ONORI
Rachel Cusk
cosí alto che il sedile letteralmente non lo conteneva. I gomiti sporgevano dai braccioli e le ginocchia premevano contro il sedile davanti, cosí che il passeggero che vi era seduto si guardava intorno irritato ogni volta che lui si muoveva. Dopo contorsioni varie, mentre cercava di accavallare le gambe e poi distenderle, ha dato involontariamente un calcio alla persona alla sua destra. –Mi scusi, –ha detto. È rimasto immobile per alcuni minuti, respirando a fondo col naso e serrando le mani in grembo, ma non è durata molto, poco dopo ha di nuovo cercato di muovere le gambe, facendo sussultare tutta la fila di sedili davanti. Ho deciso di chiedergli se voleva cambiare posto, dal momento che il mio era di corridoio, e ha prontamente accettato, come se gli avessi proposto un affare. –Di solito viaggio in business, –ha detto mentre ci scambiavamo di posto. –C’è molto piú spazio per le gambe. Si è allungato nel corridoio poggiando con sollievo la nuca contro lo schienale. –Le sono molto grato, –ha detto. L’aereo ha cominciato a rollare adagio sulla pista. Il mio vicino, con un sospiro soddisfatto, si è addormentato quasi all’istante. Una hostess che percorreva il corridoio si è bloccata davanti alle sue gambe. –Signore? –ha detto. –Signore? Lui si è svegliato di colpo e si è goffamente raggomitolato nel suo poco spazio per lasciarla passare. L’aereo si è fermato per qualche minuto poi ha fatto uno scatto in avanti poi si è fermato di nuovo. Dal finestrino si vedevano gli aerei in coda, in attesa del proprio turno. La testa del mio vicino ha cominciato a ciondolare e poco dopo le sue gambe erano di nuovo allungate nel corridoio. La hostess è tornata. –Signore? –ha detto. –Il corridoio deve restare libero durante il decollo. Lui si è raddrizzato. –Mi scusi, –ha detto. La hostess si è allontanata e la testa del mio vicino ha ripreso a poco a poco a ciondolare. Fuori, una bruma copriva il piatto paesaggio grigio che pareva fondersi col cielo in strisce orizzontali dalle variazioni cosí sottili che quasi somigliava al mare. Nella fila davanti una donna e un uomo stavano parlando. È cosí triste, ha detto lei, e l’uomo per tutta risposta ha grugnito. È davvero triste, ha ripetuto lei. Si è udito uno scalpiccio di passi lungo il corridoio moquettato ed è ricomparsa la hostess. Con una mano ha scosso la spalla del mio vicino. –Temo di doverle di nuovo chiedere di spostare le gambe, –ha detto. –Mi scusi, –ha detto lui. –A quanto pare non riesco a restare sveglio. –Devo chiederle di riuscirci, –ha detto lei. –Ieri notte non ho dormito. –Temo che non sia un mio problema. Ostruendo il corridoio lei mette a rischio l’incolumità degli altri passeggeri. Lui si è sfregato la faccia e si è risistemato nella poltrona. Ha tirato fuori il cellulare, l’ha controllato e se l’è rimesso in tasca. Lei aspettava, tenendolo d’occhio. Infine, apparentemente soddisfatta della sua genuina obbedienza, se n’è andata. Lui ha scosso il capo allargando le braccia in un gesto stupito, come se si rivolgesse a un pubblico invisibile. Doveva avere fra i quaranta e i cinquant’anni, con una faccia allo stesso tempo bella e qualunque, e il suo fisico slanciato era rivestito dalla nitida, ben stirata neutralità dell’abito da weekend dell’uomo d’affari. Aveva al polso un pesante orologio d’argento, e ai piedi costose scarpe senza marchio; trasudava un’aria di anonima e un po’provvisoria virilità, come un soldato in uniforme. Intanto l’aereo era arrivato sussultando in testa alla coda e stava lentamente virando in un’ampia curva verso la pista di decollo. La bruma si era trasformata in pioggia e rivoli d’acqua scorrevano sul finestrino. L’uomo fissava con sguardo esausto l’asfalto lucente. Intorno a noi il rombo dei motori aumentava, poi l’aereo ha preso slancio e, inclinandosi e cigolando, si è sollevato attraverso spessi strati di nubi. Per un