venerdì 28 febbraio 2020


L'OMBRA E IL BALENO
Estratto da "Il morbo scarlatto"
Jack London

"L'ombra e il baleno" [1903] contiene un avvertimento evidente, anche se non dichiarato: ecco a quali conseguenze portano gli abusi della scienza. Non so se vi sia qualche simbolismo nell'oscurità di uno dei protagonisti, contrapposta alla trasparenza dell'altro. Forse London voleva dirci qualcosa sullo yin e sullo yang, sulla morte, la distruzione e lo spreco di risorse quando la scienza non è bilanciata dalla ragione e dall'amore. Ma può essere significativo che i due "cattivi" siano due gemelli pressoché identici nell'atteggiamento mentale e nell'aspetto fisico, se non nella pigmentazione.


L'OMBRA E IL BALENO
Quando torno a quei giorni, mi rendo conto del carattere particolarissimo di quell'amicizia. C'era Lloyd Inwood, alto, sottile, ben proporzionato, nervoso e bruno; e poi Paul Tichlorne, alto, sottile, ben proporzionato, nervoso e biondo. Ciascuno era la replica dell'altro, in tutto, tranne che nel colore. Gli occhi di Lloyd erano neri; quelli di Paul azzurri. Quando erano eccitati, il sangue scorreva olivastro nella faccia di Lloyd, cremisi nella faccia di Paul. Ma, all'infuori di questa faccenda del colore, erano simili come due piselli, tutti e due pieni di energia e di ostinazione, propensi agli sforzi eccessivi, vivendo sotto una costante pressione.
Ma in quella notevole amicizia c'era un terzo, un giovane basso, tarchiato e pigro, e mi dispiace dirlo, ero io. Paul e Lloyd sembravano nati per una reciproca rivalità, e io per far da paciere. Crescemmo insieme, noi tre, e io ricevevo spesso i colpi che ciascuno destinava all'altro. Fra quei due era un'eterna competizione, uno sforzo perpetuo a superarsi vicendevolmente; e, quando si mettevano in una di queste lotte, non c'era limite ai loro sforzi o alle loro passioni.
L'intenso spirito di rivalità si manifestava nello studio come nei giochi. Se Paul mandava a memoria una strofa di "Marmion", Lloyd ne imparava due strofe; Paul ribatteva con tre e Lloyd con quattro, finché ciascuno conosceva a memoria l'intera poesia. Ricordo un incidente, che mette in tragica luce l'implacabile antagonismo che esisteva tra essi. I ragazzi erano soliti giocare a tuffarsi in fondo a uno stagno e a restar sommersi, attaccati alle radici del fondo, facendo a gara a chi resisteva più a lungo. Un giorno Paul e Lloyd si lasciarono indurre a fare insieme il tuffo. Quando vidi i loro volti seri e decisi scomparire nell'acqua, mentre si sommergevano rapidamente, sentii il presentimento di qualche cosa di terribile. I momenti passavano, le increspature si dileguavano sull'acqua, la superficie dello stagno diveniva placida e indisturbata; ma nessuna testa, né bruna né bionda, tornava a galla per cercare aria. Cominciammo ad allarmarci. Il record del ragazzo più robusto era superato, e ancora non c'era un segno. Le bolle d'aria salivano lentamente a galla, mostrando che il respiro veniva espulso dai polmoni; e dopo questo anche le bolle cessarono di salire. I secondi diventavano interminabili. Incapace di sopportare più a lungo l'attesa, mi tuffai nello stagno.
Li trovai sul fondo, a meno di una trentina di centimetri di distanza l'uno dall'altro, gli occhi spalancati che si fissavano a vicenda. Soffrivano tormenti spaventosi, torcendosi e divincolandosi nell'agonia del soffocamento; perché nessuno dei due voleva arrendersi e riconoscersi battuto. Tentai di strappare Paul dalla sua stretta, ma mi resistette ferocemente. Poi il respiro mi mancò e tornai in superficie, spaventato. Spiegai rapidamente la situazione e ci gettammo nell'acqua in cinque o sei. Così, ricorrendo alla forza, li costringemmo ad abbandonare la presa. Li riportammo all'aria svenuti, e soltanto dopo la respirazione artificiale ripresero i sensi. Sarebbero annegati là, se nessuno fosse accorso a salvarli.
