martedì 11 febbraio 2020


CUORE DI TENEBRA
Joseph Conrad
Mondadori

Introduzione (P.B.)
"L'incantesimo della gioventù avvolgeva gli stracci multicolori, la sua povertà, la solitudine, la desolazione essenziale dei suoi futili vagabondaggi. Per mesi – per anni – la sua vita non era valsa un soldo; ed eccolo là coraggiosamente, spensieratamente vivo, in tutta apparenza indistruttibile solo in virtù dei suoi pochi anni e dell'audacia irriflessiva. Mi sentii sedotto da qualcosa che pareva ammirazione – che pareva invidia. L'incantesimo lo spingeva avanti, l'incantesimo lo serbava incolume." 
Cuore di tenebra è la scoperta di come il Male diffuso sulla terra abbia origine proprio dove crediamo sia la fonte di ogni luce.
Un'appassionante lettura per la  straordinaria asciuttezza e precisione del fluire del racconto, e anche per l’architettura circolare di questo breve romanzo.
La descrizione di un mercato asiatico, il lento e minaccioso montare di un tifone, il delirio e la violenza indotte da una calma piatta lungo la rotta equatoriale: ogni cosa descritta è viva, ci appare sotto gli occhi, con la forza di un’esperienza di prima mano. Con Marlow che fa la voce narrante, con quel vertiginoso riavvolgersi iniziale della storia lungo il corso del Tamigi, Conrad farà seguire una susseguirsi di eventi che travolgono il lettore  nel clima allucinato di "Cuore di tenebra", terribile e dirompente  evocazione del Male che può rivelarci qualcosa anche oggi.

I

La Nellie, una iolla da crociera, girò sull’ancora senza il minimo fluttuare delle vele e si fermò. La marea si era alzata, il vento era quasi calmo e, poiché dovevamo discendere il fiume, non ci restava che fermarci all’ancora e attendere il riflusso.
L’ultimo tratto del Tamigi si stendeva davanti a noi come il principio di un interminabile corso d’acqua. Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera. Su Gravesend l’aria era scura e più in là pareva condensata in una oscurità funerea che incombeva immobile sulla città più vasta e grande della terra.
Nostro capitano e ospite era il direttore delle Compagnie. Noi quattro gli guardavamo affettuosamente le spalle mentre lui, a prua, era rivolto verso il mare. Non c’era niente sul fiume che avesse un aspetto altrettanto marinaresco. Somigliava a un pilota, che per l’uomo di mare è l’affidabilità fatta persona. Era difficile immaginare che il suo lavoro non fosse là sull’estuario luminoso, ma dietro di lui, nell’oscurità incombente.
Ci legava, come ho già detto altrove, il vincolo del mare. Oltre a tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, ci rendeva tolleranti delle storie e perfino delle convinzioni degli altri. Al vecchio avvocato – persona eccellente – toccava, per via dei molti anni e delle molte virtù, l’unico cuscino che c’era sul ponte, e se ne stava sdraiato sull’unica stuoia. L’amministratore aveva già tirato fuori il domino e si trastullava a fare costruzioni con le tessere. Marlow sedeva a poppa, con le gambe incrociate, appoggiato all’albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione giallastra, la schiena eretta, l’aspetto ascetico e con le braccia abbandonate e le palme rivolte all’infuori sembrava un idolo. Il direttore, soddisfatto che l’ancora avesse fatto buona presa, venne a poppa a sedersi in mezzo a noi. Scambiammo pigramente qualche parola. Poi cadde il silenzio a bordo dello yacht. Per un motivo o per l’altro non cominciammo la partita a domino. Eravamo d’umore meditabondo, in vena soltanto di una tranquilla contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di quieto e squisito splendore. L’acqua riluceva pacifica; il cielo immacolato era una benigna immensità di luce pura; la stessa foschia sulle paludi dell’Essex sembrava un tessuto traslucido e radioso che appeso alle alture boscose dell’entroterra ricadeva in pieghe diafane sulle sponde basse. Soltanto l’oscurità, che a occidente incombeva sui tratti più alti del fiume, si faceva ogni istante più cupa, quasi irritata dall’approssimarsi del sole.
E alla fine, nella sua discesa curva e impercettibile, il sole calò e da bianco incandescente si fece di un rosso smorto senza raggi né calore, come stesse per spegnersi all’improvviso, colpito a morte dal tocco di quell’oscurità incombente su una folla d’uomini.
Immediatamente avvenne un cambiamento sulle acque e la serenità diventò meno brillante ma più profonda. Il vecchio fiume nel suo tratto più ampio riposava indisturbato al calare del giorno, dopo secoli di fedele servizio reso alla razza che ne popolava le sponde, disteso nella tranquilla dignità di un corso d’acqua diretto ai confini estremi della terra. Guardavamo quel flusso venerabile non nel bagliore vivido di un breve giorno che viene e se ne va per sempre, ma alla luce augusta di memorie eterne. E davvero non c’è nulla di più facile per chi, come si suol dire, “abbia seguito il mare” con riverenza e affetto, che evocare il grande spirito del passato sull’ultimo tratto del Tamigi. La corrente fluisce avanti e indietro con la marea nell’incessante servizio, popolata di ricordi di uomini e navi che ha portato al riposo della casa o alle battaglie del mare. Aveva conosciuto e servito tutti gli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John Franklin, cavalieri tutti, titolati o meno – i grandi cavalieri erranti del mare. Aveva portato tutte le navi i cui nomi sono come gioielli sfavillanti nella notte dei tempi, dalla Golden Hind che tornava con i fianchi tondi gonfi di tesori per essere visitata da Sua Maestà la Regina e uscire così dalla gigantesca leggenda, alla Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste – e mai ritornate. Aveva conosciuto le navi e gli uomini. Erano partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith – avventurieri e coloni; navi di re e di banchieri; capitani, ammiragli, gli oscuri “contrabbandieri” dei traffici orientali e i “generali” delle flotte delle Indie Orientali di nomina ufficiale. Cacciatori d’oro o inseguitori di gloria, erano tutti partiti da quel fiume, portando la spada e spesso la fiaccola, messaggeri della potenza racchiusa in quella terra, portatori di una scintilla del sacro fuoco. Quale grandezza non era salpata col riflusso di quel fiume verso il mistero di una terra sconosciuta!... Sogni di uomini, semi di confederazioni, germi d’imperi.
Il sole tramontò; il crepuscolo scese sul fiume, e sulla riva cominciò ad apparire qualche luce. Il faro di Chapman, una specie di treppiede eretto su un pantano, brillava gagliardo. Le luci delle navi si muovevano nel canale d’accesso – un viavai di luci sul fiume. E più a occidente, sui tratti superiori, il posto della città mostruosa era ancora segnato minacciosamente nel cielo, una oscurità incombente nella luce del sole, un bagliore livido sotto le stelle.
«E anche questo» disse Marlow improvvisamente, «è stato un angolo tenebroso della terra.»
Era l’unico di noi che ancora “seguisse il mare”. Il peggio che si potesse dire di lui era che non rappresentava affatto la sua categoria. Era un uomo di mare, ma anche un vagabondo, mentre per la maggior parte gli uomini di mare conducono una vita, per così dire, sedentaria. Hanno una mentalità domestica e non abbandonano mai la loro casa: la nave, né la loro patria: il mare. Le navi si assomigliano tutte e il mare è sempre lo stesso. Nell’immutabilità del loro ambiente le spiagge straniere, i volti stranieri, la mutevole immensità della vita, scivolano via, velati non da un senso di mistero ma da un’ignoranza un poco sdegnosa; poiché nulla è misterioso per l’uomo di mare se non il mare stesso, che è per lui l’amante di tutta una vita, imperscrutabile come il Destino. Per il resto, dopo il lavoro basta una passeggiata occasionale o un’occasionale baldoria a terra a svelargli il segreto di un intero continente, e quasi sempre gli pare che non valesse poi la pena di scoprirlo, quel segreto. I racconti degli uomini di mare hanno una semplicità immediata il cui significato sta in un guscio di noce. Marlow, però, non era il tipico uomo di mare (a parte la sua propensione a tessere racconti) e per lui il significato di un episodio non stava nell’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo svelava soltanto come la luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta lo spettrale chiaro di luna rende visibili.
La sua osservazione non parve affatto sorprendente. Era proprio da Marlow. Venne accolta in silenzio. Nessuno si prese la briga di borbottare qualcosa; e subito egli aggiunse, molto lentamente:
«Pensavo ai tempi antichi, quando arrivarono qui i Romani, mille e novecento anni fa – l’altro giorno... La luce irradia da questo fiume sin dai tempi dei – i Cavalieri dite? Sì, ma è come un incendio che corre sulla pianura, come un lampo tra le nubi. Noi viviamo nel suo guizzo – speriamo che duri fintanto che la vecchia terra continua a girare! Ma qui ieri c’erano le tenebre. Pensate come doveva sentirsi il comandante di una bella – come si chiamano? – trireme del Mediterraneo, che venisse improvvisamente inviato al nord; trasportato in fretta e furia via terra in mezzo ai Galli, per comandare una di quelle barche che i legionari – e che manica di gente abilissima doveva essere pure quella – costruivano, pare, a centinaia in un mese o due, se dobbiamo credere a quello che si legge. Immaginatelo qui – proprio in capo al mondo, il mare color del piombo, il cielo color del fumo, una sorta di barca rigida quasi quanto una fisarmonica che risale il fiume portando provviste, o degli ordini, o quello che volete. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi – ben poco di commestibile per un uomo civile e soltanto acqua del Tamigi da bere. Niente vino di Falerno da queste parti, né passeggiate a terra. Qui e là un accampamento militare perduto in questa regione selvaggia come un ago in un pagliaio – freddo, nebbia, tempeste, malattie, esilio e morte – la morte appostata nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche da queste parti. Oh sì – lui ce la fece. Ce la fece benissimo, non c’è dubbio, e senza pensarci molto, a parte forse vantarsi in seguito di quello che aveva passato ai suoi tempi. Erano abbastanza virili da affrontare le tenebre. E forse lo sosteneva l’idea di una possibile vicina promozione alla flotta di Ravenna, se aveva buoni amici a Roma e sopravviveva al clima terribile. Oppure pensate a un giovane e decoroso cittadino in toga – magari con la passione dei dadi – che viene qui al seguito di qualche prefetto, o di qualche esattore delle imposte, o anche di un mercante, per rimettere in sesto le sue sostanze. Sbarca in una palude, marcia attraverso i boschi, e in qualche insediamento dell’interno sente che la natura selvaggia, la natura più selvaggia, gli si è chiusa intorno – tutta la vita misteriosa e selvatica che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore di uomini primitivi. Non c’è iniziazione a questi misteri. Deve vivere in mezzo all’incomprensibile, che è pure detestabile. E ha anche un fascino che a poco a poco agisce su di lui. Il fascino dell’abominio – sapete. Immaginate i rimpianti crescenti, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la capitolazione, l’odio.»
S’arrestò un attimo.
«Badate» riprese, alzando l’avambraccio con la palma rivolta all’infuori, cosicché con le gambe incrociate pareva un Budda che predicasse in abiti europei e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi si sentirebbe esattamente così. Ci salva l’efficienza – la devozione all’efficienza. Ma quella gente non ne aveva granché davvero. Non erano colonizzatori: sospetto che la loro amministrazione si limitasse a spremere e nient’altro. Erano dei conquistatori, e per quello basta la forza bruta – niente di cui vantarsi, ad averla, dato che la forza dell’uno è solo un accidente che nasce dalla debolezza degli altri. Arraffavano tutto quello che potevano solo per amore del possesso. Pura e semplice rapina a mano armata, omicidio aggravato su vasta scala, e uomini che ci si buttavano alla cieca – come si conviene a chi affronta le tenebre. La conquista della terra, che più che altro significa toglierla a chi ha un diverso colore di pelle o il naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una bella cosa a guardarla bene. C’è solo l’idea che la può riscattare. L’idea che le sta dietro: non una finzione sentimentale, ma un’idea; e una fede disinteressata nell’idea – qualcosa che si possa innalzare, davanti a cui ci si possa inchinare e offrire sacrifici...»
S’interruppe. Sul fiume scivolavano delle fiamme, fiammelle verdi, rosse, bianche s’inseguivano, si superavano, si congiungevano, s’incrociavano – per poi separarsi lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva nella notte che s’incupiva sul fiume insonne. Guardavamo aspettando pazientemente – non c’era nulla da fare finché non cambiava la corrente; ma fu solo dopo un lungo silenzio, quando disse con voce esitante: «Immagino ricordiate che una volta mi sono messo a fare il marinaio d’acqua dolce per un po’», che sapemmo di essere destinati, in attesa del riflusso, ad ascoltare il racconto di una delle esperienze inconcludenti di Marlow.
«Non voglio annoiarvi troppo con quello che mi accadde personalmente» esordì, mostrando con quell’affermazione la debolezza di tanti narratori che sembrano molto spesso ignari di ciò che il loro pubblico preferirebbe ascoltare; «eppure per comprendere l’effetto che ebbe su di me, dovete sapere come finii laggiù, che cosa vidi e come risalii quel fiume fino al punto in cui incontrai per la prima volta quel poveraccio. Fu il punto estremo della navigazione e il punto culminante della mia esperienza. Sembrò gettare, in qualche modo, una specie di luce su tutto quello che mi circondava – e nei miei pensieri. Fu una cosa piuttosto cupa – e pietosa – niente affatto straordinaria – neanche molto chiara. No, non molto chiara. Eppure sembrò gettare una specie di luce.
«Come ricorderete, ero appena ritornato a Londra dopo un bel po’ di Oceano Indiano, Pacifico, Mari della Cina – la solita dose di Oriente – sei anni più o meno, e me ne andavo in giro senza niente da fare, disturbandovi al lavoro e invadendovi le case, come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Fu molto bello per qualche tempo, ma dopo un po’ il riposo cominciò a stancarmi. Allora mi misi a cercare una nave – per mia esperienza il lavoro più duro che ci sia sulla terra. Ma le navi non mi degnavano neppure di uno sguardo. E io mi stancai anche di quel gioco.
«Ora, quando ero bambino avevo una passione per le carte geografiche. Stavo ore a guardare il Sud America, l’Africa o l’Australia, e mi perdevo nelle glorie dell’esplorazione. Allora c’erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne trovavo uno che sembrava particolarmente invitante sulla carta (ma lo sembravano tutti) ci mettevo il dito sopra e dicevo: “Quando sarò grande andrò là”. Ricordo che il Polo Nord era uno di quei posti. Be’, non ci sono ancora andato e non ci proverò adesso. L’incanto è svanito. C’erano altri posti sparsi intorno all’equatore e a ogni sorta di latitudine in entrambi gli emisferi. In alcuni ci sono stato e... be’, lasciamo perdere. Ma ce n’era ancora uno – il più grande, il più vuoto per così dire – che volevo vedere a tutti i costi.
«È vero, a quel punto non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia si era riempito di laghi e fiumi e nomi. Aveva cessato di essere uno spazio vuoto incantevole e misterioso – una macchia bianca che un bambino può riempire di sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma conteneva un fiume, soprattutto, un fiume grandissimo che appariva sulla carta come un immenso serpente con la testa nel mare, mentre il corpo in riposo formava un’ampia curva su una vasta regione e la coda si perdeva nella profondità della terra. E mentre guardavo la carta geografica di quella zona esposta in una vetrina, mi affascinò come il serpente ammalia l’uccello – un uccellino sciocco. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una Compagnia commerciale su quel fiume. Accidenti! pensai fra me, per i loro traffici avranno senz’altro bisogno di qualche barca su tutta quell’acqua dolce – i battelli a vapore! Perché non potevo cercare di farmene assegnare uno? Continuai a camminare per Fleet Street senza riuscire a togliermi di mente quell’idea. Il serpente mi aveva incantato.
«Dovete sapere che quella Società era un’impresa continentale; ma io ho tanti parenti che vivono sul continente, perché costa poco e non si sta poi tanto male, dicono.
«Mi dispiace dover confessare che cominciai a importunarli. Cosa per me assolutamente nuova. Non ero abituato a ottenere le cose in quel modo, capite. Andavo sempre dove mi pareva, dritto per la mia strada, con le mie sole gambe. Non avrei neppure creduto di esserne capace, ma, ecco – vedete – sentivo non so come che dovevo arrivare laggiù per amore o per forza. Così presi a importunarli. Gli uomini dicevano “Carissimo” e non facevano nulla. E allora – ci credereste? – provai con le donne. Io, Charlie Marlow, misi le donne al lavoro – per trovare un posto. Santo Cielo! Be’, vedete, era quell’idea fissa a guidarmi. Avevo una zia, una cara creatura piena d’entusiasmo. Mi scrisse: “Sarà un vero piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa per te. È un’idea stupenda. Conosco la moglie di un pezzo grosso dell’Amministrazione, e anche una persona che ha molta influenza su” eccetera eccetera. Era decisa a smuovere mari e monti pur di farmi affidare il comando di un battello a vapore, se era quello il mio capriccio.
«Ottenni la nomina – naturalmente; e molto in fretta anche. Pare che la Compagnia avesse saputo che uno dei loro capitani era stato ucciso in una zuffa con gli indigeni. Era l’occasione buona per me e mi rese ancora più ansioso di partire. Solo molti mesi dopo, quando tentai di recuperare ciò che restava del corpo, venni a sapere che la lite era sorta per un malinteso a proposito di certe galline. Sì, due galline nere. Fresleven – così si chiamava quel tale, un danese – convinto che l’avessero imbrogliato nell’affare, era sceso a terra e si era messo a bastonare il capo del villaggio. Oh, tutto questo non mi sorprese affatto, anche se al tempo stesso mi si garantiva che Fresleven era la persona più cortese e tranquilla che avesse mai messo piede sulla terra. Lo era senza dubbio; ma da più di due anni si trovava laggiù, impegnato nella nobile causa, sapete, e probabilmente aveva infine sentito il bisogno di rivendicare in qualche modo la sua dignità. Perciò bastonò spietatamente il povero negro, davanti alla sua gente che lo stava a guardare impietrita, finché un uomo – il figlio del capo, mi dissero – angosciato dalle grida del vecchio, tentò una stoccata al bianco con la lancia – che ovviamente penetrò con facilità tra le scapole. Al che tutta la popolazione fuggì nella foresta in attesa di chissà quali calamità, mentre, per parte sua, pure il battello di Fresleven si allontanava in preda al panico, agli ordini del macchinista, credo. In seguito nessuno sembrò darsi gran pena per i resti mortali di Fresleven, finché non saltai fuori io a prenderne il posto. Io, però, non riuscivo a non pensarci; ma quando finalmente ebbi l’opportunità di incontrare il mio predecessore, l’erba che gli cresceva tra le costole era alta abbastanza da nasconderne le ossa. C’erano tutte. L’essere soprannaturale non era stato toccato dopo la caduta. E il villaggio era deserto, le capanne si spalancavano nere, marcescenti e tutte sghembe tra gli steccati in rovina. Senz’altro una calamità si era abbattuta su quel luogo. La gente era svanita. Un terrore folle li aveva dispersi nella boscaglia, uomini, donne e bambini, e non erano più tornati. Non so neppure che fine abbiano fatto le galline. Credo, però, che se le sia prese la causa del progresso. Comunque, grazie a questo fatto glorioso ottenni la nomina, prima ancora di cominciare a sperarvi.
«Corsi di qua e di là come un forsennato per i preparativi, e in meno di quarantott’ore già attraversavo la Manica per presentarmi ai miei principali e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in una città che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Senza dubbio un pregiudizio. Non ebbi difficoltà a trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più grande della città ed era sulla bocca di tutti quelli che incontrai. Stavano costruendo un impero oltremare e avrebbero guadagnato quattrini a non finire con il commercio.
«Una strada stretta e deserta nell’ombra profonda, case alte, innumerevoli finestre con le veneziane, un silenzio di tomba, erba che spuntava tra le pietre, volte imponenti a destra e a manca, portoni immensi e massicci appena socchiusi. Scivolai attraverso una di queste fessure, salii una scala spazzata e spoglia, arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e l’altra magra, sedevano su due sedie impagliate sferruzzando della lana nera. La magra si alzò e mi venne dritta incontro – continuando a sferruzzare con gli occhi bassi – e solo nel momento in cui cominciai a pensare di scansarmi come si farebbe con un sonnambulo, si fermò e alzò gli occhi. L’abito che indossava era liscio quanto il fodero di un ombrello, lei si voltò senza una parola e mi precedette in una sala d’attesa. Diedi il mio nome e mi guardai intorno. Un tavolo d’abete nel centro, comunissime sedie tutt’intorno alle pareti e a un’estremità una grande carta geografica sgargiante segnata con tutti i colori dell’arcobaleno. C’era moltissimo rosso – che fa sempre piacere vedere, perché vuol dire che in quel punto si lavora davvero, un sacco di blu, un po’ di verde, qualche chiazza arancione e sulla costa orientale una macchia viola a indicare il posto in cui gli allegri pionieri del progresso si ubriacano allegramente di birra. Io però non sarei andato in nessuno di quei posti. Andavo nel giallo. Dritto nel centro. Lì c’era il fiume – affascinante – letale – come un serpente. Brr! Si aprì una porta, spuntò una testa bianca segretariale, ma con un’espressione compassionevole, e un indice scarno m’invitò a entrare nel santuario. Dentro, la luce era fioca e nel centro era acquattata una pesante scrivania. Da dietro quella struttura emergeva un’impressione di pallida pinguedine in finanziera. Il grand’uomo in persona. Era alto un metro e sessanta, direi, e teneva in pugno chissà quanti milioni. Mi strinse la mano, immagino, bisbigliò qualcosa, sembrò soddisfatto del mio francese. Bon voyage.
«Nel giro di quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala d’attesa con il segretario compassionevole che, pieno di desolazione e solidarietà, mi fece firmare dei documenti. Credo di essermi impegnato tra le altre cose a non rivelare nessun segreto commerciale. Be’, non ho intenzione di farlo.
«Cominciavo a sentirmi un po’ a disagio. Sapete che non sono abituato a quelle cerimonie e c’era qualcosa di sinistro nell’atmosfera. Era come se mi avessero ammesso a far parte di qualche cospirazione – non so – di qualcosa non del tutto a posto, e fui contento di andarmene. Nella prima stanza le due donne sferruzzavano febbrilmente la lana nera. Stavano arrivando delle persone e la giovane faceva la spola avanti e indietro per farle accomodare. La vecchia sedeva sulla sua seggiola, le pantofole basse di stoffa erano appoggiate su uno scaldino e un gatto le riposava in grembo. Aveva in testa una cosa bianca e inamidata, una verruca sulla guancia e degli occhiali d’argento sulla punta del naso. Mi lanciò un’occhiata da sopra le lenti. La placidità rapida e indifferente di quello sguardo mi turbò. Due giovani dall’espressione sciocca ed euforica venivano pilotati dall’altra parte e a loro lanciò lo stesso sguardo lesto di noncurante saggezza. Sembrava sapere tutto di loro e anche di me. Venni assalito da una sensazione arcana. La donna pareva misteriosa e fatale. Spesso laggiù pensai a quelle due, di guardia alla porta delle Tenebre, che sferruzzavano lana nera come per un caldo drappo funebre, l’una che introduceva, introduceva continuamente all’ignoto, l’altra che scrutava i volti euforici e sciocchi con vecchi occhi colmi di noncuranza. Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera! Morituri te salutant. Tra quelli che guardò, non furono in molti a rivederla – assai meno della metà.
«C’era ancora la visita dal medico. “Una semplice formalità”, mi assicurò il segretario con l’aria di prendere immensa parte a tutte le mie pene. Quindi un giovanotto col cappello calato sull’occhio sinistro, un impiegato suppongo – dovevano pur esserci degli impiegati in quell’impresa benché l’edificio fosse silenzioso quanto una dimora della città dei morti – arrivò da qualche parte del piano di sopra a farmi strada. Era malconcio e trasandato, con delle macchie d’inchiostro sulle maniche della giacca e una cravatta larga che ondeggiava sotto il mento fatto a punta di vecchio stivale. Era un po’ troppo presto per il medico, così gli proposi di bere qualcosa, al che rivelò una vena di cordialità. Mentre sedevamo davanti ai nostri vermut, si mise a glorificare gli affari della Compagnia e di lì a poco accidentalmente gli dimostrai la mia sorpresa che non fosse ancora andato laggiù. Diventò all’improvviso freddo e formale. “Non sono poi così stupido quanto sembro, disse Platone ai suoi discepoli” sentenziò, vuotò risolutamente il bicchiere e ci alzammo.
«Il vecchio medico mi tastò il polso, evidentemente immerso in altri pensieri. “Buono, buono per quei posti” borbottò, e poi con una certa sollecitudine mi chiese se gli permettevo di misurarmi la testa. Piuttosto sorpreso risposi di sì e allora tirò fuori una specie di calibro e misurò davanti, dietro e da ogni parte, prendendo accuratamente nota. Era un ometto mal rasato con una giacca frusta, una sorta di gabardine, le pantofole ai piedi e io pensai che fosse un pazzo innocuo. “Chiedo sempre il permesso, nell’interesse della scienza, di misurare il cranio di quelli che vanno laggiù” disse. “E anche quando tornano?” chiesi. “Oh, non li vedo mai” osservò, “e poi i cambiamenti avvengono dentro, sa.” Sorrise come si trattasse di un’arguzia discreta. “Così, lei va laggiù. Ottimo. Interessante, anche.” Mi lanciò uno sguardo penetrante e prese un altro appunto. “Nessun caso di pazzia in famiglia?” chiese con tono pratico. Mi sentii estremamente irritato. “Anche questa domanda è nell’interesse della scienza?” “Sarebbe interessante” aggiunse senza rilevare la mia irritazione “per la scienza poter osservare sul posto i mutamenti mentali degli individui, ma...” “Lei è uno psichiatra?” lo interruppi. “Ogni medico dovrebbe esserlo – un po’” rispose imperturbabile quell’originale. “Ho una piccola teoria che voi Messieurs che andate laggiù dovete aiutarmi a provare. Questa è la mia parte dei vantaggi che il mio paese trarrà dal possesso di quella magnifica colonia. Lascio agli altri la mera ricchezza. Perdoni le mie domande, ma lei è il primo inglese che mi sia capitato di osservare...” Mi affrettai ad assicurargli che non ero affatto tipico. “Se lo fossi” aggiunsi, “non sarei qui a parlarle così.” “Quello che dice è piuttosto profondo e probabilmente errato” disse con una risata. “Eviti di irritarsi ancor più che di esporsi al sole. Addio. Come dite voi inglesi, eh? Good-bye. Ah! Good-bye. Adieu. Nei tropici bisogna innanzitutto mantenere la calma.”... Alzò un indice ammonitore... “Du calme, du calme. Adieu.
«Restava ancora una cosa da fare – andare a salutare la mia ottima zia. La trovai esultante. Presi una tazza di tè – l’ultima tazza di tè decente per lungo tempo – e in una stanza molto rassicurante, poiché in tutto e per tutto uguale a ciò che ci si aspetta dal salotto di una signora, chiacchierammo tranquillamente a lungo accanto al fuoco. Nel corso di quella conversazione intima mi parve chiaro che ero stato descritto alla moglie dell’alto dignitario, e a chissà quante altre persone, come una creatura eccezionalmente dotata – una vera fortuna per la Compagnia – un uomo come non se ne trovano certo tutti i giorni. Santo Cielo! e pensare che stavo per prendere il comando di un vapore da due soldi con tanto di fischietto da mezzo soldo attaccato! Tuttavia sembrava che io fossi anche uno dei Lavoratori con la lettera maiuscola – capite. Una specie di emissario di luce, una specie di apostolo minore. Proprio in quel tempo un tal genere di sciocchezze circolava ampiamente sulla stampa e nei discorsi, e l’ottima donna si era lasciata trasportare dalla frenesia di quelle fandonie in mezzo a cui viveva. Parlava di “svezzare quei milioni di ignoranti dalle loro orribili abitudini” finché vi assicuro che mi fece sentire a disagio. Mi arrischiai ad accennare al fatto che la Compagnia era gestita a fini di lucro.
«”Dimentichi, caro Charlie, che il bracciante merita la sua paga” disse allegramente. È strano quanto alle donne manchi il contatto con la realtà. Vivono in un mondo tutto loro, e non c’è mai stato nulla che gli somigli, né mai ci potrà essere. È troppo bello e se mai riuscissero a realizzarlo, andrebbe in frantumi prima del tramonto. Qualche dannato fatto con cui noi uomini abbiamo felicemente convissuto fin dal giorno della creazione salterebbe fuori a mandare tutto all’aria.
