martedì 4 febbraio 2020


TRANSITI
Rachel Cusk

Un’astrologa mi ha scritto una mail dicendo di avere notizie importanti sul mio immediato futuro. Vedeva cose che io non ero in grado di vedere: era entrata in possesso dei miei dati personali, che le avevano consentito di studiare i pianeti e ricavarne informazioni. Desiderava farmi sapere che nel mio cielo si sarebbe presto verificato un transito importante. La entusiasmava pensare ai cambiamenti che tale informazione poteva comportare. Per una cifra modesta l’avrebbe condivisa con me, affinché potessi usarla a mio vantaggio. Intuiva – continuava la mail – che avevo perso la bussola, che stentavo a dare un significato alla mia situazione attuale e a nutrire speranza per il futuro; sentiva un forte legame personale tra noi, una sensazione che non sapeva spiegare, e comunque era convinta che alcune cose potrebbero restare inspiegate. Molte persone sbarravano la mente al significato del cielo che le sovrastava, ed era comprensibile, ma riteneva che io non fossi tra quelle. Non avevo infatti quella cieca fiducia nella realtà che induceva altri a esigere spiegazioni concrete. Sapeva che avevo sofferto abbastanza per cominciare a pormi certe domande, per le quali ancora non avevo una risposta. Ma i movimenti dei pianeti rappresentavano una zona di infinito riverbero del destino umano: forse era solo che alcune persone non si consideravano abbastanza importanti per immaginarsi lassú. La cosa triste, scriveva, è che in quest’epoca di scienza e incredulità abbiamo smarrito il senso del nostro significato. Siamo diventati crudeli, con noi stessi e con gli altri, perché in ultima analisi pensiamo di non contare nulla. Ciò che i pianeti ci offrono, scriveva, altro non è che l’occasione per recuperare fiducia nella grandiosità dell’umano: quanto piú rispetto e stima, quanta gentilezza e responsabilità e riguardo metteremmo nelle relazioni con gli altri se fossimo convinti che ognuno e ognuna di noi ha un peso nel cosmo? Sentiva che ero la persona giusta per comprendere quanto ciò potesse influire sulla pace e la prosperità del mondo, per non dire della rivoluzione che un concetto piú elevato di destino poteva comportare nella vita personale. Sperava che l’avrei scusata per avermi contattata a quel modo e per aver parlato cosí apertamente. Come aveva già scritto, sentiva tra noi un forte legame personale che l’aveva incoraggiata ad aprirmi il suo cuore. Era lecito supporre che gli algoritmi che avevano generato quella mail avessero generato anche l’astrologa: le sue frasi erano troppo caratterizzate, e il dato di carattere ripetuto troppo spesso; era senza dubbio basata su un tipo umano, ma lo era troppo per essere umana a sua volta. Come risultato, la sua comprensione e sollecitudine erano piuttosto sinistre ma anche, per le stesse ragioni, apparentemente imparziali. Un mio amico, depresso dopo il divorzio, di recente mi aveva confessato che gli capitava di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari, o dalle voci automatiche su treni e bus, cosí ansiose di ricordargli la sua fermata; al momento provava qualcosa di assai simile all’amore per la voce femminile che, quando era al volante, lo guidava con molta piú dedizione di quanto avesse mai fatto sua moglie. Si è attinto a piene mani, mi ha detto, dal linguaggio e dalle informazioni della vita, e chissà che il finto-umano non sia ormai piú reale e comunicativo dell’originale, che si possa ricevere piú tenerezza da una macchina che da un nostro simile. Dopo tutto, l’interfaccia meccanizzata era il distillato non di uno ma di molteplici esseri umani. In altre parole, c’erano voluti molti astrologi per mettere a punto quello specifico esemplare. Era rassicurante, a suo avviso, che quel vasto coro non corrispondesse a una singola persona, e provenisse invece da ogni luogo e da nessun luogo: certo, un sacco di gente avrebbe trovato assurda una simile idea, ma ai suoi occhi l’erosione di individualità comportava anche l’erosione del potere di far soffrire. Era stato quello stesso amico – uno scrittore – a dirmi, la primavera precedente, che se mi fossi trasferita a Londra con mezzi limitati, sarebbe stato meglio comprare una casa malandata in una buona strada piuttosto che una bella casa in un quartiere degradato. Solo i molto fortunati e i molto sfortunati hanno un destino chiaro: tutti gli altri sono costretti a scegliere. L’agente immobiliare si è stupito che avessi fatto mia quella briciola di saggezza, se di saggezza si trattava. Nella sua esperienza, ha detto, per le persone creative la luce e lo spazio erano piú importanti della