IL POMERIGGIO IMPROVVISO
Estratto da "Tutti i racconti, Vol.2"
J.G. Ballard
(The Sudden Afternoon, Fantastic Stories, 1963)
A sorprendere Elliott fu la subitaneità dell'attacco. Judith e i bambini erano andati sulla costa per il fine settimana, a godersi l'ultimo sole estivo, lasciandolo solo in casa, e quei tre giorni erano stati una piacevole alternanza di stanze silenziose, pasti consumati nelle ore più strane, e qualche piccolo lavoro di falegnameria in sala hobby. Aveva trascorso la domenica mattina leggendo tutte le recensioni sui giornali e aggiungendo con cura una mezza dozzina di titoli alla lista di libri che non si sarebbe mai potuto permettere di comprare, tanto meno di leggere. Questi esercizi
nostalgici, come il Martini preparato con cura prima di pranzo, facevano parte di un rituale stabilito per i suoi brevi momenti da scapolo. Decise di
fare una passeggiata tonificante a Hampstead Heath dopo pranzo, tornando in tempo per rassettare tutto prima del rientro di Judith, previsto per quella sera.
Invece, un forte attacco di quella che all'inizio gli sembrò influenza lo colse subito prima dell'una. Un mal di testa pulsante e una temperatura in ascesa lo indussero a frugare nell'armadietto dei medicinali in bagno, solo per scoprire che Judith si era portata dietro l'aspirina. Seduto sull'orlo della vasca, la testa tra le mani, tentò di contenere lo spasmo, che sembrava comprimere i muscoli di un qualche organo interno, schiacciandogli il cervello come la polpa di un frutto in un sacchetto di tela.
«Judith!» sbraitò, rivolto alla casa vuota. «Maledizione!» Il dolore cresceva, un susseguirsi di punture che gli piantavano spilli d'argento nel cranio. Dopo un istante di totale impotenza, si trascinò fino in camera e si buttò sul letto vestito, schermandosi gli occhi dalla debole luce che arrivava fin lì dalla brughiera.
Dopo qualche minuto l'attacco cominciò lentamente a diminuire, lasciandogli un'emicrania persistente e un senso d'inerzia totale. Trascorse
l'ora successiva a guardare la sua immagine nello specchio da toeletta, vedendosi impastoiato al letto come un manzo pronto al macello. Vide
oltre la finestra un bambino che giocava sotto le querce in fondo al parco, tentando pazientemente di afferrare le foglie che salivano a spirale verso il cielo. A venti metri di distanza, un tipo piccolo dall'aspetto banale e la carnagione scura guardava tra gli alberi.
In un certo qual modo, quella scena placò Elliott, e finalmente il mal di testa scomparve, come curato per magia dai rami che ondeggiavano e dalla figura del bambino chino tra gli alberi.
«Strano...» mormorò tra sé, ancora sbigottito dalla ferocia dell'attacco. Judith, comunque, sarebbe stata scettica; lo aveva sempre accusato di essere ipocondriaco. Era un peccato che non fosse stata lì, invece che stesa su una spiaggia a Worthing, ma almeno ai bambini era stato risparmiato di vedere loro padre che mugolava per il dolore.
Incerto se scendere dal letto, per paura di provocare un altro attacco - forse era stato la conseguenza di un virus violento ma di breve durata? - Elliott rimase steso, con il profumo della pelle di sua moglie sul cuscino
che gli ricordava la sua infanzia e i capelli profumati di sua madre. Era stato cresciuto in India, e si ricordava ancora di quando suo padre lo portava in barca a remi lungo il fiume, e l'imponente e placido sfondo del
Gange diventava viola nella luce del tardo pomeriggio. Il colore terra bruciata delle banchine di Calcutta erano ancora vivido dopo trent'anni.
Sorridendo di quei ricordi e dell'immagine di suo padre che remava con un movimento ritmico da cui si sentiva cullato, Elliott guardò il soffitto, appena distratto dal clacson di una macchina in lontananza.
Poi si alzò a sedere di scatto, guardando la stanza tutto intorno. «Calcutta? Ma che diavolo...»