Quando Paul Tichlorne s'iscrisse all'università, diede a intendere che voleva studiare scienze sociali. Lloyd, iscrivendosi nella stessa epoca, decise di seguire lo stesso corso. Ma durante tutto il tempo, Paul aveva avuto segretamente l'idea di studiare scienze naturali, specializzandosi in chimica, e all'ultimo momento dichiarò la sua scelta. Quantunque Lloyd avesse già preordinato il suo anno di studi, e avesse già cominciato a seguire le prime lezioni, imitò subito l'esempio di Paul e si dedicò alle scienze naturali, e specialmente alla chimica. La loro rivalità fu ben presto nota a tutta l'università. Ciascuno era di sprone all'altro, e si addentrarono nella chimica più a fondo di qualsiasi studente prima di loro, così a fondo, infatti, che prima di prendere la laurea davano dei punti a qualsiasi chimico o professore dell'università, tranne il "vecchio" Moss, preside della facoltà; ma anche questi restò più d'una volta perplesso e meravigliato, durante il loro corso di perfezionamento. La scoperta da parte di Lloyd del "bacillo mortale", e gli esperimenti compiuti su di esso con il cianuro di potassio, assicurarono grande notorietà a lui e all'intera università; Paul non fu da meno, quando riuscì a produrre dei colloidi sintetici, che manifestavano delle attività protoplasmatiche, e quando gettò nuova luce sui processi di fertilizzazione, con semplici soluzioni di cloruro di sodio e di magnesio, sulle forme inferiori della vita marina.
Fu durante i loro studi, nel bel mezzo delle più profonde esplorazioni dei misteri della chimica organica, che Doris Van Brenschoten entrò nella loro vita. Lloyd la conobbe per primo, ma ventiquattr'ore dopo anche Paul fece la sua conoscenza. Naturalmente s'innamorarono di lei, ed ella divenne l'unica ragione della loro vita. La corteggiarono con uguale ardore, e così intensa divenne la competizione per lei, che metà della classe studentesca si mise a scommettere sul risultato. Un giorno, anche il vecchio Moss, dopo una sbalorditiva dimostrazione fatta da Paul nel suo laboratorio privato, si decise a scommettere un mese di stipendio sulla vittoria di Paul.
Alla fine ella risolse il problema a modo suo, con soddisfazione di tutti, tranne che di Paul e di Lloyd. Dopo averli convocati, spiegò che non poteva assolutamente scegliere tra loro due, perché amava entrambi con la stessa intensità; e che, per sfortuna, dal momento che la poliandria non era permessa negli Stati Uniti, era costretta a rinunciare al privilegio e alla felicità di sposare uno di loro. Naturalmente, ognuno gettò sull'altro la colpa di questa triste conclusione, e il livore fra i due non fece che aumentare.
Ma le cose vennero ben presto a capo. Fu a casa mia, dopo che si erano laureati e avevano lasciato il mondo studentesco. Erano entrambi ricchi, con poca inclinazione per la vita professionale. La mia amicizia e le loro mutue animosità erano i due sentimenti che li legavano. Se si escludono le frequenti occasioni in cui si trovavano a casa mia, fuori di qui facevano il possibile per non incontrarsi mai, per quanto fosse inevitabile, date le circostanze, che di tanto in tanto le loro strade s'incrociassero.
Il giorno al quale alludo, Paul Tichlome era rimasto a meditare tutta la mattina nel mio studio su una rivista scientifica. Questo mi lasciava libero per le mie faccende, e mi stavo dedicando alle rose, quando giunse Lloyd Inwood. Mentre ero intento a sarchiare e potare, con la bocca piena di chiodi per sistemare i rampicanti, Lloyd mi seguiva e mi dava una mano; ci mettemmo a discutere sulla mitica razza del popolo invisibile, quel popolo strano e vagabondo di cui la tradizione ci ha tramandato l'esistenza. Lloyd si accalorò nella discussione, e ben presto cominciò a esaminare a fondo le proprietà fisiche dell'invisibilità. Un oggetto perfettamente nero, affermava, doveva eludere e sfidare l'occhio più acuto.
- Il colore è una sensazione - diceva, - non ha alcuna realtà oggettiva. Senza luce non possiamo vedere né i colori né gli oggetti in sé. Nell'oscurità, tutti gli oggetti sono neri, e quindi è impossibile vederli al buio. Se la luce non li colpisce, essi non possono rifletterla. Quindi, non abbiamo alcuna prova della loro esistenza.
- Ma di giorno vediamo gli oggetti neri - obbiettai.
- Verissimo - continuò Lloyd con calore. - Ma questo perché non sono completamente neri. Se fossero d'un nero perfetto, non li vedremmo; no, neppure al bagliore accecante di mille soli! E perciò affermo che, con i pigmenti adatti, propriamente mescolati, è possibile produrre una vernice nera che renderebbe invisibile qualunque oggetto sul quale venisse applicata.
