giovedì 6 febbraio 2020


IL BELL'ANTONIO
Vitaliano Brancati

XXXI Edizione
 Valentino Bompiani & C.S.P.A.

« ...ahi, lice in terra
Provar felicità. Ciò seppi il giorno
Che fuso io ti mirai...»
Leopardi

Capitolo 1
« Il fallait effort pour cesser de le regarder. »

« And away to Saint Peter for the heavens; he shows me where the bachelors sit,
and there Uve we as merry as the day is long. »
Shakespeare

Dei siciliani scapoli che si stabilirono a Roma intorno al 1930, otto per lo meno, se la memoria non m'inganna, affittarono ciascuno una casa ammobiliata, in quartieri poco rumorosi e frequentati, e quasi tutti andarono a finire presso insigni monumenti, dei quali però non seppero mai la storia né osservarono la bellezza, e talvolta addirittura non li videro. Che cosa non saltò il loro occhio ansioso di scorgere la donna desiderata in mezzo alla folla che scendeva dal tram? Cupole, portali, fontane... opere che, prima di essere attuate e compiute, tennero aggrottate per anni la fronte di Michelangelo o del Borromini, non riuscirono a farsi minimamente notare dall'occhio mobile e nero dell'ospite meridionale! Antiche campane, dalla voce grave e delicata, che si erano meritate i versi di Shelley e di Goethe, si guadagnarono un « Chi camurria, 'sta campana! Che seccatura, questa campana! » per aver fatto tremare all'alba, coi loro rintocchi, la parete su cui il giovanotto poggiava la fronte da poco addormentata c ancora rosseggiante del disegno di una bocca.
Per il rispetto che il mio mestiere di cronista deve alla verità, dirò che questi scapoli siciliani erano piuttosto brutti, fuorché uno, Antonio Magnano, che era bellissimo. Con questo non voglio però affermare che i brutti riuscissero sgraditi alle donne: al contrario molti di essi, nonostante la bassa statura, e i nasi ebraici, e l'unghia del mignolo lasciata crescere per pulire l'interno dell'orecchio, parevano legati da una grave complicità a tutto il genere femminile; si sarebbe detto che fra loro e qualunque donna ci fosse una cattiva azione compiuta insieme chissà dove e quando : non v'era sconosciuta che, al primo vederli, non sembrasse riconoscerli impallidendo e rivelarsi subito legata a loro da vecchi e inconfessabili trascorsi. Per questo, i loro successi avevano sempre un'aria esosa di ricatto, sebbene, posso giurarlo, questi uomini di venticinque e trent'anni fossero di una cortesia e una tenerezza senza pari nei riguardi dell'altro sesso. Ma sulla terra piena di misteri, il vivente più misterioso è forse l'uomo brutto.
Di ben altra qualità erano invece i « successi » di Antonio Magnano. Nel 1932, egli aveva ventisei anni, e le sue fotografie, esposte in Piazza di Spagna, arrestavano perfino la signora di mezza età, carica di pacchetti e traente, con la stessa mano che l'aveva picchiato, un marmocchio tutto in lacrime. Un'istantanea dolcezza si partiva dal suo volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi, nel primo contorno delle guance su cui le lunghe ciglia trattenevano a volte la loro ombra. La donna più inquieta e isterica, accanto a lui taciturno, veniva presa da quello sbadiglio che scarica i nervi e spinge ad alzarsi dalla sedia per sdraiarsi sul divano, ad alzarsi dal divano per sdraiarsi sul letto. Un osservatore superficiale e invidioso avrebbe potuto consolare se stesso dicendo che le donne si annoiavano stando insieme ad Antonio. Quale inganno grossolano! Le donne si sentivano dominate e, insieme, a loro agio completo e perfetto: accanto a lui, bruciavano dolcissimamente, e soffrivano, e impazzivano con una soavità si profonda da far pensare che una grave anomalia si fosse impadronita di esse confondendo il piacere e il dolore in quella totale mancanza di discernimento, che è il solo stato in cui una persona osa dire a voce alta: io mi sento felice!
Gli amici brutti rispettavano Antonio, e lo avrebbero anche invidiato, e forse odiato, se, indotti e contagiati dalle donne che frequentavano, anch'essi, senza saperlo, non fossero stati innamorati di lui. Il segreto di quei successi, così diversi dai loro, anzi del tutto opposti, perché mentre le loro vittorie sulle donne parevano strappate in seguito a una mala azione, quelle di Antonio al contrario parevano derivare da uno strano conforto ch'egli comunicava alle sue vittime; il segreto di quei successi li attirava a tal punto che essi caricavano la sveglia per le cinque per uscire di buon mattino e sorprendere Antonio nel momento in cui prendeva la doccia. Qui li aspettava ogni genere di amarezze. Davanti a quelle membra di atleta, addolcite da un pallore di malinconia e mansuetudine, come se, ovunque si trovasse quel corpo, una luce misteriosa venisse a piovergli dall'alto, gli amici, specialmente Luigi d'Agata e Carlo Fischetti, erano assaliti da un malessere nel quale torbidamente si nascondeva la nausea per se stessi.
« Sai che cosa pari ? » gli dicevano per usare subito la voce che, conservata in quei petti angosciati, minacciava di diventare cattiva: « un biscotto appena sfornato! » E si davano ad assestargli manate sulle spalle nude, e a tirargli i peli del petto, e a sollevargli un piede afferrandolo per la caviglia, con l'effetto però di esser penetrati e turbati dalle sensazioni di quel corpo, infinitamente strane e di una qualità innegabilmente superiore.
D'altro canto, questi turbamenti, Antonio li aveva emanati fin da ragazzo; era il 5 aprile del 1922 quando la madre e il padre furono costretti a rendersene conto. Quella mattina, la cameriera, una giovane di campagna, entrò nella camera dei genitori di Antonio, il signor Alfio e la signora Rosaria, con la faccia graffiata e coperta di lacrime. « Madonna benedetta, che hai fatto? » esclamò la signora, togliendole il vassoio dalle mani tremanti, « che hai fatto? parla! »
La ragazza abbassò la testa, guardando storta come una capra. Alla fine disse:
« Non sono stata io! »
« E chi è stato dunque? » fece la signora, più angosciata che mai.
« Suo figlio! » mugolò la ragazza. « Antonio? » gridò il padre, tirando fuori dal letto le gambe a cui aveva già infilate, armeggiando sotto le coperte, le mutande di lana.
« Ora lo aggiusto per le feste! »
Ci fu un minuto di silenzio. D'un tratlo la ragazza piombò sul pavimento e cominciò a storcersi con la schiuma alla bocca, afferrandosi alle gambe del signor Alfio come se volesse trattenerlo dal compiere un delitto. In quel punto entrò nella camera Antonio con l'aria più dolce e candida clic si potesse immaginare. Subito la giovane lasciò le gambe del signor Alfio e, rotolando sul pavimento, andò ad afferrare le caviglie di Antonio che si mostrava sinceramente stupito e chiedeva con gli occhi ai genitori la causa di quella sfuriata. La giovane, intanto, calcava la faccia sui piedi di Antonio, dopo averne però, particolare questo che colpì sgradevolmente i genitori e quasi li indignò, strappato e gettato via le pantofole in modo da potergli piangere, e strofinare le guance e il muso, sulla pelle nuda. « Perdono! » gridava,
« bugiarda sono, bugiarda e porca! »
Fu con molta fatica che il padre strappò Antonio dalle mani e dal mento serrato contro la spalla di quella ventenne fuori di sé.
La madre, rimasta sola con lei, apprese finalmente la verità: da cinque notti, la brava ragazza di campagna si alzava dal letto e andava a stracciarsi il petto e la faccia dietro la porta di Antonio, fra il desiderio di aprirla e la riluttanza a compiere un atto disonesto. « Chi mi mise questo fuoco grande nelle vene? » mugolava col dorso della mano fra i denti, « chi mi mise questo fuoco grande nelle vene? » La signora rimase colpita da questo pietoso racconto e si recò subito dal proprio confessore, nella chiesetta della Madonna in via Sant' Euplio. Dopo avergli narrato l'accaduto, domandò quasi piangendo: « Padre Giovanni, non è meglio che io prenda un bambino per i servizi di casa e mandi via la ragazza? »
Il vecchio sacerdote batté due volte la punta delle dita sulla tabacchiera, e sporse il muso: « Se vostro figlio ha cattive intenzioni, troverà sempre da far male alle donne!»
(Padre Giovanni non voleva ammettere che Antonio fosse del tutto incolpevole).
« E non si potrebbe raccomandare alle donne di?... » « Di ?... » fece il prete irritato.
« Di comportarsi più seriamente con lui! »
« Conoscete voi tutte le donne che conoscerà vostro figlio? Dio potrà mandare ogni volta un angelo ad avvertirvi che a vostro figlio sta... sta... e via si: sta per salire il sangue negli occhi? »
« Ma allora cosa devo fare? »
Il sacerdote sapeva bene di nutrire nei riguardi di Antonio sentimenti non perfettamente cristiani, ma purtroppo, quando prendeva la china della collera, non riusciva a resistere a quella piacevole sensazione che dà il vuoto spalancato sotto i piedi e che tira giù inesorabilmente.
« Voi », disse alla madre, « dovete pregare Dio che se lo raccolga presto! »
La signora svenne quasi dalla paura, e l'angelo di legno colorato, al cui zoccolo ella aveva poggiato la testa, cominciò a sussultare dei singhiozzi di lei.
« Quando io predico », disse il sacerdote, « e vostro figlio si trova seduto in fondo alla chiesa, le donne stanno sempre a collo torto per guardare lui... È uno scandalo! »
In verità non appena Antonio, ai piedi della prima colonna, smuoveva la sedia o solamente tossicchiava, subito il pulpito si svestiva degli sguardi più belli.
« La morte », continuò il prete, « non è un male per un vero cristiano; anzi, quando ci coglie nel fiore della giovinezza, è un dono del cielo... Ma non siamo noi che dobbiamo suggerire a Dio il modo migliore per mettere un giovane come Antonio nella condizione di non peccare più e... » aggiunse alzando la voce, « ... di non spingere gli altri al peccato. Perché la peggiore cosa che possiamo fare non è dannarci, cara signora: è spingere alla dannazione un'altra creatura sulla quale non abbiamo alcun diritto! Pregate Dio, signora: nella Sua infinita sapienza, Egli troverà il mezzo per mitigare la diabolica bellezza di vostro figlio senza trasformarla in pulvis et umbra »
La signora si alzò, non senza essersi segnata nel momento in cui il sacerdote pronunziava la parola diabolica. Se la chiesa non avesse rigurgitato di ori e di luci gialle, il viso di quella povera donna avrebbe intenerito il prete per il suo estremo pallore.
« In che modo credete » disse faticosamente, « che il mio Antonio possa venir cambiato da Dio? »
Il sacerdote non rispose nulla, ed essa camminò accanto a lui ascoltandone il rumore del passo col rapimento di chi è stata completamente sopraffatta. Giunti vicino al portale della chiesa, il prete alzò la mano ancora stillante di acqua benedetta, e mormorò : « Potrebbe anche perdere la vista ! » La signora portò un braccio alla bocca per non gridare.
« Venite qui » disse il sacerdote, ripreso dal cipiglio della collera. E condotta la signora sul sagrato, dopo aver masticato tre volte una parola incomprensibile, stirando indietro le labbra si da alterarsi anche la forma del naso, scoppiò in queste parole: « Ma lo sapete voi, lo sapete voi che su venti ragazze di buona famiglia che si confessano con me, dieci... si, dieci, hanno offeso Dio perché hanno pensato a vostro figlio troppe volte e in un modo non troppo conforme alla loro educazione?
Monsignor Cavallaro, tre giorni dopo aver confessato mia nipote, mi ha detto :
« Fratello, fa' in modo che Rita non veda spesso il giovane Magnano !
 « Amico  ho detto io, preoccupato, — sai tu qualche cosa?
« Io non so nulla di nulla — ha risposto monsignore. — E come potrei sapere io, povero sacerdote? Ma il Signore mi ha ispirato queste parole, e io te le ho dette... — Degnissima persona, monsignor Cavallaro che uscisse dai sotterranei dei palazzi ad annunziare che incominciava il riscaldamento per il nuovo inverno.
« Perdio » diceva, « quest'anno, eh quest'anno!...» E si stropicciava con forza le mani, poi vi alitava dentro, e infine andava a guardarsi nello specchio di un negozio scoprendo immancabilmente che accanto a lui una donna stava a guardarlo con tenerezza. Antonio socchiudeva gli occhi beato e balbettava : « Facciamo colpo, eh ? »
Ma nell'autunno del 1934, una subitanea quanto strana malinconia s'era impossessata di lui. Questa malinconia, sulla fine di novembre, prese tutti i caratteri della tetraggine.
« Fai cascare il pane di bocca! » gli diceva, mangiando insieme a lui, l'amico d'Agata. « Che hai? Cosa ti manca? Tuo padre non ti manda più i soldi? »
« Poveretto! » mormorava Antonio, « farebbe carte false per mandarmeli! »
« Hai avuto brutte notizie sulla faccenda del posto? »
« Non me ne importa niente, del posto ! »
D'Agata a bruciapelo : « Prendesti qualche malattia? »
Antonio : « No, sto bene ». Lunga pausa. « Sto bene ».
« E allora, santo Dio, finiscila di farci scurare il cuore con quel muso! »
« Finitela voi, piuttosto! Lasciatemi perdere! »
« Non ti dirò più nulla... Oh, guarda un po' : non ho figli e devo piangermi i nipoti! »
Cosi gli amici stabilirono di non rivolgergli più domande.
Il due dicembre, la signorina Luisa Dreher, figlia di un diplomatico, la più bella ragazza straniera che si trovasse a quel tempo in Italia, andò a trovare Antonio alle dieci del mattino. La visita non era stata sollecitata da chi la riceveva né annunziata da colei che la faceva. Nelle sue passeggiate con Luisa Drcher, Antonio non si era nemmeno sognato d'invitarla a casa, talmente un invito simile gli sarebbe parso una sconvenienza verso quelli che dovevano procurargli un impiego immeritato. E frattanto eccola li, questa ragazza mirabile, seduta su uno sgabello, torcendo un fazzoletto di velo fra le mani piccole e ancora colorate di sole estivo!
Antonio non dice nulla.
La ragazza, piegato il volto a destra, si guarda la punta del piedino che nervosamente picchia sul tappeto.
Antonio continua a tacere.
D'un tratto, squilla il telefono nell'altra stanza.
Antonio corre a rispondere, dopo avere richiuso dietro di sé la porta del salotto :
« Pronto ? »
« Sono io, d'Agata. Luisa Dreher è a casa tua ? »
« Come lo sai ? »
« Ah, dunque è vero : è a casa tua ! »
« E per ciò ? »
« Guarda che ieri l'altro hanno dato un ricevimento nella sede dell'Ambasciata. Le ragazze si sono ubriacate e hanno fatto pipì nei vasi da fiori! »
« E per ciò ? »
« Perciò, non fare il minchione! »
Antonio chiude rudemente il telefono e torna in salotto.
Luisa si sta passando la punta di un dito vicino alla bocca per deviare una lacrima che era in procinto di penetrarvi.
« Perché piange? » fa Antonio.
Luisa si alza di scatto, gli butta le braccia al collo e, appoggiandogli una guancia sul petto, « Ti voglio bene! » singhiozza, « Ti voglio bene!... »
Antonio le accarezza i capelli guardando pigramente, al di fuori della finestra, l'intensa luce verde che Villa Borghese riverbera dentro il cielo.
« Non voglio nulla da te! » continua Luisa, fra i singhiozzi, « non voglio essere sposata!... Hai dimenticato a casa mia una lettera di tuo padre: l'ho letta ».
« Quale lettera? » esclama Antonio.
« Una lettera in cui tuo padre ti dice che devi subito recarti a Catania per conoscere la signorina che ti vogliono dare in moglie ».
« Non sai leggere la calligrafia di mio padre ! » balbetta Antonio. « Io stesso non riesco mai a decifrarla... »
« Ma non è per questo che piango... Non ti voglio sposare, te l'ho detto, io basto a me stessa e non voglio sposare nessuno ».
« E allora ? » chiede Antonio con la voce alterata.
« Ti voglio bene, ti voglio bene ! Capiscimi, santo Dio: ti voglio bene! » Antonio si fa pallido come un morto, e siede, casca quasi, su un divano.
La ragazza gli scivola accanto, col profumo tenero dei suoi golfetti d'angora e del collo incipriato. Scossa dai singhiozzi, gl'insinua fra il mento e il collo la bellissima fronte, sulla quale, nei ricevimenti delle Ambasciate, brilla sempre una crocetta di diamanti; con la manina spaventata gli cerca il cuore sotto la vestaglia come a sentire se sia capace di battere.
Il cuore di Antonio galoppa come un cavallo. Altro che battere ! In groppa a questo cavallo sfrenato, egli vola verso l'angoscia più nera.
Luisa non sa più quello che fa, ha perduto ogni capacità di comandare a se stessa, sente che la sua mano vergognata e spaurita erra dissennatamente sotto la vestaglia di Antonio.
« Non ti chiederò niente! » singhiozza. « Sta' sicuro, sta' tranquillo! Non avrai da me nessun fastìdio ! Sono una donna seria ! Non sono come le altre ! »
« Eppure » dice egli, appigliandosi al partito disperato di fare il forte e il cattivo, e stringendola per i polsi in modo da scostarla un poco da sé e guardarla nel viso, « tu sei come le altre! »
Luisa aggrotta le ciglia, disseminando di amabili rughe giovanili l'orlo degli occhi e il naso : « Cosa vuoi dire? Non sai quello che dici! » E poi precipitosamente: « Io sono ragazza, cosa credi? sono ragazza, sono ragazza! »
Antonio si sforza di sorridere ironicamente, cosa che gli riesce molto sgradita e fastidiosa, perché è un bravo giovane e sa distinguere un parlare sincero da uno falso.
« Il più gretto e ridicolo dei tuoi compaesani » continua Luisa con voce più lenta e sorda, « se sposasse me non avrebbe nulla da ridire. So che le donne della tua Isola, quando vanno a passare la prima notte di matrimonio negli alberghi di Taormina, strillano come galline a cui si tiri il collo. Io non strillerei nemmeno se tu mi ammazzassi, ma insomma... avrei il diritto... Perché impallidisci? cos'hai? aspetti qualcuno? chi c'è dietro quella porta? »
Il volto di Antonio si colora un poco : dalla porta, che dà nella camera da letto, è venuto un leggero rumore, come di una persona che vi si fosse appoggiata dall'altra parte.
« C'è una donna, di là ? » chiede Luisa, abbassando la voce.
« Si! » fa lui, e china il capo.
Luisa ridiventa padrona di sé. Si alza dal divano, prende la borsetta da un tavolo, ne cava uno specchio, vi mira gli occhi diventati color ferro, asciuga e cancella le lacrime con due colpi di piumino.
« Addio » dice, « addio, scusami ».
Ed esce.
Antonio si precipita alla porta della camera da letto, la spalanca, e riceve quasi sulla bocca un bacio del can barbone che, impaziente di rivederlo, ha spiccato un salto verso di lui con un guaito strozzato nella gola.
Antonio lo afferra per le orecchie, e cerca di fermare e calmare, dopo averla scossa, quella testa impazzita dalla gioia, che lo saetta, di mezzo al pelo ricciuto, con sguardi di adorazione; poi si allunga sul divano e si colloca il cane sul petto e la pancia facendolo sdraiare in modo che dal muso, affondato fra le zampe anteriori, ogni tanto, con un colpo di lingua, cerchi di lambirgli il mento che egli scansa destramente alzandolo in aria.
Cosi passano alcune ore. Il cielo di Villa Borghese si fa sempre più cupo, e un corvo entra ed esce dalle nuvole gettando, a ogni curva del suo volo, una molle gracchiata.
Antonio solleva piano piano il cane appesantito dal sonno, lo depone sul tappeto e, dopo essersi stiracchiato due volte, finalmente si alza. Manda uno sguardo alla finestra: al di là del Pincio la nebbia è più fitta come se il Tevere offuscasse il cielo col vapore del suo fiato; gli edifici, che s'intravedono fra gli alberi di villa Borghese, paiono più gialli del consueto; giù in istrada, il solito questurino, vestito da giovanotto che aspetta la ragazza, impalato sotto lo spigolo di via Pinciana con via Sgambati, sta a capo scoperto leggendo, dentro il cappello che tiene in mano, il solito romanzo d'amore che lo consola della lunga noia di vegliare sulla vita di un uomo che passa velocissimo con la sua macchina una volta ogni due mesi.
« Dio, com'è triste Roma! » pensa Antonio, e indossato il soprabito, e rimenata un poco la pancia del cane che, aspettando quella carezza, stava già rovesciato sul dorso con le gambe in aria, esce di casa.
In questo modo ebbe termine la prima parte di una giornata che Antonio avrebbe ricordato per molti anni.
Non so se quel giorno stesso, ma probabilmente l'indomani, Antonio si recò dallo zio Ermenegildo Fasanaro, fratello della madre, che abitava nei quartieri nuovi della città.
Lo zio camminava su e giù per il salotto, con la camicia di seta fuori dei pantaloni e la cravatta, non ancora annodata, pendente in due liste sul petto arrotondato dai cinquant'anni.
« È' meglio che tu ritorni a Catania! » diceva lo zio, fermandosi ogni tanto contro la finestra e coprendo con la propria persona ora il gomito che fa il Tevere nei pressi di Villa Glori, ora il pendìo di Villa Glori. « Cosa fai a Roma? vuoi scoprire se quella cosa ha un fondo? Non ne ha fondo, te lo assicuro. Ci stai giorno e notte sopra, e ti consumi come una candela! hai la faccettina stretta e caschi sempre dal sonno come un gatto ch'è stato fuori tutta la notte!... Che diavolo! con le donne bisogna sapersi risparmiare! dargliela a intendere! È facile ingannarle, a uno che abbia un po' di giudizio! Sono sicuro che sei di quelli che darebbero un patrimonio pur di raggiungere ogni notte una cifra alta... È cosi o mi sbaglio? »
« Ma io in verità... »
« Per un verso, badiamo, hai ragione tu. Le donne, con una mano d accarezzano e con l'altra contano. Ma è cosi facile, santo diavolone, dargliela a bere! Ci vuole soltanto un po' di abilità! Non che non ci siano anche le furbe, che stanno attente alle minuzie, ma è la furberia della sciocca, perché la donna intelligente sa che bisogna badare a ben altro. Devi saperti fermare : ecco tutto... Il contrario di quello che dice il Porco che ci governa... A proposito, è vero che ha un'ulcera allo stomaco? »
« Non lo so, zio! »
« Dicono che abbia un'ulcera allo stomaco... Anzi, ieri, mentre sedevo in un caffè, ho sentito, a un tavolo accanto al mio, un ufficiale di Marina che diceva a bassa voce a un suo collega: — Siamo a cavallo: è cancro, non ulcera! — Sono sicuro che parlavano di lui... No? dici di no? »
« Non ho detto niente! »
« Perdio, tu non t'interessi di politica, non te ne importa un fico secco!... Scommetto che non hai letto Carlo Marx? »
« No ! »
« E non lo leggere! Dato che non l'hai letto a trent'anni, non lo leggere più: lascialo stare dov'è! Ai nostri tempi, lo leggevamo. Cioè: non lo leggevamo nemmeno noi, ma ne parlavamo come se lo avessimo letto... Socialismo! abolizione della proprietà!... Cosa ne pensi? Sarà possibile abolire la proprietà? Io non ci credo. D'altro canto, siamo diventati schiavi di tutto quello che producono le masse: elettricità, radio, telefoni, ferrovie, tranvie. Essendo schiavi di queste cose, ne viene che siamo schiavi delle masse. E queste masse, per i loro diavoli, diventano buone buone e lavorano felici e contente solo col fascismo o col comunismo. Non appena gli dai la libertà, diventano infelici, cattive e turbolente, e tanto si dimenano che la fanno a pezzi e se la mettono sotto i piedi... Sei d'accordo? »
« Si, zio! »
« D'altro canto, se la maggior parte degli uomini vuole il socialismo, è inevitabile che il monde divenga socialista ».
« Può darsi ».
« Può darsi e non può darsi. Non è la prima volta che la maggior parte degli uomini desidera una cosa, e la storia ne fa un'altra ».
« Può darsi anche questo ».
« Che cosa può darsi ? »
« Che la storia faccia un'altra cosa ».
« E che cosa? »
« Io non lo so ».
« D'altro canto, i ricchi, mi ci metto anch'io fra questi, siamo antipatici ».
« Ma tu, zio... »
« Credi a me : siamo antipatici, siamo stupidi, siamo viziati, e ci annoiamo. Non si può continuare sino alla fine dei tempi coi ricchi da una parte e i poveri dall'altra! Io lo sento, perdio, che non si può continuare cosi! »
« Chi può dire nulla ? »
« D'altro canto, a chi affidi il capitale? allo Stato? Parliamoci chiaro: lo Stato sono gl'impiegati. Dio ne scampi e liberi! Gl'impiegati, a parte che in Italia sono tutti ladri... No, è inutile che fai cosi con la testa, sono tutti ladri! »
« Io non mi sono mosso, zio! »
« ...Gl'impiegati, in ogni parte del mondo, quando sono investiti di un'autorità assoluta diventano tali tiranni che al loro paragone gl'imperatori romani fanno la figura dei bambini... No, il socialismo sarebbe il medioevo! »
« Oh, certo! »
« D'altro canto, come il medioevo c'è stato una volta, può esserci anche due volte...» « Eh, sì! »
« D'altro canto, perché ci dev'essere di nuovo il medioevo? Chi l'ha stabilito? chi l'ha decretato?... Siamo noi stessi che ci mettiamo in testa certe cose e le scambiamo per verità, come quando gli uomini si misero in testa che la notte del Mille ci sarebbe stata la fine del mondo — che poi non ci fu... No, non credo che ci sarà di nuovo il medioevo ! » « Non ci credo nemmeno io ».
D'altro canto, quello che abbiamo oggi in Italia non è una specie di medioevo? » « Non so... »
« Si, che lo è! Ninuzzo mio, solo il cancro può salvarci, se farà presto! »
« Dicono che abbia un'ulcera sifilitica, non cancro! »
« E me lo dici ora?... Perdio, siamo rovinati! Una ulcera sifilitica scompare con due iniezioni... D'altro canto, se muore lui, che succede? chi prende il potere ? i quattro ladri che gli stanno attorno ? si ammazzano a vicenda nella spartizione del bottino. I comunisti che stanno in carcere? sarebbero peggio dei fascisti. Perché questi almeno sono dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa le fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi e le bestialità le fanno bene... »
« Già, è vero! »
« D'altro canto, io parlo del comunismo con troppa leggerezza. E se fosse una cosa seria e utile? »
« Dicono che... »
« Dicono che, un bel nulla ! Anche se il comunismo è utile — e ti assicuro che non lo è! — io mi ribello, perché è immorale, in quanto sopprime la libertà... » « Volevo dire questo ».
« D'altro canto, chi altri può prendere il potere se muore lui ? I vecchi che ora se ne stanno a casa e credono di non compromettersi solo perché non leggono né giornali né libri e giocano a scopa tutto il giorno? sono vecchi e non sanno governare le masse... »
« Certo, senza dubbio ».
« D'altro canto, vadano al diavolo le masse! Se loro vogliono il capestro, io non lo voglio! E io conterò qualche cosa, perbacco, almeno per me?... E d'altro canto, quello che ho detto è forse tutto sbagliato perché nel '22, tu non te lo ricordi, gli operai tornavano già a lavorare tranquillamente, e gli scioperi si facevano sempre più rari, quando il Porco tolse la libertà sia agli operai che a noi. No, Antonio, gli operai italiani sono come i borghesi e amano la libertà. È lui, il Porco, che vuole farci credere che essi non l'amino! Di' a tua madre che preghi per la morte di lui, invece di pregare perché non ti vengano i geloni alle mani ! Che crepi al più presto, prima che crepi io di noia e di schifo ! Ieri me ne hanno detta una che, se è vera, non vale la pena più di campare. Nomineranno segretario federale di Catania Lorenzo Calderara. È' vero? » « Credo di si ».
« Calderara, il figlio del Pintu (1), il nipote di Panciadicrusca, 'u frati d' 'u Sceccu ! ? (2) Dio, Dio, Dio ! Una città che ha avuto De Felice, Macchi, Verga, Bellini, Angelo Musco, Giovanni Grasso, Capuana, il mio amico De Roberto, si riduce cosi, sotto i piedi di Lorenzino Calderara, 'ntlsu 'U Zuccu (3), un gesuita, uno stomaco lento che non gli si può stare vicino, una bestia col pelo sul cervello al quale un giorno gli amici sono riusciti a far credere che nelle farmacie si vendevano i guanti di ferro? »
« Che guanti? »
« Andiamo, Antonio!... Ma d'altro canto, che doveva farsene lui? Un incapace che...»
Antonio divenne bianco come un cencio e poggiò il capo sullo schienale della poltrona, fissando in faccia allo zio due occhi miseramente affievoliti. « Che hai ? » disse lo zio, « che ti piglia ? »
Antonio serrò gli occhi con forza e, chinata la testa in avanti, appoggiò le palpebre al pollice e all'indice di una mano, intanto che con l'altra faceva cenno allo zio di stare zitto, che non c'era da preoccuparsi, che stava per passare.
« Tu, figlio mio » riprese a dire il gentiluomo, quando Antonio sollevò la testa e l'adagiò con gli occhi chiusi sulla spalliera, « devi metterti la strada fra le gambe e tornare diritto filato a Catania! Qui, se rimani ancora, le donne ti mangiano vivo con tutti i vestiti che hai addosso... A me, sì, che sono vecchio, non mi danno abento: figurati a uno che ha i tuoi anni e la tua... sì, insomma, la tua simpatia!... La tua faccia, così spolpata com'è, se la leccano come una caramella... Ma lasciamo stare! Parliamo di cose serie! Conosco Barbara Puglisi, la ragazza che ti vogliono dare in moglie : le ho sentito suonare il violino la sera che il suo zio monaco festeggiò le nozze d'argento con la Chiesa. Non ti dirò che suoni superlativamente... Ma d'altro canto, che te ne importa? È' ricca, possiede mezza Paternò. E' stata educata in un collegio... Con questo non voglio dire che sia un genio... D'altro canto, la donna non deve essere mai un genio. Basta che non sia stupida. E se anche fosse stupida, che te ne importa? Questa è la vita ! Su, animo ! »
Tre giorni dopo, Antonio ripartiva per Catania pedinato da un cane alto, magro e cascante che, pur fra i colpi di valigia sul muso, e pedate di chi andava affannosamente nel senso opposto, e ombrellate di vecchie signore colleriche, continuò imperterrito a seguire il bianco barbone, col quale aveva fatto una fulminea amicizia nel vestibolo, e che, legato al guinzaglio, e tratto via velocemente da Antonio, non smetteva mai di voltarsi, lui cosi bello e ben pettinato, verso quel bruttissimo ma cortese amico.
Presso lo sportello del vagone, stava ad attendere Luigi d'Agata che abbracciò
Antonio con le lacrime agli occhi, e gli disse in tono di rimprovero : « Sia lodato Dio, parti proprio ora che le cose si mettevano bene! Figurati che ieri, in casa del generale, hanno fatto un giuoco nuovo, che se lo racconti a Catania non ti credono nemmeno se gli muori davanti! si chiama il giuoco della sincerità. Tu puoi fare qualunque domanda e gli altri devono rispondere con sincerità. Alla signora Pollini, domandarono : Se qui entrassero dei briganti con la pistola in pugno, e la costringessero ad andare a letto con uno dei presenti, ci dica, per favore, sinceramente, con chi andrebbe lei? »
« E la signora ? » fece Antonio, salendo nel vagone insieme al proprio cane e affacciandosi poi dal finestrino.
«La signora » continuò d'Agata, dalla banchina, « divenne rossa come un pomodoro, chissà a chi diavolo pensava nel suo intimo, ma per non dare scandalo e non far capire i suoi pensieri, rispose mogia mogia, con quel bocchino che uno glielo avrebbe mangiato a baci: — Col signor generale! — Si, raccontala a Tòfalo! col signor generale voleva andare a letto, lei!... Poi domandarono a me: — E lei, con quale delle signore presenti andrebbe a letto ? — »
« E tu ? » fece Antonio, prendendo in braccio il can barbone in modo da fargli salutare l'altro cane che stava piantato sotto il finestrino, come avendo dimenticato per quale ragione si fosse spinto fin li e non trovando alcuna ragione per tornare indietro.
« Io » rispose d'Agata, e poiché il treno s'era mosso, si mise a trottare sotto il finestrino insieme al cane che gli galoppava stortamente al fianco, « io risposi: — Con la signora Bertini e con la signora Gallarati — ».
« Con tutt'e due in una volta ? » chiese Antonio.
« Sì, con tutt'e due! » gridò d'Agata, agitando da fermo un fazzoletto, ridendo con la bocca spalancata, e strizzando l'occhio destro poi il sinistro poi di nuovo il destro, velocissimamente, in modo che una almeno di quelle smorfie fosse colta dall'amico che già s'allontanava verso il Sud povero di avventure.
Capitolo 2
« ... L'auteur confondu n'ajoint qu'un mot, c'est que tous les anedoctes par Iesquelles il a prétcndu peindrc Ics mocurs sont de son invention. » Stendhal
« on cut dit qu'en faisant remarquer leurs ridi- cules, je trahissais une confidence qu'ils m'avaient faite. On eùt dit qu'en se montrant à mes yeux tels qu'ils étaient, ils avaient obtenu'de ma part la promesse du silence: je n'avais point la conscience d'avoir accepté ce traité trop onéreux. Ils avaient trouvé du plaisir à se donner
ampie carrière: j'en trouvais à les observer et à les décrire... »
Constant
«  La servitude abaisse les 'homme jusqu'à s'en faire aimer. »
Vauvenargues
La casa paterna di Antonio si librava al terzo ed ultimo piano di un vecchio palazzo del centro di Catania. Alcuni balconi davano nel cortile tutto intrigato di corde che, partendo dal casotto del portiere, andavano a scuotere i battagli di una diecina di campane, appese alla ringhiera dei vari piani e pronte a sgolarsi per chiamare la cameriera o la padrona.
Il terrazzino invece era incassato fra la parete esterna della sala da pranzo e il muro di una casa più alta, totalmente cieco e nero nel passato, ma ora interrotto da un balcone nel quale soleva affacciarsi un vecchio solenne, l'avvocato Ardizzone che però, nonostante il parlare fiorito, e la vestaglia gonfia di pieghe, e l'uso smoderato della toga, e l'indice spianato a bruciapelo sull'avversario, e, trovata ch'era parsa decisiva, un ritratto a olio, occupante mezza parete nel salone dell'Ordine degli Avvocati, e nel quale egli era raffigurato con quel famoso indice, puntato questa volta per cortesia verso il soffitto, e l'altra mano appoggiata a un multicolore fascio littorio, nonostante questi meriti e qualità, e l'invio di centinaia di cassette d'arance a personaggi influenti di Roma, e un carteggio accorato, violento, supplice, iroso coi segretari dei ministri, non era riuscito a farsi nominare senatore, e la notte, parlando nel sonno, gridava : « Santo Iddio, tanti sbirri con le manette in tasca, che io stesso mercé le mie amicizie ho fatto nominare questori, seggono già a Palazzo Madama, ed io, che sono io, mi hanno lasciato qui come una scopa vecchia... Viva Giolitti! » aggiungeva poi, col rischio di farsi arrestare, se il suo vicino di casa fosse stato un fanatico, « almeno ai suoi tempi queste cose non succedevano! » Il terrazzino sporgeva da un lato sul corso, la via Etnea, lunga tre chilometri, fragorosa di vecchi tram, di frustate sul dorso di magri cavalli, di conversazioni, risate, strilli di giornalai, ribollente di scappellate, manate, gesticolamenti, urtoni, inchini; dall'altro lato, sporgeva su una breve traversa che portava dritta dritta alla facciata d'una chiesa, dalla cui altissima nicchia veniva avanti la Madonna, col manto azzurro, le dita trafitte da dieci raggi, incoronata la notte di lampade elettriche che frangevano i loro raggi nel fumo dello scirocco.
In questa terrazza, Antonio s'era addormentato le notti d'agosto, al principio del nostro secolo, col visetto riverso fra le ginocchia della mamma, sentendo il ventaglio di lei mormorare dolcemente su in alto, mentre il padre, seduto poco discosto, fumava nella pipa le spuntature dei sigari e sputava ogni momento o beveva alla brocca con grandi e rumorose gorgate, schioccando poi la lingua dalla soddisfazione. « Ah ! » diceva, « ah, perdio! non c'è che l'acqua fresca a questo mondo!.. »
In questa terrazza, fu ricevuto Antonio dalla madre e dal padre al suo ritorno da Roma: qui fu abbracciato, baciato, qui gli furono portati i biscotti, il caffè, l'uovo, il latte; qui egli raccontò con le lacrime agli occhi come il suo bel cane bianco fosse fuggito dallo sportello aperto del vagone e non fosse più tornato; qui la madre gli diede le prime,notizie della città : « il figlio di Dipaola è morto di polmonite; la zia Santina, poveretta, ha trenta pulsazioni al minuto, ma il medico sostiene che potrà vivere lo stesso cento anni ; che non ti capiti di dire per ischerzo la parola cornuto, trovandoti a parlare con l'avvocato Palermo! tu che hai questo viziaccio, come tuo padre! »
« E perché ? »
« Gli è scappata la moglie domenica scorsa con un giovane dello studio. Togli il saluto al baronello Benedettini: mentre giocava al circolo dei nobili, gli hanno visto una carta dentro la manica!.. È' morto il figlio di Zuccarello, in due giorni, che non ha avuto nemmeno il tempo di farsi la croce; il professor Callarà non mangia da una settimana, perché Dio ce ne scampi e liberi, in ogni cosa che mette nella bocca, sente il sapore della cacca : continuando cosi, morirà... »
« Diavolo ! » interruppe il padre. « Non sai parlare di cose più allegre? Vieni un po' con me, Antonio, e parliamo da uomini! »
Il signor Alfio condusse Antonio nello studio, sprofondò nel divano, la cui alta spalliera piena di scranni tintinnò di mille cianfrusaglie che minacciarono di cadere, e disse con un sospiro : « Credo di avere l'angina pectoris ! »
« Sia lodato Dio! » osservò amaramente Antonio. « Anche questo è un discorso allegro! »
« Non è un discorso allegro, ma è un discorso che ti devo fare ».
« Quante volte, papà, hai creduto di avere l'angina pectoris, e poi il medico ti ha trovato sano come un pesce? »
« Può anche darsi che non sia l'angina pectoris, ma qualcosa è!... Comunque, ho il diabete: su questo ormai non c'è discussione! Me l'ha scoperto tuo cosa... come diavolo si dice?... tuo zio, la sera che sono andato a cena da lui e bevevo troppa acqua. — Ma tu — mi ha detto, — amico mio?... È' il sesto bicchiere che bevi! Fatti l'analisi del sangue, subito, domani, senza perdere tempo! — L'indomani feci l'analisi e mi trovarono più zucchero che in un frutto candito... Non fare quel muso da funerale! Sono ancora in gamba, e se non fosse che tua madre la piglia troppo sul tragico... perdio, insomma... mi sento ancora un uomo!... Questo te lo dico perché non abbia a vergognarti di tuo padre... » Antonio arrossì fin sotto i capelli.
« Perché arrossisci ? » continuò il signor Alfio. « Io non ho avuto mai peli sulla lingua quando ho parlato con te. Sono sicuro che ti dispiacerebbe di avere per padre un rammollito, come mi dispiacqui io il giorno che mi dissero che tuo nonno pagava due tari per poter guardare nuda una tale, asciugarsi il muso col fazzoletto e andarsene via così com'era venuto... Ma aveva quasi ottant'anni... » Si fermò un momento. « Perdio, divago, divago! Questo è l'unico male che non riesco a sopportare! non ricordo mai perché ho cominciato un discorso... Ah, ecco! » disse poi, ricordando, « tutto questo discorso te l'ho fatto perché devi prendere moglie ».
« Ma papà... »
« No, niente papà! Se tu non sposi la... come si chiama? diavolo, come si chiama?... Barbara Puglisi, vuol dire che tu stesso sei la tua sventura ! » « Io non l'ho vista mai ».
« Non l'hai vista mai, perché quando una ragazza ti piace, le volti le spalle, come se ti avesse detto figlio di non so chi!... Sei uno scimunito! Io ti leggo dentro la testa, cosa credi ? Tu ti vergogni che ti piacciano le ragazze robuste con le caviglie grosse. Ma perché ti vergogni, stupido? Se vuoi saperlo, piacevano a tuo nonno, piacevano a me, e piacciono ancora a... a... a... chi volevo dire?... a me! piacciono ancora a me!... Andiamo! la... come si chiama?... Barbara Puglisi è una ragazza fatta con tutti i Sacramenti. E poi è ricca, ti vuol bene, è onesta... Ohu, cosa vuoi di più? »
« Io vorrei soltanto aspettare qualche anno ».
« Amico, hai quasi trent'anni. Fra poco, non ce la fai più... Dico per dire, perché noi siamo di buona razza, e ce la facciamo sempre. Ma una cosa è sposarsi a trent'anni e un'altra sposarsi a quaranta. A tutto questo aggiungi che io non ti posso più mantenere a Roma ».
« Ma perché sei diventato cosi povero ? »
« Fra dieci anni, avremo un giardino d'aranci che varrà quasi un milione. Ma oggi come oggi, siamo al punto che tua madre è costretta qualche volta a farsi prestare i soldi dal portiere. Ho venduto tutto quanto possedevo per comprare questo giardino, ho fatto poi un debito con la banca, e ho piantato diecimila piedi di aranci... Una ricchezza, domani!..
Ma oggi come oggi, quello che prende è cosi e quello che dà è cosi! » E fece due gesti, uno largo e uno stretto. « Però, che vuol dire ? Mi leverei il pane di bocca per lui... »
« Chi è lui ? » disse Antonio con un certo astio.
« Il giardino... Se lo vedessi, Antonio, com'è bello! È' più bello di te, cosa credi? Dico per dire... Il fatto è che ci succhia il sangue dalle vene! Chi diavolo me l'ha fatto fare a tirarmi questo peso addosso?... No, cosa vo dicendo? Benedetto il giorno che mi venne l'idea di comprarlo, benedetto il notaio che firmò l'atto!... Però io divago, divago... »
Si strinse le tempie con le dita della mano destra, poi alzò gli occhi e, tutto d'un fiato, come chi, dovendo camminare su un filo, corre dritto dritto per non cadere, esclamò: « In cinque anni che stai a Roma, non sei riuscito a combinare nulla! Ti sei mangiato già centomila lire, che mi piange il cuore a pensarci! »
« Non è colpa mia » mormorò Antonio. « Tanti giovani sono entrati nella carriera diplomatica senza concorso. A me invece tutti promettono mari e monti, e poi, quando torno da loro per sapere com'è andata a finire la mia pratica, cascano dalle nuvole come se mi vedessero per la prima volta ».
« Ma coso... li... il ministro, quel conte dei miei stivali, non ha voluto scomodarsi per te? »
« Il ministro... non ne parliamo: s'è comportato peggio di tutti ».
« Sfido io ! » gridò il padre, picchiandosi una gamba con la pipa che teneva in mano, si da riempirsi il pantalone di un rotolìo di cenere mista a brace. « Se tu gli sfruconi la moglie!... »
« Ma non è vero! » fece Antonio dolcemente.
« Non lo voglio sapere da te se è vero ! Però dico : santo Iddio, quel come si chiama?... quel conte, ha più corna lui che un paniere di lumaconi, tutti gliel'hanno fatta sotto gli occhi, e non si è accorto mai di niente! Doveva venire da Catania quel minchione di mio figlio per farlo diventare geloso! »
« Ma non è vero ch'è geloso! » gridò Antonio, questa volta rosso in viso dall'impazienza. « Non è vero che io sono l'amante di sua moglie! Come devo dirtelo ? non è vero ! »
Il padre lo guardò alzando il muso in aria. « Sia pure! » disse, « i fatti tuoi, non voglio saperli. Però, come mi spieghi che un uomo come 'u Zuccu, un rammollito, signori miei, che mi farebbe cascar la faccia per terra se fossi suo padre, diventa federale di Catania, e tu non sei capace di farti procurare, da una delle tue sgualdrinette, un tavolo e una sedia al Ministero degli Esteri? »
A questo punto, una voce solenne entrò nella stanza dalla parte della terrazza : « Gentile signor Alfio, gentile signor Alfio, mi si dice ch'è arrivato il suo figliolo dalla capitale... »
Era l'avvocato Ardizzone che chissà come diavolo si agitava sul balcone, se una frotta di uccelli passò impaurita rasente a una finestra del salotto.
« Torniamo in terrazza ! » disse il padre ad Antonio, e poi in fretta : « Guarda che l'avvocato ti crede l'amante della cosa... si... della contessa... Se ti chiede se è vero, non gli dire né si né no. Insomma non gli dire no nel modo con cui l'hai detto a me:
finirebbe col crederci! »
Usciti sulla terrazza, trovarono la madre che sbatteva un altro uovo per Antonio. L'avvocato si sporgeva dal balcone, drappeggiato nella vestaglia, con accanto la figlia Elena, una zitella di trentasei anni che, dicevano a Catania, dopo il suo viaggio in Svizzera, voleva far capire a tutti i costi di « aver già passato il guaio ».
«  Cosa ci racconta dell'Urbe ? » apostrofò l'avvocato, « che accade in quella sozza cloaca che il duce farebbe bene a bruciare da cima a fondo? I siciliani, siamo sempre mal visti, naturalmente? perché abbiamo ingegno da vendere a loro e a quelli che si sentono meglio di loro!... »
Il discorso fu interrotto da Elena che si mise a strillare fra mille moine: « Signora Rosaria, ha visto che ciglia lunghe ha suo figlio ? Ma come fa ad avere ciglia cosi lunghe?... Ma sono ventagli, quelli, non ciglia ! È' vero, papà, che paiono piume di ventagli ? »
« A questa qui, le prude!... » borbottò fra i denti il signor Alfio, e rientrò senza salutare nessuno.
Antonio invece dovette aspettare che il viso dell'avvocato da rosso diventasse pallido, segno che la vena dell'eloquenza aveva versato, almeno per quell'ora, tutto il suo sangue; dovette poi farsi baciare sulla fronte e sulle palpebre dalla madre, che agiva sotto la direzione della matura zitella esortante dal balcone con risatine nervose:
« Li lo baci ! più giù ! Vediamo se li soffre il solletico ? Più su ! Mio Dio, che barba ! deve pungere come la carta vetrata! »
Finalmente Antonio rimase solo e potè guardare a suo agio i cari tetti di Catania, quei tetti neri, disseminati di giare, di fichi secchi e di biancheria, sui quali il vento di marzo, al tramonto, sferra calci da cavallo; le cupole che, nelle sere di festa, scintillano come mitre d'oro; le gradinate deserte dei teatri all'aperto; gli alberi di pepe del giardino pubblico; il cielo della provincia, basso e intimo come un soffitto, sul quale le nuvole si dispongono in vecchi disegni familiari; l'Etna accovacciato fra il mare e l'interno della Sicilia, con sulle zampe, la coda e il dorso, diecine di paesetti neri che vi stanno arrampicati con stento. Poi entrò nella sua camera, ove il suo odore di cinque anni avanti parve fargli mille feste come un cane che l'avesse aspettato fedelmente col muso sul filo della porta... Ecco, nelle due librerie, i grandi libri nei quali aveva cominciato a leggere provando diletti sublimi che la fantasticheria amorosa bruscamente interruppe; ecco le pareti sepolte sotto quadri, stampe, arazzi, crocifissi, acquasantiere; ecco, nel mezzo della camera, una toletta con lo specchio a bilico che però bisogna stare attenti a non piegar troppo all'indietro, perché manderebbe giù, con un colpo della sua cornice, le bottiglie e i vasetti che gli stanno allineati davanti; ecco l'imbottita, la borsa di gomma per l'acqua calda, lo scaldino, il monachetto... Antonio s'addormentò supino e, dopo due ore, si svegliò con una lacrima sulla guancia. Che sogno aveva fatto ? Egli non riusciva più a ricordarlo, ma aveva una voglia violentissima, come di dar pieno sfogo a un pianto che qualcuno gli avesse strozzato in gola.
« Andiamo! » si disse, « giuro davanti a questo crocefisso della parete che non devo essere mai più malinconico! »
E la sera, per vincere la malinconia, accettò lo strano invito di un suo amico e cugino, Edoardo Lentini. A insediare Lorenzo Calderara nel suo posto di segretario federale, era venuto da Roma il vicesegretario generale del partito in persona, un uomo dal petto interamente coperto di medaglie, al quale piacevano le donne pubbliche. Scoperto questo suo debole, alcuni adulatori si eran fatti in quattro per far passare la notte nel modo più lieto a un personaggio cosi provvisto della facoltà di fare il bene e il male. Per effetto di queste premure, alle ventitré in punto, la pensione Eros chiuse il suo cancello in faccia ai vecchi clienti che si misero subito a strillare insulti e a tirar calci e sassate, finché alcuni poliziotti, vestiti da reclute, fingendo di essere ubriachi a tal punto da strofinare incoscientemente la canna delle rivoltelle sulle guance dei passanti, non li scacciarono dal vicoletto. Mezz'ora dopo, questi poliziotti, stanchi di fare gli ubriachi e di buscarsi parolacce e rumori d'ogni genere da parte dei giovani che avevano svoltato la cantonata, si ergevano sulla persona in tutta la loro ufficialità e dicevano ai passanti: « Tiriamo diritto e senza voltarci! »
« E chi dice cosa? » rispondevano alcuni di costoro, col bavero del cappotto alzato intorno alle guance.
Frattanto, nella sala da pranzo della pensione Eros, erano state accese parecchie lampade da quattrocento candele, nelle vetrine delle credenze scintillavano i piatti, i bicchieri e le oviere, mentre sui piani di marmo s'accalcavano alla rinfusa cappotti, mantelli, fez e berretti da ufficiali.
Antonio fu presentato al vicesegretario del partito come un amico della contessa K.
« Camerata » disse il gerarca, « sarà poi vero quello che dicono di te? »
« Cosa dicono ? » mormorò Antonio arrossendo, mentre Lorenzo Calderara gli sussurrava nell'orecchio : « Non t'arrischiare di rispondergli col tu ! dagli del voi!... perché non hai messo il distintivo? »
« Dicono » continuò il gerarca, « che hai una grande fortuna con le donne. E voi ? » aggiunse rivolgendosi alle quattro ragazze che gli stavano attorno in piedi, poggiando le più alte il gomito sulla spalla delle più basse e mostrando, attraverso i veli, ciascuna la propria rondine, « sentiamo il vostro giudizio! Un tipo così vi piace?»
Le quattro donne posarono per un attimo su Antonio i loro sguardi e, sebbene non giudicassero quello il momento più propizio per i sentimenti sinceri, due di esse, la più bella e la meno, ebbero in quell'attimo il tempo d'intenerirsi.
« Cosa dite dunque? vi piace un tipo come questo... » E con una mossa rapida e insolente alzò le maniche di Antonio e ne mostrò i polsi delicati, « o un tipo come me? » E si sbracciò lui, scoprendo i polsi pelosi e gonfi.
Le ragazze, per non mentire, si misero a sbarrare gli occhi su quei polsi e a gridare di esagerata meraviglia; e una gli si sedette sulle ginocchia, riuscendo a cavargli, di fra le medaglie, la camicia e la maglia, un ciuffo di peli, che essa, con un giro delle dita, annodò a forma di coda. Tutte le donne vollero tirare delicatamente quella coda, e tutti gli uomini, tranne Antonio, vollero farla oggetto di scherzi che avevano la sfacciata pretesa di nascondere, dietro il loro velo sottile, l'adulazione che contenevano.
« Non vi si può scambiare per una donna! » disse untuosamente Lorenzo Calderara.
Poco dopo, arrivarono, su grandi vassoi, bottiglie di cognac e di gin. Gli occhi cominciarono a luccicare di ubriachezza in mezzo al fumo delle sigarette. Il vicesegretario si alzò due volte per andare con la stessa ragazza e una volta per andare con la padrona della pensione, la quale però, con gentile fermezza, si rifiutò.
« Dobbiamo mandarti al confino, Nedda? » le disse Lorenzo Calderara, con un tono fra di allegria e di severità, non lasciando capire quale dei due fosse finto.
« Mandatemi pure al confino! » rispose la padrona fingendo di scherzare.
Il vicesegretario, nella sua terza uscita dal salotto, dovette accontentarsi di una delle ragazze, il cui volto grazioso s'era rapidamente imbruttito per il malumore di vedersi preferita la matura padrona.
Quando il vicesegretario tornò nella sala, col medagliere sbottonato sul petto e un braccio intorno ai fianchi nudi della ragazza, fu salutato da applausi.
« Se non è indiscreto » gli disse l'avvocato Lentini, « quanti anni avete ? »
« Eh, mio caro » rispose il gerarca, « sono vecchio!... Indovina! »
« Venticinque!... ventiquattro!... » risposero quelli che volevano fargli piacere dandogli a intendere che avesse un aspetto giovanile.
« Quaranta!... quarantadue!... » gridarono quegli altri, che volevano procurargli un piacere di qualità opposta, quello di poter smentire pubblicamente la supposizione che, per portarsi cosi in alto nella carriera politica, ci fossero voluti, almeno per lui, molti anni.
« Trentadue! » fece egli, secco.
« Perdio! » esclamarono i primi. « A vedervi cosi bravo con le donne, non potevamo attribuirvi più di venticinque anni! »
« Per bacco! » fecero gli altri, « a soli trentadue anni, già vicesegretario del  partito? »
Si parlò della giovinezza che, sotto il nuovo regime, aveva preso il « timone dello Stato » : tutti indistintamente i ministri, i podestà, i federali erano giovani, e più giovane di tutti era... Qui abbassarono la voce e, toltasi dal viso, con uno sforzo doloroso, l'ilarità dell'ubriachezza, e irrigidendosi sulle sedie al ricordo di quante volte s'eran piantati sull'attenti pronunciando quella parola, nominarono il personaggio più potente d'Italia.
Il discorso era diventato insostenibile, anche perché richiedeva un'aria di serietà che l'ubriachezza e l'eccitazione scacciavano violentemente dal volto.
Per interromperlo, un giovane ispettore sollevò di peso una ragazza e la rovesciò sulle gambe di Lorenzo Calderara che, in città, aveva la cattiva fama di non essere andato mai con una donna pubblica.
Tutti si misero a urlare e ad applaudire, mentre la ragazza sussurrava inviti su inviti appiccicando la bocca sull'orecchia di Calderara ch'era diventato rosso come un tacchino e faceva il sorriso del carcerato.
« Andiamo ! » gridò il vicesegretario, al quale erano state dette lestamente alcune parole da un tipo magro cui una sorta di fosca diplomazia, chiamata, con molta fantasia e altrettanta proprietà, anima di gobbo, induceva a star piegato quando parlava a bassa voce, « andiamo, Lorenzo, fatti onore ! Il segretario federale di Catania dev'essere un maschio!... C'intendiamo, eh ? E tu, camerata Elena, dopo, farai direttamente rapporto a me! »
Tutti, fuorché Antonio, si alzarono per strappare Calderara dalla sedia e spingerlo a uscire dalla sala con la ragazza.
« Non spingete ! » esclamava Calderara, « ehi, basta, dico! ci vado con le mie gambe!... basta! »
Gli altri guardarono il vicesegretario generale nel timore di aver passato il segno con una persona che, dal domani in poi, sarebbe rimasta sola a comandare su tutti loro.
« Lasciatelo stare ! » disse il vicesegretario, « ci va con le sue gambe ».
« Non ci va per nulla! » gridò a questo punto la padrona della pensione.
L'uscita inaspettata della signora fece voltare verso di lei tutti visi, in cui moriva, più o meno lentamente, l'espressione dello scherzo.
« Non ci va per nulla!... Oh, per la Madonna!... Dovete farmi bestemmiare?... Non ci va!...»
« Come sarebbe, non ci va ? » disse il vicesegretario. « Chi lo dà questo comando ? »
« Lo do io! » fece la donna assestandosi una manata sul grosso seno che rimase a tremolare insieme alla veste che lo copriva.
Tutù scoppiarono a ridere.
« C'è poco da ridere, imbecilli! »
Il vicesegretario si alzò dalla sedia, comprimendo il mento contro il collo e alitando con le narici pallide; a un passo dalla signora, alzò il mento e la guardò di traverso al pari di un torero che si mette di fianco per ficcare la spada nella fronte del toro, poi, fulmineamente, scaricò sulla donna un fragoroso manrovescio che la sbatté contro una parete.
La signora annaspò con le mani e s'afferrò a un arazzo che subito si strappò e cadde, sicché ella rimase avvolta in certi edifici di Roma antica e in un tratto spazioso del Tevere.
Le ragazze accorsero intorno a lei che nel frattempo era scivolata sul pavimento, e la liberarono dell'arazzo; una le mise fra i denti un bicchiere d'acqua, e glielo versò delicatamente dentro il palato come in un recipiente inerte.
Bevuto che ebbe, la donna scuoté la testa, si passò con forza il dorso delle due mani sugli occhi e guardò uno dopo l'altro gli uomini ch'erano tornati a sedersi.
« Ti sei calmata? » domandò ironicamente Lorenzo Calderara.
« L'ho fatto per te, stupido ! » balbettò la signora, seduta a terra com'era.
Calderara si levò dalla sedia, come aveva fatto poco avanti il vicesegretario generale, ma in un modo assai più buffo, e s'avanzò anche lui con la mano alzata verso la donna.
« Oh, basta, basta! » intimò una ragazza, la più bella e alta di tutte, « finiamola! » E respinse con una mano Calderara che indietreggiò barcollando.
« Che serata, Madonna benedetta! E chi ce li ha lasciati, questi qui, i morti?... Vieni, andiamo! » disse poi, rivolta ad Antonio, col tono di chi ha finito di recitare una parte ingrata e torna ai suoi veri gusti. « Andiamo noi, caro!... Oh, Dio! Voglio respirare un poco!»
Queste parole furono per gli altri come una mazzata sul cuore : non si poteva dir loro più chiaramente ch'erano inamabili e che tutti indistintamente i loro successi della serata erano stati una menzogna.
La donna aveva stretto Antonio al suo fianco e, mentre esprimeva, con l'ondulazione involontaria di quel suo fianco nudo e con i giuochi, anch'essi involontari, della mano destra, una tenerezza calda e abbondante, gettava su tutti gli altri uno sguardo altero e gelido.
« Anche per noi è stata una brutta serata, cosa credi? » esclamò, levandosi dalla sedia, il vicesegretario generale. « Andiamo! »
Edoardo Lentini, preoccupato che quel successo, troppo offensivo per gli altri, potesse procurare dei fastidi all'amico, s'interpose amabilmente : « Ma Antonio verrà con noi. Non starà certo a perdere qui il suo tempo! »
« Il tuo tempo, qui, non lo perde! » ribatté la ragazza. « Lo perderebbe con voi a fare tutte quelle stupidaggini con le quali seccate il prossimo! »
« Antonio, andiamo! Non è più possibile restare qui! » ribatté Edoardo, questa volta con voce risoluta.
« Lascialo stare ! » ordinò il vicesegretario generale, calcandosi con cura il fez sui capelli lucidi. « Non siamo mica dei tiranni che vogliamo correggere i gusti delle puttane! »
A queste parole, Antonio si sciolse dal braccio della donna e, con un gesto sicuro e indolente, acchiappò il fez sulla testa del vicesegretario generale; poi, cosa inaudita, si mise a palleggiarlo, a palleggiarlo lentamente, guardando al vano di una finestra socchiusa come se volesse buttarlo nella strada.
Gli uomini allibirono. Lorenzo Calderara si gonfiò tutto come un annegato che beve acqua, mentre il suo respiro diventava sempre più pesante e raro. Sulla bocca di Edoardo Lentini si leggevano i paternostri che egli recitava mentalmente per invocare l'aiuto di Dio sull'amico in pericolo. Soltanto le donne guardavano Antonio con un sentimento che andava a finire, come tutto quanto in esse era troppo forte, in un'espressione impudica.
Il vicesegretario afferrò con la sua mano tozza il braccio di Antonio e lo fermò; volse in giro solennemente lo sguardo; tornò a fissare Antonio; poi tutt'a un tratto, preso da un accesso di simpatia per il giovane, scoppiò a ridere.
Tutti respirarono di sollievo, tranne Lorenzo Calderara che aveva i sentimenti tardi, e non riusciva a passare bruscamente dalla collera alla gaiezza senza il rischio di un vero e proprio collasso.
« Buona fortuna, giovanotto! » disse il gerarca, riponendosi il fez sui capelli e dando un colpetto di frustino sul petto di Antonio. « Vuoi andare a Bologna come vicesegretario federale ? ti ci mando volentieri!... Le donne ti faranno diventare tisico... In ogni modo, pensaci questa notte, se pure la tua ragazza ti darà tempo di pensare ad altro... perché mi sembra animata da buone intenzioni! Dopo un anno, sarai federale!... Andiamo, camerati! »
E poiché nel frattempo s'era agganciato il mantello sotto il collo, usci impetuoso dalla sala.
Tutti i gerarchi gli si buttarono dietro, commentando e ridendo.
Capitolo 3
« ... Se ti veggo passare a tanta regale distanza con la chioma sciolta e tutta la
persona astata la vertigine mi si porta via. »
V. Cardarelli
« Spesso io ti vidi che andavi al tempio, pudica nel tuo abito da festa, e la tua
buona madre con passo solenne t'accompagnava. »
Goethe-Manacorda
La serata, trascorsa nella pensione Eros, non rimase senza conseguenze per Antonio. Il signor Alfio ne apprese i particolari in un corridoio scuro del tribunale, mentre i topi facevano un rovinio assordante nei cassoni pieni di vecchi incartamenti.
« Hai capito ? » disse poi a tavola, rivolgendosi alla moglie e fingendo di non vedere Antonio, « tuo figlio viene qui per fidanzarsi e la sera stessa va a finire in un casino!»
« È' scapolo » ribatté la madre, alludendo amaramente a chi faceva le stesse cose pur essendo legato da obblighi di fedeltà coniugale, « non deve render conto a nessuno! »
« Tu non sai fare altro che buttar veleno contro di me! Ma ti rendi conto che se un fatto simile lo viene a sapere padre Rosario, lo zio di cosa...lì, Barbara, il matrimonio va a monte ? »
L'indomani questo monaco venne a trovare il signor Alfio che, al solo sentirne il nome, fu assalito dal nervoso e dovette bere tre bicchieri d'acqua l'uno dopo l'altro.
« Ho saputo la buona notizia » disse padre Rosario, non appena si fu seduto di fronte al vecchio Magnano.
« Quale buona notìzia? » domandò l'altro sospettoso.
« Mi hanno riferito che il suo figliuolo si trova nelle grazie del vicesegretario generale del partito... »
« Non so dirle nulla » rispose il signor Alfio, temendo sempre più che il prete volesse prenderlo nella rete, « non so nemmeno se si conoscano ».
« Pare che si siano conosciuti l'altra sera... »
« Padre, guardiamoci in faccia » sbuffò il signor Alfio, già impermalito come se avesse ricevuto un rimprovero, « e spieghiamoci chiaro ! »
« Ebbene, spieghiamoci chiaro : sarei molto grato ad Antonio se volesse pregare il vicesegretario generale di farla smettere, una buona volta, al dirigente dei sindacati di Viagrande che, le assicuro, mi fa mille angherie, al punto che, lo scorso ottobre, mi mandò come vendemmiatori tutti i ladri della provincia, e non so dirle cosa non mi rubarono... tutto, anche il berretto da notte! »
« Oh, se non è che questo? » esclamò soddisfatto il signor Alfio.
« Perché, cosa s'aspettava d'altro ? »
« Niente, niente! » fece il vecchio Magnano, « credevo... insomma, niente! » Il colloquio col monaco fu riferito dal signor Alfio fra taluni brontolii che lo resero incomprensibile.
Antonio ascoltava pensando ad altro, finché il padre sputò la saliva, in cui fino allora aveva annegate le sue parole, e disse con voce chiara: « Ma tu, da un certo tempo in qua, hai un chiodo nella testa che non mi piace per niente! cos'è? » « Nulla ! » rispose Antonio, alzandosi da tavola e avviandosi verso la porta.
« Mai, signuri! » brontolò il vecchio, osservando minutamente le spalle del figlio e il modo stanco con cui spingeva la porta e usciva.
