venerdì 28 febbraio 2020


IL POMERIGGIO IMPROVVISO
Estratto da "Tutti i racconti, Vol.2"
J.G. Ballard

(The Sudden Afternoon, Fantastic Stories, 1963)

A sorprendere Elliott fu la subitaneità dell'attacco. Judith e i bambini erano andati sulla costa per il fine settimana, a godersi l'ultimo sole estivo, lasciandolo  solo  in  casa,  e  quei  tre  giorni  erano  stati  una  piacevole alternanza  di  stanze  silenziose,  pasti  consumati  nelle  ore  più  strane,  e qualche piccolo lavoro di falegnameria in sala hobby. Aveva trascorso la domenica mattina leggendo tutte le recensioni sui giornali e aggiungendo con cura una mezza dozzina di titoli alla lista di libri che non si sarebbe mai potuto permettere di comprare, tanto meno di leggere. Questi esercizi
nostalgici, come il Martini preparato con cura prima di pranzo, facevano parte di un rituale stabilito per i suoi brevi momenti da scapolo. Decise di
fare una passeggiata tonificante a Hampstead Heath dopo pranzo, tornando in tempo per rassettare tutto prima del rientro di Judith, previsto per quella sera.
Invece, un forte attacco di quella che all'inizio gli sembrò influenza lo colse subito prima dell'una. Un mal di testa pulsante e una temperatura in ascesa lo indussero a frugare nell'armadietto dei medicinali in bagno, solo per scoprire che Judith si era portata dietro l'aspirina. Seduto sull'orlo della vasca,  la  testa tra le mani,  tentò di  contenere lo  spasmo, che sembrava comprimere  i  muscoli  di  un  qualche  organo  interno,  schiacciandogli  il cervello come la polpa di un frutto in un sacchetto di tela.
«Judith!»  sbraitò,  rivolto  alla  casa  vuota. «Maledizione!»  Il  dolore cresceva, un susseguirsi di punture che gli piantavano spilli d'argento nel cranio. Dopo un istante di totale impotenza, si trascinò fino in camera e si buttò  sul  letto  vestito,  schermandosi  gli  occhi  dalla  debole  luce  che arrivava fin lì dalla brughiera.
Dopo  qualche  minuto  l'attacco  cominciò  lentamente  a  diminuire, lasciandogli un'emicrania persistente e un senso d'inerzia totale. Trascorse
l'ora  successiva  a  guardare  la  sua  immagine  nello  specchio  da  toeletta, vedendosi  impastoiato  al  letto  come  un  manzo  pronto  al  macello.  Vide
oltre la finestra un bambino che giocava sotto le querce in fondo al parco, tentando pazientemente di afferrare le foglie che salivano a spirale verso il cielo. A venti  metri  di  distanza, un tipo piccolo dall'aspetto banale  e la carnagione scura guardava tra gli alberi.
In un certo qual modo, quella scena placò Elliott, e finalmente il mal di testa scomparve, come curato per magia dai rami che ondeggiavano e dalla figura del bambino chino tra gli alberi.
«Strano...» mormorò tra sé, ancora sbigottito dalla ferocia dell'attacco. Judith,  comunque,  sarebbe  stata  scettica;  lo  aveva  sempre  accusato  di essere ipocondriaco. Era un peccato che non fosse stata lì, invece che stesa su una spiaggia a Worthing, ma almeno ai bambini era stato risparmiato di vedere loro padre che mugolava per il dolore.
Incerto se scendere dal letto, per paura di provocare un altro attacco - forse era stato la conseguenza di un virus violento ma di breve durata? - Elliott rimase steso, con il profumo della pelle di sua moglie sul cuscino
che gli ricordava la sua infanzia e i capelli profumati di sua madre. Era stato  cresciuto  in  India,  e  si  ricordava  ancora  di  quando  suo  padre  lo portava in barca a remi lungo il fiume, e l'imponente e placido sfondo del
Gange diventava viola nella luce del tardo pomeriggio. Il colore terra bruciata delle banchine di Calcutta erano ancora vivido dopo trent'anni.
Sorridendo di quei ricordi e dell'immagine di suo padre che remava con un movimento ritmico da cui si sentiva cullato, Elliott guardò il soffitto, appena distratto dal clacson di una macchina in lontananza.