po’la verde monotonia dei campi sottostanti, con le case a schiera e i ciuffi d’alberi, è rimasta visibile in sporadici varchi nel grigio, che si è infine richiuso sopra di loro. L’uomo ha tirato un altro profondo sospiro e pochi minuti dopo dormiva, con la testa ciondoloni sul petto. Le luci della cabina si sono accese e sono iniziate le attività a bordo. Poco dopo la hostess ha raggiunto la nostra fila, dove l’uomo addormentato aveva di nuovo disteso le gambe nel corridoio. –Signore? –ha detto. –Scusi, signore? Lui ha sollevato la testa guardandosi intorno disorientato. Quando ha visto la hostess bloccata lí con il carrello, ha lentamente e con grande sforzo spostato le gambe in modo che potesse passare. Lei l’ha squadrato con una smorfia delle labbra, inarcando le sopracciglia. –La ringrazio, –ha detto con malcelato sarcasmo. –Non è colpa mia, –ha detto lui. Gli occhi bistrati della hostess si sono posati su di lui per un attimo. Con un’espressione gelida. –Sto solo cercando di fare il mio lavoro, –ha replicato. –Me ne rendo conto, –ha detto lui. –Ma non è colpa mia se tra i sedili non c’è abbastanza spazio. È seguita una pausa durante la quale i due si sono fissati. –Questo dovrà farlo presente alla compagnia, –ha detto la hostess. –Lo faccio presente a lei. La hostess ha incrociato le braccia alzando il mento. –Il piú delle volte viaggio in business, –ha detto lui, –perciò di solito non è un problema. –Su questo volo non offriamo business class, ma ci sono molte altre compagnie che lo fanno. –Perciò lei mi suggerisce di volare con qualcun altro. –Esatto. –Magnifico! –ha detto lui. –La ringrazio molto. Ha rivolto un’aspra risata rabbiosa alla schiena della hostess che si allontanava. Per un po’ha continuato a sorridere, il sorriso impacciato di chi è salito per errore su un palcoscenico, poi, come per distogliere l’attenzione da sé, si è girato e mi ha chiesto per quale ragione andavo in Europa. Ho detto che ero una scrittrice e stavo andando a un festival letterario. Il suo viso ha immediatamente assunto un’espressione di educato interesse. –Mia moglie è una grande lettrice, –ha detto. –Fa anche parte di un gruppo di lettura. Poi silenzio. –Che cosa scrive? –mi ha chiesto dopo un po’. Gli ho detto che era difficile da spiegare e lui ha annuito. Tamburellava con le dita sulle cosce e con i piedi batteva un ritmo sconnesso sulla moquette. Scuoteva il capo da parte a parte e intanto si strofinava vigorosamente il cuoio capelluto. –Se non parlo, –ha detto infine, –mi riaddormento. L’ha detto col tono pragmatico di chi è abituato a risolvere i problemi a spese dei sentimenti personali, ma quando mi sono girata a guardarlo mi sono stupita vedendo la sua espressione supplichevole. Gli occhi con le sclere giallognole erano cerchiati di rosso e i capelli ben tagliati stavano dritti dove li aveva scompigliati. –A quanto ne so, prima del decollo abbassano il livello di ossigeno nella cabina perché la gente si addormenti, perciò dovrebbero evitare di lamentarsi quando succede. Ho un amico che pilota uno di questi aggeggi, –ha detto. –È da lui che lo so. La cosa strana con quell’amico, ha proseguito, era che malgrado la sua professione era un ambientalista fanatico. Guidava una minuscola auto elettrica e la sua casa funzionava esclusivamente con pannelli solari e turbine eoliche. –Quando viene a cena da noi, –ha detto, –te lo ritrovi fuori accanto ai cassonetti che estrae gli imballaggi e i contenitori del cibo, mentre tutti gli altri sbevazzano allegramente. Il suo ideale di vacanza è andare su una montagna del Galles con tutti i suoi congegni e starsene per due settimane seduto in una tenda sotto la pioggia a parlare alle pecore. Eppure quello stesso uomo indossava regolarmente un’uniforme, si arrampicava nell’abitacolo di un fumigante aeromobile da duecento tonnellate e trasportava frotte di vacanzieri sbronzi alle isole