando i loro sguardi si incrociavano, lui sorrideva e la salutava con familiarità. Lei rispondeva al saluto. Ma a poco a poco Myū cominciò a provare un‟irritazione in cui si mescolava un po‟ di inquietudine. Le sembrava che la sua tranquilla esistenza in quella cittadina fosse minacciata da quell‟uomo. Questo, come certe dissonanze suggestivamente introdotte all‟inizio di un movimento musicale, gettava un‟ombra spiacevole e sinistra sulla sua tranquilla estate. 

La presenza di Ferdinando non era però l‟unica ombra. Dopo essere stata lì una decina di giorni, Myū cominciava ad avvertire, in quella vita, qualcosa di opprimente. La città era bella e molto ben tenuta, ma per la prima volta si accorgeva di come la gente avesse vedute ristrette e senso di superiorità. Le persone sembravano gentili e cordiali, ma lei percepiva una sottile, invisibile discriminazione nei suoi confronti in quanto orientale. Il vino che le veniva servito aveva uno strano retrogusto. Le verdure che comprava avevano i vermi. Al festival non c‟era un‟esecuzione che si salvasse. Non riusciva a concentrarsi nello studio. Perfino l‟appartamento, che dapprima le era sembrato delizioso, adesso le appariva provinciale e di cattivo gusto. Tutto aveva perso il suo originale splendore. L‟ombra sinistra si stava allargando. Ma da quell‟ombra lei non riusciva a distogliere lo sguardo. 
Una sera squillò il telefono. Lei allungò la mano e sollevò il ricevitore. – Hallo, – disse. Dall‟altra parte ci fu un clic. Avevano riagganciato. Questo si ripeté diverse volte. Sospettò che potesse essere Ferdinando. Non aveva però nessuna prova. Ma come aveva potuto procurarsi il suo numero di telefono? Essendo un telefono di vecchio tipo, Myū non poteva nemmeno staccare la spina dal muro. Non riusciva più a dormire. Cominciò a prendere dei tranquillanti. Perse l‟appetito. 

Avrebbe voluto andarsene al più presto. Però non capiva perché, ma non le riusciva di staccarsi da quella città. Si dava delle spiegazioni razionali. Aveva già pagato l‟affitto per tutto il mese, comprato l‟abbonamento al festival, e poi aveva subaffittato il suo appartamento a Parigi per il periodo estivo. Non posso fare marcia indietro così, si diceva. E poi in realtà non era successo niente. Non aveva subìto alcun danno. Nessuno le aveva fatto niente di male. Forse ho reagito a tutto in modo ipersensibile, pensò. 

Quella sera cenò come al solito in un piccolo ristorante nei pressi di casa sua. Erano due settimane che viveva lì. Finito di cenare, provò il desiderio, dopo diverso tempo, di respirare l‟aria della sera, e così fece una lunga passeggiata. Immersa nei suoi pensieri camminava senza una meta precisa, attraversando una strada dopo l‟altra, finché si ritrovò davanti all‟ingresso del parco dei divertimenti. Il famoso parco con la ruota panoramica. Musica festosa, voci di imbonitori di fiera, e grida di bambini. La maggior parte degli avventori era composta di famiglie o di giovani coppie del luogo. Myū si ricordò di quando, da piccola, il padre la portava al Luna Park. Ricordava ancora l‟odore della sua giacca di tweed, che annusava mentre era con lui nelle tazze di caffè girevoli. Era stata tutto il tempo avvinghiata alla manica della sua giacca. Quell‟odore era un simbolo del mondo dei grandi, così lontano da lei che per lei bambina rappresentava la sicurezza. Ripensò a suo padre con nostalgia. 

Per distrarsi un po‟, comprò il biglietto ed entrò nel Luna Park. C‟erano varie attrazioni e chioschi: il tiro a segno, lo spettacolo dei serpenti, la chiaroveggente. Questa, una donna piuttosto grossa, che aveva davanti a sé la sfera di cristallo, chiamò Myū invitandola con la mano. – Mademoiselle, venga! È importante! Il suo destino sta per cambiare, – le disse. Myū rise e passò oltre. 
Comprò un gelato, si sedette su una panchina a mangiarlo, guardando il viavai della gente. Ma anche lì aveva la sensazione di trovarsi da un‟altra parte, lontano dall‟allegro vociare di quelle persone. Un uomo si avvicinò e le parlò in tedesco. Aveva più o meno trent‟anni, biondo, piccolo, coi baffi. Un uomo che sarebbe stato bene in uniforme. Sorridendo lei scosse la testa e indicò l‟orologio. – Ho un appuntamento, – disse in francese. La propria voce le sembrò più acuta e secca del solito. L‟uomo non insisté, le sorrise timidamente, e sollevando la mano in segno di saluto, si allontanò. 

Myū si alzò e cominciò a girare senza una meta precisa. Qualcuno tirò un dardo, facendo scoppiare un palloncino. Gli orsi ballavano in piedi con un gran calpestio. Un organo eseguiva Il bel Danubio blu. Sollevando lo sguardo, Myū vide la ruota panoramica che girava lenta nel cielo, e le venne un‟idea. «Ecco cosa posso fare, – pensò. – Salirò sulla ruota». Da lì avrebbe provato a vedere il suo appartamento, il contrario di quello che faceva sempre. Per puro caso aveva nella sua borsa a tracolla il binocolo da teatro. L‟aveva portato per usarlo al festival – il suo posto era sul prato, lontano dal palcoscenico – e lo aveva lasciato nella borsa. Era piccolo e leggero ma abbastanza potente. Con quello probabilmente sarebbe riuscita a vedere bene fin dentro al suo appartamento. 

Andò al botteghino davanti alla ruota a comprare il biglietto. – Mademoiselle, stiamo quasi per finire, – le disse il vecchio che vendeva i biglietti. Più che parlare sembrava borbottare tra sé, guardando verso il basso. – È quasi ora di chiudere. Questo è l‟ultimo giro. Dopo questo, chiudiamo –. Aveva la barba bianca, lunga sul mento, i baffi ingialliti dal fumo. Tossiva, e aveva le guance rosse come se fossero state a lungo esposte al vento del nord. 
– Va bene, un giro è sufficiente, – disse Myū. Comprò il biglietto e salì sulla piattaforma. Pareva che sulla ruota oltre a lei non ci fossero altri passeggeri. Fin dove poteva vedere, tutte le cabine erano vuote. Tante cabine vuote che ruotavano oziosamente nell‟aria. Un‟immagine del mondo che si avvicina stancamente alla fine. 
Salì in una cabina rossa, e si sedette sulla panca. Il vecchio arrivò, e chiuse la porta dall‟esterno. Sarà per motivi di sicurezza, pensò Myū. La ruota, come un vecchio pachiderma che si solleva a fatica, cominciò la sua salita. Guardando in basso, le varie baracche e attrazioni che riempivano il parco rimpicciolivano a vista d‟occhio, mentre le luci della città emergevano pian piano dall‟oscurità. Sulla destra si vedeva il lago, dove le barche per le escursioni, tutte illuminate, si riflettevano dolcemente nell‟acqua. Anche le montagne, in lontananza, erano punteggiate dalle luci dei villaggi. La bellezza della scena le diede una stretta al cuore. 

Si cominciava a vedere la zona, sulla collina ai bordi della città, dove si trovava la sua casa. Myū mise a fuoco il binocolo e la cercò, ma non riusciva a scorgerla. La ruota intanto si avvicinava sempre più alla cima. Devo sbrigarmi, pensò. Spostò febbrilmente il binocolo su e giù, a destra e a sinistra, alla ricerca della palazzina dove abitava. Ma in quella città c‟erano troppi edifici simili tra loro. Intanto la cabina aveva raggiunto la cima e cominciava fatalmente la discesa. Proprio allora Myū riuscì a localizzare il suo edificio. Eccolo! Ma c‟erano più finestre di quante avesse immaginato. Molti le tenevano aperte, per far entrare l‟aria fresca della sera. Lei continuava a spostare il binocolo da una finestra all‟altra finché si fermò sul secondo appartamento da destra al secondo piano. Ma già la cabina si stava avvicinando a terra, e il suo campo visivo fu invaso dal muro di un altro edificio. Che peccato! Ancora un poco e avrebbe potuto guardare nella sua casa. 

La cabina stava lentamente raggiungendo la piattaforma. Myū fece per aprire la porta e scendere. Ma la porta non si apriva. Si ricordò che il vecchio aveva chiuso la serratura dall‟esterno. Cercò con gli occhi l‟uomo che prima stava nel botteghino, ma non c‟era più, e la luce era spenta. Il vecchio non si vedeva da nessuna parte. Pensò di gridare per chiamare qualcuno. Ma lì intorno non si vedeva nessuno. Non ci posso credere, pensò. Tirò un sospiro. Che situazione assurda! Forse l‟uomo era andato al gabinetto o chissà dove e non era tornato in tempo per farla scendere. Non poteva fare altro che ripetere il giro e tornare giù una seconda volta. 
Pazienza, pensò. Grazie alla negligenza del vecchio mi farò un giro extra. E decise che questa volta avrebbe fatto in modo di trovare in fretta il suo appartamento. Il binocolo ben stretto tra le mani, sporse la testa dal finestrino. Avendo già individuato grosso modo la direzione e la posizione, avrebbe dovuto trovare facilmente la casa. Anche perché aveva lasciato aperta la finestra e accesa la luce (un po‟ perché non le piaceva ritornare in una casa buia, e anche perché pensava di rientrare subito dopo cena). 

Era strano guardare da lontano, col binocolo, la casa in cui viveva. Si sentiva quasi la coscienza sporca, come se stesse violando la propria intimità. Ma io lì dentro non ci sono, si disse. Ovviamente. Sul tavolo c‟era il telefono. Pensò che se avesse potuto le sarebbe piaciuto provare a telefonare. Sul tavolo c‟era una lettera ancora da finire. Sarebbe divertente leggerla da qui, pensò Myū. Ma naturalmente non arrivava a vedere fino a quel punto. 

Poi la ruota raggiunse la cima, e cominciò la discesa. Però dopo essere calata di pochissimo, si fermò bruscamente e con un gran rumore. Myū urtò con violenza la spalla contro la parete e per poco non le cadde a terra il binocolo. Il rumore del motore che faceva girare la ruota si spense, e la zona fu avvolta da un innaturale silenzio. Non si sentiva neanche più la musica festosa che fino a quel momento aveva fatto da sottofondo. Anche la maggior parte dei chioschi aveva già spento la luce. Tese le orecchie. A parte un leggero vento, non si udiva nessun rumore. Il silenzio era assoluto. Non si sentivano più le voci degli imbonitori, e nemmeno le grida gioiose dei bambini. Dapprima non riuscì a capire cosa fosse successo. Poi comprese. Sono stata dimenticata qui, si disse. 
Si sporse dal finestrino aperto a metà, e di nuovo guardò in basso. Capì allora di trovarsi molto in alto. Pensò di gridare con tutta la voce che aveva, di chiedere aiuto. Ma prima ancora di farlo, si rese conto che nessuno avrebbe potuto sentirla. Si trovava in un punto troppo lontano da terra, e la sua voce era troppo debole. 
Dove era andato a finire quel vecchio? Probabilmente aveva bevuto, pensò. Il colorito, quel respiro affannoso, la voce impastata... sì, non c‟era dubbio. Ubriaco, si è completamente dimenticato di avermi fatto salire sulla ruota, e l‟ha fermata. A quest‟ora sarà in qualche bar a riempirsi di birra o di gin, a ubriacarsi ancora di più, finendo di cancellare ogni ricordo. Myū si morse le labbra. Probabilmente non sarebbe riuscita a venir fuori di lì prima dell‟indomani, verso mezzogiorno, o addirittura fino al pomeriggio. Non sapeva con precisione a che ora riaprisse il Luna Park. 

Anche se era piena estate, di notte in Svizzera faceva freddo. Myū indossava solo una camicetta leggera e una gonna corta. Cominciava ad alzarsi il vento. Si sporse di nuovo dal finestrino e guardò in basso. C‟erano ancora meno luci di prima. Il personale del Luna Park, finito il lavoro, si era ritirato. Ma qualcuno doveva pur essere rimasto per la sorveglianza. Si riempì i polmoni e gridò con tutte le sue forze: – Aiuto! – Tese l‟orecchio. Quindi ritentò ancora, più volte. Nessuna risposta. 
Dalla borsa tirò fuori il taccuino, e con la penna scrisse su un foglio in francese: «Sono rimasta chiusa nella ruota panoramica al Luna Park. Vi prego, aiutatemi», poi lo gettò dal finestrino. Il foglio volò trasportato dal vento. 
Siccome il vento soffiava in direzione della città, con un po‟ di fortuna sarebbe anche potuto andare a cadere lì. Ma anche se qualcuno avesse raccolto quel pezzo di carta e lo avesse letto, chi le diceva che ci avrebbe creduto? Scrisse un altro messaggio, aggiungendo questa volta nome e indirizzo. Forse così sarebbe stato più credibile. Forse in questo caso chi l‟avesse raccolto avrebbe capito che non si trattava di uno scherzo o di un gioco, ma di una cosa seria. Strappò metà delle pagine del taccuino, e le riempì di messaggi che affidò al vento. 
Poi le venne un‟idea: tirò fuori dalla borsa il portafoglio, tolse l‟unica banconota da dieci franchi che conteneva, e infilò anche lì un messaggio: «Sopra di voi c‟è una donna imprigionata nella ruota panoramica. Vi prego, aiutatemi». Quindi lo gettò dal finestrino. Il portafoglio cadde dritto verso il basso. Ma non riuscì a vedere dove fosse caduto, né sentì il tonfo di quando raggiunse il suolo. Infilò un messaggio simile nel borsellino, e lanciò verso terra anche questo. 
Myū guardò l‟orologio. Le lancette segnavano le dieci e trenta. Provò a vedere che cosa conteneva la borsa. Qualche cosmetico, uno specchietto, il passaporto. Occhiali da sole. Le chiavi dell‟appartamento e dell‟auto a noleggio. Un coltellino pieghevole per sbucciare la frutta, tre crackers in una bustina di plastica. Un libro tascabile in francese. Poiché aveva cenato, fino al mattino seguente non avrebbe sofferto la fame. Né, col freddo che faceva, avrebbe avuto troppa sete. Per fortuna, almeno per il momento non aveva bisogno di urinare. 
Si sedette sulla panca di plastica, e appoggiò la testa alla parete. Ripensando alla serata, senza darsi pace. Come le era venuto in mente di raggiungere il parco dei divertimenti e di salire sulla ruota panoramica? Perché, uscita dal ristorante, non era tornata subito a casa? Se l‟avesse fatto, a quest‟ora sarebbe stata piacevolmente immersa in un bagno caldo, o a letto a leggere un libro. Come sempre. 
Perché non lo aveva fatto? E qui, perché avevano messo a fare un lavoro del genere un vecchio rimbambito e ubriacone come quello? 

Il vento faceva cigolare la ruota. Myū cercò di chiudere il finestrino per proteggersi, ma nonostante i suoi sforzi non riuscì a smuoverlo di un millimetro. Rinunciò, e si sedette a terra. Perché non ho portato il cardigan? si rammaricò. Prima di uscire di casa aveva esitato, indecisa se portare un leggero cardigan da mettere sulla camicetta. Ma la temperatura sembrava mite, e il ristorante era a tre isolati da casa sua. In quel momento non la sfiorava nemmeno il pensiero che avrebbe potuto camminare fino al Luna Park e salire sulla ruota panoramica. Tutto era andato per il verso sbagliato. 
Per stare più comoda, si tolse l‟orologio, il sottile braccialetto d‟argento, gli orecchini a forma di conchiglia, e infilò tutto in borsa. Poi si raggomitolò su se stessa in un angolo del pavimento con l‟intenzione, se ci riusciva, di dormire fino al mattino dopo. Ma naturalmente non era così facile. Faceva freddo, ed era troppo agitata. Ogni tanto il vento aumentava, facendo ondeggiare le cabine. Myū chiuse gli occhi e, muovendo le dita su una tastiera immaginaria, provò a eseguire la Sonata in do minore di Mozart. Una composizione che suonava da bambina e che, senza nessuna ragione particolare, ricordava ancora a memoria. Ma a metà del secondo movimento la sua mente cominciò a intorpidirsi. Si addormentò. 