Poi si alzò a sedere di scatto, guardando la stanza tutto intorno. «Calcutta? Ma che diavolo...»
Quel ricordo era completamente falso! Non era mai stato in India in tutta la sua vita, né in qualunque altra parte dell'Oriente. Era nato a Londra e vi aveva trascorso tutta la vita, a parte un periodo di due anni dopo la laurea, passato negli Stati Uniti. Quanto a suo padre, che era stato catturato dai tedeschi  mentre  combatteva  con  l'Ottava  Armata  in  Nordafrica  e  aveva trascorso la maggior parte della guerra in un campo di prigionia, Elliott non ne sapeva più nulla dai tempi della sua adolescenza.
Eppure  il  ricordo  di  quella  gita  in  barca  sul  Gange  era  stato straordinariamente vero. Tentando di scuotersi di dosso gli ultimi residui del mal di testa, Elliott fece scivolare i piedi sul pavimento. Le pulsazioni alla testa erano riprese, ma stranamente diminuivano quando lasciava che le immagini del porto di Calcutta gli riempissero la mente. Qualunque ne fosse l'origine, il paesaggio era innegabilmente indiano, e poteva vedere il corso del Gange, cosparso di sambuchi a vela, e perfino alcune pire funebri che bruciavano sulle rive.
Ma a sorprenderlo più di ogni altra cosa erano le associazioni emotive legate  all'idea  di  suo  padre  che  remava,  il  senso  di  sicurezza  che  lo pervadeva a ogni movimento ritmico di quella figura scura, il cui volto era nascosto dall'ombra del sole al tramonto.
Domandandosi dove avesse trovato questa impressione visiva così forte,
che era arrivata a tradursi in un ricordo ricco di sfumature intensamente
personali, Elliott uscì dalla stanza da letto e scese in cucina. Erano le due e
mezzo, quasi troppo tardi per il pranzo, e guardò senza interesse le file di
uova e di bottiglie di latte in frigorifero. Dopo pranzo, decise, si sarebbe
steso sul divano in soggiorno e avrebbe letto o guardato la televisione.
Pensando proprio alla TV, Elliott si rese conto che il falso ricordo del Gange doveva essere quasi certamente un frammento dimenticato di un documentario di viaggio, magari uno che aveva visto da bambino. L'intera sequenza  del  ricordo,  con  l'immagine  nitida  della  barca  che  tagliava l'acqua color porpora e la lunga carrellata sul porto, era tipica dello stile dei  documentari  realizzati  negli  anni  Quaranta,  e  poteva  quasi  vedere  i titoli di testa, accompagnati da un rullo di tamburi.
Rassicurato, e ipotizzando che fosse stato il mal di testa a far spazio a
quella memoria visiva - gli schermi cinematografici sempre un po' fuori
fuoco  degli  anni  di  guerra  gli  avevano  affaticato  non  poco  gli  occhi  -
Elliott cominciò a prepararsi il pranzo. Ignorò il cibo che Judith gli aveva
lasciato e frugò tra i barattoli di spezie e di sottaceti nella dispensa, dove
trovò  del  riso  e  un  pacchetto  di  curry  in  polvere.  Judith  non  era  mai
riuscita a padroneggiare la complessa procedura necessaria a preparare un
vero curry, e i tentativi occasionali dello stesso Elliott si erano guadagnati
solo dei sorrisi divertiti. Oggi, però, con tutto il tempo che voleva e senza
interferenze, ce l'avrebbe fatta.
Senza fretta, Elliott cominciò a preparare il piatto, e ben presto la cucina si  riempì  di  vapore  e  degli  odori  intensi  della  polvere  di  curry  e  del chutney. Fuori, il pallido sole aveva ceduto il campo a nuvole scure e alla pioggia del primo pomeriggio. Il bambino se n'era andato, ma la figura solitaria sotto le querce era ancora seduta sulla panchina, con il bavero della giaccia rialzato a proteggersi il collo.
Deliziato dall'intruglio che cominciava a cuocere, Elliott si rilassò sul
suo  sgabello,  e pensò  alla sua  attività  di  medico. Normalmente sarebbe