Canarie. Difficile immaginare una rotta peggiore, eppure il suo amico la faceva da anni. Lavorava per una compagnia low-cost che praticava risparmi brutali, e a quanto pareva i passeggeri si comportavano come animali dello zoo. Ce li portava bianchi e li riportava indietro arancioni, e sebbene guadagnasse meno di tutti gli altri nella loro cerchia di amici, dava in beneficenza metà dei suoi guadagni. –Il fatto è, –ha detto, –che è un tipo veramente gentile. Lo conosco da anni, e si direbbe che peggio vanno le cose, piú lui diventa gentile. Una volta mi ha raccontato che nell’abitacolo di pilotaggio hanno una telecamera che gli permette di tener d’occhio quel che succede in cabina. Nei primi tempi non sopportava di guardare perché il modo in cui si comportava quella gente lo avviliva troppo. Ma dopo un po’ha cominciato a esserne in qualche modo ossessionato. Ne ha guardate centinaia di ore. È un po’come fare meditazione, secondo lui. Io comunque, –ha aggiunto, –non sopporterei di lavorare in quell’ambiente. La prima cosa che ho fatto quando sono andato in pensione è stato chiudere tutti i miei programmi frequent flyer. Ho giurato che non mi sarei mai piú ficcato in nessuno di quei cosi. Ho detto che sembrava molto giovane per essere in pensione. –Tenevo sul desktop un foglio di calcolo intitolato Libertà, –ha detto sogghignando. –Erano sostanzialmente colonne di cifre che dovevano raggiungere un certo numero, e quando ci fossero arrivate avrei potuto andarmene. Era stato dirigente di una società finanziaria internazionale, ha detto, un lavoro che comportava di star sempre via da casa. Non era inconsueto per lui, ad esempio, doversi recare in Asia, Nordamerica e Australia nell’arco di due settimane. Una volta era volato in Sudafrica per una riunione e appena finita aveva preso un volo di ritorno. Capitava spesso che lui e la moglie individuassero un punto a metà strada fra le rispettive ubicazioni e s’incontrassero lí per una vacanza. Una volta, quando la filiale australasiatica della società aveva avuto un tracollo finanziario e lui aveva dovuto fermarsi là per risolverlo, non aveva visto i suoi figli per tre mesi. Aveva cominciato a lavorare a diciott’anni e adesso ne aveva quarantasei, e sperava di aver davanti un numero di anni almeno pari a quelli della sua vita lavorativa per vivere all’opposto. Possedeva una casa nei Cotswolds dove non aveva mai messo piede e un garage pieno di biciclette, sci e attrezzature sportive che non aveva mai avuto il tempo di usare. Aveva amici e una famiglia con cui negli ultimi due decenni aveva scambiato solo qualche ciao o arrivederci, perché lui di solito era in partenza e doveva fare la valigia e andare a letto presto, o stava tornando ed era esausto. Aveva letto da qualche parte di un metodo di punizione medievale che prevedeva d’incarcerare il prigioniero in uno spazio pensato per impedirgli di allungare completamente gli arti in qualunque direzione, e sebbene il solo pensiero gli togliesse il respiro, era comunque una buona descrizione della vita che aveva condotto finora. Gli ho chiesto se il rilascio da tale prigione era stato all’altezza del titolo del suo foglio di calcolo. –È buffo che me lo chieda, –ha detto. –Da quando ho lasciato il lavoro mi accorgo di essere sempre ai ferri corti con tutti. I miei famigliari si lamentano perché adesso che sono a casa cerco di controllarli. Non dicono, –ha aggiunto, –che gli piacerebbe che tutto tornasse come prima, ma so che lo pensano. Non si capacitava, per esempio, che la mattina dormissero fino a cosí tardi. In tutti gli anni in cui usciva prima dell’alba, il pensiero delle loro sagome addormentate nell’oscurità lo faceva sentire efficiente e protettivo. Se avesse immaginato quanto erano pigri forse non l’avrebbe vista allo stesso modo. A voltegli toccava aspettare l’ora di pranzo perché si alzassero: aveva preso l’abitudine di entrare