- Sarebbe una scoperta notevole - dissi senza compromettermi, poiché l'intera discussione mi sembrava oziosa.
- Notevole! - esclamò Lloyd, battendomi sulla spalla. - Puoi dirlo con ragione. Ecco, amico mio, se mi rivestissi d'uno strato di una simile vernice avrei il mondo ai miei piedi. Sarebbero miei i segreti dei re e delle corti, le macchinazioni dei diplomatici e degli uomini politici, i giochi degli speculatori in borsa, i piani delle grandi società industriali. Terrei la mano sul polso più intimo della vita, diventerei una potenza formidabile nel mondo intero. - S'interruppe un momento. Poi aggiunse: - Ebbene, ho cominciato i miei esperimenti, e non esito a dirti che sono sulla buona strada.
Una risata ci fece sussultare. Paul Tichlorne era in cima agli scalini, con un sorriso beffardo sulle labbra.
- Dimentichi, mio caro Lloyd… - disse.
- Dimentico che cosa? - Dimentichi… sì, dimentichi l'ombra.
Vidi la faccia di Lloyd allungarsi, ma rispose sogghignando: - Prenderò un parasole. - Poi si voltò bruscamente verso di lui: - Ascolta, Paul, è meglio che tu stia alla larga.
Lo scontro sembrava imminente. Ma Paul si limitò a una risata di buonumore.
- Non vorrei mettere un dito sui tuoi sudici pigmenti. Anche se avrai successo oltre le tue migliori aspettative, dovrai sempre fare i conti con l'ombra. Non puoi sfuggirle. Ora, io prenderò la strada diametralmente opposta. E per la stessa natura di ciò che ho detto, l'ombra sarà eliminata.
- La trasparenza! - esclamò subito Lloyd. - Ma non è possibile ottenerla.
- Oh no, certo che no. - E Paul si strinse nelle spalle allontanandosi lungo il sentiero fiancheggiato dai rosai.
Questo fu il principio. Attaccarono entrambi il problema con tutta l'energia di cui disponevano, e con un rancore e un'amarezza che mi facevano tremare per il successo di uno di essi. Entrambi si fidavano completamente di me, e nelle lunghe settimane di esperimenti che seguirono, io fui il confidente di entrambi, ascoltando le loro teorie, assistendo alle loro dimostrazioni. Mai, con una parola o con un segno, diedi ad alcuno di essi la più vaga idea del progresso dell'altro, e mi rispettarono ancor di più in virtù della mia grande riservatezza.
Lloyd Inwood, dopo aver lavorato a lungo e ininterrottamente, quando la tensione sullo spirito e sul corpo diveniva troppo grande per essere sopportata, aveva una maniera strana per riposarsi: assisteva agli incontri di pugilato. Fu a uno di questi spettacoli brutali, dove mi aveva trascinato per parlarmi degli ultimi esperimenti, che la sua teoria ricevette una sorprendente conferma.
- Vedi quell'uomo dai baffi rossi? - mi domandò. Nella quinta fila di sedie, dall'altra parte del ring. E vedi l'uomo che gli sta vicino, quello con il cappello bianco? Ebbene, c'è dello spazio che li separa, non è vero?
- Certo - risposi, - sono separati da una sedia: c'è un posto vuoto fra di loro.
Si sporse verso di me e parlò con grande serietà. Tra l'uomo dai baffi rossi e quello con il cappello bianco è seduto Ben Wasson. Mi hai udito parlare spesso di lui. È il più forte pugile nella sua categoria. Inoltre è un vero negro dei Caraibi, con la pelle più nera di tutti gli Stati Uniti. Porta un soprabito nero abbottonato fino alla gola. L'ho visto quando è entrato e ha preso quella sedia. Appena si è messo a sedere, è scomparso. Guardalo attentamente, può darsi che sorrida.
Stavo per attraversare la sala, per verificare l'affermazione di Lloyd, ma egli mi trattenne. - Aspetta - mi disse.
Attesi finché l'uomo dai baffi rossi voltò il capo, come per rivolgere la parola al sedile non occupato; allora, in quello spazio vuoto, vidi il bianco d'un paio d'occhi e la curva candida di due file di denti, e per un istante riuscii a distinguere la faccia di un negro. Ma una volta spentosi il sorriso, tutto venne inghiottito dal nulla, e la sedia parve vuota come prima.
- Se fosse perfettamente nero, potresti stargli seduto accanto senza vederlo - disse Lloyd, e confesso che l'esempio che mi aveva indicato era tale da convincermi.
Dopo quell'episodio, visitai più volte il laboratorio di Lloyd, e lo trovai sempre immerso nelle ricerche sul nero assoluto. Gli esperimenti abbracciavano ogni specie di pigmenti, dal nerofumo alla pece, dalle sostanze vegetali carbonizzate, agli olii e ai grassi bruciati.
