sabato 29 febbraio 2020


L'ULTIMO DEGLI UOMINI
Margaret Atwood 
(Oryx And Crake, 200
(Edizione Integrale) 

Alla mia famiglia

Forse avrei potuto, come fanno altri, stupirvi
con strane, improbabili storie; ma ho preferito
riferire la pura realtà nel modo e nello stile
più semplici; perché la mia intenzione principale
era informarvi, e non divertirvi.
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver

Non c'era nessuna sicurezza? Nessun modo di imparare a memoria le usanze del mondo? Nessuna guida, nessun ri¬fugio?
Era tutto un miracolo e un lanciarsi in aria dal pinnacolo di una torre?
Virginia Woolf, Al faro

1

Mango

Uomo delle Nevi si sveglia prima dell'alba. Giace immobile, ascoltando la marea che sale e onda dopo onda lambisce le varie barriere, cic-ciac, cic-ciac, il ritmo del battito cardiaco. Vorrebbe tanto credere di essere ancora addormentato.
A est l'orizzonte è pervaso da una foschia grigiastra, ora accesa da un bagliore roseo, mortale. Strano come quel colore appaia ancora delicato. Gli alti edifici al largo vi si stagliano contro in scure sagome, sorgendo inverosimilmente dal rosa e dall'azzurro pallido della laguna. I gridi degli uccelli che vi fanno il nido e il rumore dell'oceano lontano che si infrange contro le finte scogliere fatte di pezzi di macchine arrugginite, mattoni ammucchiati e detriti vari fanno quasi pensare al traffico dei giorni di festa.
Per abitudine guarda l'orologio: cassa in acciaio inossidabile, cinturino di alluminio brunito, ancora scintillante anche se non funziona più. Ora lo porta come il suo unico talismano. Un quadrante vuoto è ciò che gli mostra: ore zero. Gli provoca un sussulto di terrore, questa assenza di un'ora ufficiale. Da nessuna parte c'è qualcuno che sappia che ore sono.
«Calmati» si dice. Fa qualche respiro profondo, quindi si gratta le punture d'insetto, intorno ma non sopra i punti pruriginosi, stando attento a non far saltare nessuna crosta: la setticemia è l'ultima cosa di cui ha bisogno. Quindi esamina il terreno sottostante in cerca di animali e piante selvatiche: tutto tranquillo, niente squame o code. Mano destra, piede sinistro, mano destra, piede sinistro, scende giù dall'albero. Dopo essersi ripulito di ramoscelli e corteccia, si avvolge il lenzuolo intorno al corpo come una toga. Per sicurezza, durante la notte ha appeso a un ramo la sua copia autentica del berretto da baseball dei Red Sox; ne controlla l'interno, ne fa volare via un ragno, se lo infila.
Fa un paio di metri a sinistra, piscia nei cespugli. «Occhio» dice alle cavallette che all'impatto volano via con un frullo d'ali. Poi va dall'altra parte dell'albero, piuttosto lontano dal suo orinatoio abituale, e fruga nel nascondiglio che ha improvvisato con qualche lastra di cemento, rivestendola con una reticella di fil di ferro per tenere lontani ratti e topi. Vi ha riposto alcuni manghi in un sacchetto di plastica annodato, un barattolo di Miniwurstel senza carne Sveltana, una preziosa mezza bottiglia di scotch - no, piuttosto un terzo - e una barretta energetica al gusto di cioccolato scroccata in un camping di roulotte, floscia e appiccicosa dentro la sua carta stagnola. Non riesce ancora a indursi a mangiarla: potrebbe essere l'ultima che troverà. Là dentro tiene anche un apriscatole e, senza alcuna ragione particolare, un punteruolo da ghiaccio; e poi sei bottiglie di birra vuote, per ragioni sentimentali e per conservarci l'acqua fresca. Anche i suoi occhiali da sole; se li mette. Hanno una lente soltanto, ma sono meglio che niente.
Scioglie il sacchetto di plastica: c'è rimasto un solo mango. Buffo, ne ricordava di più. Le formiche sono riuscite a infilarcisi, anche se aveva annodato il sacchetto il più strettamente possibile. Gli stanno già correndo sulle braccia, la razza nera e la razza gialla, piccola e cattiva. È sorprendente che punture dolorose provochino. Soprattutto le gialle. Le strofina via.
«È la rigorosa aderenza alla routine quotidiana che contribuisce a tenere alto il morale e a conservare l'equilibrio» dice ad alta voce. Ha la sensazione di citare un libro, antiquate e ponderose disposizioni stilate a beneficio dei coloni europei che gestivano le piantagioni di questo o quel tipo. Non riesce a ricordare di avere mai letto qualcosa del genere, ma non vuol dire niente. Ci sono molti spazi vuoti nel troncone di cervello in cui prima risiedeva la sua memoria. Piantagioni di gomma, pianta¬gioni di caffè, piantagioni di juta. (Cos'era la juta?) Li avranno sicuramente consigliati di indossare caschi coloniali, di vestirsi per la cena, di astenersi dal violentare le indigene. No, avrebbe¬ro evitato la parola violentare. Astenersi dal fraternizzare con le indigene. O, in altre parole...
Ma scommette che non si sono astenuti. Nove volte su dieci.
«Considerate le circostanze» dice. Si ritrova a bocca aperta, cercando di ricordare il resto della frase. Siede a terra e si met¬te a mangiare il mango.

Relitti

Sulla spiaggia bianca, corallo sminuzzato e ossi rotti, cammina un gruppetto dei bambini. Hanno sicuramente nuotato, sono ancora bagnati e lucidi. Dovrebbero fare più attenzione: chissà cosa può infestare la laguna? Ma sono imprudenti; non come Uomo delle Nevi, che non ci infilerebbe un dito del piede nem¬meno di notte, quando il sole non può raggiungerlo. Corregge¬re: soprattutto di notte.
Li guarda con invidia, o è nostalgia? Impossibile: non ha mai nuotato in mare da bambino, non ha mai corso su una spiaggia senza vestiti addosso. I piccoli scrutano il terreno, si chinano, raccolgono relitti; poi discutono tra loro, tenendo alcuni pezzi, scartandone altri; i loro tesori finiscono in una sacca logora. Pri¬ma o poi - può contarci - lo scoveranno, mentre se ne sta sedu¬to avvolto nel suo lenzuolo mezzo marcio all'ombra degli albe¬ri, per via del sole forte. Per i bambini - dalla pelle spessa, resi¬stente agli ultravioletti - lui è una creatura dell'oscurità, del cre¬puscolo.
Eccoli che arrivano. «Uomo delle Nevi, oh, Uomo delle Nevi» intonano nel loro modo cantilenante. Non gli vengono mai troppo vicini. È per rispetto, come gli piacerebbe pensare, o perché puzza?
(Puzza, lo sa bene. È fetido, maleodorante, ha il tanfo di un tricheco: unto, incrostato di sale, puzzolente di pesce. Non che abbia mai annusato una bestia simile. Ma ha visto qualche foto).
Aprendo la loro sacca, i bambini gridano in coro: «Oh, Uomo delle Nevi, cosa abbiamo trovato?» Tirano fuori gli oggetti, li ten¬gono sollevati come se li mettessero in vendita: un coprimozzo, un tasto di pianoforte, un coccio di bottiglia da bibita verde pal¬lido levigato dall'oceano. Un flacone in plastica di BlyssPlus, vuo¬to; un Cestino di Pepite di pollo ChickieNobs, idem. Un mouse, o quanto ne rimane, dalla lunga coda flessibile.
Uomo delle Nevi ha voglia di piangere. Cosa può dire loro? Non c'è modo di spiegare cosa siano, o cosa fossero, quegli og¬getti curiosi. Ma hanno senz'altro indovinato cosa dirà, perché si tratta sempre della stessa solfa.
«Queste sono cose del passato». Mantiene una cadenza gen¬tile ma assente. Una via di mezzo tra il maestro, l'indovino e lo zio bonario: quello dovrebbe essere il suo tono.
«Ci faranno male?» a volte trovano lattine di olio per motore, solventi caustici, bottiglie di plastica piene di candeggina. Tra¬bocchetti del passato. È considerato un esperto in incidenti po¬tenziali: liquidi bollenti, vapori nauseabondi, polvere velenosa. Sofferenze di ogni genere.
«Queste no» dice. «Queste sono sicure». Al che perdono in¬teresse, lasciano penzolare la sacca. Ma non se ne vanno: riman¬gono là a fissarlo. La raccolta di rifiuti sulla spiaggia è un prete¬sto. Vogliono soprattutto guardarlo, perché è così diverso da loro. Ogni tanto gli chiedono di togliersi gli occhiali da sole e di rimetterseli: vogliono vedere se ha davvero due occhi, o tre.
«Uomo delle Nevi, oh, Uomo delle Nevi» cantano, più a se stessi che a lui. Per loro il suo nome non è altro che sei sillabe. Non sanno cosa sia un Uomo delle Nevi, non hanno mai visto la neve.
Era una delle regole di Crake, quella di non scegliere nomi di cui non si riuscisse a mostrare un equivalente fisico - magari im¬pagliato, magari ridotto a uno scheletro. Niente unicorni, nien¬te grifoni, niente manticore o basilischi. Ma quelle regole non sono più in vigore, e adottare quel dubbio soprannome ha for¬nito un piacere amaro a Uomo delle Nevi. L'Abominevole Uomo delle Nevi, che esiste e non esiste, che balena ai margini delle tempeste di neve, uomo dalle sembianze scimmiesche o scimmia dalle sembianze umane, furtivo, sfuggente, conosciuto soltanto per le dicerie e le orme rivolte all'indietro. Si diceva che le tribù delle montagne gli dessero la caccia e lo uccidessero, quando si presentava loro l'occasione. Si diceva che lo bollisse¬ro, lo arrostissero e tenessero banchetti speciali; ancora più ec¬citante, immagina, perché si rasentava il cannibalismo.
Per l'uso che ne farà, ha abbreviato il nome. È solo Uomo delle Nevi. Ha tenuto l'abominevole per sé, come un cilicio segreto.
Dopo pochi attimi di esitazione i bambini si accovacciano in semicerchio, maschi e femmine insieme. Un paio dei più picco¬li mangiucchiano ancora la colazione, facendosi colare il succo verde sul mento. È scoraggiante quanto tutti si sporchino senza specchi. Eppure, sono sorprendentemente belli, questi bambini: ognuno nudo, ognuno perfetto, ognuno con un colore di pelle diverso - cioccolata, rosa, tè, burro, crema, miele - ma tutti con gli occhi verdi. L'estetica di Crake.
Fissano Uomo delle Nevi con aria di ansiosa attesa. Sperano certo che parli, ma oggi non è in vena. Al massimo potrebbe concedere loro di guardare da vicino gli occhiali da sole, o lo scintillante orologio che non funziona, o il berretto da baseball. A loro piace il berretto, ma non capiscono a cosa gli serva una cosa simile - capelli rimovibili che non sono capelli - e lui non ha ancora inventato una storia al riguardo.
Stanno buoni per un po', fissandolo, rimuginando, ma poi il più grande salta su. «Oh, Uomo delle Nevi, per favore, dicci, co¬s'è quel muschio che ti spunta sul viso?» Gli altri interloquisco¬no. «Diccelo per favore, diccelo per favore!» Non si danno go¬mitate, non ridacchiano: la questione è seria.
«Piume» fa lui.
Gli rivolgono questa domanda almeno una volta alla settima¬na. Lui olà sempre la stessa risposta. In un periodo di tempo così breve - due mesi, tre? Ha perso il conto - hanno accumulato tutto un bagaglio di storie, di congetture su di lui: Una volta Uomo delle Nevi era un uccello ma ha dimenticato come si fa a vo¬lare e il resto delle piume gli è caduto, così ha freddo e ha bisogno di una seconda pelle, e deve coprirsi. No: ha freddo perché mangia i pesci, e i pesci sono freddi. No: si copre perché non ha l'affare che hanno gli uomini, e non vuole che lo vediamo. Per questo non va a nuotare. Uomo delle Nevi ha le rughe perché una volta viveva sott'acqua e l'acqua gli ha raggrinzito la pelle. Uomo delle Nevi è triste perché i suoi simili sono volati via al di là del mare, e ades¬so è tutto solo.
«Anch'io voglio le piume» dice il più piccolo. Una speranza vana: gli uomini non hanno la barba, tra i Figli di Crake. Crake trovava la barba irrazionale; e poi era seccato dall'incombenza di radersi, perciò ne aveva abolito la necessità. Ma certo non per Uomo delle Nevi: troppo tardi per lui.
Ora attaccano in coro. «Oh, Uomo delle Nevi, Uomo delle Nevi, possiamo avere anche noi le piume, per favore?»
«No» dice lui.
«Perché no, perché no?» cantano i due più piccoli.
«Solo un momento, lo chiedo a Crake». Alza l'orologio al cielo, lo gira sul polso, quindi lo porta all'orecchio, come se stesse in ascolto. I bambini seguono ogni suo movimento, ammaliati. «No. Crake dice che non potete. Niente piume per voi. Adesso alzate i tacchi».
«Alzate i tacchi? Alzate i tacchi?» Si lanciano occhiate, poi spostano lo sguardo su di lui. Ha commesso un errore, ha detto una cosa nuova, una cosa impossibile da spiegare. Non capisco¬no il senso della frase. «Cosa sono i tacchi?»
«Andate via!» Agita il lenzuolo contro di loro e quelli si di¬sperdono, correndo lungo la spiaggia. Non sono ancora sicuri se debbano avere paura di lui, e quanta. Non si è mai saputo che abbia fatto del male a un bambino, ma non conoscono a fondo la sua natura. Chissà di cosa sarebbe capace.

Voce

«Ora sono solo» dice ad alta voce. «Tutto, tutto solo. Solo su un vasto, vasto mare». Un altro frammento dell'album di ritagli in fiamme che ha nella testa.
Correggere: spiaggia.
Ha bisogno di sentire una voce umana, una voce completa¬mente umana, come la sua. A volte ride come una iena o rug¬gisce come un leone - la sua idea di iena, la sua idea di leone. Un tempo, quando era bambino, guardava i dvd su queste creature: i programmi sul comportamento animale che mostra¬vano l'accoppiamento, i ringhi e le viscere, e le madri che leccavano i loro piccoli. Perché li aveva trovati così rassicuranti?
Oppure grugnisce e strilla come un proporco, o ulula come un calupo: Bauuu! Bauuu! A volte al crepuscolo corre su e giù sulla sabbia, lanciando sassi contro l'oceano e urlando: Merda, merda, merda, merda, merda! Poi si sente meglio.
Si alza in piedi e solleva le braccia per stiracchiarsi, e il len¬zuolo cade giù. Abbassa lo sguardo sgomento sul proprio corpo: la pelle sudicia, morsa dagli insetti, le ciocche di capelli sale e pepe, le unghie dei piedi gialle che si ispessiscono. Nudo come il giorno in cui è venuto al mondo, non che ne serbi il minimo ricordo. Tanti avvenimenti decisivi hanno luogo alle spalle della gente, quando non è in condizione di guardare: la nascita e la morte, ad esempio. E l'oblio passeggero del sesso.
«Non pensarci nemmeno» dice a se stesso. Il sesso è come il bere, fa male cominciare a rimuginarci sopra troppo presto al mattino.
Una volta aveva molta cura di sé; correva, si allenava in pale¬stra. Ora si vede le costole: deperisce. Non assume abbastanza proteine animali. Una voce di donna gli dice in tono carezzevo¬le all'orecchio: Che belle chiappe! Non è Oryx, è qualcun'altra. Oryx non è più tanto loquace.
«Di' qualcosa» la implora. Lei lo sente, lui ha bisogno di cre¬derlo, ma vuole infliggergli il suo mutismo. «Cosa posso fare?» le domanda. «Lo sai che io...»
Oh, che begli addominali! giunge il sussurro, interrompendo¬lo. Forza, tesoro, sdraiati. Chi è? Qualche sgualdrina che una volta ha comprato. Correggere. Esperta professionista in prati¬che sessuali. Un'artista del trapezio, la spina dorsale di gomma, i lustrini incollati addosso come squame di pesce. Odia questi echi. Li sentivano i santi, gli eremiti folli coperti di pidocchi nel¬le loro grotte e nei loro deserti. Ben presto comincerà a vedere affascinanti demoni che lo chiamano leccandosi le labbra, i ca¬pezzoli ardenti e guizzanti lingue rosa. Sirene si leveranno dalle onde, al largo, oltre le torri fatiscenti, sentirà il loro canto leg¬giadro, si spingerà a nuoto in mare aperto verso di loro e sarà di¬vorato dagli squali. Creature con teste e seni di donna e artigli di aquila gli piomberanno addosso, lui aprirà loro le braccia e quella sarà la fine. Sfrigolaencefalo.
Oppure, peggio ancora, qualche ragazza che conosce, o che conosceva, gli si avvicinerà attraverso gli alberi felice di vederlo, ma sarà fatta d'aria. Accoglierebbe di buon grado perfino lei, pur di avere compagnia.
Scruta l'orizzonte, servendosi dell'unico occhio munito di una lente da sole: niente. Il mare è metallo rovente, il cielo è di un azzurro sbiancato, a parte il buco riarso fatto dal sole. Tutto è così vuoto. Acqua, sabbia, cielo, alberi, frammenti del passato. Nessuno che lo senta.
«Crake!» urla. «Coglione! Testa di cazzo!»
Rimane in ascolto. L'acqua salata gli scorre nuovamente sul viso. Non sa mai quando accadrà e non può mai frenarla. Il re¬spiro esce fuori a rantoli, come se una mano gigantesca gli ser¬rasse il petto - stringe, lascia, stringe. Panico assurdo.
«È tutta colpa tua!» grida all'oceano.
Nessuna risposta, non c'è da stupirsi. Solo le onde, cic-ciac. Si passa il pugno sul viso, sulla sporcizia, sulle lacrime, sul muco, sulla barba lunga da vagabondo e sul succo di mango appicci¬coso. «Uomo delle Nevi, Uomo delle Nevi» dice. «Fatti furbo».

2

Falò

Tanto tempo fa, Uomo delle Nevi non era Uomo delle Nevi. No, era Jimmy. Era un bravo bambino, allora.

Il primo ricordo completo di Jimmy era quello di un gran falò. Avrà avuto cinque anni, forse sei. Portava un paio di stivali di gom¬ma rossi con una faccia di papera sorridente su ciascuna punta; se lo ricorda, perché dopo aver visto il falò aveva dovuto attraversare una piccola vasca piena di disinfettante, con quegli stivali ai piedi. Gli avevano detto che il disinfettante era velenoso e che non avreb¬be dovuto sollevare schizzi, e allora si era preoccupato che il vele¬no andasse negli occhi delle papere e facesse loro male. Gli era sta¬to detto che le papere erano come figure, tutto qui, che non erano vere e non avevano sentimenti, ma non ne era tanto sicuro.
Dunque, diciamo cinque anni e mezzo, pensa Uomo delle Nevi. È più o meno esatto.

Quanto al mese, poteva essere ottobre o novembre; a quel tem¬po le foglie cambiavano ancora colore, ed erano arancioni e ros¬se. Il terreno sotto i piedi era fangoso - doveva trovarsi in un campo - e piovigginava. Il falò era composto da un enorme ca¬tasta di mucche, pecore e maiali. Le loro zampe sporgevano ri¬gide e dritte; ci era stata versata sopra della benzina; le fiamme divampavano verso l'alto e verso l'esterno, gialle, bianche, rosse e arancioni, e un odore di carne carbonizzata riempiva l'aria. Era come quando suo padre faceva il barbecue in giardino, ma molto più forte, e vi si mescolavano la puzza di una stazione di servizio e l'odore di capelli bruciati.
Jimmy conosceva l'odore dei capelli bruciati, perché se n'era tagliato una ciocca con le forbicine per le unghie e le aveva dato fuoco con l'accendino di sua madre. I capelli si erano arricciati, contorcendosi come un viluppo di piccoli vermi neri, perciò ne aveva tagliati degli altri e lo aveva rifatto. Quando era stato sor¬preso, aveva ormai i capelli a zigzag lungo tutta la fronte. Rim¬proverato, aveva detto che si trattava di un esperimento.
Suo padre allora aveva riso, ma sua madre no. Almeno (disse suo padre) Jimmy aveva avuto il buon senso di tagliarsi i capel¬li prima di incendiarli. Sua madre sostenne che era una fortuna che non avesse incenerito la casa. Poi avevano discusso sull'ac¬cendino, che non sarebbe stato là (disse suo padre) se sua ma¬dre non avesse fumato. Sua madre disse che in fondo tutti i bambini sono dei piromani, e che se non ci fosse stato l'accen¬dino avrebbe usato i fiammiferi.
Una volta che la lite era iniziata Jimmy si era sentito solleva¬to, perché aveva capito che non sarebbe stato punito. Non do¬veva fare altro che starsene zitto e ben presto avrebbero dimen¬ticato il motivo iniziale della discussione. Ma si sentiva anche colpevole, perché guarda un po' cosa aveva combinato. Sapeva che sarebbe finita con una porta sbattuta. Si rannicchiò sempre di più nella sedia, con le parole che gli volavano avanti e indie¬tro sopra la testa, e finalmente ci fu lo sbatacchiare della porta - era stata sua madre questa volta - e la folata che seguiva. C'era sempre una leggera folata quando la porta veniva sbattuta, un piccolo sbuffo - whuff! - proprio nelle orecchie.
«Non te la prendere, vecchio mio» disse suo padre. «Le don¬ne si scaldano sempre. Si calmerà. Prendiamo un po' di gelato». E così fecero, mangiarono Raspberry Ripple nelle ciotole da ce¬reali messicane con sopra gli uccelli azzurri e rossi che erano fat¬te a mano e perciò non andavano messe in lavastoviglie, e Jimmy divorò il suo per dimostrare al padre che era tutto okay.
Le donne e i loro calori. Calore e gelo che si alternavano nel¬la strana regione muschiata e fiorita dal clima variabile sotto i loro vestiti - misteriosa, vitale, incontrollabile. Quello era il modo di vedere le cose di suo padre. Le temperature corporee degli uomini invece non venivano mai considerate; non erano neppure mai nominate, non finché lui era piccolo, tranne quan¬do suo padre diceva: raffreddiamo gli animi. Perché? Perché non si accennava mai ai calori degli uomini? A quanto accadeva al di sotto dei loro colletti affilati e lisci, in quegli anfratti scuri, sulfurei, ispidi. Avrebbe avuto bisogno di qualche teoria al ri¬guardo.

Il giorno seguente suo padre lo portò da un barbiere nella cui vetrina c'era la foto di una bella ragazza, con la bocca imbron¬ciata e una T-shirt nera calata giù da una spalla; lanciava sguar¬di cattivi dagli occhi impiastricciati di nero e aveva i capelli drit¬ti e rigidi come aculei. Dentro, il pavimento di piastrelle era co¬sparso di capelli, in ciocche e mucchietti; li stavano raccoglien¬do con una scopa. Prima a Jimmy fu messa una mantellina nera, solo che assomigliava di più a un bavaglino e lui non la voleva, perché era da bambini piccoli. Il barbiere si mise a ridere e dis¬se che non era un bavaglino, perché dove si era mai visto un bambino con un bavaglino nero? Dunque era tutto a posto; e poi a Jimmy venne fatto un taglio radicale per pareggiare i pun¬ti irregolari, il che forse era quello che aveva voluto fin dall'ini¬zio: capelli più corti. Poi gli misero della roba presa da un va¬setto per farli a punta. Odorava di bucce d'arancia. Sorrise a se stesso nello specchio, quindi fece un'espressione minacciosa, spingendo in giù le sopracciglia.
«Un vero duro, questo ragazzino» disse il barbiere, facendo un cenno al padre di Jimmy. «Una tigre». Scosse i capelli taglia¬ti di Jimmy sul pavimento insieme agli altri, quindi gli tolse la mantellina nera con un ampio gesto e lo mise giù.

Al falò Jimmy era in ansia per gli animali, perché venivano bru¬ciati e questo li faceva sicuramente soffrire. No, gli disse suo pa¬dre. Gli animali erano morti. Erano come bistecche e salsicce, solo che avevano ancora la pelle addosso.
E le teste, pensò Jimmy. Le bistecche non avevano le teste. Le teste cambiavano tutto: gli sembrava che le bestie gli lanciassero sguardi pieni di rimprovero dagli occhi infuocati. In un certo senso tutto questo - il falò, l'odore di bruciato, ma soprattutto gli animali incendiati e sofferenti - era colpa sua, perché non aveva fatto nulla per salvarli. Nello stesso tempo il falò gli pare¬va uno spettacolo magnifico, con tanta luce, come un albero di Natale, ma un albero di Natale in fiamme. Sperava che magari ci fosse un'esplosione, come in tv.
Il padre gli stava accanto, tenendolo per mano. «Tirami su» disse Jimmy. Il padre immaginò che volesse essere consolato, perciò lo sollevò e lo abbracciò. Ma Jimmy voleva anche vedere meglio.
«È così che finisce» disse il padre di Jimmy, non a lui ma a un uomo che era con loro. «Una volta che le cose si mettono in moto». Sembrava arrabbiato, come pure l'uomo quando rispose.
«Dicono che sia stato introdotto apposta».
«Non mi stupirebbe» disse il padre di Jimmy.
«Posso avere un corno di mucca?» chiese Jimmy. Non vede¬va perché dovessero andare sprecati. Voleva chiederne due, ma forse sarebbe stato troppo.
«No» disse suo padre. «Non questa volta, vecchio mio». Gli diede dei colpetti sulla gamba.
«Fanno salire i prezzi» disse l'uomo. «Così fanno un macello di soldi con la loro roba».
«Un macello, proprio così» fece il padre di Jimmy in tono di¬sgustato. «Ma potrebbe essere stata solo l'opera di un folle. L'o¬pera di qualche setta, non si sa mai».
«Perché no?» domandò Jimmy. Nessun altro voleva le corna. Ma questa volta suo padre lo ignorò.
«La questione è: come hanno fatto?» disse. «Pensavo che i nostri ci avessero sigillato ermeticamente».
«Lo pensavo anch'io. Sborsiamo abbastanza soldi. Cosa face¬vano quei tizi? Non sono pagati per dormire».
«Forse sono stati corrotti» disse il padre di Jimmy. «Control¬leranno i bonifici bancari, anche se bisognerebbe essere piutto¬sto stupidi per ficcare quel genere di denaro in una banca. Co¬munque cadrà qualche testa».
«Passeranno tutto al setaccio, non vorrei essere nei loro pan¬ni» disse l'uomo. «Ma chi è che viene da fuori?»
«I tipi che fanno le riparazioni. I furgoni delle consegne».
«Dovrebbero portare tutta questa roba all'interno».
«Ho sentito dire che c'è già un progetto» disse suo padre. «Ma questo germe è una novità. Abbiamo la bioimpronta».
«Comunque bisogna essere in due per questo gioco» disse l'uomo.
«Si può essere in quanti si vuole» concluse il padre di Jimmy.

«Perché hanno dato fuoco alle mucche e alle pecore?» do¬mandò Jimmy a suo padre il giorno seguente. Stavano facendo colazione tutti e tre insieme, perciò doveva essere domenica. Era il giorno in cui a colazione c'erano entrambi i suoi genitori.
Il padre di Jimmy era alla sua seconda tazza di caffè. Mentre la beveva, prendeva appunti su una pagina piena di numeri. «Bi¬sognava bruciarle» disse, «per evitare che si diffondesse». Non alzò lo sguardo; giocherellava con la calcolatrice tascabile, ap¬puntando qualcosa con la matita.
«Che si diffondesse cosa?»
«Il morbo».
«Che cos'è un morbo?»
«Un morbo è come quando hai la tosse» rispose la madre.
«Se mi viene la tosse, sarò bruciato?»
«È molto probabile» disse il padre, girando pagina.
Jimmy si spaventò, perché la settimana prima aveva avuto la tosse. Sarebbe potuta tornargli in qualsiasi momento: già non riusciva a deglutire. Si vedeva i capelli in fiamme, non solo una ciocca o due su un piattino, ma tutti, ancora attaccati alla testa. Non voleva essere ammucchiato insieme alle mucche e alle pe¬core. Si mise a piangere.
«Quante volte devo dirtelo?» disse la madre. «È troppo pic¬colo».
«Papà fa di nuovo il mostro» fece il padre di Jimmy. «Era uno scherzo, amico. Hai presente uno scherzo? Ah, ah».
«Non capisce questo genere di scherzi».
«Certo che li capisce. Non è vero, Jimmy?»
«Sì» rispose lui, tirando su col naso.
«Lascia in pace papà» disse la madre. «Papà sta pensando. È per questo che lo pagano. Adesso non ha tempo per te».
Suo padre lasciò cadere la matita. «Diamine, perché non la pianti?»
Sua madre infilò la sigaretta nella tazza di caffè mezzo vuota. «Avanti, Jimmy, andiamo a fare una passeggiata». Lo tirò su per un polso, si chiuse la porta sul retro alle spalle con attenzione esagerata. Non fecero neppure in tempo a mettersi le giacche. Niente giacche, niente cappelli. Lei era in vestaglia e pantofole.
Il cielo era grigio, il vento gelido; lei camminava a testa bassa, i capelli che svolazzavano. Girarono intorno alla casa sul prato zuppo, a un'andatura due volte più veloce del normale, mano nella mano. A Jimmy sembrava di essere trascinato in acque profonde da un qualcosa munito di artigli di acciaio. Si sentiva sballottato, come se tutto stesse per essere strappato e portato via. Allo stesso tempo si sentiva euforico. Guardava le pantofo¬le della madre: erano già sporche di fango. Avrebbe passato guai seri, se avesse conciato così le sue.
Rallentarono, quindi si fermarono. Poi ecco che sua madre cominciò a parlargli nella voce calma da simpatica maestra tele¬visiva che usava quando era furiosa. Un morbo, disse, era invisi¬bile, perché era minuscolo. Poteva volare nell'aria o nasconder¬si nell'acqua, o sulle dita dei bambini, ed era per questo che non bisognava infilarsi le dita nel naso e poi metterle in bocca, e per¬ché bisognava sempre lavarsi le mani dopo essere andati in ba¬gno, e perché non bisognava strofinarsi...
«Lo so» disse Jimmy. «Posso entrare? Ho freddo».
Sua madre si comportò come se non l'avesse sentito. Un morbo, continuò in quella voce calma e tesa, un morbo ti entra dentro e cambia le cose al tuo interno. Ti modifica, una cellu¬la dopo l'altra, e questo fa ammalare le cellule. E dal momento che siamo fatti di tante piccolissime cellule che lavorano tutte insieme per farci rimanere vivi, quando se ne ammalano trop¬pe, allora...
«Potrebbe venirmi la tosse» disse Jimmy. «Potrebbe venirmi adesso!» Fece un verso che ricordava un colpo di tosse.
«Oh, lascia stare» disse sua madre. Cercava spesso di spie¬gargli le cose; poi si scoraggiava. Quelli erano i momenti peg¬giori, per tutti e due. Le faceva resistenza, fingeva di non capire anche quando capiva, faceva lo stupido, ma non voleva che si desse per vinta. Voleva che fosse coraggiosa, che ce la mettesse tutta e abbattesse il muro che aveva innalzato contro di lei, che continuasse a parlare.
«Voglio sentire la storia delle cellule piccolissime» disse, pia-gnucolando per quel tanto che osava. «Lo voglio!»
«Oggi no» fece lei. «Adesso rientriamo».

OrganInc Farms

Il padre di Jimmy lavorava alla OrganInc Farms. Era un genografo, uno dei migliori nel suo campo. Aveva compiuto alcuni dei suoi studi fondamentali sulla mappatura del proteonoma quando era ancora specializzando, dunque aveva collaborato alla messa a punto del topo Matusalemme nell'ambito dell'O¬perazione Immortalità. In seguito, alla OrganInc Farms, era sta¬to uno dei principali artefici del progetto proporco, insieme a una squadra di esperti in trapianti e ai microbiologi che faceva¬no esperimenti di saldatura genetica contro le infezioni. Propor¬co era solo un nomignolo: il nome ufficiale era sus multiorganifer. Ma tutti lo chiamavano proporco. A volte dicevano OrganOink Farms, ma non troppo spesso. Comunque non era una vera fattoria, come quelle nelle illustrazioni.
Lo scopo del progetto proporco era far crescere una serie di organi di tessuto umano sicuri in un ospite, un maiale knock-out transgenico: organi che non solo si sarebbero potuti trapiantare facilmente evitando qualsiasi rigetto, ma sarebbero stati anche in grado di respingere gli attacchi di microbi e virus opportuni¬stici, che ogni anno davano sempre nuovi motivi di preoccupa¬zione. Un gene a sviluppo rapido fu saldato e impiantato in modo che i reni, il fegato e il cuore di proporco fossero pronti in tempi brevi, e ora si stava perfezionando un proporco capace di far crescere cinque o sei reni alla volta. Un simile animale ospite poteva essere privato dei reni in eccedenza; poi, invece di essere eliminato, poteva essere tenuto in vita per far crescere al¬tri organi, più o meno come un'aragosta fa crescere una nuova chela in sostituzione di una mancante. In tal modo si sarebbero evitati sprechi, giacché occorrevano cibo e cure in quantità per allevare un proporco. Sulla OrganInc Farms si era riversato un fiume di investimenti.
Tutto questo fu spiegato a Jimmy quando fu abbastanza grande.

Abbastanza grande, pensa Uomo delle Nevi mentre si gratta, in¬torno ma non sopra, le punture d'insetto. Che idea sciocca. Ab¬bastanza grande per cosa? Per bere, per scopare, per sapere come va il mondo? Qual era l'idiota che si accollava la respon¬sabilità di prendere certe decisioni? Per esempio, lo stesso Uomo delle Nevi non è abbastanza grande per questa, questa... come chiamarla? Questa situazione. Non sarà mai abbastanza grande, nessun essere umano sano di mente potrebbe esserlo mai...
Ognuno di noi deve seguire il percorso tracciato davanti a sé, dice la voce nella sua testa, maschile questa volta, nel tono del guru fasullo, e ogni sentiero è unico. Non è la natura del percor¬so in quanto tale che dovrebbe interessare il cercatore, quanto la grazia, la forza e la pazienza con cui ognuno di noi segue il talvol¬ta impegnativo...
«Al diavolo» dice Uomo delle Nevi. Uno scadente manuale di auto-rivelazione per gonzi. Ma ha la fastidiosa sensazione che potrebbe anche averla scritta lui, quella perla.
In tempi più felici, naturalmente. Oh, molto più felici.

Gli organi del proporco potevano essere personalizzati utilizzan¬do cellule di singoli donatori umani, e congelati finché non ce n'e¬ra bisogno. Era molto più economico che farsi clonare per rica¬vare pezzi di ricambio - rimaneva sempre qualche ruga da stira¬re, come diceva il padre di Jimmy - o nascondere un ragazzino o due in qualche vivaio fuorilegge per bambini nel caso di eventua¬li espianti. Negli opuscoli e nei materiali promozionali della OrganInc, stilati con discrezione su carta patinata, si sottolineavano l'efficacia e i vantaggi relativi per la salute del proporco. Inoltre, per tranquillizzare gli ansiosi, si dichiarava che nemmeno uno de¬gli animali defunti finiva per diventare bacon o salsicce: nessuno avrebbe voluto mangiare un animale le cui cellule potevano esse¬re identiche ad almeno qualcuna delle proprie.
Eppure, mentre il tempo passava e le falde idriche costiere di¬ventavano salmastre, il perafrost al nord si scioglieva e la tundra sconfinata ribolliva di metano, la siccità nelle pianure al centro dei continenti non accennava a finire e le steppe asiatiche si tra¬sformavano in dune sabbiose, e la carne diventava sempre più difficile da trovare, c'era chi nutriva dei dubbi. Perfino all'inter¬no della OrganInc Farms saltava agli occhi quanto spesso nel menù del ristorante del personale comparissero panini al bacon o al prosciutto. Il nome ufficiale del locale era André's Bistro, ma i dipendenti lo chiamavano Grufolo. Le volte che Jimmy pranzava là con suo padre, il che avveniva quando la madre si sentiva stressata, gli uomini e le donne ai tavoli vicini facevano battute di cattivo gusto.
«Ancora pasticcio di proporco» dicevano. «Frittelle di pro¬porco, popcorn di proporco. Avanti, Jimmy, mangia tutto!» Questo turbava Jimmy; non aveva le idee chiare su cosa si po¬tesse o meno mangiare. Non voleva mangiare i proporci, perché li considerava creature molto simili a sé. Né lui né loro avevano molta voce in capitolo.
«Non farci caso, tesoro» diceva Ramona. «Ti stanno solo prendendo in giro, sai?» Ramona era uno dei tecnici di labora¬torio di suo padre. Pranzava spesso con loro, con lui e il padre. Era giovane, più giovane di suo padre e anche di sua madre; as¬somigliava un po' alla foto della ragazza nella vetrina del bar¬biere, aveva lo stesso tipo di labbra sporgenti e gli occhi grandi come i suoi, grandi e impiastricciati. Ma sorrideva molto, e non aveva i capelli come aculei. I suoi erano soffici e scuri. I capelli della madre di Jimmy erano - a suo dire - biondo sporco. («Non abbastanza sporco» diceva suo padre. «Ehi! Scherzo! Non uc¬cidermi!»)
Ramona prendeva sempre un'insalata. «Come sta Sharon?» domandava al padre di Jimmy, guardandolo con i suoi occhi grandi e solenni. Sharon era la madre di Jimmy.
«Non troppo bene» rispondeva lui.
«Oh, che peccato».
«È un problema. Comincio a preoccuparmi».
Jimmy guardava mangiare Ramona. Staccava morsi molto piccoli, e riusciva a masticare l'insalata senza fare rumore. An¬che le carote crude. Era sorprendente, quasi sapesse liquefare quei cibi duri e croccanti e risucchiarli, come una zanzara alie¬na in un dvd.
«Forse dovrebbe... che so... vedere qualcuno?» le sopracciglia di Ramona si sollevarono preoccupate. Aveva dell'ombretto color malva sulle palpebre, un po' troppo; gliele faceva increspare. «Al giorno d'oggi si può fare tutto, ci sono tante di quelle pillo¬le nuove...» Ramona passava per un genio della tecnologia, ma parlava come una sventola nella pubblicità di un gel doccia. Non era stupida, diceva il padre di Jimmy, semplicemente non voleva impiegare l'energia dei suoi neuroni in frasi lunghe. C'e¬ra tanta gente così alla OrganInc, e non erano tutte donne. Era perché si trattava di amanti dei numeri, non delle parole, diceva suo padre. Jimmy sapeva già di non appartenere alla prima ca¬tegoria.
«Non credere che non gliel'abbia suggerito, ho chiesto in giro, ho trovato quanto c'è di meglio, ho preso un appuntamen¬to, ma non c'è stato verso» disse il padre di Jimmy, tenendo lo sguardo sul tavolo. «Ha le sue idee».
«Che peccato, che spreco. Voglio dire, era così intelligente!»
«Oh, è ancora abbastanza intelligente» disse il padre di Jimmy. «Ha tanta di quell'intelligenza da uscirle dalle orecchie».
«Ma era così, sai...»
La forchetta scivolava dalle dita di Ramona, e i due si fissava¬no come se cercassero l'aggettivo ideale per descrivere com'era sua madre. Poi si accorgevano che Jimmy stava a sentire e diri¬gevano la loro attenzione su di lui, quasi fossero raggi extrater¬restri. In modo fin troppo allegro.
«E allora, Jimmy, tesoro, come va la scuola?»
«Mangia tutto, vecchio mio, mangia anche le croste, riempiti lo stomaco!»
«Posso andare a vedere i proporci?» chiedeva Jimmy.

I proporci erano molto più grandi e più grassi dei maiali comu¬ni, per lasciare spazio a tutti gli organi extra. Erano tenuti in edi¬fici speciali dotati di notevoli misure di sicurezza: il rapimento da parte di un'azienda rivale di un proporco e del suo materia¬le genetico scrupolosamente messo a punto sarebbe stato un di¬sastro. Quando Jimmy andava a visitare i proporci doveva pri¬ma indossare una biotuta troppo grande per lui, mettersi una maschera sul viso e lavarsi le mani con sapone disinfettante. Gli piacevano soprattutto i piccoli, intenti a trangugiare latte in file di dodici per ogni scrofa. Proporcellini. Erano graziosi. Ma gli adulti facevano un po' paura, con i musi che colavano e i picco¬li occhi rosa dalle ciglia bianche. Alzavano lo sguardo su Jimmy come se lo vedessero, lo vedessero davvero, e magari avessero dei progetti su di lui.
«Proporco, sei sporco, proporco, sei sporco» cantilenava per calmarli, sporgendosi oltre l'orlo del recinto. Subito dopo che erano stati lavati, i recinti non puzzavano troppo. Era contento di non vivere là dentro, dove gli sarebbe toccato stare sdraiato tra cacca e pipì. I proporci non avevano bagni e la facevano dappertutto; questo gli suscitava una vaga sensazione di vergogna. Eppure era un pezzo che non bagnava il letto, o almeno così cre¬deva.
«Non cadere dentro» diceva suo padre. «Ti mangeranno in un boccone».
«No che non lo faranno» replicava Jimmy. Perché sono loro amico, pensava. Perché canto per loro. Avrebbe voluto avere un lungo bastone e colpirli - non per far loro del male, solo per far¬li correre di qua e di là. Passavano fin troppo tempo senza far niente.

Quando Jimmy era molto piccolo, avevano vissuto in una casa di legno in stile Cape Cod all'interno di uno dei Moduli - c'era¬no foto sue dentro a una culla portatile nella veranda, con le date e tutto, un album di fotografie del periodo in cui sua ma¬dre si occupava ancora di certe cose - mentre ora vivevano in un grande centro residenziale in stile georgiano, con una piscina in¬terna e una piccola palestra. I mobili erano riproduzioni. Jimmy dovette crescere un bel po' prima di rendersi conto di cosa si¬gnificasse quella parola; che si supponeva che per ogni pezzo ri-prodotto ci fosse un originale da qualche parte. O ci fosse stato una volta. O qualcosa del genere.
Casa, piscina, mobili: apparteneva tutto al Recinto della OrganInc, dove vivevano i pezzi grossi. Poi aveva cominciato a vi¬verci un numero sempre maggiore di dirigenti di medio livello e di ricercatori di grado inferiore. Il padre di Jimmy diceva che era la cosa migliore per tutti, perché così nessuno doveva più fare la spola tra i Moduli e il lavoro. Nonostante i corridoi di tra¬sporto sterili e i treni lampo ad alta velocità, c'era sempre il ri¬schio di fare tardi quando si attraversava la città.
Jimmy non era mai stato in città. L'aveva solo vista in tv: car¬telloni pubblicitari, insegne al neon e distese di edifici alti e bas¬si a non finire; innumerevoli strade dall'aspetto squallido, un mare di veicoli di tutti i tipi, alcuni dei quali seminavano nuvo¬le di fumo; migliaia di persone che andavano di fretta, esultava¬no, creavano disordini. C'erano anche altre città, vicine e lonta¬ne; alcune avevano quartieri migliori, diceva suo padre, quasi come i Recinti, con alte mura intorno alle case, ma quelle non si vedevano troppo spesso in tv.
Gli abitanti del Recinto non andavano nelle città a meno che non vi fossero costretti, e anche allora mai da soli. Chiamavano le città plebopoli. Nonostante le carte d'identità con le impron¬te digitali di cui ora tutti dovevano essere provvisti, nelle plebo¬poli la pubblica sicurezza faceva acqua: vi si aggiravano indivi¬dui capaci di falsificare qualsiasi cosa e che potevano essere chiunque, per non parlare dei pesci piccoli: tossici, rapinatori, poveri, squilibrati. Perciò la cosa migliore per tutti coloro che lavoravano alla OrganInc Farms era vivere nello stesso posto, seguendo semplici procedure.
Oltre le mura, i cancelli e i riflettori dell'OrganInc si apriva il campo dell'imponderabile. Al loro interno le cose erano come quando il padre di Jimmy era bambino, prima che la situazione si facesse così seria, o almeno così sosteneva lui. La madre di Jimmy diceva che era tutto finto, nient'altro che un gran parco di divertimenti, e che era impossibile far rivivere le vecchie usanze, ma il padre di Jimmy diceva perché criticare? Si poteva andare in giro senza paura, no? E fare una passeggiata in bici-cletta, sedere in un caffè all'aperto, comprare un cono gelato? Jimmy sapeva che aveva ragione, perché aveva fatto lui stesso tutte quelle cose.
Eppure gli uomini del CorpSeCorps - quelli che il padre di Jimmy chiamava i nostri - quegli uomini dovevano stare costan¬temente allerta. Quando la posta in gioco era così alta, non si sa¬peva a cosa poteva fare ricorso l'altra parte. L'altra parte, o le al¬tre parti: non era soltanto una, la parte da cui ci si doveva guar¬dare. Altre compagnie, altri paesi, svariate fazioni e cospiratori. C'erano troppi hardware in giro, diceva il padre di Jimmy. Trop¬pi hardware, troppi software, troppe bioforme ostili, troppe armi di ogni genere. E troppa invidia, fanatismo e malafede.
Tanto tempo prima, all'epoca dei cavalieri e dei draghi, re e duchi avevano vissuto in castelli con alte mura, ponti levatoi e bastioni muniti di feritoie per versare pece bollente sui nemici, diceva il padre di Jimmy, e i Recinti incarnavano la stessa idea. I castelli servivano a tenerti al sicuro insieme ai tuoi amici e a la¬sciare fuori tutti gli altri.
«Perciò noi siamo i re e i duchi?» domandava Jimmy.
«Oh, certo» rispondeva il padre, ridendo.

Pranzo

Una volta la madre di Jimmy aveva lavorato alla OrganInc Farms. Era così che aveva conosciuto suo padre: lavoravano tut¬ti e due nello stesso Recinto, allo stesso progetto. Sua madre era microbiologa: il suo compito era studiare le proteine delle bioforme nocive ai proporci e modificarne i recettori in modo che non potessero unirsi a quelli delle cellule dei proporci, o svi¬luppare farmaci che agissero da bloccanti.
«È molto semplice» disse a Jimmy una volta che era in vena di spiegazioni. «I microbi e i virus cattivi vogliono entrare dalle porte delle cellule e divorare i proporci da dentro. Il compito della mamma era fare le serrature per le porte». Sullo schermo del suo computer mostrò a Jimmy immagini delle cellule, im¬magini dei microbi, immagini dei microbi che entravano nelle cellule, le infettavano e le facevano scoppiare, immagini ravvici¬nate delle proteine, immagini dei farmaci che una volta aveva te-stato. Le immagini assomigliavano ai contenitori di caramelle del supermercato: un contenitore di plastica trasparente pieno di caramelle rotonde, un contenitore di plastica trasparente pie¬no di gelatine, un contenitore di plastica trasparente pieno di lunghe rotelle di liquirizia. Le cellule erano come i contenitori di plastica trasparente, con i coperchi che si potevano sollevare.
«Perché hai smesso di fare le serrature per le porte?» do¬mandò Jimmy.
«Perché volevo restare a casa con te» rispose lei, guardando al di sopra della testa del figlio e dando un tiro alla sigaretta.
«E i proporci?» disse Jimmy, allarmato. «I microbi ci entre¬ranno dentro?» Non voleva che i suoi amici animali scoppiasse¬ro come le cellule infette.
«Ora se ne occupano altre persone» disse sua madre. Sem¬brava che se ne infischiasse. Lasciò che Jimmy giocasse con le immagini sul suo computer, e una volta che ebbe imparato a far funzionare i programmi poté utilizzarle in giochi di guerra, cel¬lule contro microbi. La madre diceva che non c'era problema se cancellava qualcosa, perché ormai tutto quel materiale era co¬munque obsoleto. Tuttavia certi giorni - giorni in cui appariva vispa e risoluta, e motivata, e calma - voleva giocherellare anche lei con il computer. Gli piaceva quando era così, quando sem¬brava che si divertisse. Era anche affettuosa, allora. Era come una madre vera, e lui era come un figlio vero. Ma non restava a lungo di quell'umore.
Quando aveva smesso di lavorare al laboratorio? Quando Jimmy aveva iniziato a frequentare la prima elementare a tempo pieno alla scuola dell'OrganInc. Il che era assurdo, perché, se voleva stare a casa con Jimmy, per quale motivo aveva comin¬ciato a farlo proprio quando lui a casa non ci sarebbe più stato? Jimmy non riusciva proprio a immaginarlo, e la prima volta che sentì quella spiegazione era troppo piccolo anche solo per pen¬sarci. L'unica cosa che aveva capito era che Dolores, la camerie¬ra filippina, era stata mandata via, e lui ne aveva sentito molto la mancanza. Lo chiamava Jim-Jim e sorrideva e rideva e gli pre¬parava le uova proprio come piacevano a lui, gli cantava canzo¬ni e lo viziava. Ma Dolores dovette andare via, perché adesso la vera mamma di Jimmy sarebbe stata tutto il tempo con lui - la cosa gli fu presentata come una minaccia - e nessuno aveva bi¬sogno di due mamme, non è vero?
Oh, sì che ne aveva, pensa Uomo delle Nevi. Oh, sì, un gran bisogno.

Uomo delle Nevi ha un'immagine chiara di sua madre - della madre di Jimmy - seduta al tavolo della cucina, ancora in ac¬cappatoio quando lui tornava a casa da scuola per il pranzo. Da¬vanti a sé aveva una tazza di caffè intonsa; guardava fuori dalla finestra e fumava. L'accappatoio era color magenta, un colore che ancora oggi gli fa venire l'ansia ogni volta che lo vede. Di re¬gola non c'era nessun pranzo pronto per lui e doveva farselo da solo, mentre l'unica forma di partecipazione della madre era im-partire istruzioni con voce monotona. («Il latte è nel frigo. A de¬stra. No, a destra. Non sai qual'è la tua mano destra?») Sembra¬va così stanca; forse era stanca di lui. O forse era malata.
«Sei infetta?» le domandò un giorno.
«Cosa vuoi dire, Jimmy?»
«Come le cellule».
«Oh. Capisco. No, non lo sono» rispose. Poi, dopo un istan¬te: «O forse sì». Ma quando la faccia di lui si raggrinzì, fece mar¬cia indietro.
Più di ogni altra cosa, Jimmy voleva farla ridere: renderla feli¬ce, come gli pareva di ricordare che fosse una volta. Le racconta¬va cose buffe che erano successe a scuola, o cose che cercava di far sembrare buffe, o semplicemente cose che inventava. («Carrie Johnston ha fatto la cacca per terra».) Faceva capriole per la stan¬za, storcendo gli occhi e squittendo come una scimmia, un truc¬co che funzionava con parecchie bambine della sua classe e con quasi tutti i bambini. Si metteva del burro di arachidi sul naso e cercava di leccarselo via con la lingua. Il più delle volte queste at-tività non facevano che irritare sua madre: «Non è divertente, è disgustoso». «Smettila, Jimmy, mi fai venire il mal di testa». Ma poi magari riusciva a strapparle un sorriso, o anche di più. Non sa¬peva mai con cosa avrebbe fatto centro.
Una volta ogni tanto c'era un vero pranzo ad aspettarlo, un pranzo talmente elaborato e stravagante da spaventarlo, perché cosa si festeggiava? Tavola apparecchiata, tovagliolo di carta -tovagliolo di carta colorato, come alle feste - il panino con bur¬ro di noccioline e marmellata, la sua combinazione preferita; solo che consisteva di una sola fetta ed era rotondo, una testa di burro di noccioline con una sorridente faccia di marmellata. Sua madre era vestita con cura, il suo sorriso di rossetto un'eco del sorriso di marmellata sul panino, e sprizzava attenzione da tutti i pori, per lui e per le sue storie stupide, guardandolo aperta¬mente con i suoi occhi più azzurri dell'azzurro. Quello che gli ricordava in tali occasioni era un lavandino di porcellana: puli¬to, scintillante, duro.
Sapeva che da lui ci si aspettava che apprezzasse tutti gli sfor¬zi profusi in quel pranzo, perciò faceva anche lui uno sforzo. «Accidenti, il mio preferito!» esclamava roteando gli occhi, ac¬carezzandosi lo stomaco per fare la caricatura dell'affamato, esa¬gerandola. Ma otteneva quello che voleva, perché allora lei ri¬deva.
Man mano che diventava più grande e più subdolo, scoprì che nei giorni in cui non riusciva a strappare un consenso riu¬sciva almeno a ottenere una reazione. Qualsiasi cosa era meglio della voce monotona, degli occhi vuoti, dello stanco sguardo fis¬so fuori dalla finestra.
«Posso avere un gatto?» cominciava.
«No, Jimmy, non puoi avere un gatto. Ne abbiamo già parla¬to. I gatti potrebbero portare malattie nocive ai proporci».
«Ma a te non importa». Questo con voce furba.
Un sospiro, uno sbuffo di fumo. «Importa ad altri».
«Allora posso avere un cane?»
«No. Nemmeno cani. Perché non trovi qualcosa da fare nella tua stanza?»
«Posso avere un pappagallo?»
«No. Adesso smettila». In realtà non lo stava a sentire.
«Non posso avere niente?»
«No».
«Ah, bene» esultava lui. «Hai detto di no! Perciò qualcosa potrò pure averla! Che cosa?»
«Jimmy, a volte sei un rompiscatole, lo sai?»
«Posso avere una sorellina?»
«No!»
«Allora un fratellino? Per favore?»
«No significa no! Non mi hai sentito? Ho detto di no!»
«Perché no?»
Quella era la chiave, la formula magica. Lei poteva mettersi a piangere, saltare su e correre fuori della stanza sbattendosi die¬tro la porta, whuff. O mettersi a piangere e abbracciarlo. O ti¬rare la tazza di caffè da una parte all'altra della stanza e urlare. «È tutta una merda, una merda totale, non c'è speranza!» Pote¬va perfino dargli uno schiaffo e poi piangere e abbracciarlo. Po¬teva essere una qualsiasi combinazione di queste cose.
Oppure avrebbe pianto e basta, la testa appoggiata sulle braccia. Avrebbe tremato tutta, respirando a fatica, senza fiato, tra i singhiozzi. In quei casi non sapeva che fare. Le voleva tal¬mente bene quando la rendeva infelice, o anche quando era lei a renderlo infelice: in quei momenti si raccapezzava a malapena. L'accarezzava tenendosi a distanza, come si fa con i cani che non si conoscono, allungando la mano e dicendo: «Mi dispiace, mi dispiace». E gli dispiaceva davvero, ma c'era dell'altro: gongola¬va, si felicitava con se stesso per essere riuscito a ottenere quel risultato.
Era anche spaventato. Era sempre sul filo del rasoio: si era spinto troppo oltre? E in tal caso, cosa sarebbe successo?

3

Mezzogiorno

Mezzogiorno è la cosa peggiore, per il riverbero e l'umidità. Ver¬so le undici Uomo delle Nevi si ritira nel bosco, completamente fuori dalla vista del mare, perché i raggi nocivi rimbalzano sul¬l'acqua e lo raggiungono anche se non è allo scoperto, e allora si arrossa e si ricopre di vesciche. In realtà quello che gli ci vor¬rebbe è un tubetto di crema solare molto forte, se solo fosse pos¬sibile trovarlo.
Nella prima settimana, quando aveva più energie, si era co¬struito una tettoia con dei rami caduti, un rotolo di nastro ade¬sivo e un telone di plastica trovato nel portabagagli di un'auto fracassata. Allora aveva un coltello, ma lo aveva perduto una set¬timana più tardi, o erano due? Doveva tenere un conto più pre¬ciso di cose come le settimane. Il coltello era uno di quegli arti¬coli da tasca con due lame, un punteruolo, un seghetto, una limetta per unghie e un cavatappi. Aveva anche un paio di forbi¬cine, che aveva usato per tagliarsi le unghie dei piedi e per il na¬stro adesivo. Si rammarica della perdita delle forbici.
Un coltello come quello gli era stato regalato per il suo nono compleanno, da suo padre. Suo padre gli regalava sempre qual¬che arnese, cercando di renderlo più pratico. A sentir lui Jimmy non sarebbe stato capace di scopare via le foglie dal vialetto. Ma chi ha voglia di scopare nel vialetto? dice una voce nella testa di Uomo delle Nevi, la voce di un comico da cabaret questa volta. Io preferirei farlo a letto.
«Zitto» dice Uomo delle Nevi.
«Gli hai dato un dollaro?» gli aveva chiesto Oryx, quando le aveva raccontato del coltello.
«No. Perché?»
«Bisogna dare dei soldi quando qualcuno ti regala un coltel¬lo. Così la sfortuna non ti colpirà. Non mi piacerebbe che fossi colpito dalla sfortuna, Jimmy».
«Chi te l'ha detto?»
«Oh, qualcuno» aveva risposto Oryx. Qualcuno giocava un ruolo importante nella sua vita.
«Qualcuno chi?» Jimmy lo odiava, quel qualcuno - senza vol¬to, senza occhi, beffardo, tutto mani e uccello, ora singolo, ora doppio, ora una moltitudine - ma Oryx aveva la bocca vicino al suo orecchio e sussurrava Oh-oh, qual-cu-no, ridendo al tempo stesso, perciò come poteva concentrarsi sul suo stupido vecchio odio?

Durante la breve vita della tettoia aveva dormito su una branda pieghevole che aveva trascinato da un bungalow a circa un chi¬lometro di distanza, un telaio di metallo con un materasso di gommapiuma su una rete a molle. La prima notte era stato at¬taccato dalle formiche, perciò aveva riempito d'acqua quattro vasi e ci aveva infilato le gambe della branda. Ciò aveva messo un freno alle formiche. Ma l'accumulo di aria afosa e umida sot¬to il telone era troppo fastidioso: di notte, a livello del suolo, senza un filo di vento, sembrava che l'umidità fosse al cento per cento: il suo fiato appannava la plastica.
Erano una seccatura anche i moffoni, che strascicavano le zampe tra le foglie e gli annusavano le dita dei piedi, frugando tutt'intorno come se fosse già immondizia; e una mattina, sve¬gliandosi, aveva trovato tre proporci che lo fissavano attraverso la plastica. Uno era maschio; gli parve di vedere la punta scintil¬lante di una zanna bianca. Si riteneva che i proporci fossero pri¬vi di zanne, ma forse erano regrediti, ora che vivevano allo stato brado, un processo accelerato dovuto ai loro geni a maturazio¬ne rapida. Aveva gridato e agitato le braccia contro di loro, e quelli erano fuggiti via, ma chi poteva dire di cosa sarebbero sta¬ti capaci la prossima volta che fossero tornati a gironzolare lì in¬torno? Loro, o i calupi: non ci avrebbero messo una vita a sco¬prire che non aveva più una pistola spray. L'aveva gettata via quando aveva finito i proiettili virtuali. Era stato sciocco a non sgraffignarne una scorta: un errore, come sistemare la zona not¬te a livello del suolo.
Così, si era trasferito sull'albero. Niente proporci o calupi las¬sù, e pochi moffoni: preferivano la boscaglia. Aveva costruito una rudimentale piattaforma tra i rami con pezzi di legno e na¬stro adesivo. Non si era trattato di un lavoro sgradevole: era sempre stato più bravo di quanto non pensasse suo padre a fab¬bricare cose. All'inizio aveva portato lassù il materasso di gom¬mapiuma, ma aveva dovuto gettarlo via quando aveva comincia¬to ad ammuffire e a odorare in maniera invitante di minestra di pomodoro.
Il telone di plastica sulla tettoia è stato strappato via da un temporale insolitamente violento. Il telaio del letto però è rima¬sto; può ancora usarla a mezzogiorno. Ha scoperto che se ci si stende sopra supino, con le braccia spalancate e senza lenzuolo, come un santo pronto a essere arrostito, sta meglio che steso a terra: almeno sente un po' d'aria su tutte le superfici del corpo.
Dal nulla appare una parola: Mesozoico. Può vedere la paro¬la, può sentirla, ma non può raggiungerla. Non le associa nien¬te. Capita troppo spesso negli ultimi tempi, questa dissoluzione del significato, con le voci delle sue adorate liste di parole che si disperdono nello spazio.
«È solo il caldo» si dice. «Starò bene quando pioverà». Suda talmente che può quasi sentire i rivoli che gli colano addosso, solo che a volte i rivoli si rivelano insetti. A quanto pare attira gli scarafaggi. Scarafaggi, mosche, api, quasi fosse carne morta, o uno dei fiori più disgustosi.
La cosa migliore delle ore intorno a mezzogiorno è che alme¬no non gli viene fame: il solo pensiero del cibo gli dà la nausea, come una torta al cioccolato in un bagno turco. Gli piacerebbe potersi rinfrescare facendo spenzolare fuori la lingua.

Ora il sole è al massimo del suo splendore; zenit, lo chiamavano una volta. Uomo delle Nevi se ne sta spaparanzato sulla rete del letto, nell'ombra liquida, consegnandosi al caldo. Facciamo fin¬ta di essere in vacanza! Una voce d'insegnante questa volta, bal¬danzosa, condiscendente. Ms. Stratton Chiamatemi-Pure-Sally, con il suo sederone. Facciamo finta così, facciamo finta cosà. Pas¬savano i primi tre anni di scuola a farti fare finta e gli anni suc¬cessivi ad abbassarti i voti se continuavi. Facciamo finta che sia qui con te, col mio sederone e tutto, e che mi prepari a succhiarti fuori il cervello dal cazzo.
C'è un leggero movimento? Abbassa lo sguardo su di sé: tut¬to fermo. Sally Stratton sparisce, meno male. Deve trovare altri modi, migliori, di occupare il suo tempo. Il suo tempo, che idea stupida, quasi gli fosse stata data una scatola di tempo tutto suo, riempita fino all'orlo di ore e minuti che può spendere come de¬naro. Il guaio è che la scatola è bucata e il tempo scappa via, qualunque cosa ci faccia.
Potrebbe intagliare il legno, ad esempio. Costruire degli scac¬chi, giocare da solo. Una volta giocava a scacchi con Crake, ma sul computer, non con pezzi veri. Il più delle volte vinceva Crake. Deve esserci un altro coltello da qualche parte; se si met¬te in testa di cercarlo e rovista in giro, fruga tra gli avanzi, è qua¬si sicuro di trovarne uno. Ora che ci pensa, si stupisce di non averlo fatto prima.
Si lascia trasportare a quelle ore con Crake, dopo la scuola. Al¬l'inizio la cosa era abbastanza innocua. Giocavano a Extinctathon o a qualche altro gioco. Waco Tridimensionale, Massacro Barba¬ro, Kwiktime Osama. Si basavano tutti su strategie parallele: do¬vevi conoscere la tua meta prima di arrivarci, ma anche sapere quella degli altri. Crake era bravo in questi giochi, perché era un maestro del salto laterale. A volte però Jimmy vinceva a Kwikti¬me Osama, purché Crake giocasse nel ruolo dell'Infedele.
Ma non c'è speranza di poter intagliare nel legno quel tipo di gioco. Dovrebbe fare degli scacchi.
Oppure potrebbe tenere un diario. Buttare giù le sue impres¬sioni. Ci dev'essere un'infinità di carta sparsa qua e là, in locali interni non attaccati dal fuoco e ancora privi di fessure, e pen¬ne, e matite; ne ha viste nelle sue scorrerie tra i rifiuti, ma non si è mai preoccupato di prenderne una. Potrebbe emulare i capi¬tani delle navi del passato - la nave affonda in una tempesta, il capitano è nella sua cabina, condannato ma intrepido, intento a stilare il giornale di bordo. C'erano film così. O naufraghi su iso¬le deserte, che tenevano i loro diari nel susseguirsi di giorni te¬diosi. Elenchi di provviste, annotazioni sul tempo, piccole azio¬ni compiute: cucirsi un bottone, mangiare una vongola.
Anche lui è una specie di naufrago. Potrebbe fare degli elen¬chi. Dare una struttura alla sua vita.
Ma perfino un naufrago presuppone un lettore futuro, qual¬cuno che arriverà in seguito, troverà le sue ossa e il suo libro ma¬stro e conoscerà il suo destino. Uomo delle Nevi non può aspettarsi nulla di tutto ciò: non avrà nessun lettore futuro, perché i Craker non sanno leggere. Tutti i lettori che può immaginare sono ormai nel passato.

Un bruco si cala lungo un filo, roteando lentamente come un ar¬tista della fune, avanzando a spirale verso il suo petto. È di un verde intenso, irreale, come una caramella gommosa, e coperto di peluzzi chiari. Guardandolo prova un improvviso, inspiega¬bile moto di tenerezza e gioia. È unico, pensa. Non ci sarà più un bruco identico a questo. Non ci sarà più un altro frammento di tempo come questo, un'altra concomitanza così.
Queste cose lo prendono alla sprovvista senza motivo, questi sprazzi di felicità irrazionale. Dev'essere una carenza di vitamine.
Il bruco si ferma, sonda l'aria con la sua testa arrotondata. I suoi grandi occhi opachi sembrano il davanti di un casco anti¬sommossa. Forse lo sta annusando, studiando la sua aura chimi¬ca. «Non siamo qui per giocare, sognare, andare alla deriva» gli dice Uomo delle Nevi. «Abbiamo un duro lavoro da fare, e far¬delli da portare».
Ora, da quale cisterna neurale del suo cervello in via di atrofizzazione è saltata fuori una cosa del genere? Le lezioni di Vita pratica, alla scuola media. L'insegnante era un dinoccolato rifiu¬to dei neoconservatori dai tempi esaltanti della leggendaria montatura delle .com, nella preistoria. Aveva una coda di caval¬lo lunga e rada dietro una testa che stava diventando calva e una giacca di finto cuoio; infilata nel naso bitorzoluto e poroso ave¬va una piccola borchia d'oro, e non faceva altro che parlare di fiducia in sé, individualismo e assunzione di rischio in un tono disperato, come se neanche lui ci credesse più. Ogni tanto se ne usciva con qualche vecchia massima, scodellata con un'ironia sardonica che non contribuiva affatto a ridurre il quoziente di noia; oppure diceva: «Avrei potuto diventare qualcuno» e lan¬ciava sguardi truci alla classe, come se ci fosse un significato ar¬cano che tutti avrebbero dovuto afferrare.
Tenere una partita doppia su video, conoscere le operazioni bancarie a menadito, usare un microonde senza far disintegrare l'uovo, compilare le domande di alloggio per questo o quel Modulo e le domande di lavoro per questo o quel Recinto, fare ri¬cerche sull'eredità di famiglia, negoziare le condizioni del pro¬prio matrimonio-e-divorzio, fare un saggio accoppiamento ge¬netico, usare correttamente i preservativi per evitare bioforme trasmesse per via sessuale: tutto questo era Vita pratica. Nessu-no dei ragazzi stava molto attento. O già sapevano tutto, o non volevano saperlo. Consideravano quelle lezioni ore di riposo. Non siamo qui per giocare, sognare, andare alla deriva. Siamo qui per esercitarci nella Vita pratica.
«Fa lo stesso» dice Uomo delle Nevi.

Oppure, invece che su scacchi o diari, potrebbe concentrarsi sulle proprie condizioni di vita. In quel settore ci sono possibi¬lità di miglioramento, infinite possibilità. Altre fonti di cibo, tan¬to per dirne una. Perché non ha mai cercato radici e bacche, co¬struito trappole con bastoni appuntiti per infilzare la selvaggina di piccola taglia o studiato un modo per mangiare i serpenti? Perché aveva perso il suo tempo?
Oh, tesoro, non ti dare addosso! gli sussurra all'orecchio una voce femminile in tono desolato.
Se solo potesse trovare una caverna, una bella caverna con un soffitto alto e una buona ventilazione, e magari un po' d'acqua corrente, se la passerebbe meglio. È vero, c'è un ruscello con ac¬qua dolce a quattrocento metri di distanza; in un punto si allar¬ga in una pozza. All'inizio ci andava a rinfrescarsi, ma magari c'erano i Craker che sguazzavano o si riposavano a riva, e i ragazzini lo tormentavano per andare a nuotare, e a lui non piace¬va che lo vedessero senza il lenzuolo. In confronto a loro è de¬cisamente troppo strano; lo fanno sentire deforme. Se non c'è gente, è facilissimo trovarci animali: calupi, proporci, piccole gattinci. Le pozze dove si può bere attirano i carnivori. Se ne stanno lì stesi ad aspettare. Sbavano. Ti balzano addosso. Non è molto piacevole.
Le nuvole si addensano, il cielo si fa scuro. Non vede granché attraverso gli alberi, ma avverte il cambiamento nella luce. Sci¬vola nel dormiveglia e sogna Oryx che galleggia a pancia in su in una piscina, con indosso un costume che sembra fatto di delica¬ti petali di carta velina bianca. Le si spargono intorno, allargan¬dosi e contraendosi come l'ombrella di una medusa. La piscina è dipinta di un rosa vivace. Lei gli sorride dal basso e muove delicatamente le braccia per tenersi a galla, e lui sa che sono en¬trambi in grave pericolo. Poi si sente un cupo rimbombo, come la porta di un vasto sotterraneo che si chiuda.

Acquazzone

Viene svegliato dai tuoni e da un vento improvviso: il tempora¬le pomeridiano è sopra di lui. Scatta in piedi, afferra il lenzuolo. Questi acquazzoni possono arrivare molto in fretta, e il telaio in metallo di un letto non è posto dove stare durante un tempora¬le. Si è costruito un'isola di pneumatici di automobile nel bosco; deve solo acquattarcisi sopra in modo che lo isolino dal terreno finché non smette di piovere. A volte cadono chicchi di grandi¬ne grossi come palline da golf, ma la volta della foresta ne ral¬lenta la caduta.
Raggiunge il mucchio di pneumatici proprio mentre scoppia il temporale. Oggi c'è solo pioggia, il solito diluvio, così violen¬to che l'impatto trasforma l'aria in nebbiolina. L'acqua gli scor¬re sopra mentre i lampi sfrigolano. I rami si agitano sopra la sua testa, rivoletti colano lentamente lungo il terreno. Fa già più fre¬sco; il profumo delle foglie appena lavate e della terra bagnata riempie l'aria.
Una volta che l'acquazzone si è trasformato in pioggerella e i rombi dei tuoni si sono allontanati, si trascina di nuovo verso il suo nascondiglio di lastre di cemento per raccogliere le bottiglie di birra vuote. Poi si avvicina a una sporgenza di cemento den¬tellata che un tempo faceva parte di un ponte. Sotto c'è un se¬gnale triangolare arancione con la sagoma nera di un uomo che spala. Lavori in corso, voleva dire. Strano pensare al lavoro sen¬za fine, allo scavare, martellare, intagliare, sollevare, trapanare giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo; e adesso allo sgretolamento senza fine che deve aver luogo dap¬pertutto. Castelli di sabbia nel vento.
Defluendo, l'acqua piovana si riversa copiosamente attraverso un buco nel fianco del cemento. Sta in piedi lì accanto a boc¬ca aperta, ingoiando acqua piena di sabbia, rametti e altre cose a cui non vuole pensare: l'acqua deve aver trovato un passaggio attraverso le case abbandonate, le cantine maleodoranti, i fossa¬ti pieni di fango rappreso e chissà cos'altro. Poi si sciacqua, strizza il lenzuolo. In questo modo non si pulisce granché, ma almeno può liberarsi dello strato superficiale attaccaticcio di sporcizia. Gli tornerebbe utile un pezzo di sapone: continua a dimenticarsi di prenderne uno durante le uscite in cui compie piccoli furti.
Da ultime, riempie le bottiglie di birra. Dovrebbe procurarsi un recipiente migliore, un termos o un secchio, qualcosa di più capiente. E poi le bottiglie sono scomode: scivolose e difficili da sistemare. Continua a immaginare di sentire ancora l'odore del¬la birra, ma è una pia illusione. Facciamo finta che sia birra.
Non dovrebbe pensare a certe cose. Non dovrebbe torturar¬si. Non dovrebbe far balenare davanti a sé cose impossibili, qua¬si fosse una cavia in gabbia, collegata a fili elettrici e costretta a compiere esperimenti inutili e malvagi sul proprio cervello.
Fatemi uscire! si sente pensare. Ma non è rinchiuso, non è in prigione. Come potrebbe essere più fuori di dov'è?
«Non l'ho fatto apposta» dice nella piagnucolosa voce infan¬tile a cui regredisce quando è in questo stato d'animo. «È suc¬cesso, non avevo idea, le cose sono sfuggite al mio controllo! Cosa avrei potuto fare? Che qualcuno mi ascolti, chiunque, per favore!»
Che pessima interpretazione. Non ha convinto nemmeno se stesso. Ma ora sta nuovamente piangendo.
È importante, dice il libro nella sua testa, ignorare le piccole cause di irritazione, evitare le inutili lamentele e rivolgere le pro¬prie energie mentali a realtà vicine e a compiti immediati. Deve averlo letto da qualche parte. Di sicuro la sua mente non sareb¬be mai saltata su con le inutili lamentele, non tutta da sola.
Si pulisce il viso con un lembo del lenzuolo. «Inutili la¬mentele» dice ad alta voce. Come succede spesso, gli sembra di avere un ascoltatore: qualcuno di invisibile, nascosto dietro lo schermo delle foglie, che lo guarda malizioso.

4

Moffone

Ha davvero un ascoltatore: è una femmina di moffone, un esem¬plare giovane. Ora la vede, i suoi occhi vivaci lo sbirciano da sot¬to un cespuglio.
«Qui ragazza, qui» dice blandendola. Quella si ritira nella bo¬scaglia. Se ci si fosse messo d'impegno, se ci avesse provato sul serio, probabilmente sarebbe riuscito ad addomesticarne una, così avrebbe avuto qualcuno con cui parlare. Era piacevole ave¬re qualcuno con cui parlare, gli diceva sempre Oryx. «Dovresti provarci una volta o l'altra, Jimmy» diceva, baciandolo sull'o¬recchio.
«Ma io parlo con te» protestava lui.
Un altro bacio. «Davvero?»

Quando Jimmy aveva dieci anni, suo padre gli regalò un picco¬lo moffone.
Che aspetto aveva suo padre? Uomo delle Nevi non riesce a metterlo a fuoco. La madre di Jimmy continua a essere un'im¬magine nitida, a colori, con intorno una cornice di carta bian¬ca lucida, come una Polaroid, ma di lui ricorda solo i dettagli: il pomo d'Adamo che andava su e giù quando deglutiva, le orecchie in controluce davanti alla finestra della cucina, la mano sinistra posata sul tavolo, mozzata dal polsino della ca¬micia. Suo padre è una specie di pastiche. Forse Jimmy non si e mai allontanato abbastanza da lui in modo da vederne tutte le parti insieme.
L'occasione per regalargli il moffone deve essere stato quel decimo compleanno. Ha rimosso i suoi compleanni: non erano più oggetto di grandi festeggiamenti, non dopo che Dolores, la cameriera filippina, se n'era andata. Quando c'era, si ricordava sempre il suo compleanno; faceva una torta, o magari ne com¬prava una, ma comunque non mancava mai, una torta autentica, con glassa e candeline, non è vero? Si aggrappa alla realtà di quelle torte; chiude gli occhi, le rievoca, si librano in aria tutte in fila, le candeline accese, emanando il loro dolce e confortan¬te profumo di vaniglia, come la stessa Dolores.
D'altra parte, sua madre sembrava non ricordare quanti anni avesse Jimmy o in che giorno fosse nato. Doveva rammentar¬glielo lui, a colazione; allora lei si scuoteva dalla sua trance e gli comprava un regalo mortificante: pigiami da bambino piccolo con sopra orsi o canguri, un disco che nessuno al di sotto dei quarant'anni avrebbe mai ascoltato, biancheria intima ornata di balene. Lo avvolgeva nella carta velina e glielo buttava davanti durante il pranzo, con il suo sorriso sempre più strano, come se qualcuno le avesse gridato Sorridi! e l'avesse punta con una for¬chetta.
Poi suo padre propinava a tutti loro una goffa scusa sul per¬ché quella data davvero, davvero speciale e importante gli fosse chissà come scivolata via di mente, domandava a Jimmy se era tutto a posto e gli mandava un biglietto d'auguri elettronico per il compleanno - il solito disegno della OrganInc con una fila di cinque proporci alati che ballavano la conga e Buon complean¬no, Jimmy, che tutti i tuoi sogni si realizzino - e il giorno dopo arrivava con un dono per lui, un dono che non era un dono ma un attrezzo o un gioco per stimolare l'intelligenza o qualcosa che rispondesse alla sua segreta ambizione di avere un figlio al¬l'altezza. Ma all'altezza di cosa? Non c'erano mai modelli; e sep¬pure ce n'era uno, era talmente confuso e immenso che nessuno poteva vederlo, tanto meno Jimmy. Nulla che fosse alla sua por¬tata sarebbe mai stato l'idea giusta, o quasi. Secondo i parame¬tri di matematica-e-chimica-e-biologia-applicata della OrganInc, lui doveva apparire noiosamente normale: forse è per que¬sto che suo padre smise di dirgli che avrebbe potuto cavarsela molto meglio se solo ci avesse provato, e passò elemosinargli lodi segretamente deluse, come se Jimmy avesse una lesione al cervello.
Così Uomo delle Nevi ha dimenticato tutto del decimo com¬pleanno di Jimmy tranne il moffone, portato a casa da suo padre in una gabbia portatile. Era un esemplare piccolo, il più gio¬vane della figliata messa al mondo dalla seconda generazione di moffoni, quella partorita dai primi due creati in provetta. Il re¬sto della cucciolata era stato immediatamente comprato. Il pa¬dre di Jimmy capì che avrebbe dovuto impiegare una gran quan¬tità del suo tempo e fare il prepotente e brigare parecchio per accaparrarselo, ma valeva la pena di fare tutti quegli sforzi per quella data davvero, davvero speciale, che come al solito era ca¬pitato che cadesse il giorno prima.
I moffoni erano nati dall'hobby che uno dei pezzi grossi del biolaboratorio della OrganInc coltivava nel tempo libero. A quei tempi si facevano un sacco di stupidaggini: creare-un-animale era tanto divertente, sosteneva chi lo faceva; ti sentivi come Dio. I frutti di un certo numero di esperimenti furono distrutti perché troppo pericolosi da tenere in giro: a chi serviva un ro¬spo marino con la coda prensile come quella di un camaleonte, che poteva arrampicarsi in casa dalla finestra del bagno e acce¬carvi mentre vi lavavate i denti? Poi c'era il serpatto, una sfor¬tunata combinazione di serpente e ratto: avevano dovuto libe¬rarsene. Ma i moffoni avevano preso piede come animaletti do¬mestici all'interno della OrganInc. Non erano arrivati dal mon¬do esterno - il mondo al di fuori del Recinto - perciò non ave¬vano microbi estranei ed erano sicuri per i proporci. In più era¬no carini.
Il piccolo moffone si lasciò prendere da Jimmy. Era bianco e nero: mascherina nera, striscia bianca lungo il dorso, anelli bian¬chi e neri intorno alla soffice coda. Leccò le dita di Jimmy, e lui se ne innamorò.
«Non ha odore, niente a che vedere con una moffetta» disse suo padre. «È un animale pulito, con una buona indole. Placi¬do. Una volta cresciuti, i procioni non sono mai stati dei bravi animali domestici, diventavano irritabili, ti facevano a pezzi la casa. Questo affanno dovrebbe essere più calmo. Vedremo come si comporterà il piccoletto. Giusto, Jimmy?»
Negli ultimi tempi il padre di Jimmy aveva sempre un tono di scusa, come se lo avesse punito per qualcosa che non aveva fat¬to e se ne dispiacesse. Diceva Giusto, Jimmy? un po' troppo spesso. A Jimmy questo non piaceva - non gli piaceva essere quello che dispensava approvazione. C'era qualche altro gesto di suo padre di cui avrebbe fatto altrettanto a meno - i finti cazzotti, lo scompigliargli i capelli, il modo di pronunciare la paro¬la figliolo, con una voce leggermente più profonda del normale. Questo atteggiamento affettuoso stava peggiorando, come se suo padre stesse facendo un provino per il ruolo di Papà, ma senza troppa speranza. Jimmy aveva finto abbastanza per saper riconoscere la finzione negli altri, il più delle volte. Carezzò il piccolo moffone e non rispose.
«Chi gli darà da mangiare e vuoterà la cassetta della sabbia?» domandò la madre di Jimmy. «Perché io non lo farò». Non lo disse arrabbiata, ma con una voce distaccata, pratica, come uno spettatore, qualcuno a bordo campo; come se Jimmy e l'ingrato compito di prendersi cura di lui, e il suo deludente padre, e i li¬tigi tra loro due, e il bagaglio sempre più pesante delle loro vite non avessero niente a che spartire con lei. Sembrava che non si inquietasse più, non si precipitava più fuori di casa in pantofo¬le. Era diventata calma e posata.
«Jimmy non ti ha chiesto di farlo. Ci penserà lui. Giusto, Jimmy?» disse il padre.
«Come lo chiamerai?» domandò la madre. Non voleva saper¬lo veramente, stava solo stuzzicando in qualche modo il figlio. Non le piaceva quando si eccitava per qualcosa che gli regalava il padre. «Brigante, suppongo».
Era esattamente il nome a cui Jimmy stava pensando, per via della mascherina nera. «No» disse. «È banale. Lo chiamerò Kil¬ler».
«Buona scelta, figliolo» disse il padre.
«Bene, se Killer fa pipì sul pavimento, stai sicuro che sarai tu a pulire» disse la madre.
Jimmy portò Killer su nella sua stanza, dove quello si accoc¬colò sul cuscino. Mandava un lieve odore, strano ma non sgra¬devole, di cuoio, aspro, come un sapone alla moda per uomo. Jimmy dormì cingendolo con le braccia, il naso accanto al suo piccolo muso rosa.

Doveva essere passato un mese o due da quando Jimmy aveva ricevuto il moffone, che suo padre cambiò lavoro. Fu contatta¬to dai cacciatori di teste della NooSkins e assunto al livello di comandante-in-seconda - il livello vice, lo chiamava la madre di Jimmy - Ramona, il tecnico di laboratorio della OrganInc, si tra¬sferì con lui; faceva parte dell'accordo, perché era un bene ine¬stimabile, diceva il padre di Jimmy; era il suo uomo di fiducia. («Scherzo» diceva al figlio, per dimostrargli che sapeva che Ra¬mona non era veramente un uomo. Ma Jimmy non ne dubitava comunque). Jimmy era più o meno contento di poter continua¬re a vedere Ramona a pranzo - almeno era un viso familiare - anche se i suoi pranzi con il padre erano diventati rari e separa¬ti da lunghi intervalli di tempo.
Dal momento che la NooSkins era un'affiliata della HelthWyzer, si trasferirono nel Recinto di quest'ultima. Questa volta la loro casa era in stile rinascimento italiano, con un porti¬co ad archi e un'infinità di piastrelle di terracotta lucida, e la pi¬scina interna era più grande. La madre di Jimmy la chiamava «il casermone». Si lamentava delle rigide norme di sicurezza ai can¬celli della HelthWyzer: le guardie erano più villane, sospettava¬no di tutti, si divertivano a perquisire a fondo la gente spoglian-dola, soprattutto le donne. A sentir lei, li mandava in brodo di giuggiole.
Il padre di Jimmy disse che faceva tanto chiasso per nulla. In ogni modo, spiegò, c'era stato un incidente solo poche settima¬ne prima che si trasferissero: qualche folle, una donna, con una bioforma ostile nascosta in un flacone di lacca per capelli. Qual¬che malvagia combinazione di Eboia o Marburg, uno dei virus emorragici più forti. Aveva steso una guardia che si era stupida¬mente tolta la maschera, contravvenendo agli ordini per via del caldo. La donna era stata immediatamente colpita con le pisto¬le spray e neutralizzata in una vasca di candeggina, mentre la po¬vera guardia era stata trascinata nel settore Bioforme acute e in¬filata in una stanza isolata, dove si era dissolta in una pozza di sostanza appiccicosa. I danni erano stati limitati, ma si capisce che le guardie erano nervose.
La madre di Jimmy disse che quello non cambiava il fatto che si sentisse una prigioniera. Il padre di Jimmy ribatté che non ca¬piva la realtà della situazione. Non voleva essere al sicuro, non voleva che suo figlio fosse al sicuro?
«Dunque è per il mio bene?» domandò lei. Stava tagliando una fetta di pane tostato e imburrato in cubetti regolari, senza fretta.
«Per il nostro bene. Per noi».
«Be', si dà il caso che io non sia d'accordo».
«Sai che novità» disse il padre di Jimmy.
Secondo la madre di Jimmy avevano telefoni ed e-mail sotto controllo, e i nerboruti e laconici uomini delle pulizie della HelthWyzer che venivano due volte alla settimana - sempre in coppia - erano spie. Il marito diceva che stava diventando para¬noica, e in ogni caso non avevano niente da nascondere, dunque perché preoccuparsi?
Il Recinto della HelthWyzer non era solo più nuovo del cen¬tro residenziale della OrganInc, era anche più grande. Aveva due centri commerciali invece di uno, un ospedale migliore, tre discoteche, perfino un campo da golf. Jimmy frequentava una scuola pubblica della HelthWyzer, dove in principio non cono¬sceva nessuno. Nonostante la solitudine iniziale, non era poi così male. Anzi era bello, perché poteva riciclare tutti i suoi vec¬chi scherzi e scenette: i ragazzini della OrganInc si erano abi¬tuati alle sue buffonate. Ne aveva fatta di strada dal numero del-lo scimpanzè, e adesso si esibiva in scene in cui fingeva di vomi¬tare e di morire soffocato - entrambi popolari - e in un numero in cui si disegnava una ragazza nuda sullo stomaco, con il caval¬lo in coincidenza dell'ombelico, e la faceva dimenare.
Non tornava più a casa per pranzo. Veniva preso dal pullmino a propulsione ibrida a etanolo-energia solare la mattina e ri¬portato la sera. C'era una mensa scolastica luminosa e allegra con pasti bilanciati, piatti etnici - pirogi, felafel - la possibilità di mangiare kosher, e prodotti alla soia per i vegetariani. Jimmy era così contento di poter pranzare senza nessuno dei suoi geni¬tori presente, da sentirsi stordito. Mise su perfino un po' di peso, e smise di essere il bambino più magro della classe. Se dopo pranzo rimaneva un po' di tempo e non c'erano altri pro¬grammi, poteva andare in biblioteca e guardarsi i vecchi cd-rom didattici. Il suo preferito era su Alex il pappagallo, uno dei Clas¬sici degli studi sul comportamento animale. Gli piaceva la parte in cui Alex inventava un'espressione nuova - noce di sughero in¬vece di mandorla - e, più di tutto, la parte in cui Alex si stufava dell'esercizio con il triangolo blu e il quadrato giallo e diceva: Ora me ne vado. No, Alex, torna qui! Qual è il triangolo blu? No, il triangolo blu? Ma Alex era ormai fuori della porta. Dieci e lode per Alex.
Un giorno Jimmy ebbe il permesso di portare Killer a scuola, dove lei - ormai era ufficialmente una lei - riscosse un gran suc¬cesso. «Oh, Jimmy, sei così fortunato» disse Wakulla Price, la prima ragazzina per cui si fosse preso una cotta. Accarezzò il pelo di Killer, la mano nera, le unghie rosa, e Jimmy sentì i bri¬vidi, quasi facesse passare le dita sul suo, di corpo.

