giovedì 13 febbraio 2020



LETTERE A MILENA
Franz Kafka 

 A cura di Willy Haas.
    Traduzione di Ervino Pocar.
    Introduzione di Cinzia Calcagnile.
    Copyright Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
    Titolo dell'opera originale "Briefe an Milena".
    Prima edizione Biblioteca Contemporanea Mondadori marzo 1954.
    Edizione Oscar Mondadori settembre 1979.
    Su concessione Arnoldo Mondadori Editore

 Indice.

Introduzione di Cinzia Calcagnile: pagina 3.
    Premessa di Willy Haas: pagina 21.
    LETTERE A MILENA: pagina 35.
    Nota del curatore: pagina 336.
    Note: pagina 341.

    Introduzione.
 Nella produzione letteraria di Kafka le raccolte  epistolari  occupano     un posto particolarmente importante. Se infatti per altri scrittori si     avverte  una  distanza  evidente  tra la scrittura dell'opera e quella     della corrispondenza,  a tal punto che Beckett,  ad esempio,  nel  suo     saggio  su  Proust,  giunse a dire che la "Correspondance" dell'autore     della "Recherche" gli pareva dovuta a una  vecchia  signora  pettegola     senza  alcun  rapporto  con il romanziere,  in Kafka stile narrativo e     stile epistolare sono quasi perfettamente sovrapponibili e obbediscono     a movimenti di pensiero spesso identici. Le immagini cui Kafka ricorre     per spiegare nelle lettere a Milena i meccanismi dell'angoscia  e  dei     sensi di colpa che lo tormentano, appartengono così profondamente allo     stesso  mondo  dei  suoi  racconti  che  spesso  vi  ricompaiono quasi     immutate.
    I "luoghi" narrativi, i frammenti fantastici che Kafka intercala nella
    sua corrispondenza non con il compiaciuto estetismo di  chi  contamini     letteratura  e vita facendo programmaticamente delle proprie lettere o     dei propri discorsi "opere d'arte",  ma con la disperata sincerità  di     chi dispone di un unico linguaggio,  di un'unica visione del mondo, di     un'unica  fede  che  impronta  di  sé  tutti  gli  aspetti  della  sua     esistenza,  non sono il solo aspetto interessante della corrispondenza     di Kafka.  Accanto all'evidente valore documentario di tali materiali,     su   cui   i   biografi  si  sono  giustamente  fondati  per  le  loro     ricostruzioni,  le lettere di Kafka svolgono insieme ai suoi diari  la     funzione,    per   noi   utilissima,    di   aprirci   uno   spiraglio     sull'atteggiamento dello scrittore nei confronti della propria  opera,     della  propria  attività  creativa.  La relazione di Kafka con Milena,     nascendo sotto il segno dell'impossibilità perché  la  donna  era  già     sposata,  non  si  pose mai per Kafka come un'alternativa all'attività     letteraria: Milena,  anch'essa scrittrice e  ancorata  in  una  realtà     lontana   da   legami   affettivi  non  esclusivi  ma  tutt'altro  che     superficiali,  pur destando in  Kafka  nei  primi  tempi  sogni  molto     seducenti  di  vita comune,  non fu mai per lui inserita concretamente     nella vita quotidiana, non rappresentò mai ai suoi occhi - come invece     aveva fatto Felice,  la  sua  prima  fidanzata  -  la  possibilità  di     un'esistenza tranquilla e prosaica in cui lo spazio della notte non si     sarebbe  più  aperto  allo  strazio  e  alla  felicità della creazione     letteraria,   inscindibile   dal   raccoglimento   sacrificale   della     solitudine.  Milena sarà sempre,  per Kafka, soltanto come l'amica del     saggio cinese, l'amica che,  come egli scrive in una lettera a Felice,     "ha certo lo sguardo più acuto della moglie, non è interamente immersa     nella situazione".
    Nella  corrispondenza  di  Flaubert,  che  egli  lesse  e  rilesse con     passione,  Kafka trovava,  sviluppata sino a  divenire  un'ossessione,     l'idea  che  lo  scrittore  deve  in qualche modo sottrarsi alla vita,     considerarla soltanto "come un'illusione da  descrivere"  e  ripetersi     costantemente:  "quanto  a  noi,   vivere  non  ci  riguarda".  Certo,     quest'idea doveva affascinarlo,  pure una  distanza  incalcolabile  lo     divideva    dalla   spiritualità   aristocratica   dell'autore   della     ammiratissima  "Educazione  sentimentale";  per  Flaubert  il  momento     dell'elaborazione  stilistica  era un momento di grande travaglio,  ai     cui risultati egli era pronto a  sacrificare  tutto,  in  nome  di  un     valore supremo che era la bellezza.  Nulla di simile per Kafka: nessun     culto della bellezza viene a giustificare la rinuncia  alla  vita.  In
    Kafka  non  esiste  la  certezza  della  superiorità  dell'artista sui     "borghesi": nelle esistenze che si svolgono nell'ambito della norma  e     non sono toccate dall'eccezionalità, Kafka non vede soltanto opacità e     squallore,   ma   una   pienezza   (la   pienezza   della  ripetizione     kierkegaardiana) che suscita la sua invidia. Il dovere della scrittura     non è per Kafka un idolo che chieda sacrifici e offra come  ricompensa     la compiuta perfezione;  è una terra promessa sempre prossima e sempre     inattingibile,  come il Castello,  come il  "prossimo  villaggio".  E'     scavando  nel  rapporto  tra  questa  terra promessa e lo spazio della     notte  che  nelle  lettere,  nei  diari  si  disegna  come  lo  spazio     privilegiato  dell'esperienza  creativa,  che è forse possibile andare     aldilà del significato meramente biografico, psicologico, sentimentale     della corrispondenza di Kafka con Milena,  per leggervi l'intrecciarsi     dei  temi  letterari  nascenti  e  dei  momenti  vissuti.  Le  vicende     biografiche  del  legame  con  la  scrittrice  ceca  influenzarono  la     produzione  letteraria  di  Kafka:  vedremo  infatti come la figura di     Milena abbia profondamente influito sulla genesi del "Castello".     Kafka  inizia  il  carteggio  con  Milena  nell'aprile  del  1920:  lo     scrittore si trova a Merano presso la pensione Ottoburg per un periodo     di  cura e di riposo.  La malattia infatti lo costringe a interrompere     il suo lavoro d'ufficio a Praga con soggiorni  in  sanatorio  sin  dal     1917,  anno  della diagnosi di tubercolosi polmonare.  Il suo stato di     salute,  per quanto non  accenni  a  migliorare,  non  desta  tuttavia     eccessive preoccupazioni.  Per la comprensione delle condizioni in cui     matura il suo rapporto con Milena è rilevante la conoscenza non  tanto     delle situazioni esterne - un buon impiego, il fidanzamento con Julia,     il  riconoscimento  del  suo  valore  letterario - quanto piuttosto di     quelle interne.  Kafka è  un  uomo  distrutto,  che  ondeggia  tra  la     disperazione  e  i  tentativi  sporadici  di  resistenza.  Ha rotto il     fidanzamento con Felice,  con cui ha avuto  un  rapporto  sentimentale     travagliato  (il  fidanzamento,   durato  cinque  anni,   era  passato     attraverso varie rotture,  di cui una sembrava essere definitiva).  La     rinuncia  affonda le sue motivazioni nell'incapacità di adeguarsi alla     vita matrimoniale,  di fondare una famiglia,  di poter sopravvivere in     una  situazione  di  "normalità";  insomma  di  soddisfare  quelle che     Wagenbach definisce "le esigenze del mondo". Incapacità di fondo,  che     si  rinnoverà  nella  relazione  con Julia: la possibilità di sposarsi     viene avanzata da Kafka stesso e viene definita nella lettera  scritta     alla  sorella  di  Julia  come  interiore  costrizione  di arrivare al     matrimonio attraverso sforzi estremi, senza riguardo alcuno. Tentativi     quindi che si rivelano poi destinati  a  fallire  e  che  lo  lasciano     comunque violentemente turbato.
    I  "Diari"  tra  il  '20  e  il  '22  sono  particolarmente  ricchi di     annotazioni biografiche.  In questo stesso periodo Kafka vive  il  suo     legame  con Milena: legame che sarà caratterizzato da un atteggiamento     fiducioso dello scrittore nei confronti della donna. Il 15 ottobre del     1921 Kafka annota,  infatti,  di aver consegnato a lei  tutti  i  suoi     "Diari" dei quali,  aggiunge, non chiederà mai la restituzione. E' una     decisione estremamente importante ed è anche una prova di  volontà  di     apertura  verso  Milena,  considerata  la  ritrosia  di  Kafka nel far     leggere i propri scritti ad altri.  E ancora osservazioni su Milena  o     per lo meno la presenza del suo nome ricorrono nei mesi seguenti.     La ricchezza delle citazioni riguardanti la donna ci dà un'indicazione     abbastanza precisa dell'importanza che Kafka attribuì immediatamente a     questo  nuovo  legame.  Sappiamo che egli conobbe Milena in un circolo     letterario e che lei gli si propose come traduttrice dei suoi racconti     in ceco.  E' un'offerta cui Kafka non può restare indifferente: non  è     soltanto   una  traduzione  quella  che  Milena  gli  propone,   ma  è     l'immergere la sua opera  in  un'altra  realtà  linguistica.  E'  noto     l'interesse  di  Kafka  per la cultura "marginale",  non ufficiale: si     pensi a quanto a fondo penetrò l'ebraismo,  alla sua passione  per  il     teatro di L”wy o alla forza con cui sostenne la necessità di conoscere     l'jiddish.  Il  ceco è la lingua di una minoranza: come tale rientra a     far parte di quella cultura al di fuori dell'ufficialità di cui  Kafka     era fervente sostenitore. Quindi, come si diceva prima, non è soltanto     un problema di traduzione,  ma anche e soprattutto di espressione.  Il     tedesco è la lingua che Kafka usa per scrivere:  ma  attorno  ad  esso     ruotano,  vitali  e affascinanti,  altre dimensioni linguistiche.  Sul     tedesco  di  Kafka  si  proiettano  le  ombre  di  questi   satelliti:     l'jiddish,  il  ceco,  lingue  legate  non  alla  scrittura,  ma  alla     quotidianità, alla possibilità di una vita sociale.
    Che Milena accosti Kafka attraverso il ceco può essere dunque uno  dei     motivi  che  hanno  contribuito  a  far  sì che lo scrittore ricevesse     un'impressione duratura da quello che  era  stato  un  incontro  quasi     casuale.  Kafka  inizia  a  scrivere  a Milena con propositi piuttosto     indeterminati e sulla  base  di  una  conoscenza  ancora  superficiale     avvenuta  in  un  circolo  letterario.  Ventiquattrenne,  e quindi più     giovane di lui di dodici anni,  aveva tuttavia trascorso una vita  già     notevolmente  intensa  e  densa  di  avvenimenti.  Era  nata a Praga e     apparteneva a un'antica e  nobile  famiglia  della  capitale.  Rimasta     orfana  di  madre  a  tredici  anni,  viveva con il padre,  professore     universitario piuttosto conosciuto nella città  boema,  con  il  quale     aveva  stabilito  un  rapporto  assai  simile a quello di Kafka con il     proprio. Iscritta al ginnasio umanistico femminile "Minerva", cominciò     a far parlare di sé verso i quindici anni  per  i  suoi  atteggiamenti     estremamente liberi ed emancipati,  frutto in parte dell'atmosfera che     si respirava all'interno dell'istituto.  Una notevole spregiudicatezza     intellettuale, il frequentare ritrovi per artisti, unitamente ad altri     aspetti  più stravaganti fecero di lei un personaggio.  Non ultima fra
    le "stravaganze" (o almeno così la giudicò il padre che  per  impedire     questo  passo  la  fece  rinchiudere  in un manicomio) la decisione di     Milena di sposare un letterato ebreo, Ernst Pollak. Fuggita,  si sposa     e   si   trasferisce   a   Vienna  con  il  marito,   ormai  ripudiata     definitivamente dal genitore.  Il matrimonio si rivela ben  presto  un     errore  ed  è  in  uno  stato  d'animo  molto  particolare che avviene     l'incontro con Kafka. Le maggiori notizie biografiche su Milena, o per     lo meno sugli anni seguiti alla fine del legame con lo  scrittore,  si     hanno da Margarete Buber-Neumann, sua compagna di detenzione nel campo     di concentramento di Ravensbruck.  Purtroppo non si è potuto venire in     possesso delle lettere della donna a Kafka e  non  si  hanno  che  una     ventina  di  pagine  sullo  scrittore,  alcune delle quali tradotte in     tedesco contenute per la prima volta nel volume della Neumann.     Willy Haas la descrive come appassionata e fonte inesauribile di bontà     e di aiuti nei confronti degli amici,  prodiga  negli  affetti  e  nel     denaro  con  le persone verso le quali nutriva sentimenti di amicizia.     Milena  evita,  forse  inconsapevolmente,   di  usare  come  forma  di     partecipazione  all'esistenza  dell'amico  la via della collaborazione     intellettuale.  Sceglie piuttosto un modo  più  semplice  di  contatto     umano;  quello fisico,  per quanto, come si è visto, non le mancassero     le doti culturali per farsi valere.  Kafka  è  molto  malato  e  anche     Milena  si  ammala,  destando in lui quell'interesse che costituirà la     svolta del loro legame. La malattia fu per Kafka il terreno di rifugio     e di salvezza dove sentirsi finalmente libero dalle esigenze del mondo     dal quale si sentiva escluso e annientato.  Gli è  impossibile  vivere     nella norma sociale,  accettarne le regole e i compromessi - primo fra     tutti il matrimonio - le abitudini e i sentimenti. Le lettere a Milena     dimostrano quanto difficile sia per lui fare entrare nel  cerchio  del     proprio  isolamento  un  altro essere umano e in particolare una donna     piena di vitalità e di  giovinezza.  L'età,  la  malattia,  l'ebraismo     costituiscono  i  cardini  per  rendere difficoltoso il rapporto che è     speranza di apertura verso il mondo.  Il destino di essere ebreo è  in
    realtà  darsi un alibi per definire in maniera accettabile il problema     della  propria  esistenza  angosciata,   problema  che  non  riesce  a     concretare  altrimenti  in  forma  altrettanto  accettabile.  A Milena     scrive: "quando parli  dell'avvenire  non  dimentichi  forse  che  son     ebreo?", quasi a voler escludere qualsiasi possibilità di salvezza e a     voler considerare la sua condizione come fardello faticoso. Alla donna     rimprovera   anche  di  voler  ricostruire  un  mondo  definitivamente     crollato: a lui non importa il crollo, lo infastidisce il tentativo di     ricostruzione,  lo sforzo di Milena di  tirarlo  fuori  dalle  tenebre     nelle  quali  riesce  ad essere se stesso.  Kafka arriverà al punto di     vietare a entrambi la corrispondenza,  di considerare lo scambio delle     lettere  come  tormento  che  non  può causare altro che tormento.  In     questo furore di autodistruzione si consuma  e  si  logora  il  legame     affettivo.
    Paragonato  al  rapporto  con  Felice Bauer,  il rapporto di Kafka con     Milena pare riflettersi in misura minore nell'opera  dello  scrittore:     "Il Castello" non si rivela infatti leggibile in una chiave biografica     così  diretta e palese come avviene invece per "Il processo".  Esiste,     certo,  un rapporto tra la figura di Frieda - pronta,  come Milena,  a     far dono di sé e come Milena legata al tempo stesso a due uomini, a K.     e  a  Klamm  -  e la giovane scrittrice ceca,  ma in tale figura è una     componente determinante anche il ricordo di Felice.  Il personaggio di     Frieda   nasce   da   una   sorta  di  considerazione,   analoga  alla     condensazione onirica,  tra le due figure femminili che più  contarono     nell'esistenza  di  Kafka,  Felice e Milena.  La situazione di K.  nei     confronti di Frieda - che egli inganna e di cui si serve  -  riproduce     la  situazione  di  Kafka  verso entrambe le sue corrispondenti: verso     entrambe egli si sentiva in qualche modo colpevole,  verso Felice  per     averla  illusa  sulla  possibilità  del  matrimonio,  verso Milena per     averla attirata a sé senza avere nulla da offrirle.  Nei confronti  di     Milena  l'atteggiamento  "vampiresco"  di  Kafka,  la  sua tendenza ad     assimilare come un parassita la vitalità dell'amata,  è  forse  ancora
    più  evidente che verso Felice: Milena era una creatura oggettivamente     ricca di una vitalità eccezionale, che permeava tutta la sua esistenza     e quella di coloro che  le  stavano  vicini.  Di  questa  vitalità  la     generosità  di  Frieda  è  indubbiamente una traccia,  un ricordo.  La     disponibilità affettiva di Milena, le sue lettere, la sua ammirazione,     la sua tenerezza sono per Kafka un nutrimento spirituale infinitamente     attraente;  pure,  è  il  gesto  stesso  con  cui  Milena  offre  tale     nutrimento   chiedendo   insistentemente   a  Kafka,   con  cui  è  in     corrispondenza da poche settimane, di andare a trovarla a Vienna - che     spaventa lo scrittore e lo spinge alla fuga.  Alcuni momenti difficili     del suo rapporto con Milena si configurano come incontri tra un essere     escluso dall'umanità,  un animale, e l'umanità riassunta in una figura     pura,  luminosa e grande che lo guarda attraverso un'infinita distanza     che  la  benevolenza  non  è  sufficiente  a  colmare,   ad  annullare     definitivamente.
    Se agli inizi della  corrispondenza  Kafka  si  era  identificato  con     l'immagine piena di grazia del passero impaurito,  la sua angoscia e i     suoi sensi di colpa lo portano a identificarsi poi  con  una  "bestia"     non meglio identificata, di cui sappiamo soltanto che "appartiene alla     selva".  Che  cosa  rappresenti  la  "selva" è abbastanza chiaro: è lo     spazio della notte,  della  solitudine,  dei  tormenti  interiori,  lo     spazio che permette a Kafka di scrivere isolandolo però dalla comunità     umana,  negandogli la possibilità dell'amore.  Non è possibile per lui     appartenere nello stesso tempo alla selva e a Milena.  La  donna,  che     rappresenta  la luce,  esclude le tenebre,  l'oscurità della selva: la     luce è per Kafka un simbolo della salvezza, della spiritualità,  della     redenzione,  ma  le  tenebre  sono in qualche modo la patria della sua     scrittura,  che  è  misteriosamente  connessa,   nel  suo  nucleo  più     essenziale,  al  peccato,  all'assenza  del  Bene,  al disordine della     natura colpevole.
    Ora,  qual è il fatto che relega Kafka nella sfera del  non-umano,  lo     induce a identificarsi con la "bestia" ingigantendo la sua distanza da     Milena  e  statuendo  la  sua estraneità al consorzio umano?  E' Kafka     stesso a dircelo: è la sua incapacità di amare,  la stessa  che  forse     aveva  già trasformato il viaggiatore di commercio Samsa in un immondo     scarafaggio.  Non si tratta di un'incapacità di provare un  sentimento     d'amore  -  tale  sentimento pervade tutte le lettere a Milena - ma di     un'incapacità di realizzare l'amore,  di  viverlo  compiutamente  così     come lo vivono coloro che "hanno un risveglio comune la mattina" e che     Milena   invidia.   Tale   incapacità  è  quindi  una  cosa  sola  con     l'estraneità alla comunità umana: Kafka è incapace di amore in  quanto     è  fuori  dal  territorio  dell'amore,   appartiene  compiutamente  al     territorio  dell'angoscia.  Ma  questa  è  esattamente  la  situazione     dell'agrimensore  nel  "Castello":  egli è incapace di amare veramente     Frieda o un'altra delle  donne  che  fissano  su  di  lui  la  propria     attenzione  perché  è estraneo al villaggio e al Castello,  perché non     appartiene ad alcuna comunità ed è incapace di  comprendere  tanto  il     funzionamento  dell'apparato burocratico che costituisce il vero mondo     dei Signori, quanto l'insieme di leggi non scritte che reggono la vita     del villaggio.  Per questo,  nel raccontare il  rapporto  d'amore  tra     Frieda  e  K.,  Kafka  insiste  sul fatto che la donna rappresenta per     l'agrimensore  l'assoluta  estraneità.   Tutto  il  lungo  e  faticoso     procedere  a  tentoni  di  K.  verso il Castello non è che un continuo     smarrirsi tra segni che egli non  sa  interpretare;  e  anche  il  suo     incontro  con  la  donna  avviene all'insegna dello smarrimento,  egli     dimentica la moglie e il  figlio  che  ha  lasciati  in  patria  e  si     smarrisce  nell'amore  di  Frieda  come in una terra straniera,  senza     riuscire ad avvicinarsi a quel mondo  del  Castello  dove,  forse,  si     sentirebbe  finalmente  a  casa  propria.  La difficoltà di trovare un     rifugio riflette probabilmente una preoccupazione di Kafka  che  viene     esplicitamente  alla  luce  in  una  delle  sue  lettere  a Milena: la     condizione - sperimentata da Kafka con infinita angoscia -  dell'ebreo     occidentale.
    L'ebreo occidentale non ha un passato perché non ha una vera e propria     tradizione:  la  sua tradizione,  la sua cultura (pensiamo soprattutto     alla cultura talmudica e chassidica) non coincidono con  quella  della     società  in  cui  è  costretto a vivere,  e quindi egli si trova nella     stessa posizione dell'agrimensore nel  villaggio,  che  non  riesce  a     capire i valori e i principi etici degli abitanti né a far capire loro     i  suoi.  Ci pare molto probabile che il rapporto con Milena - che non     era ebrea abbia  acuito  in  Kafka  la  consapevolezza  della  propria     appartenenza alla minoranza ebraica. Nel periodo dell'amore per Milena     l'ebraismo  di  Kafka  si  presenta  soprattutto  come coscienza di un     destino di separazione,  di una pesante eredità di stanchezza  su  cui     gravano secoli di fughe, d'ingiustizia, di esclusione. Il protagonista     del  "Castello"  con  il  suo lungo viaggio alle spalle evoca il Kafka     delle lettere a Milena, che ha dietro di sé un'esperienza più lunga di     familiarità con la malattia e che avverte  il  proprio  ebraismo  come     differenza,  come ostacolo,  come memoria incancellabile di un passato     di sofferenza e di emarginazione.  Nelle lettere lo scrittore tende  a     sottolineare   la   stanchezza   insita  nella  condizione  dell'ebreo     occidentale e derivante dal suo lungo cammino di "errante":  ora,  nel     Castello,  la  stanchezza dell'agrimensore è un elemento determinante,     non  solo  perché  dall'inizio  alla  fine  del  libro  non   fa   che     accrescersi, ma anche perché si trova al centro di uno dei momenti più     significativi  della  vicenda.   Nel  momento  decisivo  K.,   che  ha     dimostrato  tanta  indomita  ostinazione,   è  tradito  dalla  propria     stanchezza.
    Questa  situazione  è  un  poco  analoga a quella di Kafka di fronte a     Milena.  Nella solitudine,  nella malattia,  Milena giunge inattesa  e     insperata:  riflette  un'esistenza  libera  e  appassionata,  ricca di     fermenti intellettuali,  di momenti di elevata spiritualità e al tempo     stesso di desiderio e di tenerezza. A questo uragano che irrompe nella     sua esistenza Kafka non sa opporre che la propria stanchezza,  che gli     pare moltiplicata all'infinito dal destino dei suoi antenati  erranti,     sradicati.  Il sonno che paralizza K. e la stanchezza di Kafka davanti     alla vitalità inesauribile  di  Milena  esprimono  la  stessa  realtà:     l'ironia  del  mondo  che  offre la felicità all'individuo dopo averlo     privato delle forze per poterla afferrare. Ma l'individuo di Kafka non     è un simbolo metastorico,  o almeno non è esclusivamente  tale:  è  un     individuo segnato da una condizione precisa - l'ebraismo - all'interno     di  una  precisa  realtà  storica:  la società moderna burocratizzata,     dominata dalla ragione strumentale, compiutamente disumana.  In questo     contesto storico, il desiderio dell'individuo kafkiano di inserirsi in     una  comunità  è  votato allo scacco,  perché tale comunità non esiste     più:  la  vita  metropolitana  distrugge   ogni   forma   di   cultura     tradizionale,   il   significato   dei  riti  delle  credenze,   delle     consuetudini che appartenevano a determinate realtà etniche  si  perde     nell'uniformità  della  cultura del potere.  Il cammino di Kafka verso     una vita comune felice con Milena e quello di  K.  verso  il  Castello     sono  destinati  a sfociare nel nulla,  perché non esiste una comunità     che possa sancire e inverare le unioni dei singoli  o  accoglierli  in     sé.
    Nel  "Castello"  Kafka  ritrae  la  comunità umana ridotta a un guscio     vuoto,  che non contiene nulla: verso questo nulla va il  protagonista     del  romanzo,  che  è  convinto  invece di muoversi verso un'armoniosa     totalità,  verso una realtà  "piena"  che  conferirà  anche  alla  sua     propria  vita  una  pienezza  compensatrice  del  suo lungo e faticoso     viaggio.  Ma Kafka,  nella sua esperienza con Milena,  non  è  vittima     dello  stesso miraggio che attribuirà al protagonista del suo romanzo:     egli sa bene che il suo essere estraneo al mondo non dipende  soltanto     da  una  peculiarità  della sua natura;  dipende anche dalla sua acuta     consapevolezza del fatto che nel mondo l'estraneità sta trionfando  da     ogni parte, che l'armonia della totalità è irrevocabilmente perduta ed     è  ormai  esperibile  solo  nella  forma  di una struggente nostalgia.     Benché egli abbia in comune con l'agrimensore la  tensione  verso  una     meta  impossibile,  egli  non risponde al richiamo ingannevole: il suo     sguardo lucido penetra la realtà delle cose,  anche  la  vanità  della     stessa  meta,  e  si  ritrae  per  tornare  a  posarsi  nei  territori     dell'angoscia, della notte.
    Cinzia Calcagnile.


    Brevi cenni biografici.

    1883.  Il 3 luglio nasce a Praga Franz Kafka.  Il padre è il  mercante     Hermaun,  la madre è Julie L”wy. Franz avrà tre sorelle: Elli, Valli e     Ottla, nate rispettivamente nel 1889,1890,1892.
    1889-1893. Frequenta la scuola elementare nel Fleischmarkt.
    1893-1901. Ginnasio-liceo tedesco dell'Altstadt.
    1901-1906.   All'Università  tedesca  di  Praga  Kafka  studia   prima     germanistica, poi legge.
    1902. Incontra per la prima volta Max Brod.
    1904-1905. Scrive "Descrizione di una battaglia".
1906. Ottiene la laurea in legge.
1907. Scrive "Preparativi di nozze in campagna".
1908. Prende  servizio  a luglio all'"Istituto d'Assicurazione contro     gli infortuni dei lavoratori",  presso il quale resterà fino  all'anno     della pensione nel 1922.
    1910.  Inizia  la  scrittura  dei  "Diari".  Interesse  per  il teatro     jiddish.
1912. E' un anno particolarmente ricco per Kafka. All'inizio dell'anno     primi abbozzi del "Disperso"  (che  in  seguito  verrà  sviluppato  in
    "America").  Agosto:  scrive  il  primo libro "Meditazione".  Incontra
    Felice Bauer, sua prima fidanzata. Settembre: "La condanna".  Ottobre:     Kafka   inizia   il  carteggio  con  Felice.   Novembre-dicembre:  "La     metamorfosi"
1913. Visite a Felice. In maggio la pubblicazione del "Fuochista".     1914.  Giugno:  si  fidanza  con  Felice.  Luglio:  viene  sciolto  il     fidanzamento.  Inizio  della  composizione  del  "Processo".  Ottobre:     "Nella colonia penale". Viene completato "Il disperso".
    1915.  Nuovo incontro con Felice.  A novembre avviene la pubblicazione     della "Metamorfosi".
1917. Luglio:  secondo  fidanzamento  con  Felice  Bauer.  Settembre:     diagnosi di  tubercolosi  polmonare.  Dicembre:  seconda  rottura  del     fidanzamento. Stesura degli "Aforismi".
1918. Conosce Julie Wohryzek.
1919. Fidanzamento con Julie. "Lettera al padre".
1920. Inizia   il   carteggio  con  Milena  Jesensk .   Rottura  del     fidanzamento con Julie.  Scrive  numerosi  racconti  ("Posidone",  "Di     notte", "La questione delle leggi" e altri).
1922. Stesura del "Castello", "Un digiunatore", "Indagini di un cane".
1923. Scrive "La tana".
1924. Kafka  muore in sanatorio a Kierling il 3 giugno.  La sepoltura     avviene a Praga l'11 giugno.













    Premessa.

    "Scrivere lettere significa denudarsi  davanti  ai  fantasmi  che  ciò     attendono  avidamente.  Baci  scritti  non  arrivano a destinazione ma     vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto." Kafka.

    Franz Kafka conobbe Milena anzitutto come traduttrice  in  ceco  delle     sue  prime  brevi prose.  Come questa conoscenza si sia trasformata in     una relazione affettuosa appare dalle  lettere  del  1920  inviate  da     Merano:  a rigore si tratta di un momento,  il momento in cui Kafka si     rende conto che non è più libero nelle sue decisioni,  che  da  Merano     non può ritornare a Praga o in una stazione balneare boema passando da     Monaco o per altre vie,  ma deve passare da Vienna,  come gli chiedeva     Milena, la quale viveva là una vita coniugale che a poco a poco andava     dissolvendosi. Nemmeno Kafka era libero,  la sua situazione era simile     a  quella  di  lei,  una fidanzata lo attendeva a Praga sperando in un     prossimo matrimonio,  ma  con  previsioni  altrettanto  poco  concrete     quanto  quelle  di  un'altra  fidanzata precedente che noi conoscevamo     soltanto come "la berlinese".  Una sola differenza:  tutte  e  due  le     volte,  o  veramente le tre volte,  perché egli fu due volte fidanzato     con la stessa ragazza,  la rottura segnò evidentemente una grave crisi     nella vita di queste giovani,  mentre il distacco di Milena dal marito     sarebbe avvenuto probabilmente senza tragedie,  come  infatti  avvenne     alcuni anni dopo.
    I "Diari" di Kafka (1) rivelano la profondità di questa relazione.  Il     suo nome,  o osservazioni che possono  riferirsi  soltanto  a  Milena,     ricorrono  continuamente  fra  il  1921  e il '22.  Incominciano il 15     ottobre 1921,  quando Kafka annota di aver dato  da  leggere  tutti  i     diari  a  "M".  In  questo modo egli le apriva veramente il cuore e la     propria coscienza.  Il primo dicembre scrive che ella andò a  trovarlo     quattro  volte  (certo  in  casa  dei  genitori di lui) e che partirà.     "Quattro giorni un  po'  tranquilli  in  mezzo  ad  altri  tormentati"     aggiunge.  "Lunga  la  via  da  qui,  dove  non mi rattristo della sua     partenza,   non  posso  dire  di  rattristarmi,   fin  là  dove   sono     infinitamente triste per la sua partenza. E' ben vero che la tristezza     non è il peggio."
    E il giorno seguente: "Sempre M.,  o non M., ma un principio, una luce     nelle tenebre".  Il 18 gennaio: "Che hai fatto del dono del sesso?  E'     fallito,   si   dirà  infine...   Ma  avrebbe  anche  potuto  riuscire     facilmente... M. ha ragione: la paura è disgrazia...".
    Intorno al 19 gennaio 1922 troviamo un brano nei "Diari" che  è  certo     l'abbozzo  di  una lettera a Milena la quale non fu spedita o non ci è     rimasta: "Da alcune inezie che mi  vergogno  di  citare,  ho  ricavato     l'impressione  che  le  ultime  visite fossero bensì care e belle come     sempre, ma anche un po' fiacche,  un po' forzate,  come le visite agli     ammalati.  E' un'impressione giusta?  Hai trovato nei "Diari" qualcosa     di decisivo contro di me?".
    Il  23  gennaio  le  ha  "parlato  della  notte"  (probabilmente   per     iscritto),  un'altra  volta  analizza un'osservazione di lei sul conto     suo,  a Spindelmuhle nota verso la fine di gennaio: "Se,  per esempio,     M.  arrivasse qua all'improvviso,  sarebbe una cosa spaventevole".  Ma     ciò aumenterebbe in modo cospicuo (vero Kafka,  e  non  da  intendersi     proprio  in  senso  umoristico!)  la  sua reputazione borghese in quel     grazioso luogo di montagna.  Dice altresì che prima è stato felice con     M. a Marienbad (1) e perciò potrebbe esserlo un'altra volta - ma "dopo     il   doloroso   passaggio   del   confine".   La  relazione  va  ormai     allentandosi: "Ciò che prima era nastro divisorio,  adesso è un muro o     una montagna o,  meglio,  una tomba".  Il 6 aprile troviamo un appunto     molto strano: "Progettata lettera a Milena.  Le tre Erinni.  Fuga  nel     boschetto.  Milena".  Nell'aprile  1922  devono  essersi incontrati di     nuovo a Praga (2).
    Questi frammenti sarebbero caratteristici,  ma alquanto esigui,  se in     queste  lettere  non possedessimo tutto il commovente romanzo d'amore,     un'orgia di disperazione,  di beatitudine,  di strazio  e  umiliazione     della  propria  persona.  Per  quanto,  infatti,  essi possano essersi     incontrati ripetutamente,  quest'amore fu in fondo un amore epistolare     come quello di Werther o di Kierkegaard.
    Milena  veniva  da  una vecchia famiglia ceca di Praga,  una di quelle     famiglie che costituirebbero il vero patriziato della  Cecoslovacchia:     il suo cognome,  latinizzato,  appare sulla grande lapide di marmo nel     vecchio municipio di Praga in ricordo  del  fatto  che  uno  dei  suoi     antenati  fu  giustiziato  dagli  Absburgo come patriota boemo dopo la     battaglia   del   Monte   Bianco.   Lei   stessa   sembrava   talvolta     un'aristocratica   del   secolo  sedicesimo  o  diciassettesimo,   una     personalità simile a quelle che Stendhal tolse dalle vecchie  cronache     italiane   e  trasferì  nei  propri  romanzi,   come  la  duchessa  di     Sanseverina o Matilde de  la  Mole:  appassionata,  ardita,  fredda  e     saggia  nelle  decisioni,  ma  senza  scrupoli  nella scelta dei mezzi     quando si trattasse di una esigenza della sua passione - e di siffatte     esigenze si trattò forse sempre nella sua  gioventù.  Come  amica  era     inesauribile,  una  fonte  inesauribile  di  bontà e di aiuti,  la cui     provenienza era spesso misteriosa,  inesauribile però anche nelle  sue     pretese  verso gli amici,  benché tanto a lei quanto agli amici stessi     sembrassero ovvie;  e come amante - qui dovrebbero parlare quei  pochi     uomini che dovevano saperlo,  ma quasi tutti sono ormai defunti.  Ella     si adattava male alla promiscuità erotica e intellettuale  d'un  caffè     di  letterati  a  Vienna  negli  anni  turbolenti  dopo il 1918,  e ne     soffriva.  I suoi anni gloriosi erano  stati  certo  quelli  di  Praga     quando era ancora molto giovane.  Allora fu prodiga di tutto in misura     incredibile: della vita, del denaro,  dei sentimenti - quei sentimenti     che  ella  nutriva  e  quelli  che  le  venivano  ricambiati e che lei     considerava sua proprietà assoluta e liberamente  disponibile.  Eppure     Kafka la chiama "mamma Milena", non senza ragione. Egli dice in queste     lettere  che  lei  "non  può  rendere  infelice" nessuno.  Anche ciò è     verissimo, e non è poco,  dopo gli sfoghi di collera sfrenata che egli     doveva subire e dei cui riflessi tragicomici sono piene le lettere.     Le lettere da Merano,  dove Kafka si trovava in cura, incominciano nel     1920  in  un'atmosfera  puramente  amichevole  di  reciproca  simpatia     personale e professionale. Il male ai polmoni era già diagnosticato.     Se  si guarda poi in quell'abisso di torture inflitte a sé e ad altri,
    di autoaccuse, di angoscia,  dolcezza,  veleno infernale,  dedizione e     fuga,  si  dimentica quasi la sublime commedia che intanto si svolgeva     nello  sfondo  e  per  la  quale  Kafka  stesso,   il  grande   ancora     misconosciuto  umorista  (queste  lettere  ne contengono due deliziosi     esempi,  la storia della mendicante davanti  al  vecchio  municipio  e     l'andata  a scuola con la domestica),  evidentemente non aveva occhi o     non aveva tempo: i colpi che ella vibrava, gli intrighi che ordiva per     raggiungere da innamorata ciò che voleva, e che quasi sempre toccavano     esattamente la meta. L'ultima settimana di Kafka a Merano,  quei sette     giorni  nei quali ella arresta la fuga disordinata dell'uomo già vinto     e lo costringe al viaggio decisivo per Vienna,  dovrebbero offrire una     commedia di spirito impareggiabile, e sia pure spettrale, se - già, se     purtroppo  non  mancasse la parte femminile del dialogo.  Ella non fu,     s'intende, una seduttrice nel senso volgare che volesse sedurre uomini     o magari soltanto quest'uomo,  nel quale venerava un poeta e del quale     aveva intuito il genio molto prima degli altri, nell'ambiente suo e in     quello di lui: ella si mosse perché amava,  e certamente avrebbe agito     nello stesso modo se l'uomo fosse stato uno sciocco  senza  valore.  E     soffriva,  certo  soffriva  profondamente  -  soprattutto  perché  lui     soffriva; poi perché sentiva probabilmente che era l'unica maniera per     arrivare a una specie di colloquio sotterraneo con lui,  come se fosse     bensì possibile toccare un'anima nelle vie quiete e negli alberghi dei     sobborghi  viennesi,  nei  felici  prati estivi e nei boschi intorno a     Vienna  e  a  Gmund,   ma  parlarle  veramente  si  potesse   soltanto     nell'inferno.  E  contrasse  immancabilmente  una  malattia  polmonare     soltanto perché l'aveva lui - oppure se la figurò con la fantasia così     vivamente che già il sangue le usciva di bocca.
    "Tu che vivi vivamente la tua vita fino a tali  profondità":  così  le     scrive  Kafka  una volta in queste lettere e nulla potrebbe essere più     giusto.  In ogni caso non era "destinata a soffrire",  mentre  ciò  si     potrebbe  affermare  per  il  mittente  di  queste  lettere;  se  ella     soffriva,  e soffriva per lui,  ciò era pur sempre una parte della sua     grande  sete  di vita e persino della sua gioia di vivere.  Certo però     non dobbiamo ignorare la tendenza al dolore,  quasi tradizionale nella     donna slava,  almeno in quel periodo ormai storico per noi;  e non per     nulla l'autore preferito da Milena fu Dostoievskij.
    Le due tappe decisive di questa storia d'amore si riscontrano  in  due     sogni  simbolici  che  Kafka  sogna  in  due punti di svolta: l'uno al     principio quando a Merano si rende conto che dovrà recarsi a Vienna da     lei - il sognato incontro davanti alla casa di lei e alla stazione  di     Vienna con gli amici che interloquiscono, si consigliano e disturbano,     e  con  l'atteggiamento,  perfettamente  negativo di Milena (desiderio     evidente, palese, addirittura disperato, del suo subcosciente,  se mai     ci fu sogno tale secondo le teorie freudiane);  l'altro, più profondo,     verso la fine, che illustra la definitiva decisione di troncare questa     storia  d'amore:  il  sogno  in  cui  lui   e   lei   si   trasformano     ininterrottamente  l'uno  nell'altra  e  ad un tempo ardono e spengono     l'incendio.  Come nei libri di Kafka,  anche in questi  due  sogni  il     racconto  simbolico  dice  cose  che non si possono esprimere in altro     modo - non diremo peggio o meno esattamente,  ma in nessuna maniera  -     ed  è il segno del vero simbolo (in antitesi all'allegoria,  come nota     Max Brod nella sua biografia di Kafka). Qui, del resto, trovo anche la     prova più convincente di quella mia opinione che sempre mi si affaccia     da decenni, da quando conosco le opere di Kafka: che egli cioè, almeno     in germe,  "sognava" le sue opere,  vale  a  dire  che  il  suo  genio     funzionava  e lavorava nel suo specifico realismo di sognatore,  nella     sua specifica densità e logica di sognatore, e persino in tutta la sua     architettura o tessitura, essenzialmente alla maniera del "sogno", non     già nel senso indeterminato del "sognare che fanno i poeti", bensì nel     senso concreto dei veri grandi sognatori nella  letteratura  mondiale,     come  potevano essere Quevedo o più ancora Swedenborg (nel suo "Diario     dei sogni");  la qual cosa però non esclude l'azione  di  un  geniale,     incomparabile,  profondo ordinamento di questi elementi di sogno nella     coscienza dello scrittore, per cui essi ricevono il loro "significato"     definitivo, non parafrasabile, veramente simbolico.  Certo è che sullo     svolgimento  di questa storia sentimentale non si potrebbe dire niente     di così profondo né di approssimativamente così  preciso  come  questi     due sogni al principio e alla fine.
    In  genere  la  cosa  strana  e  inquietante in tutto ciò che Kafka ha     prodotto,  e anche in queste lettere,  è il fatto che sono perfette in     tutto  ciò  che  vogliono  dire  e  che  dicono,   perfette  nel  loro     simbolismo,   nella  forma  -  quasi  epigrammatica  -  (persino  dove     esprimono  il  più  straziante dissidio),  perfette nelle loro linee e     sfumature,  nei colori,  nei punti e nelle  virgole  e  in  tutti  gli     accenti - cosa che il genio di Kafka, eternamente insoddisfatto di sé,     stranamente  ignorava:  che cioè non si può dire nulla al di là di ciò     che è detto; se mai,  qualcosa contro.  Per me è sempre stato un fatto     impressionante  e  caratteristico  che  Kafka  sia stato l'unico genio     europeo il quale realmente e  fuori  d'ogni  dubbio  abbandonò  questo     mondo   con   un  paradosso  brillante  e  formulato  con  la  massima     precisione, con una realmente "ultima parola": allorché si trovò a non     poter più sopportare i dolori, rammentò al dottor Klopstock, suo amico     e medico, la promessa di fargli un'iniezione mortale di oppio,  quando     si fosse arrivati a quel punto; e siccome il medico esitava, Kafka gli     disse:  "Mi  uccida  -  o  lei  è  un  assassino!".  Chi  tranne  lui,     nell'ultima agonia dello  strazio  fisico,  sarebbe  stato  capace  di     lanciare  in  aria  una simile folgore infocata (sia che ciò piaccia o     non piaccia)?  In ogni parola scritta da  Kafka,  e  anche  in  queste     lettere,  si  avverte quanto essa sia precisa,  accentuata,  compiuta,     significativa.  Lo stesso vale per altri elementi di  queste  lettere.     Possono davvero il tormento, l'odio contro se stesso, l'autoaccusa, il     dissidio  trovare  una  forma  così  perfetta,   analitica,  plastica,     poetica, metafisica,  se sono davvero i tormenti più acuti e mortali -     o  non nascondono piuttosto il desiderio di liberarsi di una donna con     la quale egli non può più continuare a vivere senza vergogna (o  senza     ciò  che  egli  considera  vergogna)?  Anche qui Kafka,  in un momento     decisivo,  prima del secondo convegno (a Gmund),  si  è  espresso  con     chiarezza  e perfezione simbolica: nella lettera nella quale definisce     la sessualità  addirittura  come  "negromanzia"  -  concetto  che  era     certamente  molto  estraneo  a  Milena  se amava ardentemente un uomo,     anche se per amore  di  lui  può  aver  parlato  di  queste  cose  con     disprezzo.  Il  delicato problema sessuale è formulato con sufficiente     chiarezza nei libri di Kafka,  particolarmente nel più  profondo,  "Il     Castello",  al quale stava proprio lavorando in quegli anni,  e non ha     bisogno di ulteriori delucidazioni (3).  Ma se talvolta  -  e  persino     spesso  -  abbiamo  l'impressione  che  Milena  faccia  qui una figura     migliore, più retta,  più sana,  più umana di lui - ed egli certamente     ci  approverebbe  senza  riserve  - non dobbiamo però dimenticare che,     nonostante il suo modo geniale di vivere,  ella non poteva  certamente     respirare  nell'aria  di  lui  rarefatta e piena di altissima tensione     elettrica;  che lo poté bensì scuotere dal  profondo  e,  se  vogliamo     credere   alle  lettere  di  lui,   gli  donò  una  nuova  vita,   che     indubbiamente però molte volte lo rese soltanto nervoso,  e che un po'     di  sonno  finì  col  diventargli  più  importante di tutte le lettere     appassionate di lei. E non dimentichiamo che nelle lettere di Kafka la     sua terribile smania di  straziare  se  stesso  è  bilanciata  da  una     potenziata  e  altrettanto  giustificata consapevolezza di sé.  Le due     cose si uniscono nella strana frase con la quale chiede amore  per  la     sua  angoscia (per nient'altro e soltanto per questa): "questa è in me     degna d'amore" dice;  nient'altro.  Quando va troppo oltre in  qualche     direzione,  quando,  per esempio,  al principio e poi ancora alla fine     descrive se stesso come un essere che si avvoltola  nel  lezzo  e  nel     sudiciume  (atteggiamento  che  per  me  è  troppo  primitivo,  troppo     semplice perché  gli  possa  credere  senz'altro),  non  è  necessario     seguirlo.  "Amore  è  il fatto che tu sei per me il coltello col quale     frugo dentro di me": così si dice quando  si  vorrebbe  farla  finita;     eppure  pochi  mesi prima era vero esattamente il contrario.  Un'altra     volta dice: "Talora credo di capire il peccato originale  come  nessun
    altro al mondo". Ciò è forse vero in quanto egli evidentemente sentiva     ogni peccato come peccato originale,  dal quale si può soltanto essere     (ma non si è) "redenti",  che però non si può  evitare  o  addirittura     riparare:  o  dove,  nella  gerarchia celestiale e infernale delle sue     opere, potremmo trovare un passo che ammetta la possibilità di evitare     un peccato o di ripararlo? Così poté benissimo terminare questa storia     d'amore,  come le sue  precedenti,  in  un  modo  che  avrebbe  potuto     inferire un colpo decisivo per tutta la vita a un'amante appassionata,     di  vitalità  inferiore  a  quella  di  Milena,   senza  offrirle  per     consolazione niente più dei  propri  rimorsi,  del  proprio  tormento,     della  propria  smodata,  infinita umiliazione e accusa di se stesso -     all'incirca come fece Kierkegaard con Regina Olsen, e certamente per i     medesimi motivi ad un  tempo  enormemente  complicati  ed  enormemente     semplici.  Che  alla  fine  si siano trovati d'accordo nel pensare che     "ella  amava  troppo  suo  marito  per  abbandonarlo",  fu  certo  una     soluzione  semplice  e a portata di mano,  dalla quale nessuno dei due     doveva sentirsi troppo ferito nella propria vanità: ella  molte  volte     aveva lasciato solo suo marito in epoca precedente e lo lasciò solo in     seguito, come anche viceversa.
    "Devo  confessare"  dice  a un certo punto Kafka verso la fine "che un     giorno ho invidiato molto un tale perché era  amato,  in  buone  mani,     protetto  dall'intelligenza  e dall'energia e giaceva tranquillo sotto     una coltre di fiori.  Io sono sempre portato  all'invidia".  Kafka  ha     trovato  questa  invidiabile  felicità  alla  fine della vita prima di     "giacere sotto i fiori".  La sua fine fu più felice e tranquilla della     sua avvampante e morente passione per Milena.
    Sulla  fine di Milena ci dà notizia la signora Margarete Buber-Neumann     nel suo libro di memorie: "Prigioniera di Stalin e  Hitler".  Ella  fu     compagna  di pena di Milena nel campo di concentramento di Ravensbruck     dove entrambe furono  incarcerate  insieme  con  prostitute  e  comuni     delinquenti amburghesi.
    La Buber-Neumann subì,  come tutti,  il fascino umano di Milena, anche     negli anni quando questa non era più giovane e si  era  fatta  un  po'     corpulenta  Ella racconta: "Fin dalla prima ora Milena e io diventammo     amiche e tali restammo per la vita e per la morte  nei  quattro  amari     anni  del campo.  Ringrazio la sorte di avermi portata a Ravensbruck e     di avervi incontrato Milena. Fin dal primo giorno,  appena guardavo il     suo  viso  sofferente,  ero  presa  da una sorda angoscia.  Era venuta     ammalata  dal  carcere  preventivo  di  Dresda.  Pensava  che  fossero     reumatismi.  Aveva  le  mani gonfie,  era sempre dolorante,  pativa il     freddo, nei cenci del campo, durante gli appelli che duravano ore, non     riusciva a scaldarsi di notte sotto le coperte troppo leggere.  Ma era     una  creatura  forte  e  trovava  sempre  il  modo di dissipare le mie     apprensioni.  Ancora nel 1940  era  salda,  piena  di  coraggio  e  di     iniziative,  lontanissima  dalla mentalità dei detenuti...  Milena non     divenne mai una detenuta,  non poteva diventare ottusa e brutale  come     tanti altri...".
    Milena  sfuggì  davvero  ai  "trasporti  di  ammalati"  che  portavano     direttamente nelle camere a gas e nei crematori.  "Provai un terribile     spavento  che dovesse morire" narra ancora Margarete Buber.  "Udivo la     sua voce quando la sera singhiozzava  sul  pagliericcio:  'Oh  potessi     esser  morta senza dover morire...  Non lasciarmi crepare sola come un     cane...'. Fintanto che rimasi accanto a lei e dovetti confortarla,  io     stessa credetti che avrebbe riveduto la libertà e la guarigione. Nella     tenebra  della cella divenni a un tratto chiaroveggente e compresi che     era irrimediabilmente perduta."
    Milena si tenne su ancora qualche tempo per paura  dei  "trasporti  di     ammalati" e delle "iniezioni" con le quali si uccidevano i detenuti.     Morì   il   17   maggio  1944  dopo  un'operazione  ai  reni  eseguita     evidentemente troppo tardi.  "In quel punto la vita non ebbe più senso     per me" dice Margarete Buber.
    Il  10  luglio  arrivò nel campo la notizia dell'invasione felicemente     riuscita.  "A che continuare a vivere,  se Milena ha  dovuto  morire?"     così  la  Buber-Neumann  chiude  i  suoi  ricordi degli ultimi anni di     Milena.  "Quando era ancora  viva,  la  libertà  significava  rivedere     insieme  con  lei  la  prima città,  rimettere piede insieme nel primo     bosco..." La libertà arrivò troppo tardi per Milena.
    "Et hoc meminisse juvabit".

    Troisdorf (Renania), maggio 1952.
    Willy Haas. 

    Lettere e Milena.

    Merano-Maia Bassa, Pensione Ottoburg.

    Cara signora Milena,     da Praga Le scrissi un biglietto e un altro da Merano.  Non  ho  avuto     alcuna risposta.  I biglietti,  è vero,  non richiedevano una risposta     particolarmente rapida,  e se il Suo silenzio non è che un indizio  di     condizioni  di salute relativamente buone,  le quali,  si sa,  trovano     spesso la loro espressione  nella  ripugnanza  a  scrivere,  sono  ben     contento.  Ma  può  anche  darsi  - e per questo scrivo - che nei miei     biglietti  io   L'abbia   in   qualche   modo   urtata   (quale   mano     involontariamente  grossolana  avrei,  se fosse così!) o,  cosa ancora     molto peggiore,  che quel momento di respiro tranquillo  e  sollevato,     del  quale mi ha scritto sia già passato e di nuovo sia giunto per Lei
    un periodo cattivo. Nella prima eventualità non saprei che dire, tanto     la cosa mi è lontana e tanto vicino  tutto  il  resto,  nella  seconda     eventualità  non  do consigli - come potrei consigliare?  - ma domando     soltanto: Perché non si allontana un poco da Vienna?  Lei non è  senza     patria come altre persone. Un soggiorno in Boemia non Le darebbe nuova     energia?  E  se  per  qualche ragione,  che io non conosco,  non vuole     andare  in  Boemia,  potrebbe  andare  altrove,  forse  Merano  stessa     andrebbe bene. La conosce?
    Aspetto dunque due cose.  O ancora silenzio che vorrebbe dire: "Niente     apprensioni, sto proprio bene". O invece alcune righe.
    Molto cordialmente.
    Kafka.

    Mi  viene  in  mente  che  non  riesco  a  ricordare  nessun   preciso     particolare  del Suo viso.  Vedo ancora soltanto come Lei si allontanò     poi tra i tavolini del caffè, la Sua figura, il Suo abito.


    Cara signora Milena,
    Lei si affatica intorno alla traduzione nel fosco mondo viennese.  Ciò     è  in  qualche modo commovente e per me umiliante.  Penso che da Wolff     (4) dovrebbe aver già ricevuto una lettera,  almeno egli me ne scrisse     parecchio  tempo  fa.  Una  novella  "Assassini",  che  sarebbe  stata     annunciata in un catalogo,  non l'ho mai scritta,  è un malinteso;  ma     siccome sarebbe la migliore, facciamo conto che sia esatto.     Secondo la Sua ultima e la penultima lettera pare che l'inquietudine e     l'apprensione L'abbiano lasciata libera del tutto e definitivamente, e     ciò riguarda probabilmente anche Suo marito,  come auguro cordialmente     a entrambi.  Ricordo un pomeriggio domenicale di  anni  fa,  camminavo     quatto quatto per il Franzensquai lungo i muri delle case, e incontrai     Suo  marito,  che  mi  veniva incontro non molto più pomposamente: due     specialisti del mal di capo, ciascuno però a modo suo. Non ricordo più
    se poi proseguimmo insieme o  passammo  l'uno  accanto  all'altro,  la     differenza  fra  queste  due  possibilità  non deve essere stata molto     grande. Ma ciò è passato e deve restare in fondo al passato.  E' bella     la Sua Casa?
    Saluti cordiali.
    Suo Kafka.


    Merano-Maia Bassa, Pensione Ottoburg.

    Cara signora Milena,     la  pioggia  che  durava  da  due giorni e una notte è appena cessata,     forse soltanto provvisoriamente,  ma certo è un avvenimento  degno  di     essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei. Del resto anche la     pioggia  era  sopportabile,  qui  infatti siamo all'estero,  un estero     piccolo, sì, ma fa bene al cuore. Anche Lei,  se la mia impressione fu     esatta  (non  è  facile  dar  fondo  al  ricordo di un breve convegno,     isolato,  quasi  muto),   ha  avuto  piacere  di  trovarsi  a  Vienna,     all'estero,   che  poi  si  sarà  magari  offuscato  in  seguito  alle     condizioni generali,  ma Le fa piacere l'estero come  tale?  (La  qual     cosa  del  resto  sarebbe  forse  un  brutto  segno,  mentre  non deve     esserlo.)
    Qui vivo molto bene,  più cure di così il corpo mortale  difficilmente     potrebbe  sopportare,  il  balcone  della mia camera è affondato in un     giardino, circondato,  ricoperto da cespugli in fiore (strana è questa     vegetazione,  con un tempo che a Praga fa quasi gelare le pozzanghere,     davanti al mio balcone sbocciano lentamente i fiori),  e tutto esposto     al  sole  (o  almeno  al  cielo  annuvolato,  come  ormai da quasi una     settimana). Lucertole e uccelli, coppie disuguali, vengono a trovarmi.     Le augurerei tanto di stare a Merano,  recentemente Lei mi scrisse  di     non  poter  respirare,  l'immagine  e  il significato si toccano e qui     l'uno e l'altro potrebbero trovare un po' di sollievo.
    Con cordialissimi saluti.
    Suo F. Kafka.


    Dunque, i polmoni.  Tutto il giorno l'ho rigirata in testa senza poter     pensare  ad  altro.   Non  che  mi  sia  molto  spaventato  del  male,     probabilmente e come è  da  sperare  -  le  Sue  allusioni  sembra  lo     confortino  -  esso si manifesta in Lei con delicatezza,  e persino la     vera malattia polmonare (metà dell'Europa occidentale ha polmoni più o     meno difettosi), che io so di avere da tre anni, mi ha recato più bene     che male.  Circa tre anni sono incominciò per  me  di  notte  con  uno     sbocco di sangue. Mi alzai agitato, come avviene a ogni novità (invece     di  rimaner coricato come mi fu prescritto in seguito),  e certo anche     un po' spaventato,  andai  alla  finestra,  mi  sporsi,  avvicinai  al     lavabo,  girai  per  la  camera,  mi misi a sedere sul letto - sangue,     sempre sangue.  Ma non ero niente afflitto,  poiché per un determinato     motivo  compresi  a  poco  a  poco  che  dopo tre,  quattro anni quasi     insonni,  premesso che il sangue cessasse,  avrei finalmente  dormito.     Cessò  infatti  (e  da  allora  non  ritornò più) e dormii il resto di     quella notte.  Al mattino venne bensì la domestica (abitavo allora nel     palazzo  Sch”nborn),  una  buona  ragazza,  piena  di abnegazione,  ma     estremamente obiettiva, che visto il sangue esclamò: "Pane. doktore, s     V mi to dlouho nepotrv " (5).  Ma mi sentivo meglio del solito,  andai     in ufficio e soltanto nel pomeriggio dal medico. Il resto della storia     non  ha  qui  alcuna  importanza.  Volevo  dire  soltanto:  Non la Sua     malattia mi ha spaventato  (tanto  più  che  continuamente  mi  faccio     obiezioni,  giro  e  rigiro  il  ricordo,  riconosco sotto all'aspetto     delicato la freschezza quasi campagnola e stabilisco: no,  Lei  non  è     malata,  un avvertimento,  ma non una malattia di polmoni), non questo     dunque mi ha spaventato,  bensì il  pensiero  di  ciò  che  deve  aver     preceduto  codesto  disturbo.  E  qui  prescindo anzitutto dagli altri     particolari nella Sua lettera,  come: non un centesimo - il tè  e  una
    mela  -  ogni  giorno dalle 2 alle 8 - cose che non riesco a capire ed     evidentemente si possono spiegare soltanto a voce. Prescindo dunque da     ciò (ma soltanto in questa lettera, poiché son cose che non si possono     dimenticare) e penso solamente alla spiegazione del male che escogitai     allora per il caso mio,  e che si conviene  a  molti  casi.  Ecco,  il     cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori che     gli  erano  imposti.  Diceva:  "Non  ne  posso  più;  ma se c'è ancora     qualcuno cui importi di conservare il totale,  mi tolga un po' del mio     peso, e si potrà campare ancora un tantino". Allora si fecero avanti i     polmoni che,  tanto,  non avevano molto da perdere.  Queste trattative     fra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa,  devono     essere state spaventevoli.
    E Lei che farà ora?  Probabilmente è cosa da nulla,  purché la si curi     in poco.  E chiunque Le voglia bene deve capire che si deve  avere  un     po' cura di Lei.  Ogni altra cosa va trascurata. Dunque, anche qui una     redenzione?  Dicevo sì - no,  non voglio scherzare,  non sono  affatto     allegro  e non lo sarò finché Lei non mi abbia scritto come intende di     regolare in modo più sano il Suo tenore di vita.  Dopo la  Sua  ultima     lettera non domando più perché non lascia un po' Vienna,  ora capisco,     ma anche nelle immediate vicinanze di Vienna ci  sono  bei  luoghi  di     soggiorno  e  vari modi di aver cura di Lei.  Oggi non scrivo d'altro,     non c'è nulla di più importante da esporre.  Tutto il resto a  domani,     anche  i ringraziamenti per il fascicolo che mi commuove e umilia,  mi     rattrista e mi fa piacere.  Cioè,  oggi ancora una cosa: Se Lei dedica     un  sol  minuto  del  Suo sonno al lavoro di traduzione,  è come se mi     maledicesse.  Qualora infatti si  dovesse  un  giorno  arrivare  a  un     processo,  non  si  perderà  tempo  in  altre indagini ma si stabilirà     soltanto:  egli  Le  ha  tolto  il  sonno.  Così  sarò  condannato,  e     giustamente.  Combatto  dunque  in mio favore se La prego di non farlo     più.
    Suo Franz K.


    Cara signora Milena,     oggi voglio scrivere di altre cose,  ma le cose non vogliono.  Non che     io le prenda proprio sul serio; se lo facessi, scriverei diversamente,     ma  ogni  tanto ci dovrebbe essere pronta per Lei,  nella penombra del     giardino,  una sedia a sdraio con una diecina di bicchieri di latte  a     portata delle Sue mani.  Potrebbe essere anche a Vienna, tanto più che     siamo in estate, ma senza fame e inquietudine. Non è possibile?  E non     c'è nessuno che lo renda possibile? E che dice il medico?     Quando  trassi  il fascicolo dalla grande busta,  restai quasi deluso.     Desideravo udire notizie Sue e non la troppo  nota  voce  dal  vecchio     sepolcro.  Perché si è inserita fra di noi? Ma poi mi ricordai che fra     di noi aveva fatto anche da mediatrice.  Del resto non riesco a capire     come  mai  Lei  si  sobbarcata  a  codesta  grande fatica,  e molto mi     commuove il pensiero della  fedeltà  con  la  quale  l'ha  fatto,  una     frasetta dopo l'altra,  una fedeltà che non avrei sospettato possibile     nella lingua ceca,  né giustificata dalla  bella  naturalezza  con  la     quale Lei la usa. Sono così vicini il tedesco e il ceco? Comunque sia,     in  ogni  caso  il racconto è pessimo;  con la massima facilità glielo     potrei dimostrare,  cara  Signora  Milena,  quasi  riga  per  riga,  e     soltanto  il disgusto vi sarebbe un po' più forte della dimostrazione.     Il fatto che il  racconto  le  piaccia  gli  conferisce  beninteso  un     valore,  ma  per me turba un po' la visione del mondo.  Non parliamone     più. Riceverà "Il medico di campagna" da Wolff, al quale ho scritto.     Certo che capisco il ceco.  Già un  paio  di  volte  volevo  chiederLe     perché  non  scrive in ceco.  Non che Lei non sia padrona del tedesco.     Per lo più ne è padrona in modo stupefacente e,  se qualche volta  non     lo è, esso si piega davanti a Lei spontaneamente e diventa più che mai     bello;  cosa  che un tedesco non osa nemmeno sperare dalla sua lingua,     perché non osa scrivere in modo così personale.  Ma vorrei leggere uno     scritto  Suo  in  ceco,  perché  a  questo Lei appartiene,  perché qui     soltanto è tutta Milena (la  traduzione  lo  conferma),  mentre  là  è     sempre e soltanto quella di Vienna o che per Vienna si prepara. Dunque     in  ceco,  per  favore.  E  anche  le appendici delle quali mi scrive.     Poniamo  pure  che  siano  meschine,  ma  Lei  ha  avuto  il  coraggio     d'ingolfarsi  anche nella meschinità del racconto,  fin dove?  non so.     Forse ne sono capace  anch'io  ma  se  non  lo  fossi  vuol  dire  che     m'incaglierò nel migliore dei pregiudizi.
    Lei mi chiede notizie del mio fidanzamento. Fui fidanzato due volte (o     diciamo tre, cioè due volte con la stessa ragazza), dunque tre volte a     pochi  giorni  di  distanza  dal  matrimonio.  La prima è cosa passata     (esiste già un nuovo matrimonio e,  a quanto mi dicono,  c'è anche  un     bambino),  la seconda vive ancora,  ma senza alcuna speranza di nozze,     dunque a rigore non vive o,  meglio,  vive una vita autonoma a  carico     altrui. In complesso ho visto qui e altrove che l'uomo soffre forse di     più  o,  se  vogliamo,  ha  minore resistenza,  mentre invece la donna     soffre sempre senza colpa, e non già per "non averci colpa", bensì nel     senso vero e proprio,  che però va forse di nuovo a sfociare nel  "non     averci colpa".  D'altro canto è inutile riflettere su queste cose.  E'     come si volesse sforzarsi a rompere una sola caldaia nell'inferno:  in     primo luogo non ci si riesce e in secondo luogo, se la cosa riesce, si     brucia nella massa incandescente che si riversa, ma l'inferno continua     in tutto il suo splendore. Bisogna prendere la cosa diversamente.     Anzitutto,  in  ogni  caso,  sdraiati  in  un  giardino e trarre dalla     malattia,  specialmente  quando  non  è  veramente  tale,  la  maggior     dolcezza possibile. Essa ne contiene molta.
    Suo Franz K.