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stato  costretto  a  tenere  una  sessione  chirurgica  serale,  ma  un  sostituto
aveva acconsentito a prendere il suo posto, con suo grande sollievo, visto
che una delle pazienti era un caso particolarmente difficile - una nevrotica
in piena regola, il tipo di pericolo che tutti i dottori si trovavano a dover
affrontare - che aveva addirittura minacciato di denunciarlo all'ordine dei
medici per cattiva condotta, anche se le accuse erano talmente grottesche
che  la  commissione  disciplinare  non  avrebbe  mai  potuto  prenderle  sul
serio.

Il curry era forte, e un dolore acuto sotto lo sterno segnò l'avvio di una
solenne indigestione. Maledicendo la iella, Elliott si versò un bicchiere di
latte,  rimpiangendo  in  anticipo  il  gusto  del  curry  che  sentiva  ancora  in
gola.
«Sei messo male, amico» disse tra sé, divertito e ironico. «Dovresti farti vedere da un dottore.»
E schioccando le dita, si alzò di scatto. Aveva sperimentato il suo
secondo falso ricordo! Tutta la fantasticheria sulla sua attività di medico, il
sostituto e la paziente, era una finzione totale, che non aveva il minimo
rapporto  con  la  sua  vita.  Faceva  il  chimico  ricercatore,  lavorava  nel
dipartimento di biochimica di uno degli istituti di ricerca sul cancro con
sede  a  Londra,  ma  i  suoi  contatti  con  medici  e  chirurghi  erano
praticamente nulli.
Eppure  l'impressione  di  svolgere  l'attività,  di  avere  i  pazienti  e  di
condividere  tutti  gli  altri  impegni  di  un  vero  medico,  era  anch'essa
decisamente forte e persistente - in realtà, più che un ricordo, era un'intera
area di consapevolezza, non meno valida dell'immagine del suo laboratorio
di biochimica.
Con  un  senso  di  disagio  crescente,  Elliott  sorseggiò  timidamente  il bicchiere  di  latte,  chiedendosi  perché  quelle  immagini  senza  fonte apparente  si  stessero  impiantando  nella  sua  mente  come  frammenti dell'intelligenza  di  qualcun  altro.  Andò in  soggiorno  e si  sedette  con le spalle alla finestra, esaminandosi  con tutto  il distacco  professionale  che riuscì a evocare. Alle sue spalle, sotto gli alberi nel parco, l'uomo sulla panchina  sedeva  silenzioso  sotto  la  pioggia,  scrutato  a  distanza  di sicurezza da un bastardino senza padrone.
Dopo una pausa per riprendere la calma, Elliott iniziò deliberatamente a
esplorare  questo  secondo  falso  ricordo.  Notò  subito  che  il  fastidio  di
stomaco  si  placava,  come  se  diventando  la  persona  di  quelle  immagini


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frammentarie   riuscisse   ad   alleviarne   il   peso   sulla   sua   mente.
Concentrandosi, riuscì a vedere una grande finestra sopra una massiccia
scrivania di mogano, un divano di pelle imbottito, scaffali pieni di libri e
certificati incorniciati alle pareti: chiaramente lo studio di un medico.
Lasciata la stanza, scese una rampa di scale coperte di moquette ed entrò in
una sala con i pavimenti di marmo. In una nicchia sulla sinistra c'era una
scrivania, e una segretaria carina con i capelli rossi alzò gli occhi e gli
sorrise da dietro la macchina da scrivere. Poi uscì in strada, ovviamente in
un  quartiere  benestante  della  città,  dove  le  Rolls-Royce  e  le  Bentley
superavano in numero le altre auto. Duecento metri più in là, autobus a due
piani attraversavano un incrocio familiare.
«Harley Street!» esclamò Elliott. Mentre si tirava su a sedere e guardava il mobilio familiare del soggiorno e le querce grondanti acqua nel parco, ristabilendo  a  fatica  la  realtà  nella  propria  mente,  vide  in  un  lampo  la facciata  del  consultorio  e  una  targa  sfocata  sulle  colonne  color  crema. Sopra il portico campeggiava in caratteri dorati il numero 259.
«Harley Street 259? Ma chi diavolo ci lavora?» Elliott si alzò e andò alla
finestra, guardando la brughiera, poi si spostò in cucina, fiutando l'aroma
residuo  del  curry.  Si  sentì  torcere  lo  stomaco  da  un  altro  spasmo  di
indigestione,  e  tornò  immediatamente  a  concentrarsi  sull'immagine  del
consultorio di quel medico misterioso. Mentre il dolore tornava a sparire
ebbe per un attimo l'impressione di vedere una donna piccola e di mezza
età  in  una  corsia  d'ospedale,  con  il  braccio  sinistro  ingessato,  e  poi
un'immagine dell'ingresso del Middlesex Hospital riservato al personale,
nitida come una foto.
Elliott  raccolse  il  giornale  e  tornò  in  soggiorno,  cercando  non  senza
difficoltà  una  posizione  comoda.  L'assoluto  nitore  dei  ricordi  lo  aveva
convinto  del  fatto  che  non  si  trattasse  di  immagini  confuse  tratte  da
documentari  o  elaborate  dalla  sua  immaginazione.  Più  le  esplorava  più
tendevano a consolidarsi in una realtà tutta loro, rifiutandosi di scolorirsi o
di  svanire.  Oltre  tutto,  il  contenuto  emotivo  era  troppo  potente.  Le
associazioni  legate  alla  scena  sul  fiume  erano  state  rassicuranti,  ma
l'atmosfera al consultorio era stata carica di esitazioni e di ansia, come se
la persona cui erano appartenute in origine fosse in preda a un incubo.
Il mal di testa continuava a torturargli le tempie, ed Elliott si spostò al
mobile bar e si preparò una dose abbondante di whisky e soda. Possibile
che, per un insieme di incredibili circostanze, fosse diventato il recettore
dei ricordi disincarnati di un bambino indiano di Calcutta e di un medico


