venerdì 28 febbraio 2020

GHIACCIO NOVE
Kurt Vonnegut Jr.
  
IL GIORNO IN CUI FINÌ IL MONDO

Chiamatemi Jonah  I miei genitori mi chiamavano così, o quasi. Mi chiamavano John.
Jonah... John... Se fossi stato Sam, sarei stato egualmente un Jonah... non perché io abbia portato sfortuna agli altri, ma perché qualcuno o qualcosa mi ha sempre spinto in certi posti, in certi momenti. Mi sono sempre stati offerti mezzi di trasporto e motivi, insieme convenzionali e bizzarri. E, secondo il piano, in ogni secondo fissato, in ogni luogo stabilito, questo Jonah era là.
State a sentire:
Quando ero più giovane... due mogli, duecentocinquantamila sigarette, tremila quartini di liquore fa…
Quando ero molto più giovane, cominciai a raccogliere il materiale per un libro che avrebbe dovuto intitolarsi Il giorno in cui finì il mondo.
Quel libro doveva essere una documentazione.
Quel libro doveva essere un resoconto di ciò che gli americani importanti avevano fatto il giorno in cui la prima bomba atomica era stata sganciata su Hiroshima, in Giappone.
Doveva essere un libro cristiano. Io ero cristiano, allora.
E adesso sono bokononista.
Sarei stato bokononista anche allora, se vi fosse stato qualcuno che mi avesse insegnato le menzogne dolci-amare di Bokonon. Ma il bokononismo era sconosciuto, al di là delle spiagge di ghiaia e delle lame coralline che circondano questa piccola isola del Mar dei Caraibi, la Repubblica di San Lorenzo.
Noi bokononisti crediamo che l’umanità sia organizzata in squadre, squadre che fanno la Volontà di Dio senza mai scoprire che cosa stanno facendo. Una squadra viene chiamata da Bokonon karass, e lo strumento, il kan-kan, che mi condusse nel mio particolare karass, fu il libro che io non finii mai, il libro che doveva avere per titolo Il giorno in cui finì il mondo.

BELLO, BELLO, MOLTO BELLO

“Se tu scopri che la tua vita si allaccia alla vita di qualche altra persona senza una ragione molto logica,”scrive Bokonon”quella persona può essere un membro del tuo karass”
E in un altro passo de I libri di Bokonon ci dice:
“L’uomo ha creato la scacchiera: Dio ha creato il karass”. Con questo intende dire che un karass ignora tutti i confini di nazionalità, di istituzioni, di lavoro, di famiglia e di classe.
È una forma libera, come un’ameba.
Nel suo Cinquantatreesimo Calipso , Bokonon ci invita a cantare con lui: 

Uno degli ubriaconi addormentato in Central Park, e un cacciatore di leoni in agguato nell’oscurità, e un dentista cinese e una regina inglese...
ciascun di loro è un pezzo del medesimo attrezzo. Bello, bello, molto bello, bello, bello, molto bello, bello, bello, molto bello, tanta gente differente nello stesso machiavello.

FOLLIA

Bokonon non ammonisce mai una persona di non cercare di scoprire i limiti del suo karass e la natura del compito che Dio Onnipotente gli ha assegnato. Bokonon osserva semplicemente che una simile ricerca è destinata a rimanere incompleta.
Nella parte autobiografica de I libri di Bokonon egli scrive una parabola sulla follia di chi pretende di scoprire, di comprendere:

Conobbi una volta una signora, di religione episcopale, a Newport, nel Rhode Island, che mi chiese di progettare e di costruire un canile per il suo grosso danese. Quella signora sosteneva di comprendere perfettamente Iddio e le Sue Vie di Operare. Non riusciva a capire perché tutti fossero così perplessi riguardo ciò che era stato e ciò che sarebbe stato in futuro.
Eppure, quando le mostrai il progetto del canile che intendevo costruire, mi disse:”Mi scusi, ma io non riuscirei mai a capire uno di questi disegni”.
“Lo dia a suo marito o al pastore, perché lo passi a Dio”dissi”e quando Dio troverà un momento libero, sono sicuro che spiegherà questo mio canile in modo tale che persino lei potrà capire.”
La donna mi revocò l’incarico. Credeva che Dio preferisse la gente in barca a vela alla gente in motoscafo. Non sopportava di guardare un verme. Quando vedeva un verme, strillava...
Era una sciocca e lo sono anch’io, e lo sono tutti coloro che credono di capire cosa sta facendo Dio.

Così scrive Bokonon.

UN GROVIGLIO DI RADICI

Per quanto sta in me, voglio che questo libro comprenda quanti più membri del mio karass è possibile, e intendo esaminare tutte le allusioni a ciò che noi siamo stati chiamati collettivamente a fare sulla terra.
Intendo fare di questo libro un’opera di propaganda a favore del bokononismo. Tuttavia mi piacerebbe premettere a questo proposito un monito bokononista. La prima frase de I libri di Bokonon è questa:
“Tutte le verità che sto per dirvi sono delle sfacciate menzogne”.
Il mio monito bokononista è questo :
“Chiunque non è in grado di comprendere che una religione utile può essere fondata sulle menzogne non comprenderà neppure questo libro”. E così sia.

Dunque, parliamo del mio karass.
Comprende sicuramente i tre figli del dottor Felix Hoenniker, uno dei cosiddetti “padri” della prima bomba atomica. Lo stesso dottor Hoenniker fu senza dubbio un membro del mio karass, benché fosse morto molto tempo prima che le mie sinookas, le radici della mia vita, cominciassero a intrecciarsi con quelle dei suoi tre figli.
Il primo dei suoi eredi ad essere toccato dalle mie sinookas fu Newton Hoenniker, il più giovane dei suoi tre figli. Dalla pubblicazione della mia confraternita universitaria , The Delta Upsilon Quarterly, appresi che Newton Hoenniker, figlio del fisico Premio Nobel Felix Hoenniker, era stato “accettato” dal mio capitolo, il Cornell Chapter  Quindi io scrissi questa lettera a Newt:

Caro signor Hoenniker, o forse dovrei dire:”Caro fratello Hoenniker”?
Io sono un Delta Upsilon di Cornell, e mi guadagno da vivere come scrittore indipendente. Sto raccogliendo materiale per un libro sulla prima bomba atomica. Sarà limitato agli eventi che si svolsero il 6 agosto 1945, il giorno in cui la bomba fu sganciata su Hiroshima.
Poiché il suo compianto padre è generalmente riconosciuto come uno dei principali creatori della bomba, sarei lieto se lei potesse riferirmi tutti gli aneddoti relativi alla vita familiare nella casa di suo padre, nel giorno in cui la bomba fu sganciata.
Devo purtroppo ammettere di non essere bene informato come dovrei sul conto della sua illustre famiglia, e quindi non so se lei ha fratelli e sorelle. Se li ha, vorrei avere il loro indirizzo, in modo da poter rivolgere anche a loro le stesse domande.
Mi rendo conto che lei era giovanissimo quando la bomba fu sganciata, e questo è un bene. Il mio libro dovrà sottolineare gli aspetti umani dell’avvenimento più che quelli tecnici, quindi i ricordi di quel giorno, visto attraverso gli occhi di un “bambino”, se mi perdona l’espressione, calzerebbero perfettamente.
Non deve preoccuparsi dello stile e della forma. A questo penserò io. Mi dia i dati essenziali.
Naturalmente le sottoporrò la versione definitiva per avere la sua approvazione, prima della pubblicazione.
Fraternamente suo

LETTERA DA UNO STUDENTE DI MEDICINA

Newt rispose:

Mi scusi se ho tardato tanto a rispondere alla sua lettera. Il libro che lei sta preparando mi sembra molto interessante. Io ero così piccino, quando la bomba fu sganciata, che non credo di poterle essere molto utile. Dovrebbe interrogare mio fratello e mia sorella, che sono entrambi maggiori di me. Mia sorella è la signora Harrison C. Conners, 4918 North Meridian Street, Indianapolis, Indiana. Quello è anche il mio indirizzo di casa, ora. Credo che mia sorella sarà lieta di esserle utile. Nessuno sa dov’è mio fratello Frank. Scomparve subito dopo i funerali di mio padre, due anni fa, e da allora nessuno ha più avuto sue notizie. Per quel che ne sappiamo, potrebbe anche essere morto.
Avevo solo sei anni quando sganciarono la prima bomba su Hiroshima, quindi ricordo di quel giorno soltanto ciò che gli altri mi hanno aiutato a ricordare.
Ricordo che stavo giocando sul tappeto del soggiorno, davanti alla porta dello studio di mio padre, a Ilium, New York. La porta era aperta e potevo vedere mio padre. Indossava il pigiama e un accappatoio. Fumava un sigaro. E giocava con un pezzo di spago. Quel giorno, mio padre non andò al laboratorio e rimase a casa tutto il giorno, in pigiama. Stava a casa tutte le volte che ne aveva voglia.
Mio padre, come lei probabilmente saprà, trascorse in pratica tutta la sua vita professionale lavorando per il laboratorio di ricerca della General Forge and Foundry a Ilium. Quando fu iniziato il Progetto Manhattan, il progetto della bomba, mio padre non volle lasciare Ilium per prendervi parte. Disse che non vi avrebbe affatto preso parte a meno che non lo lasciassero lavorare dove voleva lui. E questo significava che avrebbe lavorato quasi sempre a casa. L’unico posto in cui gli piaceva andare al di fuori di Ilium, era la nostra casetta a Cape Cod. E morì a Cape Cod. Morì la vigilia di Natale. Probabilmente lei sa già anche questo.
Comunque, io stavo giocando sul tappeto davanti al suo studio, il giorno della bomba. Mia sorella Angela mi dice che io passavo ore intere a giocare con le automobiline, imitando il rumore dei motori. Facevo sempre “brumm, brumm, brumm”. Immagino, quindi, che anche il giorno della bomba io stessi facendo “brumm, brumm, brumm”. E mio padre era nello studio, e giocava con lo spago.
Per caso, conosco la provenienza dello spago con cui stava giocando. Forse potrà servirle per il suo libro. Quello spago aveva tenuto legato il manoscritto d’un romanzo che un tale aveva mandato a mio padre dalla prigione. Il romanzo raccontava la fine del mondo nell’anno duemila, ed era intitolato 2000 d. C. Raccontava che alcuni scienziati pazzi avevano creato una bomba terribile, che aveva spazzato via il mondo intero. C’era una grande orgia, quando tutti scoprivano che il mondo stava per finire, e poi Gesù Cristo in persona appariva cinque minuti prima che la bomba esplodesse. L’autore si chiamava Marvin Sharpe Holderness, e nella lettera di accompagnamento aveva spiegato a mio padre di essere in carcere perché aveva ucciso suo fratello. Mandò il manoscritto a mio padre perché non era riuscito a immaginare che genere di esplosivo dovesse mettere nella bomba. Pensava che mio padre potesse dargli qualche suggerimento.
Non voglio dire, con questo, che io lessi il libro quando avevo sei anni. Rimase per anni in casa nostra. Mio fratello Frank se ne impadronì, perché c’erano alcuni passi sconci. Frank lo teneva nascosto in quella che chiamava “la cassaforte a muro” nella sua camera. In realtà non era una cassaforte, ma solo un vecchio tubo di stufa, con un coperchio di latta. Frank e io dobbiamo aver letto un migliaio di volte le scene dell’orgia, quando eravamo ragazzi. Lo facemmo per alcuni anni, poi lo trovò mia sorella Angela. Lo lesse e dichiarò che era lurido e schifoso. Lo bruciò, e bruciò anche lo spago. Angela faceva da madre a Frank e a me, perché nostra madre morì nel mettermi al mondo.
Mio padre non lesse mai quel libro, ne sono sicuro. Non credo che avesse mai letto un romanzo o un racconto in tutta la sua vita, o almeno da quando era diventato adulto. Non leggeva neppure la posta o le riviste o i giornali. Immagino che leggesse una quantità di riviste tecniche, ma per dirle la verità io non ricordo di aver mai visto mio padre leggere.
Come dico, ciò che gli interessava di quel manoscritto era lo spago. Era fatto così. Nessuno poteva prevedere che cosa gli poteva interessare di lì a un momento. Il giorno della bomba gli interessava quel pezzo di spago.
Ha letto il discorso che pronunciò quando ricevette il Premio Nobel? È tutto qui: “Signore e signori, io sto davanti a voi, adesso, perché non ho mai smesso di bighellonare, come un ragazzino di otto anni che va a scuola in un mattino di primavera. Qualunque cosa può indurmi a fermarmi, a guardare, a meravigliarmi, e qualche volta a imparare. Io sono un uomo molto felice. Vi ringrazio”.
Comunque, mio padre guardò per un po’ il pezzo di spago, poi le sue dita cominciarono a giocare, formarono quella figura di spago che si chiama “il cestino del gatto” . Non so dove mio padre avesse imparato quel gioco. Da suo padre, forse. Suo padre era sarto, lo sa, e quando mio padre era bambino doveva avere sempre intorno filo e spago.
Quel “cestino del gatto” fu la cosa più simile a un gioco che io abbia mai visto fare a mio padre. Non si occupava affatto dei giochi, dei passatempi e delle regole che erano stati inventati dagli altri. In un album di ritagli, mia sorella Angela conservava un articolo della rivista Time, in cui qualcuno chiedeva a mio padre quali giochi preferisse per distendersi i nervi, e lui rispondeva: “Perché dovrei perdere tempo con i giochi fittizi, quando sono in atto tanti giochi veri?”
Dovette rimanere stupito lui stesso, vedendo che aveva ottenuto un “cestino del gatto” da quello spago, e forse questo gli ricordò la sua infanzia. All’improvviso uscì dallo studio e fece qualcosa che non aveva mai fatto. Cercò di giocare con me. Non solo non aveva mai giocato con me, prima di allora ma a malapena mi aveva rivolto la parola. Ma si inginocchiò sul tappeto vicino a me, mi mostrò i denti e mi agitò sotto gli occhi quel groviglio di spago.
“Vedi? Vedi? Vedi?” mi chiese. “Il ‘cestino del gatto. Vedi il ‘cestino del gatto’? Vedi dove dorme il bel gattino? Miao: Miao.”
I suoi pori mi sembravano grandi come i crateri della luna. Aveva le orecchie e le narici piene di peli. Il fumo del sigaro lo faceva puzzare come la bocca dell’inferno. Visto da vicino, mio padre era la cosa più brutta che io avessi mai visto. Lo sogno sempre.
E poi cantò: “Dondola, gattino, in cima all’albero, e quando il vento soffia, dondola il cestino. Se il ramo si spezzerà, allora il cestino cadrà. Cadrà il cestino, gattino “.
Scoppiai in lagrime. Balzai in piedi e corsi fuori di casa, più in fretta che potei.
Devo smettere, a questo punto. Sono le due passate. Il mio compagno di stanza si è appena svegliato e ha protestato perché la macchina da scrivere fa troppo rumore.

COMBATTIMENTI DI INSETTI

Newt continuò la lettera la mattina seguente. La continuò come segue:

Mattina dopo. Eccomi qui di nuovo, fresco come una margherita dopo otto ore di sonno. La palazzina della confraternita è molto tranquilla, adesso. Tutti sono a lezione, tranne me. Io sono un personaggio molto privilegiato. Non debbo più assistere alle lezioni. Mi hanno espulso la settimana scorsa. Stavo per laurearmi in medicina. Hanno fatto bene a espellermi. Sarei diventato un pessimo medico.
Quando avrò finito questa lettera, credo che andrò al cinema. O, se viene fuori il sole, andrò a fare una passeggiata in uno dei burroni. Non sono belli, i burroni? Quest’anno, due ragazze si sono buttate giù, tenendosi per mano. Non erano riuscite a entrare nella confraternita che volevano. Volevano entrare nella Tri-Delt.
Ma ritorniamo al 6 agosto 1945. Mia sorella Angela mi ha detto molte volte che quel giorno offesi veramente mio padre perché non volli ammirare il “cestino del gatto”, perché non volli restare sul tappeto, con mio padre, a sentirlo cantare. Forse lo offesi, ma non credo di averlo offeso molto. Era uno degli esseri umani meglio protetti che siano mai esistiti. La gente non riusciva a sfiorarlo, perché a lui la gente non interessava. Ricordo una volta, un anno prima che morisse: cercai di indurlo a parlarmi di mia madre. Non ricordava niente, di lei.
Ha mai sentito la famosa storia della colazione, il giorno in cui mia madre e mio padre stavano per andare in Svezia, a ricevere il Premio Nobel? Una volta la pubblicarono su The Saturday Evening Post. Mia madre preparò una colazione memorabile. Poi, mentre sparecchiava la tavola, trovò una moneta da mezzo dollaro, una da un quarto e tre pennies vicino alla tazza del caffè di mio padre. Le aveva lasciato la mancia.
Dopo aver ferito così terribilmente mio padre, se è questo che feci, corsi in giardino. Non seppi dove andavo fino a che non trovai mio fratello Frank sotto un grande cespuglio di spiree. Frank aveva dodici anni, allora, e io non fui sorpreso di trovarlo là sotto. Passava molto tempo, là, nelle giornate più calde. Si era scavato una buca nella terra fresca, attorno alle radici, proprio come un cane. E non sapevi mai cosa avesse con sé, sotto quel cespuglio. Una volta aveva un libro osceno. Un’altra volta aveva una bottiglia di sherry. Il giorno in cui sganciarono la bomba, Frank aveva un cucchiaio da tavola e un barattolo di vetro. Stava raccogliendo con il cucchiaio insetti di diverse specie e li metteva nel barattolo e li faceva combattere.
La lotta degli insetti era così interessante che io smisi subito di piangere... mi dimenticai completamente del vecchio. Non ricordo che insetti facesse combattere Frank quel giorno, ma ricordo altri combattimenti che organizzammo in seguito: uno scarafaggio contro cento formiche rosse, un centogambe contro tre ragni, formiche rosse contro formiche nere. Non combattevano finché non agitavamo il barattolo. Ed era proprio quello che stava facendo Frank: scuoteva, scuoteva il barattolo.
Dopo un po’ Angela venne a cercarmi. Sollevò in parte i rami del cespuglio e disse: “Sei qui, dunque!” Chiese a Frank che cosa stesse facendo e lui rispose: “Un esperimento”. Era quello che rispondeva Frank, quando qualcuno gli domandava che cosa stesse facendo. Rispondeva sempre: “Un esperimento”.
Allora Angela aveva ventidue anni. Era lei, il vero capo della famiglia, da quando aveva sedici anni, da quando era morta mia madre, da quando ero nato io. Aveva l’abitudine di dire che lei aveva tre figli... me, Frank e nostro padre. E non esagerava. Ricordo le mattine fredde in cui Frank, nostro padre e io eravamo in fila nel corridoio, e Angela ci metteva in ordine, e ci trattava tutti allo stesso modo. Solo che io andavo all’asilo, Frank alle medie e nostro padre andava a lavorare alla bomba atomica. Ricordo una mattina in cui il bruciatore dell’impianto di riscaldamento si era guastato, i tubi erano gelati, e la macchina non si avviava. Ce ne stavamo tutti seduti in macchina, mentre Angela continuava a premere il pulsante dell’accensione, fino a che la batteria si scaricò. E poi nostro padre parlò. E sa cosa disse? Disse: “Sto pensando alle tartarughe”. “E perché pensi alle tartarughe?” gli chiese Angela.” Quando ritraggono la testa, “disse lui” la loro spina dorsale si storce o si contrae?”
Angela fu una delle eroine sconosciute della bomba atomica, fra parentesi, e non credo che questo episodio sia mai stato raccontato. Forse lei potrà servirsene. Dopo quell’incidente, mio padre si interessò tanto alle tartarughe che smise di lavorare alla bomba atomica. E alla fine, certi signori del progetto Manhattan vennero a casa nostra per chiedere ad Angela che cosa dovevano fare. Angela disse loro di portar via le tartarughe di nostro padre. Così una notte entrarono nel suo laboratorio e rubarono le tartarughe e l’acquario. Mio padre non disse mai una parola sulla sparizione delle tartarughe. Il giorno dopo si mise al lavoro e cercò qualcosa con cui giocare ed a cui pensare, e tutto quello che c’era lì per giocare e per pensare aveva qualcosa a che vedere con la bomba atomica.
Quando Angela mi tirò fuori di sotto il cespuglio, mi chiese che cosa era successo fra me e mio padre. Io continuai a ripetere che era brutto e che lo odiavo. Così lei mi diede uno schiaffo. “Come ti permetti di dire questo di tuo padre?” mi disse. “È uno dei più grandi uomini che siano mai esistiti! Oggi ha vinto la guerra! Te ne rendi conto? Ha vinto la guerra!” E mi diede un altro schiaffo.
Non rimprovero Angela per avermi schiaffeggiato. Nostro padre era tutto ciò che lei aveva al mondo. Non aveva corteggiatori. Non aveva amici. Aveva una sola passione. Suonava il clarinetto.
Le ripetei che odiavo mio padre; e lei mi diede un altro schiaffo. Poi Frank uscì di sotto il cespuglio e le diede un pugno nello stomaco. Le fece veramente molto male. Cadde e si rotolò al suolo. Quando riuscì a riprendersi, pianse e gridò per chiamare mio padre.
“Non verrà” disse Frank, e le rise in faccia. Frank aveva ragione. Mio padre sporse il capo da una finestra, guardò me e Angela che ci rotolavamo per terra ringhiando, e Frank che era in piedi vicino a noi e rideva. Il vecchio ritirò la testa e non chiese, neppure più tardi, la causa di quella zuffa. La gente non gli interessava molto.
Le basta? Le serve, per il suo libro? Naturalmente, lei mi ha legato le mani, chiedendomi di attenermi al giorno della bomba. Vi sono moltissimi buoni aneddoti sulla bomba e su mio padre, ma riguardano altri giorni. Per esempio, conosce quello relativo a mio padre, il giorno in cui provarono per la prima volta la bomba, ad Alamogordo? Dopo l’esplosione, dopo che fu accertato che l’America avrebbe potuto cancellare una città con una sola bomba, uno scienziato si rivolse a mio padre e disse: “Ora la scienza ha conosciuto il peccato”. E sa cosa rispose mio padre? Disse: “Che cosa è il peccato?”
con viva cordialità
Newton Hoenniker

GLI ILLUSTRI HOENNIKER

Newt aggiunse alla lettera questi tre poscritti:

P. S. Non posso firmarmi”fraternamente suo”, perché non mi permetterebbero di essere suo fratello. Facevo soltanto parte della confraternita, e adesso mi toglieranno anche questo.

P. P. S. Lei definisce”illustre”la mia famiglia, e io credo che forse commetterebbe un errore se la definisse così anche nel suo libro. Io sono un nanerottolo, per esempio. Sono alto quattro piedi . E l’ultima volta che ho avuto notizie di mio fratello Frank, era ricercato dalla polizia della Florida, dal F.B.I. e dal Dipartimento del Tesoro per aver portato a Cuba macchine rubate, a bordo di navi da trasporto, residuati di guerra. Sono sicuro che “illustre” non è la parola che le occorre. “Affascinante” è probabilmente più vicino alla verità.

P. P. P. S. Ventiquattro ore più tardi. Ho riletto questa lettera e capisco che in certi punti qualcuno potrebbe avere l’impressione che io non faccio altro che rintanarmi e ricordare cose tristi e compatire me stesso. In realtà, io sono un uomo molto fortunato e lo so. Sto per sposare una piccola ragazza meravigliosa. In questo mondo c’è amore per tutti, purché ci si guardi intorno. Io ne sono la prova.

NEWT E ZINKA

Newt non mi disse chi era la sua fidanzata. Ma circa due settimane dopo la sua lettera tutti, nel nostro paese, sapevano che la ragazza si chiamava Zinka... soltanto Zinka. A quanto pareva, non aveva cognome.
Zinka era una nana ucraina, una danzatrice della Compagnia di Balletti Borzoi. Era accaduto che Newt aveva visto uno spettacolo di quella compagnia a Indianapolis, prima di andare a Cornell. E poi la compagnia ballò anche a Cornell. Quando lo spettacolo a Cornell fu terminato, il piccolo Newt era davanti all’uscita del palcoscenico con una dozzina di rose a lungo stelo, della varietà American Beauty.
I giornali si occuparono della vicenda quando la piccola Zinka chiese asilo politico agli Stati Uniti; poi lei scomparve con il piccolo Newt.
Una settimana dopo, la piccola Zinka si presentò all’ambasciata russa. Disse che gli americani erano troppo materialisti. Disse che voleva ritornare in patria.
Newt si rifugiò in casa della sorella, a Indianapolis. Rilasciò una breve dichiarazione alla stampa.
“È una faccenda privata” disse. “Era un affare di cuore. Non ho rimpianti. Ciò che è successo non riguarda nessuno, soltanto Zinka e me.”
Un intraprendente giornalista americano a Mosca, facendo indagini sul conto di Zinka nel mondo della danza, laggiù, scoprì poco galantemente che Zinka non aveva soltanto ventidue anni, come aveva dichiarato.
Aveva quarantadue anni... era abbastanza vecchia per essere la madre di Newt.

VICEPRESIDENTE RESPONSABILE DEI VULCANI

Mi sprofondai nel mio libro sul giorno della bomba. Circa un anno dopo, due giorni prima di Natale, un’altra ragione mi portò attraverso Ilium, nello stato di New York, dove il dottor Felix Hoenniker aveva svolto quasi tutto il suo lavoro; dove il piccolo Newt, Frank e Angela avevano trascorso gli anni della loro formazione.
Mi fermai a Ilium, per vedere che cosa avrei potuto scoprire.
A Ilium non era rimasto nessun Hoenniker vivo, ma c’erano moltissime persone che sostenevano di aver conosciuto bene il vecchio e i suoi tre straordinari figliuoli.
Presi un appuntamento con il dottor Asa Breed, vicepresidente responsabile del laboratorio di ricerca della General Forge and Foundry Company. Immagino che anche il dottor Breed fosse un membro del mio karass, anche se mi prese in antipatia quasi immediatamente.
“Simpatie e antipatie non c’entrano” dice Bokonon... un monito facile da dimenticare.
“Mi risulta che lei fosse il supervisore del dottor Hoenniker durante quasi tutta la sua vita professionale” dissi al dottor Breed, per telefono.
“Sulla carta” disse lui.
“Non capisco” dissi io.
“Se io sono stato veramente il supervisore di Felix,” disse” allora sono pronto ad assumermi la responsabilità dei vulcani, delle maree e delle migrazioni degli uccelli e dei lemming. Quell’uomo era una forza della natura che nessun mortale poteva controllare.”

AGENTE SEGRETO X-9

Il dottor Breed mi fissò un appuntamento per la mattina seguente. Mi avrebbe prelevato al mio albergo, mentre andava al lavoro, disse, per semplificare in questo modo il mio ingresso nel sorvegliatissimo laboratorio di ricerca.
Così, avevo una notte da trascorrere a Ilium. Io ero già nel principio-e-fine della vita notturna di Ilium, il Del Prado Hotel. Il suo bar, la Sala Cape Cod, era una esposizione di sgualdrine.
Come accadde (come doveva accadere, direbbe Bokonon) la sgualdrina che mi era seduta vicino al bar e il barista che mi serviva avevano frequentato le scuole superiori insieme a Franklin Hoenniker, il tormentatore di insetti, il figlio di mezzo, il figlio scomparso.
La sgualdrina, che disse di chiamarsi Sandra, mi offrì delizie che si potevano ottenere soltanto a Place Pigalle e a Port Said. Dissi che non mi interessava e fu abbastanza spiritosa da dire che non interessava neppure a lei. Da come andarono le cose, avevamo sopravvalutato tutti e due le nostre apatie, ma non troppo.
Prima che potessimo reciprocamente calcolare l’uno le passioni dell’altra, tuttavia, parlammo di Frank Hoenniker, e parlammo del vecchio, e parlammo un poco di Asa Breed, e parlammo della General Forge and Foundry Company, e parlammo del Papa e del controllo delle nascite, di Hitler e degli ebrei. Parlammo delle falsità. Parlammo della verità. Parlammo dei gangster; parlammo di affari. Parlammo della simpatica povera gente che finisce sulla sedia elettrica, e parlammo dei ricchi bastardi che non vi finiscono. Parlammo delle persone religiose che avevano perversioni. Parlammo di moltissime cose.
Ci ubriacammo.
Il barista era molto gentile con Sandra. Gli piaceva. La rispettava. Mi disse che Sandra era stata presidentessa del Comitato dei Colori di Classe, nella scuola superiore di Ilium. Ogni classe, spiegò, doveva scegliersi i colori distintivi fino dal primo anno, e poi doveva portare quei colori con orgoglio.
“Che colori avevate scelto? “chiesi.
“Arancio e nero.”
“Sono bei colori.”
“Lo pensavo anch’io.”
“E Franklin Hoenniker faceva parte del Comitato dei Colori di Classe?”
“Non faceva parte di niente” disse Sandra, ironicamente. “Non ha mai fatto parte d’un comitato, non ha mai giocato nessun gioco, non è mai uscito con una ragazza. Non credo che abbia mai neppure parlato con una ragazza. Noi lo chiamavamo ‘agente segreto X-9’.”
“X-9?”
“Ecco... si comportava sempre come se stesse andando da un luogo segreto a un altro; non poteva neppure parlare con nessuno.”
“Forse aveva veramente una vita segreta molto intensa” suggerii.
“Nooo!”
“Nooo!” ironizzò il barista. “Era uno di quei ragazzi che costruiscono aeromodelli e non vanno mai a donne, si arrangiano da soli.”

PROTEINA

“Avrebbe dovuto essere lui, a tenere il discorso inaugurale” disse Sandra.
“Lui chi?” chiesi.
“Il dottor Hoenniker... il vecchio.”
“E cosa disse?”
“Non si presentò neppure.”
“Così non vi fu un discorso inaugurale?”
“Oh, vi fu. Il dottor Breed, quello che tu conoscerai domani, si presentò, senza fiato, e fece una specie di discorso.”
“Cosa disse?”
“Disse che sperava che molti di noi avrebbero scelto una carriera scientifica” disse Sandra. Non trovava nulla di buffo in tutto questo. Stava ricordando una lezione che l’aveva impressionata. La ripeteva puntigliosamente, con diligenza. “Disse che il mondo andava male perché...”
Dovette interrompersi per riflettere. Il mondo andava male” continuò, esitando, “perché la gente era superstiziosa invece che scientifica. Disse che se tutti avessero studiato di più le scienze non ci sarebbero stati tutti i guai che c’erano.”
“Disse che la scienza avrebbe scoperto il segreto fondamentale della vita, un giorno o l’altro” intervenne il barista. Si grattò la testa e corrugò la fronte. “Non l’ha letto sul giornale, l’altro giorno, che hanno scoperto finalmente qual è?” “Mi è sfuggito”mormorai.
“Io l’ho visto” disse Sandra. “Circa due giorni fa.” “È vero” disse il barista.
“E qual è il segreto della vita?” chiesi io.
“L’ho dimenticato” disse Sandra.
“La proteina” dichiarò il barista. “Hanno scoperto qualcosa sulle proteine.” “Già” disse Sandra. “È così.”

FINE DELLA DELIZIA DEL MONDO

Un barista più anziano venne a prendere parte alla nostra conversazione nella Sala Cape Cod dell’Albergo Del Prado. Quando seppe che stavo scrivendo un libro sul giorno della bomba, mi disse come era stato quel giorno, per lui, e come era stato quel giorno nel bar in cui eravamo seduti ora. Aveva una inflessione nasale alla W. C. Fields  e un naso simile a una fragola da esposizione.
“Allora non era la Sala Cape Cod” disse. “Non avevamo queste fetenti reti e queste fetenti conchiglie tutt’intorno. Allora si chiamava la Tenda Navajo. C’erano coperte indiane e crani di mucca alle pareti. Sulle tavole c’erano dei piccoli tam-tam. La gente avrebbe dovuto batter sui tam-tam, quando voleva essere servita. Cercarono di convincermi a portare un’acconciatura di guerra, ma io non volli saperne. Un giorno venne qui un vero indiano navajo; disse che i navajo non vivevano nelle tende. ‘È una fetente vergogna’ gli dissi io. Prima, questa era la Sala Pompeiana, con l’intonaco rovinato; ma non importa come chiamano questa sala, non cambiano mai questa illuminazione fetente. E non cambiano mai nemmeno la gente fetente che entra qui o la fetente città che sta fuori. Il giorno che sganciarono la fetente bomba di Hoenniker sui giapponesi, entrò un barbone e cercò di scroccare qualcosa da bere. Voleva che gli dessi da bere perché il mondo stava per finire. Così gli preparai una ‘fine della delizia del mondo’. Gli diedi circa mezza pinta di crème de menthe in un ananas svuotato e sopra la panna montata e una ciliegia... ‘Ecco, povero figlio d’una vacca’ gli dissi. ‘Non dire che non ho fatto niente per te’. Entrò un altro tizio e disse che lasciava il suo posto nel laboratorio di ricerca; disse che tutto quello su cui lavorava uno scienziato era destinato sicuramente a diventare un’arma, in un modo o nell’altro. Disse che non voleva più aiutare i politicanti nelle loro guerre fetenti. Si chiamava Breed. Gli chiesi se aveva qualcosa da fare con il principale del fetente laboratorio di ricerca. Disse che era maledettamente vero. Disse che lui era il fetente figlio del capo del laboratorio di ricerca.”

IL TRAMPOLINO

Oh, Dio, che brutta città è Ilium!
“Oh, Dio,” dice Bokonon” che brutta città è ogni città!”
Il nevischio cadeva attraverso un immoto lenzuolo di smog. Era mattina presto. Ero a bordo della Lincoln berlina del dottor Asa Breed. Mi sentivo vagamente male, un po’ ubriaco dalla sera prima. Il dottor Breed guidava. Le rotaie d’una tranvia abbandonata da molto tempo continuavano ad afferrare le ruote della macchina.
Breed era un vecchio roseo, molto prosperoso, vestito con eleganza. I suoi modi erano civili, ottimistici, efficienti, sereni. Io, per contrasto, mi sentivo irsuto, malaticcio, cinico. Avevo trascorso la notte con Sandra.
La mia anima mi sembrava fetida come il fumo che si alza dalla pelliccia bruciacchiata d’un gatto.
Pensavo il peggio di tutti e conoscevo parecchie cose sordide sul conto del dottor Asa Breed : cose che mi aveva detto Sandra.
Sandra mi aveva detto che tutti, a Ilium, erano sicuri che il dottor Breed fosse stato innamorato della moglie di Felix Hoenniker. Mi aveva detto che, secondo altri, Breed era il padre di tutti e tre i figli di Hoenniker.
“Conosce Ilium?” mi chiese improvvisamente il dottor Breed.
“È la prima volta che vengo qui.”
“È una cittadina di famiglia.”
“Prego?”
“Non c’è molta vita notturna. La vita di tutti si accentra sulla famiglia e sulla casa.”
“Mi sembra una cosa molto sana.”
“Lo è. Abbiamo pochissima delinquenza minorile.”
“Bene.”
“Ilium ha una storia molto interessante, sa.”
“È molto interessante.”
“Era un trampolino di lancio, sa.”
“Prego?”
“Per la migrazione verso l’Ovest.”
“Oh.”
“La gente veniva a equipaggiarsi qui.”
“Molto interessante.”
“Press’a poco dove adesso c’è il laboratorio di ricerca, c’era la vecchia palizzata.
Era lì che tenevano anche le pubbliche impiccagioni, per tutta la contea.”
“Immagino che anche allora il delitto non pagasse più di quanto paghi adesso.”
“Nel millesettecentoottantadue fu impiccato un uomo che aveva assassinato ventisei persone. Ho pensato spesso che qualcuno dovrebbe scrivere un libro su di lui, una volta o l’altra. George Minor Moakely. Cantò una canzone, sul patibolo. Cantò una canzone che aveva composto per la circostanza.”
“E cosa diceva la canzone?”
“Può trovare le parole alla Società Storica, se le interessa veramente.”
“Mi chiedevo soltanto quale poteva essere il tono generale.”
“Non era pentito di niente.”
“C’è gente fatta così.”
“Ci pensi!” disse il dottor Breed. “Aveva sulla coscienza ventisei morti!” “La mia mente vacilla” dissi.

QUANDO LE AUTOMOBILI AVEVANO VASI DI CRISTALLO

La testa dolorante mi oscillava sul collo rigido. Le rotaie del tram avevano di nuovo colto le ruote della splendente Lincoln del dottor Breed.
Chiesi al dottor Breed quanta gente tentasse di raggiungere la General Forge and Foundry Company alle otto del mattino, e lui mi disse che erano trentamila persone.
A ogni crocicchio c’erano poliziotti in impermeabili gialli, che contraddicevano con le mani guantate di bianco quello che affermavano i semafori.
I semafori, spettri sgargianti nel nevischio, continuavano a ripetere le loro inutili sciocchezze, dicendo a quel ghiacciaio di automobili che cosa doveva fare. Verde significava vai. Rosso significava fermati. Giallo significava cambiamento e prudenza.
Il dottor Breed mi disse che il dottor Hoenniker, quando era molto giovane, aveva addirittura abbandonato la macchina in mezzo al traffico di Ilium, una mattina.
I poliziotti cercarono di scoprire che cosa bloccasse il traffico” disse “e trovarono la macchina di Felix in mezzo al groviglio, con il motore acceso, un sigaro che si stava consumando nel portacenere, i fiori freschi nei vasetti...”
“Vasetti?”
“Era una Marmon, grande quasi quanto una locomotiva. Aveva vasetti di cristallo intagliato alle portiere, e la moglie di Felix aveva l’abitudine di mettere i fiori freschi nei vasetti ogni mattina. E quella macchina era là, in mezzo al traffico.” “Come la Maria Celeste” suggerii.
“Il dipartimento di polizia la fece trainare via. Sapevano di chi era la macchina e chiamarono Felix e gli dissero, molto educatamente, dove poteva ritirarla. Felix rispose che potevano tenersela, che lui non la voleva più.”
“E la tennero?”
“No. Chiamarono sua moglie, e lei andò a prendere la Marmon.”
“E come si chiamava, fra parentesi?”
“Emily.” Il dottor Breed si leccò le labbra e assunse un’espressione distante, e ripeté il nome della donna, della donna morta da tanto tempo. “Emily.”
“Crede che qualcuno protesterebbe se io mi servissi dell’episodio della Marmon nel mio libro?” domandai.
“Purché non parli della conclusione.”
“La conclusione?”
“Emily non era abituata a guidare la Marmon. Mentre tornava a casa ebbe un brutto incidente. Le causò una lesione al bacino...” Il traffico si era arrestato, in quel momento. Il dottor Breed chiuse gli occhi e serrò le mani sul volante. “E fu per questo che morì quando nacque il piccolo Newt.”

BUON NATALE

Il laboratorio di ricerca della General Forge and Foundry Company era vicino al cancello principale dello stabilimento della società in Ilium, a poca distanza dal parcheggio riservato ai dirigenti, dove il dottor Breed lasciò la macchina.
Chiesi al dottor Breed quante persone lavoravano per il laboratorio di ricerca.
“Settecento,” disse “ma quelli che svolgono effettivamente le ricerche sono meno di cento. Gli altri seicento sono in un modo o nell’altro una specie di governanti, e io sono la governante in capo.”
Quando ci unimmo a quel flusso di umanità, nella strada dello stabilimento, una donna dietro di noi augurò buon Natale al dottor Breed. Il dottor Breed si voltò a sbirciare benignamente in quel mare di focacce pallide e identificò la donna che gli aveva fatto gli auguri in una certa signorina Francine Pefko. La signorina Pefko aveva vent’anni, era graziosa e inespressiva, sana... una normalissima oca.
In onore della dolce atmosfera natalizia, il dottor Breed invitò la signorina Pefko a unirsi a noi. La presentò come la segretaria del dottor Nilsak Horvath. Poi mi spiegò chi era Horvath.
“È uno dei maggiori esperti di chimica delle membrane” disse. “È quello che fa tante cose meravigliose con i film .”
“Che c’è di nuovo nella chimica delle membrane?” chiesi alla signorina Pefko.
“Dio!” disse lei. “Non lo chieda a me. Io mi limito a scrivere a macchina quello che mi dicono di scrivere.” Poi si scusò per aver detto “Dio!”
“Oh, io penso che lei comprenda molto di più di quanto lascia credere” disse il dottor Breed.
“Io no.” La signorina Pefko non era abituata a chiacchierare con una persona importante come il dottor Breed ed era imbarazzata. Il suo portamento era affettato, diventava impettita e gallinesca. Il suo sorriso era vitreo, e stava stillandosi il cervello alla ricerca di qualcosa da dire, senza trovarvi altro che kleenex usati e gioielli fantasia.
“Bene!” tuonò espansivo il dottor Breed. “Cosa ne pensa di noi, adesso che è con noi... da quanto? Quasi un anno?”
“Voi scienziati pensate troppo” sbottò la signorina Pefko. Rise, scioccamente. L’amichevolezza del dottor Breed aveva fatto saltare tutte le valvole del suo sistema nervoso. Non era più responsabile. “Tutti voi pensate troppo.”
Una donna grassa, sfiatata, dall’aria delusa, che indossava una tuta sudicia si intrufolò vicino a noi, per ascoltare quello che diceva la signorina Pefko. Si voltò per squadrare il dottor Breed, guardandolo con impotente rimprovero. Odiava la gente che pensava troppo. In quel momento, mi fece l’impressione di essere una degna rappresentante di quasi tutta l’umanità.
L’espressione della donna grassa sottintendeva che sarebbe impazzita sul momento, se qualcuno avesse pensato un po’ di più.
“Credo che scoprirà” disse il dottor Breed”che tutti pensano all’incirca nella stessa misura. Solo che gli scienziati pensano alle cose in un certo modo, e gli altri pensano alle stesse cose in un modo diverso.”
“Eh” gorgogliò a vuoto la signorina Pefko. “Il dottor Horvath mi detta, e mi sembra una lingua straniera. Non credo che capirei... neanche se dovessi andare all’università. E forse lui sta parlando di qualcosa che metterà tutto sossopra, come la bomba atomica.
“Quando tornavo a casa da scuola, la mamma mi chiedeva cos’era successo quel giorno, e io glielo dicevo” fece la signorina Pefko. “Adesso torno a casa dal lavoro e mi fa la stessa domanda, e tutto quello che posso dire è...” La signorina Pefko scosse il capo e aprì fiaccamente le labbra cremisi. “Non so, non so, non so.”
“Se c’è qualcosa che non capisce,” l’esortò il dottor Breed “chieda al dottor Horvath di spiegarglielo. È bravissimo, in queste cose.” E si rivolse a me. “Il dottor Hoenniker diceva sempre che uno scienziato incapace di spiegare quello che sta facendo a un bambino di otto anni è un ciarlatano.”
“Allora io sono meno intelligente d’un bambino di otto anni,” gemette la signorina
Pefko. “Non so nemmeno che cos’è un ciarlatano.”

RITORNO ALL’ASILO

Salimmo i quattro scalini di granito del laboratorio di ricerca. L’edificio era di mattoni a vista, senza ornamenti, ed era alto sei piani. Passammo in mezzo a due guardie armate che sorvegliavano l’ingresso.
La signorina mostrò alla guardia di sinistra il distintivo rosa “riservato”, sulla punta del suo seno sinistro. Il dottor Breed mostrò alla guardia di destra il distintivo nero “segretissimo” che portava sul bavero. Cerimoniosamente, il dottor Breed mi avvolse con il braccio, senza toccarmi, per indicare alle guardie che ero sotto la sua augusta protezione e sotto il suo controllo.
Sorrisi a una delle guardie. Non mi restituì il sorriso. Non c’era niente di buffo nella sicurezza nazionale, proprio niente.
Il dottor Breed, la signorina Pefko e io attraversammo pensierosi il grandioso atrio del laboratorio, e ci dirigemmo verso gli ascensori.
“Chieda al dottor Horvath di spiegarle qualcosa, qualche volta” disse il dottor Breed alla signorina Pefko. “E vedrà se non ottiene una bella risposta chiara.”
“Dovrebbe cominciare dalla prima elementare... o forse dall’asilo,” disse lei. “Mi sono sfuggite molte cose.”
“Sono sfuggite molte cose a noi tutti” ammise il dottor Breed. “Tutti noi faremmo bene a ricominciare daccapo, preferibilmente dall’asilo.”
Guardammo la receptionist del laboratorio accendere i molti modellini istruttivi allineati lungo le pareti dell’atrio. Era una ragazza alta e magra... glaciale, pallida. Al suo tocco sicuro le luci ammiccarono, le ruote girarono, le storte ribollirono, i campanelli squillarono.
“Magia” dichiarò la signorina Pefko.
“Mi duole di sentire un membro della famiglia del laboratorio usare questa parola impura e medioevale” disse il dottor Breed. “Ognuno di quegli oggetti si spiega da sé. Sono stati progettati esattamente per non essere mistifìcatorii. Sono l’antitesi esatta della magia.”
“Che cosa sono?”
“L’esatto contrario della magia.”
“Non può dimostrarlo certo per mezzo mio!” Il dottor Breed si mostrò appena un po’ piccato.
“Be’,” disse” noi non vogliamo imbrogliare. Ci dia credito almeno, di questo.”