Quel ricordo era completamente falso! Non era mai stato in India in tutta la sua vita, né in qualunque altra parte dell'Oriente. Era nato a Londra e vi aveva trascorso tutta la vita, a parte un periodo di due anni dopo la laurea, passato negli Stati Uniti. Quanto a suo padre, che era stato catturato dai tedeschi mentre combatteva con l'Ottava Armata in Nordafrica e aveva trascorso la maggior parte della guerra in un campo di prigionia, Elliott non ne sapeva più nulla dai tempi della sua adolescenza.
Eppure il ricordo di quella gita in barca sul Gange era stato straordinariamente vero. Tentando di scuotersi di dosso gli ultimi residui del mal di testa, Elliott fece scivolare i piedi sul pavimento. Le pulsazioni alla testa erano riprese, ma stranamente diminuivano quando lasciava che le immagini del porto di Calcutta gli riempissero la mente. Qualunque ne fosse l'origine, il paesaggio era innegabilmente indiano, e poteva vedere il corso del Gange, cosparso di sambuchi a vela, e perfino alcune pire funebri che bruciavano sulle rive.
Ma a sorprenderlo più di ogni altra cosa erano le associazioni emotive legate all'idea di suo padre che remava, il senso di sicurezza che lo pervadeva a ogni movimento ritmico di quella figura scura, il cui volto era nascosto dall'ombra del sole al tramonto.
Domandandosi dove avesse trovato questa impressione visiva così forte,
che era arrivata a tradursi in un ricordo ricco di sfumature intensamente
personali, Elliott uscì dalla stanza da letto e scese in cucina. Erano le due e
mezzo, quasi troppo tardi per il pranzo, e guardò senza interesse le file di
uova e di bottiglie di latte in frigorifero. Dopo pranzo, decise, si sarebbe
steso sul divano in soggiorno e avrebbe letto o guardato la televisione.
Pensando proprio alla TV, Elliott si rese conto che il falso ricordo del Gange doveva essere quasi certamente un frammento dimenticato di un documentario di viaggio, magari uno che aveva visto da bambino. L'intera sequenza del ricordo, con l'immagine nitida della barca che tagliava l'acqua color porpora e la lunga carrellata sul porto, era tipica dello stile dei documentari realizzati negli anni Quaranta, e poteva quasi vedere i titoli di testa, accompagnati da un rullo di tamburi.
Rassicurato, e ipotizzando che fosse stato il mal di testa a far spazio a
quella memoria visiva - gli schermi cinematografici sempre un po' fuori
fuoco degli anni di guerra gli avevano affaticato non poco gli occhi -
Elliott cominciò a prepararsi il pranzo. Ignorò il cibo che Judith gli aveva
lasciato e frugò tra i barattoli di spezie e di sottaceti nella dispensa, dove
trovò del riso e un pacchetto di curry in polvere. Judith non era mai
riuscita a padroneggiare la complessa procedura necessaria a preparare un
vero curry, e i tentativi occasionali dello stesso Elliott si erano guadagnati
solo dei sorrisi divertiti. Oggi, però, con tutto il tempo che voleva e senza
interferenze, ce l'avrebbe fatta.
Senza fretta, Elliott cominciò a preparare il piatto, e ben presto la cucina si riempì di vapore e degli odori intensi della polvere di curry e del chutney. Fuori, il pallido sole aveva ceduto il campo a nuvole scure e alla pioggia del primo pomeriggio. Il bambino se n'era andato, ma la figura solitaria sotto le querce era ancora seduta sulla panchina, con il bavero della giaccia rialzato a proteggersi il collo.
Deliziato dall'intruglio che cominciava a cuocere, Elliott si rilassò sul
suo sgabello, e pensò alla sua attività di medico. Normalmente sarebbe
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stato costretto a tenere una sessione chirurgica serale, ma un sostituto
aveva acconsentito a prendere il suo posto, con suo grande sollievo, visto
che una delle pazienti era un caso particolarmente difficile - una nevrotica
in piena regola, il tipo di pericolo che tutti i dottori si trovavano a dover
affrontare - che aveva addirittura minacciato di denunciarlo all'ordine dei
medici per cattiva condotta, anche se le accuse erano talmente grottesche
che la commissione disciplinare non avrebbe mai potuto prenderle sul
serio.