Il padre di Jimmy passava sempre più tempo al lavoro, ma ne parlava sempre meno. Alla NooSkins c'erano proporci, proprio come alla OrganInc Farms, ma erano più piccoli e venivano usa¬ti per sviluppare biotecnologie collegate alla pelle. L'idea fonda¬mentale era trovare un metodo per sostituire l'epidermide più vecchia con una nuova, non uno strato di breve durata assotti¬gliato dal laser o dermoabraso, ma una vera pelle fresca fresca, priva di rughe e macchie. Perciò sarebbe stato utile far crescere una cellula cutanea giovane e grassoccia, che avrebbe divorato le cellule logore nella pelle di coloro su cui fosse stata impianta¬ta e le avrebbe sostituite con propri duplicati, come le alghe che crescono su uno stagno.
I vantaggi in caso di successo sarebbero stati enormi, spiega¬va il padre di Jimmy, nel tono di chi parla schietto, da uomo a uomo, che aveva adottato di recente con il figlio. Quale donna o uomo ricchi e un tempo giovani e belli, strafatti di integratori ormonali e imbottiti di vitamine ma inibiti dallo specchio im¬placabile, non avrebbero venduto la casa, la villa solitaria muni¬ta di cancello, i figli e l'anima per un secondo giro sulla giostra del sesso? Pelle nuova al posto della vecchia, diceva il vivace logo. Non che fosse già stato trovato un metodo assolutamente efficace: la decina o giù di lì di malridotti speranzosi che si era¬no offerti come cavie, senza pagare conti ma rinunciando al di¬ritto di fare causa, ne era uscita come la Creatura di muffa dal¬lo spazio - con epidermidi butterate, di un marrone verdastro, che venivano via in strisce lacere.
Ma la NooSkins lavorava anche ad altri progetti. Una sera il padre di Jimmy tornò a casa tardi e un po' ubriaco, con una bot¬tiglia di champagne. Jimmy diede un'occhiata e si tolse di mez¬zo. Aveva nascosto un piccolo microfono dietro il quadro con la spiaggia nel soggiorno e un altro dietro l'orologio a muro della cucina - quello che emetteva un irritante richiamo di uccello di¬verso a ogni ora - in modo da poter ascoltare cose che non era¬no affar suo. Li aveva costruiti durante la lezione di neotecnologia a scuola, utilizzando componenti standard prese da minu¬scoli microfoni per la dettatura a computer senza fili, che, con pochi aggiustamenti, erano ottimi per spiare.
«E quello per cos'è?» disse la voce della madre di Jimmy. In¬tendeva lo champagne.
«Ci siamo riusciti» disse la voce del padre di Jimmy. «Penso che un piccolo festeggiamento sia lecito». Un breve scontro: for¬se aveva tentato di baciarla.
«A far cosa?»
Lo schiocco del tappo di champagne. «Avanti, non ti morde mica». Una pausa: probabilmente lo stava versando. Sì: il tintin¬nio dei bicchieri. «Alla nostra».
«A far cosa? Devo sapere a cosa sto brindando».
Un'altra pausa: Jimmy immaginò suo padre che deglutiva, il pomo d'Adamo che andava su e giù, boppiti-bop. «Il progetto di neuro-rigenerazione. Abbiamo impiantato in un proporco del vero tessuto neocorticale umano. Finalmente, dopo tutti quei fiaschi! Pensa alle possibilità che si aprono alle vittime dei colpi apoplettici e...»
«Ci manca solo questo» disse la madre di Jimmy. «Altra gen¬te con il cervello di maiale. Non ce n'è già abbastanza?»
«Non puoi essere positiva, almeno per una volta? Sempre questo atteggiamento negativo, e questo non va bene, e quello non va bene, niente va mai abbastanza bene, per te!»
«Positiva perché? Perché avete escogitato l'ennesimo modo di derubare un gruppo di disperati?» domandò la madre di Jimmy in quella sua nuova voce lenta e priva di rabbia.
«Dio, come sei cinica!»
«No, tu lo sei. Tu e i tuoi astuti soci. I tuoi colleghi. È sba¬gliato, l'intera organizzazione è sbagliata, è un pozzo nero e tu lo sai».
«Possiamo dare speranza alla gente. La speranza non è un furto!»
«Ai prezzi della NooSkins sì. Reclamizzate a tutto spiano la vostra merce e spennate i polli, che rimangono al verde, dopo¬diché possono dare l'addio al trattamento. Fosse per te e per i tuoi amici potrebbero anche marcire. Non ti ricordi cosa dice¬vamo, quello che volevamo fare? Migliorare la vita della gente, non solo della gente con i soldi. Eri così... Avevi degli ideali, al¬lora».
«Certo» disse il padre di Jimmy in tono stanco. «Li ho anco¬ra. Solo che non posso permettermeli».
Una pausa. Probabilmente la madre di Jimmy ci stava rimu¬ginando su. «Comunque sia» disse, segno che non si sarebbe ar¬resa, «comunque sia, c'è ricerca e ricerca. Quello a cui stai lavo¬rando, la faccenda del cervello di maiale, interferisce con gli ele¬menti fondamentali della vita. È immorale. È... sacrilega».
Bang, sul tavolo. Non la mano di lui. La bottiglia? «Non cre¬do alle mie orecchie! A chi hai dato ascolto? Sei una persona istruita, hai lavorato anche tu a certe cose! Sono solo proteine, lo sai! Non c'è niente di sacro nelle cellule e nei tessuti, sono solo...»
«Conosco la teoria».
«In ogni caso, tutto questo ti ha pagato vitto e alloggio, ti ha riempito il piatto. Non sei certo nelle condizioni di salire sul pulpito».
«Lo so» disse la voce di lei. «Credimi, è l'unica cosa che so davvero. Perché non puoi trovarti un lavoro facendo qualcosa di onesto? Qualcosa di elementare».
«Che cosa, e dove? Vuoi che vada a scavare fossi?»
«Almeno avresti la coscienza pulita».
«No, saresti tu ad averla pulita. Sei tu ad avere un complesso di colpa nevrotico. Perché non ci vai tu a scavare fossi, così al¬meno ti toglieresti dai piedi? Allora magari smetteresti di fuma¬re, sei una fabbrica di enfisema ambulante, basti tu sola a soste¬nere le compagnie del tabacco. Pensaci, visto che sei tanto vir¬tuosa. Sono quelle che rendono schiavi per tutta la vita i ragazzini di sei anni, offrendo loro campioni gratuiti».
«So tutto». Pausa. «Fumo perché sono depressa. Le compa¬gnie del tabacco mi deprimono, tu mi deprimi, Jimmy mi depri¬me, sta diventando un...»
«Prendi le pillole, se sei così fottutamente depressa!»
«Non c'è bisogno di imprecare».
«E invece forse c'è!» Le grida del padre non erano una novità assoluta, ma combinate alle imprecazioni catturarono tutta l'at¬tenzione di Jimmy. Magari ci sarebbe stata baruffa, vetri rotti. Ebbe paura - quel nodo gelato nello stomaco era tornato - ep¬pure si sentiva tenuto ad ascoltare. Se ci fosse stata una cata¬strofe, un crollo finale, doveva assistervi.
Ma non accadde nulla, ci fu soltanto un rumore di passi che uscivano dalla stanza. Di quale dei due? Chiunque fosse, ora sa¬rebbe salito di sopra per assicurarsi che Jimmy dormisse e non avesse sentito niente. Dopodiché avrebbero potuto spuntare quella voce dalla distinta di controllo del Perfetto genitore che entrambi si portavano nella testa. Non erano le cose cattive che facevano a rendere Jimmy così furioso, erano le buone. Le cose che erano ritenute buone, o abbastanza buone per lui. Le cose per cui si davano una pacca sulla spalla. Non sapevano niente di lui, cosa gli piaceva, cosa detestava, cosa desiderava ardente¬mente. Pensavano che fosse solo quanto vedevano. Un bambino simpatico ma un po' inetto, un po' sbruffone. Non la stella più luminosa dell'universo, non un amante dei numeri, ma non si poteva avere tutto, e almeno non era un fallimento totale. Al¬meno non era un ubriacone o un tossico, come tanti ragazzi del¬la sua età, perciò meglio toccare ferro. Aveva sentito davvero suo padre dirlo: tocchiamo ferro, come se Jimmy fosse destinato a combinare guai, a lasciare la retta via, ma semplicemente non ci fosse ancora riuscito. Della persona diversa, segreta che viveva dentro di lui non sapevano assolutamente nulla.
Spense il computer, staccò le cuffie, smorzò le luci e si ficcò a letto, in silenzio e con cautela, perché Killer era già lì. Era in fondo al letto, le piaceva stare laggiù; aveva preso l'abitudine di leccargli i piedi per rimuovere il sale. Gli faceva il solletico; la te¬sta sotto le coperte, fu scosso da risate silenziose.

Martello

Passarono parecchi anni. Devono essere passati, pensa Uomo delle Nevi: in realtà non ne ricorda granché, tranne che gli era cambiata la voce e avevano cominciato a spuntargli peli sul cor¬po. Niente di particolarmente eccitante, se non per il fatto che sarebbe stato peggio se non fosse successo. Gli vennero anche i muscoli. Cominciò a fare sogni a sfondo sessuale e a soffrire di apatia. Pensava molto alle ragazze in astratto, per così dire - a ragazze senza testa - e a Wakulla Price con la testa, anche se lei non voleva frequentarlo. Aveva i brufoli, era per quello? Non rammenta di averne avuti; eppure, da quanto ricorda, i visi dei suoi rivali ne erano pieni.
Noce di sughero, diceva a chiunque lo seccava. Chiunque non fosse una ragazza. Nessuno tranne lui e Alex il pappagallo sape¬va esattamente cosa volesse dire noce di sughero, perciò il ter¬mine risultava piuttosto graffiante. Divenne una moda, tra i ragazzini del Recinto della HelthWyzer, perciò Jimmy era consi¬derato discretamente fico. Ehi, noce di sughero!
Il suo migliore amico, in segreto, era Killer. Patetico, che l'u¬nica creatura con cui potesse davvero parlare fosse un moffone. Evitava il più possibile i suoi genitori. Suo padre era una noce di sughero e sua madre era una palla. Non era più spaventato dai loro campi elettrici negativi, semplicemente li trovava noiosi, o almeno è quanto si diceva.
A scuola, dava vita a un grave atto di slealtà nei loro confron¬ti. Si disegnava un occhio sulle nocche di ognuno degli indici e si infilava i pollici dentro i pugni. Poi, muovendo i pollici su e giù per mostrare l'aprirsi e il chiudersi delle bocche, riusciva a far parlare quella specie di burattini. La mano destra era Papà cattivo, la mano sinistra Mamma virtuosa. Papà cattivo parlava con impeto, teorizzava e scodellava ampollose stronzate, Mam¬ma virtuosa si lamentava e lanciava accuse. Nella cosmologia di Mamma virtuosa, Papà cattivo costituiva l'unica causa di emorroidi, cleptomania, conflitto globale, alito cattivo, faglie nella placca tettonica e tubi di scarico intasati, nonché di ogni emi¬crania e dolore mestruale di cui Mamma virtuosa avesse mai sof¬ferto. Questo suo spettacolo alla mensa era un successo; si ra¬dunava una folla con richieste precise. Jimmy, Jimmy... fai Papà cattivo! Gli altri ragazzini avevano un'infinità di varianti e sce¬nette da suggerire, sottratte alla vita privata delle loro unità pa¬rentali. Alcuni di loro provavano a disegnarsi occhi sulle noc¬che, ma non erano altrettanto bravi nei dialoghi.
A volte, poi, quando si era spinto troppo in là, Jimmy si sen¬tiva in colpa. Non avrebbe dovuto fare Mamma virtuosa che piangeva in cucina perché le erano scoppiate le ovaie; non avrebbe dovuto fare la scena di sesso con il Bastoncino speciale del lunedì - 20% vero pesce - con Papà cattivo che ci si avven¬tava sopra e lo faceva a pezzi con lussuria perché Mamma virtuosa gli teneva il broncio in una scatola di Twinkies vuota e si rifiutava di uscire fuori. Quelle parodie erano indecorose, ma questo non bastava a fermarlo. Erano anche troppo simili a una scomoda verità che Jimmy non voleva considerare. Ma gli altri ragazzini lo incitavano, e lui non resisteva agli applausi.
«Ho passato il segno, Killer?» domandava. «È stato troppo vile?» Vile era una parola che aveva scoperto di recente: Mam¬ma virtuosa la usava un sacco in quel periodo.
Killer gli leccava il naso. Lo perdonava sempre.

Un giorno, Jimmy tornò a casa da scuola e trovò un biglietto sul tavolo della cucina. Era di sua madre. Appena vide cosa c'era scritto sul cartoncino - Per Jimmy, sottolineato due volte in nero - capì di che tipo di biglietto si trattava.
Caro Jimmy, diceva. Bla bla bla, tormentata abbastanza a lun¬go dalla mia coscienza, bla bla, condurre uno stile di vita che non è solo assurdo ma bla bla. Sapeva che quando Jimmy fosse stato abbastanza grande per capire le implicazioni di bla bla, sarebbe stato d'accordo con lei e avrebbe compreso. Si sarebbe messa in contatto con lui in futuro, se ne avesse avuto la possibilità. Bla bla inevitabilmente sarebbero state condotte ricerche; di qui la necessità di nascondersi. Una decisione presa non senza un profondo esame di coscienza, molte riflessioni e sofferenze, ma bla. Lo avrebbe sempre amato moltissimo.

Forse lo aveva amato, pensa Uomo delle Nevi. Alla sua manie¬ra. Ma a suo tempo non ci aveva creduto. D'altra parte, forse non l'aveva amata neanche lui. Ma lei doveva avere provato qualche emozione positiva nei suoi confronti. Non si suppone¬va l'esistenza di un legame materno?
P.S., aveva scritto. Ho portato Killer con me per liberarla, per¬ché so che sarà più felice conducendo una vita libera e selvaggia nel bosco.
Jimmy non aveva creduto nemmeno a questo. La cosa lo ave¬va fatto infuriare. Come aveva osato? Killer era sua! E poi era una bestiola addomesticata, da sola sarebbe stata inerme, non avrebbe saputo badare a se stessa, qualunque creatura affamata l'avrebbe ridotta in pezzi pelosi bianchi e neri. Ma la madre di Jimmy e quelli come lei dovevano essere nel giusto, pensa Uomo delle Nevi, e senza dubbio Killer e gli altri moffoni liberati avevano saputo cavarsela benissimo, altrimenti come spiegare il numero fastidiosamente alto di loro esemplari che ora infestano questi paraggi?

Jimmy aveva pianto per settimane. No, per mesi. Per quale del¬le due aveva pianto di più? Per sua madre, o per una moffetta modificata?
Sua madre aveva lasciato un altro biglietto. No, non un bi¬glietto: un messaggio senza parole. Aveva distrutto il personal computer del padre di Jimmy, e non solo quanto vi era imma¬gazzinato: aveva impiegato il martello. In realtà si era servita di ogni singolo arnese della cassetta degli attrezzi da Mister Aggiustatutto di suo padre, in perfetto ordine e usata di rado, ma a quanto pare l'arma a cui aveva dato per lo più la preferenza era stata il martello. Aveva distrutto anche il proprio computer, in maniera ancor più definitiva. Perciò né il padre di Jimmy né gli uomini del CorpSeCorps, che ben presto furono dappertutto, ebbero la minima idea di quali messaggi in codice avesse potu¬to inviare, né di quali informazioni avesse potuto o meno scari¬care e portare con sé.
Quanto alle modalità con cui aveva superato i posti di control¬lo e i cancelli, aveva detto di andare a farsi curare un canale radicolare da un dentista in uno dei Moduli. Si era procurata le scar¬toffie, tutte le autorizzazioni necessarie, e l'antefatto era reale: lo specialista in canali radicolari della clinica dentistica della HelthWyzer era stato messo fuori combattimento da un attacco di cuore e il suo sostituto non era ancora arrivato, perciò stavano di¬rottando i suoi pazienti presso altri dentisti. Aveva perfino preso un vero appuntamento con il dentista del Modulo, che, non ve¬dendola, aveva spedito il conto al padre di Jimmy per avergli fat¬to sprecare il suo tempo. (Il padre di Jimmy si rifiutò di pagare, perché non era lui che era mancato all'appuntamento; a questo proposito in seguito i due ebbero un vivace scambio telefonico). Lei non aveva fatto bagagli, era troppo intelligente. Com'era nor¬male, aveva ingaggiato un uomo del CorpSeCorps per protegger¬la nel breve tratto di plebopoli che bisognava percorrere in taxi dalla stazione ermeticamente chiusa del treno ad alta velocità al muro perimetrale del Modulo. Nessuno le fece domande, era un viso familiare, e poi aveva la richiesta scritta, il passi e tutto. Al cancello del Recinto nessuno le aveva guardato la bocca, ma non ci sarebbe stato granché da vedere: la nevralgia non si manifesta¬va certo in maniera evidente.
L'uomo del CorpSeCorps doveva essere stato in combutta con lei, altrimenti sarebbe stato eliminato; in ogni caso non tornò e non fu più trovato. O così si disse. Questo agitò davve¬ro le acque. Significava che c'erano altre persone coinvolte. Ma chi erano, e quali erano i loro scopi? Era urgente chiarire tali questioni, dissero i tizi del Corpo che sottoposero Jimmy a un lungo interrogatorio. La madre si era mai lasciata sfuggire qual¬cosa?, gli domandarono.
Be', cosa intendevano per qualcosa? disse Jimmy. C'erano i di¬scorsi che aveva sentito grazie ai microfoni, ma di quelli non vo¬leva parlare. C'erano le cose su cui la madre a volte farneticava, su come tutto stesse andando a rotoli e non sarebbe più stato lo stesso, come la casa sulla spiaggia che lei e la sua famiglia pos¬sedevano quando era piccola, quella che era stata spazzata via con tutte le altre spiagge e parecchie città della costa orientale quando il livello del mare era salito tanto rapidamente, e poi c'e-ra stata quell'immensa ondata dal vulcano delle Canarie. (L'ave¬vano studiato a scuola, durante la lezione di geolonomia. Jimmy aveva trovato la simulazione video piuttosto entusiasmante). E aveva l'abitudine di piagnucolare sul vigneto del nonno in Flo¬rida, che si era seccato trasformandosi in gigantesca uva passa quando aveva smesso di piovere, lo stesso anno in cui il lago Okeechobee si era ristretto fino a diventare una pozza di fango maleodorante e le Everglades erano bruciate per tre settimane di seguito.
Ma tutti i genitori si lamentavano di certe cose. Vi ricordate quando si poteva andare ovunque in macchina? Vi ricordate quan¬do tutti vivevano nelle plebopoli? Vi ricordate quando si poteva volare in qualsiasi posto del mondo senza paura? Vi ricordate le catene di locali che vendevano hamburger, sempre di vera carne, le bancarelle degli hot-dog? Vi ricordate di New York prima che fosse New New York? Vi ricordate quando votare era importante? Era la solita solfa da burattini all'ora di pranzo. Oh, una volta era tutto così grande. Buuu. Adesso entro nella scatola di Twinkies. Stasera niente sesso!
Sua madre era solo una madre, disse Jimmy all'uomo del CorpSeCorps. Faceva quello che facevano tutte le madri. Fu¬mava un sacco.
«Appartiene a qualche - come dire - organizzazione? Viene gente strana qui a casa? Passa molto tempo al cellulare?»
«Se puoi aiutarci in qualsiasi modo, lo apprezzeremmo mol¬to, figliolo» disse l'altro uomo del Corpo. Fu il figliolo a taglia¬re la testa al toro. Jimmy rispose che gli pareva di no.
Sua madre gli aveva lasciato alcuni vestiti nuovi, della taglia che a sentir lei avrebbe presto portato. Erano orribili, come tut¬ti i vestiti che comprava. Erano anche troppo piccoli. Li ripose in un cassetto.

Suo padre rimase scosso, senza dubbio; era spaventato. Sua mo¬glie aveva infranto tutte le regole, doveva avere tutta un'altra vita e lui non se n'era accorto. Era il genere di cose che metteva un uomo in cattiva luce. Disse di non aver tenuto nessuna infor¬mazione importante nel personal computer che lei aveva di¬strutto, ma era ovvio che l'avrebbe detto e non aveva modo di provare il contrario. Poi era stato interrogato a fondo, da qual¬che altra parte, piuttosto a lungo. Forse era stato torturato -come nei vecchi film o in qualcuno dei siti web più sconci - con elettrodi, manganelli e chiodi roventi, e Jimmy era preoccupato e stava male. Perché non aveva capito cosa stava per accadere e non lo aveva prevenuto, invece di giocare a fare il ventriloquo perfido?
Per tutto il tempo che il padre di Jimmy fu via, due inflessi¬bili donne del CorpSeCorps rimasero in casa a occuparsi di Jimmy, o almeno questa era la versione ufficiale. Una sorridente e una dal viso inespressivo. Facevano un sacco di telefonate sui loro cellulari; esaminarono gli album di foto e gli armadi della madre di Jimmy, e cercarono di farlo parlare. È davvero carina. Pensi che abbia un fidanzato? Andava spesso nelle plebopoli? «Perché avrebbe dovuto?» domandò Jimmy, e quelle dissero che a qualcuno piaceva. «Perché?» fece di nuovo Jimmy, e la donna dal viso inespressivo disse che certa gente era perversa, e quella sorridente rise e arrossì, e disse che là si potevano trova¬re cose che era impossibile trovare lì dentro. Che tipo di cose? voleva domandare Jimmy, ma si trattenne, perché magari la ri¬sposta l'avrebbe invischiato in altre domande, su cosa piaceva a sua madre e di cosa avrebbe potuto avere voglia. Il suo tradi¬mento nei suoi confronti l'aveva consumato tutto alla mensa del¬le superiori della HelthWyzer, ora non l'avrebbe più tradita.
Le due donne cucinavano orribili frittate coriacee nel tentati¬vo di far abbassare la guardia a Jimmy prendendolo per la gola. Visti gli scarsi risultati, cominciarono a riscaldare cene surgelate nel microonde e a ordinare pizza. Così tua madre andava spesso al centro commerciale? E a ballare? Scommetto di sì. Jimmy avrebbe voluto prenderle a pugni. Se fosse stato una ragazza sa¬rebbe potuto scoppiare in lacrime e impietosirle, e liquidarle così.

Dopo che il padre di Jimmy fu tornato da dove lo avevano por¬tato, ovunque fosse, era andato in terapia. Sembrava che ne avesse bisogno, aveva il viso verde e gli occhi rossi e gonfi. An¬che Jimmy andò in terapia, ma fu una perdita di tempo.
Devi essere infelice per il fatto che tua madre se n'è andata.
Già, proprio così.
Non devi rimproverarti, figliolo. Non è colpa tua se è partita.
Cosa vuol dire?
È tutto a posto, puoi esprimere le tue emozioni.
Quali vuole che esprima?
Non c'è bisogno di essere ostili, Jimmy, so come ti senti.
Dunque, se sa già come mi sento, perché me lo domanda, e via di questo passo.

Il padre disse a Jimmy che loro due avrebbero solo dovuto an¬dare avanti come meglio potevano. Dunque andarono avanti. Andarono avanti e avanti, la mattina si versavano il loro succo d'arancia e quando se ne ricordavano mettevano i piatti nella la¬vastoviglie, e dopo che furono andati avanti per qualche setti¬mana il padre di Jimmy perse la sua tinta verdastra e ricominciò a giocare a golf.
Sotto sotto si capiva che non si sentiva troppo a pezzi, ora che il peggio era passato. Cominciò a fischiettare mentre si radeva. Si radeva più spesso. Dopo un periodo di tempo decente, Ramona andò ad abitare con loro. La vita assunse un andamento diverso, che comprendeva attacchi di risolini e sesso con ac¬compagnamento di grugniti dietro porte chiuse ma non insono¬rizzate, mentre Jimmy alzava la musica e cercava di non sentire. Avrebbe potuto mettere una cimice nella loro stanza, godersi tutto lo spettacolo, ma provava una forte riluttanza a farlo. A dire la verità, lo trovava imbarazzante. Una volta c'era stato un incontro difficile nel corridoio di sopra: il padre di Jimmy av¬volto in un asciugamano, le orecchie a sventola, le guance arros¬sate dall'energia dell'ultima baruffa erotica, Jimmy rosso di ver¬gogna che fingeva di non notarlo. I due piccioncini istupiditi da¬gli ormoni avrebbero potuto avere la decenza di farlo in garage, invece di sbatterglielo in faccia tutto il tempo. Lo facevano sen¬tire invisibile. Non che volesse sentirsi in qualche altro modo.

Da quanto tempo andavano avanti così?, si domanda ora Uomo delle Nevi. Quei due facevano sesso dietro i recinti dei propor¬ci, in biotuta e maschera per filtrare i germi? Non credeva: suo padre era uno sfigato, non uno stronzo. Naturalmente, le due cose potevano convivere: uno stronzo sfigato, uno sfigato stron¬zo. Ma suo padre (o almeno così crede) era troppo goffo e inca¬pace di mentire per essersi fatto coinvolgere nel tradimento e nell'infedeltà con tutti i crismi senza che la madre di Jimmy se ne accorgesse.
O magari se n'era accorta. Magari era per quello che se n'era andata, almeno in parte. Non si usa il martello - per non parla¬re del cacciavite elettrico e della chiave inglese - per distrugge¬re il computer di qualcuno, se non si è molto arrabbiati.
Non che in generale non lo fosse: la sua rabbia travalicava qualsiasi motivo.
Più Uomo delle Nevi ci pensa, più è convinto che suo padre e Ramona si fossero astenuti. Avevano aspettato finché la madre di Jimmy si era tolta dai piedi in una pioggia di pixel, prima di cadere l'uno nelle braccia dell'altra. Altrimenti non si sarebbero lanciati quelle occhiate aperte e innocenti all'André's Bistro del¬la OrganInc. Se avessero già avuto una storia in pubblico sareb¬bero stati bruschi e pratici, anzi, semmai si sarebbero evitati; avrebbero avuto incontri veloci e lascivi in angolini bui, volto¬landosi nei bottoni saltati via e nelle chiusure lampo incastrate sul tappeto dell'ufficio, tormentandosi l'un l'altra le orecchie nei parcheggi. Non si sarebbero presi la briga di fare quei pranzi an¬tisettici, con suo padre che fissava il piano del tavolo mentre Ra¬mona liquefaceva le carote crude. Non si sarebbero sbavati ad¬dosso fra piatti di verdura e di pasticcio di maiale, servendosi del giovane Jimmy come scudo umano.
Non che Uomo delle Nevi pronunci un giudizio. Sa come vanno, o andavano, certe cose. Ormai è un adulto, con macchie molto peggiori sulla coscienza. Perciò chi è lui per condannarli?
(Li condanna).

Ramona fece sedere Jimmy, lo fissò con i suoi grandi occhi since¬ri impiastricciati di nero e gli disse che capiva che per lui era mol¬to dura e che era un trauma per tutti loro, era dura anche per lei, anche se forse Jimmy, sì, poteva anche pensarla diversamente, ed era consapevole di non poter rimpiazzare la sua vera madre, ma sperava che magari avrebbero potuto essere amici. Jimmy disse: Sicuro, perché no, visto che, a parte il legame con suo padre, lei gli andava abbastanza a genio e voleva farle piacere.
Lei ci provava. Rideva ai suoi scherzi, un po' in ritardo a vol¬te, non era un'amante delle parole, ricordava a se stesso - e a volte, quando il padre di Jimmy era via, riscaldava la cena al mi¬croonde solo per loro due; lasagne e Caesar's salad erano i suoi piatti base. A volte guardava un film in dvd con lui, sedendogli accanto sul divano dopo aver preparato una terrina di popcorn e averci versato sopra surrogato di burro fuso, affondandoci dentro le dita unte che si leccava durante le parti spaventose, mentre Jimmy cercava di non guardarle il seno. Voleva sapere se aveva qualche domanda da farle, sai, su lei e suo padre, e cosa era successo al matrimonio. Lui diceva di no.
Di nascosto, di notte, si struggeva per Killer. E anche - in qualche angolo di se stesso che non si risolveva ad ammettere - per la sua vera, strana, inadeguata, infelice madre. Dov'era an¬data, in quali pericoli si trovava? Che fosse in qualche genere di pericolo era certo. L'avevano cercata, lo sapeva, e se fosse stato in lei non avrebbe voluto essere trovato.
Ma aveva detto che si sarebbe messa in contatto con lui, dun¬que perché non lo faceva? Dopo un po' ricevette qualche carto¬lina con francobolli inglesi, poi argentini. Erano firmate zia Mo¬nica, ma lui sapeva che era stata lei a spedirle. Spero che tu stia bene, dicevano tutte. Doveva sapere che sarebbero state lette da un centinaio di spie prima di raggiungere Jimmy, ed era così, perché dopo ogni cartolina arrivavano gli uomini del Corpo a domandare chi fosse la zia Monica. Jimmy diceva di non saper¬lo. Non pensava che sua madre fosse in nessuno dei paesi di ori¬gine dei francobolli, perché era troppo furba per fare una cosa del genere. Doveva averle fatte imbucare da altre persone.
Non si fidava di lui? Evidentemente no. Sentiva di averla delusa, di avere tradito in maniera decisiva le sue aspettative. Non aveva mai capito cosa gli si chiedeva. Se solo avesse avuto un'al¬tra possibilità per renderla felice.

«Io non sono la mia infanzia» dice ad alta voce Uomo delle Nevi. Detesta questi replay. Non può interromperli, non può cambiare argomento, non può lasciare la stanza. Quello di cui ha bisogno è una maggiore disciplina interiore, o una sillaba mi¬stica da poter ripetere all'infinito per astrarsi. Come si chiama¬vano quelle cose? Mantra. Le avevano studiate alle elementari. La religione della settimana. Bene, bambini, ora state buoni come topolini, dico a te, Jimmy. Oggi faremo finta di vivere in India, e faremo un mantra. Divertente, no? Ora scegliamo tutti una paro¬la, una parola diversa, in modo che ognuno abbia il suo mantra speciale.
«Aggrappati alle parole» dice a se stesso. Alle parole strane, alle parole vecchie, a quelle rare. Falpalà. Norna. Serendipità. Cornamusa. Lubrico. Una volta uscite dalla sua testa, queste pa¬role fuggiranno chissà dove, per sempre. Come se non ci fosse¬ro mai state.

Crake

Pochi mesi prima che la madre di Jimmy sparisse, apparve Crake. Le due cose accaddero nello stesso anno. Qual era il nes¬so? Non c'era, tranne che loro due sembravano andare parec¬chio d'accordo. Crake era tra i pochissimi amici di Jimmy che piacevano a sua madre. Per lo più trovava i suoi amici infantili, le amiche teste vuote o volgari. Non aveva mai usato quelle pa¬role, ma si capiva.
Crake, però, Crake era diverso. Più simile a un adulto, diceva; in effetti, più adulto di molti adulti. Con lui si poteva fare un di¬scorso obiettivo, un discorso in cui fatti e ipotesi erano portati fino alle loro logiche conclusioni. Non che Jimmy li avesse mai visti impegnati in un simile discorso, ma dovevano averlo fatto, altri¬menti non si sarebbe espressa così. Quando e come aveva avuto luogo quel discorso logico, da adulti? Se lo è chiesto spesso.
«Il tuo amico è una persona intellettualmente onesta» diceva la madre di Jimmy. «Non si racconta frottole». Poi fissava il fi¬glio con quello sguardo dagli occhi azzurri - come se lui l'aves¬se ferita - che conosceva tanto bene. Se solo lui avesse potuto essere così ~ degno di stima dal punto di vista intellettuale. Un'altra sconcertante voce sulla pagella criptica che sua madre si portava appresso in qualche tasca mentale, la pagella in cui strappava sempre la sufficienza. Se solo ci mettesse più impegno, Jimmy potrebbe essere una persona intellettualmente onesta. E se avesse avuto idea di cosa cazzo significava.
«Non ho voglia di cenare» le diceva per l'ennesima volta. «Faccio solo uno spuntino». Se voleva fare il numero della ma¬dre ferita, poteva farlo per l'orologio della cucina. L'aveva siste¬mato in modo che il pettirosso facesse uuu e il gufo cra cra. Per deluderla, tanto per cambiare.
Lui aveva i suoi dubbi sull'onestà di Crake, che fosse intellet¬tuale o di altro genere. Ne sapeva un po' più di sua madre su Crake.

Quando la madre di Jimmy aveva preso il volo a quel modo, dopo essersi scatenata con il martello, Crake non disse granché. Non sembrò né sorpreso né colpito. Si limitò a osservare che certe persone avevano bisogno di un cambiamento, e che per cambiare avevano bisogno di andare altrove. Disse che una per¬sona poteva essere nella tua vita e poi non esserci più. Disse che Jimmy avrebbe dovuto documentarsi sugli stoici. Quell'ultima parte era lievemente irritante: a volte Crake era un po' troppo didattico, e anche un po' troppo generoso con i dovresti. Ma Jimmy apprezzava la sua calma e la sua discrezione.
Naturalmente, a quel tempo Crake non era ancora Crake: si chiamava Glenn. Perché aveva due n, invece della normale gra¬fia? «A mio padre piaceva la musica» fu la spiegazione di Crake una volta che Jimmy trovò il modo di domandarglielo, il che gli aveva richiesto qualche tempo. «Mi ha dato il nome di un pia¬nista morto, un giovane genio con due n».
«Allora ti ha fatto prendere lezioni di musica?»
«No. Non mi ha mai fatto fare granché».
«Allora che senso aveva?»
«Cosa?»
«Il tuo nome. Le due n».
«Jimmy, Jimmy» disse Crake. «Non tutto ha un senso».
Uomo delle Nevi ha difficoltà a pensare a Crake come Glenn, a tal punto la nuova personalità di Crake ha cancellato la prece¬dente. Il suo lato Crake deve essere stato là fin dall'inizio, pen¬sa Uomo delle Nevi: non c'è mai stato un vero Glenn, Glenn era solo un travestimento. Perciò, ogni volta che Uomo delle Nevi si ripete la storia, Crake non è mai Glenn, né Glenn alias Crake, o Crake/Glenn, o Glenn, diventato Crake. È sempre e solo Crake, semplicemente.
In ogni modo Crake fa risparmiare tempo, pensa Uomo delle Nevi. Perché usare trattini o parentesi, a meno che non sia as¬solutamente necessario?

Crake comparve alle superiori della HelthWyzer a settembre od ottobre, uno di quei mesi che prima venivano chiamati autunno. Era una giornata di sole chiara e calda, per il resto non degna di nota. Era stato trasferito in seguito a una ricerca di personale che coinvolgeva un'unità parentale: casi frequenti nei Recinti. I ragazzini andavano e venivano, i banchi si riempivano e si vuo¬tavano, l'amicizia era sempre precaria.
Jimmy non prestò molta attenzione quando Crake fu presen¬tato alla classe da Melons Riley, l'insegnante di Ultratesti. Il suo vero nome non era Melons - quello era il nomignolo usato dai ragazzi della classe - ma Uomo delle Nevi non ricorda quale fos¬se. Non avrebbe dovuto chinarsi tanto mentre leggeva lo scher¬mo-libro, toccandogli quasi la spalla con i seni rotondi. Non avrebbe dovuto infilarsi la T-shirt della NooSkins nei pantaloncini muniti di zip in modo che fosse così aderente: distraeva troppo. Perciò, quando Melons annunciò che Jimmy avrebbe accompagnato il nuovo compagno Glenn a fare il giro della scuola, ci fu un attimo di silenzio, mentre Jimmy cercava di de¬cifrare le sue parole
«Jimmy, ti ho rivolto una richiesta» disse Melons.
«Certo, qualunque cosa» ribatté lui, roteando gli occhi e sor¬ridendo malizioso, ma senza esagerare. In classe si levò qualche risata; perfino Ms. Riley gli fece un involontario, remoto sorriso. Di solito riusciva a incantarla con il numero del ragazzo affascinante. Gli piaceva immaginare che, se non fosse stato minoren¬ne, e lei la sua insegnante e soggetta ad accuse di abuso di mi¬nore, si sarebbe aperta un varco rosicchiando le pareti della sua stanza e avrebbe affondato le dita avide nella sua carne giovane.
Allora Jimmy era pieno di sé, pensa Uomo delle Nevi con in¬dulgenza e con una leggera invidia. Era stato anche infelice, na¬turalmente. Era sottintesa, la sua infelicità. Ci si era messo d'im¬pegno.

Quando Jimmy ebbe modo di concentrarsi su Crake, non si ral¬legrò troppo. Crake era più alto di lui di circa cinque centimetri, e anche più magro. Capelli lisci castano scuro, pelle abbron¬zata, occhi verdi, un mezzo sorriso, uno sguardo distaccato. Por¬tava vestiti scuri, privi di loghi, disegni e scritte: un look anoni¬mo. Probabilmente era più grande di tutti loro, o cercava di far¬lo credere. Jimmy si domandò quali sport praticasse. Non il cal¬cio, niente di troppo irruento. Non era abbastanza alto per gio-care a pallacanestro. Non aveva l'aria di un giocatore di squadra, o di qualcuno che andasse a cercarsi stupidamente delle ferite. Il tennis, forse. (Anche Jimmy giocava a tennis).
All'ora di pranzo Jimmy recuperò Crake e mangiarono qual¬cosa - Crake ingollò due salsicce alla soia giganti e una grossa fetta di torta a strati al gusto di cocco, forse stava cercando di mettere su qualche chilo - e poi si trascinarono su e giù per i corridoi e dentro e fuori le classi e i laboratori, con Jimmy che faceva la radiocronaca. Qui c'è la palestra, qui c'è la biblioteca, quelli sono i lettori, devi prenotarli prima di mezzogiorno, qui dentro ci sono le docce delle ragazze, dovrebbe esserci un buco nel¬la parete ma io non l'ho mai trovato. Se vuoi farti una canna non usare il gabinetto, ci hanno messo delle microspie; c'è un microo¬biettivo della Sicurezza nella ventola dell'aria, non guardarla o ca¬piranno che lo sai.
Crake guardava tutto e non diceva niente. Spontaneamente non diede alcuna informazione su di sé. Il suo unico commento fu che il laboratorio di chimica era una topaia.
Be', al diavolo, pensò Jimmy. Se vuole fare lo stronzo, questo è un paese libero. Milioni prima di lui hanno fatto la stessa scel¬ta di vita. Era seccato con se stesso per starsene lì a chiacchiera¬re a ruota libera e a sgambettare, mentre Crake gli lanciava bre¬vi sguardi indifferenti e quel sorrisetto a mezza bocca. Malgrado ciò, c'era qualcosa in lui. Quel genere di fredda trasandatezza impressionava sempre Jimmy, quando veniva da un'altra per¬sona: faceva pensare a energie frenate, tenute da parte per qual¬cosa di più importante della compagnia del momento.
Jimmy si sorprese a desiderare di fare effetto su Crake, di pro¬vocare una reazione; era uno dei suoi punti deboli, preoccupar¬si di quello che la gente pensava di lui. Così, dopo la scuola, gli domandò se aveva voglia di visitare uno dei centri commerciali, stare un po' insieme, dare un'occhiata in giro, magari ci sareb¬bero state delle ragazze, e Crake disse perché no. Nel Recinto della HelthWyzer, come in tutti gli altri Recinti, non c'era mol¬to altro da fare dopo le lezioni, almeno per i ragazzi della loro età, nulla che implicasse una dinamica di gruppo. Non era come nelle plebopoli. Si diceva che là i ragazzi corressero in branchi, in orde. Aspettavano che i genitori di qualcuno se ne andassero e si mettevano all'opera - invadevano la casa, si stordivano con la musica a tutto volume, fumando roba e sbronzandosi, scopa¬vano qualsiasi cosa compreso il gatto di famiglia, rovinavano i mobili, si bucavano, andavano in overdose. Affascinante, pensa¬va Jimmy. Nei Recinti invece la disciplina era rigida. Pattuglie notturne, coprifuochi per gli adolescenti, cani antidroga. Una volta avevano allentato la briglia e avevano fatto entrare una vera banda - La Feccia della plebopoli, si chiamava - ma c'era quasi stata una sommossa, perciò la cosa non si era più ripetuta. Ma che bisogno c'era di giustificarsi con Crake? Era anche lui un marmocchio dei Recinti, doveva sapere come stavano le cose.
Jimmy sperava di intravedere Wakulla Price, al centro com¬merciale; era ancora piuttosto innamorato di lei, ma dopo il di¬scorsetto siamo-amici-e-basta con cui l'aveva distrutto, aveva provato una ragazza e poi un'altra, finendo - al momento attua¬le - con la bionda LyndaLee. LyndaLee era nella squadra di ca¬nottaggio e aveva cosce muscolose e pettorali impressionanti, e lo aveva fatto entrare di nascosto nella sua stanza in più di un'occasione. Era sboccata e aveva più esperienza di Jimmy, e ogni volta che stava con lei gli sembrava di essere risucchiato in un flipper, pieno di luci e capitomboli imprevedibili e cascate di cuscinetti a sfera. Non gli piaceva granché, ma aveva bisogno di mantenere il contatto con lei, di assicurarsi di essere ancora sul¬la sua lista. Magari poteva far mettere in coda Crake, fargli un favore, crearsi un credito di gratitudine. Si domandava che tipo di ragazze gli piacessero. Finora non aveva dato il minimo se¬gnale.
Al centro commerciale non c'era traccia di Wakulla, e nemme¬no di LyndaLee. Jimmy provò a chiamarla, ma aveva il cellulare spento. Così fecero qualche partita a Waco Tridimensionale nel¬la sala giochi, quindi presero un paio di SoyOBoyburger - nien¬te carne quel mese, diceva il menù scritto sulla lavagna - un Happicappuccino ghiacciato e mezza barretta energetica al cioccola¬to a testa per fare il pieno di energia e assumere un po' di steroidi. Poi se ne andarono a zonzo nell'atrio recintato con le sue fon¬tane e le felci di plastica, attraverso la musica da bagno caldo che suonavano sempre là dentro. Crake non era quel che si dice lo-quace, e Jimmy stava per annunciare che doveva andare a fare i compiti, quando davanti a loro si parò uno spettacolo degno di nota: si trattava di Melons Riley in compagnia di un uomo, diret¬ti verso una delle discoteche per soli adulti. Lei si era cambiata e indossava un'ampia giacca rossa sopra un abito nero attillato, e l'uomo le cingeva la vita con il braccio, sotto la giacca.
Jimmy diede una gomitata a Crake. «Pensi che le abbia mes¬so la mano sul culo?»
«È un problema geometrico» disse Crake. «Bisognerebbe ri¬solverlo».
«Cosa?» fece Jimmy. E poi: «Come?»
«Usa i tuoi neuroni» disse Crake. «Fase uno: calcolare la lun¬ghezza del braccio dell'uomo, usando l'unico braccio visibile come campione. Si presume che le due braccia abbiano più o meno la stessa lunghezza. Fase due: calcolare l'angolo di piega¬tura al gomito. Fase tre: calcolare la curvatura del culo. In que¬st'ultimo caso, in mancanza di dati verificabili, si può ricorrere a un'approssimazione. Fase quattro: calcolare le dimensioni del¬la mano, usando quella visibile, come sopra».
«Non sono un amante dei numeri» disse Jimmy, ridendo, ma Crake continuò: «Ora bisogna considerare tutte le possibili po¬sizioni della mano. Vita, scartata. Natica superiore destra, scar¬tata. Per deduzione le cose più probabili sembrerebbero la nati¬ca inferiore o la coscia superiore destra. La mano tra le due co¬sce superiori è una possibilità, ma tale posizione impedirebbe di camminare al soggetto, che a quanto pare non zoppica né ince¬spica». Stava facendo un'imitazione abbastanza buona del loro insegnante di chimica pratica - con la battuta usa-i-tuoi-neuroni e quel modo severo di parlare mangiandosi le parole, in una specie di latrato. Più che abbastanza buona, buona.
A Jimmy, Crake andava già più a genio. Forse avevano qual¬cosa in comune, dopotutto, almeno quel tizio aveva il senso del¬l'umorismo. Ma era anche un po' spaventato. Anche lui era un bravo imitatore, sapeva fare quasi tutti gli insegnanti. E se Crake si fosse rivelato migliore di lui? Dentro di sé si sentiva capace sia di odiarlo che di trovarlo simpatico.
Ma nei giorni seguenti, Crake non si esibì in pubblico.

Crake aveva qualcosa di speciale anche allora, pensa Uomo del¬le Nevi. Non che fosse esattamente popolare, ma la gente si sen¬tiva gratificata dal suo sguardo. Non solo i ragazzi, anche gli in¬segnanti. Li guardava come se li ascoltasse, come se quello di cui parlavano fosse degno della massima attenzione, anche se non lo diceva mai chiaramente. Suscitava soggezione, non in dosi massicce, ma quanto bastava. Trasudava potenziale, ma che genere di potenziale? Non lo sapeva nessuno, perciò la gente ci andava cauta con lui. Tutto questo nei suoi sobri abiti scuri.

Sfrigolaencefalo

Wakulla Price era stata compagna di laboratorio di Jimmy du¬rante le lezioni di biochimica nanotecnologica, ma poi un Re¬cinto all'altro capo del continente si era accaparrato suo padre, e lei aveva preso il treno lampo sigillato e non si era più vista. Dopo la sua partenza Jimmy tenne il broncio per una settimana, e nemmeno eli accessi sboccati di LyndaLee riuscirono a consolarlo.
Il posto vacante di Wakulla al tavolo del laboratorio fu occu¬pato da Crake, che venne fatto avanzare dal suo solitario posto da ultimo arrivato in fondo alla stanza. Crake era molto in gam¬ba, perfino nell'universo delle superiori della HelthWyzer, con la sua abbondanza di studenti poliedrici e al limite del geniale, non ebbe problemi a diventare il più bravo. Si rivelò eccellente in biochimica nanotecnologica, e nell'ambito di un progetto di ricombinazione su singolo strato molecolare lui e Jimmy riusci¬rono a produrre il nematode viola richiesto - usando il gene che determinava il colore in un'alga primitiva - prima della scaden¬za e senza preoccupanti variazioni.
Jimmy e Crake cominciarono ad andare in giro insieme all'o¬ra di pranzo, e poi - non tutti i giorni, non erano gay o roba del genere, ma almeno due volte alla settimana - dopo la scuola. Al¬l'inizio giocavano a tennis sul campo di terra battuta dietro la casa di Crake, ma Crake combinava la tecnica con l'intuito e la fantasia e odiava perdere, mentre Jimmy era impetuoso e rozzo, perciò la cosa non era molto produttiva e lasciarono perdere. Oppure, con il pretesto dei compiti, che a volte facevano dav¬vero, si chiudevano nella stanza di Crake e giocavano a scacchi al computer o a giochi tridimensionali, oppure a Kwiktime Osama, facendo testa o croce per vedere chi aveva più Infedeli. Crake aveva due computer, perciò potevano sedersi schiena contro schiena, ognuno al suo.
«Perché non usiamo una vera scacchiera?» domandò Jimmy un giorno che stavano giocando a scacchi. «Del vecchio tipo. Con i pezzi di plastica». Gli sembrava strano che stessero tutti e due nella stessa stanza, schiena contro schiena, giocando sui computer.
«Perché?» domandò Crake. «E comunque, questa è una vera scacchiera».
«No, non lo è».
«Okay, te lo concedo, ma non lo sono nemmeno i pezzi di plastica».
«E cioè?»
«La vera scacchiera è nella tua testa».
«Impostura!» gridò Jimmy. Era una bella parola, l'avevano sentita in un vecchio dvd; avevano cominciato a usarla per stroncarsi quando diventavano ampollosi. «Grandissima impo¬stura!»
Crake si mise a ridere.

A volte Crake si fissava su un gioco, e allora voleva giocarlo al¬l'infinito e perfezionare il suo attacco finché non era sicuro di po¬ter vincere nove volte su dieci, quantomeno. Per un intero mese avevano dovuto giocare a Massacro Barbaro (Riuscirai a cambia¬re la storia?). Un giocatore aveva le città e i ricchi, l'altro le orde e - di solito, ma non sempre - la prerogativa della malvagità. I barbari distruggevano le città o venivano distrutti, ma bisognava cominciare con la disposizione storica delle forze e partire da lì. Roma contro visigoti, antico Egitto contro icsos, aztechi contro spagnoli. Era un gioco acuto, perché a rappresentare la civiltà era¬no gli aztechi, mentre gli spagnoli erano le orde barbare. Si pote¬va personalizzare il gioco, purché si usassero società e tribù reali, e per un po' Crake e Jimmy fecero a gara per vedere chi riusciva a escogitare l'accoppiamento più oscuro.
«Peceneghi contro Bisanzio» disse Jimmy un giorno memora¬bile.
«Chi cazzo sono i peceneghi? Te li sei inventati» ribatté Crake.
Ma Jimmy li aveva trovati sull'Enciclopedia britannica, edizio¬ne del 1957, che era conservata su cd-rom - nessuno ricordava il perché - nella biblioteca della scuola. Aveva capitolo e verso. «'Matteo di Edessa ne parla come di malvagie bestie assetate di sangue'» poté citare con autorevolezza. «'Erano terribilmente spietati e non avevano personaggi che li riabilitassero'». Così ti¬rarono a sorte, a Jimmy toccarono i peceneghi e vinse. I bizanti¬ni furono massacrati, perché è questo che facevano i peceneghi, spiegò Jimmy. Massacravano subito tutti. O quanto meno gli uo¬mini. Poi, dopo un po', le donne.
Crake digerì male la perdita di tutti i suoi giocatori, e per un po' mise il muso. In seguito era diventato un fedelissimo di San¬gue e Rose. Era più cosmico, disse: il campo di battaglia era più grande, sia dal punto di vista temporale che spaziale.
Sangue e Rose era un gioco commerciale, sul modello del Mo¬nopoli. Chi aveva il Sangue giocava con le atrocità umane, atro¬cità su vasta scala: stupri e omicidi individuali non contavano, ci doveva essere un'infinità di gente eliminata. Massacri, genocidi, quel genere di cose. Chi aveva le Rose giocava con le conquiste umane. Opere d'arte, scoperte scientifiche, realizzazioni archi¬tettoniche straordinarie, invenzioni utili. Monumenti alla magni¬ficenza dell'anima, erano chiamati nel gioco. Sulla barra degli strumenti c'erano pulsanti supplementari, in modo che se non si conoscevano Delitto e castigo, o la teoria della relatività, o la Pi¬sta delle lacrime, o Madame Bovary, o la Guerra dei cent'anni, o La fuga in Egitto, si poteva cliccare due volte e ottenere un re¬soconto illustrato, con due opzioni: vm per bambini, pon per profanità, oscenità e nudità. Era quello il guaio della storia, di¬ceva Crake: aveva un sacco di tutte e tre.
Si lanciavano i dadi virtuali e compariva un pezzo della Rosa o del Sangue. Se era un pezzo del Sangue, il giocatore con la Rosa aveva la possibilità di evitare che accadesse un'atrocità, ma in cambio doveva mettere in campo un proprio pezzo. L'atrocità allora sarebbe scomparsa dalla storia, o almeno dalla storia regi¬strata sullo schermo. Il giocatore del Sangue poteva acquisire un pezzo della Rosa, ma solo consegnando un'atrocità, ritrovando¬si quindi con un numero minore di munizioni rispetto all'avver¬sario. Se era un giocatore abile, poteva attaccare la Rosa per mezzo delle atrocità in dotazione, saccheggiare le conquiste del-l'umanità e trasferirle nella propria parte del tabellone. La vit¬toria andava al giocatore che riusciva ad accaparrarsene il mag¬gior numero entro lo scadere del tempo. Con penalità, natural¬mente, nel caso di conquiste perdute per propri errori, condot¬ta stravagante e gioco stupido.
I parametri di scambio erano suggeriti - una Gioconda equi¬valeva a Bergen-Belsen, un genocidio di armeni alla Nona sinfo¬nia più le tre grandi piramidi - ma c'era spazio per mercanteg¬giare. A tale scopo bisognava conoscere i numeri: il totale di ca¬daveri causati dalle atrocità, l'ultimo prezzo delle opere d'arte sul mercato libero; oppure, se erano state trafugate, la somma coperta dalla polizza di assicurazione. Era un gioco spietato.

«Omero» dice Uomo delle Nevi, avanzando nella vegetazione gocciolante. «La Divina Commedia. Le statue greche. Gli ac¬quedotti. Il paradiso perduto. La musica di Mozart. Shakespeare, le opere complete. Le Brontë. Tolstoj. La moschea Perla. La cattedrale di Chartres. Bach. Rembrandt. Verdi. Joyce. La peni¬cillina. Keats. Turner. I trapianti di cuore. Il vaccino antipolio. Berlioz. Baudelaire. Bartok. Yeats. Woolf».
Dovevano essercene di più. Ce n'erano degli altri.
Il saccheggio di Troia, gli dice una voce all'orecchio. La di¬struzione di Cartagine. I vichinghi. Le crociate. Gengis Khan. Attila l'unno. Il massacro dei catari. I roghi delle streghe. Lo stermi¬nio degli Aztechi. Idem dei Maya. Idem degli Incas. L'inquisizio¬ne. Vlad l'Impalatore. Il massacro degli ugonotti. Cromwell in Ir¬landa. La rivoluzione francese. Le guerre napoleoniche. La care¬stia irlandese. La schiavitù negli Stati Uniti del sud. Re Leopoldo in Congo. La rivoluzione russa. Stalin. Hitler. Hiroshima. Mao. Pol Pot. Idi Amin. Sri Lanka. Timor Est. Saddam Hussein.
«Basta» dice Uomo delle Nevi.
Scusa, tesoro. Sto solo cercando di rendermi utile.

Era quello il guaio, con Sangue e Rose: era più facile ricordare i fatti di Sangue. L'altro guaio era che di solito a vincere era il gio¬catore del Sangue, ma vincere significava ereditare una terra de¬solata. Quello era il senso del gioco, diceva Crake a Jimmy, quando quest'ultimo si lamentava. Jimmy diceva che, se quello era il senso, era abbastanza assurdo. Non voleva confessare a Crake che aveva degli incubi terribili: quello in cui il Partenone veniva ornato di teste mozzate era, per qualche ragione, il peg-giore.
Per un tacito accordo avevano rinunciato a Sangue e Rose, il che era andato bene a Crake, perché aveva trovato qualcosa di nuovo - Extinctathon, un gioco biofreak per iniziati che aveva scovato sul Web. EXTINCTATHON, monitorato da MaddAddam. Adamo ha dato il nome agli animali vivi, MaddAddam lo dà a quelli morti. Vuoi giocare? Questo è quello che veniva fuori quando ti collegavi. Poi dovevi cliccare su sì, inserire il tuo nome in codice e scegliere fra una delle due chatroom: regno animale o regno vegetale. Quindi sarebbe apparso uno sfidante con un suo codice - Comodo, Rino, Lamantino, Hippocampus Ramulosus - e avrebbe proposto una partita. Comincia con... numero di zampe... cos'è? Il cos'è poteva riferirsi a una bioforma che era uscita di scena nei cinquant'anni precedenti - niente T-Rex, niente roc, niente dodo, e penalità se si sceglieva la cornice tem¬porale sbagliata. Poi bisognava restringere il campo, tipo classe ordine famiglia genere specie, poi l'habitat, indicando quando era stata vista l'ultima volta e cosa ne aveva causato l'estinzione. (Inquinamento, distruzione dell'habitat, idioti creduloni con¬vinti che mangiare il suo corno avrebbe procurato loro un'ere¬zione). Più lo sfidante teneva duro, più punti accumulava, ma si potevano vincere ricchi bonus grazie alla velocità. Era utile ave¬re la stampata di MaddAddam di tutte le specie estinte, ma dava solo i nomi latini, e comunque erano circa duecento pagine in caratteri minuscoli, piene di insetti oscuri, erbacce e rane di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Nessuno tranne, a quanto pa¬reva, i Gran maestri dell'Extinctathon, dotati di cervelli come motori di ricerca.
Capivi sempre quando giocavi con uno di loro, perché com¬pariva sullo schermo il simbolo di un piccolo celacanto. Celacanto. Pesce abissale preistorico, ritenuto a lungo estinto finché non se ne reperirono alcuni esemplari a metà degli anni Venti. Sta¬to attuale ignoto. Extinctathon era puramente informativo. Era come un secchione palloso, seduto accanto a te nel pulmino del¬la scuola, secondo Jimmy. Non chiudeva mai il becco.
«Perché ti piace tanto?» domandò Jimmy un giorno alla schiena ingobbita dell'amico.
«Perché in questo gioco sono bravo» rispose Crake. Jimmy sospettava che volesse diventare Gran maestro, non perché si¬gnificasse qualcosa ma giusto perché ce n'era la possibilità.
Crake aveva scelto i loro nomi in codice. Per Jimmy aveva pensato a Occhione, dal nome di un uccello australiano estinto con le zampe snodate, che aveva l'abitudine di gironzolare nei cimiteri, perché - Jimmy sospettava - gli piaceva il suono di quella parola accostato a lui. Il nome in codice di Crake era Crake, la denominazione inglese del rallo collorosso, un altro uccello australiano, mai molto diffuso, a sentir lui. Per un po' si chiamarono Crake e Occhione, come in un gergo comprensibi¬le solo a pochi intimi. Dopo che Crake si fu reso conto che Jimmy non giocava con grande entusiasmo ed ebbero abbando¬nato Extinctathon, il nome Occhione scomparve. Ma Crake aveva attecchito.

Quando non giocavano navigavano in Rete: facevano una visitina ai vecchi siti preferiti, vedevano cosa c'era di nuovo. Assiste¬vano a operazioni chirurgiche dal vivo, oppure seguivano le NudiNews, che andavano bene a piccole dosi, perché gli annuncia¬tori cercavano di fingere che non stesse succedendo niente di strano ed evitavano ostentatamente di guardarsi le giuggiole a vicenda.
Oppure visitavano siti dedicati ad animali, lo Schiacciamento della rana di Felicia, ad esempio, sebbene diventassero subito ri¬petitivi: una rana schiacciata, un gatto fatto a pezzi con le mani, si assomigliavano tutti. Oppure guardavano il sito burattinidicalzefetide.com, uno spettacolo di attualità sui leader politici del mondo. Crake sosteneva che con la genalterazione digitale non si poteva capire se uno qualunque di quei generali e simili esi¬steva più, e nel caso esistesse, se aveva davvero detto quanto si sentiva. Comunque, venivano rovesciati e sostituiti talmente in fretta che aveva ben poca importanza.
Oppure, visitavano vialatesta.com, che trasmetteva la cronaca dal vivo delle esecuzioni in Asia. Vi si potevano vedere nemici del popolo che venivano decapitati con spade in qualche posto che sembrava la Cina, mentre migliaia di spettatori applaudiva¬no. Oppure si collegavano con alibooboo.com, dove a svariati presunti ladri venivano mozzate le mani e le adultere e le portatrici di rossetto venivano lapidate a morte da folle urlanti, in en¬clavi polverose che si trovavano presumibilmente nei paesi fon¬damentalisti del Medio Oriente. In quel sito di solito i reporta¬ge erano poveri: si diceva che fosse vietato fare riprese, perciò i filmati erano opera di qualche miserabile con una miniteleca¬mera nascosta, che rischiava la vita per la sporca valuta occi¬dentale. Per lo più si vedevano le schiene e le teste degli spetta¬tori, perciò era come essere intrappolati all'interno di grandi ra¬strelliere per vestiti, a meno che il tizio con la telecamera non ve-nisse catturato, nel qual caso c'era una confusione di mani e ve¬stiti prima che l'immagine si oscurasse. Crake diceva che proba¬bilmente quei bagni di sangue avevano luogo in un terreno ap¬partato in qualche punto della California, con un gruppo di comparse radunate per le strade.
Erano migliori i siti americani, con i loro commenti degni di una telecronaca sportiva. «Eccolo che arriva! Sì! È Joe 'caccia¬vite' Ricardo, supervotato da voi spettatori!» Poi un resoconto dei crimini, con immagini raccapriccianti delle vittime. Questi siti ospitavano spot di prodotti come batterie per auto e tran¬quillanti, e avevano loghi dipinti in giallo vivo sugli sfondi. Al¬meno gli americani ci mettevano un po' di stile, diceva Crake.
Cortocircuito.com, sfrigolaencefalo.com e bracciodellamorte live.com erano il massimo; mostravano elettroesecuzioni e inie¬zioni letali. Una volta che questi reportage in diretta furono le¬galizzati, i tizi che dovevano essere giustiziati cominciarono a fare i gigioni per le telecamere. Per la maggior parte erano uo¬mini, con qualche rara donna, ma queste ultime a Jimmy non piaceva vederle: la donna veniva uccisa con una procedura so-lenne, lacrimosa, mentre la gente se ne stava là intorno con can¬dele accese e foto dei bambini, oppure saltava su con poesie di sua composizione. Ma gli uomini erano uno spasso. Si poteva osservarli mentre facevano smorfie, mostravano il dito medio alle guardie, facevano battute e di tanto in tanto si liberavano e venivano inseguiti per la stanza, trascinandosi dietro le cinghie di contenzione e gridando insulti sconci.
Crake diceva che quegli incidenti erano imposture. Diceva che gli uomini erano pagati per farlo, o lo erano le famiglie. Gli sponsor li obbligavano a mettere su un bello spettacolo, altri¬menti la gente si sarebbe annoiata e avrebbe spento. Gli spetta¬tori volevano vedere le esecuzioni, sì, ma dopo un po' queste ri¬schiavano di diventare monotone, perciò bisognava infilarci un'ultima occasione di lotta, o un elemento a sorpresa. Due a uno che era tutto preparato.
Jimmy diceva che quella era una teoria terrificante. Terrifi¬cante era un'altra vecchia parola, come impostura, che aveva ri¬pescato dagli archivi dei dvd. «Pensi che vengono davvero giu¬stiziati?» domandava. «Molte sembrano simulazioni».
«Non si sa mai» disse Crake.
«Non si sa mai cosa?»
«Che cos'è la realtà?»
«Impostura!»
C'era anche un sito di suicidi assistiti - buonanotte.com, si chiamava - con tanto di spazio Era-la-tua-vita: album di fami¬glia, interviste a parenti, gruppi di amici coraggiosi che stavano vicini al suicida mentre si procedeva con una musica d'organo in sottofondo. Dopo che il dottore dagli occhi tristi aveva di¬chiarato spenta ogni scintilla vitale, venivano trasmesse dichia¬razioni registrate in cui il protagonista stesso spiegava perché avesse scelto di morire. Le statistiche dei suicidi assistiti saliva¬no alle stelle dopo questo spettacolo. Si diceva che ci fosse una lunga lista d'attesa di persone disposte a pagare bei soldi per avere l'occasione di apparirvi e di uccidersi in gloria, e che si te¬nessero lotterie per scegliere i partecipanti.
Crake se la spassava quando guardava quel sito. Per qualche ragione lo trovava divertente, al contrario di Jimmy, che non avrebbe mai potuto ridere di una cosa del genere. Crake, inve¬ce, considerava un segno di stile mostrare quando ne avevi avuto abbastanza. Ma la riluttanza di Jimmy significava che era un codardo, o soltanto che la musica d'organo faceva schifo?
Quelle morti programmate lo mettevano a disagio: gli ricor¬davano Alex il pappagallo che diceva Ora me ne vado. C'era un confine troppo labile tra Alex il pappagallo, i suicidi assistiti e sua madre e il biglietto che gli aveva lasciato. Tutti e tre avverti¬vano delle loro intenzioni; poi sparivano.

Oppure guardavano A casa di Anna K. L'interprete era una pet¬toruta sedicente artista dell'installazione: aveva disseminato il proprio appartamento di microfoni in modo che ogni istante della sua vita fosse trasmesso dal vivo a milioni di guardoni. «Ecco Anna K., che pensa incessantemente alla sua felicità e alla sua infelicità», ti appariva quando ti mettevi in contatto con lei. Poi potevi guardarla mentre si toglieva le sopracciglia con le pinzette, mentre si faceva la ceretta sulla zona bikini, mentre la¬vava la biancheria intima. A volte leggeva ad alta voce scene da vecchi drammi facendo tutte le parti, seduta sul cesso con i suoi antiquati pantaloni a zampa d'elefante abbassati alle caviglie. Fu così che Jimmy si imbatté per la prima volta in Shakespeare, gra¬zie all'interpretazione del Macbeth di Anna K.

Domani, e domani, e domani.
Strisciano così, a piccoli passi, di giorno in giorno,
Fino all'ultima sillaba del tempo assegnato;
E tutti i nostri ieri hanno rischiarato ai folli
La via della polverosa morte,

lesse Anna K. Era una cagna, ma Uomo delle Nevi le fu ricono¬scente, perché gli aveva dischiuso un mondo. Basti pensare a cosa si sarebbe perso, non fosse stato per lei. Basti pensare alle parole. Avvizzito, per esempio. Carnicino.
«Cos'è questa stronzata?» diceva Crake. «Cambia canale!»
«No, aspetta, aspetta» diceva Jimmy, che era stato catturato da... cosa? Da qualcosa che voleva sentire. E Crake aspettava, perché a volte lo assecondava.
Oppure guardavano il Tutti matti Show, che presentava gare cronometrate in cui si mangiavano animali e uccelli vivi, con cibi introvabili come premi. Era sorprendente cos'era capace di fare la gente per un paio di costolette di agnello o per un pezzo di vero brie.
Oppure guardavano i porno-show. Ce n'erano un sacco.

Quand'è che il corpo si era lanciato nelle sue avventure private? Uomo delle Nevi riflette; dopo aver mollato le sue vecchie com¬pagne di viaggio, la mente e l'anima, delle quali un tempo era stato considerato un semplice contenitore corrotto, o un burat¬tino che si prestava a recitare i loro drammi, o una cattiva com¬pagnia, che allontanava le altre due dalla retta via. Si doveva es¬sere stancato dei costanti rimproveri e dei lamenti dell'anima e delle elucubrazioni intellettuali dettate dall'ansia della mente, che lo distraevano ogni volta che stava mettendo i denti in qual¬cosa di succoso o le dita in qualcosa di buono. Aveva scaricato quelle due da qualche parte alle sue spalle, lasciandole arenate in un umido santuario o in una soffocante sala da conferenze mentre lui si precipitava nei bar con le cameriere in topless, e in¬sieme a loro aveva scaricato la cultura: musica, pittura, poesia, teatro. Sublimazione, non erano altro; nient'altro che sublima¬zione, secondo il corpo. Perché non andare al sodo?
Eppure il corpo aveva le sue forme di cultura. La sua arte. Le esecuzioni erano le sue tragedie, la pornografia le sue storie d'a¬more.

Per accedere ai siti più disgustosi e proibiti - quelli per cui bi¬sognava avere più di diciotto anni e dotarsi di una password spe¬ciale - Crake usava il codice privato di suo zio Pete, tramite un complicato metodo da lui battezzato «labirinto a foglia di nin¬fea». Costruiva un tortuoso percorso attraverso il Web, inseren¬dosi a caso in qualche impresa commerciale di facile accesso e saltando poi da una rete aperta all'altra, cancellando le proprie impronte via via che procedeva. In questo modo, quando lo zio Pete riceveva i conti, non poteva scoprire chi li aveva accumu¬lati.
Crake aveva anche scovato la scorta di marijuana di Vancouver dello zio Pete, roba di prima scelta, conservata in lattine di aranciata nel freezer; tirava fuori all'incirca un quarto di lattina, poi ci mescolava un po' di polvere di tappeto a basso numero di ottani che si poteva comprare allo spaccio della scuola per cinquanta dollari al sacchetto. Diceva che lo zio Pete non se ne sa¬rebbe mai accorto, perché non fumava mai tranne quando vole¬va fare sesso con sua madre, il che - a giudicare dal numero di lattine di aranciata e dal ritmo con cui venivano consumate - non accadeva troppo di frequente. Secondo Crake lo zio Pete aveva i suoi veri sballi in ufficio, comandando a bacchetta e ti¬ranneggiando gli impiegatucci. Aveva iniziato come ricercatore, ma adesso era un pezzo grosso, un dirigente nel settore finan¬ziario della HelthWyzer.
Così si preparavano un paio di canne e le fumavano guardan¬do le esecuzioni e gli spettacoli porno: le membra che si muove¬vano al rallentatore sullo schermo, un balletto subacqueo di car¬ne e sangue sotto pressione, parti dure e molli che si univano e si separavano, gemiti e gridolini, primi piani di occhi serrati e denti serrati, guizzi di questo o quello. Se passavi da un sito al¬l'altro rapidamente, alla fine tutto sembrava far parte dello stes¬so avvenimento. A volte vedevano i due spettacoli insieme, su schermi diversi.
Per lo più queste sedute avevano luogo in silenzio, a parte gli effetti acustici delle macchine. Era Crake a decidere cosa guar¬dare e quando smettere. Era abbastanza giusto, i computer era¬no suoi. Magari diceva: «Ci diamo un taglio?» prima di cambia¬re. Nulla di quanto vedeva sembrava toccarlo, in un senso o nel¬l'altro, tranne quando lo trovava divertente. Non sembrava mai nemmeno fuori di testa. Jimmy sospettava che in realtà non aspi¬rasse.
Invece Jimmy barcollava verso casa ancora stordito, senten¬dosi reduce da un'orgia in cui non avesse avuto il minimo con¬trollo su quanto gli era successo. Si sentiva anche molto leggero, quasi fatto d'aria; aria rarefatta, che dava le vertigini, sulla cima di qualche monte Everest disseminato di immondizia. Di ritor¬no alla casa base, le sue unità parentali - supposto che ci fosse¬ro, e che fossero di sotto - non sembravano mai accorgersi di niente.
«Mangiato abbastanza?» gli domandava a volte Ramona. In¬terpretava il suo borbottio come un sì.

PupeBollenti

Il tardo pomeriggio era il momento migliore per fare queste cose a casa di Crake. Nessuno li interrompeva. La madre di Crake era spesso fuori, o andava di fretta; lavorava come medico diagnostico all'ospedale del Recinto. Era una donna forte con i capelli neri e la mascella squadrata, dai seni piuttosto piccoli. Nelle rare occasioni in cui Jimmy si era trovato in sua compagnia, lei non aveva detto granché. Aveva frugato nei mobiletti della cucina in cerca di qual¬cosa che potesse passare per uno spuntino per «voi ragazzi», come li chiamava. A volte si bloccava nel bel mezzo dei preparativi - mentre versava cracker stantii in un piatto o segava pezzi di for¬maggio marmorizzato arancio e bianco - e rimaneva immobile, co¬me se vedesse qualcun altro nella stanza. Jimmy aveva l'impressio¬ne che non ricordasse il suo nome; non solo, che non ricordasse nemmeno quello di Crake. A volte domandava al figlio se la sua stanza era in ordine, sebbene non ci mettesse mai piede.
«È una fautrice del rispetto della privacy del bambino» dice¬va Crake, impassibile.
«Scommetto che non vuole annusare le tue calze ammuffite» ribatteva Jimmy. «Tutti i profumi d'Arabia non purificheranno queste piccole calze». Di recente aveva scoperto le gioie della citazione.
«Per quello c'è il deodorante spray» diceva Crake.
Quanto allo zio Pete, era raramente a casa prima delle sette. La HelthWyzer si stava espandendo con la rapidità dell'elio, perciò aveva molte responsabilità nuove. Non era il vero zio di Crake, era solo il secondo marito di sua madre. Aveva assunto quel ruolo quando Crake aveva dodici anni ed era un po' trop¬po grandicello per considerare il ritornello dello «zio» se non assolutamente pietoso. Eppure aveva accettato lo status quo, o almeno sembrava. Sorrideva, diceva Certo, zio Pete e Giusto, zio Pete quando quello era lì, ben sapendo di non andarlgli a genio.

Un pomeriggio di - cos'era? marzo, sì, perché fuori faceva un caldo boia - stavano guardando uno spettacolo porno nella stanza di Crake. Ormai sembrava qualcosa fatto in ricordo dei vecchi tempi, sembrava già nostalgia, qualcosa per cui erano troppo grandi, come i tizi di mezza età che battevano i locali notturni per adolescenti nelle plebopoli. Eppure, per dovere si accesero una canna, entrarono nella carta di credito digitale del-lo zio Pete attraverso un nuovo labirinto e cominciarono a navi¬gare. Si registrarono nella Torta del giorno, che presentava ela¬borati dolci nei soliti orifizi, quindi passarono a Superingoiatori; poi a un sito russo che si serviva di ex acrobate, ballerine e contorsioniste.
«Chi ha detto che non è possibile succhiarselo da soli?» com¬mentò Crake. Il numero sulla fune con sei torce accese era piut¬tosto buono, ma era roba già vista.
Poi passarono a PupeBollenti, un sito di turismo sessuale. «La cosa migliore dopo essere sul posto» così veniva pubbliciz¬zato. Dichiarava di mostrare veri turisti del sesso ripresi mentre facevano cose per cui sarebbero stati sbattuti in galera nei loro paesi d'origine. Non si vedevano facce, non si facevano nomi, ma le possibilità di ricatto, si rende conto adesso Uomo delle Nevi, dovevano essere ampie. Probabilmente le riprese veniva¬no fatte in paesi in cui la vita costava poco e c'erano ragazzini in abbondanza, e dove si poteva comprare tutto ciò che si voleva.
Fu così che videro per la prima volta Oryx. Avrà avuto solo otto anni, o tanti ne dimostrava. Non riuscirono mai ad appura¬re con sicurezza che età avesse allora. Non si chiamava Oryx, non aveva nome. Era solo una delle tante ragazzine di un sito porno.
Nessuna di loro era mai sembrata reale a Jimmy - gli avevano sempre fatto l'impressione di cloni digitali - ma per qualche ra¬gione Oryx gli parve tridimensionale fin dall'inizio. Era minuta e di una bellezza squisita, e nuda come tutte le altre, con niente addosso tranne una ghirlanda di fiori e un nastro rosa tra i ca¬pelli, ornamenti frequenti nei siti di sesso con bambini. Era in ginocchio accanto a un'altra ragazzina, di fronte al solito tronco maschile gargantuesco tipo Gulliver-a-Lilliput - un uomo a grandezza naturale naufragato su un'isola di donnine deliziose, oppure rapito, incantato e costretto a sperimentare piaceri stra¬zianti da un terzetto di fate senz'anima. I lineamenti del tizio erano nascosti - un sacchetto con due buchi per gli occhi sulla testa, nastro chirurgico sui tatuaggi e sulle cicatrici: pochi di questi tipi volevano essere visti dalla gente a casa, sebbene la possibilità di essere scoperti dovesse far parte del divertimento.
Il numero comprendeva panna montata e leccate a non fini¬re. L'effetto era sia innocente che osceno: le tre ragazzine per¬correvano il tizio con le loro lingue da gattine e le loro dita mi¬nuscole, facendogli un trattamento completo al suono di mugo¬lii e risolini. I risolini dovevano essere registrati, perché non ve¬nivano dalle tre bambine: sembravano tutte spaventate, e una di loro piangeva.
Jimmy sapeva come andavano certe cose. Avevano per forza quell'aria, pensava; se si fermavano, da fuori campo sarebbe ap¬parso un bastone da passeggio per pungolarle. Era una caratte¬ristica del sito. C'erano almeno tre strati di finzione contraddittori uno sopra all'altro. Voglio, non voglio, voglio.
Oryx si interruppe. Fece un sorrisetto duro che le diede un'a¬ria molto più grande e si strofinò via la panna di bocca. Poi guardò al di sopra della spalla, dritto negli occhi dello spettato¬re - dritto negli occhi di Jimmy, della persona segreta dentro di lui. Ti vedo, diceva quell'occhiata. Ti vedo mentre mi guardi. Ti conosco. So cosa vuoi.
Crake tornò indietro, bloccò l'immagine e la scaricò. Ogni tanto lo faceva, e ormai aveva un piccolo archivio di immagini. A volte le stampava e ne dava una copia a Jimmy. Poteva essere pericoloso - lasciare una traccia che permettesse di trovare il bandolo del labirinto - ma Crake lo faceva lo stesso. Perciò ora salvò quell'attimo, l'attimo dello sguardo di Oryx.
Jimmy si sentì bruciato da quello sguardo; corroso, come da un acido. L'aveva fissato con un tale disprezzo. La canna che si stava facendo doveva contenere solo erba di prato: fosse stata più forte, forse sarebbe riuscito a superare il senso di colpa. Ma per la prima volta aveva sentito che quanto facevano era sba¬gliato. Prima era sempre stato un divertimento, oppure qualco¬sa ben oltre il suo controllo, ma ora si sentiva in colpa. Al tem¬po stesso si sentiva afferrato per le branchie: se gli ave'ssero of¬ferto di teletrasportarlo all'istante ovunque si trovasse Oryx, avrebbe accettato senza problemi. Avrebbe pregato di andarci. Era tutto troppo complicato.
«Questa la teniamo?» domandò Crake. «La vuoi?»
«Sì» rispose Jimmy. Riuscì a malapena a farsi uscire la parola di bocca. Sperava di apparire normale.

Così Crake l'aveva stampata, l'immagine dello sguardo di Oryx, e Uomo delle Nevi l'aveva conservata a lungo. Molti anni dopo l'aveva mostrata a Oryx.
«Non credo di essere io» fu la sua reazione immediata.
«Ma come no!» disse Jimmy. «Guarda! Sono i tuoi occhi!»
«Un sacco di ragazzine hanno gli occhi» disse lei. «Un sacco di ragazzine facevano certe cose. Un'infinità». Poi, vedendo il suo disappunto, aggiunse: «Potrei essere io. Forse è così. Que¬sto ti renderebbe felice, Jimmy?»
«No» rispose. «Era una bugia?
«Perché l'hai tenuta?»
«A cosa stavi pensando?» disse Uomo delle Nevi invece di ri¬spondere.
Un'altra donna al suo posto avrebbe accartocciato l'immagi¬ne, l'avrebbe denunciato come un criminale, gli avrebbe detto che non capiva niente della sua vita, avrebbe fatto una gran sce¬nata. Invece lei spianò la carta, passando delicatamente le dita su quella faccia di bambina dolce e sdegnosa che una volta - non c'era dubbio - era stata sua.
«Credi che stessi pensando?» disse. «Oh, Jimmy! Credi sem¬pre che tutti pensino. Forse non pensavo a niente».
«Sono sicuro del contrario» replicò lui.
«Vuoi che finga? Vuoi che m'inventi qualcosa?»
«No. Dimmi solo a cosa pensavi».
«Perché?»
Jimmy dovette rifletterci sopra. Ricordò se stesso mentre guardava. Come aveva potuto farle una cosa del genere? Eppu¬re non le aveva fatto del male, non è vero? «Perché ne ho biso¬gno». Non era un gran ragione, ma era tutto quello che gli veni¬va in mente.
Lei sospirò. «Stavo pensando» disse, tracciando un piccolo cerchio sulla pelle di lui con l'unghia del dito, «che se solo fos¬se dipeso da me, non ci sarei stata io inginocchiata là».
«Ci sarebbe stato qualcun altro?» domandò Jimmy. «Chi? Qualcuno chi?»
«Tu vuoi sapere tutto» disse Oryx.

5

Toast

Uomo delle Nevi siede curvo nel suo lenzuolo stracciato al limi¬tare degli alberi, dove l'erba, la veccia e l'uva marina si fondono con la sabbia. Ora che fa più fresco si sente meno avvilito. È an¬che affamato. Bisogna spezzare una lancia a favore della fame: almeno ti fa capire che sei ancora vivo.
Una brezza agita le foglie sopra la sua testa; gli insetti strido¬no e trillano; la luce rossa del sole al tramonto colpisce le torri nell'acqua, illuminando un vetro intatto qua e là, quasi fosse sta¬ta accesa una manciata di luci. Una volta parecchi degli edifici avevano giardini pensili, e adesso sono appesantiti dalla sterpa¬glia che li invade. Centinaia di uccelli attraversano il cielo alla loro volta, in cerca di un luogo dove posarsi. Ibis? Aironi? Quel¬li neri sono cormorani, lo sa per certo. Si posano tra il fogliame che si sta facendo scuro, gracchiando e bisticciando. Se mai avrà bisogno di guano, saprà dove trovarlo.
Dalla radura a sud arriva un coniglio, saltella, rimane in ascol¬to, si ferma per mangiucchiare l'erba con i suoi denti gigante¬schi. Risplende nel crepuscolo, lo scintillio verdastro rubato alle iridescenze di una medusa degli abissi in qualche remoto espe¬rimento. Nella penombra il coniglio sembra soffice e quasi tra¬slucido, come un pezzo di lokum; come se si potesse leccargli via il pelo come zucchero. Anche nell'infanzia di Uomo delle Nevi c'erano conigli di un verde luminoso, ma non erano così grandi e non erano ancora scappati dalle loro gabbie per incro¬ciarsi con gli esemplari selvatici, diventando molesti.
Questo non ha paura di lui, nonostante lo riempia di voglie carnivore: vorrebbe colpirlo con un sasso, farlo a pezzi con le mani nude e poi ficcarselo in bocca, pelo e tutto. Ma i conigli appartengono ai Figli di Oryx e sono sacri alla stessa Oryx, e sa¬rebbe una cattiva idea offendere le donne.
È colpa sua. Deve essere stato istupidito dal bere, al momen¬to di stilare le leggi. Avrebbe dovuto dichiarare commestibili i conigli, quanto meno da lui, ma ormai non può cambiare. Sen¬te quasi Oryx ridere di lui con una gioia indulgente e leggermente maliziosa.
I Figli di Oryx, i Figli di Crake. Si era dovuto pur inventare qualcosa. Racconta una storia comprensibile e semplice, non balbettare: questo era il parere da esperto dato dagli avvocati ai criminali sul banco degli imputati. Crake ha fatto le ossa dei Fi¬gli di Crake con il corallo della spiaggia, e poi ha fatto la loro car¬ne con un mango. Invece i Figli di Oryx sono nati da un uovo, un uovo gigante deposto dalla stessa Oryx. In realtà ne ha deposte due: uno pieno di animali, uccelli e pesci, l'altro pieno di parole. Ma l'uovo pieno di parole si è dischiuso per primo, e a quel tempo i Figli di Crake erano già stati creati e si erano mangiati tutte le parole perché avevano fame, e così non ne erano rimaste più al di-schiudersi del secondo uovo. Ed è per questo che gli animali non parlano.
Non c'è niente di meglio della coerenza interna. Uomo delle Nevi l'ha imparato in un periodo precedente della sua vita, quando mentire gli era stato più difficile. Ora, anche quando viene colto in una lieve contraddizione, riesce a cavarsela, per¬ché questa gente si fida di lui. È l'unico rimasto a essere stato faccia a faccia con Crake, perciò può rivendicare una posizione di privilegio. Sopra la sua testa sventola l'invisibile bandiera del¬la Crakità, Crakontà, Crakitudine, che consacra ogni suo atto.
Compare la prima stella. «Stella lucente, stella sincera» dice. Qualche maestra delle elementari. Sally Culo-grosso. Ora chiu¬dete gli occhi forte forte. Più forte! Così! Vedete la stella dei desi¬deri? Ora desideriamo tutti la cosa che vogliamo al di sopra di ogni altra al mondo. Ma, ssst! Acqua in bocca, o il desiderio non si avvererà!
Uomo delle Nevi strizza forte gli occhi, ci preme contro i pu¬gni, contrae tutto il viso. Ecco la stella dei desideri: è blu. «Ma¬gari si realizza, magari si avvera» dice. «Il desiderio che ho espresso stasera».
È una parola.

