mercoledì 5 febbraio 2020


A OVEST DI ROMA
John Fante

IL MIO CANE STUPIDO
I

Era gennaio, faceva freddo, era buio e pioveva, ero stanco e mi sentivo malissimo, i tergicristalli non funzionavano, avevo i postumi di una lunga serata passata a bere e a parlare con un regista milionario che voleva farmi scrivere un film sui Tate Murders «tipo “Bonny & Clyde”, pieno di brio e stile». Nessun accenno ai soldi. «Saremo soci, al cinquanta per cento». Era la terza offerta del genere che ricevevo in sei mesi, segno molto scoraggiante dei tempi.
Procedevo a fatica sulla Coast Highway a quindici miglia l’ora, con la testa fuori dal finestrino, la faccia gocciolante, gli occhi che si sforzavano di seguire la linea bianca, il tettino di vinile della mia Porsche del 1967 (quattro rate ancora da pagare, la società finanziaria che premeva) quasi strappato via dalla pioggia sferzante, quando finalmente raggiunsi l’uscita per l’oceano.
Vivevamo su Point Dume, una lingua di terra che si spingeva nel mare come una tetta in un film porno, era la punta più a nord dell’insenatura che forma la baia di Santa Monica. Point Dume è una comunità senza lampioni, un caotico agglomerato suburbano così intersecato da strade piene di curve e senza sfondo che dopo averci vissuto per vent’anni mi ci perdevo ancora se c’era la nebbia o se pioveva, finendo spesso a vagare per strade che poi erano solo a un paio di isolati da casa mia.
E come mi aspettavo che sarebbe accaduto in quella notte tempestosa, girai per Bonsall invece che per Fernhill e cominciai il lento, vano tentativo di cercare la mia casa, sapendo bene che, se non fossi rimasto a secco di benzina, sarei tornato un’altra volta sulla Coast Highway, sotto la cupa luce della cabina alla fermata dell’autobus, da dove avrei telefonato ad Harriet per chiederle di venire a mostrarmi la via di casa.
Dopo dieci minuti lei apparve sulla collina, i fari della familiare perforavano la bufera, e piantandomeli contro parcheggiò accanto alla cabina. Suonò il clacson, saltò giù dalla macchina e, con addosso un impermeabile bianco, mi corse incontro. Aveva gli occhi spalancati dalla preoccupazione.
«Ti servirà».
Tirò fuori da sotto l’impermeabile la mia calibro 22 e me la avvicinò attraverso il finestrino. «C’è qualcosa di terribile in giardino».
«Cosa?».
«Lo sa Dio».
Non volevo quella dannata pistola. Non la volevo prendere. Lei batté il piede in terra.
«Prendila, Henry! Potrebbe salvarti la vita».
Me la sbatté sotto il naso.
«Ma che diavolo è?».
«Credo che sia un orso».
«Dove?».
«Sul prato. Sotto la finestra di cucina».
«Forse è uno dei ragazzi».
«Con una pelliccia?».
«Ma di che genere?».
«D’orso».
«Forse è morto».
«Respira».
Provai a renderle la pistola. «Stammi a sentire, non ho la minima intenzione di sparare a un orso addormentato con una calibro 22! Lo sveglierei e basta. Vado a chiamare lo sceriffo».
Aprii la portiera, ma lei la richiuse.
«No. Prima guardalo. Forse non è nulla. Forse è solo un asino».
«Oh, merda. Ora è diventato un asino. Ha delle grandi orecchie?».
«Non ci ho fatto caso».
Sospirai e misi in moto. Lei corse alla familiare e la riportò sulla strada. Non c’era nessuna linea bianca, quindi rimasi vicino alle luci posteriori mentre la macchina procedeva lentamente sotto cascate di pioggia.
La nostra casa era su un acro di terra a cento metri dalla scogliera e dal fragoroso oceano sottostante. Era un rancho a forma di ipsilon circondato da un muro di cemento che racchiudeva completamente il terreno. Lungo il muro crescevano centocinquanta alti pini, era quasi come vivere in una foresta, e tutto l’insieme sembrava proprio quello che non era: la residenza di uno scrittore di successo.
Ma era stato tutto pagato, fino all’ultimo rubinetto, e io avevo un fortissimo desiderio di mollarlo e di andarmene dal paese. Sul mio cadavere, mi sfidava sempre Harriet, e mi divertivo spesso con tristi fantasticherie di lei stesa in una pozza di sangue sul pavimento di cucina mentre io scavavo una fossa nel recinto per il bestiame, poi prendevo un volo Alitalia per Roma con settantamila dollari nella tasca dei jeans per cominciare una nuova vita a piazza Navona, con una brunetta, per cambiare.
Ma era buona, la mia Harriet, aveva resistito venticinque anni accanto a me e mi aveva dato tre figli e una figlia, ognuno dei quali, o tutti e quattro, avrei senza rimpianti scambiato per una nuova Porsche, o anche per una M.G. G.T. ‘70.


II

Harriet imboccò il vialetto di casa e io la seguii fino al garage. Fummo sorpresi di trovarvi l’altra macchina, una Packard del 1940, un vero e proprio pezzo d’antiquariato che apparteneva a Dominic, il nostro primogenito, il primo svitato della famiglia. Non lo vedevamo da due settimane. Il suo ritorno in una notte così tempestosa significava che era nei guai, oppure che era rimasto senza camicie pulite. Aprii il bagagliaio della Packard. C’era un gran fetore di spinelli. Harriet ci infilò una mano e con una smorfia ne estrasse un paio di mutandine blu. Disse «che schifo», e le gettò dentro di nuovo.
Uscimmo dal garage. La casa risplendeva come una concessionaria di auto usate, c’era una luce in ogni finestra, i faretti erano accesi davanti alla porta di servizio e al garage e inondavano di una cupa iridescenza il prato sotto la pioggia.
«E’ ancora lì», disse Harriet con esitazione, guardando verso la porta di servizio. E lo vidi anch’io, era una massa scura ripiegata su se stessa, immobile, gettata là come un tappetino. Le dissi di stare calma.
«La pistola».
«L’ho lasciata in macchina».
Andò a prenderla e me la mise in mano.
«Rilassati, per l’amor di Dio», dissi.
C’erano quindici metri dal garage alla porta di servizio, e quel passaggio era riparato dalle grondaie che sporgevano dal tetto basso formando quasi un portico. Harriet si aggrappò forte alla parte posteriore del mio impermeabile, e io, pistola in pugno, avanzai in punta di piedi, spaventato, con gli occhi che si sforzavano di mettere a fuoco quella cosa oscurata dalla pioggia.
Gradualmente i miei occhi percepirono un’immagine. Era una pecora. Non le vedevo la testa, solo il didietro lanoso e la pancia. Improvvisamente la corrente del vento cambiò la direzione della pioggia e la forma si modificò. Trattenni il respiro. Non era una pecora. Aveva persino una criniera.
«E’ un leone», dissi, arretrando.
Ma lei aveva una vista perfetta.
«Non è niente del genere». Nella sua voce non c’era più neanche l’ombra della paura. «E’ solo un cane». Gli andò vicino, senza timore.
Ed era proprio un cane, un cane molto grande, con la pelliccia folta, era marrone e nero, con un gran testone e un naso nero, corto e tozzo, una bestia tristissima con il malinconico muso di un orso. Per il pompare contenuto del suo poderoso torace, si sarebbe potuto pensare che fosse morto, perché i suoi occhi obliqui erano chiusi. Le sue labbra nere sbattevano quasi impercettibilmente quando respirava. Era chiaramente in stato di incoscienza, e la pioggia gli cadeva addosso con forza.
Mentre provavo a parlargli, Harriet si precipitò in casa e ne tornò con un ombrello. Ci riparammo sotto di esso e ci chinammo verso la bestia. Lei gli carezzò il naso bagnato.
«Poverino. Cosa c’è che non va?».
Gli grattai dolcemente le orecchie grosse, forti e nere.
«E’ un cane molto malato», dissi, quando le mie dita incontrarono una zecca della grandezza di un fagiolo, così gonfia che mi cadde in mano come una biglia. La buttai via.
«Ma che ci fa qui?».
«E’ un fannullone», risposi. «Un animale socialmente irresponsabile, un fuggiasco».
«E’ solo malato».
«Non è malato. E troppo pigro per trovarsi un rifugio». Lo toccai con il piede. «Vattene, fannullone». Ma non si mosse né aprì gli occhi.
«Oh, mio Dio!», Harriet disse con voce strozzata, arretrando e tirando indietro anche me. «Non toccarlo! Forse ha la rabbia!».
Rimasi impietrito. Non volevo avere niente a che fare con un cane rabbioso. Corremmo in casa e chiudemmo la porta a chiave. Ero fradicio, gocciolavo sul pavimento di cucina. Mentre mi levavo i vestiti zuppi, Harriet andò nella stanza da letto a prendere la mia vestaglia. Me la portò, poi tirò fuori del bourbon e del ghiaccio, ci sedemmo al tavolo e ponderammo il problema.
«Non lo possiamo lasciare lì», disse lei. «Morirà».
«La morte giungerà su ognuno di noi», replicai, vuotando il secondo bicchiere.
Perse la pazienza.
«Fai qualcosa. Chiama qualcuno. Cerca di capire cosa bisogna fare con un cane rabbioso».
L’orologio di cucina segnava le nove e mezza quando telefonai a Lamson, il veterinario di Malibu. Sordido e corrotto, Lamson era il dottore dei cani delle star, ed era come la zecca che avevo tolto dall’orecchio del cane, aveva banchettato con il mio sangue per anni, sua vittima impotente, perché gestiva l’unico ospedale per cani a nord di Santa Monica.
Mi rispose la domestica. Il dottore e la signora Lamson non erano in casa. Erano sul loro yacht a Catalina. Riagganciai, le mie labbra formularono una breve invocazione a san Gennaro, il santo patrono di Napoli, che implorai di affondare i Lamson e il loro yacht nelle profondità del mare.
Poi chiamai l’ufficio dello sceriffo, sapendo esattamente quello che il sergente di turno mi avrebbe detto, e infatti me lo disse: si rivolga al County Animal Shelter. Fui sopraffatto da un senso di disperazione quando composi il numero dell’Animal Shelter. Sapevo che mi avrebbe risposto una registrazione, e non mi sbagliai. Erano chiusi fino alle nove del mattino seguente.
La pioggia battente si ridusse a un sussurro, poi cessò. Harriet guardò il cane attraverso la finestra.
«Credo che sia morto».
Contento che avesse spiovuto, sorseggiavo un altro bicchiere. Dall’ala nord della mia casa a ipsilon provenne il frastuono dello stereo in camera di Dominic, il ritmo demente dei Mothers of Invention. Ero arrivato a odiare l’indescrivibile inarticolatezza di quel suono, e sollevai gli occhi verso San Gennaro, e gli chiesi, per quanto ancora, o Gennaro, dovrò soffrire? Indietro, indietro fino a Presley e Fats Domino, sì, anche Ike, e Tina Turner, poi gli eterni Beatles e i Grateful Dead, i Monkees, Simon e Garfunkel, i Doors, i Rotary Connection, tutto, tutto aveva inquinato la mia casa, tutta quella fottuta barbarie che aveva allagato la mia casa anno dopo anno, e ora quel figlio di puttana aveva ventiquattro anni ma era sempre un gran rompicoglioni.
Ricordi, o Gennaro, come distrusse la mia T-Bird? E hai forse dimenticato l’annientamento della mia Avanti? Né si potrebbe tralasciare quando fu messo dentro per aver fumato erba, che mi costò millecinquecento dollari e poi lo arrestarono “ugualmente”, e che ogni tanto fa l’amore con donne nere, fonte di dolore per sua madre, e che vengo sempre assalito dall’atroce sospetto che sia un finocchio. Dannalo, o santo benedetto. E se il destino ha deciso che uno di questa famiglia sia morso da un cane rabbioso, che sia lui! Harriet fece un salto quando sferrai un pugno sul tavolo.
«Ma che ti prende?».
«Tuo figlio Dominic!», le puntai un dito contro. «Sarà lui a uscire e a occuparsi di quel cane!».
Vuotai un altro bicchiere, marciai per il corridoio fino alla porta di Dominic, e ci picchiai sopra con le nocche. Lo stereo si zittì.
«Chi è?».
«Tuo padre, Henry J. Molise».
Aprì la porta e restò lì con solo le mutande addosso, era un giovanotto molto robusto con spalle e gambe forti.
«Ciao, papà. Che succede?».
Entrai nella stanza.
«Dove sei stato in queste ultime due settimane?».
«In giro».
Si era appena rasato, sapeva di lime, era ben pettinato e i capelli lunghi gli coprivano le orecchie. Mi sedetti sul letto mentre lui s’infilava un paio di pantaloni a strisce larghe. Era un tipo assolutamente imprevedibile, aveva abbandonato l’università per andare in marina. Ora era un macchinista, guadagnava diecimila l’anno, che non gli bastavano nonostante li spendesse tutti per sé, e a volte chiedeva denaro in prestito ai suoi genitori. L’unica spiegazione alle sue grandi spese erano le fiche da poker del club Gardenia che Harriet ogni tanto pescava dalle sue tasche quando gli faceva il bucato. Ne notai un paio sul comodino insieme a delle monete e alle chiavi della macchina. C’era anche un pacchetto di preservativi.
«Non potresti fare un po’ più d’attenzione?», gli dissi, indicandoli. «Qui vivono anche tua madre e tua sorella».
Sorrise. «Se vuoi ti faccio vedere un scatola intera di anticoncezionali nel bagno di tua figlia».
Una nuova foto era appesa sopra la libreria, appena visibile oltre la lampada. Inclinai il paralume e la inondai di luce. Era l’ingrandimento di una ragazza nera nuda con una parrucca bionda, seduta a gambe larghe su uno sgabello di un bar.
«Dove l’hai pescata?».
«Ti piace?».
«Non mi fa né caldo né freddo. Tua madre l’ha vista?».
«L’ho attaccata un secondo fa».
«Vuoi che le venga un arresto cardiaco?».
«E’ pura e salutare pornografia. Ne ho moltissima sotto il letto, l’ha vista tutta. Prendine pure, quando ti pare».
Avevo già esaminato il materiale. «No, grazie. Al momento sto leggendo Camus».
«Camus? Notevole».
Cercai, per un momento, di capirlo.
«Che diavolo hai contro le donne bianche?».
Si girò e sorrise abbottonandosi la camicia.
«Ad alcuni piace la carne bianca, ad altri piace scura. Che differenza fa… è tutto tacchino».
«Ma non hai nessun orgoglio di razza?».
«Orgoglio di razza! Perbacco, questa sì che è una frase, papà. Scommetto che l’hai inventata tu. E’ fantastica. Non mi meraviglia che tu sia un così grande scrittore». Andò alla scrivania, prese una matita e scrisse su una busta. «‘Orgoglio di razza’. Me la voglio appuntare, così non me la scordo».
Che verme! Non c’era nessuna possibilità di dialogo con lui, mi bloccava sempre. Avrei potuto sottolineare il fatto che la carne sulle sue ossa era dovuta al mio sudare su misere sceneggiature, e che il conto del dentista per i suoi denti perfetti era arrivato a tremila, per non menzionare le migliaia che mi era costato con la distruzione di macchine, motociclette, tavole da surf e in premi assicurativi altissimi. Ma avrebbe ribattuto che era autocommiserazione, e avrebbe avuto ragione. La vita era così sleale. Via via che i tuoi figli diventavano più grandi, tu diventavi più piccolo, e non c’era neanche modo di dargliele con la cintura. L’ultima volta che gliele avevo suonate era stato tre anni prima, quando lo avevo trovato ubriaco in una macchina parcheggiata. L’aveva fatto ridere istericamente. Spostai la conversazione sullo strano cane in giardino, e i suoi occhi brillarono d’interesse, perché amava i cani e una volta aveva avuto un beagle che era un campione. Raggiungemmo Harriet in cucina, e uscimmo in massa in giardino.
La tempesta era finita, e il cielo dipinto di blu, era picchiettato di stelle. Il cane giaceva come l’avevamo lasciato. Ci raggruppammo intorno a lui e ascoltammo il ritmo profondo e dolce del suo respiro. Non curandosi degli avvertimenti di Harriet sulla rabbia, Dominic si accucciò e gli carezzò la testa grande e afflitta. Non avevo mai visto un cane più triste, più sconsolato di lui.
«E’ esausto», disse Dominic. «Sentite come russa».
«Sembra avere il cuore spezzato», disse Harriet. «Mi domando se non l’abbiano maltrattato».
«Nessuno maltratta un mostro come questo», disse Dominic. Gli grattò il ruvido pelo nero e marrone, così folto che la pioggia vi era scivolata sopra e adesso era asciutto e luccicante. La malinconica testa giaceva cascante e scoraggiata.
«E’ un cane molto malato», stabilii.
«Dovresti essere malato così anche tu», disse Dominic. «Guarda che succede».
Alla bestia stava venendo un’erezione. Dalla guaina pelosa emergeva lentamente il pisello che sembrava una carota gigante di Salinas Valley, come per assaggiare l’aria della notte, con quell’unico occhio a fessura che si guardava intorno. Come in risposta il cane sollevò lentamente la testa e fissò il nuovo arrivato. Sembrò compiaciuto e arcuò il suo grande collo per dargli un paio di tenere leccate. Erano ovviamente amici devoti.
«Disgustoso», disse Harriet.
Sentimmo un suono metallico quando spinse il collo in avanti. Tastando la pelliccia, le dita di Dominic trovarono un collare a strozzo con una medaglietta attaccata.
«Bene», dissi. «Ci dirà chi è il padrone».
Dal momento che era troppo buio per leggere, Dominic sfilò il collare dalla testa del cane. Tenne la targhetta metallica alla luce e la lesse senza commentare, poi lo passò ad Harriet e me. C’era un’iscrizione.
Diceva: «Peggio per te».
«Stan Jackson!», esclamai.
Jackson era uno scrittore che abitava sulla costa, che inventava le scenette per gli spettacoli pomeridiani della televisione e per i suoi amici. La medaglietta era nel suo stile. Doveva proprio essere il suo cane. Harriet sottolineò il fatto che i Jackson erano all’estero.
«Inoltre», disse, «credo che ‘Peggio per te’ sia il suo vero nome». Si chinò sull’animale e provò: «Ciao, Peggio per te. Come stai?».
Concentrato sul suo pisello, il cane non le prestò orecchio. Dominic gli rimise il collare. Ebbe una buona intuizione: non far confusione intorno al cane, lasciarlo stare, e farlo andare via quando ne avesse avuta voglia.
Il cane si tirò su, rimise la pistola nella fondina, e sbadigliò. In piedi sembrava ancora più grosso, aveva una coda cespugliosa e piumata che gli si incurvava sopra la schiena e zampe palmate grandi come il pugno di un uomo. Calcolai che doveva pesare pressappoco sessanta chili.
Harriet pensò che fosse un cane eschimese.
«Un cane da slitta», affermò Dominic.
A me sembrava semplicemente un formidabile, malinconico e afflitto animale con occhi neri a mandorla e il muso di un orso, e che somigliasse più che altro a un chow gigante. Lo guardammo attoniti mentre si dirigeva verso i gradini della veranda e con calma entrava in casa.
«Non ce lo voglio», disse Harriet.
Mi girai verso Dominic.
«Fallo uscire».
Seguimmo Dominic in casa. Il cane non era in cucina. Harriet lo trovò in salotto, steso sul divano, con il mento sul cuscino.
«Sta sbavando sul mio merletto», disse Harriet. «Fallo scendere».
Lui l’afferrò per la pelliccia che gli pendeva dal collo e diede uno strattone. «Giù, ragazzo». Si sentì un ringhio, profondo, sinistro, intimidatorio. Proveniva dall’interno del pavimento, dalla terra sotto la casa. Dominic mollò la presa e arretrò. Il cane emise un gemito affaticato e chiuse gli occhi.
«Lasciamolo stare», dissi. «Non fa male a nessuno. Apriamo la porta di casa, e quando deciderà di andarsene lo farà da solo».
«Ho trovato!», disse Harriet raggiante.
Sparì in cucina e ne tornò con un cumulo di hamburger su un piatto di carta. «Quando comincia a seguirmi, aprite la porta», disse. Tenendo il piatto con il braccio teso, cercava di blandire il cane: «Dai, cagnolino. Guarda cosa c’è per te, un buon hamburger fresco fresco». Gli spinse il piatto sotto il naso.
Il cane aprì gli occhi e la guardò con cupa alterigia. Harriet era furiosa.
«Esci da casa mia!», ordinò, pestando un piede per terra e indicando la porta. «Vattene, fuori!».
Vagamente accortosi di lei, il cane si stiracchiò e si girò, appoggiando la schiena contro i cuscini. Aveva un’altra erezione, la carota stava emergendo e osservava la scena. Il cane sollevò la testa e salutò il suo amico con uno sguardo caloroso, poi lo bagnò con la lingua umida.
«E’ rivoltante», disse Harriet.
Non so perché, ma lo dissi, fu come un capriccio, un barlume di spirito, un’improvvisazione senza riflettere, senza nessuna malizia sottintesa.
«Vorrei poterlo fare anch’io», dissi.
«Sei disgustoso!», esclamò Harriet.
Lanciò l’hamburger nel caminetto, marciò fuori dalla stanza e lungo il corridoio. Sentimmo la porta della camera da letto che sbatteva. Alzai le spalle e guardai Dominic.
«Ma che diavolo le è preso?», domandai. «Era solo uno scherzo».
«Un lapsus freudiano», disse.
Mi vennero i capelli dritti in testa. «Che vuoi dire? Hai del coraggio a parlarmi così. Che ne sai di Freud? Forse dovresti consultarlo per il fatto che te la spassi con le ragazzette nere. Forse hai una malattia di tipo razziale!».
Prima che io avessi finito, pallidissimo e furibondo, era uscito dalla stanza. Fuori dalla porta di servizio, nel garage, entrò in macchina, accese il motore, fece retromarcia, gli abbaglianti mi colpirono mentre gli correvo incontro per fermarlo, stava uscendo.
«Fermati, ragazzo!».
Si fermò e io mi avvicinai al posto del guidatore.
«Mi dispiace», dissi. «L’ultima battuta non era intenzionale. Dimenticala».
Era ferito, rimuginava.
«Okay, papà».
«E’ stata una pessima giornata, sono stanco».
«Va bene».
«Vai pure. Divertiti finché puoi, finché non ti sposi. Non sono affari miei. Ci vediamo».
«Va bene».
Fece uscire la vecchia Packard a marcia indietro, curvò lentamente e si avviò verso la superstrada, mentre il motore faceva le fusa come un gatto nella notte lavata dalla pioggia. Una macchina straordinaria, pensai addirittura di fare a cambio con lui per una settimana con la mia Porsche.

 III

Il cane era sempre sul divano quando tornai in salotto. Aveva un incubo e si lamentava, muoveva le zampe a scatti e piangeva. Cacciava qualcosa oppure lo stavano rincorrendo, e le zampe si muovevano sempre più veloci. Provai pena per lui, perché anch’io facevo spesso questi sogni di fuga, inseguito da mia moglie, dal mio agente o dai fratelli King, gli ultimi produttori che mi avessero ingaggiato. Si svegliò improvvisamente, sollevò la testa, contento che fosse solo un sogno, e soddisfatto si mise a sedere ansimando.
Gli domandai: «Come ti chiami, ragazzo?».
«Crepa», mi disse il suo sguardo.
Mi avviai per il corridoio per fare pace con mia moglie. Era seduta sul letto, e si stava facendo il manicure. Era bello vedere come l’arrabbiatura le fosse già passata.
Le dissi che mi dispiaceva di aver detto quella cosa.
«Sei un tale porco a volte».
«Era uno scherzo».
«Sei diventato così rozzo. Quando ti ho conosciuto non ti saresti neanche sognato di parlare così».
«Cercavo di fare colpo. Dio mio, Harriet, siamo sposati da così tanto tempo che a volte mi dimentico che hai anche tu dei sentimenti. Il matrimonio abbrutisce l’uomo.
E così l’essere padre. E così la disoccupazione. E i cani. Che ne facciamo di quel fottutissimo cane?».
Degli abbaglianti schizzarono attraverso la finestra della camera da letto che dava sul giardino. Rick Colp, l’ex marine, con il suo furgone Volkswagen stava riportando a casa mia figlia Tina. Rincasavano molto presto. Conclusi che il sergente fosse più affamato del solito. Erano fidanzati, e lo erano da quando Rick era stato congedato un anno prima.
Quando gli abbaglianti si spensero Harriet disse: «Ecco la risposta al nostro problema del cane. Rick Colp».
«E’ in debito con me. Di almeno venti bottiglie di scotch».
«Non ti preoccupare. Saprà bene cosa fare con quel cane terribile».
«Non lo voglio sventrato. Lo voglio solo fuori di casa».
«Lascia fare a Rick».
A lei Colp piaceva. Le piaceva il suo ampio sorriso, i suoi capelli biondi da surfista che gli arrivavano quasi alle spalle, il suo bell’aspetto abbronzato. Io non ero così sicuro. Se la spassava con mia figlia e divorava questo mondo e quell’altro in casa nostra. A un anno dal suo congedo, il sergente aveva passato tutte le giornate sulla spiaggia, dedicando la sua intera vita al surf. Arrivava ogni sera alle otto, prendeva mia figlia e via, a zonzo in furgone, al cinema o alle feste, da Santa Barbara alla Laguna, riportandola a qualsiasi ora, certe volte all’alba.
E qualsiasi ora fosse, Tina lo faceva entrare silenziosamente in cucina, chiudeva le porte e gli preparava un piatto di uova col prosciutto e pane tostato. Mentre cucinava e apparecchiava, Colp sorseggiava il mio scotch da un bicchiere con del ghiaccio. Solo per levarmi lo sfizio, una volta gli andai a dare noia alle due di mattina e lo trovai senza scarpe, con i piedi sul tavolo, e il mio scotch accanto. Ciò mi rese meditabondo ma pragmatico, andai alla scrivania, presi carta e penna, e calcolai che in un anno Rick Colp aveva mangiato più di mille uova e settanta chili di prosciutto dal mio frigorifero. E io ero senza lavoro da sette mesi.
Il liquore era un’altra cosa. Risolsi il problema comprando da Thrifty dello scotch Bonnie Lassie a sette dollari il mezzo gallone e mettendolo in bottiglie vuote di Cutty Sark. Il Bonnie Lassie sapeva di cloro, ma con le sue interiora da marine il sergente non si accorse mai della differenza. Quello buono lo nascosi nel ripostiglio delle scope.
Non ero nell’umore di accusare il sergente di essere un perdigiorno da spiaggia. Era troppo grosso. Ma il messaggio gli arrivò lo stesso attraverso Tina, e una sera, mentre era lì a bere il Bonnie Lassie e aspettava che Tina si vestisse, mi offrì una spiegazione per il suo stile di vita così libero.
«E’ un periodo di aggiustamento», disse. «Voglio dire, non è facile ridiventare un civile. Non devo risalire troppo velocemente, o mi verrà il male del palombaro».
Sapevo bene di cosa parlasse, perché anch’io avevo avuto problemi a riabituarmi alla vita civile. Avevo lottato per cinquantacinque anni per riadattarmi e non mi era riuscito. Lo invidiai, avrei voluto anch’io passare un anno o più alla ventura, lungo la riva del mare, con un furgone V.W., tre tavole da surf, attrezzatura da sub, un sacco a pelo e una pollastrella come Tina.
 IV