Il curry era forte, e un dolore acuto sotto lo sterno segnò l'avvio di una
solenne indigestione. Maledicendo la iella, Elliott si versò un bicchiere di
latte, rimpiangendo in anticipo il gusto del curry che sentiva ancora in
gola.
«Sei messo male, amico» disse tra sé, divertito e ironico. «Dovresti farti vedere da un dottore.»
E schioccando le dita, si alzò di scatto. Aveva sperimentato il suo
secondo falso ricordo! Tutta la fantasticheria sulla sua attività di medico, il
sostituto e la paziente, era una finzione totale, che non aveva il minimo
rapporto con la sua vita. Faceva il chimico ricercatore, lavorava nel
dipartimento di biochimica di uno degli istituti di ricerca sul cancro con
sede a Londra, ma i suoi contatti con medici e chirurghi erano
praticamente nulli.
Eppure l'impressione di svolgere l'attività, di avere i pazienti e di
condividere tutti gli altri impegni di un vero medico, era anch'essa
decisamente forte e persistente - in realtà, più che un ricordo, era un'intera
area di consapevolezza, non meno valida dell'immagine del suo laboratorio
di biochimica.
Con un senso di disagio crescente, Elliott sorseggiò timidamente il bicchiere di latte, chiedendosi perché quelle immagini senza fonte apparente si stessero impiantando nella sua mente come frammenti dell'intelligenza di qualcun altro. Andò in soggiorno e si sedette con le spalle alla finestra, esaminandosi con tutto il distacco professionale che riuscì a evocare. Alle sue spalle, sotto gli alberi nel parco, l'uomo sulla panchina sedeva silenzioso sotto la pioggia, scrutato a distanza di sicurezza da un bastardino senza padrone.
Dopo una pausa per riprendere la calma, Elliott iniziò deliberatamente a
esplorare questo secondo falso ricordo. Notò subito che il fastidio di
stomaco si placava, come se diventando la persona di quelle immagini
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frammentarie riuscisse ad alleviarne il peso sulla sua mente.
Concentrandosi, riuscì a vedere una grande finestra sopra una massiccia
scrivania di mogano, un divano di pelle imbottito, scaffali pieni di libri e
certificati incorniciati alle pareti: chiaramente lo studio di un medico.
Lasciata la stanza, scese una rampa di scale coperte di moquette ed entrò in
una sala con i pavimenti di marmo. In una nicchia sulla sinistra c'era una
scrivania, e una segretaria carina con i capelli rossi alzò gli occhi e gli
sorrise da dietro la macchina da scrivere. Poi uscì in strada, ovviamente in
un quartiere benestante della città, dove le Rolls-Royce e le Bentley
superavano in numero le altre auto. Duecento metri più in là, autobus a due
piani attraversavano un incrocio familiare.
«Harley Street!» esclamò Elliott. Mentre si tirava su a sedere e guardava il mobilio familiare del soggiorno e le querce grondanti acqua nel parco, ristabilendo a fatica la realtà nella propria mente, vide in un lampo la facciata del consultorio e una targa sfocata sulle colonne color crema. Sopra il portico campeggiava in caratteri dorati il numero 259.
«Harley Street 259? Ma chi diavolo ci lavora?» Elliott si alzò e andò alla
finestra, guardando la brughiera, poi si spostò in cucina, fiutando l'aroma
residuo del curry. Si sentì torcere lo stomaco da un altro spasmo di
indigestione, e tornò immediatamente a concentrarsi sull'immagine del
consultorio di quel medico misterioso. Mentre il dolore tornava a sparire
ebbe per un attimo l'impressione di vedere una donna piccola e di mezza
età in una corsia d'ospedale, con il braccio sinistro ingessato, e poi
un'immagine dell'ingresso del Middlesex Hospital riservato al personale,
nitida come una foto.
Elliott raccolse il giornale e tornò in soggiorno, cercando non senza
difficoltà una posizione comoda. L'assoluto nitore dei ricordi lo aveva
convinto del fatto che non si trattasse di immagini confuse tratte da
documentari o elaborate dalla sua immaginazione. Più le esplorava più
tendevano a consolidarsi in una realtà tutta loro, rifiutandosi di scolorirsi o
di svanire. Oltre tutto, il contenuto emotivo era troppo potente. Le
associazioni legate alla scena sul fiume erano state rassicuranti, ma
l'atmosfera al consultorio era stata carica di esitazioni e di ansia, come se
la persona cui erano appartenute in origine fosse in preda a un incubo.