«Oh, Uomo delle Nevi, perché parli da solo?» dice una voce. Uomo delle Nevi apre gli occhi: tre dei bambini più grandi gli stanno appena fuori tiro e lo osservano con interesse. Devono essere scivolati fin lì nel crepuscolo.
«Sto parlando con Crake» dice lui.
«Ma tu gli parli attraverso il tuo aggeggio brillante! È rotto?»
Uomo delle Nevi solleva il braccio sinistro, allunga l'orologio. «Questo serve ad ascoltare Crake. Parlargli è differente».
«Perché gli parli delle stelle? Cosa gli stai dicendo, oh, Uomo delle Nevi?»
Cosa, davvero? pensa lui. Quando si ha a che fare con gli indi¬geni, dice il libro nella sua testa - un libro più moderno questa volta, fine ventesimo secolo, una voce femminile sicura di sé - bisogna cercare di rispettarne le tradizioni e limitare le spiegazio¬ni a semplici concetti che possano essere compresi nel contesto dei loro sistemi di credenze. Una zelante componente di un'associa¬zione umanitaria in tenuta da giungla color cachi, con reticelle sotto le braccia e un centinaio di tasche. Una cretina che si con¬sidera più virtuosa degli altri, che pensa di avere tutte le rispo-ste. Ha conosciuto ragazze così al college. Se fosse qui, le servi¬rebbe una teoria completamente nuova sugli indigeni.
«Gli stavo dicendo» dice Uomo delle Nevi, «che fate troppe domande». Si porta l'orologio all'orecchio. «E lui mi sta dicen¬do che se non smettete di farlo, vi ridurrà in toast».
«Scusa, oh, Uomo delle Nevi, ma cos'è un toast?»
Un altro errore, pensa Uomo delle Nevi. Dovrebbe evitare le metafore arcane. «Un toast» dice, «è qualcosa di molto, molto cattivo. È talmente cattivo che non so nemmeno descriverlo. Adesso è ora di andare a letto. Andate via».

«Che cos'è un toast?» dice Uomo delle Nevi tra sé e sé, una vol¬ta che sono corsi via. Il toast è quando prendi un pezzo di pane - Che cos'è il pane? Il pane è quando prendi della farina - Che co¬s'è la farina? Saltiamo questa parte, è troppo complicato. Il pane è qualcosa che si può mangiare, fatto con una pianta sminuzzata e dalla forma di una pietra. Si cuoce... Scusa, perché si cuoce? Per¬ché non mangiare semplicemente la pianta? Lasciate perdere - Fate attenzione. Si cuoce, e poi si taglia a fette, e si mette una fet¬ta nel tostapane; che è una scatola di metallo che si riscalda con l'elettricità - Che cos'è l'elettricità? Non ve ne preoccupate. Mentre la fetta è nel tostapane, tirate fuori il burro - il burro è un gras¬so giallo che si ricava dalle ghiandole mammarie di - saltiamo il burro. Dunque, il tostapane fa diventare la fetta di pane nera e fu¬mante da entrambi i lati, e allora il «tostapane» lancia la fetta in aria, e quella cade sul pavimento...
«Lasciamo perdere» dice Uomo delle Nevi. «Riproviamo». Il toast era un'invenzione assurda dell'Alto Medioevo. Il toast era uno strumento di tortura che costringeva tutti coloro che vi erano sottoposti a vomitare in forma verbale i peccati e i crimini delle loro vite passate. Il toast era un oggetto rituale divorato dai fetici¬sti nella convinzione che avrebbe accresciuto i loro poteri cinetici e sessuali. Il toast non può essere spiegato in nessun modo razio¬nale.
Il toast sono io.
Io sono il toast.

Pesce

Il cielo si scurisce da blu oltremare a indaco. Dio benedica chi dà i nomi ai colori a olio e alla biancheria intima femminile di prima qualità, pensa Uomo delle Nevi. Rosa petalo, lacca cre¬misi, foschia diafana, terra d'ombra bruciata, prugna matura, in¬daco, blu oltremare - sono fantasie già di per sé, certe parole ed espressioni. È consolante ricordare come una volta l'Homo sapiens sapiens fosse così geniale con il linguaggio, e non solo. Ge¬niale in tutte le direzioni allo stesso tempo.
Cervello di scimmia, era stata l'opinione di Crake. Zampe di scimmia, curiosità di scimmia, il desiderio di fare a pezzi, rove¬sciare, odorare, accarezzare, misurare, migliorare, distruggere, scartare - tutto si riallacciava al cervello di scimmia, un model¬lo avanzato, ma pur sempre cervello di scimmia. Crake non ave¬va un'opinione molto alta dell'ingegno umano, nonostante ne fosse lui stesso provvisto in grande quantità.

C'è un mormorio di voci dalla parte del villaggio, o da quello che sarebbe un villaggio se avesse delle case. In perfetto orario ecco arrivare gli uomini con le loro torce, seguiti dalle donne.
Ogni volta che compaiono le donne, Uomo delle Nevi torna a stupirsi. Sono di tutti i colori conosciuti, dal nero più intenso al bianco più bianco, sono di diversa statura, ma tutte splendida¬mente proporzionate. Hanno tutte denti sani e pelle liscia. Nien¬te onde di grasso intorno alla vita, niente rotondità, niente cellu¬lite a buccia d'arancia bucherellata sulle cosce. Niente peli sul cor¬po, niente ciuffi irsuti. Sembrano foto di moda ritoccate, o la pub¬blicità di un costoso programma di allenamento in palestra.
Forse è per questa ragione che quelle donne non suscitano neppure i più lievi sommovimenti di libidine in Uomo delle Nevi. Erano i segni dell'imperfezione umana a turbarlo, i difet¬ti del progetto: il sorriso asimmetrico, l'escrescenza accanto al¬l'ombelico, il neo, il livido. Erano quelli i punti che sceglieva, sfiorandoli con la bocca. Era la consolazione che aveva in men¬te, quando baciava la ferita per darle sollievo? C'era sempre un elemento di malinconia implicato nel sesso. Dopo un'adole-scenza in cui non era andato tanto per il sottile, aveva dato la preferenza alle donne tristi, delicate e fragili, donne che erano state messe nei guai e avevano bisogno di lui. Gli era piaciuto confortarle, carezzarle delicatamente all'inizio, rassicurarle. Renderle più felici, anche solo per un istante. E rendere più fe¬lice se stesso, naturalmente; era quello il tornaconto. Una don¬na riconoscente era capace di farsi in quattro.
Ma queste nuove donne non sono né asimmetriche né tristi: sono placide, come statue animate. Lo lasciano raggelato.

Le donne gli portano il pesce settimanale, arrostito come ha in¬segnato loro e avvolto in foglie. Ne sente l'odore, comincia a sbavare. Porgono il pesce, lo depongono a terra davanti a lui. Sarà un pesce che vive vicino alla riva, di una specie troppo spregevole e insipida per essere stata desiderata, venduta e ster¬minata, oppure un abitatore del fondo marino zeppo di tossine, ma Uomo delle Nevi se ne infischia, mangerà qualsiasi cosa.
«Ecco il tuo pesce, Uomo delle Nevi» dice uno degli uomini, quello chiamato Abraham. Abraham come Lincoln: Crake si era divertito a dare ai suoi Craker i nomi di personaggi storici illu¬stri. Al tempo era sembrato tutto piuttosto innocente.
«Questo è il pesce scelto per te stasera» dice la donna che lo tiene; l'Imperatrice Giuseppina, oppure Madame Curie o Sojourner Truth - è in ombra, perciò non capisce di chi si trat¬ta). «Ecco il pesce che Oryx ti offre».
Oh, bene, pensa Uomo delle Nevi. La Pesca del giorno.
Ogni settimana, secondo le fasi della luna - luna nuova, pri¬mo quarto, luna piena, ultimo quarto - le donne entrano nelle pozze formate dalla marea e chiamano lo sfortunato pesce per nome: solo pesce, niente di più specifico. Poi lo indicano, e gli uomini lo uccidono con sassi e bastoni. In questo modo il disa¬gio è distribuito tra loro e nessun singolo si macchia della colpa di avere versato il sangue del pesce.
Se le cose fossero andate come voleva Crake, non ci sarebbe¬ro più state uccisioni del genere: nessuna azione predatoria da parte degli umani, ma aveva fatto i conti senza Uomo delle Nevi e i suoi appetiti bestiali. Uomo delle Nevi non può vivere di solo trifoglio. I Craker non mangerebbero mai un pesce, ma devono portargliene uno alla settimana, perché lui ha detto che è stato Crake a ordinarlo. Hanno accettato la mostruosità di Uomo del¬le Nevi, hanno capito fin dall'inizio che apparteneva a un ordi¬ne di esseri viventi a parte, perciò non sono rimasti troppo sor¬presi.
Idiota, pensa. Avrei dovuto chiederne tre al giorno. Apre le foglie intorno al pesce caldo, cercando di frenare il tremito del¬le mani. Non dovrebbe farsi trascinare dall'entusiasmo. Ma lo fa ogni volta.
I Craker tengono le distanze e distolgono lo sguardo mentre lui si ficca manciate di pesce in bocca e succhia gli occhi e le guance, gemendo di piacere. Forse è come sentire un leone che si ingozza, allo zoo, ai tempi in cui c'erano gli zoo, ai tempi in cui c'erano i leoni - un lacerare e sgranocchiare, un orribile in¬gurgitare e ingoiare - e, come i visitatori dello zoo di tanto tem¬po prima, i Craker non possono esimersi dal dare una sbirciatina. Lo spettacolo della depravazione è interessante anche per loro, a quanto pare, per quanto siano purificati dalla clorofilla.
Quando Uomo delle Nevi ha finito, si lecca le dita e se le pu¬lisce sul lenzuolo, poi rimette le lische nell'involucro pronto per essere riconsegnato al mare. Ha detto loro che è Oryx a volerlo: ha bisogno delle lische dei suoi figli, in modo da poterne fare de¬gli altri. Hanno accettato la spiegazione senza domande, come tutto quello che dice su Oryx. In realtà è uno dei suoi strata¬gemmi più furbi: non ha senso lasciare gli avanzi in giro sul ter¬reno, per attirare i moffoni, calupi, proporci e altri animali saprofagi.

I Craker si avvicinano, sia gli uomini che le donne, gli si radu¬nano intorno, gli occhi luminescenti nella semioscurità, pro¬prio come il coniglio: lo stesso gene di medusa. Seduti così tut¬ti insieme emanano l'odore di una cesta di agrumi; un tratto aggiunto da Crake, che aveva previsto che quelle sostanze chimiche avrebbero allontanato le zanzare. Forse aveva ragione, perché a quanto pare tutte le zanzare nel raggio di chilometri si concentrano su Uomo delle Nevi. Resiste all'impulso di schiac¬ciarle: il suo sangue fresco non fa che eccitarle. Si sposta a si¬nistra, in modo da farsi avvolgere ancora di più dal fumo delle torce.
«Uomo delle Nevi, per favore, raccontaci le imprese di Crake».
È una storia, ciò che vogliono in cambio di ogni pesce massa¬crato. Bene, glielo devo, pensa Uomo delle Nevi. Dio delle stronzate, non mi abbandonare.
«Quale parte vorreste sentire questa sera?» domanda.
«In principio» suggerisce una voce. Amano sentirsi ripetere le cose, le imparano a memoria.
«In principio era il caos» fa lui.
«Mostraci un'immagine del caos, per favore, oh, Uomo delle Nevi!»
Hanno faticato a capire le immagini, all'inizio: i fiori sui fla¬coni di lozione, i frutti sulle lattine di succhi tra i rifiuti sulla spiaggia. Sono veri? No, non sono veri. Cos'è questo non vero? Il non vero può parlarci del vero. E così via. Ma ora sembra che ab¬biano afferrato il concetto.
«Sì! Sì! Un'immagine del caos!» lo incalzano.
Uomo delle Nevi sapeva che avrebbero fatto questa richiesta - tutte le storie cominciano dal caos - e così si è preparato. Da dietro il suo nascondiglio di lastre di cemento tira fuori una del¬le sue scoperte: un secchiello di plastica arancione, scolorito fino a diventare rosa ma per il resto intonso. Cerca di non immagi¬nare cos'è successo al bambino a cui una volta apparteneva. «Portate dell'acqua» dice, allungando il secchiello. C'è un po' di trambusto intorno al cerchio di torce: mani si tendono, piedi corrono via nell'oscurità.
«Nel caos, tutto era mescolato insieme» dice. «C'era troppa gente, e così la gente era tutta mescolata con la terra». Il sec¬chiello torna, traboccante d'acqua, e viene deposto nel cerchio di luce. Lui aggiunge una manciata di terra, la mescola con un bastone. «Ecco» dice. «Il caos. Non si può bere...»
«No!» Un coro.
«Non si può mangiare...»
«No, non si può mangiare!» Risate.
«Non ci si può nuotare, non ci si può stare sopra...»
«No! No!» Adorano questa parte.
«Le persone che vivevano nel caos erano esse stesse piene di caos, e il caos le spingeva a fare brutte cose. Uccidevano in con¬tinuazione altra gente. E mangiavano tutti i Figli di Oryx, con¬tro il volere di Oryx e Crake. Li mangiavano ogni giorno. Non smettevano di ucciderli e di mangiarli. Li mangiavano perfino quando non avevano fame».
A questo punto rimangono senza fiato e a occhi spalancati: quello è sempre un momento drammatico. Che malvagità! Con¬tinua: «E Oryx aveva un unico desiderio - voleva che la gente fosse felice e in pace, e che smettesse di mangiare i suoi figli. Ma la gente non poteva essere felice, per via del caos. E così Crake prese il caos e lo gettò via». Uomo delle Nevi fa vedere come, versando l'acqua da un lato, poi capovolge il secchiello. «Ecco. Vuoto. Ed è così che Crake operò il Grande riordinamento e creò il Grande vuoto. Ripulì la terra, ripulì lo spazio...»
«Per i suoi figli! Per i Figli di Crake!»
«Giusto. E per...»
«E anche per i Figli di Oryx!»
«Giusto» dice Uomo delle Nevi. Non c'è dunque fine alle sue vergognose invenzioni? Ha voglia di piangere.
«Crake ha creato il Grande vuoto...» dicono gli uomini.
«Per noi! Per noi!» esclamano le donne. Sta diventando una liturgia. «Oh, buono, gentile Crake!»
La loro ammirazione sviscerata per Crake fa infuriare Uomo delle Nevi, sebbene sia stata opera sua. Il Crake che stanno lodando è una sua invenzione, un'invenzione non priva di mali¬gnità: Crake era contrario alla nozione di Dio o degli dei di ogni genere, e sarebbe sicuramente disgustato dallo spettacolo della propria graduale deificazione.
Se fosse qui. Ma non è qui, e per Uomo delle Nevi è seccan¬te ascoltare tutte quelle adulazioni mal riposte. Perché non magnificano Uomo delle Nevi invece? Buono, gentile Uomo delle Nevi, che merita di più - molto di più - di essere magnificato, perché chi li ha tirati fuori, chi li ha portati qui, chi ha vegliato su di loro per tutto questo tempo? Be', se vogliamo chiamarlo vegliare. Di certo non è stato Crake. Perché Uomo delle Nevi non può modificare la mitologia? Ringraziate me, non lui! Li¬sciate me invece di lui!
Ma per ora deve ingoiare la propria amarezza. «Sì» dice. «Buono, gentile Crake». Storce la bocca in quello che spera sembri un sorriso cordiale e benevolo.
All'inizio aveva improvvisato, ma ora esigono dei dogmi: se deviasse dall'ortodossia lo farebbe a proprio rischio e pericolo. Magari non perderebbe la vita - questa gente non è violenta o incline a sanguinari atti di punizione, almeno non finora - ma perderebbe il suo pubblico. Gli volterebbero le spalle, andreb¬bero via. Ora è il profeta di Crake, che gli piaccia o no; e anche il profeta di Oryx. Quello, o niente. E non potrebbe sopportare di non essere niente, di sapere di non essere niente. Ha bisogno di essere ascoltato, ha bisogno di essere sentito. Ha bisogno al¬meno dell'illusione di essere capito.
«Oh, Uomo delle Nevi, raccontaci la nascita di Crake» dice una delle donne. È una richiesta nuova. Non è pronto, anche se avrebbe dovuto aspettarselo: i bambini sono di grande interesse per queste donne. Attento, si dice. Una volta che fornirà loro una madre, la scena di una nascita e un Crake neonato, vorran¬no i dettagli. Vorranno sapere quando Crake ha messo il primo dente e ha detto la sua prima parola e ha mangiato la sua prima radice, e altre banalità del genere.
«Crake non è mai nato» dice Uomo delle Nevi. «È sceso dal cielo, come un tuono. Ora andate via, per favore, sono stanco». Svilupperà questa favola più tardi. Magari doterà Crake di cor¬na e ali di fuoco, e per di più gli concederà una coda.

Bottiglia

Dopo che i Figli di Crake se ne sono andati uno dietro l'altro, portandosi via le loro torce, Uomo delle Nevi si arrampica sul suo albero e prova a dormire. Tutt'intorno si levano rumori: lo sciabordio delle onde, brusii e ronzii di insetti, fischi di uccelli, gracidii di anfibi, il fruscio delle foglie. Le orecchie lo inganna¬no: gli pare di sentire una tromba jazz, e sotto un tambureggia¬re ritmico, che sembrano provenire attutiti da un night-club. Da un punto più avanti sulla spiaggia giunge un suono rimbom¬bante, mugghiante: ma cos'è? Non riesce a pensare a nessun ani¬male che faccia un verso simile. Forse è un coccodrillo scappa¬to da una fabbrica di borse cubana chiusa, che avanza verso nord lungo la spiaggia. Sarebbe una cattiva notizia per i bambi¬ni che stanno nuotando. Rimane di nuovo in ascolto, ma il suo¬no non si ripete.
Dal villaggio giunge un lontano, placido mormorio: voci uma¬ne. Se si può chiamarle umane. Purché non comincino a cantare. Il loro canto non assomiglia a nulla di quanto ha sentito nella sua vita finita: è al di là del livello umano, o al di sotto. Come se can¬tassero dei cristalli; ma neanche. Più come felci che si schiudono: qualcosa di antico, di carbonifero, ma al tempo stesso appena nato, fragrante, verdeggiante. Quel canto lo indebolisce, gli riversa addosso troppe emozioni indesiderate. Si sente escluso, come da una festa a cui non sarà mai invitato. Gli basterebbe avanzare di un passo nella luce proiettata dal fuoco e vedrebbe girarsi verso di lui un cerchio di visi all'improvviso assenti. Cadrebbe il silen¬zio, come nelle tragedie di tanto tempo prima, quando l'eroe pre¬destinato entrava in scena avvolto nel suo manto di cattive noti¬zie contagiose. A un livello incoscio Uomo delle Nevi deve fun¬gere da ricordo per questa gente, un ricordo non certo piacevole: è ciò che forse sono stati un tempo. Sono il vostro passato, po¬trebbe intonare. Sono il vostro antenato, venuto dalla terra dei mor¬ti. Ora mi sono perduto, non posso tornare indietro, mi sono are¬nato qui, sono tutto solo. Lasciatemi entrare!
Oh, Uomo delle Nevi, come possiamo mai aiutarti? I sorrisi gentili, la sorpresa garbata, la benevolenza confusa.
Lasciate perdere, direbbe. Non possono davvero aiutarlo in al¬cun modo.

Soffia una brezza fredda; il lenzuolo è umido; rabbrividisce. Se solo quel posto avesse un termostato. Forse potrebbe escogitare un modo per fare un piccolo fuoco, lassù sull'albero.
«Dormi» ordina a se stesso. Invano. Dopo un'infinità di tem¬po passata a girarsi, rigirarsi e grattarsi, scende di nuovo giù per recuperare la bottiglia di scotch nel nascondiglio. Le stelle fanno abbastanza luce, così può orientarsi alla bell'e meglio. Ha fatto questo viaggio parecchie volte in passato: il primo mese e mezzo, dopo essersi accertato che la situazione era abbastanza sicura per poter abbassare la guardia, ogni sera si sbronzava di brutto. Non era una cosa saggia o matura da fare, poco ma sicuro, ma cosa se ne faceva della saggezza e della maturità, ormai?
Perciò ogni sera era stata sera di festa, una festa ad personam. O meglio, ogni sera in cui aveva avuto l'occorrente, ogni volta che era riuscito a localizzare un'altra scorta di alcol negli edifici abbandonati delle plebopoli ancora accessibili. Per primi aveva perlustrato i bar vicini, poi i ristoranti, poi le case e le roulotte. Aveva rubato sciroppo per la tosse, dopobarba, alcol per frizio¬ni; dietro l'albero ha accumulato un imponente mucchio di bot¬tiglie vuote. Ogni tanto si imbatteva in una scorta d'erba e ru¬bava anche quella, anche se piuttosto spesso era ammuffita; ep¬pure, riusciva a sballare anche così. O gli capitava di trovare del¬le pillole. Né coca né crack né eroina: quella roba era finita per prima, ficcata nelle vene e nei nasi in un ultimo sussulto di car¬pe diem; qualsiasi cosa pur di liberarsi della realtà, date le circo¬stanze. C'erano contenitori vuoti di BlyssPlus ovunque, tutto ciò che tornava utile per un'orgia continua. I festaioli non erano riu¬sciti a far fuori tutto l'alcol, anche se spesso nelle sue escursioni di caccia e raccolta aveva scoperto che altri erano arrivati prima di lui e avevano lasciato solo rotti. Dovevano esserci state in-temperanze di ogni genere, finché non era rimasto nessuno a compierle.
A terra è buio come sotto un'ascella. Servirebbe una torcia, una di quelle a molla. Deve tenere gli occhi bene aperti. Proce¬de a tentoni, inciampando, nella giusta direzione, scrutando il terreno in cerca del luccichio dei malvagi granchi di terra, che dopo il calare del buio escono dalle tane e corrono qua e là - se ti pizzicano, quei cosi bianchi fanno un male cane - e dopo un breve giro in una macchia di cespugli individua il suo nascondi¬glio di cemento sbattendoci con la punta del piede. Si trattiene dall'imprecare: non si sa mai cos'altro potrebbe aggirarsi nella notte. Apre il nascondiglio facendo scivolare una lastra, ci fruga dentro alla cieca, recupera il terzo di scotch.
Lo ha messo via, resistendo all'impulso di tracannarlo, con¬servandolo come una sorta di amuleto; finché ha saputo che era ancora là è stato più facile far passare il tempo. Potrebbe essere l'ultimo. È sicuro di avere esplorato ogni posto in cui era pro¬babile trovarlo nel raggio di una giornata di viaggio tra andata e ritorno dal suo albero. Ma si sente sciocco. Perché mettere da parte quella roba? Perché aspettare? Cosa vale la sua vita, co¬munque, e a chi importa? Spegniti, spegniti, corta candela. È servito al suo scopo evolutivo, come aveva previsto quel male¬detto di Crake. Ha salvato i suoi figli.
«Crake di merda!» non può fare a meno di gridare.
Stringe la bottiglia con una mano, procede a tastoni con l'al¬tra, raggiunge di nuovo il suo albero. Ha bisogno di tutte e due le mani per arrampicarsi, perciò annoda con cura al lenzuolo la bottiglia. Una volta su, si siede sulla piattaforma tracannando lo scotch e ululando alle stelle - Auuu! Auuu! - finché un coro di risposte dall'albero vicino non lo fa sussultare.
È forse uno scintillio di occhi? Sente ansimare.
«Salve, miei pelosi compagni» esclama. «Chi vuol essere il mi¬glior amico dell'uomo?» A rispondergli è un uggiolio suppli¬chevole. È la cosa peggiore dei calupi: hanno ancora l'aspetto di cani, si comportano ancora come cani, drizzano le orecchie, fan¬no salti giocosi e balzi da cucciolo, dimenano la coda. Prima ti fanno fesso e poi ti attaccano. Non c'è voluto molto per scon¬volgere cinquantamila anni di interazione fra umani e canidi. Quanto ai cani veri, non hanno avuto possibilità di scampo, con loro: i calupi hanno semplicemente ucciso e divorato tutti quel¬li che avevano dato segno di una residua condizione addomesti¬cata. Ha visto un calupo avvicinarsi in maniera amichevole a un pechinese che guaiva, annusargli il didietro, poi balzargli alla gola, scuoterlo come uno straccio e trotterellare via con il corpo floscio fra i denti.
Per un po' si era continuato a vedere qualche desolato ani¬male domestico che elemosinava, magro e zoppicante, il pelo ar¬ruffato e opaco, pregando con occhi smarriti di essere preso da qualche umano, qualsiasi umano. I Figli di Crake non erano adatti allo scopo - dovevano emanare un odore strano per un cane, erano una specie di frutti ambulanti, soprattutto al crepu¬scolo, quando l'insettifugo all'olio di agrumi entrava in azione - e in ogni caso non avevano mostrato il minimo interesse, perciò i randagi si erano concentrati su Uomo delle Nevi. Un paio di volte aveva quasi ceduto, trovando difficile resistere al loro ac¬cattivante dimenarsi, ai loro uggiolii compassionevoli, ma non poteva permettersi di nutrirli; in ogni caso, gli erano inutili. «Ar¬rangiatevi» aveva detto loro. «Mi dispiace, vecchi miei». Li ave¬va cacciati via a forza di sassi, sentendosi una merda totale, e in seguito non si erano più visti.
Che sciocco era stato. Aveva lasciato che andassero sprecati. Avrebbe dovuto mangiarli. O tenerne uno e addestrarlo a cattu¬rare conigli. O a difenderlo. O a qualcos'altro.
I calupi non sanno arrampicarsi sugli alberi, per fortuna. Se di-venteranno abbastanza numerosi e troppo ostinati, dovrà comin¬ciare a dondolarsi da una liana all'altra, come Tarzan. È un'idea buffa, perciò ride. «Volete solo il mio corpo!» grida loro. Poi sco¬la la bottiglia e la lancia a terra. C'è un guaito, un fuggi fuggi: ri¬spettano ancora i proiettili. Ma quanto può durare? Sono in gam¬ba; molto presto avvertiranno la sua vulnerabilità, cominceranno a dargli la caccia. Una volta che inizieranno, non potrà più anda¬re in nessun posto, quantomeno in un posto privo di alberi. Ba¬sterà che lo attirino allo scoperto, per circondarlo e dargli il col-po di grazia. Non può fare più di tanto con sassi e bastoni ap¬puntiti. Avrebbe davvero bisogno di trovare un'altra pistola spray.
Dopo che i calupi se ne sono andati si stende supino sulla piattaforma, fissando le stelle attraverso il fogliame che si muo¬ve lievemente. Sembrano vicine, le stelle, ma sono molto lonta¬ne. La loro luce è passata da milioni, miliardi di anni. Messaggi senza un mittente.
Il tempo passa. Vuole cantare una canzone, ma non gliene viene in mente nessuna. Una vecchia musica si leva dentro di lui, scompare; sente soltanto le percussioni. Magari potrebbe inta¬gliarsi un flauto, da un ramo, un fusto o qualcos'altro, se solo riuscisse a trovare un coltello.
«Stella lucente, stella sincera» dice. Poi come fa? Gli è uscito di mente.
Niente luna, questa sera c'è la luna nuova, anche se la luna c'è comunque e deve sorgere adesso, un'enorme palla di pietra invisibile, una gigantesca massa di gravità morta ma potente, che attira a sé il mare. Attira tutti i liquidi. Il corpo umano è fatto per il novantotto per cento d'acqua, dice il libro nella sua testa. Questa volta è una voce d'uomo; nessuno che conosce, o meglio conosceva. L'altro due per cento è fatto di minerali, in prevalenza il ferro nel sangue e il calcio di cui sono composti lo scheletro e i denti.
«Chi se ne frega» dice Uomo delle Nevi. Non gliene impor¬ta niente del ferro nel sangue o del calcio nello scheletro; è stan¬co di essere se stesso, vuole essere qualcun altro. Sostituire tut¬te le sue cellule, farsi un trapianto di cromosomi, scambiare la propria testa con quella di qualcun altro, con dentro cose mi¬gliori. Dita che si muovono su di lui, ad esempio, piccole dita dalle unghie ovali, con uno smalto prugna matura o lacca cre¬misi o rosa petalo. Magari si realizza, magari si avvera, il deside¬rio che ho espresso stasera. Dita, una bocca. Comincia un dolore violento, sordo, alla base della spina dorsale.
«Oryx» dice. «So che ci sei». Ripete il nome. Non è neanche il suo vero nome, che comunque non ha mai saputo; è solo una parola. È un mantra.
A volte riesce a evocarla. All'inizio è pallida e confusa, ma se riesce a ripeterne all'infinito il nome, allora forse scivolerà nel suo corpo e sarà presente con lui nella carne, e la sua mano su di sé diventerà la mano di lei. Ma è sempre stata sfuggente, non si riesce mai a bloccarla. Questa sera non riesce a materializzar¬si e lui rimane solo, a piagnucolare in maniera ridicola, mastur¬bandosi da solo nell'oscurità.

6

Oryx

Uomo delle Nevi si sveglia di soprassalto. Qualcuno l'ha tocca¬to? Ma non c'è nessuno là, nessuno.
È buio pesto, niente stelle. Devono essere arrivate le nuvole.
Si rigira, si avvolge nel lenzuolo. Sta tremando: è la brezza della notte. È molto probabile che sia ancora ubriaco; a volte è difficile dirlo. Alza lo sguardo nell'oscurità, domandandosi tra quanto sarà mattina, sperando di riprendere sonno.
Da qualche parte risuona il grido di un gufo. Quella vibra¬zione selvaggia, vicinissima e subito lontana, come la nota più bassa di un flauto peruviano. Forse sta cacciando. Ma cosa?
Ora sente Oryx che fluttua verso di lui nell'aria, quasi volasse su soffici ali piumate. Ora atterra, si mette comoda; gli è molto vi¬cina, allungata sul fianco, solo una pelle li separa. Trova miraco¬losamente posto sulla piattaforma accanto a lui, sebbene non sia larga. Se avesse una candela o una torcia potrebbe vederla, il suo profilo snello, un pallido bagliore contro l'oscurità. Se allungasse la mano potrebbe toccarla; ma così la farebbe svanire.
«Non era per il sesso» le dice. Non risponde, ma lui percepi¬sce la sua incredulità. La sta rattristando, perché le sta portando via un po' della sua conoscenza, del suo potere. «Non era solo per il sesso». Un cupo sorriso di lei: così va meglio. «Lo sai che ti amo. Sei l'unica». Non è la prima donna a cui l'abbia detto. Non avrebbe dovuto farne tanto uso nella prima parte della sua vita, non avrebbe dovuto considerarlo uno strumento, un cu¬neo, una chiave per aprire le donne. Prima che riuscisse a dar loro un significato, le parole gli erano suonate false e si era ver¬gognato di pronunciarle. «No, davvero» dice a Oryx.
Nessuna risposta, nessuna reazione. Non era mai stata molto espansiva, neppure in tempi migliori.

«Confessami solo una cosa» diceva quando era ancora Jimmy.
«Fammi una domanda» ribatteva lei.
Così lui la faceva, e poi lei poteva dire: «Non lo so. Ho di¬menticato». Oppure: «Non voglio dirtelo». Oppure: «Jimmy, sei così cattivo, non sono affari tuoi». Una volta aveva detto: «Hai un sacco di immagini in testa, Jimmy. Dove le hai prese? Perché pensi che siano immagini mie?»
Lui credeva di capire la sua ambiguità, la sua evasività. «Va tutto bene» le diceva, accarezzandole i capelli. «Nulla di quan¬to è accaduto è stato colpa tua».
«Nulla di cosa, Jimmy?»

Quanto tempo gli era occorso per ricomporla con i frammenti che aveva raccolto e accumulato con tanta attenzione? C'era la storia di Crake su Oryx, e anche la storia di Jimmy, una versio¬ne più romantica; e poi c'era la storia raccontata da lei stessa, che era diversa dalle altre due, e per niente romantica. Uomo delle Nevi sfoglia queste tre storie nella sua testa. Una volta de¬vono esserci state altre versioni di lei: la storia di sua madre, la storia dell'uomo che l'aveva comprata, la storia del secondo uomo che l'aveva comprata e la storia del terzo uomo - il peg¬giore di tutti, quello di San Francisco, un ipocrita contaballe - ma Jimmy non le aveva mai sentite.
Oryx era così delicata. Filigrana, pensava lui, immaginando le ossa all'interno del piccolo corpo. Aveva un viso triangolare - occhi grandi, mascella piccola - un viso da imenottero, un viso da mantide, il viso di un gatto siamese. La pelle del giallo più pallido, liscia e traslucida, come porcellana antica, costosa. Guardandola, capivi che una donna di tale bellezza e fragilità, che era stata povera, aveva sicuramente condotto una vita diffi¬cile, una vita che però non doveva essere consistita nel pulire pa-vimenti.
«Hai mai pulito pavimenti?» le domandò Jimmy una volta.
«Pavimenti?» Ci pensò un istante. «Non avevamo pavimenti. E quando sono arrivata nei posti con i pavimenti, non ero io a pulirli». Una cosa su quei primi tempi, disse, i tempi senza pa¬vimenti: le superfici di terra battuta venivano spazzate ogni giorno. Ci si sedeva lì per mangiare e per dormire, perciò la pulizia era importante. Nessuno voleva sporcarsi di cibo stantio. Nes¬suno voleva le mosche.

Oryx era nata quando Jimmy aveva sette o otto anni. Dove esat¬tamente? Difficile a dirsi. In un posto lontano, straniero.
Però era un villaggio, diceva Oryx. Un villaggio con alberi tutt'intorno e campi nelle vicinanze, o forse risaie. Le capanne avevano una copertura vegetale sul tetto - rami di palma? - ma quelle migliori avevano tetti di latta. Un villaggio in Indonesia, o in Birmania? No, diceva Oryx, sebbene non potesse esserne sicura. Però non era l'India. Il Vietnam? tirava a indovinare Jimmy. La Cambogia? Oryx abbassava lo sguardo sulle proprie mani, esaminadosi le unghie. Che importanza aveva?
Non riusciva a ricordare quale lingua parlasse da bambina. Era troppo piccola per tenerla a mente, quella prima lingua: tut¬te le parole le erano state strofinate via dalla testa. Ma non era la stessa lingua della città in cui era stata portata all'inizio, o lo stesso dialetto, perché aveva dovuto imparare un modo diverso di parlare. Si ricordava: la goffaggine delle parole nella sua boc¬ca, la sensazione di essere ammutolita.
Nel villaggio erano tutti poveri e c'erano molti bambini, rac¬contava Oryx. Lei stessa era piuttosto piccola, quando era stata venduta. Sua madre aveva una marea di figli, tra cui due maschi più grandi che presto sarebbero stati in grado di lavorare nei campi, fortunatamente, perché il padre era malato. Tossiva tut¬to il tempo; quella tosse costellava i suoi primi ricordi.
Un problema ai polmoni, aveva immaginato Jimmy. Natural¬mente dovevano fumare tutti come pazzi, quando riuscivano a procurarsi le sigarette: il fumo alleviava la tensione. (Si era con¬gratulato con se stesso per quell'intuizione). Gli abitanti del vil¬laggio ascrivevano la malattia del padre alla cattiva acqua, alla cattiva sorte, ai cattivi spiriti. La malattia conteneva un elemen¬to di vergogna; nessuno voleva essere contaminato dalla malat¬tia di un altro. Perciò il padre di Oryx era compatito, ma anche condannato ed evitato. Sua moglie si prendeva cura di lui con muto risentimento.
Tuttavia furono suonate le campane. Vennero dette preghie¬re. Furono bruciate immaginette nel fuoco. Ma fu tutto inutile, perché il padre morì. Nel villaggio tutti sapevano cosa sarebbe successo poi, perché, se non c'era nessun uomo a lavorare nei campi o nelle risaie, i mezzi di sostentamento dovevano pur ve¬nire da qualche altra parte.
Oryx era nel gruppo dei figli più piccoli, e veniva spesso mes¬sa da parte; poi all'improvviso le fu data importanza, nonché cibo migliore del solito, e una speciale giacca blu, perché le al¬tre donne del villaggio davano una mano e volevano che avesse un aspetto grazioso e sano. I bambini che erano brutti o defor¬mi, oppure poco vivaci o incapaci di parlare bene - i bambini così venivano pagati di meno, o non c'era verso di venderli. Ma¬gari le donne del villaggio avrebbero avuto bisogno di dare via i propri figli un giorno, e se ora si rendevano utili avrebbero po-tuto contare su un identico aiuto.
Nel villaggio questa operazione non veniva chiamata «vendi¬ta». Quando saltava fuori l'argomento, si parlava di apprendi¬stato. I bambini venivano addestrati a guadagnarsi da vivere nel vasto mondo: era questa la versione ufficiale. E poi, se rimane¬vano dov'erano, cosa avrebbero potuto fare? Soprattutto le ra¬gazze, diceva Oryx. Si sarebbero soltanto sposate e avrebbero fatto altri bambini, destinati anch'essi a essere venduti. Venduti, o gettati nel fiume e trascinati fino al mare; perché di cibo non ce n'era più di tanto.

Un giorno, al villaggio arrivò un uomo, lo stesso di sempre. Di solito arrivava in auto, sobbalzando sul sentiero di terra battuta, ma questa volta era piovuto molto e la strada era troppo fango¬sa. Ogni villaggio aveva uno di questi uomini, che a intervalli ir¬regolari facevano il pericoloso tragitto dalla città, sebbene si sa¬pesse sempre in anticipo quando stavano per arrivare.
«Quale città?» domandò Jimmy.
Ma Oryx si limitò a sorridere. Parlare di certe cose le faceva venire fame, disse. Perché quel tesoro di Jimmy non ordinava un po' di pizza per telefono? Funghi, carciofini, acciughe, ma sen¬za salame. «Ne vuoi un po' anche tu?» domandò.
«No» rispose Jimmy. «Perché non vuoi dirmelo?»
«Perché ti interessa?» disse Oryx. «A me non interessa. Non ci penso mai. È passato tanto di quel tempo».
Quell'uomo - disse Oryx, contemplando la pizza quasi fosse un puzzle e poi piluccando i funghi, che le piaceva mangiare per primi - ne aveva con sé altri due, che erano al suo servizio e portavano fucili per difendersi dai banditi. Indossava abiti costosi e, a parte il fango e la polvere - tutti si infangavano e si impolvera¬vano venendo al villaggio - era pulito e curato. Aveva un orologio, uno scintillante orologio dorato che controllava spesso, tirando su la manica per ostentarlo; quell'orologio era rassicurante, un se¬gno di stile. Forse era davvero d'oro. C'era chi lo diceva.
L'uomo non era considerato affatto un criminale, ma un ri¬spettabile uomo d'affari che non imbrogliava, o non troppo, e pagava in contanti. Perciò era trattato con rispetto e gli veniva offerta ospitalità, perché nessuno al villaggio voleva inimicarse¬lo. E se non fosse più venuto? E se una famiglia avesse avuto bi¬sogno di vendere un bambino e lui non l'avesse comprato per¬ché era rimasto offeso in una precedente visita? Era la banca del villaggio, la loro polizza di assicurazione, il loro premuroso zio ricco, il loro unico talismano contro la sfortuna. E c'era stato bi¬sogno di lui sempre più spesso, perché il tempo era diventato così strano che ormai era impossibile fare previsioni - troppa pioggia o non abbastanza, troppo vento, troppo caldo - e i rac¬colti soffrivano.
L'uomo sorrideva molto, salutava molti degli uomini del vil¬laggio chiamandoli per nome. Faceva sempre un discorsetto, lo stesso ogni volta. Voleva che tutti fossero felici, diceva. Voleva che entrambi le parti fossero felici. Non voleva che nessuno co¬vasse rancore. Non aveva forse smosso mari e monti per loro, accollandosi bambini brutti e stupidi che gli erano di peso, solo per favorirli? Se avevano una qualsiasi critica sul modo in cui conduceva gli affari, dovevano dirglielo. Ma non c'era mai nes¬suna critica, anche se si brontolava alle sue spalle: non pagava mai più di quanto doveva, si diceva. Tuttavia era ammirato per questo: ciò dimostrava che sapeva condurre i suoi affari, e che i bambini sarebbero stati in mani capaci.
Ogni volta che l'uomo dall'orologio d'oro veniva al villaggio si portava via parecchi bambini, che avrebbe messo a vendere fiori ai turisti nelle strade della città. Il lavoro era facile e i bam¬bini sarebbero stati trattati bene, assicurava alle madri: non era un criminale disonesto o un bugiardo, non era un ruffiano. Sa¬rebbero stati ben nutriti e avrebbero avuto un posto sicuro per dormire, sarebbero stati sorvegliati con cura e avrebbero rice-vuto una somma di denaro che potevano mandare o meno alle famiglie a casa, erano liberi di scegliere. Questa somma sarebbe equivalsa a una percentuale dei loro guadagni meno le spese di vitto e alloggio. (Al villaggio non arrivava mai denaro. Nessuno ci sperava). In cambio del piccolo apprendista avrebbe pagato ai padri, o alle madri vedove, un buon prezzo, o quello che a sentir lui era un buon prezzo; ed era un prezzo abbastanza de¬cente, considerato quello a cui era abituata la gente. Con quel denaro le madri che vendevano i loro figli avrebbero potuto of¬frire a quelli che rimanevano un'occasione migliore nella vita. Così si dicevano.

La prima volta che sentì questa storia, Jimmy rimase indignato. Questo accadeva al tempo in cui ancora si indignava. E in cui si rendeva ridicolo su tutto ciò che riguardava Oryx.
«Non capisci» diceva Oryx. Stava ancora mangiando la pizza a letto, con una Coca e un contorno di patate fritte. Aveva fini¬to i funghi e adesso aveva attaccato i cuori di carciofo. Non mangiava mai la crosta. Diceva che la faceva sentire molto ricca gettare via il cibo. «Molta gente lo faceva. Era l'usanza».
«Un'usanza stronza» disse Jimmy. Era seduto su una sedia ac¬canto al letto e la guardava mentre si leccava le dita con la sua piccola lingua da gatto.
«Jimmy, sei cattivo, non imprecare. Vuoi una fetta di salamino piccante? Non l'hai ordinato, ma ce l'hanno messo comun¬que. Devono aver capito male».
«Stronza non è un'imprecazione, è solo una descrizione cal¬zante».
«Be', non credo che dovresti dire certe cose». Ora stava man¬giando le acciughe: le teneva sempre per ultime.
«Mi piacerebbe ammazzare quel tizio».
«Quale tizio? Vuoi questa Coca? Non ce la faccio a finirla».
«Il tizio di cui mi hai appena parlato».
«Oh, Jimmy, forse ti piacerebbe di più se fossimo tutti morti di fame?» domandò Oryx, con la sua piccola risata gorgogliante. Era la risata che più temeva da lei, perché simulava un di¬sprezzo divertito. Lo raggelava: una brezza fredda su un lago il¬luminato dalla luna.

Naturalmente era filato dritto da Crake con il suo sdegno. Ave¬va dato gran colpi ai mobili: erano i tempi in cui dava gran col¬pi ai mobili. Ecco cosa ebbe da dire Crake: «Jimmy, guarda la cosa in maniera realistica. Non si può far coesistere all'infinito una minima disponibilità di cibo e una popolazione in aumento. A quanto pare l'homo sapiens non è capace di annientarsi alla fine delle scorte. È una delle poche specie che non limita la ri¬produzione di fronte al diminuire delle risorse. In altre parole - e fino a un certo punto, s'intende - meno mangiamo e più sco¬piamo».
«Come lo spieghi?» domandò Jimmy.
«Immaginazione» disse Crake. «Gli uomini possono immagi¬nare la propria morte, possono vederla arrivare, e il solo pensie¬ro della morte incombente funziona da afrodisiaco. Un cane o un coniglio non si comportano così. Prendi gli uccelli: in una stagione di magra riducono il numero di uova, o non si accop¬piano affatto. Concentrano le energie sul mantenersi in vita fino a tempi migliori. Invese gli esseri umani sperano di poter infila¬re la loro anima in qualcun altro, qualche nuova versione di se stessi, e di vivere in eterno».
«Allora, come specie siamo condannati dalla speranza?»
«Chiamala pure speranza. O disperazione».
«Ma siamo condannati anche senza speranza» ribatté Jimmy.
«Solo come individui» disse Crake in tono allegro.
«Che schifo».
«Jimmy, cresci».
Crake non era la prima persona che glielo diceva.

L'uomo dell'orologio passava la notte al villaggio con i suoi due scagnozzi e i loro fucili, mangiava e poi beveva con gli altri uo¬mini. Offriva sigarette, interi pacchetti, in scatole di carta dora¬ta e argentata ancora avvolte nel cellophane. Al mattino esami¬nava rapidamente i bambini in vendita e faceva qualche doman¬da su di loro: avevano avuto malattie, erano obbedienti? E con¬trollava loro i denti. Dovevano avere denti buoni, diceva, perché avrebbero dovuto sorridere molto. Poi faceva le sue scelte, il de¬naro passava di mano e prendeva congedo, e tutt'intorno c'era¬no educati cenni della testa e inchini. Prendeva con sé tre o quattro bambini, mai di più; era quello il numero che poteva ge¬stire. Questo significava che prendeva il meglio della compa¬gnia. Faceva lo stesso negli altri villaggi del suo territorio. Era noto per il suo gusto e il suo giudizio.
Oryx diceva che per un bambino doveva essere un peccato non venire scelto. In quel caso le cose si mettevano male per lui al villaggio, perdeva valore, riceveva meno cibo. Quanto a lei, era stata scelta per prima.
A volte le madri piangevano, e anche i bambini, ma le madri dicevano ai bambini che stavano facendo la cosa giusta, aiutava¬no la famiglia e dovevano seguire l'uomo e obbedirgli in tutto e per tutto. A sentir loro, dopo aver lavorato per un po' in città, una volta che le cose fossero andate meglio, i bambini sarebbe¬ro potuti tornare al villaggio. (Nessun bambino vi fece mai ri¬torno).
Tutto questo era chiaro e, se non giustificato, quanto meno perdonato. Eppure, dopo che l'uomo se n'era andato, le madri che avevano venduto i loro bambini si sentivano svuotate e tri¬sti, come se quell'atto, che avevano compiuto liberamente (nes¬suno le aveva costrette, nessuno le aveva minacciate) non fosse stato fatto volontariamente. Si sentivano anche truffate, come se fosse stato pagato loro un prezzo troppo basso. Perché non ave¬vano chiesto di più? Eppure, si dicevano le madri, non avevano scelta.

La madre di Oryx vendette due dei suoi figli insieme, e non solo perché era al verde. Pensava che potessero tenersi compagnia, sorvegliarsi a vicenda. L'altro figlio era un maschio, di un anno più grande di Oryx. Si vendevano meno maschi che femmine, ma non per questo erano considerati di minor pregio.
(Oryx considerava questa doppia vendita la prova che sua madre l'aveva amata. Non aveva immagini del suo amore. Non poteva citare aneddoti. Era più una fede che un ricordo).
L'uomo disse che faceva un grosso favore alla madre di Oryx, perché i maschi davano più guai e non obbedivano, e scappava¬no più spesso, e in quel caso chi gli avrebbe pagato il disturbo? Neanche questo ragazzino era beneducato, bastava guardarlo per capirlo, e per giunta aveva un dente davanti annerito che gli conferiva un'espressione criminale. Ma poiché sapeva che lei aveva bisogno di denaro, sarebbe stato generoso e l'avrebbe li¬berata di lui.

Richiamo

Oryx diceva di non ricordare il viaggio dal villaggio alla città, ma ricordava alcune cose che erano successe. Erano come quadri appesi al muro con l'intonaco vuoto intorno. Erano come fine¬stre altrui in cui sbirciare. Erano come sogni.
L'uomo con l'orologio disse che il suo nome era Zio En, e che dovevano chiamarlo così o sarebbero stati grossi guai.
«Era En come nome, o N come iniziale?» domandò Jimmy.
«Non lo so» rispose Oryx.
«Non l'hai mai visto scritto?»
«Al nostro villaggio nessuno sapeva leggere» disse Oryx. «Ecco, Jimmy. Apri la bocca. Ti dò l'ultimo pezzo».
Nel ricordarlo, Uomo delle Nevi sente quasi il sapore. La piz¬za, poi le dita di Oryx nella sua bocca.
Poi la lattina di Coca che rotolava sul pavimento. Poi la gioia, che gli schiacciava tutto il corpo nella sua stretta da boa constrictor.
Oh, picnic segreti rubati. Oh, dolce delizia. Oh, chiari ricor¬di, oh, puro dolore. Oh, notte senza fine.

L'uomo - continuò Oryx, più tardi quella notte, o un'altra not¬te - l'uomo disse che d'ora in avanti sarebbe stato il loro zio. Adesso che avevano perso di vista il villaggio, non sorrideva più tanto. Dovevano camminare molto svelti, disse, perché la fore¬sta intorno a loro era piena di bestie selvatiche dagli occhi rossi e dai lunghi denti appuntiti, e se avessero corso tra gli alberi o camminato troppo lentamente, quelle bestie sarebbero arrivate e li avrebbero fatti a pezzi. Oryx era spaventata e voleva tenere per mano suo fratello, ma non era possibile.
«C'erano tigri?» domandò Jimmy.
Oryx fece di no con la testa. Niente tigri.
«E allora che bestie erano?» domandò Jimmy. Così facendo pensava di poter ottenere qualche indizio, ad esempio sul luogo. Magari gli sarebbe servito consultare l'elenco degli habitat.
«Non avevano nomi» disse Oryx, «ma sapevo di cosa si trat¬tava».

All'inizio procedettero in fila indiana lungo la strada fangosa, camminando sul lato in cui era più alta, stando attenti ai ser¬penti. Un uomo con il fucile apriva la fila, poi veniva Zio En, poi suo fratello, poi le altre due bambine che erano state vendute - tutte e due più grandi - e poi Oryx. Chiudeva la fila il secondo uomo armato. A mezzogiorno si fermarono per mangiare qual¬cosa - riso freddo, preparato per loro dagli abitanti del villaggio - quindi camminarono un altro po'. Quando giunsero a un fiu¬me, uno degli uomini con il fucile trasportò Oryx dall'altra par¬te. Disse che era così pesante che avrebbe dovuto lasciarla ca¬dere in acqua e farla mangiare dai pesci, ma era uno scherzo. Puzzava di abiti sudati e di sigarette, e di qualche profumo o brillantina che aveva sui capelli. L'acqua gli arrivava alle ginocchia.
Poi ricordava che il sole era obliquo e la luce li colpiva negli occhi - allora dovevano essere andati verso est, pensò Jimmy - e che lei era molto stanca.
Mentre il sole si abbassava sempre più, gli uccelli comincia¬rono a cantare e a lanciare richiami, invisibili, nascosti tra i rami e le piante rampicanti della foresta: rauchi gracidii e fischi, e quattro versi chiari in fila, come una campana. Erano gli stessi uccelli che lanciavano sempre quei richiami all'avvicinarsi del crepuscolo e all'alba, appena prima del sorgere del sole, e Oryx ne era confortata. Quei versi le erano familiari, erano parte di quanto conosceva. Immaginò che uno di essi, quello simile a una campana, fosse lo spirito di sua madre, inviato sotto forma di uccello a vegliare su di lei, e che dicesse Tornerai.
Al villaggio, gli disse lei, alcune persone potevano inviare così il proprio spirito anche prima di morire. Era risaputo. Si poteva imparare come fare dalle vecchie donne, e in quel modo volare dove si voleva, vedere cosa avrebbe portato il futuro, spedire messaggi e apparire nei sogni altrui.
L'uccello lanciò richiami e richiami e poi tacque. Quindi il sole tramontò all'improvviso e si fece buio. Quella notte dormi¬rono in un capanno. A giudicare dall'odore, doveva essere un ri¬covero per il bestiame. Dovettero fare pipì tra i cespugli, in fila, tutti insieme, con uno degli scagnozzi armati a fare la guardia. Gli uomini fecero un fuoco all'esterno, e ridevano e parlavano, e il fumo entrava dentro, ma Oryx non ci fece caso perché si ad¬dormentò. Dormirono per terra: in amache o su brandine?, domandò Jimmy, ma lei disse che non aveva importanza. Suo fra¬tello le stava accanto. Prima non le aveva mai fatto molta atten¬zione, ma adesso voleva starle vicino.
La mattina seguente camminarono ancora e raggiunsero il po¬sto in cui era stata lasciata la macchina di Zio En, sotto la pro¬tezione di parecchi uomini, in un villaggio: più piccolo del loro e più sporco. Donne e bambini li guardavano dalle porte, ma senza sorridere. Una donna fece uno scongiuro contro il maloc¬chio.
Zio En controllò che dalla macchina non mancasse nulla, poi pagò gli uomini e disse ai bambini di salire. Oryx non era mai stata in macchina prima d'allora e l'odore non le piacque. Non era un'auto solare, era del tipo a benzina, e vecchia. Uno degli uomini guidava, e zio En gli stava accanto; l'altro uomo era se¬duto dietro con tutti e quattro i bambini che gli si stringevano contro. Zio En era di malumore e disse ai bambini di non fare domande. La strada era accidentata e nella macchina faceva cal¬do. Oryx aveva la nausea e pensava che avrebbe vomitato, ma poi si appisolò.
Dovettero viaggiare a lungo; si fermarono quando fu di nuo¬vo sera. Zio En e l'uomo davanti entrarono in un edificio basso, una specie di albergo, forse; l'altro uomo si allungò sul sedile da¬vanti e ben presto cominciò a russare. I bambini dormirono die¬tro, come meglio poterono. Gli sportelli posteriori erano bloc¬cati: non potevano uscire dall'auto senza arrampicarsi sull'uo¬mo, e avevano paura di farlo perché avrebbe pensato che stes¬sero cercando di scappare. Durante la notte qualcuno bagnò le mutande, Oryx sentì l'odore, ma lei no. Al mattino furono tutti condotti sul retro dell'edificio, dove c'era una latrina all'aperto. Un maiale dall'altra parte li stette a guardare mentre si accucciavano.
Dopo altre ore di viaggio a balzelloni, si fermarono in un pun¬to in cui la strada era interrotta da una sbarra con due soldati. Zio En disse ai soldati che i bambini erano suoi nipoti: la madre era morta e lui li portava a vivere in casa sua, con la sua famiglia. Sorrideva di nuovo.
«Ha un sacco di nipoti» osservò uno dei soldati, sogghignando.
«Ho questa sfortuna» disse zio En.
«E a tutti è morta la madre».
«Questa è la triste verità».
«Non sappiamo se crederle o no» disse l'altro soldato, anche lui sogghignando.
«Ecco» fece zio En. Tirò fuori Oryx dalla macchina. «Come mi chiamo?» le domandò, avvicinandole la faccia sorridente.
«Zio En» rispose lei. I due soldati risero, e rise anche Zio En. Diede dei colpetti sulla spalla di Oryx e le disse di tornare in macchina, e strinse la mano ai soldati mettendosi prima la sua in tasca, e poi i soldati alzarono la sbarra. Una volta che la mac¬china fu di nuovo sulla strada, zio En diede a Oryx una cara¬mella dura con la forma di un piccolo limone. La succhiò per un po' e poi se la tolse di bocca per conservarla. Non aveva tasche, perciò la tenne tra le dita appiccicose. Quella notte si consolò leccandosi la mano.
Di notte i bambini piangevano, ma piano, tra sé e sé. Erano spaventati: non sapevano dove stessero andando, ed erano stati portati via da quanto era loro familiare. Inoltre, disse Oryx, non avevano più amore, ammesso che ne avessero mai avuto. Però adesso avevano un valore di mercato: rappresentavano un pro¬fitto per altre persone. Dovevano intuirlo: intuivano di valere qualcosa.
Naturalmente (diceva Oryx), avere un valore di mercato non poteva sostituire l'amore. Ogni bambino avrebbe dovuto rice¬vere amore, ogni persona. Quanto a lei, avrebbe preferito avere l'amore della madre - l'amore in cui continuava ancora a crede¬re, l'amore che l'aveva seguita attraverso la giungla sotto forma di uccello affinché non fosse troppo spaventata o sola - ma l'a¬more era inaffidabile, andava e veniva, perciò era un bene avere un valore di denaro, perché almeno quelli che volevano guada¬gnare con te si sarebbero assicurati che fossi abbastanza nutrito e non troppo strapazzato. Erano in molti a essere privi sia del¬l'amore che di un valore di mercato, e avere una delle due cose era meglio che non avere niente.

Rose

La città era nel caos, piena di gente, macchine e cattivi odori, per una lingua difficile da capire. All'inizio i quattro bambini nuovi ne furono sconvolti, come se fossero stati buttati in un cal¬derone d'acqua bollente - come se la città facesse loro male fisi¬camente. Ma Zio En aveva esperienza: trattava i bambini nuovi come gatti, dava loro il tempo di abituarsi alle cose. Li mise in una stanzetta in cima a un edificio a tre piani, con una finestra munita di sbarre da cui potevano guardare ma non calarsi, e poi li condusse fuori a poco a poco, dapprima senza allontanarsi troppo, un'ora alla volta. C'erano già cinque bambini nella stan¬za, perciò era affollata; ma rimaneva abbastanza spazio per pa¬recchi materassi sottili - uno per bambino - che venivano stesi durante la notte, sicché l'intero pavimento si ricopriva di mate¬rassi e bambini, e poi arrotolati durante il giorno. I materassi erano consumati e macchiati, e puzzavano di urina; ma arroto¬larli a puntino fu la prima cosa che i nuovi arrivati dovettero im-parare a fare.
Dai bambini più navigati impararono dell'altro. Prima di tut¬to che Zio En li avrebbe sempre tenuti d'occhio, anche quando sembrava che fossero stati lasciati in città da soli. Avrebbe sem¬pre saputo dov'erano: non doveva far altro che sollevare all'o¬recchio l'orologio scintillante e quello gliel'avrebbe detto, per¬ché al suo interno c'era una piccola voce che sapeva tutto. Era rassicurante, perché a nessun altro sarebbe stato concesso di far loro del male. D'altra parte, Zio En si sarebbe accorto se non la¬voravi abbastanza sodo o cercavi di scappare, o se ti tenevi una parte dei soldi ricevuti dai turisti. In tal caso saresti stato puni¬to. Gli uomini di zio En ti avrebbero picchiato e poi ti sarebbe¬ro venuti i lividi. O magari ti avrebbero bruciato. Alcuni dei bambini sostenevano di avere subito queste punizioni, e ne era¬no fieri: avevano le cicatrici. Se avessi insistito con queste cose proibite - la pigrizia, il furto, la fuga - saresti stato venduto a qualcuno molto peggiore, si diceva, di zio En. Oppure saresti stato ucciso e gettato in un mucchio di immondizia, e nessuno se ne sarebbe curato, perché nessuno avrebbe saputo chi eri.
Oryx disse che Zio En sapeva veramente il fatto suo, perché riguardo alle punizioni i bambini erano più disposti a credere agli altri bambini che non agli adulti. Gli adulti minacciavano di fare cose che non facevano mai, ma i bambini dicevano quello che sarebbe successo. O quello che temevano sarebbe successo. O quello che era già successo, a loro o ad altri bambini che ave¬vano conosciuto.
La settimana dopo l'arrivo di Oryx e di suo fratello nella stan¬za dei materassi, tre dei bambini più grandi erano stati portati via. Sarebbero andati in un altro paese, disse Zio En. Quel pae¬se si chiamava San Francisco. Era perché erano stati cattivi? No, disse Zio En, era un premio per essere stati buoni. Chiunque fosse docile e diligente avrebbe potuto andarci, un giorno. L'u¬nico posto in cui Oryx volesse andare era a casa, ma l'idea di 'casa' le si stava confondendo nella mente. Sentiva ancora lo spi¬rito di sua madre che gridava Tornerai, ma quella voce si anda¬va facendo flebile e indistinta. Non assomigliava più a una cam¬pana, ma a un sussurro. Era una domanda, ormai, più che un'af¬fermazione; una domanda senza risposta.

Oryx, suo fratello e le altre due nuove arrivate furono portati a guardare i bambini più esperti che vendevano fiori. Si trattava di rose rosse, bianche e rosa; andavano a prenderle al mercato dei fiori la mattina presto. I gambi erano stati privati delle spi¬ne, in modo che le rose potessero passare di mano in mano sen¬za pungere nessuno. Bisognava ciondolare davanti all'ingresso dei migliori alberghi - le banche in cui si poteva cambiare valu¬ta straniera e i negozi costosi erano anch'essi buone postazioni - e stare attenti ai poliziotti. Se un poliziotto si avvicinava o ti guardava fisso, dovevi filare alla svelta nella direzione opposta. Vendere fiori ai turisti non era consentito a meno che non si avesse un permesso ufficiale, e simili permessi erano troppo co¬stosi. Tuttavia non c'era niente di cui preoccuparsi, diceva Zio En: la polizia sapeva tutto, ma doveva fingere di non sapere niente.
Quando vedevi uno straniero, specialmente se aveva una don¬na straniera accanto, dovevi avvicinarti, alzare le rose e sorride¬re. Non dovevi fissarli né ridere dei loro strani capelli e dei loro occhi ad acquerello da stranieri. Se prendevano un fiore e do¬mandavano quanto costava, dovevi sorridere ancora di più e allungare la mano. Se ti rivolgevano delle domande, dovevi far fin¬ta di non aver capito. Quella parte era abbastanza facile. Ti da¬vano sempre di più - a volte molto di più - di quanto valeva il fiore.
I soldi andavano messi in una piccola borsa appesa sotto i ve¬stiti; questo per proteggersi dai borsaioli e dagli occasionali fur¬ti dei monelli di strada, gli sfortunati che non avevano uno Zio En a vegliare su di loro. Se qualcuno - soprattutto un uomo - cercava di prenderti per mano e portarti da qualche parte, do¬vevi tirare via la mano. Se ti tenevano troppo forte, dovevi se¬derti. Quello era il segnale, e allora sarebbe arrivato uno degli uomini di Zio En, o Zio En in persona. Non bisognava mai en¬trare in una macchina o in un albergo. Se un uomo ti chiedeva di farlo, dovevi dirlo al più presto a Zio En.
A Oryx era stato dato un nuovo nome dallo zio En. Tutti i bambini ne ricevevano uno. Veniva detto loro di dimenticare i vecchi nomi, e lo facevano presto. Ora Oryx era SuSu. Era bra¬va a vendere rose. Era minuta e fragile, i suoi lineamenti erano nitidi e puri. Le venne dato un vestito troppo grande per lei, e con quello addosso sembrava una bambola angelica. Gli altri bambini la coccolavano, perché era la più piccola. Facevano a turno a dormirle accanto la notte; passava di braccia in braccia.
Chi poteva resisterle? Ben pochi stranieri. Il suo sorriso era perfetto: né impertinente né aggressivo, ma esitante, timido, un sorriso che non dava niente per scontato. E privo della minima ostilità: non conteneva risentimento, invidia, solo una promessa di sincera gratitudine. «Adorabile» mormoravano le signore straniere, e gli uomini che erano con loro compravano una rosa e la porgevano alla signora, e così diventavano adorabili anche loro; e Oryx faceva scivolare le monetine nella borsa sul davan¬ti del vestito e si sentiva al sicuro per un altro giorno, perché aveva venduto la sua quota.
Non era lo stesso per suo fratello. Non aveva fortuna. Non voleva vendere fiori come una bambina, e odiava sorridere; e quando sorrideva, l'effetto non era felice per via del dente an¬nerito. Perciò Oryx prendeva un po' delle rose che gli erano ri¬maste e cercava di venderle per lui. All'inizio Zio En non ci ave¬va fatto caso - i soldi erano sempre soldi - ma poi disse che Oryx non doveva farsi vedere troppo nelle stesse postazioni, perché non era bene che la gente si stancasse di lei.
Bisognava trovare qualcos'altro per il fratello, qualche altra occupazione. Avrebbero dovuto venderlo altrove. I bambini più grandi nella stanza scossero la testa: suo fratello sarebbe stato venduto a un ruffiano, dissero; un ruffiano per stranieri bianchi e pelosi o per neri barbuti o per gialli adiposi, qualsiasi tipo d'uomo a cui piacessero i ragazzini. Descrissero dettagliatamen¬te cosa avrebbero fatto quegli uomini; ne risero. Sarebbe diven¬tato un ragazzino dal culo a melone: è così che venivano chia¬mati i bambini come lui. Duro e tondo fuori, tenero e dolce den¬tro; un bel culo a melone, per chiunque fosse disposto a pagare. Oppure, sarebbe stato messo a lavorare come galoppino, man¬dato di strada in strada a fare commissioni per i giocatori d'az¬zardo, un lavoro duro e molto pericoloso, perché i giocatori ri¬vali potevano ucciderti. Oppure, avrebbe potuto fare tutti e due, sia il galoppino che il ragazzo melone. Era la cosa più pro¬babile.
Oryx vide la faccia del fratello farsi scura e irrigidirsi, e non fu sorpresa quando scappò; se fu preso e punito, Oryx non lo seppe mai. Né lo domandò, perché chiedere - ormai aveva sco¬perto - non serviva a niente.

Un giorno, un uomo prese Oryx per mano e le disse di entrare in un albergo con lui. Lei gli rivolse il suo sorriso timido, diede un'occhiata di traverso e non disse nulla, poi tirò via la mano e lo raccontò a Zio En. Allora Zio En disse una cosa sorprenden¬te. Se l'uomo glielo avesse chiesto di nuovo, disse, avrebbe do¬vuto seguirlo nell'albergo. Se avesse voluto portarla su nella sua stanza, avrebbe dovuto andarci. Doveva fare qualsiasi cosa le chiedesse l'uomo, ma non doveva preoccuparsi, perché Zio En sarebbe stato di guardia e sarebbe venuto a prenderla. Non le sarebbe accaduto niente di male.
«Sarò un melone?» domandò lei. «Una ragazza dal culo a me¬lone?» e lo Zio En rise e volle sapere dove avesse pescato quel¬la parola. Ma no, disse. Non era questo che sarebbe successo.
Il giorno dopo ricomparve l'uomo e domandò a Oryx se le sa¬rebbe piaciuto avere dei soldi, molti più soldi di quanti avrebbe potuto farne vendendo rose. Era un bianco alto e peloso con un forte accento, ma Oryx riuscì a capire le parole. Questa volta andò con lui. La tenne per mano e salirono in ascensore: questo la spaventò, uno stanzino con le porte che si chiudevano e quando si riaprivano ti ritrovavai in un posto differente, e zio En non gliel'aveva spiegato. Sentiva il cuore che le martellava. «Non avere paura» disse l'uomo, pensando che fosse spaventata da lui. Ma era tutto il contrario, era lui ad avere paura di lei, per¬ché la sua mano tremava. Aprì una porta con una chiave ed en¬trarono, la porta si richiuse alle loro spalle e si ritrovarono in una stanza color malva e oro con un letto enorme, un letto per giganti, e l'uomo chiese a Oryx di spogliarsi.
Oryx era obbediente e fece come le era stato detto. Aveva una vaga idea di cosa potesse volere l'uomo - gli altri bambini sape¬vano già certe cose, ne parlavano liberamente e ne ridevano. La gente pagava un sacco di soldi per il genere di servizi che vole¬va l'uomo, e in città c'erano posti speciali per quelli come lui; ma alcuni non ci andavano perché erano troppo accessibili e si vergognavano, e volevano stupidamente organizzarsi da soli, e quest'uomo era uno di quelli. Perciò Oryx sapeva che adesso si sarebbe tolto i vestiti, almeno in parte, e così fece, e sembrò compiaciuto nel guardarsi il pene, che era lungo e peloso come lui, con una curva come un piccolo gomito. Poi si inginocchiò in modo da essere all'altezza di lei, con il viso accanto al suo.
Com'era il suo viso? Oryx non lo ricordava. Ricordava i det¬tagli del pene ma non quelli del viso. «Non avevo mai visto un viso così» disse. «Era tutto soffice, come un gnocco. C'era sopra un grosso naso, un naso a carota. Un lungo naso bianco a forma di pene». Rise, coprendosi la bocca con le mani. «Non come il tuo, Jimmy» aggiunse, caso mai si fosse sentito imbarazzato. «Il tuo è bello. È un naso dolce, credimi».

«Non ti farò male» disse l'uomo. Aveva un accento talmente buffo che a Oryx venne voglia di ridere, ma sapeva che sarebbe stata una mossa sbagliata. Fece il suo sorriso timido, e l'uomo le prese una delle mani e la mise su di sé. Lo fece abbastanza gen¬tilmente, ma sembrava anche arrabbiato. Arrabbiato, e di fretta. Fu allora che Zio En piombò all'improvviso nella stanza. Come aveva fatto? Doveva avere la copia, qualcuno dell'albergo doveva avergli dato una chiave. Prese in braccio Oryx, l'abbracciò e la chiamò il suo piccolo tesoro, e gridò contro l'uomo, che sembra¬va molto spaventato e cercò di rinfilarsi alla svelta i vestiti. Rima¬se impigliato nei pantaloni e saltellò in giro su un piede mentre cercava di spiegare qualcosa con il suo cattivo accento, e Oryx si dispiacque per lui. Poi l'uomo diede dei soldi a Zio En, un muc¬chio di soldi, tutti quelli che aveva nel portafogli, e Zio En uscì dalla stanza reggendo Oryx come un vaso prezioso e continuan¬do a brontolare con un'espressione minacciosa. Ma una volta in strada si mise a ridere, e fece battute sull'uomo che saltellava nei pantaloni attorcigliati, e disse a Oryx che era una brava bambina e non le sarebbe piaciuto giocare di nuovo a quel gioco?
Così quello divenne il suo gioco. Le dispiaceva un po' per gli uomini: sebbene Zio En dicesse che si meritavano la lezione ed erano fortunati che non chiamasse mai la polizia, in qualche modo le rincresceva fare quella parte. Ma al tempo stesso le piaceva. La faceva sentire forte sapere che gli uomini la credessero inerme quando invece non lo era. Erano loro a essere inermi, loro che presto avrebbero dovuto balbettare scuse nei loro stupidi accen¬ti e saltellare in giro su un piede solo nelle loro lussuose stanze d'albergo, intrappolati nei pantaloni con il culo di fuori, culi lisci e culi pelosi, culi di diverse dimensioni e colori, mentre Zio En faceva loro una lavata di capo. Di tanto in tanto piangevano. Quanto al denaro, vuotavano le tasche, gettavano tutti i soldi che avevano a Zio En e lo ringraziavano per averli presi. Non voleva¬no passare neanche un attimo in prigione, non in quella città, dove le prigioni non erano alberghi e occorreva un'eternità per formu¬lare un'accusa e tenere un processo. Volevano montare al più pre¬sto su un taxi, salire su un grande aereo e volare via in cielo.
«Piccola SuSu» diceva Zio En, mentre deponeva Oryx sulla strada fuori dell'albergo. «Sei una ragazzina in gamba! Vorrei sposarti. Ti piacerebbe?»
Questa era la cosa più vicina all'amore a cui Oryx potesse aspirare allora, perciò si sentiva felice. Ma qual'era la risposta giusta, sì o no? Sapeva che non era una domanda seria, ma uno scherzo: aveva solo cinque anni, o sei, o sette, perciò non pote¬va sposarsi. Comunque, gli altri bambini dicevano che Zio En aveva una moglie adulta che viveva in una casa da qualche altra parte, e aveva anche altri bambini. I suoi veri bambini. Andava¬no a scuola.
«Posso sentire il tuo orologio?» chiedeva Oryx con uno dei suoi sorrisi. Invece di, intendeva dire. Invece di sposarti, invece di rispondere alla tua domanda, invece di essere la tua vera bambi¬na. E lui rideva un altro po' e le faceva ascoltare l'orologio, ma Oryx non ci sentiva dentro nessuna vocina.

Pixieland jazz

Un giorno arrivò un altro uomo, che non avevano mai visto - un uomo alto e magro, più alto di Zio En, con i vestiti che gli ca¬devano male e il viso butterato - e disse che dovevano andare tutti con lui. Zio En aveva venduto la sua attività dei fiori e tut¬to il resto. Era andato via, si era trasferito in un'altra città. Per¬ciò adesso il boss era l'uomo alto.
Un anno dopo o giù di lì a Oryx fu detto - da una ragazza che era stata con lei le prime settimane nella stanza dei materassi ed era ricomparsa nella sua nuova vita, la vita in cui girava film - che quella non era la verità. La verità era che Zio En era stato trovato a galleggiare in uno dei canali della città con la gola ta¬gliata.
La ragazza l'aveva visto. No, non era giusto - non l'aveva vi¬sto, ma conosceva qualcuno che l'aveva fatto. Non c'erano dub¬bi sulla sua identità. Aveva il ventre gonfio come un cuscino, il viso tumefatto, ma era proprio Zio En. Era senza vestiti; qual¬cuno doveva averglieli tolti. Forse qualcun altro, non quello che gli aveva tagliato la gola, o magari lo stesso, perché a cosa pote¬vano servire a un cadavere dei bei vestiti come i suoi? Non ave¬va neanche l'orologio. «Senza soldi» aveva detto la ragazza, e aveva riso. «Senza tasche, perciò senza soldi!»

«Dunque, era una città con canali?» domandò Jimmy. Pensava che magari questo potesse fornirgli un indizio su quale città si trattasse. Era il periodo in cui voleva sapere tutto il possibile su Oryx, su qualsiasi luogo in cui era stata. Aveva voglia di rintrac¬ciare e conciare per le feste chiunque le avesse mai fatto del male o l'avesse resa infelice. Si era torturato con dolorosi ragguagli: ogni ipotetico fatto scottante che riusciva a raccogliere se lo fic¬cava sotto le unghie. Più faceva male, più - ne era convinto - l'a¬mava.
«Oh, sì, c'erano canali» disse Oryx. «Li usavano gli agricol¬tori e i floricoltori per andare ai mercati. Legavano le barche e vendevano la loro mercanzia là, sulle banchine. Era uno spetta¬colo piacevole, da lontano. C'erano tanti di quei fiori». Lo guardò: spesso capiva a cosa stava pensando. «Ma un sacco di città hanno i canali» disse. «E fiumi. I fiumi sono così utili, per l'immondizia e i cadaveri e i neonati che vengono gettati via, e la merda». Sebbene non le piacesse quando Jimmy imprecava, a volte si divertiva a dire lei stessa quelle che chiamava brutte pa¬role, perché in quel modo lo turbava. Una volta data la stura alle brutte parole, ne aveva un'ampia scorta. «Non preoccuparti troppo, Jimmy» aggiunse in tono più gentile. «È stato tanto tem¬po fa». Di solito si comportava come se volesse proteggerlo, dal¬l'immagine di se stessa, di se stessa nel passato. Le piaceva tene¬re solo il proprio lato luminoso rivolto verso di lui. Le piaceva brillare.

Così, Zio En era finito in un canale. Era stato sfortunato. Non aveva pagato la gente giusta, o non l'aveva pagata abbastanza. O forse avevano provato a comprare la sua attività a un prezzo troppo basso e lui non aveva voluto saperne. Oppure era stato tradito dai suoi stessi uomini. Erano molte le cose che potevano essergli successe. O magari non era stato niente di programma¬to: solo un incidente, un delitto casuale, un semplice furto. Zio En era stato imprudente, era andato a passeggiare da solo. Ep¬pure non era un uomo imprudente.
«Ho pianto quando l'ho saputo» disse Oryx. «Povero Zio En».
«Perché lo difendi?» domandò Jimmy. «Era una canaglia, uno scarafaggio!»
«Gli piacevo».
«Gli piacevano i soldi!»
«Naturale, Jimmy» disse Oryx. «A chi non piacciono? Ma lui avrebbe potuto farmi cose molto peggiori, e non l'ha fatto. Ho pianto quando ho saputo che era morto. Non la smettevo più di piangere».
«Quali cose peggiori? Cosa c'è di tanto peggio?»
«Jimmy, ti preoccupi troppo».

I bambini furono condotti fuori della stanza dai materassi grigi, e Oryx non li rivide più. Furono divisi, andarono uno di qua e uno di là. Oryx fu venduta a un uomo che faceva film. Le disse che era una ragazzina carina e le domandò quanti anni aveva, ma lei non seppe rispondere. Le domandò se le sarebbe piaciuto comparire in un film. Non aveva mai visto un film, perciò non sapeva se le sarebbe piaciuto o meno; ma sembrava un'offerta meravigliosa, perciò disse di sì. Ormai era brava a capire quan-do la risposta che ci si aspettava da lei era un sì.
L'uomo la fece salire in macchina con alcune altre ragazzine, tre o quattro, ragazzine che non conosceva. Passarono la notte in una casa, una casa grande, da ricchi; era circondata da un alto muro, con vetri rotti e filo spinato in cima, ed entrarono da un cancello. Dentro, c'era un odore intenso.
«Cosa intendi, con odore intenso?» domandò Jimmy, ma Oryx non seppe spiegarlo. Intenso era solo una cosa che impa¬ravi a dire. La casa odorava come i migliori alberghi in cui era stata: tanti cibi diversi sui fornelli, mobili di legno, cere e sapo¬ni, tutti questi odori mescolati. Dovevano esserci fiori, alberi o cespugli in fiore nei paraggi, perché l'odore comprendeva anche questo. C'erano tappeti sul pavimento, ma i bambini non ci camminarono sopra; i tappeti erano in una grande stanza, e loro passarono davanti alla porta aperta, guardarono dentro e li vi¬dero. Erano blu, rosa e rossi, di una tale bellezza.
La stanza in cui furono sistemate era accanto alla cucina. For¬se era una dispensa, o lo era stata: c'era odore di riso e dei sac¬chetti in cui veniva conservato, sebbene ormai non ve ne fosse più traccia. Fu dato loro da mangiare - cibo migliore del solito, disse Oryx, c'era anche del pollo - e venne detto loro di non fare il minimo rumore. Poi furono chiuse dentro. C'erano cani nella casa; si sentivano abbaiare fuori, in giardino.
Il giorno seguente alcune di loro se ne andarono con un fur¬goncino, nel retro C'erano altre due bambine, piccole come Oryx. Una di loro era appena arrivata da un villaggio; le manca¬va la sua gente e piangeva molto, in silenzio, nascondendo il viso. Furono fatte salire dietro il furgoncino e chiuse, ed era buio e faceva caldo e avevano sete, e quando scappò loro pipì dovettero farla là dentro, perché non si fermarono mai. Però c'e¬ra una finestrella, in alto, così un po' d'aria entrava.

Furono solo un paio d'ore, ma sembrò di più per via del caldo e del buio. Quando giunsero a destinazione furono consegnate a un altro uomo, uno diverso, e il furgoncino ripartì.
«C'era qualche scritta? Sul furgoncino?» domandò Jimmy, in¬dagando.
«Sì. Una scritta rossa».
«Che cosa diceva?»
«Come potevo saperlo?» replicò Oryx in tono di rimprovero.
Jimmy si sentì uno sciocco. «C'era un'immagine, allora?»
«Sì. C'era un'immagine» rispose Oryx dopo un istante.
«Cosa raffigurava?»
Oryx ci pensò su. «Un pappagallo. Un pappagallo rosso».
«In volo o posato?»
«Jimmy, sei così strano!»
A Jimmy rimase impresso, quel pappagallo rosso. Lo tenne a mente. A volte gli appariva nei suoi sogni a occhi aperti, carico di mistero e significati reconditi, un simbolo staccato da qualsiasi contesto. Doveva essere il nome di una marca, un logo. Cercò su Internet pappagallo, pappagallo marca, pappagallo Inc. Trovò Alex, il pappagallo della noce di sughero che diceva Ora me ne vado, ma non gli servì a niente, perché Alex era del colore sbagliato. Voleva che il pappagallo rosso fosse un legame tra la storia che Oryx gli aveva raccontato e il cosiddetto mon¬do reale. Voleva camminare lungo una strada o girare per il Web, ed eureka, eccolo lì, il pappagallo rosso, il codice, la password, e allora molte cose si sarebbero chiarite.

L'edificio in cui venivano girati i film era in un'altra città, o for¬se in una parte diversa della stessa città, perché era molto gran¬de, disse Oryx. La stanza in cui stava con le altre ragazzine era nello stesso edificio. Non uscivano quasi mai, se non di tanto in tanto per andare sul tetto, quando le riprese si facevano lassù. Alcuni degli uomini che venivano nell'edificio volevano girare in esterni. Volevano essere visti e al tempo stesso essere nascosti: il tetto aveva un muro tutt'intorno. «Forse volevano che li vedes-se Dio» disse Oryx. «Che ne pensi, Jimmy? Si mettevano in mo¬stra per Dio? Io credo di sì».
Gli uomini avevano tutti idee precise su quanto dovesse es¬serci nei loro film. Volevano qualcosa sullo sfondo, sedie o al¬beri, oppure corde e grida, o scarpe. A volte dicevano Fallo e ba¬sta, ti pago per questo, o cose del genere, perché tutto in quei film aveva un prezzo. Ogni nastro per capelli, ogni fiore, ogni oggetto, ogni gesto. Se gli uomini escogitavano qualcosa di nuo¬vo, c'era una discussione su quanto sarebbe costato.
«Così ho imparato cos'è la vita» disse Oryx.
«Imparato cosa?» domandò Jimmy. Non avrebbe dovuto mangiare la pizza, e nemmeno fumarci sopra l'erba. Aveva una leggera nausea.
«Che tutto ha un prezzo».
«Non tutto. Non può essere vero. Non si può comprare il tempo. Non si può comprare...» Voleva dire l'amore, ma esitò. Era troppo melenso.
«Non si può comprare, ma ha un prezzo» disse Oryx. «Tutto ha un prezzo».
«Io no» disse Jimmy, cercando di buttarla sullo scherzo. «Io non ho un prezzo».
Sbagliato, come al solito.

Comparire in un film, disse Oryx, voleva dire fare quanto ti ve¬niva detto. Se volevano che sorridessi allora dovevi sorridere, se volevano che piangessi dovevi piangere. Di qualunque cosa si trattasse, dovevi farlo, e lo facevi perché altrimenti avevi paura. Facevi quanto ti dicevano di fare agli uomini che venivano, e poi a volte anche loro ti facevano qualcosa. Questi erano i film.
«Che genere di cose?» domandò Uomo delle Nevi.
«Lo sai» rispose Oryx. «L'hai visto. Hai l'immagine».
«Ho visto solo quella» disse Uomo delle Nevi. «Solo quella in cui ci sei tu».
«Scommetto che ne hai viste altre in cui ci sono io. Non te le ricordi. Magari avevo un aspetto diverso, portavo vestiti e par¬rucche diverse, ero qualcun'altra, facevo altre cose».
«Ad esempio? Cos'altro ti facevano fare?»
«Erano tutti uguali, quei film» disse Oryx. Si era lavata le mani e ora si stava dipingendo le unghie, le sue delicate unghie ovali, così perfettamente modellate. Color pesca, intonate al négligé che indossava. Non aveva una sola macchia sul corpo. Più tardi si sarebbe fatta le unghie dei piedi.