«Dopo di che ricevetti un abbraccio, la raccomandazione di portare sempre la maglia di lana, di scrivere sovente e così via – e me ne andai. Per strada – non so perché – mi prese la curiosa sensazione di essere un impostore. Davvero strano che io, abituato a partire per qualsiasi angolo della terra con ventiquattro ore di preavviso e con meno cura di quanto un altro ci metta per attraversare la strada, abbia avuto un momento – non direi di esitazione, ma di allarme, davanti a quella faccenda così usuale. Non riesco a spiegarmi meglio se non dicendovi che per un secondo o due ebbi l’impressione di partire non per il centro di un continente, ma per il centro della terra.
«Partii con un piroscafo francese che toccò uno dopo l’altro tutti i dannati porti che hanno laggiù col solo scopo, per quanto potei capire, di sbarcare soldati e doganieri. Io guardavo la costa. Osservare la costa che scivola via lungo la nave è come pensare a un enigma. Eccola lì davanti a voi – sorridente, accigliata, invitante, grandiosa, meschina, insignificante o selvaggia e sempre muta, con l’aria di bisbigliare: vieni a scoprire. Quella era quasi priva di fattezze, come se fosse ancora in formazione, con un aspetto monotono e sinistro. L’orlo di una giungla colossale d’un verde così scuro da sembrare nero, bordato dalla risacca bianca, correva diritto come una linea tracciata col righello, lontano, lontano, lungo un mare azzurro il cui scintillio era velato da una foschia strisciante. Il sole era feroce, la terra pareva luccicare e stillare vapore. Qua e là appariva un grappolo di chiazze grigio-biancastre nella risacca bianca, che forse issavano una bandiera al vento – insediamenti vecchi di secoli, eppure non più grossi della capocchia di uno spillo sulla distesa intatta di quello sfondo. Procedevamo di gran carriera, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo i doganieri per raccogliere imposte in quella che pareva una zona selvaggia e desolata, dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un’asta di bandiera sperdute là in mezzo; sbarcavamo degli altri soldati – probabilmente per proteggere i doganieri. Si diceva che ne annegassero alcuni nella risacca; ma che fosse vero o no, sembrava non importare a nessuno. Li si scaraventava solamente là e si proseguiva. Ogni giorno la costa pareva identica, come se non ci fossimo mossi; ma superavamo diverse località – centri commerciali – con nomi come Gran’ Bassam e Little Popo; nomi che sembravano appartenere a qualche sordida farsa rappresentata davanti a un fondale sinistro. L’ozio del passeggero, il mio isolamento fra tutti quegli uomini con cui non avevo alcun punto di contatto, il mare languido e oleoso, la cupa uniformità della costa, tutto sembrava tenermi lontano dalla verità delle cose, nel travaglio di una lugubre e assurda allucinazione. La voce della risacca che si udiva di tanto in tanto era un vero piacere, una nota fraterna. Era una cosa naturale, aveva una propria ragione d’essere e un significato. Di tanto in tanto, una barca dalla riva stabiliva un contatto momentaneo con la realtà. Alle pagaie stavano dei negri. Di lontano si vedeva brillare il bianco dei loro occhi. Gridavano, cantavano; i corpi grondanti di sudore; quella gente aveva facce come maschere grottesche; ma aveva ossa, muscoli, una vitalità selvaggia, un’intensa energia nel movimento, naturale e autentica quanto la risacca lungo la loro costa. Non avevano bisogno di giustificare la loro presenza. Era un gran conforto stare a guardarli. Per un po’ sentivo di appartenere ancora a un mondo di fatti schietti, ma la sensazione non durava a lungo. Sopraggiungeva sempre qualcosa ad allontanarla. Una volta, ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non c’era neppure una baracca in quel punto e la nave bombardava la boscaglia. A quanto pare i francesi erano impegnati in una delle loro guerre da quelle parti. La bandiera penzolava fiacca come uno straccio: da ogni punto dello scafo basso spuntavano le bocche dei lunghi cannoni da sei pollici; i flutti untuosi e viscidi sollevavano pigramente la nave e la lasciavano ricadere, facendo ondeggiare i suoi alberi sottili. In quella vuota immensità di terra, cielo e mare, eccola, incomprensibile, a far fuoco contro un continente. Pum, faceva un cannone da sei pollici, una fiammella guizzava e svaniva, un po’ di fumo bianco che subito spariva, un minuscolo proiettile lanciava un debole stridore – e non succedeva nulla. Nulla poteva succedere. C’era un tocco di follia in quella condotta, un senso di lugubre stramberia in quella vista; e non servì a dissiparlo che qualcuno a bordo mi assicurasse con convinzione che, nascosto laggiù da qualche parte, c’era un accampamento di indigeni – nemici li chiamò!
«Le consegnammo la posta (sentii dire che su quella nave solitaria gli uomini morivano di febbre al ritmo di tre al giorno) e proseguimmo. Facemmo scalo in altri posti dal nome farsesco, dove l’allegra danza della morte e del commercio procede nell’atmosfera immobile e terrosa di una catacomba surriscaldata; lungo tutta la costa uniforme bordata dalla pericolosa risacca, come se la Natura stessa avesse cercato di respingere gli intrusi; fuori e dentro i fiumi, correnti di morte in vita, le cui rive si decomponevano in mota, le cui acque, ispessite in limo, invadevano le mangrovie contorte, che parevano agitarsi verso di noi allo stremo di una disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolareggiata, ma cresceva in me un indefinibile senso di sbigottimento vago e oppressivo. Era come un faticoso pellegrinaggio tra suggestioni d’incubo.
«Trascorsero più di trenta giorni prima che potessi scorgere la foce del grande fiume. Ci ancorammo al largo della sede dell’Amministrazione. Ma il mio lavoro sarebbe iniziato soltanto duecento miglia più all’interno. Così, appena mi fu possibile, partii per una località trenta miglia più in su.
«Ebbi un passaggio da un piccolo piroscafo. Il capitano era uno svedese e, avendo saputo che ero un uomo di mare, mi invitò sul ponte. Era giovane, snello, biondo e scontroso, con i capelli lisci e l’andatura strascicata. Mentre ci allontanavamo dal misero attracco, accennò sdegnosamente col capo alla riva. “Si è fermato lì?” chiese. “Sì” risposi. “Bei tipi quelli dell’Amministrazione – vero?” continuò parlando inglese con grande precisione e considerevole amarezza. “È strano quello che certa gente è disposta a fare per pochi franchi al mese. Mi chiedo che cosa diventino quei tipi quando se ne vanno all’interno.” Gli dissi che mi aspettavo di scoprirlo presto. “Davvero!” esclamò. Si spostò di traverso strascicando i piedi e continuando a fissare vigile davanti a sé. “Non ne sia tanto sicuro” aggiunse. “L’altro giorno ne ho raccolto uno che si era impiccato per strada. Era svedese pure lui.” “Si è impiccato! E perché, in nome di Dio?” gridai. Continuò a osservare la rotta con occhio attento. “Chissà. Troppo sole, o forse il paese.”
«Finalmente si aprì alla vista un tratto dritto del fiume. Apparve una rupe, mucchi di terra rimossa presso la spiaggia, delle case su una collina, altre con i tetti di lamiera tra una distesa di scavi, o aggrappate al declivio. Il fragore incessante delle rapide più a monte incombeva su quella scena di devastazione abitata. Moltissima gente, per lo più nera e nuda, si affaccendava come tante formiche. Un pontile si allungava nel fiume. A tratti un sole accecante sommergeva tutto ciò con una improvvisa recrudescenza di luce abbacinante. “Ecco la stazione della sua Compagnia” disse lo svedese indicando tre costruzioni di legno che parevano caserme sulla china rocciosa. “Le manderò su la roba. Quattro casse ha detto? Bene. Addio.”
«Mi imbattei in una caldaia rotolata sull’erba, quindi trovai un sentiero che conduceva su per la collina. Non procedeva diritto a causa di certi massi e di un piccolo carrello ferroviario che giaceva rovesciato a ruote all’aria. Gliene mancava una. Pareva la carcassa di qualche animale. Mi imbattei in altri pezzi di macchinari in rovina, in una catasta di rotaie arrugginite. A sinistra un folto d’alberi formava una chiazza d’ombra, in cui parevano muoversi debolmente delle cose scure. Strizzai gli occhi, il sentiero era ripido. A destra risuonò un corno e vidi i negri allontanarsi di corsa. Una detonazione greve e sorda scosse il terreno, uno sbuffo di fumo si alzò dalla rupe e fu tutto. Sulla superficie della roccia non apparve alcun cambiamento. Stavano costruendo una ferrovia. Non è che la rupe li intralciasse; eppure quelle inutili esplosioni erano l’unico lavoro in corso.
«Un lieve tintinnio alle mie spalle mi fece volgere il capo. Sei negri avanzavano in fila, arrancando lungo il sentiero. Camminavano lenti col busto eretto, bilanciando sulla testa dei cestelli pieni di terra e il tintinnio seguiva il ritmo dei loro passi. Intorno ai lombi portavano degli stracci neri, le cui corte estremità si agitavano dietro come code. Potevo contar loro le costole, e le giunture delle membra parevano nodi su di una corda; intorno al collo avevano tutti un anello di ferro, i collari erano uniti l’uno all’altro da una catena che oscillava in mezzo a loro tintinnando ritmicamente. Un’altra detonazione dalla rupe mi fece pensare d’un tratto a quella nave da guerra che avevo visto far fuoco contro un continente. Era la stessa specie di voce sinistra, ma neppure un grande sforzo d’immaginazione avrebbe permesso di definire quegli uomini nemici. Li chiamavano criminali e la legge oltraggiata, mistero insolubile venuto dal mare, era piombata su di loro come colpi di cannone. I toraci scarni ansimavano all’unisono, le narici violentemente dilatate fremevano, gli occhi impietriti fissavano la salita. Mi superarono a un palmo di distanza senza uno sguardo, con la completa e mortale indifferenza dei selvaggi infelici. Dietro quella materia grezza camminava avvilito un indigeno redento, il prodotto delle nuove forze al lavoro, bilanciando un fucile. Portava una giacca d’uniforme a cui mancava un bottone; e vedendo un bianco sul sentiero issò svelto l’arma sulla spalla. Semplice prudenza, poiché i bianchi si assomigliano tutti a una certa distanza e non poteva sapere chi fossi. Si rassicurò presto, e con un largo sorriso, bianco e mascalzone, e un’occhiata a quelli che aveva in custodia sembrò volermi includere nella sua esaltata responsabilità. Dopotutto partecipavo anch’io alla grande causa di questi mutamenti elevati e giusti.
«Invece di proseguire, mi voltai e scesi a sinistra. Avevo in mente di lasciar sparire quel gruppo in catene prima di risalire la collina. Sapete che non sono particolarmente tenero; ho dovuto colpire e difendermi. Ho dovuto resistere e a volte attaccare – che è solo un modo di difendersi – senza calcolarne esattamente il prezzo, secondo le esigenze del genere di vita in cui mi ero cacciato. Ho visto il demone della violenza, e il demone della cupidigia, e il demone della concupiscenza; ma per tutte le stelle! quelli erano demoni vigorosi, robusti, demoni dagli occhi di fiamma che dominavano e trascinavano gli uomini – uomini, vi dico. Ma sul fianco di quella collina previdi che nella luce accecante di quella terra avrei conosciuto il demone flaccido, bugiardo, dall’occhio spento, di una follia rapace e spietata. Quanto potesse essere insidioso l’avrei scoperto solo molti mesi dopo, a mille miglia da lì. Restai per un attimo sbigottito come in presenza di un ammonimento. Infine discesi la collina, piegando verso gli alberi che avevo visto.
«Evitai una vasta fossa artificiale scavata da qualcuno sul pendio per una ragione che non seppi immaginare. Non era una cava di pietra o di sabbia, comunque. Era soltanto una fossa. Forse era legata al desiderio filantropico di tenere in qualche modo i criminali occupati. Non so. Poi quasi caddi in una gola strettissima, poco più di una cicatrice nel fianco della collina. Scoprii che ci avevano gettato un mucchio di tubi di scarico importati per la colonia. Non ce n’era uno che non fosse rotto. Uno scempio gratuito. Finalmente giunsi sotto gli alberi. Avevo intenzione di passeggiare all’ombra per un momento; ma appena m’inoltrai, mi parve di essere penetrato nel cupo girone di qualche Inferno. Le rapide erano vicine e un fragore ininterrotto, uniforme, precipitoso e impetuoso colmava la funerea immobilità del boschetto, dove non soffiava un alito di vento né si muoveva una foglia, di un suono misterioso – come se all’improvviso si fosse potuto udire il moto vorticoso della terra lanciata nello spazio.
«Accucciate, distese, sedute tra gli alberi, c’erano delle forme nere appoggiate ai tronchi, tutt’uno con la terra, mezzo stagliate e mezzo confuse nella penombra, in tutti gli atteggiamenti del dolore, dell’abbandono, della disperazione. Sulla rupe esplose un’altra mina, seguita da un fremito leggero del terreno sotto i miei piedi. Il lavoro proseguiva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni uomini impegnati in quel lavoro s’erano appartati per morire.
«Stavano lentamente morendo – era chiaro. Non erano nemici, non erano criminali, non erano nulla di terrestre, ormai – nient’altro che ombre nere di malattia e di inedia distese alla rinfusa nell’oscurità verdastra. Portati da tutti i recessi della costa con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente sfavorevole, nutriti con cibi sconosciuti, si ammalavano, diventavano inefficienti e allora ottenevano di potersi trascinare in disparte a riposare. Quelle forme moribonde erano libere come l’aria e quasi altrettanto sottili. Incominciai a distinguere il luccicare degli occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, scorsi un viso accanto alla mia mano. Le lunghe ossa nere distese a terra, solo una spalla s’appoggiava all’albero, e lentamente le palpebre si alzarono e gli occhi incavati mi fissarono, enormi e vacui, una sorta di guizzo cieco, bianco nella profondità dell’orbita, che si spense lentamente. L’uomo sembrava giovane – quasi un ragazzo – ma sapete, con quella gente è difficile dirlo. Non trovai niente di meglio che offrirgli uno di quei biscotti che mi ero messo in tasca sulla barca del mio buon svedese. Lentamente le dita si chiusero intorno a esso e lo tennero stretto – non ci fu un altro movimento, né uno sguardo. Aveva legato intorno al collo un pezzo di lana bianca. – Perché? Dove l’aveva preso? Era un segno distintivo – un ornamento – un amuleto – un gesto propiziatorio? Era legato a qualche idea? Aveva un aspetto sorprendente intorno al collo nero, quel pezzo di filato bianco venuto da oltre oceano.
«Accanto allo stesso albero, altri due fagotti di angoli acuti sedevano con le gambe al petto. Uno, col mento appoggiato alle ginocchia, fissava il vuoto in modo insopportabile e spaventoso: il suo fantasma gemello appoggiava la fronte come vinto da una grande stanchezza; e tutt’intorno gli altri erano disseminati in ogni posa di prostrazione contorta come in un quadro di massacro o pestilenza. Mentre restavo impietrito dall’orrore, una di queste creature si alzò sulle ginocchia e si diresse carponi verso il fiume a bere. Lambì l’acqua dalla mano, poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e poco dopo la testa lanuginosa gli ricadde sullo sterno.
«Non avevo più voglia di passeggiare nell’ombra e mi affrettai verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco vestito con tanta inattesa eleganza che sulle prime lo presi per una specie di visione. Vidi un alto colletto inamidato, polsini bianchi, una giacca d’alpaca leggera, pantaloni candidi, una cravatta immacolata e stivaletti di vernice. Niente cappello. Scriminatura accurata, capelli impomatati sotto un parasole a strisce verdi sorretto da una grande mano bianca. Era stupefacente e portava dietro l’orecchio la cannuccia di una penna.
«Strinsi la mano a quel prodigio e appresi che era il ragioniere capo della Compagnia e che tutta la contabilità veniva svolta in quella stazione. Era uscito un attimo, disse, “a prendere una boccata d’aria fresca”. L’espressione suonava meravigliosamente bizzarra, con quel tanto che suggeriva di una vita sedentaria alla scrivania. Non vi avrei parlato affatto di quest’individuo se non fosse che proprio dalle sue labbra udii il nome dell’uomo a cui sono indissolubilmente legati i miei ricordi di quel periodo. Inoltre avevo rispetto per quel tipo. Sì; rispettavo il colletto, i grandi polsini, i capelli ordinati. Sembrava indubbiamente il manichino di un parrucchiere, ma nella demoralizzazione generale di quella terra, continuava a curare il proprio aspetto. Quella sì che è spina dorsale. I colletti inamidati e gli sparati inappuntabili erano conquiste del suo carattere. Era lì da quasi tre anni e in seguito non potei fare a meno di chiedergli come riuscisse a sfoggiare quei panni. Arrossì appena e rispose con modestia: “Ho insegnato a un’indigena di queste parti. È stato difficile. Non le piaceva quel lavoro”. Così quell’uomo aveva veramente compiuto qualcosa. Ed era devoto ai suoi registri, tenuti in ordine perfetto.
«Tutto il resto della stazione era in stato di scompiglio – teste, cose, edifici. File di negri coperti di polvere e dai piedi piatti andavano e venivano; un fiume di manufatti, cotonacci, perline e filo d’ottone partiva per le profondità della tenebra da cui in cambio tornava un prezioso rigagnolo d’avorio.
«Dovetti attendere dieci giorni alla stazione – un’eternità. Vivevo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos andavo a volte nell’ufficio del ragioniere. Era costruito con tavole orizzontali così mal sistemate che quando il ragioniere si piegava sull’alta scrivania era striato dal collo ai calcagni da sottili righe di sole. Non c’era bisogno di aprire le grandi imposte per vederci. Anche lì faceva caldo; dei mosconi ronzavano diabolicamente e non pungevano: pugnalavano. Di solito sedevo per terra mentre lui, impeccabile (e anche leggermente profumato), appollaiato su un alto sgabello, scriveva, scriveva. A volte si alzava per sgranchirsi un poco. Quando trasportarono nell’ufficio un letto a rotelle (qualche agente dell’interno reso invalido) mostrò un garbato fastidio. “I lamenti dell’ammalato” disse “distraggono la mia attenzione. E senza questa è estremamente difficile guardarsi dal commettere errori di registrazione in questo clima.”
«Un giorno osservò, senza alzare il capo: “All’interno incontrerà senz’altro Mr Kurtz”. Quando gli chiesi chi fosse Mr Kurtz, disse che era un agente di prima classe; e notando quanto m’avesse deluso quell’informazione, aggiunse lentamente, poggiando la penna: “È una persona davvero notevole”. Con altre domande riuscii a strappargli che al momento Mr Kurtz era a capo di una stazione commerciale, una molto importante, nella vera regione dell’avorio, “proprio laggiù in fondo. Manda tanto avorio quanto tutti gli altri messi insieme...”. Ricominciò a scrivere. L’infermo stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una grande pace.
«Improvvisamente ci fu un mormorio crescente di voci e un grande scalpiccio. Era arrivata una carovana. Dall’altra parte del muro di tavole scoppiò un violento balbettio di suoni rozzi. I portatori parlavano tutti insieme, e in mezzo a quel clamore si udì la voce lamentevole dell’agente capo che per la ventesima volta in quel giorno annunciava in tono lacrimoso che “ci rinunciava”... Il ragioniere si alzò lentamente. “Che baccano spaventoso” disse. Attraversò delicatamente la stanza per guardare l’ammalato e ritornando mi disse: “Non sente”. “Cosa? Morto?” chiesi allarmato. “No, non ancora” rispose con grande compostezza. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel cortile: “Quando bisogna fare delle registrazioni corrette, si finisce per odiare quei selvaggi – odiarli a morte”. Restò un attimo soprappensiero. “Quando vedrà Mr Kurtz, gli dica da parte mia che qui – lanciò un’occhiata alla scrivania – tutto procede in modo molto soddisfacente. Non mi va di scrivergli – con i nostri messaggeri non si sa mai in che mani può finire la corrispondenza – in quella Stazione Centrale.” Mi fissò per un attimo con quegli occhi miti, sporgenti. “Oh, farà strada, tanta strada” riprese. “Non ci vorrà molto prima che diventi qualcuno nell’Amministrazione. Quelli che stanno in alto – i Consiglieri in Europa, sa – ci contano.”
«Ritornò al lavoro. Il rumore fuori era cessato e uscendo subito dopo mi fermai sulla porta. Nel ronzio costante delle mosche, l’agente diretto in patria giaceva congestionato e insensibile; l’altro, chino sui libri, registrava correttamente operazioni perfettamente corrette; e una quindicina di metri più in giù scorgevo le cime immobili del boschetto della morte.
«Il giorno dopo partii finalmente con una carovana di sessanta uomini per una marcia di duecento miglia.
«Inutile che ve la racconti nei dettagli. Piste, piste dovunque; una rete di piste battute che si stendeva sulla terra vuota attraverso l’erba alta, attraverso l’erba bruciata, attraverso la boscaglia, giù e su per gole raggelanti, su e giù per colline pietrose e arroventate; e solitudine, solitudine, nessuno, non una capanna. La popolazione se n’era andata molto tempo prima. Be’, se un mucchio di negri misteriosi con terribili armi di ogni tipo si mettesse all’improvviso a scorrazzare sulla strada tra Deal e Gravesend, costringendo i bifolchi a destra e a manca a portare i loro carichi pesanti, immagino che ogni fattoria e casupola dei dintorni si svuoterebbe molto in fretta. Solo che lì se n’erano andate anche le abitazioni. Eppure attraversai diversi villaggi abbandonati. C’è qualcosa di pateticamente infantile nelle rovine di muri d’erba. Giorno dopo giorno, alle mie spalle passi decisi o strascicati di sessanta paia di piedi scalzi con un carico di sessanta libbre ciascuno. Accamparsi, cucinare, dormire, levare il campo, marciare. Di tanto in tanto un portatore morto sul lavoro, disteso nell’erba alta accanto al sentiero, con la zucca per l’acqua vuota e il lungo bastone al suo fianco. Tutt’intorno e nell’aria un gran silenzio. Forse in una notte quieta il fremito di tamburi lontani calava, si faceva più forte, un fremito immenso, fievole, un suono misterioso, commovente, suggestivo e selvaggio – e forse carico di significato come lo scampanio in un paese cristiano. Una volta un bianco con l’uniforme sbottonata, accampato sulla pista con una scorta armata di zanzibaresi allampanati, molto ospitale e festoso – per non dire ubriaco. Dichiarò che stava badando alla manutenzione della strada. Non posso dire di aver notato una strada o qualsiasi forma di manutenzione, a meno che il cadavere di un negro di mezza età, con un proiettile in mezzo agli occhi, su cui letteralmente inciampai tre miglia più in là non possa essere considerato una miglioria permanente. Avevo anche un compagno bianco, tutt’altro che spiacevole, a parte il fatto che era un po’ troppo in carne e aveva l’esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati a miglia di distanza dalla minima traccia d’acqua e di ombra. È seccante, sapete, tenere la propria giacca a mo’ di parasole sulla testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei fare a meno di chiedergli una volta perché mai avesse deciso di venire laggiù. “Per far soldi, naturalmente. Che cosa crede?” aveva risposto, indignato. Poi prese la febbre e si dovette trasportarlo in un’amaca sospesa a un palo. Siccome pesava qualcosa più di un quintale, ebbi infinite discussioni con i portatori. Rifiutavano di proseguire, fuggivano, se la svignavano col carico nottetempo – un vero ammutinamento. Così, una sera, feci un discorso in inglese accompagnandolo con gesti che i sessanta paia d’occhi davanti a me registrarono a uno a uno e la mattina dopo feci partire l’amaca davanti senza problemi. Un’ora dopo scoprii che tutto era rovinato in un cespuglio – uomo, amaca, lamenti, coperte, orrori. Il palo pesante gli aveva scorticato il povero naso. Era impaziente di vedermi ammazzare qualcuno, ma non c’era neppure l’ombra di un portatore in giro. Ricordai il vecchio dottore – “Sarebbe interessante, per la scienza, osservare sul posto i mutamenti mentali degli individui”. Sentii che stavo diventando scientificamente interessante. Comunque, tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo giorno avvistai nuovamente il grande fiume ed entrai zoppicando nella Stazione Centrale. Si trovava su un’ansa di acqua stagnante circondata da arbusti e foresta, con un bell’orlo di fango putrido da un lato e cintata sugli altri tre da uno steccato irregolare di giunchi. Come cancello aveva un varco trascurato e una semplice occhiata al posto era sufficiente a capire che lì era il demone della fiacchezza a farla da padrone. In mezzo agli edifici, apparvero indolenti alcuni bianchi con dei lunghi bastoni in mano, si avvicinarono lentamente per guardarmi e poi scomparvero da qualche parte. Uno di loro, un tipo robusto ed eccitabile con i baffi neri, appena gli ebbi detto chi ero, mi informò con grande loquacità e molte digressioni che il mio vapore si trovava in fondo al fiume. Restai esterrefatto. Che cosa, come, perché? Oh, era tutto “a posto”. C’era il “direttore in persona”. Tutto come doveva essere. “Si sono comportati tutti in modo splendido, splendido! – Deve andare immediatamente” continuò agitato “a parlare col direttore generale. La sta aspettando!”
«Non compresi subito il vero significato di quel naufragio. Mi pare di capirlo ora, ma non ne sono sicuro – proprio per nulla. Certo la cosa era troppo stupida – a ripensarci – per essere del tutto naturale. Eppure... Ma al momento si presentava soltanto come una dannata seccatura. Il vapore era affondato. Erano partiti due giorni prima, con una fretta improvvisa su per il fiume col direttore a bordo e al comando un volontario che si era offerto di fare il capitano; e meno di tre ore dopo ne laceravano il fondo sulle pietre e il battello affondava vicino alla riva meridionale. Mi chiesi che cosa mi restasse da fare ora che la mia barca era andata perduta. In realtà ebbi un gran daffare a ripescare il mio comando dal fondo del fiume. Dovetti mettermi all’opera l’indomani stesso. Quel lavoro, e le riparazioni quando riportai i pezzi alla stazione, richiesero alcuni mesi.
«Il primo colloquio con il direttore fu curioso. Non mi invitò a sedere dopo la camminata di venti miglia di quella mattina. Aveva carnagione, lineamenti, modi e voce banali. Era di statura media e di corporatura normale. Gli occhi, del solito azzurro, erano forse particolarmente freddi e certo sapeva far cadere sguardi penetranti e grevi come una scure. Ma persino in quei momenti il resto della sua persona sembrava sconfessarne l’intenzione. Altrimenti aveva sulle labbra solo un’espressione indefinibile, un po’ furtiva – un sorriso – no, non un sorriso – la ricordo, ma non riesco a definirla. Era inconscio quel sorriso, benché per un attimo si facesse più intenso ogni volta che diceva qualcosa. Giungeva alla fine della frase come un sigillo apposto sulle parole per rendere il significato della locuzione più comune assolutamente imperscrutabile. Era un semplice trafficante che sin da giovane aveva lavorato da quelle parti – niente di più. Era ubbidito, eppure non ispirava amore né paura e neppure rispetto. Ispirava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza precisa – solo disagio – niente di più. Non avete idea di quanto possa essere efficace una... una... facoltà del genere. Non aveva nessuna dote per l’organizzazione, l’iniziativa o perfino l’ordine. Come dimostrava chiaramente lo stato deplorevole della stazione. Non era istruito, né intelligente. Gli era arrivata quella carica – chissà perché? Forse perché non si era mai ammalato... Aveva lavorato laggiù per tre periodi di tre anni ciascuno... Perché la salute trionfante nel disfacimento generale è una sorta di potere di per sé. Quando tornava a casa in licenza gozzovigliava alla grande – fastosamente. Come un marinaio a terra – con una differenza – solo nell’esteriorità. Questo lo si capiva dai suoi discorsi occasionali. Non creava nulla, faceva funzionare il solito tran tran – tutto lì. Eppure era grande. Era grande per via di una cosa da nulla: era impossibile capire che cosa potesse esercitare un controllo su un uomo simile. Non lasciò mai trapelare quel segreto. Forse non aveva dentro nulla. Ci si arrestava davanti a questo sospetto – perché laggiù non c’erano controlli esterni. Una volta, quando quasi ogni “agente” della stazione era stato assalito da svariate malattie tropicali, lo sentirono dire: “Gli uomini che vengono quaggiù non dovrebbero avere budella”. Aveva sigillato la frase con quel suo sorriso, come se fosse stata una porta aperta sulle tenebre di cui aveva la custodia. Uno immaginava di aver visto qualcosa – ma c’era il sigillo. Seccato dalle continue discussioni dei bianchi sulle precedenze all’ora dei pasti, ordinò un’immensa tavola rotonda per cui dovettero costruire un locale apposta. Quella era la mensa della stazione. Dove si sedeva lui era il posto d’onore – il resto era nulla. Si sentiva che questa era la sua inalterabile convinzione. Non era cortese, né scortese. Era tranquillo. Permetteva che il suo “boy” – un negretto della costa un po’ troppo ben nutrito – trattasse con provocatoria impertinenza i bianchi proprio sotto i suoi occhi.