Il mal di testa continuava a torturargli le tempie, ed Elliott si spostò al
mobile bar e si preparò una dose abbondante di whisky e soda. Possibile
che, per un insieme di incredibili circostanze, fosse diventato il recettore
dei ricordi disincarnati di un bambino indiano di Calcutta e di un medico
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con lo studio in Harley Street?
Controllando le notizie in prima pagina, lesse:
MEDICO INDIANO RICERCATO
per la misteriosa morte della moglie
La polizia sta continuando le ricerche dello psichiatra di Harley Street, il dottor Krishnamurti Singh. Scotland Yard ritiene che possa fornire elementi utili sulla morte di sua moglie, la signora Ramadya Singh...
Con un senso di autentico sollievo, Elliott chiuse il giornale e lo gettò via. Ecco spiegati i due ricordi immaginari! Quella mattina, prima dell'attacco di influenza, aveva letto la notizia senza neanche rendersene conto, per poi metterne in scena i dettagli per effetto della febbre. Quel virus particolarmente aggressivo - una specie rara e dalla vita brevissima che doveva averlo contagiato in laboratorio - aveva agito con le stesse modalità degli allucinogeni, creando un'immagine interiore di un'autenticità quasi fotografica. E anche il curry doveva aver fatto la sua parte nell'alimentare quelle fantasie.
Elliott gironzolò per la stanza ruminando, e ascoltando la pioggia che picchiava con furia alla finestra. Gli bastò poco per rendersi conto che altri ricordi allucinatori giacevano dietro la superficie della sua mente, tutti legati all'identità del medico indiano scomparso.
Incapace di allontanarli, si lasciò deliberatamente trascinare in una
fantasia a occhi aperti. Forse l'associazione tra quella pioggia funerea e il
dolore incessante sotto lo sterno furono responsabili del senso di presagio
che continuava a crescere in lui. Una serie di idee ancora informi salì verso
il livello conscio, e Elliott si stirò nella poltrona, con un senso crescente di
disagio. Senza rendersene conto, si trovò a pensare alla morte di sua
moglie, un evento immerso nel dolore e in una violenza particolare, quasi
avvolta nel sogno. Per un istante si trovò quasi nella mente di sua moglie,
in punto di morte, in fondo a un immenso lago, con uno squarcio lontano
di cielo a separarlo da enormi volumi d'acqua che gli premevano sul
torace...
Elliott si risvegliò da quell'incubo zuppo di sudore, con la visione
tremenda della morte di sua moglie ancora davanti agli occhi. Judith era
viva, naturalmente, e si trovava con sua sorella alla casa sulla spiaggia
vicino a Worthing, ma la visione del suo annegamento gli era giunta con la
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forza e l'urgenza di un segnale telepatico. «Judith!»
Alzatosi, Elliott corse al telefono dell'ingresso. Le dimensioni psicologiche di quella scena di morte erano tali da convincerlo di non averla solo immaginata.
Il mare!
Afferrò la cornetta e contattò l'operatore. Forse in quel preciso istante Judith stava nuotando da sola mentre la sorella preparava il tè insieme ai bambini, in un punto dal quale poteva vedere la spiaggia, ma senza immaginare minimamente il pericolo incombente...
«Centralino? È urgente. Devo parlare con mia moglie. Credo sia in pericolo. Può mettermi in contatto con Calcutta, al numero 30331?»
L'operatore esitò. «Calcutta? Mi rincresce, ma devo passarle le chiamate intercontinentali...»
«Cosa? Ma io non voglio...» Elliott si interruppe. «Che numero le ho chiesto?»
«Calcutta, il 30331. Ora le passo...»
«Aspetti!» Elliott si appoggiò alla finestra. La pioggia batteva contro i vetri smerigliati. «Mi sono sbagliato. Volevo dire Worthing, il 303...»
«È ancora lì, signore? Worthing tre zero tre...» La voce restò in attesa. Elliott abbassò stancamente il ricevitore. «Dovrò controllare» disse, con voce impastata. «Il numero era sbagliato.»