posizione. Tendevano infatti a cercare le potenzialità delle cose, mentre gran parte delle persone cercavano la sicurezza di ciò che è conforme, di ciò che è già stato pienamente realizzato, immobili la cui attrattiva altro non era che la somma di possibilità esaurite, a cui non si poteva aggiungere nulla. Ironia vuole, ha detto, che quella gente, pur timorosa di essere originale, sia anche ossessionata dall’originalità. I suoi clienti andavano in estasi per ogni minimo dettaglio di architetture del passato: be’, spostatevi un po’ dal centro e ne troverete in abbondanza a molto meno. Per lui restava un mistero che la gente continuasse a comprare in zone inflazionate della città quando si potevano fare ottimi affari in quartieri che si stavano trasformando. Probabile che fosse dovuto a scarsa immaginazione. Le quotazioni del mercato immobiliare avevano raggiunto il massimo, ma ciò sembrava eccitare gli acquirenti, anziché scoraggiarli. Quasi ogni giorno gli capitava di assistere a scene folli, con il suo ufficio assediato da gente che sgomitava per pagare troppo per troppo poco, come se fosse questione di vita o di morte. Aveva accompagnato visite durante le quali erano scoppiate liti, presieduto vendite all’asta di inaudita aggressività, si era addirittura visto offrire mazzette in cambio di un trattamento di favore; e tutto ciò per immobili che, alla fredda luce del giorno, non avevano nulla di speciale. Ciò che colpiva era la genuina disperazione di quei clienti, in preda agli spasmi del desiderio: gli telefonavano ogni ora per essere aggiornati o passavano in ufficio senza alcun motivo; supplicavano, talvolta addirittura piangevano; furiosi un momento prima e pentiti un attimo dopo, spesso lo intrattenevano con lunghe confessioni private. Li avrebbe compatiti se, appena completata la pratica d’acquisto, non avessero rimosso ogni traccia del dramma scordandosi non solo della propria condotta ma anche delle persone che avevano dovuto sopportarla. Gli erano capitati clienti che per una settimana avevano condiviso con lui le piú raccapriccianti intimità e la settimana dopo gli passavano accanto per strada senza dare alcun segno di riconoscerlo; aveva visto coppie sprofondare nella disperazione davanti ai suoi occhi, e che ora si facevano allegramente i fatti loro nel quartiere. Soltanto in quell’assoluto oblio scorgeva talvolta un briciolo di imbarazzo. Agli inizi della carriera quegli incidenti lo turbavano, ma grazie al cielo l’esperienza gli aveva insegnato a non prendersela troppo. Si rendeva conto di essere per loro una figura che sbucava dalla bruma rossa dei desideri, un oggetto, per cosí dire, di transfert. Eppure quel desiderio continuava a sconcertarlo. A volte pensava che la gente volesse solo ciò che non era sicura di poter avere; altre volte gli sembrava piú complicato. Spesso i suoi clienti ammettevano di provare sollievo dopo che il loro desiderio era stato frustrato: le stesse persone che avevano fatto il diavolo a quattro e pianto come bambini delusi vedendosi negare un certo immobile, qualche giorno dopo sedevano calme e tranquille nel suo ufficio, esprimendogli gratitudine per non averlo ottenuto. Si erano rese conto che sarebbe stato un acquisto del tutto sbagliato e volevano sapere cos’altro aveva da offrire. Per la maggior parte delle persone, a suo avviso, trovare una casa e ottenerla imponeva di rendersi molto attivi, il che comportava una qualche cecità, la cecità della fissazione. Solo quando la volontà si è esaurita, la maggioranza delle persone riconosce il verdetto del destino. Questa conversazione si svolgeva nel suo ufficio. Fuori, il traffico si muoveva pigro nella grigia, sudicia strada londinese. Ho obiettato dicendo che la frenesia da lui descritta, piú che indurmi a competere, spegneva ogni mio entusiasmo per la ricerca della casa e mi faceva venir voglia di andarmene. Tanto piú che non avevo i soldi per impegnarmi in eventuali aste. Mi rendevo conto che nelle condizioni di mercato da lui descritte era improbabile che trovassi un qualche posto in cui vivere. Ma nello stesso tempo mi ribellavo all’idea che le persone creative, come lui le aveva chiamate, dovessero accettare di essere emarginate dai loro valori, quelli che lui aveva garbatamente definito superiori. Aveva usato, mi pareva, la parola «immaginazione»: la scelta peggiore per quel tipo di persone era abbandonare il centro come gesto di autoprotezione rifugiandosi in una realtà estetica dalla quale il mondo esterno non veniva trasfigurato. Non intendevo competere, e meno che mai stabilire nuove regole su cosa fosse una vittoria e cosa