««Quello lì è un akita», disse Colp, studiando il cane spaparanzato sul divano. «E’ un cane giapponese. Ne ho visti così a Tokyo. Non c’è tanto da scherzarci».
«Ecco perché non obbedisce», disse Tina. «Forse non capisce l’inglese».
«Potrei chiamare la signora Hagoromo a Wandsworth», disse Harriet. «E’ una persona così dolce, e sono sicura che sarebbe felicissima di parlare al cane».
«Oh, merda, Harriet», dissi. «Non vogliamo aprire un dialogo con questa bestia. Vogliamo solo che se ne vada. Può anche darsi che non capisca l’inglese, ma senz’altro capisce la forza. E’ un linguaggio che afferrano tutti i cani. Giusto, sergente?».
«Giusto, signore».
«Puoi farlo?».
Sorrise con sicurezza. «Datemi un vecchio soprabito, un impermeabile o qualcosa del genere».
Harriet prese un impermeabile di plastica dall’armadio in corridoio e Rick se lo avvolse intorno al suo possente avambraccio, formando uno spesso scudo che lo soddisfece in pieno quando lo provò.
«L’ho visto fare in Nam», spiegò. «Quando carica, glielo conficco fra le mascelle e lo disarmo. Poi gli blocco la testa e lo trasporto fuori. Qualcuno apra la porta d’ingresso. Voi, gente, state alla larga».
«No, Rick, per favore!», piagnucolò Tina correndo da lui. «Ti farai male. Non mi “piace”, quel cane».
Ma la sua protesta infiammò soltanto la sua virilità, le diede un delizioso bacetto sul naso e le comandò di stare lontana con il resto di noi codardi. Lei intravide la possibilità di fare un scenata e cominciò a piangere, e le lacrime come al solito le vennero senza nessuna difficoltà. Lui l’abbracciò e la coccolò per tranquillizzarla, e mentre andavano avanti domandai ad Harriet se l’assicurazione contro i danni domestici era stata pagata. Lei si accigliò e mi disse di sì. Nel frattempo il cane aveva sospettato qualcosa e ci stava guardando uno a uno, con la lingua di fuori che salivava.
Dando un raro spettacolo di femminile rassegnazione Tina abbracciò il suo marine e lo lasciò andare allo scontro. Colp si diresse verso il cane.
«Signor cane giapponese», disse. «Abbiamo un affaruccio da sistemare».
Spinse l’avambraccio protetto verso il muso del cane. Con uno sguardo attonito il cane arretrò contro il cuscino. Non c’era risentimento nella sua espressione. Di fatto sembrava quasi contento e giocoso. Eravamo più sorpresi di Colp, che gli carezzò l’ampia e morbida zona fra le orecchie. Leccò la mano di Rick e il suo muso da orso si increspò in un sorriso.
«Ehi, ma gli piaci!», disse Harriet.
«Oh, Rick!», mormorò Tina.
«Voleva solo un po’ di affetto», disse Colp sedendosi sul divano e lasciando che il cane gli appoggiasse il muso in grembo. Con gli occhi chiusi, il cane sprofondò in un rapito godimento.
«Non è dolce?», disse Tina.
«Poverino, senza amici», disse Harriet.
Poi vedemmo la carota. La vedemmo tutti nello stesso momento, fiammante come una torcia. Anche Colp la vide.
Si mosse per alzarsi. Ma il cane non era di quell’avviso, e ci fu un ringhio, un baluginare di denti, un brontolio, e il cane improvvisamente fu su di lui, tenendolo fermo sulla schiena, i denti selvaggi spalancati alla gola del giovane, minacciosi, che gli ordinavano di stare fermo, di sottomettersi quietamente mentre la carota sbatteva contro i suoi levi’s, zap, zap, zap! Rick non si mosse, con quella bocca enorme e fumante vicinissima al viso.
Tina urlò e Harriet si coprì gli occhi e gridò: «Oh, mio Dio!», io guardavo la scena affascinato. Durò all’incirca cinque secondi. Non appena la carota incontrò la stoffa ruvida dei levi’s, delusa e rapida rientrò nella sua custodia. Il cane disgustato scese e si diresse verso la cucina.
Rick buttò all’indietro i suoi riccioli dorati e si rincalzò la camicia.
«Quello che abbiamo qui, signore», disse, «è un cane finocchio».
«Bisognerebbe sparargli», disse Tina.
Non ero d’accordo. «I cani sono democratici», ribattei. «Scoperebbero qualsiasi cosa. Una volta avevo un cane che scopava un albero».
«Non credo, signore», replicò Rick. «Questo cane è una signorina. Sono pronto a scommetterci del denaro».
«Vuoi dire che siccome ha provato a saltarti addosso, allora è frocio?».
«Già».
«E se avesse provato a saltare addosso ad Harriet?».
Non mi accorsi che il colpo stava arrivando e Harriet mi prese in pieno sulla bocca. Si precipitò nel corridoio fino alla camera da letto e sbatté la porta.
«Papà, sei tremendo», disse Tina.
Mi passai le nocche sul labbro e vidi una macchia rossa. Colp aveva un aspetto scoraggiato, stava con la testa china, i suoi occhi blu erano tetri e fissavano il tappeto.
«Che ne dici di bere qualcosa?», proposi.
«No, grazie».
«Uova col prosciutto?», domandò Tina.
«Un’altra volta».
Si diresse verso la porta e Tina lo abbracciò. Lui si fermò sulla soglia.
«Posso darle un suggerimento, signore?».
«Certo».
«Gli spari, a quel figlio di puttana».
«C’è del buono in quest’idea».
Abbracciati andarono verso il furgone. Io entrai in cucina e trovai il cane comodamente sdraiato davanti ai fornelli. Per raggiungere il ripostiglio delle scope dovetti passargli sopra. Tirai fuori lo scotch, gli ripassai sopra e mi versai da bere. La porta d’ingresso si spalancò di colpo e Tina schizzò in cucina. I suoi occhi mi incenerirono.
«Ti odio, papà. Odio il tuo maledetto cane. Non fai altro che combinare casino. Povera mamma! Spero che ti lasci».
«Ma che ti prende?».
«Tutte quelle cose disgustose che dici! Hai una mente schifosa. Non rispetti nulla. Sei peggio di quel cane, e io non sopporterò che tu metta ancora in imbarazzo Rick, hai capito? Smettila! Smettila!».
Corse strillando in camera sua, e fece tremare l’intera casa quando chiuse sbattendo la porta. Il tremito fece aprire gli occhi al cane. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi si rimise pacificamente a dormire.
La pioggia ricominciò, e si rovesciava sul tetto inclinato, e mi piacque, perché significava denaro, abbondanza, innaffiava la nostra proprietà e riduceva il rischio di incendi. Il cane sentì la pioggia e drizzò le orecchie. Si mise in piedi e lentamente raggiunse la porta di servizio, da dove mi guardò con uno sguardo luttuoso. Voleva uscire. Aprii la porta. Fuori sulla veranda, annusò l’aria bagnata e si avviò sul prato verso il luogo dove l’avevamo trovato. Là si sdraiò e chiuse gli occhi, con la pioggia che lo bagnava.
Tornai da Harriet. Era in camicia da notte, e leggeva a letto. Ancora una volta la sua arrabbiatura era passata e sorrideva. Quando le dissi che il cane era fuori di casa, scivolò giù dal letto per vedere con i suoi occhi. Ci avviammo insieme per il corridoio. Pensai che anche Tina avrebbe voluto saperlo e bussai alla sua camera.
«Il cane è andato via», dissi.
«Non mi rivolgere mai più la parola, mai più», mi rispose da dietro la porta.
Harriet e io restammo nel portico sul retro e guardammo la pioggia che cadeva sopra al cane addormentato.
«E’ stregato», disse.
Una Buick del 1960 con un solo faro imboccò sferragliando il vialetto di casa. Apparteneva a Dennis, il mio secondogenito, l’attore. Portò quell’ammasso di rottami nel garage e arrivò correndo sotto la pioggia, con una cartella sotto il braccio.
«Mamma, devo parlarti», disse seccamente, non prestandomi la minima attenzione.
«Denny, guarda», disse Harriet indicando il cane.
«Che c’è che non va?».
«Sta dormendo».
«Lascia stare il can che dorme».
Ci passò davanti tranquillamente ed entrò in casa.
«Vieni qui, mamma».
Era un giovane energico, sottile, con i capelli biondi come quelli di sua madre, sempre di fretta, scontento per il modo in cui la sua vita stava procedendo a ventidue anni. Aveva studiato arti teatrali al City College, ma non aveva passione per la disciplina accademica. Voleva andarsene a New York e provare là con il teatro, ma era entrato nelle riserve dell’esercito due anni prima per evitare la leva. Ora però lo aspettavano altri quattro anni prima di potersene andare a Manhattan. Aveva fatto richiesta di trasferimento a New York, ma gli era stata rifiutata perché non c’era nessun reparto che andasse bene per l’equipaggiamento speciale che aveva a Fort MacArthur. Aveva lavorato per il carnevale, in parchi divertimenti, a fiere di paese. Ora, oltre alla scuola, guidava un taxi a Los Angeles e spendeva la maggior parte dei suoi guadagni in dottori di dubbia fama e avvocati che brigavano per liberarlo dal servizio militare. Nonostante una dozzina di lastre, esami del sangue e prelievi spinali, neanche i dottori più corrotti riuscivano a trovargli difetti, e il suo corpo perfetto lo lasciava di pessimo umore e disgustato e intrappolato nell’esercito.
«Mamma, ti sto aspettando», disse dalla cucina.
Entrammo mentre era seduto al tavolo ed estraeva dei fogli dalla sua cartella. Senza guardarmi, disse: «Per piacere, papà, esci. La mamma e io dobbiamo parlare in privato».
«Vaffanculo», replicai, incrociando le braccia.
Ignorandomi, allungò ad Harriet un ammasso di pagine scritte a macchina. «E’ andata male, mamma. Malissimo».
Temendo il peggio, Harriet si coprì gli occhi con le mani. «Oh, santa pace», sospirò. «Santa pace».
«Guarda questi fogli, mamma».
Tremando, studiò le annotazioni a matita rossa sui margini. Era il tema finale dei suoi esami, uno studio sulle commedie di Bernard Shaw. Il voto era stato C meno, e per essere promosso lui aveva bisogno di un B.
«Non è leale!», piagnucolò Harriet. «Ero sicura che avrei preso A! E’ uno dei temi migliori che abbia mai fatto!».
Lui fece un sorriso a mezza bocca e si adagiò sullo schienale della sedia. «Non ce l’hai fatta. Hai battuto la fiacca».
«Non è vero! Ho lavorato duramente», era quasi in lacrime. «Ho letto tutte le commedie, tutte le prefazioni. E’ stato un lavoro molto duro». Agitò le dita nella mia direzione. «Dammi da bere».
Le preparai dello scotch con ghiaccio. «Oh, Dio», disse, scolandolo, scorrendo le pagine. «Non è giusto. Ma che vogliono da me?».
Era un affare delicato quello dello scrivere i temi per Denny. Era un po’ che andava avanti, dalla sesta, e gli aveva fruttato una fama rubata nei temi di inglese, colpa di Harriet in realtà, perché lui era ormai arrivato a considerare quel lavoro come di sua responsabilità.
Appoggiato all’acquaio bevevo il mio scotch e stavo a sentire mentre lui l’attaccava, stringendo i pugni per controllarmi. Il suo tema mancava di organizzazione, diceva, e non ci aveva neanche messo le note che servivano. Era rimasta troppo a cianciare su “Pigmalione” e non aveva neanche preso in considerazione “Uomo e Superuomo”.
Harriet si torceva le mani.
«Ma è un buon lavoro! Ci sono degli errori, ma anche quelli sono una questione d’opinione. E non c’era nessun bisogno di note».
Era un bastardo che sapeva il fatto suo. Ora che l’aveva intimorita, cambiò stile.
«Non ti scoraggiare. Hai una seconda possibilità».
Questo la scioccò.
«Una seconda possibilità?», balbettò.
«Ho fatto quattro chiacchiere con il signor Roper. Sa quanto sia importante per me, ed è d’accordo a farmi riprovare».
«E fantastico», disse lei lamentosamente.
«Te la senti, mamma?».
Lei mi guardò.
«Che vada a farsi fottere», dissi.
Lui abbozzò un pallido sorriso, e la guardò.
«Ci proverò, Denny. Farò del mio meglio».
Esausta, preoccupata, finì il bicchiere.
«Posso dire una cosa?», domandai.
«No, non puoi!», disse Denny. «Tieni la tua boccaccia hollywoodiana fuori da questa storia».
Rimasi calmo.
«Stai a sentire, cretino. Hai voglia di uscire e sistemare questa faccenda da uomo a uomo?».
«Piantala. Non ho intenzione di colpire un vecchio idiota traballante».
Posai il bicchiere.
«Andiamo, sbruffone».
Entrai in salotto, uscii dalla porta principale e rimasi nella veranda ad aspettare. Il mio piano era di dargli un colpo secco sulla bocca appena avesse messo un piede fuori. Sapevo che poteva darmele, e avevo bisogno di quel primo pugno. Non avrebbe risposto. Avevamo già avuto questi scontri, e non avevano portato a nulla, tutto fumo e niente arrosto. Aspettai cinque minuti. Poi si aprì la porta. Era Harriet.
Dissi: «Riferisci a quell’insolente e rozzo individuo che lo sto aspettando».
«E’ andato a letto».
«Ovvio. Anche fifone».
«Chiudi le porte e lascia una luce per Jamie», disse. «Io vado a dormire».
Prima di seguirla in branda feci un’ultima ispezione per cercare il cane. Sembrava morto sotto la pioggerella, aveva la pelliccia coperta da una nebbia leggera, e la bocca era immersa nell’erba. Non sembrava che respirasse, ma la mia mano sul suo petto sentì il battito del suo cuore.

                                                               V

Mi svegliai e pensai: il cane; barcollai fuori dal letto. Buttandomi dell’acqua sulla faccia guardai fuori dalla finestra verso sud. Era una giornata mozzafiato. La tempesta aveva lavato e asciugato il mondo. Il mare era una grande torta di mirtilli e il cielo era brillante come il manto della madonna. Si sentiva la fragranza dei pini e del salmastro, e riuscivo a vedere le isole di Santa Barbara a quaranta miglia di distanza, che cavalcavano l’orizzonte come un branco di balene azzurre. Era il tipo di giornata che tortura uno scrittore, così meravigliosa da strappargli l’ambizione e da soffocargli ogni idea nata nel suo cervello.
Harriet stava facendo il caffè quando entrai in cucina. Era raggiante.
«Se ne è andato!», sorrise.
Avevo bisogno di un’altra conferma, dovevo vederlo con i miei occhi, e uscii. Non c’era traccia del cane. Passai sotto i pini gocciolanti e guardai oltre il muro. Controllai il garage, il recinto per gli animali, e persino la vecchia e malandata roulotte che negli anni passati era servita da riparo per i miei bull terrier. Là vi trovai qualcosa che mi fece cullare in dolci sentimentalismi. Era una vecchia mazza da baseball, mangiata a metà dal mio grande e defunto Rocco, che amava divorare le mazze e specialmente l’impugnatura dove poteva assaporare il sudore delle mani dei miei figli.
La colazione era pronta quando rientrai in casa. Sorseggiai del caffè, accesi la mia prima sigaretta, e avvertii come una premonizione che solleticava la mia psiche. Quel dannato cane era sempre in circolazione. Non era destino che me ne liberassi così facilmente. Quel figlio di puttana non se n’era andato per niente. Un’apprensione fortissima mi fece alzare dalla sedia. Lui era lì, sotto quello stesso tetto. Una potente intuizione mi spedì all’ala nord della mia casa fatta a ipsilon fino in camera di Jamie.
Aprii silenziosamente la porta e sbirciai. Stavano dormendo tutti e due sul fianco destro, il braccio di Jamie era intorno al collo del cane, e russavano entrambi. Quello che vidi mi piacque. Mi piacevano i ragazzi che dormivano con i cani. Si avvicinavano a Dio. Chiusi la porta e tornai in cucina.
«Jamie ha un ospite».
«Non dirmi che è quel terribile Shaw», disse Harriet.
«Peggio».
Sollevò lo sguardo da un volume di opere di Bernard Shaw e incontrò i miei occhi.
«Il ragazzo Castallani?».
«Il cane».
Tremò, la tazza si agitava nelle sue mani mentre beveva. «Ora non ci posso pensare», disse, e appoggiando la tazza rovesciò del caffè sulla pagina. «Devo leggere tutte queste cose, tutte queste commedie. Hai mai provato a leggere una commedia di Shaw?». Si mise la mano sugli occhi. «Oh, Dio, per piacere! Non parlarmi di quel cane!».
E così cominciò la mia giornata, un’emozione al minuto nella romantica, eccitante, creativa e soddisfacente vita di uno scrittore. Prima la lista della spesa. Vroom! Ruggendo percorro la superstrada lungo la costa con la mia Porsche, sette miglia fino al mercato di Mayfair. Scree! Freno per fermarmi al parcheggio, salto giù dalla macchina, do alla mia sciarpa bianca un paio di giri, e, zap! Entro attraverso le porte automatiche. Pow! Lattuga, patate, cardi, carote. Swoosh! Arrosto, braciole, pancetta, formaggio! Wham! Torta, cereali, pane. Zonk! Detersivo, cera da pavimenti, tovaglioli di carta.
Ritorno in macchina, vroom vroom lungo la superstrada, rombando passo accanto alla schiuma delle onde cremosa come detersivo agli enzimi, il trasgressivo e spensierato autore, che riempie i suoi giorni di squisita sensualità. Ma il vento in faccia mi riportò all’unica realtà e il ricorrente ricordo di Roma mi levò il respiro, una tazza di cappuccino a un piccolo tavolo di piazza Navona con una ragazza dai capelli corvini accanto, che mangiavamo anguria e ridevamo, e lei sputava i semi ai piccioni.
Jamie stava facendo colazione quando portai dentro la spesa. Il cane era ai suoi piedi. Era diventato così familiare che sembrava essere arrivato con la casa.
«Vedo che vi siete piaciuti», dissi.
«Sì, è simpatico».
«Non ha ancora provato a scoparti? Ieri sera ha quasi fatto centro con Rick».
«Ci ha provato, ma è un po’ stupido. Ecco perché mi piace. Non ne posso più di cani intelligenti».
«Jamie lo vuole tenere», disse Harriet.
«Niente da fare».
«E perché?».
«Perché con i cani ho chiuso, perché appartiene a qualcun altro e perché non lo voglio fra i piedi». Decisi di calcare la mano. «In nome di Dio, pensa a tuo padre. Non posso lavorare in questa casa di matti. Ho bisogno di pace e di quiete. Se solo sapessi quello che passa uno scrittore per…».
Alzò le braccia.
«Okay, okay! Questa l’ho già sentita».
Allontanò la sedia dal tavolo e si precipitò fuori dalla porta di servizio, gridando al cane: «Andiamo, Stupido!».
Il cane prontamente si alzò e lo seguì. Stupido. Quel nome gli andava alla perfezione. Presi il telefono e cominciai a chiamare il County Animal Shelter.
Dal giardino provenivano i tonfi del pallone da basket. Era Jamie, che cercava di farsi passare l’arrabbiatura lanciando il pallone nel canestro fissato al muro del garage. Era il migliore dei miei figli. Non fumava erba, non beveva, non si faceva donne nere, e non voleva diventare un attore. Cosa avrebbe potuto chiedere un padre di più? C’era qualcosa di sano e di rinfrescante nell’avere un figlio così.
Sin dall’infanzia aveva nutrito un amore costante per gli animali, aveva allevato polli, papere, conigli, criceti e porcellini d’India. L’avevo visto baciare porcellini d’India sulla bocca in accessi di tenerezza per il loro calore affettuoso, e per un’estate intera aveva dormito con due serpenti reali avvolti amorevolmente sul suo petto. Ora aveva diciannove anni, aveva ottenuto il rinvio militare per meriti scolastici, ed era un mago della matematica con un brillante futuro. Dopo scuola lavorava in un supermarket, metteva da parte ogni cent che guadagnava, e faceva piani per una laurea in economia aziendale. Ma soprattutto era la mia speranza migliore per una serena vecchiaia. Gli altri, Tina inclusa, mi avrebbero cacciato nello stesso modo in cui io bandivo il cane, ma la mia pensione del Writer’s Guild, più la previdenza sociale e uno stipendio mensile che Jamie mi avrebbe passato, mi promettevano la serenità negli anni del tramonto. Quindi perché rovinarmi il futuro? Che tenesse il cane. Come si sarebbe sentito fra dieci anni ricordando suo padre come quel bastardo senza cuore che aveva consegnato Stupido alla camera a gas della contea? No, non andava bene. Attaccai il ricevitore e andai da lui a discutere il problema.
«Lo puoi tenere se prometti di occupartene», dissi.
«Non lo voglio, papà. Hai ragione. Sono solo problemi».
«Che ne facciamo allora?».
«Portiamolo alla spiaggia», disse Jamie. «Se ne andrà per conto suo, e sarà la soluzione».
«Buona idea».
Il cane giaceva semisepolto in un’aiuola di edera.
«Vieni, Stupido», dissi.
Mi ignorò, ma quando a chiamarlo fu Jamie si alzò immediatamente. Fin lì tutto bene. Entrai in casa e misi Harriet al corrente del nostro piano. Era così sollevata che mi baciò. Le giurai che non avrebbe mai rivisto quel cane.
«Sii forte», disse. «Non fare il fifone».
«Mi conosci. L’uomo d’acciaio. Inoltre è l’unico modo per liberarsi umanamente di lui. Caracollerà lungo la costa e sarà la fine della questione».
Raggiunsi Jamie e il cane al cancello principale e ci avviammo lungo la strada. C’era un quarto di miglio per arrivare al cancello della spiaggia, lungo il quale si affacciavano giardinetti di un acro su entrambi i lati, c’era una casa per ogni giardinetto, e almeno un cane, più spesso due, per ogni casa. Point Dume era un paese di cani, il paradiso canino per doberman, pastori tedeschi, labrador, boxer, weimaraner, alani e dalmata.
Si scatenò l’inferno quando passammo per la strada. I boxer da esposizione degli Epstein, Elwood e Gracie, vennero fuori ruggendo dal viottolo di casa loro e si scagliarono su Stupido prima che lui potesse rendersi conto di quello che stava succedendo, buttandolo per terra. Mugolii, ululati e latrati riempirono l’aria e i peli esplosero in un turbine di polvere al lato della strada. Sembrava che stessero facendo Stupido a pezzi, ma presto lui si riprese spalancando completamente le sue mascelle da orso mentre rispondeva ai colpi. Ci fu un urlo di dolore da parte di Gracie che si allontanò di corsa, zoppicando.
Elwood stava sulla schiena, con i denti conficcati nel grosso collo di Stupido, e strappava ciuffi di peli con la bocca. Stupido lo colpiva con le zampe, poi le sue fauci cavernose affondarono nel collo del boxer. Ma non gli fece male. Lo teneva soltanto giù, premendolo con il suo corpo pesante. Poi la carota lampeggiò, emergendo come una spada arancione, proprio nel momento in cui la signora Epstein in bigodini aprì la porta di casa e guardò con costernazione l’assalto in atto contro il suo orgoglio e la sua gioia. Afferrò uno spazzolone e si gettò nella mischia.
«Oh, Elwood!», piagnucolò. «Povero Elwood».
Picchiava Stupido sulla schiena con lo spazzolone mentre lui cercava di fare centro con la spada. Ma questa scivolava inoffensivamente da una parte e dall’altra, qualche volta finiva per terra via via diventando più piccola e finalmente scomparve. Solo allora si liberò, con un’espressione di sconcerto sul muso mentre lo spazzolone lo flagellava. Incolume ma imbarazzato, Elwood saltò in piedi e si lanciò per dare un ultimo morso alla folta pelliccia di Stupido. Poi corse via per raggiungere Gracie accanto alla casa.
Jamie e io affrontammo la signora Epstein. Ansimava, furiosa, e fissava Stupido con uno sguardo torvo.
«Cos’è quella sudicia cosa?».
«Un akita», dissi.
«E “cos’è”?».
«Un cane giapponese».
«Prima i bull terrier e ora questo. Ma non può avere un cane civile?».
«Non è stato lui a cominciare, signora Epstein», disse Jamie. «Sono stati i suoi cani ad attaccarlo».
«E gli si può dar torto? Guardate quell’orribile bestia!
Non c’entra niente in un quartiere per bene. Avete visto quello che ha fatto a Elwood?».
Con la lingua di fuori, affannato e coperto di polvere, Stupido era lì seduto a guardare la signora Epstein.
«Lo denuncerò», disse, marciando verso casa. Si fermò sulla soglia per chiamare i suoi cani. «Elwood! Gracie! Entrate, immediatamente!». I cani si precipitarono dentro. Mi lanciò uno sguardo vile e chiuse la porta.
Ci chinammo su Stupido mentre lui si leccava le zampe e si puliva dopo la zuffa. Gli mancava un ciuffo di peli sotto il torace, ma non era ferito. Gli detti una pacca di ammirazione sulla pancia.
«Questo tipo sa come si combatte», dissi.
«Pensi che le avrebbe date anche a Rocco?».
«Non mi sbilancerei così tanto», risposi. «Però ha atterrato due boxer. Promette molto bene».
«E’ un finocchio, papà».
«Anche Cesare. Anche Michelangelo».
«Vorrei che potessimo tenerlo».
«Tua madre farebbe l’ira di Dio».
Proseguimmo sulla strada con il sistema d’allarme canino che ci precedeva e che funzionava a pieno ritmo: il collie degli Hamer, i beagle isterici dei Frawley, il doberman dei Borchart, una quantità di cani piccoli e grandi su entrambi i lati della strada che protestavano contro l’alieno in mezzo a loro.
Lo videro fra Jamie e me, che tenevamo entrambi il suo collare, avvertirono un odore di bestia proveniente da luoghi lontani e impazzirono per la paura e per l’oltraggio della sua presenza, alcuni correvano dietro a basse cancellate, altri si ritirarono nei garage e nelle verande dove si schiantavano la gola con ululati che fecero correre alle finestre donne e bambini a domandarsi con ansia da dietro le tende che razza di mostro stesse attraversando Point Dume.
Con la lingua di fuori e la testa alta, Stupido si godeva quell’attenzione e tirava come un cavallo impaziente di uscire dal cancelletto di partenza. Quando passammo davanti a casa Bigelow il loro alano fulvo balzò allo steccato e lasciò andare un paio di latrati asmatici. Stupido sogghignò e fece balenare una minacciosa zanna bianca.
Passati i Bigelow, ci aspettava un’ultima sfida prima di raggiungere i cancelli di ferro della spiaggia – un antagonista selvaggio, troppo formidabile anche solo per poterci pensare o per sussurrare il suo nome. Ma sapevamo che ci aspettava proprio dietro l’angolo della strada.
Si chiamava Rommel, e il suo padrone si chiamava Kunz, un dirigente dell’ufficio di consulenze Rand di Santa Monica. Rommel. Arrivato in aereo da Berlino, era il sovrano assoluto dell’impero canino di Point Dume. Era un pastore tedesco nero e argento, viveva nell’ultima casa della strada e si era arrogato il compito di custodire i cancelli che portavano alla spiaggia sottostante. Un cane temibile, un piccolo Fürher con un istinto soprannaturale per riconoscere gli stranieri e i vagabondi (e per scodinzolare a chiunque portasse un’uniforme), bello come Cary Grant e feroce come Joe Louis, un re potente fra i cani, ma secondo me inferiore a Rocco, il mio bull terrier abbattuto da una pallottola assassina un anno prima che comparisse Rommel. Non appena giungemmo sulla strada senza sfondo Rommel si presentò, il sistema di allarme dei suoi sottoposti l’aveva già avvertito della presenza di un intruso, uomo o bestia, sulla Cliffside Road.
Il mio cuore cominciò a battere forte, e improvvisamente capii che l’unica ragione per la quale stavo portando Stupido alla spiaggia era quell’incontro. Guardai Jamie. Era arrossito, i suoi occhi brillavano. L’unico di noi, uomo o bestia, che ancora non si era reso conto della minaccia incombente era Stupido. Sembrava che il suo olfatto fosse difettoso come la sua vista, perché procedeva baldanzoso senza aver visto Rommel, con la lingua penzoloni e un sorriso sul suo muso da orso.
Avvicinandosi furtivo con passo minaccioso, una zampa che seguiva cauta l’altra, con la coda tesa, e i peli del collo dritti, Rommel lanciò un latrato da gelare il sangue che mise a tacere tutti gli ululati e ogni abbaiare della strada. Il re aveva parlato e gli rispondeva un timoroso silenzio. Le orecchie di Stupido si drizzarono quando i suoi occhi percepirono Rommel a trenta metri di distanza. Cercava di liberarsi dalla nostra stretta sul collare e ci trascinò finché lo lasciammo. Non procedeva accucciato come il suo rivale teutonico. Al contrario, marciava incontro alla battaglia a testa alta, con la coda piumata e ricurva che sventolava come una bandiera sul suo posteriore.
La cosa si prospettava sul genere di Main Street, Dodge City. Jamie si leccò le labbra. Il mio cuore urlava. Ci fermammo a guardare.
Rommel colpì per primo, affondando i suoi denti nella pelliccia della gola di Stupido. Era come mordere un materasso. Stupido si liberò con uno strattone, si alzò sulle zampe posteriori, con la mossa di un orso, tenendo il teutone a bada con quelle davanti. Si azzannarono a vicenda, faccia a faccia, poi anche Rommel si mise sulle zampe posteriori. Il mio Rocco, un combattente da strada, li avrebbe sbudellati tutti e due se avessero usato quella tattica con lui. Ma Rommel era un lottatore leale, pignolo nell’osservare le regole, niente morsi sotto la cintura, niente attacchi se non alla gola.
Colpì varie volte, ma non riusciva ad avere la meglio. Stupido, con mia grande meraviglia, non mordeva affatto. Abbaiava, le sue mandibole scattavano, ringhiava per eguagliare il ringhio di Rommel, ma era chiaro che voleva combattere, non uccidere. Era della stessa taglia di Rommel, ma il suo petto era più forte e le sue zampe colpivano duro come randelli.
Dopo una mezza dozzina di attacchi, il combattimento si trascinava e ci fu una momentanea pausa nella quale i cani si misurarono. Il vigile Rommel era fermo come una statua quando Stupido si avvicinò e cominciò a girargli intorno. Rommel osservava la manovra con sospetto, con le orecchie tese. Secondo le regole di una classica lotta canina la battaglia sarebbe dovuta terminare con qualche altro attacco stanco qua e là, e gli animali avrebbero dovuto ritirarsi con l’onore salvo.
Non Stupido. Girandogli intorno una seconda volta, improvvisamente sollevò le zampe sul dorso di Rommel. “Touché”! Fu un’impresa fantastica, senza precedenti, audace, provocatoria e talmente poco ortodossa che Rommel si raggelò incredulo. Era come se Stupido volesse spassarsela invece di combattere e questo confuse Rommel, cane nobile che credeva nella lealtà.
Poi Stupido rivelò la sua misteriosa intenzione, sfoderò la sua spada arancione e saltò sulla schiena di Rommel, ora sembrava proprio un orso, premeva Rommel con le quattro robuste zampe cercando di mandare a buon fine la spada. Che finezza! Che ingegno! Il mio sangue cantava. Dio, che cane!
Ringhiando disgustato, Rommel si dibatteva per liberarsi da quell’assalto osceno, girava il collo per raggiungere la gola di Stupido, e trascinava il sedere per proteggerlo. Ora sapeva che il suo avversario era un perfido mostro con intenti depravati e ciò gli diede un’energia piena di panico per svincolarsi. Finalmente libero, si allontanò strisciando, con la coda fra le gambe che riparava le sue intimità. Stupido lo seguì al trotto mentre Rommel batteva in ritirata e si piantava sul prato arricciando le labbra a mostrare i denti che schiumavano. Nel suono che uscì dalla sua gola vi erano nausea e repulsione, si sottraeva al suo rivoltante avversario troppo disgustoso per essere attaccato.
Era sconfitto, sgominato. Aveva ceduto.
«Dio mio!», dissi, cadendo in ginocchio e buttando le braccia al collo di Stupido. «Oh, mio Dio, Jamie! Ma che cos’è che abbiamo qui?».
Jamie lo afferrò per il collare.
«Portiamolo via prima che ricominci».
«Non ricomincerà mai più. Rommel è finito, spazzato via. Guardalo!».
Rommel risaliva il vialetto di casa Kunz verso il garage, con la coda fra le gambe.
«Andiamocene», disse Jamie.
«Lo teniamo».
«Non si può. L’hai promesso alla mamma».
«E’ il mio cane, la mia casa, e così ho deciso».
«Ma non è tuo».
«Lo sarà».
«Fa casino. E’ matto».
«Combatte con stile. Vince senza allungare un pugno».
«Non è un lottatore, papà. E’ uno stupratore».
«Lo teniamo».
«Mi spieghi perché?».
«Non devo spiegarti proprio niente».
Ci avviammo di nuovo verso casa, con Stupido fra noi che camminava tra due file di cani che abbaiavano. Sapevo bene perché volevo tenere quel cane. Era indecentemente chiaro, ma non potevo certo dirlo al ragazzo. Ne sarei stato imbarazzato. Ma a me stesso lo potevo confessare. Ero stanco di sconfitte e fallimenti. Ero affamato di vittoria. Avevo cinquantacinque anni e di vittorie all’orizzonte non ce ne erano, tanto meno battaglie. Anche ai miei nemici era passata la voglia di combattere. Stupido rappresentava la vittoria, i libri che non avevo scritto, i luoghi che non avevo visto, la Maserati che non avevo mai avuto, le donne che desideravo, Danielle Darrieux, Gina Lollobrigida e Nadia Grey. Era il trionfo su tutti gli incapaci che avevano squarciato le mie sceneggiature tanto da farne zampillare il sangue. Era il sogno di una grande progenie, di figli dotati di un brillante intelletto iscritti a università famose, studenti con ricchi doni per il mondo. Come il mio amato Rocco, avrebbe alleviato il dolore e i lividi dei miei giorni interminabili, la povertà della mia infanzia, la disperazione della mia giovinezza, la desolazione del mio futuro.
Era un cane, non un uomo, un animale, ma col tempo sarebbe diventato mio amico, e mi avrebbe riempito la testa di orgoglio, divertimento e sciocchezze. Era più vicino a Dio di quanto io non sarei mai stato, non sapeva leggere né scrivere, ma andava bene anche così. Era un disadattato, e io ero un disadattato. Io avevo combattuto e avevo perso, lui avrebbe combattuto e vinto. Gli altezzosi alani, gli orgogliosi pastori tedeschi, li avrebbe pestati a sangue, tutti, e se li sarebbe pure scopati, e io avrei avuto le mie rivincite.
 VI

