“QUANTE VOLTE GETTIAMO LE NOSTRE VITE AL VENTO DI ALTRE ESISTENZE INAFFIDABILI?”.
LEGGERE MURAKAMI HARUKI IN OSPEDALE, TRA SPUTNIK E BEATNIK
Linda Terziroli
Pangea
Posted On Febbraio 07, 2020,
Per festeggiare, il 12 gennaio scorso, il suo settantunesimo compleanno, mi sono letta il suo La ragazza dello Sputnik (traduzione di Giorgio Amitrano, come quasi tutti i suoi testi, stampa Einaudi). Il libro, dalla copertina così rossa da sembrare maoista, rispecchia lo stile delle altre, un colore dominante e un’immagine stilizzata e surreale. Rispetto agli altri mattoni murakamiani, però, questo romanzo si legge in un attimo, poco più di duecento pagine, e me lo sono letta tutto tra le bianche pareti di un ospedale: sotto le finestre scorreva la vita della mia città. Infatti, Haruki Murakami, il meno giapponese tra gli scrittori giapponesi di culto, è talmente assurdo e fantasioso, bizzarro e affilato, da non lasciare scampo e da permettere un salvifico distacco emotivo dalla realtà.
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Il fatto che, il 4 ottobre del 1957, l’Urss abbia lanciato in orbita, dalla base spaziale kazaka di Baykonur, lo Sputnik, il primo satellite artificiale della storia, o che il successivo 3 novembre, lo Sputnik 2 sia stato lanciato nello spazio con la cagnetta Laika – come è scritto in epigrafe al romanzo – è irrilevante, non conta un bel niente nel romanzo. Ma il fatto che la cagnetta Laika, la prima creatura vivente che abbia viaggiato nel cosmo non sia stata mai ritrovata, insieme al satellite (che non fu recuperato), questo sì è ciò che conta e che rappresenta una sorta di correlativo oggettivo del romanzo: “la cagnetta venne sacrificata alla ricerca sugli esseri viventi nello spazio”. Al centro di gravità narrativo troviamo Sumire, una ragazzina magrissima e orfana (tanto per cambiare, i protagonisti di Murakami spesso hanno perduto la madre), disordinata, che fuma tante sigarette e sogna di diventare una scrittrice, ma non ha mai avuto un ragazzo. Non si è mai innamorata. O meglio: “Detto in sintesi, Sumire era un’inguaribile romantica, testarda e cinica, completamente inesperta della vita e del mondo. Una volta che cominciava a parlare, poteva andare avanti anche all’infinito, ma quando l’interlocutore non le andava a genio (come le accadeva con la quasi totalità del genere umano), non apriva bocca. Fumava troppo, e quando prendeva la metropolitana perdeva regolarmente il biglietto. Aveva la tendenza, se colta da una delle sue ispirazioni, a dimenticarsi di mangiare, e infatti era magra come gli orfani di guerra dei vecchi film italiani, e aveva gli occhi eternamente spalancati”.
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Sumire è fissata con Jack Kerouac e si porta sempre con sé una copia di Sulla strada o Viaggiatore solitario. Legge, appena possibile, le pagine, le sottolinea a matita e ne manda a memoria interi passi, come questo: “Nessun uomo dovrebbe vivere senza aver sperimentato almeno una volta la sana anche se noiosa solitudine di una dimora tra i boschi, scoprire di dover dipendere solo da se stessi, e per questo tirar fuori la vera forza interiore”. Quando Sumire incontra, per la prima volta, la musicista coreana Myū, la donna (non una ragazza) che le farà perdere la testa, ovviamente tira in ballo Kerouac. Chi ci racconta la strana storia di Sumire è un insegnante elementare, un amico compagno di università (facoltà di lettere), che è innamorato perdutamente (e senza speranza) di lei. Il triangolo amoroso non quadra, perché Myū, misteriosamente, non riesce ad amare. Myū e Sumire si incontrano, per la prima volta, a un banchetto di nozze, in un lussuoso albergo di Akasaka (dove spesso si aggirano i personaggi di Murakami) e lì prende forma il soprannome di Myū, “la ragazza dello Sputnik”. Per una fumosa confusione di suoni e assonanze, tra Sputnik e Beatnik. “Myū aveva già sentito nominare Jack Kerouac, e sapeva vagamente che era uno scrittore. Ma non riusciva a ricordare di che tipo. – Kerouac… Kerouac… non c’entrava qualcosa con gli Sputnik? Sumire non capì cosa intendesse Myū.
– Sputnik? Ma lo Sputnik è il satellite artificiale, il primo lanciato nello spazio dall’Unione Sovietica negli anni Cinquanta, no? Jack Kerouac è uno scrittore americano. Va bene che come periodo ci siamo…
– Appunto, non è così che chiamavano un gruppo di scrittori di quel periodo? – disse Myū, e con la punta delle dita disegnò dei cerchi sul tavolo come se frugasse il fondo di un vaso, di chissà quale forma, alla ricerca di un ricordo lontano.
– Sputnik?
– Era il nome di una corrente letteraria. Sai, quei gruppi di scrittori… come in Giappone lo Shirakabaha. Fu a quel punto che Sumire finalmente capì.
– Beatnik! Myū si asciugò delicatamente le labbra con il tovagliolo.
– Beatnik, Sputnik… Mi confondo sempre con questo tipo di parole. Come, che so, la Restaurazione Kenmu o il Trattato di Rapallo. Cose che appartengono al passato.