    Cara  signora  Milena,  prima di tutto,  affinché Lei non lo ricavi da     questa lettera senza ch'io voglia: da circa quindici giorni soffro  di     un'insonnia che va sempre peggiorando; per principio non me la prendo,     questi periodi vengono e vanno e hanno sempre più cause del necessario
    (secondo  il  Baedeker  può essere - tutto da ridere - anche l'aria di     Merano),  e anche se talvolta sono  quasi  invisibili,  in  ogni  caso     queste  cause  rendono  ottusi  come  pezzi di legno e irrequieti come     animali della foresta.
    Ho però una soddisfazione.  Lei ha dormito  tranquilla  benché  ancora     "stranamente",  benché  fino  a  ieri  "sconcertata",  ma  ha  dormito     tranquilla.  Quando dunque di notte il sonno mi passa davanti,  so  la     via che prende,  e accetto.  D'altro canto sarebbe sciocco ribellarsi,     il sonno è l'essere più innocente che ci sia e l'uomo insonne  il  più     colpevole.
    E Lei,  nella Sua ultima lettera,  ringrazia quest'uomo insonne! Se un     estraneo, ignaro di tutto, leggesse ciò,  dovrebbe pensare: "Che uomo!     In questo caso si direbbe che abbia spostato montagne".  Invece non ha     fatto niente,  non ha mosso un dito (tranne quello col quale  scrive),     si  nutre  di  latte  e  cose  buone:  senza vedere sempre (e sia pure     spesso) "tè e mele" davanti a sé,  e per il resto lascia che  le  cose     vadano per la loro china e che le montagne rimangano al loro posto. Sa     la  storia  del  primo  trionfo  di  Dostoievskij?  E'  una storia che     riassume molte cose e che inoltre cito soltanto per comodità e per  il     grande  nome,  perché  una  storia  della  stanza attigua o più vicino     ancora avrebbe la medesima importanza.  Del resto la conosco  soltanto     approssimativamente,  e  non parliamo dei nomi.  Quando scrisse il suo     primo romanzo "Povera gente" Dostoievskij  viveva  con  Grigoriev,  un     letterato  suo  amico.  Questi  vide per mesi i numerosi fogli scritti     sulla tavola,  ma ricevette il manoscritto solo quando il  romanzo  fu     terminato. Lo lesse, ne rimase entusiasta e senza dir nulla all'autore     lo portò a Nekrassov,  il critico allora famoso. Nella notte seguente,     alle tre, si sente suonare alla porta di Dostoievskij.  Sono Grigoriev     e Nekrassov che si precipitano nella stanza, abbracciano e baciano D.;     Nekrassov,  che  fino  a  quel  momento  non  lo conosceva,  lo chiama     Speranza  della  Russia,  passano  una  o  due  ore  in  discorsi  che     riguardano  principalmente il romanzo e soltanto verso l'alba prendono     commiato. Dostoievskij,  che ha sempre considerato quella notte la più     felice  della  sua  vita,  s'appoggia  al  davanzale,  li segue con lo     sguardo,  non riesce a dominarsi e si mette a piangere.  Il suo  primo     sentimento,  che  egli  stesso  ha  descritto  non  so  più dove,  era     all'incirca questo:  "Che  uomini  meravigliosi!  Come  sono  buoni  e     nobili! Come sono invece volgare io stesso! Se potessero vedere dentro     di me!  Ma se glielo dico non ci credono". Che poi Dostoievskij si sia     anche proposto di gareggiare con  loro,  è  soltanto  un  fronzolo,  è     l'ultima parola che l'invincibile giovinezza deve avere,  e non fa più     parte della mia storia, la quale dunque è terminata.  Ha notato,  cara     signora Milena, il lato misterioso, impenetrabile all'intelligenza, di     questo racconto?  Sarebbe,  credo,  questo: Grigoriev e Nekrassov, per     quanto se ne possa parlare in generale,  non erano certo più nobili di     Dostoievskij,  ma ora lasci stare la visione generale,  che nemmeno D.     pretendeva in quella notte e che  nel  caso  singolo  a  nulla  giova,     ascolti  soltanto  Dostoievskij  e  si  convincerà che Gr.  e N.  sono     davvero meravigliosi,  D.  invece impuro,  infinitamente volgare,  che     naturalmente  egli non raggiungerà mai Gr.  e N.  neanche da lontano e     men che meno si arriverà mai a compensare il loro enorme e  immeritato     beneficio. Par quasi di vederli dalla finestra, mentre si allontanano,     e  così fanno capire di essere inavvicinabili.  Purtroppo l'importanza     del racconto è cancellata dal grande nome di Dostoievskij.  Dove mi ha     portato  l'insonnia?  Certamente  a nessuna cosa che non sia detta con     ottime intenzioni.
    Suo Franz K.


    Cara signora Milena,     soltanto poche parole,  probabilmente Le scriverò ancora domani,  oggi     scrivo  soltanto  per me,  soltanto per dire di avere fatto qualcosa a     mio vantaggio,  per allontanare un po' da me l'impressione  della  Sua     lettera,  che  altrimenti  mi  starebbe addosso giorno e notte.  Lei è     molto strana,  Signora Milena,  vive costì a Vienna,  deve  sopportare     diversi  inconvenienti  e trova ancora il tempo di stupirsi che altri,     io per esempio,  non stiano molto bene e che io una notte dorma un po'     peggio della precedente. In questo punto le mie tre amiche di qui (tre     sorelle,  di  cinque  anni  la  maggiore)  avevano  una concezione più     ragionevole;  ad ogni occasione,  fossimo  o  no  in  riva  al  fiume,     volevano buttarmi nell'acqua,  ma non già perché avessi fatto loro del     male,  tutt'altro.  Quando gli adulti fanno queste minacce ai bambini,     si  tratta  beninteso  di  scherzi  affettuosi che significano press'a     poco: adesso per celia diremo le cose più inverosimili che si  possano     dire.  I bambini invece,  sono seri e non conoscono l'impossibile.  Se     dieci volte non riescono a buttar giù,  non perciò saranno convinti di     non  dover  riuscire la volta seguente,  anzi non ricordano nemmeno di     aver fallito nei dieci casi precedenti.  I bambini fanno paura  quando     le  loro  parole e le intenzioni sono cariche del sapere degli adulti.     Quando una piccola così,  di quattro anni,  che sembra  sia  al  mondo     soltanto  per  essere baciata e stretta al petto,  pur essendo robusta     come un orsacchiotto,  e ancora un po' panciuta fin dal tempo  in  cui     poppava,  si  slancia  contro  di uno e le due sorelle le prestano man     forte,  a destra e a sinistra,  e dietro di lui c'è già il parapetto e     il  gentile  babbo  delle  bambine  e  la bella,  dolce e grossa mamma     (presso la carrozzina del suo quarto) sorridono da  lontano  a  quella     scena  e non intendono affatto di accorrere in suo aiuto,  si può dire     che è quasi finita ed è quasi impossibile descrivere come lui  si  sia     salvato.  Bambine  ragionevoli o presaghe mi volevano buttar giù senza     alcun motivo particolare,  forse perché  mi  consideravano  superfluo,     eppure non conoscevano nemmeno le Sue lettere e le mie risposte.     Quel  "detto  con  ottime  intenzioni" della mia ultima lettera non La     deve spaventare. Era un periodo, un periodo qui non isolato d'insonnia     completa,  avevo scritto il racconto,  quel racconto pensato più volte     in  relazione  a  Lei,  ma  quando l'ebbi terminato non riuscivo più a     capire esattamente, fra la tensione delle due tempie,  perché l'avessi     raccontato.  Inoltre  la  massa di ciò che avevo voluto dirLe là fuori
    sul balcone nella sedia a sdraio era  ancora  informe  sicché  non  mi     rimase  altro  che  richiamarmi  al  sentimento fondamentale,  e anche     adesso non saprei agire molto diversamente.
    Lei possiede tutto ciò che di mio fu pubblicato, tranne l'ultimo libro     "Il medico di campagna",  una raccolta di brevi racconti che Wolff  le     manderà; almeno così gli ho scritto una settimana fa. Nulla è in corso     di  stampa  e non saprei che cosa potrebbe seguire.  Tutto ciò che Lei     farà dei libri e delle traduzioni sarà ben fatto,  peccato che  questi     non  mi siano più preziosi affinché la consegna nelle Sue mani potesse     veramente esprimere la fiducia che ho in Lei. Per contro sono lieto di     poter fare davvero un piccolo sacrificio con alcune  osservazioni  sul     "Fochista",  da  lei  desiderate;  sarà  come  pregustare  quella pena     dell'inferno che consiste nel ripassare la propria vita  con  l'occhio     della  conoscenza,  dove  il  peggio  non  è la visione degli evidenti     misfatti, ma quella dei fatti che un giorno si sono creduti buoni!     Nonostante tutto però lo scrivere è un bene,  ora sono più  calmo  che     due  ore fa con la Sua lettera,  là fuori sulla sedia a sdraio.  Stavo     coricato e a un passo da me un insetto era caduto sul  dorso  (6),  ed     era disperato di non potersi rizzare;  volentieri l'avrei aiutato, era     facile aiutarlo,  si poteva recargli aiuto con  un  passo  e  con  una     piccola spinta, ma lo dimenticai per via della Sua lettera, non potevo     neanche  alzarmi,  soltanto  una  lucertola richiamò la mia attenzione     sulla vita intorno a me, il suo cammino la portò sopra l'insetto ormai     immobile, non era stato dunque, pensai,  un infortunio,  ma un'agonia,     il   raro   spettacolo   della   morte  naturale  di  una  bestia:  ma     scivolandogli addosso, la lucertola lo raddrizzò, sicché stette ancora     un istante fermo,  come morto,  e poi s'arrampicò di corsa su  per  il     muro  della casa,  come niente fosse.  Ciò m'infuse in qualche modo un     po' di coraggio, mi alzai, bevetti il latte e scrissi a Lei.
    Suo Franz K.


    Domani Le manderò le osservazioni che del  resto  saranno  pochissime,     per  parecchie  pagine  niente,  la ovvia verità della traduzione,  se     scrollo da me ciò che è ovvio,  mi appare sempre  stupefacente;  quasi     mai  un  malinteso,  che  poi  non  sarebbe  gran cosa,  ma sempre una     comprensione energica e  decisa.  Non  so  però  se  i  cechi  non  Le     rinfacceranno  la  fedeltà,  che  è  per  me la cosa più amabile nella     traduzione (e neanche per amor del racconto, ma per me);  il mio senso     della  lingua  ceca  (anch'io  ce  l'ho  a  modo  mio),  è  pienamente     soddisfatto,  ma estremamente prevenuto.  In ogni  caso,  se  qualcuno     glielo  dovesse rimproverare,  cerchi di equilibrare la mortificazione     con la mia gratitudine.


    Cara signora Milena,
    (già,  l'intestazione diventa molesta,  ma è una di quelle  mosse  del     mondo incerto alle quali i malati possono aggrapparsi, e il momento in     cui  le  mosse  diventano  loro  moleste  non  è  ancora  una prova di     guarigione) non sono mai vissuto in mezzo a gente tedesca,  il tedesco     è la mia lingua materna e perciò mi è naturale,  ma il ceco mi sta più     nel cuore, perciò la Sua lettera infrange parecchie incertezze,  io la     vedo  più  distintamente,  i  movimenti  del corpo,  delle mani,  così     rapidi,  così risoluti,  è quasi un incontro,  ma certo quando  voglio     alzare  gli  occhi  fino  al  Suo  viso,  ecco nel corso della lettera     sprigionarsi fuoco - quale faccenda! - e non vedo altro che fuoco.     Ciò potrebbe indurre a credere nella legge  della  Sua  vita,  da  Lei     formulata.  Va  da sé che Lei non voglia essere compianta per la legge     alla quale pretende di sottostare,  poiché la formulazione della legge     non è che pura superbia e presunzione ("j  jsem ten ktery plat¡") (7),     è  vero  che  le  prove  date  da  Lei  per  la  legge non sono più da     discutere,  non si può che baciarLe la mano in silenzio.  In quanto  a     me,  io credo nella Sua legge, ma non credo che essa sovrasti alla Sua     vita così nettamente crudele e caratteristica per sempre, è,  sì,  una     conoscenza,  ma  soltanto  una  conoscenza  in  cammino e il cammino è     infinito.
    Ma prescindendo da ciò è pauroso per l'intelligenza terrena e limitata     d'un uomo vedere Lei nella serra surriscaldata nella quale  vive.  Ora     voglio parlare soltanto di me.  Se possiamo considerare l'insieme come     un compito di scuola,  Lei possedeva di fronte a me  tre  alternative.     Poteva,  per  esempio,  non  dirmi niente di Lei,  e allora mi avrebbe     tolto la felicità di conoscerLa  e,  ciò  che  vale  ancor  più  della     felicità,  il  modo  di  sperimentarvi  me  stesso.  Dunque non doveva     tenermelo nascosto.  Poi poteva tacere alcune  cose  o  abbellirle,  e     ancora  potrebbe farlo,  ma nella situazione presente me ne accorgerei     anche se non lo dicessi,  e ciò mi farebbe doppiamente  male.  Dunque,     Lei non deve agire neanche così. Rimane soltanto la terza possibilità:     cercar  di  salvare  un  poco  se  stessa.  Una  lieve  possibilità si     manifesta infatti nelle Sue lettere.  Spesso leggo parole di  calma  e     fermezza,  spesso però anche,  almeno per il momento,  di altre cose e     infine addirittura: "reelni hruza" (8).
    Ciò che Lei dice della sua salute (la mia è buona, soltanto il sonno è     cattivo nell'aria di montagna) non mi basta.  La diagnosi  del  medico     non mi sembra eccessivamente favorevole, o meglio, non è né favorevole     né sfavorevole: soltanto il Suo contegno può decidere come la si debba     interpretare.  Certo  i  medici sono stupidi,  o meglio,  non sono più     stupidi dell'altra gente,  ma le loro pretese sono ridicole,  si  deve     però  calcolare  che  dal  momento  in cui si ricorre a loro diventino     sempre più stupidi,  e ciò che il medico per ora  pretende  non  è  né     molto sciocco né impossibile.  Impossibile è che Lei si ammali davvero     e questa impossibilità deve rimanere tale. In che cosa è mutata la Sua     vita  da  quando  ha  parlato  col  medico?  -  questo  è  il  quesito     principale.
    Poi  ancora  alcune  domande  secondarie  che Lei mi vorrà permettere:     perché e da quando è senza denaro?  Perché,  come scrive,  prima aveva     contatto con molte persone a Vienna e adesso con nessuna?
    Lei  non  vuol  mandarmi  i  Suoi articoli d'appendice,  dunque non ha     fiducia in me,  non crede che saprei collocare al punto giusto codeste     appendici  nel  quadro  che  mi  faccio di Lei.  Bene,  allora sono in     collera con Lei per questo punto,  che poi non è affatto una disgrazia     perché,  non fosse altro per l'equilibrio, è bene che in un angolo del     cuore ci sia pronta per Lei un po' di collera.
    Suo Franz K.


    Venerdì.

    Anzittutto,  Milena: come è l'appartamento dove ha  scritto  domenica?
    Ampio e vuoto? Lei è sola? Giorno e notte?
    Certo  deve  essere  molto  triste  sedere là sola,  un bel pomeriggio     domenicale, di fronte a un "estraneo" il cui viso è soltanto "carta da     lettera coperta di scrittura". Come sto meglio io!  E' vero che la mia     camera  è  piccola,  ma  qui  è  la vera Milena che evidentemente Le è     scappata domenica e, mi creda, è meraviglioso starLe accanto.     Lei si lamenta di essere inutile.  Altre  volte  era  diverso  e  sarà     ancora diverso. Quella frase (in quale occasione è stata pronunciata?)     Le  incute terrore,  eppure è così chiara e in questo senso fu detta o     pensata già infinite volte.  L'uomo  torturato  dai  suoi  diavoli  si     vendica,  appunto,  insensatamente contro il prossimo. In tali momenti     Lei avrebbe voluto compiere una completa redenzione,  e se  non  vi  è     riuscita  dice  di  essere  inutile.  Chi può volere una cosa talmente     sacrilega. Nessuno vi è ancora riuscito, neanche,  per esempio,  Gesù.     Egli  poteva  dire  soltanto:  "Seguimi" e poi quella grande cosa (che     purtroppo cito erroneamente): agisci secondo la mia  parola  e  vedrai     che  non  è la parola di un uomo,  ma la parola di Dio.  E i demoni li     scacciava soltanto dagli uomini che lo  seguivano.  E  nemmeno  ciò  a     lungo  andare  perché,  se  si  staccavano  da lui,  anch'egli perdeva     efficacia e "utilità".  E' vero che - questa è  l'unica  cosa  che  Le
    concedo - anche lui era soggetto alla tentazione.


    Venerdì.

    Oggi verso sera ho fatto,  ed è stata,  a dir il vero, la prima volta,     una lunga passeggiata da solo,  mentre  di  solito  andavo  con  altre     persone  o  per  lo  più  rimanevo  coricato in casa.  Che paese è mai     questo! Santo cielo, Milena, se Lei fosse qui, e tu,  povero cervello,     incapace  di  pensare!  Per giunta sarebbe una menzogna se dicessi che     sento la mancanza di Lei, è la magia più perfetta, più dolorosa, Lei è     qui esattamente come me e più ancora;  dove sono io è Lei,  come me  e     più ancora.  Non è uno scherzo, talvolta mi figuro che Lei, che pure è     qui,  senta qui la mancanza "di me" e si domandi: "Dove è mai?  Non ha     scritto che è a Merano?".
    F.

    Ha ricevuto le mie due lettere di risposta?


    Cara signora Milena, la giornata è molto breve, con Lei e soltanto con     qualche altra inezia è bell'e passata e terminata.  E' molto se rimane     un po' di tempo per scrivere alla vera Milena perché quella ancor  più     vera era qui tutto il giorno nella camera, sul balcone, nelle nuvole.     Donde vengono la freschezza, il buonumore, la spensieratezza nella Sua     ultima  lettera?  Si  è  mutato qualcosa?  O io m'inganno e i brani di     prosa vi contribuiscono?  O Lei domina così bene se stessa e  con  ciò     anche le Cose? Che succede?
    La Sua lettera incomincia come un processo,  lo dico seriamente. E Lei     ha ragione di rimproverare "tch ne tak  docela  pravdu"  (9)  come  in     fondo aveva ragione a proposito del "dobre mìnieno" (10).  Ed è ovvio.     Se fossi sempre e interamente in pensiero, come ho scritto,  non avrei     resistito  sulla  sedia  a  sdraio scavalcando tutti gli ostacoli e il     giorno dopo sarei venuto nella Sua stanza.  Unica prova di  sincerità,     tutto il resto sono parole, ciò compreso. Oppure appelli al sentimento     fondamentale, il quale però è muto e tiene le mani in grembo.     Come  va  che  non  ne  ha  abbastanza  delle persone ridicole che Lei     descrive (descrive con amore e  perciò  in  modo  affascinante)  e  di     quello che domanda e di molti altri? E' Lei che deve giudicare, infine     chi  giudica  è  la  donna.  (La  leggenda  di Paride sembra un po' in     contraddizione,  ma anche Paride giudica soltanto quale dea abbia dato     il   più   convincente   giudizio  finale).   Poco  importerebbero  le     ridicolaggini,  potrebbero essere soltanto ridicolaggini  del  momento     che,  poi,  nel complesso diventano cose buone e serie: sarebbe questa     la speranza che La fa persistere accanto a costoro?  Chi può  dire  di     conoscere i pensieri segreti della giudichessa? Ma io ho l'impressione     che Lei perdoni le ridicolaggini come tali,  le comprenda, le ami e le     nobiliti col suo amore,  mentre poi queste ridicolaggini non sono  che     le  corse  a  zig  zag  dei cani,  e il padrone tira via diritto,  non     proprio attraverso  ma  esattamente  là  dove  passa  la  strada.  Ciò     nonostante  però  il Suo amore avrà un senso,  lo credo fermamente (ma     devo informarmi e trovarlo strano) e,  per confortare soltanto una sua     possibilità,  mi  viene  in  mente  la  frase  di un impiegato del mio     Istituto.  Alcuni anni fa andavo molto  in  sandolino  sulla  Moldava,     remavo  risalendo  il  fiume  e scendevo poi con la corrente,  lungo e     disteso,  sotto i ponti.  Per la mia magrezza,  ciò può  essere  stato     molto buffo visto dal ponte.  Quell'impiegato che appunto mi vide così     una volta dal ponte,  dopo aver messo sufficientemente in  rilievo  il     lato comico, riassunse la sua impressione dicendo che pareva di essere     poco  prima  del  Giudizio  Universale,  quando  le  bare  saranno già     scoperchiate, ma i morti giaceranno ancora tranquilli.

    Ho fatto una breve escursione (non quella lunga che  ho  menzionato  e     che  non ebbe luogo) e per quasi tre giorni fui quasi incapace di fare     alcunché causa la stanchezza (non sgradevole), persino di scrivere, ho     soltanto letto, la lettera, gli articoli (11), più volte, pensando che     una tale prosa non esiste naturalmente per amore di se  stessa,  ma  è     una specie di segnavia verso una creatura umana,  lungo una strada per     la quale si procede sempre più felici,  finché in un momento  luminoso     ci  si  accorge  che  non  si avanza affatto,  ma si gira soltanto nel     proprio labirinto,  salvo che si  è  più  eccitati,  più  confusi  del     solito.  In  ogni  caso  però: chi ha scritto ciò non è una scrittrice     comune.  Dopo di che ho quasi altrettanta  fiducia  nei  Suoi  scritti     quanta  in  Lei  stessa.  In ceco (date le mie scarse nozioni) conosco     soltanto una prosa musicale,  quella di Bozena Niemcov  (12),  qui  la     musica è diversa, ma affine a quella per risolutezza, passione, grazia     e soprattutto per un'intelligenza chiaroveggente.  Sarebbe un prodotto     di questi ultimi anni? Lei scriveva anche prima?  Potrà dire beninteso     che  sono prevenuto in modo ridicolo,  ed ha anche ragione,  certo che     sono prevenuto,  ma unicamente per ciò che non  ho  soltanto  trovato,     bensì  ritrovato  in  questi  brani  (del  resto  disuguali e qua e là     svantaggiosamente influenzati dal giornale). Lei potrà però accorgersi     subito quanto poco valga il mio giudizio perché, sedotto da due passi,     considero lavoro  Suo  anche  il  mutilato  articolo  sulla  moda.  Mi     piacerebbe  trattenere  i  ritagli per mostrarli almeno a mia sorella,     ma,  poiché Lei ne ha bisogno subito,  li  includo,  osservo  anche  i     conteggi  sul  margine.  Di  Suo  marito  mi ero fatto un giudizio ben     diverso.  Nel circolo che frequentava al caffè  mi  parve  l'uomo  più     fidato,  più ragionevole,  più calmo, quasi esageratamente paterno, ma     anche imperscrutabile,  non però in modo che ciò annullasse le qualità     precedenti.  Ho  provato  sempre  rispetto  per  lui,  non ho avuto né     l'occasione né la facoltà di  conoscerlo  meglio,  ma  i  miei  amici,     specialmente Max Brod (13),  avevano un'alta opinione di lui, io me ne     ricordavo  sempre  quando  pensavo  a  lui.   Un  tempo   mi   piaceva     specialmente  la  sua  particolarità di ricevere la sera in ogni caffè     alcune telefonate.  Penso che  qualcuno,  invece  di  dormire,  stesse     all'apparecchio, si appisolasse con la testa appoggiata alla spalliera     e  si  riscotesse  di  tempo  in tempo per telefonare.  Situazione che     capisco così bene che forse ne scrivo soltanto per questo.
    Suo Franz K.


    Che ne pensa?  Potrei  ricevere  una  lettera  entro  domenica?  Certo     sarebbe possibile. Ma è insensata, questa smania di lettere. Non basta     una sola,  non basta sapere una volta per tutte?  Certo che basta,  ma     ciò nonostante reclino la testa è bevo le lettere e  so  soltanto  che     non vorrei smettere di bere. Me lo spieghi Lei, Milena, maestra!


    Giovedì.

    Ora  non  voglio  parlare se non di ciò (e ancora non ho letto bene le     Sue lettere,  vi ho soltanto girato intorno come il moscerino  intorno     alla luce,  e mi sono bruciato più volte la testolina, del resto sono,     come ho già scoperto, due lettere del tutto diverse,  l'una per essere     bevuta,  l'altra  per  provare terrore,  ma quest'ultima penso che sia     scritta dopo):
    Se s'incontra un conoscente e gli si domanda vivacemente quanto  fa  2     per  2,  la  domanda è da manicomio,  ma nella prima classe elementare     viene a essere al suo posto.  Ora la domanda che  ho  rivolto  a  Lei,     Milena,  accoppia  le  due cose,  il manicomio e la scuola elementare,     dunque contiene fortunatamente anche  un  po'  di  scuola  elementare.     Infatti,  non ho mai capito bene come uno potesse incappare in me e ho     distrutto parecchie relazioni umane (per esempio,  quella  con  Weiss)     (14)  per  una  disposizione  mentale  logica  che  crede  sempre  più     nell'errore dell'altro che nei miracoli (in quanto riguardava me,  non     negli altri casi).
    Perché,  pensavo,  turbare  anche  con queste cose l'acqua già torbida     della vita?  Vedo davanti a me un tratto della strada possibile e so a     quale  distanza  enorme,  per  me forse irraggiungibile dal luogo dove     sono,  sarò degno di un'occhiata occasionale (mia,  e quanto  meno  di     altri!)  -  questa  non è modestia ma,  se Lei ci pensa,  è superbia -     soltanto di  un'occhiata  occasionale,  ed  ecco  che  ricevo  le  Sue     lettere,  Milena. Come faccio a esprimere la differenza? Uno giace nel     sudiciume e nel puzzo del suo letto di morte ed ecco arrivare l'angelo     della morte, il più beato di tutti gli angeli, e guardarlo. Può l'uomo     trovare il coraggio di morire?  Egli si gira,  affonda più che mai nel     suo letto,  non gli è possibile morire.  In breve: io non credo in ciò     che Lei mi scrive, Milena,  e non c'è modo in cui si possa dimostrarlo     -  neanche Dostoievskij avrebbe potuto dimostrarlo ad alcuno in quella     notte,  e la mia vita dura una notte - soltanto io potrei dimostrarlo,     io  mi  figuro che ne sarei capace (come Lei ebbe una volta la visione     dell'uomo nella sedia a sdraio),  ma non posso crederlo nemmeno  a  me     stesso.  Questa  domanda - naturalmente Lei se n'è subito accorta - fu     pertanto un ripiego ridicolo,  come talvolta il maestro per stanchezza     e  nostalgia  si  lascia  apposta  ingannare  da  una  giusta risposta     dell'alunno e finge che questi sappia veramente il fatto  suo,  mentre     in  realtà  lo  sa soltanto per qualche ragione trascurabile e non può     assolutamente comprendere fino in fondo,  perché soltanto  il  maestro     potrebbe insegnargli a comprendere così. Non però mediante piagnistei,     lamenti, carezze, preghiere, sogni (possiede Lei le ultime cinque, sei     lettere?  guardarle dovrebbe,  fanno parte del complesso), ma soltanto     mediante... Lasciamo stare.

    Vedo di sfuggita che nella lettera  Lei  menziona  anche  la  ragazza.     Perché non rimanga alcun dubbio: a questa ragazza, oltre il dolore del     momento,  Lei  ha  reso  il più grande beneficio.  Tranne questa,  non     saprei in quale altra maniera avrebbe potuto staccarsi da me. E di ciò     aveva bensì un certo doloroso  presentimento,  ma  neanche  la  minima     intuizione   donde   il   posticino   accanto  a  me  traesse  il  suo     (inquietante,  ma non per lei inquietante) calore.  Ricordo:  sedevamo     l'uno  accanto  all'altra  sul  sofà,  in  un appartamento di una sola     stanza a Wrschowitz (doveva essere  di  novembre,  tra  una  settimana     l'appartamento  doveva  essere  nostro),   ella  era  felice  di  aver     conquistato, dopo tanta fatica,  almeno quell'appartamento,  accanto a     lei  sedeva  il  suo  futuro  marito  (ripeto: soltanto io avevo avuto     l'idea del matrimonio,  soltanto io avevo spinto alle nozze,  ella  si     era  soltanto  spaventata  e  aveva  accettato  a  malincuore,  ma poi     beninteso si era assuefatta all'idea).  Quando ripenso a quella scena,     con  tutti i particolari,  più numerosi dei palpiti durante la febbre,     credo di poter comprender fino in fondo qualunque illusione umana  (in     questo  caso fu per mesi e mesi anche illusione mia,  benché non fosse     per me soltanto illusione ma anche altra  considerazione,  ne  sarebbe     seguito  un  matrimonio  di  calcolo nel senso migliore) e ho paura di     portare alle labbra il bicchiere di latte perché, non per caso, ma per     intenzione,  potrebbe  benissimo  esplodere  davanti  al  mio  viso  e     cacciarmi in faccia le schegge.
    "Una  domanda:  in  che consistono i rimproveri che Le vengono fatti?"     Ecco,  anch'io ho reso infelici talune  persone,  ma  a  lungo  andare     queste  certo non mi fanno rimproveri,  ammutoliscono soltanto e credo     che anche dentro di loro non  mi  facciano  rimproveri.  Questo  posto     eccezionale occupo tra gli uomini.

    Ma  tutto ciò è privo d'importanza di fronte a un'idea che mi è venuta     questa mattina nell'alzarmi dal letto e mi affascina talmente  che  mi     trovai  lavato  e vestito senza saper come,  allo stesso modo mi sarei     anche fatto la barba, se una visita non mi avesse destato.
    Ecco in breve: Lei si allontana per qualche tempo da Suo marito, non è     una novità,  è già avvenuto una volta.  I motivi sono la Sua malattia,     il nervosismo di lui (Lei procura un sollievo anche a lui) e infine le     circostanze viennesi.  Dove voglia andare non so,  penso che meglio di     tutto sarebbe per Lei qualche regione tranquilla della  Boemia.  Anche     qui  sarà  meglio  che  io  personalmente  non c'entri e non mi faccia     vedere.  Il denaro necessario Lei lo accetta  per  ora  (ci  metteremo     d'accordo  sulle condizioni della restituzione) da me.  (Cito soltanto     un vantaggio secondario che me ne verrebbe:  diventerei  un  impiegato     entusiasta  del  lavoro  -  il  mio  servizio  del  resto è ridicolo e     miseramente facile, Lei non se lo può neanche figurare, non so proprio     per che cosa mi diano il denaro.)  Se  in  qualche  mese  non  dovesse     essere  sufficiente,  Lei  saprà certamente procurarsi con facilità la     non cospicua differenza.
    Per il momento non aggiungo altro in lode dell'idea,  ma  giudicandone     Lei avrà occasione di farmi capire se posso aver fede nel Suo giudizio     su tutte le altre mie idee (conosco infatti il valore di questa).
    Suo Kafka.


    Dopo  aver  letto  questa lettera terribile,  ma non proprio terribile     fino in fondo,  non mi è molto facile ringraziare della gioia  che  mi     procurò il suo arrivo.  Oggi è festa, la posta normale non sarebbe più     arrivata,  era anche incerto  se  domani,  venerdì,  dovesse  arrivare     qualche  cosa di Lei;  c'era dunque una specie di silenzio deprimente,     ma niente affatto triste in quanto riguardava Lei;  infatti nella  Sua     ultima  lettera  Lei  era così forte che stetti a guardarLa come dalla     mia sedia a sdraio starei a guardare  gli  alpinisti,  se  da  qui  li     potessi  distinguere  lassù  nella neve.  Ed ecco: arrivò,  un momento     prima della colazione,  potrei prenderla con  me,  cavarla  di  tasca,     posarla  sulla tavola,  rimetterla in tasca come fanno appunto le mani     giocando con una lettera,  si sta a guardarla e a godere come bambini.     Non  sempre  riconoscevo  il  generale  e  l'ingegnere  di fronte a me     (ottime persone, cortesi),  ancor più di rado li udivo,  poco anche mi     disturbava  il  cibo  che  oggi ricominciai a prendere (ieri non avevo     mangiato  niente),  fra  i  calcoli,  che  vennero  discussi  dopo  la     colazione,  i  problemi  brevi  mi  apparvero  molto  più chiari delle     soluzioni lunghe,  durante le quali però la vista spaziava liberamente     dalla  finestra  aperta  su  abeti e monti,  sul sole e il villaggio e     sopra ogni cosa c'era come un sentore di Vienna.
    Dopo, è vero,  lessi attentamente la lettera,  cioè lessi attentamente     quella di domenica,  mi riservo di leggere quella di lunedì finché non     arriva la Sua lettera successiva; vi sono cose in essa, che non riesco     a leggere più attentamente,  è certo che non  sono  ancora  del  tutto     sano,  la lettera è anche invecchiata,  secondo il mio calcolo ci sono     in viaggio cinque lettere, al meno tre di queste devono essere ora già     nelle Sue mani,  anche se un'altra dovesse essersi smarrita  o  se  le     raccomandate  ci  mettono  più  tempo.  Adesso non mi rimane altro che     pregarLa di rispondermi subito qua,  basta una parola,  ma deve  esser     tale  da smontare tutti i rimproveri contenuti nella lettera di lunedì     e da renderla leggibile.  D'altro canto era proprio quel lunedì in cui     diedi  qui  (non  senza  qualche  speranza)  un forte scrollone al mio     cervello.
    E ora quell'altra lettera.  Ma è tardi,  dopo parecchie vaghe promesse     ho dato a quell'ingegnere la precisa assicurazione che sarei andato da     lui a vedere i grandi,  non trasportabili ritratti dei suoi figli.  E'     poco più vecchio di me,  bavarese,  industriale,  molto  amante  della     scienza  ma anche allegro e intelligente,  ha avuto cinque figli,  due     soli sono vivi (non ne avrà più a causa della moglie),  il ragazzo  ha     già tredici anni,  la fanciulla undici. Che mondo! Ed egli lo sostiene     rimanendo in equilibrio.  No,  Milena,  Lei non  dovrebbe  dir  niente     contro l'equilibrio.
    Suo F.


    Domani di nuovo. Ma se dovessi aspettare fino a dopodomani La prego di     non "odiare" di nuovo, questo no.

    Ho  letto  un'altra  volta la lettera di domenica,  è più terribile di
    quanto non pensassi  dopo  la  prima  lettura.  Bisognerebbe,  Milena,     prendere  il  Suo viso fra le mani e guardarLe fermamente negli occhi,     affinché negli occhi dell'altro Lei riconosca se stessa  e  da  questo     momento  non sia più capace neanche di pensare cose come quelle che ha     scritte là.


    Venerdì.

    Quando finalmente si raddrizzerà un poco il mondo rovescio?  Di giorno     si  va  in  giro  con  la  testa  bruciata  -  qui ci sono dappertutto     bellissime rovine sui monti, e si pensa di dover diventare altrettanto     belli - ma a letto invece del sonno vengono le  migliori  idee.  Oggi,     per esempio, a completamento della proposta di ieri, mi venne in mente     che durante l'estate Lei potrebbe abitare da Stasha (15) che, come Lei     mi ha scritto, vive in campagna. Ieri scrissi la sciocchezza che certi     mesi il denaro non sarebbe sufficiente,  ciò è insensato,  sarà sempre     sufficiente.
    La lettera di martedì mattina e sera mi conferma il valore  della  mia     proposta,  e  ciò  non è uno speciale caso fortuito,  perché il valore     della proposta deve  essere  confermato  da  tutto,  assolutamente  da     tutto.  Se  la proposta contiene perfida astuzia - dove non ci sarebbe     questa bestia mostruosa che,  secondo il  bisogno,  sa  farsi  piccola     piccola?  -  io  la  terrò in freno,  persino Suo marito può in questo     punto aver fiducia in me. Do nelle esagerazioni.  Eppure: in me si può     aver fiducia. Io non La vedrò nemmeno, non ora, non dopo. Lei vivrà in     campagna dove sta volentieri.  (In questo ci somigliamo, poca campagna     mossa, quando non è ancora mezza montagna, mi piace più di tutto e che     ci siano bosco e lago.)
    Lei misconosce,  Milena,  l'efficacia delle  Sue  lettere.  Quelle  di     lunedì  ("jen  strach  o  V s)  (16) non le ho ancora lette per intero     (questa mattina mi ci sono provato,  la cosa si era anche  un  pochino     avviata, in parte infatti era già diventata storia in seguito alla mia     proposta,  ma non ho potuto ancora leggere fino in fondo).  La lettera     di martedì invece (e anche la strana cartolina - scritta al  caffè?  -     devo  ancora rispondere alla Sua accusa contro Werfel (17),  veramente     io non Le rispondo mai, Lei sa rispondere molto meglio, è una cosa che     fa bene),  nonostante una notte quasi insonne a causa della lettera di     lunedì,  mi rende oggi abbastanza tranquillo e fiducioso.  Certo anche     quella di martedì ha la sua spina che si  apre  la  via  incidendo  il     corpo,  ma tu la conduci e quale cosa - questa è beninteso soltanto la     verità di un istante, di un momento tremante di dolore e di felicità -     quale cosa, se viene da te, sarebbe difficile sopportare?
    F.


    Se non Le dispiace, quando Le si presenta l'occasione, dica per favore     una parola buona per me a Werfel.  A varie cose però Lei purtroppo non     risponde,   per   esempio  alla  domanda  circa  la  sua  attività  di     scrittrice.
    Ultimamente ho sognato ancora Lei,  è stato un  grande  sogno  ma  non     ricordo quasi niente.  Ero a Vienna, non ne ricordo nulla, poi arrivai     a Praga e avevo dimenticato il Suo indirizzo,  non solo la via,  anche     la città,  tutto, soltanto il nome Schreiber affiorò ancora in qualche     modo ma non sapevo che cosa farne.  Per me dunque Lei  era  del  tutto     perduta. Nella mia disperazione feci diversi tentativi molto astuti, i     quali però,  non so perché,  non vennero eseguiti e dei quali uno solo     mi è rimasto nella memoria.  Scrissi su  una  busta:  Milena  e  sotto     "Prego    di    recapitare    questa    lettera    perché   altrimenti     l'amministrazione delle Finanze subisce un danno enorme".  Con  questa     minaccia  speravo  di mettere in moto tutti i mezzi dello Stato perché     Lei  fosse  rintracciata.  Furbo?   Non  ricavi  da  ciò  una  cattiva     impressione di me. Soltanto in sogno sono così inquietante.

    Riapro  la  lettera.  Qui c'è posto: Per favore dammi ancora una volta     del tu - non sempre, non lo vorrei nemmeno ma ancora una volta.


    Faccio il conto: scritta sabato, arrivata, nonostante la domenica, già     martedì a mezzogiorno,  strappata  di  mano  alla  cameriera  martedì,     ottimo collegamento postale e lunedì devo rinunciarvi, partire.     Lei  è  molto  buona  a  stare  in  pensiero,  sente la mancanza delle     lettere, già, la settimana scorsa non ho scritto un paio di giorni, da     sabato in qua invece ogni giorno, dimodoché nel frattempo Lei riceverà     tre lettere,  davanti alle quali rimpiangerà il tempo  senza  lettere.     Lei  vedrà  che tutti,  proprio tutti i Suoi timori sono giustificati,     che io dunque in genere sono molto in collera con Lei e in particolare     molte cose non mi sono piaciute nelle Sue lettere,  che  gli  articoli     d'appendice mi hanno stizzito,  e così via.  No,  Milena, Lei non deve     aver paura di tutto ciò, ma tremi pensando al contrario!
    Che bella cosa aver ricevuto la Sua lettera,  doverLe  rispondere  col     cervello  insonne.  Non so scrivere niente,  mi aggiro soltanto fra le     righe,  alla luce dei Suoi occhi,  al respiro delle Sue labbra come in     una  bella giornata felice che rimane bella e felice anche se la testa     è malata e stanca e se lunedì parto di qui passando per Monaco.
    Suo F.


    Per causa mia è corsa a casa senza fiato? Come,  non è malata e io non     sto più in pensiero per Lei?  E' proprio così, non sto più in pensiero     - no, no, esagero adesso come allora,  ma è una preoccupazione come se     avessi qui Lei sotto la mia sorveglianza, nutrissi anche Lei col latte     che bevo,  rinforzassi anche Lei con l'aria che respiro, che mi arriva     dal giardino, no, sarebbe molto poco, rinforzassi Lei molto più di me.     Probabilmente per vari motivi non partirò ancora lunedì, ma un po' più     tardi.  Ma andrò direttamente a Praga,  da poco  c'è  un  direttissimo     Bolzano-Monaco-Praga.  Se volesse scrivermi ancora due righe, potrebbe     farlo;  se non arrivassero in tempo,  mi verrebbero respinte a  Praga.
    Continui a volermi bene!
    F.

    Sono  proprio  un  portento  di  stupidità.  Sto leggendo un libro sul     Tibet;  alla  descrizione  d'un  villaggio  in  montagna  sul  confine     tibetano,  il  cuore  mi  si  gonfia improvvisamente,  tanto mi sembra     desolato quel villaggio,  tanto lontano da Vienna.  E  chiamo  stupida     l'idea che il Tibet è lontano da Vienna. Sarà poi lontano?


    Giovedì.

    Vede,  Milena,  sono coricato sulla sedia a sdraio, nel mattino, nudo,     metà al sole, metà all'ombra, dopo una notte quasi insonne; come avrei     potuto dormire se,  troppo leggero per  il  sonno,  ho  sempre  volato     intorno  a  Lei  e  se  realmente,  proprio come Lei scrive oggi,  ero     atterrito di ciò "che mi era caduto in grembo",  atterrito alla stessa     maniera  che  si  racconta  dei profeti i quali erano deboli fanciulli     (già o ancora, che sarebbe poi indifferente) e ascoltavano la voce che     li chiamava ed erano atterriti e non volevano e puntavano  i  piedi  e     avevano  una paura che straziava il cervello e già prima avevano udito     voci e non sapevano donde venisse il suono terribile proprio in quella     voce - era la debolezza del loro orecchio o la forza di questa voce  -     e  non  sapevano  nemmeno (poiché erano bambini) che la voce aveva già     vinto e si era insediata appunto mediante quella  loro  paura  mandata     avanti come un presentimento,  ma ciò non diceva ancor nulla in merito     alle loro facoltà profetiche,  perché molti odono la  voce,  ma  anche     oggettivamente  è  ancora  dubbio  che  ne siano degni e per sicurezza     preferiscono negare decisamente fin dall'inizio - dunque,  così  stavo     coricato quando giunsero le Sue due lettere.
    Credo,  Milena, che noi due abbiamo una particolarità in comune: siamo     tanto timidi e ansiosi,  quasi ogni lettera è diversa,  quasi ciascuna     si spaventa della precedente e, più ancora, della risposta. Lei non lo     è per natura,  lo si vede facilmente,  e io, forse, nemmeno io lo sono     per natura,  ma ciò è quasi diventato natura,  e si  dilegua  soltanto     nella  disperazione,  tutt'al  più  nell'ira  e,  da  non dimenticare,     nell'angoscia.
    Talora ho l'impressione che abbiamo una camera con due porte, l'una di     fronte all'altra, e ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un     batter di ciglia dell'uno perché l'altro sia già dietro la sua porta e     basta che il primo dica una sola parola e il secondo ha già certamente     chiuso la porta dietro di sé e non si fa più  vedere.  Egli  riaprirà,     sì,  la  porta,  perché  si  tratta di una camera che forse non si può     lasciare. Se non fosse esattamente come il secondo,  il primo starebbe     tranquillo,  preferirebbe, in apparenza, non guardare neanche verso il     secondo,  metterebbe lentamente in ordine la camera,  quasi fosse  una     camera  come qualunque altra,  ma invece fa esattamente la stessa cosa     presso la sua porta,  talvolta persino tutti e due sono  di  là  dalle     porte e la bella camera è vuota.
    Di qui sorgono malintesi assillanti.  Lei, Milena, si lamenta di certe     lettere,  che si rigirano da tutte le  parti  e  non  ne  esce  nulla,     eppure,  se  non  m'inganno,  sono  proprio quelle nelle quali Le sono     stato così vicino,  così dominato nel sangue,  così intento a dominare     il  Suo,  così  addentro  nel  bosco,  così  riposante  nel riposo che     realmente non si vuol dire altro se non che in  alto,  attraverso  gli     alberi  è  visibile il cielo,  ecco tutto,  e dopo un'ora si ripete la     stessa cosa e in verità non vi è "ani jediné  slovo  které  by  nebylo     velmi  dobrze  uv zeno" (18).  E certo non dura molto,  tutt'al più un     istante, e tosto riprendono a squillare le trombe della notte insonne.     Pensi anche,  Milena,  in che modo vengo  da  Lei,  quale  viaggio  di     trentotto anni ho alle mie spalle (e siccome sono ebreo,  il viaggio è     ancora molto più lungo) e se a una  svolta,  apparentemente  fortuita,     della  strada  vedo Lei che non mi sono mai aspettato di vedere,  meno     che mai ora,  così tardi,  non posso gridare,  Milena,  e nulla  grida     dentro di me,  non dico neanche mille pazzie ché non sono dentro di me     (prescindo dall'altra pazzia che possiedo fin troppo),  e  di  essermi     inginocchiato  vengo  forse a sapere soltanto perché vedo vicinissimi,     davanti ai miei occhi, i Suoi piedi e li accarezzo.
    Non pretenda da me che sia sincero, Milena.  Nessuno lo può pretendere     più di me stesso,  eppure molte cose mi sfuggono,  sì,  forse tutto mi     sfugge. Ma l'incoraggiamento in questa caccia non m'incoraggia,  anzi,     al contrario, non sono più in grado di fare un passo, a un tratto ogni     cosa  diventa  menzogna e gli inseguiti strozzano il cacciatore.  Sono     incamminato per una  via  molto  pericolosa,  Milena.  Lei  sta  ritta     accanto a un albero,  giovane,  bella, il lampo dei Suoi occhi abbatte     il dolore del mondo. Si sta giocando a "shkatule shkatule heibejte se"     (19), io striscio nell'ombra da un albero all'altro, mi sto spostando,     Lei mi manda una voce, m'indica i pericoli,  vuole farmi coraggio,  si     spaventa  al  mio  passo  incerto,  mi rammenta (a me!) la serietà del     giuoco - io non posso,  cado,  sono già a terra.  Non posso  udire  le     terribili   voci  dell'intimo  e  contemporaneamente  Lei,   ma  posso     ascoltarle e confidarlo a Lei, a Lei come a nessun altro al mondo.
    Suo F.


    Domenica.

    Questo discorso nelle due pagine della Sua lettera, Milena,  viene dal     profondo del cuore,  del cuore ferito ("to - mnie rozbolelo" (20) vi è     scritto e sono stato io a farlo,  io  a  Lei)  e  suona  così  puro  e     orgoglioso come se non vi fosse colpito il cuore, ma acciaio, ed esige     anche  la  cosa  più  ovvia  e  mi  fraintende  (poiché le mie persone     "ridicole" sono davvero esattamente le Sue e poi: dove avrei mai preso     le parti di uno di Loro due Dove è la frase?  Dove mi  sarebbe  venuta     questa idea nefanda? E come potrei giudicare io che in ogni riguardo -     matrimonio, lavoro, coraggio, sacrificio, purezza, libertà, autonomia,     sincerità  -  sono  tanto  più  in  basso di Loro due che provo nausea     persino a parlarne? E quando avrei osato offrire attivamente aiuto, e,     se avessi osato, come avrei potuto darlo? Basta domande; hanno dormito     così bene nell'abisso;  perché evocarle alla  luce  del  giorno?  Sono     grige e tristi e rendono così anche gli altri. Non dica che due ore di     vita  sono senz'altro più che due pagine di scritto,  lo scritto è più     povero,  ma più chiaro) - mi fraintende dunque,  ma ciò nonostante  il     discorso è rivolto a me e io non sono innocente,  non lo sono,  strana     cosa,  per gran parte appunto perché alle  suddette  domande  si  deve     rispondere "no e in nessun luogo".
    Poi  arrivò  il  Suo tanto caro telegramma,  conforto contro la notte,     questa vecchia nemica (e se non è sufficiente,  la colpa non è davvero     Sua,  ma  delle  notti.  Queste  brevi  notti terrene potrebbero quasi     incutere spavento della notte eterna),  è vero che la lettera contiene     tanto  e  meraviglioso  conforto,  ma essa è pure un'unità nella quale     infuriano le due pagine,  mentre il telegramma sta a sé e  non  ne  sa     nulla.   Di  fronte  al  telegramma  però,   Milena,  posso  dire:  se     prescindendo da ogni altra cosa fossi venuto a Vienna e Lei mi  avesse     fatto con gli occhi negli occhi quel discorso (che, come ho detto, non     passa  senza toccarmi ma mi colpisce e con ragione,  non in pieno,  ma     pure con forza) - e in qualche modo esso avrebbe assolutamente  dovuto     essere,  se non pronunziato, almeno pensato, espresso con lo sguardo o     con un guizzo dei muscoli,  o almeno presupposto - allora sarei caduto     d'un  colpo  lungo  disteso  e Lei non mi avrebbe rimesso in piedi con     alcuna opera d'infermiera.  E se  non  fosse  avvenuto  così,  avrebbe     potuto avvenire ancora peggio. Ecco, Milena.
    Suo F.


    Come stiamo,  Milena,  con la Sua conoscenza degli uomini? Talvolta ne     ho già dubitato, per esempio quando mi scrisse di Werfel,  c'era bensì     amore  e  forse soltanto amore,  ma attraverso malintesi,  e quando si     prescinda da tutto  ciò  che  è  Werfel  e  ci  si  fermi  soltanto  a     rinfacciargli  l'obesità  (che oltre a tutto non mi pare giustificato,     poiché Werfel mi diventa di anno in anno più bello e simpatico, è vero     che lo vedo soltanto di  sfuggita),  ma  sa  che  soltanto  gli  obesi     ispirano  fiducia?  Soltanto  in questi recipienti dalle pareti grosse     tutto riesce a cuocere fino  in  fondo,  soltanto  questi  capitalisti     dell'atmosfera sono,  fin dove è umanamente possibile,  protetti dalle     preoccupazioni e dalla follia e possono dedicarsi  tranquillamente  al     loro  compito,   soltanto  essi,  disse  uno  una  volta,  si  possono     utilizzare come veri e propri cosmopoliti in tutto il mondo perché  al     nord  scaldano  e  al  sud  gettano  ombra.  (Certo  si può dire anche     viceversa, ma allora non è vero.)
    E veniamo al giudaismo.  Lei mi chiede se  sono  ebreo,  forse  lo  fa     soltanto  per celia,  forse chiede soltanto se appartengo al giudaismo     scrupoloso;  in ogni caso,  essendo di Praga,  Lei non può  essere  in     questo punto così ingenua come ad esempio Matilde, la moglie di Heine.     (Ma  forse  non conosce l'aneddoto.  Ho l'impressione che dovrei dirLe     cose più importanti e certo danneggio me stesso in qualche  modo,  non     con il fatto,  ma col raccontarlo;  Lei però desidera di sentire da me     anche qualcosa di bello. Lo racconta Meissner, un poeta tedesco-boemo,     non ebreo,  nelle sue memorie.  Matilde lo annoiava  sempre  coi  suoi     attacchi  contro  i  tedeschi:  diceva  che i tedeschi sono maliziosi,     saccenti,   prepotenti,   pedanti,   invadenti,   insomma  un   popolo     insopportabile!  "Ma  Lei non conosce neanche i tedeschi" disse un bel     giorno Meissner;  "Henry ha soltanto rapporti con giornalisti tedeschi     i quali,  qui a Parigi,  sono tutti ebrei".  "Oh" esclamò Matilde "Lei     esagera,  può darsi che fra loro  ci  sia  anche  qualche  ebreo,  per     esempio  Seiffert..."  "No"  ribattè  Meissner  "quello  è l'unico non     ebreo."
    "Come!" fece Matilde.  "Jeitteles,  per esempio" - era un pezzo d'uomo     biondo  -  "sarebbe ebreo?" "Certo" rispose Meissner.  "Ma Bamberger?"     "Anche lui." "E Arnstein?" "Anche."  Così  si  passarono  in  rassegna     tutti i conoscenti.  Infine Matilde s'indispettì e disse: "Sì, sì, Lei     mi vuol prendere in giro;  infine verrà a dirmi che anche  Kohn  è  un     cognome  ebraico,  ma  Kohn è cugino di Henry e Henry è luterano." Qui     Meissner non poté più obiettar nulla.) In ogni caso pare che  Lei  non     abbia  paura  dell'ebraismo.  E se ci riferiamo all'ultimo o penultimo     ebraismo delle nostre  città,  si  può  ben  dire  che  il  suo  è  un     atteggiamento  eroico  e - bando agli scherzi!  - quando una fanciulla     pura dice ai parenti:  "Lasciatemi"  e  va  in  quella  direzione,  fa     qualcosa  di  più  della  pulzella  d'Orléans  quando  lascia  il  suo     villaggio.
    In questo caso Lei può  anche  rimproverare  agli  ebrei  quella  loro     continua   paura,   sebbene   un  rimprovero  così  generico  contenga     conoscenza degli uomini più teorica che  pratica;  teorica  perché  in     primo  luogo  il rimprovero,  dopo la Sua precedente descrizione,  non     colpisce  affatto  Suo  marito;  in  secondo  luogo,  secondo  la  mia     esperienza, non colpisce la maggior parte degli ebrei e in terzo luogo     colpisce soltanto qualche singolo, ma allora con violenza, per esempio     me.  E,  ciò che è più strano, il rimprovero in generale non calza. La     posizione malsicura degli ebrei, malsicura in se stessa, malsicura fra     gli uomini,  renderebbe comprensibilissimo il fatto che  essi  credano     lecito  possedere  soltanto  ciò che hanno in mano o fra i denti,  che     soltanto il possesso materiale dia loro il diritto di vivere,  che non     riacquisteranno mai ciò che hanno perduto e che questo si allontana da     loro beatamente per sempre.  Gli ebrei sono minacciati da pericoli che     vengono dalle parti  più  inverosimili  o,  per  essere  più  precisi,     lasciamo stare i pericoli e diciamo: "sono minacciati da minacce".  Un     esempio che La riguarda  da  vicino.  Io  ho  forse  promesso  di  non     parlarne  (quando  La  conoscevo  appena),  ma non ho scrupoli a farne     menzione davanti a Lei, perché ciò non Le dice niente di nuovo,  Le fa     vedere l'amore dei parenti, e io non faccio nomi, non dico particolari     perché  non  li  ricordo più.  La mia sorella minore doveva sposare un     ceco, un cristiano,  il quale un giorno espose l'intenzione di sposare     un'ebrea a una Sua parente,  questa esclamò: "Per carità,  non bisogna     unirsi agli ebrei! Stia a sentire: la nostra Milena, eccetera".     Dove volevo portarLa  con  tutto  questo  discorso?  Mi  sono  un  po'     smarrito,  ma non importa,  perché Lei forse mi ha accompagnato ed ora     siamo smarriti tutti e  due.  Qui  sta  la  vera  bellezza  della  Sua     traduzione, nell'essere fedele (mi rimbecchi pure per questo "fedele".     Lei  è  capace  di  tutto,  ma  forse  meglio  di  ogni  altra cosa sa     rimbeccare,  vorrei essere Suo allievo  e  fare  continuamente  errori     soltanto  per poter essere rimbeccato da Lei;  sto seduto nel banco di     scuola,  oso appena alzare gli occhi,  Lei si china sopra di me  e  in     alto   balena   continuamente   l'indice   col   quale  accompagna  le     osservazioni,  non è così?),  dunque nell'essere "fedele" e nella  mia     impressione  di  guidare  Lei  per  mano  dietro  di me,  attraverso i     tenebrosi,  bassi,  brutti corridoi sotterranei  della  storia,  quasi     all'infinito  (perciò  i periodi sono infiniti,  non se n'è accorta?),     quasi all'infinito (soltanto  due  mesi,  ha  detto?)  per  avere  poi     nell'uscire  alla  luce  del  giorno,   si  spera,  l'intelligenza  di     scomparire.
    Monito a interrompere per oggi,  a lasciar libera,  per oggi,  la mano     che reca la felicità.  Domani scriverò di nuovo e spiegherò perché, in     quanto possa garantire per me stesso,  non verrò a Vienna e  non  sarò     tranquillo prima che Lei dica:
    Egli ha ragione.
    Suo F.


    Scriva  per  favore  l'indirizzo  un  poco  più chiaro,  quando la Sua     lettera è dentro la  busta  è  ormai  proprietà  mia  e  Lei  dovrebbe     trattare  la  roba  altrui  con  più  cura,  con  maggiore senso della     responsabilità. "Tak". (21)
    D'altro  canto  ho   anche   l'impressione,   senza   poterla   meglio     determinare,  che  una  mia lettera sia andata perduta.  Ansietà degli     ebrei! Invece di temere che le lettere arrivino a destinazione!     Adesso aggiungerò un'altra sciocchezza sul  medesimo  argomento,  cioè     sciocco è che io dica una cosa che considero giusta,  senza badare che     è a mio danno.  E poi Milena discorre di ansietà,  mi dà un  urto  nel     petto  o  fa  la  domanda  che  in ceco è tutt'uno nel movimento e nel     suono: "Jste zid...?  (22) Non vede come in quel "Jste"  il  pugno  si     ritira  per  raccogliere  forza muscolare?  E poi nello "zid" la botta     allegra, infallibile, che arriva di volo?  La lingua ceca ha spesso di     questi  effetti  secondari  sull'orecchio  tedesco.   Una  volta,  per     esempio,  Lei mi ha  domandato  come  mai  facessi  dipendere  il  mio     soggiorno  in  questo  luogo da una lettera e ha risposto addirittura:     "nech pu" (23).  Parola estranea nel ceco e  più  che  mai  nella  Sua     lingua,  parola severa, indifferente, dallo sguardo gelido, taccagna e     soprattutto crocchiante,  tre volte si sentono crocchiare le  mascelle     in questa parola,  o diciamo meglio,  la prima sillaba fa il tentativo     di stringere la noce,  non ci riesce,  la seconda spalanca la bocca  e     ora  la  noce  vi si adatta finché la terza sillaba la schiaccia.  Non     sente il rumore dei denti?  Specialmente questo  chiudersi  definitivo     delle labbra impedisce all'altro ogni dichiarazione contraria, la qual     cosa viene talora molto a proposito, quando per esempio l'altro ciarla     come  faccio  io  adesso  (a).  Dopo  di che il chiacchierone aggiunge     chiedendo perdono: "Però si ciarla solo quando si è un po' allegri".     E' vero che oggi non è arrivata alcuna lettera Sua.  E ciò che  infine     volevo  dire  non  l'ho neanche detto ancora.  Prossimamente.  Come mi     piacerebbe ricevere domani Sue notizie,  le ultime parole che prima di     sbattere  la porta - tutte le porte che sbattono sono abominevoli - ho     udito da Lei sono terribili.
    Suo F.

    (a) Può darsi che le tre sillabe significhino anche i movimenti  degli     apostoli  nell'orologio  di Praga: l'arrivo,  il presentarsi e la mala     partenza.


    Lunedì.

    Dunque la spiegazione promessa ieri:
    Io non voglio (Milena,  mi aiuti!  Comprenda più di quanto non dico!),     non  voglio  (non  è balbettio) venire a Vienna perché non sopporterei     spiritualmente lo sforzo. Sono malato di mente,  la malattia polmonare     è  soltanto  uno straripare della malattia mentale.  Sono tanto malato     dopo i quattro,  cinque anni dei miei due primi fidanzamenti.  (Lì per     lì  non  riuscivo  spiegarmi  l'allegria  della  Sua  ultima  lettera,     soltanto più tardi mi balenò la spiegazione, dimentico sempre: che Lei     è tanto giovane, forse non arriva ai 25 anni, forse ne ha soltanto 23.     Io ne ho 37, quasi 38, quasi una breve generazione in più,  ho quasi i     capelli  bianchi  dalle  vecchie notti e dal mal di testa.  Non voglio     sciorinare davanti a Lei la lunga storia  con  le  intere  foreste  di     particolari,  dei quali ho ancora paura come un fanciullo, ma senza la     facoltà di dimenticare che  hanno  i  fanciulli.  Le  storie  dei  tre     fidanzamenti avevano questo in comune: che io avevo colpa di tutto, la     colpa  indubitabile,  io  ho  reso  infelici  le  due  giovani  (24) e     precisamente - qui parlo soltanto della prima, della seconda non posso     parlare,  ella è sensibile,  ogni  parola,  anche  la  più  amichevole     sarebbe  per  lei,  lo  capisco,  la  più mostruosa mortificazione - e     precisamente perché con lei  (che,  se  io  avessi  voluto,  forse  si     sarebbe  sacrificata)  non  potevo  essere durevolmente contento,  non     tranquillo, non deciso,  non adatto al matrimonio,  nonostante che per     mia liberissima volontà glielo abbia sempre assicurato, nonostante che     talvolta  le  volessi  disperatamente  bene,  nonostante  che  io  non     conoscessi nulla di più desiderabile che il matrimonio  in  sé.  Quasi     cinque anni la ho percossa (o,  se preferisce, ho percosso me), ebbene     fortunatamente  era  infrangibile,   una  mistura   ebraico-prussiana,     mistura  forte  e  vittoriosa.  Io non ero così forte,  è vero che lei     aveva soltanto da soffrire mentre io percotevo e soffrivo.

    E' finita, non posso più scrivere, non posso più spiegare,  quantunque     sia  soltanto  al  principio  e dovrei descrivere la malattia mentale,     addurre  gli  altri  motivi  della  mancata  visita;   è  arrivato  un     telegramma "Appuntamento Karlsbad giorno otto prego conferma scritta".     Confesso  che  quando lo aprii mi mostrò una faccia terribile,  benché     dietro di esso stia l'essere più disinteressato,  più tranquillo,  più     modesto, e benché tutto risalga, a ben guardare, alla mia volontà. Non     posso ora rendere comprensibile tutto ciò,  poiché non posso riferirmi     a una descrizione della malattia.  Finora è sicuro che lunedì  partirò     di qui, talvolta guardo il telegramma e quasi non riesco a leggerlo, è     come  se ci fosse una criptografia che cancella lo scritto superiore e     dice: Fa' il viaggio passando da Vienna! Un comando evidente, ma senza     la terribilità dei comandi. Non lo farò, già esteriormente è insensato     non prendere la via breve che passa da Monaco,  ma quella  doppiamente     lunga da Linz e poi ancora più lunga da Vienna.  Faccio una prova: sul     balcone c'è un passero e aspetta che dalla tavola gli  butti  il  pane     sul  balcone,  invece  butto  il pane per terra accanto a me nel mezzo     della stanza.  Dal difuori il passero vede nella  penombra  l'alimento     della sua vita,  questo lo attira smisuratamente,  esso si scrolla,  è     più qui che là, ma qui è il buio e accanto al pane sono io,  il potere     misterioso. Ciò nonostante saltella oltre la soglia, ancora un paio di     salti,  ma più non osa e per un improvviso spavento vola via. Ma quali     forze albergano in questo misero uccello!  Dopo un istante  è  qui  di     nuovo,  studia  la  situazione,  io  butto  ancora  un po' di pane per     facilitargli la cosa e  se,  con-senza  intenzione  (così  agiscono  i     poteri  misteriosi)  non  lo  avessi  fatto  fuggire  con  un  piccolo     movimento, sarebbe venuto a prendere il pane.
    Fatto è che la  mia  licenza  termina  alla  fine  di  giugno  e  come     transizione - qui incomincia anche a far molto caldo,  la qual cosa, è     vero,  per se stessa non mi darebbe fastidio - voglio andare ancora in     campagna  in  qualche  altro  luogo.  Anche  Lei  voleva partire,  ora     dobbiamo incontrarci là,  io rimango un paio di  giorni  e  poi  forse     anche  qualche  giorno  a Konstatinsbad dai miei genitori,  poi vado a     Praga; se abbraccio con lo sguardo questi viaggi e li confronto con le     condizioni del mia testa,  ho all'incirca  l'impressione  che  avrebbe     dovuto  avere  Napoleone  se,  nel tracciare i piani della campagna di     Russia ne avesse anche saputo esattamente l'esito.
    Quando a suo tempo ebbi la Sua prima lettera,  credo che fu poco prima     delle progettate nozze (i cui piani, per esempi sono stati interamente     opera  "mia"),  ne  fui lieto e gliela mostrai.  In seguito - no,  non     parliamone più,  ora non straccio più questa lettera,  abbiamo qualità     somiglianti,  salvo che io non ho sottomano una stufa e da indizi temo     quasi di aver mandato a quella fanciulla una lettera sul  rovescio  di     una di queste lettere incominciate.
    Ma  tutto  ciò  non è essenziale,  anche senza il telegramma non sarei     stato capace di partire per Vienna,  anzi il telegramma è piuttosto un     argomento in favore del viaggio.  Certamente non verrò,  ma se con mia     paurosa sorpresa - non accadrà - dovessi trovarmi a Vienna,  non  avrò     bisogno né della colazione né della cena,  ma piuttosto di una barella     sulla quale coricarmi un momento.
    Addio, qui non avrò una settimana facile.
    Suo F.


    Se volesse scrivermi una parola a Karlsbad,  fermo in posta.  No,  più     tardi, a Praga.
    Che  scuole mostruose sono quelle dove Lei insegna,  duecento scolari,     cinquanta  scolari.   Vorrei  avere  un  posto  presso   la   finestra     nell'ultima fila per un'ora e in tal caso rinuncio a ogni incontro con     Lei  (che  d'altronde non avverrà in nessun caso),  rinuncio a tutti i     viaggi e - basta,  questa carta bianca che non vuol finire mi brucia e     consuma gli occhi e perciò scrivo.