no. Volevo ciò che volevano tutti, anche se non potevo ottenerlo. L’agente immobiliare pareva un po’ sorpreso dal mio commento. Non intendeva, ha detto, che dovessi essere emarginata, pensava solo che col denaro di cui disponevo avrei potuto trovare di meglio, e ottenerlo con facilità, in un quartiere meno ambito. Si rendeva conto che ero in una posizione vulnerabile e che un fatalismo come il mio era raro nel mondo in cui lui operava. Ma se ero decisa a correre nel mucchio, bene, aveva qualcosa da mostrarmi. Aveva i dettagli a portata di mano: una casa rimessa sul mercato proprio quella mattina, essendo andata buca la vendita precedente. Era un immobile di proprietà del comune e, come il prezzo lasciava intendere, volevano trovare al piú presto un altro acquirente. Come potevo vedere, ha detto, era in pessime condizioni – di fatto, virtualmente inabitabile. Gran parte dei suoi clienti, per quanto bramosi fossero, non l’avrebbero mai preso in considerazione. Se gli consentivo di usare il termine, era al di là dell’«immaginazione» di gran parte della gente; sebbene fosse in una zona senz’altro invidiabile. Tuttavia non se la sentiva di incoraggiarmi. Era un’occasione per un immobiliarista o un impresario edile, qualcuno capace di valutarla in modo impersonale; il problema era che i margini di guadagno erano troppo ridotti per interessare a quel tipo di persone. Per la prima volta mi ha guardata negli occhi. Inutile aggiungere, ha detto, che non è il posto dove far vivere dei bambini. Parecchie settimane dopo, a transazione conclusa, l’ho incrociato per strada. Era solo, e camminava con un fascio di carte stretto al petto e un mazzo di chiavi che gli tintinnavano fra le dita. Ricordando ciò che mi aveva detto, mi sono premurata di salutarlo, ma lui non ha dato segno di riconoscermi. Ciò accadeva nei primi giorni dell’estate, adesso eravamo all’inizio dell’autunno. Sono state le riflessioni dell’astrologa sulla crudeltà a ricordarmi quell’episodio che sul momento mi era sembrato la conferma che, qualunque cosa vogliamo pensare di noi stessi, non siamo che il risultato di come gli altri ci hanno trattato. Nella mail dell’astrologa c’era un link al tema natale che aveva stilato per me. Ho provveduto a pagare e ho letto ciò che diceva. Ho riconosciuto subito Gerard: pedalava nel traffico sotto il sole e mi è passato accanto senza vedermi. Aveva un’espressione esaltata che mi ha rammentato un lato drammatico del suo temperamento e una sera di quindici anni fa, quando, seduto nudo sul davanzale del nostro appartamento all’ultimo piano con le gambe ciondoloni nel buio, mi aveva detto che pensava che non lo amassi. L’unica differenza visibile erano i capelli, che aveva lasciato crescere in una stupefacente criniera di ricci neri. L’ho rivisto qualche giorno dopo: era mattino presto e stavolta camminava accanto alla sua bicicletta tenendo per mano una bimbetta in uniforme scolastica. In passato avevo vissuto insieme a Gerard per parecchi mesi, nell’appartamento di cui era proprietario e dove, per quanto ne sapevo, viveva tuttora. Alla fine di quel periodo l’avevo lasciato, senza tante formalità o spiegazioni, per qualcun altro e me n’ero andata da Londra. In seguito, per alcuni anni, mi chiamava nella casa in campagna in cui vivevo, e la sua voce era cosí flebile e remota che sembrava chiamasse da un luogo di esilio. Poi un giorno avevo ricevuto una sua lunga lettera, parecchie pagine scritte a mano in cui sembrava spiegarmi perché aveva trovato il mio comportamento incomprensibile e moralmente scorretto. Era arrivata subito dopo la nascita del mio primogenito, e in quei giorni spossanti non ero riuscita a leggerla fino in fondo, ascrivendo la mancata risposta alla lista dei miei peccati. Dopo esserci salutati, manifestando uno stupore che da parte mia era simulato dal momento che l’avevo già visto qualche giorno prima, Gerard mi ha presentato la ragazzina come sua figlia. – Clara, – ha detto con voce ferma, trillante, quando le ho chiesto il suo nome. Gerard mi ha chiesto che età avevano i miei figli adesso, come se la genitorialità potesse essere attenuata se vi ero implicata anch’io. Poi ha detto di aver visto una mia intervista da qualche parte, dovevano essere anni, a dire il vero, e la descrizione della mia casa nel Sussex lo aveva reso alquanto invidioso. I Downs meridionali erano una delle regioni del paese che preferiva. Era stupito, ha detto, di rivedermi in città. – Una volta Clara e io siamo andati a camminarci, – ha detto. – Vero Clara? – Sí, – ha detto lei. – Ho spesso pensato che sarebbe stato il posto giusto in cui andare se