Non capiva per quanto tempo avesse dormito. Non doveva essere stato per molto. Si svegliò all‟improvviso, e per una frazione di secondo non capì dove si trovava. Poi gradualmente ricordò: era prigioniera in una ruota panoramica. Tirò fuori l‟orologio dalla borsa: era mezzanotte passata. Si alzò lentamente dal pavimento della cabina. Dato che aveva dormito in una posizione scomoda, era tutta indolenzita. Fece alcuni sbadigli, si stirò e si massaggiò i polsi. 
Era improbabile che potesse riaddormentarsi presto, quindi per distrarsi tirò fuori dalla borsa il libro che aveva già cominciato e cercò di leggere. Era un giallo appena uscito che aveva comprato in una libreria in città. Era una fortuna che la ruota panoramica restasse illuminata per tutta la notte. Però dopo aver letto alcune pagine impiegando molto tempo, si accorse che niente di quello che leggeva la interessava. Anche se gli occhi seguivano le righe, la mente se ne andava per conto suo. 
Myū rinunciò e chiuse il libro. Poi alzò lo sguardo e osservò il cielo. Non si vedevano le stelle, coperte forse da un impercettibile velo di foschia. Anche la luna nuova era nascosta dalle nuvole. Per effetto dell‟illuminazione, la sua faccia si rifletteva in modo stranamente nitido sul finestrino dell‟abitacolo. Myū la fissò a lungo. «Anche questo prima o poi finirà, – si disse. – Fatti coraggio. Quando tutto sarà finito, diventerà una storia comica da raccontare: “Quella volta che sono rimasta bloccata su una ruota panoramica in un Luna Park in Svizzera!”» 
Ma non sarebbe diventata una storia comica. La vera storia cominciava adesso. 
Dopo un poco, Myū prese il binocolo e provò di nuovo a guardare il suo appartamento. Tutto era come prima. Naturalmente, pensò, e sorrise. 
Spostò lo sguardo sulle altre finestre dell‟edificio. Essendo passata la mezzanotte, molti già dormivano. La maggior parte delle finestre erano spente. Alcuni però erano ancora in piedi, con la luce accesa. Quelli dei piani bassi avevano le tende accuratamente tirate. Ma le persone che abitavano nei piani più alti, non dovendo preoccuparsi degli sguardi degli altri, lasciavano aperte le tende per far entrare l‟aria fresca della sera. In ognuna di quelle finestre era in mostra, tranquillamente ed esplicitamente, la vita di quella casa (chi avrebbe mai pensato che potesse esserci in piena notte sulla ruota panoramica qualcuno armato di binocolo?) Ma Myū non era interessata a spiare in quel modo la vita privata delle persone. E poi la incuriosiva molto di più guardare la propria casa vuota. 

Quando, dopo aver fatto un giro completo del resto del palazzo, tornò con lo sguardo al suo appartamento, quello che vide la lasciò senza fiato. Nella sua camera da letto c‟era un uomo nudo. Ovviamente, la prima cosa che pensò fu di essersi sbagliata, e che quella non fosse la sua stanza. Provò a spostare il binocolo in tutte le direzioni. Ma non c‟era nessun dubbio: riconosceva i mobili, i fiori nel vaso, i quadri alle pareti. E l‟uomo era Ferdinando. Senza possibilità di errore. Quel Ferdinando. Era seduto sul suo letto, completamente nudo. Aveva il petto e l‟addome coperti da peli neri e il suo lungo pene gli pendeva con negligenza come un animale incosciente. 
Che cosa ci fa quell‟uomo dentro casa mia? La fronte di Myū si ricoprì di un velo di sudore. Come ha fatto a entrare? Non riusciva a spiegarselo. Provò rabbia, confusione. Poi apparve una donna. La donna indossava una camicetta bianca a maniche corte e una gonna corta di cotone blu. Myū strinse il binocolo e cercò di aguzzare la vista. Quella donna era lei. 

Myū non riusciva più a connettere. Io sono qui, e sto guardando la mia stanza col binocolo. E in quella stanza ci sono io. Provò più volte a mettere a fuoco le lenti. Ma in qualunque modo guardasse, la donna che vedeva era lei. Indossava gli stessi abiti che indossava lei in quel momento. Ferdinando abbracciò la Myū che era nella stanza e la portò a letto. Poi, baciandola, l‟aiutò dolcemente a spogliarsi. Le sfilò la camicetta, il reggiseno, la aiutò a togliersi la gonna, e baciandole i polsi le mise le mani a coppa sui seni accarezzandoli, e dopo avere continuato così per un po‟, con una sola mano le tirò giù le mutandine. Perfino la biancheria intima era la stessa che lei portava in quel momento. Myū non riusciva a respirare. Che cosa stava succedendo? 
Poi a un tratto si accorse che il pene di Ferdinando era eretto, rigido come un bastone. Era un pene enorme. Di una grandezza che lei non aveva mai visto. Lui prese la mano di Myū e glielo fece stringere. Poi cominciò a baciarla e a leccarla dappertutto. Per fare questo impiegò del tempo. Lei (la Myū che era nella stanza) non opponeva resistenza. Si abbandonava alle sue carezze, e sembrava che quei momenti di passione le dessero piacere. Ogni tanto allungava la mano e accarezzava il pene e i testicoli di Ferdinando. Offrendogli senza riserve ogni parte del suo corpo. 
Myū non poteva distogliere lo sguardo da quella incredibile scena. Si sentiva malissimo. Aveva la gola così secca che non riusciva a deglutire. E aveva la nausea. Tutto era grottescamente deformato, e impregnato di malvagità, come in una pittura allegorica medievale. Myū pensò: Loro lo fanno apposta perché io veda. Sanno benissimo che io li sto guardando. Ma ugualmente non riusciva a staccare gli occhi dalla scena. 

Vuoto. 

Che cosa era accaduto dopo? 
Da quel momento in poi, Myū non ricordava più niente. La memoria si fermava lì. 
Non riesco a ricordare, ha detto. Si è coperta il viso con le mani, e ha aggiunto a bassa voce: So soltanto che è stata un‟esperienza atroce. Io ero qui, e un‟altra me era lì, e quell‟uomo, quel Ferdinando, che faceva cose di tutti i tipi alla me che era dall‟altra parte. 
Che significa, «cose di tutti i tipi»? 
Non me lo ricordo. Ma erano cose di tutti i tipi. Mentre io ero lì, imprigionata sulla ruota panoramica, lui faceva fare alla me che stava dall‟altra parte tutto quello che gli pareva e piaceva. Non pensare che io avessi delle paure riguardo al sesso. C‟è stato un tempo in cui io lo vivevo con piacere e in tutta libertà. Ma quello che io ho visto lì dentro era un‟altra cosa. Erano solo azioni oscene e prive di senso, fatte solo per sporcarmi. Ferdinando, usando tutte le sue tecniche, si è dedicato a insudiciare la mia persona con le sue grosse dita e il suo enorme pene. Anche se la me che stava dall‟altra parte non sembrava accorgersene. 
Poi alla fine quello non era neanche più Ferdinando. 
Non era neanche più Ferdinando? ho chiesto guardandola negli occhi. Se non era Ferdinando, allora chi era? 
Non lo so. Non riesco a ricordare. So solo che alla fine non era più Ferdinando. O forse non era lui fin dall‟inizio, non so. 

Quando riprese coscienza, Myū era in un letto di ospedale. Le avevano messo la vestaglietta, ma sotto era nuda. Aveva male dappertutto. Il dottore le spiegò che la mattina presto degli inservienti del Luna Park avevano trovato il portafoglio con dentro il suo messaggio, e compreso la situazione. Avevano fatto scendere la ruota, e chiamato l‟ambulanza. Myū aveva perso conoscenza dentro la cabina, ed era caduta tutta ripiegata su se stessa. Sembrava aver subìto un grosso shock. Le pupille non reagivano normalmente agli stimoli. Aveva numerose abrasioni sul viso e sulle braccia, e la camicetta era macchiata di sangue. Era stata trasportata in ospedale dove aveva ricevuto le prime cure. Nessuno capiva come fosse rimasta ferita. Ma erano tutte ferite superficiali, che non avrebbero lasciato tracce. La polizia aveva fermato il vecchio che gestiva la ruota. Aveva detto che non si ricordava per niente di aver fatto salire Myū prima dell‟ora di chiusura. 
Il giorno seguente dei poliziotti vennero in ospedale e le fecero alcune domande. Lei non seppe rispondere bene. Confrontandola con la foto del passaporto, aggrottarono le sopracciglia. Una strana espressione affiorò sui loro visi, come quella di chi ha ingoiato per sbaglio qualcosa di incongruo. Poi uno di loro le chiese, con un po‟ di imbarazzo: Mademoiselle, mi scusi, ma lei ha davvero venticinque anni? Sì, rispose lei, come è scritto sul passaporto. Non riusciva a capire come mai le avessero fatto una domanda del genere. 
Ne comprese la ragione poco più tardi, quando andò in bagno per lavarsi la faccia e si vide riflessa nello specchio. I suoi capelli erano diventati bianchi: tutti, dal primo all‟ultimo. Immacolati, come neve ancora fresca. Dapprima pensò che quella che vedeva riflessa lì non fosse lei. Si girò, ma alle sue spalle non c‟era nessuno. Nel bagno c‟era solo lei. Tornò a guardare lo specchio. Allora capì che quella donna dai capelli bianchi era lei. Myū perse i sensi e cadde sul pavimento. 

Così, Myū fu perduta. 
Io sono rimasta da questa parte. Ma un‟altra me, o forse metà di me, è finita dall‟altra parte. Portandosi dietro i miei capelli neri, i miei appetiti sessuali, le mestruazioni, l‟ovulazione, e forse anche molta della mia voglia di vivere. Quella che vedi adesso qui è solo la metà di me che è rimasta. Questa sensazione da allora non mi ha più lasciata. Sulla ruota panoramica di quella cittadina svizzera, per qualche misteriosa ragione il mio essere si è diviso per sempre in due parti. Per quanto ne so, potrebbe anche essere stata una specie di transazione. Ma non sarebbe esatto dire che qualcosa di me mi è stato portato via. Perché quel qualcosa continua a esistere dall‟altra parte. Ne sono sicura. Siamo solo separate da uno specchio. Ma io non posso in nessun modo attraversare questa parete di vetro, né ora né mai. 
Myū si mordicchiò leggermente le unghie. 
Lo so, nessuno può dire «mai» con assoluta certezza. Un giorno potremmo ritrovarci in qualche luogo e tornare a fonderci in una. Ma rimane comunque un grave problema. Il fatto che io non sia in grado di giudicare quale delle immagini dalle due parti dello specchio corrispondesse davvero a me. La vera me è quella che accetta Ferdinando o quella che per lui prova repulsione? Non credo di poter chiarire questa confusione. 

Finite le vacanze estive, Myū non riprese il conservatorio. Interruppe il suo soggiorno di studio all‟estero e ritornò in Giappone, dove non toccò mai più un pianoforte. L‟energia per creare musica era perduta. 
L‟anno seguente il padre morì, e Myū gli subentrò nell‟amministrazione dell‟azienda. 

Il fatto di non poter più suonare fu senz‟altro uno shock, ma non provai un rimpianto inconsolabile. Avevo già il sentore che tanto prima o poi sarebbe successo. In ogni caso... – a questo punto Myū sorrise, – ... il mondo è pieno di pianisti. Se nel mondo ci sono una ventina di grandi pianisti in servizio attivo, è più che sufficiente. Se vai in un negozio di dischi e provi a cercare il Waldstein o la Kreisleriana o quello che vuoi, te ne renderai conto anche tu. Il repertorio classico è limitato, e anche lo spazio negli scaffali per i CD. Per l‟industria musicale, venti pianisti di livello mondiale possono bastare. Quando io mi sono ritirata, nessuno si è disperato. 
Myū allargò le dita delle mani davanti agli occhi, e le girò alcune volte. Era assorta, come se stesse ancora scavando nella sua memoria. 
Circa un anno dopo essere venuta in Francia, mi ero accorta di una cosa strana. Alcune persone di gran lunga inferiori a me nella tecnica, e che si impegnavano meno di me, riuscivano a conquistare il cuore del pubblico molto più di me. Quando partecipavo a dei concorsi, all‟ultima selezione venivo sconfitta da persone così. All‟inizio pensavo che dovevano essersi sbagliati. Ma la cosa si ripeté molte volte. Ero irritata, anzi arrabbiata. Mi sembrava un‟ingiustizia. Però poi, col tempo, l‟ho capito. A me mancava qualcosa. Non sapevo esattamente cosa, ma doveva essere qualcosa di importante. Forse la si potrebbe definire la profondità umana necessaria a produrre una musica capace di commuovere. Quando stavo in Giappone non me ne ero mai resa conto. Lì non ero mai stata seconda a nessuno, e non avevo mai avuto il tempo di farmi domande sulle mie esecuzioni. Ma a Parigi, circondata da tante persone di talento, lo capii. Chiaro come quando il sole disperde la nebbia del mattino. 
Myū tirò un sospiro. Poi sollevò il viso e sorrise. 
Fin da bambina, mi è sempre piaciuto crearmi una disciplina interiore tutta mia, indipendente dal mondo esterno, e attenermi ad essa. Avevo un carattere indipendente e rigoroso. Sono nata in Giappone, ho frequentato le scuole giapponesi e sono cresciuta con amichetti giapponesi. Perciò mi sentivo giapponese, ma la mia nazionalità era straniera. Per me il Giappone, «tecnicamente», restava un paese straniero. I miei genitori, che non erano tipi da fare tante prediche, solo una cosa hanno cercato a tutti i costi di imprimermi in testa fin da piccola: In questo paese tu sei una straniera. così mi sono convinta che per vivere nel mondo mi sarei dovuta in qualche modo rafforzare. Myū, con tono pacato, continuò: 
Il fatto di rafforzarsi in sé non è una cattiva cosa, naturalmente. Ma a pensarci adesso, ero così abituata al fatto di essere forte che non tentavo di capire le persone più deboli. Troppo abituata a essere sana, non cercavo di comprendere i mali degli altri. Quando vedevo persone che, in seguito a certi problemi, entravano in crisi e non riuscivano a reagire, pensavo sempre che non si sforzassero abbastanza. Le persone che si lamentavano spesso, le consideravo semplicemente pigre. In quegli anni la mia visione della vita era solida e pratica ma mancava di apertura e di calore. Tuttavia nessuno tra le persone intorno a me me lo aveva mai fatto notare. 
A diciassette anni persi la verginità, e da allora sono stata a letto con non pochi uomini. Frequentavo molte persone, e se si creava quel tipo di atmosfera, a volte facevo l‟amore anche con qualcuno che non conoscevo bene. Ma non c‟è mai stato nessuno che io abbia amato veramente, col cuore. A dire la verità, penso che non ci fosse in me lo spazio per l‟amore. Avevo in testa l‟idea fissa di diventare una grande pianista e non pensavo a niente che potesse distogliermi da quell‟obiettivo. Quando mi accorsi di questo buco dentro di me, del fatto che mi mancava qualcosa, era già troppo tardi. 
Di nuovo Myū allargò le mani davanti agli occhi, e rimase per un po‟ sovrappensiero. 
– In un certo senso, quello che mi è successo quattordici anni fa in Svizzera potrebbe essere qualcosa che io stessa ho creato. 

A ventinove anni, Myū si sposò. Non era in grado di provare nessun tipo di desiderio sessuale. Dopo l‟incidente in Svizzera non era più riuscita ad avere rapporti sessuali con nessuno. Qualcosa in lei si era spento per sempre. Lo spiegò all‟uomo che le aveva chiesto di sposarla – senza raccontargli tutto il resto. Gli disse che per questa ragione lei non poteva sposare nessuno. Ma lui disse che la amava, e che anche se non ci potevano essere rapporti fisici tra loro, avrebbe voluto dividere la vita con lei. Myū non riuscì a trovare ragioni per rifiutare quella proposta. Lo conosceva da quando erano bambini, e aveva provato sempre simpatia per lui. Qualunque direzione avesse preso il loro rapporto, era l‟unica persona con cui lei potesse pensare di vivere. Inoltre, a essere realistici, nel suo ruolo di direttore dell‟azienda, il matrimonio era più o meno una scelta obbligata. 
Con mio marito ci vediamo soltanto nei weekend, – continuò Myū. – Ma fondamentalmente andiamo d‟accordo. Siamo come vecchi amici, e anche come compagno di vita, nel tempo che passiamo insieme, mi fa sentire rilassata e a mio agio. Possiamo parlare di molte cose, e sappiamo di poterci fidare l‟uno dell‟altra. Dove e come lui soddisfi le sue esigenze sessuali non lo so, ma non è affar mio. Comunque, tra noi due non esiste sesso. Non ci tocchiamo neanche. È triste, ma non ho nessun desiderio di toccarlo. Semplicemente, non mi va. 
Stanca di parlare, Myū si coprì il viso con le mani. Oltre la finestra, il cielo si era ormai rischiarato. 
Un tempo ho vissuto, e anche ora in qualche modo continuo a vivere, e nella realtà sono qui di fronte a te e sto parlando. Ma la persona che è qui adesso non sono veramente io. Quella che vedi non è che l‟ombra della me di un tempo. Tu vivi veramente. Ma io no. Anche in questo momento, mentre ti parlo, la mia voce mi risuona all‟orecchio come una debole eco. 
In silenzio, misi il braccio intorno alla spalla di Myū. Non trovavo le parole giuste. Perciò non feci altro che tenerla stretta a lungo. 