    Così è stato nel pomeriggio,  adesso sono quasi le undici. Ho disposto     le cose nell'unico modo possibile.  Ho telegrafato  a  Praga  che  non     posso venire a Karlsbad,  lo spiegherò con lo sconquasso interiore che     da una parte è molto vero,  dall'altra però non  molto  logico  perché     volevo  andare  a  Karlsbad  appunto causa questo sconquasso.  Così mi     trastullo con una creatura viva.  Ma non posso diversamente  perché  a     Karlsbad non potrei né parlare né tacere,  o meglio: parlerei anche se     tacessi poiché ora sono tutto un'unica parola.  Indubbiamente però non     passerò  da Vienna,  bensì lunedì da Monaco,  non so dove andrò,  se a     Karlsbad, a Marienbad, in ogni caso da solo. Le scriverò, [forse] (25)     riceverò  lettere  Sue  però  soltanto  a  Praga,   soltanto  fra  tre     settimane.


    Sabato.

    Mi domando continuamente se Lei abbia capito che,  in seguito alle mie     condizioni di spirito, la mia risposta doveva essere come fu, che anzi     era  ancora  troppo  blanda,   troppo   ingannevole,   troppo   rosea.     Continuamente, giorno e notte, me lo chiedo tremando al pensiero della     Sua  lettera  di  risposta,  me  lo  chiedo inutilmente come se avessi     l'incarico di cacciare un chiodo a martellate dentro  una  pietra  per     tutta una settimana senza intervallo notturno,  operaio e chiodo ad un     tempo. Milena!

    Corre voce - non posso crederci - che questa sera, causa uno sciopero,     saranno interrotte le comunicazioni ferroviarie col Tirolo.


    Sabato.

    E' arrivata la Sua lettera, la felicità della Sua lettera. Oltre tutto     ciò che contiene - vi è un passo importante: che Lei forse  non  potrà     più scrivermi a Praga. Lo metto in rilievo per primo affinché tutti lo     vedano isolato,  anche Lei,  Milena.  Così dunque si minaccia un uomo,     conoscendo, almeno da lontano, le ragioni di quest'uomo. E oltre a ciò     si pretende di far credere che si vuol bene a quest'uomo.
    Ma forse Lei avrebbe persino ragione  di  non  scrivermi  più,  alcuni     passi della Sua lettera accennano a questa necessità. Non so obiettare     nulla  contro  questi  passi.  Sono  proprio  quelli  nei quali so con     precisione e riconosco molto seriamente che sto a grande  altezza,  ma     appunto per ciò l'aria quassù è troppo sottile per i miei polmoni e io     debbo riposare.     Scriverò domani.


    Domenica.

    Oggi  una  cosa  che forse ne spiega molte.  Milena (quale nome ricco,     pesante,  difficile da sollevare per la sua pienezza,  e da  principio     non  mi piaceva molto,  mi sembrava un greco o un romano smarritosi in     Boemia, violentato in ceco, ingannato nell'accento, eppure,  per forma     e  colore,  è  meravigliosamente  una donna che si porta sulle braccia     fuori dal mondo, fuori dal fuoco, non so,  ed ella mi si adagia docile     e fiduciosa sulle braccia, soltanto il forte accento sulla i è cattivo     (26),  il  nome non mi riscappa via?  O è proprio il balzo di felicità     che io stesso faccio con questo peso?):
    Tu scrivi due specie di lettere, non intendo quelle a penna e quelle a     matita, nonostante che anche la scrittura col lapis alluda a parecchie     cose e faccia stare in ascolto,  ma questa distinzione non è decisiva,     l'ultima  lettera  con  la  pianta  dell'appartamento è,  per esempio,     scritta col lapis,  eppure mi rende felice;  felice mi rendono infatti     (comprendi,  Milena,  la  mia  età,  l'essere  consumato e soprattutto     l'angoscia e, comprendi,  la tua gioventù,  la tua freschezza,  il tuo     coraggio; e la mia angoscia diventa sempre più grande perché significa     un ritirarsi dal mondo,  di qui l'aumento della sua pressione,  di qui     inoltre l'aumento dell'angoscia, mentre il tuo coraggio è un avanzare,     donde la diminuzione della pressione,  donde l'aumento di coraggio) le     lettere  pacifiche;  ai piedi di queste lettere potrei sedere,  felice     oltre misura,  questa è pioggia  sulla  testa  che  arde.  Ma  quando,     Milena,  arrivano  quelle  altre lettere,  e siano per loro natura più     apportatrici di felicità che le  prime  (ma,  per  la  mia  debolezza,     soltanto  dopo  più  giorni  riesco  a  portarmi avanti fino alla loro     felicità), quelle lettere che incominciano con esclamazioni (e io sono     già a questo punto) e quelle che terminano con non so quale  spavento,     allora,  Milena,  incomincio davvero a tremare come sotto la campana a     martello,  non posso  leggere,  e  beninteso  leggo  lo  stesso,  come     l'animale che muore di sete beve,  e ho paura e paura, cerco un mobile     sotto il quale possa nascondermi,  prego tremando e fuori di me in  un     angolo perché tu,  come sei entrata rombante in questa lettera,  possa     volare di nuovo dalla finestra, non posso tenere in camera un uragano;     in tali lettere tu devi avere la testa grandiosa  della  Medusa,  così     guizzano i serpenti del terrore intorno al tuo capo e, intorno al mio,     ancor più selvaggi i serpenti dell'angoscia (a).

    (a) [Sul margine a sinistra] La lettera di venerdì è arrivata soltanto     il  mercoledì,  lettere  espresso  e  raccomandate viaggiano più lente     delle ordinarie.

    Lettera tua di mercoledì, giovedì. Ma bambina,  bambina (a rigore sono     io  che  così  pronuncio  Medusa).  Tu  prendi  sul serio tutte le mie     sciocchezze (e "zid e nech pu"  e  "odiare"),  volevo  soltanto  farti     ridere  un  poco,   per  angoscia  ci  fraintendiamo  a  vicenda,  non     costringermi però,  ti prego,  a scrivere in ceco,  non vi era neanche     ombra di rimprovero, se mai potrei farti il rimprovero che degli ebrei     che  tu  conosci  (me  compreso)  -  ce  ne  sono  anche altri!  - hai     un'opinione troppo buona,  talvolta li vorrei cacciare appunto  perché     ebrei  (me  compreso)  tutti  insieme nel cassetto del canterano,  poi     aspettare,  poi tirare un po' fuori il cassetto  per  vedere  se  sono     tutti  soffocati,  altrimenti  richiuderlo e continuare così sino alla     fine.
    Certo ciò che ho detto del tuo "discorso" era serio,  "ernst"  (questo     "ernst" s'infila continuamente nella lettera. Forse gli (27) faccio un     torto  enorme - non ci posso riflettere - ma quasi altrettanto forte è     la mia sensazione che ora sono legato a lui,  sempre  più  saldo,  per     poco non dicevo: per la vita e per la morte.  Potessi parlargli! Ma ho     paura di lui,  egli mi è molto  superiore.  Sai,  Milena,  quando  sei     andata  da lui,  hai fatto un gran passo in discesa dal tuo piano,  se     poi vieni da me balzi addirittura nell'abisso. Lo sai? No,  questa non     era  la mia "altezza" in quella lettera,  bensì la tua) del "discorso"     parlavo,  anche tu l'avevi preso  sul  serio,  in  ciò  non  mi  posso     ingannare.

    Di  nuovo sento della tua malattia.  Milena,  se tu dovessi metterti a     letto! E forse dovresti farlo.  E forse sei a letto mentre scrivo.  Un     mese  fa  non ero forse un uomo migliore?  Stavo in pensiero per te (è     vero, soltanto nella mia testa),  sapevo del tuo male,  ora più nulla,     ora  penso  soltanto  alla  mia malattia e alla mia salute,  e l'una e     l'altra, è vero, la prima come la seconda, sei tu.
    F.

    Oggi per tirarmi fuori  da  quest'aria  insonne  ho  fatto  una  breve     escursione  con  quell'ingegnere  prediletto.  Là ho scritto anche una     cartolina per te, ma non ho potuto firmarla e spedirla,  non posso più     scriverti come ad una estranea.


    Lunedì.

    Questa mattina,  poco prima di svegliarmi, era anche poco dopo essermi     addormentato, ho fatto un sogno detestabile, per non dire spaventevole     (fortunatamente l'impressione del sogno svanisce  in  fretta),  dunque     soltanto  detestabile.  Ad  esso  devo però anche un po' di sonno,  da     sogni simili ci si riscuote soltanto quando sono finiti,  prima non si     riesce a divincolarsi, ci tengono stretti per la lingua.
    Era a Vienna, all'incirca come mi figuro nei miei sogni da sveglio per     il  caso  che  mi ci dovessi recare (in questi sogni da sveglio Vienna     consta soltanto di una piazzetta tranquilla,  un lato è formato  dalla     tua casa, dirimpetto c'è l'albergo dove sarò alloggiato, a sinistra di     questo  sorge la stazione Ovest alla quale arrivo,  a sinistra (28) la     stazione Francesco Giuseppe da dove parto,  e al pianterreno  del  mio     albergo esiste per fortuna un ristorante vegetariano dove mangio,  non     già per mangiare ma per portare con me a Praga un po' di peso.  Perché     parlo di ciò? A rigore non fa parte del sogno, evidentemente ho ancora     paura di esso). Non era dunque esattamente così, era la vera metropoli     verso sera,  bagnata,  buia, un grande traffico confuso: fra l'albergo     dove abitavo e  la  tua  casa  c'era  un  giardino  pubblico  lungo  e     quadrato.  Ero  arrivato  a  Vienna  improvvisamente,  avevo  precorso     lettere  mie  che  dovevano  ancora   raggiungerti   (ciò   mi   dolse     particolarmente  in  seguito).  Comunque fosse,  tu eri avvertita e io     dovevo incontrarti.  Per fortuna (ma nello stesso tempo avevo anche un     senso di molestia) non ero solo, un piccolo gruppo, anche una ragazza,     credo,  era con me,  ma di lei non ricordo nulla di preciso,  in certo     qual modo pareva che fossero  miei  testimoni.  Fossero  almeno  stati     zitti,  ma  parlavano  di  continuo tra loro,  probabilmente delle mie     faccende, sentivo soltanto il loro mormorio che m'innervosiva,  ma non     capivo e non volevo neanche capire niente.
    Stavo a destra del mio albergo, sull'orlo del marciapiede, e osservavo     la  tua  casa.  Era  una  villa  bassa,  con davanti,  all'altezza del     pianterreno, una loggia di pietra, bella, semplice, ad archi tondi.     A un tratto fu l'ora  della  prima  colazione,  sotto  la  loggia  era     apparecchiata  la  tavola,  da  lontano  vedevo  arrivare  tuo marito,     mettersi a sedere su una sedia di vimini a destra, ancora assonnato, e     stirarsi allargando le braccia.  Poi arrivavi tu e ti mettevi a sedere     a  tavola  in  modo  che  ti  si  potesse vedere interamente.  Non con     precisione però, era troppo lontano, si vedevano molto meglio,  non so     perché,  i contorni di tuo marito; tu eri soltanto qualcosa di bianco-     azzurro, di fluido, di spettrale. Anche tu avevi allargato le braccia,     ma non per stirarti, era invece un atteggiamento solenne.     Poco dopo, ed era di nuovo la sera precedente, eri nella via accanto a     me, stavi sul marciapiede, io con un piede nella strada e ti stringevo     una mano, e ora incominciò una conversazione insensatamente veloce,  a     frasi brevi,  ta ta ta,  e durò ininterrotta quasi fino al termine del     sogno.
    Non saprei ripeterla,  ricordo soltanto le prime due frasi e le ultime     due, la parte di mezzo era tutta un tormento non comunicabile.     Invece di salutare dissi rapidamente,  indotto da qualche cosa che era     nel tuo viso: "Tu mi immaginavi diverso",  tu  rispondesti:  "Se  devo     essere  sincera,  pensavo che tu fossi più in gamba" (veramente usasti     un espressione ancor più viennese, ma l'ho dimenticata).     Queste furono le due prime frasi  (a  questo  proposito  mi  viene  in     mente: lo sai che sono del tutto privo d'orecchio,  così completamente     come non mi è mai capitato di trovare nelle mie esperienze?),  e  così     tutto era ormai deciso,  che cosa poteva esserci ancora? Adesso invece     incominciarono le trattative per un nuovo incontro, espressioni quanto     mai indeterminate da parte tua, domande continue e insistenti da parte     mia.
    Qui intervenne il mio gruppo,  si fece credere che,  tra l'altro,  ero     venuto  a Vienna per frequentare una scuola agraria nei dintorni,  ora     sembrava che  ne  avessi  il  tempo,  era  chiaro  che  mi  si  voleva     allontanare per compassione. Io capii l'intenzione, ma andai lo stesso     con  loro alla stazione,  forse perché speravo che la seria intenzione     di partire ti facesse impressione. Andammo tutti alla stazione vicina,     ma ora risultò che avevo dimenticato il nome  del  luogo  dove  doveva     essere  la  scuola.  Ci  eravamo fermati davanti ai grandi orari,  gli     altri passavano continuamente il dito lungo i nomi delle stazioni e mi     domandavano se fosse questo o quello, ma non era nessuno di quei nomi.     Intanto ebbi modo di guardarti un poco,  ma il tuo aspetto mi era  del     tutto  indifferente,  soltanto  la tua parola aveva importanza per me.     Eri piuttosto diversa da come sei,  in ogni caso molto più  scura,  il     volto  scarno,  con  guance  paffute  non  avresti  potuto essere così     crudele. (Ma era poi crudeltà?) Il tuo abito era,  cosa strana,  della     stessa  stoffa  del  mio,  era  anche  molto  virile  e non mi piaceva     affatto.  Ma poi mi venne in mente il passo d'una lettera  (il  verso:     "dvoje  shaty  m nt  a  prsece  slushnie  vypad m") (29) e tanta fu la     potenza della tua parola su di me  che  da  quel  momento  l'abito  mi     piacque molto.
    Ma  ormai  si  era  al termine,  i miei compagni studiavano ancora gli     orari,  noi stavamo in disparte  a  contrattare.  L'ultima  situazione     delle  trattative  era  circa così: il giorno dopo era domenica;  a te     riusciva incomprensibile fino al disgusto come io potessi reputare che     la domenica tu potessi aver tempo per me.  Infine però cedevi,  almeno     in  apparenza,  e  dicevi  che  ti  saresti riservata quaranta minuti.     (Beninteso la cosa più spaventevole della conversazione non  erano  le     parole ma lo sfondo, l'inutilità dell'insieme, e anche il tuo continuo     tacito  argomento: "Io non voglio venire.  Che cosa dunque ti giova se     anche vengo?".) Da te però non potei apprendere quando  avresti  avuto     liberi  quei  quaranta  minuti.  Tu  non  lo  sapevi;  nonostante ogni     apparente  sforzo  di  pensiero  non  riuscivi  a  definirlo.   Infine     domandai: "Devo forse aspettare tutta la giornata?".  "Sì" rispondesti     e ti rivolgesti a un gruppo lì pronto che ti aspettava. Il significato
    della risposta era che  non  saresti  venuta  affatto  e  che  l'unica     concessione  per  me  era  il  permesso  di  stare ad aspettare.  "Non     aspetterò" mormorai e credendo che tu non avessi udito,  mentre era la     mia  ultima carta,  te lo gridai dietro disperatamente.  Ma per te non     aveva importanza,  tu non te ne curasti più.  In qualche modo ritornai     barcollando in città.
    Ma due ore dopo arrivarono lettere e fiori, bontà e conforto.
    Tuo F.

    Gli  indirizzi,  Milena,  sono  di  nuovo  poco  chiari,  riscritti  e     completati dalla posta.  L'indirizzo,  dopo la  prima  preghiera,  era     magnifico,  un campionario di caratteri belli,  svariati, anche se non     proprio leggibili.  Se la posta avesse i miei occhi  potrebbe  leggere     quasi solamente i tuoi indirizzi e non altri. Ma siccome è la posta...


    Lunedì.

    Hai ragione, quando ora - purtroppo ricevetti le lettere la sera tardi     e  domani  mattina farò con l'ingegnere una breve scappata a Bolzano -     lessi il rimprovero per quel "bambina",  mi  dissi  realmente:  Basta,     oggi  non puoi leggere queste lettere,  devi pur anche dormire un poco     se domani mattina vuoi fare la gita - e ci volle un po' di tempo prima     che continuassi a leggere e capissi e la tensione si allentasse e,  se     tu fossi qui (e con ciò non intendo soltanto la vicinanza fisica),  io     potessi con un respiro di sollievo posare il viso nel tuo grembo.  Ciò     significa esser malati,  no? Eppure ti conosco e so bene che "bambina"     non è poi un epiteto così spaventoso. So anche stare allo scherzo,  ma     per  me ogni cosa può essere anche una minaccia.  Quando mi scriverai:     "Ieri ho contato e fatto la somma delle  "e"  nella  tua  lettera  che     erano  in  numero  di  x:  come  puoi permetterti di scrivermi "e",  e     proprio in numero di x?" potrò anche,  se rimarrai seria,  persuadermi
    di  averti  con  ciò  offesa  ed  essere  alquanto infelice.  E infine     potrebbe anche essere davvero un'offesa, è difficile controllare.     D'altronde non devi dimenticare che è facile  distinguere  lo  scherzo     dalla serietà, ma nelle persone talmente importanti che da ciò dipende     la loro vita non è invece facile,  il rischio è pur grande,  gli occhi     diventano acuti come un microscopio e quando si arriva a tal punto non     ci si raccapezza più. In questo non ero forte, credo,  neanche nel mio     periodo  forte.  Per esempio nella prima classe elementare.  La nostra     cuoca, una donnetta asciutta, magra, col naso a punta, le guance cave,     giallognola ma solida, energica e imperiosa,  mi accompagnava a scuola     ogni  mattina.  Abitavamo  nella  casa  che divide il Piccolo Ring dal     Grande; si attraversava dunque il Ring,  poi si prendeva la Teingasse,     poi,  sotto  una  specie  di  arco,  la  Fleischmarktgasse  fin giù al     Fleischmarkt.  E ogni mattina avveniva la  stessa  cosa  per  un  anno     intero.  Nell'uscire  da  casa la cuoca diceva che avrebbe riferito al     maestro quanto ero stato maleducato in casa.  Ora,  probabilmente  non     ero molto maleducato, bensì ostinato, disutile, malinconico, musone, e     certo se ne sarebbe potuto ricavare qualcosa di carino per il maestro.     Io  lo  sapevo  e  perciò  non  prendevo alla leggera le minacce della     cuoca.  Sulle prime però pensavo che la strada per arrivare  a  scuola     era  infinitamente  lunga,  che  molte  cose vi potevano succedere (da     questa apparente leggerezza dei bambini si sviluppa  a  poco  a  poco,     dato  che  le  strade non sono infinitamente lunghe,  quella timidezza     angosciosa, quella serietà da occhi morti) e del resto,  almeno finché     passavamo per l'Altst„dter Ring, ero molto in dubbio che la cuoca, pur     essendo persona di rispetto,  ma sempre persona di casa,  potesse aver     il coraggio di parlare col maestro, persona rispettata dal mondo.  Può     anche  darsi  che  dicessi  qualcosa in questo senso,  ma la cuoca con     quelle sue labbra sottili e spietate  rispondeva  brevemente  che  non     dovevo  pensare  così  e  che  lei  lo  avrebbe  detto.   Nel  momento     d'imboccare la Fleischmarktgasse - quel punto ha  per  me  ancora  una     piccola  importanza storica (in quale regione sei vissuta tu bambina?)
    - la paura della minaccia prendeva ii sopravvento.  La scuola era  per     se  stessa  uno  spavento  e  la  cuoca  me lo voleva ancor aggravare.     Incominciavo a pregare,  ella scoteva la  testa,  quanto  più  pregavo     tanto più preziosa mi sembrava la cosa che chiedevo, tanto maggiore il     pericolo, mi fermavo e imploravo perdono, ella mi trascinava avanti io     minacciavo di fargliela pagare dai miei genitori, ella rideva, qui era     onnipotente, io mi aggrappavo alle porte dei negozi, agli stipiti, non     volevo proseguire prima che mi avesse perdonato,  la trattenevo per la     gonna (non era facile neanche per lei),  ma lei mi  trascinava  avanti     affermando che avrebbe detto anche questo al maestro, si faceva tardi,     sonavano  le  otto alla chiesa di San Giacomo,  si udiva il campanello     della scuola,  altri ragazzi si mettevano a correre,  di arrivar tardi     avevo  sempre  la  più  gran  paura,  ora dovevamo correre anche noi e     continuamente riflettevo: "Lo dirà,  non lo  dirà"  -  ebbene  non  lo     diceva,  non lo disse mai,  ma ne aveva sempre la possibilità, persino     una possibilità che andava apparentemente aumentando  (ieri  non  l'ho     detto,  ma  oggi  lo  dirò certamente) e questa non la mollava mai.  E     certe volte - pensa,  Milena per la collera batteva i piedi  in  mezzo     alla  strada  e c'era magari qualche venditrice di carbone che stava a     guardare. Quali sciocchezze, Milena, e come ti appartengo con tutte le     cuoche e le minacce e con questo enorme polverone che  38  anni  hanno     sollevato e che si deposita nei polmoni.
    Ma  non  volevo  neanche dire tutte queste cose o almeno dirle in modo     diverso,  è tardi,  devo smettere per andar  a  dormire  e  non  potrò     dormire  perché  avrò  smesso  di  scrivere a te.  Se un giorno vorrai     sapere quale sia stata la mia vita precedente,  ti manderò da Praga la     lettera chilometrica che scrissi circa sei mesi fa a mio padre, ma non     gli ho ancora data.
    E alla tua lettera risponderò domani o, se dovessi far troppo tardi la     sera,  soltanto dopodomani.  Resto qui ancora qualche giorno perché ho     rinunciato  ad  andare  a  trovare  i  miei  genitori  a  Franzensbad,     rinunciato  veramente non è la parola per questo rimanere sdraiato sul     balcone.
    E ancora grazie per la tua lettera.
    F.


    Martedì.

    Questa mattina ho sognato ancora  te.  Eravamo  seduti  l'uno  accanto     all'altra   e   tu   cercavi   di   allontanarmi,   non   in  collera,     amichevolmente.  Io ero molto infelice.  Non perché mi respingevi,  ma     per  me  che  ti  trattavo come una donna muta qualunque e non facendo     attenzione alla voce che veniva da te e  parlava  proprio  con  me.  O     forse  non  era  che non vi prestassi attenzione,  ma non avevo potuto     risponderle. E mi allontanavo più sconsolato che nel primo sogno.     Qui mi viene in mente ciò che ho letto una  volta,  non  so  in  quale     autore,  press'a  poco  così: "La donna che amo è una colonna di fuoco     che passa sopra la terra.  Ora mi tiene racchiuso.  Ma non i racchiusi     essa conduce, bensì i veggenti".
    Tuo.
    (Ora  perdo  anche il nome;  è diventato sempre più breve e ora suona:
    Tuo.)


    Mercoledì.

    Le due lettere sono arrivate  insieme,  a  mezzogiorno;  non  sono  da     leggere ma da essere stese,  da posarvi il viso e perdere il cervello.     Ma ora appare che è bene averlo quasi perduto perché così si trattiene     il resto possibilmente a lungo.  Perciò i miei 38 anni  di  ebreo,  di     fronte ai Suoi 24 di cristiana, dicono:
    Come  va  questa faccenda?  E dove sono le leggi universali e tutta la     polizia  del  Cielo?   Tu  hai  38  anni  e  sei  tanto  stanco   come     probabilmente non si può stancarsi per la sola età.  O meglio: non sei     affatto stanco,  ma irrequieto,  e hai paura di fare un solo passo  su     questa terra irta di tagliole,  perciò tieni sempre,  dirò così, i due     piedi sollevati contemporaneamente,  non sei stanco  ma  hai  soltanto     paura  dell'enorme stanchezza che seguirà questa enorme inquietudine e     (non per nulla sei ebreo e sai che cosa sia l'angoscia) che può essere     pensata come un guardare da ebete davanti a sé, nel migliore dei casi:     nel giardino del manicomio dietro alla piazza San Carlo.
    Ecco,  questa sarebbe dunque la tua situazione.  Hai combattuto alcune     scaramucce  rendendo  infelici  l'amico  e  il  nemico  (eppure  avevi     soltanto amici, buone, care persone, e nessun nemico),  e così sei già     diventato  un invalido,  uno di coloro che si mettono a tremare appena     vedono una pistola da bambini e ora,  ora  all'improvviso  è  come  tu     fossi richiamato alla grande lotta redentrice del mondo. Sarebbe molto     singolare, no?
    Pensa d'altronde che il tempo migliore della tua vita,  del quale,  in     fondo, non hai parlato ancora a nessuno come si deve, furono circa due     anni fa quegli otto mesi in un villaggio dove credevi di aver troncato     ogni cosa,  ti limitavi a ciò che dentro di te era al di  là  di  ogni     dubbio, eri libero, senza lettere, senza i cinque anni di collegamento     postale con Berlino,  sotto la tutela della tua malattia,  senza dover     mutare molto in te,  costretto soltanto a ricalcare  meglio  i  vecchi     angusti contorni del tuo essere (in viso,  sotto i capelli brizzolati,     non ti sei quasi più mutato da quando avevi sei anni).
    Purtroppo in quest'ultimo anno e mezzo hai capito che questa  non  era     la  fine,  più  in basso di così non potevi cadere in quella direzione     (eccettuo l'ultimo autunno quando combattei onestamente per le nozze),     più in basso non potevi trascinare con te un'altra persona,  una  cara     buona  fanciulla,  pronta  ad annullarsi nel disinteresse,  non più in     basso, senza uscita in ogni senso, anche verso il basso.
    Ecco,  e ora Milena ti chiama con una voce  che  con  ugual  forza  ti     penetra  nel cervello e nel cuore.  Certo,  Milena non ti conosce,  un     paio di racconti e di lettere l'hanno abbacinata; ella è come il mare,     forte come il mare con le sue masse d'acqua,  che pure  nel  malinteso     precipita  e  s'abbatte con tutta la sua forza secondo il volere della     luna morta e soprattutto lontana. Ella non ti conosce e,  se vuole che     tu  venga,  questo  è forse un presentimento della verità.  Che la tua     vera presenza non l'abbacinerà più,  puoi essere  più  che  sicuro.  E     infine,  anima tenera, non vuoi forse venire, appunto perché hai paura     di Ciò?
    Ma,  ammesso che tu abbia cento altri motivi interiori per non  venire     (tu  li  hai davvero) e oltre a ciò anche uno esteriore,  che cioè non     sarai capace di parlare col marito di Milena o soltanto di  vederlo  e     che  allo  stesso  modo  non  sarai  capace di parlare con Milena o di     vederla quando non  ci  sia  suo  marito  -  ammesso  tutto  ciò,  due     considerazioni vi si oppongono tuttavia:
    In primo luogo,  se dici che vieni,  Milena forse non vorrà più che tu     venga,  non già per volubilità ma per naturale stanchezza,  ti lascerà     partire sollevata e volentieri, come tu vuoi.
    In  secondo  luogo  va'  pure davvero a Vienna!  Milena pensa soltanto     all'aprirsi della porta.  Questa,  sì,  si  aprirà,  ma  poi?  Poi  vi     apparirà un uomo alto e scarno, sorriderà gentilmente (lo farà sempre,     lo  ha  preso  da  una vecchia zia che anche lei sorrideva sempre,  ma     entrambi non lo fanno con intenzione,  soltanto per  imbarazzo)  e  si     metterà  a  sedere  dove  gli  sarà  indicato.  Con  ciò la festa sarà     terminata poiché egli quasi non parlerà, per farlo gli manca l'energia     vitale (ieri il mio nuovo commensale, riferendosi al vitto vegetariano     dell'uomo muto,  disse: "Credo che per  il  lavoro  intellettuale  sia     assolutamente  necessario  mangiar  carne"),  non sarà neanche felice,     anche per questo gli manca l'energia vitale.
    Ora, Milena, Lei vede che parlo sinceramente. Ma Lei intelligente,  ha     notato  in  tutto  questo  tempo  che  dico bensì la verità (completa,     assoluta e meticolosamente  precisa)  ma  troppo  sinceramente.  Avrei     potuto  venire  anche senza quest'annuncio e toglierLe senz'altro ogni     illusione.  Se non l'ho fatto,  è una prova di più della  mia  verità,     della mia debolezza.
    Rimango  ancora  quindici giorni,  soprattutto perché mi vergogno e ho     paura di ritornare con questo risultato della cura.
    A casa e, ciò che m'indispettisce particolarmente, nel mio Istituto ci     si aspetta da questa licenza qualcosa come una quasi guarigione. Quale     tortura le  domande:  Quanto  sei  aumentato  di  peso?  E  io  invece     diminuisco.  Non fare economie!  (detto contro la mia avarizia).  E io     pago la pensione,  ma non posso mangiare.  E altri scherzi  di  questo     genere.
    Tante cose ancora da dire,  ma la lettera non partirebbe. Cioè, volevo     dire ancora: se verso la fine dei quindici  giorni  Lei  vorrà  ancora     fermamente come venerdì che io venga, verrò.
    Suo F.


    Ancora sabato.

    Questo  incrociarsi  di  lettere  deve  cessare,   Milena,   ci  fanno     impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto,  a che cosa si riceve     risposta e,  comunque sia,  si trema sempre.  Capisco benissimo il tuo     ceco,  odo anche la risata,  ma m'ingolfo nelle  tue  lettere  tra  la     parola e il riso,  poi odo soltanto la parola, poiché oltre a tutto la     mia natura è angoscia.
    Non so rendermi conto se dopo le mie lettere di  mercoledì-giovedì  tu     voglia  ancora vedermi.  So il rapporto fra te e me,  (tu appartieni a     me,  anche se non dovessi vederti mai più),  lo conosco in quanto  non     sta  nel  territorio confuso dell'angoscia,  ma non conosco affatto il     rapporto tuo verso di me,  questo  appartiene  tutto  all'angoscia.  E     neanche tu mi conosci Milena, lo ripeto) (a).
    Ciò che accade è per me qualcosa di mostruoso, il mio mondo crolla, il     mio  mondo  risorge,  vedi  come  tu (questo tu sono io) ne possa dare     buona prova.  Non mi lagno del crollo,  il mondo stava  crollando,  mi     lagno  del suo ricostruirsi mi lagno delle mie deboli forze,  mi lagno     del venire al mondo mi lagno della luce del sole.
    Come continueremo a  vivere?  Se  dici  di  sì  alle  mie  lettere  di     risposta, non devi più vivere a Vienna, è impossibile.
    Milena,  non si tratta di questo,  tu non sei per me una signora,  sei     una fanciulla, non ho mai visto nessuna che fosse tanto fanciulla, non     oserò  porgerti  la  mano,  fanciulla,  la  mano  sudicia,   convulsa,     unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda.
    F.

    In  quanto  al  fattorino  di  Praga  il progetto non regge.  Troverai     soltanto una casa vuota.  E' il mio ufficio.  Intanto io sarò  seduto,     col  viso  fra le mani,  alla scrivania al n.  6 dell'Altst„dter Ring,     terzo piano.

    (a) [Sul margine a sinistra] Ecco, nemmeno tu mi comprendi, Milena, la     "questione ebraica" era soltanto uno stupido scherzo.


    Mercoledì.

    E' difficile dire la verità,  perché ne esiste bensì una  sola,  ma  è     viva  e  possiede  pertanto  un  volto  vivo e mutevole ("kr sn  vubec     nikdy, v znè ne, snad niekdy hezk ") (30). Se ti avessi risposto nella     notte dal lunedì al martedì,  sarebbe stata una cosa terribile,  ero a     letto come alla tortura,  tutta la notte ti rispondevo, mi lagnavo con     te, cercavo di allontanarti da me, mi maledicevo. (Dipendeva anche dal     fatto che avevo ricevuto la lettera la sera tardi e  nella  prossimità     della  notte  ero troppo agitato e accessibile alle parole serie.) Poi     partii la mattina per Bolzano,  con la ferrovia elettrica a  Collalbo,     1200  metri  di  altitudine,  respirai,  benché non proprio padrone di     tutte le mie facoltà mentali,  aria pura quasi fredda,  di fronte alle     vicine  catene delle Dolomiti,  nel viaggio di ritorno scrissi poi per     te ciò che segue e che ora trascrivo,  e anche  questo,  per  lo  meno     oggi, mi sembra troppo forte; così mutano i giorni:
    Finalmente  sono  solo,  l'ingegnere  è  rimasto  a Bolzano,  io torno     indietro.  Non ho neanche sofferto molto che l'ingegnere e le  regioni     si siano interposti fra me e te, poiché nemmeno io ero con me. Ieri ho     passato  la sera fino alle 12 e mezza,  scrivendo e poi pensando ancor     più a te, poi fui a letto con solo pochi momenti di sonno fino alle 6,     poi mi strappai di lì come un estraneo strappa dal letto un  estraneo,     e  fu  bene  perché  avrei sprecato desolatamente la giornata a Merano     almanaccando e scrivendo. Poco importa che questa gita non mi sia,  si     può  dire,  neanche  arrivata alla coscienza e che nel ricordo rimarrà     soltanto come un sogno non molto preciso. La notte è stata così perché     con la tua lettera (tu hai lo sguardo penetrante,  ma ciò non  sarebbe     molto,  tanto  è  vero  che la gente gira per la strada e tira a sé lo     sguardo, ma tu possiedi il coraggio di questo sguardo e soprattutto la     forza di guardare più avanti,  oltre questo sguardo;  questo  guardare     avanti è ciò che conta, e tu lo sai fare) hai risvegliato tutti questi     vecchi  diavoli che dormono con un occhio e con l'altro spiano la loro     buona occasione, la qual cosa è, sì, spaventevole, fa venire il sudore     dallo spavento (ti giuro: di nient'altro  che  di  essi,  delle  forze     inconcepibili), ma è buona, è sana, si passano in rassegna e si sa che     ci sono.  Ciò nonostante la tua spiegazione del mio "tu devi andar via     da Vienna" non è del tutto esatta.  Non l'ho scritto con leggerezza né     ho  avuto  paura  del  carico  concreto  (io  non  guadagno molto,  ma     basterebbe per noi due, credo,  naturalmente se non interviene qualche     malattia)  e  poi  sono sincero secondo la mia facoltà di pensare e di     esprimermi (lo ero anche prima,  ma certo soltanto tu hai  la  facoltà     reale,  soccorrevole di vederlo). Ciò che temo, che temo con gli occhi     spalancati e follemente sprofondato nel l'angoscia (se potessi dormire     come sprofondo nell'angoscia,  non  vivrei  più),  è  soltanto  questa     intima  congiura  contro di me (che capirai meglio dalla lettera a mio     padre,  benché non interamente,  poiché la lettera è troppo  costruita     per lo scopo a cui tende) che si fonda, diciamo, sul fatto che io, non     essendo  nel grande giuoco degli scacchi neanche pedina di una pedina,     anzi tutt'altro,  ora,  contro le regole del giuoco e per confonderlo,     pretendo di occupare persino il posto della regina - io,  pedina della     pedina,  dunque pezzo che non esiste neanche,  che non prende  neanche     parte  al  giuoco  - e poi forse anche il posto del re stesso o magari     tutta la scacchiera,  e che,  se  lo  volessi  davvero,  ciò  dovrebbe     avvenire in un modo diverso, più disumano.
    Perciò la proposta che ti ho fatto ha un'importanza molto maggiore per     me  che  per  te.  E' ciò che in questo momento è fuor di dubbio,  non     intaccato dal male, assolutamente beatificante.

    Così era ieri,  oggi per esempio direi che certamente verrò a  Vienna,     ma,  siccome  oggi  è  oggi  e  domani è domani,  mi riservo ancora la     libertà.  A sorprenderti non verrò  in  nessun  caso,  né  verrò  dopo     giovedì. Se vengo a Vienna, ti scrivo una lettera per posta pneumatica     (non  potrei  vedere  nessuno,  tranne  te,  lo so) certo non prima di     martedì.  Arriverei alla stazione Sud,  non so ancora  donde  partirò,     alloggerei  quindi  nei pressi della stazione Sud;  peccato che non so     dove tu dia le lezioni presso la stazione Sud,  potrei  aspettarti  là     alle cinque.  (Questo periodo devo averlo già letto in una fiaba,  non     so,  accanto a quest'altra frase: se non sono morti,  vivono  ancora.)     Oggi  ho  visto  una  pianta  di  Vienna,  per  un  istante mi è parso     incomprensibile che si sia costruita una città così grande,  mentre tu     hai bisogno di una sola camera.
    F.

    Leggo  adesso  un'osservazione  sul vitto;  certo,  anche nel caso mio     andrebbe  bene,   nel  caso  di  quell'uomo  importante   che   allora     diventerei.  Leggo  le  due  lettere come il passero becca le briciole     nella mia stanza, tremando, stando in ascolto,  spiando,  con tutte le     penne arruffate.


    Giovedì.

    Quando  non  si  dorme  abbastanza  si  è  più intelligenti che avendo     dormito.  Ieri ero un poco sazio di sonno e tosto scrissi quelle  tali     sciocchezze sul viaggio a Vienna.  Infine questo viaggio non è cosa da     poco, non è cosa da scherzare.  In ogni caso non ti farò una sorpresa,     in nessun modo,  tremo soltanto all'idea. No, non verrò neanche a casa     tua.  Se giovedì non avrai ancora una lettera  per  posta  pneumatica,     vorrà  dire  che  sono  partito  per  Praga.  D'altro  canto sento che     arriverei alla stazione Ovest - ieri scrissi, credo, stazione Sud - ma     ciò è indifferente. Non sono neanche meno pratico del consueto massimo     né poco trasportabile e sbadato (premesso che abbia dormito un  poco),     perciò non devi stare in pensiero, se monto nella carrozza per Vienna,     scendo anche con la massima probabilità a Vienna,  soltanto il montare     in carrozza è complicato.  Dunque  arrivederci  (ma  non  deve  essere     proprio a Vienna, può essere anche per lettera).
    F.

    E,  a  proposito  di Milena,  il tedesco e l'ebraico non c'entrano per     niente.  Meglio di tutti (prescindendo beninteso dagli  ebrei,  cechi)     capiscono il ceco i signori di "Nashe retch", al secondo posto vengono     i  lettori del periodico,  al terzo gli abbonati e io sono abbonato...     Come tale ti dico  che  di  Milena  è  ceco  soltanto  il  diminutivo:
    milenka. Ti piaccia o no, così dice la filologia (31).
    Se vengo a Vienna, ti telegraferò dunque o ti scriverò fermo in posta.     Martedì o mercoledì. Ho certamente affrancato tutte le lettere, non si     capiva dalla busta che i francobolli erano stati staccati?


    Venerdì sera.

    Questa mattina ho scritto da sciocco,  ora arrivano le tue due lettere     care e strapiene. Risponderò a voce; martedì,  se non succede dentro o     fuori qualcosa d'imprevisto,  sarò a Vienna. Sarebbe molto ragionevole     se (martedì è festa,  credo,  può darsi che l'ufficio postale dove  ti     vorrei  poi  telegrafare o scrivere per posta pneumatica da Vienna sia     chiuso) ti  dicessi  già  oggi  dove  ti  aspetterò,  ma  fino  allora     soffocherei,  se oggi,  adesso, ti dicessi un luogo e per tre giorni e     tre notti vedessi quel luogo vuoto e in attesa  che  io  mi  ci  fermi     martedì  a  una determinata ora.  In genere,  Milena,  esiste forse al     mondo tanta pazienza quanta occorre a me? Me lo dirai martedì.
    F.


    [Biglietto postale. Vienna, timbro 29. 6. 1920].

    Martedì ore 10.

    Entro le 12 la lettera probabilmente,  anzi certamente,  non arriverà,     sono già le dieci.  Dunque soltanto domani,  forse è bene, perché sono     bensì a Vienna,  sto in un caffè alla stazione Sud (che razza di cacao     è  questo,  che  razza  di  pane,  di  questo vivi?),  ma non sono qui     interamente,  non ho dormito due notti,  chi sa se  dormirò  la  terza     notte  all'Hotel  Riva  presso la stazione Sud,  dove sono alloggiato,     accanto a un'autorimessa.  Non so dirti niente di meglio:  ti  aspetto     mercoledì  dalle  10  del mattino in poi davanti all'Hotel.  Ti prego,     Milena non sorprendermi arrivando di fianco o da dietro.  Non lo  farò     neanche io.  Probabilmente oggi andrò a vedere i monumenti: L.-strasse     (32), Ufficio postale, la circonvallazione dalla stazione Sud alla L.-     strasse, la venditrice di carbone, e simili, possibilmente senza farmi     vedere.
    Tuo.


    [Praga] Domenica. (33)

    Oggi, Milena, Milena,  Milena...  non so scrivere altro.  Eppure;  sì.
    Oggi  dunque,  Milena,  soltanto in fretta,  stanchezza e non-presenza     (quest'ultima però anche domani). Come si fa a non essere stanchi,  si     promette  a  un  uomo  malato  un  trimestre di licenza e gli si danno     quattro giorni e del martedì e della domenica soltanto un pezzo  e  si     sono tagliate via anche le sere e le mattine.  Non ho forse ragione se     non sono guarito del tutto?  Non ho ragione?  Milena!  (Detto nel  tuo     orecchio  sinistro  mentre giaci sul povero letto in un sonno profondo     di buona origine e,  lentamente,  senza saperlo,  ti giri da destra  a     sinistra verso le mie labbra.)
    Il  viaggio?  Da  principio  fu  molto  semplice;  sul marciapiede non     c'erano giornali in vendita.  Motivo per uscire di corsa,  tu non  eri     più là,  ed era giusto.  Poi rimontai in carrozza, si partì, mi misi a     leggere il giornale,  tutto era ancora giusto,  dopo un poco smisi  di     leggere ma all'improvviso tu non c'eri più, cioè sì, c'eri, lo sentivo     in  tutto  ciò  che  sono,  ma  quel tuo modo di esserci era pur molto     diverso da quello dei quattro giorni e  io  mi  ci  dovevo  assuefare.     Ripresi  a  leggere,  ma la pagina di diario di Bahr (34) incominciava     con una descrizione dei Bagni di Kreuzen  presso  Grein  sul  Danubio.     Abbandonai la lettura, ma mentre guardavo fuori passò un treno e sulla     carrozza  era scritto: Grein.  Guardai di nuovo lo scompartimento.  Di     fronte a me un signore leggeva le "N rodni Listy" di domenica  scorsa,     vi  notai  un'appendice  di  Ruzena  Jesensk ,  me la faccio prestare,     incomincio invano,  pianto lì e mi trovo esattamente col tuo viso come     era  al  commiato  in  stazione.  Là sul marciapiede c'era un fenomeno     naturale come non ne ho mai visti: luce solare che si oscura,  non per     opera delle nubi ma per se stessa.
    Che devo dire ancora?  La gola non obbedisce, le mani non obbediscono.
    Tuo.

    A domani la meravigliosa storia del resto del viaggio.


    Domenica, poco dopo. (35)

    Un fattorino reca la lettera allegata  (ti  prego  stracciala  subito,     anche quella di Max) (36),  vuole subito risposta,  scrivo che sarò là     alle 9.  Ciò che ho da dire è ben chiaro,  non so come lo dirò.  Santo     cielo, se fossi ammogliato, venissi a casa, non trovassi il fattorino,     ma  il  letto  per  rintanarmici  in modo inaccessibile,  senza viaggi     sotterranei a Vienna! Me lo dico per farmi capire quanto sia facile il     difficile che mi aspetta.
    Tuo.

    Ti mando la lettera come se  con  ciò  potessi  ottenere  che  tu  sia     particolarmente vicina a me quando passeggerò in su e in giù davanti a     quella casa.


    Domenica, 11 e mezza.

    (Voglio  numerare  almeno  queste  lettere,  nessuna  deve  mancare di     raggiungerti come io non mancai di raggiungerti  nel  piccolo  parco.)     Nessun  risultato,  nonostante  che  tutto  sia  così chiaro e così io     l'abbia anche detto.  Non voglio riferire particolari,  salvo che ella     non  disse una parola neppur lontanamente cattiva sul conto tuo o mio.     A furia di chiarezza non fui neanche  pietoso.  Potei  soltanto  dire,     conforme verità,  che tra me e lei nulla è mutato e nulla forse muterà     mai, salvo che - non più, è abominevole, è un'opera da carnefice,  non     è roba per me.  Una sola cosa, Milena, se si ammala gravemente (ha una     pessima cera ed è estremamente disperata,  domani nel pomeriggio  devo     andare  ancora da lei),  se dunque si ammala o le capita qualche altra     cosa, io non lo posso più impedire, perché posso dirle sempre soltanto     la verità,  e questa verità non è soltanto Verità ma qualcosa di  più,     il dissolvermi in te mentre cammino di fianco a lei - se dunque accade     qualcosa di simile, allora, Milena, devi venire.
    F.

    Discorsi sciocchi, tu non puoi venire, per "la medesima" ragione.     Domani  ti  mando a casa la lettera a mio padre,  conservala bene,  ti     prego,  può darsi che un giorno io  la  voglia  pur  dare  a  lui.  Se     possibile, non farla leggere a nessuno. E nel leggerla cerca di capire     tutti  gli  arzigogoli  avvocateschi,  è  una  lettera da avvocato.  E     intanto non dimenticare mai il tuo grande Nonostante.


    Lunedì mattina.

    Oggi ti mando  "Il  povero  sonatore"  (37)  non  perché  abbia  molta     importanza per me,  l'aveva una volta,  anni fa,  te lo mando perché è     così  viennese,  così  antimusicale,  così  da  piangere,  perché  nel     Giardino  Pubblico  ci ha guardati così dall'alto;  (guardato noi!  Tu     infatti,  Milena,  camminavi al mio fianco,  pensa,  camminavi al  mio     fianco),  perché è così burocratico e perché amava una ragazza abile e     brava.


    4. Lunedì in mattinata.

    La mattina presto ho ricevuto la lettera di venerdì,  più tardi quella
    di  venerdì  notte.  La  prima  così triste,  triste viso da stazione,     triste non tanto per il contenuto quanto perché è  invecchiata,  tutto     ciò è già passato,  il bosco comune, il comune sobborgo, il viaggio in     comune.  E' vero che  non  scompare,  questo  viaggio  rettilineo,  in     comune,  su per la via lastricata di pietra,  di ritorno per il viale,     al sole del tramonto,  e non cessa,  eppure è uno scherzo sciocco dire     che  non cessa.  Documenti sono qui sparpagliati,  qualche lettera che     non ho letto, visite al direttore (non licenziato) e a qualcun altro e     intanto un campanellino suona nell'orecchio: "Ella non è più con  te",     è vero che da qualche parte nel cielo c'è anche un'immensa campana che     suona:  "Ella  non  ti  abbandonerà"  ma  inutile,  il  campanellino è     nell'orecchio.  E poi c'è la lettera della notte,  non si capisce come     la  si  possa  leggere,  non si capisce come il petto possa allargarsi     abbastanza e contrarsi per respirare quest'aria,  non si capisce  come     si possa essere lontano da te.
    Ciò  nonostante  non  mi  lamento,  tutto  ciò  non  è un lamento e io     possiedo la tua parola.

    Ora la storia del viaggio e poi di' ancora che non sei un  angelo:  ho     sempre  saputo  che  il  mio  visto austriaco è veramente (e anche non     veramente) scaduto già due mesi fa,  ma a Merano mi avevano detto  che     esso   non   era  neanche  necessario  per  il  transito,   e  infatti     nell'entrare in Austria non  mi  fecero  alcuna  obiezione.  Perciò  a     Vienna  dimenticai  del  tutto  questo  difetto.  A  Gmund,  però,  il     funzionario al controllo dei passaporti -  un  uomo  giovane,  duro  -     scoprì subito la mancanza.  Il passaporto venne messo da parte,  tutti     poterono andare alla visita doganale, tranne me, e fu già un bel guaio     (sono continuamente disturbato,  eppure è il primo  giorno,  non  sono     ancora  obbligato  ad  ascoltare le chiacchiere in un ufficio,  sempre     vogliono scacciarmi da  te,  cioè  scacciare  te  da  me,  ma  non  ci     riusciranno,  Milena, vero? nessuno, mai). Così è andata dunque, ma tu     già incominciavi ad agire.  Arriva un uomo della polizia confinaria  -     gentile,  franco,  austriaco,  sensibile,  cordiale  -  e  per scale e     corridoi mi conduce all'ispettorato di confine.  Là  trovo  una  ebrea     romena con una simile deficienza nel passaporto e,  strana cosa, anche     la tua cortese inviata,  o angelo degli  ebrei.  Ma  ancora  le  forze     avverse  sono  più  potenti.  Il  grande  ispettore  e  il suo piccolo     segretario,  entrambi  gialli,  magri,  irritati,   almeno  in  questo     momento,  prendono  in consegna il passaporto.  L'ispettore decide sui     due piedi: "Riprendere il treno per Vienna e farsi dare il visto dalla     polizia".  Io  non  riesco  che  a  ripetere  più  volte:  "Per  me  è     spaventoso".  L'ispettore  risponde  anche  lui più volte con ironia e     cattiveria: "Le sembra  soltanto".  "Non  si  può  ottenere  il  visto     telegraficamente?"  "No."  "Neanche assumendosi tutte le spese?" "No."     "Non esiste qui un'istanza superiore?" "No." La donna, che nota il mio     dolore ed è stupendamente calma,  prega l'ispettore di lasciar passare     almeno  me.  Mezzi  troppo  scarsi,  Milena!  Così  non riesci a farmi     passare.  Devo rifare tutta la strada fino al controllo  passaporti  e     prendere  i  bagagli,  per  oggi  dunque la partenza è definitivamente     sfumata.  E così ce ne stiamo insieme all'ispettorato di  confine,  il     poliziotto stesso non trova parole di conforto, sa soltanto che si può     prolungare  la  validità dei biglietti e simili,  l'ispettore ha detto     l'ultima parola e si è ritirato nel suo ufficio,  soltanto il  piccolo     segretario  è  ancora  con noi.  Io faccio i conti: il primo treno per     Vienna parte alle 10 di sera, arriva a Vienna alle 2 e mezza di notte.     Sono ancora tutto morsicato dalle cimici del Riva,  come sarà  la  mia     camera  vicino  alla  stazione  Francesco  Giuseppe?  Ma  non ne trovo     nessuna, e ora (sì,  alle 2 e mezza) vado col tram nella L.- strasse e     chiedo ospitalità (sì,  alle 5 del mattino). Ma, comunque sia, in ogni     caso devo andar a prendere il visto lunedì mattina (ma l'avrò subito e     non invece martedì?) e poi venire da  te,  sorprenderti  sulla  soglia     mentre vieni ad aprire. Santo cielo! A questo punto il pensiero fa una     pausa, ma poi continua: in quale stato sarò dopo la notte e il viaggio     e la sera stessa dovrò pur proseguire e fare sedici ore di treno, come     arriverò  a  Praga  e  che cosa dirà il direttore al quale dunque devo     ritelegrafare pregandolo di prolungarmi la licenza?  Tu certo non vuoi     tutte  queste  cose,   ma  che  cosa  vuoi  allora?  Non  è  possibile     altrimenti. L'unica modesta facilitazione, mi viene in mente,  sarebbe     pernottare  a  Gmund e partire per Vienna soltanto domattina,  e ormai     stanco chiedo al taciturno segretario  informazioni  sul  treno  della     mattina  per  Vienna.  Parte  alle  5 e mezza e arriva alle 11.  Bene,     partirò con questo e così farà anche la romena.  Ma a questo punto del     discorso si arriva a una svolta improvvisa,  non so in che maniera, in     ogni caso balena la volontà del piccolo  segretario  di  aiutarci.  Se     pernottiamo  a  Gmund,  la  mattina  quando lui è solo in ufficio,  ci     lascerà  partire  segretamente  per  Praga  con  l'accelerato  e  così     arriviamo  a Praga alle 4 del pomeriggio.  All'ispettore dobbiamo dire     che partiremo col treno  della  mattina  per  Vienna.  Magnifico!  Sì,     magnifico  solo relativamente perché dovrò pur telegrafare a Praga.  E     sta bene.  Arriva l'ispettore,  facciamo un po' di commedia col  treno     del  mattino  per Vienna,  poi il segretario ci manda via e ci dice di     tornare la sera per metterci segretamente d'accordo.  Nella mia cecità     penso  che  tutto  ciò  provenga  da  te,  mentre in realtà è soltanto     l'ultimo attacco delle forze avverse.  Usciamo dunque  lentamente,  la     donna  e  io,  dalla  stazione (il diretto che avrebbe dovuto portarci     avanti è ancora lì,  la visita dei bagagli è sempre lunga).  Quanto ci     si  mette  per  andare  in  città?  Un'ora.  Mancava anche questa!  Ma     troviamo che anche vicino alla stazione ci sono due alberghi.  Andremo     in  uno  di  questi.  Un  binario  passa vicino agli alberghi,  noi lo     dobbiamo attraversare,  ma in quella arriva un treno merci,  io faccio     per passare rapidamente,  ma la donna mi trattiene,  il treno merci si     ferma proprio davanti a noi e  dobbiamo  aspettare.  Un'aggiunta  alla     disgrazia,  pensiamo.  Ma  proprio  quell'attesa,  senza  la  quale io     domenica non sarei arrivato a Praga,  segna la svolta.  Si direbbe che     tu,  come  quando  hai  passato in rassegna gli alberghi alla stazione     Ovest,  fossi ora passata lungo tutte le porte del Paradiso a  pregare
    per me, poiché in questo momento il tuo poliziotto ha percorso il buon     tratto  dalla  stazione  fino  a noi e arrivando trafelato ci avverte:     "Presto, tornate indietro, l'ispettore vi lascia passare!". Possibile?     Un momento così ti prende alla gola.  Dieci volte  siamo  costretti  a     pregare  il  poliziotto  perché  accetti  la mancia.  Ora però bisogna     tornare indietro,  ritirare il bagaglio dall'ispettorato,  correre  al     controllo  passaporti,  poi  alla  visita doganale.  Ma ora tu hai già     sistemato ogni cosa,  io non posso più muovermi col bagaglio  ed  ecco     accanto  a  me per caso un facchino,  al controllo passaporti mi trovo     nella calca, il poliziotto mi apre la via,  alla visita doganale perdo     senza saperlo l'astuccio coi gemelli d'oro, un impiegato lo trova e me     lo  porge.  Ed  eccoci  in  treno,  partiamo subito,  finalmente posso     asciugarmi il sudore dal viso e dal petto. Rimani sempre con me!
    F.


    5. credo. Lunedì.

    S'intende,  dovrei andare a dormire,  è l'una di notte,  da  un  pezzo     avrei dovuto scriverti questa sera, ma è stato qui Max che avevo tanto     desiderato  di  vedere e dal quale non ho potuto andare finora per via     della ragazza e della preoccupazione che mi dà.  Fino alle 8  e  mezza     sono stato insieme con lei, alle 9 è arrivato Max, poi siamo andati in     giro  fino  alle 12 e mezza.  Pensa,  ciò che credevo di avergli detto     nelle lettere con  abbagliante  chiarezza,  che  quella,  della  quale     parlo,  sei tu,  tu, tu - di nuovo smetto un momento di scrivere - che     sei tu, non l'aveva capito, soltanto adesso ha appreso il nome (è vero     che non avevo scritto con rude chiarezza perché  poteva  sempre  darsi     che  la moglie leggesse le lettere).  La ragazza: oggi è andata meglio     ma al caro prezzo del permesso che le ho dato di  scriverti.  Ne  sono     molto  pentito.  Un  indizio della mia angoscia per te è il telegramma     che oggi ho mandato per te alla posta ("Ragazza  ti  scrive,  rispondi     gentilmente  et"  -  a questo punto avrei dovuto inserire un "molto" -     "severamente et non abbandonarmi").  In complesso la giornata  fu  più     tranquilla,  io  trovai  la  forza  di  parlare di Merano pacatamente,     l'atmosfera diventò meno minacciosa.  Ma  quando  si  venne  ancora  a     parlare della cosa principale - per lunghi minuti la ragazza accanto a     me  nella  piazza San Carlo tremava in tutto il corpo non potei fare a     meno di dire che accanto a te tutto il resto scompare e  si  riduce  a     niente,  anche se in sé rimane immutato. Ella formulò l'ultima domanda     di fronte alla quale sono sempre stato inerme,  cioè: "Non posso andar     via,  ma  se  mi  mandi  me  ne vado.  Mi mandi Via?".  (Nel fatto che     racconto queste cose c'è,  prescindendo dalla  superbia,  qualcosa  di     abominevole,  ma lo racconto nell'angoscia per te.  Che cosa non farei     nell'angoscia per te!  (a) Vedi un po' quale strana  nuova  angoscia.)     Risposi: " Sì".  E lei: "Ma io non posso andarmene". E allora, loquace     al di là delle sue forze, la buona cara creatura incominciò a dire che     non riesce a capire come mai tu ami tuo marito e in segreto parli  con     me,  e così via.  Ci furono,  per dire la verità, anche parole cattive     sul tuo conto per le quali avrei voluto e dovuto  picchiarla,  ma  non     dovevo forse lasciare che finisse di lamentarsi,  almeno questo? Disse     che scriverà a te e io,  nel pensiero per lei e nella  mia  illimitata     fiducia in te,  gliel'ho permesso pur sapendo che ci rimetterò un paio     di notti.  Mi inquieta  precisamente  il  fatto  che  questo  permesso     l'abbia quietata.  Sii gentile e severa, ma più severa che gentile, ma     che cosa dico?  non so forse che scriverai ciò che di  più  giusto  si     debba  scrivere?  E  la mia angoscia che nella sua pena possa scrivere     qualcosa di perfido e influire su te contro di me,  non è forse  molto     umiliante per te?  E' umiliante,  ma che devo fare se invece del cuore     mi  palpita  in  corpo  questa  angoscia?   Eppure  non  avrei  dovuto     permettere.  Non  importa,  domani la rivedrò,  è giorno festivo (Hus)     (38),  mi ha tanto pregato di fare una gita nel pomeriggio,  tutto  il     resto della settimana, ha detto, non occorrerà che io venga più. Forse     potrò ancora dissuaderla da quella lettera, a meno che non l'abbia già     scritta.  Può darsi però, mi sono detto in seguito, che voglia davvero     soltanto una spiegazione, può darsi che la tua parola la calmi proprio     con la sua amichevole serenità,  può darsi persino  così  corrono  ora     tutti  i  miei ragionamenti - che davanti alla tua lettera si butti in     ginocchio.
    Franz.

    Altra ragione perché le ho permesso di scrivere. Voleva vedere lettere     tue indirizzate a me. Ma io non posso mostrarle.

    (a) [Sul margine a destra] E nonostante tutto credo  talvolta:  se  si     può perire di felicità,  ciò deve capitare a me.  E se uno destinato a     morire può ritornare in vita grazie alla felicità io rimarrò in vita.


6. Martedì mattina.

    Un piccolo colpo per me: un telegramma da Parigi con la notizia che un     vecchio zio, al quale in fondo,  è vero,  voglio molto bene,  il quale     vive a Madrid e non è stato qui già da molti anni, arriva domani sera.     Un  colpo  perché  mi ruberà del tempo,  mentre tutto il tempo e mille     volte più di tutto il tempo e  anzi  tutto  il  tempo  che  esiste  mi     occorre per te,  per pensare a te,  per respirare in te.  Anche questo     appartamento mi diventa rumoroso,  rumorose  le  sere,  vorrei  essere     altrove.  Molte  cose  vorrei  che fossero diverse e che l'ufficio non     esistesse affatto,  ma poi penso che merito gli  schiaffi  se  esprimo     desideri  che  vadano al di là del presente,  di questo presente che è     tuo.

    Non posso,  non so come,  scrivere altro se non ciò che riguarda  noi,     noi nell'affollamento di questo mondo, soltanto noi. Tutto il resto mi     è estraneo. Ingiusto! Ingiusto! Ma le labbra balbettano e il viso posa     nel tuo grembo.

    Un'amarezza  mi è rimasta da Vienna,  posso dirlo?  Lassù nel bosco il     secondo giorno,  credo,  dicesti press'a poco: "A lungo non può durare     la  battaglia  con  l'anticamera".  E ora,  nella penultima lettera di     Merano,  scrivi della malattia.  Come faccio a trovare la via d'uscita     fra  queste  due cose?  Non lo dico per gelosia,  Milena,  io non sono     geloso.  O il mondo è piccolissimo o noi siamo  giganteschi,  in  ogni     caso lo empiamo completamente. Di chi dovrei essere geloso?


7. Martedì sera.

    Ecco,  Milena,  ora io stesso ti mando la lettera e non so neanche che     cosa contenga.  E' andata così: le avevo promesso di essere davanti  a     casa sua questo pomeriggio alle 3 e mezza. Si doveva fare una gita col     vaporetto:  sennonché  ieri ero andato a letto molto tardi e non avevo     quasi dormito,  perciò le scrissi la mattina presto  una  lettera  per     posta  pneumatica:  dicevo  che  nel pomeriggio dovevo dormire e sarei     andato soltanto verso le 6.  Nella mia  inquietudine  che  non  voleva     appagarsi   delle  sicurezze  epistolari  e  telegrafiche,   aggiunsi:     "Spedisci la lettera a Vienna soltanto dopo che  ne  avremo  parlato".     Sennonché  quasi  fuori  di  sé  ella  aveva già scritto la lettera la     mattina presto - neanche lei sa dire che cosa ha scritto -  e  l'aveva     subito  imbucata.  Quando  riceve  il  messaggio per posta pneumatica,     corre tutta angosciata alla posta centrale, acciuffa ancora in qualche     modo la lettera,  dà all'impiegato  (tanto  è  felice)  tutto  il  suo     denaro,  soltanto in seguito si spaventa per quella somma, e alla sera     mi porta la lettera.  Che devo fare?  La mia speranza in una soluzione     rapida,  completa,  felice,  si fonda su quella lettera e sull'effetto     della tua risposta,  è,  lo  riconosco,  una  speranza  insensata,  ma     l'unica  che io abbia.  Ora,  se apro la lettera e la leggo,  in primo
    luogo mortifico lei,  in secondo luogo sono sicuro  che  dopo  non  mi     sarebbe  possibile  spedirla.  Perciò  la  pongo chiusa nelle tue mani     chiuse, interamente, come ho già messo me in codeste mani.     E' un po' fosco a Praga,  non è arrivata  ancora  alcuna  lettera,  il     cuore incomincia a pesarmi,  certo è impossibile che una lettera possa     già essere qui, ma vai a spiegarglielo al cuore.


8. Martedì ancora più tardi.

    Avevo appena imbucato la lettera quando mi venne  in  mente:  come  ho     potuto  mai pretendere questo da te?  Prescindendo dal fatto che tocca     soltanto a me fare in questo caso ciò che è giusto e  necessario,  per     te  sarebbe  probabilmente  impossibile scrivere e affidare una simile     lettera di risposta a un estraneo. Ebbene, Milena,  perdona le lettere     e i telegrammi,  attribuiscili al mio cervello indebolito dall'essermi     accomiatato da te;  non importa se non le rispondi,  vuol dire che  si     troverà  un'altra  soluzione.  Non stare in pensiero per questo.  Sono     solamente stanco in seguito a queste passeggiate,  oggi sul pendio  di     Vyshehrad,  ecco  la  ragione.  E poi domani arriva lo zio.  Sarò poco     solo.
    Ma per parlare di cose migliori: Sai quando a Vienna  portavi  l'abito     più  bello,  ma  proprio follemente bello?  In questo credo che non ci     possa essere discussione: domenica.


9. Mercoledì sera.

    Soltanto poche parole in gran fretta  per  l'inaugurazione  della  mia     nuova dimora,  in tutta fretta perché alle 10 arrivano i miei genitori     da Franzensbad,  alle 12 lo zio da Parigi,  e devo andare a  prenderli     tutti;  nuova dimora perché mi sono trasferito nella casa vuota di mia     sorella,  che è a Marienbad,  per far posto  allo  zio.  Casa  grande,     vuota,  che è una bella cosa, ma la via è più rumorosa, però il cambio     non è troppo sfavorevole. E a te devo scrivere,  Milena,  perché dalle     mie  ultime  lettere  e la mentele (la peggiore l'ho stracciata questa     mattina per pudore;  pensa,  in questo momento non ho  ancora  notizie     tue,  ma  sciocco lagnarsi della posta,  che c'entro io con la posta?)     potresti arguire che io non sia sicuro di te,  che tema  di  perderti;     no,  non sono poco sicuro. Potresti forse essere per me ciò che sei se     non fossi sicuro di te?  Questa impressione è suscitata soltanto dalla     breve  vicinanza  fisica  e dall'improvvisa separazione fisica (perché     proprio domenica? perché proprio alle 7? e in genere, perché?),  è pur     lecito che ciò confonda un poco sensi.  Perdona!  E ora,  con la buona     notte, accogli in un sola corrente tutto ciò che sono e possiedo e che     è beato di riposare in te.
    F.