avessimo lasciato Londra, – ha detto Gerard. – Diane mi lascia leggere gli annunci porno degli agenti immobiliari, purché mi limiti a quello. – Diane è la mamma, – ha spiegato Clara compunta. La strada in cui ci trovavamo era uno dei grandi viali alberati di belle case vittoriane che sembravano fungere da garanti della rispettabilità del quartiere. Ogni volta che ci passavo davanti, le siepi ben potate e le lucide, ampie finestre suscitavano in me ingiustificati sentimenti di insicurezza e di totale esclusione. L’appartamento che avevo condiviso con Gerard era nelle vicinanze, in una strada dove si potevano cogliere i primi labili abbassamenti di tono via via che si transitava verso i distretti fatiscenti e intasati di traffico piú a est: le case, sebbene ancora belle, mostravano qualche imperfezione, le siepi erano un po’ piú incolte. L’appartamento di allora era un vasto labirinto di stanze ai piani alti di una villa edoardiana, con scorci spettacolari che illustravano la discesa dal salubre allo squallido, una dicotomia che Gerard, all’epoca, sembrava padroneggiare o subire. Dietro si godeva della vista palladiana a ovest, prati ben tenuti, alberi frondosi e scorci discreti su altre belle case. Davanti c’era il deprimente panorama di desolazione urbana sul quale, dal momento che l’edificio sorgeva su un’altura, si aveva una vista oltremodo estesa. Una volta Gerard mi aveva indicato un fabbricato lungo e basso in lontananza dicendomi che era un carcere femminile: ne avevamo una visione cosí nitida che la sera, nel corridoio su cui si aprivano le celle, distinguevamo i puntini arancioni delle sigarette accese delle recluse. I rumori dietro l’alto muro al nostro lato stavano aumentando. Gerard ha posato una mano sulla spalla di Clara e si è chinato per dirle qualcosa all’orecchio. Era evidente che la stava rimproverando, e io ho ripensato alla lettera con il catalogo delle mie manchevolezze. Era una bambina graziosa, minuscola, fragile, ma l’espressione da martire assunta dal suo viso da elfo mentre lui le parlava induceva a pensare che avesse ereditato qualcosa del temperamento melodrammatico del padre. Ne ascoltava la reprimenda con gli arguti occhi scuri fissi al fondo della strada. Ha risposto all’ultima domanda paterna con un cenno impercettibile del capo, gli ha girato le spalle e con grande dignità ha varcato il cancello insieme agli altri bambini. Ho chiesto a Gerard quanti anni aveva. – Otto, – ha detto. – Va per i nove. Mi stupiva che Gerard avesse una figlia. All’epoca in cui lo frequentavo sembrava cosí lontano dall’aver risolto i problemi della propria infanzia che stentavo a credere che fosse diventato padre. Tale stranezza era accentuata dal fatto che sotto ogni altro punto di vista non era cambiato: la sua faccia olivastra, con lunghe ciglia e occhi un po’ infantili non era invecchiata; sulla gamba sinistra, i calzoni erano tenuti fermi con una molletta, come sempre; la custodia del violino assicurata alla schiena con una cinghia era sempre stata un tratto cosí caratteristico del suo aspetto che non ho neppure pensato di chiedergli perché ce l’avesse. Quando Clara è scomparsa alla vista, Gerard ha detto: – Avevo sentito dire che saresti tornata a vivere qui. Non sapevo se crederci. Mi ha chiesto se avevo comprato casa e dove abitavo e mi ha ascoltata scuotendo il capo con vigore. – Io non ho nemmeno cambiato casa, – ha detto. – È buffo, – ha detto, – tu hai sempre cambiato tutto e io niente eppure siamo finiti entrambi nello stesso posto. Qualche anno prima, ha proseguito, era stato per un breve periodo in Canada, ma a parte ciò le cose erano rimaste quelle che erano sempre state. Soleva domandarsi, ha detto, come ci si senta a partire, ad andare lontano da quello che si conosce e stabilirsi altrove. Per un po’, dopo che me n’ero andata, ogni mattina uscendo di casa per recarsi al lavoro lui guardava l’albero di magnolia a lato del cancello, e il pensiero che non vedessi piú quell’albero lo annichiliva, tanto gli pareva strano. C’era ancora un quadro che avevamo comprato insieme – appeso nello stesso posto tra le due grandi finestre che davano sul giardino posteriore – e lui si sedeva a guardarlo chiedendosi come potessi sopportare di averlo lasciato lí. All’inizio guardava quelle cose, l’albero di magnolia, il quadro, i libri e altri oggetti che non avevo portato con me, come vittime dell’abbandono, ma col passare del tempo quello era cambiato. Per un po’ aveva pensato che avrei sofferto nel rivedere quelle cose. Poi, tempo dopo, aveva cominciato a pensare che forse sarei stata felice di rivederle. Aveva conservato