«Incominciò a parlare nel momento stesso in cui mi vide. Ci avevo messo troppo ad arrivare. Non poteva aspettare. Era dovuto partire senza di me. Le stazioni a monte dovevano ricevere il cambio. C’erano già stati troppi ritardi e lui non sapeva più chi fosse vivo o morto, e come andavano le cose – eccetera eccetera. Non prestò la minima attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté più volte che la situazione era “gravissima, gravissima”. Correva voce che una stazione molto importante fosse in pericolo e che il suo capo, Mr Kurtz, fosse malato. Sperava che non fosse vero. Mr Kurtz era... Mi sentivo stanco e irritabile. Al diavolo Kurtz, pensai. Lo interruppi dicendo che avevo sentito parlare di Mr Kurtz sulla costa. “Ah! Così parlano di lui, laggiù” mormorò tra sé. Poi ricominciò assicurandomi che Mr Kurtz era il migliore agente che avesse, un uomo eccezionale, della massima importanza per la Compagnia; e quindi potevo comprendere la sua ansia. Disse che era “molto, molto inquieto”. Di sicuro si agitava non poco sulla sedia, esclamò: “Ah, Mr Kurtz!”, ruppe il bastoncino di ceralacca e sembrò ammutolito dall’incidente. Quando si riprese, volle sapere “quanto tempo ci sarebbe voluto”... Lo interruppi di nuovo. Avevo fame, sapete, e costretto a stare in piedi per di più, stavo montando su tutte le furie. “Come faccio a saperlo?” dissi. “Non ho ancora visto il relitto – qualche mese, senza dubbio.” Quella conversazione mi pareva così inutile. “Qualche mese” disse lui. “Be’, diciamo tre mesi prima di poter partire. Sì. Dovrebbero bastare per la faccenda.” Mi precipitai fuori dalla sua capanna (viveva tutto solo in una capanna d’argilla con una specie di veranda) borbottando tra me quello che pensavo di lui. Idiota d’un ciarlone. In seguito mi ricredetti, quando mi resi conto con stupore dell’estrema precisione con cui aveva calcolato il tempo che ci sarebbe voluto per sistemare “la faccenda”.
«Mi misi all’opera l’indomani, dando le spalle, per così dire, alla stazione. Solo in quel modo mi pareva che avrei potuto mantenere la presa sui fatti consolanti della vita. Però ogni tanto bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione e gli uomini nel cortile gironzolare senza scopo sotto il sole. A volte mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano quei lunghi bastoni, come tanti pellegrini miscredenti che un incantesimo costringesse entro un recinto in sfacelo. Nell’aria risuonava la parola “avorio”, la si sentiva sussurrare, sospirare. Sembrava che le innalzassero preghiere. Da tutto ciò spirava un lezzo di rapacità imbecille, come una zaffata da qualche cadavere. Per Giove! Non ho mai visto nulla di tanto irreale in vita mia. E fuori, la terra selvaggia e silenziosa che circondava quella minuscola radura mi pareva grande e invincibile quanto il male o la verità, attendendo pazientemente la scomparsa di quell’invasione grottesca.
«Oh, che mesi! Be’, non ha importanza. Accaddero diverse cose. Una sera una capanna d’erba piena di calicò, cotoni stampati, perline e non so che altro, andò in fiamme con una rapidità tale che pareva la terra si fosse spalancata perché un fuoco vendicatore consumasse tutte quelle cianfrusaglie. Fumavo tranquillamente la pipa accanto al mio vapore smantellato e li vedevo saltellare tutti nella luce con le braccia al cielo, quando il tipo robusto con i baffi arrivò di corsa al fiume con un secchiello di latta in mano, mi assicurò che “si stavano comportando tutti splendidamente, splendidamente”, prese forse un litro d’acqua e corse via di nuovo. Notai che c’era un buco nel fondo del secchiello.
«Mi avviai lentamente. Non c’era fretta. Vedete, aveva preso fuoco come una scatola di fiammiferi. Sin dal primo momento la cosa era irreparabile. La fiamma si era levata alta, allontanando tutti, aveva incendiato tutto – e s’era accasciata. La capanna era ormai un mucchio di tizzoni ardenti. Poco distante stavano bastonando un negro. Dicevano che aveva provocato l’incendio in qualche modo; comunque fosse, strillava orribilmente. Lo vidi poi, per diversi giorni, seduto in una macchia d’ombra con l’aria molto sofferente, che cercava di riprendersi; quindi si alzò e se ne andò – e la natura selvaggia se lo riprese in seno senza il minimo rumore. Mentre dal buio mi avvicinavo al fuoco, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano parlando. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole “approfittare di questo sfortunato incidente”. Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. “Ha mai visto niente di simile – eh? è incredibile” disse, e si allontanò. L’altro rimase. Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con una barbetta biforcuta e il naso a uncino. Era piuttosto scostante con gli altri agenti che, per contro, dicevano fosse la spia del direttore. Quanto a me, gli avevo a malapena rivolto la parola prima di allora. Ci mettemmo a discorrere e poco dopo ci allontanammo dalle rovine sibilanti. Poi m’invitò nella sua stanza che si trovava nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero e mi resi conto che il giovane aristocratico non solo possedeva un nécessaire d’argento, ma anche un’intera candela tutta per sé. Proprio in quel periodo l’unica persona ad avere diritto alle candele era il direttore. Le pareti d’argilla erano coperte di stuoie indigene e una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli, era appesa a mo’ di trofei. A quell’individuo era stata assegnata la fabbricazione dei mattoni – così mi avevano detto; ma in tutta la stazione non c’era l’ombra di laterizi e quel tipo si trovava lì da più di un anno – in attesa. Pareva che non potesse fare i mattoni perché gli mancava qualcosa, non so che cosa – paglia forse. Comunque da quelle parti non se ne trovava, ed essendo piuttosto improbabile che gliela spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Forse un atto straordinario della creazione. Ad ogni modo aspettavano tutti – tutti quei sedici o venti pellegrini – qualcosa; e parola mia non sembrava affatto un’occupazione spiacevole, a giudicare dal modo in cui la prendevano, benché – per quel che potevo vedere – la sola cosa che mai giungesse loro era qualche malattia. Ingannavano il tempo sparlando e complottando scioccamente l’uno contro l’altro. Nella stazione aleggiava un’aria di congiura, ma naturalmente non ne veniva fuori nulla. Era irreale quanto tutto il resto – come le pretese filantropiche di tutta l’impresa, come le loro chiacchiere, l’Amministrazione, la messa in scena di operosità. L’unico sentimento reale era il desiderio di essere assegnati a una stazione commerciale in cui ci fosse l’avorio, così da guadagnarne le percentuali. Complottavano, calunniavano, si odiavano soltanto per quella ragione – ma quanto a muovere effettivamente un dito – oh no. Santo Cielo! Dopo tutto c’è un po’ di giustizia a questo mondo se a un uomo è concesso di rubare un cavallo, mentre un altro non può nemmeno guardare la cavezza. Ruba un cavallo senza indugi. Molto bene. L’ha fatto. Forse sa cavalcare. Ma c’è un modo di guardare la cavezza che strapperebbe un calcio anche al santo più caritatevole.
«Non avevo la minima idea del perché cercasse di socializzare, ma nel corso della conversazione mi resi conto all’improvviso che il tipo mirava a qualcosa – e precisamente a farmi cantare. Alludeva continuamente all’Europa, alla gente che avrei dovuto conoscere là – faceva domande tendenziose sulle mie conoscenze nella città sepolcrale e così via. Dalla curiosità gli brillavano gli occhietti come dischi di mica, benché cercasse di mantenersi un tantino arrogante. Dapprima mi stupii, ma molto presto fui preso dall’irresistibile curiosità di vedere che cosa sarebbe riuscito a scoprire da me. Non riuscivo assolutamente a immaginare che cosa c’era in me di tanto prezioso per lui. Era davvero bello vedere quanto si ingannasse dato che, a dire il vero, il mio corpo era pieno solo di brividi e in testa non avevo altro che quel dannato affare del vapore. Era evidentemente convinto che fossi uno sfacciato bugiardo. Alla fine si adirò e, per nascondere un gesto di infuriata irritazione, sbadigliò. Mi alzai. Poi notai su un pannello un piccolo bozzetto a olio che rappresentava una donna bendata con indosso un drappo e in mano una fiaccola accesa. Lo sfondo era scuro, quasi nero. Il movimento della donna era solenne e l’effetto della fiamma sul suo viso, sinistro.
«Ciò attirò la mia attenzione, ed egli si avvicinò cortesemente reggendo una bottiglia di champagne da un quarto (medicinale di conforto) nel cui collo era infilata la candela. Alla mia domanda rispose che l’aveva dipinta Kurtz – proprio in quella stazione più di un anno prima – mentre attendeva il mezzo per raggiungere la sua postazione. “Per favore” gli chiesi, “mi dica chi è questo Mr Kurtz.”
«”Il capo della Stazione Interna” rispose bruscamente, distogliendo lo sguardo. “Molto obbligato” dissi ridendo. “E lei è il fabbricante di mattoni della Stazione Centrale. Questo lo sanno tutti.” Per un attimo restò in silenzio. “È un prodigio” disse infine. “È un emissario di pietà e scienza e progresso e solo il diavolo sa che altro. Abbiamo bisogno” d’un tratto si mise a declamare “a guida della causa che c’è stata, per così dire, affidata dall’Europa, di una comprensione superiore, di una vasta solidarietà, di unità di intenti.” “Chi lo dice?” chiesi. “Tanta gente” rispose. “C’è anche chi lo scrive; e così lui arriva qui, un essere particolare, come lei dovrebbe sapere.” “Perché dovrei saperlo?” lo interruppi sinceramente sorpreso. Non mi prestò attenzione. “Sì. Oggi è a capo della stazione migliore. Il prossimo anno sarà vicedirettore, ancora due anni e... ma lei sa senz’altro che cosa sarà diventato tra un paio d’anni. Voi appartenete alla nuova congrega – la congrega della virtù. La stessa gente che ha mandato proprio lui ha anche raccomandato lei. Oh, non dica di no. Mi fido dei miei occhi.” Tutto mi fu improvvisamente chiaro. Le conoscenze influenti della mia cara zia stavano producendo un effetto inatteso su quel giovanotto. Quasi scoppiai a ridere. “Legge per caso la corrispondenza riservata della Compagnia?” chiesi. Non trovò parole per rispondere. Era molto divertente. “Quando Mr Kurtz” continuai severo, “sarà direttore generale, non ne avrà più occasione.”
«Spense improvvisamente la candela e uscimmo. Si era levata la luna. Delle figure nere, muovendosi svogliatamente, versavano acqua sul fuoco, da cui proveniva un sibilo; il vapore si alzava nel chiaro di luna; il negro bastonato gemeva da qualche parte. “Che baccano fa quella bestia!” disse l’infaticabile tipo con i baffi, comparendo accanto a noi. “Gli sta bene. Trasgressione – punizione – pam! Senza pietà, senza pietà. È l’unico modo. Questo eviterà altre conflagrazioni in futuro. Stavo proprio dicendo al direttore...” Notò il mio compagno e abbassò immediatamente la cresta. “Non ancora a letto” disse con una sorta di cordialità servile; “è naturale. Ah! Pericolo – agitazione.” Svanì. Mi diressi verso la riva del fiume e l’altro mi seguì. Udii un mordace bisbiglio all’orecchio: “Mucchio di cialtroni, andate al...”. Si scorgevano capannelli di pellegrini che gesticolavano, discutevano. Molti stringevano ancora in mano i bastoni. Sono convinto che li portassero a letto con loro quei bastoni. Oltre lo steccato la foresta si ergeva spettrale al chiaro di luna e attraverso la confusa agitazione, attraverso suoni indistinti di quel cortile deplorevole, il silenzio della terra penetrava in fondo al cuore – il suo mistero, la sua grandezza, la straordinaria realtà della vita nascosta. Da qualche parte lì vicino, il negro bastonato si lamentava debolmente, poi trasse un sospiro profondo che mi spinse ad allungare il passo per allontanarmi di là. Sentii una mano introdursi sotto il mio braccio. “Mio caro signore” disse il tipo, “non vorrei essere frainteso e soprattutto da lei che vedrà Mr Kurtz molto prima di quanto io possa avere il piacere. Non vorrei che lui si facesse un’idea errata della mia disposizione d’animo...”
«Lo lasciai proseguire, quel Mefistofele di cartapesta, e mi pareva che se ci avessi provato avrei potuto attraversarlo con un dito senza trovare nulla fuorché un po’ di sudiciume, forse. Capite, aveva progettato di diventare in breve vicedirettore sotto il capo attuale e mi resi conto che l’arrivo di quel Kurtz li aveva sconvolti entrambi non poco. Parlava concitatamente e io non cercai di fermarlo. Appoggiavo le spalle al relitto del mio vapore, trasportato sul pendio come la carcassa di qualche grossa bestia fluviale. Avevo nelle narici l’odore del fango, il fango primordiale, per Giove! davanti agli occhi avevo l’alta immobilità della foresta primordiale; c’erano delle chiazze lucenti sull’insenatura nera. La luna aveva steso sopra ogni cosa una sottile patina d’argento – sull’erba lussureggiante, sul fango, sul muro di intricata vegetazione più alto del muro d’un tempio, sul grande fiume, che attraverso un varco cupo vedevo brillare, brillare, mentre scorreva ampio senza un solo mormorio. Tutto ciò era grande, carico di anticipazione, muto, intanto che l’uomo ciarlava di sé. Mi chiedevo se la quiete sul volto dell’immensità che ci fissava fosse un appello o una minaccia. Che cosa eravamo mai noi, smarriti là in mezzo? Avremmo saputo domare quella cosa muta o sarebbe stata lei a dominarci? Sentii quanto grande, quanto dannatamente grande fosse quella cosa che non poteva parlare e forse neanche ci sentiva. Che c’era là dentro? Vedevo uscirne un po’ d’avorio e avevo sentito che dentro c’era Mr Kurtz. Ne avevo sentito parlare a sufficienza – lo sa Dio! Eppure da ciò non traspariva alcuna immagine – non più che se mi avessero detto che c’era dentro un angelo o un demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta ho conosciuto un velaio scozzese che era certo, sicurissimo che ci fosse gente su Marte. Se gli si chiedeva che aspetto avessero, secondo lui, o come si comportassero, si faceva timido e mormorava qualcosa come che “camminavano a quattro zampe”. E se vi sfuggiva un sorriso – benché avesse sessant’anni – vi sfidava a battervi con lui. Io non sarei arrivato al punto di battermi per Kurtz, ma per lui arrivai quasi a mentire. Sapete quanto odi, detesti e non possa sopportare la menzogna, non perché sia più onesto degli altri, ma semplicemente perché mi spaventa. C’è un alito letale, un sapore di mortalità nelle menzogne – ed è esattamente ciò che odio e detesto al mondo – ciò che voglio dimenticare. Mi avvilisce e mi nausea, come se addentassi qualcosa di marcio. Temperamento, suppongo. Be’, mi ci avvicinai abbastanza lasciando credere a quel giovane sciocco tutto quello che gli piaceva immaginare della mia influenza in Europa. In un istante divenni una finzione quanto il resto dei pellegrini stregati. Questo semplicemente perché mi pareva che in qualche modo avrei potuto essere d’aiuto a quel Kurtz che al momento non vedevo – capite. Per me era soltanto una parola. Non vedevo l’uomo nel nome, più di quanto lo vediate voi. Lo vedete? Vedete la storia? Vedete qualcosa? Per me è come se stessi cercando di raccontarvi un sogno – un tentativo inutile perché non c’è modo di comunicare a parole la sensazione del sogno, quel miscuglio di assurdità, sorpresa e stupore in un fremito di lotta e ribellione, la consapevolezza di essere preda dell’incredibile, che è l’essenza stessa dei sogni...»
Per un po’ restò in silenzio.
«... No, è impossibile; è impossibile comunicare la sensazione di vita di qualsiasi fase della propria esistenza – ciò che ne costituisce la verità, il significato – l’essenza sottile e penetrante. È impossibile. Si vive come si sogna – soli...»
Fece un’altra pausa come di riflessione, poi aggiunse:
«Naturalmente in questo voialtri vedete più di quanto potessi vedere io allora. Voi vedete me, che conoscete...»
Si era fatto buio così pesto che noi ascoltatori riuscivamo a malapena a scorgerci. Da tempo lui, seduto in disparte, non era altro che una voce per noi. Nessuno pronunciò parola. Poteva darsi che gli altri dormissero, ma io ero sveglio. Ascoltavo, ascoltavo, attendendo all’erta la frase, la parola che mi avrebbe permesso di comprendere l’indefinibile disagio ispirato da quel racconto che sembrava prendere forma senza il bisogno di labbra umane nell’aria greve della notte sul fiume.
«... Sì – lo lasciai proseguire» riprese Marlow, «e credere quel che voleva del potere che stava dietro di me. Proprio così! E non c’era niente dietro di me! Non c’era nulla fuorché quel povero vecchio vapore semidistrutto a cui m’appoggiavo mentre lui parlava senza posa della “necessità che ogni uomo ha di farsi strada”. “E quando si viene qui, lei capisce, non è certo per guardare la luna!” Mr Kurtz era un “genio universale”, ma perfino un genio avrebbe trovato più semplice lavorare “con gli attrezzi adeguati – uomini intelligenti”. Non fabbricava mattoni – certo, era materialmente impossibile – come sapevo bene; e se faceva da segretario al direttore era perché “nessun uomo un po’ assennato rifiuta senza motivo la fiducia dei superiori”. Capivo, no? Capivo. Che cosa volevo di più? Quel che volevo davvero erano dei rivetti, per Dio! Rivetti. Per continuare il lavoro – per tappare la falla. Dei chiodi volevo. Ce n’erano casse intere sulla costa – casse – accatastate – sfondate – sfasciate! Nel cortile della stazione sul fianco della collina si inciampava su un rivetto ogni due passi. I rivetti erano rotolati giù fino al boschetto della morte. A prendersi la briga di chinarsi, ci si poteva riempire le tasche di quei rivetti – e qui dove ce n’era bisogno non si trovava neppure l’ombra di un rivetto. Avevamo delle lamiere che potevano andare bene, ma niente per fissarle. E ogni settimana il corriere, un negro solitario con il sacco della posta sulle spalle e il bastone in mano, partiva dalla stazione diretto alla costa. E più volte alla settimana dalla costa arrivava una carovana di merci di scambio – del calicò lustro e disgustoso che faceva rabbrividire solo a guardarlo, delle perline di vetro che valevano più o meno un soldo alla libbra, degli orribili fazzoletti di cotone a pallini. E neanche un rivetto. Sarebbero bastati tre uomini a trasportare il necessario per rimettere a galla il vapore.
«Stava abbandonandosi alle confidenze ora, ma immagino che alla fine il mio atteggiamento indifferente dovesse averlo esasperato, poiché reputò necessario informarmi che non temeva Dio, né il diavolo e tanto meno un semplice mortale. Dissi che me ne rendevo perfettamente conto, ma che avevo bisogno di una certa quantità di rivetti – e che i rivetti erano proprio quello che avrebbe voluto Mr Kurtz, se solo l’avesse saputo. Ora, tutte le settimane venivano mandate delle lettere sulla costa... “Mio caro signore” gridò “io scrivo sotto dettatura.” Io esigevo dei rivetti. E c’era il modo – per un uomo intelligente. Cambiò condotta; diventò freddissimo e si mise a parlare improvvisamente di un ippopotamo; si chiedeva se dormendo a bordo del vapore (non abbandonavo mai il mio relitto, né di giorno né di notte) non ne provassi turbamento. C’era un vecchio ippopotamo che aveva la pessima abitudine di saltar fuori la notte e vagabondare sul terreno della stazione. I pellegrini facevano delle sortite in massa e gli scaricavano addosso tutti i fucili su cui riuscivano a mettere le mani. Alcuni avevano addirittura vegliato notti intere di attesa. Tutta energia sprecata, però. “Quell’animale ha una vita fatata,” disse “ma è una cosa che succede soltanto alle bestie in questo paese. Non c’è uomo – mi comprende? – non c’è uomo qui che possegga una vita fatata.” Restò un attimo sotto il chiaro di luna con il naso delicato adunco e un poco storto e gli occhi di mica che luccicavano senza battere ciglio, poi si allontanò con un secco “Buona notte”. Mi resi conto che era preoccupato e piuttosto perplesso, e la cosa mi diede più speranza di quanto non ne avessi avuta da tempo. Fu un gran conforto passare da quell’individuo al mio influente amico, quella latta ammaccata, contorta, sfasciata, d’un vapore. Mi arrampicai a bordo. Risuonava sotto i miei piedi come una scatola vuota di biscotti Huntley & Palmer presa a calci lungo un fossato; non era altrettanto solido di fattura ed era molto meno bello, ma con tutto il duro lavoro che m’era costato, mi ci ero affezionato. Nessun amico influente avrebbe potuto rendermi miglior servizio. Mi aveva dato l’occasione di mettermi un po’ alla prova – di scoprire che cosa sapevo fare. No, non mi piace il lavoro. Preferirei poltrire pensando a tutte le belle cose che si possono fare. Non mi piace il lavoro – a nessuno piace – ma mi piace quel che c’è nel lavoro – l’occasione di scoprire se stessi. La propria realtà – per sé, non per gli altri – ciò che nessun altro uomo potrà mai sapere. Gli altri possono soltanto vedere l’apparenza, senza poter mai sapere che cosa significhi veramente.
«Non fui sorpreso di vedere qualcuno seduto a poppa, sul ponte, con le gambe penzoloni sul fango. Vedete, avevo fatto amicizia con i pochi meccanici della stazione che gli altri pellegrini naturalmente disdegnavano – per via delle loro maniere imperfette, suppongo. Questo era il caposquadra – un calderaio di professione – un buon operaio. Era un tipo magro, tutt’ossa, con la faccia gialla e gli occhi grandi ed espressivi. Sembrava sempre preoccupato e aveva la testa calva quanto il palmo di una mano, ma pareva che i capelli, nel cadergli, gli fossero rimasti attaccati al mento, e nella nuova ubicazione avessero prosperato, dato che la barba gli arrivava alla cintola. Era vedovo con sei bambini (li aveva lasciati a una sorella per venire laggiù), e la passione della sua vita erano i piccioni viaggiatori. Era un entusiasta e un esperto. Andava matto per i piccioni. A volte, dopo l’orario di lavoro, lasciava la capanna e veniva a parlare dei suoi figli e dei suoi piccioni; al lavoro, quando doveva strisciare nel fango sotto la chiglia del battello, si legava la barba in una specie di salvietta bianca che portava per quello scopo. Aveva due cappi per fissarla alle orecchie. Di sera lo si poteva vedere accovacciato sulla riva a risciacquare con gran cura la salvietta nell’insenatura per poi stenderla solennemente su un cespuglio ad asciugare.
«Gli diedi una manata sulla schiena e urlai: “Avremo i chiodi!”. Si rialzò in piedi esclamando: “No! I chiodi!” come se non potesse credere alle sue orecchie. Quindi, sottovoce: “Lei... eh?”. Non so perché ci comportavamo come matti. Misi un dito a lato del naso e annuii misteriosamente. “Bravo!” gridò, schioccò le dita sulla testa alzando un piede. Accennai un passo di giga. Ci mettemmo a saltellare sul ponte di ferro. Dallo scafo si alzò un frastuono spaventoso e la foresta vergine sull’altra riva dell’insenatura lo rimandò come un rombo tonante sulla stazione addormentata. Più di un pellegrino doveva esser saltato a sedere nella baracca. Una figura nera oscurò la soglia illuminata della capanna del direttore, svanì, poi, un secondo o due dopo, svanì anche la soglia. Ci fermammo e il silenzio scacciato dai nostri piedi rifluì dai recessi della terra. Il grande muro di vegetazione, una massa esuberante e intricata di tronchi, rami, foglie, frasche, liane, immobili sotto il chiaro di luna, era come un’invasione ribelle di vita muta e insondabile, un’ondata di piante gonfia, increspata, pronta a riversarsi sull’insenatura, a spazzar via ognuno di noi piccoli uomini dalla nostra piccola esistenza. E non si muoveva. Uno scoppio smorzato di spruzzi e sbuffi potenti ci giunse da lontano, come se un ittiosauro stesse facendo un bagno di luce nel grande fiume. “Dopotutto” disse il calderaio in tono ragionevole, “perché non dovrebbero arrivarci i chiodi?” Giusto, perché no? Non conoscevo nessuna ragione per cui non dovessero arrivarci. “Saranno qui fra tre settimane” dissi fiducioso.
«Ma non arrivarono. Invece dei chiodi arrivò un’invasione, un castigo, un flagello. Arrivò a scaglioni durante quelle tre settimane, ogni scaglione guidato da un asino con sopra un bianco vestito di nuovo con le scarpe tinta coloniale, che di lassù s’inchinava a destra e a manca davanti ai pellegrini impressionati. Alle calcagna dell’asino seguiva una frotta litigiosa di negri con i musi lunghi e i piedi doloranti; un mucchio di tende, sedie da campo, scatole di latta, casse bianche, balle marroni, veniva scaricato nel cortile e l’aria di mistero s’ispessiva un po’ sullo scompiglio della stazione. Ne arrivarono cinque di quegli scaglioni, con l’aria assurda di fuggire disordinatamente col bottino di innumerevoli negozi di provviste e attrezzature che sembravano trascinare, dopo la rapina, in quella terra selvaggia per dividerlo equamente. Era una confusione inestricabile di cose di per sé oneste, ma a cui l’umana follia aveva dato l’aspetto delle spoglie di un saccheggio.
«Questa banda di devoti si faceva chiamare la Spedizione Esploratrice Eldorado e credo che fossero legati al segreto da un giuramento. I loro discorsi, comunque, erano i discorsi di sordidi pirati: avventati senza ardimento, avidi senza audacia e crudeli senza coraggio; in tutta quella marmaglia non c’era un solo briciolo di previdenza o di serie intenzioni e non sembravano avvedersi di quanto necessarie siano quelle cose per il lavoro di questo mondo. Il loro unico desiderio era di strappare tesori alle viscere della terra e non erano sostenuti da un fine morale più di quanto lo siano dei ladri intenti a scassinare una cassaforte. Chi pagasse le spese della nobile impresa non lo so; ma a capo di quella gentaglia c’era lo zio del nostro direttore.
«D’aspetto somigliava al macellaio di un quartiere povero e negli occhi aveva impresso uno sguardo di astuzia sorniona. Ostentava un gran pancione sulle gambe corte e durante tutto il tempo in cui la sua congrega infestò la stazione non parlò ad altri che a suo nipote. Li si vedeva in giro tutto il giorno testa a testa, impegnati in interminabili confabulazioni.
«Avevo rinunciato a preoccuparmi per i chiodi. La capacità umana per quel genere di follie è più limitata di quanto si possa credere. Dissi: “Al diavolo!” – e lasciai che le cose andassero per il loro verso. Avevo tutto il tempo per meditare e a volte pensavo a Kurtz. Non è che mi interessasse molto. No. Eppure ero curioso di vedere se quell’uomo venuto laggiù con idee morali di qualche genere, sarebbe riuscito a scalare il potere, e che cosa avrebbe fatto una volta arrivato lassù.»