La sera, Antonio ed Edoardo Lentini passeggiarono in su e in giù per la corta, ma infinitamente bella, via Crociferi. Le tre chiese e i due conventi, fra i quali la strada scorre in declivio, erano deserri e silenziosi; le alte cancellate di ferro battuto, che stringono in seno le brevi e ripide gradinate dei sagrati, eran chiuse con catenacci.
I due giovani erano tormentati da una nostalgia di romanticismo che li rendeva più inquieti e infelici di un vero e proprio romantico che fosse passato per quella stessa strada cento anni avanti.
« È da vergognarsi di dover rispettare un uomo come quel vicesegretario generale! » diceva Edoardo. « In altri tempi avremmo dovuto fingere di esser miopi, per non rispondere al saluto di un uomo simile. Che schifo! come lo avrei preso a calci volentieri! »
« Ha una forte complessione » osservò Antonio : « è riuscito ad andare con tre donne in meno di un'ora! »
« Lo avrei fatto anch'io, se non mi fossi accorto di una cosa che egli, da quell'animale che è, non vedeva minimamente: le donne ci disprezzavano! »
« Lo credi davvero? »
« La padrona della pensione ci ha detto imbecilli in un modo che le avrei baciato i piedi ».
« Devo darti una delusione, mio caro : la signora era fuori di sé perché non aveva potuto ricevere un suo cliente che suole portarle ogni notte non so quale narcotico. Dopo la vostra partenza, mi ha giurato, con le lacrime agli occhi, che darebbe dieci anni della sua vita pur di passare una sola notte con Mussolini ».
« Che decadenza! che tristezza! E io che, stamattina, ho mandato a memoria un capitolo degli Annali di Tacito : "Nerone si ricordò di Epicari, e non credendo che una donna reggesse al dolore ne comandò la tortura. Ma né verga né fuoco né ira dei carnefici la fecero confessare; e cosi ella vinse il primo giorno. Portata l'indomani a quegli stessi tormenti, non potendo reggersi sopra le membra lacerate, si trasse dal petto una fascia, l'annodò alla seggiola, fece un cappio alla gola stringendolo col peso del corpo, e ne trasse quel poco fiato che v'era. Esempio memorabile che una prostituta volesse salvare con tanta agonia degli sconosciuti mentre gli uomini, cavalieri, senatori, senza tormenti, denunciavano le persone più care". E in Italia nemmeno le donne... Quando una società non può contare nemmeno sulle sue prostitute, è finita! Non c'è proprio nulla da sperare! Io, per mio conto, mi sono rassegnato. E anzi ti chiedo un favore ».
« Che favore? parla! »
« Dato che il vicesegretario generale ti ha preso in simpatia, pregalo che mi faccia nominare podestà di Catania! » « Ma come?... non capisco ».
« Antonio mio, ho trentadue anni, e ho bisogno di lavorare. Non è rimanendo a casa a non guadagnar nulla e a farmi guardare brutto da mio suocero, che salvo la mia coscienza. Questo regime durerà più di cento anni e noi non dovremo render conto a nessuno dei nostri atti; ma anche se il regime cadrà, io non mi preparo degli alibi. Se mi preoccupassi di far la figura dell'uomo fiero con quelli che verranno dopo, sarei uno sciocco e darei un'importanza spropositata alle apparenze. Perché l'essere gerarca e il non essere iscritti al fascio sono apparenze e inezie in confronto alla nera infelicità in cui saremo costretti a vivere sia facendo i gerarchi che rimanendo a casa per i fatti nostri. D'altro canto, io sarò un uomo onesto, e farò consistere la mia onestà nel non rubare, nel trattar tutti gentilmente e nell'augurare il male al regime che servo con quella precisione e coscienza che può avere soltanto chi gli sta bene addentro e ne conosce i segreti! »
Se Antonio avesse ascoltato con attenzione, e se da tempo le strade della sua intelligenza non fossero state come ostruite, di sicuro avrebbe giudicato molto strano e incoerente il discorso dell'amico. Invece si accontentò di rispondere che non voleva, per nessuna ragione, tornare a incontrarsi col vicesegretario generale. Edoardo non osò ribattere nemmeno una parola, e i due giovani proseguirono in silenzio la loro passeggiata, ignorando che il viso bianco e affilato di una suora s'era piantato dietro la grata di un'alta finestra e figgeva sulla persona di Antonio uno sguardo lungo, ostile e incapace di staccarsi.
« Perdio ! » esclamò improvvisamente Antonio, « devo tornare alle mie letture! Lo sai che, da dieci anni, non leggo un libro fino all'ultima pagina? Mi sento come alloppiato dall'ignoranza! I libri svegliano!... Sarà poi vero che Lorenzo Calderara non è andato mai con una donna pubblica? Alcuni arrivano a sostenere che non sia andato mai con nessuna donna. Tu, cosa ne pensi ? Del resto... »
« Del resto » continuò Edoardo, « non tutti possono somigliare a te! » E strizzò l'occhio, spianando la sua bella fronte in modo da renderla opaca come la pianta di un piede.
Il pensiero che esisteva la donna, le sue manine, i suoi piedi rosa, la gola bianca e le sottane, fugò ogni malinconia. Edoardo cacciò un urlo che fece dileguare, spense come il vento una candela, quel barlume di volto femminile che riluceva dietro la grata della finestra.
« Evviva! » gridò, profittando che la strada era deserta. « Gli altri avranno la libertà, ma l'Italia ha le donne! »
Tre giorni dopo questa passeggiata, Antonio, avendo saputo che il vicesegretario generale era ripartito per Roma, si recò nella sede della federazione fascista per avere un colloquio con Lorenzo Calderara. Poiché l'usciere era stato chiamato dal trillo del telefono nell'interno di una cabina, ed egli aspettava già da un'ora nell'anticamera, si avvicinò alla porta del federale e l'apri. Su un divano vide, a naso in giù, la testa di Calderara, con la fronte rossa, le vene gonfie e tese come corde... Comprese, non volle guardare più oltre, e si allontanò in punta di piedi con l'aria di chi ha ricevuto una risposta netta e brutale a una domanda che si sarebbe accontentata di parole vaghe.
« Fategli sapere che sono felice di non vederlo da dieci anni! » gli mandò a dire, col farmacista Salinitro, un compagno di scuola, Angelo Bartolini, che viveva solitario nei paraggi della città, presso una stazioncina davanti alla quale, una volta ogni due giorni, passava il piccolo treno che fa il giro dell'Etna, unico rumore che potesse turbare le meditazioni di un uomo gentile la cui indole affettuosa si esplicava ormai esclusivamente nell'amare il proprio odio contro i tempi.
« Perché è felice di non vedermi da dieci anni ? » domandò Antonio al farmacista, fermandosi con lui sul marciapiede di via Etnea. « Io gli ho voluto sempre bene ».
« Perché ha saputo che lei diventerà segretario federale di non so quale città ».
« È' una menzogna! » rispose Antonio. « Gli dica che da quattro anni non pago nemmeno la tessera del fascio e che, un giorno o l'altro, mi chiudo nella mia casa di campagna e... »
In quel momento, sbucava da una traversa Barbara Puglisi con la madre. La ragazza portava un libro da messa in mano e camminava un po' curva in avanti, stringendo a sé, e nascondendo nel modo più dolce, l'esuberanza e lo slancio della sua giovinezza. Una leggera gomitata della madre l'avverti che poteva rimettere negli occhi, pudicamente diradati, lo sguardo e l'attenzione. Barbara impresse al suo viso ovale, ravvolto in un ricamo violetto, un piccolo giro a sinistra, uno più lungo lo impresse alle pupille che lasciarono scoperto un bianco abbacinante, e vide Antonio che la guardava. Un istantaneo vacillamento del passo la staccò dalla madre e la portò vicinissima al giovane che potè sentirne l'odore di velo, di pelle bruscamente riscaldata dal sangue, di forcine di tartaruga e d'indumenti conservati a lungo insieme a vecchi fiori, odore che nessuna donna di Roma aveva mai posseduto e che gli saettò dentro la carne come uno scotimento profondo. Egli rimase immobile, seguendo il corso di quella specie di serpe che gli era entrato nei nervi e li mordeva alla radice.
« Dio mio! » mormorò. « Dio mio! sarà poi... » « Non capisco » disse il farmacista.
Per tutta risposta, Antonio gli buttò le braccia al collo e lo strinse al petto.
« Capisco ancora di meno » aggiunse l'altro.
« Dica al mio amico Angelo » esclamò Antonio con un tono esaltato, « che fra pochi giorni sposerò quella ragazza che lei ha visto passare... e che sono felice! » Cosi dicendo posò lo sguardo sulla Madonna di pietra che s'affaccia dalla chiesa del Carmine, e ve lo tenne devotamente, come si tiene poggiata a terra la fronte davanti a un altare, in atto di ringraziamento.
« E sulle sue convinzioni politiche, cosa devo dire al suo amico Angelo ? » domandò l'altro.
« Oh, quelle... che importanza hanno? » fece Antonio, e serrò con tutt'e due le mani una mano del farmacista.
La sera stessa, entrò nella camera da letto dei suoi genitori e annunziò che avrebbe molto volentieri sposato Barbara.
Il padre, fuori di sé dalla gioia, usci in mutande lunghe sul terrazzino, e chiamò l'avvocato Ardizzone per comunicargli la felice notizia.
« Rara avis » rispose il vecchio avvocato, non da altro spinto che dal desiderio di pronunciare all'aperto, e con voce cavernosa, quella frase imparata due ore avanti e che, in quel buio, fra il confuso incombere dei comignoli e il luccichio delle ringhiere bagnate di luce stellare, non significava proprio nulla. « Rara avis! Me ne compiaccio e me ne felicito immensamente! »
Ma la figlia Elena che, celata dietro un'imposta del balcone, aveva ascoltato le parole del signor Alfio, comprimendosi il cuore che le si torceva come un pesce nella rete, non fu dello stesso parere del padre.
« L'ha fatta! » si mise ad esclamare, con un tono che al principio si sforzò di apparire scherzoso, e poi a mano a mano cedette all'ira, « l'ha fatta!... Cosi si agisce a Catania! si va a sposare una ragazza che non si è mai vista, e non ci si accorge della vicina di casa! »
« Ma Elena! » borbottò il padre, dandole uno spintone con la schiena per ricacciarla dietro l'imposta da cui andava uscendo.
« Si, è la verità, è la verità ! Quando abbiamo una ragazza che ci sta sotto il naso, dovremmo almeno guardarla, prima di fare un passo falso in un altro quartiere! »
« Ma Elena!... »
« Egli è che sono sfortunata, sono sfortunata, sono nata sfortunata, non ne corre, stella, per me, non sudano per me i santi, non ne ebbi sorte, mio padre invece di pensare al senato... »
« Ma Elena, Elena, Elena! » gridò il vecchio su tre scale diverse, steccando però sull'ultimo Elena! come se avesse picchiato su una campana fessa, « non sai quello che dici! Elena, dico, Elena, Elena! » E di nuovo steccò. Poi si rivolse al signor Alfio: « Scusatemi, gentile amico! vogliate avere la squisitezza di perdonarmi e di accettare di nuovo le mie... i miei... Buona notte, caro amico ».
E il vecchio avvocato richiuse con fragore le imposte del balcone.
L'indomani, di buon mattino, Elena gettò sulla terrazza dei Magnano tre enormi diari d'amore, entro i quali, oltre a disegni, farfalle, violette, rametti di palma, tutta roba che era vissuta e fiorita quindici anni avanti, stava incollata una fotografia di Antonio montato su un cavalluccio di legno, unica del genere, la cui perdita aveva reso infelice la signora Rosaria.
I diari precipitarono sul terrazzo mentre Antonio stava curvo ad annaffiare i vasi di cactus. Egli non si scompose c, continuando a versare l'acqua fra le spine e i petali, li sfogliò con un piede, leggendo qua e là qualche frase scritta a caratteri cubitali, come per esempio : « Da LUI mi farei camminare sulla FACCIA », « Dalle tre alle otto di sera pensato sempre la stessa COSA », « Che occhiaie OGGI »; poi staccò la fotografia tanto ricercata dalla madre, e il resto gettò nella spazzatura.
Due giorni dopo, con queste frasi ardentissime giocavano i figli del portiere nell'atrio del palazzo. Elena, che forse sentiva battere quei suoi pezzi di cuore ovunque si trovassero, scese a precipizio i tre piani del palazzo, e piombò come un avvoltoio su quegli ignari monelli che si passavano a vicenda cappellini di carta e barchette tempestate di parole che, lette, avrebbero potuto far cessare bruscamente la loro innocenza. Elena riuscì, ogni volta con un solo gesto, a strappare i fogli e a storcere le mani di chi li stringeva, e rivolò per le scale, lasciando sotto di sé gemiti e urli.
La notte, bevve un bicchiere d'acqua in cui aveva tenuti immersi una ventina di zolfanelli e all'alba credette di morire uccisa dal veleno. Ma bastò che vomitasse entro una catinella di coccio, mentre la povera madre la sorreggeva per la fronte, e il padre, quasi accecato dallo spavento, arringava la Morte, la Vita, l'Onore e la Pazzia, che probabilmente vedeva ritti davanti a sé, per rimettersi completamente.
Quello stesso giorno, alla tavola dei Magnano. Il signor Alfio ad Antonio, naturalmente dopo aver raccontato gli avvenimenti della casa vicina: « Ma che gli fai, tu, alle donne, si può sapere? »
La madre: « Che gli deve fare, alle donne? Sono esse che hanno il fuoco sotto le sottane! »
Per evitare altri guai, fu affrettato il fidanzamento con Barbara Puglisi, e Antonio si trovò, nel giro di una settimana, immerso fino ai capelli nelle abitudini di una vecchia famiglia catanese.
La casa del più rinomato notaio di Catania, Giorgio Puglisi, era situata in piazza Stesicoro, di fronte al vecchio tribunale, sul tetto del quale l'Etna, reso prossimo e quasi imminente dalla mancanza di oggetti che s'interpongano alla vista, spalanca le sue enormi ali, bianche come quelle di un cigno in inverno, color viola nelle altre stagioni. La piazza, in questa parte, ha subito uno scavo profondo che ha messo in luce le arcate di un teatro romano rivestite di muffa e attraversate da corridoi che si addentrano nel sottosuolo della città. Gli scavi, ai quali si scende per una scaletta piena d'erba, son circondati da una cancellata di ferro su cui il monello, passando di corsa, fa scorrere un suo pezzo di legno e suscita il fragore di una saracinesca che s abbassi di colpo. Questa parte orientale della piazza è inclinata come la tolda di una nave colpita di fianco, perché segue il declivio di un cratere che qui si apri in epoca remota; e da essa esce una strada che s'arrampica, stridendo di tram frenati per la paura della forte pendenza, verso i quartieri alti della città. Così inclinata, s'affaccia, con caffè popolari e negozi di vasellami, sulla via Etnea, al di là della quale, su un piano perfettamente orizzontale, si estende l'altra metà della piazza, sorreggente con la sua banchina il più caro dei pesi onde il suolo di Catania è gravato, il monumento di marmo all'adorato Vincenzo Bellini nel quale egli è rappresentato seduto e sorridente fra quattro suoi famosi personaggi tutti con la bocca aperta nell'atto di sparpagliare ai quattro venti la musica divina del loro autore. Qui vengono a sboccare le stradette dei mercati, delle case di tolleranza e della stazione ferroviaria, e qui lo scirocco strofina con più forza la sua umida pancia, mantenendo il selciato sempre fangoso.
Ma la casa dei Puglisi sorgeva nel punto più alto e luminoso, sicché per i vetri dei suoi balconi entrava d'inverno il bagliore delle nevi dell'Etna sfolgoranti di sole.
La signora Agatina, madre di Barbara, una donna enorme, loquace, stanca, paurosa del freddo che tante volte nella vita le aveva stretto il naso fino a soffocarla, e ai cui spifferi volgeva uno sguardo da povera bestia alla canna del fucile, aveva convinto il marito a impiantare per primo a Catania il termosifone. La cosa fu molto censurata dalle famiglie amiche, specie perché il notaio Giorgio Puglisi era ritenuto l'uomo più serio ed equilibrato della città, parente di preti e di altri notai rispettabilissimi, che da almeno cento anni ricevevano per via Etnea quei saluti profondi che il cittadino di Catania rivolge alla onestà, al decoro e alla mancanza di debiti e di vizi. E appunto per osservare da vicino, e toccare con mano, la prima stravaganza di un uomo serio, quasi ogni giorno queste famiglie amiche si recavano in massa, con le cameriere e i bambini lattanti, a passare due ore in quel caldo insopportabile, dal quale uscivano coi visi chiazzati di rosso, come se tutti, dal nonno ai nipotini, fossero stati schiaffeggiati con violenza. A poco a poco però trovarono la cosa molto normale, e infine due o tre l'adottarono.
« Si doveva capire che un uomo come il notaio Puglisi non poteva commettere una sciocchezza! » dicevano.
Barbara passò la fanciullezza in questa casa caldissima d'inverno e d'estate, cantando e ballettando per i corridoi, in fondo ai quali la raggiungeva sempre una voce : « Non ti avvicinare troppo al termosifone! », e, quando si avventurava in una scaletta che portava in soffitta, un'altra voce: « Non andare da papà Francesco! » Papà Francesco, padre della signora Agatina, era in realtà il nonno di Barbara, ma veniva chiamato papà per il rispetto che si doveva alla sua ricchezza e alla nobiltà del suo sangue. Non si sapeva quale re lo avesse nominato barone di Paternò, perché egli odiava i libri, anche quando, blasonando con tutte le sottigliezze della scienza araldica, parlavano dello scudo della sua famiglia.
Sposatasi Agatina, era rimasto ad abitare, in compagnia di un cameriere decrepito, nel suo antico palazzo che sporgeva, con colonne di marmo e statue reggenti lampade di ferro battuto, su una piazza sempre deserta, nel mezzo della quale egli vedeva ergersi a cavallo la statua di un « continentale usurpatore », il re Umberto I.
Con la fronte poggiata al vetro di un balcone, il nobiluomo passava il tempo a odiare quella statua.
« Ma Paolino » diceva al vecchio cameriere intontito dall'aver tante volte eseguito col massimo rispetto ordini quasi folli, « sono io che non ragiono o quello li ha veramente la faccia di un puledro male allevato? »
« Ha la faccia di un puledro male allevato » rispondeva invariabilmente il servo.
Finché il Comune non fece piantare dei platani tutto intorno alla piazza, e davanti alla facciata del palazzo, alberi possenti che si abbandonarono subito alla felicità di crescere verso il più luminoso cielo del mondo.
Il barone cadde in una collera sempre più cupa a mano a mano che le stanze del suo palazzo cadevano in un'ombra sempre più fitta. Protestò, mandò lettere ai giornali, scomodò il prefetto, il questore, l'onorevole Carnazza e il suo avversario onorevole De Felice, sebbene si sentisse arrossire fin dentro il petto nel salire le scale di questi uomini che rappresentavano la volontà dei pescivendoli e dei portinai; ma gli alberi furono più forti di lui e rimasero a crescere imperturbati.
Uina notte, però, il vecchio cameriere usci intabarrato e circospetto dal cancello del palazzo e s'avvicinò ai tronchi degli alberi che, uno dopo l'altro, fece oggetto di certe sue cure misteriose. Questa cerimonia si ripete per un mese; ed ecco che quegli alberi dritti, flessibili, cui soltanto il fulmine poteva impedire di raggiungere il duemila, cominciarono a ingiallire proprio nei punti da cui bevevano la luce.
La felicità del barone, a questi segni di stanchezza che egli fu il primo a cogliere dal suo balcone centrale, cui gli alberi poggiavano la bellissima testa, non conobbe misura. Le disgraziate piante languirono lentamente, vedendo, al di là dei vetri, in cui nelle giornate di vento erano solite riflettere i mille giuochi delle loro fronde, una faccia umana diventare tanto più allegra quanto più esse si avvicinavano alla morte...
Lo scandalo, che stava per scoppiare, fu soffocato con molto stento e molte spese. L'avvelenatore degli alberi fu obbligato dal genero a lasciare il suo palazzo e a trasferirsi in piazza Stesicoro presso di lui e la figlia. Del resto, qualcosa doveva pesargli sulla coscienza se egli, che aveva dormito sempre in un letto di Ferdinando II, cominciava ad amare le soffitte, i letti non rifatti, le finestrine sporgenti sui tetti e la vista dei campanili. Amava anche i rumori violenti, per cui ogni volta che chiudeva un'imposta, la sbatteva con tutta la forza e poi rimaneva in ascolto con gli occhi spalancati ed ilari, come chi avesse provocato degli echi soavissimi. Un giorno, comprò un tamburo e, fra i salti di gioia della nipotina, suscitò nella stanza chiusa il fragore di una piazza d'armi. Ma i vicini protestarono, e la figlia stessa lo pregò, con le lacrime agli occhi, di rinunziare a questo genere di musica.
Si giunse a un compromesso. Il barone frenerà per tutta la settimana il torturante desiderio di picchiare sulla pelle del suo tamburo; venuta la domenica, fa attaccare i cavalli alla carrozza, vi monta sopra col vecchio servo che reca sulle braccia il tamburo solennemente ravvolto in un drappo rosso, e abbandona la noiosa Catania che, mentre sopporta gli stridori dei tram, si scandalizza di un rullo armonico. Arrivato in una sua campagna della Piana, scende dalla carrozza e s'inoltra fra gli alberi, salutato con riverenza dai contadini e seguito dal fedele servitore che regge il tamburo sempre ravvolto nel drappo rosso. Finalmente si ferma, svolge lo strumento e, assicuratolo per mezzo della tracolla a una spalla, alza e tiene ritte in aria le due bacchette d'ebano in cui fremono tutti gl'impulsi del suonatore rattenuti per un'intera settimana. D'improvviso, rabbiosamente, il vecchio signore rovescia colpi su colpi, la pelle battitora trema ed urla, le galline scappano da ogni parte inseguite dai cani, i tori si allontanano tardamente adocchiando il drappo rosso ch'è rimasto posato sull'erba, il cameriere sbadiglia.
Per tre ore, il vecchio si assorda con la sua tremenda stamburata; poi fa riavvolgere lo strumento nel drappo rosso, risale in carrozza e torna a Catania. Aperto lo sportello e messo il piede sul predellino, si ferma un istante e domanda al servitore:
« Come fu? »
« Magnifico » risponde l'altro vecchio, e mentre regge con la sinistra lo stanco tamburo, porge la destra allo stanco suonatore.
Ma una notte, il servitore si alzò dal letto, si sdraiò su una cassapanca del corridoio, e morì.
Il barone rimase a guardare per un quarto d'ora quell'uomo inerte che aveva tante volte ubbidito ai suoi comandi, e la cui vita era ormai passata per sempre.
« Chi diavolo gliel'ha fatto fare ? » mormorò. « Chi diavolo gliel'ha fatto fare? » ripetè ancora, e pregò che padre Rosario, il fratello del genero, venisse a trovarlo nella soffitta dalla quale ormai non voleva più uscire.
« C'è il Paradiso ? » gli domandò a bruciapelo non appena lo vide sulla soglia.
Il monaco si sedette e gli spiegò minutamente come, secondo ogni probabilità, doveva essere fatto il regno dei cieli.
« Siete degl'imbroglioni! » ribatté il vecchio, e non volle più vederlo.
Ma dal domani cominciò a farsi la croce ogni momento, a nascondere figure di Santi sotto i cuscini e a cadere in ginocchio a ogni ombra della parola morte che gli passasse per la mente, accoppiando la malevolenza contro i preti a una bacchettoneria che rasentava il rimbambimento: credeva a più cose che non imponesse il dogma della Chiesa, ma non voleva credere alla Chiesa. Era contemporaneamente un ribelle e un povero fanatico, stato molto naturale di chi è rimasto avvolto, senza possibilità di uscirne, nella paura e nella collera, non apri più l'imposta del finestrino e i cattivi odori vi ristagnarono a loro agio finchè non si pulivano e addolcivano da sé coi farmenti del loro stesso marcire.  Il vecchio si ricoperse di quella fibra dura e fredda che avvolge le zampe delle galline. Dei suoi occhi, uno rimaneva sempre chiuso come se la palpebra si fosse incollata, l'altro gettava uno sguardo acquoso e incerto come il raggio di una lanterna su cui batta la pioggia.
Egli stava sempre zitto, e non dava fastidio a nessuno; nel suo cervello però, specialmente la notte, passavano pensieri furibondi, comandi, urli, avemarie e scoppi di pianto.
Barbara era molto attirata da questo nonno che pareva un grosso giocattolo di pezza, e per non farsi sentire dalla madre, che le aveva proibito di andare da lui, saliva a piedi nudi la scaletta della soffitta e, appiccicato il viso a una fessura della porta, rimaneva per lungo tempo a divorarsi con gli occhietti furbi quel vecchio immobile e privo di qualsiasi rumore, anche di quello del fiato, e che, pur cosi risecchito e spento, aveva davanti  a sé ancora vent'anni di vita.
Quella stranezza di Barbara non piacque in casa Puglisi, e mandò addirittura in bestia il notaio che stava sempre all'erta contro le stranezze.
Nella sua famiglia, tutti erano stati uomini gravi, seri, amministratori del Comune o di alcuni suoi enti, notai senza rivali, detentori di segreti delicatissimi, il cui volto con la barbetta a punta, stampandosi negli occhi dei moribondi, già invasi da uno spirito di frivolità e ironia verso le cose di questo mondo, li richiamava al sentimento del dovere verso le terre, gli armenti, le case, i depositi In banca; erano state donne irreprensibili dai confessori, con occhi belli ma freddi a cui i predicatori novellini, nel momento di fare la loro tirata contro la donna, cercavano di sfuggire in tutti i modi per paura di smarrirsi e prendere una zeppa; una di esse, col solo suo arrivo di nottetempo in campagna, aveva spinto un contadino ladro a buttarsi nella cisterna; padrone della propria casa al punto che certi fornelli dal tiraggio asmatico si piegavano ad accendersi soltanto alla loro presenza; capaci di vegliare notte e giorno una vecchia cameriera malata e di servirla nei più miseri bisogni; donne e uomini eccezionalissimi nella loro normalità, fuorché quando erano nati diversi (caso che si era verificato tre volte in cento anni), perché allora non si contentavano di essere artisti o fannulloni o dongiovanni o scienziati, come la maggior parte degli uomini che non siano comuni, ma diventavano matti scatenati capaci di qualunque azione.
Questa mancanza di gradazione e sfumature, fra quei tre Puglisi sfrenati e gl'infiniti altri Puglisi tutti dignitosi e gravi, aveva fatto si che il decoro della famiglia non ne venisse minimamente intaccato. I tre costituivano un'eccezione che metteva in risalto la regola. L'essenziale era che una simile eccezione non si ripetesse ancora una volta; per questo, tutti i Puglisi padri guardavano con sospetto i primi atti dei loro figli e non riuscivano ad amarli finché da quell'imbrogliato mistero di strilli e sgambettii non fossero usciti i primi segni del futuro notaio o della futura padrona di casa.
Il notaio Giorgio Puglisi, sposando la figlia del barone di Paternò, sapeva d'imparentarsi con un uomo leggermente fuori del comune. Ma in quel tempo il barone si distingueva dagli altri soltanto per il fatto che diceva in faccia a chiunque quello che pensava dì lui; e d'altro canto la ricchezza, che era la prova maggiore di serietà che un uomo potesse dare, testimoniava largamente in favore del barone. Cosi il notaio si andava consolando. Ma il giorno delle nozze, in chiesa, mentre stava inginocchiato davanti all'altare con la fidanzata al fianco, il barone si piegò verso di lui e gli disse in un orecchio: « Muoio se me lo tengo nello stomaco : mi somigli a un tacchino ! »
Il notaio Giorgio impallidì, ma il suo buon senso fece subito questo ragionamento : « Ormai la cosa è fatta, un errore irreparabile non bisogna considerarlo un errore, perché sarebbe inutile e nocivo! Dio mi guardi dal giudicare questo vecchio un essere stravagante! La sua frase è stata dettata dall'affetto, e, in ogni modo, nessuno l'ha sentita. Quanto ai miei discendenti... il Signore m'aiuterà! »
E a questo proposito si ricordò di quante volte i preti gli avevano detto con un bel sorriso : « Dio gliene renda merito! »
I primi anni del matrimonio furono molto sereni : nel 1914 nasceva Barbara, e nel 1920 il barone si ritirava nella stanza a tetto lasciando al notaio l'amministrazione di tutti i suoi averi, cosa che lo avrebbe reso completamente felice se proprio in quel tempo Barbara non avesse manifestato la sua strana manìa di spiare per ore intére il nonno immobile e silenzioso. Quale profonda curiosità poteva appagare, una ragazzina di sei anni, fissando cosi lungamente un vecchio? Cosa c'era nel suo piccolo occhio, incollato alla porta: compiacimento, ironia, paura, crudeltà, pietà ?
Lo zio monaco, un giorno, si sedette solennemente, se la tirò fra le ginocchia e cercò di frugarla con certe sue domande sottili e quasi impercettibili come quella punta di fazzoletto con cui si leva un bruscolo dall'occhio, ma non riuscì a cavarne nulla.
Alcuni anni dopo, Barbara stava ad ascoltare con la stessa attenzione il rumore delle rondini, che ficcatesi involontariamente nella torretta del camino, e percosse più volte dalla ventarola, non riuscivano a strapparsi alla forza che le trascinava giù, lungo la gola, sino a farle cadere, dopo lunga lotta, nel focolare spento, ove Barbara le acchiappava mezze tramortite.
La nuova stranezza della figlia impaurì il notaio. Di questo passo, dove si andava a finire? Egli regalò duemila lire per la fondazione di un orfanotrofio, e pochi anni dopo Dio gli mandava il suo biglietto di ringraziamento: quella Barbara, su cui s'erano nutrite tante apprensioni, era diventata la ragazza più seria e normale che si potesse sperare, fino al punto di somigliare contemporaneamente a una diecina di sue antenate.
« Ti ricordi » diceva il notaio alla moglie, osservando amorosamente Barbara, « quando mia madre faceva la calza? teneva la bocca a quel modo!... Ti ricordi di mia zia Mariannina quando caricava la sveglia? faceva quella smorfia!... Ti ricordi di mia sorella Maria quando apparecchiava la tavola? prendeva i bicchieri quattro alla volta infilandovi dentro le dita, proprio come lei! »
Barbara imparò a suonare il violino e a dipingere, andò a teatro, ai concerti e alle conferenze, senza con questo compromettersi minimamente con l'arte e il pensiero, che le rimasero del tutto estranei.
Ma pur nel cerchio inflessibile di questa sua compostezza, anche lei fu felice e infelice come tutti i giovani; anche lei vagheggiò il suo avvenire; anthe lei, osservando il cielo notturno, e non sentendone venire alcun suono o voce, pensò con sgomento che l'universo è deserto; anche lei pregò Dio in modo dolce o grave; e a sedici anni, quando gli esteti, consumati dall'amore per la bellezza che ne tortura i sensi, hanno le guance cave, i nasi lunghi e le borse scatto gli occhi, ella invece fu molto fresca e bella.
Capitolo 4
« Onde rapito ei canterà che sposo Già felice il rendesti... »
G. PARINI « Bella rosa porporina Oggi Silvio sceglierà ».
P. Rolli Nel 1933, la famiglia Puglisi fu minacciata da un provvedimento che avrebbe ridotto di tre quarti la misura della sua ricchezza. Un podestà, poco rispettoso dei grandi nomi, si era messo in testa di municipalizzare le acque del Pomiciaro, di proprietà del barone.
Appresa l'incredibile notizia, il notaio mandò la moglie e la figlia a teatro, le cameriere a far la spesa e, serrate le finestre, esclamò a voce alta : « Ladri! ladri! ladri della mia roba! »
Quindi si precipitò a Roma, e in quella città deserta di persone che lo salutassero con rispetto, languendo per giornate intere nelle anticamere, si rese conto che solo il ministro conte K. poteva salvarlo, urlando per telefono, come soleva fare lui quando s'arrabbiava, qualche parolaccia al podestà. Per questo, tornato a Catania, ammise subito che Antonio, amico intimo di quel ministro, era un bellissimo giovane e un ottimo partito per la figlia.
Barbara, dal canto suo, non appena le fu detto che Antonio sarebbe stato suo marito e che il pensare a lui non era una sconvenienza, cominciò a sognarlo con molta rassomiglianza, sebbene lo avesse visto due o tre volte, e sempre di sfuggita, e a turbarsi profondamente allorché, durante le visite delle amiche, esortata dalla madre, stendeva alla luce del balcone le lenzuola che l'avrebbero avvolta di notte insieme al più bell'uomo della città.
Il fidanzamento fu celebrato alla presenza dei soli parenti, sicché l'amico d'Agata dovette accontentarsi di far giungere per telefono la sua voce ad Antonio: « È' con te la tua fidanzata? »
« No, perché il telefono è collocato in una camera lontana dal salotto, e il notaio non vuole che Barbara si apparti con me! »
« Le hai dato il primo bacio? »
« ...No! »
« Alla grazia! E quando glielo darai? »
Antonio si mise a ridere : « Addio, Luigino, addio! » E tornò nel salotto.
Qui egli fu baciato da tre monsignori con la croce infilata nella fascia di raso nero che li avvolgeva ai fianchi, e accarezzato paternamente da padre Rosario. Tutti gridavano e sbattevano cucchiaini nei piattelli; suoni di ogni qualità s'incontravano sulle porte, del radiofonografo, del pianoforte e delle cornamuse che, essendo il mese di Natale, si erano spinte su per le scale e forse fin dentro la cucina; la pioggia batteva contro i vetri del balcone, e nuvole basse e veloci passavano sul tetto del tribunale, nascondendo completamente l'Etna.
Quando l'orologio del tribunale segnò le sette, Barbara disse a voce alta :
« Dobbiamo andare lassù a far visita al nonno! Ne sarà contento, il povero vecchietto! »
Un piccolo drappello, composto del notaio, la signora Agatina, padre Rosario e i due fidanzati, sali la scaletta buia ed entrò quasi in punta di piedi nello stanzino.
Tutti si addossarono alle parete e stettero muti intorno al Vecchio che, seduto sul lettuccio, teneva la testa curva e si fissava le mani che giacevano come due granchi risecchiti sul risvolto delle lenzuola.
Antonio aspettava che qualcuno parlasse o facesse qualcosa, per imitarlo immediatamente. Ma nessuno si muoveva né diceva nulla, proprio come davanti alla statua di un sepolcro.
D'un tratto, entrò il signor Alfio gridando : « Ma che... » subito abbassò la voce: « ...diavolo state facendo? »
Il novantenne baione alzò gli occhi in faccia al nuovo venuto, aprì la bocca con stento, disse : « Gli alberi!... Assessore!... » e cadde di fianco come un cartone allo spalancarsi di una finestra. Egli aveva riconosciuto nel signor Alfio uno degli assessori di Catania al tempo in cui il comune aveva osato piantare i platani davanti alla sua casa.
« Andate! andate giù! » si mise a dire il notaio. « Non è niente! Ci penso io! ci pensiamo io e Agatina! Gli altri giù, voi specialmente che siete giovani, via, andate a divertirvi! »
Tutti uscirono, spinti dal notaio che ripeteva sempre: « Non è niente! »; e questa parola niente li seguì per tatto il corridoio fin sulla soglia dei salotti ove fu risucchiata nel vortice delle danze.
Il vecchio in verità era morto. Ma la triste notizia fu tenuta nascosta fino al giorno dopo.
Antonio, su consiglio del padre, mise subito una cravatta nera che diede al pallore del suo volto una serietà d'atri tempi, tanto che alcuni antifascisti, vedendolo passare in un caffè davanti al loro tavolo, brontolarono a bassa voce: « Somiglia a Bruto, ma pulisce il vaso da notte a ministri e segretari federali! Se io fossi nella sua condizione, mi farei ricevere da Mussolini e gli pianterei nello stomaco cinque olive ! »
Due giorni dopo, un lungo corteo accompagnò il barone al cimitero. Antonio e la fidanzata furono visti, per la prima volta, insieme alla testa di un funerale, seguiti dallo stuolo dei parenti fittamente chiusi in abiti, soprabiti, cappelli, calze e scarpe neri come l'inchiostro; da una doppia fila di orfanelle del Sacro Cuore con la bocca spalancata nel Miserere e gli occhi mobili e curiosi alle vetrine dei negozi e ai balconi; da una teoria di carrozze cariche di corone a cui il vento strappava un rumore di pioggerella; e in fine da una folla di amici e conoscenti che parlavano dei fatti loro e ogni tanto, a due o tre, uscivano quatti quatti dal corteo per infilare una traversa o rifugiarsi in un caffè.
Poiché il morto, per il fatto di essere un novantenne, esimeva anche i più ipocriti dall'obbligo di commuoversi e allungare il viso, tutti guardavano sorridendo Antonio e la fidanzata, e i binocoli delle ragazze mettevano al punto, nel loro anello oculare, la testa del giovane, il suo braccio destro nel quale Barbara teneva infilata la mano carica di anelli, e un lembo di coltre della bara che alcuni volenterosi portavano a braccio.
Antonio sentiva sulle sue spalle le mani del padre e della madre che, con la scusa di aggiustargli il bavero della giacca, sfogavano la voglia di accarezzarlo.
La madre gli prese poi la mano sinistra, che egli teneva abbandonata lungo i fianchi, e gliela calcò sulla mano di Barbara; ma poi, essendosi accorta che in quel modo copriva gli anelli della fidanzata, si precipitò a levarla, rossa in viso come se avesse commesso una leggerezza.
Talvolta egli sentiva delle bocche avvicinarsi al suo orecchio, al di sopra di una spalla, e sussurrargli teneramente: « Mettiti il cappello!... Non vorrei che prendessi un raffreddore!... Hai fatto male a non portare il soprabito!... non guardare i balconi, ricordati che sei fidanzato!... Mi pare che il prefetto ti abbia sorriso: rispondigli!... Come mai non c'è il podestà? »
D'un tratto, il notaio si fece largo fra i genitori di Antonio e si pose al suo fianco.
« Bisogna che tu scriva al ministro! » gli disse piano. « Il podestà deve sentirsi la coscienza sporca nei miei riguardi se non ha avuto la faccia di venire! »
« Gli scriverò domani, papà. Ma non credere che io sia... »
Il signor Alfio, che aveva origliato fra le spalle dei due, assestò un pizzicotto nei fianchi di Antonio e gl'impedi di continuare.
« Questo tuo figlio » disse poi alla moglie piano, « è il nemico di se stesso! Se non c'ero io dietro di lui, avrebbe detto al notaio che il ministro non è suo amico ».
« È' modesto » mormorò la signora.
« È' un cretino! » fece il padre, gesticolando e smaniando dalla collera sino al punto di farsi cascare il cappello di mano.
« Tutti ci guardano, sta' buono » disse la signora, fermandosi insieme a lui che si curvava a riprendere il cappello. Ma già una fila di ragazze Puglisi li superava rigida rigida come tante Madonne da processione e si metteva fra loro e il figlio.
« Forse sarebbe meglio che gli scrivessi oggi » continuò il notaio, camminando sempre al fianco di Antonio. « Mandiamo la lettera raccomandata espressa e la imposto io stesso alla stazione. Conosci il suo indirizzo di casa? »
« So dove abita perché una o due volte mi ha invitato a colazione ».
« Come ? » fece il notaio preoccupato, « non andavi da lui quasi ogni sera? » « No... »
« Forse era lui che veniva da te ? »
« Ci vedevamo fuori » disse Antonio per tagliar corto, e respirò pesantemente. Il corteo si era fermato in una piazzetta presso la porta Garibaldi, e già un oratore stava eretto sui gradini della chiesa nell'atto di cavare il fazzoletto da una tasca per asciugarsi le labbra. I venditori di fichidindia ritiravano le carrette cariche di bucce fuori del corteo che le aveva circondate, e le addossavano ai muri; un tram si fermò con tutta la folla dei viaggiatori, schizzanti da ogni parte pacchi, sporte e bambini lattanti, accavallati alle ringhiere delle piattaforme. « Chi è che parla? » domandò Antonio al suocero.
« L'avvocato Bonaccorsi, un amico di mio padre ».
« Perché far salutare il barone da un antifascista ? » disse una voce sconosciuta.
« È' il miglior avvocato di Catania, un gentiluomo che non ha dato mai fastidio a nessuno! » rispose vivacemente il notaio.
« Era socialista ! » ripetè la voce.
« Era, era... Tutti eravamo... Bisogna vedere chi è, una persona, e non chi era! »
« Da vent'anni il barone Puglisi aveva abbandonato gli amici... » cominciava intanto l'oratore.
« Mi meraviglia » disse la solita voce, « che un socialista dica la parola barone con tanto rispetto! »
« A lei non le piace niente! » ribatté duro il notaio, essendosi accorto che colui che parlava era un esile diciottenne, figlio di un suo inquilino a cui, un giorno o l'altro, avrebbe fatto trovare i mobili sulla strada, perché non pagava la pigione.
« Guardi gli effetti ! » continuò la voce petulante, « guardi laggiù, vicino al tram! » Nel luogo indicato dal giovane, si vedeva il prefetto calcarsi bruscamente il cappello di lontra, voltare le spalle e allontanarsi seguito da cinque persone.
« Questo mi dispiace! » esclamò il notaio, « mi dispiace davvero!... Antonio, cosa mi consigli di fare? »
« Nulla! » disse Antonio.
« Pensi che avremo delle conseguenze spiacevoli ? »
« Siamo scesi molto in basso, ma non al punto di dover temere un ucchiainchiostro a Catania quando abbiamo degli amici a Roma ».
In quel momento, egli stava subendo uno di quegli assalti improvvisi di felicità a cui andava soggetto da quando s'era fidanzato con Barbara.
« Oh, Dio! » pensava. « Se avessi voluto... Che stupidaggine temere che... »
Nello stesso tempo, tutti i ricordi di Roma, che gli stavano nella memoria freddi e nudi come disegni geometrici su una lavagna, si vestirono di luce, di colori e poi di odori fortissimi, da quello di frutta secca che mandano in dicembre le stradette del quartiere di Trevi a quello eccitante delle volpi nel giardino zoologico.
« Perché la mano di Barbara, posata sul mio braccio destro, ogni volta che fa l'atto di scappare alla stretta della mia mano sinistra, mi turba in questo modo ? Sento il cuore picchiarmi le tempie come un martello... Se non sbaglio, quando ella arrossisce, l'odore della sua pelle si rafforza... »
In compagnia di questa felicità, egli ripercorse i suoi anni romani, gettando occhiate di sfida in faccia a coloro davanti ai quali aveva abbassato gli occhi, e si vedeva mentalmente nell'atto di compiere sulla contessa K. un atto di molta brutalità, quando s'accorse che l'oratore, con la voce arrochita e la barba luccicante di lagrime, porgeva l'estremo saluto alla bara già caricata sul carro funebre. Il corteo si scioglieva. Barbara fu mandata a casa insieme ai suoceri, il notaio e Antonio salirono invece su un landò per accompagnare il barone fino al cimitero.
Dobbiamo dirlo ? nel corso di questo viaggio, mentre le mura del cimitero di
Acquicella crescevano lentamente al di sopra dei pennacchi neri dei due cavalli, Antonio fu il più felice dei siciliani che avessero meno di trent'anni. Di quando in quando volgeva lo sguardo al severo notaio che gli sedeva vicino, e pensando che quella severità, trasmessa sotto forma di pudore, castità e innocenza, conferiva alla bellezza di Barbara il calore di un sole d'agosto, eccitante com'era a tutte le beate noncuranze e arditezze che serpeggiano nella fantasticheria di un sonno pomeridiano, ringraziò il Signore che accanto ai farabutti aveva creato gli uomini onesti e, accanto alle mogli dei ministri K. e alle Luise Dreher, le figlie dei notai. Se il suocero non fosse stato un uomo rispettoso della legalità e al di fuori della politica, Antonio avrebbe subito abbracciato per riconoscenza il partito del notaio, talmente le opinioni, le bandiere, i giuramenti e i motivi per cui si andava in carcere o si poteva rubare a man salva gli parevano meno importanti di una certa cosa che gli stava fitta nel cuore.
Il vecchio barone entrò nella tomba di famiglia sotto gli occhi, brillanti di felicità, di questo bellissimo nipote che nemmeno una volta, mentre la cassa andava sparendo nel loculo buio, pensò che dentro quel legno c'era un uomo.
Il notaio rimproverò il custode per lo stato in cui era tenuto il cimitero : « Ci sono i viali pieni di bucce di mandarini e di carta oleata! Noi paghiamo, caro amico, fior di quattrini a ogni fin di mese e abbiamo il diritto di pretendere che i nostri morti stiano bene! »
E così detto, si volse in giro come a cercare uno sguardo d'approvazione in tutti quei visi sbattuti che, da destra e da manca, stampati sulla porcellana e rilevati nel marmo, sporgevano dalle lapidi.
« Andiamo a casa! » aggiunse poi, rivolto ad Antonio, « Barbara sarà al balcone ad aspettarti! »
E risalirono sul landò.
Non appena giunti in piazza Stesicoro, Antonio volse lo sguardo ai balconi di casa Puglisi, ma li trovò deserti e con le persiane chiuse.
« Che stordito! » disse il notaio, « dimenticavo che siamo a lutto. »
Il portone, socchiuso, era carico di nastri neri e di manifesti listati di un nero umido e denso in mezzo ai quali spiccava una croce nera con le parole: AL PADRE - AL
SUOCERO - AL NONNO ADORATO.
Il portinaio era vestito a lutto, e anche i visitatori, che andavano brancolando nell'androne scuro, erano in gramaglie.
« Occorre che anch'io mi vesta di nero! » pensò Antonio salendo per le scale.
« Mi dispiace » disse il notaio salendo insieme a lui, « che la vostra gioia sia stata turbata da questa disgrazia! Ma dicono che porti bene. Non vedo l'ora comunque che possiamo riaprire i balconi e far entrare un po' d'aria... Stasera dobbiamo scrivere la lettera al ministro ».
Antonio scrisse subito quella lettera tanto richiesta e il notaio la fece copiare a macchina due volte e la rilesse cento volte, rimanendo sempre amareggiato dal fatto che Antonio non dava del tu al ministro. La lettera, espressa raccomandata, fu impostata alla stazione.
« Risponderà poi? » andava ripetendo il notaio tutti i momenti, finché Barbara spazientita non disse un semplice, ma severo : « Papà !... »
Il ministro rispose dopo una settimana annunziando che il podestà, « per questo e per altri motivi assai più gravi », sarebbe stato sostituito.
Il notaio non stette più nei panni dalla gioia e, vincendo il suo naturale riserbo, comunicò la notizia in prefettura.
« È' strano » disse il prefetto adombrato, « che io non ne sappia nulla. Devo credere che il ministro comunichi le sue risoluzioni ai privati?... Con questo, non voglio fare un torto a suo genero, che so molto bene introdotto a Roma... Ma insomma sono io che rappresento Sua Eccellenza, e ho l'onore di eseguirne gli ordini... No, caro notaio, se lei mi permette, dubito che il decreto di sostituzione del podestà sia già firmato... Sarà magari un'intenzione del ministro che potrà venire attuata in un avvenire più o meno prossimo... ma oggi come oggi... insomma ho i miei dubbi! » Il notaio divenne rosso.
« E se fosse vero? » pensò. « Sono stato imprudente a bagnarmi prima dì piovere! non ho commesso mai nella mia vita una leggerezza come questa! Se ha ragione lui, chiudo lo studio e me ne vado in un'altra città. Il torto mio è stato di mettermi coi giovani... Chi si corica coi bambini, si alza pisciato! » Senonché, tre giorni dopo, il prefetto venne chiamato al telefono dal ministro e, dopo un « Che succede a Catania? Cosa fanno di notte le guardie municipali? Ho saputo che in un orinatoio di via Pacini sono stati scritti due versi sul conto mio che ora corrono per tutta l'Italia, e già quegl'imbecilli di letterati li ripetono al caffè Aragno! », venne informato che il podestà di Catania poteva far le valige.
La notizia si sparse come un fulmine per la città e procurò ad Antonio il saluto rispettoso di molte persone che egli non conosceva. Dietro di lui, per la strada, si mormorava la parola « potente... »
« È' un giovane potente! » si diceva. « Il conte K. gli darebbe il cuore! ».
Ma la volta che questa frase giunse distintamente al suo orecchio, Antonio montò su tutte le furie, si fermò davanti al vecchio signore che l'aveva pronunziata, piantandogli gli occhi negli occhi. L'altro cominciò a impallidire e tremare. « Ho detto soltanto che lei è un giovane potente » balbettò, « le pare che sia una parola d'offesa? Sono un amico di suo padre; è stato il signor Alfio a confidarmi... » Antonio gli volse le spalle e s'allontanò senza lasciargli terminare la frase; ma da quel giorno cominciò a spiare il padre, finché, attraverso una porta socchiusa, gli senti fare questo discorso : « Ha preso da me e da suo nonno! Con noi Magnano, caro amico, le donne vanno in brodo soltanto che le tocchiamo con un dito... Io non so quali siano i rapporti di mio figlio con la contessa, ma so che quando una donna è stata con lui, rimane a leccarsi le labbra per tutto il tempo della sua vita ». Antonio aspettò che il padre si separasse dagli amici per levare su di lui uno sguardo di fuoco « Che ti piglia ? » disse il padre, « perché mi guardi così? »
« Ho sentito il tuo discorso di poco fa ».
« Ebbene, cosa ho detto di male ? È' forse vergogna esser buon cavalcatore ? Vergogna sarebbe il contrario!»
Antonio pestò il piede per la stizza. « Ma non capisci che?... » esclamò.
« Ohè, amico! » interruppe il padre, « io capisco benissimo. Cerca piuttosto di capire tu che io sono padrone di parlare di mio figlio quando e come  voglio! »
Antonio non fiatò, e l'indomani mattina, quasi a chiedere conforto, telefonò all'amico Edoardo.
« Devo parlarti anch'io di urgenza » rispose il cugino. « Aspettami a casa, fra poco sarò da te »
Edoardo arrivò subito dopo, ansimando. Aveva gli occhi orlati di rosso e sembrava come sfigurato dai tormenti di un amore non corrisposto. I due amici uscirono sul terrazzino.
« Mi faccio schifo! » disse Edoardo, appoggiandosi alla ringhiera che sporgeva sul corso luccicante di sole, « siamo scesi proprio nel fango! » « Chi? » domandò Antonio.
« Tutti... tu, io... specialmente io! »
« Perché ? »
« Da sei notti, non dormo, non mangio,ieri per istrada mi son dovuto appoggiare a un mendicante perché il terreno mi girava sotto i piedi! Fra l'altro ho un'eccitazione che non riesco a calmare...vado continuamente alla pensione Eros... oggi ho stretto contro il muro la cameriera ch'è una donna  di cinquant'anni... »
« Ma perché? »
« Antonio, ascoltami : devo essere io il podestà di Catania! devo essere io! È' un impegno d'onore che ho preso con me stesso e con tutti i miei parenti, che mi credono un uomo da poco! Devi scrivere al ministro! Se è necessario, andiamo insieme a Roma... Pago io le spese del viaggio! Ma devo essere io il podestà di Catania! Tanto » aggiunse poi levando il viso con gli occhi socchiusi e lasciandosi penetrare dall'aria molle di febbraio, « questa baracca non può durare, se è vero che stanno preparando una spedizione contro l'Abissinia. Ci vuole l'ignoranza di un maestro di scuola per fare ai giorni nostri quello che l'Inghilterra faceva tre secoli addietro! Ascolta cosa scrive Croce! » « Chi ? » disse Antonio.
« Benedetto Croce, non lo conosci? Soltanto perché ci vive lui, l'Italia può dirsi abitata da uomini, altrimenti sarebbe un ovile... »
E' tirata di sotto l'ascella la « Storia d'Europa », ne lesse alcune pagine che aveva segnato con dei « No!... È sciocco!... Nooo! » per il caso che il libro fosse capitato in mano a un fanatico o a un poliziotto.
Edoardo leggeva con molto calore. Il terrazzino pieno di foglie, che piovevano ombre viola nel sole di rosa, udì la parola libertà pronunziata nel modo più dolce e disperato da un uomo di trentadue anni che sapeva di non aver la forza e la virtù per non perderla completamente.
Antonio stava per commuoversi, quando un pensiero gli attraversò la mente come uno scorpione : « E quante volte sei andato alla pensione Eros? » domandò. « Nella giornata di ieri, tre! » disse Edoardo, interrompendo la lettura. « Ieri l'altro... non mi crederai... quattro volte ! »
« E con la vechia cameriera... cos'è accaduto? »
« Oh, niente! dopo averla stretta contro il muro come se volessi strangolarla, le ho fatto: bau! in faccia, e ho finto di aver voluto scherzare. Ti prego, Antonio, ti prego, caro, scrivi oggi stesso al ministro!. »
Antonio tornò a scrivere al ministro, ma questa volta la sua lettera ebbe un esito sfortunato. Il conte K-, nella sua gentile risposta, si mostrava spiacente di non poter accontentare l'amico Antonio, perche la nomina di Edoardo Lentini a podestà di Catania non riscuoteva l'approvazione del segretario federale Calderara; il  comune sarebbe stato retto da un commissario, il viceprefetto Solarino, un cinquantenne non cattivo, ma rimasto da trent'anni tagliato fuori della gaiezza,autore di alcuni sonetti contro la Francia e la Russia.
Edoardo, saputo che il principale nemico al principale disegno della sua vita era Lorenzo Calderara, cercò di rabbonirlo, e si diede a frequentare tutti i giorni la sede della federazione fascista, un delizioso palazzo del Vaccarini, presso il cui portone, due militi, con un'aria fra stracca e bravesca, stringendo allo stomaco il calcio di un fucilone più pesante di loro, gettavano alle spalle di chiunque s'inoltrasse nell'androne, un rauco e strascicato: « Leviamoci il cappello, camerata! » E mise tanto fervore nella sua scommessa di piacere a Calderara che fini col giudicare intelligenti, fra i propri atti, solo quelli che piacevano a uno stupido.
Antonio, da parte  sua, si chiuse completamente nella sua vita privata, e passò cinque mesi felici accanto a una ragazza che gli permetteva soltanto la domenica, al ritorno dalla Messa, di correre per le scale insieme a lei, lasciando addietro i genitori che salivano col respiro grosso, e di baciarla sulla bocca presso la finestra a vetri opachi di un pianerottolo.
Egli aveva anche provato a baciarla di sorpresa nel salotto, verso l'ora tarda, quando la mano del notaio cascava dal bracciuolo della poltrona insieme al giornale che teneva stretto; ma Barbara, mettendo tutta la sua forza e la sua cura per sciogliersi dall'abbraccio senza far rumore, s'era alzata di scatto dalla sedia ed era corsa fuori del salotto, addossandosi però subito contro la porta che aveva chiuso dietro di sé, talmente le s'erano sciolte le ginocchia. Quando rientrava, i suoi begli occhi verdi, che mettevano in soggezione i predicatori della Quaresima, eran diventati tanto più severi quanto più scuro era il cerchio che li circondava. Questo faceva perdere la testa ad Antonio che da quel misto di commozione fisica e rigidezza morale riceveva un allettamento fin troppo forte, sicché egli fu costretto a chiedere il permesso di licenziarsi mezz'ora prima del solito a causa di una strana gioia che gli faceva dolere la nuca.
Uscito dai Puglisi, si dava ad errare per le vie, i viali e i cortili, pensando continuamente che nel più austero palazzo di Catania, nei cui armadi pendevano le tuniche di uno zio monaco, protetta da crocifissi rigidi come spade, dormiva una ragazza pura come l'acqua da bere e destinata a lui solo. Cosi pensando, egli percorreva la via Etnea, ingrandita dal silenzio della notte, costeggiava il giardino Bellini nero come l'ebano, imboccava il viale Regina Margherita che saliva diritto fra palazzine ingombre di terrazze, statue e palme, fino a districarsi dalla città e morire libero e alto quasi strisciando sotto il cielo; arrivato in piazza Santa Maria di Gesù, infilava la via di Cibali e, dopo un lungo rumore di passi, alcuni raddoppiati dall'eco, altri smorzati dalla fanghiglia, giungeva nella piazzetta di questa borgata, immersa fino ai tetti nel vento del mare, che da questo punto, nelle notti di luna, si vedeva sereno e tutto immobile fuorché in una striscia brulicante d'argento vivo e sulla quale la città stampava in nero d'inchiostro i suoi comignoli e talvolta una sua cupola; infine tornava per una via deserta e quasi di campagna, rasentando un lavatoio pubblico odoroso di sapone e alcuni orti di lattughe e di cavoli, finché non rientrava a Catania attraverso un dedalo di vicoletti tortuosi ancora caldi degl'infiniti monelli che durante il giorno solevano ingombrarli; e sempre, in questa sua passeggiata, teneva il capo arrovesciato e gli occhi fissi nel cielo, quel vivo, caldo, pienissimo cielo del sud che, nel punto in cui termina il tetto o la terrazza o la cima dell'albero, subito comincia, e non vago, perplesso e diradato come accade nelle città del nord, ma già densissimo e fittissimo cielo, già maestoso e taciturno quale può trovarsi a mille anniluce dalla terra.
Un brivido di freddo lo riportava a casa stanco e felice, e subito lo precipitava in un lungo sonno dal quale avevano emigrato per sempre, almeno così sembrava, alcuni sogni che, prima del suo fidanzamento con Barbara, lo avevano amareggiato quasi ogni notte.
Un pomeriggio di marzo, Barbara volle andare, insieme con Antonio, la signora Agatina e il signor Alfio, a visitare le terre dei Magnano nella Piana di Catania. Una vecchia carrozza, barcollando e pestando papaveri e margherite, li portò passo passo nel cuore di questa bella pianura a fianco della quale corrono per tutti i versi, nel lume giallastro dello scirocco e del fondo sabbioso, le onde del mare Jonio.
Questa distesa di campi termina da una parte in sabbia finissima e dorata, dall'altra, a sud sotto le montagne di Siracusa e di Lentini, a nord sotto le mura di Catania le cui ultime case già s'arrampicano su per il pendìo dell'Etna che di qui si scopre in tutta la sua vastità, sconcertante, solitario e non corrisposto come il muraglione di un tempio le cui altre mura siano quasi scomparse. Un acquazzone che si prolunghi per dodici ore basta a sommergerla completamente mescolando le acque del Simeto con quelle del Lago di Lentini; ma una giornata di sole basta altresì a riportarla alla luce, tutta verde e sgocciolante, con le strade odorose di fanghiglia e gli uccelli dimagriti dai lunghi e snervanti voli sulle erbe trasparenti attraverso l'acqua.
Nei pomeriggi di marzo, una luce limpidissima trema su questa campagna, a seconda del vento che pare sbattere il cielo stesso e fa passare velocemente davanti al sole tende rosse o gialle o turchine o marrone di nuvole. Questo vento compie dei giri pazzi per tutto lo spazio dell'orizzonte, e se ne vede il passaggio ora nella polvere che d'un tratto affumica le rigogliose falde dell'Etna, ora a levante nell'improvviso velo che abbruna la superficie del mare, ora nella pianura stessa, intorno intorno e vicinissimo, nei seminati che cascano indietro e si rialzano liberando dal proprio seno bagliori d'oro e d'argento.
Non appena si profilò il cancello del podere Magnano, con dietro il lungo viale che portava a un poggio dominato da un caseggiato, il signor Alfio spense la pipa con un colpo di pollice, si asciugò la bocca ed esclamò : « Eccolo li quello che si succhia il mio sangue! Inzuppiamoci ora delle sue lamentele! »
La persona indicata con queste parole era il mezzadro, un vecchio magro che indossava pantaloni di fustagno e una camicia pieghettata bianca, ma scurita dalla polvere, le cui maniche rimboccate lasciavano scoperte due braccia nere e asciutte da negro; il viso era solido e screpolato, con dei piccoli occhi chiari schiacciati dalla sporgenza dei sopraccigli sotto la quale pareva che non dovessero riuscire a muoversi; attorno al collo era legato un fazzoletto rosso che pendeva, con un nodo a orecchie d'asino, sulla camicia priva di colletto.
Il mezzadro si rizzò dal suo lavoro e poggiò le mani, una sull'altra, sopra il manico della zappa; poi con la destra, impacciata dalla sua stessa grossezza, s'afferrò il berretto per la visiera, cercò maldestramente di cavarselo, facendolo girare avanti e indietro attorno alla fronte a cui sembrava incollato, infine, con uno strattone forse di stizza, se lo strappò e lo tenne sollevato al di sopra della testa, sulla quale, dopo un po' di tempo, bruscamente lo lasciò ricascare.
« Ehi, Nunzio! » gridò il signor Alfio, sporgendo la faccia dal finestrino della carrozza, che s'era fermata in mezzo al viale, « così si lavora ? »
Il contadino abbassò le palpebre e scosse il capo, masticando un brontolìo.
« Quando cominciasti a zappare? »
« Stamatina » (4) rispose l'altro, abbassando di nuovo le palpebre.
« E come va ? »
« Malamenti ». (5)
« Perché, malamente ? »
« Pirchì va malamenti ». (6)
« E a te, fratello mio, se ti levano di piangere làstime, che ri rimane ? Sono venuto » disse con altra voce, « a mostrare le arance a mia nuora ».
« E unni su', st'aranci? » (7) Il signor Alfio spalancò lo sportello e usci lamentosamente dalla vettura per procurare alle sue braccia, che volevano agitarsi, lo spazio necessario : « Sentì, per il tuo dio, non mi far perdere la pazienza! Oggi è venuta qui mia nuora, e dev'essere festa per tutti, e non mi voglio arrabbiare. Signora Agatina, Barbara, Antonio » aggiunse, ficcando il viso nell'interno della carrozza, « scendete! »
Le due donne e Antonio scesero da una parte e dall'altra della vettura, sbattendo gli occhi davanti alla luce del mare che s'alzava, al di là della campagna verde e della sabbia, libero e irto di vento per tutto il semicerchio dell'orizzonte.
« Com'è bello! » fece la signora Agatina. « Evviva davvero, compare Alfio! non sapevo che fosse cosi bello ».
I seminati erano già alti, pallidi di un sentore di grano e illuminati sfarzosamente da papaveri d'ogni grandezza il cui calice traboccava luce rossa nell'aria, fra le spighe e addirittura nell'interno del solco. Impolverati d'argento, a intervalli regolari, gli ulivi avevano l'aria di persone che si fossero fermate a! richiamo di qualcuno rimasto indietro, per aspettarlo; il viale saliva verso un poggio su cui sorgeva una casina gialla dalle persiane verdi con accanto una fattoria dal muro biancastro crivellato di porte e finestre nere; a destra del viale, verdissimi, lucidi, rinfrescanti l'aria col loro alito di fontane, si stendevano i giardini di limone su su fino al poggio e, dietro, fino a un secondo poggio sul quale era stato costruito, con lastroni di lava a secco, un pozzo monumentale.
Verso questo pozzo si levò subito orgogliosamente la punta del bastone del signor Alfio.
« Guardate là, comare Agatina ! quello è il mio pozzo!... Tutti questi minchioni qui attorno » e indicò, oltre il mezzadro, alcuni contadini sparsi per la campagna, « mi ripetevano giorno e notte che avremmo trovato acqua salata. E invece io mi sono impuntato, e ho detto: no, il mare sta al mare e non dentro la terra! scaviamo e troveremo l'acqua dolce!... Se non mi fossi incaponito, questi bei giardini che state vedendo sarebbero nella mente di Dio... Ma tutto qui, cara signora, tutto, tutto è opera della mia testardaggine. Ogni albero è una sentenza capitale per me, perché ho dovuto bestemmiare cento volte prima di dargli il suo assetto... Venite qua, guardate! »
Ringiovanito dall'aria del suo podere, il signor Alfio procedette per il viale con passo rapido: il mezzadro lo seguiva da un lato, sempre con una smorfia di malumore sul viso, e la signora Agatina dall'altro, tenendosi forte il cappello, alle cui penne il vento s'era aggrappato con tutto il suo peso ; dietro veniva Barbara con una mano nelle mani di Antonio, gli occhi accesi e felici sul podere che stava per essere suo.
« Ecco qui gli aranci! guardate che bellezza! » fece il signor Alfio, drizzando la punta del bastone verso un pezzo dì terra ove i limoni cessavano di botto e s'infittivano, luccicanti di rosso, gli aranci. « Ehi, messere e bestia! » gridò poi, rivolto al mezzadro, « non mi vuoi dire che queste non sono arance? »
Il mezzadro storse la bocca e abbassò le palpebre. « Bè, che dici ? » incalzò il signor Alfio, « ti è cascata la lingua? »
« Ma unni 'i vidi, st'aranci? » (8) gemette il contadino.
« Ma come, dove le vedo? Qui, qui, qui, e qui! Vieni con me, avvicinati : questa, guarda, questa che tocco col bastone, cos'è? »
Il contadino sporse la bocca e abbassò le palpebre.