tutto, tra l’altro, e l’albero di magnolia – sebbene fra i residenti si fosse parlato di abbatterlo – era sempre lí. Una folla di genitori e ragazzini in uniforme si stava ammassando ai cancelli ed era sempre piú difficile sovrastare il rumore. Gerard era costretto a spostare di continuo la bicicletta, che reggeva con leggerezza per il manubrio. Gran parte degli altri genitori erano donne: donne con cani al guinzaglio e donne con passeggini, donne eleganti con ventiquattrore e donne che portavano le cartelle, il cestino del pranzo e gli strumenti musicali dei figli. Nella calca, il brusio delle loro voci aumentava, contrastando il rumore che proveniva da dietro le mura via via che i bambini affollavano il cortile. C’era la sensazione di un inesorabile crescendo, quasi di isteria, che si è interrotta di colpo quando è suonata la campanella. Di tanto in tanto una donna gridava un saluto a Gerard e io l’osservavo rispondere con l’entusiasmo che era sempre stato il suo modo di mascherare la diffidenza sociale. Ha tolto la bicicletta dalla mischia e abbiamo attraversato la strada, dove le prime foglie rossicce cominciavano a cadere intorno alle auto parcheggiate. Era una mattina afosa, grigia, senza vento: in contrasto con la scena chiassosa cui avevamo appena assistito, lí il mondo sembrava cosí smorzato e immobile che era come se il tempo si fosse fermato. Gerard ha ammesso di sentirsi tuttora piuttosto a disagio davanti alla scuola, sebbene fossero ormai vari anni che ci accompagnava Clara. Diane non aveva orari, e in ogni caso era perfino piú insofferente di lui all’atmosfera scolastica: se non altro a Gerard il fatto di essere un uomo garantiva un certo grado di dissimulazione. Quando Clara era piú piccola, era lui a sobbarcarsi il giro dei gruppi di gioco e le riunioni mattutine. Aveva imparato parecchio, non sulla genitorialità ma sugli altri. Si era stupito scoprendo che nei gruppi dei piú piccoli le donne gli erano ostili, sebbene non si fosse mai considerato particolarmente virile. Aveva sempre avuto intense amicizie femminili, la sua migliore amica negli anni dell’adolescenza era Miranda – forse mi ricordavo di lei – ed erano stati in un certo senso intercambiabili, spesso condividendo il letto e spogliandosi l’uno davanti all’altra senza imbarazzo. Ma nel mondo delle madri ecco che la sua mascolinità diventava uno stigma: gli riservavano di volta in volta risentimento o disprezzo, come se non potesse farcela né con la presenza né con l’assenza. Era spesso solo a occuparsi di Clara, nei primi tempi, e veniva sopraffatto di frequente dalle nuove prospettive sulla propria infanzia che avere una figlia gli apriva. Diane era tornata a lavorare a tempo pieno, e se qualche volta la sua mancanza di sentimentalismo rispetto alla maternità e la sua avversione per i doveri materni lo stupivano, a poco a poco era arrivato a capire che quella competenza – l’alimentazione e ciò che ne consegue – a lei non interessava. Non ne sentiva il bisogno. Sull’essere donna sapeva quanto le bastava, era lui quello che doveva imparare; lui quello che aveva bisogno di scoprire come ci si prende cura di un altro, come essere responsabile, come costruire e rafforzare una relazione, e Diane gliel’aveva lasciato fare. Gli aveva affidato Clara senza riserve, era certo che la maggior parte delle donne non sarebbero state capaci di fare altrettanto; per lui era stato difficile, ma ce l’aveva fatta. – Adesso sono il loro marito casalingo prediletto, – ha detto, rivolgendo cenni di saluto alle donne con cani e passeggini che si stavano a poco a poco disperdendo. Ci siamo allontanati dalla scuola risalendo adagio la strada che portava alla stazione della metropolitana. Nella scelta del percorso c’era stato qualcosa di automatico: io non intendevo prendere la metro, e nemmeno Gerard, che era in bici, ma la problematicità del nostro incontro, dopo tanto tempo, sembrava aver prodotto il tacito accordo di restare su un terreno neutrale e muoverci attenendoci alla segnaletica stradale. Avevo dimenticato, gli ho detto, quanto poteva essere piacevole l’anonimato della vita in città. Qui la gente non si sentiva sempre in dovere di spiegare se stessa: la città era un’interfaccia decifrabile, una sorta di lessico del comportamento umano che svolgeva metà del compito di decodificazione del mistero di sé, cosí che si poteva comunicare in modo efficace con una sorta di stenografia. In campagna, dove avevo vissuto fino a poco tempo prima, ogni individuo costituiva l’unica e spesso illeggibile rappresentazione dei propri gesti e scopi. Si perdeva o si fraintendeva cosí