Io amo Myū. Superfluo aggiungere che amo la Myū da questo lato dello specchio. Ma amo anche, allo stesso modo, la Myū che sta dall‟altra parte. Di questo sono assolutamente certa. Se solo ci penso, comincio a sentire dentro di me uno scricchiolio, come se anch‟io stessi per dividermi in due. La divisione di Myū mi sembra riflettere il mio stesso essere divisa. 
E poi, ho un dubbio. Se questa parte di qua, dove Myū è adesso, non fosse il suo vero mondo (cioè se la parte di qua fosse in realtà l‟altra parte), io che vivo in stretta intimità con Myū in questa dimensione del tempo, che cosa sarei io? 
13 


Lessi entrambi i documenti due volte. La prima rapidamente, la seconda lentamente, prestando attenzione ai particolari, per imprimerli bene nella mente. Tutti e due erano sicuramente opera di Sumire. Vi si trovavano modi di dire ed espressioni particolari che unicamente lei avrebbe potuto usare. Solo il tono era piuttosto diverso da quello abituale di Sumire. Vi era un controllo che mancava nelle cose da lei scritte fino ad allora, e una maggiore distanza. Ma sul fatto che fosse lei l‟autrice, non c‟era il minimo dubbio. 
Non senza qualche esitazione, infilai il floppy disk nella tasca della mia borsa. Se Sumire fosse tornata sana e salva, l‟avrei rimesso al suo posto. Il problema era se lei non fosse tornata. In quel caso qualcuno si sarebbe occupato dei suoi oggetti, e avrebbe trovato il dischetto. E io non volevo che il suo contenuto fosse letto da nessun altro. 
Dopo aver letto i documenti, non riuscivo più a starmene fermo in casa. Indossai una camicia pulita, uscii dal cottage e scendendo la scalinata mi diressi in paese. Nella banca davanti al porto cambiai cento dollari di traveller‟s cheques, al chiosco comprai un quotidiano in inglese, e mi sedetti al caffè, sotto un ombrellone, a leggere. Chiamai il cameriere dall‟aria addormentata, e ordinai una limonata e un toast al formaggio. Con una corta matita prese nota sul suo blocchetto, impiegando molto tempo. La sua camicia bianca aveva una grande macchia di sudore sulla schiena. Una macchia espressiva, che sembrava volesse dire qualcosa. 
Dopo aver letto quasi meccanicamente il giornale, mi misi a guardare il porto nella luce del pomeriggio. Un cane nero e macilento spuntato fuori da chissà dove mi annusò per qualche istante i piedi, poi, esaurito ogni interesse, si allontanò. In quel caldo e languido pomeriggio estivo, dovevano essersi tutti rifugiati nella propria tana. Gli unici ancora in movimento erano il cameriere e il cane, ma era improbabile che anche loro potessero continuare ancora per molto. Il vecchio che poco prima al chiosco mi aveva venduto il giornale, dormiva a gambe larghe sulla sedia sotto l‟ombrellone. La statua dell‟eroe al centro della piazza sopportava come sempre senza un lamento i raggi del sole che bruciavano la sua schiena. 
Rinfrescandomi le mani e la fronte col bicchiere di limonata fredda, cercavo di riflettere sui possibili rapporti tra i testi scritti da Sumire e la sua scomparsa. 
Per molto tempo Sumire si era allontanata dalla scrittura. Da quando aveva incontrato Myū a quel banchetto di nozze, aveva perso completamente il desiderio di scrivere. E invece, in quest‟isola greca, aveva scritto quei due testi uno dietro l‟altro. Per quanto avesse potuto scrivere rapidamente, per completare due testi di quella lunghezza aveva avuto bisogno di tempo e concentrazione. Qualche cosa doveva averla fortemente stimolata, spingendola a mettersi davanti alla scrivania. 
Cosa poteva essere stato? Anzi, per essere più precisi, qual era, se c‟era, il filo che legava quei due scritti? Alzai gli occhi, e guardando gli uccelli in fila sulla banchina, pensai. 
Il caldo era troppo intenso per ragionamenti complicati, e io mi sentivo stanco e confuso. Ma, come in un disperato tentativo di riorganizzare le truppe superstiti, cercai di chiamare a raccolta – senza trombe né tamburi – la capacità di concentrazione residua. Ritrovato un barlume di intelligenza, ricominciai il ragionamento. 
– È meglio pensare una cosa piccola con la propria testa che una cosa grande con la testa di un altro, – provai a dire sottovoce. È una frase che dico spesso ai miei allievi. Ma sarà davvero così? A parole è facile, ma in realtà anche pensare una cosa piccola, con la propria testa, è molto difficile. Anzi, può darsi che proprio pensare in piccolo sia l‟impresa più ardua. Soprattutto quando non ci si muove nel proprio territorio. Il sogno di Sumire. La divisione in due di Myū. 

Si tratta di due mondi differenti, mi venne in mente tutt‟a un tratto. Era questo l‟elemento in comune tra i due testi. 

DOCUMENTO 1: 
Vi si racconta soprattutto un sogno fatto da Sumire. Lei sale su una lunga scala per andare a incontrare la madre morta. Ma quando arriva alla sommità, la madre sta già per scomparire, diretta verso il mondo che sta dall‟altra parte. Sumire non può fermarla. Quindi, sulla cima di una torre si ritrova circondata da presenze di un altro mondo. Sumire ha già fatto più volte sogni simili. 
DOCUMENTO 2: 
Vi si racconta uno strano incidente accaduto a Myū quattordici anni prima, nel parco dei divertimenti di una cittadina svizzera. Rimasta imprigionata nella cabina della ruota panoramica, Myū con il binocolo vede se stessa nel proprio appartamento. Il suo Doppelgänger. Quest‟esperienza provoca il crollo di Myū (o in qualche modo lo porta alla luce). Per usare l‟espressione di Myū, il suo essere è diviso in due parti separate da uno specchio. Sumire la convince a raccontare la storia, e la trascrive. 

L‟elemento comune tra i due scritti era chiaramente il rapporto tra «questa parte» e «l‟altra parte», lo scambio tra le due dimensioni. Probabilmente era questo il punto che aveva catturato l‟attenzione di Sumire e che l‟aveva spinta a mettersi alla scrivania e a impiegare del tempo per scrivere quei due testi. Come lei stessa aveva detto, aveva cercato, scrivendo, di mettere a fuoco alcune cose, cioè di pensare. 
Il cameriere venne a portar via il piatto vuoto del toast, così ordinai un‟altra limonata, con molto ghiaccio. Quando me la portò, dopo averne bevuto un sorso, di nuovo usai il bicchiere per rinfrescarmi la fronte. 
«Che cosa farò se Myū mi rifiuta? – aveva scritto Sumire alla fine del primo documento. – In quel caso dovrò per forza scendere a patti con la realtà. Il sangue deve essere versato. Devo affilare il coltello, e da qualche parte pugnalare un cane alla gola». 
Che cosa aveva cercato di dire? Un‟allusione a un suo possibile suicidio? A me non sembrava. Non sentivo in quelle parole l‟odore del sangue. Anzi, io ci coglievo la volontà di andare avanti, un atteggiamento di riscossa. Anche il sangue del cane era chiaramente da intendere in senso metaforico, come le avevo spiegato in quella nostra conversazione sulla panchina del parco di Inokashira. Era un‟immagine che rappresentava, in chiave magica, il rinnovamento della forza vitale. La mia storia sulle porte cinesi era una metafora del processo attraverso il quale un romanzo acquista un potere magico. 
Da qualche parte devo pugnalare un cane alla gola. 
Che voleva dire quel «da qualche parte»? 
I miei ragionamenti urtavano contro un muro compatto, e non potevano proseguire. 
Dove poteva essere finita Sumire? C‟era qualche posto di quest‟isola 
in cui dovesse andare? 
Non riuscivo in nessun modo a scacciare dalla mia mente l‟immagine di Sumire caduta in un buco profondo, un pozzo o qualcosa, in un luogo isolato, che aspettava da sola un aiuto. Forse ferita, o sofferente per la fame, la sete, la solitudine. A questo pensiero, la mia angoscia diventava insostenibile. 
Ma i poliziotti ci avevano assicurato che sull‟isola non esisteva nemmeno un pozzo. «Non abbiamo mai sentito parlare di nessun buco nel terreno nelle vicinanze del paese, – avevano detto. – L‟isola è piccola, e se ci fosse un buco o un pozzo da qualche parte lo sapremmo». E probabilmente era così. 
Provai a pensare a un‟altra ipotesi. 
Sumire era passata dall‟«altra parte». 
Questo avrebbe spiegato molte cose. Sumire aveva attraversato lo specchio. Forse era andata a incontrare la Myū che si trovava dall‟altro lato. Visto che la Myū da questa parte non poteva accettarla, non era la cosa più naturale da fare? 
Cercai di ricordare le sue parole. Aveva scritto, più o meno: «Cosa possiamo fare allora per evitare di andare a sbattere con violenza contro qualcosa? Se si segue la logica, la soluzione è semplice. Sognare. Continuare a sognare. Entrare nel mondo dei sogni e non uscirne più. Vivere lì per sempre». 
Avevo un dubbio. Un grosso dubbio. Come si faceva ad andare dall‟altra parte? 
A parole era facile. Ma in pratica? 
E così mi ritrovavo di nuovo all‟inizio. 

Provai a pensare a Tōkyō. Al mio appartamento, alla scuola dove lavoravo, alla spazzatura organica che avevo buttato di nascosto in un cestino della stazione. Anche se erano passati solo due giorni da quando avevo lasciato Tōkyō, mi sembrava già un mondo a parte. Tra una settimana sarebbero ricominciate le lezioni. Provai a immaginarmi di fronte a trentacinque bambini. Da lontano, il fatto che il mio lavoro fosse insegnare qualcosa a qualcuno, sembrava una cosa assurda e insensata. Che i miei allievi fossero bambini di dieci anni non cambiava l‟assurdità della cosa. 
Pensai a Sumire. All‟incredibile erezione che avevo avuto stando accanto a lei il giorno del trasloco. Non avevo mai avuto prima un‟erezione di quella intensità. Era stata così potente da sentirmi quasi lacerare. In quel momento nella mia fantasia – quella che Sumire chiamerebbe il «mondo dei sogni» – avevo fatto l‟amore con lei. Ma quella sensazione, nei miei ricordi, era molto più reale di quando avevo fatto l‟amore con altre donne nella realtà. 
Bevvi gli ultimi sorsi di limonata, per cancellare il gusto che sentivo in bocca. 

Provai a riprendere di nuovo la mia «ipotesi». Tentando di spingermi un po‟ oltre. Supponiamo, pensai, che Sumire abbia trovato una via d‟uscita da qualche parte. Non ho modo di sapere di che tipo di uscita si tratti, né come Sumire l‟abbia trovata. Di questo mi occuperò dopo. Immaginiamo che sia una porta. Chiudo gli occhi e visualizzo concretamente questa porta. Una comunissima porta in un muro qualunque. Da qualche parte Sumire ha trovato questa porta, ha allungato la mano, girato la maniglia e con la massima facilità l‟ha attraversata, passando da questa parte all‟altra. Con il suo sottile pigiama di seta e i suoi sandali da mare. 
Non so immaginare che cosa abbia trovato dall‟altra parte. Ma la porta si è richiusa, e Sumire non può più fare ritorno. 

Tornai al cottage, e usando quello che c‟era in frigorifero mi preparai una semplice cena. Pasta con pomodoro e basilico, insalata, una birra Amstel. Poi mi sedetti in veranda e lasciai vagare i miei pensieri. O forse non pensai affatto. Non arrivò nessuna telefonata. Probabilmente Myū da Atene stava cercando di chiamarmi. Ma nell‟isola non si poteva fare affidamento sui telefoni. Come la sera prima, l‟azzurro del cielo si faceva progressivamente più intenso, una grande luna rotonda saliva sul mare, e alcune stelle bucavano il cielo. Il vento soffiava lungo il pendio, facendo fremere i fiori di ibisco. I fari senza guardiano che si ergevano sulla punta del molo si accendevano di una luce intermittente, un‟immagine che sembrava appartenere al passato. Alcuni isolani salivano lentamente lungo il pendio trascinandosi dietro gli asini. Una conversazione dai toni acuti si avvicinò, poi subito si allontanò. Quel paesaggio straniero mi comunicava una piacevole sensazione di naturalezza. 
Non arrivò nessuna telefonata e Sumire non apparve. Non ci fu che lo scorrere lento e tranquillo del tempo, e il graduale infittirsi dell‟oscurità. Presi alcune cassette che erano nella stanza di Sumire, e provai ad ascoltarle nello stereo del salotto. Una di esse era una raccolta di Lieder di Mozart. Sull‟etichetta, nella calligrafia di Sumire c‟era scritto: «Elisabeth Schwarzkopf e Walter Gieseking (p)». Non me ne intendo molto di musica classica, ma intuii subito la bellezza di quella musica. Lo stile del canto era un po‟ antiquato, ma produceva in me la stessa sensazione di spontaneo abbandono che mi dava leggere una prosa fluida e sapiente. Il delicato duetto di cantante e pianista, tutto un gioco di ritirarsi e farsi avanti, riviveva nell‟incisione con tanta freschezza da darmi l‟impressione che fossero lì davanti ai miei occhi. Tra i brani c‟era probabilmente anche La violetta. Sprofondato nella sedia, chiusi gli occhi e divisi con Sumire quella musica. 