Quando arrivammo, Harriet stava mietendo dalla cassetta della posta il raccolto quotidiano dei conti da pagare. Alla vista del cane la bocca le si spalancò e l’ira le ribollì nello sguardo.
«Chiama il tuo agente», disse bruscamente.
Non aggiunse altro. Rientrò dal cancello e risalì il vialetto fino alla porta d’ingresso senza mai voltarsi fino a quando non fu entrata in casa. Portammo Stupido nel cortile e gli demmo da mangiare carne di cavallo in scatola che era avanzata dai tempi di Rocco. Divorò quattro scatolette da quaranta cents l’una, e aveva ancora fame.
«Non te lo puoi permettere questo cane», disse Jamie. «Non hai neanche un lavoro in vista».
«Dio provvederà».
Aprimmo un’altra scatoletta poi entrai per telefonare al mio agente. Harriet era seduta al tavolo di cucina, circondata da volumi di Bernard Shaw. Quando feci il numero si scansò. L’agente mi disse che aveva qualcosa di promettente. Joe Crispi dell’Universal mi voleva vedere. Crispi e io eravamo vecchi amici e avevamo collaborato con la Columbia anni prima. L’appuntamento era per quel pomeriggio alle tre. Gli confermai che ci sarei andato.
«Di cosa si tratta?», domandai.
«E’ top secret», disse l’agente, il che significava che ne erano al corrente tutti gli scrittori e tutti gli agenti della città.
«T.V. o cinema?».
«Non posso aggiungere nulla», rispose l’agente. «Devo mantenere il riserbo». Il che significava T.V. Ma non mi importava. Avevo così bisogno di denaro che mi sarei prostrato a Joe Crispi davanti al Century-Plaza se il prezzo fosse stato giusto.
Impiegai quasi un’ora per radermi, farmi la doccia, e rientrare nei panni dello scrittore. Indossai persino un gilet a quadri sotto la mia giacca sportiva di cashmere. Uscendo passai per la cucina e non vi trovai Harriet. Mi evitava, irritata per via del cane. Percorsi i due corridoi chiamandola, poi finalmente arrivai davanti alla porta chiusa del bagno. Bussai.
«Harriet?».
Nessuna risposta, ma sapevo che era lì dentro. Bussai un’altra volta.
«Che vuoi?», disse.
«Sto uscendo».
Non una parola.
«Vuoi che ne parliamo prima che me ne vada?».
«Ti seccherebbe lasciarmi in pace e andartene? Sono sulla tazza».
Le dissi arrivederci e mi avviai verso il garage. Jamie giocava a basket e Stupido dormiva sul prato. Sembrava già uno di noi, in perfetta armonia con l’erba e gli alberi, faceva parte del caldo pomeriggio di gennaio. Uscendo dal garage a marcia indietro con la mia Porsche sentii la piatta vuotezza della mia guancia, quel posto dove Harriet non mi aveva dato il bacio d’addio. Per un quarto di secolo l’abitudine del bacio d’addio era stata parte delle nostre vite. Ora mi mancava nello stesso modo in cui a un monaco manca un grano del suo rosario.
 VII

Ci vollero quaranta minuti per arrivare all’Universal. Filavo lungo le montagne del litorale attraversando il Malibu Canyon per arrivare alla Valley, dove presi la superstrada fino a Universal City. Ero preoccupato per la situazione a casa. L’umore di Harriet era terrificante. Di solito era docile e malleabile e pronta al perdono, ma anche il suo ritegno aveva un limite passato il quale lei se ne andava.
Era già successo due volte, e in tutti e due i casi c’era stato di mezzo un animale. Nel primo anno del nostro matrimonio, quando vivevamo a San Francisco, portai nel nostro appartamento un ratto bianco in una gabbia, con l’intenzione di farne un animale da compagnia. Il ratto scappò nelle molle del divano e fu quasi impossibile districarcelo. Harriet mi diede un’ora perché me ne liberassi, e siccome non mi riuscì, fece le valigie e se ne andò, salendo su un Greyhound con destinazione la fattoria di sua zia a Grass Valley. Ci volle un mese prima che riuscissi a farla tornare. Dovetti andare fino a Grass Valley, e in presenza di sua zia mi inginocchiai e la supplicai di tornare a casa. Finalmente acconsentì, ma solo dopo una revisione completa del nostro contratto di matrimonio. A quel tempo ero giovane e stupido e la scopavo tre volte al giorno, ero innamorato e desideroso di avvilirmi.
Dieci anni dopo Mingo, il mio primo bull terrier, mangiò il suo gatto siamese, e lei di nuovo scappò, lasciandomi con una casa piena di marmocchi, gatti e cani. Di nuovo a Grass Valley, giorni di negoziati, proposte e controproposte per lettera e per telefono e la parte ormai noiosa del marito prostrato, col cuore infranto, fino a quando non fu firmato un nuovo patto. Una delle condizioni che mi costrinse ad accettare, fu che Mingo avrebbe dovuto andarsene. Era una richiesta crudele, ma mi teneva per le palle, e io portai Mingo in un aranceto a Tarzana dove un gentile e vecchio signore allevava bull terrier e dove, poi, nacque il mio grande Rocco generato da Mingo.
Sembrava che fosse in procinto di effettuare un’altra fuga a Grass Valley. Riconoscevo i sintomi: sorriso di porcellana, bocca tirata, silenziose meditazioni in bagno, ostilità sprezzante. Ma negli anni ero cambiato, e i miei valori erano adesso diversi. Un cane era una creatura meravigliosa, ma non sapeva stirare una camicia né preparare fettuccine o pollo al marsala, tanto meno scrivere un tema su Bernard Shaw, e sarebbe stato dannatamente ridicolo con le calze nere. Quando parcheggiai davanti all’Universal mi ero convinto che Stupido se ne doveva andare.
Mancavano ancora dieci minuti prima dell’incontro con Joe Crispi, mi infilai in una cabina e telefonai a casa.
Mi rispose Denny e gli domandai di farmi parlare con sua madre.
Disse: «Papà, ascolta. Non hai già combinato abbastanza casino?».
Urlai.
«Non darmi lezioni, palloso che non sei altro. Manda mia moglie al telefono».
Ci volle più di un minuto prima che tornasse.
«E’ nella vasca».
«Dille che è importantissimo».
Ci fu una pausa.
«Ti lascia, papà».
«Ecco perché chiamo. Dille che il cane va via. Appena arrivo a casa».
Si allontanò per tre minuti, durante i quali infilai un altro quarto di dollaro nel telefono.
«Mi spiace, papà. Non ti crede».
Gemetti. «Ma che c’è, Denny? Ancora Grass Valley?».
«Penso di sì. Ha prenotato il volo delle sette per Sacramento».
«Fermala! Convincila a non farlo!».
«Credi che non lo stia facendo? Che ne sarà del mio tema se se ne va?».
«Non demordere. Torno appena posso».
Riattaccai, intontito e sudato nel calore di Valley, e camminai per un isolato fino all’ufficio di Joe Crispi all’interno della palazzina C. Sentivo che il solito dolore al duodeno stava tornando, la fitta che mi attanagliava sempre prima di un incontro con un produttore.
Ma questa volta sapevo che Joe Crispi non c’entrava nulla. Era il pensiero di Harriet che se ne andava e dello sfibrante processo per farla ritornare. Non potevo più negoziare. Ero dannatamente vecchio. Mi sarei sparato piuttosto che rifare il pellegrinaggio fino a Grass Valley, quella vecchia zia tremebonda, ormai di novant’anni, quel salottino del 1890, quella tremenda cittadina dove io ero sempre ‘quel ragazzo italiano’. Mugolai una preghiera: «San Gennaro, in nome di Dio aiutami».
Davanti alla palazzina C una piccola fox terrier di buona famiglia mi abbaiò da dentro una Mercedes coupé da diecimila dollari con l’interno di pelle rossa, una cagnetta mocciosa che pensava di essere la proprietaria del mondo. Mi avvicinai alla macchina e le feci una linguaccia. Spinse con accanimento le sue mascelle attraverso la fessura lasciata aperta dal finestrino e mi urlò contro come una pazza. Prendendo la mira precisa le sputai sul muso e sperai che appartenesse a Jacqueline Susann.
Non vedevo Joe Crispi da sette anni, da quando ci incontravamo all’ufficio di stato di Santa Monica per ritirare i nostri assegni di disoccupazione. Ora lui era un milionario che produceva tre show televisivi di grande successo e aveva avuto un infarto. Si era appesantito, aveva una gran pappagorgia che gli incorniciava la faccia scura di siciliano. Era successo troppo e troppo poco perché potessimo ricreare il calore dei vecchi tempi. Si era persino scordato il nome di mia moglie e la chiamava Hazel.
Dedito agli affari, puntò direttamente sulla questione. Aveva appena finito il numero zero di una nuova serie, una commedia, una commedia veramente umana, disse, e sentiva che sarebbe stata perfetta per il mio talento. Lo spettacolo aveva già uno sponsor e il piano era di farne ventisei episodi.
«Ne puoi fare quanti ne vuoi», disse. «Quanto tempo hai? Voglio dire, stai facendo qualcosa?».
Gli dissi che ero libero e pronto per lavorare.
«Fantastico», disse, alzandosi dalla sedia. «Andiamo in sala proiezioni. Ti ho fatto preparare un filmato».
«Prima parlamene un po’».
«Guardalo. Poi lo commentiamo. Voglio che tu lo veda senza pregiudizi».
Lo ringraziai per il disturbo di aver organizzato una proiezione speciale solo per me.
«Figurati. Io con gli scrittori ci lavoro così. Carte in tavola, niente confusione».
Era tipico di Joe Crispi. Era venuto dalle miniere di carbone della Pennsylvania, aveva pubblicato un romanzo sulla povertà e la disperazione dei minatori italiani, e poi aveva prodotto film che parlavano di scaricatori, pugili professionisti e gangster. Aveva un aspetto duro, scriveva in modo duro e cercava di mantenersi onesto. Se stava preparando uno sceneggiato, doveva senz’altro essere sui poveracci che conosceva così bene – italiani, polacchi, neri. Avrei potuto scrivere anch’io su quella gente.
Mi fece scendere due piani di scale fino alla sala proiezioni, e mi convinsi che quel progetto mi sarebbe piaciuto comunque, perché avevo bisogno del pane e della possibilità di agganciarmi a uno spettacolo di successo.
Crispi aprì la porta della sala ed entrammo. Era una stanza piccola, con circa cinquanta posti a sedere e mi venne un colpo quando mi accorsi che erano tutti occupati e inoltre c’era molta gente in piedi in fondo alla sala e lungo i muri. Erano scrittori, ovviamente, giovani scrittori, scrittori di Princeton e di Dartmouth, di New York, con vestiti moderni, per la maggior parte con i capelli lunghi e con la barba. C’erano anche scrittrici, tanto chic e attraenti da poter fare le attrici. Ero il cretino più vecchio della stanza. Tranne Joe e me, ogni altra persona presente era sotto i trenta, gente tranquilla, energica. E implacabile. Crispi si sedette al posto d’onore dietro a una scrivania collegata con fili del telefono e dispositivi elettronici alla cabina di proiezione.
Il duodeno stava zampillando acido quando le luci si oscurarono, e mentre cercavo affannosamente un posto vicino alla porta, la mia vecchia ulcera mi disse di battermela. Lo schermo si illuminò e la proiezione speciale a mio beneficio cominciò.
Le mie interiora si annodarono come del filo da pesca via via che andava avanti. La serie si intitolava “Il fortunato Pierre”, e, da non credersi! l’eroe era un cane, un fottutissimo barboncino francese che si chiamava Pierre e la sua padroncina era Melinda, di quattordici anni, poi c’era papà, un banchiere di Wall Street, e c’era mammina, opprimente e snob, e su quella cosa disgraziatissima c’erano le risate registrate, del tutto inutili perché gli scrittori, servili, ululavano a ogni centimetro di pellicola e si sganasciavano a ogni battuta del dialogo.
Era un dramma, nudo e poderoso, uscito direttamente dal passato dalle miniere di carbone di Joe Crispi. Melinda, mammà e papà stanno tornando a casa su un 747 da Parigi e Melinda ha nascosto il grazioso Pierre nel bagaglio a mano e nessuno dei passeggeri né del personale sospetta neanche lontanamente che sia lì, e mentre volano sull’Atlantico due dirottatori, abbastanza neri per poter essere cubani, prendono il comando dell’aereo, ed ecco che Pierre salta fuori dalla sacca fra le grida dei passeggeri e le risate degli scrittori assembrati. O vomitavo o morivo. Me lo sentii rancido e bollente nell’esofago, allora silenziosamente aprii la porta e mi dileguai.
Dal tabaccaio fuori dallo spaccio aziendale comprai un paio di pacchetti di Tums poi mi diressi verso la macchina. Il primo pacchetto mi bastò per l’autostrada fino a Calabasas. Quando ci arrivai erano quasi le cinque, avevo molto tempo a disposizione per raggiungere casa prima che Harriet andasse all’aeroporto. L’ulcera si era calmata e così arrischiai una sigaretta, ma il dolore tornò a farsi sentire con violenza quando imboccai il vialetto.
Denny stava portando il bagaglio di Harriet alla macchina.
«Troppo tardi», gridò, seguendomi con lo sguardo mentre mi precipitavo in casa.
Harriet era seduta davanti alla specchiera con un accappatoio addosso, e si dava lo smalto sulle unghie. Il vapore del bagno caldo che aveva fatto annebbiava le finestre e un voluttuoso aroma di oli e di profumi restava sospeso nell’aria. Pensai di saltarle addosso, ma l’area contratta in mezzo alle sopracciglia indicava che non era di umore sportivo.
«Te ne vai, allora», dissi, sedendomi sul letto.
«Hai detto proprio bene, me ne vado».
«Ma perché? Hai vinto. Il cane se ne va».
Non rispondeva.
«Forse il cane non c’entra niente, forse sono io», ammisi. «Ho fatto un piccolo esame di coscienza nell’ultima ora o due, e quello che ho trovato non è molto piacevole. Sono un marito catastrofico, un padre ignobile, ho amministrato malissimo il denaro, sono un fallimento completo. Non mi fa meraviglia che tu te ne vada. Ti do la nausea, io e il mio modo di fare da poco di buono. Non sono neanche un gran bello spettacolo. Forse dovresti andare a San Francisco per qualche giorno e trovarti un ragazzo giovane e spassartela. E’ una terapia molto efficace, e sa Dio se anche tu non hai diritto a un po’ di divertimento in vita tua».
La sua faccia si ammorbidì mentre mi guardava riflesso nello specchio.
«Se cambio idea, mi prometti una cosa?».
«Tutto quello che vuoi».
«Tieni il cane fuori di casa».
«Il cane se ne va. Qui ha chiuso».
«Non voglio che tu te ne liberi. Hai bisogno di un cane. Non sei più lo stesso da quando è morto Rocco».
«Ma tu non te ne andrai?».
«Non posso proprio. Devo finire quel tema su Shaw entro la prossima settimana, altrimenti Denny non passerà».
Si alzò e si sfilò l’accappatoio. Zap! Aveva una giarrettiera sopra a degli slip neri, elastici, con una frangia gialla e delle rose gialle in rilievo. La fascia intorno alla vita era di seta nera punteggiata di altre rose. E calze nere.
«Santa madre di Dio!», dissi.
Si allontanò da me per andare a chiudere la porta a chiave e io rimasi a guardare l’ondulare del suo dolce culo e mi sentii come una chitarra pizzicata. Il dolore dell’ulcera era scomparso.



VIII

Stupido non ci creava nessun problema. Non andava mai a zonzo nonostante i due cancelli fossero lasciati aperti, e non era difficile tenerlo fuori di casa. Preferiva stare all’aperto, gli piaceva dormire sul prato sia che piovesse o no, e solo di rado usava la cuccia che gli avevamo messo in garage.
Era un animale che amava il freddo, scoppiava di energia quando sentiva tuonare e la temperatura si abbassava. Se saliva sopra i trentacinque gradi si riparava nell’edera o sotto un albero.
Feci uno sforzo poco convinto per cercare il suo padrone, ma fu piuttosto un gesto per mettere in pace la mia coscienza la decisione di pubblicare un annuncio sul piccolo giornale locale, in cui dicevo di aver trovato un grande cane di sesso maschile e domandavo al proprietario di farsi vivo. Evitai di proposito il gigantesco «L.A.Times», che copriva ogni città e strada del sud ovest. Dopo aver lasciato l’annuncio per una settimana lo cancellai, registrai Stupido all’anagrafe canina e lo feci vaccinare contro rabbia e cimurro.
Il funzionario che lo registrò scrisse che era un akita puro. Il veterinario Oxnard che fece le iniezioni riteneva che fosse un incrocio fra un cane da slitta e un akita, il suo assistente invece sosteneva che fosse mezzo chow e mezzo akita.
La mia idea era che si trattasse di un akita puro, perché ero andato a una mostra e ne avevo visti altri così – con gli occhi obliqui, le zampe palmate e la coda piumata proprie della razza. Stupido era esattamente come gli akita della mostra.
Era senz’altro uno straniero, con i problemi di adattamento di ogni straniero in un quartiere altolocato, guardato dall’alto in basso da tutti i cani anglosassoni e odiato dalle razze germaniche. Gli andava meglio con i bastardi, ma provava a saltare addosso a ogni maschio senza eccezione. Detestava le femmine, e se erano in calore gli dava contro senza pietà. Aveva atterrito Gracie della signora Epstein. Dopo quel primo incontro non rividi mai più Gracie, per quanto la sentissi abbaiare da dietro casa sua. Naturalmente gli Epstein smisero di parlarci, e ci evitavamo mentre spingevamo i carrelli lungo i corridoi del supermarket.
I cani scorrazzavano liberi per Point Dume, e quando un gruppo turbolento di maschi passò davanti a casa nostra inseguendo una femmina in calore, Stupido uscì a passo di carica fuori dal giardino, disperse i maschi ed ebbe la cagna per sé. Lei rimase ad aspettarlo con invitante civetteria, mentre lui le correva incontro. E ricevette il colpo peggiore della sua vita perché lui l’atterrò e gliele suonò senza misericordia fino a quando lei scappò disperata.
Avevo due teorie sul disadattamento di Stupido. La prima, che quando era stato un cucciolo piagnucoloso aveva fatto parte di una grande nidiata con altri nove o dieci fratelli e sorelle, tutti più vigorosi di lui, e quindi al momento di mangiare non gli rimaneva neanche una tetta libera alla quale attaccarsi. E solo quando gli altri si erano saziati riusciva a trovare una fonte accessibile, ma a quel punto sua madre era asciutta, o stufa, e lo scansava.
Stupido risentiva ancora amaramente del trattamento ricevuto, e col passare del tempo, in particolare durante la pubertà, aveva ripensato al fatto che sua madre l’aveva respinto ed era arrivato a odiare tutte le donne.
Oppure che, avendo raggiunto la maturità senza suggerimenti da parte dei genitori, aveva combinato un disastro al primo tentativo di coito. Lei avrebbe potuto essere un alano insensibile, o qualche cagna rude che non solo lo aveva scacciato, ma lo aveva anche umiliato.
In più c’era la questione delle origini. Convinto come ero che venisse dal Giappone, avrei potuto essermi sbagliato nel giudicarlo un akita puro. C’era forse qualche possibilità che sua madre fosse un pastore tedesco. Se fosse stato così, lo scontro fra la cultura orientale e quella teutonica avrebbe potuto generare incredibili complicazioni genetiche. La belligeranza tedesca combinata alla furbizia orientale rappresentava una fusione imprevedibile, come benzina e sakè. Questi elementi avrebbero potuto restare immobili per un po’ di tempo, ma prima o poi una deflagrazione era inevitabile.
La strada che conduce al cuore di un cane è la stessa che porta a quello di un uomo: in due settimane Stupido riconobbe in me la persona da cui dipendeva per il cibo, e fu mio.
Avevo bisogno di un cane. Semplificava il circolo della mia vita. Era là, nel giardino, vivo e amichevole, prendeva il posto degli altri cani che erano morti sullo stesso terreno dove lui vagabondava. Riuscivo a capirlo – i miei amici cani, vivi e morti, riuniti nella stessa terra. Aveva senso. Mio padre e mia madre giacevano in un cimitero a nord e io ero vivo a Point Dume, camminavo sulla stessa crosta terrestre della California che teneva anche loro. Capivo anche quello.
Se uscivo la notte con la mia pipa e spostavo il mio sguardo da Stupido alle stelle, vedevo una connessione. Quel cane mi piaceva. Quando era ragazzo in Colorado mi sedevo con il mio cane e guardavo quelle stesse stelle. Era l’infanzia che tornava, mi riportava le pagine del catechismo. “Chi è Dio?” Dio è il creatore del cielo e della Terra e di tutte le cose. “Dio è ovunque?” Dio è ovunque. “Dio ci vede?” Dio ci vede e vigila su di noi. “Perché Dio ci ha fatti?” Dio ci ha fatti per conoscerlo e amarlo in questo mondo e per essere felici con lui nel prossimo.
Mi sedevo con Stupido sull’erba e ci credevo, a ogni parola. Alle volte quando ero seduto lui si alzava, mi metteva le zampe sulle spalle e cercava di scoparmi. Mi amava. Come altro avrebbe potuto esprimerlo? Con una poesia, con delle rose? Lo colpivo con un gomito, e ciò bastava. Anche Rocco mi aveva amato, e l’aveva espresso mangiando le mie scarpe o facendo a pezzi qualcosa di mio, una camicia, un paio di calzini, il mio cappello, o, tristemente, le impugnature delle mie mazze da golf. Ma Rocco era un tipo disinvolto che amava le cagne, mentre Stupido aveva questo problema con le femmine, che me lo rendeva più caro.
Lui mi faceva bene. Dopo un mese dal suo arrivo iniziai un romanzo. Niente di strano. Cominciavo romanzi tutti i momenti, riempiendo il tempo fra le sceneggiature che dovevo scrivere. Ma si esaurivano per mancanza di fiducia e di disciplina, e li abbandonavo con un senso di sollievo.
Scrivere sceneggiature era più facile ed era più remunerativo, una maniera di scribacchiare unidimensionale, che richiede all’autore solo di tenere in movimento i personaggi. La formula era sempre la stessa: botte e sesso. Quando avevi finito la davi a delle persone che la facevano a brandelli per ridurla a film.
Ma quando cominciavi un romanzo la responsabilità era spaventosa. Là non eri più solo lo scrittore, ma la star e tutti i personaggi, il regista, il produttore e il cameraman. Se la tua sceneggiatura non andava c’erano moltissime persone a cui darne la colpa, dal regista in giù. Ma se il tuo romanzo era un fiasco, soffrivi da solo.
Avevo scritto quindicimila parole del mio romanzo, non c’erano sintomi del collasso, quando mi tornò l’antica smania di abbandonare la famiglia. Le pagine volavano, e io avevo voglia di stare da solo. Pensai a Roma, naturalmente, e mi baloccai persino con l’idea di portare Harriet con me. Per andarci avremmo prima di tutto dovuto vendere la proprietà di Point Dume, impossibile finché avevamo i ragazzi sulle spalle. E quanto al cane, non credo che avrebbe amato Roma, dove tutti i cani, al guinzaglio per legge, devono anche portare la museruola. Comunque non avevo mai immaginato Stupido con me a Roma. Mi serviva solo fino a quando non avessi potuto fare la mia mossa. Con i ragazzi via e la casa venduta, sarei stato ricco e libero.
Più facevo piani e sognavo, meno Harriet entrava nel mio progetto. Dopo tutto non credevo che Roma le sarebbe piaciuta. Separata dagli amici, isolata dalla barriera della lingua e culturalmente aliena, avrebbe potuto trovarla insopportabile. Inoltre non provava più alcun affetto particolare per le cose italiane. Decisi che l’unica soluzione era di affittarle un appartamento a Santa Monica, allora sarei potuto partire per piazza Navona e tuffarmi nella nuova vita.
IX