« Parla, per il tuo Dio, cos'è? » Il contadino ripetè il suo gesto.
« Cos'è? patata?... pomodoro?... o quel cetriolo secco che sei tu? »
« Chisiu è 'n'aranciu. E chi vordiri? » (9)
« Come, che vuol dire? vuol dire che le arance ci sono!»
« Unittuì » (10) fece il contadino, drizzando l'indice di una mano e voltandolo a destra e a manca. « E pi' unu!... » (11) esclamò dopo una pausa, con l'aria di voler dire: « E' per una sola arancia stai facendo tanta festa? »
« Ma là, là, là e là, non ci sono altre arance? »
« Picca ci n'è... nentiì » (12)
« Niente?... Ma allora sei orbo! »
« Nun sugnu orbu. A tia, ti fanu l'occhi stasira, Al fluì » (13)
« Ah, io travedo stasera ? Io, una sola volta travidi, fratello mio, e fu quando ti diedi in mezzadria questa sventurata terra. Oh, mi fosse comparso un angelo a dirmi quanto me ne sarei pentito!... Ma deve venire il comunismo, santo Dio, che mi voglio ingrassare i fianchi a vedere come te la passi ! »
« Ah, macari 'u comunìsimu avi a véniri ora? Sintemu st'autra ». (14)
« Si, deve venire il comunismo! » La signora Agatina guardò allibita i due fidanzati, cercando una spiegazione, ma Antonio le strizzò l'occhio.
« E iu chi ci perdu? » (15) disse il mezzadro.
« Ci perdi di poter fare il tuo comodo e di rubare, perché ti mettono una catena al collo come a un cane, ti legano a un tronco d'albero e ti fanno lavorare finché crepi!»
Frattanto erano arrivati sul poggio e i cani abbaiavano da tutte le parti, scuotendo le palizzate e i casotti a cui erano legati; le galline fuggirono ad ali tese dietro i galli che stridevano, in mezzo a un rotolìo di pulcini gialli. « Ma 'a terra ci 'a perdi tu! » (16) aggiunse il contadino.
« E va bene, io ci perdo la terra! Ce la perdo, si'! ma ce la perdo con piacere, perché, tanto, va a finire tutta nella tua pancia, questa terra sventurata! »
« Pirchi 'a chiami sempri svinturata, sta terra ca ti desi 'u Signuri? nun è di giustu!» (17)
Pazzo sei! Nessuno avrà terra, con quelli lì: chi vuole terra, se la cerca al camposanto! E tu dovrai filare diritto, e lavorare buttando sangue, perché se non lavori buttando sangue t'impiccano a un carrubo e d fanno mangiare dalle formiche. Cosa credi che sono come Alfio Magnano, i comunisti ? Quelli, fratello mio, ti seppelliscono vivo con la testa di fuori, e poi ti camminano sugli occhi! »
« Iu nun saccìu nenti, Alfiu. Stai parrannu ammettala. Iu nun vogghiu né comunìsimu né autri nòliti: vogghiu suiti travagghiari ». (18)
« Travagghiari picca e arrubbari assai: chistu vói tu ». (19)
« Iu non arrobbu, Alfiu ». (20) « Tu ti mangiassi macari a mia ». (21) « iu nun mi mangiu a nuddul » (22)
« Basta! » gridò il signor Alfio esasperato, « basta, hai capito? Non tollero che tu parli in codesto modo con me! basta! »
« Ma ch'aviti, ch'aviti? Sempri ca facìti battana, vuatri dui! »(23) stridette una novantenne dalla soglia della fattoria, agitando, in cima a un braccino del tutto spolpato dagli anni, una grande mano storta. « Dui fratuzzi di latti, signuri mei, ca nun avìs- siru a vìdiri di l'occhi unu pi' l'autru, e taliati comu s'accapiddìunu! » (24) « Mamma Tanina » fece il signor Alfio, avvicinandosi a quegli occhi che vedevano appena qualche ombra e in cui la pupilla e il bianco si erano mescolati, come il torlo e la chiara nell'uovo che si rompe, « mamma Tanina, il mio fratello di latte, dopo la sua mammella, aveva il vizio di succhiarsi anche la mia. È vero o no ? » Il viso della vecchia parve insanguinarsi, le gengive e gli occhi mostrarono il loro rosso scarlatto. Ella sorrideva.
«Eh, mamma Tanina, non dire di no! Faceva cosi, questo malacarne! »
« Veru è, veru è »(25) consenti la novantenne, sorridendo sempre a quel modo e scuotendo la mano verso il vecchio figlio Nunzio e il vecchio figlio di latte signor Alfio.
« E dunque ? mi rubava allora e mi ruba ora ! »
La novantenne fece col capo una moina, come quando per timidezza giovanile si vuole nascondere il proprio riso allo sguardo degli altri.
« Oh, Alfiu, Alfiu! » esclamò, « sempri 'u stissu si tu, ca ti spercia di jucari! » (26)
« Oh, Nunziu, Nunziu!... dovresti dire invece, mamma Tanina! »
Poiché le cose si mettevano sulla buona strada, e tutti ormai sorridevano, Barbara poggiò una mano sul petto di Antonio e gli disse: « Su, conducimi al pozzo! » « Al pozzo? » fece Antonio incerto, guardando verso la parte della campagna ch'era tutta immersa nel lampo del vento.
« Che gli dici, al pozzo, Barbara? » intervenne il signor Alfio, « quello li non ci sa andare ».
« Non ci sa andare? » ripetè Barbara, sorridendo credula.
« Te lo dico per davvero: non ci sa andare! Io gli ho preparato, col mio sangue, tutta questa grazia di Dio e lui non conosce nemmeno i viottoli, e non sa deve mettere i piedi ».
« Ma non è vero, papà! » fece Antonio, ed essendosi ormai reso conto di quale fosse la via più breve per giungere al pozzo, diede una stratta alla mano di Barbara.
« Vieni » disse,
« Vengo anch'io! » gridò il signor Alfio. Ma i due fidanzati si erano messi a correre per il viottolo sopraelevato e sostenuto da un muretto, ai piedi del quale scorreva un rigagnolo, e poco giungevano sull'altro poggio.
Qui il vento era violentissimo, e andava ferendosi sui lastroni di lava del pozzo che risuonava cupamente.
Barbara, coi capelli palpitanti fuori delle forcine, uno sguardo regale sugli ulivi, i limoni e i seminati che si stendevano da ogni parte col nome del suo Antonio e in mezzo ai quali, piccolo per la distanza e affaticato dalla terra umida, si vedeva arrancare colui che li aveva acquistati ecresciuti con tanti stenti.
« È magnifico! » esclamò rivolta ad Antonio, « un vero tesoro! »
E poiché gli altri erano ancora lontani, gli buttò le braccia al collo, e per la prima volta fu lei ad avvicinargli la bocca alla bocca per  dargli un lungo bacio.
« Caro, caro! » ripeteva, « Caro! »
La luce che aveva colpito gli occhi di Antonio, mentre Barbara lo baciava con un fiato ora freddo caldo, ora spento come se il petto le si fosse fermato, ora ansimante come nell'affanno di una gioia intollerabile, si confuse nel suo ricordo con la felicità stessa, una felicità che lo tenne sotto il suo dominio per tutto il tempo che lo divideva dal giorno delle nozze, lasciandogli perfino, dentro quel suo ricco e generoso dominio, lo spazio per sofferenze e inquietudini, brevi però, e legate sempre a lei, come le pietre all'oro in cui sono incastonate.
Questa sua felicità s'interruppe seriamente durante la cerimonia delle nozze, mentre egli stava inginocchiato sul cuscino di velluto, sentendo dietro le spalle il brusìo degli uomini più autorevoli e delle ragazze più belle di Catania: d'un tratto gli parve che le mura della chiesa s'innalzassero a perdita d'occhio, che pesanti e neri coltroni si srotolassero davano alle porte inchiodandosi al suolo con aria irremovibile, e che i suoni stessi dell'organo, precipitando dalla cantoria foderata di quercia insieme al fragore dei canti, lo separassero per sempre dalle strade, dalle piazze, dalla stazione, dal mare, come le acque di una cascata violentissima capace di stracciare e ridurre in pulviscolo il bastimento che vi capitasse sotto.
Fu allora che volse indietro uno sguardo di animale stretto al muro, e le facce dei presenti, invece di rassicurarlo, lo spaventarono maggiormente, specie i bei volti delle ragazze nei quali gli pareva che si annidasse una maligna curiosità, un'aria di sfida ironica e quasi di soddisfazione. Più alto di tutti, vestito di nero, e curvato in avanti dal proprio corruccio, gli si profilò il padre, il signor Alfio, nel cui occhio brillava una lacrima...
Ma non fu che un minuto. Al fruscio della veste di Barbara, che s'alzava in piedi poggiando una mano sul ginocchio destro, il solito turbamento s'impadronì di lui, e la gioia lo strinse alla gola. Era il cinque luglio 1935. Quel giorno, la bellezza di Antonio intenerì anche i preti, perfino colui che aveva negato l'assoluzione alla nipote dell'Arcivescovo per essere caduta troppe volte nel peccato di cercar di disegnare su una balaustra il corpo di Antonio. Un povero idiota zoppo, riuscito a introdursi tra la folla elegante che riempiva la navata, si mise a far largo e a precedere Antonio ballando di esultanza ed emettendo grida inardcolate, talmente quello sposo gli ricordava la banda, i cortei, le bandiere e i mortaretti, tutto quanto per lui era festa e bellezza.
Molte giovani abbracciavano Barbara, lanciando però, al di sopra del nasino di lei, uno sguardo languido ad Antonio, e non si saziavano di scoccarle baci sulle guance e sulla bocca, nei punti in cui fra poco sarebbero piovuti i baci del marito. La zitella Elena Ardizzone se ne stava invece in disparte, ai piedi di una colonna, con una rivoltella a tamburo nella borsetta di coccodrillo, assaporando l'amaro gusto di vedere ogni minuto sopravvivere accanto a una rivale quel bellissimo giovane ch'ella avrebbe potuto abbattere con un gesto. E grosse lacrime le rotolavano sulla faccia porosa, pensando a se stessa, pensando quanto fosse buona, generosa, nobile, superiore, a non usare quell'arma che teneva nella borsa, e che del resto non era stata mai caricata.
Gli uomini, per distrarsi dalla gelosia che gli riempiva la bocca di amaro ogni volta che guardavano le loro donne, rosse ed agitate come se tutte avessero sposato Antonio e s'inoltrassero con trepidazione in una giornata che conduceva alla sera e quindi ai misteri della notte, ragionavano fra di loro di politica, non senza aver dato una sbirciatina all'intorno per vedere se potessero parlare del capo del governo, non insolentendolo naturalmente, ma con un rispetto moderato e senza le frasi di rito. Il commissario al comune sosteneva che in autunno ci sarebbe stata una grande spedizione militare contro l'Abissinia, come risultava in un suo sonetto composto il giorno avanti. Questo sonetto, che egli recitò senza farsi pregare, mandò in bestia il notaio Puglisi. « Non parliamo di guerra, per carità! » si mise a dire, « non parliamo di guerra proprio oggi! non chiamiamo vento in mare! usciamo piuttosto!... usciamo dietro gli sposi! »
Questa esortazione fu subito eseguita.
Fuori della chiesa, un cielo di platino abbagliava la strada piena di gente che, facendo solecchio, s'indicava gli sposi, ritti sul primo gradino del rialto.
Antonio, colpito dal sole, socchiudeva gli occhi e raggrinzava la pelle delicata e trasparente di barba, con l'espressione, forse involontaria, di chi sta carezzando un viso amato.
Le ragazze dei balconi dirimpetto eran tutte commosse, e colei che più delle altre riuscì a non vedere la folla, la sposa, la scalinata, la facciata della chiesa e il sole che vi pendeva sopra a picco, e a immaginare intorno a sé e Antonio quella intimità e solitudine che meglio s'accordavano all'espressione di lui in quel momento, commossa più delle altre si tirò indietro verso il muro, quasi spaventata di cascare giù.
Finalmente le macchine, che aspettavano nelle traverse di via Etnea, si disposero davanti alla scalinata della chiesa, e gli sposi, i parenti e gli invitati vi scomparvero dentro, trasparendo poco dopo attraverso i vetri degli sportelli. Il corteo si mosse e, compiuti pochi metri, si fermò, perché era già arrivato in piazza Stesicoro sotto la casa del notaio Puglisi. Parecchie ragazze fecero di corsa il breve tratto di via Etnea, che separa la chiesa dalla piazza, e riuscirono a vedere ancora una volta la sposa e Antonio nell'atto di scendere dalla macchina impacciati da un enorme mazzo di garofani.
Fu in quel momento che il marchese di San Lorenzo, fermatosi nel centro della piazza, con un pugno sul fianco, dritto sul suo vitino da cavallerizzo, pensò di denunziare tutti quei suoi parenti ai quali egli vedeva indossare il tight nonostante la disposizione contraria del segretario generale del partito; e fu pure in quel momento che una ragazza esclamò: « Son sicura che non vedremo più Antonio passeggiare per via Etnea fino alle due dopo mezzogiorno. È proprio vero che la giovinezza è finita! »
La ragazza non si sbagliava. Dopo il matrimonio, Antonio e Barbara condussero una vita appartata, e poche volte furono visti per le strade di Catania. La città sapeva ch'essi trascorrevano i loro giorni nella casa della Piana o in quella di Paternò, immersi fino ai capelli nella felicità. Il principe di Bronte, che abitava una vecchia villa cascante a due chilometri dal podere dei Magnano, disse di aver frugato fra le tendine dei due sposi col suo possente spazzacampagna e di averli sorpresi ogni volta nell'atto di abbracciarsi. Questa notizia fece molto sognare, e quando il vento di marzo scoteva le persiane, parecchie donne pensavano al bel rumore che fanno le spighe della Piana e al piacere di vederle ondeggiare attraverso i vetri di un balcone stando abbracciati a un uomo come Antonio. Cosi passarono due anni durante i quali, a ogni fin di mese, Edoardo Lentini mandò all'amico dei libri : Freud, Einstein, Croce, Bergson, Mann, Ortega, Gide presero la via della Piana e di Paternò, ma non si riuscì mai a capire se Antonio li leggesse.
« Che gli mandi, libri ? » esclamò un giorno il signor Alfio, incontrando Edoardo per via Etnea. « Quello li, me lo figuro, notte e giorno pesta nel mortaio! » « E figli, ce ne sono in vista ? » domandò Edoardo.
« Niente » sbuffò il vecchio.
« Parrà strano » osservò Edoardo, « ma quando si abusa di quella cosa, figli non ne vengono. Mi sono accorto che soltanto i mariti metodici, quelli che perdono la notte una volta la settimana, riescono ad avere un figlio dopo l'altro ».
« Del resto, anch'io ebbi Antonio dopo quattro anni di matrimonio. L'ho aspettato come il Messia, quel pezzetto di cosa brutta! »
« Andiamo che non doveva essere brutto! »
« Era peloso come una scimmia!... Dopo, a dire la verità, si aggiustò ».
« Mi pare che si sia accomodato anche troppo bene! »
Il vecchio sollevò il muso in aria com'era solito fare quando voleva nascondere la sua soddisfazione e, strettosi il bastone dietro le spalle, si allontanò senza dir nulla. D'un tratto si voltò, e agitando il bastone verso Edoardo : « A te » si mise a gridare a voce di testa, « non ti ci fanno mai podestà ? »
Edoardo arrossi fino ai capelli e corse a casa in preda a una crisi di nervi.
« Quel vecchio stolido compromette ogni cosa! » andava ripetendo per le stanze e i corridoi. « Se una frase simile arriva alle orecchie di Calderara, cosa del resto molto probabile con le tante spie che passeggiano per il corso, la carica di podestà non me la dà nemmeno Cristo sceso in terra! »
Ma questa delusione non gli sarebbe toccata. Una settimana dopo, Caldèrara veniva nominato vicesegretario generale del partito e si trasferiva a Roma, lasciando nel suo posto di Catania un tale Pietro Capano, un greve giovane di venticinque anni, con gli occhi sporgenti come due palline di vetro e la testa rapata, il quale nient'altro sognava se non di rientrare, rispettato e temuto, entro quell'aula di liceo in cui avevano studiato suo padre, suo zio e suo fratello e in cui tante volte gli avevano detto: « Ma allora tutti cretini siete, nella tua famiglia? »
 Calderara, giunto a Roma, andò ad ossequiare il conte K. che, per mostrarsi informato della faccenda di Catania, gli parlò di Edoardo Lentini, il cui nome aveva fresco nella memoria, per averlo ritrovato nella lettera che Antonio gli aveva mandato nel '35 e nella quale il figlio maggiore teneva nascosto un brillante rubato alla madre. Calderara credette di capire che il conte K. fosse veramente amico di Lentini e, prima di licenziarsi, buttò come a caso la proposta che egli venisse nominato podestà di Catania. Il conte non trovò nulla da obbiettare, e cinque giorni dopo, Edoardo, rientrando in casa, trovò due operai arrampicati sul balcone con un filo e un martello in mano.
« Il municipio ci mette a sue spese il telefono in casa » spiegò la moglie.
Edoardo temette di capire e, rabbrividendo di febbre al punto che dovette coprirsi con uno scialle, aspettò che l'impianto fosse terminato.
Non appena gli operai dissero: «Ecco fatto!», l'apparecchio trillò, e cento voci, una dopo l'altra, salendo in processione dai quartieri degl'impiegati e da quelli dei nobili, si congratularono con quel giovane ravvolto in uno scialle per la sua nomina a podestà di Catania.
Era il due gennaio 1938.
Tre mesi dopo, Antonio e Barbara tornavano a stabilirsi a Catania, in un'ala del palazzo Puglisi. I due sposi furono invitati la sera stessa da Edoardo ad assistere alla Norma, nel palco del podestà. Tutti i binocoli erano puntati su di loro. Nei corridoi, durante gl'intervalli, gli amici abbracciavano Antonio: « Ma come fai » gli dicevano, « a diventar sempre più giovane e più magro? A noi, dopo il matrimonio, ci è cascata fuori una pancia che pare un sacco di crusca! »
« Vuol dire che per lui » disse furbamente Luigi d'Agata, « il matrimonio non è un riposo! »
« Povera cugina mia Barbara » esclamò fra i denti Edoardo Lentini, « che non può mai vedersi luce, con questo canterano sempre sullo stomaco! » L'indomani cominciarono le visite dei parenti e gl'inviti a pranzo.
Il signor Alfio camminava per via Etnea tra il figlio e la nuora, fermandosi ogni momento davanti agli specchi dei caffè, con la scusa di osservare gli agnelli di zucchero trafitti da una bandierina rossa, ma in verità per vedere Antonio, se stesso e la nuora tutti in fila come in un quadro.
« Si vogliono bene » diceva la sera, nel salotto, ai parenti che venivano a trovarlo,
« si vogliono bene: ecco tutto! »
« Non ci vuole sforzo a voler bene ad Antonio! » osservava qualche zia vestita di nero.
« Ci vuole e non ci vuole ! » ribatteva il vecchio, per provocare nuove adulazioni.
« Mio figlio bisogna accarezzarlo per il verso giusto, se no graffia come un gatto ».
« Sentimi bene! » gli disse la moglie, una sera, dopo che gli ospiti se ne furono andati. « Tutta questa confusione a casa mia mi mette il fuoco nella faccia come se avessi la febbre. Diventiamo la favola del paese, se seguitiamo a parlare cosi del nostro Antonio. La testa mi dice che qualcuno si diverte alle nostre spalle ».
« E che sei, nel sonno ? » esclamò il vecchio. « Ancora deve nascere quello che si mette me in tasca! In ogni modo, tutta questa gente per casa, che rovinano i pavimenti coi piedi ferrati come quei muli che sono, non piace nemmeno a me! » Per qualche tempo, i due vecchi non ricevettero nessuno, ma sul principio di maggio, dovettero offrire il caffè alla cugina Giuseppina, una cinquantenne mezza sorda che parlò per due ore di continuo, agitando, come un cavallo al trotto, le piume che aveva in testa, e alla fine, nell'atto di licenziarsi, domandò al signor Alfio : « È vero che Barbara Puglisi sposa il duca di Bronte? »
« Ma che andate strologando? » le gridò il signor Alfio, sfiorandole i capelli col naso. « Barbara Puglisi è mia nuora!... »
Per tutta risposta la vecchia si mise a ciondolare la sua faccia di legno tenendo la bocca semiaperta e non dicendo nulla.
« La moglie di Antonio!... di mio figlio! » aggiunse il signor Alfio alzando ancora di più la voce.
« Appunto per ciò » rispose la vecchia. « Come, appunto per ciò ? Avete capito quello che vi ho detto? »
« L'ho capito, quello che mi avete detto. E io ho risposto : appunto per ciò ».
« Ma allora è vero che non ragionate ? »
« Cugino Alfio, credete a me, nella nostra famiglia io sola ho la testa sulle spalle ».
« Sara » mormorò il vecchio alla moglie frenando a stento la sua collera, « accompagnala tu, perché se io vengo sulla porta, quanto è vero Dio, la butto dalle scale come quel sacco di panni sporchi che è! E dille che si lavi con una striglia prima di andare in casa delle persone! »
La signora Rosaria accompagnò la parente fin sulla porta, la baciò lesta lesta, e tornò dal marito.
« Ora vedete, signori miei ! » brontolava il vecchio. « Le spiego come stanno le cose, le dico che Barbara non può sposare nessuno, perché è già sposata, perché è mia nuora, perché è moglie di Antonio, e lei mi risponde : appunto per ciò. E inoltre pretende che il rimbambito sono io! »
« Ma Alfio » fece la signora, « diventi stupido davvero! »
« Perché divento stupido davvero? »
« Ma come puoi stare a ragionare con una pazza che ti fa un discorso senza capo né coda? »
« Forse ha voluto offendermi ».
« E che offesa c'è a dire una cosa che non sta né in cielo né in terra? »
« Non lo so, ma forse ha voluto offendermi.»
« Via, Alfio, mangiamoci quel morso di veleno, e andiamo a coricarci! »
I due vecchi si sedettero in sala da pranzo, l'uno di fronte all'altro, e mangiarono in silenzio la loro scarola.
« Sai cosa ha voluto dire ? » esclamò il signor Alfio, quando ebbe accesa la pipa, « che... cosa li..Barbara e Antonio non vanno d'accordo ».
« Guarda cosa vai a dissotterrare ! Quei due stanno tutto il giorno insieme... un passo fa lui e un altro ne fa lei... perché non dovrebbero andare d'accordo? »
« Che ne so io ? Ma a Catania non sanno stare zitti perché gli brucia il didietro. Sai cosa dicono? che tuo figlio strapazza la moglie ! »
« Come la strapazza? »
« E via, porco demonio, devo dire tutto ? Tuo figlio è peggio di un montone, e, se ha una donna vicino, non la lascia mai in pace ».
« Antonio è un marito come tutti gli altri! »
« Questo, tu lo sai che non è vero! Antonio ha la faccia che pare un angelo di zucchero, ma sotto sotto è un montone!... A Roma teneva tre e quattro amanti in una volta! Se ora tutti i suoi fiumi vanno allo stesso mare, poveretta quella moglie che ha!... Ha ragione di essere seccata... In ogni modo, domani voglio parlare col notaio!»
« Va bene, domani parli con chi vuoi, ma ora andiamo a coricarci, ché il sonno a te non ti fa ragionare... E non perdere tempo a guardare sotto i letti!... Non ne vengono, ladri, da noi poveretti... Lo sanno dove devono andare... »
Capitolo 5
«... e si vedrai Cose che torrien fede al mio sermone ».
Dante
« Basta la musica, che la cucca non c'è ».
F. Lanza
« Ma come, della donna?... » « ...maschile ».
« E dell'uomo?... » « ...femminile ».
« Com'è curioso questo vostro dialetto  » x « Ecco qua, ecco qua dunque che avevo ragione io!... Le cose stanno come dicevo io! » si mise a gridare il signor Alfio, riponendo il microfono sulla scrivania alla quale era seduto, e storcendo la testa verso il corridoio, come una lumaca.
« Vieni un po' a sentire! Sara! Rosaria... E chi parla? nessuno? »
La signora Rosaria apparve sulla soglia del salotto, affannata e rossa di fatica per avere staccato dalla parete un grande quadro di Sant'Agata che teneva tuttavia in mano.
« Sempre Santi hai per le mani, tu? E lasciali stare in pace, ...che anch'essi hanno i loro... ehm... per la testa!... Hai sentito dunque? Avevo ragione io! Mi ha telefonato or ora il notaio Puglisi con una voce di madre badessa e mi ha detto che deve parlarmi, che le cose non vanno bene, che dobbiamo vederci subito! »
« Oh, Signore, aiutateci! E tu che gli hai risposto? »
« Che sono qui ad aspettarlo e che, passando dal tabaccaio, mi prenda due toscani, dato che mia moglie », aggiunse con voce severa e allusiva, « questa mattina, ha dimenticato di farmeli comprare ».
« Hai testa di pensare a queste cose, tu! »
« Cosa vuoi, che mi vesta a lutto perché tuo figlio fa il gallinaccio? Ora vedete! Lui si diverte a grattarsi e io mi prendo le sue pulci!... E poi, poi... questo coso li... notaio, con la voce fina fina, con la faccia troppo seria ! Cosa desidera ? che Antonio porti fuori di casa quello che deve rimanere in casa? che si pigli una mantenuta? che faccia gonfiare la pancia alle cameriere? Se sua figlia piace tanto a mio figlio, lui non se ne immischi! Il pane, a casa propria, ciascuno se lo fa come vuole lui. Si sono forse sposati con l'acqua dell'insalata? »
« Padre, Figlio e Spirito Santo! Che vai dicendo? »
« E allora ? li lasci stare ! lo sapeva che mio figlio era un uomo con tanto di pelo! »
« Zitto! Hanno suonato... Madonna benedetta, aiutateci! »
« Oh, Sara, non mi seccare! di che hai paura? »
« Non lo so, ma è meglio quando queste cose non succedono ».
In quel momento, si senti una voce nel corridoio: « Signorina, il notaio! »
« Fallo entrare, fallo entrare subito! » esclamò premurosa la signora. « E dove lo lasci, nel corridoio ? Compare, perché fate tanti complimenti? Entrate! Siete a casa vostra ».
Il signor Alfio si alzò pesantemente dalla sedia: « Mi avete portato i sigari ? » domandò. In silenzio, quasi non valesse la pena di rispondere a una domanda così futile, il notaio entrò nel salotto, con la giacca nera, i pantaloni a righe e il cappello di feltro nero in mano. Il suo viso era pieno di gravità, i peli della testa e del mento tutti in ordine come i numeri su un foglio di conti, nei due piccoli occhi stava innestato rigidamente lo sguardo con cui egli spingeva i moribondi a dissuggellare la bocca e a parlare ancora una volta delle cose di questo mondo.
Subito il sorriso si squagliò sul volto della signora Rosaria, e lo stesso signor Alfio non si sentì l'animo di tornare a chiedergli se avesse comprato i sigari.
« Tu, Sara » brontolò egli, « lasciaci un po' soli ! Manda due buone tazze di caffè e rimetti lesta lesta il quadro di Sant'Agata là dove l'hai preso! »
La signora Rosaria sollevò il quadro coperto di polvere e, dopo aver fatto un inchino spaventato, si allontanò per il corridoio curvandosi ogni due passi per baciare il vetro che custodiva l'immagine sacra. « Dunque » fece il signor Alfio, « cosa c'è ? »
Il notaio si sedette in una poltrona, aspettò che il suo ospite si sedesse anche lui nel divano dalla spalliera carica di vasetti, statuine e ciondoli, aspettò che questi ninnoli, scossi dal tonfo del signor Alfio, finissero di tintinnare, e poi, abbassando gli occhi e rigirando il cappello fra le mani, disse piano piano: « C'è che le cose dei nostri figli non vanno bene! »
« Compare mio » rispose pronto il signor Alfio, « se volete che vi dica la verità, anch'io avevo oggi l'intenzione di telefonarvi per lo stesso argomento ».
« Ah, si? » fece il notaio, alzando, e piantandogli in viso, quel suo sguardo rigido come un chiodo.
« Sì. Perché anch'io... in questi ultimi tempi... avevo inteso dire... Sapete che qui a Catania nessuno si occupa delle corna che ha in testa... a tutti gli prude il didietro!...
Avevo inteso dire dunque che Barbara era dispiaciuta... »
« Non è possibile ! » interruppe secco il notaio. « Cosa, non è possibile ? »
« Che mia figlia abbia parlato di un argomento tanto delicato. Voi conoscete la sua educazione, la sua indole, il suo modo di comportarsi! »
« Andiamo, notaio! Nessuno ha detto di aver sentito dalla bocca di Barbara una qualunque parola a questo riguardo. Ma... a Catania siamo fatti cosi... le cose ce le leggiamo negli occhi... basta un gesto, basta un sospiro, e tutti credono di aver capito... »
« Non vorrei che avesse parlato vostro figlio! »
« Ora state sbagliando voi, notaio carissimo! Non conoscete Antonio, non lo conoscete davvero, e non sapete quale tesoro avete per genero! »
« Io sono il primo ad ammirare la bontà, la squisitezza, l'ingegno di vostro figlio... Ma purtroppo, nella vita coniugale, come voi sapete meglio di me, ci sono anche altre cose che hanno la loro importanza... »
« E via, notaio ! Hanno importanza, si, ma non troppa! Non dobbiamo esagerare!... Se no, gli facciamo uscire i piedi di fuori!... E prima di tutto, se volete il mio parere, i genitori, in queste cose dei figli, c'entrano come Pilato nel Credo! »
« Cosa volete dire? »
« Che i genitori non c'entrano per niente e non dovrebbero immischiarsi ».
« Fino a un certo punto ».
« Fino a un certo punto, naturalmente. Se le cose dovessero diventare gravi, se si passasse il segno, allora sì, una parola io una parola voi, potremmo far capire ad Antonio che... insomma... »
« Caro signor Alfio, le parole, in questi casi, non valgono molto ».
« Eh, no, caro notaio! non siamo bestie, siamo cristiani battezzati e cresimati! Se Barbara soffre, lui sarà il primo a preoccuparsene ».
« Barbara soffre soltanto moralmente ».
« Non capisco perché debba soffrire moralmente. Non è un'offesa, per una moglie, il fatto che il marito... sì, insomma... sia molto ardente ».
Ci fu una pausa. Il notaio aggrottò tristemente le ciglia tenendo fisso lo sguardo negli occhi del suo ospite.
« Come avete detto? » mormorò poi.
« Ho detto » ripetè il signor Alfio, un po' spazientito, « che non è un'offesa per una moglie se il marito mostra di desiderarla più del giusto! » « Ma non si tratta di questo! » disse il notaio.
Ci fu un'altra pausa.
« Come ? che avete detto ? » domandò il signor Alfio, tartagliando. « Che non si tratta di questo ».
« E di che si tratta... dunque? »
« Ah, io credevo che voi sospettaste qualche cosa. Vedo invece che siete ben lontano dal supporre quello che sta succedendo fra i nostri figli. Vi assicuro che questo mi renderà molto diffìcile spiegarmi, e anche molto penoso ».
« Ma notaio, andiamo! non mi fate stare sulla graticola! Di che si tratta? Mio figlio è forse malato? »
« Non so se si possa dire che sia malato, ma... il suo stato... »
« Ma che ha? che ha? » disse il vecchio, nascondendo il tremito della paura nel tono della collera, « che ha ? Mi fate morire ! Che ha ? »
« Calmatevi, vi prego! La sua salute non è per niente minacciata ».
« Rosaria » gridò il signor Alfio, « fammi portare un bicchiere d'acqua! »
«Calmatevi! » ripeteva il notaio, « calmatevi! Vi assicuro che Antonio sta bene; soltanto che... »
Entrò in quella la signora Rosaria, portando lei stessa il bicchiere d'acqua con la speranza di leggere, nel viso del marito e dell'ospite, una tranquillità che calmasse la sua apprensione. Trovò invece il volto del notaio chiuso strettamente come un congegno che fosse stato ancor più avvitato, e la faccia del marito mezza rossa e mezza gialla, con un occhio che andava per conto suo e pareva quasi ciondolare come un bottone allentato.
« Che avete, Madonna santa? » esclamò, non appena li vide.
« Zitta » ribatté il marito, « zitta! posa il bicchiere su quel tavolino e tornatene subito dove stavi ! »
La signora usci in tutta fretta, non senza voltare verso i due, prima di richiudere la porta, il suo povero viso esterrefatto.
« Notaio » disse il signor Alfio dopo che ebbe bevuto e fatto schioccare più volte la lingua impastata di veleno, « spieghiamoci chiaro e senza tanti ritornelli ! Cos'è accaduto ? »
« È accaduto che mia figlia, dopo tre anni di matrimonio, è tale e quale come è uscita dalla mia casa ».
Il vecchio signor Alfio balbettò: « Come? chi? » ma dolcemente, perché non aveva capito nulla, e fissò a lungo sul notaio due occhi che parevano tranquilli e pieni di sonno talmente la sua intelligenza si era confusa e dispersa.
Il notaio sospirò, accorgendosi che le sue parole, nelle quali aveva speso tanta fatica per renderle risolutive, non avevano avvicinato di un passo il signor Alfio a quella che era la verità, e i due uomini rimasero in silenzio a guardarsi, l'uno tristemente, l'altro tranquillamente.
Ma d'un tratto gli occhi del signor Alfio sfavillarono, come se qualcosa fosse esploso nel suo cervello lanciando un violento riverbero nelle pupille.
« No! » gridò, « che diavolo andate dicendo? no, no! »
« Mi dispiace, caro amico, ma, per sfortuna mia e vostra, è proprio cosi come vi ho detto! »
« No, per niente! » aggiunse, con un riso amaro, il signor Alfio, « ma proprio per niente!... ma neanche per sogno ! ma nemmeno se lo vedessi io coi miei occhi! per niente!... no, per niente! »
Egli si alzò per ridere meglio, ma con l'espressione penosa di chi, sentendosi mancare l'aria, si alza per respirare.
« Ah, ah, ah!... ma come potete essere cosi minchione da credere a una marronata simile? Chi ve l'ha detto? »
« Oh, non certo mia figlia! Se fosse dipeso da lei, le cose avrebbero potuto continuare in quel modo fino alla morte di tutti e due. Barbara è andata al matrimonio ignara di tutto, come una bambina dell'asilo. Ha creduto per tre anni che suo marito si comportasse come tutti i mariti di questo mondo. Vostro figlio, scusate se ve lo dico, ha profittato dell' ingenuità di sua moglie. Anzi, se volete sapere quello che penso veramente, Antonio si è dimostrato un uomo molto leggero».
« Ehi, notaio, non sbagliamo le parole! »
« Molto leggero,si, perché un giovane non si sposa quando sa cosa porta addosso! » « Notaio, notaio!... Cosa porta addosso, mio figlio? cosa porta addosso, Antonio?... porta addosso qualcosa che potrebbe rompervi... Dio, Dio! non mi fate parlare! » « Voi, dovete parlare? ma devo parlare io! e allora vi dico che se Antonio è stato leggero, voi siete stato più leggero di lui, perché un padre non fa sposare il proprio figlio, quando conosce il suo stato! »
« Quale stato ? quale stato, notaio ? lo stato di mio figlio è che alle donne di Catania, di Roma e di tutto l'universo, gliel'ha fatta uscire dagli occhi! Questo è lo stato di mio figlio! »
Ci fu una pausa durante la quale il notaio si prese la barbetta di sotto in su e se la torse più volte.
« Sentite, caro amico » disse poi, con voce tanto calma quanto era pallido il suo viso, « noi non dobbiamo parlare in questo modo! Cosi imbrogliamo di più la matassa, e non riusciamo mai a venirne fuori. Siamo due poveri padri, colpiti l'uno e l'altro dalla stessa disgrazia. Credete forse che mettere, sulla bocca di tutti, i fatti più intimi di mia figlia, della mia Barbara, sia per me un dolore da poco? No, caro signor Alfio, questa disgrazia mi ha scavato la fossa sotto i piedi, e se ora mi vedete con gli occhi asciutti, quando mi trovo solo piango come un bambino ».
« Ma notaio, ma notaio! » si mise ad esclamare
11 signor Alfio, e d'un tratto scoppiò a piangere lui, con uno stridore di singhiozzi cosi esile e remoto che il notaio credette ch'egli tossisse.
« Come può essere vero quello che mi dite? » seguitò poi con voce affiocchita, dopo che i singhiozzi si furono taciuti nei suoi poveri bronchi. « Io conosco Antonio. Ne ha fatte di cotte e di crude con le donne. Perché proprio ora... con sua moglie... con una ragazza come Barbara, che farebbe venire la vista ai ciechi... perché, perché?... »
« Io non lo so, perché. Ma vi assicuro che questa dei nostri ragazzi è diventata una condizione umiliante per tutti e due, una cosa che non può continuare più! »
« Che mi consigliate di fare ? »
Il notaio alzò le palme in aria desolatantente, poi le ripose sulle ginocchia.
« Prima di tutto » si precipitò a dire il signor Alfio, « dobbiamo fare in modo che la cosa rimanga fra noi, e che nessuno, dico nessuno, nemmeno mia moglie, nemmeno vostra moglie, nemmeno Gesù Cristo che ci ascolta, sappia assolutamente nulla! Mi capite, notaio?... nulla, nulla! »
Il notaio tentennò il capo, rialzò le palme in un gesto ancora più largo e lento di quello che aveva fatto prima, e fermatele cosi sospese in aria.
« Come si fa? » sospirò.
« Che vuol dire, come si fa, notaio? Non mi sembrate nemmeno voi! Si fa che ci cuciamo la bocca e non diciamo niente a nessuno! »
« E dopo ? »
« Dopo, si vedrà come stanno le cose... Parlo io con Antonio... Perché dovrò pure parlare con mio figlio!... Voi siete un uomo serio, ma chi lo sa? avreste potuto capir male! » Il notaio sorrise amaramente.
« Ma insomma » incalzò il signor Alfio, « ammetterete che io debba parlar prima con Antonio ? »
« Padronissimo di farlo. Anzi, è questo il vostro dovere. Voi dovete difendere gl'interessi di vostro figlio e io quelli di mia figlia! »
« Ma gl'interessi di mio figlio e quelli di vostra figlia, caro notaio, sono gli stessi ». « Sarebbero gli stessi., se Antonio e Barbara fossero veramente marito e moglie, ma così... »
« Che vuol dire, cosi ? non si sono forse sposati con tutti i Sacramenti ? »
« Voi sapete, caro signor Alfio, che un matrimonio in queste condizioni è come non fatto... è un matrimonio nullo! »
« E chi lo dice che è nullo ? Voi, perché oggi vi salta di dire così! » « Non lo dico io, lo dice la Chiesa ».
« Quale Chiesa, che Chiesa ? e quando lo ha detto, la Chiesa? » « Non lo ha ancora detto, ma lo dirà ».
« Notaio, voi buttate nero come la seppia. Parliamoci chiaro! Cos'avete in quella testa, dove non ci legge nessuno? »
« Sentite, signor Alfio, se la prendete di nuovo per questo verso, io vi tolgo il disturbo e me ne vado ».
« E andatevene, andatevene! » gridò il signor Alfio, di nuovo fuori di sé,
« andatevene presto! »
Il notaio s'era alzato in piedi e s'abbottonava il soprabito, stringendosi in tutta la persona ed ergendosi, sempre più asciutto, severo e scuro; ma il signor Alfio non lo vedeva nemmeno.
« E vi dico un'altra cosa, notaio ! Io non credo una parola di quello che mi avete detto! Ora parlo con Antonio e saprò la verità ».
« Ecco, bene! » disse il notaio, « parlate con vostro figlio! Io intanto mi occuperò degl'interessi di mia figlia. Buon giorno. I miei rispetti alla signora ».
E cosi dicendo apri la porta, accanto alla quale, con la testa poggiata alla parete, bianca come una morta imbalsamata, stava proprio la signora Rosaria.
Il notaio s'inchinò profondamente davanti a quella donna svenuta, e scomparve nel buio del corridoio.
« Sara! » gridò il signor Alfio, traendo la moglie verso il salotto, « hai sentito ? hai sentito ? »
« Si! » fece la moglie, senza voce, col fiato freddo freddo come uno spiffero di febbraio, « si!... fammi sedere, Alfio mio! »
Il vecchio fece sedere la moglie nel divano, le pose fra le labbra il bicchiere d'acqua che egli non aveva bevuto interamente e, accarezzatala con forza sulle guance in modo da svegliarla, si mise ad andare su e giù per la stanza.
« Bugiardo ! » esclamava, « bugiardo e calunniatore!... con quella faccia di San Giuseppe... bugiardo! Ti figuri tu » aggiunse piantandosi davanti alla moglie e scuotendo la mano levata verso il soffitto, « ti figuri tu che Antonio... mio figlio... Antonio... non fa?... Ma va', va'! vallo a raccontare ai minchioni del tuo studio, che ti stanno a sentire a bocca aperta, qualunque bestialità dici, non a me! »
E di nuovo si dava a passeggiare nervosamente pestando il pavimento a ogni passo come se schiacciasse delle bestie velenose.
« Se un pericolo correva, mettendosi in casa Antonio, era che mio figlio gli facesse uscire le corna fin dai piedi a lui, al fratello di lui e a tutto il parentado! »
« Non parlare così, Alfio ! »
« E lasciami parlare come voglio, lasciami sfogare, perdio! A me, mi viene a raccontare che mio figlio... che Antonio... mio figlio... non fa?... che cosa non fa, mio figlio? che cosa non fa... Ma non scherziamo, ma non facciamo ridere!... Qui tutti ce la facciamo! Anche io, io cosi come sono, vecchio e col diabete, se mi metto una donna sotto, mi sento l'animo di farle uscire le budella! »
« Alfietto, Alfietto, non parlare cosi! »
« Ma ci pensi, ma ci pensi, ma ci pensi?... » aggiungeva il vecchio ficcandosi la punta delle dita raggruppate a imbuto fra l'occhio destro e il naso. « Io divento pazzo! »
« Alfio, stammi a sentire! » disse la moglie con la voce dolce di chi si sente privo di forze. « Io non la vedo giusta, questa storia. Ci dev'essere sotto qualche cosa del diavolo. Da quando la nostra parente ci disse quella parola, mi sento il cuore nero nero ».
« La parente? chi?... quale parola? »
« Non ti ricordi, Alfio, cosa ci disse Giuseppina la sorda? stava lì dove ora sei tu, e ci disse: — È vero che Barbara Puglisi si sposa col duca di Brente? »
Il signor Alfio si diede ima gran manata sulla fronte. Se ne diede una seconda. Se ne diede una terza : « Hai ragione! hai ragione! perdio! hai ragione! Quel serpente sapeva... Ma certo, come no?... Vuoi che quella bestia uscisse di casa, cosi puzzolente com'è, se non c'era qualche disgrazia d'altri da rosicchiare ? Ma allora » aggiunse spaventato, « siamo sulla bocca di tutti? »
E a tale pensiero, si senti girare il pavimento sotto i piedi e dovette sedersi.
Questa volta fu la moglie che si alzò a sorreggergli la testa e a carezzargliela dolcemente stringendola contro il petto.
« No, Alfio, no! » diceva, « non ci credo che quella sorda sappia tutto. Il notaio è un uomo serio... »
« Un gesuita ! » rantolò il signor Alfio con la bocca schiacciata contro la veste di lei.
« Un gesuita, come vuoi tu... ma appunto per questo sa fare i suoi interessi, e lo capisce meglio di noi che, a far parlare la gente, chi ci perde è la donna, e non l'uomo ».
« Si » fece il signor Alfio, scostando la moglie e riprendendo il suo colorito, « si, questo è vero, ma quando si dice il contrario di quello che va dicendo lui... E allora, sì, è la donna che ci perde... Ma lui i suoi interessi li sa fare, e ha scelto la calunnia più velenosa, più malvagia, più lurida per danneggiare mio figlio, e soltanto lui! » « Ma Alfio, noi stiamo qui a stracciarci il cuore, e non facciamo la sola cosa che dovremmo fare! »
« Quale cosa? »
« Ma Alfio mio, parlare con Antonio ».
« È giusto, è giusto!... Gli telefono subito. Qual è il numero? »
« Lo sai, Alfietto: 17420! »
« Non lo so, e non lo avessi mai saputo, questo numero col diciassette davanti! » Si alzò, andò allo scrittoio e si mise a sfruconare l'apparecchio del telefono.
« Non vedo più i numeri! » gridò poi. « Dammi gli occhiali! »
« Alfio, ce l'hai sugli occhi! » Il vecchio si toccò gli occhi e dovette convenire che aveva già inforcato gli occhiali.
« Non ci vedo lo stesso! » aggiunse. « Componi tu questo numero disgraziato! » La signora si avvicinò pesantemente allo scrittoio, tolse gli occhiali dalla fronte del marito, l'inforcò lei e cercò di far girare la ruota dei numeri. Ma scoppiò in singhiozzi.
« Non ci vedo nemmeno io » esclamò. « Ci hanno tolto dieci anni di vita, questi mali cristiani! »
I due vecchi si abbracciarono, piangendosi ciascuno sulla guancia dell'altro. « Chiamiamo la cameriera! » disse il signor Alfio. « Ma prima asciughiamoci gli occhi! Nessuno deve capire niente! »
« Dammi il tuo fazzoletto, Alfio! »
«Eccolo qua, il fazzoletto!... Asciugati per benino!... li, sul naso! ti sei bagnata anche la camicetta ».
« Pazienza, Alfio, pazienza ! La camicetta si lava. Vorrebbero essere queste le cose brutte della vita. Rosina! » chiamò poi, quando si fu ricomposta alla meglio,
« Rosina, vieni qui ! »
La cameriera apparve poco dopo, con le mani rosse e bagnate, e, mezz'analfabeta com'era, stentò parecchio a comporre il numero nella ruota del telefono. Ma finalmente lo compose.
Non appena il ricevitore cominciò a suonare internamente, il signor Alfio glielo strappò di mano, e la signora Rosaria la spinse in tutta fretta fuori del salotto di cui richiuse la porta.
« Mi sento venire la febbre a dover telefonare in quella casa! » brontolava il signor Alfio col ricevitore sull'orecchio. « Non vorrei che mi rispondesse il notaio o quell'anima morta della moglie. Quanto è vero Dio, gli dico una parola che non se la scorderanno mai! »
Invece rispose Antonio. « Chi parla ? Sei tu, papà ? »
Al sentire la voce serena del figlio, il vecchio chiuse con una mano il microfono, e si mise a singhiozzare, come se avesse fatto un brutto sogno a occhi aperti, e ora si svegliasse.
« Antonio! » disse poi, « Antonio!... »
« Cosa c'è? » domandò sorpreso il figlio.
« Come, cosa c'è ? Antonio ! » E messa di nuovo una mano sul microfono, fuori di sé dalla contentezza, « Quello li casca dalle nuvole » sussurrò in fretta alla moglie. « Ma vedrai ch'è tutta una minchiata. Figurati se fosse vero?... Antonio » riprese poi, togliendo la mano dall'apparecchio, « caro, non ci sono novità? » « No, nessuna, almeno che io sappia ».
« Proprio nessuna nessuna ? 
« Papà, non capisco. Di quale novità parli? » Il vecchio si mise a roteare il braccio sinistro per far capire alla moglie la sua felicità.
« Ma insomma » continuò, « non hai nulla da dirmi? »
« Non capisco... che cosa dovrei dirti? »
« E allora » disse il signor Alfio, con voce solenne e alta, « tuo suocero è un farabutto come non se ne sono mai visti! » Ci fu una pausa.
« Perché dici cosi ? » fece Antonio, con una voce che parve d'un tratto turbata.
« È stato qui stamattina, non lo sai ? »
« Da te? »
« Da me, si, a rompermi il cuore con certi discorsi che se li avessi sentiti tu!... C'è qualcuno vicino a te? »
« Si » fece Antonio, con un filo di voce, « ma parla! »
« Ma come posso parlare, se le cose che mi ha detto quell'uomo mi bruciano le labbra?... È un pazzo da manicomio, figlio mio! Fategli mettere la camicia di forza, quando torna a casa! E chiudetegli la bocca, perché a ogni parola che dice ci fa sprofondare nella merda tutti quanti siamo!... Ma sai cosa ha avuto il coraggio di dirmi, qui, in questa stanza, che io non gli ho fatto mangiare la sua barbaccia di montone perché ero a casa mia?... Mi ha detto: "Barbara..." oh, che mi fa schifo ripeterlo!... "Barbara, dopo tre anni di matrimonio, è tale e quale come è uscita..." » Antonio chiuse il telefono.
Capitolo 6
« Mi dice il cuore che tiranna siete o mi scordaste e che più non mi amate ».
Canzone siciliana
« Oh, quella sciagurata nostra notte... »
Shakespeare-Ungaretti
« Quando uno ha fatto la minchioneria è meglio star zitto e non parlarne più... »
G. VERGA Egli era diventato pallido e sbatteva i denti, gocce fredde di sudore gli correvano lungo i fianchi e sul petto, dallo stomaco in giù si sentiva denso e pesantissimo come se tutto il sangue gli si affollasse ai piedi impaziente di seppellirsi e sparire, dallo stomaco alla testa invece diafano e quasi vano, con pensieri che passavano velocissimi nel cervello come palpiti di vento in una foglia morta, pieno della paura insensata di chi vede scoperto il suo delitto dopo anni di storture e dissimulazioni, e nello stesso tempo gravemente consolato ed estenuato dal possente piacere della verità.
Il suo primo impulso fu di uscire in punta di piedi e fuggire a nascondersi in una casa di campagna o fra due pietre, come una lucertola, ma alcune voci di donne, e il rumore dei sandali dello zio monaco, e il suono dell'orologio del palazzo del tribunale, gli dissero, non si sa come e perché, che l'ultima parola non era detta e si poteva ancora correre ai ripari.
Egli usci in tutta fretta, senza nemmeno salutare la moglie e, percorsa la via Etnea sfolgorante di sole, si recò difilato nello studio del suocero. Scostò i pesanti tendoni che si paravano davanti alla porta, ed entrò nella stanza a terreno senza veder nulla e nessuno, abbagliato com'era dalla luce dell'esterno.
Il notaio invece lo vide stagliarsi nettamente, nel lampo che aveva mandato la strada attraverso le tende, e si alzò dal banco, davanti al quale sedeva con una penna in mano e una matita dietro l'orecchio, circondato da contadini vestiti di velluto.
« Un momento! » disse ai contadini che tenevano le grosse mani posate intorno intorno alla scrivania, « devo parlare con questo signore! »
E preso subito per un braccio Antonio, come si fa con le persone da cui si teme un'escandescenza, lo condusse nel retrobottega, attraverso un corridoio piccolo e basso in cui le vecchie carte mandavano l'odore delle tabacchiere di bergamotto.
Il retrobottega aveva il soffitto alto; diecine di sedie, le une sulle altre, alternativamente in piedi e rovesciate, si ammucchiavano in un angolo della stanza, tenendo l'ultima fila, tra le gambe ricurve, i ritratti di tutti i notai Puglisi ch'erano stati padroni di quello studio nel corso di due secoli; in un finestrino tondo, lampeggiava il sole di maggio.
Antonio si portò una mano alla fronte, sentendo che nel suo viso non c'era una goccia di sangue, mentre in quello del suocero sembravano affluire e concentrarsi tutti quegli altri visi di notai che sporgevano dall'alto trono di sedie.
Incapace d'iniziare il discorso, egli si mise a guardare il suocero, fissandone, di fra i peli della barba, le labbra sottili, diritte e rosse che non accennavano ad aprirsi.
« Figlio mio » disse finalmente il notaio, dopo aver lasciato a lungo il suo viso in balia di quei due occhi umidi, ardenti, interrogativi e disperati, « renditi conto che non potevo fare diversamente! »
« Ma perché ? » fece Antonio, « perché ? » E si gettò un debole sguardo dietro le spalle, come cercando qualcosa.
Il notaio trasse premuroso uno sgabello dal mucchio delle sedie e lo pose dietro le ginocchia di Antonio, che vi cascò sopra adagio adagio, sillabando ancora una volta : « Perché ? »
« Antonio, tu sei un uomo! » disse il notaio, e subito arrossì, come se, involontariamente, avesse detto una parola il cui significato poteva suonare ironico.
Antonio si accorse di quel rossore e, acutissimo com'era nel cogliere i pensieri degli altri su quest'argomento e a seguirne il corso tortuoso fin nell'interno delle menti, divenne ancora più smorto.
« Tu sei un uomo » insistette il notaio, dopo aver pensato che l'unico modo di non offendere Antonio era quello di non considerare offensiva la frase che aveva già pronunziato, « e devi mostrarti coraggioso ! È accaduta una disgrazia, cosa ci vuoi fare? Ne accadono tante, e questa con le altre! »
« Ma quale... disgrazia? » mormorò Antonio. « Io non capisco! »
« Oh, no, no, no, no! non ci mettiamo su questa strada, Antonio! Tu fidi nel fatto di avere per moglie una ragazza che vale tanto oro quanto pesa, e preferirebbe di morire piuttosto che parlare! Ma non è generoso da parte tua! non devi contare troppo su questo, eh, eh! »
« Ma insomma! » disse Antonio, « di che cosa non avrebbe parlato Barbara? » « Antonio ! » esclamò il suocero risentito, « Antonio! Sono io che domando a te che cosa avrebbe dovuto dire Barbara se avesse parlato? Mi capisci, Antonio? »
« Io no, non capisco! » rispose debolmente il giovane, « aspetto che lei mi metta in grado di capire ! »
« Non ti basterà » disse lentamente il notaio, « che io ti dica un nome ? » « Quale nome? » « Giovanna ».
« Giovanna ? » ripetè il giovane, smarrito, « chi, Giovanna? »
« L'anno scorso, in novembre, avete licenziata una cameriera. Si chiamava Giovanna... »
« E con questo ? »
« Con questo... niente! Ma benedette le piaghe di Dio » aggiunse con voce irritata, « vuoi mettermi in croce come Cristo?... Giovanna ha parlato! non appena l'avete licenziata, è corsa da mia moglie... e ha parlato!» Il notaio lo fissò freddamente: «Ti prego di non domandarmi che cosa ha detto! »
Antonio si passò con forza una mano sull'angolo della bocca, che gli tremava in preda a un tic, e riuscì a quietarlo.
« E invece » mormorò, « vorrei saperlo ! »
Il notaio cavò da una tasca il portasigarette d'oro massiccio, lo apri, ne trasse fuori una sigaretta, lo richiuse, mettendo nei suoi gesti la forza con cui avrebbe potuto stritolare quell'arnese e la forza con cui se ne frenava, accese un fiammifero, lo portò alla bocca col tremito di chi tira il capo di un elastico ormai giunto all'estremo, lo spense con rumore, e si mise a fumare fissando il pavimento. Poi levò gli occhi, sempre lentamente e con grandissimo sforzo, e li piantò in faccia ad Antonio.
« Un giorno » disse, « Barbara ebbe un capogiro, e la cameriera le domandò se aspettasse un bambino. — Credo di si! — rispose Barbara. La cameriera era madre di cinque figli e, per fare dei calcoli sull'avvenimento che Barbara aveva annunziato, le rivolse altre domande. Cosi ella venne a sapere che, secondo Barbara, che lo aveva appreso da te, i bambini nascevano in seguito a degli abbracci fraterni e casti che, dopo la mezzanotte... »
« Basta! » gridò Antonio, alzandosi in piedi, « basta! »
« E perdio! » esclamò il notaio, buttando la sigaretta e pestandola con violenza, «certo che basta!... basta, si!... come non basta? Hai voluto tu che... »
« Non ho voluto niente ! » esclamò il giovane. « Ma queste cose, invece di dirle a mio padre, perché non le ha dette a me? Si poteva... »
« Che cosa, si poteva ? che cosa vuoi che si potesse? Sono più vecchio di te e conosco queste faccende... E so che quando, fra marito e moglie, i rapporti si mettono in questo modo, non c'è altro rimedio che tagliare: tagliare subito! » Il giovane chiuse gli occhi e poggiò la fronte sul palmo della mano, spingendo in su le bellissime sopracciglia e mostrando per intero la delicatezza delle palpebre.
Poi levò la testa.
« Subito? » disse. « Ma da novembre a oggi sono passati sei mesi! Perché ha voluto aspettare tanto, se già lei sapeva?... »
Per la prima volta, nel viso del notaio, apparve un leggero smarrimento. « Son passati sei mesi, si » rispose.
« È vero, non dico di no! son passati sei mesi!... Ma bisognava prima essere certi... parlare con Barbara... »
«Come? » fece Antonio, « da sei mesi, alle mie spalle, voi parlate con Barbara di?...»
« Un momento! » esclamò il notaio, riprendendo il suo tono severo. « Parliamo con Barbara, non è l'espressione esatta. Cerchiamo di parlare con Barbara; cerchiamo di convincerla... »
« Convincerla a che? »
Il notaio contrasse e rimpicciolì le pupille, come chi vuole mirare bene prima di scaricare la sua frase più secca: « Convincerla a considerarsi quello che veramente è: una signorina che non ha sposato nessuno! »
« No! » gridò Antonio, « volete fare uno scandalo? mettere sulla bocca di tutti che io, che lei?... »
« Dio ci proteggerà! » disse il notaio.
« No, la prego, la prego! » esclamò Antonio.
« Ci pensi, prima!... consideri quello che avverrebbe!... »
« È forse piacevole quello che sta avvenendo ? » Antonio chinò il capo, ma, dopo aver pensato un minuto, tornò a levarlo : « Chi deve giudicare questo non siamo né io né lei. È Barbara! »
« Barbara è una giovane di giudizio! » disse il notaio.
« Che vuol dire con questo? »
« Niente, che è una giovane di giudizio. E saprà giudicare! »
« Ma Barbara sa che lei oggi avrebbe parlato con me? »
« Antonio, sei stato tu a venire qui! »
« Ma Barbara sa che lei oggi avrebbe parlato con mio padre? »
« Credo che non lo sappia! »
« Lo sa o non lo sa? »
« Credo che non lo sappia!... »
Antonio comprese che, da questa parte, si levava contro di lui un muro senza appiglio; esitò un attimo; poi scostò il suocero che stava davanti alla porta e, senza nemmeno salutarlo, usci nel corridoio, attraversò lo studio pieno di mani levate in aria, e, aperti con malagrazia i tendoni, uscì nella strada.
Bisognava parlare con Barbara! subito! senza perdere un minuto!
Ripercorse la via Etnea, urtando nelle spalle, riscaldate dal sole, di cento persone che ogni momento si fermavano, svoltò in piazza Stesicoro, infilò il portone di casa Puglisi, volò per le scale col fracasso di chi le scende a precipizio.
Trovò Barbara nella camera da letto, seduta in una poltrona con un lavoro d'uncinetto sulle ginocchia. Subito, a tale vista, avvertì in fondo al cervello quel gusto amaro che gli annunziava la nascita di un pensiero ironico del quale egli stesso avrebbe fatto le spese : infatti pensò a una giovane moglie che preparasse il corredo per il proprio bambino.
Spaventato da questi doppi sensi, allusioni, canzonature che lo stringevano da ogni parte, e in cerca di un soccorso sovrannaturale, levò lo sguardo alla parete su cui stava appeso un quadro della Madonna. Ma anche lassù lo aspettava un altro pensiero della stessa qualità del primo, sebbene vestito di una vaga felicità: la Madonna aveva avuto il suo Figliuolo senza ricorrere a quell'atto...
Egli si sedette sul pavimento, ai piedi della moglie.
« Barbara! » disse, « Barbara mia! »
E le strinse la bella mano, provando, come al solito, una fortissima emozione, fatta di desideri disperati e dell'immaginazione di un piacere quale nessuno ha mai provato praticandolo veramente.
La moglie arrossi, di un rossore che usciva a fiotti dalle guance, come il sangue da un'arteria, e si spargeva, in circoli sempre più larghi, fin sulla fronte, sotto i capelli, dietro le orecchie.
« Barbara! » disse egli, « perché arrossisci in questo modo? »
« Ti chiedo scusa » fece ella, mentre un'onda più scarlatta delle prime le sgorgava dalle guance, « ti chiedo scusa! ma non posso farci nulla! »
Egli la guardava di sotto in su, rapito dalla straordinaria. Bellezza di quel passaggio di riverberi rossi, e ferito dolorosamente dai pensieri che supponeva si muovessero dietro quelle onde di sangue.
D'un tratto si levò in ginocchio e strinse la moglie per le braccia.
« Barbara » disse, « questa mattina è accaduto qualcosa di molto grave! Lo sai? » Ella fini d'arrossire, come se le mancasse la vita, guardò il marito negli occhi e rispose : « Si ! »
« Si? » fece egli, « mi dici si?... Tu sai che questa mattina tuo padre è andato da mio padre? »
« Si, lo so ! »
« E da quando lo sai? »
« Me l'hanno detto dopo ! »
« Ma come ? tuo padre ha fatto un passo cosi grave senza consultarti ? »
Ella raccattò febbrilmente sull'uncinetto la maglia che l'era scappata e non rispose nulla.
« Barbara » insistette il marito, sollevandole il viso per il mento, « Barbara! dimmi la verità: tu approvi quello che ha fatto tuo padre?... su, rispondi: lo approvi? » Ella tacque per un minuto, tenendo il mento nella mano di Antonio e lo sguardo lungo il proprio viso. Poi disse: « Si! » Antonio si alzò in piedi.
« Lo approvi ? » esclamò con sgomento, « lo approvi? »
E davanti al silenzio della moglie, un silenzio al quale non osava credere, un silenzio da cui si sentiva picchiare in faccia e strappare la pelle, si portò la mano agli occhi e mormorò:
« Dio, Dio, che vergogna! Dio, Dio, che vergogna! »
La moglie si rimise a lavorare sempre in silenzio, con un tremito quasi impercettibile nelle labbra chiuse.
« Ma Barbara » aggiunse Antonio, « perché, dopo tre anni di matrimonio, tutt'a un tratto, senza un motivo speciale, tu e i tuoi parenti risolvete?... »
« Sei ingiusto, Antonio! » interruppe Barbara, riprendendo un po' di colorito. « Tu sai ch'è stato solo nel novembre dell'anno scorso che io ho appreso da quella donna... »
E abbassò la testa fino a farsi cadere alcune ciocche di capelli davanti al viso che tornava ad arrossire.
« È vero! » mormorò Antonio, dopo aver inghiottito. « Ma dopo, non avevamo giurato di vivere insieme, volendoci bene lo stesso, anzi di più?... Quante volte mi hai detto ch'eri più felice così che in quell'altro modo ? che Dio benediceva la nostra casa dove non?... »
« Ma ora » disse Barbara, avvolgendosi il filo intorno alle dita della mano sinistra,
« ho saputo che la Chiesa non ci benedice! »
« E perché? » esclamò Antonio, « a chi facciamo male? »
« A nessuno facciamo male, ma il nostro matrimonio non esiste davanti a Dio! »
« Da quando lo sai che il nostro matrimonio non esiste davanti a Dio? »
« Da qualche tempo! »
« Da quando, da quando ? Voglio saperlo con esattezza! »
Barbara ebbe un attimo di esitazione; poi disse: « Da quando me lo ha spiegato il signor Arcivescovo! »
« Come? » fece Antonio allibendo, « avete parlato di queste cose anche con l'Arcivescovo?... Ma dunque sono sulla bocca di tutti, mi avete buttato ai cani di questo paese?... E mentre io » aggiunse con un tremito nella voce, « vivevo con te fiducioso, e tu ti mostravi cosi tenera e felice, non appena poi voltavo le spalle, vi mettevate subito a confabulare con preti e arcivescovi?... »
« Questo è accaduto sette giorni fa! » interruppe Barbara, « solo sette giorni fa! »
« Ma come è accaduto? e perché? cosa c'è stato di nuovo, sette giorni fa? »
« Non so cosa c'è stato, sette giorni fa, ma. Caro Antonio, io ho i miei doveri di figlia, oltre a quelli di moglie; e ho dovuto obbedire a mio padre! »
« Dunque è stato tuo padre a condurti sette giorni fa dall'Arcivescovo? » « Si! »
« E perché, quest'uomo rispettabile, ha cominciato a preoccuparsi dei nostri rapporti solo sette giorni fa? era da novembre che sapeva... »
« Antonio » disse ella risentita « tu lo rimproveri perché ha agito in questo modo o perché ha agito tardi? »
« lo non lo rimprovero, ma nessuno mi leva dalla testa che egli ha delle celate intenzioni nei tuoi riguardi! »
« Non conosco le intenzioni di mio padre nei miei riguardi, ma qualunque esse siano, non potranno che essere affettuose e oneste. Mio padre è un uomo per bene, un uomo che si confessa e comunica assai più di te, Antonio, e il mio dovere è quello di obbedirgli».