UFFICIO COPIA

La segretaria del dottor Breed era in piedi sulla scrivania, nell’anticamera dell’ufficio, e stava legando un ornamento natalizio, a forma di campana, pieghettato come una fisarmonica, agli infissi del soffitto.
“Attenta, Naomi!” esclamò il dottor Breed. “Abbiamo avuto un semestre senza un solo incidente mortale! Non guasti tutto cadendo dalla scrivania!”
La signorina Naomi Faust era una vecchia allegra e disseccata. Immagino che fosse stata al servizio del dottor Breed per quasi tutta la vita di lui, e anche di lei. Rise.
“Sono indistruttibile. E, anche se cadessi, gli angeli di Natale mi prenderebbero al volo.”
“Qualche volta si sbagliano.”
Due tentacoli di carta, pieghettati a loro volta come fisarmoniche, pendevano dal battaglio della campana. La signorina Faust ne tirò uno. Si aprì, con un po’ di resistenza, e divenne una lunga bandiera su cui era scritto un messaggio.
“Ecco” disse la signorina Faust, porgendone l’estremità al dottor Breed. “Continui a tirare e lo fissi alla tabella dei bollettini.”
Il dottor Breed obbedì, indietreggiando per leggere la scritta sulla bandiera.
“Pace in terra!” lesse a voce alta, con tutto il cuore.
La signorina Faust scese dalla scrivania, reggendo l’altro tentacolo e spiegandolo.
“Agli uomini di buona volontà!” diceva l’altro tentacolo.
“Diamine!” ridacchiò il dottor Breed. “Hanno disidratato il Natale! Questo ufficio ha veramente un aspetto festivo, molto festivo.”
“E mi sono ricordata delle tavolette di cioccolata per l’ufficio copia” disse lei.
“Non è orgoglioso di me?”
Il dottor Breed si toccò la fronte, sconcertato della propria smemoratezza.
“Dio sia ringraziato! Mi era sfuggito di mente.”
“Non dobbiamo dimenticarcene” disse la signorina Faust. “È una tradizione, ormai... Il dottor Breed e le sue tavolette di cioccolata per l’ufficio copia, a Natale.” E mi spiegò che l’ufficio copia era nel seminterrato del laboratorio. “Le ragazze sono a disposizione di chiunque abbia accesso a un dittafono.”
Per tutto l’anno, mi disse, le ragazze dell’ufficio copia ascoltavano le voci senza volto degli scienziati registrate dai dittafoni... le registrazioni venivano portate dalle impiegate addette alla corrispondenza. Una volta all’anno le ragazze lasciavano il loro chiostro di cemento per andare a festeggiare... per ricevere le loro tavolette di cioccolata dalle mani del dottor Asa Breed.
“Anche loro servono la scienza,” attestò il dottor Breed “anche se forse non ne capiscono una parola. Dio le benedica, una per una!”

IL BENE PIÙ PREZIOSO DELLA TERRA

Quando entrammo nell’ufficio del dottor Breed, cercai di riordinare le idee per una intervista sensata. Scoprii che le mie facoltà mentali non erano migliorate. E quando cominciai a rivolgere al dottor Breed le domande sul giorno della bomba, scoprii che i centri del mio cervello adibiti alle public relation erano stati soffocati dall’alcool e dal fumo del pelo di gatto bruciacchiato. Ogni domanda che gli rivolgevo sottintendeva che i creatori della bomba atomica erano stati criminali, complici di un ripugnante assassinio.
Il dottor Breed ne fu sbalordito, poi si seccò moltissimo. Si ritrasse da me e brontolò: “Ne deduco che lei non ama molto gli scienziati”.
“Non direi, signore.” Tutte le sue domande sembrano intese a spingermi ad ammettere che gli scienziati sono privi di cuore e dì coscienza, meschini, indifferenti al destino del resto della razza umana; o forse non sono neppure membri della razza umana, in realtà.” “Lei esagera.”
“Non più di quanto intende fare lei nel suo libro, a quanto sembra. Pensavo che lei intendesse scrivere un’equa, obiettiva biografia di Felix Hoenniker... un compito altamente significativo per un giovane scrittore, in questi tempi. Ma no, lei è venuto qui con idee preconcette sugli scienziati pazzi. Da cosa ha preso queste idee? Dai giornali a fumetti?”
“Dal figlio del dottor Hoenniker, tanto per citare una fonte.”
“Quale figlio?”
“Newton” dissi. Avevo con me la lettera del piccolo Newt, e gliela mostrai.” Quant’è piccolo Newt, fra parentesi?”
“Non è più alto del manico di un ombrello” disse il dottor Breed, mentre leggeva la lettera e corrugava la fronte.
“Gli altri due figli sono normali?”
“Naturalmente! Mi dispiace deluderla, ma gli scienziati hanno figli eguali ai figli di tutti gli altri.”
Feci del mio meglio per calmare il dottor Breed e per convincerlo che tenevo moltissimo a fare un ritratto obiettivo del dottor Hoenniker.
“Sono venuto qui al solo scopo di trascrivere fedelmente quello che lei mi dirà sul conto del dottor Hoenniker. La lettera di Newt è stata soltanto l’inizio, e utilizzerò come contrappeso tutto quello che lei potrà dirmi.”
“Sono stufo della gente che fraintende ciò che è uno scienziato, ciò che fa uno scienziato.”
“Farò del mio meglio per distruggere l’equivoco.”
“In questo paese, troppa gente non capisce neppure cos’è la ricerca pura.”
“Le sarei grato se mi dicesse che cos’è.”
“Non è cercare un filtro migliore per le sigarette o un tissue più morbido o una vernice che duri più a lungo, Dio ci aiuti. Tutti parlano delle ricerche e in pratica nessuno, in questo paese, le fa veramente. La nostra è una delle poche società che assumono la gente per praticare la ricerca pura. Quando molte altre società si vantano delle loro ricerche, alludono ai tecnici industriali che indossano il camice bianco, lavorano sui manuali e sognano un tergicristallo più efficiente per l’Oldsmobile dell’anno prossimo.” “Ma qui...”
“Qui, e in pochi altri posti, scandalosamente pochi, gli uomini sono pagati per accrescere la conoscenza, per lavorare soltanto a quello scopo.”
“È molto generoso, da parte della General Forge and Foundry Company.”
“Non è questione di generosità. La nuova conoscenza è il bene più prezioso della terra. Più conosciamo la verità e lavoriamo su di essa, e più ci arricchiamo.”
Se allora fossi stato bokononista, questa dichiarazione mi avrebbe fatto ululare.

BASTA CON IL FANGO

“Intende dire” chiesi al dottor Breed “che a nessuno, in questo laboratorio, è mai stato detto neppure a che cosa doveva lavorare? Nessuno suggerisce neppure su che cosa si deve lavorare?”
“La gente continua a dare suggerimenti, ma non è nella natura di un ricercatore puro prestare attenzione ai suggerimenti. Ha la testa piena di progetti suoi, ed è così che noi lo vogliamo.”
“E non c’è mai stato nessuno che abbia tentato di suggerire un progetto al dottor Hoenniker?”
“Certamente. Ammiragli e generali in particolare. Lo consideravano una specie di mago che poteva rendere invincibile l’America con un tocco di bacchetta. Portavano qui tutti quei progetti esplosivi... e lo fanno ancora. L’unico guaio di quei progetti è che sono irrealizzabili, allo stato attuale della nostra conoscenza. Gli scienziati del calibro del dottor Hoenniker dovrebbero colmare le piccole lacune. Ricordo, poco prima che Felix morisse, che un generale dei marine lo incitava a fare qualcosa per il fango.”
“Fango?”
“I marine, dopo aver passato circa duecento anni a guazzare nel fango, ne erano stufi” disse il dottor Breed. “Il generale, come loro portavoce, pensava che uno degli aspetti del progresso doveva essere questo: i marine non dovevano più lottare con il fango.”
“E cosa aveva in mente quel generale?”
“L’abolizione del fango. Non più fango.”
“Immagino” teorizzai “che sarebbe possibile, usando montagne di un certo prodotto chimico, o tonnellate di macchinario di un certo tipo...”
“Quello che aveva in mente il generale era una pillola o una macchina molto piccola. I marine non erano stanchi soltanto del fango, erano stanchi di portare carichi pesanti. Volevano portare qualcosa di piccolo, tanto per cambiare.”
“E cosa disse il dottor Hoenniker?”
“Con il suo modo scherzoso, e i suoi modi erano sempre scherzosi, Felix disse che poteva esistere un granello di qualche cosa, un granello addirittura microscopico, che poteva rendere solide come questa scrivania infinite distese di fango, marcite, paludi, ruscelli, stagni, sabbie mobili e pantani.”
Il dottor Breed batté sulla scrivania il suo vecchio pugno coperto di macchie. La scrivania era un affare a forma di rene, d’acciaio verde mare.
“Un marine potrebbe portare un quantitativo di quella roba, più che sufficiente per liberare una divisione corazzata impantanata nelle Everglades. Secondo Felix, un marine poteva portare il quantitativo necessario per far questo sotto l’unghia del suo dito mignolo.”
“È impossibile.”
“Lei direbbe così, anch’io direi così... chiunque, in pratica, direbbe così. Per Felix, in quel suo modo scherzoso, era assolutamente possibile. Il miracolo di Felix, e io spero sinceramente che lei ne parlerà nel suo libro, stava nel fatto che abbordava i vecchi problemi come se fossero nuovi di zecca.”
“Adesso mi sento come Francine Pefko” dissi “e come tutte le ragazze dell’ufficio copia. Il dottor Hoenniker non avrebbe mai potuto spiegarmi in che modo qualcosa che poteva essere portato sotto un’unghia potesse rendere una palude solida come la sua scrivania.”
“Le ho detto che Felix era bravissimo a spiegare...”
“Anche così...”
“Riuscì a spiegarlo a me.” disse il dottor Breed “e io sono sicuro di poterlo spiegare a lei. Il problema è questo: in che modo si può tirar fuori i marine dal fango... giusto?”
“Giusto.”
“Benissimo” disse il dottor Breed. “Mi ascolti con attenzione. Ecco qua.”

GHIACCIO-NOVE

“Vi sono molti modi” mi disse il dottor Breed “in cui certi liquidi possono cristallizzare - possono ghiacciare - molti modi in cui i loro atomi possono fissarsi e legarsi in modo stabile e ordinato.”
Il vecchio dalle mani maculate mi invitò a pensare ai molti modi in cui le palle da cannone possono essere ammucchiate in un cortile, ai molti modi in cui gli aranci possono essere stipati in una cesta.
“Così accade agli atomi nei cristalli; e due diversi cristalli della stessa sostanza possono avere proprietà fisiche completamente diverse.”
Mi parlò d’una fabbrica che aveva ottenuto grossi cristalli di tartrato di diaminoetilene. I cristalli erano utili in certi processi industriali, disse. Ma un giorno la fabbrica scoprì che quei cristalli non avevano più le proprietà richieste. Gli atomi avevano cominciato a fissarsi, a legarsi - a ghiacciare - in un modo diverso. Il liquido che cristallizzava non era cambiato, ma i cristalli che formava erano, per quanto riguardava l’applicazione industriale, completamente inutili.
Come questo fosse accaduto, era un mistero. Il colpevole teorico, tuttavia, era quello che il dottor Breed chiamava “un seme”. Con questa definizione intendeva un minuscolo granello dello schema cristallino indesiderato. Il seme, arrivato Dio solo sa da dove, insegnava agli atomi il nuovo modo in cui fissarsi e legarsi, in cui cristallizzare, in cui ghiacciare.
“Adesso pensi di nuovo alle palle da cannone in un cortile o agli aranci in una cesta” mi disse. E mi aiutò a capire che la disposizione dello strato inferiore delle palle da cannone o degli aranci determinava il modo in cui ogni strato successivo si sarebbe fissato. “Lo strato di base è il seme del comportamento di tutte le palle da cannone e di tutti gli aranci che verranno poi, anche di un numero infinito di palle da cannone o di aranci.
“E adesso immagini” ridacchiò il dottor Breed, godendosela un mondo, “che vi siano molti possibili modi in cui l’acqua possa cristallizzare, possa gelare. Immagini che il tipo di ghiaccio su cui pattiniamo e che mettiamo negli highballs - potremmo chiamarlo ghiaccio-uno - sia soltanto uno dei diversi tipi di ghiaccio. Immagini che l’acqua geli sempre come ghiaccio-uno, sulla Terra, perché non ha mai avuto un ‘seme’ che le insegnasse a formare il ghiaccio-due, il ghiaccio-tre, il ghiaccioquattro... E immagini,” batté di nuovo sulla scrivania con la vecchia mano “immagini che vi sia una forma che chiameremo ghiaccio-nove... un cristallo duro come questa scrivania, con un punto di fusione, diciamo, di cento gradi Fahrenheit o, meglio ancora, con un punto di fusione di centotrentatré gradi.” “Benissimo, la seguo” dissi.
Il dottor Breed fu interrotto dai sussurrii che provenivano dall’anticamera, sussurrii alti e portentosi. Era la voce dell’ufficio copia.
Le ragazze si preparavano a cantare nell’anticamera.
E cantarono, mentre il dottor Breed e io apparivamo sulla soglia. Ciascuna di quelle cento ragazze si era trasformata in una corista, mettendosi un collare di carta bianca fissato con un fermaglio. Cantavano magnificamente.
Ne fui sorpreso e disgustosamente commosso. Mi lascio sempre commuovere da quel tesoro raramente usato, la dolcezza con cui sanno cantare le ragazze.
Le ragazze cantarono O piccola città di Betlemme.
Non dimenticherò presto la loro interpretazione del verso:”Le speranze e i timori di tutte le età sono con noi, questa notte”.

I MARINE IN MARCIA

Quando il vecchio dottor Breed, con l’aiuto della signorina Faust, ebbe distribuito alle ragazze le tavolette di cioccolata natalizia, ritornammo nel suo ufficio.
Lì mi disse: “Dove eravamo rimasti? Ah, sì”. E il vecchio mi chiese di pensare ai marine degli Stati Uniti in una palude dimenticata da Dio.
“I camion e i carri armati e gli obici affondano” lamentò lui. “Affondano nel miasma e nella fanghiglia fetida.”
Alzò un dito e ammiccò. “Ma immagini, giovanotto, che un marine abbia con sé una minuscola capsula contenente un seme di ghiaccio-nove, un modo nuovo perché le molecole dell’acqua si fissino e si leghino, gelino, insomma. Se quel marine gettasse quel ‘seme’ nella pozzanghera più vicina...” “La pozzanghera gelerebbe?” opinai.
“E tutto il fango attorno alla pozzanghera?”
“Gelerebbe?”
“E tutte le pozzanghere nel fango ghiacciato?”
“Gelerebbero?”
“E gli stagni e i ruscelli nel fango ghiacciato?”
“Gelerebbero?”
“Può scommetterci che gelerebbero!” gridò lui. “E i marine degli Stati Uniti si leverebbero dalla palude e si metterebbero in marcia!”

MEMBRO DELLA STAMPA GIALLA

E questa roba esiste?” chiesi.
“No, no, no, no” disse il dottor Breed, perdendo di nuovo la pazienza con me. “Le ho detto tutto questo soltanto per darle un’idea dei metodi straordinariamente nuovi con cui Felix avrebbe probabilmente affrontato un vecchio problema. Ciò che le ho detto è soltanto quello che Felix disse al generale dei marine che lo esortava a occuparsi del problema del fango.
“Felix mangiava solo, nella cafeteria, tutti i giorni. Era una regola che nessuno sedesse al suo tavolo, per non interrompere i suoi pensieri. Ma il generale dei marine arrivò, prese una sedia, e cominciò a parlare del fango. Quella che le ho riferito fu la risposta improvvisata di Felix.”
“Allora... una cosa simile non esiste?”
“Le ho appena detto che non esiste!” gridò il dottor Breed, accalorandosi. “Felix morì poco dopo. E, se lei avesse ascoltato quello che ho cercato di spiegarle sui ricercatori puri, non mi avrebbe rivolto questa domanda! I ricercatori puri lavorano su ciò che li affascina, non su ciò che affascina gli altri.”
“Continuo a pensare a quella palude...”
“Può smettere di pensarci! Io ho detto la sola cosa che volevo dire, quando ho parlato della palude.”
“Se i ruscelli che scorrono in mezzo alla palude gelassero sotto forma di ghiaccionove, cosa accadrebbe dei fiumi e dei laghi in cui quei ruscelli si gettano?”
“Gelerebbero. Ma il ghiaccio-nove non esiste.”
“E gli oceani in cui si gettano i fiumi ghiacciati?”
“Gelerebbero, naturalmente” scattò lui. “Immagino che lei si precipiterà a invadere il mercato con la sensazionale notizia del ghiaccio-nove, ormai. Ma le ripeto, non esiste!”
“E le sorgenti che alimentano i laghi e i ruscelli ghiacciati, e tutta l’acqua sotterranea che alimenta le sorgenti?”
“Gelerebbe tutto, maledizione” gridò. “Ma se avessi saputo che lei era un membro della stampa gialla” disse solennemente, alzandosi, “non avrei sprecato neppure un attimo, con lei!”
“E la pioggia?”
“Quando cadesse, gelerebbe in duri, minuscoli aghi di ghiaccio-nove... e questa sarebbe la fine del mondo! E anche la fine dell’intervista! Addio!”

L’ULTIMA INFORNATA DI PASTICCINI

Il dottor Breed si era sbagliato almeno riguardo a un particolare: il ghiaccio-nove esisteva.
E il ghiaccio-nove era sulla Terra.
Il ghiaccio-nove era l’ultimo dono che Felix Hoenniker aveva creato per l’umanità prima di raggiungere la sua meritata ricompensa.
Lo creò senza che nessuno si accorgesse di quello che stava facendo. Lo creò senza lasciare una documentazione di ciò che aveva fatto.
Per l’atto della creazione era necessaria una vera, complessa attrezzatura, ma questa esisteva già nel laboratorio di ricerca. Il dottor Hoenniker doveva soltanto fare visita ai suoi colleghi del laboratorio, prendendo in prestito questo e quello, trasformandosi in una affascinante seccatura per i colleghi fino a che, per così dire, non ebbe cucinato la sua ultima infornata di pasticcini.
Aveva fatto una scheggia di ghiaccio-nove. Era biancazzurra. Il suo punto di fusione era centoquattordici virgola quattro gradi Fahrenheit .
Il dottor Felix Hoenniker aveva messo la scheggia in una boccetta; e aveva messo la boccetta in tasca. Ed era andato nella sua casetta di Cape Cod con i suoi tre figli, con l’intenzione di trascorrervi il Natale.
Angela aveva trentaquattro anni. Frank ventiquattro. Il piccolo Newt ne aveva diciotto.
Il vecchio era morto la vigilia di Natale, e aveva parlato del ghiaccio-nove soltanto ai suoi figli.
E i suoi figli si erano spartiti il ghiaccio-nove.

CHE COS’È UN WAMPETER

Il che mi porta al concetto bokononista di wampeter.
“Un wampeter è il fulcro di un karass. Non vi è un karass senza wampeter,” così ci dice Bokonon “come non vi è una ruota senza mozzo.”
Qualunque cosa può essere un wampeter: un albero, un sasso, un animale, un’idea,
un libro, una melodia, il santo Graal. Qualunque cosa sia, i membri del suo karass vi roteano intorno, nel caos maestoso d’una nebulosa spirale. Le orbite dei membri di un karass attorno al loro wampeter comune sono orbite spirituali, naturalmente. Sono le anime, non i corpi, che roteano. Come ci invita a cantare Bokonon:

Attorno e attorno e attorno noi giriamo, piedi di piombo, ali di latte abbiamo... 

E i wampeters vanno e vengono, ci dice Bokonon.
A un certo punto un karass ha in realtà due wampeters, uno che cresce in importanza, uno che diminuisce.
È io sono quasi sicuro che, mentre parlavo con il dottor Breed, a Ilium, il wampeter del mio karass che proprio allora cominciava a sbocciare era quella forma cristallina dell’acqua, quella gemma biancazzurra, quel seme del destino chiamato ghiaccionove.
Mentre io parlavo con il dottor Breed, a Ilium, Angela, Franklin e Newton Hoenniker avevano in loro possesso i semi del ghiaccio-nove, semi cresciuti dal seme del loro padre... schegge, per così dire, del vecchio ceppo.
Quello che doveva avvenire di quelle tre schegge, ne sono convinto, riguardava in modo particolare il mio karass.

LA COSA PIÙ IMPORTANTE SUL CONTO DEL DOTTOR HOENNIKER

Basta così, per il momento, per quanto riguarda il wampeter del mio karass.
Dopo il mio spiacevole colloquio con il dottor Breed nel laboratorio di ricerca della General Forge and Foundry Company, io fui messo nelle mani della signorina Faust. Aveva ricevuto l’ordine di indicarmi la porta. Tuttavia io riuscii a spuntarla e a convincerla a mostrarmi, prima, il laboratorio del compianto dottor Hoenniker.
Le chiesi se aveva conosciuto bene il dottor Hoenniker. Mi diede una risposta franca e interessante, con un piccante sorriso di accompagnamento.
“Non credo che fosse possibile conoscerlo. Voglio dire, quando tanta gente afferma di aver conosciuto qualcuno, bene o male, allude ai segreti che le sono stati rivelati o che non le sono stati rivelati. Parla di cose intime, di faccende familiari, di affari di cuore” mi disse quella simpatica vecchia. “Il dottor Hoenniker aveva tutte queste cose nella sua vita, come le hanno tutte le persone, ma non erano la cosa più importante, per lui.”
“E quali erano le cose più importanti?” le chiesi.
“Il dottor Breed continua a dirmi che la cosa più importante per il dottor Hoenniker era la verità.”
“Lei non mi sembra d’accordo.”
“Non so se sono d’accordo o no. Solo, mi è difficile capire in che modo la verità, in se stessa, potrebbe bastare a una persona.”
La signorina Faust era matura per il bokononismo.

CHE COSA È DIO

“Ha mai parlato al dottor Hoenniker?” chiesi alla signorina Faust.
“Oh, certamente. Gli ho parlato molte volte.”
“Ricorda in particolare qualche conversazione?”
“Una volta scommise che io non avrei saputo dirgli niente che fosse assolutamente vero. Così io gli dissi: ‘Dio è amore’.”
“E lui cosa rispose?”
“Rispose: ‘Cos’è Dio? E cos’è l’amore?’“
“Uhm.”
“Ma Dio è veramente amore, sa” disse la signorina Faust. “Qualunque cosa dicesse il dottor Hoenniker.”

MARZIANI

La stanza che era stata il laboratorio del dottor Felix Hoenniker era al sesto piano, l’ultimo piano del palazzo.
Attraverso la soglia era steso un cordone purpureo e una targa d’ottone, affìssa al muro, spiegava perché quella stanza era sacra.

IN QUESTA STANZA IL DR. FELIX HOENNIKER,
PREMIO NOBEL PER LA FISICA,
TRASCORSE GLI ULTIMI VENTOTTO ANNI DELLA SUA VITA
“DOVE EGLI ERA, LÀ ERA LA FRONTIERA DELLA CONOSCENZA”
L’IMPORTANZA DI QUEST’UOMO
NELLA STORIA DELL’UMANITÀ
È INCALCOLABILE

La signorina Faust si offrì di togliere il cordone purpureo, in modo che io potessi entrare e trattare più intimamente con gli spettri che forse vi si trovavano.
Accettai.
“È proprio come l’ha lasciata,”disse lei “tranne che c’erano strisce di gomma su un banco.”
“Strisce di gomma?”
“Non domandi a me perché c’erano. Non domandi a me a che cosa serve quello che c’è qui dentro.”
Il vecchio aveva lasciato il laboratorio in un incredibile disordine. Ciò che attrasse la mia attenzione immediatamente fu la quantità di giocattoli da poco prezzo distribuiti un po’ dovunque. C’era un aquilone di carta con un braccio rotto. C’era un giroscopio che si caricava a molla, pronto a ronzare e a reggersi in equilibrio. C’era una trottola. C’era una cannuccia per fare le bolle di sapone. C’era una vaschetta con un castello e due tartarughine.
“Aveva una passione per i magazzini del tipo ‘tutto per dieci centesimi’“ disse la signorina Faust.
“Lo vedo.”
“Qualcuno dei suoi esperimenti più noti è stato compiuto con un equipaggiamento che costava meno d’un dollaro.”
“Un soldo risparmiato è un soldo guadagnato.”
C’erano, naturalmente, anche moltissimi strumenti della normale attrezzatura da laboratorio, ma sembravano gli squallidi accessori degli allegri giocattoli da poco prezzo.
La scrivania del dottor Hoenniker era carica di corrispondenza.
“Non credo che abbia mai risposto a una lettera” disse pensierosa la signorina Faust. “La gente doveva telefonargli o venire personalmente, se voleva una risposta.”
Sulla scrivania c’era una fotografia incorniciata. Ne vedevo la parte posteriore e tentai di indovinare cosa fosse.
“Sua moglie?”
“No.”
“Uno dei suoi figli?”
“No.”
“Lui stesso?”
“No.”
Così diedi un’occhiata. Scoprii che era la fotografia d’un piccolo, umile monumento ai caduti, davanti a una casa colonica d’un paesino. Il monumento era costituito in parte da una lapide con i nomi degli abitanti del paese morti nelle varie guerre, e io pensai che la lapide fosse la vera ragione di quella fotografia. Potevo leggerne i nomi, e quasi mi aspettavo di trovare fra gli altri anche Hoenniker. Non c’era.
“Era uno dei suoi hobby” disse la signorina Faust.
“Quale?”
“Fotografare i modi in cui le palle da cannone possono ammucchiarsi nei cortili delle case di campagna. A quanto pare, il modo in cui si sono ammucchiate in questa fotografia è molto insolito.”
“Vedo.”
“Era un uomo eccezionale.”
“Sono d’accordo.”
“Forse fra un milione di anni tutti saranno intelligenti come lui e vedranno le cose come lui le vedeva. Ma, paragonato all’uomo medio di oggi, era diverso, come un marziano.”
“Forse era veramente un marziano” suggerii.
“Questo servirebbe in buona misura a spiegare i suoi tre stranissimi figli.”

MAIONESE

Mentre io e la signorina Faust aspettavamo che arrivasse un ascensore per portarci al primo piano, la signorina Faust si augurò a voce alta che l’ascensore non fosse il numero cinque. Prima che potessi chiederle perché quello fosse un desiderio ragionevole, il numero cinque arrivò.
L’inserviente era un vecchietto negro che si chiamava Lyman Enders Knowles. Knowles era pazzo, ne sono quasi sicuro... pazzo in modo offensivo, perché si afferrava il posteriore e gridava “sì, sì!” quando pensava di aver detto qualcosa di importante.
“Salve, fratelli antropoidi e cesti di gigli e ruote a pale” disse alla signorina Faust e a me. “Sì, sì!”
“Primo piano, per favore” disse freddamente la signorina Faust.
Tutto ciò che Knowles doveva fare per chiudere la porta e per portarci al primo piano era premere un bottone, ma non aveva ancora intenzione di farlo. Forse non aveva intenzione di farlo per anni interi.
“Un uomo mi ha detto” fece “che questi ascensori erano architettura maya. Non l’ho mai saputo fino a oggi. E io gli ho detto: ‘E questo mi trasformerà in... maionese?’ Sì, sì! E intanto che lui ci pensava sopra, gli ho tirato una domanda che l’ha fatto drizzare e pensare ancora più sodo! Sì, sì!”
“Possiamo scendere, per favore, signor Knowles?” implorò la signorina Faust.
“Io gli ho detto,”continuò Knowles”‘Questo è un laboratorio di ri-cerca. Ri-cercare vuol dire cercare di nuovo? Vuol dire che stanno cercando qualcosa che avevano trovato una volta e che poi è scappata, in un modo o in un altro, e adesso devono ricercarla? Perché dovevano costruire un palazzo come questo, con ascensori alla maionese e tutto il resto, e riempirlo di tutti questi matti? Cos’è che cercano di trovare di nuovo? E chi l’ha perduto?’ Sì, sì!”
“È molto interessante” sospirò la signorina Faust. “E adesso, possiamo andare giù?”
“L’unico posto dove possiamo andare è giù” abbaiò Knowles. “Questa è la cima.
Se lei mi chiede d’andare su, non posso farlo. Sì, sì!” “E allora scendiamo” disse la signorina Faust.
“Subito, subito. Questo signore è andato a rendere omaggio al dottor Hoenniker?”
“Sì” dissi io. “Lo conosceva?”
“Intimamente” rispose. “Sa che cosa ho detto, quando è morto?”
“No.”
“Ho detto: ‘Il dottor Hoenniker non è morto’.”
“Oh?”
“E solo entrato in una nuova dimensione. Sì, sì!” Premette un bottone, e scendemmo.
“Conosceva i figli di Hoenniker?” gli chiesi.
“Pupi pieni di rabbia” disse lui. “Sì, sì.”

ANDATA, MA NON DIMENTICATA

C’era un’altra cosa che volevo fare a Ilium. Volevo fare una fotografia della tomba del vecchio. Così tornai nella mia camera, vidi che Sandra se ne era andata, presi la macchina fotografica e chiamai un tassì.
Continuava a cadere un nevischio acido e grigio. Pensai che la tomba del vecchio, in quel nevischio, avrebbe potuto riuscire bene in fotografia, forse avrebbe potuto servire ottimamente per la sovraccoperta de Il giorno in cui finì il mondo.
Il custode del cimitero mi spiegò come trovare le tombe degli Hoenniker.
“Non può sbagliare” disse. “È il monumento più grande di tutti.”
Non aveva mentito. Il monumento era un fallo di alabastro, alto venti piedi e largo tre. Era incrostato di nevischio.
“Per Dio” esclamai, scendendo dal tassì con la macchina fotografica. “Come può essere la tomba adatta per uno dei ‘padri’ della bomba atomica?” risi.
Pregai l’autista di mettersi vicino al monumento, per dare un’idea delle proporzioni. Poi gli chiesi di spazzare via l’incrostazione del nevischio, perché si vedesse il nome del defunto.
Lo fece.
E sull’obelisco, in lettere alte sei pollici, così mi aiuti Iddio, c’era la parola:
MAMMA.

TU DORMI SOLTANTO

“Mamma?”chiese l’autista, incredulo.
Spazzai via un altro po’ di nevischio e scoprii questa poesia :

O mamma, è questa la mia preghiera: Che tu ci guardi da mane a sera .
ANGELA HOENNIKER
E sotto questa poesia ce n’era un’altra:

Tu non sei morta, Tu dormi soltanto.
Noi dovremmo sorridere
Ed asciugarci il pianto .
FRANKLIN HOENNIKER

E sotto questo, inserito nell’obelisco, c’era un riquadro di cemento che portava l’impronta della mano d’un bambino. Sotto l’impronta c’erano le parole:

Il piccolo Newt

“Se questa è la tomba di mamma,” disse l’autista “cosa diavolo avranno eretto sulla tomba del padre?” E fece un suggerimento osceno circa quello che avrebbe potuto essere il monumento più appropriato.
Trovammo il padre, lì vicino. Il suo monumento funebre (come era specificato nel suo testamento, scoprii più tardi) era un cubo di marmo di quaranta centimetri di lato. PAPÀ, c’era scritto.

UN ALTRO BREED

Mentre stavamo per lasciare il cimitero, l’autista del tassì si preoccupò delle condizioni della tomba di sua madre. Mi chiese se mi dispiaceva permettergli di fare una breve deviazione per andare a darle un’occhiata.
Era una piccola lapide patetica quella che indicava la tomba di sua madre... non che questo importasse.
E l’autista mi chiese se potevo permettergli un’altra breve deviazione, questa volta in direzione d’una ditta che vendeva monumenti funebri proprio di fronte al cimitero.
Allora non ero bokononista, così acconsentii, un po’ irritato. Se fossi stato bokononista avrei acconsentito gaiamente a recarmi dove chiunque mi suggerisse. Come dice Bokonon: “Le proposte di viaggi strani sono lezioni di danza da parte di Dio”.
La ditta che faceva i monumenti funebri era la Avram Breed e Figli. Mentre l’autista parlava con il commesso io vagavo in mezzo ai monumenti... monumenti senza scritte, che fino a quel momento non erano in memoria di nessuno.
Trovai un piccolo scherzo istituzionale, nella sala di esposizione: sopra un angelo di marmo pendeva il vischio. Rami di abete erano ammucchiati attorno al piedestallo, e attorno alla sua gola di marmo c’era una collana di lampadine da albero di Natale.
“Quanto costa?” chiesi al commesso.
“Non è in vendita. Ha cent’anni. La scolpì il mio bisnonno, Avram Breed.”
“Questa ditta è così antica?”
“Della quarta generazione, in questo posto.”
“È parente del dottor Asa Breed, il direttore del laboratorio di ricerca?” “Suo fratello.” Disse di chiamarsi Marvin Breed.
“Il mondo è piccolo” osservai.
“Quando lei lo mette in un cimitero, sì.” Marvin Breed era un uomo levigato e volgare, furbo e sentimentale.

IL DENARO DELLA DINAMITE

“Vengo dall’ufficio di suo fratello. Sono uno scrittore. L’ho intervistato sul conto del dottor Hoenniker” dissi a Marvin Breed.
“Era uno strano figlio di vacca. Non mio fratello. Alludo a Hoenniker.”
“E stato lei a vendergli quel monumento per la moglie?”
“L’ho venduto ai suoi figli. Lui non c’è entrato. Non si è mai preso il disturbo di mettere un monumento di qualsiasi genere sulla sua tomba. E poi, quando lei era morta da più di un anno, i tre figli di Hoenniker vennero qui... quella ragazza grande e grossa, il ragazzo e il piccolino. Volevano il monumento più grande che il denaro potesse comprare, e i due più grandi avevano le poesie che avevano scritto. Volevano mettere quelle poesie sul monumento.
“Lei può ridere di quel monumento, se vuole” disse Marvin Breed. “Ma per quei ragazzi fu una consolazione più grande di qualsiasi altra che potesse procurare loro il denaro. Venivano a visitarlo e a portare fiori non so mai quante volte all’anno.”
“Deve essere costato un capitale.”
“È stato pagato con il denaro del Premio Nobel. Quel denaro ha pagato due cose: la casetta a Cape Cod e quel monumento.”
“Il denaro della dinamite” mi meravigliai io, pensando alla violenza della dinamite e all’assoluto riposo d’un monumento funebre e d’una casa per le vacanze estive. “Come?”
“Nobel inventò la dinamite.”
“Be’, penso che se ne vedano di tutti i colori...”
Se allora fossi stato bokononista, riflettendo sulla catena di eventi miracolosamente intricata che aveva portato il denaro della dinamite a questa particolare ditta di monumenti funebri, avrei sussurrato “Gran daffare, gran daffare, gran daffare”.
Gran daffare, gran daffare, gran daffare, è quello che mormoriamo noi bokononisti quando pensiamo quanto complicato e imprevedibile è il meccanismo della vita.
Ma tutto quello che potei dire allora, come cristiano, fu: “Certo che qualche volta la vita è buffa”.
“E qualche volta non lo è” disse Marvin Breed.

UN UOMO INGRATO

Chiesi a Marvin Breed se avesse conosciuto Emily Hoenniker, la moglie di Felix; la madre di Angela, Frank e Newt; la donna sotto quell’obelisco mostruoso.
“Se l’ho conosciuta?” La sua voce diventò tragica. “Se l’ho conosciuta, signor mio? Sicuro, la conoscevo. Conoscevo Emily. Siamo stati compagni di scuola, alla scuola superiore di Ilium. Eravamo presidenti del Comitato dei Colori di Classe, allora. Suo padre era padrone dell’Ilium Music Store. Lei sapeva suonare tutti gli strumenti che c’erano nel negozio. Mi innamorai di lei fino al punto che rinunciai al calcio e tentai di suonare il violino. E poi mio fratello Asa venne a casa dal M.I.T. per le vacanze di primavera e io feci l’errore di presentarlo alla mia miglior ragazza.”Marvin Breed schiccò le dita. “Me la portò via così. Io fracassai il violino su un grosso pomello d’ottone ai piedi del mio letto, poi andai da un fiorista, mi feci dare una di quelle scatole in cui mettono una dozzina di rose, vi misi dentro il violino fracassato e lo mandai a Emily per mezzo d’un fattorino della Western Union.”
“Era bella?”
“Bella?” fece eco lui. “Signor mio, quando vedrò il mio primo angelo, se mai Dio mi riterrà degno di vederne uno, saranno le sue ali e non la sua faccia a farmi restare a bocca aperta. Io ho già visto il viso più bello che sia mai esistito. Non c’era un uomo nella contea di Ilium che non fosse innamorato di lei, in segreto o apertamente. Avrebbe potuto avere qualsiasi uomo avesse voluto.” E sputò sul pavimento. “E doveva andare a sposare quel piccolo olandese figlio di vacca! Era fidanzata a mio fratello, e poi quel piccolo bastardo ipocrita arrivò in città.” Marvin Breed schioccò di nuovo le dita. “E la portò via a mio fratello, così. Immagino che sia un alto tradimento, degno d’un uomo ingrato e ignorante e retrogrado e anti-intellettuale chiamare figlio d’una vacca un morto famoso come Felix Hoenniker. So benissimo che tutti lo credevano inoffensivo, gentile e sognatore, un tipo che non ha mai fatto male a una mosca, che non teneva al denaro, al potere, agli abiti eleganti, alle automobili e a tutto il resto, che non era come tutti noi, che era migliore di tutti noi, che era così innocente da essere in pratica un Gesù... tranne che non era Figlio di Dio...”
Marvin Breed pensò che non fosse necessario completare il suo pensiero. Dovetti chiedergli di farlo.
“Ma cosa?” disse. “Ma cosa?” Andò vicino a una finestra, a guardare il cancello del cimitero. “Ma cosa...” mormorò rivolto al cancello e al nevischio e alla tomba Hoenniker che si intravedeva, vagamente.
“Ma,” disse “ma come diavolo può essere innocente un uomo che contribuisce alla creazione della bomba atomica? E come si può dire che un uomo era di animo buono, quando non si prendeva il disturbo di fare qualcosa mentre la donna più buona e più bella del mondo, sua moglie, moriva per mancanza di amore e di comprensione...” Rabbrividì.
“Qualche volta mi domando se non era nato morto. Non ho mai incontrato un uomo che fosse meno interessato alla vita di lui. Qualche volta mi domando se non è per questo che il mondo va male: troppi individui, in alto, che sono morti e freddi come pietre.”

VIN-DIT

Fu nel negozio d’un venditore di monumenti funebri che io ebbi il mio primo vindit, una parola bokononista che indica una spinta improvvisa e molto personale verso il bokononismo, verso la convinzione che Dio Onnipotente aveva su di me qualche progetto molto complicato.
Il vin-dit ebbe a che fare con l’angelo di marmo sotto il vischio. L’autista del tassì si era messo in mente che lui doveva ottenere, a qualsiasi prezzo, quell’angelo per la tomba di sua madre. Era ritto di fronte alla statua con le lagrime agli occhi.
Marvin Breed guardava, al di là della finestra, i cancelli del cimitero, dopo aver detto quello che pensava di Felix Hoenniker.
“Quel piccolo olandese figlio d’una vacca può essere stato un sant’uomo moderno,” aggiunse “ma che io sia dannato se ha mai fatto qualcosa che non voleva fare e che io sia dannato se non ha sempre ottenuto tutto quello che voleva.” “Musica” disse.
“Prego?”chiesi io.
“È per questo che Emily lo sposò. Diceva che la mente di Hoenniker era in sintonia con la più grande musica che esista, la musica delle stelle.” E scosse il capo. “Sciocchezze.”
Poi il cancello gli ricordò l’ultima volta che aveva visto Frank Hoenniker, il costruttore di modellini, il tormentatore di insetti in barattoli.
“Frank” disse.
“Cosa?”
“L’ultima volta che ho visto quel povero, strano ragazzo è stato mentre usciva da quel cancello. Il funerale di suo padre non era ancora finito. Il vecchio non era ancora sottoterra, e Frank uscì da quel cancello e chiese un passaggio alla prima macchina. Era una Pontiac nuova con una targa della Florida. Frank salì, e fu l’ultima volta che qualcuno lo vide, a Ilium.”
“Ho saputo che è ricercato dalla polizia.”
“È stato un incidente. Frank non era un criminale. Non ne aveva la stoffa. L’unico lavoro che sapeva fare era costruire modellini. L’unico impiego in cui abbia resistito è stato al Jack’s Hobby Shop, a vendere modellini, a fare modellini, a consigliare la gente sul modo di fare modellini. Quando se ne andò di qui finì in Florida, e trovò lavoro in un negozio di modellini a Sarasota. Poi saltò fuori che quel negozio era un paravento per una organizzazione che rubava le Cadillac, le caricava a bordo delle vecchie navi da trasporto militari e le portava a Cuba. Ecco perché Frank è rimasto immischiato. Immagino che i poliziotti non l’abbiano trovato perché è morto. Ha ascoltato troppe cose, mentre appiccicava le torrette sulla corazzata Missouri con il collante della Duco.”
“E dov’è Newt, adesso, lo sa?”
“Immagino che sia da sua sorella, a Indianapolis. L’ultima volta che ho sentito parlare di lui si era invischiato con quella nanetta russa e si era fatto buttar fuori da Cornell, dove studiava medicina. Riesce a immaginare un nano che cerca di diventare medico? E poi, in quella stessa disgraziata famiglia, c’è quella ragazzona, grande e goffa, alta più di sei piedi. Quell’uomo che è così famoso perché aveva una grande mente, le fece abbandonare gli studi al secondo anno di università, per aver una donna che si prendesse cura di lui. Tutto quello che le rimase fu il clarinetto che aveva suonato nella banda della scuola superiore di Ilium, I Cento in Marcia.
“Dopo che Angela abbandonò gli studi,” disse Breed “nessuno l’invitò mai a uscire. Non aveva amici, e il vecchio non pensò mai neppure di darle un po’ di denaro per andare in qualche posto. Sa cosa faceva lei?”
“No.”
“La sera si chiudeva spesso nella sua camera e suonava i dischi, e accompagnava la musica con il clarinetto. Il miracolo del secolo, per quel che ne so io, è che una donna simile si sia trovata un marito.”
“Quanto vuole per quest’angelo?” chiese l’autista del tassì.
“Le ho già detto, non è in vendita.”
“Non credo che al giorno d’oggi ci sia qualcuno capace di scolpire in questo modo” osservai.
“Ho un nipote che è capace” disse Breed. “Il figlio di Asa. Era deciso a diventare un grande scienziato, un ricercatore, poi buttarono la bomba su Hiroshima e il ragazzo piantò tutto, si ubriacò e venne qui, e mi disse che voleva imparare a scolpire.”
“E adesso lavora qui?”
“Fa lo scultore a Roma.”
“Se qualcuno le offrisse abbastanza,” disse l’autista “lei accetterebbe, non è vero?”
“Forse. Ma dovrebbe essere un bel mucchio di denaro.”
“E dove metterebbe il nome, su una cosa così?” chiese l’autista.
“C’è già un nome... sul piedestallo.” Non potevamo vederlo, a causa dei rami ammonticchiati tutto intorno.
“E nessuno l’ha mai reclamato?” volli sapere io.
“Nessuno l’ha mai pagato. Andò così: questo emigrante tedesco era diretto all’Ovest con la moglie, e lei morì di vaiolo qui a Ilium. Così lui ordinò quest’angelo per metterlo sulla sua tomba, e mostrò al mio bisnonno che aveva il denaro per pagarlo. Ma poi fu derubato. Qualcuno gli portò via fino all’ultimo centesimo. Tutto quello che gli rimaneva al mondo era un po’ di terra che aveva comprato nell’Indiana, una tenuta che non aveva mai visto. Così proseguì il viaggio... disse che sarebbe ritornato per pagare l’angelo.”
“Ma non tornò mai?”
“No.” Marvin Breed scostò con il piede qualche ramo, in modo che potessimo vedere le lettere scolpite sul piedestallo. C’era scritto un cognome.
“È un cognome strano” disse. “Se quell’immigrante ha avuto discendenti, immagino che abbiano americanizzato il cognome. Probabilmente adesso si chiamano Jones o Black o Thompson.” “E qui si sbaglia” mormorai.
La stanza sembrò rovesciarsi, le pareti e il soffitto e il pavimento si trasformarono per un attimo nelle imboccature di altrettante gallerie che portavano in tutte le direzioni, attraverso il tempo. Ebbi una visione bokononista dell’unità, in ogni secondo, di tutto il tempo e di tutti gli uomini, di tutte le donne, di tutti i bambini che erravano da una terra all’altra.
“E qui si sbaglia” dissi, quando la visione scomparve.
“Conosce qualcuno che porti quel cognome?”
“Sì.”
Quel cognome era anche il mio.