Harriet non riuscì così bene come aveva sperato con Bernard Shaw. Prese un B. Fu un colpo crudele al suo orgoglio, anche se servì lo stesso a far uscire Denny dal City College con la sufficienza in arti teatrali.
La pagella arrivò con la posta in un pomeriggio caldo e lugubre di febbraio, il cielo era soffocato dal vento fiammeggiante di Santa Ana, l’aria era elettrica per il gran calore, gli alberi scricchiolavano come se stessero per bruciare e il mare era immobile e stupefatto. Il caldo e la pagella la depressero così tanto che si mise a bere. Provai compassione e bevvi con lei, perché avevo letto il tema, venti pagine di prosa lucida e molto dignitosa. Era quello, ovviamente, il problema. Era troppo buono per essere stato scritto da una mezza cartuccia come Denny.
Sedemmo in cucina con tutte le finestre spalancate, e sorseggiammo chablis freddo fino al calare del sole, ascoltando la marea che saliva ruggendo come leoni in una fossa. Nel giardino Stupido si spostava senza tregua da un posto all’altro, intrappolato nella sua folta pelliccia, annaspando svogliato mentre il vento soffiava attraverso i pini esausti. Bevevamo il vino ghiacciato come se fosse stata aranciata, e stava avendo il suo effetto.
«Vado dai professori», disse Harriet temeraria. «Questo tizio, questo Roper è un pedante perfido e vendicativo. Ce l’ha con Denny». Tracannò dell’altro vino. «Prendimi l’elenco del telefono! Cerca il numero della scuola».
«E’ troppo tardi, a quest’ora sono chiusi».
«Allora ci vado», minacciò. «Voglio misurarmi con questo Roper, faccia a faccia. Ho diritto a una spiegazione».
«Se vai, vai da sola», le suggerii. «Non portarti Denny, perché il signor Roper gli potrebbe fare delle domande su Bernard Shaw, e allora ti beccherebbe con le mani nel sacco».
Il pensiero la rese più moderata.
«Oh, Dio», si lamentò. «Ho lavorato come una dannata su quel tema. Ce l’ho messa proprio tutta».
Si avvicinò alla cucina e aprì il forno dove le lasagne ribollivano in una fragranza piccante di erbe e salsa di pomodoro. Girò le verdure e mescolò l’insalata con un cucchiaio di legno. Doveva essere una di quelle rare volte in cui l’intera famiglia si sarebbe riunita per cena, incluso Rick Colp.
Era infatti diventata una cucina fai da te, dove ognuno si preparava da mangiare secondo il suo gusto. Aveva dovuto subire questa trasformazione perché tutti si svegliavano a un’ora diversa e non si poteva contare su nessuno a cena fuorché su Harriet e me.
Alla fine lei aveva smesso di cucinare pasti regolari. Aveva invece cominciato a riempire il congelatore con cibi precotti e lasciava che gli altri si arrangiassero. Sembrava che in questo modo si sarebbe risparmiata la fatica, ma non fu così, perché nessuno poi lavava i piatti o rimetteva in ordine, e non servì a nulla lamentarsi o mettere delle regole. Era sempre Harriet che faceva il grosso, teneva in ordine la casa, le stanze da letto, il bucato, i conti. Si occupava di tutto, tranne il giovedì in cui veniva la donna di servizio che puliva le finestre e faceva i lavori più noiosi.
Guardai l’orologio e stappai un’altra bottiglia. Erano quasi le sette ed erano in ritardo di mezz’ora, ma non valeva la pena prendersela, perché succedeva sempre. Ci aspettavamo da un momento all’altro che il telefono avrebbe suonato, Dominic, Denny o Tina che ci informavano del ritardo o semplicemente che non venivano. Capitava anche quello.
Sorseggiavamo il vino silenziosi e pessimisti, con la nostra pazienza messa alla prova mentre cercavamo di evitare un argomento che ci pesava moltissimo sul cuore, ovvero l’indipendenza dei nostri figli. Ma era davvero troppo trito per continuare a insisterci su, avevamo esaurito il soggetto, era una fottutissima lagna, ci piangevamo addosso e rivangavamo gli errori compiuti nel passato.
Ma quando immergevamo la lingua nell’alcol, specialmente nel vino, Harriet e io davamo il meglio di noi in un gioco crudele che a volte facevamo.
Quando lei diceva: «Non credi che Denny abbia una mente meravigliosamente analitica?», capivo che era cominciato ed ero pronto a buttarmici.
«Quel ragazzo è un genio», rispondevo. «Un genio assoluto».
«Un attore in famiglia!», Harriet diceva raggiante. «Non sarebbe fantastico?».
«Bellissimo. Un altro Frankie Avalon».
«Forse addirittura un Jackie Cooper».
«Denny è così sensibile, così grato anche per i favori più insignificanti. E’ quello che di lui mi piace maggiormente».
«So cosa vuoi dire», dicevo. «E’ la sua miglior qualità. Ma, che diavolo, è inutile negarlo – ce l’hanno tutti i nostri ragazzi, la reverenza per la casa, il rispetto per il padre e la madre».
«Credo che Denny meriti un premio per la sua promozione in arti teatrali».
«Ha scritto un gran bel tema. Che ne diresti se accendessimo un mutuo sulla casa e gli comprassimo una Bentley? Una macchina da attore. Gli darà lo status».
«Non accetterebbe mai. E’ come Tina, pensa sempre agli altri».
«Oh, quella Tina!», sorridevo. «Che moglie sarà per Rick Colp! Che donnina di casa, che cuoca! E pensare che ha imparato proprio qui, aiutando sua madre!».
«Era una alunna eccezionale. Non ho mai visto così tanta dedizione, lavava i piatti, puliva i pavimenti, le pareti e le finestre. Ama proprio lavorare. Una ragazza davvero meticolosa. Pulita come uno specchio».
«Oh, lo so. Ho visto la sua stanza da letto la mattina. E’ un esempio di ordine. Niente asciugamani per terra, niente vestiti buttati da tutte le parti. Dio, com’è fortunato Rick Colp!».
«Sono fatti l’uno per l’altra, anime gemelle».
«Figli del vento, si spostano di spiaggia in spiaggia, Rick fa il surf mentre lei tiene la casa. Mangiano cozze e cracker Ritz, non hanno un pensiero al mondo».
«E quando verranno i bambini potranno appenderli dentro delle amache nella loro casa su quattro ruote».
«E noi?», protestai. «Perché, non potremo occuparcene noi dei piccoli?».
Sospirò. «I nostri nipotini, che riempiranno ancora la casa di risate!».
«Sei sicura che non ti dispiacerà? Pannolini e tutto il resto?».
«Quei sederini d’oro. Ne sarei felicissima».
«Oh, Gesù, Harriet! E’ forse possibile? Credi che davvero ce li lascerebbero tenere? E’ il sogno di una vita che si realizza, il modo perfetto di trascorrere la nostra tarda età, ricominciare da capo tutto il circolo, tirare su una manciata di bambini un’altra volta».
Facevamo una pausa senza ridere né sorridere, eravamo silenziosi e stanchi, e non avevamo ancora finito. Bisognava pensare a Dominic.
«Dominic».
«Chi?».
Con lui però Harriet non voleva giocare. C’erano donne nere nel suo futuro, e neanche il cinismo poteva farcela con loro. Come eravamo sicuri di essere seduti lì in quel momento, così eravamo sicuri che un giorno Dominic ci avrebbe presentato una nuora di colore. Per me andava bene. Da qualche parte fra i miei predecessori napoletani ci doveva essere stato un carico di nordafricani. Ma Harriet? Le sue origini erano londinesi da parte di padre, e di Düsseldorf da parte di madre.
Verso le otto cominciarono ad apparire in ordine sparso, il primo fu Jamie. Veniva dal lavoro, il suo ritardo era motivato. I suoi voti del semestre sarebbero dovuti arrivare con la posta insieme a quelli di Denny, e Harriet gli domandò perché non c’erano.
«Non lo so», disse.
Gli domandai: «Che voti hai preso?».
«Ottimi», rispose evasivamente, versandosi un bicchiere di vino.
«Sarà meglio che lo siano, se vuoi evitare la leva».
«Non c’è bisogno che me lo rammenti».
Era preoccupato, ma risultava estremamente difficile ottenere informazioni da quel ragazzo. Era taciturno e misterioso, non come i suoi fratelli. Sotto pressione riusciva a fondersi con le pareti.
Poi arrivò Denny. Prese una lettera dal suo berretto da tassista e la diede a Harriet.
Era da parte del signor Roper. Harriet non voleva aprirla. «Il signor Roper non mi piace». La porse a me.
La aprii, c’era scritto:
«Cara signora Molise: la voglio ringraziare per il suo superbo lavoro su Bernard Shaw. E’ di gran lunga il più bel tema di fine quadrimestre scritto da un genitore che io abbia letto in venticinque anni d’insegnamento. Non ufficialmente, è un piacere darle A. Congratulazioni. Sinceramente suo, Thomas Roper».
Harriet si spaventò.
«Che vuol dire? Denny, sei nei guai?».
«Nessun problema. Solo imbarazzo».
«Hai preso B», dissi. «Che altro vuoi?».
«Sono stato smascherato. Sono un imbroglione. La verità è venuta a galla».
«Diavolo. Ma lo sapevi fin dall’inizio».
Si chinò a baciare Harriet.
«So che era a fin di bene, mamma, ma hai calcato troppo la mano. Era fatto troppo bene. Mi faresti un altro favore?».
«Che cos’hai in mente?», domandai.
«Vorrei che scrivessi una lettera al mio comandante».
La sua sfacciataggine era sconcertante. Ora che aveva finito con il City College, proponeva ad Harriet e a me di sostenerlo per ottenere il congedo.
«Una lettera di che genere?».
«Digli che sono omosessuale».
«Oh, mio Dio!», disse Harriet.
Continuò disinvolto: «Non sono adatto a vestire l’uniforme, sono immorale, una pessima influenza. In qualità di genitori dal cuore infranto fate il vostro dovere patriottico e mi smascherate».
«E’ disgustoso!», disse Harriet.
«Certo che è disgustoso, ma mi manderà fuori dall’esercito».
Harriet si voltò improvvisamente e gli diede uno schiaffo in faccia. Denny rimase un attimo soprappensiero, poi si massaggiò la guancia.
«Mamma, non capisci. Dirò che è un’accusa infondata».
«Oh, Dio. Mio figlio!».
Si alzò e corse via dalla cucina.
«Bel colpo», dissi. «Tu sai proprio come tirare fuori il meglio da tua madre».
«Era solo un suggerimento. Non deve farlo “per forza”».
«Solo una domanda», aggiunsi. «Ma sei finocchio anche tu?».
Sorrise. «Tale padre, tale figlio».
Ci fu un urlo dal giardino. Era Tina. Ci precipitammo alla porta d’ingresso e ci sparpagliammo nella notte. Rick Colp era inchiodato al cancello, con Stupido sopra, che lo colpiva con la sua spada, attacchi innocui che scivolavano sui suoi jeans mentre lui si acquattava e Tina picchiava il cane con la sua borsetta.
«Pestagli le zampe!», urlai.
Denny si fece largo con violenza e diede a Stupido un calcio poderoso. Colpì in pieno il cane che guaì e cadde ansimando e annaspando sull’erba. Io mi chinai e lo carezzai.
«Ti sei fatto male, ragazzo?».
«E Rick?», gridò Tina. «Forse è “lui” che si è fatto male!».
«Ti sei fatto male, Rick?».
«Noo», rispose disgustato.
«Non era male intenzionato», dissi. «E’ questo caldo. E’ un cane da climi freddi».
«Nemmeno per idea», replicò Rick. «L’ultima volta che mi è saltato addosso era freddo e pioveva».
Tina intervenne: «Non sprecare fiato. Gli importa solo di quel cane orrendo». Prese Rick sottobraccio e lo condusse dentro casa.
«Devi sbarazzarti di quel cane prima che uccida qualcuno», affermò Denny.
Lo raggiunsi accanto al cancello e lo presi per il bavero della giacca. «Ascoltami bene», dissi. «Sarai anche mio figlio, potresti anche essere mio padre, o per quello che importa, persino mia madre, ma chiunque tu sia, ti avverto: non prendere mai più, mai più il mio cane a calci! Mi sono spiegato?».
«Anche troppo bene, capo».
«Intesi, allora. Andiamo a mangiare».
Tornammo in casa per assistere a una scena di amore giovanile in cucina, dove Rick seduto sorseggiava dello scotch mentre Tina gli pettinava i capelli schiariti dal sole. Erano entrambi tristi e avevano un’aria cospiratoria, Tina mi fulminò con uno sguardo mortale. Notai che la bottiglia proveniva dal ripostiglio delle scope.
Suonò il telefono e io risposi. Era Dominic che chiamava dalla cabina dell’autostrada.
«Posso portare un ospite?», domandò.
«Bionda o bruna?».
«Molto bruna».
«Non so per tua madre, ma per me va bene».
Riattaccai e vidi che Harriet era al mio fianco, in ascolto.
«E’ nera?».
«Molto bruna», dissi, e lei abbassò gli occhi rassegnata. I ragazzi si spostarono in salotto con i bicchieri e una caraffa di vino Red Mountain. Harriet aggiunse un posto a tavola e controllò la cottura. Si era data molto da fare con le candele, i fiori, le sue posate speciali e i bicchieri di Firenze per il vino.
L’ospite di Dominic era Katy Dann. Era piccola, carina e formidabile nei suoi pantaloni di pelle nera e stivali al ginocchio, liscia come una foca e scura come il caffè. Era dotata di un culo alto e spettacolare e i seni sotto il maglione verde ti sfidavano. Invidiai Dominic. Ero anch’io un uomo da culo. Con orgoglio, presentò Katy ad Harriet.
«Ciao, mammina», disse Katy e la baciò con entusiasmo.
«Molto piacere», rispose Harriet educatamente, vacillando un po’.
Katy sbaciucchiò anche me, e disse: «Ciao, papino».
Avrebbe potuto evitarlo. Nessuno mi aveva mai chiamato papino. Fiero come un agente che scorta la sua star, Dominic la introdusse nella sala da pranzo e la presentò agli altri. Tornò in cucina a prendere un paio di bicchieri mentre qualcuno alzò il giradischi e le Supremes ci seppellirono tutti.
Stappai il vino e girai l’insalata ormai molle mentre Harriet levava le lasagne dal forno e le tagliava a quadrati. Le cosparse di pecorino e io avvertii un soffio del passato, la lontana cucina della mia infanzia, con mio padre allegro per il vino che girava anche lui l’insalata in quel tempo remoto. Era un ricordo straziante, inquietante, un flashback che mi fece quasi piangere, e la mia anima ne fu soffocata, perché non avevo mai voluto diventare padre, e invece eccomi, padre quattro volte, e piazza Navona si allontanava come un pianeta irraggiungibile.
Alla fine tutto fu pronto, ed Harriet disse: «Chiamali a tavola».
Entrai in salotto, assalito dal frastuono delle Supremes. La stanza era deserta, c’erano bicchieri mezzi vuoti sulla mensola e sul tavolinetto basso. Erano scomparsi. Sentii delle voci che provenivano da fuori. Aprii la porta di casa.
Stavano uscendo tutti e sei dal cancello principale.
«Venite a cena!», li chiamai.
Mi fissarono in silenzio.
«Non abbiamo fame», disse Jamie.
«Fa troppo caldo per mangiare», aggiunse Denny.
«Andiamo alla spiaggia», disse Dominic. «Mangiamo dopo».
«Non potete farlo», gridai. «E’ tutto pronto».
Si allontanarono nell’oscurità e giù per la strada verso i cancelli della spiaggia. L’ultimo ad andarsene fu Jamie, che cercava di convincere Stupido ad andare con loro. Saltando dalla gioia anche il cane li seguì.
X

Accendemmo le candele e ci sedemmo al funerale, con la bara di lasagne fra noi. Era un lutto senza lacrime, nessun sentimento fu espresso. Avevamo bisogno l’uno dell’altra in quel momento, e restavamo coraggiosamente in silenzio. C’era qualcosa di eroico in Harriet, un valore tragico mentre beveva avidamente il vino gelato e non si vergognava di sorridere. Riempì il bicchiere e bevve di nuovo, e io pensai che beveva troppo in fretta, con troppa spavalderia.
Mi guardò e disse: «Bevi troppo in fretta».
Le lasagne erano scotte, la salsa si era indurita ai lati. L’insalata era floscia, le zucchine troppo bollite erano spappolate. Giocherellavo con il cibo e studiavo mia moglie. La sua faccia era più tonda, a forma di luna piena, perché era cinque chili sovrappeso ed era a dieta. Ma quella sera mangiava con abbandono, con rapide forchettate, e faceva rumore quando masticava. Non era quello il momento di essere critico e lasciai andare.
«Devi proprio fare tutto quel rumore quando mangi?», domandò.
Improvvisamente mi sentii insultato e ferito e la guardai freddamente. Chi era quella donna? Oltre a essere mia moglie, che ne sapevo di lei dopo venticinque anni di matrimonio? Quanto di lei, e quanto poco di me era stato trasmesso ai nostri ingrati figli? A parte Tina avevano tutti ereditato i suoi occhi, la sua struttura ossea, i suoi denti. Perché non erano bassi e tarchiati come il loro padre? Perché assomigliavano a commessi di negozio e non a muratori? Dov’era la rozzezza contadina di mio padre e l’innocenza di mia madre, i caldi occhi marroni italiani? Perché non parlavano con le mani, invece di lasciarle penzolare morte lungo i loro fianchi durante la conversazione? Dov’era la devozione e l’obbedienza italiana al padre, l’amore solidale per la terra e per la casa?
Tutto, tutto era andato perso. Quelli non erano figli miei. Erano solo quattro spermatozoi ai quali era stata tesa un’imboscata in qualche oscura tuba di Falloppio. Erano i suoi figli, scaturiti da un ceppo inglese e tedesco arrivato in California dal New Hampshire e dalla Germania. Protestanti, persino. Uno strano gruppo, a dir poco. Come lo zio Sylvester, un giudice di pace che seduto sullo scranno suonava la cetra tirolese e impartiva sentenze crudeli e disumane ai guidatori indisciplinati che avevano avuto la sfortuna di imboccare il senso sbagliato di una strada in una cittadina quasi dimenticata su nella Amador County. Poi c’era suo cugino Rudolph a Mill Valley, di cui si parlava solo sussurrando, che scriveva regolarmente ad Alexander Hamilton, e lo metteva in guardia contro una congiura di Aaron Burr per assassinarlo.
Niente di tutto questo fra i miei progenitori. Venivano dalla campagna italiana piena di sole, contadini onesti timorati di Dio. Mia madre si chiamava Maria Martini e mio padre Nicola Molise. Gente semplice, senza complicazioni le cui origini risalivano a Giulio Cesare.
Ma chi diavolo erano questi Atherton di Rumney, New Hampshire, o gli Steinhorst di Amburgo, Germania? Avevo visto le loro lapidi a Placer County. Eben ed Ezekiel, e Reuben Atherton. Hans, Carl e Otto Steinhorst. Macellai, fornai, fabbri. Perché avevo sentito parlare così poco di questi antenati? Forse perché somigliavano molto allo zio Sylvester e al cugino Rudolph? E, senza malizia, Dominic e Denny non erano forse come loro?
Sorseggiai il vino, accesi una sigaretta e decisi di andare un po’ a fondo della questione.
«Raccontami, come va lo zio Sylvester?».
La colsi in contropiede, e la sorpresi.
«Zio Sylvester?».
«Sai… il perfido J.P.».
«Come potrei saperlo? Sarà morto ormai, e non è perfido».
«Ne hai parlato ai ragazzi?».
«Credo di sì. Perché?».
«Meglio sapere che restare nell’ignoranza».
«E che vorrebbe dire?».
Mi strinsi nelle spalle. «Nulla. Proprio nulla. E del cugino Rudolph? Si è saputo niente di lui ultimamente?».
Avvertì l’incipiente turbolenza e si alzò.
«Vado alla spiaggia», disse, levandosi il grembiule e uscendo velocemente.
«Aspettami».
La raggiunsi al cancello dove mi stava aspettando. Ci avviammo giù per la strada, con il calore del lontano deserto sulle nostre facce. Una luna di tre quarti, rossiccia, perforava il cielo ad est.
 XI

Una cinquantina di persone erano disseminate lungo la corta spiaggia con le sue alte scogliere di saponaria. L’aria era più fresca di cinque gradi, e il rumore profondo della risacca la faceva sembrare ancora più fresca. Dei fuochi erano accesi qua e là e si sentiva la musica di alcune radioline. Il mare era grigio come il dorso di uno squalo e la spuma delle onde bianca come la sua pancia. Ci sfilammo le scarpe e camminammo affondando nella sabbia fino alla piccola insenatura dove Tina, Rick, e Denny sedevano attorno a un fuoco di legna portata dal mare. Sedendomi avvertii qualcosa di appuntito sotto di me. Era uno stivale di Katy Dann. Lei e Dominic erano da qualche parte nelle onde, ma non riuscivamo a vederli attraverso gli spruzzi dei cavalloni. Il mio primo pensiero andò al cane.
«E’ sulla spiaggia con Jamie», disse Rick.
Harriet si lasciò cadere accanto a me. Avvicinandoci avevamo sentito parlare e ridere, ma ora c’era silenzio, ci escludevano. Vidi che Rick e Denny stavano fumando erba. Se ne accorse anche Harriet.
«Attenti», li avvertì. «Lo sceriffo pattuglia questa spiaggia in continuazione».
Sorrisero come vecchi saggi.
«Vuoi uno spinello, papà?», disse Denny.
«No, grazie».
«E tu, mamma?».
Era ridicolo, lo sapeva anche lui.
Dissi: «Tua madre non è una fumatrice d’erba, quindi smettila di fare il furbetto».
«Ma questa roba è oro puro, papà. Sei sicuro di non volerla provare?».
«No, grazie».
«Guarda che non ti fa male».
«Stammi a sentire. Fumavo erba prima che tu nascessi, tanto tempo fa quando per due dollari ne potevi comprare una lattina di Prince Albert piena».
«Ah, i bei vecchi tempi!», mi punzecchiò. «Raccontaci».
«Non c’è molto da raccontare. L’erba allarga la mente alle persone con un cervello ristretto. Ne hai bisogno perché sei un idiota».
«Grazie tante».
Spense la sigaretta nella sabbia, si levò scarpe e calzini e si trascinò verso l’acqua. Harriet lo seguì con gli occhi umidi.
«Non sei stato molto carino», disse.
Mi alzai e gli andai dietro. Mentre mi avvicinavo sollevando schizzi nella marea che avanzava strisciando, lui si girò, poi continuò lungo la spiaggia. Lo raggiunsi e gli misi un braccio intorno alle spalle. Lo levò bruscamente.
«Lasciami stare».
«Mi dispiace».
«Rieccoci, ti dispiace un’altra volta. E’ sempre così dopo che hai insultato qualcuno. Prima insulti le persone, poi ti dispiace».
«Cerco di essere onesto».
«Onesto! Sei disonesto come un serpente, te la rigiri finché non l’hai vinta. Sei il bastardo più doppio che abbia mai visto».
Di nuovo stavo per dire che mi dispiaceva, ma mi fermai appena in tempo. Continuammo a camminare nel bagnasciuga per circa cinquanta metri, con i nostri piedi bianchi nei sottili ricami di schiuma che si formavano e scomparivano sulla sabbia scura, fino a quando arrivammo a una barca arenata sulla battigia, circondata da alghe e da detriti. Non mi voleva con sé, ma io rimasi lì, testardo, mentre lui si appoggiava contro la vecchia barca e si accendeva una sigaretta. Non sapevo cosa dirgli, e lui non sapeva cosa dire a me.
«Torniamo indietro».
«Sono stufo di te, papà».
«Oh?».
«Voglio che tu la smetta di darmi dell’idiota. Da quando ho memoria, dall’asilo, mi hai chiamato idiota. Perché non la pianti?».
«Okay».
Forse fu il fumo. Forse fu lo sfogo della sua rabbia, la notte calda, e la strana circostanza che ci aveva riuniti in quel momento. Forse voleva dirlo da anni, ma gli era sempre mancato l’umore e il momento opportuno, ma ora l’aveva detto, e sembrava un’asserzione preparata con cura e tenuta per l’occasione giusta.
«Papà, come scrittore fai schifo».
Quello non poteva essere mio figlio Denny. Doveva essere la marijuana, proprio come era accaduto a me con il vino quando avevo la sua età. Mio padre mi aveva angariato per anni e, una vigilia di Natale, reso ostile dall’alcol, lo sfidai. Ce l’eravamo date nel nostro giardino di nord Sacramento, rotolandoci nella polvere e cacciandoci le dita negli occhi e maledicendoci fino a quando non ci separarono i vicini.
Era dunque la vigilia di Natale un’altra volta.
«Credo che la mamma scriva meglio di te. Ho letto i tuoi romanzi. Sono triti, sentimentali e stupidi, per non parlare delle sceneggiature».
«Le sceneggiature non sono un granché», ammisi.
«Perché sei diventato uno scrittore, papà? Come diavolo hanno fatto a pubblicarti?».
«Oh, merda. Non sono così male! H.L. Mencken riteneva che io fossi piuttosto bravo. E’ stato lui il primo».
«Fai schifo, papà, davvero».
«Il “Tiranno” non è un brutto libro. Ha avuto ottime recensioni».
«Quante copie ha venduto?».
«Non molte, ma ne hanno tratto un buon film».
«L’hai visto ultimamente in T.V.?».
Non raccolsi. «Nient’altro?».
«Un’ultima cosa. Sei uno stronzo».
«Ovvio».
Lanciò lontano la sigaretta e ci avviammo verso gli altri.
«Fa così bene a un uomo avere il rispetto dei suoi figli», dissi. «Grazie per tutte le belle cose che mi hai detto stasera».
«Il piacere è mio, papà».
 XII

Ritornammo al fuoco proprio quando Dominic e Katy Dann arrivavano gocciolanti dal mare, nudi e tenendosi per mano. La presenza di Harriet sorprese Dominic che si mise le mani davanti al pisello e girò dietro di lei per prendere i suoi vestiti e infilarsi rapidamente le mutande.
Katy saltellò verso il fuoco e raccolse il calore delle fiamme con le sue braccia aperte. Aveva un corpo incredibile, flessuoso, con muscoli sottili, e perle di acqua marina erano appese al suo piccolo inguine crespo. Harriet cercava di non guardarla e Katy rideva della sua timidezza.
«Guarda la mammina. Ma è imbarazzata. Vero, mammina?».
«Non dovrei esserlo?».
«No, se somigli anche solo un po’ a tuo figlio Dominic», rispose Katy ridendo.
Questo ferì Harriet. Si alzò in piedi, si scosse la sabbia dal vestito, e disse, trattenendo la sua gran rabbia, con voce fredda e precisa:
«Credo che andrò a casa».
Cominciai a seguirla quando Stupido emerse giocherellando dall’oscurità, con il pelo fradicio e pieno di sabbia. Si lasciò cadere ai piedi di Rick, senza fiato, e lo fissò in adorazione. Poi arrivò Jamie di corsa, agitato e in allarme.
«Che succede?», domandai.
«Stupido cane. E’ saltato addosso a un tizio».
«Morso?».
«No. Gli è solo saltato addosso». Lanciò uno sguardo dietro di sé. «Eccolo».
Harriet lo vide.
«Ci risiamo», disse allontanandosi.
L’uomo portava calzoni corti e una camicia hawaiana. Aveva cinquant’anni, era robusto, con gambe pelose e grosse come tronchi. Schiumava. Guardò Jamie con occhio torvo.
«E’ suo figlio?».
Annuii.
«E il suo cane?».
«Sì».
«E come si chiama lei, signore?».
«E lei?».
«Il mio nome è John Galt. Lei chi è?».
«Henry Molise».
«E’ nuovo in questo quartiere, Molise?».
«Ci siamo appena trasferiti, venti anni fa. Qual è il problema?».
«Presenterò un’accusa contro il suo cane».
«E l’accusa qual è?».
«Ha provato a scoparmi».
«Ma su, andiamo. Lo fa con tutti».
«Sì, eh?».
«Lo fa per giocare».
«Un cane di duecento libbre che mi salta addosso, e lo fa per giocare?».
«Ne pesa solo centoventi».
«Non mi interessa sapere quanto pesa. Lo farò rinchiudere».
Lo studiai attentamente, le gambe villose, le ginocchia nodose, il gran pancione, la stupida camicia stampata. «L’ha morso? Mi faccia vedere le impronte dei denti. Non vedo sangue. Soffre? Le ha veramente fatto male?».
«No…».
«Allora il problema non sussiste».
«Non sussiste un accidente», disse John Galt. «Sono un avvocato e so di cosa parlo».
Rimasi interdetto. Lo guardai ancora ed era più grosso di quel che avessi pensato. «Signor Galt, mi spiace che sia accaduto. Lo tengo sempre legato, ma stasera è scappato, e l’abbiamo cercato per ore».
Galt sorrise avvertendo il suo potere.
«Fareste meglio a portarlo a casa e a chiudercelo». Incrociò le braccia.
«Giusto». Mi voltai verso Jamie. «Ragazzo, portalo a casa».
Disgustato dal mio comportamento, Jamie andò a prendere il cane. Tesi la mano a Galt. «Mi spiace, signor Galt».
Rifiutò di stringermela, e la mia mano rimase lì come un uccello morto. Jamie e io, tenendo entrambi il collare di Stupido, ci avviammo sul sentiero verso la strada. Mi voltai e vidi Galt che ci guardava, con le braccia incrociate. Aveva l’aspetto di un bulldog che ha vinto tutti i combattimenti e ha cacciato via tutti gli altri cani.
«Codardo», disse Jamie.
«E’ il mio nome, Henry Codardo Molise».
 XIII