Fui svegliato dal suono di una musica. Non era un suono forte. Era anzi così lontano da essere quasi impercettibile. Tuttavia come un marinaio senza volto che ritira un‟ancora affondata nel mare, lento ma risoluto, era riuscito a strapparmi dal sonno. Mi levai a sedere sul letto, avvicinai il viso alla finestra e tesi l‟orecchio. Era sicuramente una musica. Le lancette dell‟orologio sul comodino segnavano l‟una passata. Chi poteva suonare a quell‟ora? 
Mi infilai i pantaloni, una camicia, le scarpe, aprii la porta e uscii. Le luci delle case vicine erano tutte spente. Non c‟era in giro anima viva. Non soffiava il vento, e non si sentiva nemmeno il rumore delle onde. Solo la luce della luna inondava silenziosa la terra. Restai lì in piedi, tentando di catturare quel suono. La musica sembrava provenire dalla cima della montagna. Ma questo era molto strano. Su quella montagna scoscesa non c‟erano centri abitati, e gli unici a vivere lì erano i monaci, dediti alle loro pratiche ascetiche, e qualche pastore. Ed era impensabile che gli uni o gli altri si mettessero a far festa a quell‟ora di notte. 
Lì fuori all‟aperto, il suono della musica mi giungeva più chiaro di prima, quando ero in casa. Non riuscivo a distinguere bene la melodia, ma a giudicare dal ritmo doveva essere una musica greca. Riconoscevo lo stile grezzo e tagliente della musica suonata dal vivo, diverso dal suono artificiale diffuso da altoparlanti. 
Ormai ero completamente sveglio. La notte estiva era piacevole, e aveva una misteriosa profondità. Se non fossi stato angosciato dalla scomparsa di Sumire, avrei anche provato una sensazione mistica. Posai le mani sui fianchi, allungai la schiena, guardai il cielo e respirai profondamente. Mi sentii internamente purificato dall‟aria fresca della notte. Chissà se Sumire, da qualche parte, sta sentendo anche lei questa musica? pensai. 
Decisi di camminare un po‟ nella direzione da cui giungeva la musica. Se possibile volevo capire da dove veniva e chi era a suonarla. La strada per la montagna era la stessa che avevo fatto quella mattina per andare alla spiaggia, quindi non c‟era pericolo che mi perdessi. Sarei arrivato fin dove potevo arrivare. 
La luna illuminava ogni cosa, rendendo agevole il cammino. La sua luce creava intricati disegni di ombre negli spazi tra una roccia e l‟altra, e tingeva il suolo di misteriose sfumature. La suola di gomma delle mie scarpe da jogging produceva un rumore esagerato ogni volta che calpestava un sassolino. Man mano che salivo, la musica si faceva più alta, e ormai riuscivo a sentirla distintamente. Il posto dove suonavano sembrava trovarsi in cima alla montagna. C‟erano uno strumento a percussione non ben definito, un buzuki, una fisarmonica e un flauto, forse una chitarra. Oltre a questi strumenti, non si sentiva altro suono. Né canti, né voci di persone. L‟esecuzione continuava senza pausa, a un ritmo così costante da risultare quasi monotono. 
Da un lato provavo il desiderio di vedere cosa succedeva in cima alla montagna, dall‟altro avevo il dubbio che fosse meglio evitare di spingersi fin lassù. Un‟irresistibile curiosità si scontrava con un‟istintiva paura. Ma in ogni caso, non potevo non proseguire. Era come nei sogni, dove manca il principio che rende possibile scegliere. O forse è assente la scelta che dà vita a quel principio. 
Una fantasia mi attraversò la mente: E se anche Sumire, pensai, qualche notte prima, fosse stata svegliata come me in piena notte da questa musica, e spinta dalla curiosità si fosse arrampicata per questo sentiero vestita solo del suo pigiama di seta? 
Mi fermai e mi voltai indietro. Il sentiero, come la scia biancastra e viscida lasciata da un gigantesco insetto, proseguiva fino al paese. Alzai lo sguardo verso la luna, poi istintivamente mi guardai le mani, illuminate dalla sua luce. E di colpo ebbi la netta percezione che quelle non fossero più le mie. Non so spiegare perché, ma mi bastò un‟occhiata per capirlo. Le mie mani non erano più le mie, e i miei piedi non erano più i miei. 
Il mio corpo, immerso nel pallido chiarore lunare, mancava di calore, come una statua di gesso. Come i maghi nell‟arcipelago delle Indie, qualcuno, usando una formula magica, aveva soffiato in questo cumulo di terra una vita temporanea. Mancavano le fiamme della vita vera. La mia vera vita era addormentata da qualche parte e un essere senza volto l‟aveva ficcata in una borsa e stava per portarsela via. 
Fui assalito da una sensazione di freddo così forte da togliermi il respiro. Qualcuno, a mia insaputa, aveva sovvertito l‟ordine delle mie cellule, e allentato il filo della mia coscienza. Non riuscivo a ragionare. L‟unica cosa che potevo fare era fuggire di corsa verso il mio solito rifugio. Inspirai con forza e mi tuffai in fondo al mare della coscienza. Spostando l‟acqua pesante con entrambe le mani, scesi in fretta e mi afferrai con le braccia a una grossa pietra che trovai laggiù. L‟acqua, come per respingere l‟invasione, mi premeva con forza contro i timpani. Strinsi gli occhi, trattenni il respiro e resistetti. Una volta presa questa decisione, non era così difficile. Ci si abituava subito, alla pressione dell‟acqua, alla mancanza d‟aria, alla fredda oscurità, ai segnali emessi dal caos. Era un‟azione che avevo compiuto così tante volte, fin da bambino, da averne la completa padronanza. 
Il tempo si era alterato, aggrovigliato, disfatto e riorganizzato. Il mondo si era allargato a dismisura, e allo stesso tempo ne erano stati fissati i limiti. Alcune vivide immagini – immagini e nient‟altro – avevano attraversato silenziosamente i corridoi bui come meduse, come anime alla deriva. Ma io cercavo di non guardarle. Se avessi mostrato di riconoscerle anche solo minimamente, si sarebbero subito ammantate di qualche significato. Il significato si sarebbe unito alla dimensione del tempo, e la dimensione del tempo mi avrebbe mio malgrado risospinto verso la superficie dell‟acqua. Serrai forte la mia mente, e aspettai che il loro corteo passasse. 
Non so dire per quanto tempo io sia rimasto così. Ma quando, risalito in superficie, riaprii gli occhi e piano piano ripresi a respirare, la musica era cessata. Sembrava che i suonatori avessero interrotto il loro enigmatico concerto. Tesi le orecchie. Non si sentiva nulla. Assolutamente nulla. Né musica, né voci, né il brusio del vento. 
Volevo controllare l‟ora, ma non avevo l‟orologio. L‟avevo lasciato sul comodino. 
Guardai il cielo: rispetto a prima le stelle sembravano più numerose. Ma forse era solo una mia allucinazione. Avevo la percezione che il cielo stesso avesse subìto una metamorfosi. La singolare sensazione di estraneità del mio corpo che avevo provato prima si era dissolta. Mi stirai, piegai le braccia e le dita. Il mio corpo era di nuovo il mio. La camicia si era raffreddata dove era bagnata di sudore, sotto le braccia. 
Mi sollevai dall‟erba e ripresi a salire per il sentiero. Visto che ero arrivato fin lì, avrei provato a raggiungere la cima. Avrei voluto almeno verificare la presenza di segni che indicassero se c‟era stata la musica o no. Dopo cinque minuti mi trovavo sulla cima. A sud, sotto il pendio da cui ero venuto, si vedevano il mare, il porto e il paese immobile. Poche luci erano accese lungo la strada che costeggiava il mare. L‟altro lato della montagna era avvolto dall‟oscurità, fin dove l‟occhio arrivava. Non c‟era nemmeno una piccola luce accesa. Aguzzando la vista, molto in lontananza, si vedeva il profilo di un‟altra montagna affiorare appena nel chiarore lunare. Oltre, si addensava un‟oscurità ancora più profonda. Ma non c‟era nessun segno che in quel luogo si fosse svolta una festa di qualche tipo. 
A questo punto, non ero neanche più sicuro di avere davvero ascoltato quella musica. In fondo all‟orecchio ne conservavo ancora una fievole eco. Ma col passare del tempo, la mia certezza si faceva sempre più debole. Forse non c‟era mai stata nessuna musica, fin dall‟inizio. Forse, per qualche allucinazione, le mie orecchie avevano erroneamente captato qualcosa che apparteneva a un tempo e a uno spazio differenti. Chi potevano essere quei pazzi che si riunivano all‟una di notte in cima a una montagna a suonare? 
Guardando il cielo dall‟alto della montagna, la luna appariva incredibilmente vicina, e priva di grazia. Una grossolana sfera di pietra, la cui pelle era corrosa dall‟impietoso scorrere del tempo. Le ombre sinistre dalle forme più varie che ne ricoprivano la superficie erano le cellule cieche di un cancro che allungava i suoi tentacoli verso il tepore della vita. La luce della luna distorceva i suoni, dissolveva i significati e seminava dubbi. Era stata lei a far vedere a Myū l‟immagine di un‟altra se stessa. Era stata lei a far sparire Sumire. Era stata lei (forse) a eseguire quella musica, e a portarmi fin lì. Davanti a me si apriva un‟oscurità senza fondo, dietro di me c‟era un mondo pallidamente illuminato. Sulla cima di una montagna in un paese straniero, mi lasciavo bagnare dalla luce lunare. Non potei fare a meno di chiedermi se non fosse stato tutto accuratamente congegnato fin dall‟inizio. 

Tornato al cottage, bevvi un po‟ del brandy di Myū. Poi cercai di rimettermi a dormire. Ma non ci riuscii. Non potevo chiudere occhio. Fino a quando il cielo a oriente non cominciò a schiarirsi, rimasi sotto l‟assedio della luna, della forza di gravità, dell‟agitazione nell‟atmosfera. 
Immaginai i gatti ridotti allo stremo dalla fame in quell‟appartamento sbarrato, quelle piccole e morbide belve carnivore. Io (il vero me) ero lì morto e loro erano vivi. Li vidi che divoravano la mia carne, prendevano a morsi il mio cuore, bevevano il mio sangue. Tendendo l‟orecchio, riuscivo a sentire in un luogo lontano il rumore che facevano nel succhiare il mio cervello. Le sagome flessuose dei gatti circondavano la mia testa spaccata e succhiavano la zuppa grigia e viscida che vi era conservata. Le punte delle loro lingue rosse e ruvide leccavano abili le morbide pieghe del cervello. A ogni colpo di lingua, la mia coscienza, come un vapore caldo, ondeggiava e si dissolveva. 
14 


Sumire non fu più ritrovata. Le parole di Myū si erano rivelate esatte: era svanita come fumo. 
Myū tornò sull‟isola due giorni dopo, con il traghetto del mattino, accompagnata da un funzionario del Consolato giapponese e da un ufficiale di polizia. Ebbero vari incontri con la polizia locale e fu decisa una nuova indagine a tutto campo che coinvolgeva anche gli abitanti dell‟isola. La foto del passaporto di Sumire fu pubblicata con gran risalto sui quotidiani nazionali allo scopo di raccogliere informazioni. In seguito a ciò giornali e polizia ricevettero un numero non indifferente di chiamate, ma purtroppo nessuna riuscì a fornire indizi utili. Si trattava sempre di notizie relative a qualche altra persona. 
Vennero anche i genitori di Sumire, ma io lasciai l‟isola poco prima del loro arrivo. È vero, stavano per ricominciare le lezioni, ma soprattutto non me la sentivo di incontrarli in quella circostanza. Per giunta i media giapponesi, che avevano appreso la notizia dai giornali greci, avevano cominciato a farsi vivi con il Consolato giapponese e la polizia locale. Dissi a Myū che ormai dovevo fare ritorno a Tōkyō. Restare ancora sull‟isola non sarebbe servito a ritrovare Sumire. Myū annuì. 
La tua presenza qui fino ad ora è stata già di grande aiuto, – disse. – Davvero. Se tu non fossi venuto e io avessi dovuto affrontare tutto da sola, a quest‟ora sarei già crollata. Ma ora ce la posso fare. Ai genitori di Sumire parlerò io. Saprò cavarmela anche con i giornalisti. Perciò non ti preoccupare del resto. In questa vicenda tu non hai mai avuto nessuna responsabilità. Quando voglio, so essere molto forte, e sono abituata a risolvere tutte le faccende pratiche. 

Mi accompagnò fino al porto. Presi il traghetto del pomeriggio per Rodi. Erano passati dieci giorni da quando Sumire era scomparsa. Al momento di separarci, Myū mi abbracciò. Lo fece in modo molto spontaneo, e poi mi tenne stretto a lungo, le braccia intorno alla mia schiena, senza parlare. La sua pelle, sotto il sole caldo del pomeriggio, era sorprendentemente fresca. Era come se, attraverso i palmi delle mani, cercasse di comunicarmi qualcosa. Lo sentivo. Chiusi gli occhi e tesi l‟orecchio. Ma era qualcosa che non si esprimeva, non poteva esprimersi a parole. In quel silenzio, tra noi ci fu uno scambio profondo. 
Abbi cura di te, – disse Myū. 
Anche tu, – risposi. Poi tutti e due, lì sul molo, restammo qualche istante senza parlare. 
Vorrei che mi rispondessi sinceramente, – disse Myū con voce molto seria proprio quando stavo per imbarcarmi sulla nave. – Tu credi che Sumire non sia più viva? 
Scossi la testa. – Non ho nessuna prova concreta, ma io sento che Sumire è viva, da qualche parte. Anche se è passato tutto questo tempo, io non ho la sensazione che sia morta. 
Myū incrociò le braccia abbronzate. 
In realtà neanch‟io, – disse. – Ho la tua stessa sensazione. Sumire non è morta, lo sento. Ma allo stesso tempo, ho il presentimento che non la vedrò mai più. Come te però, non ho nessuna prova. 
Rimasi in silenzio. Un silenzio che andò a riempire le tante fessure ancora aperte. Gli uccelli fendevano con stridi acuti il cielo senza nuvole, e nel caffè il solito cameriere dalla faccia assonnata portava le bevande ai tavoli. 
Myū pensava a qualcosa, le labbra serrate. Poi chiese: – Non mi porti rancore? 
Per il fatto che Sumire è scomparsa? –Sì. 
Perché dovrei portarti rancore? 
Non lo so –. Una stanchezza a lungo soffocata traspariva dalla sua voce. – Ho avuto la sensazione che non solo Sumire, ma che anche te, non ti avrei più rivisto. Perciò te l‟ho chiesto. 
Non ti porto nessun rancore, – le dissi. 
Ma nel futuro, chissà... 
Io non sono uno che porta rancore così, senza ragione. 
Myū si tolse il cappello, si aggiustò i capelli sulla fronte, poi se lo mise di nuovo. Mi guardò con gli occhi lucidi. 
Forse perché non ti aspetti mai molto dagli altri, – disse Myū. I suoi occhi erano trasparenti e profondi. Come l‟oscurità del crepuscolo, la sera in cui l‟avevo incontrata per la prima volta. – Io non sono così. 
Ma tu mi piaci molto, veramente. 
Poi ci separammo. Il traghetto uscì dal porto in retromarcia, sollevando schiuma con l‟elica, quindi, facendo una lenta rotazione di centottanta gradi, cambiò direzione. Durante quelle manovre Myū, ferma sull‟orlo della banchina, mi accompagnò con lo sguardo. Indossava un abito bianco aderente, e ogni tanto si teneva fermo il cappello con la mano per non farlo portare via dal vento. La sua figura, in piedi nel porto di quell‟isoletta greca, era talmente delicata ed elegante da sembrare quasi irreale. Appoggiato al parapetto della nave, rimasi a guardarla fino alla fine. Quella scena, in cui il tempo sembrava essersi fermato, si impresse in modo indelebile nella mia memoria. 

Ma il tempo riprese subito a scorrere, e la figura di Myū si fece sempre più piccola, finché non diventò solo un puntino minuscolo, che sembrò sciogliersi nel calore dell‟aria. Poi anche il paese si allontanò, il profilo delle montagne si fece più vago, e infine l‟isola stessa divenne sfocata, si confuse con la luce e svanì. Un‟altra isola apparve, poi anche questa allo stesso modo scomparve alla vista. Dopo un po‟ di tempo, cominciò a sembrarmi che tutte le cose che avevo lasciato dietro di me non fossero mai esistite. 
Forse avrei dovuto restare ancora accanto a Myū, pensai. Pazienza per la ripresa delle lezioni. Fermarmi sull‟isola, farle coraggio, continuare ancora a cercare Sumire, e se ci fosse stato qualcosa di doloroso, tenerla stretta e consolarla. Sapevo che aveva bisogno di me, e in un certo senso anch‟io di lei. 
Myū mi aveva catturato il cuore con una forza inusuale. 

Dal ponte della nave, mentre guardavo la sua figura allontanarsi, me ne resi conto per la prima volta. Forse quel sentimento non si poteva chiamare amore, ma era qualcosa che gli somigliava molto. Era come se tutto il mio corpo fosse stato legato in un nodo di sottilissime corde. Mi sedetti su una panchina del ponte, incapace di calmare quel turbamento, e con la borsa di plastica sulle ginocchia restai a guardare all‟infinito la scia bianca che la nave lasciava dietro di sé. Alcuni gabbiani seguivano il traghetto, come attaccati a quella scia. Sentivo ancora sulla schiena la sensazione delle piccole mani di Myū, come ombre invisibili. 
Avevo intenzione di ritornare immediatamente a Tōkyō, ma inspiegabilmente la prenotazione che avevo fatto il giorno prima risultava cancellata, quindi fui costretto a passare una notte ad Atene. Presi il minibus fornito dalla compagnia aerea e mi fermai nell‟albergo del centro che mi avevano consigliato loro. Era un albergo piccolo e accogliente nei pressi di Plaka, ma a causa di un gruppo di rumorosi turisti tedeschi c‟era un gran chiasso. Siccome non mi veniva in mente nient‟altro da fare, passeggiai un po‟ per il centro, e comprai qualche souvenir, senza sapere per chi, e verso sera salii da solo sul colle dell‟Acropoli. Lì mi stesi su una roccia piatta, e con la brezza che soffiava su di me guardai il tempio bianco, illuminato, stagliarsi sullo sfondo dell‟azzurra oscurità del crepuscolo. Era una scena bellissima, quasi una visione. 
Ma quella che provai fu una solitudine senza paragone. Prima che potessi accorgermene, dal mondo che mi circondava alcuni colori erano scomparsi per sempre. Ero in cima a una montagna desolata, in mezzo alle rovine dei sentimenti, e da lì potevo vedere la mia vita fino a molto lontano. Era un paesaggio che ricordava le illustrazioni dei romanzi di fantascienza che leggevo da bambino: un pianeta arido e deserto, senza nessun segno di vita. Le giornate erano terribilmente lunghe, e la temperatura dell‟atmosfera era sempre o torrida o glaciale. L‟astronave che mi aveva portato in quel luogo era sparita, e io non potevo più andare da nessuna parte. Non mi restava che contare sulle mie sole forze per sopravvivere. 

