IL RICCIO E LA VOLPE
Isaiah Berlin
Berlin ricorda un verso dell’antico poeta Archiloco: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Gli studiosi hanno sempre letto questo verso in maniera banale: la volpe, pur essendo infinitamente più astuta, viene sconfitta dall’unica difesa di cui il riccio dispone. In opposizione a questa lettura scontata, Berlin ne propone un’altra, più profonda: l’immagine del riccio e della volpe può essere assunta come metafora delle più profonde differenze che distinguono gli individui; di questi, infatti, alcuni (i “ricci”) riferiscono ogni cosa a una visione centrale, a un sistema coerente e articolato, dotato di regole ben precise; altri (le “volpi”), invece, perseguono molti fini, non di rado disgiunti e contraddittori, mancanti di un principio morale o estetico. Questa seconda tipologia di individui – dice Berlin – compie azioni “centrifughe”, non “centripete”, poiché il loro pensiero di muove su parecchi piani e coglie una varietà di esperienze e di temi senza riportarli a una visione immutabile. Grandi artisti che hanno agito da “ricci” sono – così dice Berlin in Il riccio e la volpe – Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust; simili alle volpi, invece, sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne. I ricci sono monisti, le volpi sono pluraliste. Berlin ha indagato in sede sia storico-politica sia teorico-psicologica l’atteggiamento della volpe e del riccio, mettendo in luce come la tentazione monistica (del riccio) è vecchia quanto l’uomo e poggia sull’esigenza di superare la scissione – che l’uomo avverte sempre di nuovo in sé – attraverso la ricomposizione di una totalità pacificata.