Per le bambine era meno noioso fare i film di quello che face¬vano il resto del tempo, cioè quasi niente. Guardavano i cartoni animati su vecchi dvd in una delle stanze, topi e uccelli insegui¬ti da altri animali che non riuscivano mai a catturarli; oppure si spazzolavano e intrecciavano a vicenda i capelli, oppure man¬giavano e dormivano. A volte altra gente veniva a usare lo spa¬zio per film di genere diverso. Venivano donne adulte, donne con il seno, e uomini adulti, attori. Le bambine potevano guar¬darli mentre giravano, purché non si mettessero tra i piedi. Tut¬tavia a volte gli attori protestavano perché le ragazzine ridevano dei loro peni - così grossi, e poi a volte, di punto in bianco, così piccoli - e allora dovevano tornare nelle loro stanze.
Si lavavano molto - era importante. Si facevano la doccia con un secchio. Dovevano sembrare pure. Nelle brutte giornate in cui non c'era niente da fare diventavano stanche e irrequiete, e allora discutevano e litigavano. A volte veniva dato loro un tiro di spinello o qualcosa da bere per calmarle - birra, forse - ma non droghe pesanti, quelle le avrebbero rovinate; inoltre non avevano il permesso di fumare. L'uomo che si occupava di loro - l'uomo grosso, non quello con la cinepresa - diceva che non dovevano fumare, altrimenti si sarebbero ritrovate con i denti marroni. Qualche volta però lo facevano comunque, perché l'uomo con la cinepresa divideva una sigaretta con loro.
L'uomo con la cinepresa era un bianco, e si chiamava Jack. Era quello che vedevano più di tutti. Aveva i capelli come corda sfilacciata ed emanava un odore forte, perché era un mangiato¬re di carne. Mangiava tanta di quella carne! Non gli piaceva il pesce. Non mangiava nemmeno il riso, ma gli piaceva la pasta. Pasta con un sacco di carne.
Jack diceva che nel posto da dove veniva i film erano più lun¬ghi e migliori, i migliori del mondo. Continuava a dire di voler andare a casa. Diceva che era un puro caso se non era morto, se quel fottuto paese non lo aveva ucciso con il suo cibo disgusto¬so. Diceva di essere stato con un piede nella fossa per una ma¬lattia che si era preso bevendo l'acqua e di essersi salvato solo perché si era sbronzato alla grande, e l'alcol ammazzava i germi. Poi dovette spiegare loro cos'erano i germi. Le ragazzine risero, perché non credevano alla loro esistenza; ma credettero alla ma¬lattia, perché l'avevano vista in atto. Erano gli spiriti a provo¬carla, lo sapevano tutti. Gli spiriti e la mala sorte. Jack non ave¬va detto le preghiere giuste.
Jack diceva che, se non avesse avuto uno stomaco veramente forte, si sarebbe ammalato più spesso per il cibo guasto e l'ac¬qua. Diceva che bisognava avere lo stomaco forte per fare quel mestiere. Diceva che la videocamera era robaccia da mercatino delle pulci e che le luci erano poche, perciò non c'era da mera¬vigliarsi se sembrava tutto merda da quattro soldi. Diceva che gli sarebbe piaciuto avere un milione di dollari, ma che aveva di¬lapidato tutto il suo denaro. Diceva che non riusciva a restare at¬taccato ai soldi, gli scivolavano via come acqua da una puttana unta. «Non diventate come me quando crescete» diceva. E le ra¬gazzine ridevano, perché comunque fossero finite, non sarebbe¬ro mai state come lui, un gigante buffo con i capelli di corda e l'uccello come una vecchia carota avvizzita.
Oryx disse di avere avuto molte occasioni di vedere da vicino quella vecchia carota, perché quando non giravano Jack voleva fare con lei le cose dei film. Poi si rattristava e le diceva che gli dispiaceva. Questo la lasciava perplessa.
«Lo facevi per niente?» domandò Jimmy. «Pensavo che aves¬si detto che tutto ha un prezzo». Gli pareva di non avere avuto la meglio nella discussione sul denaro e voleva rifarsi.
Oryx rimase in silenzio, sollevando la spazzola per lucidare le unghie. Si guardò la mano. «Facevamo uno scambio».
«Che tipo di scambio?» domandò Jimmy. «Cosa aveva da of¬frire quel patetico fallito del cazzo?»
«Perché pensi che fosse cattivo?» disse Oryx. «Con me non ha mai fatto niente che non fai anche tu. E certo non così tante cose!»
«Io non le faccio contro la tua volontà» disse Jimmy. «In ogni caso, adesso sei adulta».
Oryx rise. «Cos'è la mia volontà?» domandò. Poi dovette ac¬corgersi della sua aria addolorata, perciò smise di ridere. «Mi ha insegnato a leggere» disse tranquillamente. «A parlare inglese e a leggere le parole inglesi. Prima a parlare, poi a leggere, non tanto bene all'inizio, e non parlo ancora benissimo, ma bisogna pur cominciare da qualche parte, non credi, Jimmy?»
«Parli perfettamente» disse lui.
«Non c'è bisogno che menti con me. Comunque è andata così. C'è voluto molto tempo, ma lui era molto paziente. Aveva un libro, non so dove l'avesse trovato, ma era un libro per bam¬bini. Parlava di una ragazzina con lunghe trecce, e calze - era una parola difficile, calze - che saltava di qua e di là e faceva tut¬to quello che le saltava in mente. Ecco cosa leggevamo. È stato uno scambio vantaggioso, perché, Jimmy, se non l'avessi fatto non sarei qui a parlare con te, no?»
«Fatto cosa?» domandò Jimmy. Non poteva sopportarlo. Se avesse avuto lì nella stanza quel Jack, quel pezzo di schifoso, gli avrebbe tirato il collo come a una vecchia calza tarlata. «Cosa fa¬cevi per lui? Gli facevi i pompini?»
«Crake ha ragione» disse freddamente Oryx. «Non hai una mente elegante».
Mente elegante erano solo parole da matematici, quel gergo altezzoso usato dagli amanti dei numeri, ma ferì Jimmy comun¬que. No. A ferirlo era l'idea che Oryx e Crake parlassero in quel modo di lui, alle sue spalle.
«Mi dispiace» disse. Avrebbe dovuto pensarci due volte, pri¬ma di parlarle così bruscamente.
«Ora forse non lo farei, ma allora ero una bambina» disse Oryx in tono più dolce. «Perché sei così arrabbiato?»
«Non me la bevo» fece Jimmy. Dov'era la sua rabbia, quanto in profondo era sepolta, cosa doveva fare per riportarla alla luce?
«Non ti bevi cosa?»
«Tutta la tua fottuta storia. Tutta questa dolcezza, questa be¬nevolenza e queste stronzate».
«Se non vuoi berti questo, Jimmy» disse Oryx, guardandolo con tenerezza, «cos'è che ti vorresti bere, invece?»

Jack aveva un nome per l'edificio in cui venivano girati i film. Lo chiamava Pixieland. Nessuna delle bambine sapeva cosa signifi¬casse - Paese delle fate - perché era una parola inglese e un'idea inglese, e Jack non sapeva spiegarglielo. «Bene, fatine, in piedi» diceva. «È l'ora del dolce!» A volte, portava loro dei dolci per far festa. «Volete un dolce, dolcezze?» diceva. Era un altro scherzo, ma non capivano neanche quello.
Se ne aveva voglia, o si era appena fatto, mostrava loro i film in cui apparivano. Capivano quando si era bucato o aveva snif¬fato, perché allora era più contento. Gli piaceva ascoltare musi¬ca pop mentre lavoravano, qualcosa di vivace. Diceva che met¬teva allegria. Elvis Presley, roba del genere. Diceva che gli pia¬cevano i vecchi successi, dei tempi in cui le canzoni avevano le parole. «Chiamatemi sentimentale» diceva, lasciandole perples¬se. Gli piacevano anche Frank Sinatra, e Doris Day: Oryx sape¬va tutte le parole di Love Me or Leave Me prima di avere idea di cosa significassero. «Cantaci un po' di pixieland jazz» diceva Jack, e Oryx cantava quella. Lui ne era sempre contento.
«Come si chiamava quel tizio?» domandò Jimmy. Che stronzo, quel Jack. Jack lo stronzo, il bastardo. Gli insulti aiutavano, pensava Jimmy. Gli sarebbe piaciuto svitargli la testa.
«Si chiamava Jack».
«Voglio dire il suo altro nome».
«Non aveva un altro nome».

Lavorare, così Jack chiamava quello che facevano. Piccole lavoratrici, le chiamava. Diceva: Fischiate mentre lavorate. Diceva: Lavorate più sodo. Diceva: Metteteci un po' di pepe. Diceva: Fate credere di fare sul serio, se non volete farvi male. Diceva: Avanti, donnine tutto sesso, potete fare di meglio. Diceva: Si è giovani una sola volta.
«Questo è tutto» disse Oryx.
«Cosa vuoi dire, con questo è tutto?»
«Che è tutto quello che c'era» disse lei. «Tutto quello che c'e¬ra da dire».
«E hanno mai...»
«Hanno mai cosa?»
«Non l'hanno fatto. No, dato che eri così giovane. Non avreb¬bero potuto».
«Per favore, Jimmy, dimmi cosa vuoi sapere» Oh, fantastico. Aveva voglia di scuoterla.
«Ti hanno violentata?» Riuscì a malapena a tirarsi fuori di bocca. Che risposta si aspettava, cosa voleva?
«Perché vuoi parlare di queste brutte cose?» disse lei. La sua voce era argentina, come un carillon. Agitò una mano in aria per asciugarsi le unghie. «Dovremmo pensare solo alle cose belle, per quanto ci è possibile. Ce ne sono così tante al mondo, basta guardarsi intorno. Tu guardi solo la terra sotto i tuoi piedi, Jimmy. Non ti fa bene».
Lei non glielo avrebbe mai detto. Perché questo lo faceva tan¬to impazzire? «Non era sesso vero, no?» domandò. «Nei film. Era solo finzione. Non è così?»
«Ma Jimmy, dovresti saperlo. Il sesso è sempre vero».

7

Sveltana

Uomo delle Nevi apre gli occhi, li chiude, li tiene aperti. Ha pas¬sato una notte orribile. Non sa cosa sia peggio, un passato che non può riconquistare o un presente che lo distruggerà, se lo guarda troppo da vicino. Poi c'è il futuro. Pura vertigine.
Il sole è sopra l'orizzonte, si solleva costantemente come su una puleggia; nuvole piatte, rosa e viola sopra e dorate sotto, si librano immobili nel cielo tutt'intorno. Le onde fluttuano, su e giù, su e giù. La sola idea gli fa venire la nausea. È terribilmen¬te assetato, ha mal di testa e una cavità ovattata in mezzo alle orecchie. Gli occorre qualche istante per registrare il fatto che ha i postumi di una sbornia.
«È tutta colpa tua» si dice. La sera prima si è comportato stu¬pidamente: ha gozzovigliato, urlato, farfugliato, si è abbandona¬to ad assurdi lamenti. Una volta non avrebbe avuto traccia di mal di testa dopo così poco alcol, ma ormai ha perso la mano, e non è in forma.
Almeno non è caduto dall'albero. «Domani è un altro gior¬no» declama alle nuvole rosa e viola. Ma se domani è un altro giorno, oggi cos'è? Lo stesso giorno di sempre, con l'unica dif¬ferenza che gli sembra di avere su tutto il corpo la patina che ha sulla lingua.

Un lungo frego di uccelli si snoda dalle torri deserte: gabbiani, garzette, aironi che vanno a pescare lungo la riva. Circa un chi¬lometro e mezzo più a sud, su una vecchia discarica dissemina¬ta di case semisommerse si sta formando una palude salmastra. È la che sono diretti tutti gli uccelli: una città di ciprinidi. Li guarda con risentimento: se la spassano, loro, senza una sola preoccupazione al mondo. Mangiano, scopano, cacano, strilla¬no, non fanno altro. In una vita precedente magari si sarebbe avvicinato loro di soppiatto, li avrebbe studiati con il binocolo, meravigliandosi della loro grazia. No, non l'avrebbe mai fatto, non era nelle sue corde. Una maestra delle elementari con la fis¬sa della natura - Sally qualcosa - li conduceva in quelle che de¬finiva gite campestri. I terreni di caccia erano il campo da golf e gli stagni di ninfee del Recinto. Guardate! Vedete che belle ana¬tre? Si chiamano germani reali! Uomo delle Nevi trovava noiosi gli uccelli già allora, ma non avrebbe mai fatto loro del male. Adesso invece desidera ardentemente una fionda.
Scende dall'albero, con maggior prudenza del solito: è anco¬ra un po' stordito. Controlla il berretto da baseball, scaccia una farfalla - attratta dal sale, non c'è dubbio - e piscia sulle caval¬lette, come al solito. Il mio tran-tran quotidiano, pensa. È bene avere un tran-tran. La sua testa sta diventando una gran riserva segreta di calamite da frigorifero obsolete.
Poi apre il suo nascondiglio di blocchi di cemento, si mette gli occhiali da sole con un'unica lente, beve acqua da una botti¬glia di birra messa da parte. Se solo avesse una birra vera, o un'a¬spirina, o altro scotch.
«Chiodo schiaccia chiodo» dice alla bottiglia di birra. Non deve bere troppa acqua tutta insieme, vomiterà. Si versa il resto dell'acqua sulla testa, prende una seconda bottiglia e si siede con la schiena contro l'albero, aspettando che lo stomaco si as¬sesti. Vorrebbe avere qualcosa da leggere. Da leggere, da guar¬dare, da sentire, da studiare, da compilare. Brandelli di linguag¬gio gli fluttuano in testa: mefitico, metronomo, mastite, metatarsale, melenso.
«Un tempo ero colto» dice ad alta voce. Colto. Una parola senza speranza. Cos'erano tutte quelle cose che un tempo cre¬deva di sapere, e dove sono finite?

Dopo un po' si rende conto di avere fame. Cosa c'è nel nascon¬diglio, quanto a cibo? Non dovrebbe esserci un mango? No, quello c'era ieri. Tutto ciò che ne rimane è un sacchetto di pla¬stica appiccicoso coperto di formiche. C'è la barretta energetica al cioccolato, ma non gli va, perciò apre il barattolo di Mi¬niwurstel senza carne Sveltana con il suo apriscatole arrugginito. Potrebbe usarne uno migliore. I wurstel sono di una marca di prodotti dietetici, beige e sgradevolmente morbidi - stronzi di bambini piccoli, pensa - ma riesce a mandarli giù. Gli Sveltana sembrano più buoni, se non li guardi.
Sono proteine, ma non gli bastano. Non sono abbastanza calo¬rici. Beve il liquido dei wurstel, caldo e insipido, che - si dice - deve essere sicuramente ricco di vitamine. O di minerali, almeno. O di qualcos'altro. Una volta lo sapeva. Cosa sta succedendo alla sua mente? Ha una visione della parte superiore del proprio col¬lo che sfocia nella testa come il tubo di scarico di un bagno. Fram¬menti di parole vi cadono giù vorticando, in un liquido grigio che - si rende conto - è il proprio cervello in decomposizione.
È tempo di affrontare la realtà. Per dirla in maniera brutale, sta lentamente morendo di fame. Un pesce a settimana è tutto ciò su cui può contare, e i Craker prendono la cosa alla lettera: può trattarsi di un pesce di dimensioni decenti o anche di uno molto piccolo, tutto spine e lische. Sa che se non compensa le proteine con gli amidi e quell'altra roba - i carboidrati, o sono la stessa cosa degli amidi? - comincerà a sciogliere il proprio grasso, quello che ne rimane, poi i propri muscoli. Il cuore è un muscolo. Si immagina il proprio cuore che raggrinzisce fino a diventare non più grande di una noce.
All'inizio era riuscito a procurarsi della frutta, non solo dai barattoli che aveva potuto sgraffignare, ma anche dall'orto bo¬tanico abbandonato che si trovava a un'ora di cammino a nord. Ce l'aveva fatta a trovarlo, possedeva una carta allora, ma è spa¬rita da tempo, portata via dal vento durante un temporale. Frut¬ti del mondo era il settore a cui si era diretto. Aveva trovato qualche banana che maturava nell'area tropicale e parecchi altri frutti, tondi, verdi e bitorzoluti, che non aveva voluto mangiare perché potevano essere velenosi. C'era anche dell'uva, su un graticcio, nella zona temperata. Nella serra l'impianto solare per l'aria condizionata funzionava ancora, sebbene uno dei vetri fos¬se rotto. C'erano anche alcune albicocche, su una spalliera a pa¬rete, ma poche, ormai scure nei punti in cui le vespe le avevano mangiate e cominciavano a marcire. Le aveva divorate comun¬que; anche qualche limone. Erano molto aspri, ma si era co¬stretto a berne il succo: conosceva lo scorbuto dai vecchi film ambientati sul mare. Gengive sanguinanti, denti che venivano via a manciate. A lui non era ancora successo.
Il settore Frutti del mondo è completamente ripulito, ormai. Quanto ci vorrà perché altri frutti del mondo nascano e maturi¬no? Non ne ha idea. Dovrebbero esserci delle bacche selvatiche. Lo domanderà ai bambini la prossima volta che verranno a fic¬canasare: loro sapranno se ce ne sono in giro. Ma anche se può sentirli ridere e chiamarsi l'un l'altro a una certa distanza, sulla spiaggia, a quanto pare questa mattina non hanno intenzione di venire fin lì. Forse si stanno stancando di lui, di assillarlo per avere risposte che non darà o che non hanno senso per loro. Forse è storia vecchia, una novità ormai superata, un giocattolo consumato. Forse ha perso il suo carisma, come una mediocre pop star di ieri che ormai perde i capelli. Dovrebbe accogliere con gioia la possibilità di essere lasciato in pace, invece l'idea lo deprime.
Se avesse una barca potrebbe remare fino alle torri, arrampi¬carsi, depredare nidi, rubare qualche uovo, se avesse una scala. No, pessima idea: quegli edifici sono troppo instabili, proprio nei mesi in cui è stato là se ne sono schiantati parecchi. Potreb¬be camminare fino alla zona dei bungalow e delle roulotte, cac¬ciare ratti, arrostirli sopra i carboni ardenti. È un'ipotesi da prendere in considerazione. Oppure potrebbe cercare di rag¬giungere il Modulo più vicino e procurarsi un bottino migliore che nelle roulotte, perché là c'erano molte più leccornie. O an¬dare in una delle colonie per pensionati, nei centri residenziali chiusi, qualcosa del genere. Ma non ha più carte e non può ri¬schiare di perdersi, vagando al crepuscolo senza ripari e alberi adatti. I calupi gli darebbero sicuramente la caccia.
Potrebbe intrappolare un proporco, ucciderlo a bastonate, macellarlo in segreto. Dovrebbe nascondere la baraonda: ha idea che la brutale vista del sangue e delle budella potrebbe alie¬nargli le simpatie dei Figli di Crake. Ma un banchetto a base di proporco gli farebbe un mondo di bene. I proporci sono grassi, e il grasso è un carboidrato. O no? Fruga nella sua mente in cer¬ca di qualche lezione o di una tabella ormai dimenticata che pos¬sa svelarglielo: una volta sapeva quella roba, ma non serve a niente, i raccoglitori sono vuoti.
«Guadagnarsi il pane» dice. Può quasi sentirne l'odore, di quel pane, abbrustolito, con sopra il bacon fritto in padella e un uovo, servito con una tazza di caffè... Ci vuole la panna? sussur¬ra una voce di donna. Un'antipatica cameriera senza nome, uscita da una farsa porno con-grembiuli-bianchi-e-spolverini-di-piume. Si ritrova con l'acquolina in bocca.
Il grasso non è un carboidrato. Il grasso è un grasso. Si batte la fronte, alza le spalle, allarga le mani. «Dunque, sapientone» dice. «La prossima domanda?»
Non lasciarti sfuggire un'abbondante fonte di nutrimento che potrebbe trovarsi non più lontano dei tuoi piedi, dice un'altra voce, con un noioso tono didascalico che riconosce come ap¬partenente a un manuale di sopravvivenza che una volta aveva sfogliato nel bagno di qualcuno. Quando si salta giù da un pon¬te occorre stringersi il culo in modo che l'acqua non irrompa nell'ano. Quando si affonda nelle sabbie mobili, prendere una racchetta da sci. Gran consiglio! Si tratta dello stesso tizio che diceva che si può catturare un alligatore con un bastone appun¬tito. Vermi e larve erano il cibo che raccomandava per uno spuntino. Volendo, si poteva abbrustolirli.
Uomo delle Nevi si immagina a rovesciare ciocchi, ma non è ancora tempo. Prima proverà qualcos'altro: tornerà sui suoi pas¬si, visiterà di nuovo il Recinto della RejoovenEsense. È un viag¬gio lungo, più di qualsiasi altro abbia mai fatto finora, ma se rie¬sce ad arrivare ne varrà la pena. È sicuro che ci sarà rimasto un sacco di roba: non solo scatolame, anche alcol. Una volta com¬preso cosa stava succedendo, gli abitanti del Recinto avevano abbandonato tutto ed erano scappati. Di certo non erano resta¬ti abbastanza a lungo per ripulire i supermercati.
Ma quello di cui ha davvero bisogno è una pistola: potrebbe sparare ai proporci, tenere lontani i calupi e - idea! lampadina sulla testa! - sa esattamente dove trovarne una. La cupola a bol¬la di Crake contiene un intero arsenale, che dovrebbe essere esattamente dove l'ha lasciato. Paradice, è così che avevano chia¬mato il posto. Lui era stato uno degli angeli guardiani, per così dire, perciò sa dov'è ogni cosa, saprà mettere le mani sugli ar¬nesi giusti. Una capatina veloce, un furto al volo. Poi sarà at-trezzato per qualsiasi evenienza.
Ma tu non vuoi tornare là, non è vero? sussurra una voce dolce.
«Non particolarmente».
Perché?
«Non c'è un perché».
Avanti, dillo.
«L'ho dimenticato».
Non è vero. Non hai dimenticato nulla.
«Sono un uomo malato» supplica. «Sto morendo di scorbu¬to! Vattene!»
Ha bisogno di concentrarsi. Darsi delle priorità. Scavare le cose fino ad arrivare all'essenziale. L'essenziale è: Se non mangi, muori. Non si può arrivare a niente di più essenziale.
Il Recinto della Rejoov è troppo lontano per una facile gita di un giorno. È più simile a una spedizione. Dovrà passare una not¬te fuori. Non gradisce l'idea - dove dormirà? - ma, se è pru¬dente, dovrebbe andare tutto liscio.

Con il barattolo di miniwurstel Sveltana nella pancia e una meta in vista, Uomo delle Nevi comincia a sentirsi quasi normale. Ha una missione: è perfino impaziente di compierla. Potrebbe ri¬portare alla luce ogni genere di cose. Ciliegie sotto spirito; noccioline tostate; una preziosa scatoletta di carne di maiale artifi¬ciale, nel caso avesse una gran fortuna. Una camionata d'alcol. I Recinti non si facevano mancare niente, ci potevi trovare l'inte¬ra gamma di prodotti e servizi quando da qualsiasi altra parte ce n'era penuria.
Si alza, si stira, si gratta intorno alle vecchie croste sulla schie¬na - al tatto sembrano unghie delle dita dei piedi fuori posto - poi ripercorre il sentiero dietro il suo albero, raccogliendo la bottiglia di scotch vuota che la notte prima ha scagliato contro i calupi. Gli dà un'annusatina nostalgica, poi la getta insieme al barattolo di Sveltana nel suo immondezzaio di contenitori vuo¬ti, dove un'intera folla di mosche depravate sta facendo baldo¬ria. A volte di notte sente i moffoni che frugano in quella sua di¬scarica personale in cerca di un pasto gratis tra i resti della cata¬strofe, come lui stesso ha spesso fatto, e sta per fare di nuovo.
Poi si accinge a fare i preparativi. Lega di nuovo il lenzuolo, sistemandoselo sopra la spalla, tirando il pezzo che avanza tra le gambe e piegandolo a mo' di cintura sul davanti, quindi annoda la sua ultima barretta energetica al cioccolato in un angolo. Si trova un bastone, lungo e piuttosto dritto. Decide di portare una sola bottiglia d'acqua: è molto probabile che ne troverà dell'al¬tra lungo la strada. Altrimenti, può sempre bere quella che de¬fluisce dopo il temporale pomeridiano.
Dovrà dire ai Figli di Crake che va via. Non vuole che scopra¬no che non c'è e si mettano a cercarlo. Potrebbero imbattersi in qualche pericolo, o perdersi. Nonostante le loro caratteristiche ir¬ritanti - tra cui annovera l'ottimismo ingenuo, l'aperta cordialità, la calma e il vocabolario limitato - si sente protettivo nei loro con¬fronti. Di proposito o meno, sono stati lasciati alle sue cure, e non si rendono semplicemente conto. Non si rendono conto, ad esem¬pio, di quanto inadeguate in realtà siano le sue cure.
Bastone in mano, provando la storia che dirà, si incammina lungo il sentiero verso il loro accampamento. I Craker lo chia¬mano il Sentiero dei pesci di Uomo delle Nevi, perché lo per¬corrono portandogli il pesce ogni settimana. Esso costeggia il li¬mitare della spiaggia nella zona d'ombra; ciò nondimeno lo tro¬va troppo luminoso e si cala il berretto da baseball sul viso per proteggersi dai raggi. Mentre si avvicina fischia, come fa sempre per avvertirli che sta arrivando. Non vuole spaventarli, mettere a dura prova il loro garbo, superare i loro confini senza essere invitato, comparendo minacciosamente all'improvviso dagli ar¬busti, come un grottesco esibizionista che si mostri agli scolari.
Il suo fischio è come la campanella di un lebbroso: tutti colo¬ro che sono disturbati dalla vista degli storpi possono allonta¬narsi. Non che sia contagioso: non si prenderanno mai quello che ha lui. Sono immuni.

Fusa

Gli uomini stanno compiendo il loro rituale mattutino, in piedi a un metro l'uno dall'altro in una lunga fila che segue gli alberi sui due lati. Sono rivolti all'esterno, come nelle immagini dei buoi muschiati, e pisciano lungo l'invisibile linea che segna il loro territorio. Le loro espressioni sono serie, come si addice alla gravità del compito. Ricordano a Uomo delle Nevi suo padre che la mattina infilava la porta, la borsa in mano, un serio cipi¬glio da punto-dritto-allo-scopo tra gli occhi.
Gli uomini lo fanno due volte al giorno, come è stato loro in¬segnato: è necessario mantenere il volume costante, rinnovare l'odore. Il modello di Crake erano stati i canidi e i mustelidi, nonché un altro paio di famiglie e specie. Marcare il territorio con l'odore era un motivo dominante ampiamente diffuso tra i mammiferi, aveva detto, e non limitato ad essi. Certi rettili, di¬verse lucertole...
«Lascia stare le lucertole» disse Jimmy.
Secondo Crake - e da allora Uomo delle Nevi non ha visto nulla in grado di confutarlo - le sostanze chimiche trasmesse nell'urina degli uomini erano efficaci contro calupi e moffoni, e in minor misura contro gattinci e proporci. Calupi e gattinci rea¬giscono all'odore dei propri simili immaginando un enorme calupo o un'enorme gattince, da cui sarebbe saggio tenersi lonta¬ni. Moffoni e proporci immaginano grandi predatori. O almeno, questa era la teoria.
Crake assegnava il piscio speciale solo agli uomini; diceva che avevano bisogno di qualcosa di importante da fare, qualcosa che non implicasse la gravidanza, in modo da non sentirsi trascura¬ti. Lavorare il legno, cacciare, l'alta finanza, la guerra e il golf non sarebbero più state opzioni valide, aveva scherzato.
Nella pratica, questo piano presenta alcuni svantaggi - la li¬nea di confine ad anello-di-piscio odora come uno zoo che vie¬ne pulito di rado - ma il circolo è abbastanza grande da lascia¬re al suo interno un ampio spazio privo di puzza. Ad ogni modo, Uomo delle Nevi ormai ci si è abituato.

Aspetta educatamente che gli uomini finiscano. Non gli chiedo¬no di unirsi a loro: sanno già che il suo piscio è inutile. E poi, han¬no l'abitudine di stare in silenzio mentre adempiono al proprio compito: hanno bisogno di concentrarsi, assicurarsi che la loro urina atterri esattamente nel posto giusto. Ognuno ha il proprio metro di terra di confine, la propria area di responsabilità. È un bello spettacolo: come le donne, questi uomini - dalla pelle liscia, molto muscolosi - sembrano statue, e così raggruppati assomi-gliano a una fontana barocca. Un po' di sirene, delfini e cherubi¬ni, e il quadro sarebbe perfetto. Nella testa di Uomo delle Nevi sorge l'immagine di un circolo di meccanici nudi, ognuno con una chiave inglese in mano. Un'intera squadra di Mister Aggiustatutto. L'inserto centrale di una rivista gay. Assistendo al loro nume¬ro sincronizzato, si aspetta quasi che si trasformino nel pacchiano corpo di ballo di uno dei più squallidi nightclub.
Gli uomini si scrollano, rompono il circolo, guardano Uomo delle Nevi con i loro occhi tutti verdi, sorridono. Sono sempre così maledettamente affabili.
«Benvenuto, o Uomo delle Nevi» dice quello chiamato Abraham Lincoln. «Vuoi unirti a noi nella nostra casa?» Sta di¬ventando un po' il capo. Guardatevi dai capi, diceva Crake. Pri¬ma capi e subalterni, poi tiranni e schiavi, poi i massacri. È così che è sempre andata.
Uomo delle Nevi scavalca la linea bagnata a terra, cammina lentamente insieme agli uomini. Gli è appena venuta un'idea brillante: non sarà il caso di portarsi in viaggio un po' di terra in¬zuppata, come accorgimento protettivo? Potrebbe respingere i calupi Ma, a pensarci bene, gli uomini troverebbero la breccia scavata nelle loro difese e capirebbero che è stato lui a farla. Un simile atto potrebbe essere frainteso: non vorrà certo essere so¬spettato di indebolire la loro fortezza, esponendo i loro piccoli al pericolo.
Dovrà inventare un nuovo ordine da parte di Crake, comuni¬carglielo più tardi. Crake mi ha detto che dovete raccogliere un'offerta del vostro odore. Farli pisciare tutti in un barattolo di latta. Spruzzarla intorno al suo albero. Fare un anello magico. Tracciare la propria linea nella sabbia.

Raggiungono lo spazio aperto al centro del circolo territoriale. Da una parte, tre donne e un uomo si prendono cura di un ragazzino che sembra in qualche modo ferito. I Craker non sono immuni da ferite - i bambini cadono o si fracassano la testa su¬gli alberi, le donne si bruciano le dita badando ai fuochi, si fan¬no tagli e graffi, ma finora si è trattato di ferite di scarsa impor¬tanza e facilmente curabili con le fusa.
Crake aveva lavorato per anni sulle fusa. Una volta scoperto che la famiglia dei gatti faceva fusa che avevano la stessa fre¬quenza degli ultrasuoni usati sulle fratture ossee e sulle lesioni cutanee, ed era perciò munita di un proprio meccanismo di au¬toguarigione, si era fatto in quattro per impiantare quel tratto nelle sue creature. Il trucco era modificare l'apparato ioide, col¬legare le vie del sistema nervoso volontario e adattare i sistemi di controllo neocorticali senza intralciare le facoltà fonatorie. C'erano stati parecchi esperimenti mal riusciti, per quanto ri¬cordava Uomo delle Nevi. Uno dei gruppi di bambini cavia aveva manifestato una certa tendenza a mettere lunghi baffi e ad ar¬rampicarsi sulle tende; un paio aveva avuto difficoltà di espres¬sione orale; uno si era ridotto a profferire nomi, verbi e urla.
Tuttavia Crake ci era riuscito, pensa Uomo delle Nevi. Ce l'a¬veva fatta. Basta guardare questi quattro, adesso, le testa chine sul bambino, che fanno le fusa come motori d'auto.
«Cosa gli è successo?» domanda.
«È stato morso» dice Abraham. «L'ha morso una dei Figli di Oryx».
Questa è una novità. «Quale?»
«Una gattince. Senza motivo».
«Era fuori del nostro circolo, nella foresta» spiega una delle donne - Eleanor Roosevelt? L'Imperatrice Giuseppina? - Uomo delle Nevi non riesce sempre a ricordarne i nomi.
«Siamo stati costretti a colpirla con dei sassi, per cacciarla via» dice Leonardo da Vinci, l'uomo del quartetto impegnato a fare le fusa.
Così ora le gattinci danno la caccia ai bambini, pensa Uomo delle Nevi. Forse cominciano ad avere fame, la stessa fame che prova anche lui. Ma hanno un sacco di conigli tra cui scegliere, perciò non può trattarsi di semplice fame. Forse vedono nei Fi¬gli di Crake, o quantomeno nei piccoli, un'altra specie di coni¬gli, solo più facili da catturare.
«Questa sera chiederemo scusa a Oryx per i sassi» dice una delle donne - Sacajawea? - «E la pregheremo di dire ai suoi figli di non morderci».
Non ha mai visto le donne farlo - mettere in atto questa co¬munione con Oryx - sebbene vi facciano cenno di frequente. Che forma assume? Devono recitare qualche tipo di preghiera o invocazione, dal momento che non possono certo credere che Oryx appaia loro di persona. Forse vanno in trance. Crake pen¬sava di essersi liberato di tutto ciò, di avere eliminato dal cer¬vello quello che chiamava il punto D. Dio è un ammasso di neu¬roni, sosteneva. Era stato un problema difficile, però: bastava avere la mano un po' pesante, e ti ritrovavi con uno zombie o uno psicopatico. Ma queste persone non erano né l'uno né l'al¬tro.
Stanno combinando qualcosa, però, qualcosa che Crake non aveva previsto: dialogano con l'invisibile, hanno sviluppato una forma di venerazione. Buon per loro, pensa Uomo delle Nevi. Gli piace quando si dimostra che Crake aveva torto. Però non li ha ancora sorpresi a intagliare immagini.
«Il bambino si riprenderà?» domanda.
«Sì» dice con calma la donna. «I buchi dei denti si stanno già chiudendo. Vedi?»

Le altre donne sono impegnate nelle solite occupazioni mattuti¬ne. Alcune badano al fuoco centrale, altre si accovacciano là in¬torno per scaldarsi. I loro termostati corporei sono regolati su condizioni atmosferiche tropicali, perciò a volte prima che sor¬ga il sole hanno freddo. Il fuoco è alimentato da sterpi e rami secchi, ma soprattutto da sterco, modellato in medaglioni delle dimensioni di hamburger seccati al sole di mezzogiorno. Dal momento che i Figli di Crake sono vegetariani e mangiano per lo più erba, foglie e radici, questo materiale brucia abbastanza bene. Da quanto risulta a Uomo delle Nevi, occuparsi del fuoco è più o meno l'unica cosa fatta dalle donne che possa essere clas-sificata come un lavoro. A parte aiutare a catturare il pesce set¬timanale. E cucinarlo per lui. Per loro non cucinano.
«Salute, Uomo delle Nevi» dice la donna in cui si imbatte su¬bito dopo. Ha la bocca verde per il cibo che ha masticato a co¬lazione. Sta allattando un bambino di un anno che alza lo sguar¬do su Uomo delle Nevi, si lascia saltare fuori di bocca il capez¬zolo e si mette a piangere. «È solo Uomo delle Nevi!» dice lei. «Non ti farà del male».
Uomo delle Nevi non si è ancora abituato al ritmo di crescita dei bambini. Questo ha un anno, ma ne dimostra cinque. Quando ne avrà quattro sarà un adolescente. Fin troppo tempo veniva sprecato nell'allevamento dei piccoli, diceva Crake. Nel¬l'allevamento dei piccoli e nell'essere piccoli. Nessun'altra spe¬cie consumava sedici anni a quel modo.
Alcuni dei bambini più grandi lo hanno scorto; si avvicinano, cantilenando: «Uomo delle Nevi, Uomo delle Nevi!» Dunque non ha ancora perso il suo fascino. Ora tutti lo guardano con cu¬riosità, chiedendosi cosa ci faccia là. Non arriva mai senza un motivo. In occasione della sua prima visita avevano pensato - a giudicare dal suo aspetto - che dovesse avere fame, e gli avevano offerto del cibo, qualche manciata di erba, foglie e radici scelte, più parecchi cecotrofi messi da parte appositamente per lui - e gli era toccato spiegare con cura che il loro cibo non era il suo cibo.
Trova rivoltanti i cecotrofi, composti come sono da erba se¬midigerita scaricata attraverso l'ano e ingoiata nuovamente due o tre volte a settimana. Quella era stata un'altra idea geniale di Crake. Si era servito dell'appendice vermiforme come base su cui costruire l'organo necessario, convinto che a uno stadio evo¬lutivo precedente, quando la dieta ancestrale era più ricca di fi¬bre, l'appendice doveva aver svolto una funzione simile. Ma ave¬va rubato l'idea specifica ai Leporidae, lepri e conigli, che fanno assegnamento sui cecotrofi invece che su parecchi stomaci, come i ruminanti. Forse è per questo che le gattinci hanno co¬minciato a dare la caccia ai giovani Craker, pensa Uomo delle Nevi: sotto la copertura del profumo di agrumi riescono ad an¬nusare l'odore da coniglio dei cecotrofi.
Jimmy aveva discusso l'idea con Crake. Comunque la rigiri, aveva detto, la cosa si riduceva a mangiare la propria merda. Ma Crake si era limitato a sorridere. Per animali la cui dieta consi¬steva in larga parte di materie vegetali grezze, aveva osservato, un tale meccanismo era necessario per decomporre la cellulosa, e senza di esso la gente sarebbe morta. Inoltre, come nei Lepo¬ridae, i cecotrofi erano arricchiti di vitamina B1, nonché di altre vitamine e minerali, quattro o cinque volte più del normale ma¬teriale di scarto. I cecotrofi erano semplicemente una parte del¬l'alimentazione e della digestione, un modo di sfruttare al mas¬simo le sostanze nutritive a portata di mano. Qualsiasi obiezio¬ne a questo processo era di natura puramente estetica.
Era quello il punto, aveva detto Jimmy.
Crake aveva ribattuto che in tal caso non valeva niente.

Ora Uomo delle Nevi è circondato da un circolo attento. «Salu¬te, Figli di Crake» dice. «Sono venuto a dirvi che sto partendo». Gli adulti devono averlo già dedotto dal lungo bastone e dal modo in cui ha legato il lenzuolo: è già andato in viaggio, o al¬meno è così che ha chiamato le sue incursioni a scopo di sac¬cheggio nei parcheggi di roulotte e nelle plebopoli vicine.
«Vai a vedere Crake?» domanda uno dei bambini.
«Sì» dice Uomo delle Nevi. «Ci proverò. Se è là, lo vedrò».
«Perché?» domanda uno degli altri bambini.
«Devo fargli qualche domanda» risponde Uomo delle Nevi con prudenza.
«Devi parlargli delle gattinci» dice l'Imperatrice Giuseppina. «Di quella che ha morso il bambino».
«Questa è una faccenda che riguarda Oryx» ribatte Madame Curie. «Non Crake». Le altre donne annuiscono.
«Anche noi vogliamo vedere Crake» cominciano a dire i bam¬bini. «Anche noi, anche noi! Anche noi vogliamo vedere Crake!» È una delle loro idee preferite, andare a vedere Crake. Uomo delle Nevi si rimprovera: non avrebbe dovuto raccontare bugie tanto eccitanti all'inizio. Aveva fatto sembrare Crake come Babbo Natale.
«Non date noia a Uomo delle Nevi» dice gentilmente Eleanor Roosevelt. «Si mette sicuramente in viaggio per aiutarci. Dob¬biamo ringraziarlo».
«Crake non è per i bambini» dice Uomo delle Nevi il più se¬veramente possibile.
«Fai venire anche noi! Vogliamo vedere Crake!»
«Solo Uomo delle Nevi può vedere Crake» dice pacatamente Abraham Lincoln. Questo sembra risolvere la questione.
«Questo sarà un viaggio più lungo» annuncia Uomo delle Nevi. «Più lungo degli altri. Forse starò via due giorni». Solleva due dita. «O tre» aggiunge. «Perciò non dovete preoccuparvi. Ma mentre sono via, rimanete assolutamente qui, a casa, e fate tutto come vi hanno insegnato Crake e Oryx».
Un coro di sì, gran cenni del capo. Uomo delle Nevi non par¬la di qualche possibile pericolo per sé. Forse non lo prendono neppure in considerazione, e lui non solleva la questione: più lo credono invulnerabile, meglio è.
«Verremo con te» dice Abraham Lincoln. Parecchi degli altri uomini lo guardano, quindi annuiscono.
«No!» esclama Uomo delle Nevi, spiazzato. «Voglio dire, non potete vedere Crake, non è permesso». Non vuole che gli vada¬no dietro, assolutamente no! Non vuole che assistano a nessuna sua debolezza o insuccesso. Inoltre, alcune delle cose che ve¬drebbero lungo la strada potrebbero nuocere al loro stato men¬tale. Lo inonderebbero inevitabilmente di domande. E oltretut¬to, un giorno in loro compagnia gli farebbe venire il latte alle ginocchia.
Magari ce l'avessi, il latte, dice una voce nella sua testa; una vocina questa volta, la triste voce di un bambino piccolo. Scher¬zo! Scherzo! Non uccidermi!
Per favore, non adesso, pensa Uomo delle Nevi. Non quando sono in compagnia. Quando è in compagnia, non può ribattere.
«Vorremmo venire con te per proteggerti» dice Benjamin Franklin, guardando il suo lungo bastone. «Dalle gattinci che mordono, dai calupi».
«Non hai un odore molto forte» aggiunge Napoleone.
Uomo delle Nevi trova offensivo il tono compiaciuto della frase. È anche falsamente eufemistico: come tutti sanno, il suo odore è piuttosto forte, anche se non è quello giusto. «Andrà tutto bene» dice. «Rimanete qui».
Gli uomini sembrano dubbiosi, ma pensa che gli obbediran¬no. Per riaffermare la propria autorità, solleva l'orologio all'o¬recchio. «Crake dice che veglierà su di voi» annuncia. «Per te¬nervi al sicuro». Orologio, sveglia, veglia, dice la vocina. Bel gio¬co di parole, noce di sughero.
«Crake veglia su di noi durante il giorno, e Oryx veglia su di noi durante la notte» dice Abraham Lincoln con fare rispettoso. Non sembra troppo convinto.
«Crake veglia sempre su di noi» interviene Simone de Beauvoir in tono sereno. È una donna di un marrone giallastro che ricorda a Uomo delle Nevi Dolores, la tata filippina persa tanto tempo prima; a volte deve resistere all'impulso di inginocchiar¬si e abbracciarle la vita.
«È molto premuroso nei nostri confronti» dice Madame Cu¬rie. «Devi dirgli che gli siamo grati».

Uomo delle Nevi ripercorre in senso inverso il Sentiero dei pe¬sci di Uomo delle Nevi. È in vena di sentimentalismi: nulla lo mette in crisi quanto la generosità di questa gente, la loro di¬sponibilità a rendersi utili. E la loro gratitudine nei confronti di Crake. Così commovente, così mal riposta.
«Crake, testa di cazzo» dice. Gli viene da piangere. Poi sente una voce - la propria! - che fa buuuu; la vede, quasi fosse una parola stampata nella nuvola di un fumetto. Acqua gli cola lun¬go il viso.
«No, di nuovo» dice. Che sensazione prova? Non è esatta¬mente collera; irritazione piuttosto. Una parola antiquata ma utile. La sua irritazione non comprende soltanto Crake, e poi perché dare tutta la colpa a lui?
Forse è soltanto invidioso. Ancora una volta. Piacerebbe an¬che a lui essere invisibile e adorato. Piacerebbe anche a lui esse¬re altrove. Ma non c'è speranza: è immerso fino al collo nella realtà.
Rallenta fino a strascicare il passo, poi si ferma. Oh, buuuu! Perché non riesce a controllarsi? D'altra parte di cosa si preoc¬cupa, visto che non lo guarda nessuno? Eppure, il rumore che fa gli sembra l'urlo esagerato di un pagliaccio: infelicità recitata per strappare un applauso.
Smettila di frignare, dice la voce di suo padre. Controllati. Sei tu l'uomo qui.
«Giusto!» grida Uomo delle Nevi. «Cosa suggeriresti di pre¬ciso? Eri un esempio talmente straordinario!»
Ma l'ironia si perde tra gli alberi. Si pulisce il naso con la mano libera dal bastone e si rimette in cammino.

Blu

Sono le nove del mattino, orologio solare, quando Uomo delle Nevi lascia il Sentiero dei pesci per inoltrarsi nell'entroterra. Appena si allontana dalla brezza marina l'umidità sale di colpo, richiamando un nugolo di moschini verdi che lo pungono. E a piedi nudi - le sue scarpe sono andate in pezzi qualche tempo prima, e in ogni modo erano troppo calde e umide - ma ormai non gli servono più, perché ha le piante dei piedi dure come gomma vecchia. Malgrado ciò cammina con cautela: potrebbe¬ro esserci vetri rotti, frammenti di metallo. Oppure serpenti, o qualcos'altro che morde, e la sua unica arma è il bastone.
All'inizio procede sotto gli alberi, che un tempo facevano par¬te di un parco. A una certa distanza sente il colpo di tosse simi¬le a un latrato di una gattince. È il loro verso intimidatorio: for¬se è un maschio, e ha incontrato un altro maschio. Ci sarà un combattimento il cui vincitore si accaparrerà tutto - tutte le femmine del territorio - e ne eliminerà i piccoli, sempre che ci riesca, per fare spazio al proprio pacchetto genetico.
Queste creature erano state introdotte come controllo, una volta che i grossi conigli verdi erano diventati un flagello tanto prolifico e resistente. Più piccole delle linci rosse e meno ag¬gressive: quella era la versione ufficiale sulle gattinci. Avrebbero dovuto eliminare i gatti inselvatichiti, aumentando così la popo¬lazione quasi inesistente degli uccelli canori. I calupi non si sa¬rebbero dati troppa pena per i volatili, giacché avrebbero dovu¬to perdere la leggerezza e l'agilità necessarie a catturarli. Questo in teoria.
Tutto ciò si era avverato, ma ben presto anche le gattinci era¬no sfuggite a qualsiasi controllo. Erano cominciati a sparire i ca¬gnolini dai giardini delle case e i bambini dalle carrozzine; per¬sone di bassa statura che facevano jogging erano state ridotte a mal partito. Non nei Recinti, naturalmente, e raramente nei Mo¬duli, ma molte lamentele si erano levate dagli abitanti delle plebopoli. Meglio dunque guardare le impronte sul terreno e stare attento ai rami sospesi: non gli piace l'idea di vedersi atterrare sulla testa uno di quegli affari.
Ci sono sempre i calupi di cui preoccuparsi. Ma i calupi sono cacciatori notturni: nel calore del giorno tendono a dormire, come gran parte delle creature fornite di pelo.
Ogni tanto si apre uno spazio più ampio: i resti di una piazzola per picnic, uno di quei barbecue all'aperto che quasi nessuno usava più dopo che aveva cominciato a fare tanto caldo e a pio¬vere ogni pomeriggio. Ora ne incontra uno, con i funghi che spuntano dal tavolo in rovina e il barbecue coperto di rampi¬canti.
Da una parte, da quella che probabilmente era una radura in cui venivano sistemate tende e roulotte, sente ridere e cantare, levarsi grida di ammirazione e incoraggiamento. Deve essere in atto un accoppiamento, un'occasione abbastanza rara tra quella gente: Crake aveva calcolato tutto e decretato che una volta ogni tre anni per femmina era più che sufficiente.
Ci sarà il quintetto standard, quattro uomini e la donna in ca¬lore. Il suo stato sarà evidente a tutti dal blu squillante delle na¬tiche e dell'addome; un trucchetto di pigmentazione variabile soffiato ai babbuini, con un contributo da parte dei cromofori espandibili della piovra. Crake diceva sempre: Pensa a un adat¬tamento, uno qualsiasi, e un animale da qualche parte ci avrà pen¬sato prima di te.
Dato che sono soltanto il tessuto blu e i feromoni da esso pro¬dotti a stimolare i maschi, al momento non c'è più amore non ri¬chiesto, e neppure lussuria frustrata; niente più ombra tra il de¬siderio e l'atto. Il corteggiamento comincia al primo sintomo, al primo lieve accenno di blu, con i maschi che offrono fiori alle femmine: proprio come i pinguini maschi offrono sassi rotondi, diceva Crake, o i pesciolini d'argento un sacchetto di sperma. Allo stesso tempo si abbandonano a esplosioni musicali, come gli uccelli canori. Dopo che il loro pene è diventato di un blu squillante per intonarsi all'addome blu delle femmine, eseguono una sorta di danza dei cazzi blu, facendo ondeggiare all'unisono i membri eretti di qua e di là, a tempo con i movimenti dei pie¬di e con il canto: un numero suggerito a Crake dai richiami ses¬suali fatti dai granchi agitando le chele. Dagli omaggi floreali la femmina sceglie quattro fiori, e l'ardore sessuale dei candidati respinti svanisce immediatamente, senza lasciare rancori. Poi, quando il blu del suo addome ha raggiunto la sfumatura più in¬tensa, la femmina e il suo quartetto trovano un posticino appar¬tato e ci rimangono finché lei non rimane incinta e la colorazio¬ne blu sbiadisce. Questo è quanto.
In ogni modo, niente più No per dire sì, pensa Uomo delle Nevi. Niente più prostituzione, niente abusi sessuali sui bambi¬ni, niente mercanteggiamenti, niente ruffiani, niente schiavi del sesso. Niente più stupri. Quei cinque se la spasseranno per ore, con tre degli uomini che staranno di guardia cantando e gridan¬do mentre il quarto copulerà, a turno. Crake ha dotato queste donne di vulve ultraforti - strati di pelle extra, e muscoli in più - in modo da poter sostenere certe maratone. Non ha più im¬portanza chi sia il padre dell'inevitabile bambino, dal momento che non c'è più nessuna proprietà da ereditare, nessuna lealtà padre-figlio richiesta in caso di guerra. Il sesso non è più un rito misterioso, visto con ambiguità o esplicita ripugnanza, compiu¬to al buio e causa di suicidi e omicidi. Ora è più simile a una prova sportiva, a un gioco fatto in piena libertà.
Forse Crake aveva ragione, pensa Uomo delle Nevi. Nel vec¬chio ordine delle cose la competizione sessuale era stata spietata e crudele: per ogni coppia di amanti felici c'era uno spettatore de¬presso, l'escluso. L'amore era una cupola di vetro trasparente: po¬tevi vedere i due al suo interno, ma non potevi entrarci.
Questa era stata la forma più blanda: l'uomo solo alla finestra che beve per dimenticare, alle lugubri note di un tango. Ma si¬tuazioni del genere potevano trascendere nella violenza. Le emozioni estreme potevano essere fatali. Se non posso averti io, non ti avrà nessuno, e così via. Poteva entrare in gioco la morte.

«Quanta infelicità» disse una volta Crake a pranzo. Dovevano ave¬re entrambi poco più di vent'anni e Crake doveva essere già all'I¬stituto Watson-Crick. «Quanta inutile disperazione è stata causa¬ta da una serie di accoppiamenti biologici sbagliati, da un alli¬neamento sbagliato di ormoni e feromoni? Con il risultato che in realtà colui che ami con tanta passione non vuole o non può ri¬cambiarti. Da questo punto di vista, come specie siamo patetici: imperfettamente monogami. Se potessimo formare una sola cop¬pia per tutta la vita, come i gibboni, oppure optare per una pro-miscuità totalmente scevra da sensi di colpa, non ci sarebbero più tormenti sessuali. Un progetto ancora migliore sarebbe rendere la cosa ciclica nonché inevitabile, come negli altri mammiferi. Così non vorresti mai qualcuno che non puoi avere».
«Abbastanza vero» replicò Jimmy. O Jim, come al tempo in¬sisteva a farsi chiamare, ma invano: continuavano tutti a chia¬marlo Jimmy. «Ma pensa a cosa rinunceremmo».
«Ad esempio?»
«Alla fase del corteggiamento. Nel tuo progetto saremmo solo un mucchio di robot dotati di ormoni». Jimmy pensava di dover presentare le cose nei termini di Crake, per questo aveva parlato di fase del corteggiamento. Quello che intendeva era la sfida, l'eccitazione, la caccia. «Non ci sarebbe libera scelta».
«Il mio progetto prevede la fase del corteggiamento» ribatté Crake, «solo che andrebbe ogni volta a segno. E siamo comun¬que robot dotati di ormoni, ma imperfetti».
«Bene, e l'arte?» domandò Jimmy in tono leggermente dispe¬rato. Dopotutto era uno studente dell'Accademia Martha Graham, perciò sentiva un vago bisogno di difendere arte e creatività.
«Cosa?» fece Crake con il suo sorriso tranquillo.
«Tutti quegli accoppiamenti sbagliati di cui parli. Sono stati fonte di ispirazione, o almeno è quanto si dice. Pensa ai poeti... Petrarca, John Donne, la Vita Nova, pensa...»
«L'arte» disse Crake. «Scommetto che fanno ancora un gran ciarlare su questa roba, nel posto che frequenti. Cos'è che ha detto Byron? Chi scriverebbe, se potesse fare altrimenti? Qual¬cosa del genere».
«È proprio quello che intendo» disse Jimmy. Era allarmato dall'accenno a Byron. Che diritto aveva Crake di invadere il suo territorio insignificante e banale? Crake doveva restare fedele alla scienza e lasciare il povero Byron a Jimmy.
«Cos'è che intendi?» domandò Crake, come se insegnasse a parlare a un balbuziente.
«Intendo che quando non puoi avere l'altrimenti, allora...»
«Non sarebbe preferibile scopare?» disse Crake. Non inclu¬deva se stesso nella domanda: il suo era un tono di interesse obiettivo ma non troppo profondo, quasi stesse conducendo un'indagine sulle abitudini personali meno piacevoli della gen¬te, come il ficcanasare.
Jimmy scoprì che il viso gli si faceva più rosso e la voce più stridula via via che Crake diventava più offensivo. Non lo sop¬portava. «Quando una civiltà è ridotta in polvere e cenere» dis¬se, «l'arte è tutto ciò che rimane. Immagini, parole, musica. Strutture fantasiose. Il pensiero - il pensiero umano, voglio dire - è determinato da esse. Devi ammetterlo».
«Non è esattamente tutto ciò che rimane» disse Crake. «Di questi tempi gli archeologi sono altrettanto interessati alle ossa rosicchiate, ai vecchi mattoni e alla merda fossilizzata. A volte anche più interessati. Credono che il pensiero umano sia deter¬minato anche da questo».
A Jimmy sarebbe piaciuto domandare Perché mi umili sem¬pre? Ma aveva paura delle possibili risposte, una delle quali era perché è così facile. Perciò disse invece: «Cos'hai contro di essa?»
«Contro cosa? Contro la merda fossilizzata?»
«Contro l'arte».
«Niente» rispose pigramente Crake. «Le persone possono di¬vertirsi come vogliono. Se vogliono menarselo in pubblico, ma¬sturbarsi facendo ghirigori e scarabocchi, o strimpellando, mi sta bene. In ogni caso, serve a uno scopo biologico».
«E cioè?» Jimmy sapeva che tutto dipendeva dal mantenersi calmo. Quelle discussioni andavano condotte fino in fondo come un gioco: se perdeva le staffe, vinceva Crake.
«La rana maschio, nella stagione degli accoppiamenti» disse Crake, «fa più rumore che può. Le femmine sono attratte dal maschio con la voce più grossa e profonda, perché fa pensare a un esemplare più forte, con geni di qualità superiore. È stato do¬cumentato come i maschi di rana piccoli scoprono che, se si in¬filano nei tubi di scarico vuoti, questi fanno da amplificatori alla loro voce, facendoli sembrare più grandi di quanto non siano in realtà».
«E allora?»
«E allora ecco cos'è l'arte, per l'artista» disse Crake. «Un tubo di scarico vuoto. Un amplificatore. Un tentativo di scopare».
«La tua analogia fa cilecca nel caso delle artiste femmine» dis¬se Jimmy. «Loro non lo fanno per scopare. Non otterrebbero al¬cun vantaggio biologico dall'amplificare se stesse, dal momento che i potenziali partner sarebbero scoraggiati piuttosto che at¬tratti da quel tipo di amplificazione. Gli uomini non sono rane, non vogliono donne dieci volte più grosse di loro».
«Le artiste femmine sono biologicamente confuse» disse Crake. «Dovresti averlo scoperto, ormai». Era un'allusione ma¬ligna all'ingarbugliata storia del momento di Jimmy con una poetessa, una brunetta che si era ribattezzata Morgana e si rifiu¬tava di rivelargli il suo vero nome, e che attualmente stava fa¬cendo un digiuno sessuale di ventotto giorni in onore della Grande dea della luna Ostara, protettrice della soia e dei coni¬glietti pasquali. La Martha Graham attirava quel tipo di ragaz¬ze. Confidare la sua relazione a Crake, però, era stato un errore.
Povera Morgana, pensa Uomo delle Nevi. Mi domando cosa le sia successo. Non saprà mai quanto mi è stata utile, con le sue stupidaggini. Si sente un po' meschino ad avere spacciato ai Craker per cosmogonia le sciocchezze di Morgana. Ma a quan¬to pare li rendono piuttosto felici.

Uomo delle Nevi si appoggia a un albero e ascolta i rumori poco distanti. Il mio amore è come una rosa blu, blu. La luna è spun¬tata, il raccolto splende. Così, ora Crake ha ottenuto il suo scopo. Urrà per lui. Non c'è più gelosia, niente più mariti che mas¬sacrano la moglie, niente più mogli che avvelenano il marito. È tutto meravigliosamente garbato: le persone non si danno spin¬te e urtoni, sembrano piuttosto dei che saltellano in compagnia di ninfe compiacenti su un fregio greco dell'età dell'oro.
Allora perché si sente così abbattuto, così abbandonato? For¬se perché non capisce quel tipo di comportamento? Perché è al di là della sua comprensione? Perché non può unirsi a loro?
E cosa accadrebbe, se ci provasse? Se spuntasse fuori dai ce¬spugli con il suo sudicio lenzuolo stracciato, puzzolente, peloso, gonfio, lascivo come un satiro con gli zoccoli e le palle di capra, o come il bucaniere con la benda sull'occhio di un vecchio film di pirati - Aarr, miei gagliardi! - e provasse a unirsi alla zuffa amorosa dai sederi blu? Può immaginare lo sgomento, come se un orangutan facesse irruzione in un valzer ufficiale e comin¬ciasse a palpare una principessa dagli abiti di uno sfavillante color pastello. Può immaginare anche il proprio, di sgomento. Che diritto ha di imporre il proprio io e la propria anima pustolosi e ulcerati a queste creature innocenti?
«Crake!» piagnucola. «Perché sono su questa terra? Come mai sono solo? Dov'è la mia moglie di Frankenstein?»
Ha bisogno di liberarsi del suo nastro pilota, di fuggire da quella scena scoraggiante. Oh tesoro, sussurra una voce di don¬na, Stai allegro! Guarda il lato buono delle cose! Devi pensare po¬sitivo!
Continua a camminare risolutamente, borbottando tra sé e sé. La foresta assorbe la sua voce, le parole gli vengono fuori in una fila di bolle senza colore e senza suono, come aria dalla bocca di chi annega. Le risate e i canti si affievoliscono alle sue spalle. Ben presto non può più sentirli.

8

GnamGnam

Jimmy e Crake si diplomarono alle superiori della HelthWyzer in una giornata calda e umida di inizio febbraio. Prima, la ceri¬monia aveva luogo a giugno; allora il tempo era sempre soleg¬giato e mite. Ma ormai su tutta la costa orientale giugno corri¬spondeva alla stagione piovosa, e in quel periodo, con i tempo¬rali, sarebbe stato impossibile tenere una manifestazione all'a¬perto. Perfino ai primi di febbraio era rischioso: avevano evita¬to un tornado per un solo giorno.
Alle superiori della HelthWyzer piaceva fare le cose alla vec¬chia maniera, con tende e padiglioni, le madri in cappelli ornati di fiori e i padri in panama, il punch al gusto di frutta, con o sen¬za alcol, il caffè Happicuppa, e le coppette di plastica di gelato GnamGnam, un marchio registrato della HelthWyzer, con soia al cioccolato, soia al mango e soia al tè verde di tarassaco tosta¬to. Era una scena festosa.
Crake era il primo della classe. Gli Edurecinti rivali se lo di¬sputarono accanitamente all'Asta degli studenti, e alla fine se lo accaparrò per un'alta cifra l'Istituto Watson-Crick. Chi studiava lì aveva il futuro assicurato. Era come una volta andare a Harvard, prima che venisse sommersa dalle acque.
Dal canto suo, Jimmy era uno studente mediocre, con votazioni ottime per quanto riguardava le parole ma modeste nelle colonne dei numeri. Per di più i deprimenti voti in matematica erano stati ottenuti grazie all'aiuto di Crake, che gli aveva dato lezioni duran¬te i week-end, rubando tempo alla propria preparazione. Non che avesse bisogno di grandi sgobbate, era una sorta di mutante, pote¬va sfornare equazioni differenziali mentre dormiva.
«Perché lo fai?» domandò Jimmy nel bel mezzo di una ses¬sione esasperante. (Devi guardare le cose in maniera diversa. Devi coglierne le bellezza. È come gli scacchi. Ecco, prova così. Vedi? Hai capito il meccanismo? Ora diventa tutto chiaro. Ma Jimmy non capiva, e non diventò affatto tutto chiaro). «Perché mi aiu¬ti?»
«Perché sono un sadico» rispose Crake. «Mi piace vederti soffrire».
«In ogni modo, lo apprezzo» disse Jimmy. E lo apprezzava davvero, per svariate ragioni, la prima delle quali era che, essen¬do noto che Crake gli dava lezioni, suo padre non aveva motivo di brontolare.
Se Jimmy avesse frequentato la scuola di un Modulo, o - me¬glio ancora - uno di quei bidoni dell'immondizia a cui si dava ancora il nome di «sistema pubblico», avrebbe brillato come un diamante in una fogna. Ma le scuole dei Recinti pullulavano di quei cromosomi geniali che lui non aveva minimamente eredita¬to dai genitori secchioni e imbottiti di assurdità, perciò il suo ta¬lento rimpiccioliva al confronto. Né gli venivano dati punti in più per essere divertente. Adesso, comunque, lo era di meno: aveva perso interesse per il grande pubblico.
Dopo un'attesa umiliante durante la quale i cervelloni veni¬vano contesi dai migliori Edurecinti e le pagelle dei mediocri venivano rigirate, scorse rapidamente, sporcate di caffè e fatte cadere a terra per sbaglio, alla fine fu l'Accademia Martha Graham ad aggiudicarsi Jimmy; e anche quello solo dopo una lunga trafila di noiose aste. Senza contare qualche pressione - sospettava Jimmy - da parte di suo padre, che aveva conosciuto il rettore della Martha Graham in un campo estivo perso nella notte dei tempi ed era probabilmente al corrente dei suoi altari¬ni. Che si scopava i ragazzi più piccoli, o trafficava in farmaci al mercato nero. Questo almeno era il sospetto di Jimmy, conside¬rata la mala grazia e l'eccessiva forza con cui gli venne stretta la mano.
«Benvenuto alla Martha Graham, figliolo» disse il rettore con un sorriso falso come quello di un venditore di integratori vita¬minici.
Quando smetterò di essere un figliolo? pensò Jimmy.
Non ancora. No, non ancora. «Bravo, Jimmy» disse poi suo padre al garden-party, assestandogli un pugno sul braccio. Aveva una macchia appiccicosa di soia al cioccolato sulla cravatta da secchione, con un motivo di maiali alati. Tutto, ma non abbrac¬ciarmi, pregò Jimmy.
«Tesoro, siamo così fieri di te» disse Ramona, che era venuta addobbata come il paralume di una puttana, con una profonda scollatura e fronzoli rosa. Una volta Jimmy aveva visto qualcosa del genere su PupeBollenti, ma indosso a una bambina di otto anni. La parte superiore dei seni di Ramona nel reggipetto push-up era ricoperta di lentiggini per il troppo sole, non che a Jimmy interessassero più molto. Ormai la tettonica dei dispositivi di so¬stegno a sbalzo delle ghiandole mammarie gli era familiare, e co¬munque trovava repellente il nuovo aspetto matronale di Ramo¬na. Nonostante le iniezioni di collagene le stavano venendo pic¬cole grinze ai lati della bocca; il suo orologio biologico ticchet¬tava, come le piaceva far osservare. Ben presto le sarebbe tocca¬to il trattamento BeauToxique della NooSkins - Paralizzate le rughe in eterno! Dipendenti metà prezzo - e poi, diciamo dopo cinque anni, il Tuffo nella fontana della giovinezza assoluta, che ti raspava via tutta l'epidermide. Lo baciò accanto al naso, la¬sciandoci una traccia di rossetto rosso ciliegia; se lo sentiva sul¬la guancia come grasso di bicicletta.
Era autorizzata a dire noi e a baciarlo, perché adesso era la sua matrigna ufficiale. Suo padre aveva divorziato dalla sua vera madre in absentia, per «abbandono del tetto coniugale», e il suo matrimonio fasullo era stato celebrato, per così dire, poco dopo. Non che alla sua vera madre potesse importare un ano di vombato, pensò Jimmy. Se ne sarebbe infischiata. Era lontana, tutta presa dalle sue avventure all'avanguardia, distante dai dolorosi festeggiamenti. Non riceveva una sua cartolina da mesi; l'ultima, che raffigurava un varano di Comodo e portava un francobollo malaysiano, aveva causato un'altra visita dal CorpSeCorps.
Al matrimonio Jimmy si ubriacò quel tanto che ci voleva. Si appoggiò a un muro e sorrise stupidamente, mentre la coppia felice tagliava la torta zuccherina, «Tutti ingredienti genuini», come aveva fatto sapere Ramona. Un sacco di chiacchiere sulle uova fresche. Ora da un momento all'altro Ramona avrebbe programmato un bambino, un bambino più riuscito di quanto nessuno avesse mai trovato Jimmy.
«Che importa, che importa» aveva mormorato a se stesso. Comunque fosse, non voleva avere un padre, o essere un padre, oppure avere un figlio o esserlo. Voleva essere se stesso, solo, unico, autocreato e autosufficiente. D'ora in poi sarebbe stato li¬bero da vincoli, facendo tutto ciò che gli piaceva, staccando globi di vita matura dagli alberi della vita, dando un morso o due, bevendo il succo e gettando via le bucce.
Fu Crake a riportarlo nella sua stanza. A quel punto aveva la luna storta ed era a malapena in grado di camminare. «Dormici su» disse Crake nel suo solito tono cordiale. «Ti chiamo domat¬tina».

E dunque ecco Crake al garden-party per il diploma, eccolo che spiccava tra la folla, raggiante per il risultato conseguito. No, non è vero, si corregge Uomo delle Nevi. Bisogna rendergli atto almeno di questo. Non era mai stato un trionfalista.
«Congratulazioni» si costrinse a dire Jimmy. Era più facile, perché era l'unico della compagnia ad aver conosciuto bene Crake per un certo periodo di tempo. Lo zio Pete era presente, ma non contava. E poi, stava il più possibile lontano da Crake. Forse aveva finalmente capito chi aveva fatto lievitare il suo con¬to su Internet. Quanto alla madre di Crake, era morta il mese prima.
Era stato un incidente, o almeno così si diceva. (A nessuno piaceva pronunciare la parola sabotaggio, che notoriamente nuoceva agli affari). Doveva essersi tagliata all'ospedale - seb¬bene, disse Crake, il suo lavoro non prevedesse bisturi - op¬pure si era graffiata, o forse era stata imprudente, si era tolta i guanti di lattice ed era stata toccata in un punto di carne viva da un paziente portatore. Era possibile: si mangiava le unghie, poteva avere ciò che chiamavano un punto d'accesso tegumen¬tale. In ogni caso, si era presa una bioforma virulenta che l'a¬veva fatta a pezzi come una falciatrice solare. Era uno stafilo¬cocco transgenico, disse un tecnico di laboratorio, mescolato all'astuto gene di una famiglia di mucillagini; ma ora che lo ave¬vano isolato e avevano iniziato quella che si auguravano sareb¬be stata una terapia efficace, lei era già in isolamento e si de¬componeva alla svelta. Crake non poteva entrare a trovarla, na-turalmente - non era permesso a nessuno, là dentro tutto ve¬niva eseguito con braccia robot, come nelle procedure con i materiali nucleari - ma poteva vederla attraverso la finestra di osservazione.
«Faceva effetto» disse Crake a Jimmy. «Veniva fuori schiuma».
«Schiuma?»
«Non hai mai messo del sale su una lumaca?»
Jimmy rispose di no.
«Allora come quando ti lavi i denti».
La madre avrebbe dovuto essere in grado di dirgli le sue ulti¬me parole attraverso un microfono, raccontò Crake, ma c'era stato un guasto digitale; perciò, pur vedendo le sue labbra muo¬versi, non aveva sentito quello che diceva. «In pratica, come nel¬la vita di tutti i giorni» commentò Crake. Aggiunse che in ogni caso non si era perso granché, perché in quello stadio ormai la madre farneticava.
Jimmy non capiva come facesse a mostrarsi così apatico; era terribile, il pensiero di Crake che guardava la madre che si dis¬solveva a quel modo. Lui non ce l'avrebbe fatta. Ma probabil¬mente era tutta scena. Crake cercava di salvaguardare la propria dignità, perché l'alternativa sarebbe stata perderla.

Happicuppa

Dopo il diploma Jimmy fu invitato a passare la villeggiatura nel Centro vacanze recintato della Moosonee HelthWyzer, sulla riva occidentale della baia di Hudson, dove i pezzi grossi della HelthWyzer andavano per sfuggire al caldo. Lo zio Pete aveva là un «bel posticino», come lo chiamava. In realtà si trattava del¬la combinazione tra un mausoleo e un rifugio per week-end ex¬traconiugali - pareti di pietra, letti king-size regolabili elettrica¬mente, bidet in ogni bagno - anche se era difficile immaginare lo zio Pete che architettava qualcosa di molto interessante là dentro. Jimmy era stato invitato, ne era quasi certo, per far sì che lo zio Pete non dovesse stare solo con Crake. Passava quasi tut¬to il tempo sul campo di golf e il resto nell'idromassaggio, così i due ragazzi erano liberi di fare quello che volevano
Probabilmente sarebbero tornati ai loro giochi interattivi, alla violenza e alla pornografia sponsorizzati dallo stato, per ri¬lassarsi dopo gli esami finali, ma era l'estate in cui erano scop¬piate le guerre del caffè geneticamente modificato, perciò se¬guivano quelle. La causa delle guerre era il nuovo chicco Happicuppa, elaborato da un'affiliata della HelthWyzer. Fino ad allora i singoli chicchi di caffè di ogni cespuglio erano matura¬ti in tempi diversi e si era dovuto raccoglierli a mano, lavorarli e spedirli in piccole quantità, ma il cespuglio di Happicuppa era progettato in modo che tutti i suoi chicchi maturassero si¬multaneamente: il caffè, cresciuto in enormi piantagioni, sa¬rebbe stato raccolto da macchine. Questo eliminava dal mer¬cato i piccoli coltivatori, riducendo alla fame sia i padroni che i braccianti.
Il movimento di resistenza fu globale. Scoppiarono sommos¬se, vennero bruciati raccolti, furono saccheggiati i caffè Happi¬cuppa, i dipendenti della compagnia si ritrovarono bombe sulle auto, o vennero rapiti, o divennero bersaglio di cecchini, o fu¬rono picchiati a morte da bande di teppisti; dall'altra parte, i contadini furono massacrati dall'esercito. O dagli eserciti, sva¬riati eserciti; era coinvolto un certo numero di paesi. Ma i sol¬dati e i contadini morti sembravano più o meno identici, ovunque fossero. Erano impolverati. Era straordinario quanta polve¬re si alzasse nel corso di simili avvenimenti.
«Quei tizi andrebbero picchiati» diceva Crake.
«Quali? I contadini? O quelli che li uccidono?»
«Quelli che li uccidono. Non tanto per i contadini morti, che ci sono sempre stati, ma perché per piantare quella roba stanno distruggendo le foreste tropicali».
«Anche i contadini lo farebbero, se solo ne avessero la possi¬bilità».
«Certo, ma non ce l'hanno».
«Prendi posizione?»
«Qui non ci sono posizioni nel vero senso della parola».
A questo non c'era granché da ribattere. Jimmy pensò di gri¬dare impostura, ma decise che forse non era l'espressione adat¬ta. In ogni caso, avevano smesso di usare quel termine. «Cambiamo canale» disse.
Ma a quanto pare, ovunque ci si sintonizzasse, c'era un servi¬zio su Happicuppa. C'erano proteste e manifestazioni, con lacrimogeni, sparatorie e manganellate; e poi altre proteste, altre manifestazioni, altri lacrimogeni, altre sparatorie, altre manga¬nellate. Questo un giorno dopo l'altro. Non c'era stato nulla di simile dal primo decennio del secolo. Crake disse che era storia in fieri.
NON BEVETE MORTE! dicevano i manifesti. I lavoratori dei docks aderenti ai sindacati in Australia, dove c'erano ancora i sindacati, si rifiutarono di scaricare i cargo della Happicuppa; negli Stati Uniti spuntò un Partito bostoniano del caffè. Venne organizzato un evento mediatico, noioso perché non ci fu vio¬lenza, ma solo tizi stempiati con tatuaggi fuori moda o macchie bianche dov'erano stati tolti, e severe donne dalle tette flosce, e parecchi membri di zelanti gruppi religiosi smilzi o sovrap¬peso, in T-shirt con angeli sorridenti che volavano con gli uc¬celli o Gesù che stringeva le mani di un contadino o ancora Dio è verde. Furono ripresi mentre gettavano nel porto i pro¬dotti della Hippacuppa, ma nessuna delle scatole affondò. Per¬ciò sullo schermo si vide ballonzolare qua e là il marchio Hap¬picuppa in un'infinità di esemplari. Poteva essere uno spot pubblicitario.
«Mi fa venire sete» disse Jimmy.
«Stronzi» disse Crake. «Si sono dimenticati di metterci i sassi».

Di regola seguivano lo svolgersi degli avvenimenti su NudiNews su Internet, ma a volte, per cambiare, guardavano gli annuncia¬tori vestiti di tutto punto sullo schermo al plasma che occupava l'intera parete della sala tv dello zio Pete, rivestita in similpelle. Gli abiti, le camicie e le cravatte sembravano bizzarri a Jimmy, soprattutto se era un po' sbronzo. Era strano immaginare che aspetto avrebbero avuto quei mezzibusti seriosi senza i loro ve¬stiti alla moda, in nudo frontale su NudiNews.
A volte anche lo zio Pete guardava le notizie, la sera, quando tornava dal campo di golf. Si versava da bere, poi faceva la cro¬naca in diretta. «Il solito chiasso» diceva. «Si stancheranno, si calmeranno. Un caffè più economico sta bene a tutti, c'è poco da fare».
«Certo, certo» diceva Crake in tono consenziente. Lo zio Pete aveva nel suo portafoglio un pacchetto di azioni della Happi¬cuppa, neppure troppo esiguo. «Quanta grazia» diceva Crake mentre esaminava le proprietà dello zio Pete sul suo computer.
«Potresti scambiare questa roba» diceva Jimmy. «Vendi le Happicuppa, compra qualcosa che detesta veramente. Compra energia eolica. No, meglio ancora: un bidone. Procuragli dei fu¬tures sul bestiame sud-americano».
«Noo» disse Crake. «Non posso rischiare una cosa del gene¬re con un labirinto. Se ne accorgerebbe. Scoprirebbe che mi sono intrufolato».

Le cose si aggravarono dopo che una cellula di fanatici anti-Happicuppa impazziti misero una bomba al Lincoln Memorial, uccidendo cinque scolari giapponesi in visita nell'ambito di un Tour nella democrazia. Basta con l'ipocrissia, recitava un bigliet¬to lasciato a distanza di sicurezza.
«Sono patetici» disse Jimmy. «Non sanno nemmeno scrive¬re».
«Però si sono fatti sentire» disse Crake.
«Spero che finiscano sulla sedia elettrica» disse lo zio Pete.
Jimmy non replicò, perché adesso stavano assistendo all'asse¬dio al quartier generale della Happicuppa nel Maryland. Là, tra la folla urlante, stringendo un cartello con la scritta UNA HAPPICUP È UNA TAZZA DI MERDA, con una gran bandana sul naso e sul¬la bocca, c'era - o non era lei? - sua madre, la scomparsa. Per un attimo la bandana scivolò giù e Jimmy la vide chiaramente - le sopracciglia aggrottate, gli schietti occhi azzurri, la bocca de¬terminata. Fu attraversato da un'ondata di amore repentino e doloroso, subito seguito da rabbia. Era come venire preso a cal¬ci: dovette rimanere senza fiato. Poi ci fu una carica della Sicu¬rezza, una nuvola di gas lacrimogeno e un pizzico di quelli che sembrarono colpi di arma da fuoco, e quando Jimmy guardò di nuovo, sua madre era scomparsa.
«Blocca l'immagine!» disse. «Torna indietro!» Voleva essere sicuro. Come poteva correre un simile rischio? Se l'avessero pre¬sa sarebbe scomparsa sul serio, questa volta per sempre. Ma dopo avergli lanciato una rapida occhiata, Crake aveva già cam¬biato canale.
Non avrei dovuto aprire bocca, pensò Jimmy. Non avrei do¬vuto attirare l'attenzione. Adesso era gelato dalla paura. E se lo zio Pete avesse fatto due più due e avesse chiamato gli uomini del CorpSeCorps? Si sarebbero messi subito sulle sue tracce, per lei sarebbe finita.
Ma lo zio Pete non sembrò farci caso. Si stava versando un altro scotch. «Dovrebbero sparare a tutto il gruppo con le pistole spray» disse. «Dopo aver fracassato quelle videocamere. E co¬munque, chi ha ripreso la sequenza? A volte viene da doman¬darsi chi è che comanda».
«Allora, di cosa si trattava?» domandò Crake quando furono soli.
«Niente» rispose Jimmy.
«L'ho bloccata» disse Crake. «Ho l'intera sequenza».
«Secondo me faresti meglio a cancellarla» ribatté Jimmy. Su¬perato lo spavento, era scivolato nella depressione più totale. Si¬curamente in quel momento lo zio Pete stava accendendo il cel¬lulare e premendo i tasti; solo poche ore, e sarebbero ricomin¬ciati gli interrogatori del CorpSeCorps. Sua madre qui, sua ma¬dre là. Gli sarebbe toccato passarci di nuovo.
«È tutto a posto» disse Crake, e Jimmy interpretò come: Puoi fidarti di me. Poi aggiunse: «Fammi indovinare. Tipo cordata, classe vertebrata, ordine mammalia, famiglia primati, genere homo, specie sapiens sapiens, sottospecie tua madre».
«Molto bravo» fece Jimmy in tono abulico.
«Sai che sforzo» disse Crake. «L'ho individuata subito, con quegli occhi azzurri. Era lei o un clone».
Se Crake l'aveva riconosciuta, chi altri poteva averlo fatto? Senza dubbio erano state mostrate foto a tutti gli abitanti del Re¬cinto HelthWyzer: Avete visto questa donna? La storia di sua madre e della sua personalità deviante aveva seguito Jimmy come un cane indesiderato, e probabilmente era responsabile a metà della sua misera prova all'Asta degli studenti. Lui non era affidabile, era un rischio per la sicurezza, aveva una macchia.
«Mio padre era come lei» annunciò Crake. «Anche lui si è le¬vato dalle palle».
«Pensavo che fosse morto» disse Jimmy. Era il massimo che era riuscito a cavare dall'amico prima di allora: mio padre è morto, punto, cambiamo discorso. Era una cosa di cui Crake non parlava volentieri.
«Esatto. Cadde dal cavalcavia di una plebopoli. Era l'ora di punta, perciò quando lo raggiunsero era cibo per gatti».
«Si buttò, o cosa?» domandò Jimmy. Crake non sembrava troppo turbato, perciò gli sembrò di poterlo domandare.
«Questa era l'opinione generale» disse Crake. «Era uno dei ricercatori più importanti di HelthWyzer West, perciò gli fece¬ro un funerale davvero bello. Furono tutti incredibilmente di¬screti. Nessuno pronunciò la parola suicidio. Lo chiamavano 'l'incidente di tuo padre'».
«Mi dispiace» disse Jimmy.
«Lo zio Pete era sempre a casa nostra. Secondo mia madre era di grande aiuto». Crake disse di grande aiuto come se fosse una citazione. «Secondo lei, oltre a essere il capo di mio padre e il suo migliore amico, si stava rivelando un ottimo amico di fa¬miglia, anche se prima non l'avevo mai visto troppo in giro. Continuava a provare a fare queste chiacchierate a cuore aperto con me, a raccontarmi di come mio padre avesse problemi».
«Intendendo che tuo padre era fuori di testa» disse Jimmy.
Crake lo guardò con i suoi occhi verdi a mandorla. «Già. Ma non lo era. Ultimamente sembrava preoccupato, ma non aveva problemi. Non aveva in mente niente del genere. Niente a che vedere col buttarsi di sotto. L'avrei saputo».
«Pensi che magari è caduto?»
«Caduto?»
«Dal cavalcavia». Jimmy voleva domandare cosa ci faceva pri¬ma di tutto sul cavalcavia di una plebopoli, ma non gli sembrò il momento giusto. «C'era una ringhiera?»
«Era un po' scoordinato» disse Crake con un sorriso strano. «Non sempre guardava dove stava andando. Aveva la testa tra le nuvole. Credeva di contribuire al miglioramento del destino umano».
«Ci andavi d'accordo?»
Crake rimase un istante in silenzio. «Mi insegnò a giocare a scacchi. Prima che succedesse».
«Be', non dopo, suppongo» disse Jimmy, cercando di buttar¬la sullo scherzo, perché a quel punto era dispiaciuto per Crake, e la cosa non gli andava affatto a genio.

Come ho fatto a non capire?, pensa Uomo delle Nevi. Quello che mi stava dicendo. Come ho potuto essere così stupido?
No, non stupido. Non riesce a descriversi, com'era. Non era privo di segni: gli avvenimenti lo avevano segnato, aveva le sue cicatrici, i suoi sentimenti oscuri. Ignorante, forse. Non comple¬tamente sviluppato, in embrione.
C'era stato qualcosa di voluto, però, in quella sua ignoranza. O non esattamente voluto: strutturato. Era cresciuto in spazi circondati da mura, e poi era diventato anche lui uno spazio cir¬coscritto. Aveva chiuso fuori le cose.

Retorica applicata

Alla fine delle vacanze, Crake andò al Watson-Crick e Jimmy alla Martha Graham. Si strinsero la mano alla stazione del treno lampo.
«Ci vediamo» disse Jimmy.
«Ci mandiamo dei messaggi» disse Crake. Poi, notando l'av¬vilimento dell'amico, aggiunse: «Avanti, sei cascato bene, è un posto famoso».
«Lo era».
«Non sarà poi così male».
Una volta tanto, Crake si sbagliava. La Martha Graham stava cadendo a pezzi. Era circondata - osservò Jimmy mentre il tre¬no entrava in stazione - dal genere più fatiscente di plebopoli: magazzini in abbandono, caseggiati bruciati, parcheggi deserti. Qua e là c'erano baracche e capanne messe insieme con mate¬riali rimediati - lamine di latta, fogli di compensato - e abitate senza dubbio da abusivi. Come viveva quella gente? Jimmy non ne aveva idea. Eppure eccoli là, dall'altra parte del filo spinato. Un paio di loro sollevarono il dito medio verso il treno, grida¬rono qualcosa che il vetro antiproiettile non lasciò passare.
La sorveglianza all'ingresso della Martha Graham era uno scherzo. Le guardie erano mezzo addormentate, le mura - com¬pletamente scarabocchiate di graffiti scoloriti - avrebbero potu¬to essere scalate da un nano con una gamba sola. Al loro inter¬no, gli edifici di cemento che scopiazzavano Bilbao facevano ac¬qua, i prati erano coperti di fango, indurito o liquido a seconda della stagione, e non c'erano impianti ricreativi, a parte una pi¬scina con l'aspetto e la puzza di una gigantesca scatola di sardi¬ne. Metà del tempo l'impianto di aria condizionata nelle case degli studenti non funzionava; quanto alla fornitura elettrica, c'erano continui cali di tensione; il cibo delle mense era per lo più marroncino e ricordava la cacca di moffone. Le camere era¬no invase da artropodi di varie famiglie e generi, ma per buona metà erano scarafaggi. Jimmy trovò il luogo deprimente, come - a quanto pareva - chiunque là fosse dotato di una capacità neurale maggiore di quella di un tulipano. Ma quelle erano le carte che la vita gli aveva riservato, come aveva detto suo padre du¬rante il loro imbarazzato congedo, e adesso Jimmy non aveva che da giocarle come meglio poteva.
Giusto, papà, aveva pensato Jimmy. Ho sempre saputo di po¬ter contare su di te per un consiglio davvero saggio.

