domenica 9 febbraio 2020


LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA
Edgard Allan Poe

Per lungo tempo la Morte Rossa aveva spopolato la contrada. Mai s'era vista un pestilenza tanto orribile, tanto fatale! Il male si attaccava al sangue; e si manifestava in tutto il rosso orrore del sangue; Dapprima erano dolori acuti, improvvise vertigini; seguiva poi un copioso trasudare senza fine che portava al dissolvimento dell'essere. Chiazze purpuree sulla pelle, sulla pelle del volto in ispecie, rendevan le vittime così ripugnanti che venivan fuggite da tutti, lasciate senza conforto né aiuto. Il manifestarsi del male e il suo progredire e risolversi erano in tutto questione d'una mezz'ora.
Ma il principe Prospero restava ugualmente felice e dimostrava la propria intrepidezza e la propria sagacia. Quando vide che le sue terre s'erano per metà spopolate convocò un migliaio circa dei suoi amici, tutti pieni di vita e di baldanza, scegliendoli tra cavalieri e dame della sua corte, e riparò con essi nel remoto rifugio d'una delle sue abbazie fortificate, ch'era edifizio vasto e magnifico, creazione sua personale, di stile eccentrico e nondimeno grandioso, cinto di spesse ed alte mura nelle quali si aprivano delle porte di ferro. Quando i cortigiani furono là dentro, col fuoco e dei buoni martelli saldarono ogni serratura, intendendo così di assicurarsi contro i possibili impulsi disperati di chi stava fuori, e di chiudere ogni via d'uscita alle frenesie di ci stava dentro. L'abbazia fu largamente munita di provviste. Con simili precauzioni i cortigiani potevano sfidare il contagio. Se la vedesse con esso chi stava fuori. Intanto, sarebbe stata follia affliggersi o solo darsene pensiero. Il principe aveva provveduto a tutti mezzi del piacere. Si era portato dietro buffoni, improvvisatori, musici e ballerini. E poi la Bellezza, il vino... C'era tutto questo e la sicurezza, al di dentro. Fuori, la Morte Rossa.
Sulla fine del quinto mese, o sesto che fosse, del suo ritiro, mentre fuori la pestilenza infieriva più che mai, il principe Prospero offrì ai suoi mille amici un ballo in maschera, straordinario di magnificenza.
Voluttuoso spettacolo, la mascherata. Ma anzitutto importa descriver le sale ov'esso ebbe luogo. Sette erano, in una fuga d'imperiale grandiosità. In molti palazzi, quando i battenti delle porte siano d'ambo le parti rivolti contro i muri, siffatte serie di stanze formano lunghe prospettive in linea retta per entro le quali lo sguardo corre sino in fondo senza trovare ostacoli. Là, come era da aspettarsi da parte di un principe tanto amante del bizzarro, il caso era assai differente. Le stanze erano così irregolarmente disposte che l'occhio non riusciva ad abbracciarne più di una alla volta. Ad ogni venti o trenta yarde vi era una brusca svolta, e ad ogni svolta si aveva uno spettacolo di effetto assolutamente nuovo. A destra e a sinistra, nel mezzo di ogni parete, un'alta e stretta finestra gotica si apriva sopra un corridoio che seguiva le sinuosità dell'appartamento. Ogni finestra era a vetri colorati i cui colori variavano da sala a sala per essere in armonia con le decorazioni delle singole stanze. Ad esempio, la stanza che si trovava all'estremità orientale, tutta tappezzata in azzurro, aveva le finestre luccicanti di celeste. La stanza che seguiva era decorata in rosso porpora, e i vetri delle sue finestre erano purpurei. La terza, interamente verde, aveva finestre dai vetri verdi. E allo stesso modo era arancione la quarta, bianca la quinta, viola la sesta. La settima stanza era fittamente rivestita, soffitto e pareti, di tappezzerie in velluto nero che ricadevano in pieghe pesanti sopra un tappeto di uguale stoffa e colore. Solo in quella stanza il colore dei vetri delle finestre non corrispondeva a quello della decorazione. Là erano scarlatte le invetriate, scarlatte con l'intensità del sangue. Ora, in nessuna delle sette sale si vedevano, tra la profusione degli ornamenti d'oro che pendevano anche dal soffitto, lampade o candelabri. Non esisteva luce alcuna di lampada o di candela per tutto quel seguito di stanze. Epperò nel corridoio che lo cingeva, e precisamente dinanzi ad ognuna delle finestre, ardeva su un enorme tripode un braciere che proiettava attraverso i vetri colorati i suoi raggi riempiendo d'una fulgida luce la stanza. Nel qual modo s'erano ottenuti infiniti effetti di fantastico sfarzo. Ma è da notarsi che nella camera a ponente, quella nera, la luce riverberata attraverso i vetri color di sangue sulle funebri tappezzerie riusciva sinistra all'estremo e dava ai volti di chi vi entrava un così selvaggio aspetto che ben pochi della compagnia avevano il coraggio di varcarne la soglia.