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con lo studio in Harley Street?
Controllando le notizie in prima pagina, lesse:

MEDICO INDIANO RICERCATO
per la misteriosa morte della moglie
La polizia sta continuando le ricerche dello psichiatra di Harley Street, il dottor Krishnamurti Singh. Scotland Yard ritiene che possa fornire elementi utili sulla morte di sua moglie, la signora Ramadya Singh...
Con un senso di autentico sollievo, Elliott chiuse il giornale e lo gettò via.  Ecco  spiegati  i  due  ricordi  immaginari!  Quella  mattina,  prima dell'attacco di influenza, aveva letto la notizia senza neanche rendersene conto, per poi metterne in scena i dettagli per effetto della febbre. Quel virus particolarmente aggressivo - una specie rara e dalla vita brevissima che doveva averlo contagiato  in laboratorio - aveva agito con le stesse modalità   degli   allucinogeni,   creando   un'immagine   interiore   di un'autenticità quasi fotografica. E anche il curry doveva aver fatto la sua parte nell'alimentare quelle fantasie.
Elliott gironzolò per la stanza ruminando, e ascoltando la pioggia che picchiava con furia alla finestra. Gli bastò poco per rendersi conto che altri ricordi  allucinatori  giacevano  dietro  la  superficie  della  sua  mente,  tutti legati all'identità del medico indiano scomparso.
Incapace  di  allontanarli,  si  lasciò  deliberatamente  trascinare  in  una
fantasia a occhi aperti. Forse l'associazione tra quella pioggia funerea e il
dolore incessante sotto lo sterno furono responsabili del senso di presagio
che continuava a crescere in lui. Una serie di idee ancora informi salì verso
il livello conscio, e Elliott si stirò nella poltrona, con un senso crescente di
disagio.  Senza  rendersene  conto,  si  trovò  a  pensare  alla  morte  di  sua
moglie, un evento immerso nel dolore e in una violenza particolare, quasi
avvolta nel sogno. Per un istante si trovò quasi nella mente di sua moglie,
in punto di morte, in fondo a un immenso lago, con uno squarcio lontano
di  cielo  a  separarlo  da  enormi  volumi  d'acqua  che  gli  premevano  sul
torace...
Elliott  si  risvegliò  da  quell'incubo  zuppo  di  sudore,  con  la  visione
tremenda della morte di sua moglie ancora davanti agli occhi. Judith era
viva,  naturalmente, e si  trovava con  sua  sorella  alla  casa  sulla  spiaggia
vicino a Worthing, ma la visione del suo annegamento gli era giunta con la

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forza e l'urgenza di un segnale telepatico. «Judith!»
Alzatosi,  Elliott  corse  al  telefono  dell'ingresso.  Le  dimensioni psicologiche  di  quella  scena  di  morte  erano  tali  da  convincerlo  di  non averla solo immaginata.
Il mare!
Afferrò la cornetta e contattò l'operatore. Forse in quel preciso istante Judith stava nuotando da sola mentre la sorella preparava il tè insieme ai bambini,  in  un  punto  dal  quale  poteva  vedere  la  spiaggia,  ma  senza immaginare minimamente il pericolo incombente...
«Centralino?  È  urgente.  Devo  parlare  con  mia  moglie.  Credo  sia  in pericolo. Può mettermi in contatto con Calcutta, al numero 30331?»
L'operatore esitò. «Calcutta? Mi rincresce, ma devo passarle le chiamate intercontinentali...»
«Cosa? Ma io non voglio...» Elliott si interruppe. «Che numero le ho chiesto?»
«Calcutta, il 30331. Ora le passo...»
«Aspetti!» Elliott si appoggiò alla finestra. La pioggia batteva contro i vetri smerigliati. «Mi sono sbagliato. Volevo dire Worthing, il 303...»
«È ancora lì, signore? Worthing tre zero tre...» La voce restò in attesa. Elliott abbassò stancamente il ricevitore. «Dovrò controllare» disse, con voce impastata. «Il numero era sbagliato.»
Sfogliò l'agendina del telefono, rendendosi conto che sia lui sia Judith
sapevano il numero da anni e non si erano mai curati di trascriverlo.
«È ancora lì, signore?» La voce dell'operatore si era fatta più aspra.
Poco dopo, quando fu collegato al servizio informazioni, si accorse di
non ricordare neanche il nome e l'indirizzo di sua cognata.
«Calcutta, 30331.» Elliott ripeté il numero mentre si versava un whisky.
Mentre riprendeva il controllo di sé, si rese conto che l'idea stessa di un
messaggio  telepatico  era  ridicola.  Judith  era  in  ottima  salute  e  stava
tornando a Londra con i bambini, e lui aveva completamente equivocato
l'immagine  della  donna  in  punto  di  morte.  Restava,  però,  il  numero  di
telefono. La sequenza misteriosa gli fluiva dalla bocca con la familiarità
inconsapevole  che  ne  deriva  da  un  uso  ripetuto.  E  c'era  una  massa  di
ricordi simili che aspettavano solo di essere evocati nella realtà, come se
una  mente  in  fuga  avesse  trovato  riparo  nel  suo  cervello.  Raccolse  il
giornale dal pavimento.