nelle loro stanze e tirare le tende, come faceva suo padre quando lui era ragazzo, e l’ostilità suscitata da tale azione lo meravigliava. Aveva cercato di mettere ordine nei loro pasti –mangiavano tutti, aveva scoperto, cibi diversi a ore diverse del giorno –e di stabilire una routine quotidiana, e si stava sforzando di credere che la generale rivolta a tali misure fosse la riprova della loro necessità. –Passo un sacco di tempo a parlare con la donna delle pulizie, –ha detto. –Arriva alle otto. Dice che ha dovuto vedersela con queste cose per anni. Raccontava tutto ciò con un riserbo impacciato e lieve dal quale s’intuiva che parlava piú per intrattenere che per suscitare sconcerto. Un sorriso di disapprovazione gli aleggiava intorno alla bocca, mettendo in mostra una fila di denti candidi e robusti. Parlando si era animato, e la disperata scompostezza di prima si era attenuata nella maschera brillante del narratore. Avevo l’impressione che fossero storie che aveva già raccontato e che amava raccontare, come se avesse scoperto il potere e il piacere di rivivere i fatti avendoli privati del loro pungiglione. L’abilità, lo vedevo, stava nel mantenerti accosto a quella che presumibilmente era la verità senza consentire ai tuoi reali sentimenti di riprendere il sopravvento. Gli ho chiesto come mai, visto il suo giuramento, si ritrovasse a bordo di un aereo. Ha di nuovo sorriso con un vago disagio passandosi una mano tra i sottili capelli castani. –Mia figlia suona in un festival musicale laggiú, –ha detto. –Suona nell’orchestra della scuola. Il... ah sí... l’oboe. Sarebbe dovuto andare insieme alla moglie e i figli il giorno prima, ma il cane si era ammalato e aveva dovuto lasciarli partire senza di lui. Poteva sembrare ridicolo, ma il cane era forse il membro piú importante della famiglia. L’aveva vegliato per tutta la notte, poi aveva preso la macchina ed era andato dritto in aeroporto. –A essere sincero non avrei dovuto mettermi al volante di un’auto, –ha mormorato, posando il gomito sul bracciolo fra noi. –Stentavo a tenere gli occhi aperti. Continuavo a superare cartelli lungo la strada con sopra scritte sempre le stesse parole e stavo cominciando a pensare che ce li avessero messi per me. Sa quali intendo, ce ne sono dappertutto. Mi ci è voluto un secolo per capire cosa fossero. Mi domandavo, –ha detto col suo sorriso imbarazzato, –se non stessi impazzendo. Non riuscivo a capire chi li avesse scelti e perché. Sembrava che si rivolgessero a me personalmente. Certo, –ha aggiunto, –leggo le notizie, ma dacché ho smesso di lavorare sono rimasto un po’indietro. Io ho detto che in effetti di solito ce lo chiediamo in privato, se andarcene o restare, al punto che si potrebbe quasi sostenere che tale questione costituisce il nucleo piú intimo dell’autodeterminazione. Avendo scarsa familiarità con la situazione politica del nostro paese, si poteva pensare di assistere non alle macchinazioni di una democrazia ma alla resa definitiva della coscienza personale nella sfera pubblica. –La cosa buffa, –ha detto, –è che avevo la sensazione di essermi posto quella domanda da tempo immemorabile, forse da sempre. Gli ho chiesto cos’era successo al cane. Per un attimo è rimasto interdetto, come se non riuscisse a ricordare di quale cane stavo parlando. Poi ha sospirato profondamente aggrottando la fronte. –È una storia piuttosto lunga. Il cane, di nome Pilot, era in realtà molto vecchio, ha detto, anche se a vederlo non sembrava. Lui e sua moglie l’avevano preso poco dopo essersi sposati. Avevano comprato la casa in campagna, ed era il posto ideale per tenere un cane. Pilot era solo un cucciolo, ma aveva delle zampe enormi: loro sapevano che era una razza di cani che potevano diventare molto grossi, ma nulla li aveva preparati alle dimensioni straordinarie che Pilot aveva raggiunto crescendo. Periodicamente pensavano che non potesse