JACK’S HOBBY SHOP

Mentre ritornavo all’albergo, intravidi il Jack’s Hobby Shop, il negozio in cui aveva lavorato Frank Hoenniker. Dissi all’autista di fermarsi e di aspettare.
Entrai e trovai Jack in persona che pontificava sui suoi treni, autopompe, aerei, battelli, case, lampioni, alberi, carri armati, razzi, automobili, facchini, conducenti, poliziotti, pompieri, mamme, papà, gatti, cani, polli, soldati, anitre e mucche in miniatura. Era un uomo cadaverico, un uomo serio, un uomo sudicio, e continuava a tossire.
“Che tipo era Frank Hoenniker?” mi fece eco; e tossiva e tossiva. Scosse il capo e mi spiegò che adorava Frank come non aveva mai adorato nessuno. “Non è una domanda cui devo rispondere con le parole. Posso mostrarle che tipo era Franklin Hoenniker.” E tossì. “Può guardare” disse “e può giudicare da sé.”
Mi condusse nel seminterrato del negozio. Viveva lì. C’era un letto matrimoniale e un armadio e un fornello elettrico.
Jack si scusò per il letto sfatto.
“Mia moglie mi ha lasciato una settimana fa.” Tossì. “Sto ancora cercando di rimettere insieme i cocci della mia vita.”
Poi girò un interruttore, e l’angolo più lontano del seminterrato fu invaso da una luce accecante.
Ci avvicinammo alla luce e vedemmo che era la luce del sole per un piccolo paese fantastico, costruito in compensato, un’isola perfettamente rettangolare come una contea del Kansas. Ogni anima irrequieta, ogni anima ansiosa di scoprire ciò che si stendeva oltre i suoi verdi confini, sarebbe caduta veramente dall’orlo del mondo.
I particolari erano così perfettamente in scala, così abilmente costruiti e dipinti, che per me non fu necessario socchiudere gli occhi per credere che quella regione fosse reale... le colline, i laghi, i fiumi, le foreste, i paesi, e tutto quello che i bravi indigeni hanno così caro, dovunque.
E dovunque correva una spaghettata di binari ferroviari.
“Guardi le porte delle case” disse Jack, con reverenza.
“Belle. Ben fatte.”
“Ci sono maniglie vere, e i martelli funzionano davvero.”
“Dio!”
“Mi ha chiesto che tipo era Franklin Hoenniker: è stato lui a costruire tutto questo.” Jack tacque.
“Da solo?”
“Oh, io l’ho aiutato un po’, ma tutto quello che ho fatto l’ho fatto secondo i suoi progetti. Quel ragazzo era un genio.”
“E chi oserebbe contraddirla?”
“Suo fratello era nano, lo sa.”
“Lo so.”
“Ha fatto qualche saldatura, sotto.”
“Sembra proprio vero.”
“Non è stato facile. E non l’ha fatto in una notte.”
“Roma non è stata fatta in un giorno.”
“Quel ragazzo non aveva una vita familiare, lo sa.”
“L’ho sentito dire.”
“Questa era la sua vera casa. Ha passato qui migliaia di ore. Qualche volta non metteva neppure in moto i treni; si sedeva qui a guardare, come facciamo noi adesso.”
“C’è tanto da vedere. In pratica, è come un viaggio in Europa, ci sono tante cose da vedere, se si guarda con attenzione.”
“Frank vedeva cose che lei e io non vedremmo. All’improvviso buttava giù una collina che a lei e a me sarebbe sembrata vera come qualsiasi altra collina che avessimo mai visto. E aveva ragione, anche. Metteva un lago dove c’era stata la
collina e un viadotto sul lago, e stava dieci volte meglio di prima.”
“È una capacità che non tutti hanno.”
“E vero!” disse Jack, con passione. La passione gli costò un altro attacco di tosse. Quando l’attacco finì, gli occhi gli lagrimavano copiosamente. “Senta, io dicevo che quel ragazzo avrebbe dovuto andare all’università e studiare un po’ di ingegneria per potere andare a lavorare per la American Flyer o qualcosa del genere... qualcosa di grosso, qualcosa che avrebbe potuto appoggiare tutte le sue idee.”
“Mi sembra che lei lo abbia appoggiato molto.”
“Vorrei averlo fatto, vorrei averlo potuto fare” lamentò Jack. “Non avevo il capitale. Gli davo la roba, quando potevo, ma quasi tutta questa roba è stata comprata con quello che guadagnava lavorando nel negozio, per me. Non spendeva un soldo se non per questo... non beveva, non fumava, non andava al cinema, non usciva con le ragazze, non aveva la mania delle automobili.” “Il nostro paese avrebbe bisogno di molti come lui.” Jack scrollò le spalle.
“Be’... credo che i gangster della Florida lo abbiano fatto fuori. Avevano paura che parlasse.”
“Credo di sì.”
Improvvisamente Jack crollò e pianse.
“Vorrei sapere se quegli sporchi figli di vacca” singhiozzò “sanno chi hanno ammazzato.”


MIAO

Durante il mio viaggio a Ilium e oltre - una spedizione di due settimane che comprese anche il Natale - lasciai gratuitamente il mio appartamento di New York a un povero poeta che si chiamava Sherman Krebbs. La mia seconda moglie mi aveva lasciato dicendo che io ero troppo pessimista perché un’ottimista potesse vivere con me.
Krebbs aveva la barba, era un Gesù biondoplatino dagli occhi di cocker spaniel. Non era un mio amico intimo. L’avevo conosciuto a un cocktail party, dove si era presentato come il presidente nazionale dell’Associazione dei poeti e dei pittori favorevoli a una immediata guerra atomica. Chiedeva un rifugio, non necessariamente a prova di bomba, e per caso io ne avevo uno.
Quando, ancora vibrante per gli inquietanti sottintesi spirituali dell’angelo marmoreo di Ilium mai reclamato, ritornai nel mio appartamento, lo trovai rovinato da una corruzione nichilista. Krebbs se ne era andato; ma prima di andarsene aveva fatto telefonate interurbane per trecento dollari, aveva bruciacchiato il mio divano in cinque punti, aveva fatto morire il mio gatto e il mio albero di avocado, e aveva strappato lo sportello del mio armadietto del pronto soccorso.
Aveva scritto questa poesia, con ciò che risultò essere sterco, sul pavimento di linoleum giallo della mia cucina:

Ho una cucina.
Ma non è una cucina completa. Non sarò veramente felice fino a che non avrò una sbrigaroba .

C’era un altro messaggio, scritto con il rossetto da una mano femminile, sulla tappezzeria sopra il mio letto. Diceva: “No, no, no, disse Pollicino”.
C’era un biglietto che pendeva dal collo del mio gatto morto. C’era scritto; “Miao”.
Non ho più rivisto Krebbs. Tuttavia, intuisco che appartenne al mio karass. Se questo è vero, servì come wrang-wrang. Un wrang-wrang, secondo Bokonon, è una persona che fa deviare un’altra persona da una linea di speculazione, riducendo quella linea a una assurdità, con l’esempio della vita dello stesso wrang-wrang.
Avrei potuto esser vagamente disposto a dimenticare l’angelo marmoreo come insignificante, e a procedere in quella direzione verso la mancanza di significato più assoluta. Ma dopo aver visto ciò che Krebbs aveva fatto, in particolare ciò che aveva fatto al mio caro gatto, il nichilismo non faceva per me.
Qualcuno o qualcosa non voleva che io fossi nichilista. Era la missione di Krebbs, lo sapesse o no, disincantarmi di quella filosofia. Ben fatto, signor Krebbs, ben fatto.

UN MAGGIOR GENERALE MODERNO

E poi un giorno, una domenica, scoprii dov’era il fuggiasco dalla giustizia, il costruttore di modellini, il Gran Dio Jehovah e il Belzebù degli insetti in barattolo...
dove era possibile trovare Franklin Hoenniker.
Era vivo!
La notizia era in un supplemento speciale del Sunday Times di New York. Il supplemento era una pubblicità a pagamento per una repubblica delle banane. Sulla prima pagina c’era il profilo della ragazza più straziantemente bella che io abbia mai sperato di vedere.
Dietro la ragazza, i bulldozer abbattevano le palme, per aprire un grande viale. In fondo al viale c’erano le ossature d’acciaio di tre palazzi nuovi.
“La repubblica di San Lorenzo” diceva la didascalia della prima pagina” è in marcia! Una nazione sana, felice, progressista, amante della libertà, bellissima, sta diventando un grande richiamo per gli investimenti e per il turismo americani.”
Non avevo fretta di leggere il contenuto del supplemento. La ragazza della prima pagina era abbastanza, per me... era più che abbastanza, poiché mi ero innamorato di lei a prima vista. Era molto giovane e molto seria... e luminosamente saggia e pietosa.
Era bruna come la cioccolata. I suoi capelli erano come lino dorato.
Si chiamava Mona Aamons Monzano, c’era scritto. Era la figlia adottiva del dittatore dell’isola.
Aprii il supplemento, sperando di trovarvi altre fotografie di quella sublime madonna di sangue misto.
Trovai invece un ritratto del dittatore dell’isola, Miguel “Papà” Monzano, un gorilla sull’ottantina.
Vicino al ritratto di “Papà” c’era quello d’un giovane immaturo, dalle spalle strette e dalla faccia volpina. Indossava una giubba militare candida come la neve, su cui era appesa una specie di sole ingioiellato. Aveva gli occhi molto vicini e cerchiati. A quanto pareva, in tutta la sua vita aveva raccomandato ai barbieri di radergli i lati della testa e la nuca, ma di lasciare intatta la parte superiore della chioma. Aveva una ispida pettinatura alla Pompadour, una specie di cubo di capelli ondulati e coperti di brillantina, che si levavano a una altezza incredibile.
Quel ragazzo così poco attraente era presentato come il maggior generale Franklin Hoenniker, Ministro della Scienza e del Progresso della Repubblica di San Lorenzo. Aveva ventisei anni.

LA CAPITALE MONDIALE DEI BARRACUDA

San Lorenzo era lunga cinquanta miglia e larga venti, appresi dal supplemento del Sunday Times di New York. La sua popolazione era di quattrocentocinquantamila anime...”tutte indefessamente votate agli ideali del mondo libero”.
La montagna più alta, Monte McCabe, si levava a undicimila piedi sul livello del mare. La capitale era Bolivar, “una città sorprendentemente moderna, costruita attorno a un porto in grado di ospitare l’intera marina degli Stati Uniti”. Le principali esportazioni erano zucchero, caffè, banane, indaco e oggetti dell’artigianato.
“E i pescasportivi riconoscono San Lorenzo come l’indiscussa capitale mondiale dei barracuda.”
Mi chiesi in che modo Franklin Hoenniker, che non aveva mai finito neppure le scuole superiori, si fosse procurato un posto così fantastico. Trovai una risposta parziale in un articolo su San Lorenzo, firmato da “Papà” Monzano.
“Papà” diceva che Frank era l’architetto del Piano Regolatore di San Lorenzo, che comprendeva nuove strade, l’elettrificazione rurale, gli impianti per la nettezza urbana, alberghi, ospedali, cliniche, ferrovie... tutto. E, sebbene il pezzo fosse breve e conciso, “Papà” citava cinque volte Frank come “il figlio di sangue del dottor Felix Hoenniker”.
La frase puzzava di cannibalismo.
“Papà” era evidentemente convinto che Frank fosse un brandello della carne magica del vecchio.

FATA MORGANA

Un altro po’ di luce veniva offerta da un altro articolo del supplemento, un florido articolo intitolato Ciò che ha significato San Lorenzo per un americano. Era stato scritto quasi certamente da un “negro”. Era firmato dal maggior generale Franklin Hoenniker.
Nell’articolo, Frank diceva di essersi trovato, solo, nel Mar dei Caraibi, a bordo d’un Chris-Craft lungo sessantotto piedi, sul punto di affondare. Non spiegava che cosa facesse a bordo del Chris-Craft né perché fosse rimasto solo. Indicava, tuttavia, che era partito da Cuba.
“Il lussuoso motoscafo da diporto stava affondando, e con esso la mia vita insignificante” diceva l’articolo. “Tutto ciò che avevo mangiato in quattro giorni erano due gallette e un gabbiano. Le pinne dorsali dei pescicani mangiatori d’uomini fendevano il mare attorno a me, e i barracuda dai denti affilatissimi facevano ribollire quelle acque.
“Levai gli occhi al mio Creatore, disposto ad accettare la Sua volontà, qualunque fosse. E i miei occhi si posarono su un maestoso picco montuoso, sopra le nubi. Era la fata Morgana... il crudele inganno di un miraggio?”
A questo punto della mia lettura andai a controllare cosa fosse la fata Morgana; e imparai che c’era, in realtà, un miraggio che prendeva il nome da Morgan Le Fay, una fata che viveva in fondo a un lago. Era famosa perché appariva nello Stretto di Messina, fra la Calabria e la Sicilia. Per farla breve, la fata Morgana era una poetica sciocchezza.
Ciò che Frank vedeva dal battello da diporto semiaffondato non era la crudele fata Morgana, ma il picco di Monte McCabe. Il mare misericordioso, poi, spinse il motoscafo di Frank sulle spiagge rocciose di San Lorenzo, come se Dio avesse voluto che giungesse là.
Frank scese a terra, a piedi asciutti, e chiese dov’era. L’articolo non lo diceva, ma quel figlio d’un cane aveva con sé un pezzo di ghiaccio-nove chiuso in un termos. Frank, non avendo passaporto, fu messo in prigione nella capitale, Bolivar. Lì ricevette una visita di “Papà” Monzano che voleva sapere se per caso Frank era parente dell’immortale dottor Felix Hoenniker.
“Ammisi di esserlo” diceva Frank nell’articolo. “Da quel momento, tutte le porte del successo mi furono aperte, a San Lorenzo.”
LA CASA DELLA SPERANZA E MISERICORDIA

Come accadde - “Come doveva accadere” direbbe Bokonon - fui incaricato da una rivista di fare un servizio a San Lorenzo. Il servizio non doveva riguardare “Papà” Monzano o Frank. Doveva parlare di Julian Castle, un milionario americano dello zucchero che, a quarant’anni, aveva seguito l’esempio del dottor Albert Schweitzer, fondando un ospedale gratuito nella giungla e dedicando la propria esistenza ai miserabili di un’altra razza.
L’ospedale di Castle si chiamava Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla. La giungla era a San Lorenzo, fra gli alberi di caffè selvatico, sul pendio settentrionale del Monte McCabe.
Quando io mi recai in volo a San Lorenzo, Julian Castle aveva sessant’anni.
Era assolutamente altruista da vent’anni.
Nei giorni del suo egoismo era stato familiare ai lettori dei giornali popolari come Tommy Manville, Adolf Hitler, Benito Mussolini e Barbara Hutton. La sua fama era fondata sul vizio, sull’alcolismo, sulle infrazioni al codice della strada e sulla renitenza alla leva. Aveva avuto un’abbagliante capacità di spendere i milioni senza accrescere il patrimonio dell’umanità di null’altro che di guai.
Si era sposato cinque volte e aveva messo al mondo un figlio.
Quel figlio, Philip Castle, era il direttore e il proprietario dell’albergo in cui avevo deciso di stabilirmi. L’albergo si chiamava Casa Mona, e portava il nome di Mona Aamons Monzano, la negra bionda sulla prima pagina del supplemento del Sunday Times di New York. Casa Mona era nuovissima: era uno dei tre palazzi nuovi che facevano da sfondo all’immagine di Mona, nel supplemento.
Mentre non pensavo che mari propizi mi spingessero verso San Lorenzo, pensavo che fosse l’amore a farlo. La fata Morgana, il miraggio di quello che avrebbe potuto essere l’essere amato da Mona Aamons Monzano, era diventato una forza tremenda nella mia vita priva di significato. Immaginai che lei potesse rendermi molto più felice di quanto fosse riuscita fino ad allora qualsiasi altra donna.

UN KARASS PER DUE

I sedili, sull’aereo partito da Miami per San Lorenzo, erano disposti a tre per tre. Come accadde - come doveva accadere - i miei compagni di viaggio erano Horlick Minton, il nuovo ambasciatore americano presso la repubblica di San Lorenzo, e sua moglie Claire. Avevano i capelli bianchi, erano gentili e fragili.
Minton mi disse di essere un diplomatico di carriera; per la prima volta rivestiva il rango di ambasciatore. Fino ad allora lui e sua moglie avevano prestato servizio, mi disse, in Bolivia, Cile, Giappone, Francia, Jugoslavia, Egitto, Unione Sudafricana, Liberia e Pakistan.
Erano due colombi. Si intrattenevano interminabilmente l’un l’altro con piccoli doni: panorami degni di essere visti, oltre il finestrino dell’aereo, citazioni divertenti o istruttive dalle loro letture, ricordi dei tempi andati. Erano, credo, un esempio impeccabile di ciò che Bokonon chiama duprass, cioè un karass composto di due sole persone.
“Un vero duprass” ci dice Bokonon “non può essere invaso, neppure dai figli nati da quell’unione.”
Di conseguenza escludo i Minton dal mio karass, dal karass di Frank, dal karass di Newt, dal karass di Asa Breed, dal karass di Angela, dal karass di Lyman Enders Knowles, dal karass di Sherman Krebbs. Il karass dei Minton era molto ben definito, composto di due sole persone.
“Penso che lei debba essere molto soddisfatto” dissi a Minton.
“Di cosa dovrei essere soddisfatto?”
“Di avere il rango di ambasciatore.”
Dal modo compassionevole con cui Minton e sua moglie si guardarono, dedussi di aver detto una sciocchezza. Ma loro mi blandirono.
“Sì” fece Minton, trasalendo. “Sono molto soddisfatto.” E sorrise lievemente. “Sono profondamente onorato.”
E andò così con quasi tutti gli argomenti che affrontai. Non riuscii a trovare un argomento che li scuotesse.
Per esempio: “Immagino che conosca molte lingue” dissi.
“Oh, sei o sette... fra tutti e due” disse Minton.
“Deve essere molto piacevole.”
“Che cosa?”
“Essere capaci di parlare a gente di tante nazionalità diverse.” “Molto piacevole” disse sua moglie.
E ripresero a leggere un grosso dattiloscritto che era aperto sul bracciolo, in mezzo a loro.
“Mi dica,” feci, poco dopo, “in tutti i suoi viaggi, ha trovato che la gente, in fondo, è eguale dappertutto?”
“Uhm?” chiese Minton.
“Trova che la gente è eguale, in fondo, dovunque si vada?”
Guardò la moglie, per accertarsi che avesse sentito la domanda, poi si rivolse a me. “Press’a poco eguale, dovunque si vada” ammise.
“Uhm” dissi io.
Bokonon ci dice, fra l’altro, che i membri di un duprass muoiono sempre entro una settimana l’uno dall’altro. Quando venne per i Minton il tempo di morire, morirono nello stesso secondo.

BICICLETTE PER L’AFGANISTAN

Verso la coda dell’aereo c’era un bar, e io mi rifugiai là per bere qualcosa. Fu là che incontrai un altro compatriota americano, H. Lowe Crosby di Evanston, Illinois, e sua moglie Hazel.
Erano persone massicce, sulla cinquantina. Parlavano con un forte accento dialettale. Crosby mi disse che possedeva una fabbrica di biciclette a Chicago, e che non riceveva altro che ingratitudine dai suoi dipendenti. Stava per trasferire la ditta nella riconoscente San Lorenzo.
“Conosce bene San Lorenzo?” chiesi.
“Questa sarà la prima volta che la vedo, ma mi piace tutto quello che ne ho sentito dire” rispose H. Lowe Crosby. “Hanno la disciplina. Hanno qualcosa su cui si può far conto, da un anno all’altro. Non hanno un governo che incoraggia chiunque a diventare un originale pidocchio di cui nessuno ha mai sentito parlare.”
“Prego?”
“Cribbio, a Chicago non facciamo più biciclette. E tutto relazioni umane, adesso. Le teste d’uovo non fanno che pensare nuove maniere per rendere tutti felici. Nessuno può essere licenziato, qualsiasi cosa succeda; e se per caso qualcuno fabbrica una bicicletta, i sindacati ci accusano di pratiche crudeli e inumane e il governo confisca la bicicletta in conto tasse arretrate e la regala a un cieco dell’Afganistan.”
“E lei crede che a San Lorenzo le cose andranno meglio?”
“Lo so maledettamente bene, che andranno meglio! La gente, laggiù, è abbastanza povera e abbastanza spaventata e abbastanza ignorante da avere un po’ di senso comune!”
Crosby mi chiese come mi chiamavo e che cosa facevo. Glielo dissi, e sua moglie Hazel riconobbe nel mio cognome un cognome tipico dell’Indiana. “Mio Dio!” disse. “Lei è un hoosier ?” Ammisi di esserlo.
“Anch’io sono una hoosier” fece lei con uno strilletto di gioia. “Nessuno deve vergognarsi di essere un hoosier.”
“Io non mi vergogno” dissi. “E non ho mai conosciuto nessuno che se ne vergognasse.”
“Gli hoosier sono in gamba. Lowe e io abbiamo fatto due volte il giro del mondo, e dappertutto abbiamo trovato qualche hoosier che dirigeva tutto.”
“È molto rassicurante.”
“Conosce il direttore di quel nuovo albergo a Istanbul?”
“No.”
“È un hoosier. E il nonsochecosa militare a Tokio...” “L’addetto”disse il marito.
È un hoosier” disse Hazel. “E il nuovo ambasciatore in Jugoslavia...” “È un hoosier?” chiesi io.
“Non solo lui, ma anche il redattore hollywoodiano della rivista Life. E quell’uomo, in Cile...”
“È un hoosier anche lui?”
“Non si può andare in nessun posto senza trovare un hoosier che si è fatto strada” disse lei.
“L’uomo che scrisse Ben Hur era un hoosier.”
“E James Withcomb Riley.”
“Anche lei è dell’Indiana?” chiesi al marito.
“No. Io sono dell’Illinois. ‘La Terra di Lincoln’, dicono.”
“In quanto a questo” disse trionfalmente Hazel “anche Lincoln era un hoosier. Era cresciuto nella contea di Spencer.” “Sicuro” dissi io.
“Non so che cosa abbiano gli hoosiers,” disse Hazel “ma senza dubbio hanno qualcosa di speciale. Se qualcuno facesse un elenco, ci sarebbe da restare sbalorditi.” “Questo è vero” dissi.
Lei mi si aggrappò saldamente al braccio.
“Noi hoosiers dobbiamo stare molto uniti.”
“Giusto.”
“Mi chiami ‘mamma’.”
“Cosa?”
“Ogni volta che incontro un giovane hoosier, gli dico: ‘Mi chiami mamma’.” “Uh-uh.”.
“Lo dica” incalzò lei.
“Mamma?”
Lei sorrise e mi lasciò il braccio. Un meccanismo a orologeria aveva completato il suo ciclo. Il fatto che io avessi chiamato “mamma” Hazel lo aveva disattivato, e adesso Hazel lo stava ricaricando per il prossimo hoosier che avrebbe incontrato.
L’ossessione di Hazel per gli hoosiers sparsi per il mondo era un esempio da manuale di un falso karass, di una squadra fittizia che non ha significato secondo le vie di cui Dio si serve per fare qualcosa, un esempio da manuale di quello che Bokonon chiama un granfalloon. Altri esempi di granfalloon sono il partito comunista, le Figlie della Rivoluzione Americana, la General Electric Company, l’Ordine Internazionale dei Tipi Strani... e ogni nazione, in qualunque tempo e in qualunque luogo.
Così Bokonon ci invita a cantare con lui:

Se vuoi studiare un granfalloon da vicino, togli la scorza esterna a un palloncino .

IL DIMOSTRATORE

H. Lowe Crosby era dell’opinione che le dittature fossero spesso un’ottima cosa. Non era un mostro e non era uno sciocco. Gli piaceva affrontare il mondo con una certa buffoneria contadina, ma molte delle cose che aveva da dire sull’umanità indisciplinata erano non solo divertenti ma anche vere.
L’argomento principale davanti al quale la sua ragione e il suo umorismo lo abbandonavano, era quando affrontava il problema di quello cui la gente avrebbe dovuto dedicare il proprio tempo, sulla Terra.
Credeva fermamente che la gente avrebbe dovuto costruire biciclette per lui.
“Spero che San Lorenzo sia veramente come lei l’ha sentita descrivere” dissi.
“Mi basta parlare con un uomo solo, per scoprire se è vero o no” disse lui. “Quando ‘Papà’ Monzano dà la sua parola d’onore a proposito di qualcosa che riguarda quell’isola, basta. Così è e così sarà.”
“Quello che mi piace,” disse Hazel “è che parlano tutti inglese e che sono tutti cristiani. Questo rende tutto più facile.”
“Sa come puniscono i reati, laggiù?” mi chiese Crosby.
“No.”
“Non hanno criminalità, laggiù. ‘Papà’ Monzano ha reso il crimine così maledettamente poco attraente che nessuno riesce a pensarci senza star male. Ho sentito dire che lei può lasciare un portafogli sul marciapiede e può tornare indietro una settimana dopo e il portafogli è ancora lì, con tutto quel che c’era dentro.”
“Uhm.”
“Sa qual è la punizione per il furto?”
“No.”
“Il gancio” disse lui. “Niente ammende, niente prove, niente trenta giorni di reclusione. È il gancio. Il gancio per il furto, l’omicidio, l’incendio doloso, il tradimento, la violenza carnale, persino per aver curiosato troppo. Infranga una legge, una qualsiasi dannata legge, ed è il gancio. Questo lo possono capire tutti e San
Lorenzo è il paese più disciplinato e più morale del mondo.”
“Cos’è il gancio?”
“Montano una forca, capisce? Due pali e una traversa. Poi prendono una specie di grosso arpione da pesca e lo appendono alla traversa. Poi prendono qualcuno che è stato tanto stupido da infrangere la legge, gli infilano la punta dell’arpione da una parte della pancia e lo fanno uscire dall’altra e lo lasciano lì a penzolare, per Dio, il dannato e pentito violatore della legge!”
“Buon Dio!”
“Non dico che sia un buon sistema” disse Crosby. “Ma non dico neppure che sia cattivo. Qualche volta mi chiedo se qualcosa del genere non spazzerebbe via la delinquenza minorile. Forse il gancio è un po’ eccessivo per una democrazia. Sarebbero più adatte le pubbliche impiccagioni. Impicchi qualche ladro minorenne di automobili al lampione di fronte a casa sua, con al collo un cartello con la scritta ‘Mamma, ecco tuo figlio’. Lo faccia un paio di volte, e io credo che gli antifurto passerebbero di moda come i predellini e i sedili ribaltabili del tipo portapennini.” “L’abbiamo visto nel sotterraneo del museo delle cere a Londra” disse Hazel.
“Che cosa?” le chiesi.
“Il gancio. Nella camera degli orrori, nel sotterraneo; c’era una figura di cera appesa al gancio. Sembrava così vera che avevo voglia di vomitare.”
“Harry Truman non assomiglia affatto a Harry Truman” disse Crosby.
“Prego?”
“Nelle figure di cera,” disse Crosby” la statua di Truman non gli somiglia per niente.”
“Però quasi tutte erano somiglianti” disse Hazel.
“E c’era qualcuno in particolare, appeso al gancio?” le chiesi.
“Non mi pare. Era qualcuno, così.” “Un dimostratore?” chiesi.
“Già. C’era una tenda di velluto nero, davanti, e bisognava scostarla per vedere. E c’era un cartello, attaccato alla tenda, diceva che i bambini non dovevano guardare.”
“Ma i bambini guardavano” disse Crosby. “C’erano dei bambini, e tutti guardavano.”
“Un cartello come quello è una vera esca per i bambini” disse Hazel.
“E come reagivano i bambini quando vedevano la figura appesa al gancio?” chiesi.
“Oh,” disse Hazel “reagivano quasi come reagivano gli adulti. Guardavano e non dicevano niente, andavano avanti per vedere cosa veniva dopo.”
“E cosa veniva, dopo?”
“C’era una sedia di ferro, con un uomo che veniva arrostito vivo” disse Crosby. “L’avevano arrostito perché aveva ucciso suo figlio.”
“Solo dopo che lo ebbero arrostito,” ricordò Hazel, in tono blando, “scoprirono che non lo aveva ucciso affatto.”

SIMPATIZZANTI COMUNISTI

Quando ripresi posto accanto al duprass di Claire e Horlick Minton, sapevo qualcosa di più sul loro conto. L’avevo saputo dai Crosby.
I Crosby non conoscevano Minton personalmente, ma lo conoscevano di fama. Erano indignati perché era stato nominato ambasciatore. Mi dissero che una volta Minton era stato silurato dal Dipartimento di Stato per la sua mollezza verso il comunismo, e che era stato reintegrato per l’intervento di certi utili idioti filocomunisti o peggio.
“È molto simpatico quel bar, là dietro” dissi a Minton, mentre mi sedevo.
“Uhm?” Lui e la moglie stavano ancora leggendo il dattiloscritto aperto in mezzo a loro.
“È simpatico, il bar là dietro.”
“Bene. Ne sono contento.”
I due continuarono a leggere. Evidentemente non provavano il desiderio di parlarmi. Poi Minton mi si rivolse all’improvviso, con un sorriso dolceamaro e domandò: “Chi era, ad ogni modo?”
“Chi era chi?”
“L’uomo con cui stava parlando, nel bar. Siamo andati lì a bere qualcosa, e proprio sulla porta abbiamo sentito che lei stava parlando con un uomo. L’uomo parlava molto forte. Diceva che io ero un simpatizzante comunista.”
“Un fabbricante di biciclette che si chiama H. Lowe Crosby” dissi io. Mi sentivo arrossire.
“Fui silurato per pessimismo. Il comunismo non c’entrava per niente.”
“Fui io a farlo silurare” disse sua moglie. “L’unica vera prova contro di lui fu una lettera che io avevo scritto al New York Times dal Pakistan.”
“E cosa diceva?”
“Diceva molte cose” fece lei. “Ero molto sconvolta perché gli americani non riescono a immaginare cosa si provi a essere qualcosa d’altro, a essere qualcosa d’altro e a esserne orgogliosi.”
“Capisco.”
“Ma c’era una frase su cui continuarono a ritornare, durante l’inchiesta” sospirò Minton. “‘Gli americani’“ disse, citando la lettera della moglie al Times “‘cercano sempre l’amore nelle forme che l’amore non assume mai, e in posti in cui non può essere. Deve entrarci, in qualche modo, lo scomparso spirito di frontiera.’“

PERCHÉ GLI AMERICANI SONO ODIATI

La lettera di Claire Minton al Times fu pubblicata durante i giorni peggiori dell’era del senatore McCarthy, e suo marito fu silurato dodici ore dopo la pubblicazione della lettera.
“E perché quella lettera era così spaventosa?” chiesi.
“La forma peggiore di alto tradimento” disse Minton “consiste nel dire che gli americani non sono amati dovunque vadano e qualunque cosa facciano. Claire cercò di fare capire che la politica estera americana dovrebbe prendere atto dell’odio, invece di immaginare l’amore.”
“Immagino che gli americani siano odiati in molti posti.”
“Tutta la gente è odiata in molti posti. Claire osservò, nella sua lettera, che gli americani, essendo odiati, non facevano che pagare lo scotto per essere creature umane, e che erano sciocchi se pensavano di dover esser esenti, in un certo senso, da questo destino. Ma la commissione d’inchiesta non badò a questo. Tutto ciò che
sapevano era che io e Claire pensavamo che gli americani non erano amati.” “Be’, sono contento che la faccenda abbia avuto un lieto fine.” “Uhm?” fece Minton.
“Alla fine tutto è andato a posto” dissi. “E adesso lei avrà un’ambasciata tutta per sé.”
Minton e sua moglie si scambiarono un’altra di quelle occhiate compassionevoli, tipiche dei duprass. Poi Minton mi disse: “Sì. La pentola d’oro all’estremità dell’arcobaleno è nostra”.

IL MODO BOKONONISTA PER TRATTARE CESARE

Parlai ai Minton della posizione di Franklin Hoenniker che, dopotutto, era non soltanto un pezzo grosso del governo di “Papà” Monzano, ma anche un ricercato dalla giustizia degli Stati Uniti.
“È già stato chiarito tutto” disse Minton. “Non è più cittadino degli Stati Uniti, e sembra che stia facendo qualcosa di buono dove è adesso, quindi tutto è a posto.”
“Ha rinunciato alla cittadinanza?”
“Chiunque presti giuramento di fedeltà a uno stato straniero o presti servizio nelle sue forze armate o accetti un incarico nel suo governo perde la cittadinanza. Legga il suo passaporto. Non si può essere protagonista di quel romanzo internazionale da giornale a fumetti di cui è protagonista Frank e continuare ad avere Zio Sam per chioccia.”
“È benvoluto a San Lorenzo?”
Minton soppesò nella mano il dattiloscritto che lui e la moglie stavano leggendo.
“Non lo so ancora. Questo libro dice di no.”
“Che libro è?”
“È l’unico libro serio che sia mai stato scritto su San Lorenzo.” “Quasi serio” disse Claire.
“Quasi serio” fece eco Minton. “Non è stato ancora pubblicato. Questa è una delle cinque copie che ne esistono.” Me lo porse, invitandomi a leggere quanto volevo.
Aprii il libro alla prima pagina e scoprii che il titolo era San Lorenzo: la terra, la storia, il popolo. L’autore era Philip Castle, il figlio di Julian Castle, il figlio albergatore del grande filantropo che io dovevo incontrare.
Aprii il libro a caso. Come accadde, si aprì al capitolo che parlava del sant’uomo fuorilegge dell’isola, Bokonon.
Nella pagina davanti a me c’era una citazione da I libri di Bokonon. Quelle parole balzarono dalla pagina alla mia mente, e vi rimasero.
Quelle parole erano una parafrasi del consiglio di Gesù: “Perciò date a Cesare ciò che è di Cesare”.
La parafrasi di Bokonon era questa:
“Non badate a Cesare. Cesare non ha la minima idea di quello che succede in realtà”.

TENSIONE DINAMICA

Mi immersi nella lettura del libro di Philip Castle al punto che non ne alzai lo sguardo quando atterrammo per dieci minuti a San Juan, Puerto Rico. Non alzai lo sguardo neppure quando qualcuno dietro di me sussurrò, eccitato, che era salito a bordo un nano.
Più tardi mi guardai attorno per cercare il nano, ma non riuscii a vederlo. Vidi, proprio di fronte a Hazel e H. Lowe Crosby, una donna dalla faccia cavallina e dai capelli biondo-platino, una nuova venuta nella lista dei passeggeri. Vicino a lei c’era un sedile vuoto, in apparenza, un sedile che avrebbe potuto accogliere un nano senza che io ne vedessi neppure la sommità del capo.
Ma era San Lorenzo: la terra, la storia, il popolo che mi affascinava in quel momento; così non insistetti nel cercare il nano.. I nani, dopotutto, sono diversivi per tempi sciocchi e tranquilli, e io ero serio ed eccitato per la teoria di Bokonon circa quello che chiamava “tensione dinamica”, il suo senso di inestimabile equilibrio tra bene e male.
Quando vidi per la prima volta il termine “tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, risi di una risata che secondo me era di superiorità. La definizione era una delle preferite di Bokonon, secondo il libro del giovane Castle, e io credevo di sapere qualcosa che Bokonon non sapeva: che quella definizione era stata lanciata da Charles Atlas, un culturista, costruttore di muscoli per corrispondenza.
Come imparai quando continuai a leggere, Bokonon sapeva perfettamente chi era Charles Atlas. Bokonon era, infatti, un alunno della sua scuola di culturismo.
Era convinzione di Charles Atlas che i muscoli possano venir costruiti senza attrezzi da ginnastica, possano venir costruiti mettendo in gara un fascio di muscoli contro un altro.
Era convinzione di Bokonon che le buone società potessero venir costruite soltanto mettendo in gara il bene contro il male, e mantenendo sempre elevata la tensione fra le due forze.
E, nel libro di Castle, lessi per la prima volta una poesia bokononista, o calipso. Era così:

Certo “Papà” Monzano è cattivissimo,
Vero senza di lui sarei tristissimo;
Perché senza la sua malvagità,
Lo dica chi lo sa,
Come potrebbe il vecchio, tristo Bokonon Avere mai l’aureola di bontà ?

COME SANT’AGOSTINO

Bokonon, appresi dal libro di Castle, era nato nel 1891. Era un negro nato da una donna che apparteneva alla chiesa episcopale e da un inglese, nell’isola di Tobago.
Era stato battezzato Lionel Boyd Johnson.
Era il minore di sei figli, e la sua era una famiglia ricca. La ricchezza della famiglia derivava dalla scoperta, da parte del nonno di Bokonon, di un tesoro di pirati che valeva un quarto di milione di dollari, presumibilmente il tesoro di Barbanera o di Edward Teach.
Il tesoro di Barbanera era stato investito dalla famiglia di Bokonon in asfalto, copra, cacao, bestiame e pollame.
Il giovane Lionel Boyd Johnson fu educato nelle scuole episcopali, fu un bravo studente e si interessò soprattutto ai riti. In gioventù, nonostante tutto il suo interesse per le trappole esteriori delle religioni organizzate, sembra fosse stato un tipo che amava far baldoria, perché ci invita a cantare con lui nel suo Quattordicesimo Calipso :

Quand’ero giovane
Ero allegro e meschino,
Bevevo e andavo a caccia di ragazze, Come fece ai suoi dì sant’Agostino.
Sant’Agostino,
Un santo poi doveva divenire.
Così, se devo diventarlo anch’io,
Ti prego, cara mamma, non svenire .

UN PESCE GETTATO DA UN MARE INFURIATO

Lionel Boyd Johnson era intellettualmente abbastanza ambizioso da navigare, solo, nel 1911, da Tobago a Londra su una goletta che si chiamava Lady’s Slipper.
Intendeva assicurarsi una istruzione superiore.
Si iscrisse alla London School of Economics and Political Science.
I suoi studi furono interrotti dalla prima guerra mondiale. Si arruolò nella fanteria, si batté bene, fu promosso ufficiale sul campo, fu citato quattro volte negli ordini del giorno. Nella seconda battaglia di Ypres fu avvelenato dai gas, rimase in ospedale per due anni e poi fu congedato.
E salpò verso casa, verso Tobago, solo, a bordo della Lady’s Slipper.
Quando arrivò a sole ottanta miglia da casa, fu fermato da un sottomarino tedesco, l’U-99. Fu fatto prigioniero, e la sua goletta fu usata dagli unni come bersaglio. Mentre era ancora in superficie, il sottomarino fu colto di sorpresa e catturato dal cacciatorpediniere inglese Raven.
Il Raven doveva fare rotta verso il Mediterraneo, ma non vi arrivò mai. Perdette il governo del timone. Riusciva solo a guazzare impotente in acqua e a descrivere immensi cerchi in senso orario. Alla fine arrivò alle Isole del Capo Verde.
Johnson rimase su quelle isole per otto mesi, aspettando un mezzo qualsiasi che lo portasse nell’emisfero occidentale.
Finalmente riuscì a imbarcarsi come marinaio su un peschereccio che portava immigranti clandestini a New Bedford, nel Massachusetts. Il peschereccio fu scaraventato a riva da una tempesta, a Newport, nel Rhode Island.
Già allora Johnson si era convinto che qualcosa cercava di trascinarlo in qualche posto per qualche particolare ragione. Così rimase un poco a Newport per vedere se il suo destino era lì. Fece il giardiniere e il carpentiere nella famosa tenuta dei Rumfoord.
In quel tempo poté vedere molti degli ospiti famosi dei Rumfoord : fra gli altri J. P. Morgan, il generale John J. Pershing, Franklin Delano Roosevelt, Enrico Caruso, Warren Gamaliel Harding e Harry Houdini. Fu in quel periodo che la prima guerra mondiale finì, dopo aver ucciso dieci milioni di esseri umani e dopo averne ferito venti milioni, fra i quali Johnson.
Quando la guerra finì, la giovane pecora nera della famiglia Rumfoord, Remington Rumfoord IV, decise di fare un viaggio attorno al mondo con il suo yacht, lo Scheherazade, per visitare la Spagna, la Francia, l’Italia, la Grecia, l’Egitto, l’India, la Cina e il Giappone. Offrì a Johnson di accompagnarlo in qualità di primo ufficiale, e Johnson accettò.
In quel viaggio, Johnson vide molte delle meraviglie del mondo.
Lo Scheherazade fu speronato nella nebbia del porto di Bombay e sopravvisse soltanto Johnson. Rimase in India per due anni, e diventò seguace di Mohandas K. Gandhi. Fu arrestato per aver capeggiato gruppi di indiani che protestavano contro la dominazione britannica sdraiandosi sui binari delle ferrovie. Quando ebbe scontato la condanna, fu rispedito in patria, a Tobago, a spese della Corona.
Là costruì una seconda goletta, e la chiamò Lady’s Slipper II.
Navigò nel Mar dei Caraibi, bighellonando, cercando ancora la tempesta che lo avrebbe spinto a riva verso quello che doveva essere inequivocabilmente il suo destino.
Nel 1922 cercò scampo da un uragano a Port-au-Prince, Haiti, un paese che allora era occupato dai marine degli Stati Uniti.
Là, Johnson fu avvicinato da un marine disertore, geniale, idealista, autodidatta, che si chiamava Earl McCabe. McCabe era caporale. Aveva appena rubato i fondi destinati alle attività ricreative della compagnia. Offrì cinquecento dollari a Johnson perché lo portasse a Miami.
I due salparono per Miami.
Ma una tempesta spinse la goletta contro le rocce di San Lorenzo. Il battello affondò. Johnson e McCabe, completamente nudi, riuscirono a raggiungere a nuoto la riva. Così Bokonon stesso riferisce la sua avventura:

Un pesce gettato
Dal mare infuriato,
Sulla riva boccheggiai E me stesso diventai .

Lo affascinava il mistero di essere giunto nudo sulla riva di un’isola sconosciuta. Decise di lasciare che l’avventura seguisse il suo corso, per vedere fin dove poteva arrivare un uomo uscito nudo dall’acqua salata. Per lui fu una rinascita.

Sii come un bambino:
La Bibbia ti dice così. E sono rimasto un bambino Fino a questo stesso dì21.

Come finì per chiamarsi Bokonon, è molto semplice. Bokonon era la pronuncia del cognome Johnson del dialetto inglese dell’isola.
In quanto a questo dialetto...
Il dialetto di San Lorenzo è facile da comprendere quanto è difficile da scrivere. Ho dettò facile da comprendere, ma parlo solo per me stesso. Altri lo hanno trovato incomprensibile come il basco, quindi la mia comprensione deve essere telepatica.
Philip Castle, nel suo libro, dava una dimostrazione fonetica del dialetto e ne coglieva benissimo il sapore. Sceglieva come esempio la versione sanlorenzana di Twinkle, twinkle, little star. Nell’inglese degli americani, una versione di quella immortale poesia è la seguente :

Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are,
Shining in the sky so bright,
Like a tea tray in the night,
Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are22.

Nel dialetto sanlorenzano, secondo Castle, la stessa poesia suona così:

Tsvent-kiul, tsvent-kiul, lett-pool store,
Ko jy tsvantoor bat voo yore
Put-shinik on lo shee zo brath,
Kam oon teetron on lo nath,
Tsvent-kiul, tsvent-kiul, lett-pool store, Ko jy tsvantoor bat voo yore.

Poco dopo che Johnson fu diventato Bokonon, fra parentesi, la scialuppa di salvataggio della sua goletta fracassata fu trovata sulla riva. Più tardi quella barca fu dipinta d’oro e diventò il letto del capo dell’esecutivo dell’isola.
“C’è una leggenda, creata da Bokonon,” scriveva Philip Castle nel suo libro “secondo la quale la barca dorata navigherà di nuovo quando la fine del mondo sarà prossima.”