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...il  dottor  Krishnamurti  Singh.  Scotland  Yard  ritiene  che  possa  fornire elementi utili...
'Fornire elementi utili': il tipico eufemismo di Fleet Street, una parte del raffinato  codice  stabilito  tra  i  giornali  e  i  lettori.  Un  giornale  francese, senza  i  limiti  imposti  dalla  legge  sulla  diffamazione  a  mezzo  stampa, avrebbe sbraitato: 'Barbablù! Assassino!'

Gli  investigatori  si  trovano  al  capezzale  della  signora  Ethel  Burgess,  la donna a ore che lavorava dal dottore e dalla signora Singh, e che ieri è stata trovata svenuta ai piedi delle scale...
La signora Burgess! Immediatamente, un'immagine della donna anziana, con un viso che faceva pensare a una mela raggrinzita, gli apparve davanti agli occhi. Era stesa su un letto d'ospedale al Middlesex, guardandolo con un'espressione spaventata e piena di rimprovero...
Il bicchiere, mezzo pieno di whisky, sbatté contro la base del caminetto,
fracassandosi. Elliott guardò i frammenti di vetro bagnato tra i suoi piedi,
poi  si  sedette  al  centro del  divano  con la testa  tra le mani,  tentando di
trattenere  il  flusso  impetuoso  dei  ricordi.  Ma  non  poté  fare  a  meno  di
pensare alla scuola medica di Calcutta.  I  volti quasi familiari degli altri
studenti gli passarono davanti in una processione confusa. Ricordò il suo
interesse appassionato all'idea di sviluppare un approccio scientifico alle
branche  più  oscure  dello  yoga  e  della  parapsicologia  indù,  la  società
studentesca  che  aveva  creato  e  gli  esperimenti  di  trasmissione  fisica  e
mentale, interrotti dalla morte di uno degli studenti e dallo scandalo che ne
era seguito...
Per  un  istante  Elliott  rimase  sbalordito  di  fronte  alla  coerenza  e  alla ricchezza di dettagli dei ricordi. Rammentò confusamente a se stesso di aver studiato chimica alla...
Dove?
Con un soprassalto, si rese conto di averlo dimenticato. Frugò rapido
nella memoria e si accorse di non riuscire a ricordare quasi nulla del suo
passato;  non  sapeva  più  dov'era  nato,  chi  fossero  i  suoi  genitori,  come
avesse  trascorso  l'infanzia.  Invece  vide  di  nuovo,  stavolta  con  una
chiarezza  luminosa,  la  barca  a  remi  sul  Gange  color  porpora  e  l'uomo
avvolto nell'ombra che lo guardava con il suo ambiguo sorriso. Poi vide
un'altra immagine di sé adolescente, impegnato a scrivere su un enorme
registro da cui erano stati laboriosamente cancellati tutti gli elenchi, seduto