- La luce bianca è composta di sette colori fondamentali - spiegò, - ma in sé e per sé è invisibile. Soltanto quando viene riflessa da un oggetto diventa visibile, e a sua volta rende visibile anche l'oggetto; ma si vede soltanto quella parte di luce che viene riflessa. Per esempio, ecco una tabacchiera. La luce bianca la colpisce e, con una sola eccezione, tutti i colori che la compongono - violetto, indaco, verde, giallo, arancione, rosso - sono assorbiti. L'unica eccezione è l'azzurro, che non viene assorbito, bensì riflesso. Perciò la tabacchiera ci dà la sensazione dell'azzurro. Non vediamo gli altri colori, perché questi sono assorbiti. Vediamo l'azzurro. Per la stessa ragione l'erba è verde: le onde verdi della luce bianca colpiscono i nostri occhi.
- Quando dipingiamo le nostre case, non applichiamo del colore - disse in un'altra occasione. - Quello che facciamo è applicare certe sostanze che hanno la proprietà di assorbire dalla luce bianca tutti i colori, all'infuori di quelli che vogliamo far apparire sulle nostre case. Quando una sostanza riflette all'occhio tutti i colori, essa ci sembra bianca; quando assorbe tutti i colori, è nera. Ma, come ho detto prima, non abbiamo ancora il nero assoluto. Non tutti i colori sono assorbiti. Il nero assoluto, che resiste alla luce viva, sarà completamente e assolutamente invisibile. Guarda questo, per esempio.
Indicò la tavolozza che giaceva sul suo tavolo da lavoro. Vi erano applicate delle sfumature diverse di pigmenti neri. Una in particolare, era appena percettibile. Dava ai miei occhi una sensazione di offuscamento; li stropicciai, e guardai di nuovo.
- Questo - disse solennemente Lloyd - è il nero più nero sul quale tu o qualsiasi mortale abbia mai posato lo sguardo. Ma attendi un poco, e avrò un nero così nero, che nessun mortale sarà in grado di guardarlo… e quindi di vederlo!.
D'altro canto, Paul Tichlorne era immerso altrettanto profondamente nello studio della polarizzazione della luce, della diffrazione, dell'interferenza, della semplice e doppia rifrazione, e in ogni genere di strani composti organici.
- La trasparenza è uno stato o qualità di un corpo, per cui esso lascia passare tutti i raggi della luce. Questa era la sua definizione. - È appunto questo che cerco. Con la sua opacità perfetta, Lloyd si va a scontrare con l'ombra, ma io riesco a eludere il problema. Un corpo trasparente non proietta ombra, né riflette le onde luminose… cioè, non le riflette se è perfettamente trasparente. Perciò, evitando le luci forti, non soltanto un corpo simile non proietterà ombra ma, dal momento che non riflette la luce, sarà anche invisibile.
Un'altra volta eravamo in piedi davanti alla finestra. Paul era occupato a ripulire alcune lenti, che disponeva sul davanzale. D'un tratto, dopo una pausa, disse: - Oh, mi è caduta una lente. Affacciati un po', e guarda se è caduta fuori.
Mi sporsi per vedere, ma un colpo violento sulla fronte mi fece indietreggiare. Mi massaggiai il bernoccolo e guardai con rimprovero Paul, che rideva allegramente.
- Ebbene? - disse.
- Ebbene? - ripetei.
- Perché non lo scopri? - Seguii il suo invito. Prima di sporgere la testa dalla finestra, i miei sensi mi avevano automaticamente comunicato che nulla si frapponeva fra me e l'esterno, che l'apertura della finestra era completamente vuota. Tesi la mano, e sentii invece un oggetto duro, liscio e freddo, che al tatto sembrava vetro. Guardai di nuovo, ma decisamente non vidi nulla.
- Sabbia bianca di quarzo - esclamò Paul, - carbonato di sodio, calce spenta, perossido di manganese, ecco tutto. Un magnifico cristallo francese, fabbricato dalla grande compagnia di St. Gobain, che produce i più bei vetri del mondo; e questo è l'esemplare più perfetto che abbiano mai fabbricato. Costa un occhio della testa. Ma guardalo! Non riesci a vederlo. Non ti accorgi della sua esistenza, finché non vai a sbatterci la testa.
«Eh, amico mio! È una semplice lezione oggettiva… Certi elementi, di per sé opachi, possono essere mescolati in modo da dare come risultato un corpo trasparente. Ma questa è chimica inorganica, dirai. Verissimo. Ma mi spingo ad affermare, qui su due piedi, che posso trasformare in organico qualsiasi processo inorganico.