UN SIMPATICO NANEROTTOLO

La mia lettura della vita di Bokonon fu interrotta dalla moglie di H. Lowe Crosby, Hazel. Era ritta nella corsia, vicino a me.
“Lei non lo crederà,” disse “ma ho appena scoperto altri due hoosiers a bordo di questo aereo.”
“Ch’io sia dannato.”
“Non sono hoosiers di nascita, ma adesso vivono là. Vivono a Indianapolis.”
“Molto interessante.”
“Vuole conoscerli ?”
“Crede che dovrei?” La domanda la stupì.
“Sono suoi compatrioti hoosiers.”
“Come si chiamano?”
“Lei si chiama Conners e lui Hoenniker. Sono fratello e sorella, e lui è un nanerottolo. Un nanerottolo così simpatico, però.” E ammiccò. “È un cosino in gamba.”
“E la chiama mamma?”
“Stavo per chiederglielo. Poi mi sono trattenuta e mi domando se non sarebbe sgarbato chiedere a un nanerottolo di fare una cosa simile.” “Sciocchezze.”

D’ACCORDO, MAMMA

Andai verso la coda, per parlare con Angela Hoenniker Conners e con il piccolo Newton Hoenniker, membri del mio karass.
                                                                                                                                                                                               
22 Brilla, brilla, stellina, / io  mi domando che cosa sei / tu che splendi così lucente nel cielo / come un vassoio da tè nella notte. / Brilla, brilla, stellina, / io mi domando che cosa sei.
Angela era la bionda dalla faccia cavallina che avevo notato prima.
Newt era un giovanotto veramente minuscolo, ma non grottesco. Era in scala perfetta, come Gulliver fra gli abitanti di Brobdingnag, e altrettanto abile e cauto.
Reggeva un bicchiere di champagne, che era compreso nel prezzo del biglietto. Il bicchiere, per lui, era grande quanto lo sarebbe stata una vaschetta di pesci rossi per un uomo normale, ma vi beveva con elegante disinvoltura... come se lui e il bicchiere non potessero essere meglio assortiti.
Quel piccolo figlio d’un cane aveva un cristallo di ghiaccio-nove in un termos, in mezzo ai suoi bagagli, e ne aveva uno anche la sua sciagurata sorella, e sotto di noi c’era la distesa d’acqua di Dio, il Mar dei Caraibi.
Quando Hazel ebbe tratto tutto il piacere possibile dal presentare hoosier a hoosier, ci lasciò soli.
“Ricordatevi” ci disse nel lasciarci. “D’ora innanzi chiamatemi mamma.” “D’accordo, mamma” dissi io.
“D’accordo, mamma” disse Newt. La sua voce era abbastanza alta, in rapporto alla sua minuscola laringe. Ma riusciva a rendere nettamente virile quella voce.
Angela insisteva nel trattare Newt come un bambino... e lui la perdonava con un’amabile grazia che avrei creduto impossibile in un uomo così piccolo.
Newt e Angela si ricordavano di me, ricordavano le lettere che avevo scritto e mi invitarono a prendere posto nel sedile vuoto accanto a loro.
Angela si scusò con me per non aver mai risposto alla mia lettera.
“Non riuscivo a pensare qualcosa che potesse interessare un lettore. Avrei potuto inventare qualcosa, su quel giorno, ma non credevo che lei desiderasse una cosa simile. In realtà, quello fu un giorno come tutti gli altri.”
“Suo fratello, qui, mi scrisse una lettera molto bella.”
Angela ne fu sorpresa. “Newt? Come poteva ricordare qualcosa, Newt?” Si rivolse a lui. “Tesoro, tu non ricordi niente di quel giorno, vero? Eri solo un bambino.” “Io ricordo” disse lui, in tono mite.
“Vorrei aver visto quella lettera.” Sottintendeva che Newt era ancora troppo immaturo per trattare direttamente con il mondo esterno. Angela era una donna spaventosamente insensibile e non comprendeva affatto ciò che significava per Newt essere così piccolo.
“Tesoro, avresti dovuto mostrarmi quella lettera” lo rimproverò.
“Scusami” disse Newt. “Non ci avevo pensato.”
“Potrei dirle” mi spiegò Angela “che il dottor Breed mi ha avvertita di non collaborare con lei. Mi ha detto che lei non intendeva dare un’immagine obiettiva di mio padre.” E mi fece capire che per quella ragione non le ero simpatico.
La placai un poco dicendole che probabilmente quel libro non sarebbe mai stato scritto, che io non avevo più un’idea chiara di quello che avrebbe dovuto o voluto significare.
“Bene, se mai scriverà quel libro, farà meglio a presentare mio padre come un santo, perché lo era.”
Promisi che avrei fatto del mio meglio per dipingerlo in quel modo e le chiesi se lei e Newt andavano a San Lorenzo per una riunione di famiglia con Frank.
“Frank sta per sposarsi” disse Angela. “Andiamo alla festa di fidanzamento.”
“Oh. E chi è la fortunata?”
“Adesso gliela mostro” disse Angela, e tolse dalla borsetta un portafogli che conteneva una specie di fisarmonica di plastica. In ciascuna delle pieghe della fisarmonica c’era una fotografia. Angela sfogliò le foto, facendomi intravedere il piccolo Newt sulla spiaggia di Cape Cod, il dottor Felix Hoenniker che riceveva il Premio Nobel, le due gemelle di Angela, Frank che faceva volare un aeromodello con uno spago.
E poi mi mostrò una foto della ragazza che Frank stava per sposare.
Avrebbe ottenuto lo stesso effetto se mi avesse colpito all’inguine.
La foto che mi mostrò era quella di Mona Aamons Monzano, la donna che amavo.

SENZA SOFFRIRE

Una volta che Angela aveva aperto la sua fisarmonica di plastica, era riluttante a chiuderla, fino a che qualcuno non aveva guardato tutte le fotografie.
“Queste sono le persone che amo” dichiarò.
Così guardai le persone che amava. Ciò che aveva imprigionato nel plexiglass, ciò che aveva imprigionato come scarafaggi fossili nell’ambra, erano le immagini di gran parte del nostro karass. Non c’era neppure un granfallooniano, in quella raccolta.
C’erano molte fotografie del dottor Felix Hoenniker, padre della bomba, padre di tre figli, padre del ghiaccio-nove. Era un ometto, il genitore legittimo di un nano e di una gigantessa.
La fotografia del vecchio che mi piacque di più, nella collezione di fossili di Angela, lo mostrava tutto imbacuccato per l’inverno, con cappotto, sciarpa, soprascarpe e un berretto di lana fatto a maglia, con un grosso pompon.
Quella foto, mi disse Angela con un nodo alla gola, era stata scattata a Hyannis circa tre ore prima che il vecchio morisse. Un fotoreporter aveva riconosciuto quell’elfo natalizio per il grand’uomo che era.
“Suo padre è morto in ospedale?”
“Oh, no! Morì nella nostra casetta, in una grande poltrona bianca di vimini, davanti al mare. Newt e Frank erano andati a passeggiare lungo la spiaggia, sulla neve...”
“Era una neve molto tiepida” disse Newt. “Era quasi come camminare sui fiori d’arancio. Era molto strana. Non c’era nessuno, nelle altre case,..”
“La nostra era l’unica che avesse l’impianto di riscaldamento” disse Angela.
“Non c’era nessuno per miglia e miglia” ricordò Newt, trasognato. “E io e Frank trovammo quel grosso cane nero sulla spiaggia: un Labrador retriever. Gettavamo in mare i pezzi di legno, e lui ce li riportava.”
“Io ero tornata in paese per prendere altre lampadine per l’albero di Natale” disse
Angela. “Facevamo sempre l’albero.”
“A suo padre piaceva l’albero di Natale?” “Non lo ha mai detto” fece Newt.
“Io credo che gli piacesse” disse Angela. “Non era molto espansivo. Molti non lo sono.”
“E molti lo sono” disse Newt. Scrollò lievemente le spalle.
“Ad ogni modo,” disse Angela “quando tornammo a casa, lo trovammo su quella poltrona.” Scosse il capo. “Non credo che abbia sofferto. Sembrava addormentato. Non avrebbe potuto avere quell’aspetto, se avesse sofferto.”
Omise una parte interessante dell’episodio. Omise il fatto che in quella stessa vigilia di Natale lei e Frank e il piccolo Newt si erano divisi il ghiaccio-nove del vecchio.


IL PRESIDENTE DELLA FABRI-TEK

Angela mi incoraggiò a guardare ancora le fotografie.
“Questa sono io, se riesce a crederlo.” Mi mostrò un’adolescente, alta sei piedi. Nella foto reggeva un clarinetto e indossava l’uniforme da parata della banda della scuola superiore di Ilium. Aveva i capelli raccolti sotto un chepì. Sorrideva con timida, bonaria allegria.
E poi Angela, una donna cui Dio non aveva dato nulla per accalappiare un uomo, mi mostrò la fotografia di suo marito.
“Dunque questo è Harrison C. Conners.” Ero sbalordito. Suo marito era un uomo di sorprendente bellezza e aveva l’aria di saperlo. Era un elegantone e aveva negli occhi l’espressione pigra e rapita di un don Giovanni.
“Cosa... cosa fa?” chiesi.
“È presidente della Fabri-Tek.”
“Elettronica?”
“Non potrei dirglielo, neppure se lo sapessi. È un lavoro per il governo, segretissimo.”
“Armi?”
“Ecco, guerra.”
“E come vi siete conosciuti?”
“Era assistente di laboratorio di mio padre” disse Angela. “Poi andò a Indianapolis e mise in piedi la Fabri-Tek.”
“Così il vostro matrimonio fu la felice conclusione d’un lungo romanzo d’amore?”
“No. Non pensavo neppure che si rendesse conto della mia esistenza. Lo giudicavo molto simpatico, ma lui non aveva mai badato a me, fino a che morì mio padre.
“Un giorno capitò a Ilium. Io stavo in quella grande, vecchia casa, e pensavo che la mia vita era finita...” Parlò dei giorni, delle settimane spaventose che avevano seguito la morte di suo padre. “Eravamo rimasti soltanto io e il piccolo Newt, in quella grande, vecchia casa. Frank era scomparso, e i fantasmi facevano dieci volte più rumore di quanto ne facessimo io e Newt. Avevo dedicato tutta la mia vita a prendermi cura di mio padre; lo portavo al lavoro e lo andavo a prendere, lo imbacuccavo quando era freddo e lo alleggerivo quando era caldo, lo facevo mangiare, gli pagavo i conti. All’improvviso, non c’era più niente da fare, per me. Non avevo mai avuto amici intimi, non avevo un’anima cui dedicarmi, se non Newt.
“E poi,” continuò “qualcuno bussò alla porta... era Harrison Conners. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Entrò, e parlammo degli ultimi giorni di mio padre, e dei tempi andati, in generale.”
Angela quasi piangeva, adesso.
“Due settimane dopo ci sposammo.”

COMUNISTI, NAZISTI, REALISTI, PARACADUTISTI E RENITENTI ALLA LEVA

Ritornai al mio posto, sentendomi molto più miserabile perché avevo perduto Mona Aamons Monzano per colpa di Frank, e ripresi la lettura del dattiloscritto di Philip Castle.
Guardai alla voce Monzano, Mona Aamons, nell’indice, e l’indice diceva di guardare sotto Aamons, Mona.
Così guardai Aamons, Mona e trovai quasi altrettanti riferimenti alle pagine di quanti ne avevo trovati dopo il nome dello stesso “Papà” Monzano.
E dopo Aamons, Mona veniva Aamons, Nestor. Così consultai le poche pagine che parlavano di Nestor e appresi che era il padre di Mona, finlandese di nascita, architetto.
Nestor Aamons era stato fatto prigioniero dai russi e poi era stato liberato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. I suoi liberatori non l’avevano rimandato in patria, ma l’avevano costretto ad arruolarsi in una unità di genieri della Wehrmacht che fu mandata a combattere contro i partigiani jugoslavi. Fu fatto prigioniero dai cetnici, partigiani serbi realisti, e poi dai partigiani comunisti che avevano attaccato i cetnici. Era stato liberato dai paracadutisti italiani che avevano colto di sorpresa i comunisti, ed era stato mandato in Italia.
Gli italiani lo avevano messo al lavoro per progettare le fortificazioni in Sicilia. In Sicilia aveva rubato un peschereccio e aveva raggiunto il neutrale Portogallo.
Mentre era in Portogallo, aveva conosciuto un americano renitente alla leva che si chiamava Julian Castle.
Castle, saputo che Aamons era architetto, lo invitò a seguirlo nell’Isola di San Lorenzo e a progettare un ospedale che doveva essere chiamato Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla.
Aamons accettò. Progettò l’ospedale, sposò un’indigena che si chiamava Celia, generò una figlia perfetta, e morì.

NON SCRIVETE MAI L’INDICE DEI VOSTRI LIBRI

Circa la vita di Aamons, Mona, l’indice dava un quadro discorde e surrealista delle molte forze contrastanti che avevano premuto su di lei, e delle sue reazioni costernate.
“Aamons, Mona,” diceva l’indice “adottata da Monzano per accrescere la propria popolarità, 194-199, 216 n.; infanzia, nella Casa della Speranza e Misericordia, 6381; idillio giovanile con P. Castle, 72 s.; morte del padre, 89 s.; morte della madre, 92 s.; imbarazzo per il suo ruolo di simbolo erotico nazionale, 80, 95 s., 166 n., 209, 247
n., 400-406, 556 n., 678; fidanzamento con P. Castle, 193; sua fondamentale semplicità, 67-71, 80, 95 s., 116 n., 209, 274 n., 400-406, 556 s., 678; vive con Bokonon, 92-98, 196-197; poesie su, 2 n., 26, 114, 119, 311, 316, 477 n., 501, 507, 555 n., 689, 718 s., 799 s., 800 n., 841, 846 s, 908 n., 971, 974; poesie di, 89, 92, 193; ritorna con Monzano, 199; ritorna con Bokonon, 197; fugge da Bokonon, 199; fugge da Monzano, 197; cerca di imbruttirsi per non essere più un simbolo erotico per gli isolani, 80, 95 s., 116 n., 209, 247 n., 400-406, 566 n., 679; educata da Bokonon, 63-
80; scrive una lettera alle Nazioni Unite, 200; virtuosa di xilofono, 71.”
Mostrai quel passo dell’indice ai Minton, chiedendo loro se quella non era già di per sé una biografia affascinante, la biografia di una riluttante dea dell’amore. Ottenni una risposta sorprendente e competente, come capita qualche volta, nella vita. Risultò che Claire Minton, ai suoi tempi, era stata una redattrice professionista di indici. Non avevo mai sentito parlare di una simile professione.
Mi disse che aveva mantenuto il marito agli studi universitari, con i suoi guadagni come redattrice di indici, e che quei guadagni erano buoni, e che poca gente sapeva fare bene gli indici.
Disse che redigere gli indici era una cosa che soltanto gli autori dilettanti usavano fare per i propri libri. Le chiesi cosa pensasse del lavoro di Philip Castle.
“Lusinghiero per l’autore, insultante per il lettore” disse lei. “Per dirla con una parola composita,” osservò, con l’acuta amabilità di un esperto “auto-indulgente. Sono sempre imbarazzata quando vedo un indice redatto da un autore per il proprio libro.”
“Imbarazzata?”
“È rivelatore, l’indice fatto da un autore alla propria opera” mi informò. “È uno sfacciato esibizionismo... per un occhio allenato.”
“Lei riesce a capire una persona da un indice” disse suo marito. “Oh” dissi io. “E cosa può dire di Philip Castle?” Lei sorrise lievemente.
“Cose che preferirei non dire a un estraneo.”
“Mi scusi.”
“È chiaro che è innamorato di questa Mona Aamons Monzano.” “Credo che questo valga per tutti gli uomini di San Lorenzo.” “Ha sentimenti contrastanti verso il proprio padre” disse lei.
“Questo vale per tutti gli uomini della Terra.” L’incitai gentilmente a continuare.
“È insicuro.”
“Quale mortale non lo è?” domandai. Allora non lo sapevo, ma era una domanda molto bokononista.
“Non la sposerà mai.”
“E perché no?”
“Ho detto tutto quello che avevo da dire” fece lei.
“Sono contento di aver conosciuto una redattrice di indici che rispetta l’intimità altrui.”
“Non faccia mai l’indice del suo libro” dichiarò lei.
Un duprass, ci dice Bokonon, è uno strumento prezioso per acquisire e sviluppare, nell’intimità di un amore che non ha fine, una capacità di giudizio che è strana ma autentica. L’acuto esame degli indici da parte dei Minton era senza dubbio uno di questi casi. Un duprass, ci dice Bokonon, è anche una istituzione concepita con dolcezza. L’istituzione Minton non faceva eccezione.
Qualche tempo dopo, l’ambasciatore Minton e io ci incontrammo nella corsia dell’aereo, lontano da sua moglie, e mi spiegò che per lui era importante che io rispettassi l’abilità di sua moglie nel leggere gli indici.
“Sa perché Castle non sposerà mai quella ragazza, anche se la ama, anche se lei lo ama, anche se sono cresciuti insieme?” sussurrò.
“No, signore, non lo so.”
“Perché lui è un omosessuale” sussurrò Minton. “Mia moglie può capire anche questo da un indice.”

UNA GABBIA DI SCOIATTOLI

Quando Lionel Boyd Johnson e il caporale Earl McCabe furono spinti nudi sulla spiaggia di San Lorenzo, lessi, furono accolti da gente che stava molto peggio di loro. Il popolo di San Lorenzo aveva soltanto malattie, che non sapeva come curare e neppure come chiamare. Per contrasto, Johnson e McCabe possedevano i tesori scintillanti della letteratura, dell’ambizione, della curiosità, dell’impudenza, dell’irriverenza, della salute, dell’ironia, e di una notevole conoscenza del mondo esterno.
Cito ancora dai Calipso :

Gente infelice, oh sì, Ho conosciuto qui. Erano senza musica, Erano senza birra.
E tutti quanti i posti in cui volevano
Posarsi, o qua o là,
Alla Castle Sugar Inc. appartenevano, O della Chiesa erano proprietà .

Questa affermazione sulla situazione fondiaria di San Lorenzo nel 1922 è assolutamente esatta, secondo Philip Castle. La Castle Sugar Inc. fu fondata, come accadde, dal bisnonno di .Philip Castle. Nel 1922, possedeva ogni pezzetto di terra arabile dell’isola.
“Le operazioni della Castle Sugar Inc. a San Lorenzo” scriveva il giovane Castle “non diedero mai un profitto. Ma, poiché non pagava nulla ai lavoratori, la società riuscì a mantenersi in pareggio un anno dopo l’altro, guadagnando abbastanza denaro per pagare il salario agli aguzzini dei lavoratori.
“La forma di governo era l’anarchia, salvo alcune particolari situazioni, quando la Castle Sugar voleva impadronirsi di qualcosa o voleva far fare qualcosa. In queste situazioni, la forma di governo era il feudalesimo. La nobiltà era composta dai dirigenti delle piantagioni della Castle Sugar, che erano bianchi, bene armati, provenienti dal mondo esterno. La casta dei cavalieri era composta da indigeni robusti che, in cambio di piccoli regali e di sciocchi privilegi, uccidevano, ferivano o torturavano a comando. Dei bisogni spirituali del popolo prigioniero in questa demoniaca gabbia per scoiattoli si occupava un pugno di preti melliflui.
“La cattedrale di San Lorenzo, che fu fatta saltare con la dinamite nel 1923, era generalmente considerata una delle meraviglie create dall’uomo nel Nuovo Mondo.”

IL SOGNO NAUSEABONDO

Il fatto che il caporale McCabe e Johnson riuscissero a impadronirsi del potere a San Lorenzo non fu un miracolo, in nessun senso. Molta gente si era impadronita di San Lorenzo... l’aveva sempre trovata, invariabilmente, mal difesa. La ragione era semplice: Dio, nella Sua Infinita Saggezza, aveva fatto quest’isola priva di valore.
Hernando Cortés fu il primo uomo la cui sterile conquista di San Lorenzo fu registrata sulla carta. Cortés e i suoi uomini sbarcarono per cercare acqua dolce nel 1519, battezzarono l’isola, ne presero possesso in nome dell’imperatore Carlo V, e non ritornarono mai più. Altre spedizioni vennero, in seguito, a cercare oro e diamanti e rubini e spezie, non ne trovarono, bruciarono qualche indigeno per divertimento e per eresia, e proseguirono il viaggio.
“Quando la Francia reclamò San Lorenzo nel 1682” scriveva Castle “nessuno spagnolo protestò. Quando la Danimarca reclamò San Lorenzo nel 1699, nessun francese protestò. Quando gli olandesi reclamarono San Lorenzo nel 1704, nessun danese protestò. Quando l’Inghilterra reclamò San Lorenzo nel 1706, nessun olandese protestò. Quando la Spagna reclamò San Lorenzo nel 1720, nessun inglese protestò. Quando, nel 1786, alcuni negri americani si impadronirono d’una nave negriera inglese, sbarcarono a San Lorenzo e la proclamarono nazione indipendente, un impero con un imperatore, nessuno spagnolo protestò.
“L’imperatore era Tum-bumwa, l’unica persona che abbia mai considerato l’isola degna di essere difesa. Tum-bumwa era un maniaco che fece erigere la cattedrale di San Lorenzo e le fantastiche fortificazioni sulle coste settentrionali dell’isola, fortificazioni entro le quali sorge oggi la residenza privata del cosiddetto presidente della repubblica.
“Le fortificazioni non sono mai state attaccate, e nessun uomo sano di mente ha mai suggerito una ragione per cui dovessero venire attaccate. Non hanno mai difeso niente. Si dice che millequattrocento persone siano morte durante la costruzione. Di queste millequattrocento persone, si dice che la metà siano state pubblicamente giustiziate per scarso rendimento.”
La Castle Sugar arrivò a San Lorenzo nel 1916, durante il boom dello zucchero, durante la prima guerra mondiale. Non c’era neppure un governo. La società pensava che persino l’argilla e le distese di ghiaia di San Lorenzo potevano venir coltivate con successo, poiché il prezzo dello zucchero era così alto. Nessuno protestò.
Quando McCabe e Johnson arrivarono nel 1922 e annunciarono che assumevano il potere, la Castle Sugar si ritirò flaccidamente, come da un sogno nauseabondo.

TIRANNIA CON UNA DIFFERENZA

“I nuovi conquistatori di San Lorenzo avevano almeno una qualità veramente nuova” scriveva il giovane Castle. “McCabe e Johnson sognavano di fare di San Lorenzo una Utopia.
“A questo scopo, McCabe riformò l’economia e le leggi. “Johnson progettò una nuova religione.” Castle citava di nuovo i Calipso.

lo volevo che ogni cosa
Sembrasse avere un senso, finalmente, Perché fosse felice, quella gente, Invece che nervosa.
E fabbricai menzogne
Perché tutto quadrasse, a nostro avviso, E trasformai questo infelice mondo, Ne feci un pa-ra-di-so .

Qualcuno mi sfiorò la manica, mentre leggevo. Alzai lo sguardo.
Il piccolo Newt Hoenniker era ritto nella corsia, vicino a me. “Pensavo che forse le piacerebbe tornare al bar” disse. “Per tirarsi un po’ su.”
Così ci tirammo su e traballammo un poco, e la lingua di Newt si sciolse abbastanza per dirmi qualcosa sul conto di Zinka, la sua ballerina russa lillipuziana. Il loro nido d’amore, mi disse, era stata la casetta di suo padre, a Cape Cod.
“Può darsi che io non mi sposi mai, ma per lo meno ho avuto una luna di miele.”
Mi parlò delle ore idilliche che lui e Zinka avevano vissuto, uno nelle braccia dell’altra, annidati nella vecchia poltrona bianca di vimini che era stata di Felix Hoenniker, la poltrona in faccia al mare.
E Zinka ballava per lui.
“Ci pensi, una donna che ballava proprio per me.”
“Vedo che non ha rimpianti.”
“Zinka mi spezzò il cuore. Questo non mi è piaciuto molto. Ma era il prezzo da pagare. In questo mondo, bisogna pagare per tutto ciò che si ottiene.” Propose un brindisi galante. “Alle mogli e alle innamorate” gridò.

ALLACCIATEVI LA CINTURA DI SICUREZZA

Ero nel bar con Newt e H. Lowe Crosby e un paio di sconosciuti, quando giungemmo in vista di San Lorenzo. Crosby stava parlando dei pidocchi,
“Sa cosa intendo per un pidocchio?”
“Conosco il termine,” dissi “ma evidentemente per me non ha i significati che ha per lei.”
Crosby era molto euforico e come tutti gli ubriachi era convinto di poter parlare francamente, purché parlasse affettuosamente. Parlò francamente e affettuosamente della statura di Newt, qualcosa su cui nessuno, nel bar, aveva fatto commenti fino a quel momento.
“Non intendo un tizio piccino come lui.” Crosby posò una mano grande come un prosciutto sulla spalla di Newt. “Non è la statura che fa di un uomo un pidocchio. È il modo come pensa. Ho visto uomini grandi e grossi quattro volte più di questo omino, ed erano pidocchi. E ho visto degli omini, ecco, non piccoli come lui, ma maledettamente piccoli, per Dio, che erano uomini veri.”
“Grazie” disse educatamente Newt, senza neppure guardare la mano mostruosa posata sulla sua spalla. Non avevo mai visto un essere umano meglio adattato a una così umiliante minorazione fisica. Rabbrividii per l’ammirazione.
“Stava parlando dei pidocchi” dissi a Crosby, sperando di indurlo a togliere il peso della mano dalla spalla di Newt.
“Maledettamente vero.” Crosby si raddrizzò.
“Non ci ha ancora detto che cos’è un pidocchio” dissi.
“Un pidocchio è qualcuno che crede di essere così maledettamente furbo da non saper mai tenere la bocca chiusa. Qualunque cosa dica un altro, lui deve contraddirlo. Tu dici che ti piace qualcosa e, per Dio, quello ti spiega perché ti sbagli. Un pidocchio fa del suo meglio per farti sentire sempre uno stupido. Non importa quello che dici, lui ne sa sempre di più.”
“Non è una caratteristica attraente” opinai.
“Mia figlia voleva sposare un pidocchio, una volta” disse cupo Crosby.
“Davvero?”
“L’ho schiacciato come un verme.” Crosby diede un pugno sul bar, ricordando quello che il pidocchio aveva detto e fatto. “Gesù!” disse. “Siamo stati tutti all’università!” Il suo sguardo si mise di nuovo a fuoco su Newt. “Lei è andato all’università?”
“A Cornell” disse Newt.
“Cornell!” gridò allegro Crosby. “Mio Dio, anch’io sono andato a Cornell!” “E anche lui.” Newt indicò me.
“Tre cornelliani... tutti sullo stesso aereo!” disse Crosby, e noi ci trovammo di fronte a un’altra festa del tipo granfalloon.
Quando l’atmosfera si fu un po’ calmata, Crosby chiese a Newt che cosa facesse. “Dipingo.”
“Le case?”
“Quadri.”
“Ch’io sia dannato” disse Crosby.
“Ritornate ai vostri sedili e allacciate le cinture di sicurezza, prego” ci avvertì l’hostess. “Siamo sull’aereoporto Monzano, di Bolivar, San Lorenzo.”
“Cribbio! Ehi, aspetti un dannato minuto, lei” disse Crosby, abbassando lo sguardo su Newt. “Mi viene in mente che lei ha un cognome che ho già sentito altre volte.”
“Mio padre fu il ‘padre’ della bomba atomica.” Newt non disse che Felix Hoenniker era stato uno dei ‘padri’. Disse che Felix era stato il padre.
“Davvero?” chiese Crosby.
“Davvero.”
“Io pensavo a un’altra cosa” disse Crosby. Rifletté profondamente. “A una ballerina, mi pare.”
“Credo che faremmo meglio a ritornare ai nostri posti” disse Newt, irrigidendosi un po’.
“Una ballerina russa.” Crosby era abbastanza istupidito dall’alcool per credere che non vi fosse niente di male nel pensare a voce alta. “Ricordo un editoriale che diceva che la ballerina era una spia.”
“Prego, signori” disse l’hostess. “Dovete ritornare ai vostri posti e allacciarvi le cinture.”
Newt alzò gli occhi verso H. Lowe Crosby, con innocenza.
“È sicuro che si chiamasse Hoenniker?” E, per eliminare ogni possibilità di errore, sillabò il cognome.
“Potrei essermi sbagliato” disse H. Lowe Crosby.

UNA NAZIONE SOTTOSVILUPPATA

L’isola, vista dall’alto, era un rettangolo sorprendentemente regolare. Crudeli e inutili aghi di pietra spuntavano dal mare e vi tracciavano intorno un cerchio.
All’estremità meridionale dell’isola c’era la città portuale di Bolivar. Era l’unica città.
Era la capitale.
Sorgeva su un pianoro paludoso. Le piste dell’aeroporto Monzano erano sul lungomare.
A nord di Bolivar si levavano bruscamente le montagne che affollavano il resto dell’isola con le loro protuberanze brutali. Si chiamavano Montagne Sangre de Cristo, ma a me sembravano porci attorno a un truogolo.
Bolivar aveva avuto molti nomi: fra gli altri Caz-ma-caz-ma, Santa Maria, Saint Louis, Saint George e Port Glory. Il nome attuale le era stato dato da Johnson e da McCabe nel 1922, in onore di Simon Bolivar, il grande eroe e idealista dell’America latina.
Quando Johnson e McCabe erano giunti in città, era fatta di rami, bidoni, cassette da imballaggio e fango, fondata sulle catacombe d’un bilione di scarafaggi felici, catacombe di una poltiglia acida di acqua sporca, sterco e fango.
Quando la vidi io non era molto diversa, a eccezione della falsa facciata architettonica lungo la riva.
Johnson e McCabe non erano riusciti a togliere il popolo dalla miseria e dal fango.
E non vi era riuscito neppure “Papà” Monzano.
Nessuno vi sarebbe riuscito, perché San Lorenzo era sterile come una zona equivalente del Sahara o del circolo polare artico.
Ma, nello stesso tempo, aveva una popolazione densa, come la si poteva trovare in qualsiasi altra parte del mondo, non escluse l’India e la Cina. C’erano quattrocentocinquanta abitanti per ogni inabitabile miglio quadrato.
“Durante la fase idealistica della riorganizzazione di San Lorenzo a opera di McCabe e di Johnson, era stato annunciato che il reddito totale del paese sarebbe stato diviso in parti eguali fra tutti i cittadini adulti” scriveva Philip Castle. “La prima e unica volta in cui questo fu fatto, ogni parte ammontò dai sei ai sette dollari.”

CHE COSA VALEVA UN CAPORALE

Nel capannone della dogana, all’aeroporto Monzano, ci venne chiesto di lasciare ispezionare i nostri bagagli e di cambiare il denaro che intendevamo spendere a San Lorenzo in moneta locale, in caporali, che secondo “Papà” Monzano valevano cinquanta centesimi americani.
Il capannone era pulito e nuovo, ma sulle pareti erano già stati incollati moltissimi manifesti, alla rinfusa. Un manifesto diceva :

CHIUNQUE SARÀ SORPRESO
A PRATICARE IL BOKONONISMO A SAN LORENZO MORIRÀ SUL GANCIO!

Un altro manifesto recava la fotografia di Bokonon, un negro ossuto che fumava un sigaro. Aveva un’aria intelligente, gentile, divertita. Sotto la fotografia c’erano queste parole:

RICERCATO, VIVO O MORTO. 10.000 CAPORALI DI TAGLIA!

Guardai più da vicino il manifesto e vidi, riprodotto in calce, una specie di modulo di identificazione ad uso della polizia, che Bokonon aveva dovuto compilare nel 1929. Era riprodotto, a quanto pareva, per mostrare ai cacciatori di Bokonon com’erano le sue impronte digitali e la sua grafia.
Ma ciò che mi interessava era qualcosa delle risposte che Bokonon aveva scritto negli spazi bianchi del modulo, nel 1929. Non appena gli era stato possibile, aveva assunto un punto di vista cosmico, aveva preso in considerazione, per esempio, cose come la brevità della vita e la lunghezza dell’eternità.
Aveva descritto la sua occupazione secondaria così: “Essere vivo”.
Aveva descritto la sua occupazione principale così: “Essere morto”.

QUESTA È UNA NAZIONE CRISTIANA! TUTTI I GIOCHI DI PIEDI SARANNO PUNITI CON IL GANCIO.

Diceva un altro manifesto. Per me quel manifesto non aveva significato, poiché non avevo ancora scoperto che i bokononisti univano le loro anime premendo l’uno le piante dei piedi contro le piante dei piedi dell’altro.
E il mistero più grande, poiché non avevo letto tutto il libro di Philip Castle, era come mai Bokonon, amico intimo del caporale McCabe, era diventato un fuorilegge.

PERCHÉ HAZEL NON AVEVA PAURA

Scendemmo in sette a San Lorenzo: Newt e Angela, l’ambasciatore Minton e sua moglie, H. Lowe Crosby e sua moglie, e io. Quando avemmo finito con la dogana, fummo spinti fuori, su un palco da parata.
Ci trovammo di fronte una folla molto tranquilla.
Cinquemila o più sanlorenzani ci guardavano. Gli isolani erano del colore della farina d’avena. Erano magri. Non si vedeva una sola persona grassa. A tutti mancava qualche dente. Molte gambe erano storte o gonfie.
Non un solo paio d’occhi era limpido.
I seni delle donne erano nudi e flaccidi. Gli uomini portavano intorno ai fianchi pezzi di tela che facevano ben poco per nascondere peni che sembravano i pendoli degli orologi del nonno.
C’erano molti cani, ma nessuno abbaiava. C’erano molti bambini, ma nessuno piangeva. Qua e là qualcuno tossiva... ed era tutto.
Una banda militare stava sull’attenti, davanti alla folla. E non suonava.
Davanti alla banda c’era una guardia di colore. Portava due bandiere, le Stelle e le Strisce e il vessillo di San Lorenzo. Il vessillo di San Lorenzo consisteva dei galloni di caporale dei marine in un campo azzurro vivo. Le bandiere penzolavano flaccide nella giornata senza vento.
Mi sembrò di udire, in lontananza, il rullio d’una mazza su un tamburo di bronzo. Ma quel suono non esisteva. La mia anima risuonava semplicemente del caldo sfrontato e squillante del clima sanlorenzano.
“Sono proprio contenta che sia un paese cristiano,” sussurrò Hazel Crosby al marito “altrimenti avrei un po’ di paura.” Dietro di noi c’era uno xilofono.
C’era una scritta scintillante, sullo xilofono. Era fatta di granati e di marcassiti. La scritta diceva: MONA.

LIBERO E DEVOTO

A sinistra del nostro palco c’era una fila di sei aerei da caccia a elica, che rappresentavano gli aiuti militari degli Stati Uniti a San Lorenzo. Sulla fusoliera d’ogni aereo era dipinto, con puerile sadismo, un boa constrictor che stritolava un diavolo. Il sangue scendeva dalle orecchie, dal naso e dalla bocca del diavolo. Un tridente stava scivolando dalle rosse dita sataniche.
Davanti a ogni caccia stava ritto un pilota color farina d’avena, anche lui silenzioso.
Poi, sopra quel silenzio tumido, si levò un suono fastidioso, come il canto d’un moscerino. Era una sirena che si avvicinava. La sirena era sulla splendente Cadillac nera di “Papà”.
La macchina si fermò davanti a noi, con i pneumatici fumanti.
Ne scesero “Papà” Monzano, la sua figlia adottiva Mona Aamons Monzano e Franklin Hoenniker.
A un segnale debole e imperioso di “Papà”, la folla cantò l’inno nazionale di San Lorenzo. La musica era quella di Homeon the Range . Le parole erano state scritte nel 1922 da Lionel Boyd Johnson, da Bokonon. Le parole erano queste:

Oh, nel nostro paese certamente
Si vive eroicamente,
Gli uomini sono arditi come squali,
Le donne sono pure,
E abbiam prove sicure
Che i nostri figli saran prodi e leali.
San, San Lo-ren-zo!
Ricca e felice è questa nostra isola
Ed i nemici tremano
E le loro manovre andranno a vuoto Contro un popolo libero e devoto .

PACE E ABBONDANZA

Poi la folla ritornò mortalmente immobile.
“Papà” e Mona e Frank ci raggiunsero sul palco, mentre un tamburo rullava. Il rullo cessò quando “Papà” puntò un dito contro il tamburino.
Portava una fondina appesa a una bandoliera, sopra la casacca. L’arma era una calibro quarantacinque, cromata. Era un uomo molto vecchio, come tanti membri del mio karass. Era malridotto. Camminava a passi brevi, senza elasticità. Era ancora grasso, ma il suo lardo si stava sciogliendo rapidamente, perché la semplice uniforme gli andava larga. I suoi occhi di rospo erano gialli. Le mani gli tremavano.
La sua guardia del corpo personale era il maggior generale Franklin Hoenniker, che indossava un’uniforme bianca. Frank, con quei polsi sottili e quelle spalle strette, sembrava un bambino costretto a rimanere alzato dopo l’ora in cui è abituato ad andare a letto. Sul suo petto c’era una medaglia.
Osservai i due, “Papà” e Frank, con una certa difficoltà... non perché la mia vista fosse impedita, ma perché non potevo distogliere gli occhi da Mona. Ero elettrizzato, straziato, ilare, folle. Ogni sogno bramoso, irragionevole che io avessi mai avuto su ciò che dovrebbe essere una donna diventava realtà in Mona. In lei, che Dio ami la sua anima calda e dolce, c’era pace e abbondanza per l’eternità.
Quella ragazza - e aveva solo diciotto anni - era estaticamente serena. Sembrava comprendere tutto, ed essere tutto ciò che c’era da comprendere. Ne I libri di Bokonon è citata per nome. Una delle cose che Bokonon dice di lei è questa: “Mona ha la semplicità dell’assoluto”.
Il suo abito era bianco, alla greca.
Calzava sandali piatti sui piedini bruni.
I suoi capelli d’oro pallido erano lisci e lunghi.
Le sue anche erano una lira.
Oh, Dio.
Pace e abbondanza per sempre.
Era l’unica bella ragazza di San Lorenzo. Era il tesoro nazionale. “Papà” l’aveva adottata, secondo Philip Castle, per mescolare la divinità alla durezza della sua dominazione.
Lo xilofono fu spinto davanti al podio. E Mona suonò. Suonò When Day Is Done.
Era tutto un tremolo... cresceva, si dileguava, cresceva di nuovo.
La folla era intossicata dalla bellezza.
E poi fu tempo che “Papà” ci salutasse.

UN OTTIMO MOMENTO PER VENIRE A SAN LORENZO

“Papà” era un autodidatta, che era stato maggiordomo del caporale McCabe. Non aveva mai lasciato l’isola. Parlava l’inglese passabilmente bene.
Tutto ciò che ognuno di noi diceva sul podio di parata veniva urlato alla folla attraverso certe trombe da giudizio universale.
Tutto ciò che usciva da quelle trombe risuonava in un borbottio confuso lungo un viale corto e ampio, dietro la folla, rimbalzava contro i tre palazzi dalla facciata di vetro in fondo al viale, e ritornava indietro, riecheggiando inutilmente.
“Benvenuti” disse “Papà”. “Voi siete venuti a visitare i migliori amici che l’America abbia mai avuto. L’America è misconosciuta in molti paesi, ma non qui, signor ambasciatore.” Si inchinò a H. Lowe Crosby, il fabbricante di biciclette, scambiandolo per il nuovo ambasciatore.
“So che questo è un grande paese, signor presidente” disse Crosby. “Tutto ciò che ho sentito dire mi sembra magnifico. C’è solo una cosa...”
“Oh?”
“L’ambasciatore non sono io” disse Crosby. “Vorrei esserlo, ma io sono soltanto un semplice, comunissimo uomo d’affari.” Gli faceva male dire chi era il vero ambasciatore. “Il pezzo grosso è quello lì.”
“Ah!” “Papà” sorrise dell’errore. Il sorriso scomparve improvvisamente. Un dolore, dentro di lui, lo fece rabbrividire, poi lo costrinse ad aggobbirsi, a chiudere gli occhi... lo costrinse a concentrarsi per sopravvivere alla sofferenza.
Frank Hoenniker si accostò per sorreggerlo, debole e inetto.
“Si sente bene?”
“Scusatemi” mormorò finalmente “Papà”, raddrizzandosi un po’. C’erano lagrime, nei suoi occhi. Le asciugò, e si raddrizzò completamente. “Vi domando perdono.”
Per un momento sembrò non ricordare bene dove fosse, e che cosa ci si aspettasse da lui. Poi ricordò. Strinse la mano di Horlick Minton. “Qui, lei è fra amici.”
“Ne sono certo” disse amabilmente Minton.
“Fra cristiani” disse “Papà”.
“Bene.”
“Anticomunisti” disse “Papà”.
“Bene.”
“Non ci sono comunisti qui” disse “Papà”. “Hanno troppa paura del gancio.” “Lo immaginavo” disse Minton.
“Ha scelto un ottimo momento per venire fra noi” disse “Papà”. “Domani sarà uno dei giorni più felici nella storia del nostro paese. Domani è la nostra più grande festa nazionale, il Giorno dei Cento Martiri della Democrazia. Sarà anche il giorno del fidanzamento del maggior generale Hoenniker e di Mona Aamons Monzano, la persona più preziosa nella mia vita e nella vita di San Lorenzo.”
“Le auguro ogni felicità, signorina Monzano” disse Minton, con calore. “E mi congratulo con lei, maggior generale Hoenniker.”
I due giovani ringraziarono con un cenno del capo.
Poi Minton parlò dei cosiddetti Cento Martiri della Democrazia, e disse una clamorosa menzogna.
“Non c’è un solo scolaro che non conosca la storia del nobile sacrificio di San Lorenzo nella seconda guerra mondiale. I cento coraggiosi sanlorenzani che saranno commemorati domani diedero tutto ciò che possono dare gli uomini amanti della libertà. Il presidente degli Stati Uniti mi ha chiesto di rappresentarlo nelle cerimonie di domani, di gettare in mare una corona, dono del popolo americano al popolo di San Lorenzo.”
“Il popolo di San Lorenzo ringrazia lei e il suo presidente e il generoso popolo degli Stati Uniti per la loro attenzione” disse “Papà”. “Saremmo onorati se lei volesse gettare in mare la corona durante la festa di fidanzamento, domani.”
“Sarà un onore, per me.”
“Papà” comandò a tutti noi di onorarlo della nostra presenza alla cerimonia del lancio della corona e della festa di fidanzamento, il giorno dopo. Dovevamo presentarci al suo palazzo per mezzogiorno.
“Che figli avranno!” disse “Papà”, invitandoci a guardare Frank e Mona. “Che sangue! Che bellezza!”
La sofferenza lo colpì di nuovo.
Di nuovo chiuse gli occhi per rattrappirsi attorno a quel dolore.
Attese che passasse, ma non passò.
Ancora in preda alla sofferenza, ci voltò le spalle, fronteggiò la folla e il microfono. Cercò di fare un gesto alla folla, non riuscì. Cercò di dire qualcosa alla folla, non riuscì.
E poi le parole gli uscirono dalla bocca. “A casa!” gridò, soffocando. “A casa!”
I presenti si sparpagliarono come foglie.
“Papà” si volse di nuovo verso di noi, ancora grottesco nella sofferenza. Poi crollò.

LA COSA PIO POTENTE CHE ESISTA

Non era morto.
Ma sembrava veramente morto; solo che ogni tanto, nel mezzo di ciò che sembrava la morte, si torceva rabbrividendo.
Frank dichiarò a voce alta che “Papà” non era morto, che non poteva essere morto.
Era frenetico.
“‘Papà’, lei non può morire! Non può!”
Frank allentò il colletto e la casacca di “Papà”, gli soffregò i polsi. “Aria! Aria!
Lasciate respirare ‘Papà’!”
I piloti dei caccia arrivarono di corsa per aiutarci. Uno ebbe abbastanza buon senso da andare a cercare l’ambulanza dell’aeroporto.
La banda e la guardia di colore, che non avevano ricevuto ordini, rimasero tremando sull’attenti.
Cercai Mona, vidi che era ancora serena, e si era ritirata accanto al parapetto del palco. La morte, se lì doveva esservi la morte, non la sgomentava.
Ritto vicino a lei c’era un pilota. Non la guardava, ma trasudava una radiosità che io attribuii alla vicinanza di lei.
“Papà” riprese vagamente conoscenza. Con una mano che svolazzava come un uccello imprigionato, additò Frank.”Tu...” disse.
Tacemmo tutti, per ascoltare le sue parole.
Mosse le labbra, ma non potemmo udire altro che suoni gorgoglianti.
Qualcuno ebbe un’idea che in quel momento sembrò magnifica... e che, in retrospettiva, ora mi sembra un’idea orribile. Qualcuno, un pilota, mi pare, tolse il microfono dal suo sostegno e lo accostò alle labbra gorgoglianti di “Papà” per ingigantire le sue parole.
Così rantoli di morte e grida di spasimo rimbalzarono sui palazzi nuovi.
Poi vennero le parole.
“Tu,” disse rauco a Frank” tu... Franklin Hoenniker... tu sarai il prossimo presidente di San Lorenzo. La scienza... tu hai la scienza. La scienza è la cosa più potente che esista.
“Scienza...” disse “Papà”. “Ghiaccio...” Roteò gli occhi gialli, e svenne di nuovo.
Guardai Mona.
La sua espressione era immutata.
Ma il pilota vicino a lei aveva i lineamenti composti nella rigidità catatonica e orgiastica di chi viene insignito della Medaglia d’Onore del Congresso.
Abbassai lo sguardo e vidi quello che non avrei dovuto vedere.
Mona si era tolta un sandalo. Il suo piedino bruno era nudo.
E con quel piede accarezzava e accarezzava e accarezzava, accarezzava oscenamente, l’incollatura dello stivale del pilota.

