venerdì 7 febbraio 2020


LA RIMOZIONE DI ELENA(*)
Marialuisa Righi

Estratti dall'Archivio di Stato di Como.
Riassunto:
24 ottobre 1890 – Carlo G. Locandiere di Cadenabbia, scorge davanti al suo albergo un fagotto legato a una corda che galleggia sul lago. Nel fagotto si trova il cadavere di una neonata che, su ordine del sindaco, viene immediatamente trasferito nella camera mortuaria del cimitero di Griante. 
Qualche ora dopo, la moglie del locandiere entra nella camera 17, camera occupata da una cameriera che prestava servizio presso una famiglia proveniente dalla Germania; alloggiata da sei giorni al “Bell'Isola”. Nella camera scopre che le lenzuola sono diffusamente macchiate di sangue. 
Nel pomeriggio viene eseguita l'autopsia nella camera mortuaria del cimitero. Il medico certificherà che il feto era sano e la sua morte non accidentale. Il giorno seguente viene spiccato mandato di cattura nei confronti di V. Elena, ventiquattro enne, oriunda del cantone di Berna e residente a Milano. 
Il giorno seguente la donna è tradotta nelle Carceri Giudiziarie di Como, dove ha luogo l'interrogatorio, Elena nega assolutamente l’imputazione d’infanticidio. 
Il 19 novembre viene sottoposta a un altro interrogatorio durante il quale conferma le sue precedenti dichiarazioni. In seguito vengono fatti altri sopralluoghi che si soffermano in particolare sull'esame della latrina, dove era stato partorito il bimbo.
Il 4 maggio 1891 la Corte d'Assise di Como dichiara assolta V. Elena e ordina sia posta in libertà. 
                                            
Dicembre 1911
Ieri la mia padrona ha chiamato il suo medico personale per farmi visitare. 
E’ un dottore molto importante, arriva da Bologna una volta il mese. Allora la signora Clelia mi fa lustrare la casa e tirare fuori il servizio di porcellana apposta per lui. Penso siano stati intimi in gioventù perché a volte lei lascia scappare un sospiro dicendogli “ricordi?” e si passa la lingua sulle labbra da vecchia, come fosse ancora una ragazza. Il dottore, dopo avermi ascoltato il cuore e i polmoni, controllato la gola e palpata dappertutto, ha scosso la testa dicendo che era una "forma isterica di pertinenza psichiatrica". “Prenda un quaderno e lo usi come un diario, butti giù tutto quello che le passa per la testa” ha detto “lasci che il suo passato ritorni e poi lo fermi sulla carta” ha poi urlato mentre usciva; forse nella speranza di capirci qualcosa giacché da due mesi non riesco a spiccicare una parola: sono diventata muta. Mi era già successo molti anni fa, non parlai per tre anni e nessuno ci fece caso. Non credo sia una buona idea rimescolare nel passato ma, se questo serve a non farmi licenziare dalla signora Clelia lo farò, perché non posso altro.