« Barbara » gridò egli, « guardami negli occhi!... Tu sai la verità, Barbara! » « Io non so nulla » disse ella, e il suo viso finì di arrossire e d'impallidire acquistando quell'impenetrabilità alta e severa per cui i Puglisi, temuti quando parlavano, erano più temuti quando tacevano.
« Barbara! » aggiunse Antonio, con tono supplichevole, tornando a sedersi ai piedi della moglie, « dov'è andato tutto il bene che mi volevi? »
« Io te ne voglio sempre » disse Barbara con dolcezza, « ma non più da moglie a marito! »
« Perché, non più? »
« Perché non siamo moglie e marito ! »
« Ma da quando non lo siamo? »
« Oh, Antonio, non lo siamo stati mai... Ma io non lo sapevo. Ora lo so ».
« E per questo non puoi più volermi bene ? »
« Te ne voglio, te ne voglio, come devo dirtelo ? te ne voglio! Ma non più da moglie e marito. È un altro genere di bene » insistette ella con gli occhi inumiditi. « Io non so quale sia il genere del tuo bene » disse Antonio, « ma so che nessuno potrebbe farmi un male più grande di quello che mi vuoi fare tu! »
« Il male peggiore, Antonio, sarebbe che un uomo e una donna, che non sono veramente sposati, vivessero ancora insieme!... Ma non ti sei accorto » aggiunse con una voce strana, « che da quando mi hanno spiegato, io non posso stare accanto a te senza diventare rossa come il fuoco ? »
« Ma noi non facciamo nulla di male stando insieme! »
« Noi non facciamo nulla, ma questo mi fa tanto arrossire! »
« Potremmo separare i nostri letti, vivere ciascuno per conto suo in due camere diverse! »
Ella scosse la testa.
« ...In due appartamenti diversi ».
Ella scosse la testa.
« Se vuoi, parto. Fingo di fare un viaggio e non torno... vado a lavorare in Africa... rimango li tutta la vita! »
« E non sarebbe peggio, Antonio? »
« No, non sarebbe peggio ! nulla è peggio di quello che si sta preparando per me!...
Sentimi! » aggiunse poi, con la voce di chi ha trovato una salvezza insperata,
« andiamo in America e facciamo divorzio ! »
« No! » rispose ella risoluta. « Io sono cattolica, e non farei mai divorzio, nemmeno se tu avessi ammazzato nostro figlio! » si morse le labbra e arrossi, sentendo di esser capitata stoltamente in una delle cinque o sei parole che aveva giurato di non pronunziare mai davanti al marito. « Caro » aggiunse, dopo essersi passata una mano sugli occhi, « chiedimi quello che vuoi, ma non cose che siano contrarie alla mia coscienza! »
« Ma se il matrimonio è considerato nullo dalla Chiesa » disse Antonio, « ebbene, consideriamolo nullo anche noi! Io vado a vivere lontano di qui... non staremo insieme, non ci vedremo, o ci vedremo come estranei, qualche volta... e tutto è rimediato! »
« No » disse ella, « tu sai meglio di me che non basta! »
« Non basta? cosa ci vuole ancora? »
« Bisogna che noi confessiamo alla Chiesa il nostro errore, e che essa lo ripari! »
« Lo ripari, come? »
« Annullando quell'atto di matrimonio che noi le abbiamo carpito quasi con l'inganno! » intervenne d'improvviso la voce della suocera, di fra le tende dello spogliatoio.
La signora Agatina apparve vestita di piume, pellicce, penne, fiocchi, veli, in un sussurrìo di sete stropicciate fra le grosse ginocchia e sotto le ascelle, mentre le piume e le penne si rimandavano e confondevano a vicenda, su per le spalle, il petto, il viso, le loro ombre lucide.
Antonio si rizzò e fece alcuni passi indietro, guardando con gli occhi smarriti alle altre due porte come se anche di li dovessero spuntare nuove persone. « Lei stava ad ascoltare? » mormorò.
« Non stavo ad ascoltare » rispose secca la signora. « Sono andata nello spogliatoio a prendere uno specchio e ho sentito!... »
« Hai fatto male a sentire, mamma! » disse Barbara, alzandosi in piedi anche lei,
« non dovevi, sentire! non dovevi! »
E cosi detto, scoppiò in lacrime, riparandosi il volto dentro il gomito del braccio destro.
Per alcuni minuti, nessuno parlò. Antonio seguiva a uno a uno i singhiozzi di Barbara, accompagnandoli col moto delle labbra, come si fa, nei momenti di rapimento, con le persone che dicono ad alta voce parole che ci convincono, ci persuadono, hanno tutta la nostra approvazione.
La suocera invece teneva lo sguardo su Barbara, ma rivolgendo il viso ad Antonio, in modo che egli leggesse, in quel giro indicatore di occhi, le parole che le stavano in seno : « Guarda li che cosa hai fatto! »
« Non ne posso più ! » esclamò d'un tratto Barbara, « non ne posso più! »
E gettati sul letto matrimoniale la maglia e l'uncinetto, usci dalla camera a testa bassa e sempre singhiozzando.
Per un poco Antonio e la vecchia signora ascoltarono allontanarsi per i corridoi e le stanze quei singhiozzi in cui l'uno e l'altra riconoscevano il timbro argentino della ragazza. Poi la suocera disse: « Come vedi, non può continuare cosi ! »
Antonio non rispose nulla. Egli non sapeva più reagire, avvolto come si sentiva da una mancanza di forze che tutto lo fasciava e consolava. Il suo volto, riflesso nello specchio tondo della toletta, e in quello rettangolare dell'armadio, era soffuso di pensieri delicati; e sulle sue labbra parevano aleggiare quelle alte parole che perfino a uno spirito nobile accade di pronunciare una volta sola nella vita.
La signora Agatina non potè trattenersi dal prendergli una mano e portarsela al seno.
« Caro » disse, « non devi scoraggiarti ! tu sei ancora tanto giovane! »
E attratta sempre di più, gli avvolse le braccia coperte di pelliccia attorno alle spalle e lo strinse con forza, poggiandogli una guancia sulla guancia. « Mio caro! » ripeteva, « mio caro Antonio! »
« Ma... ma... » balbettava il giovane, senz'avere la forza di soffiare via dalle labbra quel monosillabo che vi s'era appigliato, « ma... »
« Cosa vuoi dire? parla! con me, caro, puoi parlare! » rispondeva la signora
Agatina, stringendolo sempre più forte. « Io sono vecchia... ne ho viste tante!... e con me puoi parlare! »
« Ma io vorrei soltanto sapere » continuò Antonio con voce così fioca che la signora era costretta a guardargli da vicino le belle labbra disseccate per leggervi le parole.
« Su, parla, cosa vuoi sapere ? » domandava la signora, parlandogli anche lei piano piano vicino alla bocca.
« Vorrei sapere perché il notaio per sette mesi ha finto d'ignorare tutto, e poi d'un tratto, senz'aver prima consultato me per sentire, per rendersi conto... si risolve di convincere Barbara, la fa parlare con l'Arcivescovo, e va da quel povero vecchio di mio padre... »
« Eh, Antonio! » sospirò la suocera, tornando ad appoggiargli una guancia sulla guancia, « Antonio mio! tu devi capire! »
« Ma cosa devo capire? Io sono pronto a inginocchiarmi davanti al babbo e davanti a Barbara... se li ho involontariamente offesi! »
« No caro, no amore mio, no Antonio, non si tratta di questo! Perché deve inginocchiarsi un giovane come te? davanti a nessuno deve inginocchiarsi, il mio caro Antonio bello come il sole!... Con Barbara, non c'è stata la volontà di Dio! pazienza! vuol dire che in cielo era scritto che tu dovevi sposare un'altra! Il cielo sa quello che vuole, e quando un matrimonio non è scritto nel suo libro, abbiamo voglia, noi poveretti, di scrivere i nostri nomi l'uno accanto all'altro nel libro della parrocchia... il matrimonio rimane sulla carta!... Pazienza, amore mio! siete giovani! Eh, la vita per voi deve ancora incominciare! Vedrai che tu troverai la vera moglie, quella che ti ha destinato il Signore, e Barbara, poverina, anche lei... non vorrai che rimanga zitella!... ha i suoi diritti anche lei!... niente di male che anche lei trovi il marito che le ha destinato il Signore! »
La conversazione continuava a svolgersi in tono cosi fioco e dimesso che bastò un fruscio di seta, provocato da un movimento della signora, per coprire le ultime parole.
« Barbara si sposerà presto ? e con chi ? » disse Antonio, con tanta dolcezza quanto era acuto il dolore a cui egli sentiva di sottrarsi grazie a quel sopore che lo aveva invaso completamente.
« Sai chi è innamorato di lei? » sussurrò la suocera, avvolta anch'essa in qualcosa di strano, come il sogno di un piacere che la facesse straparlare, « ma innamorato che si farebbe a pezzi per lei e rinuncerebbe ai milioni che possiede?il duca di Bronte! »
« Ah, il duca di Bronte ? lui ? » fece piano piano Antonio, « ma non è sposato? »
« Lo sposato è il fratello, il principe, non il duca ! »
« Sapevo che in quella famiglia si sposano soltanto i fratelli maggiori! »
« Si, ma questa volta il fratello maggiore non ha avuto figli, e perciò permettono all'altro di sposarsi ».
« Oh, il duca di Bronte! » disse Antonio, col solo fiato. « Ma è cosi grasso!... almeno, mi pare! O mi sbaglio? »
« È andato a Parigi a fare una cura per dimagrire! gli è costata un milione!... E tu, amore mio, chi sposeresti, se dovessi sposare qualcuno? »
« Oh, io, niente, niente! »
«Come, niente? perché? Una disgrazia succede una volta, non due! »
« No, io niente, niente! »
« Amore mio, perché niente? »
« Niente, io, niente! »
E così dicendo, essendosi già ridotto il filo della sua voce a quei sussurrii che le menti esaltate credono di udire accanto alle tombe, e il suo viso avendo acquistato un biancore quasi lucente, Antonio chiuse gli occhi e svenne.
« Caterina! Graziella! » si mise a gridare la suocera, sentendo il giovane pesarle interamente sulle braccia, « Graziella ! Caterina ! correte ! »
E frattanto, trascinato Antonio vicino al letto, e ivi stesolo alla meglio di traverso, si sollevò di scatto, credendo (o aveva sognato?) di averlo baciato più volte sulla bocca.
Capitolo 7
« e cu ci leggi 'nta 'dda testa ? » Motto siciliano
« Donna, quanto più a dentro conobbi il vostro cuore
Tanto a darvi credenzaio son più tardo, né stimo quel di fore...»
T. Tasso
« Similmente questa nova dona
Si sta gelata come neve a l'ombra
Chè non la movese non come pietra Lo dolce tempo...
Dante Svegliatosi dal suo svenimento, Antonio non volle rimanere un solo minuto nella casa del suocero, e andò a rifugiarsi in via Pacini dai genitori. Qui si chiuse nella sua camera e per tre giorni se ne stette solo, permettendo l'ingresso  soltanto alla madre che aveva la gentilezza di sedergli al capezzale e guardarlo dormire in silenzio   sorrìdendogli  di tanto in tanto per il caso che egli tenesse le palpebre socchiuse.
Dopo il terzo giorno cominciò ad avventurarsi in alcuni corridoi e stanze, non in tutti però; poiché la cameriera non voleva assolutale vederla, spesso in queste sue sortite era preceduto da un grido del signor Alfio e della signora Rosaria « Entra nel gabinetto, Rosina e chiuditi! Te lo dirò io quando devi uscire!... »; col padre consentì d'incontrarsi, ma alla presenza della madre, mai solo; aveva sempre cura di passare  lontano dai vetri dei balconi temendo di trasparire agli occhi dei vicini, principalmente temeva lo sguardo a uncino della zitella Ardizzone, la cui testa immaginava appesa al muro esterno della casa dirimpetto come quella di un'arpia; e quando faceva buio, prima di girare il tasto della lampada, mandava la madre a chiudere bene le imposte. Cosi, prima di aprire una porta, girava e rigirava rumorosamente la maniglia, perché le volte ch'era passato silenzioso in pantofole da una stanza all'altra, aveva sempre sorpreso il padre nell'atto di picchiarsi le tempie, frenando però le mani a un centimetro dal loro obiettivo, o la madre che si premeva un fazzoletto sulla bocca, fiatandovi dentro i suoi lunghi singhiozzi.
A tutti gli amici, perfino a Edoardo, che ogni mattina mandava una guardia municipale con un cartoccio di pesce fresco, fu detto che Antonio s'era ammalato di morbillo, malattia grave per chi la prende nella maturità e pericolosa per Barbara e i suoi parenti che non l'avevano avuta durante la fanciullezza, ch'egli era stato trasportato nella casa del padre e non avrebbe ricevuto nessuno prima che si fosse guarito completamente.
« Voi » disse il signor Alfio al notaio Puglisi, « dovete promettermi, per quanto volete bene a vostra figlia, che né voi né i vostri parenti vi lascerete scappare per ancora quindici giorni il minimo accenno su quanto è avvenuto! » « Avete la mia parola ! » disse l'altro.
« Badate, notaio, che il bue si stima per le corna e l'uomo per la parola! »
« I Puglisi sono stati sempre galantuomini e sanno il loro dovere ! Vuol dire che per quindici giorni non andremo nemmeno a confessarci e la nostra bocca non saprà quello che soffre il nostro cuore! »
Ma i quindici giorni andavano consumandosi e il signor Alfio non era ancora riuscito a raggranellare il coraggio per sostenere col figlio un discorso a quattr'occhi.
Passava e ripassava per il corridoio davanti alla porta della camera di Antonio, vi si strofinava talvolta brancicandovi sopra con la mano, ma quando poi si trattava di bussare, rimaneva con le nocche sospese, aspettando che la moglie accorresse dal salotto e gli gridasse : « Alfio, che fai ? lascialo in pace, il figlio! non vedi com'è magro? », e se la moglie non accorreva, egli riabbassava adagio adagio il pugno chiuso e riprendeva ad andare in su ed in giù.
Ma poco tempo prima che scadessero i quindici giorni, prese il coraggio a due mani, apri con violenza la porta ed entrò.
« Tu mi devi dire una cosa sola! » disse senza preamboli, per usare subito quel po' di risoluzione che lo animava : « Barbara è come tutte le altre donne o ha qualche difetto? »
« Ma che difetto deve avere, Alfietto ? Noi donne siamo fatte tutte allo stesso modo!» insinuò la signora Rosaria che, vedendo il marito entrare da Antonio, era accorsa dal salotto e aveva socchiuso la porta.
« Zitta, tu! » esclamò il signor Alfio, « lasciami parlare con mio figlio! »
E spinse la moglie fuori della camera, uscendo mezzo nel corridoio per vedere se ella si allontanasse veramente. Poi rientrò e chiuse a chiave la porta.
Antonio era saltato fuori del letto su cui stava sdraiato, ed era andato a poggiare la fronte sui vetri del balcone, riparandosi però con la tendina.
« Dunque ? » fece il signor Alfio.
« No, papà » rispose Antonio voltato com'era, « Barbara non ha nessun difetto! » « E allora, perché?... Io esco pazzo! » Antonio non rispose nulla.
« Ma l'hai fatto apposta? hai voluto di proposito non?... »
Silenzio. La nuca di Antonio, cerea sotto i capelli lasciati crescere, e nondimeno incantevole, stava immobile come quella di una persona addormentata; ma in una piega della tendina cascò una goccia di sangue dal suo labbro morsicato.
« Si » mugolò egli, « l'ho fatto apposta! »
« Non voglio sapere altro! » gridò il signor Alfio, scattando su dalla sedia, « zitto! non parlare! non voglio sapere altro! mi basta... Signore, ti ringrazio!... Mi basta, mi basta! non voglio sapere altro! »
Antonio s'era voltato, pentito delle sue parole e risoluto di correggerle; ma il padre, agitando in alto le mani, usciva già dalla camera.
« Ah, per la madonna! » esclamava il vecchio trascinandosi in tutta fretta verso il salotto, « volevo ben dire... Ha voluto lui non... E avrà le sue buone ragioni. Questo lo sapremo dopo... Ma intanto mi son levato una montagna dal petto... Ora lo aggiusto io, quell'imbrattacarte con la barba di montone campanario! »
« Che è successo, Alfio ? » domandava, piena di apprensione, la moglie.
« È successo che mio figlio mi ha ridato la vita... Oh, Sacramento! Vieni qui componi quel coso li, quel numero col diciassette! ,»
« Ma che vuoi fare ? »
« Componi, ti ho detto, quel numero col diciassette davanti! »
La signora inforcò due paia di occhiali, l'uno sull'altro, e compose il numero del notaio Puglisi.
« Dunque » fece il signor Alfio al microfono, « siete voi?... E allora vi dico questo, che dobbiamo fare una cosa!... Si, sono io, Alfio Magnano... Statemi a sentire!... Dobbiamo fare una cosa, che andiamo tutti e tre, voi, io e mio figlio, da una donna... dove volete voi... anche in un casino... e voi starete li, a guardare sino alla fine!... Che cosa dovete guardare? quello che fa mio figlio! »
« Ma Alfio, ma Alfio ! » esclamava la signora, protendendo le mani come se volesse trattenerlo.
« Voi siete pazzo » rispondeva garbatamente, dall'altra parte, il notaio, « e se siete pazzo, andate a Palermo! »
« No, non sono pazzo per niente! neanche per sogno sono pazzo! E ficcatevelo bene in testa che, prima di mettere in giro le vostre male fame, dovete venire con me e mio figlio, vogliate o non vogliate, perché se no, cosi vecchio come sono, vi ci porto io per la barba e vi ci strofino il muso... là!... dovete vedere! »
« Dopodomani » rispose freddamente il notaio, « mettiamo la cosa in mano agli avvocati. Vedranno loro ».
« No! » gridava il signor Alfio, con le pupille ingrossate come se gli volessero scoppiare, « dovete vedere voi, prima, voi!... al coso li, al casino! Vi ci porto io per il muso!... »
« Ma papà, papà! » si senti gridare, a questo punto, « cosa fai, papà? »
Era Antonio che aveva ascoltato le ultime parole e strappava il microfono di mano al padre per riporlo sull'apparecchio in cui si spense, friggendo come un tizzone nell'acqua, la risposta del notaio.
« Papà, vuoi la mia morte? »
« La mia, la mia, voglio! » esclamò il vecchio, cascando nella sedia e facendosi vento con la mano. « Un po' di cosa li...di acqua! »
L'indomani la signora Rosaria andò a pregare nella chiesetta della Madonna in via Sant'Euplio.
Mentre stava inginocchiata davanti all'altare di Santa Rita, una voce disse : « So bene cosa c'è in questa povera testa! »
E la mano di un giovane sacerdote le si posò sulle trecce grigie ammassate intorno alla nuca e tenute ferme da infiniti ferretti quasi invisibili.
Era padre Raffaele, il nuovo confessore della signora Rosaria, che aveva preso il posto di padre Giovanni da quando il cuore di costui s'era fermato di schianto mentre si torceva dalla collera nel corso di una predica contro le malefatte di certi dannati, in cui alcune spie del fascio, inginocchiate tra la folla col mento sul petto, ravvisarono i nazisti.
« Padre Raffaele » fece la signora, volgendo verso di lui gli occhi di bambina spaventata, « lei sa ?... »
Il padre l'aiutò ad alzarsi sorreggendola per i gomiti: « Io so, purtroppo, so! » « Ma chi l'avrebbe pensato mai, una sventura cosi grande?... » Il prete sorrise mestamente.
« Ma è vero » continuò la signora, guardando l'uno dopo l'altro, coi suoi occhi spauriti, tutti i santi che s'affacciavano dalle nicchie e dalle cappelle, « che la Chiesa è contro di noi? »
« Cosa dice, cosa va dicendo? » sussurrò paternamente il giovane sacerdote. « La Chiesa è per la verità e la giustizia ». La signora fissò in viso il sacerdote cercando di capire perché gli occhi di quel giovane fossero cosi dolci e rassicuranti e le parole invece cosi oscure.
« E Barbara? » domandò. « Lei conosce Barbara. Come la giudica, questa benedetta ragazza? »
« Io non posso giudicarla; il compito del pastore è quello di guidare i suoi agnelli, non di giudicarli. Ma devo confessare di... » Il sacerdote esitò.
« Di?... » incalzò la signora.
« Di aver trovato in lei un cuore severo ».
« Padre » supplicò la signora, torturata dal non riuscire a comprendere le parole d'un uomo in cui riponeva tanta fiducia, « che vuol dire, severo ? »
« Vuol dire » rispose il prete, cadendo anche lui in un'altra tortura, di non poter usare le parole che gli venivano prime alla bocca, « vuol dire un cuore che Dio ha creato per confondere noi poveri sacerdoti, un cuore in cui non ci si raccapezza e non si capisce nulla! Tutti i suoi sentimenti sono in regola, noi non dovremmo che approvarli e ammirarli, e nondimeno » aggiunse, invermigliandosi bruscamente di tutto il suo sangue d'uomo di paese, « e nondimeno se dovessi ascoltare il mio sentimento, e non il mio giudizio, quella ragazza » e questo lo disse quasi gridando, « in chiesa non la farei entrare nemmeno morta! »
Il viso del giovane prete aveva perduto quel dolce colore, d'uomo stanco al crepuscolo, del quale era sempre dipinto, lunghe meditazioni e letture ritirarono le loro tracce dalle sue guance che non parvero più infossate, e la collera siciliana ribollì scuramente negli occhi distanti e un po' strabici.
« Il cuore di quella ragazza è come il polipo » aggiunse, « più cuoce e più duro diventa! più le parlate e meno la convincete, e nelle cose della religione ne sa più del diavolo! Ma vuol sapere cosa mi ha detto, non in confessione naturalmente, perché in tal caso la mia bocca non parlerebbe ?... Mi ha detto che da quando le hanno spiegato che la Chiesa considera nullo il suo matrimonio, essa non si permette più di voler bene a un uomo che non è suo marito! Ha capito ? non si permette più... È un'anima ben comoda, la sua (che Dio mi perdoni, domani andrò a confessarmi!), fatta in modo che non potrà mai e poi mai soffrire, salvo che con grande udlità propria e soddisfazione dei parenti, e non correrà mai e poi mai il rischio di perdersi né di perdere una lira! »
La signora Rosaria andò in estasi davanti alla collera del prete. Se non capiva tutte le parole, capiva bene il loro senso generale.
« Padre, non potrei parlare io con questa santa figliuola? » domandò.
« Se vuole, lo faccia! Ma ci perderà il fiato. Ormai quelle narici sono piene dell'odore dei soldi ».
« L'odore dei soldi? Che vuol dire? » mormorò la signora, riperdendo quel po' di felicità che l'aveva rianimata.
« Si, l'odore dei soldi! Il duca di Bronte, che sarà il marito di Barbara, quando verrà annullato il matrimonio con vostro figlio, possiede trecento milioni!... Guarda caso: non appena questo gentiluomo manifesta il rammarico di non avere sposato una ragazza positiva come Barbara, il padre incontra l'Arcivescovo e, dopo mille giri di parole, gli domanda consiglio sul modo con cui deve comportarsi nei riguardi del genero e della figlia... »
« Ma se da sette mesi!... »
« Già, da sette mesi egli sapeva come andavano i rapporti fra Antonio e Barbara, ma cosa vuole? in quei sette mesi non aveva mai incontrato l'Arcivescovo! Ma non c'eravate voi, poveri parroci, dirà lei, non aveva egli stesso in casa un domenicano con tanto di cordone? Oh, cara signora, lei è proprio ingenua! Ci voleva un Arcivescovo o il Sommo Pontefice in persona per aprire la bocca di un notaio
Puglisi in una materia tanto delicata! »
« Ma, padre, lei pensa che questo matrimonio sarà annullato? »
« Credo di si, cara amica. Non si faccia illusioni! se le cose stanno come si dice, il matrimonio sarà annullato! »
La signora si mise a singhiozzare piano piano: « Pensi, padre!... il mio Antonio... che quando padre Giovanni lo vedeva entrare in chiesa la domenica, si faceva brutto in viso perché tutte le donne cominciavano a stare con la testa voltata... Il mio Antonio, padre, che a Roma ha commesso tanti di quei peccati che i giovani devono commettere!... Certe volte, mi picchio la testa perché penso che il Signore mi ha voluto prendere in parola quando lo pregavo di calmare mio figlio ch'era troppo galletto!... Lo vuoi calmo ? ha risposto il Signore, ecco che te lo raffreddo per bene! Può essere, padre, che il Signore abbia voluto punirmi mandandoci questa vergogna? »
 Ma non è niente una vergogna, signora Rosaria! »
« Oh, è vergogna, padre, è vergogna!... lasci stare, è vergogna! Tant'è vero che la Chiesa ci dà torto, e anche il signor Arcivescovo, che s'è scordato quanti favori gli ha fatto mio marito, è tutto per Barbara contro il mio Antonio! »
« Oh, Dio mio, non riesco a spiegarmi! » fece il sacerdote, passandosi con forza sulla fronte il dorso della mano. « La Chiesa non dà torto a nessuno, semplicemente annulla il matrimonio! »
« E ha detto niente, padre!... annulla il matrimonio ! fa quello che vuole Barbara, che vuole il notaio, che vuole il duca di Brente... Se non ci desse torto, farebbe quello che vogliamo noi, e non annullerebbe il matrimonio!... No, padre, no! Dio ha voluto punirmi, perché io, mi fosse cascata la lingua, troppo L'ho pregato di calmare il sangue di mio figlio! Vuol dire che una madre, questa preghiera, non la deve fare nemmeno in sogno, e i figli maschi li deve lasciar fare come vogliono fare loro, e deve lasciarli divertire!... Ma è stato padre Giovanni, che Iddio se l'abbia in gloria, a mettermi lo spavento nel cuore, quando mi diceva: — Vostro figlio, se continua cosi, provoca lo scompiglio nella santa Chiesa, e la Chiesa sarà severa con lui! — Ora ecco, mio figlio è diventato un angeletto, si comporta come un angeletto sceso in terra, come San Giuseppe con la Madonna, e la Chiesa è lo stesso severa con lui, anzi di più, ed è pronta a fare una cosa che domani, a tutti quanti della nostra famiglia, ci cascherà la faccia per terra! Ma cos'ha, la Chiesa, contro mio figlio? che le ha fatto di male? che le abbiamo fatto di male? »
« Quanta confusione in questa povera testa! » mormorò il sacerdote, accarezzando scoraggiato le vecchie trecce della signora. « Come farò a spiegarmi ? »
« Ma padre, non dico giusto, non ragiono dunque? Troppo mi dispiacevo, quando venivo a sapere che mio figlio piaceva alle altre donne! E a chi deve piacere, un figlio, se non alle donne, disgraziata che sono ? Perché, invece di mandare làstime, non ringraziavo il Signore a lingua strasciconi per avermi dato un figlio cosi bello che le ragazze me lo mangiavano con gli occhi?... Ed ora... eccomi qui... che nessuno vuole aiutarmi, nemmeno lei, padre Raffaele! »
« No, signora, è ingiusto quello che dice! » esclamò il sacerdote. « Io sono pronto a baciare i piedi di suo figlio, se vuole, da quel peccatore che sono ».
E pensò a quante volte di pomeriggio, lui, nutrito di cicoria e di latte, al fine di avere un sangue fresco come la rugiada, veniva messo in uno stato febbrile dall'immagine di quella Barbara, che forse anche per questo egli giudicava troppo severamente!
« È Barbara che deve baciargli i piedi, a mio figlio ! » disse la signora, « non lei, padre Raffaele ! quella Barbara che ci ha tagliato la carne con un coltello attossicato... Padre, » aggiunse dopo una pausa, « mi deve fare questa carità, non mi deve dire di no! »
« Quale carità, signora? dica! »
« Mi deve far parlare con mia nuora, non però nella casa di quei marpioni, ma qui, in Chiesa, davanti a Gesù Cristo che ci vede! »
« Come vuole, cara amica ! Venga sabato, alle cinque del pomeriggio, e farò in modo ch'ella trovi sua nuora ».
Due giorni dopo, alle cinque in punto, la signora Rosaria tornò nella chiesa della Madonna in via Sant'Euplio.
Si staccava, in quel momento, dalla grata di un confessionale, don Luigino Compagnoni, un uomo che in gioventù aveva atterrito le campagne vicine coi suoi atti di brigantaggio : cinque ragazze avevano perduto, per opera sua, la loro innocenza sotto un albero, nel tempo che una rondine impiega per gettare uno strido... Ma che dolcezza, ormai nei suoi occhi! quale amore per le miti abitudini borghesi, nel suo modo di vestire! Il saluto più confortante e comprensivo di quei giorni, la signora Rosaria lo ricevette nel centro della chiesa da questo bravo brigante che s'inchinò ossequiosamente facendo con la mano destra il gesto di levarsi il cappello che in quel momento teneva nella sinistra.
Dagli occhi dolci del brigante ravveduto passando subito a quelli freddi di Barbara, che stava inginocchiata davanti alla cappella di Santa Rita, la signora Rosaria senti tremarsi le mani per un misto di collera e di sgomento.
« Buon giorno » disse ella con filo di voce.
« Voglia benedirmi ! » rispose Barbara.
Le due donne rimasero in silenzio, inginocchiate l'una vicino all'altra, fingendo di leggere ciascuna nel suo libro.
« Vogliamo andare in sagrestia ? » disse poi Barbara, segnandosi lesta lesta.
« Come vuoi tu » rispose la signora Rosaria.
In uno stanzino della sagrestia, dal quale padre Raffaele usci senza rumore, Barbara e la signora Rosaria stettero per un minuto di fronte, con gli occhi abbassati. D'un tratto Barbara si gettò ai piedi della vecchia e le abbracciò le ginocchia singhiozzando.
La signora Rosaria cercò di carezzarle i capelli, ma le mani le rimbalzavano continuamente per il fremito da cui erano scosse.
I singhiozzi di Barbara cominciarono piano, poi crebbero di forza e di frequenza, vi si unì una specie di grido remoto, poi le parole uscirono a frotte insieme ai singhiozzi rimanendovi però travolte, rotolate e peste.
« Perdóno! » credeva di udire la signora Rosaria, « chiedo perdono a suo figlio per l'offesa che gli ho fatto! devo subito riparare! »
La signora Rosaria si senti sciogliere il cuore e, stretta contro le ginocchia la faccia di Barbara inondata di lacrime, cominciò a consolarla.
« Basta! » le diceva, « basta! calmati, cara, basta! » Ma quale non fu la sua paura, quando Barbara, calmatasi un poco, e sceverando a una a una le proprie parole dai singhiozzi ripetè in questa forma la frase che aveva pronunciato nel corso del pianto: « Perdono, perdono, mi deve chiedere Antonio, per l'offesa che m'ha fatta! e deve subito riparare! »
In realtà, con quel pianto, ella commiserava il suo stato, e la pietà, che ancora la sconvolgeva, era tutta per se stessa.
La signora Rosaria annaspò con la bocca, non riuscendo a tirare una parola dal petto compresso dallo spavento, ma finalmente uno scatto di collera gliene gettò cinque o sei fra le labbra : « Che dici ? che stai dicendo? »
Barbara non credette di dover ripetere la frase che aveva pronunciato fin troppo chiaramente.
« Ma perché ti ha offeso, Antonio? » incalzò la povera vecchia. « Cosa ti ha fatto, a te, Antonio? »
« Signora » disse Barbata, nascondendo il viso nella veste scura della suocera,
« quando sposai Antonio, Dio è qui che mi vede, avevo la testa di una bambina di tre anni; se fossi morta allora — e questo, il Signore doveva fare! allora doveva raccogliermi! — sarei andata dritta dritta in Paradiso! Qualunque parola uscisse di bocca ad Antonio era per me legge e verità... Dio in cielo e Antonio in terra! ecco la mia religione... Gli ho voluto bene come all'anima mia!... E credevo che anche lui me ne volesse... »
« E perché, non era la verità? »
« No, non era la verità! »
Barbara riprese a singhiozzare, ma pianissimo, quasi fra sé.
« Io non sono più la bambina di tre anni che giurava nelle parole di Antonio come in quelle del Vangelo ! » continuò. « Ora io ho saputo ! » 
Ma che cosa hai saputo ? »
« Quello che una donna maritata deve sapere ».
« Ma spiégati, figlia mia! lévamelo, questo coltello, dal cuore! »
« Antonio non mi ha voluto mai bene : mi ha sempre diprezzata ».
« Ma se gli lucevano gli occhi, ogni volta che ti guardava? »
« Si, egli era gentile, affettuoso, non poteva dormire se non mi teneva abbracciata... »
« Lo vedi? lo vedi? ti portava in palma di mano come un tesoro ». Ci fu una pausa.
« Mi disprezzava! » ripete Barbara, secca.
« Finché non m'avrai spiegato perché ti disprezzava, io dirò che questa tua è una scusa! »
« Una scusa ? » fece Barbara, con gli occhi duri, « una scusa?... E allora perché mi ha trattato come un pezzo di legno? forse che le altre donne le ha trattate cosi? » La signora Rosaria tirò la sua bocca in giù, a sinistra. « Barbara » disse, « tu sei ancora una bambina! credi di sapere tutto, ma ne devi fare, di strada, per conoscere le cose della vita... Quello ch'è successo ad Antonio è una disgrazia... una disgrazia, figlia mia... che può capitare a chiunque! »
« So anche questo » ribatté Barbara, levata in ginocchio, « so che a un uomo, questa disgrazia, può capitare! » « E lo sai quando capita ? » « Lo so ».
« Capita quando vuol bene molto a una persona, quando il cuore gli batte troppo... quando quella persona egli la crede una cosa del cielo... »
« Lo so... Ma capita per uno, due, tre giorni! capita per un mese. Poi, quando viene la confidenza, quando viene la calma, e si vede che la propria moglie è una donna di carne e di ossa come tutte le altre... la disgrazia finisce ».
« E se un giovane rimane sempre con quella impressione, che la moglie sia una cosa del cielo, e il cuore, continua sempre a?... »
« No, lasci stare il cuore! nei primi tempi, è vero, glielo sentivo battere nel mio cuscino e perfino nella spalliera del letto. Ma poi nemmeno dal lato sinistro, quando egli durante la notte si stringeva la mia mano al petto... »
« Hai visto, hai visto » interruppe la signora Rosaria, singhiozzando, « quanto bene ti voleva ? dormiva con la tua mano abbracciata al petto, come faceva con me quand'era bambino! Perché è rimasto un bambino, un bambino!... »
Barbara levò il mento di fianco, con un'espressione di fastidio e quasi di noia.
« Si » disse, « ma quando dormiva stringendo la sua mano al petto, cara signora, era segno che le voleva bene: quando invece dormiva a quel modo con la mia mano, voleva dire un'altra cosa... che io per lui ero un pezzo di legno! »
« E torna, col pezzo di legno!... » fece la suocera, con la voce aspra. « Insomma, Barbara... qui siamo due donne maritate, tu non sei più una bambina, i tuoi annetti li hai anche tu, io alla tua età avevo un figlio di dodici anni... »
« Non è colpa mia » disse Barbara irritata, « se non ho un figlio! »
« Ehi, piccina! a me non mi devi mancare di rispetto! Io sono buona e cara, ma queste parolette, col veleno dei Puglisi dentro, con me non attaccano!... Io ti conto i denari che hai in tasca solo che ti guardi in faccia! » Barbara si levò in piedi.
« Calmati ! » disse la signora Rosaria, « e non credere d'impressionarmi! Ti puoi mettere in piedi, seduta, coricata, a testa sotto e piedi all'aria... come vuoi tu! Queste cose, te l'ho detto, non mi fanno né caldo né freddo! Di qui non usciremo, se non ci siamo detta la verità! »
« Lei lo sa?... » cominciò Barbara furiosa.
« Càlmati ! » interruppe la vecchia signora. « È meglio per te se ti calmi... Parlo prima io. E comincio col dirti che, a me, quella storiella del disprezzo di Antonio, non me la devi raccontare! Eh no! Voi Puglisi con me non ci potete, perché io vi leggo dentro la testa prima che diciate dui... Io conosco di voi peli e pelini!... Dunque, la storiella del disprezzo, làsciala stare dov'è! Tu lo sai meglio di me che Antonio non ti disprezza, perché non ha nessuna ragione di disprezzarti, e anzi ti vuol bene come agli occhi suoi! Mio figlio, sai come lo conosco? che al solo sentirlo avvicinare, capisco quello che ha nel cuore! E questo lo sai da quando? da sempre, da quando era bambino, che mi bastava sentirlo voltarsi nel letto per capire i sogni che faceva!... Dunque, la storiella del disprezzo, lasciala là dove l'hai presa!... Perché dovrebbe disprezzarti? me lo vuoi dire?... Sei bella come una rosa, di salute ne hai da buttarne, gli occhi verdi, i capelli neri di giaietto, la carne bianca come la tuma... eh, sembri fatta apposta per piacere ad Antonio! »
« Si, però... »
« Si però niente!... Gli è accaduta una disgrazia, a quel povero figlio! Dio non ha voluto... »
« E se non c'è la volontà di Dio... » interruppe Barbara.
« Non correre, tu ! aspetta che finisca di parlare !... Dio non ha voluto, fino ad oggi. Ma domani, chi sa ? Ti sei bagnata prima di piovere! Non eravamo dentro il fuoco che non si poteva aspettare ancora un po'! »
« A che sarebbe valso aspettare ? »
« Come, a che sarebbe valso ? Una cosa che non succede oggi può succedere domani! Antonio è un pezzo di giovane che tutte le donne se lo vorrebbero addosso!... Questa volta il diavolo gli ha fatto il cappio! Ma che vuol dire? il cappio si può anche rompere! potevi aspettare, figlia del Signore! non era l'aria che ti mancava! »
« Signora » disse Barbara freddamente, « la conversazione sta pigliando una strada che non mi piace! Io speravo che lei fosse venuta a consolarmi sapendo cosa ho sofferto in questi tre anni! »
« Ma che hai sofferto, Barbara ? » gridò la suocera. « A me, mi racconti queste cose? che hai sofferto?... Si può stare benissimo senza quella cosa ! non si muore! Mio marito andò a fare il soldato venti giorni dopo che c'eravamo sposati, e io rimasi ad aspettarlo quieta quieta per due anni. Chi ci pensava, a quella cosa ? Oh, Dio ci scampi e liberi, davvero chi ci pensava? »
La faccia di Barbara prese fuoco, gli occhi le si dilatarono.
« Ma insomma » gridò, « il Signore non mi ha messo al mondo per farmi offendere dai Magnano! Suo figlio mi lascia da canto come una pezza, lei mi insulta... Basta!...»
« Basta, un cavolo ! Se non butto fuori tutto quello che ho nello stomaco, davvero mi piglia un colpo! »
« E allora stia a sentire ! Quella cosa, di cui parla lei, io non so dove stia di casa. Fino a sette mesi fa, non sapevo nemmeno che esistesse. Stupidaggini e smanie, io nella testa non ne ho avute mai. Credo di essere la donna più fredda... »
« Ecco, ecco, ecco! » gridò la suocera, alzandosi anche lei dalla sedia, « ecco la spiegazione di tutto ! l'hai detto tu stessa!... Pigliatela con te stessa, allora, se è accaduto quello ch'è accaduto! L'ho pensato sempre che sei fredda come il ghiaccio e fai passare la voglia a chi si sente il più bravo. Pigliatela con te stessa dunque! » « Signora, la saluto! » fece Barbara, voltandole bruscamente le spalle, e dopo essersi fermata un attimo dietro la porta per quietare le labbra che ancora le sussultavano, apri il battente e s'allontanò per il corridoio, in fondo al quale, aperta una seconda porta, entrò nella navata ove subito s'illuminò del raggio multicolore che scendeva da una vetrata. Poi disparve, lasciando la signora Rosaria avvelenata fin dentro le ossa dall'insopportabile amarezza di chi sente che aveva ragione e, per essere stata costretta dal suo abile avversario a comportarsi maldestramente, è rimasta non soltanto priva di soddisfazione per l'offesa ricevuta, ma anche piena di rimorsi.
La povera donna mordeva il fazzoletto e piangeva. « Con quella ragazza non ci può nessuno! » le disse poco dopo, accompagnandola alla porta della chiesa, padre Raffaele.
« Bisognava essere prudenti ! Essa è sincera quando prova un sentimento che le riesce utile. Parla col fuoco della verità e l'infernale bravura di chi ragiona freddamente. Ella ignora in buona fede di aver pensato prima tutti i suoi sentimenti».
« Padre Raffaele, si ricorda quando, sette anni fa, mi portò l'olio santo perché ero in punto di morte ? »
« Come se fosse ieri, cara amica! »
« Mentre lei mi dava l'estrema unzione, pregai la Madonna che mi lasciasse vivere sino a farmi vedere mio figlio sposato... Oh, padre Raffaele, che preghiera ho fatto! Quanto sarebbe bello che oggi, in questo mondo, io non ci fossi! »
« No, signora, lei si sbaglia. Suo figlio non ha ammazzato né rubato. Pensi quante povere donne sono madri di un assassino o di un ladro! »
« E che vuole che le dica, padre Raffaele ? sto perdendo la fede. Mi pare che una vergogna come questa nostra, il Signore non l'abbia mandata mai a nessuno! » « Lei dice una bestemmia, cara amica! Col tempo s'accorgerà che quella di suo figlio non è né vergogna né disonore. Tutta la colpa è di Barbara! » aggiunse riassalito dal rancore verso quell'immagine di ragazza che lo turbava con tanta più insolenza quanto più fredda e cattiva egli l'andava giudicando, sicché egli non sapeva più se il suo fosse un giudizio severo o un modo di vagheggiarla... Ma si frenò. « Barbara è quella che è! » disse con voce piana, « forse è migliore di tante altre, e certamente è migliore di me che parlo scioccamente... Piuttosto non dica nulla a suo marito ! Noi uomini abbiamo il sangue caldo. Arrivederci, cara amica. Che Dio la protegga! »
Ma la signora Rosaria non potè fare a meno di confidarsi col marito.
« Hai agito male! » disse egli. « Non dovevi darle questa confidenza! E poi ho imparato come bisogna parlare coi Puglisi. Guarda, così: col bocchino stretto, come fanno loro. Mi sono studiato certe paroline fredde che, il primo di essi che incontro, quanto è vero Dio, gli gelo il sangue per tutta la vita! Vediamo se Alfio Magnano non sa essere anche lui un gesuita! »
Due giorni dopo, incontrò in via Etnea padre Rosario, lo zio di Barbara.
Il monaco cercò sulle prime di evitare il vecchio Magnano, e si fermò a guardare una vetrina di mode, ma subito s'accorse che non era decoroso per un domenicano fissare gli occhi su tutti quei busti e reggipetti di cui la mostra rigurgitava e, voltatosi di scatto, si trovò faccia a faccia con colui che voleva schivare. Ma quale non fu la sua sorpresa, quando, al posto del vecchio collerico ch'egli s'aspettava, vide un calmo gentiluomo che gli parlava con le labbra strette, quasi sorridendo?
« Lei che se ne intende, mi deve dire una cosa! » fece subito il signor Alfio : « come mai la Chiesa considera nullo un matrimonio per il solo fatto che il marito e la moglie non compiono atti carnali? »
« Ah, io non me ne intendo affatto, caro signor Alfio! Le assicuro che negl'imbrogli dei giovani, io non mi ci voglio immischiare! Loro si son fatto il manico e loro si facciano la quartara! Io non c'entro, non c'entro, non c'entro! »
« Lo so bene » rispose il signor Alfio, sudando dai piedi alla testa per lo sforzo di mantenersi calmo. « Ma io vorrei essere informato sulla questione, così, in generale, non per quanto riguarda mio figlio... Sono molto curioso di sapere come vanno queste faccende! »
Il monaco diede una sbirciata alla faccia del suo interlocutore, e visto ch'era bianca e calma come quella di chi è spirato da poco serenamente, provò una specie di ribrezzo. Quella tranquillità non era normale per il signor Alfio e, in ogni modo, se uno dei due doveva essere tranquillo, il monaco preferiva esserlo lui.
« Senta, caro amico! » disse con voce affettuosa, « parliamoci da cristiani e da parenti: capisco il suo dolore e la sua indignazione ! »
Il signor Alfio rattenne un mugolìo che gli era salito dal petto, e riusci ancora una volta a sorridere con le labbra strette.
« No no no ! » fece il monaco guardandolo, « lasci stare! lei è un padre, e per suo figlio, giustamente, non ci vede dagli occhi! »
« Entriamo in quel portone! » sbottò il signor Alfio, vinto da una vampata che gli usciva dal colletto e gli avvolgeva la faccia : « li potremo parlare ! » Entrarono in una corte gentilizia, umida e deserta.
« E allora mi dica! » fece il signor Alfio, con la sua voce naturale, lasciando libera la propria faccia di turbarsi e sussultare come meglio le piacesse, « e allora mi spieghi! perché la Chiesa annulla un matrimonio per il solo fatto che i due coniugi non compiono atti carnali? cosa vuole, la Chiesa, che si... notte e giorno? questo vuole, la Chiesa? »
Nel vedere il signor Alfio con la saliva alle labbra, il domenicano respirò di sollievo ed entrò comodamente in quella freddezza da cui l'altro era ormai definitivamente uscito.
« Il matrimonio, caro signor Alfio, è un vero e proprio Sacramento. Anzi, le dirò di più: uno dei Sacramenti più solenni ».
« E appunto per ciò, dico... è una cosa sacra, che non si può rompere dall'oggi al domani, solo perché il marito, per ragioni sue, non ha voluto montare la moglie ».
« Mi dispiace che si esprima cosi! Il matrimonio è un Sacramento... »
« E' sacramento di Dio!... »
« Non bestemmi, perché se bestemmia sono costretto ad allontanarmi! »
« Lei non se ne va, reverendo, lei di qui non se ne va! Dunque, ragioniamo: il matrimonio è quello che è... »
« No no no ! Il matrimonio non è quello che è, il matrimonio è un Sacramento! E sa chi sono gli officianti? i due sposi stessi! il sacerdote consacra, non officia ».
« Va benissimo! e con questo? dov'è scritto che il Sacramento viene annullato solo perché al marito, per ragioni sue, le ripeto, che qui non voglio indagare, non gli va di cavalcare la moglie? »
«Non parli così, la prego, la prego! », esclamò il monaco, perdendo un po' di calma, « come glielo devo dire? la prego!... Il matrimonio consiste in due elementi: uno spirituale e un altro materiale... »
« E va bene, va benissimo ! E se questo matrimonio, una persona lo fa consistere soltanto in un atto spirituale — lo dico cosi per ipotesi, perché noi Magnano queste cose le facciamo sempre finire a batacchio di campana! — ma insomma... se una persona, per certi criteri suoi, lo vuol fare consistere unicamente in un atto spirituale, la Chiesa cosa ci ha da dire ? dovrebbe essere felice e contenta, lei che rompe tanto le tasche e predica sempre contro la carne! »
« Ma nel matrimonio, caro signor Alfio, l'atto materiale è sacro come quello spirituale! Caro una, sanguis unus... »
« Parli cristiano, reverendo, e si faccia capire! »
« Caro una, sanguis unus: una sola carne, un sangue solo! »
« Ah, ora ve ne venite con questo ritornello! ora che avete messo gli occhi sulle terre del duca di Bronte! E quando mio figlio a Roma... e io stesso fino a ieri, qui... facevamo con le donne una sola carne e un solo sangue, voi confessori perché strillavate tanto, dentro il casotto di legno, che pareva vi tirassimo il collo ? » « Ma signor Alfio, lei non vuole ragionare! voi facevate caro una sanguis unus con donne che non erano vostre ! »
« Si, va bene, non erano nostre, ma ci stavano lo stesso, ed erano ben felici di essere nostre!... Quando un uomo ha la moglie malata o è scapolo, dove diavolo li trova, la carne e il sangue, se non li cerca nel seminato altrui ? »
« Sa cosa deve fare l'uomo, in questi casi, caro signor Alfio ? si mantiene casto ! Crede forse che faccia male, la castità? fa bene alla salute e alla mente! La castità è la più grande delle virtù... »
« Sacram... Lei le strappa, le bestemmie!... E se la castità è la più grande delle virtù, perché, quando un uomo la pratica a casa propria, voi lo maledite, lo infamate, e gli annullate il matrimonio? »
« Pazienza di Dio ! Ma il matrimonio, come le ho detto, consiste in due elementi: uno spirituale, o intenzionale, e uno materiale. Se la consumazione dell'atto materiale non avviene, risulta chiaro che anche l'intenzione era viziata. Crescete e moltiplicatevi! ha detto Nostro Signore agli sposi... »
« E non bastate voi, monaci e monsignori, corvacci del diavolo e cartocci di fumo, a far crescere le famiglie? »
« La sto pregando, signor Alfio, di non parlare cosi! »
« Io parlo come mi pare e piace! »
« E allora io me ne vado ! » E padre Rosario fece l'atto di andarsene.
« E se lei se ne va » gridò il signor Alfio, come un forsennato, « io le corro appresso e la svergogno per la strada! »
« A me, caro amico, qualunque cosa può dirmi lei di qui mi piove e di qui mi scivola ! »
« E se io grido, a tutte le persone che incontro, che la carne dei Puglisi si vende a chi la paga meglio? »
Il monaco perdette completamente le staffe. « Lei ora sta sbagliando davvero, signor Alfio ! » gridò con gli occhi rossi.
« Io non sto sbagliando! »
« Lei sta sbagliando! »
« No! »
« Si! »
« No! »
« Si, lei sta pisciando fuori dell'orinale! »
« Io non piscio fuori dell'orinale! » « Sì, lei piscia fuori dell'orinale! »
« Io non piscio fuori dell'orinale! »
« Si, perdio, lei piscia fuori dell'orinale! »
« No, perdio, io non piscio fuori dell'orinale! »
Il monaco si diede due manate sulle guance, ancora due manate, ancora altre due sulle guance per frenarsi la rabbia e per sfogarla, per colpire qualcuno e per mortificare se stesso; poi, con la faccia chiusa nelle mani, mormorando parole che non si capivano, e forse singhiozzando, usci dal cortile e svoltò a sinistra. Il signor Alfio non lo segui.
Capitolo 8
« Ce malheur n'est à craindrc qu'aux entreprisej Olì notre ime se trouve outre
mesure tendue de désirs et de respect... »
Montaigne
« Cornine il me suppliait de l'aider à trouver quelque remède à scs angoisses, je le confiai aux soins d'une petite actrice fort experte; mais qui je crois n'en put rien tirer».
Gide
II vecchio Magnano non ebbe il coraggio di riferire alla signora Rosaria il suo colloquio col monaco.
Passava le giornate nel salotto guardando la moglie che rammendava, e ogni volta ch'ella smetteva di lavorare per asciugarsi gli occhiali, che bruscamente le s'erano appannati di pianto, egli levava le palme in aria e le picchiava forte sulle ginocchia.
« Io perdo i sentimenti! » diceva. « Più ci penso e più mi pare che non è vero!... Ma come può essere? ma come fu?... ma che vuol dire... ma che ha inteso fare?... ma perché?... perché?... Con te ha parlato? » aggiungeva con voce più pacata.
La signora faceva una spallucciata senza levare gli occhi dai suoi rammendi.
« Ad essere giusti, dovrei parlargli io che sono il padre! Ma come si fa? preferirei parlare con Domineddio in persona piuttosto che con mio figlio! A questo mi sono ridotto! »
Ma proprio sulla fine di giugno, arrivò a Catania, dopo un'assenza di vent'anni, il fratello della signora Rosaria, Ermenegildo Fasanaro. Tornava da un soggiorno all'estero, invecchiato, stanco, dimagrito. La pelle, svuotata della carne, gli pendeva floscia da tutte le parti quasi non aderendo alla persona. I suoi denti erano stati sempre lunghi, e un po' di bianco gli era sempre venuto fuori, anche quando teneva la bocca chiusa; ma questo semmai era stato il difetto dell'uomo simpatico a cui la natura ha concesso di tenere innescato un sorriso irresistibile sulla sporgenza dei propri incisivi; ora, invece, questi denti scarnati e intartariti parevano enormi come quelli di un vecchio cavallo e là, dove una volta sfolgorava il sorriso adescatore, si vedevano tante screpolature, nelle quali, a ogni fine di pasto, andava a rifugiarsi un pezzettino di verdura o di frutta. Dov'era andata la bella pancetta, la floridezza del torace, la lindura e liscezza del volto? Camminando per via Etnea, con un passo ch'egli cercava di mantenere veloce, come al tempo in cui le persone gli dicevano :
« Lei fa vento, quando passa, signor don Gildo! », era costretto ogni tanto ad arrestarsi nel mezzo del marciapiede, come se avesse visto la strada finire bruscamente contro un muro o una bestia venirgli addosso; e allora, appoggiato subito contro il fianco, quel bastone d'ebano col manico d'argento che, nel 1918, roteava mollemente nella sua mano destra passando da un dito all'altro, pareva tendersi con tutto l'affetto possibile nello sforzo di sorreggerlo.
Nei vecchi caffè, ove entrava di nascosto, perché i cannoli, poveretto, gli piacevano tanto, suscitava subito l'attenzione della donna che serviva dietro il banco. Questa brava persona lo guardava e riguardava stupidamente, poi ecco una favilla d'intelligenza... e la donna allungava il mento fin quasi sul petto e si metteva a scuotere la testa. Infine s'arrischiava di domandare: « Ma lei, mi perdoni, non è il cavaliere Fasanaro? »
« Si » rispondeva egli, sorridendo con la crema fra le labbra e l'aria di chi domanda se per caso l'impressione che fa non sia poi tanto cattiva e ad ogni buon conto se ne scusa.
« Lei è il cavaliere Fasanaro ? » tornava a chiedere la donna.
« Si » tornava a rispondere il gentiluomo timidamente.
« Lei!... Padre, Figlio e Spirito Santo! » La donna si segnava tre volte. « Oh, sia lodato Dio, quanto è capricciosa la natura!... Carmelo! » chiamava, « Carmelo, vieni a vedere come diventò il cavaliere Fasanaro! Corri Carmelo, e dimmi se Nostro Signore, certe volte, non è capriccioso? »
Il cavalier Fasanaro s'asciugava in tutta fretta la bocca, e usciva prima che il padrone del locale avesse finito di lavarsi le mani per correre ad osservarlo.
Soltanto la sorella Rosaria e il signor Alfio non fecero alcun caso a questo suo decadimento: essi erano troppo assorti nella loro disgrazia.
« Vedi tu, Gildo » gli disse subito la signora Rosaria, dopo che gli ebbero raccontate le loro pene, « vedi se con te parla! Noi, meschini, non abbiamo l'animo di domandargli niente! »
« Io mi mangio il cervello per capire che diavolo veramente gli è successo! » ripeteva il signor Alfio.
« Con te » aggiunse la signora Rosaria, rivolta al fratello, « Antonio ha avuto sempre confidenza. Vedi se puoi farci questo miracolo, Gilduccio! Chiediamo forse assai? sapere quello che veramente gli è successo e che cosa vuol fare. Cosi ci mettiamo il cuore in pace e non ne parliamo più! »
« Tu, non ne parli più! » esclamò il signor Alfio. « Io no! Io sinché avrò fiato parlerò! devo fargli vedere sorci verdi, a quelli li! gli devo far tenere il didietro con tutt'e due le mani, schifosi marpioni ! devono imparare a conoscere chi è Alfio Magnano! se lo devono sognare di notte, Alfio Magnano! Ogni volta che vedono Alfio Magnano, devono cambiare strada! La mattina mi pianto davanti al loro palazzaccio e, quando uno di loro fa per uscire, gli grido a voce di petto : Va' di nuovo a coricarti, malo cristiano e giuda, cosi non fai danno al tuo prossimo ! va' a coricarti subito coi tuoi piedi, se no ti ci mando io coi miei! va' a coricarti, servo dei principi di Bronte, che gli hai venduto tua figlia! »
« Questi principi di Bronte » disse Ermenegildo, stringendosi le guance smunte per aiutarle a sbadigliare, « io li conosco da bambino, perché abitavo con mio padre e mia madre in un quartiere del loro palazzo, e anche tu, Rosaria, li dovresti ricordare! »
« No, io nacqui nella casa nuova! »
« Ah, è vero, si... » Ermenegildo precipitò nelle rimembranze con la velocità di chi cade nel sonno sotto l'azione di un narcotico. « Dio, quanti ricordi!... » esclamò.
« Nella casa nuova, hai detto?... »
« Non straparlare ! » interruppe il signor Alfio, « andiamo al fatto! »
« Il fatto è questo, che sono ricchi, ricchissimi, e non sanno dove mettere il denaro che hanno. E questo sai perché? »
« Perché sono figli di cane » fece il signor Alfio» « e i figli di cane, Dio li aiuta ».
« Da trecento anni, non dividono mai il loro patrimonio. Quando i figli sono parecchi, si sposa soltanto il primogenito e, se questo non riesce ad aver eredi, i parenti zitti zitti fanno in modo che la moglie ricorra alla seconda canna... Cosi la chiamano ».
« Che vuol dire, la seconda canna ? » domandò la signora Rosaria.
« Cosa fa il cacciatore quando il primo colpo è andato a vuoto? spara con la seconda canna. Cosi la principessa, quando col marito non ha avuto figli, il secondo colpo se lo spara col cognato ».
« Oh, Dio ce ne scampi e liberi ! » commentò la signora Rosaria. « E dopo hanno il coraggio di avvicinare la bocca all'Ostia consacrata? »
« Lo hanno » continuò Ermenegildo, « perché sostengono che la carne del fratello non fa corna... E forse hanno ragione loro, chi lo sa?.. Il secondogenito una volta faceva l'abate, da un certo tempo in qua fa lo scapolo... Quando ero bambino, mi piantavo per ore ed ore al balcone, con la faccia tra le sbarre della ringhiera... » s'interruppe. « Dio, quanti ricordi!... Avevo una faccia cosi piccola da farla passare tra le sbarre di una ringhiera?... »
« Lascia stare queste stupidaggini » mugolò il signor Alfio, « e racconta! Aspettavi per ore e ore, che cosa? »
« Aspettavo che uscisse il fratello del principe, il duchino ».
« Con la madre? » domandò secco il signor Alfio.
« Che madre! Aveva cinquant'anni. Lo chiamavano duchino perché era il fratello minore. Vestiva sempre di nero, col colletto duro, la cravatta a ponte, la spilla di brillanti sulla cravatta, la canna di bambù sotto l'ascella. Ogni tanto, nel taschino della giacca, invece del fazzoletto portava due uova. Io le vedevo dall'alto, che spiccavano nel vestito nero come due palle di biliardo ».
« Perché portava due uova, questo pazzo dannato ? » esclamò il signor Alfio, « che prepotenza era questa? cosa credeva, questo rimbambito, che, per il fatto di essere il duca di Bronte, poteva portare due uova nel taschino e farle vedere a tutti ? » « Al contrario, non voleva mostrarle a nessuno, e le portava nel taschino, per tenerle al riparo degli urtoni ».
« E allora ? alle corte, cosa voleva dire, con quelle due uova? »
« Voleva dire, l'ho saputo dopo, che si recava dalla sua amante, una certa donna Concetta, vedova di un carrettiere... Era avaro come un ebreo ».
« Peggio » esclamò il signor Alfio, sebbene non conoscesse minimamente quel duca, « che dici, un ebreo? molto peggio! »
« Insomma, era avaro. S'era scelto come amante una povera donna e le regalava due uova ogni volta ch'essa faceva per lui quello che la principessa non voleva più fare da quando aveva avuto due figli, l'attuale principe e l'attuale duca ».
« E il notaio Puglisi » gridò il signor Alfio, « piglierebbe soldi da terra con le natiche pur di levare la figlia ad Antonio e darla a questa gentaglia! »
« La principessa è sterile come una mula » disse Ermenegildo, « con lei non ci ha potuto nessuno : né la prima né la seconda canna. Pare che le abbiano buttato il sale dentro!... Per questo i parenti hanno permesso al secondogenito di sposarsi e avere anche dei figli ».
« Che deve avere figli, quella pancia di sugna? » esclamò il signor Alfio. « Mi hanno detto che, quando va in una certa casa, chiudono la porta e non fanno entrare più nessuno perché gli viene il sopraffiato e lo sentono ansimare da tutte le altre stanze e anche dalle scale! »
« E tu, Alfio » disse la signora amaramente, « per avere questa bocca, che tutti per te hanno un difetto, sei stato castigato dal Signore! E ora la mala fama l'hanno buttata su nostro figlio! »
« Quale mala fama? » gridò il signor Alfio, fuori di sé, « Che mala fama ? anche tu ti ci metti, con loro? Mio figlio ha un cavicchio che fa pertugi nella pietra!... « Gildo » disse poi, con voce supplichevole, « Gildo, domani, dopo pranzo, io e questa qui usciamo di casa, e tu rimani solo con lui... Gildo, sarai per me come Dio sceso in terra, se riesci ad aprirgliela, quella bocca che non parla mai, e a farti dire la verità, tutta, bella, com'è! »
« Farò del mio meglio » disse il gentiluomo, « sebbene avrei più bisogno di stare all'ospedale che di prendermi altre cure! »
L'indomani, dopo pranzo, i due vecchi uscirono di casa insieme alla cameriera, che li precedeva per la scala buia mormorando continuamente: « Stia attenta, voscenza, c'è ancora uno scalino! » Zio e nipote rimasero soli.
« Che bella coltre mi sono tirato addosso! » sbuffò subito Ermenegildo. « Non mi bastano i miei guai ? non mi basta questo cane che mi morsica le budella, la difficoltà di respirare, le mosche negli occhi, e tutti gli altri diavoli che mi stanno addosso?... In ogni modo, animo! »
Si avvicinò all'uscio della camera di Antonio e, poiché il battente era accostato, lo spinse piano piano e sporse la testa.
Antonio stava sul letto, visibilmente sollevato dall'aver sentito che padre e madre uscivano e la casa si vuotava di persone che soffrissero per lui. L'ingresso di Ermenegildo lo rannuvolò un poco. « Sono rimasto a casa » disse subito lo zio, quasi a giustificarsi, « perché quella piattola di Marraro ha chiesto un mese di congedo al Municipio e a quest'ora non sa cosa fare e se ne sta sul marciapiede come il gallo sulla pietra, pronto a rompere l'anima ad ogni conoscente che vede. C'è anche il caso che per via Etnea scenda il federale con tutti quei beccamorti che gli leccano i piedi e che, a vederli, mi fanno il sangue veleno... Uscirò più tardi. Ti dispiace che ti tenga un po' di compagnia? »
« No, caro zio » disse Antonio. « Puoi stare quanto vuoi ».
« E allora, se permetti, mi seggo in questa poltrona ».
Antonio fece di si abbassando la testa e sorridendo debolmente.
Lo zio prese dal tavolo un grosso volume e si mise a sfogliarlo.
« Ti dispiace » disse poi, riponendo il volume, « che fumi la mia pipa ? »
Antonio fece di no, alzando la testa e sorridendo debolmente. Poi chiuse gli occhi e, abbandonandosi senza riparo all'attenzione di quel gentiluomo invecchiato innanzi tempo, provò il conforto della persona addolorata che senta accanto a sé un'altra persona forse più addolorata di lei.
« Il mondo è brutto! » disse Ermenegildo, intuendo che quanto più avesse mostrato il suo avvilimento tanto meglio si sarebbe cattivata la confidenza di Antonio, « il mondo è proprio brutto!... » Ma s'interruppe perché l'altro seguitava a stare con gli occhi chiusi.
« Io non dormo » disse Antonio, senz'aprire gli occhi. « Ti ascolto anzi con piacere. Raccontami dove sei stato! »
« Dove sono stato ? Eh ! sono stato dove non avrei mai dovuto andare! Sono stato in Ispagna, malanuova di me, e ho conosciuto chi sono i miei contemporanei e gli uomini in generale... Sono bruttissimi, Antonio mio, e per quanto vuoi bene a tua madre, credimi, mi fanno paura! »
Aspettò che il nipote aprisse gli occhi, ma poiché questo non avvenne, riaccese la pipa che s'era spenta e continuò:
« Non mi domandare chi ha ragione e chi torto, o quale dei due principi trionferà in avvenire ! Le idee se le tengono dentro la testa e io non le ho vedute. Quello che ho veduto è che sono disposti a scannare, squartare, bruciare anche Gesù Cristo in persona, dall'una parte e dall'altra, e se caschi sotto il loro odio prepàrati a cacciare un urlo di dolore quale non pensavi mai che potesse uscire dalle tue viscere di creatura battezzata! »
Andò al balcone, apri le imposte, sputò fuori, richiuse le imposte e tornò a sedersi.