Per l'appunto in quella sala si trovava, appoggiato al muro di ponente, un gigantesco orologio d'ebano. Andava il pendolo con un sordo, pesante, monotono rintocco; e tutte le volte che la lancetta dei minuti aveva compiuto il giro del quadrante, e l'ora stava per scoccare, un forte, profondo, chiaro suono musicale usciva dai polmoni di ottone della macchina, tanto particolare e solenne che, ad ogni ora, i musici dell'orchestra eran costretti a far pausa per ascoltarlo; cosicché quanti danzavano dovevano interrompere le loro evoluzioni, e la gaia compagnia veniva colta da un momentaneo turbamento che faceva impallidire i più agitati mentre le persone più calme ed anziane si passavano la mano sulla fronte quasi meditassero o si trovassero in preda a qualche imbrogliata fantasticheria. Appena però gli echi di quel suono erano svaniti, una lieve ilarità serpeggiava tra i festanti; e i musici, guardandosi a vicenda, sorridevano del loro stolto nervosismo, e si scambiavano sottovoce il giuramento di non lasciarsi impressionare dai prossimi rintocchi; ma ecco che, trascorsi sessanta minuti, ossia tremilaseicento secondi, l'orologio tornava a suonare, e si ripetevano il turbamento, l'agitazione, le preoccupazioni di prima.
Ma, nonostante tutto, l'orgia trascorreva in gaia magnificenza. Il principe era di gusti singolari. E aveva finezza d'occhio per i colori e i loro effetti. Disprezzava le cose di pura e semplice eleganza. Avventato ed audace in quanto progettava, finiva per dare uno splendore barbarico a tutte le sue concezioni. Taluni lo avrebbero certo giudicato pazzo. Chi gli stava attorno sapeva che non lo era. Ma bisognava sentirlo e vederlo per esser sicuri che non lo era.
Nell'occasione di quella grande festa egli aveva curato di persona l'abbellimento delle sette sale, e aveva imposto il suo gusto per i travestimenti delle maschere. Certo si trattava di concezioni grottesche. Tutto splendore, scintillio, e del fantastico mordace; molto di ciò che poi si è visto nell'Ernani. C'eran figure di assoluto arabesco fornite di membra spropositate, in assurdo equipaggiamento. Immagini di delirio come potrebbero uscire dal cervello di un pazzo. C'era del bello, del licenzioso, del bizzarro, un po' di terribile anche, ma soprattutto cose che destavano ripugnanza. Era una moltitudine di sogni che camminava impettita per le sette stanze. E si contorcevano, codesti sogni, per ogni verso, cambiando colore col passare da una stanza all'altra, mentre la musica dell'orchestra sembrava l'eco dei loro passi. E di tratto in tratto ecco che batteva l'orologio d'ebano della sala di velluto. Tutto, allora, per un momento, diveniva fermo, silenzioso, e non s'udiva che la voce dell'orologio. I sogni restavano come agghiacciati nelle posizioni in cui si trovavano. Ma poi svaniva l'eco dei rintocchi - non s'era trattato che di un attimo - e un riso leggero, per metà soffocato, correva tra i festanti. E la musica tornava ad alzarsi, i sogni riprendevano a muoversi e più ebbri e folli di prima si contorcevano in ogni senso colorendosi del colore che il fuoco dei tripodi riversava su di loro attraverso i vetri delle finestre. Ma nella stanza in fondo, giù a ponente, nessuna maschera osa più avventurarsi. È notte ormai e la luce fluisce più rossa traverso i vetri color di sangue, e terribile è il bruno delle funebri tappezzerie, e a chi mette piede sul lugubre tappetto, più solenne e largo arriva il rumore dei rintocchi, assai più che non arrivi alle orecchie di chi si sofferma a folleggiare più lontano, nelle altre stanze.
Nelle quali, gremite di gente, pulsava con ritmo febbrile il cuore della vita. E l'orgia turbinò e turbinò sino a che infine cominciò a rintoccar mezzanotte e, come al solito, la musica s'arrestò, le danze vennero interrotte, e ogni cosa rimase immobile in penosa sospensione. Ma stavolta erano dodici colpi, per cui può darsi che le riflessioni di quanti, tra quella folla in baldoria, erano ancora capaci di pensare, fossero più lunghe e profonde. E per questo, forse, prima che l'ultima eco dell'ultimo rintocco venisse del tutto sommersa dal silenzio, venne fatto a parecchi di notare la presenza di una maschera di cui sino allora non si era accorto nessuno. Come la voce di tale intrusione fece sommessamente il giro delle sale, un ronzio si levò da tutta la folla, un mormorio di sorpresa e disapprovazione, che alla fine divenne di terrore, orrore e disgusto.