Sfogliò l'agendina del telefono, rendendosi conto che sia lui sia Judith
sapevano il numero da anni e non si erano mai curati di trascriverlo.
«È ancora lì, signore?» La voce dell'operatore si era fatta più aspra.
Poco dopo, quando fu collegato al servizio informazioni, si accorse di
non ricordare neanche il nome e l'indirizzo di sua cognata.
«Calcutta, 30331.» Elliott ripeté il numero mentre si versava un whisky.
Mentre riprendeva il controllo di sé, si rese conto che l'idea stessa di un
messaggio telepatico era ridicola. Judith era in ottima salute e stava
tornando a Londra con i bambini, e lui aveva completamente equivocato
l'immagine della donna in punto di morte. Restava, però, il numero di
telefono. La sequenza misteriosa gli fluiva dalla bocca con la familiarità
inconsapevole che ne deriva da un uso ripetuto. E c'era una massa di
ricordi simili che aspettavano solo di essere evocati nella realtà, come se
una mente in fuga avesse trovato riparo nel suo cervello. Raccolse il
giornale dal pavimento.
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...il dottor Krishnamurti Singh. Scotland Yard ritiene che possa fornire elementi utili...
'Fornire elementi utili': il tipico eufemismo di Fleet Street, una parte del raffinato codice stabilito tra i giornali e i lettori. Un giornale francese, senza i limiti imposti dalla legge sulla diffamazione a mezzo stampa, avrebbe sbraitato: 'Barbablù! Assassino!'
Gli investigatori si trovano al capezzale della signora Ethel Burgess, la donna a ore che lavorava dal dottore e dalla signora Singh, e che ieri è stata trovata svenuta ai piedi delle scale...
La signora Burgess! Immediatamente, un'immagine della donna anziana, con un viso che faceva pensare a una mela raggrinzita, gli apparve davanti agli occhi. Era stesa su un letto d'ospedale al Middlesex, guardandolo con un'espressione spaventata e piena di rimprovero...
Il bicchiere, mezzo pieno di whisky, sbatté contro la base del caminetto,
fracassandosi. Elliott guardò i frammenti di vetro bagnato tra i suoi piedi,
poi si sedette al centro del divano con la testa tra le mani, tentando di
trattenere il flusso impetuoso dei ricordi. Ma non poté fare a meno di
pensare alla scuola medica di Calcutta. I volti quasi familiari degli altri
studenti gli passarono davanti in una processione confusa. Ricordò il suo
interesse appassionato all'idea di sviluppare un approccio scientifico alle
branche più oscure dello yoga e della parapsicologia indù, la società
studentesca che aveva creato e gli esperimenti di trasmissione fisica e
mentale, interrotti dalla morte di uno degli studenti e dallo scandalo che ne
era seguito...
Per un istante Elliott rimase sbalordito di fronte alla coerenza e alla ricchezza di dettagli dei ricordi. Rammentò confusamente a se stesso di aver studiato chimica alla...
Dove?
Con un soprassalto, si rese conto di averlo dimenticato. Frugò rapido
nella memoria e si accorse di non riuscire a ricordare quasi nulla del suo
passato; non sapeva più dov'era nato, chi fossero i suoi genitori, come
avesse trascorso l'infanzia. Invece vide di nuovo, stavolta con una
chiarezza luminosa, la barca a remi sul Gange color porpora e l'uomo
avvolto nell'ombra che lo guardava con il suo ambiguo sorriso. Poi vide
un'altra immagine di sé adolescente, impegnato a scrivere su un enorme
registro da cui erano stati laboriosamente cancellati tutti gli elenchi, seduto
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a una scrivania in una stanza dal soffitto basso di bambù, sopra il magazzino di suo padre al mercato...
«È assurdo!» Scacciando da sé quel ricordo e tutte le sue tenere associazioni, Elliott si alzò in piedi, agitato, il cuore che gli batteva a un ritmo febbrile. La fronte gli bruciava, mentre la mente elaborava fantasticherie in serie sul dottor Singh ricercato dalla polizia. Si sentì il polso, poi si sporse verso lo specchio sopra il caminetto e si esaminò gli occhi, in particolare i riflessi delle pupille, con dita esperte, in cerca dei sintomi di una commozione cerebrale.