« Tu non puoi supporre che genere di sofferenze sono capaci di scovare dentro la tua carne! Gli basta un centimetro della tua pelle per metterci dentro tutto l'inferno!... Non c'è coraggio che basti, figlio mio! Io non sono un vigliacco, ma ti assicuro che non c'è coraggio che basti! La civiltà cristiana e la giustizia sociale: che belle parole! l'una e l'altra sono un bene prezioso degli uomini. Ma guarda poi le smorfie dei cadaveri che lasciano marcire per giornate intere nelle pozzanghere o che ci fanno passare sulla faccia gli autocarri per scancellarne qualunque fisionomia, e dimmi se è cosi che si prepara il bene degli uomini! Erano uomini anche questi cadaveri, perdio, e il bene gli è stato regalato in quel modo! Mi dirai che tutto si fa per gli uomini di domani... Ma anche gli uomini di domani penseranno all'avvenire, anch'essi vorranno fare qualcosa per gli uomini del loro domani, e si scanneranno a vicenda come i nostri contemporanei! A questo tipo di bene non c'è mai fine!... No, Antonio, credi a me, gli uomini fanno spavento ed io me li sogno di notte! »
« Ti sei guadagnato un esaurimento nervoso ! » disse Antonio con dolcezza.
« Dovresti prendere dei sonniferi per non fare sogni la notte! »
« Chiamalo come vuoi!... chiamalo pure esaurimento nervoso... Ma quanto a dormire senza sogni, non ne sono più capace, nemmeno se col veronal rasento il suicidio. Il mio cervello non riesce più a chiudere bene, come una vecchia imposta sghangherata, e lascia passare mille filature di luce... E fosse solo la luce!... ma anche rumori, diavolii, discorsi... Perché ho voluto vederli in faccia, quegli esseri infami ? perdio, chi me l'ha fatto fare? Volevo capire chi di loro avesse ragione e chi torto, e ho capito solo che sono tutti terrificanti! Bel guadagno ne ho ricavato, da questo viaggio all'estero! bel guadagno davvero! prosit! complimenti!... Per fortuna il mio cuore si è ingrossato, i miei polmoni sono compressi, e tutto fa presagire che l'anno prossimo i mortaretti della festa di Sant'Agata ve li sentirete senza di me ».
« Ma zio, che dici? Sono sicuro che sarai tu ad accompagnare al cimitero tutti  noi! » mormorò Antonio, sempre con gli occhi chiusi.
« No, non mi levare quest'unico conforto ! Per addormentarmi, la sera, ho bisogno di pensare che la morte è seduta al mio capezzale. È l'unico pensiero che mi dia un po' di calma. Fuori di lui, trovo agitazione, spavento, insonnia e sudori freddi. No, Antonio, è proprio così. Per mia fortuna fra pochi mesi le rivoluzioni non mi potranno fare più nulla, e le reazioni nemmeno. Fascismo, comunismo... mi lasciano ormai tranquillo. Vinca l'uno o l'altro, nessuno di questi prepotenti potrà farmi più nulla levandomi il pane o l'aria; nessuno riuscirà più a strapparmi dalle viscere quell'urlo che tante volte, a casa mia, provando solo solo davanti allo specchio, ho cercato d'imitare, quasi per confortarmi col pensiero ch'esso sia nelle capacità umane, cercato, si, ma sempre inutilmente, e da ciò ho misurato quanto debba essere bestiale la sofferenza che lo insegna cosi di botto a un essere umano!» Antonio riapri gli occhi, innamorato teneramente di quell'uomo cosi addolcito dal desiderio di morire.
« E tu piuttosto » disse lo zio, « che ti succede?... O per essere più sinceri: lo so cosa ti succede! vuoi che non lo capisca?... Lo so benissimo cosa ti succede!... Qui tutti si domandano: ma che fu? ma come fu? ma perché?... Ebbene, ci vuol poco a indovinare com'è andata... E non ho bisogno che me lo dica tu! non ne ho proprio bisogno... Tanto, tu non parli! Ma parlo io... » Ermenegildo s'interruppe, per vedere se il nipote si risolvesse di parlare lui, ma poiché questi taceva, continuò : « Dico tutto io... dico tutto per filo e per segno. Sta a sentire!... Tu hai tirato troppo la corda! Ti rammento a Roma con quella faccina di candela consumata. Nella tua casa, c'era un va e vieni che pareva la casa del morto... ma erano tutte donne quelle che venivano a visitare il catafalco, e sul catafalco c'eri tu, disteso come un morto si, ma ben vivo e sempre pronto a ricominciare. Quelle ragazze sembravano tante regine quando entravano nel tuo portone, non gli potevi dire " quant'è bella la tua faccia!... " Un giorno, scendendo per le scale ne incontrai una che saliva e, solo perché mi fermai a guardarla, si voltò dall'altra parte come se avesse visto un mucchio dr spaghetti vomitati. Ma poco dopo, il nasino le calava giù, ed erano ai tuoi piedi pronte a farsi camminare sulla faccetta da madonna... Tu poi ne sapevi più del giusto... Sempre distratto, sempre con gli occhi alla finestra come se pensassi alle anime del purgatorio... Sbadigliavi, qualche volta le respingevi, ed esse svampavano di più, e chi sa che razza di moine ti facevano, e quali carezze, e quali sacrifici! Cosi ti hanno abituato male, ti hanno viziato... E quando un bel giorno ti sei trovato con una moglie un po' fiera, un po' rigida, un po' sulle sue, ecco che ti è saltata la mosca al naso, le hai voltato le spalle e ti sei messo a dormire per tre anni con la faccia contro il muro pensando alle ragazze di Roma ».
Antonio gettò una rapida occhiata sul viso dello zio e tornò ad abbassare le palpebre.
« E ora dimmi : ho capito o non ho capito ? » continuò il gentiluomo. « Io ti ho invidiato, cosa credi ? ti ho invidiato amaramente, quando anche a me piacevano le donne. E come mi piacevano ! come mi piacevano!... Ma un giorno mi venne la nausea anche di loro. È possibile, pensai, che debba continuare ancora, dopo tanti anni che quasi non ricordo più quando fu la prima volta, continuare sempre, stupidamente, a riempire di carne buchi di carne? È sempre la stessa cosa, perbacco! Anche se vai a letto con la regina, la cosa è la stessa : comincia allo stesso modo e finisce allo stesso modo. E se vai con una gobba lercia, pure: comincia allo stesso modo e finisce allo stesso, modo. A parte che ora non ho nemmeno animo di morire... Ma insomma, lasciamo stare le cose mie, che sono quello che sono, e dimmi sinceramente : non ti ho stampato nudo scorticato quando, poco fa, ho parlato di te? » « No » disse Antonio.
« Noo ? »
« No ! »
« E allora sentiamo : qual'è la verità ? »
Antonio s'era seduto sul letto e si torceva le mani. « La verità? » disse, « la verità?... la vuoi proprio sapere la verità? »
« Certo che la voglio sapere ! »
« E poi, poi? »
« Poi, niente... Non ti torcere le mani!... Poi si vedrà! »
« Zio... zio... » balbettò Antonio, alzandosi dal letto e passeggiando pallido come un morto, « tu non ci crederai... ma io... »
« Ma tu?... »
« Io... sarebbe stato meglio se non fossi mai nato! »
« Tu, dici questo, Antonio ? e perché lo dici tu ? lascialo dire a me, che per me va bene! »
« E perché va bene per te ? perché hai visto che gli uomini sono cattivi, che si ammazzano e si squartano? Importa poco, a me, che gli uomini facciano questo! Insieme a questo, essi fanno una cosa, che io, che io, che io... » Di nuovo la sua voce inciampò, ripetendo come uno strillo sempre più forte quella parola da cui non sapeva strapparsi, « che io, che io... » poi cadde in un soffio appena percettibile:
« ... non ho fatto mai! »
Il gentiluomo tremò come una canna. « Fatto mai? » disse, e alzatosi dalla sedia, si avvicinò ad Antonio che gli volgeva le spalle, e cercò in tutti i modi di voltarlo verso di sé e di vederne il bellissimo viso che tante volte aveva invidiato per il turbamento che suscitava nelle donne.
« Fatto mai ? » ripetè ancora. « Ho capito bene ? fatto mai?
Antonio non rispose, irrigidito da uno spasimo per cui lo zio non riusciva assolutamente a voltarlo.
« Antonio, ti prego: guardami negli occhi! Sono tuo zio, per bacco ! sono una persona di giudizio. Non puoi aver timore di un vecchio come me! »
Antonio si voltò lentamente, e a mano a mano che la guancia emaciata, il naso madido e privo di sangue, l'incavatura terrea degli occhi si profilavano nel riverbero del balcone, il gentiluomo si sentiva agghiacciare in petto qualunque speranza di aver capito male o di essere stato ingannato da una frase esagerata.
« Ma Antonio », domandò, « io mi sento preso dai turchi ! Può essere vero quello che m'hai detto ? »
Un lividore funereo, spargendosi in tutta la faccia del giovane, rispose per lui. « Mai ? » incalzò Ermenegildo, « proprio mai ? » Antonio aggrottò le ciglia come per concentrare quel po' di sguardo che gli stava sparso entro le pupille svuotate, e disse: « Quasi mai! »
Ermenegildo si spaventò, ma poi, d'un tratto, si gettò a corpo morto su quel barlume di speranza che contenevano le due parole.
« Quasi mai non è mai ! » esclamò, « quasi mai è ben altra cosa! » Antonio non rispose nulla.
« Eh, quasi mai » continuò lo zio, con un tono sempre più energico, quasi cercasse d'incoraggiare se stesso, « quasi mai può significare tante cose! un fatto è mai e un altro fatto quasi mail Che ti devo confessare, che anche io, qualche volta... non dico sempre, non dico nemmeno spesso... ma qualche volta insomma ?... Chi mangia fa molliche, si suole dire... Chi sta sempre a cavallo dovrà pure stramazzare di tanto in tanto ».
« Zio, zio, zio! » gridò Antonio, prima iroso, poi disperato, poi supplichevole, « non parlare più, zio ! » Ci fu una pausa.
« Ebbene, starò zitto », riprese Ermenegildo. « Ma parla tu, allora! parla, figlio mio! parlai » Ci fu una seconda pausa.
Antonio non riusciva a parlare, e mandava attraverso i denti serrati un soffio sottile e continuo come se avesse aspirato tanta aria da poter pronunciare di getto un discorso di mille parole e ora la mandasse fuori nuda nuda senza una sola sillaba. C'erano, in quel soffio, le esclamazioni, le grida, le interrogazioni e perfino i singhiozzi, ma tutti spenti e completamente inudibili.
« No, caro, no! » disse lo zio, « tu devi parlare francamente, sinceramente, a voce ben chiara; e non devi perdere tempo, perché verso le sette mi comincia un capogiro che non so più dove sta il tetto e dove il pavimento ».
« Quasi mai vuol dire questo » urlò Antonio di scatto, con quanta voce aveva in gola, « che quella cosa, io... »
« Piano! » interruppe lo zio spaventato, « piano! non dobbiamo farlo sapere a tutta la città! »
« Lo sappia pure la città! lo sappia pure la città! » gridò Antonio, smaniando e torcendosi come chi cerca di rompere le funi in cui è rimasto attorcigliato : « io, io, io... »
E dopo essersi morsicato le mani, il polso, l'interno del gomito si rovesciò supino sul letto ansimando fra i denti ch'erano tornati a serrarsi.
Lo zio gli si sedette al capezzale e si diede a carezzarlo sulla fronte, aspettando in silenzio che egli si calmasse.
Scendeva il crepuscolo e il balcone luccicava senza riuscire a vincere il buio della camera, quando il gentiluomo credette che Antonio fosse addormentato o addirittura svenuto.
Fu invece a quel punto che una voce calma, una voce del tutto priva di sentimento, d'inflessioni e di calore umano, una voce che veramente non pareva di nessuno, una voce morta e imparziale, cominciò a levarsi dal cuscino su cui Antonio poggiava la testa con gli occhi chiusi.
« Quasi mai, si » disse la voce, ripetendo freddamente quelle parole ch'erano state gridate e piante. « Fino a diciotto anni la feci nei sogni; poi, una volta, la feci a metà in una casa di via Maddem, e la sera vomitai. Era il 3 maggio 1924. Dopo, non la feci più, nemmeno nei sogni, e nemmeno a metà, perché ogni volta che imboccavo quella via, o il mio pensiero, aggirandosi fra i ricordi, capitava in quello del 3 maggio, sentivo un moto di vomito come chi è preso dal mal di mare. Un giorno che in un caffè, sul marmo del tavolino, trovai disegnate due figure che facevano quell'atto, divenni bianco come un cencio e dovetti correre a un lavabo per bagnarmi la fronte. Nello stesso tempo ero furiosamente innamorato di tutte le donne, specialmente del loro viso, dei loro occhi e del loro piede, e la notte, dormendo talvolta da mio nonno, al primo piano, mi bastava sentire il rumore di un tacco alto" che lentamente si allontanasse, per torcermi fra le lenzuola come un deportato che, dalla stiva in cui l'hanno chiuso, sente allontanarsi il porto della sua città insieme alla più soave delle serenate! »
Lo zio chiuse gli occhi, ricevendo ora lui dal nipote quello che il nipote aveva ricevuto poco avanti da lui: la potente distrazione di un dolore diverso dal suo.
« Con le donne » continuò la voce fredda di Antonio, « ero in questa condizione: che con tutto il cuore mi sarei gettato ai loro piedi rotolandomi sul pavimento e chiedendo misericordia! »
« Ma caro... io non mi rendo conto » disse lo zio, avventurando nel buio le sue
parole. « Se non mi sbaglio, anche le donne erano pazze per te ! »
« Lo dicevate voi » continuò la voce, « ma io vedevo le cose in altro modo: mi pareva che negli occhi di ogni ragazza ci fosse un invito quasi sarcastico, una sfida ad avvicinarla e ad essere un uomo. Mi venivano incontro offrendomi il petto con l'aria ridente e spavalda di chi s'avvicina a un avversario che lo punta con una pistola scarica... Forse avevo torto... »
« Senza dubbio che avevi torto! » esclamò lo zio, più per interrompere quella voce troppo fredda e monotona che per dare un conforto.
« A Roma, nel 1930, mi accadde un fatto curioso. La sera stessa del mio arrivo, dopo aver cenato e bevuto più del solito, mi recai in una certa casa e, prima che avessi il tempo di aver timore o nausea, riuscii a essere un uomo!... »
« Ah, si ? ah, bene ! bene, perdio ! »
« La cosa mi parve incredibile e uscii barcollando di felicità e baciando tutti i muri e le porte che stavano allineati fra il luogo della mia vittoria e piazza San Silvestro... La notte sognai di rifare quello che avevo già fatto e mandai un grido cosi forte che la padrona della pensione accorse in vestaglia. Mi avvidi allora che il sorriso, gettato sopra di me dalle donne, e che io credevo ironico e di sfida, era invece un segno di sincerissimo trasporto. Quell'espressione infatti, che nel viso della signora m'era parsa, dodici ore prima, di malvagia curiosità e ironia, si dimostrò subito il riflesso di un desiderio, concepito nel momento stesso in cui mi aveva conosciuto, di vedermi in uno stato di maggiore intimità. Lo capii dal rossore di contentezza, che le inondò le guance appena entrò nella mia camera, e dalla prontezza con cui era accorsa, quasi il desiderio di compiere quell'atto l'avesse posta nella condizione di compierlo subito... Non ti dirò che quella notte io sia stato molto audace. Ero sazio e dovevo aspettare almeno sei giorni per sentir finire la mia sazietà. Dopo sei giorni, difatti, potei rendere felice la padrona della pensione e me stesso, e l'indomani finsi di essere ammalato perché non avrei saputo giustificare altrimenti l'interruzione dei nostri rapporti. Quello fu il periodo più fortunato della mia vita. Avevo ventiquattro anni, le donne mi volevano un bene dell'anima, e io, ogni sette giorni, ero in grado di rendere pazza di gioia una di loro. L'indomani cominciavano subito le menzogne e i sotterfugi, perché dovevo evitare a ogni costo di tornare a dormire con lei... E quante volte mi recai a Napoli, e in un albergo della marina, tormentato dai mandolini dei ristoranti e dagli schiocchi di baci che mi arrivavano attraverso le porte, attesi che il mio desiderio, sparso in tutto il corpo, si da trasudarlo soavemente dalla mano ogni volta che la stringevo a una donna, si condensasse nel posto che è fatto per lui... Queste cose, che non ho detto mai a nessuno, io le ho scritte e ricopiate cento volte in fogli che ho poi bruciato, ed ora le so a memoria! E ti confesso che quando pensavo a una persona a cui potessi confidarle, questa persona eri tu! »
Lo zio gli strinse una mano in silenzio.
« Ero felice in quell'anno », continuò la voce, « ero perfino orgoglioso e sprezzante. Ogni sette giorni, sia pure!... ma mi sembrava di essere come un toro. D'altro canto, quella sensazione, sebbene rara, era cosi violenta che un giorno prima di averla entravo in uno stato di eccitazione quali gli altri non provano nemmeno nell'atto di spogliare per la prima volta una donna amata, e dopo, per due giorni, mi rimaneva un sapore di miele in tutto il sangue, e qualunque cosa troppo vivace vedessi o toccassi o sentissi aveva una dolcezza da farmi quasi svenire... Oh, com'era bella la vita! com'era bella! »
Ci fu una pausa che Ermenegildo non ebbe il coraggio d'interrompere.
« In maggio » continuò la voce, « vidi seduta in un caffè di Villa Borghese una ragazza tedesca col suo giovane fidanzato, un ufficiale viennese. Ambedue erano così belli che tutte le coppie all'intorno sembravano mortificate e a lutto; nessuno degli uomini e delle donne, che stavano insieme, osava più azzardare una carezza, nemmeno una stretta di mano, quasi che con quell'atto entrasse in una gara pretenziosa e ridicola con i due splendidi stranieri... »
« Ma tu » disse lo zio, « non scherzavi nemmeno tu, quanto a bellezza! »
« Si, io... va bene. Ma se avessi visto quell'ufficiale viennese, ti sarebbe venuto il tremore sulla pelle ! »
« Gli uomini, in verità, non li guardo mai in faccia! Ma lasciamo andare! racconta!
Com'era lei? »
« Lei era alta, coi capelli rosa... »
« Rosa, che dici? »
« Sarebbero stati rossicci in un'altra. Ma in lei erano cosi belli che parevano rosa. Gli occhi azzurri, ma lo sguardo era come imbiancato da una cipria finissima, e se ne sentiva il profumo... »
« Che diavolo dici ? » mormorò fra i denti Ermenegildo.
« Il seno forte, le gambe lunghe e perfette coi ginocchi che trasparivano da qualunque veste, come se fossero luminosi! E luminoso doveva essere anche il ventre, e quell'incavatura fra le gambe che, in altri tempi, mi aveva fatto vomitare, e ora al contrario mi pareva che lucesse come una cosa preziosa! »
 Lo zio ebbe un brivido per tutta la schiena. « Vuoi vedere » pensò, « che io, cosi vecchio come sono, al solo sentirne parlare ?... E questo disgraziato ragazzo invece?... »
« Ogni pomeriggio immancabilmente io mi recai alla casina Valadier e vi trovai sempre la coppia dei due tedeschi. Fingevo di osservare Roma che mi si apriva sotto i piedi, ma le mie spalle vedevano lei, i capelli della mia nuca vedevano lei, e il cuore me lo sentivo voltato indietro, sicché tutto quel paesaggio che mi stava dinanzi mi faceva perfino pena come quelli che stanno buttati davanti agli occhi d'un morto... Dopo quindici giorni, trovai la ragazza tedesca sola, un po' sprofondata nella poltrona di vimini, le mani nelle tasche della giacchetta, gli occhiali blu sugli occhi, e le gambe un centimetro più scoperte del solito. Osai guardarla, sebbene vergognatissimo, perché il fidanzato, adesso ch'era assente, mi sembrava un dio, e l'ombra turchina, in cui era immersa la sedia vuota accanto a lei, mi pareva che quell'uomo gliela proiettasse dal cielo... »
« Che esagerazione! » esclamò Ermenegildo, e ripetè cocciutamente : « Tu, quanto a bellezza, non scherzavi, perdio! »
« Mi canti sempre la stessa canzone! Il fidanzato di quella ragazza avrebbe fatto voltare una santa sulla bara con la processione dietro! »
« E va bene... sarà!... » fece Ermenegildo, preso dal suo vecchio rancore contro tutti gli uomini che potevano dargli fastidio. « Tu la guardasti, dunque?... »
« Io la guardai... »
« Ebbene, e lei ? Ti guardò, lei ? »
« Lei fece di più, mi rivolse la parola. »
« Sacr...! » mormorò lo zio fra i denti, sentendo, come ai tempi in cui stava bene, un tonfo nel petto.
« Mi disse: "Scusate, signore, voi solete venire sempre qua?..."
« Sì »  risposi, non credendo alle mie orecchie. Ma è possibile Cristo di Dio, pensavo, che veramente questa donna s'interessi a me fino al punto di rivolgermi lei per prima la parola? Con quel fidanzato che dovrebbe accendergli candele davanti, notte e giorno? »
« Lascia stare! lascia stare! andiamo al fatto! »
« Si chiamava Ingeborg, ma a casa la chiamavno Ing, e poiché era stata a Parigi, quell'Ing dagli amici francesi venne pronunciato Ange... Sicché io la chiamai Angelo!»
« Che esagerazione! » ripetè Ermenegildo, questa volta fra sé.
« Il fidanzato era ripartito per Vienna, ed essa ne leggeva le lunghe lettere vicino a me, imporporandosi in viso come se qualcuno la baciasse sotto i miei occhi. "Buone notizie?" domandavo io. Lei sorrideva poco poco e sprofondava in tasca la mano con tutta la lettera. Avrei voluto parlarle sempre del fidanzato, talmente ero soggiogato da quell'immagine d'uomo, ma lei cambiava ogni volta discorso... »
« Ma insomma » interruppe lo zio, « non tentavi di combinare qualche cosa? » « No, sebbene, come ti ho detto, mi sentissi carico, strapieno di animalità come un montone. Ogni tre giorni passavo il pomeriggio con una delle ragazze che avevo già abbandonate solennemente, e che veniva presa da un vero attacco isterico nel rivedere insperatamente la mia testa sul suo cuscino... Non so se hai notato che ho detto ogni tre giorni. Infatti m'era accaduto questo miracolo: non avevo più bisogno di aspettare sette giorni per sentire che il più saporito dei frutti s'era maturato sul mio ramo! La mia felicità era così ingenua che attribuii questo miracolo al fatto che mi trovavo nella città in cui risiede il Papa, e un giorno che mi recai con Ing a una udienza pubblica nei palazzi Vaticani, mentre stavamo inginocchiati davanti al Pontefice, e Ing gli chiedeva di pregare il cielo perché il suo fidanzato andasse d'accordo con lei, io ringraziai mentalmente il Vicario di Dio per il bene che avevo ricevuto nella sua città... All'uscita dal palazzo, mi ricordai delle parole di Ing. "Ma come", le dissi, "lei non va d'accordo col suo fidanzato?"
"Oh sì", rispose lei, "andiamo bennissimo d'accordo in tutto, ci piacciono gli stessi libri, e la stessa musica, e gli stessi quadri, e le stesse strade, e gli stessi fiori, ed egli è buono e gentile, ed è tanto bello..."
A questo punto le lessi sulle labbra un ma nero come una tomba!... »
« Ma insomma glielo bagnasti il pane... o no ? » gridò spazientito lo zio.
« Una sera ch'eravamo in carrozza » continuò la voce, fredda e imperturbata come quella di una macchina, « e io non vedevo il suo viso, e non vedendo il suo viso non vedevo nemmeno quello del suo fidanzato, che sempre invece mi era parso di vedere accanto al suo... »
« Come la fa lunga! » pensò lo zio.
 « ...la baciai con forza, e sebbene il giorno avanti avessi trascorso il pomeriggio con una ragazza, sentii di nuovo tutto quel miele che avevo dentro concentrarsi intensamente nel punto in cui più mi piaceva di sentirmelo... Non dissi nulla, ma fra me e me gettai un grido che dovette arrivare fino in cielo a tutti quei santi che finalmente mi facevano la carità!... Una settimana dopo, dovevamo recarci a teatro, ma appena giunsi all'appuntamento, mi accorsi, dal modo con cui Ing mi porgeva la mano, ch'essa aveva stabilito di darsi a me quella notte stessa. All'Opera, i tenori e le prime donne cantavano Don Giovanni, e io invece pensavo: Ma quel fidanzato?... ma come lo può tradire ? ma come ce l'hanno il cervello, le donne? ma sono storte proprio storte!... Usciti dal teatro e giunti dinnanzi alla porta della sua casa, ella aveva talmente capito che io avevo capito da meravigliarsi francamente dell'attimo di esitazione che ebbi prima di passare la soglia e salire le scale con lei. Poco dopo... »
« No, non saltare ! racconta tutto per ordine ! In quale stanza ti fece entrare? »
« Nella sua camera da letto.»
« Come, cosi, direttamente ? »
« Si, ed io, stanco e beato, mi sdraiai supino sul letto. Essa invece andò nello stanzino da bagno e poco dopo tornò in vestaglia col viso coperto di lacrime ».
« Non credere a queste lacrime! » gridò lo zio, come si trovasse presente alla scena, pubblico riscaldato incitante il suo campione. « Dalle sotto, non credere a queste lacrime! »
« Si sedette sulla sponda del letto e mi raccontò la sua vita... Apparteneva a una grande famiglia tedesca ed era andata a studiare a Parigi. Qui s'innamorò di un architetto spagnuolo dal quale conobbe, assalita e sorpresa di gioia, quella cosa per cui, prima di allora, non aveva nutrito nemmeno curiosità. L'architetto era piccolo e brutto, ma l'aveva bruciata col fuoco del suo sangue... »
« Naturalmente! » esclamò lo zio, « era spagnuolo, come dire siciliano! »
« Senonché la famiglia di lei si oppose al matrimonio. L'architetto era uno straniero che essi consideravano di razza inferiore. Ing si recò a Berlino per convincere i genitori, ma questi rimasero sordi come un muro... »
« Tedeschi ! »
« L'architetto, irritato da tanti indugi e opposizioni, ferito nel suo orgoglio, le scrisse una lettera d'addio nella quale si firmò con tutti i titoli nobiliari della sua famiglia. Ing tornò a Parigi, risoluta di buttarsi nella Senna. Durante il viaggio incontrò un amico d'infanzia, quel bellissimo ufficiale viennese di cui ti ho parlato e che anch'egli aveva in testa il suicidio per una sventura della quale non osò parlare, nemmeno quando, varcata la frontiera con la Francia, e liberatisi ambedue di una strana oppressione che dava loro il sapersi in suolo tedesco, si confidarono le proprie pene e si abbracciarono. Un mese dopo erano fidanzati... »
« Le donne! »
« Telefonarono a Berlino alla famiglia di lei, e gli rispose un coro di complimenti e felicitazioni. Stabilirono di sposarsi, e allora... tu sai come sono queste donne del nord... »
« Eh, un pochino! »
« Una volta che dovevano diventare marito e moglie, dormirono nello stesso letto... » Antonio si fermò.
« Bene, dormirono nello stesso letto ?... » fece lo zio.
« E qui... »
« E qui? »
« Lui... »
« Luì ? »
« Niente! »
« Come, niente? »
« Così... niente! »
« Perdio! quel giovane alto e robusto? »
« Sì, quel giovane alto e robusto! » « Quando si dice, poi!... Ma riprovarono? » « Sì ».
« E beh? »
« Niente! »
 «  Ancora niente?» 
 « Sempre! »
« Perdio, perdio! »
« Ing si confidò con la madre, la quale le disse che non bisognava farci caso, che dovevano sposarsi lo stesso, che poi col tempo... Ma Ing era ormai presa dalla paura che la colpa fosse sua, che lei non era buona a nulla, che avrebbe dovuto saper fare in modo... Io, al sentire queste cose, superbo e sprezzante com'ero in quei giorni, scoppiai a ridere. Tu? dissi, e cosa vorresti fare, tu? e perché devi fare tu? una ragazza bella come te?... ma non deve fare niente! fa già molto quando fa sentire il rumore della sua sottana!... Ing mi strinse al petto e al collo, in un trasporto di gioia e di riconoscenza: le mie parole evidentemente eran quelle che da lungo tempo si sentiva ronzare alle orecchie come il più lieto e inavverabile dei sogni. Non appena riprese a parlare, mi confidò che questa era la ragione di certi suoi pianti che io non capivo, questa la disgrazia per cui l'ufficiale viennese pensava di uccìdersi viaggiando verso Parigi, questo il disaccordo che ella aveva supplicato Pio XI di conciliare... Non dicemmo più nulla e, spenta la lampada, ci abbracciammo. Poco dopo, ella era quasi svenuta di felicità e si apriva piano piano come una rosa al sole; io, fuori di me per una felicità più grande della sua, già mi ammonivo mentalmente di smorzare il grido che mi sentivo in gola e che fra poco avrei gettato, quando... »
S'interruppe. Lo zio, da parte sua, non disse nulla nemmeno lui sentendosi palpitare l'occhio destro come una mosca caduta fra le zampe di un ragno.
« Quando » continuò Antonio, e s'interruppe di nuovo.
« Quando » riprese per la seconda volta, « un improvviso freddo e sgomento mi entrò nel corpo, e proprio dalla parte che, se in quel momento avessi dovuto morire per progressivo congelamento e paralisi, avrei voluto che fosse raggiunta per ultima! » Tacque.
Lo zio aspirò aria lungamente e abbondantemente con un triste gemito dei bronchi, ma quando si trattò di ricacciarla fuori, apri la bocca e sfiatò in silenzio.
« Ella stava ancora supina, con la bocca in alto e gli occhi chiusi, e io, agghiacciato dalla vergogna, scivolai giù al suo fianco premendo sul cuscino le labbra che mi tremavano. Era la fine, era la morte per me! Il sangue, che con tanto calore e sapore si era concentrato in un punto del mio corpo, non solo ne era fuggito, ma pareva fosse scomparso da tutte le mie vene, prosciugato da un vento freddo che ora mi sentivo circolare in vece sua; e mi pareva anche di saper chiaramente che, se pure nelle mie vene il sangue sarebbe tornato, da quel punto esso era ormai deviato per sempre, quasi li cominciasse il territorio di un altro essere ove i miei pensieri, le mie voglie, i miei slanci non potevano più penetrare assolutamente. Con questa sicurezza nel cuore, rinsaldata in due ore di silenzio accanto a quella donna perfettamente immobile, come schiacciata dalla mia e dalla sua stessa vergogna sommate assieme, due ore di silenzio durante le quali tutu i miei sforzi per rimettermi nella condizione di un uomo felice sortirono l'effetto opposto di farmi sentire sempre più incapace di quel genere di felicità, e quasi incredibili e inverosimili i pochi istanti che ne avevo avuto nel passato, dopo due ore che mi parvero brevi, ma immobili come l'attimo che impiega la pallottola dalla bocca del fucile alle spalle del condannato, mi alzai da quel letto che non vedevo più, e di cui avevo dimenticato la forma e la grandezza e uscii dalla camera, lasciandovi una donna che anche lei avevo dimenticato come fosse fatta, talmente il calore di gioia ch'essa mi aveva dato una volta e il gelo che mi comunicava quella notte me la rendevano confusa, doppia e alla fin fine spaventosa. »
Capitolo 9
« There a a gloom
When I can't hear your breath
Calme in some room. »
(E tutto è tetro quand'io Non posso udire il tuo respiro tranquillo in qualche stanza).
H. MONRO - Rebora
« ...e la stella d'amor ci sta remota Per lo raggio lucente che la 'nforca Si di traverso, che le si fa velo ».
Dante
« ...Porzia dopo aver inghiottito i carboni accesi, mori... Che cosa succederà a me che inghiotto le fiamme della mia passione? La mia tortura nascosta è quella di
dover tacere... »
TIRSO DA MOLINA - Ferrarin Lo zio aveva chinato la testa e la dondolava appena appena, facendo tremolare la pelle che gli pendeva dal mento.
« E dopo ? » domandò.
Antonio non rispose nulla.
« E dopo ? » ripetè lo zio.
« Chiudi le imposte! » disse Antonio.
Ermenegildo andò a chiudere le imposte del balcone, e subito la camera fu inondata di luce elettrica.
Antonio stava seduto sul letto, poggiando le spalle al parato di legno, e teneva ancora in mano il filo della lampada di cui aveva premuto il tasto. Egli sembrava sfinito da una lunga malattia, ma il suo volto, finemente lavorato dalla magrezza, non poteva essere più bello.
« Dopo » continuò, poggiando al parato anche la nuca e affilando ancor più, con la tensione di quella positura, il naso e le guance, « dopo... non mi son visto mai più luce! »
« Cioè ? »
« Rimasi per quindici giorni rintanato nella mia camera. Poi la pensione mi divenne intollerabile, e affittai una casetta con le finestre su Villa Borghese. Mio padre mi mandò, con un barcone, taluni mobili della nostra casa che, non appena si disposero intorno alle pareti, mi costrinsero a piangere di rabbia perché mi ricordavano il tempo della mia nausea e dell'amore disperato per tutte le donne. Dopo un mese, tornai in via Mario dei Fiori, nel casotto che, la sera del mio arrivo a Roma, mi aveva ridato la vita. Poiché il gelo di tutte le mie membra si faceva sempre più rigido a mano a mano che, preceduto dalla donna, salivo una scaletta di legno a chiocciola, ed entravo nella camera riscaldata da una stufa a petrolio, ed essa richiudeva la porta, e sbottonava il corpetto, e si sfilava la veste, io feci il furbo e, appoggiandomi tuttora vestito a un comò carico di fotografie, dissi sorridendo: « Eppure vorrei dirti una cosa! » La donna, che si era già buttata sul letto nuda, mi guardava supina, con le mani allacciate dietro la nuca.
« Che cosa? » domandò. « Lo sai, caro — aggiunse con voce dolce — che sei veramente veramente bello? » « Ti piaccio? » dissi io.
« Si — fece lei con l'occhio torbido, sfilandosi una mano di dietro la nuca e accarezzandosi con forza il collo — quando esco da questa casa, voglio passare quindici giorni con te, a Venezia! Vedrai come ci divertiremo! Caterina con una sola carezza alza un morto dalla sua tomba!»
« Esagerato! »
« Esagerato niente, bello mio! »
« Ebbene, accetto la tua proposta, ma ad una condizione! »
« Quale? »
« Che se io riesco a mantenermi freddo sotto le tue famose carezze, le spese del soggiorno a Venezia le sostieni tu. Altrimenti, pazienza, le sostengo io.
Essa mi squadrò con l'occhio che brillava.
« Oh, accetto! »— disse, — con me non resiste nemmeno un santo di legno ». « Va bene, dissi svestendomi lesto lesto, con la speranza di poter perdere, chi sa ? la mia scommessa ».
« E la perdesti ? »
« Dopo cinque minuti, la povera Caterina stampava sulle lenzuola le impronte delle sue membra sudate, i capelli le si appiccicavano alle guance, il fiato le strideva fra i denti, ma io rimanevo impassibile, con un sorriso di veleno fra le labbra. Dieci, quindici, venti minuti, mezz'ora... «  Senti, — mi disse la brava donna, — hai vinto tu, lo riconosco. Vuol dire che farò io le spese del nostro soggiorno a Venezia... Ma ora, ti prego, non ti sforzare più! lascia fare alla natura! » A questo punto, mi alzai dal letto ridendo ironicamente, mi vestii con cura e lentezza, rifeci due volte il nodo alla cravatta, buttai del denaro sul petto della donna ch'era rimasta annichilita sul letto, e uscii nella strada. Subito corsi al caffé Aragno, mi feci aprire un gabinetto per signori, e li, richiusa la porta, diedi sfogo a un lungo pianto disperato! »
« Ma non dovevi fare quella prova ! » disse lo zio. « Era meglio aspettare ».
« Avevo aspettato un mese e mezzo! »
« Bisognava aspettare di più. In queste cose, non si deve aver fretta ».
« Dopo quella visita in via Mario dei Fiori, passai tre mesi sfuggendo perfino di parlare con le donne. Un pomeriggio, ora felice in altri tempi, capitò a casa mia una ragazza che mi cercava come un ago perso e finalmente era riuscita a scovarmi. Lasciai che si sdraiasse accanto a me, che mi baciasse, che mi portasse via la pelle dalla faccia passandomi lenta, forte, con amore, con rabbia le palme sulle guance. "Ma hai un cuore di sasso!" esclamò... Oh, io non avevo un cuore di sasso : avevo che la mortaccia ladra avrebbe fatto bene a raccogliermi! » « E dopo ? » fece lo zio.
« Dopo, dopo, dopo... Che mi dici, dopo, zio ? »
« Ma un momento, aspetta! Non è che tu devi farmi ammattire! Io lo sono un po' rimbambito, ma al punto che credi tu, no davvero! »
« Perché dici questo, zio ? »
« Ma come, perché?... È vero o no che la tua casa di Roma era sempre piena di donne, è vero o no che tutte uscivano pazze per te, è vero o no che la contessa Kappio... li, come si chiamava?... ti veniva a strusciarsi sulla porta come una gatta in gennaio? È vero o me lo sono sognato ? »
Antonio afferrò una mano dello zio e la portò alle labbra.
« Che mi baci, la mano? » disse Ermenegildo, facendo il rude per non commuoversi. « A me baci la mano? che c'entro io? »
Antonio depose piano piano sul letto la mano dello zio.
« Che fatiche » mormorò, « che menzogne, che imbrogli, che finzioni, che sotterfugi, che ostentazioni, che doppiezze! » « Chi, questo ? » « Io ».
« E perché? »
« Per non far capire nulla agli altri, alle donne, a mio padre, a mia madre, agli amici, a te!... Sono arrivato perfino a confessarmi in chiesa di tutti i peccati che avrei voluto e non potevo commettere, pregando in cuor mio il Signore che mi mettesse in grado di poterlo. E com'ero felice, quando il confessore scuoteva la testa a certi racconti ch'io gli facevo, e brontolava: "Troppo, troppo, figlio mio! Lo sai che non posso assolverti?" »
 « Ma devo crederti ? »
Antonio espulse dal naso, col rumore di chi se lo soffia con garbo, un sorrisetto amaro e breve. « La contessa K » continuò « è stata la sola che ha dovuto sospettare la verità, perche una sera mi disse : "Antonio, sia sincero, non sarebbe comodo poter possedere una donna con gli occhi?" Non so se volesse alludere al fatto ch'io avevo lo sguardo di certi ingravidafinestroni siciliani dei quali aveva parlato la sera avanti... »
« Oh, la troia! » esclamò lo zio. « E perché non viene qui che glielo fanno quanto un portone?... e non con gli occhi, s'intende! »
« ...O forse voleva dire che io, soltanto con gli occhi, avrei potuto... »
« Oh, troia cento volte! troia per parte di madre, di nonna, di figlia e di sorella!... Però sentimi, Antonio: ci sono cose che non m'inghiotto nemmeno se dovessi morire. Che tu abbia potuto darla a bere per tanti anni a tutte le donne che ti stavano appresso... mai, signuri, non me la inghiotto, non mi va giù, mi si aggroppa qui, vedi? »
E il gentiluomo si strapazzò il pomo d'Adamo con la mano nervosa.
Antonio levò gli occhi sulla parete dirimpetto, proiettando su quella laterale l'ombra delle ciglia. « No » continuava lo zio, « mai, niente, no! » Poi cambiò tono:
« Perché mi vuoi ingannare, Antonio ?
« Ti ho ingannato fino a ieri , zio. Oggi è la prima volta che ti volta che ti dico la verità ».
« Ma santi diavoli, le donne,dico io, non è facile prenderle per minchione... e poi dove ? Su quest'argomento! sulla cosa che più gli preme al mondo! Ma nemmeno Belzebù in persona !ma nemmeno chi si sente il re dei furbi gliela fa! » « Io gliel'ho fatta! » disse Antonio con un sorriso di orgoglio ironico.
« Ma ragioniamo, ragioniamo: una volta a una donna, le puoi inventare che hai fatto giuramento, che hai il dolore di pancia, che devi prendere la comunione. Ma la seconda volta, che le dici? Avanti che le dici? » « Zio, ho trovato sempre una scusa ».
« Sempre ? »
« Sempre! »
« Ma dico : nessuna, nessuna mai ha sentito odore di bruciato in questa faccenda ?» Antoni fece di no alzando la testa.
« No? »
« No! »
« E io, secondo te, devo essere cosi bestia da crederci? » gridò il gentiluomo.
« Zio Gildo, vuoi proprio che per una cosa come questa io giuri sulla vita di mia madre e di mio padre che a quest'ora non sapranno dove sbattere la testa, mezzi ciechi come sono, fra la gente che li prende a spintoni? Cosa vuoi che ti dica,che se mentisco non possano più rientrare vivi? » « No! » fece lo zio spaventato.
« Che io possa perdere la vista degli  occhi?... »
« No! »
« Che mi sparino al buio in una strada stretta ? » « No, no!... ti credo ». Ci fu una pausa.
« E dunque » riprese Ermenegildo, « dopo quella volta con la tedesca, nix, più niente, nemmeno un rimescolio, uno snodamento, un qualche cosa, una mezza cosa che so io? »
« Nel 1933, in agosto... »
« Ah, ecco, hai visto? » esclamò con un sospiro di sollievo Ermenegildo. « In agosto, dunque? »
« Mi trovavo a Collalbo, vicino a quel paese che si chiama Soprabolzano. Lo hai inteso nominare? »
« Collalbo... Come no ? certo ! un paese dove si va in estate ».
« È un paese per modo di dire : un gruppetto di pensioni di legno, qualche albergo, un giardino pubblico con un campo di tennis... »
« Sicuro, sicuro: Collalbo ».  E poi boschi da tutte le parti ».
« Boschi, naturalmente » incalzava lo zio, quasi a secondare la buona disposizione di Antonio a raccontargli qualcosa di meno triste.
« Sorge su una montagna alta mille e duecento metri. A nord si vedono montagne infinitamente più alte ».
« Le Dolomiti ».
« Le Dolomiti, si ». !
« E dunque, a Collalbo?... »
« C'erano con me Luigi d'Agata, Turi Grassi e i fratelli Pertoni che si andavano rotolando sull'erba come tanti asinacci per il desiderio di una donna. La cercavano da tutte le parti e, non riuscendo a trovarla, non sapevano come fare. La notte, arrabbiati e senza più ritegno, si cacciavano nel bosco vicino e si mettevano a gridare a voce di testa in modo da farlo sentire in tutta la contrada: "Cosa faccio, me la taglio? Se contìnua cosi, bella Madre Santìssima, me la taglio e la butto ai cani!..." E per ore e ore con la voce lamentosa e lugubre, come lupi mannari, andavano gridando: "Che faccio, me la taglio?" »
Lo zio ebbe un sorrisetto che lo riposò dell'oppressione che gli aveva schiacciato il cuore fino a quel momento.
« Una sera » continuò Antonio, « si presentò all'albergo principale un ipnotizzatore... uno di quelli, sai ? che addormentano le persone ».
« Un ipnotizzatore, si ».
« Era un pover'uomo mangiato dalla fame che portava addosso, il quale si esibiva in frac insieme alla moglie che lavorava in decolleté e che egli chiamava la signora. La moglie, o perché aveva fatto una vita meno stentata di lui, o perché mangiava di nascosto a lui, o perché il Signore l'aiutava, era grassa come il cane del macellaio, con panetti di carne pressata sotto la cintura, un sedere che smagliava tutte le gonne, metà delle mammelle fuori del corpetto, due occhi neri come ulive che parevano colare tra le ciglia semiabbassate. L'ipnotizzatore, dopo aver tirato dal cappello a cilindro colombe, bandiere, coriandoli e fazzoletti di seta, addormentava la moglie facendola diventare bianca come un lenzuolo e, cosi addormentata, con dei gestì imperiosi che essa non vedeva ma si sentiva arrivare sulla pelle come colpi di frusta, la faceva uscire dritta dritta dalla sala e la mandava nel corridoio attiguo fin dentro uno stanzino ove essa rimaneva in piedi, immobile, sempre con gli occhi chiusi. Dopo dieci minuti, con voce tonante, il marito chiedeva quali numeri avessero scritto tre signori del pubblico in certi rotolini di carta che egli finiva di svolgere in quel momento. E la donna, sempre addormentata, diceva i numeri precisi precisi come se avesse avuto i fogli sotto il naso... » « Fenomeni curiosi ! » disse lo zio.
« La seconda sera, Turi Grassi e Luigi d'Agata, sai cosa fecero?... Si nascosero nello stanzino e, quando la poveretta arrivò con le mani in avanti e gli occhi chiusi, uno di loro, non ricordo bene chi, senza sapere né leggere né scrivere, la prese bella pylita com'era e se l'assaporò con tutto comodo ».
« Che mi racconti? Rimango di stucco! E la donna non si svegliò? »
« Cosa vuoi che ti dica? Non si svegliò... o finse di continuare a dormire per non dare scandalo, e non perdere il pane... o perché le piaceva! »
« Beh, va bene... E tu? »
« Io rimasi molto turbato da questo racconto, mi parve che una goccia di fuoco mi fosse cascata sulla carne. Dio, che commozione! La notte, mi recai nel bosco solo solo. C'era la luna sulle Dolomiti, gli alberi odoravano, e in fondo al bosco si andava perdendo il suono d'una banda musicale che, uscita da Collalbo, si recava in un borgo vicino. Qualcosa veramente si rimescolava nel mio sangue, e questo era confermato dal mio occhio e dal mio udito che parevano tornare alla felicità di una volta, quando una nota qualunque o un raggio di luce mi portavano assai vicino all'estasi... »
« Racconta ! » incalzò lo zio, « non ti fermare ! »
« E invece qui mi devo fermare, perché tutto si fermò qui e non andò oltre. Più di questo non mi accadde. La speranza non si avverò. Il mio sangue tornò a raffreddarsi, di nuovo sentii che fra me e quella parte del mio corpo stava ficcata una lama di coltello ».
« Sangue di Giuda! » imprecò Io zio, « sangue di Giuda davvero!... E dopo?... Scusami, caro, se ripeto questa domanda, ma ti voglio troppo bene e darei i pochi mesi di vita che mi restano per sapere che, dopo, le cose andarono bene ».
« Zio caro » disse Antonio, tornando a stringergli la mano, « dopo, le cose andarono male come prima. Tu non mi puoi capire appieno... » « No, che io ti capisco ».
« No, tu non puoi capire che cos'è quella sofferenza. C'è un morto nel mezzo della tua vita, un cadavere collocato in modo che, qualunque mossa tu fai, sei costretto a sfiorarlo e a sentirne la pelle fredda e rancida ».
« Capisco cosa vuoi dire. Eh, si, capisco benissimo. Fai male a pensare che io non capisca queste cose... Ma perdonami » esclamò d'un tratto, col tono di chi osa liberarsi d'un impaccio che l'ha fatto soffrire, « ma perdonami, caro! Se sapevi che le cose andavano cosi... » E qui, uniti il pollice e l'indice della mano destra se li piantò sulla fronte, « se sapevi, ripeto, che, da un certo tempo almeno, quell'animale che Dio ci diede per nostro tormento cascava in ginocchio quando avrebbe dovuto stare dritto e, insomma, andava stramazzando più del giusto, perché dico io » e qui, uniti il pollice e l'indice della sinistra, se li piantò sull'altro lato della fronte accanto a quelli della destra, « perché, santo cristiano, perché, figlio di Dio benedetto, sei andato a cacciarti fra queste cento messe, voglio dire ad affrontare un matrimonio, e che matrimonio! con una ragazza interessata, figlia di gente interessata, fredda più del marmo, spinosa come un riccio, permalosa forse, di quelle che non gli puoi dire: "Quanto son belli i tuoi occhi!", con un crocefisso sulla carne del petto che al momento buono ti si mette di traverso come un pugnale, coi consigli del confessore che le vietano di far questo e quello, sicché quel brav'uomo te lo senti nel letto insieme a te a regolare le tue faccende, e misuri anche le parole che dici perché l'indomani le sapranno in chiesa: lesta a voltarti la schiena al minimo screzio e a infagottarsi nella sua parte di coperte come in un sacco, di giorno sempre con la puzza sotto le narici, le chiavi dei cassetti alla cintola, ti conta i bocconi ogni volta che inghiotti, non tollera i profumi perché dice che puzzano, non fa lo sciampo ai capelli perché dice che li fa cascare, il bagno una volta la settimana perché di più indebolisce; se leggi il giornale a tavola si offende, se parli con lei ti risponde a monosillabi, se non parli tu lei non spiccica una parola; quando la tratti con calore ti borbotta che l'hai scambiata per una di quelle, se la tratti con freddezza ti rimprovera che la trascuri; pronta li, come una stupida, a invecchiare, incanutire, sbracare davanti e di dietro, a ridursi coi piedi gonfi e a camminare come se le fosse caduto un mattone sull'alluce; e a te, se resisti meglio di lei, ti augura tutti i mali di questo mondo, non mortali, naturalmente, ma fastidiosi, perché l'idea di essere ancora giovane ti passi una volta per sempre ».
« No, no, no, no ! » esclamò Antonio.
« Come, no? non dico giusto? »
« Lontano sei dalla verità, caro zio, molto lontano! »
« Vorrei essere sicuro del tempo che farà domani come di quello che ho detto ».
« Lontano sei, zio, lontano! »
« Sai come lo conosco questo genere di donne ? come la palma della mia mano. Tu fai bene a difendere colei eh'è stata e, in un certo senso, è ancora tua moglie, ti riveli con questo un gentiluomo, ma a me lasciami parlare come voglio, lasciami sfogare la bile, perché se no mi mangio il fegato ! »
« Lontano sei, zio! »
« Ebbene, allora, parla tu! Spiegami chi è questa Barbara Puglisi, spiegami per quale diavolo l'hai sposata, spiegami che cosa è successo fra te e lei. Oh, santo giudizio! Ci sarà pure una verità. Se io non la conosco, dimmela tu. Sono pronto a correggermi ».
« Nel '34 tornai da Roma stanco morto delle mie stesse menzogne. Ero riuscito a far credere di essere l'amante della contessa K, della figlia di un ambasciatore, della moglie di un ispettore del partito... »
« Tu pure, sia lodato Dio, come facevi ad aver rapporti con quei fascisti, io non lo so ».
« Zio, quella cosa non ha partito. Il brutto non era che le signore che io conoscevo fossero mogli di fascisti: m'importava poco, questo, a me; il brutto era che con quelle signore io dovevo limitarmi a fare la commedia, perché di serio non riuscivo a far nulla. Se con le mogli degli antifascisti, fossi stato più capace, oh, zio, l'Ovra, la Milizia e la Gii tutte insieme non mi avrebbero impedito di frequentarle ». « Ma le mogli degli antifascisti sono molto serie, caro mio, e non ti avrebbero dato tanto spago, cosa credi? »
« Beh, se ti dicessi?... Ma lasciamo stare la politica, zio. Sempre di politica si deve parlare con te? La politica qui non c'entra ».
« Va bene, va bene. Seguita a raccontare. Nel '34 tornasti da Roma ».
« Tornai come una povera bestia che va al macello, e quanti pensieri mi ballavano in mente mentre cercavo di dormire nel vagone letto ! Roma in fondo era la città che mi aveva dato le più grandi e uniche gioie della vita; mi allontanavo dal Papa alla cui vicinanza avevo attribuito nel '30 il miracolo di quei giorni fortunati, inenarrabili, quando la felicità m'investiva e assaltava da ogni parte... Scomparse erano nella memoria le lunghe attese a Napoli, coi suoni dei mandolini che mi trapanavano la carne, le bugie anche di allora, i congedi e le fughe... rimaneva il sapore di vino bruciato che aveva il mondo, a quei tempi, il mondo che io mi bevevo da tutti i sensi, e il ricordo del momento celeste, tanto più celeste a a mano a mano che passavano gli anni privi di lui, quel momento di fuoco, di miele, di paradiso... »
« Adagio, vacci adagio ! » disse lo zio. « Un momento come un altro... »
« Forse io n'esagero l'importanza » ammise dolcemente Antonio, « da quando non sono più in grado di ripeterlo. Ma non dire che sia un momento come gli altri!... » « Qualche volta un momento peggio degli altri » fece lo zio, un po' ostinato. « Ma non litighiamo! seguita il tuo racconto ! »
« Roma, questa città delle mie poche e uniche gioie, la lasciavo, forse per sempre, e m'aspettava Catania, la povera città in cui avevo conosciuto una sola donna, e una volta sola, e nemmeno per intero, la città in cui la notte, sdraiato sul letto, cercavo di distinguere nei passi dei nottambuli quelli col tacco alto, e una volta che ci riuscivo, mi mettevo furiosamente a seguirli col mio udito allucinato, e via via che, diventando sempre più fiochi e incerti, mi andavano sfuggendo, assaporavo tutta la mia disperazione di uomo incapace e vano, sentivo in quei cari rumori che si dileguavano il suono stesso della mia sorte, e cosi riempitomi di amaro il cervello come di un veleno che facesse dormire, smarrivo la coscienza per alcune ore ». Ci fu una pausa durante la quale, come al solito,lo zio non osò dire: « Seguita! » « Giunto che fui a Catania, mio padre mi parlò subito della ragazza che desideravano darmi in moglie. Figurati se io potevo pensare al matrimonio!... Ma un giorno, mentre ero fermo su un marciapiede di Via Etnea ad ascoltare il farmacista Salinitro che mi riferiva un discorso del mio amico Angelo, lo ricordo come fosse ieri, vidi passare Barbara Puglisi al fianco della madre... Zio, zio, il Padreterno si volle divertire con me! Non appena Barbara si fu avvicinata, e io vidi i suoi occhi verdi e il rossore delle sue guance, una vampata mi salì dai piedi alla testa, e poco dopo non potevo muovermi talmente ero impacciato nel passo dal turbamento ».
« Che mi dici ? a questo punto ? »
« Si, a questo punto. Non dico menzogne, io. Lo sai che non dico menzogne! La sera stessa entrai nella camera dei miei genitori, mi sedetti sulla sponda del letto, e gli annunziai che volevo sposare Barbara. Non ti dico la loro felicità... »
« Che guaio ! » sospirò lo zio. « Che grosso guaio ! Ma d'altra parte, tu hai ragione... Se al solo vederla...Il Padreterno se ne cava di capricci certe volte, è proprio vero! Ma scusami, quando vi siete fidanzati, e siete stati vicini, e certo un qualche bacio o altro genere di carezze cominciò a scapparci, malgrado che in una casa come la loro, piena di crocifissi e di monaci, io non avrei nemmeno animo di fare i miei bisogni, nel tempo del fidanzamento dico, non hai avuto nel tempo del fidanzamento dico, non hai avuto agio di osservare come andavano le tue cose? » « Zio, in quella casa piena di monaci c di crocifissi come dici tu, alla presenza del notaio e della notaia che non ci levavano mai gli occhi d'addosso, sotto la sorveglianza di tanti altri notai e monaci morti che ci fissavano dall'alto delle cornici, e certe macchie delle pareti e dei soffitti che parevano anch'esse occhi della casa, e i santi con le pupille al cielo ma che ci vedevano lo stesso come in uno specchio; in quell'aria piena di rispetto, devozione c onorabilità, che le cameriere ogni domenica baciavano le mani ai padroni, e i figli ai genitori, e i genitori al fratello monaco, e nessuno aveva dentro la fronte un pensiero che non fosse onesto e castigato, e le vesti in cui erano chiuse le donne guardavano dai bottoni con occhi di cani arrabbiati, e pensavi davvero che se avessi osato sbottonarne uno solo, la tua mano sarebbe stata morsicata, sbranata e fatta a pezzi, ebbene, in quella casa... »
« In quella casa?... sbrigati! »
« In quella casa io ero quasi sempre in uno stato che mi vergognavo di me stesso... ma non più di una vergogna sfiduciata e tetra, bensì di una vergogna orgogliosa e felice... e la paura di essere scoperto somigliava tanto al desiderio e alla speranza di esserlo; e i brividi, i malesseri, i capogiri, i dolori lancinanti, che mi penetravano il dorso e la nuca verso la mezzanotte, spingevano sempre più in fondo nella mia carne, con la loro punta acuminata, qualcosa che brillava e brillava come un diamante, e rimaneva dentro di me per tutta la notte, e illuminava i miei sogni e il mio sangue... Zio, zio, era la felicità! »
« Va bene, va benissimo. Cosi va molto bene. Racconta dunque!» « Barbara è la più bella ragazza che ci sia al mondo ».
« Dici davvero? »
« Barbara è la più bella ragazza che ci sia al mondo! »
« Se lo dici tu... »
« Quando ci sposammo, e io vidi le sue braccia, e parte delle sue ginocchia, e quanto di altra bellezza animava dall'interno le trine della sua camicia da notte, quando vidi i riflessi ineffabili che le metteva nel volto e perfino dentro gli occhi il rossore di quella prima intimità con un uomo, e sentii muoversi dentro la sua testa severa i pensieri di una bambina, tanto più ingenui quanto più eravamo lasciati in balìa di noi stessi... Tu non sai, zio, quanto possa riuscire eccitante un'anima!... »
« Benissimo, eccitante. Forza dunque ! e allora ? »
« E allora, zio, successe quello che m'era successo cinque anni avanti con Ingeborg».
« Intontisco! »
« Fu cosi, zio ».
« Tale e quale come cinque anni prima ? »
« Non tale e quale. Questa volta non era un gelo che mi entrava nel corpo: era invece come se tutto, al momento culminante, svaporasse e sfumasse; come se la mia carne, con il sangue e i nervi, giunta al massimo del bollore, si sfacesse in sudore e nebbia ».
« Oh, questo Signore, quanti capricci si cava! quanti capricci si cava! E dunque, povero figlio, anche questa volta?... »
Antonio fissava la parete dirimpetto senza battere ciglio. « Ma dimmi, caro, perché non corresti subito ai ripari? »
« In che modo, ai ripari ? »
« Dividerti immediatamente da tua moglie, prima ch'ella si accorgesse. Dovevi prendere l'iniziativa, mio caro! »
« Come? »
« Scappando per esempio con una contadina una donna tirata fuori da una casa pubblica! »
« Non mi pare che sarebbe stato un agire corretto ».
« Per niente. Sarebbe stato un agire da farabutto nato e cresciuto ».
« Lo vedi dunque ? Ma a parte questo, io vivevo assai bene accanto a Barbara. Ero pieno di speranze e di gioie molto curiose ».
« Anche dopo?... » « Si, anche dopo ».
« Non capisco ».
« Barbara non era Ingeborg. Per questa, dopo che accadde quello che accadde, mi rimase un sentimento di paura, e se fossi tornato ad incontrarla sarei svenuto sicuramente come alla vista del mio cadavere che camminasse davanti a me con gli occhi chiusi.  Ma per Barbara, no. La sua moralità mi sembrav addirittura maestosa, ella m'incuteva il rispetto di tutte le chiese che aveva frequentato prima di sposarsi, ma nel campo dei rapporti con gli uomini, era bianca come un foglio di carta. Non sapeva nulla  non domandava nulla, arrossiva continuamente, e quando io l'abbracciavo, si stringeva forte al mio collo affinché proprio io la difendessi da quello che stavo per svelarle. Come una bambina caparbia, ella continuava a voltare le spalle alla verità che non aveva mai visto. Zio, quella verità, io non ero in grado di svelargliela, ma fingevo di credere che in tal modo io mi comportassi perché Barbara me lo chiedeva. D'altra parte, vicino a lei, io non ero freddo né spaventato né tanto meno disgustato. Una profonda eccitazione faceva battere il mio sangue e bollire il mio cervello, ma alla fine si esalava dai pori della mia pelle e si perdeva nel vuoto dandomi un piacere sparso e privo di forza come quelli che sognano i bambini poco prima di perdere l'innocenza ».
« Bello e piacevole, sì certo, bello e piacevole... ma per un giorno, una settimana, un mese! non per tre anni! »
« Zio, speravo sempre che sarebbe accaduto qualcosa. La mia eccitazione cresceva, cresceva continuamente, come una macchina che fa un rumore sempre più forte, ma non riesce mai a muoversi ».
« E allora? piantavi tutto, e buongiorno a chi passa ».
« Oh, no. Con la mia eccitazione, cresceva la mia felicità. Sentivo già i primi sospetti, i primi veri turbamenti muoversi fra i pensieri di Barbara. E questa ragazza che, senza commettere alcun peccato, rimanendo onesta e irreprensibile, accoglieva piano piano fra le immagini sacre, di cui era piena la sua mente, la prima immagine del peccato; questa ragazza che, entrando nel mio letto, diventava ogni sera più rossa, e restava ore e ore con la faccia infuocata sul cuscino - zio, che posso farci? questa ragazza mi dava le vertigini... Veramente » aggiunse subito, « il suo turbamento divenne cosi palese dopo che la cameriera, una stupida donna che fummo costretti a licenziare, le ebbe spiegate parecchie cose ».
« Ma come ? » esclamò lo zio, « tu sapevi che Barbara era già a conoscenza?... » « Dopo il suo colloquio con la cameriera, io presi il coraggio a due mani e le confessai tutto nei minimi particolari, come a te, zio; poi le chiesi se voleva continuare a vivere con me o separarsi ».
« E lei ? »
« Lei mi buttò le braccia al collo e mi baciò in un modo che non potrò dimenticare. Mi disse che avremmo dovuto continuare a vivere stretti e abbracciati come due angeli. Ma la sera, entrando nel letto, era rossa scarlatta, e io le vedevo battere il cuore nei nastri che le stavano annodati sul petto. Cominciò un nuovo periodo. La notte, ella stentava ad addormentarsi, e rimaneva, come ti ho detto, con la faccia infuocata sul cuscino, rivolta dalla mia parte, ma con gli occhi fortemente serrati. Ogni tanto li apriva e me li fissava in viso brillanti di amore, di curiosità e di presagi felici, e io, allora, cominciai a credere veramente che il miracolo del 1930 si sarebbe ripetuto, dato che a chiederlo nel modo più caldo e puro c'era ogni notte quella santa ragazza. La nostra vita scorreva lieta e piena d'amore quando improvvisamente il padre, la madre e lei stessa, non so bene perché... »
« No » gridò lo zio, scattando dalla poltrona, « non ti permetto di seguitare! Il perché lo sai, lo sappiamo tutti. Io sono stato paziente e ti ho lasciato parlare. Ma a questo punto, no, basta, non voglio apparire più minchione di quanto sono!... Tu lo sai perché Barbara si è risolta di tagliare la corda! lo sai benissimo! E io ti aspettavo qui, mentre facevi quel bellissimo ritratto di tua moglie. Sarà come dice lui, pensavo, bella, casta, innocente eteetera, ma l'avarizia, la freddezza e il calcolo, che essa ha ereditato dalla sua famiglia, dove li mette? vediamo un po' dove li mette. Non vorrà negarmi ch'e una ragazza interessata, una ragazza che sa fare bene i suoi conti, disposta a sacrificare tutto fuorché il vantaggio economico! Quando vede ricchezza, acceca, come un pesce preso dalla lampara, sale buona buona alla superficie e si lascia acchiappare con la mano da chiunque. Non vorrà negarmi questo, perdio! Se no, vuol dire che mi crede uno scimunito, e io con quelli che mi credono uno scimunito non ci ragiono! »
Antonio lasciò passare la sfuriata dello zio con l'aria indolente di chi ha previsto un atto noioso e lo vede accadere.
« Zio » mormorò poi, « le tue parole sono oro colato : Barbara è una ragazza interessata, una ragazza con la testa sulle spalle... Ma che ti devo dire? che anche questo di lei mi piace? »
« Beh, ma allora » sbuffò lo zio, « è inutile che perdiamo tempo. Ma come » aggiunse puntandolo con un dito e alzando la voce adirata, « questa donna promette di vivere con te come un cherubino con un serafino, dice che insieme starete felici e stretti come due dita nel miele, ti abbraccia, ti bacia, ti cova con gli occhi la notte, e poi di punto in bianco ti caccia fuori di casa come un cane rognoso?... »
« Zio, ti prego! nessuno mi ha cacciato, me ne sono andato io stesso. Barbara non ha preso la sua risoluzione di punto in bianco, come dici tu: ella è una cattolica vera, onesta, scrupolosa, non di quelle che dicono di essere cattoliche e poi fanno il comodo loro. Quando mi promise di continuare a vivere con me, ella non sapeva ancora che la Chiesa considera nullo un matrimonio come il nostro; non aveva ancora parlato con l'arcivescovo di Catania... »
« Bestia, bestia, bestia » gridò lo zio, « bestia che te lo devo dire che sei bestia! e non te ne accorgi che ti giocano come un bambino con la fontanella aperta? La tua perspicacia, quei marpioni, se la fumano in due boccate. L'Arcivescovo, la Chiesa... E dici piuttosto il duca di Bronte, il duca di Bronte, il duca di Bronte, il duca di Bronte con le natiche di badessa e le tenute alla Piana! »
Antonio tirò le gambe fuori del letto, si affilò tutto, nell'apertura del pigiama il petto sembrò diventare più magro, la membrana dolce dei suoi occhi si riempi del colore della violenza.