crescere di piú, e invece sí; a volte era quasi divertente vedere come la sua stazza rendesse ogni cosa assurdamente piccola, la casa, l’auto, e perfino loro. –Io ho un’altezza fuori dal comune, –ha detto, –e ci si stufa ad essere sempre il piú alto, ma quando stavo vicino a Pilot mi sentivo normale. Sua moglie era incinta del primo bambino e cosí di Pilot si era occupato lui: all’epoca non viaggiava ancora cosí tanto per lavoro, e per parecchi mesi aveva passato gran parte del suo tempo libero ad addestrare Pilot, camminando con lui fra le colline e forgiandone il carattere. Non lo viziava e non gliela dava mai vinta; lo allenava con costanza e lo premiava con parsimonia, e quando Pilot, essendo un cane giovane, inseguiva un gregge di pecore, lo picchiava con una severità e una fermezza di cui era lui il primo a stupirsi. Ma soprattutto badava al proprio comportamento davanti al cane, perché Pilot aveva tratti veramente umani, e in effetti crescendo aveva maturato un’intelligenza fuori del comune, insieme a un latrato feroce e un fisico gigantesco e muscoloso. Aveva per i membri della famiglia una sensibilità e una premura che gli altri giudicavano francamente perturbante, anche se col tempo ci si erano abituati. Per esempio, quando il figlio, l’anno prima, si era gravemente ammalato di polmonite, Pilot restava giorno e notte seduto fuori dalla sua stanza e veniva automaticamente a cercarli se il ragazzo chiedeva qualcosa. Era in sintonia e addirittura rispecchiava le periodiche crisi depressive della figlia, di cui talvolta loro si accorgevano solo perché Pilot diventava cupo e scontroso. Ma se un estraneo si avvicinava alla casa, Pilot si trasformava in un cane da guardia sospettoso e implacabile. Quelli che non lo conoscevano ne erano terrorizzati, giustamente, perché non avrebbe esitato a ucciderli se avessero in qualche modo minacciato i membri della famiglia. Pilot aveva tre o quattro anni, ha proseguito, quando lui aveva avuto il maggior avanzamento di carriera e cominciato a star via di casa per lunghi periodi, ma se ne andava tranquillo perché sapeva che in sua assenza la famiglia sarebbe stata al sicuro. A volte, quando era lontano, gli capitava di pensare al cane sentendosi quasi piú vicino a lui che a qualunque altro essere vivente. Non avrebbe certo potuto abbandonarlo nel momento di maggior bisogno, anche se sua figlia era la principale solista e si era esercitata per settimane. Il concerto era nel programma di un festival internazionale e ci sarebbe stato un folto pubblico: un’occasione fantastica. Eppure Betsy non voleva staccarsi da Pilot. Gli era stato maledettamente difficile convincerla ad andare, neanche temesse che lui non fosse in grado di prendersi cura del proprio cane. Gli ho chiesto che pezzo avrebbe suonato la figlia e di nuovo si è passato una mano tra i capelli. –Non lo so di preciso, –ha detto. –Sua madre ovviamente lo saprebbe. Non si era reso realmente conto che la figlia suonasse cosí bene l’oboe, ha aggiunto. Aveva cominciato a prendere lezioni a sei o sette anni e a lui francamente era sempre sembrato spaventoso, al punto di doverle chiedere di suonare nella sua stanza. Quel rumore stridulo gli faceva digrignare i denti, soprattutto se era appena rientrato dopo un lungo volo. Spesso quel suono acuto, insinuante, gli arrivava anche da dietro la porta chiusa, e se stava cercando di mettersi in pari col jet lag era davvero fastidioso. Un paio di volte gli era capitato di chiedersi se sua figlia lo perseguitasse intenzionalmente, ma pareva si esercitasse allo stesso modo anche quando lui era via. Di tanto in tanto si era azzardato a suggerire che fosse piú salutare esercitarsi di meno e dedicarsi di piú ad altre cose, ma tale opinione era stata accolta col medesimo sommo disprezzo con cui venivano accolti i suoi tentativi di imporre alla famiglia una disciplina negli orari dei pasti. E