Deglutendo, la lingua secca, guardò le mani da medico che lo avevano esaminato, poi decise di chiamare il suo dottore. Un sedativo, un'ora di riposo e si sarebbe ripreso.
Nella luce bassa del crepuscolo, faticò a vedere i numeri. «Pronto! Pronto!» sbraitò. «C'è qualcuno in linea?»
«Sì» rispose una voce di donna. «Dottor Singh, è lei?»
Terrorizzato, Elliott coprì il ricevitore con una mano. Aveva fatto il
numero a memoria, ma la memoria che aveva utilizzato non era la sua.
Però non era stata solo la voce all'altro capo a riconoscerlo - anche Eliott
l'aveva riconosciuta, e sapeva come si chiamava la persona che gli aveva
risposto.
A titolo sperimentale, sollevò il ricevitore e ripeté mentalmente quel nome. «Signorina Tremayne?»
«Sì, dottor Singh. Sta...»
Con uno sforzo, Elliott rese più gutturale la sua voce. «Mi scusi, devo aver sbagliato. Qual è il suo numero?»
La ragazza esitò. Ma quando rispose la modulazione e il ritmo della sua voce gli furono di nuovo immediatamente familiari. «Qui è Harley Street, 30331» disse, in tono cauto. «Dottor Singh, la polizia ha...»
Elliott riattaccò. Si sedette stancamente sul tappeto, al buio, guardando il rettangolo nero della porta d'ingresso. L'emicrania aveva ripreso a battergli alle tempie, mentre tentava di ignorare i ricordi che si affollavano nella sua mente. Sopra di lui, la rampa di scale portava in un altro mondo.
Mezz'ora dopo si rimise in piedi. Cercando il letto, e terrorizzato all'idea
di accendere la luce, entrò barcollando in una stanza e si mise disteso. Si
rialzò in piedi di scatto e si accorse di essere steso sul tavolo da pranzo.
Si era scordato come muoversi in quella casa, e la topografia di un altro
appartamento, che doveva avere un solo piano, si era sovrimposta nella sua
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mente. Sul pavimento al piano di sopra trovò uno stanzino trasandato pieno di giocattoli e vestiti da bambino, un ignoto susseguirsi di disegni infantili che mostravano cieli sereni sopra campanili di chiese. Quando chiuse la porta, la scena che si era trovato davanti scomparve come un quadro dimenticato.
Nella camera da letto accanto c'era un portaritratti sul comodino, con una foto di una donna bionda dall'aspetto piacevole, che non aveva mai visto. Guardò il letto avvolto nell'oscurità, gli armadi e gli specchi che sembravano la mobilia di un sogno.
«Ramadya, Ramadya» mormorò: il nome della donna morente gli danzava sulle labbra.
Il telefono squillò. In piedi al buio, in cima alle scale, ascoltò la suoneria che perforava la casa silenziosa. Scese a rispondere con i piedi pesanti come piombo.
«Sì?» disse con voce chiara.
«Pronto, tesoro?» gli rispose una voce squillante di donna. Sullo sfondo, dei treni scivolavano sui binari, fischiando. «Pronto, parlo con Hampstead...»
«Qui è Harley Street, 30331» tagliò corto. «Ha sbagliato numero.» «Oh, la prego di scusarmi. Credevo...»
Riappendendo al suono di quella voce, che per un breve istante aveva
rimesso insieme la persona frammentaria che si teneva ancora aggrappata
alla sua mente, restò in piedi alla finestra accanto alla porta d'ingresso.
Attraverso la persiana chiusa riuscì a vedere che la pioggia era quasi
cessata e una nebbia leggera era scivolata tra gli alberi. La figura
impolverata sulla panchina era ancora lì, attenta, il viso nascosto
nell'oscurità. Di tanto in tanto il suo profilo umido brillava sotto una luce
passeggera.