II

«Una sera, mentre me ne stavo disteso sul ponte del vapore, udii delle voci avvicinarsi – erano zio e nipote che passeggiavano lungo la riva. Riappoggiai il capo sul braccio ed ero già quasi scivolato nel dormiveglia, quando qualcuno mi disse, come all'orecchio: "Io sono un tipo innocuo come un bambino, ma non mi va di ricevere imposizioni. Sono il direttore – no? L'ordine era di spedirlo laggiù. È incredibile!"... Mi resi conto che i due si trovavano sulla riva in prossimità della prua del vapore, esattamente sotto la mia testa. Non mi mossi; non mi venne in mente di farlo: avevo sonno. "È davvero irritante" borbottò lo zio. "Ha chiesto all'Amministrazione di essere mandato là" disse l'altro, "con l'idea di dimostrare quel che sa fare; e io ho ricevuto istruzioni di conseguenza. Pensa all'influenza che deve avere quell'uomo. Non è spaventoso?" Riconobbero entrambi che era spaventoso, poi si dilungarono in una serie di commenti bizzarri: "Fare il bello e il cattivo tempo – un uomo solo – il Consiglio – per il naso" – frammenti di osservazioni assurde che ebbero la meglio sulla mia sonnolenza, tanto che avevo praticamente recuperato il pieno delle mie facoltà mentali quando lo zio disse: "Forse il clima ti toglierà da questo impiccio. È solo laggiù?". "Sì," rispose il direttore "ha rispedito indietro il suo assistente con un biglietto per me che diceva: 'Allontanate questo povero diavolo dal paese e non disturbatevi a mandarmene altri del genere. Preferisco stare solo che avere d'attorno la specie di individui di cui volete liberarvi'. Questo fu più di un anno fa. Ti rendi conto, che insolenza?" "E da allora, più niente?" chiese l'altro con voce roca. "Avorio" sbottò il nipote; "mucchi di avorio – e del migliore – a mucchi – una cosa estremamente irritante, da lui." "E insieme a quello?" domandò il cupo brontolio. "Fatture" esplose, per così dire, in risposta. Poi silenzio. Era di Kurtz che parlavano.
«Ormai ero del tutto sveglio, ma essendo comodamente sdraiato, rimasi immobile, non sentendo alcun bisogno di cambiare posizione. "Come è arrivato fin qui tutto quell'avorio?" ringhiò il più anziano dei due, che aveva l'aria di essere molto irritato. L'altro spiegò che era arrivato su una flotta di canoe capitanata da un funzionario inglese mezzosangue che Kurtz aveva con sé; che Kurtz stesso doveva aver avuto in mente di tornare, dal momento che ormai la stazione era completamente sfornita di merci e provviste, ma che dopo un viaggio di circa trecento miglia aveva improvvisamente deciso di fare marcia indietro, intenzione che aveva attuato da solo a bordo di una piccola piroga con quattro rematori, mentre il mezzosangue proseguiva lungo il fiume, con l'avorio. I due sembravano sbigottiti all'idea che qualcuno potesse tentare un'impresa del genere. Non riuscivano a trovare una ragione plausibile. Per quanto mi riguarda, ebbi l'impressione di vedere Kurtz per la prima volta. Si trattò di una visione chiara: la piroga, i quattro selvaggi alle pagaie e quell'unico bianco che d'un colpo volta le spalle al quartiere generale, alla sua sostituzione, all'idea di casa – magari; e fissa il volto verso le profondità della terra selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Poteva darsi che fosse semplicemente un uomo onesto che si dedicava al proprio lavoro per passione. Il suo nome, avrete notato, non era stato pronunciato una sola volta. Lui era "quell'uomo". Il mezzosangue, che a quanto capivo aveva condotto a termine un viaggio pericoloso con estrema prudenza e coraggio, veniva invariabilmente definito "quella canaglia". La "canaglia" aveva riferito che "l'uomo" era stato gravemente ammalato – non si era ristabilito del tutto... A quel punto i due sotto di me si allontanarono di qualche passo e presero ad andare su e giù un poco più in là. Sentii: "Postazione militare – dottore – duecento miglia – completamente solo adesso – inevitabili ritardi – nove mesi – nessuna notizia – strane dicerie". Tornarono ad avvicinarsi, proprio mentre il direttore diceva: "Nessuno, per quel che ne so, tranne una specie di trafficante girovago – un individuo inqualificabile che porta via l'avorio agli indigeni". E adesso, di chi stavano parlando? Dai frammenti di frasi, capii che si trattava di qualcuno che doveva trovarsi nella zona di Kurtz, e che non godeva della stima del direttore. "Non riusciremo a liberarci della concorrenza sleale, finché uno di questi individui non sarà impiccato per essere d'ammonimento agli altri" disse. "Esatto" ringhiò quell'altro; "fallo impiccare! Perché no? Tutto si può fare in questo paese – tutto. È quello che dico; nessuno qui, capisci, qui, nessuno può mettere in pericolo la tua posizione. E perché? Tu sopporti bene il clima – te li lasci tutti indietro. Il pericolo è in Europa; ma lì mi sono preoccupato io stesso, prima di partire, di ***." Si allontanarono bisbigliando, poi le loro voci tornarono a farsi sentire. "La straordinaria serie di ritardi non dipende da me. Io ho fatto del mio meglio." Il grasso sospirò: "Molto triste". "Per non parlare dell'assurdità delle sue chiacchiere pestifere" continuò l'altro; "ho avuto la mia dose di noia quando era qui. 'Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla strada verso cose migliori, un centro di commercio, ovviamente, ma anche di umanizzazione, progresso, istruzione.' Figurati – quell'asino! E si è messo in mente di fare il direttore! No, è..." Qui l'eccessiva indignazione lo soffocò, e io sollevai la testa in modo quasi impercettibile. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini – proprio sotto di me. Avrei potuto sputargli sul cappello. Stavano guardando a terra, assorti nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con un ramoscello: il suo sagace parente sollevò il capo. "Sei stato sempre bene dacché sei venuto qui l'ultima volta?" chiese. L'altro trasalì. "Chi? Io? Oh! A meraviglia – a meraviglia Ma gli altri – oh, buon Dio! Tutti malati. E muoiono così in fretta che non mi danno il tempo di allontanarli dal paese – è incredibile!" "Uhm. Proprio così" grugnì lo zio. "Ah, ragazzo mio, è su questo che devi fare affidamento – su questo ti dico." Lo vidi allungare la corta pinna del braccio in un gesto che abbracciava la foresta, l'insenatura, il fango, il fiume – in un ripugnante arabesco pareva inviare, di fronte al volto assolato della terra, un infido appello alla morte in agguato, al male nascosto e alla tenebra profonda di quel cuore. Fu così impressionante che balzai in piedi per guardare, alle mie spalle, il margine della foresta, come se mi aspettassi una risposta qualunque a quell'oscura dimostrazione di sicurezza. Sapete quali sciocchezze ci passano per la testa certe volte. L'assoluto silenzio replicò alle due figure con la sua pazienza sinistra, in attesa del dissolversi di quella invasione fantastica.
«Bestemmiarono entrambi ad alta voce – per paura, credo – poi, fingendo di non essersi accorti della mia presenza, si diressero nuovamente verso la stazione. Il sole era basso; e camminando fianco a fianco, protesi in avanti, sembrava che trainassero faticosamente in salita le loro ridicole ombre di lunghezza diseguale che lentamente li seguivano sull'erba alta, senza piegarne neppure un filo.
«Pochi giorni dopo la Spedizione Eldorado se ne andò nella paziente terra selvaggia e questa si richiuse su di essa come il mare si richiude su di un tuffatore. Molto tempo dopo ci giunse notizia che tutti gli asini erano morti. Non so nulla del destino che toccò agli animali di minor valore. Senza dubbio anche loro, come tutti noi, ebbero quanto meritavano. Non indagai. In quel momento ero piuttosto emozionato al pensiero che presto avrei incontrato Kurtz. Presto, si intende in senso relativo. Quando toccammo la riva presso la stazione di Kurtz, erano trascorsi esattamente due mesi dal giorno in cui avevamo lasciato l'insenatura.
«Risalire quel fiume era come viaggiare a ritroso verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione invadeva la terra e i grandi alberi ne erano sovrani. Un corso d'acqua deserto, un silenzio profondo, una foresta impenetrabile. L'aria era calda, spessa, greve, ferma. Nella luce del sole non brillava gioia alcuna. Lunghi tratti d'acqua correvano, deserti, nel buio di lontananze ombrose. Sulle rive argentate, ippopotami e alligatori si crogiolavano al sole fianco a fianco. Nei punti più ampi, le acque scorrevano tra una quantità di isolotti boscosi; su quel fiume ci si poteva smarrire come in un deserto, si sbatteva per giornate intere nelle secche alla ricerca di un canale navigabile finché non si aveva la sensazione di essere vittime di un incantesimo e tagliati fuori da tutto quel che era noto un tempo – chissà dove – lontano – forse in un'altra vita. C'erano momenti in cui il passato tornava alla mente, come succede quando non si ha un attimo da dedicare a se stessi; ma assumeva i contorni di un sogno inquieto e chiassoso, il cui ricordo suscitava meraviglia nell'opprimente realtà di questo strano mondo di piante, d'acqua e di silenzio. E l'immobilità di questa vita non aveva nulla che somigliasse alla pace. Era l'immobilità di una forza implacabile che covava una intenzione imperscrutabile. Ti osservava con aria vendicativa. In seguito ci feci l'abitudine; non me ne accorgevo più; non avevo tempo. Dovevo badare a indovinare il canale; dovevo interpretare, per lo più in base all'ispirazione, i segnali delle secche nascoste; stare attento ai massi sommersi; stavo imparando a serrare i denti prima che mi volasse via il cuore quando passavo a un pelo da qualche infernale vecchio tronco infido che avrebbe strappato la vita a quella latta di un vapore facendo annegare tutti i pellegrini; e non dovevo smettere di controllare la riva alla ricerca di legna secca da tagliare nella notte per rifornire la caldaia il giorno dopo. Quando ci si deve concentrare su cose di questo genere, su meri incidenti di superficie, la realtà – la realtà, vi dico – perde consistenza. La verità interiore è nascosta – per fortuna, per fortuna. Eppure io la percepivo ugualmente; spesso sentivo la sua misteriosa immobilità osservare i miei numeri da scimmia ammaestrata, proprio come osserva voialtri mentre vi esibite sulle vostre rispettive corde tese per – quanto vi danno? mezza corona a capriola...»
«Cerchi di essere educato, Marlow» borbottò una voce, e io seppi di avere almeno un ascoltatore sveglio oltre a me.
«Chiedo scusa. Dimenticavo il dolore che viene a completare il prezzo. E in fondo, che importa il prezzo, se l'esercizio è ben fatto? Voi eseguite i vostri numeri benissimo. E neppure io me la cavai male, se riuscii a tenere a galla quel vapore al mio primo viaggio. Mi stupisco ancora adesso. Immaginate un uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada in cattive condizioni. Di sicuro posso dire che in quell'impresa ho sudato e tremato non poco. Dopo tutto, per un marinaio raschiare il fondo della cosa che grazie a lui dovrebbe stare sempre a galla, è un peccato imperdonabile. Magari nessuno lo verrà mai a sapere, ma chi la dimentica più la botta – eh? È un vero colpo al cuore. Te ne ricordi, la sogni, ti svegli la notte e ci pensi – anni dopo – e ti prendono i sudori caldi e freddi dappertutto. Non voglio dire che il vapore rimase a galla tutto il tempo. Più di una volta si dovette passare un tratto a guado, con venti cannibali a bagno a spingere. Ne avevamo arruolati alcuni durante il tragitto, come equipaggio. Brava gente – i cannibali – a casa loro. Erano tipi con cui si poteva lavorare; gliene rendo merito. E dopo tutto non si sono mai mangiati in mia presenza: si erano portati una provvista di carne di ippopotamo che, marcendo, legò il mistero di quella terra selvaggia al fetore nelle mie narici. Puah! Lo sento ancora adesso. Avevo a bordo il direttore e tre o quattro pellegrini con i loro bastoni – al completo. Di quando in quando superavamo una stazione vicina alla riva, aggrappata all'orlo dell'ignoto e da un tugurio sfondato uscivano di corsa dei bianchi molto strani che si sbracciavano in ampie dimostrazioni di gioia, di sorpresa e di benvenuto – sembravano tenuti prigionieri da una specie di incantesimo. Per un momento l'aria risuonava della parola "avorio" – e poi proseguivamo nel silenzio, lungo tratti deserti, anse mute, tra le alte pareti del nostro percorso tortuoso che riecheggiavano in colpi sordi il battito greve della ruota di poppa. Alberi, alberi, milioni di alberi, poderosi, immensi, altissimi; e ai loro piedi, strisciando lungo la riva per contrastare la corrente, arrancava il piccolo e sudicio vapore, come un lento scarafaggio che si trascini sul pavimento di un colonnato grandioso. Ti faceva sentire minuscolo, sperduto, eppure non si trattava di una sensazione del tutto deprimente. In fondo, per quanto piccolo, il lurido scarafaggio andava avanti – ed era proprio quello che gli si chiedeva di fare. Non so davvero dove i pellegrini immaginassero che si spingesse. Scommetto verso qualche posto in cui si aspettavano di guadagnare qualcosa. Per me, comunque, era verso Kurtz soltanto che si dirigeva; ma quando i tubi del vapore cominciarono a perdere arrancammo molto più adagio. I tratti di fiume si aprivano davanti a noi e si richiudevano alle nostre spalle come se la foresta attraversasse con tutto comodo l'acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più a fondo nel cuore delle tenebre. C'era un gran silenzio laggiù. Di notte a volte il rullo dei tamburi dietro la cortina degli alberi correva lungo il fiume e restava debolmente sospeso a mezz'aria, quasi che aleggiasse sulle nostre teste, fino ai primi chiarori del giorno. Impossibile stabilire se significasse guerra, pace o preghiera. Le albe erano preannunciate dal calare di una rigida quiete; i taglialegna dormivano, i loro fuochi bruciavano piano; bastava il rumore di un ramoscello spezzato a farci trasalire. Eravamo dei nomadi su una terra preistorica, una terra che aveva l'aria di un pianeta inesplorato. Avremmo potuto immaginarci come i primi uomini a prendere possesso di un'eredità maledetta, che occorreva conquistare a costo di profonda angoscia e sforzi estenuanti. D'un tratto però, superando a fatica un'ansa, scorgevamo appena pareti di frasche, qualche tetto appuntito fatto d'erba, uno scoppio di grida, un balenare confuso di membra nere, un gran numero di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi ondeggianti, occhi roteanti, sotto l'immobile e greve cascata di foglie. Il vapore arrancava lentamente ai margini di una nera frenesia imperscrutabile. L'uomo preistorico ci inviava le sue maledizioni, ci invocava, ci dava il benvenuto – chi poteva dirlo? Eravamo tagliati fuori dalla possibilità di comprendere quanto ci stava intorno; scivolavamo oltre come fantasmi, pieni di stupore e di segreto spavento, come dei sani di mente di fronte a un'esplosione di euforia in un manicomio. Non potevamo capire perché eravamo troppo lontani per ricordare perché viaggiavamo nella notte dell'era primordiale, di epoche ormai scomparse, lasciando appena una traccia – e nessun ricordo.
«La terra non aveva nulla di terrestre. Siamo abituati a guardare il mostro vinto e in catene, ma lì – lì quel che si vedeva era il mostruoso in piena libertà. Non aveva nulla di terrestre, e gli uomini erano... No, non erano disumani. E, sapete, proprio questo era il peggio – il sospetto che non fossero disumani. Era qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità – pari alla nostra – il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato. Brutt'affare. Brutt'affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste dovuto confessare a voi stessi l'esistenza di un'eco, magari debolissima, alla tremenda franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi – pur così lontani dalla notte dei primordi – potevamo comprendere. E perché no? La mente umana è capace di qualsiasi cosa – poiché racchiude in sé ogni cosa, tutto il passato e tutto il futuro. Che cosa avevamo davanti dopotutto? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, ira – chi lo sa? – ma la verità – verità libera dal manto del tempo. Stupore e raccapriccio lasciateli agli sciocchi – chi è uomo sa, e riesce a guardare senza battere ciglio. Certo è necessario essere uomo almeno quanto quelli sulla riva. Si deve affrontare quella verità con la propria autentica sostanza – con la propria forza innata. I principi? Quelli non servono. Sono cose acquisite, vestiti, stracci ornamentali – stracci che se ne volano via alla prima scrollata vigorosa. No; quel che ci vuole è un credo deliberato. C'è qualcosa che mi attrae in quel chiasso infernale – sì? Benissimo; mi metto in ascolto; lo ammetto, ma ho anch'io una voce, e nel bene e nel male la mia parola non si lascerà zittire. Ovviamente uno sciocco è sempre al sicuro, tra la paura dichiarata e i buoni sentimenti. Chi è che brontola? Vi domandate come mai non sia sceso a terra per unirmi alle urla e alla danza? Be', no – non l'ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Mi mancava il tempo. Dovevo armeggiare con biacca e strisce di coperte di lana per dare una mano a fasciare i tubi fallati – ecco perché. Dovevo tenere d'occhio il timone e aggirare i tronchi sommersi e mandare avanti quella bagnarola per amore o per forza. C'era tanta verità alla superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo dovevo badare al selvaggio che faceva il fuochista. Era un esemplare perfezionato della specie; in grado di tenere accesa una caldaia verticale. Se ne stava là, sotto di me, e vi garantisco che guardarlo era edificante quanto vedere un cane in ridicoli calzoni e cappello con le piume andare avanti e indietro sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di istruzioni per un tipo così in gamba. Sbirciava il manometro del vapore e l'indicatore dell'acqua con un evidente sforzo di coraggio – aveva persino i denti affilati, povero diavolo, e la lana della zucca rasata in strani disegni, e tre cicatrici ornamentali su ciascuna guancia. Avrebbe dovuto trovarsi sulla riva a battere le mani e a pestare i piedi, e invece lavorava duro, schiavo di un misterioso sortilegio, e pieno di un sapere che andava migliorando di giorno in giorno. Era utile perché aveva ricevuto istruzioni e quel che sapeva era questo: che qualora l'acqua in quella cosa trasparente fosse sparita, lo spirito del male dentro la caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete e avrebbe messo in atto la sua terribile vendetta. E così lui sudava e alimentava il fuoco e osservava spaventato il vetro (con intorno al braccio un amuleto improvvisato fatto di stracci e, infilato di piatto nel labbro inferiore, un osso levigato grande quanto un orologio) mentre le rive boscose scivolavano indietro lentamente, il breve frastuono spariva nelle interminabili miglia di silenzio – e noi continuavamo ad arrancare, alla volta di Kurtz. Ma i tronchi sommersi erano fitti, l'acqua infida e bassa e davvero pareva che la caldaia contenesse un demonio scorbutico, e così né a me né a quel fuochista restava il tempo per scrutare i nostri pensieri allarmanti.
«Cinquanta miglia circa a valle della Stazione Interna, scorgemmo una capanna di canne, un palo inclinato e malinconico su cui sventolavano gli irriconoscibili brandelli di quella che doveva essere stata una sorta di bandiera, e una catasta di legna ben sistemata. Una vista inattesa. Accostammo alla riva e sulla catasta di legna trovammo un'asse piatta con alcune parole sbiadite scritte a matita. Le deciframmo, dicevano: "Legna per voi. Affrettatevi. Avvicinatevi con cautela". C'era anche una firma, ma era illeggibile – non Kurtz – una parola ben più lunga. Affrettatevi. Dove? Su per il fiume? Avvicinatevi con cautela. Non l'avevamo fatto. Ma l'avvertimento non poteva riferirsi a quel luogo, dove non avremmo potuto trovarlo che ad avvicinamento avvenuto. C'era qualcosa che non andava, più a monte. Ma che cosa – e in che misura? Questo era il problema. Commentammo sfavorevolmente l'imbecillità di quello stile telegrafico. La boscaglia tutt'intorno non diceva nulla e neppure ci consentiva di spingere lo sguardo molto lontano. Una tenda di lacera tela rossa pendeva sull'ingresso della capanna e ci sbatté in faccia tristemente. L'abitazione era stata abbandonata ma si capiva che c'era vissuto un bianco non molto tempo prima. Restava una tavola rustica – un'asse poggiata su due sostegni; in un angolo buio era ammassato un mucchio di rifiuti e, presso la porta, raccolsi un libro. Mancava la copertina e a furia d'essere sfogliate le pagine si erano fatte morbide e sporche; il dorso tuttavia era stato amorevolmente ricucito di recente con un filo di cotone bianco che appariva ancora pulito. Fu un ritrovamento straordinario. Il titolo era: Questioni di tecnica di navigazione, di un certo Towser, Towson – un nome simile – Capitano della Marina di Sua Maestà. L'argomento sembrava piuttosto pesante da mandare giù, con tanto di diagrammi illustrativi e ripugnanti tabelle di dati, e la copia era stata pubblicata sessant'anni prima. Maneggiai quel sorprendente pezzo d'antiquariato con tutta la tenerezza possibile, nel timore che mi si dissolvesse tra le mani. Dentro, il suddetto Towser, Towson – o qualcosa di simile – disquisiva scrupolosamente sul carico di rottura delle catene della nave e del paranco, e su altre questioni del genere. Una lettura non proprio entusiasmante; eppure si coglieva a prima vista un'unicità di propositi, una preoccupazione autentica di affrontare correttamente un lavoro, che donava a queste umili pagine, pensate tanti anni prima, una luce non meramente professionale. Il semplice vecchio uomo di mare, parlando di catene e di paranchi, mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la splendida sensazione di trovarmi a contatto con qualcosa di inconfondibilmente vero. Era già abbastanza straordinario che un libro simile si trovasse lì, ma ancor più sorprendenti erano i commenti a matita scritti a margine e senza dubbio riferiti al testo. Non credevo ai miei occhi! Erano in
codice! Sì, sembrava una scrittura cifrata. Ve lo immaginate un uomo che si porta un libro simile in quel nulla e se lo studia, annotandolo in codice per di più? Che stravaganza, che mistero.
«Da qualche tempo avevo la vaga sensazione di un rumore preoccupante e quando sollevai lo sguardo vidi che la catasta di legna era sparita e il direttore, aiutato da tutti i pellegrini, mi chiamava sbraitando dalla riva. Mi infilai il libro in tasca. Vi garantisco che smettere di leggere fu come strapparmi al rifugio sicuro di una vecchia e solida amicizia.
«Misi in moto la macchina zoppicante. "Deve trattarsi di quel miserabile mercante – quell'intruso" esclamò il direttore, lanciando un'occhiata malevola al luogo che avevamo abbandonato. "Deve essere inglese" dissi io. "La cosa non basterà a tenerlo fuori dai guai, se non fa attenzione" borbottò il direttore con voce cupa. Commentai con candore affettato che nessuno a questo mondo è al sicuro dai guai.
«La corrente era più rapida adesso, il vapore pareva sul punto di esalare l'ultimo respiro, la ruota di poppa girava languidamente e mi sorpresi ad attendere in punta di piedi il successivo battito della pala perché, a dirla tutta, mi aspettavo che da un momento all'altro la maledetta cedesse. Era come osservare le ultime scintille di una vita. E tuttavia arrancavamo ancora. Certe volte mi sceglievo un albero un poco più avanti sulla sponda per misurare la velocità del nostro procedere verso Kurtz, ma lo perdevo regolarmente di vista prima di raggiungerlo. Fissare lo sguardo tanto a lungo sulla stessa cosa era troppo per la pazienza umana. Il direttore dava prova di una meravigliosa rassegnazione. Io mi rodevo e fremevo e presi a ragionare fra me e me domandandomi se avrei parlato a Kurtz apertamente; ma prima ancora di giungere a una conclusione qualsiasi mi resi conto che il mio silenzio, o il mio discorrere, insomma qualunque mio atteggiamento, sarebbe stato affatto superfluo. Che importanza poteva avere quel che uno sapeva o non sapeva? Che importava chi fosse il direttore? In certi momenti si hanno dei veri lampi di intuizione. Ciò che contava in tutta questa storia se ne restava ben sotto la superficie, oltre la mia portata e oltre il mio potere d'intromissione.
«Verso la sera del secondo giorno ritenemmo di trovarci a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io volevo proseguire; ma il direttore, con aria molto seria, mi disse che la navigazione in quel tratto era così pericolosa da rendere consigliabile attendere dove eravamo fino al mattino successivo, dal momento che il sole era già molto basso. Inoltre, sottolineò che se volevamo rispettare l'ammonimento ad avvicinarci con cautela, era meglio farlo durante il giorno – non al crepuscolo o nel buio. Un discorso pieno di buon senso. Otto miglia per noi significavano quasi tre ore di navigazione e già scorgevo delle increspature sospette più in su lungo quel tratto di fiume. Ciononostante quel ritardo mi irritava oltre ogni dire e in modo del tutto irragionevole per di più, poiché dopo tanti mesi una notte in più o in meno non poteva significare granché. Disponendo di una buona scorta di legna e avendo fatto della prudenza il nostro motto, mi fermai nel centro della corrente. In quel tratto il fiume era stretto e diritto, fiancheggiato da sponde alte, come una trincea ferroviaria. L'ombra del crepuscolo vi si insinuò ben prima del tramonto. La corrente era rapida e costante, ma sulla riva gravava una immobilità muta. Gli alberi viventi, intrecciati dai rampicanti e ogni vivente arbusto del sottobosco, fino al più sottile dei ramoscelli e alla più leggera delle foglie, avrebbero potuto essere stati trasformati in pietra. Non si trattava di sonno – sembrava innaturale, come uno stato di trance. Non si udiva il minimo suono, di alcun genere. Si osservava attoniti e nasceva il sospetto di essere diventati sordi – finché, di colpo, scese la notte, a rendere anche ciechi. Intorno alle tre del mattino un grosso pesce balzò dall'acqua e il forte tonfo mi fece trasalire come un colpo di cannone. Al sorgere del sole c'era una nebbia bianca, caldissima e collosa, ancor più accecante della notte. Non si spostava né avanzava; semplicemente stava lì intorno come qualcosa di solido. Alle otto o le nove, forse, si alzò, come si alza una saracinesca. Scorgemmo fugacemente la moltitudine degli alberi immani e l'immenso intrico della giungla sovrastato dalla piccola sfera ardente del sole – tutto perfettamente immobile – poi la bianca saracinesca calò di nuovo dolcemente, come scivolando su guide lubrificate. Ordinai di filare la catena che avevamo cominciato a levare. Prima che finisse di scorrere con un sordo sferragliare, l'aria opaca si riempì lentamente di un grido, acutissimo, come di disperazione infinita. Cessò. Ci giunse alle orecchie un clamore lamentoso, modulato su dissonanze selvagge. La sua totale imprevedibilità mi fece rizzare i capelli sotto il berretto. Non so che effetto ebbe sugli altri: a me sembrò che la foschia stessa si fosse messa a urlare, tanto improvviso s'era levato, e apparentemente da tutti i lati insieme, quel grido lugubre e tumultuoso. Culminò in una precipitosa esplosione di urla d'intensità quasi intollerabile che si interruppe di colpo, lasciandoci tutti quanti irrigiditi in posizioni ridicole, nel tentativo ostinato di decifrare quel silenzio quasi altrettanto eccessivo e sconcertante. "Buon Dio! Che significa?" farfugliò un pellegrino al mio fianco – un omino grasso dai capelli chiari e le basette rosse, che indossava scarponi con l'elastico e un pigiama rosa infilato nelle calze. Altri due rimasero a bocca spalancata per un minuto buono, poi sfrecciarono nella cabina da cui riemersero immediatamente lanciando occhiate terrorizzate, pronti a sparare con un paio di Winchester. Tutto quel che ci riusciva di vedere era il vapore su cui ci trovavamo, con i contorni sfumati come se fosse sul punto di dissolversi e, tutt'intorno, una striscia nebbiosa d'acqua, non più larga di mezzo metro – nient'altro. Il resto del mondo era nel nulla, per quanto i nostri occhi e orecchi potessero stabilire. Proprio nel nulla. Sparito, dissolto; spazzato via senza lasciarsi dietro un sussurro né un'ombra.