«Ecco! - Tenne sollevata una provetta tra me e la luce, e notai il liquido torbido che essa conteneva. Vuotò in quella provetta il contenuto di un'altra, e quasi istantaneamente il liquido diventò chiaro e trasparente.
- Ed ecco un altro esperimento! - Con movimenti rapidi e nervosi in mezzo alla fila di provette, trasformò una soluzione giallo-chiara in una bruno-scura. Immerse in una soluzione acida una cartina di tornasole, che virò istantaneamente al rosso e, galleggiando in una soluzione alcalina, diventò rapidamente azzurra. La cartina di tornasole - annunciò, nel tono solenne di un conferenziere, - è rimasta una cartina di tornasole, non l'ho trasformata in qualcos'altro. Allora, che cosa ho fatto? Ho semplicemente cambiato la disposizione delle sue molecole. Mentre prima assorbiva dalla luce tutti i colori, all'infuori del rosso, la sua struttura molecolare è così trasformata, ora, che assorbe il rosso e tutti gli altri colori, all'infuori dell'azzurro. E così via, ad infinitum.
«Ora, quel che mi propongo è questo. - Tacque un momento. - Mi propongo di cercare… sì, e di trovare… i reagenti adatti che, operando su un organismo vivente, vi apportino dei mutamenti molecolari analoghi a quelli che hai veduto poco fa. Ma questi reagenti che voglio scoprire, anzi, farei meglio a dire che ho quasi individuato, non faranno diventare un corpo azzurro, rosso o nero, bensì trasparente. Tutta la luce vi passerà attraverso: il corpo sarà invisibile e non proietterà alcuna ombra.
Poche settimane dopo andai a caccia con Paul. Mi aveva promesso già da qualche tempo che avrebbe portato con sé un cane straordinario - anzi, il cane più straordinario che fosse mai esistito, così aveva detto, suscitando in me la più avida curiosità ma la mattina in questione rimasi deluso, perché del cane non c'era traccia.
- Non lo vedo - osservò Paul con indifferenza, e ci avviammo tra i campi.
Non riuscivo a immaginare perché mi sentissi così a disagio, quasi pareva l'avvisaglia di un malore imminente e fatale. Avevo i nervi a pezzi, e dai tiri sorprendenti che mi giocavano, sembrava che i miei sensi fossero sconvolti. Ero turbato da suoni strani. Percepivo a volte il fruscio dell'erba, e a un certo punto udii un battere di zampe su una zona di terreno sassoso.
- Hai sentito qualcosa, Paul? - domandai a un certo punto al mio amico.
Ma scosse la testa e proseguì senza rispondere. Oltrepassando un recinto, udii il mugolio basso e ansioso di un cane, apparentemente a pochi passi da me. Mi guardai intorno, non vidi nulla.
A quel punto caddi a terra, debole e tremante.
- Paul - dissi, - faremo meglio a tornare indietro. Temo di sentirmi male.
- Sciocchezze - rispose. - Il sole ti ha dato alla testa, come il vino. Ti rimetterai subito. Il tempo è magnifico.
Ma attraversando uno stretto sentiero nella macchia, sentii qualcosa sfiorarmi le gambe; inciampai e quasi caddi. Guardai Paul con improvvisa preoccupazione.
- Che c'è? - domandò. - Un passo falso?
Mi morsi la lingua per non ribattere, e proseguii, ancora turbato al pensiero della misteriosa malattia che mi aveva assalito i nervi. Fino a quel momento gli occhi si erano salvati: ma, quando tornammo sui campi aperti, anche la vista mi tradì. Sul sentiero davanti a me cominciai a notare degli strani lampi multicolori e delle luci d'arcobaleno intermittenti. Riuscii tuttavia a mantenermi calmo, finché le luci multicolori rimasero visibili anche per venti secondi, danzando e lampeggiando in un gioco continuo. Ero talmente allibito, che dovetti fermarmi.
- Devo avere qualcosa - mormorai, coprendomi gli occhi con le mani. - Qualcosa agli occhi, voglio dire. Paul, riaccompagnami a casa.
Ma Paul scoppiò a ridere. - Che ti dicevo?… Un cane meraviglioso, eh? Ebbene, che ne pensi?
Si voltò e lanciò un fischio. Udii un calpestio di zampe, l'ansare di un animale accalorato, e l'inconfondibile latrato di un cane. Allora Paul si curvò e apparentemente accarezzò l'aria…
- Ecco! Dammi la mano.