10. Giovedì mattina.

    La strada è rumorosa, di sbieco qui davanti si costruisce, di rimpetto     non è la chiesa russa,  ci sono  invece  abitazioni  piene  di  gente,     eppure: esser solo in una stanza è forse la premessa della vita, esser     solo  in  un appartamento - "per essere esatti: temporaneamente" - una     premessa della felicità ("una" premessa,  che  mi  gioverebbe  infatti     l'appartamento se non vivessi, non avessi un nido in cui riposare, per     esempio  due  occhi chiari,  azzurri,  vivi per grazia inconcepibile),     così però l'appartamento fa parte della  felicità,  tutto  quieto,  la     stanza da bagno,  la cucina,  l'anticamera,  le tre altre camere,  non     come nelle abitazioni in comune il rumore,  l'immoralità,  i  rapporti     incestuosi dei corpi senza sostegno, non più governati da molto tempo,     pensieri e desideri,  dove in ogni angolo, fra tutti i mobili, nascono     relazioni illecite, cose fortuite e fuor di luogo,  figli illegittimi,
    e  dove  tutto  si  svolge  continuamente non come nei tuoi tranquilli     deserti sobborghi la  domenica,  bensì  come  nei  sobborghi  agitati,     sovraffollati,  che  mozzano il respiro,  in una ininterrotta sera del     sabato.
    Mia sorella ha fatto la lunga strada per portarmi  la  colazione  (che     non  era necessario poiché sarei andato a casa) e ha dovuto sonare per     alcuni minuti prima di svegliarmi,  tanto ero immerso nella lettera  e     sperduto nell'universo.
    F.

    L'appartamento  però  non  è  mio,  anche  durante l'estate vi abiterà     spesso mio cognato.


    11. Giovedì mattina.

    Finalmente  la  tua  lettera.   Subito   in   fretta   alcune   parole     sull'argomento   principale,   anche   se   la  fretta  farà  scappare     inesattezze delle quali poi mi rammaricherò: è un  caso  come  non  ne     conosco  un altro nei reciproci rapporti di noi tre,  perciò non lo si     deve turbare con esperienze tratte da altri casi (cadaveri -  tormento     a  tre,  a  due  - scomparire in qualche modo).  Io non sono amico suo     (39),  non ho tradito nessun amico,  ma neanche sono soltanto  un  suo     conoscente,  bensì  molto legato a lui,  in qualche cosa forse più che     amico. A tua volta tu non l'hai tradito perché qualunque cosa tu dica,     lo ami e se noi ci uniamo (vi ringrazio, o spalle!), ciò avviene sopra     un altro piano, non nel suo territorio. Ne risulta che questa faccenda     non è veramente soltanto una nostra faccenda da tener segreta, neanche     solo tormento, angoscia, dolore, preoccupazione - la tua lettera mi ha     fatto balzare spaventato,  da una relativa tranquillità che era ancora     frutto  del nostro incontro e ora viene guidata forse verso il vortice     di Merano,  certo però ci sono grossi ostacoli perché le condizioni di     Merano si ripetano ma è una faccenda a tre,  sincera, chiara nella sua     sincerità, anche se tu dovessi ancora tacere per un po'.  Anch'io sono     molto  contrario  a  considerare tutte le possibilità - sono contrario     perché ho  te,  se  fossi  solo,  nulla  mi  potrebbe  trattenere  dal     considerare  ogni  cosa - già nel presente ci si fa campo di battaglia     per l'avvenire, e allora come può il suolo sconvolto sostenere la casa     del futuro?
    Ora non so più nulla,  sono tre giorni che sto in  ufficio  e  non  ho     ancora  scritto  una  riga,  può  darsi che ci riesca adesso.  D'altro     canto,  mentre scrivevo questa lettera,  è venuto Max a  trovarmi,  il     quale,  s'intende,  tacerà;  per  tutti tranne che per mia sorella,  i     genitori, la ragazza e lui, sono ritornato passando da Linz.
    F.

    Posso mandarti denaro?  Eventualmente per il tramite di  L.  al  quale     dico  che a Vienna tu me ne hai prestato e lui te lo manda insieme col     tuo compenso redazionale. (a)

    (a) [Sul margine a sinistra] Sono anche un po' spaventato per ciò  che     prometti di scrivere a proposito della paura.


12. Venerdì.

    Lo scrivere mi sembra tutto privo di valore,  e lo è. La cosa migliore     sarebbe che partissi per Vienna e ti prendessi con me;  forse anche lo     farò,  benché tu non voglia.  Due infatti sono le possibilità, una più     bella dell'altra, tu vieni o a Praga o a Libeshic.  Diffidente secondo     l'antica  maniera  degli  ebrei,  mi  sono avvicinato ieri a J.,  l'ho     acciuffato poco prima  della  partenza  per  Libeshic,  aveva  la  tua     lettera a Stasha.  E' un uomo, eccellente, gaiamente aperto, savio, ti     prende a  braccetto,  chiacchiera  allegramente,  è  pronto  a  tutto,     capisce  tutto e anche un po' di più.  Aveva intenzione di recarsi con     sua moglie da Florian (40) nei dintorni  di  Brunm  e  di  lì  sarebbe     proseguito  fino a raggiungerti a Vienna.  Questo pomeriggio ritorna a     Praga, porterà la risposta di Stasha,  io parlerò con lui alle 3,  poi     ti telegrafo.  Perdona le chiacchiere delle undici lettere, buttale in     un canto,  ora viene la realtà che è più grande  e  migliore.  Per  il     momento si deve stare in angoscia,  credo,  soltanto per una cosa: per     il tuo amore verso tuo marito.  In quanto al nuovo compito  del  quale     scrivi,  esso è certamente difficile,  ma non sottovalutare le energie     che mi dà la tua vicinanza. Per il momento, è vero, non dormo, ma sono     molto più calmo di quanto non pensassi ieri sera davanti alle tue  due     lettere (per caso c'era Max,  e ciò non fu proprio un bene,  perché la     faccenda era troppo mia e,  ahimè,  già incomincia la gelosia del non-     geloso, povera Milena). Anche il tuo telegramma odierno reca un po' di     tranquillità.  Per  tuo marito non nutro ora,  almeno ora,  una troppo     grande,  intollerabile preoccupazione.  Egli si era assunto un compito     enorme,  che  in parte ha svolto nell'essenziale,  nel complesso forse     con onore;  di continuare a sostenerlo non mi  pare  capace,  non  già     perché gliene possano mancare le forze (che cosa sono mai le mie forze     in confronto delle sue?), ma perché ciò che è avvenuto finora lo grava     troppo,  troppo  lo  deprime,  troppo  gli  toglie  la  concentrazione     necessaria. Forse potrà anche essergli di sollievo.  Perché non dovrei     scrivergli?


13. Venerdì.

    Soltanto  poche parole circa la lettera di Stasha,  lo zio,  di solito     molto caro, ma ora un poco d'impiccio, mi sta aspettando.  Ebbene,  la     lettera  di  Stasha  è molto amichevole e cordiale,  eppure ha qualche     difetto,  qualche difettuccio forse soltanto formale (ma non  è  detto     che  le  lettere  senza  questo  difetto  siano più cordiali,  forse è     piuttosto il contrario),  qualcosa però vi manca o  vi  è  di  troppo,     forse la facoltà di riflessione che del resto pare provenga dall'uomo,     perché proprio così egli mi parlava ieri.  Ma io, come parlo di queste     persone che pur sono veramente buone? Gelosia,  è proprio gelosia,  ma     ti prometto, Milena, di non farne più un tormento per te, soltanto per     me,  soltanto per me. Eppure ci dev'essere un malinteso nella lettera.     Tu infatti non volevi da Stasha addirittura  un  consiglio  né  volevi     farla parlare con tuo marito,  volevi in primo luogo ciò che nulla può     sostituire: la presenza di lei. Così almeno mi parve.
    Spero  di  ricevere  oggi  ancora  tue  notizie.  Del  resto  sono  un     capitalista ignaro di tutto ciò che possiede.  Nel pomeriggio,  quando     in ufficio chiesi invano notizie,  mi fu consegnata una  lettera  tua,     che era arrivata poco dopo la mia partenza per Merano,  è stato strano     leggerla.
    Tuo.


14. Sabato.

    E' un guaio, ieri l'altro arrivarono le due lettere disgraziate,  ieri     soltanto  il  telegramma  (era bensì tranquillante,  ma pareva un poco     anche rappezzato come sono appunto i  telegrammi)  e  oggi  niente  di     niente. E quelle lettere, devo dire, non erano molto consolanti per me     in  nessun riguardo,  e vi si diceva che avresti riscritto subito e tu     non hai scritto.  E ieri l'altro sera  ti  ho  mandato  un  telegramma     urgente  con risposta pagata urgente e questa dovrebbe essere arrivata     da un pezzo.  Ti ripeto il  testo:  "Era  l'unica  cosa  giusta,  sta'     tranquilla,  qui  sei  a  casa  tua,  J.  viene con la moglie a Vienna     probabilmente fra otto giorni.  Come  posso  recapitarti  denaro?".  A     questo  dunque  non  ho  avuto  risposta.   "Parti  per  Vienna"  vado     dicendomi. "Ma Milena non vuole, decisamente non vuole. Tu saresti una     decisione, ella non vuole te, ha preoccupazioni e dubbi,  perciò vuole     Stasha".  Ciò nonostante dovrei partire,  ma non sto bene.  Sono bensì     tranquillo,  relativamente tranquillo,  come non avrei mai sperato  di     essere in questi ultimi anni, ma ho una gran tosse durante il giorno e     per interi quarti d'ora durante la notte. Forse si tratta soltanto del     primo  tempo  di adattamento a Praga e delle conseguenze del turbinoso     periodo meranese,  prima che ti conoscessi e ti avessi guardata  negli     occhi.
    Come  si  è  fatta  buia  Vienna,  eppure era tanto chiara per quattro     giorni.  Che cosa vi si cucina per me,  mentre me ne sto qui seduto  e     smetto di scrivere e mi prendo il viso fra le mani?
    F.

    Poi  dalla  mia  sedia  ho  guardato la pioggia dalla finestra aperta,     diverse possibilità mi vennero in mente,  che tu possa essere  malata,     essere  stanca,  essere  a  letto,  che la signora K.  potrebbe far da     mediatrice e poi - strano, l'eventualità più naturale, più ovvia - che     la porta si apra e tu vi appaia.


    15. Lunedì.

    Questi sono stati, a dir poco,  due giorni terribili.  Ma ora vedo che     tu  ne sei innocente,  che qualche demonio maligno ha trattenuto tutte     le tue lettere da giovedì in poi.  Venerdì ricevetti soltanto  il  tuo     telegramma,  sabato niente,  domenica niente, oggi quattro lettere, di     giovedì,  venerdì,  sabato.  Sono troppo stanco  per  poter  scrivere,     troppo  stanco  per  ricavare subito dalle quattro lettere,  da questa     montagna di disperazione, dolore, amore, amore ricambiato,  ciò che mi     rimane,  tanto si è egoisti quando si è stanchi e per due giorni e due     notti  ci  si  è  consumati  nelle  più  orrende  immaginazioni.   Ciò     nonostante   però  -  e  anche  questo  fa  parte  della  tua  energia     dispensiera di vita,  o mamma Milena - ciò nonostante sono,  in fondo,     meno rovinato che forse in tutti questi ultimi sette anni,  eccettuato     l'anno nel villaggio.
    Ancora non capisco però perché il mio telegramma  urgente  di  giovedì     sera  non  abbia  avuto risposta.  Poi ho telegrafato alla signora K.,     ancora nessuna risposta. Non temere che io scriva a tuo marito, non ne     ho proprio molta voglia. Ho voglia soltanto di partire per Vienna,  ma     non farò nemmeno questo,  neanche nel caso che non ci fossero ostacoli     come  la  tua  contrarietà  al  mio  viaggio,  le  difficoltà  per  il     passaporto,  l'ufficio,  la  tosse,  la  stanchezza,  le  nozze di mia     sorella (giovedì).  Meglio però sarebbe partire che  vivere  pomeriggi     come quello di sabato o domenica.  Sabato: andai in giro un po' con lo     zio,  un po' con Max,  e ogni due ore in ufficio per vedere  se  c'era     posta.  La  sera  andò  un  po' meglio,  mi recai da L.  che non aveva     nessuna brutta notizia da parte tua,  parlò della tua lettera  che  mi     rese felice, telefonò a K. della "Neue Freie Presse", non sapeva nulla     neanche lui, ma non voleva chiedere tue notizie a tuo marito e avrebbe     ritelefonato  questa sera.  Cosi stetti con L.,  udii più volte il tuo     nome e gliene fui grato. Certo non è né facile né piacevole discorrere     con lui.  E' come  un  fanciullo,  un  fanciullo  non  molto  sveglio,     altrettanto  si  vanta,  mentisce,  fa  la  commedia,  e quando si sta     tranquilli ad ascoltarlo si ha l'impressione di essere  esageratamente     scaltri  e  odiosamente  commedianti,  specie perché non è soltanto un     fanciullo,  ma in quanto a  bontà,  simpatia,  generosità,  un  adulto     grande  e  molto  serio.  Da  questo  dissidio non si esce e se non si     ripetesse continuamente: "ancora una  volta,  ancora  una  volta  sola     voglio  udire  il  tuo  nome"  si sarebbe già partiti da tempo.  Nello     stesso tono parlò anche delle proprie nozze (martedì).
    La domenica fu ancor peggiore.  Veramente volevo andare al cimitero  e     avrei  fatto  bene,  stetti  invece  tutta  la mattinata a letto e nel     pomeriggio dovetti andare dai suoceri di mia sorella dai quali non ero     mai stato.  Poi vennero le 6.  Di nuovo all'Istituto (41) per chiedere     se c'era un telegramma.  Niente. E allora? Consultare il programma dei     teatri perché J. aveva detto, soltanto di sfuggita per la fretta,  che     Stasha  va  lunedì  a  sentire  un'opera  di Wagner.  Ora leggo che la     rappresentazione incomincia alle 6 e per le 6 abbiamo  l'appuntamento.     Male.  E  ora?  Nella  Obstgasse a vedere la casa.  E quieta,  nessuno     entra,  nessuno esce,  aspetto un poco dalla parte della casa,  poi di     fronte,  niente, codeste case sono molto più savie degli uomini che le     stanno fissando.  E poi?  Al "passaggio Lucerna" dove c'era una  volta     una  vetrina del Dobré D¡lo (42).  Ora non c'è più.  Poi,  se mai,  da     Stasha,  cosa molto facile,  dato che certamente adesso lei non  è  in     casa. Una bella casa tranquilla, con dietro un giardinetto. Alla porta     d'entrata  un  lucchetto  sicché si può sonare impunemente.  Una breve     conversazione con la portinaia allo scopo di pronunciare "Libeshic"  e     "J.",  purtroppo senza alcuna possibilità per "Milena",  e poi? Adesso     viene la sciocchezza più grossa.  Vado al Caffè Arco  (43),  dove  non     sono  stato  da  parecchi  anni,  per cercare qualcuno che ti conosca.     Fortunatamente non c'era nessuno e me ne potei andare subito.  Non più     molte di queste domeniche, Milena! (a)

    (a) [Sul margine a sinistra] Ieri non ho potuto scrivere, tutto mi era     troppo buio a Vienna.


    17. Martedì, un po' più tardi.

    Come  sei  stanca nella lettera di sabato sera!  A proposito di questa     lettera avrei molto  da  dire  oggi,  ma  non  dico  niente  alla  tua     stanchezza perché anch'io sono stanco,  è la prima volta,  posso dire,     da quando  fui  a  Vienna  che  ho  la  testa  dolente  per  non  aver     assolutamente dormito.  Non ti dico niente, ma ti metto a sedere sulla     sedia a sdraio  (tu  dici  che  non  mi  hai  dato  sufficienti  prove     d'affetto, ma esiste forse un maggior affetto, un più grande onore che     farmi  sedere là e metterti a sedere davanti ed essere accanto a me?),     adesso dunque ti metto a sedere sulla sedia a sdraio  e  non  so  come     abbracciare la felicità con parole, occhi, mani e col povero cuore, la     felicità  che tu sei qui e mi appartieni.  E dire che in fondo non amo     te, ma piuttosto la mia esistenza donatami da te.
    Di L. non ti dico niente oggi e neanche della ragazza, tutto ciò andrà     in qualche modo per la sua china; come sono lontane tutte queste cose!
    F.

    Tutto ciò che mi dici del "Povero sonatore" è giusto.  Se ho affermato     che a me non dice niente, l'ho fatto soltanto per prudenza, perché non     sapevo  come  te  la  saresti cavata,  poi anche perché mi vergogno di     questa storia come se l'avessi scritta io;  infatti incomincia in modo     sbagliato  e  contiene una quantità di inesattezze,  di cose ridicole,     dilettantesche, ammanierate da morire (lo si nota soprattutto leggendo     ad alta voce,  ti saprei indicare i passi);  specie questo modo di far     musica  è  una  invenzione  miseramente ridicola,  tale da irritare la     fanciulla,  da farle scagliare contro il racconto,  in  un  impeto  di     collera al quale parteciperà il mondo intero,  io per primo, tutto ciò     che ha nel negozio,  finché il racconto,  che non  merita  di  meglio,     crolli per i suoi stessi elementi. E' vero che per un racconto non c'è     sorte  più  bella che scomparire,  e proprio in questo modo.  Anche il     narratore,  questo buffo psicologo,  sarà pienamente d'accordo  perché     deve  essere  lui  il  vero povero suonatore che suona questo racconto     nella maniera meno musicale possibile, esageratamente compensato dalle     lagrime dei tuoi occhi.


    Mercoledì.

    Tu scrivi: ""Ano m sh pravdu, m m ho ra'da.  Ale F.,  i tebe m m r da"     (44) - leggo la frase molto attentamente,  parola per parola, mi fermo     specialmente all'"i" (45),  tutto è giusto,  non saresti Milena se non     fosse  giusto,  e  che  cosa  sarei io se tu non ci fossi,  ed è anche     meglio che tu lo scriva a Vienna invece  di  dirlo  a  Praga,  capisco     benissimo  ogni  cosa,  forse meglio di te;  eppure,  per non so quale     debolezza,  non riesco ad afferrare la frase,  la leggo all'infinito e     infine  la  trascrivo qui,  affinché anche tu la veda e tutti e due la     leggiamo insieme, tempia contro tempia.  (I tuoi capelli contro la mia     tempia.)

    Queste  righe erano scritte quando arrivarono le due lettere a matita.     Credevi ch'io non sapessi che  sarebbero  arrivate?  Ma  soltanto  nel     profondo lo sapevo e là non si vive di continuo,  si preferisce invece     vivere sulla terra nella forma più miserevole.  Non so perché tu  stia     in continua apprensione che io faccia qualcosa di mia iniziativa.  Non     ne ho scritto abbastanza chiaramente? E alla signora K. ho telegrafato     soltanto perché quasi tre giorni, e brutti giorni,  ero senza notizie,     senza la risposta telegrafica,  quasi costretto a credere che tu fossi     malata.

    Ieri sono stato dal mio medico,  mi ha trovato circa nelle  condizioni     di  prima  che  andassi a Merano,  i tre mesi sono passati sui polmoni     quasi senza lasciar traccia, nell'apice sinistro il male è fresco come     allora.  Per lui questo risultato è sconfortante,  per  me  abbastanza     buono,  perché come sarei se avessi passato lo stesso periodo a Praga?     Egli è anche del parere che non sono affatto aumentato di peso, mentre     secondo i miei calcoli sono pur sempre circa  3  chili.  Quest'autunno     vuol tentare una cura di iniezioni, ma non credo che mi ci adatterò.     Se  con  questo risultato confronto il modo in cui anche tu imperversi     contro la tua salute - per somma necessità,  s'intende,  non  occorre,     penso,  che  lo  aggiunga  ancora - mi sembra talvolta che,  invece di     vivere  insieme,   ci  coricheremo  buoni  e  contenti  l'uno  accanto     all'altra per morire. Ma qualunque cosa accada, sarà vicino a te.     Del resto,  in contrasto col medico, so che per guarire alla meglio ho     soltanto bisogno di riposo, di una specie particolare di riposo,  o se     vogliamo  guardarla  da  un  altro  lato,  di  una  specie particolare     d'inquietudine.

    E' la festa nazionale francese (46),  le  truppe  marciano  nella  via     ritornando a casa dalla rivista.  Vi è - lo sento respirando nelle tue     lettere - un che di grandioso. Non lo splendore, non la musica, non la     marcia, non il vecchio francese in calzoni rossi e giubba azzurra che,     balzato fuori da un museo (tedesco),  marcia alla testa di un reparto,     ma una manifestazione di forze che esclamano dal profondo: "Nonostante     tutto,  o  uomini  muti,  sospinti,  marcianti,  fiduciosi  fino  alla     ferocia,  nonostante tutto non vi abbandoneremo neanche  nelle  vostre     più  grandi  stoltezze,  meno  che  mai in queste".  E ad occhi chiusi     guardo in quelle profondità e quasi affondo in te.

    Finalmente mi  hanno  portato  il  mucchio  di  pratiche  che  si  era     accumulato  per  me,  pensa,  da  quando  sono  in  ufficio ho scritto     esattamente sei lettere ufficiali e nessuno dice niente. Fino ad oggi,     con mia grande soddisfazione,  non avevo potuto avere il molto  lavoro     che mi aspetta,  causa la pigrizia della sezione che lo tiene da parte     per me.  Adesso però le pratiche sono  qui.  Eppure  non  sono  niente     quando ho dormito abbastanza. E' vero che oggi sto ancora molto male.
    F.


    Giovedì.

    In fretta, prima di andare in ufficio; volevo tacere, da tre giorni mi     ci torturo, volevo tacere almeno ora, mentre tu costì combatti codesta     tremenda  battaglia,  ma  non  è  possibile,  anche questo c'entra,  è     appunto la "mia" battaglia.  Forse ti accorgi che da qualche notte non     dormo.  E' semplicemente "l'angoscia". E' invero una cosa che mi rende     abulico, mi patulla a volontà, non distinguo più alto e basso,  destra     e sinistra...  e oltre a ciò nelle tue ultime lettere c'erano due, tre     osservazioni che mi resero felice,  ma soltanto disperatamente felice,     perché ciò che ne dici convince allo stesso modo il cervello, il cuore     e il corpo, ma qui c'è anche una convinzione più profonda, non so dove     sia,  che nulla può convincere. Infine, ciò che ha contribuito molto a     indebolirmi,  l'efficacia meravigliosamente  tranquillante-inquietante     della tua vicinanza fisica svanisce col passare dei giorni.  Fossi già     venuta! Così non ho nessuno, nessuno qui,  tranne l'angoscia,  stretti     insieme e convulsi ci rotoliamo attraverso le notti. Eppure è una cosa     molto  seria,  questa  angoscia  (che  stranamente  era sempre rivolta     all'avvenire;  no,  non è esatto) (47),  che in  certo  senso  diventa     comprensibile  perché  di  continuo  mi  prospetta  la necessità della     grande confessione: anche Milena è soltanto una  creatura  umana.  Ciò     che  ne dici tu è bello e buono,  non vorrei mai udire altro dopo aver     udito ciò,  ma è molto incerto che siano in giuoco  le  cose  supreme,     questa  angoscia  non  è  la  mia  angoscia  privata  - lo è anche,  e     paurosamente - ma è pure l'angoscia di ogni fede, da sempre.     Il fatto stesso che ho scritto per te queste  cose  mi  dà  refrigerio     alla testa.
    Tuo.


    Giovedì più tardi.

    Sono  arrivate la lettera della notte e del Gallo Bianco (48) e quella     di lunedì,  la prima è evidentemente posteriore,  ma  ciò  non  è  ben     certo.  L'ho  scorsa  una  volta  sola  rapidamente e devo risponderti     subito,  pregarti di non pensar male di  me...  E  non  è  gelosia,  è     soltanto  un girare intorno a te,  perché voglio afferrarti da tutti i     lati, dunque anche dal lato della gelosia, ma è sciocco e non avverrà,     sono soltanto i sogni malsani dell'esser solo.  Anche di  Max  ti  fai     concetti errati,  ieri finalmente gli ho presentato i tuoi saluti, con     dispetto (vedi sopra!) perché ci sono sempre  i  saluti  per  lui.  Ma     siccome  di  solito ha pronta una spiegazione per ogni cosa,  mi disse     che lo mandi a salutare così spesso,  probabilmente perché non  ti  ho     ancora mai presentato i suoi saluti cordialissimi, basta, dice, che mi     decida   a  farlo  ed  egli  probabilmente  smetterà  perché  io  stia     tranquillo. Può darsi, ne faccio quindi la prova.
    Del resto non stare in pensiero per me, Milena, mancherebbe ancora che     ti preoccupassi per me!  Se non  fosse  "l'angoscia"  che  da  qualche     giorno  mi  stringe e della quale questa mattina mi sono lamentato con     te,  sarei quasi sano del tutto.  "Come fu d'altronde che  allora  nel     bosco dicesti che anche tu non te l'eri immaginata diversa?" Fu lassù,     nel bosco,  il secondo giorno.  Io distinguo i giorni esattamente,  il     primo  fu  l'incerto,  il  secondo  il  troppo  certo,   il  terzo  il     contributo, il quarto fu il buono.
    Adesso  però devo andare alle nozze di mia sorella.  Ma perché sono un     uomo con tutti  i  tormenti  di  questo  stato  quanto  mai  oscuro  e     orrendamente pieno di responsabilità?  Perché non sono, ad esempio, il     felice armadio nella tua camera che ti può guardare in  faccia  quando     stai sulla sedia a sdraio o alla scrivania, o ti metti a letto o dormi     (sia  benedetto  il  tuo  sonno!).  Perché  non  lo  sono?  Perché  mi     schianterei dal dolore se ti avessi  visto  nella  pena  degli  ultimi     giorni o se addirittura - tu dovessi partire da Vienna.

    F.

    Il presentimento che avrai presto il passaporto è molto benefico.


    Giovedì.

    Nel  pomeriggio,  il  mirto all'occhiello,  quasi col cervello a posto     nonostante il mal  di  capo  (separazione,  separazione!),  il  pranzo     nuziale  terminato  fra  le buone sorelle di mio cognato.  Adesso però     sono liquidato.
    Come sarà facile la vita quando  saremo  insieme  -  come  ne  scrivo,     stolto che sono! - domanda e risposta, occhiata contro occhiata. E ora     devo aspettare almeno fino a lunedì la risposta alla lettera di questa     mattina. Cerca di capirmi e voglimi bene.
    F.


    Lunedì.

    Tu fraintendi alcune cose, Milena:
    In  primo  luogo  non  sono  proprio  tanto malato,  e quando riesco a     dormire un poco mi sento persino bene come non fu neanche a Merano. Le     malattie  di  polmoni  sono  di  solito  le  più  gentili  di   tutte,     specialmente  in  un'estate  torrida.  Come  farò  a  passare il tardo     autunno,  è una questione che si vedrà in seguito.  Per il momento  ho     soltanto alcuni piccoli dolori;  in ufficio, per esempio, non riesco a     far niente.  Se non scrivo a te,  sto sulla sedia a  sdraio  e  guardo     dalla finestra. Si vedono abbastanza cose, perché la casa di fronte ha     soltanto  un  piano.  Non  dirò  che  guardando  fuori  mi senta molto     malinconico, niente affatto, soltanto non posso togliermi di lì.     In secondo luogo non mi manca il denaro,  ne ho fin troppo,  parti  di     esso,  per esempio quello per la tua licenza, mi opprimono addirittura     per il fatto che sono ancora qui.
    In terzo luogo tu hai già fatto una volta per sempre la cosa  decisiva     per la mia guarigione,  e oltre a ciò la rinnovi ogni momento pensando     a me con affetto. (a)
    In quarto luogo tutto ciò che dici, con qualche dubbio,  sul viaggio a     Praga è perfettamente giusto.  "Giusto", l'ho anche telegrafato, ma là     si riferiva al colloquio con tuo marito ed era,  è vero,  l'unica cosa     giusta.  Questa mattina,  per esempio, ho incominciato improvvisamente     ad aver "paura",  affettuosamente "paura",  "paura" col cuore  stretto     che,  sviata  da qualche inezia fortuita,  potessi arrivare a Praga di     sorpresa.  Ma potrebbe davvero un'inezia far decidere te che  vivi  la     tua  vita veramente viva fino a tali profondità?  Penso che neanche le     giornate viennesi dovrebbero sviarti.  Non abbiamo  dovuto  parecchio,     persino  là,  alla tua inconscia speranza di poterlo rivedere la sera?     Non parliamone più.  O ancora una cosa: dalla tua lettera  ho  appreso     recentemente due novità,  primo il progetto di Heidelberg,  secondo il     progetto della fuga dalla banca (49) e del viaggio a Parigi;  il primo     mi  fa  capire  che in qualche modo sono nell'elenco dei "salvatori" e     dei violenti.  D'altro canto,  però,  non  sono  in  quell'elenco.  Il     secondo  mi  fa  capire  che  anche là c'è una vita avvenire,  ci sono     progetti, possibilità, prospettive, anche tue prospettive.     In quinto luogo una parte del tuo terribile  torturarti  -  è  l'unico     male  che  tu  mi  fai - consiste nel fatto che mi scrivi ogni giorno.     Scrivi più di rado;  se vuoi,  io continuerò a scriverti un  biglietto     ogni giorno. Avrai anche maggiore tranquillità per il lavoro che ti fa     piacere.

    Grazie  della  "Donadieus" (50).  (Non potrei in qualche modo mandarti     libri?) Temo che per il momento non potrò leggerla, è un altro piccolo     dolore: non posso leggere, e d'altro canto ciò non mi fa neanche molto     male,  è soltanto una cosa  impossibile  per  me.  Ho  da  leggere  un     voluminoso manoscritto di Max ("Ebraismo,  cristianesimo, paganesimo":     un grande libro), egli insiste ormai e ho appena incominciato; oggi un     giovane poeta mi porta 75 poesie,  talune di parecchie pagine,  me  lo     inimicherò ancora come già un'altra volta.
    Includo   la   risposta  della  ragazza,   dalla  quale  potrai  anche     ricostruire la mia lettera, affinché tu veda come mi si respinge,  non     senza intelligenza. Io non rispondo più.
    Il pomeriggio di ieri non è stato molto migliore di quello dell'ultima     domenica.  E' incominciato,  sì,  molto bene; quando uscii di casa per     andare al cimitero,  c'erano 36 gradi all'ombra e i tram in  sciopero,     ma  proprio  ciò mi fece piacere e in genere ero lieto all'idea di far     la strada a piedi,  come quel sabato verso il  giardinetto  presso  la     Borsa.  Ma  quando  arrivai  al  cimitero  non seppi trovare la tomba,     l'ufficio informazioni era chiuso,  nessun inserviente,  nessuna donna     poteva dar notizie,  consultai anche un libro ma non era quello buono,     per ore andai in giro, ero tutto confuso a furia di leggere epitaffi e     in altrettali condizioni uscii dal cimitero.
    F.

    (a) [Sul margine a sinistra] Inoltre sta' tranquilla,  per  quanto  mi     riguarda, io aspetto nell'ultimo giorno come nel primo.


    Martedì.

    Ecco  qui  i due telegrammi...  ma la cosa principale è che finalmente     dopo una notte quasi insonne mi trovo davanti a questa!  è lettera che     mi  pare infinitamente importante.  Tutte le lettere che ti scrissi da     Praga potevano non essere scritte, specie le ultime, e soltanto questa     dovrebbe rimanere; o meglio potrebbero esistere, sarebbe indifferente,     ma questa dovrebbe stare in cima. Purtroppo non saprò dirti neanche la     minima parte di ciò che ti ho detto ieri sera o  durante  la  notte  o     questa  mattina.  Comunque  sia,  però,  la  cosa principale è questa:     qualunque cosa possano dire  di  te  gli  altri  in  un'ampia  cerchia     intorno a te, con superiore intelligenza, con ottusità bestiale (ma le     bestie non sono così),  con diabolica bontà, con amore assassino - io,     io,  Milena,  so fino all'ultimo che hai ragione,  qualunque  cosa  tu     faccia,  sia che tu rimanga a Vienna,  sia che tu venga qua, o rimanga     sospesa fra Praga e Vienna o faccia ora questo ora quello.  "Che avrei     a  che  vedere con te,  se non sapessi ciò?" Come in fondo al mare non
    c'è alcun posticino che non stia sempre sotto la più grave  pressione,     così  è  di  te,  ma  tutta l'altra vita è un'ignominia che mi fa star     male;  finora pensavo di non saper sopportare la vita,  sopportare gli     uomini, e me ne vergognavo molto, ma tu ora mi confermi che non era la     vita a parermi insopportabile. (a)     Tuo.

    (a)  [Sul  margine  a sinistra].  Sono molto favorevole al progetto di     Chicago,  a condizione che  si  possa  servirsi  anche  di  galoppini,     incapaci di galoppare.


    Nel pomeriggio.

    In ufficio sono riuscito a tenermi lontano da questa lettera ma non fu     piccola  fatica,  vi  consumai  quasi tutte le mie energie e non me ne     rimase quasi nulla per il lavoro d'ufficio.
    La lettera a Stasha: J.  fu da me ieri in mattinata e  disse  che  era     arrivata una lettera tua,  l'aveva veduta sulla tua tavola nell'uscire     da casa la mattina,  ma non sapeva  che  cosa  contenesse,  Stasha  me     l'avrebbe  detto  la  sera.  Di  fronte  alla sua gentilezza mi sentii     parecchio a disagio, perché quante cose mai potevano esserci nella tua     lettera,  anche causate da me.  La sera però vidi che la  lettera  era     molto buona e soddisfacente per entrambi, almeno per quanto riguardava     il  tono  amichevole (io non l'ho letta);  soprattutto c'era una breve     frase di ringraziamento per il marito  che  poteva  risalire  soltanto     alle  mie comunicazioni e realmente fece contenti Stasha e rese i suoi     occhi un po' più brillanti del solito.  Sono proprio brave persone,  e     Stasha  ebbe  un  minuto  meraviglioso  quando rimase a fissare il tuo     ritratto con serietà,  in silenzio e,  chi sa  perché,  con  un  lungo     sforzo.  Se non ti dispiace ti parlerò ancora della sera,  ero stanco,     vuoto, noioso, degno di esser preso a bastonate,  indifferente,  e fin     dall'inizio  non  desideravo  altro che il letto.  (Sono incaricato di     mandarti l'accluso biglietto,  un disegno di Stasha - parlavamo  della     disposizione delle tue stanze - con spiegazioni di J.).
    Ieri  ti  consigliai di non scrivermi ogni giorno,  anche oggi sono di     questa opinione,  sarebbe un gran bene  per  entrambi  e  oggi  te  lo     consiglio  di nuovo e con più insistenza - ti prego soltanto,  Milena,     di non darmi retta e di scrivermi ogni giorno, basta anche brevemente,     più brevemente delle lettere di oggi,  soltanto  due  righe,  soltanto     una,  soltanto una parola,  ma la mancanza di questa parola mi farebbe     soffrire terribilmente.
    F.


    Mercoledì.

    Eppure si arriva a certi risultati quando si ha coraggio:
    Anzitutto: può darsi che Gross (51) non abbia torto,  se lo  comprendo     bene;  per  lo  meno  è in suo favore il fatto che vivo ancora mentre,     data la mia distribuzione interiore  delle  energie,  non  dovrei  più     vivere da un pezzo.
    Poi:  di  come  sarà  in  seguito  non si parla,  certo è soltanto che     "lontano da  te  non  posso  vivere  se  non  dando  pienamente  retta     all'angoscia, dandole più retta di quanto essa non voglia, e lo faccio     senza costrizione, con entusiasmo, mi riverso in essa.
    Tu  hai  ragione  di  rimproverarmi  in  nome dell'angoscia per il mio     contegno a Vienna,  ma in ciò  essa  è  veramente  singolare,  non  ne     conosco le leggi interiori, conosco soltanto la sua mano contro la mia     strozza, che è davvero "la cosa più orrenda che abbia mai sperimentata     o possa sperimentare".
    Ne  potrebbe  risultare  che ora noi due siamo entrambi sposati,  tu a     Vienna,  io con l'angoscia a Praga,  e che non solo  tu  ma  anche  io     trasciniamo invano la nostra vita coniugale.  Infatti vedi, Milena, se     a Vienna tu fossi stata "pienamente convinta" di me  (concordando  fin     nel  passo  del  quale  non  eri convinta),  non saresti più a Vienna,     nonostante tutto,  o meglio non  ci  sarebbe  un  "nonostante  tutto",     saresti  semplicemente  a  Praga,  e  tutto  ciò  che nella tua ultima     lettera serve a confortarti è infatti soltanto conforto. Non ti pare?     Se tu fossi venuta subito a Praga o almeno avessi scelto subito questa     alternativa,  non mi avresti dato una prova di te,  non  mi  occorrono     prove di te, ti vedo chiara e sicura sopra ogni cosa, ma sarebbe stata     una  grande  prova  per me e questa,  ora,  mi manca.  Anche di ciò si     alimenta all'occasione l'angoscia.
    Anzi,  forse è  ancora  peggio,  e  proprio  io,  il  "salvatore",  ti     trattengo a Vienna, come nessuno fino ad ora.

    Ecco,  questo fu il temporale che ci minacciava di continuo nel bosco,     eppure è andata bene. Continuiamo a vivere sotto le sue minacce poiché     non è possibile altrimenti.
    Non capisco che cosa tu abbia contro la lettera  della  signorina.  Lo     scopo  di  ingelosirti  un  poco lo ha ben raggiunto,  no?  In seguito     inventerò ogni tanto lettere di questo genere,  le scriverò io stesso,     migliori di quella e senza il rifiuto finale.
    Dimmi per favore qualcosa dei tuoi lavori!  "Cesta"?  "L¡pa"?  "Kmen"?
    "Politika"? (52)

    Un'altra cosa volevo dirti,  ma è venuto di nuovo un giovane  poeta  -     non so,  appena viene qualcuno mi ricordo delle mie pratiche e durante     la visita non so pensare ad altro - sono stanco,  non so nulla  e  non     vorrei che posare il viso nel tuo grembo,  sentire la tua mano sul mio     capo e rimanere così per tutte le eternità.
    Tuo.


    Già,  volevo dire ancora che nella tua lettera c'è una  grande  verità
    (tra altre verità),  "ze vlastnie ty si tchloviek ktery nem  tushen¡ o     tom..." (53)  Tutto  vero,  parola  per  parola.  Tutto  era  soltanto     sudiciume,  miserabile orrore, precipizio infernale, e qui sto davvero     davanti a te come un bambino che abbia commesso una pessima azione,  e     ora  si trovi davanti alla mamma,  e piange e piange e fa un voto: non     lo farò mai più.  Ma da  tutto  ciò  l'angoscia  trae  la  sua  forza:
    "Appunto,  appunto!"  dice  "nem   tushen¡"!  Nulla ancora è accaduto!
    Dunque, può ancora essere salvato!".

    Mi riscuoto, il telefono! Dal direttore!  La prima volta da che sono a     Praga mi fanno scendere per motivi di servizio. Ora finalmente verrà a     galla  tutto  l'imbroglio.  Da diciotto giorni non faccio nulla se non     scrivere  lettere,   leggere  lettere,   soprattutto  guardare   dalla     finestra,  prendere in mano lettere,  posarle,  riprenderle,  ricevere     anche visite e nient'altro.  Ma quando scendo da lui,  il direttore  è     cortese,  sorride,  mi parla d'affari che non capisco, prende commiato     perché va in licenza, è una persona inconcepibilmente per bene (è vero     che ho mormorato vagamente di aver quasi tutto  pronto  e  che  domani     incomincerò  a  dettare).  E  ora lo riferisco in fretta al mio angelo     protettore.


    Sabato.

    Tu mi fraintendi un poco, Milena, eppure sono quasi in tutto d'accordo     con te. Non starò nemmeno a entrare in particolari.
    Oggi non posso ancora dire se verrò a Vienna, ma credo di no. Se prima     avevo numerosi argomenti in contrario, oggi ne avrei uno solo, che ciò     va al di là della mia energia spirituale,  e poi  avrei,  se  mai,  un     lontano motivo secondario,  che così è meglio per noi tutti.  Aggiungo     però che per me andrebbe altrettanto o ancor più oltre le mie forze se     nelle circostanze da te descritte ("nechat tchlovieka  tchekat")  (54)     venissi tu a Praga.
    La  necessità  di  apprendere  ciò che mi vuoi dire dei sei mesi non è     urgentissima.  Sono convinto che si tratta di cosa spaventevole,  sono     convinto  che hai vissuto o addirittura fatto cose spaventevoli,  sono     convinto che partecipandovi non avrei potuto probabilmente sopportarle     (anche se,  fino a circa sette  anni  fa,  ero  capace  di  sopportare     addirittura tutto),  sono anche convinto che partecipandovi non saprei     sopportarle neanche in avvenire - sta bene,  ma che importa tutto ciò?     Sono  essenziali  per  me  le  tue  esperienze e azioni,  o non lo sei     piuttosto tu sola? Ora io conosco te,  anche senza il racconto,  molto     meglio  che  me  stesso,  senza  perciò  voler dire che non conosco le     condizioni delle mie mani.
    La tua lettera non è  in  opposizione  alla  mia  proposta,  anzi,  al     contrario, poiché scrivi: ""nejr diei¡ bych utekla triet¡ cestou kter      nevede  ani  k  tobie  ani  s  n¡m niekam do samoty"" (55).  E' la mia     proposta, tu la scrivi forse nello stesso giorno come me.
    Certo, se la malattia è in questo stadio, non puoi lasciare tuo marito     neanche temporaneamente, ma,  come hai scritto,  non sarà una malattia     senza  fine,  parlavi  di  alcuni  mesi soltanto,  un mese e più è già     passato,  fra un altro mese sarai disponibile  per  qualche  tempo.  E     allora saremo soltanto in agosto, al più tardi in settembre.     Confesso  del resto: la tua lettera è tra quelle che non posso leggere     subito, e se questa volta l'ho divorata quattro volte di seguito,  non     posso  dire subito la mia opinione.  In ogni caso però quanto sopra è,     credo, abbastanza valido.
    Tuo.


    Domenica.

    Ancora sull'argomento di ieri:
    In base alla tua lettera cerco di vedere  l'insieme  da  un  lato  dal
    quale finora ho evitato di guardarlo.  L'aspetto,  da questa parte,  è     curioso:
    Io infatti non ho lottato per te con tuo marito,  la lotta  si  svolge     soltanto dentro di te; se la decisione dipendesse da una lotta fra tuo     marito e me, tutto sarebbe deciso da un pezzo. E qui non valuto troppo     tuo  marito,  molto  probabilmente  anzi lo valuto troppo poco,  ma so     benissimo che, se egli mi ama, è l'amore del ricco per la povertà (del     quale c'è anche qualcosa nel rapporto fra  te  e  me).  Nell'atmosfera     della  tua  convivenza con lui io sono davvero solamente il topo nella     "casa grande",  al quale  si  può  permettere  al  massimo  una  volta     all'anno di attraversare liberamente il tappeto.
    Così  è  e  non  vi  è niente di strano,  io non me ne meraviglio.  Mi     meraviglio invece, ed è probabilmente incomprensibile,  che tu vivendo     in  codesta "casa grande" gli appartenga con tutti i sensi,  tragga da     essa la tua vita più intensa, vi sia una grande regina, nonostante che     - lo so benissimo - tu abbia la possibilità, non solo di volermi bene,     ma di essere mia, di correre sul tuo proprio tappeto.
    Ma questo non è ancora il colmo della  meraviglia.  Esso  consiste  in     ciò,  che se tu volessi venire da me, se dunque - giudicando con metro     musicale - volessi abbandonare tutto il mondo per scendere da me, così     in basso che dalla tua posizione non solo si veda poco, ma non si veda     nient'affatto,  tu a  tal  fine  -  stranamente,  stranamente!  -  non     dovresti  scendere,  bensì sorpassare in modo sovrumano te stessa,  in     alto,  oltre  te  stessa,  talmente  che  dovresti  forse  dilaniarti,     precipitare,  scomparire (certo però anch'io con te).  E tutto ciò per     arrivare in un punto che non ha niente di allettante,  dove me ne  sto     senza felicità e infelicità,  senza merito e colpa, soltanto perché mi     hanno messo là. Nella graduatoria dell'umanità sono,  per esempio,  un     merciaio d'anteguerra nei tuoi sobborghi (neanche un sonatore, nemmeno     questo),  e  se anche mi fossi conquistato questo posto attraverso una     lotta - ma non me lo sono conquistato - non sarebbe un merito.

    Estremamente chiaro è ciò che scrivi a proposito delle radici,  così è     certamente.  A  Turnau  però il compito principale era di trovare e di     eliminare in primo luogo tutte le  radici  secondarie,  una  volta  in     possesso del ciocco centrale,  il lavoro poteva considerarsi terminato     perché ora bastava attaccare col badile questa sola radice e strappare     fuori tutto il complesso.  Mi par di sentire ancora nelle orecchie  lo     scricchiolio. E' vero che là era facile strappare perché era un albero     che,  come  si  sapeva,  avrebbe  continuato  a  crescer bene anche in     terreno diverso e oltre a ciò non era ancora un albero, ma un bambino.

    Ieri ho parlato di nuovo con L..  In quanto a lui siamo già d'accordo.     Egli  ha  parecchi punti in suo favore,  come per esempio questo,  che     quando parla di te si raccoglie un poco,  sì,  in fondo è  buono.  Che     cosa  mi  ha detto?  Sono stato con lui due volte e in complesso mi ha     fatto ogni volta lo stesso racconto con molte circostanze secondarie.     Una  ragazza,  fidanzata  di  un  altro,  viene  da  lui,  vi  rimane,     nonostante  la sua estrema ripugnanza,  da otto a dieci ore (una delle     ragazze nel suo appartamento privato in mattinata,  l'altra  di  notte     nella  redazione,  così egli distribuisce le luci),  dichiara che deve     avere lui assolutamente e che in caso  di  rifiuto  si  butterà  dalla     finestra.  Egli si rifiuta effettivamente e lascia libera la finestra.     Ora le ragazze non si buttano giù, ma avviene un fatto terribile,  una     delle ragazze si mette a gridare nelle convulsioni, l'altra si mette -     ormai l'ho dimenticato.  Ora,  io non nego che tutto ciò sia realmente     avvenuto così o ancor peggio,  soltanto non capisco  perché  sia  così     noioso.
    Un bel passo c'era però in ciò che raccontava della sua fidanzata.  Il     padre di lei ha sofferto di  malinconie  per  due  anni,  ella  lo  ha     curato.  La  camera  dell'ammalato  doveva  avere  sempre  la finestra     aperta,  ma quando nella strada passava un  carro  bisognava  chiudere     rapidamente qualche momento perché suo padre non sopportava il rumore.
    A  chiudere  provvedeva  la  figlia.  Raccontando ciò L.  soggiungeva:     "Pensi,  una laureata in storia dell'arte!".  (Infatti è  laureata  in     storia dell'arte.)
    Mi fece anche vedere il suo ritratto. Una faccia da ebrea malinconica,     probabilmente  bella,  naso  schiacciato,  occhi gravi,  mani lunghe e     delicate, abito costoso.

    Tu chiedi notizie della ragazza,  di lei non ho  nessuna  novità,  non     l'ho  più  veduta  da  quando mi diede la lettera per te.  E' vero che     allora avevo un appuntamento con lei,  ma in  quella  vennero  le  tue     prime lettere sulle conversazioni con tuo marito, io non mi sentivo in     grado di parlare con lei e disdissi con una motivazione rispondente al     vero,  ma anche con la massima cortesia.  In seguito le scrissi ancora     un biglietto che lei però certo fraintese, poiché mi mandò una lettera     maternamente  dottrinale  (nella  quale  fra   l'altro   mi   chiedeva     l'indirizzo  di  tuo  marito);  risposi  subito  a  tono a mezzo posta     pneumatica,  ora è già passata una settimana,  non ne  ho  più  saputo     nulla,  non  so  dunque  nemmeno  che cosa tu le abbia scritto e quale     effetto le abbia fatto.

    Tu scrivi che forse verrai a  Praga  il  mese  venturo.  Quasi  vorrei     pregarti  di  non venire.  Lasciami la speranza che se un giorno,  nel     bisogno estremo,  ti pregherò di  venire,  verrai  immediatamente,  ma     adesso è meglio che tu non venga perché dovresti ripartire. (a)

    (a)  [Sul margine a sinistra].  So la tua risposta,  ma vorrei vederla     scritta.

    A proposito della mendicante non vi era certo niente di  buono  né  di     cattivo,  ero soltanto troppo distratto o troppo occupato con qualcosa     per poter regolare le mie azioni diversamente  che  in  base  a  vaghi     ricordi.  E uno di questi ricordi diceva per esempio: "Non dare troppo     ai mendicanti,  più tardi  ti  puoi  pentire".  Una  volta,  quand'ero     giovinetto, avevo ricevuto un ventino e avevo una gran voglia di darlo     a  una vecchia mendica che si trovava fra il Grande e il Piccolo Ring.     Quella somma però mi pareva enorme, una somma che probabilmente non si     era mai data a un mendicante, perciò mi vergognavo di compiere davanti     alla mendica un atto così mostruoso. Eppure glielo dovevo dare, perciò     andai a cambiare il ventino,  diedi alla mendica  una  moneta  di  due     centesimi,  girai  tutto  l'isolato  del  municipio  e dei portici sul     Piccolo Ring, apparvi a sinistra come un nuovo benefattore, diedi alla     mendica altri due centesimi,  ripresi la corsa e feci così felicemente     dieci volte.  (Forse anche meno,  perché credo che la mendica perdesse     la pazienza e scomparisse.) In ogni caso però mi trovai alla fine così     esaurito,  anche moralmente,  che andai subito a casa e piansi  finché     mia madre mi rimborsò il ventino.
    Come vedi,  sono poco fortunato coi mendichi,  ma mi dichiaro pronto a     versare tutto il mio patrimonio  presente  e  futuro  in  piccolissimi     assegni sulla Cassa Viennese,  a poco a poco,  a una mendicante vicino     all'Opera,  premesso che ci sia anche tu e io  possa  sentire  la  tua     vicinanza.
    Franz.


    Martedì.

    Durante la dettatura, alla quale oggi mi sono deciso:
    Queste  letterine  allegre o almeno ovvie,  come le due di oggi,  sono     quasi (quasi quasi quasi quasi) bosco e  vento  nelle  tue  maniche  e     vista di Vienna. Milena, come si sta bene accanto a te!
    Oggi la ragazza mi manda,  senza aggiungere una parola, la tua lettera     con soltanto qualche sottolineatura a matita.  Evidentemente non ne  è     soddisfatta;  si capisce, come tutte le lettere che contengono freghi,     anche questa ha i suoi difetti,  e alla sua vista mi rendo conto quale     folle  impossibilità  io  abbia  preteso da te con quella lettera e ti
    prego tanto di perdonarmi. E' vero che dovrei chiedere perdono anche a     lei perché, comunque fosse scritta, doveva mortificarla. Quando tu per     esempio scrivi,  e scrivi con molto riguardo: ""ponievadz o V s  nikdy     ani nepsal ani nehovorzil"" (55),  ciò la deve mortificare esattamente     come l'avrebbe mortificata il contrario. Ancora perdonami.     Con un'altra lettera, del resto,  quella indirizzata a Stasha,  mi sei     stata di grande aiuto.


    Giovedì.

    E' un bellissimo biglietto,  quello di Stasha.  Ma non si può dire che     in questo biglietto sia stata diversa da ora,  nel biglietto ella  non     esiste affatto, parla per te, c'è una incredibile unione fra lei e te,     quasi un che di religioso,  come uno che senza partecipare, perché non     osa essere più che un mediatore, continua a riferire ciò che ha udito,     ciò che veramente - questa consapevolezza vi concorre e costituisce la     superbia e la bellezza dell'insieme - soltanto  a  lui  fu  lecito  di     udire e comprendere.  Lei però non è diversa,  credo, di allora; forse     anche oggi potrebbe scrivere un biglietto così qualora le  circostanze     fossero simili.
    Strano è per me l'effetto dei racconti.  Mi opprimono,  non già perché     sono ebraici e perché,  quando si  mette  in  tavola  questa  terrina,     ciascun  ebreo deve prendersi la sua parte del cibo comune ripugnante,     velenoso,  ma anche vecchio e infondo perpetuo,  non per questo dunque     mi opprimono.  Non potresti ora,  passandoci sopra, porgermi la mano e     lasciarmela a lungo, a lungo?
    Ieri ho trovato la tomba.  Se  la  si  cerca  timidamente,  è  davvero     impossibile  trovarla.  Io  non  sapevo  che  fosse  la tomba dei tuoi     parenti materni, anche le iscrizioni - l'oro si è quasi tutto staccato     - sono difficili da leggere,  se non ci si china con attenzione.  Sono     rimasto  là  a  lungo,  la  tomba è bella,  così indistruttibile nella     pietra, ma senza fiori, e del resto che c'entrano tutti quei fiori sui     sepolcri? Non l'ho mai capito. Ho deposto un paio di garofani di vario     colore proprio sul margine del margine.  Là  nel  cimitero  mi  sentii     meglio  che  in città e anche in seguito camminai a lungo per la città     come per un cimitero.
    Jen¡tchek era forse il tuo fratellino?
    E tu stai bene?  Nel ritratto di Neu-Waldegg si vede  chiaramente  che     sei  malata,  certo vi sarà dell'esagerazione ma in ogni caso soltanto     esagerazione.  Un tuo ritratto vero e proprio non lo possiedo  ancora.     Uno  rappresenta  una  giovinetta  nobile,  delicata,  ben  curata che     presto, diciamo tra un anno o due, sarà ritirata dal collegio di suore     (è vero che gli angoli della bocca sono un po' stirati,  ma è soltanto     segno  di  nobiltà e di devozione religiosa),  e il secondo ritratto è     una esagerata figura di propaganda: "Così si vive adesso a Vienna". In     questo  secondo  ritratto  somigli  straordinariamente  al  mio  primo     misterioso amico; un giorno ti parlerò di lui.
    No,  non vengo a Vienna,  esteriormente sarebbe possibile,  per quanto     mediante una menzogna, dichiarandomi malato in ufficio o approfittando     di due feste successive.  Questi però sono  soltanto  gli  impedimenti     esteriori, mio povero giovane (Soliloquio). (a)

    Il telegramma, grazie, grazie, ritiro tutti i rimproveri che del resto     non erano neanche rimproveri, era una carezza col dorso della mano che     già da tanto tempo è invidioso.  Poco fa è stato qui di nuovo il poeta     disegnatore (che però in primo luogo  è  musicista),  ritorna  spesso,     oggi mi portò due incisioni in legno (Trotzki e un'Annunciazione; come     vedi,  il suo mondo non è ristretto);  per amor suo, per accostarmi ai     suoi lavori stabilii rapidamente una relazione con te,  dissi  che  li     manderò a un amico che ho a Vienna e ciò portò conseguenze inaspettate     perché invece di una ricevetti due copie (tengo in serbo le tue o vuoi     che  te  le  mandi  subito?).  Ora  però è arrivato il tuo telegramma;     mentre lo leggevo e leggevo e non  arrivavo  in  fondo  alla  gioia  e     gratitudine,  egli  continuava  a parlare imperterrito (non che voglia     disturbare,  tutt'altro;  se dico che ho da fare e lo dico a voce alta     in  modo da svegliarlo,  interrompe la frase a metà e scappa via senza     offendersi minimamente).  La notizia è tutta molto  importante,  ma  i     particolari saranno ancora più importanti. Anzitutto però: come potrai     riguardarti?  non è possibile,  a me,  almeno,  il medico non può dire     niente di più insensato. Ahimè, è pur grave, in ogni caso però grazie,     grazie.

    (a) [Di traverso sul foglio].  Ho scritto ogni giorno,  le lettere  ti     arriveranno di sicuro.


    Sabato.

    Sarà  mezz'ora  che  leggo  le  due  lettere  e  la  cartolina (da non     dimenticare la  busta,  mi  meraviglio  che  tutto  il  reparto  della     corrispondenza in arrivo non sia già salito a chiedere perdono per te)     e  soltanto  ora  mi  accorgo  che  tutto  questo tempo non faccio che     ridere.  C'è mai stato,  nella storia universale,  un  imperatore  che     stesse meglio di me? Egli entra nella stanza ed ecco lì le tre lettere     e  non  ha  che  da  aprirle - come lente le dita!  - appoggiarsi alla     spalliera e non riuscire  a  credere  che  è  toccata  a  lui,  questa     felicità.  No,  non  sempre  ho  riso,  del trasporto bagagli non dico     niente,  infatti non posso crederci,  e se ci credo non  me  lo  posso     figurare,  e  se me lo posso figurare tu sei tanto bella - no,  non fu     più bellezza,  fu un errore del cielo - come quella  "domenica"  e  io     comprendo  il  "signore"  (credo  che abbia dato 20 corone e se ne sia     fatte rendere 3) (57).  Eppure non ci  posso  credere,  e  se  dovesse     essere  accaduto,  ammetto che è stato altrettanto spaventevole quanto     grandioso.  Che però tu non mangi niente e abbia fame (mentre io  qui,     senza aver fame,  vengo supernutrito fino a traboccare) e che tu abbia
    le occhiaie (non possono essere un ritocco,  mi annullano  metà  della     gioia  di  questo  ritratto,  benché  ne rimanga sempre abbastanza per     volerti baciare la mano tanto a lungo che in  tutta  la  vita  non  ti     rimanga  più  tempo da tradurre o da portare bagagli dalla stazione) -     ciò non te lo posso perdonare e non  te  lo  perdonerò  mai,  e  anche     quando  un giorno,  fra cent'anni,  staremo seduti davanti alla nostra     capanna, ti borbotterò ancora i miei rimproveri. No, non scherzo.  Che     contraddizione è questa?  Tu affermi di volermi bene, di essere dunque     per me,  e patisci la fame "contro" di me,  mentre qui c'è  il  denaro     superfluo e costì c'è il Gallo Bianco!
    Eccezionalmente ti perdono ciò che dici circa la lettera della ragazza     perché  (finalmente!)  mi chiami segretario (mi chiamo "tajemnìk" (58)     perché è molto "tajemné" (59) ciò che faccio qui da tre  settimane)  e     anche nel resto hai ragione.  Ma basta aver ragione? E prima di tutto:     io non ho ragione, non vorresti dunque anche tu portare - so che non è     possibile,  si tratta soltanto del volere  -  un  po'  del  mio  torto     passando sopra alla lettera indifferente della ragazza e leggendovi il     mio torto che vi appare con tanto di lettere cubitali?  Del resto sarò     ben  contento  di  non  sentir  più  parlare  del  carteggio  che   ho     insensatamente  provocato.  Le  ho rimandato la tua lettera con alcune     righe amichevoli.  Da allora non ho saputo nulla,  non ho  trovato  la     forza  per  proporre  un  incontro,  speriamo  che  tutto si svolga in     silenzio e per il meglio.
    Tu difendi la lettera a Stasha, eppure te ne ho ringraziata. Sei stata     a Neu-Waldegg?  Io sono là molto  spesso,  strano  che  non  ci  siamo     incontrati.  Già,  tu  sali e corri tanto in fretta,  mi sarai passata     davanti agli occhi come hai fatto anche a Vienna.  Che quattro  giorni     furono   mai  quelli?   Una  dea  usciva  dal  cinema  e  una  piccola     portabagagli era sul marciapiede della stazione - e  quelli  sarebbero     stati quattro giorni?

    Max  riceverà  la  lettera  oggi  stesso.  Più di quanto se ne potesse     cavare in segreto, non ne ho cavato.
    Sì,  con Landauer (60) sei davvero sfortunata.  E nel tedesco ti  pare     ancora  che  vada  bene?  Che cosa ne hai fatto,  povera figliola (non     bambina,  per carità!) torturata e confusa dalle mie lettere?  Non  ho     ragione  di  dire  che  le  lettere  ti disturbano?  Ma che giova aver     ragione? Quando ricevo lettere ho sempre ragione e ogni cosa, e quando     non ne ricevessi non avrei né ragione né vita né altro.
    Eh sì, venire a Vienna!
    Mandami per  piacere  la  traduzione,  non  potrò  mai  aver  in  mano     abbastanza cose tue.


    Venerdì.

    Tu  vuoi  sempre sapere,  Milena,  se ti voglio bene,  ma questa è una     domanda difficile  alla  quale  non  si  può  rispondere  per  lettera     (neanche  con  l'ultima  lettera  di  domenica).  Se  prossimamente ci     vedremo, te lo dirò di sicuro (sempre che la voce non mi manchi).     Ma non dovresti scrivere del viaggio a Vienna;  io non verrò,  ma ogni     menzione di esso è un focherello che tu mi accosti alla pelle nuda,  è     già un piccolo rogo che non si consuma,  ma arde  sempre  con  uguale,     anzi crescente energia. Non è possibile che tu voglia ciò.
    I  fiori  che hai ricevuto mi fanno molta pena.  Dalla pena non riesco     nemmeno a indovinare che  fiori  fossero.  Ed  eccoli  ora  nella  tua     camera.  Se  fossi davvero l'armadio,  me la svignerei di pieno giorno     dalla camera.  Rimarrei in anticamera almeno finché  i  fiori  fossero     appassiti.  No, non è bella cosa. E siamo a questo punto, eppure tengo     la maniglia della tua  porta  così  vicino  agli  occhi  come  il  mio     calamaio.
    Sì,  sì,  è vero,  ho ricevuto il tuo telegramma di ieri, cioè di ieri     l'altro,  ma neanche allora i fiori erano appassiti.  E perché ne  sei     così lieta?  Se sono i tuoi "più cari", devi pure esser lieta di tutti     quanti ne esistono sulla terra,  perché soltanto di codesti?  Ma forse     anche  questa  è  una  domanda  troppo  difficile  alla  quale  si può     rispondere soltanto a voce.  E poi,  dove sei?  Sei a Vienna?  E  dove     sarebbe?
    No,  non riesco a liberarmi dai fiori.  La K„rntnerstrasse, sì, questa     può essere una storia di fantasmi oppure  un  sogno,  sognato  in  una     giornata  notturna,  ma i fiori sono reali,  empiono il vaso ("m rnie"     (61) dici tu,  e li tieni contro il tuo seno) e non  si  deve  nemmeno     infilarvi  una  mano  perché sono i tuoi "fiori più cari".  Aspettate,     appena Milena esce dalla camera,  vi strappo dal vaso e vi  butto  nel     cortile.
    Perché  sei così turbata?  E' successo qualcosa?  E tu non me lo dici?
    No, non è possibile. (a)
    Tu chiedi di Max,  ma egli ti ha risposto da tempo,  non so che  cosa,     però  ha imbucato la lettera domenica prima di me.  "E hai ricevuto la     mia di domenica?"
    Ieri è stato un giorno estremamente  irrequieto,  non  tormentosamente     irrequieto,   soltanto   irrequieto,   penso   che   te   ne   parlerò     prossimamente.  Prima di tutto avevo in tasca il tuo telegramma ed era     un  bel  camminare  così.  Esiste  una particolare bontà umana che gli     uomini non conoscono.  Si va,  per esempio,  verso il ponte  Cech,  si     estrae  il  telegramma  e lo si legge (è sempre nuovo;  quando lo si è     letto succhiandolo, la carta rimane vuota,  ma appena la si rimette in     tasca  si  ricopre  subito di scritto).  Poi ci si guarda in giro e si     pensa d'incontrare se non  facce  truci,  se  non  proprio  invidiose,     almeno  sguardi  che  dicano:  "Come?  Proprio tu hai ricevuto codesto     telegramma?  Andremo subito a denunciarti in  alto.  Per  lo  meno  si     manderanno  subito fiori a Vienna (un'intera bracciata).  In ogni caso     siamo decisi a non accettare  il  telegramma  senza  reagire".  Invece     tutto  è  calmo  fin  dove  l'occhio arriva,  i pescatori con la lenza     continuano a pescare, gli spettatori continuano a guardare,  i ragazzi     giocano al calcio, l'uomo vicino al ponte raccoglie i soldini. Certo a     guardar  meglio  si  nota un po' di nervosismo,  costoro si sforzano a     continuare le loro occupazioni,  a non tradire  i  loro  pensieri.  Ma     proprio  quel loro sforzo è molto simpatico,  quella voce che esce dal     complesso: "Giusto, il telegramma è tuo, siamo d'accordo, non vogliamo     controllare se sei autorizzato a riceverlo,  vi passiamo sopra e tu te     lo  puoi  tenere".  E  se  dopo un istante lo cavo fuori di nuovo,  si     potrebbe immaginare che ciò li debba  irritare  perché  dovrei  almeno     star tranquillo e nascondermi,  ma no, non si irritano, rimangono come     sono. (b)

    La sera  ebbi  occasione  di  parlare  con  un  ebreo  palestinese,  è     impossibile fartelo capire per lettera,  penso all'importanza che egli     ha per me, quell'omino quasi minuscolo, debole, barbuto, monocolo.  Ma     a ricordarlo ci ho rimesso metà della notte.  Te ne riparlerò un'altra     volta.