tanto, ho detto, nel processo di autospiegazione; si facevano cosí tante supposizioni infondate; si sfilacciava il significato integrale di cosí tante parole. – Quand’è che te ne sei andata da Londra? – ha chiesto Gerard. – Saranno… almeno quindici anni? C’era qualcosa di artificioso nella sua vaghezza: dava l’impressione, presumibilmente al contrario di ciò che avrebbe voluto, di saperla lunga sui fatti che faceva mostra di non conoscere, e ho provato un’ignominiosa fitta di colpa per come l’avevo trattato. Mi sono di nuovo stupita di quanto poco fosse cambiato da allora, salvo che sembrava un po’ piú in carne. A quell’epoca era un abbozzo, un contorno; io avrei voluto che fosse piú di ciò che era, pur non sapendo da dove potesse venire l’extra. Ma il tempo gli aveva dato densità, come quando un artista riempie di colore la forma abbozzata. Si passava spesso le dita tra le chiome ribelli; sembrava in ottima salute e abbronzato, e indossava un’ampia camicia di flanella a quadretti rossi e blu, molto simile a quelle che gli piacevano da giovane, molto sbottonata per mostrare il collo scuro. I colori erano cosí sbiaditi dal tempo e dai lavaggi che mi sono chiesta se non fosse in effetti la stessa camicia che gli ricordavo addosso tanti anni prima. Era sempre stato parsimonioso al punto che qualunque spreco o eccesso gli procurava un sincero turbamento, inducendolo a giudicare gli altri pur senza volerlo; una volta però aveva ammesso che talora fantasticava di concedersi gli stessi gesti stravaganti e distruttivi che condannava. Ho detto che avevo l’impressione che lí ben poco fosse cambiato durante la mia assenza: avevo notato che i miei vicini, quando la mattina uscivano di casa impeccabilmente vestiti per recarsi al lavoro, spesso sostavano a guardarsi intorno, con un lieve sorriso, come se si fossero appena ricordati di qualcosa di piacevole. Gerard si è messo a ridere. – Difficile non autocompiacersi, – ha detto, – quando si è circondati dall’autocompiacimento. Uno dei vantaggi di andar via, adesso lo capiva, era che facilitava il cambiamento, ovvero ciò che lui aveva sempre temuto: ritrovarsi altrove e accorgersi di avere nel frattempo perduto se stessi. Diane, ha continuato, era canadese, e il fatto di vivere in un continente diverso da quello in cui era cresciuta non le creava alcun problema. Al contrario, riteneva di essersi risparmiata la pena di affrontare varie questioni emotive paralizzanti – sua madre innanzitutto – semplicemente trasferendosi dall’altra parte del mondo. Ma c’era qualcosa di inesorabile, ha ammesso Gerard, nel modo in cui lui abitava Londra e nel destino che glien’era venuto: gran parte delle persone, ormai l’aveva capito, non erano intralciate quanto lui dalle proprie origini. Aveva vissuto due anni a Toronto con Diane, e sebbene là sentisse di essersi liberato – sbarazzato, ad essere sincero, di quello che sentiva come un peso schiacciante – provava un fortissimo senso di colpa. E quando era nata Clara, il dilemma si era aggravato: trovava inverosimile che Clara avesse un’infanzia come la sua, ma trovava ancora piú inverosimile che non ce l’avesse, che potesse vivere tutta la vita ignorando ciò che per Gerard costituiva la realtà. Gli ho chiesto perché avesse usato la parola «colpa» per dire di ciò che chiunque altro avrebbe definito nostalgia, e che in ogni caso era solo l’assenza del suo ambiente famigliare. – Sembrava sbagliato scegliere, – ha detto Gerard. – Sembrava sbagliato che un’intera vita dipendesse da una scelta. Aveva incontrato Diane per caso, facendo la coda al cinema. Era andato a Toronto per sei mesi, con una borsa di studio che gli aveva assegnato un dipartimento di cinema canadese. Aveva fatto domanda con l’assoluta certezza di non ottenerla e invece no, eccolo lí, lontano da casa a venti gradi sotto zero e in coda per vedere un vecchio film cult, La notte dei morti viventi. A quanto pareva anche Diane era una patita degli horror. Lavorava per la Cbc, la tv pubblica, un lavoro senza orari. Si vedevano saltuariamente da qualche settimana quando la persona assunta da Diane per portar fuori il cane – una vigorosa femmina di barbone gigante che rispondeva al nome di Trixie – aveva lasciato la città. Già prima il cane era una fonte di preoccupazione per Diane: in quel periodo era impegnata in un progetto di lavoro molto complesso, usciva di casa la mattina presto e rientrava la sera tardi, e l’ora in cui Trixie veniva portata fuori non era comunque abbastanza. Diane adorava i cani e prendeva molto sul serio la crudele situazione di Trixie. Adesso avrebbe dovuto trovare qualcun altro a cui