a dire il vero, quando sua figlia gli chiedeva cosa le consigliava di fare del proprio tempo, gli veniva in mente solo quel che faceva lui alla sua età, cose come socializzare e guardare la tv, che gli sembravano in qualche modo piú normali. Ma in realtà c’era ben poco di normale in Betsy. Per esempio, soffriva d’insonnia: si è mai sentito che una quattordicenne normale non riesca a dormire? Invece di pranzare, si metteva in piedi accanto alla credenza della cucina prelevando manciate di cereali dalla scatola e mettendoseli direttamente in bocca. Per quanto gli era dato vedere, non usciva mai, e dal momento che sua madre l’accompagnava ovunque in auto, camminava di rado. Gli avevano detto che in sua assenza portava fuori Pilot ogni giorno, ma lui stentava a crederci, non avendolo mai visto coi propri occhi. Aveva addirittura cominciato a chiedersi se sarebbe mai andata via di casa, o se avrebbero dovuto tenerla lí per sempre, come una specie di esperimento fallito. Poi c’era stata una sera in cui Betsy suonava in un concerto della scuola e lui ci era andato insieme alla moglie, dentro di sé prevedendo di annoiarsi, e si era raggomitolato in una poltroncina dell’auditorium in mezzo agli altri genitori. Si erano accese le luci e davanti all’orchestra, sul palco, c’era una ragazza nella quale solo dopo un po’aveva riconosciuto Betsy. Tanto per cominciare, sembrava molto piú grande; e c’era qualcos’altro, forse la sensazione che non avesse bisogno di lui né di rimproverargli la propria esistenza, e ciò gli aveva procurato un sorprendente sollievo. Ma una volta accettato che era lei, l’aveva preso un cupo terrore. Era assolutamente certo che sarebbe stata in imbarazzo, cosí aveva afferrato la mano della moglie, pensando che condividesse i suoi sentimenti. Poi era arrivato il direttore d’orchestra –un uomo che lui si era subito preparato a detestare, in jeans e polo di lana neri –e l’orchestra aveva cominciato a suonare, e a un certo punto anche Betsy aveva cominciato a suonare. Ciò che lui ora notava era l’intensità con cui Betsy scrutava il direttore e reagiva a ogni suo minimo segno, annuendo col capo e avvicinando lo strumento alle labbra, con grandi occhi impassibili. Non avrebbe mai immaginato che sua figlia fosse capace di una simile silenziosa intimità e obbedienza, lui che non riusciva a persuaderla neppure a mangiare i cereali in una ciotola. Solo dopo alcuni minuti aveva connesso piú direttamente a lei quel suono misterioso e furtivo: era andato a un numero sufficiente di concerti per sapere che era un suono magico, incantato, e solo a quel punto era riuscito a mettersi davvero in ascolto. Ciò che udiva gli faceva sgorgare dagli occhi una tale quantità di lacrime che la gente intorno aveva cominciato a osservarlo. Piú tardi Betsy aveva sostenuto di averlo visto piangere dal palcoscenico, per via della sua altezza. E che era stato imbarazzante. Gli ho chiesto se sapeva perché si fosse messo a piangere, e allora gli angoli della sua bocca si sono piegati inaspettatamente all’ingiú e ha cercato di nasconderli con le sue grandi mani. –A essere sincero, –ha detto, –credo di aver sempre temuto che in lei ci fosse qualcosa che non andava. Ho detto che avevo spesso l’impressione che alla gente fosse piú facile pensarlo dei propri figli che di sé, e lui mi ha guardata come se stesse valutando la fondatezza di tale teoria, poi ha scosso risolutamente il capo. Fin dalla piú tenera infanzia, ha detto, Betsy era stata diversa dagli altri bambini, e non nel modo migliore. Era incredibilmente nevrotica: quando andavano in spiaggia, per esempio, non sopportava la sensazione della sabbia sotto i piedi, perciò dovevano sempre portarla in braccio. Non sopportava il suono di certe parole e si metteva a urlare coprendosi le orecchie con le mani se qualcuno le diceva. La lista delle cose che non mangiava, e delle ragioni per cui non