    Non hai dunque il passaporto e non lo riceverai?

(a) [In margine a sinistra]. E perché sei triste?
(b) [In margine a sinistra]. E perché sei triste?


    Giovedì.

    Milena, donna assidua,  nel ricordo la tua stanza mi si trasforma,  la     scrivania  e l'insieme non avevano un'aria di molto lavoro,  ma adesso     vi è tanto lavoro, e io lo sento,  mi convince,  la camera deve essere     grandiosamente  calma  e fresca e allegra.  Soltanto l'armadio perdura     nella sua pesantezza e talvolta ha la  serratura  guasta  e  non  cede     niente,  si  tiene  convulsamente chiuso e rifiuta di dare soprattutto     l'abito che portavi quella "domenica". Cotesto non è un armadio; se un     giorno tu dovessi riammobiliare la casa, lo buttiamo fuori.

    Alcune delle cose che ho scritto negli ultimi  tempi  mi  dispiacciono     molto,  non  avertene a male e non continuare a torturarti,  ti prego,     con l'idea che sia soltanto colpa tua o,  in genere,  sia tua colpa se     non te ne puoi staccare.  La colpa invece è mia, un giorno scriverò in     proposito.


    Giovedì, più tardi.

    Affinché dunque, Milena, non rimanga alcun dubbio:
    Questa non è forse la  migliore  situazione  possibile,  forse  potrei     sopportare  ancora  più  felicità,  ancora  più sicurezza,  ancora più     abbondanza - quantunque ciò non sia del tutto sicuro,  specialmente  a     Praga - in ogni caso,  se prendo la media, sto bene, mi sento contento     e libero, senza alcun merito,  mi sento bene da averne paura e,  se le     premesse  presenti  persistono  un  poco senza troppo grandi rovesci e     ogni giorno ricevo una tua parola e non ti ci vedo troppo  tormentata,     ciò solo penso che sarà sufficiente a sanarmi almeno in modo relativo.     Ora,  Milena,  ti prego,  non torturarti più,  io non ho mai capito la     fisica (semmai la faccenda  della  colonna  di  fuoco,  questa  è  ben     fisica,  no?)  e  nemmeno  comprendo  la  "v ha  svieta"  (62) ed essa     certamente non comprende me (che cosa ne potrebbe fare,  una  bilancia     così  gigantesca,  dei  miei  55  chilogrammi  di  peso netto,  non lo     sentirebbe nemmeno e non si metterebbe neanche in moto) e io sono  qui     come ero a Vienna e la tua mano è nella mia finché ce la lasci.

    Franz sbagliato, F. sbagliato, Tuo sbagliato      non più, silenzio, bosco profondo.

    La poesia di Werfel è come un ritratto che guarda tutti,  guarda anche     me e soprattutto il malvagio che addirittura lo ha scritto.

    Non capisco bene la tua osservazione sulla licenza. Dove andresti?


    Venerdì.

    No, davvero non era così grave.  E poi,  come può l'anima liberarsi da     un  peso  se  non attraverso un poco di Cattiveria?  Oltre a ciò anche     oggi reputo giusto quasi tutto ciò che scrissi.  Tu  hai  capito  male     parecchie  cose,  per  esempio  quella della sofferenza unica;  il tuo     torturarti infatti è questa unica sofferenza,  non già le tue  lettere     che  ogni  mattina  mi  danno  la forza di superare la giornata,  e di     superarla così bene che non vorrei rinunciare  a  nessuna  (di  queste     lettere,  questo va da sé,  ma anche a nessuna) di queste giornate.  E     non sono affatto geloso, credimi, ma certo non è facile rendersi conto     che sarebbe superfluo  essere  geloso.  A  non  essere  geloso  riesco     sempre, a capire che la gelosia è superflua, soltanto qualche volta.     Dunque finalmente ho qualcosa da riferire a Max,  il tuo giudizio,  un     po' breve, è vero, sul suo grande libro. Egli chiede sempre notizie di     te,  vuol sapere come stai,  che cosa succede  e  tutto  lo  preoccupa     cordialmente. Ma io non gli posso dire quasi nulla. Per fortuna già il     linguaggio  lo  impedisce.  Non  posso  certo parlare di una qualunque     Milena a Vienna e poi aggiungere che "lei" pensa e dice e fa questo  e     quest'altro.  Tu  non sei né "Milena" né "lei",  ciò è pura follia,  e     dunque non posso dir niente. E' così ovvio che neanche me ne dispiace.     Ecco,  parlare di te con estranei  posso  benissimo,  ed  è  anche  un     piacere squisito.  Se mi prendessi la libertà di fare anche un poco la     commedia, e mi ci sento trascinato, il piacere sarebbe ancor maggiore.     Ultimamente ho incontrato Rudolf Fuchs (63).  Gli voglio bene,  ma  in     altre  occasioni  la gioia d'incontrarlo non sarebbe stata così grande     né gli avrei stretto la mano così volgarmente. E intanto sapevo che il     risultato non sarebbe stato notevole, ma "sia pure piccolo" pensai. Il     discorso cadde subito su Vienna e sulla  società  che  egli  vi  aveva     frequentata.  Espressi  il  desiderio  di  udire nomi,  egli si mise a     enumerarli,  ma no,  non intendevo così,  volevo  sentir  nominare  le     donne.  "Ecco,  c'era dunque Milena,  che lei conosce." "Già,  Milena"     ripetei guardando lungo la Ferdinandstrasse per sentire che cosa  essa     avrebbe detto. Seguirono altri nomi, a me ritornò la solita tosse e la     conversazione si dileguò. Come riprenderla? "Sa dirmi in quale anno di     guerra fui a Vienna?" "Nel 1917." "Allora E.  P. (64) non era ancora a     Vienna? Io allora non lo vidi. Non era ancora ammogliato?" "No." Fine.     Ora avrei potuto farmi raccontare ancora qual cosa di te,  ma  non  ne     ebbi l'energia sufficiente.
    Come  fai  con  le compresse adesso e negli ultimi tempi?  E' la prima     volta che riparli del mal di capo.
    Non potresti dirmi qualche parola sul progetto parigino?
    Dove andrai adesso?  (E' un luogo con  buone  comunicazioni  postali?)     Quando? Per quanto tempo? Per sei mesi?
    Segnalami  sempre senza indugio i fascicoli che contengono qualcosa di     tuo.
    Come avresti veramente organizzato il viaggio di due giorni  a  Praga?
    (domanda fatta per pura curiosità.)
    Grazie per il Nonostante,  parola magica che mi entra direttamente nel     sangue.


    Venerdì, pomeriggio.

    A casa trovai questa lettera.  Conosco già da tempo la ragazza,  forse     siamo un poco parenti,  almeno abbiamo un parente comune,  quel cugino     appunto che ella menziona ed era molto malato a Praga e fu curato  per     mesi  e  mesi  da  lei  e da sua sorella.  Fisicamente mi riesce quasi     sgradevole, il viso troppo grande, tondo, dalle guance rosse, il corpo     piccolo e tondo, un modo antipatico di parlare sussurrando.  Del resto
    ho sentito dir bene di lei, cioè parenti l'hanno insultata dietro alle     sue spalle.
    Due  mesi  fa  la  mia risposta a una lettera così sarebbe stata molto     semplice: no, no, no. Oggi non credo di averne il diritto.  Non che io     creda  di poterla in qualche modo aiutare,  s'intende,  anche Bismarck     sbrigava lettere di questo genere con l'osservazione definitiva che la     vita è un banchetto organizzato malamente,  perché vi si  aspetta  con     impazienza  l'antipasto  mentre  il  piatto  forte,  l'arrosto,  è già     passato in silenzio e perciò bisogna sapersi regolare  -  oh,  come  è     stupida questa saggezza,  orribilmente stupida! - e più per me che per     lei le scriverò di essere disposto  a  incontrarla,  qualche  cosa  si     trova  per  opera tua,  Milena,  nelle mie mani,  e credo di non dover     tenerle chiuse!
    Domani parte mio zio e potrò di nuovo cercare un po' d'aria ed entrare     nell'acqua e uscire di città, cose delle quali ho molto bisogno.     Ella scrive che a me solo è lecito leggere la lettera,  e io adempio a     questa richiesta se la mando a te.  Stracciala. C'è però un bel passo:
    "zeni nepotrzebuj¡ mnoho" (65).


    Sabato, più tardi.

    Comunque si rigiri la  lettera  di  oggi,  la  cara,  fedele,  allegra     lettera   portatrice  di  felicità,   è  pur  sempre  una  lettera  da     "salvatore". Milena fra i salvatori! (Se fossi anch'io tra loro,  ella     sarebbe già presso di me?  No, certamente no.) Milena fra i salvatori,     lei che continuamente impara a proprie spese che  si  può  salvare  un     altro soltanto mediante la propria esistenza. Ed ora mi ha già salvato     con  la  sua esistenza e cerca ancora di farlo in un secondo tempo con     altri mezzi, infinitamente minori. Se uno salva l'altro dall'affogare,     compie beninteso una grandissima azione,  ma se  in  seguito  dona  al     salvato anche un abbonamento a lezioni di nuoto,  a che serve?  Perché     cerca, questo salvatore,  di alleggerirsi il compito,  perché non vuol     continuare  a  salvare  l'altro ancora con la sua esistenza con la sua     esistenza sempre pronta, perché vuol scaricare il compito sulle spalle     di maestri di nuoto e di albergatori di Davos?  Oltre a ciò  non  peso     forse 55,40?  E come faccio a spiccare il volo se ci teniamo per mano?     E se voliamo via entrambi, che fa?  Oltre a tutto,  e questo è il vero     pensiero  fondamentale  di  ciò  che  precede,  non andrò mai più così     lontano da te. O non sono appena ritornato dai Piombi di     Merano?


    Sabato sera.

    Ciò era già scritto, oggi volevo scrivere ancora dell'altro,  ma ormai     è  cosa  secondaria.  Arrivai a casa,  vidi al buio sulla scrivania la     lettera inaspettata,  la scorsi,  venni chiamato  più  volte  a  cena,     mangiai  qualcosa  che  purtroppo non voleva sparire dal piatto se non     facendosi inghiottire,  lessi poi  la  lettera  attentamente,  adagio,     rapidamente,  con furia,  felice, a un certo punto con stupore (non si     crederebbe,  ma pure sta scritto e tuttavia non si  crede,  ma  ci  si     sente  crollare,  e  questa  è  pur una fede),  infine disperatamente,     disperatamente,  col cuore  che  palpita  disperatamente.  "Non  posso     venire"  lo  compresi  fin dalla prima riga e lo compresi nell'ultima,     mentre frammezzo, sì, ero più volte a Vienna,  allo stesso modo che in     una  notte  insonne,  in piena veglia,  si hanno dieci volte sogni che     possono durare mezzo  minuto.  Poi  sono  andato  alla  posta,  ti  ho     telegrafato,  mi sono sentito un po' più calmo,  e ora sono qui.  Sono     qui col misero compito di dimostrarti che non posso venire.  Ecco,  tu     dici che non sono debole, che forse ci riesco, ma soprattutto riuscirò     forse a superare le prossime settimane delle quali già adesso ogni ora     mi  guarda  con  un  ghigno  e chiede: "Dunque davvero non sei stato a     Vienna? Hai ricevuto questa lettera e non sei stato a Vienna?  Non sei     stato  a  Vienna?  Non sei stato a Vienna?".  Io non capisco niente di     musica,  ma questa musica la capisco purtroppo meglio di tutti  coloro     che hanno orecchio.
    Non  potei  venire perché in ufficio non so mentire.  Anche in ufficio     sono capace di mentire, ma soltanto per due ragioni, per paura (questa     dunque è cosa che riguarda l'ufficio,  fa parte di esso,  là  mentisco     senza preparazione,  a memoria,  ispirato) o per bisogno estremo (cioè     quando "Elsa è malata" (66), Elsa,  Elsa,  non tu,  Milena,  tu non ti     ammali, questo sarebbe già l'estremissimo bisogno, di questo non parlo     nemmeno),  dunque  per  bisogno  potrei  mentire  subito,  non sarebbe     necessario un telegramma,  il bisogno è una cosa che può farsi  valere     di fronte all'ufficio e allora parto con o senza permesso.  In tutti i     casi invece nei quali,  fra  le  ragioni  che  avrei  di  mentire,  la     felicità, il bisogno della felicità è la ragione principale, non posso     mentire,   non   posso,   come  non  posso  sollevare  manubri  di  20     chilogrammi.  Se andassi dal direttore col telegramma di Elsa,  questo     certamente  mi  cadrebbe  di  mano,  e  quando cadesse,  certamente vi     monterei sopra, sulla menzogna, e fatto ciò pianterei lì certamente il     direttore senza chieder niente.
    Pensa,  Milena,  l'ufficio non è una qualunque sciocca istituzione (lo     è,  lo è fin troppo,  ma qui non si tratta di ciò, d'altro canto è più     fantastico che sciocco),  ma è la vita che ho fatto finora,  io me  ne     posso  staccare con uno strappo,  è vero,  e non sarebbe forse neanche     male,  ma  fino  ad  ora  è  appunto  la  mia  vita,  posso  prenderlo     sottogamba,  lavorare  meno di qualunque altro (lo faccio),  tirar via     (lo faccio),  darmi ciò  nonostante  arie  d'importanza  (lo  faccio),     accettare  tranquillamente,  come se mi spettasse,  il trattamento più     cortese che  si  possa  immaginare  in  un  ufficio,  ma  mentire  per     andarmene,  improvvisamente come un uomo libero, mentre non sono altro     che un impiegato,  dove "nient'altro" mi spinge se non l'ovvio palpito     del  cuore,  ebbene così non posso mentire.  Questo ti volevo scrivere     ancor prima di aver ricevuto la tua lettera, che cioè in questa stessa     settimana faccio rinnovare e sistemare in  genere  il  passaporto  per     poter venire possibilmente subito, se sarà necessario.

    Rileggo e vedo che non era inteso così, eppure non sono "forte" perché     non  sono stato capace di dirlo bene (ancora una cosa: là saprei forse     mentire peggio di un altro che - così sono per lo più gli impiegati  -     crede gli sia fatto continuamente torto, che lavora oltre le sue forze     -  avessi anch'io questa opinione,  sarebbe quasi un treno diretto per     Vienna  -  che  considera  l'ufficio  come   una   macchina   regolata     stupidamente  egli  saprebbe  fare  molto  meglio - una macchina nella     quale appunto in seguito a questa  stupidità  della  direzione  gli  è     affidato  un  posto  sbagliato  -  secondo le sue capacità sarebbe una     super-super-ruota,  mentre deve invece lavorare da sotto-sotto-ruota e     così  via,  per  me  invece  l'ufficio  -  e così sono stati la scuola     elementare, il ginnasio, l'università, la famiglia,  tutto,  è un uomo     vivo  che,  dovunque  io sia,  mi guarda con gli occhi innocenti,  una     persona con la quale sono stato unito  in  qualche  modo  che  ignoro,     eppure  mi  è  più  estranea  di quella gente che ora sento passare in     automobile per il Ring.  Dunque mi è estranea fino  all'assurdità,  ma     proprio ciò esige riguardi, difficilmente nascondo il mio distacco, ma     quando  lo  riconosce una siffatta innocenza?  - e io dunque non posso     mentire) no,  non sono forte e non sono capace di scrivere e non  sono     capace di niente.  E ora,  Milena,  anche tu ti stacchi da me, non per     molto, lo so, ma, vedi, l'uomo non resiste a lungo senza i palpiti del     cuore; e fintanto che tu ne sei staccata, come vuoi che palpiti?

    Se  dopo  questa   lettera   tu   potessi   telegrafarmi!   Questa   è     un'esclamazione,  non  una  preghiera.  Fallo soltanto se lo puoi fare     liberamente. Soltanto in questo caso, tu vedi,  non sottolineo neanche     queste righe.

    Ho dimenticato una terza cosa che mi potrebbe far mentire: se tu fossi     accanto  a  me.  Ma allora sarebbe la menzogna più innocente del mondo     perché allora,  nella stanza della direzione,  non ci sarebbe  nessuno     tranne te.


    Domenica.

    Non  so  ancora  che  cosa dirai della lettera di sabato sera e non lo     saprò ancora per parecchio tempo, in ogni caso sono ora in ufficio, ho     servizio di domenica (anche questa una strana istituzione,  si sta qui     e  fatto è che altri lavorano per il servizio domenicale,  dunque meno     del solito,  così anch'io);  il tempo è grigio,  ora pare  che  voglia     piovere, ora la luce delle nuvole mi disturba mentre scrivo, insomma è     come  è,  triste  e pesante.  E se tu scrivi che ho piacere di vivere,     oggi proprio non ce l'ho; che cosa me lo dovrebbe procurare,  la notte     di  oggi,  il giorno di oggi?  In fondo lo ho ciò nonostante (ritorna,     continua a venire,  di tempo in tempo,  o buona parola),  ma ben  poco     alla  superficie.  Mi piaccio anche poco,  sto qui seduto davanti alla     porta della direzione,  il direttore non c'è,  ma non mi stupirei  che     uscisse  e dicesse: "Lei non piace neanche a me,  perciò la licenzio".     "Grazie" risponderei "ne ho urgente bisogno per un viaggio a  Vienna."     "Vedo"   direbbe   lui   "adesso   mi  piace  di  nuovo  e  ritiro  il     licenziamento." "Ahimè" obietterei "allora non posso partire." "Ma sì"     direbbe lui "perché ora di nuovo  non  mi  piace  e  la  licenzio."  E     sarebbe una storia senza fine.
    Oggi per la prima volta, credo, da quando sono a Praga, ho sognato te.     Un sogno verso il mattino,  breve e grave, mentre ero ancora preso dal     sonno dopo una brutta notte. Ricordo poco.  Tu eri a Praga,  passavamo     per  la  Ferdinandstrasse,   al  l'incirca  dirimpetto  a  Vilimek  in     direzione del lungofiume,  non so quali tuoi conoscenti passavano  per     il  marciapiede opposto,  noi ci voltavamo a guardarli,  tu parlavi di     loro, forse si parlava anche di Krasa (67) (il quale non è a Praga, lo
    so,  mi informerò del suo indirizzo).  Tu parlavi come al  solito,  ma     nelle tue parole c'era qualcosa di inafferrabile,  come un rifiuto non     identificabile,  io non ne  feci  cenno,  ma  imprecai  contro  di  me     esprimendo  con  ciò  soltanto  la  maledizione  che gravava sulle mie     spalle.  Poi eravamo in un caffè,  probabilmente nel Caffè Unione (era     infatti  sulla  nostra strada),  un uomo e una ragazza erano seduti al     nostro tavolino,  ma non riesco assolutamente a ricordare chi fossero,     poi  c'era un uomo che somigliava molto a Dostoevskij,  ma giovane con     barba e capelli nerissimi e così tutto, per esempio le sopracciglia, e     molto pronunciate le protuberanze sopra gli occhi.  Poi c'eravamo tu e     io.  E  nulla  tradiva  i tuoi modi allontananti,  ma l'allontanamento     c'era.  Il tuo viso - non  potevo  distaccare  lo  sguardo  da  questa     tormentosa  stranezza  -  era incipriato,  ma fin troppo visibilmente,     senza alcuna abilità,  forse era anche accaldato e così  ti  si  erano     formati  sulle  guance  disegni di cipria,  mi pare ancora di vederli.     Continuamente mi chinavo per domandarti perché  ti  fossi  incipriata;     appena  ti accorgevi che stavo per domandare,  chiedevi affabilmente -     non si notava infatti l'allontanamento - "Che cosa vuoi?".  Io  invece     non  riuscivo a domandare,  non osavo,  eppure intuivo in qualche modo     che quella cipria doveva essere una prova per me,  una prova decisiva,     capivo  che  avrei dovuto domandare e volevo anche farlo ma non osavo.     Così il triste sogno  mi  passava  addosso  come  un  rullo.  Mi  dava     fastidio anche l'uomo alla Dostoevskij.  Il suo comportamento verso di     me era simile al tuo ma  un  pochino  diverso.  Quando  gli  domandavo     qualcosa era molto gentile,  comprensivo, chino in avanti, sincero, ma     quando non sapevo che cosa chiedere o  dire  -  e  ciò  avveniva  ogni     momento  -  si traeva indietro di scatto sprofondava in un libro,  non     prendeva più nota del mondo e meno ancora di me,  scompariva dentro la     barba  e  i  capelli.  Non ricordo perché ciò mi fosse insopportabile,     continuamente - non potevo fare altrimenti - ero costretto a tirarlo a     me con una domanda e continuamente lo riperdevo per colpa mia.     Ho però una piccola consolazione: oggi non me la devi vietare,  ho qui     davanti  la "Tribuna" (68),  non ho neanche dovuto comperarla violando     il divieto, l'ho chiesta in prestito a mio cognato,  cioè no,  è stato     lui  a  prestarmela.  Ti  prego,  concedimi  questa felicità.  Non che     m'importi ciò che vi è stampato,  ma sento la voce,  la mia voce!  nel     rumore  del  mondo,  lasciami questa felicità.  E anche il complesso è     tanto bello! Non so come avvenga, eppure leggo soltanto con gli occhi,     come ha fatto il mio sangue ad apprenderlo subito e a portarlo  in  sé     con tanto calore?  Ed è anche allegro.  Beninteso, io faccio parte del     secondo gruppo: questo peso ai piedi è addirittura mia proprietà, e io     non sono affatto d'accordo che questo mio  fatto  puramente  personale     venga pubblicato;  un tale mi disse un giorno che nuoto come un cigno,     ma non era un complimento.  Ma è anche eccitante.  Mi sembra di essere     un  gigante che con le braccia distese tiene il pubblico lontano da te     - il compito è difficile,  egli deve tener  lontano  il  pubblico,  ma     nello  stesso  tempo  non  vuol  perdere  nessuna  tua parola e nessun     secondo  della  tua  vista  -  questo  pubblico  probabilmente  matto,     arcistupido e oltre a ciò femmineo,  che forse esclama: "Dovè la moda?     Dovè dunque questa moda?  Ciò che  abbiamo  visto  finora  è  soltanto     Milena".  Soltanto, e io vivo di questo "soltanto". Tant'è vero che ho     preso tutto il  resto  del  mondo  come  Munchhausen  gli  affusti  di     Gibilterra  e l'ho buttato nel grande mare.  Come?  Tutto il resto?  E     mentire?  Non sai mentire in ufficio?  Ecco,  sono  qui,  il  tempo  è     torbido  come  prima  e  domani non avrò lettere e il sogno è l'ultima     notizia che possiedo di te.


    Domenica sera.

    Presto dunque, questo è il modo, ce l'abbiamo ogni settimana. Come mai     non mi è venuto in mente prima?  Anzittutto  è  vero,  devo  avere  il     passaporto  che non è semplice come tu credi e quasi impossibile senza     Ottla (69):
    Parto il sabato pomeriggio col diretto, arrivo circa alle due di notte     (domani m'informerò esattamente dell'orario) a Vienna.  Tu intanto  mi     hai acquistato già venerdì il biglietto del diretto festivo per Praga,     mi hai telegrafato che l'hai preso, senza questo telegramma non potrei     partire da Praga. Mi aspetti alla stazione, abbiamo più di quattro ore     per noi e domenica alle 7 della mattina riparto.
    Questo è dunque il modo, un po' grigio, è vero, stare insieme soltanto     quattro stanche ore notturne (e dove? in un albergo presso la stazione     Francesco  Giuseppe?),  ma  pur  sempre  un  modo.  Lo  si può rendere     straordinariamente più bello se tu  -  ma  è  possibile?  -  mi  vieni     incontro  fino  a  Gmund e là passiamo la notte.  Gmund non è forse in     Austria?  Allora non hai bisogno di passaporto.  Io ci potrei arrivare     verso  le dieci di sera,  forse anche prima,  e ripartire domenica col     diretto (la domenica è più facile trovar posto) verso  le  undici  del     mattino, o forse, se c'è un accelerato adatto, anche più tardi. Non so     però come tu vi possa andare e ritornare.
    Che  ne  dici?  Strano che ti debba rivolgere questa domanda mentre ho     parlato con te tutto il giorno.  Indirizzo di Krasa: Marienbad,  H“tel     Stern.


    Lunedì.

    Dunque  il  telegramma  non  era  una risposta,  ma lo è la lettera di     giovedì sera.  Molto giusta era dunque la mancanza di  sonno  e  molto     giusta  l'orribile  tristezza  di  questa  mattina.  Sa  tuo marito la     faccenda del sangue?  Certo non  si  deve  esagerare,  può  non  esser     niente,  sangue ne viene tanto, ma è pur sempre sangue e non lo si può     ignorare.  E tu vivi come niente fosse,  fai la tua  vita  eroicamente     serena,  vivi come se tu invitassi il sangue: "Vieni dunque, su, vieni     finalmente!".  E quello viene.  E non ti curi affatto di  ciò  che  io     dovrei  fare qui e non sei,  s'intende,  un "nemluvnie" (70) e sai ciò
    che fai,  ma vuoi che io stia qui  sulla  riva  di  Praga,  mentre  tu     affondi davanti a i miei occhi nel mare di Vienna,  per tua volontà. E     se non hai da mangiare,  non è forse un bisogno  "pro  sebe"?  (71)  O     credi  che sia più bisogno mio che tuo?  Ecco,  allora hai ragione.  E     purtroppo non potrò più mandarti denaro perché  a  mezzogiorno  me  ne     vado a casa e butto il denaro inutile nel fornello di cucina.  E così,     Milena,  ci siamo del tutto separati e si direbbe  che  con  tutte  le     nostre  forze abbiamo in comune un solo desiderio: che tu sia qui e il     tuo viso mi sia possibilmente vicino.  S'intende,  abbiamo  in  comune     anche  il desiderio di morire,  il desiderio di questa "morte comoda",     ma a guardar bene questo è già un desiderio  da  bambini,  all'incirca     come  nell'ora  di  aritmetica,-  quando  vedevo  lassù  il professore     scartabellare il taccuino  e  cercare  probabilmente  il  mio  nome  e     confrontavo  con  quella visione di forza,  di terrore e realtà la mia     inconcepibile assenza  di  cognizioni,  mi  auguravo,  trasognato  per     l'angoscia,  di  potermi alzare come uno spettro,  di passare come uno     spettro fra i banchi, di volare davanti al professore, leggero come la     mia scienza matematica,  di attraversare in qualche modo la porta,  di     raccogliermi là fuori e di esser libero all'aria buona che in tutto il     mondo a me noto non conteneva tante tensioni come in quell'aula. Ecco,     così  sarebbe  stato "comodo".  Ma non avveniva.  Ero invece chiamato,     ricevevo  un  quesito,   per  risolverlo  occorrevano  le  tavole  dei     logaritmi,  le  avevo  dimenticate,  ma  mentivo  dicendo che le avevo     lasciate nel banco (poiché speravo che il professore mi  prestasse  le     sue),  ero  rimandato al banco a prenderle,  notavo con un terrore che     non era neanche finto (a scuola non ebbi mai  bisogno  di  fingere  il     terrore)  che  non  c'erano  e  il  professore  (l'ho  incontrato ieri     l'altro) mi diceva: "Pezzo d'asino!". Pigliavo subito un insufficiente     e,  a rigore,  era un bene perché lo prendevo soltanto  formalmente  e     anche  ingiustamente  (avevo  bensì  mentito,  ma nessuno me lo poteva     dimostrare,  è forse ingiusto?) e soprattutto  non  avevo  dovuto  dar     prova  della  mia  spudorata ignoranza.  Dunque,  in complesso,  anche     questo era molto "comodo" e in favorevoli circostanze  potevo  persino     "scomparire" nell'aula e le possibilità erano infinite e anche in vita     potevo "morire". (a)
    Una  sola  possibilità  non  esiste  -  è  chiaro  al  disopra di ogni     chiacchiera - che tu adesso entri e sia qui e che si discorra a  fondo     della tua guarigione, eppure proprio questa eventualità sarebbe la più     urgente.

    Oggi  volevo  dirti molte cose prima di aver letto le lettere,  ma che     cosa si può dire di fronte al sangue?  Ti prego,  scrivimi subito  che     cosa ha detto il medico e che uomo è.
    La  tua descrizione del pentimento alla stazione non è esatta,  io non     esitai un istante,  tutto era così naturalmente triste e bello  e  noi     eravamo così soli da far apparire inconcepibilmente buffo il fatto che     la gente, pur non essendo là, si mise improvvisamente a protestare e a     pretendere che si aprisse la porta di accesso ai treni.
    Davanti  all'albergo  invece era come dici tu.  Come eri bella in quel     punto!  O forse non eri neanche tu?  Sarebbe stato molto strano che tu     ti fossi alzata così presto.  Ma se non eri tu, in che modo hai saputo     con tanta precisione come è stato?

    (a) [Sopra a questa e alla pagina  precedente  col  lapis  blu].  Così     chiacchiero soltanto perché presso di te sto bene, nonostante tutto.


    Lunedì, più tardi.

    Ahimè,  proprio  adesso mi sono arrivate tante pratiche.  Per che cosa     lavoro e per giunta con la testa ancora assonnata Per che cosa? Per il     fornello di cucina.

    E adesso anche il poeta,  il primo,  che è anche  incisore  in  legno,     acquafortista,  e  non  se  ne  va ed è pieno di una vita che mi versa     tutta addosso e vede che tremo  dall'impazienza,  la  mia  mano  trema     sopra questa lettera, il mento già mi cade sul petto ed egli non se ne     va,  quel bravo giovane pieno di vita,  felice-infelice, straordinario     ma proprio in questo momento terribilmente molesto. E tu sputi sangue.

    A dire il vero,  scriviamo sempre la stessa cosa.  Prima ti domando io     se sei ammalata e poi ne scrivi tu,  un'altra volta voglio morire io e     poi tu, una volta voglio piangere davanti a te come un ragazzino e poi     tu davanti a me come una bambina.  E una volta e dieci volte  e  mille     volte e sempre voglio essere presso di te,  e anche tu lo dici. Basta,     basta.

    E ancora non ho una lettera che  mi  spieghi  che  cosa  ha  detto  il     medico, oh donna lenta, oh cattiva scrittrice di lettere, oh malvagia,     oh cara,  oh - ebbene,  che cosa ancora?  Niente, stare quieto nel tuo     grembo.


    Lunedì, pomeriggio.

    Dovrei esser un bugiardo se non dicessi più di quanto ho  detto  nella     lettera  di  questa  mattina,  specie  davanti  a  te alla quale posso     parlare liberamente come a nessun altro,  perché nessuno è  mai  stato     dalla  mia  parte,  consapevole  e volente come te,  nonostante tutto,     nonostante tutto.  (Distingui il  grande  Nonostantetutto  dal  grande
    Nonostante.)
    Le  più  belle  fra  le due lettere (ed è tutto dire,  perché nel loro     complesso e quasi in ogni riga sono la  cosa  più  bella  che  mi  sia     toccata  nella  vita)  sono  quelle  nelle  quali dai ragione alla mia     "angoscia" e nello stesso tempo cerchi di spiegare  che  non  la  devo     avere.  Infatti  anch'io,  anche  se  talvolta  ho l'aria di essere un     corrotto difensore della mia "angoscia",  le do probabilmente  ragione     nel  profondo,  anzi  sono  fatto di essa ed essa è forse la mia parte     migliore. E siccome è la mia parte migliore,  è forse la sola cosa che     tu  ami.  Infatti,  che altre cose potrei avere molto amabili?  Questa     però è amabile.
    E se un giorno domandasti come mai abbia potuto  chiamare  "buono"  il     sabato  con  l'angoscia  nel  cuore,  la  spiegazione non è difficile.     Siccome amo te ("e ti amo dunque, o donna tarda a capire, come il mare     ama un sassolino sul fondo,  proprio così il mio amore ti inonda  -  e     possa  io  essere  ancora  accanto  a  te il sassolino,  se i cieli lo     permettono"),  amo il mondo intero,  e di questo fa parte anche la tua     spalla sinistra,  no, fu prima la destra e perciò la bacio se mi piace     (e tu sei tanto gentile da scostarvi la camicetta), e di esso fa parte     anche la spalla sinistra e il tuo viso sopra di me nel bosco, e il tuo     viso sotto di me nel bosco,  e il riposo sul tuo petto quasi  nudo.  E     perciò  hai  ragione  quando  dici  che già eravamo uno e io non ne ho     alcuna angoscia, ma questa è la mia unica felicità, unico orgoglio,  e     non lo limito affatto al bosco.
    Ma  precisamente  fra questo mondo diurno e quella "mezz'ora a letto",     della quale una volta hai scritto con disprezzo  come  d'una  cosa  da     maschi,  è  per  me  un  abisso che non posso valicare,  probabilmente     perché non voglio.  Di là,  dall'altra parte è un fatto  notturno,  un     fatto  che in ogni senso riguarda la notte;  di qua è il mondo e io lo     possiedo e ora dovrei balzare di là nella notte per prenderne possesso     un'altra volta.  Si può prendere possesso di una cosa un'altra  volta?     Non  è  come  perderla?  Di  qua  è  il mondo che possiedo e io dovrei     passare  di  là  per  amore  di  una  raccapricciante  magia,  di  una     ciurmeria,  di  una  pietra filosofale,  di un'alchimia,  di un anello     fatato. Via tutto ciò, ne ho un terrore tremendo.
    Voler afferrare ciò in una notte per magia,  in  fretta,  col  respiro     grosso,  ossessionato,  senza via d'uscita,  voler afferrare per magia     ciò che ogni giornata concede  agli  occhi  aperti!  ("Forse"  non  si     possono  aver  figli in altro modo,  "forse" anche i figli sono magia.     Lasciamo aperta la questione.) Perciò appunto sono tanto grato (a te e     a tutto) e così è quindi "samozrzejmé" (78)  che  accanto  a  te  sono     sommamente  tranquillo  e  sommamente  inquieto,  sommamente schiavo e     sommamente libero,  per la qual ragione,  dopo questa  intuizione,  ho     anche rinunciato a tutto il resto della vita. Guardami negli occhi!

    Soltanto  per il tramite della signora K.  vengo dunque a sapere che i     libri sono passati dal tavolino da notte alla scrivania.  Prima  avrei     dovuto  assolutamente  essere interrogato per sentire se ero d'accordo     con codesto trasferimento. E avrei risposto: no!

    E ora ringraziami.  Ho felicemente represso la voglia di  scrivere  in     queste  ultime  righe ancora qualcosa di folle (qualcosa di follemente     geloso).

    Ma ora basta, ora parlami di Emilia.


    Lunedì sera.

    E' già tardi,  dopo una giornata un po' fosca nonostante tutto.  Penso     che domani non arriverà nessuna lettera tua,  ho quella di sabato, una     di domenica potrebbe arrivare soltanto  posdomani,  la  giornata  sarà     dunque  libera dal diretto influsso d'una lettera.  Strano come le tue     lettere, Milena, mi abbagliano. Da una settimana o anche più sento che     ti è capitato qualcosa, qualcosa d'improvviso o di graduale,  qualcosa     di  fondamentale o di occasionale,  qualcosa di chiaramente o soltanto     per metà consapevole; in ogni caso so che c'è.  Non lo desumo tanto da     particolari  delle  lettere,  nonostante  che anche questi particolari     esistano,  quanto dal fatto che le lettere sono piene di ricordi (e di     ricordi  del  tutto  particolari),  che  tu rispondi sì a tutto,  come
    sempre, eppure non a tutto, che sei triste senza motivo,  che mi mandi     a  Davos,  che  vuoi  così  all'improvviso questo convegno.  (Tu avevi     accettato subito il mio consiglio di non venir qua;  avevi  dichiarato     Vienna  non  adatta  per  un  incontro;  avevi  detto che non vogliamo     incontrarci prima del tuo viaggio e ora  in  due,  tre  lettere  tutta     questa fretta.  Certo ne devo essere molto lieto, ma non posso, perché     nelle tue lettere c'è non so qual angoscia segreta, non so se per me o     contro di me,  e angoscia c'è in questa fretta improvvisa con la quale     esigi il convegno. In ogni caso sono molto contento di aver trovato un     modo,  e  questo  è  senza dubbio un modo.  Se tu non potessi rimanere     fuori  di  Vienna  per  la  notte,  anche  ciò  si  potrebbe  ottenere     sacrificando alcune delle ore nostre. Tu parti col diretto di domenica     verso  le  7  del  mattino per Gmund - come feci io allora - vi arrivi     intorno alle 1O, io ti aspetto e,  siccome parto soltanto verso le 4 e     mezza del pomeriggio,  possiamo stare insieme sei ore. Poi ritorni col     diretto della sera a Vienna e vi arrivi verso le 11 e mezzo, una breve     gita domenicale.)
    Per questo dunque sono inquieto,  o  anzi  non  sono  inquieto,  tanto     grande  è  il  tuo  potere.  Invece  di essere più che inquieto perché     tacendo mi nascondi qualcosa o devi nasconderla o  la  nascondi  senza     saperlo,  anziché dunque diventare perciò ancor più inquieto,  rimango     quieto, tanto grande è, ad onta del tuo aspetto, la mia fiducia in te.
    Se taci qualcosa, anche codesto tacere sarà giusto, penso.
    Ma anche per un'altra veramente straordinaria ragione  rimango  quieto     di fronte a ciò.  Tu possiedi una particolarità credo che faccia parte     intima della tua natura  ed  è  "colpa  degli  altri"  se  non  agisce     dovunque - che non ho mai trovata in nessuno,  che anzi,  pur avendola     trovata qui,  non riesco neanche a figurarmi.  E' la particolarità che     tu  non  sei capace di far soffrire.  Non sai far soffrire non già per     compassione, ma perché non puoi.  Ecco,  è una cosa fantastica,  quasi     tutto  il pomeriggio vi ho riflettuto,  adesso però non oso scriverla,     forse l'insieme non è che una  più  o  meno  splendida  scusa  per  un     abbraccio.
    E ora a letto. Chi sa che cosa fai adesso, lunedì verso le 11 di Sera?


    Martedì.

    Quanto poca conoscenza degli uomini, Milena. Lo ho sempre detto. Bene,     Elsa  si  è ammalata,  ciò sarebbe possibile e per questo bisognerebbe     forse partire per Vienna,  ma la vecchia zia Clara  grave  (ammalata)?     Credi  forse  che,  prescindendo da tutto il resto,  potrei andare dal     direttore e parlare della zia Clara senza  mettermi  a  ridere?  (Qui,     s'intende,  c'è  conoscenza degli uomini,  fra gli ebrei ognuno ha una     zia Clara,  ma la mia è già  morta  da  un  pezzo.)  Questo  dunque  è     assolutamente  impossibile.  Meno  male che non abbiamo più bisogno di     lei. Muoia pure, non è sola, Oskar è con lei. Ma chi sarebbe Oskar? La     zia Clara è zia Clara, ma chi è Oskar? Comunque sia,  egli è presso di     lei.  Speriamo che non si ammali anche lui, quel cattatore di eredità.
    (73).
    Eppure sì,  c'è una lettera,  e quale lettera!  Ciò che  ho  detto  da     principio  non  vale  per  le  lettere della sera,  ma questa (come ho     detto, quieta) inquietudine non può sparire, dato che c'è,  neanche di     fronte  ad  esse.  Che  bella  cosa  che ci si debba vedere.  Conto di     telegrafarti domani o posdomani  (Ottla  è  andata  già  oggi  per  il     passaporto) se potrò venire già questo sabato a Gmund (per Vienna è in     ogni   caso   troppo  tardi  questa  settimana,   perché  bisognerebbe     acquistare il biglietto per il diretto di domenica),  tu  mi  rispondi     telegraficamente se vieni anche tu.  Io dunque andrò sempre alla posta     anche di sera,  affinché tu riceva presto il telegramma.  Faremo così:     io  telegraferò  "impossibile"  e  vorrà dire che questa settimana non     posso venire. In questo caso non aspetto risposta telegrafica e per il     resto ci metteremo d'accordo per  lettera  (l'incontro  nelle  quattro     prossime settimane dipende beninteso dalla località nella quale andrai     in  campagna,  probabilmente più lontano da me,  sicché potremmo forse     non vederci per tutto un mese).  Oppure ti  telegrafo:  "Posso  essere     sabato Gmund".  E qui aspetto in risposta "impossibile" o invece "Sarò     sabato Gmund" oppure "Sarò domenica Gmund".  In questi due ultimi casi     rimane dunque inteso che non c'è bisogno di altri telegrammi (cioè no,     affinché  tu  sia  sicura  che  il  tuo  telegramma è arrivato,  te lo     confermerò ancora),  partiamo entrambi per Gmund e ci  vediamo  ancora     questo sabato o domenica. Tutto ciò appare molto semplice.

    Ho  perduto quasi due ore,  ho dovuto metter da parte la lettera.  Era     venuto Otto Pick (74).  Sono stanco.  Quando  ci  vediamo?  Perché  in     un'ora  e mezzo c'è modo di udire il tuo nome appena tre volte?  Dovei     sei? In viaggio per il paesetto dove sorge la capanna? Anch'io sono in     viaggio ed è un viaggio lungo.  Ma tu non tormentarti per  questo,  ti     prego, in ogni caso siamo in viaggio, più che partire non si può.


    Martedì.

    Dov'è  il  medico?  Sto scorrendo la lettera senza leggerla,  soltanto     alla ricerca del medico. Dov'è?
    Non dormo;  non  voglio  dire  che  non  dormo  per  questo,  le  vere     apprensioni  più  che  altre  cose  fanno dormire chi è privo di senso     musicale,  eppure io non dormo.  E' forse  passato  troppo  tempo  dal     viaggio  a Vienna?  Ho troppo elogiato la mia felicità?  Non servono a     nulla latte e burro e insalata  e  mi  occorre  l'alimento  della  tua     presenza?  Probabilmente nessuna di queste ragioni è la giusta,  ma le     giornate non sono belle.  Da tre giorni poi non  ho  più  la  felicità     dell'appartamento  vuoto,  ma  abito  a casa (perciò ho anche ricevuto     subito il telegramma).  Forse non è neanche il vuoto dell'appartamento     la  causa  del  mio benessere,  o non è la causa principale,  bensì il     possedere due abitazioni, una per il giorno e un'altra,  lontana,  per
    la sera e la notte. Riesci a capire? Io no, ma è così.
    Già, l'armadio. Per esso avremo, credo, la nostra prima è ultima lite.     Io dirò: "Lo buttiamo fuori", tu dirai: "Rimane qui". Io dirò: "Scegli     fra me e l'armadio", tu dirai: "Subito. Scelgo l'armadio". "Bene" dirò     io  e  scenderò  lentamente  la  scala  (quale?) e - se non ho trovato     ancora il Canale del Danubio, sono ancora vivo.
    Del resto sono molto favorevole all'armadio, salvo che tu non dovresti     portare il vestito. Così lo consumerai e a me che cosa rimane?     Strana,  la tomba.  A dire il vero ("vlastnie") l'ho cercata  in  quel     posto  ma timidamente,  e per contro vi ho tracciato intorno con molta     sicurezza cerchi sempre più larghi e infine enormi prendendo  poi  per     la giusta una cappella tutta diversa.
    Tu  parti dunque e non hai il visto.  E così è perduta la certezza che     in caso di bisogno verresti subito.  E ora pretendi per giunta che  io     dorma. E il medico? Dov'è? Ancora non è venuto?
    Non c'erano francobolli particolari del Congresso, anch'io credevo che     esistessero.  Oggi  con mia grande delusione mi portano i "francobolli     del Congresso" ma sono  francobolli  soliti,  soltanto  annullati  col     timbro  del  Congresso;  ciò  nonostante,  proprio  per  questo timbro     dovrebbero essere molto preziosi,  ma di ciò il giovane non si renderà     conto. Allegherò sempre un solo francobollo, in primo luogo per il suo     valore e in secondo luogo per ricevere ogni giorno un grazie.     Vedi,  hai bisogno di una penna,  perché non abbiamo utilizzato meglio     il nostro tempo a Vienna?  Perché  non  siamo  rimasti,  per  esempio,     sempre nel negozio del cartolaio dov'era pur bello e noi eravamo tanto     vicini.
    Spero  che  non avrai letto all'armadio quelle sciocchezze.  Nella mia     debolezza voglio bene quasi a tutto ciò che è nella tua camera.

    E il medico?
    Vedi spesso  il  collezionista  di  francobolli?  Non  è  una  domanda     perfida,  per quanto sembri così.  Quando uno dorme male domanda e non     sa che cosa.  Vorrebbe domandare eternamente,  non  dormire  significa     domandare; se uno avesse la risposta, dormirebbe.

    E  questa  dichiarazione  di  irresponsabilità  è  pur grave.  Non hai     ricevuto il passaporto?


    Martedì.

    Una lettera di venerdì; se non ne furono scritte il giovedì, sta bene,     purché nessuna vada smarrita.
    Ciò che scrivi di me è terribilmente  saggio,  non  voglio  aggiungere     nulla,  voglio lasciarlo intatto com'è. Soltanto una cosa, che pure vi     è detta,  la voglio esprimere un po' più apertamente: la mia disgrazia     è  che considero buoni tutti gli uomini - soprattutto beninteso quelli     che per me sono eccellenti - che li considero buoni  con  la  ragione,     col  cuore;  (in  questo  momento  è entrato un uomo e si è spaventato     perché nel vuoto  facevo  un  viso  che  esprimeva  queste  opinioni),     soltanto il mio corpo in un certo qual modo non può credere che quando     sarà  necessario  essi saranno anche realmente buoni;  il mio corpo ha     paura e piuttosto di aspettare la prova, che in questo senso veramente     redimerebbe il mondo,  preferisce arrampicarsi lentamente  su  per  la     parete.

    Di nuovo incomincio a stracciare lettere,  ieri sera ne stracciai una.     Tu sei molto infelice per causa mia (anche  altre  cose  vi  agiscono,     tutte esercitano un influsso reciproco), dillo sempre più apertamente.
    Certo, non è possibile farlo in una volta sola.

    Ieri sono stato dal medico. Contrariamente alla mia aspettativa né lui     né  la  bilancia  mi  dicono  migliorato,  ma  d'altra  parte  neanche     peggiorato. Dice però che devo partire.  Dopo la Svizzera meridionale,     che egli stesso riconobbe impossibile appena udite le mie spiegazioni,     citò  senza alcun mio suggerimento due sanatori dell'Austria inferiore     che  sarebbero  i  migliori:   il   Sanatorio   Grimmenstein   (dottor     Frankfurter)  e  il Sanatorio Wiener Wald (Selva Viennese),  in questo     momento però non sa il recapito postale di nessuno dei  due.  Potresti     informarti  all'occasione  in una farmacia,  presso un medico,  in una     guida delle poste o dei telefoni? Non c'è fretta.  Non è neanche detto     che  io parta.  Sono esclusivamente istituti per cure polmonari,  case     che da cima a fondo tossiscono e hanno la febbre giorno e notte,  dove     si  è  costretti  a  mangiar  carne,  dove  ex carnefici ti slogano le     braccia se ti ribelli alle iniezioni,  mentre medici  ebrei  stanno  a     guardare lisciandosi la barba, crudeli con ebrei e cristiani.

    In  una  delle  tue  ultime  mi  scrivesti (non oso tirar fuori queste     ultime lettere,  forse c'è stato  anche  un  malinteso  nella  lettura     affrettata,  anzi questo è probabile) che la tua questione volge costì     alla fine.  Quanta parte vi era di dolore  del  momento  e  quanta  di     verità durevole?

    Ho   riletto   ancora   una   volta   la   tua  lettera  e  ritiro  il
    "terribilmente", parecchio vi manca e parecchio è di troppo,  sicché è     soltanto "saggio". D'altro canto è molto difficile per un uomo giocare     "ad acchiapparsi" coi fantasmi.

    Sei stata con Blei (75).  Che cosa fa? Non ho difficoltà a credere che     siano state sciocchezze e credo anche  che  si  rimane  discordi.  C'è     qualcosa  di  bello,  sì,  salvo che è lontano circa 50000 miglia e si     rifiuta di venire e quando tutte le campane di Salisburgo si mettono a     sonare si allontana per precauzione  ancora  di  qualche  migliaio  di     miglia.


    Mercoledì.

    Conosci  la fuga di Casanova dai Piombi?  Sì,  certo la conosci.  Vi è     descritta fuggevolmente la più spaventevole specie di prigione, giù in     cantina,  al  buio,  all'umido,  al  livello  delle  lagune,   si  sta     accoccolati  su  un'asse stretta che quasi tocca l'acqua e questa sale     davvero con l'alta marea,  ma la cosa  peggiore  sono  i  feroci  topi     anfibi,  le  loro  strida nella notte,  quel loro tirare e strappare e     rodere (credo che si debba lottare con essi per il pane) e soprattutto     la loro attesa impaziente finché si cade sfiniti  giù  dall'assicella.     Vedi,  così sono i racconti nella lettera.  Paurosi, incomprensibili e     soprattutto così vicini e lontani come il proprio passato.  E,  sopra,     uno  sta  accoccolato  senza  che  in  tal modo la schiena gli diventi     proprio bella e anche i piedi si  rattrappiscono  ed  egli  ha  paura,     eppure  non  può  far  altro  che  guardare i grossi topi scuri che lo     acciecano nel buio della notte,  e infine non sa se è ancora seduto in     alto o se è già in basso e sibila se spalanca le piccole fauci irte di     denti.  Via,  non  raccontare  di  queste  storie,  vieni qua,  lascia     correre,  vieni qua.  Queste "bestiole" te le regalo,  ma a condizione     che tu le scacci fuori di casa. (a)

    E del medico non si parla più?  Eppure avevi promesso espressamente di     andare dal medico,  e tu mantieni sempre la parola.  Non ci vai perché     non vedi più sangue? Non voglio addurre me stesso come esempio per te,     tu sei incomparabilmente più sana di me, io sarò sempre il signore che     si  fa  portare  la valigia (la qual cosa però non è una differenza di     categoria,  perché prima viene il signore che con un cenno  chiama  il     portabagagli,  poi viene il portatore e, dopo, il signore che prega il     portatore di portare la  valigia,  perché  altrimenti  cade  a  terra;     quando ultimamente - ultimamente !  - ritornavo a casa dalla stazione,     il facchino che mi portava la valigia prese a consolarmi per conto suo     senza che io avessi detto una parola in proposito: disse che io sapevo     certamente far cose di cui lui non è  capace,  che  a  lui  spetta  il     compito  di portare e non ci trova nessuna difficoltà e così via,  e a     me passavano per la testa cose alle quali quella era la risposta - del     tutto insufficiente - ma io non l'avevo detta chiara e tonda)  dunque,     io  non  voglio paragonarmi a te,  ma non posso fare a meno di pensare     alla mia situazione e questo  pensiero  mi  dà  preoccupazioni,  e  tu     dovresti andare dal medico.  E' stato circa tre anni fa, non avevo mai     avuto  male  ai  polmoni,   nulla  mi   stancava,   potevo   camminare     all'infinito,  allora  non  sono mai arrivato con le marce allo stremo     delle  forze  (col  pensiero  invece  sì,   continuamente)  ed   ecco,     all'improvviso,  verso il mese d'agosto - dunque faceva caldo, era bel     tempo, tutto in ordine tranne la mia testa - sputai qualcosa di rosso,     mentre ero nella scuola di nuoto per borghesi.  Strano e interessante,     vero?  Guardai un momento e non ci pensai più.  Poi avvenne più spesso     e, in genere,  quando volevo sputare creavo il rosso a mio piacimento.     E  allora non fu più interessante,  ma noioso e di nuovo non ci pensai     più.  Se allora fossi andato subito dal medico  sì,  è  probabile  che     tutto  sarebbe  stato  esattamente  come  è stato senza il medico,  ma     allora nessuno sapeva del sangue,  nemmeno  io,  e  nessuno  stava  in     pensiero. Adesso, invece, c'è uno che sta in pensiero, dunque fammi il     piacere e va' dal medico.

    Strano che tuo marito dica che mi scriverà questo e quello. E si parla     di percuotere e strangolare? Non capisco davvero. A te credo beninteso     interamente,  ma mi è così impossibile figurarmelo che non provo alcun     sentimento, come si trattasse di un fatto estraneo e lontano.  Come se     tu fossi qui e dicessi: "Adesso,  in questo momento,  sono a Vienna, e     si grida, e così via".  E tutti e due guardassimo dalla finestra verso     Vienna e naturalmente non ci fosse il più piccolo motivo di agitarsi.     Una cosa però: quando parli dell'avvenire non dimentichi forse qualche     volta  che sono ebreo?  ("jasné,  nezapletené) (76).  Pericoloso è pur     sempre l'ebraismo, persino ai tuoi piedi.

    (a) [Sul margine a sinistra|.  In queste lettere il Ciononostante  era     realmente necessario; e non è forse bello anche come parola? Nel "ciò"     si  cozza insieme,  c'è ancora un po' di "mondo",  nel "nonostante" si     affonda e poi non c'è più nulla.


    Mercoledì.

    Nella lettura preferisco sorvolare su ciò che scrivi del  mio  viaggio     ("tchek sh  az  Tobie  bude  nutné")  (77),  in  primo  luogo  è  roba     invecchiata,   in  secondo   luogo   fa   male   pur   essendovi   una     giustificazione:  perché sarebbero così disperate le lettere di sabato     sera e di domenica mattina?  E in terzo luogo  ci  vedremo  forse  già     sabato.  (Pare  che  tu non abbia ancora avuto lunedì mattina il primo     dei tre telegrammi, spero che riceverai in tempo il terzo.)     Capisco la disperazione per la lettera del babbo solo in  quanto  ogni     nuova conferma della relazione quanto mai tormentosa,  che dura già da     molto tempo, ti fa nuovamente disperare.  Cose nuove non ne puoi certo     ricavare  dalla  lettera.  Non ne ricavo nemmeno io che pur non ho mai     letto una lettera del babbo.  Egli è cordiale e tirannico e ritiene di     dover  essere  tiranno  se vuol appagare il cuore.  In realtà la firma     importa poco,  è soltanto la rappresentanza del tiranno,  in alto  c'è     "l¡to" e "strashnie smutné" (78), ciò annulla ogni cosa.
    Certo,  può darsi che ti spaventi la sproporzione tra la tua lettera e     la  sua,  io  non  conosco  la  tua,   ma  d'altro  canto  pensa  alla     sproporzione   tra   la  sua  "ovvia"  buona  disposizione  e  la  tua     "incomprensibile" caparbietà.
    Sei ora in dubbio per la risposta?  O meglio,  sei  stata  in  dubbio,     poiché scrivi che adesso sai che cosa rispondere. Strano, se tu avessi     già  risposto  e  mi  chiedessi:  "che  cosa ho risposto?" direi senza     esitazione ciò che secondo me hai risposto.
    S'intende,  non c'è alcun dubbio,  fra tuo marito e me non c'è  alcuna     differenza  per  tuo padre,  per l'europeo abbiamo la stessa faccia da     negri; ma prescindendo dal fatto che in questo momento non ne sapresti     dire niente di sicuro,  perché ciò dovrebbe entrare nella  lettera  di     risposta? E perché dovrebbe essere necessario mentire?
    Tu  puoi  soltanto  rispondere,  credo,  ciò  che a tuo padre,  quando     parlasse similmente di te, dovrebbe dire colui che, quasi senza vedere     altro,  sta a guardare la tua vita con attenzione  e  col  batticuore:     "Tutte le "proposte", tutte le "condizioni" "fisse e determinate" sono     senza senso;  Milena vive la sua vita e non potrà viverne alcun'altra.     La vita di Milena è, sì, triste,  ma è ancora "sana e tranquilla" come     nel  sanatorio.  Milena  Le  chiede  soltanto  di volersene finalmente     render conto,  non Le chiede  niente  altro,  in  particolare  nessuna     "sistemazione".  La prega solamente di non staccarsi e isolarsi da lei     convulsamente, ma di seguire il Suo cuore e di parlare con lei come si     parla coi propri simili.  Se un giorno lo farà,  avrà tolto una  buona     parte  di "tristezza" alla vita di Milena e questa non dovrà più farle     pena".

    Che cosa intendi dicendo che la risposta per il babbo coincide col tuo     compleanno? Incomincio davvero ad aver paura di questo compleanno.  Ci     si veda sabato o no, ti prego in ogni caso di telegrafarmi la sera del     10 agosto.

    Oh potessi tu essere a Gmund sabato o almeno domenica!
    E' veramente molto necessario.
    Allora questa sarebbe l'ultima lettera che ricevi prima che ci si veda     in faccia. E questi occhi che da un mese sono disoccupati (sì, è vero,     leggere lettere, guardare dalla finestra), questi occhi ti vedranno.

    L'articolo  è  molto  migliore che in tedesco,  ha ancora dei buchi o,     meglio, vi si cammina come in una palude ed è sempre difficile cavarne     i piedi.  Recentemente un lettore della "Tribuna" mi  disse  che  devo     aver  fatto  studi  profondi  nel  manicomio.  "Soltanto  nel proprio"     risposi dopo di che egli cercò di felicitarsi anche per il  "manicomio     proprio". (Ci sono due, tre piccole sviste nella traduzione.)


    Mercoledì sera.

    Ora, verso le 10 di sera, ero in ufficio, c'era il telegramma arrivato     così  rapidamente  da far quasi dubitare che sia la risposta al mio di     ieri,  eppure dice: spedito il 4 / 8,  ore 11 antimeridiane.  Era anzi     arrivato già alle 7, avendoci messo dunque non più di otto ore. Questa     è  una delle consolazioni che il telegramma aggiunge a se stesso,  che     siamo cioè abbastanza vicini nello spazio: entro circa  24  ore  posso     avere la tua risposta.
    E  questa  risposta  non dovrà poi essere sempre: non partire!  Rimane     ancora una piccolissima possibilità: può darsi che tu non abbia ancora     ricevuto la mia lettera nella quale ti spiegavo  che  non  occorre  tu     rimanga una notte fuori di Vienna e tuttavia puoi arrivare a Gmund. Ma     questa scoperta devi averla fatta anche tu.  Comunque sia,  sto ancora     pensando se sia il caso  di  farmi  dare,  in  base  a  questa  minima     possibilità,  il  visto  con  la  validità  di  soli 30 giorni (il tuo     periodo di licenza) e di assicurarmi il biglietto per il diretto.     Probabilmente non lo farò,  il  telegramma  è  così  preciso,  tu  hai     scrupoli  assolutamente  inconfutabili  contro  il viaggio.  Ora vedi,     Milena, non importa, io stesso non avrei osato concepire (soltanto,  è     vero,  perché  non  immaginavo  quanto  fosse  semplice la possibilità     d'incontrarci)  l'attivo  desiderio  di  vederti  "già"  dopo  quattro     settimane;  se ci fossimo incontrati,  l'avrei dovuto esclusivamente a     te,  tu dunque (prescindendo dal fatto che,  se non vieni,  così  deve     essere assolutamente, lo so) hai anche per ciò il diritto di annullare     questa  possibilità  creata da te,  non ne dovrei neanche scrivere,  è     soltanto che ho scavato con tanta gioia questo stretto passaggio dalla     buia abitazione fino a te e che a poco a poco ho buttato tutto ciò che     sono in questo passaggio che forse (la pazzia dice subito: certamente!     certamente! certamente!) porta fino a te, che però, invece di arrivare     a te,  urta d'improvviso contro la pietra impenetrabile del prego-non-     partire,  di  modo  che ora sono costretto a ripercorrere all'indietro     adagio e a riempire con tutto ciò che sono  il  cunicolo  scavato  con     tanta  fretta.  Ciò fa un po' male,  ma,  siccome ne posso scrivere in     lungo e in largo,  può anche non essere molto grave.  Alla fine  scavo     nuovi passaggi, io, vecchia talpa.
    Molto  più  grave  è che il convegno sarebbe stato importantissimo per     motivi ai quali credo di aver accennato ieri. In questo senso nulla lo     può  sostituire,   e  per  questa  ragione  son  triste  se  penso  al     telegramma.  Ma  può  darsi  che nella tua lettera di posdomani ci sia     qualche conforto. (a)
    Ho soltanto una preghiera: nella tua lettera di oggi ci sono due frasi     molto dure.  La prima ("a ty neprz¡jedesh  ponievadz  tchek sh  az  to     Tobie   jednou  bude  nutné,   to,   abys  prz¡jel")  (79)  è  un  po'     giustificata,  ma neanche lontanamente in tutto,  la seconda ("Miej se     pieknie  Franku"  (80),  segue poi,  affinché tu possa sentire il tono     della frase: "telegrafovat ti ten faliesnì telegram nem  tedy  smyslu,     nepos¡l m ho" (81).  Perché l'hai mandato lo stesso?) questo "'Miej se     pieknie Franku'" non è punto giustificato.  Queste sono le frasi.  Non     potresti,  Milena, ritirarle in qualche modo, ritirarle espressamente,     la prima, se vuoi, solo in parte, la seconda invece per intero?

    Stamane ho dimenticato di includere la lettera del babbo, perdona. Del     resto non ho neanche notato che è la prima lettera dopo tre anni,  ora     soltanto capisco l'impressione che ti ha fatto.  Con ciò però anche la     tua lettera al babbo diventa molto più importante, e certo "deve avere     contenuto qualcosa di fondamentalmente nuovo".

    Nella tua lettera c'è anche una terza frase che forse è diretta contro     di me ancor più di quelle che ho riportato: la frase del dolciume  che     guasta lo stomaco.

    (a)  [Sul  margine  a  sinistra].  Non  sono  affatto contrario al tuo     viaggio in licenza. Come potrei esserlo, e perché lo credi?


    Giovedì.

    Questo è dunque,  e per giunta inaspettato,  il giorno  senza  lettera     temuto  già  da  tanto  tempo.  La tua lettera di lunedì era dunque da     prendere così sul serio che il giorno dopo non  hai  potuto  scrivere.
    Non importa, ho il tuo telegramma al quale appoggiarmi.


    Venerdì.

    Volevo distinguermi davanti a te, mostrare forza di volontà, aspettare     a  scriverti  la lettera,  sbrigare prima una pratica,  ma la stanza è     vuota, nessuno si cura di me, è come dicessero: lasciatelo, non vedete     come lo tengono occupato le sue faccende,  è come avesse un  pugno  in     bocca. Perciò ho scritto soltanto mezza pagina e sono di nuovo con te,     coricato  sopra  la  lettera come allora ero disteso al tuo fianco nel     bosco.

    Oggi non è arrivata alcuna lettera, ma non sono angosciato,  ti prego,     Milena,  non fraintendermi, non sono mai angosciato per te, se qualche     volta sembra così, e così sembra spesso, è soltanto una debolezza,  un     capriccio  del  cuore  che  ciò  nonostante  sa benissimo per che cosa     palpita, anche i giganti hanno debolezze, persino Ercole ebbe,  credo,     una  volta  un deliquio.  Ma a denti stretti e di fronte ai tuoi occhi
    che vedo persino di pieno giorno, so sopportare ogni cosa: lontananza,     ansietà, apprensione, mancanza di lettere.

    Come sono felice,  come mi fai  felice!  Sono  venuti  certi  clienti,     pensa,  anch'io  ho clienti,  l'uomo m'interruppe mentre scrivevo,  io     m'indispettii,  ma quello aveva una faccia buona,  cortese,  grassa e,     nello stesso tempo,  di una correttezza da tedesco del Reich,  fu così     gentile da accettare facezie per conclusioni d'ufficio,  in ogni  caso     però  mi  aveva  disturbato  e  non gli potevo perdonare;  poi dovetti     addirittura alzarmi per accompagnarlo in altre sezioni,  ma  ciò  fece     traboccare la pazienza a te,  cara,  e nel momento in cui mi alzavo mi     arriva il fattorino con la tua lettera e per la scala la apro e,  gran     Dio,   dentro  c'è  un  ritratto,  dunque  qualcosa  di  assolutamente     inesauribile, una lettera per un anno, una lettera per l'eternità,  ed     è  così  ben  riuscito  che  non  potrebbe essere migliore,  un povero     ritratto che si dovrebbe guardare soltanto attraverso le lacrime e col     batticuore, non altrimenti.

    E di nuovo c'è alla mia scrivania un forestiero.

    Per continuare quanto sopra: Tutto so sopportare, con te nel cuore,  e     se  una  volta  ho  scritto  che  i  giorni privi di tue lettere erano     orribili, non è esatto, erano soltanto orribilmente pesanti,  la barca     era sovraccarica,  pescava orribilmente, ma galleggiava tuttavia sulle     tue onde.  Una cosa sola,  Milena,  non posso sopportare senza il  tuo     espresso  aiuto:  "l'angoscia",  per  questa  sono troppo debole,  non     riesco neanche ad abbracciare con lo sguardo questa mostruosità che mi     trascina con sé.
    Ciò che dici di Jarmila è precisamente una  di  quelle  debolezze  del     cuore, per un istante il tuo cuore cessa di essermi fedele e allora ti     vengono  siffatti  pensieri.  Siamo forse ancora due creature umane in     questo senso?  Ed è forse la mia "angoscia" qualcosa di molto  diverso     dalla paura di macchiare me stesso?