In una riunione di fantasmi qual era quella mascherata, bisognava senza dubbio che si trattasse di un'apparizione straordinaria per produrre tanto turbamento. Invero la libertà nel mascherarsi non aveva quasi avuto limiti quella sera; ma il personaggio in questione aveva superato lo stesso Erode e abusato dell'indulgenza del principe. Vi sono corde anche nei cuori più indifferenti che non si possono toccare senza provocare una emozione. Anche per gli esseri più depravati, che della vita e della morte si prendono ugualmente gioco, vi sono cose con le quali non si può scherzare. Così parve che tutti sentissero profondamente il cattivo gusto e la sconvenienza del costume e del contegno di quell'estraneo. Alto, magro, egli era avvolto, da capo a piedi, in un sudario. La maschera che ne celava il volto raffigurava con tanta perfezione le fattezze di un cadavere irrigidito, che sarebbe stato difficile, anche ad un minuzioso esame, scoprirne l'artificio. Nulladimeno quei folli gaudenti lo avrebbero, se non approvato, tollerato. Ma la maschera s'era spinta al punto di assumere il tipo della Morte Rossa. Aveva il manto chiazzato di sangue e la larga fronte, e tutto il viso, cosparsi dell'orrore rosso.
Quando gli occhi del principe Prospero caddero su quella immagine spettrale - la quale, quasi a meglio sostener la sua parte, incedeva a passi lenti, enfatici, solenni tra la folla che danzava - a tutta prima egli fu scosso da un fremito di terrore e disgusto; quindi lo si vide arrossir di collera.
— Chi osa? — domandò con voce strozzata ai cortigiani che gli stavano intorno — chi osa insultarci con questa bestemmia schernitrice ? Afferratelo e smascheratelo, così sapremo chi abbiamo da appiccare agli spalti, al sorgere del sole!
Il principe Prospero si trovava nella sala azzurra, a levante, quando pronunciò quelle parole, le quali si ripercossero forti e distinte in tutte e sette le sale; siccome il principe era uomo imperioso e aitante e a un cenno della sua mano la musica s'era taciuta.
Si trovava nella sala azzurra, il principe, e aveva intorno un gruppo di pallidi cortigiani. Mentre egli parlava vi fu nel gruppo un leggero movimento nella direzione dell'intruso, il quale era anche a portata di mano, e d'un passo maestoso e risoluto si andava sempre più avvicinando; ma un'indefinibile paura, suscitata appunto da tanta insensata audacia, s'impadronì dei cortigiani, e nessuno alzò mano per afferrarlo; tanto che, come non gli veniva impedito, egli passò a una yarda dalla persona del principe e, mentre la folla, in un unico impulso, si ritirava addossandosi ai muri, senza mai sostare, e sempre con lo stesso solenne passo cadenzato per il quale s'era subito distinto, potè andar diritto di sala in sala, dall'azzurra alla purpurea, da questa alla verde, dalla verde a quella arancione, dall'arancione alla bianca, e dalla bianca alla viola prima che si facesse qualcosa per fermarlo. Ma d'un tratto il principe Prospero, reso furente dall'ira e dalla vergogna della sua viltà d'un momento, gli si slanciò dietro a precipizio attraverso le sei stanze. Nessuno, per il mortale terrore che si era impadronito di tutti, lo seguì. Egli brandiva un pugnale e già, nel suo impeto, stava per afferrare lo straniero, quando questi, ch'era giunto in fondo alla stanza di velluto, bruscamente si volse ad affrontarlo. S'udì un grido acuto, e il pugnale scivolò, con un lampo, sul tappeto nero, sul quale, un attimo dopo, si abbatteva morto anche il principe Prospero. Animati dal coraggio selvaggio della disperazione, i cortigiani si precipitarono in folla nella sala nera, ma nell'afferrare lo sconosciuto, che se ne stava ritto ed immobile nell'ombra dell'orologio d'ebano, rimasero inorriditi senza respiro trovando vuoti d'ogni tangibile forma il sudario e la maschera da cadavere che s'erano affannati a strappare con tanta rude violenza.
Si conobbe così la presenza della Morte Rossa. Come un ladro era venuta, di notte. E a uno a uno i convitati caddero nelle sale dell'orgia irrorate di sangue, e come caddero, negli atteggiamenti della disperazione, rimasero morti. Con la vita dell'ultimo di quei gaudenti si estinse anche quella dell'orologio d'ebano. Le fiamme dei tripodi si spensero. E le tenebre, la rovina, la Morte Rossa stabilirono su ogni cosa il loro dominio senza limiti.