Caro diario, 
Mi chiamo Elena e sono nata a Berna l’8 gennaio del 1866. Della mia infanzia ho buoni ricordi, mio padre morì che avevo pochi mesi di vita, per cui non posso dire chi era o chi non era e non mi è mai mancato. Io ero la quinta di sei figli. Mia madre era una donna buona e silenziosa, cucinava deliziosi minestroni e siamo cresciuti senza patire la fame. A dieci anni cominciai a rubare, poca cosa: qualche mela, un sacco di farina, lo scialle ricamato alla maestra, i bicchieri di vetro colorati alla contessa, dove lavorava mia madre. Ecco, quella dei bicchieri fu una mossa sbagliata, che poi mia madre perse il posto... ma era più forte di me prendere qualcosa dove c’erano molte cose. A tredici anni iniziai a lavorare nell’Ospedale dei Miserabili di Francoforte. Per molti anni feci la lavandaia, dovevo lavare montagne di traverse e lenzuola intrise di sangue, vomito, piscio, le facevamo bollire ma la puzza restava attaccata alle ossa; ci si abitua a tutto, anche al dolore che avvertivo quando facevo il giro delle corsie con il carrello per il cambio della biancheria. Tenevo gli occhi bassi ma quei visi contratti dalla paura li vedevo ugualmente e sentivo l’alito della morte soffiarmi sul collo. Poi m’iscrissi alla scuola infermieristica interna, dove ci insegnavano a lavare i malati, imboccarli, vestirli da vivi e da morti, medicare le piaghe e altre faccende che bisognava avere lo stomaco forte per non vomitare l’anima. “Un’infermiera modello deve saper muovere i malati, nutrirli, accudirli, arieggiare e scaldare le stanze e infine essere in grado di fare un resoconto al medico sulle condizioni del malato” Questo era scritto a caratteri cubitali nell’aula, dove tenevano le lezioni di anatomia, fisiologia e igiene, mi ricordo anche la firma sotto “Florence Nightingale”. Io sapevo leggere e scrivere, questo mi aiutò molto nonostante la Madre Superiora mi ritenesse incapace di svolgere il ruolo d’infermiera per “scarsa empatia - assenza di compassione”. Sbagliava: provavo una grande pena per tutti, anche per lei, ma il mio corpo rimaneva staccato dai sentimenti. Era come se l’emozione, ogni tipo di emozione, svanisse nel momento stesso in cui si faceva gesto. Persino le lacrime salivano agli occhi per cristallizzarsi sulle pupille; “uno sguardo da vipera” dicevano sottovoce, ma io li sentivo. 


Caro diario 
Stanotte ha nevicato. 
Non mi piace la neve. 
La mia padrona è a letto con la febbre e mal di gola; siamo in attesa che arrivi il suo amico dottore. Devo scrivere così gli farò vedere quanto sono obbediente e volenterosa. Allora: dopo avere lasciato l’Ospedale per colpa di malelingue che mi accusavano di essere una ekelhafte frauenzimmer(**) senza sapere, che a me, la pratica del sesso mi ha sempre disgustata e quando arrivava quel momento m'impegnavo al massimo affinché durasse poco. Questo agli uomini piaceva. Dicevo: dopo qualche mese di vagabondaggio senza pensieri, trovai lavoro come cameriera e bambinaia presso la famiglia Gianella, loro arrivavano dall’America ed io fremevo all’idea ci potessero tornare, portandomi dietro. La bambina era capricciosa, come sua madre, piangeva sempre e mi tirava pazza. Da Francoforte ci spostammo a Strasburgo e poi a Lucerna, Lugano per fermarci qualche settimana sul lago di Como. Di quel luogo ricordo solo che era terribilmente bello e scoprii quanto è facile piangere: piangevo scrutando l'acqua del lago, grigia e ferma, come gli occhi di mia madre. Piangevo contemplando i monti intorno, pieni di un autunno senza pioggia: Non era dolore ma qualcosa di simile a un incantesimo che svuotava la mente. In quel periodo ero molto grassa, non si notava molto perché sono alta un metro e ottantacinque, mi bastava indossare quei camicioni larghi e scuri per sembrare solo alta. A Cadenabbia stavamo in un albergo affacciato sul lago, mi avevano dato la stanza numero diciassette, un brutto numero. Sotto il letto, dove dormivo, c’era un fagotto con dentro un neonato; non piangeva mai, dopo due giorni che era lì, mi decisi a buttarlo nel lago anche perché, da quando avevo avuto quell'emorragia nella latrina dell’albergo, temevo di morire dissanguata in quella camera. Che cosa avrebbero detto se trovavano quel fagotto sotto il letto? Comunque mi accusarono di cose orribili e finii in carcere, non ricordo quanto tempo perché dormii tutti i sonni persi nella vita. Nevica ancora. 
Tra poco arriverà il dottore. Strapperò questa pagina. 
In fondo a lui cosa può importare del lago di Como?
(*) Questo racconto, ha vinto nel 2015 il Premio Internazionale di letteratura "Alda Merini". La storia è vera nella prima parte. 
(**) ekelhafte frauenzimmer ­/ schifosa prostituta.