A casa trovai Harriet in camera al buio, non aveva pace ed era tristissima. Mi sedetti sul bordo del letto.
«Quella puttana nera», disse.
«Non ci pensare».
«Perché? Che le ho fatto?».
«Ti stava prendendo in giro. E’ un loro gioco».
«E Dominic che la lasciava fare. Non ha detto una parola. Mi dà la nausea, tutti i miei figli mi danno la nausea». Afflitta, si girò dall’altra parte. «Le mie povere lasagne! Ci avevo lavorato tutto il giorno».
«Non ci pensare. Prenditi una pillola».
«Dalle al cane. Non cucinerò mai più un’altra cena, e che Dio mi perdoni».
La lasciai disperata a fissare l’oscurità e andai nella sala da pranzo. L’enorme teglia di lasagne sembrava una torta sgonfia, il triste ricordo di una serata rovinata. La portai nel giardino dietro casa e chiamai Stupido. Si sedette con le zampe intorno al vassoio e le fece sparire a gran bocconi.
Erano le undici, troppo caldo e troppo presto per andare a letto. Mi ritirai nel mio studio e accesi la luce sulla scrivania. Ero arrivato a settanta pagine, circa ventimila parole sui fogli gialli accuratamente impilati davanti a me. Nemmeno una volta, scrivendo, avevo guardato indietro, fidandomi dell’istinto. Ora avevo deciso di leggere quello che avevo scritto.
Ebbi un colpo terribile. Lo sentivo nelle viscere e nelle reni, puro panico, che si arrampicava su per la mia schiena e mi drizzava i capelli sulla testa. Non era per niente un romanzo. Era stato concepito come tale, ma quella cosa disgraziatissima era invece un dettagliatissimo trattamento di un film, un piatto, sterile e unidimensionale progetto di un film. C’erano i tagli e i movimenti di macchina e persino un paio di dissolvenze in chiusura. Un capitolo cominciava così: «Campo lungo – Appartamento – Giorno».
Venticinque anni fa, avrei afferrato quella massa di pagine con le mie due mani e l’avrei coraggiosamente fatta a brandelli. Ora non avevo più tanto ardire e neppure mi restava più la forza per farlo.
Così, come per tutti gli uomini, la morte era sopravvenuta per Henry J. Molise. La resa era completa. Molise non avrebbe scritto mai più. Molise, beniamino dei critici per i quattro romanzi della sua giovinezza, ora più morto che vivo su Point Dume.
Ritenuto pazzo, sofferente di ulcera, assente dagli incontri del Writers’ Guild, notato regolarmente allo spaccio dei liquori e al Dipartimento Statale per l’Impiego. Oppure sulla spiaggia a camminare con un cane idiota, grosso e pericoloso. Noia mortale alle feste, parla dei bei vecchi tempi. Alza il gomito tutte le sere guardando talk show in televisione. Ha litigato con l’agente e al momento non è rappresentato. Parla ossessivamente di Roma. Gira senza meta per il suo giardino, fa a pezzi palle con ferri numero nove. Disprezzato dai suoi quattro figli. Il più grande rifiuta la razza bianca e sposerà una negra. Il secondo disoccupato, cerca di diventare un attore. Il terzo ancora troppo giovane per aggiungersi alla disintegrazione della famiglia. Figlia innamorata di un perdigiorno da spiaggia. Moglie fedele provvede ai suoi bisogni personali, prepara salutari pasti di creme e uova à la coque, lo accompagna spesso al gabinetto.
Mi accesi la pipa, uscii sulla veranda e mi accasciai su una sedia. La notte calda era quieta in superficie, ma in profondità c’era il violento urlo della marea, il cri cri dei grilli, il cinguettio di uccelli inquieti, il richiamo degli scoiattoli, l’ululato di jet luccicanti, lo scricchiolare di pini, la spaventosa sensazione del fuoco nell’aria.
Ancora una volta l’insolubile, fondamentale domanda della mia vita cominciò a perseguitarmi. Che diavolo ci facevo su questo piccolo pianeta? Cinquantacinque anni, per questo? Era assurdo. Quanto ero lontano da Roma? Dodici ore? Anche Napoli andava bene. Positano. Ischia. Era quella la fine della mia vita, in una casa a forma di ipsilon su Point Dume? Non potevo crederlo. Dio mi stava prendendo in giro.
Dall’oscurità, su zampe silenziose, apparve Stupido. Guardò me e la mia gamba penzoloni, e considerò il da farsi. Poi la montò. Gliela levai da sotto. Deluso, appoggiò il muso sul mio grembo e io lo carezzai dietro le orecchie. Avevo bisogno di aiuto. Oh, Dio, se quel cane avesse potuto parlare! Se avessi potuto parlare con il mio splendido Rocco, come sarebbe stata diversa la mia vita!
Rocco. Ho bisogno del tuo consiglio.
Che problema c’è, capo?
Non sono felice. Voglio cambiare tutta la mia vita. Ricominciare da capo. Andarmene da questo paese.
Fallo. Ascolta il tuo cuore. Vai dove ti dice.
Ma mia moglie e i miei figli?
Lasciali. Prendi la strada maestra. E’ la tua ultima possibilità. Non tornerà un’altra volta.
Vorrei portarti con me, ragazzo mio.
Anche tu mi mancherai.
Ti manderò qualcosa. Dei taralli. Sono ciambelle italiane, però dolci.
Sii libero, capo. E’ l’unica cosa che conta.
Sentii delle voci dall’altra parte della casa quando i ragazzi tornarono dalla spiaggia. Stupido corse a salutarli. Un momento dopo ci fu un grido, l’unico di quel tipo al mondo, quello di Tina. Corsi attraverso la casa fino alla porta d’ingresso, sapendo, anche se non lo vedevo, quello che stava accadendo.
Si potrebbe immaginare che un veterano dei marine che era andato in cerca di preda nella giungla del Vietnam, decorato per il suo coraggio a Pleiku e Binh Dinh, ferito a Qui Nhon, avrebbe saputo come respingere l’affezionato abbraccio di un cane giocherellone. Non il sergente Colp. Eccolo ancora inchiodato al cancello mentre Stupido gli si arrampicava addosso per tutta la sua altezza.
Ed ecco ancora Denny, mi fece arrabbiare di nuovo quando dette dei calci nello stomaco a Stupido, e non una, ma tre volte. Lo maledissi e corsi in aiuto del mio cane. Questa volta però non fu necessario. L’animale sofferente si contorse dal dolore e affondò le mandibole nella gamba di Denny. Con un gemito lui cadde su un ginocchio mentre il cane sopraffatto dai sensi di colpa fece un balzo e scomparve nell’oscurità. Denny tirò su la gamba dei pantaloni, noi gli andammo vicino e vedemmo alcuni buchi sul polpaccio e sulla tibia.
«Niente di serio», asserii. «Ti fa male?».
«Crepa».
Si alzò e zoppicò verso casa, con Rick e Dominic che lo aiutavano e gli altri che seguivano. Jamie era rimasto con me e io girai Stupido sulla schiena per esaminare le contusioni. Stava bene.
«Hai visto», dissi. «Era per autodifesa. Questo cane non aveva scelta».
«Non lo so. Stasera è saltato addosso a due persone».
C’era qualcos’altro che mi dava pensiero.
«Ma perché Rick Colp non riesce a convivere con questo cane? Di cosa ha paura?».
«Ha paura di perdere la testa e di uccidere Stupido. Me l’ha detto lui».
Un pensiero comprensibile. Entrammo in cucina. Harriet era in vestaglia, teneva il piede di Denny in grembo e gli medicava i morsi, lavandoli con acqua e sapone. La guardai mentre li cospargeva di Neosporin e ci metteva dei cerotti.
«Non c’è rischio di rabbia», dissi. «E’ stato vaccinato».
Denny fece un sorriso cattivo. «E’ la notizia migliore che abbia avuto da settimane a questa parte. Ora può masticare tutti qui a Point Dume».
«Ho trovato la soluzione», esclamò Tina.
L’aspettavo.
«Castratelo».
Mi scioccò. «E’ la morte in vita. Preferirei vederlo sepolto».
«Lo vedrà», disse Colp.
«Sarebbe a dire?».
«L’unico gesto umano da fare con un cane finocchio è di levarlo dalla sua miseria».
«Non abbiamo prove che sia finocchio. E’ solo che non ha ancora trovato la femmina giusta».
Si fecero beffe di me e mi subissarono di fischi, poi mi fissarono in un silenzio glaciale.
«Papà, devo parlarti», disse Tina.
Marciò fuori dalla cucina e la seguii fuori sulla veranda. Tremava, aveva gli occhi roventi di determinazione, era impaziente di vuotare il sacco.
«Ho deciso. O se ne va il cane, o me ne vado io».
«Dove?».
«Non m’importa. Ho avuto una gran pazienza, e anche Rick. Sbarazzati del tuo cane, o me ne vado».
Aveva l’intensità di un uccellino, era una giovane donna totalmente viscerale, facile a esplosioni imprevedibili, a urla e al lancio di oggetti. E l’aveva sempre vinta. La sua minaccia era priva di senso. Se io mi fossi liberato di Stupido e lei ne avesse avuto voglia, se ne sarebbe andata comunque. Se avessi dovuto scegliere fra il cane e mia figlia avrei scelto il cane, ma con rimpianto. Non mi dava altra possibilità. Voleva solo che il cane sparisse dalla sua vita.
«Decidi tu», dissi. «Non lo do via, il mio cane».
Mi piantò lì e scappò in casa.
 
XIV

Il mattino seguente Denny prese della penicillina e ritornò dallo studio medico sulle stampelle. C’era un cambiamento in lui, era placido e sorridente, una tolleranza inusuale per un giovane in guerra con il mondo.
Guardai cupo le stampelle.
«Non te la prendere», sorrise. «E’ tutto a posto».
Il dottore gli aveva suggerito di non usare la gamba ferita per tre o quattro giorni, ma lui insisteva per andare lo stesso a lavorare.
«Nessun problema. Tanto non scendo mai dal taxi».
La sua allegria era sospetta, ma rincuorante. Harriet pensò che stesse dimostrando un gran coraggio. Avviandosi verso il garage si fermò sulle stampelle per salutare Stupido e grattargli le orecchie.
«Sei un buon cane», disse.
Lanciò le stampelle nel retro della sua Buick sgangherata, rifiutò il mio aiuto per salirvi e si mise al volante. Baciò Harriet, mi disse arrivederci, e si allontanò sulla strada con gran fracasso.
«Che bravo ragazzo», commentai. «Mi ero proprio sbagliato sul suo conto».
Dopo tre giorni emerse dalla sua stanza con l’uniforme militare per la chiamata bimestrale delle riserve a Fort MacArthur. Era sempre sulle stampelle.
«Scordatelo», dissi. «A chi serve un soldato invalido? Non puoi fare le marce. Non puoi fare le esercitazioni. Stai a casa e fatti fare un certificato dal dottore».
«Il dovere mi chiama».
Dondolò la sua gamba destra a sei pollici dal pavimento.
«Ti fa male?».
«E cos’è un po’ di dolore?».
Suonava falso, ma non aggiunsi nulla.
Due settimane dopo zoppicava ancora sulle stampelle, in pace con uomini e bestie, sorridente come San Francesco, con una fiamma di spiritualità sulla sua faccia calma quando guardava fisso verso il lontano orizzonte sul mare.
«Come va la gamba?».
«Guarita».
Tirò su i pantaloni per mostrarmi le cicatrici.
«E perché le stampelle, allora?».
«Quando ci appoggio il peso mi fa ancora male».
«Cosa dice il dottore?».
«E’ uno strano caso. Mi vuole mandare da un neurologo».
Assai strano.
Il neurologo rimase perplesso e consigliò ulteriori esami.
«Non può certo essere permanente», disse Harriet.
«Non si sa mai, mamma. Bisogna saper fare buon viso a cattivo gioco».
In quel momento eravamo in cucina a bere il caffè, e lui aveva appoggiato le stampelle contro il muro.
«Be’», soggiunsi. «E’ un modo di sconfiggere l’esercito».
I nostri occhi si incontrarono.
«Non voglio sconfiggere l’esercito. Ora è tutto cambiato. L’esercito mi piace. E’ stato grande».
Era un’affermazione semplice, scevra da ogni scaltrezza, fatta con convinzione, con l’abilità di un attore di talento.
«Buon per te!», disse sua madre.
«Voglio servire la patria per tutti e sei gli anni. L’esercito offre un sacco di opportunità, e io voglio approfittarne».
«E la recitazione?», domandai.
«Ai pesci. Voglio sistemarmi, darmi un senso. Voglio una vita utile».
«L’esercito non sa che farsene di invalidi. Se non scendi da quelle stampelle sarai riformato».
«Ce la farò. Datemi tempo».
Il nostri occhi s’incontrarono di nuovo. Gesù, che bugiardo.
 XV

Tre settimane dopo, Rick Colp e Tina se ne andarono. Non fu una sorpresa. Per giorni il furgone di Rick era stato parcheggiato sul vialetto mentre loro facevano i preparativi. Tina aveva comprato metri di stoffa a fiori per le tende e per le fodere dei sedili, e l’aveva cucita mentre Rick metteva a punto e controllava il motore. Nel furgone aveva installato anche due altoparlanti per il mangiacassette. Le tavole da surf erano fissate al portabagagli sul tetto.
Il loro viaggio perse un po’ di brio e di romanticismo quando si accorsero che non avevamo fatto nessuna protesta contro la loro fuga insieme. Era comunque l’unica reazione possibile, perché tanto erano determinati, e non c’era possibilità di fermarli. Quanto al fare l’amore, l’avevano fatto per mesi, perché allora impedirglielo adesso? Davamo per scontato che un giorno si sarebbero sposati, ma non ne parlammo neppure, per evitare che Rick scappasse a causa della pressione dei genitori. L’unica intrusione nella loro intimità fu un ulteriore rifornimento di pillola che Harriet fece scivolare nella valigia di Tina.
Ci riunimmo sul vialetto per l’addio, e Harriet pianse, mentre io non ebbi difficoltà a restare calmo e con gli occhi asciutti. Non avevo mai fatto parte del mondo di mia figlia. Era sempre stata fiera al punto di essere instabile, e con lei c’era un’unica strategia valida: lasciarla agire come voleva per tutte le cose. Osservandola ora, con i levi’s bianchi e una camicetta rossa, i capelli in due trecce, il suo bellissimo volto che angelicamente camuffava l’indole di gatto selvatico, pensai a com’era triste essere due sconosciuti. Non le dispiacevo. Mi amava, ma credeva che io fossi un seccatore.
«Abbi cura di lei», dissi, stringendo la mano a Rick.
«Lei si prenda cura del suo cane».
Stupido si riposava sul cemento, fissando Colp con palpebre pesanti e in adorazione. Rick gli si avvicinò e lo toccò piano con la punta del mocassino, dicendo, «Addio, Stupido».
Il cane si drizzò sulle zampe, andò verso la ruota posteriore del furgone, alzò la gamba e pisciò sul copertone, era il modo di esercitare il suo senso del possesso sul territorio.
Baciai Tina.
«Quando ti rivedremo?».
«Chissà?», sospirò. «Un giorno…».
«Dove andrete?».
«A nord».
«Sul Big Sur?».
«Forse».
Non sapevamo nulla delle finanze di Rick, ma Tina aveva ritirato i seicento dollari che aveva sul libretto di risparmio, quindi non c’era da preoccuparsi per il cibo e per l’alloggio, almeno per un po’. Immaginai che avrebbero gironzolato finché non sarebbero finiti i soldi, e poi sarebbero ritornati a Point Dume.
Madre e figlia piansero all’abbraccio finale. Sbattendo gli occhi a causa delle lacrime, Tina disse: «Sii gentile con lei, papà. Capito?».
«Farò del mio meglio».
«Dico sul serio», aggiunse severa.
Salirono in macchina e io detti un ultimo sguardo all’interno di quel mezzo stranamente spoglio. Nonostante le tende, i colori e un nuovo tappetino, era artificiale come quello di Topolino e mancava assolutamente di calore e di comodità. Gli detti due settimane. Salutando con la mano e lanciando baci, si allontanarono sull’autostrada. Pensai: “fuori uno, dentro tre”, ma sembrò prematuro.
Nel mio cuore speravo però che fossero andati via per sempre, perché volevo usare la stanza di Tina come studio. Aveva la miglior vista sull’oceano, con due grandi finestre esposte a sud, era la camera più bella della casa. Aveva anche delle librerie a muro e comunicava con un bagno con vasca.
Ma era un sogno. Tornarono dopo una settimana, si fermarono una notte per fare il bucato e lavare il furgone. Tina saccheggiò la cucina portandosi via pentole, padelle, condimenti, strofinacci, un secchio della spazzatura, una scopa con la paletta, un orologio, un ferro a vapore e l’asse da stiro.
Dopo tre giorni arrivarono di nuovo, questa volta perché Tina doveva lavarsi i capelli e asciugarseli con il fon. Andarono via con una stecca di sigarette, un bottiglione di vino e un gallone di olio d’oliva. Da allora in poi fu sempre così. Non si spostarono mai più a sud di San Ysidro, e ogni notte arrivava una telefonata a carico del destinatario per Harriet. Fra il telefono e le razzie alla credenza ci costava più che se fosse rimasta a casa.
E glielo dissi.
«Pesca o taglia l’esca. Vivi qui o no?».
«Certo che no. Sono solo in visita».
«Bene. Allora mi trasferisco in camera tua».
«Non ti azzardare!».
Marciò verso il furgone con le braccia cariche di lenzuola. Più tardi scoprii che aveva chiuso la porta della camera a chiave, che non riuscimmo più a trovare.

* * *

Mi sbagliavo nel credere che non l’avremmo mai persa. Il dieci marzo, il suo compleanno, telefonò da Santa Cruz per dirci che lei e Rick si erano sposati quel pomeriggio, e che stavano andando in Canada. La notizia mi lasciò stordito e incredulo, non potevo credere di aver sbagliato i miei calcoli e ripensai alle mie colpe verso di lei. Per parafrasare la canzone, era così bello avere una ragazza in casa, e ora se n’era andata. Era stata importante nel tessuto delle nostre vite, il filo luminoso che dava il colore, adorata e rispettata dai suoi fratelli, incensata e viziata da sua madre e un bellissimo mistero per suo padre.
Al telefono rise e mi disse che ora potevo prendere la sua camera, e che la chiave era sotto il tappeto del corridoio davanti alla porta. Dopo pochi minuti entrai nella stanza, mi buttai sul letto e respirai un soffio del profumo dei suoi capelli, poi guardai le sue bambole sedute lungo le pareti in alto che mi fissavano con occhi di vetro. Pensai, oh, merda, e cominciai a piangere, ricordando come l’avevo sculacciata senza pietà quando aveva otto anni. La sua camera era già una parte della casa spiritualmente morta, un luogo di tristi fantasmi. Toccai i suoi vestiti, le sue cinture e i suoi nastri, le sue cose sulla mensola, e tutto palpitava del pulsare delle sue dita.
Mentre Harriet singhiozzava sulla veranda, andai in camera per scrivere una lettera a Tina che sapevo non avrei mai spedito, quattro o cinque pagine lacrimose di un bambino a cui è caduto il gelato. Ma dissi tutto, ammisi le mie colpe agognando il suo perdono. La rilessi e piansi per l’amorevolezza del fraseggio e pensai che certi brani fossero stupendi, e considerai persino di espanderla in romanzo breve, ma ero abituato a rimanere affascinato dalla mia prosa, e non provai dolore a strappare tutto quello che avevo scritto e a buttarlo nel cestino.
Non mi trasferii in camera di Tina.
Il mattino dopo il matrimonio trovai Harriet con gli occhi arrossati per il gran piangere che beveva caffè nero e che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di litigare.
«Bene», disse. «Spero che tu sia soddisfatto».
«Sarebbe a dire?».
«Tu hai guadagnato un cane, e io ho perso una figlia».
«Non è scappata con il cane. E scappata con Rick Colp».
«E’ stato il cane a mandarli via».
C’era solo un sistema per evitare la sparatoria. Buttai le mie mazze in macchina e scappai a Rancho, dove giocai con tre ubriachi. E come sempre accade a un uomo perseguitato dalla sfortuna, mi vinsero sei dollari.
XVI

Una settimana più tardi ricevemmo un altro colpo per telefono. Arrivò alle quattro di notte, e dicemmo pronto insieme, Harriet dalla camera da letto e io dallo studio. Era Katy Dann, vivace come sempre.
«Ciao, mamma. Ciao, papà».
«Perché chiami a quest’ora?», chiese Harriet.
«Dominic si è fatto male».
«Cosa è successo?».
«Ha fatto a pugni».
«Con chi?».
«Chiedetelo a lui».
«Neri?», domandò Harriet.
«Lascia stare», intervenni io. «Sta bene?».
«Ora sta meglio».
«Dov’è?».
Ci diede l’indirizzo di un appartamento sulla Pier Avenue a Venice. Le dissi che saremmo stati lì in mezz’ora. Harriet fu pronta prima di me, si era messa il soprabito sulla camicia da notte, e una sciarpa le legava i capelli. Ci precipitammo in garage e io partii a tavoletta. La Coast Highway era deserta, tirai la Porsche a più di cento miglia all’ora e arrivammo a Santa Monica senza farla scendere sotto i settantacinque. Finalmente Harriet ruppe il silenzio.
«Negri», disse con ira.
Le gettai uno sguardo. Era Medusa, con la sciarpa allentata che formava una coda e la brezza che le faceva esplodere i capelli in tutte le direzioni. La sua faccia di gesso senza trucco era rigida come una pietra tombale, e gli occhi erano fissi dalla rabbia e dalla preoccupazione. Spaventosa. L’ignoto. Una sconosciuta.
Oh, gli anni, gli anni! Mi trovai a ripensare a un quarto di secolo fa, a una festa a San Francisco organizzata per autografare i volumi in occasione della pubblicazione del mio primo romanzo, una ragazza snella e sensuale, indossava un vestito di tweed, con gli occhi azzurri e la bocca tonda, che mi parlava in cima all’hotel Mark Hopkins, le sue labbra bagnate di vino che baciavano le mie, il suo sorriso che squagliò le mie ossa quando le presi la mano e la portai all’ascensore, poi giù per la strada in un pomeriggio freddo e ventoso. Camminammo per Nob Hill fino al tramonto, fino a quando la mia voce divenne rauca.
Com’era bella! Come era giusta la dolce profezia nei suoi occhi, dove vidi le montagne e le valli della mia intera vita e dove persino contai quattro figli e uno scaffale di grandi romanzi. Cosa sarebbe accaduto se non avessimo lasciato la festa? Dove saremmo stati ora? Certamente non sulla Coast Highway alle quattro e mezza della mattina per correre in soccorso di un figlio concepito quel pomeriggio mistico a Nob Hill così tanto tempo fa.
L’appartamento era sulla collina soprastante la spiaggia di Venice, un edificio nuovissimo circondato da palme trapiantate già cresciute. Sembrava costoso e si notava in mezzo alle malridotte abitazioni circostanti. Fermai la macchina al parcheggio e quando scendemmo Harriet prese un cacciavite dal sedile posteriore.
«E quello a che ti serve?».
«Non sono affari tuoi!».
Glielo strappai di mano e lo ributtai in macchina. Poi entrammo.
Era il secondo appartamento al piano terra. Suonai il campanello e Katy aprì immediatamente. Aveva un vestito leopardato attillatissimo, completo di coda.
«Ciao, papà», sorrise, stampandomi un bacio sulla guancia. Con un sibilo della coda di leopardo, tese le braccia ad Harriet.
«Mammina!».
«Non ti azzardare a baciarmi!», disse Harriet, facendosi largo con una gomitata. «Dov’è mio figlio?».
Il salotto era devastato, c’erano un paio di lampade rotte sul pavimento, delle sedie rovesciate, un tavolino basso fracassato, cibo e piatti sul tappeto, e macchie di sangue qua e là.
Katy si avvicinò a una porta.
«Qui».
Dominic era seduto appoggiato alla testiera di un letto sfatto, con un asciugamano sporco di sangue sul naso, sulla camicia e sui pantaloni c’erano delle strisce rosse. Tutti e due gli occhi erano violacei, uno era quasi chiuso. Sotto la camicia strappata, sulle costole, si vedevano i segni delle abrasioni. Non parlava, ma i suoi occhi ardevano dal risentimento e tremava come se avesse la febbre. Harriet balzò al suo fianco, ma lui si spinse contro la testiera e non si fece toccare.
«Okay, okay», disse tra i denti da sotto l’asciugamano, scansandosi.
Poi lo spostò e vedemmo le sue labbra contuse e gonfie. Il naso non sanguinava più, c’erano dei coaguli neri alle narici. Harriet corse in bagno, frugò dappertutto, aprì i cassetti e disse: «Ma non ci sono asciugamani in questa porcilaia?». Riemerse con un ammasso di carta igienica bagnata e si sedette sul bordo del letto, pulendo dolcemente le tracce di sangue sul mento di Dominic e intorno al suo naso.
«Che è stato?», domandò. «Chi erano?».
«Non ho voglia di parlarne», rispose, guardando Katy che era appoggiata con aria distaccata alla porta. Harriet la incenerì con lo sguardo.
«Chi erano?».
Neanche Katy rispose.
«Avete chiamato la polizia?», chiese Harriet. Guardò Katy. «Sto dicendo a te. Avete chiamato la polizia?».
«Piantala, mamma», disse Dominic.
«No, non la pianto!», gridò Harriet. «Sono state le Panthers, vero? Ti hanno attaccato perché te la fai con una delle loro donne!».
«Cristo, mamma!», disse Dominic.
Katy Dann si sganasciava dalle risate, piegata in due andò barcollando in salotto, con la coda di leopardo che sussultava, poi si gettò sul divano, sempre ridendo come una pazza.
«Le Panthers! Mammina, sei proprio impagabile! Le Panthers! E’ troppo!».
Tutto ciò non sfiorò neppure Harriet che faceva quello che le piaceva di più: prendersi cura del suo ragazzo. Lo aiutò a infilarsi il soprabito sulla camicia strappata e insieme lo aiutammo a mettersi in piedi. Si alzò con rigida dignità, scansandoci, e lo seguimmo in salotto.
Harriet aprì la porta d’ingresso.
«Andiamocene da questo posto tremendo», disse.
Dominic rimase fermo, senza sapersi risolvere, confuso, e i suoi occhi incontrarono quelli di Katy.
«Addio», lei sorrise.
Lui si avviò per il corridoio senza rispondere e senza voltarsi. Io fui l’ultimo a uscire.
«Ciao, papà», disse Katy.
«Ciao, Katy».
Chiusi la porta.