« Ebbene » disse, « io amo Barbara, ne sono stato sempre innamorato, da quando non la vedo più impazzisco d'amore per lei... »
« E allora » interruppe lo zio disgustato, « va a strisciarle sotto la porta e dille che ti faccia la carità di tenerti in cucina come una biscia per i topi ».
Antonio si affilò ancora di più; tutta la nobiltà, che non dimostrava nei discorsi né, in verità, nel modo di comportarsi, gli splendette sul viso.
« Non mi capisci » disse, e ritirate le gambe sopra il letto, di nuovo si sdraiò. « Come, non ti capisco ? e allora perché ti dico bestia, bestia, bestia con la scorza? appunto perché ti capisco ».
« Io non tornerei da Barbara, nemmeno se ella venisse a lingua strasciconi fino al portone di casa mia, sotto gli occhi di tutta Catania! Io sono innamorato di lei, innamorato pazzo di lei, dietro le sue spalle bacerei le mattonelle su cui ha messo il piede, ma da questa bocca che ti sta parlando Barbara non sentirà mai più il suo nome ».
Lo zio ripetè a se stesso, una dopo l'altra, le ultime parole di Antonio : « Da questa bocca che ti sta parlando Barbara non sentirà mai più il suo nome ».
« Benissimo! » esclamò poi. « Bene, benissimo! codesto è un parlare d'uomo! Soddisfazione a quei malarnesi, non bisogna darne assolutamente!... Piuttosto » aggiunse, dopo una pausa, « come si fa, ora ? che dirò a tuo padre? Il poveretto crede che le cose siano andate diversamente. Chi glielo dice che?... » S'interruppe.
« Quello che mi dispiace » continuò, « è che domani la gente si sciacquerà la bocca con le nostre cose. Non gli parrà vero che uno della nostra famiglia, che abbiamo sempre fatto corna, e noi grazie a Dio non ne abbiamo avute fatte mai, e nessuno, nemmeno chi si stima il più valente, può vantarsi di qualche cosa nei nostri riguardi, e anche tu, perdio, gliele facesti così lunghe che non potevano passare dalle porte... cioè così credevo, così credevano tutti... »
Si afflosciò improvvisamente e tornò a sedere nella poltrona.
« Già » disse, schioccando amaramente le labbra e mettendo lunghi intervalli fra un'esclamazione e l'altra, « già... proprio... ahimé! » E dopo un profondo sospiro:
« Eh!... Che possiamo fare? Con queste cose non ci può nessuno... E d'altro canto, c'è di peggio nella vita... M'ero quasi scordato i miei mali... È proprio vero che quando uno non ci bada... Da un'ora mi gira la testa, e non ci ho fatto caso. Con quanto piacere regalerei al notaio Puglisi il cane che mi sta afferrato qui » e si picchiò lo stomaco. « Ohè, sono già le sette e mezzo! I tuoi genitori non tarderanno a rincasare. Che facciamo? Che gli dico? la verità? Mai, signuri, non mi basta l'animo! la menzogna? e la menzogna ha le gambe corte, andremo avanti per poco con la menzogna: viene il momento che dobbiamo aprire i denti e sputare il boccone che nascondiamo nella guancia. D'altro canto, non me la sento, proprio non me la sento di dire a tuo padre... e nemmeno a tua madre... a lei meno che a lui... La conosco, mia sorella: sembra un muro forte e invece è la vera "Non mi toccare che mi sgretolo". D'altra parte, posso avere la faccia di nascondere ad Alfio?... ovvero di fare in modo che egli non?... ovvero di lasciar capire... ovvero meglio di fermare il discorso... ovvero meglio ancora di portare il discorso su un altro ?... »
E cosi, con questi d'altro canto, d'altra parte, che faccio?, ovvero, ovvero meglio, continuò per mezz'ora, senz'accorgersi che Antonio, a ognuna di quelle parole, si affiochiva e assottigliava sino al punto che parve dovesse spegnersi, come una fiamma su cui, parlando e bevendo, si lasci cadere inavvertitamente, a ogni gesto della mano, un abbondante spruzzo di acqua.
Il signor Alfio e la signora Rosaria rincasarono, con la guida della cameriera, poco prima delle otto.
Trovarono Ermenegildo seduto in sala da pranzo, solo solo davanti alla tavola su cui aveva gettato il panama e il bastone.
Il signor Alfio, sfinito dallo sforzo di salire le scale e dalla lunga e tormentosa passeggiata, si scusò col gesto della mano se non avrebbe adoperato le parole per esprimersi, e ordinò alla cameriera, sempre col gesto, di uscire dalla sala da pranzo, chiudere la porta e starsene in cucina.
La signora Rosaria, senza che questa volta il marito gliel'avesse imposto, si allontanò anche lei, con la scusa di andare a togliersi il cappello davanti allo specchio della toletta.
Nella sala da pranzo si fece silenzio.
Nel vedere seduto dall'altra parte del tavolo quell'uomo dalle guance incavate, quel vecchio cui era stata succhiata perfino la parola, Ermenegildo si arrabbiò in tal modo contro il destino malvagio, che perdette la capacità di essere delicato e prudente con la vittima stessa di quel destino.
« Alfio mio », disse, « è meglio che ti metta la testa a partito! volta pagina e non pensare più a quel diavolo di cosa lì... Barbara! »
II signor Alfio fece un grande lunghissimo sforzo per spiccicare le labbra, ma col solo effetto d'incavare ancor più le guance, poi rovesciò le mani, che teneva posate sulla tavola e, mostrando le palme, parve dire: « Io non ho pensato mai a Barbara, penso solo a mio figlio ».
Il silenzio fra i due durò a lungo.
D'un tratto, un rantolo mugolò in fondo allo stomaco del signor Alfio, un rantolo lontano, appena percettibile, come un borborigma, quindi sali nel petto, piano piano, con stento, s'arrampicò per le corde vocali, e finalmente, rompendo gl'impasti del palato e della lingua : « La verità ! » disse.
« La verità è questa : che negli ultimi tempi Antonio è stato un po' male ».
Il signor Alfio abbassò il mento, quasi a nascondere con la fronte la smorfia delle sue labbra.
« Voglio sapere » mormorò con voce rauca e fioca, « se Antonio l'ha fatto apposta o no? »
« Non l'ha fatto apposta, Alfio. Vuoi che per tre anni facesse apposta una cosa tanto insipida ? »
« E allora ? »
« Non ha potuto fare diversamente. Barbara gli piace... ma con lei, quella faccenda li, non arriva mai in porto ».
Il signor Alfio accentuò l'espressione amara delle labbra spingendole tanto in basso e a sinistra che anche il naso dovette un poco seguirle.
« Mi paiono cose dell'altro mondo! Un giovane non sa portare, come dici tu, in porto una faccenda di quel genere? un giovane come lui che ha passato più tempo sopra le donne che sopra il materasso! Mi paiono cose dei Turchi! E dunque, anche se volesse, non per suo gusto, ma cosi per sfregio, per scommessa, perché glielo comando io o sua madre, se volesse, dico, far vedere a quella diavolo li...come si chiama? Barbara, cos'è capace di fare un Magnano quando vuole... lui, cosi lungo com'è, non gli basta l'animo di fare nulla? »
Ermenegildo curvò la testa e si diede ad accarezzarsi il mento e la guancia, lasciandovi, a ogni carezza, un'incavatura che stentava a riempirsi.
« Ma deve fare una cosa! » esclamò il signor Alfio, bruscamente, « Questa la deve fare, per il suo dio, perché se no gli rompo il battesimo! deve prendersi un'amante, due amanti, tre amanti, quattro! subito! Vendo il giardino, la casa, vendo il vestito che ho addosso, e gli do tutti i soldi che vuole, ma deve prendersi quattro amanti! » Ermenegildo continuò ad accarezzarsi la faccia, ma con tanta forza che la carne della guancia destra gli girava al di là del mento fin sulla guancia sinistra e un occhio gli scendeva sopra lo zigomo.
« Cosa c'è? dici di no? » fece il signor Alfio, « non è giusto secondo te? E allora, che facciamo, niente? incrociamo le braccia come tanti Cristi con la canna, e ci facciamo sputare da tutti quelli che passano. Diventiamo la fogna della città. Ci lasciamo cacare dentro la bocca ».
« Non dico questo » mormorò Ermenegildo.
« E allora, cosa dici? avanti, parla! »
« Dico ch'è meglio non aggiungere legna al fuoco ».
« Perché ? come ragioni ? qual'è questa legna che aggiungiamo al fuoco se mio figlio si prende quattro amanti? Non è forse padrone, dopo la partaccia che gli hanno fatta, di andare in carrozza con tutto un casino ? a chi deve dare conto ? a chi? »
« Alfio, fa come vuoi ! » esclamò Ermenegildo, « dagli pure quattro amanti, cento amanti! Ma io, da parte mia, non te lo consiglio ».
« E perché ? »
« Io, se fossi Antonio, lascerei Catania e andrei a fare un viaggio dove capita... a coso li, come si dice ?... all'estero ».
« E perché? »
« Per un anno, non vorrei più sentir parlare né di Barbara né di Luisa né di tutte le donne che esistono al mondo! »
« E perché ? »
« Alfio, perdonami! » Ermenegildo fissò a lungo il cognato negli occhi : « E se con un'altra donna gli capita quello che gli è capitato con Barbara, che facciamo poi ? ci leghiamo una cosa li... maledetto Giuda, non trovo nemmeno io le parole !... una màzzera, ci leghiamo una màzzera al collo, ci prendiamo per mano, tutti quelli che stiamo in questa casa, e ce ne andiamo dritti filati sul muraglione del porto! » Il signor Alfio si mise ad agitare una mano verso il cognato e a mugolare con violenza: la parola che non gli veniva alla bocca, e di cui aveva impellente bisogno, era il nome di Ermenegildo.
« Come diavolo ti chiami? » gridò.
« Chi, io? » fece spaventato Ermenegildo.
« Tu, come ti chiami ? »
Un mattone schiacciò il cervello di Ermenegildo: tra la paura di aver dimenticato il proprio nome, la fretta di rispondere, e la rabbia che gli muoveva tutto questo, si mise a balbettare sillabe sconnesse, passando e ripassando vicino alla parola Ermenegildo c sbagliandola ogni volta.
« Come ti chiami dunque? » gridava il signor Alfio.
«.....» rispondeva il cognato.
« Come ti chiami, dillo, che ti sei ridotto peggio di me! » «.....» rispondeva ancora il cognato.
« Non sai nemmeno come ti chiami! » incalzava il signor Alfio.
« Ermenegildo! » esplose finalmente il cognato, scattando dalla sedia fuori di sé e picchiando il bastone sul tavolo. « Perdio, finisce male qui ! Ermenegildo! Ermenegildo! Ermenegildo! »
« Ermenegildo » fece il signor Alfio, « cos'hai voluto dire con quella parola di poco fa, che a mio figlio potrebbe... cosa li, come si dice? »
Ermenegildo non tentò minimamente di venirgli in aiuto, e seguitò a tacere.
« Come si dice? come si dice? »
Ermenegildo teneva ermeticamente chiuse le labbra imbronciate.
« ... succedere! » esclamò il signor Alfio. « Che a mio figlio potrebbe succedere con un'altra donna quel medesimo fatto che gli è successo con la moglie... Cos'hai voluto dire? »
« Ho voluto dire ch'è meglio non tirare la corda » rispose Ermenegildo usando guardingo le parole e osservando con la coda dell'occhio dove andasse a terminare ogni periodo in cui s'avventurava, al fine di non incappare in un altro vuoto della memoria, « specialmente quando la corda non è poi tanto forte ».
« Non è poi tanto forte... » ripetè il signor Alfio.
« E cosa vuoi dire con quest'altra parola, non è poi tanto forte? »
« Voglio dire che Antonio si deve riposare per qualche annetto! »
Il signor Alfio cavò un grosso fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, lo apri a metà e se lo mise davanti alla bocca, come quando vi si vuole sputare dentro qualcosa di disgustoso.
« Che vergogna! » mormorò.
Poi ripiegò il fazzoletto con diligenza, prima in quattro, poi in otto, e lo ripose nella tasca dei pantaloni.
« Qualche annetto, tu dici. Ma io sono cosi vecchio che fra poco mi possono raccogliere col cucchiaio. Devo proprio passare gli ultimi anni della mia vita sapendo che né io né mio figlio ci basta l'animo di andare a letto con una donna? anzi, a lui non gli basta l'animo, a mio figlio, a mio figlio perdio che, alla sua età, dovrebbe alzare pietre senz'aiuto di mano! pietre dovrebbe alzare, pietre! »
« E le alzerà » disse Ermenegildo conciliante, « quando si sarà riposato qualche annetto, le alzerà senza cosa il... come hai detto? »
« Ho detto quello che ho detto » brontolò disperato il signor Alfio. « E poi cosa mi vieni a raccontare ? » riprese a voce alta, « che dopo qualche annetto ?... che fa, dopo qualche annetto ? più invecchia e più la strada gli riesce di salita! A trentasei anni no e a quarant'anni si ? ma Ermenegildo, che mi vai impasticciando ? Va', va', va' ! Mettiamoci il cuore in pace piuttosto e non parliamone più! Vuol dire che io non ho più un figlio maschio! Mori, mio figlio! L'avevo, e mori! »
Né la voce del signoi Alfio aveva singhiozzato né i suoi occhi avevano pianto, e tuttavia le sue vecchie guance luccicavano impregnate, zuppe di lacrime, alcune delle quali gli cadevano sul colletto come gocce di sudore.
« Mori, mio figlio, mori! L'avevo e mori! » Il vecchio assestò una manata sulla tavola. Poi fece per alzarsi puntando sulla mano con cui aveva picchiato, ma s'accorse che le sue ginocchia erano come scomparse dall'interno dei pantaloni.
Rimase dunque a sedere.
« Qualche annetto, tu dici!... Ma via, per carità, non facciamoci i discorsi che si fanno ai bambini! Quello che fu fu, e non torna! avevo un figlio maschio sino a ieri, avevo un figlio a Roma ch'era l'orgoglio della mia vita, che tenevo sopra un trono, che tutti me lo invidiavano, e la cosa li... come si chiamava? Ermenegildo, aiutami! »
« Chi ? » disse il cognato, alzando la fronte da una mano.
« La moglie di quel coso che si sentiva carciofo ? »
« Ho capito chi vuoi dire » fece Ermenegildo, riassalito dal sudore freddo della smemoratezza : « II... il... il... oh, Madonna benedetta! »
« Il parente di Mussolini! »
« Il coso si, ho capito... il diavolo... il càspita!... »
« E va bene, lasciamo stare! Hai capito chi voglio dire. La moglie di quel coso... » « La contessa K ! » sbottò Ermenegildo con un profondo sollievo.
« Si, la contessa K, gli lasciava le unghie sulla porta, e lui non le apriva, perché!... » Ermenegildo guardò il signor Alfio. Il signor Alfio s'interruppe, tirò indietro la testa e fissò il cognato negli occhi. Una nube nera gli precipitò nel cervello.
« Perché... » cercò di continuare. « Oh, mio Dio! » mormorò poi, senz'avere ancora pensato nulla né fatta alcuna supposizione, ma già morto di spavento come se il sospetto della verità gli fosse penetrato nelle ossa filtrandogli invisibile attraverso la coscienza.
« Ermenegildo » disse, sentendosi venir meno, « chiamami subito mia moglie ! Subito ! subito ! »
Ermenegildo scattò dalla sedia e si precipitò alla porta per gridare il nome della sorella, ma dopo aver annaspato due o tre volte con la bocca, sentendo che la sua memoria s'era di nuovo contratta, e più cercava di aprirla e più rabbiosamente essa si serrava attorno alla parola che egli voleva estorcerle, richiuse la porta dietro di sé, percorse il corridoio, entrò nella camera matrimoniale, prese la signora Rosaria per una mano e le disse: « Andiamo, corri, ha bisogno di te! » « Chi? » domandò la signora spaventata.
Egli stava per rispondere : Alfio, ma temendo che quel nome si sarebbe perduto nel breve tragitto dal cervello alla bocca, con molta prudenza si limitò a dire : « Tuo marito ! »
Capitolo 10
« Come un colpo di cannone... »
Il Barbiere di Siviglia « Il agit comme libre et parle cornine esclave ». Voltaire
Il rumore di quello scandalo fu avvertito da tutta Catania come un boato dell'Etna.
Antonio Magnano, il figlio di Alfio, il nipote di Ermenegildo, il bellissimo giovane che faceva alzare lo sguardo dal messale alla più santa delle ragazze, Antonio dagli occhi sempre addormentati, e chi non lo conosceva? (levavano una mano al disopra della testa per indicare ch'era alto o se la passavano dolcemente lungo le guance per dire che aveva un viso perfetto), Antonio, sì, proprio lui, quello, esattamente quello e non altri, ebbene Antonio con la moglie... niente! vi dico niente! assolutamente niente! Barbara Puglisi, dopo tre anni di matrimonio, non sa ancora cosa sia grazia di Dio.
« E in questi tre anni, che le ha fatto il marito ? » « Le ha cacciato le mosche ».
« Possibile, possibile ? »
« È così! »
« Ma come, il figlio di Alfio non ha denti per il pane fresco ? » « Non ne ha ».
« Ma che dite, ma che cosa m'incucchiati ? »
« Privo della vista degli occhi, è cosi ! la prima notte si coricarono e... e... niente! »
« Ma come fu ? »
« Come fu?... fu! Nun c'era iu, cumpari » (27).
« Ma allura, caùnazzu? » (28)
« Catinazzu jermu, cumpari! » (29) « Per tre anni, sempre catenaccio ? » « Sempre catenaccio ». « Ogni notte, catenaccio? » « Ogni notte catenaccio ».
« E come può essere ? »
« Diciticcillu 0' Padreternu, ca è iddu eh' 'e fa, 'sii cosi! » (30)
« Ma io capirei una volta, due volte, tre volte... Voglio essere largo : cinque volte !
Chi di noi non ha fatto catenaccio? »
« Vi devo dire la verità, compare : io non l'ho fatto mai! »
« Mai? »
« Mai! »
« In un certo senso, nel senso di un catenaccio completo e senza rimedio, nemmeno io, compare, l'ho fatto mai ».
« Il Signore mi deve far morire prima di mandarmi una disgrazia simile! E che ne ha, uno, della vita, se gli levano anche quello? Davvero che mi butterei nella cisterna ».
« E chi ci campa a fari? » )(31) .( Megghiu mortu! » (32)
« Megghiu mortu. milli voti! » (33) « Che diciti, milli voti? Megghiu mortu centu miliuni di votil » (34)
« E io mi dovrei vedere ridotto in quello stato ? ma meglio cento metri sottoterra, come dite voi, meglio in fondo al mare in bocca, ai pesci!... Vi dico di più: meglio, condannato all'ergastolo, piedi e mani incatenati come a Cristo, ma perdio col mio onore d'uomo, degno di commiserazione magari per essermi bagnato le mani nel sangue del prossimo, ma non oggetto di risatine e toccatine di gomito quando passo per la strada, perché se qualcuno s'azzarda di ridere o di sporgere il gomito verso il suo compagno, io gli posso sempre gridare: Che cosa ridi, faccia di minchia ? mandami tua sorella piuttosto o tua moglie che allora ridiamo per davvero! » « E chi può darvi torto ?... Padre, Figlio e Spirito Santo! E iu m'avissi u sumpurtari
'dda cosa disutili appinnuta davanti?... Ma quant'c veru Diu ca m' 'a scippu e 'a 'ettu 'e cani! L'ha detto anche Nostro Signore d'altronde: Se uno dei tuoi membri pecca, strappalo e gettalo via! »
« Si, è giusto, ma non tutti hanno questo coraggio ».
« Ah, io l'avrei! non mi capacito anzi come il figlio di Alfio si tenga addosso una malanuova come la sua senza fare una qualche pazzia! »
« Che ne sappiamo noi, se la farà ? »
« Niente, compare : ormai ci ha perso tempo ! Se non l'ha fatta sinora, non v'è ragione che la faccia domani. La gente di questi tempi non so di che pasta è, ma si quieta subito! »
« Aspettiamo prima di giudicare! »
« Pi' mia, avemu vogghia d'aspittariì... Ma sintiti : "sta malanova l'ha purtata sempri d'incoddu o ci capitò ora ca si maritò?" » (35)
« Sinceramenti, cumpari, vi dicissi 'na minzogna: nun lu sacciu » (36).
« A mia m'avevunu dittu ca a Roma 'stu carusu s'avia fattu certi strazzati di p. ca nun s'abbastava a cuntalli, e quannu era a Catania ogni momentu avia bisognu di 'na fimmina p'allisciarisi 'u beccuì » (37) Una sera che stavo seduto in un caffè accanto al suo tavolo, vi assicuro che per almeno dieci volte sentii il suo amico, quello che ora ce l'hanno dato per podestà, domandargli (e com'era 'ncuttuì): "Chi facemu, Ninuzzu? Ci emù dda, a ciusciarini 'u nasu?" » (38)
« Ma il podestà il naso se lo soffia! e come se lo soffia! Avete visto che belle dattilografe s'è preso al municipio?... Quanto al figlio di Alfio, è un altro par di maniche; potreste giurarlo, voi, in coscienza, che, quella sera, riuscì a soffiarsi il naso? »
« Io in coscienza vi posso assicurare che sul tardi, potevano essere le undici, gl'intesi dire testualmente : Si, amuninni a ciusciarini 'stu nasul » (39)
« Ma compare mio, una cosa è dire e una cosa è fare. C'eravate voi, nel letto, quando egli cercava di soffiarsi il naso? che ne sapete di quello che gli sarà successo dopo? Nel letto, scuro c'è, compare, e non si sa quello che succede ».
« Per cristo, la donna parla ! »
« Secondo, compare. Ho conosciuto una persona che pagava fior di quattrini perché la donna non parlasse ».
« E allora voi sostenete che il figlio di Alfio ha pagato fior di quattrini per non far parlare le donne? »
« Io non sostengo nulla, compare. A mia chi mi ni veni, si iddu nun ci 'a fa? (40) È affar suo! Io non gli posso dare aiuto. Cioè, cioè... Se m'avesse chiamato la prima notte di matrimonio, una mano d'aiuto gliel'avrei data volentieri ».
« Avissivu jattu 'ssu sjorzu, cumparil cu 'dda gran carusa ca fa cascari cantuneri! »
(41)
La conversazione s'inumidiva nell'acquolina del desiderio, e le bocche, ridendo furbamente, spruzzavano saliva. Ancora un minuto, e cominciavano le manate sulla pancia e i vicendevoli spintoni. Insomma la serietà era finita, e anche un giudice di tribunale, sospinto dalla spallata di un amico, poteva andar a picchiare, come la mazza di una grancassa, su un portone già chiuso per la notte.
Ma quelli, che la notizia fulminò e incenerì, furono gli amici di Antonio.
Questi uomini di trent'anni non ebbero la forza di dominarsi e, per alcuni giorni, l'occhio degl'invidiosi potè godersi fino alla sazietà la loro faccia pallida e sfatta. Sembrava che l'onore di tutta la brigata avesse ricevuto un colpo, e parecchi di essi, nell'ansia di correre ai ripari, si comportarono male perfino con le mogli dei parenti.
« Io non lascio niente » era il motto di Luigi d'Agata. « Ogni lasciata è persa! »
« Ma come? la moglie di tuo zio?... »
« E lasciami buscare il pane, non mi seccare ! »
« Ma quella è la moglie di tuo zio! »
« Niente, caro mio : non sento ragione ! dove trovo, piglio! che posso farci io, se l'asino drizza il capo ogni momento e non vuole stare fermo? »
« Ma insomma, un po' di considerazione! »
« L'asino non ha considerazione per nessuno. Ora, sì... ci mettiamo a fare cerimonie, e intanto gli altri ci salgono addosso con tutte le scarpe! Ognuno pensi a guardarsi la sua roba. Io come io, quando mi capita una donna, non voglio sapere né di chi è figlia né di chi è moglie. È donna con la veste? e allora basta! Non voglio sapere altro! »
« Ma così dove si va a finire? » « Una sotto e uno sopra ».
« E se lo facessero a te, che diresti ? »
« Io non sono sposato ».
« Ma hai una madre, una sorella... »
« Non mi parlare di mia madre e di mia sorella! Mia madre e mia sorella non c'entrano! »
« Ma sono donne anche loro ? »
« Sono donne, ma in questo discorso, ti ho detto, non c'entrano! »
« Che vuol dire che in questo discorso non c'entrano? Se sono donne... »
« Non c'entrano! ho detto che non c'entrano! mi sono spiegato chiaro ? O devo strappare qualche piede di tavolino? »
« Ah, così ragioni tu? »
« Cosi ragiono io. E se c'è qualcuno, che non gli piace come ragiono io, se ne vada... prima che io gli rompa le corna con qualche piede di tavolino!» aggiungeva fra i denti. « Basta, non parliamone più! »
« Ecco, meglio : non parliamone più ! » La compagnia rimaneva zitta, ma qua e là si sentiva un piede picchiare nervosamente sul pavimento, una gamba urtare contro il piuolo di una sedia, una ciano tamburellare sul piano del tavolino.
D'un tratto uno dei seduti, in sèguito a chissà quale pensiero, batteva violentemente una mano contro l'altra, facendo sobbalzare tutti i presenti. « E che diavolo ti piglia ? » esclamavano questi. « Piano ! »
« Frenati ! »
« E che modi son questi?... »
« Oh, poverini ! » rintuzzava l'altro, vergognoso di essere stato sorpreso nell'intimità dei suoi pensieri e irritato di doversene scusare. « Che ? vi siete spaventati? bambini, figli di mamma, fiati miei, si sono spaventati! gli ho fatto venire i vermi! »
L'aria della rissa avvolgeva cupamente gli amici di Antonio.
Ma il più cupo di tutti era Edoardo Lentini. L'odio contro Hitler e il dolore per la disgrazia del cugino ne avevano fatto l'uomo più nero che passeggiasse in Sicilia, verso il tocco di notte.
« Podestà » esclamava qualche passante che lo aveva riconosciuto, sbucando dall'ombra di un albero e parandogli ossequiosamente davanti alla faccia una mano spalancata nel saluto fascista, « riverito! »
«Buona notte!» rispondeva Edoardo, e, subito dopo, fra i denti: « A tua sorella! » per rispondere a quel « Figlio di cane! » o « Botta di veleno a te e a colui che ti ci portò! » che il passante avrebbe di sicuro aggiunto, anche lui fra i denti, subito dopo averlo salutato con rispetto.
Poi si volgeva a guardarlo con simpatia allontanarsi tra le ombre degli alberi, perché egli voleva bene a tutti coloro che insultavano in lui il rappresentante del regime.
Ma la cosa, la forma, che lo faceva smaniare di ripugnanza, e voltolare di notte fra le lenzuola e sputare nel mezzo di un salotto fra la costernazione delle signore che avevano sempre ammirato la sua eleganza d'altri tempi, era la faccia di Hitler coi baffi della jena a cui un domatore abbia cercato inutilmente d'insegnare a ridere. Ah, quella faccia! quella faccia, no!... non era possibile! non era concepibile!...
Quando Hitler chiese i Sudeti, e tutti cominciarono a temere la guerra, e certe stradette di Catania, illuminate a gas la notte, si riempirono dello scalpiccio di migliaia d'uomini eccitati dalla paura e dal pensiero ch'era « meglio farsene il più possibile, dato che presto si doveva morire », il 5 agosto, nel salone del fascio, mentre il federale Pietro Capano vibrava pugni sul tavolo per rimettere un po' di marzialità entro quelle divise nere d'ispettori nelle quali da anni, per prudenza, vanità e interesse, s'erano cacciati tanti poveri borghesi, Edoardo chiese di parlare e, fra l'attenzione generale, affermò che la guerra non sarebbe scoppiata.
Il pallore di Edoardo non piacque al federale.
« Come fai a dire che la guerra non scoppia? » domandò.
Edoardo divenne ancora più pallido per l'intensissimo piacere del rischio che stava per correre e dello sfogo che finalmente dava a un suo occulto sentimento.
« Hitler » disse, « abbaia, ma non morde : come tutti gli uomini senza c. »
Pietro Capano si senti girare la testa dallo spavento di aver udito simili paiole.
« Ma... come ?... » balbettò. « Cosa... dici ?... »
« Non è colpa sua se è in quello stato » ribatté Edoardo. « Anzi è un suo merito di combattente. Lo saprai anche tu, federale, che nella guerra passata una nuvola di gas colpi Hitler e gli bruciò... quello che gli bruciò! »
« Io non so niente ! » balbettò Pietro Capàno, assestando, alternativamente con la destra e la sinistra, quattro pugni sul tavolo. « Non so proprio niente ».
« Andiamo, federale, è una cosa che sanno tutti! »
« Veramente » interloquì un ispettore molto candido, « non sapevo nemmeno io che Hitler fosse stato colpito dal gas in quel punto! A giudicare da come si comporta, però, non direi che è un uomo senza c. Al contrario, mi pare che ne abbia di quelli che arrivano sino a terra e fanno polvere! »
« Certo! » gridò Capàno, assestando, non un pugno, ma una manata sul tavolo, e rizzandosi in tutta la sua altezza, « ha un paio di c. che gli fanno polvere! E tutti gli uomini della sua famiglia hanno c. che gli fanno polvere! E nessun suo parente, ch'io sappia, è stato ripudiato dalla moglie! »
L'allusione ad Antonio era chiara. Edoardo si alzò con mezzo viso rosso come il fuoco e mezzo ancora pallido.
« Ripeto » esclamò, « che Hitler ha perduto i c. in guerra! » Il federale strinse rabbiosamente i due capi del tavolo.
« Se la pensi cosi » disse fra i denti, « hai un solo dovere! »
« Quale? »
« Di non servire più un regime che ha per guide uomini senza c., tu che i c. li hai, e anche i tuoi parenti ce l'hanno! »
« Lascia stare i miei parenti ! » brontolò cupamente Edoardo, « lasciali stare!... Quanto poi alla tua insinuazione » aggiunse con voce squillante, « ti rispondo che io servo non il regime nazista, ma il regime fascista che ha per guida un uomo con tanto di c. ! »
« Ma tu sai » continuò Pietro Capano, mordendosi le labbra, « che il duce e Hitler si vogliono un bene da fratelli, e chi insulta l'uno insulta l'altro! »
« Federale, alle corte : cosa vuoi dire, che dovrei dimettermi? ebbene, mi dimetto! mi dimetto! mi dimetto! »
E cosi dicendo Edoardo, che già s'era alzato, prese da una sedia il berretto con l'aquila dorata e se lo calcò accuratamente davanti a uno specchio, fingendo di osservarsi a lungo, ma in verità per dare agio al suo viso di temperare a vicenda il giallo e il rosso di cui era chiazzato; poi salutò il federale e i camerati con un saluto romano pieno d'eleganza, e usci' dal salone.
Fuori del palazzo di Vaccarini, respirò profondamente.
« Ah! » si disse, « mi sono liberato! finalmente!... mi sono liberato! » Giunto a casa, narrò alla moglie quanto gli era accaduto.
« Va bene » disse la signora. « Posso usare per oggi la macchina del municipio o prendo un tassi? »
« Usa la macchina del municipio! Finché non sarò sostituito, il podestà di Catania sono io! » Dopo aver pranzato in silenzio con la moglie e i cinque figli, si sedette allo scrittoio e stilò questa lettera al conte K:
« Eccellenza, desidero informarvi sollecitamente di un episodio ch'è accaduto oggi nella sede della Federazione fascista e nel quale io mi sono comportato con intemperanza. Nel corso di una discussione sulla politica estera, della quale voi siete ecc. ecc., io ho forse ceduto troppo a quel sentimento di gelosa ammirazione che ho per il CAPO.
Come Voi sapete, io non posso ammettere che il fùhrer venga considerato della medesima statura morale e intellettuale del DUCE. Ogni volta che nei discorsi degli altri mi pare di leggere questa celata intenzione, io, Eccellenza, perdo il controllo di me stesso e reagisco con violenza.
Oggi, in federazione, mi è parso di avvertire che Hitler venisse considerato ingenuamente dai gerarchi del Partito come il principale protagonista delle vicende attuali. Dico ingenuamente, perché i camerati di Catania sono legati da profonda devozione al DUCE, a Voi e a S. M. il Re Imperatore. Ma la loro ingenuità mi ha profondamente ferito! Eccellenza, non ho saputo frenarmi e ho ricordato a voce alta la mutilazione di cui è rimasto vittima il capo della Germania nell'ultima guerra in cui d'altronde rifulse il valore delle nostre meravigliose truppe — mutilazione in se stessa gloriosa, ma che mette il fùhrer, anche fisicamente, su un piano inferiore a quello su cui si erge il nostro DUCE.
Non dirò che il federale abbia negato la diversa statura dei due uomini, ma egli ha difeso con troppo calore Hitler, sicché, a un certo punto della discussione, si è trascesi a parole violente che offendevano l'onore delle famiglie.
Eccellenza, io non accuso nessuno! Vi dirò di più: scuso tutti e accuso soltanto me stesso.
Ripensando alle parole e allo svolgimento di quel diverbio, sono costretto a constatare che i miei nervi sono stanchi e che il mio amore per il DUCE è di una tale permalosità che non mi permette di servirLo serenamente in un momento in cui EGLI ha creduto opportuno d'innalzare fino a sé un altro capo che non gli arriva nemmeno alle ginocchia, ma insieme al quale ha dichiarato che marcerà sino in fondo.
Per questo ho l'ardire di presentare a Voi le mie dimissioni da podestà di Catania, a Voi, Eccellenza, prima che al Ministro degl'Interni, pregandovi di volermi sempre considerare il gratissimo e devotissimo servitore del DUCE e Vostro.
Ossequi fascisti ecc. »
La lettera fu giudicata dai parenti di Edoardo un modello di diplomazia: il modo, con cui egli esponeva i fatti, era il solo che potesse risparmiargli l'espulsione dal partito e forse anche il confino.
Ma non appena l'ebbe imbucata, cadde in preda al malumore.
« È giusto che si debba mentire per poter dire la verità? » brontolava fra sé, infilando una traversa, e cercando di far perdere le sue tracce a un tale, che s'era messo a seguirlo da due giorni scattando gli occhi al cielo, con aria d'innamorato o contemplatore di nuvole, ogni volta che il pedinato si fermava per osservarlo, « è giusto che per poter manifestare la mia ripugnanza verso Hitler io debba inghiottire quella che mi suscita il suo compare? Ho raggiunto il mio scopo, è vero: mi sono dimesso da podestà! La carica, per cui tanto m'è battuto il cuore, io l'ho gettata alle ortiche. Ma per rifiutare quest'onore, che farebbe girare la testa a milioni d'italiana dovuto umiliarmi come se lo piatissi. Oh, tempi malvagi! anche la fierezza ha il cattivo sapore del suo contrario! »
Ritornò a passeggiare per i viali solitari tocco di notte, e ai rari passanti che gli spalancavano la mano davanti agli occhi, salutandolo; Podestà!...» rispondeva:
« Non sono podestà! Mi sono dimesso ».
Camminava a passi infuriati, voltolando nella mente cose strane e terribili... L'indomani, all'alba, avrebbe spedito una seconda lettera al conte K: « Egregio Signore, avrà senza dubbio capito che la mia lettera precedente è stata scritta nello stile della convenienza e della stupidità. Ma ad evitare che sorgano equivoci fra di noi, le dirò esplicitamente la vera ragione che mi ha spinto a dimettermi da podestà di Catania: il fascismo, il duce, il fùhrer, e anche lei, signor conte, mi fate uno schifo profondo, anche quale finalmente ho la forza di non resistere. Per anni, questa forza non l'ho avuta, perché l'aria stessa che respiriamo ci mette nei polmoni la pazienza e la bugia, per anni, ho menato a spasso la mia divisa di podestà, e la gente, vedendomi trasparire sotto l'aquila dorata, attraverso i vetri della macchina del municipio, ha potuto salutarmi coi suoi più striscianti saluti e conservare di me un'immagine da portare a casa per deriderla con comodo e senza rischi. Quei tempi però sono passati. Colui che Le scrive non ha più paura, come vede, di usare il lei e di chiamarla Signore ecc. ecc... »
A questo punto, le orecchie gli gridavano voce della moglie e dei figli. No, la lettera stata una pazzia inutile; nessun giornale |l'avrebbe pubblicata, nessuna persona l'avrebbe creduta verosimile.
Egli sarebbe stato buttato in carcere, sotto l'accusa di aver chiesto trecentomila lire a una società di costruzioni per concederle l'appalto di una strada! La sua immaginazione cambiava rotta... ed egli era un uomo alto tre chilometri, esattamente della statura dell'Etna. Un uomo simile, a ogni passo, percorre due chilometri. Con duecentocinquanta passi, è già in vista di Roma. Le artiglierie tuonano contro di lui, pungendogli appena la pelle con le loro granate; gli aeroplani, egli li spiaccica fra una mano e l'altra come zanzare moleste. Strisciando un piede a destra e a manca, pesta e disperde l'esercito che dovrebbe sbarrargli il passo. Eccolo curvo su Roma, a infilare stentatamente una mano nella stretta spaccatura di via Nomentana per cercar di acchiappare una macchina che corre all'impazzata in qua e in là come una formica, recando dentro di sé un insetto più piccolo di lei. Finalmente, riesce a stringerla con tre dita, e rialzandosi in piedi, la porta a tre chilometri di altezza, vicino ai propri occhi. Ne cava un omino sgambettante che pone subito dietro una grossa lente d'ingrandimento, per distinguervi i segni di primo maresciallo dell'impero, minutissimi e del tutto invisibili a occhio nudo...
« Podestà » lo svegliava una voce, « riverito! » Egli sobbalzava col cuore in gola.
« Buona notte » rispondeva, « ma non sono più... »
La sfiducia e il disgusto gli troncavano la frase. A quale scopo, far sapere a un nottambulo ch'egli s'era dimesso? Quel pover'uomo, stordito dal sonno e da tanti anni di solerzia, incapace ormai di credere nel coraggio e disinteresse dei suoi compatriotti, sarebbe disposto a lambiccarsi il cervello per capire che l'amministratore della sua città si era veramente dimesso, e non era stato invece cacciato via, e che la ragione futile per cui si era dimesso ne nascondeva un'altra assai più seria? no, senza dubbio. E allora?... Come bisognava comportarsi? Edoardo si agitava e sbatteva come un tonno preso nella rete. Cosa bisognava fare ? che dire ? era possibile che in quella dannata società anche l'atto di più generosa collera andasse a incorporarsi in un inchino?
Prima che il conte K rispondesse alla sua lettera, egli si considerò un privato cittadino, e non andò più al municipio. Ai segretari, che gli telefonavano a casa, rispondeva invariabilmente : « Non sono più il podestà ».
« Ma podestà... »
« Non lo sono più, ti dico! »
« Per me sarete sempre il mio podestà ».
« E io ti ordino di non considerarmi un podestà! »
« Ma podestà... »
Per tagliare la testa al toro, cominciò a frequentare lo studio dell'avvocato socialista Raimondo Bonaccorsi, presso il quale si raccoglieva un gruppo di persone « senza tessera », il cui pollice aveva lasciato un segno sui registri della questura.
L'ospite era un uomo che, fuori dei comizi e dei tribunali, aveva sempre parlato a bassa voce, quasi fosse destinato sin dalla nascita a far da oppositore a un regime pieno di orecchi. Quest'uomo delicato e incerto dominava il suo uditorio con una saggezza vecchio stile, rovistandosi lungamente la barba prima di trovare un si o un no, e lasciando capire che, oltre le facili e chiare ragioni dei suoi amici impazienti, ce n'erano altre, al di là dei giornali e dei libri che essi avevano letti, in giornali più antichi e libri assai rari, in punti estremamente lontani della cultura che egli solo riusciva ad abbracciare con la mente. La prima sera che Edoardo si recò nello studio dell'avvocato, tutti lo tennero d'occhio come un uomo dubbio. Ma tre giorni dopo, era nel cuore di tutti.
I vecchi antifascisti erano stati ridotti a mal partito dalle lunghe delusioni: l'abitudine all'insuccesso aveva generato in loro un'amarezza che piano piano li andava intormentendo fino a rallentarne i battiti del cuore. Il padrone di casa, più di ogni altro, sembrava affetto da questo male, e, secondo alcuni, egli si era così affezionato al suo cupo sentimento che avrebbe rinunziato al piacere di vincere piuttosto che a quello di amareggiarsi.
Lo studio dell'avvocato era pieno di voci smorte, quando Edoardo v'irruppe con la sua implacabile speranza e la sua aspra certezza che le cose odiate da lui sarebbero presto morte.
Lo studio, oltre che dai vecchi deputati socialisti e democratici, era frequentato dall'ex brigante don Luigi Compagnoni, che non sapeva darsi pace del fatto che la sua onestà e mitezza, cominciate per una sfortunata coincidenza nel '25, l'anno in cui la tirannide aveva uccisa la forza del carattere sia nel bene che nel male, potessero apparire un effetto della paura. « Perdio » diceva, « dovranno tornare i tempi in cui un uomo le devozioni se le dice col coltello! dovranno tornare! » Egli sperava che tornassero, per far brillare la sua onestà in mezzo a quei coltelli risfoderati. Ma da alcuni anni, e precisamente da quando l'impresa etiopica era terminata con fortuna, nello studio dell'avvocato ristagnava la sfiducia. Nel caminetto, l'ospite pareva mettere lastre di ghiaccio, invece che il fuoco della speranza. E chi più ne soffriva era il buon brigante Compagnoni, e, insieme a lui, un giovane avvocato, Pasqualino Cannavo, canticchiatore fanatico di canzonette moderne, che, fino al '36, era stato anche fanatico del fascismo. In quell'anno, egli aveva combattuto volontario in Africa, cantando « Faccetta nera », ma poiché questa canzone venne proibita, egli entrò in Addis Abeba muto come un pesce, col cuore nero per il vago sospetto di non essere un uomo libero. Tre mesi dopo, il sospetto era diventato certezza, e gl'impediva di dormire. Nel 1937, era stato già mandato al confino per due mesi e, al suo ritorno a Catania, frequentava lo studio dell'avvocato Bonaccorsi, ove si rovinò talmente il fegato che in estate dovette recarsi a Chianciano.
Era naturale che l'arrivo di Edoardo fosse salutato da questi due personaggi, e anche dagli altri, come la nascita del mattino. Lo studio dell'avvocato si riempì di grida, di pugni sui tavolini, di canzonette napoletane; le speranze dei vecchi scossero il gelo e aprirono le ali intirizzite dalla lunga notte.
« Non la fanno, la guerra! » gridava Edoardo, « non la fanno! scommetto la testa che non la fanno! »
« Ma perché, scusi? » domandava l'avvocato Bonaccorsi.
« Perché gli trema il pelliccione, all'uno e all'altro ».
« Ho i miei dubbi ».
« E lei, maestro » smaniava impaziente don Luigino Compagnoni, « che ci può stare, senza dubbi?... »
Una sera il padrone di casa aspettò che don Luigino finisse di stampare baci sulla fronte di Edoardo, per aver questi annunciato che « Hitler si sarebbe calato le brache », e disse piano piano : « Avvocato? »
Edoardo si rificcò la cravatta dentro la giacca, da cui era saluta nel tumulto dell'abbraccio, e rispose: « Dice a me, maestro? »
« Guardi che nel palazzo del Vaccarini fanno circolare una voce malevola nei suoi riguardi ».
« Che importanza vuole che abbia, per un uomo onesto, quello che si dice in federazione ? »
« Ma sa? la calunnia, la temono anche i santi ».
«Cosa dicono, quei briganti?» intervenne don Luigino, torcendo nell'aria, con le sue grosse mani, la forma di un collo, « cosa dicono? »
« Che lei » continuò l'avvocato Bonaccorsi rivolto a Edoardo, « si sarebbe dimesso da podestà, perché in una seduta, o assemblea o adunata, non so come chiamiate queste riunioni, il federale fece allusione alla faccenda di suo cugino Antonio Magnano ».
Edoardo sporse le labbra in una smorfia di disprezzo: «Caro maestro, nessuno crederà alle loro parole. Nella tessera fascista c'è scritto appunto credere! perché tutte indistintamente le cose che dicono loro non sono da credere. In ogni modo, sappia che l'incidente in federazione è stato provocato da me, perché sono stato io a dire, davanti a tutti gl'ispettori, che Hitler ha i c. bruciati dal gas! »
« Lei disse questo, in piena federazione? » gridò don Luigino, alzandosi dalla sedia con le braccia spalancate. « La devo baciare un'altra volta! »
« Si, l'ho detto e ripetuto! » continuò Edoardo, quando si fu sprigionato da quell'abbraccio. « Ma perdoni, maestro, la mia curiosità: chi le ha riferito questa notizia? »
« L'avvocato Targoni, ch'è un ottimo ragazzo ».
«L'ispettore del partito?» esclamò Pasqualino Cannavo. « E lei, maestro, dà confidenza a un ispettore del partito? »
« È una gentilissima persona, dalla quale non ho ricevuto che cortesie! » « Maestro, mi meraviglio di lei! Non ce ne sono, gentilissime persone, da quella parte ».
« Amici miei, io sono stato educato in tempi diversi dai vostri: ai miei tempi, la passione politica non c'impediva di riconoscere le buone qualità anche in un avversario ».
« Ebbene » gridò Edoardo, « quelli non sono avversari ma pirati che vogliono trattarci come schiavi! Non sono disposto a riconoscere buone qualità fra quella gente! Mi rifiuto di credere che possa trovarsi una buona persona fra di loro! » Un tuono di applausi copri le parole di Edoardo che corse il rischio di venire abbracciato una terza volta dal brigante convertito.
Quando si ristabilì il silenzio, l'avvocato Bonac-corsi divenne pallidissimo e, rivolgendosi a Edoardo, dichiarò: « Perché lei rimane sempre un fascista! » Parve che un secchio d'acqua fosse stato gettato sull'unico ceppo acceso di quel caminetto e che l'antico gelo tornasse nello studio.
Edoardo si alzò e andò a prendere il cappello: « Quand'è così » masticò fra le labbra, « tolgo subito il disturbo ».
Tutti scattarono in piedi e gli si misero dietro. Lo stesso avvocato Bonaccorsi cercò di trattenerlo per un braccio. « No » ripeteva, « avvocato Lentini, mi ascolti!... Io ho inteso dire... »
Ma Edoardo, con cortese risolutezza, si liberò dalla mano dell'ospite, e uscì.
« Ho inteso dire » insisteva l'avvocato Bonaccorsi, sporgendosi dalla ringhiera della scala, per le cui ultime rampe precipitava il passo di Edoardo, « che lei è stato educato in tempi diversi dai miei... e naturalmente non può condividere i miei modi... che saranno magari sbagliati... anzi, sono sicuramente sbagliati... »
Ma le ultime parole cascarono in una tromba deserta, per cui l'avvocato Bonaccorsi, seguito da tutti i suoi amici, corse al balcone che dava sulla strada.
« Mi scusi! » gridava il buon uomo verso Edoardo che s'allontanava a passi concitati. « Mi scusi, la prego! »
I frequentatori dello studio piombarono nella costernazione : quel giovane, che aveva svoltato di furia la cantonata dirimpetto, non sarebbe tornato mai più a rincuorarli.
Per loro fortuna, due giorni dopo, capitò nello studio Ermenegildo Fasanaro.
Tutti si sedettero giro giro intorno a lui.
« Vecchio antifascista, eh? provato! » disse l'avvocato Bonaccorsi, indicando il gentiluomo agli amici col battergli la mano sulla spalla.
« Non sono più né antifascista né fascista ! » rispose Ermenegildo. « Come come come ? una delle due cose bisogna esserlo per forza! » «Dov'è scritto? » fece Ermenegildo.
« Non è scritto in nessuna parte... Ma allora, scusi, lei, di che partito è? »
« Sono del partito dei vermi che fra poco mi mangeranno la carne addosso; o se volete, la penso col mio teschio, che certamente si conserverà intatto fino a un tempo in cui fascismo e antifascismo non significheranno più nulla ».
Tutti i presenti fecero una smorfia di malumore. Il loro odio politico era diventato ormai un solido nascondiglio ove la felicità non riusciva a scovarli, ma nemmeno il pensiero della morte. Ermenegildo, con le sue parole, li disturbava sgarbatamente.
Cambiarono subito discorso e pregarono l'ospite di intervenire presso Edoardo con tutta la sua autorità per convincerlo che l'avvocato Bonaccorsi non era capace di offendere nessuno, e tanto meno Edoardo che egli stimava, rispettava, ammirava, ecc.
Ermenegildo promise che avrebbe cercato di vedere l'indomani stesso l'ex podestà di Catania. La promessa fu mantenuta, ed Edoardo dovette incontrarsi con uno dei parenti di Antonio, che fino a quel momento aveva schivati con ogni cura.
Naturalmente l'oggetto principale della conversazione non fu l'incidente di casa Bonaccorsi, del quale si sbrigarono in poche parole, dichiarandolo chiuso e dimenticato, ma la disgrazia di Antonio.
« Perché non è andato mai a trovarlo? » domandò Ermenegildo.
Edoardo curvò la testa. Poi disse : « Non me la sento! »
« Perché? »
« Vedendolo, mi scapperebbero le lacrime, come davanti a un morto; e questo certo non gli darebbe coraggio ».
« Ah! no di sicuro. Ma lei non potrebbe evitare di piangere? »
« Guardi! » disse Edoardo, e mostrò una lacrima che gli era scesa sulla guancia. « Se al solo parlarne mi succede questo, pensi vedendolo! Lei sa che ci vogliamo bene come fratelli ».
« E appunto per ciò. Non si abbandona il fratello nella disgrazia. Via, si decida, venga a trovarlo... Quando viene, stasera ? domani mattina ? domani sera? »
« Stasera stessa! » fece Edoardo.
Quella sera stessa, infatti, si recò dai Magnano. Antonio, con un fazzoletto di seta al collo, era seduto in sala da pranzo davanti alla lunga tavola apparecchiata su cui aveva poggiato un libro.
I due amici se ne stettero l'uno di fronte all'altro per alcuni minuti senza dirsi nulla. Poi Edoardo allungò una mano al di sopra del tavolo e strinse con forza la mano del cugino che gli era scivolata incontro.
« Edoardo », si senti gridare a questo punto, « Edoardo, vieni qui! »
Era il signor Alfio che chiamava dalla sua camera da letto, ove, da una settimana, giaceva con la febbre.
Edoardo percorse il corridoio, seguito da Antonio, che però rimase appoggiato a una parete quando il cugino entrò nella camera del padre.
In questa camera, piena di fumo di pipa, Edoardo fu abbracciato con forza e in silenzio dalla signora Rosaria e costretto a sedersi al capezzale del letto dalla mano infuocata del signor Alfio.
« Dunque » attaccò subito il vecchio, « il figlio di Nello Capano si permette d'insultarci, profittando che gli hanno messo sulla testa la papera di federale ! Ma che si crede? che pensa? dove ce l'ha, il cervello ? Alfio Magnano, appena riesce a spiccicare dal letto le sue quattro ossa, lo va a scovare anche se si nasconde nel berretto del Padreterno, e gli ficca queste dita nel fondo degli occhi! »
« Sta' calmo! » raccomandò la signora. « Se non stai calmo, la febbre non ti passa».
« E devi farmi un piacere » continuò il signor Alfio, rivolto a Edoardo, « devi convincere Antonio a scrivere al conte K perché ci tolga dai piedi il figlio di quel tappo di latrina eh e stato sempre Nello Capano. Prendi qui la mia penna e dalla a tuo cugino. Va', e torna con la lettera ! Se no, quant'è vero Dio, butto all'aria le lenzuola e mi metto a passeggiare nudo nel balcone. Ecco la penna, va'! »
Edoardo prese la penna e corse da Antonio che, cedendo alle esortazioni del cugino e al desiderio di far cosa gradita al vecchio, scrisse una lunga lettera al conte K.
Il signor Alfio se la fece leggere a voce alta, e respirò di sollievo. « Se il conte mi dà soddisfazione, guarisco in un minuto secondo! » disse.
Ma la lettera di Antonio giunse a Roma due giorni dopo la notizia della sua disgrazia, ch'era stata accolta da una risata generale.
« L'ho detto e anche scritto » dichiarò il vicesegretario del partito Vincenzo Calderara, « che Antonio Magnano non era stoffa di vero fascista ». E al conte K che aveva piegato il naso sulla punta del pollice, come se meditasse : « Con voi, Eccellenza, non si è confidato mai? »
« Perché doveva confidarsi con me ? » esclamò risentito il conte.
« Egli si è sempre vantato di essere vostro amico ».
« Ci siamo incontrati nel salotto dei R..„ è venuto a casa mia tre volte, anzi due... l'ho invitato a colazione una volta... Non credo che questo voglia dire essere amici».
« A sentire suo padre, sembra che con Voi, Eccellenza, dividesse... »
Il conte si alzò infastidito, lasciando Calderara col resto della frase sulla lingua. Ma l'indomani dettò al suo segretario questa lettera di risposta ad Antonio : « Caro Camerata, l'Eccellenza il conte K m'incarica di ricordarvi che i gregari del Partito possono presentare le loro lagnanze nei riguardi dei superiori soltanto attraverso la via gerarchica. Saluti fascisti... »
Nello stesso tempo, fu dato ordine al segretario federale Pietro Capano di pubblicare in neretto sul giornale di Catania il seguente comunicato : « ATTI DELLA F.N.F. Ho inflitto il ritiro della tessera al camerata Edoardo Lentini per scarsa sensibilità fascista. Egli cessa pertanto dalla sua carica di podestà ».
Queste notizie furono tenute nascoste al signor Alfio per dargli modo di guarire. Ma quando egli guarì, e potè lasciare la casa, dopo solo mezz'ora la strada lo ributtò in famiglia bianco e sfatto come un cencio; gli era stato detto tutto, e nel modo peggiore. Risalendo le scale, privo di forze, aveva appreso inoltre dall'avvocato Ardizzone che il duca di Bronte, mercé l'appoggio di un potente personaggio del partito, molto amico di un influentissimo personaggio del Vaticano, avrebbe ottenuto al più presto l'annullamento del matrimonio di Barbara.
Ce n'era abbastanza per rimettere a letto il vecchio, che subito infatti fu riassalito dalla febbre e dal delirio, durante il quale fu giocoforza allontanare dalla sua camera le persone poco fidate, e persino sostituire il medico curante, ch'era un gerarca del fascio, con un vecchio dottore massone; perché nel forte della febbre il signor Alfio ribolliva di parolacce contro Capàno, Calderara, il conte K e il regime, ai quali attribuiva tutte le sue sciagure. Sicché la sera che cominciò a star meglio, trovò seduti nella sua camera, coi cappelli e i bastoni sulle ginocchia, tutti gli amici dell'avvocato Bonaccorsi, l'ex brigante Compagnoni, Pasqualino Cannavò, il farmacista Cacciola, il professor Rapisardi, l'ingegnere Marietti, l'operaio Speranza, e l'avvocato Bonaccorsi in persona.
Parecchi di costoro avevano seduto insieme a lui come assessori nel Consiglio comunale, al tempo felice in cui si poteva sputare per terra mentre passava un prefetto ed egli, alzando la veste di Antonio, mostrava a tutti con orgoglio che sotto quella veste c'era un figlio maschio. Per seguire questo figlio, che aveva stretto amicizie di ogni sorta fra i potenti della nuova generazione, egli si era allontanato dai veri amici... Ed ecco che, quella sera, con le lacrime agli occhi, il signor Alfio volle baciarli ad uno ad uno. Si fece ripetere il nome di ognuno dei più giovani, ascoltandolo la prima volta con compunzione, la seconda commentandolo, dopo una pausa, con dei « Bene! bravo! proprio bene!... »
A Compagnoni disse : « Voi, don Luigino, avete sempre il vizio di dimenticarvi sbottonati i pantaloni? »
Il buon brigante guardò la signora Rosaria e divenne rosso come uno scolaretto; poi si voltò dall'altra parte e corse con la mano su quei bottoni che, anche quella sera difatti, erano rimasti, il diavolo sa perché, fuori dei loro occhielli.
« E tuo figlio » domandò Bonaccorsi, « come sta? »
Il signor Alfio rizzò la testa sul collo e fissò l'amico negli occhi: « Sta cosi... come Dio vuole!... Raimondo, » aggiunse con voce fievole, « lo sai cosa è successo a mio figlio? »
L'avvocato rigirò la mano destra a imbuto e la curvò all'indietro, con l'atto di chi si butta alle spalle un oggetto privo di utilità, volendo in questo modo svuotare la faccenda di Antonio di qualunque gravità e importanza.
« No » ribatté il signor Alfio, « no, purtroppo ! non è così ».
L'avvocato ripetè il suo gesto, accompagnandolo con una smorfia di disprezzo per tutti coloro che annettevano importanza e gravità a cose di tal genere.
« No » ribatté ancora il signor Alfio, « no, Raimondo! »
L'avvocato ripetè per la terza volta la sua operazione di svuotamento, e vi aggiunse una tale alzata di spalle che per un minuto il suo collo rimase inghiottito dalla giacca.
« Sì? » fece il signor Alfio, raggiando un po' di speranza.
« Ma certo! » disse l'avvocato.
Il vecchio lo pregò di avvicinarsi perché voleva baciarlo una seconda volta.
Lontano da quella camera da letto, in fondo al corridoio, nella sala da pranzo, stavano frattanto appartati Antonio ed Edoardo.
« Vieni, ti prego, a salutare gli amici! » insisteva Edoardo, cercando di condurre il cugino nella camera del signor Alfio. « Ti assicuro che sono persone di ben altra qualità... Vedono le cose da un punto di vista molto elevato. L'avvocato Bonaccorsi ha letto trecento libri di filosofia e non so quanti poeti; il professor Rapi sardi ricorda a memoria tutti i quadri dei musei di Roma, Firenze e Parigi; l'ingegnere Marietti conosce Bach e Beethoven come i soldi che tiene in tasca... Non s'impicciano dei fatti degli altri... Come devo dirti?... per loro contano soltanto le qualità morali di una persona... Sono uomini rari, il mondo non ne fabbrica più, di uomini cosi. Gli si legge in viso che le loro madri erano donne capaci di arrossire per niente, forti e intemerate ».
« Perché, le nostre madri come sono ? » balbettò infastidito Antonio.
« Oh, le nostre madri sono delle sante. Ma chi direbbe che noi siamo loro figli? » « Non vengo di là, Edoardo ! » tagliò corto Antonio. « È tutto fiato sprecato! » « Bene, come vuoi ».
I due cugini rimasero tutta la sera al buio, vicino al balcone. Ogni tanto, per mettere un rumore qualunque nella stanza, Antonio tossicchiava, e dopo un poco, quasi a rispondere, Edoardo raschiava con la gola.
In queste modo, passarono parecchie sere; non avendo il coraggio di parlare a cuore aperto della terribile cosa ch'era accaduta a uno di loro, non parlavano di nulla, ogni altro argomento trattato avrebbe fatto sentire maggiormente la gravità di quello che trascuravano; sicché i grossi fatti di quel settembre, l'ordine di oscuramento alle città, gli urli di Hitler per le strade semibuie giù dagli altoparlanti collocati nei balconi, le chiamate alle armi, Monaco, non riuscirono a convertirsi in una sola parola su quelle due bocche piegate dall'amarezza.
Capitolo 11
 « La gente s'accalca ai ferri del cancello, taluno a voce bassa si contende il vano dell'ultimo ferro ».
Palazzeschi
« Liberi i numi d'ogni cura, al pianto Condannano il mortai... »
Omero-Monti
« Forse i travagli nostri, e forse il cielo I casi acerbi e gl'infelici affetti Giocondo agli ozi suoi spettacol pose ».
Leopardi Per due mesi Antonio non usci di casa, consolandosi ogni sera col mutismo affettuoso del cugino Edoardo. Sulla fine di novembre, si lasciò convincere dai consigli di un amico di Bonaccorsi, l'ingegnere Marietti, al quale due anni avanti era scappata la moglie e, un anno dopo, l'amica, e conosceva dunque alla perfezione i vicoli, i modi e le ore in cui un uomo, colpito da un'infamia, potesse cominciare, lentamente e cautamente, la sua opera di ritorno fra gli estranei di già abituati a non vederlo mai e a parlarne tutto il giorno.
L'ingegnere indossava un impermeabile; Edoardo camminava accigliato con un bastone sotto l'ascella, volgendo irosamente lo sguardo miope a quei lampioni che scambiava per uomini fermatisi a guardarli; Antonio, nel mezzo dei due, con una mano sul braccio del cugino e il bavero della giacca alzato intorno al collo, procedeva a occhi bassi. La notte era inoltrata, e le finestre, da cui eran piovuti tanti sguardi sul più bello dei siciliani, apparivano serrate. Se però fra le stecche delle persiane traluceva una lampada, il cuore di Antonio si dava a rombare sordamente e quasi con un sibilo, come un'elica sott'acqua. Egli intuiva subito quella materia dolce e infuocata ch'erano gli occhi femminili incollati alle persiane, immaginava trecce su petti nudi e spalline di camicie da notte scivolate lungo il braccio fino al gomito; immaginava piedi nudi inarcati dallo sforzo di tenersi sulle punte; immaginava specchi, pantofole, scarpine, sottane, nastri, ombrellini, pettini, piumini, orecchini, guarnizioni, fibbie; e tutto questo suonava per lui rimprovero e gli muoveva dentro il petto un principio di spavento. Antonio accelerava il passo, e i due amici, come allo scattare di una molla, lo acceleravano anch'essi.
Naturalmente, in quelle passeggiate, Edoardo e l'ingegnere Marietti evitavano in tutti i modi di avvicinarsi al palazzo dei Puglisi, e d'altronde anche Antonio pareva avesse il collo irrigidito dalla cura di non voltarsi dalla parte di piazza Stesicoro.
Quando però, alle due dopo mezzanotte, rientrava a casa, e s'affacciava nel terrazzino, il suo sguardo correva subito a quel tetto, nero e luccicante come il dorso squamoso di un pesce, il tetto sotto il quale dormiva Barbara, sola sola e casta, con la bocca socchiusa contro il cuscino, un delicato odore di farina impastata fra le pelle e la camicia, la mano destra rovesciata sul pollice e le dita leggermente incurvate. Foderato di pelle, e legato due volte entro una corona di rosario, un messale nereggiava sul comodino come una rivoltella. Una piccola lampada, ravvolta dentro un velo blu, rendeva marmoreo il cuscino deserto su cui egli aveva poggiato la guancia, e lasciava che i capelli neri di Barbara, sprofondati insieme alla testa fra un cuscino e l'altro, sembrassero un avallamento d'ombra.
Antonio sapeva che in quella testa tutto era regolato come un orologio, e che le sfere di quel pensiero passavano rigidamente sulle immagini dettate dal dovere. Non mai sulla sua! Con un sudore freddo di tutta la pelle, sentiva che la sua immagine non gliel'avrebbe mai fatta a entrare in quel pensiero di ragazza, sia pure rilassato dal sonno! Egli stabiliva, con la meticolosa precisione dei maniaci, il punto dello spazio su cui era poggiata in quel momento la fronte di Barbara, quella fronte bianca, forte, chiusa, che egli non riusciva più a penetrare, nemmeno di notte... E allora una smania trepida s'impossessava di lui; andava su e giù per la terrazza; si fermava ogni tanto, stringendosi le tempie e gli occhi; poi scoteva e riscoteva la testa, soffiando fra i denti serrati un gemito di disperazione.
Andava a letto e rimaneva con gli occhi aperti a guardare minutamente la tenebra che gli si parava davanti. Verso l'alba, quando il padre chiamava la cameriera, non più con la bella voce irosa di una volta, ma con un lamento piano e svogliato, Antonio chiudeva gli occhi e s'addormentava.
Ma che diremo? che quest'uomo di trentacinque anni, bello in gioventù e al tempo felice, era diventato, attraverso l'insonnia, l'umiliazione e l'angoscia, estremamente più bello?
Edoardo lo guardava e riguardava con doloroso stupore; mai i segni della virilità erano stati, cosi netti e turbanti, mai il desiderio della donna era stato espresso in modo cosi forte da un viso d'uomo cosi' desiderabile.
« O io non capisco nulla » pensava Edoardo, « o forse non sono adatto a giudicare, perché sono un uomo ».
Ma le donne non giudicavano diversamente da lui.