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a una scrivania in una stanza dal soffitto basso di bambù, sopra il magazzino di suo padre al mercato...
«È  assurdo!»  Scacciando  da  sé  quel  ricordo  e  tutte  le  sue  tenere associazioni, Elliott si alzò in piedi, agitato, il cuore che gli batteva a un ritmo  febbrile.  La  fronte  gli  bruciava,  mentre  la  mente  elaborava fantasticherie in serie sul dottor Singh ricercato dalla polizia. Si sentì il polso, poi si sporse verso lo specchio sopra il caminetto e si esaminò gli occhi, in particolare i riflessi delle pupille, con dita esperte, in cerca dei sintomi di una commozione cerebrale.
Deglutendo, la lingua secca, guardò le mani da medico che lo avevano esaminato, poi decise di chiamare il suo dottore. Un sedativo, un'ora di riposo e si sarebbe ripreso.
Nella luce bassa del crepuscolo, faticò a vedere i numeri. «Pronto! Pronto!» sbraitò. «C'è qualcuno in linea?»
«Sì» rispose una voce di donna. «Dottor Singh, è lei?»
Terrorizzato,  Elliott  coprì  il  ricevitore  con  una  mano.  Aveva  fatto  il
numero a memoria, ma la memoria che aveva utilizzato non era la sua.
Però non era stata solo la voce all'altro capo a riconoscerlo - anche Eliott
l'aveva riconosciuta, e sapeva come si chiamava la persona che gli aveva
risposto.
A titolo sperimentale, sollevò il ricevitore e ripeté mentalmente quel nome. «Signorina Tremayne?»
«Sì, dottor Singh. Sta...»
Con uno sforzo, Elliott rese più gutturale la sua voce. «Mi scusi, devo aver sbagliato. Qual è il suo numero?»
La ragazza esitò. Ma quando rispose la modulazione e il ritmo della sua voce gli furono di nuovo immediatamente familiari. «Qui è Harley Street, 30331» disse, in tono cauto. «Dottor Singh, la polizia ha...»
Elliott riattaccò. Si sedette stancamente sul tappeto, al buio, guardando il rettangolo nero della porta d'ingresso. L'emicrania aveva ripreso a battergli alle tempie, mentre tentava di ignorare i ricordi che si affollavano nella sua mente. Sopra di lui, la rampa di scale portava in un altro mondo.

Mezz'ora dopo si rimise in piedi. Cercando il letto, e terrorizzato all'idea
di accendere la luce, entrò barcollando in una stanza e si mise disteso. Si
rialzò in piedi di scatto e si accorse di essere steso sul tavolo da pranzo.
Si era scordato come muoversi in quella casa, e la topografia di un altro
appartamento, che doveva avere un solo piano, si era sovrimposta nella sua


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mente.  Sul  pavimento  al  piano  di  sopra  trovò  uno  stanzino  trasandato pieno di giocattoli e vestiti da bambino, un ignoto susseguirsi di disegni infantili  che  mostravano  cieli  sereni  sopra  campanili  di  chiese.  Quando chiuse la porta, la scena che si era trovato davanti  scomparve come un quadro dimenticato.
Nella camera da letto accanto c'era un portaritratti sul comodino, con una foto di una donna bionda dall'aspetto piacevole, che non aveva mai visto.  Guardò il  letto  avvolto  nell'oscurità,  gli  armadi  e gli  specchi  che sembravano la mobilia di un sogno.
«Ramadya,  Ramadya»  mormorò:  il  nome  della  donna  morente  gli danzava sulle labbra.
Il telefono squillò. In piedi al buio, in cima alle scale, ascoltò la suoneria che  perforava  la  casa  silenziosa. Scese  a  rispondere  con i  piedi  pesanti come piombo.
«Sì?» disse con voce chiara.
«Pronto, tesoro?» gli rispose una voce squillante di donna. Sullo sfondo, dei  treni  scivolavano  sui  binari,  fischiando. «Pronto,  parlo  con Hampstead...»
«Qui è Harley Street, 30331» tagliò corto. «Ha sbagliato numero.» «Oh, la prego di scusarmi. Credevo...»
Riappendendo al suono di quella voce, che per un breve istante aveva
rimesso insieme la persona frammentaria che si teneva ancora aggrappata
alla sua  mente, restò in  piedi  alla  finestra accanto  alla porta d'ingresso.
Attraverso  la  persiana  chiusa  riuscì  a  vedere  che  la  pioggia  era  quasi
cessata  e  una  nebbia  leggera  era  scivolata  tra  gli  alberi.  La  figura
impolverata  sulla  panchina  era  ancora  lì,  attenta,  il  viso  nascosto
nell'oscurità. Di tanto in tanto il suo profilo umido brillava sotto una luce
passeggera.
Per qualche motivo, un senso di urgenza estrema si era impossessato di
Elliott.  Sapeva  che  c'era  una  serie  di  compiti  da  ultimare,  di  fatti  da
registrare  prima  che  sparissero  alcuni  elementi  probanti,  di  testimoni
attendibili da contattare. Un centinaio di immagini trascurate gli passò per
la mente mentre cercava un paio di scarpe e un giubbotto nell'armadio a
piano terra, scene della sua carriera di medico, una paziente sottoposta a
elettroencefalogramma, il radiatore di una Bentley e le etichette del club
dell'automobile. C'erano istantanee delle strade intorno a Harley Street, i
residui  di  innumerevoli  tragitti  da  e  per  il  consultorio,  l'ingresso
all'Overseas Club, un chiassoso seminario in uno degli istituti scientifici,