Per qualche motivo, un senso di urgenza estrema si era impossessato di
Elliott. Sapeva che c'era una serie di compiti da ultimare, di fatti da
registrare prima che sparissero alcuni elementi probanti, di testimoni
attendibili da contattare. Un centinaio di immagini trascurate gli passò per
la mente mentre cercava un paio di scarpe e un giubbotto nell'armadio a
piano terra, scene della sua carriera di medico, una paziente sottoposta a
elettroencefalogramma, il radiatore di una Bentley e le etichette del club
dell'automobile. C'erano istantanee delle strade intorno a Harley Street, i
residui di innumerevoli tragitti da e per il consultorio, l'ingresso
all'Overseas Club, un chiassoso seminario in uno degli istituti scientifici,
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dove qualcuno lo aveva aggredito con toni teatrali. E poi c'erano le
spiacevoli sensazioni di rimorso per la morte della moglie, controbilanciate
dalla crescente convinzione interiore che, paradossalmente, quello era stato
l'unico modo possibile per salvarla e proiettarla verso una nuova vita. E si
sentì dire, con una voce strana ma familiare: «L'anima, come tutte le
creature delicate, si attacca a qualunque armatura riesca a trovare. Solo
rompendo quell'armatura la si può costringere a trasferirsi in una nuova...»
Fu colto da ondate successive di vertigini mentre scendeva le scale.
C'era qualcuno che doveva trovare, un uomo il cui aiuto avrebbe potuto
salvarlo. Prese il telefono e digitò un numero, oscillando, in equilibrio
precario.
Gli rispose una voce tagliente e lucida come avorio. «Qui il professor Ramachandran.»
«Professore...»
«Sì? Chi parla, prego?»
Si schiarì la gola, tossendo rumorosamente nella cornetta. «Professore, lei deve capirmi! Il tumore non era operabile, quindi era l'unico modo per salvarla - metempsicosi della funzione somatica oltre che di quella psichica...» Si era lanciato in una tirata solo in parte coerente, e le parole gli uscivano a grappoli confusi. «Ora Ramadya si è trasformata, è l'altra donna... né lei né altri sapranno mai... Professore, glielo spiegherà un giorno, e io... anche una sola parola...»
«Dottor Singh!» La voce all'altro capo era diventata un grido. «Non
posso più aiutarla! Deve accettare le conseguenze della sua follia! L'ho
avvertita ripetutamente di quanto fossero pericolosi i suoi esperimenti...»
Il telefono continuò a gracchiare sul pavimento, dove l'aveva gettato.
Fuori i lampeggianti delle auto della polizia brillavano a intermittenza, e le
luci azzurre delle sirene ruotavano come fari spettrali. Mentre apriva la
porta e usciva nella fredda aria notturna fu pervaso da un'ultima immagine
ossessiva, un uomo di mezza età con i capelli rossi, che faceva il chimico
in un istituto per la ricerca contro il cancro, un uomo dalla mente
notevolmente ricettiva, aperta davanti a sé come una grande antenna
parabolica. Solo quell'uomo avrebbe potuto aiutarlo. Si chiamava... Elliott.
Mentre sedeva sulla panchina vide le luci che si avvicinavano tra gli
alberi, come aureole splendenti nell'oscurità. La pioggia era cessata e una
leggera nebbia si dissipava sotto i rami degli alberi, ma dopo il calduccio
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dentro casa era più freddo di quanto si fosse aspettato, e dopo pochi minuti
nel parco prese a tremare. Camminando tra gli alberi, vide la fila di auto
della polizia parcheggiate sul ciglio della strada a duecento metri da lui.
Ovunque andasse, le luci sembravano avvicinarsi, anche se non erano mai
dirette verso di lui.
Si voltò, decidendo di tornare a casa, e con sua grande sorpresa vide un uomo snello con i capelli rossi che attraversava la strada provenendo dal parco e saliva gli scalini d'ingresso. Sorpreso, vide l'intruso che spariva dietro la porta aperta, chiudendosela alle spalle.
Poi due poliziotti emersero dalla nebbia alla sua destra, ferendogli gli occhi con le torce. Si mise a correre, ma una terza figura massiccia si materializzò da dietro un albero e gli tagliò la strada.
«Basta così, adesso» gli disse una voce roca mentre lui tentava inutilmente di divincolarsi. «Vediamo di non perdere la calma.»
L'oscurità fu circondata da altre torce. E arrivarono di corsa altri poliziotti, tra gli alberi. Un ispettore con le spalline d'argento si fece avanti e lo guardò in faccia mentre un agente alzava una torcia.
«Dottor Singh?»