Capii ancora una volta fino a che punto Sumire fosse per me una persona importante e insostituibile. Con quel suo modo di fare unico, mi teneva legato al mondo. Quando la incontravo e parlavo con lei, o quando leggevo le cose che scriveva, la mia coscienza silenziosamente si espandeva, e riuscivo a vedere paesaggi che non avevo mai visto. In modo del tutto naturale, i nostri spiriti si completavano. Io e Sumire aprivamo le nostre anime e ce le mostravamo a vicenda, come di solito le giovani coppie si spogliano e si mostrano a vicenda i corpi nudi. Era stata un‟esperienza che non avrei mai più potuto ripetere in nessun altro luogo, con nessun‟altra persona, un sentimento che entrambi – senza esprimerlo a parole – avevamo trattato con la massima cura, come qualcosa di prezioso, per non danneggiarlo in nessun modo. 
Il fatto di non poter dividere con lei la gioia dell‟unione fisica, ovviamente, era stato per me molto duro. Se avessimo potuto avere anche quello, sono sicuro che saremmo stati molto più felici. Ma questa era una di quelle cose che non si possono cambiare nemmeno con la forza, come il flusso e il riflusso della marea o il mutare delle stagioni. In questo senso si può dire che il nostro destino non ci lasciava molte possibilità. Forse, per quanta cura e saggezza potessimo profondere in questo rapporto che io e Sumire avevamo sempre cercato di proteggere, la nostra delicata amicizia non avrebbe potuto continuare in eterno, e un giorno ci saremmo trovati la strada sbarrata. Di questo io avevo piena coscienza. 
Ma io amavo Sumire e avevo bisogno di lei più di ogni altro essere al mondo. E non era possibile mettere da parte questo sentimento dicendomi che il nostro rapporto non aveva futuro. Perché non esisteva da nessuna parte qualcosa che potesse sostituirlo. 
E poi ogni tanto sognavo che sarebbe venuto un «improvviso e grande cambiamento». Anche se le probabilità che ciò si realizzasse erano scarse, nessuno poteva negarmi il diritto di sognare. Inutile aggiungere che non si è mai realizzato. 

Con la perdita di Sumire, mi resi conto che anche una gran parte di me andava perduta. Come quando la marea si ritira, trascinando con sé tutto ciò che trova sulla riva. Quello che restava era per me un mondo irriconoscibile e privo di senso. Un mondo buio e freddo. Un‟esperienza come quella che era accaduta tra me e Sumire, in questo nuovo mondo mi sembrava impensabile. 
Per ognuno, ci sono esperienze particolari che è possibile avere soltanto in periodi particolari. Assomigliano a una piccola fiamma. Protetta con cura da persone attente e fortunate, alimentata, portata in alto come una torcia, può anche vivere a lungo. Però, una volta spenta, quella fiamma non tornerà più. Quello che io avevo perso non era solo Sumire. Con lei se n‟era andata anche quella preziosa fiamma. 

Pensai al mondo «dall‟altra parte». Forse lì c‟era Sumire, e la metà perduta di Myū. Quella metà dai capelli neri e dotata di un forte desiderio sessuale. Forse lì si saranno incontrate, avranno esaudito i reciproci desideri, avranno fatto l‟amore. «Faremo cose che non si possono esprimere a parole», mi direbbe Sumire (anche se dirlo sarebbe già «esprimerlo a parole»). 
Chissà se laggiù c‟è un posto anche per me. Potrei stare lì insieme a loro? Mi immagino nell‟angolo di una stanza intento a leggere le opere di Balzac per ammazzare il tempo mentre loro, di là, fanno l‟amore impetuosamente. Poi io e Sumire, che è appena uscita dalla doccia, facciamo una lunga passeggiata e parliamo di tante cose (anche se a parlare, per la maggior parte della conversazione, è come al solito lei). Ma una situazione di questo tipo potrebbe durare in eterno? E sarebbe naturale? «Certo, – direbbe Sumire. – Che bisogno c‟è di farsi tante domande? Non sei il mio perfetto e unico amico?» 

Comunque, in quel mondo non sapevo come entrarci. Passai la mano sulla superficie di roccia liscia e dura dell‟Acropoli e pensai ai secoli di storia che aveva assorbito e custodito in sé. Anch‟io ero imprigionato in quella dimensione temporale. Da lì non mi era possibile uscire. O più esattamente, non cercavo nemmeno di farlo. 

L‟indomani avrei preso l‟aereo e sarei tornato a Tōkyō. Le vacanze erano finite e avrei rimesso i piedi nel territorio della quotidianità, che infinito si stendeva davanti a me. Lì un posto per me c‟era di sicuro. 
Avevo il mio appartamento, la mia scrivania, la mia aula, i miei allievi. 
Giornate tranquille, libri da leggere, qualche avventura ogni tanto. 
Eppure sentivo che non sarei tornato quello di prima. L‟indomani sarei stato una persona diversa. Anche se nessuno intorno a me probabilmente se ne sarebbe accorto. Dato che esternamente non era cambiato niente. Ma dentro di me qualcosa era bruciato, e non esisteva più. Era scorso del sangue. Qualcuno, qualcosa che era dentro di me se ne è andato. La faccia nascosta, senza una parola. La porta si è aperta, la porta si è richiusa. La luce si è spenta. Questo è l‟ultimo giorno per la persona che sono. Il mio ultimo tramonto. Spuntata l‟alba, il me di adesso non ci sarà più. Nel mio corpo entrerà un altro. 

Perché dobbiamo tutti restare soli fino a questo punto? pensai. Che bisogno c‟è? Con tutte le persone che vivono su questo pianeta, e se ognuno di noi cerca qualcosa nell‟altro, perché alla fine dobbiamo essere così soli? A che scopo? Forse il pianeta continua a ruotare nutrendosi della solitudine delle persone? 
Mi girai verso l‟alto su quella roccia piatta, guardai il cielo e pensai 
ai tanti satelliti artificiali che continuano a compiere la loro orbita intorno alla terra. L‟orizzonte era ancora orlato da un leggero chiarore, ma nel cielo di un colore denso come il vino si cominciavano già a vedere le stelle. Tra queste provai a cercare le luci dei satelliti artificiali. Ma il cielo non era abbastanza scuro per poterle vedere a occhio nudo. Le stelle erano immobili, ognuna al proprio posto, come se fossero state attaccate con dei chiodi. Chiusi gli occhi e tesi le orecchie pensando ai discendenti dello Sputnik, che continuavano ad attraversare il cielo, legati alla terra solo dalla forza di gravità. Solitari aggregati di metallo che nelle vuote tenebre del cosmo si incontrano per caso, quasi si sfiorano, quindi si separano per sempre. Senza scambiarsi parole, né promesse.  
15 


Domenica pomeriggio squillò il telefono. Da due settimane era ricominciata la scuola. Nonostante l‟ora tarda, mi stavo preparando il pranzo: spensi il fornello e subito sollevai il ricevitore. Poteva essere Myū che chiamava per darmi notizie di Sumire. Lo squillo comunicava un senso di urgenza. O almeno così mi sembrò. Invece era la «mia ragazza». 
Tralasciando i saluti, cosa per lei insolita, venne subito al dunque: – È una questione importante. Potresti venire qui, adesso? 
Dal tono della voce, si capiva che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Forse il marito aveva scoperto la nostra relazione? Inspirai profondamente. Se a scuola si fosse venuto a sapere che andavo a letto con la madre di uno dei miei allievi, inutile dire che mi sarei trovato davvero in una brutta situazione. Nel peggiore dei casi, avrei anche potuto rimetterci il posto. Ma allo stesso tempo pensai: Se deve essere, sia. 
Dopotutto conoscevo il pericolo fin dall‟inizio. 
Dove devo venire? – chiesi. 
Al supermercato, – rispose lei. 

Presi la metropolitana fino a Tachikawa e arrivai al supermercato, che era vicino alla stazione, alle due e mezzo. Era un pomeriggio caldo, sembrava fosse tornata l‟estate, ma io mi ero messo un completo grigio chiaro con camicia bianca e cravatta, come lei mi aveva chiesto di fare. Aveva detto che così avrei avuto un aspetto più da professore e avrei dato una migliore impressione. «A volte sembri uno studente», aveva aggiunto. 
All‟ingresso chiesi a un giovane impiegato che metteva a posto i carrelli dove fosse l‟ufficio della vigilanza. Mi rispose che l‟ufficio non era lì, ma dall‟altra parte della strada, al secondo piano. Era in uno squallido edificio di tre piani senza nemmeno l‟ascensore. Le crepe nei muri sembravano dire: «Non badateci, tanto prima o poi lo butteranno giù questo posto». Salii per una scala stretta e consumata, e arrivato davanti a una porta con la targa VIGILANZA, bussai. Una robusta voce ma-
schile mi disse di entrare. Aprii la porta: lei e il figlio erano seduti a una scrivania, di fronte a un uomo di mezza età che indossava una divisa da guardia di vigilanza. Non c‟erano altre persone. 
Una stanza né grande né piccola. C‟erano tre scrivanie allineate lungo le finestre, e sulla parete opposta dei contenitori metallici. Su una parete divisoria era affisso un cartello con i turni di lavoro, e vi era appoggiato uno scaffale di metallo con tre berretti della divisa messi in fila. Sulla parete in fondo si apriva un‟altra porta dal vetro smerigliato, dietro la quale forse c‟era una cameretta per riposarsi. La stanza era completamente spoglia. Né fiori, né quadri, né calendari. L‟unica cosa appesa al muro, un orologio rotondo, sembrava sproporzionata. Quella stanza stranamente vuota ricordava l‟angolo di un vecchio mondo dimenticato dal tempo. Anche l‟odore era strano: tabacco, documenti e sudore che negli anni si erano completamente amalgamati. 

Il responsabile della vigilanza era un uomo piccolo e tozzo, sui cinquantacinque anni. Braccia grasse, testa grossa, capelli brizzolati folti e ispidi schiacciati da una brillantina da quattro soldi. Il portacenere davanti a lui era zeppo di mozziconi di Seven Star. Quando entrai nella stanza, si tolse gli occhiali dalla montatura nera, li pulì con un panno e se li rimise. Doveva essere un gesto abituale quando incontrava una persona nuova. Senza occhiali, i suoi occhi erano freddi come pietre lunari. Con gli occhiali, la freddezza indietreggiava per fare spazio a uno sguardo vitreo ma penetrante. Né in un caso né nell‟altro era comunque uno sguardo volto a mettere a suo agio l‟interlocutore. Faceva caldo, e anche se le finestre erano aperte non entrava un filo di vento. Entravano solo i rumori della strada. Un grande autocarro si fermò al semaforo, con un rauco stridore di freni che ricordava il sax tenore del Ben Webster degli ultimi anni. Grondavamo tutti di sudore. Andai davanti alla scrivania, salutai, e tirai fuori il mio biglietto da visita. La guardia lo prese in silenzio, stringendo le labbra, e lo guardò per qualche istante. Poi lo posò sulla scrivania, alzò la testa e mi guardò in faccia. 
È molto giovane per essere un insegnante, – disse. – Quanti anni sono che fa questo lavoro? 
Feci finta di pensare, poi risposi: 
Questo è il terzo anno. 
Hmm, – fece lui, e non disse altro. Ma il silenzio diceva in maniera più che eloquente svariate cose. Prese di nuovo in mano il biglietto da visita e rilesse il mio nome, come per verificare di nuovo qualcosa. 
Io sono Nakamura, capo del servizio di vigilanza, – si presentò. Non mi diede il suo biglietto da visita. – Porti qui una di quelle sedie libere. Mi dispiace per il caldo, ma il condizionatore è rotto. Di domenica non viene nessuno a ripararlo, e qui non c‟è nemmeno un ventilatore. È un supplizio. Con questo caldo, professore, non faccia complimenti, si tolga pure la giacca. Non credo che ci sbrigheremo tanto in fretta, e solo a vederla viene più caldo anche a me. 
Come mi aveva detto, presi una sedia e mi tolsi la giacca. Per il sudore, avevo la camicia attaccata alla pelle. 
Sa, ho sempre invidiato gli insegnanti, – disse la guardia. Sulle sue labbra era dipinto un sorriso di indifferenza. Ma i suoi occhi, attraverso le lenti, come quelli di un pesce degli abissi attento al più piccolo movimento della preda, mi scrutavano dentro. Il modo di parlare poteva sembrare gentile, ma era solo apparenza. In bocca a lui, la parola «insegnante» suonava come un insulto. 
Prendete un mese di vacanze d‟estate, la domenica non dovete andare a lavorare, non fate turni di notte, e ricevete pure regali. Non siete da invidiare? Oggi penso che sarebbe stato meglio se io mi fossi impegnato a studiare e fossi diventato insegnante. Invece il mio destino è fare la guardia in un supermercato. Forse non ero abbastanza intelligente. Lo dico anche ai miei figli. Quando sarete grandi, fate gli insegnanti. È il lavoro più comodo. 

La mia «ragazza» indossava un semplice vestito blu a mezze maniche. Aveva i capelli riuniti in uno chignon e dei piccoli orecchini ai lobi. Portava sandali bianchi coi tacchi, e aveva sulle ginocchia una borsa chiara e un piccolo fazzoletto color crema. Era la prima volta che la incontravo, dopo essere tornato dalla Grecia. Senza dire niente, con gli occhi gonfi di chi ha pianto da poco, spostava lo sguardo da me alla guardia. Si capiva dal suo aspetto che era già stata messa sotto torchio. 
Ci scambiammo una rapida occhiata, poi guardai il figlio. Il suo vero nome era Nimura Shin‟ichi, ma in classe lo chiamavano tutti «Carota». Magro, un visetto sottile, i capelli ondulati e scomposti, faceva davvero pensare a una carota. Anch‟io lo chiamavo spesso così. Era un bambino tranquillo, che parlava il minimo indispensabile. I voti erano discreti, non dimenticava i compiti a casa, rispettava il suo turno per fare le pulizie. Non creava problemi. Ma durante la lezione non alzava mai la mano per parlare, e non s‟imponeva mai sugli altri. Non era odiato, ma non era neanche popolare. Per la madre questo era frustrante, ma dal mio punto di vista era un bambino normale. 