L'Accademia Martha Graham prendeva nome da una vecchia dea sanguinaria della danza del ventesimo secolo, che a quanto pare aveva fatto scalpore ai suoi tempi. Di fronte all'edificio del¬l'amministrazione c'era una sua orribile statua nel ruolo - dice¬va la targa di bronzo - di Giuditta che tagliava la testa a un tizio in costume storico di nome Oloferne. Vecchie merdate femmi¬niste, era l'opinione comune tra gli studenti. Ogni tanto la sta¬tua si ritrovava con le tette decorate e della lana d'acciaio incol¬lata sulla regione pubica - lo stesso Jimmy aveva partecipato a qualche incollaggio - e la manutenzione era così comatosa che spesso gli ornamenti rimanevano là mesi prima di essere notati. I genitori avevano sempre qualcosa da ridire su quella scultura - un modello di comportamento scadente, sostenevano, troppo aggressivo, troppo assetato di sangue, bla bla - mentre gli stu¬denti facevano quadrato in sua difesa. La vecchia Martha era la loro mascotte, dicevano, con il cipiglio, la testa grondante e tut¬to il resto. Rappresentava la vita, o l'arte, o qualcos'altro. Giù le mani da Martha. Lasciatela stare.
L'Accademia era stata fondata nell'ultimo terzo del ventesimo secolo da un gruppo di ricchi liberali dal cuore tenero di Old New York, ormai defunti doveva essere un college per gli studi umanistici e artistici, con una particolare enfasi sullo spettacolo: recitazione, canto, danza e così via. A questo negli anni Ottanta si era aggiunta la cinematografia, e poi le arti video. Quelle ma¬terie venivano ancora insegnate alla Martha Graham perché si mettevano ancora in scena opere teatrali, e fu là che Jimmy vide Macbeth dal vivo e rifletté che nel suo sito Web per voyeur Anna K. seduta sul water aveva dato un'interpretazione più convin¬cente di Lady Macbeth.
Gli studenti di canto e danza continuavano a cantare e dan¬zare, sebbene l'energia fosse defluita da queste attività e le clas¬si fossero molto ridotte. Le rappresentazioni dal vivo avevano sofferto del panico da sabotaggio dell'inizio del ventunesimo se¬colo, decenni in cui nessuno voleva più partecipare a un evento pubblico all'interno di uno spazio chiuso e affollato, buio e fa¬cilmente distruggibile, quanto meno nessuno che avesse un mi¬nimo di charme e di status. Gli spettacoli teatrali avevano finito per assomigliare ai karaoke, ai bombardamenti di pomodori o ai conorsi di bellezza tra ragazze in T-shirt bagnate. E sebbene al¬cune delle forme più vecchie fossero faticosamente sopravvissu¬te - le sit-com, i video musicali - il loro pubblico era anziano e l'interesse nei loro confronti per lo più nostalgico.
Perciò molto di quanto aveva luogo alla Martha Graham as¬somigliava al latino o alla legatura: a loro modo piacevoli da contemplare, ma ormai marginali, sebbene di tanto in tanto il rettore del college ne parlasse in una soporifera conferenza sul¬le arti vitali dove immancabilmente riservava loro un ruolo cen¬trale nel grande anfiteatro del palpitante cuore umano.
Quanto alla Cinematografia e alle Arti video, a chi servivano? Chiunque avesse un computer poteva inventarsi qulasiasi cosa, o manipolare digitalmente vecchio materiale, o creare una nuo¬va animazione. Si poteva scaricare una delle trame fondamenta¬li e aggiungere un volto o un corpo a piacimento. Jimmy stesso aveva messo insieme un Orgoglio e pregiudizio e un Al faro sen¬za veli, tanto per ridere, e al secondo anno di arti Visuali alla HelthWyzer aveva fatto Il falcone maltese con i costumi di Kate Greenaway e profondità e ombre nello stile di Rembrandt. Era stato bello. Tonalità cupe, un gran chiaroscuro.
Con questo tipo di logoramento in atto - questa erosione del suo precedente territorio intellettuale - la Martha Graham si era ritrovata priva di un piano di studi convincente. Via via che i fondatori erano morti, l'entusiasmo del destinare denaro alla pseudo-arte era scemato e il talento era stato cercato in fonti più concrete, l'enfasi curricolare era passata ad altre arene. Arene contemporanee, erano chiamate. Dinamica dei Webgame, ad esempio; quello poteva ancora fruttare denaro. Oppure Presen¬tazione delle immagini, elencata nel calendario come una sottobranca delle arti pittoriche e plastiche. Con una laurea in Arpipla, come le chiamavano gli studenti, si poteva entrare in pub¬blicità senza il minimo sforzo.
O Problematiche. Problematiche era la materia giusta per chi aveva dimestichezza con le parole, dunque Jimmy la scelse. Aria fritta, la chiamavano gli studenti. Come ogni cosa alla Martha Graham, aveva fini pratici. I nostri studenti si laureano con com¬petenze che offrono sbocchi, recitava il motto sotto quello origi¬nale latino, Ars longa vita brevis.

Jimmy si faceva poche illusioni. Sapeva che tipo di strade gli si sarebbero aperte una volta riemerso da problematiche con la sua ridicola laurea. Al massimo avrebbe fatto il vetrinista, e de¬corato il freddo, duro mondo numerico in un chiassoso lin¬guaggio bidimensionale. A seconda di quanto fosse riuscito bene nei vari corsi - Logica applicata, Retorica applicata, Etica e Terminologia medica, Semantica applicata, Relativistica e Miscaratterizzazione avanzata, Psicologia culturale comparativa, eccetera - avrebbe potuto scegliere tra un lavoro di vetrinista ben retribuito per una grossa società o un impiego insignifican¬te e sottopagato in un'azienda che sopravviveva a fatica. La pro¬spettiva della sua vita futura gli si apriva davanti come una con¬danna; non una condanna alla prigione, ma una prolissa con¬danna con un sacco di inutili clausole subordinate, come prese ben presto l'abitudine di dire durante le happy hour dei bar e dei pub del campus. Non si poteva dire che l'aspettasse con an¬sia, questo resto-della-sua-vita.
Ciò nonostante si buttò a capofitto nella Martha Graham, e la¬vorò sodo fino alla laurea. Divideva un appartamentino alla casa dello studente - due stanzette sacrificate ai lati, un bagno pieno di pesciolini d'argento al centro - con una vegana fondamentalista di nome Bernice, che aveva capelli come spago tenuti indietro da un fermaglio di legno a forma di tucano e indossava una serie di T-shirt dei Giardinieri di Dio che, per via della sua avversione nei confronti dei composti chimici come i deodoranti ascellari, puzzavano perfino quando erano lavate di fresco.
Bernice gli fece capire quanto disapprovava le sue abitudini carnivore sequestrandogli i sandali di cuoio e incenerendoli sul prato. Quando Jimmy protestò, spiegando che non erano di vero cuoio, ribatté che fingevano di esserlo e perciò meritavano il loro destino. Dopo che ebbe portato alcune ragazze nella sua stanza - non erano affari di Bernice, e comunque erano state abbastanza discrete, a parte qualche risolino di origine farma¬ceutica e molti comprensibili mugolii - lei manifestò le sue opi¬nioni sul sesso consensuale facendo un falò dei boxer di Jimmy.
Si era lamentato presso il Servizio studentesco, il cui perso¬nale era notoriamente irritabile, visto che era composto da atto¬ri di serie tv spompati, che non riuscivano a perdonare al mon¬do la loro caduta in disgrazia dopo una ben misera fama. Dopo qualche tentativo riuscì a farsi spostare in una stanza singola. (Prima i sandali, poi la biancheria intima. La prossima volta toc¬cherà a me. Quella è una piromane, anzi è profondamente distur¬bata. Volete vedere la prova concreta dell'auto-da-fè dei reggipalle? Guardate in questa bustina. Se la prossima volta vedrete me in un'urna, ceneri granulose, un paio di denti, vi assumerete voi la responsabilità? Ehi, qui io sono lo studente e voi il Servizio. Ecco, bianco su nero sulla carta intestata, vedete? L'ho spedito via e-mail al rettore).
(Questo non è ciò che disse davvero, ovviamente. Era troppo intelligente per farlo. Sorrise, si presentò come un essere umano ragionevole, si conquistò la loro simpatia).
Poi, dopo avere ottenuto la nuova stanza, le cose andarono meglio. Almeno era libero di condurre la sua vita sociale indi¬sturbato. Aveva scoperto di esercitare una forma di attrazione malinconica su un certo tipo di donna, il tipo semi-artistico e ammantato di saggezza che abbondava alla Martha Graham. Donne generose, altruiste, piene di ideali, pensa adesso di loro Uomo delle Nevi. Con qualche cicatrice che cercavano di far ri¬marginare. All'inizio Jimmy le soccorreva: aveva il cuore tenero, gli era stato detto, ed era a dir poco cavalieresco. Tirava fuori le loro storie di sofferenza e si applicava a loro come un impiastro. Ma ben presto il processo si rovesciava, e Jimmy si trasformava da guaritore in malato. Le donne cominciavano ad accorgersi di quanto fosse a pezzi, volevano aiutarlo a conquistare un nuovo modo di vedere la vita e gli aspetti positivi della sua spiritualità. Lo consideravano un progetto molto stimolante: il materiale grezzo, Jimmy nell'attuale stato di depressione; il prodotto fini¬to, un Jimmy felice.
Jimmy le lasciava sgobbare. Le consolava, le faceva sentire utili. Era commovente, quello a cui si sottoponevano. Questo l'avrebbe reso felice? E quest'altro? E allora che dire di que¬st'altro ancora? Ma lui stava attento a non mostrarsi meno ma¬linconico per un periodo troppo lungo. In caso contrario si sa¬rebbero aspettate una qualche ricompensa, o almeno un risulta¬to; sarebbero passate a una fase successiva, poi avrebbero pre¬teso un pegno. Ma perché avrebbe dovuto essere tanto stupido da rinunciare alla seduzione grigia da giorno di pioggia - all'es¬senza crepuscolare, all'aureola nebbiosa - che era stata la prima cosa ad attirarle verso di lui?
«Sono una causa persa» diceva loro. «Sono emotivamente di¬slessico». Diceva anche che erano belle e che lo eccitavano. Era abbastanza vero, in questo non c'era falsità, lo pensava sul serio. Diceva anche che con lui qualsiasi investimento di un certo peso da parte loro sarebbe andato sprecato, che era una discarica emotiva, e che dovevano solo godersi il presente.
Prima o poi si lamentavano perché rifiutava di prendere le cose sul serio. E questo dopo avere cominciato col dire che ave¬va bisogno di prenderle più alla leggera. Quando la loro energia finalmente vacillava e cominciavano le lacrime, confessava loro di amarle. Stava attento a farlo in una voce disperata: essere amate da lui era una pillola di veleno, era spiritualmente tossico, le avrebbe trascinate nelle oscure profondità in cui lui stesso era imprigionato, ed era perché le amava così tanto che le voleva al sicuro, fuori della sua vita rovinosa. Alcune di loro mangiavano la foglia - Cresci, Jimmy! - ma nel complesso la cosa funzionava.
Era sempre triste quando levavano le tende. Non gli piaceva la parte in cui si infuriavano con lui, era infastidito dall'ira di qualsiasi donna, ma una volta che avevano perso le staffe sape¬va che era finita. Odiava essere scaricato, anche se aveva mano¬vrato lui stesso in tal senso. Ma di lì a poco sarebbe comparsa un'altra donna dotata di interessanti fragilità. Era un periodo di facile abbondanza.
Però non mentiva, non sempre. Amava davvero quelle donne, più o meno. Voleva davvero farle sentire migliori. Soltanto, non era capace di mantenere desta troppo a lungo l'attenzione.
«Manigoldo» dice ad alta voce Uomo delle Nevi. È una bella parola, manigoldo; un classico.

Naturalmente sapevano dello scandalo di sua madre, queste donne. I venti contrari soffiano lontano e trovano pronta accoglienza. Uomo delle Nevi si vergogna nel ricordare come aveva usato quella storia: un accenno qui, un'esitazione là. Presto alle donne veniva voglia di consolarlo, e lui si rotolava nella loro compassione, se ne impregnava, ci si massaggiava. Come un ci¬clo di cure termali completo.
Ormai sua madre aveva ottenuto lo status di essere mitico, qualcosa che trascendeva l'umano, con ali e occhi scuri che ar¬devano come la giustizia e una spada. Quando arrivava alla par¬te in cui gli aveva sottratto il moffone Killer, di solito riusciva a spremere una lacrima o due, non per se stesso, ma per il suo pubblico.
E tu cos'hai fatto? (Occhi spalancati, un solo colpetto della mano sul braccio, sguardo di solidarietà).
Oh, che vuoi. (Alzata di spalle, cambio di discorso).
Non era tutta scena.
Solo Oryx non era stata impressionata dalla sua terribile ma¬dre alata. E così, Jimmy, tua madre se n'è andata? Peccato. Forse aveva una buona ragione. Ci hai mai pensato? Oryx non aveva compassione né di lui né di se stessa. Non era insensibile: al con¬trario. Ma rifiutava di sentire quello che voleva farle sentire lui. Era quella l'insidia, che non riusciva mai ad avere da lei quello che le altre gli avevano elargito con tanta generosità? Era quel¬lo il suo segreto?

Asperger
Crake e Jimmy si tenevano in contatto via e-mail. Jimmy si la¬mentava della Martha Graham in quella che sperava fosse una maniera divertente, affibbiando aggettivi insoliti e sprezzanti a professori e compagni. Descriveva la dieta a base di botulismo riciclato e salmonella, mandava elenchi delle svariate creature dalle molte zampe che aveva trovato nella sua stanza, si lagnava della qualità scadente degli psicofarmaci in vendita nel tetro centro commerciale per studenti. Per autodifesa nascondeva il ginepraio della propria vita sessuale, se non per quelli che rite¬neva i minimi accenni indispensabili. (Queste pupe non sapran¬no contare fino a dieci, ma in fondo a che servono i numeri a let¬to? L'unico numero che devono sapere è quello del mio telefono, ah ah, scherzo,☺).
Non poteva fare a meno di vantarsi un po', perché - a giudi¬care da tutte le indicazioni finora ricevute - quello sembrava l'u¬nico campo di applicazione in cui aveva la meglio su Crake. Alla HelthWyzer Crake non era stato quel che si dice sessualmente attivo. Le ragazze si facevano intimidire da lui. È vero, aveva at¬tratto un paio di esaltate che lo avevano creduto capace di cam¬minare sull'acqua, lo avevano seguito di qua e di là, gli avevano mandato e-mail sdolcinate e focose e lo avevano minacciato di tagliarsi i polsi per lui. Forse aveva perfino dormito con loro di quando in quando; ma non ci si era mai impegnato più di tanto. A suo parere l'innamoramento, sebbene si concludesse con una modificazione della chimica corporea e fosse perciò reale, era uno stato di delirio indotto dagli ormoni. Per giunta era umi¬liante, perché ti metteva in svantaggio, conferendo troppo pote¬re all'oggetto dell'amore. Quanto al sesso in sé, mancava sia di stimoli che di originalità, e tutto sommato era una soluzione al¬quanto imperfetta al problema del transfer genetico intergenerazionale.
Le ragazze collezionate da Jimmy avevano trovato Crake più che lievemente inquietante, e intervenire in sua difesa aveva fat¬to sentire Jimmy superiore. «È un tipo a posto, è solo su un al¬tro pianeta» è quanto diceva di solito.
Ma come informarsi delle attuali condizioni di Crake? Crake divulgava poche notizie su di sé. Aveva un compagno di stanza, una ragazza? Non nominava mai né l'uno né l'altra, ma questo non significava niente. Le sue descrizioni per e-mail riguardava¬no gli impianti del campus, che erano grandiosi - un vero teso¬ro di Aladino per quanto riguardava le faccende della bio-ricer¬ca - e, be', cos'altro? Cosa aveva veramente da dire Crake nelle sue prime concise comunicazioni dall'Istituto Watson-Crick? Uomo delle Nevi non se lo ricorda.
Però avevano giocato interminabili partite a scacchi, due mosse al giorno. Ormai Jimmy era migliorato negli scacchi; era più facile senza la presenza di Crake a distrarlo, e senza quel suo modo di tamburellare con le dita e di canticchiare tra sé e sé, come se vedesse già trenta mosse più in là e aspettasse paziente¬mente che la mente da tartaruga dell'amico arrancasse fino al sa¬crificio della prossima torre. Inoltre, tra una mossa e l'altra, Jimmy poteva guardare i campioni di scacchi e le partite famo¬se del passato su vari programmi Internet. Non che Crake non facesse lo stesso.
Dopo cinque o sei mesi Crake si era sciolto un pochino. Dove¬va impegnarsi di più che alle superiori della HelthWyzer, scrive¬va, perché c'era molta più competizione. Il Watson-Crick era noto agli studenti che lo frequentavano come l'università di Asperger per via dell'alta percentuale di brillanti svitati che gi¬rovagavano, saltellavano e barcollavano per i suoi corridoi. Semi-autistici, parlando dal punto di vista genetico; menti dalla visione limitata, a senso unico, con un notevole grado di inetti¬tudine a livello sociale: non sono certo i tuoi elegantoni. Buon per tutti, vi regnava una notevole tolleranza per il comporta¬mento moderatamente deviante tenuto in pubblico.
Più che alla HelthWyzer? domandò Jimmy.
In confronto, la HelthWyzer era una plebopoli, rispose Crake. Era zeppa di Nt.
Nt?
Neurotipici.
E cioè?
Senza il gene del genio.
Dunque, tu saresti un neurotipico? domandò Jimmy la setti¬mana seguente, avendo avuto un po' di tempo per pensarci su. E anche per preoccuparsi se non fosse lui stesso un neurotipico, e in tal caso se ora quello non fosse un male, nella Gestalt di Crake. Sospettava di sì, e non si sbagliava.
Ma Crake non rispose mai a quella domanda. Era fatto così: quando c'era una domanda che non voleva prendere in consi¬derazione, faceva finta di non averla sentita.
Dovresti venire a vedere questo posto, disse a Jimmy alla fine di ottobre del secondo anno. Concediti un'esperienza straordina¬ria. Ti farò passare per il mio cugino normale, vale a dire tonto. Vieni per la settimana del Ringraziamento.
L'alternativa era il tacchino con quei tacchini della sua unità parentale, scherzo, ah ah, ☺, rispose Jimmy, e non ce la faceva proprio; perciò accettava volentieri. Si disse che stava facendo l'amico, nonché un favore a Crake, perché con chi avrebbe pas¬sato il tempo durante le vacanze il solitario Crake, se non con quel noioso australopiteco dello zio-non-zio Pete? Ma si rende¬va anche conto che gli mancava. Ormai non lo vedeva da più di un anno. Si domandava se fosse cambiato.

Jimmy aveva un paio di elaborati di metà trimestre da finire pri¬ma delle vacanze. Avrebbe potuto comprarli sulla Rete, certo - la Martha Graham era notoriamente di manica larga riguardo al¬l'assegnazione dei voti, e il plagio era considerato un lavoro a domicilio - ma la sua era stata una presa di posizione. Avrebbe scritto da sé i suoi elaborati, per quanto potesse sembrare ec¬centrico; un comportamento che aveva successo con le donne della Martha Graham. A loro piaceva un pizzico di originalità, audacia e rigore intellettuale.
Per la stessa ragione aveva cominciato a trattenersi per ore nelle zone più oscure della biblioteca, scovando arcane tradizio¬ni. Le biblioteche migliori, come le istituzioni più ricche, aveva¬no bruciato da tempo i veri libri e conservavano tutto su cd-rom, ma in questo senso, come in tutti gli altri, la Martha Graham era in ritardo. Indossando un filtro nasale per proteg¬gersi dalle muffe, Jimmy pascolava tra gli scaffali carichi di car¬ta in decomposizione, frugandovi a caso.
A spingerlo era in parte la testardaggine, in parte il risenti¬mento. Il sistema lo aveva archiviato tra i reietti, e ciò che stava studiando era considerato - ai livelli decisionali, i livelli del vero potere - un'arcaica perdita di tempo. Bene, allora avrebbe per¬seguito il superfluo come fine a se stesso. Sarebbe diventato il suo campione, il suo difensore e conservatore. Chi aveva detto che tutta l'arte era perfettamente inutile? Jimmy non se lo ricor¬dava, ma urrà per lui, chiunque fosse. Più antiquato era un libro, con maggiore entusiasmo Jimmy lo aggiungeva alla sua collezio¬ne privata.
Compilava anche elenchi di vecchie parole - parole di una precisione e di un fascino che non avevano più un'applicazione significativa nel mondo odierno, o nel mondo odioso, come a volte Jimmy scriveva in maniera volutamente erronea nei suoi elaborati. (Refuso, annotavano i prof, il che dimostrava quanto stessero attenti). Memorizzava questi antichi vocaboli, li infilava goffamente nella conversazione: carradore, magnetite, saturnino, adamantino. Aveva sviluppato un sentimento stranamente affet¬tuoso verso simili termini, quasi fossero bambini abbandonati e si sentisse in dovere di salvarli.
Uno dei suoi elaborati - per il corso di Retorica applicata - si intitolava «I libri fai-da-te del Ventesimo secolo: sfruttamento di speranza e paura» e gli procurò un gran repertorio da mattato¬re di cui far sfoggio nei pub degli studenti. Citava brani da que¬sto o quel libro - Migliora la tua immagine; Piano per il suicidio assistito in dodici fasi; Come fare amicizia e influenzare gli altri; Addominali piatti in cinque settimane; Come avere tutto; Riceve¬re senza cameriera; Il controllo del dolore - e il capannello di gen¬te intorno a lui si sbellicava dalle risa.
Ora aveva di nuovo un capannello intorno a lui: aveva risco¬perto quel piacere. Dai, Jimmy, fai Chirurgia estetica per tutti! Fai Penetra nel bambino che è in te! Fai Femminilità al cento per cento! Fai Allevare le nutrie per diletto e profitto! Fai Il ma¬nuale di sopravvivenza di corteggiamento ed erotismo! E Jimmy, il fantasista sempre pronto, li accontentava. A volte in¬ventava libri che non esistevano - Curare la diverticolite con il canto e la preghiera era una delle sue migliori creazioni - e nes¬suno scopriva l'inganno.
In seguito, aveva trasformato l'argomento di quell'elaborato nella sua tesi dell'ultimo anno. Aveva preso il massimo dei voti.

Tra la Martha Graham e il Watson-Crick c'era un collegamento via treno lampo, con un solo cambio. Jimmy trascorse gran par¬te delle tre ore di viaggio a guardare fuori dal finestrino le plebopoli che attraversavano. File di case squallide; caseggiati con balconcini, panni stesi alle ringhiere; fabbriche con fumo che usciva dalle ciminiere; cave di ghiaia. Un enorme mucchio di ri¬fiuti, accanto al quale immaginò un inceneritore ad alta tempe¬ratura. Un centro commerciale come quelli della HelthWyzer, ma con i parcheggi pieni di macchine al posto dei golf cart elet¬trici. Una strada principale tutta neon, locali e porno-bar e quel¬lo che sembrava un cinema antidiluviano. Scorse un paio di par¬cheggi di roulotte, e si domandò come fosse viverci: la sola idea gli procurò un leggero stordimento, come immaginare un deserto, o il mare. Tutto nelle plebopoli sembrava così sconfinato, così poroso, così penetrabile, così aperto. Così esposto al ri¬schio.
Il buon senso universalmente diffuso nei Recinti diceva che nelle plebopoli non succedeva nulla di interessante, a parte il comprare e il vendere: non c'era vita della mente. Comprare e vendere, più un sacco di attività criminali; ma a Jimmy lo spazio oltre le barriere di sicurezza sembrava misterioso ed eccitante. Anche pericoloso. Là non avrebbe saputo come agire, non avrebbe saputo come comportarsi. E neppure come rimorchia¬re le ragazze. Lo avrebbero ridotto a mal partito in men che non si dica, gli avrebbero allentato la testa a forza di scuoterla. Avrebbero riso di lui. Sarebbe diventato carne da macello.

La sorveglianza al Watson-Crick era molto attenta, al contrario della sciatta farsa che aveva luogo alla Martha Graham: doveva¬no temere che qualche fanatico si intrufolasse e facesse saltare in aria le migliori menti di quella generazione, assestando così un colpo rovinoso a questo o quel progetto. C'erano decine di uo¬mini del CorpSeCorps, completi di pistole spray e mazze di gomma; avevano i distintivi del Watson-Crick, ma si capiva chi fossero in realtà. Presero l'impronta dell'iride di Jimmy e la fe-cero girare sul sistema, poi due arcigni sollevatori di pesi lo spin¬sero da parte per interrogarlo. Indovinò subito il perché.
«Hai visto quell'uccel di bosco di tua madre di recente?»
«No» rispose sinceramente.
«Hai avuto sue notizie? Hai ricevuto una telefonata, un'altra cartolina?» Dunque ispezionavano ancora la sua posta tradizio¬nale. Nei loro computer dovevano essere immagazzinate tutte le cartoline; più il suo indirizzo attuale, per questo non gli aveva¬no chiesto da dove veniva.
No, disse di nuovo. Lo avevano agganciato al monitor degli impulsi neurali, perciò sapevano che non stava mentendo; do¬vevano anche aver capito che la domanda lo angosciava. Era sul punto di dire: E se anche l'avessi ricevuta non te lo direi, scimmione, ma ormai era troppo grande per non rendersi conto che non sarebbe servito a nulla, anzi probabilmente in quel modo si sarebbe fatto ficcare sul prossimo treno lampo per la Martha Graham, o peggio ancora.
«Sai cosa fa? Con chi vive?»
Jimmy non lo sapeva, ma aveva la sensazione che loro potes¬sero averne un'idea. Tuttavia non nominarono la manifestazione contro l'Happicuppa nel Maryland, perciò forse erano meno informati di quanto temeva.
«Perché sei qui, figliolo?» Adesso erano annoiati. La parte in¬teressante era finita.
«Sono venuto a trovare un vecchio amico per la settimana del Ringraziamento» disse Jimmy. «Eravamo insieme alle superiori della HelthWyzer. Studia qui. Mi ha invitato». Diede il nome e il numero di autorizzazione visitatore fornitogli da Crake.
«Che tipo di studente è? Cosa studia?»
«Transgenica» rispose Jimmy.
Sollevarono l'incartamento per controllare, aggrottarono le sopracciglia, sembrarono moderatamente stupiti. Poi fecero una chiamata al cellulare, come se non gli avessero creduto fino in fondo. Cosa faceva sì che un servo come lui venisse a trovare la nobiltà?, sottintendeva il loro atteggiamento. Ma finalmente lo fecero passare, e appoggiato alla barriera d'uscita, sorridente, nel suo anonimo vestito scuro, c'era Crake, che sembrava più vecchio, più magro e anche più in forma che mai.
«Ciao, noce di sughero» disse, e la nostalgia invase Jimmy come una fame improvvisa. Era così contento di vedere Crake che si mise quasi a piangere.

Calupi

In confronto alla Martha Graham, il Watson-Crick era una reg¬gia. All'entrata c'era la statua di bronzo della mascotte dell'isti¬tuto, il capragno - uno dei primi ibridi riusciti, realizzato a Montreal a cavallo tra i due secoli, una capra incrociata con un ragno per produrre filamenti di seta altamente elastici nel latte. Attualmente la loro principale applicazione erano i giubbotti antiproiettile. Il CorpSeCorps si fidava ciecamente di quella roba.
Gli ampi terreni all'interno del muro di cinta erano ben siste¬mati: opera, disse Crake, della facoltà di pluriPaesaggio. Gli stu¬denti di Trasgenica botanica (divisione Ornamentale) avevano creato un'intera gamma di miscele tropicali «resistenti a siccità e inondazioni», con fiori o foglie di livide sfumature giallo cro¬mo e rosso fiamma brillante e blu fosforescente e viola neon. I sentieri, al contrario delle fatiscenti stradine di cemento della Martha Graham, erano lisci e ampi. Studenti e corpo insegnan¬te vi si muovevano in fretta su golf-cart elettrici.
Grandi rocce finte, realizzate con uno stampo combinatore di bottiglie di plastica riciclate e materiale vegetale ricavato da cac¬tus giganti e svariati lithops - le pietre viventi appartenenti alle Mesembryanthemaceae - erano sparse qua e là. Era un procedi¬mento brevettato, disse Crake, elaborato originariamente al Watson-Crick e trasformatosi in una piccola miniera d'oro di tutto rispetto. Le rocce finte sembravano vere, ma pesavano di meno; non solo, assorbivano acqua nei periodi di umidità e la ri¬lasciavano nei periodi di siccità, perciò agivano da regolatori na¬turali dei prati. Roccolatori, era il nome commerciale. Tuttavia, bisognava evitarle durante le precipitazioni copiose, perché era risaputo che potevano esplodere.
Ma ormai la maggior parte dei difetti erano stati eliminati, disse Crake, e ogni mese ne apparivano nuove varietà. La squa¬dra di studenti stava pensando di elaborare qualcosa chiamato Modello Mosè, per assicurare forniture d'acqua dolce potabile in tempo di crisi. Basta un colpo di bastone, era lo slogan propo¬sto.
«Come funzionano questi affari?» domandò Jimmy, cercando di non sembrare impressionato.
«E che ne so?» disse Crake. «Non frequento Neogeologia».
«Ah, ecco delle farfalle. Sono recenti?» domandò Jimmy dopo un po'. Quelle che stava guardando avevano ali grandi come frittelle; erano di un rosa brillante e si stavano radunando su uno dei cespugli viola.
«Vuoi dire se sono nate in natura o sono state create per mano dell'uomo? In altre parole, se sono vere o false?»
«Mmm» fece Jimmy. Non voleva entrare nel discorso del che cos'è vero con Crake.
«Sai quando la gente si tinge i capelli o si rifà i denti? O quan¬do le donne si fanno ingrandire le tette?»
«Be'?»
«Dopo è così che appaiono. Il metodo non ha più importan¬za».
«A tastarle, le tette finte non sembrano affatto vere» obiettò Jimmy, che pensava di essere un esperto in materia.
«Se capisci che sono finte» disse Crake, «vuol dire che il la¬voro è stato fatto male. Queste farfalle volano, si accoppiano, depongono uova da cui fuoriescono bruchi».
«Mmm» fece di nuovo Jimmy.

Crake non aveva un compagno di stanza. No, aveva un apparta¬mentino valorizzato da vari accessori color legno, con veneziane elettriche e l'aria condizionata che funzionava sul serio. Consi¬steva in un'ampia stanza da letto, bagno con unità doccia e op¬zione sauna, un gran soggiorno con un divano letto estraibile - dove si sarebbe sistemato Jimmy, disse Crake - e uno studio con impianto audio incorporato e un'intera gamma di aggeggi infor¬matici. C'era anche un servizio di cameriere, che raccoglievano e consegnavano la biancheria. (Jimmy fu sconfortato da questa notizia, dal momento che alla Martha Graham doveva pensare da sé al bucato, usando lavatrici che sferragliavano e rantolava¬no e asciugatrici che ti friggevano i panni. Bisognava infilarci gettoni di plastica, perché, fin tanto che erano andate a moneti¬ne, le macchine erano state regolarmente scassinate).
Crake aveva anche un allegro cucinino. «Non che usi granché il microonde» disse. «Solo per gli spuntini. La maggior parte di noi mangia nelle mense. Ce n'è una per ogni facoltà».
«Com'è il cibo?» domandò Jimmy. Si sentiva sempre più un troglodita che viveva in una caverna, respingendo l'assalto dei parassiti e sgranocchiando un osso ogni tanto.
«È cibo» rispose Crake in tono indifferente.

Il primo giorno visitarono alcune delle meraviglie dell'Istituto Watson-Crick. Crake era interessato a tutto, a qualsiasi proget¬to in corso. Continuava a ripetere «Il futuro alle porte», il che dopo la terza volta divenne irritante.
Per prima cosa andarono ad Arredo botanico, dove una squadra di cinque studenti dell'ultimo anno stava mettendo a punto una carta da parati intelligente, in grado di cambiare il co¬lore delle pareti di una stanza a seconda dell'umore di chi vi soggiornava. Nella carta - fu spiegato a Jimmy - era stata inserita una forma modificata di alghe sensibili all'energia Kirilian, in¬sieme a un substrato di sostanze nutritive, ma c'era ancora qual¬che difetto da sistemare. Con il tempo umido la carta da parati aveva vita breve, perché si mangiava tutte le sostanze nutritive e diventava grigia; inoltre, poteva non distinguere la differenza tra libidine sfrenata e furia omicida, e colorare le vostre pareti di un rosa sensuale, quando quello di cui avevate davvero bisogno era un cupo rosso verdastro capace di farvi scoppiare i capillari.
La squadra stava altresì lavorando a una linea di asciugamani da bagno con funzioni quasi identiche, ma doveva ancora fare i conti con le leggi della vita marina: quando si bagnavano, le al¬ghe si dilatavano e cominciavano a crescere, e finora ai soggetti che li avevano sperimentati non era piaciuta la vista degli asciu¬gamani della sera prima che si gonfiavano come marshmallow rettangolari e strisciavano sul pavimento del bagno.
«Il futuro alle porte» disse Crake.
Poi andarono a Neoagricoltura. Agricouture, l'avevano so¬prannominata gli studenti. Prima di entrare nello stabilimento dovettero indossare le biotute, lavarsi con cura le mani e mette¬re i filtri nasali, perché quanto stavano per vedere non era stato reso resistente alle bioforme, o almeno non completamente. Una donna con una risata simile alla Woody Woodpecker li guidò attraverso i corridoi.
«Ecco l'ultima novità» disse Crake.
Sotto gli occhi avevano un grosso oggetto a bulbo apparente¬mente ricoperto di pelle giallo-biancastra a puntini. Ne fuoriu¬scivano venti spessi tubi carnosi, all'estremità di ognuno dei quali cresceva un altro bulbo.
«Cosa diavolo è?» domandò Jimmy.
«Quelli sono polli» rispose Crake. «Parti di polli. In questo caso, solo il petto. Ne hanno realizzati anche di specializzati in cosciotti, dodici a unità di produzione».
«Ma non c'è la testa» disse Jimmy. Aveva afferrato il concet¬to - era cresciuto con il sus multiorganifer, dopotutto - ma qui si stava esagerando. Almeno i proporci della sua infanzia non erano senza testa.
«La testa è al centro» spiegò la donna. «C'è un'apertura per la bocca in alto, là dentro scaricano le sostanze nutritive. Nien¬te occhi né becco né altro, non ne hanno bisogno».
«È orribile» disse Jimmy. Quella cosa era un incubo. Era come un tubero di proteine animali.
«Immagina la struttura corporea dell'anemone di mare» dis¬se Crake. «Aiuta».
«Ma cosa pensa?» domandò Jimmy.
La donna emise il suo allegro jodel da picchio e spiegò che era stata rimossa qualsiasi funzione cerebrale che non riguardasse digestione, assimilazione e crescita.
«È una specie di anchilostoma dei polli» disse Crake.
«Non c'è bisogno di ormoni della crescita supplementari» disse la donna, «l'alto ritmo di crescita è indotto. Si ottengono petti di pollo in due settimane: un miglioramento di tre settima¬ne rispetto ai più efficienti impianti di pollicultura ad alta den¬sità e a luce bassa finora ideati. E i fanatici del benessere degli animali non avranno niente da ridire, perché questi affari non sentono alcun dolore».
«Quei ragazzini guadagneranno una montagna di soldi» dis¬se Crake dopo che furono andati via. Gli studenti del Watson-Crick ricevevano metà dei diritti su qualsiasi cosa inventassero. A sentir Crake, era un notevole incentivo. «Pepite di pollo, è così che chiameranno quella roba».
«Sono già sul mercato?» domandò fiaccamente Jimmy. Non riusciva a immaginare qualcuno che mangiava Pepite di pollo. Sarebbe stato come mangiare una grossa verruca. Quanto ai tra¬pianti di tette, però - quelli fatti bene - forse non avrebbe sa¬puto capire la differenza.
«Hanno già messo a punto l'operazione per una catena di lo¬cali in concessione esclusiva» disse Crake. «Gli investitori fanno la fila intorno all'edificio. Potranno vendere a prezzi più bassi di qualunque altro».
Jimmy stava cominciando a seccarsi del modo in cui Crake lo presentava - «Questo è Jimmy, il neurotipico» - ma era troppo intelligente per darlo a vedere. Eppure, era come se gli desse del Cro-Magnon o giù di lì. La prossima mossa sarebbe stata quella di metterlo in una gabbia, nutrirlo di banane e sottoporlo a sti¬moli elettrici.
Né gli fecero una grande impressione le donne del Watson-Crick disponibili. O forse non erano nemmeno disponibili: sem¬brava che avessero altro per la testa. I pochi tentativi di Jimmy di flirtare gli procurarono occhiate stupite - stupite e per nien¬te contente, neanche avesse pisciato sui loro tappeti.
Considerata la loro sciatteria, il loro approccio noncurante ri¬spetto all'igiene personale e ai fronzoli, avrebbero dovuto sveni¬re di fronte alle sue attenzioni. Le loro tenute più eleganti erano le camice scozzesi e, quanto alle acconciature, non erano certo il loro forte: sembrava che molte di loro avessero avuto un incon¬tro ravvicinato con le forbici da cucina. Nel complesso gli ricor¬davano Bernice, la vegana piromane dei Giardinieri di Dio. Alla Martha Graham il modello Bernice era un'eccezione: le ragazze cercavano di dare l'impressione di essere, o di essere state una volta, o di poter essere un giorno, ballerine o attrici o cantanti o artiste dell'interpretazione o fotografe concettuali o qualsiasi al-tra cosa avesse a vedere con l'arte. La grazia era il loro fine, lo stile era il loro gioco, che recitassero bene o meno. Qui, invece, il look Bernice era la norma, con l'unica differenza che c'erano poche T-shirt di soggetto religioso. Erano più comuni quelle con complesse equazioni matematiche, che provocavano risatine compiaciute in quanti erano in grado di risolverle.
«Cosa dice quella T-shirt?» domandò Jimmy dopo l'ennesima esperienza del genere, con gli altri che si davano il cinque e lui in piedi con l'aria ebete di chi è stato appena borseggiato.
«Quella ragazza è una fisica» disse Crake, come se questo spiegasse tutto.
«E allora?»
«Allora la sua è una T-shirt sull'undicesima dimensione».
«E che c'è da ridere?»
«È complicato» disse Crake.
«Mettimi alla prova».
«Dovresti avere qualche rudimento sulle dimensioni e su come si pensa che siano tutte raggomitolate all'interno di quelle note».
«E allora?»
«Sarebbe come dire: posso portarti fuori da questo mondo, ma il tragitto è lungo solo pochi nanosecondi, e il modo di mi¬surare quei nanosecondi non esiste nella nostra struttura spazia¬le».
«E tutto questo con simboli e numeri?»
«Senza tante parole».
«Oh».
«Non ho detto che era divertente» disse Crake. «Sono fisici. È divertente solo per loro. Ma tu me l'hai chiesto».
«Perciò, è come se dicesse che potrebbero scopare solo se lui avesse il tipo giusto di cazzo, cosa che non ha?» domandò Jimmy, che ci aveva pensato intensamente.
«Jimmy, sei un genio» disse Crake.

«Qui siamo a Biodifese» annunciò Crake. «Ultima fermata, pro¬messo». Capiva che Jimmy stava vacillando. La verità era che tutto gli suscitava troppi ricordi. I laboratori, le bioforme biz¬zarre, gli scienziati socialmente inetti erano troppo simili alla sua vita precedente, la sua vita da bambino. Che era l'ultimo posto in cui voleva tornare. Perfino la Martha Graham era preferibile.
Erano davanti a una serie di gabbie. Ognuna conteneva un cane. Ce n'erano di diverse razze e taglie, ma tutti fissavano Jimmy con occhi pieni d'amore, tutti dimenavano la coda.
«È un canile» osservò Jimmy.
«Non esattamente» disse Crake. «Non oltrepassare la barrie¬ra di protezione, non infilarci la mano».
«Sembrano abbastanza amichevoli» disse Jimmy. Fu invaso dal suo vecchio desiderio di un animale domestico. «Sono in vendita?»
«Non sono cani, lo sembrano soltanto. Sono calupi, ma ad¬destrati a trarre in inganno. Allunga la mano per accarezzarli, e te la staccheranno. Contengono una notevole dose di pit-bull».
«Perché creare cani simili?» domandò Jimmy, indietreggian¬do. «Chi ne vorrebbe uno?»
«Sono per il CorpSeCorps» spiegò Crake. «Lavoro su com¬missione. Un sacco di finanziamenti. Vogliono metterli nei fos¬sati, o qualcosa del genere».
«Fossati?»
«Già. Sono meglio di un sistema di allarme, perché non c'è verso di ammansire queste bestie. E non c'è verso di farci ami¬cizia, non sono come i cani veri».
«E se scappano? Se si scatenano? Se cominciano a riprodursi e la loro popolazione cresce vertiginosamente e sfugge al con¬trollo, come con quei grossi conigli verdi?»
«Sarebbe un problema» disse Crake. «Ma non scapperanno. La Natura sta agli zoo come Dio sta alle chiese».
«E cosa significa?» domandò Jimmy. Non stava troppo attento, era preoccupato per le Pepite di pollo e i calupi. Perché sen¬te che una linea è stata oltrepassata, un confine violato? Quand'è che il tanto diventa troppo, quand'è il lontano diventa troppo lontano?
«Quelle mura e quelle sbarre sono là per un motivo» disse Crake. «Non per tenere fuori noi, ma per tenere loro dentro. L'umanità ha bisogno di barriere in entrambi i casi».
«Loro chi?»
«La Natura e Dio».
«Pensavo che non credessi in Dio» disse Jimmy.
«Non credo neppure nella natura» ribatté Crake. «Almeno non in quella con la N maiuscola».

Ipotesi

«E allora, ce l'hai una ragazza?» domandò Jimmy il quarto gior¬no. Aveva tenuto in serbo questa domanda per quando si fosse presentato il momento giusto. «Voglio dire, c'è un bell'assorti¬mento di pupe tra cui scegliere». Lo disse con l'intenzione di es¬sere ironico. Non poteva immaginarsi con la ragazza dalla risata di Woody Woodpecker o con una dai seni coperti di numeri, ma non poteva immaginare nemmeno Crake insieme a una di loro. L'amico era troppo raffinato per una cosa del genere.
«Non proprio» disse seccamente Crake.
«Cosa intendi, con non proprio? Hai una ragazza, ma non è un essere umano?»
«In questa fase l'unione in coppie non è incoraggiata» rispo¬se Crake, con un tono da manuale. «Dobbiamo concentrarci sul nostro lavoro».
«Peggio per la tua salute» disse Jimmy. «Dovresti farti pre¬sentare qualcuno».
«Facile per te dirlo» osservò Crake. «Tu sei la cicala, io la for¬mica. Non posso perdere tempo in una scansione casuale im¬produttiva».
Per la prima volta nelle loro vite, Jimmy si domandò se - pos¬sibile? - Crake fosse invidioso di lui. Ma forse Crake stava solo facendo il bacchettone pomposo; forse il Watson-Crick gli face¬va un brutto effetto. E allora qual'è la missione ultralife da supercervelletto-thriatlon? ebbe voglia di dire. Ti degni di comunicar¬lo? «Non la chiamerei una perdita di tempo» disse invece, cer¬cando di alleggerire il tono serioso dell'amico, «a meno che non riesci a scopare».
«Se proprio non si riesce a farne a meno, si possono risolvere certe cose tramite il Servizio studentesco» disse Crake in tono piuttosto freddo. «Deducono il prezzo dalla borsa di studio, come il vitto e l'alloggio. Le operatrici vengono dalle plebopoli, sono professioniste addestrate. Naturalmente sono visitate, per controllare la presenza di eventuali malattie».
«Servizio Studentesco? Ma tu scherzi! E che fa?»
«La cosa ha un senso» disse Crake. «Con questo sistema si evita la dispersione di energie in canali improduttivi, e si supera il disagio. Le studentesse possono usufruirne con identiche mo¬dalità, naturalmente. Si può richiedere qualsiasi colore, qualsiasi età - be', o quasi. Corpi di ogni genere. Soddisfano qualsiasi esigenza. Se sei gay, o sei affetto da qualche tipo di feticismo, rie¬scono comunque ad accontentarti».
All'inizio Jimmy pensava che forse Crake scherzasse, ma non era così. Voleva domandargli cosa avesse provato lui - se ad esempio si fosse fatto una donna con una doppia amputazione. Ma tutt'a un tratto una domanda del genere gli sembrò inva¬dente. Poteva anche passare per una presa in giro.

Il cibo alla mensa della facoltà di Crake era fantastico - veri gamberi invece dei CrostaSoy che venivano serviti alla Martha Graham, e vero pollo, sospettò Jimmy, pur evitandolo, perché non riusciva a dimenticare le Pepite di pollo che aveva visto; e qualcosa di molto simile al formaggio vero, sebbene Crake di¬cesse che veniva fatto con un ortaggio, una nuova specie di zuc¬china in via di sperimentazione.
Nei dolci c'era una quantità smodata di cioccolato, vero cioc¬colato. Nel caffè una quantità smodata di caffè. Niente prodot¬ti a base di granaglie tostate, niente aggiunta di melassa. Era Happicuppa, ma a chi importava? E vera birra. La birra era si¬curamente vera.
Dunque, tutto ciò costituiva un gradito cambiamento rispetto alla Martha Graham, sebbene i compagni di Crake tendessero a dimenticare le posate, a mangiare con le mani e a pulirsi la bocca sulle maniche. Jimmy non era schizzinoso, ma questo sconfinava nella volgarità. E poi, parlavano in continuazione, che qualcuno li ascoltasse o meno, e sempre delle idee che stavano mettendo a punto. Una volta scoperto che Jimmy non stava lavorando su uno spazio - in effetti, frequentava un'istituto che consideravano chia¬ramente come una pozza di fango - persero ogni interesse per lui. Definivano conspecifici gli altri studenti delle loro facoltà, e aspe¬cifici tutti gli altri esseri umani. Era una battuta ricorrente.
Perciò, nelle ore libere, Jimmy non aveva una gran voglia di fare vita sociale. Si accontentava di restare a casa di Crake, di perdere a scacchi o a Waco Tridimensionale, o di cercare di de¬cifrare i magneti sul frigo, quelli senza numeri e simboli. Al Watson-Crick c'era un vero e proprio culto delle calamite da frigo: la gente le comprava, le scambiava, se ne faceva di proprie. Niente cervello, niente rovello (con l'ologramma verde di un cervello). Siliconsapevolezza. Vago da spazio a spazio. Vuoi in¬contrarne, di macchine sfornacarne? Fai tutto in pace e lascia in pace me. Piccolo capragno, chi ti ha creato? La vita fa esperi¬menti come un moffone che gioca. Penso, dunque vi bombardo di e-mail. Il vero oggetto di studio dell'umanità è Tutto.
A volte guardavano la tv o qualcosa su Internet, come ai vec¬chi tempi. Le NudiNews, sfrigolaencefalo, alibooboo, questo genere di consolante cibo per gli occhi. Preparavano i popcorn al microonde, fumavano un po' dell'erba arricchita che gli stu¬denti di Transgenica botanica coltivavano in una delle serre; poi Jimmy si trasferiva sul divano. Dopo che si fu abituato al pro¬prio stato in quella prigione cerebrale, che equivaleva a quello di una pianta da appartamento, non fu poi così male. Bisognava soltanto rilassarsi e aiutarsi con la respirazione, come quando si fa ginnastica. Solo pochi giorni, e ne sarebbe stato fuori. Nel frattempo era sempre interessante ascoltare Crake, quando Crake era solo, e quando era in vena di parlare.

La penultima sera, Crake disse: «Vorrei accompagnarti attraver¬so uno scenario ipotetico».
«Va bene» disse Jimmy. In realtà aveva sonno - troppi pop-corn e troppa birra - ma si tirò su a sedere e assunse il suo sguardo attento, quello che aveva perfezionato alle superiori. Gli scenari ipotetici erano una delle cose preferite da Crake.
«Assioma: la malattia non è produttiva. Di per sé, non gene¬ra materie prime e perciò neanche denaro. Sebbene costituisca un pretesto per una marea di lavoro, la sua unica conseguenza sul piano finanziario è il passaggio di ricchezza dal malato al sano. Dai pazienti ai dottori, dai clienti agli spacciatori. Osmosi finanziaria, si potrebbe chiamarla».
«Sicuro».
«Ora, supponiamo che tu sia un'azienda chiamata HelthWyzer. Supponiamo che tu faccia i soldi con i farmaci e con le pro¬cedure che curano la gente malata, o - meglio ancora - che le impediscono innanzitutto di ammalarsi».
«Be'?» fece Jimmy. Fin qui non c'era niente di ipotetico: è quanto faceva veramente la HelthWyzer.
«Dunque, di cosa avrai bisogno, prima o poi?»
«Di altre cure?»
«Dopo quelle».
«Che vuol dire, dopo quelle?»
«Dopo che avrai curato tutte le malattie in atto».
Jimmy finse di riflettere. Non aveva senso farlo davvero: era ovvio che Crake avrebbe fornito una soluzione originale alla sua stessa domanda.
«Ricordi la difficile situazione dei dentisti, dopo che fu intro¬dotto il nuovo collutorio? Quello che sostituiva i batteri della placca con batteri benigni che coprivano la stessa nicchia ecolo¬gica, vale a dire la bocca? Nessuno ebbe più bisogno di un'ot¬turazione, e un sacco di dentisti andarono in rovina».
«E allora?»
«Allora, avresti bisogno di altri pazienti. Oppure - il che po¬trebbe essere lo stesso - di altre malattie. Nuove e diverse. Giu¬sto?»
«Evidente» rispose Jimmy dopo un istante. E lo era davvero. «Ma non continuano a scoprirne di nuove?»
«Non le scoprono» disse Crake. «Le creano».
«Chi?» domandò Jimmy. Sabotatori, terroristi, era questo che intendeva Crake? Era risaputo che mettevano in atto quel gene¬re di cose, o che almeno ci provavano. Finora non avevano avu¬to un gran successo: le loro piccole, insignificanti malattie erano state ingenue, dal punto di vista dei Recinti, e piuttosto facili da arginare.
«La HelthWyzer» disse Crake. «Lo fa da anni. C'è un'intera unità segreta che lavora solo a questo. Poi c'è il versante della di¬stribuzione. Ascolta, è geniale. Introducono le bioforme ostili nelle loro pillole di vitamine - il tipo qualità extra HelthWyzer, un prodotto da banco senza prescrizione? Hanno un sistema di distribuzione davvero elegante: inoculano un virus in un batte¬rio portatore, una combinazione di E. coli, che non viene dige¬rito, irrompe nel piloro e bingo! Innesto casuale, naturalmente, e che non hanno bisogno di ripetere; se lo facessero verrebbero scoperti, perché perfino nelle plebopoli ci sono tizi in grado di mangiare la foglia. Ma una volta sguinzagliata una bioforma ostile tra la popolazione delle plebopoli, il modo in cui la gente vi circola fa sì che si propaghi più o meno da sola. Naturalmen¬te elaborano gli antidoti nel momento stesso in cui modificano i germi, ma li tengono di riserva, praticano un'economia di scar¬sità, così si garantiscono alti profitti.
«Te lo stai inventando?» domandò Jimmy.
«I germi migliori, dal punto di vista degli affari» continuò Crake, «sarebbero quelli che provocano malattie lente. L'ideale - cioè il massimo profitto - sarebbe che il paziente o la pazien¬te guarisse o morisse subito prima di aver dato fondo ai propri soldi. È un calcolo perfetto».
«Sarebbe davvero diabolico» osservò Jimmy.
«È quello che pensava mio padre» disse Crake.
«Lo sapeva?» ora Jimmy era tutto orecchie.
«Lo scoprì. È per questo che lo buttarono giù da un ponte».
«Chi è stato?» domandò Jimmy.
«Nel traffico che veniva in senso contrario».
«Stai diventando paranoico o cosa?»
«Niente affatto» rispose Crake. «È la pura e semplice verità. Mi sono inserito nella posta di mio padre prima che ripulissero il suo computer. Le prove che aveva raccolto erano tutte là. I test che stava svolgendo sulle pillole di vitamine. Tutto».
Jimmy sentì un brivido lungo la schiena. «Qualcuno sa che ne sei al corrente?»
«Indovina a chi ne parlò?» disse Crake. «A mia madre e allo zio Pete. Stava per fare una soffiata tramite un sito Web malfa¬mato, uno dei più frequentati. Avrebbe abbattuto le vendite nel¬le plebopoli di tutti gli integratori vitaminici HelthWyzer dal primo all'ultimo, e bruciato l'intero progetto. Avrebbe causato la rovina finanziaria dell'azienda. Pensa alle perdite dei posti di lavoro. Voleva prima avvertirli». Rimase un istante in silenzio. «Pensava che lo zio Pete fosse all'oscuro di tutto».
«Wow» fece Jimmy. «Perciò uno dei due...»
«O magari tutti e due» disse Crake. «Lo zio Pete non avreb¬be voluto vedere minacciato il bilancio finale. Forse mia madre era soltanto spaventata, intuiva che, se mio padre fosse andato a fondo, ci sarebbe andata anche lei. Oppure, potrebbe essere sta¬to il CorpSeCorps. Magari si comportava in modo strambo sul lavoro. Forse lo controllavano. Aveva criptato tutto, ma se sono riuscito io a entrarci, potevano farlo anche loro».
«È così strano» disse Jimmy. «Dunque hanno assassinato tuo padre?»
«Giustiziato» ribatté Crake. «È questo il termine che avreb¬bero usato. Avrebbero detto che stava per distruggere un'ottima idea. Avrebbero detto di agire per il bene comune».
Se ne stavano seduti là. Crake aveva lo sguardo rivolto al sof¬fitto, quasi stesse in contemplazione. Jimmy non sapeva cos'altro dire. Qualsiasi parola di conforto sarebbe stata superflua.
Alla fine, Crake domandò: «Come mai tua madre se ne andò a quel modo?»
«Non lo so» rispose Jimmy. «Per tante ragioni. Non voglio parlarne».
«Scommetto che tuo padre era implicato in qualcosa del ge¬nere. In qualche macchinazione tipo quella della HelthWyzer. E che lei l'aveva scoperto».
«Oh, non credo» disse Jimmy. «Credo che si fosse fatta coin¬volgere in qualche organizzazione tipo i Giardinieri di Dio. Qualche gruppo di svitati. Comunque, mio padre non avreb¬be...»
«Scommetto che lei sapeva che avevano cominciato a sospet¬tare che sapeva».
«Sono stanco morto» disse Jimmy. Sbadigliò, e di colpo fu vero. «Credo che andrò a dormire».

Extinctathon

L'ultima sera, Crake disse: «Vuoi giocare a Extinctathon?»
«Extinctathon?» fece Jimmy. Gli occorse un istante, ma poi se lo ricordò: il noioso gioco interattivo sul Web con tutti que¬gli animali e piante estinti. «Quand'è che ci giocavamo? Non può girare ancora».
«Non ha mai smesso» disse Crake. Jimmy capì l'allusione: era Crake a non avere mai smesso. Doveva averci giocato da solo, in tutti quegli anni. Be', era un compulsivo, non era una novità.
«Dunque, qual è il tuo punteggio cumulativo?» domandò per educazione.
«Una volta che racimoli tremila punti» rispose Crake, «di¬venti un Gran Maestro». Il che significava che lo era, perché al¬trimenti non ne avrebbe parlato.
«Oh, bene» disse Jimmy. «E allora si riceve un premio? La coda e le orecchie?»
«Permettimi di mostrarti una cosa» disse Crake. Andò sul Web, trovò il sito, l'aprì. C'era la familiare schermata iniziale: EXTINCTATHON, monitorato da MaddAddam. Adamo ha dato il nome agli animali vivi, MaddAddam lo dà a quelli morti. Vuoi giocare?
Crake cliccò sul sì e inserì il proprio nome in codice: Crake, la denominazione inglese del rallo collorosso. Sul nome apparve il piccolo simbolo del celacanto, che contraddistingueva i Gran maestri. Poi spuntò qualcosa di nuovo, un messaggio che Jimmy non aveva mai visto prima: Benvenuto, Gran maestro Crake. Vuoi giocare una partita generica o giocare con un altro Gran maestro?
Crake cliccò sulla seconda opzione. Bene. Trova la tua stanza dei giochi. MaddAddam ti aspetta là.
«MaddAddam è una persona?» domandò Jimmy.
«È un gruppo» rispose Crake. «O più gruppi».
«E cosa fa, questo MaddAddam?» Jimmy si sentiva stupido. Era come guardare un vecchio film di spionaggio in dvd, James Bond o roba del genere. «Oltre a contare i crani e le pelli, voglio dire».
«Guarda qui». Crake lasciò Extinctathon, si inserì illegal¬mente nella banca di una vicina plebopoli e da lì passò a quella che sembrava una fabbrica di pezzi di auto solari. Si posizionò sull'immagine di un coprimozzo, che si aprì in una cartella - si intitolava PupeBollenti Pinup. I file erano datati, anonimi; ne scelse uno, lo trasferì in una delle sue reti aperte, la usò per pas¬sare a un'altra, cancellò le proprie tracce, aprì il file e caricò un'immagine.
Era l'immagine di Oryx all'età di sette o otto anni, nuda, a parte i nastri e i fiori. Era l'immagine dello sguardo che gli ave¬va rivolto, lo sguardo diretto, sprezzante, complice, che lo ave¬va talmente scombussolato quando aveva - quanti? - quattordi¬ci anni? Aveva ancora la stampata su carta, piegata, ben nasco¬sta. Era una cosa privata, quell'immagine. La sua cosa privata: la sua colpa, la sua vergogna, il suo desiderio. Perché Crake l'ave¬va conservata? Rubata.
Jimmy si sentì preso in un'imboscata. Cosa ci fa qui? voleva gridare. È mia! Restituiscila! Era come in un confronto all'ame¬ricana; dita puntate contro di lui, facce arcigne, mentre qualche rabbioso clone di Bernice dava fuoco alle sue mutande. Il casti¬go era vicino, ma per cosa? Cosa aveva fatto? Niente. Aveva solo guardato.
Crake si posizionò sull'occhio sinistro della ragazzina, cliccò sull'iride. Era un accesso: la stanza dei giochi si aprì.
Salve, Gran maestro Crake. Ora inserisci il passnumber.
Crake obbedì. Saltò fuori una nuova frase: Adamo ha dato i nomi agli animali. MaddAddam li modifica.
Poi seguì una stringa di comunicati e-mail con luoghi e date - opera del CorpSeCorps, a giudicare dall'aspetto - contrasse¬gnati Solo per indirizzi sicuri.
Una piccola vespa parassita aveva invaso parecchi impianti di Pepite di pollo, introducendovi una forma modificata di vari¬cella che colpiva solo le Pepite e le distruggeva. Si era dovuto procedere all'incenerimento degli impianti prima di poter met¬tere sotto controllo l'epidemia.
Una nuova forma del comune topo domestico che attaccava il materiale isolante degli impianti elettrici aveva invaso Cleveland, provocando un numero di incendi senza precedenti. Veni¬vano tuttora sperimentate misure di controllo.
I raccolti di chicchi di caffè Happicuppa erano minacciati da un nuovo curculione dei chicchi, risultato resistente a qualsiasi pesticida conosciuto.
Nel nordovest aveva fatto la sua comparsa un minuscolo ro¬ditore contenente sia elementi del porcospino che del castoro, il quale s'infilava sotto il cofano dei veicoli parcheggiati e devasta¬va le cinghie delle ventole e i sistemi di trasmissione.
Un microbo che si nutriva del catrame presente nell'asfalto delle strade aveva trasformato in sabbia parecchie interstatali. Tutte le interstatali erano in allerta, ed era stato istituito un cor¬done di quarantena.
«Che succede?» disse Jimmy. «Chi trasmette questa roba?»
I bollettini svanirono, e comparve un nuovo messaggio. MaddAddam ha bisogno di nuove iniziative. Hai un'idea brillante? Dividila con noi.
Crake digitò: Spiacente, interruzione. Devo andare.
Va bene, Gran maestro Crake. Parleremo più tardi. Crake chiuse.
Jimmy ebbe una sensazione di gelo, una sensazione che gli ri¬cordò il periodo in cui sua madre se n'era andata di casa: lo stes¬so senso del proibito, di una porta che si spalanca invece di re¬stare ben chiusa, di un flusso di esistenze segrete che scorrono sottoterra, nell'oscurità proprio sotto i suoi piedi. «Di cosa si trattava?» domandò. Poteva non trattarsi di niente, si disse. Po¬teva essere solo una bravata di Crake. Un trucco elaborato, un'invenzione, un tiro mancino per spaventarlo.
«Non ne sono sicuro» disse Crake. «All'inizio pensavo che fosse opera di un'altra folle organizzazione per la Liberazione degli animali, invece c'è dell'altro. Mirano a tutto l'apparato. Mirano all'intero sistema, vogliono bloccarlo. Finora non hanno fatto del male alla gente, ma è ovvio che potrebbero».
«Non fare stronzate!» esclamò Jimmy. «Non vorrai che risal¬gano a te! Qualcuno potrebbe pensare che sei coinvolto. E se ti scoprono? Finirai su sfrigolaencefalo!» Adesso era spaventato.
«Non mi scopriranno» disse Crake. «Sto solo navigando. Ma fammi il favore di non nominare queste cose nelle tue e-mail».
«Certo. Ma perché rischiare?»
«Sono curioso, tutto qui. Mi hanno lasciato entrare nella sala d'aspetto, ma non mi fanno andare più in là. Devono far parte di un Recinto, o essere addestrati in un Recinto. Sono bioforme sofisticate quelle che stanno mettendo insieme; non credo che un abitante delle plebopoli sarebbe in grado di fare niente del genere». Rivolse a Jimmy il suo sguardo verde obliquo: uno sguardo (pensa adesso Uomo delle Nevi) che significava fiducia. Crake si fidava di lui. Altrimenti non gli avrebbe mostrato la stanza dei giochi nascosta.
«Potrebbe essere una trappola per mosche messa a punto dal CorpSeCorps» osservò Jimmy. Gli uomini del Corpo avevano l'abitudine di preparare piani del genere, per catturare i sovver¬sivi in embrione. Togliere le erbacce dall'orto dei piselli, l'aveva sentito chiamare. Si diceva che i Recinti fossero attraversati da tunnel simili potenzialmente letali. «Devi stare attento a come ti muovi».
«Certo» disse Crake.
Quello che Jimmy voleva sapere davvero era questo: Di tutte le possibilità che avevi, di tutti gli accessi, perché hai scelto proprio lei?
Ma non poteva domandarlo. Non poteva tradirsi.

Durante quella visita avvenne qualcos'altro; qualcosa di impor¬tante, anche se al tempo Jimmy non se ne rese conto.
La prima notte, mentre dormiva sul divano letto estraibile, aveva sentito delle grida. Aveva creduto che venissero da fuori - alla Martha Graham avrebbe pensato a degli studenti mattac¬chioni - ma in realtà venivano dalla stanza di Crake. Veniva da Crake.
Più che grida: strilli. Senza parole. Successe ogni notte che trascorse là.
«Avrai fatto un brutto sogno» disse Jimmy la mattina dopo la prima volta che era successo.
«Io non sogno mai» ribatté Crake. Aveva la bocca piena e guardava fuori dalla finestra. Per essere un uomo così magro, mangiava un sacco. Per via della velocità, del ritmo del metabo¬lismo: Crake bruciava le cose.
«Tutti sognano» disse Jimmy. «Ricordi la ricerca sul sonno REM alle superiori della HelthWyzer?»
«Quella in cui torturavamo i gatti?»
«Gatti virtuali, sì. E quelli che non riuscivano a sognare im¬pazzivano».
«Non ricordo mai i miei sogni» disse Crake. «Prendi un'altra fetta di pane tostato».
«Ma devi sognare comunque».
«Giusto, hai ragione, mi sono espresso male. Non volevo dire che non sogno mai. Non sono pazzo, perciò devo sognare. Ipo¬tesi, dimostrazione, conclusione, se è A allora non è B. Così va bene?» Crake sorrise, si versò dell'altro caffè.
Dunque, Crake non ricordava mai i propri sogni. È Uomo delle Nevi che invece li ricorda. Peggio che ricordarli: vi è immerso, ci sguazza, lo bloccano dentro. Ogni istante che ha vis¬suto nei pochi mesi passati era già stato sognato da Crake. Non c'è da stupirsi che strillasse tanto.

9

Escursione
Dopo un'ora di cammino, Uomo delle Nevi esce dal vecchio parco. Si spinge ancora con circospezione nell'entroterra, pro¬cede lungo i boulevard e i viali e le strade e le vie in rovina del¬la plebopoli. C'è una gran quantità di auto solari distrutte, alcu¬ne coinvolte in tamponamenti a catena, altre bruciate, altre an¬cora rimaste intatte, come se fossero parcheggiate solo per poco. Ci sono camion e furgoncini, modelli ibridi, vecchi modelli a benzina o diesel, e fuoristrada. Qualche bicicletta, qualche moto - una scelta niente male, considerato il traffico caotico che do¬veva essere durato per giorni. Su un mezzo a due ruote potevi zigzagare tra i veicoli più grandi, finché qualcuno non ti colpiva o non ti investiva, oppure cadevi.
Un tempo questa era una zona semiresidenziale - negozi a li¬vello della strada, ora distrutti; scuri appartamentini di sopra. Gran parte delle insegne sono ancora al loro posto, nonostante siano crivellate di fori di proiettili. La gente aveva fatto incetta dei proiettili di piombo dell'epoca precedente alle pistole spray, malgrado il divieto di tenere qualsiasi tipo di arma imposto alla popolazione delle plebopoli. Uomo delle Nevi non è riuscito a trovare proiettili; non che abbia una vecchia arma da fuoco ar-rugginita in cui infilarli.
Gli edifici che non erano bruciati o esplosi sono ancora in piedi, sebbene la vegetazione si insinui in ogni fessura. A tempo debito spaccherà l'asfalto, butterà giù i muri, spingerà via i tet¬ti. Certi tipi di rampicanti crescono ovunque, ricoprendo i da¬vanzali, arrampicandosi attraverso le finestre rotte e su per le sbarre e i graticci. Ben presto la zona sarà un fitto intrico di vegetazione. Se avesse rimandato di molto il viaggio, la via del ri¬torno sarebbe stata impraticabile. Ancora poco, e tutte le tracce visibili dell'insediamento umano saranno sparite.

Ma supponiamo - supponiamo soltanto, pensa Uomo delle Nevi - che non sia l'ultimo della sua specie. Si augura che esi¬stano, questi ipotetici superstiti che potrebbero essere soprav¬vissuti in sacche isolate, tagliati fuori in seguito all'interruzione delle reti di comunicazione, mantenendosi vivi in qualche modo. Monaci in rifugi deserti, lontani dal contagio; pastori di capre che non erano mai scesi dalle montagne per mescolarsi con la gente a valle; tribù sperdute nella giungla. Survivalisti che si erano allertati per tempo, avevano sparato a chiunque si avvi¬cinasse e si erano sigillati nei loro bunker sotterranei. Montana¬ri, reclusi; pazzi vagabondi in preda ad allucinazioni nate come meccanismi di difesa. Bande di nomadi che battevano i loro an¬tichi sentieri.
Com'è successo? domanderanno i loro discendenti, imbatten¬dosi nelle prove, le rovine. Le prove in rovina. Chi ha fatto que¬ste cose? Chi ci viveva? Chi le ha distrutte? Il Taj Mahal, il Louvre, le piramidi, l'Empire State Building: roba che ha visto in tv, nei vecchi libri, sulle cartoline, in Sangue e Rose. Immaginate che si presentino loro in 3D, a grandezza naturale, senza alcuna preparazione: ci sarebbe da rimanere terrorizzati e correre via, per poi cercare una spiegazione. All'inizio penseranno a giganti o a dei, ma prima o poi vorranno sapere la verità. Come lui, avranno il curioso cervello da scimmia.
Forse diranno: Queste cose non sono reali. Sono fantasmago¬ria. Erano fatte di sogni, e adesso che nessuno le sogna più si stan¬no sgretolando.
«Supponiamo, tanto per parlare» disse Crake una sera, «che la civiltà così come la conosciamo venga distrutta. Vuoi dei pop-corn?»
«È burro vero?» domandò Jimmy.
«Al Watson-Crick c'è solo il meglio. Una volta distrutta, non potrebbe più essere ricostruita».
«Perché? Hai del sale?»
«Perché tutti i metalli disponibili in superficie sono già stati etratti» rispose Crake. «Senza di essi niente età del ferro, niente età del bronzo, niente età dell'acciaio e compagnia bella. Ci sono altri metalli più in profondità, ma la tecnologia che ci oc¬corre per estradi è andata perduta».
«Potrebbe essere recuperata» obiettò Jimmy, masticando. Era da un pezzo che non assaggiava popcorn così buoni. «Ci sareb¬bero ancora le istruzioni».
«In realtà non è così» disse Crake. «Non è come la ruota, or¬mai le cose sono troppo complesse. Supponi che le istruzioni si siano salvate, supponi che sia rimasto qualcuno che sia compe¬tente per leggerle. Quelle persone sarebbero poche e lontane l'una dall'altra, e non avrebbero strumenti. Ricorda, niente elet¬tricità. Poi, una volta morta quella gente, sarebbe fatta. Non avrebbero apprendisti, non avrebbero successori. Vuoi una bir¬ra?»
«È fredda?»
«Basta soltanto» disse Crake, «eliminare una generazione. Una generazione di qualsiasi cosa. Scarafaggi, alberi, microbi, scienziati, francofoni, quello che sia. Basta spezzare il legame temporale tra una generazione e l'altra, e il gioco è fatto per sempre».
«A proposito di giochi» fece Jimmy, «tocca a te».

Camminare è diventato una corsa a ostacoli per Uomo delle Nevi: in parecchi punti ha dovuto fare deviazioni. Ora è in un'angusta via laterale soffocata dalle piante rampicanti; si sono disposte a festoni attraverso la strada, da un tetto all'altro. At¬traverso le fessure nella vegetazione sopra la sua testa vede un gruppetto di avvoltoi che volteggiano pigramente nel cielo. An¬che loro lo vedono, hanno occhi come dieci lenti di ingrandi-mento, quelle bestie possono contarti le monetine che hai in ta¬sca. Sa una cosa o due sugli avvoltoi. «Non ancora» grida loro contro.
Ma perché deluderli? Se dovesse inciampare e cadere, ta¬gliarsi, svenire, quindi essere attaccato dai calupi o dai propor¬ci, che differenza farebbe? I Craker se la cavano bene anche sen¬za di lui, a loro non serve più. Per un po' si domanderanno dov'è finito, ma a questo ha già fornito una risposta: è andato a stare con Crake. Diventerà un attore secondario della loro mi-tologia, in definitiva, una specie di demiurgo di riserva. Sarà ri¬cordato per quello che non è. Non sarà pianto.

Il sole si alza, intensificando i suoi raggi. Si sente stordito. Un grosso serpente scivola via facendo guizzare la lingua, mentre il suo piede gli atterra accanto. Deve fare più attenzione. Qualcu¬no di questi serpenti è velenoso? La lunga coda che ha quasi cal¬pestato è attaccata a un piccolo corpo peloso? Non ha visto bene. Spera proprio di no. Dicevano che tutti i serpratti erano stati distrutti, ma ne sarebbe bastata una coppia. Una coppia, gli Adamo ed Eva dei serpratti, e qualche bislacco un po' maligno che ordinasse loro di andare e moltiplicarsi, assaporando l'idea di quelle bestie che giravano per i canali di scolo. Ratti dalle lun¬ghe code squamose e zanne da serpenti a sonagli. Decide di non pensarci.
Invece, si mette a canticchiare per tirarsi su. Che motivo è? Winter Wonderland. La suonavano nei centri commerciali ogni Natale, molto dopo che era nevicato per l'ultima volta. Un motivetto sulle burle fatte a un uomo di neve prima che si squa¬gliasse.

Forse, dopo tutto, non è lui l'Abominevole Uomo delle Nevi. Forse è un altro tipo di Uomo delle Nevi, il tontolone sorriden¬te costruito per scherzo e buttato giù per divertimento, il sorri¬so di sassolini e il naso di carota un invito alla beffa e agli insul¬ti. Forse è questo che è veramente, l'ultimo Homo sapiens: una bianca illusione di uomo, oggi c'è, domani non c'è più, così fa¬cilmente preso a spintoni e lasciato a squagliarsi al sole, assotti-gliandosi sempre più finché non si liquefa del tutto e gocciola via. Come sta facendo adesso Uomo delle Nevi. Si ferma, si asciuga il sudore dal viso, beve metà della sua bottiglia d'acqua. Spera di trovarne dell'altra da qualche parte, presto.

Più avanti le case si diradano e spariscono. C'è uno spazio oc¬cupato da parcheggi e magazzini, poi filo spinato teso tra pali di cemento, un cancello arzigogolato divelto. Fine dello sviluppo urbano incontrollato e limiti della plebopoli, inizio del territorio dei Recinti. Ecco l'ultima stazione del treno lampo sigillato, con i suoi colori da armatura di plastica da parco giochi. Qui non si corrono rischi, dicono quei colori. Ci si diverte come bambini.
Ma ora comincia la parte pericolosa. Fin qui ha sempre avuto qualcosa su cui potersi arrampicare o salire, o dietro cui rifugiar¬si in caso di un attacco laterale, ma ora si apre uno spazio senza ripari e con poche superfici verticali. Si tira il lenzuolo sul berret¬to da baseball per proteggersi dal riverbero del sole, avvolgendo¬si come un arabo, e continua a trascinarsi avanti, accelerando il più possibile l'andatura. Sa che si scotterà anche sotto il lenzuo¬lo, se rimarrà abbastanza a lungo là fuori: la sua migliore speran¬za è la velocità. Dovrà trovare un riparo prima di mezzogiorno, quando l'asfalto sarà troppo caldo per camminarci sopra.

Ora ha raggiunto i Recinti. Supera l'ingresso della CyroJeenyus, una delle aziende più piccole: gli sarebbe piaciuto essere una mosca sul muro quando le luci si spensero e duemila teste con¬gelate di milionari che aspettavano la resurrezione cominciaro¬no a squagliarsi al buio. Poi viene la Genie-Gnomes, con il fol¬letto mascotte che fa dondolare la testa dalle orecchie a punta dall'estremità di una provetta. Il neon è acceso, osserva: i circuiti solari devono funzionare ancora, sebbene non alla perfezione. Quelle insegne dovevano accendersi solo di notte.
E finalmente, la RejoovenEsense. Dove aveva commesso tan¬ti errori, frainteso tante cose, vissuto le sua ultima scorribanda. Più grande della OrganInc Farms, più grande della HelthWyzer. Più grande di tutte.
Supera la prima barriera con i detector guasti e i riflettori rot¬ti, quindi il gabbiotto del posto di controllo. Una guardia è a ter¬ra mezza dentro e mezza fuori. Uomo delle Nevi non si stupisce troppo dell'assenza di una testa: nei momenti di crisi le emozio¬ni si scatenano. Controlla che il tizio non abbia ancora la pisto¬la spray, ma niente da fare.
Poi viene un tratto privo di edifici. Terra di nessuno, lo chia¬mava Crake. Qui non ci sono alberi: avevano falciato qualunque cosa potesse fungere da nascondiglio, diviso il terreno in riqua¬dri delimitati da linee di sensori sensibili al calore e al movi¬mento. Lo strano effetto a scacchiera è già svanito; erbacce spuntano come ciuffi di peli su tutta la spianata. A Uomo delle Nevi occorrono pochi minuti per esaminare il suolo, ma a parte un gruppo di uccelli neri che si azzuffano su un oggetto a terra, non si muove nulla. Prosegue.
Ora è all'accesso giusto. Lungo la strada c'è una pista di og¬getti che la gente deve aver lasciato cadere mentre fuggiva, come una caccia al tesoro all'incontrario. Una valigia, uno zaino da cui si riversano abiti e gingilli; una borsa con il necessario per una notte, spaccata, e accanto uno spazzolino da denti rosa abbandonato. Un braccialetto; un fermaglio per capelli a forma di far¬falla; un taccuino, le pagine zuppe, la calligrafia illegibile.
Inizialmente i fuggitivi dovevano avere nutrito qualche spe¬ranza. Dovevano aver pensato che in seguito quegli oggetti sa¬rebbero tornati utili. Poi avevano cambiato idea e li avevano ab¬bandonati.

RejoovenEsense

È sudato e ansimante quando arriva al muro divisorio del Re¬cinto RejoovenEsense, alto sempre tre metri e mezzo ma non più elettrificato, con gli spunzoni di ferro mezzi arrugginiti. At¬traversa il cancello esterno, che a quanto pare è stato fatto salta¬re in aria, si ferma all'ombra di questo per mangiare la barretta energetica al cioccolato e bere il resto dell'acqua. Poi supera il fossato, le cabine delle sentinelle che un tempo ospitavano gli agenti armati del CorpSeCorps e i cubicoli rivestiti di vetro in cui si controllavano le apparecchiature di sorveglianza, quindi la torre di guardia fortificata con la porta d'acciaio - ormai aperta per sempre - dove una volta gli era stato intimato di mostrare l'impronta del pollice e l'iride dell'occhio.
Al di là c'è lo spettacolo che ricorda tanto bene: le residenze sparpagliate, come in un quartiere giardino, con grandi case in falso stile georgiano e falso Tudor e falsa campagna francese, le strade serpeggianti che conducono al campo da golf dei dipen¬denti, nonché ai loro ristoranti e night-club e cliniche e centri commerciali e campi da tennis coperti, e ai loro ospedali. A destra ci sono gli impianti di isolamento delle bioforme pericolose in quarantena, arancione chiaro, e le fortezze di vetro infrangibile a torma di cubo in cui ci si occupava di affari. In lontananza c'è la sua meta: il parco centrale, con la cupola del palazzo incantato di Crake che si scorge al di sopra degli alberi, rotonda, bianca e scin¬tillante, come una bolla di ghiaccio. Nel guardarla, rabbrividisce.
Ma non c'è tempo per inutili lamenti. Si dirige rapidamente lungo la strada principale, girando intorno ai mucchi di vestiti e carcasse umane rosicchiate. Non rimane molto oltre alle ossa: gli animali saprofagi hanno fatto il loro dovere. Al tempo in cui lo abbandonò, questo posto sembrava la scena di una sommossa e puzzava come un mattatoio, ma adesso tutto è quieto e il fetore è quasi completamente scomparso. A forza di grufolarci, i pro¬porci hanno distrutto i prati; le orme dei loro zoccoli sono ovunque, ma non fresche, per fortuna.
Il suo obiettivo principale è il cibo. Sarebbe sensato percor¬rere tutta la strada che conduce ai centri commerciali — là è più facile procurarsi un pasto sostanzioso - ma ha troppa fame. Deve anche allontanarsi dal sole, e subito.
Perciò prende la seconda a sinistra, che conduce a una delle zone residenziali. Lungo i marciapiedi le erbacce sono già fitte. La strada è circolare; nell'isola al suo centro un folto di cespu¬gli, contorti e non potati, risplende di fiori rossi e viola. Un ibri¬do esotico: in pochi anni saranno distrutti. Oppure si diffonde¬ranno, si infiltreranno ovunque, soffocheranno le piante native. Chi può dire quali? Ormai tutto il mondo è un unico vasto espe¬rimento incontrollato - com'è sempre stato, avrebbe detto Crake - e la dottrina delle conseguenze involontarie trova con¬tinue applicazioni.
La casa che sceglie è di medie dimensioni, in stile Regina Anna. La porta d'ingresso è chiusa a chiave, ma la finestra a pic¬coli vetri romboidali è sfondata: qualche sciacallo ormai con¬dannato deve essere stato lì prima di lui. Uomo delle Nevi si do¬manda cosa stesse cercando quel poveraccio: cibo, inutile dena¬ro, o solo un posto per dormire? Di qualsiasi cosa si trattasse, non gli sarebbe servito granché.
Beve qualche manata d'acqua da una vasca per uccelli in pie¬tra ornata di rane dall'aria stupida, ancora quasi piena dopo l'ac¬quazzone del giorno prima e non troppo sporca di escrementi di uccelli. Che germi portano gli uccelli, e sono anche nella loro merda? Dovrà rischiare. Dopo essersi spruzzato la faccia e il col¬lo, riempie la bottiglia. Poi studia la casa in cerca di tracce, di movimenti. Non può liberarsi dell'idea che qualcuno - qualcu¬no come lui - giaccia in attesa, dietro un angolo, dietro una por¬ta socchiusa.

Si toglie gli occhiali da sole, li annoda al lenzuolo. Poi si arram¬pica dentro attraverso la finestra rotta, una gamba e poi l'altra, gettando prima dentro il bastone. Ora è al buio. I peli delle braccia gli formicolano: la claustrofobia e l'energia negativa lo stanno già schiacciando. L'aria è densa, come se il panico si fos¬se condensato qui dentro e non avesse fatto ancora in tempo a dissiparsi. L'odore è quello di mille fogne.
«Ehi!» chiama. «C'è nessuno in casa?» Non può farne a meno: ogni casa gli parla di potenziali abitanti. Ha voglia di tor¬nare sui propri passi; la nausea gli ribolle in gola. Ma si tiene un angolo del suo rancido lenzuolo sul naso - almeno quello è il suo odore - e avanza attraverso l'ampio tappeto quasi polveriz¬zato, davanti alle fosche sagome dei mobili in stile bombati. C'è uno scricchiolio, un rumore di passi affrettati: i ratti hanno pre¬so possesso della casa. Avanza circospetto. Sa come lo vedono le bestiole: come una carogna ancora viva. Però sembrano veri rat¬ti, non serpratti. I serpratti non squittiscono, sibilano.
Squittivano, sibilavano, si corregge. Sono stati liquidati, sono estinti, deve battere su questo punto.
Prima le cose più importanti. Individua il mobiletto dei li¬quori nella sala da pranzo e lo esamina rapidamente. Una mez¬za bottiglia di Bourbon; nient'altro, solo alcuni vuoti. Niente si¬garette. Dev'essere stata una famiglia di non fumatori, oppure le ha sgraffignate lo sciacallo che lo ha preceduto. «Fanculo» dice alla credenza di quercia patinata.
Poi sale in punta di piedi le scale munite di guida che condu¬cono al primo piano. Perché così adagio, come se fosse un vero ladro? Non può farne a meno. Di sicuro ci sono delle persone qui, addormentate. Di sicuro lo sentiranno e si sveglieranno. Ma sa che è una sciocchezza.
Nel bagno c'è un uomo, disteso sulle piastrelle di terracotta, con indosso un pigiama a righe azzurre e marroncine; o meglio, quanto ne rimane. Strano, pensa Uomo delle Nevi, come in caso di emergenza un sacco di gente si dirigesse verso il bagno. In queste case i bagni erano le cose più vicine ai santuari, luoghi in cui potevi stare da solo a meditare. Anche a vomitare, a sangui¬nare dagli occhi, a cacarsi le budella, a cercare disperatamente a tastoni nell'armadietto dei medicinali le pillole che ti avrebbero salvato.
È un bel bagno. Una Jacuzzi, alle pareti sirene messicane di ceramica, le teste coronate di fiori, i capelli biondi che scendono on¬dulati, i capezzoli dipinti di rosa chiaro sui seni piccoli ma ton¬deggianti. Non gli dispiacerebbe una doccia - la casa è probabil¬mente dotata di una cisterna d'acqua piovana - ma nella vasca c'è una sagoma, una specie di poltiglia indurita. Prende un pezzo di sapone, per dopo, e controlla l'armadietto in cerca di crema sola¬re, senza successo. Un contenitore di BlyssPlus, mezzo pieno; un flacone di aspirine, che prende. Pensa di aggiungerci uno spaz-zolino da denti, ma lo disgusta mettersi in bocca lo spazzolino di un morto, perciò piglia solo il dentifricio. Per un sorriso più bian¬co, legge. Buon per lui, ha proprio bisogno di un sorriso più bian¬co, sebbene al momento non riesca a pensare al perché.
Lo specchio davanti all'armadietto è rotto: un ultimo atto di rabbia inutile, di protesta cosmica: Perché? Perché io? Lo capi¬sce, avrebbe fatto lo stesso. Avrebbe rotto qualcosa; trasforma¬to l'ultima fugace apparizione di sé in frammenti. Quasi tutti i vetri sono nel lavandino, ma sta attento a dove mette i piedi: come un cavallo, la sua vita dipende da essi. Se non può cam¬minare, è cibo per ratti.
Avanza lungo il corridoio. La padrona di casa è nella stanza da letto, ficcata sotto l'enorme piumino rosa e dorato, un braccio e una scapola fuori delle coperte, ossa e tendini in una camicia da notte stampata con un motivo leopardato. Ha il viso girato, per fortuna, ma i suoi capelli sono intatti, tutti d'un pezzo, come se si trattasse di una parrucca: radici scure, ciocche raggelate, una sor¬ta di chioma da fata. Sulla donna giusta poteva essere attraente.
C'è stato un periodo della sua vita in cui aveva l'abitudine di controllare i cassetti delle scrivanie altrui non appena se ne pre¬sentava l'occasione, ma in questa stanza non vuole farlo. In ogni caso, ci troverebbe le solite cose. Biancheria intima, stimolanti sessuali, bigiotteria, mescolati a mozziconi di matita, monete sfuse, spille di sicurezza e, se era fortunato, un diario. Quando era ancora alle superiori gli piaceva leggere i diari delle ragazze, con le loro lettere a stampatello e le sfilze di punti esclamativi e le frasi drastiche - amo amo amo, odio odio odio - e le sottoli¬neature colorate, come le lettere anonime che riceveva, più tar¬di, al lavoro. Aspettava che la ragazza fosse nella doccia per fare una perquisizione lampo. Naturalmente era il proprio nome che cercava, sebbene non sempre gli piacesse ciò che trovava.
Una volta aveva letto: Jimmy marmocchio ficcanaso lo so che stai leggendo, non lo sopporto solo perché ti ho scopato non vuol dire che mi piaci perciò STAI ALLA LARGA!!! Due righe rosse sotto non lo sopporto, tre sotto stai alla larga. Si chiamava Brenda. Ca¬rina, gran masticatrice di gomma, era seduta davanti a lui du¬rante l'ora di Vita pratica. Sul cassettone aveva un robocane a batterie solari che abbaiava, riportava un osso di plastica e sol¬levava la zampa per pisciare acqua gialla. Si stupiva sempre di come le ragazze più dure e maligne avessero nelle loro stanze i gingilli più svenevoli e smancerosi.
La toilette contiene la collezione standard di creme rassodan¬ti, trattamenti agli ormoni, fiale e iniezioni, cosmetici, acque di colonia. Nella penombra che filtra dagli avvolgibili a stecche questi oggetti lanciano cupi bagliori, come una natura morta la cui patina trasparente sia ormai divenuta opaca. Si spruzza con il contenuto di uno dei flaconi, una fragranza muschiata che spera copra gli altri odori della stanza. Crack Cocaine, dice l'e¬tichetta in lettere dorate in rilievo. Per un attimo pensa di berla, ma si ricorda del bourbon.
Poi si china a studiarsi nello specchio ovale. Non resiste agli specchi dei luoghi in cui si introduce, si dà una sbirciatina furti¬va ogni volta che può. È sempre più impressionante. A resti¬tuirgli lo sguardo è uno straniero con gli occhi velati, le guance scavate deturpate dalle cicatrici delle punture d'insetto. Sembra vent'anni più vecchio di quello che è. Sbatte gli occhi, si sorri¬de, tira fuori la lingua: l'effetto è francamente sinistro. Dietro di lui, nel vetro, l'involucro della donna nel letto sembra quasi una donna vera; come se in un qualsiasi momento potesse girarsi verso di lui, aprire le braccia, sussurrargli di andare lì e posse¬derla. Lei e i suoi capelli da fata.