Dal febbraio del 1939, da quando cominciò a uscire anche di giorno, Antonio dovette convenire che le donne gli lanciavano occhiate di cosi profonda soavità che egli era costretto a rallentare il passo ogni volta, come chi riceva sulla carne un tepore che lo snervi.
Una mattina, per le scale, vide la zitella Ardizzone impalata al principio della seconda rampa, nell'atto di gettarsi sui gradini per impedirgli di passare. Egli cercò di sgattaiolare lungo la parete opposta, ma a mano a mano che scendeva, la zitella ebbe tempo di dirgli con gli occhi le parole più estreme di amore e dedizione, e quando egli le fu poi a portata di mano, gli gettò le braccia al collo e lo strinse sul petto infuocato e anelante, schizzandogli sulle guance un fiotto caldo di lacrime.
Antonio si staccò rudemente e fuggi via per le scale.
Uscendo nella strada, era sottosopra dall'emozione e dalla collera; pensava che la notizia del suo stato avesse liberato le donne da ogni riserbo e timidezza nei suoi riguardi, e che esse usavano verso di lui quella maschilità di cui lo sapevano sprovvisto. Compi la sua solita passeggiata rosso in viso come un bambino schiaffeggiato; era cosi rosso che, alla fontanella di una piazza deserta, si bagnò le guance e la fronte; due ore dopo, incontrando Edoardo, egli era ancora rosso scarlatto, come se l'abbraccio con la zitella fosse accaduto un momento prima.
Edoardo cercò di condurlo nello studio dell'avvocato Bonaccorsi, ma Antonio rifiutò in modo energico: « Ho fatto sinora quello che avete voluto: sono uscito di notte, poi sono uscito anche di giorno, vado in chiesa la domenica, entro nei caffè... ma non chiedetemi di più! Appena metto il piede nella casa di un altro, mi sento soffocare ».
Il cugino non insistette.
« Io devo andarci », disse, « ti saluto ».
Antonio seguitò solo la sua passeggiata, guardando fra i tetti e le terrazze della sua bella città.
Nell'aria siciliana, lo sguardo pareva penetrare lentamente, riempiendosi della dolcezza di tutte le cose che sfiorava. Dall'interno di un edificio, i cui balconi erano pieni di materassi, tappeti e vasi di palme, veniva un canto di donna fra colpi di battipanni, mentre una nuvoletta di polvere, varcato torpidamente il balcone scuro, si fermava a mezz'aria come abbagliata dal sole... Libertà, Bellezza, Bontà, a quale di questi tre numi avrebbe potuto dirigere il suo pesante sospiro, se avesse liberato il petto dal macigno che lo schiacciava? Quale cosa avrebbe fatto volentieri, se prima avesse potuto fare quell'altra? Alla Piana, vivendo insieme a Barbara nella speranza, aveva letto dei libri che lo avevano rapito. Al crepuscolo, con la fronte poggiata al vetro di un balcone, aveva visto il suo Secolo, il suo Tempo, questo personaggio che alcuni giudicavano felice, altri orrendo, alcuni tirannico, altri libero, vestito di un colore grigio, senza occhi né bocca, con un contorno di viso che racchiudeva metà del cielo. Ed ecco che, aiutato dai pensatori che andava leggendo, stava per giudicare il suo Tempo anche lui. E chi sa che non gli avrebbe affibbiato un qualche epiteto o addirittura un nomignolo che lo bollasse per l'eternità? Libertà tirannide? liberalismo socialismo? idealismo materialismo? immanenza trascendenza?... Perdio, fra quante cose potevano scegliere le persone libere dalla sua catena!
Ritornò a casa con un forte mal di capo, perché in verità anche il pensiero che avrebbe potuto mettersi a pensare gli riusciva faticoso.
L'indomani ricevette una busta profumata. Si chiuse nella sua camera e l'aperse: era una lettera di donna, leggendo la quale arrossi e sudò:
« Antonio mio, non v'è disprezzo che possa ripagare quella figlia di notaio che tu hai voluto onorare col tuo nome! Se la potessi chiudere in una camera con me, la farei a pezzettini con le unghie!
« Questo ha imparato sugl'inginocchiatoi di mogano e velluto rosso della sua casa? questo ha creduto di sentire fra le parole della Santa Messa ? Sono stata anch'io Figlia di Maria e la Madonna mi ha insegnato ben altro: mi ha insegnato ad amarti, amarti eternamente, amarti come sposa fedele e devota, amarti a fronte alta, con tutta la forza della mia purità!
« Quando il tuo matrimonio sarà annullato, ricordati che al secondo angolo del viale XX Settembre abita un cuore che da anni si riempie d'amore per te, abita una schiava disposta a passare il resto della sua vita (che potrebbe essere lungo : ho diciotto anni) ai tuoi piedi, come un cane che, se vuoi, non alzerà nemmeno gli occhi per guardarti in viso, contento di vederti camminare nello stesso pavimento su cui tiene poggiato il muso... ».
Quello fu il primo segnale di una pioggia, di un rovescio addirittura, di lettere d'ogni forma e qualità: firmate e anonime, lunghe come confessioni e brevi come dispacci, imperative alcune fino a sembrare intimidatorie, altre supplichevoli, con grafie ritte o inclinate in avanti o rovesciate all'indietro, chiare o arruffate, ineguali come la scrittura dei medium in trance o uniformi e armoniose come uscite da un pennello.Una diceva: « Non appena avremo chiuso la porta, il sangue ti svamperà».
Un'altra: « Una notte sul mio seno, e diventerai tutto un fuoco! »
Un'altra: « Passa una mano sulla mia pelle, prova, ho fatto miracoli ».
Ma le più erano lettere di ragazze : « Vivere di solo amore spirituale, di sguardi, di parole, di comprensione: è stato sempre il mio sogno ! » Ovvero : « Una sera, a Taormina, nel giardino dell'albergo San Domenico, il mio fidanzato mi parve colto da un malessere che, invece di pietà, mi suscitò terrore e disgusto: mi fu spiegato dopo che quello era amore per me, che era anzi l'amore degli uomini per le donne. Ne rimasi annichilita! Ruppi il fidanzamento e giurai di prendere il velo. Qualunque luogo, il più oscuro, umido, uggioso, il più sepolto dietro mura altissime, mi sarebbe parso un paradiso per il solo fatto che mai una persona dell'altro sesso vi potesse penetrare. Ma ora io sento con tutta l'anima che sono in grado di non adempiere il mio voto per sposare te, te, Antonio, amore mio prezioso. Questa notte mi è apparsa in sogno Santa Caterina e mi ha detto che il Cuore di Gesù mi considera sciolta da ogni vincolo. Sposiamoci, Antonio, sposiamoci presto... »
Ovvero : « Non ti ricordi, Antonio, della bambina di quindici anni che reggeva il velo a Barbara il giorno del vostro matrimonio? Quella bambina ora è una donna e rimpiange di non aver gettato del petrolio e un fiammifero sul velo che reggeva, per bruciarvi dentro la creatura infame che osò pronunciare davanti a Dio un si bugiardo. Come l'ho invidiata, quel giorno! come mi sarei cambiata con uno dei suoi occhi o dei suoi capelli per sposarti anch'io un poco! come mi sarei cambiata con la mano che tu le stringevi! E invece avrei dovuto disprezzarla e pretendere da lei il rispetto che le mentitrici devono alle persone sincere!... Ho strappato tutte le fotografie in cui io stavo vergognosa e umile dietro le spalle di quel mostro, naturalmente dopo averne ritagliato la tua imagine che ora porto sul cuore. Antonio, non è stato il volere di Dio che mi ha posto cosi vicino a te nel momento in cui chiedevi una compagna per la vita e per la morte? E non ci siamo veramente sposati un poco? Non ho risposto io, col grido di tutto il mio cuore, alla domanda del sacerdote: "Sei contenta di sposare Antonio Magnano?", non ho risposto un si ch'è andato assai più in alto di quello che Barbara se lasciata cascare dalle labbra come una mela fradicia? E Dio non ha raccolto il mio si. E quale altro si poteva arrivare in cielo se non il mio che scattava da un cuore teso di adorazione per te, ansia, trepidazione per te, desiderio di te... ? ecc. ecc. ».
Ovvero : « Nelle tue passeggiate notturne per il viale Regina Margherita, tu credevi forse che tutti dormissero nelle case che a mano a mano andavi sorpassando. Ma io non dormivo. La mia camera è seminterrata, e la mia finestra, quando è aperta, si riempie di scarpe, gonne, pantaloni, cani, gatti, ruote di carrozze, zampe di cavalli, tutta roba che va da una parte e dall'altra, e qualche volta si ferma togliendoci la luce. Dal mio letto, poggiato al muro esterno, io sentivo ogni notte, precisamente al tocco, un rumore districarsi da tutti gli altri vaghi e lontani, di cui la città e piena a quell'ora, specialmente nel suo corso principale, che taglia l'imboccatura del viale a pochi metri dalla mia casa. Il mio cuore lo riconosceva subito, e saltava; e io saltavo con lui, fuori del letto. Ed ecco che il rumore si lasciava indietro tutti gli altri ed entrava nel silenzio del viale, ingrandendosi da un marciapiede all'altro. Di notte, io ricordo come sono gli alberi del mio viale e quanto sono alti; e a queste immagini il rumore del tuo passo si andava unendo sempre di più in un modo cosi soave che il cuore mi scendeva nello stomaco. Barcollando come una che sia per venir meno, andavo alla finestra, e, alzate le stecche della persiana, vi appoggiavo gli occhi. Un minuto ancora... ed ecco: i tuoi cari piedi erano davanti a me... Io potevo stendere un braccio e trattenerti! Mille immagini, i mille modi con cui si sarebbe potuto svolgere questo fatto, mi si affollavano alla mente: ti vedevo inciampare con grazia, ti vedevo gridare, ti vedevo staccare il piede e proseguire, ti vedevo chinarti e sorridermi, ti vedevo sederti accanto alla finestra e parlarmi, ti vedevo baciarmi, ti vedevo tirarmi sulla strada per i capelli, ti vedevo saltare nella mia camera... e queste mille cose tutte insieme, in un lampo solo di pensiero, sicché io rimanevo mezza morta con la faccia sulla persiana, mentre il rumore del tuo passo si allontanava fra immagini di platani assai più sbiadite che non fossero nella mia mente le immagini degli alberi vicini alla mia casa, chiarissime queste com'era stato chiaro il tuo adorato passo quando le rasentava... O mio caro, o Antonio del mio cuore, perché sposasti quella donna? perché lasciasti le tue passeggiate notturne di scapolo ? Io non voglio sposarti, io non voglio chiuderti con me nella mia casa seminterrata. Voglio solo sentirti passare di notte, sentirti passare sempre, col tuo passo di giovane, col tuo passo d'uomo libero da qualunque donna, col tuo passo ch'è soavemente legato alla notte in cui compii vent'anni, e nella quale m'illusi che, giunto vicino alla mia finestra, tu sostassi un attimo, quasi sapendo che dietro quella persiana c'era una donna che compiva vent'anni per te, solo per te Antonio anima mia... ecc. ».
Queste lettere, che avrebbero fatto felice chiunque altro, invece di calmarlo, lo esacerbarono in modo estremo come carezze maldestre e involontariamente offensive e dolorose. Nella sua permalosità, che cresceva di giorno in giorno, egli sospettò di provocare nelle donne una voluttà anormale, innaturale, leggermente mostruosa: il cosiddetto amore esclusivamente spirituale che celava, secondo lui, sotto la pietà e il candore, una feroce aggressività maschile. Le donne si comportavano con lui come gli uomini con le donne; tutte si ritenevano in diritto di scrivergli, di rivolgergli la parola, d'indorargli la pillola, di nascondergli la verità sotto abili eufemismi, di fare in modo da non spaventarlo, e infine di convincerlo a mettersi fiducioso nelle loro mani. Non erano questi i mezzi del più consumato dongiovannismo? Egli era diventato l'oggetto di una caccia di cuori puri, di animi nobili, di esseri apparentemente deboli e fiochi, ma in realtà spaventevoli. Sentiva la loro avidità, che di spirituale aveva soltanto l'essere infinita, incoercibile, incontrollabile e insaziabile, appetirlo da finestre alte e basse, da spiragli vicino al suolo, da occhi mezzi rivolti a libri di preghiere o ancora umidi di cieli notturni lungamente contemplati; si sentiva per tutta la pelle un fastidio intollerabile, colpito ogni momento da pensieri di sconosciute che lo facevano arrossire di vergogna.
Via via che in questa o quella strada si rivelava l'esistenza di un cuore devoto, cambiava il corso delle sue passeggiate; rientrando a casa, gettava subito uno sguardo pieno di ripugnanza sullo scrittoio nero ove immancabilmente biancheggiava un gruppo di lettere per lui. Cosi tanti slanci, e mod profondi e delicati, di ardore e carità e dedizione, furono ripagati con la collera e l'antipatia. Giammai ragazze cosi umili e innamorate furono cosi odiate.
Frattanto la sventura di Antonio raggiungeva il suo colmo.
Il processo, rimandato dal tribunale diocesano a quello della Sacra Rota, e nel quale i Magnano, atterriti di dover discutere un simile argomento, non ebbero nemmeno un rappresentante e non sollevarono alcuna obbiezione, si era concluso nel giugno del 1939 con l'annullamento del matrimonio.
Antonio seppe che, nei salotti, Barbara veniva chiamata a voce alta e con insistenza signorina. Un giorno, attraversando il viale Regina Margherita, da sud a nord per evitare la casa della ragazza seminterrata, egli vide un centinaio di manovali sulla facciata e sul tetto del palazzo dei Bronte; fissando spaventato il più eminente di quegli operai, che lavorava, legato a un palo, a testa in giù, coi piedi sul cielo, per coprire di un tetto più alto la felicità di Barbara e del futuro marito, Antonio fu assalito da un capogiro, violentissimo e accompagnato da un sibilo. Dovette rincasare in carrozzella. L'indomani apprese che il matrimonio del duca si sarebbe celebrato dopo quindici giorni.
« Ma come, così presto ? »
« Fra quindici giorni ! »
Mercé potenti relazioni nel partito e nel governo, i principi e duchi di Bronte ottenevano qualunque cosa nel più breve tempo possibile, smuovendo questo e quello, in alto e in basso, e riempiendo di un sussulto tutta la scala burocratica, poiché l'ondata della loro potenza, fragorosissimi a Roma, era capace di andare a scovare e svegliare, con l'ultima delle sue infinite oscillazioni, in fondo allo scuro corridoio del più intarlato e cascante ufficio di paese, il più addormentato e indolenzito dei burocrati. Le pratiche, che per altri andavano strisciando da una scrivania all'altra come lumache, per loro invece saettavano da un arcivescovado a un tribunale, da un tribunale a un ministero, da un ministero a una parrocchia.
Il duca di Bronte, del quale non abbiamo detto che si chiamava Nené, colpito dalla felicità del successo come da uno scompenso al cuore, scompenso gravissimo in lui in quanto le cose belle e gaie non erano compensate da fatiche e inquietudini, ingrassò a tal punto che il suo collo scomparve, e per le strade si vide passare col suo nome, oggetto di profondi inchini e sorrisi, un impressionante congegno di carne umana, formato da due involucri torcentisi alternativamente quello di sopra verso destra quello di sotto verso sinistra, poi quello di sopra verso sinistra quello di sotto verso destra. Ma chi osava vedere quell'uomo nell'esclusiva semplicità della sua figura? Dietro di lui, agli occhi di tutti, c'era sempre l'augusto sfondo delle sue terre sterminate che un cavallo a galoppo sfrenato non sarebbe riuscito a percorrere nel corso di una notte; e se lui era ridicolo, solenni e severe erano le montagne chiuse nel recinto dei suoi possedimenti, proprietà sua intoccabile anche dagli uccelli contro i quali i campieri sparavano rabbiosamente e i cani latravano inseguendoli a perdifiato su per le balze; e se lui non era bello, bellissimi erano i suoi giardini di limoni scuri e luccicanti e i campi di grano rutilanti di papaveri.
Non era affatto un genio, forse non era nemmeno intelligente, ma come dire la vecchia frase: « bestia, che te lo devo dire, bestia! » a un uomo che poteva rispondere col muggito e il latrato e il belato e il nitrito di migliaia di besde di sua proprietà, bestie che mangiavano l'erba dei suoi prati o morivano scannate per lui o che, al solo vederlo, s'accoccolavano vicino ai casotti, dalle cui catene avevano poco avanti cercato di strapparsi per aggredire i polverosi passanti?
D'altro canto, egli era un uomo dolcissimo, devoto a Sant'Antonio di Padova, un uomo che la notte di capodanno s'inginocchiava tra la folla elegante nel mezzo della Collegiata e, dopo aver tenuto a lungo la fronte sulle mani, alzava verso l'altare due guance rigate di lacrime. Faceva molta carità, di nascosto e pubblicamente, aiutava le sale di scherma, gli orfanotrofi, gli ospedali, le squadre di calcio, le parrocchie, il fascio e i ricoveri di mendicanti, ospitava d'estate in una sua villa le mogli degli ufficiali, costruiva rifugi alpini, dava oro alla patria, cancellate per i cannoni, lenzuola per gli ospedaletti della Croce Rossa, pacchi dono alle guardie municipali, bandiere ai sommergibili, borse di studio ai licei. Era pronto a beneficare chiunque purché fosse bene accetto al Governo, riuscendogli inconcepibile che una persona, pensando con una sola testa, disapprovasse quello che approvavano i Ministri, i Prefetti, i Comandanti di Corpo d'Armata, i Presidenti di Tribunali, i Maggiori dei Carabinieri, il Re, i Cardinali, i Vescovi e tutti coloro che non hanno bisogno di far debiti per mantenere se stessi e i loro figli. E poi era un uomo modesto e cortese, con due occhi spalancati che esprimevano costantemente meraviglia, sicché tutti coloro che parlavano con lui avevano la piacevole impressione d'interessarlo sommamente.
 « Ah, si ? » faceva il duca ogni momento. « Ah, si... proprio?... » Insomma, bisognava dare un eccessivo peso ai propri stenti e povertà per odiare un uomo cosi compito.
Al matrimonio del duca con Barbara intervenne il fiore della nobiltà di Catania, Palermo e Messina, intervennero parecchi principi romani, un marchese fiorentino, e un barone spagnolo di passaggio a Taormina; il palazzo dei principi di Bronte, che i cento operai avevano innalzato di una torretta, pareva una nave contro la quale s'abbattessero a ogni istante ondate di divise fasciste bianche e nere, di divise militari, di tuniche d'ogni colore, di vestiti di seta, di fiori a bouquet a pout-pourri a fascio a grappolo a pannocchia; i balconi e le verande erano stipate di persone con bicchieri in mano; la piazza sottostante e le traverse risonavano di trombette e clackson, zampate di cavalli, grida e insulti di cocchieri e autisti alcuni dei quali picchiavano sopra gli sportelli per far scostare i curiosi. La folla s'accalcava davanti ai cancelli, riverberando, dalle facce misere e invidiose, la luce di quello sfarzo e felicità e accogliendo sulle bocche amareggiate il riflesso di quei mille sorrisi. Al tramonto, la folla si fece più fitta perché era stata annunziata la prossima uscita del duca con la sposa in partenza per il viaggio di nozze. Profittando della calca e della penombra, con le spalle poggiate al tronco di un oleandro, premuto sul petto e i fianchi da ragazze e da vecchie che ogni momento si voltavano verso di lui come cercando un consenso al loro sorriso, consenso che naturalmente non ottenevano, o riuscivano a strappare debole debole e amaro, Antonio Magnano guardava con gli occhi spiritati che quel giorno parevano fatti più per esprimere paura che per vedere.
Al crepuscolo, quando ancora le lampade delle strade sono spente e le ali, che hanno portato la rondine entro il nido, vanno a sollevare da un buco della terra un viscido sorcio (il pipistrello vola, ma la sorte gli nega il canto, ed egli, vergognoso del suo strido, sbatte in qua e in là con un turpe silenzio, arrampicandosi irosamente per i giri di cielo in cui la rondine ha lasciato il suo garrito e l'allodola il suo trillo), al crepuscolo, il portone del palazzo s'illuminò, anche il giardino d'ingresso sbocciò di lampade d'ogni colore, e gli sposi apparvero in cima alla gradinata.
La città era al buio e solo quel giardino sfolgorava. Antonio riuscì a vedere nettamente il viso di Barbara illuminato da un raggio d'albero formicolante di lampade, vide anche la sua mano passare al disopra dell'orecchia premendo, contro la tempia e la nuca, l'onda nera dei capelli, vide attraverso la veste di seta la punta del ginocchio, vide infine, quando ella discese il primo gradino, il piede, bianco come se fosse nudo, entro una scarpetta nera e scollata; l'occhio esaltato destò gli altri sensi, ed egli senti l'odore della pelle incipriata e quel fresco che avvertiva sulla guancia un attimo prima di sfiorare quella di lei, udì la voce che pronunziava lentamente Antonio!, mentre dalla mano protesa in aria senti sfuggirsi la mano di lei, i nodi delle dita a uno a uno, l'inciampo degli anelli, le unghie; Barbara gli fu sul petto, sulla bocca, sugli occhi, ma in fondo al suo corpo, in un punto che egli ormai indicava con la parola « laggiù », nel punto in cui regnavano da tanti anni il gelo e la morte, rimasero imperturbati il gelo e la morte.
Frattanto Barbara e il grosso Nené salivano nella macchina; da una finestra s'affacciò una zia rimbambita con lo scaldino freddo tra le mani, da un finestrino più alto lo zio matto che tirò fuori la lingua, ma subito fu tirato dentro lui da un cameriere in giacchetta a righe; il fratello maggiore dello sposo, il principe Sarino, insieme alla moglie che non era riuscita a dargli un erede e tuttavia aveva sempre sul volto la smorfia delle incinte consumate dalla nausea, stava invece allo sportello della macchina. Nella folla, ciascuno protendeva un dito in mezzo alle teste degli altri per indicare il capostipite dell'antica famiglia. Ma quando le guardie municipali in grande uniforme si disposero ai lati del cancello, e dalla gradinata scesero il nuovo podestà di Catania, il prefetto, il questore, il segretario federale Capàno, il vice segretario generale Lorenzo Calderara e infine l'arcivescovo che subito tornò indietro gesticolando perché aveva smarrito lo zucchetto per le scale, una voce di vecchio si mise a strillare: « Ladri del nostro sangue, ladroni di passo, briganti senza battesimo, vi siete comprata la giustizia e la religione coi vostri soldacci che puzzano di formaggio! perché avete trovato quegli altri ladroni pari vostri, quegli affamati con l'aquila sulla testa che si mangeranno fino all'ultimo sasso di questa terra disgraziata, se Domineddio non ci pensa in tempo e non li brucia come topi ! Vi siete messi tutti d'accordo e avete combinato la polpetta come avete voluto voi, gentaccia col pelo sul cuore, cànteri! Ma non sempre ride la moglie del ladro! Deve venire, perdio, la libertà che vi potremo scaracchiare in faccia! Deve venire il giorno dei galantuomini! E intanto vi dico questo: abbasso il re, abbasso il...! »
A questo punto una mano afferrò il signor Alfio per le guance e gl'impedi di parlare.
« Don Alfio », gli disse in un orecchio l'uomo che lo aveva agguantato, « ma lo sapete che se io non ricordassi sempre il benefizio che avete fatto a mio padre, che lo avete mandato coi vostri soldi a Salsomaggiore, vi dovrei portare subito in questura e denunziarvi almeno almeno per il confino? »
« Non me ne importa niente » mugolava il signor Alfio, dentro la mano del poliziotto, che fra l'altro odorava di mandarino, « vado al confino con piacere !
Abbasso il... »
Ma il poliziotto strinse la morsa e gli schiacciò la parola fra le labbra.
« Andiamo! » disse, « venite con me! »
« Andiamo pure, andiamo pure, non perdiamo tempo! così mi lavo la bocca davanti al questore! »
« Su, andiamo, basta! »
E il poliziotto spinse il vecchio Magnano fuori della calca, issandolo sopra una carrozzella, nella quale prese posto anche lui.
Antonio riconobbe suo padre solo quando la carrozza si fece largo tra la folla, imboccando il viale. Subito si mise a correrle dietro, ma dopo alcuni passi la perdeva di vista fra le palme, i chioschetti e la folla scura di via Etnea.
Fortunatamente il poliziotto si limitò a ricondurre il vecchio a casa e, dopo avergli baciato le mani, commosso, perché pensava che in quel momento « l'anima santa di suo padre » lo stesse benedicendo, dopo avergli raccomandato calma e prudenza, scese lesto lesto le scale, senza voler accettare nemmeno un bicchiere di vino. « Me lo dovete promettere per i vostri morti » gli aveva detto presso la porta il poliziotto « per quanto volete bene a vostro figlio e a vostra moglie, che mai dalla bocca vi scapperà quel nome! »
Ma ormai l'ira del vecchio Magnano si era vestita di argomenti politici.
« Faranno la guerra e la perdono ! com'è vero Dio, la perdono! » si mise a sentenziare nel salotto, davanti alla signora Rosaria, che, seduta nella solita poltrona, con dei rammendi sulle ginocchia, lo guardava scuotendo il capo come a dire: « A questo ci siamo ridotti, a fare i sovversivi! »
« Vedrai » continuava il marito, « vedrai come gli hanno combinato bene il cappio a quei due che ora si fanno tenére, e minacciano di spaccare mezzo mondo, e alzano il pelo come due leoni! Ma che leoni sono? impagliati! Li hai visti i leoni impagliati? questi sono loro e nient'altro! E senti cosa ti dice Alfio Magnano oggi venti luglio 1939: quei due malandrini da cortile stanno disturbando la quiete di tutti, ma sai come andrà a finire? »
La signora alzò gli occhi al di sopra delle lenti e lo guardò.
« Andrà a finire che qui verranno i selvaggi, i neri, i gialli, gli antropofaghi, quelli che hanno l'anello al naso e la penna in mezzo alla testa! »
« Dove, qui ? » mormorò la signora spaventata. « Qui, a Catania, per la strada dritta, dove ora vedi tanti cornuti che se ne stanno tranquilli come pecore e non sanno che sono stati venduti uno per uno al macello! »
« Ma che dici, Alfio ? davvero che stai dando i numeri! »
« Non do numeri, dico la verità. Vorrei essere sicuro di andare in paradiso come sono sicuro di quello che sto dicendo. Qui, nella strada dritta » e si affacciò al balcone per indicare la bella strada inondata di gente che straripava dai marciapiedi fra mezzo ai tram e le carrozze, « qui verranno i selvaggi con la carrucola alle narici, saccheggeranno i negozi e la faranno da padroni...! » « Mai sia, mai sia! » pregava fra le labbra la signora.
« Sfileranno per la strada dritta con la penna sulla testa e la carrucola appesa al naso! E voi » gridò verso l'avvocato Ardizzone che s'era affacciato al suo balcone, « voi con quella faccia di scarpa vecchia, toglietelo, dalla sede dell'Ordine, quel vostro ritratto col fascio littorio, che se poi lo trovano ve lo fanno pagare a pedate nelle natiche! »
« Avremo tutto! » rispose giubilante l'avvocato, e alzò le braccia in aria coi drappeggi curiali della vestaglia.
« Chi avremo tutto ? Noi ? quale tutto ? »
« Ci danno tutto, Corsica, Tunisi, Malta, Nizza, ci danno tutto quello che vogliamo, senza guerra... ci danno tutto! »
« A chi lo danno, tutto? » gridò esasperato il vecchio Magnano, « a voi, per la vostra faccia di melanzana fradicia? E perché ci devono dare tutto, perché? forse perché hanno paura di voi e del vostro Senato, che non si vergogna di cantare Giovinezza a bacchetta come i bambini dell'asilo, e nel quale, in ogni caso, voi non c'entrerete mai, sentite quello che vi dico: mai! nemmeno per portare la bottiglia con l'acqua a quelli che parlano! »
« Vi compatisco perché avete le vostre disgrazie » rispose l'avvocato con solenne malignità, « e non sapete quello che dite ».
« Ma andate al diavolo! » gridò con forza il signor Alfio, « scimunito che non siete altro! » E gli sbatté in faccia l'imposta del balcone.
« Ma Alfio » osservò timidamente la signora Rosaria, « cosi ci facciamo nemici tutti! in caso di bisogno non avremo nessuno che dirà una parola per noi ».
« Non me ne importa niente della loro parola » ribatté il signor Alfio, « che, tanto, sarà sempre piena di veleno ». Continuò a passeggiare da un capo all'altro del salotto, facendo l'atto di vomitare ogni volta che, avvicinandosi al balcone, vedeva, nei punti a giorno delle tendine, l'avvocato Ardizzone gonfio e rosso come un tacchino. « E tutto questo perché ? » aggiunse con un tono meno iroso, ma più disperato, « perché tutto questo ? perché Domineddio ce l'ha con Alfio Magnano, con Alfio Magnano ch'è un povero Cappa qualunque, e non ha dato mai ombra a nessuno, e tanto meno può dare ombra al Padreterno ».
« Alfio, non bestemmiare! »
« Non bestemmio, dico la verità. Il Padreterno ce l'ha con me, con me che non ho ammazzato né rubato né mandato in prigione la gente né messo zizzania nelle famiglie né tolto il pane a nessuno, anzi quando ho potuto, e tu lo sai, mi son tolto il pane di bocca per darlo agli altri ».
« È vero, Alfietto, è vero ».
« E Domineddio mi manda la disgrazia più cattiva, più nera, più velenosa che si possa mandare a un uomo, una disgrazia che nessun mio nemico avrebbe potuto pensare più perfida, nemmeno se si fosse sforzato il cervello per mille anni. E il Padreterno deve averla in testa da quando creò il mondo, una disgrazia cosi! E per chi poi, una disgrazia cosi schifosa e assassina? per Alfio Magnano ».
« Alfietto, Alfietto, stai bestemmiando! »
« Non bestemmio, dico la verità. Una disgrazia, signori miei, che a pensarci ti senti strappare il cervello dalla testa. Il proprio figlio, il proprio figlio unico, la gioia mia, l'orgoglio, la vita mia stessa, vederlo ridotto peggio di uno straccio per i piedi, che almeno questo serve a spolverare le scarpe, ma un uomo in quello stato a che serve, che te ne fai, che campa a fare? »
« Alfio, Alfio, mi rompi le vene del cuore! »
« E il figlio di chi poi ? di Alfio Magnano, di Alfio Magnano che ne ha... Bè, bè, non parliamo! Alfio Magnano che, quando entrava in un salotto, i mariti allungavano il viso e cominciavano a pizzicare le mogli per dirgli che bisognava andar via... »
« E per questo, il Signore poi... » commentò severa la moglie.
« Per questo, niente! Mi dispiace di non poterlo fare ancora, sangue di Giuda, e di non avere più, non dico quarant'anni, ma sessanta, sessantacinque, che mi basterebbe l'animo di mettere lo sputo sul naso a uno sposino senza barba. E se vuoi saperlo, due anni fa, a sessantacinque anni, ho avuto un figlio! » « Un figlio, e da chi ? » domandò, con le mani tremanti, la signora.
« Da una... cosa li... una dattilografa del tribunale ».
« E dov'è ora? »
« Morto! »
La signora scosse il capo con un'espressione di rimprovero e di tristezza: « Alfio, Alfio! »
« E cosa credi tu, che abbia avuto solo Antonio? Molti cornuti hanno allevato a loro spese figli di Alfio Magnano ».
« Non lo avresti dovuto fare mai, Alfio, e ora non te ne dovresti vantare! »
« Non me ne vanto, dico la verità! »
« Spero che tu dica la menzogna, invece! »
« Bè, va bene... e allora facciamo i nomi! Bertolini! » pronunciò solennemente.
« Cosa, Bertolini? »
« Il giudice Bertolini, lo conosci? »
« Come non lo conosco, sia lodato Iddio, che sarà la più brava persona di questo mondo, ma è cosi antipatico! »
« ...il suo secondogenito, l'ufficiale di marina... »
« quella carrozza di morto ? »
« Si, quella carrozza di morto è mio figlio ! Un altro mio figlio è preside di liceo in un paese qui vicino e si chiama Regalbuto. Un altro è un vero cretino, ma il più fortunato di tutti, perché possiede mille ettari di terreno nel centro della Sicilia, e quando muore quel becco ch'egli crede suo padre, sarà anche barone... »
« Ma Alfio, le dici a me queste cose, a me che... ? »
« A te che... niente! Li ho avuti prima di sposarti, questi figli ».
« E hai fatto male lo stesso! »
« E allora ti dico che altri li ho avuti anche dopo! »
« Alfio, spero che tu non ragioni! »
« Non ragiono? A Firenze, una sposina in viaggio di nozze abbandonò la sua camera e venne nella mia! Gli lasciavo la stampa, alle donne, io!... E tu lo sai!... A Catania, una cosa li... come si dice?... una troia insomma voleva abbandonare il casino e diventare una semplice ed onesta cameriera e servire da noi... cosi... gratis e amore, pur di vedermi tutto il giorno! »
« Ma Alfio, » gridò fra i singhiozzi la signora, « ma perché le dici a me queste cose? »
« Te le dico perché non abbia a pensare che tuo figlio è venuto com'è venuto per colpa mia. Per sventura sua, e anche mia, Antonio non mi somiglia, ché avrei preferito mi riducesse sul lastrico per andar dietro alle donne piuttosto che... piuttosto che... »
Il signor Alfio si buttò su un divano, completamente sfinito.
« E se non ce la faccio ancora » disse, con un filo di voce, « la causa è questa disgrazia che mi ha tolto il respiro dal petto, e mi basterà che riveda un po' di luce, un pochino pochino di luce, che di nuovo ce la farò... » E dopo un minuto, aggiunse fra i denti: « Perdio! »
L'indomani, con la fretta di chi va dal confessore a sgravarsi di un peccato mortale, si recò dall'avvocato Bonaccorsi.
« Avete visto » si mise a sbraitare nel mezzo del salotto, « che prepotenza mi hanno fatto ? avete visto come si son messi d'accordo ai miei danni? Ma c'è più religione, c'è più giustizia, c'è più mondo? Ah, sentite, questo me lo dovete concedere perché se no vi manco di rispetto anche a voi! Il giorno che casca questa baracca, voglio essere il pubblico accusatore nei tribunali del popolo! Non guarderò in faccia a nessuno! Venga pure davanti a me mio fratello, col ritratto di nostra madre in mano, se mio fratello ha portato la gallina d'oro sulla testa, io lo faccio fucilare! Duchi, notai, segretari federali, arcivescovi, conti, ministri... li faccio squartare! »
« Tu sei più buono di quanto non credi » mormorò l'avvocato Bonaccorsi, « e non uccideresti una mosca ».
« Sbaglio c'è Raimondo » replicò il signor Alfio, « tu devi temere la levata del buono! Dàtemeli nelle mani, questi signori, e vedrete se non ve li appendo ai ganci come tanti porci! »
« Tu sei buono, e non lo sai » insistette l'avvocato.
« Io non sono buono, e lo so ».
« Tu sei buono, Alfio ».
« Raimondo », fece il vecchio, piantandosi davanti all'amico, « mi vuoi proprio provocare? Ti ho detto che non sono buono! »
« E diamine! » esclamò spazientito l'ex brigante Compagnoni, « perché non dobbiamo credergli che, all'occorrenza, il signor Alfio non è buono? Io la gente la conosco per vecchia esperienza, e so che quando i buoni perdono il lume degli occhi buttano fuoco più del diavolo. La sola volta che ebbi paura, nella mia vita cattiva, fu quando in un caffè mi misi a stuzzicare un seminarista fino fino come una canna, e giallo come il limone. Alla mia prima parola lui muto! alla seconda, muto; alla terza muto; alla quarta, muto... ma alla quinta, e che cosa diventò? un gatto idrofobo, una jena? a ogni salto, pareva dovesse spaccare il tetto con la testa; mi veniva addosso da tutte le parti; mi morsicò il polso, guardate, che ancora si vede la stampa! Mai, signuri, non mi ci metto più coi buoni, ché l'uomo buono quando perde il lume degli occhi diventa peggio del diavolo! E sapete che io, di mano, gioco pesante ».
« Sante parole » commentò il signor Alfio, « meglio il diavolo che l'uomo buono quando gli rompono l'anima. E a me me l'hanno rotta, Raimondo, me l'hanno pestata come l'uva! »
« Ha ragione, ha ragione » borbottava Compagnoni, « Quanto a me, signor Alfio, il giorno che cascasse la baracca, vi faccio nominare a occhi chiusi pubblico accusatore nei tribunali del popolo! »
« E chi si oppone? » osservò l'avvocato Bonaccorsi. « Voi fate il manico e voi la quartara. Chi ha negato mai che Alfio possa fare il pubblico accusatore in un tribunale del popolo? Solo che... »
« Solo che, niente! » interruppe il signor Alfio. Compagnoni strizzò all'avvocato uno dei suoi enormi occhi per consigliargli di tacere, e Bonaccorsi apri le braccia in silenzio, col gesto che il prete suole spargere sul Messale.
« Solo che, niente! Se anche voi mi negate giustizia, io vi mando a farvi fottere anche voi! »
« Ma che dice, ma che dice, ma che dice ? »
« Oh, sangue di giuda ! e allora ? Voglio essere pubblico accusatore, c'è offesa per qualcuno? Gli voglio leggere vita e miracoli in piazza, gli voglio mettere il bollo sulle corna che hanno in testa! »
« E avrete ampia soddisfazione, don Alfio ».
« Oh, percristo! »
« Tutta la soddisfazione che vorrete ».
« Oh dunque! »
« Dovrete essere voi a dire : basta sono sazio ».
« Oh, santìssimo buon Dio! »
E il vecchio si sdraiò in una poltrona, respirando con tutto il petto.
Ma due giorni dopo, mentre camminava per via Etnea, senti brontolare queste parole : « È giusto che se la facciano con quegli sminchiati di antifascisti... Si sono fiutati i nasi, fra loro impotenti... ».
11 signor Alfio si girò furioso, levando il bastone, ma non vide che facce assorte in discorsi privati o in letture di manifesti o in trasognamenti quasi angelici.
« C'è qualcuno che s'è annoiato di campare, in questo paese! » mugolò dolorosamente, facendo voltare meravigliate dalla sua parte le tre o quattro persone che poterono udirlo.
« No, non sono pazzo » aggiunse, « non parlo da solo né a vanvera. Rispondo a quel becco fottuto che ha parlato poco fa e ora non ha il coraggio di ripetere le sue parole ».
Gli sconosciuti fecero delle smorfie nelle quali si leggeva : « Sta farneticando ! » ovvero : « Cosa vuole,che mi metta con un disgraziato vecchio come lei ? » Queste smorfie irritarono il signor Alfio sino al parossismo.
« Torno a dire a quel becco fottuto » gridò, col bastone sempre levato, « di ripetere le sue parole, ché gli smusso le corna con questo legno! »
« A casa, a casa! » si senti gridare da varie parti per tutta risposta. « Va a letto! »
« Va a coricarti! »
« Va e còricati! »
Erano voci lontane, che giungevano da oltre la cantonata.
Il vecchio diventò una belva. « Venite qua » gridò, « vigliacchi schifosi, fatevi sotto se avete animo, ché vi pesto come blatte! »
«  A letto, a letto! »
« Va e còricati ! »
« Avvicinatevi, figli di zoccole fetenti, polipacci stanchi, ché vi ficco questo piede nella fessura del c.! »
« 'O cùrchiti, 'o curchitiì »
« Merda, io incalco! »
« 'O cùrchiti! »
« Merda io incalco, col piede, lo sapete! »
« 'O cùrchiti! »
« Merda, nel vostro... e delle vostre madri... e dei vostri padri! »
« 'O cùrchiti! »
« Merda incalco, merda! »
« Signor Alfio » si senti dire da un brav'uomo, « nemmeno vossignoria mi pare! Ma come? dare confidenza a quattro villanacci che mancherebbero di rispetto al loro padre sul letto di morte? »
« Io merda incalco, caro amico, merda! »
« Ma lasci stare, si calmi! non si metta li con quei morti di fame ! ci perde lei, cosa crede ».
Loro non hanno niente da perdere! è gente che la mattina si lava la faccia col fango.
Ascolti me, venga via! venga, l' accompagno a casa ».
Il vecchio si staccò a fatica dal luogo in cui l'avevano insultato e fece la strada insieme al brav'uomo senza rivolgergli la parola, fermandosi ogni tanto a picchiare la mano destra sul manico del bastone che aveva poggiato a terra con la sinistra.
A casa, per tutto quel giorno, se ne stette muto. La moglie, che non lo sentiva nemmeno sputare o raschiare con la gola, andava spesso a guardare nello studio, spaventata come chi veglia un malato e non lo sente respirare.
Ma il vecchio era sempre li, dietro la scrivania con gli occhi sbarrati sul velluto verde del tavolo, e quando sendva che la moglie s'era fatta in punta di piedi sulla porta, senza voltarsi minimamente, le indicava con un dito della mano la strada da cui era venuta.
« Cos'ha, tuo padre? » domandò la signora ad Antonio, « in quarantanni che siamo insieme l'ho mai sentito cosi muto ».
Antonio arrossi e portò una mano al cuore che si sentì srotolare e sfilarsi dal petto come un fuso che caschi di mano; ormai, a ogni notizia, rideva che la sua vergogna avrebbe preso un ulteriore e più ripugnante aspetto.
« Non so » rispose timidamente, « cosa vuoi che gli sia successo ? »
L'indomani il vecchio si svegliò gridando. E cosa voleva, con quei gridi disperati? Soltanto questo: che gli portassero il caffè subito, subito, subito, senza perdere un minuto.
« Ma te lo portano » disse la signora, « perché gridi cosi? »
« Perché mi va di gridare! perché a casa mia grido quanto voglio, e chi non ci vuole stare, ecco la cosa li... la diavolo... la porta., se ne vada pure! » La signora scoppiò a piangere. Il vecchio spazientito cacciò le gambe fuori del letto, infilò le pantofole e usci nel corridoio.
« Antonio! » si mise a gridare, « Antonio! »
 Il figlio accorse in pigiama, con gli occhi strappati al sonno dallo spavento.
« Antonio, se oggi esci, mi devi fare una carità! »
« Dimmi, cosa ? »
« Devi portare la pistola! »
« Perché, papà ? »
« Per niente, io ho le mie fisime, ma tu devi farmi questa carità, devi portare con te la pistola! »
« Ma perché, me lo vuoi spiegare? »
« Oh, santa Genoveffa, e torna! Non ho niente da spiegarti, ma vuoi farmi o no questo piacere di portare con te la pistola? » « Va bene, te lo farò ».
« Oh, santo Dio, e ci voleva tanto? Anch'io, se esco, mi caccio in tasca il pistolone di mio padre ».
Allarmato da queste parole, Antonio usci più presto del solito e cercò Edoardo. I due amici non dovettero faticare molto per apprendere nei minimi particolari l'incidente occorso al signor Alfio.
Antonio stava per svenire dal dolore e, poiché il caso li aveva portati in quel momento assai vicini all'abitazione di Bonaccorsi, Edoardo riuscì a convincere il cugino di salire nello studio dell'avvocato, anche per togliersi dalla strada piena di curiosi e di maligni.
Antonio sali, e vi trovò gli amici al completo, con in più Ermenegildo Fasanaro che ascoltava con la faccia bassa e la bocca pendente in giù, come una povera mucca ferma sotto il sole.
Anche Antonio si mise ad ascoltare in silenzio i discorsi di quegli uomini che, nemmeno una volta, sia pure di passata o per incidenza, si occuparono della donna.
Questo sulle prime lo riposò, ma poi gli mise nel sangue quella smania e irritazione che sempre gli suscitavano le parole libertà, progresso, dignità, verità, coscienza ecc. Poiché esse erano l'opposto di altre parole, che pesavano in modo cosi intollerabile nella sua vita, sposarsi, annullamento, prima notte, lei, spogliarsi, letto, farcela, tentare, catenaccio, ecc., egli, ascoltandole, entrava subito in un disagio dal quale solo poteva uscire o dimenticando per sempre quello che più lo torturava, cosa per lui impossibile, o immaginando leggermente ipocrite le persone che parlavano in quel modo. D'altra parte, la frase, che aveva spinto il signor Alfio a sollevare il bastone per la strada, gli era stata riferita in questa forma : « Stanno a parlare sempre di filosofia e libertà perché l'uccella non gli tira; se fossero in potere di dar sazio alle loro mogli, non alleverebbero tante sciocchezze nel cervello ».
Antonio era troppo fine per attribuire a una frase cosi triviale un valore di verità, nondimeno essa lo tormentò durante i discorsi di quegli uomini. Gli sfuggì nel modo più completo il tono di sincerità che vibrava in quelle voci; il calore che le scaldava, non lo avverti minimamente. Nello spasimo che lo aveva preso, e che gli toglieva ogni possibilità di un chiaro e riposato discernimento, vedeva tutti i presenti trasparire di quella castità e astinenza a cui egli era costretto, tutti indistintamente li vedeva inutili per le donne, dimenticando che, se non altri, l'ex brigante Compagnoni, un mezzogiorno d'agosto, inseguito con le roncole dai contadini, aveva lasciato sotto un carrubo una ragazza di sedici anni, colei che adesso era sua moglie, mezza sbranata dalla sua foga come da una zampata di lupo. Ma ormai agli occhi di Antonio anche quest'uomo era macchiato di purità.
Sicché dopo un'ora ch'ebbe ascoltato in silenzio, scattò dalla sedia, frenandosi però subito e addolcendo i suoi gesti.
« Chiedo scusa » disse, « ma devo andare ».
« Vengo con te » fece lo zio Ermenegildo, « aspettami ».
Sulla strada, lo zio portò al massimo quell'espressione di amarezza e sfiducia che lo aveva fatto somigliare, nel salotto di Bonaccorsi, a una povera mucca affollata di mosche e, nel corso di un lungo faticosissimo sospiro, disse lentissimamente:
« Bah!... »
Il tono, con cui lo zio espulse quel monosillabo, piacque molto ad Antonio; era la prima voce, dopo tanto tempo, che s'accordasse al mesto suono di cui vestiva le proprie parole quando fantasticava di giorno, o sognava la notte, dì parlare con Barbara o col suocero o con altre donne della sua vita.
« Bah! » ripetè lo zio, e Antonio si raggricchiò tutto quanto, e socchiuse gli occhi, e strinse le labbra, per assorbire sino alla radice dei nervi quella dolente e gradita esclamazione.
« Bah, bah! »
Entravano a quel punto in piazza Dante, rasentando la chiesa di San Nicola, dalle colonne mozze, attorno ai cui muraglioni le rondini, saettando di sotto alle tegole del bel contento vicino, lanciavano strida brevi e attutite, quella che, destinate a luoghi solitari e antichi, li rendono ancora più solitari e più antichi.
« Come voglio bene a questa terra! » disse lo zio. « La bacerei sasso per sasso, anche le mosche bacerei, e la cacca degli uccelli! Che disgraziato, rimanerne per vent'anni lontano! A Parigi, a Barcellona, non pensavo che a questi monelli seminudi e ingrugnati, che stringono dietro la schiena un sasso da buttarti sulla testa... Ecco qui la palma! » aggiunse poi, indicando col bastone una pianta polverosa, « ecco la palma con cui avrei cambiato tutti i giardini di Versaglia... Era proprio questa, santo Dio! eccola qui, eccola! » Il gentiluomo compì due giri intorno alla vecchia palma, la picchiò dolcemente col bastone, poi le si piantò davanti guardandola con amoroso sconforto; scoteva continuamente la faccia come se la rimproverasse, ma in realtà rimproverava se stesso di non si sa quale torto verso quell'albero.
« Eccola, lei!... In Ispagna » continuò, staccandosi malvolentieri dalla contemplazione della palma e proseguendo con Antonio, « ho avuto un capogiro che m'è durato un anno... Non esagero, un anno! A Barcellona non ho fatto un passo senza sentirmi mancare il terreno sotto il piede. Ma la mia paura non era di cascare, era di andare a sbattere il muso su una terra insipida e inodore, o che almeno non aveva l'odore della mia... di questa qui » e batté il piede con forza, non senza un conseguente vacillamento che lo fece impallidire e poi sorridere della breve paura che aveva avuto, « di questa, alla quale un giorno o l'altro voglio dare un bacio cosi in fondo da lasciarvi dentro il mio cadavere! »
« Zio! »
« Lo so, divento ridicolo. La quartara rotta dura più della sana... Però... » Il gentiluomo non osò continuare, e affrettò un poco il passo. « Però, che cosa ? » fece Antonio.
« Però... volevo dire... Ma lasciamo stare, divento ridicolo! »
Uscirono dalla piazza, imboccando via Di San Giuliano che scende a precipizio verso il centro della città. Da questo punto, in fondo a una fuga di grigi palazzi, gravidi di ringhiere persiane portali cariatidi vasi di fiori, e che, declinando gradatamente nell'illusione della prospettiva, mostrano a mano a mano i frontoni, i tetti scuri e le giare per l'acqua, si scorgeva un tratto di mare dolcemente annebbiato dallo scirocco.
« Però » sbottò d'un tratto Ermenegildo, « io al fatto che lo spirito umano crea il mondo, non ci ho mai creduto!... Cioè, mi spiego meglio: quando leggo il nostro grande filosofo vivente, io piego la testa e ammetto di essere stato battuto. Non c'è che dire, ha ragione lui: al di fuori del pensiero umano non esiste realtà di sorta, noi non possiamo uscire fuori del nostro pensiero, anche questa frase che ho detto fuori del nostro pensiero non è che un nostro pensiero... Perdio, non trovo argomenti contro di lui, mi mordo le mani e i gomiti, ma devo ammettere che non ne trovo!... Però, sento qualcosa in fondo al petto, una protesta, un'aspirazione... come devo dire?... una pazzia, qualcosa che chiede giustizia contro questo modo di ragionare che non ti dà respiro, contro... come devo dire?... la prepotenza del nostro grande filosofo vivente. Giustizia, giustizia! che venga un altro filosofo, più grande e valoroso di lui, e dimostri, con parole belle come il sole, che da una parte c'è il mondo e dall'altra il pensiero che crede (nota bene questa parola!) che crede di crearlo, ma in sostanza lo riflette, da una parte il corpo c dall'altra l'anima... Il nostro grande filosofo vivente sostiene che una dimostrazione simile non sarà mai data dagli uomini... Ma... e qui mi permetto di fargli un'obbiezione... come fa lui a ipotecare il futuro e a stabilire quello che gli uomini non penseranno mai più e non saranno mai più in grado di dimostrare? Sarebbe per caso diventato determinista, un determinista a modo suo naturalmente... magari senza saperlo ?... Come ? ha deriso tutti i profeti, e adesso ci spiattella una profezia bell'e buona ?... Eh, che ne dici ? »
« Sta' attento dove metti il piede ! » rispose Antonio, « c'è uno scalino ».
« Che il vero e il fatto siano la stessa cosa... mi ha sempre convinto, ma non ci ho mai creduto ».
« Eh? »
« Voglio dire che un paio di maniche è rimaner convinti di un ragionamento e un altro paio credere che sia vero... Ma tu non puoi capire! quando il fegato ti diventerà un sasso come il mio, e pisciando manderai più lacrime di dolore che gocce di urina, allora forse capirai... E poi, scusami : io sarò un bambino, un ignorante, un vecchio che non vede più dagli occhi perché soffre pene di c., ma insomma, che vuol dire che la vita va bene cosi com'è, e ch'è stupido lamentarsene e chiedere qualcosa di meglio?... Per me non va bene affatto! Una volta i nostri grandi dichiaravano ad alta voce di voler sapere la verità assoluta, chiedevano di sapere perché siamo nati e a che servano e a chi procurino diletio le sofferenze degli uomini, dato che l'universo le coltiva con tanta sollecitudine, chiedevano perché dobbiamo conoscere che moriremo e ignorare completamente che cosa sia la morte, perché, prima di morire noi stessi, dobbiamo aver visto ìi miserabile aspetto di tanti uomini morti, perché al nostro pensiero è dato tanto spago da permettergli di arrivare con un salto a sentir l'odore della verità, senza però poterne cogliere il frutto, e perché alla fine, ci viene concessa la facoltà di chiedere « perché » e negata quella di ricevere una risposta definitiva... Ora tutto è cambiato!
Io mi levo il cappello davanti ai filosofi idealisti (gli altri, purtroppo, quelli che, in un certo senso, potrebbero darmi ragione, non sono che merdicella di passero), io mi levo il cappello fino ai piedi davanti al nostro grande filosofo vivente, ma, caro Antonio, non pensi che questa filosofia cosiddetta conciliatrice, questa filosofia che dichiara: voi cercate la verità? ebbene, la verità è la vostra ricerca! voi chiedete perché? ebbene, importante non è la risposta, ma il vostro domandare perché!... non ti sembra che questa filosofia nasconda molto accuratamente la rassegnazione e la viltà? Stiamo abbracciando con la mente uno spazio più ampio o stiamo piegando la testa davanti al mistero che si dimostra impenetrabile? Questa serenità, con cui diciamo di comprendere, e accettare di buona grazia, tutti i contrasti e assurdità della vita, non varrebbe per caso assai meno della disperazione con cui i grandi del passato gridavano di non comprenderli e tanto meno accettarli, e preferivano il suicidio a una vita di miseria e d'ignoranza, che a loro, grandi e generosi davvero, appariva in ogni caso disonorevole? »
Gesticolando, gridando, e appoggiandosi impaurito al braccio di Antonio a ogni nuovo capogiro, Ermenegildo era arrivato al centro della città chiamato i Quattro Canti.
Qui furono urtari e sospinti in ogni senso dalla folla, e finalmente strizzati contro lo specchio di un negozio, dal fondo del quale Ermenegildo vide salire verso di sé una faccia di cadavere: sperando che non fosse la sua, provò a chiudere un occhio, ma anche la faccia lo chiuse, tirò fuori la lingua,e anche la faccia inesorabilmente tirò fuori la sua.
« Andiamo via da questa gente! » esclamò, « via subito! »
Affrettarono il passo e giunsero sotto i cancelli della Collegiata, risparmiati dalle onde della folla, che scorreva per la via Etnea, infittendosi talvolta e dilatandosi, senza però invadere mai completamente la piccola insenatura in cui sorge la chiesa.
« Certo che... » disse Ermenegildo, e dopo una lunga pausa, come tornando indietro dal suo proposito: « Ma insomma! »
« Voi amate troppo i vostri peccati! » riprese, dopo un'altra pausa, « cosi ha avuto il coraggio di dirmi quello sgrìcciolo di padre Raffaele. Io amo troppo i miei peccati? e quali, per favore? il peccato di dovermi procurare molto denaro, il peccato di eccellere nelle conversazioni, il peccato d'invidiare un altro se per caso eccelle lui, il peccato di preparare i bauli e viaggiare, il peccato di adescare le serve, il peccato di anfanare sopra la moglie di un amico?... ne sono più stanco di un santo ! Ti assicuro, Antonio, che se amassi la castità, la povertà e la clausura solo perché sono virtù cristiane, e non perché mi dànno sollievo e godimento, andrei in cielo con tutte le scarpe. Ma anche in questo, purtroppo, sono il vecchio sensuale di una volta, quello che siamo stati tutti i Fasanaro, almeno i maschi, perché le femmine sono state delle madonne! La castità mi piace come un lenzuolo fresco; e anche la morte, mi piace come una potente iniezione di morfina... Mi piace, ecco le due parole che mi chiudono la porta di San Pietro... Mi piace, mi piace anche lei! Non vedo l'ora di gustarmela!... Ahi! » fece a questo punto, toccandosi il torace,
« maledetta carcassa, miserabile gabbia! quella di una gallina è più elastica e ariosa».
 Si diede una manata sul petto, « gabbia buia, piena di quegli stessi organi che si vedono nei piatti della cucina dopo aver disossato un capretto o un pollo: quegli stessi disgustosi polmoni, fegato, cuore, budella; voi, per cui tante volte ho detto ahi! e mi si è appannato il pensiero, andate al diavolo, finalmente! »
« Piano ! » disse Antonio, stringendolo per un braccio, « la gente penserà che litighiamo ».
Ermenegildo rispose con un gesto di noncuranza.
« Dimmi una cosa, Antonio : quella cuore di pietra, non l'hai vista più? » Antonio alzò la testa in segno negativo.
« Non ti ha scritto, non ha chiesto di parlarti ? »
Antonio rialzò la testa, e questa volta chiudendo gli occhi.
« Ma come, dopo un matrimonio d'amore con velo bianco, paggetti, messa cantata, dopo tre anni di vita insieme, dopo che tutta la città vi ha visti felici, questa signora, senza che tu le abbia fatto niente... dico niente di male... ti manda un salutino con la testa e se ne va insieme a un altro marito senza nemmeno voltarsi indietro?... E poi » aggiunse con voce accorata, « mi volete sostenere che questo mondo non è brutto ?...» Lunghissima pausa. « Che facciamo, diamo una guardatura li dentro? »
« Dove ? »
Ermenegildo indicò con gli occhi la porta della chiesa.
« Qui mi sono sposato ! » obbiettò Antonio pallidissimo.
« Be', e che vuol dire?... Su, entriamo! »
Antonio sali i nove gradini esterni con gambe di piombo; al braccio dello zio, attraversò il sagrato sentendosi intensamente guardato dai balconi vuoti del palazzo Biscari, dalle finestre chiuse della viuzza contigua, dai marmi, dai mattoni, dalla fila di lance del cancello. Mai come in quel momento e in quel luogo deserto si era sentito oggetto di attenzione.
Entrarono nella chiesa, il cui soffitto, dipinto dallo stesso pittore che ha affrescato il teatro Bellini, pare sempre percorso dal vasto e appena percettibile ondeggiamento che il vento del palcoscenico suole imprimere al sipario. Alcuni raggi di sole, attraversando i vetri delle finestre, rimanevano sospesi in aria come vapori colorati; al disotto di questi fulgori, dentro cui l'aria impolverata sembrava roteare lentamente, la chiesa formicolava di buio e fiammelle. Ecco l'altare maggiore, ecco il cancello di legno, ecco l'inginocchiatoio! Come se avesse bevuto un sorso troppo grande di passato, Antonio si senti soffocare, il suo respiro divenne affannoso e rapido, il bel naso dagli orli illividiti cominciò a dilatarsi, mostrando lo sforzo di tirare l'aria più su che potesse.
« Inginocchiamoci » disse Ermenegildo, « cosi staremo meglio ».
Meccanicamente Antonio piegò i ginocchi, al fianco dello zio che, intrecciate le mani sul pomo del bastone, vi poggiò la fronte, presentando alla statua del Cuore di Gesù il cranio lucido e biancastro, sul quale due ultimi riccioli, di un biondo quasi giovanile, apparivano miseramente incollati.
Antonio invece chiuse le mani a imbuto e v'infilò dentro la faccia per non vedere l'altare maggiore nudo dei drappi viola che l'addobbavano il 5 luglio del 1935, giorno del suo matrimonio, né la porta principale priva del bel tappeto rosso su cui s'erano spend i passi dei parenti, dei testimoni, degli amici.
Stette cosi parecchio tempo, aspettando che l'onda del sangue smettesse di picchiargli il cervello, e le arterie delle tempie di pulsare fastidiosamente.
« È possibile » disse lo zio, sollevando la fronte dalle mani e poggiandovi il mento, « è possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che sono le parole più belle della nostra vita ? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora : Gesù Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati, che lo fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a stento la sua onnipotenza ? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono dorato alla destra di un assai curioso Padre... E dunque la sera di giovedì, quando pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola Padre, dall'altra parte non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto e senza speranza!... E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza e, se andiamo a scuola, una rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare verità le nostre disgraziate domande senza risposta? Ebbene, no!... Lo ripeto per la terza volta: Gesù Cristo!... No, perdio, no!... Gesù Cristo! Eh, no, non è come dire: Ermenegildo Fasanaro. È ben diverso!... Ge-sù Cri-sto!... Eppure, chi lo sa? Fra ventimila anni, si potrà parlare di Lui come di un moralista superato e quasi barbarico! un moralista poco generoso verso i più sventurati dei nostri simili, i malvagi incapaci di redimersi, ai quali non finiva mai di minacciare castighi crudelissimi... E allora dunque, Gesù Cristo è un barbaro ? Hai sentito, Antonio, cosa ho detto? Gesù Cristo un barbaro! Non si arrossisce di vergogna al solo sentirlo pronunziare? E che vuol dire questo rossore, se non che la verità è dalla parte opposta? Gesù Cristo, Gesù, il nome stesso di Dio! Gesù Cristo! Gesù Cristo! Gesù! Gesù Gesù!... »
Il gentiluomo s'accasciò davanti al proprio bastone, tornando a premere gli occhi sulle mani intrecciate attorno al manico d'argento.
« Gesù Cristo! » mormorò ancora una volta, senza scostarsi dall'attitudine in cui s'era tutto abbandonato, « più ripeto questo nome e più ne smarrisco il significato... E nondimeno come sarebbe stato bello se uno di noi uomini, questo cittadino di Nazaret, fosse stato figlio di Dio, e ci aspettasse dall'altra parte, col suo corpo simile al nostro, sapendo per esperienza cosa voglia dire avere avuto dei polmoni, un fegato, un intestino, un cuore con le valvole!... »
Antonio si senti risucchiare il cervello verso una parola che qui sarebbe suonata oscenamente; cercò di rifiutarsi con tutte le sue forze, e ottenne soltanto di avvicinarsi a quella parola come a una cosa morta, vedendola in ogni sua lettera, senza leggerla però né sentirne il suono nella memoria.
« ...le ghiandole, i reni, la materia cerebrale, il midollo spinale... » continuò lo zio.
E Antonio, per una seconda volta, vide quella parola.
« ... che ci aspettasse vicino al nostro cadavere, anzi addirittura coi piedi sul nostro cadavere, e c'incoraggiasse, noi spauriti del salto che abbiamo fatto, c'incoraggiasse non dico altro che col suo aspetto di uomo, e magari ci sorridesse... E come sarebbe soave che questi bravi sacerdoti ci avessero detto sempre la verità, né più né meno che la semplice verità!... Io credo in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra... Proprio cosi: Dio Padre ha creato il cielo e la terra... Ed in Gesù Cristo suo unico Figliuolo unico Signore nostro... Nulla di più vero: Gesù Cristo è il suo unico Figliuolo e l'unico Signore nostro... lo credo nella Chiesa cattolica, nella Comunione dei Santi, nella remissione dei peccati, nella vita eterna, amen. Tutto oro colato: la Comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la vita eterna... Come sarebbe bello che in questi quadri qui attorno si specchiasse fedelmente, minutamente, pedantescamente, la verità: gli angeli con le ali, la Madonna con quel viso, Gesù Cristo con quel cuore fuori del petto!... Come sarebbe bello che il nostro Papa Pio XII, di cui fra l'altro conosco il nipote, fosse veramente il Vicario di Dio, e che la visita del parroco di Zafferana, la sera, nella nostra casa di campagna, con la lanterna in una mano e l'ombrello di incerata nell'altra, non fosse soltanto una cara abitudine, ma una visita ben utile, assai più utile che quella di uno sciocco medico che ti sta a guardare come una bestia di sua proprietà, mentre sa di te, per averti visto in una lastra, quello che un siciliano sa della Cina che ha visto al cinema... Come sarebbe bello, perdio! come sarei felice che le cose stessero così!... E invece non stanno così! » riattaccò dopo una pausa, « Cristo di Dio, non stanno così! Cristo di Dio, perché non dev'essere vero che tu esisti? perché non dev'essere vero che gli assetati di giustizia saranno saziati, e che gl'infelici in terra siederanno alla tua destra nella luce e nella gioia? perché non devi aver ragione tu quando minacci l'inferno a coloro che non credono in te, e devono invece aver ragione loro, i maledetti? E se tu minacci l'inferno a coloro che non credono, cosa dovremo minacciare a te, noi innamorati delusi? E se tu soffristi quando sentivi qualcuno non credere alle tue parole, come dovremo soffrire noi quando ci accorgeremo che le tue parole sono state un inganno, un sogno, un bel sogno di cui l'universo non tiene nessun conto, il sogno di tanti poveri uomini che agonizzarono sperando e morirono insieme alla loro speranza?... E d'altro canto, non so perché, dicendo queste parole, mi pare di venir meno ai miei doveri e di smuovere una qualche terribile risposta... A meno che non sia l'impressione di mio... »
« Zio » lo interruppe Antonio, stringendogli bruscamente una mano e alzandosi in piedi, « c'è un prete ».
« Dove ? » fece il gentiluomo, alzandosi anche lui, « vado subito a confessarmi ».
Fecero alcuni passi verso una tunica nera che si profilava sui gradini del coro, dritta come se fosse vuota e appesa.
Ma avvicinandosi, Antonio scorse una faccia pallida legata a quella tunica dal nastro nero del colletto.