Penso che la madre l‟abbia informata su quanto è successo, – disse la guardia. 
Ho saputo, – risposi. – Ha rubato qualcosa nel supermercato. 
Esattamente, – disse la guardia. Tirò fuori una scatola di cartone che aveva sotto la scrivania, e la mise sul tavolo. Poi la spinse verso di me. Dentro c‟erano otto piccole cucitrici di plastica. Ne presi una e provai a esaminarla. Vi era attaccato il prezzo: 850 yen. 
Otto cucitrici, – dissi. – Questo è tutto? 
Sì, è tutto. 
Rimisi le cucitrici nella scatola. 
In totale sarebbero 6800 yen, vero? 
Esatto: 6800 yen. Immagino quello che pensa. «Certo, rubare in un negozio non va bene. È contro la legge. Però, perché fare tante storie per il furto di otto cucitrici? E poi è solo un bambino!» Non è così? 
Io non dissi niente. 
Ma va bene, anche se lo pensa. Ha ragione. Il mondo è pieno di crimini molto più gravi che rubare otto cucitrici. Io, che prima di fare la guardia qui lavoravo nella polizia, lo so bene. 
Parlando, la guardia mi fissava dritto negli occhi. Io sostenevo il suo sguardo, attento però a non dargli l‟impressione di volerlo sfidare. 
Se si trattasse della prima volta, anche la direzione preferirebbe non sollevare un polverone per una somma così modesta. Non fare più problemi del necessario, questa è la nostra linea. In un caso del genere, porterei qui il bambino, gli metterei un po‟ di paura e la cosa finirebbe lì, o nel peggiore dei casi contatterei i genitori e li inviterei a fare attenzione, senza nemmeno avvertire la scuola. Risolvere la questione in maniera spiccia e indolore è la politica del nostro negozio in caso di furto da parte di bambini. 
Ma oggi non è la prima volta che questo bambino ha rubato. Solo da noi è già la terza volta, o almeno la terza che lo abbiamo beccato. Per giunta sia la prima che la seconda volta si è rifiutato ostinatamente di dire come si chiamava e in che scuola andava. E siccome entrambe le volte è capitato con me, me ne ricordo bene. Con tutto quello che gli ho detto e chiesto, non c‟è stato verso di fargli aprire bocca. Alla polizia i tipi così li chiamavamo «i sordomuti». Non una parola di scusa, non un accenno di pentimento. Anzi, aveva un atteggiamento molto insolente. Gli ho detto che se non mi diceva il nome lo avrei portato alla polizia, ma non ha parlato lo stesso. Non potendo fare altro, l‟ho costretto a mostrarmi la tessera dell‟autobus, e così ho saputo il nome. 
Fece una pausa, aspettando che i particolari della faccenda mi entrassero bene in testa. Intanto continuava a fissarmi, e io a sostenere lo sguardo. 
E poi un‟altra cosa. Quello che ha rubato non mi convince. Non le solite cose da ragazzini. La prima volta quindici portamine, per un totale di 9750 yen. La seconda volta otto compassi, e sono altri 8000 yen. Insomma, ogni volta sceglie un tipo di merce e ne ruba diversi pezzi. Ma non li deve usare lui. Li ruba per il piacere di rubare o per rivenderli ai suoi compagni di scuola. 
Cercai di immaginare la scena di Carota che nell‟intervallo del pranzo rivende le cucitrici rubate ai suoi compagni di classe. Era un‟ipotesi semplicemente assurda. 
 Non capisco bene neanch‟io, – dissi. – Perché ruba e in maniera così sfacciata e nello stesso negozio? Se la cosa si ripete più volte, naturalmente la faccia di chi ha rubato verrà subito notata. C‟è la possibilità che venga chiamata la polizia, e l‟ammenda in caso di riconosciuta colpevolezza è piuttosto salata. Se uno vuole passarla liscia, non sarebbe più logico andare sempre in un negozio diverso? 
E che posso saperne io? Per quanto ne so, potrebbe averlo fatto anche in altri negozi. Oppure chissà, il nostro gli piace particolarmente. O magari la mia faccia gli è antipatica. Io sono solo un addetto alla sicurezza in un supermercato, perciò non mi metto a fare ragionamenti complicati. Non mi pagano abbastanza per questo. Se vuole saperlo, perché non lo chiede a lui? Da quando l‟ho portato qui, sono passate tre ore e non ha detto una sola parola. A vederlo sembra tanto tranquillo, e invece no, è un osso duro. Perciò ho scomodato anche lei. Mi dispiace, di domenica... Però, è già da un po‟ che l‟ho notato, lei ha proprio una bella abbronzatura. Non c‟entra col nostro discorso, ma è andato in vacanza in qualche posto? 
No, in nessun posto in particolare, – dissi. 
Ma lui continuò a guardare la mia faccia con aria significativa. Come a dire che io non ero un elemento secondario del problema. 
Ripresi in mano le cucitrici e le osservai con attenzione. Erano delle piccole, normalissime cucitrici, come ce ne sono in ogni casa e in ogni ufficio. Un articolo di cancelleria di poco prezzo perfetto nel suo genere. La guardia si mise una Seven Star tra le labbra e la accese con un grosso accendino. Poi, girando la testa di lato, cacciò fuori il fumo. 
Mi voltai verso il bambino e con tono pacato gli chiesi: 
Perché hai rubato le cucitrici? 
Carota, che fino ad allora aveva fissato il pavimento, sollevò il viso e mi guardò, ma non rispose. In quel momento mi accorsi che il suo volto era completamente diverso dal solito. Era stranamente privo di espressione, lo sguardo vacuo e assente. 
Non è che sei stato costretto da qualcuno? 
Di nuovo Carota non rispose. Non ero nemmeno sicuro che avesse capito la domanda. Non insistei. In quel momento e in quel posto non sarei riuscito a tirargli fuori niente. Aveva chiuso le porte e sbarrato le finestre. 
Allora, professore, che vogliamo fare? – mi chiese la guardia. – Il mio lavoro consiste nel fare giri di controllo nel supermercato, controllare i monitor, e se trovo qualcuno che ha rubato portarlo in quest‟ufficio: sono pagato per questo. I provvedimenti da prendere in seguito sono una questione diversa. Specialmente quando i colpevoli sono bambini, non si sa bene come trattarli. Che bisogna fare, professore? Di questi problemi ve ne dovreste intendere meglio voialtri. Oppure preferisce che ne parliamo con la polizia? Per me questa è la soluzione più semplice. Non sarei costretto a perdere mezza giornata in modo così inconcludente. 
A dire la verità, in quel momento stavo con la testa da un‟altra parte. Quell‟ufficio squallido e tetro mi aveva ricordato il posto di polizia in quell‟isola greca. E non avevo potuto fare a meno di pensare a Sumire. Alla sua scomparsa. 
Per questo ci misi un po‟ di tempo a capire che cosa volesse dirmi quell‟uomo. 
Lo riferirò a mio marito, e starò molto più attenta al bambino. Gli farò capire che rubare è un crimine. Le assicuro che non vi daremo altri fastidi, – disse lei, con voce atona. 
E non vuole che la cosa diventi di pubblico dominio. Lo so, me l‟ha già detto diverse volte, – continuò il capo della sicurezza, con un tono assai annoiato. Dando qualche colpetto alla sigaretta sul portacenere, fece cadere la cenere. Poi tornò a guardarmi. – Però, secondo me, comunque la vogliate mettere, tre volte in uno stesso posto sono davvero troppe. In qualche modo ci vuole un freno. Lei che ne pensa, professore? 
Non posso dire nulla, se non avrò parlato prima con lui, – risposi. – È un bambino che non ha mai creato problemi, ed è anche intelligente. Sul momento, non ho la minima idea del motivo per cui ha commesso un furto così privo di senso. Ma cercherò di parlargli, prendendo tutto il tempo necessario. Sono sicuro che parlandogli riuscirò a capirci qualcosa. Mi dispiace molto per tutto il fastidio che ha causato. 
C‟è una cosa però che non mi quadra, – disse la guardia, socchiudendo gli occhi dietro le lenti. – Questo bambino, Nimura Shin‟ichi, è uno degli allievi della sua classe. Il che vuol dire che lei lo vede a lezione praticamente tutti i giorni, giusto? 
Sì, esatto. 
Fa la quarta, quindi vuol dire che è stato con lei già un anno e quattro mesi. O mi sbaglio? 
No, è così. L‟ho avuto con me da quando ha cominciato la terza. 
Quanti bambini ci sono nella sua classe? 
Trentacinque. 
Quindi ha modo di conoscerli tutti. Ma lei non ha avuto nessuna avvisaglia del fatto che questo bambino potesse creare dei problemi. Non ha notato nessun segnale. 
No, niente. 
Ma senta un po‟, questo bambino nel giro di sei mesi ha rubato tre volte, e parlo solo di quelle in cui l‟ho scoperto. Sempre da solo. Non è stato qualcuno a costringerlo a rubare. Non l‟ha fatto per necessità, né per un impulso improvviso. E nemmeno per soldi – la signora qui mi raccontava che la sua paghetta è fin troppo alta. Lo fa con convinzione. Ruba per rubare. Insomma, questo bambino ha chiaramente un problema. Qualche segnale dovrebbe esserci stato. 
Parlando da insegnante, le posso dire che il furto reiterato, in particolare quando è compiuto da bambini, nella maggior parte dei casi, più che un atto criminale, è la manifestazione di un sottile disagio psichico. 
Naturalmente è possibile che se io avessi prestato maggiore attenzione avrei potuto intuire qualcosa, e su questo rifletterò. Ma questi stati di disagio sono piuttosto difficili da riconoscere dall‟esterno. Inoltre non credo che valutare l‟azione in se stessa e infliggere una punizione aiuti a risolvere il problema. Se non si trova la causa primaria, e non la si cura, prima o poi il problema si ripresenterà in una forma diversa. Accade spesso che, attraverso l‟espediente del furto, il bambino cerchi di lanciare un messaggio. In questo caso, anche se potrebbe sembrare un metodo poco efficace, l‟unica cosa da fare è parlare con lui, a lungo, mettendoci tutto il tempo necessario. 
La guardia spense la sigaretta, aprì la bocca a metà e mi fissò a lungo in volto come se osservasse un animale raro. Le sue dita, posate sulla scrivania, erano terribilmente grasse. Sembravano dieci strane creature obese e pelose. Nel guardarle, provai un senso di soffocamento. 
Questa roba ve la raccontano all‟università, a quei corsi di formazione o come li chiamate? 
Non soltanto. Sono nozioni di psicologia elementare, che si trovano su tutti i libri. 
Su tutti i libri, – ripeté lui con voce inespressiva. Poi prese un piccolo asciugamano e se lo passò intorno al collo grasso. – E che diavolo è un «sottile disagio psichico»? Senta un po‟, professore, quando facevo il poliziotto avevo a che fare dalla mattina alla sera con persone con «disagi psichici» che, mi creda, non erano sottili per niente. Ce n‟è a bizzeffe di gente così. Se decidessi di ascoltare con attenzione queste persone, «mettendoci tutto il tempo necessario», cercando seriamente di capire che messaggio vogliono lanciare, altro che il mio cervello, non me ne basterebbero nemmeno una dozzina. 
Sospirò, e rimise la scatola con le cucitrici sotto la scrivania. 
Dite tutti tante belle parole. I bambini hanno il cuore puro. Non si devono dare punizioni corporali. Gli uomini sono tutti uguali. Non si misurano le persone dai voti. Bisogna comprenderle parlando con loro, usando tempo e pazienza... Io non ho niente in contrario. Ma ditemi un po‟: con questo sistema il mondo migliora? Nossignore. Anzi, va di male in peggio. Non è affatto vero che gli uomini sono tutti uguali. Ma chi l‟ha detto? In Giappone ci sono centodieci milioni di persone tutte stipate in questo piccolo territorio. Provate a farle diventare tutte uguali. 
Vedrete che inferno! 
È facile dire belle parole. Basta chiudere gli occhi, far finta di niente e rimandare il problema. Evitare interventi spiacevoli, insegnare le canzoncine ai bambini, fargli prendere il diploma, e tutti vissero felici e contenti. Il furto è un messaggio che viene dal cuore dei bambini, il resto non mi interessa. E no, troppo comodo. È comodo pensarla così. Ma chi ne pagherà le conseguenze? Noi. E crede che questo ci faccia piacere? Lei ha l‟aria di uno che pensa: «Tante storie per 6800 yen». Ma provi a mettersi nei panni di chi subisce il furto. Qui ci lavorano non meno di cento impiegati, e tutti quando c‟è una differenza di uno o due yen impallidiscono. Se dall‟incasso mancano cento yen, ce li devono rimettere loro facendo lavoro extra. Ha idea di quanto guadagna all‟ora l‟impiegata alla cassa? Perché non insegnate questo ai vostri studenti? 
Restai in silenzio. Anche lei, anche il bambino restarono in silenzio. Anche il capo della vigilanza, come se finalmente si fosse stancato di parlare, tacque. In un‟altra stanza squillò per un attimo il telefono, e qualcuno sollevò il ricevitore. 
Allora, che cosa vogliamo fare? 
Si potrebbe appendere il bambino dal soffitto a testa in giù finché non ammette di aver sbagliato, che ne dice? 
Non sarebbe una cattiva idea. Ma come lei sa, se lo facessimo sia io che lei saremmo subito licenziati. 
In questo caso non resta che parlare pazientemente col bambino, mettendoci il tempo che ci vuole. Questa è la mia opinione definitiva. 
Un tipo da un‟altra sezione entrò nella stanza senza bussare e disse: – Nakamura, prestami per favore la chiave del deposito –. Nakamura cercò nei cassetti della scrivania, ma non trovò la chiave. – Non c‟è, – rispose. – Strano, è sempre stata qui L‟altro disse che la chiave gli serviva subito per una questione urgente. Da come parlavano, si capiva che si trattava di una chiave piuttosto importante, che avrebbe dovuto essere conservata lì. Misero sottosopra tutti i cassetti, ma la chiave non si trovava. 
Durante quegli istanti, noi tre rimanemmo in silenzio. Ogni tanto lei guardava verso di me, come se cercasse di dirmi qualcosa. Carota continuava a fissare il pavimento con uno sguardo privo di espressione. Io pensavo a tutto quello che mi passava per la testa. Il caldo era atroce. 
L‟uomo che aveva bisogno della chiave alla fine si rassegnò, e borbottando qualcosa se ne andò. 
Adesso basta, – disse il capo della vigilanza Nakamura con tono distaccato ma deciso, tornando a girarsi verso di me. – Vi ho trattenuto abbastanza. Lascio il resto a lei, professore, e a lei che è la madre. Ma se la cosa si dovesse ripetere ancora una volta, vi avverto che andremo giù pesante. Mi avete capito? Non mi piacciono le misure estreme. Ma il lavoro è lavoro. 
Lei annuì, e io pure. Carota sembrava non aver sentito. Mi alzai, e subito anche loro fecero lo stesso, timidamente. 
Un‟ultima cosa, – disse la guardia senza muoversi dalla sedia, e alzando lo sguardo verso di me. – Sarà scortese da parte mia, ma voglio dirlo chiaramente, e cioè lei, professore, a guardarla c‟è qualcosa che mi puzza. Giovane, alto, affabile, abbronzato, logico. Anche le cose che dice sono sensate. Probabilmente piace anche ai genitori. Però, non so come spiegarmi, ma dal primo momento che l‟ho vista c‟è stato qualcosa che mi ha insospettito. Qualcosa che mi puzza. Per carità, non è una critica sul piano personale, non si arrabbi. Vorrei solo capire cos‟è che non mi quadra. 
C‟è una cosa che vorrei chiederle io. Permette? – dissi. – Se le persone non sono tutte uguali, lei dove si colloca? 
La guardia giurata Nakamura inspirò il fumo fino in fondo ai polmoni, scosse la testa, quindi lo espirò lentamente, con fare minaccioso. 
Non lo so. Comunque stia tranquillo, in ogni caso non nel posto dove si trova lei. 

Lei aveva parcheggiato la sua Toyota Celica rossa nel parcheggio del supermercato. La chiamai, e le chiesi se poteva tornare a casa da sola. Volevo parlare a quattr‟occhi col bambino. Lei annuì. Fece per dire qualcosa, ma poi salì in macchina senza parlare, tirò fuori dalla borsa gli occhiali da sole, se li mise e accese il motore. 
Quando lei se ne fu andata, portai Carota in un caffè accogliente che avevo intravisto nelle vicinanze. Finalmente, grazie all‟aria condizionata potei riprendere fiato, e ordinai un tè freddo per me e un gelato per lui. Mi sbottonai il colletto della camicia, tolsi la cravatta e la infilai nel taschino della giacca. Carota era ancora chiuso nel suo silenzio. Né il suo viso né il suo sguardo erano cambiati rispetto a quando era nell‟ufficio della sicurezza del supermercato. Continuava ad avere quell‟atteggiamento assente. Le piccole mani sottili posate sulle ginocchia, teneva gli occhi fissi sul pavimento come per evitare di guardarmi. Io bevvi il tè freddo, ma Carota non toccò il gelato. Si squagliava piano piano nella coppa, però lui non sembrava nemmeno accorgersene. Restammo a lungo così, l‟uno di fronte all‟altro senza parlarci, come due coniugi in crisi. Ogni volta che la cameriera si avvicinava al nostro tavolo, ci guardava preoccupata. 

Accadono tante cose, – dissi dopo che il silenzio era già durato a lungo. Non lo feci tanto per avviare la conversazione: le parole mi uscirono spontaneamente. 
Carota alzò lentamente la testa e mi guardò. Ma non disse nulla. Chiusi gli occhi, sospirai, restai di nuovo per un momento in silenzio. 
Non l‟ho ancora detto a nessuno, – continuai. – Ma quest‟estate durante le vacanze sono andato in Grecia. Tu sai dov‟è la Grecia, vero? Una volta abbiamo visto il video in classe. Nell‟Europa meridionale, nel 
Mediterraneo. Ci sono molte isole, vi si raccolgono le olive. Intorno al 500 a.C. la civiltà greca era nel suo massimo splendore. Ad Atene è nata la democrazia, e Socrate si è ucciso prendendo il veleno. È lì che sono stato. È un posto bellissimo. Ma non ci sono andato per divertimento. Una mia amica è scomparsa su un‟isoletta greca, e io sono andato a cercarla. Ma purtroppo non l‟ho trovata. È svanita così, silenziosamente. Come fumo. 
Carota aprì un poco la bocca, e mi guardò in faccia. Aveva ancora un‟espressione rigida e spenta, ma almeno in fondo agli occhi era tornato un barlume di luce. Mi stava ascoltando. 