Oryx aveva una parrucca così. Le piaceva travestirsi, cambiare aspetto, fingere di essere donne differenti. Camminava impetti¬ta per la stanza, faceva un piccolo strip, si dimenava e si mette¬va in posa. Diceva che agli uomini piaceva la varietà.
«Chi te l'ha detto?» le domandò Jimmy.
«Oh, qualcuno». E giù a ridere. Fu subito prima che lui la prendesse in braccio e la parrucca cadesse... Jimmyyy! Ma ades¬so non può permettersi di pensare a Oryx.
Si ritrova in piedi in mezzo alla stanza, le mani penzoloni, la bocca aperta. «Sono stato uno stupido» dice ad alta voce.

Accanto c'è la stanza di un bambino, con un computer di alle¬gra plastica rossa, uno scaffale di orsacchiotti, un fregio di carta da parati raffigurante giraffe e un mucchio di cd contenenti - a giudicare dalle immagini che vi sono riprodotte - alcuni giochi elettronici molto violenti. Ma non c'è nessun bambino, nessun corpo di bambino. Forse era stato cremato nei pochi giorni ini¬ziali in cui le cremazioni avevano ancora luogo; o forse si era spaventato quando i genitori erano caduti a terra e avevano co¬minciato a gorgogliare sputando sangue, ed era scappato. Forse era uno dei mucchietti di ossa e vestiti che ha superato per stra¬da. Alcuni erano molto piccoli.
Individua l'armadio della biancheria nel corridoio e sostitui¬sce il suo lenzuolo sporco con uno pulito, questa volta non a tin¬ta unita ma con un motivo di arabeschi e fiori. Farà scalpore tra i bambini dei Craker. «Guarda» diranno. «A Uomo delle Nevi spuntano le foglie!» Non li stupirebbe più di tanto. C'è un'inte¬ra pila di lenzuoli puliti nell'armadio, ordinatamente piegati, ma prende solo quello. Non vuole caricarsi di roba di cui non ha ve¬ramente bisogno. Se sarà il caso, potrà sempre tornare a pren¬derne altri.
Sente la voce di sua madre che gli dice di gettare il lenzuolo smesso tra la biancheria sporca - i vecchi percorsi neurologici sono duri a morire - ma invece lo fa cadere a terra e torna di sot¬to, in cucina. Spera di trovarci del cibo in scatola, stufato di soia o fagioli e finti wurstel, qualsiasi cosa contenga proteine - an¬drebbe bene anche qualche verdura, sintetica o meno, tutto fa al caso suo - ma chiunque abbia sfondato la finestra ha anche ri¬pulito la credenza. C'è una manciata di cereali in un contenito¬re di plastica con il coperchio a scatto. Perciò mangia quelli; sono una vera schifezza, duri come cartone, deve masticarli a lungo e bere acqua per mandarli giù. Trova tre pacchetti di anacardi, nelle confezioni del treno lampo, e ne trangugia subito uno; non è troppo stantio. Trova anche una scatoletta di sardine SoyOBoy. Per il resto c'è solo una bottiglia mezzo vuota di ket¬chup marrone scuro, che sta fermentando.
Ha abbastanza esperienza per non aprire il frigorifero. In par¬te il puzzo nella cucina viene di lì.
In uno dei cassetti sotto il banco di lavoro c'è una torcia elet¬trica funzionante. La prende, con un paio di mozziconi di can¬dela e qualche fiammifero. Trova un sacchetto di plastica per l'immondizia, proprio là dove dovrebbe stare, e ci infila tutto, comprese le sardine e gli altri due pacchetti di anacardi, il bour¬bon, il sapone e l'aspirina. Ci sono alcuni coltelli, non molto af¬filati; ne sceglie due, e una piccola pentola. Tornerà utile se riu¬scirà a trovare qualcosa da cuocere.
In fondo al corridoio, tra la cucina e il ripostiglio, c'è un pic¬colo studio. Una scrivania con un computer fuori uso, un fax, una stampante; e un contenitore con penne di plastica, uno scaffale con libri di consultazione: un vocabolario, un diziona¬rio dei sinonimi, un Bartlett, la Norton Anthology of Modern Poetry. Allora il tizio col pigiama a righe al piano di sopra do¬veva essere un amante delle parole: un autore di discorsi per la RejoovenEsense, un idraulico ideologico, un manipolatore mediatico, uno spaccacapelli freelance. Poveraccio, pensa Uomo delle Nevi.
Accanto a un vaso di fiori avvizziti e a una foto incorniciata di padre-e-figlio - dunque era un maschio, di sette o otto anni - c'è un bloc-notes. Sulla prima pagina ci sono scarabocchiate le pa¬role FAR FALCIARE IL PRATO. Poi, in lettere più piccole e sbiadite, Chiamare la clinica... La penna a sfera è ancora sul foglio, quasi fosse caduta da una mano che ha perso le forze: dovevano esse¬re sopraggiunte all'improvviso, proprio in quel momento, la ma¬lattia e la consapevolezza di essa. Uomo delle Nevi immagina il tizio che se ne rende conto guardando le sue mani che si muo¬vono. Dev'essere stato uno dei primi casi, altrimenti non si sa¬rebbe preoccupato ancora del suo prato.
Si sente di nuovo osservato. Perché ha la sensazione di esser¬si intrufolato nella propria casa? La sua casa di venticinque anni prima, e di essere lui il bambino sparito.

Tornado

Uomo delle Nevi si fa strada nella penombra del soggiorno fino alla porta di casa, programmando le sue mosse successive. Do¬vrà trovarne una più ricca di cibi in scatola, oppure un centro commerciale. Potrebbe accamparsi là per la notte, su una delle scaffalature più alte; in quel modo potrebbe prendersela calma, scegliere solo il meglio. Chissà? Potrebbero esserci ancora delle barrette al cioccolato. Poi, quando saprà di aver sistemato la questione cibo, potrà recarsi alla cupola-bolla, rubacchiare qual¬cosa all'arsenale. Quando avrà di nuovo in mano una pistola spray, si sentirà molto più al sicuro.
Butta fuori il bastone dalla finestra rotta, poi esce anche lui, stando attento a non strappare il suo nuovo lenzuolo a fiori o a tagliarsi o a rompere il sacchetto di plastica sul vetro dentellato. Proprio là davanti, sul prato incolto, impedendo l'accesso alla strada, ci sono cinque proporci che grufolano in un mucchietto di rifiuti costituito - si augura - di soli vestiti. Un maschio, due scrofe, due piccoli. Quando lo sentono, smettono di mangiare e sollevano la testa: lo vedono, bene. Alza il bastone, glielo agita contro. Di solito, se fa così, scappano via - i proporci hanno la memoria lunga, e i bastoni sembrano pungoli elettrici - ma que¬sta volta non arretrano. Annusano nella sua direzione, come perplessi; forse sentono il profumo che si è spruzzato addosso. Magari contiene feromoni sessuali simili a quelli dei mammiferi: sarebbe la sua solita fortuna. Calpestato a morte da proporci li¬bidinosi. Che fine idiota.
Che può fare se caricano? Ha un'unica scelta: arrampicarsi di nuovo attraverso la finestra. Ne ha il tempo? Nonostante le gambe irsute che sostengono la loro enorme mole, quelle dan¬nate bestie corrono molto velocemente. I coltelli da cucina sono nel sacchetto dell'immondizia; in ogni caso, sono troppo corti e fragili per ferire seriamente un proporco di dimensioni normali. Sarebbe come provare a conficcare un pelapatate nel copertone di un camion.
Il maschio abbassa la testa, curva il collo massiccio e le spalle e si dondola inquieto avanti e indietro, incerto sul da farsi. Ma gli altri hanno già cominciato ad allontanarsi, perciò il maschio ci ripensa e li segue, esprimendo il suo disprezzo e il suo scher¬no in un mucchio di escrementi che molla cammin facendo. Uomo delle Nevi rimane immobile finché non sono scomparsi, poi avanza con cautela, guardandosi spesso alle spalle. Ci sono troppe tracce di proporci là in giro. Quelle bestie sono abba¬stanza furbe da fingere una ritirata e nascondersi dietro il primo angolo. Lo travolgerebbero, poi, dopo averlo calpestato, lo squarcerebbero, divorando per primi gli organi interni. Conosce i loro gusti. Un animale sveglio e onnivoro, il proporco. Ad al¬cuni di loro cresce perfino del tessuto neocorticale umano nelle teste scaltre e malvage.
Sì: eccoli là, più avanti. Escono da dietro un cespuglio, tutti e cinque; no, tutti e sette. Guardano nella sua direzione. Sarebbe un errore voltarsi o correre. Solleva il bastone e avanza di lato, tornando da dove è venuto. All'occorrenza può rifugiarsi nel gabbiotto del posto di controllo e rimanerci finché non se ne sa¬ranno andati. Poi dovrà dirigersi verso la cupola-bolla per vie traverse, tenendosi ai lati delle strade, dove è possibile fuggire.
Ma nel tempo che gli ci vuole a coprire la distanza, scivolan¬do via in una specie di danza grottesca mentre i proporci conti¬nuano a fissarlo, fosche nuvole sul punto di rompersi sono arri¬vate da sud, oscurando il sole. Non è il solito temporale pome¬ridiano: è troppo presto, e poi il cielo ha una minacciosa sfuma¬tura giallo-verdastra. È un tornado, e grosso. Ora i proporci sono scomparsi, in cerca di un riparo.
Sta davanti al posto di controllo, guardando il temporale che avanza. È uno spettacolo grandioso. Una volta ne ha visto uno risucchiare un documentarista dilettante con la sua videocame¬ra. Si domanda come se la cavino i Figli di Crake, giù alla spiag¬gia. Peggio per Crake se i risultati viventi di tutte le sue teorie saranno fatti turbinare in cielo o spazzati in mare da un'immen¬sa onda. Ma non accadrà: in caso di mare mosso, gli argini for¬mati dalle macerie cadute li proteggeranno. Quanto al tornado, sono già sopravvissuti a uno di essi. Si rifugeranno nella caverna centrale, tra la baraonda di blocchi di cemento che chiamano la casa dei tuoni, e aspetteranno che passi.
I venti che annunciano il tornado arrivano in tutta la loro vio¬lenza, sollevando detriti sul terreno aperto. Un lampo sfreccia tra le nuvole. Vede il sottile cono scuro zigzagare verso il basso; poi cala l'oscurità. Fortunatamente il posto di controllo è incor¬porato nell'attiguo edificio della sorveglianza, e quelle costru¬zioni sono come bunker, robuste e solide. Ci si infila mentre la pioggia comincia a cadere.
Il vento urla, un tuono si schianta, un suono vibrante si diffonde mentre tutto ciò che è ancora fissato a terra ronza come l'ingranaggio di un motore enorme. Un grosso oggetto colpisce la parete esterna. Uomo delle Nevi si spinge all'interno attraver¬so una porta e poi un'altra, frugando nel sacchetto dell'immon¬dizia in cerca della torcia. L'ha tirata fuori e ci sta armeggiando, quand'ecco un altro schianto gigantesco, e le luci sopra di lui lampeggiano. Un circuito solare precedentemente bruciato de¬v'essere rientrato in funzione.
Desidera quasi che le luci non si siano accese: nell'angolo c'è un paio di biotute, qualsiasi cosa ci sia rimasto dentro è piuttosto malridotto. Schedari aperti, carta sparpagliata ovunque. È come se le guardie fossero state sopraffatte. Forse cercavano di impe¬dire alla gente di uscire dai cancelli; c'era stato un tentativo di far osservare una quarantena, ricorda. Ma gli elementi antisociali, che a quel punto dovevano aver annoverato quasi tutti, avranno fatto irruzione e devastato i dossier segreti. Quanto è stato ottimista da parte loro credere che una qualsiasi di quelle scartoffie o di quei documenti potesse ancora risultare utile a qualcuno.
Si costringe ad arrivare fino alle tute; le spinge con il bastone, le rigira. È meglio di quanto pensasse, non c'è troppa puzza, solo un paio di scarafaggi; i tessuti molli sono scomparsi quasi com¬pletamente. Ma non riesce a trovare armi. Gli antisociali devono essersele portate via, come avrebbe fatto lui. Come ha fatto.
Lascia la stanza più interna, ritorna all'area dell'addetto alla ricezione, nella zona con il bancone e la scrivania. A un tratto è molto stanco. Si siede sulla sedia ergonomica. È da un pezzo che non si siede su una sedia, e si sente strano. Decide di tirare fuo¬ri i fiammiferi e i mozziconi di candela, casomai le luci si spe¬gnessero di nuovo; nel frattempo beve un sorso dell'acqua della vasca per uccelli e mangia il secondo pacchetto di anacardi. Da fuori giunge l'ululato del vento, un rumore lugubre come un grande animale liberato dalla catena e infuriato. Dalle porte che ha chiuso entrano raffiche che sollevano polvere; tutto viene sbatacchiato. Gli tremano le mani. La cosa comincia a dargli sui nervi, più di quanto non si conceda di ammettere.
E se là dentro ci fossero dei ratti? Devono esserci. E se ci sarà un'inondazione? Gli correranno sulle gambe! Solleva le gambe sulla sedia, le piega sui braccioli ergonomici, ci infila sotto il len¬zuolo a fiori. Non ha speranza di sentire uno squittio rivelatore, lo strepito del temporale è troppo forte.
Un grand'uomo deve levarsi ad affrontare le sfide della vita, dice una voce. Chi è questa volta? Un conferenziere motivazionale della Rejoovtv, qualche fatuo parassita in doppiopetto. Un chiacchierone a noleggio. Questa è sicuramente la lezione che ci ha impartito la storia. Più alto è l'ostacolo, più grande il salto. Do¬ver fronteggiare una crisi ti fa crescere come persona.
«Io non sono cresciuto come persona, cretino» grida Uomo delle Nevi. «Guardami! Mi sono ristretto! Ho il cervello come un acino d'uva!»
Ma non sa com'è, più grande o più piccolo, perché non c'è nessuno con cui misurarsi. È perso nella nebbia. Senza punti di riferimento.

Le luci si spengono. Ora è da solo al buio.
«E allora?» si dice. «Prima eri da solo alla luce. Non c'è una grande differenza». Ma c'è.
Tuttavia è pronto. Riprende il controllo di sé. Mette in piedi la torcia, sfrega un fiammifero al suo fievole bagliore, riesce ad accendere una candela. Vacilla nella corrente d'aria, però bru¬cia, proiettando sulla scrivania un piccolo cerchio scintillante giallo pastello, trasformando la stanza intorno in un'antica ca¬verna, buia ma protettiva.
Fruga nel sacchetto di plastica, trova il terzo pacchetto di anacardi, lo apre strappandolo, ne mangia il contenuto. Tira fuori la bottiglia di bourbon, ci pensa, poi svita il tappo e beve. Giù giù giù, dice la scritta del fumetto nella sua testa. Superalcolico.
Oh, tesoro, dice una voce di donna da un angolo della stanza. Te la stai cavando proprio bene.
«No, non è vero» dice lui.
Un soffio d'aria - whuff! - gli colpisce le orecchie, spegne la candela. Non si cura di riaccenderla, perché il bourbon sta fa¬cendo effetto. Preferisce stare al buio. Sente Oryx fluttuare ver¬so di lui sulle sue soffici ali piumate. Ormai sarà lì da un mo¬mento all'altro. Siede rannicchiato nella sedia con la testa sulla scrivania e gli occhi chiusi, in uno stato di infelicità e pace.

10

Volteggiamenti

Dopo quattro anni scombinati Jimmy uscì dalla Martha Graham con la sua tetra, squallida laurea in problematiche. Non si aspet¬tava di trovare subito un lavoro, e in questo non si ingannò. Per settimane impacchettò le sue misere credenziali e le spedì, per vedersele rimandare troppo in fretta, a volte unte di grasso e con le ditate di qualcuna delle ultime ruote del carro, che le sfoglia¬va durante il pranzo. Poi rimetteva a posto le pagine sporche e rispediva il pacchetto.
Si era procurato un lavoro estivo alla biblioteca della Martha Graham, dove controllava vecchi libri e li destinava alla distru¬zione, decidendo quali dovessero restare sulla terra su supporto digitale, ma a metà del periodo perse il posto perché non sop¬portava di buttare via niente. Dopodiché andò a vivere con la sua ragazza del momento, un'artista concettuale, una brunetta dai capelli lunghi chiamata Amanda Payne. Il nome era un'in¬venzione, come molte cose sul suo conto: in realtà si chiamava Barb Jones. Aveva dovuto reinventarsi, disse a jimmy, perché la Barb originaria era stata talmente fatta a pezzi dalla sua rozza fa¬miglia di bianchi reietti e strafatti di zucchero, che si era ridotta a uno scarto da mercatino dell'usato, come un sonaglio a vento fatto di forchette storte o una sedia a tre gambe.
È così che aveva attratto Jimmy, per il quale «mercatino del¬l'usato» era un concetto esotico: aveva voluto rimetterla in sesto, ripararla, rinfrescare la vernice. Farla come nuova. «Hai buon cuore» gli aveva detto la prima volta che l'aveva lasciato pene¬trare nelle sue difese. Rettifica: nella sua salopette.
Amanda aveva un appartamento malandato nel condominio di un Modulo, che divideva con altri due artisti, due ragazzi. Ve¬nivano tutti e tre dalle plebopoli, frequentavano la Martha Graham grazie a una borsa di studio e si consideravano supe¬riori ai rampolli privilegiati, smidollati e degenerati dei Recinti, come ad esempio Jimmy. Loro avevano dovuto essere tosti, af¬frontare le difficoltà con coraggio, lottare per andare avanti. Ri¬vendicavano una lucidità che poteva derivare soltanto dall'esse¬re stati affilati sulla mola della realtà. Uno dei ragazzi aveva ten¬tato il suicidio, il che gli conferiva - implicitamente - una mar¬cia in più. L'altro si era fatto di eroina e l'aveva anche spacciata, prima di dedicarsi all'arte, o forse in contemporanea. Dopo le prime due settimane, durante le quali li aveva trovati affasci¬nanti, Jimmy aveva deciso che quei due non erano solo dei contaballe, ma anche degli stronzetti pieni di sé.
I due che non erano Amanda sopportavano Jimmy, ma solo a malapena. Per ingraziarseli lui faceva un turno in cucina di tan¬to in tanto - tutti e tre gli artisti deridevano i microonde e si cuo¬cevano da sé gli spaghetti - ma come cuoco non era granché. Una sera fece l'errore di portare a casa un Cestino di Pepite di pollo ChickieNobs - dietro l'angolo aveva aperto un negozio della catena e la roba non era poi malaccio, se riuscivi a dimen-ticare tutto ciò che sapevi sulla sua origine - dopodiché i due che non erano Amanda gli avevano rivolto a stento la parola.
Questo non impediva ai due di parlare tra loro. Avevano un sacco da dire su tutti i tipi di porcherie di cui sostenevano di sa¬pere qualcosa, e pontificavano in tono acceso, pronunciando ar¬ringhe e prediche indirette che in realtà - Jimmy intuiva - era¬no rivolte a lui. A sentir loro il disastro era cominciato con l'in¬venzione dell'agricoltura, sei o settemila anni prima. Da allora l'esperimento umano era stato condannato, prima a un giganti¬smo dovuto al consumo di tutte le riserve alimentari, e poi all'e-stinzione, una volta che tutte le sostanze nutritive disponibili fossero state fatte fuori.
«Avete le risposte?» chiedeva Jimmy. Era arrivato al punto di divertirsi a punzecchiarli, perché chi erano loro per giudicare? Gli artisti, che non erano sensibili all'ironia, dicevano che l'ana¬lisi corretta era una cosa, ma le soluzioni corrette un'altra, e la mancanza di queste ultime non invalidava la prima.
In ogni modo, forse non c'era soluzione. La società umana, affermavano, era una specie di mostro, i cui principali sottoprodotti erano cadaveri e macerie. Non imparava mai, continuava a fare gli stessi errori idioti, barattando il profitto a breve termine con la sofferenza a lungo termine. Era come una lumaca gigan¬tesca che avanzava divorando inesorabilmente tutte le altre bioforme del pianeta, riducendo in briciole la vita sulla terra ed espellendola dal didietro sotto forma di pezzi di robaccia di pla¬stica prodotta industrialmente e subito obsoleta.
«Come i vostri computer?» borbottava Jimmy. «Quelli su cui create la vostra arte?»
Ben presto, dicevano gli artisti, ignorandolo, non sarebbe ri¬masto altro che una serie di lunghi condotti sotterranei che avrebbero ricoperto la superficie del pianeta. L'aria e la luce al loro interno sarebbero state artificiali, dal momento che gli stra¬ti di ozono e di ossigeno del pianeta Terra sarebbero stati com¬pletamente distrutti. Le persone sarebbero scivolate attraverso questi condotti in fila indiana, tutte nude, vedendo unicamente il buco del culo di chi le precedeva nella fila, con l'urina e gli escrementi che si sarebbero riversati sul pavimento dai loro ori¬fizi, finché non sarebbero state selezionate a caso da un mecca¬nismo per essere poi risucchiate da un tunnel laterale, sminuz¬zate e date in pasto agli altri attraverso una serie di appendici a forma di capezzolo all'interno del condotto. Il sistema sarebbe stato autosostentato e perpetuo, e avrebbe servito tutti equa¬mente.
«Dunque suppongo che abolireste la guerra» disse Jimmy, «e che saremmo tutti forniti di robuste ginocchiere. Ma il sesso? Non è così facile, stipati in un condotto come quello». Amanda gli lanciò un'occhiata furiosa. Furiosa, ma complice: si capiva che si era chiesta la stessa cosa.

Quanto ad Amanda, non era molto loquace. Era un'amante del¬le immagini, non delle parole, diceva: sosteneva di pensare in immagini. Questo stava bene a Jimmy, perché un po' di sinestesia non guastava mai.
«Allora, cosa vedi quando faccio questo?» le domandava nel loro primo periodo, il più focoso.
«Fiori» diceva lei. «Due o tre. Rosa».
«E se faccio quest'altro? Cosa vedi?»
«Fiori rossi. Rossi e viola. Cinque o sei!»
«E adesso? Oh, tesoro, ti amo!»
«Al neon!» Poi sospirava, e gli diceva: «Questa volta era l'in¬tero mazzo».
Jimmy era sensibile a questi suoi fiori invisibili: dopo tutto erano un tributo ai suoi talenti. Lei aveva anche un culo molto bello, e le tette erano autentiche, ma - lo aveva notato presto - aveva un che di duro negli occhi.
Originariamente Amanda era del Texas; sosteneva di ricorda¬re il posto prima che si prosciugasse e volasse via, nel qual caso, pensava Jimmy, doveva avere circa dieci anni in più di quanti ne dichiarava. Aveva lavorato per qualche tempo a un progetto chia¬mato Scultura di vùlture. L'idea era quella di portare una gran quantità di carcasse di animali in terreni deserti o nei parcheggi di fabbriche abbandonate e disporle in modo da formare parole, aspettare finché gli avvoltoi non scendevano per ridurli in bran¬delli, quindi fotografare l'intera scena da un elicottero. All'inizio aveva attirato un sacco di pubblicità, come pure vari sacchi di let¬tere di insulti e di minacce di morte da parte dei Giardinieri di Dio e di altri pazzi isolati. Una delle lettere era della vecchia com¬pagna di stanza di Jimmy alla casa degli studenti, Bernice, che ave¬va notevolmente alzato il suo volume retorico.
Poi un vecchio mecenate rugoso e depravato, che aveva accu¬mulato un paio di fortune con una catena di stabilimenti in cui si producevano parti di cuore, le aveva elargito una sostanziosa sovvenzione, illudendosi che quanto stava facendo fosse geniale roba d'avanguardia. Era stato un bene, diceva Amanda, perché senza quel gruzzolo avrebbe dovuto abbandonare le sue crea¬zioni artistiche: gli elicotteri costano, e poi naturalmente c'era-no le autorizzazioni speciali. Gli uomini del CorpSeCorps erano davvero ossessivi riguardo allo spazio aereo, diceva; sospettava¬no chiunque di voler sferrare un attacco nucleare dall'alto, e praticamente dovevi farteli arrampicare nelle mutande prima che ti lasciassero volare da qualche parte con un elicottero affit¬tato, a meno che non fossi un tizio di qualche Recinto generoso nel distribuire bustarelle.
Le parole che volteggiava - l'espressione era sua - dovevano essere di quattro lettere. Ci rifletteva a lungo: ogni lettera del¬l'alfabeto aveva una vibrazione, una carica positiva o negativa, perciò le parole dovevano essere scelte con cura. Pensava in quel modo di dare loro vita e quindi di ucciderle. Era una tec¬nica efficace - «Come guardare Dio che pensa», aveva dichiarato in un dibattito sulla Rete. Finora aveva creato PENA - un gio¬co di parole con il suo cognome, come aveva osservato in alcu¬ne interviste nelle chat-room - GOLA, e poi SENO. Durante l'e¬state in cui stava con Jimmy passava un brutto periodo, perché era bloccata sulla parola successiva.
Finalmente, quando Jimmy pensava di non poter più soppor¬tare gli spaghetti bolliti, e la vista di Amanda con lo sguardo per¬so nel vuoto mentre si masticava una ciocca di capelli non gli pro¬curava più un attacco di libidine ed estasi, riuscì a trovare un la¬voro. Era alla AnooYoo, un'azienda in uno dei Recinti minori, situato talmente vicino a una delle plebopoli più fatiscenti che avrebbe potuto benissimo farne parte. Non era molta la gente che ci avrebbe lavorato se solo avesse avuto altre occasioni, o almeno questa fu l'idea che Jimmy si fece il giorno in cui vi si recò per il colloquio; il che poteva spiegare i modi leggermente imbarazzati degli esaminatori. Avrebbe scommesso che prima di lui erano sta¬ti mandati al diavolo una decina o due di ragazzi in cerca di lavo¬ro. Bene, trasmise loro telepaticamente, forse non sono quello che avete in mente, ma almeno costo poco.
Ciò che li aveva colpiti, dissero gli esaminatori - che erano due, una donna e un uomo - era la sua tesi sui manuali di au¬toaiuto del Ventunesimo secolo. Uno dei loro prodotti princi¬pali, gli spiegarono, erano gli articoli di automiglioramento; non più libri, naturalmente, ma dvd, cd-rom, siti Web e così via. Non erano tanto i prodotti educativi in sé a creare plusvalenze, spie¬garono, quanto l'attrezzatura e le medicine alternative necessarie per ottimizzare l'effetto. Mente e corpo procedevano di pari passo, e il compito di Jimmy sarebbe stato gestire la parte men¬tale della cosa. In altre parole, le iniziative promozionali.
«La gente vuole la perfezione» disse l'uomo. «Dentro di sé».
«Ma ha bisogno che le vengano indicati i gradini che portano ad essa» disse la donna.
«In un ordine semplice» disse l'uomo.
«Con un atteggiamento stimolante» disse la donna. «E posi¬tivo».
«Le piace sentir parlare del prima e del dopo» disse l'uomo. «È l'arte del possibile. Ma senza garanzie, naturalmente».
«Lei ha mostrato una grande capacità di capire il processo» disse la donna. «Nella sua tesi. L'abbiamo trovata molto matu¬ra».
«Se si conosce un secolo, si conoscono tutti i secoli» disse l'uomo.
«Però gli aggettivi cambiano» osservò Jimmy. «Non c'è nien¬te di peggio degli aggettivi dell'anno scorso».
«Esattamente!» esclamò l'uomo, come se Jimmy avesse appe¬na risolto l'enigma dell'universo in un lampo accecante. Rice¬vette una stretta di mano spezzadita dall'uomo; dalla donna ebbe un sorriso affettuoso ma vulnerabile, che lo lasciò a do¬mandarsi se fosse o meno sposata. La paga all'AnooYoo non era granché, ma potevano esserci altri vantaggi.

Quella sera raccontò ad Amanda Payne della sua fortuna. Ulti¬mamente lei aveva avuto da ridire sui soldi - o meglio, aveva in¬terrotto i silenzi prolungati e assorti che erano la sua specialità con alcune esplicite osservazioni sul come ognuno dovesse fare la propria parte - perciò pensò che sarebbe stata contenta. A let¬to le cose non erano andate tanto bene negli ultimi tempi, dal suo passo falso con le Pepite di pollo, in effetti. Forse ora si sa¬rebbero ripresi, in tempo per un finale sincero, rumoroso e pie¬no di azione. Stava già provando le battute con cui sarebbe usci¬to di scena: Non sono la persona giusta per te, meriti di meglio, ti rovinerò la vita, e così via. Ma la cosa più efficace era arrivarci pian piano, perciò si buttò a parlare del nuovo lavoro.
«Ora potrò portare a casa la pagnotta» concluse in un tono che sperò suonasse accattivante ma responsabile.
Amanda non rimase colpita. «Dov'è che andrai a lavorare?» fu il suo commento; il punto era, come si scoprì, che la AnooYoo era un mucchio di topi di fogna che esistevano unica¬mente per speculare sulle fobie e vuotare i conti in banca di an¬siosi e creduloni. A quanto pare, fino a poco tempo prima Amanda aveva avuto un'amica che aveva firmato per partecipa¬re a un programma di cinque mesi, pubblicizzato come capace di curare contemporaneamente depressione, rughe e insonnia, e che si era spinta oltre ogni limite - in realtà oltre il davanzale del suo appartamento al decimo piano - per colpa di non so che specie di corteccia d'albero del Sud America.
«Potrei sempre rifiutare» disse Jimmy, quando gli fu raccon¬tata quella storia. «Potrei unirmi ai ranghi dei disoccupati permanenti. Oppure potrei continuare a fare il mantenuto, come adesso. Scherzo! Scherzo! Non uccidermi!»
Nei giorni seguenti Amanda fu più silenziosa che mai. Poi gli annunciò che si era sbloccata artisticamente: le era venuta in mente la prossima parola chiave per le sue sculture da avvoltoi.
«E qual è?» domandò Jimmy, cercando di sembrare interessato.
Lo guardò meditabonda. «Love» disse.

AnooYoo
Jimmy si spostò nell'appartamento per i dipendenti di grado in¬feriore fornitogli nel Recinto AnooYoo: camera da letto in una nicchia, cucinino, mobili stile anni Cinquanta. Come abitazione era solo a malapena al di sopra della sua stanza nella casa dello studente della Martha Graham, ma se non altro c'era meno mo¬vimento di insetti. Scoprì abbastanza presto che, per l'azienda, era una bestia da soma e uno schiavo. Doveva spremersi le meningi e passare dieci ore al giorno a vagare nei labirinti dei dizionari di si¬nonimi e ad abborracciare prolissità. Poi nelle alte sfere valutava¬no le sue proposte, gliele restituivano perché le rivedesse, gliele restituivano di nuovo. Vogliamo di più... è meno... non ci siamo. Ma con il tempo migliorò, qualunque cosa significasse.
Creme cosmetiche, attrezzi ginnici, barrette energetiche per trasformare l'apparato muscolare in una strepitosa meraviglia di granito scolpito. Pillole per farti diventare più grasso, più ma¬gro, più peloso, più calvo, più bianco, più marrone, più nero, più giallo, più sexy e più felice. Era compito suo descrivere e magnificare, evocare la visione di quanto si poteva diventare, e con quanta facilità! Speranza e paura, desiderio e repulsione, questo era il suo armamentario, con questo si sbizzarriva. Una volta ogni tanto inventava una parola - tensicità, fibraceo, feromonimo - ma non fu mai colto in fallo. Ai suoi capi piacevano quelle scritte minuscole sulle confezioni, perché avevano un'aria scientifica e risultavano convincenti. Avrebbe dovuto essere contento del successo che riscuoteva con quelle composizioni verbali, e invece si deprimeva. Le note dall'alto in cui gli si di¬ceva che aveva fatto un buon lavoro non significavano niente per lui, perché erano state dettate da semianalfabeti; provavano soltanto che alla AnooYoo nessuno era capace di apprezzare quanto era stato in gamba. Arrivò a capire perché i serial killer mandassero indizi utili alla polizia.
La sua vita sociale era - per la prima volta da un'eternità - uno zero: non si era arenato in un simile deserto sessuale da quando aveva otto anni. Amanda Payne scintillava nel passato come una laguna perduta, i suoi coccodrilli per il momento un bel ricordo. Perché l'aveva abbandonata in maniera così super¬ficiale? Perché era impaziente di provare la prossima della serie. Ma l'esaminatrice della AnooYoo in cui aveva riposto tante spe¬ranze non si era più vista, e le altre donne che incontrava, in uf¬ficio o nei bar del Recinto, erano o gretti pescecani arrivisti o così affamate emotivamente che perfino Jimmy le evitava come gineprai. Si era ridotto a flirtare con le cameriere, ma anche quelle lo trattavano con freddezza. Avevano già visto giovanotti dotati di parlantina, sapevano che socialmente non era nessuno.
In mensa era soltanto un ragazzo nuovo, ancora una volta solo, che ricominciava daccapo. Iniziò a mangiare SoyOBoyburger al centro commerciale del Recinto, oppure prendeva una confezione untuosa di Pepite di pollo ChickieNobs per consu¬marla davanti al computer durante gli straordinari. Ogni setti¬mana il Recinto organizzava un barbecue sociale, un'accozzaglia di gente a cui ci si aspettava che partecipassero tutti i dipenden¬ti. Per Jimmy erano occasioni terribili. Non aveva l'energia per lavorarsi la gente, aveva appena terminato di scrivere innocue fesserie; gironzolava ai margini mangiucchiando un soydog bru¬ciacchiato e facendo silenziosamente a pezzi chiunque gli capi¬tasse a tito. Tette cascanti, diceva la nuvoletta del pensiero sulla sua testa. Cervelloditofu facciadiculo. Maestro di aria fritta. Don¬nafrigo. Si venderebbe sua nonna. Bue culomolle tremolante. Co¬glione pallone gonfiato.
Riceveva saltuarie e-mail da suo padre; un biglietto di com¬pleanno elettronico, magari, qualche giorno dopo il suo vero compleanno, qualcosa con sopra dei proporci che ballavano, quasi avesse ancora undici anni. Buon compleanno, Jimmy, che tutti i tuoi sogni si realizzino. Ramona gli mandava messaggi amichevoli e scritti per dovere: ancora nessun fratellino in arrivo, diceva, ma ci stavano ancora «lavorando». Lui non desiderava immaginare i dettagli zuppi di ormoni, innaffiati di pozioni e im¬piastrati di gelatina di un simile lavoro. Se nulla di «naturale» accadeva al più presto, diceva Ramona, avrebbero provato «qualcos'altro» con una delle agenzie - Infantade, Foetility, Bimboperfetto, una di queste. Le cose erano molto cambiate in quel campo da quando era arrivato Jimmy! (Era arrivato, come se non fosse davvero nato, ma fosse solo passato a fare una visi¬ta). Stava facendo le sue «ricerche», perché naturalmente vole¬vano il meglio in cambio del loro denaro.
Fantastico, pensava Jimmy. Avrebbero fatto dei giri di prova, e se quei bambini non si fossero dimostrati all'altezza li avreb¬bero riciclati per sfruttarne gli organi, finché alla fine non avreb¬bero trovato qualcosa che soddisfacesse tutte le loro esigenze: un ragazzino perfetto in ogni senso, non solo un genio della ma¬tematica, ma anche bello come il sole. Poi avrebbero caricato questo ipotetico bambino prodigio delle loro sproporzionate aspettative, finché quel poveretto non sarebbe esploso per lo stress. Jimmy non lo invidiava.
(Lo invidiava).
Ramona invitò Jimmy per le vacanze, ma lui non aveva voglia di andare, perciò addusse a giustificazione il troppo lavoro. Il che era vero, in un certo senso, giacché era giunto a considera¬re il suo incarico come una sfida: fin dove poteva spingersi, nel regno del fatuo neologismo, e continuare a ricevere lodi?

Dopo un po' gli fu accordata una promozione. Allora poté com¬prarsi nuovi giocattoli. Acquistò un nuovo lettore di dvd, una tuta da ginnastica che nottetempo si puliva da sola grazie a batteri mangiasudore, una camicia che mostrava le e-mail sulla ma¬nica e gli dava un colpetto ogni volta che riceveva un messaggio, scarpe che cambiavano colore per intonarsi ai vestiti, un tosta¬pane parlante. Be', era una compagnia. Jimmy, il tuo toast è pronto. Si trasferì in un appartamento migliore.
Ora che aveva iniziato la sua scalata sociale trovò una donna, e poi un'altra, e un'altra ancora. Non pensava più a loro come a ragazze: ormai erano amanti. Erano tutte sposate o l'equivalen¬te, in cerca di un'occasione per tradire il marito o il partner, per provare che erano ancora giovani o per prendersi una rivincita. Oppure erano ferite e cercavano consolazione. Oppure si senti¬vano semplicemente ignorate.
Non c'era ragione per non poterne averne parecchie nello stes¬so tempo, purché fosse scrupoloso nella pianificazione. All'inizio lo divertivano le improvvisate precipitose, la segretezza, il rumo¬re del velcro strappato in tutta fretta, il lento ruzzolare sul pavi¬mento; ma ben presto scoprì che per quelle amanti lui era da non prendersi seriamente, ma piuttosto da conservare come un giocattolino omaggio tirato fuori da una scatola di cereali, colorato e delizioso, ma inutile: un jolly tra i due e i tre che avevano avuto nella vita reale. Per queste donne era solo un passatempo, come loro lo erano per lui, sebbene per loro la posta in gioco fosse più alta: un divorzio, o uno scoppio di straordinaria violenza; quanto meno, un piccola scaramuccia verbale se venivano sorprese.
Per fortuna, non gli dicevano mai di crescere. Sospettava che in qualche modo apprezzassero che non l'aveva fatto.
Nessuna voleva lasciare il marito per andare a vivere con lui, o scappare con lui nelle plebopoli. Non che fosse ancora possi¬bile. Si diceva che le plebopoli fossero diventate ultrarischiose per chi non sapeva come cavarsela là fuori, e il CorpSeCorps ai cancelli del Recinto era più severo che mai.

Garage

Dunque era questo, il resto della sua vita. Gli sembrava di esse¬re stato invitato a una festa, ma di non riuscire a trovare l'indi¬rizzo. Qualcuno doveva spassarsela con la sua vita, ma non lui. Gli era sempre stato facile mantenersi in forma, ma adesso do¬veva impegnarcisi. Se saltava la ginnastica, durante la notte met¬teva su grasso, cosa che prima non accadeva. Il livello delle sue energie diminuiva, e doveva stare attento alla quantità di barret¬te energetiche che assumeva: troppi steroidi potevano rimpiccio¬lirti l'uccello, e sebbene sulla confezione si dicesse che il proble-ma era stato risolto mediante l'aggiunta di qualche composto chimico brevettato dal nome impronunciabile, aveva scritto abba¬stanza testi come quello per crederci. Cominciarono a diradarglisi i capelli sulle tempie, nonostante il trattamento di sei settimane AnooYoo per la ricrescita dei follicoli a cui si era sottoposto. Avrebbe dovuto sapere che era una truffa - era lui l'autore delle pubblicità del prodotto - ma erano pubblicità talmente efficaci che avevano convinto perfino lui. Si ritrovò a domandarsi in che condizione fosse l'attaccatura dei capelli di Crake.
Crake si era laureato prima, si era specializzato, aveva dettato le proprie condizioni. Adesso era al RejoovenEsense - in asso¬luto uno dei Recinti più potenti - e faceva carriera rapidamen¬te. All'inizio loro due avevano continuato a tenersi in contatto via e-mail. Crake accennava vagamente a un progetto speciale a cui stava lavorando, qualcosa di incandescente. Gli era stata data carta bianca, diceva; quanto ai pezzi grossi, stravedevano per lui. A volte Jimmy andava a trovarlo, e lui lo portava in giro. E Jimmy, cosa combinava?
Jimmy svicolava, e proponeva di giocare a scacchi.
Le ultime notizie di Crake erano che lo zio Pete era morto al-l'improvviso. Un virus. Qualsiasi cosa fosse, lo aveva attraversa¬to come una scheggia. Era stato come vedere un sorbetto rosa su un barbecue - un immediato meltdown. Si sospettava un sa¬botaggio, ma non c'era nessuna prova.
Tu c'eri? domandò Jimmy.
Diciamo di sì, rispose Crake.
Jimmy ci pensò su; poi domandò se nessun altro avesse con¬tratto il virus. Crake disse di no.
Col passare del tempo, gli intervalli tra i loro messaggi diven¬nero sempre più lunghi, il filo che li univa si allentò e si fece sem¬pre più sottile. Cosa avevano ormai da dirsi? Il lavoro da schiavo delle parole di Jimmy era sicuramente tra quelli che Crake di¬sprezzava, anche se affettuosamente, e forse ormai Jimmy non era più in grado di capire le sue ricerche. Si rese conto di pensare a Crake come a qualcuno che conosceva una volta.

Divenne sempre più insoddisfatto. Perfino il sesso non era più quello di un tempo, sebbene ne andasse ancora pazzo, come sempre. Si sentiva in balia del suo uccello, come se il resto di lui non fosse altro che una trascurabile protuberanza casualmente attaccata a quella estremità. Forse il suo affare sarebbe stato più felice, se gli avesse permesso di andarsene in giro da solo.
Di sera, quando nessuna delle sue amanti era riuscita a men¬tire abbastanza bene al marito o all'equivalente per poter stare con lui, magari andava a vedere un film al centro commerciale, giusto per convincersi di far parte di un gruppo. Oppure guar¬dava il notiziario: altri cataclismi, altre carestie, altre inondazio¬ni, altre invasioni di insetti o microbi o piccoli mammiferi, altre siccità, altre guerre del cazzo combattute da soldati bambini in paesi lontani. Perché tutto era sempre tanto uguale?
C'erano i soliti assassini politici nelle plebopoli, i soliti inci¬denti strani, le sparizioni inspiegabili. Oppure gli scandali a sfondo sessuale: gli scandali a sfondo sessuale, che invariabil¬mente eccitavano gli speaker. Per un po' si trattò di allenatori pedofili; poi ci fu un'ondata di adolescenti trovate rinchiuse nei garage. A queste ragazze veniva detto - da chi le aveva chiuse - che avrebbero lavorato come cameriere e che erano state porta¬te là dai loro squallidi paesi-di-origine per il loro bene. Erano state chiuse nei garage per la loro stessa incolumità, dicevano i responsabili - uomini rispettabili, commercialisti, avvocati, ven¬ditori di mobili da giardino - che venivano trascinati in tribuna¬le per difendersi. Spesso le mogli li spalleggiavano. Queste ra¬gazze, dicevano le mogli, erano state praticamente adottate e ve¬nivano trattate quasi come persone di famiglia. Jimmy amava queste parole: praticamente, quasi.
Dal canto loro, le ragazze raccontavano altre storie, non tut¬te credibili. Erano state drogate, dicevano alcune. Costrette a contorsioni oscene in luoghi pubblici improbabili, come nego¬zi di animali. Trasportate da una parte all'altra dell'Oceano Pa¬cifico su gommoni, introdotte illegalmente in navi portacontainer, nascoste tra pile di prodotti alla soia. Obbligate a compie¬re atti sacrileghi con rettili. D'altra parte, alcune di queste ra¬gazze sembravano soddisfatte delle loro condizioni. I garage erano accoglienti, dicevano, meglio di quanto avevano a casa. I pasti erano regolari. Il lavoro non era troppo duro. È vero che non venivano pagate e non potevano andare da nessuna parte, ma in questo non trovavano niente di strano o di sorprendente.
Una di queste ragazze - ritrovata a San Francisco, nel garage di un farmacista benestante - disse che una volta girava film, ma che era contenta di essere stata venduta al suo Padrone, che l'a¬veva vista su Internet, e aveva avuto pietà di lei, ed era venuto di persona a prenderla e aveva sborsato un sacco di soldi per libe¬rarla, aveva attraversato l'oceano in aereo insieme a lei, e aveva promesso di mandarla a scuola una volta che il suo inglese fos¬se stato abbastanza buono. Rifiutò di dire qualsiasi cosa di ne¬gativo sull'uomo; sembrava semplice, franca e sincera. Quando le domandarono perché il garage fosse chiuso a chiave, disse che così nessun malintenzionato avrebbe potuto entrarci. Quando le domandarono cosa facesse là dentro, disse che studiava inglese e guardava la tv. Quando le domandarono cosa provava verso chi la teneva prigioniera, disse che gli sarebbe stata sempre gra¬ta. L'accusa non riuscì a far vacillare la sua deposizione e il tizio la fece franca, anche se gli fu ordinato di mandarla immediata¬mente a scuola. Lei disse di voler studiare psicologia infantile.
Comparve un primo piano del suo bel viso da gatta, del suo sorriso delicato. A Jimmy parve di riconoscerla. Bloccò l'imma¬gine, poi tirò fuori la sua vecchia stampata, quella di quando aveva quattordici anni: l'aveva portata con sé in tutti i suoi spo¬stamenti, quasi fosse una foto di famiglia, non esposta ma mai buttata, infilata tra i libretti dell'accademia Martha Graham. Confrontò i visi, ma da allora ne era passato di tempo. La ra-gazzina, che nella stampata aveva otto anni, doveva averne or¬mai diciassette, diciotto, diciannove, mentre quella del notizia¬rio sembrava molto più giovane. Eppure lo sguardo era lo stes¬so: un identico miscuglio di innocenza, disprezzo e indulgenza. Lo faceva sentire stordito, in equilibrio precario, quasi stesse in piedi sull'orlo di un dirupo, sopra una gola irta di rocce, dove fosse pericoloso anche solo guardar giù.

Fuori controllo

Il CorpSeCorps non aveva mai perso di vista Jimmy. Durante il suo soggiorno alla Martha Graham lo avevano trascinato via re¬golarmente, quattro volte l'anno, per quelle che chiamavano chiacchieratine. Gli facevano le stesse domande che gli avevano già fatto dieci volte, solo per vedere se avrebbero ricevuto le stesse risposte. Non so era la cosa più sicura che a Jimmy venis¬se in mente di dire, e il più delle volte era abbastanza vera.
Dopo un po' avevano cominciato a mostrargli delle immagini - fotogrammi di telecamere spia infilate nell'occhiello delle giac¬che, in bianco e nero che sembravano tratti dai sistemi di sorve¬glianza dei bancomat delle plebopoli, o vari filmati dal canale delle notizie: manifestazioni, sommosse, esecuzioni. Il gioco consisteva nel vedere se riconosceva qualche volto. Gli avevano applicato dei sensori che, per quanto fingesse di non sapere, ri¬levavano i picchi di elettricità neurale non soggetti al suo con¬trollo. Aveva continuato ad aspettare che rispuntassero fuori i tumulti per l'Happicuppa nel Maryland, quelli con dentro sua madre - lo temeva - ma non accadde mai.
Era un pezzo che non riceveva cartoline dall'estero.
Da quando lavorava alla AnooYoo, gli uomini del CorpSeCorps sembravano averlo dimenticato. E invece no, stavano sol¬tanto mollando la corda - per vedere se lui, o l'altra parte, vale a dire sua madre, avrebbe approfittato della sua nuova posizio¬ne, del briciolo di libertà in più di cui disponeva, per cercare di entrare di nuovo in contatto. Dopo un anno o giù di lì, ci furo¬no i familiari colpi alla porta. Capiva sempre che si trattava di loro perché non si annunciavano mai al citofono, dovevano ave¬re una specie di passepartout, per non parlare del codice della porta. Salve, Jimmy, come te la passi, dobbiamo rivolgerti solo po¬che domande, vedi se puoi aiutarci un po'.
Certo, con piacere.
Bravo ragazzo.
E così via.
Nel suo - cos'era? - quinto anno alla AnooYoo colpirono nel se¬gno. Jimmy stava guardando foto ormai da un paio d'ore. Istanta¬nee di una sperduta guerra su un'arida catena montuosa dall'altra parte dell'oceano, con primi piani di mercenari morti, maschi e femmine; membri di un'associazione umanitaria ridotti a mal par¬tito dalla fame durante una di quelle polverose carestie in paesi lontani; una fila di teste infilzate su pali. Era nell'ex Argentina, a sentire il CorpSeCorps, anche se non dissero di chi erano le teste o come si erano ritrovate sui pali. Parecchie donne che passavano il controllo in un supermarket, tutte con gli occhiali da sole. Una de¬cina di corpi stesi sul pavimento dopo un'irruzione in un covo dei Giardinieri di Dio - quella banda era fuorilegge ormai - uno dei quali assomigliava molto alla sua vecchia compagna di stanza, Bernice l'incendiaria. Lo disse, tanto per fare il bravo ragazzo, e rime¬diò una pacca sulla schiena, ma dovevano saperlo già perché non si mostrarono interessati. Gli dispiaceva per Bernice: era pazza e mo¬lesta, ma non si meritava una morte simile.
Uno schieramento di foto segnaletiche di una prigione di San Francisco. La foto della patente del guidatore suicida di un'autobomba. (Ma se la macchina era saltata in aria, come si erano procurati la foto?) Tre cameriere senza slip in un sexy-bar dove si guarda ma non si tocca (ce l'avevano infilata per ridere e pro¬vocò oscillazioni sul monitor neurale, sarebbe stato strano il contrario, e sorrisi e risatine tutt'intorno). Jimmy capì che la sce¬na di una sommossa era stata tratta della versione cinematogra¬fica di Frankenstein, Inserivano sempre trucchetti del genere per tenerlo sul chi vive.
Poi altre foto segnaletiche. No, disse Jimmy. No, no, niente.
Poi fu la volta di quella che sembrava un'esecuzione di routi¬ne. Niente comportamenti violenti, niente prigionieri che si di¬vincolavano, niente linguaggio osceno: da questo, prima ancora di vederla, capì che era una donna che stavano per fare fuori. Poi apparve una figura in un'ampia uniforme carceraria che si trascinava a fatica, i capelli legati indietro, i polsi ammanettati, le vigilanti ai lati, gli occhi bendati. Sarebbe stata uccisa con una pistola spray. Non ci sarebbe stato bisogno di un plotone di ese¬cuzione, bastava una pistola, ma ci si atteneva alla vecchia consuetudine, una fila di cinque, in modo che nessuno del plotone perdesse il sonno pensando a chi aveva sparato la pallottola che aveva ucciso per prima.
Solo il tradimento prevedeva la fucilazione. Altrimenti si usa¬va il gas, o l'impiccagione, o lo sfrigolaencefalo.
Una voce maschile fuori campo: gli uomini del CorpSeCorps avevano abbassato il volume perché Jimmy si concentrasse sulle immagini, ma doveva trattarsi di un ordine, perché ora le guar¬die le toglievano la benda. Panoramica e primo piano: la donna ora lo guarda dritto negli occhi, fuori dell'inquadratura: uno sguardo azzurro, diretto, provocante, paziente, ferito. Ma nien¬te lacrime. Poi l'audio tornò all'improvviso. Addio. Ricordati di Killer. Ti voglio bene. Non mi deludere.
Non c'era dubbio, era sua madre. Jimmy fu colpito da quan¬to fosse invecchiata: aveva la pelle piena di rughe, la bocca avvizzita. Era per via della vita dura che aveva condotto, sempre in fuga, o del trattamento brutale? Quanto tempo aveva passato in prigione, nelle loro grinfie? Cosa le avevano fatto?
Aspettate, voleva gridare, e invece basta, la macchina da pre¬sa arretrò, gli occhi furono di nuovo coperti, zac zac zac. Catti¬va mira, zampilli di sangue, le staccarono quasi la testa. Campo lungo su lei raggomitolata a terra.
«C'è qualcosa qui, Jimmy?»
«No. Mi dispiace. Niente». Come aveva potuto prevedere che l'avrebbe guardata?
Dovevano aver registrato il battito cardiaco, l'impulso di energia. Dopo alcune domande neutre - «Vuoi un caffè? Devi pisciare?» - uno di loro disse: «Allora, chi era questo killer?»
«Killer» disse Jimmy. Cominciò a ridere. «Killer era una be¬stia». Ecco, l'aveva fatto. Un altro tradimento. Non poteva evi¬tarlo.
«Un brutto tipo, eh? Il membro di qualche banda di motoci¬clisti?»
«No» disse Jimmy, ridendo ancora di più. «Non capite. Era un animale. Una moffetta. Un moffone». Appoggiò la testa sui pugni, piangendo dal ridere. Perché aveva tirato in ballo Killer? Così avrebbe saputo che era veramente lei, ecco perché. Così le avrebbe creduto. Ma cosa intendeva, dicendo di non deluderla?
«Ci dispiace, figliolo» disse il più vecchio dei due uomini del CorpSeCorps. «Dovevamo esserne sicuri».
A Jimmy non venne in mente di domandare quando avesse avu¬to luogo l'esecuzione. In seguito si rese conto che poteva essere av¬venuta da anni. E se fosse stata tutta una montatura? Poteva ad¬dirittura essere un montaggio digitale, almeno gli spari, gli schiz¬zi di sangue, la caduta. Forse sua madre era ancora viva, forse era perfino ancora libera. In tal caso, cosa si era lasciato sfuggire?

Le settimane successive furono le peggiori che rammentasse. Troppe cose stavano riaffiorando, troppo di quanto aveva per¬duto, o - cosa più triste - di quanto non aveva mai avuto. Tutto quel tempo sprecato, e non sapeva neppure chi fosse stato a sprecarlo.
Non passava quasi giorno che non fosse arrabbiato. All'inizio andò a cercare le sue varie amanti, ma con loro era di malumo¬re, non riusciva a essere divertente e, peggio ancora, aveva perso interesse nei confronti del sesso. Smise di rispondere ai loro messaggi e-mail - C'è qualcosa che non va, è per qualcosa che ho fatto, come posso aiutarti - e non le richiamava: non valeva la pena spiegare. In altri tempi avrebbe trasformato la morte della madre in uno psicodramma, avrebbe raccolto un po' di com¬passione, ma non era quello che voleva adesso. Cosa voleva?
Andò nei bar per single del Recinto: niente di allegro, cono¬sceva già gran parte delle donne, non aveva bisogno del loro bi¬sogno. Tornò ai siti porno su Internet, trovò che avevano perso la loro vivacità: erano ripetitivi, meccanici, privi del fascino che ave¬va avuto. Cercò il sito PupeBollenti, sperando che qualcosa di fa¬miliare lo aiutasse a sentirsi meno isolato, ma non esisteva più.
Ora beveva da solo, di notte, cattivo segno. Non avrebbe do¬vuto farlo, lo rendeva solo depresso, ma doveva smorzare il do¬lore. Il dolore di cosa? Il dolore della carne viva delle ferite, del¬le membrane danneggiate nei punti in cui si era scagliato contro la Grande indifferenza dell'universo. La bocca di un grosso squalo, l'universo. File e file di denti affilati come rasoi.
Sapeva che stava vacillando, cercando di mantenere l'equili¬brio. Tutto nella sua vita era provvisorio, senza fondamento. Il linguaggio stesso aveva perso la sua solidità; era diventato sotti¬le, contingente, scivoloso, una viscida pellicola sulla quale sdrucciolava come un bulbo oculare su un piatto. Un bulbo oculare che ancora vedeva. Era quello il guaio.
Si ricordò spensierato, prima, da giovane. Spensierato, con la pelle dura, a saltellare agile sulle superfici, a fischiettare nel buio, capace di superare qualsiasi cosa. A chiudere un occhio. Ora si ritrovava a trasalire in continuazione. I minimi inconve¬nienti acquistavano un'importanza eccessiva - una calza smarri¬ta, uno spazzolino elettrico inceppato. Perfino il sorgere del sole era abbagliante. Era come se venisse strofinato con la carta ve¬trata. «Riprenditi» si diceva. «Controllati. Supera questa cosa. Vai avanti. Crea un nuovo te stesso».
Slogan positivi. Le insulse stronzate di un pubblicitario ispi¬rato, mentre quello che voleva veramente era la vendetta. Ma contro chi, e per cosa? Anche se ne avesse avuto l'energia, an¬che se fosse riuscito a concentrarsi e a prendere la mira, una cosa dal genere sarebbe stata assolutamente inutile.

Nelle notti peggiori si collegava con il pappagallo Alex, che era morto ormai da un pezzo, ma continuava a camminare e a parla¬re in Rete, e lo guardava dimostrare la propria bravura. L'adde¬stratore: Di che colore è la palla rotonda, Alex? La palla rotonda? Alex, la testa da una parte, pensieroso: Blu. Addestratore: Bravo! Alex: Noce di sughero, noce di sughero! Addestratore: Ecco qua! Poi ad Alex veniva data una mini pannocchia di mais, che non era quello che aveva chiesto, aveva chiesto una mandorla. A Jimmy queste scene facevano venire le lacrime agli occhi.
Poi rimaneva in piedi fino a troppo tardi, e una volta a letto fis¬sava il soffitto, ripetendo i suoi elenchi di parole obsolete per trarne consolazione. Foraterra. Afasia. Aratro a petto. Enigma. Revol¬ver. Se il pappagallo Alex fosse suo sarebbero amici, fratelli. Gli insegnerebbe altre parole. Rintocco funebre. Zotico. Ohimé.
Ma non c'era più consolazione nelle parole. Non c'era niente in esse. Non procurava più piacere a Jimmy conservare queste piccole raccolte di lettere di cui l'altra gente si era dimenticata. Era come conservare i propri denti da latte in una scatola.
Quando era sul punto di addormentarsi, dietro le palpebre gli compariva una processione, usciva fuori dalle ombre a sinistra e attraversava il suo campo visivo. Giovani fanciulle snelle dalle mani piccole, nastri tra i capelli, con ghirlande di fiori multicolori. Il campo era verde, ma non era una scena pastorale: erano fanciulle in pericolo, che dovevano essere salvate. C'era qualco¬sa - una presenza minacciosa - dietro gli alberi.
O forse il pericolo era in lui. Forse era lui il pericolo, un ani¬male zannuto che guardava dalla caverna ombrosa dello spazio dentro il proprio cranio.
O magari erano le fanciulle stesse a essere pericolose. C'era sempre quella possibilità. Potevano essere un'esca, una trappo¬la. Sapeva che erano molto più grandi di quanto non dimostras¬sero, e anche molto più potenti. Al contrario di lui, erano dota¬te di una saggezza crudele.
Le fanciulle erano calme, erano gravi e cerimoniose. Lo guar¬davano, guardavano dentro di lui, lo riconoscevano e lo accetta¬vano, accettavano la sua oscurità. Poi sorridevano.
Oh, tesoro, ti conosco. Ti vedo. So cosa vuoi.

11

Proporci

Jimmy è nella cucina della casa in cui vivevano quando aveva cinque anni, seduto al tavolo. È ora di pranzo. Su un piatto da¬vanti a lui c'è una fetta di pane rotonda: una testa piatta di bur¬ro di arachidi con uno scintillante sorriso di gelatina, uva passa al posto dei denti. Questa cosa lo riempie di paura. Ormai da un momento all'altro sua madre entrerà nella stanza. Ma no, non lo farà: la sua sedia è vuota. Deve aver pranzato e lasciato quella roba per lui. Ma dov'è andata, dov'è?
Si sente raschiare; il suono viene dalla parete. C'è qualcuno dall'altra parte della parete, sotto l'orologio con i diversi uccelli che segnano le ore. Uuu uuu uuu, fa il pettirosso. È stato lui, ha modificato l'orologio - il gufo fa cra cra, il corvo fa cip cip. Ma quell'orologio non c'era quando aveva cinque anni, lo avevano comprato più tardi. C'è qualcosa che non va, non sa dire cosa, è paralizzato dalla paura. L'intonaco comincia a sgretolarsi, e si sveglia.
Odia questi sogni. Il presente è già abbastanza brutto senza che venga a mescolarcisi il passato. Vivi l'attimo. Una volta l'a¬veva scritto sul calendario omaggio di qualche fasullo prodotto di miglioramento sessuale per donne. Perché incatenare il tuo corpo all'orologio, rompi le catene del tempo, eccetera eccetera. L'immagine era quella di una donna con le ali che spiccava il volo da un mucchio di vecchi abiti, o forse di pelle, raggrinziti.
Dunque eccolo, l'attimo, questo qui, in cui dovrebbe vivere. Ha la testa su una superficie dura, il corpo pigiato in una sedia, è un unico grande crampo. Si stira, urla di dolore.
Gli occorre un minuto per ricordare dove si trova. Ah, sì: il tornado, la portineria. È tutto quieto, niente raffiche di vento, niente ululati. È lo stesso pomeriggio, oppure è sera, o il matti¬no seguente? Nella stanza c'è luce, la luce del giorno; penetra at¬traverso lo sportello sopra il bancone, lo sportello a prova di proiettile con l'interfono, dove una volta, tanto tempo prima, dovevi dichiarare il motivo della tua visita. La fessura per i do-cumenti in microcodice, la videocamera funzionante ventiquattr'ore su ventiquattro, la scatola parlante con la faccia sorriden¬te che ti faceva il terzo grado: l'intero meccanismo è letteral¬mente ridotto in macerie. Granate, forse. Ci sono un sacco di calcinacci caduti.
Sente ancora raschiare: c'è qualcosa nell'angolo della stanza. Non riesce a capire di che si tratta: sembra un cranio. Poi vede che è un granchio di terra, una rotonda carcassa bianco-gialla¬stra grande quanto una testa rimpicciolita, con una chela gigan¬te. Sta allargando un foro nelle macerie. «Cosa diavolo ci fai qui?» gli domanda. «Dovresti stare fuori, a rovinare i giardini». Gli lancia contro la bottiglia vuota di bourbon, lo manca; la bot-tiglia va in frantumi. È stata una stupidaggine, ora è pieno di ve¬tri rotti. Il granchio di terra si gira veloce per affrontarlo, la gros¬sa chela sollevata, poi si ritira nel suo foro scavato a metà, da dove rimane a guardarlo. Deve essere entrato per sfuggire al tor¬nado, e ora non trova il modo di uscire.
Si districa dalla sedia, controllando prima che non ci siano ser¬penti e ratti e altre cose che non ha voglia di calpestare. Poi fa ca¬dere il mozzicone di candela e i fiammiferi nel sacchetto di plastica e cammina con cautela verso la porta che conduce alla zona dell'accettazione, sul davanti della costruzione. Si chiude dietro la porta tirandola: non vuole attacchi di granchi alle spalle.
Sulla porta esterna si ferma per un controllo. Nessun anima¬le in giro, a parte un terzetto di corvi appollaiati sul muro di cin¬ta. Si scambiano qualche gracchio, riferito probabilmente a lui. Il cielo è quello di un rosa grigiastro perlaceo di prima mattina, quasi privo di nuvole. Il paesaggio presenta un nuovo assetto ri¬spetto al giorno precedente: ci sono più pezzi di rivestimenti metallici staccati, più alberi sradicati. Il terreno fangoso è disse¬minato di foglie e fronde strappate.
Se parte ora, avrà buone possibilità di raggiungere il centro commerciale più grande prima di metà mattina. Sebbene lo sto¬maco gli brontoli, dovrà aspettare di arrivare là per fare colazione. Vorrebbe che gli fosse rimasto qualche anacardo, ma ci sono solo le sardine SoyOBoy, che ha intenzione di conservare come ultima risorsa.

L'aria è fresca, la fragranza delle foglie schiacciate è magnifica, dopo l'odore umido, di marcio della portineria. Aspira con pia¬cere, poi si avvia verso il centro commerciale. Dopo tre isolati si ferma: sette proporci si sono materializzati dal nulla. Lo fissano, le orecchie in avanti. Sono gli stessi del giorno prima? Mentre li guarda, cominciano ad avvicinarsi adagio.
Hanno qualcosa in mente, eccome. Si gira, torna verso la por¬tineria, affretta il passo. Sono abbastanza lontani perché possa correre se ce ne fosse bisogno. Guarda al di sopra della spalla: ora stanno trotterellando. Accelera, passa a una corsa leggera. Poi ne scorge un altro gruppo che blocca l'ingresso lì davanti, sono otto o nove, gli vengono incontro dalla terra di nessuno. Sono quasi al cancello principale e gli sbarrano la strada in quel¬la direzione. È come se i due gruppi si fossero messi d'accordo; come se avessero sempre saputo che era nella portineria e aves¬sero aspettato che uscisse e si spingesse abbastanza lontano, in modo da poterlo circondare.
Raggiunge la portineria, supera la porta, se la tira dietro. Non si chiude. La serratura elettronica non funziona, ovvio.
«Ovvio!» grida. Sapranno forzarla, far leva con gli zampetti o con i musi. Sono sempre stati degli artisti della fuga, i proporci: se avessero avuto le dita, avrebbero governato il mondo. Supera di corsa la porta successiva, entra nell'area dell'accettazione e se la sbatte alle spalle. Anche questa serratura è rotta, ovvio. Spin¬ge contro la porta la scrivania su cui ha appena dormito, guarda fuori dallo sportello a prova di proiettile: eccoli che arrivano. Hanno aperto la porta con il muso, ora sono nella prima stanza, venti o trenta, maschi e scrofe ma soprattutto maschi, si ac¬calcano, grugnendo avidi, annusando le sue orme. Adesso uno lo scorge attraverso lo sportello. Altri grugniti: ora alzano tutti lo sguardo su di lui. Quello che vedono è la sua testa, attaccata a ciò in cui riconoscono un delizioso pasticcio di carne che aspetta solo di essere aperto. I due più grossi, i maschi, muniti - sì - di zanne aguzze, si muovono fianco a fianco verso l'uscio, colpendolo con le spalle. Fanno il gioco di squadra, i proporci. C'è una gran forza, là fuori.
Se non riusciranno a passare dalla porta, aspetteranno che esca. Faranno a turno, alcuni pascoleranno fuori, altri staranno di guardia. Possono andare avanti all'infinito, lo prenderanno per fame. Lo annusano là dentro, annusano la sua carne.
Ora ricorda di controllare il granchio di terra, ma è sparito. Deve aver fatto tutta la strada a marcia indietro nella sua tana. Ecco di cosa ha bisogno, di una tana tutta sua. Una tana, un gu¬scio, una chela.
«Dunque» dice ad alta voce. «E adesso?»
Tesoro, sei fottuto.

Radio

Dopo un intervallo di vuoto durante il quale non gli viene in mente assolutamente nulla, Uomo delle Nevi si alza dalla sedia. Non ricorda di essercisi seduto, ma deve averlo fatto. Ha i cram¬pi allo stomaco, probabilmente ha una gran paura, sebbene non la senta; è piuttosto calmo. La porta si muove a tempo con le spinte e gli urtoni dall'altra parte; di lì a poco i proporci la sfon¬deranno. Tira fuori la torcia dal sacchetto di plastica, l'accende, torna nella stanza interna con i due tizi in biotuta a terra. Illu¬mina tutto in giro. Ci sono tre porte chiuse; deve averle viste la notte scorsa, ma la notte scorsa non stava cercando di scappare.
Quando cerca di aprirle due delle porte non si muovono; de¬vono essere chiuse in qualche modo, o bloccate dall'altro lato. La terza si apre facilmente. Come una speranza inaspettata, ecco una rampa di scale. Scale ripide. I proporci, gli viene in mente, hanno zampe corte e ventri grassi. Al contrario di lui.
Si arrampica su per le scale tanto in fretta che inciampa nel lenzuolo a fiori. Dalle spalle gli giungono grugniti e strilli ecci¬tati, e poi lo schianto della scrivania rovesciata.
Emerge in un luminoso spazio oblungo. Cos'è? La torre di guardia. Naturalmente. Avrebbe dovuto saperlo. C'è una torre di guardia su ciascun lato del cancello principale, e altre torri lungo tutto il muro di cinta. Dentro le torri ci sono i riflettori, le videocamere dei monitor, gli altoparlanti, i comandi per spran¬gare i cancelli, le lance dei lacrimogeni, le pistole spray a lunga portata. Sì, ecco gli schermi, ecco i comandi: trovare il bersaglio, puntarci contro, spingere il pulsante. Non c'era mai bisogno di vedere i risultati reali, gli schizzi e i sibili, non dal vero. Duran¬te il periodo di caos probabilmente le guardie spararono sulla folla da quassù, fin tanto che poterono e fin tanto che ci fu an¬cora una folla.
Ormai nessuno di questi arnesi supertecnologici funziona, ovviamente. Cerca i comandi di riserva manuali - sarebbe bello poter falciare i proporci dall'alto - ma no, non c'è niente.
Oltre il muro di schermi senza vita c'è una finestrella: da lì ha una visione a volo d'uccello dei proporci, del gruppo che si è ap¬postato fuori dalla porta del cubicolo del posto di controllo. Sembrano a loro agio. Se fossero uomini, si farebbero una siga¬retta e quattro chiacchiere. Ma attento; sul chi vive. Si ritrae: non vuole che lo vedano, che vedano che è quassù.
Non che non lo sappiano già. A questo punto devono aver ca¬pito che è andato di sopra. Ma sanno anche di averlo intrappo¬lato? Perché da qui non vede vie d'uscita.
Non è in pericolo immediato: non possono salire le scale, se no l'avrebbero già fatto. Ha il tempo di esplorare e riorganizza¬re. Riorganizzare, che idea. È solo.
Le guardie dovevano schiacciare dei sonnellini, quassù, girar¬si e rigirarsi: c'è un paio di brandine standard in una stanza la¬terale. Sopra non c'è nessuno, niente corpi. Forse le guardie hanno provato ad abbandonare RejoovenEsense, proprio come tutti gli altri. Forse anche loro hanno sperato di poter sfuggire al contagio.
Uno dei letti è fatto, l'altro no. Una sveglia digitale a coman¬do vocale lampeggia ancora accanto a quello sfatto. «Che ore sono?» le domanda, ma non ottiene risposta. Dovrà riprogram¬mare quell'arnese, regolarlo sulla propria voce.
I tizi erano ben equipaggiati: postazioni di svago gemelle, con schermi, lettori e cuffie. Ai ganci sono appesi dei vestiti, le soli¬te tenute leggere per il tempo libero; un asciugamano usato sul pavimento, una calza. Su uno dei comodini una decina di stam¬pe scaricate. Una ragazza magra a testa in giù con addosso solo un paio di sandali dai tacchi alti; una bionda che si dondola da un gancio nel soffitto in una specie di cinto per frattura multi-pla in cuoio nero, bendata ma con la bocca aperta e piegata all'ingiù, come se sbavasse dicendo colpiscimi-ancora; un donno¬ne con enormi seni trapiantati e un umido rossetto rosso, che si piega in avanti ed esibisce un piercing nella lingua. Sempre la stessa roba.
I tizi devono essere scappati in tutta fretta. Magari sono loro quelli di sotto, nelle biotute. Avrebbe un senso. Ma a quanto pare, dopo che se ne sono andati nessuno è venuto quassù; o se qualcuno l'ha fatto, non c'era niente che volesse portarsi via.
In uno dei cassetti del comodino c'è un pacchetto di sigaret¬te, ne mancano solo un paio. Uomo delle Nevi ne spinge fuori una a colpetti - è umida, ma adesso fumerebbe anche la lanugi¬ne delle tasche - e si guarda intorno in cerca di un modo per ac¬cenderla. Ha i fiammiferi nel sacchetto dell'immondizia, ma dov'è? Deve averlo lasciato cadere sulle scale nella corsa preci¬pitosa fin quassù. Torna verso la tromba delle scale, guarda giù. Infatti ecco là il sacchetto, sul quarto gradino dal basso. Comin¬cia a scendere con cautela. Mentre allunga la mano, qualcosa si lancia in avanti. Si allontana d'un balzo, guarda il proporco che scivola indietro, per poi tornare a lanciarsi. I suoi occhi scintil¬lano nella penombra; ha l'impressione che sorrida.
Lo stavano aspettando, usando il sacchetto dell'immondizia come esca. Devono aver capito che dentro c'era qualcosa che gli sarebbe servito, che sarebbe sceso a recuperare. Furbi, molto furbi. Quando raggiunge di nuovo il piano di sopra, gli tremano le gambe.
Accanto alla stanza del pisolino c'è un bagnetto con dentro un vero water. Giusto in tempo: la paura gli ha omogeneizzato le budella. Caca - per lo meno c'è la carta, non ha bisogno di fo¬glie - e sta per scaricare, quando gli viene in mente che il serba¬toio là dietro deve essere pieno d'acqua, e se c'è una cosa di cui può aver bisogno, è quella. Solleva il coperchio del serbatoio: non c'è dubbio, è pieno, una piccola oasi. L'acqua è rossastra ma l'odore è a posto, perciò abbassa la testa e beve come un cane. Dopo tutta quella adrenalina, è inaridito.
Ora si sente meglio. Non deve lasciarsi prendere dal panico, non ancora. Nel cucinino trova i fiammiferi e si accende la siga¬retta. Dopo un paio di tiri si sente stordito, ma è ancora magni¬fico.
«Se avessi novant'anni e avessi la possibilità di fare un'ultima scopata, ma sapessi che ti ucciderebbe, la faresti comunque?» gli aveva domandato una volta Crake.
«Puoi scommetterci» aveva risposto Jimmy.
«Drogato» aveva concluso Crake.
Uomo delle Nevi si ritrova a canticchiare mentre fruga nei mobiletti della cucina. Tavolette di cioccolata, vera cioccolata. Un barattolo di caffè solubile, idem di latte artificiale, idem di zuc¬chero. Pasta di gamberetti da spalmare su cracker, sintetica ma commestibile. Un tubo di formaggio, un altro di maionese. Zup¬pa di tagliolini con verdure al gusto di pollo. Cracker in un con¬tenitore dal coperchio a molla. Un mucchio di barrette energe¬tiche. Quanto ben di Dio.
Si trattiene, poi apre il frigorifero, sicuro che quei tizi non do¬vessero tenerci molto cibo vero e che perciò il tanfo non sarà troppo disgustoso. La carne congelata andata a male in un com¬parto freezer disciolto è quanto di peggio possa esserci; ne ha trovata parecchia nei primi tempi in cui frugava nelle plebopoli.
Non c'è niente di troppo puzzolente; solo una mela raggrin¬zita, un'arancia coperta di peluria grigia. Due bottiglie di birra, chiuse... birra vera! Le bottiglie sono marroni, con i colli sottili di una volta.
Apre una birra, ne tracanna metà. È calda, ma che importa? Poi si siede al tavolo e mangia la pasta di gamberetti, i cracker, il formaggio e la maionese, finendo con una cucchiaiata di pol¬vere di caffè mescolata a latte artificiale e zucchero. Tiene da parte per dopo la zuppa di tagliolini, la cioccolata e le barrette energetiche.

In uno dei mobiletti c'è una radio a molla. Ricorda quando co-minciarono a distribuire con parsimonia quegli aggeggi, in caso di tornado o di inondazioni o di qualsiasi altro evento che po¬tesse mettere fuori gioco i congegni elettronici. I suoi genitori ne avevano una quando erano ancora i suoi genitori; lui ci giocava di nascosto. Aveva una manovella che si girava per ricaricare le batterie, dopodiché funzionava per mezz'ora.
Questa non sembra guasta, perciò gira la manovella. Non si aspetta di sentire niente, ma l'aspettativa non è lo stesso del de¬siderio.
Rumore bianco, ancora rumore bianco, ancora rumore bianco. Prova AM e FM. Niente. Solo quel suono, come il suono della luce stellare che si fa strada stridendo nello spazio cosmi¬co: kkkkkkkk. Poi prova le onde corte. Sposta la sintonia lenta¬mente e con cautela. Magari ci sono altri paesi, paesi lontani, dove la gente può essere scappata - la Nuova Zelanda, il Madagascar, la Patagonia - posti così.
Kkkkk. Kkkkk. Kkkkk.
Oh, parlatemi, prega. Dite qualcosa. Qualsiasi cosa.

All'improvviso c'è una risposta. È una voce, una voce umana. Sfortunatamente parla una lingua che sembra russo.
Uomo delle Nevi non crede alle proprie orecchie. Allora non è solo: qualcun altro ce l'ha fatta, qualcuno della sua stessa spe¬cie. Qualcuno che sa come far funzionare un radiotrasmettitore a onde corte. E se ce n'è uno, possono essercene altri. Ma que¬sto qui non è di grande aiuto per Uomo delle Nevi, è troppo lon¬tano.
Testa di cazzo! Si è scordato le funzioni della banda CB. Sono quelle che gli era stato detto di usare, nelle emergenze. Se c'è qualcuno nelle vicinanze, starà usando la banda CB.
Gira la manopola. Ricezione, proverà questo.
Kkkkkk.
Poi, flebile, una voce d'uomo: «Qualcuno mi riceve? C'è qualcuno là fuori? Mi ricevete? Passo».
Uomo delle Nevi armeggia con i pulsanti. Come inviare? Se l'è dimenticato. Dov'è lo stronzo?
«Sono qui! Sono qui!» urla.
Torna a Ricezione. Niente.
Ci sta già ripensando. È stato troppo precipitoso? Come fa a sapere chi c'è dall'altra parte? Molto probabilmente nessuno con cui avrebbe voglia di andare a pranzo. Eppure si sente otti¬mista, quasi inebriato. Ora si aprono altre possibilità.

Baluardo

Uomo delle Nevi è talmente su di giri - per l'eccitazione, il cibo, le voci alla radio - che si è dimenticato del taglio al piede. Ora si fa sentire: gli sembra che ci sia conficcato dentro qualcosa, come una spina. Si siede al tavolo della cucina, solleva il piede abbastanza in alto da poterlo esaminare. A quanto pare c'è an¬cora dentro una scheggia di vetro della bottiglia di bourbon. Spreme e strizza, gli piacerebbe avere una pinzetta, o unghie più lunghe. Finalmente riesce ad afferrare il frammento, tira. Fa male, ma non c'è troppo sangue.
Una volta che ha estratto il pezzo di vetro, lava il taglio con un po' di birra, poi saltella fino al bagno e fruga neU'armadietto delle medicine. Niente di utile, a parte un tubetto di crema so¬lare - inservibile per i tagli - qualche pomata antibiotica scadu¬ta che si spalma sulla ferita e il fondo di un flacone di lozione da barba che sa di finti limoni. Versa anche quella, perché deve contenere dell'alcol. Forse dovrebbe cercare qualche detersivo per tubi di scarico, ma non vuole esagerare, friggersi l'intera pianta del piede. Dovrà solo incrociare le dita, augurarsi di ave¬re fortuna: un piede infetto potrebbe rallentarlo. Non avrebbe dovuto dimenticare tanto a lungo il taglio, il pavimento del pia¬no di sotto deve pullulare di germi.

La sera guarda il tramonto attraverso le sottili fessure della fine¬stra della torre. Dev'essere stato magnifico quando tutti e dieci gli schermi delle videocamere erano accesi e ci si poteva godere l'intera vista panoramica, esaltare la luminosità dei colori, au¬mentare i toni rossi. Dare un tiro a uno spinello, mettersi como¬di, lasciarsi trasportare al settimo cielo. Ora come ora gli scher¬mi rivolgono su di lui i loro occhi ciechi, perciò deve acconten¬tarsi della realtà, solo una fetta di tramonto color mandarino, poi fenicottero, poi sangue annacquato, poi gelato alla fragola, dalla parte in cui dev'esserci il sole.
Nella luce rosa che si va affievolendo i proporci in attesa di sotto sembrano figurine di plastica in miniatura, copie bucoli¬che degli animaletti della scatola dei giochi di un bambino. Hanno la tinta rosea dell'innocenza, come tante cose viste da lonta¬no. È difficile immaginare che gli augurino del male.

Cala la notte. Uomo delle Nevi si stende su una delle brandine nella stanza da letto, quella fatta. Dove sono steso ora dormiva un uomo morto, pensa. Non si è accorto che stava arrivando. Non aveva alcun indizio. Al contrario di Jimmy, che ne aveva avuti, che avrebbe dovuto capire ma non ha capito. Se avesse ucciso prima Crake, pensa Uomo delle Nevi, avrebbe fatto qualche differenza?
Sebbene sia riuscito a forzare le ventole di emergenza, lì den¬tro fa un caldo soffocante. Non riesce ad addormentarsi subito, perciò accende una delle candele - è in un contenitore di latta con un coperchio, equipaggiamento di sopravvivenza, dovrebbe servire a cuocere una minestra - e fuma un'altra sigaretta. Que¬sta volta non lo stordisce tanto. Ogni vecchia abitudine è anco¬ra nel suo corpo, giace addormentata come i fiori nel deserto. Nelle condizioni adatte, tutte le sue passioni di un tempo esplo¬derebbero in una dovizia piena e rigogliosa.
Sfiora le stampate del sito porno. Le donne non sono il suo tipo - troppo floride, troppo ritoccate, troppo ovvie. Troppe oc¬chiate maliziose e mascara; troppe lingue da mucca. Quello che prova è sgomento, non libidine.
Rettifica: libidine sgomenta.
«Come hai potuto» sussurra a se stesso, non per la prima vol¬ta, mentre si accoppia mentalmente con una puttana agghinda¬ta in un prendisole di seta cinese rossa e tacchi da quindici centimetri, un drago tatuato sul culo.
Oh, tesoro.

Nella piccola stanza afosa sogna; sua madre, di nuovo. No, non sogna mai sua madre, solo della sua assenza. Lui è in cucina. Whuff, sente la folata d'aria nell'orecchio, una porta che si chiu¬de. A un gancio è appesa la sua vestaglia, color magenta, vuota, spaventosa.
Si sveglia con il cuore che gli martella. Ora ricorda che dopo che lei se n'era andata se l'era messa, quella vestaglia. Conserva¬va ancora il suo odore, il profumo a base di gelsomino che por¬tava. Si era guardato allo specchio, la sua testa di ragazzino dal¬lo sguardo diffidente, freddo e smaliziato, su un collo infilato in quel fagotto di stoffa dal colore femminile. Quanto l'aveva odia¬ta in quel momento. Respirava a stento, era soffocato dall'odio, lacrime d'odio gli rigavano le guance. Ma si era comunque av¬volto le braccia attorno al corpo. Le braccia di lei.