« È padre Raffaele » esclamò, fermandosi.
« Meglio cosi, mi confesso con lui ».
« No ! » fece Antonio, con uno scatto nervoso.
« Perché no ? »
« È il confessore di Barbara ».
« E con questo ? » « No, ti prego ! »
Antonio cercò di voltare indietro lo zio e spingerlo verso la porta. Fatica superflua! Padre Raffaele, avendo riconosciuto Antonio, cercava anche lui di allontanarsi; a tal punto il brav'uomo si sentiva pesare sulla coscienza quel ripudio che la sua penitente non voleva giudicare un peccato, incoraggiata in questo da una sentenza della Sacra Rota.
Antonio era stato assalito dal più forte dei suoi rossori; la faccia gli bruciava e persino gli doleva. La figura in tunica nera, che andava scivolando lungo il braccio sinistro della navata, gli sembrava carica di tutto il mistero di Barbara.
« Zio » disse, « sto male, mi pare di non vederci più, accompagnami a casa! »
Ermenegildo si slanciò premuroso e lo sostenne. E fu in uno stato d'incoscienza che Antonio uscì dalla Collegiata, fra le braccia dello zio che, malgrado il peso che sorreggeva, non potè fare a meno di mormorare lungo il faticoso tragitto: « ...o divento comunista anch'io!... »
« ...ovvero cattolico, cattolico tutto fede e devozione, casa e chiesa! »
« ... o lascio aperto il rubinetto del gas! »
Capitolo 12
« Verso nuda scogliera, poiché l'autunno della vita preme, guardano, vinti e sconsolati, i sogni ».
A. BLANDINI
Son passati quattro anni. Un giorno d'agosto del 1943, in una piazzetta della Punta, il primo borgo sulla strada che da Catania s'arrampica addosso all'Etna, il buon brigante Compagnoni, cavalcando un asinelio che, sotto di lui, sembra piccolo e riottoso come un cane, comincia a gridare verso i balconi di una casa affumicata: « Signora Sara, signora Rosaria, e con chi aveva parlato, suo marito? Ha visto che son passati migliaia e migliaia di autocarri? ebbene, ora non ne vengono più. Dopo di me, vengono i selvaggi a cavallo... si... quelli con la carrucola al naso e la penna nella testa!... Tale e quale come aveva detto suo marito. Tale e quale: stampato!... I selvaggi, gli antropofaghi!... » E agita le enormi braccia in una smania di collera, soddisfazione, orrore e disgusto.
« Questo, dovevano vedere gli occhi miei : i selvaggi a Catania, nella strada dritta! e ora vengono qui!... Col diavolo, aveva parlato il signor Alfio, col diavolo! » Ma dov'è il signor Alfio, dov'è quel povero vecchio?
Una notte del '42, egli rincasava piano piano, maledicendo il buio, che ogni tanto lo faceva rinculare di soprassalto come una porta sbattutagli in faccia, la guerra e la propria vecchiaia, quando le cose stesse, i mattoni della strada, le carrozze ferme lungo il marciapiede, le mura delle case, il cielo stellato e i campanili, scoppiarono in un lamento lungo e continuo come quello di un armento che sente avvicinarsi il lupo: erano le sirene d'allarme.
« Questa notte » borbottò il signor Alfio, « mi parla il cuore che non lasciano pietra su pietra! »
E invece d'infilare la via che conduceva alla sua casa, imboccò certi vicoli puzzolenti ove di solito il passante notturno sentiva a destra e a manca fiati di donne che dicevano: «Entra, via! fermati un momento! »
Ma quella notte, in luogo degli usati inviti, si udivano sbattere gli usci e, dietro di essi, non appena chiusi, un precipitoso affannoso armeggio di chiavistelli e paletti.
Il signor Alfio accelerò il passo agitando il bastone davanti a sé e colpendo mucchi di spazzatura, gatti, cani, alla rinfusa. « Perdio, faccio la morte del topo nella chiavica! Ehi » gridava, « ehi, Mariùccia, aprimi! »
Mariùccia, che abitava in fondo alla strada, era una ragazza senza una goccia di sangue sotto la pelle, dal cui petto magrissimo sbocciavano due mammelle grasse e pallide come quei frutti che si gonfiano a primavera in cima a rami secchi e privi di foglie.
« Ehi, Mariùccia, per il tuo dio, aprimi! »
Il signor Alfio s'era già fermato, credendo di trovarsi davanti alla porta di Mariùccia; ma questa si aprì a molti passi da lui, e il viso della ragazza, illuminato dall'interno, sporse bianco come la cera: « Ma chi ce lo porta qui, vossignoria, in questa notte da lupi ? »
Il signor Alfio corse affannosamente verso il punto da cui era stato chiamato, ed entrò in un tugurio ove l'oggetto più prezioso e luccicante era una sveglia che contava i minuti con un rumore miserabile di latta.
« Ma come ? vossignoria qui ? E se ci ammazzano, che diranno domani? che il signor Alfio andava in casa di una mala donna? »
« Voglio proprio questo » disse il vecchio, « voglio che mi trovino morto qui! voglio che tutta Catania sappia che Alfio Magnano coi suoi settant'anni andava a putt... Scusami, non lo dico per offenderti. Tant'è vero che non voglio offenderti che sono venuto a morire qui ».
« Oh, misericordia! E che è scritto, che dobbiamo per forza morire? » fece la ragazza, con un tono leggermente risentito.
« Non lo so... Lo sanno quei bruciapaglioni che ci volano sulla testa ! Sono dei ragazzacci, cosa credi ? ragazzacci come quelli che la notte fanno a spintoni per via Etnea. Loro, invece che in via Etnea, lo fanno per le vie di Londra! E giocano a biliardo, anche loro, che un padre, poveretto, non riesce mai a farli rincasare... Questa notte però si son messi a giocare con le nostre case e, un colpo uno un colpo un altro, vedrai che le fracassano tutte!... Si, da questo momento, tutti i catanesi, tu, io, il prefetto, quelli che sono cornuti e quelli che non lo siamo, i fascisti e gli antifascisti, il duca di Bronte e quella dannata di sua moglie, mio figlio e la mia Sara, tutti, dico tutti, siamo nelle mani di quattro scavezzacolli che, quando vogliono, ci possono stutare con un soffio, cosi, puffi, come candele alla fine della festa! »
« E lo facciano pure » disse la donna. « Io vado a chiamare il gatto nel cortile ». Apri una porticina che dava in un buco nero, in mezzo al quale troneggiava un vaso di creta.
« Ehi » disse il signor Alfio, « non te ne andare! Non vorrei che domani mi trovassero qui solo solo, come se fossi venuto a dirmi le devozioni. Voglio morire accanto a una donna! Mi levo anzi la giacca ! »
« E via che non moriamo! » fece la ragazza senza voltarsi, e tornò a chiudere la porta del cortile. « Con quel gattaccio, lo so io che rimedio ci vuole! »
E invece morirono. Il signor Alfio Magnano, che la città stimava e riveriva, fu trovato, dopo cinque giorni di ricerche, tra le rovine di un quartiere malfamato : una scarpina verde col fiocco rosa, schizzata da una casa da tè della strada contigua, gli stava vicino alla faccia con la punta poggiata su ima tempia; di Mariùccia era rimasta la mano destra chiusa attorno al manico della scopa. Non si capiva che cosa in verità avesse ucciso il signor Alfio, perché egli appariva illeso coi vestiti intatti e abbastanza puliti: in una tasca dei pantaloni, dentro una custodia di celluloide, conservava gelosamente il foglietto che il cognato Ermenegildo aveva lasciato due anni prima sul comodino, nella camera avvelenata di gas : « Quest'incubo della vita è stato potente e continuo e, pur tra le sue assurdità, ha saputo avere un'aria di coerenza e quasi di naturalezza ».
I catanesi, che sedevano la sera ai tavolini dei caffè sulla via Etnea completamente oscurata, e cicalavano come ai bei tempi, malgrado avessero l'impressione di masticare un buio terroso, trovarono in quella morte un argomento inesauribile.
« Che vecchio senza pace ! A settantanni, con una notte come quella, si sente l'animo di andar a cercare un covo per il suo lepre! » « Una vera esagerazione! » obiettava qualcuno.
« Perché esagerazione? »
« Ma poteva trattenersi, no? Che mi volete dire che se passava un giorno senza... alla sua età... moriva? »
« Ognuno sa i fatti suoi ».
« Ah, certo, ogni legno ha il suo fumo e ogni uomo la sua valentia. Però... non aveva più vent'anni ».
« Non aveva più vent'anni, ma quella salita se la faceva ancora bene ».
« Questi Magnano, sia lodato Dio... »
« I vecchi, volete dire, perché i nuovi... »
« Avesse preso un dito, da lui, suo figlio! dico molto forse? un dito! »
E chi sa quanto altro avrebbero detto e almanaccato se, una settimana dopo, il segretario federale Pietro Capàno, travasando di notte nel suo garage un fusto di benzina, vistosi improvvisamente al buio per un allarme aereo che spense la luce, non avesse acceso un fiammifero. Subito l'aria ruggì e, sbucata da non si sa dove, una fiamma feroce lo avvolse dai piedi alla testa. Egli fece due salti indietro, cercando di uscire da quell'inferno, ma la fiamma, avvinghiata fortemente alla sua persona, lo seguì palpitando.
In preda al terrore, quest'uomo di trentanni, che era anche figlio unico di due genitori pazzi per lui, cominciò a gridare padre e madre, e a chiamare aiuto, ma poiché nessuno accorreva, si buttò fuori del garage. L'atrio era deserto. Fiammeggiando sinistramente, Pietro Capàno lo attraversò come un ossesso e, infilata la prima porticina che vide, salì dove lo portavano le scale: nella casa di un suo nemico.
L'autista Impellizzeri, ch'egli aveva mandato al confino, e parecchie volte aveva mugolato dentro la palma della mano : « Bruciato devi morire, bruciato! », si senti venir meno dalla paura, quando, socchiusa e poi spalancata la porta, vide quel pover'uomo entro una fiamma che lo teneva saldamente prigioniero e s'affrettava a ingoiare la benzina ancora sparsa sulla pelle e i vestiti, per addentarne la carne. « Aspetti, federale, aspetti, Madonna Santa, ma non entri, ché qui tutti andiamo in fuoco! »
E precipitatosi in cucina, tornò con un secchio pieno d'acqua.
« Non abbia paura, non abbia paura ché la spegniamo subito! »
Cosi dicendo, con la mano premurosa e tremante gli lanciava spruzzi d'acqua sui vestiti e la faccia.
« No » urlava, il disgraziato Capàno, « è peggio cosi, peggio! »
Infatti, come alimentata dall'acqua, la fiamma sali più vigorosa e sanguigna, con uno sbuffo di fumo nero verso il soffitto. Vedendo quel viso d'uomo disperato in mezzo a una fiamma cieca e dura cui non c'era verso di far capire che quella era carne battezzata e non un pezzo di legno, l'autista scoppiò a piangere.
« No, acqua no : tu mi ammazzi perché sono fascista! » gridava Pietro Capàno.
«Che fascista e non fascista!» rispondeva piangendo l'autista, « che va dicendo? siamo uomini!... Dio sa cosa darei per strapparle di dosso quella fiamma! »
« La giacca! » urlo Capano, abbattendosi sul pianerottolo e trascinandosi a terra la fiamma che con un salto gli » distese sopra, più larga ora che alta ma non meno rabbiosa.
« Si, è giusto, la giacca » fece l'autista, « e il tappeto! »
Volò nell'altra stanza, con le mani alle orecchie per non sentire le grida di Capàno che si torceva a destra e a manca sotto il fuoco che tentava di addentargli le spalle ogni volta che egli, nel torcersi, le staccava dal pavimento.
L'autista tornò con un tappeto, una coperta, un cappotto, e, affannato e pieno d'angoscia, li distese sulla fiamma che subito si rannicchiò. L'autista si buttò allora sulle coperte e si mise a calcarle col peso di tutto il corpo. La fiamma scomparve di botto con un rumore di vento. Nel pianerottolo si fece buio, e dall'interno delle coperte cominciò a venire un fumo denso e più nero del buio stesso insieme ai gemiti sempre più soffocati di Capàno.
Poco dopo accorse una ragazzina recando una candela. L'autista si alzò tremando e battendo i denti; con la mano priva di sangue, tirò via le coperte e scopri un corpo interamente ustionato, cieco, muto, col sangue rappreso sulle profonde lesioni che lo attraversavano per tutti i versi.
L'autista s'abbracciò stretto alla bambina : poi s'inginocchiò vicino a quell'uomo che spento sembrava più orribile di quando aveva orribilmente fiammeggiato, e il cui unico segno di vita era lo stridere di alcune piaghe che andavano ancora friggendo.
Pietro Capàno morì l'indomani, lasciando turbati da vaghi rimorsi coloro che lo avevano odiato. Solo pochi, si contavano sulle dita, ebbero il cuore di mormorare: «Chi la fa se l'aspetti!», ma trovarono subito chi li rintuzzasse: « E che è? oh, Gesù bambino! siamo cristiani! Non aveva bruciato nessuno, lui! » « E dirò di più » aggiungeva un altro, « era anche buono ».
« Buono forse... »
« Buono, buono!»
« Non so cosa voglia dire lei col suo buono ».
 « Quando dico buono, voglio dire buono! non la capisce, lei, la parola buono? » « Io volevo... »
« Lei non voleva niente, si stia muto! »
« Volevo dire... »
 « Lasci stare! »
« Volevo spiegarmi... »
« Le dico che non c'è bisogno! lasci stare! »
E Antonio? La morte del padre lo annichili per alcuni giorni: quel tenero padre, che lo amava più degli occhi suoi, se n'era andato assestandogli il più forte schiaffo che mai padre abbia dato a figlio. La vergogna non era per il vecchio, ch'era finito tra le macerie di un quartiere malfamato, ed era rimasto un giorno intero allineato sull'asfalto della strada insieme a due ubriachi dai nasi tumefatti e a cinque donne a cui la morte non sapeva cosa togliere talmente le aveva già spolpate la vita: la vergogna era per lui, Antonio, che tre giorni dopo, recatosi al cimitero di Aquicella, trovò sulla lapide del padre, scritte a carbone da una mano sconosciuta, queste parole spaventevoli: « ...morto il 6 marzo 1942 per lavare l'onore della famiglia infangato dal figlio ». Le parole erano grandi e inverosimili. Egli cercò di cancellarle con la manica della giacca guardandosi attorno come un profanatore di tombe e ricevendo negli occhi spaventati lo sguardo di molte fotografie e statue. Non tornò più al cimitero e ogni notte aveva paura di addormentarsi perché ogni notte vedeva in sogno quelle parole scritte a carbone.
Ma la signora Rosaria la pensava in altro modo.
« Il mio Alfio » ripeteva, vestita e coperta di nero, con la corona del rosario sempre in mano, un medaglione nero sul petto contenente la fotografia del signor Alfio vestito a lutto per il padre, la faccia chiusa in un fazzoletto nero, « Alfietto, Alfio, il mio tesoro, il fiato mio, morto con quelle donne, sotto le pietre!... » Non voleva né mangiare né stendersi sul letto.
« Ma come si può mangiare, ma come si può dormire » piagnucolava coi parenti che la tenevano chi per una mano chi per l'altra, « quando l'anima mia è morto sotto le pietre, e chissà quanto avrà sofferto? »
Tutti scoppiavano a piangere, e le donne guardavano Antonio, la cui bellezza, nell'abito a lutto, nel pallore mortale del dolore e della vergogna, sembrava veramente quella di un arcangelo.
Due mesi dopo, la signora Rosaria, vinta dal disgusto di non saper morire, ricominciò a nutrirsi e stendersi per qualche ora sul letto. Antonio non sognò più la lapide del padre e fece di tanto in tanto un sogno più dolce, che Barbara, commossa dalla disgrazia, gli scrivesse una lettera, un biglietto, lo pregasse di andare da lei.
Ma Barbara non scrisse alcun biglietto, e Antonio, dopo il tramonto del sole, s'aggirava attorno al palazzo dei Brente, abbassandosi, nell'angoscia, a tal punto di stupidità, che una notte, visto trapelare fra le persiane un raggio di luce, e sperato invano che le persiane si aprissero ed ella s'affacciasse, sbottò in un grido da ossesso : « Luce, luce ! La forca ci vorrebbe per voi! »
Subito la luce si spense, e Antonio fuggi come un ladro di lampadine, sentendosi pesare addosso un tale schifo di se stesso che, giunto nella deserta via Sant' Euplio, sotto il muro del giardino pubblico, poggiò la mano a una pietra coperta di muschio, e su quella mano pianse lungamente; e poiché soleva profumarsi con l'essenza usata da Barbara, per un certo tempo ebbe la soave illusione di piangere, non sulla propria mano, ma sulla guancia di lei.
Soavità infida, egli lo sentiva mentre andava godendola, ma tanto più forte e snervante quanto più era accompagnata dal presentimento che stesse per aprirsi su una profonda sconsolata amarezza. Eccola, infatti, già passata! eccola, infatti, perduta! La mano ricascava dalla pietra borraccinosa lasciando un po' del profumo di Barbara in mezzo all'erba, un poco, una larva, quello che rimane di luce, dopo una giornata di mezz'agosto, nel volo di ima lucciola.
« Ma questa Barbara è una delinquente! » diceva Edoardo.
Antonio rispondeva con un sorriso ironico, quasi di sufficienza.
« Io non so se sia vero quello che dicono » incalzava il cugino.
« Cosa dicono ? » faceva Antonio, più per sentir parlare di lei che per dar credito a una voce di cui percepiva già chiaramente la falsità.
« Ma dicono... dicono tante cose ». E vedendo la faccia ironica del cugino, Edoardo aggiungeva irritato : « E il bello è che io ci credo !... Tu no, naturalmente? » « Ma io non so ancora di che si tratta ».
« Si tratta di questo: che Barbara e il marito non vanno d'accordo. E d'altro canto, come può, una donna, andare d'accordo con quella sorta di vacca che gli manca soltanto il campanaccio al collo? » Antonio s'illuminava di piacere.
« E questo non è tutto: Barbara lo tradisce! »
Antonio s'abbuiava; ma tornava subito al suo sorrisetto e alzava in aria il mento.
« Tu non ci credi, naturalmente ».
Antonio rovesciava le labbra e rialzava adagio adagio il mento.
« Ebbene, io invece ci credo e scommetterei qualunque cosa ch'è vero! » « E con chi lo tradirebbe ? » « Col cocchiere ».
Antonio sorrideva in fondo in fondo al petto, quasi con lo stomaco, e alzava di nuovo il mento.
« No ? »
Antonio alzava il mento.
« E invece si! Barbara ha nelle vene una buona dose di sangue matto. Mi meraviglio che tu, vivendo per tre anni con lei, non te ne sia mai accorto ! A me è bastata un'occhiata... Nella sua famiglia, questo lo sai, ci sono due o tre pazzi dei quali nessun notaio Puglisi ama sentir parlare. Guarda cosa fai: va' da tuo suocero...»
Antonio impallidiva.
« ... Insomma da colui ch'è stato tuo suocero, e digli : notaio, com'è morto suo zio Tanino ? e vedrai di che colore diventa il notaio ».
« Perché, com'è morto ? »
« Con una donna seduta sulla faccia e un'altra a cavallo sulla pancia; al capezzale, ove i Puglisi tengono il libro da Messa, aveva un cartoccio di una certa polverina... Un altro Puglisi, lo zio di questo Gaetano, la polverina la vendeva di contrabbando nello scorso dopoguerra: nascondeva le cartine fra i capelli; la sera, alcuni miei amici bussavano alla porta della sua casa a pianterreno e, dandogli un bel mazzetto di biglietti di banca, si compravano il permesso di accarezzargli la testa. Una sera, invece di lui, trovarono la moglie che urlava di dolore: lo sciagurato era morto. I miei amici consolarono la donna con buone parole, poi dissero: "E' un po' di magnesia, non l'ha lasciata?"
"Che ne so" piagnucolava la vedova, "che ne so io se l'ha lasciata? che ne so dove la teneva, che, fra l'altre pene, non abbiamo un soldo per fargli dire una Messa?..." I miei amici scostarono gentilmente la donna ed entrarono coi cappelli in mano. Il morto giaceva sul catafalco fra quattro candele accese, e aveva la testa, priva di cuscino, sprofondata dietro il petto. Uno dei miei amici si avvicinò al capezzale, s'inginocchiò, si segnò, recitò una preghiera, si segnò ancora una volta, poi passò ima mano fra i capelli del morto e tirò fuori una bustina. Tornato dalla vedova, le prese la destra, se la strinse al petto, e le infilò dentro duemila lire con le quali l'indomani il fratello prete potè celebrare una Messa cantata ».
« E con questo ? »
« Con questo voglio dire che se Barbara cerca nel suo sangue qualche goccia matta, ne trova a sufficienza. Del resto ho saputo che quand'era bambina... Ma lasciamo stare quand'era bambina... Parliamo di oggi! oggi come oggi, se la... dal cocchiere... con tutta la radica! »
Antonio si alzava indignato.
« Tu » gli gridava dietro il cugino, « stai diventando un minchione! »
Antonio faceva una spallucciata, riuscendo a esprimere, con le spalle e la nuca, la più ironica incredulità, e s'allontanava.
« E va bene » mormorava sconsolato Edoardo, « pensala come vuoi ».
Antonio, la sera, tornava ad aggirarsi sotto il palazzo dei Bronte. Passava da un tronco di platano all'altro, silenzioso e veloce come un cacciatore, poi ficcava la faccia tra le sbarre del cancello, assaporando dalle guance il gelo e la durezza del ferro come una carezza umiliante che Barbara avesse incaricato una delle sue cose di fare a quel disgraziato, il meno che potesse dargli, e che a lui nondimeno sembrava molto, anzi lo riempiva di gioia e di piacere; il cuore gli batteva e sussultava al pensiero che nessuno lo vedeva e che egli era felice contro tutte le regole della dignità, della convenienza e del decoro. No, Edoardo non sapeva neppur lui quello che andava dicendo! Il palazzo dei Bronte stava li, solenne e scuro come una chiesa, e dalla sua alta torre si alzavano al cielo, e vi s'immergevano con la maestà d'una statua, l'onore, la superbia, la freddezza di colei che ne portava alla cintola le chiavi.
Un giorno, i due cugini videro passare lentamente per via Etnea una carrozza con lo stemma dei duchi di Bronte dipinto sugli sportelli.
Antonio si fermò e diede di gomito a Edoardo.
In serpa, con la bombetta in testa, la lunga frusta nella mano destra, le redini nella sinistra, tentennava il cocchiere.
« Guarda » fece Antonio, « guarda li il tuo cocchiere! Quanti anni gli dài? » Il cocchiere era vecchio, ma Edoardo generosamente lo ritenne vecchissimo e gli diede settantacinque anni.
« D'altro canto » aggiunse, « colui che mi ha raccontato la storia di Barbara è un bugiardo col bollo.
Figurati che ieri mi ha annunziato con tutta serietà di aver sentito alla radio con le sue orecchie che Hitler s'era accecato. A dirla tutta, la verità, non è stato solo lui a raccontarmi quella storia. Ma insomma » sbuffava spazientito, « faccia Barbara quello che vuole. Se lo governi come le pare e piace : è suo, in fin dei conti! Di questi tempi c'è ben altro al mondo che Barbara e il duca di Bronte! Fra poco, caro Antonio... »
L'Europa era tutta al buio, le navi scivolavano di notte sul mare lugubri e scure come carri funebri, molti popoli si nutrivano soltanto d'uva passa, e tuttavia Edoardo sentiva nell'aria « odore di felicità' ».
« Fra poco » diceva, « questi venti anni di tirannide, di rozzezza, di presunzione ci parrà di averli sognati in una notte di febbre. Conserveremo soltanto il tic di voltarci indietro prima di parlare a voce alta, e faremo ridere i nostri nipoti. "Ma che ha il nonno" domanderanno, "che si guarda sempre alle spalle?" E i nostri figli spiegheranno sorridendo che il povero nonno è vissuto in un'epoca nella quale ogni cittadino aveva il suo angelo custode dietro e andava in prigione solo per aver detto che il capo del governo era vecchio... Ma ci pensi, Antonio? » esclamava afferrando le braccia del cugino e scotendolo con tutta la sua forza, « fra poco non dovrò più dire che Hitler arriva appena appena alle ginocchia del Nostro quando vorrò dire che l'uno e l'altro sono due bestie matricolate! Fra poco dirò nettamente come la penso in faccia a chiunque! È possibile? mi domando certe volte, è proprio possibile questo? dire a voce alta la propria opinione, qualunque essa sia!... la propria opinione » aggiungeva piano piano quasi ad ascoltare egli solo quelle parole per meglio concentrarsi e capirle, « qualunque essa sia... a voce alta!... Ma Antonio » riprendeva con furore, « io credo che non ci arriverò, a un giorno simile, e morirò la sera prima! E poi, ne sarò capace? voglio dire, saprò parlare la lingua di una persona libera? non m'imbragherò? non arrossirò? non dirò delle enormità? non farò capire a tutti che sono stato per vent'anni un povero servo? e non cercherò anche allora, per una vecchia abitudine, di piacere a qualcuno, di adulare un potente, di seguire la moda, e di tenere, in ogni caso, discorsi opportuni? Ovvero non farò il ribelle a sproposito, non finirò col non pagare il biglietto del tram per dare a intendere che sono un uomo libero? Io ci perdo la testa... » I due cugini camminavano l'uno accanto all'altro in silenzio.
« L'unica cosa che mi dispiaccia » ripigliava Edoardo con voce commossa, « è che i tempi della gentilezza, della pietà, della poesia ritornano quando noi non abbiamo più vent'anni ! La nostra giovinezza è in tasca a quell'uomo; il giorno che lo arrestano e lo perquisiscono, gli trovano addosso i nostri vent'anni. Questo pensiero mi fa sudare freddo! vedere un' Europa serena, libera, un' Europa che onora i sogni e la musica, e noi non avere più l'età in cui si sogna con tanto ardore e si passa un'intera giornata canticchiando la nuova canzone di Tosti!... Ma sia fatta la volontà del Signore! L'importante è che tornino tempi felici e, soprattutto, liberi! »
Con questi discorsi e sentimenti, egli trascorse il '40, il '41 e il '42, anni che, nell'attesa della felicità, furono per lui teneramente, trepidamente felici. Di quali colori non si vesti' la speranza? di che non si nutrì? da quale piccolo fiore non rifulse? da quale misera canzonetta di passante non cantò con la sua voce suprema?
E Pippo, Pippo non lo sa
che quando passa ride tutta la città, si crede bello come un Apollo e saltella come un pollo. Oh deliziosa canzone, per Edoardo! Essa voleva dire che fra poco sarebbero venuti tempi felici.
Qualche anno dopo:
Tutte le sere sotto quel fanal
presso la caserma ti stavo ad aspettar.
Anche stasera aspetterò e tutto il mondo scorderò per te, Lili Marlen, per te, Lili Marlen. 0 trombettiere, stasera non suonar, una volta ancora la voglio salutar...
Edoardo, col mento sul cuscino, seguiva la voce del nottambulo. La feroce Europa era stanca, non voleva più sentirne di trombette militari, preferiva il suono di un bacio sotto un lampione. Ecco il romanticismo che tornava, ecco il primo nuovo romantico che passava per la via nel cuore della notte, e proprio sotto il balcone di Edoardo, ecco il primo europeo con la testa piena di sogni.
Quando nel fango devo camminar sotto il mio fucile mi sento vacillar. Amabile europeo, incapace di sopportare il peso di un fucile.
Che cosa mai sarà di me? ma poi sorrido e penso a te.
Adorabile europeo, a cui bastava un'immagine di donna, davanti agli occhi della mente, per non vedere più né fango né miseria.
Edoardo si agitava sul letto e sbuffava di smaniosa contentezza.
« Che hai ? » domandava la moglie.
« Fra poco » rispondeva Edoardo, « fra poco... » « Fra poco, che cosa ? » « Niente, lo vedrai ».
Ed eccolo finalmente il giorno tanto sospirato da Edoardo: esso porta il nome di 5 agosto 1943. Eccolo! ma com'è nero di polvere e pieno di un sordo rombo di rovina! Cade la tirannide, ma anche i tetti delle abitazioni, i campanili delle chiese, i vecchi ponti sui fiumi; si spezzano gli orologi in cima agli edifìci pubblici e le sfere rimangono ferme sul minuto in cui la bomba uccise in piazza un gruppo di povera gente spaventata... Il buon brigante Compagnoni, cavalcando un asino, è già arrivato alla Punta, e grida verso la piccola casa affumicata, in cui è andata a rifugiarsi la signora Rosaria col figlio Antonio, grida che dietro di lui vengono gli africani e gl'indiani.
La signora Rosaria sporge timidamente la testa legata in una sciarpa, si fa il segno della croce e si ritrae.
« Antonio, hai sentito? » dice con l'esile voce che l'è rimasta dopo la morte del marito, « tuo padre aveva parlato con gli angeli, poveretto. A Catania, nella strada dritta, ci sono i selvaggi! »
Antonio sdraiato su un divano, col solito fazzoletto di seta intorno al collo, si rivolta dall'altra parte : « Se ne andranno come sono venuti » borbotta con la faccia contro la spalliera sfilacciata.
« Povere ragazze ! » dice la madre. « La Madonna benedetta deve salvarle ! Dicono che questi selvaggi ne fanno vendetta! » Antonio scatta a sedere sul divano.
« Tutte storie ! » esclama. « I negri sono come i bianchi ».
« E che so ? » fa la madre, « ne dicono tante ! Che posso sapere? Povera casa nostra » aggiunge con un sospiro, « sarà in piedi ? sarà cascata ? se la saranno presa i soldati? A me mi devono lasciare il letto in cui abbiamo dormito tanti anni con tuo padre. Si portino via tutto quello che vogliono, ma il letto me lo devono lasciare, perché se no, cosi vecchia come sono, non so davvero cosa faccio! »
« Che vuoi fare, mamma? » dice Antonio, cercando di scherzare. « Quelli hanno i cannoni e ti sparano ».
« E io gli cavo gli occhi con queste unghie ».
« Ma non ti lasciano avvicinare, mamma ».
« E io invece m'avvicino. Che ne sanno, loro, che io gli voglio cavare gli occhi? Loro non lo sanno e mi lasciano avvicinare... E io, con questa mano, gli tiro gli occhi... »
D'un tratto Antonio si rabbuia. Dopo che ha scherzato un momento, gli càpita sempre di diventar nero. Un minuto di allegria gli fa sentire più cupamente l'amarezza del suo stato abituale.
« Tu, figlio mio » dice la signora Rosaria, « uno di questi giorni ti devi armare di santa pazienza e fare una corsa a Catania a vedere la casa ».
« Ci andrò domani », risponde Antonio, tirando di nuovo le gambe sul divano e sdraiandosi.
Ma l'indomani non partì.
Per due settimane, la voce delle zampogne che i soldati scozzesi, installatisi nella vicina casa del farmacista, suonavano notte e giorno allo scoccare di ogni ora, gli diede un ambiguo e paralizzante dìletto. Dove stava Barbara, in quei giorni? ed erano vere le voci che correvano sul suo conto? Il notaio della Punta raccontava ch'ella era stata violentata da un tedesco; il suo aiutante, ch'era fuggita con un soldato inglese; il medico condotto, amico delle famiglie Bronte e Puglisi, che si recava ogni due giorni in baroccino nel paese in cui s'era rifugiata Barbara col marito, persona attendibile dunque, raccontava invece che la casa dei Bronte era rimasta chiusa a tedeschi e inglesi, e che Barbara, col solo affacciarsi al balcone, aveva scoraggiato alcuni soldati dal continuare a bussare col calcio dei fucili.
Quest'immagine di Barbara che, affacciandosi dall'alto, rendeva stanchi e smorti alcuni ribollenti scaricatori del porto di Amburgo o di Londra, fu quella che piacque di più ad Antonio e lo convinse interamente. Senza dubbio la verità era in quest'immagine ! Barbara era questa! Il cuore stesso glielo confermava, palpitando a precipizio ogni volta che egli la vagheggiava con la mente in quella superba attitudine.
Sulla fine di agosto, scosse il torpore, si stiracchiò, indossò l'abito nero e scese a Catania.
Che tristezza! Nel corso, le macerie dei bei palazzi, non ancora rimosse, si addossavano ai muri superstiti; i negozi erano in gran parte chiusi e le saracinesche distorte dai ladri che ogni notte tentavano di forzarle; piramidi di spazzatura in ogni punto, lambite da una fiamma senza denti che non riusciva a mordere che qualche buccia secca o foglio di giornale, e mandava in alto, fino ai terzi piani e alle terrazze, una nube densa di cattivi odori; le rondini, impaurite dagli spari, volavano altissime come su una terra sommersa da un'alluvione, e stampavano in fondo in fondo al cielo vaghe immagini di mestizia; le zanzare, invece, trasportate dai carri militari, dai fuggiaschi e da quell'occulto vortice che risucchia gl'insetti in seno agli uomini quando questi perdono le forze, s'eran spinte dalla Piana nel cuore della città e iniettavano la malaria fin nelle mani levate al cielo degl'improvvisati soprani, alcune povere straccione, che la sera, nel teatro Bellini, cantavano per i soldati; su per i mucchi di spazzatura, fanciulli nudi e magri, con le scapole che gli foravano la pelle come punte di ali, erravano in cerca di cibo; su alcune rovine campeggiava, priva di cassa, l'arpa di un pianoforte, che la notte denunziava lamentevolmente la presenza dei ladri col suono delle corde su cui di botto era strisciato un mobile, trasportato sulla punta dei piedi; mancavano i fiammiferi e, per accendere il fuoco, bisognava andare a chiederne uno al preveggente amico che abitava all'altro capo della città. Che tristezza! Per il corso, cartelli d'ogni misura dicevano in inglese : « Attenti alle malattie veneree! », « La guerra passa ma la malattia venerea resta », « Cosa porterete a casa alla vostra ragazza ? una malattia venerea ».
Nel mezzo del corso un antico e nobile caffè s'era rivestito di paraventi e intonachi bianchi e, sulla porta, una scritta luminosa comandava ai soldati : « Entrate ! lavatevi prima o almeno dopo! » Il giardino pubblico era invaso da carri militari; al crepuscolo, i cittadini disastrati si aggiravano come spettri nei luoghi in cui era seppellita la loro casa e con essa la sala da pranzo nella quale, fino all'anno avanti, era rimbombato il loro brindisi della notte di San Silvestro con l'augurio di un nuovo anno felice e i vicendevoli baci; altri, scacciati dai loro appartamenti, e ridotti a vivere insieme a parenti poveri e brontoloni, spiavano dalla strada, attraverso i vetri delle finestre, quello che accadeva nella loro vecchia abitazione, e vedevano disegnata sulla parete, a cui una volta s'era appoggiato il quadro della Sacra Famiglia, una donna nuda e sconcia con nell'occhio un proiettile di rivoltella sparatole addosso da chi sa quale soldato ubriaco. Il quartiere del porto, nel quale, alla rinfusa con le casette popolari, sorgono i vecchi palazzi di Catania, era circondato di ferro spinato e vietato a tutti i civili perché in esso avevano preso stanza i grossi e piagnucolosi soldati negri di cui talvolta se ne vedeva uno a un balcone con il cappellino della padrona di casa in testa e il boa intorno al collo. Gli abitanti di quel quartiere, poveri o ricchi che fossero, si appoggiavano al ferro spinato, cercando di vedere il più lontano possibile, e consolare la loro vecchia casa, che si trovava, come essi dicevano, in mano ai Turchi, con uno sguardo disperato. Se le cose erano devastate, i sentimenti non lo erano di meno. Molti rancori serpeggiavano tra le famiglie: saluti non corrisposti, sguardi alteri, denunzie politiche avevano dato un aspetto più solitario alle case rimaste in piedi, quasi fossero chiuse ciascuna in faccia all'altra per dispetto e sgarberia. I violenti di una volta, ormai privi di sfogo, s'eran fatti gialli dal veleno che avevano in corpo, e non sapevano addolcire lo sguardo nemmeno quando lo posavano sui figli. E della gente che aveva sofferto, ahimè, quanta se n'era guastata! Il gentile avvocato Bonaccorsi stava barricato in casa, e non voleva ricevere gli amici che ormai gli eran venuti a noia : vestito di nero, con un fazzoletto in mano, seduto davanti allo specchio come a consolarsi con la vista di un uomo addolorato, piangeva tutto il giorno. Cosi, mentre quelli, che avevano percosso, ucciso e mandato in galera il prossimo, se ne stavano orgogliosi e duri, sfogando o meditando vendette, questa persona gentile, che aveva sempre ragionato e mai fatto del male, tormentato pietosamente dai rimorsi degli altri, non aveva il coraggio di farsi vedere per le strade. L'ingegnere Marietti invece, nominato sindaco della città, andava per la via Etnea, polverosa e assordata da carriaggi militari, col naso a becco di civetta in aria, fingendo di non conoscere molti dei suoi conoscenti e ricambiando, con un bel sorriso e un cenno della mano, soltanto il saluto dei nuovi violenti. Miserabile autorità, la sua, perché una sera degli ufficiali inglesi ubriachi, sorpresolo davanti al suo portone che solennemente proclamava quali cittadini dovessero venir privati per sempre dei diritti civili, lo rapirono in una jeep e, portatolo in un vecchio palazzo, fra i resti di un banchetto, gli fecero lavare una montagna di piatti sporchi. L'avvocato Ardizzone era stato assalito da una paura solenne come la sua boria di un tempo, c un pomeriggio si recò insieme ad un pittore nella sede dell'Ordine degli Avvocati ove, profittando che a quell'ora non c'era anima viva, fece passare sul fascio littorio, a cui egli si appoggiava nel ritratto a olio, delle intensissime pennellate, con l'effetto che la sua immagine rimase pendente nel vuoto. Senon- ché, fosse colpa dei cattivi colori o opera di qualche malevolo, due giorni dopo il fascio riapparve ingrandito da una sbavatura sanguigna. Uno. sconosciuto lo avvertì per telefono: « Avvocato, il fascio tornò! »
« Che vuol dire, il fascio è tornato ? si spieghi ! »
« Vuol dire che, nel suo ritratto, il fascio si vede da capo ».
« Ma io sono un uomo onesto, e non ho nulla da temere! »
« Lo so che lei è un uomo onesto, ma qualche maligno potrebbe... »
« Cosa mi consiglia di fare? »
« E lo tolga, questo quadro! »
« No, sarebbe peggio, penserebbero chissà che cosa, che io per esempio mi ero fatto fotografare accanto a quello Sciagurato criminale a cui dobbiamo tutte le nostre sventure... Mi comprende, mio caro e gentile amico, di cui purtroppo non so il nome, e che tuttavia ringrazio dal profondo del cuore ? »
« E allora faccia come crede! » L'avvocato fu assalito dalla febbre, e parecchie volte, sentendo picchiare al portone, e immaginando che fosse arrivata la polizia inglese coi berretti rossi e le bandoliere bianche, tentò di salire sul terrazzino per buttarsi nella strada. Talmente era preda di un terrore insensato!
Antonio arrivò a Catania al mattino, e poiché non voleva percorrere via Etnea ov'era più facile incontrare gente che avesse cambiato viso e perfino andatura, prese una piccola traversa che da via Umberto conduceva alla sua strada. Qui incontrò una sua porta, cioè a dire notò, con un tonfo al cuore, stesa per terra, da un margine all'altro d'un fossato ch'era stato aperto lungo lungo le casette, un'imposta a lui nota, la quale faceva da passerella per quelli che dalla strada volessero entrare in un portoncino o uscirne. Mosse altri pochi passi e vide per terra, con lo stesso ufficio, una seconda sua imposta, questa qui ancora più riconoscibile della prima perché portava inciso con la punta di un chiodo il nome Antonio nella grafia ritta ch'egli aveva a dieci anni; e prima che la stradetta sboccasse in via Pacini, ecco una terza imposta, la più vecchia della sua casa, mezza crepata e piena di orme fangose, che sembrava non leggere più alla fatica.
« Allora la mia casa è cascata? » pensò Antonio, svoltando pallido in via Pacini.
Ma la casa era in piedi. Solo il portone di ferro era scardinato e s'appoggiava allo stipite, incapace di girare su se stesso e di chiudersi; nell'atrio, ov'egli subito entrò, schegge e rottami d'ogni sorta, polvere di vetri e di specchi, mucchi di cenci e di spazzatura; ai piedi dello scalone, sulla soglia di una porticina senz'uscio, seduto come un cieco, ecco il vecchio portiere inebetito dagli spaventi.
« Don Sebastiano » fece Antonio, « come state? »
Il portiere brancolò per afferrargli la mano, e afferrata che l'ebbe, se la portò vicino agli occhi e scoppiò a piangere.
« Mi pisciano sino in casa » disse fra i singhiozzi. « e se m'azzardo a dire una parola, meschino di me! mi abbaiano in faccia come cani di macellaio ».
« E la mia casa è danneggiata? »
« Signor Ninuzzo, bombe qui non ne sono cascate, ma i ladri di questi tempi pare che abbiano le ali! »
« Ma perché non ci avete dormito voi, lassù? »
« E chi ce la fa a salire le scale ? »
« Datemi la chiave! »
« C'è su mia nipote, che sta facendo un po' di pulizia ».
Antonio si precipitò per le scale intoppando sconosciuti che scendevano da chissà dove, e alcuni forse dal suo appartamento.
« Ehi » gli disse uno, con l'aria di avvertirlo, « dove vai ? C'è la donna ».
« Figlio di cane! » masticò Antonio fra i denti, e scostatolo con una forte gomitata, sali' più in fretta le scale.
Dalla porta del suo appartamento veniva una nube di polvere densa come fumo di legna umida, dietro quella nube appariva e spariva, al di qua e al di là dello stipite, una scopa manovrata con energia.
« Un momento! » disse Antonio, arrivando col sopraffiato nel pianerottolo.
La nipote del portiere, ch'era uscita dalla soglia sbattendo la scopa, si fermò perplessa : era una donna di cinquantanni, piccola come una gobba, ma diritta, forte, vivace, con una guancia rossigna e un'altra addirittura color vinaccia a causa di una voglia che la occupava interamente.
« Sono il padrone » aggiunse Antonio.
« Oh, il signor don Alfio! » esclamò la donna appoggiandosi con una mano al manico della scopa e sprofondando in un inchino.
« Il signor Alfio era mio padre ed è morto. Io sono Antonio ».
« Oh, il signor don Ninuzzo! » fece la donna, ancora più premurosa. « Vado a prepararle la camera ch'è tutta sottosopra. Sapesse cosa ci vuole per tenere a bada questi ladroni scatenati; ne vengono ogni momento dicendo che sono guardie, che sono inglesi, che sono americani, che sono il diavolo che li fece! »
E detto questo, appoggiò la scopa a una parete e corse in fondo al corridoio. Antonio chiuse la porta d'ingresso, l'unica di tutta la casa che fosse rimasta coi suoi battenti, e seguì la donna; ma giunto nello studio del padre, si fermò oppresso da una stanchezza della quale fino a quel momento non s'era accorto. Si lasciò cascare sul divano che non tintinnò più come una volta per la buona ragione che gli scranni erano vuoti e bianchi di polvere. Antonio appoggiò la testa a un bracciuolo di legno e, muovendo lentissimamente gli occhi in giro, guardò i ritratti che s'eran fatti più tristi, i tendaggi cascanti, le porte orbate delle loro imposte, il balcone coi vetri spezzati, nel cui riquadro campeggiava il tetto di una casa vicina sfondato e irto di travi. Dalla strada salivano contìnuamente zaffate di puzza, polvere e, volando come uccelli, fogli di carta mezzi bruciacchiati. Che tristezza! che tristezza!... D'un tratto, dal fondo del corridoio, arrivò una voce affannata: « Antonio ! ohè Antonio ! dove sei, Antonio ? »
Si udì un rumore di passi prima incerto e lento, poi veloce e sicuro, e dal corridoio entrò un uomo che gli anni, dopo averlo rispettato, sfiorandolo appena e carezzandolo, pareva l'avessero aspettato di notte al buio, e bastonato con improvvisa ira e rancore, lasciandogli da per tutto i segni di un bastone nel quale ogni giorno trascorso faceva da chiodo.
« Edoardo ! » esclamò Antonio spaventato, e aprì le braccia, senza però alzarsi dal divano, « Edoardo! »
Il cugino gli strinse una mano facendogli sentire come fosse arida e screpolata la sua, poi si tirò sotto uno sgabello e vi si abbandonò a sedere. « Edoardo ? »
« Si, si » rispose l'altro, pizzicandosi con la destra la palma della sinistra, « si! Edoardo! » Volse attorno lo sguardo stanco, con una contrazione amara di tutto il viso. « Si, Edoardo, proprio!... Edoardo! » Lasciò scorrere un po' di tempo su questo suo nome pronunciato tristemente da lui stesso, poi disse : « Lo sai da dove vengo? »
« No... o meglio, si... » « Dal carcere ».
« Mi avevano detto ch'eri stato mandato in un campo di concentramento! »
« Prima sono stato in carcere, poi in un campo di concentramento, poi di nuovo in carcere... Non rinnego per questo una sola mia parola; sono sempre della stessa opinione di una volta! Ma santo cielo, è curioso che uno abbia aspettato per tanti anni la libertà... e tu sai come l'ho aspettata!... e quando questa libertà arriva, per la prima cosa mi chiude in una cella con una porta di ferro, poi in un recinto di filo spinato, poi di nuovo in una cella con la porta di ferro. È curioso, curioso! » La nipote del portiere fece capolino fra le tende e domandò ad Antonio se dovesse preparargli il letto.
« Si » rispose Antonio, « voglio riposarmi un quarto d'ora ».
La donna sorrise, felice di potersi rendere utile in una nuova faccenda, e scomparve.
« Più conosco le celle, i fili spinati e le sentinelle col mitra, e più odio la tirannide!» continuò Edoardo. « La mia sentinella non era cattiva, era un paziente impiegato di banca che masticava un po' d'italiano. Una notte, io di qua dal filo lui di là, abbiamo parlato di Shakespeare e di Keats, abbiamo osservato le stelle che ci pendevano sul capo e ci siamo chiesti se il mondo non si fosse imbruttito per sempre. Questo colloquio notturno fra il prigioniero e il suo secondino, queste confidenze reciproche, questo confondere gli sguardi per osservare la medesima stella mi sembrava di buon augurio; ma il mitra, ogni volta che passava una macchina coi fari accesi, mandava un luccichio che mi stringeva il petto: esso conteneva alcune pallottole per me nel caso che avessi tentato di fuggire... E poi, poi... che ti devo dire, Antonio? Una cosa è la ragione che non perde mai il comando dei suoi pensieri, e un'altra il cuore che si fa nero per conto suo... Un uomo » esclamò con gli occhi che si arrossavano per lo sforzo di non piangere, « non dev'essere mai chiuso da un altro uomo in un recinto spinato o dietro una porta di ferro! È un miracolo ch'egli non ne esca cosi privo di orgoglio umano da non sapersi più reggere su due piedi; e in ogni caso, gli rimane nel sangue un istinto di povera bestia che diffida degli uomini, e un bisogno di scappare ogni volta che li sente avvicinarsi. La sera, quando torna l'ora in cui venni arrestato, mi vado a nascondere in soffitta... Ogni carro militare che si ferma, mi ferma il cuore nel petto. Mi sembra che tutta l'Ottava Armata inglese cerchi me e sia sbarcata in Europa col solo scopo di catturare me. No, Antonio, non bisogna mai catturare un uomo, mai! Io ho odiato la tirannide, ma quanto più l'avrei odiata se avessi conosciuto bene queste cose!... Ed è curioso che queste cose me l'abbia fatte conoscere la libertà... »
Antonio, cullato leggermente dal suono lamentoso di queste parole, s'appisolò, ma subito lo svegliò la nipote del portiere, riaffacciandosi fra le tende per chiedergli se potesse andare da lei che aveva da parlargli in disparte.
Antonio rispose con la mano che attendesse un poco. La donna scomparve sorridendo.
« E poi » continuò Edoardo, « è proprio vero che la tirannide venga uccisa da questi colpi di cannone ? "Tu odi i ricchi e ami la libertà d'opinione!" mi ha detto un mio compagno di prigionia, "sarai un uomo infelice! L'odio per i ricchi ti porterà fra i comunisti i quali ti butteranno in carcere perché ami la libertà d'opinione!" Ma cosa bisogna fare? Quegli altri soldati che scendono dall'oriente provano davvero la ripugnanza che provo io per la censura, la deportazione e il carcere? non avranno finito con lo scambiare questi orrori per fatti naturali? Antonio, abbiamo l'obbligo di pensare a queste cose e di prendere una risoluzione che ci permetta... »
« Scusami » disse Antonio, « vado un momento e torno ».
Si alzò dal divano con una piacevole pesantezza alle gambe, usci dallo studio e, percorso il corridoio, entrò nella sua camera.
La donna finiva di rincalzare le lenzuola; sentendo il rumore di un passo, voltò la faccia e, curva com'era, mandò ad Antonio di sotto in su uno sguardo sorridente.
« Cosa c'è... come vi chiamate? »
« Rosa » disse la donna, sorridendo con più acutezza.
« Cosa c'è, Rosa ? »
La donna si drizzò dal letto e si voltò, facendo subito un piccolo passo indietro e guardandogli sospettosa la destra, ch'egli s'era portata al viso, come se quella mano stesse per muovere verso di lei.
« Niente, volevo chiederle soltanto questo... » La donna esitò, sorridendo con imbarazzo e accendendo al massimo il color rosso di una guancia e il color vinaccia dell'altra.
« Su, dite! cosa volevate chiedermi? »
La donna esitò ancora. « Niente, volevo chiederle soltanto questo : ha bisogno d'altro ? »
Un ronzio assordante sali alla testa di Antonio; egli senti caldo alle pupille che videro tutto nebbioso; nello stesso tempo, come espulsa dalla sua stessa violenza, rompendo la dura corteccia in cui stava incapsulata, un'onda di desiderio gli esplose dall'interno dei nervi, gli arrivò su tutta la pelle, pulsò, col vigore di un cuore in tumulto, in un punto remoto, e per tanti anni abbandonato, del suo corpo.
Vacillando un poco, egli si avvicinò alla donna e, presala per le ascelle, la sollevò da terra e la strinse contro di sé.
« Che fa ? » esclamò Rosa, mandando un odore e calore di carne turbata, « ma che fa?... Io ho cinquantanni ».
« Non importa! » fece lui. « Sta' zitta! » E tenendola sempre sollevata per le ascelle, e stringendola contro di sé, la portò passo passo vicino al letto.
« Ma che vuol fare? almeno me lo dica! » ripeteva la donna. « Mi dica cosa vuol fare? » « Zitta! zitta! sta' zitta! »
« Ma no che non sto zitta! mi dica, cosa vuol fare? »
« Zitta! » ripeteva lui, « zitta! »
« Oh, Madonna santa! »
« Zitta! »
« Madonna, Madonna, mi fa casca... » Ella era stata sprofondata nel letto che cigolò altalenando. Antonio, temendo sempre di, essere abbandonato da quel calore che lo possedeva, e sentendosi invece sempre più scoppiare il viso e picchiare il sangue in tutte le arterie del corpo, si buttò sopra la donna, e con la furia del cane che strappa via con le zampe l'involto in cui è legato un pezzo di carne, la svesti, poi la strizzò, la morse; la sbatté a destra e a manca, la voltò e rivoltò, soffiando sempre fra i denti serrati, sempre mordendola e strizzandola, finché non provò una sensazione voluttuosissima e doppia, come di chi sfoghi un odio lungamente represso e riceva, nello stesso tempo, un'offesa che, ripagandolo di un male compiuto, lo sgravi da un rimorso intollerabile. Allora contrasse il petto, le viscere, la gola, e gettò fuori un urlo...
Qualcuno gli fu addosso a trattenerlo, ed egli si svegliò sotto le mani di Edoardo che lo inchiodavano al divano.
« Che ti succede ? » diceva Edoardo, « hai gridato come se ti ammazzassero, e cercavi di strapparti la carne dal petto! che hai? »
Egli si torse ancora e s'inarcò, sbattendo con le mani sugli scranni e i bracciuoli, poi ricadde supino e mandò un sospiro profondo.
« Ho sognato dunque? » mormorò, con gli occhi chiusi.
« Avrai sognato di sicuro » rispose Edoardo, pieno di malumore. « Io parlavo, e tu, invece di ascoltarmi, ti sei addormentato! »
« Ho fatto un bel sogno! » disse Antonio, con un vago sorriso sulle labbra pallide. « Che bel sogno ho fatto! »
Si alzò a sedere stropicciandosi gli occhi.
« Edoardo » aggiunse con la voce tremante, « ho sognato che... Mi capisci? »
« Non ti capisco... Che cosa hai sognato ? »
« Ho sognato di fare, di fare veramente... Ho provato una felicità da morirne! E forse non è stato un sogno o è stato un sogno solo la donna, ma io ...quanto a me... non ho sognato ».
Edoardo scattò dalla sedia.
« È proprio questo il momento di fare sogni da collegiale! » borbottò con acredine.
« Perché te la prendi così calda ? » disse Antonio. « Pare che ti abbia offeso ».
« Non mi hai offeso, ma insomma, ci sono momenti in cui una persona non sopporta... »
« Mi meraviglio » disse Antonio, « sei stato sempre intelligente e buono e mi hai capito sempre ».
« Ma caro » ribatté il cugino, « anche tu devi capire me! »
« Te la sei presa a male, Edoardo ! Non è degno della tua intelligenza ».
« Non me la son presa affatto a male. Ma secondo te » incalzò con voce dura,
« dobbiamo sempre occuparci di quella faccenda ? non c'è altro a questo mondo?... Magari non ci fosse altro, caro Antonio! Nel campo di concentramento ho pensato a tante cose, e ho pensato anche a te ».
« Cos'hai pensato di me? Sentiamo.
« Che avresti potuto prendere l'incidente che ti è occorso con maggior calma! »
« Lo chiami incidente? »
« Incidente, si, e anche da nulla. Per qualunque persona di un altro Paese, sarebbe stato un incidente da nulla. Ma per noi no! per noi è una tragedia! perché noi pensiamo sempre a una cosa, a una sola cosa, a quella! e frattanto un tiranno ci caccia in guerra con una pedata nel sedere, e gli altri popoli ci ricacciano indietro con un'altra pedata, ed entrano nelle nostre case! Le donne, la donna!... Quattro volte, cinque volte, sei volte... Ecco gli oggetti delle nostre ansie!... Ma lo sai che non c'è nessun disonore a passare tutta la vita nella castità?... Sei bello, cortese, alto, forte, impari facilmente qualunque arte e scienza, sei in grado di capire tutto!... Ma pensa quante cose avresti potuto fare, se non ti fossi chiuso giorno e notte in un pensiero a consumarvi dentro la vita?... »
« Io, caro Edoardo, vorrei una sola cosa: che il sogno che ho fatto non fosse un sogno! »
« Oh, il gran desiderio! che nobile desiderio, perdio! che alta aspirazione! »
« E poi vorrei fare un'altra cosa: incontrare Barbara e schiaffeggiarla. E ti assicuro che, se oggi la incontro, la schiaffeggio da levarle il pelo, anche sotto gli occhi di suo padre e di suo marito ».
« Oh la grande impresa! aggiusterai il mondo con questo: rialzi l'onore dell'Italia, risolvi la questione sociale... »
« M'importa tanto, a me, della questione sociale...» gridò Antonio esasperato, e poi alzando di più la voce: « E anche dell'Italia! »
« Oh sicuro! quando uno ha per le mani faccende tanto gravi... »
« Edoardo, oggi, se vuoi saperlo, mi fai antipatia ! »
« E altrettanta me ne fai tu a me, carissimo Antonio. Non riesco nemmeno a capire come abbia sopportato per tanti anni le tue stupide lamentele ».
« E io come abbia sopportato i tuoi sproloqui ».
« Via, leviamo l'occasione! Ti saluto ».
Edoardo si alzò e prese il cappello dalla scrivania. « Quando il sogno non sarà più... un sogno, metti la bandiera al balcone: cosi io capirò. Ciao... E un'altra bandiera, quando avrai schiaffeggiato Barbara. Addio ».
Uscendo dallo studio, Edoardo si voltò per vedere se Antonio reagisse, ma Antonio lo guardava con grande disprezzo.
« Sciocco! » borbottò Edoardo fra i denti, « uomo inutile... maniaco... strascicone... cassapanca da corridoio! »
Frattanto era arrivato in via Etnea e cercava di scansare i gruppi di soldati dei quali alcuni, ubriachi, giuntigli vicino, tentennavano per cascargli addosso attirati da lui come dal vuoto.
« Giovane rovinato... sempre con quel chiodo in testa... sempre con l'occhio oltre l'ombclico per vedere chi sa mai?... Ne ha fatto la sua religione, il suo dio... Oh, che miseria! »
Così pensando e masticando parole, era giunto davanti alla sua casa, e ne varcava il portone che la figlia del portinaio subito richiuse.
« Fra l'altro avevo tanto bisogno di sfogarmi con lui... Mi ha lasciato tutta la feccia dentro... Ho la lingua amara come il veleno... E tu, Giovanna,, che diavolo chiudi il portone come se fosse mezzanotte? »
« Signorino, sono sola e ho paura dei soldati. Mi vengono dentro con gli occhi spiritati e vogliono non so che cosa ».
« Via che lo sai cosa vogliono ».
« Io non so niente, signorino ».
« Lascia stare che lo sai! »
« Vossignoria la pensi come vuole, ma io non so niente! »
« E allora, se non lo sai, fattelo insegnare da qualcuno! »
« Nessuno a me deve insegnare niente perché io non voglio sapere niente da  nessuno! »
« Nemmeno da me? »
« Nemmeno da vossignoria ».
« E via che da me... »
« Nemmeno da vossignoria, ho detto... E mi lasci stare la faccia! »
« Oh come sei delicata! »
« Sono quella che sono... E mi lasci stare le mani! »
« Oh Dio, neanche le mani ? »
« Neanche le mani! »
« E questo nasino ? »
« Mi lasci stare il naso!... Oh santa pazienza! »
« Ma allora che cosa posso toccare? »
« Niente, può toccare!... No, signorino, no! » gridò a un tratto smarrita la povera donna. « Che fa, benedetto Iddio? e che ha visto oggi?... che l'ha preso? »
Edoardo fu risoluto e sbrigativo, e non smise un solo istante la sua aria di uomo in collera.
Quando si alzòe asciugò la fronte, chinò subito gli occhi, per non guardare la donna in faccia, vedendone già chiaramente, nei gesti con cui ella si stirava e batteva la gonna, la sorda stizza e la ribellione; mise il piede sul primo gradino, e cominciò a salire lentamente la prima rampa della scala, poi la seconda, poi a precipizio la terza. Entrato in casa, e spalancate con mala grazia le imposte del balcone, andò al telefono e compose il numero della casa di Antonio.
« Chi è ? » domandò la voce smorta del cugino « chi è dunque?... Pronto!... Chi è?» Silenzio, da questa parte. « Ma insomma chi è?... Si può sapere chi è? » Silenzio.
« Pronto! pronto!... Chi è? »
 Edoardo scoppiò in singhiozzi. Antonio rimase sospeso per un minuto. Poi disse :
« Sei tu, Edoardo ? »
Il pianto, da questa parte, si fece più chiaro e lento, inciampò come a dare il passaggio a una parola che però non venne, lasciò che due o tre respiri profondi sciogliessero il petto dalla contrazione dei singulti, infine cessò.
« Si » disse Edoardo, « sono io... Ti chiedo perdono ».
« Perdono? e di che? »
« Ho avuto la faccia di farti dei rimproveri!... io..io... » e qui ebbe un altro singulto,
« io che sono l'ultimo degli uomini! Io che ho... »
« Ma che hai fatto? »
« Mi devi sputare, Antonio, quando mi vedi! mi devi camminare sulla faccia e poi pulirti le scarpe! »
« Ma che hai fatto? »
Uno scoppio lontanissimo fece tremare appena appena i vetri del balcone e parve abbassare la luce del cielo.
« Che hai fatto ? »
Edoardo raccontò, con parole dure verso se stesso, quello che era accaduto ai piedi della scala.
Quando ebbe terminato, ci fu una pausa : Edoardo aspettava che parlasse ora il cugino. Ma aspettò inutilmente. Dall'altra parte del filo, c'era silenzio.
« Che ne dici ? » domandò angustiato Edoardo.
Silenzio, dall'altra parte del filo.
« Che ne dici ? » ripetè Edoardo.
Ancora silenzio.
« Che ne dici dunque? »
Antonio seguitò a tacere, pur facendo capire che stava con l'orecchio attentissimo. E un'altra cosa, lasciò capire improvvisamente, e fu questa: che invece di condannare o compiangere Edoardo, per ciò che egli aveva fatto ai piedi della scala, lo invidiava. Con tutte le gocce di sangue che aveva in cuore, con tutti i pensieri che aveva in testa, lo invidiava. Sempre più forte, intenso, scottante, attraverso il filo del telefono, giunse ad Edoardo il calore di quell'invidia.
« No! » gridò egli allora con tutta la forza, « no, no, no, no! No, Antonio, credimi... sulla testa dei miei figli... non è come dici tu! »
« Io non ho detto niente! » fece Antonio e, dopo aver tirato su il respiro con violenza, lo trattenne quanto potè, riempiendo il filo del telefono di un silenzio assoluto. Finché d'un tratto non scoppiò in lacrime lui.
Questo non era il pianto di Edoardo: era più stretto, più disperato, tutto intramezzato dei sibili di un petto che, da molti anni, non si apriva a larghi respiri di felicità.
Edoardo stette ad ascoltarlo per alcuni minuti, pi, sentendo che non accennava a diminuire, tolse scoraggiato il ricevitore dall'orecchio e si mise a guardarlo; lo guardò a lungo, con sfiducia, con amarezza, sentendovi sempre gorgogliare quei singhiozzi di adolescente tardivo.
« È ben curioso tutto questo! » disse, e s'asciugò una lacrima che gli s'era raffreddata sulla guancia, « è proprio curioso! » Poi, piano piano, delicatamente, chiuse il telefono. 
(1) Dipinto, butterato.
(2) Il fratello del Somaio.
(3) Soprannominato il Ceppo, il Torsolo.
(4) Questa mattina.
(5) Male.
(6) Perché va male.
(7) E dove sono queste arance ?
(8) Ma dove le vede, quest'arance?
(9) Questa è un'arancia. E che vuol dire?
(10) Appena una!
(11) E per una!...
(12) Poche ce n'è... niente.
(13) Non sono orbo. Tu hai le traveggole, questa sera, Alfio!
(14) Ah, pure il comunismo deve venire adesso? Sentiamo quest'altra.
(15) E io cosa ci perdo?
(16) Ma la terra, la perdi tu.
(17) Perché la chiami sempre sventurata, questa terra che ti ha dato il Signore? Non è giusto!
(18) Io non so niente, Alfio. Io non voglio né comunismo né altre novità : voglio solo lavorare.
(19) Lavorare poco e rubare molto: questo vuoi tu.
(20) Io non rubo, Alfio.
(21) Tu ti mangeresti pure me!
(22) Io non mangio nessuno.
(23) Ma cos'avete, cos'avete? Sempre che fate baccano, voi due!
(24) Due fratellini di latte, signori miei, che non dovrebbero vederci dagli occhi (23)l'uno per l'altro, e guardate come si accapigliano!
(25) Vero è, vero è
(26) O Alfio, Alfio, sempre lo stesso sei tu, che hai testa di giocare!
(27) Non c'ero io, compare.
(28) Ma allora, catenaccio?
(29) Catenaccio ben saldo, compare.
(30) Diteglielo al Padreterno, ch'è lui che le fa, queste cose
(31) E per fare che cosa, vive?
(32) Meglio morto!
(33) Meglio morto mille volte!
(34) Che dite, mille volte? Cento milioni di volte!
(35) Per me, aspetti quanto vuole. Ma sentite: questa disgrazia l'ha portata sempre addosso, o gli e cascata dopo che s'è sposato?
(36) Sinceramente compare, vi dirci una menzogna: non lo so.
(37) A me mi avevano detto che a Roma questo ragazzo s'era fatto tante scorpacciate di donne che non si riusciva nemmeno a contarle, e che quando si trovava a Catania ogni momento aveva bisogno di una donna per lisciarsi il pizzo...
(38) (e com'era ostinato)! : « Che facciamo, Ninuzzu, ci andiamo li a soffiarci il naso?
(39) Si, andiamo a soffiarci questo naso.
(40) A me che me ne viene, se lui non ce la fa?
(41) Il grande sforzo che avreste fatto, compare! Quella ragazza fa cascare cantonate [con la sua bellezza]