    Altra interruzione, in ufficio non potrò più scrivere.

    La  grande  lettera annunciata potrebbe quasi incutere paura se questa     lettera non fosse così tranquillante. Che cosa conterrà?
    Scrivimi subito se è arrivato il denaro.  Se dovesse essersi smarrito,     te ne mando dell'altro,  e se questo dovesse andar perduto, dell'altro     ancora e così via,  finché non ci rimanga più nulla e soltanto  allora     tutto sia in regola.

    Non  ho ricevuto il fiore,  all'ultimo momento ha finito col sembrarti     che per me non mettesse conto.


    Venerdì.

    Capisco, stai male come non sei stata mai dacché ti conosco.  E questa     insuperabile  distanza insieme con la tua sofferenza agisce come se io     fossi nella tua camera e  tu  quasi  non  potessi  riconoscermi  e  io     passeggiassi perplesso in su e in giù fra il letto e la finestra e non     avessi  fiducia  in nessuno,  in alcun medico,  in alcuna cura,  e non     sapessi nulla e guardassi quel cielo fosco che dopo tutte le celie  di     anni precedenti mi apparisse nel suo vero sconforto, perplesso al pari     di  me.  Sei  costretta  a  letto?  Chi ti porta da mangiare?  E quale     mangiare? E i tuoi dolori di capo! Se ne hai la possibilità,  scrivimi     in proposito.  Avevo una volta un amico, un ebreo orientale che faceva     l'attore,  il quale  ogni  trimestre  soffriva  alcuni  giorni  di  un     terribile  mal di testa,  nel resto era sanissimo,  ma quando venivano     quei giorni,  se era per la strada,  doveva appoggiarsi al muro  delle     case e non gli si poteva far niente se non passeggiare per mezze ore e     aspettarlo.  Il  malato  è abbandonato dal sano,  ma anche il sano dal     malato.  Sono dolori che si ripetono regolarmente?  E il medico?  E da     quando vengono?  E le compresse,  le prendi?  Male,  male, e non posso     neanche dire bambina.
    Peccato che la tua partenza sia di nuovo  rimandata,  partirai  dunque     soltanto  otto  giorni  dopo  giovedì.  Ebbene  la felicità di vederti     rivivere là fra il lago,  il bosco e  i  monti,  questa  felicità  non     l'avrò.  Ma quanta felicità voglio ancora,  ingordo, ingordo che sono!
    Peccato che devi stare ancora tanto tempo a tormentarti a Vienna.     Di Davos dovremo ancora parlare.  Non ci voglio andare perché è troppo     lontano,  troppo caro e troppo inutile. Se lascerò Praga, e dovrò pure     lasciarla, sarà meglio che vada in un villaggio qualunque. Ma, è vero,     dove troverò chi mi accolga?  Bisognerà che ci pensi ancora,  ma prima     di ottobre non parto di sicuro.
    Ieri sera incontrai un certo Stein,  tu lo conosci forse dai caffè, lo     hanno sempre paragonato a re Alfonso. Adesso fa il minutante presso un     avvocato,  è stato molto lieto di incontrarmi,  dovendomi parlare  per     cose d'ufficio,  altrimenti avrebbe dovuto telefonarmi il giorno dopo.     "Ebbene,  di che si tratta?" Una  causa  di  separazione  nella  quale     anch'io  avrei  qualche  parte,  e  mi pregava d'intervenire.  "In che     modo?" Dovetti portarmi realmente una mano al cuore.  Ma  poi  risultò     che  si  trattava  soltanto  della  separazione  dei  genitori  di uno     scrittore e la madre,  che io non conosco nemmeno,  aveva pregato lui,     il  dottor  Stein,  di  indurmi  a  influire  un poco sullo scrittore,     affinché egli la trattasse un po' meglio e non la insultasse tanto.     Strano matrimonio,  del resto.  Pensa,  la donna era già maritata  una     volta;  durante  quel  primo  matrimonio  ebbe  dal presente marito un     figlio che è appunto lo scrittore.  Questi dunque porta  il  nome  del     precedente marito,  non di suo padre.  Poi si sono sposati e ora, dopo     molti anni,  per iniziativa del marito,  il padre dello scrittore,  si     sono separati.  La separazione è già avvenuta. Siccome però la moglie,     data  l'odierna  carenza  di  alloggi,   non  riesce  a   trovare   un     appartamento  per sé,  vivono insieme soltanto per questa ragione come     coniugi,   senza  però  che  questa  convivenza   (per   mancanza   di     appartamenti)  riesca  a  riconciliare  il  marito  con  lei o a farlo     addirittura desistere dalla separazione.  Non siamo uomini poveri fino     al ridicolo? Io conosco il marito, un buon diavolo, ragionevole, molto     capace, affabile.
    Mandami  beninteso  il foglietto dei desideri,  quanto più lungo tanto     meglio, in ogni libro,  in ogni oggetto che tu voglia io m'insinuo per     venire  così  a  Vienna  (il  direttore  non  ha  nulla in contrario),     offrirmi possibilmente molte occasioni per viaggiare. E potresti anche     prestarmi gli articoli che sono già apparsi nella "Tribuna".     Del resto  sono  quasi  lieto  della  tua  licenza  salvo  le  cattive     comunicazioni  postali.  Spero che mi descriverai brevemente l'aspetto     dei luoghi, la tua vita, l'alloggio,  le passeggiate,  la veduta dalla     finestra, il cibo, affinché, anch'io possa partecipare un poco a tutto     ciò.


    Sabato.

    In  questo  momento  sono  distratto e malinconico,  ho perduto il tuo     telegramma,  cioè non può essere perduto,  ma è già grave che lo debba     cercare.  Del  resto  la  colpa  è tutta tua;  se non fosse stato così     bello, non l'avrei avuto continuamente in mano.
    Mi conforta soltanto ciò che scrivi del medico.  Dunque il sangue  non     aveva  alcuna importanza,  ebbene,  io da vecchio studioso di medicina     l'avevo già sospettato.  E che dice della lesione ai polmoni?  Non  ti     avrà certo prescritto di patir la fame e di portar valigie. Ed è stato     d'accordo che tu continui a volermi bene?  O non avete neanche parlato     di me?  Come posso però accontentarmi se  il  medico  non  ha  trovato     traccia di me? O avrebbe trovato la mia lesione nel tuo polmone?     E davvero non è grave? E non ha altro da dire che mandarti in campagna     per quattro settimane? A pensarci bene, è ben poco.
    No,  non  sono  contrario  al  viaggio più di quanto non sia alla vita     viennese.  Parti pure,  parti.  In qualche  punto  hai  parlato  della     speranza  che  riponi  in  questo  viaggio;  anche  per  me  è  motivo     sufficiente per desiderarlo.
    Il viaggio a  Vienna,  ancora.  Peggio  che  mai  è  quando  ne  parli     seriamente,  qui  il  terreno incomincia davvero a ondeggiare e io sto     attento per vedere se mi espelle. Non lo fa. Dell'ostacolo esteriore -     degli interiori non parlo nemmeno poiché,  quantunque siano più forti,     credo  che non mi tratterrebbero,  non perché io sia forte,  ma perché     sono troppo debole per lasciarmi trattenere da essi - ho già  scritto,     potrei  rendere possibile il viaggio soltanto con una menzogna e della     menzogna ho paura,  non come un uomo d'onore,  ma  come  uno  scolaro.     Oltre  a  ciò ho l'impressione,  o per lo meno intuisco la possibilità     che un giorno io debba assolutamente, inevitabilmente, venire a Vienna     per me o per te,  ma la seconda volta non potrei  mentire  neanche  da     scolaro  sventato.  Questa  possibilità  di  menzogna  è dunque la mia     riserva, di essa vivo come della tua promessa di venire subito. Perciò     adesso non verrò;  al posto della certezza di  questi  due  giorni  ti     prego, Milena, non descriverli, non fai che torturarmi, non c'è ancora     la  necessità,  bensì  un'indigenza  senza  limiti  - possiedo la loro     costante possibilità.
    E i fiori?  Naturalmente saranno già appassiti.  Ti sono mai andati  i     fiori "per traverso" come questi a me? E' una cosa molto sgradevole.     Nel conflitto fra te e Max non voglio immischiarmi. Mi tengo da parte,     do a ciascuno ciò che gli spetta e sto al sicuro. Tu hai indubbiamente     ragione in ciò che dici,  ma ora scambiamo il posto. Tu hai una patria     e vi puoi rinunciare,  che è forse il meglio che si possa  fare  della     patria,  specie  in quanto non si abbandona ciò che di essa non si può     abbandonare.  Lui invece non ha patria e perciò non può  rinunciare  a     niente e deve pensare sempre a cercarla o a costruirla, sia che prenda     il cappello dall'attaccapanni sia che alla scuola di nuoto si metta al     sole o scriva il libro che tu dovrai tradurre (questo è forse il punto
    in cui si affatica meno - ma tu, povera cara, quanto lavoro ti carichi     sulle spalle,  perché ti sentì colpevole, ti vedo china sul lavoro, il     collo libero,  io sto dietro a te,  tu non lo sai - non spaventarti se     sentì le mie labbra sul collo,  non volevo baciarti,  è soltanto amore     impacciato), Max, dicevo dunque, ci deve pensare sempre,  anche quando     ti scrive.
    Ed  è  strano  come tu,  benché in complesso ti difenda bene contro di     lui,  resti sconfitta nei particolari.  Evidentemente  ti  ha  scritto     dell'abitare  insieme  coi  genitori  e di Davos.  Errata l'una cosa e     l'altra.  Certo abitare coi genitori è pessima cosa,  ma non  soltanto     abitare,  vivere,  abbandonarsi  a quella cerchia di bontà,  di amore,     già,  tu non conosci la lettera al babbo,  il dibattersi  della  mosca     sulla  verga  invischiata,  certo  anche  qui  c'è il lato buono,  uno     combatte a Maratona, l'altro nella sala da pranzo, il dio della guerra     e  la  dea  della  vittoria  sono  dappertutto.  Ma  il  trasferimento     meccanico  che scopo potrebbe avere,  anche se mangiassi a casa,  dove     certo in questo momento starei meglio che altrove?  Di Davos riparlerò     prossimamente.  L'unica  cosa  che  ammetto  a proposito di Davos è il     bacio nel momento della partenza.


    Sabato.

    Caro e paziente, lo sono davvero?  Non lo so proprio,  so soltanto che     un telegramma così fa bene in certo qual modo a tutto il corpo, eppure     è soltanto un telegramma, non una mano tesa.
    Ma suona anche triste,  stanco,  detto così di sul letto da malato. E'     pur triste,  e non è arrivata alcuna lettera,  un altro  giorno  senza     lettere,  devi  stare  proprio  malissimo.  Chi  mi  garantisce che il     telegramma sia stato spedito da te in persona e  tu  non  stia  invece     tutto  il  giorno  a  letto,  lassù in quella camera dove vivo più che     nella mia?
    Questa notte ho ucciso per amor tuo,  è stato un sogno arruffato,  una     notte brutta brutta. Non saprei dirne niente di più preciso.

    La tua lettera è pur arrivata. Questa è certamente chiara, le altre, è     vero,  non  erano  meno  chiare,  ma non osavo avanzare fino alla loro     chiarezza. Del resto,  come potresti mentire,  la tua non è una fronte     che sappia mentire.
    Non  do  colpa  a  Max.  Certo  qualunque  cosa ci sia stata nella sua     lettera,  egli era in  errore,  nessuno,  neanche  il  migliore,  deve     inserirsi fra noi. Perciò appunto questa notte ho ammazzato. Qualcuno,     un  parente,  durante  un  colloquio che non ricordo,  che però voleva     significare che questo o quello non era capace di combinare qualcosa -     un parente dunque finiva col dire ironicamente: "Allora forse Milena".     In risposta lo trucidavo non so come,  ritornavo poi a casa  eccitato,     mia  madre  mi  correva dietro e anche lì nel corridoio si svolgeva un     colloquio simile;  infine,  rosso di collera,  gridavo:  "Se  qualcuno     nomina  Milena  con  cattive  intenzioni,  per  esempio  il padre (mio     padre),  ammazzo anche lui o me".  Poi mi svegliai,  ma non era  stato     veramente né un dormire né uno svegliarsi.
    Ritorno  ancora  alle  lettere  precedenti che in fondo erano simili a     quella indirizzata alla ragazza. E le lettere della sera non erano che     dolore per quelle della mattina.  E - una sera scrivesti che tutto era     possibile,  impossibile  soltanto  che  io ti perda - a rigore sarebbe     bastata ancora una leggera pressione e l'impossibile sarebbe riuscito.
    E forse c'è persino stata questa pressione e forse riuscì.     In ogni caso: questa lettera è un ristoro,  infatti ero  sepolto  vivo     sotto  le  precedenti  e credevo di dover starmene quieto perché forse     ero morto davvero.

    Tutto ciò dunque non mi ha proprio sorpreso,  me l'aspettavo,  mi  ero     preparato alla meglio a sopportarlo, quando fosse arrivato; quando poi     arriva  non si è mai preparati abbastanza,  però non si crolla ancora.
    Ciò che invece scrivi della  tua  situazione  e  della  tua  salute  è     veramente  terribile  e  molto  più  forte di me.  Ma di ciò parleremo     quando ritornerai dal viaggio.  Può darsi che là succeda veramente  il     miracolo,  almeno il miracolo fisico che tu aspetti,  in questo punto,     del resto,  ho tanta fiducia in te che non voglio neanche i  miracoli,     che affido tranquillamente la tua natura meravigliosa, violentata, non     violentabile,  al  bosco,  al lago e al vitto,  ma almeno non ci fosse     tutto il resto.
    Ora,  se ripenso alla tua lettera - l'ho letta soltanto una volta -  a     ciò che scrivi del tuo presente e dell'avvenire, ciò che scrivi di tuo     padre, ciò che scrivi di me, ne risulta soltanto con immensa chiarezza     ciò  che  ho già detto una volta,  che cioè la tua vera disgrazia sono     io,  nessun altro,  soltanto io  -  con  questa  limitazione:  la  tua     disgrazia  esteriore  -  poiché,  se  non  ci fossi io,  forse avresti     lasciato Vienna già tre mesi fa e, se non tre mesi fa, certamente ora.     Tu non vuoi allontanarti  da  Vienna,  lo  so,  non  vorresti  neanche     allontanarti se non ci fossi io,  ma appunto perciò si potrebbe dire -     già vedendo le cose a volo d'uccello -  che,  beninteso  tra  l'altro,     l'importanza del mio sentimento per te consiste nel renderti possibile     la permanenza a Vienna.
    Ma  non  occorre  neanche spingersi fin qua ed entrare in sottigliezze     difficili, basta l'ovvia riflessione che hai già abbandonato una volta     tuo marito e,  sotto la pressione presente  molto  maggiore,  potresti     abbandonarlo  tanto  più  facilmente,   ma,  beninteso,  soltanto  per     l'abbandono come tale, non già per causa di qualcos'altro.     Tutte queste riflessioni però non portano ad altro che alla sincerità.

    S'intende che ti procurerò la roba con gioia.  Crederei  soltanto  che     sarebbe meglio acquistare la maglia a Vienna,  perché per la maglia ci     vorrà probabilmente  il  permesso  di  esportazione  (recentemente  un     ufficio  postale non mi ha accettato nemmeno i libri senza permesso di     esportazione ma è anche vero che un altro ufficio postale  li  accettò     senz'altro),  forse ti sapranno consigliare nel negozio. Nelle lettere     includerò sempre un po' di  denaro.  Quando  dirai  "basta",  smetterò     subito.
    Grazie  per  il  permesso di leggere la "Tribuna".  Domenica scorsa ho     visto una ragazza che  in  Piazza  Venceslao  comprava  la  "Tribuna",     evidentemente  soltanto  per  l'articolo  sulla moda.  Non era vestita     molto bene, "non ancora".  Peccato che non me la sia impressa in mente     e  non  possa seguirne l'evoluzione.  Hai torto di stimare poco i tuoi     articoli sulla moda.  Per parte mia ti sono veramente grato di poterli     leggere ora apertamente (di nascosto,  infatti, li ho letti più volte,     da vero briccone).


    Sabato.

    Sapevo già che cosa avrei trovato nella lettera,  c'era dietro a quasi     tutte  le  tue  lettere,  c'era  nei  tuoi  occhi  -  che  cosa non si     scorgerebbe sul loro fondo chiaro?  - c'era  nelle  pieghe  della  tua     fronte,  lo  sapevo come uno che,  dopo aver passato l'intera giornata     con le finestre chiuse,  immerso in un'angoscia di sonno e  di  sogno,     apre di sera la finestra e naturalmente non si stupisce, perché sapeva     di trovare il buio, un buio meraviglioso e profondo. E io vedo come ti     tormenti  e  ti torci e non riesci a distaccarti e - lanciamo il fuoco     nella polveriera!  - non ci riuscirai mai,  lo vedo,  eppure non mi  è     lecito dirti: resta dove sei. Ma non dico neanche il contrario, ti sto     di  fronte  e  ti  guardo  nei  cari  poveri occhi (eppure fa pietà il     ritratto che mi hai mandato,  è una pena guardarlo,  una pena  che  mi     addosso  mille  volte  in un giorno e purtroppo rimane un possesso che     saprei difendere contro dieci uomini robusti) e sono  veramente  forte     come  tu  scrivi,  possiedo una certa forza che,  volendo definirla in     breve e senza precisione,  sarebbe la mia mancanza di senso  musicale.     D'altro  canto  non  è  così  grande  che  io  possa  ora continuare a     scriverti subito.  Non so quale marea di dolore e di amore mi prende e     mi distoglie dallo scrivere.


    Domenica sera.

    Una  cosa  mi  disturba  da  tempo  nel tuo ragionamento,  nell'ultima     lettera appare con particolare evidenza,  è indubbiamente  un  errore,     circa  il  quale puoi sempre esaminarti: quando dici che (come è anche     vero) ami tuo marito al punto da non poterlo  abbandonare  (non  fosse     altro per amor mio;  voglio dire che per me sarebbe una cosa orribile,     se tu lo facessi ciò nonostante),  ci credo e ti  do  ragione.  Quando     dici  che  tu lo potresti bensì abbandonare,  ma lui ha bisogno di te,     intimamente,  e senza di te non può vivere,  che tu dunque per  questo     non  puoi  abbandonarlo,  ancora  ci credo e ancora ti do ragione.  Ma     quando dici che esteriormente non può vivere  senza  di  te  e  perciò     (questo    sarebbe   l'argomento   fondamentale)   perciò   non   puoi     abbandonarlo,  allora o lo dici per nascondere i motivi indicati prima     (non per rafforzarli,  giacché quei motivi non hanno bisogno di essere     rafforzati) o invece è soltanto uno di  quegli  scherzi  del  cervello     (dei  quali  parli nella tua ultima lettera) sotto i quali il corpo si     torce, e non soltanto il corpo.


    Lunedì.

    Stavo appunto  per  aggiungere  qualcos'altro  ai  ragionamenti  della     precedente,  allorché  arrivarono  quattro  lettere,  non tutte in una     volta,  è vero,  prima quella nella  quale  ti  rammarichi  di  avermi     scritto dello svenimento, poco dopo quella che hai scritto subito dopo     lo svenimento, insieme con quella, sì, con quella che è molto bella, e     dopo  un altro poco la lettera che tratta di Emilia.  Non ne riconosco     abbastanza chiaramente la sequenza, tu non indichi più i giorni.     Risponderò dunque al quesito "'strach-touha'" (82),  non ci  riuscirò,     credo,  in  una  volta  sola,  ma ritornandoci in più lettere ne verrò     forse a capo.  Una buona premessa sarebbe che  tu  conoscessi  la  mia     lettera  (brutta  del resto e inutile) a mio padre.  Vedrò di portarla     con me a Gmund.
    Quando si limitino i concetti di "'strach'" e "'touha'"  come  tu  fai     nell'ultima lettera,  la risposta al quesito non è facile, ma soltanto     semplice. In questo caso ho soltanto "'strach'". E precisamente così:     Ricordo la prima notte. Allora stavamo nella Zeltnergasse,  dirimpetto     c'era  un  negozio  di  confezioni,  sulla  soglia  stava  sempre  una     commessa, di sopra camminavo io, poco più che ventenne, in su e in giù     per la camera,  senza requie,  occupato a empirmi la testa di cose per     me assurde e preparandomi coi nervi tesi al primo esame di stato.  Era     d'estate,  faceva molto caldo,  un periodo insopportabile,  sempre  mi     fermavo  presso  la  finestra  con quell'antipatica storia del diritto     romano fra i denti,  finché incominciammo a intenderci per  cenni.  La     sera alle otto dovevo andare a prenderla, ma quando scesi c'era già un     altro,  ciò  non  cambiò  la  situazione  perché avevo paura del mondo     intero, dunque anche di quell'uomo; anche se non ci fosse stato, avrei     avuto paura di lui.  Ora la ragazza gli diede bensì il braccio,  ma mi     fece cenno di seguirli.  Così arrivammo alla Schutzeninsel,  prendemmo     la birra,  io alla tavola accanto,  ci  avviammo  poi  lentamente,  io     sempre  dietro,  verso  l'abitazione  della  ragazza,  non so dove nei     pressi del Fleischmarkt, dove l'uomo prese commiato,  la ragazza corse     in casa,  io aspettai un poco finché uscì di nuovo e poi andammo in un     albergo della Kleinseite.  Tutto  ciò  fu,  già  davanti  all'albergo,     delizioso,  eccitante e ributtante,  e dentro all'albergo fu la stessa     cosa.  E quando verso la mattina,  il tempo era ancora bello e  caldo,     andammo  a  casa  per  il  ponte  Carlo,  ero bensì felice,  ma la mia     felicità consisteva soltanto nell'aver  finalmente  placato  il  corpo     eternamente  piagnucolante,  soprattutto però consisteva nel fatto che     tutto l'insieme non fosse stato  ancora  più  ripugnante,  ancora  più     sudicio.  In seguito andai ancora una volta con quella ragazza,  credo     due notti dopo,  tutto andò bene come la prima volta,  ma quando  poco     dopo  partii  per  la  villeggiatura e là fuori giocai un poco con una     ragazza, non potei più a Praga guardare la commessa,  non scambiai più     una  parola  con lei,  ella fu (dal mio punto di vista) la mia peggior     nemica,  eppure  era  una  ragazza  buona  e  gentile,   e  sempre  mi     perseguitava con gli occhi privi di comprensione. Non dirò che l'unico     motivo della mia inimicizia sia stato (certamente non fu) il fatto che     la  ragazza  nell'albergo  commise  in  perfetta innocenza una piccola     turpitudine (non mette conto di parlarne), disse una piccola sudiceria     (non mette conto di parlarne),  ma il  ricordo  rimase,  nello  stesso     momento  mi  resi  conto che non l'avrei mai dimenticato e ad un tempo     sapevo o credevo di sapere che quella turpitudine e  quella  sudiceria     non avevano certamente alcun legame esteriore necessario, ma un legame     interiore  molto  necessario  col  fatto,  e  che  proprio quella cosa     ripugnante e sudicia (il cui piccolo indizio erano state  soltanto  la     sua  piccola  azione  e  la  sua piccola parola) mi aveva attirato con     forza folle in quell'albergo,  che altrimenti avrei evitato con  tutte     le mie forze.
    E come allora,  così è stato sempre.  Il mio corpo, quieto molte volte     per  anni  e  anni,   veniva  poi  scrollato  fino  al  limite   della     sopportazione  da  quel  desiderio  di  una  piccola,  ben determinata     turpitudine,  di qualcosa di leggermente ripugnante,  penoso,  sporco;     anche nel meglio che ci fosse per me ne rimaneva qualcosa,  un leggero     cattivo odore, un po' di zolfo, un po' d'inferno. Quello stimolo aveva     un che dell'ebreo errante,  assurdamente trascinato,  assurdamente  in     moto attraverso un mondo assurdamente sudicio.
    Ma poi c'erano periodi nei quali il corpo non stava quieto,  nei quali     nulla era quieto, nei quali però io, ciò nonostante, non subivo alcuna     costrizione,  era una vita  buona,  tranquilla,  turbata  soltanto  da     qualche  speranza (sai forse qualche turbamento migliore?).  In questi     periodi, in quanto avessero qualche durata,  ero sempre solo.  Ora per     la prima volta nella mia vita esistono periodi siffatti nei quali "non     sono solo".  Perciò non solo la tua vicinanza fisica, ma tu stessa sei     tranquillante-inquietante.  Perciò non ho alcun desiderio di sudiciume     (nella prima metà della mia permanenza a Merano facevo,  contro la mia     palese volontà, giorno e notte progetti sul modo di impadronirmi della     cameriera - e peggio ancora - verso la fine di quel periodo, mi capitò     fra le mani una ragazza molto pronta e disposta e io dovetti anzitutto     tradurre in certo qual modo le  sue  parole  nel  mio  linguaggio  per     poterla  capire),  non  vedo  neanche  il sudiciume,  non c'è nulla di     questo genere che stimoli dal difuori,  ma c'è tutto ciò che reca vita     dall'interno,  c'è insomma qualcosa di quell'aria che si respirava nel     Paradiso terrestre prima del peccato.  Soltanto un poco di quest'aria,     perciò  manca  "'touha'",  non  interamente  quell'aria,  e perciò c'è     "angoscia". Ecco,  adesso lo sai.  E perciò avevo bensì "paura" di una     notte  a  Gmund,  ma  soltanto  la paura usuale - ahimè,  basta quella     usuale - che ho anche a Praga, non una particolare paura gmundese.     E ora parlami di Emilia, la lettera mi può raggiungere ancora a Praga.

    Oggi non includo  nulla,  soltanto  domani.  Questa  lettera  è  molto     importante, voglio che tu la riceva senza pericoli.

    L'incapacità è soltanto un indizio fra tanti altri.  Ti prego, vieni a     Gmund senza fallo. Se domenica mattina piove,  non puoi venire?  Io in     ogni  caso  sarò domenica mattina davanti alla stazione di Gmund.  Non     avrai mica bisogno del passaporto?  Ti sei già informata?  Hai bisogno     di qualcosa che potrei portarti? (a)
    Menzionando  Stasha  vuoi  forse  dire che devo andare da lei?  Ma non     credo che sia a Praga.  (Se c'è,  riesce beninteso ancor più difficile     andare  da  lei.)  Aspetterò  ad andarci fino alla prossima menzione o     fino a Gmund.

    Non hai capito l'osservazione su L. (quale memoria! - non è ironia, ma     gelosia,  e  non  gelosia,  ma  scherzo  sciocco).  Mi  dava  soltanto     nell'occhio  che  tutte  le  persone  delle  quali  parlava  fossero o     "imbecilli" o "mascalzoni" o "sgualdrine", mentre tu eri semplicemente     Milena e persona molto rispettabile.  Ne ero  lieto  e  perciò  te  ne     scrissi,  non  già  perché fosse la tua riabilitazione,  ma perché era     quella di lui. D'altro canto, per essere preciso, c'erano anche alcune     altre eccezioni,  il suo (allora futuro)  suocero,  sua  cognata,  suo     cognato,  l'ex  fidanzato  della  sua  fidanzata,  tutti erano persone     sinceramente "eccellenti".
    La tua lettera odierna è così triste e  soprattutto  racchiude  in  sé     talmente  il  dolore che ho l'impressione di essere del tutto escluso.     Se devo uscire dalla stanza,  salgo le scale di corsa,  ridiscendo per     essere là di nuovo e trovare sulla tavola il telegramma: "Anch'io sarò     sabato a Gmund". Ma non è arrivato ancora niente.

    (a)  [Sul  margine  a  sinistra].  Tu  arrivi  subito dopo le 9,  come     austriaca non lasciarti trattenere dalla visita  doganale,  non  posso     ripetere  fra  me,  per  ore  e  ore,  la  frase con la quale desidero     salutarti.


    Domenica.

    Il telegramma.  Sì,  è certo consigliabile che ci incontriamo.  Quanto     tempo  ci  vorrebbe  altrimenti per chiarire le cose.  Donde ha potuto     irrompere tutto ciò fra di noi? Non si vede,  si può dire,  a un passo     di distanza.  E quanto devi aver sofferto in mezzo a tutto il resto. E     io avrei potuto fermare  la  cosa  da  molto  tempo,  lo  sguardo  era     abbastanza limpido,  ma la viltà era più forte. E non ho forse mentito     anch'io rispondendo,  come fossero mie,  a lettere  che,  come  capivo     chiaramente, non mi appartenevano? Spero che non sia stata una di tali     risposte "mentite" a importi di fare il viaggio a Gmund. (83)     Non  sono  affatto  triste come si potrebbe credere da questa lettera,     certo è che in questo momento non si può dire altro.  Si  è  fatto  un     silenzio  così  vasto,  non  si  ha  il coraggio di dire una parola in     questa quiete. Be', domenica saremo insieme, cinque,  sei ore,  troppo     poco  per parlare,  abbastanza per tacere,  per tenerci per mano,  per     guardarci negli occhi.


    Lunedì.

    Ma,  secondo l'orario,  si va molto meglio  di  quanto  non  pensassi,     speriamo che l'orario sia giusto, ecco dunque com'è:
    Prima eventualità, quella molto peggiore:
    Io  parto  di  qui alle 4 e 12 di sabato pomeriggio,  sono a Vienna la     sera alle 11 e 1O, abbiamo sette ore per noi,  poiché riparto domenica     mattina  alle  7.  La  premessa  delle  sette  ore è però che la notte     precedente  abbia  potuto  dormire  un  poco  (compito  non   facile),     altrimenti ti troveresti davanti a un povero animale malato.     Seconda eventualità, che l'orario rende addirittura magnifica:     Parto ancora di qui alle 4 e 12, ma arrivo già (già! già!) alle 7 e 28     di sera a Gmund.  Anche se riparto domenica col diretto della mattina,     parto soltanto alle 1O e 46, abbiamo dunque più di 15 ore, delle quali     possiamo anche dormirne alcune.  Ma c'è di meglio.  Non è detto che io     debba  prendere  questo  treno,  nel  pomeriggio  alle  4  e 38 c'è un     accelerato per Praga col quale partirei. Avremmo dunque per noi 21 ore     e le potremmo avere (pensa!) ogni settimana, almeno in teoria.     C'è soltanto una difficoltà,  ma non credo sia  seria,  in  ogni  caso     dovresti assumere informazioni.  La stazione di Gmund è ceca, la città     austriaca;  possibile che si spingano le sciocchezze del passaporto al     punto che un viennese ne abbia bisogno per uscire dalla stazione ceca?     In questo caso anche i gmundesi che vanno a Vienna dovrebbero avere un     passaporto  col  visto  ceco,  ma  non  ci  posso credere,  sarebbe un     provvedimento preso apposta contro di noi. E' già abbastanza grave che     dovrò forse perdere un'ora intera a Gmund per la visita doganale prima     di poter uscire dalla stazione,  e in questo modo le 21 ore  subiscono     una diminuzione.

    In  aggiunta  a  queste grandi cose non c'è niente da scrivere.  Mille     grazie in ogni caso di non avermi lasciato neanche oggi senza lettera.     E domani? Non telefonerò, in primo luogo perché è troppo eccitante, in     secondo luogo perché è impossibile (mi sono già informato una volta) e     in terzo luogo perché ci vedremo presto.  Purtroppo Ottla non ha avuto     oggi  il  tempo di andare alla direzione di polizia per il passaporto.     Domani. Sì, coi francobolli ti regoli benissimo (purtroppo non ricordo     dove ho riposto i francobolli-espresso,  il brav'uomo si è messo quasi     a piangere quando gliel'ho detto). Certo te la sei cavata con poco nel     ringraziarmi dei miei francobolli, ma sono contento lo stesso al punto     che,  pensa un po',  ti manderò anche i francobolli dei legionari.  Di     raccontar fiabe non ho oggi nessuna voglia.  La mia testa è  come  una     stazione ferroviaria,  treni partono, treni arrivano, visita doganale,     l'ispettore superiore di frontiera sbircia il visto, ma questa volta è     regolare,  ecco,  guardi pure: "Sì,  sta bene,  di qui si  esce  dalla     stazione".  "Scusi, signor ispettore superiore, vuole aver la cortesia     di aprirmi la porta,  non riesco ad aprire.  Forse sono debole  perché     c'è  di fuori Milena che mi aspetta." "Oh,  scusi" esclama lui "non lo     sapevo." E spalanca la porta...


    Martedì.

    Dunque non sono molto ben preparato  per  il  compleanno,  ho  dormito     peggio  del solito,  calda la testa,  brucianti gli occhi,  dolenti le     tempie, e anche tosse. Credo che non saprei recitare un augurio un po'     lungo senza tossire.  Fortunatamente non c'è  bisogno  di  auguri,  mi     basta  ringraziare  che tu sia in questo mondo nel quale in precedenza     (vedi che anch'io non ho una profonda conoscenza del  mondo,  soltanto     che,  a  differenza  di  te,  lo confesso) nel quale in precedenza non     avrei supposto che si potesse trovare te.  E te ne ringrazio (è questo     un  ringraziamento?)  con  un  bacio,  esattamente come alla stazione,     nonostante che  non  ti  sia  piaciuto  (oggi,  non  so  perché,  sono     caparbio).
    Non sempre sono stato così male in questi ultimi tempi, a periodi sono     stato anche molto bene,  ma la mia giornata trionfale l'ho avuta circa     una  settimana  fa.  Privo  di  forze  faccio  alla  scuola  di  nuoto     l'interminabile  passeggiata intorno alla piscina (era già verso sera,     non c'era più molta  gente,  ma  sempre  ancora  abbastanza)  ed  ecco     venirmi  incontro il secondo maestro di nuoto che mi conosce,  egli si     guarda  in  giro  come  cercando  qualcuno,   mi  vede,   mi   sceglie     evidentemente  e  domanda:  ""Chtiel byste si zajezdit?"" (84).  C'era     infatti  un  signore  che  sceso  dalla  Sophieninsel   voleva   farsi     traghettare  alla  Judeninsel,  un  "grande" impresario edile,  credo;     sulla Judeninsel si stanno costruendo grandi edifici.  Ora  non  è  il     caso di esagerare,  il maestro di nuoto guardò me,  povero giovane,  e     volle darmi la gioia di una gita in barca gratuita, ma per riguardo al     grande impresario doveva pur scegliere un giovane che fosse abbastanza     fidato,  sia per robustezza,  sia per abilità,  sia perché  una  volta     eseguito l'incarico non si servisse della barca per gite illecite,  ma     tornasse indietro subito.  Credette dunque  di  trovare  in  me  tutte     queste  qualità.  Arrivò  poi  il  grande Trnka (il proprietario della     scuola di nuoto,  del quale dovrò ancora parlarti)  e  domandò  se  il     giovane  sapesse  nuotare.  Il  maestro  di nuoto che,  a quanto pare,     trovava tutto in me, lo tranquillizzò.  Io non avevo detto neanche una     parola.  Poi arrivò il passeggero e partimmo.  Da giovane bene educato     stavo quasi sempre zitto.  Egli disse  che  era  una  bella  sera,  io     risposi  di sì,  poi disse che però faceva già fresco,  io replicai di
    sì,  infine osservò che filavo molto veloce e  dalla  gratitudine  non     seppi  dir  niente.  Naturalmente  arrivai  con  perfetto  stile  alla     Judeninsel, egli scese a terra, ringraziò vivamente, ma con mia grande     delusione si dimenticò della mancia (eh, quando non si è una ragazza).     Ritornai indietro difilato.  Il grande Trnka rimase stupito  vedendomi     ritornare  così  presto.  Ebbene,  da un pezzo non ero stato gonfio di     superbia come quella sera,  mi pareva  di  essere  poco  poco,  ma  un     tantino  più degno di te di quanto non fossi prima.  Da allora aspetto     ogni sera che si presenti  un  altro  passeggero,  ma  non  viene  più     nessuno.  Questa  notte  in  un breve dormiveglia mi venne in mente di     dover festeggiare il tuo  compleanno  visitando  le  località  per  te     importanti.  Poco dopo, senza volerlo, mi trovai davanti alla stazione     Ovest.  Era un  edificio  piccolissimo,  anche  dentro  doveva  essere     ristretto,  perché  poco prima era arrivato un diretto,  del quale una     carrozza,   che  dentro  non  trovava  posto   sufficiente,   sporgeva     dall'edificio.  Fui  anche  molto  soddisfatto  di vedere davanti alla     stazione tre ragazze vestite con garbo (una aveva le trecce) ma  molto     magre,  addette al trasporto bagagli.  Pensai che dunque non era molto     insolito ciò che avevi fatto anche tu. Ciò nonostante ero contento che     tu non ci fossi,  ma d'altra parte anche mi dispiaceva.  Per  conforto     trovai  una  piccola cartella che un viaggiatore aveva perduta e,  con     stupore dei viaggiatori che erano intorno a me,  ne trassi grandi capi     di vestiario.
    Specialmente  la  seconda  parte  del  "Tipo" è eccellente,  acuta,  e     cattiva, antisemita e stupenda.  In genere,  fino ad ora non ho notato     quanto  sia  cosa  raffinata  lo  scrivere  nei  giornali.   Tu  parli     tranquilla, in confidenza,  affabilmente col lettore,  hai dimenticato     tutto al mondo,  soltanto il lettore ti riguarda, ma alla fine esclami     improvvisamente: "E' anche bello ciò che ho scritto?  Bello?  Davvero?     Ebbene, ne sono contenta, ma per il resto sono lontano e non mi faccio     baciare in segno di gratitudine".  Allora sei davvero alla fine,  e tu     non ci sei più.
    Lo sai,  del resto,  che mi sei stata donata per  la  cresima  (esiste     anche  una  specie  di cresima ebraica)?  Io sono nato nell'83,  avevo     dunque 13 anni quando sei nata tu.  Il tredicesimo  compleanno  è  una     festa  particolare,  nel  tempio  dovetti  recitare  un brano imparato     faticosamente a memoria, lassù davanti all'altare, poi tenere un breve     discorso (anche questo imparato a memoria) in  casa.  Ricevetti  anche     molti  regali.  Ma immagino che non ero del tutto contento,  ancora mi     mancava un dono e lo chiesi al cielo: si è fatto aspettare fino al  1O     agosto.

    S'intende che rileggo molto volentieri le ultime dieci lettere, benché     le conosca molto bene.  Ma rileggi anche tu le mie,  vi troverai tutto     un collegio femminile di domande.

    Di mio padre parleremo a Gmund.
    Davanti a "Grete",  come davanti alla maggior parte delle ragazze,  mi     trovo impacciato. Che mi sia venuta, in genere, un'idea sul tuo conto?     Non  me  ne  ricordo.  Tengo volentieri la tua mano nella mia,  guardo     volentieri nei tuoi occhi. Credo che sia tutto, Grete esca!  In quanto     al "non guadagnare" "nechàpu iak takovì tchloviek" (85)...  anch'io mi     trovo personalmente davanti allo  stesso  enigma;  credo  che  neanche     stando  insieme lo risolveremo.  D'altronde sarebbe un sacrilegio.  In     ogni caso non intendo di sprecarvi a Gmund neanche un minuto. Ora vedo     che devi mentire più  di  quanto  avrei  dovuto  mentire  io.  Ciò  mi     deprime. Se si presentasse un ostacolo serio, rimani tranquillamente a
    Vienna  - anche senza avvertirmi - vuol dire che avrò fatto una gita a     Gmund e mi sarò avvicinato di tre ore a te.  Possiedo  già  il  visto.     Già,  non  potrai neanche telegrafarmi,  almeno oggi,  causa il vostro     sciopero.


    Mercoledì.

    Non capisco la tua richiesta di perdono.  Quando è passato è ovvio che     ti  perdono.  Inesorabile ero soltanto finché non era passato e allora     non te ne sei preoccupata.  Come potrei non perdonarti qualcosa quando     è  passata?  Quanta confusione devi avere in testa se puoi credere una     cosa simile.
    Non mi piace,  almeno in questo momento,  il paragone col padre.  Devo     perdere  anche  te?  (E' vero che non ho le energie di tuo padre a ciò     necessarie.) Se però insisti nel paragone,  preferisco che tu  rimandi     la maglia.
    L'acquisto  e la spedizione della maglia è stata una faccenda che durò     tre ore,  ma mi ha davvero rinfrescato - allora ne avevo molto bisogno     - e te ne sono grato.  Oggi sono troppo stanco per raccontartela,  son     due notti che quasi non dormo.  Non  posso  proprio  fare  un  piccolo     sforzo per ottenere qualche elogio a Gmund?
    Davvero,  invidia per la viaggiatrice di Amsterdam?  Certo è bello ciò     che fa, se lo fa con convinzione,  ma tu commetti un errore di logica.     Per la persona che vive così la vita è costrizione, per quella che non     può  vivere così sarebbe libertà.  Così avviene certo dappertutto.  In     fin dei conti una siffatta "invidia" non è che desiderio di morire.     Con Max regolati come credi.  Siccome però adesso  conosco  l'incarico     che gli affidi, quando si approssimerà la fine mi farò portare da lui,     discuterò  con lui una gita di più giorni in comune,  "perché mi sento     particolarmente in forze",  poi mi trascinerò a casa e là mi  stenderò     per l'ultima volta.
    Parlo  così,  è  vero,  finché non siamo a questo punto.  Ma appena un     giorno avessi 37,5 (a 38 gradi sotto la  pioggia!),  i  fattorini  del     telegrafo  inciamperanno  l'uno  nell'altro  sulla  tua  lunga  scala.     Speriamo che scioperino allora e non, come adesso,  in un momento così     poco adatto, nel giorno del compleanno!
    La  posta  ha  preso troppo alla lettera la mia minaccia di non dare i     francobolli a quell'uomo.  Quando ricevetti la  lettera  espresso,  il     francobollo  era  già  staccato.  D'altro  canto devi cercar di capire     costui, egli non si accontenta di un solo francobollo per ogni specie.     Tiene grandi fogli per ogni specie e grandi libri per tutti i fogli, e     quando un foglio è pieno ne prende un altro e così via.  E così  passa     tutti i pomeriggi ed è grasso,  allegro e felice.  E ogni specie è per     lui un nuovo motivo di gioia, come oggi, per esempio, i francobolli da     50 centesimi: adesso aumenteranno la tariffa postale (povera  Milena!)     e i francobolli da 50 diventeranno più rari!
    Ciò che dici di Kreuzen mi piace molto (ma non Aflenz, che è un vero e     proprio  sanatorio  per  malati  di polmoni,  dove si fanno iniezioni,     orrore!  Per uno dei nostri impiegati è stata la  tappa  ultima  prima     della  morte),  mi  piace  una  regione  così  e vi sono anche ricordi     storici.  Ma sarà aperto anche nel tardo autunno  e  vi  si  accettano     stranieri,  e  per  gli  stranieri  non  è  forse più caro,  e ci sarà     qualcuno che oltre a me capisca per qual motivo vada in quel paese  di     fame a ingrassare? Non mancherò di scrivere là per informazioni.     Ieri ho parlato di nuovo con quello Stein.  E' uno di quegli uomini ai     quali tutti fanno torto.  Non capisco perché si rida di  lui.  Conosce     tutti,  sa tutti i fatti personali,  è molto modesto, dà giudizi molto     cauti,  saggiamente graduati,  pieni di rispetto;  e se  sono  un  po'     troppo  evidenti,  troppo  innocentemente  vanitosi,  ciò  non  fa che     aumentarne  il  valore,   premesso  che  si   conoscano   le   persone     segretamente,  voluttuosamente,  delittuosamente vanitose. A un tratto     incominciai a parlare di Haas (86),  scansai Jarmila e dopo un po' ero     arrivato  a  tuo marito finché...  Del resto non è esatto che io senta     volentieri  parlare  di  te,  niente  affatto,   mi  piacerebbe  udire     continuamente  soltanto  il  tuo  nome,  per tutta la giornata.  Se lo     avessi interrogato, avrebbe parlato molto anche di te, ma, siccome non     lo interrogai,  si limitò a un'affermazione sinceramente dolorosa  per     lui,  che cioè tu quasi non vivi più, rovinata dalla cocaina (come fui     grato in quel momento di saperti  in  vita).  Poi  aggiunse,  cauto  e     prudente  com'è,  che non l'aveva visto coi propri occhi,  ma ne aveva     soltanto sentito parlare.  Di tuo  marito  parlava  come  di  un  mago     potente.  Citò anche un nome,  nuovo per me,  dei tuoi tempi di Praga:     Kreidlov ,  mi pare.  Così  avrebbe  continuato  a  lungo,  ma  io  mi     accomiatai,  incominciai a sentirmi male, soprattutto perché camminavo     così muto al suo fianco ascoltando cose che non volevo sentire  e  che     non mi riguardavano affatto.

    Ripeto:  Se  si  presenta qualche ostacolo che "potrebbe" causare a te     qualche "piccolo" dolore, rimani a Vienna, anche senza avvertirmi,  se     non è possibile altrimenti.  Ma se parti, spezza subito la barriera di     confine.  Se per qualche pazzia del tutto imprevedibile io non potessi     partire  né avvertirti a Vienna (in tal caso telegraferei alla signora     K.),  troverai un telegramma per  te  nell'albergo  della  stazione  a     Gmund.

    Ti sono arrivati tutti i sei libri?

    Come  ascoltando  lo  Stein,  così  all'incirca  mi sentii leggendo la     "Kav rna" (87),  salvo che tu racconti molto meglio  di  lui;  chi  sa     ancora raccontare così bene? Ma perché racconti a chiunque acquisti la     "Tribuna"?  Mentre  leggevo avevo l'impressione di passeggiare davanti     al caffè giorno e notte per anni e anni;  ogni  qualvolta  un  cliente     arrivava o andava via, guardavo dalla porta aperta per assicurarmi che     tu fossi dentro ancora, poi ripigliavo la passeggiata e aspettavo. Non     era né triste né faticoso.  Quale tristezza o fatica aspettare davanti     al caffè nel quale sei tu!


    Giovedì.

    Sono molto lieto che Munchhausen sia  riuscito,  è  ben  vero  che  ha     risolto problemi molto più difficili.  E le rose saranno curate come i     fiori dell'altra volta? Che fiori erano? E da chi venivano?
    Intanto a Gmund ti ho già risposto prima che tu domandassi.  Cerca  di     tormentarti  il  meno  possibile  e  così tormenterai anche me il meno     possibile. Non avevo preveduto abbastanza che tu dovessi mentire così.     Ma come può credere tuo marito che non  ti  scrivo  e  non  ti  voglio     vedere se ti ho vista una volta?
    Hai scritto che talora ti verrebbe voglia di mettermi alla prova.  Hai     detto per celia, non è vero?  Ti prego di non farlo.  Già il conoscere     richiede tanta energia, quanta più ne consumerebbe il non conoscere?     Sono  molto  contento  che gli avvisi siano di tuo gusto.  (88) Mangia     pure,  mangia!  Se oggi  incomincio  a  fare  economie  e  tu  aspetti     vent'anni e allora le pellicce costeranno meno (perché allora l'Europa     sarà  forse  un  deserto  e gli animali da pelliccia correranno per le     strade) può darsi che allora io ne  abbia  abbastanza  anche  per  una     pelliccia.
    E  sai  quando  dormirò  finalmente,  se  nella  notte  di sabato o di     domenica?
    Perché tu lo sappia, questi francobolli sovrastampati sono il suo vero     e proprio desiderio (egli ha soltanto desideri "veri e propri").  ""To     je kr sa, to je kr sa!"" (89) dice. Chi sa quali cose vi scorge!     E  ora  vado  a  mangiare  e  poi  all'Ufficio  Cambi  - una mattinata     d'ufficio.


    venerdì.

    Non so esattamente perché scrivo,  probabilmente per nervosismo,  come     questa   mattina   ho  dato  per  nervosismo  una  maldestra  risposta     telegrafica alla lettera espresso che ricevetti ieri  sera.  Oggi  nel     pomeriggio,  dopo  aver  assunto informazioni da Schenker,  risponderò     d'urgenza.

    Del resto,  attraverso questo  carteggio  sul  presente  argomento  si     arriva  continuamente  alla conclusione che tu sei legata a tuo marito     con un matrimonio indissolubile e addirittura sacramentale (come  sono     nervoso,  la  mia  barca  deve aver perduto il timone in questi ultimi     giorni) e che io mediante un uguale matrimonio sono legato con  -  non     so  con chi,  ma lo sguardo di questa moglie terribile si posa spesso,     lo sento, su di me.  E lo strano è che,  quantunque ciascuno di questi     matrimoni  sia indissolubile e non vi sia più niente da dire su questo     argomento,  nonostante tutto l'indissolubilità dell'uno costituisca  o     almeno  rafforzi  l'indissolubilità dell'altro matrimonio e viceversa.     Rimane però soltanto il giudizio formulato da te: "nebude toho nikdy",     (90) e sarà bene che non parliamo mai più dell'avvenire,  ma  soltanto     del presente.
    Questa verità è assoluta, incrollabile, la colonna sulla quale posa il     mondo, eppure confesso che nel sentimento (soltanto nel sentimento, ma     la verità rimane,  rimane assoluta.  Sai,  quando scrivo cose come ciò     che segue,  le spade che mi circondano in cerchio  già  si  avvicinano     lentamente al mio corpo: ed è la tortura perfetta; quando incominciano     a  scalfirmi,  non  parlo  di  incidere,  quando  dunque  incominciano     soltanto a scalfirmi,  è cosa talmente spaventevole  che  subito,  col     primo grido,  tradisco ogni cosa,  te,  me, tutto) soltanto con questa     premessa confesso dunque che un siffatto carteggio su  queste  cose  è     per me, nel sentimento (ripeto, per amore della mia vita: soltanto nel     sentimento),  come  vivere,  non  so,  in  qualche  luogo  dell'Africa     centrale ed esserci vissuto tutta la vita e comunicare a te  che  vivi     in  Europa,  in  mezzo all'Europa,  le mie incrollabili opinioni sulla     prossima formazione politica.  Ma è soltanto un paragone,  un paragone     sciocco,  maldestro,  falso,  sentimentale,  lacrimevole,  volutamente     cieco, nient'altro, ecco, o spade!

    Hai ragione di citare la lettera di tuo marito,  non ci capisco  tutto     esattamente (ma non mandarmi la lettera),  vedo però che qui scrive un     uomo  "celibe"  che  vuole  "sposarsi".  Che  cosa  significa  la  sua     occasionale  "infedeltà"  che  non  è  nemmeno  infedeltà,  perché voi     rimanete sulla strada comune,  salvo  che  entro  questa  strada  egli     flette un po' a sinistra;  che significa codesta "infedeltà" che oltre     a tutto cessa di versare anche la massima  felicità  nel  tuo  massimo     dolore,  che  significa  codesta  "infedeltà"  di fronte al mio eterno     legame?

    Per quanto riguarda tuo marito non ti ho fraintesa.  Continuamente  tu     versi tutto il mistero della vostra infrangibile unione,  questo ricco     e inesauribile mistero,  nella preoccupazione per le sue scarpe.  Vi è     qualcosa  che  mi tormenta,  non so precisamente che cosa.  Ma è molto     semplice; se tu dovessi andartene, egli o vivrà con un'altra donna,  o     abiterà  in  una  pensione  e  le  sue scarpe saranno pulite meglio di     adesso.  Ciò è sciocco e non sciocco.  Non riesco a capire che cosa mi     tormenti in queste osservazioni. Forse lo sai tu.

    Non  avresti  dovuto  passar male il compleanno,  se mi avessi chiesto     danaro in precedenza.  Lo porterò con me.  Ma  forse  non  ci  vedremo     nemmeno, in questa confusione potrebbe capitare facilmente.     C'è  anche  questo.  Tu  parli  degli  uomini che hanno una sera e una     mattina in comune e di quelli che non l'hanno.  Ora,  la situazione di     questi  ultimi  mi  sembra  migliore.  Essi hanno commesso qualcosa di     male, certamente o forse, e la bruttura di questa scena proviene, come     dici bene,  essenzialmente dal fatto che sono estranei tra loro,  ed è     bruttura  terrena  come la bruttura di un appartamento non abitato che     d'improvviso venga spalancato.  E dunque un male,  ma non  è  avvenuto     niente di decisivo, niente che formalmente decida in cielo o in terra,     è in verità soltanto un "giocare con una palla",  come lo chiami tu. E     come se Eva avesse bensì staccato la mela (certe volte credo di capire     come nessun altro il peccato originale) ma soltanto  per  mostrarla  a
    Adamo  perché  questi le piaceva.  Il punto decisivo fu il morso nella     mela; che si giocasse con essa non era lecito, ma neanche vietato.


    Martedì.

    A questa lettera dunque avrò risposta soltanto fra  1O-15  giorni.  In     confronto col passato è quasi un abbandono,  vero? (91) E proprio ora,     ho l'impressione di doverti dire alcune cose che non si possono  dire,     che  non  si  possono  scrivere,  non  già per rimediare a qualche mio     errore commesso a Gmund,  non per salvare qualcosa che affoga,  ma per     renderti  comprensibile  la  mia situazione,  affinché tu non ti lasci     sgomentare da me come nonostante tutto potrebbe  infine  avvenire  tra     uomini.  Certe volte ho l'impressione di avere tali pesi di piombo che     debbano trascinarmi in un attimo nel mare più profondo e  chi  volesse     afferrarmi   o   addirittura  "salvarmi"  debba  rinunciarvi  non  per     debolezza,  nemmeno per mancanza di speranze,  ma per  mero  dispetto.     S'intende  che ciò non è detto per te,  ma per una pallida parvenza di     te, quale un cervello stanco,  vuoto (non infelice o agitato,  è quasi     una  situazione  della quale si potrebbe essere grati) riesce appena a     distinguere.

    Ieri dunque sono  stato  da  Jarmila.  Siccome  la  cosa  era  "tanto"     importante per te, non volli rimandare neanche di un giorno e poi, per     dire  la  verità,  il  pensiero  che  in  ogni caso dovevo parlare con     Jarmila mi rendeva irrequieto e preferii farlo subito,  nonostante che     non  fossi  raso (non era più soltanto pelle d'oca),  la qual cosa non     poteva nuocermi gran che nella riuscita del  mio  compito.  Ero  lassù     circa alle 6 e mezza,  il campanello non sonava,  bussare era vano, le     "N rodni Listy" (92) erano nella cassetta delle lettere, evidentemente     non c'era in casa nessuno.  Mi guardai un po' in giro ed  ecco  venire     dal  cortile  due donne,  l'una era Jarmila,  l'altra forse sua madre.     Riconobbi subito J.  benché assomigliasse poco alla fotografia,  a  te     niente  affatto.  Uscimmo  subito  di  casa  e  per circa dieci minuti     passeggiammo  dietro  l'ex  Scuola  allievi  ufficiali.  La  cosa  più     sorprendente  per  me fu di trovarla molto loquace contrariamente alle     tue previsioni,  certo però solo in quei  dieci  minuti.  Parlò  quasi     continuamente  e  ciò  mi  fece  ricordare  la loquacità di quella sua     lettera che mi mandasti una volta.  Una loquacità  che  ha  una  certa     autonomia  indipendente  da  colei  che parla e questa volta si faceva     notare maggiormente,  perché non si trattava di  particolari  concreti     come allora nella lettera.  La sua vivacità si spiega un poco, così mi     disse,  col fatto che è molto agitata già da qualche giorno per via di     quella  faccenda  (93),  ha  telegrafato  a Haas a proposito di Werfel     (senza ottenere risposta finora),  a te ha telegrafato  e  scritto  un     espresso,  ha bruciato subito le lettere per tuo incarico,  non sapeva     che fare per tranquillarti rapidamente e perciò,  già nel  pomeriggio,     ha pensato di venire da me per poterne almeno parlare con qualcuno che     ne fosse informato.  (Credeva infatti di sapere dove abito.  E' andata     così: una volta, in autunno credo, o già in primavera, non so,  andavo     a  remare  con Ottla e con la piccola Ruzenka - quella che nel palazzo     Sch”nbornmi ha vaticinato la prossima fine - e davanti al  Rudolphinum     incontrammo  Haas  con  una  donna  che  allora non guardai neanche in     faccia,  ed era Jarmila.  Haas le disse il mio nome e Jarmila  osservò     che anni prima aveva parlato qualche volta con mia sorella alla scuola     di  nuoto,  e  siccome questa scuola era allora molto cristiana si era     impressa mia sorella nella memoria come rarità ebraica.  Noi abitavamo     allora  dirimpetto  alla  scuola di nuoto e Ottla le aveva indicato la     nostra abitazione.  Be',  questa è dunque la lunga storia.) Perciò era     sinceramente  lieta che io fossi venuto e quindi così vivace,  d'altra     parte però infelice per queste complicazioni che senza  alcun  dubbio,     senza  alcun  dubbio  sono terminate e dalle quali,  come lei assicurò     quasi  ardentemente,  senza  alcun  dubbio,  senza  alcun  dubbio  non     deriverà  più nulla.  Il mio orgoglio però non era soddisfatto,  avrei     voluto - senza tuttavia afferrarne interamente l'importanza, ma vivevo     tutto nell'incarico a me affidato - avrei voluto bruciare io stesso le     lettere e disperderne la cenere sul Belvedere.
    Di sé parlò molto poco,  disse che sta sempre in casa - la sua  faccia     lo dimostra - non parla con nessuno, esce soltanto per andare a vedere     qualcosa  dal libraio o per imbucare una lettera.  Nel rimanente parlò     soltanto di te (oppure ero io che parlavo di te,  adesso  è  difficile     distinguere);  allorché  menzionai  la  grande gioia che avevi provato     quando,  dopo una lettera da Berlino,  avevi visto la possibilità  che     Jarmila  venisse  a  trovarti,  rispose  che  quasi non riusciva più a     comprendere la possibilità della gioia  e  meno  ancora  che  qualcuno     potesse aver gioia di lei. Le parole erano semplici e degne di fede.     Replicai  che i tempi passati non si possono cancellare come se niente     fosse e che contengono sempre possibilità di  rivivere.  Sì,  rispose,     quando  si  sta  insieme  può anche succedere,  e infatti negli ultimi     tempi aveva  tanto  sperato  di  vederti  e  le  sembrava  naturale  e     necessario che tu fossi qui - più volte indicò il terreno davanti a sé     e, e in genere, aveva anche le mani vivaci - che tu fossi qui, qui.
    Davanti a casa sua ci separammo brevemente.
    Prima  mi  aveva indispettito un pochino parlandomi a lungo di una tua     fotografia particolarmente bella che desiderava di  mostrarmi.  Infine     risultò  che  questa  fotografia  le  era venuta fra le mani prima del     viaggio a Berlino,  quando aveva bruciato tutte le carte e le lettere,     e che proprio quel pomeriggio l'aveva ricercata invano.     Poi  ti  telegrafai  esagerando che l'incarico era eseguito.  Ma avrei     potuto fare di più? E tu sei contenta di me?

    E' assurdo chiedere,  se avrai questa lettera soltanto fra 15  giorni,     ma  questa  è forse solamente una piccola aggiunta all'assurdità della     richiesta: se in qualche  modo  è  possibile  in  questo  mondo  senza     appigli  (dove  uno  è strappato via quando lo si strappa via e non sa     come salvarsi), non lasciarti allontanare da me,  anche se una volta o     mille  volte o proprio adesso o forse sempre proprio adesso ti deludo.
    Questa,  del resto,  non è una preghiera e non è affatto rivolta a te,     non saprei dove sia rivolta.  E' soltanto l'oppresso respiro del petto     oppresso.


    Mercoledì.

    La tua lettera di lunedì mattina.  Da quel lunedì mattina o meglio  da     lunedì a mezzogiorno, quando il beneficio del viaggiare ( prescindendo     da ogni cosa già il viaggio in sé è un ristoro,  come essere presi per     il colletto,  come essere scrollati  da  capo  a  piedi)  era  un  po'     svanito,  da  allora  ti  canto  senza  posa  un'unica  canzone  che è     continuamente diversa e sempre uguale, ricca come un uomo senza sogni,     noiosa e sfibrante,  di modo che io stesso talvolta mi ci  addormento,     sii  contenta  di non doverla ascoltare,  sii contenta di essere salva     per tanto tempo dalle mie lettere.

    Ahimè, conoscenza degli uomini!  Che vuoi che abbia in contrario a che     tu  pulisca  veramente  bene  le scarpe?  Puliscile pur bene,  mettile     nell'angolo e considera sbrigata la faccenda.  Soltanto l'idea che con     la  mente  le  pulisci  tutto  il giorno mi tormenta (e non pulisce le     scarpe).


    Giovedì.

    Vorrei udire continuamente una frase diversa da  quella  che  vorresti     udire tu.  Questa: "jsj muj" (94).  Perché proprio questa?  Non si può     dire che significhi affetto, se mai vicinanza e notte.
    Certo la menzogna fu grande e io vi ebbi parte,  ma molto  più  grave,     nell'angolo, per conto mio, che l'innocenza.
    Purtroppo  mi  dai  sempre incarichi che,  quando arrivo,  si sono già     sbrigati da sé.  Se hai così poca fiducia in  me  e  miri  soltanto  a     rendermi un poco fiducioso, lo fai troppo palesemente.
    Non  capisco  cosa  abbia  a  che  vedere  con me o addirittura con la     gelosia il telegramma di Jarmila (che  fu  spedito  prima  del  nostro     incontro). Pare, è vero, che la mia venuta le abbia fatto piacere (per     causa tua) ma il mio commiato molto più (per causa mia o meglio sua).     Del tuo raffreddore avresti potuto dire qualcosa di più, l'hai preso a     Gmund  o  ritornando  a casa dal caffè?  In questo momento abbiamo qui     ancora la buona estate, anche domenica è piovuto soltanto nella Boemia     meridionale,  ero orgoglioso che dal mio abito  inzuppato  di  pioggia     tutti potessero capire che venivo dalla parte di Gmund.


    Venerdì.

    Letta  da vicino,  non si riesce assolutamente a capire la vita misera     che stai facendo,  bisogna tenerla un po' più distante,  ma  anche  in     questo caso ci si riesce a malapena.
    Quel   passo   degli   artigli  lo  hai  frainteso  e  certo  non  era     comprensibile.  Ciò che dici di Gmund è giusto,  anche nel  senso  più     lato.  Ricordo, per esempio, che mi domandasti se a Praga ti ero stato     infedele.  La domanda era per metà seria,  per metà faceta,  per  metà     indifferente  -  di  nuovo  le  tre metà,  appunto perché era una cosa     impossibile. Tu avevi le mie lettere e facevi quella domanda.  Era una     domanda  possibile?  Ma  non  basta,  io  stesso la rendevo ancora più     impossibile. Risposi che,  sì,  ti ero stato fedele.  Possibile che si     parli  così?  Quel  giorno parlammo insieme e ci ascoltammo a vicenda,     più volte e a lungo, come due estranei.
    Ieri verso sera è venuta da me Jarmila (non  so  come  abbia  fatto  a     sapere il mio indirizzo),  io non ero in casa,  lasciò una lettera per     te e un biglietto a matita col quale mi pregava di mandarti la lettera     perché aveva bensì il tuo indirizzo di campagna,  ma non  le  sembrava     abbastanza sicuro.


    Lunedì.

    Meno male,  non c'è voluto tanto tempo,  ho ricevuto le due lettere da     Salisburgo,  possa essere buono il soggiorno a  Gilgen,  certo  è  già     autunno,  non  lo  si può negare.  Io sto male e bene,  secondo che si     vuole,   speriamo  che  la  salute  duri  ancora  un   poco   incontro     all'autunno. Di Gmund dovremo ancora scrivere o parlare - questa è una     parte  dello  star  male;  -  includo la lettera di Jarmila.  Alla sua     visita ho risposto per posta pneumatica che avrei trasmesso la lettera     molto volentieri, ma soltanto nel caso che non vi sia nulla di urgente     perché contavo di avere il tuo indirizzo soltanto fra  una  settimana.
    Ella non ha più scritto. (a)

    (a)  [Sul margine a destra].  Se è possibile,  vorrei una veduta della     tua abitazione.


    Giovedì.