Mi fece passare il palmo sul naso freddo e umido di un cane. Era certamente un cane, con la forma e il pelo liscio e corto di un pointer. Basti dire che mi ripresi immediatamente. Paul mise un collare all'animale e gli legò un fazzoletto alla coda. E allora fummo gratificati della vista singolare di un collare vuoto e di un fazzoletto scodinzolante, che saltellavano sui campi. Era curioso vedere quel collare e quel fazzoletto puntare una volata di quaglie in un ciuffo di carrubi, e restare rigidi e immobili, finché non avevamo colpito la preda.
Di tanto in tanto il cane emetteva quei lampi di luce multicolore di cui ho parlato. L'unica cosa, mi spiegò Paul, che egli non aveva previsto, e che dubitava di poter eliminare.
- Fanno tutti parte della stessa famiglia - disse, questi falsi soli, arcobaleni, aloni, parelii. Sono il prodotto della rifrazione della luce attraverso i cristalli minerali o di ghiaccio, la nebbia, la pioggia, la polvere, e così via; credo che sia il prezzo da pagare per la trasparenza. Sono sfuggito all'ombra di Lloyd, soltanto per scontrarmi con il baleno.
Un paio di giorni dopo, prima di entrare nel laboratorio di Paul, sentii un puzzo terribile. Era così ripugnante, che mi fu facile scoprirne la causa: una massa putrescente sugli scalini, che nelle linee generali assomigliava a un cane. Paul fu sorpreso quando indagò sulla mia scoperta. Era il suo cane invisibile, o piuttosto quello che ne rimaneva… perché adesso era chiaramente visibile. Qualche minuto prima aveva giocato intorno alla casa, pieno di forza e di salute. Un esame ravvicinato rivelò che il cranio era stato fracassato da un colpo di mazza. Per quanto la sua uccisione fosse strana, il fatto inesplicabile era come mai si fosse così rapidamente putrefatto.
- I reagenti che gli ho iniettato nell'organismo erano innocui - spiegò Paul. - Tuttavia erano molto potenti; e quando sopraggiunge la morte, sembra che essi producano un processo istantaneo di disintegrazione. Interessante! Molto interessante! Ebbene, l'unico rimedio è non morire. Finché si è in vita, non c'è pericolo. Ma, mi domando, chi avrà fracassato la testa al cane?
Non si tardò a far luce su questo punto. Infatti, una cameriera spaventata portò la notizia che Gaffer Bedshaw quella stessa mattina aveva dato improvvisi segni di pazzia e, non più di un'ora prima, era stato trasportato a casa, dove vaneggiava di una battaglia con una belva feroce e gigantesca nella quale s'era imbattuto nel pascolo di Tichlorne. Affermava che quell'essere, qualunque cosa fosse, era invisibile, e che se n'era accertato con i propri occhi; a quel punto la moglie in lacrime e le figlie scrollarono il capo, un gesto che lo fece ancor più imbestialire, tanto che si dovettero stringere ancor più le cinghie per tenerlo a bada.
Mentre Paul Tichlorne aveva brillantemente risolto il problema dell'invisibilità, Lloyd Inwood non se ne stava certo con le mani in mano. Mi recai da lui, in risposta a un suo messaggio, per vedere come andavano le cose. Il laboratorio sorgeva in una bella radura in mezzo ai suoi vasti possedimenti, circondata da ogni parte dalla densa foresta, e vi si giungeva per mezzo di un sentiero sinuoso. Avevo seguito tante volte quel sentiero, che ne conoscevo ogni angolo; immaginate quindi la mia sorpresa, quando giunsi alla radura e non trovai più il laboratorio. Il caratteristico edificio con il suo camino rosso non c'era più, né sembrava vi fosse mai stato. Non c'erano segni di rovine né di macerie, nulla di nulla.
Girai attorno alla zona dove un tempo sorgeva l'edificio. - Questo - mi dissi - dovrebbe essere il gradino per salire alla porta. - Queste parole mi erano appena uscite dalle labbra, quando inciampai in un ostacolo. Caddi in avanti e urtai con la testa su qualcosa che assomigliava a una porta. Allungai una mano: era una porta. Cercai la maniglia e la girai. E immediatamente, appena la porta girò sui cardini, l'interno del laboratorio apparve ai miei occhi. Salutando Lloyd, chiusi la porta e indietreggiai di qualche passo sul sentiero. Non riuscivo a distinguere nulla della costruzione. Avanzai di nuovo e, aprendo la porta, rividi tutto l'arredamento e ogni particolare dell'interno. Era proprio sorprendente, l'improvvisa transizione dal vuoto alla luce, alla forma e al colore.