HY-U-O-OOK-KUH!

“Papà” non morì... non allora.
Fu portato via nel camioncino del macellaio dell’aeroporto.
I Minton vennero condotti alla loro ambasciata da una macchina di rappresentanza americana.
Newt e Angela furono condotti a casa di Frank da una macchina di rappresentanza sanlorenzana.
I Crosby e io fummo condotti nell’albergo Casa Mona dall’unico tassì di San Lorenzo, una Chrysler del 1939 che sembrava un carro funebre, con i sedili ribaltabili. Sul fianco del tassì era scritto Soc. Trasporti Castle. Il tassì era di proprietà di Philip Castle, il proprietario di Casa Mona, il figlio dell’uomo assolutamente altruista che ero venuto a intervistare.
Tanto i Crosby che io eravamo sconvolti. La nostra costernazione fu espressa in domande cui dovevamo subito ottenere risposta. I Crosby volevano sapere chi era Bokonon. Erano scandalizzati al pensiero che qualcuno si opponesse a “Papà” Monzano.
Non che questo c’entrasse molto, ma io mi accorsi che dovevo sapere subito chi erano stati i Cento Martiri della Democrazia.
I Crosby ottennero risposta prima di me. Non capivano il dialetto sanlorenzano, quindi dovetti fare da interprete. La domanda fondamentale di Crosby all’autista fu: “Chi diavolo è questo pidocchio Bokonon, ad ogni modo?”
“Un uomo molto cattivo” disse l’autista. Quello che disse in realtà fu: Vorry ball moan .
“Un comunista?” chiese Crosby, quando udì la mia traduzione.
“Oh, sicuro.”
“Ha qualche seguace?”
“Prego?”
“C’è qualcuno che pensa bene di lui?”
“Oh, no, signore” disse piamente l’autista. “Nessuno è matto fino a questo punto.” “E perché non l’hanno mai preso?” domandò Crosby.
“È difficile trovarlo” disse l’autista. “È molto furbo.”
“Be’, qualcuno deve pure nasconderlo e dargli da mangiare, altrimenti lo avrebbero già preso.”
“Nessuno lo nasconde. Nessuno gli dà da mangiare. Sono tutti troppo furbi per farlo.”
“Sei sicuro?”
“Oh, sicuro”disse l’autista.”Chiunque dà da mangiare a quel vecchio pazzo, chiunque gli dà un posto per dormire, finisce sul gancio. Nessuno vuole finire sul gancio .”
Pronunciò l’ultima parola hy-u-o-ook-kuh.

HOON-YERA MORA-TOORZ

Chiesi all’autista chi erano stati i Cento Martiri della Democrazia. Il viale che stavamo percorrendo, notai, era il viale dei Cento Martiri della Democrazia.
L’autista mi disse che San Lorenzo aveva dichiarato guerra alla Germania e al Giappone un’ora dopo l’attacco a Pearl Harbor.
San Lorenzo arruolò un centinaio di uomini per combattere a fianco della democrazia. Quei cento uomini furono imbarcati a bordo d’una nave diretta verso gli Stati Uniti, dove avrebbero dovuto essere armati e addestrati.
La nave fu affondata da un sottomarino tedesco appena fuori del porto di Bolivar.
“Dose, sore,” disse l’autista “yeeara lo boon-yera moratoorz tut zamoo-cratz-ya.”
“Questi, signore,” aveva detto, in dialetto, “sono i Cento Martiri della Democrazia .” 
UN GRANDE MOSAICO

I Crosby e io facemmo la curiosa esperienza di essere i primissimi ospiti di un albergo nuovo. Fummo i primi a firmare il registro di Casa Mona.
I Crosby raggiunsero il bureau prima di me, ma H. Lowe Crosby fu così sbalordito nel vedere un registro completamente bianco che non fu capace di firmare. Doveva pensarci sopra almeno un po’.
“Firmi lei” mi disse. Poi, sfidandomi a pensare che era superstizioso, dichiarò che desiderava fotografare un uomo che stava facendo un grande mosaico sull’intonaco fresco della parete dell’atrio.
Il mosaico era un ritratto di Mona Aamons Monzano. Era alto venti piedi. L’uomo che vi stava lavorando era giovane e muscoloso. Sedeva in cima a una scala a pioli.
Non indossava altro che un paio di calzoni di robusta tela bianca.
Era un bianco.
Il mosaicista stava facendo i capelli finissimi sulla nuca del collo di cigno di Mona con pezzettini d’oro.
Crosby andò a fotografarlo; e ritornò per riferire che quell’uomo era il più grande pidocchio che avesse mai conosciuto. Crosby era color salsa di pomodoro, quando ce lo riferì.
“Non puoi dirgli una dannata cosa senza che lui la rivolti a rovescio.”
Così raggiunsi il mosaicista, l’osservai per un po’, poi gli dissi: “L’invidio”.
“Ho sempre saputo” sospirò lui “che se avessi atteso abbastanza, qualcuno sarebbe venuto e mi avrebbe invidiato. Continuavo a dirmi di avere pazienza, che presto o tardi sarebbe venuto qualche invidioso.”
“È americano?”
“Ho questa felicità.” Continuò a lavorare. Non alzò neanche la testa. “Anche lei vuole fotografarmi?”
“Le dispiace?”
“Io penso, dunque sono, dunque sono fotografabile.”
“Ho paura di non avere con me la macchina.”
“Bene, per l’amor di Dio, la vada a prendere! Lei non è uno di quei tali che si fidano della propria memoria, vero?”
“Non credo che dimenticherò tanto presto il viso su cui sta lavorando.”
“Lo dimenticherà quando sarà morto, e anch’io. Quando sarò morto, dimenticherò tutto... e le consiglio di fare lo stesso.”
“Mona ha posato per questo mosaico, oppure lei lavora su una fotografia o che cosa?”
“Lavoro su una fotografia o che cosa.”
“Che cosa?”
“Così.” Si batté un dito sulla tempia. “È tutto in questa mia invidiabile testa.” “La conosce?”
“Ho questa felicità.”
“Frank Hoenniker è un uomo fortunato.”
“Frank Hoenniker è un pezzo di sterco.”
“Lei è molto esplicito.”
“Sono anche ricco.”
“Felice di saperlo.”
“Se vuole l’opinione di un esperto, non sempre il denaro rende felici.”
“Grazie per l’informazione. Lei mi ha risparmiato molti guai. Stavo proprio per fare un po’ di denaro.”
“In che modo?”
“Scrivendo.”
“Io ho scritto un libro, una volta.”
“Che titolo ha?”
“San Lorenzo,” disse “la terra, la storia, il popolo.”

EDUCATO DA BOKONON

“Ne deduco,” dissi al mosaicista “che lei è Philip Castle, figlio di Julian Castle.” “Ho questa felicità.”
“Sono qui per vedere suo padre.”
“È un rappresentante di aspirina?”
“No.”
“Peccato. Papà scarseggia di aspirina. E come sta a droghe del miracolo? A mio padre piace tirar fuori un miracolo, ogni tanto.”
“Non sono un venditore di droghe. Sono uno scrittore.”
“E cosa le fa pensare che uno scrittore non sia un venditore di droghe?”
“Lo ammetto. Sono colpevole secondo l’accusa.”
“Mio padre ha bisogno di qualche libro da leggere a gente che sta morendo o soffrendo atrocemente. Non credo che lei abbia scritto niente di simile.”
“Non ancora.”
“Credo che renderebbe quattrini. Ecco un altro suggerimento prezioso, per lei.”
“Immagino che potrei rimaneggiare il Salmo ventesimoterzo, potrei cambiarlo un po’, in modo che nessuno si rendesse conto che non è una mia creazione originale.”
“Bokonon tentò di rimaneggiarlo” mi disse. “E si accorse che non poteva cambiarne neppure una parola.”
“Conosce anche lui?”
“Ho questa felicità. Fu il mio educatore, quando ero un bambino.” E additò il mosaico con aria sentimentale. “È stato anche l’educatore di Mona.”
“Era un buon insegnante?”
“Mona e io sappiamo leggere, scrivere e fare semplici somme,” disse Castle “se è questo che intende dire.”

LA FELICITÀ DI ESSERE AMERICANO

H. Lowe Crosby si avvicinò per fare un altro tentativo con Castle, il pidocchio.
“Come si definisce?” sogghignò Crosby. “Un beatnik o che cosa?”
“Io mi definisco un bokononista.”
“In questo paese è contro la legge, no?”
“Si dà il caso che io abbia la felicità di essere americano. Ho sempre potuto dire di essere bokononista ogni dannata volta che ho voluto, e fino a ora nessuno mi ha mai dato fastidio.”
“Io credo nell’obbedienza alle leggi del paese in cui mi trovo.” “Non mi sta dicendo niente di nuovo.” Crosby era livido.
“Ti venga un accidente, Jack!”
“Un accidente a te, Jasper” disse blando Castle. “E un accidente anche alla Giornata della Mamma e al Natale.”
Crosby attraversò l’atrio a passo di marcia, si diresse verso il bureau e disse: “Voglio presentare rapporto contro quell’uomo là, quel pidocchio, quel cosiddetto artista. Qui avete un piccolo, simpatico paese che cerca di attirare il turismo e nuovi investimenti industriali. Dopo che quell’uomo mi ha parlato in quel modo, non voglio mai più rivedere San Lorenzo... e quando un mio amico mi chiederà di San Lorenzo, gli dirò di tenersi alla larga. Può darsi che ci guadagnate un bel ritratto su quella parete ma, per Dio, quel pidocchio che lo sta facendo è il figlio di vacca più offensivo e deprimente che io abbia mai incontrato in vita mia”. L’impiegato sembrava sul punto di star male. “Signore...” “Sto ascoltando” disse Crosby, pieno di fuoco.
“Signore... è il proprietario dell’albergo.”

L’HILTON DEL PIDOCCHIO

H. Lowe Crosby e sua moglie se ne andarono da Casa Mona. Crosby la definì “L’Hilton del pidocchio” e chiese di essere ospitato nell’ambasciata americana.
Così io fui l’unico ospite d’un albergo di cento stanze.
La mia stanza era piacevole. Si affacciava, come tutte le altre, sul viale dei Cento Martiri della Democrazia, sull’aeroporto Monzano e sul porto di Bolivar. Casa Mona era costruita come uno scaffale, con i fianchi e il tergo compatti e con una facciata di vetro verdazzurro. Era impossibile vedere lo squallore e la miseria della città che si stendeva ai fianchi e alle spalle di Casa Mona.
La mia stanza aveva l’aria condizionata. Era quasi fredda. E, passando dal tremendo calore esterno a quella frescura, starnutii.
Sul tavolino da notte c’erano fiori freschi, ma il letto non era ancora stato fatto. Non c’era neppure un cuscino, sul letto. C’era soltanto un materasso Beautyrest, nudo e nuovissimo. E nell’armadio non c’erano attaccapanni, e nel bagno non c’era carta igienica.
Così uscii nel corridoio per vedere se ci fosse una cameriera che potesse fornirmi più adeguatamente. Fuori non c’era nessuno, ma in fondo al corridoio c’era una porta aperta da cui venivano lievi segni di vita.
Raggiunsi quella porta e vidi un grande appartamento dal pavimento coperto di stracci. Lo stavano dipingendo, ma i due verniciatori non stavano verniciando, quando io mi affacciai. Erano seduti su un ripiano che si stendeva per tutta la lunghezza della parete-finestra.
Si erano tolte le scarpe. Avevano gli occhi chiusi. Erano uno di fronte all’altro.
Ciascuno di loro premeva le piante nude dei piedi contro le piante nude dei piedi dell’altro.
Tutti e due si stringevano le caviglie, conferendosi la rigidità di un triangolo.
Mi schiarii la gola.
I due rotolarono giù dal ripiano e caddero sugli stracci inzaccherati. Caddero sulle mani e sulle ginocchia e rimasero in quella posizione... con il didietro all’aria, il naso vicino al pavimento.
Si aspettavano di essere uccisi.
“Scusatemi” dissi, sbalordito.
“Non lo dica...” implorò querulo uno dei due. “La prego... la prego, non lo dica.”
“Che cosa non devo dire?”
“Quello che ha visto!”
“Non ho visto niente.”
“Se lo dice,” fece l’uomo, e appoggiò la guancia al pavimento, levò verso di me uno sguardo supplichevole, “se lo dice, moriremo sull’hy-u-o-ook-àuh!”
“Sentite, amici” dissi io. “Forse sono arrivato qui troppo presto o troppo tardi, ma vi ripeto che non ho visto niente che valga la pena di raccontare a qualcuno. Per favore... alzatevi.”
Si alzarono, con gli occhi ancora fissi su di me. Tremavano, si rattrappivano per la paura. Alla fine li convinsi che non avrei mai detto quello che avevo visto.
Quello che avevo visto, naturalmente, era il rito bokononista del boko-maru, ossia “la mescolanza della consapevolezza”.
Noi bokononisti crediamo che è impossibile stare da solo a solo con un’altra persona senza amarla, purché entrambi si abbia i piedi puliti e ben curati. La base per la cerimonia dei piedi è questo Calipso :

Ci toccheremo ì piedi, sì,
Sì, per tutto ciò che siamo,
E ci ameremo l’un l’altro, sì,
Come la Madre Terra amiamo .

LA MORTE NERA

Quando ritornai nella mia camera trovai Philip Castle, mosaicista, storico, redattore del proprio indice, pidocchio e albergatore, che stava mettendo a posto un rotolo di carta igienica nel mio bagno. “Mille grazie” dissi io.
“Lei è il benvenuto.”
“Questo è ciò che chiamerei un albergo con un vero cuore. Quanti proprietari d’albergo si interessano così direttamente alle comodità di un ospite?” “Quanti proprietari d’albergo hanno un ospite solo?”
“Lei ne aveva tre.”
“Quelli erano bei tempi.”
“Sa, se posso parlare fuori turno, trovo difficile capire come una persona che ha i suoi interessi e le sue qualità possa essere attratta dall’industria alberghiera.”
Corrugò la fronte, perplesso. “Non tratto gli ospiti come dovrei, vero?”
“Ho conosciuto certa gente, nella scuola alberghiera, a Cornell, e non posso fare a meno di pensare che avrebbe trattato i Crosby in modo un po’ diverso.”
Annuì, a disagio. “Lo so, lo so.” E agitò le braccia. “Ch’io sia dannato se so perché ho costruito questo albergo... ha qualcosa a che vedere con la mia vita, immagino. Un modo per essere occupato, un modo per non essere solo.” Scosse il capo. “O fare l’eremita o aprire un albergo... non avevo vie di mezzo.”
“Lei non è cresciuto nell’ospedale di suo padre?”
“Infatti. Mona e io siamo cresciuti là, insieme.”
“Bene, non è tentato di fare della sua vita ciò che ne ha fatto suo padre?”
Il giovane Castle sorrise debolmente, evitando una risposta diretta. “È un tipo strano, mio padre” disse. “Credo che le piacerà.”
“Lo immagino. Non ci sono molte persone altruiste come lui.”
“Una volta,” disse Castle “quando io avevo circa quindici anni, ci fu un ammutinamento qui vicino, su una nave greca diretta da Hong Kong all’Avana con un carico di mobili di vimini. Gli ammutinati si impadronirono della nave, ma non sapevano come manovrarla, e la mandarono a fracassarsi sulle rocce vicino al castello di ‘Papà’ Monzano. Annegarono tutti, tranne i topi. I topi e i mobili di vimini arrivarono a riva.”
La storia sembrava finita lì, ma non potevo esserne certo. “E così?”
“E così qualcuno si prese i mobili gratis e qualcuno si prese la peste bubbonica. Nell’ospedale di mio padre vi furono millequattrocento morti in dieci giorni. Ha mai visto qualcuno morire di peste bubbonica?”
“Non ho avuto questa infelicità.”
“Le ghiandole linfatiche dell’inguine e delle ascelle si gonfiano e diventano grosse come aranci.”
“Posso crederlo.”
“Dopo la morte, il corpo diventa nero... come il carbone di Newcastle, nel caso di San Lorenzo. Quando la peste spadroneggiava, la Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla sembrava Auschwitz o Buchenwald. Avevamo certi mucchi di cadaveri così alti e larghi che il bulldozer che cercava di spingerli verso una fossa comune si incagliò. Mio padre lavorò senza dormire per giorni interi, lavorò senza dormire ma anche senza salvare molte vite.”
L’orribile racconto di Castle fu interrotto dallo squillo di un telefono.
“Mio Dio,” disse Castle “non sapevo neppure che avessero già allacciato i telefoni.”
Alzai il ricevitore. “Pronto?”
Era il maggior generale Franklin Hoenniker che mi cercava. Era ansimante e spaventato a morte.
“Mi ascolti! Lei deve venire immediatamente da me. Dobbiamo parlare! Potrebbe essere molto importante per lei!”
“Può darmene un’idea?”
“Non per telefono, non per telefono. Venga a casa mia. Venga subito! La prego!” “Va bene.”
“Non sto scherzando. E una cosa veramente importante per lei. Questa è la cosa più importante di tutte.” Riattaccò.
“Di cosa si tratta?” chiese Castle.
“Non ne ho la minima idea. Frank Hoenniker mi vuole immediatamente.”
“Faccia con calma. È un imbecille.”
“Ha detto che era importante.”
“E come può sapere, quello, se è importante? Io ricaverei un uomo migliore di lui se lo scolpissi in una banana.”
“Be’, comunque finisca il suo racconto.”
“Dove ero arrivato?”
“La peste bubbonica. Il bulldozer che si era incagliato nei cadaveri.”
“Ah, sì. Ad ogni modo, una notte rimasi con mio padre, mentre lavorava. Era tutto quello che potevamo fare per trovare un paziente vivo da curare. In un letto dopo l’altro e dopo l’altro, trovavamo solo morti.
“E mio padre cominciò a ridacchiare” continuò Castle. “Non riusciva a smettere. Uscì nella notte, con la sua lampada tascabile. Continuava a ridacchiare. Faceva danzare il raggio della lampada su tutta quella gente morta ammonticchiata là fuori. Mi mise una mano sulla testa, e sa cosa mi disse quell’uomo meraviglioso?” chiese Castle.
“No.”
“‘Figlio,’ mi disse mio padre ‘un giorno tutto questo sarà tuo.’“‘

IL CESTINO DEL GATTO

Mi recai alla casa di Frank con l’unico tassì di San Lorenzo.
Passammo in mezzo a scene di miseria spaventosa. Salimmo le pendici del Monte McCabe. L’aria divenne più fresca. C’era nebbia.
La casa di Frank era stata un tempo la casa di Nestor Aamons, padre di Mona, architetto della Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla.
L’aveva progettata Aamons.
Era posta a cavallo d’una cascata: aveva una terrazza aggettata sulla nebbia che si levava dalla cascata. Era una grata ingegnosa, fatta di pali e di travi d’acciaio leggerissimo. Gli interstizi della grata erano variamente aperti, o riempiti di pietra nativa, o forniti di vetri, o coperti da strisce di tela.
Lo scopo di quella casa non era tanto racchiudere qualcosa, quanto annunciare che lì dentro un uomo si era dato da fare in modo stravagante.
Un servitore mi accolse educatamente e mi disse che Frank non era ancora tornato a casa. Era atteso da un momento all’altro. Frank aveva lasciato ordini perché io venissi invitato ad accomodarmi e rimanessi a cena e per la notte. Il servitore, che si presentò come Stanley, era il primo sanlorenzano grasso che avessi visto.
Stanley mi condusse nella mia camera; mi guidò attorno al cuore della casa, giù per una scala di pietra viva, una scala riparata o esposta, a casaccio, da rettangoli incorniciati d’acciaio. Il mio letto era un materasso di gommapiuma su un ripiano di pietra, un ripiano di pietra viva. Le pareti della mia camera erano di tela. Stanley mi mostrò come potevo alzarle e abbassarle, a mio piacere.
Chiesi a Stanley se c’era qualcun altro in casa, e mi rispose che c’era solo Newt. Newt, disse, era sulla terrazza, e dipingeva un quadro. Angela, disse, era andata a visitare la Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla.
Uscii sulla vertiginosa terrazza che scavalcava la cascata e trovai il piccolo Newt addormentato in una sedia gialla, di tela.
Il quadro su cui Newt stava lavorando era posto su un cavalletto, vicino alla ringhiera d’alluminio. Il quadro era incorniciato da una veduta nebbiosa di cielo, mare e vallata.
Il quadro di Newt era piccolo e nero e pieno di verruche.
Consisteva di segni graffiati in un impasto nero, gommoso. I graffi formavano una specie di ragnatela, e io mi chiesi se per caso non fossero le reti viscide dell’umana futilità appese ad asciugare in una notte senza luna.
Non svegliai il nanerottolo che aveva dipinto quella cosa spaventosa. Fumai, ascoltando voci immaginarie nel suono dell’acqua.
Ciò che svegliò il piccolo Newt fu una esplosione lontana. Carambolò su per la valle e salì fino a Dio. Era un cannone sul lungomare di Bolivar, mi disse il maggiordomo di Frank. Lo facevano sparare tutti i giorni alle cinque.
Il piccolo Newt si scosse.
Mentre era ancora semiaddormentato si posò le mani sporche di colore sulla bocca e sul mento, lasciandovi macchie nere. Si soffregò gli occhi e vi lasciò attorno altri segni neri.
“Salve” mi disse, assonnato.
“Salve” dissi. “Mi piace il suo quadro.”
“Ha capito che cos’è?”
“Immagino che abbia un significato diverso per ciascuno che lo guarda.”
“È il ‘cestino del gatto’, il ‘ripiglino’.”
“Ahah “dissi. “Molto bene. I graffi sono lo spago. Giusto?”
“È uno dei giochi più antichi, il ‘cestino del gatto’. Lo conoscono persino gli eschimesi.”
“Non me lo aveva detto.”
“Da centomila anni, forse, gli adulti agitano grovigli di spago sotto il naso dei loro figli.”
“Uhm.”
Newt rimase rannicchiato sulla sedia. Tese le mani macchiate come se reggesse un ripiglino. “Non mi meraviglia che i bambini diventino pazzi. Un ‘cestino del gatto’ non è altro che un mucchio di X fra le mani di qualcuno, e i bambini guardano e guardano tutte quelle X...”
“E?”
“E non c’è nessun dannato gatto e nessun dannato cestino.”

I MIEI OSSEQUI AD ALBERT SCHWEITZER

E poi Angela Hoenniker Conners, la sorella spilungona di Newt, arrivò con Julian Castle, padre di Philip e fondatore della Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla. Castle indossava un abito troppo largo di lino bianco e una cravatta a stringa. Aveva un paio di baffi ispidi. Era calvo. Era magro. Era un santo, credo.
Si presentò a Newt e a me sulla terrazza. Prevenne tutte le considerazioni sulla sua probabile santità parlando attraverso un angolo della bocca, come un gangster da film.
“Ho saputo che lei è un seguace di Albert Schweitzer” gli dissi.
“A distanza...” Ed esibì un sogghigno da criminale. “Non ho mai conosciuto questo signore.”
“Senza dubbio Schweitzer conosce la sua opera, come lei conosce l’opera di
Schweitzer.”
“Forse sì e forse no. Lo ha mai incontrato?”
“No.”
“Prevede di incontrarlo?”
“Forse lo incontrerò, un giorno.”
“Be’,” disse Julian Castle, “caso mai si imbattesse nel dottor Schweitzer, in uno dei suoi viaggi, può dirgli che non è lui, il mio eroe.” E accese un grosso sigaro.
Quando il sigaro fu bene acceso, me ne puntò contro l’estremità rossa e ardente. “Può dirgli che non è lui, il mio eroe” disse. “Ma può anche dirgli che, grazie a lui, il mio eroe è Gesù Cristo.”
“Credo che sarà felice di saperlo.”
“Non me ne importa un accidente se lo sarà o no. È una cosa che riguarda solo Gesù e me.”

JULIAN CASTLE È D ACCORDO CON NEWT SUL FATTO CHE TUTTO È INSIGNIFICANTE

Julian Castle e Angela si avvicinarono al quadro di Newt. Castle ripiegò l’indice e guardò il quadro attraverso la fessura, socchiudendo gli occhi. “Cosa ne pensa?” gli chiesi.
“È nero. Cos’è... l’inferno?”
“Significa tutto quello che significa” disse Newt.
“Allora è l’inferno” sogghignò Castle.
“Un momento fa mi è stato detto che è un ‘ripiglino’, un ‘cestino del gatto’.” “Le informazioni degli interessati sono sempre utili” disse Castle.
“Non mi sembra molto bello” lamentò Angela. “Mi sembra brutto, ma non so nulla dell’arte moderna. Qualche volta vorrei che Newt prendesse qualche lezione, così potrebbe sapere se sta facendo qualcosa di buono o no.” “Lei è autodidatta?” chiese Julian Castle a Newt.
“Non lo sono tutti?” domandò Newt.
“Ottima risposta” fece Castle, con rispetto.
Cominciai a spiegare i significati più profondi del ‘cestino del gatto’, poiché Newt non mostrava l’intenzione di ripetere l’esibizione.
E Castle annui saggiamente. “Così, questa è l’immagine della mancanza di significato di tutto! Non potrei essere più d’accordo!”
“È veramente d’accordo?” domandai. “Un minuto fa lei ha parlato di Gesù.” “Chi?” disse Castle.
“Gesù Cristo.”
“Oh” disse Castle. “Lui.” Scrollò le spalle. “La gente deve pure parlare di qualcosa per tenere in esercizio le corde vocali, perché siano efficienti, caso mai avessero qualcosa di veramente importante da dire.”
“Capisco.” Sapevo che non sarebbe stato facile scrivere un articolo di tipo popolare sul suo conto. Avrei dovuto concentrarmi sui suoi atti di santità e ignorare completamente le cose sataniche che pensava e diceva.
“Può citare le mie parole” disse. “L’uomo è spregevole, e l’uomo non fa nulla che valga la pena di essere fatto, non sa nulla che valga la pena di essere conosciuto.” Si piegò e strinse la mano sporca di vernice di Newt.
“Giusto?”
Newt annuì, sembrò sospettare per un attimo che la faccenda fosse stata un po’ esagerata. “Giusto.”
Poi il santo marciò verso il quadro di Newt e lo tolse dal cavalletto. Si voltò verso tutti noi, raggiante.
“Spazzatura... come tutto il resto!”
E gettò il quadro dalla terrazza aggettata. Veleggiò fuori, roteando, sembrò fermarsi, ritornò indietro come un boomerang, scivolò nella cascata.
Non v’era niente che il piccolo Newt potesse dire.
Angela parlò per prima.
“Hai la faccia tutta sporca di colore, tesoro. Vai a lavarti.”

ASPIRINA E BOKO-MARU

“Mi dica, dottore,” dissi a Julian Castle “come sta ‘Papà’ Monzano?”
“E come posso saperlo?”
“Pensavo che lo curasse lei.”
“Non ci parliamo...” Castle sorrise. “Cioè, lui non mi parla. L’ultima cosa che mi disse, circa tre anni fa, fu che l’unica ragione che mi salvava dal gancio era la mia cittadinanza americana.”
“Cosa ha fatto per offenderlo? È venuto qui e ha fondato con il suo denaro un ospedale gratuito per questa gente.”
“‘Papà’ non approva il modo con cui curiamo i pazienti” disse Castle. “Particolarmente quando i pazienti stanno morendo. Nella Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla, somministriamo gli ultimi riti della chiesa bokononista a coloro che lì chiedono.”
“E come sono questi riti?”
“Molto semplici. Cominciano con una lettura a responsorio. Lei vuole rispondere?”
“Per il momento non sono così prossimo alla morte, se non le dispiace.”
Ammiccò, con aria tetra. “Fa bene a essere prudente. La gente che chiede gli ultimi riti sceglie in realtà un modo di morire dietro suggerimento. Credo che potremmo trattenerla dall’andare fino in fondo, però, se non tocchiamo i piedi.”
“I piedi?”
Mi parlò dell’usanza bokononista relativa ai piedi.
“Questo mi spiega qualcosa che ho visto nell’albergo. “Gli dissi dei due verniciatori sul davanzale della finestra.
“È efficace, sa “disse. “Uno che lo pratica si sente veramente meglio, ha sentimenti migliori nei confronti dell’altro e del mondo intero.”
“Uhm.”
“Boko-maru.”
“Prego?”
“È così che viene chiamata quella faccenda dei piedi” disse Castle. “È efficace. Io sono grato alle cose efficaci. Non sono molte, le cose efficaci.”
“Suppongo di no.”
“Non potrei mantenere in vita il mio ospedale se non fosse per l’aspirina e il bokomaru.”
“Ne deduco”dissi”che vi sono ancora parecchi bokononisti nell’isola, nonostante le leggi, nonostante Yhy-u-o-ook-kuh.”

CERCHIO D’ACCIAIO

“Quando Bokonon e McCabe si impadronirono di questo miserabile paese, anni or sono,” disse Julian Castle “buttarono fuori i preti. E poi Bokonon, cinicamente e allegramente, inventò una nuova religione.” “Lo so” dissi io.
“Bene, quando fu chiaro che nessuna riforma politica o economica avrebbe reso il popolo meno miserabile, la religione diventò l’unico vero strumento di speranza. La verità era nemica del popolo, poiché era tanto terribile, quindi Bokonon non si preoccupò di fornire al popolo menzogne molto migliori.”
“E come diventò fuorilegge?”
“Fu un’idea sua. Chiese a McCabe di mettere fuorilegge lui e anche la sua religione, per dare alla vita religiosa del popolo più sapore, più pimento. E fra l’altro scrisse una breve poesia sull’argomento.”
Castle citò la poesia, che non figura ne I libri di Bokonon.

Cosi dissi addio al governo E spiegai per qual ragione:
Ogni buona religione
Era, in fondo, un tradimento .

“Bokonon consigliò il gancio, anche, come la punizione adatta per i bokononisti” disse.” L’aveva visto nella camera degli orrori nel museo di madame Tussaud.”
Ammiccò con un’espressione da vampiro. “Anche questo aggiungeva sapore.”
“E morì molta gente, sul gancio?”
“In principio no, in principio no. In principio era tutta una finzione. Furono abilmente sparse voci di esecuzioni, ma nessuno conosceva veramente qualcuno che fosse morto in quel modo. McCabe si divertì moltissimo a lanciare minacce sanguinose contro i bokononisti... cioè contro tutti.
“E Bokonon si rifugiò in un comodo nascondiglio nella giungla,” continuò Castle” dove scriveva e predicava tutto il giorno e mangiava le leccornie che i discepoli gli portavano.
“McCabe organizzava i disoccupati, in pratica tutti gli abitanti dell’isola, per dare la caccia a Bokonon.
“Circa ogni sei mesi McCabe annunciava trionfalmente che Bokonon era circondato da un cerchio d’acciaio che si stringeva spietatamente.
“E poi i comandanti del cerchio spietato dovevano riferire a McCabe, pieno di affanno e di apoplessia, che Bokonon aveva fatto l’impossibile. Era fuggito, si era dileguato, era sopravvissuto per predicare ancora un giorno. Miracolo!”


PERCHÉ L’ANIMA DI McCABE SI INCANAGLÌ

“McCabe e Bokonon non riuscirono a elevare quello che viene definito generalmente il tenore di vita” disse Castle. “In realtà la vita era breve e brutale e meschina come sempre.
“Ma la gente non doveva prestare molta attenzione alla spaventosa verità. Mentre la leggenda viva del tiranno crudele nella città e del mite sant’uomo nella giungla si rafforzava, cresceva anche la felicità della gente. Erano tutti impegnati, costantemente, in una commedia che comprendevano, che qualsiasi essere umano avrebbe compreso e applaudito, dovunque.”
“Così la vita diventò un’opera d’arte” mi meravigliai io.
“Sì. C’era soltanto un inconveniente.”
“Oh?”
“Il dramma incise duramente sulle anime dei due protagonisti, McCabe e Bokonon. Da giovani, erano stati molto simili, erano stati entrambi per metà angeli e per metà pirati.
“Ma il dramma richiedeva che la metà piratesca di Bokonon e la metà angelica di McCabe avvizzissero. E McCabe e Bokonon pagarono un terribile prezzo di sofferenza per la felicità del popolo... McCabe conobbe la sofferenza del tiranno e Bokonon conobbe la sofferenza del santo. Entrambi diventarono, da un punto di vista pratico, pazzi.”
Castle piegò a uncino l’indice della mano sinistra. “E allora la gente cominciò a morire veramente sull’hy-u-o-ook-kuh.”
“Ma Bokonon non fu mai catturato?” domandai.
“McCabe non impazzì fino a questo punto. Non fece mai un tentativo serio di catturare Bokonon. Sarebbe stato molto facile.”
“E perché non lo catturò?”
“McCabe era ancora abbastanza ragionevole da rendersi conto che senza il sant’uomo contro cui guerreggiare, lui stesso avrebbe perduto la ragione di esistere.
Anche ‘Papà’ Monzano lo capisce.”
“E la gente muore ancora sul gancio?”
“È inevitabilmente fatale.”
“Voglio dire,” feci “‘Papà’ Monzano ha fatto giustiziare veramente qualcuno in quel modo?”
“Fa giustiziare una persona ogni due anni... tanto per mantenere in bollore la pentola, per così dire. “Sospirò, levando lo sguardo al cielo serotino. “Gran daffare, gran daffare, gran daffare.”
“Prego?”
“E quello che diciamo noi bokononisti” disse “quando sentiamo che stanno accadendo molte cose misteriose.”
“Lei?” Ero sbalordito. “Anche lei è bokononista?”
Mi fissò, imparzialmente. “E anche lei. Se ne accorgerà.”

I FILTRI DELLA CASCATA

Angela e Newt erano sulla terrazza con Julian Castle e con me. Prendemmo il cocktail. Non c’erano ancora notizie di Frank.
Scoprii che Angela e Newt erano entrambi bevitori accaniti. Castle mi disse che i suoi trascorsi di playboy gli erano costati un rene e che era disgraziatamente costretto ad attenersi alla birra allo zenzero.
Angela, dopo avere ingurgitato qualche bicchiere, si lamentò del modo in cui il mondo aveva raggirato suo padre. “Aveva dato tanto, e gli diedero così poco!”
L’invitai a darmi qualche esempio della tirchieria del mondo e ottenni cifre esatte. “La General Forge and Foundry gli dava un premio di quarantacinque dollari per ogni brevetto ottenuto con il suo lavoro” disse Angela. “Cioè lo stesso premio di brevetto che pagava a tutti i dipendenti della società. “Scosse il capo, addolorata.
“Quarantacinque dollari... e pensi a cosa serviva qualcuno di quei brevetti!”
“Uhm” dissi. “Immagino che avesse anche uno stipendio.”
“Il massimo che abbia mai guadagnato fu ventottomila dollari all’anno.”
“Direi che fosse una discreta somma.”
“Sa quanto guadagnano i divi del cinema?” ribatté lei.
“Un mucchio di quattrini, qualche volta.”
“Sa che il dottor Breed guadagnava diecimila dollari all’anno più di mio padre.”
“Questa era senza dubbio un’ingiustizia.”
Era così acutamente esercitata in quel genere di discussioni che cambiai argomento. Chiesi a Julian Castle cosa ne fosse stato, secondo lui, del quadro che aveva buttato nella cascata.
“C’è un piccolo villaggio, in fondo” mi disse. “Cinque o sei capanne, direi. È il paese natale di ‘Papà’ Monzano, fra l’altro. Lì la cascata finisce in un grande bacino di roccia.
“Gli abitanti del villaggio hanno steso attraverso una strettoia del bacino una rete, di quelle che servono per i pollai. L’acqua esce da quella fenditura e diventa un ruscello.”
“E adesso il quadro di Newt sarebbe nella rete?” chiesi.
“È un paese povero, caso mai non lo avesse notato” disse Castle. “Niente rimane a lungo in quella rete. Immagino che ora il quadro di Newt stia asciugando al sole, insieme al mozzicone del mio sigaro. Quattro piedi quadrati di tela gommata, i quattro pezzi di legno del telaio, qualche chiodo e un sigaro. Tutto sommato, è una buona pesca per un uomo povero, molto povero.”
“Qualche volta mi viene da gridare” disse Angela “quando penso a quanto viene pagata certa gente e a quanto poco pagavano mio padre... e quanto ha dato lui.” Era sull’orlo d’una crisi di pianto.
“Non piangere” l’implorò dolcemente Newt.
“Qualche volta non riesco a trattenermi” disse lei.
“Vai a prendere il tuo clarinetto” l’esortò Newt. “Ti fa sempre bene.”
Dapprima pensai che fosse un consiglio veramente comico. Ma poi, dalla reazione di Angela, compresi che era un consiglio serio e pratico.
“Quando mi sento così, “disse a Castle e a me “qualche volta è l’unica cosa che mi aiuti.”
Ma era troppo timida per esibire subito il clarinetto. Noi dovemmo pregarla di suonare e lei dovette bere altri due cocktail.
“È veramente meravigliosa” promise il piccolo Newt.
“Mi piacerebbe sentirla suonare” disse Castle.
“Va bene” disse finalmente Angela, mentre si alzava un po’ barcollante. “Va bene, suonerò.”
Quando si fu allontanata, Newt la scusò. “Ha passato un brutto periodo. Ha bisogno di riposo.”
“È stata ammalata?” chiesi.
“Suo marito si comporta come un mascalzone, con lei” disse Newt. Ci spiegò che odiava il bellissimo e giovane marito di Angela, il fortunatissimo Harrison C. Conners, presidente della Fabri-Tek. “Non viene quasi mai a casa... e quando torna è ubriaco e quasi sempre coperto di rossetto.”
“Dal modo in cui parlava,” dissi “pensavo che fosse un matrimonio molto felice.”
Il piccolo Newt levò le mani, a sei pollici l’una dall’altra, e aprì le dita. “Vede il gatto? Vede il cestino?”

UNA SPOSA BIANCA PER IL FIGLIO D’UN INSERVIENTE DEI VAGONI LETTO

Non sapevo cosa sarebbe uscito dal clarinetto di Angela. Nessuno poteva immaginare che cosa ne sarebbe uscito.
Mi aspettavo qualcosa di patologico, ma non mi aspettavo la profondità, la violenza, la bellezza quasi insopportabile della malattia.
Angela inumidì e riscaldò l’imboccatura, ma non soffiò una nota preliminare. Gli occhi le diventarono vitrei, e le lunghe dita ossute pigolarono pigramente sui tasti silenziosi.
Aspettai con ansia, e ricordai quello che mi aveva detto Marvin Breed... che l’unico rifugio di Angela dalla sua vita squallida con il padre era la sua camera, dove chiudeva la porta e suonava accompagnando la musica dei dischi.
Newt mise un disco long-playing sul grande giradischi della stanza accanto alla terrazza. Ritornò con la busta del disco e me la porse.
Il disco era Cat House Piano. Era un assolo di pianoforte eseguito da Meade Lux Lewis.
Poiché Angela, per approfondire la trance, lasciò che Lewis suonasse il primo pezzo senza accompagnarlo, lessi ciò che la busta diceva sul conto di Lewis.
“Nato a Louisville, Kentucky, nel 1905,” lessi “Lewis non si dedicò alla musica se non dopo aver compiuto sedici anni, e lo strumento procuratogli dal padre fu il violino. Un anno dopo il giovane Lewis ebbe occasione di ascoltare Jimmy Yancey suonare il piano. ‘Questo’ come ricorda Lewis ‘era quello che ci voleva.’ Ben presto” lessi “Lewis imparò da solo a suonare il boogie-woogie, assorbendo tutto ciò che poteva dal più anziano Yancey, il quale rimase fino alla morte un amico intimo e un idolo per Lewis. Poiché suo padre era un inserviente dei vagoni letto “lessi “la famiglia Lewis viveva vicino alla ferrovia. Il ritmo dei treni diventò ben presto uno schema naturale per il giovane Lewis, il quale compose un assolo sul ritmo del boogie-woogie che ora è un classico del suo genere ed è conosciuto come Honky Tonk Train Blues.”

Alzai lo sguardo dalla mia lettura. Il primo brano del disco era finito. La puntina del giradischi stava avanzando lentamente, graffiando il vuoto, verso il secondo pezzo. Il secondo pezzo, appresi dalla busta, era Dragon Blues.
Meade Lux Lewis suonò da solo quattro battute... e poi Angela Hoenniker lo accompagnò.
Aveva gli occhi chiusi.
Io ero sbalordito.
Era grande.
Improvvisava sulla musica del figlio dell’inserviente dei vagoni letto; passò dal liquido lirismo alla raucedine del vizio alla stridula ombrosità di un bimbo spaventato, a un incubo creato dall’eroina.
I suoi glissando parlavano di paradiso e d’inferno e di tutto ciò che vi si stendeva in mezzo.
Una simile musica da una simile donna poteva essere soltanto un caso di schizofrenia o di possessione demoniaca.
Mi si rizzarono i capelli, alla fine, come se Angela si rotolasse sul pavimento, con la schiuma alla bocca, chiacchierando in fluente babilonese.
Quando la musica finì, gridai a Julian Castle, che era pietrificato a sua volta: “Mio
Dio... la vita! Chi può capirne anche un solo momento?”
“Non ci si provi” disse lui. “Si limiti a fingere di capire.”
“Questo... questo è un ottimo consiglio.” Mi sentivo molto debole. Castle citò un’altra poesia:

La tigre deve cacciare,
L’uccello deve volare,
E l’uomo deve chiedersi: ‘Perché, perché, perché?’
La tigre deve dormire,
L’uccello si deve posare, E l’uomo deve finger di capire . “Da dove è tolta?” chiesi.
“E da dove potrebbe essere tolta se non da I libri di Bokonon!”
“Mi piacerebbe vederne una copia, una volta o l’altra.”
“È molto difficile procurarsene una copia” disse Castle. “Non sono stampate. Sono manoscritte. E naturalmente non esiste una sola copia completa, poiché ogni giorno
Bokonon vi aggiunge qualcosa.” Il piccolo Newt sbuffò. “Religione!” “Prego?” disse Castle.
“Vede il gatto? “chiese Newt. “Vede il cestino?”

ZAH-MAH-KI-BO

Il maggior generale Franklin Hoenniker non si presentò a cena.
Telefonò, insistette per parlare con me e con nessun altro. Mi disse che stava vegliando accanto al letto di “Papà”; che “Papà” stava morendo fra dolori atroci. Frank sembrava impaurito e solitario.
“Senta,” dissi “perché non posso tornare in albergo? Potremmo incontrarci più tardi, quando questa crisi sarà superata.”
“No, no, no. Resti lì! Voglio che lei rimanga dove io posso averla a disposizione!” Era terrorizzato al pensiero che io gli sfuggissi di mano. Poiché non potevo spiegarmi il suo interesse verso di me, anch’io cominciai a spaventarmi.
“Può darmi un’idea del motivo per cui vuole vedermi?” chiesi.
“Non per telefono.”
“Qualcosa che riguarda suo padre?”
“Qualcosa che riguarda lei.”
“Qualcosa che ho fatto?”
“Qualcosa che lei dovrà fare.”
Udii il canto di una gallina, sullo sfondo, delle parole di Frank. Udii aprirsi una porta e da qualche stanza accanto venne il suono d’uno xilofono. Quella musica era, ancora una volta, When Day Is Done. Poi la porta si richiuse, e non potei più udire quella musica.
“Le sarei grato se mi desse un piccolo accenno di quello che lei si aspetta che io faccia... in modo che io possa prepararmi” dissi.
“Zah-mah-ki-bo.”
“Che?”
“È una parola bokononista.”
“Non conosco nessuna parola bokononista.”
“C’è Julian Castle, lì?”
“Sì.”
“Lo chieda a lui” disse Frank. “Devo andare, adesso.” Riattaccò.
Così chiesi a Julian Castle che cosa significasse zah-mah-ki-bo.
“Vuole una risposta semplice o una risposta completa?”
“Cominciamo con quella semplice.”
“Fato... destino inevitabile.”