affidarla, e nel caso di Diane, ha detto Gerard, era come chiederle di affidare un figlio a una persona nuova. Pur non conoscendo molto bene Diane – e non sapendo nulla di cani – Gerard si era offerto di aiutarla. Insegnava in un corso serale del college, ma durante il giorno poteva disporre del proprio tempo come meglio credeva. Progettava di tornare a Londra alla fine del semestre, ma per il momento era disposto ad andare ogni giorno a casa di Diane, agganciare il guinzaglio al collare di Trixie e portarla a correre e saltare nel parco. All’inizio Trixie lo innervosiva – era cosí grossa, caparbia e taciturna – ma in breve tempo aveva preso gusto a quelle passeggiate, che lo conducevano in zone di Toronto dove non era mai stato e perdipiú avevano il pregio di sgombrare da ogni problema di scelta la sua vita quotidiana, anche se di tanto in tanto si domandava cosa diavolo ci facesse a spasso con un enorme cane in una città straniera. Dopo circa una settimana gli era parso che tra lui e Trixie si fosse stabilita una sorta di routine, o quantomeno gli appariva meno allarmante quando entrava nell’appartamento e lei si drizzava sulle zampe ringhiando. Usciva con lui abbastanza volentieri, trottava orgogliosa al suo fianco, con la testa eretta, e a lui sembrava che anche la propria andatura fosse piú orgogliosa, con quell’animale taciturno che gli trottava al fianco. Lui e Diane non si vedevano quasi mai, ma lui sentiva una crescente intimità con Trixie, e un giorno aveva pensato che in realtà non c’era motivo di tenerla al guinzaglio – era anzi un po’ offensivo per lei – visto che gli stava appresso con tanta disciplina e autocontrollo. Senza rifletterci neppure un istante si era chinato e aveva sganciato il guinzaglio, e in un attimo Trixie se n’era andata. Era fermo a un incrocio affollato su Richmond Avenue. L’aveva intravista guizzare come una saetta bruna nel traffico verso nord, poi era scomparsa. Era strano, ha detto, ma su quel marciapiede, con i vasti abissi grigi delle vie di Toronto che si dipartivano a destra e a sinistra e il guinzaglio che gli penzolava dalla mano, si era sentito per la prima volta a suo agio: la sensazione di avere involontariamente provocato un cambiamento irreversibile, di aver commesso un errore vitale e benefico, era, l’aveva capito in quell’istante, la cosa piú intima e familiare che lui conoscesse. Commettere un errore provocava una perdita, e la perdita era la soglia della libertà: una soglia ingrata e scomoda, ma l’unica che in vita sua era stato capace di varcare; di solito, ha detto, perché veniva spinto oltre dagli eventi che l’avevano condotto fin lí. Era tornato nell’appartamento di Diane ed era rimasto ad aspettarla mentre nelle stanze si faceva buio, sempre con il guinzaglio in mano, finché era tornata. Diane aveva capito all’istante quel che era successo e a quel punto, per quanto strano possa sembrare, ha detto Gerard, era iniziato il loro rapporto. Lui aveva distrutto ciò che lei amava di piú; lei, a sua volta, lo aveva esposto al fallimento caricandolo di aspettative che lui non era in grado di soddisfare. Senza volere, si erano reciprocamente svelati le loro piú intime fragilità: erano giunti, con quell’orribile scorciatoia, al punto in cui di solito una relazione finiva, e da lí erano partiti. – Diane racconta questa storia molto meglio di me, – ha detto Gerard con un sorriso. Eravamo entrati nel piccolo parco che costituiva la via piú breve per raggiungere la stazione della metro evitando la falange di strade residenziali. A quell’ora del mattino era pressoché deserto. C’erano solo alcune donne con bambini in età prescolare nell’area giochi recintata, li guardavano arrampicarsi sulle attrezzature o fissavano il proprio cellulare. Erano rimasti a Toronto altri diciotto mesi, ha proseguito Gerard, durante i quali era nata Clara. A Toronto non potevano permettersi di comprare neppure un minuscolo alloggio ammobiliato, a Londra invece appartamenti come quello che Gerard aveva comprato per una somma modesta molti anni prima, e di cui era tuttora proprietario, valevano centinaia di migliaia di sterline. E poi, Clara aveva bisogno di parenti: secondo Diane non era il caso di tirar su un bambino del tutto integro. – La famiglia di Diane è parecchio disfunzionale, – ha detto. – La mia, al confronto, è solo un buon esercizio per il sistema immunitario. Si erano trasferiti a Londra quando Clara aveva tre mesi: non avrebbe conservato alcun ricordo della pallida, arida città in cui era nata, nessun ricordo del lago capriccioso sulle cui sponde battute dal vento Gerard camminava stringendosela