«Mi spostai avanti e ordinai di alare a picco la catena così da esser pronti a levare l'ancora e a partire subito in caso di necessità. "Ci attaccheranno?" bisbigliò una voce atterrita. "Finiremo tutti massacrati in questa nebbia", mormorò un'altra. I volti erano contratti dalla tensione, le mani tremavano leggermente, gli occhi si scordavano di ammiccare. La cosa più curiosa da osservare era la differenza di espressione tra i bianchi e i neri del nostro equipaggio, che su quella parte del fiume erano stranieri quanto noi, sebbene le loro case fossero a sole ottocento miglia di distanza. I bianchi, ovviamente assai sconvolti, avevano anche l'aria curiosa di essere dolorosamente turbati da quel chiasso così scandaloso. Gli altri avevano un'espressione attenta, naturalmente carica d'interesse; ma i loro visi erano per lo più tranquilli, persino quelli dell'uno o due che erano contratti dallo sforzo nell'alare la catena. Molti si scambiarono brevi battute gutturali che parvero risolvere la faccenda con generale soddisfazione. Mi era accanto il loro capo, un giovane nero dal petto robusto, le narici feroci e la capigliatura ripartita accuratamente in riccioletti unti, rigorosamente drappeggiato in una veste blu scura a frange. "Aha!" dissi, solo per apparire cortese. "Prendili" scattò lui spalancando gli occhi iniettati di sangue e rivelando per un attimo i denti affilati – "prendili. Dalli a noi." "A voi, eh?" dissi io; "e voi che ve ne fareste?" "Mangiamo!" replicò secco e, appoggiandosi col gomito al corrimano, fissò lo sguardo nella nebbia in atteggiamento dignitoso e profondamente meditabondo. La cosa mi avrebbe senza dubbio scandalizzato, se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni dovevano avere una gran fame: una fame che doveva essere andata aumentando progressivamente da almeno un mese a quella parte. Erano stati ingaggiati per un periodo di sei mesi (credo che nessuno di loro avesse un'idea del tempo chiara quanto quella che possiamo avere noi alla fine di innumerevoli secoli. Essi appartenevano ancora agli inizi del tempo – non potevano rifarsi ad alcuna esperienza del passato, per trarne, come dire, degli insegnamenti) e, naturalmente, fin tanto che su un pezzo di carta stava scritto un accordo rispettoso di qualche ridicola legge fatta a valle del fiume, a nessuno passava per la mente di preoccuparsi di come sarebbero vissuti. Certo, si erano portati un po' di carne marcia di ippopotamo che comunque non avrebbe potuto durare molto, quand'anche i pellegrini, in un baccano indiavolato, non ne avessero gettata in acqua una considerevole quantità. L'azione parve arbitraria; ma fu in realtà un caso di legittima difesa. Non si può respirare carne marcia di ippopotamo da svegli, dormendo, mangiando, e intanto mantenere una precaria presa sull'esistenza. Per di più, ogni settimana gli era stata data una paga pari a tre pezzi di filo di ottone, lunghi più o meno venti centimetri ciascuno; in teoria, con quelli avrebbero dovuto procurarsi le provviste nei villaggi lungo il fiume. Potete immaginare quanto funzionasse una cosa del genere. O non c'erano villaggi, o la popolazione era ostile, oppure il direttore che, come tutti noi, si nutriva di cibo in scatola con l'aggiunta occasionale di qualche vecchio montone, si rifiutava di fermare il vapore per ragioni più o meno recondite. Così, a meno di trangugiare il filo stesso o di farne ami da pesca, non riesco proprio a capire quale vantaggio potessero trarre dal loro stravagante salario. Devo dire tuttavia che esso veniva pagato con una precisione degna di una grande e rispettabile società commerciale. Per il resto, l'unica cosa che avevano da mangiare – benché all'aspetto non apparisse affatto commestibile – che io vidi in loro possesso erano dei pezzi di una specie di pasta mezza cruda, color lavanda sporco, che tenevano ravvolta in foglie e di cui ogni tanto ingoiavano un pezzetto ma tanto piccolo che sembrava più un gesto fatto per salvare le apparenze che non l'autentica intenzione di tenersi in vita. Quello che, a pensarci, mi meraviglia ancora adesso, è perché, in nome di tutti i demoni divoratori della fame, non si siano buttati su di noi – erano trenta contro cinque – e non si siano fatti una bella scorpacciata una volta per tutte. Erano uomini grandi e robusti, con ben poca cognizione delle possibili conseguenze, coraggiosi, tuttora forti, sebbene la pelle avesse perso il suo lucore e i muscoli si fossero inflacciditi. Capii dunque che a trattenerli era entrato in gioco qualcosa, uno di quei misteri umani che sconvolgono ogni probabilità. Li osservavo con improvviso rinnovato interesse – non perché pensassi di poter finire divorato da lì a non molto, sebbene debba ammettere che proprio allora vidi – come sotto una nuova luce – quanto malsani apparissero i pellegrini, e sperai, proprio così, sperai che il mio aspetto non fosse altrettanto – come posso dire – inappetibile: un tocco di vaneggiante compiacimento che ben si adattava all'atmosfera onirica che in quel momento pervadeva ogni mia giornata. Forse avevo anche un po' di febbre. Non si può vivere con il dito costantemente sul polso. Avevo sovente "un po' di febbre" o un accenno di qualche altro malessere – zampate giocose di quella terra selvaggia, avvisaglie dell'assalto più serio che sarebbe arrivato a suo tempo. Sì; li osservavo come si osserva qualsiasi essere umano, curioso dei loro impulsi, motivazioni, capacità, debolezze, di fronte alla prova di una inesorabile necessità fisica. Ritegno! Ma quale ritegno era ancora possibile? Era forse superstizione, disgusto, rassegnazione, paura – o magari un senso di onore primitivo? Non c'è paura che tenga di fronte alla fame, non c'è rassegnazione capace di consumarla, il disgusto semplicemente non esiste al suo cospetto; e per quanto riguarda la superstizione, le credenze o quelli che si possono chiamare principi, sono meno che pula spazzata dal vento. Non conoscete l'inferno di una lunga inedia, il suo tormento esasperante, i suoi neri pensieri, quella lugubre ferocia che vi cova? Be', io sì. Un uomo ha bisogno di tutta la forza innata per combattere la fame come si deve. È davvero più facile far fronte a un lutto, al disonore, alla perdizione della propria anima – che a quel genere di fame senza tregua. Triste, ma vero. E questa gente oltretutto non aveva alcuna ragione al mondo di farsi tanti scrupoli. Ritegno! Mi sarebbe parso altrettanto normale aspettare del ritegno da una iena che vaghi affamata tra i cadaveri su un campo di battaglia. Ma di fronte a me stava la realtà – una realtà abbagliante, visibile, come la spuma sugli abissi del mare, come un'increspatura su un enigma insondabile, un mistero più grande – a pensarci bene – della curiosa, inspiegabile nota di disperato dolore nel clamore selvaggio che si era levato accanto a noi dalla riva del fiume, dietro il cieco candore della nebbia.
«Due pellegrini stavano litigando, tra sussurri concitati, sulla sponda di provenienza. "Sinistra." "No, no; ma che dici? Destra, destra, non c'è dubbio." "La faccenda è gravissima" disse la voce del direttore alle mie spalle; "sarebbe terribile per me se accadesse qualcosa a Mr Kurtz prima del nostro arrivo." Lo guardai e fui assolutamente sicuro della sua sincerità. Era proprio il tipo d'uomo che ci tiene a salvare le apparenze. Era quella la sua forma di ritegno. Ma quando borbottò qualcosa circa la possibilità di proseguire subito, non mi presi neppure il fastidio di rispondergli. Sapevo, e lo sapeva anche lui, che era impossibile. Se solo avessimo rinunciato alla presa sul fondo, ci saremmo ritrovati completamente sospesi – in balia dello spazio. Non avremmo saputo dire dove stavamo andando – in giù, in su o di traverso – almeno finché non fossimo andati a sbattere contro una delle sponde – che per altro sulle prime non avremmo saputo riconoscere. Naturalmente non accennai a partire. Non mi andava l'idea di schiantarmi da qualche parte. Sarebbe stato difficile immaginare un posto più lugubre per un naufragio. Che si annegasse subito o no, si poteva contare su una morte rapida in un modo o nell'altro. "La autorizzo a correre qualsiasi rischio" disse, dopo un breve silenzio. "Mi rifiuto di correrne" replicai brusco: era esattamente la risposta che si aspettava, sebbene il tono dovette sorprenderlo. "Bene, devo affidarmi al suo giudizio. Il capitano è lei" disse con affettata cortesia. Per tutto ringraziamento, gli voltai le spalle e fissai lo sguardo nella nebbia. Quanto sarebbe durata? Che vista estremamente sconsolante. L'avvicinamento a questo Kurtz che arraffava avorio in quella maledetta boscaglia era cosparso di tanti pericoli da fare di lui una specie di bella addormentata in un castello di fiaba. "Crede che attaccheranno?" domandò il direttore in tono confidenziale.
«Non credevo che l'avrebbero fatto per una serie di ovvie ragioni. Una di queste era la nebbia fitta. Se avessero abbandonato la riva a bordo delle canoe vi si sarebbero persi, come sarebbe accaduto a noi se avessimo tentato di muoverci. D'altra parte, anche la giungla mi era sembrata affatto impenetrabile su entrambe le sponde – eppure vi si agitavano occhi, occhi che ci avevano visti. Gli arbusti sulle rive erano certamente molto fitti, ma la boscaglia retrostante doveva essere penetrabile. Tuttavia, durante la breve schiarita non avevo visto canoe in quel tratto di fiume – di certo nessuna di fronte al vapore. Ma ciò che soprattutto rendeva inconcepibile ai miei occhi l'idea di un assalto era la natura del rumore – delle grida che avevamo udito. Non c'era in esse quel carattere di ferocia che fa presagire un'intenzione immediatamente ostile. Per quanto inattese, selvagge e violente, mi avevano comunicato un'impressione di irrefrenabile sofferenza. Per qualche motivo, la vista del vapore aveva riempito quei selvaggi di uno smisurato dolore. Se pericolo c'era, spiegai, dipendeva dal nostro trovarci tanto vicini a una grande passione umana senza freni. Anche l'estremo dolore può alla fine trasformarsi in violenza – ma di solito assume la forma dell'apatia...
«Avreste dovuto vedere gli occhi sgranati dei pellegrini! Gli mancava il coraggio di prendermi in giro, o magari insultarmi: ma credo pensassero che mi aveva dato di volta il cervello – per la paura, probabilmente. Tenni una vera e propria conferenza. Cari ragazzi, era inutile stare a preoccuparsi. Organizzare un turno di guardia? Be', figuratevi se non scrutavo la nebbia nella speranza dei segni di una schiarita, come un gatto tiene d'occhio un topo; ma per tutto il resto gli occhi non ci erano d'aiuto più che se fossimo stati sepolti a miglia di profondità sotto un mucchio di bambagia. E se ne riceveva anche la stessa sensazione – soffocante, calda, opprimente. E per quanto stravagante potesse sembrare, quanto andavo dicendo trovava preciso riscontro nella realtà. Ciò cui in seguito alludemmo come a un attacco era stato in effetti un tentativo di respingerci. L'azione era lontanissima dal potersi considerare aggressiva – non era neppure difensiva, nell'accezione comune del termine: fu intrapresa sotto l'impulso della disperazione, e nell'essenza era puramente protettiva.
«Direi che si sviluppò un paio d'ore dopo la schiarita ed ebbe inizio in un punto del fiume grosso modo un miglio e mezzo a valle della stazione di Kurtz. Avevamo appena superato con enorme fatica un'ansa, quando in mezzo alla corrente vidi un isolotto, nulla più che un poggio erboso di un bel verde brillante. Non si scorgeva nient'altro di simile; ma appena ci inoltrammo più su in mezzo a quel tratto mi accorsi che era l'estrema punta di un banco di sabbia o piuttosto di una catena di secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e tutte visibili sotto il pelo dell'acqua esattamente come, sotto pelle, si scorge la spina dorsale di un uomo. Ora, per quanto mi parve di capire, potevo andare tanto a destra quanto a sinistra. Naturalmente entrambi i canali mi erano sconosciuti. Le sponde sembravano piuttosto simili, la profondità appariva la stessa; ma essendo stato informato che la stazione si trovava sul versante ovest, mi spinsi naturalmente in quella direzione.
«Ci eravamo appena introdotti quando mi resi conto che era assai più stretto di quanto avessi previsto. Alla nostra sinistra c'era una lunga secca ininterrotta, e a destra una sponda scoscesa coperta di fitta vegetazione. Sopra i cespugli stavano file serrate di alberi. I rami sottili sporgevano fitti sul fiume, di quando in quando uno più grosso si proiettava rigido sulla corrente. Era ormai pomeriggio inoltrato, la foresta aveva un volto cupo e un'ampia striscia d'ombra era già calata sull'acqua. In quell'ombra ci inoltrammo – molto adagio, come potete immaginare. Mi tenevo ben accosto a terra – l'acqua era più fonda accanto alla riva, come mi indicava lo scandaglio.
«Uno dei miei amici affamati e astinenti scandagliava a prua proprio sotto di me. Il vapore era esattamente come una chiatta munita di ponte. Sul ponte c'erano due piccole tughe di tek, con porte e finestre. La caldaia era all'estrema prua e le macchine a poppa. Copriva tutto un tetto leggero, sostenuto da puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto e, di fronte al fumaiolo, una piccola cabina costruita con assi leggere fungeva da casotto del timone. Conteneva una cuccetta, due sgabelli da campo, una Martini-Henry carica appoggiata in un angolo, un tavolino e la ruota del timone. Aveva una grossa porta sul davanti e due ampi portelli sui lati. Ovviamente, tutte queste aperture rimanevano sempre spalancate. Io trascorrevo le mie giornate appollaiato lassù, all'estremo di prua di quel tetto, davanti alla porta. La notte dormivo, o almeno tentavo di farlo, in cuccetta. Un negro atletico di qualche tribù della costa, istruito dal mio povero predecessore, era il timoniere. Ostentava un paio di orecchini in ottone, indossava un panno blu dalla vita alle caviglie e aveva una grandissima opinione di se stesso. Era l'idiota più imprevedibile che avessi mai incontrato. Finché gli si stava a fianco, timonava con estrema spavalderia; ma appena ti perdeva di vista diventava preda di una paura vergognosa e si lasciava prendere la mano da quel vaporetto malandato nel giro di un minuto.
«Stavo osservando l'asta dello scandaglio, molto irritato dal fatto che ogni volta affondava nell'acqua un po' meno, quando vidi il mio scandagliatore interrompere di colpo quel che stava facendo e distendersi piatto sul ponte senza neppure darsi la pena di alzare l'asta. Comunque, non la lasciò andare e quella continuò a strisciare nell'acqua. Contemporaneamente il fuochista, che pure vedevo sotto di me, si sedette d'improvviso davanti alla caldaia e abbassò la testa. Ero sbalordito. Ma rapidissimamente il mio sguardo dovette tornare al fiume, perché c'era un tronco affiorante nel passaggio. Tutto intorno volavano dei bastoncini, dei bastoncini minuscoli – fitti: mi sibilavano davanti al naso, cadevano sotto di me e colpivano il casotto del timone alle mie spalle. Per tutto questo tempo il fiume, la sponda e la foresta rimasero in silenzio – un silenzio perfetto. Sentivo solo lo sciaguattare sordo della ruota di poppa e il ticchettio di queste cose. Aggirammo l'ostacolo goffamente. Frecce, per Giove! Ce le tiravano addosso. Mi precipitai dentro per chiudere il portello che si affacciava sul lato di terra. Il timoniere idiota, le mani sulle maniglie della ruota, sollevava in alto le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva le labbra, sembrava un cavallo trattenuto dalle briglie. Accidenti a lui! Noi nel frattempo barcollavamo a tre metri dalla riva. Dovetti sporgermi in fuori per chiudere il pesante sportello e, tra le foglie, vidi una faccia alla stessa altezza della mia che mi squadrava con aria feroce e risoluta; poi d'un tratto, come se un velo mi si squarciasse davanti agli occhi, nel fondo scuro del groviglio della foresta scorsi petti nudi, braccia, gambe, occhi pieni di collera – la boscaglia brulicava di membra umane in movimento, scintillanti, color del bronzo. Le frasche scosse ondeggiavano, frusciavano, le frecce seguitavano a volare e poi il portello si chiuse. "Raddrizza la rotta" dissi al timoniere. Quello teneva la testa rigida, la faccia tesa in avanti; ma roteava gli occhi seguitando ad alzare e abbassare piano i piedi, con un po' di schiuma alla bocca. "Calmati!" dissi infuriato. Tanto valeva ordinare a un albero di non oscillare al vento. Mi lanciai fuori. Sotto di me c'era un trepestio sul ponte di ferro; esclamazioni confuse; una voce gridò: "Non si può invertire la rotta?". Sull'acqua davanti a noi vidi un'increspatura a forma di V. Oh no! Un altro tronco! Sotto i miei piedi esplosero dei colpi di fucile. I pellegrini avevano aperto il fuoco con i Winchester, senza far altro che sparare piombo nella boscaglia. Si alzò un fumo infernale che si diresse lentamente in avanti. Bestemmiai. Non riuscivo più a vedere l'increspatura né il tronco. Rimasi in piedi sulla porta, a scrutare, e le frecce arrivavano a sciami. Può darsi che fossero avvelenate, ma a vederle si sarebbero dette incapaci di far male a un gatto. La boscaglia prese a ululare. I nostri taglialegna levarono un grido di guerra; un colpo di fucile proprio dietro di me mi assordò. Gettai un'occhiata di sopra la spalla, il casotto del timone era ancora pieno di baccano e fumo quando mi precipitai alla ruota. Quell'idiota di un negro aveva mollato tutto per aprire il portello e far fuoco con la Martini-Henry. Se ne stava dritto di fronte all'ampia apertura con gli occhi torvi, e io gli gridai di tornare al suo posto mentre correggevo l'improvvisa virata del vapore. Anche a volerlo non c'era spazio per invertire; il tronco doveva essere molto vicino davanti a noi in quell'inferno di fumo, non c'era tempo da perdere, quindi accostai quanto possibile a riva – dritto sulla riva dove sapevo che l'acqua era fonda.
«Ci defilammo adagio lungo gli arbusti sporgenti, in un turbine di ramoscelli spezzati e foglie volanti. La sparatoria di sotto cessò di colpo, come avevo previsto quando avessero dato fondo ai caricatori. Ritrassi la testa a un baluginio accompagnato da un sibilo che attraversò la cabina del timone entrando da un portello per sfrecciare via dall'altro. Superando con lo sguardo il folle timoniere, che gridava verso la sponda scuotendo il fucile scarico, scorsi delle forme confuse di uomini che correvano piegati in due e saltavano, strisciavano, nette, incomplete, evanescenti. Di fronte al portello comparve nell'aria qualcosa di grosso, il fucile finì fuori bordo e l'uomo indietreggiò rapido, mi rivolse da sopra la spalla uno sguardo indescrivibile, profondo e familiare e si accasciò ai miei piedi. Picchiò la tempia due volte contro la ruota del timone, e l'estremità di ciò che sembrava un lungo bastone sbatté da una parte e dall'altra facendo cadere uno sgabello da campo. Sembrava che dopo aver strappato quell'arnese a qualcuno a riva, lo sforzo gli avesse fatto perdere l'equilibrio. Il fumo sottile si era dissolto, avevamo anche superato il tronco affiorante, e guardando avanti, mi resi conto che tra meno di cento metri avrei potuto scostarmi dalla sponda; ma mi sentivo i piedi così caldi e bagnati che dovetti abbassare lo sguardo. L'uomo era rotolato sulla schiena e mi guardava fisso; con entrambe le mani serrava quel bastone. Era l'asta di una lancia che scagliata o affondata attraverso il portello lo aveva colpito nel fianco, poco sotto le costole; la lama era penetrata del tutto, scomparendo alla vista dopo aver aperto una ferita impressionante; avevo le scarpe piene di sangue; una pozza scura e lucente si stendeva immobile sotto la ruota del timone; gli occhi dell'uomo brillavano di un bagliore straordinario. La sparatoria riprese. Lui mi rivolse uno sguardo ansioso, aggrappandosi alla lancia come a qualcosa di prezioso, con l'aria di temere che gliela volessi portare via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi dal suo sguardo e badare al timone. Con una mano annaspai sopra il capo cercando la corda della sirena e la tirai furiosamente scatenando una serie di fischi. Il tumulto di grida irate e bellicose cessò di colpo, poi dal fondo della foresta uscì un gemito lungo e tremulo di cupo terrore e assoluta disperazione, come quello che immagino potrebbe segnare la fuga dell'ultima speranza dalla terra. Ci fu un grande tumulto nella boscaglia; la pioggia di frecce si interruppe, alcuni spari isolati echeggiarono lontano – infine il silenzio, nel quale tornai a distinguere il battito lento della ruota di poppa. Puntai la barra del timone tutta a dritta quando sulla soglia comparve, sconvolto e accaldato, il pellegrino in pigiama rosa. "Mi manda il direttore..." prese a dire con voce formale. Poi si interruppe bruscamente. "Buon Dio!" disse, guardando il ferito.
«Noi due bianchi stavamo in piedi davanti a lui che avvolgeva entrambi col suo sguardo lucido e indagatore. Vi giuro, sembrava che da un momento all'altro ci avrebbe rivolto una domanda in una lingua comprensibile; invece morì senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza il minimo fremito muscolare. Solo all'ultimo momento, quasi rispondesse a un segnale a noi invisibile, a un sussurro che noi non potevamo sentire, aggrottò gravemente la fronte, e quell'aggrottamento conferì alla sua nera maschera di morte un'espressione seria, pensosa e carica di minaccia. Il bagliore di quello sguardo inquisitore si spense subito in un vuoto vitreo. "Sa timonare?" domandai impaziente all'agente. Aveva un'aria molto dubbiosa; io comunque lo afferrai per un braccio e lui capì subito che era mia intenzione metterlo al timone, che fosse o meno in grado di starci. A dire la verità, avevo un'ansia morbosa di cambiarmi scarpe e calze. "È morto", mormorò il tipo, enormemente sconvolto. "Ah, non c'è dubbio" dissi io, tirando via i lacci delle scarpe come impazzito. "E, a proposito, scommetto che a quest'ora è morto anche Mr Kurtz."
«Per il momento, quello era il pensiero dominante. C'era un senso di assoluta delusione, come se avessi scoperto di aver lottato per raggiungere qualcosa che non aveva sostanza. Non avrei potuto essere più disgustato se avessi compiuto tutto quel viaggio al solo scopo di parlare con Mr Kurtz. Parlare con... Scagliai una scarpa fuori bordo e mi convinsi che era proprio quello ciò che con tanta ansia avevo atteso – parlare con Kurtz. Feci la strana scoperta di non averlo mai immaginato intento a fare qualcosa, non so se mi spiego, ma solo a discorrere. Non mi dicevo: "Ora non lo vedrò più", oppure: "Ora non potrò più stringergli la mano", ma: "Ora non lo udrò più". Quell'uomo si presentava come una voce. Non che non lo collegassi con certe azioni, ovviamente. Non mi era forse stato raccontato con tutti i toni dell'invidia e dell'ammirazione come avesse raccolto, barattato, ottenuto con la truffa o persino rubato più avorio di tutti gli altri agenti messi insieme? Non era questo il punto. Il punto stava nel suo essere una creatura dotata, e tra tutte le sue doti quella che emergeva maggiormente, quella che suggeriva l'impressione di una reale presenza era la sua abilità discorsiva, le sue parole – il dono dell'espressione, stupefacente, illuminante, esaltante e spregevole al massimo grado, un fiume di luce pulsante o l'infido fluire da un cuore di impenetrabili tenebre.
«L'altra scarpa volò in quel dio-demonio d'un fiume. Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi, lui è svanito – il dono è svanito, stroncato da una lancia, una freccia, una mazza. Non sentirò mai quell'uomo parlare dopo tutto – e il mio dolore si caricò di un'emozione affatto straordinaria, pari a quella che avevo rilevato nell'urlo straziato dei selvaggi nella boscaglia. Per qualche ragione non avrei potuto provare un maggiore senso di abbandono, neppure se mi fosse stata rubata una convinzione profonda o se avessi mancato il destino della mia vita... C'è qualcuno che sospira in modo incivile, perché? Assurdo? Ebbene, assurdo. Buon Dio! possibile che non sia concesso... Su, passatemi un po' di tabacco...»
Ci fu una pausa di profonda immobilità, poi si accese un fiammifero e apparve il viso affilato di Marlow, consunto, incavato, con pieghe cadenti e palpebre abbassate e un'aria attenta e concentrata; mentre tirava vigorosamente dalla pipa, pareva avanzare e ritirarsi nella notte al baluginio regolare della fiammella. Il fiammifero si spense.
«Assurdo!» gridò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare... Eccovi tutti qui, ciascuno con i suoi due bravi recapiti, come una nave in disarmo ormeggiata a due ancore, un macellaio dietro l'angolo, un poliziotto dietro quell'altro, appetiti eccellenti e temperatura normale – voglio dire – normale tutto l'anno. E voi dite: Assurdo! Assurdo – un accidente! Assurdo! Miei cari ragazzi, che cosa ci si può aspettare da un uomo che per puro nervosismo aveva appena gettato in acqua un paio di scarpe nuove? Ora che ci penso, mi sorprendo di non esser scoppiato in lacrime. Nel complesso, sono orgoglioso della mia forza d'animo. L'idea di avere perduto il privilegio inestimabile di ascoltare il tanto dotato Kurtz mi aveva colpito nel vivo. Naturalmente, mi sbagliavo. Il privilegio mi stava aspettando. Oh, certo, sentii fin troppo. E avevo ragione, anche. Una voce. Era poco più di una voce. E io udii – lui – lei – questa voce – altre voci – tutti quanti erano poco più che voci – e il ricordo stesso di quel periodo mi aleggia ancora intorno, impalpabile, come la vibrazione morente di un immenso cicaleccio, sciocco, atroce, sordido, selvaggio, o semplicemente meschino, privo di qualsiasi significato. Voci, voci – anche la ragazza – ora...»
Rimase a lungo in silenzio.