IL DOTTOR SCHLICHTER VON KOENIGSWALD SI AVVICINA AL PAREGGIO

“Cancro” disse Julian Castle a pranzo, quando gli dissi che “Papà” stava morendo fra atroci dolori.
“Cancro a che cosa?”
“Cancro a quasi tutto. Mi dite che è svenuto sul palco, oggi?” “Sicuro” disse Angela.
“Era l’effetto degli stupefacenti” dichiarò Castle. “È arrivato al punto che stupefacenti e sofferenza si equilibrano. Altri stupefacenti lo ucciderebbero.”
“Io mi ucciderei, credo” mormorò Newt. Era seduto su una specie di seggiolone pieghevole che portava con sé quando andava a fare visite. Era fatto di tubi d’alluminio e di tela. “È meglio che sedere su un dizionario, un atlante e un elenco telefonico” aveva detto quando l’aveva montato.
“È quello che fece il caporale McCabe, naturalmente” disse Castle. “Nominò suo successore il maggiordomo, poi si sparò.”
“Anche lui era malato di cancro?” chiesi.
“Non ne sono sicuro. Non lo credo, però. Fu la sua irrimediabile cattiveria che lo consumò, secondo me. Tutto questo avvenne prima che io venissi qui.” “Questa è senza dubbio una conversazione allegra” disse Angela.
“Tutti ammetteranno, credo, che questi sono tempi allegri” disse Castle.
“Bene,” gli dissi “direi che lei ha più ragioni di essere allegro che non tanti altri, poiché fa ciò che fa della sua vita.”
“Una volta avevo anche uno yacht, lo sa.”
“Non la seguo.”
“Anche aver uno yacht è una ragione per essere più allegro di tanti altri.”
“Se non è lei, il medico di ‘Papà’,” dissi “chi è?”
“Uno dei miei, un certo dottor Schlichter von Koenigswald.”
“Un tedesco?”
“Vagamente. Per quattordici anni è stato nelle SS. E per sei di quegli anni fu medico nel campo di Auschwitz.”
“Sta facendo penitenza nella Casa della Speranza e Misericordia?”
“Sì,” disse Castle “e sta facendo grandi passi avanti, salvando vite a destra e a sinistra.”
“Buon per lui.”
“Sì. Se continua con questo ritmo, lavorando giorno e notte, il numero delle persone che avrà salvato pareggerà il numero delle persone che ha lasciato morire...
nell’anno tremila e dieci.”
Così, ecco un altro membro del mio karass: il dottor Schlichter von Koenigswald.

OSCURAMENTO

Tre ore dopo cena, Frank non era ancora tornato a casa. Julian Castle si scusò e ritornò alla Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla.
Angela e Newt e io sedemmo sulla terrazza aggettata. Le luci di Bolivar erano splendide, sotto di noi. C’era una grande croce illuminata sull’edificio dell’amministrazione dell’aeroporto Monzano. Era azionata da un motore e girava lentamente, facendo il giro della bussola con elettrica pietà.
C’erano anche altri posti illuminati sull’isola, a settentrione. Le montagne ci impedivano di vederli direttamente, ma potevamo vedere nel cielo il loro riverbero luminoso. Chiesi a Stanley, il maggiordomo di Frank, di identificare le sorgenti di quelle aurore boreali.
Le indicò, una dopo l’altra, in senso antiorario. “La Casa della Speranza e
Misericordia nella Giungla, il palazzo di ‘Papà’, e Forte Gesù.”
“Forte Gesù?”
“Il campo di addestramento dei nostri soldati.”
“E prende nome da Gesù Cristo?”
“Sicuro. Perché no?”
C’era un nuovo riverbero di luci che cresceva rapidamente, a nord. Prima che potessi chiedere che cos’era, si rivelò per una coppia di fari in cima a una collina. I fari venivano verso di noi. Facevano parte di un convoglio.
Il convoglio era composto di cinque camion militari, di fabbricazione americana. Alcuni uomini manovravano le mitragliatrici montate sui camion.
Il convoglio si fermò davanti alla casa di Frank. Ne scesero immediatamente i soldati. Cominciarono a lavorare, scavando buche nel terreno e postazioni per le mitragliatrici. Uscii, con il maggiordomo di Frank, per chiedere all’ufficiale che li comandava cosa stesse succedendo.
“Abbiamo ricevuto l’ordine di proteggere il futuro presidente di San Lorenzo” disse l’ufficiale, nel dialetto dell’isola.
“Ma non è qui, ora” lo informai.
“Non ne so niente” disse lui. “Io ho l’ordine di fare questi scavi. È tutto quello che so.”
Lo riferii ad Angela e a Newt.
“Crede che sia veramente pericoloso?” mi chiese Angela.
“Anch’io sono forestiero, qui” dissi.
In quel momento mancò l’energia elettrica. Tutte le luci elettriche di San Lorenzo si spensero.

UN MUCCHIO DI POMA

I servitori di Frank ci portarono lampade a petrolio; ci dissero che le interruzioni di corrente erano frequenti a San Lorenzo, che non c’era ragione di allarmarci. Scoprii, tuttavia, che per me era difficile mettere in disparte l’inquietudine, da quando Frank mi aveva parlato del mio zah-mah-ki-bo.
Mi aveva dato la sensazione che il mio libero arbitrio fosse irrilevante quanto il libero arbitrio d’un maialetto arrivato nei recinti del bestiame di Chicago.
Ricordai ancora una volta l’angelo marmoreo di Ilium.
E ascoltai i soldati, là fuori... il loro lavoro che sollevava tintinnii, scrosci, mormorii.
Non riuscivo a concentrarmi sulla conversazione di Angela e di Newt, sebbene stessero parlando di un argomento molto interessante. Mi dissero che il loro padre aveva avuto un gemello identico a lui. Non lo avevano mai conosciuto. Si chiamava Rudolph. L’ultima volta che avevano avuto sue notizie, faceva il fabbricante di giradischi a Zurigo, in Svizzera.
“Nostro padre non lo nominava quasi mai” disse Angela.
“Nostro padre non nominava quasi mai nessuno” dichiarò Newt.
C’era anche una sorella del vecchio. Si chiamava Celia. Allevava schnauzer giganti a Shelter Island, nello stato di New York.
“Ci manda sempre gli auguri, per Natale” disse Angela.
“Una cartolina con una fotografia d’uno schnauzer gigante” disse il piccolo Newt.
“Certo è strano come diventi diversa la gente, in famiglie diverse” osservò Angela.
“È vero e ben detto” ammisi. Mi scusai con la brillante compagnia, e chiesi a Stanley, il maggiordomo, se in casa c’era una copia de I libri di Bokonon.
Stanley finse di non sapere di cosa stavo parlando. Poi grugnì che I libri di Bokonon erano sudiciume. Poi insistette nel dire che chiunque li leggesse sarebbe morto sul gancio. E poi me ne portò una copia, presa sul tavolino da notte di Frank.
Era pesante, grande quanto un dizionario in edizione integrale. Era scritta a mano. La trascinai fino alla mia camera, al mio materasso di gommapiuma sulla pietra viva.
Non c’era indice, così la mia ricerca per i sottintesi di zah-mah-ki-bo fu difficile; anzi, per quella notte fu infruttuosa.
Imparai alcune cose, ma erano scarsamente utili. Imparai la cosmogonia bokononista, per esempio, nella quale Borasisi, il Sole, teneva fra le braccia Pabu, la Luna, e sperava che Pabu gli generasse un figlio fiammeggiante.
Ma la povera Pabu generò figli che erano freddi, che non ardevano; e Borasisi li gettò via, disgustato. Quelli erano i pianeti, che giravano attorno al terribile padre a distanza di sicurezza.
Poi anche la povera Pabu fu gettata via, e andò a vivere con la sua figlia preferita, che era la Terra. La Terra era la preferita di Pabu perché era abitata; e la gente la guardava e l’amava e provava simpatia e comprensione per lei.
E che opinione aveva Bokonon della sua cosmogonia?
“Foma! Menzogne!” scriveva. “Un mucchio di menzogne!”

DUE PICCOLI TERMOS

È difficile credere che io abbia dormito, ma devo aver dormito... perché, altrimenti, come avrei potuto essere svegliato da una serie di colpi e da una ondata di luce?
Rotolai dal letto al primo colpo e corsi verso il cuore della casa, nell’estasi irriflessiva di un vigile del fuoco volontario.
E mi precipitai addosso a Newt e ad Angela, che erano fuggiti a loro volta dal letto.
Ci fermammo subito, analizzando timidamente i rumori di incubo attorno a noi, riconoscendoli a uno a uno come provenienti da una radio, da una lavastoviglie elettrica, da una pompa... tutti restituiti a vita rumorosa dal ritorno dell’energia elettrica.
Ci svegliammo abbastanza, tutti e tre, per renderci conto che la nostra situazione era buffa, che avevamo reagito in modo spassosamente umano a una situazione che sembrava mortale ma non lo era. E, per dimostrare il mio dominio sul mio fato illusorio, spensi la radio.
Ridacchiammo tutti.
E poi facemmo a gara, per salvare la faccia, nell’essere il migliore osservatore della natura umana, la persona dotata del più rapido senso dell’umorismo.
Newt fu il più svelto; mi fece osservare che avevo tra le mani il passaporto, il portafoglio e l’orologio da polso. Non avevo idea di quello che avevo afferrato, di fronte alla morte... non sapevo neppure di aver preso qualcosa.
Ribattei allegramente, chiedendo a Angela e a Newt perché mai loro stringessero due termos, termos identici, rossi e grigi, capaci di contenere circa tre tazze di caffè.
Per loro fu una novità scoprire che portavano quei termos. Furono scossi quando se li trovarono fra le mani.
Altri colpi, che risuonarono all’esterno, evitarono loro di fornire altre spiegazioni. Toccò a me scoprire cosa fossero quei colpi; e, con una sfrontatezza ingiustificata quanto il mio panico di poco prima, indagai e trovai là fuori Frank Hoenniker che stava riparando un gruppo elettrogeno montato su un camion.
Il gruppo elettrogeno era la nuova sorgente della nostra elettricità. Il motore a benzina che lo azionava aveva un ritorno di fiamma e fumigava. Frank cercava di ripararlo.
Con lui c’era la celestiale Mona. Lei lo osservava, seriamente, come sempre.
“Ragazzo mio, ho notizie per lei!” mi gridò Frank e mi precedette, entrando in casa.
Angela e Newt erano ancora nel soggiorno, ma, in qualche modo, erano riusciti a sbarazzarsi dei loro strani termos.
Il contenuto di quei termos, naturalmente, era parte dell’eredità del dottor Felix Hoenniker, era parte del wampeter del mio karass, erano schegge di ghiaccio-nove.
Frank mi prese in disparte. “È sveglio?”
“Sveglio come non lo sono mai stato.”
“Spero che lei sia veramente sveglio, perché dobbiamo parlare, e subito.” “Parli pure.”
“Andiamo dove possiamo parlare tranquillamente.” Frank disse a Mona di accomodarsi. “Ti chiameremo se avremo bisogno di te.”
Guardai Mona, con tenerezza, e pensai che non avevo mai avuto bisogno di nessuno come avevo bisogno di lei.

IL MIO ASPETTO

In quanto a questo Franklin Hoenniker, il ragazzino dalla faccia sofferente, parlò con il timbro e la convinzione di un fischietto. Avevo sentito dire, da militare, che un uomo così e così parlava come se avesse il retto-di carta. Il generale Hoenniker era un uomo di quel genere. Il povero Frank non aveva quasi esperienza nel parlare alla gente, poiché aveva trascorso un’infanzia furtiva come agente segreto X-9.
Ora, sperando di essere cordiale e persuasivo, mi diceva cose di stagnola, cose come “Mi piace il suo aspetto” e “Io voglio parlarle francamente, da uomo a uomo.”
E mi condusse in quella che chiamava “la sua tana” perché lì avremmo potuto dire pane al pane, e lasciare che le briciole cadessero dove potevano.
Così scendemmo i gradini tagliati nella roccia, in una caverna naturale, dietro la cascata. C’erano un paio di tavole da disegno, tre pallide sedie svedesi dalle ossa nude, uno scaffale che conteneva libri di architettura, libri in tedesco, francese, italiano, inglese.
Era illuminato da lampade elettriche, lampade che pulsavano con l’ansito del gruppo elettrogeno.
E la cosa più sorprendente della grotta erano i dipinti sulle pareti, dipinti eseguiti con un ardire da asilo infantile, eseguiti con l’argilla, le terre, il carbone degli uomini primitivi. Non fu necessario chiedere a Frank quanto fossero antichi i dipinti della caverna. Potei datarli dai soggetti. Non erano dipinti di mammuth o tigri dai denti a sciabola o itifallici orsi delle caverne.
I dipinti trattavano interminabilmente l’aspetto di Mona Aamons Monzano bambina.
“Era... era qui che lavorava il padre di Mona?” chiesi.
“Esatto. Era il finlandese che progettò la Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla.”
“Lo so.”
“Non è per parlare di questo che siamo venuti qui.”
“È qualcosa che riguarda suo padre?”
“È qualcosa che riguarda lei.” Frank mi posò una mano sulla spalla e mi guardò negli occhi. L’effetto fu deludente. Frank voleva ispirare cameratismo, ma la sua testa mi sembrava una civetta bizzarra, accecata dalla luce e appollaiata su un alto palo bianco.
“Forse farà meglio a venire al dunque.”
“Non ha senso continuare a battere attorno al cespuglio” disse lui. “Io so giudicare molto bene le persone, se così posso dire, e lei mi va a genio.”
“Grazie.”
“E penso che io e lei potremmo cavarcela bene.”
“Non ne dubito.”
“Tutti e due abbiamo qualità che si completano reciprocamente.”
Fui contento quando mi tolse la mano dalla spalla. Intrecciò le dita delle mani come denti di un ingranaggio. Una mano rappresentava lui, immagino, e l’altra rappresentava me.
“Noi non possiamo fare a meno l’uno dell’altro” e mosse le dita per mostrarmi come funzionavano gli ingranaggi.
Rimasi un poco silenzioso, sebbene esteriormente amichevole.
“Ha capito cosa voglio dire?” chiese finalmente Frank.
“Lei e io... dobbiamo fare qualcosa insieme?”
“Esatto!” Frank batté le mani. “Lei è un uomo di mondo, abituato a trattare con il pubblico; e io sono un tecnico, abituato a lavorare dietro le quinte, e fare funzionare tutto.”
“E com’è possibile che lei sappia che tipo sono io? Ci siamo appena conosciuti.” “Il modo di vestire, il modo di parlare.” E mi posò di nuovo la mano sulla spalla.
“Mi piace il suo aspetto!” “Lo ha già detto.”
Frank attendeva con frenesia che io completassi il suo pensiero, che lo facessi con entusiasmo, ma io ero ancora in alto mare.
“Devo intendere che... che lei mi sta offrendo un posto qui, qui a San Lorenzo?”
Batté le mani. Era deliziato. “Verissimo! Cosa ne direbbe di centomila dollari all’anno?”
“Buon Dio!” gridai. “E cosa dovrei fare, per questo?”
“Niente, in pratica. E berrebbe tutte le sere in coppe d’oro e mangerebbe su piatti d’oro, e avrebbe un palazzo tutto suo.”
“Che posto è?”
“È quello di presidente della repubblica di San Lorenzo.”

PERCHÉ FRANK NON POTEVA ESSERE PRESIDENTE

“Io? Presidente?” boccheggiai.
“E chi altri c’e?”
“Sciocchezze!”
“Non mi dica ‘no’ prima di avere riflettuto veramente.” Frank mi osservava ansioso.
“No!”
“Lei non ha riflettuto.”
“Abbastanza per sapere che è una pazzia.”
Frank riatteggiò di nuovo le dita a ingranaggio. “Lavoreremmo insieme. Io l’appoggerei sempre.”
“Bene! Così, se mi beccano, beccano anche lei.”
“Se la beccano?”
“Se mi sparano! Se mi ammazzano!”
Frank era perplesso. “E perché qualcuno dovrebbe spararle?”
“Per poter diventare presidente.”
Frank scosse il capo. “A San Lorenzo nessuno vuole essere presidente” mi promise. “È contro la loro religione.”
“È anche contro la sua religione? Pensavo che dovesse essere lei, il futuro presidente.”
“Io...” disse, e non riuscì ad andare avanti. Sembrava inseguito da uno spettro.
“Lei che cosa?” chiesi io.
Si voltò verso il lenzuolo d’acqua che faceva da cortina alla caverna. “La maturità, secondo me,” mi disse “consiste nel conoscere quali sono i propri limiti.”
Non si scostava molto dalla definizione della maturità data da Bokonon. “La maturità” ci dice Bokonon “è l’amara delusione per cui non esiste rimedio, a meno che non si affermi che il riso possa rimediare a qualcosa.”
“So di avere i miei limiti” continuò Frank. “Sono gli stessi limiti che aveva mio padre.”
“Oh?”
“Ho moltissime buone idee, proprio come le aveva mio padre” disse Frank, a me e alla cascata. “Ma lui non era capace di affrontare il pubblico, e neppure io ne sono capace.”

DUFFLE

“Accetterà?” domandò ansioso Frank.
“No” gli dissi.
“Conosce qualcuno che potrebbe accettare questo posto?” Frank stava offrendo un esempio classico di ciò che Bokonon chiama duffle. Duffle, in senso bokononista, è il destino di migliaia e migliaia di persone quando è posto nelle mani di uno stuppa.
Uno stuppa è un bambino inetto.
Risi.
“Cosa c’è di tanto buffo?”
“Non faccia caso quando rido” lo supplicai. “Sono notoriamente un pervertito, a questo riguardo.”
“Sta ridendo di me?”
Scossi il capo. “No.”
“Parola d’onore?”
“Parola d’onore.”
“La gente si è sempre fatta beffe di me.”
“Deve averlo immaginato lei.”
“Mi gridavano dietro. Questo non l’ho immaginato.”
“Qualche volta la gente è offensiva senza averne l’intenzione” suggerii. Ma su questo non avrei dato la mia parola d’onore.
“Sa cosa mi gridavano?”
“No.”
“Mi gridavano: ‘Ehi, X-9, dove vai?’“
“Questo non mi sembra molto grave.”
“Era così che mi chiamavano” disse Frank, scontroso, ricordando. “Agente segreto
X-9.”
Non gli dissi che lo sapevo già.
“‘Dove vai, X-9’“ echeggiò ancora Frank.
Immaginavo come erano stati i suoi schernitori, immaginai dove il fato li avesse cacciati e relegati, alla fine. Gli spiritosi che avevano gridato alle spalle di Frank erano senza dubbio comodamente sistemati in impieghi mortali, nella General Forge and Foundry, nella Ilium Power and Light, nella Telephone Company...
E qui, per Dio, c’era l’agente segreto X-9, diventato maggior generale, che si offriva di farmi diventare re... in una caverna cui faceva da cortina una cascata tropicale.
“Sarebbero stati veramente sorpresi se mi fossi fermato per dire loro dove andavo.”
“Vuol dire che aveva la premonizione di finire qui?” Era una domanda bokononista.
“Andavo al Jack’s Hobby Shop” disse, dimostrando di essere privo del minimo senso dell’effetto.
“Oh.”
“Tutti sapevano che andavo là, ma non sapevano che cosa succedeva, in realtà. Sarebbero stati molto sorpresi, specialmente le ragazze, se avessero scoperto quello che succedeva veramente. Le ragazze credevano che io non sapessi niente delle donne.”
“E cosa succedeva, in realtà?”
“Mi godevo tutti i giorni la moglie di Jack. Ecco perché non facevo altro che dormire, alla scuola superiore. Ecco perché non ho mai realizzato pienamente le mie qualità potenziali.”
Si scosse da quel sordido ricordo. “Avanti. Accetti di diventare presidente di San
Lorenzo. Sarebbe adattissimo, con la sua personalità. La prego.”

UN SOLO IMBROGLIO

E il tempo della notte e la caverna e la cascata... e l’angelo marmoreo di Ilium...
E duecentocinquantamila sigarette e tremila quartini di liquore e due mogli e niente moglie...
E nessun amore che mi aspettava, in nessun posto...
E la vita indifferente, svogliata, d’uno scrittore prezzolato, sporco d’inchiostro...
E Pabu, la luna, e Borasisi, il sole, e i loro figli...
Tutte le cose cospiravano per formare un vin-dit cosmico, una poderosa spinta verso il bokononismo, verso la convinzione che Dio dirigesse la mia vita e avesse un compito da assegnarmi.
E, interiormente, io saroonai, vale a dire che cedetti alle evidenti esigenze del mio vin-dit.
Interiormente, accettai di diventare il futuro presidente di San Lorenzo.
Esteriormente, ero ancora guardingo, sospettoso.
“Deve esserci un imbroglio” feci, per evitare di compromettermi.
“Non c’è.”
“Ci saranno le elezioni?”
“Non ci sono mai state. Ci limiteremo ad annunciare che lei è il nuovo presidente.” “E nessuno farà obiezioni?”
“Nessuno fa mai obiezioni. Nessuno se ne interessa. Nessuno se ne preoccupa.”
“E allora ci deve essere un imbroglio.”
“C’è una specie di imbroglio” ammise Franklin.
“Lo sapevo!” Cominciai a ritirarmi dal mio vin-dit. “Qual è? Qual è l’imbroglio?”
“Ecco, non è veramente un imbroglio, perché lei non è obbligato a farlo, se non vuole. Però sarebbe una buona idea.”
“Sentiamo questa grande idea.”
“Ecco, se lei sarà presidente, penso che dovrebbe proprio sposare Mona. Ma non deve farlo, se non vuole. Lei è il padrone.”
“E Mona mi accetterebbe?’’
“Avrebbe accettato me, accetterà lei. Tutto quello che deve fare è domandarglielo.” “E perché dovrebbe dire di sì?”
“E predetto ne I libri di Bokonon che sposerà il prossimo presidente di San Lorenzo” disse Frank.

MONA

Frank condusse Mona nella caverna di suo padre e ci lasciò soli.
In principio faticammo a parlare. Io ero intimidito.
Il suo abito era diafano. Il suo abito era azzurro. Era un abito semplice, trattenuto leggermente alla cintura da un filo sottile. Tutto il resto prendeva forma da Mona. I suoi seni sembravano melograni o quel che volete, ma sembravano soprattutto seni di una giovane donna.
Aveva i piedi nudi. Le unghie erano squisitamente curate. I sandali, molto aperti, erano d’oro.
“Come... come stai?” chiesi. Mi batteva il cuore. Il sangue mi bolliva nelle orecchie.
“Non è possibile sbagliarsi” mi assicurò lei.
Non sapevo che era un saluto abituale pronunciato da tutti i bokononisti quando incontravano un timido. Così, risposi con una febbrile discussione sulle possibilità di commettere o di non commettere un errore.
“Mio Dio, non hai idea di quanti errori io ho già fatto. Stai guardando il campione del mondo degli errori” proruppi... e così via. “Hai un’idea di quello che mi ha appena detto Frank?”
“Su di me?”
“Su tutto, ma specialmente su di te.”
“Ha detto che tu potevi avermi, se volevi.”
“Sì.”
“È vero.”
“Io... io... io...”
“Sì?”
“Non so cosa dire, adesso.”
“Il boko-maru ti aiuterebbe” propose lei. “Cosa?”
“Togliti le scarpe” ordinò lei. E si tolse i sandali con estrema grazia.
Sono un uomo di mondo perché ho avuto, secondo un conto fatto una volta, più di cinquantatré donne. Posso dire di aver visto donne svestirsi in tutti i modi in cui è possibile farlo. Ho osservato il sipario aprirsi su ogni variazione dell’ultimo atto.
Eppure, l’unica donna che mi abbia fatto gemere involontariamente non fece altro che togliersi i sandali.
Cercai di slacciarmi le scarpe. Mai nessuno sposo novello fece peggio di me. Mi tolsi una scarpa, ma annodai l’altra più strettamente. Mi spezzai l’unghia d’un pollice sul nodo; e alla fine mi strappai la scarpa senza slacciarla.
Poi mi tolsi le calze.
Mona era già seduta sul pavimento, con le gambe distese, le braccia rotonde spinte indietro, per sostenersi, la testa rovesciata, gli occhi chiusi.
Toccava a me, adesso, completare il mio primo... il mio primo... il mio primo... Gran Dio...
Boko-maru.

COSÌ IL POETA CELEBRA IL SUO PRIMO BOKO-MARU

Queste non sono parole di Bokonon. Sono parole mie.

Dolce fantasma, Invisibile nebbia di...
Io sono...
Anima mia...
Fantasma sempre malato d’amore, Sempre solo:
Vorresti incontrare un’altra dolce anima?
A lungo ti ho consigliato
Come due anime Potrebbero incontrarsi. Mie piante, mie piante!
Anima mia, anima mia!
Vai là,
Dolce anima;
Fatti baciare.
Mmmmmmmmmmm .

IN CHE MODO QUASI PERDETTI MONA

“Ti sembra più facile parlarmi, adesso?” volle sapere Mona.
“Come se ti conoscessi da mille anni” confessai. Avevo voglia di piangere. “Ti amo, Mona.”
“Ti amo” lo disse con semplicità.
“Che sciocco è stato Frank!”
“Oh?”
“A rinunciare a te.”
“Non mi amava. Mi avrebbe sposato soltanto perché lo voleva ‘Papà’. Ama un’altra donna.”
“Chi?”
“Una donna che ha conosciuto a Ilium.”
La fortunata doveva essere la moglie del proprietario del Jack’s Hobby Shop. “Te lo ha detto lui?”
“Questa sera, quando mi ha lasciata libera di sposarti.”
“Mona?”
“Sì?”
“C’è... c’è qualcun altro nella tua vita?” Lei era perplessa. “Molti” disse alla fine.
“Che tu ami?”
“Io amo tutti.”
“Come... come me?”
“Sì.” Sembrava non immaginare che questo potesse turbarmi.
Mi alzai, sedetti su una sedia e cominciai a rimettermi le calze e le scarpe.
“Immagino che tu... che tu faccia... che tu faccia con altri quello che abbiamo appena fatto.”
“Boko-maru?”
“Boko-maru.”
“Naturalmente.”
“Non voglio che tu lo faccia più con nessun altro, tranne che con me, d’ora innanzi” dichiarai.
Gli occhi le si riempirono di lagrime. Adorava la sua promiscuità; l’irritava che io tentassi di farla vergognare di se stessa.
“Io rendo felice la gente. L’amore è bene, non male.”
“Come marito, voglio per me tutto il tuo amore.”
Lei mi fissò, spalancando gli occhi. “Un sin-wat!”
“Che cosa?”
“Un sin-wat!” gridò lei. “Un uomo che vuole tutto l’amore di qualcuno. È molto male.”
Lei era ancora sul pavimento e io, che avevo rimesso le calze e le scarpe, ero in piedi. Mi sentivo molto alto, anche se non sono molto alto; e mi sentivo molto forte, anche se non sono molto forte; ed ero un estraneo rispettoso davanti alla mia stessa voce. La mia voce aveva una autorità metallica che mi era nuova.
Mentre continuavo a parlare in toni martellanti, cominciai a capire quello che succedeva, quello che stava già succedendo. Stavo già cominciando a dominare.
Dissi a Mona che l’avevo vista eseguire una specie di boko-maru verticale con un pilota, sul palco, poco dopo il mio arrivo. “Tu non devi più avere a che fare con lui” le dissi. “Come si chiama?”
“Non lo so neppure” sussurrò lei. Teneva gli occhi bassi, ora.
“E il giovane Philip Castle?”
“Vuoi dire boko-maru?”
“Voglio dire qualunque cosa. A quanto ho saputo, voi due siete cresciuti insieme.” “Sì.”
“Bokonon vi ha educati tutti e due?”
“Sì.” Quel ricordo la rese di nuovo raggiante.
“Immagino che in quei giorni tu abbia fatto molto bokomaru.” “Oh, sì” disse lei, felice.
“Non devi vedere più neppure lui. È chiaro?”
“No.”
“No?”
“Non sposerò un sin-wat.” Si alzò. “Addio.” “Addio?” Io ero annientato.
“Bokonon ci dice che è molto male non amare tutti esattamente nello stesso modo.
Cosa dice la tua religione?”
“Io... io non ho religione.”
“Io sì.”
Avevo finito di dominare. “Capisco” dissi.
“Addio, uomo senza religione.” E si accostò alla scala di pietra.
“Mona...”
Si fermò. “Sì?”
“Potrei accettare la tua religione, se volessi?”
“Naturalmente.” “Lo voglio.”
“Bene. Ti amo.”
“E io ti amo” sospirai.

IL MONTE PIÙ ALTO

Così mi fidanzai, all’alba, con la più bella donna del mondo. E accettai di diventare il futuro presidente di San Lorenzo.
“Papà” non era ancora morto, e Frank era convinto che io dovessi ricevere la benedizione di “Papà”, se era possibile. Così, quando Borasisi, il sole, si levò, Frank e io andammo al castello di “Papà” con una jeep che ci facemmo assegnare dalle truppe poste a guardia del futuro presidente.
Mona rimase a casa di Frank. La baciai religiosamente e lei andò religiosamente a dormire.
Frank e io avanzammo sui monti, attraverso boschetti di alberi di caffè selvatico, con l’aurora fiammeggiante alla nostra destra.
Nell’aurora, mi si rivelò la maestà di cetaceo della più alta montagna dell’isola, il Monte McCabe. Era una gobba spaventosa, color blu-balena, e sulla vetta aveva un bizzarro spuntone di roccia come picco. In rapporto a una balena, lo spuntone avrebbe potuto essere il moncone d’un arpione scattato, e sembrava così sproporzionato al resto della montagna che io chiesi a Frank se fosse stato costruito dall’uomo.
Mi disse che era una formazione naturale. Inoltre dichiarò che nessuno, per quanto ne sapeva lui, era mai salito sulla vetta del Monte McCabe.
“Non sembra molto difficile da scalare” commentai. A eccezione dello spuntone sulla vetta, la montagna presentava pendii non più proibitivi dei gradini d’un palazzo di giustizia. E lo spuntone, a distanza, per lo meno, sembrava convenientemente ornato di rampe e cornicioni.
“È sacro o qualcosa di simile?” chiesi.
“Forse una volta lo era. Ma non dopo Bokonon.”
“E allora perché nessuno lo ha mai scalato?”
“Nessuno ha ancora avuto la voglia di farlo.”
“Forse lo scalerò io.”
“Si accomodi. Nessuno glielo impedisce.” Proseguimmo in silenzio.
“Che cosa è sacro per i bokononisti?” chiesi dopo un po’
“Neppure Dio, per quel che posso dire.”
“Niente?”
“Una cosa sola.”
Cercai di indovinare. “L’oceano? Il sole?”
“L’uomo” disse Frank. “Ecco tutto. Solo l’uomo.”

VEDO IL GANCIO

Finalmente giungemmo al castello.
Era basso e nero e crudele.
Sui bastioni erano ancora disposti in fila gli antichi cannoni. Piante rampicanti e nidi d’uccelli ostruivano i merli e le feritoie. Gli spalti verso nord erano la continuazione della scarpata d’un mostruoso precipizio che scendeva a picco per seicento piedi, fino al mare tiepido.
Questo poneva la domanda posta da tutti i mucchi di pietre di quel genere: in che modo gli uomini piccoli e deboli avevano smosso pietre così grandi? E, come tutti gli altri mucchi di pietre, rispondeva da se stesso alla domanda. Era stato il cieco terrore a muovere quelle pietre così grandi.
Il castello era stato costruito secondo i voleri di Tum-bumwa, imperatore di San Lorenzo, un demente, uno schiavo evaso. Tum-bumwa aveva detto di averne trovato il progetto in un libro illustrato per bambini.
Doveva essere un libro sanguinoso.
Prima che raggiungessimo la porta del palazzo, la carreggiata ci condusse sotto un arco rustico fatto di due pali del telefono e di una trave che li univa.
Al centro della trave pendeva un gigantesco gancio di ferro. Sul gancio era impalato un cartello.
“Questo gancio” proclamava il cartello “è riservato personalmente a Bokonon.”
Mi voltai di nuovo per guardare quel gancio e quella cosa di ferro aguzzo mi fece comprendere che io stavo veramente per diventare il dominatore. Avrei fatto a pezzi il gancio.
E mi lusingai che sarei stato un dominatore fermo, giusto e umano, e che il mio popolo avrebbe prosperato.
Fata Morgana.
Miraggio!

LIBRO, CAMPANA E POLLO IN UNA CAPPELLIERA

Frank e io non potemmo entrare subito per vedere “Papà”. Il dottor Schlichter von Koenigswald, il medico di servizio, brontolò che avremmo dovuto aspettare circa mezz’ora.
Così io e Frank aspettammo nell’anticamera dell’appartamento di “Papà”, una stanza senza finestre. La stanza era di trenta piedi quadrati, ammobiliata con alcune rozze panche e un tavolino da gioco. Il tavolino da gioco sosteneva un ventilatore elettrico. Le pareti erano di pietra. Non c’erano quadri, non c’erano decorazioni di nessun genere, sulle pareti.
C’erano cerchi di ferro infissi nel muro, però, all’altezza di sette piedi dal pavimento e a intervalli di sei piedi. Chiesi a Frank se quella stanza fosse stata una camera di tortura.
Mi disse che lo era stata, e che la botola su cui poggiavo i piedi era il coperchio d’una segreta.
Nell’anticamera c’era una sentinella indifferente. C’era anche un ministro cristiano, che era pronto a prendersi cura dei bisogni spirituali di “Papà”, quando fosse giunto il momento. Aveva un campanello da tavola di ottone e una cappelliera bucherellata, e una Bibbia, e un coltello da macellaio... tutto posato sulla panca, accanto a lui.
Mi disse che nella cappelliera c’era un pollo vivo. Il pollo se ne stava buono, disse, perché l’aveva rimpinzato di tranquillanti.
Come tutti i sanlorenzani che avevano più di venticinque anni, ne dimostrava almeno sessanta. Mi disse di chiamarsi dottor Vox Humana, e di essere stato chiamato così perché un tasto d’organo aveva colpito sua madre quando la cattedrale di San Lorenzo era stata fatta saltare con la dinamite nel 1923. Il padre, disse senza vergognarsene, era ignoto.
Gli chiesi quale setta cristiana rappresentasse, in particolare, e osservai francamente che il pollo e il coltello da macellaio erano novità per quanto riguardava la mia conoscenza del Cristianesimo.
“Posso capire,” commentai “che la campana invece è adatta.”
Scoprii che era un uomo intelligente. La sua laurea, che mi invitò a esaminare, era stata rilasciata dalla Western Hemisphere University of the Bible di Little Rock, Arkansas. Si era messo in contatto con l’università attraverso una inserzione pubblicitaria sulla Popular Mechanics, mi disse. Disse che il motto dell’università era diventato il suo, e questo spiegava il pollo e il coltello da macellaio. Il motto dell’università era questo :

FATE VIVERE LA RELIGIONE!

Disse che aveva dovuto farsi strada a suo modo nel Cristianesimo, poiché cattolicesimo e protestantesimo erano stati messi fuori legge insieme al bokononismo.
“Così, se devo essere un cristiano in queste condizioni, devo inventare molte cose nuove “
“Zo,” disse in dialetto “yeff iy bam gong be Kre-yeen hooner yose kon-steez-yen, jy bap my yup oon lot nee stopf.”
Il dottor Schlichter von Koenigswald uscì dall’appartamento di “Papà”; aveva un aspetto molto tedesco e molto esausto.
“Potete vedere ‘Papà’, adesso.”
“Staremo attenti a non stancarlo” promise Frank.
“Se poteste ucciderlo,” disse von Koenigswald “credo che ve ne sarebbe grato.”

IL FETENTE CRISTIANO

“Papà” Monzano e la sua malattia spietata erano in un letto fatto con una scialuppa dorata... barra del timone, funi, scalmi e tutto, tutto dorato. Il suo letto era la scialuppa di salvataggio della goletta di Bokonon, la Lady’s Slipper; era la scialuppa di salvataggio che aveva portato Bokonon e il caporale McCabe a San Lorenzo, tanto tempo prima.
Le pareti della stanza erano bianche. Ma “Papà” irradiava un dolore così vivido e rovente che le pareti sembravano bagnate d’un rosso iroso.
Era nudo dalla cintura in su, e il suo ventre lucido era tutto corrugato. Quel ventre rabbrividiva come una vela sopravvento.
Al collo gli pendeva una catenella che aveva per ciondolo un cilindro delle dimensioni d’una cartuccia da fucile. Immaginai che il cilindro contenesse qualche amuleto. Mi sbagliavo. Conteneva una scheggia di ghiaccio-nove.
“Papà” non poteva quasi parlare. I denti gli battevano e il respiro non era più controllato.
La testa tormentata di “Papà” giaceva nella prua del canotto, rovesciata all’indietro.
Lo xilofono di Mona era vicino al letto. A quanto pareva, Mona aveva cercato di calmare “Papà” con la musica, la sera prima.
“Papà?” sussurrò Frank.
“Addio” boccheggiò “Papà”. I suoi occhi non vedevano più.
“Ho portato un amico.”
“Addio.”
“Sarà il prossimo presidente di San Lorenzo. Sarà un presidente molto migliore di quanto avrei potuto esserlo io.”
“Ghiaccio!” gemette “Papà”.
“Chiede il ghiaccio” disse von Koenigswald. “E quando glielo portiamo, non lo vuole.”
“Papà” roteò gli occhi. Rilassò il collo, spostò il peso del suo corpo dalla sommità del capo. Poi inarcò di nuovo il collo. “Non importa” disse “chi è presidente di...” Non finì.
Finii io, per lui. “San Lorenzo?”
“San Lorenzo” convenne lui. Riuscì a improvvisare un sorriso maligno. “Buona fortuna!” gracchiò.
“Grazie, signore” dissi.
“Non importa! Bokonon. Prendi Bokonon.”
Tentai una risposta sofisticata a quest’ultima domanda. Ricordai che, per la gioia del popolo, Bokonon era sempre perseguitato e non veniva catturato mai. “Lo prenderò.”
“Digli...”
Mi curvai, per udire il messaggio di “Papà” a Bokonon.
“Digli che mi dispiace di non averlo ucciso” disse “Papà”.
“Lo farò.”
“Tu lo ucciderai.” “Sissignore.”
“Papà” riprese controllo della sua voce quel tanto che bastò per renderla autoritaria. “Parlo seriamente!”
Non dissi nulla. Non ero ansioso di uccidere nessuno.
“Bokonon insegna al popolo menzogne e menzogne e menzogne. Uccidilo e insegna al popolo la verità.”
“Sissignore.”
“Tu e Hoenniker, insegnate al popolo la scienza.”
“Sissignore, lo faremo.”
“La scienza è una magia efficace.”
Cadde in silenzio, si rilassò, chiuse gli occhi. Poi sussurrò: “I riti estremi”.
Von Koenigswald fece entrare il dottor Vox Humana. Il dottor Humana prese dalla cappelliera il suo pollo imbottito di tranquillanti, preparandosi a somministrare gli estremi riti cristiani così come li intendeva lui.
“Papà” aprì un occhio. “Tu no” ringhiò al dottor Humana. “Vattene!” “Prego?” chiese il dottor Humana.
“Io sono membro della fede bokononista” gemette “Papà”. “Vattene, fetente cristiano!”

RITI ESTREMI

Così ebbi il privilegio di assistere ai riti estremi della fede bokononista.
Tentammo di trovare qualcuno, fra i soldati e il personale di servizio, disposto ad ammettere di conoscere quei riti e a impartirli a “Papà”. Non trovammo volontari. Era ben poco sorprendente, con un gancio e una segreta così vicini.
Così il dottor von Koenigswald disse che se ne sarebbe occupato lui. Non aveva mai somministrato i riti, prima di allora, ma aveva visto Julian Castle farlo centinaia di volte.
“Lei è bokononista?” gli chiesi.
“Sono d’accordo con un principio bokononista. Convengo che tutte le religioni, compreso il bokononismo, non sono altro che menzogne.”
“E questo la turba, come scienziato?” volli sapere. “Seguire un rituale come questo?”
“Sono un pessimo scienziato. Farò qualunque cosa perché un essere umano si senta meglio, anche se è antiscientifico. Nessuno scienziato degno di questo nome farebbe una cosa simile.”
Ed entrò nella barca d’oro con “Papà”. Sedette a poppa. I fianchi poppieri troppo stretti lo costrinsero a tenere sotto il braccio la barra dorata del timone.
Portava sandali senza calze, e se li tolse. Poi arrotolò indietro le coperte, in fondo al letto, scoprendo i piedi nudi di “Papà”. Posò le piante dei piedi contro i piedi di “Papà”, assumendo la posizione classica del boko-maru.

DYOT MEET MAT

“Gott mate mutt” cantilenò il dottor von Koenigswald.
“Dyot meet mat” fece eco “Papà” Monzano.
“Dio creò il fango “ fu ciò che dissero, ciascuno nel suo dialetto. Abbandonerò i dialetti della litania.
“Dio si sentiva solo” disse von Koenigswald.
“Dio si sentiva solo.”
“Così Dio disse a un po’ di quel fango: ‘Levati a sedere!’“
“Così Dio disse a un po’ di quel fango: ‘Levati a sedere!’“
“‘Guarda tutto ciò che ho fatto’ disse Dio. ‘Le colline, il mare, il cielo, le stelle.’“
“‘Guarda tutto ciò che ho fatto’ disse Dio. ‘Le colline, il mare, il cielo, le stelle.’“
“E io fui quel poco di fango che dovette levarsi a sedere e guardarsi attorno.”
“E io fui quel poco di fango che dovette levarsi a sedere e guardarsi attorno.”
“Fortunato me, fortunato fango.”
“Fortunato me, fortunato fango.” Sulle guance di “Papà” scorrevano le lagrime.
“Io, fango, mi levai a sedere e vidi che bel lavoro aveva fatto Dio.”
“Io, fango, mi levai a sedere e vidi che bel lavoro aveva fatto Dio.”
“Ben fatto, Dio!”
“Ben fatto, Dio!” disse “Papà”, con tutto il cuore.
“Nessuno tranne te avrebbe potuto farlo, Dio! Io certamente non avrei potuto.”
“Nessuno tranne te avrebbe potuto farlo, Dio! Io certamente non avrei potuto.”
“Mi sento molto meschino, al tuo confronto.”
“Mi sento molto meschino, al tuo confronto.”
“L’unico modo per sentirmi almeno un po’ importante è pensare a tutto il fango che non ha potuto levarsi a sedere e guardarsi attorno.”
“L’unico modo per sentirmi almeno un po’ importante è pensare a tutto il fango che non ha potuto levarsi a sedere e guardarsi attorno.”
“Ho avuto tanto, e quasi tutto il fango ha avuto così poco.”
“Ho avuto tanto, e quasi tutto il fango ha avuto così poco.” “Deng you vore da on-oh!” gridò von Koenigswald.
“Tz-yenk voo vore lo yon-yof” gemette “Papà”.
Ciò che avevano detto era: “Ti ringrazio per l’onore !”
“Ora il fango si distende di nuovo e si addormenta.”
“Ora il fango si distende di nuovo e si addormenta.”
“Quanti ricordi per il fango!”
“Quanti ricordi per il fango!”
“Quante altre specie interessanti di fango levatosi a sedere ho conosciuto!”
“Quante altre specie interessanti di fango levatosi a sedere ho conosciuto!”
“Ho amato tutto ciò che ho visto!”
“Ho amato tutto ciò che ho visto!”
“Buona notte.”
“Buona notte.”
“Adesso andrò in cielo.”
“Adesso andrò in cielo.”
“Non vedo l’ora...”
“Non vedo l’ora...”
“... di scoprire con certezza qual era il mio wampeter...”
“... di scoprire con certezza qual era il mio wampeter...”
“... e chi era nel mio karass...”
“... e chi era nel mio karass...”
“... e tutte le belle cose che il nostro karass ha fatto per Te.”
“... e tutte le belle cose che il nostro karass ha fatto per Te.”
“Amen.”
“Amen.”