Ha regolato la sveglia dell'orologio digitale a comandi vocali su un'ora prima dell'alba, domandandosi quando sarebbe stato. «In piedi» dice l'orologio in una seducente voce femminile. «In piedi. In piedi».
«Stop» dice, e quella si ferma.
«Vuoi musica?»
«No» risponde, perché sebbene sia tentato di starsene a let¬to e interagire con la donna nell'orologio - sarebbe quasi una conversazione - oggi deve darsi una mossa. Quanto è stato via dalla spiaggia, dai Craker? Conta sulle dita: primo giorno, il viaggio fino alla RejoovenEsense, il tornado; secondo giorno, intrappolato dai proporci. Allora questo dev'essere il terzo giorno.
Fuori della finestra c'è una luce grigio topo. Piscia nel lavan¬dino della cucina, si spruzza acqua in faccia dal serbatoio del water. Ieri non avrebbe dovuto bere quella roba senza bollirla. Ora ne bolle la quantità che riempirebbe una pentola - c'è an¬cora gas per il bruciatore al propano - e si lava il piede, è un po' rosso intorno al taglio ma non c'è da farsi prendere dal panico, poi si fa una tazza di caffè solubile con un sacco di zucchero e di latte artificiale. Sgranocchia una barretta energetica ai tre frutti, gustando il familiare sapore di olio di banana e di vernice zuccherata, e sente montare l'energia.
Il giorno prima, tra una corsa e l'altra, ha perso la bottiglia d'acqua, ma tutto sommato è un bene, considerato quello che conteneva. Escrementi di uccello, larve di zanzare, nematodi. Riempie un vuoto di birra con l'acqua bollita, poi prende un sacchetto per i panni sporchi standard in microfibra nella stan¬za da letto e ci infila l'acqua, tutto lo zucchero che riesce a tro-vare e la mezza dozzina di barrette energetiche. Si spalma di crema solare e infila il resto del tubetto nel sacchetto, quindi in¬dossa una camicia cachi leggera. Ci sono anche degli occhiali da sole, perciò getta via i suoi vecchi, con una lente sola. Riflette su un paio di calzoncini, ma gli stanno troppo larghi in vita e non gli proteggerebbero la parte posteriore delle gambe, perciò ri¬mane fedele al lenzuolo a fiori, lo piega in due, annodandolo come un sarong. Poi ci ripensa, se lo toglie e lo infila nel sac¬chetto per i panni sporchi: potrebbe impigliarsi in qualcosa mentre è in viaggio, può rimetterlo dopo. Sostituisce le aspirine e le candele perdute, butta dentro sei scatolette di fiammiferi e un coltello per sbucciare, e infine la sua copia autentica del ber¬retto da baseball dei Red Sox. Non vorrebbe che gli cadesse du¬rante la grande fuga.
Ecco. Non è troppo pesante. È ora di prendere il volo.

Prova a sfondare la finestra della cucina - potrebbe calarsi sul muro di cinta del Recinto con il lenzuolo che ha fatto a strisce e attorcigliato - ma non ha fortuna: il vetro è a prova di proiet¬tile. Della stretta finestra sopra la portineria neanche a parlar¬ne, perché anche se riuscisse a infilarcisi andrebbe a cadere dritto dritto su un branco di proporci che sbavano. C'è una fi¬nestrella nel bagno, in alto, ma anche quella è dalla parte dei proporci.
Dopo tre ore di accurato lavoro e con l'aiuto - all'inizio - di uno sgabello-scaletta da cucina, di un cavatappi e di un coltello da tavola, e - alla fine - di un martello e di un cacciavite a bat¬terie trovato in fondo al ripostiglio, riesce a smontare la ventola dell'aria d'emergenza e a rimuovere il meccanismo al suo inter¬no. La ventola sale come un camino, poi curva da un lato. Pen¬sa di essere abbastanza magro per entrarci - morire quasi di fame ha i suoi vantaggi - sebbene, se rimane incastrato, morirà di una morte lenta nonché ridicola. Cotto nella ventola dell'aria, molto divertente. Lega un'estremità della corda improvvisata a una gamba del tavolo della cucina, che fortunatamente è imbul¬lonato al pavimento, e si avvolge il resto intorno alla vita. Attac¬ca il sacchetto di provviste all'estremità di una seconda corda. Trattenendo il respiro, si infila dentro a fatica, ruota penosa¬mente, si contorce. Meno male che non è una donna, i fianchi larghi lo metterebbero fuori gioco. Non c'è il minimo spazio li-bero, ma adesso la sua testa è all'esterno; poi, con una torsione, lo sono le spalle. È un salto di due metri e mezzo fino al muro. Dovrà calarsi a testa in giù, nella speranza che la corda improv¬visata regga.
Un'ultima spinta, uno strappo mentre si ferma di botto e penzola di sghembo. Si aggrappa alla corda, si raddrizza, slega l'e¬stremità intorno alla vita, si cala, una mano dopo l'altra. Poi tira il sacchetto delle provviste. È stato facile.
Dannazione. Ha dimenticato di prendere la radio a molla. Be', non tornerà certo indietro.
Il muro è largo quasi due metri, con un parapetto su ciascun lato. Ogni tre metri c'è un paio di feritoie, non una di fronte al¬l'altra ma sfalsate, destinate alla sorveglianza ma utili anche per posizionarvi le armi in casi disperati. Il muro è alto circa sei me¬tri, otto contando i parapetti. Corre tutt'intorno al Recinto, in¬tervallato da torri di guardia come quella che ha appena lasciato.
Il Recinto è di forma oblunga, e ci sono altri cinque cancelli. Conosce la pianta, avendola studiata alla perfezione nei giorni trascorsi al Paradice, che è dove si sta dirigendo adesso. Vede la cupola che si leva al di sopra degli alberi, scintillante come una mezza luna. Il suo piano è di prendervi ciò di cui ha bisogno, poi fare il giro del muro di cinta - oppure, se le circostanze sono fa¬vorevoli, tagliare per l'area del Recinto a livello della strada - e uscire da un cancello laterale.
Il sole è alto. Farebbe meglio a sbrigarsi, o cuocerà. Gli pia¬cerebbe farsi vedere dai proporci, prendersi gioco di loro, ma resiste a questo impulso: lo seguirebbero lungo il muro, gli im¬pedirebbero di scendere. Perciò ogni volta che raggiunge una feritoia di vedetta si accovaccia, in modo da non poter essere vi¬sto dal basso.

Alla terza torre di guardia si ferma. Oltre il parapetto del muro scorge qualcosa di bianco - bianco grigiastro e simile a una nu¬vola - ma è troppo basso per essere una nuvola. E non è nean¬che della forma giusta. È sottile, come una colonna vacillante. Deve essere vicino alla spiaggia, qualche chilometro a nord del¬l'accampamento dei Craker. All'inizio pensa che sia nebbia, ma la nebbia non si alza in uno stelo isolato come quello, non sof-fia. Non c'è dubbio, è fumo.
Spesso i Craker accendono un fuoco, ma non è mai grande, non farebbe tutto quel fumo. Potrebbe essere un effetto del temporale del giorno prima, un fuoco acceso da un fulmine e inumidito dalla pioggia che aveva ricominciato a bruciare senza fiamma. O magari i Craker hanno disobbedito ai suoi ordini e sono andati a cercarlo, e hanno fatto un segnale di fumo per guidarlo a casa. È improbabile - non è così che ragionano - ma in tal caso sono molto fuori strada.
Mangia metà di una barretta energetica, manda giù un po' d'acqua, continua a procedere lungo il muro. Ora zoppica un po', conscio del suo piede, ma non può fermarsi e occuparsene, deve andare più veloce che può. Ha bisogno di quella pistola spray, e non solo per via del calupi e dei proporci. Di tanto in tanto si guarda al di sopra della spalla. Il fumo è ancora là, un'u¬nica colonna. Non si è disperso. Continua a salire.

12

Plebopoli

Uomo delle Nevi zoppica lungo il muro, verso la bianca escre¬scenza vitrea che si allontana da lui come un miraggio. A causa del piede procede lentamente, e verso le undici il cemento diven¬ta troppo caldo per poterci camminare sopra. Si è messo il len¬zuolo sulla testa, se lo è avvolto intorno al corpo per quanto pos¬sibile, sul berretto da baseball e sulla camicia leggera, ma va an¬cora a fuoco, nonostante la crema solare e i due strati di stoffa. È felice dei suoi nuovi occhiali da sole con tutte e due le lenti.
Si acquatta all'ombra della torre di guardia successiva per aspettare con calma che passi il mezzogiorno, beve acqua da una bottiglia. Dopo che il culmine della luce accecante e del calore è passato, dopo che il temporale quotidiano è venuto e se n'è an¬dato, avrà forse tre ore per spostarsi. Se non si verificheranno imprevisti, arriverà prima del tramonto.
Il calore si riversa giù, rimbalza sul cemento. Uomo delle Nevi si rilassa al suo interno, lo inspira, sente il sudore che goc¬ciola come millepiedi che gli camminano addosso. I suoi occhi si chiudono tremolando, i vecchi film gli ronzano e gli crepitano nella testa. «Per quale cazzo di motivo aveva bisogno di me?» dice. «Perché non mi ha lasciato in pace?»
Non ha senso pensarci, non con questo caldo, con il cervello che gli si trasforma in formaggio fuso. Non formaggio fuso: me¬glio evitare le immagini di cibarie. In stucco, in colla, in un pro¬dotto per capelli in crema, in tubetto. Una volta l'ha usato. Im¬magina la sua esatta posizione sulla mensola, allineato accanto al rasoio: gli piaceva l'ordine, su una mensola. All'improvviso ha una chiara immagine di se stesso appena uscito dalla doccia, che si passa la crema con le mani sui capelli umidi. Al Paradice, aspettando Oryx.
Aveva avuto buone intenzioni, o quanto meno non ne aveva avute di cattive. Non aveva mai voluto fare del male a nessuno, non seriamente, non nello spazio-tempo reale. Le fantasie non contavano.

Era un sabato. Jimmy era a letto. In quel periodo si alzava a fa¬tica; aveva fatto tardi al lavoro un paio di volte nella settimana passata e questo, insieme alle volte prima di quella e a quelle pri¬ma ancora, gli avrebbe presto causato dei guai. Non che avesse fatto bisboccia: al contrario. Evitava il contatto umano. I pezzi grossi della AnooYoo non lo avevano ancora rimproverato; pro¬babilmente sapevano di sua madre e della sua morte da traditrice. Be', certo che lo sapevano, sebbene quello fosse il tipo di te¬nebroso segreto di Pulcinella di cui non si parlava mai nei Re¬cinti (sfortuna, malocchio, potrebbe essere contagioso, meglio far finta di niente e così via). Probabilmente erano tolleranti nei suoi confronti.
In ogni modo c'era un lato positivo: forse, ora che avevano finalmente cancellato sua madre dalla lista, gli uomini del CorpSeCorps l'avrebbero lasciato in pace.
«Tiralo su, tiralo su, tiralo su» diceva la sveglia vocale. Era rosa, a forma di fallo: un Cronocazzo, regalatogli per scherzo da una delle sue amanti. Al momento l'aveva trovato divertente, ma quella mattina gli sembrò offensivo. Jimmy non era altro per lei, per tutte loro, che un giochetto meccanico. Nessuno voleva sta¬re senza sesso, ma nessuno voleva essere nient'altro che sesso, disse una volta Crake. Oh, come no, pensò Jimmy. Un altro rompicapo umano.
«Che ore sono?» domandò all'orologio. Quello abbassò il co¬cuzzolo e saltò di nuovo su.
«È mezzogiorno. È mezzogiorno, è mezzogiorno, è...»
«Sta' zitto» disse Jimmy. L'orologio si ammosciò. Era pro¬grammato per reagire ai toni bruschi.
Jimmy considerò la possibilità di scendere dal letto, andare nel cucinino, aprire una birra. Era un'idea piuttosto buona. Era andato a letto tardi. Una delle sue amanti, proprio la donna che gli aveva regalato la sveglia, aveva penetrato il suo muro di si¬lenzio. Si era presentata verso le dieci con cibarie - ChickieNobs e patate fritte, conosceva i suoi gusti - e una bottiglia di scotch.
«Sono stata in pensiero per te» aveva detto. Quello che vole¬va in realtà era una scopata furtiva, perciò Jimmy aveva fatto del suo meglio e lei era stata bene, ma lui non ci aveva messo entu¬siasmo e la cosa doveva essere evidente. Poi erano dovuti passa¬re per i Cosa c'è, Ti sei stancato di me, Ci tengo veramente a te, e così via e bla bla.
«Lascia tuo marito» aveva detto Jimmy, per zittirla. «Scap¬piamo nelle plebopoli e andiamo a vivere in un parcheggio di roulotte».
«Oh, non penso... Non dici sul serio».
«E se fosse il contrario?»
«Lo sai che ci tengo a te. Ma tengo anche a lui, e...»
«Dalla cintola in giù».
«Prego?» Era una donna raffinata, diceva Prego? invece di Cosa?
«Ho detto dalla cintola in giù. È così che tieni a me, in realtà. Vuoi che te lo sillabi?»
«Non so cosa ti è preso, sei così villano ultimamente».
«Non ti diverti più».
«Be', a dire la verità, no».
«Allora smamma».
Dopodiché avevano litigato, e lei aveva pianto, il che strana¬mente l'aveva fatto sentire meglio. Dopodiché avevano finito lo scotch. Dopodiché avevano fatto ancora sesso, e questa volta Jimmy si era divertito ma l'amante no, perché era stato troppo rude e veloce e non le aveva detto nulla di lusinghiero, come fa¬ceva di solito. Che culo fantastico, eccetera eccetera.
Non avrebbe dovuto essere così aspro. Era una bella don¬na, con le tette vere e con i suoi problemi. Si domandò se l'a¬vrebbe più rivista. Molto probabilmente sì, perché quando se n'era andata aveva avuto negli occhi quello sguardo da Io pos¬so guarirti.

Dopo aver pisciato Jimmy stava tirando fuori la birra dal frigo, quando suonò il citofono. Eccola, proprio come prevedeva. Im¬mediatamente si sentì di nuovo intrattabile. Si avvicinò al viva voce. «Vattene» disse.
«Sono Crake. Sono qui sotto».
«Non ci credo» disse Jimmy. Digitò i numeri della videocamera nell'atrio: era Crake, proprio così, che gli faceva il gestaccio con il dito e un sorriso.
«Fammi entrare» disse Crake, e Jimmy lo fece entrare, per¬ché in quel momento era l'unica persona che avesse voglia di vedere.

Crake era più o meno lo stesso. Aveva gli stessi abiti scuri. Non era nemmeno più stempiato di prima.
«Cosa cazzo ci fai qui?» domandò Jimmy. Dopo l'iniziale on¬data di piacere si sentì imbarazzato per non essere ancora vesti¬to, e perché nel suo appartamento i bioccoli di polvere e i moz¬ziconi di sigaretta e i bicchieri sporchi e i contenitori di ChickieNobs vuoti arrivavano al ginocchio, ma Crake non sembrò farci caso.
«È bello sentirsi il benvenuto» fece Crake.
«Scusa. Le cose non sono andate troppo bene ultimamente» disse Jimmy.
«Già. Ho visto. Tua madre. Ti ho scritto delle e-mail, ma non hai risposto».
«Non ho controllato la posta» disse Jimmy.
«È comprensibile. Era sulla Rete: incitamento alla violenza, partecipazione a un'organizzazione messa al bando, sabotaggio della diffusione di prodotti commerciali, crimini proditori con¬tro la società. Suppongo che questi ultimi riguardassero le ma¬nifestazioni a cui ha partecipato. Lanciando mattoni o qualcosa del genere. Peccato, era una bella signora».
Secondo Jimmy né bella né signora erano termini adatti, ma non era in vena di discussioni, non così presto nella giornata. «Vuoi una birra?» domandò.
«No, grazie» rispose Crake. «Sono solo venuto a trovarti. A vedere se stavi bene».
«Sto bene» disse Jimmy.
Crake lo guardò. «Andiamo nelle plebopoli. Giriamo qualche bar».
«È uno scherzo, vero?»
«No, sul serio. Ho i lasciapassare. Il mio, permanente, e uno per te».
Al che Jimmy capì che Crake doveva essere davvero qualcu¬no. Era colpito. Anzi, era commosso che si preoccupasse per lui, facesse tutta quella strada per venirlo a cercare. Anche se ultimamente non erano stati molto in contatto - per colpa di Jimmy - Crake era ancora suo amico.

Cinque ore più tardi passeggiavano nelle plebopoli a nord di New New York. Ci erano volute solo un paio d'ore per arrivar¬ci - treno lampo fino al Recinto più vicino, poi auto ufficiale del CorpSeCorps con autista armato, fornito da chiunque eseguisse gli ordini di Crake. L'auto li aveva portati nel cuore di quella che Crake chiamò l'azione, e li aveva scaricati là. Ma sarebbero sta¬ti seguiti, disse Crake. Sarebbero stati protetti. Perciò non sa-rebbe stato fatto loro alcun male.
Prima di partire, Crake aveva infilato un ago nel braccio di Jimmy - un vaccino a breve termine e ad ampio raggio di sua creazione. Le plebopoli, spiegò, erano una gigantesca capsula Petri: vi era sparsa un'infinità di schifezze e di plasma contagio¬so. Se ci crescevi dentro eri più o meno immune, ma se eri dei Recinti e mettevi piede nelle plebopoli, diventavi un banchetto ambulante. Era come avere sulla testa una grossa scritta che di¬ceva: mangiami.
Crake aveva anche dei filtri nasali per loro due, l'ultimo mo¬dello, non solo per fermare i microbi ma anche per scremare il particolato. Da quelle parti l'aria era peggiore, disse. Più por¬cherie disperse nel vento, meno torri di depurazione a vortice disseminate in giro.
Jimmy non era mai stato nelle plebopoli prima di allora, ave¬va solo guardato al di là del muro. Era emozionato per esserci fi¬nalmente venuto, ma non era preparato a vedere tante persone vicine che camminavano, chiacchieravano, correvano da qual¬che parte. Sputare sul marciapiede era un numero di cui perso¬nalmente avrebbe fatto a meno. Ricchi abitanti delle plebopoli in auto lussuose, poveri su biciclette solari, prostitute in spandex fluorescenti, o in pantaloncini corti, o - nel caso dei sogget¬ti più atletici, che sfoggiavano natiche belle sode - su motorette che zigzagavano nel traffico. Tutti i colori di pelle, tutte le taglie. Ma non tutti i prezzi, disse Crake: questa era la fascia più bassa. Perciò Jimmy poteva guardarsi attorno, ma non fare acquisti. Meglio aspettare.
Gli abitanti delle plebopoli, o quanto meno la maggior parte di essi, non assomigliavano affatto ai deficienti mentali che gli abitanti dei Recinti amavano descrivere. Dopo un po' Jimmy cominciò a rilassarsi, a godersi quell'esperienza. C'era talmente tanto da vedere: un commercio così ampio, un'offerta così ric¬ca. Slogan al neon, tabelloni pubblicitari, annunci ovunque. E c'erano barboni veri, mendicanti vere, proprio come nei vecchi musical in dvd: Jimmy continuava ad aspettarsi che si mettesse¬ro a scalciare con i loro scarponi e a cantare. Musicisti veri agli angoli delle vie, vere bande di monelli di strada. Asimmetrie, deformità: i visi qui erano ben lontani dalla regolarità di quelli dei Recinti. Vide perfino dei denti guasti. Jimmy era attonito.
«Attento al portafoglio» disse Crake. «Comunque non avrai bisogno di denaro».
«Perché no?»
«Offro io».
«Non posso permetterlo».
«La prossima volta pagherai tu».
«Va bene» disse Jimmy.
«Eccoci - questa è quella che chiamano la Via dei sogni».
I negozi qui erano di livello medio-alto, le vetrine elaborate. Oggi hai i geni tristi? lesse Jimmy. Prova Tagliaggiusta! Si elimi¬nano malattie. Perché rimanere bassi? Diventa un Golia! Bimbidasogno. Migliora il tuo DNA. Riempiculle & C.. Pisello piccolino? Ti ci vuole Tipolungo!
«Dunque è qui che la nostra roba si trasforma in oro» disse Crake.
«La nostra roba?»
«Quello che produciamo alla Rejoov. Noi, e gli altri Recinti che hanno per obiettivo il corpo».
«E funziona tutto?» Jimmy era impressionato, non tanto da quanto veniva promesso quanto dagli slogan: menti come la sua erano passate di là. Il suo stato d'animo deprimente della matti¬na era svanito, si sentiva piuttosto allegro. C'erano talmente tan¬te cose che lo assalivano, tante di quelle informazioni; non ave¬va spazio per altro.
«Quasi tutto» disse Crake. «Naturalmente, nulla è perfetto. Ma la concorrenza è feroce, soprattutto considerando quanto stanno facendo i russi, e i giapponesi, e i tedeschi, ovviamente. E gli svedesi. Però ci difendiamo, abbiamo la reputazione di of¬frire prodotti affidabili. La gente viene qui da tutto il mondo - si guarda in giro. Sesso, orientamento sessuale, peso, colore del¬la pelle e degli occhi - è possibile ordinare tutto, tutto si può fare e rifare. Non hai idea di quanto denaro passi di mano solo in questa strada».
«Beviamo qualcosa» disse Jimmy. Stava pensando al suo ipo¬tetico fratello, quello non ancora nato. Era qui che suo padre e Ramona erano venuti a fare spese?
Bevvero qualcosa, poi fecero uno spuntino - vere ostriche, disse Crake, vera carne di manzo giapponese, rara come i dia¬manti. Dovette costare una fortuna. Poi andarono in un altro paio di posti e finirono il giro in un bar che offriva sesso orale sui trapezi. Jimmy bevve qualcosa di arancione che risplendcva al buio e fece due volte il bis. Dopodiché eccolo a raccontare a Crake la storia della sua vita - no, la storia della vita di sua ma¬dre - in una lunga frase ingarbugliata, come un filo di gomma da masticare che continuasse a uscirgli di bocca. Quindi anda¬rono da qualche altra parte, su un immenso letto di satin verde, e furono lavorati da un paio di ragazze coperte dalla testa ai pie¬di di lustrini incollati sulla pelle, che scintillavano come squame di pesci virtuali. Jimmy non aveva mai conosciuto una ragazza che sapesse contorcersi e attorcigliarsi con risultati così felici.
Fu là, o in uno dei bar, prima, che era venuto fuori l'argo¬mento del lavoro? La mattina seguente non riuscì a ricordarlo. Crake aveva detto: Lavoro, per te, Rejoov, e Jimmy aveva detto: A fare cosa, pulire i cessi, e Crake aveva riso e aveva risposto: No, meglio. Jimmy non ricordava di aver accettato, ma doveva aver¬lo fatto. Gli sarebbe andato bene qualsiasi lavoro, non importa¬va quale. Voleva trasferirsi, cambiare. Era pronto per un capito¬lo tutto nuovo.

BlyssPluss

Il lunedì mattina dopo il suo week-end con Crake, Jimmy si pre¬sentò alla AnooYoo per un'altra giornata di lavoro con le paro¬le. Si sentiva piuttosto a pezzi, ma sperava che non si vedesse. Sebbene incoraggiasse ogni tipo di esperimento chimico da parte dei suoi clienti paganti, la AnooYoo non vedeva di buon oc¬chio niente del genere tra i dipendenti. La cosa quadrava: nei tempi andati i contrabbandieri di alcolici erano raramente ubriachi. O almeno, così aveva letto.
Prima di raggiungere la sua scrivania fece una capatina nel bagno degli uomini e si guardò allo specchio: sembrava una piz¬za vomitata. Inoltre era in ritardo, ma una volta tanto non se ne accorse nessuno. All'improvviso comparve il suo capo con alcu¬ni altri funzionari di grado tanto elevato che Jimmy non li aveva mai visti prima. Gli strinsero la mano, gli diedero gentili pacche sulla schiena, gli cacciarono in mano un bicchiere di champagne sintetico. Benissimo, chiodo scaccia chiodo! Glu-glu-glu, diceva la nuvoletta di Jimmy, però si limitò a centellinarlo.
Poi gli fu detto che piacere era stato averlo alla AnooYoo, e che grande risorsa si fosse dimostrato, e quanti affettuosi augu¬ri lo avrebbero accompagnato nella sua nuova destinazione e, a proposito, tante, tante congratulazioni! La liquidazione sarebbe stata immediatamente depositata sul suo conto alla Corpsbank. Sarebbe stata generosa, più generosa di quanto non avrebbe consentito la sua permanenza in servizio, perché, siamo onesti, i suoi amici alla AnooYoo volevano che Jimmy li ricordasse in maniera positiva, nel suo fantastico nuovo posto di lavoro.
Qualunque esso fosse, pensò Jimmy mentre si sedeva nel tre¬no lampo sigillato. Avevano pensato sia al treno che al trasloco - sarebbe arrivata una squadra a impacchettare tutto, erano pro¬fessionisti, niente paura. Ebbe a malapena il tempo di contatta¬re le sue varie amanti, e quando lo fece scoprì che ognuna era stata discretamente informata da Crake in persona, i cui tenta¬coli si rivelarono alquanto lunghi. Com'era venuto a sapere di loro? Forse si era inserito nelle e-mail di Jimmy, per lui sarebbe stato facile. Ma perché prendersi questo disturbo?
Mi mancherai, Jimmy, diceva il messaggio di una di loro.
Oh, Jimmy, eri così divertente, diceva un altro.
Eri: un lapsus. Non è che fosse morto o roba del genere.

Jimmy passò la sua prima notte alla RejoovenEsense nell'alber¬go degli ospiti Vip. Si versò da bere al minibar, scotch puro, au¬tentico al cento per cento, quindi rimase un po' a contemplare la vista dalla finestra panoramica, non che riuscisse vedere un granché a parte le luci. Scorse la cupola del Paradice, un immenso semicerchio in lontananza inondato di luce dal basso, ma non sapeva ancora cos'era. Pensò che fosse una pista di patti¬naggio sul ghiaccio.
La mattina seguente Crake lo portò a fare un giro prelimina¬re del Recinto RejoovenEsense a bordo del suo golf cart elettri¬co truccato. Il posto, Jimmy dovette ammetterlo, era spettacola¬re in tutti i sensi. Era tutto scintillante di pulizia, abbellito da in¬terventi di architettura del paesaggio, incontaminato dal punto di vista ecologico, e molto costoso. L'aria era priva di particolato, grazie alle numerose torri di depurazione a vortice dislocate con discrezione e camuffate da opere d'arte moderna. I roccolatori si occupavano del microclima, farfalle grosse come piatti fluttuavano tra cespugli dai colori vivaci. Faceva sembrare tutti gli altri posti che Jimmy aveva visto, compreso il Watson-Crick, malmessi e antiquati.
«Cos'è che paga tutto questo?» domandò a Crake, mentre passavano davanti al modernissimo Luxuries Mall - marmo ovunque, colonnati, caffè, felci, chioschi per cibo da asporto, pi¬sta per pattini a rotelle, bar di alcolici, una palestra ad autoe¬nergia dove si tenevano accese le lampadine correndo su tapis roulant, fontane in stile romano con ninfe e divinità marine.
«Il dolore di fronte all'inevitabile morte» rispose Crake. «Il desiderio di fermare il tempo. La condizione umana».
Il che non era poi molto chiaro, osservò Jimmy.
«Vedrai» disse Crake.

Pranzarono in uno dei ristoranti a cinque stelle del Rejoov, su un finto balcone climatizzato che dominava la principale serra di botanica organica del Recinto. Crake prese cangu-agnello, una nuova combinazione australiana che univa il carattere placido e il rendimento altamente proteico della pecora alla resistenza alle malattie e alla mancanza di flatulenze produttrici di metano e distruttrici di ozono del canguro. Jimmy ordinò cappone farcito di uva passa: vero cappone ruspante, vera uva passa seccata al sole, gli assicurò Crake. Ormai Jimmy era talmente abituato alle Pe¬pite di pollo, alla loro scipita consistenza simile al tofu e al loro gusto insipido, che quello del cappone gli sembrò un sapore piuttosto selvatico.
«La mia unità si chiama Paradice» annunciò Crake al di so¬pra della banana di soia flambé. «Lavoriamo per l'immortalità».
«Come tutti gli altri» disse Jimmy. «Con i ratti ce l'hanno qua¬si fatta».
«Il quasi è fondamentale» disse Crake.
«E i tizi della criogenia?» domandò Jimmy. «Ci congeleranno la testa e ci ricostruiranno il corpo, una volta che avranno capi¬to come fare? Fanno affari d'oro, la loro popolarità è alle stelle».
«Certo, e dopo un paio d'anni ti butteranno fuori dalla porta sul retro e diranno ai tuoi parenti che è andata via la corrente. Ad ogni modo, noi stiamo eliminando il gelo profondo».
«Cosa vuoi dire?»
«Con noi, non dovresti morire prima».
«L'avete fatto veramente?»
«Non ancora. Ma hai presente il budget di Ricerca & Svilup¬po?»
«Milioni?»
«Megamilioni».
«Posso avere ancora da bere?» chiese Jimmy. Era un bel po' di roba da digerire.
«No. Ho bisogno che tu mi stia a sentire».
«Posso sentire e bere nello stesso tempo».
«Non al tuo meglio».
«Mettimi alla prova» disse Jimmy.

All'interno del Paradice, disse Crake - avrebbero visitato lo sta¬bilimento dopo pranzo - erano in corso le due iniziative più im¬portanti. La prima - la pillola BlyssPlus - era di natura profilat¬tica, e la logica che vi era sottesa era semplice: elimina le cause esterne di morte, e sarai a metà strada.
«Cause esterne?» disse Jimmy,
«La guerra, vale a dire energia sessuale mal diretta, che con¬sideriamo un fattore più rilevante delle cause economiche, raz¬ziali e religiose spesso citate. Malattie contagiose, soprattutto quelle trasmesse per via sessuale. Sovrappopolazione, che porta - ne abbiamo avuto numerosi esempi - al degrado ambientale e alla denutrizione».
Jimmy osservò che sembrava un'impresa ardua: tanto si era sperimentato in quei campi, tanto era fallito. Crake sorrise. «Se non riesci al primo tentativo, leggi le istruzioni» disse.
«Sarebbe?»
«Il vero oggetto di studio dell'umanità è l'uomo».
«Sarebbe?»
«Bisogna lavorare con quello che c'è in tavola».
La pillola BlyssPlus era ideata per prendere una serie di fatti accettati, e precisamente la natura della natura umana, e rivol¬gerli in una direzione più proficua di quelle imboccate finora. Era basata sugli studi su uno scimpanzè pigmeo, o bonobo, ora sfortunatamente estinto, parente stretto dell'Homo sapiens sapiens. Al contrario di quest'ultima specie, il bonobo non era sta¬to parzialmente monogamo con tendenze poligame e poliandriche. No, era stato indiscriminatamente promiscuo, non aveva formato coppie e aveva trascorso la maggior parte della sua vita da sveglio, quando non mangiava, a copulare. Il suo fattore di aggressione intraspecifico era stato molto basso.
Ciò aveva condotto all'idea della pillola BlyssPlus. Lo scopo era produrre una singola pillola che nello stesso tempo:
- proteggesse il consumatore da tutte le malattie trasmesse per via sessuale conosciute - fatali, fastidiose o semplicemente antiestetiche;
- fornisse una riserva illimitata di libido e potenza sessuale com¬binate con un senso generale di energia e benessere, riducendo perciò la frustrazione e il testosterone bloccato, causa di gelosia e violenza, ed eliminando le sensazioni di bassa autostima;
- prolungasse la giovinezza.

Questi tre pregi avrebbero costituito forti stimoli all'acquisto del prodotto, disse Crake; ma ce ne sarebbe stato un quarto, che non sarebbe stato pubblicizzato. La pillola BlyssPlus avrebbe agito come un contraccettivo infallibile e definitivo sia per ma¬schi che per femmine, abbassando così automaticamente il livel¬lo della popolazione. Questo effetto poteva essere reso reversi¬bile, ma non in casi specifici, alterando i componenti della pil¬lola secondo le necessità, se la popolazione di un'area fosse di¬venuta troppo esigua.
«Perciò, in sostanza sterilizzerete la gente a sua insaputa, con la parvenza di darle il non plus ultra delle orge?»
«Per dirla in maniera rozza» ammise Crake.
Una pillola del genere, disse, avrebbe apportato benefici su larga scala, non solo ai consumatori individuali - malgrado do¬vesse incontrare il favore, per non essere un fiasco - ma anche alla società nel suo complesso; e non solo alla società, ma al pianeta. Gli investitori erano molto interessati, il progetto sarebbe stato globale. C'erano solo vantaggi. Nessuno svantaggio. Dal canto suo, Crake era molto emozionato.
«Non ti facevo così altruista» disse Jimmy. Da quando guida¬va il tifo per la razza umana?
«Non è esattamente altruismo» disse Crake. «Si tratta piut¬tosto di arrangiarsi. Ho visto gli ultimi rapporti demografici confidenziali del CorpSeCorps. Come specie siamo in guai seri, peggio di quanto non si dica comunemente. Hanno paura di diffondere le statistiche perché la gente potrebbe lasciarsi anda¬re, ma credi a me, stiamo esaurendo lo spazio-tempo. Sono de¬cenni che la domanda di risorse eccede l'offerta nelle aree geo¬grafiche periferiche, cosa che ha provocato carestie e siccità; ma tra poco la domanda supererà l'offerta dappertutto. Con la pil-lola BlyssPlus la razza umana avrà più possibilità di cavarsela».
«E come, secondo te?» Forse Jimmy non avrebbe dovuto bere quel bicchiere in più. Stava diventando un po' confuso.
«Meno gente, perciò più cose per tutti».
«E se la gente rimasta è molto avida e sprecona?» volle sape¬re Jimmy. «Non è da escludersi».
«Non sarà così» fece Crake.
«È già pronta questa roba?» disse Jimmy. Stava cominciando a scorgere le opportunità. Sesso di prima qualità a non finire, senza alcuna conseguenza. A pensarci bene, la sua libido avreb¬be avuto bisogno di tonificarsi un po'. «Fa ricrescere i capelli?» Fu sul punto di domandare: Dove posso trovarla, ma si fermò in tempo.
Era un'idea ottima, disse Crake, sebbene avesse ancora biso¬gno di una messa a punto. Non erano ancora riusciti a farla fun¬zionare in maniera uniforme, su tutti i fronti; era tuttora alla fase del collaudo clinico. Un paio dei soggetti campione avevano let¬teralmente scopato a morte, parecchi avevano assalito vecchie si¬gnore e animaletti domestici, e c'erano stati alcuni sfortunati casi di priapismo e di uccelli che si aprivano in due. Inoltre, in un pri¬mo momento, il meccanismo di protezione dalle malattie tra¬smesse per via sessuale aveva fallito in maniera eclatante. Un sog¬getto si era riempito di grandi escrescenze genitali su tutto il cor¬po, orribili a vedersi, ma lo avevano curato con i laser e l'esfoliazione, almeno temporaneamente. In breve, c'erano stati errori, erano state prese strade sbagliate, ma la soluzione era vicina ormai.
Inutile dire, continuò Crake, che la cosa si sarebbe trasfor¬mata in un'enorme miniera d'oro. Sarebbe stata la pillola di cui non si può fare a meno, in ogni paese, in ogni società del mon¬do. Naturalmente alle religioni più fanatiche non sarebbe pia¬ciuta, considerato che la loro ragion d'essere si basava sulla mi¬seria, sulla gratificazione rinviata all'infinito e sulla frustrazione sessuale, ma non sarebbero state in grado di resistere a lungo. L'ondata del desiderio umano, il desiderio di avere di più e di meglio, li avrebbe travolti. Avrebbe preso il controllo e guidato gli eventi, com'era successo in ogni radicale mutamento nel cor¬so dell'intera storia.
Jimmy disse che la cosa sembrava molto interessante. Purché si potesse porre rimedio ai difetti. Bello anche il nome, BlyssPlus. Un suono suadente, seducente. Gli piaceva. Però, non ave¬va più voglia di sperimentarla lui stesso: aveva già abbastanza problemi senza che gli scoppiasse il pene.
«Dove rimediate i soggetti?» domandò. «Per gli esperimenti clinici?»
Crake sorrise. «Dai paesi più poveri. Li paghiamo pochi dol¬lari, non sanno nemmeno cosa prendono. Dalle cliniche sessua¬li, naturalmente: sono contente di dare una mano. Dai bordelli. Dalle prigioni. E dai ranghi dei disperati, come al solito».
«E io dove mi inserisco?»
«Tu farai la campagna pubblicitaria» disse Crake.

MaddAddam

Dopo pranzo andarono al Paradice.
Il complesso con al centro la cupola era all'estremità destra della Rejoov. Era circondato da un parco privato, una fitta pian¬tagione climatizzante di ibridi tropicali, al di sopra della quale si levava come un bulbo oculare cieco. Intorno al parco c'era un'installazione superprotetta, custodita rigorosamente, disse Crake; nemmeno gli uomini del CorpSeCorps avevano il permesso di entrarci. Il Paradice era stata una sua idea, e aveva po¬sto quella condizione quando aveva accettato di realizzarla: non voleva ignoranti che ficcanasassero in cose che non potevano ca¬pire.
Il lasciapassare di Crake andava bene per tutti e due, natural¬mente. Superarono con il golf cart il primo cancello e poi pro¬cedettero lungo la carreggiata tra gli alberi. Poi ci fu un altro po¬sto di controllo, con guardie - nell'uniforme del Paradice, spiegò Crake, non del CorpSeCorps - che sembrarono materia¬lizzarsi dai cespugli. Poi altri alberi. Poi il muro curvo della stes¬sa cupola-bolla. Poteva sembrare poco resistente, disse Crake, ma era di una nuova lega, una formazione ultraresistente a base di adesivo di mitili, silicone e formazioni dendritiche. Bisognava avere strumenti molto avanzati per penetrarvi, perché dopo la pressione si sarebbe ricostituita e avrebbe riparato automatica¬mente ogni squarcio. In più, aveva la facoltà sia di filtrare che di respirare, come un guscio d'uovo, sebbene a tal fine necessitas¬se di corrente generata da energia solare.
Consegnarono il golf cart a una delle guardie e furono intro¬dotti previa digitazione di speciali codici attraverso la porta esterna, che si richiuse alle loro spalle con un whuff.
«Perché ha fatto quel suono?» volle sapere Jimmy in tono nervoso.
«È una camera d'equilibrio» rispose Crake. «Come sulle astronavi».
«A che serve?»
«Nel caso questo posto debba essere isolato» disse Crake. «Bioforme ostili, attacchi di tossine, fanatici. Le solite cose».
A quel punto Jimmy si sentiva un po' strano. In realtà Crake non gli aveva spiegato cosa succedeva là dentro, non nei detta¬gli specifici. «Aspetta e vedrai» era tutto quello che aveva detto.
Una volta superata la porta interna, si ritrovarono in un am¬biente dall'aria abbastanza familiare. Corridoi, porte, membri dello staff con bloc notes digitali, altri curvi davanti agli scher¬mi; era tutto come alla OrganInc Farms, soltanto più nuovo. Ma le apparecchiature materiali erano solo un guscio, disse Crake: quello che contava davvero in un impianto di ricerca era la qua¬lità dei cervelli.
«Questi sono i migliori sulla piazza» disse, facendo segno a destra e a sinistra. La reazione furono molti sorrisi deferenti, nonché - e non erano falsi - molti sguardi pieni di soggezione. Jimmy non aveva mai ben capito l'esatta posizione di Crake, ma qualunque fosse la sua qualifica nominale - al proposito era sta¬to vago - era ovviamente la formica più grande del formicaio.
Ogni membro del personale aveva una targhetta con il nome scritto in stampatello, una o due parole soltanto. RINOCERONTE NERO. FALASCO BIANCO. PICCHIO BECCO AVORIO. ORSO POLARE. TIGRE INDIANA. LYCAEIDES ARGYROGNOMON. VOLPE PIGMEA.
«I nomi» disse a Crake. «Hai razziato Extinctathon!»
«Si tratta di più che semplici nomi» disse Crake. «Queste per¬sone sono Extinctathon. Sono tutti Gran maestri. Quello che hai davanti agli occhi è MaddAddam, la crema del gruppo».
«Scherzi! E come mai sono qui?» domandò Jimmy.
«Sono i geni della ricombinazione genetica» rispose Crake. «Gli artefici di quelle attività illecite: i microbi mangia-asfalto, l'epidemia di herpes simplex al neon sulla costa occidentale, le vespe delle Pepite di pollo e così via».
«Herpes al neon? Non ne ho sentito parlare» disse Jimmy. Piuttosto buffo. «Come li hai rintracciati?»
«Non ero il solo a cercarli. Si stavano rendendo molto impo¬polari in certi ambienti. Li ho solo raggiunti prima degli uomini del CorpSeCorps, ecco tutto. Nella maggior parte dei casi, al¬meno».
Jimmy stava per domandare: Cos'è successo agli altri, ma pen¬sò bene di evitare.
«Dunque li hai rapiti, o cosa?» Jimmy non si sarebbe stupito, il furto di cervelli era una pratica abituale; sebbene di solito i cervelli venissero rubati tra paesi, non al loro interno.
«Li ho semplicemente persuasi che sarebbero stati molto più felici e tranquilli qui dentro che fuori».
«Più tranquilli? Nel territorio del CorpSeCorps?»
«Ho procurato loro documenti sicuri. Sono stati quasi tutti d'accordo con me, soprattutto quando mi sono offerto di di¬struggere le loro cosiddette vere identità e tutta la documenta¬zione delle loro precedenti esistenze».
«Pensavo che quei tizi fossero anti-Recinti» disse Jimmy. «Le imprese di MaddAddam erano piuttosto ostili, da quanto mi hai fatto vedere».
«Erano anti-Recinti. Lo sono ancora, probabilmente. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, nel Ventesimo secolo, gli alleati invitarono molti scienziati missilistici tedeschi a venire qui e a lavorare con loro, e non ricordo di nessuno che abbia detto no. Quando la partita principale è finita, puoi sempre spostare la scacchiera altrove».
«E se provano a sabotare o...»
«A fuggire? Già» disse Crake. «Ce n'era un paio così, all'ini¬zio. Non facevano gioco di squadra. Pensavano di prendere quanto avevano fatto qui e portarlo all'estero. Entrare in clan¬destinità, o sistemarsi altrove».
«E tu che hai fatto?»
«Sono caduti dai cavalcavia delle plebopoli».
«È uno scherzo?»
«Diciamo così. Avrai bisogno di un altro nome» disse Crake, «un nome da MaddAddam, così ti inserirai. Pensavo, dal mo¬mento che qui io sono Crake, che potresti tornare a essere Oc¬chione, com'eri quando avevamo... quanti anni?»
«Quattordici».
«Quelli erano tempi certi» disse Crake.
Jimmy voleva trattenersi un po', ma l'amico lo stava già solle¬citando ad andare avanti. Gli sarebbe piaciuto parlare con alcu¬ne di quelle persone, sentire le loro storie - qualcuno di loro aveva conosciuto sua madre, ad esempio? - ma forse avrebbe potuto farlo più tardi. D'altra parte, forse no: l'avevano visto con Crake, il lupo alfa, il gorilla dalla schiena argentata, il leone dominante. Nessuno sarebbe voluto entrare troppo in confi¬denza con lui. La sua sarebbe stata considerata la posizione del¬lo sciacallo.

Paradice

Fecero un salto nell'ufficio di Crake, in modo che Jimmy potes¬se orientarsi un po', disse Crake. Era un grande ambiente pieno di aggeggi, proprio come si sarebbe aspettato Jimmy. Sulla pa¬rete c'era un dipinto: una melanzana su un piatto arancione. Era il primo quadro che Jimmy ricordasse di avere mai visto in un luogo frequentato dell'amico. Fu sul punto di domandargli se fosse della sua ragazza, ma ci ripensò.
Puntò dritto sul minibar. «C'è qualcosa là dentro?»
«Dopo» disse Crake.
Crake aveva ancora una collezione di calamite da frigorifero, ma erano differenti. Niente più battute.

Dove c'è Dio, non c'è l'Uomo.
Ci sono due lune, quella visibile e quella invisibile.
Du musz dein Leben andern.
Capiamo più di quanto sappiamo.
Cogito, ergo.
Rimanere umano è infrangere una limitazione.
Il sogno scivola fuori della tana verso la preda.

«Di cosa ti occupi veramente?» volle sapere Jimmy.
Crake sorrise. «Cosa vuol dire veramente?»
«Impostura» disse Jimmy. Ma era stato spiazzato.

Ora, disse Crake, era giunto il momento di essere seri. Avrebbe mostrato a Jimmy l'altra cosa che stavano facendo - la cosa fon¬damentale, là al Paradice. Quello che Jimmy stava per vedere era... be', non poteva essere descritto. Era, molto semplicemen¬te, il lavoro di una vita, per Crake.
Jimmy assunse un'espressione adeguatamente solenne. E adesso? Qualche nuova raccapricciante sostanza alimentare, senza dubbio. Un albero di fegato, una liana di salsiccia. O qual¬che tipo di zucchine che davano lana. Si preparò.
Crake lo condusse in lungo e il largo; infine, eccoli di fronte a una grande finestra panoramica. No: a un finto specchio. Jimmy ci guardò dentro. C'era un grande spazio centrale pieno di alberi e piante sovrastati da un cielo azzurro. (Non un vero cielo azzurro, solo il soffitto ricurvo della cupola-bolla con un abile congegno di proiezione che simulava l'alba, la luce del sole, la sera, la notte. C'era una luna finta che passava attraver¬so tutte le fasi, scoprì in seguito. C'era finta pioggia).
Quella fu la prima volta che vide i Craker. Erano nudi, ma non come sulle NudiNews: non c'era imbarazzo, per niente. Al¬l'inizio stentò a crederci, erano talmente belli. Neri, gialli, bianchi, marroni, tutti i possibili colori di pelle. Ogni individuo era perfetto. «Sono robot, o cosa?» domandò.
«Hai presente i modelli da esposizione, nei negozi di mobi¬li?» disse Crake.
«Sì?»
«Be', questi sono modelli da esposizione».

Erano il risultato di una logica catena di progressione, disse Crake quella sera, mentre bevevano al Paradice Lounge (falsi al¬beri di palma, musica registrata, vero Campari, vera soda). Una volta che il proteonome era stato interamente analizzato e la ri¬combinazione tra geni interspecifici e geni particolari era in pie¬no svolgimento, il progetto Paradice o qualcosa del genere era stato solo questione di tempo. Quello che Jimmy aveva visto era il risultato pressoché definitivo di sette intensi anni di ricerche empiriche.
«All'inizio» disse Crake, «abbiamo dovuto alterare i normali embrioni umani, presi da... non importa da dove. Ma questi in¬dividui sono sui generis. Adesso si stanno riproducendo».
«Sembra che abbiano molto più di sette anni» osservò Jimmy.
Crake spiegò i fattori di crescita rapida di cui li aveva dotati. «Inoltre» disse, «sono programmati per schiattare all'età di trent'anni all'improvviso, senza ammalarsi. Senza vecchiaia, sen¬za ansie. Stramazzeranno e basta. Non che lo sappiano; nessuno di loro è ancora morto».
«Pensavo che lavorassi per l'immortalità».
«L'immortalità» disse Crake, «è un concetto. Se prendi la 'mortalità' in quanto tale, non la morte, ma la prescienza e la paura di essa, allora l''immortalità' è l'assenza di tale paura. I bambini sono immortali. Elimina la paura, e sarai...»
«Sembra Retorica applicata 101» disse Jimmy.
«Cosa?»
«Lascia stare. Roba della Martha Graham».
«Oh. Giusto».
Altri Recinti in altri paesi stavano seguendo simili linee di ra-gionamento, disse Crake, sviluppando i loro prototipi, perciò la popolazione della cupola-bolla era top secret. Voto del silenzio, soltanto e-mail interne a circuito chiuso, a meno di avere un per¬messo speciale, alloggi all'interno della zona di sicurezza ma al di fuori della camera d'equilibrio. Questo avrebbe ridotto le possibilità di infezione nel caso un qualsiasi membro del perso¬nale si fosse ammalato; i modelli del Paradice avevano un siste¬ma immunitario potenziato, perciò le probabilità che tra loro si diffondessero malattie contagiose erano esigue.
Nessuno era autorizzato a uscire dal complesso. O quasi nes¬suno. Crake sì, naturalmente. Era il trait d'union tra il Paradice e le alte sfere della Rejoov, sebbene non le avesse ancora messe al corrente del progetto. Erano un gruppo ingordo, nervoso sul¬le sorti del proprio investimento; avrebbero voluto bruciare i tempi, anticipare troppo il lancio sul mercato. Avrebbero anche parlato troppo, informato la concorrenza. Erano tutti spacconi, quei tipi.
«Dunque, ora che sono qui dentro non potrò mai uscire?» domandò Jimmy. «Non me l'avevi detto».
«Sarai un'eccezione» disse Crake. «Nessuno ti rapirà per quanto hai nel cranio. Fai solo la pubblicità, ricordi?» Ma il re¬sto della squadra, disse - il contingente MaddAddam - era con¬finato alla base fino alla fine.
«Alla fine?»
«Finché non usciamo allo scoperto» disse Crake. Molto pre¬sto la RejoovenEsense sperava di arrivare sul mercato con i suoi nuovi ibridi. Sarebbero stati in grado di creare bambini com¬pletamente selezionati, dotati di qualsivoglia caratteristica, fisica o spirituale, scelta dal compratore. I metodi già disponibili da¬vano risultati troppo casuali, disse Crake: certe malattie eredita¬rie potevano essere scongiurate, è vero, ma a parte questo c'era¬no molti scarti, molti sprechi. I clienti non avevano la certezza di ottenere esattamente quello per cui avevano pagato; per di più, c'erano troppe conseguenze impreviste.
Con il metodo Paradice, invece, si sarebbe stati precisi al no¬vantanove per cento. Potevano essere create intere popolazioni con caratteristiche preselezionate. La bellezza, naturalmente; quella sarebbe stata la richiesta più alta. E la docilità: parecchi leader mondiali si erano dichiarati interessati al riguardo. Il Pa¬radice aveva già elaborato una pelle resistente agli UV, un repel¬lente per insetti incorporato, una capacità senza precedenti di digerire materiale vegetale non raffinato. Quanto all'immunità dai microbi, ciò che era stato fatto fino ad allora con i farmaci sarebbe diventato congenito.
Paragonata al progetto Paradice, perfino la pillola BlyssPlus era uno strumento rozzo, pur rappresentando una soluzione transitoria redditizia. Alle lunghe, tuttavia, per la futura razza umana i benefici congiunti delle due cose combinate sarebbero stati fantastici. Pillola e progetto erano inestricabilmente legati. La pillola avrebbe messo un freno alla riproduzione casuale, il progetto l'avrebbe sostituita con un metodo superiore. Si pote¬vano definire due fasi dello stesso piano.
Era sorprendente - disse Crake - pensare alle cose un tem¬po inimmaginabili che erano state realizzate dalla sua squadra. Ciò che era stato modificato non era niente meno che l'antico cervello dei primati. Erano scomparse le sue caratteristiche di¬struttive, responsabili degli attuali malanni del mondo. Ad esempio, il razzismo - o, come veniva chiamato al Paradice, la pseudospeciazione - era stato eliminato dal gruppo-modello semplicemente spostando il meccanismo di collegamento: la gente del Paradice non badava al colore della pelle, tutto qui. Tra loro non esisteva gerarchia, perché erano privi dei com¬plessi neurali che la creavano. Dal momento che non erano né cacciatori né agricoltori affamati di terra, non esisteva territo¬rialità: gli innati meccanismi feudali che avevano afflitto l'u¬manità in loro erano stati disattivati. Mangiavano soltanto fo¬glie, erba, radici e qualche bacca; perciò il cibo era abbondan¬te e sempre disponibile. Per loro la sessualità non costituiva un tormento costante, una nuvola di ormoni turbolenti: andavano in calore a intervalli regolari, come molti mammiferi diversi dall'uomo.
In effetti, dal momento che non ci sarebbe stato nulla da ere¬ditare, questa gente non avrebbe avuto alberi genealogici, ma¬trimoni e divorzi. Era perfettamente adattata al suo habitat, perciò non avrebbe mai dovuto creare case o attrezzi o armi, o, se è per questo, vestiti. Non avrebbero mai avuto bisogno di in¬ventare simbolismi nocivi, come regni, icone, dei o denaro. La cosa migliore era che riciclavano i propri escrementi. Attraver-so una brillante ricombinazione, incorporando materiale gene¬tico da...
«Scusami» disse Jimmy. «Ma un genitore medio non cerca tutta questa roba in un bambino. Non ti sei fatto un po' tra¬sportare?»
«Te l'ho detto» rispose Crake pazientemente. «Questi sono i modelli da esposizione. Rappresentano lo stato dell'arte. Possiamo elencare le caratteristiche individuali ai probabili comprato¬ri, quindi personalizzare. Non tutti richiederanno certi accessori, lo sappiamo. Ma saresti sorpreso di sapere quanta gente vor¬rebbe un bambino bellissimo e intelligente che mangi solo erba. I vegetariani sono molto interessati a questa piccola voce. Ab¬biamo fatto le nostre ricerche di mercato».
Oh, bene, pensò Jimmy. Il vostro bambino potrà essere usato anche come tagliaerba.
«Sanno parlare?» domandò.
«Certo che sanno parlare. Quando hanno qualcosa da dire».
«Fanno battute?»
«Non in quanto tali» disse Crake. «Per le battute c'è bisogno di un certo umorismo, di un po' di malizia. Ci sono voluti un'in¬finità di esperimenti, e ci stiamo ancora lavorando, ma forse sia¬mo riusciti a eliminare gli scherzi». Sollevò il bicchiere, sorrise a Jimmy. «Sono contento che tu sia qui, noce di sughero» disse. «Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare».

A Jimmy venne assegnato un appartamento dentro alla cupola del Paradice. Le sue cose erano già state portate là, ognuna ri¬posta al posto giusto - la biancheria intima nel cassetto della biancheria intima, le camice ordinatamente impilate, lo spazzo¬lino elettrico attaccato alla spina e ricaricato - ma erano più di quante non ricordasse di averne. Più camicie, più biancheria in¬tima, più spazzolini elettrici. L'aria condizionata era regolata alla temperatura che gli piaceva, e un gustoso spuntino (melone, prosciutto, brie francese con un'etichetta che sembrava autenti-ca) era apparecchiato sul tavolo della sala da pranzo. Il tavolo della stanza da pranzo! Non aveva mai avuto un tavolo della sala da pranzo prima di allora.

Crake innamorato

Il lampo sfrigola, il tuono rimbomba, la pioggia scroscia, così violenta che tutt'intorno l'aria è bianca, una nebbia solida; è come vetro in movimento. Uomo delle Nevi - zuccone, buffo¬ne, fifone - si accovaccia sul muro di cinta, le braccia sopra la testa, tempestato dall'alto come un oggetto di generale derisione. È umanoide, è ominide, è un'aberrazione, è abominevole; sarebbe leggendario, se solo fosse rimasto qualcuno a raccon¬tare leggende.
Se solo avesse al suo fianco qualcuno che lo ascolti, quali sto¬rie potrebbe imbastire, quali piagnucolii piagnucolare. Il lamen¬to dell'innamorato alla propria amante, o qualcosa di questo te¬nore. In quel campo ha un'ampia scelta.
Perché adesso nella sua testa è giunto al punto cruciale, al passo della tragedia in cui dovrebbe esserci scritto: Entra Oryx. Momento fatale. Ma quale momento fatale? Entra Oryx nelle sembianze di una ragazzina in un sito pedofilo, fiori tra i capelli, panna montata sul mento; oppure: Entra Oryx nelle sembianze di un'adolescente mostrata dal notiziario mentre viene rilasciata dal garage di un pervertito; oppure: Entra Oryx, completamente nuda nel suo ruolo di insegnante nell'intimo santuario dei Craker; oppure: Entra Oryx, un asciugamano intorno ai capelli, mentre esce dalla doccia; oppure: Entra Oryx, in tailleur panta¬lone di seta color grigio peltro e sobrie scarpe dai tacchi di media altezza, ventiquattrore alla mano, il ritratto di una professionale venditrice del Recinto che opera a livello mondiale? Quale di queste entrate farà, e come potrà mai essere sicuro che ci sia una linea che unisce la prima all'ultima? C'era una sola Oryx, o erano una legione?
Ma una qualunque andrebbe bene, pensa Uomo delle Nevi mentre la pioggia gli cade sul viso. Sono sempre presenti, per¬ché sono tutte qui con me adesso.
Oh Jimmy, che bella cosa. Sono felice che tu lo capisca. Il Para¬dice è perduto, ma tu hai un Paradice molto più felice dentro di te. Poi quella sua risata argentina, proprio nell'orecchio.

Jimmy non aveva scorto subito Oryx, sebbene dovesse averla vi¬sta quel primo pomeriggio, mentre scrutava attraverso il finto specchio. Come i Craker non aveva abiti addosso, e come i Craker era bella, perciò così da lontano non la si distingueva. Aveva i capelli lunghi senza ornamenti, era girata di schiena e circondata da un gruppo di altre persone; faceva semplicemen¬te parte della scena.
Qualche giorno dopo, mentre Crake gli stava mostrando come far funzionare gli schermi che trasmettevano le immagini riprese dalle minicamere nascoste tra gli alberi, Jimmy vide il suo viso. Lei si girò verso la telecamera ed eccola di nuovo lì, quell'espressione, quello sguardo fisso, lo sguardo che lo tra¬passava e lo vedeva com'era realmente. L'unica cosa diversa in lei erano gli occhi, dello stesso verde luminescente di quelli dei Craker.
Fissando quegli occhi, Jimmy ebbe un attimo di pura beati¬tudine, di puro terrore, perché adesso non era più un'immagine, non più solo un'immagine, che dimorava in segreto e al buio nella piatta stampata che aveva infilato tra il materasso e la ter¬za doga del suo nuovo letto nell'appartamento alla Rejoov. Al¬l'improvviso era vera, tridimensionale. Gli sembrò di averla so¬gnata. Come era possibile farsi catturare in quel modo, in un at¬timo, da uno sguardo, da un sopracciglio sollevato, dalla curva di un braccio? Ma a lui era successo.
«Chi è?» domandò a Crake. Lei aveva tra le braccia un gio¬vane moffone e porgeva il piccolo animale a quanti la circonda¬vano; gli altri lo toccavano delicatamente. «Non è una di loro. Cosa ci fa là dentro?»
«È la loro insegnante» disse Crake. «Avevamo bisogno di un intermediario, di qualcuno che potesse comunicare al loro livel¬lo. Idee semplici, niente metafisica».
«Cosa insegna?» Jimmy lo domandò in tono indifferente: non gli conveniva mostrare troppo interesse nei confronti di una qualsiasi donna, in presenza di Crake: sarebbero seguite allusio¬ni ironiche.
«Botanica e zoologia» rispose Crake con un sorriso. «In altre parole, cosa non mangiare e cosa potrebbe mordere. E a cosa non fare del male» aggiunse.
«Perché dev'essere nuda?»
«Non hanno mai visto i vestiti. Li confonderebbero e basta».
Le lezioni impartite da Oryx erano brevi: la cosa migliore era procedere un passo alla volta, spiegò Crake. I modelli del Paradice non erano stupidi, ma iniziavano più o meno da zero, per¬ciò apprezzavano sentirsi ripetere le cose. Un altro membro del¬lo staff, uno specialista nel campo, ripassava l'argomento del giorno con Oryx: la foglia, l'insetto, il mammifero o il rettile che doveva spiegare. Poi lei si spruzzava addosso un composto chi¬mico a base di agrumi per mascherare i suoi feromoni umani; al¬trimenti sarebbero potuti sorgere dei problemi, perché gli uo¬mini l'avrebbero annusata e avrebbero pensato che fosse il mo¬mento di accoppiarsi. Quando era pronta, scivolava attraverso una porta che si ricreava a comando, nascosta dietro un fitto fo¬gliame. In tal modo poteva apparire e scomparire dal territorio dei Craker senza suscitare domande inopportune nelle loro menti.
«Si fidano di lei» disse Crake. «Ci sa proprio fare».
Jimmy ebbe un tuffo al cuore. Crake era innamorato, per la prima volta in vita sua. Non era solo la lode, abbastanza rara. Era il tono di voce.
«Dove l'hai trovata?» domandò.
«L'ho frequentata per un po'. Dopo il diploma di perfeziona¬mento al Watson-Crick».
«Studiava là?» In tal caso, pensò Jimmy, che cosa?
«Non esattamente» disse Crake. «L'ho contattata attraverso i Servizi studenteschi».
«Tu eri lo studente e lei il servizio?» volle sapere Jimmy, cer¬cando di mantenere un tono scanzonato.
«Esattamente. Dissi loro cosa cercavo: là si poteva essere mol¬to precisi, portare una foto o una stimolazione video, roba del genere, e facevano del loro meglio per accontentarti. Quello che volevo era qualcosa che assomigliasse a... rammenti quello spet¬tacolo sul Web?»
«Quale spettacolo sul Web?»
«Ti diedi una stampata. Da PupeBollenti, lo sai».
«Non mi si accende nessuna lampadina».
«Quello spettacolo che vedevamo. Ti ricordi?»
«Mi pare di sì» disse Jimmy. «Vagamente».
«Usavo la ragazza come accesso a Extinctathon. Quella lì».
«Oh, giusto» fece Jimmy. «Ognuno ha i suoi gusti. Volevi lo sguardo da ragazzina sexy?»
«Non era mica minorenne, quella che mi procurarono».
«Certo che no».
«Poi ho preso accordi privati. Non si sarebbe dovuto, ma tut¬ti noi forzavamo un po' le regole a nostro favore».
«Le regole sono fatte per essere forzate» disse Jimmy. Si sen tiva sempre peggio.
«Poi, quando sono venuto qui a dirigere questo posto, le ho potuto offrire una posizione più ufficiale. È stata felice di accet¬tare. Avrebbe avuto uno stipendio tre volte più alto di quello che prendeva, con molti accessori; ma diceva che anche il lavo¬ro la interessava. Devo dire che è una dipendente molto fedele». Crake fece un sorrisetto compiaciuto, un sorriso alfa, e Jimmy ebbe voglia di picchiarlo.
«Fantastico» disse. Si sentiva trapassare da coltelli. L'aveva appena trovata, e già l'aveva persa di nuovo. Crake era il suo mi¬gliore amico. Rettifica: il suo unico amico. Jimmy non sarebbe riuscito a toccarla neppure con un dito. Come avrebbe potuto?

Aspettarono che Oryx uscisse dal locale della doccia, dove sta¬va togliendosi lo spray protettivo, nonché, aggiunse Crake, le lenti a contatto di gel verde luminoso: i Craker avrebbero tro¬vato sconcertanti i suoi occhi castani. Finalmente venne fuori, i capelli adesso intrecciati e ancora umidi; gli fu presentata, e strinse nella sua piccola mano quella di Jimmy. (L'ho toccata, pensò Jimmy come un ragazzino di dieci anni. L'ho toccata dav¬vero!)
Adesso era vestita, portava la tenuta standard da laboratorio, giacca e pantaloni. Addosso a lei sembrava un pigiama palazzo. Agganciata alla tasca c'era la targhetta del nome: ORYX BEISA. Se l'era scelto da sola dall'elenco fornito da Crake. Le era piaciuta l'idea di essere un delicato erbivoro dell'Africa orientale che fa¬ceva scorta d'acqua, ma era stata meno contenta nel sentire che l'animale che aveva scelto era estinto. Crake aveva dovuto spie¬gare che era così che si facevano le cose al Paradice.
Presero un caffè alla mensa del personale. Parlarono dei Craker - fu così che li chiamò Oryx - e di come se la cavavano. Era lo stesso ogni giorno, disse Oryx. Erano sempre contenti, tranquilli. Ormai sapevano accendere il fuoco. Il moffone era andato loro a genio. Le trovava creature con cui era molto rilas¬sante passare il tempo.
«Domandano mai da dove vengono?» volle sapere Jimmy. «Cosa ci fanno qui?» In quel momento non c'era nulla che gli importasse di meno, ma voleva unirsi alla conversazione per po¬ter guardare Oryx senza dare nell'occhio.
«Non capisci» disse Crake, con il suo tono da cretino-che-non-sei-altro. «Quella roba è stata eliminata».
«Be', veramente l'hanno chiesto» disse Oryx. «Oggi hanno chiesto chi li ha fatti».
«E...?»
«E io ho detto loro la verità. Ho detto che era stato Crake». Un sorriso pieno di ammirazione per Crake: Jimmy ne avrebbe volentieri fatto a meno. «Ho detto loro che era molto intelligen¬te e buono».
«Hanno domandato chi fosse questo Crake?» volle sapere Crake. «Hanno chiesto di vederlo?»
«Non sembravano interessati».

Jimmy era tormentato notte e giorno. Voleva toccare Oryx, ado¬rarla, aprirla come un pacco magnificamente incartato, pur so¬spettando che ci fosse nascosto dentro qualcosa come un ser¬pente velenoso, o una bomba fatta in casa, o una polvere letale. Non dentro di lei, naturalmente. Dentro la situazione. Lei era off limits, si disse, e lo sarebbe stata per sempre.
Si comportava il più onorevolmente possibile: non mostrava il minimo interesse per lei, o almeno ci provava. Cominciò a visita¬re le plebopoli, a pagare le ragazze nei bar. Ragazze con fronzoli, con lustrini, con merletti, qualsiasi cosa in vendita. Si sparava il vaccino ad azione rapida di Crake, e poi adesso aveva il suo gorilla del CorpSeCorps, perciò era piuttosto al sicuro. Le prime due o tre volte fu un'esperienza eccitante; poi una distrazione; poi sem¬plicemente un'abitudine. Nessuna funzionò da antidoto a Oryx.
Sul lavoro si trastullava: non era una grande sfida. La pillola BlyssPlus si sarebbe venduta da sola, non aveva bisogno del suo aiuto. Ma il lancio ufficiale si stava avvicinando sempre più, per¬ciò fece produrre al suo personale qualche immagine, qualche slogan accattivante: Butta via i preservativi! BlyssPlus, il corpo come esperienza totale! Non vivere un po', vivi un sacco! Simula¬zioni di un uomo e una donna che si strappavano via i vestiti con un sorriso da maniaci. Poi di un uomo con un altro uomo. Poi di una donna con un'altra donna, ma in quest'ultimo caso senza la battuta del preservativo. Poi un terzetto. Poteva sfornare quelle stronzate perfino nel sonno.
Sempre ammesso che riuscisse a prendere sonno. Di notte giaceva sveglio, rimproverandosi, compiangendosi. Rimprovera¬re, compiangere, parole utili. Abbattimento, Struggersi. Innamo¬rato. Abbandonato. Sgualdrina.

Ma poi Oryx lo sedusse. C'era forse un altro modo per definire ciò che avvenne? Venne nel suo appartamento di proposito, si presentò direttamente, lo stanò dal suo guscio in due minuti esatti. Lo fece sentire come se avesse più o meno dodici anni. Era chiaramente esperta in materia, e fu così disinvolta in quel¬la prima occasione da togliergli quasi il fiato.
«Non volevo vederti così infelice, Jimmy» fu la sua spiegazio¬ne. «Non per me».
«Come facevi a sapere che ero infelice?»
«Oh, lo so sempre».
«E Crake?» domandò lui, dopo essere stato preso all'amo quella prima volta, essere stato buttato sulla riva e lasciato lì ad annaspare.
«Tu sei amico di Crake. Non vorrebbe che fossi infelice».
Jimmy non ne era tanto sicuro, ma disse: «Questa faccenda mi mette a disagio».
«Cosa stai dicendo, Jimmy?»
«Non sei... non è...» Che stupido!
«Crake vive in un mondo superiore, Jimmy» disse lei. «In un mondo di idee. Fa cose importanti. Non ha tempo per giocare. Crake è il mio capo. Con te mi diverto».
«Sì, ma...»
«Crake non lo saprà».

E sembrava proprio così, Crake non sapeva. Forse era troppo ipnotizzato da lei per accorgersi di alcunché; o forse, pensava Jimmy, l'amore era davvero cieco. O accecante. E Crake amava Oryx, su questo non c'era dubbio. La toccava perfino in pub¬blico. Crake non aveva mai toccato le donne, era stato distante a livello fisico, ma adesso gli piaceva tenere una mano su Oryx: sulla spalla, sul braccio, sulla vita sottile, sul sedere perfetto. Mia, mia, diceva quella mano.
Inoltre sembrava fidarsi di lei, forse più di quanto non si fidasse di Jimmy. Era una donna d'affari esperta, diceva. Le ave¬va affidato una parte dei collaudi della BlyssPlus: lei aveva con¬tatti utili nelle plebopoli, tramite i vecchi amici con cui aveva la¬vorato ai Servizi studenteschi. Per quella ragione doveva fare molti viaggi qua e là in giro per il mondo. Cliniche del sesso, di¬ceva Crake. Bordelli, diceva Oryx: chi meglio delle puttane po¬teva fare i collaudi?
«Purché non faccia nessun collaudo su di te» fece Jimmy.
«Oh no, Jimmy. Crake ha detto di no».
«Fai sempre quello che ti dice Crake?»
«È il mio capo».
«Ti dice lui di farlo?»
Occhi spalancati. «Fare cosa, Jimmy?»
«Quello che stai facendo adesso».
«Oh, Jimmy. Hai sempre voglia di scherzare».

Quando Oryx partiva, per Jimmy era dura. Si preoccupava, ave¬va voglia di vederla, ce l'aveva con lei perché non c'era. Quan¬do tornava da uno dei suoi viaggi, si materializzava nella sua stanza nel cuore della notte: riusciva a farlo qualunque cosa ci fosse sull'agenda di Crake. Prima aggiornava Crake, gli forniva un breve resoconto delle sue attività e della loro riuscita - quan¬te Pillole BlyssPlus aveva piazzato e dove, qualsiasi risultato conseguito fino a quel momento - un resoconto esatto, perché lui era talmente ossessivo. Poi si occupava di quella che chiama¬va l'area personale.
I bisogni sessuali di Crake erano semplici e diretti, a sentire Oryx; non intriganti come il sesso con Jimmy. Non era un di¬vertimento, ma solo lavoro - per quanto rispettasse Crake, sul serio, perché era un genio. Ma se Crake voleva che rimanesse di più una data notte, o magari rifarlo, trovava qualche scusa - il fuso orario, un mal di testa, qualcosa di plausibile. Le sue in¬venzioni erano convincenti, era la miglior bugiarda del mondo, assolutamente imperturbabile, perciò c'era un bacio di saluto per quello stupido di Crake, un sorriso, un gesto, una porta chiusa, e il minuto dopo era là, insieme a Jimmy.
Com'era forte quella parola. Insieme.
Non riusciva ancora ad abituarsi a lei, era ogni volta nuova, con uno scrigno pieno di segreti. Da un momento all'altro si sa¬rebbe aperta e gli avrebbe rivelato la cosa essenziale, la cosa nascosta nel cuore della vita, della vita di lei, o della vita di lui: la cosa che Jimmy desiderava ardentemente sapere. La cosa che aveva sempre voluto. Di cosa si sarebbe trattato?
«Cosa succedeva in quel garage, comunque?» domandò Jimmy. Non riusciva a darle tregua sulla sua vita precedente, era co¬stretto a indagare. A quel tempo nessun dettaglio era troppo in¬significante per lui, nessuna dolorosa scheggia del suo passato troppo minuscola. Forse stava scavando per trovare la sua rab¬bia, ma non la trovò mai. O era sepolta troppo in profondità, o non c'era affatto. Ma non poteva crederci. Non era una maso¬chista, non era una santa.
Erano nella camera di Jimmy, stesi a letto insieme, con la tv digitale accesa, collegati a un sito Web di accoppiamenti con una componente animale, un paio di pastori tedeschi ben adde¬strati e un albino snodato e perfettamente rasato, tutto coperto di tatuaggi di lucertole. Il volume era stato tolto, c'erano solo le immagini: tappezzeria erotica.
Stavano mangiando Pepite di pollo comprate in un piccolo take-away del centro commerciale più vicino, con le patatine fritte di soia e l'insalata. Alcune foglie dell'insalata erano spina¬ci coltivati nelle serre della Rejoov: niente pesticidi, o almeno non lo si ammetteva. Le altre foglie erano un incrocio di cavolo: alberi giganteschi, che producevano in continuazione, molto fruttiferi. Quella roba conteneva tracce di liquame, ma coperte dallo speciale condimento.
«Quale garage, Jimmy?» disse Oryx. Non stava facendo at¬tenzione. Le piaceva mangiare con le dita, odiava le posate. Per¬ché infilarsi un grosso pezzo di metallo tagliente in bocca? Di¬ceva che dava al cibo un sapore di latta.
«Lo sai quale garage» rispose lui. «Quello di San Francisco. Quella canaglia. Quel depravato che ti ha comprata, ti ha por¬tata a casa sua in aereo, ha fatto dire alla moglie che eri la ca¬meriera».
«Jimmy, perché ti inventi queste cose? Non sono mai stata in un garage». Si leccò le dita, divise un Chickie Nob in pezzetti della grandezza di un morso, ne diede uno a Jimmy. Poi lasciò che le leccasse le dita al posto suo. Lui fece passare la lingua in¬torno ai piccoli ovali delle unghie. Lei non poteva stargli più vi¬cino senza diventare cibo: era in lui, o almeno una parte di lei era in una parte di lui. Il sesso era tutto il contrario: mentre lo facevano, lui era dentro di lei. Ti farò mia, dicevano gli amanti nei vecchi libri. Non dicevano mai: Ti farò me.
«Lo so che eri tu» disse Jimmy. «Ho visto le foto».
«Quali foto?»
«Il cosiddetto scandalo delle cameriere. A San Francisco. Quel vecchio pervertito disgustoso ti ha mai fatto fare sesso?»
«Oh, Jimmy». Un sospiro. «Dunque è questo che hai in men¬te. L'ho visto in tv. Perché ti preoccupi di un uomo come quel¬lo? Era così vecchio che era quasi morto».
«Non mi preoccupo, ma l'ha fatto?»
«Nessuno mi ha fatto fare sesso in un garage. Te l'ho detto».
«Okay, rettifica: nessuno te l'ha fatto fare, ma l'hai fatto co¬munque?»
«Non mi capisci, Jimmy».
«Ma vorrei».
«Davvero?» Una pausa. «Sono talmente buone queste patate fritte di soia. Pensa un po', Jimmy: ci sono milioni di persone al mondo che non hanno mai mangiato patatine come queste! Sia¬mo così fortunati!»
«Dimmelo». Doveva essere lei. «Non mi arrabbierò».
Un sospiro. «Era un uomo gentile» disse Oryx, con la voce di chi racconta una favola. A volte Jimmy sospettava che improv¬visasse, giusto per compiacerlo; a volte gli sembrava che tutto il suo passato - tutto quello che gli aveva confidato - fosse una sua invenzione. «Salvava giovani ragazze. Mi pagò il biglietto del¬l'aereo, proprio come hanno detto. Se non fosse stato per lui, non sarei qui. Dovresti apprezzarlo!»
«Perché dovrei apprezzare un simile bastardo ipocrita e fal¬so? Non hai risposto alla mia domanda».
«Sì, l'ho fatto, Jimmy. Adesso piantala».
«Quanto tempo ti ha tenuto chiusa nel garage?»
«Assomigliava di più a un appartamento» disse Oryx. «Non avevano spazio in casa. Ero l'unica ragazza che avevano preso».
«Avevano?»
«Lui e sua moglie. Cercavano di essere premurosi».
«E lei odiava il sesso, non è vero? È per questo che si era ras¬segnata a te? Le toglievi il vecchio satiro dal groppone?»
Oryx sospirò. «Pensi sempre il peggio della gente, Jimmy. Lei era una persona molto spirituale».
«Col cazzo che lo era».
«Non imprecare, Jimmy. Voglio godermi i momenti con te. Non ho molto tempo, dovrò partire presto, ho da fare. Perché dai tutta questa importanza a cose successe tanto tempo fa?» Si chinò su di lui, lo baciò con la bocca unta di Pepite di pollo. Un¬guento, untuoso, sontuoso, voluttuoso, lussurioso, libidinoso, de¬lizioso, passò per la testa di Jimmy. Sprofondò nelle parole, nel¬le sensazioni.
Dopo un po' volle sapere: «Dove vai?»
«Oh, da qualche parte. Ti chiamo quando arrivo». Non gliel'avrebbe mai detto.

Take-away

Ora viene la parte che Uomo delle Nevi ha rivisto infinite volte nella sua testa. I se solo lo perseguitano. Ma se solo che? Cosa avrebbe potuto dire o fare di diverso? Quale cambiamento avrebbe alterato il corso degli eventi? A livello generale, niente. A livello particolare, tantissimo.
Non andare. Rimani qui. Così almeno sarebbero stati insieme. Lei sarebbe potuta perfino sopravvivere, perché no? Nel qual caso sarebbe qui con lui, adesso.
Vado solo al take-away del centro commerciale. Ho bisogno di un po' d'aria. Di fare due passi.
Lasciami venire con te. Non è sicuro.
Non essere sciocco! Ci sono guardie dappertutto. Mi conoscono tutti. Chi è più sicuro di me?
Ho un presentimento.
Ma Jimmy non aveva avuto nessun presentimento. Era stato felice quella sera, felice e pigro. Lei è arrivata alla sua porta un'ora prima. Era appena stata dai Craker, a cui aveva insegna¬to a riconoscere qualche altra foglia ed erba, perciò era umida di doccia. Portava una specie di chimono coperto di farfalle rosse e arancione; i capelli scuri intrecciati con un nastro rosa, avvolti in una crocchia e appuntati mollemente. La prima cosa che Jimmy aveva fatto quando era arrivata - di fretta, trafelata, col¬ma di eccitazione gioiosa o di una ottima imitazione di essa - era stato scioglierle i capelli. La treccia si attorcigliò tre volte intor¬no alla sua mano.
«Dov'è Crake?» sussurrò. Lei odorava di limoni, di erbe schiacciate.
«Non ti preoccupare, Jimmy».
«Ma dov'è?»
«Fuori dal Paradice, è uscito. Aveva una riunione. Non vuole vedermi al suo ritorno, ha detto che questa notte avrebbe pen¬sato. Non vuole mai fare sesso quando pensa».
«Mi ami?»
Quella sua risata. Cosa voleva dire? Domanda stupida. Perché chiedere? Parli troppo. Oppure: Cos'è l'amore? O forse: Te lo so¬gni.

Il tempo passò. Poi eccola appuntarsi di nuovo i capelli, infilar¬si il chimono, legarlo con la fascia. Lui stava alle sue spalle e guardava nello specchio. Voleva stringerla, togliere la veste che si era appena rimessa, ricominciare tutto daccapo.
«Resta ancora» disse, ma non serviva mai a niente dirglielo. Quando aveva deciso una cosa, andava per la sua strada. A vol¬te gli sembrava di essere semplicemente una visita a domicilio su un suo itinerario segreto, come se avesse un elenco intero di per¬sone di cui occuparsi prima che la notte finisse. Pensieri sprege¬voli, ma non senza fondamento. Non sapeva mai cosa facesse quando non era con lui.
«Torno subito» annunciò Oryx, infilando i piedi nei piccoli sandali rosa e rossi. «Porterò della pizza. Vuoi qualcos'altro, Jimmy?»
«Perché non abbandoniamo tutta questa merda e ce ne an¬diamo da qualche parte?» disse di slancio.
«Via di qui? Dal Paradice? Perché?»
«Potremmo stare insieme».
«Jimmy, sei buffo! Stiamo insieme anche adesso!»
«Potremmo andare lontano da Crake» disse Jimmy. «Non do¬vremmo agire così, di nascosto, potremmo...»
«Ma Jimmy». Occhi sgranati. «Crake ha bisogno di noi!»
«Credo che lo sappia» disse Jimmy. «Di noi». Non ci credeva; o forse un po' sì e un po' no, le due insieme. Di sicuro ulti¬mamente erano stati sempre più imprudenti. Come poteva dar¬si che Crake non lo notasse? Davvero un uomo così intelligente per tanti versi poteva essere così profondamente ottuso per al¬tri? Oppure Crake aveva un'ambiguità che superava quella di Jimmy? In tal caso, non ce n'erano segni.
Jimmy aveva cominciato a frugare nella sua stanza in cerca di cimici: microfoni, microcamere nascoste. Sapeva cosa cercare, o almeno così credeva. Ma non aveva trovato niente.
C'erano i segni, pensa Uomo delle Nevi. C'erano i segni e mi sono sfuggiti.
Ad esempio, una volta Crake disse: «Uccideresti qualcuno che amavi per risparmiargli il dolore?»
«Parli di un'eutanasia?» domandò Jimmy. «Tipo sopprimere la tua tartarughina?»
«Rispondi e basta».
«Non lo so. Che tipo di amore, che tipo di dolore?»
Crake cambiò discorso.
Poi, una volta a pranzo, disse: «Qualsiasi cosa mi succeda, conto su di te per il progetto Paradice. Ogni volta che mi allon¬tano voglio che tu te ne assuma la responsabilità. L'ho dato come ordine permanente».
«Che intendi, con qualsiasi cosa?» domandò Jimmy. «Cosa potrebbe succedere?»
«Lo sai».
Jimmy pensò che alludesse a un rapimento, a un pestaggio da parte dagli avversari: era un rischio costante, per i cervelloni del Recinto. «Certo» rispose, «ma, primo, non c'è nessuno che sia più sorvegliato di te; e secondo, qui dentro c'è gente molto più preparata di me. Non potrei gestire una cosa del genere, non ho la preparazione scientifica».
«Queste persone sono specialisti» ribatté Crake. «Non avreb¬bero la sensibilità per trattare con i modelli del Paradice, non cavarebbero un ragno da un buco, perderebbero la pazienza. Neanch'io saprei farlo. Non saprei come entrare in sintonia con loro. Ma tu sei più versatile».
«Sarebbe?»
«Sei molto bravo a startene con le mani in mano senza fare granché. Proprio come loro».
«Grazie».
«No, dico sul serio. Voglio... vorrei che te ne occupassi tu».
«E Oryx?» domandò Jimmy. «Lei conosce i Craker molto meglio di me». Jimmy e Oryx dicevano i Craker, ma Crake non lo faceva mai.
«Se non sarò qui, non ci sarà neanche Oryx» disse Crake.
«Farà come le vedove indiane? Ma non mi dire! Si immolerà sulla tua pira funeraria?»
«Qualcosa del genere» rispose Crake con un sorriso. Cosa che al tempo Jimmy aveva interpretato sia come una battuta che come un segno dell'ego veramente colossale dell'amico.

«Credo che Crake ci stia spiando» disse Jimmy l'ultima notte. Non appena gli uscì di bocca capì che poteva essere vero, ma forse lo diceva solo per spaventare Oryx. Terrorizzarla, magari; anche se non aveva piani concreti. Ammesso che fossero fuggi¬ti, dove sarebbero vissuti, come avrebbero impedito che Crake li trovasse, come avrebbero fatto per il denaro? A Jimmy sareb¬be toccato fare il magnaccia, sfruttarla? Perché di certo non avrebbe avuto competenze da mettere sulla piazza, nulla che po-tesse far fruttare nelle plebopoli, non se entravano in clandesti¬nità. Come sarebbero stati costretti a fare. «Credo che sia gelo¬so».
«Oh, Jimmy. Perché Crake dovrebbe essere geloso? È con¬trario alla gelosia. Pensa che sia una cosa sbagliata».
«È umano» disse Jimmy. «Non c'entra niente se è contrario».
«Jimmy, penso che sia tu a essere geloso». Oryx sorrise, si mise in punta di piedi, gli baciò il naso. «Sei un bravo ragazzo. Ma non lascerei mai Crake. Io credo in lui, credo nella sua» - cercò la parola - «nella sua visione. Vuole rendere il mondo un luogo migliore. È quello che mi dice sempre. Mi sembra così bello, e a te, Jimmy?»
«Io non ci credo» rispose Jimmy. «So che è quello che dice, ma non me la sono mai bevuta. Non gliene è mai fregato niente di questo genere di cose. I suoi interessi erano strettamente...»
«Oh, ti sbagli, Jimmy. Ha individuato i problemi, credo che abbia ragione. C'è troppa gente, e questo rende la gente cattiva. Lo so per esperienza personale, Jimmy. Crake è un uomo molto in gamba!»
Jimmy non avrebbe dovuto essere così sciocco da sparlare di Crake. Crake era il suo eroe, in un certo senso. Un senso im¬portante. Cosa che lui, Jimmy, non era.
«D'accordo, hai vinto tu». Almeno non aveva mandato tutto all'aria: non era arrabbiata con lui. Quella era la cosa più im¬portante.
Che idiota ero, pensa Uomo delle Nevi. Estasiato. Posseduto. Non ero: sono.
«Jimmy, voglio che mi prometti una cosa».
«Certo, che cosa?»
«Se Crake non c'è, se va da qualche parte, e se non ci sono neanche io, voglio che ti occupi dei Craker».
«Se non ci sei? Perché non dovresti esserci?» Di nuovo ansia, sospetto: stavano progettando di andarsene insieme, di abban¬donarlo? Era così? Era stato solo una specie di gigolò per Oryx, un buffone di corte per Crake? «Andate in luna di miele, o cosa?»
«Non essere sciocco, Jimmy. Sono come bambini, hanno bi¬sogno di qualcuno. Bisogna essere gentili con loro».
«Hai in mente l'uomo sbagliato» disse Jimmy. «Se dovessi passarci più di cinque minuti, mi farebbero ammattire».
«So che ne saresti capace. Dico sul serio, Jimmy. Di' che lo fa¬rai, non mi deludere. Promesso?» Lo accarezzava, e intanto gli copriva il braccio di baci.
«D'accordo, allora. Che mi venga un colpo se non lo faccio. Sei contenta adesso?» Non gli costava niente, era solo pura teo¬ria.
«Sì, ora sono contenta. Farò prestissimo, Jimmy, poi potremo mangiare. Vuoi le acciughe?»
Cosa aveva in mente? Uomo delle Nevi se lo domanda per la mi-lionesima volta. Quanto aveva indovinato?