    Ho letto anzitutto la lettera a matita,  in quella di lunedì  soltanto     di sfuggita un passo sottolineato,  poi ho preferito rinunciare;  come     sono timido e quanto è male non potersi buttare  su  ogni  parola  con     tutto  ciò  che si è in modo da potersi difendere totalmente,  qualora     questa  parola  fosse  aggredita,   o  esserne  totalmente  distrutti.     Sennonché  anche  qui non esiste soltanto la morte,  esistono anche le     malattie.
    Prima di aver letto fino in fondo - anche tu alla fine scrivi qualcosa     di simile - mi domandai se non fosse possibile che tu rimanessi  costì     un  po'  più  a  lungo  finché  l'autunno  lo  consente.  Non  sarebbe     possibile?
    Da Salisburgo le lettere arrivarono rapidamente;  da Gilgen  ci  vuole     parecchio,  ma  io ricevo ogni tanto anche altre notizie.  Bozzetti di     Polgar (95) nel giornale, vi si tratta del lago, è immensamente triste     e ti mette in imbarazzo perché è ancor allegro - non è molto,  ma  poi     ci sono notizie di Salisburgo, del festival, del tempo incerto - anche     questo  non  è  allegro,  tu infatti sei partita troppo tardi;  allora     prego talvolta Max che mi parli di Wolfgang e  Gilgen  (96),  dove  fu     molto felice da ragazzo,  in altri tempi ci si doveva star meglio.  Ma     tutto ciò  non  sarebbe  gran  che  se  non  ci  fosse  la  "Tribuna",     l'eventualità  di  trovarvi  ogni  giorno  qualcosa  di  tuo  e poi il     trovarlo effettivamente.  Ti dispiace se ne parlo?  Certo è che  leggo     molto volentieri.  E chi ne dovrebbe parlare se non io, il tuo miglior     lettore?  Già in precedenza,  prima che tu dicessi che  quando  scrivi     pensi talvolta a me,  vi ho sentito un rapporto con me,  una pressione     su di me;  ora,  dacché tu  lo  dici  espressamente,  sono  forse  più     impressionabile, e quando, per esempio, leggo di una lepre sulla neve,     vi vedo quasi correre me stesso. (a)

    (a)  [Sul margine a sinistra].  Ecco,  lo sapevo che nel leggere avevo     saltato  qualcosa  e  non  me  ne  potevo  ricordare   senza   poterlo     dimenticare: febbre? febbre vera? febbre misurata?

    Ora mi son deciso a leggere l'altra lettera, ma soltanto a partire dal     passo: "Nechci abys na to adpov¡dal".  (97) Non so che cosa preceda ma     oggi,  di fronte alle tue lettere che danno inconfutabile conferma  di     te, allo stesso modo che io ti porto chiusa nell'intimo, sono pronto a     sottoscriverle  per vere senza leggerle,  dovessero anche testimoniare     contro di me presso  le  più  remote  istanze.  Sporco  sono,  Milena,     infinitamente  sporco,  perciò  faccio  tanto  chiasso per la purezza.     Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno;     quello che crediamo il canto degli angioli è il loro canto.

    Da qualche giorno ho ripreso la mia vita di  "servizio  di  guerra"  o     meglio  di "manovre",  come anni fa avevo scoperto che temporaneamente     era la cosa migliore per me. Nel pomeriggio dormire, a letto,  fin che     è  possibile,  poi passeggiare due ore,  poi restare sveglio fin che è     possibile. Ma in questo "fin che è possibile" sta la difficoltà.  "Non     è  possibile a lungo" né durante il pomeriggio né durante la notte,  e     al mattino, quando arrivo in ufficio, sono addirittura appassito. E il     vero bottino sta soltanto nella profondità della notte, nella seconda,     terza,  quarta ora;  ma se adesso non vado a dormire,  se non  vado  a     letto  al  più  tardi intorno alla mezzanotte,  sono perduto,  notte e     giorno sono perduti.  Ciò nonostante tutto questo non sarebbe  niente.     Questo essere in servizio è un bene anche senza ogni risultato. Non ne     avrà  infatti,  a me occorre un semestre così soltanto per "sciogliere     la lingua" e capire poi che è finita,  che è terminato il permesso  di     essere in servizio.  Ma, dicevo, in sé è un bene, anche se per molto o     breve tempo la tosse interviene da tiranna.
    Certo le lettere non erano molto gravi,  ma proprio non merito  quella     scritta  col  lapis.  C'è  forse  qualcuno  in cielo e in terra che la     meriterebbe?


    Giovedì sera.

    Oggi,  si  può  dire,   non  ho  fatto  altro  che  star  qui  seduto,     leggiucchiare qualcosa,  soprattutto però non ho fatto niente,  o sono     stato ad ascoltare un dolore leggero leggero che mi rodeva le  tempie.     Tutto  il  giorno  mi  sono  occupato delle tue lettere con pena,  con     amore,   con  apprensione  e  con  una  indeterminata  paura  di  cose     indeterminate,    la   cui   indeterminatezza   consiste   soprattutto     nell'andare smisuratamente al di là delle mie forze. E dire che non ho     avuto il coraggio di leggere le lettere  una  seconda  volta  e  mezza     pagina  nemmeno  la  prima  volta.  Perché  non  si  può  adattarsi  a     riconoscere  che  è  giusto  vivere  in  questa  tensione  del   tutto     particolare,  in  questa  sospensione  suicida  (certe volte hai detto     anche tu cose simili e allora tentai di deriderti) ma  la  si  allenta     per  capriccio,  se ne esce come animali irragionevoli (e come animali     si ama persino  questa  irragionevolezza)  e  si  immette  così  tutta     l'elettricità  disturbata  e  furente  nel  corpo  fino  a farsi quasi     bruciare?
    Non so nemmeno io che cosa  vorrei  dire  con  queste  parole,  vorrei     soltanto afferrare in qualche modo i lamenti,  non quelli a parole, ma     quelli taciti che emanano dalle tue lettere,  e posso farlo perché  in     fondo  sono i miei.  La cosa più singolare è che anche qui nel buio si     possa essere così uniti,  e io ci posso credere,  dirò così,  soltanto     ogni due istanti.


    Venerdì.

    Invece  che dormendo ho passato la notte (non proprio volontariamente,     è vero) in compagnia delle lettere.  Ciò nonostante non  siamo  ancora     arrivati al peggio.  Non è arrivata nessuna lettera,  ma anche ciò non     ha importanza.  Ora è molto meglio non scrivere  ogni  giorno;  tu  in     segreto l'hai capito prima di me.  Le lettere quotidiane indeboliscono     invece di rinforzare;  prima bevevo la lettera fino in fondo  e  nello     stesso  tempo  (parlo di Praga,  non di Merano) acquistavo dieci volte     più forza e dieci volte più sete.  Adesso invece la situazione è molto     seria, adesso leggendo la lettera mi mordo le labbra e niente è sicuro     come questo leggero dolore nelle tempie.  Ma sia pure così, purché non     ci si ammali,  Milena,  non ci si ammali.  Non scrivere è bene (quanti     giorni  mi  occorrono  per venire a capo di due lettere come quelle di     ieri?  Domanda sciocca,  si può mai venirne a capo in giorni?),  ma la     malattia non ne deve essere la causa.  E qui penso soltanto a me.  Che     cosa farei?  Molto probabilmente ciò che faccio  adesso,  ma  come  lo     farei?  No, non ci voglio neanche pensare. Eppure quando penso a te la     visione più limpida mi ti mostra sempre a  letto,  su  per  giù  come,     quella  sera  a Gmund,  eri stesa sul prato (là dove ti parlai del mio     amico e tu poco mi ascoltavi).  E questa non  è  nemmeno  una  visione     dolorosa,  ma,  a  guardar bene,  è il meglio che ora io sia capace di     pensare,  che stai a letto,  io ti assisto un poco,  vengo e vado,  ti     poso  la  mano sulla fronte,  affondo nei tuoi occhi quando ti guardo,     sento la tua occhiata quando cammino per la camera e con  un  orgoglio     non  più  domabile  so  che vivo per te,  che posso farlo e che dunque     incomincio ad esser grato perché un giorno mi sei stata  vicina  e  mi     hai porto la mano. Del resto, sarebbe soltanto una malattia passeggera     che ti rende più sana di prima e ti fa risorgere più grande, mentre io     tra  poco  e in avvenire e,  spero,  senza chiasso e senza dolore,  mi     rintano sotto terra.  Dunque,  ciò non mi tormenta affatto,  ma l'idea     che tu possa ammalarti lontano...
    Anche  a te piacciono i controllori,  non è vero?  O quel controllore,     allora, allegro e magro come un vero viennese!  Ma anche qui c'è buona     gente;  i  bambini  vogliono  fare i controllori per essere anche loro     così potenti  e  rispettati,  per  viaggiare,  stare  sul  predellino,     potersi  chinare  verso i bambini e possedere anch'essi una tanaglia e     tanti  biglietti  tranviari;  io  invece,  mentre  queste  possibilità     piuttosto  mi  ripugnano,   vorrei  fare  il  controllore  per  essere     altrettanto allegro e partecipare a tutta la vita. Una volta seguii un     tranvai che procedeva lentamente e il controllore...
    (il poeta è venuto a prendermi in ufficio,  aspetti pure  finche  avrò     finito di scrivere dei controllori)
    ... si era sporto dalla piattaforma posteriore e mi disse qualcosa che     nel frastuono della Josefsplatz non afferrai e gesticolava agitando le     braccia per indicarmi qualcosa, ma io non capivo, e intanto il tram si     allontanava  e  i  suoi  sforzi  erano  sempre  più  vani - finalmente     compresi: mi si era sganciata la spilla d'oro  del  colletto  ed  egli     aveva  voluto richiamarvi la mia attenzione.  Questo mi venne in mente     questa mattina quando,  dopo  una  notte  così,  intorpidito  come  un     fantasma invalido,  montai sul tram,  il controllore mi diede il resto     di 5 corone e per rasserenarmi (non proprio per rasserenare me, perché     non mi aveva neanche guardato,  ma per rasserenare l'aria) fece non so     quale  osservazione  cordiale  sui  biglietti di banca che mi porgeva,     osservazione che io non ascoltai, dopo di che un signore accanto a me,     notando la distinzione di cui ero oggetto, mi sorrise a sua volta e io     non potei che rispondere con un sorriso, e così tutta la situazione si     trovò un poco migliorata.  Potesse rasserenarsi anche il cielo piovoso     di St. Gilgen!


    Sabato.

    Come è bello,  come è bello, Milena, come è bello. Nulla è tanto bello     nella lettera (di martedì),  ma la calma,  la fiducia,  la  chiarezza,     dalla quale proviene.
    Questa  mattina  non  c'era  niente;  col  fatto  in  sé  avrei potuto     conciliarmi molto facilmente;  il ricever lettere è ora molto diverso,     lo  scriver  lettere  quasi  immutato.  La  pena e la fortuna di dover     scrivere sussiste ancora;  al fatto dunque mi  sarei  rassegnato,  che     bisogno  ho di una lettera se ieri,  per esempio,  ho passato tutto il     giorno e la sera e metà  della  notte  a  discorrere  con  te  in  una     conversazione  in  cui  ero  sincero  e  serio  come un fanciullo e tu     accogliente e seria come una mamma?  (in realtà non ho  mai  visto  un     fanciullo  così  o  una  mamma così);  tutto ciò poteva anche passare,     soltanto dovrei conoscere la causa  della  mancanza  di  scritti,  non     vederti  continuamente  malata  a letto,  nella cameretta,  la pioggia     autunnale  di  fuori,   tu  sola  con  la  febbre  (ne  hai  scritto),     raffreddata (ne hai scritto),  col sudore notturno e la stanchezza (di     tutto ciò hai scritto) se tutto ciò non è, tutto è bene,  e non chiedo     niente di meglio.

    Non intendo di rispondere al primo capoverso della tua lettera,  tanto     più che non  conosco  neanche  il  famigerato  primo  capoverso  della     lettera precedente. Sono tutte cose molto aggrovigliate che si possono     sciogliere  soltanto  nel  colloquio fra madre e figlio,  che costì si     possono forse udire soltanto perché costì non  possono  accadere.  Non     intendo  di  occuparmene perché il dolore sta in agguato nelle tempie.
    La freccia amorosa mi fu forse vibrata nelle tempie anziché nel cuore?     Anche di Gmund  non  scriverò  più,  per  lo  meno  non  lo  farò  con     intenzione. Molto ci sarebbe da dire, ma alla fine tutto si ridurrebbe     al  fatto che la prima giornata viennese,  se quella sera avessi preso     commiato, non sarebbe stata migliore,  mentre Vienna sarebbe ancora in     vantaggio contro Gmund,  perché là arrivai mezzo svenuto dall'angoscia     e dalla stanchezza,  a Gmund invece senza saperlo,  tanto ero sciocco,     stupendamente  sicuro,  come  se mai più mi potesse accadere alcunché,     come un proprietario di casa vi arrivai; strano che,  ad onta di tutta     l'inquietudine  che  continuamente mi pervade,  questa spossatezza del     possedere sia possibile in me,  anzi sia il mio vero difetto in queste     e in altre cose.
    Sono  già le 2 e un quarto,  ho ricevuto la tua lettera soltanto prima     delle 2, adesso smetto e vado a tavola, no?
    La traduzione dell'ultimo periodo è ottima.  In  quel  racconto,  ogni     periodo,  ogni  parola,  se  è  lecito  ogni  musica  è  collegata con     "l'angoscia",  allora la ferita si aprì la prima volta  in  una  lunga     notte e la traduzione coglie,  secondo il mio modo di sentire,  questo     collegamento con quella mano magica che è appunto la tua.     Vedi, ciò che è tanto tormentoso nel ricevere lettere, be', tu lo sai.     Oggi la tua e la mia lettera,  per quanto  è  possibile  nella  grande     incertezza,  si  fanno  buona  compagnia  con  chiarezza,  col respiro     profondo e ora devo aspettare la risposta alle mie lettere  precedenti     delle quali ho paura.
    Come puoi del resto aspettare martedì la mia lettera se ho ricevuto il     tuo indirizzo soltanto lunedì?


    Domenica.

    C'è  stato ieri uno strano errore.  Ieri a mezzogiorno ero tanto lieto     per la tua lettera (di martedì),  e,  quando alla sera me la  rileggo,     quasi non si distingue nell'essenza dalle ultime,  è "disgraziatamente     molto al di là li quanto ammette".  L'errore dimostra quanto io  pensi     soltanto a me,  quanto sia chiuso in me e trattenga di te soltanto ciò     che posso trattenere,  sicché più di tutto vorrei rifugiarmi  con  ciò     nel  deserto  affinché  nessuno  me lo porti via.  Siccome,  dopo aver     dettato,  arrivai di corsa nella mia  stanza,  siccome  vi  trovai  di     sorpresa la tua lettera,  siccome la scorsi ingordo e felice,  siccome     non vi era nulla in grassetto contro di me, siccome per caso le tempie     pulsavano quiete,  siccome ero abbastanza leggero per  immaginarmi  te     adagiata tranquilla e pacifica tra bosco,  lago e montagne,  per tutte     queste ragioni e per  alcune  altre  ancora,  che  tutte  insieme  non     avevano  punto  a  che fare con la tua lettera e con la tua situazione     reale,  la lettera mi  parve  allegra  e  io  ti  scrissi  altrettanto     assurdamente.


    Lunedì.

    Vedi,  Milena, così incapace di dominarmi, così sballottato in un mare     che soltanto per cattiveria non m'inghiotte. Recentemente ti pregai di     non scrivermi ogni giorno,  ero sincero,  avevo paura  delle  lettere;     quando  non  ne  arrivavano  ero più tranquillo;  quando ne vedevo una     sulla tavola dovevo fare appello a tutte le mie  forze  ed  erano  ben     lungi  dall'essere  sufficienti  -  e oggi sarei stato infelice se non
    fossero arrivate queste cartoline (me  le  sono  appropriate  tutte  e     due). Grazie.

    Delle  cose  generiche  che  ho lette finora sulla Russia,  l'articolo     incluso mi ha fatto la massima impressione o,  meglio,  l'ha fatta  al     mio corpo,  ai miei nervi,  al mio sangue.  E' vero che non ho accolto     ciò esattamente come è scritto,  ma ne ho fatto la trascrizione per la     mia orchestra. (Ho strappato la fine dell'articolo che contiene accuse     dei  comunisti,  le  quali non c'entrano in questo discorso,  come del     resto tutto l'insieme non è che un frammento.)


    Giovedì.

    Sono arrivate le lettere di domenica, lunedì, e una cartolina.     Ti prego, Milena,  di giudicare giustamente.  Qui sono isolato,  tanto     lontano,  ma  relativamente  tranquillo e varie cose mi passano per la     mente, angoscia, inquietudine, e perciò lo scrivo anche se non è molto     sensato,  e quando ti parlo dimentico tutto,  anche te,  e solo quando     arrivano due lettere così mi rendo nuovamente conto di tutto.     Non capisco bene una cosa nei tuoi timori per l'inverno. Se tuo marito     è malato,  addirittura di due malattie,  e se lo è seriamente, non può     certo andare in ufficio né d'altro canto,  come funzionario in  pianta     stabile,  può  essere  licenziato;  in  seguito alle sue malattie deve     anche sistemare in altro modo la sua vita,  così tutto si semplifica e     diventa  più  facile,  almeno  esteriormente,  per  quanto la cosa sia     triste.
    Ora una delle cose più insensate  dell'orbe  terracqueo  è  la  severa     considerazione  della  colpa,  così almeno mi pare.  Non che mi sembri     assurdo fare rimproveri,  certo quando ci si  trova  alle  strette  si     fanno  rimproveri  in  ogni  direzione (benché questo non sia l'ultimo     limite  di  trovarsi  alle  strette,   allora  infatti  non  si  fanno     rimproveri),  ed  è  anche  comprensibile  che  in un periodo agitato,     quando tutto è sconvolto,  ci si prendano a cuore quei rimproveri;  ma     non  riesco  a capire che si creda di poter intavolare trattative come     per una qualunque e comune questione contabile,  così chiara da  avere     conseguenze  nella  vita  d'ogni  giorno.  Certo tu sei colpevole,  ma     allora è colpevole anche tuo marito,  e lo sei ancora tu e ancora lui,     come  non può essere diversamente in una convivenza umana,  e la colpa     si va ammucchiando all'infinito fino all'antico peccato originale,  ma     come  mi  può  essere utile per la giornata di oggi e per la visita al     medico di Ischl frugacchiare nel peccato perpetuo?
    E fuori piove continuamente e non vuole smettere.  A me importa  poco,     io  sto  all'asciutto,  mi  vergogno soltanto di prendere l'abbondante     colazione davanti all'imbianchino che proprio in  questo  momento  sta     sull'armatura  sospesa  davanti alle mie finestre e,  furibondo per la     pioggia che un po' ha smesso e per la quantità di burro che stendo sul     pane,  spruzza i vetri senza che ve ne sia bisogno,  e anche questa  è     soltanto  fantasia e probabilmente egli si cura di me mille volte meno     che io di lui. Adesso però lavora davvero sotto la pioggia torrenziale     e nella tempesta.
    A proposito di Weiss sono venuto poi a sapere che probabilmente non  è     malato ma senza quattrini,  almeno lo era nell'estate e allora si fece     una colletta per lui  a  Franzensbad.  Gli  ho  risposto  per  lettera     raccomandata circa tre settimane sono, indirizzando però nella Foresta     Nera prima ancora che mi giungesse quella notizia. Da lui non ho avuto     risposta. Ora si trova sul lago di Starnberg con la sua amica la quale     scrive  a  Baum (98) cartoline tristi e gravi (questa è la sua natura)     ma non proprio infelici (certo anche ciò fa parte della  sua  natura).     Prima che partisse da Praga (dove ha riportato molti trionfi a teatro)     circa  un mese fa ho scambiato con lei qual che parola.  Aveva pessima     cera,  è in genere debole  e  delicata  ma  infrangibile,  era  troppo     affaticata  dalle  recite.  Di  Weiss  parlò  circa così: "Ora è nella     Foresta Nera, e non sta bene,  presto ci troveremo insieme sul lago di     Starnberg, e sarà meglio".


    Domenica.

    Conta soprattutto, Milena, ciò che vuoi vedere scritto o non invece la     fiducia?  Anche  tu  ne  scrivesti  una volta,  fu in una delle ultime     lettere indirizzate a Merano e io non potei più rispondere.     Vedi, Robinson dovette arrolarsi, compiere il viaggio pericoloso, fare     naufragio e molte altre cose,  a me basterebbe perdere te e già  sarei     Robinson.  Ma  sarei più Robinson di lui.  Egli aveva ancora l'isola e     Venerdì e molte altre cose e infine la nave che  andò  a  prenderlo  e     tramutò quasi ogni cosa in un sogno,  io non avrei niente,  nemmeno il     nome, anche questo l'ho dato a te.
    Perciò sono in certo qual modo indipendente di fronte  a  te,  appunto     perché  la  dipendenza  sorpassa  tutti  i limiti.  L'aut aut è troppo     grande. O tu sei mia e tutto va bene, o invece ti perdo e allora non è     che vada male,  ma allora non c'è  niente,  non  rimane  gelosia,  non     sofferenza,  non  ansietà,  niente di niente.  E certo è un sacrilegio     contare così su una creatura umana  e  perciò  anche  in  questo  caso     l'angoscia s'aggira intorno ai fondamenti, ma non è l'angoscia per te,     bensì  l'angoscia  che  in genere si osi contare talmente.  Perciò,  a     titolo di difesa (e  così  è  stato  certo  anche  in  origine)  tanti     elementi divini sono aggiunti al tuo caro volto terreno.
    Ecco,  Sansone  ha  dunque svelato a Dalila il suo segreto ed ella può     anche tagliargli i capelli nei quali,  per prepararlo,  gli ha  sempre     messo  le mani,  ma faccia pure;  se non possiede anche lei un segreto     simile, tutto è indifferente.
    Da tre notti,  senza alcun motivo apparente,  dormo malissimo,  ma  tu     stai passabilmente bene, vero?

    Risposta  rapida,  se  è  una  risposta:  in  questo momento arriva il     telegramma. E' arrivato così di sorpresa e oltre a ciò aperto, che non     ho avuto neanche il tempo di spaventarmi.  In  verità  oggi  ne  avevo     proprio  bisogno;  come  hai  fatto a saperlo?  Con quanta naturalezza     viene da te ciò che è necessario, sempre.


    Martedì.

    Un malinteso, no, è peggio di un semplice malinteso,  da cima a fondo,     Milena,  anche  se  naturalmente comprendi bene la superficie,  ma che     cosa c'è più da comprendere o non comprendere?  E'  un  malinteso  che     sempre si ripete,  che c'è già stato una volta,  due volte,  a Merano.     Eppure io non ho chiesto consiglio a te, come non lo chiederei a colui     che sta lì seduto alla scrivania davanti a me. Io parlavo con me, a me     chiedevo consiglio durante il buon sonno, e tu mi svegli.

    Non so se tu abbia  ben  compreso  la  mia  osservazione  a  proposito     dell'articolo sul bolscevismo. Le critiche che vi fa l'autore sono per     me il più alto elogio possibile su questa terra.

    Se ieri sera (quando alle 8 guardai dalla strada nel grande salone del     municipio ebraico, dove sono allogati ben più di cento emigranti ebrei     russi  -  là aspettano il visto americano - il salone è affollato come     per un'assemblea popolare,  e poi verso le 12 e mezza di notte li vidi     tutti dormire l'uno accanto all'altro,  dormivano anche coricati sulle     sedie,  ogni tanto uno tossiva o si girava sull'altro fianco o passava     cautamente tra le file, la luce elettrica è accesa tutta la notte), se     mi avessero dato la possibilità di essere ciò che voglio, avrei voluto     essere un ebreo orientale giovinetto,  in un angolo della sala,  senza     ombra di preoccupazioni,  il babbo discorre nel mezzo con gli  uomini,     la  mamma  tutta  infagottata  fruga  tra  gli stracci da viaggio,  la     sorella chiacchiera con le ragazze e si gratta fra i bei capelli...  e
    tra qualche settimana si sarà in America.  Certo non è vita facile, si     sono già avuti casi di dissenteria,  nella via la  gente  si  ferma  e     lancia  insulti dalle finestre,  persino fra gli ebrei scoppiano liti,     due si sono già avventati col coltello l'uno contro l'altro. Ma quando     si è piccoli e si vede e si giudica tutto rapidamente, che cosa ci può     capitare?  Giovinetti così ce n'erano là parecchi che si rincorrevano,     s'arrampicavano  sui materassi,  passavano a gatto sotto le sedie,  in     agguato del pane che qualcuno,  uno qualunque - è un  popolo  unico  -     spalmava loro con qualche cosa (ogni cosa è mangiabile).


    Martedì.

    Oggi  ho  ricevuto  due  lettere e la cartolina illustrata.  Esitai ad     aprirle.  O tu sei inconcepibilmente  buona  o  sai  inconcepibilmente     dominarti,  tutto è in favore della prima alternativa,  qualcosa anche     in favore della seconda.
    Ripeto: avevi perfettamente ragione.  E se mi avessi  fatto  -  che  è     impossibile  -  qualcosa  di  equivalente  (per  mancanza di riguardo,     stravaganza coi paraocchi,  stupidità infantile,  prosopopea e persino     indifferenza)  a  ciò che feci a te parlando con V.,  avrei smarrito i     sensi, non solo nel momento del telegramma. (99)
    L'ho letto  soltanto  due  volte,  prima  di  sfuggita  quando  mi  fu     consegnato, poi alcuni giorni dopo, quando lo stracciai.     E'  difficile  descrivere  quella  prima  lettura,  molte  cose  vi si     incrociavano.  La più evidente era che tu mi picchiavi;  incominciava,     credo, con "immediatamente" e questa fu la botta.
    No,  oggi  non  posso ancora scriverne in particolare,  non perché sia     eccezionalmente stanco, ma perché sono "pesante". Il nulla,  del quale     ti scrissi una volta, mi ha colpito col suo soffio.
    Tutto  ciò  sarebbe  incomprensibile  se credessi di aver fatto quanto     sopra per mia colpa; in tal caso sarei stato picchiato a buon diritto.
    Vero è che la colpa è di tutti e due e di nessuno.
    Può darsi che, dopo aver superato tutte le giustificate resistenze, tu     riesca tuttavia a riconciliarti con la lettera di V.  che  troverai  a     Vienna.  Lo  stesso pomeriggio del telegramma la cercai in casa di tuo     padre.  Al pianterreno era scritto "'I schody'" (100) che avevo sempre     interpretato  per  primo  piano ed era invece molto in alto.  Venne ad     aprirmi una giovane cameriera allegra  e  carina.  V.  non  c'era,  me     l'aspettavo, ma avevo soltanto voluto fare qualche cosa e anche sapere     quando  viene  alla  mattina.  La  mattina poi l'aspettai davanti alla     casa, mi piacque, così intelligente, schietta, obiettiva.  Con lei non     ho scambiato più parole di quelle che ti ho telegrafato. (a)     Jarmila  è stata da me ieri l'altro in ufficio,  da molto tempo non ha     tue  notizie,   non  sapeva  niente  dell'inondazione  e  veniva   per     informarsi  di  te.  E  ha fatto bene.  Rimase soltanto pochi momenti.     Dimenticai di trasmetterle la tua preghiera circa le sue lettere,  poi     le mandai alcune righe in proposito.
    Non ho ancora letto attentamente le lettere, dopo ti riscriverò.     (a)  [Sul  margine a sinistra].  In parte posso confutare i timori per     via di tuo padre, prossimamente.

    Adesso è arrivato anche il telegramma. Davvero?  Davvero?  E tu non mi     picchi più?
    No,  non  puoi esserne contenta,  è impossibile.  E' un telegramma del     momento come il precedente e la verità non è qui, non è là.  Talvolta,     quando ci si sveglia la mattina, si crede che la verità sia accanto al     letto,  cioè una fossa con qualche fiore appassito,  aperta, pronta ad     accoglierci.
    Quasi  non  oso  leggere  le  lettere,   posso  leggerle  soltanto   a     intervalli, non resisto al dolore della lettura.
    Milena  - e ancora una volta divido i tuoi capelli e li scosto ai lati     - sono davvero una bestia così malvagia, malvagia con me e altrettanto     malvagia con te,  o non è invece malvagio ciò che è  dietro  di  me  e     m'incalza?  Ma  non  oso  neanche dire che è malvagio,  solo quando ti     scrivo mi sembra che sia così e lo dico.
    Altrimenti è realmente come ho scritto.  Quando ti scrivo,  non  è  il     caso  di parlare di sonno né prima né dopo;  quando non scrivo,  dormo     almeno un sonno superficialissimo  a  ore.  Quando  non  scrivo,  sono     soltanto  stanco,  triste,  pesante;  quando scrivo,  l'inquietudine e     l'angoscia mi straziano.  Vero è che ci chiediamo pietà a vicenda,  io     chiedo  a te di potermi rintanare,  tu a me - che però sia possibile è     il più spaventevole controsenso.
    Ma come è possibile ciò? domandi. Che cosa voglio? Che cosa faccio?     Le cose stanno all'incirca così: io, bestia silvestre,  non stavo,  si     può dire, nella selva, giacevo non so dove, in un fosso lurido (lurido     beninteso  soltanto  per  la  mia  presenza)  e  allora  vidi,   fuori     all'aperto, la cosa più meravigliosa che avessi mai visto,  dimenticai     tutto, mi dimenticai interamente, mi alzai, mi avvicinai, timido bensì     in  quella  nuova eppure natia libertà,  mi avvicinai dunque,  arrivai     fino a te,  tu fosti tanto buona,  mi accovacciai presso a te come  se     ciò mi fosse lecito,  posai il viso nella tua mano,  ero tanto felice,     tanto orgoglioso,  tanto libero,  tanto potente,  tanto  a  casa  mia,     sempre  così: tanto a casa mia - ma in fondo ero pur sempre la bestia,     appartenevo pur sempre alla  selva,  vivevo  all'aperto  soltanto  per     grazia  tua  e  senza  saperlo  (poiché  avevo  dimenticato ogni cosa)     leggevo la  mia  sorte  nei  tuoi  occhi.  Non  poteva  durare.  Anche     accarezzandomi   con   la   mano  più  generosa  dovevi  notare  certe     particolarità allusive alla selva,  a questa origine,  a  questa  vera     patria,  e vennero le necessarie, necessariamente ripetute discussioni     sull'"angoscia" che torturavano me (e te,  ma te innocentemente)  fino     al  nervo  scoperto,  e  sempre  più  crebbe  davanti  a me la visione     dell'immondo tormento,  del continuo  ostacolo  che  ero  per  te,  il     malinteso con Max vi diede un urto,  già a Gmund era palese, poi venne     l'intesa e il  malinteso  di  Jarmila,  e  infine  il  fatto  sciocco,     grossolano  e indifferente di V.,  e frammezzo ci furono molte inezie.
    Ripensai chi ero,  nei tuoi occhi  non  lessi  più  alcuna  illusione,     provai  il terrore in sogno (di vivere in qualche luogo che non era il     mio,  come se fossi a casa mia),  questo terrore lo provai  realmente,     dovetti  ritornare  nel  buio,  non sopportavo il sole,  ero disperato     veramente come una bestia smarrita,  incominciai a correre a  più  non     posso  e  sempre  col  pensiero:  "Se  potessi portarla con me!" e col     contropensiero: "Esiste il buio dove è lei?".  Tu chiedi come io viva:     ecco, così vivo.

    La prima lettera era già spedita quando venne la tua.  Prescindendo da     tutto ciò che può essere sotto - sotto a  queste  cose:  "angoscia"  e     simili  - e che mi dà nausea,  non perché sia nauseante,  ma perché il     mio stomaco è troppo debole,  prescindendo da ciò,  la  cosa  è  forse     ancor  più  semplice  di  come  dici  tu.  Circa  così: l'imperfezione     solitaria la si deve sopportare in ogni momento, l'imperfezione in due     non si è costretti a sopportarla.  Non abbiamo  forse  gli  occhi  per     strapparceli  e il cuore per il medesimo scopo?  Eppure non è poi così     grave,  questa  è  esagerazione  e  menzogna,  tutto  è  esagerazione,     soltanto la nostalgia è vera,  non la si può esagerare.  Ma perfino la     verità della nostalgia non è tanto  la  sua  verità  quanto  piuttosto     l'espressione della menzogna di tutto il resto.
    Sembra un'idea bislacca, ma è così.
    E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore     è  il  fatto  che  tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me     stesso.
    Del resto tu stessa  lo  dici:  ""nem te  s¡ly  milovat""  (101);  non     sarebbe questa una distinzione sufficiente fra "bestia" e "uomo"?     Tu,  Milena,  non puoi capire bene di che cosa si tratti o in parte si     sia trattato, tanto è vero che non capisco nemmeno io,  tremo soltanto     all'idea dello scoppio,  mi tormento fin alla soglia della follia,  ma     che cosa sia e che cosa voglia in lontananza,  non  so.  Soltanto  che     cosa voglia da vicino: silenzio,  tenebra, il rintanarsi, questo so, e
    devo obbedire, non posso fare altrimenti.
    E' uno sfogo e passa, in parte è passato, ma le forze che lo provocano     vibrano continuamente dentro di me, prima e dopo, anzi la mia vita, la     mia esistenza consta di  queste  minacce  sotterranee,  se  terminano,     termino anch'io,  è il mio modo di partecipare alla vita,  se termina,     rinuncio alla vita,  così facilmente e naturalmente come  si  chiudono     gli occhi.  Non c'è sempre stato da quando ci conosciamo?  e se non ci     fosse stato,  mi avresti forse mai cercato,  sia pure con  un'occhiata     fuggevole?
    Naturalmente  non  la  si può girare e dire: adesso è passata e io non     sarei che tranquillo e felice e riconoscente nel nuovo incontro. Non è     lecito dirlo benché sia quasi vero (perfettamente vera la riconoscenza
    -  soltanto  in  certo  senso  vera  la  felicità  e   mai   vera   la     tranquillità), perché sempre mi spaventerò, me più di tutti.     Tu menzioni i fidanzamenti,  e cose simili,  certo era molto semplice,     il dolore non era semplice ma i suoi effetti.  Era come se uno  avesse     vissuto  una  vita  dissoluta  e  ora,  acciuffato improvvisamente per     subire il castigo di tutta la sua dissolutezza,  fosse  messo  con  la     testa entro una morsa, una vite alla tempia destra, una alla sinistra,     e  mentre le viti venissero strette lentamente egli dovesse dire: "Sì,     persisto nella vita dissoluta" oppure "No, la abbandono". Naturalmente     egli urlerebbe questo "'no'" fino a farsi scoppiare i polmoni.     Hai anche ragione quando metti ciò che ho fatto ora  in  fila  con  le     vecchie cose,  poiché non posso che essere sempre il medesimo e vivere     le medesime cose.  La differenza sta soltanto in ciò: che ora  ho  già     esperienza,  che  per  gridare non aspetto mi si applichino le viti al     fine di estorcermi la confessione, ma già mi metto a gridare quando mi     si accostano,  anzi grido addirittura quando qualche cosa si muove  in     distanza,  tanto è arcisveglia la mia coscienza, cioè non arcisveglia,     ma di  gran  lunga  non  ancora  sufficientemente  sveglia.  Ma  anche     un'altra cosa è diversa: a te,  per amor proprio e tuo, si può dire la     verità come a nessun altro,  anzi si  può  sapere  la  propria  verità     direttamente da te.
    Ma  quando,  Milena,  dici con amarezza che ti ho tanto pregata di non     abbandonarmi, non agisci bene.  In questo punto non ero allora diverso     da oggi. Vivevo del tuo sguardo (e questa non è ancora una particolare     deificazione della tua persona, in un simile sguardo ognuno può essere     divino),  non  avevo un terreno sotto i piedi;  temevo ciò fortemente,     senza saperlo con certezza,  non sapevo  affatto  quanto  in  alto  mi     librassi sopra la mia terra.  Non era un bene, né secondo il cuor mio,     né secondo il tuo. Bastava una parola di verità,  una parola di verità     inevitabile e già mi trascinava un tratto in giù e ancora una parola e     ancora  un tratto e infine non c'è più arresto e si precipita e per il     sentimento è ancora troppo adagio.  Con intenzione non cito esempi  di     siffatte  "parole  di  verità",  ciò non fa che confondere e non è mai     esatto.

    Ti prego,  Milena,  inventa un altro modo possibile in  cui  ti  possa     scrivere.  Mandare cartoline camuffate è troppo stupido;  né so sempre     quali libri ti debba mandare;  l'idea infine che tu vada  invano  alla     posta mi è insopportabile, inventa, ti prego, un'altra possibilità.


    Lunedì sera.

    Dunque  mercoledì  andrai  alla  posta e non vi sarà nessuna lettera -     cioè sì, quella di sabato. In ufficio non potei scrivere perché volevo     lavorare e non potei lavorare perché pensavo a noi. Nel pomeriggio non     potei alzarmi dal letto perché ero non dirò troppo stanco,  ma  troppo     "pesante",  ecco sempre questa parola,  l'unica che sia adatta per me,     tu la capisci veramente?  E' all'incirca la "pesantezza" di  una  nave     che  ha  perduto  il  timone  e  dice  alle  onde: "per me sono troppo     pesante,  per voi troppo leggera".  Ma non è proprio neanche  così,  i     paragoni non lo possono esprimere.
    In  fondo  però  non ho scritto,  perché ho il vago sentimento di aver     tante cose da scriverti,  cose così supremamente importanti che nessun     tempo,  per quanto libero,  sarebbe sufficiente a raccogliere tutte le     energie necessarie. E così è infatti.
    E siccome non posso dir nulla del presente,  quanto meno  potrei  dire     del futuro! In realtà sono sceso soltanto ora, dirò così, dal letto di     malato  ("letto  di  malato"  visto  dal difuori),  mi ci tengo ancora     aggrappato  e  preferirei  ritornarci.   Nonostante  sappia  che  cosa     significhi quel letto.
    Ciò che hai scritto,  Milena, delle persone, "ne te s¡ly milovat", era     giusto anche se nello scriverlo tu non lo hai reputato giusto. La loro     facoltà di amore consiste forse soltanto nel  poter  essere  amati.  E     anche in questo c'è per costoro una distinzione smorzante.  Quando uno     di loro dice alla donna amata: "io credo che tu mi ami" è una cosa ben     diversa e molto meno importante di quando dice: "io sono amato da te".
    Ma costoro non sono amanti, sono grammatici.
    La "imperfezione a due" è stata certo un malinteso nella tua  lettera.     Con ciò non volevo dire altro che: io vivo nel mio sudiciume, questo è     affar mio. Trascinarci però anche te è una cosa molto diversa, non già     soltanto come fallo verso di te, che sarebbe la cosa più trascurabile;     non  credo  che un fallo contro un altro,  in quanto colpisce soltanto     quest'altro,  mi potrebbe turbare il sonno.  Non è questo  dunque.  Lo     spaventevole  è  invece che in te io divento molto più conscio del mio     sudiciume e - soprattutto - che, in questo modo, la salvezza mi riesce     molto più difficile, anzi molto più impossibile (impossibile è in ogni     caso,  ma qui aumenta persino l'impossibile).  Ciò fa venire i  sudori     freddi alla fronte; di una colpa che avresti tu, Milena, non è il caso     di discorrere.
    Fu un errore però, e me ne sono molto pentito, di aver fatto nella mia     ultima  lettera  paragoni  con  cose precedenti.  A ciò diamo un frego     insieme.

    Dunque, davvero non sei ammalata?

    E' vero, Milena, qui a Praga hai un possesso,  nessuno te lo contesta,     a  meno  che lo faccia la Notte che lotta per esso,  ma essa lotta per     ogni cosa. Ma quale possesso è! Io non lo impicciolisco,  qualche cosa     è,  anzi è così grande che lassù nella tua camera potrebbe oscurare un     plenilunio.  E tu non avrai paura di tanto buio?  Buio senza il calore     del buio.
    Affinché tu veda qualcosa delle mie "occupazioni",  allego un disegno.     Sono quattro pali, attraverso i due centrali vengono fatte passare due     pertiche alle quali sono legate le mani del "delinquente";  attraverso     i  due esterni si fanno passare pertiche per i piedi.  Quando l'uomo è     legato così le pertiche vengono spinte lentamente  all'infuori  finché     egli si spacca in due. Alla colonna sta appoggiato l'inventore che, le     braccia  e le gambe incrociate,  si dà grandi arie,  come se ciò fosse     un'invenzione originale,  mentre in fin dei  conti  l'ha  copiata  dal     macellaio che espone il maiale squartato davanti alla bottega.

    Domando se non avrai paura perché colui,  del quale scrivi, non esiste     e non è esistito,  non è esistito quello di Vienna,  neanche quello di     Gmund,  se  mai  forse  quest'ultimo,  e sia maledetto.  E' importante     sapere ciò perché se dovessimo incontrarci ancora riapparirebbe quello     di Vienna o magari quello di Gmund in perfetta innocenza,  come  nulla     fosse avvenuto, mentre dal fondo quello reale, sconosciuto a tutti e a     se   stesso,   ancor   meno   esistente   degli  altri  ma  nelle  sue     manifestazioni di potenza  più  reale  di  tutto  (perché  non  emerge     finalmente  egli  stesso  e  non  si mostra?),  lancerà in alto le sue     minacce e di nuovo fracasserà ogni cosa.

    Sì, Mizzi K. è stata qui,  e fu molto bene.  Ma se mai sarà possibile,     non scriverò nulla di altre persone, il loro immischiarsi nelle nostre     lettere  è stato la colpa di tutto.  Ma non per questo non scriverò di     loro mai più (tanto è vero  che  non  hanno  alcuna  colpa,  ma  hanno     soltanto  aperto una via alla verità e a ciò che la seguirà),  con ciò     non voglio castigarli, qualora ciò possa essere considerato un castigo     per loro,  mi sembra soltanto che qui non c'entrino più.  Qui è  buio,     una  casa  buia nella quale soltanto gli inquilini si raccapezzano,  e     anche questi con difficoltà.

    Se sapevo che passerà? Sapevo che non passerà.
    Da bambino quando avevo commesso qualche  azione  molto  cattiva,  non     cattiva  o non troppo cattiva in senso pubblico,  ma molto cattiva nel     mio senso privato (e se non era una cattiveria pubblica,  non  lo  era     per  merito  mio,  ma per la cecità o per il sonno del mondo) rimanevo     molto stupefatto che tutto proseguisse immutato,  che i grandi un  po'     abbuiati,  è vero,  ma senz'altro mutamento, mi girassero intorno e le     loro labbra,  delle quali fin dalla mia prima  infanzia  avevo  sempre     ammirato  di  sotto  in  su  la calma e la naturalezza con cui stavano     chiuse, continuassero ancora a star chiuse.  Dopo aver osservato tutto     ciò  per  qualche  tempo ne deducevo che evidentemente non potevo aver     fatto nulla di grave in nessun senso,  che temerlo  doveva  essere  un     errore infantile e perciò potevo benissimo ricominciare dove nel primo     spavento avevo smesso. Più tardi questa concezione del mondo intorno a     me  andò man mano modificandosi.  In primo luogo incominciai a credere     che gli altri osservavano benissimo ogni cosa,  che persino  esprimono     con sufficiente chiarezza la loro opinione e che soltanto io non avevo     avuto fino allora lo sguardo abbastanza acuto per queste cose, sguardo     che   ora   acquistai   molto  rapidamente.   In  secondo  luogo  però     l'imperturbabilità degli altri, anche se c'era davvero, continuò bensì     a stupirmi, ma non era più una prova in mio favore.
    Sta bene,  non notavano dunque nulla,  nessuna parte  del  mio  essere     entrava  nel  loro mondo,  per loro ero illibato,  la strada della mia     natura, la mia strada, dunque, passava fuori del loro mondo; se questa     mia natura era un fiume,  almeno un ramo considerevole scorreva  fuori     del loro mondo.

    Sì,  Milena, ti prego caldamente, vedi di trovare un'altra maniera per     scriverci.  Tu non devi andare invano alla posta,  non  lo  deve  fare     neanche  il tuo piccolo portalettere - dove è?  - nemmeno la signorina     della  posta  deve  essere  interrogata  inutilmente.   Se  non  trovi     nessun'altra possibilità,  bisognerà adattarsi,  ma sforzati almeno di     trovarla.

    Ieri ho sognato di te.  Non ricordo quasi  più  i  singoli  fatti,  so     soltanto che di continuo ci trasformavamo l'uno nell'altro, io ero tu,     tu eri io.  Infine,  non so come,  prendesti fuoco, mi ricordai che il     fuoco può essere soffocato coi panni,  afferrai un vecchio abito e con     questo  mi misi a batterti.  Ma qui ricominciarono le metamorfosi e si     arrivò al punto che tu eri scomparsa,  mentre ero io che ardevo  e  io     ancora che battevo con l'abito.  Ma ciò non serviva a nulla e così era     confermato il mio vecchio sospetto che queste cose non valgono  contro     il fuoco. Intanto però erano arrivati i pompieri e nonostante tutto tu     in  qualche  modo fosti salvata.  Ma eri diversa da prima,  spettrale,     disegnata col gesso nel buio e, inanimata o forse soltanto svenuta per     la gioia di essere salva,  mi cadesti tra le braccia.  Ma anche qui si     riscontrò  l'incertezza  della  trasformazione perché forse ero io che     cadevo tra le braccia di qualcuno.

    E' stato qui A. Lo conosci? Cessassero almeno queste visite, tutti gli     uomini sono così perennemente vivi, realmente immortali, non nel senso     della vera immortalità,  ma forse giù nelle profondità della loro vita     momentanea.  Ho tanta paura di loro. Vorrei leggergli negli occhi ogni     desiderio, baciargli piedi dalla paura e dalla gratitudine, se volesse     andar via senza invitarmi a ricambiare la visita. Da solo vivo ancora,     ma, quando arriva una visita, questa mi uccide in certo qual modo, per     poi potermi far rivivere con la  sua  forza,  ma  non  possiede  tanta
    forza. Lunedì devo andare da lui e già ne ho la testa confusa.

    Perché,  Milena,  scrivi dell'avvenire comune che pur non verrà mai, o     ne scrivi appunto per ciò?  Già quando ne parlammo brevemente una sera     a Vienna,  ebbi l'impressione che cercassimo qualcuno, a noi ben noto,     del quale sentivamo molto la mancanza e che perciò chiamavamo coi nomi     più belli, ma nessuno rispose; come avrebbe potuto rispondere,  se non     c'era neanche nella più vasta cerchia intorno a noi?
    Poche cose sono sicure,  ma questa è una, che non vivremo mai insieme,     in una casa comune,  corpo accanto a corpo,  a una mensa comune,  mai,     nemmeno  nella  medesima città.  Stavo per dirti che ciò mi pare certo     come la certezza che domani  mattina  non  mi  alzerò  (da  solo  devo     sollevarmi! Allora mi vedo sotto di me come sotto a una croce pesante,     prono  e schiacciato,  e molto devo faticare prima che mi possa almeno     accucciare e la salma sopra di me possa un poco sollevarsi) e che  non     andrò  in  ufficio.  Ed  è  esatto,  certamente non mi alzerò,  eppure     l'alzarsi supera soltanto di  poco  le  forze  umane;  fin  lì  arrivo     ancora,  un  pochino  così  sopra  le  forze  umane  riesco  ancora  a     sollevarmi.
    Ma non prendere troppo alla lettera questo discorso dell'alzarsi,  non     è  così grave;  che domani mi alzerò è pur sempre più sicuro della più     lontana possibilità di una nostra convivenza.  Del  resto,  anche  tu,     Milena,  non  la  pensi  certo  diversamente,  se esamini te e me e il     "mare" fra "Vienna" e "Praga" con  le  sue  onde  immense,  a  perdita     d'occhio.
    E   a  proposito  del  sudiciume,   perché  non  dovrei  continuamente     sciorinarlo,  questo mio unico possesso (unico possesso di  tutti  gli     uomini,  ma  ciò  non posso dire di saperlo con esattezza)?  Forse per     modestia? Ecco, questa sarebbe l'unica obiezione giustificata.     Ti sentì angosciata al  pensiero  della  morte?  Io  ho  soltanto  una     tremenda  paura dei dolori.  Brutto segno.  Volere la morte,  ma non i     dolori,  è un brutto segno.  Per il resto però si può  arrischiare  la     morte.  Uno è stato mandato fuori come colomba biblica, non ha trovato     niente di verde e s'infila di nuovo nell'arca buia: ecco tutto.

    Ho ricevuto i fascicoli pubblicitari dei due sanatori, non vi potevano     essere sorprese,  se non tutt'al più nei prezzi e  nelle  distanze  da     Vienna.  In ciò i due sanatori sono su per giù uguali.  Esageratamente     cari,  più di 400 corone al giorno,,  probabilmente 500,  e per giunta     senza  impegno.  Da  Vienna  circa  tre  ore di ferrovia e mezz'ora di     carrozza,   dunque  molto  lontano,   circa  come  Gmund,   però   con     l'accelerato.   Grimmenstein  sembra  un  pochino  meno  caro,  sicché     sceglierei questo in caso di bisogno, ma soltanto in caso di bisogno.

    Vedi, Milena,  penso soltanto a me continuamente,  o meglio al terreno     stretto,  comune  a  noi,  decisivo secondo il mio sentimento e la mia     volontà,  e trascuro ogni altra cosa intorno a me,  non ti ho  nemmeno     ringraziata  per "Kmen" e "Tribuna",  per quanto anche questa volta tu     sia stata brava.  Ti manderò la mia copia che ho qui nel cassetto,  ma     forse  vorresti anche qualche mia osservazione e allora dovrei leggere     ancora una volta e ciò non è facile.  Quanto volentieri leggo  le  tue     traduzioni di opere altrui!  Il colloquio con Tolstoi era tradotto dal     russo?
    Dunque,  hai  avuto  l'influenza?   Ebbene,   almeno  non  devo  farmi     rimproveri  di  aver  passato  qui  il  tempo in particolare allegria.     (Talvolta non riesco a capire come mai gli uomini abbiano  trovato  il     concetto di "allegria", probabilmente lo hanno soltanto calcolato come     antitesi alla tristezza.) Ero convinto che non mi avresti scritto più,     ma non ne ero né stupito né triste.  Non triste perché al di là d'ogni     tristezza mi pareva necessario e perché probabilmente non ci  sono  in     tutto  il  mondo  pesi sufficienti per sollevare il mio povero piccolo     peso,  e non stupito perché veramente non mi sarei mai stupito  prima,     se  tu avessi detto: "finora sono stata gentile con te,  adesso invece     smetto e me ne vado". Esistono soltanto cose stupefacenti, questa però     sarebbe stata  una  delle  meno  stupefacenti;  quanto  è  invece  più     stupefacente,  per  esempio,  il  fatto  che  ogni mattina ci si alza.     Sennonché questa non  è  una  sorpresa  che  ispiri  fiducia,  ma  una     curiosità che può provocare la nausea.
    Se  sei  degna,  Milena,  di una buona parola?  Evidentemente non sono     degno di dirtelo, altrimenti ne sarei capace.
    Ci vedremo prima che io non creda?  (Ecco,  io  scrivo  "vedremo",  tu     scrivi  "vivremo  insieme".)  Credo  però  (e  ne  vedo dappertutto la     conferma,  dappertutto,  in cose che non vi sono per nulla  collegate,     tutte  le  cose  ne  parlano) che non vivremo e non potremo mai vivere     insieme e "prima" di "mai" è ancora mai.

    Eppure, Grimmenstein è ancora preferibile.  La differenza di prezzo si     aggira sulle 50 corone al giorno, oltre a ciò in quell'altro sanatorio     bisognerebbe   portare  tutto  l'occorrente  per  la  cura  all'aperto     (guanciale, coperte, copripiedi, eccetera,  tutte cose che non ho),  a     Grimmenstein  lo  si può avere in prestito,  nel "Wiener Wald" bisogna     depositare una forte cauzione che a Grimmenstein non  occorre,  e  poi     Grimmenstein è più in alto,  eccetera.  Ma del resto non parto ancora.     Una settimana intera sono stato piuttosto male (un  po'  di  febbre  e     tale difficoltà di respiro che avevo paura ad alzarmi da tavola, anche     molta tosse), ma sembra che siano state soltanto le conseguenze di una     lunga  passeggiata  durante  la  quale ho parlato un poco,  adesso sto     meglio sicché il sanatorio è passato di nuovo in seconda linea.     Ora ho qui i fascicoli illustrativi:  nel  "Wiener  Wald"  si  ha  una     camera  a  mezzogiorno  con  balcone  soltanto da 380 corone in su,  a     Grimmenstein la camera più cara costa  360  corone.  La  differenza  è     molto  grande,  tanto  sono  orrendamente  cari  i due prezzi.  Si sa,     bisogna pagare la comodità delle iniezioni, le iniezioni stesse poi si     pagano a parte. Andrei volentieri in campagna,  ma preferirei rimanere     a Praga e imparare un mestiere,  la cosa che meno mi garba è andare in     un sanatorio. Che ci vado a fare? Ad essere preso fra le ginocchia dal     primario e ad ingoiare il boccone di carne che con le dita odoranti di     acido fenico mi caccia in bocca e mi fa poi scorrere giù per la gola.

    Sono stato due ore coricato sul divano e credo di non aver pensato  ad     altro che a te.

    Tu dimentichi,  Milena,  che stiamo l'uno accanto all'altra a guardare     per terra quell'essere che sono io, ma io che sto a guardare sono poi,     è vero, privo dell'essere.
    D'altro canto anche l'autunno si fa giuoco di me,  ora provo un  caldo     sospetto,  ora  un freddo sospetto,  ma non sto a badare,  non sarà un     guaio.  Difatto però ho già pensato di passare da Vienna,  ma soltanto     perché  i  polmoni sono effettivamente peggiorati dall'estate in qua -     ed è ben naturale - e se parlo per via incontro difficoltà,  e ciò  mi     porta conseguenze spiacevoli. Se proprio devo uscire da questa camera,     vorrei buttarmi al più presto sulla sedia a sdraio a Grimmenstein. Del     resto, proprio il viaggio mi farà forse bene, e anche l'aria di Vienna     che mi era parsa la vera aria vitale.
    Il  "Wiener  Wald"  sarà  magari  più  vicino,  ma la differenza delle     distanze non può essere grande.  Il sanatorio non è a Lebbersdorf,  ma     più  avanti,  e  dalla  stazione  al  sanatorio c'è ancora mezz'ora di     carrozza.   Se  dunque  da  questo  sanatorio  avrei  potuto   partire     senz'altro  per Baden - certo,  sarebbe contro le prescrizioni - posso     andare altrettanto bene da Grimmenstein a Wiener Neustadt che  né  per     te né per me sarebbe una gran differenza.

    Come va, Milena, che ancora non provi paura o ribrezzo di me, o simili     sentimenti?  In  quali  abissi  si  addentrano la tua serietà e la tua     forza!
    Sto leggendo un libro cinese,  "bub ck   kniha"  (102),  perciò  mi  è     venuto  questo  pensiero,  tratta soltanto della morte.  Uno giace sul     letto di morte e,  nell'indipendenza che la vicinanza della morte  gli     conferisce,  esclama:  "Ho  passato la mia vita a difendermi contro il     piacere e a portarla a termine".  Un allievo deride poi un maestro che     parla soltanto di morte: "Continuamente parli della morte,  eppure non     muori". "Eppure morirò.  Vedi,  sto recitando il mio ultimo canto.  Il     canto  di  uno  è  più lungo,  il canto dell'altro è più breve,  ma la     differenza non può essere che di qualche parola."
    Ciò è esatto e non è giusto sorridere dell'eroe che,  ferito a  morte,     giace  sul  palcoscenico e canta un'aria.  Noi giaciamo e cantiamo per     anni.
    Ho letto anche "Spiegelmensch"  (103).  Quale  abbondanza  di  energia     vitale!  Solo in un punto è un po' intaccato dal male,  ma in compenso     tutto il resto è  tanto  più  esuberante,  e  persino  la  malattia  è     esuberante. Ho terminato di leggerlo avidamente in un solo pomeriggio.

    Che  cosa  c'è  ora che ti tormenta "costì"?  In altri tempi ho sempre     pensato di essere impotente di fronte a  ciò  ma  soltanto  adesso  lo     sono. E anche tu sei così spesso ammalata.

    Ora  sono stato anche dal direttore che mi aveva fatto chiamare.  Devi     sapere che, la settimana scorsa,  contro la mia volontà Ottla è andata     da  lui,  contro  la  mia  volontà  sono  stato  visitato  dal  medico     dell'Istituto, contro la mia volontà mi manderanno in licenza.

    Perdona,  Milena,   ultimamente  ho  scritto  forse  in  forma  troppo     abbreviata,  irritato dalla prenotazione della camera (che,  come si è     visto ora, non era stata neanche fatta). Io voglio, sì,  andare a Gr.,     ma  ci  sono  ancora piccoli ritardi che un uomo mediocremente robusto     (certo,  chi fosse tale non andrebbe a Gr.) avrebbe  eliminato  da  un     pezzo,  ma  io  no.  Sono anche venuto a sapere che,  contrariamente a     quanto afferma il sanatorio,  devo procurarmi un permesso di soggiorno     dalla prefettura,  che probabilmente sarà concesso,  ma certamente non     prima che io ne abbia spedito la richiesta.
    Passo ora gli interi pomeriggi per le vie e mi tuffo nell'odio  contro     gli  ebrei.  Un  giorno  li  ho  sentiti chiamare "'prashivé plemeno'"     (104).  Ora non sarebbe ovvio andarsene da un luogo dove si  è  odiati     così  (per  farlo non è affatto necessario il sionismo o il sentimento     di appartenenza al popolo)?  L'eroismo del rimanere  a  ogni  costo  è     quello  delle blatte che pure non si possono estirpare dalla stanza da     bagno.
    In questo momento ho  guardato  dalla  finestra:  polizia  a  cavallo,     gendarmeria  pronta all'attacco alla baionetta,  folla che si disperde     gridando e quassù,  alla finestra,  l'odiosa vergogna di vivere sempre     al riparo.

    Tutto ciò era scritto già da un poco,  ma non feci in tempo a spedire,     tanto ero chiuso in me stesso,  e d'altronde conosco  un  solo  motivo     perché non scrivi.
    Ho  già  spedito  la  richiesta  alla  prefettura;  appena  arriva  la     concessione,  tutto il resto (prenotazione della camera e  passaporto)     si svolgerà rapidamente e poi verrò. Mia sorella vuol venire anche lei     a Vienna,  può darsi che venga, vorrebbe restarvi uno o due giorni per     concedersi in fretta ancora un viaggetto prima che venga il bambino il     quale è già nel quarto mese.
    Ehrenstein (105), be', da quanto ti ha scritto capisco che ha la vista     più acuta di quanto non pensassi. Perciò sarei ben disposto a rivedere     l'impressione che avevo riportato di lui,  ma siccome non lo posso più     vedere,  non è possibile.  Presso di lui mi sono sentito bene - è vero     che fu poco più di un quarto  d'ora  -  niente  affatto  estraneo,  ma     neanche  in  una  regione  più  elevata;  era quel sentirmi bene e non     sentirmi estraneo che provavo,  per esempio,  a scuola accanto al  mio     compagno di banco. Gli volevo bene, lo sentivo indispensabile, eravamo     alleati contro i terrori della scuola,  davanti a lui fingevo meno che     davanti a qualunque altro,  ma in fondo era un'unione assai  meschina.     Similmente mi accadde con E.,  non sentii un passaggio di forze da lui
    a me. E' animato dalle più buone intenzioni, parla bene, si dà un gran     da fare,  ma se ad  ogni  cantonata  stesse  un  tale  incoraggiatore,     questi,  messi insieme, non affretterebbero il giorno del Giudizio, ma     renderebbero insopportabili i giorni presenti.  Conosci "Tanja" (106),     il  colloquio  fra il pop e Tanja?  E',  sia pure contro le intenzioni     dell'autore,  un modello di siffatti aiuti senza  aiuto,  Tanja  muore     evidentemente sotto l'incubo di tale conforto.
    Certo  E.  possiede  molta  forza;  ciò  che  ci lesse quella sera era     veramente bello (anche qui però eccettuando certi passi del  libro  su     Kraus) (107). E, ripeto, ha anche la vista buona.
    Del resto,  E. è diventato quasi grasso, in ogni caso massiccio (direi     anche bello: come fai a non ammetterlo?) e dei magri non sa molto  più     se  non che sono magri.  Nella maggior parte dei casi questa nozione è     sufficiente, per esempio nel caso mio.

    Le riviste hanno subito  un  ritardo,  all'occasione  te  ne  dirò  il     perché, ma arriveranno.

    No,  Milena,  non  abbiamo  in  nessun  caso la possibilità comune che     credevamo di avere a Vienna;  non l'avevamo neanche allora,  io  avevo     guardato "oltre la mia siepe",  mi ci ero aggrappato in alto, poi sono     ricaduto all'indietro con le  mani  straziate.  Certo  esistono  anche     altre possibilità comuni,  il mondo è pieno di possibilità,  ma io non     le conosco ancora. Mi hai fatto piacere mandandomi l'orario. Lo studio     come una carta topografica. Ho almeno una certezza. Ma sicuramente non     verrò prima di 15 giorni,  probabilmente più in là.  Ho ancora qualche     ostacolo  in  ufficio:  il  sanatorio,  che  prima  mi  aveva  scritto     gentilmente,  non risponde ora a una mia domanda vegetariana;  d'altro     canto per questo viaggio mi sollevo,  direi quasi, come un popolo, qua     e là manca ogni tanto la  forza  di  decidere,  qualcuno  deve  essere     ancora  incoraggiato,  alla fine tutti aspettano e non possono partire     perché c'è un bimbo che piange. Ho anche quasi paura del viaggio;  chi
    per  esempio  mi  sopporterà in un albergo se,  come ieri (alle 9 e un     quarto ero già a letto,  come non  mi  capitava  da,  anni),  tossisco     ininterrottamente dalle 9 e un quarto alle 11, poi mi addormento, alle     12 nel girarmi da sinistra a destra riprendo a tossire e tossisco fino     al  tocco.  Non oserei assolutamente viaggiare ormai in carrozza-letto     come facevo l'anno scorso senza alcuna difficoltà.

    Non è proprio così,  Milena.  Tu conosci da Merano colui  che  ora  ti     scrive.  Poi  siamo stati una persona sola e allora non era il caso di     parlare di conoscersi, e poi siamo stati di nuovo scissi.
    A questo proposito vorrei dire ancora qualche cosa,  ma  non  mi  esce     dalla gola strozzata.

    Anche  a  me  accade  così.  Penso  sovente:  questa  cosa  te la devo     scrivere,  ma poi mi trovo a non potertela scrivere.  Può darsi che il     sergente  Perkins  mi tenga la mano e solo quando la lascia andare per     un istante posso scrivere rapidamente una parola di nascosto.     Non ti pare che indichi una somiglianza di  gusto  il  fatto  che  hai     tradotto proprio questo passo?  Sì, la tortura conta molto per me, non     mi occupo d'altro che di essere torturato e di torturare. Perché?  Per     una  ragione  simile  a  quella  di  Perkins e in simile modo privo di     riflessione,  macchinalmente e tradizionalmente: cioè,  per apprendere     la  parola  dannata  dalle  labbra  dannate.  La  stoltezza  che  vi è     contenuta (il riconoscere la stoltezza a nulla  giova)  l'ho  espressa     una  volta  così:  "L'animale strappa la frusta al padrone e frusta se     stesso per diventar padrone e non sa che ciò è soltanto una  fantasia,     prodotta da un nuovo nodo nella frusta del padrone".
    Naturalmente,  meschino è anche il torturare.  Quando il nodo gordiano     non voleva sciogliersi, Alessandro non lo ha mica torturato.

    Del resto,  pare che qui ci  sia  anche  una  tradizione  ebraica.  Il
    "Venkov"  (108)  che  ora  scrive molto contro gli ebrei ha dimostrato     recentemente,  in un articolo di  fondo,  che  gli  ebrei  rovinano  e     disgregano  ogni  cosa,  avrebbero  rovinato  persino il movimento dei     flagellanti nel Medio Evo. Purtroppo, non si davano altri particolari,     si citava soltanto un'opera inglese.  Io  sono  troppo  "pesante"  per     andare  nella  biblioteca  universitaria,  ma mi piacerebbe sapere che     cosa abbiano avuto a che vedere gli ebrei  con  quel  movimento  tanto     lontano  da  loro  (nel  Medio Evo).  Può darsi che tu conosca qualche     erudito che lo sa.

    Ti  ho  mandato  i  libri.   Dichiaro   espressamente   che   non   mi     indispettisco,  che  anzi  è  l'unica  cosa  un po' ragionevole che mi     riesce di fare  da  parecchio  tempo.  Aliesh  (109)  è  esaurito,  si     ripubblicherà soltanto a Natale,  in sua vece ho preso Cechov. E' vero     che "Babitchka" è stampata in modo quasi illeggibile,  se tu  l'avessi     vista,  forse  non  l'avresti  neanche  acquistata.  Ma  io  ne  avevo     l'incarico...

    Hai letto qualche particolare sull'incendio  del  sanatorio?  In  ogni     caso  Grimmenstein  sarà ora strapieno e alzerà la cresta.  Come potrà     venirvi H. a trovarmi? Non mi hai scritto che è a Merano?

    Il tuo desiderio che io non m'incontri con tuo marito non  può  essere     più  grande  del  mio.  Ma  se  non viene addirittura da me,  cosa che     probabilmente non farà, è quasi escluso che possiamo incontrarci.     Il viaggio subisce  ancora  qualche  ritardo  perché  ho  da  fare  in     ufficio.  Come  vedi,  non  mi  vergogno di scrivere che "ho da fare".     Naturalmente potrebbe essere un lavoro come un  altro;  per  me  è  un     dormiveglia  così  vicino  alla  morte  come le è vicino il sonno.  Il     "Venkov" ha ben ragione. Emigrare, Milena, emigrare!