FRANK SCENDE NELLA SEGRETA

Ma “Papà” non morì e non andò in cielo... non allora.
Chiesi a Frank quando poteva essere il momento migliore per annunciare la mia elevazione alla presidenza. Non mi fu di aiuto, non aveva idee; lasciò tutto a me.
“Pensavo che lei mi avrebbe appoggiato” lamentai.
“Per ogni questione tecnica.” Frank era molto formale, al riguardo. Io non dovevo violare la sua integrità di tecnico; non dovevo costringerlo a superare i limiti del suo compito.
“Capisco.”
“In qualunque modo lei voglia trattare con il popolo, per me va bene. È responsabilità sua.”
Questa brusca abdicazione di Frank da tutti gli affari umani mi scandalizzò e mi incollerì; e gli dissi, con intenzioni satiriche: “Le dispiace dirmi che cosa è deciso, da un punto di vista puramente tecnico, per questo Giorno dei Giorni?”
Ottenni una risposta strettamente tecnica. “Riparare la centrale elettrica e organizzare una parata aerea.”
“Bene! Così uno dei miei primi trionfi come presidente sarà restituire la corrente elettrica al mio popolo.”
Frank non vedeva nulla di buffo in tutto questo. Mi fece un saluto militare. “Tenterò, signore. Farò del mio meglio per lei, signore. Non posso garantire quanto tempo ci vorrà per riavere la corrente.”
“È quello che voglio... un paese elettrizzato.”
“Farò del mio meglio, signore.” Frank mi salutò di nuovo.
“E la parata aerea?” chiesi. “Che cos’è?”
Ottenni un’altra risposta legnosa. “Oggi, alla una del pomeriggio, signore, sei caccia delle forze aeree sanlorenzane voleranno sul palazzo, qui, e spareranno contro alcuni bersagli sull’acqua. Fa parte delle celebrazioni del Giorno dei Cento Martiri della Democrazia. L’ambasciatore americano ha anche deciso di gettare in mare una corona.”
Così decisi, provvisoriamente, che avrei detto a Frank di annunciare la mia apoteosi subito dopo la cerimonia della corona e la parata aerea.
“Cosa ne pensa?” dissi a Frank.
“È lei il capo, signore.”
“Credo che farei bene a preparare un discorso” dissi. “E poi dovrebbe esserci una specie di giuramento, per rendere tutto più solenne, più ufficiale.”
“E lei il capo, signore.” Ogni volta che diceva quelle parole, sembravano provenire sempre da più lontano, come se Frank stesse scendendo i gradini di una scala in un pozzo profondo, mentre io ero obbligato a rimanere in alto.
E mi resi conto, con dispiacere, che accettando di diventare il capo avevo reso Frank libero di fare ciò che desiderava più di ogni altra cosa, di fare ciò che aveva fatto suo padre: ricevere onori e privilegi umani mentre sfuggiva all’umana responsabilità. E stava realizzando proprio questo, scendendo in una segreta spirituale.

COME I MIEI PREDECESSORI METTO FUORI LEGGE BOKONON

Così scrissi il mio discorso in una stanza spoglia e rotonda ai piedi della torre. C’erano una tavola e una sedia. E anche il discorso che scrissi era rotondo e spoglio e scarsamente ammobiliato.
Era pieno di speranza. Era pieno di umiltà.
E ritenni impossibile non appoggiarmi a Dio. Prima non avevo mai avuto bisogno di un simile appoggio, e quindi non avevo mai creduto che un simile appoggio fosse disponibile.
Ora scoprivo che dovevo credervi... e credetti.
Inoltre, avrei avuto bisogno dell’aiuto del popolo. Chiesi un elenco degli ospiti che avrebbero dovuto presenziare le cerimonie e scoprii che Julian Castle e suo figlio non erano stati invitati. Mandai immediatamente due messaggeri a invitarli, perché conoscevano il mio popolo meglio di chiunque altro, ad eccezione di Bokonon.
Per quanto riguarda Bokonon: pensai di chiedergli di unirsi al mio governo, creando così una specie di età dell’oro per il mio popolo. E pensai di ordinare che lo spaventoso gancio davanti alla porta del palazzo fosse tolto immediatamente, fra la generale allegria.
Ma poi compresi che un’età dell’oro avrebbe dovuto offrire qualcosa di più d’un sant’uomo al potere, che avrebbe dovuto esservi abbondanza di buone cose da mangiare per tutti, e abitazioni decenti per tutti, e buone scuole e buona salute e divertimento per tutti, e lavoro per tutti coloro che lo volevano... tutte cose che io e Bokonon non eravamo in grado di procurare.
Così bene e male dovevano rimanere separati: il bene nella giungla, il male nel palazzo. Il divertimento procurato da quella situazione era all’incirca tutto ciò che avevamo da offrire al popolo.
Bussarono alla porta. Un servitore mi disse che gli ospiti cominciavano ad arrivare.
Così misi in tasca il discorso e salii la scala a chiocciola della mia torre. Arrivai al bastione superiore del mio castello e guardai i miei ospiti, i miei servitori, la mia montagna e il mio mare tiepido.

NEMICI DELLA LIBERTÀ

Quando penso a tutti coloro che stavano sul mio bastione, mi viene in mente il Centodiciannovesimo Calipso di Bokonon, nel quale ci invita a cantare con lui :

“Dov’è andata la vecchia compagnia?”
Così parlava un uomo molto triste.
Io sussurrai all’uomo molto triste:
“Oh, se ne è andata, se ne è andata via .”

Erano presenti l’ambasciatore Horlick Minton e signora; H. Lowe Crosby, fabbricante di biciclette, e la sua Hazel; il dottor Julian Castle, umanitario e filantropo, e suo figlio Philip, scrittore e albergatore; il piccolo Newton Hoenniker, pittore, la sua musicale sorella, signora Harrison C. Conners; la mia celestiale Mona; il maggior generale Franklin Hoenniker; e venti burocrati e militari sanlorenzani assortiti.
Morti... morti quasi tutti, ora.
Come ci dice Bokonon: “Non è mai un errore dirsi addio”.
Era stato preparato un buffet sul mio bastione, un buffet carico di ghiottonerie indigene: uccellini arrostiti, ricoperti delle loro penne verdazzurre; granchi di terra color lavanda, tolti dai gusci, tritati, fritti in olio di cocco e rimessi nei gusci; minuscoli barracuda farciti di pasta di banane; e, su sfogliate di farina di granturco, senza lievito e senza sale, minuscoli cubetti di albatros bollito.
L’albatros, mi dissero, era stato ucciso con una fucilata sparata dalla stessa bertesca su cui stava ora il buffet.
Venivano offerte due bevande, e tutte e due non ghiacciate: Pepsi-Cola e rum indigeno. La Pepsi-Cola era servita in bicchieri di plastica della birra Pilsen. Il rum era servito in gusci di cocco. Non riuscii a identificare il dolce aroma del rum, sebbene mi ricordasse in qualche modo la mia infanzia.
Frank riuscì a identificarlo. “Acetone.”
“Acetone?”
“È usato nel collante degli aeromodelli.” Non bevetti il rum.
L’ambasciatore Minton faceva molti saluti da ambasciatore e da buongustaio con la sua noce di cocco, fingendo di amare tutti gli uomini e tutti i beveraggi che li sostenevano. Ma non lo vidi bere. Aveva con sé, fra l’altro, una valigia d’un tipo che non avevo mai visto prima d’allora. Sembrava la custodia d’un corno francese, e conteneva la corona funeraria che doveva essere gettata in mare.
L’unica persona che vidi bere il rum fu H. Lowe Crosby, che evidentemente non aveva odorato. Si divertiva molto, e beveva acetone dal suo guscio di cocco, seduto su un cannone di cui ostruiva l’otturatore con il grosso posteriore. Guardava il mare con un grosso binocolo giapponese. Guardava i bersagli montati su boe galleggianti ancorate al largo.
I bersagli erano sagome di cartone, dalla forma umana.
Sarebbero stati fatti segno al tiro e al bombardamento, in una dimostrazione di potenza da parte dei sei caccia delle forze aeree sanlorenzane.
Ogni bersaglio era la caricatura di una persona vera, e il nome di quella persona era scritta sulle due facce del bersaglio.
Chiesi chi fosse il caricaturista e appresi che era il dottor Vox Humana, il ministro cristiano. Era al mio fianco.
“Non sapevo che lei avesse anche questa dote.”
“Oh, sì. Quando ero giovane, ho faticato molto a decidere cosa dovevo diventare.”
“Penso che la sua scelta sia stata giusta.”
“Ho pregato per essere guidato di Lassù.”
“È stato esaudito.”
H. Lowe Crosby passò il binocolo alla moglie. “Il più vicino è il vecchio Beppe Stalin, e alla sua destra è ancorato il vecchio Fidel Castro.”
“E c’è il vecchio Hitler” ridacchiò deliziata Hazel. “E c’è il vecchio Mussolini e qualche vecchio giapponese.”
“E c’è il vecchio Karl Marx.”
“E c’è il vecchio Kaiser Guglielmo, con l’elmo chiodato e tutto” chioccolò Hazel.
“Non mi sarei mai aspettata di vederlo ancora.”
“E c’è il vecchio Mao. Vedi il vecchio Mao?”
“Non sta per avere il fatto suo?” chiese Hazel. “Non sta per avere la più grande sorpresa della sua vita? Questa è un’idea geniale, sicuro.”
“Là ci sono in pratica tutti i nemici che la libertà abbia mai avuto” dichiarò H. Lowe Crosby.

L’OPINIONE DI UN MEDICO SU UNO SCIOPERO DEGLI SCRITTORI

Nessuno degli ospiti sapeva che io sarei diventato presidente. Nessuno sapeva che “Papà” stava per morire. Frank annunciò ufficialmente che “Papà” riposava tranquillo, che “Papà” mandava a tutti i suoi migliori auguri. L’ordine degli eventi, come fu annunciato da Frank, era questo: l’ambasciatore Minton avrebbe gettato in mare la corona, in onore dei Cento Martiri; poi gli aerei avrebbero sparato ai bersagli in mare; e poi lui, Frank, avrebbe detto poche parole.
Non disse alla compagnia che, dopo il suo discorso, vi sarebbe stato un discorso mio.
Così io fui trattato come se non fossi stato altro che un giornalista in visita, e mi impegnai qua e là in innocue manifestazioni di granfalloon.
“Salve, mamma” dissi a Hazel Crosby.
“Oh, questo è il mio ragazzo!” Hazel mi strinse in un abbraccio profumato e disse a tutti: “Questo ragazzo è un hoosier”.
I Castle, padre e figlio, se ne stavano in disparte dal resto della compagnia. Indesiderabili per molto tempo nel palazzo di “Papà”, erano curiosi di sapere perché fossero stati invitati proprio in quella occasione.
Il giovane Castle mi chiamò “caccianotizie”. “Buon giorno, caccianotizie. Cosa c’è di nuovo nel gioco di parole?”
“Potrei farle la stessa domanda” risposi.
“Sto pensando di proclamare uno sciopero generale di tutti gli scrittori, fino a che l’umanità non avrà acquistato finalmente un po’ di buon senso. Lei aderirebbe?”
“Gii scrittori hanno il diritto di sciopero? Sarebbe come se dessero le dimissioni i poliziotti o i vigili del fuoco.”
“O i professori universitari.”
“O i professori universitari” convenni. Scossi il capo. “No, non credo che la mia coscienza mi permetterebbe di aderire a uno sciopero di questo genere. Quando uno diventa scrittore, credo che assuma l’impegno di produrre bellezza e illuminazione e conforto alla massima velocità.”
“Non posso fare a meno di pensare alla scossa che riceverebbe la gente se, all’improvviso, non vi fossero più libri nuovi, commedie nuove, nuovi volumi storici, nuove poesie...”
“E lei si sentirebbe orgoglioso, se la gente cominciasse a morire come le mosche?” domandai.
“Morirebbero piuttosto come cani idrofobi, credo... ringhiando e azzannandosi l’un l’altro e mordendosi la coda.”
Mi rivolsi al vecchio Castle. “Signore, in che modo muore un uomo quando è privato della consolazione della letteratura?”
“In uno di questi due modi,” disse “pietrificazione del cuore o atrofia del sistema nervoso.”
“Immagino che nessuno dei due sia molto piacevole” opinai.
“No” disse il vecchio Castle. “Per l’amor di Dio, tutti e due, per favore continuate a scrivere.”

SULFATIAZOLO

La mia celestiale Mona non si avvicinò a me e non mi incoraggiò con sguardi languidi ad avvicinarmi a lei. Fece da padrona di casa, presentando Angela e il piccolo Newt ai sanlorenzani.
Quando rifletto, ora, sulla personalità di quella ragazza - ricordo la sua indifferenza per lo svenimento di ‘Papà’, per il suo fidanzamento con me - io brancolo tra un apprezzamento grandioso e uno meschino.
Rappresentava la forma più alta della spiritualità femminile?
Oppure era anestetizzata, frigida, un pesce freddo, in realtà, uno stupito complemento dello xilofono, del culto della bellezza e del boko-maru!
Non lo saprò mai.
Bokonon ci dice :

L’innamorato è sempre un mentitore
Che inganna se medesimo
Mentre l’uomo sincero è senza amore: Ha gli occhi come ostriche .

Così le mie istruzioni sono chiare, credo. Io devo ricordare la mia Mona come un essere sublime.
“Mi dica,” così mi rivolsi al giovane Philip Castle nel Giorno dei Cento Martiri della Democrazia “oggi ha parlato al suo amico e ammiratore, H. Lowe Crosby?” “Non mi ha riconosciuto, perché ho addosso un vestito, un paio di scarpe e una cravatta” rispose il giovane Castle. “Abbiamo già avuto una simpatica conversazione sulle biciclette. Può darsi che ne avremo un’altra.”
Mi accorsi che il desiderio di Crosby, fabbricare biciclette a San Lorenzo, non mi sembrava più buffo. Come capo dell’esecutivo dell’isola, desideravo moltissimo una fabbrica di biciclette. Cominciai a provare un improvviso rispetto per quello che Crosby era e per quello che poteva fare.
“Come credete che il popolo di San Lorenzo accoglierebbe l’industrializzazione?” chiesi ai Castle padre e figlio.
“Il popolo di San Lorenzo” mi disse il padre “si interessa solo di tre cose: la pesca, la fornicazione e il bokononismo.”
“Non crede che si interesserebbe al progresso?”
“Ne hanno già visto un po’. C’è un solo aspetto del progresso che li ecciti veramente.”
“Quale?”
“La chitarra elettrica.”
Mi scusai e raggiunsi i Crosby.
Frank Hoenniker era con loro, spiegava chi era Bokonon e a che cosa era contrario. “È contrario alla scienza.”
“E come può qualcuno con il cervello a posto essere contrario alla scienza?” chiese Crosby.
“Io sarei morta se non fosse per la penicillina” disse Hazel. “E anche mia madre.” “Quanti anni ha sua madre?” mi informai. “Centosei. Non è meraviglioso?” “Certamente” convenni io.
“E io sarei vedova, anche, se non fosse per la medicina che diedero quella volta a mio marito” disse Hazel. Dovette chiedere al marito quale fosse il nome della medicina. “Tesoro, come si chiamava quella roba che ti ha salvato la vita quella volta?”
“Sulfatiazolo.”
E io commisi l’errore di prendere un canapé di albatros da un vassoio che passava.

ANALGESICO

Come accadde - come doveva accadere, direbbe Bokonon - la carne di albatros litigò con me così violentemente che io mi sentii male nello stesso momento in cui inghiottii il primo boccone. Fui costretto a scendere di galoppo la scala a chiocciola, in cerca di un bagno. Mi servii di quello che era adiacente all’appartamento di “Papà”.
Quando ne uscii, strascicando i piedi e un po’ sollevato, fui accolto dal dottor Schlichter von Koenigswald, che proveniva dalla camera di “Papà”. Aveva un’espressione stravolta, e mi prese per le braccia e gridò: “Cos’è? Cos’è che portava al collo?”
“Prego?”
“L’ha presa! Qualunque cosa ci fosse in quel cilindro, ‘Papà’ l’ha presa... e adesso
è morto.”
Ricordai il cilindro che “Papà” portava appeso al collo, e formulai un’ipotesi ovvia sul suo contenuto. “Cianuro?”
“Cianuro? Il cianuro trasforma un uomo in cemento in un minuto?”
“Cemento?”
“Marmo! Ferro! Non ho mai visto un cadavere così rigido, prima d’ora! Lo colpisca in qualsiasi punto e otterrà una nota come da una marimba! Venga a vedere!” Von Koenigswald mi spinse nella camera da letto di “Papà”.
La testa di “Papà” era piegata all’indietro, al massimo. Il suo peso poggiava sulla sommità della testa e sulle piante dei piedi, e il resto del corpo formava un ponte il cui arco si levava verso il soffitto. Aveva preso la forma di un alare.
Che fosse stato ucciso dal contenuto del cilindro che aveva portato al collo era evidente. Una mano reggeva il cilindro e il cilindro era stappato. E il pollice e l’indice dell’altra mano, come se avessero appena lasciato un minuscolo frammento di qualche cosa, erano stretti fra i denti.
Il dottor von Koenigswald tolse uno scalmo dal suo alveolo, sul bordo della scialuppa dorata. Batté sul ventre di “Papà” con lo scalmo d’acciaio, e “Papà” emise veramente un suono simile a quello di una marimba.
E le labbra e le narici e i globi oculari di “Papà” erano resi vitrei da una brina biancazzurra.
Questa sindrome non è una novità, ormai, Dio lo sa. Ma allora lo era certamente.
“Papà” Monzano fu il primo uomo della storia a morire di ghiaccio-nove.
Registro questo fatto, per quel che può valere.
“Scrivete tutto” ci dice Bokonon. In realtà ci vuol dire, naturalmente, quanto sia futile scrivere o leggere la storia. “Senza una accurata documentazione del passato, come si può pretendere che uomini e donne evitino di commettere gravi errori in futuro?” chiede ironicamente.
Quindi ripeto: “Papà” Monzano fu il primo uomo della storia a morire di ghiaccionove.

CIÒ CHE DICONO I BOKONONISTI QUANDO STANNO PER SUICIDARSI

Il dottor von Koenigswald, il filantropo con il terribile passivo di Auschwitz sul conto della sua bontà, fu il secondo a morire di ghiaccio-nove.
Stava parlando del rigor mortis, un argomento che avevo affrontato io.
“Il rigor mortis non si stabilisce in pochi secondi” dichiarò. “Ho voltato le spalle a
‘Papà’ solo per un attimo. Stava delirando...” “Di cosa parlava?” chiesi.
“Dolore, ghiaccio, Mona... tutto. Poi ‘Papà’ disse: ‘Ora distruggerò il mondo intero.’“
“E cosa intendeva, con questo?”
“È ciò che dicono sempre i bokononisti quando stanno per suicidarsi.” Von Koenigswald si avvicinò a un catino d’acqua, con l’intenzione di lavarsi le mani. “Quando mi sono voltato per guardarlo,” disse, con le mani levate sull’acqua, “era morto, duro come una statua, proprio come lo vede adesso. Gli ho passato le dita sulle labbra. Sembravano così strane.”
Mise le mani nell’acqua. “Quale sostanza chimica potrebbe...” La domanda si smorzò.
Von Koenigswald alzò le mani, e l’acqua del catino le seguì. Non era più acqua, era un emisfero di ghiaccio-nove.
Von Koenigswald toccò con la punta della lingua il mistero biancazzurro.
La brina gli fiorì sulle labbra. Lui gelò, solidificandosi, vacillò, e crollò.
L’emisfero biancazzurro andò in frantumi. Le schegge si sparsero sul pavimento.
Corsi alla porta e gridai, per chiamare aiuto.
Accorsero soldati e servitori.
Ordinai loro di condurre immediatamente Frank e Newt e Angela nella stanza di “Papà”.
Finalmente avevo visto il ghiaccio-nove!

RALLEGRATE I VOSTRI OCCHI!

Feci entrare i tre figli del dottor Hoenniker nella camera da letto di “Papà” Monzano. Chiusi la porta e vi appoggiai contro la schiena. Ero di umore solenne e amaro. Conoscevo il ghiaccio-nove per ciò che era. Lo avevo visto spesso nei miei sogni.
Non poteva esservi dubbio sul fatto che Frank avesse dato il ghiaccio-nove a “Papà”. E sembrava certo che, se Frank poteva dare a qualcuno il ghiaccio-nove, anche Angela e il piccolo Newt potevano fare altrettanto.
Così parlai a tutti e tre con acredine, chiedendo loro conto di quella mostruosa criminalità. Dissi loro che il gioco era finito, che io sapevo di loro e del ghiaccionove. Cercai di spaventarli, spiegando che il ghiaccio-nove era un mezzo per sterminare la vita sulla Terra. Li impressionai al punto che non pensarono di chiedermi come mai conoscevo l’esistenza del ghiaccio-nove.
“Rallegrate i vostri occhi!” dissi.
Ecco, come ci dice Bokonon: “Dio non ha mai scritto una buona commedia in tutta la Sua Vita”. La scena della camera di “Papà” non mancava di possibili soluzioni spettacolari, e il mio discorso introduttivo era il più adatto.
Ma la prima reazione di uno degli Hoenniker ne distrusse tutta la magnificenza. Il piccolo Newt vomitò.

FRANK CI DICE CHE COSA FARE

Poi tutti provammo la voglia di vomitare.
Newt fece certamente ciò che era stato chiamato a fare.
“Non potrei essere più d’accordo” dissi a Newt. E attaccai Angela e Frank. “Adesso che conosciamo l’opinione di Newt, mi piacerebbe sentire che cosa avete da dire, voi due.”
“Uck!” disse Angela, contraendosi, con la lingua fuori. Era del colore dello stucco.
“Questi sono anche i suoi sentimenti?” chiesi a Frank. “‘Uck’? Generale, è questo che lei ha dà dire?”
Frank aveva scoperto i denti, e quei denti erano serrati, e il respiro ne usciva poco profondo e sibilante.
“Come il cane” mormorò il piccolo Newt, abbassando lo sguardo su von Koenigswald.
“Quale cane?”
Newt sussurrò la sua risposta, e c’era a malapena un po’ di fiato dietro quel sussurro. Ma l’acustica della stanza dalle pareti di pietra era tale che noi udimmo quel sussurro chiaramente, come avremmo potuto udire il tintinnio d’una campana di cristallo.
“La vigilia di Natale, quando morì mio padre.”
Newt stava parlando a se stesso. E, quando gli chiesi di parlarmi del cane e della sera in cui era morto suo padre, mi guardò come se fossi un intruso in un suo sogno. Mi giudicò irrilevante.
Suo fratello e sua sorella, tuttavia, appartenevano al sogno. E parlò di quell’incubo al fratello; disse a Frank: “Glielo hai dato tu”.
“E così che hai ottenuto questo fantastico posto, non è vero?” chiese Newt a Frank, stupito. “Cosa gli avevi detto... che avevi qualcosa di meglio della bomba all’idrogeno?”
Frank non ascoltò la domanda. Girava intorno lo sguardo, nella stanza, come per assorbire tutto ciò che vedeva. Schiuse i denti e cominciò a batterli, e a ogni battito batteva anche le palpebre. Stava riprendendo colore. Questo fu ciò che disse. “Sentite, dobbiamo rimettere ordine in questo pasticcio.”

FRANK SI DIFENDE

“Generale,” dissi a Frank “questa deve essere una delle dichiarazioni più convincenti fatte quest’anno da un maggior generale. Come mio consigliere tecnico, in che modo ci raccomanda di ‘rimettere ordine in questo pasticcio’, come lei lo definisce con tanta efficacia?”
Frank mi diede una risposta diretta. Fece schioccare le dita. Lo vidi dissociarsi dalle cause di quel pasticcio; identificarsi, con orgoglio ed energia crescenti, con i purificatori, i salvatori del mondo, i ripulitori.
“Scope, palette, saldatore ad acetilene, secchi” ordinò, facendo schioccare, schioccare, schioccare le dita.
“Propone di usare il saldatore sui cadaveri?” chiesi.
Frank, ormai, era così occupato con i suoi pensieri tecnici che stava segnando il tempo di un tip-tap con lo schioccare delle dita. “Raccoglieremo con le scope i pezzi più grossi sul pavimento, li faremo sciogliere in un secchio sul fornello. Poi passeremo con la fiamma del saldatore su ogni pollice quadrato del pavimento, caso mai vi fosse qualche cristallo microscopico. Ciò che faremo dei corpi... e del letto...” Dovette riflettere più a lungo.
“Un rogo funebre!” gridò, veramente compiaciuto con se stesso. “Farò costruire un grande rogo funebre fuori, vicino al gancio, e vi faremo buttare i cadaveri e il letto.”
Si mosse per andarsene, per fare erigere il rogo e per procurarsi il necessario per ripulire la stanza.
Angela lo fermò. “Come hai potuto?” volle sapere.
Frank le rivolse un sorriso vitreo. “Tutto andrà per il meglio.”
“Come hai potuto darlo a un uomo come ‘Papà’ Monzano?” gli chiese Angela.
“Puliamo tutto, prima; poi potremo parlare.”
Angela lo teneva per le braccia, e non voleva lasciarlo andare. “Come hai potuto?” Lo scrollò.
Frank si tolse di dosso le mani della sorella. Il suo sorriso vitreo svanì e per un momento ritornò feroce e ghignante... un momento in cui le disse, con tutto il disprezzo possibile: “Io mi sono comprato un posto, proprio nel modo in cui tu ti sei comprata quel gattone di marito, proprio nel modo in cui Newt si è comprato una settimana a Cape Cod con una russa lillipuziana!” Il sorriso vitreo ricomparve.
Frank uscì; e sbatté la porta.

IL QUATTORDICESIMO LIBRO

“Qualche volta il pool-pah,” ci dice Bokonon “supera le capacità umane di fare commenti.” Bokonon traduce pool-pah, in un passo de I libri di Bokonon, come “uragano di sterco” e in un altro passo come “collera di Dio”.
Da quello che Frank aveva detto prima di sbattere la porta, compresi che la repubblica di San Lorenzo e i tre Hoenniker non erano i soli che avessero il ghiaccionove. A quanto pareva, l’avevano anche gli Stati Uniti d’America e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Gli Stati Uniti l’avevano ottenuto per mezzo del marito di Angela, e si capiva perché il suo stabilimento di Indianapolis era circondato di cancelli elettrificati e di ferocissimi pastori tedeschi. E la Russia sovietica l’aveva ottenuto per mezzo della piccola Zinka di Newt, l’affascinante lillipuziana del balletto ucraino.
Ero rimasto senza parole.
Chinai la testa e chiusi gli occhi; e attesi che Frank ritornasse con gli umili strumenti necessari per ripulire una camera da letto, una camera da letto diversa da tutte le camere da letto del mondo, una camera da letto infestata dal ghiaccio-nove.
In qualche luogo, in quell’oblio violetto e vellutato, udii Angela che mi diceva qualcosa. Non in sua difesa. In difesa del piccolo Newt. “Non è stato Newt a darlo a quella donna. Lei lo ha rubato.”
Trovai la spiegazione di scarso interesse.
“Che speranza può esservi per l’umanità” pensai “quando vi sono uomini come Felix Hoenniker che danno giocattoli come il ghiaccio-nove a figli imprevidenti, come quasi tutti gli uomini e le donne?”
E ricordai Il Quattordicesimo libro di Bokonon che avevo letto nella sua interezza la notte precedente. Il Quattordicesimo libro è intitolato : Cosa può sperare di fare un uomo saggio per l’umanità della Terra, tenendo presente l’esperienza dell’ultimo milione di anni?
Non occorre molto tempo per leggere Il Quattordicesimo libro. Consiste di una sola parola e di un punto.
Ecco:
“Niente”.

RIPOSO

Frank ritornò con scope e palette, un saldatore ad acetilene e un fornello a cherosene, e un buon secchio all’antica e guanti di gomma.
Calzammo i guanti per non contaminarci le mani con il ghiaccio-nove. Frank posò il fornello sullo xilofono della celestiale Mona e vi mise sopra il buon secchio all’antica.
E raccogliemmo le schegge più grosse di ghiaccio-nove dal pavimento; e le gettammo in quell’umile secchio; e si sciolsero. Diventarono buona vecchia, dolce vecchia, onesta vecchia acqua.
Angela e io spazzammo il pavimento, e il piccolo Newt guardò sotto i mobili per cercare i pezzetti di ghiaccio-nove che potevano esserci sfuggiti. E Frank ci seguì con il fuoco purificatore del saldatore ad acetilene.
La scervellata serenità delle donne a ore e dei bidelli che lavorano fino a notte alta si impadronì di noi. In un mondo in disordine noi, per lo meno, stavamo ripulendo il nostro angolino.
E udii me stesso chiedere a Newt, ad Angela e a Frank, in toni discorsivi, di parlarmi della vigilia di Natale in cui era morto il vecchio, di parlarmi del cane.
E, puerilmente sicuri di rimettere tutto a posto ripulendo la stanza, gli Hoenniker mi raccontarono la favola.
La favola diceva così :
In quella fatidica vigilia di Natale, Angela andò in paese a cercare le lampadine per l’albero, e Newt e Frank andarono a fare una passeggiata sulla solitaria spiaggia invernale, dove incontrarono un Labrador retriever nero. Il cane era socievole, come sono tutti i Labrador retriever, e seguì Frank e il piccolo Newt fino a casa.
Felix Hoenniker morì... morì nella sua bianca poltrona di vimini di fronte al mare, mentre i suoi figli erano assenti. Per tutto il giorno il vecchio aveva stuzzicato i figli con allusioni al ghiaccio-nove, e aveva mostrato loro la bottiglia sulla cui etichetta aveva disegnato un teschio e le tibie incrociate, e su cui aveva scritto: Pericolo! Ghiaccio-nove! Tenere lontano dall’umidità!
Per tutto il giorno il vecchio aveva punzecchiato i figli con parole come queste, in tono allegro: “Avanti, su, sforzate un po’ la mente. Vi ho detto che il suo punto di fusione è centoquattordici virgola quattro gradi Fahrenheit, e vi ho detto che è composto di nient’altro che idrogeno e ossigeno. Quale potrebbe essere la spiegazione? Pensateci un po’! Non abbiate paura di sforzare il cervello. Non si romperà.”
“Ci diceva sempre di sforzarci il cervello” disse Frank, ricordando i tempi andati.
“Io ho rinunciato a sforzarmi il cervello da quando avevo non so quanti anni” confessò Angela, appoggiandosi alla scopa. “Non potevo neppure ascoltarlo, quando parlava della scienza. Annuivo soltanto e fingevo di tentare di sforzarmi il cervello, ma il mio povero cervello, per tutto quel che riguardava la scienza, non era più elastico di una giarrettiera vecchia.”
A quanto pareva, prima di sedere nella poltrona di vimini e di morire, il vecchio aveva fatto alcuni giochetti fangosi in cucina, con acqua e pentole e tegami e ghiaccio-nove. Doveva aver convertito l’acqua in ghiaccio-nove e poi di nuovo in acqua, perché ogni pentola e ogni tegame era stato tolto dal rispettivo chiodo. Anche un termometro per misurare il calore della carne era fuori posto, quindi il vecchio doveva aver misurato la temperatura di varie cose.
Il vecchio aveva avuto intenzione di concedersi solo un breve periodo di riposo sulla sua poltrona, perché lasciò la cucina nel più completo disordine. Parte del disordine era una casseruola piena di solido ghiaccio-nove. Senza dubbio aveva avuto intenzione di fonderlo, per ridurre di nuovo la scorta mondiale di quella roba biancazzurra a una scheggia in una bottiglietta... dopo un breve riposo.
Ma, come ci dice Bokonon: “Qualsiasi uomo può concedersi un riposo, ma nessuno può dire quanto lungo sarà quel riposo”.

LA RETICELLA DELLA MADRE DI NEWT

“Avrei dovuto capire che era morto nel momento in cui entrai” disse Angela, appoggiandosi di nuovo alla scopa. “Quella poltrona di vimini non emetteva neppure un suono. Parlava sempre e scricchiolava, quando c’era sopra mio padre... anche quando dormiva.”
Ma Angela aveva creduto che suo padre dormisse, e aveva ripreso a decorare l’albero di Natale. Newt e Frank ritornarono con il Labrador retriever. Andarono in cucina per trovare qualcosa da mangiare per il cane. E trovarono le pozzanghere del vecchio.
C’era acqua sul pavimento, e il piccolo Newt prese uno strofinaccio e l’asciugò.
Buttò lo strofinaccio fradicio su un mobiletto.
Come accadde, lo straccio finì nella casseruola che conteneva il ghiaccio-nove.
Frank pensò che la casseruola contenesse un gelato, e la mostrò a Newt, per rimproverargli il guaio provocato dalla noncuranza con cui aveva gettato lo strofinaccio.
Newt tolse lo strofinaccio dalla superficie gelata e notò che aveva una qualità metallica, serpentina, come se fosse fatto di maglia d’oro finemente intessuta.
“La ragione per cui dico ‘maglia d’oro’“ fece il piccolo Newt, là nella camera da letto di “Papà” “è che mi ricordava la reticella di mia madre, e com’era quella reticella, al tatto.”
Angela spiegò, in tono sentimentale, che quand’era bambino Newt aveva conservato come un tesoro la reticella d’oro di sua madre. Ne dedussi che era una borsetta da sera.
“Era così strana, a toccarla, come nient’altro che avessi mai toccato” disse Newt, analizzando la sua antica tenerezza per la reticella. “Mi chiedo che cosa ne è accaduto.”
“Io mi chiedo che cosa è accaduto di molte cose” disse Angela. La domanda riecheggiò a ritroso attraverso il tempo... dolorosa, perduta.
Ciò che comunque accadde allo strofinaccio, tanto simile alla reticella, fu che Newt lo porse al cane, e il cane lo leccò. E il cane gelò, si irrigidì.
Newt andò a riferire al padre che il cane era diventato rigido e scoprì che anche suo padre era ormai irrigidito.

STORIA

Finalmente il nostro lavoro nella camera da letto di “Papà” fu concluso.
Ma i corpi dovevano ancora essere trasportati sul rogo funebre. Decidemmo che si doveva farlo con pompa, che avremmo dovuto rimandare tutto fino a che non fossero terminate le cerimonie in onore dei Cento Martiri della Democrazia.
L’ultima cosa che facemmo fu mettere in piedi von Koenigswald, per decontaminare il posto in cui era caduto. E poi lo nascondemmo, in piedi, nell’armadio che conteneva gli abiti di “Papà”.
In quanto al racconto di Newt e di Angela e di Frank sul modo in cui si erano divisi la scorta mondiale di ghiaccio-nove... venne fuori quando giunsero ai particolari del loro crimine.
Gli Hoenniker non ricordavano che qualcuno avesse detto qualcosa circa il loro diritto di prendere il ghiaccio-nove, ricordarono gli inviti del vecchio a sforzarsi il cervello, ma non si parlò affatto di morale.
“Chi fece la divisione?” volli sapere.
I tre Hoenniker avevano cancellato così completamente i loro ricordi dell’episodio che fu difficile per loro darmi persino quel particolare fondamentale.
“Non fu Newt” disse finalmente Angela. “Di questo sono sicura.”
“Allora sono stato io o sei stata tu” disse Frank, riflettendo profondamente.
“Tu prendesti uno dei barattoli dallo scaffale in cucina” disse Angela. “Fu soltanto il giorno dopo che ci procurammo i tre piccoli termos.”
“È vero” ammise Frank. “E poi tu prendesti uno scalpello da ghiaccio e spezzasti il ghiaccio-nove nella casseruola.”
“È vero” disse Angela. “Feci così. E poi qualcuno portò le pinzette dal bagno.” Newt alzò la manina. “Fui io.”
“Fui io che raccolsi le schegge e le misi nei barattoli” raccontò Newt. Non si prese il disturbo di nascondere l’orgoglio che doveva aver provato.
“E cosa faceste del cane?” chiesi, debolmente.
“Lo mettemmo nel forno” mi disse Frank. “Era l’unica cosa da fare.” “La Storia!” scrive Bokonon. “Leggetela e piangete!”

QUANDO SENTII LA PALLOTTOLA ENTRARMI NEL CUORE

Così ancora una volta salii la scala a chiocciola nella mia torre; ancora una volta raggiunsi il bastione superiore del mio castello; e ancora una volta guardai i miei ospiti, i miei servitori, il mio precipizio, il mio mare tiepido,
Gli Hoenniker erano con me. Avevamo chiuso la porta della camera di “Papà” e fra il personale di servizio avevamo sparso la voce che “Papà” si sentiva molto meglio.
I soldati stavano erigendo un rogo funebre vicino al gancio. Non sapevano per chi fosse quel rogo.
Vi furono molti, molti segreti quel giorno.
Gran daffare, gran daffare, gran daffare.
Ritenni che le cerimonie potessero cominciare, e pregai Frank perché suggerisse all’ambasciatore Horlick Minton di pronunciare il discorso.
L’ambasciatore Minton si avvicinò al parapetto affacciato sul mare, con la corona funebre ancora chiusa nella custodia. E pronunciò un discorso sorprendente in onore dei Cento Martiri della Democrazia. Glorificò i morti, il loro paese, e la vita che per loro era finita, dicendo “I Cento Martiri della Democrazia” nel dialetto dell’isola. Quel frammento di dialetto suonava garbato e facile sulle sue labbra.
Il resto del suo discorso fu in inglese. Aveva con sé un discorso scritto... ampolloso e altisonante, immagino. Ma, quando si accorse che avrebbe parlato a così poche persone, e in maggioranza compatrioti americani, mise via il discorso.
Una leggera brezza marina gli scompigliava i capelli radi. “Sto per fare una cosa che si addice poco a un ambasciatore” dichiarò. “Sto per dirvi quello che penso veramente.”
Forse Minton aveva aspirato troppo acetone, o forse aveva un presentimento di quello che stava per capitare a tutti, tranne che a me. Ad ogni modo, fece un discorso sorprendentemente bokononista.
“Siamo riuniti qui, amici, per onorare lo Hoon-yera Mora-toorz tut Zamoo-cratzya, bambini morti, tutti morti, tutti assassinati in guerra. È tradizione, in giorni come questo, chiamare ‘uomini’ questi bambini perduti. Io non posso chiamarli uomini per questa semplice ragione: che nella stessa guerra in cui morirono lo Hoon-yera Moratoorz tut Zamoo-cratz-ya morì anche mio figlio.
“E la mia anima insiste nel farmi piangere non un uomo ma un bambino.
“Non dico che i bambini, in guerra, non muoiano come uomini, se devono morire. A loro eterno onore e a nostra eterna vergogna, muoiono come uomini, rendendo possibile, in questo modo, il virile giubilo delle feste patriottiche.
“Ma sono egualmente bambini assassinati.
“E io vi propongo che, se dobbiamo offrire il nostro sincero rispetto ai cento bambini perduti di San Lorenzo, noi trascorriamo il resto di questa giornata disprezzando ciò che li ha uccisi: cioè la stupidità e la malvagità di tutta la razza umana.
“Forse, quando noi commemoriamo le guerre, dovremmo toglierci gli abiti e dipingerci di azzurro e camminare a quattro zampe per tutto il giorno e grugnire come porci. Questo sarebbe indubbiamente più appropriato della nobile oratoria e della parata di bandiere e di fucili bene oliati.
“Non intendo dimostrarmi ingrato per la splendida, marziale parata che stiamo per vedere... e sarà veramente una parata emozionante...”
Ci guardò negli occhi, uno per uno, poi commentò, a voce bassissima, gettando là la frase: “E io dico ‘evviva’ per le parate emozionanti”.
Dovemmo tendere le orecchie per udire ciò che Minton disse subito dopo.
‘Ma se la giornata di oggi è veramente in onore di cento bambini assassinati in guerra,” disse “è un giorno adatto per una parata emozionante?
“La risposta è sì, a una condizione: che noi, i celebranti, ci impegniamo coscientemente e instancabilmente a ridurre la stupidità e la malvagità in noi stessi e in tutta l’umanità.”
Fece scattare i fermagli della custodia della corona.
“Vedete che cosa ho portato?” ci chiese.
Aprì la custodia e ci mostrò la fodera scarlatta e la corona dorata. La corona era fatta di filo di ferro e di foglie d’alloro artificiali, e il tutto era spruzzato di vernice fluorescente.
La corona era allacciata da un nastro di seta color panna, sui cui era stampato: PRO PATRIA.
Ora Minton stava recitando una poesia dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, una poesia che deve essere stata incomprensibile per i sanlorenzani presenti, e anche per H. Lowe Crosby e per la sua Hazel, in quanto a questo, e per Angela e Frank.

I was the first fruits of the battle of Missionary Ridge.
When I felt the bullet enter my heart
I wished I had staid at home and gone to jail
For stealing the hogs of Curl Trenary,
Instead of running away and joining the army.
Rather a thousand times the county jail
Than to lie under this marble figure with wings, And this granite pedestal
Bearing the words, Pro Patria.
What do they mean, anyway ?

“Tanto, che vogliono dire?” fece eco l’ambasciatore Horlick Minton. “Significano ‘Per il proprio paese’.” E gettò là un’altra frase. “Per qualsiasi paese” mormorò. “La corona che io reggo è il dono del popolo di un paese al popolo di un altro paese. Non chiedetevi di quali paesi. Pensate alla gente...
“E ai bambini assassinati in guerra...
“E a tutti i paesi.
“Pensate alla pace.
“Pensate all’amore fraterno.
“Pensate a tante cose.
“Pensate che paradiso sarebbe questo mondo se gli uomini fossero miti e saggi.
“Anche se gli uomini sono stupidi e malvagi, questo è un bellissimo giorno” disse l’ambasciatore Horlick Minton. “Io, dal profondo del cuore e come rappresentante del popolo degli Stati Uniti d’America amante della pace, compiango lo Hoon-yera
Mora-toorz tut Zamoo-cratz-ya per essere morti in questo giorno splendido.” E lanciò la corona oltre il parapetto.
Vi fu un rombo nell’aria. I sei caccia delle forze aeree sanlorenzane stavano arrivando, e sfioravano il mio mare tiepido. Stavano per sparare contro le sagome di coloro che H. Lowe Crosby aveva chiamato “in pratica tutti i nemici che la libertà abbia mai avuto”.

COME ACCADDE

Ci avvicinammo al parapetto, dalla parte del mare, per vedere la parata. Gli aerei non erano più grandi di granelli di pepe nero. Riuscimmo a localizzarli perché uno, come accadde, lasciava una scia di fumo.
Immaginammo che il fumo facesse parte della parata.
Ero vicino a H. Lowe Crosby che, come accadde, stava alternativamente mangiando albatros e bevendo rum indigeno. Esalava fumi di collante per aeromodelli dalle labbra che lucevano di grasso di albatros. La mia recente nausea ritornò.
Mi ritirai, da solo, accanto al parapetto verso l’interno, inghiottendo aria. C’erano sessanta piedi di selciato di pietra antica fra me e tutto il resto.
Vidi che gli aerei stavano per scendere, a una quota inferiore ai bastioni del castello, e che avrei perduto lo spettacolo. Ma la nausea mi toglieva la curiosità. Volsi la testa nella direzione in cui si avvicinavano, ormai ringhiando. E nel momento in cui le mitragliatrici cominciarono a martellare, un aereo, quello che aveva lasciato una scia di fumo, apparve improvvisamente a pancia in su, in fiamme.
Cadde oltre la mia linea di visuale e si sfracellò immediatamente contro il costone roccioso, sotto il castello. Le bombe e il carburante esplosero.
Gli aerei superstiti procedettero tuonando, e il loro frastuono si assottigliò fino a diventare un ronzio di zanzara.
E poi vi fu il rumore d’una frana di roccia... e una grande torre del castello di “Papà”, minata alla base, precipitò di schianto nel mare.
Coloro che si trovavano vicino al parapetto, verso il mare, guardarono sbalorditi l’alveolo vuoto dove era stata la torre. Poi udii frane di tutte le dimensioni, in una conversazione che era quasi orchestrale.
La conversazione continuò molto animatamente, e altre voci vi si unirono. Erano le voci delle travi del castello, si lamentavano perché il loro carico stava diventando troppo grande.
E poi un crepaccio attraversò il bastione come un lampo, a dieci piedi dalle mie dita che si contraevano.
Mi separò dai miei fratelli umani.
Il castello gemeva e piangeva a voce alta.
Gli altri compresero di essere in pericolo. Insieme a tonnellate di muratura, stavano per essere scagliati giù, traballando. Sebbene il crepaccio fosse largo soltanto un piede, la gente cominciò a scavalcarlo con balzi eroici.
Soltanto la mia compiacente Mona attraversò il crepaccio con un semplice passo.
Il crepaccio si richiuse digrignando; si riaprì, più largo, occhieggiando malignamente. Ancora bloccati nella trappola mortale inclinata erano H. Lowe Crosby e la sua Hazel e l’ambasciatore Horlick Minton e la sua Claire.
Philip Castle e Frank e io attraversammo l’abisso per trascinare in salvo i Crosby. E adesso le nostre braccia si tendevano imploranti verso i Minton.
La loro espressione era mite. Posso soltanto tentare di indovinare ciò che passava nelle loro menti. La mia opinione è che stessero pensando, soprattutto, alla dignità, alla misura delle emozioni.
Il panico non era il loro stile. E dubito che anche il suicidio fosse il loro stile. Ma le loro buone maniere li uccisero, perché quella mezzaluna condannata di castello ora si allontanava da noi come un transatlantico che si allontana da una banchina.
Sembrava che anche ai viaggiatori Minton fosse venuta in mente l’idea di un viaggio, perché ci salutarono amabilmente a gesti.
Si presero per mano.
Si volsero verso il mare.
Furono trascinati via, e poi precipitarono in uno scroscio cataclismico, scomparvero!