Camera d'equilibrio

L'aveva aspettata, prima con impazienza, poi con ansia, poi in preda al panico. Non ci voleva tutto quel tempo per fare un paio di pizze.
Il primo comunicato arrivò alle nove e quarantacinque. Dal mo¬mento che Crake era fuori sede e Jimmy era l'ufficiale in seconda, mandarono un addetto alla stanza dei monitor per cercarlo.
Sulle prime Jimmy pensò che si trattasse di un'operazione di routine, di un'altra epidemia di poco conto o di un focolaio di bioterrorismo, di una notizia come tante. Se ne sarebbero occu¬pati come sempre i ragazzi e le ragazze con le Superbiotute, i lan¬ciafiamme, le tende d'isolamento, le casse di candeggina e le bu¬che di calce. In ogni caso, era in Brasile. Abbastanza lontano. Ma l'ordine permanente di Crake era di riferire qualsiasi epidemia, di qualsiasi tipo, in qualsiasi posto, perciò Jimmy andò a vedere.
Poi era venuto l'allarme successivo, e poi altri tre in rapida successione. Taiwan, Bangkok, l'Arabia Saudita, Bombay, Pari¬gi, Berlino. Le plebopoli a ovest di Chicago. Le mappe sugli schermi si accendevano, chiazzate di rosso come se qualcuno ci avesse scagliato contro un pennello zuppo. Era più che qualche focolaio d'infezione isolato. Era un'epidemia grave.
Jimmy provò a chiamare Crake al cellulare, ma non ottenne risposta. Disse alla squadra dei monitor di passare ai canali d'informazione. Era un'emorragia atipica, dicevano i commen¬tatori. I sintomi erano febbre alta, fuoriuscita di sangue dagli oc¬chi e dalla pelle, convulsioni, quindi lo sfacelo degli organi in¬terni seguito dalla morte. Il lasso di tempo dai primi segni visi¬bili al momento finale era sorprendentemente breve. A quanto pare il germe si diffondeva per via aerea, ma la trasmissione po¬teva avvenire anche attraverso l'acqua.
Il cellulare di Jimmy suonò. Era Oryx. «Dove sei?» gridò. «Torna qui. Hai visto...»
Oryx piangeva. Era talmente strano, che Jimmy ne fu scosso. «Oh, Jimmy» disse. «Mi dispiace tanto. Non lo sapevo».
«Va tutto bene» fece lui per tranquillizzarla. Poi: «Cosa vuoi dire?»
«Era nelle pillole. Era in quelle pillole che distribuivo, quelle che vendevo. Sono tutte le città in cui sono andata. Quelle pil¬lole dovevano aiutare la gente! Crake diceva...»
La comunicazione fu interrotta. Cercò di richiamare: tuuu, tuuu, tuuu. Poi uno scatto. Poi niente.
E se la cosa era già penetrata nella Reejov? E se lei era stata esposta? Quando fosse apparsa alla porta non avrebbe potuto chiuderla fuori. Non ne sarebbe stato capace, anche se avesse sanguinato da ogni poro.

Verso mezzanotte gli allarmi ormai arrivavano quasi simultanea¬mente. Dallas. Seattle. New New York. La cosa non sembrava diffondersi di città in città: scoppiava nello stesso tempo in mol¬te di esse.
Ora nella stanza c'erano tre membri del personale: Rinoce¬ronte, Beluga, Falasco Bianco. Uno canterellava, uno fischietta¬va; il terzo - Falasco Bianco - piangeva. Questa volta è roba gros¬sa. Due di loro l'avevano già detto.
«Qual è il nostro piano di riserva?»
«Cosa dovremmo fare?»
«Niente» disse Jimmy, cercando di non farsi prendere dal pa¬nico. «Qui siamo piuttosto al sicuro. Possiamo aspettare che passi. Ci sono abbastanza provviste in magazzino». Passò lo sguardo sui tre visi nervosi. «Dobbiamo proteggere i modelli del Paradice. Non sappiamo quanto duri il periodo di incubazione, non sappiamo riconoscere i portatori. Non possiamo far entra¬re nessuno».
Questo li rassicurò un po'. Uscì dalla stanza dei monitor, mo¬dificò i codici della porta più interna, nonché quelli della porta che conduceva alla camera d'equilibrio. In quel mentre il suo vi¬deocellulare squillò. Era Crake. Nel piccolo schermo il suo viso appariva più o meno normale; sembrava che fosse in un bar.
«Dove sei?» gridò Jimmy. «Non sai cosa succede?»
«Non c'è da preoccuparsi» disse Crake. «È tutto sotto con¬trollo». Sembrava ubriaco, cosa rara per lui.
«Cosa cazzo vuol dire tutto? È una piaga universale! È la morte rossa! Ed era nelle pillole BlyssPlus, vero?»
«Chi te l'ha detto?» domandò Crake. «Un uccellino?» Era sicuramente ubriaco; ubriaco, o sotto l'effetto di qualche far¬maco.
«Lascia stare. È vero, non è così?»
«Sono al centro commerciale, alla pizzeria. Arrivo subito» disse Crake. «Tu bada alla bottega».
Crake attaccò. Forse ha trovato Oryx, pensò Jimmy. Forse la riporterà indietro sana e salva. Poi pensò: deficiente.
Andò a controllare il progetto Paradice. Era in atto la simu¬lazione del cielo notturno, la falsa luna splendeva, i Craker - da quanto poteva capire - dormivano pacificamente. «Sogni d'oro» sussurrò loro attraverso il vetro. «Dormite bene. Ora siete gli unici che possano farlo».

Quello che successe poi fu una sequenza al rallentatore. Fu por¬nografia con il volume abbassato, fu uno spettacolo spazzatura senza pubblicità. Fu un melodramma talmente esagerato che lui e Crake si sarebbero schiantati dalle risate, se avessero avuto quattordici anni e l'avessero guardato in dvd.
Prima ci fu l'attesa. Si sedette su una sedia nel suo ufficio, si disse di calmarsi. Gli frullavano in testa i vecchi elenchi di pa¬role: fungibile, pullulare, pretto, bende funerarie, meretrice. Dopo un po' si alzò. Ciangottio, opsigonia. Accese il computer, controllò i siti d'informazione. C'era molto sgomento fuori di lì, e il numero delle ambulanze non era neanche lontanamente suf¬ficiente. I discorsi dei politicanti che invitavano alla calma erano già iniziati, i veicoli dotati di megafoni che consigliavano di sta¬re in casa si aggiravano per le strade. Si era cominciato a pre¬gare.
Concatenazione. Fosco. Doglianza.
Andò nel magazzino d'emergenza, prese una pistola spray, se la legò addosso con una cinghia, indossò sopra un'ampia giacca leggera. Tornò alla stanza dei monitor e informò i tre addetti che aveva parlato con il CorpSeCorps del Recinto - una bugia - e che non correvano pericoli immediati; anche quella una bugia, sospettava. Aggiunse di avere sentito Crake, che aveva ordinato a tutti di tornare nelle loro stanze e di dormire un po', perché avrebbero avuto bisogno di tutta la loro energia nei giorni a ve¬nire. Sembrarono sollevati e felici di obbedire.
Jimmy li accompagnò alla camera d'equilibrio e digitò i codi¬ci per introdurli nel corridoio che portava alla zona notte. Guardò le loro schiene mentre camminavano davanti a lui; li vide già morti. Gli dispiaceva, ma non poteva correre rischi. Erano tre contro uno: se diventavano isterici, se provavano a fuggire dal Paradice o a introdurvi i loro amici, non avrebbe po¬tuto controllarli. Una volta che furono scomparsi, chiuse loro fuori e se stesso dentro. Ora nella bolla interna non c'era nessu¬no tranne lui e i Craker.
Guardò ancora un po' i notiziari, bevendo scotch per farsi co¬raggio, ma a lunghi intervalli. Festuca. Laringeo. Fantasima. Glastro. Aspettava Oryx, ma senza speranza. Doveva esserle suc¬cesso qualcosa. Altrimenti sarebbe stata là.
Verso l'alba il monitor della porta ronzò. Qualcuno premeva i tasti per accedere alla camera d'equilibrio. Non avrebbe fun¬zionato, naturalmente, perché Jimmy aveva cambiato il codice.
Il videocitofono stridette. «Cosa fai?» domandò Crake. Ave¬va un'aria e un tono di voce seccato. «Apri».
«Sto seguendo il Piano B» disse Jimmy. «In caso di bioattac¬co, non lasciar entrare nessuno. Sono ordini tuoi. Ho chiuso er¬meticamente la camera d'equilibrio».
«Nessuno non significava me» ribatté Crake. «Non fare la noce di sughero».
«Come faccio a sapere che non sei un portatore?» domandò Jimmy.
«Non lo sono».
«Come faccio a saperlo?»
«Supponiamo soltanto» disse Crake stancamente, «che io ab¬bia previsto questo avvenimento e abbia preso delle precauzio¬ni. In ogni caso, tu sei immune».
«È perché lo sarei?» disse Jimmy. Quella sera il suo cervello era lento in logica. C'era qualcosa che non andava in quanto Crake aveva appena detto, ma non poteva individuare con esat¬tezza di cosa si trattasse.
«Il siero con gli anticorpi era nel vaccino per le plebopoli. Ri¬cordi tutte le volte che ti sei iniettato quella roba? Ogni volta che andavi nelle plebopoli a rotolarti nel fango e ad annegare le tue pene d'amore».
«Come lo sapevi?» disse Jimmy. «Come sapevi dov'ero, cosa volevo?» Il suo cuore batteva all'impazzata; non era chiaro.
«Non fare l'idiota. Fammi entrare».
Jimmy immise il codice per aprire la porta che conduceva nella camera d'equilibrio. Adesso Crake era alla porta più interna. Jimmy accese il monitor della camera d'equilibrio: la testa di Crake fluttuava a grandezza naturale proprio davanti ai suoi oc¬chi. Sembrava distrutto. Aveva qualcosa - sangue? - sul colletto della camicia.
«Dove sei stato?» domandò Jimmy. «Hai fatto a botte?»
«Tu non hai idea» disse Crake. «Ora lasciami entrare».
«Dov'è Oryx?»
«È qui con me. Se l'è vista brutta».
«Cosa le è successo? Che accade là fuori? Fammi parlare con lei!»
«Ora non può parlare. Non ce la faccio a sollevarla. Ho ri¬portato alcune ferite. Adesso piantala di menartela e facci en¬trare».
Jimmy tirò fuori la pistola spray. Poi digitò il codice. Si mise lontano, da una parte. Aveva tutti i peli delle braccia ritti. Ca¬piamo più di quanto sappiamo.
La porta si spalancò.
La tenuta leggera beige di Crake era spruzzata di marrone rossiccio. Nella mano destra aveva un normale coltello pieghe¬vole, del tipo che tutti hanno in casa, con due lame, la limetta per unghie, il cavatappi e le forbicine. Con l'altro braccio cinge¬va Oryx, che sembrava addormentata; aveva il viso contro il pet¬to di Crake, la lunga treccia con il nastro rosa le penzolava lun¬go la schiena.
Sotto gli occhi di Jimmy, raggelato dall'incredulità, Crake la¬sciò ricadere Oryx all'indietro, sul suo braccio sinistro. Guardò Jimmy, uno sguardo diretto, serio.
«Conto su di te» disse. Poi le tagliò la gola.
Jimmy gli sparò.

13

Bolla

Dopo il temporale l'aria è più fresca. La foschia si leva dagli al¬beri lontani, il sole declina, gli uccelli cominciano il loro strepi¬to serale. Tre corvi volano sopra di lui, le ali come fiamme nere, le parole quasi udibili. Crake! Crake! dicono. I grilli dicono Oryx. Ho le allucinazioni, pensa Uomo delle Nevi.
Avanza lungo il muro di cinta, un passo dietro l'altro, sof¬frendo. Al posto del piede gli sembra di avere un gigantesco wurstel bollito di carne calda e masticata, senza ossa e sul pun¬to di scoppiare. Quale che sia il germe che sta fermentando là dentro, dev'essere resistente all'unguento antibiotico della tor¬re di guardia. Forse al Paradice, nel caos del magazzino di emergenza di Crake, che è stato saccheggiato - e Jimmy sa quanto, l'ha fatto anche lui - potrà trovare qualcosa di più ef¬ficace.
Il magazzino d'emergenza di Crake. Il magnifico piano di Crake. Le idee all'avanguardia di Crake. Crake il Gran capo, perché Crake è ancora là, è ancora padrone del campo, è anco¬ra sovrano nel proprio dominio, per quanto buia sia ormai di¬ventata quella bolla di luce. Più buia del buio, e Uomo delle Nevi fa parte di quel buio. Ha contribuito a crearlo.
«Non andiamo là» dice Uomo delle Nevi.
Tesoro, ci sei già. Non te ne sei mai andato.

All'ottava torre di guardia, quella che domina il parco intorno al Paradice, controlla se una delle due porte che conduce alla stan¬za superiore è aperta - preferirebbe scendere per una scala, pos¬sibilmente - ma non è così. Scruta con cautela il terreno sottostante da una delle feritoie di vedetta: laggiù non si vedono for¬me di vita di dimensioni grandi o medie, e sebbene ci sia un mo¬vimento tra i cespugli, spera che si tratti solo di uno scoiattolo. Svolge il lenzuolo attorcigliato, lo lega a un condotto di ventila¬zione - è fragile, ma è la sua unica possibilità - e cala l'estremità libera oltre il bordo del muro. È troppo corto di circa due me¬tri, ma può affrontare il salto, purché non atterri sul piede feri¬to. Scavalca, si cala giù per la corda improvvisata. Si spenzola dalla sua estremità come un ragno, esita... c'è una tecnica per farlo? Cosa ha letto sui paracadute? Qualcosa circa il piegare le ginocchia. Poi si lascia andare.
Atterra sui due piedi. Il dolore è intenso, ma dopo essersi ro¬tolato per un po' sul terreno fangoso e aver emesso i versi di un animale trafitto da una lancia, si solleva sui piedi gemendo. Ret¬tifica: sul piede. Nulla di rotto, a quanto pare. Si guarda intorno in cerca di un bastone da usare come gruccia, ne trova uno. La cosa buona dei bastoni è che crescono sugli alberi.
Ora ha sete.
Avanza attraverso la vegetazione e le erbacce rigogliose, sal¬tellando, digrignando i denti. Calpesta una grande lumaca sen¬za guscio, sta quasi per cadere. Odia quella sensazione: è fred¬da, viscida, come un muscolo sbucciato e raffreddato. Muco strisciante. Se fosse un Craker dovrebbe chiederle scusa: Mi di¬spiace di averti calpestato, Figlia di Oryx, per favore perdona la mia goffaggine.
Ci prova: «Mi dispiace».
Ha sentito qualcosa? Una risposta?
Quando le lumache cominciano a parlare, non c'è tempo da perdere.
Raggiunge la cupola-bolla, cammina intorno al rigonfiamento bianco, caldo e glaciale fino alla parte anteriore. La porta della camera d'equilibrio è aperta, come la ricorda. Un respiro profondo, ed entra.
Ecco Crake e Oryx, quanto ne è rimasto. Sono stati volteg¬giati, sono sparsi qua e là, ossa grandi e piccole mescolate e in disordine, come un gigantesco puzzle.
Ecco Uomo delle Nevi, testa di legno, stupido, frivolo e idio¬ta, l'acqua gli scorre sul viso, un pugno gigante gli serra il cuo¬re, mentre abbassa lo sguardo sul suo unico vero amore e sul migliore amico che avesse al mondo. Le orbite vuote di Crake fissano Uomo delle Nevi come i suoi occhi vuoti, una volta. Sorride con tutti i denti che ha in testa. Quanto a Oryx, è a faccia in giù, ha distolto lo sguardo da lui come se fosse in lutto. Il nastro tra i suoi capelli è rosa come sempre.
Come piangerli? Anche in questo è un fallimento.

Uomo delle Nevi supera la porta interna, oltrepassa l'area della sorveglianza, entra negli alloggi del personale. Aria calda, umida, stantia. Il primo posto dove deve andare è il magazzino; lo trova senza difficoltà. È buio, a parte qualche lucernario, ma ha la torcia. C'è puzza di muffa e di ratti o topi, ma per il resto il luogo è rimasto intonso dall'ultima volta che c'è stato.
Individua gli scaffali delle scorte di medicinali, fruga qua e là. Abbassalingua, tamponi di garza, medicazioni per scottature. Una scatola di termometri rettali, ma non gli serve infilarsene uno nell'ano per dire che sta bruciando. Tre o quattro tipi di an¬tibiotici, in compresse e perciò ad azione lenta, più un ultimo flacone del cocktail supergermicida a breve termine di Crake da usarsi nelle plebopoli. Ti farà tornare a casa, ma non rimanere ol¬tre la mezzanotte, o ti trasformerai in una zucca, diceva sempre Crake. Legge l'etichetta, le annotazioni di Crake, valuta la dose. Ora è così debole che può sollevare a stento il flacone; gli oc¬corre un po' di tempo per togliere il tappo.
Glu glu glu, dice la sua voce nella nuvoletta. Cin cin.
Ma no, non dovrebbe berlo. Trova una scatola di siringhe pulite, si fa un'iniezione nel piede. «Crepate, germi» dice. Poi zoppica fino al suo appartamento, quello che una volta era il suo appartamento, crolla sul letto sfatto e umido, poi vede tut¬to nero.

Alex il pappagallo gli appare in sogno. Entra in volo dalla fine¬stra, si posa vicino a lui sul cuscino, questa volta è verde chiaro con le ali viola e il becco giallo, scintillante come un faro, e Uomo delle Nevi è pervaso di felicità e amore. Reclina la testa, lo guarda prima con un occhio, poi con l'altro. «Il triangolo blu» dice Alex. Poi comincia ad avvampare, a diventare rosso, a partire dall'occhio. È un cambiamento spaventoso, quasi fosse una lampadina a forma di pappagallo che si riempie di sangue. «Ora me ne vado» dice.
«No, aspetta» lo chiama Uomo delle Nevi, o vorrebbe chiamarlo. La sua bocca non vuole saperne di muoversi. «Resta an¬cora! Dimmi...»
Poi c'è una folata di vento, e Alex è sparito, e Uomo delle Nevi si alza a sedere sul suo vecchio letto, al buio, fradicio di sudore.

Sgorbio

Il mattino seguente il suo piede sta un po' meglio. Il gonfiore è diminuito, il dolore scemato. Quando calerà la sera si farà un'al¬tra iniezione della supermedicina di Crake. Però sa che non può esagerare: quella roba è molto potente. Troppa, e le sue cellule scoppieranno come chicchi d'uva.
La luce del giorno filtra attraverso i mattoni di vetro isolante di fronte al vano del lucernario. Vaga nello spazio che un tempo abitava, sentendosi come un sensore incorporeo. Ecco il suo ar¬madio, qui sono i vestiti che una volta erano suoi, camicie e pantaloncini leggeri, ordinatamente disposti su stampelle e in via di decomposizione. Ci sono anche le scarpe, ma non può più sop¬portarne l'idea. Sarebbe come applicarsi degli zoccoli, e inoltre il suo piede infetto forse non ci entrerebbe. Mutande impilate sugli scaffali. Perché usava simili indumenti? Ora gli sembrano strumenti per qualche pratica sadomaso.
Nel magazzino trova qualche pacco e qualche scatoletta. Per colazione mangia ravioli freddi con salsa di pomodoro e mezza barretta energetica, innaffiati con una Coca calda. Non sono ri¬masti liquori forti o birra, ha fatto fuori tutto durante le setti¬mane in cui è rimasto sigillato là dentro. Meglio così. Il suo im¬pulso sarebbe stato di berli il più in fretta possibile, trasformare tutti i ricordi in rumore bianco.
Ornai non c'è speranza di farlo. È bloccato nel passato, la sabbia bagnata sta salendo. Sta affondando.

Dopo aver sparato a Crake, aveva inserito un nuovo codice nel¬la porta interna e l'aveva chiusa ermeticamente. Crake e Oryx giacevano intrecciati nella camera d'equilibrio; non sopportava l'idea di toccarli, perciò li aveva lasciati dov'erano. Aveva avuto un fugace slancio romantico - forse avrebbe dovuto tagliare un pezzo della treccia scura di Oryx - ma si era trattenuto.
Tornò nella sua stanza e bevve un po' di scotch e poi un altro po', quanto ce ne voleva per stordirsi. Fu svegliato dal cicalino del¬la porta esterna: Falasco Bianco e Rinoceronte Nero, che cercava¬no di rientrare. Anche gli altri, non c'è dubbio. Jimmy li ignorò.
A un certo punto del giorno seguente preparò quattro fette di pane di soia abbrustolite e si costrinse a mangiarle. Bevve una bottiglia d'acqua. Tutto il suo corpo si sentiva come un dito del piede che avesse urtato contro qualcosa: intorpidito, ma anche dolorante.

Quel giorno il suo cellulare suonò. Un alto grado del CorpSeCorps che cercava Crake.
«Di' a quello stronzo di portare il suo grasso cervello del caz¬zo quaggiù e di provare a risolvere il problema».
«Non c'è» disse Jimmy.
«Chi parla?»
«Non posso dirtelo. Protocollo di sicurezza».
«Ascolta, chiunque tu sia, ho idea di che razza di imbroglio sta combinando quello schifoso e quando gli metterò le mani addosso gli spezzerò il collo. Scommetto che ha il vaccino per questa roba e che vuole farcelo pagare un occhio della testa».
«Davvero? È questo che pensi?» fece Jimmy.
«So che il bastardo è là dentro. Adesso vengo lì e faccio sal¬tare la porta».
«Io non lo farei» disse Jimmy. «Stiamo rilevando una stranis¬sima attività di microbi qui. Molto insolita. Il posto scotta più dell'inferno. Io me la cavo indossando una biotuta, ma non so davvero se sono contaminato o meno. Qualcosa è veramente uscito dai binari».
«Oh, merda. Qui? Alla Rejoov? Pensavo che fossimo isolati».
«Già, è una bella sfortuna» disse Jimmy. «Il mio consiglio è di cercare alle Bermuda. Credo che sia andato là con un bel po' di soldi».
«Dunque ci ha venduti, lo stronzetto. Ha passato la cosa alla concorrenza. Così quadrerebbe. Quadrerebbe alla perfezione. Ascolta, grazie per la soffiata».
«Buona fortuna» disse Jimmy.
«Già, sicuro, anche a te».
Nessun altro suonò al cicalino della porta esterna, nessuno cercò di entrare con la forza. La gente della Rejoov doveva ave¬re capito l'antifona. Quanto al personale, una volta resosi conto che le guardie se n'erano andate, doveva essersi precipitato fuo¬ri e diretto in tutta fretta verso il cancello esterno. Verso ciò che aveva confuso con la libertà.

Tre volte al giorno Jimmy controllava i Craker, scrutandoli come un guardone. Cancellare il come: era un guardone. Sembravano abbastanza felici, o quanto meno contenti. Mangiucchiavano, dormivano, se ne stavano per lunghe ore senza fare apparente¬mente nulla. Le madri si prendevano cura dei bambini, i giova¬ni giocavano. Gli uomini pisciavano in circolo. Una delle donne entrò nella sua fase blu e gli uomini eseguirono la loro danza di corteggiamento, cantando con i fiori in mano e il pene azzurro che ondeggiava a tempo. Poi ci fu una festa della fertilità a cin¬que, tra i cespugli.
Forse potrei svolgere qualche interazione sociale, pensò Jimmy. Aiutarli a inventare la ruota. Lasciare un retaggio di co¬noscenza. Trasmettere tutte le mie parole.
No, non poteva. Non c'era speranza.
A volte sembravano a disagio: si riunivano in gruppi, bronto¬lavano. I microfoni nascosti li riprendevano.
«Dov'è Oryx? Quando torna?»
«Torna sempre».
«Dovrebbe essere qui, a insegnarci».
«Ci insegna sempre. Ci insegna anche adesso».
«È qui?»
«Qui e non qui sono la stessa cosa, per Oryx. L'ha detto lei».
«Sì. L'ha detto lei».
«Che significa?»
Era come un folle dibattito teologico negli anfratti più verbo¬si del limbo delle chat-room. Jimmy non sopportava di ascoltar¬li troppo a lungo.

Il resto del tempo anche lui mangiucchiava, dormiva, rimaneva per ore e ore senza far niente. Per le prime due settimane seguì gli avvenimenti mondiali sulla Rete, oppure nei notiziari televisivi: le sommosse nelle città mentre i trasporti andavano in tilt e i supermercati venivano razziati; le esplosioni mentre gli im¬pianti elettrici si guastavano, gli incendi che nessuno andava a spegnere. Le folle stipavano le chiese, le moschee, le sinagoghe e i templi per pregare e pentirsi, quindi si riversavano fuori men¬tre i fedeli aprivano gli occhi e si rendevano conto del loro ac-cresciuto rischio di esposizione. Ci fu un esodo verso le piccole città e le aree rurali, i cui abitanti respingevano i profughi finché potevano con armi da fuoco vietate o bastoni e forconi.
Sulle prime i commentatori ci si buttarono a corpo morto, ri¬prendendo l'azione dagli elicotteri che controllavano il traffico, esclamando come se si trovassero a una partita di calcio: Visto che roba? Incredibile! Brad, stentano tutti a crederci. Quello che abbiamo appena visto è una massa impazzita di Giardinieri di Dio che libera uno stabilimento di Pepite di pollo. Brad, è ridicolo, quei cosi, le Pepite di pollo, non sanno neppure camminare! (Ri¬sata). Bene, linea allo studio.

Fu probabilmente durante la baraonda iniziale che qualche ge¬nio lasciò uscire i proporci e i calupi. Oh, grazie tante.

I predicatori ambulanti cominciarono ad autoflagellarsi e a strepitare sull'Apocalisse, sebbene sembrassero delusi: dov'erano le trombe e gli angeli, perché la luna non si era trasformata in san¬gue? Sullo schermo fecero la loro comparsa sapientoni vestiti di tutto punto; esperti medici, grafici che mostravano i ritmi del¬l'infezione, mappe che ricostruivano l'entità dell'epidemia. Per indicarla usavano il rosa scuro, come per l'Impero Britannico una volta. Jimmy avrebbe preferito qualche altro colore.
Non si cercava in alcun modo di dissimulare la paura dei commentatori. Chi sarà il prossimo, Brad? Quando sarà pronto il vaccino? Bene, Simon, da quanto sento lavorano ventiquattr'ore su ventiquattro, ma nessuno dichiara ancora di trovare il bandolo della matassa. È roba grossa, Brad. Parole sante, Simon, ma ne ab¬biamo vista altra di roba grossa prima d'ora. Sorriso incoraggian¬te, pollici in su, occhi persi nel vuoto, pallore sul viso.
Vennero raffazzonati alla svelta documentari con immagini del virus - almeno lo avevano isolato, sembrava la solita cara¬mella gommosa sciolta e irta di spine - e commenti sul suo modo di agire. Parrebbe un composto supervirulento. Se si tratti di una mutazione avvenuta nel corso di un salto di specie o di una creazione premeditata, nessuno può dirlo. Saggi cenni del capo tutt'intorno. Avevano dato un nome al virus, per farlo sembrare più docile. Il nome era JUVE, Jetspeed Ultra Virus Extra. Forse ora sapevano qualcosa, ad esempio cosa avesse avuto davvero in mente Crake, nascosto al sicuro nel nucleo più intimo del Re¬cinto della RejoovenEsense. Ergersi a giudice del mondo, pen¬sava Jimmy; ma perché si era arrogato quel diritto?
Le teorie del complotto proliferavano: era un fenomeno reli¬gioso, erano i Giardinieri di Dio, era una congiura per conqui¬stare il controllo del mondo. La prima settimana furono diffusi comunicati in cui si raccomandava di bollire l'acqua e di evitare i viaggi, furono scoraggiate le strette di mano. Nella stessa setti¬mana si scatenò la corsa ai guanti di latex e ai filtri nasali. Effi¬caci, pensò Jimmy, più o meno come le arance trafitte da chiodi di garofano durante la Peste nera.
Ultime notizie. Il virus killer JUVE è scoppiato nelle Fiji, fino ad ora risparmiate. Il capo del CorpSeCorps dichiara New New York area disastrata. Le principali arterie isolate.
Brad, questo affare si diffonde molto rapidamente. È incredibi¬le, Simon.
«Ogni sistema si adatta al cambiamento, purché non sia trop¬po veloce» diceva Crake. «Se ti appoggi a una parete con la te¬sta non succede niente, ma se ci sbatti contro a duecento all'o¬ra, la parete si tingerà di rosso. Noi siamo in un tunnel della ve¬locità, Jimmy. Quando l'acqua si muove più in fretta della bar¬ca, si perde il controllo».
Io ascoltavo, pensò Jimmy, ma non sentivo.

Nella seconda settimana, ci fu la mobilitazione generale. I re¬sponsabili per l'epidemia riuniti in fretta e furia diedero disposi¬zioni: ospedali da campo, tende di isolamento; intere cittadine, poi intere città messe in quarantena. Ma questi sforzi ben presto andarono in fumo, dal momento che i dottori e le infermiere fu¬rono anch'essi contagiati, o vennero presi dal panico e fuggirono.
L'Inghilterra chiude porti e aeroporti.
Cessate tutte le comunicazioni dall'India.
Ospedali off limits fino a nuovo ordine. Se pensate di essere ma¬lati, bevete abbondante acqua e chiamate questo numero speciale...
Ripetiamo: non cercate per nessun motivo di lasciare le città.
Non era più Brad a parlare, e neanche Simon. Brad e Simon erano andati. Erano altre persone, e poi altre ancora.
Jimmy chiamò il numero della linea speciale e sentì una voce registrata che diceva che era fuori servizio. Poi chiamò suo pa¬dre, cosa che non faceva da anni. Anche il suo numero era fuo¬ri servizio.
Controllò la posta elettronica. Nessun messaggio recente. Trovò soltanto un vecchio biglietto di buon compleanno che si era dimenticato di cancellare: Tanti auguri, Jimmy, che tutti i tuoi sogni si realizzino. Maialini alati.
Uno dei siti Web gestiti privatamente mostrava una mappa con sopra tanti punti illuminati per ogni luogo che comunicava ancora via satellite. Jimmy guardava affascinato i punti lumino¬si che tremolavano e si spegnevano.

Era in stato di shock. Dev'essere per questo che non riusciva a digerire la cosa. Sembrava tutto un film. Eppure lui era lì, e c'e¬rano Oryx e Crake, morti, nella camera d'equilibrio. Ogni volta che si ritrovava a pensare che fosse tutta un'illusione, uno scher¬zo di qualche genere, andava a guardarli. Attraverso la finestra a prova di proiettile, naturalmente: sapeva di non dover aprire la porta più interna.
Viveva con le scorte di emergenza di Crake, consumando per prime le merci surgelate: se il sistema solare della bolla si fosse guastato, i freezer e i forni a microonde avrebbero smesso di funzionare, perciò tanto valeva fare una scorpacciata di Cenepronte Gourmet con Pepite di pollo, finché poteva. Fumò la provvista di erba di Crake in men che non si dica; in questo modo riuscì a evitare tre giorni di orrore. All'inizio razionò l'alcol, ma ben presto cominciò a farne un uso massiccio. Aveva bi¬sogno di essere ubriaco per affrontare le notizie, aveva bisogno di non provare granché.
«Non ci credo, non ci credo» ripeteva. Aveva cominciato a parlare da solo, brutto segno. «Non sta succedendo». Come po¬teva rimanere in quella stanza pulita, asciutta, monotona e ordi¬naria, trangugiando mais di soia al caramello e sfogliatelle di zucchine e formaggio, facendosi marcire il cervello a forza di li¬quori e rimuginando sul fiasco totale che era la sua vita perso¬nale, mentre l'intera razza umana stava andando a puttane?
La cosa peggiore era che il destino della gente là fuori - la paura, la sofferenza, la morte all'ingrosso - non lo toccava sul serio. Crake diceva sempre che l'Homo sapiens sapiens non era cablato per riconoscere più di duecento altre persone, le di¬mensioni della tribù primitiva, ma per Jimmy quel numero si ri¬duceva a due. Oryx lo aveva amato, non lo aveva amato, Crake sapeva di loro, quando l'aveva saputo, li aveva spiati tutto il tem¬po? Aveva organizzato il gran finale come un suicidio assistito, aveva voluto farsi sparare da Jimmy perché sapeva cosa sarebbe successo poi e non si degnava di restare nei paraggi a vedere i ri¬sultati del suo gesto?
Oppure sapeva che non sarebbe stato capace di tenere per sé la formula del vaccino, una volta che il CorpSeCorps se lo fosse lavorato per bene? Da quanto tempo aveva progettato tutto? Poteva darsi che lo zio Pete, e perfino la madre di Crake, aves¬sero fatto da cavie? Con una posta così alta in gioco aveva pau¬ra di fallire, o di essere solo uno dei tanti nichilisti incompeten¬ti? Oppure era tormentato dalla gelosia, guastato dall'amore, e quella era la sua rivincita, voleva soltanto che Jimmy lo liberas¬se della sua infelicità? Era stato un pazzo o un uomo intellet¬tualmente onesto, che aveva portato le cose fino alla loro logica conclusione? E faceva qualche differenza?
E via di questo passo, sprecando il tempo a tormentarsi e tra¬cannando alcolici fino ad annullarsi.

Nel frattempo, davanti ai suoi occhi si consumava la fine di una specie. Regno, Tipo, Classe, Ordine, Famiglia, Genere, Specie. Quanti raggruppamenti ci sono? Homo sapiens sapiens, che va a ad unirsi all'orso polare, al beluga, all'onagro, alla civetta dei cu¬nicoli, a un lungo, lunghissimo elenco. Ottimo punteggio, Gran Maestro.
A volte toglieva l'audio, sussurrava alcune parole tra sé e sé. Succulento. Morfologia. Ipometrope. In quarto. Tarlatura. Aveva un effetto calmante.

Un sito dopo l'altro, un canale dopo l'altro cessavano di esiste¬re. Un paio di anchorman, votati all'informazione fino alla fine, scelsero di morire davanti alle telecamere, che mostrarono gli urli, la pelle che si dissolveva, i globi oculari scoppiati e tutto il resto. Che cosa teatrale, pensò Jimmy. Non c'è niente che certa gente non farebbe, pur di apparire in tv.
«Stronzo cinico» si disse. Poi cominciò a piangere.
«Non essere così fottutamente sentimentale» gli diceva sem¬pre Crake. Ma perché no? Perché non avrebbe dovuto essere sentimentale? Non è che nei paraggi ci fosse qualcuno a mette¬re in dubbio il suo buon gusto.
Una volta ogni tanto prendeva in considerazione l'idea di uc¬cidersi - sembrava inevitabile - ma in un modo o nell'altro gli mancava l'energia necessaria. Comunque, uccidersi era qualco¬sa che si faceva per un pubblico, come sul sito buonanotte.com. Viste le circostanze, il presente, sarebbe stato un gesto privo di eleganza. Poteva immaginare il disprezzo divertito di Crake e la delusione di Oryx: Ma Jimmy! Perché getti la spugna? Hai un compito da assolvere! Hai promesso, ricordi?
Alla fine non ci fu più niente da guardare, tranne i vecchi film in dvd. Guardò Humphrey Bogart ed Edward G. Robinson nell'Isola di corallo. Lui vuole di più, non è vero, Rocco? Già, è così, di più! Giusto, voglio di più. Ne avrai mai abbastanza? Oppure guardava Gli uccelli di Alfred Hitchcock: Flapflapflap, eek, screech. Si vedevano le cordicelle che legavano le superstar alate al tetto. Oppure guardava La notte dei morti viventi. Lurch, aargh, gnaw, choke, gurgle. Certe lievi forme di paranoia avevano un effetto calmante, su di lui.
Poi spegneva, sedeva davanti allo schermo vuoto. Tutte le donne che aveva conosciuto gli sfilavano davanti nella penom¬bra. Anche sua madre, nella sua vestaglia color magenta, di nuo¬vo giovane. Oryx veniva per ultima, portando dei fiori bianchi. Lo guardava, poi usciva lentamente dal suo campo visivo, rag¬giungendo le ombre tra cui Crake era in attesa.
Queste fantasticherie erano quasi piacevoli. Almeno, mentre avevano luogo erano tutti ancora vivi.

Sapeva che quello stato di cose non poteva durare molto a lun¬go. All'interno del Paradice propriamente detto, i Craker sgra¬nocchiavano foglie ed erba più in fretta di quanto potessero ri¬crescere, e un giorno o l'altro l'impianto solare si sarebbe gua¬stato, e si sarebbe rotta anche l'attrezzatura di emergenza, e Jimmy non aveva idea di come riparare quegli aggeggi. Poi la circolazione dell'aria sarebbe cessata e la chiusura della porta si sarebbe bloccata, sia lui che i Craker sarebbero rimasti intrap¬polati all'interno, e sarebbero soffocati tutti quanti. Doveva tirarli fuori finché c'era ancora tempo, ma non troppo presto o là fuori ci sarebbe stata ancora della gente disperata, e disperata si¬gnificava pericolosa. L'ultima cosa che voleva era un mucchio di maniaci che, mentre si disintegravano, si gettavano in ginocchio, cercando di ghermirlo: Salvaci! Salvaci! Poteva essere immune dal virus - a meno che, naturalmente, Crake non gli avesse men¬tito - ma non dalla rabbia e dalla disperazione dei suoi porta¬tori.
In ogni caso, come avrebbe avuto il coraggio di starsene là e dire: Nulla può salvarvi?

Nella penombra, nell'umidità, Uomo delle Nevi vaga da uno spa¬zio all'altro. Qui, ad esempio, c'è il suo ufficio. Dal tavolo, il suo computer gli rivolge un viso inespressivo, come una ragazza ab¬bandonata incontrata per caso a una festa. Accanto al computer ci sono alcuni fogli di carta, devono essere gli ultimi che abbia mai scritto. Li prende con curiosità. Cos'è che il Jimmy che era una volta aveva ritenuto fosse il caso di comunicare, o quanto meno registrare - mettere nero su bianco, con tanto di macchie - per il miglioramento di un mondo che non esisteva più?
A chiunque possa interessare, aveva scritto Jimmy, con la penna a sfera piuttosto che in una stampata: il suo computer era ormai rotto, ma lui aveva perseverato, laboriosamente, a mano. Doveva avere nutrito ancora speranze, doveva avere creduto ancora che la situazione si potesse ribaltare, che in futuro qui si sarebbe fatto vivo qualcuno, qualcuno investito di autorità; che allora le sue pa¬role avrebbero avuto un significato, un contesto. Come Crake ave¬va detto una volta, Jimmy era un romantico ottimista.
Non ho molto tempo, aveva scritto Jimmy.
Niente male come inizio, pensa Uomo delle Nevi.

Non ho molto tempo, ma proverò a buttare giù quella che credo sia la spiegazione dei recenti straordinari eventi della recente ca¬tastrofe. Ho esaminato il computer dell'uomo noto come Crake. L'ha lasciato acceso - apposta, credo - e posso riferire che il virus JUVE è stato creato qui nella cupola del Paradice con componen¬ti scelti manualmente da Crake e in seguito eliminato ed è stato poi inastato nel prodotto BlyssPluss. Era stato incorporato un fat¬tore di rallentamento per permettere un'ampia diffusione: la pri¬ma infornata di virus non è divenuta attiva finché tutti i territori prescelti non erano stati inseminati, dunque l'epidemia ha assun¬to la forma di una serie di ondate che si accavallavano rapida¬mente. Per il successo del piano, il tempo era un aspetto essen¬ziale. La dissoluzione sociale fu portata al massimo, lo sviluppo di un vaccino efficacemente impedita. Lo stesso Crake aveva idea¬to un vaccino insieme al virus, ma lo aveva distrutto prima del suo suicidio assistito della sua morte.
Sebbene vari membri del personale del progetto BlyssPlus avessero contribuito alla creazione dello JUVE lavorando a cotti¬mo, sono convinto che nessuno, ad eccezione di Crake, fosse informato di quale effetto avrebbe avuto. Quanto alle motiva¬zioni di Crake, posso solo fare delle ipotesi. Forse...

Qui gli appunti si interrompono. Qualunque fossero state le ipotesi di Jimmy sui motivi di Crake, non erano state registrate. Uomo delle Nevi accartoccia i fogli, li getta sul pavimento. Il destino di quelle parole è di essere mangiate dagli scarafaggi. Avrebbe potuto accennare al cambiamento delle calamite sul fri¬gorifero di Crake. Si poteva capire molto su una persona dalle calamite che aveva sul frigorifero, non che al tempo ci avesse ri¬flettuto molto.

Superstiti

Il secondo venerdì di marzo - spuntava i giorni su un calenda¬rio, dio solo sa perché - Jimmy si mostrò per la prima volta ai Craker. Non si era tolto i vestiti, su questo era stato irremovibi¬le. Si mise uno dei completi standard della Rejoov, leggero, color cachi, con le ascelle a rete e un migliaio di tasche, e i suoi sandali di finto cuoio preferiti. I Craker gli si raccolsero intorno, fissandolo con tranquilla meraviglia: non avevano mai visto una stoffa prima di allora. I bambini mormoravano e lo indicavano. «Chi sei?» domandò quello che Crake aveva battezzato Abraham Lincoln. Un uomo alto, scuro, mingherlino. Non lo disse in tono sgarbato. In una persona normale Jimmy l'avrebbe trovato brusco, perfino aggressivo, ma questa gente non coltiva¬va un linguaggio ricercato: non le erano stati insegnati eufemi¬smi e scappatoie, o a caricare di orpelli una cosa già di per sé bella. Nel parlare erano semplici e schietti.
«Mi chiamo Uomo delle Nevi» rispose Jimmy, che ci aveva pensato su. Non voleva più essere Jimmy, e nemmeno Jim, e so¬prattutto non Occhione: la sua incarnazione come Occhione non era riuscita granché. Aveva bisogno di dimenticare il passa¬to: il passato lontano, il passato immediato, il passato in qualsiasi forma. Aveva bisogno di esistere soltanto nel presente, sen¬za sensi di colpa, senza aspettative. Come facevano i Craker. Forse con un nome diverso ci sarebbe riuscito.
«Da dove sei venuto, o Uomo delle Nevi?»
«Vengo dal luogo dove abitano Oryx e Crake» disse. «Mi ha mandato Crake». In un certo senso era vero. «E Oryx». Man¬tiene la struttura della frase semplice, il messaggio chiaro: ha im¬parato a farlo guardando Oryx attraverso la parete a specchio. E ascoltandola, naturalmente.
«Dov'è andata Oryx?»
«Aveva alcune cose da fare» rispose Uomo delle Nevi. Non gli venne in mente altro: il solo pronunciare il suo nome gli aveva tolto il respiro.
«Perché Crake e Oryx ti hanno mandato da noi?» domandò la donna chiamata Madame Curie.
«Per portarvi in un nuovo posto».
«Ma è questo il nostro posto. Siamo contenti dove siamo».
«Oryx e Crake desiderano che abbiate un posto migliore» disse Uomo delle Nevi. «Dove ci sarà di più da mangiare». Ci furono cenni del capo, sorrisi. Oryx e Crake auguravano loro ogni bene, come avevano sempre saputo. Sembrava che a loro bastasse.
«Perché la tua pelle è così flaccida?» domandò uno dei bam¬bini.
«Sono stato fatto in maniera diversa da voi» rispose Uomo del¬le Nevi. Cominciava a trovare la conversazione interessante, come un gioco. Quelle persone erano come pagine bianche, poteva scri¬verci sopra tutto quello che voleva. «Crake mi ha fatto con due tipi di pelle. Una viene via». Si tolse il giubbetto leggero per di¬mostrarglielo. Fissarono con interesse i peli sul suo petto.
«Che cos'è?»
«Sono piume. Piccole piume. Oryx me le ha donate come fa¬vore speciale. Vedete? Altre piume crescono sulla mia faccia». Lasciò che i bambini toccassero la barba corta e ispida. Era sta¬to negligente nel radersi ultimamente, non sembrava che avesse molto senso, perciò la barba aveva cominciato a crescergli.
«Sì, vediamo. Ma cosa sono le piume?»
Oh, giusto. Non ne hanno mai vista una. «Alcuni dei Figli di Oryx sono coperti di piume» disse. «Quelli di quel tipo si chia¬mano uccelli. Andremo dove ce ne sono. Allora capirete cosa sono le piume».
Uomo delle Nevi si meravigliò della propria prontezza: stava danzando graziosamente intorno alla verità, con piedi e mani agili. Ma era quasi troppo facile: accettavano senza discutere qualsiasi cosa dicesse. Troppo tempo passato così - interi gior¬ni, intere settimane - e già si vedeva urlare per la noia. Potrei ab¬bandonarli, pensò. Piantarli in asso, semplicemente. Lasciare che se la cavino da soli. Non sono affar mio.
Ma non poteva farlo, perché, sebbene i Craker non fossero af¬far suo, adesso era lui ad esserne responsabile. Chi altri ave¬vano?
E lui chi altri aveva, se è per questo?

Uomo delle Nevi progettò l'itinerario in anticipo: il magazzino di Crake era ben fornito di mappe. Avrebbe portato i Figli di Crake alla spiaggia, dove non era mai stato neanche lui. C'era di che essere impazienti: finalmente avrebbe visto l'oceano. Avreb¬be camminato su una spiaggia, come nelle storie che gli raccon¬tavano gli adulti quando era piccolo. Avrebbe potuto perfino nuotare. Non sarebbe stato troppo male.
I Craker potevano vivere nel parco vicino all'orto botanico, co¬lorato di verde sulla mappa e segnato con il simbolo di un albero. Là si sarebbero sentiti a casa, e avrebbero sicuramente trovato molto fogliame commestibile. Quanto a lui, ci sarebbe senz'altro stato del pesce. Radunò alcune provviste - non troppe e non trop¬po pesanti, avrebbe dovuto portare tutto lui - e caricò la pistola spray con un intero caricatore di proiettili virtuali.
La sera prima della partenza, fece un discorso. Durante il tra¬gitto verso il nuovo posto migliore, lui avrebbe camminato alla loro testa - disse - con due degli uomini. Scelse i più alti. Dietro di loro sarebbero venute le donne e i bambini, con una fila di uomini su ciascun lato. Il resto degli uomini avrebbe cammi¬nato in coda. Dovevano fare così perché Crake aveva detto che quello era il modo giusto. (Era meglio evitare di nominare i pos¬sibili pericoli: avrebbero richiesto troppe spiegazioni). Se i Craker notavano qualcosa che si muoveva - qualsiasi cosa, di qualsiasi forma o foggia - erano tenuti a informarlo subito. Al¬cune delle cose che avrebbero visto sarebbero state strane, ma non dovevano allarmarsi. Se lo avvertivano in tempo, quelle cose non avrebbero potuto far loro del male.
«Perché dovrebbero farci del male?» domandò Sojourner Truth.
«Potrebbero farvi del male per sbaglio» rispose Uomo delle Nevi. «Come la terra fa male quando ci cadete sopra».
«Ma la terra non vuole farci del male».
«Oryx ci ha detto che la terra è nostra amica».
«Fa crescere il nostro cibo per noi».
«Sì» disse Uomo delle Nevi. «Ma Crake l'ha fatta dura. Altri¬menti non potremmo camminarci sopra».
Ci volle un minuto perché assimilassero il concetto. Seguiro¬no molti cenni di assenso. Il cervello di Uomo delle Nevi vorticava; era stordito dall'illogicità di ciò che aveva appena detto. Ma a quanto pare aveva funzionato.

Alle prime luci dell'alba digitò per l'ultima volta il codice della porta e aprì la bolla, quindi condusse i Craker fuori dal Paradice. Notarono i resti di Crake a terra, ma siccome non avevano mai visto Crake da vivo, credettero a Uomo delle Nevi quando disse che non era niente di importante: solo una specie di invo¬lucro, solo una specie di guscio. Sarebbe stato un colpo per loro vedere il loro creatore in quello stato.
Quanto a Oryx, era a faccia in giù, avvolta nella seta. Nessu¬no che potessero riconoscere.
Gli alberi che circondavano la cupola erano verdi e lussureg¬gianti, tutto sembrava incontaminato, ma quando raggiunsero il Recinto RejoovenEsense propriamente detto, le prove della di¬struzione e della morte erano tutt'intorno. Golf cart rovesciati, stampate zuppe e illegibili, computer con le viscere strappate via. Macerie, abiti svolazzanti, una carogna rosicchiata. Giocat¬toli rotti. Gli avvoltoi erano ancora al lavoro.
«Per favore, oh, Uomo delle Nevi, che cos'è quello?»
È un cadavere, che ne pensi? «È parte del caos» disse Uomo delle Nevi. «Crake e Oryx stanno dissipando il caos per voi - perché vi amano - ma non hanno ancora finito». Questa rispo¬sta sembrò soddisfarli.
«Il caos puzza» osservò uno dei bambini più grandi.
«Sì» fece Uomo delle Nevi, con quello che voleva essere un sorriso. «Il caos ha sempre un cattivo odore».
A cinque isolati dal cancello principale del Recinto, un uomo barcollò verso di loro da una strada laterale. Era nella penulti¬ma fase della malattia: aveva la fronte coperta di sudore di san¬gue. «Portatemi con voi!» gridò. Le parole erano appena udibi¬li. Il suono era quello di un animale, un animale furioso.
«Fermo dove sei!» urlò Uomo delle Nevi. I Craker stavano là sorpresi, fissando la scena, ma - apparentemente - non spaven¬tati. L'uomo avanzò, inciampò, cadde. Uomo delle Nevi gli sparò. Era preoccupato del contagio - i Craker potevano pren¬dere la malattia, o avevano un materiale genetico troppo diver¬so? Sicuramente Crake li aveva resi immuni. Vero?
Nel raggiungere il muro perimetrale fecero un altro incontro, una donna. Barcollò all'improvviso fuori della portineria, pian¬gendo, aggrappata a un bambino.
«Aiutatemi!» implorò. «Non lasciatemi qui!» Uomo delle Nevi sparò anche a lei.
Durante entrambi gli episodi i Craker rimasero a guardare stupiti: non collegavano il rumore fatto dal piccolo bastone di Uomo delle Nevi con l'accasciarsi di quelle persone.
«Cos'è la cosa che è caduta, oh, Uomo delle Nevi? È un uomo o una donna? Ha un'altra pelle, come te».
«Non è niente. È il pezzo di un brutto sogno che sta facendo Crake».
Capivano cosa volesse dire sognare, lo sapeva: anche loro fa¬cevano sogni. Crake non era stato capace di eliminarli. Siamo ca¬blati per sognare, diceva. Non era riuscito a liberarsi nemmeno del canto. Siamo cablati per cantare. Il canto e i sogni erano in¬trecciati.
«Perché Crake fa un brutto sogno così?»
«Lo fa» rispose Uomo delle Nevi, «perché non dobbiate far¬lo voi».
«È triste che soffra per noi».
«Ci dispiace molto. Gli siamo grati».
«Finirà presto il brutto sogno?»
«Sì» disse Uomo delle Nevi. «Molto presto». Nell'ultimo epi¬sodio c'era mancato un pelo, la donna era come un cane arrab¬biato. Ora gli tremavano le mani. Aveva bisogno di bere qual¬cosa.
«Finirà quando Crake si sveglierà?»
«Sì. Quando si sveglierà».
«Speriamo che si svegli molto presto».

E così attraversarono insieme la terra di nessuno, fermandosi qua e là a mangiare erba o raccogliendo foglie e fiori cammin fa¬cendo, le donne e i bambini mano nella mano, parecchi di loro cantando con le loro voci cristalline, voci come fronde che si aprivano. Poi attraversarono le strade delle plebopoli, simili a un corteo deviato o a una bizzarra processione religiosa. Duran¬te i temporali pomeridiani si riparavano; era facile, dal momen¬to che porte e finestre avevano smesso di avere un senso. Poi, nell'aria rinfrescata, continuavano la loro camminata.
Alcuni degli edifici lungo la strada fumavano ancora. Ci furo¬no molte domande e molte spiegazioni da dare. Cos'è quel fumo? È una cosa di Crake. Perché quel bambino è steso, senza occhi? L'ha voluto Crake. E così via.
Uomo delle Nevi si inventava tutto man mano che procede¬va. Sapeva quanto fosse improbabile nel ruolo di pastore. Per rassicurarli cercò in tutti i modi di apparire solenne e autorevo¬le, saggio e gentile. Gli venne in aiuto una vita di ambiguità.
Finalmente raggiunsero il margine del parco. Uomo delle Nevi aveva sparato ad altre due persone che si stavano disgre¬gando. Faceva loro un favore, perciò non si sentiva troppo male al riguardo. C'erano altre cose che lo facevano sentire peggio.

Nella tarda serata giunsero infine alla spiaggia. Le foglie degli al¬beri frusciavano, l'acqua ondeggiava delicatamente riflettendo il sole al tramonto, rosa e rosso. La sabbia era bianca, le torri al largo brulicavano di uccelli.
«È così bello qui».
«Oh, guarda! Quelle sono piume?»
«Come si chiama questo posto?»
«Si chiama casa» disse Uomo delle Nevi.

14

Idolo

Uomo delle Nevi saccheggia il magazzino, impacchetta ciò che può portare via: il resto del cibo, secco e in lattine, una torcia e batterie, mappe e fiammiferi e candele, scatole di munizioni, na¬stro adesivo, due bottiglie d'acqua, pillole antidolorifiche, gel antibiotico, un paio di camicie inalterabili al sole e uno di quei coltellini con le forbicine. E la pistola spray, naturalmente. Rac¬coglie il suo bastone e si dirige verso la porta della camera d'e¬quilibrio, evitando lo sguardo di Crake, il sorriso di Crake; e Oryx, nel suo sudario di seta coperto di farfalle.
Oh, Jimmy. Non sono io!

Gli uccelli cominciano a cantare. La luce che precede l'alba è di un grigio delicato, l'aria è velata di foschia; la rugiada imperla le ragnatele. Se fosse un bambino gli apparirebbe puro e nuovo, questo effetto antico, magico. Ora come ora, sa che si tratta di un'illusione: una volta sorto il sole, svanirà tutto. A metà strada nel parco si ferma, si gira a dare un ultimo sguardo al Paradice, un rigonfiamento che spunta dal fogliame come un palloncino perduto.
Ha una mappa del Recinto, l'ha già studiata, ha tracciato il suo percorso. Taglia per un'arteria importante verso il campo di golf e lo attraversa senza incidenti. L'involto e la pistola comin¬ciano a pesargli, perciò si ferma a bere. Ormai il sole si è levato, gli avvoltoi si innalzano sulle loro correnti ascensionali; lo han¬no scorto, noteranno che zoppica, lo terranno d'occhio.
Supera una zona residenziale, poi il cortile di una scuola. Pri¬ma di raggiungere il muro perimetrale gli tocca sparare a un proporco: lo stava solo fissando, ma è sicuro che fosse un esplo¬ratore, avrebbe avvertito gli altri. Al cancello laterale si ferma. Qui c'è una torre di guardia e un accesso al muro di cinta; gli piacerebbe arrampicarsi su, dare uno sguardo in giro, controlla¬re quel fumo che ha visto. Ma la porta della portineria è chiusa a chiave, perciò esce.
Nulla nel fossato.
Attraversa la Terra di Nessuno, un passaggio nervoso: con la coda dell'occhio continua a scorgere movimenti di creature pe¬lose, e si preoccupa che i ciuffi d'erba cambino forma. Alla fine è nelle plebopoli; avanza lentamente lungo le strette vie, sul chi vive per le imboscate, ma non c'è nulla che lo insegua. Solo gli avvoltoi ruotano sopra di lui, aspettando che diventi un pasto.
Un'ora prima di mezzogiorno si arrampica su un albero, si na¬sconde all'ombra delle foglie. Mangia una lattina di wurstel SoyOBoy e finisce la prima bottiglia d'acqua. Una volta smesso di camminare, il piede si fa sentire: gli batte a intervalli regolari, è caldo e compresso, quasi lo avesse ficcato a forza in una scar¬pa piccolissima. Strofina del gel antibiotico sul taglio, ma senza eccessiva fiducia: i microbi che lo infettano hanno senza dubbio organizzato la loro resistenza e ora ribollono alla grande là den¬tro, trasformando la sua carne in porridge.
Scruta l'orizzonte dal suo punto di osservazione arboreo, ma non vede nulla che assomigli a fumo. Arboreo, bella parola. I no¬stri antenati arborei, diceva Crake. Cacavano sui propri nemici dall'alto, appollaiati sugli alberi. Tutti gli aerei e i razzi e le bom¬be non sono altro che elaborazioni di quell'istinto da primati.
E se morissi quassù, su questo albero? pensa. Mi converreb¬be? Perché? Chi mi troverà mai? E se anche fosse? To', guarda, un altro morto. Cristo, ce n'è una marea. Si sprecano. Già, ma questo è su un albero. Be', a chi importa?
«Non sono un morto qualunque» dice ad alta voce.
Certo che no! Ognuno di noi è unico! E ogni singola persona morta - uomo o donna che sia - è morta in un suo modo speciale! Dunque, chi vuole renderci partecipi delle sue riflessioni sulla morte, nelle nostre parole speciali? Jimmy, sembri ansioso di ri¬spondere, dunque perché non cominci?
Oh, che tortura. È questo il purgatorio, e in tal caso perché assomiglia tanto alla prima elementare?
Dopo un paio d'ore di riposo agitato si rimette in cammino, riparandosi dal temporale pomeridiano tra i resti di un condo¬minio nelle plebopoli. Dentro non c'è nessuno, né morto né vivo. Poi prosegue, zoppicando, acquistando ormai velocità, di¬retto a sud e poi a ovest, verso la spiaggia.

È un sollievo quando raggiunge il Sentiero dei pesci di Uomo delle Nevi. Invece di girare a sinistra verso il suo albero, zoppi¬ca verso il villaggio. È stanco, ha voglia di dormire, ma deve ras¬sicurare i Craker, dimostrare che è tornato sano e salvo, spiega¬re perché è stato via tanto a lungo, consegnare il messaggio da parte di Crake.
Dovrà inventare qualche bugia. Che aspetto aveva Crake? Non l'ho visto, era in un cespuglio. Un cespuglio ardente, perché no? Meglio mantenersi vago sui lineamenti del viso. Ma ha dato alcuni ordini: io dovrò avere due pesci a settimana - no, facciamo tre - e radici e bacche. Forse dovrebbe aggiungerci delle alghe. Sapranno quali tipi sono buoni. E anche granchi - non i granchi di terra, le altre specie. Ordinerà loro di cuocerli al vapore, una dozzina alla volta. Non gli pare di chiedere troppo.
Dopo aver visto i Craker, metterà via il suo nuovo cibo e ne mangerà un po', poi farà un pisolino sul suo solito albero. Quin¬di si rinfrescherà, e il cervello gli funzionerà meglio, e potrà pen¬sare al da farsi.
Al da farsi in che senso? È troppo difficile. Ma supponendo che ci siano altre persone in giro, persone come lui - persone che fanno del fumo - vorrà essere più o meno in forma per dare loro il benvenuto. Si laverà - per quest'unica volta può rischia¬re la pozza dove faceva il bagno una volta - poi si metterà una delle camicie pulite inalterabili al sole che si è portato dietro, e magari si darà una spuntatina alla barba con le forbicine del col-tello.
Dannazione, ha dimenticato di prendere lo specchietto. Che testa!

Mentre si avvicina al villaggio, sente un suono insolito - uno strano canto sommesso, voci acute e profonde, sia di uomo che di donna - armonioso, su due note. Più che un canto, è una sor¬ta di salmodia. Poi un rumore metallico, una serie di colpi sec¬chi, un rimbombo. Cosa stanno facendo? Qualunque cosa sia, non hanno mai fatto niente del genere prima di allora.
Ecco la linea di demarcazione, il muro chimico di piscio, puz¬zolente ma invisibile, rinnovato ogni giorno dagli uomini. Lo su¬pera, avanza con cautela, sbircia da dietro un cespuglio. Eccoli là. Fa un rapido conto delle teste - la maggior parte dei giovani, tutti gli adulti meno cinque - devono essere i cinque che si ac¬coppiano nel bosco. Siedono in semicerchio intorno a una sago¬ma dall'aspetto grottesco, un'effigie simile a quella di uno spa¬ventapasseri. Tutta la loro attezione è concentrata su di essa: al-l'inizio non lo vedono, mentre esce da dietro il cespuglio e avan¬za zoppicando.
Uhhhh, cantilenano le donne.
Mon, intonano gli uomini.
È un Amen? Certo che no! Non dopo le precauzioni di Crake, la sua insistenza nel mantenere quella gente pura, libera da ogni contaminazione del genere. E non hanno sicuramente mutuato quella parola da Uomo delle Nevi. Non può essere successo.
Clank. Ping-ping-ping-ping. Bum. Uhhh-mon.
Ora vede il gruppo alle percussioni. Gli strumenti sono un coprimozzo e un bastone di metallo - sono questi a produrre il rumore metallico - e una serie di bottiglie vuote appese al ramo di un albero e suonate con un cucchiaio per servire. Il rimbom¬bo viene da un fusto di petrolio, colpito con quello che sembra un mazzuolo da cucina. Dove hanno preso quegli oggetti? Sulla spiaggia, senza dubbio. Gli sembra di guardare la piccola banda di percussioni dell'asilo di tanto tempo prima, ma con grandi bambini dagli occhi verdi.
Cos'è quell'affare: una statua, uno spaventapasseri o chissà cosa? Ha una testa e un corpo di stoffa lacera. Ha una specie di faccia, un occhio fatto con un ciottolo, nero, che sembra il co¬perchio di un barattolo. Ha una vecchia scopa a frange ficcata sul mento.
Ora lo hanno visto. Si alzano subito in piedi, corrono a salu¬tarlo, lo circondano. Sorridono felici; i bambini saltano su e giù, ridendo; alcune delle donne battono le mani eccitate. È un'e¬nergia maggiore di quella che di solito dimostrano per qualsiasi altra cosa.
«Uomo delle Nevi! Uomo delle Nevi!» Lo toccano delicata¬mente con la punta delle dita. «Sei di nuovo con noi!»
«Sapevamo che potevamo chiamarti, e che ci avresti sentito e saresti tornato».
Non Amen, allora. Uomo... Uomo delle Nevi.
«Abbiamo fatto un tuo ritratto, perché ci aiutasse a mandare le nostre voci fino a te».
Guardatevi dall'arte, diceva Crake. Appena cominciano a pro¬durre arte, siamo nei guai. Il pensiero simbolico di qualsiasi tipo avrebbe segnato la rovina di tutto, secondo Crake. Subito dopo avrebbero inventato gli idoli, e i funerali, e le suppellettili da mettere nelle tombe, e la vita nell'aldilà, e il peccato, e il Linea¬re B, e i re, e poi la schiavitù e la guerra. Uomo delle Nevi ha una gran voglia di domandare chi abbia avuto per primo l'idea di fare un discreto facsimile di lui, di Uomo delle Nevi, con il co¬perchio di un barattolo e uno straccio. Ma per quello dovrà aspettare.
«Guardate! Uomo delle Nevi è coperto di fiori!» (Sono i bambini, che hanno notato il suo nuovo sarong floreale).
«Possiamo coprirci anche noi di fiori?»
«È stato difficile, il tuo viaggio in cielo?»
«Fiori anche per noi, fiori anche per noi!»
«Quale messaggio ci invia Crake?»
«Perché pensate che sia stato in cielo?» domanda Uomo del¬le Nevi, nel tono più neutro possibile. Sta cliccando sui file del¬le leggende che ha in testa. Quando mai ha nominato il cielo? Ha raccontato qualche frottola sul luogo da cui era venuto Crake? Sì, ora ricorda. Aveva assegnato a Crake gli attributi del tuono e del fulmine. Naturalmente presumono che debba aver fatto ritorno al regno delle nuvole.
«Sappiamo che Crake vive in cielo. E abbiamo visto il vento vorticoso, andava nella tua stessa direzione».
«Crake l'ha mandato per voi, per aiutarvi a sollevarvi da ter¬ra».
«Ora che sei stato in cielo, sei quasi come Crake».
Meglio non contraddirli, ma non può lasciare che continuino a crederlo capace di volare: prima o poi potrebbero aspettarsi che glielo dimostri. «Il vento vorticoso doveva far sì che Crake venisse giù dal cielo» dice. «Si è fatto sospingere giù dall'alto dal vento. Ha deciso di non rimanere lassù, perché il sole era trop¬po caldo. Perciò non è là che l'ho visto».
«Dov'è?»
«È nella bolla» risponde Uomo delle Nevi in maniera abba¬stanza veritiera. «Il posto da dove siamo venuti. È al Paradice».
«Andiamo a fargli visita» dice uno dei bambini più grandi. «Sappiamo come arrivarci. Ci ricordiamo».
«Non potete fargli visita» ribatte Uomo delle Nevi, un po' troppo bruscamente. «Non lo riconoscereste. Si è trasformato in una pianta». E questa da dove è spuntata fuori? È molto stanco, la cosa gli sta sfuggendo di mano.
«Perché Crake dovrebbe trasformarsi in cibo?» domanda Abraham Lincoln.
«Non è una pianta che si può mangiare» dice Uomo delle Nevi. «È piuttosto un albero».
Alcuni sguardi confusi. «Lui ti parla. Come fa, se è un albe¬ro?»
Questa sarà dura da spiegare. Ha commesso un errore narra¬tivo. Ha la sensazione di aver perso l'equilibrio in cima a una rampa di scale.
Si arrampica sugli specchi. «È un albero con la bocca» dice.
«Gli alberi non hanno la bocca» fa uno dei bambini.
«Ma guardate» dice una donna (Madame Curie, Sacajawea?). «Uomo delle Nevi si è ferito al piede». Le donne sentono sem¬pre il suo disagio, cercano di alleviarlo cambiando argomento. «Dobbiamo aiutarlo».
«Prendiamogli un pesce. Ti andrebbe un pesce adesso, Uomo delle Nevi? Chiederemo a Oryx di darci un pesce, di farlo mo¬rire per te».
«Sarebbe bello» dice sollevato.
«Oryx vuole che tu stia bene».
Ben presto è steso a terra e gli fanno le fusa. Il dolore dimi¬nuisce, ma, anche se fanno del loro meglio, il gonfiore non scompare del tutto.
«Deve essere stata una ferita profonda».
«Ci vorranno altre fusa».
«Riproveremo più tardi».
Portano il pesce, già cucinato e avvolto in foglie, e guardano con gioia mentre lo mangia. Non ha tanta fame - è la febbre - ma ce la mette tutta, perché non vuole spaventarli.
I bambini stanno già distruggendo la sua immagine, riducen¬dola nelle parti che la compongono, che pensano di riportare alla spiaggia. È un insegnamento di Oryx, gli dicono le donne: dopo che una cosa è stata usata, deve essere riportata al suo luo¬go di origine. Il ritratto di Uomo delle Nevi era servito al suo scopo: ora che il vero Uomo delle Nevi è di nuovo tra loro, l'al¬tro, quello meno soddisfacente, non ha ragione di esistere. A Uomo delle Nevi fa uno strano effetto vedere ciò che prima era stato la sua barba, la sua testa, andarsene a pezzi tra le mani dei bambini. È come se lui stesso fosse stato fatto a pezzi e sparpa¬gliato qua e là.

Predica

«Alcuni altri come te sono venuti qui» annuncia Abraham Lin¬coln, dopo che Uomo delle Nevi ha fatto del suo meglio con il pesce. È appoggiato al tronco di un albero; ora il piede gli piz¬zica leggermente, come se fosse addormentato; si sente sonno¬lento.
Uomo delle Nevi salta su perfettamente sveglio. «Altri come me?»
«Con quelle altre pelli, come te» dice Napoleone. «E uno di loro aveva piume sul viso, come te».
«Anche un altro aveva piume, ma non lunghe».
«Pensavamo che fossero stati mandati da Crake. Come te».
«Uno era femmina».
«Deve essere stata mandata da Oryx».
«Odorava di blu».
«Non abbiamo visto il blu, per via dell'altra sua pelle».
«Ma odorava proprio di blu. Gli uomini hanno cominciato a cantare per lei».
«Le abbiamo offerto dei fiori e le abbiamo fatto segnali con i nostri peni, ma non ha risposto con gioia».
«Gli uomini con le altre pelli non sembravano contenti. Sem¬bravano arrabbiati».
«Siamo andati loro incontro per salutarli, ma sono scappati via».
Uomo delle Nevi immagina la scena. La vista di quegli uo¬mini straordinariamente calmi e muscolosi che avanzano en masse, cantando la loro strana musica, i verdi occhi scintillan¬ti, i peni azzurri che ondeggiano all'unisono, le mani tese qua¬si fossero comparse in un film di zombie: non poteva che esse¬re allarmante.
Adesso il cuore di Uomo delle Nevi batte all'impazzata, di ec¬citazione o paura, o di una mescolanza delle due. «Avevano qualcosa con sé?»
«Uno di loro aveva un bastone rumoroso, come il tuo». La pi¬stola spray di Uomo delle Nevi non è in vista: devono ricordar¬la da prima, da quando hanno lasciato il Paradice. «Ma non ci hanno fatto alcun rumore». I Figli di Crake sono assolutamente indifferenti a tutto ciò, non si rendono conto delle implicazioni. È come se stessero parlando di conigli.
«Quando sono venuti qui?»
«Oh, ieri, forse».
Inutile chiedere precisione su un fatto passato: non contano i giorni. «Dove sono andati?»
«Sono andati là, lungo la spiaggia. Perché sono scappati via da noi, Uomo delle Nevi?»
«Forse hanno sentito Crake» osserva Sacajawea. «Forse li chiamava. Avevano cose scintillanti sulle braccia, come te. Cose per ascoltare Crake».
«Glielo chiederò» dice Uomo delle Nevi. «Andrò a parlare con loro. Lo farò domani. Ora vado a dormire». Si alza in piedi, sussulta per il dolore. Non può ancora caricare troppo peso sul piede.
«Verremo anche noi» annunciano parecchi degli uomini.
«No» risponde Uomo delle Nevi. «Non credo che sarebbe una buona idea».
«Ma non stai ancora abbastanza bene» ribatte l'Imperatrice Giuseppina. «Hai bisogno di altre fusa». Sembra preoccupata: una lieve increspatura le è comparsa tra gli occhi. Strano vedere una simile espressione su uno dei loro perfetti visi privi di rughe.
Uomo delle Nevi si rassegna, e una nuova squadra addetta alle fusa - questa volta sono tre uomini e una donna, devono pensare che abbia bisogno di una cura più forte - indugia al di sopra della sua gamba. Cerca di percepire una vibrazione corri¬spondente dentro di sé, domandandosi - non per la prima vol¬ta - se quel metodo non sia stato ideato per funzionare solo su di loro. Quelli che non fanno le fusa osservano l'operazione da vicino; alcuni conversano a voce bassa, e dopo mezz'ora o giù di lì subentra una nuova squadra.
A quel suono non riesce a rilassarsi come sa che dovrebbe, perché sta facendo le prove del futuro, non può farne a meno. La sua mente corre; dietro i suoi occhi semichiusi le varie possi¬bilità balenano e si scontrano. Forse andrà tutto bene, forse quel terzetto di stranieri è buono, equilibrato, ben intenzionato; for¬se riuscirà a presentare loro i Craker nella giusta luce. D'altra parte, questi nuovi arrivati potrebbero facilmente considerare i Figli di Crake tipi strani, o selvaggi, oppure non umani, una mi¬naccia.
Immagini della vecchia storia gli turbinano nella testa, i pul¬santi supplementari sulla barra degli strumenti di Sangue e rose: il mucchio di crani di Gengis Khan, i cumuli di scarpe e lenti di Dachau, le chiese piene di cadaveri in fiamme in Rwanda, il sac¬co di Gerusalemme da parte dei crociati. Gli indiani Arawak che danno il benvenuto a Cristoforo Colombo con ghirlande e doni a base di frutta, sorridendo di gioia, subito massacrati, o le¬gati sotto i letti sui quali le loro donne venivano violentate.
Ma perché immaginare il peggio? Forse quelle persone sono fuggite per lo spavento, forse si saranno spostate altrove. Forse sono malate e in fin di vita.
O forse no.

Prima di andare in perlustrazione, prima di partire per quella che - ormai ne è conscio - è una missione, dovrebbe fare un di¬scorso di qualche tipo ai Craker. Una specie di predica. Enun¬ciare pochi comandamenti, il congedo rivolto loro da Crake. Ma non hanno bisogno di comandamenti: nessun divieto sarebbe loro utile, e neppure comprensibile, perché hanno tutto incor¬porato. Non ha senso esortarli a non mentire, rubare, commet-tere adulterio o desiderare la roba d'altri. Non afferrerebbero i concetti.
Ma qualcosa deve pur dire. Lasciarli con poche parole da ri¬cordare. Meglio ancora, con qualche consiglio pratico. Dovreb¬be spiegare che potrebbe anche non tornare. Che gli altri, quel¬li con le pelli extra e le piume, non sono stati mandati da Crake. Che il bastone rumoroso andrebbe loro tolto e gettato in mare. Che se diventassero violenti - Oh, Uomo delle Nevi, cosa vuol dire violento? - o cercassero di stuprare (Cosa vuol dire stuprare?) le donne, o molestare (Cosa?) i bambini, o provassero a co¬stringere gli altri a lavorare per loro...
Disperante, disperante. Cosa vuol dire lavorare? Lavorare è quando costruite le cose - Cosa vuol dire costruire? - o coltivate le cose - Cosa vuol dire coltivare? - perché se non lo faceste vi picchierebbero e vi ucciderebbero, o perché vi darebbero dena¬ro per farlo.
Cos'è il denaro?
No, non può dire niente di tutto ciò. Crake veglia su di voi, dirà. Oryx vi ama.
Poi i suoi occhi si chiudono e si sente sollevare delicatamente, trasportare, sollevare di nuovo e di nuovo trasportare, tenere.

15

Impronta

Uomo delle Nevi si sveglia prima dell'alba. Giace immobile, ascolta la marea che monta, cic-ciac, cic-ciac, il ritmo del batti¬to cardiaco. Vorrebbe tanto credere di essere ancora addormen¬tato.
A est l'orizzonte è pervaso da una foschia grigiastra, ora ac¬cesa da un bagliore roseo, mortale. Strano come quel colore ap¬paia ancora delicato. Lo fissa con rapimento; non c'è altra paro¬la per dirlo. Rapimento. Il cuore ghermito, trascinato via, come da un grande uccello rapace. Dopo tutto quello che è successo, come può il mondo essere ancora così bello? Perché lo è. Dalle torri al largo giungono i gridi degli uccelli e urli che non hanno nulla di umano.
Fa qualche respiro profondo, scruta il terreno sottostante in cerca di animali selvatici, scende dall'albero, appoggiando pri¬ma il piede buono. Controlla l'interno del berretto, ne fa volare fuori una formica. Si può dire che una singola formica sia viva, in un qualsiasi significato profondo del termine, oppure esiste unicamente in relazione al proprio formicaio? Un vecchio indo¬vinello di Crake.
Zoppica lungo la spiaggia fino alla riva, si lava i piedi, sente il morso del sale: deve esserci stata una vescica, durante la notte quella roba deve essersi rotta, ora la ferita sembra enorme. Le mosche gli ronzano intorno, aspettando l'occasione di posarsi.
Torna zoppicando al limite della vegetazione arborea, si toglie il lenzuolo a fiori, lo appende a un ramo: non vuole essere in¬tralciato. Non indosserà nient'altro che il suo berretto da base¬ball, per riparare gli occhi dalla luce abbagliante. Farà a meno degli occhiali da sole: è abbastanza presto, perciò non ce ne sarà bisogno. Dovrà cogliere ogni accenno di movimento.
Piscia sulle cavallette, le guarda frullare via con nostalgia. Questa sua routine sta già entrando nel passato, come un'aman¬te vista dal finestrino di un treno, che fa gesti di saluto mentre viene trascinata inesorabilmente via, nello spazio, nel tempo, a gran velocità.
Va al suo nascondiglio, lo apre, beve dell'acqua. Il piede gli fa un male del diavolo, è di nuovo rosso intorno alla ferita, la cavi¬glia è gonfia: qualunque cosa sia lì dentro, ha avuto la meglio sul cocktail del Paradice, nonché sul trattamento dei Craker. Ci strofina sopra del gel antibiotico, inutile come fango. Fortuna¬tamente ha delle aspirine; attutiranno il dolore. Ne ingoia quat¬tro, sgranocchia mezza barretta energetica per mettersi in forze. Poi tira fuori la pistola spray, controlla il caricatore di proiettili virtuali.
Non è pronto. Non si sente bene. È spaventato.
Potrebbe scegliere di restare dov'è, aspettare gli sviluppi.
Oh, tesoro. Sei la mia unica speranza.

Segue la spiaggia diretto a nord, si appoggia al bastone per te¬nersi in equilibrio, cammina il più possibile sotto l'ombra degli alberi. Il cielo si sta facendo più luminoso, deve affrettarsi. Ora vede il fumo, si leva in una colonna sottile. Gli ci vorrà un'ora o più per arrivare fin là. Non sanno di lui, quelle persone; sanno dei Craker ma non di lui, non si aspetteranno il suo arrivo. È la sua migliore occasione.
Zoppica da un albero all'altro, sfuggente, bianco, un sussur¬ro. In cerca della sua specie.

Ecco un'impronta umana nella sabbia. Poi un'altra. Non sono nette, perché qui la sabbia è asciutta, ma è impossibile sbagliar¬si. Ed eccone un'intera scia, diretta verso il mare. Di varie di¬mensioni. Dove la sabbia diventa umida sono più visibili. Cosa starà facendo quella gente? Nuota, pesca? Si lava?
Portavano scarpe, o sandali. Qui è dove li hanno tolti, qui dove li hanno rimessi. Preme il piede sano nella sabbia bagnata, accanto all'impronta più grande: una sorta di firma. Non appe¬na solleva il piede, l'orma si riempie d'acqua.
Adesso avverte l'odore del fumo, sente le voci. Procede furtivo, quasi avanzasse in una casa vuota in cui potrebbe ancora es¬serci qualcuno. E se dovessero vederlo? Un pazzo nudo e pelo¬so con niente addosso tranne un berretto da baseball e una pi¬stola spray in mano. Quale sarebbe la loro reazione? Urlare e scappare? Attaccarlo? Spalancare le braccia con gioia e amore fraterno?
Sbircia attraverso lo schermo di foglie: sono solo tre, seduti intorno a un fuoco. Hanno una pistola spray, il modello specia¬le del CorpSeCorps, ma è a terra. Sono magri, con l'aria mal¬concia. Due uomini, uno marrone e uno bianco, e una donna color tè, gli uomini in vestiti leggeri color cachi, modello stan¬dard ma sudici, la donna in quello che resta di una qualche uniforme... da infermiera, da guardia? Una volta doveva essere carina, prima di perdere tutto quel peso; ora è esile, i capelli ina¬riditi, come le pagliuzze di una scopa. Sono macilenti, tutti e tre.
Stanno arrostendo qualcosa, un qualche tipo di carne. Un moffone? Sì, c'è la coda, laggiù a terra. Devono avergli sparato. Povera creatura.
Uomo delle Nevi non sente odore di carne arrostita da un'e¬ternità. È per questo che ha le lacrime agli occhi?
Ora trema. Ha di nuovo la febbre.

E adesso? Farsi avanti con una striscia di lenzuolo legata a un bastone, sventolando una bandiera bianca? Vengo in pace. Ma non ha con sé il lenzuolo.
Oppure, ho un gran tesoro da mostrarvi. Ma no, non ha nulla da offrire, e neppure loro. Tranne se stessi. Potrebbero stare ad ascoltarlo, potrebbero sentire la sua storia e lui le loro. Almeno si farebbero un'idea di quello che ha passato.
Oppure, Filate via dal mio territorio prima che vi faccia fuori, come in un western vecchio stile. Mani in alto. Indietro. Lascia¬te la pistola spray. Ma non finirebbe lì. Loro sono in tre e lui è solo. Farebbero quello che farebbe lui al posto loro: dopo es¬sersi allontanati, si apposterebbero da qualche parte per spiarlo. Gli si avvicinerebbero furtivi nell'oscurità, lo colpirebbero alla testa con un sasso. Impossibile capire quando.
Potrebbe farla finita adesso, prima che lo vedano, finché ha ancora un po' di energia. Finché si regge ancora in piedi. Il suo piede è come una scarpa piena di fuoco liquido. Ma non hanno fatto nulla di male, non a lui. Dovrebbe ucciderli a sangue freddo? Ne è capace? E se comincia a ucciderli e poi si ferma, uno di loro ucciderà prima lui. Naturalmente.
«Cosa vuoi che faccia?» sussurra al vuoto.
Difficile capirlo.
Oh, Jimmy, eri così divertente.
Non deludermi.
Per abitudine solleva l'orologio che gli mostra il suo qua¬drante vuoto.
Ore zero, pensa Uomo delle Nevi. È tempo di andare.

Ringraziamenti

Ringrazio la Società Inglese degli Autori, in quanto rappresen¬tante letteraria dei diritti di Virginia Woolf, per avere autorizza¬to l'utilizzo di un brano da Al faro, Anne Carson per avermi concesso di citare The Beauty of the Husband e le John Calder Publications per avermi permesso di riportare otto parole del romanzo di Samuel Beckett Mercier and Camier. Un elenco completo delle altre citazioni utilizzate o parafrasate dalle calamite per frigorifero di cui si parla nel libro è reperibile nel sito oryxandcrake.com. I diritti della canzone di Felix Bernard e Ri¬chard B. Smith Winter Wonderland, citata nella Parte 9, sono detenuti dalla Warner Bros.

Il nome «Amanda Payne» è stato gentilmente fornito dalla sua proprietaria, che si è aggiudicata la possibilità di apparire nel li¬bro nel corso di un'asta, destinando la cifra pagata alla Medical Foundation for the Care of Victims of Torture (UK), che ha ur¬gente bisogno di fondi. Il pappagallo Alex è stato utilizzato negli esperimenti sull'intelligenza animale della dr. Irene Pepperberg, ed è il protagonista di molti libri, documentali e siti Web. Ha dato il suo nome alla Alex Foundation. Un ringraziamento anche al pappagallo Tuco, che vive con Sharon Doobenen e Brian Brett, e al pappagallo Ricki, che vive con Ruth Atwood e Ralph Siferd.

Numerose informazioni sono state involontariamente fornite da molte riviste e quotidiani, nonché da autori di saggistica scienti¬fica incontrati nel corso degli anni. Una loro lista completa è di¬sponibile nel sito Web oryxandcrake.com. Un ringraziamento va inoltre ai dottori Dave Mossop e a Grace Mossop, e a Norman e Barbara Baricello, di Whitehorse, Yukon, Canada; a Max Davidson e alla sua équipe della Davidson's Arnheimland Safaris, Australia; a mio fratello Harold Atwood, neurofisiologo (grazie per gli studi sugli ormoni sessuali nel topi non ancora nati e su altri arcani); a Gilberto Silva e Orlando Garrido, ap-passionati biologi di Cuba; a Matthew Swan e alla sua équipe di Adventure Canada, che ha organizzato il viaggio nell'Artico du¬rante il quale è stata scritta una parte di questo libro; ai ragazzi del laboratorio, 1939-45; e a Philip e Sue Gregory della Cassowary House, Queensland, Australia, dal cui balcone, nel mar¬zo 2002, l'autrice ha osservato quel raro uccello che risponde al nome di rallo collorosso.

La mia gratitudine va inoltre ai miei primi, acuti lettori Sarah Cooper, Matthew Poulikakis, Jess Atwood Gibson, Ron Bernstein, Maya Mahvjee, Louise Dennys, Steve Rubin, Arnulf Con¬radi e Rosalie Abella; alle miei agenti Phoebe Larmore, Vivienne Schuster e Diana Mackay; alle mie editor Ellen Seligman del¬la McClelland & Stewart (Canada), Nan Talese della Doubleday (USA) e Liz Calder della Bloomsbury (UK), nonché alla mia in¬trepida redattrice, Heather Sangster. Un grazie anche alla mia laboriosa assistente Jennifer Osti e a Surya Bhattacharya, custo¬de dell'inquietante Scatola Marrone dei ritagli. Ad Arthur Gelgoot, Michael Bradley e Pat Williams, e a Eileen Allen, Melinda Dabaay e Rose Tornato. E infine a Graeme Gibson, mio com¬pagno da trent'anni, appassionato osservatore della natura ed entusiasta concorrente nella gara di birdwatching a Pelee Island, Ontario, Canada, che capisce l'ossessività dell'autrice.

FINE