    Tu dici, Milena, che non comprendi.  Cerca di comprenderlo chiamandolo     malattia.  E' uno dei tanti fenomeni morbosi che la psicoanalisi crede
    di aver scoperti.  Io non lo chiamo malattia e nella parte terapeutica     della  psicoanalisi  scorgo un errore impotente.  Tutte queste pretese     malattie,  per quanto siano tristi  a  vedersi,  sono  atti  di  fede,     ancoraggi dell'uomo quando è alle strette, in qualche terreno materno;     così  infatti  anche la psicoanalisi trova come primo fondamento delle     religioni soltanto ciò che,  secondo la sua opinione,  costituisce  la     base delle "malattie" dell'individuo;  certo oggi,  qui da noi,  manca     per lo più  la  comunità  religiosa,  le  sette  sono  innumerevoli  e     limitate  a  persone  singole,  ma  può  anche  darsi,  che la cosa si     presenti così soltanto allo sguardo preoccupato del presente.     Quegli ancoraggi però che si fissano realmente al terreno non sono  un     possesso singolo e mutabile dell'uomo,  ma hanno il loro modello nella     natura di lui,  e in seguito continuano ancora a formare la sua natura     (anche il suo corpo) in questa direzione. E qui si pretende di Sanare?
    Nel mio caso si possono pensare tre circoli, uno interno A, poi B, poi     C.  Il  nocciolo  A  spiega  a B perché quest'uomo debba tormentarsi e     diffidare di sé,  perché debba rinunciare (non  è  una  rinuncia,  che     sarebbe molto grave,  è soltanto una costrizione a rinunciare), perché     non gli sia lecito vivere.  (In questo senso  Diogene  non  era  forse     gravemente  malato?  Chi  di  noi  non  sarebbe  stato felice sotto lo     sguardo di Alessandro che finalmente si  posava  su  di  lui?  Diogene     invece  lo  pregò  disperatamente di scostarsi dal sole,  da quel sole     tremendo,  greco,  invariabilmente bruciante,  tale da far  impazzire.     Quella botte era piena di fantasmi.) A C,  l'uomo che agisce,  nulla è     più spiegato,  B si limita  a  comandargli.  C  agisce  sotto  la  più     rigorosa pressione,  nel sudore dell'angoscia (esiste forse altrove il     sudore dell'angoscia che emana  dalla  fronte,  dalla  guancia,  dalla     tempia,  dalla radice dei capelli, insomma da tutto il cranio? Per C è     così).  C dunque agisce più per paura che per comprensione,  confida e     crede  che  A  abbia  spiegato  ogni  cosa  a  B  e  B  abbia compreso     esattamente e propagato ogni cosa.

    Io non sono poco sincero, Milena (benché abbia l'impressione che prima     la mia scrittura fosse più aperta e chiara, non è vero?), sono sincero     come lo permette il "regolamento carcerario" ed è moltissimo,  e anche     il  "regolamento  carcerario" diventa sempre più libero.  Ma non posso     presentarmi "con questo argomento",  è  impossibile  presentarsi  "con     questo  argomento".   Possiedo  una  particolarità  che  mi  distingue     moltissimo da tutti i miei conoscenti, non nell'essenza, ma nel grado.     Noi  due  conosciamo  abbastanza  esempi   caratteristici   di   ebrei     occidentali,  io  sono,  per  quanto io sappia,  il più ebreo e il più     occidentale  tra  loro,  la  qual  cosa,  espressa  per  esagerazione,     significa che non ho mai un momento di calma,  che nulla mi è donato e     tutto deve essere acquistato,  non solo il presente e  l'avvenire,  ma     anche  il  passato;  ciò  che  ad ogni uomo è dato,  anche questo deve     essere acquistato ed è forse la fatica più grave;  se la terra gira  a     destra  -  non  so  se  lo  faccia  -  io dovrei girare a sinistra per     ricuperare il passato.  Non ho però la minima energia per tutti questi     obblighi, non posso portare il mondo sulle spalle, vi reggo a malapena     il  cappotto d'inverno.  Questa mancanza di energia però non è cosa da     compiangere in modo assoluto;  quali energie sarebbero sufficienti per     questi compiti?  Ogni tentativo di volersi imporre con energie proprie     è  follia  ed  è  ripagato  con  la  follia.   Perciò  è   impossibile
    "presentarsi" con tali argomenti, come scrivi tu. Io non posso per mia     iniziativa percorrere la via che vorrei,  anzi non posso nemmeno voler     percorrerla. Posso soltanto star quieto, non posso volere nient'altro,     non voglio neanche altro.

    E' all'incirca come quando uno, prima di ogni passeggiata, dovesse non     solo lavarsi,  pettinarsi eccetera - già  questo  costa  fatica  -  ma     siccome  prima  di  ogni  passeggiata gli mancano sempre tutte le cose     necessarie,  dovesse  anche  cucirsi  il  vestito,  farsi  le  scarpe,     fabbricarsi il cappello, tagliare il bastone e così via. S'intende che     tutto  ciò  non  può riuscirgli facilmente,  potrà forse resistere per     alcune vie,  ma giunto sul Graben (110),  per esempio,  tutto  gli  si     sfascia   all'improvviso  ed  egli  si  trova  nudo  fra  brandelli  e     frammenti.  Quale pena  dover  allora  ritornare  all'Altst„dter  Ring     (111)!  E infine s'imbatte magari in una folla che nella Eisengasse dà     la caccia agli ebrei.
    Non fraintendermi,  Milena,  non dico che  costui  è  perduto,  niente     affatto,  ma è perduto se si reca al Graben, là fa scempio di sé e del     mondo.

    La tua ultima lettera l'ho ricevuta lunedì e  ti  ho  scritto,  lunedì     stesso.

    Tuo  marito avrebbe detto che vuol trasferirsi a Parigi.  E' forse una     novità entro il vecchio progetto?

    Oggi sono arrivate due lettere. S'intende che hai ragione, Milena, per     la vergogna delle mie lettere quasi non ho il coraggio  di  aprire  le     tue  risposte.  Le mie lettere però sono vere o almeno sulla via della     verità, che cosa farei mai davanti alle tue risposte se le mie lettere     fossero  mentite?   Facile  la  risposta:  impazzirei.   Questo  esser     veritiero  non  è  dunque un grandissimo merito,  è anzi ben poco,  io     cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile,  di  spiegare     qualcosa  di  inspiegabile,  di parlare di ciò che ho nelle ossa e che     soltanto in queste ossa può essere vissuto. In fondo non è forse altro     che quella paura,  della quale si è  parlato  tante  volte,  ma  paura     estesa  a  tutte  le cose,  paura delle cose più grandi come delle più     piccole, paura, convulsa paura di pronunciare una parola.  E' vero che     questa paura non è forse soltanto paura, ma anche nostalgia di qualche     cosa, e ciò è più di tutto ciò che suscita paura.
    "'O mnie rozbil'" (112),  ciò è qualcosa di perfettamente assurdo.  Io     solo ho colpa e questa consiste in troppo poca verità  da  parte  mia,     ancora  troppo  poca  verità,  ancora menzogna nella maggior parte dei     casi, menzogna per paura di me e per paura degli uomini! Questa brocca     era già infranta molto tempo prima che andasse alla fontana.     E ora chiudo le labbra per rimanere soltanto un poco nella verità.  La     menzogna è orribile,  non esistono peggiori torture spirituali. Perciò     ti prego: lascia ch'io taccia, in lettere adesso, in parole a Vienna.     Tu scrivi: "o mnie rozbil",  ma vedo soltanto che  ti  tormenti,  che,     come scrivi, trovi pace soltanto nelle vie, mentre io sto qui in veste     da camera e pantofole,  nella stanza riscaldata, tranquillo quel tanto     che mi concede la mia "molla d'orologio" (perché devo ben "indicare il     tempo")...

    Potrò segnalare il giorno della mia partenza solo quando mi arriva  il     permesso  di  soggiorno.  Per  una  permanenza  superiore a tre giorni     occorre ora un permesso particolare  della  prefettura.  Ne  ho  fatto     richiesta una settimana fa.

    "O  mnie  rozbil",  ancora ci ripenso,  è altrettanto inesatto come il     pensiero del possibile contrario.
    Ciò non è un difetto mio né un difetto degli uomini.  Il mio  posto  è     precisamente nella quiete più quieta, così va bene per me.

    Ho ritagliato il racconto apposta per te.  Leviné (113) venne fucilato     a Monaco, non è vero?

    Oggi è giovedì. Fino a martedì ero sinceramente deciso di andare a Gr.     Talvolta pensandoci sentivo,  è vero,  una minaccia interiore,  notavo     altresì  che  da  questa  dipendeva  in  parte  quel  procrastinare il     viaggio,  ma pensavo di poter facilmente superare la cosa.  Martedì  a     mezzogiorno  venni  a sapere che non è necessario aspettare a Praga il     permesso di soggiorno,  che invece lo si ottiene molto probabilmente a     Vienna.  Con  ciò  dunque  avevo  via  libera.  Mi  lambiccai tutto un     pomeriggio sul divano,  la sera ti scrissi  una  lettera,  ma  non  la
    spedii  né  credevo  di  poter superare lo scoglio e tutta la notte mi     torsi addirittura dai dolori senza poter dormire.  Quei due dentro  di     me,  colui che vuol partire e colui che ha paura di partire,  entrambi     parti di me stesso,  entrambi probabilmente furfanti,  si combattevano     l'un l'altro. La mattina mi alzai come nei miei periodi peggiori.     Non ho la forza di partire; l'idea che mi troverei davanti a te non la     posso  sopportare  in  anticipo,  non  sopporto la pressione dentro il     cervello.
    Già la tua lettera è un'irresistibile illimitata delusione  per  colpa     mia  e  ora  si  aggiunge  anche questa.  Tu scrivi che non hai alcuna     speranza,  ma hai la speranza di poterti staccare interamente  da  me.     Non  posso far capire né a te né a nessuno ciò che sento.  Come potrei     far capire perché sia così?  Non riesco a farlo capire  nemmeno  a  me     stesso.  Ma  questa non è neanche la cosa più importante,  la cosa più     importante è evidente: nella cerchia intorno a me è impossibile vivere     umanamente; tu lo vedi, e ancora non ci vuoi credere?


    Sabato sera.

    Non ho ancora ricevuto la lettera gialla, la respingerò senza aprirla.     Se non dovesse essere un bene cessare ora di scriverci, dovrei proprio     ingannarmi di grosso. Ma io, Milena, non m'inganno.
    Non voglio parlare di te,  non perché non sia affar mio,  è affar mio,     ma soltanto non ne voglio parlare.
    Dunque dirò soltanto di me: ciò che tu sei per me,  Milena,  per me al     di là di tutto il mondo in cui viviamo,  non è  detto  nei  quotidiani     brandelli di carta che ti ho scritto.  Queste lettere, così come sono,     non servono che a torturare e, se non torturano,  è anche peggio.  Non     servono  a niente se non a produrre una giornata di Gmund,  a produrre     malintesi, vergogna,  quasi imperitura vergogna.  Voglio vederti forte     come  la  prima volta per la strada,  ma le lettere distraggono più di
    tutta la L.-strasse col suo rumore.
    Ma ciò non è  neanche  decisivo,  decisiva  è  la  mia  incapacità  di     arrivare  al di là delle lettere,  incapacità di fronte a te e a me la     quale aumenta con le lettere - mille lettere tue e mille desideri miei     non lo potranno confutare - e decisiva è (forse in  seguito  a  questa     incapacità,  ma  qui  tutti  i  motivi  stanno nelle tenebre) la "voce     irresistibilmente forte,  come dire la voce tua" che mi esorta a  star     zitto.
    E  ora tutto ciò che ti riguarda non è ancor detto,  benché appaia per     lo più nelle tue lettere  (fors'anche  nella  gialla  o,  meglio,  nel     telegramma  col  quale  chiedi  di  ritorno  la  lettera,  giustamente     beninteso),  spesso anche nei passi che  io  temo  e  scanso  come  il     diavolo l'acqua santa.

    Strano,  anch'io  volevo  telegrafarti,  agitai  a lungo questa idea a     letto nel pomeriggio,  sul Belvedere la sera,  ma si trattava soltanto     di  queste  parole: "prego rispondere espressamente e affermativamente     al passo sottolineato nell'ultima lettera",  ma alla fine mi parve che     contenessero una odiosa e non motivata diffidenza, e non ho spedito il     telegramma.

    Così  dunque,  senza  fare  nient'altro,  sono  stato davanti a questa     lettera fino alla una e mezza di notte,  l'ho guardata e attraverso la     lettera ho guardato te.  Certe volte, non in sogno, ho questa visione:
    il tuo viso è  nascosto  dai  capelli,  io  riesco  a  dividerli  e  a     respingerli  a  destra  e  a  sinistra,  il  tuo  volto mi appare,  ti     accarezzo la fronte e le tempie e tengo il tuo viso fra le mani. (a)

    (a) [Sul margine a destra].  Se andrò in un sanatorio,  ti  avvertirò,     naturalmente.


    Lunedì.

    Volevo  stracciare  questa  lettera,  non spedirla,  non rispondere al     telegramma,  i telegrammi sono tanto  ambigui,  ma  ora  sono  qui  la     cartolina e la lettera,  questa cartolina, questa lettera. Ma anche di     fronte a queste,  Milena,  anche se la lingua che vuol parlare dovesse     esser morsa... come posso credere che tu ora abbia bisogno di lettere,     se,  come  hai  detto spesso quasi inconsciamente,  non hai bisogno di     altro  che  di  tranquillità?  Queste  lettere  invece  sono  soltanto     tormento,  "vengono  dal  tormento,  inguaribile,  procurano  soltanto     tormento,  inguaribile";  dove si andrà a finire - e magari rincarando     ancora  -  questo  inverno?  L'unico  mezzo per vivere,  qui e costì è     tacere. Con tristezza, sta bene, e che importa? Ciò rende il sonno più     infantile e profondo.  Ma il  tormento,  il  guidare  cioè  un  aratro     attraverso il sonno - e attraverso la giornata non è sopportabile.


    Mercoledì.

    Non   c'è  alcuna  legge  che  mi  vieti  di  scriverti  ancora  e  di     ringraziarti di questa lettera nella quale leggo  forse  la  cosa  più     bella che potevi scrivermi, le parole: "So che mi...".
    Del  resto,  sei  già  da  molto  tempo  d'accordo  con me che ora non     dobbiamo scriverci più;  se l'ho detto io è stato  soltanto  un  caso,     ugualmente  avresti  potuto  dirlo tu.  E poiché siamo d'accordo,  non     occorre spiegare perché sarà bene non scriverci.
    Doloroso è soltanto che  allora  (da  adesso  in  poi  non  sarai  più     obbligata  a  informarti  alla posta) non avrò nessuna,  quasi nessuna     possibilità di scriverti o soltanto quella di mandarti  una  cartolina     in  bianco  per  avvertirti  che alla posta c'è una lettera.  "Tu devi     scrivermi ogni qualvolta sia necessario, ma ciò va da sé".
    Con V.  mi sono comportato molto male,  non c'è alcun dubbio,  ma  non     così  male  come  ti  è sembrato al primo spavento.  Anzittutto non mi     presentai da postulante e meno ancora a nome tuo. Mi presentai come un     forestiero che ti conosce bene,  che ha qualche esperienza della  vita     viennese e per giunta aveva ricevuto due malinconiche lettere da parte     tua.
    Non prendo commiato. Non è un commiato, a meno che la forza di gravità     che sta in agguato mi trascini interamente al fondo.  Ma come potrebbe     farlo se tu sei viva?


    Cara signora Milena (114),     è meglio,  credo,  non parlare molto della copertura alle spalle e  di     ciò  che  vi  si  connette,  come,  per esempio,  non si parla di alto     tradimento  in  tempo  di  guerra.   Sono  cose  che  non  si  possono     comprendere  appieno,  che  alla  fine si possono soltanto indovinare,     cose per le quali si è soltanto  "popolo".  Si  esercita  un  influsso     sugli  avvenimenti,  poiché senza popolo non si fa la guerra,  e se ne     ricava il diritto di interloquire, ma in realtà le cose sono giudicate     e decise  soltanto  nella  infinita  gerarchia  delle  istanze.  E  se     talvolta  s'influisce  realmente  sugli  avvenimenti  con  la  propria     parola,   ne  deriverà  soltanto  danno  poiché  queste  parole   sono     incompetenti,  sconsiderate,  pronunciate come nel sonno, e il mondo è     tutto pieno di spie che stanno in ascolto. La cosa migliore, in questo     riguardo,   è  un  carattere  calmo,   dignitoso,   insensibile   alle     provocazioni. Qui, infatti, tutto è provocazione, persino l'erba sulla     quale   Lei   si   siede   in   riva  al  lungo  canale  (da  perfetta     irresponsabile, del resto, in un momento in cui io, accanto alla stufa     accesa, in letto, col termoforo,  con due coperte e col piumino,  temo     di  prendere un raffreddore).  In fondo possiamo soltanto giudicare in     che modo l'aspetto esteriore agisca sul mondo e qui,  essendo  malato,     sono  in  vantaggio  di  fronte  alle  Sue,   se  vogliamo,  terribili     passeggiate. Se infatti parlo della malattia in quel senso, nessuno mi     crede ed effettivamente non è che una celia.
    Incomincerò  molto  presto  a  leggere  "Donadieu"  ma,   se   dovessi     rimandarLe  il libro prima di leggerlo,  so che cosa significa codesta     nostalgia e so che a chi ci trattiene un libro così si serba  rancore.     Io,  per  esempio,  ero prevenuto contro alcune persone perché,  senza     poterne dare le prove,  sospettavo che ognuna di loro  avesse  la  mia     copia  dell'"Estate  di San Martino" (115) e il figlio di Oskar Baum è     ritornato a casa in  tutta  fretta  da  una  scuola  forestale  presso     Francoforte,   soprattutto   perché   non   aveva  là  i  suoi  libri,     specialmente il volume preferito "Perticone E C" di Kipling che  credo     abbia letto già 75 volte.  Se la "Donadieu" è nelle stesse condizioni,     la rimando, ma la leggerei volentieri.
    Se avessi le appendici,  forse non leggerei gli  articoli  sulla  moda     (dove  sono quelli di domenica?).  Se Lei mi indicasse sempre la data,     mi farebbe un grande piacere.  Andrò a prendere  il  "Diavolo"  appena     potrò uscire, per ora ho ancora dolori.
    Georg Kaiser - conosco poco di lui e non ho mai desiderato altro, vero     è  che  non  ho  visto ancora nulla a teatro.  Due anni fa mi ha fatto     molta impressione il suo processo,  ne lessi la  relazione  sui  Monti     Tatra,   specialmente   la  grande  apologia  nella  quale  dichiarava     indubitabile il suo diritto di appropriarsi cose altrui, paragonava il     suo posto nella storia tedesca a quello di Lutero e,  per il  caso  di     una  condanna,   chiedeva  che  le  bandiere  in  Germania  fossero  a     mezz'asta. Qui accanto al mio letto parlò soprattutto del suo maggiore     (ha tre figli),  un ragazzo di dieci anni che egli non manda a scuola,     ma  non  istruisce  nemmeno,  che  pertanto  non  sa ancora leggere né     scrivere,  ma sa invece disegnare bene e vagabondare tutto  il  giorno     nel  bosco  e sul lago (abitano una villa solitaria a Grunhaide presso     Berlino).
    Quando dissi a Kaiser che si accomiatava: "In ogni caso è  una  grande     impresa"  rispose:  "Ed  è  anche  l'unica,  il  resto  è  più  o meno     robaccia".  Strano e non del tutto piacevole vederselo  davanti  così,     per metà commerciante berlinese,  gaio,  inquieto, per metà matto. Non     sembra interamente scrollato, ma in parte è troppo forte, tanto è vero     che,  a sentir lui,  sono stati i tropici (da  giovane  era  impiegato     nell'America del Sud;  ritornò ammalato, stette otto anni a casa a far     nulla su un divano e incominciò poi a rivivere in una casa di cura)  a     distruggerlo e niente altro.  Anche il suo volto esprime questa unione     di due metà: un volto piatto con occhi azzurri, incredibilmente vuoti,     che però come altre parti del volto mandano guizzi rapidissimi di  qua     e di là, mentre altre parti sono immobili, quasi paralizzate. Max, del     resto,  ha di lui un'impressione molto diversa, lo considera capace di     animare e perciò probabilmente, nella sua cortesia, lo spinse a salire     da me.  E ora occupa addirittura tutta la lettera.  Avrei voluto  dire     qualcos'altro ancora. La prossima volta.


    Cara signora Milena,     devo  confessare  che  una volta ho invidiato molto un tale perché era     amato,  in buone mani,  protetto dall'intelligenza e  dall'energia,  e     giaceva  tranquillo sotto una coltre di fiori.  Io sono sempre portato     all'invidia.
    Dalla "Tribuna",  che non ho letto sempre ma alcune  volte,  credo  di     poter dedurre che Lei ha passato bene l'estate. Una volta la ricevetti     alla  stazione  di Plan ,  la moglie di un villeggiante discorreva con     un'altra e teneva la rivista dietro le spalle, proprio di fronte a me,     e mia sorella se la fece poi dare per me.  Se non erro,  Lei vi  aveva     scritto  un  articolo  molto  spiritoso  contro  le  stazioni balneari     tedesche.  Un'altra volta scrisse della felicità di  passare  l'estate     lontano dalla ferrovia, anche quello era un bell'articolo: o era forse     lo  stesso?  Non  mi pare.  Di una grandiosa superiorità,  come sempre     quando Lei scrive nelle "N rodni Listy" e si  lascia  alle  spalle  la     scuola  (della  moda)  ebraica,  era l'articolo sulle vetrine.  Poi ha     tradotto l'articolo sui cuochi. Perché?  Strana quella zia,  una volta     scrive che bisogna affrancare le lettere come si deve,  un'altra volta     che non si deve buttar nulla dalla finestra, tutte cose incontestabili     e tuttavia battaglie senza speranza, ma qualche volta,  se si sta bene     attenti, le capita di dire cose care, buone e commoventi, soltanto non     dovrebbe odiare tanto i tedeschi,  i tedeschi sono meravigliosi e tali     rimangono. Conosce la poesia di Eichendorff: "O T„ler weit,  o H”hen!"     (O  larghe  valli,  o  alture!)  o  la poesia di Justinus Kerner sulla     segheria (116)? Se non le conosce, gliele trascriverò un giorno.     Di Plan  ci sarebbe qualcosa da dire,  ma  ormai  sono  cose  passate.     Ottla è stata molto cara con me,  benché oltre a me abbia anche un suo     bambino.  I miei polmoni,  almeno là fuori,  stavano abbastanza  bene,     qui,  dove  mi trovo già da due settimane,  non sono ancora andato dal     dottore.  Ma non posso essere molto grave se per esempio ho  potuto  -     santa  vanità!  -  spaccar  legna  all'aperto per un'ora e più,  senza     stancarmi, e ho potuto essere felice per qualche momento. Il resto, il     sonno e la relativa veglia erano peggiorati, qualche volta.     E  i  Suoi  polmoni,  quelle  creature  superbe,  forti,   tormentate,     incrollabili?
    Suo K.


    E' già tanto tempo che non Le scrivo,  signora Milena, e anche oggi Le     scrivo soltanto per caso. Veramente non dovrei neanche scusarmi se non     scrivo, Lei sa come odio le lettere. Tutta l'infelicità della mia vita     - e con ciò non voglio lagnarmi,  ma soltanto  fare  una  costatazione     universalmente  istruttiva  - proviene,  se vogliamo,  dalle lettere o     dalla possibilità di scrivere lettere.  Gli uomini non mi hanno  forse     mai  ingannato,  le  lettere invece sempre,  e precisamente non quelle     altrui,  ma  le  mie.   Nel  caso  mio  si  tratta  di  una  disgrazia     particolare,  della quale non voglio dire altro, ma nello stesso tempo     anche di una disgrazia generale.  La facilità  di  scriver  lettere  -     considerata  puramente  in  teoria  -  deve aver portato nel mondo uno     spaventevole scompiglio  delle  anime.  E'  infatti  un  contatto  con     fantasmi,  e  non  solo  col  fantasma del destinatario,  ma anche col     proprio  che  si  sviluppa  tra  le  mani  nella  lettera  che  stiamo     scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l'una conferma     l'altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. Come sarà nata mai     l'idea  che  gli uomini possono mettersi in contatto tra loro mediante     lettere?  A una creatura umana  distante  si  può  pensare  e  si  può     afferrare una creatura umana vicina,  tutto il resto sorpassa le forze     umane.  Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai  fantasmi     che   ciò   attendono   avidamente.   Baci   scritti  non  arrivano  a     destinazione,  ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il  tragitto.  Con     così  abbondante  alimento  questi  si  moltiplicano in modo inaudito.     L'umanità lo sente e li combatte; per cercar di eliminare l'azione dei     fantasmi tra uomo e uomo e per raggiungere il  contatto  naturale,  la     pace  delle  anime,  essa  ha  inventato  la  ferrovia,  l'automobile,     l'aeroplano, ma ciò non serve più, sono evidentemente invenzioni fatte     già durante il crollo;  la parte avversaria è molto più  calma  e  più     forte,  anche se l'umanità dopo la posta ha inventato il telegrafo, il     telefono, il telegrafo senza fili.  Gli spiriti non moriranno di fame,     ma noi periremo.
    Mi  meraviglio  che  Lei non abbia ancora scritto su questo argomento,     non già per impedire o raggiungere qualcosa con la pubblicazione,  ché     sarebbe  troppo tardi,  ma per mostrare almeno "a loro" che sono stati     riconosciuti.
    D'altro canto "essi" si possono  riconoscere  anche  dalle  eccezioni,     talvolta  infatti lasciano passare una lettera senza ostacoli e questa     arriva come una mano amichevole che buona  e  leggera  si  posa  nella     nostra.  Ebbene, anche ciò è probabilmente soltanto apparenza e questi     casi sono forse i più pericolosi,  casi dai quali  dobbiamo  guardarci     più  che  dagli  altri,  ma  se  è  un'illusione  essa  è in ogni caso     perfetta.
    Oggi mi è capitato qualche cosa di simile e questa è la  vera  ragione     perché  mi  è venuto in mente di scriverLe.  Da un amico che anche Lei     conosce ho ricevuto oggi una lettera (117);  da  molto  tempo  non  ci     scriviamo  ed  è  supremamente ragionevole.  Ciò si ricollega a quanto     sopra, che cioè le lettere sono un così meraviglioso antisonnifero. In     quale condizione arrivano!  Essiccate,  vuote e irritanti,  gioia  del     momento  con  un  lungo  strascico  di  dolore.  Mentre  le  leggiamo,     dimentichi i di noi stessi, quel pochino di sonno che abbiamo si alza,     vola via dalla finestra aperta e per molto tempo non  ritorna.  Perciò     dunque non ci scriviamo.  Ma penso a lui spesso, sia pure fugacemente.     Tutto il mio pensiero è troppo fugace.  Ieri sera  invece  ho  pensato     molto a lui per ore e ore;  ho impiegato le ore notturne a letto,  che     mi sono tanto preziose a causa della loro  ostilità,  per  ripetergli,     continuamente con le stesse parole,  in una lettera immaginaria alcune     comunicazioni  che  mi  sembravano  estremamente  importanti.  E  alla     mattina  giunse  davvero  una  sua lettera che per di più conteneva la     notizia che l'amico da un mese, o forse più esattamente un mese fa, ha     avuto l'impressione di  dover  venire  da  me,  notizia  che  concorda     stranamente  con cose da me vissute.  Questa faccenda della lettera mi     ha dato occasione di scriverne  una  e,  giacché  l'ho  scritta,  come     facevo  a non scrivere anche a Lei,  signora Milena,  alla quale forse     scrivo più che volentieri?  (in quanto si possa,  in genere,  scrivere     volentieri,  la  qual  cosa  però  è detta soltanto per i fantasmi che     assediano avidamente la mia scrivania). (118)

    Già da molto tempo non ho trovato nulla di Suo  nei  giornali,  tranne     gli articoli di moda che negli ultimi tempi,  salvo piccole eccezioni,     mi parvero tranquilli e  sereni,  specialmente  l'ultimo  articolo  di     primavera.  E'  vero  che  prima,  per tre settimane,  non ho letto la     "Tribuna" (cercherò tuttavia di procurarmela), ero a Spindelmuhle.

    Poi arrivò la Sua lettera.  Lo scrivere è ora una faccenda  singolare:
    Lei deve - quando mai non ha dovuto?  - aver pazienza.  Da anni non ho     più scritto a nessuno,  in questo punto ero come  morto,  mancanza  di     ogni bisogno di comunicazione, come se io non fossi di questo mondo ma     anche  di  nessun  altro;  era come se per tutti gli anni avessi fatto     soltanto di straforo ciò che era richiesto e  in  realtà  fossi  stato     soltanto  in  ascolto  per  sentire  se  ero  chiamato,  finché poi la     malattia mi chiamò dalla camera attigua e io vi entrai  e  sempre  più     fui  suo.  Ma  è  buio,  nella  camera,  e non si sa neanche se sia la     malattia.
    In ogni caso mi divenne molto difficile pensare e  scrivere,  talvolta     nello  scrivere  la  mano scorreva vuota sulla carta e così anche ora,     non  parliamo  del  pensare  (ammiro  sempre  stupefatto  la  rapidità     fulminea  del Suo pensiero,  il modo in cui si addensa una manciata di     periodi,  e vi cade il fulmine),  in ogni  caso  deve  aver  pazienza,     questa  gemma  si  apre  lentamente,  ed  è gemma soltanto perché così     chiamiamo ciò che è chiuso.

    Ho incominciato la "Donadieu",  ma per ora ne ho letto pochissimo,  mi     ci  addentro  ancora  poco,  anche  il poco che finora ho letto di lui     (119)  non  mi  ha  colpito  molto.  Si  loda  la  sua  ingenuità,  ma     l'ingenuità sta di casa in Germania e in Russia;  è caro, il nonno, ma     non ha la forza d'impedire che si legga senza badare a  lui.  La  cosa     più  bella  di ciò che ho letto finora (sono ancora a Lione) mi sembra     caratteristica  della  Francia,  non  di  Philippe,  un  riverbero  di     Flaubert, come ad esempio la gioia improvvisa all'angolo di una strada     (ricorda  il periodo?).  La traduzione sembra fatta da due traduttori,     ora è molto buona,  ora cattiva fino ad essere  incomprensibile.  (Una     nuova  traduzione  sarà  pubblicata da Wolff.) Comunque sia,  la leggo     molto volentieri, sono diventato un lettore passabile, ma molto lento.     In questo libro però mi è d'ostacolo la mia debolezza che mi fa  stare     molto  impacciato di fronte alle fanciulle,  a tal punto che non credo     alle fanciulle dello scrittore, perché non lo considero capace di aver     osato avvicinarsi a loro.  Come se,  per esempio,  lo scrittore avesse     fabbricato  una  bambola  e la chiamasse Donadieu per il solo scopo di     distrarre l'attenzione del lettore dalla Donadieu reale  che  è  tutta     diversa e altrove. E nonostante la loro grazia: vedo in questi giovani     anni delle fanciulle un certo schema rigido, come se ciò che è narrato     non fosse accaduto veramente, ma fosse accaduto soltanto ciò che verrà     dopo,  e  quello sia inventato in seguito,  come "ouverture",  secondo     leggi musicali,  e intonato alla realtà.  Ci sono  libri  dove  questo     sentimento perdura sino alla fine.
    Non  conosco  "Na velké cestie" (120).  Ma voglio molto bene a Cechov,     talvolta follemente.  Non conosco neanche Will von der Muhle e  niente     affatto Stevenson, se non come Suo beniamino.

    Le  manderò  "Franzi"  (121).  Ma certo non le piacerà,  salvo piccole     eccezioni.  Ciò si spiega con la mia teoria che gli scrittori  viventi     hanno coi loro libri un legame vivente.  Per il solo fatto di esistere     lottano pro o  contro  di  essi.  La  vera  vita  autonoma  del  libro     incomincia soltanto dopo la morte dell'uomo o meglio ancora,  un certo     tempo dopo la morte,  perché questi uomini zelanti lottano  in  favore     del  loro  libro  anche un poco oltre la morte.  Dopo però esso rimane     solitario e può fare assegnamento soltanto  sulla  forza  del  proprio     palpito.  Perciò  è  stato  molto  ragionevole  Meyerbeer quando volle     soccorrere questo palpito e lasciò un  legato  a  ciascuna  delle  sue     opere,  forse graduato secondo la fiducia che riponeva in esse.  Anche     qui ci sarebbe  altro  da  dire,  benché  forse  di  poca  importanza.     Applicandolo a Franzi significa che il libro dello scrittore vivente è     davvero la camera da letto in fondo alla sua abitazione, da baciare se     è da baciare,  orrendo in caso diverso.  Non credo che sia un giudizio     sul libro,  se dico che mi è caro o se Lei - ma forse non lo fa - dice     il contrario.

    Oggi  ho  letto un bel po' della "Donadieu",  ma non mi ci raccapezzo.
    (Oggi però non arrivo forse più alla spiegazione,  perché nella cucina
    qui  accanto  mia  sorella  s'intrattiene  con  la  cuoca,  io  potrei     disturbarla con un piccolo colpo  di  tosse,  ma  non  voglio,  questa     ragazza  -  l'abbiamo  soltanto  da  un  paio di giorni - una figliola     diciannovenne,  erculea,  asserisce di essere la creatura più infelice     del  mondo,  senza motivo,  è soltanto infelice perché è infelice e ha     bisogno del conforto di mia sorella  che,  da  sempre,  come  dice  il     babbo,   "preferisce   stare  con  la  serva".)  Qualunque  cosa  alla     superficie io debba dire contro il libro sarà ingiusta,  perché  tutte     le  obiezioni  provengono dal nocciolo,  e non dal nocciolo del libro.     Uno che ieri  abbia  ucciso  -  e  quando  mai  questo  ieri  potrebbe     diventare  un  avant'ieri?  -  non  può,  oggi,  tollerare racconti di     uccisioni. Questi sono per lui a un tempo penosi,  noiosi e irritanti.     La   solenne  mancanza  di  solennità,   la  preoccupata  mancanza  di     preoccupazione,  l'entusiastica ironia del libro,  nulla di tutto  ciò     posso tollerare. Se Raphael seduce la Donadieu, ciò è molto importante     per  lei,  ma  che  c'entra lo scrittore nella camera dello studente o     addirittura il quarto, il lettore,  finché la cameretta diventa l'aula     della  facoltà  di  medicina  o  di  psicologia?  Oltre a ciò il libro     contiene ben poco che non sia disperazione.
    Molte volte penso ancora al Suo articolo.  Stranamente infatti credo -     per  portare  i dialoghi inventati in un dialogo reale: mondo ebraico!     mondo ebraico! - che ci possono essere matrimoni i quali non risalgono     alla disperazione della solitudine,  e precisamente matrimoni conclusi     con  alta  coscienza,  e  credo  che in fondo anche l'angelo ci crede.     Questi contraenti  di  matrimonio  per  disperazione  -  che  cosa  ci     guadagnano?  Quando  si pone abbandono su abbandono,  non ne nasce mai     una patria,  ma una katorga.  Un abbandono si  rispecchia  nell'altro,     persino  nella  notte  più  buia  e  più  fonda.  E  quando si pone un     abbandono  accanto  a  una  sicurezza,  la  situazione  dell'abbandono     diventa  molto  peggiore  (a  meno  che sia un abbandono delicato,  da     fanciulla inconsapevole).  Contrarre matrimonio,  se lo definiamo  con     perfetto rigore nella premessa, significa piuttosto: essere sicuri.

    Ma  la  cosa  più  grave  in  questo  momento - nemmeno io me la sarei     aspettata - è che non posso  continuare  a  scrivere  queste  lettere,     nemmeno  queste lettere importanti.  Incomincia la malia dello scriver     lettere e sempre più mi distrugge le notti che già si distruggono  per     conto loro. Devo smettere, non posso più scrivere. Oh, la Sua insonnia     è diversa dalla mia. Per favore, non scriva più.


    [Cartolina. Dobrzichovice, timbro postale: 9. 5. 1923].

    Mille grazie dei saluti. In quanto a me sono venuto qua per un paio di     giorni,  a  Praga  non stavo più bene.  Ma non è ancora un viaggio,  è     soltanto un dibattersi con ali assoluta mente non idonee.
    K.


    [Cartolina. Dobrzichovice, timbro postale: 9. 5. 1923].

    Cara signora Milena,  avrà ricevuto la mia cartolina da Dobrzichovice.     Sono ancora qui,  fra due, tre giorni ritornerò a casa, è troppo caro,     troppa insonnia, e simuli, ma nel resto bello oltre misura.  In quanto     ad  altri  viaggi,  questo  mi  ha  reso  forse  un poco più capace di     viaggiare,  persino quando dovesse trattarsi di andare ancora mezz'ora     più lontano da Praga.  Sennonché pavento in primo luogo la spesa - qui     è così caro che sarebbe lecito passarvi  soltanto  gli  ultimi  giorni     prima  della  morte,  poi  non  rimane  più nulla - e in secondo luogo     pavento - in secondo luogo  -  paradiso  e  inferno.  Prescindendo  da     questi ho il mondo aperto davanti a me. Saluti cordiali dal Suo
    K.

    [Scritto  a matita sopra le righe,  in testa e in calce].  Danno anche     malamente il resto,  ora troppo,  ora troppo poco,  non  si  riesce  a     farsene un idea, così svelto è il cameriere.
    D'altronde   è  la  terza  volta  da  quando  ci  conosciamo  che  Lei     all'improvviso,  in un ben determinato estremo momento,  vuol mettermi     in guardia con qualche riga o tranquillarmi, o non so come dire.

    Da quando, dopo il nostro ultimo incontro, sei sparita improvvisamente     (ma  non  di sorpresa) ho riavuto la prima volta tue notizie,  e in un     modo brutto per me, ai primi di settembre.  Nel frattempo,  in luglio,     mi  era  capitata una grande cosa - quali grandi cose esistono mai!  -     con l'aiuto della mia sorella  maggiore,  ero  andato  a  Muritz,  sul     Baltico.  Via da Praga,  almeno,  fuori dalla stanza chiusa. Nei primi     tempi stetti molto male.  Poi a Muritz  si  sviluppò  inverosimilmente     l'eventualità   berlinese.   In   ottobre  infatti  volevo  andare  in
    Palestina, ne parlammo, beninteso non si sarebbe avverato mai, era una     fantasia come di uno che sia convinto di non lasciare mai il letto. Se     non lascerò mai il mio letto,  perché allora non dovrei andare  almeno     fino in Palestina?  Sennonché a Muritz venni a contatto con la colonia     estiva di un istituto popolare ebraico di Berlino (per  lo  più  ebrei     orientali).  Questo  attirò  le  mie  simpatie,  era sulla mia strada.     Incominciai a studiare l'eventualità di trasferirmi a Berlino.  Allora     questa  eventualità non era molto più forte della palestinese,  ma poi     diventò più forte. Certo non mi era possibile vivere solo a Berlino, e     non soltanto a Berlino, ma anche vivere solo altrove.  Anche in questo     riguardo  trovai  a Muritz un aiuto inverosimile nel suo genere (122).     Poi ritornai a Praga alla metà d'agosto e in seguito stetti più di  un     mese  a  Schelesen  presso  la  mia  sorella minore.  Là per caso ebbi     notizia della lettera  bruciata,  ero  disperato,  mandai  subito  una     lettera a te per alleggerirmi il peso,  ma poi non l'ho spedita perché     non sapevo niente di te e ho finito col bruciarla prima del viaggio  a     Berlino.  Delle tre altre lettere che tu menzioni non ho saputo ancora     nulla.  Ero disperato per qualche  orribile  infamia  commessa  contro     qualcuno, non sapevo esattamente contro chi dei tre interessati. Certo     però  non  avrei  superato in nessun caso la disperazione,  neanche se     fosse stata d'altro genere, neanche se avessi ricevuto regolarmente la     lettera a Muritz.
    Alla fine di settembre  andai  poi  a  Berlino,  e  poco  prima  della     partenza ricevetti ancora la tua cartolina dall'Italia. In quanto alla     partenza  la  potei  compiere  con  l'ultimo  resto  di energia ancora     disponibile,  o  meglio  senza  alcuna  energia  ormai,   pronto  alla     sepoltura.
    E  ora  dunque  sono  qui;  fino a questo momento non sto tanto male a     Berlino, come pare tu creda;  vivo quasi in campagna,  in una villetta     con  giardino,  mi  sembra  di non aver mai avuto una casa così bella,     certo la perderò presto,  è troppo bella per me,  è del resto  già  la     seconda  casa  che  ho  qui.  Il vitto non è essenzialmente diverso da     quello di Praga, fino a questo momento,  ma soltanto il mio vitto.  Lo     stesso  vale per lo stato di salute.  Ecco tutto.  Non oso dire altro,     già quanto ho detto è  troppo,  gli  spiriti  dell'aria  lo  succhiano     avidamente  nelle  loro gole insaziabili.  E tu stessa dici ancor meno     nella tua lettera.  Sono buone le condizioni  generali,  sopportabili?     Non riesco a decifrare.  Non vi si riesce,  è vero, in se stessi; né è     altra cosa l'"angoscia".
    F.


    Cara Milena,  da tanto tempo è qui pronto per Lei un brano di  lettera     ma non riesco a continuarla, perché anche qui i vecchi dolori mi hanno     scoperto, assalito e un po' abbattuto, ogni cosa mi causa fatica, ogni     tratto  di  penna,  tutto  ciò  che scrivo mi appare troppo grandioso,     sproporzionato alle mie forze,  e se scrivo "cordiali  saluti",  hanno     poi  davvero,  questi  saluti,  la  forza  di  arrivare  alla rumorosa     movimentata grigia L.-strasse cittadina dove io  e  le  cose  mie  non     potremmo neanche respirare? E allora non scrivo affatto, aspetto tempi     migliori o ancora peggiori, e d'altro canto qui sono curato bene e con     tenerezza fino al limite delle possibilità umane. Ho notizie del mondo     (e molto energiche anche) soltanto attraverso il rincaro, non ricevo i     giornali  di  Praga,  quelli di Berlino sono troppo cari per me,  come     sarebbe se Lei mi mandasse talvolta qualche  ritaglio  dalle  "N rodni     Listy" sui tipo di quelli che una volta mi facevano tanto piacere?  Il     mio indirizzo è da qualche settimana: Steglitz,  Grunewaldstrasse  13,     presso signor Seifert.  E ora,  nonostante tutto, i "migliori saluti";     che importa se cadono a terra già al cancello  del  giardino,  la  Sua     forza è forse tanto maggiore.
    Suo K.



    Nota del curatore.

    A  Max Brod,  lo scrittore e l'editore degli scritti lasciati da Franz     Kafka,  esprimo anzitutto il mio amichevole ringraziamento per  avermi     concesso  di  curare  questo  volume di lettere.  Le lettere stesse mi     furono donate a Praga,  nella primavera del 1939,  dalla mia  venerata     amica  Milena,  poco prima che le truppe tedesche entrassero in città.     Siccome non potevo portarle con me nella fuga in esilio,  esse  furono     conservate  fedelmente  a Praga dai miei parenti per tutti quei brutti     anni fino al 1945.  Ho motivo di credere che Milena non aveva nulla da     obiettare a che venissero pubblicate dopo la sua morte.  D'altra parte     ho ottenuto, per disposizione testamentaria, il consenso del marito di     allora,  deceduto nel frattempo,  il quale ha in questo carteggio  una     parte non eliminabile.
    La  disposizione  cronologica delle lettere presentò gravi difficoltà,     perché quasi tutte sono senza data.  Con  mesi  e  mesi  di  lavoro  -     eseguito  non  solo  da  me  - vennero raggruppate più volte in base a     centinaia  di  allusioni,  di  interferenze  e  ai  pochi  riferimenti     cronologici  (la  festa  di  Hus  a  Praga,  la festa della Repubblica     francese,  il compleanno di Milena,  la numerazione di alcune lettere,     eccetera).  Non  dirò  che questo lavoro sia riuscito superiore a ogni     dubbio in ogni più piccolo particolare.  Non  dovrebbe  essere  troppo     difficile  stabilire,   poniamo,  in  un  seminario  di  germanistica,     un'edizione critica con date precise in base a  un  elenco  di  alcune     migliaia  di voci.  Ma questo non era lo scopo della presente edizione     che vuol offrire semplicemente questo incomparabile documento di  vita     in un volume leggibile, pubblicato e annotato con la maggior possibile     cura. Di ciò fa parte anche la traduzione delle frasi ceche. Lettori o     critici  che  ritenessero  di  trovare  errori  nell'ordinamento delle     lettere  vogliano  anzitutto  sottoporre  la  loro   opinione   a   un     attentissimo  esame:  troveranno allora che per lo più un'interferenza     ritenuta decisiva è seguita da due altre che la contraddicono. D'altro     canto il curatore non potrà che essere grato di proposte motivate  per     un  nuovo  ordinamento  che potrebbe essere adottato in una successiva     edizione.
    Qui vorrei ringraziare anche Salmah  Schocken,  l'editore  e  squisito     conoscitore delle opere di Kafka, per vari suggerimenti molto degni di     considerazione e considerati.
    Per  quanto  riguarda il testo,  Kafka ha evidentemente tagliato molte     cose nelle sue missive. Anche Milena, a sua volta, certo poco prima di     consegnarmi il fascio delle lettere,  ha coperto  diversi,  passi  con     inchiostro in modo da renderli illeggibili.  Probabilmente non sarebbe     difficile,  mediante procedimenti  chimici  o  r”ntgenologici,  rifare     leggibili questi passi per un'edizione critica.  S'intende che qui non     era il caso di pensarci.  Un certo numero (non cospicuo)  di  fogli  o     lettere  deve  essere  andato  perduto,  come  si  può  argomentare da     allusioni  rimaste  sospese  nelle  lettere  esistenti  e   da   passi     frammentari.
    Purtroppo  in  questa  edizione si dovettero omettere alcune parti per     riguardo a persone ancora viventi.  Il curatore se ne rammarica  tanto     più   in  quanto  vi  si  trovano  anche  passi  nei  quali  è  citato     ripetutamente il suo nome.  Personalmente - e sia detto fin da  ora  a     ogni  curatore  avvenire  -  egli  non ha nulla da obiettare contro la     pubblicazione,  per quanto siano fantastiche  e  fuori  strada  alcune     deduzioni  che  Kafka  ha  tratto da un certo tragico incidente,  ma è     strano come in queste lettere d'amore Kafka non sia stato geloso degli     amici di Milena,  bensì delle amiche d'infanzia di  lei  e,  cosa  più     strana  ancora,  non abbia afferrato sempre con chiarezza la causa del     suo odio contro determinate persone;  ne risultano ritratti  letterari     o,  meglio, caricature che non hanno niente a che vedere con la realtà     e per ora non possono essere pubblicate.  Desidero mettere in  rilievo     fin  da  ora  la  profonda  inesattezza  di  questi  ritratti anche in     relazione a qualsiasi  edizione  futura  e,  speriamo,  completa.  Per     motivi  evidenti è stato anche omesso quasi tutto ciò che si riferisce     alla famiglia di Milena.
    Ho lasciato invece,  nonostante gravi scrupoli,  la maggior parte  dei     passi  riguardanti  gli ebrei.  Per l'ebreo Kafka l'amore per una non-     ebrea  fu  evidentemente  un  problema  grande,  tragico,  gravato  da     complessi  spirituali  e  atavici che,  tra l'altro,  si manifestò con     paurosi sfoghi di umiliazione di se stesso in quanto  ebreo.  Non  era     possibile  eliminare  questi  passi  senza  distruggere  il  carattere     dell'epistolario,  benché diano adito  a  malintesi  di  ogni  genere.     Fortunatamente  vi  si  contrappongono  altri  passi  nei quali il suo     orgoglio  e  la  sua  fiducia  nell'avvenire   dell'ebraismo   trovano     espressione convincente.
    Per  mettere  anche in rilievo il carattere non scientifico e lo scopo     di ottenere soltanto una buona leggibilità del testo, le omissioni non     furono espressamente indicate.  In complesso si conservò  l'ortografia     oggi  un  po'  antiquata  (che  del  resto,  caso strano,  non era più     modernissima neanche negli anni  1920-23,  quando  le  lettere  furono     scritte).
    Se  questo  volume non fu curato come tutti gli altri da Max Brod,  il     sottoscritto non può addurre altra giustificazione se non il fatto che     per molti anni conobbe da vicino Milena e la cerchia  dei  suoi  amici     cechi,  alla  quale  egli  stesso appartenne personalmente.  Egli poté     osare la concorrenza  con  un  curatore  come  Max  Brod  -  il  quale     all'amicizia  per  Kafka,   durata  decenni,   alla  scoperta  e  alla     divulgazione  delle  opere   di   quest'uomo   geniale,   unisce   una     insuperabile  fedeltà  e  un lavoro redazionale fidatissimo - soltanto     nel delineare il ritratto di Milena.  In verità anche  lei  merita  di     affacciarsi  alla  ribalta,  ed  è una perdita irreparabile che le sue     lettere non siano conservate.
    S'intende che  si  è  fatto  largo  uso  degli  scritti  biografici  e     bibliografici  di  Max  Brod  su  Kafka (gli altri si può dire che non     contino).   Infine  il  curatore  si  sente  obbligato  a  ringraziare     cordialmente la signora Stasha, spesso nominata nelle lettere.     W. H.













    Note.

    (Le  note  sono  del  curatore  Willy  Haas,  quelle fra parentesi del     traduttore.)

    Nota 1: Max Brod rettifica dicendo che  a  Marienbad  non  ebbe  luogo     alcun  incontro  con L'appunto del "Diario" (29.1.1922) si riferisce a     un episodio di parecchi anni prima,  un incontro con la  fidanzata  F.     nel luglio 1916.
    NOTA   2:   Un   po'  di  Milena  è  certamente  anche  nella  "figura     allontanante" (appunto d 12.2.1922) che dice a  lui,  Kafka:  "Tu  non     puoi  amarmi,  per quanto tu voglia,  tu ami infelicemente l'amore per     me, l'amore per me non ti ama".
    Nota 3: Giustamente Max Brod,  in una lettera  indirizzata  a  me,  fa     notare  certi  parallelismi  fra  l'episodio  di Milena e la Frida del     "Castello".
    Nota 4: Kurt Wolff, l'editore di Kafka.
    Nota 5: Traduzione dal ceco: "Signor dottore,  molto  in  là  lei  non     arriva".
    Nota  6:  (Si  pensi  a  Samsa,   il  protagonista  del  racconto  "La     metamorfosi").
    Nota 7: "sono io colui che paga".
    Nota 8: "vero terrore".
    Nota 9: "o non proprio ragione".
    Nota 10: "detto con buone intenzioni".
    Nota 11: Le appendici di Milena per giornali cechi.
    Nota 12: La grande scrittrice Ceca (1820-1862),  il cui  capolavoro  è     "Babitcha" ("La nonna"). (Traduzione italiana di Ettore Lo Gatto della     BMM, N 241-42.
    Nota13:  (Max  Brod,  amico  fraterno  e curatore di tutte le opere di     Franz Kafka, nacque a Praga nel 1884,  scrisse poesie,  drammi,  opere     storico-filosofiche  ["Paganesimo,  cristianesimo,  giudaismo",  1921;     "Fede e dottrina" di F. Kafka", 1948], soprattutto romanzi storici [su
    Tycho Brahe, Galilei, Gesù] e autobiografici ["Quasi scolaro modello",
    "L'estate che si vorrebbe  rivivere"].  Trasferitosi  a  Tel-Aviv,  in     Israele, nel 1939, vi è morto nel 1968.
    Nota 14: Ernst Weiss,  narratore e drammaturgo, nato a Brunn nel 1884,     morto a Parigi nel 1940.  Dei suoi romanzi vanno citati:  "La  galera"     (1913), "Uomo contro uomo", "Stella dei demoni", "Uomini nella notte",     eccetera.  Nel 1933 si rifugiò in Francia e, quando i tedeschi presero     Parigi, si tolse la vita.
    Nota 15: Un'amica di Milena.
    Nota 16: soltanto apprensione per Lei.
    Nota 17: (Il noto scrittore praghese [1890-1945],  ebreo  di  nascita,     cristiano  ardente  per fede,  eccellente poeta lirico,  drammaturgo e     romanziere, le cui opere maggiori ["I quaranta giorni del Mussa Dagh",
    "Bernadette",  "Barbara" eccetera] furono tradotte e pubblicate  nella     Collezione "Medusa").
    Nota 18: "neanche una sola parola che non sia ben ponderata".     Nota  19: "albero,  albero,  scambiati qua": il noto gioco dei quattro     cantoni.
    Nota 20: "ciò - mi ha ferito".
    Nota 21: "Così."     Nota 22: "Siete ebreo?"
    Nota 23: "non capisco".
    Nota 24: Kafka si era fidanzato due volte con una stessa ragazza.
    Nota 25: Cancellato nell'originale con un frego.
    Nota 26: Milena si pronuncia con l'accento sulla prima sillaba.     Nota 27: Giuoco di parole: Ernst  si  chiamava  il  marito  di  Milena     ("Ernst" in tedesco, significa "serio".
    Nota 28: Sic.
    Nota 29: "ho soltanto due vestiti, eppure son carina". - Probabilmente     da una canzone popolare ceca.
    Nota 30: "bella veramente mai, certamente no, forse talvolta carina".     Nota  31:  Kafka  asserisce  che  "Milena"  è un nome latinizzato.  Il     diminutivo milenka è invece  indubbiamente  ceco  e  significa  "cara,     tesoro".  La  forma  puramente  ceca del nome sarebbe quindi,  secondo     Kafka, "Milada".
    Nota 32: Dove Milena abitava.
    Nota 33: Nel frattempo si erano incontrati a Vienna.
    Nota 34: Le pagine di diario di  Hermann  Bahr  uscivano  allora  ogni     domenica nel "Neues Wiener Journal".
    Nota 35: Le lettere che seguono furono spedite da Praga.
    Nota 36: Lo scrittore Max Brod.
    Nota  37:  Racconto  di  Franz  Grillparzer,  (il  grande  drammaturgo     viennese [1791-1872], autore di tragedie come "L'avola", "Saffo",  "Il     vello  d'oro",  "Libussa",  eccetera  e  di  due  racconti: "Il povero     musicante e "Il convento presso Sendomir").
    Nota 38: La ricorrenza del giorno di Jan Hus è festa  nazionale  nella     repubblica cecoslovacca.
    Nota 39: Del marito.
    Nota  40:  Il  noto  scrittore e stampatore cattolico,  genero di Leon     Bloy. Stasha lavorava allora presso di lui.
    Nota 41: (Kafka era impiegato all'"Istituto d'Assicurazione contro gli     infortuni dei lavoratori nel regno di Boemia").
    Nota 42: officine d'arte.
    Nota 43: Caffè frequentato da letterati  e  Artisti,  nella  Hybernsk      ulice.
    Nota  44:  "Sì,  hai ragione,  io gli voglio bene.  Ma F.,  anche a te     voglio bene".
    Nota 45: "anche".
    Nota 46: Il 14 luglio era festeggiato anche a Praga.
    Nota 47: Cancellato, nell'originale, con un frego.
    Nota 48: "Der  Weisse  Hahn",  un  ristorante  viennese,  dove  Milena     prendeva qualche volta i pasti.
    Nota 49: Progetto del marito di lei, che era impiegato di banca e come     tale non si sentiva contento.
    Nota 50: "Marie Donadieu", romanzo di Charles-Louis Philippe.
    Nota 51: Otto Gross, psicanalista e filosofo viennese.
    Nota 52: Riviste e giornali cechi dell'epoca.
    Nota 53: "che, a rigore, tu sei la persona che non ne ha un'idea".
    Nota 54: "far aspettare una persona".
    Nota  55:  "preferirei fuggire per una terza via che non conduca né da     te né con lui, in qualche solitudine".
    Nota 56: "perché egli non ha mai scritto o parlato di lei".     Nota 57: In quel tempo di carestia c'erano  alle  stazioni  di  Vienna     anche donne in funzione di portabagagli.
    Nota 58: "segretario".
    Nota 59: "segreto, enigmatico".
    Nota  60:  Membro  del  governo  rivoluzionario  di  Monaco,  saggista     eminente, assassinato nel 1919.  (Gustav Landauer era nato a Karlsruhe     nel   1870,   aveva  scritto,   oltre  alle  opere  di  politica  ["La     rivoluzione", "Monito al socialismo, eccetera],  anche novelle e saggi     letterari,  e  tradotto,  insieme  con  sua moglie,  le prose di Oscar     Wild).
    Nota 61: "assurdo".
    Nota 62: "bilancia del mondo".
    Nota 63:  Scrittore  praghese,  ottimo  traduttore  di  poesie  ceche,     specialmente di Brezina e Bezruc.
    Nota 64: Il marito di Milena.
    Nota 65: "le donne non hanno bisogno di molto".
    Nota  66: Sarà stata la frase convenzionale per un telegramma cifrato.
    "Elsa è malata" significava probabilmente: "Vieni!".
    Nota 67: Hans Krasa, compositore, morto in un campo di concentramento.     Nota 68: Un eccellente settimanale ceco di Praga al quale anche Milena     collaborava.
    Nota 69: Una sorella di Kafka,  la quale  ebbe  una  parte  importante     nella Vita di lui.
    Nota 70: "lattante".
    Nota 71: "in sé".
    Nota 72: "ovvio".
    Nota 73: Evidentemente Milena voleva mandare un telegramma cifrato.
    Nota 74: Scrittore e redattore della "Prager Presse", vecchio amico di     Kafka. (Otto Pick era nato a Praga nel 1887, tradusse in tedesco opere     di Karel e Josef Capek,  Frantisek Langer,  Arno Dvor k eccetera.  Nel
    '38 emigrò in Inghilterra dove morì durante la guerra.)
    Nota 75: (Franz Blei [nato a Vienna,  1871,  morto a New  York,  1942]     scrisse spiritose commedie [come "Logica del cuore"] novelle [come "Il     ragazzo",  "Ganimede"],  saggi  e  studi  critici e politici [come "Lo     spirito  del  rococò",  "Considerazioni  umane  sulla  politica"],   e     un'opera  satirica:  "Il  grande  bestiario  della letteratura moderna     [1920,  con lo pseudonimo di Peregrinus Steinhovel] dove presenta  gli     scrittori  del  suo  tempo  in  veste di fantastici animali.  Fondò la     rivista "Hyperion"  e  tradusse  opere  di  Oscar  Wilde,  André  Gide     eccetera.)
    Nota 76: "chiaro, non complicato".
    Nota 77: "'tu aspetti, finché occorre a te".
    Nota 78: "pena" e "terribilmente triste".
    Nota 79: "e tu non vieni, perché aspetti che un giorno occorra a te di     venire".
    Nota 80: "Sta bene, Frank".
    Nota 81: "dunque non ha senso mandarti il falso telegramma, perciò non     lo mando".
    Nota 82: "angoscia, nostalgia (o desiderio)".
    Nota  83:  Qui si tratta di una strana faccenda: varie persone a Praga     ricevettero lettere con l'evidente scrittura di Milena, ma non scritte     da lei.
    Nota 84: "Vuoi fare una giterella?"
    Nota 85: "non capisco come un uomo siffatto...".
    Nota 86: (Willy Haas,  il curatore di queste "Lettere a Milena",  è un     valente  saggista.  A  suo  tempo  dirigeva la "Literarische Welt" e a     Praga ,  i "Herderbl„tter" [in questi ultimi pubblicò opere  giovanili     di  Franz  Werfel  e,  tra l'altro,  il primo capitolo di "Richard und
    Samuel", romanzo scritto in collaborazione da Kafka e Max Brod]).
    Nota 87: "La bottega del caffè" - titolo di un racconto di Milena.
    Nota 88: Evidentemente avvisi pubblicitari di pellicciai viennesi.
    Nota 89: "Che bellezza! che bellezza!"     Nota 90: "non sarà mai".
    Nota 91: Milena era a St. Gilgen.
    Nota 92: Un quotidiano.
    Nota 93: Evidentemente la sopra menzionata faccenda delle lettere.     Nota 94: "tu sei mio".
    Nota 95: (Lo scrittore e giornalista Alfred Polgar,  nato a Vienna nel     1875,  morto a Zurigo nel 1955,  autore di novelle e commedie,  le cui     critiche letterarie e teatrali furono raccolti  in  volumi  intitolati     "Scritto in margine, Sì e no!" eccetera).
    Nota  96:  (Sankt Gilgen è un luogo di cura e villeggiatura in riva al     lago di Sankt Wolfgang nel Salisburghese.)     Nota 97: "Non voglio che tu risponda a ciò."
    Nota 98: Lo scrittore cieco Oskar Baum, vecchio amico di Kafka.  (Morì     a  Praga  occupata  dai  tedeschi  nel 1940,  sua moglie nel ghetto di     Teresiopoli. La sua opera principale è "Il popolo dal sonno duro").     Nota 99: Kafka era intervenuto per Milena in una questione  familiare,     e  aveva  agito  evidentemente  con  tatto  e  abilità.  Non  troviamo     motivazioni concrete della sua tremenda autoaccusa.
    Nota 100: "primo piano" oppure "scala prima".
    Nota 101: "non avete la forza di amare".
    Nota 102: "libro dei fantasmi".
    Nota 103: Il dramma di Franz Werfel. (Il noto scrittore praghese [1890     - 1945],  ebreo di nascita,  cristiano ardente  per  fede,  eccellente     poeta  lirico,  drammaturgo  e  romanziere,  le  cui opere maggiori [I     quaranta giorni del Moussa Dagh".  "Bernadette",  "Barbara"  eccetera]     furono tradotte e pubblicate nella Collezione "Medusa".
    Nota 104: "razza rognosa".
    Nota  105:  (Albert  Ehrestein  [nato a Vienna 1886,  morto a New York
    1950], poeta e saggista, corifeo dell'espressionismo.  Pubblicò volumi
    di  liriche  e bozzetti e racconti grotteschi: "Tubutsch";  "Briefe an     Gott" [Lettere a  Dio];  "Menschen  und  Affen"  [Uomini  e  scimmie];     "Ritter  des  Todes"  [Cavalieri  della  morte];  "Mein  Lied" [Il mio     canto].)
    Nota 106: Un dramma di Ernst Weiss.  (Ernst Weiss [nato a Brunn  1884,     morto  a Parigi nel 1940],  narratore e drammaturgo di grande ingegno,     che in seguito fu per qualche tempo molto legato a Kafka  [vedi  anche     la  lettera a Carl Seelig,  autunno 1923] scrisse il suo primo romanzo     "Die Galeere" [La galera] nel 1913. Nel 1933 fuggì in Francia e quando     i tedeschi occuparono Parigi si uccise. Altre opere: "Tiere in Ketten"     [Bestie  incatenate];   "Mensch  gegen  Mensch"  [Uomo  contro  uomo];
    "Nahar";  "Stern  der  D„monnen"  [Stella dei demoni];  "M„nner in der     Nacht" [Uomini nella notte].
    Nota 107: Un "pamphlet" di Ehrenstein contro Karl Kraus,  il  satirico     viennese.  (Kraus  nato  in  Boemia  nel  1874 fondò il periodico "Die     Fackel" [La fiaccola] nel 1899 a Vienna e da  principio  vi  scrissero     uomini come Liliencron,  Wedekind, Strindberg, Weininger eccetera. Dal
    1911 vi furono pubblicati soltanto libri di Kraus, fino alla sua morte     [1936].  Famoso critico e satirico,  si batté  per  la  purezza  della     lingua tedesca. Scrisse un dramma di 800 pagine: "Die letzten Tage der     Menschheit"  [Gli  ultimi giorni dell'umanità],  1918 - 19 [vedi anche     nota 105].)
    Nota 108: Giornale antisemita del partito agrario ceco di quel tempo.
    Nota 109: pittore e disegnatore ceco.
    Nota 110: (Na Ptikope,  una delle vie principali e più frequentate  di
    Praga,  corrispondente  alla  circonvallazione della città vecchia [la     City].)
    Nota 111: Dove sorgeva la casa paterna di Kafka.
    Nota 112: "Egli si è spezzato contro di me".
    Nota 113: Membro del governo rivoluzionario di Monaco.
    Nota 114: Le ultime lettere erano indirizzate a casa di Milena.
    Nota 115:  ("Nachsommer"  [Estate  di  San  Martino],  il  romanzo  di     Adalbert Stifter.)
    Nota  116:  (Der  Wanderer  and  der  S„gemuhle"  [Il  viandante  alla     segheria], poesia prediletta di Kafka).
    Nota 117: Certo di lei stessa.
    Nota 118: Deve voler dire che alla posta c'era una seconda lettera per     lei.
    Nota  119:  Charles-Louis  Philippe,   l'autore  del  romanzo   "Marie     Donadieu" (1904).
    Nota 120: "La lunga via". Certamente, titolo di un libro.
    Nota 121: Romanzo di Max Brod.
    Nota 122: Kafka allude alla signora Dora Dymant,  la compagna dei suoi     ultimi tempi.