IL GRANDE A-BUM!

L’orlo scabroso dell’oblio era ormai a pochi pollici dalle mie dita che si contraevano. Guardai giù. Il mio mare tiepido aveva inghiottito tutto. Una pigra cortina di polvere si sollevò dal mare, unica traccia di tutto ciò che vi era caduto.
Il palazzo, ora che la sua massiccia maschera rivolta verso il mare era scomparsa, salutava il nord con un sorriso di lebbroso, dai denti sconnessi e orlato di setole. Le setole erano le estremità scheggiate delle travi. Immediatamente sotto di me una grande camera si era spalancata. Il pavimento di quella camera, privo di sostegni, si avventava nello spazio come un trampolino.
Per un momento sognai di lanciarmi su quella piattaforma, di balzarne via in un tuffo da cigno, un tuffo da mozzare il respiro, di piegare le braccia, di avventarmi verso il basso, in una eternità calda come il sangue, senza neppure uno spruzzo.
Fui richiamato da quel sogno dal grido d’un uccello che sfrecciava sopra di me.
Sembrava chiedermi cosa fosse accaduto.”Poo-tee-phweet?”chiese.
Tutti guardammo quell’uccello, poi ci guardammo l’un l’altro.
Indietreggiammo dall’abisso, pieni di timore. E, quando io mi scostai dalla pietra che mi aveva sostenuto, la pietra cominciò a dondolare. Non era più stabile di un’altalena. E adesso avanzava traballando, sopra il trampolino.
Crollò sul trampolino, lo trasformò in un piano inclinato. E giù per quel piano inclinato scesero i mobili che ancora rimanevano nella camera sotto di me.
Prima ne schizzò fuori uno xilofono, correndo all’impazzata sulle rotelle. Ne uscì un tavolino da notte, in una gara pazzesca con un saldatore. Ne uscirono alcune sedie, in accanito inseguimento.
E in qualche punto, in quella stanza, fuori di vista, qualcosa poderosamente riluttante stava cominciando a muoversi.
Strisciò lungo il piano inclinato. Finalmente mostrò la prua d’oro. Era la barca in cui giaceva morto “Papà”.
Raggiunse l’estremità del piano inclinato. La prua si inclinò. Si inclinò verso il basso. E cadde giù, roteando.
“Papà” fu scagliato fuori, e cadde separatamente.
Chiusi gli occhi.
Vi fu un suono simile a quello d’un portale grande come il cielo che si chiudesse dolcemente, la grande porta del paradiso che veniva chiusa, piano piano. Vi fu un grande a-bum.
Aprii gli occhi... e tutto il mare era ghiaccio-nove.
L’umida terra verde era una perla biancazzurra.
Il cielo si oscurò. Borasisi, il sole, divenne una sfera di un giallo malsano, minuscola e crudele.
Il cielo era pieno di vermi. I vermi erano tornado.

RIFUGIO

Guardai il cielo, dove era stato quell’uccello. Un verme enorme con una bocca viola era sopra di me. Ronzava come uno sciame d’api. Con oscena peristalsi, ingeriva aria.
Noi umani ci separammo; fuggimmo dal mio bastione sfracellato; scendemmo incespicando le scale, verso l’entroterra.
Solo H. Lowe Crosby e la sua Hazel gridarono. “Americani! Americani!” gridarono, come se ai tornado importasse il granfalloon cui appartenevano le loro vittime.
Non potevo vedere i Crosby. Erano scesi da un’altra scala. Le loro grida e il frastuono provocato dagli altri, che ansimavano e correvano, mi giungevano in un borbottio confuso, attraverso un corridoio del castello. La mia sola compagna era la mia celestiale Mona, che mi aveva seguito senza far rumore.
Quando io esitai, scivolò davanti a me e aprì la porta dell’anticamera dell’appartamento di “Papà”. Le pareti e il soffitto dell’anticamera erano scomparsi. Ma il pavimento di pietra era rimasto. E al centro c’era la botola della segreta. Sotto il cielo verminoso, nella pulsante luce viola che usciva dalle bocche di tornado ansiosi di divorarci, alzai il coperchio della botola.
L’esofago della prigione sotterranea era segnato da grappe di ferro. Richiusi dall’interno il coperchio. Scendemmo quelle grappe di ferro.
E ai piedi della scala scoprimmo un segreto di stato. “Papà” Monzano vi aveva fatto costruire un comodo rifugio antiaereo. C’era un pozzo di ventilazione, con un ventilatore azionato da un biciclo fisso. Un serbatoio d’acqua era incastrato in una parete. L’acqua era dolce e liquida, ancora incontaminata dal ghiaccio-nove. E c’era una toilette chimica, e una radio a onde corte, e un catalogo della Sears-Roebuck ; e c’erano casse di ghiottonerie, e liquori, e candele; e c’erano le copie rilegate della National Geographics, le ultime venti annate.
E c’era la collezione de I libri di Bokonon.
E c’erano due letti gemelli.
Accesi una candela. Aprii un barattolo di crema di pollo Campbell e la misi su un fornello Sterno. E riempii due bicchieri di rum delle Isole Vergini.
Mona sedette su uno dei letti. Io sedetti sull’altro.
“Sto per dire qualcosa che gli uomini devono aver detto molte volte alle donne, prima d’ora” l’informai. “Tuttavia, non credo che queste parole abbiano mai avuto il peso che hanno ora.”
“Oh?”
Allargai le mani. “Eccoci qua.”

LA VERGINE DI NORIMBERGA E LA SEGRETA

Il Sesto libro de I libri di Bokonon è dedicato al dolore, in particolare alle torture inflitte dagli uomini agli uomini.
“Se mai verrò messo a morte sul gancio,” ci avverte Bokonon “aspettatevi un comportamento molto umano.”
Poi parla del supplizio della ruota e del peddiwinkus  e della vergine di Norimberga e della veglia e della segreta.

In ciascuno dei casi, saran pianti e dolori
Ma solo la segreta
Ti lascerà pensare, mentre muori .

E così era nel grembo roccioso che apparteneva a me e a Mona. Per lo meno potevamo pensare. E l’unica cosa che pensavo era questa: le comodità della segreta non mitigavano affatto la realtà fondamentale della segregazione.
Durante il primo giorno e la prima notte che trascorremmo sottoterra, i tornado squassarono, molte volte ogni ora, la botola della nostra segreta. Ogni volta la pressione nella nostra tana cadeva improvvisamente, e le orecchie ci scoppiavano e la testa ci ronzava.
In quanto alla radio... si udivano crepitii e scariche di energia statica e questo era tutto. Da una estremità all’altra della banda di onde corte non udii una sola parola, un solo hip di un radiotelegrafista. Se c’era ancora qualche essere vivente, qua e là, non si dedicava alle trasmissioni radio.
Né lo ha fatto fino a oggi.
Ne dedussi questo: gli uragani, disseminando dovunque la brina velenosa del ghiaccio-nove, avevano fatto a pezzi tutto e tutti al livello della superficie. Ogni cosa che ancora viveva sarebbe morta abbastanza presto di sete... o di fame... o di rabbia... o di apatia.
Mi dedicai a I libri di Bokonon, ai quali ero ancora abbastanza estraneo per credere che in qualche passo contenessero un conforto spirituale. Passai frettolosamente oltre l’ammonimento sul frontespizio del Primo libro:

“Non essere sciocco! Chiudi immediatamente questo libro! Non è altro che foma!”

Foma, naturalmente, significa menzogne.
E poi lessi questo :

In principio Dio creò la Terra e la guardò, nella Sua cosmica solitudine.
E Dio disse: “Facciamo creature viventi con il fango, in modo che il fango possa vedere ciò che Noi abbiamo fatto”. E Dio creò tutte le creature viventi che ora si muovono, e una di esse era l’uomo. Il fango poteva parlare soltanto nella sua forma di uomo. Dio si curvò, mentre il fango in forma d’uomo si levava a sedere, si guardava intorno e parlava. L’uomo batté le palpebre. “Qual è lo scopo di tutto questo?” chiese educatamente.
“Tutto deve avere uno scopo?” chiese Dio.
“Certamente” disse l’uomo.
“E allora lascio a te il compito di pensare uno scopo per tutto questo” disse Dio. E se ne andò.

Io pensai che fossero sciocchezze.
“Naturalmente sono sciocchezze!” dice Bokonon.
E mi rivolsi alla mia celestiale Mona, per cercare confortanti segreti molto più profondi.
E, mentre la guardavo attraverso lo spazio che separava i nostri letti, riuscii a immaginare che dietro i suoi occhi meravigliosi si celassero misteri antichi quanto Eva.
Non mi addentrerò nel sordido episodio sessuale che seguì. Basti dire che io fui disgustoso e disgustato.
A quella ragazza non interessava la riproduzione... odiava quell’idea. Prima che la zuffa fosse finita, io ottenni pieno credito, da lei e anche da me stesso, di aver inventato quella bizzarra impresa, piena di sudore e di grugniti, per mezzo della quale venivano fatti i nuovi esseri umani.
Mentre ritornavo al mio letto, digrignando i denti, pensai che lei, sinceramente, non avesse idea del significato dell’accoppiamento. Ma poi lei mi disse, con dolcezza: “Sarebbe molto triste avere un bambino adesso. Non sei d’accordo?” “Sì” ammisi, tetro.
“Bene, è così che si fanno i bambini, caso mai tu non lo sapessi.”

MONA MI RINGRAZIA

“Oggi sarò un ministro bulgaro della Pubblica Sicurezza” ci dice Bokonon. “Domani sarò Elena di Troia. “Il significato di queste parole è chiaro come il cristallo: ognuno di noi deve essere ciò che è. E, giù nella segreta, era quello che io pensavo... con l’aiuto de I libri di Bokonon.
Bokonon mi invitava a cantare con lui:

Noi facciamo, scarabocchiando facciamo, scarabocchiando facciamo, scarabocchiando facciamo,
Ciò che dobbiamo, fangosamente dobbiamo, fangosamente dobbiamo, fangosamente dobbiamo;
Fangosamente facciamo, fangosamente facciamo,
fangosamente facciamo, fangosamente facciamo,
Finché sbagliamo, completamente sbagliamo, completamente sbagliamo, completamente sbagliamo .

Inventai una melodia per accompagnarlo, e la fischiettai sottovoce, mentre pedalavo sul biciclo con cui azionavo il ventilatore che ci dava aria, buona vecchia aria.
“L’uomo aspira ossigeno ed espira anidride carbonica” dissi a Mona.
“Che?”
“Scienza.”
“Oh.”
“Uno dei segreti della vita, che l’uomo ha capito da molto tempo: gli animali aspirano ciò che altri animali espirano, e viceversa.”
“Non lo sapevo.”
“Adesso lo sai.”
“Grazie.” “Prego.”
Quando ebbi pedalato restituendo la nostra atmosfera alla dolcezza e alla freschezza, smontai dal biciclo e salii le grappe di ferro per vedere che tempo faceva lassù. Lo facevo molte volte al giorno. Quel giorno, il quarto giorno, percepii attraverso la stretta mezzaluna del coperchio rialzato che il tempo si era stabilizzato.
La stabilità era di una specie furiosamente dinamica, perché i tornado erano numerosi come prima, e sono rimasti numerosi fino a oggi. Ma le loro bocche non emettevano più grida minacciose, non digrignavano più i denti verso la terra.
Le bocche, in tutte le direzioni, erano discretamente ritirate a una quota di circa mezzo miglio. E la loro quota variava così poco da un momento all’altro che era come se San Lorenzo fosse stata protetta da una lastra di vetro a prova di tornado.
Lasciammo passare altri tre giorni, assicurandoci che i tornado fossero diventati sinceramente reticenti come sembravano. Poi riempimmo alcune borracce con l’acqua del nostro serbatoio e salimmo.
L’aria era asciutta e calda e mortalmente immobile.
Avevo sentito dire, una volta, che le stagioni nella zona temperata dovrebbero essere sei invece di quattro: estate, autunno, chiusura, inverno, apertura e primavera. E lo ricordai, mentre mi rialzavo, accanto alla nostra botola, e guardavo e ascoltavo e fiutavo.
Non c’erano odori. Non c’era movimento. Ogni mio passo provocava uno scricchiolio ghiaioso nella brina biancazzurra. E ogni scricchiolio echeggiava forte.
La stagione della chiusura era finita. La Terra era ormai chiusa.
Era inverno, ora e per sempre.
Aiutai la mia Mona a uscire dalla nostra tana. L’avvertii di tenere le mani lontano dalla brina biancazzurra e di tenerle anche lontane dalla bocca.
“La morte non è mai stata così facile a venire” le dissi. “Tutto ciò che devi fare è toccare il suolo e poi le tue labbra, e sei spacciata.”
Scosse il capo e sospirò. “Una madre molto cattiva.”
“Che?”
“La madre terra... non è più una buona madre.”
“Ehi! Ehi!” chiamai, attraverso le rovine del palazzo. I venti spaventosi avevano scavato canaloni nel grande mucchio di pietre. Mona e io cercammo i superstiti, con indifferenza... con indifferenza perché non sentivamo vita, intorno a noi. Non era sopravvissuto neppure un topo rosicchiante, dal naso fremente.
L’arco della porta del palazzo era l’unica cosa rimasta intatta, fra le cose costruite dall’uomo. Sulla base, scritto in vernice bianca, c’era un Calipso bokononista. Era scritto nitidamente. Era nuovo. Era la prova che qualcun altro era sopravvissuto ai venti. Il Calipso era questo:

Un giorno, questo pazzo mondo dovrà finire E ciò che ci ha prestato, Dio si riprenderà. E se in quel triste giorno Iddio vorrai sgridare, Sgridalo. Sorridendo, soltanto annuirà .

A CHIUNQUE QUESTO PUÒ INTERESSARE

Ricordai la pubblicità di una collana di libri per bambini, che si chiamava Il libro della conoscenza. In quella pubblicità, un bambino e una bambina fiduciosi si rivolgevano al padre. “Papà,” chiedeva uno “perché il cielo è azzurro?” La risposta, presumibilmente, la si poteva trovare ne Il libro della conoscenza.
Se avessi avuto mio padre vicino, quando io e Mona percorrevamo la strada che ci portava lontano dal palazzo, avrei avuto molte domande da rivolgergli, mentre mi aggrappavo alla sua mano. “Papà, perché tutti quegli alberi sono spezzati? Papà, perché sono morti tutti gli uccelli? Papà, perché il cielo è così squallido e verminoso? Papà, perché il mare è così duro e immobile?”
Ricordai che io ero qualificato a rispondere a quelle tremende domande più di qualunque altro essere umano... purché fossero ancora vivi altri esseri umani. Caso mai interessasse a qualcuno, io sapevo che cosa era successo... dove e come.
E con questo?
Mi chiesi dove potevano essere i morti. Mona e io ci avventurammo a più di un miglio dalla nostra segreta, senza vedere un solo cadavere umano.
Non ero altrettanto curioso per quanto riguardava i vivi, probabilmente perché presentivo esattamente che prima avrei dovuto contemplare molti morti. Non vedevo colonne di fumo levarsi da possibili fuochi d’accampamento; ma sarebbe stato difficile vederli, comunque, contro un orizzonte di vermi.
Una cosa attirò il mio sguardo. Un alone color lavanda attorno al bizzarro spuntone che era il picco sulla gobba del Monte McCabe. Sembrava mi chiamasse e io ebbi la sciocca sensazione cinematica di scalare quel picco insieme a Mona. Ma che significato avrebbe avuto?
Ora stavamo camminando fra le grinze ai piedi del Monte McCabe. E Mona, senza una ragione, si allontanò dal mio fianco, lasciò la strada, e salì su uno dei corrugamenti. La seguii.
La raggiunsi sulla sommità della collinetta. Guardava giù, rapita, verso un ampio bacino naturale. Non piangeva.
Avrebbe dovuto piangere.
In quel bacino c’erano migliaia e migliaia di morti. Sulle labbra di ogni cadavere c’era la brina biancazzurra del ghiaccio-nove.
Poiché i cadaveri non erano sparpagliati o gettati qua e là, era chiaro che si erano riuniti dopo che i venti spaventosi si erano ritirati. E, poiché ogni cadavere aveva un dito in bocca o vicino alla bocca, compresi che ciascuno di loro si era recato in quel luogo malinconico e poi si era avvelenato con il ghiaccio-nove.
C’erano uomini, donne e bambini, anche, molti nell’atteggiamento di boko-maru. Tutti volgevano il viso verso il centro del bacino, come se fossero spettatori in un anfiteatro. .
Mona e io guardammo verso il centro del bacino. C’era una radura rotonda, lì, un luogo in cui avrebbe potuto stare ritto un oratore.
Mona e io ci avvicinammo, imbarazzati, evitando di guardare quelle statue morbose. Vi trovammo un masso. E sotto il masso c’era un biglietto scritto a matita che diceva:

A chi può interessare: queste persone attorno a voi sono quasi tutti i superstiti, su San Lorenzo, dei tornado che hanno seguito il congelamento del mare. Queste persone hanno fatto prigioniero un falso sant’uomo chiamato Bokonon. Lo hanno portato qui, lo hanno messo in mezzo a loro, e gli hanno comandato di dire loro esattamente che intenzione avesse Dio Onnipotente e che cosa dovessero fare, ormai. Il ciarlatano ha detto che Dio stava indubbiamente tentando di ucciderli, probabilmente perché ne aveva abbastanza di loro, e che loro avrebbero dovuto avere la gentilezza di morire. E questo, come potete vedere, è ciò che hanno fatto.

Il biglietto era firmato da Bokonon.

RISPONDO IN RITARDO

“Che cinismo!” boccheggiai. Alzai lo sguardo dal biglietto e mi guardai intorno, in quel bacino pieno di morte. “È qui, in qualche posto?”
“Non lo vedo” disse Mona, con dolcezza. Non era depressa o incollerita. Anzi, sembrava sull’orlo di una risata. “Diceva sempre che non avrebbe mai seguito i suoi consigli, perché sapeva che non valevano nulla.”
“Sarebbe meglio che fosse qui!” dissi amaramente. “Pensa alla sfacciataggine di quell’uomo, indurre questa gente a uccidersi!”
Ora Mona rise. Non l’avevo mai sentita ridere. La sua risata era sorprendentemente profonda e rauca.
“Questo ti sembra buffo?”
Alzò pigramente le braccia. “È tutto così semplice, ecco. Risolve tante cose per tanta gente, in modo così semplice.”
Vagò fra le migliaia di esseri pietrificati, e continuava a ridere. Si fermò a metà del pendio, e si voltò verso di me. Mi gridò: “Vorresti vedere vivo di nuovo uno qualunque di loro, se potessi? Rispondimi, in fretta.
“Non mi hai risposto abbastanza in fretta” mi gridò allegramente, dopo che fu passato mezzo minuto. E, ancora ridendo un poco, toccò il suolo con un dito, si rialzò, e si portò il dito alle labbra e morì.
Piansi? Dicono che piansi. H. Lowe Crosby e la sua Hazel e il piccolo Newton Hoenniker mi incontrarono mentre avanzavo incespicando lungo la strada. Erano a bordo dell’unico tassì di Bolivar, che era stato risparmiato dall’uragano. Mi dicono che stavo piangendo. Anche Hazel piangeva, piangeva per la gioia di avermi ritrovato vivo.
Mi caricarono sul tassì, vezzeggiandomi.
Hazel mi cinse le spalle con un braccio.
“Sei con la tua mamma, adesso. Non preoccuparti più di niente.”
Lasciai che la mia mente si vuotasse. Chiusi gli occhi. Fu con sollievo profondo ed ebete che mi appoggiai a quella sciocca carnosa, umida e plebea.

LA FAMIGLIA ROBINSON SVIZZERA

Mi condussero a ciò che rimaneva della casa di Franklin Hoenniker, sopra la cascata. Ciò che rimaneva era la caverna sotto la cascata, che era diventata una specie di igloo sotto una cupola trasparente e biancazzurra di ghiaccio-nove.
La famiglia era composta di Frank, del piccolo Newt e dei Crosby. Erano sopravvissuti rifugiandosi in una cella sotterranea del palazzo, molto meno profonda e molto più scomoda della segreta. Se ne erano andati nel momento in cui era cessato il vento, mentre io e Mona eravamo rimasti sottoterra altri tre giorni.
Come accadde, avevano trovato il tassì miracoloso che li aspettava sotto l’arco della porta del palazzo. Avevano trovato un barattolo di vernice bianca e sulle portiere anteriori della macchina, Frank aveva dipinto stelle bianche, e sul tetto aveva dipinto la sigla di un granfalloon: U.S.A.
“E avete lasciato la vernice sotto l’arco?” dissi.
“Come lo sa?” chiese Crosby.
“Qualcun altro è venuto e ha scritto una poesia.”
Non chiesi subito dove Angela Hoenniker Conners e Philip e Julian Castle avessero trovato la loro fine, perché avrei dovuto parlare subito di Mona. Non ero ancora preparato a farlo.
In particolare non volevo parlare della morte di Mona perché, mentre viaggiavamo a bordo del tassì, i Crosby e il piccolo Newt mi sembravano incongruamente allegri.

DUE TOPI E DEGLI UOMINI

Seguirono sei mesi curiosi... i sei mesi in cui ho scritto questo libro. Hazel parlava con esattezza quando definiva “la famiglia Robinson svizzera” la nostra piccola comunità, perché eravamo sopravvissuti a un uragano, eravamo rimasti isolati, e poi la vita era diventata veramente molto facile. Non era priva di un certo fascino alla Walt Disney.
Non erano sopravvissuti piante o animali, è vero. Ma il ghiaccio-nove conservava maiali e mucche e cerbiatti e mucchi di uccelli e di fragole, fino a che noi non eravamo pronti a prenderli e a cucinarli. Inoltre, c’erano tonnellate di cibi in scatola che potevamo recuperare scavando fra le rovine di Bolivar. E sembrava che noi fossimo i soli superstiti di San Lorenzo.
Il cibo non era un problema, e non lo erano il vestiario e l’alloggio, perché il tempo era uniformemente asciutto, morto e caldo. La nostra salute era buona, in modo monotono. A quanto pareva, tutti i germi erano morti... o sonnecchiavano.
Il nostro adattamento divenne così soddisfacente, così compiacente, che nessuno si meravigliava o protestava quando Hazel diceva: “C’è un vantaggio, in ogni caso: non ci sono zanzare”.
Era seduta su uno sgabello a tre gambe, nella radura in cui sorgeva un tempo la casa di Frank. Cuciva insieme strisce di tessuto rosso, bianco e azzurro. Come Betsy Ross , stava facendo una bandiera americana. Nessuno fu tanto scortese da farle osservare che in realtà il rosso era un color pesca, l’azzurro era quasi un verde Kelly, e che le cinquanta stelle che aveva ritagliato erano più simili alle stelle di Davide, a sei punte, che alle stelle americane a cinque punte.
Suo marito, che era sempre stato un ottimo cuoco, adesso stava facendo bollire uno stufato in una pentola di ferro su un fuoco di legna, lì vicino. Era lui che cucinava per tutti; gli piaceva cucinare.
“Ha un buon aspetto e un buon odore” commentai.
Ammiccò. “Non sparate al cuoco. Fa del suo meglio.”
Sullo sfondo di questa piacevole conversazione c’era il fastidioso da-da-da e di-didi di un trasmettitore automatico di SOS che aveva costruito Frank. Invocava aiuto notte e giorno.
“Salvate le nostre annnnime” intonò Hazel, accompagnando con il canto il trasmettitore, mentre cuciva. “Salvate le nostre annnnime.” “Come va il libro?” mi chiese Hazel.
“Bene, mamma, proprio bene.”
“Quando ce ne mostrerai qualche pagina?”
“Quando sarà pronto, mamma, quando sarà pronto.”
“Molti scrittori famosi erano hoosier.”
“Lo so.”
“Tu sarai uno d’una fila molto, molto lunga.” Sorrise, piena di speranza. “È un libro divertente?”
“Lo spero, mamma.”
“Ho voglia di farmi una buona risata.”
“Lo so.”
“Ciascuno, qui, ha una specializzazione, qualcosa da dare agli altri. Tu scrivi libri che ci fanno ridere, e Frank fa cose scientifiche, e il piccolo Newt... lui dipinge quadri per tutti noi, e io cucio, e Lowe cucina.”
“‘Molte mani rendono leggero molto lavoro.’ È un vecchio proverbio cinese.”
“Erano in gamba in molte cose, quei cinesi.”
“Sì, manteniamo vivo il loro ricordo.”
“Adesso vorrei averli studiati di più.”
“Bene, era difficile farlo, anche in condizioni ideali.”
“Adesso vorrei aver studiato di più tutto.”
“Tutti abbiamo rimpianti, mamma.”
“Non serve a niente piangere sul latte versato.”
“Come dice il poeta, mamma: Tra tutte le parole dei topi e degli uomini / Queste sono le più tristi: ‘Così poteva essere.’ “ “È cosi bello, e così vero.”

L’ALLEVAMENTO DI FORMICHE

Mi dispiaceva vedere Hazel finire la bandiera, perché ero coinvolto nei suoi confusi piani in proposito. Aveva l’idea che io accettassi di piantare quella stupida cosa sul picco del Monte McCabe.
“Se Lowe e io fossimo più giovani, lo faremmo noi stessi. Ora, tutto quello che possiamo fare è darti la bandiera e accompagnarti con i nostri migliori auguri.” “Mamma, mi chiedo se è veramente il posto migliore per una bandiera.”
“Che altro posto c’è?”
“Ci penserò.” Mi scusai e scesi nella caverna per vedere cosa stava facendo Frank.
Non stava facendo niente di nuovo. Stava osservando un allevamento di formiche che aveva costruito. Aveva trovato poche formiche superstiti nel mondo tridimensionale delle rovine di Bolivar, e aveva ridotto le dimensioni a due, facendo un sandwich di terra e di formiche fra due lastre di vetro. Le formiche non potevano fare nulla senza che Frank le sorprendesse e facesse commenti in proposito.
L’esperimento aveva risolto in breve tempo il mistero del modo in cui le formiche potevano sopravvivere in un mondo privo d’acqua. Per quel che ne so, erano gli unici insetti sopravvissuti, ed erano sopravvissute formando, con i loro corpi, sfere aderenti attorno a granelli di ghiaccio-nove. Generavano abbastanza calore, al centro, perché metà di loro morissero e perché si producesse una goccia di rugiada. La rugiada era potabile. I cadaveri erano commestibili.
“Mangiamo, beviamo e stiamo allegri, perché domani moriremo” dissi a Frank e ai suoi minuscoli cannibali.
La sua reazione era sempre la stessa. Era una risentita lezione su tutto ciò che la gente poteva imparare dalle formiche.
Anche le mie reazioni erano rituali. “La natura è una cosa meravigliosa, Frank. La natura è una cosa meravigliosa.”
“E sai perché le formiche riescono?” mi chiese per la millesima volta.
“Cooperano.”
“È un accidente di bella parola... cooperazione.”
“Chi ha insegnato loro come ottenere l’acqua?”
“Chi ha insegnato a me come ottenere l’acqua?”
“È una risposta sciocca e lo sai.”
“Scusami.”
“C’è stato un tempo in cui prendevo sul serio le risposte sciocche della gente. Ma l’ho superato.”
“Una pietra miliare.”
“Sono diventato adulto.”
“A spese del mondo.” Potevo dire a Frank cose come quelle, con l’assoluta certezza che non le sentiva.
“C’è stato un tempo in cui la gente poteva imbrogliarmi senza molta fatica, perché non avevo molta fiducia in me stesso.”
“La semplice riduzione del numero degli abitanti della terra è servita molto ad alleviare i tuoi problemi sociali” opinai. Ancora una volta, rivolsi il mio suggerimento a un sordo.
“Dimmi, dimmi chi ha insegnato a queste formiche come ottenere l’acqua” mi sfidò di nuovo.
Molte volte avevo suggerito l’ovvia nozione che era stato Dio, a insegnarglielo. E sapevo, da una onerosa esperienza, che Frank non accettava e non respingeva quella teoria. Diventava semplicemente più furibondo, e continuava a formulare quella domanda.
Lasciai Frank, come I libri di Bokonon mi consigliavano di fare.
“Guardati dall’uomo che lavora duramente per imparare qualcosa, l’impara, e non si ritrova più saggio di prima” ci dice Bokonon. “È pieno del risentimento omicida di coloro che sono ignoranti senza avere conquistato la loro ignoranza per la strada più difficile.”
Andai a cercare il nostro pittore, il piccolo Newt.

I TASMANIANI

Quando trovai il piccolo Newt, che dipingeva un paesaggio inaridito, a un quarto di miglio dalla caverna, mi chiese se potevo condurlo in macchina a Bolivar, per rifornirsi di colori. Non poteva guidare. Non riusciva a raggiungere i pedali.
Così andammo e, lungo la strada, gli chiesi se gli fosse rimasto qualche stimolo sessuale. Lamentai che io non ne avevo... neppure in sogno, nulla.
“Io ero abituato a sognare donne alte venti, trenta, quaranta piedi” mi disse. “Ma adesso? Dio, non riesco neppure a ricordare come fosse la mia nanetta ucraina.”
Ricordai qualcosa che avevo letto a proposito degli aborigeni della Tasmania, esseri che stavano abitualmente nudi e che, quando furono scoperti dai bianchi nel secolo decimosettimo, non conoscevano l’agricoltura, l’allevamento del bestiame, l’architettura di qualsiasi genere, e probabilmente neppure il fuoco. Erano così spregevoli agli occhi dei bianchi, a causa della loro ignoranza, che vennero cacciati per divertimento dai primi coloni, i quali erano criminali deportati dall’Inghilterra. E gli aborigeni trovarono la vita così poco attraente che rinunciarono a riprodursi.
Suggerii a Newt che era stata una simile disperazione a trasformare noi, ora.
Newt fece una osservazione acuta. “Penso che tutta l’eccitazione in letto avesse a che vedere con l’eccitazione di mandare avanti la razza umana più che con qualunque altra ragione mai immaginata da qualcuno.”
“Naturalmente, se avessimo fra noi una donna in età di generare, questo potrebbe cambiare radicalmente la situazione. La povera vecchia Hazel ha passato l’età adatta per avere anche un idiota mongoloide.”
Newt rivelò che sapeva molte cose sugli idioti mongoloidi. Una volta aveva frequentato una scuola speciale per bambini minorati, e parecchi dei suoi compagni di scuola erano stati idioti mongoloidi.
“Quella che scriveva meglio di tutti, nella nostra classe, era una mongoloide che si chiamava Myrna... parlo della sua scrittura, non di quello che scriveva. Dio, erano anni che non pensavo a lei.”
“Era una buona scuola?”
“Tutto quello che ricordo era quello che il direttore continuava a dirci. Continuava ad abbaiare contro di noi attraverso gli altoparlanti, per qualche guaio che avevamo combinato, e cominciava sempre nello stesso modo: ‘Sono stufo e nauseato...’“
“Questo si avvicina molto alla descrizione di ciò che provo io quasi costantemente.”
“Forse è quello che devi provare.”
“Parli come un bokononista, Newt.”
“E perché non dovrei? Per quello che ne so, il bokononismo è l’unica religione che abbia un commentario sui nani.”
Quando non scrivevo, studiavo assiduamente I libri di Bokonon, ma il riferimento ai nani mi era sfuggito. Fui grato a Newt di averlo richiamato alla mia attenzione, perché quella citazione imprigionava in un distico il crudele paradosso del pensiero bokononista, la straziante necessità di mentire sulla realtà e la straziante impossibilità di mentire.

Nano, nano, nano, nano, come ammicca e come incede
Perché sa che un uomo è grande quanto ciò che spera e crede .

SUONATE, DOLCI CORNAMUSE

“Una religione così deprimente!” gridai. Diressi la conversazione sul terreno delle utopie, di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che avrebbe dovuto essere, di ciò che poteva ancora essere, se il mondo si fosse sgelato.
Ma Bokonon si era occupato anche di questo, aveva scritto un intero libro, sulle utopie, il Settimo libro, che chiamava La repubblica di Bokonon. In quel libro vi sono questi orribili aforismi :

La mano che stringe le azioni dei drugstores domina il mondo.
Cominciamo la nostra repubblica con una catena di negozi di generi alimentari, una catena di camere a gas e un gioco nazionale. Poi, possiamo scrivere la nostra Costituzione.

Chiamai Bokonon uno sporco negro bastardo e cambiai di nuovo argomento. Parlai di gesti eroici individuali e significativi. Elogiai in particolare il modo in cui avevano scelto di morire Julian Castle e suo figlio. Mentre infuriavano ancora i tornado, si erano avviati a piedi verso la Casa della Speranza e Misericordia nella Giungla, per donare tutta la speranza e la misericordia che era in loro potere donare. E vedevo una certa magnificenza anche nel modo in cui era morta la povera Angela. Aveva raccolto un clarinetto in mezzo alle rovine di Bolivar e aveva cominciato immediatamente a suonarlo, senza preoccuparsi se l’imboccatura era contaminata dal ghiaccio-nove.
“Suonate, dolci cornamuse” mormorai, con voce rauca.
“Bene, forse anche tu potrai trovare un modo pulito di morire” disse Newt.
Era una frase molto bokononista.
Parlai confusamente del mio sogno di scalare il Monte McCabe con qualche magnifico simbolo e di piantarlo lassù. Tolsi le mani dal volante per un attimo, per mostrargli come fossero vuote di simboli.
“Ma cosa diavolo potrebbe essere il simbolo adatto, Newt? Cosa diavolo potrebbe essere?” Afferrai di nuovo il volante. “Ecco la fine del mondo; ed ecco me, quasi l’ultimo uomo; e là c’è la montagna più alta che sia in vista. Ora so che cosa deve fare il mio karass, Newt. Ha operato giorno e notte forse per mezzo milione di anni, per portarmi su quella montagna.” Scossi il capo e quasi piansi. “Ma che cosa, per l’amore di Dio, che cosa deve esserci nelle mie mani?”
Guardai fuori dal finestrino, ciecamente, mentre chiedevo questo, così ciecamente che proseguii per oltre un miglio prima di accorgermi che avevo guardato negli occhi un vecchio negro, un uomo di colore, vivo, seduto sul margine della strada. Poi rallentai. E poi mi fermai. Mi coprii gli occhi. “Che cosa succede?” chiese Newt.
“Ho visto Bokonon, là indietro.”

FINE

Era seduto su una pietra. Era scalzo. I suoi piedi erano coperti dalla brina del ghiaccio-nove. Il suo unico indumento era una bianca coperta da letto con ricami azzurri. I ricami dicevano Casa Mona. Non si accorse del nostro arrivo. In una delle sue mani stringeva una matita. Nell’altra stringeva un foglio di carta.
“Bokonon?”
“Sì?”
“Posso chiederle cosa sta pensando?”
“Sto pensando, giovanotto, alla frase finale de I libri di Bokonon. È venuto il momento di scrivere l’ultima frase.”
“L’ha trovata?”
Scrollò le spalle e mi porse il pezzo di carta.
Questo è ciò che lessi.

Se fossi più giovane, scriverei una storia della stupidità umana; e salirei sulla cima del Monte McCabe e mi stenderei sul dorso, con la mia storia per guanciale; e prenderei dal suolo un po’ del veleno biancazzurro che trasforma gli uomini in statue; e mi trasformerei in una statua, disteso sul dorso, sogghignando orribilmente, e facendo marameo a Tu Sai Chi.  
Kurt Vonnegut Jr. Nota di Roberta Rambelli
Kurt Vonnegut Jr. si autodefinisce scrittore di science fiction: come tale lo ha classificato Kingsley Amis nel suo fondamentale saggio New Maps of Hell - e più tardi ha compreso uno dei romanzi di Vonnegut, Player Piano tra i dieci romanzi più importanti della science fiction. Racconti di Vonnegut sono comparsi regolarmente anche se non frequentemente nelle maggiori riviste americane specializzate in questo particolare genere narrativo. Tuttavia, occorre tenere presente che nella science fiction la posizione di Vonnegut è singolare, non integrata e rivoluzionaria. Per l’esattezza, si potrebbe presentare il fenomeno Vonnegut come l’opposto del fenomeno Bradbury. Mentre l’autore di Fahrenheit 451 e di A medicine for melancholy preferisce mantenere posizioni marginali rispetto alla science fiction ricollegandosi quasi costantemente alla tematica tipica della science fantasy o della fantasy pura, facendo sfoggio di un adeguato linguaggio lussureggiante e barocco che drappeggia con suntuosità, spesso, nuclei di idee fragili quanto poetiche, Vonnegut è l’autore che meno concede, da un punto tematico e stilistico, alla fantasia e che, mantenendo la sua prosa in apparenza anarchica e in realtà sorvegliatissima in uno schema essenziale, cerca costantemente un contatto quasi fisico con la realtà.
È ovvio che in science fiction “realtà” deve intendersi in senso mediato, secondo i canoni dell’antiutopia o utopia negativa: una concezione per cui ogni immagine del futuro è prospettata per mettere in guardia l’umanità contro i pericoli già insiti, potenzialmente o attualmente, nella società di oggi.
Di Kurt Vonnegut sono stati pubblicati fino ad ora tre romanzi di science fiction e un volume di racconti; quest’ultimo - A Canary in a Cathouse - comprende però in maggioranza racconti non fantascientifici. The Sirens of Titan (che è il suo romanzo più legato ai temi tradizionali della science fiction) e Player Piano sono già considerati classici del genere. Ghiaccio-nove, che è il suo romanzo più recente, può essere ritenuto, almeno per il momento, il punto-limite cui questo autore è arrivato nel proporre, forse non programmaticamente, una nuova formula per il rinnovamento dell’antiutopia: in senso ben diverso, è opportuno specificare, da quello predicato ufficialmente dalle riviste dottrinarie dell’Unione Sovietica, che suggeriscono (come ha fatto qualche tempo fa Kommunist) una inversione programmatica dell’utopia negativa agli scrittori sovietici specializzati.
In apparenza, Ghiaccio-nove dovrebbe essere compreso nella serie dei romanzi escatologici, cui appartengono del resto opere famose per vari motivi, ma, a differenza della maggioranza dei romanzi di questo filone, in cui gli autori prospettano l’annientamento dell’umanità a causa d’un conflitto nucleare scatenato deliberatamente o per errore, Ghiaccio-nove è stato scritto con l’intento di risalire alle cause prime che potrebbero provocare la fine del nostro mondo. Per questo, Vonnegut ha rifiutato ciò che, secondo il suo giudizio, è soltanto una conseguenza (ossia il misuse di cognizioni scientifiche sull’energia nucleare) per fare il processo ai peccati originali dell’umanità: la stupidità e l’egoismo. Per questo, sebbene il protagonista invisibile del romanzo sia uno dei padri della bomba di Hiroshima, allo spettro dei deterrenti atomici che con la loro stessa terribilità possono mascherare agli occhi di un osservatore la ragione più autentica della potenziale catastrofe, Kurt Vonnegut sostituisce la minaccia irreale ed estremamente improbabile del ghiaccionove, che non può costituire condizione di autentico panico e che quindi concede al lettore la possibilità di analizzare con maggiore distacco e freddezza il problema di fondo.
Nonostante la sua apparenza aneddotica, addirittura dispersiva, Ghiaccio-nove è forse il romanzo più rigorosamente logico della science fiction: tutti i particolari, sparsi con simulata disattenzione fin dalle prime pagine, hanno un peso precalcolato con cura nell’economia della vicenda. E i colloqui che si trascinano nella fanghiglia dei luoghi comuni attorno ad argomenti che vanno dalle armi a fissione nucleare fino agli ornamenti multicolori per l’albero di Natale, i paesaggi irremissibilmente desolati, sia la città industriale di Ilium sotto il nevischio sia il panorama squallido dell’isola di San Lorenzo prima e dopo la catastrofe, i personaggi visti con impietoso sarcasmo (persino quelli più gentili, più accettati dall’autore, come il vecchio Bokonon, come i coniugi Minton che sembrano rappresentare l’ultimo baluardo del buon senso e della mitezza in un mondo dissennato) non hanno, d’altra parte, quelle sfumature moderatamente fantastiche che mitigano, a ben guardare, anche le più feroci satire sociologiche di Frederik Pohl, di Robert Sheckley, di William Tenn, di Robert Silverberg, di Philip K. Dick, di Lester del Rey, di Fritz Leiber, allontanandole da noi nel tempo in una prospettiva di un mondo avvenire. Il mondo di Ghiaccio-nove è totalmente il mondo di oggi: ed è, nel giudizio di Vonnegut, un mondo in cui sembra diventare suprema saggezza la rinuncia volontaria a ogni saggezza, l’accettazione di una falsa religione che proclama, come suo dogma fondamentale, la propria assoluta e programmatica falsità. Non che questa sia, ovviamente, la reale posizione ideologica di Kurt Vonnegut, che sotto questo punto di vista si allinea invece con i canoni della migliore sciencefiction antiutopistica, prospettando cioè una ipotesi negativa nell’intento di indurre il lettore a riflettere e addirittura a operare perché l’ipotesi non si verifichi (e in questo consiste la differenza cardine fra la science fiction sociologica di oggi, discendente da Huxley e da Zamjàtin, rispetto alla grande tradizione utopistica del diciottesimo secolo, da cui alcuni vorrebbero farla discendere). D’altra parte, Vonnegut è anche l’autore di uno dei migliori e più accorati racconti che la science fiction abbia dedicato al problema della necessità di una soluzione pacifica ai grandi problemi mondiali, Manned missiles, che è la corrispondenza tra i genitori dei due primi astronauti, sovietico e americano, morti in orbita.
Dotato di tutti i requisiti fondamentali di ogni autore di sciencefiction degno di questo nome (e anche d’una preparazione scientifica di considerevole livello, condizione non ultima per uno sciencefictioner di vaglia) Vonnegut propone una soluzione rivoluzionaria per questo particolare genere letterario, portandolo alla sua massima semplificazione ed essenzialità ed aggiungendovi, per contro, una dignità letteraria che di rado si riscontra in questo tipo di narrativa: anche sotto questo profilo, tuttavia, sembra opporre ad alcune tendenze confusionarie, specie continentali - che per dare “dignità letteraria” alla science fiction intenderebbero soffocarla sotto i più vieti luoghi comuni della sottoproduzione del mainstream - una linearità spoglia, quasi secca, che costruisce fatti su fatti anziché parole su parole: basterebbe ricordare l’esemplare sobrietà ed efficacia con cui Vonnegut descrive, in pochissime righe, la catastrofe decisiva, la trasformazione del mare in una irreversibile distesa perlacea di ghiaccio-nove, la conversione del tiepido cielo tropicale in un groviglio verminoso di tornado pronti a divorare la terra.
Indubbiamente è troppo presto per poter prevedere con ragionevole approssimazione l’influenza che i romanzi di Kurt Vonnegut potranno avere nella evoluzione futura della science fiction: così come sarebbe stato difficile, intorno al 1940, stabilire se la rivoluzione ideologica avviata da Isaac Asimov, da Henry Kuttner e da Clifford D. Simak avrebbe avuto la portata che poi in effetti ebbe, annientando la tradizionale fantascienza fantastico-avventurosa di tipo popolare per sostituirvi una narrativa più tecnologicamente impegnata che aveva già in sé le premesse per la successiva e rapida evoluzione in senso sociologico. Tuttavia sembrano esistere le condizioni perché l’apertura operata da Vonnegut non si esaurisca: se non altro, è possibile che la sua narrativa costituisca un avvio positivo verso una futura - e possibile - saldatura fra la letteratura di science fiction e la letteratura del mainstream, portando la prima a un livello stilistico superiore e la seconda a una più vasta disponibilità e scelta di temi.