* * *

Arrivammo a casa quando il sole stava sorgendo con gli occhi arrossati e annaspava in cerca di un po’ d’aria senza lo smog dell’Occidente. Per tutto il viaggio non avevamo detto una parola, consci del cataclisma che stava avvenendo in Dominic, del terremoto nella sua anima, un tormento devastante troppo profondo per poterne parlare. Harriet gli tenne la mano per un po’, ma doveva essere troppo fredda e repellente perché la lasciò andare, e ci sentimmo più idioti che salvatori. Lo portavamo via da Katy, ma non era con noi. Era tornato a Venice, da lei.
Feci il caffè mentre Harriet riempiva la vasca, gli lavava le ferite e lo leniva con oli balsamici. Quando tornò in cucina con un accappatoio bianco di spugna era di nuovo lui, o quasi. Guardò la sua immagine riflessa nello specchio dietro la credenza e fece una smorfia di disgusto verso i suoi occhi pesti e la sua faccia tumefatta. Era profondamente turbato, impaurito. Gli versai il caffè, ma non lo volle e si avviò per il corridoio per andare a letto.
Harriet si sedette, sembrava soddisfatta.
«Sono contenta che sia successo», disse. «Credo che abbiano entrambi imparato la lezione».
«Ma quale lezione?», dissi. «Non ci vedo nessuna lezione. Non so nemmeno cosa diavolo sia successo».
«Non gli piace che i bianchi rubino loro le donne più di quanto a noi non piace che ci rubino le nostre».
«Idiozie. Il mondo è pieno di amanti neri e bianchi. Si vedono ovunque, anche in chiesa. Non li noti nemmeno più».
«Lui la odia!», disse Harriet deliziata. «Oh, come la odia!».
«Ne dubito».
«Come puoi? Non hai visto come l’ha guardata? La detesta».
«Ne dubito. E’ un uomo da culo, e Katy Dunn ha un culo che non si può odiare a lungo».
«E’ tutto in fuori, e lo sai».
«Esattamente quello che intendo dire».
«Come ti sbagli! Come conosci male tuo figlio! Non è affatto così».
Lei aveva dei piani in mente, i piani di una madre romantica per suo figlio. Si chiamava Linda Erickson, una dea bionda sulla Broad Beach Road, venuta di recente dall’Arizona, ancora avvolta nel cellophane della verginità, intatta, era la figlia di un’amica di Harriet.
«E’ follia», la misi in guardia. «Non cominciare nemmeno».
«Adorerà Linda».
«Non adora le donne bianche».
«Non ha incontrato il tipo giusto. E’ una lady».
«L’ultima cosa che vuole è una lady».
«Vedrai».
Aveva il telefono appoggiato sulle gambe e mentre faceva il numero, io uscii e mi buttai sul prato accanto al mio cane. Gli grattai la pancia (era ingrassato dieci chili da quando era con noi) e gli dissi che eravamo in un dannato casino, lui compreso.
XVII

La sera ci riunimmo per cena, Denny, Jamie, Harriet e io. Dominic non apparve e Denny lo andò a cercare, arrancando per il corridoio, era la sua sesta settimana sulle stampelle. Ritornò e riferì che Dominic voleva vedermi in camera sua.
«Vengo con te», disse Harriet.
Ma Denny aggiunse: «Tu no, mamma. Solo papà».
Harriet si gelò, muta e ferita.
Dominic era buttato sul letto con i piedi contro il muro. Chiusi la porta. La stanza era piena dell’odore di erba che lui stava fumando in una pipa grassa e ricurva. Aveva il ridicolo sorriso ebete di chi è completamente fatto.
«Siediti, papà», mi invitò, spostando le gambe per appoggiarle sul pavimento. Uno degli occhi era viola e l’altro rosso, e quello viola era tanto gonfio da essere chiuso. Non c’era nessuna utilità a chiedergli come si sentisse. A dispetto delle contusioni era tra le nuvole, con un sorriso grottesco, tumefatto e piuttosto stupido. Mi lasciai cadere su una sedia.
«Che ti succede?».
Dalla tasca del pigiama estrasse un sacchetto di plastica pieno di marijuana e me lo tirò sulle gambe. «Serviti pure».
«Non la voglio», dissi, buttando quella roba sulla scrivania.
Rise. «Vecchio bastardo». Si allungò e mi dette una pacca sul ginocchio. «Mi piaci, papà. Mi piaci un sacco. Come va la sceneggiatura?».
La sua pipa si spense, la riaccese, nuvolette di fumo si alzavano ondeggiando dall’erba calda quando dava delle tirate così forti da stendere un uomo. E lo stesero quasi, si dondolava avanti e indietro, con l’unico occhio aperto che brillava come un gioiello di vetro mentre sorrideva in maniera totalmente imbecille con la mandibola scardinata e la pipa che pendeva dalle labbra tumefatte.
«Vuoi parlarmi della rissa?», domandai.
«Che rissa?».
«Chi erano quelli che ti hanno pestato?».
«Se te lo dico non ci credi».
«Prova».
«E’ stata Katy».
«Katy ti ha conciato così? Così piccolina?».
«Katy la piccolina». Sembrava contento.
Lo fissai disgustato.
«E l’hai lasciata fare!». Saltai in piedi con le mani nei capelli. «Mio figlio viene pestato da una ragazza che peserà cinquanta chili e ha il coraggio di riderci sopra! Gesù, ma quanto in basso puoi cadere? Che razza di essere strampalato sei?».
Cominciò a singhiozzare.
«Siediti, papà».
Mi sedetti e lo guardai mentre provava a riordinare le idee, con le lacrime che gli rigavano il mento.
«Povero vecchio cieco papà», sospirò. «Ti ricordi quando mi hai mandato alla scuola di judo?».
«Non hai imparato un accidente».
«Volevi che stendessi ogni ragazzino a Point Dume, vero papà?»
«E’ stato uno sbaglio. Non hai mai vinto un combattimento in vita tua, quest’ultimo incluso. Con una ragazza».
Piangeva, l’occhio chiuso versava più lacrime di quello aperto.
«Non posso fare a botte», disse con voce strozzata. «Non ci sono mai riuscito, non mi piace picchiare la gente».
La pipa gli cadde di bocca e finì sul pavimento, la raccolsi e lui provò ad aspirare ancora, ma era spenta e bagnata dalle sue lacrime. Piangeva e aspirava, era assurdo e imbarazzante. Accesi un fiammifero e lo tenni sul braciere, mentre lui continuava a dondolarsi e a piangere, e il fiammifero seguiva l’ondeggiare della pipa.
Con dolcezza, ragionevolmente, dissi: «Quello che intendo è che può succedere, nella vita di un uomo, che debba rispondere ai colpi, anche contro la propria volontà, anche contro una ragazza. Non credi, Dominic?».
«Non è una ragazza. E mia moglie».
Rimasi a fissarlo finché il fiammifero mi bruciò le dita.
«Da quando?».
«Dall’inizio del tempo. Da quando la vita è cominciata nell’acqua, madre universale. Dall’esplosione della prima galassia…».
«Merda! Quanto tempo è che siete sposati?».
«Da dicembre».
Gemetti.
Aveva appoggiato la testa sulle ginocchia, era scosso dai singhiozzi. Sentivo il suo dolore, non perché avesse sposato una ragazza di colore, ma il dolore che lo aspettava, i tormentati compromessi, il dolore se avesse generato dei figli, il dolore inutile e senza senso che avrebbe potuto essere evitato, il dolore che era cominciato con me come padre.
«Tuttavia», dissi, tanto per dire, «tuttavia, anche se è tua moglie, non puoi lasciare che ti assalga. Un uomo deve saper controllare la sua donna».
Sollevò la testa e il suo occhio umido e dilatato incontrò il mio.
«Katy è incinta».
«Anche incinta?».
Annuì, e altre lacrime caddero dentro la pozzanghera nel suo grembo.
«Che diavolo», dissi. «Non è un problema. Di quanto è?».
«Sei settimane».
«Buon tempismo. Può abortire».
«E’ quello che vuol fare».
«Brava Katy».
«Non capisci. Io voglio tenerlo. Lei no. Ecco perché ce le siamo date».
«E per quale motivo vuoi tenere il bambino?».
«E’ mio. E lo voglio».
Lo guardai esausto, troppo esausto per poter capire, e improvvisamente sentii il desiderio di trovare un buco da qualche parte, un buco accogliente e profondo dietro al recinto vicino a Rocco mi sarebbe andato bene, dove avrei potuto coprirmi con una coperta di terra, un buco dove andare a nascondermi con l’angoscia che provavo per mio figlio.
Perché non aveva potuto scoparla e basta? Perché non poteva usufruire dei ferri del medico e raschiare via tutto? Che diritto aveva di infliggere dolore a se stesso, a suo figlio e a mio nipote? Nero o bianco era già abbastanza brutto essere nati, ma nero “e” bianco? Peccato che il bambino non potesse decidere da solo.
Era lì seduto, a lamentarsi, fatto, a implorare la mia comprensione. Eppure era un uomo intelligente. A quattordici mesi sapeva l’alfabeto, aveva imparato a leggere a tre anni, e a quattro giocava molto bene a scacchi, e ora si stava facendo beffe del mondo, del mio mondo.
Mi faceva paura. Sembrava spiritato, era strano. Dio mio, forse era un santo, una nuova versione di Margherita da Cortona, quel tipo di santo fanatico che amava lavare i cadaveri, leccare le ferite in suppurazione, che si trascinava sulla pancia sopra selciati medievali per baciare un altro chiodo della santa croce. Guardai la sua faccia devastata e il suo unico occhio aperto, e mi spaventò. Sentivo l’enorme peso della croce che desiderava portare, e mi annientò totalmente.
Un-occhio ridacchiava, e la sua faccia sconvolta aveva cambiato forma. «Povero vecchio. Ti vergogni, vero? ti vergogni del tuo primogenito».
«Non più del solito», dissi.
«E se fosse un altro Willie Mays? Ti farebbe meno male, papà? O Diana Ross? Aiuterebbe?».
«Oh, stai zitto», risposi. «Quello che mi preoccupa ora è: come facciamo a dirlo a tua madre?».
«Mio padre racconta tutto a mia madre. Fa parte del patto. Il Santo Matrimonio, in malattia e in salute, finché morte non ci separi». Indicò la porta. «Vai, uomo. Fai il tuo dovere».
«Non ho scelta».
«Vai, uomo. Dai la buona novella alla mia mamma bianca anglosassone e protestante. Dille che oggi a Betlemme è nato un bambino, e alla locanda non c’è posto, e gli angeli cantano sulla stalla dove il bambino giace in una mangiatoia coperto di stracci. Dille di non rovesciarla, perché potrebbe essere il Salvatore del mondo».
La pipa gli cadde di bocca e colpì il pavimento. La presi e la misi da parte.
«Perché non vai a casa e sistemi le cose con tua moglie?», dissi.
«Non giudicarmi male, papà. Ti prego».
Era lì seduto con le sue gambe robuste e le sue ampie spalle, con un rotolo di grasso sulla pancia, la faccia gonfia e sformata, e improvvisamente avrei voluto prenderlo fra le braccia e farlo tornare piccolo piccolo un’altra volta, indietro fino a un pomeriggio di sole al Golden Gate Park quando aveva fatto i primi passi fra le mie braccia tese.
«Vuoi cenare?».
Rispose di no, e lo lasciai solo.
 XVIII

In cucina Harriet aveva sistemato la cena di Dominic su un bel vassoio, c’era del vino e persino una rosa fresca in un vaso dal collo lungo. Mi guardò rabbuiata.
«Che ti ha detto che io non potessi sentire?».
«Niente di personale».
«Di che avete parlato?».
«Cose in generale».
«Ho capito», disse con freddezza.
«Harriet, è molto depresso».
«E puoi fargliene una colpa con quello che ha passato?». Prese il vassoio. «Gli hai accennato a Linda Erickson?».
«Non provarci nemmeno. Non è il momento giusto».
«Lascia fare a me».
Si diresse verso la camera da letto e io raggiunsi Denny e Jamie in sala da pranzo.
«Che c’è che non va con Linda Erickson?», domandò Denny.
«Tua madre ha in mente qualcosa».
«Per Dominic?», sorrise Jamie. «Voglio proprio vedere».
Mi sedetti al mio posto e presi un po’ di agnello. «Come va la gamba, Denny?».
«La prognosi non è molto buona».
«Quale prognosi?».
«Ho visto un altro dottore».
«E chi è questa volta?».
«Abercrombie. E’ un ortopedico».
«Mai sentito».
«E’ a Compton».
«Compton? E’ un nero?».
«E allora? E’ anche bravo, sai. Ha immediatamente centrato il problema».
«E cosa dice?».
Rosicchiò un osso. «Probabilmente resterò invalido per il resto della mia vita», disse soddisfatto, fissandomi da sopra l’osso.
«Caspita, è dura», disse Jamie.
«La stai prendendo molto bene, però», replicai.
«Ce la farò».
«Credo di sì», aggiunse Jamie. «Dipende dal dottore giusto».
«Abercrombie è il migliore. Per ogni evenienza ti do il suo indirizzo».
«Grazie», disse Jamie. «Non si sa mai».
«Non puoi farcela con loro», dissi. «Non hai a che fare con dei ragazzini, stai facendo il furbo con l’esercito degli Stati Uniti, e loro i giochetti li sanno riconoscere».
Dalla sorpresa gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite.
«E che c’entra l’esercito?».
«Smettila, Denny. Credi che io sia un babbeo? So quello che hai in mente. Piantala di prendermi in giro».
Scosse la testa con tragico stupore.
«Incredibile… mio padre!».
A quel punto tutta quella messinscena mi aveva annoiato e nauseato. Sembrava non dovesse finire mai, questa deferenza per un invalido che non era invalido per niente e a cui piaceva quella sollecitudine e quella compassione che tutti avevano per lui. Era tornato a essere l’attore in azione, con la sua strabiliante vanità e fiducia nelle proprie illusioni. Mi stava mandando la cena per traverso. Inoltre, i problemi di Dominic mi preoccupavano di più.
Quei due avevano passato un’ora in camera di Dominic prima di cena, ed era molto significativo che non avessero detto una parola sulla crisi di loro fratello. Quello era il codice di fratellanza, non rivelare mai niente dell’altro, ad Harriet e me in particolare. Era una congiura marcia e vile, ma era incrollabile e necessaria e non l’avevo mai combattuta.
Denny si arrampicò sulle stampelle e uscì dalla stanza zoppicando, mentre Jamie rimase per fumarsi una sigaretta con il caffè, pensieroso e in silenzio, c’era qualcosa che lo preoccupava.
«Credo che dovresti dare un’occhiata qui», disse tirando fuori dalla tasca un foglio piegato e porgendomelo. Era una lettera della commissione di leva di Santa Monica che gli chiedeva di comparire il primo maggio, cioè di lì a una settimana, per rivedere la sua posizione.
«Sembra routine», dissi ripiegando la lettera e ridandogliela. «Con i tuoi voti non devi preoccuparti».
Si grattò il collo, colpevole.
«E’ quello che credi».
«Cosa significa?».
«Non ho passato storia e inglese».
«Mi avevi detto che ti avevano promosso».
Sorrise debolmente. «Davvero?».
«Quindi mi hai mentito».
Annuì.
«Allora sei un farabutto. Allora potrebbero chiamarti. Allora ingoia la tua medicina da uomo».
«Verrai alla commissione con me?».
«Non se ne parla».
Ma sapevo che ci sarei andato, e anche lui.
Poi Harriet, furibonda, ritornò dalla camera di Dominic e sentii il finimondo in cucina, lo sbattere di pentole e padelle, il fracasso dei piatti, un bicchiere che si rompeva. Mi alzai da tavola e la trovai in ginocchio che raccoglieva i pezzi di vetro.
«Che succede?».
«Vada a farsi fottere. Mi arrendo».
«Che ti ha detto?».
«Cose terrificanti su Linda Erickson. Irripetibili, e non la conosce nemmeno».
Speravo che avesse almeno accennato al suo matrimonio e alla gravidanza di Katy, ma ovviamente il problema era ancora tutto mio. In quel momento mi venne in mente come uscirne, un modo indolore di comunicarlo ad Harriet, indolore per me.
La lasciai lì a raccogliere i vetri e tornai alla stanza di Dominic. Stava infilando delle cose in valigia.
«Lasciami un po’ d’erba».
«Serviti», rispose.
Ne versai più o meno un’oncia dal sacchetto di plastica in una busta, e ci misi anche qualche cartina.
«Non va bene per gli scrittori», disse. «Norman Mailer sostiene che fa dei buchi nella testa e tutte le parole giuste colano fuori».
«Colano fuori comunque». Guardai la valigia. «Te ne vai davvero, questa volta».
«La mia macchina è rimasta da Katy. Denny mi accompagna in città».
«E tua madre?».
«Hai detto che te ne saresti occupato tu».
«Non la saluti?».
«Esco dalla porta di servizio appena Denny è pronto». La faccia con un occhio solo tentò un sorriso fratturato. «Addio, papà. Grazie di tutto».
Così. Grazie di tutto. Grazie per avergli dato la vita senza il suo permesso. Grazie per averlo messo forzatamente in un mondo di guerre, odio e bigotteria. Grazie per averlo spedito in scuole dove gli avevano insegnato a ingannare, a dire bugie, i pregiudizi e la crudeltà. Grazie per avergli imposto il fardello di un dio in cui non aveva mai creduto, e dell’unica vera chiesa, che tutte le altre siano dannate. Grazie per avergli inculcato una passione per le macchine che un giorno avrebbero potuto distruggerlo. Grazie per un padre che scriveva sceneggiature superficiali dove il ragazzo incontra la ragazza e i buoni trionfano sempre sui cattivi. Grazie per tutto.
«Addio, ragazzo. Non perdiamoci di vista».
Uscii pensando: “fuori due, dentro due”, pensando, povera Harriet, che Dio l’aiuti.

* * *

Denny e Dominic se ne erano andati, Jamie era a letto, e noi eravamo in salotto a guardare il film delle undici. Lei beveva sherry, io fumavo la pipa e bevevo tè caldo. L’erba era nella tasca della mia camicia. Il problema era, come avrei potuto farla andare nei suoi polmoni? Era una di quelle persone d’acciaio che non avrebbero scherzato con l’erba più di quanto non avrebbero fumato oppio. Non ero un esperto, per quanto l’avessi provata una dozzina di volte. Sarebbe stato meglio se mi fossi aiutato con quella quando avevo saputo che mio padre era morto, perché invece mi ero ubriacato tanto da stare male e il dolore era aumentato. Mio padre era morto da dieci anni, ma lo piangevo ancora. La marijuana avrebbe potuto cambiare le cose. Era considerata la cura infallibile per un mondo che cadeva a pezzi.
Il film mi dette un’idea. Era letteralmente un film sui morti. C’era Carole Lombard, che era morta. E morti erano anche gli altri del cast, John Barrymore, Lionel Barrymore, Eugene Palette e gli attori non protagonisti. E così il regista, lo sceneggiatore e il produttore. Eccoli lì, che nel film si muovevano, e ora stavano putrefacendosi nelle tombe, povere, care, splendide creature, era tristissimo, e lo dissi ad Harriet.
Mi alzai e aggiunsi del whiskey nel tè, e ne aggiunsi un altro po’ durante la pubblicità. E’ triste, le dissi, mi si spezza il cuore. Affermai che anche la vita era triste, corta e triste, e lei fu d’accordo con me. Le confessai che mi rendeva malinconico e infelice, lei mi prese la mano, sorrise e disse: «Non esserlo».
Io continuai: «Se solo potessimo fuggire da questa trappola, andare da qualche parte, fare qualcosa, dimenticare i nostri problemi per un po’».
Lei rispose: «Sono solo le undici e mezza. Vuoi che andiamo al Cock’n Bull?».
«Non hai capito. Volevo dire, trovare la pace, dell’euforia che ci faccia attraversare questo momento di crisi».
«Perché non ti ubriachi?», chiese.
Le spiegai che non avevo intenzione di ubriacarmi. Intendevo la fuga totale, come avevano fatto i ragazzi. Come fumare marijuana.
«Perché non lo fai?», domandò. «Sono sicura che ne troverai nelle camere dei ragazzi».
«Ce l’ho già», risposi, dandomi un colpetto sulla camicia.
«Bene», replicò. «Fumala, se vuoi».
«Da solo? Non si fuma soli. Per godersela bisogna dividerla con gli altri».
«Ma qui ci sono soltanto io».
«E non ti andrebbe?».
«Non credo».
«Ti pareva», dissi con scherno.
«Mi dispiace».
«Sono nelle tue mani».
«Non ne voglio!».
«Tu, la persona più sfruttata, tormentata di questa casa, che ti sei sempre sacrificata, con il tuo mondo che ti sta crollando addosso…».
«Il mio mondo non sta affatto crollando!».
«Tu, che ne hai bisogno più di chiunque altro, e la rifiuti».
«Non ne ho bisogno».
«Forse hai ragione. Meglio avere la forza di volontà, affilarsi i denti e resistere, incassare la punizione. L’acciaio migliore viene dalla fucina più calda. Fa’ come se non avessi detto nulla. Ma spero che non ti dispiaccia se sto qui e bevo fino a vomitare. E’ tutto quello che resta a un padre amareggiato, a meno di non andare in un bar e provarci con una troia».
Mi prese la mano un’altra volta. «Dai, su. Non è da te. Reagisci».
«Che matrimonio, che farsa! Un marito chiede di fumare un po’ di marijuana con sua moglie e lei ha paura. Dio buono, non ti sto chiedendo di farti l’eroina. Voglio solo che noi due – marito e moglie – mano nella mano partiamo per un viaggio per la terra della felicità, dove tutte le miserie della vita spariranno per un po’».
«Ho paura che mi faccia male».
«Male? Ma se è terapeutico! Rilassa il corpo, purifica la mente, ristora l’anima».
Rimase silenziosa per un po’ mordicchiandosi un’unghia.
«Va bene», cedette. «Ma già lo so che mi farà male».
Mi portai una mano sul cuore. «Ti giuro sul mio sacro onore che non ti farà male».
«Allora va bene».
Nella mezza luce della televisione rollai due spinelli e gliene diedi uno. «Fumalo come una sigaretta. Aspiralo profondamente. Non troppo in fretta. Fai piano e stai tranquilla».
Accendemmo e fumammo in silenzio. Dette qualche tirata a pieni polmoni.
«Non sento niente».
«Pazienza. Ci vuole tempo. Non avere fretta».
Dopo un paio di tirate il mio si spense, ma non lo riaccesi. Lei lo fumò fino al filtro prima di spegnerlo. Poi si appoggiò all’indietro con beata indolenza e continuò a guardare il film con gli occhi semichiusi. Le chiesi come andava.
«Non sento niente», sorrise.
Passarono dieci minuti.
«Sono orgogliosa dei miei figli», disse. «Li amo teneramente. Vivono in un mondo terribile, ma hanno il coraggio di affrontare il futuro, e non dovrò più preoccuparmi per loro».
Era il momento di dirglielo.
«Dominic ti ha raccontato del suo matrimonio?».
«Dominic, sposato?».
«Lui e Katy si sono sposati a Natale».
«Non lo sapevo».
«Katy è incinta».
«Che bello!».
La guardai appoggiata allo schienale di quella grande poltrona. Piangeva. Pianse per due ore, fino a quando il bianco occhio della televisione la guardò, senza immagini, brillando sulle perle di lacrime che le scendevano lungo le guance.
«Sono così felice», continuava a dire. «Così felice».
Muovendosi come se fosse stata spiritata e avvolta in ragnatele, si strinse forte a me e andammo galleggiando in camera. La misi a letto, il suo collo era come quello di una bambola rotta, e le mani flosce come dei guanti. Aveva un bisogno estremo di affetto, appoggiandomi la testa sulle spalle tubava e cercava a tastoni la mia faccia. Ma era talmente fatta che non riusciva nemmeno a baciarmi. La sistemai sul cuscino, le levai quello che restava dei vestiti e mi meravigliai del suo candore, aveva i capezzoli di un rosa dolce che mi fecero pensare alle quattro bocche che avevano sfamato. Le toccai la passera di un oro pallido e mi domandai se fosse tinta. Mia, tutta mia. Improvvisamente sentii l’urgenza di prenderla, mi strappai i vestiti e fui sopra di lei con una grande furia. Era stupro, il suo essere indifesa mi risucchiava in un delirio orgiastico, la devastai con una gioia cattiva, e trovai fessure e crepe fino ad allora inviolate, fu l’avventura più mozzafiato che avessi mai avuto con lei, mentre lei continuò a dormire senza memoria, e quando la mattina si svegliò, non ricordava niente.
XIX

Non avevo mai pensato molto a Jamie. Non l’avrei voluto così presto dopo Tina, che aveva urlato in modo orripilante e oltre qualsiasi sopportazione per tutta la sua prima infanzia, lasciandomi furibondo e spaventato. Credevo che tre fossero abbastanza e supplicavo Harriet, basta per carità di Dio, ce l’hai il diaframma, siamo sicuri che sia al posto giusto. Era puro panico, con Tina che piangeva nella stanza accanto, e quando Harriet seppe che sarebbe arrivato Jamie ebbe paura e me lo disse solo al terzo mese.
Io fui una vera merda, scappai di casa e rimasi due mesi a Palm Springs con uno scrittore ubriacone che aveva sei figli e dava la colpa a loro del suo alcolismo. Tornai a casa con l’aborto in mente, ma era ovviamente troppo tardi, Harriet mi disprezzò tanto da ordinarmi di andare via di casa e non tornarci mai più. Ma facemmo una tregua pericolosa, accecata dall’odio e dalla necessità, e il bambino in arrivo non fu mai menzionato.
Era una prova terrificante per Harriet. Più ingrossava, più diventava grande il mostro che era in me. Bevevo vino giorno e notte, buttato su una sedia, la punivo con la lama della mia lingua, il mio sarcasmo, ero depresso, rimanevo seduto a languire, allontanandomi dal suo ventre che diventava sempre più grande.
Ma lei riuscì lo stesso a portare avanti la gravidanza e a occuparsi degli altri tre figli, e non solo, sopravvisse alle spire della mia disperazione. Due settimane prima che il bambino nascesse mi fu offerto un lavoro a Roma. Harriet fu così contenta di farmi alzare da quella sedia e io così desideroso di andarmene, che partii senza fare nemmeno una valigia.
Quando tornai da Roma, Jamie aveva cinque mesi, e io continuavo a detestarlo perché aveva le coliche e piangeva ancora più di Tina. Il pianto di un bambino! Datemi vetro triturato e strappatemi le unghie, ma non fatemi sentire il pianto di un bambino, perché mi fa profondamente male all’ombelico, mi fa male fino all’inizio della mia vita.
Harriet l’aveva chiamato Joseph come suo padre, ma non era Joseph né assomigliava a Joseph, Jamie gli stava meglio, e dopo un po’ il nome gli rimase e lo facemmo cambiare ufficialmente.
Non c’era mai tempo per Jamie. Erano sempre Dominic o Tina che provocavano le crisi in famiglia, alle volte Denny, mai questo bambino dalla testa ricciuta e dagli occhi a mandorla che sorrideva all’inizio di ogni nuovo giorno, che non pianse come gli altri la prima volta che lo portammo a scuola e che parlava con esitazione, incespicando, perché nessuno si era preso la briga di insegnargli. Ma in seguito venimmo a sapere che piangeva un po’ tutti i giorni, seduto sulla sabbia da solo nel cortile della scuola, e quando la maestra gli chiedeva perché, rispondeva che aveva qualcosa nell’occhio.
A sei anni lo portammo a una festa di quartiere per il quattro luglio dove lui vagò in mezzo a un centinaio di ospiti, stupefatto e contento. Tornando Harriet gli chiese se si era divertito, e lui con gli occhi che gli brillavano rispose che un signore gli aveva parlato, un signore gentile con un gran cappello nero. Harriet gli chiese che cosa gli avesse detto, Jamie si trastullò con quel delizioso ricordo e sorrise. «Ha detto: ‘Levati dai piedi, bambino’».
Quello era Jamie, amante dei fiori, dei cactus e degli alberi, dei ragni, dei bruchi, delle stelle marine e delle conchiglie, dei vermi e dei topi e dei cani, dei gatti e degli scoiattoli, dei cavalli e degli uomini. Non ci eravamo mai preoccupati per Jamie per quasi tutta la sua vita. Non chiedeva mai nulla. Non marinava la scuola né faceva a botte o tornava a casa con la macchina dello sceriffo, con un agente che poi impartiva una lezione ai genitori sulla gravità del vandalismo, o del furto o dell’ubriachezza o dello scassare macchine o del fare festini sulla spiaggia a base di erba o dell’ingravidare pollastrelle o dello scappare di casa, o del dire bugie, rubare o ingannare.
Prendeva buoni voti, si lavava, si vestiva con cura, mangiava tutto quello che gli veniva messo davanti, passava le giornate a giocare a basket, e dava sempre il bacio della buona notte a sua madre. Chi avrebbe fatto caso a un bambino così? Per cadere nel raggio della mia attenzione un ragazzo doveva fare qualcosa di significativo, come distruggere una macchina, o rubare il mio fucile per sparare alle quaglie sui pini, o essere arrestato per aver messo trappole illegali per aragoste, o cadere dalla scogliera sulla sabbia sottostante, o mangiarsi le unghie nell’attesa che la ragazza avesse le mestruazioni, o essere salvato dall’affogare, o dare delle feste rompendo i mobili e le finestre. Non Jamie. Un essere strano, noiosetto, fuori dalla corrente, uno quadrato.
Poi, dal nulla, arrivò il momento decisivo, e venne fuori che il nostro Jamie non era così perfetto e meraviglioso come supponevamo. Forse era stato costretto a farlo per attirare l’attenzione su di sé. Poteva anche essere quello il motivo per il quale era stato insufficiente in due materie importanti e si era deliberatamente esposto alla chiamata della commissione di leva. Ma la complessità della sua natura era più intricata di quanto pensassimo.
Per crederci però dovemmo vederlo scritto. La lettera, indirizzata a Jamie, proveniva dall’ufficio del preside. Harriet l’aveva appoggiata accanto al telefono, per essere sicura che lui l’avrebbe vista. Avvertendone l’importanza cercai di guardare attraverso la trasparenza della busta, e mi chiesi se sarei stato capace di aprirla, violando così la sacra regola della casa che vietava di leggere la posta degli altri. Questo problema morale mi fece ritardare di circa dieci secondi l’apertura della busta.
Le notizie su James Molise erano secche e impersonali. Per un totale di quarantadue giorni di assenza era con la presente certificato che non era più uno studente del City College.
«Fuori. Espulso».
«Non avresti dovuto aprirla», disse Harriet accigliata.
«Quarantadue giorni! Ma che sta combinando?».
«Non importa. Non avevi il diritto di aprire la sua posta».
Tornò a casa verso l’ora di cena, a mani vuote.
«Niente libri? E perché?».
I suoi occhi affondarono nei miei con un veloce sguardo preoccupato prima di volgersi altrove.
«Che cos’è?», domandò.
Presi la lettera e gliela diedi, e lui deliberatamente passò un dito lungo lo strappo della busta, scurendosi in volto. Gettò la lettera sul tavolo senza nemmeno leggerla.
«Ho lasciato la scuola».
«Non l’hai lasciata, ti hanno buttato fuori».
«L’ho lasciata io!», insistette.
«Sei un gran casino, come i tuoi fratelli. E io che avevo sempre creduto che tu fossi di un’altra pasta».
«Ti dispiacerebbe stare zitto?», intervenne Harriet. «Che ti è successo, Jamie? Perché hai lasciato la scuola?».
«Ho trovato lavoro», disse, guardandosi le mani.
«Quanti lavori hai?», chiesi. «Pensavo che tu lavorassi al supermercato».
«Non più. Adesso sono alla clinica pediatrica».
«E che fai?».
«Insegno. Sport, mestieri. Qualsiasi cosa».
Cominciai a intravedere un disegno, una manovra intelligente, come quella di Denny, e mi sentii sollevato. Dopo tutto stava usando il cervello.
«Non male», dissi. «Dovrebbe fruttarti un rinvio alla commissione di leva».
«Sono solo un volontario», rispose, vergognandosi un po’. «Alla clinica non mi pagano».
«Lavori gratis?».
«Mi piace quello che faccio».
«Sei completamente fuori di te. La carità comincia a casa».
Nei suoi occhi verdastri non c’era ostilità, solo calore e comprensione. «Sapevo che mi avresti risposto qualcosa del genere, papà. Ecco perché non potevo dirtelo».
A cena venimmo a sapere di più sul suo lavoro alla clinica. Lavorava cinquanta ore la settimana e gli veniva dato il pranzo gratis. Per andare alla clinica a Culver City faceva l’autostop, trenta miglia per andare e tornare, tutti i giorni, eccetto quelle volte in cui Denny gli offriva un passaggio. Spingeva i bambini sulle sedie a rotelle, gli faceva fare l’idromassaggio, e manipolava le loro membra sofferenti. A quelli che potevano camminare e correre insegnava a calciare e a lanciare la palla. Non c’era altro da fare, se non pulire i bagni, dare l’aspirapolvere e aiutare con il bucato.
«Abbiamo poco personale», disse. «Abbiamo bisogno di aiuto».
Ascoltavo e mi stupivo di quanto poco l’avessi capito e che mistero fosse improvvisamente diventato. Così avevamo un altro martire in famiglia. Dominic che si immolava sull’altare di Katy Dann, e ora Jamie che si dedicava ai bambini storpi. Com’erano diversi dal loro padre, che scriveva stupide sceneggiature per millecinquecento dollari la settimana (quando aveva lavoro)! Non c’era da meravigliarsi che io comprendessi i miei cani e non i miei figli. Non c’era da meravigliarsi che non riuscivo più a finire un romanzo. Per scrivere bisogna amare, e per amare bisogna capire. Non avrei più scritto fino a quando non avessi capito Jamie e Dominic e Denny e Tina, e quando li avessi compresi e amati, avrei amato tutto il genere umano, e la mia dura visione del mondo sarebbe stata ammorbidita dalla bellezza intorno a me e sarebbe fluita liscia come elettricità attraverso le mie dita sulla pagina.
XX