Volevo bene a quella mia amica. Le volevo molto bene. Per me era più importante di qualunque altra cosa al mondo. Perciò ho preso l‟aereo e sono volato a cercarla su quell‟isola in Grecia. Ma è andata male. Non sono riuscito in nessun modo a trovarla. Ora che non c‟è più lei, a me non rimane nessun altro amico o amica. Nemmeno uno. 
Non stavo parlando con Carota. Parlavo solamente a me stesso. Dando voce ai miei pensieri. 
Sai qual è la cosa che adesso vorrei fare più di tutte? Salire su un posto alto come le piramidi. Vorrei che fosse un posto molto alto, da cui si potesse godere di una vista sconfinata. Salire sulla cima e girare lo sguardo intorno al mondo, e vedere con i miei occhi quali paesaggi ci sono ancora, e ciò che invece è andato perduto. O forse no, non so. Non sono sicuro di voler vedere davvero tutto questo. Forse ormai non voglio vedere più niente. 
Venne la cameriera, tolse il piatto col gelato sciolto di Carota e mise davanti a me il conto. 

Ho la sensazione di avere sempre vissuto da solo, fin da quando ero piccolo. Avevo i genitori e una sorella ma non sono mai riuscito ad amarli. Non c‟è mai stata tra noi comunicazione reciproca. Perciò ho fantasticato spesso di essere un figlio adottivo. Immaginavo che in seguito a non so quali circostanze ero stato affidato a loro da qualche lontano parente. Oppure che mi avevano preso in qualche orfanotrofio. Adesso capisco che era impossibile. I miei genitori non erano tipi da prendersi a carico un bambino che non gli apparteneva. Comunque io non riuscivo ad ammettere di avere un legame di sangue con loro. Avrei accettato più facilmente l‟idea che fossero per me dei completi estranei. 
Sognavo spesso di una città lontana. In quella città c‟era una casa, e in quella casa viveva la mia vera famiglia. Era una casa modesta ma accogliente. Tutti andavano d‟accordo e ognuno esprimeva con sincerità quello che provava. La sera si udivano i rumori di mia madre che preparava la cena, e c‟era nell‟aria un profumo caldo e delizioso. Era quello il posto che sentivo davvero mio. Nella mia testa mi figuravo sempre quella cucina con me dentro, perfettamente integrato nell‟ambiente. 

Nella mia casa della realtà c‟era un cane, l‟unico a cui volessi veramente bene. Era un bastardo, ma molto intelligente: se gli insegnavi una cosa, non la dimenticava più. Lo portavo ogni giorno a spasso: andavamo al parco, dove mi sedevo su una panchina e parlavo di tutto. Tra noi c‟era una grande intesa. Quelli sono stati i momenti più belli della mia infanzia. Ma il cane, quando io ero in quinta elementare, fu investito da un camion vicino a casa e morì. Poi non mi permisero più di tenerne un altro. Dissero che i cani facevano rumore, sporcavano, e richiedevano lavoro. 
Dopo la morte del mio cane, mi chiusi nella mia stanza a leggere tutto il tempo. Per me il mondo che trovavo nei libri era molto più vivo di quello che vedevo intorno a me. Lì dentro si spalancavano paesaggi mai visti prima. I libri e la musica diventarono i miei amici più grandi. Anche a scuola avevo diversi nuovi compagni, ma nessuno con cui sentissi di potermi aprire. Ci incontravamo tutti i giorni, chiacchieravamo del più e del meno e giocavamo insieme a pallone. Se avevo dei problemi, non mi confidavo con nessuno. Ci pensavo, trovavo una soluzione e agivo, sempre da solo. Ma non soffrivo particolarmente per la solitudine. La consideravo normale. In fondo, tutti gli esseri sono soli. 

Ma quando ero all‟università incontrai quell‟amica, e cominciai a vedere le cose in maniera diversa. Mi resi conto che a forza di pensare in solitudine per tanto tempo, alla lunga ero diventato incapace di andare oltre il mio punto di vista. E cominciai ad accorgermi che essere soli è una cosa molto triste. 
Essere soli è come, in una sera quando diluvia, stare fermi alla foce di un grande fiume e guardare un‟enorme massa d‟acqua gettarsi nel mare. Sei mai stato fermo alla foce di un grande fiume a guardare l‟acqua che si getta nel mare? 
Carota non rispose. 
Io sì, – dissi. 
Carota mi fissava con gli occhi bene aperti. 
Non so perché sia così triste guardare l‟enorme massa d‟acqua del fiume mescolarsi con l‟ancora più grande massa d‟acqua del mare. Ma è davvero triste. Dovresti vederlo anche tu una volta. 
Poi presi la giacca e il conto e mi alzai lentamente. Misi la mano sulla spalla di Carota e anche lui si alzò, e insieme uscimmo dal ristorante. 

Impiegammo una trentina di minuti a piedi per raggiungere casa sua. Mentre camminavamo fianco a fianco, io e Carota non dicemmo nemmeno una parola. 
Nei pressi di casa sua, c‟era un piccolo fiume sormontato da un piccolo ponte di cemento. In realtà non lo si poteva nemmeno chiamare fiume. Era un grande canale di scarico. In passato, quando questa zona era ancora tutta campagna, veniva probabilmente usato per irrigare i campi. Ma adesso l‟acqua era torbida e aveva un vago odore di detersivo. Non si capiva nemmeno se scorresse o no. Sul letto del fiume crescevano fitte le erbacce e si vedeva una rivista di manga aperta. Carota si fermò a metà del ponte e sporgendosi dal parapetto guardò giù. Anch‟io mi misi accanto a lui e guardai in basso. Restammo per un po‟ fermi così tutti e due. Pensai che non se la sentiva ancora di tornare a casa. Lo capivo. 

Carota ficcò la mano in tasca, tirò fuori una chiave e me la porse. Era una chiave normale, con una targhetta rossa. Sulla targhetta c‟era scritto «Deposito 3». Aveva tutta l‟aria di essere la chiave del deposito che cercava il capo della sicurezza Nakamura. Forse quando per qualche ragione Carota era rimasto solo nell‟ufficio, l‟aveva trovata frugando nei cassetti e se l‟era rapidamente infilata in tasca. A quanto pareva, nel suo cuore c‟erano zone oscure, più misteriose di quanto avessi immaginato. Era uno strano bambino. 
La presi, la misi sul palmo della mano, ed ebbi la sensazione che concentrasse il peso dei pregiudizi di tante persone. Sotto la luce abbagliante del sole, mi sembrò qualcosa di miserabile, sporco, infimo. Esitai un attimo, poi con decisione la gettai nell‟acqua. Sollevò un piccolo spruzzo. Il fiume non era molto profondo, ma a causa dell‟acqua torbida la chiave scomparve. Io e Carota restammo per un po‟ fermi lì a guardare la superficie dell‟acqua. Disfarmi della chiave mi aveva fatto sentire leggermente meglio. 
Ormai non c‟è più modo di restituirla, – dissi, quasi parlando a me stesso. – Tanto ne avranno sicuramente un doppione. Era pur sempre la chiave del loro prezioso deposito. 
Quando gli porsi la mano, Carota la prese. Sentii nel mio palmo la sensazione della piccola, delicata mano di Carota. Era una sensazione che ricordavo di aver provato in un tempo molto lontano, da qualche parte, chissà dove era stato. Tenendolo per mano, mi incamminai con lui verso casa sua. 

Quando arrivammo, lei ci aspettava. Si era cambiata, e indossava una graziosa camicia bianca senza maniche e una gonna a pieghe. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Probabilmente, tornata a casa non aveva fatto altro che piangere da sola. Suo marito, il direttore di un‟agenzia immobiliare, la domenica non era mai a casa, per motivi di lavoro o perché andava a giocare a golf. Mandò Carota nella sua stanza al primo piano, e non mi fece sedere in salotto ma al tavolo della cucina. Pensai che lì fosse più facile parlare. C‟erano un gigantesco frigorifero verde avocado, l‟isola al centro e una grande finestra rivolta a oriente. 
Rispetto a prima la sua faccia mi sembra un po‟ più normale, – disse lei a voce bassa. – Appena l‟ho visto nell‟ufficio di quella guardia giurata, non sapevo veramente che fare. Era la prima volta che gli vedevo quell‟espressione. Sembrava che fosse in un mondo a parte. 
Non c‟è da preoccuparsi. Con un po‟ di tempo tornerà come prima. Perciò almeno all‟inizio penso sia meglio lasciarlo tranquillo, senza dirgli niente. 
Che cosa avete fatto poi voi due? 
Abbiamo parlato, – dissi. 
Di che cosa avete parlato? 
Niente di importante. In effetti, sono stato io a parlare. Nessun gran discorso. 
Ti va di bere qualcosa di freddo? 
Scossi il capo. 
A volte mi succede di non sapere più che cosa dire a questo bambino. È una sensazione che diventa man mano più forte, – disse lei. 
Non è necessario sforzarsi di parlargli. Per lui esiste solo il suo mondo di bambino. Se avrà voglia di parlare sarà lui a farlo. 
Ma lui, praticamente non parla quasi mai. 
Attenti a non sfiorarci, seduti uno di fronte all‟altra al tavolo della cucina, parlando eravamo piuttosto in imbarazzo, proprio come un insegnante e una madre che discutono di un figlio con problemi. Mentre lei parlava, intrecciava nervosamente le dita, le stirava, le stringeva. Io non potevo fare a meno di ricordare ciò che quelle dita mi avevano fatto a letto. 
A scuola non dirò niente di quello che è successo, parlerò con calma al bambino, e se sorgono problemi me ne occuperò. Perciò tu non ti angosciare troppo. È un bambino intelligente, e a posto, e col tempo tutto ritroverà il suo equilibrio. Questa è solo una fase. La cosa più importante è che tu ti tranquillizzi... le ripetei frasi come queste più volte, lentamente, con dolcezza, perché entrassero in lei. Alla fine sembrava un po‟ più serena. 
Disse che mi avrebbe accompagnato fino al mio appartamento, a Kunitachi. 
Pensi che il bambino si sia accorto di qualcosa? – mi chiese mentre eravamo fermi a un semaforo. Naturalmente si riferiva alla storia tra noi due. Scossi il capo. – Cosa te lo fa pensare? 
Prima, mentre ero sola in casa e aspettavo che arrivaste, all‟improvviso mi è venuta questa idea. Non ho nessuna ragione precisa, è solo una sensazione. È un bambino molto perspicace, e credo che abbia anche capito chiaramente che le cose tra me e mio marito non funzionano. 
Non dissi nulla. Anche lei non aggiunse altro. 

Lasciò la macchina nel parcheggio prima dell‟incrocio vicino al mio appartamento. Tirò il freno a mano e spense. Quando il rumore del motore e quello della ventola dell‟aria condizionata cessarono, dentro l‟automobile scese un silenzio carico di tensione. Sapevo che lei voleva che la stringessi subito tra le braccia. Immaginando il suo corpo morbido sotto la camicetta, mi si seccò la bocca. 
Penso sia meglio smettere di vederci, – dissi risolutamente. 
Lei non rispose nulla. Con le mani ancora appoggiate sul volante, sembrò fissare l‟indicatore del livello dell‟olio. Ogni espressione era scomparsa dal suo viso. 
Ci ho pensato molto, – dissi. – Non è giusto che io diventi una parte del problema. Per diverse persone. Se sono una parte del problema, non posso diventare una parte della soluzione. 
Diverse persone? 
In particolare per tuo figlio. 
E anche per te stesso? 
Anche, naturalmente. 
E io? Faccio parte di quelle diverse persone? 
Ne fai parte, avrei voluto rispondere. Ma non era facile esprimerlo a parole. Lei si tolse i suoi Ray-Ban verdi e scuri, poi ci ripensò e se li rimise. 
Mi costa un po‟ dirlo, ma non poterti incontrare più per me sarà dura. 
Anche per me naturalmente sarà dura. Sarebbe stato bello se avessimo potuto andare avanti così. Ma non sarebbe giusto. 
Inspirò a lungo, quindi espirò. 
Giusto? E che cosa è giusto? Me lo spieghi? Detto sinceramente, io stessa non so che cosa sia giusto. Però quello che non è giusto, lo capisco. Ma che cosa è giusto? 
Neanche a questo sapevo bene cosa rispondere. 

Lei sembrò sul punto di scoppiare in lacrime. O di mettersi a urlare. Ma riuscì in qualche modo a frenarsi. Strinse il volante con tanta forza che il dorso delle mani diventò rosso. 
Quando ero giovane, molte persone mi cercavano per parlare con me, – disse. – Mi raccontavano ogni sorta di storie. Allegre, belle, insolite. Ma da un certo momento in poi, nessuno ha più parlato con me. Nemmeno una persona. Né mio marito, né mio figlio, né gli amici... Come se al mondo nessuno avesse più niente da dire. Qualche volta ho la sensazione che non mi vedano nemmeno, come se fossi diventata trasparente –. Tolse le mani dal volante, e per un attimo le tenne sospese davanti a sé. – Ma non credo tu possa capire ciò che voglio dire. 
Cercai dentro di me le parole, ma senza trovarle. 
Grazie per oggi, – disse, ricomponendosi. Anche la sua voce aveva quasi riacquistato il tono calmo che le era abituale. – Quello che è successo oggi, non credo sarei stata in grado di affrontarlo da sola. È stato veramente duro per me. Che ci fossi anche tu mi ha aiutato molto. Te ne sono molto grata. Diventerai un insegnante eccezionale, ne sono sicura. Ma quasi lo sei già. 
Mi chiesi se in queste parole non si nascondesse un po‟ di ironia. Probabilmente, anzi certamente, sì. 
No, non lo sono ancora, – dissi. Lei sorrise leggermente. così si chiuse la nostra conversazione. 
Aprii la portiera e uscii. La luce di quel pomeriggio domenicale si era adesso fatta più tenue. Mi sentivo mancare il respiro, e quando misi i piedi a terra mi vacillavano le gambe. Lei accese la sua Celica e si allontanò, uscendo dal territorio della mia vita. Forse per sempre. Abbassò un poco il finestrino, e mi fece un piccolo cenno di saluto con la mano. Anch‟io alzai la mano per salutarla. 
Tornato nel mio appartamento, dato che avevo sudato molto misi camicia e biancheria in lavatrice, poi entrai sotto la doccia e mi lavai i capelli. Andai in cucina, finii di preparare quello che avevo lasciato a metà e mangiai da solo. Poi sprofondai nel divano e cercai di riprendere il libro che stavo leggendo. Ma non riuscii a leggere nemmeno cinque pagine. Rinunciai, lo chiusi, e per un po‟ pensai a Sumire. Poi pensai alla chiave del deposito che avevo gettato in quel sudicio canale. Alle mani della «mia ragazza» che stringevano con forza il volante della Celica. Alla fine della giornata, non mi restavano che pensieri all‟interno dei quali era impossibile fare ordine. Nonostante mi fossi lavato a lungo sotto la doccia, il mio corpo era ancora impregnato della puzza di fumo. E nelle mani mi restava la sensazione di aver tagliato con forza qualcosa di vivo. 
Avevo fatto la cosa giusta? 
Non mi sembrava. Avevo solo fatto quello che ritenevo necessario per me. C‟era una bella differenza. Diverse persone? lei mi aveva chiesto. Sono anch‟io una di queste? 