«Infine misi a tacere il fantasma delle sue doti con una menzogna» prese a dire d'improvviso. «Ragazza! Cosa? Ho nominato una ragazza? No, lei è fuori da questa storia – assolutamente. Loro – voglio dire le donne – ne sono fuori – dovrebbero esserne fuori. Dobbiamo aiutarle a restare in quel loro mondo meraviglioso, se non vogliamo peggiorare il nostro. Oh, lei doveva restarsene fuori. Avreste dovuto sentire il cadavere dissotterrato di Mr Kurtz mentre diceva: "La mia promessa sposa". Vi sareste resi conto voi stessi di quanto lei ne fosse completamente fuori. E l'altissimo osso frontale di Mr Kurtz! Dicono che talvolta i capelli seguitano a crescere, ma questo – ah – esemplare era calvo in modo impressionante. La terra selvaggia gli aveva accarezzato la testa ed eccolo lì, calvo come una palla – una palla d'avorio; lo aveva sfiorato e – guarda – era appassito; se l'era preso, l'aveva amato, abbracciato, gli era entrata nelle vene, aveva consumato la sua carne e sigillato la sua anima alla propria attraverso gli inimmaginabili cerimoniali di qualche iniziazione diabolica. Era il suo beniamino viziato e vezzeggiato. Avorio? Direi proprio di sì. A mucchi, a cataste. La vecchia capanna di fango era piena da scoppiare. Veniva da pensare che non fosse rimasta una sola zanna sopra o sotto la terra dell'intera regione. "Per lo più fossile" aveva commentato il direttore con aria sprezzante. Non era più fossile di quanto lo sia io; ma lo chiamano fossile quando è dissotterrato. Sembra che questi negri in effetti talvolta seppelliscano le zanne – ma evidentemente non riuscirono a seppellire questa partita abbastanza a fondo da sottrarre il dotato Mr Kurtz al proprio destino. Ne riempimmo il vapore, e fummo costretti ad accatastarne un mucchio in coperta. Così poté vederlo e continuare a goderne finché gli fu possibile vedere, perché tale piacere non si smorzò in lui sino alla fine. Avreste dovuto sentirlo quando diceva: "Il mio avorio". Oh sì, io lo udii. "La mia promessa sposa, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio..." tutto gli apparteneva. Io trattenevo il fiato in attesa di udire la terra selvaggia scoppiare in una formidabile risata che avrebbe scosso le stelle fisse dalla loro sede. Gli apparteneva tutto – ma questa era un'inezia. La questione era stabilire a che cosa appartenesse lui, quante potenze delle tenebre ne rivendicassero il possesso. Era questa la riflessione che dava i brividi per tutto il corpo. Cercare di immaginarlo era impossibile – e non era neppure consigliabile. Aveva occupato un soglio eccelso tra i demoni di quella terra – lo dico in senso letterale. Voi non potete capire. E come potreste? – con un buon selciato compatto sotto i piedi, circondati da vicini cortesi pronti a incoraggiarvi o ad attaccarvi, mentre muovete passi cauti tra il macellaio e il poliziotto, nel sacro terrore dello scandalo e delle forche e dei manicomi – come potreste immaginare quella particolare regione dell'era primordiale in cui la solitudine – una solitudine totale, senza un poliziotto – e il silenzio – un silenzio totale, senza la voce ammonitrice di un cortese vicino che sussurri la pubblica opinione – conducono i passi di un uomo liberi da ostacoli? Queste piccole cose costituiscono l'immane differenza. Quando vengono meno, si è costretti a ripiegare sulla propria forza innata, sulla propria attitudine alla fedeltà. Naturalmente si può anche essere troppo idioti per finir male – tanto ottusi da non accorgersi neppure di essere assaliti dalle potenze delle tenebre. Io la vedo così, nessun idiota ha mai venduto l'anima al diavolo: l'idiota è troppo idiota, o il diavolo troppo diavolo – chi lo sa. Oppure si può essere creature tanto clamorosamente esaltate da essere affatto ciechi e sordi a qualunque cosa non sia pura visione o suono celeste. In quel caso la terra non è che un punto d'appoggio – e non pretendo di stabilire se l'essere così rappresenti un vantaggio o uno svantaggio. Ma la maggior parte di noi non è né una cosa né l'altra. Per noi la terra è un posto dove vivere, un posto dove siamo obbligati a fare i conti con immagini, suoni, e anche odori, per Giove! – respirare ippopotamo morto, per così dire, senza lasciarsi contaminare. Ed è proprio qui, mi seguite? che entra in gioco la forza, la fiducia nella propria capacità di scavare buche discrete nelle quali seppellire la roba – il potere di devozione non a se stessi, ma a un impegno oscuro ed estenuante. Il che è ben difficile. Badate, non tento di giustificarmi né di spiegare – sto solo cercando di rendere conto a me stesso di... di... Mr Kurtz – dell'ombra di Mr Kurtz. Prima di dileguarsi del tutto, questo fantasma iniziato giunto dal fondo del Nulla mi onorò delle sue sconvolgenti confidenze. E questo perché si poteva rivolgere a me in inglese. Il Kurtz originario era stato in parte educato in Inghilterra, e – come lui stesso ebbe la gentilezza di dichiarare – riponeva le sue simpatie nel posto giusto. Sua madre era per metà inglese, suo padre per metà francese. L'Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e di lì a poco seppi che la Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva giustamente affidato l'incarico di redigere un rapporto per orientarsi nella sua attività futura. E lui l'aveva pure scritto. L'ho visto. L'ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma un po' caricato, mi pare. Aveva trovato il tempo di stilare diciassette pagine fitte! Ma questo doveva essere accaduto prima che – diciamo – i nervi gli cedessero, portandolo ad assistere a certe danze notturne culminanti in riti innominabili, i quali – secondo le varie testimonianze che mio malgrado raccolsi – venivano celebrati in suo onore – capite? – in onore di Mr Kurtz in persona. Comunque era un bel pezzo di prosa. Anche se, alla luce delle successive informazioni, il paragrafo iniziale mi sembra ora carico di presagi sinistri. Incominciava argomentando che noi bianchi, dato il livello di sviluppo raggiunto, "dobbiamo necessariamente apparire loro [ai selvaggi] con la natura di esseri soprannaturali – li avviciniamo con la potenza di una divinità" e così via. "Attraverso il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere benefico in pratica illimitato" eccetera, eccetera. Da quel punto, egli spiccava il volo trascinandomi con sé. L'arringa era fantastica, anche se difficile da ricordare, voi capite. Mi diede l'impressione di una Immensità esotica governata da un'augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era il potere illimitato dell'eloquenza – delle parole – di nobili parole ardenti. Nessun dettaglio pratico veniva a interrompere il magico fluire delle frasi, a meno che una specie di nota a piè dell'ultima pagina, evidentemente scarabocchiata molto dopo con mano incerta, non possa essere considerata un'esposizione di metodo. Era semplicissima e così alla fine di quel toccante appello a ogni sentimento altruistico abbagliava, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno. "Sterminate tutti i bruti!" La cosa curiosa poi è che apparentemente egli doveva avere del tutto scordato il prezioso post scriptum, poiché più tardi, quando in un certo senso si riebbe, mi esortò varie volte ad avere buona cura del "mio opuscolo" (lo chiamava così), che senza dubbio avrebbe avuto in futuro un'influenza positiva sulla sua carriera. Ottenni informazioni dettagliate su tutte queste cose e, per di più, come risultò poi, fui proprio io a dovermi prendere cura della sua memoria. Per essa ho fatto tanto da guadagnarmi il diritto inconfutabile di consegnarla, se volessi, a un eterno riposo nell'immondezzaio del progresso, in mezzo a tutti i rifiuti e, metaforicamente parlando, a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, come vedete, non mi è dato di scegliere. Egli non sarà dimenticato. Qualsiasi cosa sia stato, non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o terrorizzare le anime semplici suscitando esasperanti sabba in suo onore; sapeva anche riempire l'animo meschino dei pellegrini di amare angosce: ebbe almeno un amico devoto e si conquistò in questo mondo un'anima che non era né semplice, né infestata di egoismo. No; non posso dimenticarlo, benché non mi senta di affermare che quell'individuo valesse proprio la vita che andò perduta nel raggiungerlo. Il mio timoniere defunto mi mancò moltissimo – ne sentivo già la mancanza quando il suo corpo giaceva ancora nel casotto del timone. Può darsi che tanto rimpianto per un selvaggio che non contava più di un granello di sabbia in un nero Sahara vi paia strano. Ebbene, capirete, aveva fatto qualcosa, aveva retto il timone, per mesi lo avevo avuto alle mie spalle – un aiuto – uno strumento. Era una sorta di sodalizio. Lui governava per me – io dovevo prendermi cura di lui, mi preoccupavo delle sue manchevolezze, e così si era sviluppato un legame sottile, di cui mi resi conto soltanto quando si interruppe bruscamente. E la profonda intimità dello sguardo che mi aveva rivolto quando era stato colpito è rimasta nella mia memoria fino a oggi – come l'appello a una remota parentela proclamata nel momento estremo.
«Povero idiota! Se solo avesse lasciato chiuso il portello. Non aveva freni, nessun freno – proprio come Kurtz – un albero in balia del vento. Subito dopo essermi infilato nei piedi un paio di ciabatte asciutte lo trascinai fuori, dopo avergli estratto la lancia dal fianco, un'operazione che confesso portai a compimento con gli occhi ben chiusi. I suoi talloni superarono insieme lo zoccoletto della porta; le spalle mi premevano sul petto; lo abbracciavo disperatamente da dietro. Oh, era pesante, pesante; credo più pesante di qualsiasi uomo sulla faccia della terra. Infine, senza tante cerimonie lo scaricai in acqua. La corrente se lo inghiottì come un ciuffo d'erba e vidi il cadavere ruotare su se stesso due volte prima di sparire alla vista per sempre. Tutti i pellegrini e il direttore si erano radunati ormai sul ponte di manovra accanto al casotto del timone schiamazzando fra loro come uno stormo di gazze impazzite, e ci fu un mormorio scandalizzato per la mia spietata tempestività. Non capisco perché ci tenessero ad avere d'attorno quel cadavere. Magari per imbalsamarlo. Ma dal ponte sottostante avevo anche udito un altro mormorio, assai allarmante. Gli amici taglialegna erano altrettanto scandalizzati, e con maggior ragione – benché ammetto che tale ragione fosse del tutto inammissibile. Oh, del tutto. Avevo stabilito fra me e me che se il mio defunto timoniere doveva essere divorato, soltanto i pesci lo avrebbero avuto. Da vivo, era stato un timoniere davvero di second'ordine, ma come cadavere poteva rappresentare una tentazione di prima categoria e magari scatenare qualche guaio allarmante. Inoltre, avevo fretta di recuperare il timone, dato che l'uomo in pigiama rosa si dimostrava del tutto incompetente come sostituto.
«Così feci non appena ebbe termine il semplice funerale. Procedevamo a mezza forza, mantenendoci proprio al centro della corrente, e io ascoltavo quanto si diceva intorno a me. Avevano rinunciato a Kurtz, avevano rinunciato alla stazione; Kurtz era morto, dicevano, e la stazione bruciata – eccetera eccetera. Il pellegrino dai capelli rossi era eccitatissimo al pensiero che se non altro il povero Kurtz era stato vendicato a dovere. "Ehi! Dobbiamo aver fatto un bel massacro in quella boscaglia. Eh? Che ne dite? Eh?" Niente meno si mise a ballare, il sanguinario pezzente pel-di-carota. E per poco non era svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: "Comunque, avete fatto un bel po' di fumo". Da come si erano agitate e scosse le cime degli arbusti, avevo visto che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce nulla a meno di prendere la mira e di sparare con il fucile appoggiato alla spalla; ma quella gente aveva sparato a occhi chiusi con l'arma sull'anca. Dichiarai – e a ragione – che la ritirata era stata causata dal fischio della sirena. A questa affermazione dimenticarono Kurtz e presero a inveire contro di me con proteste indignate.
«Il direttore stava in piedi accanto alla ruota del timone mormorando confidenzialmente che era necessario per ogni evenienza spingerci avanti quanto più possibile prima che facesse buio, quando in distanza scorsi sulla riva del fiume una radura e i contorni di una sorta di edificio. "E quello che cos'è?" domandai. Batté le mani per la meraviglia. "La stazione!" gridò. Accostai immediatamente, sempre procedendo a mezza forza.
«Col binocolo vidi il versante di un colle disseminato di alberi radi e completamente libero da vegetazione di sottobosco. Sulla sua cima una lunga costruzione in rovina era semisepolta nell'erba alta; di lontano le ampie falde del tetto a punta spalancavano squarci neri; giungla e foresta facevano da sfondo. Non c'era steccato o recinto di sorta; ma evidentemente doveva essercene stato uno, poiché accanto all'edificio rimaneva una mezza dozzina di pali sottili in fila, rozzamente tagliati e terminanti alla estremità superiore con delle bocce scolpite. Le assi, o qualunque cosa li avesse collegati, erano scomparse. Naturalmente tutto questo era circondato dalla foresta. La sponda del fiume era sgombra, e presso l'acqua vidi un bianco sotto un cappello simile a una ruota di un carro che si sbracciava insistentemente. Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, fui quasi certo di percepire dei movimenti – forme umane che scivolavano qua e là. Per prudenza superai il punto, poi fermai le macchine e abbandonai il vapore alla deriva. L'uomo sulla riva si mise a urlare, incitandoci a scendere a terra. "Ci hanno attaccati!" gridò il direttore. "Lo so – lo so. È tutto a posto" replicò l'altro a gran voce, allegro come un fringuello. "Accostate. È tutto a posto. Sono contento."
«Il suo aspetto mi ricordava qualcosa che avevo visto – qualcosa di buffo che avevo visto da qualche parte. Mentre facevo le manovre di attracco, mi domandavo: "A che cosa somiglia quel tizio?". D'un tratto capii. Sembrava un arlecchino. I suoi abiti dovevano essere originariamente di una specie di lino grezzo, marrone, ma erano coperti di pezze dovunque, pezze vivaci, azzurre, rosse e gialle – pezze di dietro, pezze davanti, pezze sui gomiti, sui ginocchi; un bordo colorato tutto attorno alla giacca, un orlo scarlatto in fondo ai pantaloni; e il sole gli conferiva un aspetto estremamente allegro e nel complesso stupendamente ordinato, perché si vedeva come fossero stati eseguiti bene tutti quei rattoppi. La faccia era glabra, infantile, chiarissima, nessun tratto particolare, naso spelato, occhietti azzurri e un susseguirsi rapido, sull'espressione aperta, di sorrisi e aggrottamenti che s'inseguivano come il sole e l'ombra su di un pianoro spazzato dal vento. "Attento, capitano" gridò; "un tronco si è venuto a cacciare quaggiù la notte scorsa." Che? Ancora un tronco? Confesso che bestemmiai vergognosamente. Poco mancò che completassi quel viaggio delizioso con un bello squarcio nella mia bagnarola. L'arlecchino sulla riva mi puntò addosso il nasetto rincagnato. "Inglese?" domandò, tutto sorrisi. "E lei?" gridai dal timone. I sorrisi si spensero ed egli scosse il capo come se gli rincrescesse deludermi. Poi si illuminò. "Non importa!" strillò con tono incoraggiante. "Siamo arrivati in tempo?" domandai. "Lui è lassù" rispose, accennando con il capo alla cima del colle, e rabbuiandosi tutto a un tratto. Il suo viso pareva un cielo d'autunno, ora coperto e sereno un attimo dopo.
«Quando il direttore se ne fu andato alla casa scortato dai pellegrini, tutti armati fino ai denti, il tizio venne a bordo. "Ehi, questa storia non mi piace. Nella boscaglia ci sono gli indigeni" dissi. Mi assicurò zelante che era tutto a posto. "È gente semplice" aggiunse; "be', sono contento che siate venuti. Non ho avuto un attimo di sosta per tenerli lontani." "Ma ha appena detto che era tutto a posto" esclamai. "Oh, non volevano fare male a nessuno" disse; e dato che feci tanto d'occhi si corresse: "Non esattamente". Poi tutto allegro: "Parola mia, questo casotto ha bisogno di una ripulita!". Senza riprendere fiato mi consigliò di tenere in caldaia abbastanza vapore da azionare la sirena in caso sorgessero dei problemi. "Un buon fischio può fare più di tutti i vostri fucili. È gente semplice" ripeté. Chiacchierava a un ritmo tale da confondermi le idee. Sembrava che cercasse di rifarsi di tantissimo silenzio e in effetti, ridacchiando, mi lasciò intendere che era proprio così. "Non parla con Mr Kurtz?" dissi. "Con quell'uomo non si parla – lo si ascolta" esclamò con severa esaltazione. "Ora però..." Agitò un braccio e in un batter d'occhio sprofondò nel più completo abbattimento. L'attimo dopo si riprese con un salto, si impossessò di entrambe le mie mani e prese a scuoterle con insistenza, farfugliando: "Fratello marinaio... onore... piacere... felicissimo... presentarmi... russo... figlio di un arciprete... Governatorato di Tambov... Cosa? Tabacco! Tabacco inglese; l'eccellente tabacco inglese! Questa sì che è fratellanza. Se fumo? E dove lo trova un marinaio che non fuma?".
«La pipa lo calmò e a poco a poco ricostruii che era fuggito da scuola, aveva preso il mare a bordo di una nave russa; era fuggito di nuovo; aveva per un po' prestato servizio su navi inglesi; ora si era riconciliato con l'arciprete. Tenne a precisarlo. "Ma quando si è giovani si devono vedere tante cose, raccogliere esperienze, idee; allargare la mente." "Qui!" lo interruppi. "Non si può mai dire! Qui ho incontrato Mr Kurtz" disse, con solennità e un tono di rimprovero. Da quel momento frenai la lingua. A quanto pare aveva convinto una compagnia commerciale olandese della costa a equipaggiarlo di merci e provviste e si era messo in cammino verso l'interno a cuor leggero, senza avere la minima idea di quel che lo aspettava, come un bambino. Aveva vagato qua e là lungo quel fiume da solo per quasi due anni, tagliato fuori da tutto e da tutti. "Non sono giovane come sembro. Ho venticinque anni" disse. "Al principio il vecchio Van Shuyten mi diceva di andare al diavolo" raccontava con grande divertimento; "ma io non mollai e parlai, parlai finché temette che non avrei più smesso, così mi diede quattro carabattole e un po' di fucili e mi disse che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Buon diavolo di un olandese, il vecchio Van Shuyten. Un anno fa gli ho mandato una piccola partita d'avorio, così quando torno non potrà darmi del ladruncolo. Spero che l'abbia ricevuta. Quanto al resto me ne infischio. Avevo accatastato della legna per voi. Quella era la mia vecchia casa. L'ha vista?"
«Gli diedi il libro del Towson. Fece l'atto di baciarmi, ma si contenne. "L'unico libro che mi era rimasto e credevo di averlo perso" disse, guardandolo rapito. "Sa com'è quando si viaggia soli, succedono così tanti incidenti. Ogni tanto si rivolta la canoa – e a volte si è costretti a svignarsela più che in fretta quando la gente si arrabbia." Scorse le pagine. "Lo ha annotato in russo?" domandai. Assentì col capo. "Credevo fosse scritto in codice" dissi. Rise, poi si fece serio. "Ho avuto un sacco di guai per tener lontana quella gente." "Volevano ucciderla?" chiesi. "Oh, no!" gridò lui, e si bloccò. "Perché ci hanno attaccati?" incalzai. Esitò, poi disse timidamente: "Non vogliono che se ne vada". "Davvero?" dissi incuriosito. Fece col capo un gesto di assenso carico di mistero e saggezza. "Voglio dirle una cosa," esclamò "quell'uomo mi ha allargato la mente." Spalancò le braccia, fissandomi con i suoi occhietti azzurri perfettamente rotondi.»

III

«Lo guardai, smarrito e stupefatto. Eccolo là davanti a me, vestito come un buffone, come se fosse fuggito da una compagnia di mimi, entusiasta, favoloso. La sua stessa esistenza era improbabile, inesplicabile, e del tutto sconcertante. Quell'uomo era un problema insolubile. Era inconcepibile come avesse vissuto, come fosse riuscito a spingersi così lontano, come avesse potuto restare – perché non scomparisse all'istante. "Andavo un po' più in là" disse "e poi ancora un po' più in là – finché sono andato così lontano che non so come riuscirò mai a tornare. Non importa. C'è tanto tempo. Ce la farò. Portate via Kurtz in fretta – in fretta – vi dico." L'incantesimo della gioventù avvolgeva gli stracci multicolori, la sua povertà, la solitudine, la desolazione essenziale dei suoi futili vagabondaggi. Per mesi – per anni – la sua vita non era valsa un soldo; ed eccolo là coraggiosamente, spensieratamente vivo, in tutta apparenza indistruttibile solo in virtù dei suoi pochi anni e dell'audacia irriflessiva. Mi sentii sedotto da qualcosa che pareva ammirazione – che pareva invidia. L'incantesimo lo spingeva avanti, l'incantesimo lo serbava incolume. Sicuramente da quella terra selvaggia non voleva altro che spazio in cui respirare e attraverso cui spingersi. Aveva bisogno solo di esistere e di proseguire col maggior rischio possibile, e con il massimo del disagio. Se lo spirito d'avventura allo stato puro, disinteressato e privo di senso pratico aveva mai governato un essere umano, governava quel giovane rattoppato. Quasi gli invidiavo il possesso di quella fiamma semplice e schietta. Sembrava avergli consumato ogni preoccupazione di sé in modo così totale, che pure quando parlava ci si scordava che era lui – l'uomo davanti ai vostri occhi – che aveva affrontato tutte quelle vicende. Non gli invidiavo, però, la devozione a Kurtz. Non ci aveva meditato sopra. L'aveva subita e accettata con una sorta di ardente fatalismo. Devo dire che mi appariva quasi la cosa più pericolosa in cui si fosse imbattuto fino ad allora.
«Erano venuti in contatto inevitabilmente, come due navi sorprese dalla bonaccia l'una accanto all'altra, che finiscono con lo sfregarsi i fianchi. Immagino che Kurtz avesse bisogno di un uditorio, perché in una certa occasione, accampati nella foresta, avevano parlato tutta la notte, o più probabilmente aveva parlato Kurtz. "Abbiamo parlato di tutto" disse, affatto estasiato al ricordo. "Dimenticai che esisteva il sonno. La notte sembrò durare meno di un'ora. Tutto! Tutto!... Anche d'amore." "Ah, le ha parlato d'amore!" dissi, molto divertito. "Non è come pensa" esclamò, quasi appassionatamente. "Era in generale. Mi ha fatto capire delle cose – delle cose."
«Alzò le braccia. Eravamo sul ponte in quel momento e il capo dei miei taglialegna, che oziava lì vicino, posò su di lui gli occhi grevi e lucenti. Mi guardai intorno e non so perché, ma vi assicuro che mai, mai prima di allora, quella terra, quel fiume, quella giungla, la volta stessa di quel cielo infuocato, mi erano apparsi così disperati e scuri, così impenetrabili al pensiero umano, così inesorabili verso l'umana debolezza. "E naturalmente da allora è stato con lui?" dissi.
«Al contrario. Sembra che il loro rapporto si fosse spesso interrotto per varie cause. Era riuscito, m'informò con orgoglio, a curare Kurtz durante due malattie (ne parlava come se si trattasse di un'impresa rischiosa), ma di regola Kurtz vagava solo, lontano, nelle profondità della foresta. "Sovente arrivando a questa stazione dovevo aspettare giorni interi prima che si facesse vivo" disse. "Ah, valeva la pena di aspettare! – a volte!" "Che cosa faceva lui? esplorava o cosa?" chiesi. "Oh sì, naturalmente"; aveva scoperto molti villaggi, anche un lago – non sapeva esattamente in quale direzione; era pericoloso far troppe domande – la maggior parte delle spedizioni, però, erano a caccia d'avorio. "Ma non aveva merci di scambio allora" obiettai. "Ancora adesso è rimasta una bella quantità di cartucce" rispose, distogliendo lo sguardo. "In parole povere, razziava il paese!" dissi. Fece segno di sì. "Non da solo, sicuramente!" Mormorò qualcosa sui villaggi intorno a quel lago. "Kurtz aveva convinto la tribù a seguirlo, vero?" suggerii. Si innervosì un po'. "Lo adoravano" disse. Il tono di quelle parole era tanto straordinario che lo fissai con uno sguardo indagatore. Era curioso vedere in lui mescolarsi desiderio e insieme riluttanza a parlare di Kurtz. Quell'uomo gli riempiva la vita, occupava i suoi pensieri, dominava le sue emozioni. "Che cosa pretende?" sbottò. "Arrivò da loro con tuoni e fulmini, sa – e non avevano mai visto niente di simile – e davvero terribile. Sapeva essere davvero terribile. Non si può giudicare Mr Kurtz come se fosse un uomo qualunque. No, no, no! Ora – solo per darle un'idea – non mi dispiace dirglielo, voleva sparare anche a me un giorno – ma io non lo giudico." "Spararle!" esclamai. "E perché?" "Be', avevo una piccola partita d'avorio che mi aveva dato il capo di quel villaggio vicino alla mia casa. Sa, cacciavo selvaggina per loro. Be', lui la voleva e non sentiva ragioni. Dichiarò che mi avrebbe sparato se non gli avessi dato l'avorio e poi me ne fossi andato dal paese, perché era capace di farlo, e ne aveva voglia, e niente sulla terra poteva impedirgli di uccidere chiunque gli fosse saltato in testa di ammazzare. Ed era proprio vero. Gli diedi l'avorio. Per quel che m'importava! Ma non me ne andai. No, no. Non potevo abbandonarlo. Dovetti stare attento, naturalmente, finché non tornammo a essere amici per un po'. Si ammalò per la seconda volta allora. Dopo dovetti starmene alla larga; ma non m'importava. Viveva per lo più nei villaggi sul lago. Quando scendeva al fiume a volte gli andavo a genio e a volte era meglio che stessi attento. Quell'uomo soffriva troppo. Odiava tutto quanto, eppure non riusciva a staccarsene. Quando ne avevo l'occasione lo pregavo che cercasse di andarsene finché era in tempo; mi offrivo di tornare con lui. Lui diceva di sì e poi restava; partiva a caccia d'altro avorio; scompariva per settimane; dimenticava se stesso in mezzo a quella gente – dimenticava se stesso – sa." "Allora è pazzo!" dissi. Protestò indignato. Mr Kurtz non poteva essere pazzo. Se l'avessi sentito parlare, solo due giorni prima, non avrei osato insinuare una cosa del genere... Mentre parlavamo avevo preso il binocolo e guardavo la riva, spaziando lungo i limiti della foresta da ogni lato e dietro la casa. La consapevolezza che c'era gente in quella boscaglia, così silenziosa, così quieta – silenziosa e quieta come la casa diroccata sulla collina – mi metteva a disagio. Sul volto della natura non c'era traccia del racconto sorprendente che mi veniva non tanto narrato quanto suggerito da esclamazioni desolate, completate da alzate di spalle, frasi sospese, accenni che si chiudevano in profondi sospiri. La foresta era impassibile, come una maschera – massiccia, come la porta chiusa su una prigione – guardava con quell'aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inavvicinabile silenzio. Il russo mi spiegava che solo di recente Mr Kurtz era sceso al fiume, portando con sé tutti i guerrieri della tribù del lago. Era stato assente per parecchi mesi – a farsi adorare, immagino – ed era arrivato inaspettatamente, con tutta l'aria di voler fare un'incursione dall'altra parte del fiume o più a valle. Evidentemente la brama d'avorio aveva avuto la meglio sulle – come definirle? – aspirazioni meno materiali. Tuttavia, era molto peggiorato all'improvviso. "Ho sentito che era ammalato e senz'aiuti, e così sono venuto – ho corso il rischio" disse il russo. "Oh sta male, molto male." Puntai il binocolo sulla casa. Non c'era segno di vita, ma c'era il tetto in rovina, il lungo muro di fango che spuntava sopra l'erba, con i tre buchi quadrati delle finestrelle, ognuna diversa dall'altra, tutto questo a portata di mano, per così dire. E poi feci un movimento brusco, e un palo superstite dello steccato scomparso balzò nel campo del mio binocolo. Ricordate che vi ho detto d'esser stato colpito di lontano da certi tentativi di decorazione, alquanto sorprendenti in quel posto in rovina. Ora ne ebbi all'improvviso una vista più ravvicinata, e il primo effetto fu di farmi gettare indietro il capo come per parare un colpo. Poi osservai attentamente palo dopo palo col binocolo, e mi resi conto dell'errore. Quei pomi non erano ornamentali bensì simbolici; erano espressivi e sconcertanti, sorprendenti e inquietanti – alimento per il pensiero e anche per gli avvoltoi se ce ne fosse stato qualcuno in cielo intento a guardare giù; ma in ogni caso per le formiche abbastanza industriose da salire in cima al palo. Sarebbero parse ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se le facce non fossero state rivolte alla casa. Solo una, quella che avevo scorto per prima, guardava nella mia direzione. Non fui così colpito quanto potreste pensare. Quel balzo indietro non era stato altro che un moto di sorpresa. Mi aspettavo di vedere un pomolo di legno, capite. Ritornai deliberatamente alla prima che avevo visto – ed eccola, nera, rinsecchita, incavata, con le palpebre abbassate – una testa che sembrava dormire in cima al palo e, con le labbra secche e raggrinzite che scoprivano una stretta linea bianca di denti, sorrideva pure, sorrideva continuamente al sogno infinito e faceto di quel sonno eterno.
«Non sto rivelando alcun segreto commerciale. Infatti in seguito il direttore disse che i metodi di Mr Kurtz avevano rovinato il distretto. Io non ho opinioni in proposito, ma voglio che capiate chiaramente che quelle teste non si trovavano là per motivi di utilità pratica. Mostravano soltanto che Mr Kurtz mancava di qualsiasi ritegno quando si trattava di gratificare le sue svariate brame, che c'era qualcosa di carente in lui – una cosa da nulla che non si riusciva a trovare sotto la sua magnifica eloquenza quando se ne presentava la necessità impellente. Non sono in grado di dire se lui si rendesse conto di quel suo difetto. Credo che alla fine debba averne avuto coscienza – soltanto alla fine. Quella terra selvaggia, però, l'aveva scoperto presto, e si era vendicata su di lui in modo terribile della fantastica invasione. Credo che gli avesse bisbigliato cose di lui che egli non sapeva, cose che non aveva neppure immaginato prima di consultare la grande solitudine – e quel bisbiglio si era dimostrato irresistibilmente affascinante. Risuonava clamoroso dentro di lui perché nel profondo egli era vuoto... Abbassai il binocolo e la testa che mi era apparsa tanto vicina da poterle parlare sembrò improvvisamente balzata via da me a una distanza inaccessibile.
«L'ammiratore di Mr Kurtz era un po' mortificato. Con voce confusa s'affrettò a rassicurarmi che non aveva osato togliere quei... simboli, diciamo. Non temeva gli indigeni; non si sarebbero mossi finché Mr Kurtz non l'avesse ordinato. Il suo ascendente era straordinario. Gli accampamenti di quella gente circondavano il posto e i capi andavano a trovarlo ogni giorno. Strisciavano... "Non voglio sapere nulla delle cerimonie usate per avvicinare Mr Kurtz" gridai. Curiosa la sensazione che s'impadronì di me che quei dettagli sarebbero stati più intollerabili delle teste impalate a seccare sotto le finestre di Mr Kurtz. Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo selvaggio, mentre mi pareva d'esser stato trasportato d'un tratto in un'oscura regione di orrori sottili, dove la barbarie pura e semplice era un vero sollievo, trattandosi di qualcosa che aveva diritto di esistere – ovviamente – alla luce del sole. Il giovane mi guardava sorpreso. Suppongo che non l'avesse sfiorato il pensiero che Mr Kurtz non era un mio idolo. Scordava che io non avevo udito gli splendidi monologhi su, che cos'era? sull'amore, la giustizia, la condotta di vita – o che altro. Se si fosse trattato di strisciare davanti a Mr Kurtz, lui avrebbe strisciato come il più selvaggio tra quei selvaggi. Disse che io non avevo idea delle circostanze: quelle teste erano teste di ribelli. Lo scandalizzai terribilmente mettendomi a ridere. Ribelli! Quale altra definizione avrei dovuto sentire? C'erano stati i nemici, i criminali, i forzati – e questi erano i ribelli. Quelle teste ribelli mi sembravano molto sottomesse in cima ai loro bastoni. "Non sa quanto una vita del genere provi un uomo come Kurtz" gridò l'ultimo discepolo di Kurtz. "Be', e lei?" dissi. "Io! Io! Io sono un uomo semplice. Non ho grandi pensieri io. Non voglio nulla da nessuno. Come può paragonarmi a...?" I sentimenti erano troppo intensi per le parole e improvvisamente si accasciò. "Non capisco" gemette. "Ho fatto del mio meglio per tenerlo in vita, e basta. Non c'entro in tutto questo. Non ne ho la capacità. Da mesi qui non c'è una goccia di medicinali o un boccone per un ammalato. È stato abbandonato vergognosamente. Un uomo come quello, con quelle idee. Una vergogna! Una vergogna! Io... io... sono dieci notti che non dormo..."