al petto dentro un marsupio, nessun ricordo dell’eccentrica casa rivestita di assi di legno vicino alle rotaie del tram che Gerard e Diane avevano condiviso con una mutevole comunità di artisti, musicisti e scrittori. In origine la casa era un negozio e la grande vetrata anteriore era stata mantenuta: era parte integrante dell’ampio soggiorno, cosí che gli abitanti potevano essere visti da fuori mentre si facevano la loro vita. Molte volte, tornando a casa – soprattutto la sera, quando le luci all’interno erano accese e la vetrina diventava un grande palcoscenico illuminato – era stato colpito dal quadro umano che vedeva, le scene d’amore e i litigi, le scene di solitudine, laboriosità, amicizia, qualche volta di noia e dissociazione. Conosceva tutti gli attori – appena entrava diventava uno di loro – ma spesso indugiava a guardare da fuori, ipnotizzato. In un certo senso era tutta una posa artistica, e ne era consapevole, ma per lui riassumeva qualcosa di Toronto e della sua vita in quella città, una qualche essenziale distinzione che riconosceva pur non riuscendo ad afferrarla, anche se la parola che sempre gli veniva alle labbra per descriverla era «innocenza». – Pensavo che a Londra, tra le persone che conoscevo, – ha detto, – non sarebbe stato possibile vivere in quel modo. C’è troppa ironia, qui, è impossibile posare, ogni cosa è già un’imitazione di se stessa. Comunque lui e Diane avevano lasciato il Canada, e se l’atmosfera di arguti sottintesi era talvolta soffocante – perfino il pub è ironico, ha detto mentre ci avvicinavamo a quell’edificio un tempo sordido diventato col restauro un’allusione alla propria storia inesistente – la forza della continuità agiva al momento come un vento favorevole. La loro vita era improntata a una grande stabilità, e ciò aveva del miracoloso, ha detto, pensando a ciò di cui entrambi erano capaci. In apparenza, almeno per lui, la vita non era cambiata dall’epoca in cui lo avevo conosciuto: viveva nello stesso appartamento, aveva gli stessi amici, frequentava gli stessi posti negli stessi giorni di sempre; addirittura indossava molti dei suoi vecchi vestiti. L’unica differenza era che con lui c’erano Diane e Clara: costituivano una specie di pubblico; non sapeva come avrebbe potuto tirare avanti altrimenti. Sempre piú, ha proseguito, vedeva il soggiorno a Toronto come il momento fondativo di tale continuità, un’incursione all’estero in cui aveva trovato le risorse che gli avrebbero consentito di cementare la sua esistenza qui. Era un’ipotesi interessante, che la stabilità potesse essere un prodotto del rischio; forse il declino iniziava quando la gente cercava di mantenere immutate le cose. – In un certo senso è come se vivessimo tuttora in una vetrina, – ha detto. – È una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale. Gli ho detto che quando mi ero trasferita a Londra coi miei figli, quell’estate, era tutto cosí poco familiare che al piú grande sembrava di recitare una parte in uno spettacolo teatrale: gli altri dicevano le loro battute e lui diceva le sue, e qualunque cosa succedesse e dovunque andasse si sentiva in qualche misura irreale, come se gli accadimenti fossero quelli previsti da una sceneggiatura su un palcoscenico. Avevano iniziato a frequentare una nuova scuola, dove dovevano essere molto piú indipendenti: nella vecchia vita dipendevano da me per ogni cosa, ma qui entrambi erano diventati subito meno indolenti, cominciando a organizzarsi in modi di cui non sapevo nulla. Parlavamo molto poco della vecchia vita, perciò anche quella si era fatta sempre piú irreale. Nei primi tempi, ho detto a Gerard, qualche volta la sera facevamo delle passeggiate nel quartiere, guardandoci intorno come turisti. Dapprincipio i miei figli mi stringevano furtivamente una mano, camminando, ma poi avevano smesso e tenevano le mani in tasca. Dopo un po’ le passeggiate serali erano cessate perché i ragazzi dicevano di avere troppi compiti. Cenavano in fretta e poi tornavano nelle loro camere. Uscivano prestissimo nel grigiore mattutino, percorrendo a lunghi passi i marciapiedi ingombri di rifiuti, con i pesanti zaini che gli ballonzolavano sulla schiena. I nostri amici, ho detto, plaudivano a quei cambiamenti, che ai loro occhi apparivano dettati dalla necessità. Mi sentivo ripetere cosí spesso che era un piacere vedermi di nuovo sulle mie gambe che avevo cominciato a chiedermi se non rappresentassi qualcosa di piú di un oggetto di compassione; se per le persone che mi conoscevano non fossi arrivata ad incarnare un particolare tipo di paura o timore, qualcosa di cui preferivano dimenticarsi.