le mangiava, era infinita, impossibile starci dietro. Era allergica a tutto e costantemente malata, e perdipiú, come aveva già detto, insonne. A lui e suac’era stato un episodio che l’aveva indotto a mettere in discussione, per la prima volta, la definizione di verità di Betsy e la sua tirannia in materia di narrazione. Erano usciti insieme per portare a spasso Pilot e tutt’a un tratto il cane era scappato. Si trovavano nel parco, aperto al pubblico, di una sontuosa dimora e chissà perché lui non si era reso conto che c’erano dei cervi e aveva tolto il guinzaglio a Pilot. Di solito Pilot era molto disciplinato con il bestiame, ma in quell’occasione si era comportato in modo del tutto contrario al suo carattere. Un attimo prima era lí accanto a loro, e un attimo dopo era sparito. –Lei non può immaginare la velocità di quell’animale, –ha detto. –Era un cane enorme e quando decideva di andarsene non c’era modo di acciuffarlo. Aveva allungato il passo e innestato disinvoltamente un’altra marcia. In men che non si dica era a cinquanta metri, e noi lí fermi a guardarlo sfrecciare nel parco. Quando i cervi l’hanno visto si sono messi a correre, anche se per loro era ormai troppo tardi per fuggire. Dovevano essere centinaia. Non so se lei ha mai visto niente di simile, ma è mostruosamente bello. Corrono in massa, un corpo solo, come acqua. Noi li guardavamo fluire nel parco con Pilot alle calcagna e nonostante tutto ero quasi ipnotizzato. Continuavano a curvare e tornare indietro disegnando un grande otto e lui li seguiva ma era quasi come se li guidasse, costringendoli a descrivere uno schema che aveva già in testa. Per circa cinque minuti hanno continuato cosí, curva su curva in grosse onde fluenti, e poi d’un tratto è stato come se tutto ciò gli fosse venuto a noia o avesse deciso che doveva finire. Senza alcuno sforzo ha raddoppiato la velocità, è penetrato nel corpo della mandria e si è buttato su uno dei piccoli. C’era una donna accanto a noi, –ha detto, –e si è messa a urlare dicendo che ci avrebbe denunciati e avrebbe chiamato qualcuno che abbattesse il cane, e io cercavo di calmarla, poi abbiamo udito un rumore alle nostre spalle, ci siamo girati e Betsy era svenuta. Giaceva fredda sull’erba e le usciva sangue dalla testa nel punto in cui cadendo aveva battuto su una pietra. In tutta sincerità, –ha detto, –sembrava fosse morta. A quel punto Pilot se l’era filata nei boschi e la donna era cosí in ansia per Betsy che si è dimenticata di far abbattere il cane, mi ha aiutato a portarla fino alla macchina ed è venuta con noi all’ospedale. Betsy stava bene, naturalmente. Ha riso torvo scuotendo il capo. Gli ho chiesto cosa ne era stato del cane. –Oh, è tornato quella sera stessa. L’ho sentito davanti alla porta e quando ho aperto non è entrato, rimaneva lí fuori e mi guardava. Era sudicio e imbrattato di sangue e sapeva cosa gli sarebbe successo. Se l’aspettava. Io peraltro odiavo picchiarlo, –ha detto con tristezza. –Avevo dovuto farlo solo due o tre volte in tutta la sua vita. Sia lui che io sapevamo che senza le botte non sarebbe stato il cane che era. Ma Betsy rifiutava di accettare ciò che aveva fatto. Non l’ha toccato e non gli ha parlato per settimane. Non parlava neppure a me. Non voleva saperne niente. Cerca di capire, le dicevo, non addestri un cane fingendo di non vederlo o tenendogli il broncio. Diventerebbe scaltro e disonesto. Cerca di capire, la ragione per cui ti senti sicura quando io non ci sono è perché sai che se qualcuno provasse a farvi del male, Pilot gli farebbe ciò che ha fatto al cervo. Magari se ne sta lí con te sul divano e ti porta delle cose o si accuccia vicino al tuo letto quando sei malata, ma se qualcuno che non conosce bussa alla porta è pronto a ucciderlo, se necessario. È un animale, e ha bisogno di essere disciplinato, se gli imponi la tua sensibilità interferisci con la sua natura. *