«La sua voce si perse nella calma della sera. Le lunghe ombre della foresta erano scivolate giù per la collina mentre parlavamo, si erano spinte molto oltre il tugurio in rovina, oltre la simbolica fila di pali. Tutto ciò era nell'oscurità, mentre noi di sotto ci trovavamo ancora alla luce del sole, e il tratto di fiume di fronte alla radura brillava di uno splendore immobile e abbagliante, tra due anse cariche di ombra scura a monte e a valle. Sulla riva non si vedeva un'anima viva. Non un fruscio nei cespugli.
«Improvvisamente apparve un manipolo di uomini dall'angolo della casa, come spuntati dal terreno. Procedevano a stento nell'erba alta fino alla vita, in gruppo compatto, portando in mezzo a loro una barella improvvisata. Istantaneamente, nel paesaggio vuoto si alzò un grido acuto che trafisse l'aria immobile come una freccia aguzza diretta al cuore stesso della terra; e come per incanto, la foresta dal volto scuro e pensoso riversò nella radura fiumi di esseri umani – esseri umani ignudi – con le lance in mano, con gli archi, con gli scudi, con sguardi feroci e movimenti selvaggi. I cespugli si agitarono, l'erba ondeggiò per un attimo e poi tutto s'arrestò in un'immobilità attenta.
«"Adesso, se non dice la cosa giusta siamo tutti spacciati" sentenziò il russo al mio fianco. Anche il capannello di uomini con la barella si era fermato, a metà strada dal vapore, come impietrito. Vidi l'uomo sulla barella levarsi a sedere, macilento e con un braccio alzato, oltre le spalle dei portatori. "Speriamo che l'uomo che sa parlare tanto bene d'amore in generale trovi qualche ragione particolare per risparmiarci questa volta" dissi. Risentivo amaramente il pericolo assurdo della nostra situazione, come se l'essere alla mercé di quell'atroce fantasma fosse una contingenza disonorevole. Non riuscivo a sentire alcun suono, ma attraverso il binocolo vidi il braccio scarno steso in un gesto di comando, la mascella inferiore che si muoveva, gli occhi di quell'apparizione brillare scuri in fondo alla testa ossuta che si muoveva con spasmi grotteschi. Kurtz – Kurtz – che in tedesco significa "corto" – vero? Be', il nome era vero quanto tutto il resto della sua vita – e della sua morte. Sembrava lungo più di due metri. La coperta gli era caduta di dosso e il corpo riemergeva pietoso e terrificante come da un sudario. Vedevo la gabbia toracica agitarsi, le ossa del braccio gesticolare. Pareva un'effige animata della morte, scolpita in avorio antico, che agitasse minacciosa la mano davanti a una folla immobile di uomini fusi in bronzo scuro e lucente. Lo vidi spalancare la bocca – ciò gli conferì un aspetto stranamente vorace, come se avesse voluto ingoiare tutta l'aria, tutta la terra, tutti gli uomini davanti a lui. Una voce profonda mi giunse fievole. Doveva aver gridato. Ricadde improvvisamente indietro. La barella tremò mentre i portatori riprendevano barcollanti il cammino, e quasi nello stesso momento notai che la folla di selvaggi svaniva senza alcun percettibile movimento di ritirata, come se la foresta che aveva espulso quegli esseri all'improvviso, li avesse risucchiati come rientra il respiro in una lunga inspirazione.
«Alcuni pellegrini dietro la barella portavano le sue armi – due doppiette, un fucile di grosso calibro e una carabina leggera a ripetizione – i fulmini di quel patetico Giove. Il direttore si chinava su di lui mormorando qualcosa mentre gli camminava accanto alla testa. Lo deposero in una delle piccole cabine – giusto lo spazio per una cuccetta e uno sgabello da campo o due, sapete. Gli avevamo portato la corrispondenza arretrata e il letto era coperto di buste stracciate e di lettere aperte. La sua mano vagava debole tra le carte. Mi colpì il fuoco nei suoi occhi e il languore composto della sua espressione. Non era tanto la spossatezza della malattia. Non sembrava stesse soffrendo. Quell'ombra appariva appagata e calma, come se per il momento fosse sazia di ogni emozione.
«Fece frusciare una lettera e guardandomi fisso in viso disse: "Sono lieto". Qualcuno gli aveva scritto di me. Saltavano di nuovo fuori le raccomandazioni speciali. Il volume di voce che emetteva senza sforzo, quasi senza bisogno di muovere le labbra, mi sorprese. Che voce! che voce! Era grave, profonda, vibrante, mentre l'uomo non pareva capace di un bisbiglio. Comunque, aveva abbastanza forza in lui – senza dubbio innaturale – che per poco non ci fece fare una brutta fine, come sentirete presto.
«Il direttore apparve silenziosamente sulla soglia; uscii subito e lui chiuse la tenda alle mie spalle. Il russo, che i pellegrini squadravano curiosi, stava fissando la riva. Seguii la direzione del suo sguardo.
«Si scorgevano in lontananza scure forme umane, che si muovevano leste e confuse contro l'orlo cupo della foresta, e vicino al fiume due figure di bronzo, appoggiate alle alte lance, stavano alla luce del sole sotto dei copricapi fantastici di pelli maculate, marziali e immobili in statuario riposo. E da destra a sinistra lungo la riva si muoveva l'apparizione selvaggia e magnifica di una donna.
«Camminava con passi misurati, drappeggiata in stoffe a righe e frange, calpestando orgogliosa la terra con un tintinnio e un luccichio di barbari ornamenti. Teneva alta la testa; i capelli erano acconciati a guisa d'elmo; aveva gambali d'ottone fino al ginocchio, dei guanti di maglia d'ottone fino al gomito, una macchia cremisi sulla guancia bruna, al collo innumerevoli fili di perle di vetro; oggetti bizzarri, amuleti, doni di stregoni che appesi al suo corpo luccicavano e tremavano a ogni passo. Doveva avere addosso il valore di molte zanne d'elefante. Era selvaggia e superba, magnifica, con lo sguardo allucinato; c'era qualcosa di minaccioso e solenne nel suo incedere deliberato. E nel silenzio che era caduto improvviso su quella terra addolorata, sull'immensità selvaggia, sembrava che quel corpo colossale dalla vita misteriosa e feconda la guardasse, pensoso, come se stesse osservando l'immagine della propria anima tenebrosa e appassionata.
«Giunse di fronte al vapore, si fermò, si volse a guardarci. La sua lunga ombra cadeva sull'orlo dell'acqua. Il volto aveva l'aspetto tragico e fiero del dolore selvaggio e della muta sofferenza mescolati al timore di una risoluzione combattuta e incerta. Restò a fissarci immobile, e come la terra selvaggia aveva l'aria di meditare qualche imperscrutabile proposito. Trascorse così un minuto intero, e poi lei fece un passo avanti. Ci fu un tintinnio leggero, uno scintillio di metallo dorato, un fluttuare di frange, e lei si arrestò come se le fosse mancato il cuore. Il giovane al mio fianco brontolò. I pellegrini mormorarono alle mie spalle. Lei ci guardò tutti come se la sua vita fosse dipesa dall'inflessibile fermezza del suo sguardo. Improvvisamente aprì le braccia nude e le alzò rigide sulla testa, come presa dall'incontrollabile desiderio di toccare il cielo, e nello stesso istante le ombre agili guizzarono sulla terra, invasero il fiume, circondando il vapore in un abbraccio scuro. Un silenzio formidabile incombeva sulla scena.
«Si voltò lentamente, riprese a camminare lungo la sponda, ed entrò nei cespugli a sinistra. Solo una volta, prima di scomparire nel crepuscolo della boscaglia, i suoi occhi balenarono nella nostra direzione.
«"Se avesse accennato a salire a bordo credo proprio che avrei tentato di spararle" disse nervosamente l'uomo delle toppe. "Nelle ultime due settimane ho rischiato quotidianamente la vita per tenerla lontana dalla casa. Un giorno è entrata e ha fatto una scenata per quei miserabili stracci che ho preso in magazzino per aggiustarmi i vestiti. Ero indecente. Almeno deve essere stato per quello, perché parlò come una furia per un'ora con Kurtz indicandomi di tanto in tanto. Non capisco il dialetto di questa tribù. Per mia fortuna, immagino che quel giorno Kurtz stesse troppo male per badarci, altrimenti sarebbe successo un guaio. Non capisco... No – è troppo per me. Ah, be', ora è finita!"
«In quel momento udii la voce profonda di Kurtz dietro la tenda: "Salvarmi! – salvare l'avorio, vorrà dire. Non me la conti. Salvare me! Ma se sono stato io a dovervi salvare. State interrompendo i miei piani ora. Ammalato! Ammalato! Non così ammalato come vorreste credere. Non importa. Realizzerò ugualmente le mie idee – ritornerò. Vi farò vedere che cosa si può fare. Voi e le vostre meschine opinioni – vi siete messi di mezzo. Ritornerò. Io..."
«Il direttore uscì. Mi fece l'onore di prendermi sotto braccio e trarmi in disparte. "È molto giù, molto giù" disse. Ritenne necessario sospirare, ma trascurò di mostrarsi coerentemente addolorato. "Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui – non è vero? Ma non c'è modo di nascondere il fatto che Mr Kurtz ha fatto più male che bene alla Compagnia. Non si è reso conto che i tempi non erano maturi per un'azione di forza. Prudenza, prudenza – è il mio principio. Dobbiamo ancora essere prudenti. Per un po' il distretto è chiuso per noi. Deplorevole! Tutto sommato il commercio ne soffrirà. Non nego che ci sia una notevole quantità d'avorio – per lo più fossile. Dobbiamo salvarlo, in ogni caso – ma vede quanto è incerta la posizione – e perché? Perché il metodo è sbagliato." "'Metodo sbagliato' lei lo definisce?" dissi guardando la riva. "Indubbiamente" esclamò con calore. "Lei no?"... "Assenza totale di metodo" mormorai dopo un po'. "Esattamente" esultò. "L'avevo previsto. Dimostra un'assoluta mancanza di giudizio. È mio dovere segnalarlo a chi di dovere." "Oh" dissi "quel tipo – come si chiama – quello che fa i mattoni, le scriverà un rapporto leggibile." Per un attimo apparve confuso. Mi sembrò di non aver mai respirato un'atmosfera così abietta, e mentalmente mi rivolsi a Kurtz per avere sollievo – senz'altro per avere sollievo. "Comunque, penso che Mr Kurtz sia un uomo notevole" dissi enfaticamente. Trasalì, mi gettò addosso uno sguardo gelido e greve, disse con molta calma "Lo era" e mi voltò le spalle. Il mio momento di favore era passato; mi ritrovai accomunato a Kurtz come sostenitore di metodi per cui i tempi non erano maturi: anch'io ero sbagliato! Ah! ma era già qualcosa avere almeno la possibilità di scegliere i propri incubi.
«In realtà mi ero rivolto alla terra selvaggia, non a Mr Kurtz che, ero pronto ad ammetterlo, era già bell'e sepolto. E per un attimo mi parve d'essere sepolto anch'io in una vasta tomba piena di segreti inesprimibili. Sentii un peso intollerabile opprimermi il petto, l'odore della terra umida, la presenza invisibile della corruzione vittoriosa, la tenebra di una notte impenetrabile... Il russo mi batté sulla spalla. Lo sentii mormorare e farfugliare qualcosa a proposito di "fratello marinaio – non posso nascondere – conoscenza di faccende che potrebbero incidere sulla reputazione di Mr Kurtz". Aspettai. Evidentemente per lui Mr Kurtz non era ancora nella tomba; sospetto che per lui Mr Kurtz fosse uno degli immortali. "Be'," dissi alla fine "parli. Il caso vuole che io sia amico di Mr Kurtz – in un certo senso."
«Con molta formalità dichiarò che se non fossimo stati "della stessa professione" avrebbe tenuto per sé la cosa senza pensiero delle conseguenze. Sospettava che ci fosse un "effettivo malanimo nei suoi confronti da parte di quei bianchi che...". "Ha ragione" dissi ricordando una certa conversazione che avevo sorpreso. "Il direttore pensa che lei dovrebbe essere impiccato." La preoccupazione che mostrò davanti a quell'informazione mi divertì a tutta prima. "È meglio che mi tolga di mezzo senza troppo rumore" disse seriamente. "Non posso fare altro per Kurtz ora, e quelli troverebbero presto qualche scusa. Che cosa potrebbe fermarli? C'è una postazione militare a trecento miglia da qui." "Be', parola mia" dissi, "forse lei farebbe meglio ad andarsene se ha degli amici in mezzo a questi selvaggi." "Moltissimi" disse. "È gente semplice – e io non voglio nulla, sa." Tacque mordendosi il labbro, poi: "Non voglio che succeda niente di male a questi bianchi, ma naturalmente pensavo alla reputazione di Mr Kurtz – ma lei è un fratello marinaio e...". "Stia tranquillo" dissi, dopo un attimo. "Con me la reputazione di Mr Kurtz è al sicuro." Non sapevo quanto fossero vere le mie parole.
«Mi informò, abbassando la voce, che era stato Kurtz a ordinare l'attacco contro il vapore. "A volte odiava l'idea di esser portato via – e poi di nuovo... Ma io non capisco queste faccende. Sono un uomo semplice io. Pensava che sareste fuggiti spaventati – che avreste lasciato perdere, credendolo morto. Non ho potuto fermarlo. Oh, quest'ultimo mese è stato terribile per me." "Molto bene" dissi. "Ora lui è a posto." "S-s-sì" farfugliò, apparentemente non troppo convinto. "Grazie" dissi; "terrò gli occhi aperti!" "Ma silenzio – eh?" insistette agitato. "Sarebbe terribile per la sua reputazione se qualcuno qui..." Con molta gravità gli promisi completa discrezione. "Ho una canoa e tre negri che mi aspettano poco lontano. Me ne vado. Potrebbe darmi un po' di cartucce Martini-Henry?" Potevo dargliele, e così feci, con la dovuta segretezza. Si servì, ammiccando, di una manciata del mio tabacco. "Tra marinai – sa – buon tabacco inglese." Sulla porta della cabina si voltò. "Senta, non avrebbe un paio di scarpe in più?" Alzò una gamba. "Guardi." Aveva le suole legate ai piedi scalzi con dei lacci annodati a mo' di sandali. Ne scovai un vecchio paio che guardò con ammirazione, prima di ficcarsele sotto il braccio sinistro. Una tasca (rosso vivo) era gonfia di cartucce, dall'altra (blu scuro) spuntava il Towson, Questioni di tecnica eccetera eccetera. Sembrava ritenersi perfettamente equipaggiato per un nuovo incontro con la terra selvaggia. "Ah! Non troverò mai più un uomo simile. Avrebbe dovuto sentirlo recitare poesie – per giunta erano sue, mi ha detto. Poesie!" Roteava gli occhi al ricordo di quelle delizie. "Oh, mi ha allargato la mente!" "Arrivederci" dissi. Mi strinse la mano e svanì nella notte. A volte mi chiedo se l'ho visto davvero – se era possibile incontrare un simile prodigio!...
«Quando mi svegliai appena passata la mezzanotte mi tornò in mente il suo avvertimento con l'accenno a un pericolo che, nelle tenebre stellate, mi sembrò così reale da farmi alzare col proposito di dare un'occhiata in giro. Sulla collina ardeva un grande falò, che a tratti illuminava un angolo sbilenco della stazione. Un agente, con un picchetto di alcuni nostri negri armati per l'occasione, montava di guardia all'avorio; ma nel profondo della foresta, bagliori rossi che guizzavano, che parevano affondare e levarsi dal suolo tra forme incerte come di colonne d'un nero intenso, indicavano l'esatta posizione dell'accampamento in cui gli adoratori di Mr Kurtz vegliavano inquieti. Il pulsare monotono d'un grande tamburo riempiva l'aria di colpi smorzati e di una vibrazione sospesa. Una cantilena insistente di molti uomini che ripetevano tra sé qualche misterioso incantesimo veniva dalla nera e piatta parete della foresta come il ronzio delle api sull'alveare, e aveva uno strano effetto narcotico sui miei sensi solo parzialmente svegli. Credo di essermi assopito appoggiato alla battagliola, quando uno scoppio improvviso d'urla, un'esplosione travolgente di frenesia misteriosa e repressa, mi svegliò a uno sconcertante stupore. Improvvisamente cessò, e la cantilena proseguì con l'effetto di un silenzio percepibile e lenitivo. Diedi un'occhiata distratta nella cabina. Dentro brillava una luce, ma Mr Kurtz non c'era.
«Credo che mi sarei messo a gridare se solo avessi creduto ai miei occhi. Ma dapprima non ci credetti – la cosa sembrava così impossibile. Il fatto è che ero completamente snervato da uno spavento affatto vuoto, da un terrore puramente astratto, disgiunto da qualsiasi chiara forma di pericolo fisico. Ciò che rendeva quell'emozione tanto opprimente era – come posso definirlo? – il colpo morale che avevo ricevuto come se improvvisamente fossi stato investito da qualcosa di mostruoso, di intollerabile al pensiero e odioso all'anima. Questo durò ovviamente meno di una frazione infinitesima di secondo, e poi il solito senso di banale pericolo mortale, della possibilità di un attacco improvviso, di un massacro o qualcosa del genere, che vedevo imminente, mi giunse davvero gradito e confortante. Mi calmò infatti a tal punto che non diedi l'allarme.
«A un metro da me sul ponte, abbottonato in un ampio pastrano, c'era un agente che dormiva su di una sedia. Le urla non l'avevano svegliato; russava leggermente; lo lasciai ai suoi sonni e saltai a terra. Non tradii Mr Kurtz – era stabilito che non l'avrei mai tradito – era scritto che sarei stato fedele all'incubo che avevo scelto. Ero ansioso di avere a che fare da solo con quell'ombra – e ancora oggi non so perché fossi così geloso di dover dividere con chiunque la cupa singolarità di quell'esperienza.
«Appena giunsi sulla sponda vidi una traccia – una larga traccia fra l'erba. Ricordo con quanta esultanza mi dissi: "Non può camminare – si trascina carponi – è mio". L'erba era molle di rugiada. Camminavo in fretta con i pugni stretti. Immagino che avessi la vaga intenzione di piombargli addosso e pigliarlo a botte. Non so. Avevo dei pensieri imbecilli. La vecchia che sferruzzava col gatto s'imponeva alla mia memoria come la persona più inopportuna che potesse trovarsi all'altro capo di quella faccenda. Vedevo una fila di pellegrini che scaricava piombo nell'aria con i Winchester appoggiati all'anca. Pensavo che non sarei più tornato al vapore, e m'immaginavo a vivere solo e inerme nella foresta fino a tarda età. Sciocchezze del genere – sapete. E ricordo che confusi il pulsare del tamburo con il battito del cuore, e mi rallegrai per la sua calma regolarità.
«Seguivo la traccia però – poi mi fermai ad ascoltare. La notte era molto chiara; uno spazio blu scuro che brillava di stelle e di rugiada, in cui stavano immobili delle forme nere. Mi parve di vedere come un movimento davanti a me. Ero stranamente sicuro di tutto quella notte. Lasciai addirittura la traccia e mi misi a correre in un ampio semicerchio (credo pure ridendo tra me) per portarmi davanti a quel sussulto, a quel movimento che avevo visto – se davvero avevo visto qualcosa. Stavo aggirando Kurtz come in un gioco da ragazzi.
«Lo raggiunsi e, se non mi avesse sentito arrivare, gli sarei anche caduto addosso, ma si alzò in tempo. Si levò, incerto, lungo, pallido, indistinto, come un vapore esalato dalla terra, e vacillò leggermente, vago e silenzioso davanti a me; mentre alle mie spalle i falò si profilavano fra gli alberi e il mormorio di molte voci sgorgava dalla foresta. Gli avevo astutamente tagliato la strada; ma quando me lo trovai davanti sembrai recuperare i sensi, compresi il pericolo nella sua reale proporzione. Era tutt'altro che finita. E se si fosse messo a urlare? Benché si reggesse a malapena in piedi, c'era ancora molto vigore in quella voce. "Se ne vada – si nasconda" disse, con quel tono profondo. Era tremendo. Mi guardai alle spalle. Ci trovavamo a meno di trenta metri dal falò più vicino. Una figura nera si alzò, mosse alcuni passi sulle lunghe gambe nere, agitando lunghe braccia nere, contro il fuoco. In testa aveva delle corna – corna di antilope, credo. Un mago, uno stregone, senza dubbio: sembrava alquanto diabolico. "Sa che cosa sta facendo?" sussurrai. "Perfettamente" rispose, alzando la voce per quell'unica parola: mi risuonò lontana eppure forte, come una chiamata attraverso un megafono. Se si mette a discutere siamo perduti, pensai fra me. Chiaramente non era il caso di fare a pugni, anche se fossi riuscito a superare la mia naturale avversione a picchiare quell'Ombra – quella cosa raminga e tormentata. "Lei si perderà" – dissi – "si perderà irrimediabilmente." A volte vengono quei lampi di ispirazione, sapete. Avevo detto la cosa giusta, anche se davvero non avrebbe potuto perdersi più irreparabilmente di quanto non lo fosse in quel preciso istante in cui venivano gettate le basi della nostra intimità – destinata a durare – a durare – fino alla fine – e oltre.
«"Avevo progetti immensi" mormorò incerto. "Sì" dissi; "ma se tenta di gridare le rompo la testa con..." Non c'era un bastone né una pietra lì vicino. "La strozzo una volta per tutte" mi corressi. "Ero sulla soglia di grandi cose" dichiarò con una tale brama nella voce colma di rimpianto che mi fece gelare il sangue. "E adesso per quello stupido farabutto..." "In ogni caso il suo successo in Europa è assicurato" affermai risolutamente. Non volevo essere costretto a strozzarlo, capite – e per la verità la cosa non avrebbe avuto la minima utilità pratica. Cercavo di spezzare l'incantesimo – il pesante, muto incantesimo di quella terra selvaggia – che sembrava attirarlo al suo petto impietoso risvegliando dimenticati istinti brutali, ricordando mostruose e appagate passioni. Solo questo, ero convinto, l'aveva portato al limite della foresta, verso la boscaglia, verso il bagliore dei falò, il palpito dei tamburi, la cantilena di misteriosi incantesimi; solo questo aveva allettato la sua anima senza legge oltre i confini delle legittime aspirazioni. E, capite, quella situazione m'atterriva non perché potevo ricevere una bastonata sulla testa – benché mi rendessi perfettamente conto anche di quel pericolo – ma perché dovevo trattare con uno con cui non potevo fare appello a nulla di nobile o vile. Dovevo, proprio come i negri, invocare lui in persona – la sua incredibile ed esaltata degradazione. Non c'era nulla al di sopra o al di sotto di lui, e io lo sapevo. Con un calcio si era liberato della terra. Accidenti a lui! con un calcio aveva mandato la terra stessa in frantumi. Era solo, e io di fronte a lui non sapevo se stavo sulla terra o galleggiavo nell'aria. Vi ho riferito quello che c'eravamo detti – ripetuto le frasi che avevamo pronunciato – ma a che pro? Erano parole banali, quotidiane – i suoni familiari e vaghi che ci si scambia nella veglia ogni giorno della nostra vita. Ma che vuol dire? Portavano con sé, nella mia mente, la terribile suggestione delle parole udite in sogno, le frasi proferite negli incubi. Anima! Se qualcuno ha mai lottato con un'anima, quello sono io. E non era un pazzo quello con cui discutevo. Mi crediate o no, la sua intelligenza era perfettamente lucida – concentrata, è vero, su se stesso con orribile intensità, eppure lucida; e in quello stava la mia unica possibilità – a parte, naturalmente, ammazzarlo seduta stante, che però non era una buona idea, dato l'inevitabile rumore. Ma la sua anima era folle. Sola in quella terra selvaggia s'era guardata dentro e, per Dio! vi dico che era impazzita. Dovevo – a causa dei miei peccati, suppongo – affrontare il cimento di guardarle dentro a mia volta. Nessuna eloquenza avrebbe potuto inaridire la fiducia nel genere umano quanto il suo scoppio finale di sincerità. Lottava anche contro se stesso. Lo vidi – lo udii. Vidi l'inconcepibile mistero di un'anima che non conosceva ritegno, né fede, né paura, e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. Riuscii a non perdere la testa; ma quando infine l'ebbi disteso sulla cuccetta, mi asciugai la fronte, mentre le gambe mi tremavano come se avessi portato giù dalla collina mezza tonnellata sulle spalle. Eppure l'avevo soltanto sorretto, con il suo braccio ossuto stretto intorno al mio collo – e pesava poco più di un bambino.
«Quando partimmo l'indomani a mezzogiorno, la folla, della cui presenza dietro la cortina d'alberi ero stato acutamente consapevole per tutto quel tempo, rifluì nuovamente dalla foresta, riempì la radura, coprì il declivio con una massa di corpi bronzei, nudi, ansimanti, palpitanti. Risalii un poco la corrente, poi girai a valle, e duemila occhi seguirono le evoluzioni del demone del fiume che fiero sguazzava, percuotendo l'acqua con la terribile coda e riempiendo l'aria di fumo nero. Davanti alla prima fila, lungo il fiume, tre uomini, coperti di terra rosso vivo dalla testa ai piedi, camminavano impettiti su e giù senza sosta. Quando ci trovammo nuovamente di fronte a loro, si voltarono verso il fiume, pestarono i piedi, scossero le teste adornate di corna, dimenarono i corpi scarlatti; agitarono verso il fiero demone del fiume un ciuffo di penne nere, una pelle rognosa con una coda penzolante – qualcosa che pareva una zucca rinsecchita; gridarono a tratti tutti insieme filze di parole stupefacenti che non assomigliavano ad alcun suono di lingua umana; e i mormorii profondi della folla, improvvisamente interrotti, sembravano le risposte di una litania satanica.
«Avevamo portato Kurtz nel casotto del timone: c'era più aria lassù. Disteso sulla cuccetta, fissava oltre il portello aperto. Si formò un gorgo nella massa di corpi umani, e la donna con la testa a elmo e le guance brune corse fino all'orlo del fiume. Tese le mani, gridò qualcosa, e tutta la folla selvaggia le fece eco in un coro scrosciante di suoni articolati, rapidi, soffocati.
«"Lei capisce tutto questo?" chiesi.
«Lui continuò a guardare fuori oltre me con occhi ardenti e pieni di desiderio, con un'espressione in cui si mescolavano rimpianto e odio. Non rispose ma vidi un sorriso, un sorriso indefinibile apparire sulle labbra incolori che un attimo dopo si contrassero convulse. "Se capisco?" disse lentamente, ansando, come se le parole gli fossero state strappate da un potere soprannaturale.
«Tirai la corda della sirena, perché avevo visto i pellegrini sul ponte estrarre i fucili con l'aria di pregustarsi un gran divertimento. Al fischio improvviso ci fu un movimento di terrore abietto tra la massa compatta dei corpi. "No! non li faccia fuggire" gridò sconsolato qualcuno sul ponte. Tirai più volte la corda. Si divisero e fuggirono, saltarono, si rannicchiarono, si scansarono, riparandosi dal terrore volante di quel suono. I tre tipi rossi erano caduti bocconi sulla riva come colpiti a morte. Solo la donna barbara e stupenda non accennò a indietreggiare, e tese tragicamente le braccia nude dietro di noi sul fiume cupo e scintillante.
«E poi quella massa d'imbecilli sul ponte diede il via al divertimento, e io non riuscii a vedere più nulla per il fumo.