- Che ne pensi? - domandò Lloyd, stringendomi la mano. - Ho applicato un paio di strati di nero assoluto sull'esterno, per vedere l'effetto. Come va la tua testa? Hai preso un bel colpo, immagino.
- Lascia perdere - aggiunse subito, interrompendo le mie congratulazioni. - Ho per te qualcosa di meglio.
Mentre parlava, cominciò a spogliarsi, e quando mi restò nudo davanti, mi consegnò un recipiente e un pennello, dicendomi: - Ecco, dammi uno strato di questo.
Era una sostanza oleosa, simile alla lacca, che si spandeva rapidamente e facilmente sulla pelle, e si asciugava subito.
- E uno strato protettivo preliminare - spiegò, quando ebbi finito. - E ora, la vera sostanza!
Presi un altro recipiente che egli m'indicava e guardai dentro, ma non vidi nulla.
- E vuoto - osservai.
- Prova col dito.
Ubbidii, e sentii subito una sensazione di freddo umido. Ritirando la mano, guardai l'indice, quello che avevo immerso, ma era scomparso. Dalla tensione e dal rilassamento alternato dei muscoli, compresi che lo stavo muovendo, ma continuava a negarsi alla mia vista. Stando a tutte le apparenze, mi avevano amputato un dito; né riuscii a ricevere alcuna impressione visiva, finché non lo allungai verso l'abbaino e non vidi chiaramente l'ombra sul pavimento. Lloyd si mise a ridere.
- Ora dipingimi con quella miscela, e tieni gli occhi aperti.
Immersi il pennello nel recipiente apparentemente vuoto, e gli diedi un'ampia pennellata sul petto. Al passaggio del pennello, la carne spariva. Gli ricoprii la gamba destra, e mi vidi davanti un uomo che si reggeva su una gamba sola, sfidando tutte le leggi di gravitazione. E così, pennellata su pennellata, lo ricoprii interamente, trasformando Lloyd Inwood nel nulla. Era un'esperienza impressionante, e fui contento quando non restò più nulla, all'infuori dei suoi occhi ardenti e neri, apparentemente sospesi a mezz'aria.
- Per gli occhi ho una soluzione più fine e innocua - disse. - Una lieve pennellata, ed eccomi… sparito.
Fatto questo, mi disse: - Ora ti girerò intorno e mi dirai quali sono le tue sensazioni.
- In primo luogo non riesco a vederti - dissi, e udii subito la sua risata allegra. - Naturalmente - continuai, - non riesci a sfuggire alla tua ombra. Ma era prevedibile. Quando passi tra il mio occhio e un oggetto, questo scompare. Ma è una sensazione così insolita e incomprensibile, che mi sembra di avere gli occhi offuscati. Se ti muovi rapidamente, provo una sconcertante successione di offuscamenti. È una sensazione che fa male agli occhi e stanca il cervello.
- Non avverti nessun'altra traccia della mia presenza? - domandò.
- Sì e no - risposi. - Quando mi sei vicino, provo la sensazione di trovarmi in una di quelle cantine umide, in quelle cripte oscure, o nelle profondità di una miniera, e come i marinai sentono la vicinanza della terra nelle notti oscure, così mi pare di sentire la presenza del tuo corpo. Ma è tutto vago e quasi intangibile.
Quell'ultima mattina parlammo a lungo nel suo laboratorio, e quando mi alzai per andarmene, mi afferrò la mano con una stretta nervosa, dicendo: - Ora conquisterò il mondo! - E non osai rivelargli l'analogo successo conseguito da Paul Tichlorne.
A casa trovai un biglietto di Paul, che mi pregava di andar subito da lui. Era mezzogiorno, quando giunsi a casa sua in bicicletta. Paul mi chiamò dal campo di tennis. Smontai, e lo raggiunsi. Ma il campo era deserto. Me ne stavo là, quasi a bocca aperta, quando una palla da tennis mi colpì sul braccio e, mentre mi voltavo, un'altra mi sibilò vicino all'orecchio. Non riuscivo assolutamente a veder nulla del mio assalitore. Le palle schizzavano velocemente, come se saltassero da sole, e ben presto diventai un facile bersaglio. Ma allorché le palle che mi avevano colpito cominciarono a tornare in una seconda scarica, mi resi conto della situazione. Impadronendomi di una racchetta, e tenendo gli occhi bene aperti, notai all'istante un baleno che appariva e scompariva, saettando al livello del suolo. Scattai subito all'inseguimento, e quando vi scaricai sopra la racchetta con una mezza dozzina di colpi, la voce di Paul mi gridò all'orecchio: - Basta! Basta! Oh! Fermati! Stai picchiando sulla pelle nuda! Via, sarò buono, sarò buono! Volevo soltanto mostrarti la mia metamorfosi - disse con voce lamentosa, e immaginai che si stesse massaggiando le parti doloranti.