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dove  qualcuno  lo  aveva  aggredito  con  toni  teatrali.  E  poi  c'erano  le
spiacevoli sensazioni di rimorso per la morte della moglie, controbilanciate
dalla crescente convinzione interiore che, paradossalmente, quello era stato
l'unico modo possibile per salvarla e proiettarla verso una nuova vita. E si
sentì  dire,  con  una  voce  strana  ma  familiare:  «L'anima,  come  tutte  le
creature delicate,  si  attacca a  qualunque  armatura riesca  a trovare.  Solo
rompendo quell'armatura la si può costringere a trasferirsi in una nuova...»

Fu  colto  da  ondate  successive  di  vertigini  mentre  scendeva  le  scale.
C'era qualcuno che doveva trovare, un uomo il cui aiuto avrebbe potuto
salvarlo.  Prese  il  telefono  e  digitò  un  numero,  oscillando,  in  equilibrio
precario.
Gli rispose una voce tagliente e lucida come avorio. «Qui il professor Ramachandran.»
«Professore...»
«Sì? Chi parla, prego?»
Si schiarì la gola, tossendo rumorosamente nella cornetta. «Professore, lei deve capirmi! Il tumore non era operabile, quindi era l'unico modo per salvarla - metempsicosi della funzione somatica oltre che di quella psichica...» Si era lanciato in una tirata solo in parte coerente, e le parole gli uscivano a grappoli confusi. «Ora Ramadya si è trasformata, è l'altra donna...  né  lei  né  altri  sapranno  mai...  Professore,  glielo  spiegherà  un giorno, e io... anche una sola parola...»
«Dottor  Singh!»  La  voce  all'altro  capo  era  diventata  un  grido.  «Non
posso più aiutarla! Deve accettare le conseguenze della sua follia!  L'ho
avvertita ripetutamente di quanto fossero pericolosi i suoi esperimenti...»
Il  telefono  continuò  a  gracchiare  sul  pavimento,  dove  l'aveva  gettato.
Fuori i lampeggianti delle auto della polizia brillavano a intermittenza, e le
luci  azzurre  delle sirene ruotavano come fari spettrali. Mentre apriva la
porta e usciva nella fredda aria notturna fu pervaso da un'ultima immagine
ossessiva, un uomo di mezza età con i capelli rossi, che faceva il chimico
in  un  istituto  per  la  ricerca  contro  il  cancro,  un  uomo  dalla  mente
notevolmente  ricettiva,  aperta  davanti  a  sé  come  una  grande  antenna
parabolica. Solo quell'uomo avrebbe potuto aiutarlo. Si chiamava... Elliott.

Mentre sedeva  sulla panchina vide  le luci  che si  avvicinavano tra gli
alberi, come aureole splendenti nell'oscurità. La pioggia era cessata e una
leggera nebbia si dissipava sotto i rami degli alberi, ma dopo il calduccio


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dentro casa era più freddo di quanto si fosse aspettato, e dopo pochi minuti
nel parco prese a tremare. Camminando tra gli alberi, vide la fila di auto
della polizia parcheggiate sul ciglio della strada a duecento metri da lui.
Ovunque andasse, le luci sembravano avvicinarsi, anche se non erano mai
dirette verso di lui.
Si voltò, decidendo di tornare a casa, e con sua grande sorpresa vide un uomo snello con i capelli rossi che attraversava la strada provenendo dal parco e saliva gli scalini d'ingresso. Sorpreso, vide l'intruso che spariva dietro la porta aperta, chiudendosela alle spalle.
Poi due poliziotti emersero dalla nebbia alla sua destra, ferendogli gli occhi  con  le  torce.  Si  mise  a  correre,  ma  una  terza  figura  massiccia  si materializzò da dietro un albero e gli tagliò la strada.
«Basta  così,  adesso»  gli  disse  una  voce  roca  mentre  lui  tentava inutilmente di divincolarsi. «Vediamo di non perdere la calma.»
L'oscurità  fu  circondata  da  altre  torce.  E  arrivarono  di  corsa  altri poliziotti, tra gli alberi. Un ispettore con le spalline d'argento si fece avanti e lo guardò in faccia mentre un agente alzava una torcia.
«Dottor Singh?»
Per un istante rimase ad ascoltare il suono di quel nome, che lo aveva
perseguitato per tutta la giornata e ora restava sospeso nell'aria umida. La
sua   mente   sembrava   quasi   totalmente   disposta   ad   accettare
l'identificazione, ma una minima parte, che ora si stava dissolvendo in un
minuscolo frammento, come le stelle spente e velate dalla nebbia, si rifiutò
di abdicare, sapendo che chiunque fosse diventato ora, un tempo non era
stato il dottor Singh.
«No!» Scosse il capo, e con uno sforzo disperato riuscì a liberare un braccio. Fu afferrato per la spalla e alzò il braccio libero per schermarsi dalle luci e dalle facce che gli si stringevano attorno.
Gli occhiali gli erano caduti ed erano stati calpestati, ma senza di essi
vedeva addirittura meglio. Si guardò la mano. Perfino in quella penombra
non gli poté sfuggire la pigmentazione più scura. Le dita erano piccole ed
eleganti,  e  c'era  una  cicatrice  su  una  delle  nocche,  di  cui  ignorava
l'esistenza.
Poi si toccò la barbetta caprina sul mento.
Dentro la sua mente, l'ultima traccia di resistenza si dissolse in un passato oscuro e dimenticato.
«Dottor Krishnamurti Singh» dichiarò l'ispettore.