A dire la verità, in quel momento non avevo pensato a «diverse persone», ma solo a Sumire. Né a tutti gli altri presenti in questa storia, né a noi, ma solo a lei, che era l‟unica assente.  
16 


Dopo esserci separati su quell‟isola in Grecia, Myū non si fece viva con me nemmeno una volta. Era molto strano, considerato che mi aveva promesso di mettersi in contatto con me, che ci fossero state novità o meno a proposito di Sumire. Non poteva certo essersi dimenticata della mia esistenza, e non mi sembrava il tipo che dice le cose tanto per dire. Pensai che per qualche ragione non fosse riuscita a mettersi in contatto con me. Mi ripromisi quindi di telefonarle io. Ma mi resi conto che non sapevo quale fosse il suo cognome. E non sapevo né il nome né l‟indirizzo della sua ditta. Sumire non mi aveva fornito questo tipo di informazioni pratiche. 
Al telefono di Sumire rispose ancora per qualche tempo la segreteria con il solito messaggio, poi venne staccata la linea. Presi anche in considerazione l‟eventualità di chiamare i suoi genitori. Ma non conoscevo il numero di telefono. Naturalmente consultando le pagine gialle di Yokohama avrei potuto trovare il numero dello studio dentistico del padre, e mettermi in contatto con lui, ma non me la sentivo di farlo. Andai in biblioteca e controllai i quotidiani di agosto. Il caso di Sumire era riportato alcune volte in piccolo nella cronaca. Una giovane turista giapponese di ventidue anni era scomparsa in un‟isola greca. La polizia locale stava svolgendo delle indagini, ma ancora non si avevano notizie. Non c‟era altro. Non c‟era scritto niente che già non sapessi. All‟estero, non sono pochi i turisti di cui si perdono le tracce. Lei non era che una dei tanti. 
Smisi di leggere i giornali. Qualunque fosse stata la causa della sua scomparsa, comunque fossero progredite le ricerche, una cosa sola era sicura. Se Sumire fosse tornata si sarebbe fatta viva con me, su questo non c‟erano dubbi. Questo era per me l‟aspetto più importante. 
Finì settembre, in un lampo passò l‟autunno, e poi venne l‟inverno. Il 7 novembre era il compleanno di Sumire, e il 9 dicembre era il mio. Giunse l‟anno nuovo e finì anche la scuola. Carota non creò più particolari problemi, fu promosso al quinto anno e passò in un‟altra classe. Non ritornai con lui sul discorso del furto nel negozio. A giudicare dalla sua faccia, avevo la sensazione che non fosse più necessario. 
Poiché non insegnavo più al figlio, non ci furono più occasioni di incontrare la «mia ragazza». Penso che per entrambi sia stato un sollievo, dato che tutto ormai apparteneva al passato. Ma ogni tanto ripensavo con nostalgia al tepore della sua pelle, e diverse volte fui quasi sul punto di telefonarle. A trattenermi in quei momenti furono la sensazione nella mia mano della chiave del deposito del supermercato, e quella della piccola mano di Carota, in quel pomeriggio d‟estate. 

A volte, per qualche ragione mi viene all‟improvviso in mente Carota. Che strano bambino! Lo pensavo ogni volta che lo vedevo a scuola. Come non pensarlo? Non riuscivo in nessun modo a immaginare quali idee potessero nascondersi dietro quel visetto sottile e calmo. Ma era evidente che molte cose gli frullavano in testa. E quel bambino aveva la capacità, se fosse stato necessario, di tradurle in azione. Percepivo in lui una profondità non comune. Pensavo che quel pomeriggio nel caffè, avergli fatto tutte quelle confidenze fosse stato un bene. Sia per lui che per me. Anche se probabilmente soprattutto per me. Lui – può sembrare un discorso assurdo – seppe capirmi e accettarmi. E anche, in un certo senso, perdonarmi. 
Quale futuro dovranno affrontare bambini come Carota, per diventare adulti? Dev‟essere dura. I giorni difficili saranno sicuramente tanti, e crescere è un processo talmente lungo che ci si chiede se non durerà in eterno. In base alla mia esperienza, potevo prevedere a grandi linee la sua maturazione. Chi avrebbe amato, Carota? E quella persona, lo avrebbe accettato? Ma ovviamente queste mie speculazioni erano del tutto inutili. Finite le elementari, sarebbe entrato in un mondo più grande che non avrebbe avuto più niente a che fare con me. E io avevo i miei problemi a cui pensare. 
Andai in un negozio di dischi, comprai il CD con la raccolta dei Lieder di Mozart cantati da Elisabeth Schwarzkopf, e lo ascoltai più e più volte. Amavo la tranquilla bellezza di quella musica. Se chiudevo gli occhi, mi riportava sempre a quella notte, sull‟isola greca. 

Quello che mi aveva lasciato Sumire, oltre a molti ricordi ancora vivi (incluso naturalmente quello del violento desiderio sessuale provato la sera del trasloco), erano alcune lettere e un floppy disk. Rilessi i documenti che vi erano contenuti infinite volte. così attentamente da poterli recitare a memoria. Era solo mentre rileggevo quelle pagine che potevo essere di nuovo con Sumire, ritrovare la nostra profonda intesa spirituale. Questo mi dava una sensazione di intimità e calore che nient‟altro poteva darmi. Come vedere in lontananza dal finestrino di un treno che attraversa campi desolati una piccola luce accesa in una fattoria. In un attimo può scomparire, ingoiata dal buio che la circonda. Ma se si chiudono gli occhi, quel puntino luminoso indugerà ancora per un po‟ sulla retina. 

Mi sveglio durante la notte, mi alzo dal letto (so che non mi riaddormenterò), sprofondo nella poltrona, e ascoltando Schwarzkopf rivivo i momenti trascorsi su quell‟isoletta greca. Come sfogliando le pagine di un libro, ricordo quei paesaggi a uno a uno. Quella spiaggia meravigliosa completamente deserta, il caffè all‟aperto di fronte al porto. La schiena del cameriere macchiata di sudore. Riaffiorano il profilo perfetto di Myū, e lo scintillio del Mediterraneo visto dalla veranda. Il povero eroe impalato eternamente al centro della piazza. E quella musica greca che nel pieno della notte veniva dalla montagna. Ricordo vividamente la luce stregata della luna e la risonanza soprannaturale di quella musica. Il senso di spaesamento che avevo provato nel venire svegliato da quel rumore. Il dolore senza forma della notte, come se qualcosa di terribilmente affilato trafiggesse silenziosamente un corpo insensibile. 
Nella mia poltrona chiudo per un attimo gli occhi, poi li riapro. Inspiro piano, poi espiro. Cerco di pensare, poi di non pensare. Ma tra le due cose non c‟è una grande differenza. Tra tutte le cose non c‟è differenza. Non riesco più a scorgere una netta differenza nemmeno tra ciò che esiste e ciò che non esiste. Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è bianco, le nuvole scorrono, gli uccelli cantano, un nuovo giorno sorge, e comincia a reclamare le coscienze delle persone che popolano il pianeta. 
A Tōkyō solo una volta intravidi Myū. Fu in una tiepida domenica di metà marzo, a più di sei mesi dalla scomparsa di Sumire. Il cielo era interamente ricoperto da nuvole basse e sembrava dovesse piovere da un momento all‟altro. Dalla mattina tutti tenevano pronti gli ombrelli. Mentre andavo a casa di certi miei parenti che abitano in centro, a Hiroo, nei pressi dell‟incrocio dove c‟è il Meijiya , vidi una Jaguar blu che avanzava attraverso il traffico. Io ero in taxi, e la Jaguar procedeva sulla corsia proprio alla mia sinistra. Il mio sguardo si era soffermato su quell‟auto perché alla guida c‟era una donna con degli splendidi capelli bianchi. Il blu fiammante dell‟auto e il candore immacolato dei suoi capelli formavano un contrasto che catturava l‟occhio. Poiché l‟avevo sempre vista con i capelli neri, ci volle un po‟ di tempo perché le due immagini coincidessero, ma la donna era Myū, non c‟erano dubbi. Era bella e incredibilmente elegante come la ricordavo. Il candore abbagliante dei suoi capelli suggeriva un‟impressione di forza che teneva gli altri a distanza e incuteva un sacro timore. 
Ma la Myū che vedevo non era la stessa che mi aveva salutato su quell‟isola greca agitando la mano. Anche se erano passati solo sei mesi, sembrava diventata un‟altra persona. Naturalmente c‟era il fatto che i capelli erano completamente di un altro colore. Ma non si trattava solo di quello. 
«È come un guscio vuoto». Questa era stata la prima impressione che mi aveva comunicato. Mi faceva pensare a una stanza dopo che tutti se ne sono andati. Qualcosa di essenziale (quel qualcosa che come un vortice aveva attratto Sumire e che sul ponte della nave mi aveva profondamente turbato) era scomparso da lei in modo definitivo. La cosa più importante che era rimasta non era la presenza, ma l‟assenza. Non il calore della vita, ma l‟immobilità dei ricordi. La purezza immacolata di quei capelli mi faceva pensare al colore delle ossa umane sbiancate dal tempo. Per qualche istante mi si fermò il respiro. 

La Jaguar guidata da Myū superò il mio taxi, poi restò indietro, ma lei non si accorse di me che ero vicinissimo a lei e la guardavo dal finestrino. Né io la chiamai. Non sapevo cosa avrei potuto dire, e il suo finestrino era completamente alzato. E poi Myū aveva le mani sul volante, la schiena dritta, e sembrava concentrata su un punto lontano davanti a sé. Forse era immersa nei suoi pensieri. O forse era assorta nell‟ascolto dell‟ Arte della fuga che si diffondeva dal suo stereo. Dall‟inizio alla fine conservò la sua espressione severa, senza quasi battere le palpebre. Infine il semaforo diventò verde, la sua Jaguar blu partì in direzione di Aoyama e il mio taxi restò fermo nella fila che girava a destra, ad aspettare il suo turno. 

Così continuiamo a vivere la nostra vita, pensai. Segnati da perdite profonde e definitive, derubati delle cose per noi più preziose, trasformati in persone diverse che di sé conservano solo lo strato esterno della pelle; tuttavia, silenziosamente, continuiamo a vivere. Allungando le mani, riusciamo a prenderci la quantità di tempo che ci è assegnata, e poi la guardiamo mentre indietreggia alle nostre spalle. A volte, nel ripetersi dei gesti quotidiani, sappiamo farlo anche con destrezza. 
Questi pensieri mi lasciarono una sensazione di terribile vuoto. 

Può darsi che Myū, tornata in Giappone, non fosse riuscita in nessun modo a mettersi in contatto con me. E a quel punto avesse preferito, mantenendo il silenzio e tenendosi attaccata ai ricordi, scomparire in qualche luogo anonimo e remoto. così immaginavo. Non me la sentivo di biasimarla. E naturalmente non le portavo alcun rancore. 
La cosa che mi era venuta in mente in quel momento era la statua di bronzo del padre di Myū che si ergeva nella piazza di quel paesino di montagna nel nord della Corea. Immaginai la piccola piazza, le file di case basse, la statua di bronzo ricoperta di polvere. In quella zona soffiava sempre un forte vento e gli alberi erano talmente contorti da sembrare irreali. Non so perché, ma nella mia mente quelle due immagini, la statua di bronzo e Myū con le mani ferme sul volante della Jaguar, si sovrapposero. 
Pensai che forse, in qualche luogo lontano, tutte le cose sono già segretamente perdute. Se non altro, esiste un posto tranquillo dove le loro immagini possono sovrapporsi fino a fondersi in una sola. Vivendo, non facciamo che scoprire una dopo l‟altra queste corrispondenze, trascinando verso di noi i loro fili sottili. Chiusi gli occhi, e cercai di evocare le tante cose belle che immaginavo lì. Cercai di trattenerle nelle mie mani. Anche se la loro vita non durava che un attimo. 

Sogno. A volte mi sembra che sia l‟unica cosa giusta da fare. Sognare, vivere nel mondo dei sogni, come aveva scritto Sumire. Ma non dura molto. Prima o poi il risveglio mi afferra. 
Alle tre di notte mi sveglio, accendo la luce, mi alzo a sedere sul let-
to, e guardo il telefono sul comodino. Immagino Sumire nella cabina telefonica che accende una sigaretta e compone un numero sulla tastiera. Ha i capelli in disordine, indossa la giacca maschile di tweed di alcune taglie più grande, e ai piedi ha due calzini spaiati. Ha il viso corrucciato, e il fumo che le va di traverso la fa tossire. Per comporre il numero impiega del tempo. Ha la testa piena di storie che mi deve raccontare. Anche se parlasse fino al mattino, non ce la farebbe a dire tutto. Per esempio la differenza tra segno e simbolo. Il telefono sembra sul punto di squillare da un momento all‟altro. Ma non squilla. Steso sul letto, guardo all‟infinito l‟apparecchio che resta muto. 
Ma una volta squilla. Ha squillato davvero, qui davanti a me. Facendo tremare l‟aria del mondo reale. Ho alzato subito la cornetta. 
Pronto. 
Ehi, sono tornata, – ha detto Sumire. Con tono molto cool, e molto reale. – Ne ho passate tante, ma alla fine ce l‟ho fatta a tornare. Per riassumere l’Odissea di Omero in pochissime parole. 
Meno male, – ho detto io. Ancora non riuscivo a crederci. Al fatto che potevo sentire la sua voce. Che stava accadendo davvero. 
Meno male? – ha detto Sumire aggrottando (forse) le sopracciglia. – Come sarebbe? Io sono tornata dopo essere passata so soltanto io per quali guai, facendo un viaggio allucinante – che se ti raccontassi nei dettagli non finiremmo più – e questo è tutto quello che sai dire? Mi metterei a piangere. Meno male davvero, se no chissà che ne sarebbe stato di me. Meno male! Non ci posso credere. Conservati queste frasi tiepide e di circostanza per quando uno dei tuoi allievi arriva a capire la proprietà commutativa. 
Dove sei adesso? 
Dove sono adesso? E dove vuoi che sia? Nella mia cara cabina telefonica di sempre. La mia solita modesta cabina quadrata, tutta tappezzata di pubblicità di finte società finanziarie e di club a luci rosse. In cielo c‟è una mezza luna color muffa, e il pavimento è coperto di mozziconi di sigarette. Dovunque giri lo sguardo, non vedo una sola cosa che possa scaldarmi il cuore. Una cabina telefonica anonima, un segno allo stato puro. Ma aspetta, qui dove siamo? In questo momento non lo so. È tutto troppo semiotico, vedo segni da ogni parte... e poi come sai il mio senso dell‟orientamento è zero. Non te lo so spiegare a parole. Per questo vengo sempre sgridata dagli autisti di taxi. «Insomma, si può sapere lei dove vuole andare?» Ma non credo che sia molto lontano. Anzi, dovrebbe essere abbastanza vicino. 
Vengo a prenderti. 
Magari! Mi informo sull‟indirizzo e poi ti ritelefono. Anche perché non ho più monete. Aspetta, eh. 
Mi sei mancata molto, – dissi. 
Anche tu mi sei mancato molto, – rispose lei. – Da quando non ci vediamo più ho capito una cosa. L‟ho capita chiaramente come se i pianeti si fossero tutti messi in fila premurosi. Che per me tu sei veramente necessario. Tu sei me e io sono te. Sai, da qualche parte – non so esattamente dove – devo avere tagliato una gola. Con un cuore di pietra, dopo aver affilato un coltello. Simbolicamente, come quando costruivano le porte in Cina. Riesci a capire quello che voglio dire? 
Credo di sì. 
Vienimi a prendere. 

Poi improvvisamente è caduta la linea. Sono rimasto per un po‟ a guardare il ricevitore, che tenevo ancora in mano. Come se fosse esso stesso un importante messaggio da decifrare. Il suo colore, la forma, sembravano avere un significato particolare. Poi ci ho ripensato, e ho riagganciato. Mi alzo a sedere sul letto, aspettando che il telefono squilli di nuovo. La schiena appoggiata alla parete, metto a fuoco un punto nello spazio davanti a me, e respiro lentamente, senza far rumore. Continuo a verificare i raccordi tra un segmento e l‟altro del tempo. Il telefono continua a non squillare. Un silenzio che non offre promesse continua a riempire lo spazio all‟infinito. Ma io non ho fretta. Non c‟è bisogno di affrettarsi. Io sono già pronto. Posso andare in qualsiasi posto. 

È così? 
Esattamente così. 

Mi alzo dal letto. Tiro una vecchia tenda bruciata dal sole, e apro la finestra. Metto fuori la testa e guardo in alto, verso il cielo. Lì è sospesa una mezza luna color muffa, perfettamente visibile. Per me è sufficiente. Vediamo tutti e due la stessa luna nello stesso mondo. Siamo legati alla realtà da un‟unica linea. Basta che riesca a trascinarla piano piano verso di me. 
Poi allargo le dita e guardo fisso il palmo di entrambe le mani. Vi cerco tracce di sangue. Ma non ce ne sono. Non c‟è l‟odore del sangue, nessuna rigidità. Il sangue si dev‟essere già silenziosamente riassorbito.