Pochi minuti dopo giocavamo a tennis: quanto a me, in condizioni d'inferiorità, perché non riuscivo a individuare la sua posizione, tranne quando l'angolo tra lui e il sole era tale da produrre quel particolare balenìo. Allora emetteva lampi, ma assai più brillanti dell'arcobaleno: di un azzurro più puro, di un violetto più delicato, di un giallo più brillante, con tutte le sfumature intermedie, con lo splendore del diamante, iridescente, rutilante, accecante.
Ma nel bel mezzo della nostra partita sentii un freddo improvviso, che mi rammentava le profondità di una miniera, l'oscurità di una cripta: la sensazione che avevo provato quella stessa mattina. Un momento dopo, davanti alla rete, vidi una palla rimbalzare a mezz'aria, e nello stesso istante, una ventina di passi più in là, Paul Tichlorne emise un lampo colorato. Non poteva essere stato lui a lanciare la palla, e con terribile sgomento compresi che Lloyd Inwood era comparso sulla scena. Per assicurarmene, cercai la sua ombra. E la vidi: una piccola macchia nera al suolo, perché il sole era allo zenit. Rammentai la sua minaccia, ed ebbi la certezza che i lunghi anni di rivalità stavano per culminare in una battaglia feroce.
Gridai un avvertimento a Paul, e udii un ringhio selvaggio e bestiale, poi un altro ringhio di risposta. Vidi l'ombra muoversi rapidamente sul campo, e un'esplosione di luce brillante e multicolore spostarsi con uguale rapidità incontro a essa; e allora l'ombra e il baleno si urtarono, e mi giunse all'orecchio il suono dei colpi invisibili. La rete crollò al suolo davanti ai miei occhi spaventati.
- Per l'amor di Dio! - gridai, balzando verso i combattenti.
Ma urtai contro i loro corpi allacciati, e caddi a terra.
- Non immischiarti! - mi gridò la voce di Lloyd Inwood. E poi udii la voce di Paul che ribadiva: - Sì, ne abbiamo abbastanza di pacieri!
Dal suono delle voci compresi che si erano divisi. Non potevo identificare Paul e così mi avvicinai all'ombra che rappresentava Lloyd. Ma dall'altro lato ricevetti un colpo tremendo sulla punta della mandibola, e udii Paul gridare con collera: - Adesso, starai alla larga!
Si azzuffarono di nuovo: il tonfo dei colpi, le urla e i gemiti, il rapido lampeggiare e gli scatti dell'ombra tradivano chiaramente il furore della lotta.
Gridai per invocare aiuto, e Gaffer Bedshaw arrivò di corsa. Mentre si avvicinava, notai che mi guardava con aria strana, ma urtò i combattenti e venne scaraventato a terra. Con strilli disperati, e un grido di: Oh, Dio, eccoli di nuovo! - saltò in piedi e fuggì come un ossesso fuori dal campo. Non potevo far nulla. Rimasi lì seduto, affascinato e impotente, a guardare la lotta furibonda. Il sole di mezzogiorno batteva con un bagliore vertiginoso sul campo da tennis. Vuoto. Tutto ciò che vedevo era la macchia d'ombra e i lampi d'arcobaleno, la polvere che si sollevava sotto i piedi invisibili, il terriccio sollevato in aria dai movimenti bruschi dei due avversari e, una volta o due, la rete metallica di protezione gonfiarsi sotto l'urto dei corpi che vi si gettavano contro. Era tutto, e dopo qualche tempo anche questo cessò. Non vi furono più lampi, l'ombra divenne lunga e immobile; e rammentai i loro volti giovanili, seri e decisi, quando si tenevano aggrappati alle radici in fondo allo stagno.
Mi trovarono un'ora dopo. Qualche indizio dell'accaduto era giunto alle orecchie della servitù, che lasciò in massa casa Tichlorne. Gaffer Bedshaw non si riebbe mai dal secondo colpo che aveva ricevuto, ed è ancora rinchiuso in manicomio, giudicato incurabile. Il segreto delle due meravigliose scoperte è morto insieme a Paul e Lloyd, perché entrambi i laboratori furono distrutti per decisione dei rispettivi parenti. Quanto a me, non mi occupo più di ricerche chimiche, e in casa mia la scienza è un argomento proibito. Sono tornato alle mie rose: i colori della natura sono abbastanza per me.
Titolo originale: "The Shadow and the Flash"
Bookman, giugno 1903
Traduzione di Gastone Rossi