164





Ferma  con  le  valigie  davanti  alla  porta,  Judith  Elliott  guardò  le  auto della polizia  che si allontanavano,  dirette al  villaggio di  Hampstead. Al piano di sopra, i due bambini irruppero nella loro stanza dei giochi.
«È stato orribile! Sono contento che i bambini non abbiano visto il suo arresto. Lottava come un pazzo.»
Elliott pagò il tassista e poi chiuse la porta. «A proposito, chi era? Non qualcuno che conosciamo, spero!»
Judith si guardò intorno e notò la cornetta del telefono abbandonata sul pavimento. Si chinò e la rimise al suo posto. «Il tassista ha detto che era uno  psichiatra  di  Harley  Street.  Un  medico  indiano.  A quanto  pare,  ha strangolato sua moglie mentre faceva il bagno. E la cosa strana è che lei stava già morendo di tumore al cervello.»
Elliott  fece  una  smorfia. «Terribile.  Forse  cercava  di  risparmiarle  il dolore.»
«Strozzandola  mentre  era  sveglia?  Un'idea  tipicamente  maschile, tesoro.»
Elliott rise mentre passavano in soggiorno. «Allora, cara, ti sei divertita? Come stava Molly?»
«Bene. Ce la siamo proprio spassata. Naturalmente ci sei mancato. Ieri
mi sono presa un bello spavento, sono stata travolta da un'onda e ho bevuto
parecchio.» Esitò, guardando il parco dalla finestra. «Sai, è buffo, ma venti
minuti  fa  ho  cercato  di  telefonarti  dalla  stazione  e  mi  ha  risposto  un
numero di Harley Street. Ho parlato con un indiano. Sembrava proprio un
dottore.»
Elliott sorrise. «Magari era la stessa persona.»
«È quello che ho pensato anche io. Ma non potrebbe mai essere arrivato a Hampstead da Harley Street, vero? L'autista ha detto che la polizia lo ha cercato da queste parti per tutto il pomeriggio.»
«Forse hanno preso la persona sbagliata. A meno che non ci siano due dottori  di  cognome  Singh.»  Elliott  schioccò  le  dita.  «Strano,  dove  avrò pescato il suo cognome? Devo averlo letto sui giornali.»
Judith annuì, avvicinandosi a lui. «Era sul giornale del mattino.» Si tolse
il  cappello e lo appoggiò  sul caminetto. «Gli  indiani sono gente  strana.
Non so perché, ma ieri, quando sono finita sotto l'onda, stavo pensando a
una ragazza indiana che ho conosciuto tanti anni fa. Ricordo solo il suo
nome. Ramadya. Credo che sia annegata. Era così dolce e carina.»
«Proprio  come  te.»  Elliott  le  cinse  i  fianchi  con  le  mani,  ma  Judith indicò il bicchiere rotto nel camino.


165





«Insomma, si vede proprio che sono stata via.» Ridendo, gli poggiò le mani sulle spalle e lo strinse, poi si ritrasse, allarmata.
«Tesoro,  ma  dove  hai  trovato  questo  strano  vestito?  Santo  cielo,  ma
guardati!» Gli strizzò la giacca, e l'acqua le colò tra le dita come da una
spugna. «Ma sei bagnato fradicio! Dove accidenti sei stato tutto il giorno?»