Per un istante rimase ad ascoltare il suono di quel nome, che lo aveva
perseguitato per tutta la giornata e ora restava sospeso nell'aria umida. La
sua mente sembrava quasi totalmente disposta ad accettare
l'identificazione, ma una minima parte, che ora si stava dissolvendo in un
minuscolo frammento, come le stelle spente e velate dalla nebbia, si rifiutò
di abdicare, sapendo che chiunque fosse diventato ora, un tempo non era
stato il dottor Singh.
«No!» Scosse il capo, e con uno sforzo disperato riuscì a liberare un braccio. Fu afferrato per la spalla e alzò il braccio libero per schermarsi dalle luci e dalle facce che gli si stringevano attorno.
Gli occhiali gli erano caduti ed erano stati calpestati, ma senza di essi
vedeva addirittura meglio. Si guardò la mano. Perfino in quella penombra
non gli poté sfuggire la pigmentazione più scura. Le dita erano piccole ed
eleganti, e c'era una cicatrice su una delle nocche, di cui ignorava
l'esistenza.
Poi si toccò la barbetta caprina sul mento.
Dentro la sua mente, l'ultima traccia di resistenza si dissolse in un passato oscuro e dimenticato.
«Dottor Krishnamurti Singh» dichiarò l'ispettore.
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Ferma con le valigie davanti alla porta, Judith Elliott guardò le auto della polizia che si allontanavano, dirette al villaggio di Hampstead. Al piano di sopra, i due bambini irruppero nella loro stanza dei giochi.
«È stato orribile! Sono contento che i bambini non abbiano visto il suo arresto. Lottava come un pazzo.»
Elliott pagò il tassista e poi chiuse la porta. «A proposito, chi era? Non qualcuno che conosciamo, spero!»
Judith si guardò intorno e notò la cornetta del telefono abbandonata sul pavimento. Si chinò e la rimise al suo posto. «Il tassista ha detto che era uno psichiatra di Harley Street. Un medico indiano. A quanto pare, ha strangolato sua moglie mentre faceva il bagno. E la cosa strana è che lei stava già morendo di tumore al cervello.»
Elliott fece una smorfia. «Terribile. Forse cercava di risparmiarle il dolore.»
«Strozzandola mentre era sveglia? Un'idea tipicamente maschile, tesoro.»
Elliott rise mentre passavano in soggiorno. «Allora, cara, ti sei divertita? Come stava Molly?»
«Bene. Ce la siamo proprio spassata. Naturalmente ci sei mancato. Ieri
mi sono presa un bello spavento, sono stata travolta da un'onda e ho bevuto
parecchio.» Esitò, guardando il parco dalla finestra. «Sai, è buffo, ma venti
minuti fa ho cercato di telefonarti dalla stazione e mi ha risposto un
numero di Harley Street. Ho parlato con un indiano. Sembrava proprio un
dottore.»
Elliott sorrise. «Magari era la stessa persona.»
«È quello che ho pensato anche io. Ma non potrebbe mai essere arrivato a Hampstead da Harley Street, vero? L'autista ha detto che la polizia lo ha cercato da queste parti per tutto il pomeriggio.»
«Forse hanno preso la persona sbagliata. A meno che non ci siano due dottori di cognome Singh.» Elliott schioccò le dita. «Strano, dove avrò pescato il suo cognome? Devo averlo letto sui giornali.»
Judith annuì, avvicinandosi a lui. «Era sul giornale del mattino.» Si tolse
il cappello e lo appoggiò sul caminetto. «Gli indiani sono gente strana.
Non so perché, ma ieri, quando sono finita sotto l'onda, stavo pensando a
una ragazza indiana che ho conosciuto tanti anni fa. Ricordo solo il suo
nome. Ramadya. Credo che sia annegata. Era così dolce e carina.»
«Proprio come te.» Elliott le cinse i fianchi con le mani, ma Judith indicò il bicchiere rotto nel camino.
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«Insomma, si vede proprio che sono stata via.» Ridendo, gli poggiò le mani sulle spalle e lo strinse, poi si ritrasse, allarmata.
«Tesoro, ma dove hai trovato questo strano vestito? Santo cielo, ma
guardati!» Gli strizzò la giacca, e l'acqua le colò tra le dita come da una
spugna. «Ma sei bagnato fradicio! Dove accidenti sei stato tutto il giorno?»