Jamie si recò al lavoro con la mia macchina per un paio di giorni, e il venerdì andammo in città insieme. Era un grande giorno per tutti e due. Alle nove e mezza avrei dovuto essere a Santa Monica a prendere il mio assegno di disoccupazione e alle undici lui avrebbe affrontato la commissione di leva a Brentwood.
Lo lasciai alla clinica pediatrica e tornai a Santa Monica in tempo per mettermi in coda davanti allo sportello C. C’erano sempre le stesse facce, gente di spettacolo che sapeva come levare la spina dell’umiliazione da quell’attesa: arguti scrittori di sit-com per la televisione, il cupissimo tipo dalle folte sopracciglia che aveva sceneggiato l’ultimo fiasco di Brando, il fumatore di pipa che aveva scritto dieci Daniel Boones, registi musoni e pugnaci e i caratteristi vestiti con cura, tutti che si muovevano in tre file accanto a ingegneri elettronici, contadini e scienziati che si compiacevano di far sapere agli altri di aver lavorato al progetto Apollo. Gli scrittori erano pieni di ottimismo e le sparavano grosse, però stranamente molti dicevano la verità. Una settimana erano lì a ritirare i loro sessantacinque dollari, e quella successiva erano in Europa per un incarico o per concludere qualche affare. Mi domandai se non fossi l’unico autentico bugiardo di tutta quella folla, perché avevo divulgato l’antico cliché che stavo scrivendo un romanzo, e quando mi chiedevano come stesse andando, davo sempre la stessa semplice, diretta risposta: «Splendidamente!».
Il sole brillava e lo smog aveva una squisita sfumatura arancione quando tornai a Culver City. Parcheggiai davanti alla clinica pediatrica. Per quanto fosse un edificio nuovo, alto due piani e stuccato, aveva un aspetto sporco, abbandonato, come se non potesse nascondere la tristezza che racchiudeva. Intorno non vi cresceva nessun albero o cespuglio. Il cortile dei giochi adiacente era racchiuso da uno steccato di dieci piedi di compensato, ancora ricoperto dai manifesti della campagna elettorale del novembre passato. Era nel quartiere dei neri e dei messicani, a due isolati dalla rumorosa superstrada di San Diego. Dall’altra parte dello steccato giocavano dei bambini, e le loro vocette si libravano nell’aria come uccellini.
La ragazza nera dietro al bancone della reception mi disse che Jamie era in cortile, e mi indicò con la testa una porta laterale. Una dozzina di bambini, per lo più neri, giocavano su quel terreno duro e polveroso. Erano su stampelle, avevano sostegni alle gambe, stavano seduti sulle altalene o spingevano delle carrozzine scricchiolanti. C’era un’infermiera nera con un camice bianco che li controllava.
Vidi Jamie dalla parte opposta del cortile, era nel recinto con la sabbia assieme a due bambine, una messicana l’altra nera. Avevano un secchio d’acqua e qualche formina metallica. Facevano torte di fango, avevano le mani sporche.
Quando mi avvicinai, Jamie stava dicendo: «Mettici un po’ di cannella sopra».
La negretta con un braccio solo prese una manciata di sabbia e la sparse sulla torta bagnata. L’altra bambina, con un sostegno d’acciaio alle ginocchia, disse: «Ci voglio il cocco».
«Bene», disse Jamie. «Anche il cocco».
Lei raccolse la sabbia con le mani e ce la buttò sopra.
«E’ ora di andare», li interruppi.
Mentre lui si lavava le mani a un rubinetto, le bambine mi guardavano tetre. Si alzarono e andarono accanto a Jamie, strusciandoglisi addosso come gattini.
«Non andartene, Jamie. Per piacere».
Gli disse che sarebbe tornato più tardi.
«Promettilo! Promettilo!».
«Ve lo prometto».
Le prese per mano e ci avviammo camminando piano per stare al passo irregolare della bambina messicana. Era un momento di speranza, solenne, con il caldo sole sopra di noi, il terreno polveroso sotto i nostri piedi, il recinto di compensato che ci separava dal resto del mondo che però si intrometteva con violenza con il rombare dei camion della superstrada. Osservai Jamie, vidi che i suoi occhi erano raggianti, e notai il suo piccolo sorriso quando guardava le bambine. Tenevano le sue mani al petto e le stringevano come se stessero abbracciando delle bambole. Lui le guardava con profondissimo affetto, come faceva con i cuccioli e i coniglietti quando era bambino.
L’ufficio per il reclutamento era in un edificio alto e nuovissimo sulla Barrington vicino alla Wilshire. Entrammo nel parcheggio, fermai la Porsche e spensi il motore. Essendo in anticipo restammo seduti per un po’, a raccogliere i pensieri.
«Hai un piano? Sai cosa dire?».
«E che piano si può fare? Mi faranno delle domande, e io dovrò rispondere».
Avevo riflettuto sulla situazione, e offrii una possibile soluzione. «Che te ne pare?», dissi. «Io mi sto rimettendo da un attacco cardiaco, e sono a casa convalescente. Ma tua madre non ce la fa, e abbiamo bisogno che tu ti occupi di me. Un caso di grande difficoltà».
«Sei fuori di testa».
«E’ meglio essere preparati».
«Non so cosa vogliano. Forse devo solo riempire un altro questionario».
«Stai sognando, ragazzo. Sei stato assente quarantadue giorni e ti stanno cercando».
Aprì la portiera.
«Lo scopriremo presto».
«Aspetta», dissi, avendone pensata un’altra. «Che ne dici del dottore di Denny?».
«Abercrombie? E’ un farabutto».
«Certo che è un farabutto! Come puoi avere dei problemi ai reni o la pressione alta senza un farabutto?».
Mi guardò con le sopracciglia alzate.
«Non voglio farlo». Scese dalla macchina e sbatté la portiera.
«Allora la verità, la verità vera, senza un dottore farabutto?».
«Quale verità?».
«La mia ulcera. Come sai, ho un’ulcera duodenale. Una volta ogni tanto si infiamma. Ora mi sembra che stia per succedere. Supponi che…».
«Non se ne parla».
Si allontanò, quando una Thunderbird blu entrò a tutta velocità nel parcheggio adiacente, proprio dove stava passando lui. Il clacson urlò, i freni stridettero e Jamie fece un salto, gettandosi sulla mia macchina. Quando guardò l’uomo nella Thunderbird, era furibondo.
«Imbecille!», gridò. «Stupido imbecille!».
«Mi spiace», disse l’uomo. Sollevato perché la tragedia era stata evitata, si appoggiò allo schienale con un sospiro e si spostò il cappello indietro sulla faccia che improvvisamente aveva cominciato a sudare.
«Delinquente!», gridai.
L’uomo prese una ventiquattrore e scese dalla macchina. Aveva un vestito di seta grigia che lo avvolgeva come il sipario di un teatro, era robusto con spalle massicce e mandibola a incudine. Un vicepresidente, forse, o un rivenditore imbroglione di auto usate.
«Spiacente», disse.
Lo fissammo con occhi di ghiaccio e lui si allontanò camminando per il corridoio formato dalle macchine. Dopo qualche passo si fermò, ci guardò da sopra la sua spalla di seta, e tornò sui suoi passi.
«Lei non è Molise?», disse, stando davanti alla Porsche.
«E a lei che gliene importa?», rispose Jamie, incrociando le braccia.
L’uomo robusto sorrise, guardandoci tutti e due.
«Come sta quel vostro fottutissimo cane perverso?».
Allora lo riconobbi. John Galt, l’avvocato che Stupido aveva montato sulla spiaggia la notte del forte vento di Santa Ana. Lo rivedevo sulla spiaggia con i bermuda flosci e la camicia hawaiana, con la pancia sporgente, le sue gambe pelose che sembravano due tronchi e la stoccata intimidatoria con la quale aveva avuto la meglio su di me, che ancora mi marciva nel cranio, soprattutto perché era successo davanti a Jamie. Ora avevo la possibilità di sistemare le cose, perché il ragazzo era di nuovo presente.
«Salve, Galt», mi girai verso Jamie. «Te lo ricordi, Jamie? Quel tipo che Stupido ha provato a farsi? E’ proprio lui».
«Me lo ricordo», disse Jamie. «L’uomo con quegli strani bermuda».
Galt fece un sorrisetto.
«Ha stuprato qualcuno ultimamente quella bestia?».
«Ultimamente no», dissi. «Ma sono certo che lei gli manca molto, Galt. Lei è la luce dei suoi occhi».
Il sorriso di Galt era fatto di ferro inflessibile. I suoi occhi blu sfrigolarono quando tirò fuori dal taschino un fazzoletto per asciugarsi il sudore da sotto le guance. Lo ripiegò accuratamente e lo rimise in tasca. Sentivo la sua rabbia che veniva verso di me come vento caldo, e mi girai sul sedile per prendere un ferro numero cinque che era per terra. Divenne una lotta di sguardi, Galt contro Jamie e me. Improvvisamente Galt si voltò e si allontanò a passi veloci lungo il parcheggio, con il sole che luccicava sulla sua giacca di seta.
«Grande», disse Jamie. «L’hai inchiodato».
«Anche tu».
«Non mi è mai piaciuto».
«E’ un bulletto», replicai. «Gli è andata bene che non si è mosso, altrimenti gli avrei spaccato la testa con questo». Sollevai il ferro nel mio pugno chiuso.
Attraversammo il parcheggio fino all’ingresso dell’edificio. Accanto c’era un bar, e vidi che Galt era al bancone, leggeva il giornale e avvicinava una tazza di caffè alle labbra. Controllammo dove dovevamo andare e prendemmo l’ascensore fino al quarto piano.
Entrare nell’ufficio per la selezione fu come entrare in un romanzo di Dostoevskij. Un gelo di burocrazia penetrava fino alle ossa e la macchina amministrativa cominciava immediatamente a divorarti. Era una grande stanza bianca che odorava di intonaco fresco, troppo illuminata da tubi al neon. Una dozzina di giovani per lo più con i capelli lunghi, stavano in fila davanti a dei piccoli sportelli e parlavano con gli impiegati. La luce cruda faceva risaltare i loro lineamenti, sottolineando ogni imperfezione e brufolo sui loro menti.
A quella vista gli occhi di Jamie si spalancarono, e fece un profondo respiro. Essendo proprio come tutti gli altri, andò verso uno sportello e rimase ad aspettare in fila. Io mi avvicinai a una sedia di plastica appoggiata contro il muro e mi sedetti. Alcuni ragazzi fumavano, quindi riempii la pipa e accesi. Dietro gli sportelli, una squadra di impiegati battevano sui tasti delle loro macchine da scrivere. Sembrava che queste stessero tutte litigando con foga fra di loro.
La porta del corridoio si aprì e apparve un brillio di seta grigia. Era John Galt. Si avvicinò a un varco dietro gli sportelli facendo ondeggiare la sua ventiquattrore. Jamie e io lo notammo nello stesso momento. La mia pipa improvvisamente si spense e sentii che il sangue mi pulsava nel collo, quando Galt prima di entrare si fermò e si guardò intorno. I suoi scintillanti occhi azzurri ci perforarono come un cecchino. Poi scomparve. Jamie si voltò e mi fissò. Aprì e chiuse le mani sudate. Sussurrò qualcosa al ragazzo davanti a lui, accennando a Galt che era ancora visibile dietro i vetri degli sportelli mentre entrava in un ufficio sul retro. Jamie si allontanò dalla fila e venne da me. La sua faccia era diventata grigia, ma sorrideva con ironia, come la vittima di uno scherzaccio.
«Sai chi è?».
«Non me lo dire», dissi. «Non voglio saperlo».
«Capo della commissione».
Mentre tornava in fila, tentai di respingere un pensiero che galoppava nel mio cervello, ma era come un cavallo selvaggio che non si poteva trattenere: “fuori tre, dentro uno”.
XXI

Jamie non incontrò mai più Galt, almeno non faccia a faccia. Il destino lo sopraffece come l’inverno artico quando si rese conto che i suoi giorni da civile erano agli sgoccioli. Sapevo che sarebbe stato un buon soldato, aveva troppa autostima per non esserlo, ma il timore della vita militare lo fece diventare cupo e silenzioso come un monaco.
Di fronte alla crisi, reagiva come me. Tale padre, tale figlio. Quando mio padre morì, dormii con il cane Mingo. Alla morte di mia madre, per molte notti tristi, il dolore fu lenito dalla vicinanza del vecchio Rocco. Jamie portò Stupido nel suo letto. Quel cane non era uno sciocco. Avvertendo la desolazione del ragazzo cercava di confortarlo nell’unico modo che conosceva, cioè standogli vicino per gli ultimi due mesi.
E questo produsse un cambiamento in Stupido. Finalmente era qualcosa di più che un cane ribelle che girava per casa senza un motivo. Ora c’era bisogno di lui, c’era un lavoro da fare per qualcuno che lo amava. La gratitudine scaturì dai suoi occhi luttuosi e scortava Jamie per i corridoi e per le stanze. A colazione era sotto il tavolo, con la testa sulle scarpe di Jamie. Lo seguiva in garage e restava accanto alla portiera della macchina per ricevere una carezza amichevole prima che Jamie andasse alla clinica. Quando la macchina scompariva, stendeva la sua massa sul pavimento del garage e aspettava che Jamie tornasse. Si preoccupava per lui. Si vedeva dal cibo che non toccava e dallo scarso interesse che aveva per Denny, Harriet e me.
Il quattro luglio portammo Jamie al centro di reclutamento dell’esercito a Los Angeles. Prendemmo la familiare perché ci fosse posto anche per Stupido. Con la testa sulle gambe di Jamie, dormì tutto il tempo. Nel parcheggio c’erano due pullman che aspettavano i nuovi arrivati. Jamie mi strinse la mano, dette un rapido bacetto sulla guancia di sua madre, e abbracciò forte Stupido, baciandolo tre o quattro volte.
«Abbiate cura del mio cane».
Annuii.
«Promesso?».
«E’ una promessa».
Si affrettò verso una fila di giovani sciatti che stavano salendo sugli autobus. Sembravano presi in una retata di nazi, e in partenza per Buchenwald. Jamie salì sul pullman e subito ci salutò dal finestrino posteriore. Harriet piangeva e agitava il fazzoletto bagnato. Sibilando come un drago il bus si allontanò diretto a Fort Ord.

* * *

Harriet pianse per due giorni, la mia malinconia invece durò circa dodici minuti, sull’autostrada di Santa Monica dove la piena del traffico spingeva la familiare verso la costa. Finalmente trovai una posizione sulla terza corsia dove potevo procedere a settanta miglia all’ora senza rallentare i maniaci che andavano a fare le vacanze al mare.
Non ero preoccupato per Jamie. Ora capivo perché mio padre era stato così contento quando mi avevano chiamato.
C’era qualcun altro che si prendeva la responsabilità. Non era come un ragazzo che scappava sparendo nella giungla di una grande città come avevano fatto Dominic e Denny, facendoci rimanere svegli la notte, ad agitarci e a mangiarci le unghie, col cuore che si arrestava a ogni squillo del telefono. Jamie era in buone mani. Sarebbe stato nutrito, avrebbe avuto un alloggio e disciplina. Sarebbe aumentato di peso e diventato più autosufficiente. Avrebbe avuto nostalgia della sua casa e di sua madre per un po’ e si sarebbe addormentato piangendo. La cosa peggiore era che si sarebbe annoiato, ma chi non si annoiava?

* * *

Quando arrivammo a casa, Stupido era steso sul sedile, con la testa sulle zampe. Si rifiutò di scendere dalla macchina. Gli parlai con ragionevolezza, cercando di blandirlo, ma non si mosse. Quando infilai una mano e lo presi per il collare aprì un occhio spettrale e ringhiò.
«Vai a farti fottere, ingrato».
«Gli manca Jamie», disse Harriet.
«Manca a tutti noi. E’ forse una ragione valida per non uscire dalla macchina come tutti noi?».
«Sta male. Lascia la portiera aperta».
Cominciava a infastidirmi. Tutti i mesi in cui l’avevo nutrito, lavato, cosparso di antipulci, liberato da zecche gonfie, spazzolato fino a fargli brillare il pelo, sverminato, gli avevo offerto la mia amicizia, e ora il suo unico interesse era Jamie, che non gli aveva dato neanche un po’ d’acqua. Non che domandassi favori speciali o che mi aspettassi la sua totale devozione, ma senz’altro mi spettavano obbedienza e rispetto. Dove sarebbe andato se non gli avessi dato una buona casa, prodigato attenzioni e trattato meglio della mia carne e del mio sangue? Doveva essere la razza. Era un figlio di puttana sciatto e indifferente, senza intelligenza per ricambiare l’amore e la gentilezza. Il mio cane Rocco avrebbe fatto salti di gioia per la metà di quell’attenzione.
Un paio di ore dopo stavo guardando la partita dei Dodgers quando grattò alla porta di servizio. Mi alzai per farlo entrare. Senza guardarmi, con la coda afflosciata, si avviò cupo per il corridoio verso la camera di Jamie. Piagnucolando annusò il letto vuoto, poi vi salì. Con un sospiro si accomodò e chiuse gli occhi. Lo lasciai lì e andai alla T.V. Dopo cena gli preparai una ciotola di carne di cavallo e di frattaglie, la misi sulla veranda e cercai di persuaderlo a scendere dal letto. Ringhiò con ostilità quando la mia mano afferrò il suo collare.
«Lascialo stare», disse Harriet. «Mangerà quando avrà fame».
Falso. Non mangiò né bevve, né si allontanò dalla camera di Jamie. Rimase lì tutta la notte fino al pomeriggio del giorno dopo. Poi scoprii che aveva fatto pipì sul tappeto. Era arrivato il momento di prendere in mano la situazione.
Harriet portò degli stracci e del detersivo, io andai alla macchina ed estrassi una mazza da sabbia dalla mia sacca da golf. Quando tornai era seduto. Gli puntai contro la mazza.
«Fuori».
Smagrito dalle miserie, con il manto opaco, gli occhi umidi e torbidi, scivolò sulla pancia giù dal letto e depresso andò nel corridoio uscendo poi dalla porta di servizio. Era ripiombato nella stessa malinconia della notte di pioggia in cui l’avevamo trovato. Rimasi sulla soglia a osservarlo mentre si guardava intorno, come se la zona circostante gli fosse sconosciuta. Un pensiero spietato e imbarazzante mi fece arrossire il cervello. Mi volevo sbarazzare di lui. Nonostante la mia promessa a Jamie, sentii che il cane doveva andarsene. Sembrò aver percepito le mie intenzioni, perché mi fissò triste, come se gli dispiacesse quello che avevo in mente. Rabbrividendo come un criminale, non riuscii più a guardarlo.
XXII

Il giorno dopo, a mezzogiorno, Harriet scoprì che era andato via. Cercammo per tutto il giardino, nell’edera spessa che gli piaceva così tanto, nelle zone ombrose sotto i pini, nel recinto degli animali, nella roulotte abbandonata. Si era proprio dileguato, per quanto entrambi i cancelli fossero chiusi.
«Deve aver scavalcato lo steccato».
«Andiamo alla spiaggia», disse Harriet.
«Tornerà. Lasciamo i cancelli aperti».
«Dobbiamo cercarlo».
Si mise un paio di scarpe basse.
«Sto scrivendo», dissi.
«Tu vieni con me».
Camminammo a fatica verso la spiaggia. Lei andò verso sud, io arrancai verso nord. Dopo un quarto di miglio mi sedetti contro la scogliera e accesi la pipa. Guardai i gabbiani per due ore, e fissai il mare. Dopo tutto non era un gran cane. Era un vero schizofrenico. Aveva terrorizzato Rick Colp. Aveva morso Denny. Era saltato addosso a Galt ed era probabilmente responsabile della chiamata di Jamie. Verso di me si dimostrava freddo e indifferente. Improvvisamente un meraviglioso anelito mi sommerse, e mandò una melodia dolce su e giù per la mia spina dorsale. Avrei preso un altro bull terrier, un cucciolo bianco come Rocco, con una pancia rosa, una lunga coda da topo, e occhi marrone chiaro. Ma dovevo prima sincerarmi che Stupido fosse scappato veramente.
A casa Harriet si stava asciugando dopo la doccia.
«Niente?», domandò.
«Se ne è proprio andato».
«E’ un cane così lento. Non può essere lontano. Cerchiamolo con la macchina».
«Sto scrivendo».
«Può aspettare. Prendiamo tutt’e due le macchine».
Andò verso Zuma Beach e io verso la Coast Highway. Al Topanga Canyon girai a nord attraverso le montagne in direzione della Valley, per raggiungere un nuovissimo campo da golf a Ventura. Era un buon percorso, senza folla, con erba lussureggiante e palle nuove e pulite. Ne colpii tre secchi e corressi un difetto che mi aveva crucciato per due anni. Tutto considerato era stata una giornata fruttuosa.
Arrivai a casa nel momento in cui il sole dorato rimase sospeso per un attimo prima di essere inghiottito dal mare rosa. Harriet era ai fornelli, preparava la cena e parlava al telefono, domandava ai vicini se avessero visto quel cane grande marrone e nero con la coda piumata. Faceva i numeri e parlava senza sosta, dandomi la cena allo stesso tempo. Sembrava sfinita. Aveva chiamato l’Animal Shelter, lo sceriffo, lo SP-CA, il Life Guard Service, e la polizia privata locale. Aveva anche messo un annuncio sul «Times» e su tutti i giornali della costa ovest.
Mescolando un drink, domandò: «Niente?».
«Niente. Sono anche andato nella campagna qua dietro, attraverso Latigo e il Corral Canyon, fino a Mulholland. Sono stato al Decker Canyon. Sono passato per tutte le strade da qui a Camarillo».
«Dobbiamo trovarlo, per amore di Jamie».
«E se non ci riusciamo?».
«Dobbiamo provare».
«“Supponilo” soltanto».
«Mancano dieci settimane prima che Jamie torni dal campo. Per allora l’avremo certamente ritrovato».
«Siamo realistici. Il cane se ne è andato. E’ stato con noi un po’, poi è scappato via. E’ quello che fa sempre».
«Non ci credo. Per quello che ne sappiamo, potrebbe essere sulla via per Fort Ord».
«Oh, merda. Quello è Lassie».
«E’ una possibilità».
«Nei film. Non a Point Dume. Ma una soluzione c’è, se non dovessimo trovarlo».
«Quale?».
«Un altro cane».
Si allarmò e si insospettì, decisi di non insistere. «Pensavo a un bel cocker spaniel, a uno scottie».
I suoi occhi non nascondevano la rabbia, respirava a fatica.
«Ho capito il tuo gioco».
«Che gioco? Parlo di cose reali».
«Non voglio sprecare fiato. Se ti azzardi a “nominare” soltanto un bull terrier, considera questo matrimonio finito. E’ la mia ultima parola».
Si girò e filò via dalla stanza.
Eccola di nuovo l’antica pressione che mi faceva a pezzi. Presi carta e penna e iniziai a sommare le cifre che venivano fuori dalla mia testa come da un computer. Tremila per la mia Porsche, duemiladuecento ancora da pagare di rate, un centinaio per le mie mazze da golf, cinquecento per il trattore, cinquanta per il taglierba, cento per la sega elettrica, e forse altri duecento per le mie pistole. Per un totale di circa milleseicento dollari. Tolti cinquecento per il biglietto, sarei arrivato a Roma con circa mille e cento dollari. Meritava della considerazione.
Suonò il telefono e rispondemmo da stanze diverse. Era la signora Pollard da Dume Drive. Dalla sua finestra vedeva un grande cane con una folta pelliccia che gironzolava nella proprietà accanto alla sua. Harriet la ringraziò e si lanciò di corsa per il corridoio.
«Prendi la torcia», disse.
Dopo pochi minuti stavamo entrando con la familiare nella proprietà su Dume Drive accanto a quella dei Pollard. I fari ondeggianti fecero emergere dall’oscurità la figura di un grosso cane, un terranova che rimase rigido su un ammasso di erbacce con il bianco degli occhi bene in evidenza per la sorpresa.
Harriet non si scoraggiò. «Promette bene. Avremmo dovuto cercare qui da subito». Fece marcia indietro fino alla strada.
Per le due ore che seguirono percorremmo tutta Point Dume, procedendo con la lentezza di un carro funebre che mise in agitazione tutti i cani della via. Ci seguivano a frotte, come un sollevamento di massa, e i loro denti e le loro gengive rilucevano quando erano illuminati dalla torcia. Cani, cani. L’élite di Point Dume, i cani che venivano nutriti benissimo, con i migliori alloggi del mondo, dai chihuahua ai sanbernardo. Ma Stupido non c’era. Quando la pila della torcia rese l’anima, tornammo a casa.
Entrando nel garage per parcheggiare accanto alla vecchia carretta di Denny vedemmo un gran fumo che usciva dal tetto. Saltai giù dalla macchina e guardai verso il camino. Ne usciva fumo nero, che rotolava fuori emanando un odore di gomma sintetica bruciata, e rimaneva sospeso nell’aria come un angelo scuro nella calda aria della notte.
Denny era seduto a gambe incrociate davanti al caminetto, con il mento appoggiato alle mani, e fissava la fiamma. Stava bruciando le sue stampelle. Le imbottiture di gomma sibilavano e fumavano. Mi avvicinai e guardai il fuoco. Non parlammo per due minuti.
«Allora ce l’hai fatta».
Sorrise e tirò fuori una busta dalla tasca. Era dell’esercito. Era stato riformato. Infiammazione cronica della guaina del tendine. Lesione permanente. Porsi il documento ad Harriet.
«Vergogna», disse, scorrendolo.
«Gli ho dato tre anni della mia vita», affermò. «Non basta?».
«Ti eri impegnato per sei».
«Ma ti sembro un soldato, mi comporto come un soldato, penso come un soldato? Non c’entro niente con l’esercito, io. E’ stato uno sbaglio, dall’inizio. Ora posso continuare a vivere la mia vita».
«New York?».
«Domani».
Si alzò e improvvisamente fece un passo di danza.
«Denny!», lo rimproverò Harriet.
Lui l’afferrò e la baciò.
«Sono libero, mamma! Sai che significa?».
Non c’era molto che Harriet potesse dire. L’aveva proprio inchiodata. Lei gli aveva scritto troppe temi di fine semestre, era entrata in troppe cospirazioni con lui per poter protestare ora. E comunque non avrebbe avuto importanza. Denny aveva una caratteristica, il suo carisma era una bandiera che garriva al vento, era un giovane instancabile sempre in movimento, il ragazzo che desiderava sempre fuggire. Era stato così già dal primo sperma che era risalito per la tuba di Falloppio e che era arrivato nell’ovaio dove si era formato lui.
«“Fuori quattro, dentro nessuno”», dissi.
Si girò sorridendo e mise le mani sulle mie spalle.
«Ce l’hai fatta, papà. Congratulazioni». Frugò nella tasca e tirò fuori le chiavi della macchina. «Ecco la tua ricompensa. Ti do la mia macchina».
«Perbacco, grazie!».
Batté le mani, era sempre lo stesso sparaballe.
«Okay, mamma cara. Andiamo a fare la valigia. Il mio volo parte alle sette di mattina».
«Stupido non si trova più», disse Harriet. «E’ scappato».
«Ma quanta fortuna avete?», sorrise, avvolgendola con le braccia e guidandola verso camera sua.
 XXIII

Pace.
Cos’è la pace?
Lei vive nell’ala est e io vivo nell’ala nord. Abbiamo tre camere da letto ciascuno. Taglio il prato. Comincio un nuovo romanzo. Il mio stile è diverso. Non mi piace. Lei fa ceramica. Studia scienze occulte. Io gioco a golf. Ho degli incubi. Negri che arrostiscono Dominic in un pentolone. Lei ha degli incubi. Jamie davanti alla corte marziale, bendato, fucilato. Io cambio camera da letto. Lei cambia camera da letto. Dormiamo insieme. Lei russa. Lei sostiene che io russo. Ci scambiamo la camera da letto. Il romanzo collassa. Ne comincio un altro. Cos’è successo al mio stile? Lei mi legge i tarocchi. Le carte sono sinistre. Non finisce la lettura. La Torre. L’Impiccato. Le mie carte, Morte, Catastrofe, Rovina.
Jamie scrive tutti i giorni, telefona nei fine settimana. Ha una voce debole, patetica. Ha un brutto raffreddore. Ha marciato per diciotto miglia. Come sta il mio cane? Bene. Non ti preoccupare per il tuo cane. Come mangi? Malissimo. Vomita tutto il tempo. Stai caldo la notte? No. Non ci danno abbastanza coperte. Gli hanno fatto attraversare un campo strisciando sulla pancia, sparandogli sopra la testa. Senti, Jamie, vuoi che scriva al comandante? No. Aumenterebbe solo la persecuzione. Ha la febbre. Vai dal medico. No. L’assenza significherebbe rifare tutto da capo.
Taglio l’erba. Harriet sistema le aiuole. Chiamiamo l’agenzia immobiliare. Mettono un cartello. Arrivano orde di sconosciuti. Perlustrano la casa. La odiano. La cucina non è alla moda. Gli armadi sono troppo piccoli. I soffitti devono essere ridipinti. Le finestre non hanno zanzariere. Li senti che quando vanno via disprezzano tutto. E vedi che l’agente immobiliare gli dà ragione. Leviamo il cartello. Siamo soli un’altra volta. La notte sento degli strani passi. Tengo una pistola sul comodino. Do ad Harriet una pistola. Pulisco e ungo i miei fucili. Il posto diventa una fortezza armata. Ci fu un tempo in cui ogni porta era aperta notte e giorno. Non più. Controllo le porte, le finestre. Harriet dipinge le uova di Pasqua. Non fa altro. Vi raffigura degli animaletti. Vi crea sopra delle scenette, un daino e una cascatella, un coniglio sotto un cespuglio. Il salotto si riempie di strane uova. Gli amici le fanno i complimenti. Pensa a uova più grandi. Io gioco a golf. Siamo leggermente pazzi, sconnessi, sulle nuvole. E non ci vergognamo ad ammetterlo.
Denny scrive da New York. Fa il cameriere, fa la scuola di arte drammatica. Mandatemi cento dollari. Tina telefona dal New Hampshire. E’ incinta. Rick fa il falegname. Stanno comprando una casa. Mandatemi cento dollari. Jamie telefona. Mandatemi dei biscotti. Ha ancora la febbre. Ha marciato per venti miglia, oggi. Il sergente sta cercando di distruggerlo. Deve svegliarsi alle quattro tutte le mattine per pulire le latrine. Me ne occupo io, gli dico, scrivo a Tunney, a Cranston, a Reagan. No. Peggiorerà solo la situazione. Come sta il mio cane?
Facciamo una festa, con tanta gente, vecchi amici, ora dovremmo ricevere più spesso. Diamo la festa, arriva la gente. Scrittori con le mogli. Si affilano le armi. Alcol. Sceneggiatori contro autori per la televisione. Brutta scena. Una donna mi dà del porco fascista. La colpisco. Il marito me le suona. Gran casino sulla veranda. Vicino chiama lo sceriffo. Un’attrice ubriaca si lancia verso la scogliera, minaccia di buttarsi di sotto. E buttati, puttana! Un agente la blocca. La festa si sfascia. Amicizie rotte, bicchieri rotti, alcol versato per terra, vomito sul prato. Nella camera da pranzo qualche animale ha pisciato contro il muro. Giuriamo, mai più feste.

* * *

Ricordo il giorno in cui Rocco fu assassinato. Quel giorno si distingue per essere indimenticabile come la tragedia stessa, era una giornata ideale per le balene e per le focene, per le barche a vela e a motore, e il cielo era di un azzurro così brillante che avrebbe potuto essere stato dipinto da Michelangelo, si cercavano, nei bordi delle nuvole che sembravano di lana, i cherubini che suonavano trombe d’oro. Era luglio con la promessa di una dolce estate, la marea era bassa e melodica, c’erano ragazze abbronzate e sottili in bikini, con i culi che sembravano pani appena sfornati, c’erano gabbiani che volavano, agili piovanelli, surfisti in equilibrio precario e armati di una gran pazienza, gli ombrelloni a strisce come zucchero candito, e uno scoppiettante bull terrier bianco che galoppava dietro ai gabbiani e abbaiava dalla gioia.
Quando girammo il promontorio della scogliera, saltammo sull’alto ammasso di rocce e finimmo su quella striscia di spiaggia conosciuta come Little Dume, una piccola baia a forma di zuppiera, affollata di bagnanti. Sulla riva c’era qualcosa di scuro e di enorme che attirava la loro attenzione, e vi si riunirono attorno formando un semicerchio. Sembrava lo scafo rovesciato di una barca, ma mentre ci avvicinavamo divenne una grande balena azzurra arenata nell’acqua bassa. Era su un fianco, aveva la pancia giallastra e il grande dorso era nero ebano e blu. Più tardi i giornali scrissero che era lunga trenta metri e che pesava cento tonnellate. Dio sa come fosse arrivata lì, a insabbiarsi in mezzo metro d’acqua, dallo sfiatatoio emetteva lamenti striduli e la coda sbatteva debolmente, dai suoi occhi colavano lacrime di grasso, e la sua bocca cavernosa era mezza aperta e risucchiava le onde della marea a mano a mano che saliva.
La folla la guardava con compassione in un silenzio solenne, quel gigante degli abissi caduto che respirava a fatica e agitava la coda poderosa. Rauchi gabbiani si posavano sul suo dorso scuro. Dalle sue labbra aperte alghe e detriti entravano e uscivano. Afferrai Rocco per il collare e ci facemmo largo tra la folla. Il cane ringhiò quando vide la coda che si muoveva. Tirava, alzando la sabbia con le zampe. Voleva attaccare la balena. La sua totale mancanza di paura mi fece sorridere. Che male avrebbe potuto fare un cane di trenta chili a una balena di cento tonnellate? La cosa mi divertiva molto. Lo liberai.
Quando la marea si ritirò, attaccò. Con un salto, a zanne scoperte, colpì la pancia della balena. Rimase lì incollato, con i denti serrati. Teneva duro, e si poteva sentire il suo ringhio. Dalla folla salì un mormorio di disapprovazione. Un’altra onda si infranse sulla riva. La balena rotolò. Rocco mollò la presa e cadde in acqua.
Qualcuno domandò con rabbia: «Di chi è quel cane?». Quando l’onda si ritirò, Rocco si rimise sulle zampe. La grande coda sbatteva. Rocco vi si gettò contro, l’afferrò e restò tenacemente attaccato a quella cosa venti volte più grande di lui. La folla mormorava. Il cane stava rendendo tutto quel dannato affare ridicolo.
Una donna disse: «La sta uccidendo!».
La bocca della balena si allargò, cercando aria con affanno. Sembrava soffrire molto, aveva delle alghe che le drappeggiavano le sue labbra bluastre. L’ostilità della folla contro il cane aumentò. Gridavano: «Prendete quel cane! Uccidete quel figlio di puttana!». La coda sbatté nuovamente, gettando il cane sulla riva. Fece due capriole e atterrò sulle zampe, e i suoi piccoli occhi luccicavano dalla gioia per il combattimento. Corse a tutta velocità nel senso della lunghezza della balena e si lanciò contro la bocca aperta, ma la marea che saliva lo gettò a riva. Un bambino gli tirò un pezzo di legno. Un uomo uscì dal gruppo e gli diede un calcio. Ma per un bull terrier una balena non è altro che un cane molto grande. Caricò ancora, rimase intrappolato nella alghe e rotolò sotto la bocca della balena, perso fra gorghi e detriti.
Poi, bum! Guardai e vidi un pescatore sulla poppa di una barca a motore con un fucile fumante fra le mani. Vidi nell’acqua il rosso del sangue del mio cane. Vidi il suo corpo bianco rotolare nelle onde. Corsi verso il punto del bagnasciuga dove giaceva. Lo sparo gli aveva staccato mezza testa. Quando lo presi in braccio era ancora caldo, e lo portai attraverso la folla che aveva formato un passaggio per me. Un’adolescente col naso grinzoso guardò il mio defunto, bellissimo Rocco, e disse: «Gli sta bene!».
L’alta marea condusse la balena morta al largo. Io portai il mio cane fino a casa e lo seppellii vicino al recinto per gli animali.

* * *

Un mattino di settembre mi svegliai con il sole che attaccava la mia finestra come se avesse voluto rompere il vetro. Mi colpiva la faccia, gli occhi e il resto, e mi buttò fuori dal letto. «Che diavolo vuoi?», dissi. Mi alzai e chiusi le tende, rimettendomi giù un’altra volta nella semioscurità. La verità era che non ce la facevo ad affrontare un altro giorno. Ero stufo di quella grande casa. Che senso hanno le stanze vuote e un giardino vasto come un parco se nessuno ci cammina? Che senso hanno gli alberi se non ci sono cani che ci pisciano sopra? Non potevo più scrivere nemmeno una riga in quella casa. Ero anche stufo dell’altra inquilina, quella dall’altra parte dell’edificio. Chi era lei per dire che non potevo avere un bull terrier?
Resa dei conti. A culo nudo, e bellicoso, andai in cucina, dove la trovai dietro a degli occhiali da lettura, che scorreva il giornale del mattino.
«Che hai contro i bull terrier?».
Fu così sorpresa che si accese nervosamente una sigaretta. «Stai scherzando? Dopo Mingo e Rocco? Lo sai benissimo che ci odiano tutti nel quartiere».
«Se loro possono tenere un cane, perché io no?».
«Un bull terrier non è un cane, è una belva. Inoltre si azzufferebbe con Stupido».
«Stupido è andato via cinque settimane fa».
«Per amore di Jamie non dobbiamo arrenderci».
Mi rasai, mi lavai i denti, mi pettinai, feci alcune riflessioni. Poi tornai in cucina.
«Ho deciso».
Abbassò gli occhiali. «Davvero?».
«O prendo un bull terrier o lascio il paese».
Il suo sorriso non mi piacque.
«Roma?».
«La città eterna». Suonava bene.
«Allora farai meglio a prendere due biglietti. Uno per te e uno per il tuo cane».
«Te ne pentirai per tutta la vita».
«Vedremo».
Speravo di ottenere almeno quattrocento dollari dalle mie pistole, dalla sega elettrica e dalle mazze da golf, ma non ne ricavai più di duecentoventicinque. Il trattore andò allo spazzino per trecento. Avevo proposto cinquecento, ma non cedette di un millimetro. Vide il tagliaerba nel capanno degli attrezzi e se ne invaghì. Gli feci fare un giro di prova.
«Quanto vuoi?».
«Cinquanta», dissi.
«Venticinque».
«Quarantacinque».
«Trenta».
Harriet si affacciò alla finestra sopra di noi. «Quel tagliaerba mi serve», disse. «Non azzardarti a venderlo».
«Se lo vuoi dovrai pagare».
«Quanto?».
«Sessanta», dissi.
«Lo prendo».
Chiuse l’imposta, per nulla preoccupata, anzi, assolutamente indifferente ai miei piani. E perché no? Aveva una sua rendita che le proveniva da un’eredità, e con me via da casa sarebbe stata benissimo, grazie tante.
Con seicento dollari in tasca andai a Westwood a vendere la Porsche. Le avevo dato la cera, avevo spalmato del grasso sui sedili di pelle e l’avevo lucidata fino a farla brillare come porcellana. Se ne avessi potuti ottenere ottocento dollari, ne avrei avuti quasi millecinquecento per il viaggio. Levando il biglietto, sarei atterrato a Roma con più o meno novecento dollari. Avrei potuto viverci per tre mesi. Se non avessi trovato lavoro, avrei potuto semplicemente scrivere ad Harriet che la mia ulcera aveva ripreso a sanguinare e lei si sarebbe occupata del biglietto di ritorno.
Il biondo della concessionaria delle macchine straniere mi offrì subito settecento dollari, ma per i restanti cento fui inflessibile, e finalmente lui acconsentì. Per concludere la vendita, il passaggio di proprietà e la firma dei contratti, ci volle un’ora. Quando tutto fu a posto, il cassiere entrò nell’ufficio e mi dette un assegno di cinquecento dollari.
«Si sbaglia», dissi. «L’accordo era per ottocento».
«Lei non ha pagato le ultime due rate, e il termine scade oggi».
«Non se ne fa di nulla».
Feci cadere l’assegno sulla scrivania.
«Spiacente», disse, raccogliendo i documenti.
Con mille e cento dollari nel portafoglio e il viaggio a Roma che spariva davanti ai miei occhi, uscii dall’ufficio e mi misi al lato della mia splendida Porsche. Arrivò il biondo e chiamò: «Ehi, Jethro!».
Un meccanico nero con una tuta unta apparve da dietro uno steccato.
«Tirala su e sfondagliela», disse il biondo.
Il meccanico portò via la Porsche. Mi venne il mal di stomaco. Mi sentivo come Giuda Iscariota. Amavo quella maledetta Porsche. Era un bull terrier con le ruote. Era stata all’altezza di ogni sfida, si era bevuta Corvette e Jaguar come se fossero state impantanate nel fango. Ora sarebbe andata a qualcun altro e io ero a piedi. Le mie pistole non c’erano più. E così le mie mazze da golf. E la sega elettrica. E il trattore. Non avevo più nulla, tranne qualche inutile dollaro e il vecchio rottame che Denny aveva lasciato in garage.
Tornai a casa in autobus. Fu un viaggio tristissimo, ma mi diede tempo per riflettere su cosa avrei dovuto dire ad Harriet. Alle volte la semplice verità risultava utile. Un uomo non perde la faccia esprimendo con dignità e direttamente dei fatti onesti. Harriet non era vendicativa. Avrebbe capito.
Quando scesi alla fermata di Point Dume era buio. Troppo stanco per fare a piedi l’ultimo miglio fino a casa, le telefonai e le chiesi di venirmi a prendere.
«E la tua macchina dov’è?», mi domandò.
«L’ho venduta».
«Per quale motivo?».
Proprio così. Aveva scordato tutto. Divenni furioso.
«Perché sto partendo per Roma, ti ricordi? Via. Lascio il paese. Torno alle mie origini, torno alla culla della civiltà, al significato del significato, all’alfa e all’omega. Addio a Point Dume, ai ragazzi e ai cani e a una moglie che non mi ha mai capito e che mai mi capirà». Riattaccò. Andai a casa a piedi.

* * *

Era chiusa in camera sua. Le mia cena, pollo arrosto e patate, era in forno. Sul tavolo c’era un’insalata. Stappai una bottiglia di vino e presi una coscia di pollo. Sapeva di Harriet. La dilaniai con i denti e la buttai giù con il vino.
La mia situazione era assurda. Mi ero immaginato spalle al muro, minacce terrificanti e, per salvare l’onore, obbligato a mantenere la mia posizione. Roma senza soldi non mi interessava. Quei freddi pavimenti di marmo degli alberghi mi gelavano i piedi. I romani facevano un pessimo caffè americano. Le strade sapevano di gorgonzola rancido. Le prostitute erano sciatte e deprimenti. Avrei perso le World Series. Il grande evento della domenica era stare sotto la finestra del papa. La forma più bassa della vita umana era lo scrittore italiano. Camminava con manoscritti invenduti sotto il braccio, con il culo in vista attraverso il consumato fondo dei pantaloni. Disprezzava gli italoamericani in quanto codardi che erano fuggiti dalla bellissima povertà del paese, mentre lui, il patriota autentico, era rimasto nella terra dei padri sopravvivendo alla tragedia di due guerre. Se protestavi dicendo che non avevi scelto il paese natale, insultava tuo padre o tuo nonno perché avevano cercato una vita migliore in un altro posto.
L’uomo che mi salvò e che mi derubò, telefonò verso le dieci.
«E’ lei che ha messo l’annuncio per un cane smarrito?».
«Sì. Chi parla?».
«Un akita marrone e nero?».
«Sembrerebbe lui. Con chi parlo, scusi?».
«Quant’è la ricompensa?».
«Venticinque».
L’uomo rise. «Sta sognando».
«Chi è lei?».
«Voglio trecento dollari».
«E’ fuori strada. Non li vale, trecento».
«E’ puro. E un cane di valore».
«Questione di punti di vista».
«Ne voglio trecento».
Era la mia scappatoia. Sapevo che Harriet era in ascolto dalla camera da letto. La sentivo respirare all’altro telefono.
«Va bene. Affare fatto».
Si chiamava Griswold. Viveva a Decker Road, a mezza strada fra la costa e la valle. Dissi che sarei stato lì la mattina seguente.
Appena riattaccai, Harriet si precipitò per il corridoio in camicia da notte.
«E un estorsione», disse. «Non glieli dare».
Ci guardammo e i suoi occhi mi fecero intendere che per il momento Roma era stata messa da parte. Improvvisamente la corrente aveva cominciato a girare a mio favore.
«E Jamie?», dissi.
«Che c’entra?».
«Gli ho fatto una promessa».
«Capirà».
«Vuoi che non mantenga una promessa fatta a mio figlio?».
«Non ti puoi permettere trecento dollari».
Estrassi il mio portafoglio gonfio e lo buttai sul tavolo. «Sì che posso».
«Ma il tuo viaggio a Roma!».
«Che cos’è Roma se poi si deve vivere con il tradimento del proprio figlio? Cosa sono Parigi o New York o qualsiasi altro posto al mondo? Il mio dovere è scontato. Dio sa se ho le mie colpe, ma non mi si potrà mai accusare di slealtà verso i miei ragazzi».
Non riuscì a nascondere la sua ammirazione. Riluceva nel calore del suo volto, e mi fissava come se avesse scoperto abissi di nobiltà d’animo fino ad allora a lei sconosciuti. Perplessa e meditabonda sedette al tavolo e sospirò.
«Non mi sembra giusto. Volevo che tu andassi. Volevo che finalmente ti levassi Roma dalla testa».
Le versai un bicchiere di vino.
«Onestamente ci ho ripensato. Sono stato egoista e irragionevole. Che diritto ho di lasciarti qui da sola e di viaggiare per mezzo mondo? Sei tu quella che ha bisogno di un viaggio. Hai passato un anno terribile. Tutti i tuoi figli sono andati via, hai assolto tutti i tuoi compiti, e per cosa? Hai più bisogno di una vacanza di me».
«Londra», disse pensosa, fissando il bicchiere.
«Qualsiasi cosa tu voglia, ma facciamolo insieme, come marito e moglie. Non appena avremo i soldi».
Mi abbracciò con uno sguardo profondo e blu da sopra il bicchiere, poi sorrise e bevve un sorso di vino.
 XXIV


Deker Road si snodava sulle montagne come un serpente che strisciando scappava dal mare. Era una giornata bellissima, sulla strada deserta non incontrai neanche una macchina né in un senso né nell’altro mentre percorrevo le quindici miglia fino alla cima di Mulholland Drive.
Il cartello diceva ‘Autorimessa Griswold’. Imboccai lentamente la deviazione ed entrai con la familiare nella valletta a cento metri sotto la strada. Il posto era un caos totale. Automobili e frigoriferi abbandonati, macchinari agricoli arrugginiti, cataste di legna, pile di pneumatici, bidoni dell’olio e sedili di macchine. C’erano dei polli dappertutto, e raspavano nella terra rossiccia. Un paio di asini mangiavano le erbacce che crescevano sulla collina.
Mi fermai davanti a un rimorchio appoggiato a dei ceppi, aveva la parte anteriore decorata con targhe, conchiglie, reti da pesca, zucche e stelle marine. Sopra la porta, un’unica parola esprimeva il sentimento di Griswold nei confronti della guerra: Pace!
Quando scesi dalla macchina, apparve, era sulla quarantina, basso, il tipo del bravaccio, con la barba rossa, dei jeans e una maglietta. Masticava tabacco.
«Sì, signore».
«Sono venuto a vedere il cane».
«E’ lo sceneggiatore?».
«Esatto».
«Venga».
Camminammo per venti metri, fino a un recinto quadrato, fatto di pezzetti di latta e legno, alto tre piedi. Griswold vi lanciò uno sputo di tabacco al di sopra.
«E’ lui?».
Gli andai accanto e guardai lì dentro. Sulla terra rossa non c’era più nessuna vegetazione. Nell’angolo, su un giaciglio di paglia, c’era Stupido. Una tettoia bassa lo proteggeva dal sole. Sembrava addormentato, e quando lo chiamai alzò appena la testa e scodinzolò riconoscendomi. Poi affondò di nuovo nelle stoppie. «E’ il mio cane», dissi.
Ci fu un movimento nelle profondità della paglia. Fece alzare Stupido che emerse piano e indistintamente. Era un maiale, un maiale bianco con macchie rossastre, che mettendosi in piedi spostò il cane. Guardò verso Griswold e me, e vedendoci grugnì felice, con i fuscelli che gli cadeva dal dorso mentre trotterellava verso di noi.
«Quella è Emma», disse Griswold.
Era giovane e tonda come una palla di neve, aveva mammelle bianche che rimbalzavano e un eterno sorriso sulla faccia serena. Venne direttamente da me guardandomi con occhi azzurri luccicanti, e il grugno le tremò per il piacere. Griswold abbassò la mano e lei ci si strusciò contro. Anch’io abbassai la mano e quando il mio palmo toccò il suo naso caldo, sbavò di felicità. Stupido le corse subito accanto, e le leccò le labbra e gli occhi. Era pazzo di lei.
«Quanti anni ha?».
«Due. Me l’ha data il vicino per la messa a punto dei freni».
«Perché sono insieme?».
«L’ha scelto il cane, non io. Saltava sempre nel recinto».
«Succede qualcosa fra loro? Voglio dire, si piacciono?».
Griswold si agitò.
«Niente di personale, Griswold. E’ un cane molto eccentrico».
Sputò del tabacco. «Per la verità ci ha provato un paio di volte, ma lei lo ha sistemato. Ora si comporta bene. Sa che penso? Penso che lui creda che Emma sia sua madre».
La scrofa attraversò il recinto dirigendosi a un rubinetto dal quale gocciolava acqua in una vasca, e Stupido la seguì. Lei bevve, e così lui. Poi Emma trotterellò ancora da noi, guardandomi con passione, e Stupido la raggiunse e le leccò via la paglia dalla schiena liscia. L’ammirava terribilmente.
All’improvviso un umore giocoso si impossessò del cane. Si buttò sulla pancia e abbaiò un paio di volte verso il maiale. Poi partì correndo in circolo, abbaiando, piombandole accanto, gettandosi sulla schiena, provocandola, geloso dell’attenzione che ci dimostrava. Lei grugnì e gli andò dietro sulle sue gambette bianche, e lui si fece raggiungere. Lei lo spinse contro il recinto, con i suoi cento chili che rotolavano addosso al cane che le mordicchiava gentilmente le orecchie. Poi lei perse la pazienza e gli morse una gamba. Con un ululato, lui si diresse zoppicando verso il giaciglio di paglia e ci si stese sopra.
«Avranno nostalgia l’uno dell’altra», dissi.
«Non per molto. Fra un paio di giorni la macello».
Lo fissai. «Macellarla?».
«E’ un fantastico maiale da pancetta. Guardi che spalle».
Emma mi sorrise come se fossimo dovuti rimanere insieme per sempre.
«Le sparerà?».
«Si appendono per le zampe posteriori e gli si taglia la gola. Così perdono bene tutto il sangue».
Eccolo lì, con la sua faccia calma e barbuta e Pace scritto sulla porta, che pianificava l’assassinio di quell’amabile creatura. Dovetti scappare, via da lui e dal giocoso sorriso di quel maiale adorante. Tirai fuori il portafoglio e gli contai trecento dollari sul suo palmo calloso.
Stupido non si lamentò quando lo tirammo via dal recinto, legato a una fune, ma sembrò piangere in silenzio mentre cercava di liberarsi dalla corda annodata, e l’infelice Emma grugnì e sospirò fino a quando non arrivammo al cancello. Lo issammo nella familiare e chiudemmo lo sportello posteriore. Allora cominciò a ululare, a grattare ai finestrini, scivolando sulle zampe, i suoi urli perforavano le orecchie degli asini lontani e i polli si misero a chiocciare quasi presi dal panico.
Maria.
Guardai ancora nel recinto. Il maiale era sulle zampe posteriori e cercava di vedere oltre lo steccato, ma era troppo basso, e si riusciva a scorgere soltanto il grugno.
Maria.
Salutai Griswold e salii in macchina mentre il cane quasi impazzito saltava e graffiava il finestrino posteriore.
«Le piacerebbe un bell’arrosto di maiale?», disse Griswold.
«Non particolarmente».
«Gliene farò avere uno».
Maria.
«Griswold», dissi. «Sa che farei se fosse mio?».
Sputò del tabacco.
«Lo chiamerei Maria, come mia madre».
«Divertente».
«Non intendo paragonare mia madre a un maiale, Griswold, ma anche lei sorrideva sempre».
«Davvero?».
Misi in moto.
«Quanto vuole per lei, Griswold?».
«Non è in vendita».
«Quanto?».
Si avvicinò e appoggiò le mani sul tetto della macchina.
«La vuole veramente?».
«Sì».
Mi guardò strizzando gli occhi come uno che prende la mira sulla canna del fucile.
«Trecento».
«Detesto essere crudo, Griswold, ma lei è uno stronzo. Affare fatto».
Sorrise.
Levai altri trecento dollari e lui li intascò. Adesso Roma era proprio andata. Feci retromarcia fino al recinto e spingemmo Maria nel bagagliaio. Stupido era fuori di sé dalla felicità, saltava così in alto da picchiare la testa contro il tetto. Grugnendo eccitato, il maiale slittava sul pavimento e alla fine trovò una posizione comoda e sicura in un angolo. Stupido vide una macchia sulla sua pancia e prontamente la cancellò con la lingua.
«Che gli dà da mangiare, Griswold?».
«Spazzatura. Ho un accordo con il Decker Inn. Tutta la spazzatura che voglio per cinque dollari al mese. Lo può fare anche lei. Si porti la pattumiera».
«No, grazie. Da ora in poi questo maiale mangerà solo cereali e grano».
Griswold sputò e mi guardò prendendomi in giro.
«Vuole comprare una buona pattumiera?».
«Ce l’ho già».



XXV

Il recinto per gli animali era sulla metà a nord del mio acro di terreno, dietro a una siepe d’edera che divideva la proprietà. Era piccolo, attaccato a un capanno dove Tina nel suo periodo equestre aveva tenuto un paio di cavalcature.
Volevo fare una sorpresa ad Harriet. Sapevo che il ritorno del cane l’avrebbe fatta felice e contenta, e quanto al maiale, bene, almeno non era un altro bull terrier. Inoltre ad Harriet i maiali piacevano. Ce n’erano stati molti nella sua infanzia, nella fattoria vicino a Sacramento dove era cresciuta. Più silenziosamente che potei, passai con la familiare attraverso l’apertura della siepe e feci retromarcia fino al cancello del recinto.
La mia idea era di presentare ad Harriet una scena rustica e idilliaca, il cane e il maiale giocosi sulla terra pulita e nuda del recinto, ma questo era ridotto male perché nessuno se ne era mai occupato, era pieno di erbacce e disseminato da buchi di tartarughe. Non essendo un patito di sterpaglie, rimandai la pulizia.
Con un paio di tavole costruii una rampa per far scendere Maria dalla macchina. E lei affrontò la discesa senza timore, scivolando nel recinto sul sedere. Stupido la raggiunse in un balzo e io chiusi il cancello. Annusando e grugnendo dal piacere, il maiale fece una rapida ispezione della sua nuova casa, correva sulle erbacce con piccoli passi veloci. Poi si mise a lavorarci sopra, strappandole alla radice. Stupido fece un paio di tentativi e subito perse interesse. Misi un catino sotto la pompa e lo riempii d’acqua. Andarono a bere l’uno accanto all’altra.
Il maiale sorridente non mi levò mai gli occhi di dosso, e io sentii che saremmo andati molto d’accordo. Appollaiato sul recinto, guardavo il suo muso che scavava un solco fra i monacelli delle tartarughe e il suo dorso rotondo luccicava come una perla enorme alla luce del sole. Emanava confortanti vibrazioni borghesi di stabilità e di fede nello spirito santo. Era di nuovo mia madre. Con il grugno incrostato di terra, si allungò con indolenza sulla terra calda. Stupido si lasciò cadere accanto a lei e le lavò il muso. Non l’avevo mai visto così contento. I suoi problemi erano svaniti. Ora c’era dolcezza nella sua espressione. La cupa tristezza se ne era andata.
«Henry?».
Detti uno sguardo ad Harriet che mi stava osservando dalla siepe. Le feci cenno di avvicinarsi. Esitava.
«Cos’è?».
Le feci un altro cenno.
Sembrava a disagio mentre si avvicinava al recinto attraverso le erbacce intorno alla macchina. Il maiale e il cane erano stesi l’uno accanto all’altro, e le mammelle del maiale pendevano come palloni sgonfi. Quando Harriet li vide, qualcosa le si ruppe dentro. Sentii che stava andando in pezzi. I suoi occhi si spostarono dal recinto e si posarono su di me. Erano pieni di confusione, pietà e disperazione. Senza dire nulla, si girò e tornò verso casa.
Rimasi seduto eretto e la guardavo allontanarsi da me, sempre di più, camminava senza voltarsi, oltrepassò la siepe, il garage, entrò attraverso la porta di servizio nelle profondità della grande casa solitaria.
Guardai oltre la casa, verso l’orizzonte della baia blu. Scintillando nella luce del sole, un 747 ronzava remoto mentre faceva un ampio giro sul mare e ripiegava sulla terraferma, dirigendosi verso Chicago, New York o forse Roma. Il mio sguardo cadde sul tetto bianco della casa fatta a ipsilon, sulle tende di organza alle finestre di Tina, sui rami del grande albero che sosteneva ancora i resti di una casa di legno che Dominic aveva costruito da ragazzo, poi i miei occhi si spostarono sul parafango arrugginito della macchina di Denny che sporgeva dal garage e sulla malridotta rete da basket di Jamie.
E piansi.