Ci fu una breve pausa, che sembrò evocare lo scorrere del tempo”. Ma Sumire aveva in animo, prima di innamorarsi perdutamente, di scrivere un romanzo ottocentesco, uno di quei romanzi che intrecciano anima e destino. La scrittura, ahimè, è però un demone, inafferrabile. “ – Ho la testa piena di cose che vorrei scrivere. È come un assurdo magazzino stipato di roba – disse Sumire. – Immagini, scene, frammenti di discorsi, figure di persone… a volte queste cose sono così scintillanti, piene di vita, e sento che mi urlano: Scrivici! In quei momenti mi sembra che stia per nascere un romanzo meraviglioso. È come se stessi per andare in un posto completamente nuovo. Ma appena mi siedo al tavolo e provo a scrivere, mi rendo conto che qualcosa di essenziale è andato perduto. L’esperimento è fallito: non ho prodotto nessun cristallo, e mi ritrovo in mano dei sassi. E non sono andata proprio da nessuna parte”.
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Per scrivere occorre partire, ma per partire è necessario perdersi. Forse, quindi, se quello che scriviamo ha un valore, quando succederà, saremo scomparsi nel nulla, per sempre, perduti nello spazio più profondo, irrintracciabili. Come l’eroica cosmonauta Laika, e il suo Sputnik. Infatti per accorgersi di quello che succede nelle nostre vite, bisogna riuscire a spiarsi da fuori e per farlo, occorre più che perdersi, dimenticarsi, essere dimenticati. Un po’ quello che racconta Sumire nei suoi scritti – trovati solo quando lei è scomparsa misteriosamente, “svanita come fumo” – che raccontano di Myū. Per distrarsi era andata in un famoso Luna Park, in una cittadina svizzera. Girava senza meta, mentre un organo suonava Il bel Danubio blu. Poi al botteghino della ruota panoramica, prende il biglietto. Per l’ultimo giro. Il bigliettaio “aveva la barba bianca, lunga sul mento, i baffi ingialliti dal fumo. Tossiva, e aveva le guance rosse come se fossero state esposte al vento del nord”. Sulla cabina rossa della ruota panoramica non c’era nessuno, oltre a lei. Le cabine vuote “ruotavano oziosamente nell’aria. Un’immagine del mondo che si avvicinava stancamente alla fine”. “La ruota, come un vecchio pachiderma che si solleva a fatica, cominciò la sua salita. Guardando in basso, le varie baracche e attrazioni che riempivano il parco rimpicciolivano a vista d’occhio, mentre le luci della città emergevano pian piano dall’oscurità. Sulla destra si vedeva il lago, dove le barche per le escursioni, tutte illuminate, si riflettevano dolcemente nell’acqua. Anche le montagne, in lontananza, erano punteggiate dalle luci dei villaggi”. Myū cerca febbrilmente, con un binocolo, la sua casa, il suo appartamento. Quando siamo in alto cerchiamo di aggrapparci, con la mente e con lo sguardo, a ciò che di più piccolo possediamo. Cerchiamo di riconoscerci. Una volta trovata la palazzina, quasi con la “coscienza sporca”, Myū fruga tra gli interni di casa sua. Aveva lasciato la finestra aperta e la luce accesa. Ma la ruota panoramica di colpo si spegne bruscamente insieme alle luci, mentre cala il silenzio più assoluto nel parco giochi. “Dove era andato a finire quel vecchio? Probabilmente aveva bevuto, pensò. Il colorito, quel respiro affannoso, la voce impastata… sì, non c’era dubbio”. Quante volte affidiamo, gettiamo le nostre vite al vento di altre esistenze inaffidabili? A quali incertezze esponiamo il nostro elegante mucchietto di ossa?
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Nel buio del luna park svizzero inizia a fare freddo. Myū torna a spiare tra le stanze del suo appartamento illuminato, è già passata la mezzanotte. Ma nella sua stanza vede, improvvisamente, un uomo, nudo. Non può aver sbagliato appartamento, riconosce i mobili, i fiori nel vaso, i quadri alle pareti. Ma cosa ci fa quell’uomo nudo in casa sua? Come ha fatto ad entrare? Ma c’è anche una donna, dentro l’appartamento, con una camicetta bianca a maniche corte, una gonna corta di cotone blu. E quella donna è lei, Myū. Vedere noi stessi da lontano, dall’alto, con un binocolo può farci smarrire, perdere per sempre. Definitivamente. Solo un filo è quello che ci riporta in vita. Il telefono, protagonista indiscusso dei romanzi di Murakami, quando finalmente riceviamo quella telefonata da chi avevamo temuto di perdere per sempre. Quante volte, nella nostra vita, abbiamo immaginato, sognato, sperato, scongiurato che quell’apparecchio telefonico squillasse? “Così continuiamo a vivere la nostra vita. Segnati da perdite profonde e definitive, derubati delle cose per noi più preziose, trasformati in persone diverse che di sé conservano solo lo strato esterno della pelle; tuttavia, silenziosamente, continuiamo a vivere. Allungando le mani, riusciamo a prenderci la quantità di tempo che ci è assegnata, e poi la guardiamo mentre indietreggia alle nostre spalle. A volte, nel ripetersi dei gesti quotidiani, sappiamo farlo anche con destrezza”. Ma non è forse la nostra vita perennemente un attendere, immaginare, sognare quella telefonata? E lei che finalmente ci chiama, ci dice di essere tornata? E noi che le chiediamo dove è adesso? Dimenticando, per un attimo, che lei è lì sospesa, nella solita cabina telefonica. Ma poi cade la linea. O, semplicemente, lei ha riagganciato. E il ricevitore, che noi rimaniamo a guardare, fissare, a decifrare, rimane tra le nostre mani, sordo ai nostri desideri, muto, mentre noi aspettiamo, invano, che il telefono squilli di nuovo.
Linda Terziroli