«La corrente bruna scendeva rapidamente dal cuore della tenebra, portandoci verso il mare a una velocità doppia di quella con cui l'avevamo risalita; e anche la vita di Kurtz correva rapidamente, rifluendo, rifluendo dal suo cuore nel mare del tempo inesorabile. Il direttore era molto tranquillo, non aveva preoccupazioni vitali ora, ci avvolgeva entrambi in uno sguardo ampio e soddisfatto: la "faccenda" si era risolta nel migliore dei modi. Vedevo avvicinarsi il momento in cui sarei rimasto solo nel partito del "metodo sbagliato". I pellegrini mi guardavano con disapprovazione. Ero, per così dire, nel numero dei morti. È strano come accettai questa comunanza imprevista, questa scelta di incubi che mi era stata imposta in quella terra tenebrosa invasa da meschini e avidi fantasmi.
«Kurtz discorreva. Che voce! che voce! Risuonò profonda fino all'ultimo. Sopravvisse alla sua forza di nascondere nelle magnifiche pieghe dell'eloquenza la tenebra sterile del suo cuore. Oh, lottava! lottava! Il deserto del suo cervello esausto era invaso ora da immagini chimeriche – immagini di ricchezza e di gloria che ossequiose ruotavano intorno al suo inestinguibile talento di nobile e sublime espressione. La mia promessa sposa, la mia stazione, la mia carriera, le mie idee – questi gli argomenti delle occasionali manifestazioni dei suoi elevati sentimenti. L'ombra del Kurtz originario frequentava il capezzale di quella vuota mistificazione, destinata a essere presto sepolta nel suolo di quella terra primordiale. Ma l'amore diabolico e l'odio soprannaturale dei misteri che aveva penetrato si contendevano il possesso di quell'anima sazia di primitive emozioni, avida di fama bugiarda, di falsa distinzione, di tutte le apparenze del successo e del potere.
«A volte era spregevolmente infantile. Desiderava che i sovrani lo andassero a ricevere alle stazioni ferroviarie del suo viaggio di ritorno da qualche orribile luogo sperduto in cui intendeva compiere grandi cose. "Dimostriamogli che in noi c'è qualcosa di veramente proficuo e non ci saranno limiti al riconoscimento della nostra abilità" diceva. "Naturalmente bisogna avere cura dei motivi – i motivi giusti – sempre." I lunghi tratti del fiume che parevano sempre il medesimo tratto, le curve monotone sempre identiche, scivolavano lungo l'imbarcazione con la moltitudine di alberi secolari che guardavano pazienti quel sudicio frammento d'un altro mondo, il precursore di cambiamento, di conquista, di commercio, di massacri, di benedizioni. Io guardavo innanzi – pilotavo. "Chiuda il portello" disse all'improvviso Kurtz un giorno; "non sopporto questa vista." Lo chiusi. Ci fu un attimo di silenzio. "Oh, ma ti strapperò ugualmente il cuore!" gridò all'invisibile terra selvaggia.
«Avemmo un'avaria – come avevo previsto – dovemmo ancorarci alla punta di un'isola per le riparazioni. Questo ritardo fu la prima cosa che scosse la fiducia di Kurtz. Un mattino mi diede un pacchetto di carte e una fotografia – il tutto legato con un laccio da scarpe. "Mi tenga questo" disse. "Quell'idiota pericoloso" (ossia il direttore) "è capace di frugare nelle mie casse quando non guardo." Il pomeriggio lo rividi. Se ne stava sdraiato supino con gli occhi chiusi, mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii mormorare: "Vivere onestamente, morire, morire...". Restai ad ascoltare. Non ci fu altro. Stava provando un discorso nel sonno, oppure era un frammento di frase da qualche articolo di giornale? Aveva scritto per dei giornali e intendeva rifarlo, "per la promozione delle mie idee. È un dovere".
«Era una tenebra impenetrabile la sua. Io lo guardavo come si osserva un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non splende mai il sole. Ma non avevo molto tempo da dedicargli, perché aiutavo il macchinista a smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella contorta e cose del genere. Vivevo in una confusione infernale di ruggine, limatura, dadi, bulloni, chiavi, martelli, trapani – cose che detesto, perché non ci so fare. Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo; faticavo fino all'esaurimento in mezzo al dannato mucchio di rottami – fino a quando i brividi erano così forti che non mi permettevano di stare in piedi.
«Una sera entrando con una candela trasalii sentendogli dire con voce un po' tremula: "Eccomi qui disteso al buio, che aspetto la morte". La luce era a pochi centimetri dai suoi occhi. Mi forzai a mormorare: "Oh, sciocchezze!" e restai curvo su di lui come impietrito.
«Non avevo mai visto, e spero di non vedere mai più, nulla di simile al cambiamento che avvenne nei suoi lineamenti. Oh, non ero commosso. Ero affascinato. Era come se si fosse lacerato un velo. Vidi su quel volto d'avorio l'espressione dell'orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile – di una disperazione intensa e irreparabile. È possibile che in quel momento supremo di conoscenza completa rivivesse la sua esistenza in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa? In un bisbiglio gridò verso qualche immagine, qualche visione – due volte lanciò un grido, un grido che non era più di un sospiro:
«"Che orrore! Che orrore!"
«Spensi la candela e uscii dalla cabina. I pellegrini stavano pranzando alla mensa, mi sedetti al mio posto di fronte al direttore, il quale alzò gli occhi per lanciarmi uno sguardo interrogativo che riuscii a ignorare. Si appoggiò allo schienale, sereno, con quel suo particolare sorriso a sigillo delle profondità inespresse della sua meschinità. Una pioggia continua di moscerini si abbatteva sulla lampada, sulla tovaglia, sulle mani e sui volti. Improvvisamente il boy del direttore cacciò l'insolente testa nera nell'arco della porta e disse in tono di feroce disprezzo:
«"Mistah Kurtz – lui morto."
«Tutti i pellegrini corsero a vedere. Io continuai a pranzare. Credo di essere stato considerato brutalmente insensibile. Comunque, non mangiai molto. C'era una lampada lì – luce, capite – e fuori c'era un buio così inumano, così inumano. Non mi avvicinai più all'uomo notevole che aveva giudicato le avventure della sua anima su questa terra. La voce se n'era andata. Che altro c'era stato? Ma naturalmente so che il giorno dopo i pellegrini seppellirono qualcosa in un buco limaccioso.
«E poi per poco non seppellirono anche me.
«Tuttavia, come vedete, non sono andato a raggiungere Kurtz in quell'occasione. No. Sono rimasto a sognare il mio incubo fino alla fine e a dimostrare ancora una volta la mia lealtà a Kurtz. Destino. Il mio destino! Che cosa stramba è la vita – questa disposizione misteriosa di logica implacabile per un futile scopo. Il massimo che si possa sperare di trarne è una certa conoscenza di noi stessi – che giunge troppo tardi – un mucchio di inestinguibili rimpianti. Ho lottato con la morte. È la disputa meno emozionante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, senza nulla sotto i piedi, nulla intorno, senza spettatori, senza clamore, senza gloria, senza grande desiderio di vittoria, senza grande timore di sconfitta, in un'atmosfera malata di tiepido scetticismo, senza grande convinzione nel proprio diritto e ancora meno in quello dell'avversario. Se quella è la forma della suprema saggezza, allora la vita è un enigma ancora più grande di quanto alcuni di noi non credano. Mi trovai a un pelo dall'opportunità ultima di pronunciarmi, e scoprii con umiliazione che probabilmente non avrei avuto nulla da dire. Per questo affermo che Kurtz era un uomo notevole. Aveva qualcosa da dire. Lo disse. Dato che ho sbirciato anch'io al di là della sponda, comprendo meglio il significato del suo sguardo che non riusciva a scorgere la fiamma della candela, ma era grande abbastanza da abbracciare l'universo intero, abbastanza aperto da penetrare tutti i cuori che pulsano nella tenebra. Aveva tirato le somme – aveva giudicato. "Che orrore!" Era un uomo notevole. Dopo tutto, quella era l'espressione di un qualche credo; aveva candore, aveva convinzione, aveva una nota vibrante di rivolta nel sussurro, aveva l'aspetto terrificante della verità intravista – la strana mescolanza di desiderio e odio. E non è il mio attimo estremo che meglio ricordo – una visione di grigiore informe pieno di sofferenza fisica, e un disprezzo incurante per l'evanescenza di ogni cosa – perfino della stessa sofferenza. No! È il suo attimo estremo che mi pare di aver personalmente vissuto. È vero, lui aveva fatto l'ultimo passo, aveva superato la sponda mentre a me era stato concesso di ritirare il piede esitante. E forse in questo sta tutta la differenza; forse tutta la saggezza e tutta la verità e tutta la sincerità sono compresse nell'inapprezzabile momento in cui superiamo la soglia dell'invisibile. Forse! Mi piace pensare che la mia valutazione finale non si sarebbe risolta in una parola di incurante disprezzo. Meglio il suo grido – molto meglio. Era una affermazione, una vittoria morale pagata a prezzo di innumerevoli sconfitte, di terrori abominevoli, di abominevoli soddisfazioni. Ma era una vittoria! È per questo che sono rimasto fedele a Kurtz fino all'ultimo, e anche oltre, quando molto tempo dopo udii ancora una volta, non la sua voce, ma l'eco della sua magnifica eloquenza, lanciatami da un'anima trasparente e pura come una scogliera di cristallo.
«No, non mi seppellirono, sebbene ci sia un periodo che ricordo confusamente, con uno stupore raccapricciante, come un passaggio attraverso un mondo inconcepibile senza speranza né desiderio. Mi ritrovai nella città sepolcrale pieno di risentimento alla vista della gente che si affrettava per strada a rubarsi qualche soldo, a divorare l'infame cucina, tracannare la birra malsana, sognare sogni stupidi e insignificanti. Violavano i miei pensieri. Erano intrusi la cui conoscenza della vita era per me una finzione irritante, perché ero così certo che non potessero assolutamente sapere le cose che sapevo io. Il loro comportamento, che era il comportamento di individui banali che si occupavano delle loro faccende nella perfetta convinzione dell'incolumità, mi offendeva quanto l'ostentazione ingiuriosa della follia davanti a un pericolo che non è in grado di comprendere. Non avevo alcun desiderio particolare di illuminarli, ma avevo qualche difficoltà a trattenermi dal ridere loro in faccia, così tronfi di stupida importanza. Probabilmente non stavo troppo bene in quel periodo. Camminavo barcollando per le strade – c'erano diverse questioni da sistemare – sogghignando amaramente davanti a persone del tutto rispettabili. Ammetto che il mio comportamento era imperdonabile, ma in quei giorni la mia temperatura era di rado normale. I tentativi della mia cara zia di "risollevare le mie forze" parevano del tutto fuori segno. Non erano le forze che avevano bisogno d'essere risollevate, era l'immaginazione che andava calmata. Avevo tenuto il fascio di carte che mi aveva dato Kurtz, senza sapere bene cosa farne. Sua madre era morta di recente, assistita, mi era stato detto, dalla promessa sposa. Un uomo accuratamente sbarbato, dai modi ufficiali e gli occhiali d'oro, mi fece visita un giorno e mi interrogò, dapprima in modo indiretto e poi garbatamente pressante, su quelli che si compiacque di definire certi "documenti". Non fui sorpreso, in quanto laggiù avevo litigato due volte con il direttore sul medesimo argomento. Mi ero rifiutato di consegnare il più piccolo foglio di quel pacchetto e mi comportai allo stesso modo con l'uomo dagli occhiali. Alla fine si fece oscuramente minaccioso, e affermò con veemenza che la Compagnia aveva diritto a ogni minima informazione sui suoi "territori". E disse: "La conoscenza che Mr Kurtz aveva delle regioni inesplorate doveva essere necessariamente vasta e particolare – date le sue grandi capacità e le circostanze deplorevoli in cui si era venuto a trovare: quindi...". Gli assicurai che la conoscenza di Mr Kurtz, per quanto vasta, non aveva nulla a che fare con i problemi del commercio o dell'amministrazione. Invocò allora il nome della scienza. "Sarebbe una perdita incalcolabile se" eccetera eccetera. Gli offrii il rapporto sulla Soppressione dei Costumi Selvaggi, a cui avevo strappato il post scriptum. Se ne impossessò avidamente, ma finì per arricciare il naso con aria sprezzante. "Non è questo che avevamo il diritto di aspettarci" commentò. "Non aspettatevi altro" dissi. "Ci sono solo lettere private." Si ritirò minacciando procedimenti legali e non lo vidi più; ma due giorni dopo apparve un altro tipo che si presentò come il cugino di Kurtz, ed era ansioso di conoscere tutti i dettagli degli ultimi istanti del suo caro parente. Mi lasciò incidentalmente intendere che Kurtz era stato soprattutto un grande musicista. "C'erano le premesse di un immenso successo" disse l'uomo, che era un organista credo, con una chioma liscia di capelli grigi che scendevano a toccare il colletto unto della giacca. Non avevo ragione di dubitare delle sue parole; e ancora oggi non so dire quale fosse la professione di Kurtz, se mai ne avesse avuta una – quale fosse il suo talento maggiore. L'avevo creduto un pittore che scriveva per i giornali, oppure un giornalista che sapeva dipingere – ma neppure il cugino (che fiutava tabacco durante la conversazione) seppe dirmi quale fosse stato il suo mestiere – esattamente. Era un genio universale – su quel punto ero d'accordo con il vecchietto, che si soffiò quindi nervosamente il naso e si ritirò pieno di agitazione senile, portando con sé delle lettere di famiglia e qualche appunto privo di importanza. Infine saltò fuori un giornalista ansioso di sapere qualcosa sul destino del "caro collega". Questo visitatore mi informò che il vero campo di Kurtz avrebbe dovuto essere la politica "dalla parte del popolo". Aveva delle sopracciglia folte e dritte, corti capelli ispidi, un monocolo con un grande nastro e, facendosi espansivo, mi confessò la sua opinione che Kurtz non sapeva assolutamente scrivere – "ma per Dio! Sapeva parlare quell'uomo! Elettrizzava vasti uditori. Aveva fede – capisce? – aveva la fede. Riusciva a credere in qualsiasi cosa – qualsiasi cosa. Sarebbe stato un magnifico capo per un partito estremista". "Che partito?" chiesi. "Un partito qualsiasi" rispose lui. "Era un... un... estremista." Non trovavo? Assentii. Sapevo per caso, mi chiese improvvisamente incuriosito, "che cosa l'avesse indotto ad andare laggiù?" "Sì" risposi, e gli porsi subito il famoso Rapporto perché lo pubblicasse se gli pareva opportuno. Lo scorse in fretta borbottando tutto il tempo, giudicò che "poteva andare", e se ne uscì col bottino.
«Così non mi restava che un sottile pacchetto di lettere e il ritratto della ragazza. La sua bellezza mi colpì – ossia la bellezza della sua espressione. So che si può far mentire anche la luce del sole, eppure pareva che nessuna manipolazione di luce o posa avrebbe potuto trasmettere a quei lineamenti la delicata sfumatura della sincerità. Sembrava pronta ad ascoltare senza riserve mentali, senza sospetti, senza un pensiero per sé. Conclusi che sarei andato personalmente a riportarle le lettere e il ritratto. Curiosità? Sì; e forse anche qualche altro sentimento. Tutto ciò che era stato di Kurtz era passato attraverso le mie mani: la sua anima, il suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Rimanevano soltanto la sua memoria e la sua promessa sposa – e in un certo senso volevo affidare anche quelle al passato – consegnare personalmente tutto ciò che mi restava di lui all'oblio che è l'ultima parola del nostro fato comune. Non mi difendo. Non avevo alcuna chiara percezione di che cosa davvero volessi. Forse fu un impulso di inconscia fedeltà, o l'adempimento di una di quelle ironiche necessità che si celano nei fatti dell'umana esistenza. Non so. Non saprei dire. Ma ci andai.
«Pensavo che la sua memoria fosse come le altre memorie dei morti che si accumulano nella vita d'ogni uomo – una vaga impronta lasciata sul cervello da ombre che vi sono cadute sopra nel rapido passaggio definitivo; ma di fronte al portone alto e massiccio tra le alte case di una strada tranquilla e dignitosa come il vialetto curato di un cimitero, rividi lui sulla barella, che apriva voracemente la bocca, come a divorare tutta la terra con tutta l'umanità. Lo vidi vivo davanti a me; più vivo che mai – un'ombra insaziabile di splendide apparenze, di realtà spaventose; un'ombra più tenebrosa dell'ombra della notte, ammantata nobilmente nelle pieghe di una magnifica eloquenza. La visione parve entrare con me nella casa – la barella, i portatori fantasma, la folla selvaggia di adoratori obbedienti, l'oscurità delle foreste, lo splendore del tratto di fiume tra le anse oscure, il pulsare del tamburo, regolare e smorzato come il battito del cuore – il cuore di una tenebra vittoriosa. Fu un attimo di trionfo per la terra selvaggia, un'irruzione pervasiva e vendicatrice che, mi parve, avrei dovuto respingere da solo per la salvezza di un'altra anima. E il ricordo di ciò che gli avevo sentito dire laggiù, con le forme adornate di corna che si agitavano alle mie spalle, alla luce dei falò, nei boschi pazienti, quelle frasi spezzate mi tornarono alla mente, le riudii nella loro semplicità infausta e terrificante. Ricordai le sue implorazioni abiette, le sue abiette minacce, le proporzioni colossali dei suoi ignobili desideri, la meschinità, il tormento, l'angoscia tempestosa della sua anima. E in seguito mi parve di vedere il modo sicuro e posato con cui aveva detto un giorno: "Ora tutto questo avorio mi appartiene davvero. La Compagnia non l'ha pagato. L'ho raccolto io con grandissimo rischio personale. Temo però che cercheranno di rivendicarlo come loro. Ehm. È un caso difficile. Secondo lei che cosa dovrei fare – resistere? Eh? Non voglio altro che giustizia...". Non voleva altro che giustizia – nient'altro che giustizia. Suonai il campanello davanti a una porta di mogano al primo piano, e mentre attendevo pareva che lui mi fissasse dal pannello lucente – mi fissasse con quell'immenso sguardo dilatato con cui abbracciava, condannava, aborriva l'universo intero. Mi parve di udire il grido sussurrato: "Che orrore! Che orrore!".
«Scendeva il crepuscolo. Dovetti attendere in un aulico salotto con tre finestre alte dal pavimento al soffitto che parevano tre colonne drappeggiate di luce. Le gambe e gli schienali sinuosi e dorati dei mobili brillavano in curve indistinte. L'imponente camino di marmo aveva una bianchezza fredda e monumentale. In un angolo un piano a coda massiccio; con foschi riflessi sulla superficie piatta come un lucido e tetro sarcofago. Un'alta porta si aprì – si richiuse. Mi alzai.
«Si fece avanti, tutta vestita di nero, la testa pallida, fluttuando verso di me nel crepuscolo. Portava il lutto. Era passato più di un anno dalla morte, da più di un anno era giunta la notizia; pareva che lei avrebbe ricordato e portato il lutto per sempre. Prese le mie mani fra le sue e mormorò: "Mi avevano detto che sarebbe venuto". Notai che non era molto giovane – ossia non una ragazzina. Aveva in lei la capacità matura d'esser fedele, di credere, di soffrire. La stanza parve essere diventata più scura, come se la luce triste di quella sera nuvolosa si fosse rifugiata tutta sulla sua fronte. Quei capelli chiari, quel volto pallido, quella fronte pura, sembravano circondati da un alone cinereo dal cui fondo mi fissavano gli occhi scuri. Lo sguardo era schietto, profondo, sicuro e fiducioso. Portava il capo addolorato come fiera di quel dolore, come per dire: io – solo io so piangerlo come merita. Ma mentre ancora ci stringevamo le mani, le nacque in viso un'espressione di spaventosa desolazione che mi fece comprendere come lei fosse una di quelle creature che non sono un trastullo del Tempo. Per lei era morto solo il giorno prima. E per Giove! l'impressione fu così profonda che anche a me sembrò essere morto il giorno prima – ma no, in quello stesso momento. Vidi lei e lui nello stesso istante – la morte di lui e il dolore di lei – vidi il dolore dell'una nel momento stesso della morte dell'altro. Capite? Li vedevo insieme – li udivo insieme. Aveva detto con un profondo sospiro: "Sono sopravvissuta"; mentre alle mie orecchie tese era parso di udire distintamente, mescolato al suo tono di disperato rimpianto, il bisbiglio riassuntivo dell'eterna condanna di lui. Mi chiesi che cosa stessi facendo lì, con una sensazione di panico nel cuore come se fossi per errore finito in un luogo di misteri crudeli e assurdi che agli esseri umani non è dato di contemplare. Mi indicò una sedia. Ci sedemmo. Posai delicatamente il pacchetto sul tavolino e lei vi appoggiò sopra la mano... "Lo conosceva bene" mormorò dopo un attimo di luttuoso silenzio.
«"L'intimità cresce presto laggiù" dissi. "Lo conoscevo quanto è possibile conoscere un uomo."
«"E lo ammirava" disse. "Era impossibile conoscerlo e non ammirarlo, vero?"
«"Era un uomo notevole" risposi titubante. Poi davanti alla commovente fissità del suo sguardo, che pareva in attesa di leggere altre parole sulle mie labbra, proseguii: "Era impossibile non...".
«"Amarlo" completò impaziente, facendomi ammutolire di sgomento. "Come è vero! come è vero! Ma se pensa che nessuno lo conosceva bene come me! Avevo tutta la sua nobile confidenza. Lo conoscevo meglio di chiunque altro."
«"Lo conosceva meglio di chiunque altro" ripetei. E forse era vero. Ma con ogni parola pronunciata la stanza si faceva più scura e solo la sua fronte, liscia e bianca, restava illuminata dall'inestinguibile luce della fede e dell'amore.
«"Lei gli era amico" continuò. "Amico" ripeté un po' più forte. "Deve essere così, se le ha dato questo e l'ha mandata da me. Mi pare di poter parlare con lei – e, oh! devo parlare. Voglio che lei – lei che ha udito le sue ultime parole – sappia che sono stata degna di lui... Non è orgoglio... Sì! Sono orgogliosa di sapere che lo comprendevo meglio di chiunque altro sulla terra – me l'ha detto lui stesso. E da quando è morta sua madre non ho avuto nessuno – nessuno – a cui – a cui..."
«Ascoltavo. Le tenebre si infittivano. Non ero neppure certo che egli mi avesse dato il pacchetto giusto. Sospettavo invece che volesse affidarmi un altro fascio di carte che, dopo la sua morte, vidi esaminare dal direttore sotto la lampada. E la ragazza parlava, sfogando il suo dolore nella certezza della mia simpatia; parlava come bevono gli assetati. Avevo sentito che la sua famiglia disapprovava il fidanzamento con Kurtz. Non era abbastanza ricco o chissà cosa. E davvero non so se non fosse stato povero tutta la vita. Mi aveva dato ragione di supporre che era stata l'impazienza per la sua relativa povertà a spingerlo laggiù.
«"... E chi non gli era amico dopo averlo ascoltato parlare una volta soltanto?" stava dicendo. "Attirava gli uomini per quello che di meglio avevano in loro." Mi fissò intensamente. "È il dono dei grandi" proseguì, e il suono della sua voce bassa pareva accompagnato da tutti gli altri suoni, pieni di mistero, desolazione e dolore, che avevo mai udito – il mormorio del fiume, il fremito degli alberi agitati dal vento, il brusio delle folle, l'eco indistinta di parole incomprensibili gridate di lontano, il bisbiglio di una voce che parla di là dalla soglia di una tenebra eterna. "Ma lei l'ha sentito! Lei sa!" gridò.
«"Sì, lo so" dissi con un che di disperazione nel cuore, ma chinando il capo davanti alla fede che era in lei, davanti alla grande illusione redentrice che brillava di una luce soprannaturale nelle tenebre, nelle tenebre trionfanti da cui non avrei potuto difenderla – da cui non avrei potuto difendere neppure me stesso.
«"Quale perdita per me – per noi!" – si corresse con magnifica generosità; quindi aggiunse in un mormorio: "Per il mondo". Negli ultimi bagliori del crepuscolo vidi brillare i suoi occhi, colmi di lacrime – di lacrime che non volevano cadere.
«"Sono stata molto felice – molto fortunata – molto orgogliosa" riprese. "Troppo fortunata. Troppo felice per un po'. E ora sono infelice per... per la vita."
«Si alzò; i capelli biondi sembravano raccogliere tutta la luce residua in un barlume d'oro. Mi alzai anch'io.
«"E di tutto questo" proseguì dolorosamente, "di tutte le sue promesse e di tutta la sua grandezza, della sua mente generosa, del suo cuore nobile, non resta nulla – nulla fuorché la memoria. Lei e io..."
«"Lo ricorderemo sempre" mi affrettai a dire.
«"No!" esclamò. "È impossibile che tutto ciò vada perduto – che una vita simile venga sacrificata senza lasciare nulla – se non dolore. Lei sa che grandi progetti aveva. Anch'io li conoscevo – forse senza comprenderli – ma altri li conoscevano. Qualcosa deve restare. Le sue parole, almeno, non sono morte."
«"Le sue parole resteranno" dissi.
«"E il suo esempio" sussurrò tra sé. "Gli uomini lo ammiravano – la sua bontà brillava in ogni atto. Il suo esempio..."
«"È vero" dissi; "anche il suo esempio. Sì, il suo esempio. L'avevo scordato."
«"Ma io no. Non riesco – non riesco a credere – non ancora. Non riesco a credere che non lo vedrò mai più, che nessuno lo vedrà più, mai più, mai più."
«Stese le braccia come davanti a una figura sfuggente tendendole nere e con le pallide mani giunte attraverso l'esigua luce morente della finestra. Non vederlo più! In quel momento lo vedevo assai chiaramente. Finché avrò vita vedrò quell'eloquente fantasma, e anche lei vedrò, un'Ombra tragica e familiare, simile nel gesto a un'altra, ugualmente tragica, e adorna di impotenti amuleti, che tendeva le brune braccia nude sul luccichio del fiume infernale, il fiume delle tenebre. Improvvisamente disse sottovoce: "È morto come è vissuto".
«"La sua fine" dissi, mentre una collera sorda si agitava in me, "è stata in tutto degna della sua vita."
«"E io non ero con lui" mormorò. La mia collera cedette di fronte a un sentimento di infinita pietà.
«"Tutto ciò che si poteva fare..." borbottai.
«"Oh, ma io credevo in lui più di chiunque sulla terra – più di sua madre, più di... lui stesso. Aveva bisogno di me! Di me! Avrei fatto tesoro d'ogni sospiro, d'ogni parola, d'ogni segno, d'ogni sguardo."
«Sentii una morsa gelida al petto. "Non faccia così" dissi, con voce soffocata.
«"Mi perdoni. Io... io... l'ho pianto così a lungo in silenzio – in silenzio... Lei è stato con lui – fino all'ultimo? Penso alla sua solitudine. Nessuno vicino che lo comprendesse come io l'avrei compreso. Forse nessuno che l'udisse..."
«"Sino alla fine" dissi tremante. "Ho udito le sue ultime parole..." mi fermai terrorizzato.
«"Le ripeta" mormorò col cuore straziato. "Voglio – voglio – qualcosa – qualcosa – con cui – con cui vivere."
«Ero sul punto di gridarle: "Non le sente?". Tutt'intorno a noi il crepuscolo le ripeteva in un bisbiglio insistente, in un bisbiglio che mi pareva crescere minaccioso come il primo bisbiglio del vento che s'alza. "Che orrore. Che orrore!"
«"La sua ultima parola – con cui vivere" insistette. "Non capisce che l'amavo – l'amavo – l'amavo!"
«Mi feci forza e parlai lentamente.
«"L'ultima parola che pronunciò fu – il suo nome."
«Udii un sospiro lieve e poi il mio cuore si fermò, arrestato da un grido esultante e terribile, dal grido di inconcepibile trionfo e di indicibile dolore. "Lo sapevo – ne ero sicura!"... Lo sapeva. Ne era sicura. La sentii piangere; aveva nascosto il viso tra le mani. Mi parve che la casa sarebbe crollata prima che potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sul capo. Ma non successe nulla. Il cielo non cade per così poco. Sarebbe caduto, mi chiedo, se avessi reso a Kurtz la giustizia che gli spettava? Non aveva forse detto che voleva solo giustizia? Ma non potevo. Non potevo dirglielo. Sarebbe stato troppo tenebroso – davvero troppo tenebroso...»
Marlow tacque, e restò in disparte, indistinto e silenzioso, nella posa di un Budda meditante. Per un po' nessuno si mosse. «Abbiamo perso l'inizio del riflusso» disse improvvisamente il direttore. Alzai la testa. Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d'acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa.