lunedì 31 gennaio 2022

ALL TIME IS UNREDEEMABLE Estratto da "Four Quartets" by T.S. Eliot, Burnt Norton Section 1



 ALL TIME IS UNREDEEMABLE 

Estratto da "Four Quartets" by T.S. Eliot, Burnt Norton Section 1


TEMPO. Perchè la civiltà moderna, figlia della Rivoluzione industriale (e della Rivoluzione scientifica che l'ha alimentata) ha una così grande paura del tempo, e una tale ossessione della morte?. Una risposta  possiamo trovarla nel fatto che la nuova religione del Progresso non è riuscita  a riempire  il vuoto lasciato dall'aver voluto superare la fede in un Dio trascendente. Questo perchè non mantenendo le sue promesse, la nuova religione ha lasciato all'uomo moderno la paura dell'ignoto e una  esasperata consapevolezza della morte, senza nemmeno saper offrire quel conforto spirituale che apparteneva al vecchio credo.


[...]Eliot, durante l’estate del 1934, visitò un castello disabitato nel Gloucestershire: il suo nome ispirò al poeta il titolo del primo Quartetto. Il tema del tempo, passato e presente, prende avvio dalla quantità di testimonianze visibili in quel luogo geografico. Fin dai primi versi inizia la meditazione sulla ciclicità, sulla compenetrazione dei differenti stati (mentali e terreni), tra principio e fine. Ogni indagine umana, dentro e fuori la psiche, non può fare a meno di soffermarsi sul movimento alterno della memoria, e su ciò che viene avvertito come scorrere del tempo.[....](Elio Grasso)






I
 
Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.
Footfalls echo in the memory
Down the passage which we did not take
Towards the door we never opened
Into the rose-garden. My words echo
Thus, in your mind.
                         But to what purpose
Disturbing the dust on a bowl of rose-leaves
I do not know.
                    Other echoes
Inhabit the garden. Shall we follow?
Quick, said the bird, find them, find them,
Round the corner. Through the first gate,                         
Into our first world, shall we follow
The deception of the thrush? Into our first world.
There they were, dignified, invisible,
Moving without pressure, over the dead leaves,
In the autumn heat, through the vibrant air,
And the bird called, in response to
The unheard music hidden in the shrubbery,
And the unseen eyebeam crossed, for the roses
Had the look of flowers that are looked at.
There they were as our guests, accepted and accepting.
So we moved, and they, in a formal pattern,
Along the empty alley, into the box circle,
To look down into the drained pool.
Dry the pool, dry concrete, brown edged,
And the pool was filled with water out of sunlight,
And the lotos rose, quietly, quietly,
The surface glittered out of heart of light,
And they were behind us, reflected in the pool.
Then a cloud passed, and the pool was empty.
Go, said the bird, for the leaves were full of children,             
Hidden excitedly, containing laughter.
Which is always present.
Go, go, go, said the bird: human kind
Cannot bear very much reality.
Time past and time future
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.
 
I
 
Tempo presente e tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro,
il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo è eternamente presente
tutto il tempo non è riscattabile.
Quanto poteva essere è un’astrazione
che rimane come perpetua possibilità
soltanto in un mondo d’indagini.
Quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.
Eco di passi nella memoria
nei passaggi dove non c’incamminammo
verso la non spalancata porta
sul roseto. L’eco delle mie
parole, nei tuoi pensieri.
                                Per quale scopo
sollevino polvere da una coppa di foglie di rosa
io non so.
              Altri echi
abitano il giardino. Vogliamo seguirli?
Presto, disse un uccello, trovateli, trovateli,
oltre l’angolo. Attraverso il primo cancello,
nel nostro primo mondo, seguiremo
il tranello del tordo? Nel nostro primo mondo.
Erano là, degni, invisibili,
passavano leggeri sulle foglie morte,
nel tiepido autunno, nell’aria vibrante,
e l’uccello chiamava, rispondeva
a una musica mai sentita e nascosta nel bosco,
attraversava uno sguardo mai visto, poiché le rose
avevano l’aspetto di fiori ben studiati.
Erano là come nostri ospiti, accolti e accoglienti.
Così andammo con loro, solennemente,
per il viale deserto, fino alla rotonda,
a guardare lo stagno prosciugato.
Dapprima arido, solido e bordato di scuro,
lo stagno sotto il sole si riempì d’acqua,
lentamente spuntarono i fiori di loto,
la superficie brillò sotto il cuore luminoso,
ed essi, dietro di noi, si rispecchiarono.
Passò una nuvola, e lo stagno si svuotò.
Andiamo, disse l’uccello, tra le foglie frotte di bimbi
si nascondevano eccitati, trattenendo le risa.
Via, via, andiamo via, disse l’uccello: gli uomini
non sopportano troppa realtà.
Tempo passato e tempo futuro
quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.

 

domenica 30 gennaio 2022

BETULLE di Robert Frost

 


BETULLE 

di Robert Frost

Quando vedo le betulle curvarsi a destra e a manca
Fra le linee degli alberi più scuri, ritti,
Amo pensare che un ragazzo vi stia dondolando.
Ma dondolarsi non li farebbe curvare così tanto
Quanto la tormenta di neve. Li avrete visti spesso
Carichi di neve un soleggiato dì d’inverno
Dopo la pioggia. Scricchiolano già da soli
Appena s’alza il vento, e si fanno variopinti
Quando un minimo movimento sconquassa il loro smalto.
Presto il calore fa cadere i cristalli
Rovinando a valanga sulla coltre di neve
Dinanzi a quei mucchietti di vetro rotto spazzati via
Penseresti che l’intima colonna del Cielo fosse caduta.
Sono trascinati dal peso sul suolo prosciugato,
ma sembrano non rompersi; e benchè siano stati curvi
così mollemente per tanto tempo, non si raddrizzeranno:
potreste vedere i tronchi per anni ancora fare arco
nei boschi, lasciando penzolare le foglie a terra
come ragazze carponi a pettinarsi i capelli
prima di farli asciugare al sole.
Ma vorrei dire che quando la Verità irrompe
A dire la sua sulla tempesta di neve, io preferirei
Avere un ragazzo dondolante fra di loro
Dopo aver fatto va e vieni per riprendere le bestie
Un ragazzo lontano abbastanza dalla città per non
Aver imparato il baseball, il cui unico gioco
Fosse sempre con sé stesso, estate e inverno,
un ragazzo capace di giocare da solo.
Avrebbe domato ad uno ad uno gli alberi del padre
Come cavalcandoli più e più volte,
Per toglierne via la scontrosità,
nessuno lasciato a zoppicare,
nessuno abbandonato prima della conquista.
Imparerebbe che tutto quel che c’è da sapere è di
Non lasciarsi cadere giù troppo presto e di
Non spezzare il ramo torcendolo troppo verso terra.
Avrebbe poi preso padronanza coi rami alti, usando
La medesima accortezza che usereste per riempire
Una tazza fino all’orlo, e poi fin sopra l’orlo.
Sarebbe scivolato sotto prima coi piedi, sibilando,
Creandosi a calci una via fra l’aria e il suolo.


Anch’io un tempo amavo dondolarmi fra le betulle.
E così vorrei ancora tornare indietro a farlo.
Quando son stanco di considerare, e la vita
Mi pare troppo simile ad un bosco non segnato da
Sentieri, e la faccia t’arde e si solletica con le ragnatele
Strappate passandovi contro, e gli occhi
Ti lacrimano, per i ramoscelli che ti feriscono.
Vorrei andar via dal Mondo, e poi
Tornare indietro, e ricominciare.
Che il Destino non mi disconosca e almeno un poco
Mi conceda quel che voglio e non mi strappi di mano
La possibilità di ritornare. La terra è il giusto posto per amare:
non so affatto come potrebbe migliorare.
Vorrei andarmene scalando una betulla, e
Salire rami scuri lungo un tronco innevato, verso il cielo,
fin dove l’albero non potrebbe condurmi,
ma fosse pronto a piegare la cima e riportarmi giù.
Sarebbe bello andare ed al contempo ritornare.
Si potrebbe far di peggio che dondolarsi fra le betulle.


LE TRE CONDIZIONI DELL'UOMO IN ATTESA Estratto da UN UOMO INUTILE di Sait Faik Abasryanik

 

 LE TRE CONDIZIONI  DELL'UOMO IN ATTESA 
Estratto da UN UOMO INUTILE 
di Sait Faik Abasryanik

I

So bene che lei non verrà. Ma l’attesa mi regala un piacere a sé. Che importanza potrebbe avere quest’ora se riuscissi a esprimere ciò che sto provando. Nella corretta esposizione dei propri desideri si impone un calcolo prudente. Quando l’attesa sarà passata, più tardi, forse sarò in grado di descrivere quest’ora trascorsa accanto a una finestra, credendo di scorgere lei in alcuni passanti. Ma tu, sì, proprio tu, buffone! Tu sai benissimo che non sarò mai capace di descriverlo. Tutto quel che sai fare è definire fatale dolore questa vicenda; e io la chiamerei gioia se, di colpo, accadesse l’impossibile.

Dolore e gioia: ah, voi, che parole terribili siete! Tremende! Quanto è costata, all’essere umano, ogni parola... Adesso, in questo istante, capisco che genere di cose si nascondono negli interstizi del significato di ogni parola. È forse la prima volta che amo con tanta forza. Tutti i miei difetti (che credevo per lo più virtù) si manifestano a uno a uno come esempi di dolore e di gioia. Nondimeno, qualche virtù sembra che l’abbia: pare insomma che io sia capace di amare un’altra persona. un altro essere, assolutamente sconosciuto, impensabile. Sembra che sia capace, in cuor mio, di compiere tanti sacrifici, e grandi imprese, e rinunce per lei. Forse non sono dunque un individuo così vile. Mi sento persino pronto a lottare. Proverei cioè nostalgia per un’altra persona, coglierei un soffio del suo odore, la penserei, sarei triste per lei. Ha torto, Balzac, quando dice: «L’amore, anche quando fosse inconscio, sarebbe un intrigo di calcoli». Questo è vero fra i borghesi. Ma io non faccio calcoli, né consci, né inconsci. Sono pieno di infinite cose incalcolabili. Se la mia amata vuole fare calcoli, si accomodi. Resta che io, da parte mia, di calcoli non ne faccio.

Il tempo trascorre. Accendo un’altra sigaretta. Una ragazza, con il suo cane, si stacca da un affollamento nella strada e supera una donna cristiana vestita di nero che cammina con un bastone dalla punta d’argento. Il focoso garzone del mobilificio sogghigna. Al banco dell’ortolano un soldato compra dell’uva. Una macchina sfreccia, passa un uomo con qualcosa sottobraccio. Un tram è in arrivo sul viale e io mi domando: «Lei arriverà da giù?». Ora la gente spunterà dalla via secondaria.

E se la vedessi tra la folla? Che cosa farei, allora?

La settimana scorsa era andata diversamente. «Verrò per un’ultima volta» aveva detto, ed era venuta davvero. Che cos’era successo? Ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altro, per una mezz’ora. Come mi ero sembrato apatico, freddo, distante! Lei, invece, era più fine, più viva, più bizzarra. «Non verrò più» aveva detto. Ma ieri io ho insistito di nuovo. «Va bene, domani verrò. Aspettami» aveva risposto. So bene che non verrà. Ah, questo aspettare il suo arrivo... Ma la scelta sta appunto tra l’attesa con lei nei pensieri, e l’attesa e basta...

Imploro Dio di sottoporla al castigo che sto patendo io: «Fa’, mio Signore, che desideri con ardore qualcuno! Fa’ che si trascuri, che non badi a come campare, all’aria, all’acqua, a nutrirsi! Fa’ che anche lei resti ad aspettare davanti a una finestra!».

Capelli e barba sono imbianchiti qua e là. Ma io sono sempre alla finestra, in attesa di un’apparizione. Quantunque le cose siano fin troppo vere all’inizio, ora non sono altro che pure illusioni.

Il garzone del mobilificio sta entrando nel negozio con una bottiglietta in mano. Dall’ortolano un uomo, in abito blu scuro, sta scegliendo i meloni. Passano alcune scolarette.

Lo scenario cambia di minuto in minuto, di ora in ora; quando la strada sarà completamente deserta non sarà più la stessa. Osserverò questa scena mutevole e ti aspetterò, ogni giorno, fino a sera. Una volta sceso il buio, me ne andrò a bere. Poi, ti troverò di nuovo. Questa sera il mio scopo è semplicemente quello di guardarti da lontano. Ti passerò davanti salutandoti. Ne sono certo: tu non vuoi venire da me, e pazienza! Vuol dire che mi metterò a sedere da qualche parte sul vaporetto, in un punto dove possa vederti e tenere gli occhi fissi su di te, finché non avremo attraccato. Ti arrabbierai, se mi vedi. Ti confonderai, dimenticherai quel che stavi dicendo. Potresti anche cambiare di posto. Se invece non mi vedessi, avrò la fortuna di fissarti a lungo.

L’ortolano ha legato tre meloni a una di quelle aste che sporgono dal tendone. I meloni si toccano piano piano, dolci, dondolanti.

II

Non è venuta, la mia amata. Chiedo scusa a voi; voi due, i miei amici più cari, per non avervi ancora potuto scrivere. Ne è passato di tempo – saranno circa trent’anni – dall’ultima volta che vi ho dato mie notizie. Se mi chiedete perché non l’ho fatto, adesso ve lo spiego. Miei cari e diletti amici! Sono venuti in tanti a raccontarmi cose brutte su di voi, e sempre alle vostre spalle! Voi non ci credereste, alle cose che hanno spifferato. Vi assicuro che persino quelli che vi vogliono bene mugugnano e sussurrano a mezza voce, e se si parlava di voi se ne uscivano con un disgustato: «No, no... per carità, lascia perdere!». La maldicenza, si sa, stordisce e travia le persone, e le distoglie dal retto cammino; che cosa possiamo farci? Invece io non vi ho mai evitato, voi lo sapete bene, e nemmeno ho finto di non vedervi se vi incrociavo per strada. Tanti altri l’hanno fatto, eh, sì, sappiatelo! Ma lasciate che ve lo dica, amici miei, proprio oggi che capisco il vostro valore: io non l’ho mai fatto.

Non offendetevi! Siete creature dalle qualità talmente inattingibili – me ne rendo conto solo oggi – che comprenderei se mi diceste: «Eri libero di non salutarci...».

Non ho saputo amarvi con l’intensità degna di voi. Di questo sono a chiedervi di scusarmi, premettendo vuoti e assurdi discorsi al fine di tornare al culmine dell’antica intesa.

Vi voglio bene. Forse non più del bene che voglio alla mia amata umana, ma per lo meno altrettanto. Per me – sapete? – il «molto» e il «poco» non esistono. È tutto un circolare di corrispondenze alla pari. Vogliate perdonare la mia vena poetica. Voi, così gentili, che a passi ovattati e amorevoli venite a me nei momenti peggiori, in silenzio, per arruffarmi i capelli e baciarmi le mani e i piedi come cani smarriti: oh, come vi amo!

Quando il mio amore umano tralascia di venire da me, tutta presa dai suoi calcoli gretti, ecco che voi, al contrario, venite festosi e giocondi. Chissà, forse un giorno non verrete più neppure voi.

E ancora: benché uno di voi non sia che il frutto della vite e l’altro non sia che erba, sapete ricorrere a mille espedienti per avvicinarvi a un uomo. Mi piacerebbe soltanto che veniste di vostra spontanea volontà. Se possedessi la mia propria vigna, potrei produrre il mio vino da bere tutto l’anno, che il mio amore venga o non venga, che io sia di buono o di cattivo umore. Se avessi il mio campo di tabacco, ogni volta che fossi irritato o chissà che altro, potrei dire per tutto l’anno: «Ehi, tu, uomo, perché non ti fumi una bella sigaretta?». Care sigarette, non dovrei più comprarvi dal droghiere dell’angolo con il suo brutto muso, o dal tabacchino con la faccia cadaverica. Ah, quanto migliore sarebbe il mio avvenire, e quanto più sicuro! La nostra amicizia, così come quella con il mio amore, dipende dal denaro. Oh, ma che mi importa? L’amicizia che mi state dimostrando adesso non mi era mai stata manifestata da nessun altro. Sapevo bene che l’essere umano non l’avrebbe mai potuta dimostrare, eppure l’avrei amato in ogni caso. Ma voi siete i miei migliori amici. In questi tempi spaventosi siete venuti a me con passi lievi, e avete messo il mio cuore nelle vostre mani, e la mia testa nella vostra voluttà! Sono felice. E, d’ora in poi, è probabile che lo sarò solo con voi. Per potervi celebrare, quale sublime poeta avrei voluto che esistesse, oh, voi, coppia di amati, meritevoli di un encomio. Il vostro posto in me sta nella fessura delle mie labbra. Che Iddio vi protegga.

III

DOPO IL SUO ARRIVO

Visto che non è arrivata all’ora promessa, mi sono preso una bottiglia di vino; mi sono acceso una sigaretta e ho scritto la lettera, amici miei, con la sigaretta innaffiata dal vino... Dopo il primo bicchiere e la quinta sigaretta, mi sono quasi calmato. Per amarla, l’amo ancora, ma non mi preoccupo troppo del suo mancato arrivo. Per un poco mi sono quietato al punto da assopirmi. Nel sogno, il campanello di una porta suonava, ma non riuscivo a svegliarmi. Dopo che il campanello è suonato ancora due volte, sono balzato su e mi sono precipitato ad aprire.

Stava lì davanti. Il suo viso tondo guarda il mio, gonfio di sonno e del vino bevuto. Ora capisco quanto fosse importante prepararsi a quel momento. L’ho accolta con un fare disinvolto. Dov’erano finiti i miei entusiasmi, le mie euforie? E dentro di me, dov’era il senso della mia grande felicità? Non sono riuscito a ritrovare traccia di tutto ciò. Ma respiravo in un modo diverso. Allora le ho preso le mani. Le ho baciato i polsi, ossia il posto che più mi piaceva di lei. Siamo usciti di casa insieme... L’ho accompagnata fino a Tünel. L’ho fatta salire sul treno. Io sono rimasto dal lato di Beyoğlu. Sono entrato in un caffè.

Ecco che cosa sono riuscito a scrivere, della parte «dopo il suo arrivo»... Se penso a quali e quante cose avevo progettato di scrivere. «Ah, una volta che sarà venuta...» mi dicevo.

Allora: è venuta e se n’è andata. Scrivilo, su! Scrivi un po’ di quella grande gioia. Forza, vediamo!

 

 

Con tristezza e rimpianto, ho lasciato un giovane ragazzo che avevo conosciuto in un viaggio da Marsiglia al Pireo, al quale mi ero legato d’amore e amicizia grandi nel giro di cinque giorni. Dopo cinque giorni, ci siamo separati con mille ricordi d’infanzia, quasi avessimo fatto la stessa scuola, negli stessi anni e nella stessa classe. Se la sorte un giorno ci riunisse gli chiederò, accomunandolo ai miei amici d’infanzia: «A che scuola andavamo insieme?».

Su questa nave ho incontrato anche una ragazza. Era innamorata di un giovanotto. «È proprio un asino!» mi diceva. «Io lo amo così tanto, ma lui non viene a dirmi buongiorno al mattino. E se gli capita di venire non dice una parola».

Dissi allora io a quella ragazza:

«Ma ci sono io».

«Ahimè, sì,» ha detto lei «ma voi siete brutto».

Ci siamo seduti vicini sul ponte buio e stellato. Le ho preso la mano. Lei, a occhi chiusi, col pensiero a quel giovanotto, ha stretto la mia.

Piegandomi, le ho sussurrato all’orecchio: «Non è tutto la stessa cosa? In una notte buia, ogni persona, tutti noi, non siamo la stessa cosa? Proprio come lo sono un uomo e una donna. Chiudi gli occhi e sogna». Nell’oscurità, sognando quel ragazzo stupendo, lei si è rannicchiata contro di me, abbracciata a me, con il suo corpo esile e triste, opaco.

Un prete che avevo incontrato, anche lui, sulla nave, mi è venuto accanto mentre agonizzavo per un amico lasciato in un porto, e mi ha detto:

«Il piacere è la cosa più incostante e volubile. È un gas che scappa dal buco più piccolo. Non è per questo che siamo continuamente costretti a cambiare piaceri e diletti? E ogni volta, dopo averli cambiati, è forse possibile arrestare di nuovo quella cupezza, la disperazione, la sofferenza? Figliolo, è Dio l’unica felicità».

Sono arrossito per aver ricevuto da un prete il conforto che mi ero aspettato dal buio e dalla solitudine.

Ma era notte. Grandi cieli e grandi stelle. L’albero della nave puntava fisso su una stella splendente. La Via Lattea era limpida, trasparente. Ho alzato gli occhi. Nascosto dentro il vuoto, affidandomi a un Dio che avevo creato attraverso pensieri ossessivi, ho chiuso gli occhi, e quella notte, sul ponte della Tadla, ho dormito come un bambino senza pensieri.


sabato 29 gennaio 2022


 TRA LE NOSTRE PAROLE

Katie Kitamura

Il libro

Con echi di Un cuore così bianco di Javier Marìas,(*) Tra le nostre parole affronta la ricerca del segreto nascosto dentro ogni essere umano. Come in un thriller, una forte suspense caratterizza una vicenda dove le motivazioni personali spesso si scontrano contro una realtà molto diversa da come era stata immaginata, e Katie Kitamura è bravissima nello scandagliare i sentimenti e il disorientamento dei suoi protagonisti. 

(*) https://mabastainsoma.blogspot.com/2022/01/un-cuore-cosi-bianco-xavier-marias.html?m=1

TRA LE NOSTRE PAROLE

1.

Trasferirsi in un paese nuovo non è mai semplice, ma a dire la verità ero felice di aver lasciato New York. La città ormai mi disorientava. Dopo la morte di mio padre e l’improvvisa ritirata di mia madre a Singapore, mi resi conto di quanto i miei genitori mi avessero ancorata a quel luogo, di cui nessuno di noi era originario. Era stata la lunga malattia di mio padre a trattenermi, ma dopo la sua triste conclusione mi ritrovai di colpo libera di andarmene. Mi candidai allora d’impulso per la posizione d’interprete presso la Corte penale internazionale e, dopo aver accettato il lavoro ed essermi trasferita all’Aja, mi accorsi di non avere alcuna intenzione di tornare indietro. A New York non avrei più saputo sentirmi a casa.

Arrivai all’Aja con un contratto di un anno alla Corte e poco altro. In quei primi giorni, quando la città mi era ancora estranea, giravo in tram senza meta e camminavo per ore di fila, tanto che a volte mi perdevo e dovevo ricorrere alla mappa sul telefono. L’Aja mi ricordava molto le città europee dove avevo trascorso lunghi periodi della mia vita, e forse per questo mi sorprendeva vedere quante volte e con quanta facilità perdessi l’orientamento. In quei momenti, quando la familiarità delle strade si arrendeva allo smarrimento, mi chiedevo se avrei mai smesso di sentirmi un’ospite.

Tuttavia, nell’attraversare le vie e i quartieri, provavo una rinnovata sensazione di possibilità. Avevo vissuto immersa in un dolore sordo così a lungo da non farci più caso, neppure mi accorgevo di come attutisse le mie sensazioni. Ora, però, cominciava a dissiparsi, era come uno spazio che si apriva piano piano. Con il passare dei giorni sentivo di aver avuto ragione a lasciare New York, anche se ancora non sapevo se avessi fatto bene a venire all’Aja. Registravo i dettagli del paesaggio con grande e a volte sorprendente sollievo – perché era un posto non ancora usurato dalla familiarità o distorto dai ricordi, e perché avevo cominciato a cercare qualcosa, anche se non sapevo bene cosa.

Fu più o meno in quel periodo che conobbi Jana, tramite un’amicizia comune di Londra. Jana si era trasferita nei Paesi Bassi due anni prima di me, per lavorare come curatrice presso il Mauritshuis – domestica di un museo nazionale, definiva lei la sua posizione con un’ironica alzata di spalle. Aveva un carattere opposto al mio, estroverso al limite del compulsivo laddove io negli ultimi anni ero diventata sempre più cauta; la malattia di mio padre era stata come una silenziosa raccomandazione a non sperare troppo. Jana, però, entrò nella mia vita in un momento in cui ero più incline del solito ad aprirmi con gli altri. La sua loquace compagnia era un facile conforto, e pensavo che nelle nostre differenze raggiungessimo una sorta di equilibrio.

Io e Jana cenavamo spesso insieme, e quella sera si era offerta di cucinare: aveva detto di essere troppo stanca per andare al ristorante, e così avremmo anche risparmiato, visto il suo nuovo e non trascurabile mutuo. Jana aveva da poco comprato un appartamento vicino alla stazione ferroviaria, e insisteva perché mi trasferissi in quella zona allo scadere del mio affitto a breve termine. Aveva addirittura cominciato a spedirmi annunci immobiliari, assicurandomi che il quartiere aveva molto da offrire e che tra le altre cose era ottimamente servito dai mezzi. Adesso per lei era molto più facile andare al lavoro, con un tram diretto, senza cambi.

Nel tragitto tra la fermata del tram e il suo appartamento, calpestai dei pezzi di vetro. Il palazzo di Jana, una struttura modesta con file di balconi, era incuneato tra un isolato di case popolari e un nuovo condominio di vetro e acciaio, due aspetti di un quartiere in rapida trasformazione. Suonai il citofono e lei fece scattare la serratura senza una parola. Aprì la porta di casa prima che potessi bussare, il lavoro era un incubo, annunciò senza preamboli, non si era trasferita da Londra all’Aja per passare il tempo a leggere fogli Excel. Eppure era proprio quello che faceva ogni giorno, si scervellava su budget e comunicati stampa senza quasi vedere le opere d’arte vere e proprie, che sembravano diventate responsabilità di qualcun altro. Mi fece segno di entrare e prese la bottiglia di vino che avevo portato. Fammi compagnia mentre finisco di preparare, mi gridò prima di sparire in cucina.

Appesi il cappotto. Jana mi allungò un bicchiere di vino mentre entravo nella stanza e si rimise ai fornelli. È pronto tra un minuto. Com’è andata al lavoro? Ti hanno detto niente del contratto? Feci segno di no. Non sapevo se me lo avrebbero prolungato. Ormai ci pensavo sempre più spesso, cominciavo ad avere la sensazione che mi sarebbe piaciuto rimanere all’Aja. Mi ritrovavo a valutare i compiti che mi attribuivano e i modi del mio supervisore, in cerca di qualche segno. Jana annuì comprensiva, e poi mi chiese se avevo guardato gli annunci che mi aveva mandato, c’era un appartamento libero nel condominio di fronte al suo.

Le dissi di sì, poi bevvi un sorso di vino. Anche se si era trasferita da poco, Jana sembrava sentirsi già a casa, aveva preso possesso dello spazio con particolare entusiasmo. Sapevo che l’acquisto di quell’appartamento rappresentava una sicurezza che finora le era mancata: si era sposata
e aveva divorziato prima dei trent’anni, e poi passato gli ultimi dieci a fare carriera fino a quella posizione al Mauritshuis. La guardai aprire un armadietto, prendere una bottiglia di olio d’oliva e un macinapepe, e notai che ogni cosa aveva già il proprio posto. Avvertii un sussulto – non di invidia, piuttosto di ammirazione, per quanto le due non siano del tutto scollegate.

Mangiamo al bancone? chiese Jana. Annuii e mi sedetti. Mi mise davanti un piatto di pasta e disse, Ho sempre desiderato una cucina con il bancone. Forse il motivo risale alla mia infanzia. Si sedette sullo sgabello accanto al mio. Jana era cresciuta a Belgrado con una madre serba e un padre etiope, prima di essere mandata in un collegio francese durante la guerra. Non era più tornata in Iugoslavia, o, come la chiamavano adesso, nella ex Iugoslavia. Mi chiesi dove avesse visto il suo primo bancone, il prototipo che infine era riuscita, più o meno, a replicare nella nuova cucina.

Mi congratulai per il desiderio realizzato, e lei sorrise. È una bella sensazione, disse. Non è stata una trafila facile, prima trovare l’appartamento e poi ottenere il mutuo – scosse la testa e mi lanciò un’occhiata buffa. A quanto pare, per una quarantenne nera e single non è facile avere un finanziamento. Prese il bicchiere di vino. Certo, qui risulto una borghese. Ma da qualche parte devo pur vivere.

In quel momento, in strada partì l’urlo di una sirena. Alzai lo sguardo, sorpresa. Il suono, sempre più forte man mano che il veicolo si avvicinava, riempì l’appartamento. Luci rosse e arancioni si muovevano a spirale nella cucina. Jana si accigliò. Da fuori arrivò il rumore di portiere sbattute e il rombo cupo di un motore. Sempre sirene qui, disse Jana mentre prendeva il bicchiere di vino. Ci sono state delle rapine, e l’anno scorso anche una sparatoria. Io però mi sento al sicuro, aggiunse in fretta. Mentre parlava, arrivarono un altro paio di sirene. Jana prese la forchetta e continuò a mangiare. La guardai masticare con calma, mentre il coro di sirene aumentava d’intensità. Non è diverso dalle zone di Londra dove abitavo prima, disse Jana. Alzò la voce per sovrastare il rumore esterno. Solo che vivere all’Aja dà assuefazione. È facile dimenticare cosa significhi abitare in una vera città.

Le sirene si spensero e ci ritrovammo immerse in un silenzio improvviso. Una sirena può voler dire qualsiasi cosa, dissi alla fine. Una scivolata in bagno, un infarto in cucina. Jana annuì, e capii che a preoccuparla non erano possibili pericoli e violenze, o comunque non solo. Era la sua percezione dell’appartamento a essere cambiata. Non era più la fonte di quella sicurezza a lungo cercata, ma qualcosa di completamente diverso, qualcosa di mutevole, e incerto.

Il resto della serata trascorse sotto una cappa di apprensione, e dopo poco dissi che dovevo tornare a casa. Andai in salotto a raccogliere le mie cose, e mentre mi infilavo il cappotto sbirciai tra le tende giù in strada, alla fioca luce dei lampioni. Tutto era immobile, a eccezione di una sigaretta accesa – un uomo che portava a spasso il cane. Lo guardai buttare la sigaretta per terra e tirare il guinzaglio prima di sparire dietro l’angolo.

Jana si appoggiò al muro, aveva in mano una tazza di tè e sembrava più stanca del solito. Le sorrisi. Riposati, dissi, e lei annuì. Aprì la porta d’ingresso, e mentre le passavo davanti mi afferrò per un braccio. Fai attenzione mentre vai alla fermata del tram, ok? L’ansia nella sua voce, la stretta delle sue dita mi colpirono. Mi lasciò andare e fece un passo indietro. È che non si è mai troppo attenti, disse. Annuii e mi voltai per andarmene, lei aveva già richiuso la porta. Sentii il clic di una mandata, poi di un’altra, e poi basta.

2.

Io abitavo in centro, in un quartiere molto diverso da quello di Jana. Prima di arrivare, avevo trovato un appartamento già arredato tramite un annuncio online. L’Aja non era una città economica, ma era comunque meno cara di New York. E così vivevo in una casa troppo grande per una persona sola, con due camere da letto, una cucina abitabile e un soggiorno.

Mi ci volle un po’ per abituarmi alle dimensioni dell’appartamento, accentuate da un arredo decisamente scarso per quelle proporzioni. C’era un futon aperto in soggiorno, un tavolino con quattro sedie in cucina. Ambienti progettati per essere temporanei e anonimi. Alla firma del contratto avevo considerato tutto quello spazio un lusso, ricordo di aver camminato per l’appartamento al suono sordo dei miei passi, segnando nella mia testa una stanza come la camera da letto, e l’altra come potenziale studio. Nel tempo quella sensazione si era affievolita, e adesso non mi sembrava più di una grandezza eccezionale. Né mi sembrava eccezionale la natura transitoria della sistemazione, e quella sera, rientrando a casa dopo la cena, nel ripensare alla spontaneità con cui Jana sembrava abitare il suo appartamento, provai un accenno di vago desiderio.

Quando mi svegliai il mattino seguente, era ancora buio. Preparai il caffè, mi infilai il cappotto e uscii in terrazza – altra dotazione dell’appartamento, che utilizzavo anche in quei rigidi mesi invernali. Avevo sistemato un piccolo tavolo e una sedia pieghevole contro il muro, insieme a qualche pianta, ora appassita. Mi sedetti. Era così presto che in strada non passavano macchine né pedoni. L’Aja era una città tranquilla ed energicamente civilizzata. Più la vivevo, però, e più la sua aria di cortesia, i palazzi ben conservati e i parchi curati mi trasmettevano una nota di inquietudine. Ricordai cos’aveva detto Jana sul vivere all’Aja; ti assuefaceva a cos’era una vera città. Pensai che avesse ragione, cresceva in me l’impressione che la sua docile superficie nascondesse una natura più complessa e contraddittoria.

Giusto la settimana precedente, mentre facevo shopping nella Città vecchia, avevo visto tre uomini in uniforme camminare lungo la strada accanto a un grande macchinario. Due di loro avevano in mano sottili bastoni appuntiti, mentre il terzo reggeva un grosso ugello che sporgeva dal macchinario, dando l’impressione di condurre un elefante per la proboscide. Mi ero fermata a osservarli senza sapere bene il motivo, forse mi ero chiesta cosa fosse quel lavoro così meticoloso.

Quando furono più vicini, riuscii a capire cosa stavano facendo: i due uomini con i bastoni estraevano con cura, uno dopo l’altro, mozziconi di sigaretta dalle fessure del marciapiede acciottolato, un lavoro scrupoloso che spiegava tanta lentezza. Guardai per terra e mi accorsi che il marciapiede era ricoperto di mozziconi, nonostante su quel tratto di strada ci fossero numerosi posacenere piazzati in punti strategici. Mentre i due uomini continuavano a estrarre i mozziconi dalle crepe, il terzo li seguiva con quell’aspirapolvere elefantesco, risucchiando con cura i rifiuti in un bidone che probabilmente conteneva centinaia di migliaia di resti di sigarette, tutti tolti dalle strade grazie a quel lavoro.

I tre uomini erano quasi di certo immigrati, forse turchi e surinamesi. Una manodopera necessaria al patrimonio estetico della città, e soprattutto per ovviare alla noncuranza di quella parte di ricca popolazione che gettava le sigarette per terra, quando l’apposito contenitore era solo a pochi passi. In quel momento notai che sul marciapiede, proprio sotto i posacenere, i mozziconi erano decine. Era un semplice aneddoto, ma anche un esempio di come la patina di civiltà della città continuasse a logorarsi; in alcuni punti, quasi non si vedeva più.

Intorno a me il cielo cominciò a schiarirsi, ora il colore macchiava l’orizzonte. Rientrai e mi vestii per andare al lavoro. Uscii poco dopo, ero in ritardo. Mi affrettai verso la fermata più vicina. Jana mi telefonò mentre aspettavo il tram, era ancora a casa e la sentivo muoversi nell’appartamento, prendere le chiavi, raccogliere libri e cataloghi. Mi chiese se la sera prima fossi arrivata sana e salva e le assicurai che il ritorno era stato privo di incidenti. Ci fu una pausa, sentii sbattere una porta, stava uscendo in strada. Sembrava distratta, come se non sapesse il motivo per cui aveva chiamato, poi mi ricordò che sabato ero invitata a cena da lei con Adriaan, e mi chiese se c’era qualcosa in particolare che Adriaan non mangiasse.

Il tram era in arrivo, le dissi che qualsiasi cosa sarebbe andata bene e che l’avrei chiamata più tardi. Chiusi la telefonata, salii sul tram e presto mi ritrovai sballottata in direzione della Corte, dove ormai lavoravo da circa sei mesi. Quasi tutti i miei colleghi avevano vissuto in vari paesi ed erano cosmopoliti di natura, la loro identità inscindibile dalle loro risorse linguistiche. Io non ero molto diversa. Ero fluente in inglese e giapponese per nascita, grazie ai miei genitori, e in francese grazie all’infanzia trascorsa a Parigi. Avevo anche studiato spagnolo e tedesco fino a un livello di competenza professionale, anche se, insieme al giapponese, erano due lingue meno utili dell’inglese e del francese, idiomi ufficiali della Corte.

Ma la fluidità era soltanto la base di qualsiasi lavoro d’interpretariato, che richiedeva soprattutto un’estrema precisione, e spesso pensavo che a rendermi una brava interprete fosse la mia naturale inclinazione verso quest’ultima, più che un talento per le lingue. In un contesto legale la precisione era ancora più importante, e dopo una settimana di lavoro alla Corte avevo imparato il suo vocabolario al tempo stesso specifico e arcano, con una terminologia ufficiale fissata per ogni lingua e scrupolosamente osservata da tutti gli interpreti. Il motivo era ovvio: tra le nostre parole, o tra due o più lingue, sono in agguato voragini che possono spalancarsi senza preavviso.

In quanto interpreti, il nostro compito era gettare ponti attraverso le voragini. Questa navigazione – che oltre all’accuratezza richiedeva un certo grado di innata spontaneità, perché a volte bisognava improvvisare per aggirare una frase sconosciuta o intraducibile, in perenne lotta con l’orologio – era più importante di quanto potesse apparire. Per via di traduzioni contraddittorie, di parole diverse usate da interpreti diversi, un testimone affidabile rischiava di apparire inaffidabile, perché le sue parole potevano cambiare a seconda dell’interprete. Il pericolo era di influenzare l’esito di un processo, dato che era poco probabile che i giudici notassero un cambio di personale nella cabina degli interpreti, anche se la voce che sentivano all’auricolare risultava di colpo diversa, da maschile a femminile, da incerta a sicura.

Avrebbero invece notato il cambiamento nella loro percezione del testimone. Un frammento di inaffidabilità avrebbe causato crepe nella testimonianza, e le crepe sarebbero diventate fratture, che a loro volta avrebbero minacciato l’immagine pubblica del testimone. Chi andava alla sbarra presentava vari tipi di immagine: le testimonianze venivano pesantemente plasmate sia dalla difesa sia dall’accusa, le persone condotte davanti alla Corte per interpretare un ruolo. La Corte funzionava in base alla sospensione dell’incredulità: in aula, tutti sapevano e al contempo ignoravano che i testimoni erano preparati, che c’era un bel po’ di artificio intorno a questioni basate sull’autenticità.

Era in gioco nientemeno che la sofferenza di milioni di persone, e davanti alla sofferenza non si poteva parlaredi messinscena. Eppure, la Corte era per natura un luogo di grande teatralità. Non solo nelle testimonianze accuratamente forgiate delle vittime. La prima volta in cui partecipai a un’udienza rimasi sorpresa, sia l’accusa sia la difesa avevano perorato la propria causa con tremenda enfasi. Anche gli imputati – capi militari e politici – erano spesso personaggi pomposi, arroganti e insieme autocommiserativi, gente abituata a stare su un palco e ad ascoltare il suono della propria voce. Gli interpreti non potevano rifuggire del tutto quel teatro, il nostro lavoro non consisteva solo nel tradurre le parole pronunciate dal soggetto, ma anche nel rendere l’atteggiamento, le sfumature e le intenzioni sottostanti.

La prima volta che si ascoltava un interprete, la sua voce poteva suonare fredda, precisa e del tutto priva di inflessione, ma più si ascoltava e più modulazioni si coglievano. Se veniva fatta una battuta, per esempio, spettava all’interprete comunicarne l’umorismo, o perlomeno il tentativo di umorismo; allo stesso modo, quando qualcosa veniva detta con ironia, era importante indicare che erano parole da non prendere alla lettera. L’accuratezza linguistica non bastava. L’interpretariato era una questione di enorme sottigliezza, un termine dalle molte sfumature: anche un attore interpreta un ruolo, e un musicista interpreta un pezzo musicale.

C’era un certo grado di tensione intrinseco alla Corte e alle sue attività, una contraddizione tra la natura intima del dolore e l’arena pubblica in cui veniva sbandierato. Un processo era un complesso insieme di performance che ci coinvolgeva tutti, nessuno escluso. Un interprete non doveva solo dichiarare o tradurre, ma anche ripetere l’indicibile. Forse era quella, la vera ansia che aleggiava nella Corte e tra i miei colleghi. Il fatto che la nostra attività quotidiana dipendesse dalla continua descrizione – descrizione, elaborazione e precisazione – di faccende che, fuori dalla Corte, erano in genere soggette a eufemismi ed elisioni.

Il tram era affollato, e a un certo punto salì a bordo un folto gruppo di studenti. Erano rumorosi, ma a differenza di alcuni passeggeri – che li guardarono storto prima di voltarsi dall’altra parte – a me non importava, anzi, ne approfittai per ascoltare le loro conversazioni, o almeno i frammenti che riuscivo a decifrare.

Quando mi ero trasferita all’Aja non parlavo olandese, avevo appena una vaga familiarità con la lingua, ma le somiglianze con il tedesco erano tali che dopo sei mesi avevo acquisito una certa competenza. Nei Paesi Bassi, la maggior parte della gente conosce bene l’inglese, e alla Corte non c’era mai occasione di parlare olandese, quindi avevo imparato soprattutto ascoltando – in strada, nei ristoranti e nei bar, o sul tram, come in quel momento. I luoghi hanno un che di bizzarro quando se ne capisce la lingua solo in parte, e in quei primi mesi la sensazione era stata particolarmente strana. All’inizio brancolavo nel buio, i discorsi intorno a me erano impenetrabili, ma tutto era diventato meno sfuggente quando avevo cominciato a capire le singole parole, poi le frasi e adesso perfino interi brani di conversazione. Certe volte mi imbattevo in situazioni più private di quanto avrei voluto, la città non era più il luogo innocente che era stata al mio arrivo.

Ma nell’ascoltare quei ragazzi in tram non c’era nulla di invadente, gli studenti parlavano a voce alta, quasi a squarciagola, volevano essere sentiti. E mentre li ascoltavo, riassaporavo il piacere di imparare una lingua nuova, di sbloccarne i sistemi, di testarne cedevolezza e flessibilità. Avendo imparato tutte le lingue che sapevo da bambina o durante gli studi, era passato un po’ di tempo da quando avevo provato quella particolare sensazione. I ragazzi parlavano un olandese condito di slang, e mi era difficile capire con precisione cosa stessero dicendo, sembravano perlopiù parlare di scuola, di qualche insegnante, materia o amico che li irritava.

Due o tre fermate più tardi, mi sembrò di sentire una delle ragazze dire verkrachting, stupro. Alzai lo sguardo allarmata, la mia mente aveva già cominciato a distrarsi e non stavo più seguendo le loro chiacchiere con l’attenzione iniziale. La ragazza che aveva parlato aveva dodici o forse tredici anni, gli occhi orlati di pesante matita nera e un piercing al naso. Continuò a parlare, sentii la frase bel de politie, o così mi sembrò. Ma poi la ragazza che la stava ascoltando attaccò a ridacchiare in risposta, e dopo un momento anche la ragazzina con il piercing al naso si mise a ridere, e io non fui più sicura di cosa avessi sentito, dopotutto uno stupro e una chiamata alla polizia non sono proprio argomenti divertenti. Forse la ragazza con il piercing al naso percepì il mio sguardo, perché si girò di colpo e mi piantò addosso due occhi duri e vuoti, privi di qualsiasi allegria nonostante stesse ancora ridendo.

Il tram era quasi alla mia fermata. Le ragazze adesso stavano discutendo di un nuovo tipo di scarpe da ginnastica, e anche se lanciai varie occhiate a quella con il piercing, lei mi ignorò. Turbata da quell’incontro, scesi. Il tram ripartì e mi trovai davanti alla Corte, un grande complesso di vetro annidato tra le dune ai margini della città. Era facile scordarsi che L’Aja si trova sul mare del Nord, per tanti versi è una città che sembra affacciarsi verso l’interno, dando le spalle alla distesa d’acqua.

Prima del mio arrivo, quando avevo ottenuto il lavoro, la Corte si era stagliata minacciosa nella mia mente come un’istituzione quasi medievale, come la Binnenhof, il complesso di palazzi del Parlamento a pochi chilometri di distanza, nel centro della città. Anche dopo, durante il primo mese di lavoro, l’edificio aveva continuato a cogliermi di sorpresa. Sapevo molto bene che la Corte era nata solo dieci anni prima, ma la sua architettura moderna risultava ancora incongrua, forse addirittura priva dell’autorità che mi ero aspettata.

Ora, dopo sei mesi, era solo il mio luogo di lavoro: dopo un po’, tutto diventa normale. Salutai le guardie mentre entravo e passavo attraverso il metal detector – un paio di domande sulla loro famiglia, qualche commento sul tempo, una delle poche occasioni che avevo per esercitarmi con l’olandese. Presi la borsa e proseguii attraverso il cortile per poi entrare nell’edificio. Lì vidi Robert, un altro interprete della Corte, che mi stava aspettando. Era inglese, corpulento e affabile, estroverso e affascinante, mentre io, per la mia relativa riservatezza, ero un elemento insolito tra i miei colleghi. Se l’interpretariato è una sorta di performance, allora chi lo pratica tende a essere sicuro di sé e loquace. Robert incarnava queste caratteristiche, giocava a rugby nei weekend e recitava in rappresentazioni teatrali amatoriali. Non ci era mai capitato di lavorare insieme in cabina, ma a volte mi chiedevo che genere di partner fosse, sarebbe stato difficile non sentirsi messa in ombra dalla sua presenza, non cercare di accordarsi alla cadenza e agli svolazzi della sua voce stranamente melliflua, risultato della sua estrazione sociale e di un’infanzia trascorsa nei collegi inglesi.

Mentre andavamo in ufficio, Robert mi disse che quel giorno non erano previste udienze in nessuna aula, il che era un sollievo; forse pensava che anch’io, come lui, fossi rimasta indietro con le scartoffie. Salutammo i colleghi e ci dirigemmo ognuno alla propria scrivania: gli interpreti lavoravano in un unico open space, a eccezione del capo, Bettina, che aveva un ufficio privato. Nel dipartimento c’era un’atmosfera decisamente studentesca, dovuta in parte al fatto che quasi tutta la squadra era venuta nei Paesi Bassi per lavorare alla Corte dopo aver accumulato altrove l’esperienza necessaria. Alcuni, come me, non sapevano quanto tempo sarebbero rimasti alla Corte o nei Paesi Bassi, mentre altri si erano più o meno sistemati, come Amina, che aveva da poco sposato un olandese ed era incinta.

Ora era seduta alla sua scrivania, la faccia serena mentre rivedeva i documenti davanti a sé. Quasi tutti gli interpreti a volte si agitavano, o finivano per esasperarsi, chiedendo in alcuni casi al testimone di rallentare, ma Amina era sempre controllata, capace di tradurre con una coerenza e una velocità notevoli in qualsiasi circostanza. Ormai prossima al parto, era diventata se possibile ancora più imperturbabile, perennemente calma. Mentre il resto di noi lottava con dubbi riguardanti pronunce o finezze oratorie, Amina sembrava l’unica a non incontrare mai difficoltà.

Qualunque lode, però, la metteva a disagio, e Amina continuava a ripetere di non essere perfetta. Nel sedermi alla scrivania, mi venne in mente un aneddoto che mi aveva raccontato poco dopo il mio arrivo alla Corte. Era una storia a cui pensavo spesso. Amina aveva ricevuto il compito di fare da interprete a un imputato in swahili, in quanto unica componente del team a parlarlo abbastanza bene. La sua partner in cabina non padroneggiava la lingua, e in privato aveva detto di essersi distratta durante quelle interminabili udienze, di aver seguito l’inglese originale e il francese, ma prestato meno attenzione alla traduzione di Amina.

Se la sua partner aveva trovato quelle giornate poco faticose, Amina invece aveva subito una considerevole pressione, alle prese con maratone di udienze molto più lunghe della media. Lei sedeva in cabina, al piano ammezzato, e l’imputato in aula, subito sotto di lei. Era un ex capo milizia ancora giovane, con un abito costoso, stravaccato su una sedia ergonomica tra i vari giudici e avvocati. Era sotto processo per crimini orrendi, eppure in aula aveva sempre l’aria imbronciata e forse un po’ annoiata. Certo, gli imputati sono spesso ben vestiti e seduti su sedie da ufficio; la differenza sta nel fatto che alla Corte gli imputati non erano semplici criminali abbigliati per l’occasione, ma uomini che avevano a lungo indossato il mantello dell’autorità trasmesso da un completo o da un’uniforme, uomini abituati al potere che ne derivava.

E possedevano una sorta di magnetismo, in parte innato e in parte amplificato dalle circostanze. In genere, la Corte non riusciva a prendere in custodia gli imputati senza la cooperazione di governi o enti stranieri, e aveva un potere di arresto alquanto limitato. C’erano molte ingiunzioni straordinarie, e vari imputati erano prigionieri in altri paesi, non è che fossimo circondati da una pletora di criminali di guerra. Gli imputati, quindi, arrivavano all’Aja circondati da una certa aura, avevamo sentito un gran parlare di questi uomini (perché erano quasi sempre uomini), avevamo visto fotografie e video, e quando finalmente si presentavano alla Corte erano le star dello spettacolo, non c’era altro modo di dirlo, la situazione era un palcoscenico per il loro carisma.

In questo caso particolare, l’uomo non era solo giovane e innegabilmente bello – molti degli imputati erano anziani, lontani dal fiore degli anni, interessanti ma non notevoli dal punto di vista fisico – ma aveva anche un’affascinante aria di autorevolezza, perfino senza l’aiuto dell’aula era facile capire perché così tanta gente avesse ubbidito ai suoi ordini. Il punto, però, non era quello, spiegò Amina. Il punto era l’inevitabile intimità tra loro: Amina faceva da interprete a un solo e unico uomo, e quando parlava nel microfono, parlava a lui. Certo, quando aveva accettato quel posto all’Aja Amina sapeva che la materia trattata dalla Corte sarebbe stata più cupa di quella delle Nazioni Unite, dove aveva lavorato in precedenza. Dopotutto, la Corte si occupava esclusivamente di genocidi, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Non si era aspettata, però, quella vicinanza: anche se non si era mai trovata faccia a faccia con l’imputato, e anche se era sempre rimasta al sicuro nella cabina di vetro degli interpreti, aveva avuto la costante consapevolezza che lei e l’accusato fossero le uniche due persone in aula a capire la lingua che Amina parlava. Perfino i legali dell’uomo erano avvocati inglesi, che non conoscevano né il francese né la madrelingua del loro cliente.

Nel corso di quelle prime sessioni, Amina si era sentita sempre più a disagio. Il caso prevedeva un gran numero di testimonianze su terribili atrocità, e ora dopo ora Amina le aveva trasportate da una lingua all’altra. A volte si era ritrovata a dover controllare il tremore nella voce, a non cedere all’emotività. Ma poi, durante la seconda giornata di testimonianze e per motivi imperscrutabili, si era impossessata di lei una certa durezza, aveva scoperto un tono nuovo e aspro, non del tutto neutrale, forse addirittura di rimprovero. A un certo punto, mentre elencava i dettagli dello schema di una frode, discutibile da un punto di vista morale ma pur sempre un’inezia se paragonata agli altri crimini di cui era accusato l’uomo, Amina si era ritrovata a usare un tono di gelida disapprovazione, come quello di una moglie che sgridi il marito per una sciocca mancanza casalinga, ad esempio essersi scordato di lavare i piatti, invece che per la sua dilagante infedeltà o per aver sperperato al gioco i risparmi di una vita.

In quel momento, con sua sorpresa, Amina aveva visto l’imputato voltarsi e guardare in alto, verso gli interpreti. Fino a quel momento era rimasto seduto, quasi sempre fermo, gli occhi fissi davanti a sé, come se il processo non lo riguardasse, come se lui fosse al di sopra di tutta quella faccenda, un distacco che, secondo Amina, non gli conferiva un’aria di dignità, quanto piuttosto l’ingrugnimento di un adolescente ripreso per qualcosa che aveva combinato ma di cui rifiutava di pentirsi. Nelle cabine al piano ammezzato sedevano sei o sette interpreti, era improbabile che l’uomo sapesse chi fosse il suo, Amina non lo aveva mai visto osservarli prima. Si era costretta a mantenere la voce ferma e a concentrarsi sul lavoro da svolgere, non voleva certo lasciarsi distrarre. Ciononostante, aveva sbirciato di nascosto l’imputato, intento a perlustrare con lo sguardo le cabine di vetro.

Forse sentendosi addosso gli occhi di Amina, l’uomo si era fermato di colpo e l’aveva guardata, girando la sedia. Amina non aveva potuto farci niente, era inciampata nelle parole, si era scusata, aveva quasi perso il filo del discorso. Lui aveva continuato a fissarla con una bieca espressione di soddisfazione sul bel volto, forse per essere riuscito a intimidirla, a farla balbettare. Nonostante la parete di vetro, Amina aveva subito percepito la pienezza della volontà di quell’uomo. Aveva provato un brivido e abbassato lo sguardo. Aveva ripreso a interpretare, scribacchiando sul quaderno come se stesse prendendo appunti. Quando aveva rialzato lo sguardo, l’uomo si era già voltato e aveva gli occhi fissi davanti a sé, la faccia rilassata e immusonita.

Non l’aveva più guardata. Amina, però, aveva sentito la sua voce cambiare, suo malgrado si era impaurita. La volta successiva in cui si era trovata a dover recitare una litania degli orrendi crimini perpetrati dall’imputato, Amina aveva assunto un tono dichiaratorio, che aveva fatto sorridere l’uomo. In qualche modo, l’idea di metterlo davanti ai crimini da lui commessi, alle brutali accuse che lei non stava neppure lanciando, ma solo traducendo a nome della Corte, aveva fatto sentire Amina a disagio. Ambasciator non porta pena, avrebbe aggiunto, prima di ricordarsi che uccidere un ambasciatore avrebbe potuto benissimo essere sulla lista dei crimini di quegli imputati. Pur sapendo che non poteva farle niente, Amina aveva avuto innegabilmente paura di quell’uomo, che incuteva terrore ed emanava potere perfino immobile sulla sedia.

Più che paura, però, Amina aveva provato senso di colpa. Senso di colpa nei confronti dell’imputato, che non solo era un uomo tremendo, ma un uomo verso cui lei non aveva responsabilità, se non interpretare in modo adeguato quanto veniva detto in aula e fare la propria parte per garantirgli un giusto processo. Non era responsabile della sua felicità, dubitava che quell’uomo fosse mai stato felice da quando era stato preso in custodia dalla Corte. Era un uomo privo di moralità, eppure Amina provava nei suoi confronti un sentimento morale per natura. Era illogico, non aveva senso. Amina aveva concluso che si trattava del magnetismo di quell’uomo, lo stesso che aveva persuaso migliaia di persone a commettere terribili atti di violenza; no, in lui non c’era nulla di burocratico o di ordinario. Era un leader in ogni senso della parola, aveva pensato Amina chinandosi verso il microfono e continuando a interpretare, con voce ferma e senza interruzioni. Lui non si era più voltato a guardarla. Ma quello, pensò Amina in seguito, era stato il suo primo, vero incontro con il male.

La giornata trascorse senza eventi particolari, e nel tardo pomeriggio lasciai la Corte. Pioveva, e quando alzai lo sguardo al cielo e aprii l’ombrello squillò il telefono. Era di nuovo Jana. Prima ancora che aprissi bocca, mi disse che era appena arrivata davanti a casa sua. C’è il nastro della polizia, disse.

La pioggia ticchettava sull’ombrello con un rumore quasi assordante, faticavo a sentire. Avevo un’altra chiamata in arrivo. Sul display vidi il nome di Adriaan. La pioggia era sempre più forte. Riportai il telefono all’orecchio mentre continuava a vibrare.

Che vuoi dire?

Nella strada laterale, il vicolo. Hai presente? Ci passo spesso quando scendo dal tram. L’hanno chiuso con i nastri della polizia. Ieri sera dev’essere successo qualcosa.

Il telefono continuava a squillare. Jana, dissi, ho un’altra chiamata...

Non ci sono cartelli né niente. Ma il vicolo è chiuso al passaggio.

Il mio telefono aveva smesso di vibrare.

Jana...

Ti chiamo più tardi.

Riagganciò e subito il telefono vibrò di nuovo: un messaggio mi avvertiva che avevo perso una chiamata, e in un altro Adriaan diceva che avrebbe tardato dieci minuti, si scusava in anticipo.


3.

L’appuntamento con Adrian era in un ristorante del centro. Nonostante mi avesse avvisato che sarebbe stato in ritardo, al mio arrivo era già seduto al tavolo. Prima di trasferirmi all’Aja, non avevo associato la puntualità all’indole olandese, ma Adriaan era particolarmente incapace di ritardare. Quando mi vide si alzò: era un uomo molto bello, e il pensiero di cenare con lui mi diede una sensazione di felice sorpresa.

Adriaan era il motivo, o perlomeno uno dei motivi, per cui pensavo di voler rimanere all’Aja anche se mi imbarazzava ammetterlo perfino a me stessa – non amavo ritenermi una donna che prendeva simili decisioni soltanto per un uomo. Soprattutto quando la storia era appena agli inizi, e la situazione molto complicata. Ci eravamo conosciuti solo quattro mesi prima, ma si era già stabilita una certa routine nel modo in cui passavamo il tempo insieme. Tale regolarità poteva significare tante cose ed era difficile da interpretare, a volte pensavo fosse la conseguenza di un’intrinseca facilità tra di noi, una specie di profonda familiarità che sostituiva le nostre tante differenze. Altre volte, però, sembrava più il risultato di un’abitudine, come se Adriaan non sapesse come altro stare con una donna.

«Abitudine» perché Adriaan era sposato con figli, anche se la situazione era più complessa di quanto sembrasse. La moglie se n’era andata un anno prima. Lo aveva lasciato per un altro, con il quale si era tranquillamente trasferita non all’Aja, non a Rotterdam e nemmeno ad Amsterdam, ma a Lisbona. Aveva lasciato il paese su due piedi, sfuggendo al maltempo e al matrimonio e facendosi raggiungere dai figli un mese dopo. Figli che non aveva preso con sé né lasciato col padre, l’accordo non era ancora chiaro, nemmeno adesso, dopo un anno.

Avevo saputo tutto questo poco dopo il mio primo incontro con Adriaan. Ero andata con lui a una festa. Eravamo in quella fase in cui tra noi non c’era ancora nulla di dichiarato, e mi aveva presentato agli invitati senza nessun fine preciso, non ero ancora la sua «ragazza» e nemmeno necessariamente una con cui andava a letto. Forse per via di quell’apparente neutralità, non mi sembrò così imbarazzante o significativo che un uomo – di età e carattere simili ad Adriaan, non altrettanto bello ma più che presentabile, tanto da non esserne infastidita quando lo vidi avvicinarsi – mi prendesse da parte e mi chiedesse da quanto tempo conoscevo Adriaan.

La domanda non sembrava tendenziosa, era probabile che ci avesse visti arrivare insieme. Non da molto, risposi. Lui annuì, come se si fosse aspettato quella risposta. Mi chiesi allora se fosse un’abitudine di Adriaan presentarsi alle feste con donne diverse che poi non arrivavano a un secondo appuntamento, sapevo ancora poco di lui. Io e lo sconosciuto eravamo su un ponte sospeso sul grande atrio, pieno di gente alla moda e affascinante, era il lancio di una importante fondazione a tema culturale. Sotto di noi, i camerieri si aggiravano tra la folla servendo tartine realizzate con eccentrica precisione. Con un occhio, seguii un cameriere zigzagare per l’atrio con un vassoio di minuscoli toast al formaggio, fermandosi quando un invitato pescava uno di quei triangolini minuziosamente grigliati. Passò accanto a un uomo alto, e dopo un attimo mi accorsi che era Adriaan.

È stata una vera sorpresa, disse il tizio in piedi accanto a me. Io annuii, distratta, come se sapessi a cosa si riferiva. Adriaan stava parlando fitto con una donna che mi dava le spalle. Mentre li guardavo, lei sventolò una mano in aria, Adriaan si sporse in avanti come se non avesse sentito bene cos’aveva detto. Il suo bel viso si avvicinò a quello della donna. Un attimo dopo lei rise, buttando la testa all’indietro e scoprendo la gola.

La conoscevo molto bene, disse l’uomo. Alzai lo sguardo verso di lui. Notai lo strato di gel sui capelli, irrigiditi in onde scintillanti. Era ovvio che desiderasse mettere in risalto quella folta capigliatura, alla sua età gli uomini cominciano a perdere i capelli o sono già del tutto calvi, ma l’effetto era un po’ ridicolo: non sembrava un uomo virile nel fiore degli anni, quanto piuttosto un adolescente immaturo e inesperto che non aveva ancora imparato a gestire il proprio aspetto. Erano una specie di coppia d’oro, continuò. Credo si fossero conosciuti addirittura all’università, e negli anni hanno finito per assomigliarsi sempre di più – entrambi molto alti, entrambi molto belli, e per di più brillanti e sofisticati. Ti fa capire, disse l’uomo con un sogghigno, che si sa pochissimo di cosa succede davvero in un matrimonio.

Era un’affermazione banale, ma io trasalii, non sapevo ancora che Adriaan fosse o fosse stato sposato. Mi voltai verso l’uomo, gratificato dalla mia poca attenzione o dalla mia espressione sorpresa, e feci un sorriso di autocompiacimento. Perfino quando si tratta del tuo, proseguì lui, incoraggiato, cosa sai davvero di un matrimonio? Un giorno ti accorgi di vivere con uno sconosciuto. Per Adriaan dev’essere stato così, la moglie se n’è andata in un modo davvero orribile, è partita per un weekend a Lisbona e non è più tornata. Lui non sapeva nemmeno cosa dire ai figli, se la madre sarebbe ritornata o meno, e sono adolescenti, la peggiore età possibile per un evento del genere.

Io annuii, dissi automaticamente che l’adolescenza era già abbastanza difficile senza contrattempi di quel tipo, non osavo immaginare la reazione a un simile tradimento. Sembra che lei abbia scritto ad Adriaan una mail, proseguì l’uomo. Uno si sarebbe aspettato una telefonata, quantomeno, non credi? Mi trovai d’accordo, c’era qualcosa di crudele nel limitarsi a una mail, era un modo di comunicare troppo comodo per una faccenda così grave, la moglie doveva essere una persona egoista o narcisista. Eppure, Gaby era sempre stata molto sincera con Adriaan, disse l’uomo, ed è pur qualcosa, no?

Quand’è successo? chiesi. L’uomo scrollò le spalle. Meno di un anno fa. Se n’è andata in pieno inverno, forse non sopportava più questo clima. Guardai attraverso le pareti di vetro dell’atrio, anche quella sera pioveva. Presi il telefono e controllai il meteo a Lisbona: 21 gradi e un bel sole. L’uomo si toccò di proposito i capelli lucidi prima di chiedermi se volevo un altro drink. Sotto di noi, Adriaan stava ancora parlando con la donna. Lei doveva aver detto qualcosa di divertente perché Adriaan rideva e continuava a guardarla, anche da lontano vedevo che la trovava interessante. Di colpo ebbi la netta sensazione che dopo essere arrivato alla festa con me se ne sarebbe andato con lei, un’impressione così vivida da sembrare una premonizione. La donna si voltò, posò il bicchiere sul vassoio di un cameriere di passaggio. Per un nanosecondo la vidi di profilo, aveva lineamenti minuti ma pronunciati, una faccia limpida. L’inverno a Lisbona dev’essere meraviglioso, disse l’uomo.

Mi scusai e me ne andai, non reggevo più la sua compagnia. L’uomo sembrò sorpreso, forse pensava di aver fatto qualche progresso, con me. Attraversai il ponte e scesi le scale, riunendomi alla festa. Mi feci strada verso Adriaan, lui alzò lo sguardo e subito allungò un braccio per fermarmi. Dov’eri? mi chiese, e si voltò verso la donna con cui aveva parlato fino a quel momento. Lei mi porse la mano e si presentò, in modo amichevole e forse un po’ curioso. Mentre parlavamo Adriaan mi posò con nonchalance una mano sulla nuca. Poi la donna se ne andò, senza quasi lasciare traccia, e quando Adriaan si voltò verso di me trovai strano essermi sentita così minacciata da lei, per Adriaan era chiaramente una di poca importanza, con cui aveva scambiato solo due chiacchiere.

Anch’io però avevo solo scambiato due chiacchiere con l’uomo sul ponte, ero stata lontana da Adriaan non più di dieci, forse venti minuti. Eppure, in quel breve lasso di tempo Adriaan si era trasformato. Lo guardai: era così bello, non sembrava affatto una persona abbattuta che si leccava le ferite. Eppure era stato abbandonato dalla moglie nel modo più crudele e umiliante possibile, e adesso era oggetto di bisbigli alle feste, la sua catastrofe privata argomento di futili e maliziosi pettegolezzi. Si guardò intorno, un po’ irrequieto, e mentre lo osservavo gli apparvero in volto tratti che prima non avevo notato. Nel bene e nel male, adesso nella mia mente era una figura più complicata.

Mi chiese se volevo andare a prendere una boccata d’aria fresca, e disse di aver voglia di una sigaretta, purtroppo aveva ricominciato a fumare. Parlò senza guardarmi, e non gli chiesi cosa avesse causato il ritorno di un vizio che, dalla sua espressione, aveva chiaramente faticato a perdere. Mi prese per un gomito e mi guidò verso uno dei tanti balconi coperti dell’atrio. La pioggia non era diminuita e il balcone era vuoto. Adriaan stava per accendersi la sigaretta quando la porta a vetri si aprì di nuovo e comparve l’uomo con cui avevo parlato poco prima. Adriaan alzò lo sguardo, e anche se l’aveva riconosciuto non lo salutò subito. Ah ecco, mi era sembrato fossi tu che te la stavi svignando con questa signora, fece lui. Adriaan non rispose. Giocherellò con la sigaretta tra le dita ancora per un momento, poi la infilò nel taschino della giacca, come se volesse conservarla per dopo. O forse non voleva che quell’uomo lo vedesse fumare.

Adriaan lo guardò in silenzio, ora il tizio sembrava un po’ stupito: nonostante l’ostilità con cui lo aveva salutato era chiaramente sorpreso da una reazione così fredda. Vi conoscete già? chiese Adriaan infine. Lo fece in tono casuale, dal modo in cui parlò capii che non gli importava davvero, era più come se desiderasse minimizzare le presentazioni, come per dire questo è uno che non vale la pena conoscere, non giustifica una presentazione formale.

L’uomo sorrise con cattiveria. Con mio orrore, mi passò un braccio attorno alla vita. Noi? Amiconi, disse. Non guardò me, puntò gli occhi su Adriaan, che all’improvviso infilò una mano nella tasca della giacca e ritirò fuori la sigaretta. Il tocco di quell’uomo era umido, con un che di appiccicoso, perfino attraverso gli strati di vestiti. Non perché avesse la pelle sudata; era piuttosto il modo in cui mi teneva stretta a dare quell’impressione. Era come essere abbracciati da una seppia, una piovra, un qualche cefalopode.

Adriaan si portò la sigaretta alle labbra, e ci rivolse un’espressione di colpo guardinga, a occhi stretti. Forse pensava che si trattasse di un mio vecchio fidanzato, anche se vivevo all’Aja da troppo poco tempo perché fosse possibile. Al massimo potevamo aver trascorso un paio di notti insieme, mi veniva spontaneo pensare che la fedina sessuale di quell’uomo fosse fatta quasi esclusivamente di simili incontri fugaci. Il tizio strinse la presa, il braccio serrato attorno alla mia vita, adesso strofinava con il pollice l’orlo dei collant attraverso il tessuto della gonna, lento e regolare, insieme lascivo e ingiustificato. In teoria per me era uno sconosciuto, non sapevo nemmeno come si chiamasse. Adriaan chinò la testa per accendersi finalmente la sigaretta, e io mi liberai. Ci siamo parlati poco fa sul ponte, dissi, mi ero persa cercando il bagno.

Adriaan espirò, una spirale di fumo si alzò intorno alla sua faccia. Sventolò una mano come per disperderlo. Non so nemmeno come ti chiami, dissi all’uomo, non ti sei presentato, hai detto solo di essere un amico di Adriaan. L’uomo si accigliò, si era ficcato le mani in tasca e adesso sembrava sempre più un adolescente imbronciato, beccato in flagrante. Adriaan continuò a guardarlo senza dire niente, e nemmeno l’uomo si presentò. Ero un amico di Gaby, disse alla fine, O meglio, ero soprattutto un amico di Gaby.

Adriaan continuò a restare in silenzio, senza guardarmi. In effetti era come se io non ci fossi, non solo per Adriaan ma anche per l’altro uomo, che ora ricambiava il suo sguardo. I due si fissarono, e capii che tra di loro c’era qualche risentimento, che l’uomo non mi aveva abbordato perché ero io, ma piuttosto per il mio legame con Adriaan. Che genere di legame fosse secondo lui, lo ignoravo. Un amico? disse infine Adriaan, dopo un lunga pausa, Sì, suppongo sia un modo di vederla. L’uomo arrossì sotto i capelli laccati, sembrava a disagio, come se non si fosse aspettato una risposta così diretta. Era molto tempo fa, disse piano, io e Gaby ci conosciamo da quand’eravamo bambini.

Le hai parlato di recente? chiese Adriaan, o almeno così mi sembrò. Dal tono usato era difficile capire se fosse una domanda o un’affermazione, ma in ogni caso intuii che era una cosa pesante e forse aggressiva da dire. Il tizio diventò ancora più rosso, lanciò uno sguardo desideroso in direzione della festa che proseguiva alle sue spalle, forse pensava che dopotutto uscire sul balcone fosse stato un errore. Quando ci aveva raggiunti era sembrato un uomo con il coltello dalla parte del manico, o almeno convinto di esserlo, ma adesso aveva solo l’aria di domandarsi quanto tempo avrebbe impiegato a districarsi da quella situazione.

Poi Adriaan si rivolse a me, Kees è un buon amico di mia moglie. Era la prima volta che menzionava Gaby, o il fatto di essere, di essere stato, sposato. La verità, proseguì, è che stavano insieme prima che Gaby e io ci sposassimo, e anche se è successo tanti anni fa sono rimasti molto vicini, vicinissimi, durante gli anni del nostro matrimonio. Sbattei gli occhi alla frase molto vicini, vicinissimi, l’insinuazione era cruda e inaspettata. Adriaan andò avanti, Sono sicuro che ancora adesso Kees è in contatto con Gaby. Io, invece, non ho idea di cosa stia facendo, di cosa stia pensando e nemmeno di dove si trovi con precisione.

Per favore, Adriaan, lo interruppe l’uomo agitando le mani per aria. Sono completamente dalla tua parte in questa storia, non parlo con Gaby da mesi, da quando è partita. Ogni tanto mi manda una mail, ma niente di importante, te lo giuro.

Adriaan lo fissò per un momento prima di rivolgersi a me. I due si sentivano al telefono quasi ogni sera, continuò imperterrito. Ora sembrava aver quasi voglia di chiacchierare, mi parlava come se conoscessi tutti i dettagli del suo matrimonio quando in realtà fino a quel momento non mi aveva raccontato niente, né di avere una moglie, né di avere dei figli. Mi era chiaro che Adriaan non stava parlando a me, ma a Kees, io ero solo il medium attraverso cui passavano le sue frasi, e capii anche che Adriaan riusciva a parlare in modo così diretto a Kees solo grazie alla mia presenza, come se si fosse tenuto dentro quelle cose per anni, forse trattenuto dalle fondamentali cortesie del matrimonio, dal rispetto per l’amicizia di lunga data tra la moglie e quell’uomo.

Nient’altro che un amico fidato, disse piano Kees, e non per mia scelta. Era sempre lei a chiamare, sempre lei a prendere l’iniziativa, io non la contattavo mai se non per rispondere a un messaggio o a una chiamata persa. Perché telefonasse a me invece che a una delle sue tante amiche, non lo so. E succedeva a qualsiasi ora del giorno e della notte, ti assicuro che non ero felice di tutta quella confidenza, a volte era piuttosto seccante, come ben sai ho anch’io la mia fetta di problemi personali. Rivolse un gesto di appello ad Adriaan, che rimase impassibile. Di certo conosceva i problemi di quell’uomo più di quanto volesse, probabilmente Kees era stato spesso a cena da loro quando erano una famiglia, il classico amico scapolo della coppia.

Gaby non è mai stata molto sensibile, disse Kees, poi guardò Adriaan scrollando le spalle, come per dire, E tu lo sai bene. Ma in quel periodo finivo per rispondere alle sue chiamate solo se avevo la serata libera, perché duravano un’ora buona o anche due, a volte di più, ed era impossibile farla smettere di parlare, nemmeno se dicevo di avere ospiti o una scadenza di lavoro, era sorda a scuse del genere, non riusciva ad accettare la possibilità che ci fosse qualcosa o qualcuno più interessante di lei e dei suoi problemi. Certo, Gaby era abituata a essere ascoltata dalla gente, nonostante i suoi difetti, bisogna ammettere che era – o piuttosto che è, perché mica è morta, è ancora tra noi – una donna affascinante.

Gaby è sempre stata se stessa, disse Adriaan con irritazione. Kees lo fissò per un attimo e poi annuì, era ovvio che su quel punto erano d’accordo. Poi se ne andò, sembrava non avere altro da dire. Adriaan gli rivolse un brusco cenno mentre attaccava un’altra sigaretta. Lasciammo la festa poco dopo. Non lo si direbbe mai, fece Adriaan mentre ci dirigevamo alla macchina, ma Kees è un avvocato difensore di grande successo, uno dei migliori del paese.

Dissi che potevo immaginarlo, aveva quella flessibilità morale che ero certa fosse comune a molti avvocati difensori. Adriaan scosse la testa, Alla fine non sono così sicuro che c’entri la flessibilità morale, di certo conta meno di quanto sembri a una prima occhiata. Tutti hanno diritto a una giusta rappresentanza legale, anche il peggiore dei criminali, anche chi ha commesso crimini indicibili, oltre ogni immaginazione, crimini che a sentir descrivere ti verrebbe voglia di tapparti le orecchie e correre via. L’avvocato difensore non può cedere a una simile vigliaccheria, deve non solo ascoltare, ma studiare con attenzione la storia di quei crimini, viverne e respirarne l’atmosfera. Quello che il resto di noi non è in grado di sopportare è proprio ciò in cui l’avvocato difensore deve immergersi.

Si rabbuiò. Eppure, Kees è una persona insignificante e fondamentalmente superficiale, uno di quei paradossi di personalità o natura. Io annuii, e per un po’ camminammo in silenzio. Arrivati alla macchina, mi fermai e mi voltai verso di lui. La strada era deserta, aveva smesso di piovere. Sei sposato, dissi.

Sì, rispose subito lui. Ma non so ancora per quanto. È un problema?

Le parole in sé erano così semplici da risultare brusche, ma erano anche parole che non cercavano di deviare o evitare l’argomento. Avrei potuto andarmene in quell’istante, e scegliere di non lasciarmi coinvolgere ulteriormente. Ma rimasi disarmata dalla sua sincerità, dalla semplice domanda cui era così difficile rispondere. Un’apparenza di semplicità è una cosa, la semplicità un’altra, lo sapevo. Come se avvertisse la mia esitazione, Adriaan mi prese una mano, se la portò alle labbra e mi baciò il palmo e le dita. Il tocco della sua bocca sulla pelle mi diede un brivido. Poi aprì la portiera e salii a bordo.

Fu la prima notte che passai con Adriaan. Mi portò a casa sua senza dire altro, in quel momento era nato tra di noi una specie di accordo. Abitava in un appartamento all’ultimo piano di una imponente townhouse, una casa troppo grande per un uomo solo. Aprì la porta e appena entrammo vidi i segni di Gaby: un cappotto appeso all’attaccapanni nell’ingresso, un braccialetto d’oro abbandonato nel portaoggetti accanto alla porta. Ne rimasi turbata, e arrossii, ma percepii anche che quelle cose erano lì più per negligenza che per segnalare la speranza del ritorno di Gaby. Mentre mi faceva entrare e mi sfilava il cappotto, Adriaan non sembrò nemmeno vederle.

Mi accompagnò in soggiorno, poi disse che andava a preparare qualcosa da bere e sparì in cucina. Osservai la stanza grande e confortevole, l’appartamento e il suo elegante disordine non avevano nulla di pretenzioso. Gli scaffali erano pieni di libri, ma c’erano anche dei gingilli e qualche ricordo. Su una mensola vidi una fotografia incorniciata di Adriaan con la moglie e i due figli. Kees non aveva esagerato, erano una famiglia splendida. In effetti Gaby era bella, più bella di quanto potessi immaginare, anche se il taglio della bocca e lo sguardo schietto rivolto all’obiettivo avevano una nota di arroganza. Continuai a studiare l’immagine, che doveva essere stata scattata una decina di anni prima, Kees aveva detto che ora i figli erano adolescenti, mentre i bambini nella foto non avevano più di cinque o sei anni. Adriaan però non sembrava molto diverso dall’uomo nella foto, risparmiato dal tempo o dalle vicissitudini. I capelli gli erano diventati grigi e adesso aveva qualche ruga in fronte e intorno alla bocca, ma nel complesso non era cambiato.

E pensai che, proprio come Adriaan, anche Gaby doveva essere ancora la stessa, sempre bella, ancora straordinaria come dieci anni prima. Ero in piedi davanti alla foto quando Adriaan ricomparve. Si fermò alle mie spalle e disse che i figli ora erano in Portogallo con la madre. Ma questo lo sai già, disse, poi tacque. Mi voltai verso di lui e smisi di pensare a Gaby, ai figli o alla foto. Mi attirò a sé e io feci lo stesso. Nelle settimane seguenti, gli oggetti della moglie di Adriaan sparirono con discrezione, non tutti insieme, ma uno dopo l’altro. La fotografia, però, rimase.


4.

Guardai Adriaan. Aveva aperto la lista dei vini, e la inclinò verso di me con aria interrogativa. Dissi che era stata una lunga giornata. Allora ordiniamo una bottiglia, disse lui, e fece un cenno al cameriere. Sai già cosa vuoi mangiare? Annuii, avevo dato solo una rapida occhiata al menu, ma eravamo già stati in quel ristorante molte volte.

Quando il cameriere ebbe preso le ordinazioni, Adriaan tornò a guardarmi. Come sta Jana? Adriaan non l’aveva ancora conosciuta – si sarebbero visti per la prima volta nel weekend, Jana ci aveva invitati a cena proprio per quello. Avevo esitato a presentare Adriaan a Jana, nonostante ci fossimo incontrati grazie a lei, seppur in modo indiretto, a un’inaugurazione al Kunstmuseum poco dopo il mio arrivo all’Aja. Jana mi aveva invitato all’evento, e dopo avermi presentata a un gruppo di persone era stata risucchiata via; per ovvi motivi conosceva molta più gente di me.

Ricordo che rimasi in mezzo a quel grappolo di sconosciuti con un drink in mano, incapace di seguire la conversazione, che iniziava in inglese ma poi scivolava nell’olandese. Al tempo parlavo ancora troppo poco la lingua. Notai Adriaan perché sembrava a suo agio, e perché nemmeno lui apriva bocca mentre la conversazione sembrava accelerare intorno a noi. Rimasi in silenzio così a lungo che cominciai a chiedermi se non fosse il caso di sgattaiolare via, era strano stare ai margini di un gruppo senza dire una parola. In quel momento, Adriaan mi chiese se volevo un altro drink. Dissi di sì, e mentre mi prendeva il bicchiere vuoto di mano fece una pausa e mi chiese se mi andava di accompagnarlo.

Fu un sollievo allontanarmi. Attraversammo la sala piena di Mondrian, e lui disse di amare molto il museo e la sua collezione, era uno dei suoi posti preferiti in città. Trovava sempre strane le inaugurazioni, però, con gli spazi pieni di persone che parlavano tra di loro ignorando del tutto le opere esposte. Certo, in quel momento lo stava facendo anche lui, era innegabile. Scoppiai a ridere, e poi si presentò. Continuando a camminare gli dissi che ero appena arrivata in città e che ancora non conoscevo il museo e la collezione. Mi rispose che allora ero fortunata, avevo molte meraviglie da scoprire.

Il nostro incontro non fu molto più di questo, ma dopo esserci salutati lui tornò sui suoi passi e mi chiese il numero di telefono. Ricordo l’estrema naturalezza con cui lo fece, e anche il sussulto di piacere che provai nel vederlo tornare indietro attraverso la folla. Gli diedi il mio numero, e più tardi mi scrisse un messaggio. Mi chiese se ci potevamo rivedere, e io risposi solo: Sì. Una risposta del genere non era da me, né per la concisione né per la natura inequivocabile. Era come se la franchezza del suo modo di comunicare mi avesse contagiata. Pensai che fosse la promessa offerta da una nuova relazione, l’opportunità di essere diversi da se stessi.

Quando lo raccontai a Jana sembrò quasi perplessa, o forse si fece strada in lei un sentimento imprevisto – vidi cambiare nella sua espressione l’immagine che aveva di me. Non le ero sembrata il genere di donna che si appaiava con un uomo così velocemente, o che perlomeno cercava di farlo. Ma dopo un attimo Jana tornò quella di sempre, mi chiese come si chiamava e poi disse che non lo conosceva ma che sperava di incontrarlo presto. Ebbi l’impressione che la sua voce fosse un po’ troppo squillante, le risposi che non sapevo se saremmo arrivati a quel punto. Ma nel corso delle settimane e dei mesi seguenti ci arrivammo, e quando Jana ci invitò a cena fu impossibile rifiutare.

Ora, mentre guardavo Adriaan e lui mi chiedeva come stava Jana, pensai all’improvviso quanta poca aspettativa o ansia gli causava l’idea di incontrarla. Anche questo sottolineava le nostre differenze di carattere, cose del genere non erano mai facili per me. La mia mente rimuginava, quell’incontro mi preoccupava, ma vedere Adriaan tranquillo mi fece sentire più sicura. Sta bene, dissi. Ero a cena da lei ieri sera. È stato strano, è successo qualcosa giù in strada, c’era la polizia.

Un incidente?

Non lo so.

In quel momento arrivò il cameriere con il vino, poi tornò con una bottiglia d’acqua e un piatto di amusebouche. Adriaan aspettò con una smorfia d’impazienza, ormai per lui quelle piccole attenzioni non erano che un rito da tollerare. Quando finalmente il cameriere se ne andò, Adriaan si sporse in avanti e mise una mano sulla mia, come per riaffermare la nostra privacy. Fu un gesto più rassicurante che erotico, il tocco di un amico o addirittura di un padre, sebbene dalle intenzioni mutevoli, suscettibili a cambiare in un attimo.

In ogni caso, disse, non trasferirti nel quartiere di Jana. Per favore.

Aveva la voce al tempo stesso preoccupata e leggermente scherzosa, come se le parole fossero una forma di flirt o di invito. Pensai alla sua casa, all’arredamento scelto dalla moglie, alle porte chiuse delle stanze dei figli. Era stata la casa dei suoi genitori, e nonostante fosse stata sgombrata, ristrutturata e frazionata in due appartamenti perché troppo grande per una sola famiglia, rimaneva il luogo dove Adriaan aveva trascorso i lunghi anni dell’infanzia. Quel genere di conforto mi era alieno, da piccola ci eravamo trasferiti così spesso che non esisteva un posto che potessi considerare la mia vera casa. Arrivavamo e ripartivamo, erano stati anni all’insegna della mobilità.

Per Adriaan era diverso, e pensai fosse quello il motivo per cui sembrava così poco turbato dai resti materiali del suo matrimonio, da tutte le cose che io avrei tolto di mezzo nel momento della diserzione, per dolore e per rabbia: la sedia comprata da Gaby, i libri sugli scaffali, i quadri scelti insieme. Lui non percepiva la complessità di quegli oggetti e della loro storia, sembrava solo un uomo a casa propria. Sorrisi e gli strinsi la mano a mia volta. Era stata quella tranquillità ad attirarmi, ma al tempo stesso capivo un po’ meglio la determinazione con cui Gaby aveva arredato l’appartamento riempiendolo di effetti personali, lo sforzo con cui aveva cercato di occupare un territorio straniero, un gesto che mi permetteva di vedere oltre il matrimonio fallito e più lontano ancora, nel passato di Adriaan.

Quella notte, dopo esserci addormentati in quello che fino a poco tempo prima era stato il suo letto coniugale ma che adesso era nostro, mi svegliai. Adriaan dormiva profondamente, i lunghi arti nudi sul lenzuolo accanto a me. Allungai una mano e lo toccai, ma non si mosse, la pelle liscia e immobile. Dopo un attimo scesi dal letto e uscii dalla stanza, chiudendo la porta con delicatezza. Il buio del corridoio mi avvolse. Cercai a tentoni l’interruttore e andai in cucina. Mi versai un bicchiere d’acqua. Guardai giù in strada. Era quasi deserta, in fondo alla via riuscii a vedere le sagome di un uomo e una donna. Si appoggiavano l’uno all’altra, facevano pochi passi per volta, poi si fermavano. A un certo punto, la donna si voltò e si guardò intorno. Mi sporsi, schiacciando la fronte contro il vetro.

I due si presero per mano e si affrettarono giù per la strada. Un attimo dopo scomparvero. Avevano agito con fare colpevole, come se si fossero accorti di essere osservati, e mi chiesi se mi avessero visto alla finestra. Forse avevano fatto qualcosa di proibito, o forse se n’erano resi conto solo in quel momento – la percezione cambia, se crediamo che qualcuno ci abbia visto. Mi allontanai dalla finestra e andai in soggiorno. Mi ritrovai a fissare la fotografia di Gaby, Adriaan e i figli – quei ragazzi che non avevo ancora conosciuto, e che non riuscivo a immaginare del tutto. Mi interrogai sulla vita che avevano avuto lì con Gaby e Adriaan, su come avessero riempito quelle stanze, cosa gli mancasse ora che erano così lontani, addirittura in un altro paese. Mi chiesi se sapessero che il padre frequentava un’altra donna, e se sì come potessero sentirsi: arrabbiati, diffidenti, indifferenti.

L’idea di conoscerli era difficile da mettere a fuoco, non riuscivo a immaginare come avrebbe potuto svolgersi un incontro tra me e quei ragazzi ormai adolescenti. Ci fu un rumore in camera da letto, e mi distrassi dalla foto. Sentii Adriaan alzarsi e dopo pochi attimi mi chiamò. Sono qui, dissi, e mi allontanai in fretta dallo scaffale, Non riuscivo a dormire. Apparve sulla soglia. Tesoro mio, torna a letto. Lo guardai confusa, fino a quel momento non mi aveva mai parlato in modo così tenero. La sua voce era affettuosa e familiare, e all’improvviso pensai: era così che parlava, così che si rivolgeva a lei. Tesoro mio, torna a letto. Un brivido di apprensione mi attraversò il corpo. Mi avvicinai ad Adriaan, aveva gli occhi velati di sonno e per un momento non fui sicura che fosse sveglio. Sono io, feci per dire, e aprii la bocca.

Mi mise le mani sulle spalle, con un tocco goffo, e io mi irrigidii. Che ore sono? chiese. Aveva la voce calma e impersonale, come se stesse parlando a una sconosciuta. Le due, dissi. Lui annuì, come per digerire l’informazione, ebbi l’impressione che gli occhi gli si stessero richiudendo per il sonno. Non riuscivo a dormire, aggiunsi, non volevo svegliarti. Lui sbadigliò, poi, di colpo, si sporse in avanti e mi baciò sul collo e sulla bocca, le mani sulla schiena e poi più in basso. Torna a letto, sussurrò ancora, respirandomi nell’orecchio.

Tra un attimo, dissi, e mi staccai da lui. Che fai? mi chiese, la voce ancora lenta e assonnata. Qualcosa non va? Scossi la testa. Non riuscivo a dormire e basta, non è nulla. Arrivo tra un momento. Lui annuì e mi baciò di nuovo, come se fossimo una coppia che viveva insieme, come se quella fosse già routine – ogni tanto soffre di insonnia, io invece dormo come un sasso, riuscirei a dormire anche in piedi su un treno, dev’essere molto irritante per lei – forse era stato così per lui e Gaby, forse Adriaan aveva usato quelle esatte parole per descrivere il loro matrimonio.

Tornò in camera. Lo guardai allontanarsi, e una volta certa che si fosse messo a letto – il debole cigolio delle molle, il rumore del corpo che si stendeva sul materasso – tornai a guardare la fotografia di Gaby sullo scaffale. Mi accorsi che avevo l’illusoria abitudine di pensarla al passato, come se lei e tutto quello che rappresentava fossero saldamente arginati, anche se sapevo che non era vero, Gaby è ancora tra noi. La vita che mi circondava, la vita che lei aveva avuto tra le mura di quell’appartamento, non era per forza confinata nel passato, poteva benissimo balzare nel presente con una semplice telefonata, un biglietto aereo, un momento di sonnambulismo.

Tornai in camera. Adriaan si girò e mi guardò in faccia, non dormiva affatto. Sembrava più sveglio di prima, e compresi che questa volta vedeva me, e nessun’altra. Va tutto bene? chiese, incerto. Mi misi a letto. Sì, dissi, ho bevuto un po’ d’acqua, mi sento meglio. Lui annuì e mi strinse a sé, al suo corpo caldo. Bene, disse. Sembrava già sul punto di addormentarsi, si era tranquillizzato in fretta. Buonanotte, dissi, ma non capii se mi sentì o meno, stava di nuovo scivolando via, con un braccio sul mio petto e la testa abbandonata contro la mia spalla.


5.

Il mattino seguente condividemmo una colazione a base di pane e formaggio, Adriaan fece il caffè con una costosa e rumorosissima macchinetta che produceva un caffè ricoperto da una montagna di schiuma di latte. Mi porse la tazza con sguardo ironico. Chiesi se la macchinetta fosse un’idea di Gaby. E di chi altri? rispose lui, e scoppiammo a ridere.

Non accennò ai fatti della notte precedente, e si comportò in maniera così naturale che mi chiesi se non avessi sognato. Dopo aver mangiato ci vestimmo e mi portò in macchina alla fermata di autobus più vicina. Mi baciò e disse che mi avrebbe scritto più tardi. Mentre uscivo dalla macchina, vidi l’autobus avvicinarsi. Mi chinai e lo salutai di nuovo dal finestrino aperto. Lui sorrise e mi baciò un’altra volta. L’autobus stava arrivando, ma rimasi ferma un secondo a guardare Adriaan allontanarsi.

Aveva ricominciato a piovigginare. Attraversai la strada di corsa e mi unii al resto dei passeggeri, le facce stoiche al riparo degli ombrelli aperti, come in un dipinto. Salimmo sull’autobus in una fila ordinata, alla maniera atomizzata dei pendolari. Non c’erano posti a sedere liberi ma non importava, l’appartamento di Adriaan distava solo poche fermate dalla Corte. Quando scesi vidi un manipolo di manifestanti, sostenitori di un ex presidente dell’Africa occidentale attualmente sotto processo, uno dei casi più importanti presso la Corte. Uno di loro mi mise in mano un volantino con un piccolo gesto di supplica.

Forse per via di quella richiesta educata ma decisa, cominciai a leggere il foglietto di carta mentre attraversavo l’atrio. Era scritto in inglese e francese, una fitta prosa dal tono stridente. L’arresto e il processo dell’ex presidente erano nientemeno che illegali, dichiarava il volantino, una faccenda assolutamente subdola. Chissà come doveva sentirsi l’ex presidente, impossibilitato a contestare la legalità del suo arresto, semplicemente passato da un gruppo di nemici a un altro! Quell’apparato di imperialismo occidentale, quella Corte, erano il vero volto del neocolonialismo. La causa contro l’ex presidente era fragilissima, imbastita dal Dipartimento di Stato americano e dall’Eliseo, più una questione di politica che di giustizia. Un colpo di stato eseguito da uomini in guanti bianchi, per cui la Corte fungeva solo da facciata...

Smisi di leggere, piegai il pezzo di carta e lo infilai nella borsa. Quelle rivendicazioni non mi giungevano nuove, come non giungevano nuove a chiunque lavorasse alla Corte. Purtroppo era una storia nota: sebbene i crimini contro l’umanità dilagassero in tutto il mondo, la Corte aveva investigato ed eseguito arresti soprattutto in paesi africani. Era vero che questo non rifletteva le problematiche della giurisdizione della Corte, né i suoi limitati mezzi esecutivi. Ed era vero che non includeva le numerose indagini preliminari svolte dalla Corte in situazioni sparse per il mondo, potenze occidentali incluse. Una narrazione, però, diventa persuasiva non attraverso la complessità, ma attraverso la convinzione, e quando entrai nell’ascensore e poi negli uffici guardai i miei colleghi e mi chiesi come si fossero sentiti, come avessero reagito la prima volta che si erano ritrovati in mano un volantino simile.

La faccenda mi sparì di mente in fretta, quando, appena arrivata alla mia scrivania, mi dissero che Bettina desiderava parlarmi. Mi affrettai verso il suo ufficio, bussai alla porta di vetro, e lei alzò lo sguardo e mi fece cenno di entrare. Il titolo ufficiale di Bettina era Capo della Sezione Servizi Linguistici, era stata lei a gestire il mio colloquio e ad assumermi. Supervisionava uno staff relativamente numeroso – dieci interpreti, oltre ai traduttori che fornivano servizi in vari dipartimenti della Corte. Non era scortese, forse aveva anche un carattere cordiale, ma per me era impossibile capirlo. Non era solo la mia diretta superiore, ma era anche costantemente sotto pressione, in genere aveva in faccia una brutta smorfia di preoccupazione, si aspettava sempre che qualcosa andasse male.

Mi chiese come stavo, senza smettere di guardare lo schermo del computer con aria accigliata. Dopo un attimo, risposi che stavo bene. Lei annuì e poi, senza indugi, disse che quanto stava per raccontarmi era confidenziale, almeno per il momento. Finalmente mi guardò negli occhi, ero ancora in piedi davanti alla sua scrivania. Siediti, ti prego, disse in tono di scusa; quando incrociai il suo sguardo mi accorsi che era più in ansia del solito.

Bettina ricominciò a parlare. La Corte era riuscita a estradare un noto jihadista con quattro capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e cinque per crimini di guerra. Le autorità lo avevano consegnato quella mattina, e proprio in quel momento stava arrivando su un aereo. È strettamente confidenziale, disse di nuovo Bettina, perfino qui alla Corte solo pochissime persone sono a conoscenza dell’arresto, il mandato è stato spiccato solo qualche giorno fa. Devo chiederti di non parlarne con i colleghi. La situazione è delicata.

Si fermò, come per raccogliere i pensieri. Ci aspettiamo che l’imputato atterri all’Aja poco dopo mezzanotte, poi verrà trasferito al centro di detenzione. Vorrei che fossi tu la sua interprete. Bisognerà leggergli i suoi diritti, e di sicuro ci saranno altre questioni, potrebbe avere domande o richieste o aspetti pratici da comunicare. È molto difficile prevedere l’umore degli imputati quando vengono arrestati, spesso sono in stato di choc, o di negazione.

Ci aspettiamo che l’accusato parli francese, proseguì. È la lingua ufficiale del suo paese, e non crediamo ci saranno problemi di comprensione. Mi passò un dossier. Questo stasera non ti servirà, disse in tono apologetico. Ma sarebbe bello se trovassi un minuto per dargli un’occhiata. Lui sarà stanco, spero che non dovrai fermarti troppo a lungo. Ovviamente ti verranno rimborsate le spese, prendi pure un taxi se è necessario. Lo sguardo di Bettina mutò, avvertii una certa emozione nei suoi gesti, vidi le mani tremarle leggermente.

Ripeto, disse Bettina, e smisi di guardarle le mani. Ripeto, è una notizia strettamente confidenziale e non devi parlarne con nessun collega, con nessuno in generale. La Corte sta procedendo con cautela, come ben sai è un momento decisivo per l’organizzazione. Annuii. Sapevo che un arresto significava che la Corte avrebbe avuto gli occhi di tutti puntati addosso, che le dirette sarebbero state seguite con estrema attenzione, che ogni parola pronunciata sarebbe stata ascoltata molte più volte del solito. Dovrai essere là all’una del mattino, disse Bettina. Guardò i documenti, e poi disse, Chissà che tipo sarà. Non sembrava aspettarsi una risposta, e così lasciai l’ufficio.

Più tardi, mi sedetti alla scrivania con il dossier aperto. Mi sentivo un po’ in imbarazzo, nelle orecchie mi riecheggiavano le parole di Bettina, il suo chiaro ordine di segretezza. Ma i miei colleghi erano assorti nel proprio lavoro, e sembrava non avessi nulla di cui preoccuparmi. Volevo prendere confidenza con le basi di quella storia, le date chiave, i nomi e i luoghi, anche se, come aveva detto la stessa Bettina, erano informazioni poco necessarie per quella sera, con ogni probabilità sarebbe stato solo un incontro brevissimo. Cominciai a leggere. L’imputato era un membro, diventato poi leader, di una fazione militante islamista che aveva ottenuto il controllo della capitale solo cinque anni prima. La fazione si era subito dedicata ad applicare la sharia sul territorio occupato, vietando la musica, costringendo le donne a indossare il burqa e istituendo tribunali religiosi. Secondo jihadista a essere detenuto dalla Corte, molte delle accuse contro di lui si basavano sulla persecuzione di donne: matrimoni forzati, stupri continui e riduzione in schiavitù sessuale. Altri capi d’imputazione riguardavano la tortura e le persecuzioni religiose, inclusa la profanazione di tombe sacre.

Il dossier conteneva un appunto: sebbene il caso fosse significativo per essere il secondo a includere tra le accuse anche la persecuzione di genere, rimaneva il fatto che la nazionalità dell’accusato avrebbe fatto poco per contrastare l’opinione diffusa secondo cui la Corte soffriva di un preconcetto contro i paesi africani. Pensai al volantino, e ai manifestanti là fuori. Attaccata al dossier c’era una foto dell’imputato. Era per strada, e guardava di lato come se sapesse di essere fotografato, il corpo in movimento, l’espressione furtiva. Aveva la faccia in parte nascosta da un turbante, ma gli occhi erano incredibilmente penetranti nonostante l’aria stanca, l’aspetto irrilevante.

Dopo il lavoro tornai nel mio appartamento, pensai di provare a dormire nella prima parte della serata, non sapevo quanto sarei rimasta al centro di detenzione, forse minuti, forse ore. Come aveva detto Bettina, era difficile prevedere in che condizioni sarebbe arrivato l’imputato, se in stato di choc o di rabbia, muto o pronto a lanciare domande e accuse, stanco del viaggio come un uomo d’affari dopo un lungo volo o in preda a un collasso fisico. Cenai e poi mi riposai a intermittenza, rannicchiata sul letto sotto il piumone. Non riuscii a dormire davvero, era presto e il compito incombente mi pesava.

Stesa a letto, mentre fuori il giorno recava ancora qualche traccia di luce e sentivo i vicini attraverso le pareti, era soprattutto la foto, l’immagine di quell’uomo, a impensierirmi. Non era come mi aspettavo, la faccia non era all’altezza della gravità dei crimini riportati nel dossier. Il problema non era se fosse innocente o colpevole; il problema era quel volto privo di profondità.

Nel giro di poche ore lo avrei incontrato, e a quel punto non sarebbe più stato un nome e una fotografia, un elenco di azioni e accuse, ma una persona reale nel mondo. Non sapevo se ero preparata, sembrava quasi impossibile capirlo – a un certo punto, quell’uomo aveva oltrepassato un limite, e il suo stato di persona si era svuotato. Forse la scarsa definizione della foto era appropriata, e mi stava preparando alla vera natura di quell’imminente incontro. Controllai il telefono, niente messaggi. Pensai ad Adriaan, chiusi gli occhi e cercai di dormire.

Partii per il centro di detenzione un po’ prima dell’una del mattino. Quando il taxi accostò al marciapiede, le strade erano deserte. Chiusi la portiera, annunciai la mia destinazione e vidi il tassista alzare lo sguardo, gli chiesi se sapesse dov’era l’edificio, e lui annuì.

Mentre attraversavamo la città in direzione delle dune, il tassista continuò a guardarmi nello specchietto retrovisore, come se si interrogasse sul mio ruolo, forse non corrispondevo alla sua idea di avvocato, di giudice, di funzionario della Corte. Forse aveva in mente qualcosa di molto più sordido, vista l’ora tarda, forse pensava che fossi una escort destinata a qualche detenuto, non era impossibile. Controllai cosa indossavo, ero in abiti più che convenzionali, uno stile che in genere viene definito «business casual». Ma sapevo anche che le escort che avevano clienti potenti e famosi – il genere di uomini che avrebbero potuto trovarsi nel centro di detenzione – e dovevano assolutamente passare inosservate, si vestivano proprio così. Mi dimenai sul sedile e tirai giù l’orlo della gonna, preoccupata di sembrare involontariamente provocante: il tassista mi aveva messo davvero in imbarazzo.

Fu quindi un sollievo arrivare al centro di detenzione, che si trovava ai margini della città, poco distante dalla Corte. Nella notte buia aveva un’aria minacciosa. C’erano alte mura e telecamere di sorveglianza, era una prigione in tutto e per tutto tranne che nel nome. Quando pagai, il tassista mi chiese se volevo che mi aspettasse. Arrossii e dissi che non sapevo quanto ci avrei messo, e che avrei chiamato un taxi al momento di andarmene. Lui mi allungò il suo biglietto da visita e disse che avrebbe lavorato tutta la notte, un gesto dal sapore volgare e anche un po’ triste, e io lasciai cadere il biglietto in tasca, con la sensazione di dovermi lavare le mani. Il taxi aspettò mentre suonavo il citofono, per fortuna la porta si aprì subito. Passai attraverso una portineria dall’aria medievale e poi attraverso i controlli di sicurezza, mi presero la borsa ed esaminarono il mio passaporto.

Mi diedero un tesserino e mi dissero di aspettare, la guardia indicò una fila di sedie di plastica. Attaccai il tesserino alla giacca e mi misi a sedere. Lo spazio – più che una reception o una lobby era un corridoio con alcune sedie – era pulito e anonimo, avrei potuto trovarmi in un qualsiasi edificio amministrativo, un ufficio della motorizzazione americano, per esempio. L’impressione aumentò quando si fecero le due passate, e poi quasi le tre: la sensazione era di aspettare un lento e truce iter burocratico, non mi ero mai trovata in una situazione simile, eppure, mentre gli occhi mi si annebbiavano per la stanchezza, mi sentivo come ci fossi già passata, l’attesa in sé aveva cancellato la particolarità di quella circostanza. Dimenticai perfino chi stessi aspettando, ricordavo solo che avrebbe anche potuto non arrivare mai, e che forse non avrei mai lasciato quel vestibolo.

Poco dopo le tre, la porta alle mie spalle si aprì di colpo. Mi alzai, una guardia in uniforme mi fece segno di seguirla. Sentii la bocca di colpo asciutta, passammo lungo una serie di corridoi illuminati da una luce cruda, la guardia passò tessere magnetiche e inserì codici ai vari punti d’accesso finché non arrivammo in quella che sembrava una sezione di celle. Tutte le porte erano chiuse tranne una, oltre la quale intravidi alcuni funzionari della Corte. Parlavano a voce non troppo bassa, le parole riecheggiavano giù per il corridoio, e mi preoccupai per gli occupanti delle altre celle, di certo svegliati da quel rumore. Quando raggiungemmo la cella aperta, i funzionari mi salutarono con cortesia e una sbrigativa aria di urgenza professionale. Li salutai a mia volta, poi ci fu una pausa, durante la quale nessuno aprì bocca.

Finalmente, uno dei funzionari si schiarì la gola. C’era stata qualche difficoltà nel convincere l’imputato a scendere dall’aereo, per un po’ si era rifiutato di alzarsi dal sedile. Ora era arrivato, aggiunse il funzionario, stava per raggiungerci. Annuii, mi chiesi in che modo l’imputato avesse manifestato il proprio rifiuto, se come un bambino che non vuole lasciare il passeggino o come un contestatore politico che non vuole abbandonare la posizione; o forse le gambe si erano semplicemente rifiutate di funzionare, e si era scoperto incapace di stare in piedi. Lo spazio dove eravamo riuniti era a metà strada tra una cella e la stanza di un dormitorio, con un letto singolo, una scrivania e un bagno in un angolo. Alla parete c’era una tv a schermo piatto, e in fondo una grande finestra, con le sbarre.

Sentimmo la porta della sezione aprirsi in lontananza e ci voltammo tutti. Nonostante la stanchezza e la natura provvisoria della sistemazione, un’ondata di aspettativa attraversò la stanza. La porta si richiuse di botto e sentimmo il rumore di passi strascicati lungo il corridoio, un’andatura molto lenta. Ero certa che gli altri detenuti fossero svegli e in ascolto, forse memori del proprio arrivo al centro di detenzione, l’inizio di un indeterminato, e quindi ancora più angosciante, stato di attesa. Il rumore dei passi si fece sempre più forte, poi si interruppe e l’imputato apparve sulla soglia della cella.

Era accompagnato da due guardie, indossava abiti tradizionali, e rispetto alla foto, che non doveva essere stata scattata molto tempo prima, sembrava così invecchiato che mi venne un immediato, inspiegabile nodo alla gola. Ci guardò uno a uno, con le labbra contratte, era evidente che la situazione lo disgustava. Il gruppo rimase a disagio finché uno dei funzionari della Corte non fece un passo avanti, con espressione impacciata, quasi imbarazzata. Tentennò, poi mi guardò e io mi avvicinai all’imputato. Dopo un’ulteriore pausa, finalmente il funzionario attaccò a parlare, con voce insicura e apologetica. Ora le leggerò i suoi diritti.

Cominciai subito a tradurre, inclinandomi verso l’imputato e parlandogli a voce bassa all’orecchio. L’uomo distolse la testa in modo brusco, come infastidito da una zanzara o da qualche altro insetto volante, senza dare alcun segno di voler ascoltare. Il funzionario si fermò, io finii di parlare qualche momento dopo, poi il funzionario chiese all’imputato se avesse domande da fare. Io tradussi, l’imputato sospirò rumorosamente e la mia voce si affievolì, lasciando le parole appassire nell’aria. L’imputato attaccò a parlare velocissimo in arabo, e mentre andava avanti, guardando con rabbia il funzionario e gesticolando verso la stanza – che, desunsi dal tono e dai modi, era sgradevole, ben al di sotto del suo standard – sentii il panico montarmi dentro. Guardai il funzionario che mi fissava, in attesa. Scossi la testa – non conoscevo l’arabo – e mi voltai verso l’imputato.

Finalmente, l’imputato mi guardò e chiese – in francese, che parlava a scatti ma a mio parere molto bene – perché non gli fosse stato fornito un interprete di arabo. Cominciai a scusarmi, lui mi interruppe – alzando una mano e rifiutandosi di guardarmi, come se la mia sola vista fosse offensiva, forse perché ero l’unica donna nella stanza o forse perché il suono del mio francese gli risultava antipatico – e ricominciò a parlare in arabo, a voce più alta, quasi aggressiva. Mi accorsi che i funzionari della Corte erano irritati e cominciavano a incolpare me di quella situazione, era ovvio che non stavo svolgendo il compito assegnatomi, benché non per mia diretta responsabilità. L’uomo doveva ascoltare i suoi diritti in una lingua che potesse comprendere, e che a quanto pareva io non parlavo. Però – visto che non sapevo cos’altro fare, e visto che la situazione richiedeva che facessi qualcosa – cominciai a recitare di nuovo il testo nel mio oltraggioso francese, parlandogli sopra, per poi chiedergli se aveva capito.

Ha capito? ripetei.

Sì, disse infine, in francese.

Di colpo, si diresse verso il letto e si sedette. Vidi che era sfinito. Si stese, chiuse gli occhi e nel giro di qualche secondo – così in fretta da sembrare incredibile – cominciò a russare, addormentato sul letto. Lo guardammo per un attimo, poi uno dei funzionari indicò la porta con un cenno della testa. Uscimmo in silenzio dalla stanza, e la guardia la chiuse alle nostre spalle. Il funzionario mi guardò e disse, Richiederemo qualcuno che parli arabo. Annuii. Ero quasi dispiaciuto per lui, disse scuotendo la testa. Io non ero d’accordo, trovavo che fossimo stati in qualche modo manipolati – anche se non avrei saputo dire fino a che punto. L’imputato non aveva ottenuto nulla con quella piccola sceneggiata, ma certamente aveva diritto a un interprete che lavorasse in una lingua di sua scelta.

Il funzionario mi disse che potevo andare, ormai erano quasi – guardò l’orologio – le quattro del mattino. Mi infilai il cappotto e seguii una delle guardie in uniforme giù per il dedalo di corridoi. La guardia chiamò un taxi, che arrivò poco dopo. La macchina attraversò la città, fuori era ancora buio completo, nemmeno un accenno di alba, la notte sembrava infinita. Arrivammo al mio appartamento e pagai il tassista, che aspettò finché non entrai nel palazzo. Ora perlomeno c’era un chiarore appena percepibile in cielo, il sole sarebbe sorto in un paio d’ore. Controllai i messaggi, ce n’era uno di Adriaan che mi chiedeva come stavo, e poi un altro dove mi chiedeva se da Jana poteva portare qualcos’altro, oltre a una bottiglia di vino. Mi stesi a letto senza rispondere e mi addormentai.

6.

In tarda mattinata ricevetti un altro messaggio di Adriaan. Proponeva di portare da Jana del cibo da asporto del ristorante indonesiano dietro casa sua, per risparmiarle la fatica di cucinare. Lessi il messaggio, poi tornai a raggomitolarmi nel letto. Quelle brevi comunicazioni, la loro natura banale, mi avevano dato un senso di rassicurazione di cui non sapevo di aver bisogno. Il subbuglio della notte precedente mi aveva colpita più di quanto mi fossi resa conto.

Quella sensazione mi accompagnava ancora quando mi svegliai poco dopo, a mezzogiorno. Era sabato, probabilmente la Corte avrebbe dato l’annuncio ufficiale lunedì, non avrei potuto parlare della scorsa notte ancora per un po’. Stesa a letto, mi chiesi se l’imputato si fosse svegliato dal suo sonno improvviso – se di sonno si era trattato, e non di una messinscena – trasalendo nel trovarsi in un posto così strano e minaccioso dopo aver sognato di essere altrove. Se avesse avuto la travolgente sensazione di essere la persona sbagliata nel posto sbagliato. Mi resi conto di essermi sentita così anch’io, seppure in scala minore, quando nella cella non ero riuscita a capire le sue parole, a svolgere il compito assegnatomi, come in un caso di errore d’identità.

Presi il telefono e risposi al messaggio di Adriaan. 𝙚𝙨𝙘𝙡𝙪𝙨𝙞𝙫𝙖 𝙨𝙞𝙩𝙤 𝙚𝙪𝙧𝙚𝙠𝙖𝙙𝙙𝙡. Dissi che portare da mangiare sarebbe stato un pensiero gentile e molto gradito, e che avrei informato Jana. Lui rispose subito e disse che ci saremmo visti da lei. Gli dissi di chiamare se avesse avuto problemi a trovare l’appartamento di Jana. Ma era evidente che se Adriaan si fosse perso, se si fosse ritrovato in un’altra via o in pericolo, se avesse chiamato per sapere se era nella giusta direzione o se aveva sbagliato, non sarei stata in grado di aiutarlo, non avrei nemmeno risposto al telefono. Mi addormentai, quasi come fanno i narcolettici – sul divano, con un libro in mano, la testa buttata all’indietro, il telefono nella stanza accanto e quindi non a portata d’orecchio. Questo se Adriaan avesse chiamato. Ma quando mi svegliai, alle otto di sera passate, sul telefono non c’erano chiamate perse o messaggi, e fuori era già buio. Avevo dormito per quasi tutto il pomeriggio.

Mi vestii di corsa e mandai messaggi ad Adriaan e a Jana per avvertirli che ero in ritardo. Uscii nel buio, le strade che già pregustavano una serata di fine settimana. Presi un taxi, ero in ritardo di mezz’ora, e come sempre Adriaan sarebbe stato puntuale. Mentre il tassista si infilava nel flusso del traffico – insolitamente intenso, o almeno così mi sembrava, forse per via della mia impazienza. Ero conscia che Jana e Adriaan si sarebbero ritrovati insieme in una situazione spiacevole, più intima del previsto – mi sporsi in avanti e sbirciai fuori dal finestrino. A quella velocità ci avremmo messo almeno venti minuti per giungere a destinazione.

Il traffico non migliorò, quando arrivai da Jana erano quasi le nove, e Adriaan era lì da più di un’ora. Sei in ritardo, disse Jana aprendo la porta. Non aveva un tono severo, per niente, e sorrideva, insolitamente rilassata. Fui stupita dal suo aspetto, sembrava molto diversa, quasi non la riconobbi. Indugiò sulla porta più del normale, come per impedirmi di entrare, e per un attimo pensai che dovesse dirmi qualcosa. Alle sue spalle vidi Adriaan in piedi, in cucina, con un bicchiere di vino in mano. Ci guardava con un’espressione curiosa, mi chiesi cosa gli avesse raccontato Jana.

Finalmente Jana disse, Entra, e fece un passo indietro quasi con riluttanza. Mentre mi toglievo il cappotto e posavo la borsa, guardai di nuovo Adriaan con espressione interrogativa, ma lui non lo notò o scelse di ignorarlo, si fece avanti con il bicchiere di vino e mi baciò, con grande naturalezza. Sapevo che Jana ci guardava, all’ultimo momento gli porsi la guancia invece della bocca, e il bacio risultò un po’ goffo. Mi sentii arrossire. Scusa il ritardo. Adriaan scrollò le spalle e disse che non importava, sembrava divertito, mi stava addosso con fare quasi protettivo, e desiderai di nuovo non aver fatto così tardi.

E allora, tutto bene? chiesi. Loro si guardarono e sorrisero, io osservavo non Adriaan, ma Jana. Si era messa il rossetto e si era truccata, cosa che in genere non si prendeva la briga di fare, e forse non ero abituata a vederle le labbra e gli occhi così colorati e delineati, i lineamenti così in risalto. Mi resi conto, in ritardo, che forse si era truccata per Adriaan; di certo non per me. A quel punto mi chiesi cosa significasse essere un uomo, trovarsi circondato da lineamenti così sottolineati, più vividi della loro vera natura.

Guardai Jana, e poi di nuovo Adriaan. Notai che tra loro si era stabilita una certa confidenza. Non era una sorpresa, in effetti avrei dovuto prevederlo fin dall’inizio, erano entrambi persone piacevoli e addirittura seducenti. Pensai fosse quello il motivo dell’inspiegabile trasformazione di Jana, che alla fine non si poteva ridurre a rossetto e mascara, semplice manifestazione fisica di un cambiamento più impalpabile. Mi venne di colpo in mente che avrebbero potuto essere una bella coppia, pensai che probabilmente Gaby era una donna come Jana, sicura di sé e diretta, uno specchio per Adriaan. Le coppie sono spesso così, anche quando all’inizio le somiglianze non si vedono. Cauta, osservai Jana e Adriaan continuare a guardarsi, ora più a lungo del necessario. Jana sorrideva in modo sciocco, o così mi sembrava.

Provai un improvviso e intenso senso di gelosia. Tutto bene, disse Adriaan, disinvolto. Si girò verso di me, aveva uno sguardo affettuoso e sorrideva, non sembrava nascondere nulla. Mi ha solo messo sotto torchio, ma sono sopravvissuto. Anche se la frase era diretta a me, e anche se Adriaan continuava a guardarmi con occhi gentili e trasparenti, non potei evitare di percepire quelle parole come un’ulteriore prova della complicità tra loro. Jana non smetteva di fissarlo, e in quel momento rise troppo forte, agitando con ostentazione i capelli, un gesto che non le avevo mai visto fare, sembrava essersi ricreata da capo a piedi per l’occasione.

Non è vero! esclamò civettuola. Per niente. Ho solo fatto qualche domanda, sono molto protettiva nei confronti della mia amica, come sai qui non ha nessuno – parole che in qualche modo mi fecero sentire come se in quella città, in quel paese o addirittura in quella stanza io fossi fuori posto. Jana mi passò un braccio intorno alle spalle, una mossa senza dubbio affettuosa che però mi risultò strana e insolita, in genere lei non era fisicamente così espansiva. Mi strizzò la spalla, un gesto che mi ricordò l’incontro con Kees alla festa, quando avevo saputo per la prima volta che Adriaan era sposato. Forse sembrai a disagio, o forse anche Adriaan notò la somiglianza tra i due abbracci, perché si incupì leggermente e dopo un attimo Jana si allontanò. Io mi schiarii la gola, chiesi se avevano voglia di mangiare. Jana si voltò di scatto e disse, Adriaan ha portato del take away indonesiano, di un ristorante che non conosco.

La tavola era apparecchiata con tovagliette, tovaglioli di stoffa e candele. Mangiamo, disse Jana. È tutto in forno, in caldo. Non sapevamo a che ora saresti arrivata. Mi resi conto che nessuno dei due mi aveva chiesto il motivo del ritardo. Jana cominciò a tirare fuori dal forno contenitori di alluminio, scosse la testa quando mi offrii di aiutarla e ci disse di sederci.

Io e Adriaan rimanemmo a tavola in silenzio, a fissare lo sfarfallio delle candele – Jana o Adriaan, chissà chi dei due si era preoccupato di accenderle. Come va il lavoro, come stai? mi gridò Jana. Stava tirando fuori il cibo dal forno con un gran baccano, sbatteva lo sportello quando lo apriva o lo chiudeva, sbatacchiava i piatti, Tutto bene, gridai di rimando, risposta che lei sembrò a malapena registrare. In parte ne fui sollevata, sarebbe stato difficile parlare di lavoro senza menzionare l’arresto, avrei dovuto girare intorno a un argomento così incombente sui miei pensieri che di sicuro se ne sarebbero accorti proprio per omissione.

Arrivò altro rumore dalla cucina, e dopo aver lanciato un’occhiata ad Adriaan andai da Jana e dissi, Lascia che ti aiuti, e insieme cominciammo a portare in tavola le varie pietanze. Era tutto delizioso, e Jana si complimentò subito con Adriaan per le scelte, Io non avrei mai saputo ordinare cose così buone, disse. Era un complimento strano e un po’ insulso, quasi di sicuro una bugia, Jana adorava cucinare e mangiare fuori, e in ogni caso ordinare take away non era un’impresa così eccezionale. Jana alzò il bicchiere di vino e disse, Bene, eccoci tutti qua. Continuava a sorridere, e la voce le vibrava per la tensione. Adriaan annuì mentre alzava il suo bicchiere e ringraziò Jana per l’invito, di noi tre era l’unico davvero a suo agio.

Per un attimo, io e Jana lo osservammo servire il cibo. Eravamo diventate due donne in contemplazione della bravura di un uomo, una situazione assurda e raggelante. Adriaan stava solo riempiendo i piatti di noodles, riso e pezzi di carne, eppure mi ritrovai anch’io a guardarlo con ammirazione, forse perché sapevo che così faceva Jana. Sapevo molto bene che Jana era emozionata perché trovava Adriaan attraente, sapeva essere competitiva e quello era un frangente in cui avrebbe sentito il bisogno di stabilire la propria superiorità: dopotutto era stata lei a proporre di cenare insieme.

Per quanto riguarda Adriaan, non era chiaro cosa provasse. Non capivo che cosa pensasse di Jana, e in generale della situazione. Forse riteneva un errore aver accettato l’invito a cena, eravamo solo noi tre, si vedeva che era stato tutto organizzato in modo che Jana potesse dargli un’occhiata, per così dire. Al tempo stesso, Jana stava ben attenta a evitare l’argomento del matrimonio e della separazione di Adriaan, gli chiese un po’ del suo lavoro, del quartiere in cui viveva, domande innocue di cui sapeva già la risposta, non si avventurò in territori potenzialmente compromettenti.

Tanta circospezione aveva un’aria inutile e falsa. Adriaan sapeva benissimo che Jana era già perfettamente informata non solo del suo lavoro e del suo quartiere, ma anche del suo matrimonio con Gaby e del suo stato indefinito. E l’elaborata facciata di chiacchiere non riusciva a nascondere che anche Jana sapeva che Adriaan sapeva che lei sapeva: la stanza vibrava di cose sapute e rinnegate. Eppure non era un comportamento poi così strano, tutti noi ricorriamo di continuo a una simile falsità, conscia o meno che sia. Forse, però, qui si trattava di una falsità più concreta, pensai all’improvviso; forse si annidava in qualcosa che non mi dicevano, una discussione o un patto tra di loro, qualcosa successa all’arrivo di Adriaan, magari Jana lo aveva fatto entrare per poi dire, Senti, voglio sapere cosa c’è tra voi due, voglio sapere le tue intenzioni.

Jana era più che capace di fare una cosa del genere– proprio come Adriaan, poteva essere insolitamente diretta. Ora Jana si rivolse ad Adriaan e disse scherzosa, So che secondo te una giovane donna non dovrebbe abitare in questa zona... Alzai lo sguardo stupefatta, questo a Jana non l’avevo detto, eppure lei aveva centrato in pieno la considerazione che Adriaan aveva di quel quartiere, aveva intuito in lui un lato conservatore che forse nemmeno Adriaan sapeva di avere. Ed è vero, proseguì Jana, qui non è sicuro come in altre zone della città, proprio l’altro giorno hanno aggredito e rapinato un uomo davanti al mio portone.

Adriaan posò le bacchette sul piatto, come per dare a Jana la sua completa attenzione.

È successo quando ero qui? chiesi io, e lei annuì.

L’uomo è in ospedale. Jana scosse la testa. Avrebbe potuto accadere a una di noi, a te, disse, guardando Adriaan dritto negli occhi. In effetti come tipo ti assomigliava, ho controllato, era ricco, un professionista, probabilmente in zona per andare a cena da amici, come te adesso, in sostanza.

Ma come fai a saperlo? chiesi. C’era il suo nome sul giornale, disse Jana. L’articolo non dice granché, ma se hai un nome puoi trovare di tutto, su internet. È un libraio di nome Anton de Rijk, ha un negozio di successo nella Città vecchia. Probabile che abiti nella tua zona, disse ad Adriaan. Anche se l’argomento di discussione era diventato molto serio, Jana continuava a flirtare con una sorta di soave aggressività, non era proprio amichevole ipotizzare che avrebbe potuto essere Adriaan a trovarsi incosciente in un letto d’ospedale.

Sì, proseguì Jana, è probabile che stesse andando a casa di amici, a una cena, solo che non ci è mai arrivato. Secondo voi quanto l’avranno aspettato, gli altri, prima di sedersi a tavola? Un’ora? Un’ora e mezza? Jana si bloccò, forse ricordandosi che anche loro quella sera mi avevano aspettato, che anche loro avrebbero potuto sedersi a mangiare. Un giorno fai la tua solita vita, con i soliti alti e bassi, e il giorno dopo qualcuno te la strappa e finisci per non sentirti più al sicuro. Passi le giornate a guardarti le spalle, la percezione del mondo cambia, diventa un posto fragile, ostile.

Jana prese le bacchette e cominciò a mangiare, finora non aveva quasi toccato cibo ed era chiaramente affamata. Adriaan disse che era così che funzionavano la violenza e il terrorismo, che era quello il motivo per cui riuscivano a minare così bene la società. Jana inghiottì, posò le bacchette e prese il bicchiere di vino. Certo, disse brusca.

Qualcosa dev’essere andato storto, però, disse Adriaan. Non c’è motivo di picchiare qualcuno se vuoi solo i soldi. Se ti minacciano, se ti chiedono portafogli e cellulare, tu li dai e basta, lo sappiamo tutti.

Sì, ma a volte per l’appunto le cose vanno storte, disse Jana. Anche il criminale più incallito può andare nel panico ed esagerare, il corpo è più resistente e insieme più fragile di quanto ci si aspetti, anche chi è abituato alla violenza può essere colto di sorpresa. O forse era un criminale dilettante, e ha sottovalutato la propria forza. O forse ha agito per cattiveria, è possibile anche questo, no? Jana scrollò le spalle, poi continuò. In un certo senso l’intenzione non conta, perché che l’aggressore – o forse gli aggressori, magari erano in tanti, il che spiegherebbe la gravità delle ferite – abbia agito per cattiveria o per panico il risultato è lo stesso, quel poveraccio è in ospedale già da un po’ di giorni, devono averlo conciato davvero male.

Hanno arrestato qualcuno? chiesi.

Sono sicura che ci stanno lavorando, disse Jana, avranno già qualche sospetto, in quell’isolato ci sono telecamere a circuito chiuso, nulla passa inosservato. Io le ho sempre odiate, ho sempre pensato che fossero il simbolo di uno stato di sorveglianza. Ma ora ho scoperto che mi fanno sentire un po’ più al sicuro, forse è così che si diventa conservatori. Ora Jana sembrava più calma. Se si possiede una casa, la percezione delle cose cambia, che lo si voglia o meno. Basta anche solo avere un piccolo appartamento e il gioco è fatto, si è contagiati, c’è una differenza tra vivere nella teoria e vivere nella pratica.

Jana parlò come se possedere una casa l’avesse completamente trasformata, come se fosse asserragliata tra i bastioni del suo appartamento, in una vita fossilizzata. Ma sapevo che non era così, sapevo che la sua situazione rimaneva imprevedibile, che la stabilità intorno a noi era sempre una questione di apparenza. Era così, realizzai, che doveva essersi sentito Adriaan quando era tornato a casa e l’aveva trovata vuota. Gli lanciai un’occhiata; doveva essersi sentito così quando aveva fatto sedere i figli, quando aveva cercato le parole per dire loro che la madre se n’era andata. Ogni forma di certezza può crollare senza preavviso. Niente e nessuno era esente da questa legge, nemmeno Adriaan.

7.

Jana rimase zitta per un bel po’. Aveva la faccia corrucciata per la stanchezza e la preoccupazione, e me la immaginai di notte, irrequieta, sbirciare dalla finestra, alzarsi dal letto per controllare che la porta fosse chiusa. Ora i suoi modi non avevano nulla di civettuolo, nulla di costruito, sembrava essersi chiusa in se stessa.

Dopo forse un intero minuto, alzò gli occhi e sorrise. Che piega deprimente ha preso la conversazione, è colpa mia. Si versò un altro bicchiere di vino, poi riempì anche il mio e quello di Adriaan. Io scossi la testa e dissi, È normale preoccuparsi, o qualcosa del genere, parole senza un particolare significato. Era sembrata una semplice chiacchiera innocua – eppure aveva relegato ognuno di noi in una sfera privata, come se avessimo tutti convenuto che non c’era altro da dirsi.

Cambiamo argomento, che ne dite? Jana sorrise ad Adriaan e me, come per rassicurarci che era tutto come prima. Poco dopo, Adriaan guardò il telefono e disse che avremmo fatto meglio ad andare, avrebbe chiamato una macchina. Gli chiesi automaticamente se fosse venuto in auto, e lui fece segno di no. Dopo un po’, il suo telefono emise un tintinnio. L’auto era arrivata, e ci alzammo. Jana ci accompagnò alla porta, poi ci ricordò che nel giro di qualche settimana ci sarebbe stata l’inaugurazione di una nuova mostra al museo, sperava di vederci entrambi. Io annuii e lei mi abbracciò velocemente prima di dirci che ci aspettava.

Quando ci sedemmo nel taxi, Adriaan mi prese una mano e disse, Vado via per una settimana, forse di più.

Per lavoro? chiesi. Avevo la voce piatta, ero stanca per la notte precedente e la cena era stata spossante. Ero rattristata dall’annuncio di Adriaan, ma avevo la testa altrove, assorbita da quelle storie di violenza, alla Corte e in strada. Cambiavano il registro della città che vedevo dai finestrini dell’auto. Pensai ad Anton de Rijk, che solo poco tempo prima aveva percorso quelle stesse strade. Adriaan rimase un attimo in silenzio, poi si schiarì la gola e disse, No, vado a Lisbona a trovare Gaby e i ragazzi. Mi tenne per mano ancora un po’ e poi aggiunse, piano, Intendo chiederle il divorzio.

A quel punto mi voltai verso di lui. Al buio, i suoi lineamenti apparirono incerti, come ammorbiditi dalla tristezza. Fui colta di sorpresa, sopraffatta dal divario tra la mia euforia – perché era quello che avevo provato alle sue parole, una spontanea e incontrollata euforia che mi pulsava in tutto il corpo – e la sua evidente tristezza. Mi chiesi se Adriaan avesse preso quella decisione con riluttanza, dopo mesi di vana speranza e di esitazione, dopo un dibattito interiore che mi aveva tenuto nascosto. Sembrò rendersi conto della mia perplessità e sorrise. Non che muoia dalla voglia, disse, ma ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare, cose che vanno discusse non al telefono o via mail, ma faccia a faccia.

Annuii, gli chiesi solo quando sarebbe partito. Domani, disse. Ho preso la decisione qualche giorno fa. L’aereo parte presto, devo uscire di casa alle cinque del mattino. Hai prenotato un taxi? chiesi. Lui ignorò la domanda e mi prese di nuovo la mano. Ho pensato che magari ti farebbe piacere stare da me, mentre sono via, disse. Saresti più vicina al lavoro, e il pensiero mi renderebbe felice. Fece una pausa. Non mi va di lasciarti. Non ci conosciamo da tanto, ma voglio sapere che al mio ritorno ci sarai.

Ci sarò, dissi. Mi prese le mani e mi baciò. In quel momento non mi venne in mente di chiedermi perché avesse bisogno di quella rassicurazione, o perché un viaggio di una settimana richiedesse tale dichiarazione di intenti. Arrivammo in silenzio a casa sua, e quando entrammo Adriaan mi chiese di nuovo, Allora, resterai qui? Annuii. Sembrò ancora una volta sollevato. Disse che mi avrebbe lasciato un mazzo di chiavi. È solo per una settimana, forse un po’ di più, disse, e io pensai che cercasse di rassicurare entrambi.

Non aveva mentito, sulla partenza la mattina presto. Mi svegliai alcune ore dopo nell’enorme letto. Era la prima volta che mi trovavo da sola nel suo appartamento. Mi alzai e andai in corridoio. Dietro le porte c’era solo silenzio. Mi chiesi brevemente se Adriaan potesse aver cambiato idea, se in realtà non avrei trovato nessun mazzo di chiavi, l’offerta ritirata di proposito o per distrazione. Ma non se n’era dimenticato, e quando entrai in cucina vidi subito le chiavi, appoggiate sul bancone con un biglietto che diceva Ti immaginerò qui mentre sono via.

Rimasi in cucina e rilessi il biglietto. Presi le chiavi, provai un brivido di piacere. Pensai di farmi un caffè con la ridicola macchinetta, frugai negli armadietti e trovai una tazza, versai del latte e aggiunsi acqua. Schiacciai un solo pulsante, era una macchinetta one touch. La macchinetta iniziò a macinare e ronzare e vibrare, e poi sputò fuori un caffellatte. Mi sedetti al bancone a berlo, e mi accorsi quanto fosse protetto l’appartamento dal flusso della vita esterna, grazie al miracolo dell’isolamento dato dai doppi vetri. Da sola, il silenzio aveva un significato diverso, triste e quasi opprimente. Di colpo irrequieta, posai la tazza. Avevo un mazzo di chiavi, potevo andare e venire come volevo, mi era stato detto di comportarmi come a casa mia.

Mi vestii e uscii, la zona era ben servita dai mezzi pubblici, e in pochi minuti mi trovai su un tram diretto alla Città vecchia. Ero stata in tram molte volte, ma quel viaggio aveva un che di diverso, la città cambiava spesso davanti ai miei occhi, ma adesso avvertivo un attaccamento cercato ma mai provato prima, come se avessi gettato un’ancora. Scesi non molto lontano dal Mauritshuis e per un attimo rimasi ferma nella folla di pedoni e turisti. Imboccai una strada a caso, e mi accorsi che era passato del tempo dall’ultima volta che avevo passeggiato per la città in quel modo, con quel piacere, quella libertà.

Camminavo da un po’ quando passai davanti alla vetrina di una libreria che esponeva volumi rilegati in pelle. Di colpo ricordai le parole di Jana, è un libraio, di nome Anton de Rijk, ha un negozio di successo nella Città vecchia. D’impulso, tornai indietro ed entrai, non c’erano molte librerie nella Città vecchia, e quella aveva qualche probabilità di essere il negozio di de Rijk. Appena entrai una ragazza alzò lo sguardo e sorrise in modo vago ma gentile, le rivolsi un cenno della testa e finsi di esaminare gli scaffali. Nonostante la massima attenzione con cui passai in rassegna i titoli, e l’assenza di altri clienti – cominciai a dubitare del successo di cui aveva parlato Jana – la ragazza non si avvicinò né mi parlò.

Alla fine mi diressi al banco, con gli occhi ancora fissi sugli scaffali, e lei mi chiese se poteva aiutarmi. Scossi la testa, dissi che stavo solo guardando e le domandai se era la proprietaria del negozio. La ragazza scoppiò a ridere, una risata forte e inappropriata. Assolutamente no, disse, e sorrise. Le chiesi da quanto lavorava lì. Tre anni, rispose. Non era male come lavoro, era molto interessante e si incontrava gente di ogni sorta – i libri antichi attiravano un certo tipo di clientela, ma non trattavano solo quelli, vendevano anche libri di altro genere. Poi, visto che lei smise di parlare e che io desideravo prolungare la conversazione, dissi che cercavo qualcosa sulla storia della città, per un bel regalo.

Lei si alzò, recuperò vari tomi e li aprì rivelando splendide mappe e tavole pieghevoli, e mentre esaminavo i libri disse che andavano dai cento euro in su. Le chiesi quand’erano stati pubblicati, e rispose che erano quasi tutti dell’Ottocento. Toccai la rilegatura in marocchino, erano oggetti meravigliosi, e anche se costava più di quanto potessi permettermi, dissi alla donna che avrei comprato uno dei volumi, con l’idea di regalarlo ad Adriaan.

Mentre la ragazza batteva l’acquisto alla cassa, le chiesi chi fosse il proprietario. La domanda sembrò sorprenderla, e le spiegai che mi incuriosiva solo perché la libreria aveva una forte personalità. Era una frase insulsa ma non falsa, il negozio recava chiaramente l’impronta di una persona. Lei disse che il proprietario si chiamava Anton de Rijk. Chiesi subito se era spesso in negozio, e lei disse che in genere c’era, ma che purtroppo al momento aveva dovuto assentarsi, e non sapeva bene quando sarebbe tornato. Mi sembrò a disagio, eppure non potei evitare di dire, Niente di grave, spero. Dopo una pausa la ragazza scosse la testa, certo che no, se fossi tornata nel giro di una o due settimane l’avrei trovato. Una o due settimane, ripeté, forse anche tre. Mi allungò di scatto il libro impacchettato. Lo presi e la ringraziai dell’aiuto.

Uscii dal negozio con il pacco in mano. Non sapevo bene perché ci fossi entrata, e perché avessi fatto tutte quelle domande su de Rijk. Una o due settimane, aveva detto la ragazza, forse anche tre. Quelle parole mi avevano dato un misterioso sollievo. Tornata nell’appartamento, aprii il pacco e tenni il libro tra le mani: era strano vederlo lì, in quella stanza. Lo appoggiai sul tavolino, poi lo presi e lo spostai su uno degli scaffali del salotto. Vidi che dopotutto non ci stava bene, stonava e sembrava un oggetto estraneo, con la rilegatura decorata e i bordi consumati. Alla fine, non sapevo per chi fosse. Mi sedetti sul divano. Mi mancava Adriaan, e per un attimo mi sentii abbandonata in quell’enorme casa, dimenticata.

Dormii male, e quando il mattino dopo mi svegliai il weekend era finito ed era più tardi del solito. Era impensabile tornare a casa mia per cambiarmi, quindi feci una doccia e mi rimisi gli stessi abiti, ormai per il terzo giorno di fila. Per capriccio, aprii un’anta dell’armadio in camera, e vidi un vasto assortimento di camicie e abiti stirati, più di quanti un uomo possedesse di norma. Quell’eccesso di camicie, tutte perfettamente sistemate, fu per me una rivelazione. Era uno spettacolo impersonale, sconcertante. Sapevo che in quella casa veniva con regolarità un’addetta alle pulizie, una domestica che faceva la spesa e riforniva la dispensa quand’era vuota, che senza dubbio andava a ritirare gli abiti in lavanderia e sistemava le camicie nel guardaroba dopo averle tirate fuori dalle buste di plastica. L’avevo incontrata una volta, fuori dall’appartamento, e da come mi aveva ignorata e al tempo stesso esaminata, avevo capito che lavorava in quella famiglia da ben prima della partenza di Gaby.

Uscii di casa senza rimettere in ordine – in quali giorni veniva la domestica? Adriaan non me l’aveva scritto – chiusi la porta e misi con cura le chiavi in borsa. Salii sull’autobus dietro l’angolo, che raggiunse presto la costa e poi procedette parallelo alle dune in direzione della Corte. Circa dieci minuti dopo passò davanti al centro di detenzione dov’ero stata tre notti prima. Da quando lavoravo alla Corte sapevo della sua esistenza e nient’altro, non l’avevo mai collocato nel contesto o nella geografia della città. Era rimasto astratto, come nelle fotografie esposte ai banchi informazioni nell’atrio della Corte, foto che non trasmettevano la brutale realtà del posto che avevo visto quella notte – un recinto buio in netto contrasto con la luminosa trasparenza della Corte stessa, un edificio definito dalla sua apparenza.

Alla luce del giorno, il centro di detenzione era meno sinistro, e c’era qualcosa di quasi concreto nella sua presenza lungo la strada. L’autobus lo superò, e vidi il muro e il profilo dell’edificio di sfuggita dal finestrino, era solo una di quelle costruzioni che si stagliano nel paesaggio, che non si notano mai sul serio e di cui perlopiù si ignora la funzione. Tutt’intorno a noi ci sono prigioni e anche cose peggiori: a New York, proprio sopra un’area ristorazione molto frequentata, c’era un black site, con le finestre oscurate e le stanze insonorizzate per evitare che le urla arrivassero alle orecchie della gente seduta al piano inferiore. La gente mangiava panini e beveva cappuccini senza avere la minima idea di cosa accadesse proprio lì sopra, senza avere la minima idea del mondo in cui viveva.

Ma nessuno di noi è davvero in grado di vedere in che mondo viviamo. Questo mondo, situato nella contraddizione tra la sua ordinarietà (il muro tozzo del centro di detenzione, l’autobus che corre lungo il solito percorso) e i suoi estremi (la cella e l’uomo dentro la cella), è qualcosa che vediamo solo per poco e che poi non vediamo più per lungo tempo, per non dire mai. È sorprendentemente facile dimenticare le cose cui assistiamo, orrende immagini o voci che dicono l’indicibile; per esistere dobbiamo dimenticare, e lo facciamo, viviamo in uno stato di so ma non so.

Ecco perché riuscii a vedere di nuovo il centro di detenzione alla luce del giorno per poi scendere dall’autobus, entrare nella Corte e salutare le guardie di sicurezza come sempre, proprio come se nulla fosse cambiato. Fu facile infilarmi nella folla di corpi che passavano attraverso il controllo sicurezza, strisciando tessere magnetiche e passando sotto i metal detector, e fu facile attraversare il cortile ed entrare nel palazzo vero e proprio.

Ma poi, all’entrata, in piedi accanto alla porta, vidi Amina gesticolare verso di me, e ancora prima che la raggiungessi, come se avesse solo aspettato che fossi a portata d’orecchio, mi disse, Ti spostano nell’aula 1. La guardai sorpresa. Mi sostituirai quando andrò in maternità. Mi toccò un braccio, stringendolo leggermente. È un bene, no? le chiesi. Lei annuì, Sì, è un ottimo segno, e le strinsi la mano in risposta. Vieni, disse. Ed entrammo nell’edificio insieme.

8.

In ascensore, Amina si appoggiò a una parete per riprendere fiato. Le capitava spesso, ora, il bambino nella pancia premeva contro i polmoni. Mi guardò e poi disse che sua madre sarebbe arrivata presto dal Senegal, e lei sarebbe entrata in maternità di lì a poche settimane. Quando uscimmo dall’ascensore e ci dirigemmo alla cabina, mi chiese se conoscevo già il caso e io annuii, i dettagli erano noti in tutta la Corte. Il processo durava da più di un anno e aveva una grande risonanza, era la prima volta che un ex capo di stato veniva processato dalla Corte, si era scatenato un notevole furore sulla stampa internazionale.

E poi, ovviamente, c’era la questione dei manifestanti che da mesi si riunivano davanti alla Corte in suo nome, distribuendo volantini e sventolando cartelli. Ci sedemmo e Amina mi disse che quella settimana avrei lavorato in cabina con lei, per prendere confidenza con la situazione. Mi porse un dossier. Non dovrebbero esserci problemi di comprensione, disse, fino a questo momento il linguaggio è stato chiarissimo. Accennò al dossier che avevo davanti, e lo aprii. In base al riassunto del caso era successo tutto con gran velocità, in un arco di tempo relativamente breve, quattro o cinque mesi, subito dopo le elezioni contestate. La commissione elettorale nazionale e gli osservatori esterni avevano dichiarato la vittoria dell’avversario dell’imputato. L’imputato si era rifiutato di cedere il potere, nonostante ci fosse anche un limite costituzionale di dieci anni per qualsiasi presidenza e lui fosse già stato al comando per undici. In seguito aveva effettuato un fantasioso conteggio, annullando i voti nei distretti dove il suo avversario era andato forte, per poi ordinare all’esercito di chiudere i confini e di espellere tutti i media stranieri.

A quel punto, l’imputato – cominciai a sfogliare il dossier più in fretta, con un occhio ai funzionari in arrivo nell’aula sottostante, la sessione sarebbe iniziata a breve – aveva formato un esercito di mercenari e dato il via a una pulizia etnica che aveva portato a squadroni della morte e fosse comuni. L’ONU aveva mandato le truppe di pace, l’Unione africana aveva richiesto che l’imputato si dimettesse, lui si era dimostrato del tutto impenitente. Il suo avversario aveva reagito, ne era nata una guerra civile. Alla fine, in seguito a incursioni aeree francesi e dell’ONU, le forze dell’opposizione e l’ONU avevano catturato e messo agli arresti domiciliari l’imputato. Questo accadeva circa cinque mesi dopo le tanto contestate elezioni. Se le truppe di pace non fossero state presenti, l’imputato sarebbe stato probabilmente giustiziato, ma l’ONU aveva insistito per farlo processare da un tribunale internazionale, e adesso si trovava qui, ormai da qualche anno.

Chiusi il dossier e lo misi da parte. Sotto c’era una grande foto dell’ex presidente. Guardava in lontananza, con un braccio alzato e la bocca aperta, come se stesse tenendo un discorso. Dietro di lui si distinguevano alcune persone, sagome sfocate, chiazze di colore più che figure distinte, forse stava parlando a un raduno negli ultimi giorni prima delle elezioni. Indossava un costoso completo con cravatta, e il suo corpo emanava energia e tensione perfino nella foto. Sullo sfondo, intravidi grandi manifesti e striscioni.

Amina indicò la galleria del pubblico, allo stesso piano ammezzato delle cabine degli interpreti. Era piuttosto affollata. I sostenitori dell’ex presidente, disse Amina. In seconda fila vidi l’uomo che mi aveva dato il volantino fuori dalla Corte. Parlava con altri sostenitori, la stessa espressione vulnerabile della volta precedente, visibilmente emozionato, e ricordai il messaggio che l’ex presidente aveva rivolto a quelle persone prima di salire sull’aereo diretto all’Aja. Non piangete, siate forti – slogan che era stato poi riportato dai giornali in prima pagina, e che forse anche adesso i sostenitori sussurravano in galleria.

Oggi c’è un po’ di stampa, proseguì Amina, è previsto l’arrivo di un nuovo consulente della difesa, a quanto pare di un certo peso. Mi indicò il gruppo che occupava una sezione della galleria del pubblico. Questo processo è un vero spettacolo, sussurrò, direi più del solito. Dalla posizione privilegiata della cabina potevamo osservare l’aula sottostante, l’accusa da una parte e la difesa dall’altra, i giudici davanti e il banco dei testimoni in fondo. Quasi tutti sembravano presissimi da qualcosa di urgente, raggruppati intorno a computer, intenti a passarsi grossi faldoni. Lanciai un’occhiata ad Amina, che ora però era concentrata sui suoi appunti: in ascensore mi aveva detto che oggi avrebbe svolto lei il grosso del lavoro, per farmi acclimatare.

Tornai a guardare in basso, c’era un po’ di trambusto e vidi che il nuovo consulente della difesa era arrivato, sistemandosi sul lato sinistro dell’aula. I legali indossavano tutti la toga, e avevano modi quasi guardinghi nel rivolgersi ai loro associati. Osservai i tre uomini, qualcosa in loro mi turbava, li vidi deporre i fogli, parlare con gli assistenti affaccendati lì intorno. Solo dopo averli scrutati con attenzione mi accorsi, con orrore, che uno dei tre uomini era Kees, l’uomo della festa, l’amico di Gaby.

Mi rimisi subito a sedere, con il timore che potesse vedermi in cabina, anche se era improbabile. Per un momento, mi chiesi se non mi fossi sbagliata; Adriaan aveva detto che era un avvocato difensore, uno dei migliori del paese, ma dall’aspetto non sembrava. Mi affacciai di nuovo a guardare quella testa ricoperta di capelli lucidi, acconciati proprio come alla festa. Da una parte mi era impossibile conciliare l’uomo in toga con l’uomo che avevo incontrato quella sera, dall’altra ero sicura fosse la stessa persona: era il contesto a renderne la presenza incomprensibile. Kees era esattamente lo stesso, e gli vidi fare le stesse ridicole mosse, la mano tra i capelli, una serie di gesti imperiosi.

Nel contesto dell’aula, però, quei gesti acquisivano non si sa come una certa solennità, i suoi associati e anche gli altri avvocati annuivano in risposta a quel vistoso sventolare di mani senza traccia di ironia o derisione. Quando Adriaan mi aveva detto che Kees era un avvocato difensore, avevo immaginato che si occupasse di crimini non violenti, di evasioni fiscali o reati societari, perché sembrava un uomo insignificante. Certo, era altrettanto possibile che rappresentasse colpevoli di omicidi o rapine, per esempio i responsabili dell’aggressione ad Anton de Rijk – crimini di natura più grave, crimini che, seppur contro una sola persona, non potevano definirsi irrilevanti.

Ma che fosse un avvocato difensore per crimini di questa portata, crimini di rilevanza storica, che si trovasse proprio in quell’aula, era davvero troppo incongruo, Kees non sembrava possedere la serietà mentale necessaria a discutere di argomenti del genere, per non parlare della concentrazione che serviva a costruire gli opportuni ragionamenti. Certo, un uomo poteva benissimo essere frivolo e subdolo ed essere comunque un avvocato o un politico geniale – molti uomini e molte donne di notevole reputazione sociale si rivelano niente meno che riprovevoli nella vita privata – ma in qualche modo non riuscivo a credere che gli uomini e le donne nel tribunale avrebbero preso Kees sul serio, sembrava pazzesco che potessero credere a quell’individuo, una persona così inconsistente in una faccenda così critica.

Eppure, osservando la scena sottostante, vidi che Kees occupava una posizione di non poca autorità all’interno della squadra, tutti ascoltavano con attenzione e perfino con entusiasmo le sue direttive, sembravano pendere dalle sue labbra, era non solo rispettato, ma ammirato e perfino temuto. Dall’altra parte della stanza, l’accusa lo osservava con cautela, forse aveva la fama di essere spietato e infido, e mi chiesi se quello fosse un altro motivo per cui Adriaan lo aveva salutato con sospetto, per via di un’inclinazione professionale al raggiro.

Trovai curioso che Adriaan non mi avesse detto che Kees era abbastanza qualificato per lavorare anche alla Corte, e mi venne in mente che Adriaan sapeva molto poco del mio lavoro, e delle parti della mia vita che non condivideva con me. In effetti, Kees avrebbe compreso molto meglio di lui il mio quotidiano; se a quella festa gli avessi detto che lavoravo alla Corte, probabilmente avremmo avuto una conversazione molto diversa, mi sarebbe sembrato un uomo intelligente e informato, esperto di un mondo dove io stavo appena entrando. A quel punto, forse, sarei stata più disponibile alle sue avances, magari avrei preso il suo numero o sarei andata a casa sua, invece che da Adriaan.

Era un pensiero inquietante – che le nostre identità, e quindi il corso della nostra vita, potessero essere così mutevoli. Mentre fissavo Kees, quella versione alternativa degli eventi sembrò vibrare nell’aria tra noi. All’improvviso, Kees si alzò e si voltò verso la porta laterale dell’aula, distendendo la faccia nel sogghigno da lupo che ricordavo così bene dalla sera della festa. Allargò le braccia in segno di saluto, io allungai il collo e vidi che era entrato l’ex presidente. Aveva l’aria ben riposata e curata, indossava un completo blu scuro, come quelli che portava quand’era ancora presidente, come quello nella foto. Per un attimo mi chiesi come l’avesse ottenuto, se ci avesse pensato la sua squadra legale, se fosse un prêt-à-porter o se avessero fatto arrivare un sarto nel centro di detenzione in piena notte. Aveva modi calmi e addirittura sottomessi, eppure ero sicura che fosse consapevole di come l’energia della Corte si concentrasse su di lui, sul buco nero rappresentato dal suo personaggio.

Kees era ancora in piedi a braccia spalancate, anche se la posa cominciava a vacillare, l’ex presidente lo aveva lasciato in sospeso. Un’ombra di incertezza gli attraversò il volto, e di colpo provai un moto di compassione nei suoi confronti. L’ex presidente gli rivolse un cenno della testa, formale e distante. Al che Kees sembrò riacquistare un po’ di spacconeria e lo abbracciò con entusiasmo, come se fossero vecchi amici. L’ex presidente incassò quell’assalto di affetto. Incoraggiato, Kees guidò l’ex presidente al suo posto in fondo all’aula, tenendogli una mano sulla spalla. Vidi che faceva di tutto per mantenere con lui un contatto fisico, e pensai che con quel gesto, al di là del suo egocentrismo, mirasse a dichiarare che l’ex presidente era un uomo come un altro, che poteva esistere all’interno di una società civile, che aveva amici e una famiglia, un uomo da cui non c’era bisogno di proteggersi.

Voleva dimostrare di non aver paura. Mi chiesi se fosse così, se potesse essere così. Kees mi era sembrato una persona bizzarra ma essenzialmente normale, con i pregiudizi e le presupposizioni di una persona normale. Ma se davvero Kees non aveva nemmeno un po’ paura dell’ex presidente, soprattutto ben conoscendo i crimini di cui era accusato, allora era da considerarsi un uomo insolito, un uomo di notevole coraggio oppure affetto da dissonanza cognitiva. Sotto i miei occhi, l’ex presidente annuiva e Kees continuava a parlare, rilasciando quello che sembrava un logorroico flusso di parole. Cercai di immaginare cosa stesse dicendo, forse qualche spiegazione tecnica. Ma poi pensai che probabilmente il contenuto non aveva importanza, a contare era la pantomima, il teatro; con quella piccola performance Kees stava ridimensionando l’ex presidente agli occhi del tribunale e delle telecamere, agli occhi del mondo.

Quello è il nuovo consulente, disse Amina, a voce bassa. In basso, l’ex presidente alzò di colpo le mani, come per dire basta. Kees fece subito un passo indietro. L’ex presidente doveva averlo zittito. Kees era alle sue dipendenze, come in passato lo era stata moltissima gente. Adesso, la cerchia si era ristretta ai soggetti radunati attorno a lui in aula, Kees era tra gli ultimi. Pensai che avrebbe fatto bene a tenere alta la guardia, nel breve scambio tra i due uomini avevo visto la potente mutevolezza del comportamento dell’ex presidente, senza dubbio fonte della sua capacità di dominare e intimidire. L’ex presidente si sistemò la cravatta, con espressione tronfia e al tempo stesso seccata. Kees tornò al suo posto dietro il tavolo, un attimo dopo la porta principale dell’aula si aprì ed entrarono i giudici.

Tutti in piedi, per favore. La sessione in aula 1 ha inizio. Kees si alzò insieme agli altri, tirò su il mento e strinse gli occhi, il petto sembrò gonfiarsi sotto la toga. Accanto a me, Amina aveva cominciato a interpretare, con le mani sulla scrivania, una penna tra le dita. Sembrava molto calma, quasi placida nei modi. Potete sedervi. Con attenzione, Amina si tolse un pelucco dalla manica della camicetta e pronunciò le parole della giudice che presiedeva. Lascio subito la parola al testimone.

Un robusto uomo di mezza età si alzò a fatica e andò al banco dei testimoni. Si sedette con cautela, una furtiva espressione da cane bastonato in faccia. Si alzi, per favore. Sì, grazie, si alzi e dica la sua data di nascita e il suo attuale impiego. L’uomo si rimise in piedi. L’ex presidente si sistemò di nuovo la cravatta, mi chiesi se più che un gesto intimidatorio non fosse un tic nervoso. Mi sembrò di aver colto un barlume di preoccupazione nei suoi occhi. O forse si trattava di aspettativa. Grazie. Si sieda, prego. Sì, grazie. Vada avanti. Amina fece una pausa. Il testimone si sporse verso il microfono, e guardò la giudice.

Buon pomeriggio, Vostro Onore. Amina parlava lentamente, scandendo ogni sillaba. Vedevo che stava ascoltando il testimone, adeguandosi alla cadenza della sua parlata. Grazie per avermi dato la parola. Farò del mio meglio per rispondere alle sue domande, vorrei essere d’aiuto. Amina aveva accelerato, e ora parlava velocemente, fermandosi solo per riprendere fiato. Prima di tornare alle domande dell’accusa, vorrei aggiungere una cosa. Amina corrugò la fronte. In aula, la giudice che presiedeva annuì stancamente. Non c’è bisogno di tutto questo teatro. Sono passati quasi sei anni da quando il mio collega e amico è stato prelevato dal nostro paese e portato qui con falsi pretesti. Questa specie di nascondino non giova alla reputazione del tribunale. Da noi, questo caso è stato visto solo come un rapimento politico. Scosse la testa. Da noi dicono, Perché non arrestano il presidente attuale, un presidente illegittimo?

Gli uomini e le donne in galleria cominciarono a esultare, le voci permearono la barriera di vetro. Una donna agitò il pugno in aria e batté le mani, e presto l’intera sezione della galleria la imitò. I giornalisti rivolsero la propria attenzione ai sostenitori dell’ex presidente, era un vero spettacolo e sarebbe stata un’eccellente storia da raccontare. Le guardie piazzate nei corridoi laterali non sembravano in grado di fermare o almeno contenere il pandemonio. In basso, l’ex presidente sorrise e alzò una mano verso i sostenitori.

Silenzio. Esigo silenzio.

La giudice che presiedeva scosse la testa.

Per favore, calmi i suoi sostenitori.

Lo sguardo dell’ex presidente rimase fisso sulla galleria del pubblico. Per la prima volta da quando era entrato in aula, era trasparente in volto, quasi vulnerabile – nessun segno di trionfo, o sotterfugio, o strategia. Era chiaramente emozionato di fronte alla sua persistente popolarità. La invito di nuovo a calmare i suoi sostenitori, o saranno espulsi dalla galleria. Lentamente, a malincuore, l’ex presidente alzò le mani e fece segno ai sostenitori di sedersi. Si calmarono subito, si sedettero obbedienti, gli occhi fissi su di lui, che annuì, quasi a se stesso.

La giudice lo guardò attraverso gli occhiali, con aria severa. Mi permetta di ricordarle che agli ospiti della Corte si richiedono certi standard di decoro. Chi non riesca ad aderire a questi standard, sarà subito espulso dalla Corte e diffidato dal tornare in sede. L’ex presidente la guardò senza battere ciglio. Dopo un attimo la giudice riprese a parlare, questa volta al testimone. Tornando a lei, signore. Devo chiederle di limitarsi a rispondere alle domande dell’accusa. Siamo già in ritardo sul programma. Il testimone annuì, e quando l’accusa prese la parola l’energia sembrò defluire dall’aula.

Per i successivi novanta minuti l’accusa interrogò il testimone su questioni contorte e al tempo stesso tecniche fino all’estremo, e nel frattempo sia l’accusa che il testimone sembrarono sempre più frustrati e stanchi. La giudice li interruppe varie volte, soprattutto per invitarli a essere più concisi sia nelle risposte che nel porre le domande, a quanto pare erano davvero indietro con il programma. Nella seconda metà della sessione cominciai a interpretare. Ero più nervosa del solito, non solo perché in un processo così importante un minimo errore poteva avere un peso considerevole, ma perché temevo che Kees potesse in qualche modo riconoscere la mia voce, per quanto improbabile – ricordai a me stessa che ci eravamo visti soltanto una volta, scambiando poche parole.

Quando mi sporsi in avanti e parlai nel microfono, però, la mia voce tremava in modo percepibile, e molti membri della corte alzarono lo sguardo sorpresi. Sentii Amina irrigidirsi alle mie spalle. Riacquistai presto contegno, con sollievo di tutti, o perlomeno di Amina, che si allungò verso di me e mi strinse la mano per rassicurarmi. Kees non reagì al suono della mia voce, nemmeno al tremolio iniziale. Ciononostante, fu un sollievo quando la sessione si concluse e la giudice batté il martelletto.

Quasi all’istante, la stanza brulicò di movimento. L’attenzione, fino a quel momento concentrata sul testimone e l’accusa, ora si atomizzò sparpagliandosi per tutta l’aula. Prima ancora che i tre giudici si alzassero per andarsene, la gente cominciò a chinarsi per raccogliere documenti e a riunirsi per parlare. L’ex presidente rimase ai margini dell’aula con una guardia di sicurezza accanto, come in attesa di qualcosa, forse di qualcuno che andasse a parlargli. Cercai Kees, con mia sorpresa lui e i suoi colleghi si stavano dirigendo veloci verso l’uscita.

Tornai a guardare l’ex presidente. Sembrava davvero molto perplesso, nel vedere il suo legale sparire dalla porta. Spostò lo sguardo sulla galleria del pubblico, che si andava svuotando a sua volta. Si indurì in volto. La guardia si sporse verso di lui, e lui annuì. Le spalle gli si afflosciarono, e di colpo sembrò molto più vecchio, mi resi conto che doveva essergli costato un grande sforzo apparire in aula con una postura così diritta, un portamento ancora presidenziale, per esibire il carisma che gli restava: perché contrariamente a quanto si crede il carisma non è innato e costante, ma va rafforzato in continuazione. La performance – perché di questo si era trattato – lo aveva svuotato, e l’ex presidente si diresse verso l’uscita a testa bassa, trascinando i piedi.

Amina mi guardò. Brava, disse. Mi sorrise con calore. Vado in mensa a prendere una tazza di tè. Quando si alzò, si mise le mani sulle reni e fece una smorfia. Le chiesi se stesse bene, poi dissi che l’avrei accompagnata, anch’io avevo bisogno di un caffè. Oggi è stato piuttosto facile, proseguì lei mentre ci dirigevamo al piano inferiore, anche con tutto quel chiasso in galleria. La lobby era piena di scolaresche e visitatori, e mentre l’attraversavamo dissi ad Amina di aver già incontrato una volta l’avvocato difensore. Lei si girò per guardarmi, confusa. Dove? Qui? Mentre ci mettevamo in coda alla mensa dissi, No. A una festa, per caso. Ah, disse. Quindi non fai parte della sua cerchia sociale. Sarebbe un problema? chiesi. Lei fece una pausa. No, non credo. Ma fai attenzione. Dicono che sia molto bravo nel suo lavoro. Era il nostro turno, e lei disse, Offro io. Cosa ti va?

9.

Qualche tempo dopo venni convocata per un incontro con la difesa. Era un venerdì, uno dei giorni in cui la Corte non si riuniva. Ero in ufficio con Amina quando l’assistente di Bettina arrivò di corsa, con aria costernata. Le chiesi se fosse successo qualcosa. Niente di grave, rispose, non preoccuparti. Solo che la difesa ha bisogno di un interprete, e hanno specificatamente richiesto te. Rimasi spiazzata. Perché? chiesi, Perché me? Lei scosse la testa, non lo sapeva, ma Bettina aveva detto di accontentarli. Quando? chiesi. Adesso, disse, devi andare subito.

Radunai le mie cose e mi infilai il cappotto. Adriaan era partito da una settimana, e da una settimana abitavo da sola nel suo appartamento. Ogni sera tornavo in quella casa, salivo al secondo piano, infilavo le chiavi nella toppa e aprivo la porta. E ogni volta che entravo e appendevo il cappotto, provavo un fremito di gioia così intenso da spaventarmi. Ero tornata a casa mia solo una volta, per prendere un po’ di vestiti. Piano piano, avevo capito che da Adriaan potevo essere felice, malgrado le complicazioni, come la foto di Gaby ancora sullo scaffale.

Adriaan mi aveva mandato un messaggio il giorno dopo la partenza, chiedendomi se ero da lui e se andava tutto bene. Gli avevo scritto di sì, e che ero molto contenta. Mi aveva risposto che ne era felice, e che a Lisbona faceva caldo. Subito lo avevo immaginato con i figli e con Gaby, il telefono che vibrava all’arrivo del mio messaggio, lui che controllava lo schermo di nascosto mentre erano tutti seduti in un caffè all’aperto. Gaby che si voltava pigramente per chiedere, Chi è? L’idea mi aveva fatto vergognare. Ma non mi impedì di aspettare i messaggi e le mail che seguirono, dove Adriaan raccontava un evento o l’altro, o dove esprimeva l’intensità dei suoi sentimenti nei miei confronti. Quelle piccole missive mi tenevano ancorata all’appartamento, anche se mi chiedevo perché non mi telefonasse mai.

Non aveva nemmeno accennato alla data del suo ritorno, Vado via per una settimana, forse di più. Ora la settimana era passata. Lasciai la Corte, camminai sotto la pioggia fino alla fermata d’autobus più vicina e ne presi uno diretto al centro di detenzione, dove consegnai la borsa alla guardia di sicurezza e venni accompagnata nella sala conferenze. L’addetta mi scortò su per una rampa di scale e lungo un corridoio, poi si fermò davanti a una porta di metallo, annuendo alla guardia seduta lì fuori. Lui annuì in risposta, si alzò e bussò. Avanti, disse quasi subito una voce; la guardia fece scattare la serratura e mi invitò a entrare.

Fui accolta da una scena che aveva la formalità di un quadro del Rinascimento – gli uomini erano riuniti intorno a un grande tavolo ricoperto di documenti. Molti erano seduti, mentre l’ex presidente era in piedi da un lato. Mi puntò lo sguardo addosso mentre ero ancora sulla soglia. Sembrava presente l’intera squadra legale, o comunque una buona fetta, incluso Kees, che mi guardò entrare senza lasciar trapelare nulla, nemmeno un accenno di riconoscimento. In un angolo c’era una telecamera di sorveglianza, l’occhio lucido registrava tutto. La porta si richiuse da sola alle mie spalle.

Dopo un lungo momento in cui mi chiesi se non fossi stata convocata per sbaglio, visto che in quella stanza erano già tutti immersi nella riunione e nessuno sembrava avere davvero bisogno di me, l’ex presidente parlò. Grazie di essere venuta, disse in francese. Vidi uno degli uomini seduti rivolgere uno sguardo a Kees, che si trovava dalla parte opposta della stanza rispetto all’ex presidente. Uno degli avvocati si schiarì la gola e mi chiese di sedermi. Riempì d’acqua un bicchiere, e mentre lo prendevo mi accorsi di essere arrossita. Bevvi un sorso. Quando abbassai il bicchiere vidi che Kees mi stava ancora fissando. Aveva un’espressione neutra, e distolsi in fretta lo sguardo.

Lentamente, l’ex presidente si avvicinò e si sedette accanto a me. Indossava una polo e un paio di pantaloni sportivi, e aveva un maglione granata annodato al collo, come al country club. Si sporse verso di me con fare cospiratorio, indicò Kees con un cenno della testa e disse, Il suo francese è tremendo, molto peggio di quanto lui pensi. Io non risposi. L’ex presidente si schiarì la gola, e rivolto alla sala disse, Andiamo avanti. Uno degli avvocati iniziò. Aveva una parlata scandita, tipica dell’alta società inglese, e non troppo veloce, da quel punto di vista tradurre era facile. La cosa da tenere a mente è che il processo potrebbe continuare per mesi, anni. In un caso come questo, la narrazione di un processo funziona in modo diverso. Non è semplice come raccontare una storia convincente. Ero seduta accanto all’ex presidente, e indirizzavo le parole al suo orecchio, con un bloc notes e una penna in mano. Lui era appoggiato allo schienale della sedia, lo sguardo sull’avvocato le cui parole interpretavo.

Ricordate che anche i giudici sono consapevoli di come una storia possa variare nel corso degli anni – il processo percorre varie strade, la storia cambia, e la memoria è inaffidabile. È impossibile ricordare tutti questi piccoli mutamenti. Il vantaggio può andare fin troppo facilmente a chi riesce a prendere slancio all’ultimo momento. L’avvocato fece una pausa. Di conseguenza, a tutela di tutto questo esistono alcuni provvedimenti, che comportano allo stesso tempo pericoli e opportunità. Alla fine di ogni giornata, viene presentata una documentazione. Queste documentazioni vengono fascicolate e sono di estrema importanza per il processo.

Rivolse uno sguardo alla stanza. Quindi, per quanto l’istinto ci spinga a creare una narrazione convincente nell’arco delle giornate, delle settimane, dei mesi del processo, non vinceremo se non teniamo d’occhio cosa succede a livello quotidiano. Quali prove vengono inserite nella documentazione. Servono strategia e tattica. Perciò – e qui guardò direttamente l’ex presidente – per quanto sia fondamentale concentrarsi sul disegno generale, e per quanto desideriamo concentrarci sulla storia che viene raccontata fuori dalle pareti dell’aula, dobbiamo procedere con questa consapevolezza in testa. La nostra vittoria o la nostra sconfitta stanno in quelle documentazioni. Non nelle... performance, diciamo, dei nostri testimoni più recenti, che seppur gratificanti a livello personale, non hanno portato nulla al nostro caso.

L’avvocato si schiarì la gola, e prese un dossier mentre aspettava che finissi. Accanto a me, l’ex presidente era perfettamente immobile. Ero abbastanza vicina da vedere la trama della sua pelle, i particolari dei lineamenti, sentivo il profumo del sapone che doveva aver usato quel mattino. Mentre gli parlavo all’orecchio, il più rapida e discreta possibile, non si mosse. Sapevo che tutti stavano aspettando me. Pensai a quanto fosse diverso il lavoro in presenza rispetto a quello in cabina, dove ci veniva richiesto di scandire chiaramente ogni parola per il pubblico, per le registrazioni. Qui parlavo per mormorii e sussurri, la comunicazione aveva come un lato nascosto. Finii in fretta e rimasi in silenzio.

Non riuscivo a capire cosa provasse l’ex presidente, se avesse accettato o addirittura compreso quel consiglio piuttosto tecnico, e di certo controintuitivo, dell’avvocato. A un primo e anche a un secondo sguardo, la Corte sembrava una sede fatta apposta per la persuasione narrativa. L’ex presidente non reagì né in un modo né nell’altro, e dopo un po’ l’avvocato riprese a parlare. Seguì un’altra discussione molto tecnica, dal contenuto oscuro, e con il passare dei minuti cominciai a non capire più di cosa si stesse parlando davvero.

Non era di aiuto il fatto che interpretare può dar adito a un profondo disorientamento. Ci si concentra così tanto sulle minuzie, sul cercare di attenersi il più possibile alle parole dette prima dal soggetto e poi da se stessi, che si rischia di non comprendere il senso delle frasi: non si sa cosa si stia dicendo, letteralmente. Il linguaggio perde significato. Era quello che stava accadendo a me, nella sala conferenze. Ero assorta nel compito, nel decodificare un gergo giuridico che avvolgeva il contenuto della conversazione in modo così stretto che nulla entrava e nulla trapelava. Eppure – mentre guardavo il bloc notes davanti a me, pieno di segni stenografici – qualcosa trapelò. Vidi le parole che ripetevo ormai da venti minuti, incursione transfrontaliera, fossa comune, giovani armati.

Presi il bicchiere d’acqua. Ora stava parlando uno degli associati – una compatta ondata di parole che mi si riversò addosso mentre svuotavo il bicchiere, me ne versavo un altro e finivo anche quello. Posai il bicchiere, avevo perso il filo, guardai di nuovo il bloc notes, come se potessi trovarvi un indizio. L’associato si interruppe di colpo, l’ex presidente si girò a guardarmi. Tutto bene? chiese l’associato, tagliente. Mi serve solo un attimo, dissi. Possiamo tornare indietro a... L’associato rispose con impazienza, Sì, sì, certo, a che punto? Si scambiò un’occhiata con Kees, che mi guardava a braccia incrociate. Era stato zitto tutto il tempo, e in quel momento parlò. Facciamo una pausa. Cinque minuti? Tutti si alzarono all’istante, come se a loro volta avessero aspettato solo una scusa per fermarsi.

Con mia sorpresa, anche l’ex presidente si alzò e uscì dalla porta, sembrava assolutamente libero di farlo. Lo guardai allontanarsi. Rimasi seduta, anche se avrei avuto bisogno di una boccata d’aria fresca, forse più degli altri. La stanza si era quasi svuotata quando mi accorsi che Kees era rimasto, l’unico. Si avvicinò e si fermò davanti a me. So che la convocazione è stata senza preavviso grazie, disse. Io annuii, ero cauta, aveva un tono indefinito, volutamente ambiguo; i modi erano familiari, sì, ma dall’atteggiamento o dalle parole non capivo se mi avesse riconosciuta. Avrei potuto fargli tutte le domande che volevo, o affrontare la questione io stessa, ma non eravamo in una situazione neutrale. Kees era in una posizione di considerevole potere, sarebbe bastata una sola sua lamentela e il mio contratto non sarebbe stato prolungato, forse addirittura rescisso.

Lui è contento, disse all’improvviso Kees. Sembra quasi trovare rassicurante la presenza dell’interprete. Cercai di non trasalire, sapevo che Kees mi stava osservando con attenzione. In testa mi passarono di nuovo varie parole – esecutore, scorreria, pulizia etnica. Ma questa non è l’unica ragione per cui ci è utile un interprete qui, continuò Kees. Incrociò le braccia e fissò il pavimento. Le reazioni di chi è estraneo a tutto ci aiutano a capire quale impatto emotivo possano avere le prove e le testimonianze. In un certo senso, noi ormai siamo assuefatti. Rivolse un gesto della mano ai documenti sparsi sul tavolo. Anche se dobbiamo occuparci soprattutto di tecnicismi, è importante tenere a mente la componente emotiva. Le reazioni di un’estranea sono un buon promemoria di quanto siano mutevoli i sentimenti verso un caso come questo.

Kees pronunciò la parola sentimenti con un leggero ma evidente disprezzo. Poi mi guardò. Bene, disse, e ora aveva un accenno di sorriso sulle labbra, noto un’aria familiare, ci siamo già incontrati? Rimasi in silenzio mentre si avvicinava. Si sedette sul bordo del tavolo, le gambe piegate verso di me, il corpo a pochi centimetri. Mi chiesi quante volte avesse già fatto quelle mosse, al tempo stesso volgari e anonime. Ero sempre più sicura che non si ricordasse di me, e che avesse abbordato in quel modo centinaia di donne, ci siamo già incontrati? Sentii un rumore nel corridoio e mi voltai per guardare, alcune voci si avvicinarono e poi si allontanarono di nuovo, era solo qualcuno di passaggio.

Ma bastò perché Kees si alzasse di scatto e tornasse al lato opposto del tavolo. Aveva cambiato modo di fare, si mise a sfogliare documenti con aria accigliata. Stavo per alzarmi quando mi guardò e disse all’improvviso, Ti vedi ancora con Adriaan? Le sue parole sembrarono rimanere sospese in aria, non avevano nulla di particolare, anche se forse le pronunciò con eccessiva noncuranza. Ancora prima di alzare lo sguardo, però, sapevo che negli occhi di Kees avrei trovato un tocco di malizia, e quando i nostri sguardi si incontrarono fu proprio così, probabilmente c’era sempre stato. In quel momento rientrarono gli altri, e Kees tornò ai suoi documenti prima che potessi rispondergli. Dopo un verso di leggera irritazione, alzò gli occhi e disse con decisione, Tutti dentro, per favore. Siamo in ritardo. Non sprechiamo altro tempo.

L’ex presidente si sedette accanto a me. Mi rivolse un cenno della testa e io feci altrettanto. Poi sospirò, si passò una mano sulla faccia. Si voltò verso di me e chiese nel suo calmo ed eufonico francese, Le sta bene tutto questo? Indicò il tavolo, forse l’intera stanza, e il suo sguardo cadde sul mio bloc notes e sulle parole scritte, parole che non poteva in alcun modo distinguere essendo in stenografia, ma il cui contenuto conosceva fin troppo bene. Trasalì, come imbarazzato, poi fece uno strano gesto implorante con le mani. È molto, lo so. Ma sembra peggio di quanto sia in realtà, la lingua non ha sfumature. Si rabbuiò, gli occhi ancora sul bloc notes. Una sola parola – colpevole – per così tante azioni diverse, commesse per così tanti motivi diversi.

Scosse la testa e sospirò. Certo, non sono io a doverglielo dire, proseguì. Sono i suoi strumenti del mestiere, è lei a lavorare con le parole. Nella stanza, gli altri parlavano a bassa voce o studiavano i documenti. L’ex presidente era in attesa di una mia risposta. Esitai e poi dissi, Il mio lavoro consiste nel ridurre il più possibile la distanza tra le lingue. Non era il commento che avrei voluto fare, era una dichiarazione così astratta da non dire quasi nulla. Eppure era vera: non avrei offuscato il significato di quello che l’ex presidente aveva fatto, di quelle parole che riteneva così carenti. Il mio compito era assicurare che non ci fossero vie di fuga tra le lingue.

L’ex presidente rimase fermo, sembrava aspettare che continuassi. Ma io non dissi altro, e alla fine lui guardò Kees e disse, riluttante, stanco, Bene. Proseguiamo? A quel punto capii che era annoiato, annoiato dalla litania dei suoi stessi crimini, annoiato dalla fabbricazione di una strategia legale che pure avrebbe potuto dargli la libertà. Passò in rassegna gli avvocati intorno al tavolo, non li sopportava perché erano la manifestazione fisica della sua colpevolezza, di cui dubitavo poco. Voleva liberarsi di quegli uomini che lo vessavano sui minimi particolari delle sue azioni, proprio come voleva liberarsi delle sue responsabilità.

Ecco perché trovava calmante la mia presenza. Non perché avesse bisogno di me come interprete, e nemmeno perché fossi una divertente distrazione, ma perché desiderava qualcuno che lo accompagnasse in quelle lunghe ore, qualcuno che non insistesse nell’esaminare le sue azioni passate, da cui non poteva più scappare. E capii che per lui non ero che uno strumento, una persona senza volontà né giudizio, un’area senza coscienza in cui rifugiarsi, la sola compagnia che ora poteva sopportare – questo era il motivo per cui aveva richiesto la mia presenza, questo era il motivo per cui ero lì. Volevo alzarmi e andarmene, spiegare che c’era stato un errore. E mi vidi farlo. Ma solo nella mia testa. Non andò così. Rimasi al mio posto, interpretai per l’ex presidente, in quella stanza, con quegli uomini, fino a che non ebbero più bisogno di me.

10.

L’inaugurazione di Jana al Mauritshuis era più affollata del solito, forse per via del tema della mostra, serioso e ironico al tempo stesso. Il compito non facile di Jana consisteva nel riuscire a portare al museo un maggior numero di visitatori, nel trovare il modo di riallestire la collezione permanente allo scopo di attirare un pubblico più giovane e vasto.

Era con quella direttiva in testa che aveva concepito la mostra, intitolata Slow Food, la prima del museo dedicata a nature morte di cibo. Jana riconosceva che il concetto e il titolo in particolare erano una sorta di stratagemma, del tutto diversi dalle prime due mostre che aveva curato. Ma insisteva nel trovarla un’idea di gran valore. È un tema evidente nella pittura del Secolo d’oro, un genere ben preciso, aveva detto, anche se titoli come Natura morta con formaggio, mandorle e pretzel fanno pensare a una scultura di Jeff Koons. Lo trovo interessante in sé e per sé. C’è un sacco da dire su classe, consumo e cultura dell’esibizione.

Guardai la gente riunita nell’atrio del museo, erano tutti in abiti firmati e tutti armeggiavano con gli smartphone. Bevevano vino e gravitavano intorno al busto di Johan Maurits, che aveva fondato il museo con una fortuna accumulata grazie al commercio transoceanico di schiavi e all’espansione del Brasile olandese. Jana mi aveva raccontato tutta la storia nel corso di una precedente visita. Lei avrebbe voluto che lo rimuovessero, visto che non solo celebrava un colonialista commerciante di schiavi, ma non era nemmeno una bella opera d’arte. Ero d’accordo, trovavo che Maurits, in quella versione di Bartholomeus Eggers, avesse un aspetto particolarmente pomposo, con quelle guance, le labbra increspate e l’abito elaborato. Fissava il vuoto, una mano sul petto. Gli ospiti circondavano la scultura, ma nessuno sembrava farvi caso, la storia era presente ma ignorata. Sotto i miei occhi, un uomo in giacca e cravatta sbadigliò e sfiorò il busto prima di ricomporsi con aria stanca.

Salii al piano di sopra. Vidi Jana in fondo alla sala, impegnata in una fitta conversazione con due donne dai capelli biondi acconciati alla perfezione, entrambe in tailleur e tacchi alti, come se fossero appena arrivate dall’ufficio. Dal modo in cui Jana le seguiva, annuendo entusiasta ma con un sorriso rigido e vuoto, dovevano essere due benefattrici del museo. Non volevo interromperle, e quindi mi spostai nella sala successiva, che ospitava la collezione permanente. Era vuota, e proseguii la visita indisturbata, mentre il brusio della folla si affievoliva.

Il Mauritshuis aveva sale non molto grandi, con un che di domestico se paragonate agli spazi espositivi di alcuni musei, così vasti da imporre quasi una cappa di sublimità a chi li visitava. Decisi che preferivo l’intimità di queste stanze, più adatte ai quadri non solo per le dimensioni – alcuni non erano più grandi di un foglio di carta, dipinti che si vuole guardare da vicino, che non si può fruire da lontano – ma anche perché recavano un’impronta molto personale. A differenza dei dipinti nella mostra di Jana, le tele qui ritraevano soprattutto figure umane, uomini, donne e bambini.

Le pose erano artificiose, ma non toglievano nulla all’intimità dei quadri – anzi, proprio lo stare in posa, la relazione insita nell’atto, creava una sensazione di inspiegabile confidenza. In alcuni casi era evidente che i soggetti stessero posando per l’artista, guardavano dritti in quello che io definivo l’obiettivo, in camera, anche se era un concetto anacronistico, perché davanti a sé non avevano una macchina, bensì il pittore stesso. L’idea era quasi fin troppo personale, uno sguardo umano così prolungato esulava dal mondo dell’esperienza contemporanea.

Per quel motivo, i dipinti aprivano una dimensione che in genere non si vede nelle fotografie. In quei dipinti, si sentiva il peso dello scorrere del tempo. Ferma davanti al quadro di una ragazza in penombra, pensai fosse quella la ragione per cui il suo sguardo aveva qualcosa di circospetto e insieme fragile. Non era la contraddizione di un solo istante; piuttosto, era come se il pittore l’avesse colta in due stati d’animo differenti, due umori diversi, e fosse riuscito a contenerli in un’unica immagine. Doveva esserci stata una moltitudine di istanti simili catturati sulla tela, tra il momento in cui la ragazza si era seduta davanti al pittore e quello in cui si era alzata dopo la sessione finale, con il collo e il busto irrigiditi. Forse era quella stratificazione – una specie di sfocatura temporale, o di simultaneità – a distinguere in definitiva la pittura dalla fotografia. Mi chiesi se fosse la ragione per cui trovavo la pittura contemporanea così piatta, priva della misteriosa profondità di quelle opere, visto che moltissimi artisti odierni lavorano a partire da fotografie.

Passai al quadro successivo, che ritraeva una giovane donna seduta accanto a un tavolo, il volto illuminato dalla fiamma di una candela – la fronte larga e le guance tonde bagnate dalla luce dorata, le nette pieghe della camicetta bianca quasi accecanti. L’artista aveva fatto un uso del chiaroscuro davvero straordinario, almeno al mio occhio inesperto – non avrei saputo descriverne con precisione le caratteristiche, ma la luce sembrava tridimensionale, sembrava estendersi oltre la cornice del quadro, fino a dare l’impressione che la tela stessa fosse la fonte di illuminazione. Alle spalle della giovane donna c’era un uomo; appoggiato al tavolo in una posa disinvolta e volgare, un po’ lasciva, sembrava invadere lo spazio personale della giovane, che però non l’avrebbe definito spazio personale. Anche questo era un anacronismo.

Mi avvicinai al quadro. La donna – più una ragazza, in realtà – stava ricamando, un lavoretto domestico che non pareva interessare il giovane in cappello e tunica da cosacco. Il suo sguardo era rivolto a lei, era lei l’oggetto del suo interesse, non il lavoro di ricamo. La ragazza era in bianco, lui in nero, il simbolismo era piuttosto chiaro, ma l’esatta natura di quell’incontro mi risultava opaca. Sbirciai la targhetta con il titolo – quei quadri avevano in genere titoli descrittivi, mai molto poetici, privi di quella forzata nebulosità dei titoli di arte contemporanea. Sulla targhetta c’era scritto Uomo che offre denaro a una giovane donna.

Tornai a guardare il dipinto. Questa volta notai che l’uomo aveva delle monete nella mano a coppa, e le porgeva con discrezione alla ragazza, mentre con l’altra mano le tirava leggermente il braccio, come per distoglierla dal lavoro e metterla davanti alla sua proposta. Notai la rara capacità con cui l’artista aveva trasmesso le sfumature di forza e resistenza – la teatralità della mano che le tirava il braccio, la postura rigida della ragazza, i suoi occhi aperti e spaventati.

La tensione del dipinto, però, non stava nella perfetta coerenza con cui era stato reso il momento del contatto, ma nell’incoerenza al cuore dell’immagine. Per quanto a lungo osservassi il quadro, non riuscivo a conciliare l’assoluto pudore della giovane donna, che aveva scoperte solo faccia e mani, con l’offerta e i modi osceni dell’uomo. Le stava solo proponendo di comprare il tessuto ricamato? Se fosse stato così, perché la ragazza aveva quell’espressione di paura? Perché manteneva quella concentrazione, così fragile e carica di significato, come se fosse l’unico modo di rifiutare a sua disposizione?

Guardai di nuovo la targhetta, con sorpresa vidi che il quadro era opera di una donna, Judith Leyster. Non l’avevo mai sentita nominare, pur sapendo che era insolito per una donna raggiungere una certa fama nel Secolo d’oro. Perfino adesso era raro che una pittrice raggiungesse lo status dei colleghi maschi. Secondo la targhetta, Leyster era nata nel 1609. Il quadro era datato 1631: l’aveva realizzato a soli ventidue anni. Sembrava un miracolo che l’avesse dipinto una persona sotto i venticinque anni, non solo per la tecnica sorprendente – per quanto straordinario aver raggiunto quel grado di maestria così giovane – ma per l’ambiguità dell’immagine stessa.

Tornai alla tela, e mi venne in mente che solo una donna avrebbe potuto realizzare quell’immagine. Il dipinto non parlava di tentazione, ma di molestia e intimidazione, una scena che avrebbe potuto aver luogo in quell’esatto momento in qualsiasi parte del mondo. Il quadro operava intorno a uno scisma, rappresentava due inconciliabili punti di vista: l’uomo, che la riteneva una scena di passione e seduzione, e la donna, immersa in uno stato di paura e umiliazione. Quello scisma, capii in quel momento, era la vera incoerenza che animava la tela, e il vero oggetto dello sguardo di Leyster.

Eccoti qua. Spaventata, mi voltai. Ero così assorta nel quadro da non aver sentito il suono dei passi nella sala. Davanti a me c’era Jana. Non ci vedevamo dalla cena con Adriaan, più di un mese prima. Era stata impegnata con la mostra, e anche se le avevo mandato vari messaggi non l’avevo sentita fino a quando non mi aveva chiamato lei per assicurarsi che venissi all’inaugurazione e alla cena successiva, con i suoi soliti modi diretti e affascinanti. Le avevo detto che ci sarei stata, mi era mancata la sua compagnia e volevo parlare con lei di Adriaan. Nell’ultimo mese le cose erano andate storte, e la forma e il significato della sua assenza avevano cominciato a cambiare.

Le settimane erano diventate due, senza spiegazioni, solo una brevissima scusa. Mi sentivo già vulnerabile, e la mia inquietudine era stata nettamente aggravata da un altro incontro con Kees. Meno di una settimana dopo la mia prima seduta con l’ex presidente, ero stata di nuovo convocata per una riunione con la difesa. Quando avevo lasciato la stanza, Kees mi aveva rincorso nel corridoio. Nel raggiungermi aveva rallentato il passo, con un’espressione di leggera sorpresa, come se mi avesse incrociata per caso, come se non avessimo appena trascorso svariate ore insieme e non mi avesse appena inseguita. D’istinto, avevo accelerato un po’ l’andatura. Mi era stato dietro fino a quando non mi ero fermata e non l’avevo guardato in faccia, esasperata.

Volevo solo chiederti come stai, disse. Sembrava offeso, e subito mi venne il dubbio di aver reagito in modo esagerato. Intrecciò le mani in modo innaturale, un filo minaccioso. Immagino sia difficile, per te.

Va tutto bene, dissi seccamente.

Davvero? Ma sì, forse hai ragione. Fece una pausa, scrutando la mia faccia con avidità. Vedrai che Adriaan non ce la farà. Gaby è presissima dal suo nuovo uomo.

Fu come se mi avessero colpito in pieno petto.

Non credo di capire.

Capire cosa? È come ho detto. Non la riconquisterà.

Ma lui è...

Cosa, ancora innamorato di lei? Precipitarsi in Portogallo è di sicuro un gesto significativo. Gaby mi ha chiamato quella sera stessa, ha trovato la cosa molto irrazionale e sconveniente, a quanto pare il suo nuovo uomo è incline alla gelosia. Indietreggiai un po’ mentre Kees ripeteva
nuovo uomo in tono allusivo. Scosse la testa e mi sventolò un dito in faccia. Ha mandato tutto all’aria, il nostro amico Adriaan, presentandosi così. E poi, i figli... Kees smise di parlare, evidentemente erano un argomento troppo banale da affrontare.

Immagino che saranno felici di vederlo, dissi. Avevo la bocca secca, e parlai in modo freddo e incerto.

Sì, be’, per i ragazzi è così, no? Proseguì in fretta, nonostante quelle parole avessero poco senso. Ma ora basta parlare di Adriaan, disse con un sorriso, avvicinandosi. Posso invitarti a bere qualcosa?

La sfacciataggine di quell’uomo mi calmò e al tempo stesso mi strabiliò, aveva una tecnica incredibilmente ripetitiva, ogni volta la stessa: faceva leva sul disorientamento. Una strategia trita e al tempo stesso efficace, in effetti mi sentivo disorientata, anche se non come sperava lui. Mi scusai e corsi fuori dall’edificio, recuperando la borsa dalla guardia. Tirai fuori il telefono e scrissi ad Adriaan, Tutto ok? Lui rispose subito, Sì, bene. E poi più niente.

Non sapevo cosa fare, ancora meno cosa pensare. Adriaan mi aveva già detto che le cose con Gaby erano complicate, e quando i giorni erano diventati settimane e poi un mese intero cominciai a sospettare che la situazione tra loro si stesse rinsaldando, anziché indebolirsi. Possibile che Adriaan avesse cambiato idea? Possibile che non mi avesse raccontato tutta la verità? Non era quello che avevo sperato, ora ero consapevole di essere in una posizione precaria. Se Jana mi avesse chiesto come andava con Adriaan, avrei potuto darle un sacco di risposte diverse: che non lo sapevo bene, che mi ero trasferita nel suo appartamento, che l’intera faccenda era sul punto di estinguersi o quasi.

Ma Jana non mi chiese nulla, almeno non in quel preciso momento. Era in compagnia di una donna che non conoscevo, elegante, vestita con stile, il genere di donna che avrei potuto ammirare di nascosto per strada. Volevo presentarti Eline, disse Jana. La donna sorrise dandomi la mano, e anche se ero distratta capii subito che mi piaceva. Ti stai annoiando? chiese Jana. Scossi la testa, No, mi sono fatta prendere da questo quadro, e indicai il Leyster. Non lo avevo mai notato, chissà perché.

La proposta, disse Jana. Di solito lo chiamano così. È un’opera stupenda. Leyster fu un caso unico – una delle prime donne ammesse nella gilda di San Luca, una delle prime a raggiungere una certa fama da viva. Dopo la morte, però, molti dei suoi dipinti furono attribuiti ad altri, e l’errore è stato corretto solo alla fine dell’Ottocento. E poi? chiesi. Jana scrollò le spalle. Be’, i suoi quadri sono qui. Suppongo sia conosciuta, anche se non tanto quanto meriterebbe. Annuii, vidi che anche Eline osservava il quadro. Tu hai finito? chiesi a Jana, e lei scosse la testa, No, devo tornare di là. Ma rimani per cena? Annuii, ma Jana si stava già allontanando, e capii che aveva voluto presentarmi Eline così entrambe avremmo avuto qualcuno con cui chiacchierare.

Jana ha un talento per l’amicizia, disse Eline. La esige. Ridemmo tutte e due. Parlava in modo gentile e insieme diretto, e ci trovammo subito a nostro agio. Nella breve pausa che seguì, mi resi conto che Jana se n’era andata senza creare nessun terreno comune tra di noi, non sapevo nulla della donna accanto a me. Cominciammo a camminare, mentre Eline indicava i dipinti nella galleria. Sembrano tutti immersi in un’atmosfera tranquilla, mi disse, ma non era un periodo privo di disordini. L’impero olandese era in rapida espansione, e per vari aspetti questi quadri si ispirano a quel contesto. E così l’imperturbabile atmosfera domestica di questi silenziosi interni assume un significato diverso. Il messaggio era di non guardare fuori, di voltare le spalle alla tempesta che montava all’esterno.

Le dissi che sembrava intendersi molto di quell’epoca, e lei sorrise. Sono una storica dell’arte, insegno all’università. Mi sorprende non aver conosciuto Jana prima, L’Aja è una città piccola e la sua scena artistica lo è ancora di più, ma d’altra parte non abita qui da molto. Però sapevo della sua nomina, aggiunse. Mentre passavamo di sala in sala, tornando senza fretta verso la mostra di Jana, chiesi a Eline cosa ne pensasse. Ha fatto un lavoro eccellente, disse Eline. Sia con la mostra che con la sua carica. Non è facile, quello che le chiedono di fare. Deve modernizzare l’istituzione, ma anche soddisfare noi storici dell’arte. Le chiesi se si fossero conosciute per lavoro, e lei disse, No, ci siamo conosciute in modo diverso, del tutto inaspettato. Non aggiunse altro, e io non me la sentii di insistere, potevano essersi incontrate in mille modi; come aveva detto lei, L’Aja era una piccola città.

Avevamo raggiunto la mostra, che si stava svuotando. Un usciere si avvicinò e ci chiese se partecipavamo alla cena, e in caso affermativo se potevamo gentilmente dirigerci al piano inferiore. Eline e io ci guardammo, Jana non si vedeva, e dopo un momento scendemmo nell’atrio del museo, dov’era stata allestita una raffinata scenografia. C’erano lunghi tavoli da banchetto con tovaglie bianche, servizi di porcellana e candele. In vari punti dell’atrio il cibo era stato disposto in modo da imitare alla perfezione le opere in mostra.

Sembra la storia di Zeusi e Parrasio al contrario, disse Eline con un sorriso divertito. Cercai di ricordarmi a cosa si riferisse, era qualcosa che avevo studiato a scuola, la storia di una gara per decretare il miglior pittore dell’Antica Grecia. Ricordavo che Zeusi aveva dipinto dei grappoli d’uva in modo così realistico che alcuni uccelli erano atterrati per beccare la tela. Ma era solo metà della storia, non riuscivo a ricordare il resto, cosa avesse dipinto Parrasio, il rivale. L’immagine degli uccelli che scendevano in picchiata sulla folla, delle ali che sbattevano contro la tela, aveva oscurato il resto del racconto. In ogni caso, come Eline aveva detto, l’allestimento nell’atrio era senza dubbio una perfetta inversione del dipinto realizzato da Zeusi: intorno a ogni scena era stata addirittura sistemata una cornice, attraverso cui gli ospiti potevano infilare un braccio e prendere un pezzo di formaggio, una porzione di carne o, per l’appunto, un acino d’uva.

Ero certa che Jana fosse contenta, era un’esibizione notevole, addirittura fastosa. La sala era piena di ospiti deliziati, di rumore e chiacchiere di gradimento. Jana comparve dietro di noi in quel momento, mettendomi un braccio sulle spalle, e ci chiese cosa ne pensassimo. Eline disse subito che era tutto meraviglioso, e Jana spiegò che avevano dato l’incarico di realizzare i diorama a una food artist, una giovane donna che aveva studiato alla Rijksakademie e che adesso veniva chiamata da tutte le grandi biennali. Jana fu risucchiata via prima che potesse continuare, vidi che era galvanizzata dal successo della serata. Non c’erano posti a sedere, solo una torre di piatti impilati su un tavolo al centro dell’atrio. Gli ospiti si affollavano intorno ai dipinti con il piatto in mano, afferrando pezzi di carne e formaggio attraverso le varie cornici, una scena assurda e molto divertente.

Pensai ad Adriaan, mi venne in mente che quello era il mondo in cui aveva vissuto con Gaby. Li immaginai muoversi per la sala con naturalezza, entrambi già a conoscenza della maggior parte dei presenti. Sotto alcuni aspetti era il loro mondo, più che quello di Jana. Provai un’improvvisa paura. Io non facevo parte di quel mondo. Ebbi una visione di Adriaan, di nuovo insieme a Gaby. Intanto avevano cominciato a formarsi delle code. Andiamo? chiese Eline con gentilezza, come se si fosse accorta della mia distrazione. Quel Clara Peeters ha un bell’aspetto.

Indicò una composizione di formaggi e disse, ridendo, Credo che la nostra cena sarà a base di pane e formaggio, il pesce e le aragoste sono stati già spazzolati. Era vero, commensali soddisfatti si stavano già sedendo ai lunghi tavoli con i piatti pieni di cibo. I camerieri si aggiravano con brocche di vino, era stato pensato a tutto. Ci mettemmo in coda, poi infilammo un braccio nella cornice per tagliare via pezzi di formaggio. Eline prese una mela
e qualche altro frutto da un altro quadro, È tutto allestito a meraviglia, mormorò mentre addentava una pesca e sondava la scena. Se ci fai caso, la luce è stata orientata in modo da imitare quella del dipinto. Indicò i faretti in alto. Perfino la devastazione ha qualcosa di buffo e interessante, non si vedono mai i dipinti ridotti in questo stato.

Poco dopo Jana ci raggiunse. Si sedette accanto a me e si sfilò le scarpe con il tacco. Che serata, disse. Sembrava stanca, le parole erano un po’ ambigue, non si capiva se l’evento fosse stato un successo o un disastro. Eline disse, È un grande successo, devi essere contentissima. Jana si sporse in avanti con entusiasmo. Che ne pensi della mostra? chiese. Eline le prese le mani, È un trionfo. C’era una grande bontà nei suoi occhi, e anche se non dubitavo che le sue parole fossero sincere, vedevo che sapeva bene quanto significassero per Jana. Jana annuì, come sollevata, e poco dopo Eline si alzò e disse che per lei era ora di andare. È stato un grande piacere conoscerti, mi disse, e anche se era una frase di semplice circostanza, sentii di nuovo che era sincera. Ti andrebbe di rivederci? disse, e Jana aggiunse subito che ci avrebbe messe in contatto.

Eline sorrise e ci augurò la buonanotte. Mentre la guardavamo andare via, Jana sbadigliò. L’atrio si era svuotato e lei sembrava aver timbrato ufficialmente il cartellino. Prese un bicchiere di vino. Non è adorabile? Ti è piaciuta? chiese. Molto, dissi. Come vi siete conosciute?

Era davanti al mio palazzo.

In che senso?

Suo fratello è l’uomo che è stato aggredito... ricordi, quella rapina, il mese scorso.

La guardai, ammutolita.

Non te l’ha detto? Jana bevve dal bicchiere. È così che ci siamo conosciute, era davanti al mio palazzo, forse una settimana dopo l’aggressione. Si vedeva che non era del quartiere, ho pensato si fosse persa, o qualcosa del genere, così mi sono fermata e le ho chiesto se stava bene. Lei mi ha guardato e poi è scoppiata in lacrime. Siamo andate in un locale dietro l’angolo e mi ha raccontato che il fratello era stato aggredito e picchiato lì dietro, ed era rimasto in ospedale per più di una settimana.

Jana si sporse verso di me e mi strinse una mano, calorosa e affettuosa. Sai, mi dispiace non averti più chiamata. La mostra mi ha preso tutto il tempo.

Ma lui sta bene? chiesi. Il fratello?

Il fratello di Eline? Credo di sì, disse scrollando le spalle. Però non credo ci siano progressi nelle indagini. Lui non ricorda niente. Non sa nemmeno perché si trovasse in quel quartiere, cosa ci fosse venuto a fare. È un mistero assoluto.

Un cameriere si muoveva tra chi restava degli invitati, distribuendo piatti di torta di semi. Jana ne prese due e me ne porse uno. Cominciò a mangiare, doveva avere una gran fame. Come sta Adriaan? chiese tra un morso e l’altro. Parlò senza guardarmi, ma non c’era niente di falso nel modo disinvolto in cui me lo chiese, era troppo stanca per sentirsi in imbarazzo. L’ho trovato molto carino, disse, e lo disse con tale concretezza da farmi pensare che mi fossi immaginata tutto, la complicità, il flirtare. È un uomo gentile. Cosa rara. Diede un altro morso alla torta e poi mi guardò. Non trovi? Annuii. Per qualche ragione, non seppi cos’altro rispondere. Ma presi le sue parole per vere. Più tardi, mandai un messaggio ad Adriaan, gli chiesi quando sarebbe tornato, e poi gli chiesi come andavano le cose con Gaby, con il suo matrimonio.

11.

Adriaan non rispose al messaggio. Passò un giorno intero, e dopo aver controllato per l’ennesima volta il telefono sperando in una risposta, lo posai e mi guardai intorno. Vivevo a casa di Adriaan da più di un mese, eppure non avevo fatto quasi nessun cambiamento. Mi accorsi
di aver occupato lo spazio nel modo più discreto possibile, come per mostrare ad Adriaan con quanta facilità mi sarei inserita nella trama della sua vita, quanto poco disturbo avrei causato al suo ritorno. Rendersene conto fu umiliante. Ero una donna in attesa dell’amato, agghindata in lingerie oscena, distesa sul letto in una posa auspicabilmente seduttiva.

Provai un’improvvisa, vera rabbia verso Adriaan, che mi aveva messo in quella posizione assurda, chiedendomi di vivere nel suo appartamento, promettendomi di tornare nel giro di una settimana per poi dileguarsi in silenzio. Mi era già successo di essere ignorata da un uomo, ma da Adriaan non me lo sarei mai aspettato. Ripresi il telefono e lo riposai sul tavolo, mi guardai di nuovo intorno: era proprio così, nell’appartamento non era cambiato niente, di nuovo c’era solo il libro che avevo acquistato nel negozio di Anton de Rijk, nella Città vecchia. Avevo contribuito alla mia stessa cancellazione.

Presi il libro sulla storia dell’Aja, e lo tenni in mano. Fu allora che lo vidi per quello che era, il risultato di un breve momento in cui avevo pensato di poter avere un posto nella città di Adriaan. Lanciai il libro attraverso la stanza. L’umiliazione mi bruciò in gola per tutto il giorno, e l’indomani mi sentii esausta e demoralizzata. Mi ero fatta lasciare troppo facilmente, come una riserva messa da parte, avevo chiesto troppo poco e adesso era troppo tardi. Avevo ancora questa sensazione quando, qualche giorno dopo, ricevetti un’email da Jana, indirizzata sia a me che a Eline. Era ovvio che dovevamo diventare amiche, scriveva, e quindi ci metteva in contatto.

Feci scorrere la cronologia della mail e vidi che era stata Eline a scrivere per prima, congratulandosi con Jana per la riuscita della mostra e dicendo che era stato un vero piacere conoscermi. Mi sentii lusingata, ricordai quanto mi fosse piaciuta Eline, e risposi subito. Volevo essere distolta dai miei pensieri, credo, da tutta quella situazione impossibile. Decidemmo di vederci in un locale vicino all’appartamento di Adriaan. Quando entrai, mi venne
in mente che Eline avrebbe potuto chiedermi se vivevo in quella zona, e che non avrei saputo cosa rispondere. Il dubbio si dissolse appena la vidi. Era seduta a un tavolo vicino alla finestra, e alla luce del giorno sembrava più delicata di come mi era parsa al Mauritshuis, la pelle era ancora più chiara. Attorno agli occhi aveva qualche ruga che non avevo notato prima, forse era più vecchia di quanto avessi pensato.

Quando mi sedetti di fronte a lei, il pensiero del fratello, Anton de Rijk, mi tornò in mente come un prurito insistente. Era un uomo che non avevo mai visto, ma a cui per un po’ avevo pensato, ed Eline sembrava evocarne l’immagine fantasma. Stava bevendo una tisana, disse che di recente aveva avuto difficoltà ad addormentarsi. Annuii. Ero sicura che fosse per via del fratello, e ricordo di aver pensato che se le avessi chiesto il motivo di quel sonno disturbato lei avrebbe anche potuto raccontarmi tutto, dell’aggressione, dello stato di salute di Anton.

Dopo un attimo, chiesi, C’è un motivo in particolare? Lo feci guardandomi intorno, come in cerca del cameriere, per non dare troppo peso alla domanda. Eline scosse la testa. Soffro d’insonnia, è così da anni, ero insonne anche da bambina. Tornai a guardarla, sorrideva. Non dormivo mai nel mio letto, continuò. Strisciavo in quello dei miei genitori, mi accoccolavo sul pavimento del soggiorno, una volta i miei mi trovarono addormentata sul bancone della cucina. Rise e bevve un sorso di tisana. Ora non succede più, grazie al cielo. Ma prendo le precauzioni necessarie. Niente caffeina se non al mattino, niente schermi in camera da letto.

Fece una pausa. Non hai ancora ordinato niente, scusami. Alzò una mano e arrivò il cameriere. Chiesi un caffè, nonostante anch’io faticassi a dormire, adesso ancora di più per via del silenzio di Adriaan. Il cameriere se ne andò, ed Eline disse, Jana mi ha raccontato che sei qui da meno di un anno, che hai assunto la città in prova. Ridemmo tutte e due, citare Jana ci rese le cose ancora più facili. Come va? chiese. Pensi di rimanere? Forse, dissi, se mi rinnovano il contratto. Non parlai di Adriaan.

Di dove sei?

La mia famiglia ora è a Singapore. Prima vivevo a New York.

Annuì. E il lavoro ti piace?

A volte è complicato, dissi, pensando all’ex presidente. Gli altri interpreti avevano cominciato a chiamarmi la sua preferita; un po’ scherzavano, un po’ no. Avevo capito che per gli altri essere richiesti in quel modo significava stima, addirittura distinzione. Che simili attenzioni potessero essere considerate allettanti mi turbava, mi faceva vedere i colleghi in modo diverso, cambiava il registro dei nostri rapporti in ufficio, delle chiacchiere durante il pranzo.

Malgrado la tensione nella sala conferenze, le riunioni potevano essere oltremodo tediose, e continuavo ad avere la sensazione che l’ex presidente si annoiasse, che non prestasse attenzione alle parole che pronunciavo, che ascoltasse a malapena in generale. Avevo cominciato a chiedermi se quel processo, invece di chiarire la natura degli atti commessi dall’ex presidente, non li stesse relegando sempre di più in una sorta di irrealtà. La questione della sua innocenza o della sua colpevolezza sembrava interessare poco alla gente nella stanza, che parlava invece di gradi, cornice e contesto.

In quei momenti, a dispetto della totale indifferenza dell’ex presidente, in quella piccola sala conferenze senza finestre, tra dossier e mucchi di fogli, mi si spalancava qualcosa dentro. La natura spersonalizzata di quel compito – non ero altro che uno strumento, durante quelle ore quasi nessuno mi rivolgeva la parola, a dire il vero l’unica persona che si prendeva la briga di farlo era l’ex presidente – andava a braccetto con la strana intimità della situazione. Era un enorme paradosso, impossibile da far quadrare. Ogni volta mi avvicinavo alla sala con trepidazione, e ogni volta avevo l’impressione di non sapere cosa mi aspettasse dietro quella porta chiusa. Dal canto suo, Kees non parlò più del nostro vecchio incontro o dello scambio in corridoio, quasi non mi guardava – si comportava anche lui come se non fossi presente.

Eline stava ancora aspettando che le rispondessi.

Può essere impegnativo... da un punto di vista emotivo, psicologico.

Già, disse. Verrai a contatto con cose tremende, non oso immaginare.

A un certo punto non capisco più le parole che dico. Mi confondo – sono così concentrata sui dettagli che perdo di vista il quadro generale. Alla fine di una sessione, non saprei dirti cosa è successo o cos’è stato detto.

Il cameriere mi mise davanti una tazza di caffè.

Hai mai visto quel film, quello sull’interprete? chiese Eline quando se ne fu andato. Il colpo di scena è che, in realtà, lei è una rivoluzionaria. O l’amante di un rivoluzionario? Era un po’ difficile da seguire. Ricordo di aver pensato, che idee chiare! Alla fine l’attrice ha una pistola in mano, ogni ambiguità è crollata, sa cosa deve fare. Si fermò e sorrise. Tu non hai pistole, vero?

Scossi la testa. Niente pistole. Né idee chiare, se è per questo.

Eline scoppiò a ridere. Meglio così, direi. Mio figlio maggiore ha adorato quel film, penso si sia preso una cotta per l’attrice, è bellissima. Le chiesi quanti anni avevano i suoi figli, e lei disse, Dieci e dodici. La loro infanzia è passata in fretta, ma anche lentamente. Quando sono piccoli è estenuante, non hai più tempo per te, ma hai ancora il potere di renderli felici. Ormai non ci riesco più. Sono abbastanza grandi da capire le cose, vedono il mondo com’è. Sono più saggi, ma anche più vulnerabili.

Mentre parlava, pensai alla violenza che era entrata nella loro vita quando lo zio era stato aggredito, una violenza non confinata ai tablet o ai telefoni, non astratta, reale. Avevano dieci e dodici anni, a quell’età molti bambini hanno già affrontato la morte in qualche forma: una nonna, o un nonno, o un amico di famiglia. Ma la morte è astratta, perfino gli adulti possono non riuscire a capirla. La violenza è qualcosa di diverso, la violenza è più facile da comprendere, esiste dentro i confini dell’immaginazione.

Viviamo in tempi strani, e c’è molto di cui preoccuparsi, disse a un tratto Eline. Innanzitutto, il progetto europeo rischia di finire. Io annuii: la data del referendum sulla Brexit si avvicinava sempre di più, e i sondaggi indicavano che contro ogni logica la Gran Bretagna avrebbe votato per uscire dall’Unione Europea. Anche solo la possibilità era allarmante, non diceva niente di buono del mondo in cui vivevamo, o della longevità di istituzioni come la Corte; e non preannunciava nulla di buono nemmeno per le imminenti elezioni negli Stati Uniti. Sapevo che un voto in favore dell’uscita sarebbe stato profondamente sconcertante per i miei amici e colleghi europei. Jana era particolarmente agitata, mi aveva detto che se la Gran Bretagna avesse votato per uscire dell’Unione Europea le sarebbe stato impossibile tornare a Londra; non sarebbe più stato il paese che conosceva.

A me preoccupano le elezioni in Olanda l’anno prossimo, questo paese è famoso per la tolleranza, ma se vai a grattare la superficie... Eline si fermò. Visto l’andazzo generale, non sono ottimista.

Dev’essere difficile per te spiegarlo ai bambini, dissi.

Sì. Il padre è inutile, anzi, peggio. Con loro è brutale, non sembra rendersi conto che sono ancora piccoli, che c’è un limite a quello che possono capire. Aveva un tono amaro, mi guardava dall’altra estremità del tavolo. Sono divorziata, ovviamente. Il padre sta ad Amsterdam.

Ma i bambini vivono con te?

Vanno a trovarlo a weekend alterni. Lui viaggia molto per lavoro, quindi i weekend non sono regolari come dovrebbero. Per fortuna mio fratello e sua moglie vivono qui, all’Aja. Eline fece una pausa, il suo telefono emise un suono e lei lo prese in mano. La sua attenzione si scostò da me, e percepii lo spazio in negativo di quell’assenza. Alzò lo sguardo e disse che doveva andare via, le aveva appena scritto il figlio. In teoria avrebbero dovuto dargli un passaggio, ma è saltato tutto, e devo andare a prenderlo.

Annuii, e mi scoprii amareggiata, sebbene incerta sulla vera fonte di quell’amarezza – era perché Eline se ne andava proprio quando avevamo appena iniziato a parlare, o perché doveva ancora raccontarmi del fratello Anton? O era solo perché mi sarei trovata di nuovo sola e abbandonata a me stessa? Certo, mormorai. Eline tirò fuori il portafoglio e mise una banconota sul tavolo. Mentre facevo per prendere la borsa, alzò una mano. Per favore, disse, è solo un caffè. Si alzò e aspettò che la seguissi. Ho divorziato molto tempo fa, proseguì mentre ci dirigevamo alla porta. In effetti, è successo quando ero incinta del secondo figlio. Aveva la voce calma e serena, parlava chiaramente di un dramma ormai risolto da tempo. Ovvio che per i ragazzi sia importante stare con il padre, ma sotto molti aspetti la figura maschile più importante nella loro vita è lo zio, e sua moglie è più di una zia per loro.

Esitai, poi dissi, Sei fortunata a essere così vicina a tuo fratello. Eline sembrò tentennare un attimo prima di aprire la porta e di voltarsi verso di me. Siamo gemelli, disse. Non aggiunse altro, e camminai con lei per un po’ finché non si fermò. Dovevo avere un’espressione desolata, perché di colpo, come d’impulso, Eline disse, Perché non vieni a cena una sera? Invito anche mio fratello, così vedrai la nostra buffa famigliola in azione. Hai fratelli o sorelle?

No, dissi.

Eline annuì, come se in quel momento avesse capito qualcosa di me. Mi sono chiesta spesso come sarebbe non averne, disse. O meglio, ci ho pensato un sacco, ultimamente. Di colpo, si voltò per andarsene. Ti mando una mail, gridò da sopra la spalla, così fissiamo un giorno. Prima che potessi rispondere, era già corsa via. Mentre la guardavo allontanarsi, sentii il telefono vibrare nella borsa. Lo recuperai all’istante, con il cuore in tumulto. Lo schermo era nero e non c’erano messaggi. Forse me l’ero immaginato. Alzai lo sguardo. Eline non si vedeva più, ed ero sola. Rimasi sul marciapiede, soffiava un vento pungente, sgradevole. Contai e ricontai i giorni. Era passata più di una settimana da quando avevo chiesto ad Adriaan quando sarebbe tornato, come andassero le cose con Gaby. Più di una settimana di silenzio.

12.

Me ne andai dalla casa di Adriaan quel weekend. Non vedevo più il motivo di restare, e non mi rimaneva altra scelta. Passai in rassegna l’appartamento per radunare le mie cose – ritirai un pezzo dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro. Avevo lasciato più segni di quanto credessi; mentre piegavo vestiti e raccoglievo fogli, mi colse il dubbio. E quando ebbi fatto le valigie e mi trovai sulla soglia, al dubbio si aggiunse il rimpianto. Guardai l’appartamento dove avevo trascorso l’ultimo mese, e fui sopraffatta all’idea di non tornarci mai più. Com’era potuto accadere? Ero anche consapevole che quel sentimento avrebbe potuto sbiadire, o mutare. In un certo senso, però, era troppo tardi. Uscendo, mi accorsi di non sapere dove lasciare le chiavi. La cassetta della posta non mi sembrava abbastanza sicura, senza sapere tra quanto tempo sarebbe tornato Adriaan. E quindi, dopo aver chiuso la porta, misi le chiavi in borsa. Una piccola concessione a me stessa.

Dovetti riabituarmi al mio vecchio appartamento. Mi sentivo meno a casa lì che da Adriaan. Le stanze sembravano appartenere a un’estranea, a una persona che non riconoscevo più. La natura transitoria di quella sistemazione era più lampante di prima, come se in mia assenza
la casa si fosse svuotata, come se ora le pareti fossero di carta. Mio malgrado ero ancora in attesa che Adriaan tornasse, o almeno rispondesse al messaggio che gli avevo mandato per chiedergli se potevamo parlare.

Non gli dissi di essermene andata via da casa sua. Forse parte di me pensava che se avessimo parlato, se Adriaan mi avesse spiegato le ragioni di quel silenzio, avrei anche potuto tornare da lui, disfare le valigie come se niente fosse successo e aspettare il suo rientro. Ma non rispose, e per giorni il silenzio da Lisbona mi invase come una nebbia nel cervello. La mail di Eline, quando arrivò, interruppe per un po’ la monotonia di quell’attesa. Mi invitò a cena la settimana seguente. Ci sarebbero stati lei e il fratello, una cosa piccola e semplice mentre i figli erano dal padre e la moglie fuori città. Aveva invitato anche Jana, ma purtroppo era impegnata. Sperava che mi sarei unita a loro comunque. Risposi che sarei andata, non vedevo l’ora.

Quando arrivai, la casa era tutta illuminata. Le tende erano aperte davanti all’oscurità, come a dichiarare che chi abitava lì non aveva nulla da nascondere. Rimasi fuori e mi chiesi come sarebbe stato vivere così esposti, essere così coraggiosi. Dalla strada si poteva vedere direttamente dentro il piano terra, e, anche se non c’erano persone, la stanza sembrava un palcoscenico, con un sacco di informazioni personali nei dettagli visibili attraverso le tende, il grande tavolo della cucina e un mucchio di giocattoli, la ciotola e la cuccia di un cane.

Saltò fuori che non erano di Eline, ma degli inquilini che abitavano nell’appartamento sotto il suo. Lei viveva ai piani superiori con i figli, ovviamente troppo grandi per i giocattoli che avevo visto dalla finestra. Se ci avessi pensato un attimo mi sarei accorta dell’errore. Avrei capito che la donna incontrata al museo e nel locale, la donna il cui fratello era stato da poco aggredito finendo in ospedale, non poteva vivere in modo così naif – quella donna avrebbe chiuso le porte, tirato le tende, acceso le telecamere di sicurezza, quella donna doveva vivere in uno stato di paura e ansia considerevoli.

Non ci pensai, o non mi venne in mente, forse perché ero ancora incapace, o riluttante, a conciliare la donna che avevo conosciuto con la situazione in cui si trovava. Pensai invece alla famiglia che viveva nell’appartamento al piano terra, la loro aura di allegro caos mi accompagnava ancora quando suonai con trepidazione il campanello: era il genere di vita che avrei voluto per Eline, il genere di vita che avrei voluto per me. Quindi fu un piccolo choc quando un uomo aprì la porta e alle sue spalle vidi degli interni monocromatici, freddi e precisi, nemmeno un soprammobile fuori posto.

L’elemento più contrastante in assoluto, però, era proprio l’uomo, il fratello, Anton de Rijk. Ero andata in quella casa sapendo che l’avrei incontrato, ma mi scoprii comunque impreparata, sorpresa dalla sua apparizione. Come avevo potuto sbagliarmi a immaginare la gravità delle ferite? Come avevo potuto sorprendermi della grande e vivida cicatrice, ancora gonfia e grinzosa lungo i bordi, che gli attraversava la fronte? O del fatto che respirasse a fatica appoggiandosi alla porta, come per un polmone perforato di recente, o una serie di costole ammaccate e rotte? Aveva la faccia leggermente distorta, come se avesse riportato danni ai nervi, alcuni tratti erano corrugati, altri fuori posto. Ricordai che era stato in ospedale a lungo, Jana aveva detto più di una settimana.

Rimase fermo, appoggiato alla porta, e mi accorsi che lo stavo fissando. Annuì, come se gli avessi confermato qualcosa su di lui o su di me. Senza dubbio, in seguito all’aggressione doveva essersi abituato agli sguardi della gente. La sua faccia era una versione di quella di Eline come il negativo di una fotografia è una versione della fotografia stessa. Pensai fosse stato così anche prima dell’aggressione, non aveva nulla della bellezza di Eline, o meglio, aveva gli stessi lineamenti della sorella, solo più grezzi. Eppure avevano un che di primitivo, come se quelli originari fossero proprio i suoi. Pur priva di bellezza, la sua faccia aveva comunque una sorta di oscuro carisma, e colpiva più di quella di Eline. Guardandolo mi sorpresi a dimenticare l’aspetto di Eline, che mi indugiava in mente solo come una lontana eco di quello del fratello.

Con evidente sforzo, alla fine Anton si raddrizzò e si fece di lato, invitandomi a entrare. Sei l’amica di Eline, disse, io annuii e salutai. Lui si voltò e vidi che camminava con l’aiuto di un bastone, un oggetto decorato e laccato dal sapore antico, completamente diverso dalle stampelle di gomma e alluminio di solito in circolazione. Aveva l’effetto di rendere le ferite di Anton più connaturate alla sua persona, meno transitorie. Mentre lo seguivo nell’ingresso, ben arredato con grandi specchi e tinte neutre, vidi che Anton camminava con una vistosa zoppia. Nonostante l’aiuto del bastone, si trascinava dietro una gamba. Indossava scarpe costose, e la suola di cuoio grattava contro il parquet. Erano state lucidate fino a brillare, mi chiesi se lo facesse lui o se fosse compito di qualcun altro, un maggiordomo o un servitore, una figura anacronistica come quel bastone. La suola che strisciava per terra era più spessa, la scarpa era dotata di un sopratacco, e a quel punto pensai che la zoppia fosse una condizione preesistente all’aggressione.

Lo seguii fino a una cucina grande e spaziosa, dove Eline era ai fornelli. La sorella alzò lo sguardo e fece un verso seccato, Avresti dovuto avvertirmi, non ho sentito il campanello, disse. Mi sorrise con aria di scuse, mentre il fratello si dirigeva al tavolo. Si sedette e si appoggiò allo schienale, fissandola. Lo guardai incantata tirare fuori la lingua e lasciarla penzolare tra le labbra, un gesto osceno e al tempo stesso scherzoso. Eline fece un verso di esasperazione, poi si rivolse a me. Benvenuta, disse. Hai già conosciuto mio fratello Anton.

Sì, dissi, anche se in realtà non si era presentato. Mi sorprese che Eline non fosse venuta ad aprire la porta, non si poteva dire che ricoprisse di attenzioni il fratello (senza dubbio non era il tipo di uomo che avrebbe accettato simili cure), ma si vedeva che era preoccupata per lui. Anton allungò la mano verso la bottiglia di vino sulla tavola, vidi che era già quasi vuota. Eline ricominciò a tagliare alcune erbe, lo guardò più volte prima di chiedergli bruscamente, Puoi bere, con tutti quegli antidolorifici? Mi pare che il dottore abbia detto di no. Lui la ignorò. Io ero ancora in piedi nel mezzo della cucina, forse non era troppo tardi per sgattaiolare fuori dalla stanza e andarmene senza essere vista.

Siediti, mi disse all’improvviso Anton, come se mi avesse letto nel pensiero. Indicò con il bicchiere di vino la sedia accanto alla sua. Avrei preferito raggiungere Eline al bancone, ma Anton aveva un che di autoritario difficile da ignorare. Mi sedetti, obbediente. Lui scambiò uno sguardo con Eline, poi prese un bicchiere vuoto e mi versò del vino.

Anton è di cattivo umore, disse Eline. Lo disse in modo pratico, come se non fosse nulla di strano o particolarmente grave. Un affare andato male? gli chiese. Non gli stava prestando davvero attenzione, si era rimessa ai fornelli. Lui scrollò le spalle e mi guardò mentre sorseggiava il vino. Sto solo cercando di mettere a posto il casino che hanno combinato mentre non c’ero, disse. Quell’idiota di Vincent ha venduto merce di ottima qualità per due spiccioli, e l’inventario è un caos assoluto. Lavoro con i libri, aggiunse per me, come spiegazione. Anton ha un negozio stupendo nella Città vecchia, disse Eline.

Sì, dissi in automatico, ci sono stata. Sentii gli occhi di Anton scivolarmi addosso. Hai comprato qualcosa? chiese con nonchalance. Sì, dissi. A dire il vero ho speso più del previsto. Cercavo un regalo. Feci una risata, troppo forte, troppo nervosa. Lui annuì. La maggior parte delle vendite avvengono online, disse. Ma la vetrina è più importante di quanto si pensi. Proprio l’altro giorno è entrato un uomo che ha chiesto quaranta metri.

Eline alzò lo sguardo. Quaranta metri di cosa?

Di cuoio e doratura, disse. Vecchio stile. Classico.

Ah, disse lei. Un arredatore.

Parlava solo la lingua del suo lavoro, era davvero incredibile. Tabacco. Blu reale. Lussuoso. Tradizionale. Gli ho chiesto se era interessato a un autore in particolare, a un genere specifico. Ma no. Non sono libri da leggere, ha spiegato. Servono a creare un look, un’atmosfera. Anton sventolò una mano davanti alla faccia, come per evocare un delicato aroma. Poi la rimise giù. Siamo stati ben felici di accontentarlo, ovvio. Quaranta metri di libri sono molti, costano decine di migliaia di euro. E lui non era minimamente interessato al contenuto, una specie di Jay Gatsby, se capite cosa intendo.

Santo cielo, mormorò Eline, vedevo benissimo che quella storia non la interessava più.

Ma c’è dell’altro, aggiunse in fretta Anton. Non è finita qui. Eline lo guardò, Anton aveva di nuovo la sua attenzione. Gli abbiamo venduto una tonnellata di schifezze senza valore, edizioni da abbonamento, enciclopedie, avanzi di monografie, roba del genere – a un prezzo appena un po’ gonfiato, chiaro. Sorrise, e noi capimmo che era l’esatto contrario. Vidi Eline guardarmi, turbata. E il punto è? mormorò.

Il punto, il punto... non fai che correre verso la conclusione, Eline, disse Anton in tono irritato. È molto fastidioso, da parte tua.

Sì, lo so, disse lei, con le mani appoggiate al bancone. Mi guardò con un sorriso. Anton adora raccontare storie. Adora le digressioni. Ci mette più tempo a raccontare una storia di chiunque io conosca. Però va detto che in genere le digressioni hanno un significato, almeno ogni tanto. Fece una pausa e tornò a guardare il gemello. Dai, vai avanti.

Anton fece un lungo sospiro e si sporse in avanti, appoggiando una mano sul bastone. Ora mi era chiaro che il bastone e la zoppia non erano conseguenze dell’aggressione, ma qualcosa con cui era nato o con cui conviveva da tempo. Sotto quella luce, la sua stravaganza sembrò diversa, una manifestazione di vulnerabilità, e di capacità di ripresa. Mi vergognai delle supposizioni che avevo fatto su quell’uomo, con le sue scarpe costose e le camicie stirate. Ricordai con quanto calore ne avesse parlato Eline, e non era semplice affetto o attaccamento familiare: il gemello l’aveva salvata durante lo sfascio del matrimonio, era stato uno zio e un padre per i suoi figli.

Anton continuava a rivolgersi a Eline, ma lo sguardo e il corpo erano rivolti a me, come se avesse percepito la mia mutata compassione. La settimana scorsa sono andato per la prima volta nella nuova casa di Lars e Lotte. Sì, l’hanno comprata quasi un anno fa, ma di solito ci vediamo in bar o ristoranti, a Lotte non piace cucinare. Stavolta, però, mi hanno invitato da loro, viste le circostanze hanno pensato che sarei stato più comodo.

C’era una nota dura nella sua voce, ed Eline si accigliò e disse, Ma avevano ragione, Anton. Per te è molto meglio.

Non mi importa se la gente mi guarda.

Non è una questione di gente che guarda. In ogni caso, io preferisco sempre mangiare a casa di qualcuno, ecco perché – e mi guardò con aria di scuse – stasera siamo qui.

Fammi finire la storia.

Certo.

Sapevo bene che quello era il mio primo invito a casa loro. Miriam non c’era, quindi ho zoppicato – era la prima volta in cui parlava del suo handicap fisico, con la coda dell’occhio vidi Eline trasalire – fino a una drogheria sciccosa e ho comprato una bottiglia di vino e dei cioccolatini. Non so, di solito è Miriam che si occupa di queste cose, ma stavolta, come ho detto, non c’era.

Eline ora lo guardava con aria inquieta, e io mi chiesi dove fosse Miriam in quel momento.

Così mi presento da loro con cioccolatini e vino, anche se non sembrano proprio il regalo più adatto. Fin dall’esterno la casa è eccezionale. Enorme, un edificio ottocentesco su più piani, ma con cubi di vetro affissi a caso sulla facciata, quasi come ricrescite postmoderne. Dentro è ancora più strabiliante, è una di quelle nuove case smart, con pannelli solari e un tetto giardino con autoirrigazione per regolare la temperatura, un atrio proprio al centro della casa, tutto sincronizzato con un iPad. Non ho idea di come abbiano ottenuto i permessi per fare cose del genere.

Eline stava mettendo in tavola delle scodelle di zuppa. Anton si fermò solo un attimo per prendere il cucchiaio, portarselo alla bocca e staccare un pezzo di pane. Eline posò la sua scodella e si sedette davanti a lui. Mi guardò. Buon appetito, disse asciutta. Lui annuì rivolto al cibo, mangiando di gusto e a gran velocità, e poi continuò.

Ho pensato: sapevo che se la passavano bene, ma non credevo così bene. E non mi ha sorpreso che non avessero ancora invitato nessuno, Lotte ha detto un po’ nervosa che la casa non era ancora finita, che intendevano dare una festa di inaugurazione dopo essersi definitivamente trasferiti, poi di colpo ha aggiunto qualcosa sul fatto di aver comprato quella casa perché sembrava avere dei begli spazi per divertirsi, per ospitare raccolte fondi ed eventi di beneficenza. Ho annuito, erano chiaramente imbarazzati da quell’innegabile prova della loro ricchezza, diventata
da semplicemente eccessiva a smodatamente oscena senza che nessuno di noi se ne fosse accorto.

Ma sapevamo tutti che se la passavano bene, disse Eline. Si voltò verso me. Lars è un imprenditore edile, è responsabile di quei nuovi appartamenti nella zona della stazione. Annuii, quegli edifici avevano contribuito a far alzare i prezzi nel quartiere di Jana e rappresentavano una delle forme di gentrificazione più aggressive della città. Pensai che probabilmente, in alcuni circoli, Lars fosse una figura controversa, e mi chiesi se non avesse taciuto sull’aumento della sua considerevole fortuna proprio per quel motivo. Eline aveva usato il termine responsabile, ma non implicava per forza un particolare giudizio da parte sua, aveva parlato in modo piuttosto neutro.

Sì, disse Anton. Lo sapevo, che se la passavano bene. Si girò verso di me e disse, come spiegazione, il denaro è di Lotte, che è stupida e borghese come il suo nome. Ma Lars è diverso, è una vecchia volpe che ha trasformato tutti quei bei soldi di famiglia in una vera miniera d’oro. Scoppiò a ridere. Sai, quei palazzi che ha costruito sono un’assoluta mostruosità, da un punto di vista estetico e morale.

Io non li ho visti, disse Eline.

No? chiese Anton.

Lei distolse lo sguardo. Jana aveva incontrato Eline per la prima volta vicino al luogo dell’aggressione, e se si era avventurata così dentro il quartiere doveva aver visto quei palazzi per forza, almeno da lontano. Pensai che forse Anton non sapeva di quella gita nel quartiere, e mi chiesi cos’altro la sorella non gli avesse detto, quali segreti potessero esserci tra i due.

Comunque, proseguì Anton, casa loro è tutt’altra cosa rispetto alle mostruosità con cui ha accumulato la sua fortuna, quando si tratta di casa sua Lars sa come tirare acqua al proprio mulino. La trovai una frase strana, antiquata e un po’ affettata, come il suo bastone. Anton andò avanti. Nonostante una certa ritrosia iniziale, mi sono accorto in fretta che in realtà erano emozionatissimi di farmi vedere la casa, mi hanno trascinato di stanza in stanza, mostrandomi le distese di marmo, gli impianti di illuminazione su misura, le mattonelle restaurate del caminetto. Vi assicuro che dopo aver rotto il ghiaccio sono stati ben felici di trascinare uno storpio su e giù per le scale.

Anton, disse Eline in tono di rimprovero.

Be’, è quello che sono, disse lui. Con me, Lars e Lotte possono permettersi il loro tacito, vergognoso desiderio di sguazzare nel privilegio, Lotte può parlare di tappezzerie e finiture, non importa quanto sembri idiota fin tanto che lo fa davanti a me, lo storpio. Non sono esattamente un subumano, ma sappiamo tutti qual è il mio posto nella scala gerarchica, un bel po’ di gradini sotto la gente come loro. Soprattutto nella mia condizione attuale: cose del genere semplicemente non succedono, a gente come Lars e Lotte.

Ma avrebbe potuto benissimo...

Pazienza, disse Anton. Pazienza, non è quello il punto. Fammi finire. E così Lars e Lotte mi sballottano per tutta la casa, in cucina, in dispensa, nella stanza degli ospiti e perfino nella loro, Cristo santo, con il letto matrimoniale e le lenzuola Frette e quel disgustoso tanfo di sesso borghese, che poi è il sesso più perverso di tutti, finché Lotte non apre una porta e dice, in tono di timido trionfo – ma Lotte mi piace, eh, non è colpa sua se è così scema – E questa è la biblioteca.

Oh, no.

Non capii subito. Anton lanciò a Eline una specie di occhiata severa, poi tornò a me e riprese subito a parlare.

Mi fa entrare nella stanza, ed è impossibile sapere se ne andasse davvero fiera o se immaginasse semplicemente che mi sarebbe piaciuta per via della mia professione. In ogni caso sono rimasto davvero esterrefatto, a bocca aperta, perché davanti a me c’erano tutti quei metri di libri richiesti da quello scemo del loro arredatore, le enciclopedie e le monografie avanzate, l’intera, stupida collezione che avevamo venduto a quell’imbecille al triplo, quadruplo, quintuplo del suo valore, sistemata alla perfezione negli scaffali a muro. Ho cominciato a ridere, ero al centro della biblioteca e ridevo, ridevo, e dopo un po’ Lotte ha cominciato a preoccuparsi, e mi ha chiesto quale fosse il problema. Mi sono ripreso quel tanto che bastava ad assicurarle che ero solo sopraffatto dalla gioia, che non ero mai stato in una biblioteca così bella. Non si è convinta subito, sono noto per una certa inclinazione all’ironia, ho visto che si chiedeva se la stessi prendendo in giro.

È orribile.

Non preoccuparti, alla fine l’ho convinta. Siamo scesi al piano inferiore – Lars era andato in cucina un po’ prima, per controllare la cena – e lei ha cinguettato tutta contenta, Lars, Anton adora la biblioteca, dice di non averne mai vista una migliore. Lars mi ha guardato, gli ho letto in faccia che sapeva: non che gli avessi venduto io i libri, perché di certo non aveva gestito lui l’arredatore, ma che avevo preso in giro Lotte. Per il resto della cena non è nemmeno riuscito a guardarmi, provava solo disprezzo per me. Ma Lotte era di ottimo umore, e l’ho visto lanciarle uno sguardo di vera tenerezza, di affetto e di amore davvero profondi.

Anton aveva rallentato, finalmente, e guardò Eline. Si amano sul serio, lo sai. Soldi o non soldi. Lars sarebbe pronto a uccidere per Lotte, ne sono sicuro. A uccidere me, se necessario.

Eline scosse la testa e si alzò. Avete finito? chiese con un sorriso. Annuii, e lei cominciò a raccogliere le scodelle. In ogni caso, disse ad Anton, tu non esci molto bene da questa storia.

Non mi preoccupo mai di uscire bene da una storia, disse lui, tranquillo. Questo devi ammetterlo.

Eline tornò con un vassoio di pesce e patate lesse fredde, e ci riempì i bicchieri. Comunque, disse con un sospiro guardando Anton. Salute. Sono felice che tu sia qui. Anton ha avuto un incidente molto brutto, mi disse, sono stati due mesi difficili. È successo vicino a casa di Jana.

Jana? chiese Anton.

Una nostra amica, dissi io. Aspettai che Eline dicesse altro, su come avesse conosciuto Jana, ma lei rimase zitta e cominciò a servire il cibo.

Eline sta cercando di indorare la pillola, disse Anton mentre porgeva il piatto alla sorella. Mi hanno aggredito. Non è stato un incidente. Gli incidenti sembrano più umani, la gente normale ha incidenti, solo gli idioti e gli sfortunati vengono aggrediti. Guardai Eline, aveva la faccia tirata, sembrava sofferente e irritata, ma, notai, non particolarmente imbarazzata. Restituì ad Anton il piatto. Mi hanno rapinato, proseguì Anton. Rapinato e picchiato. In quel quartiere è così, sai.

Mi dispiace, dissi. Mi chiedevo...

Della cicatrice? E dei lividi? Sì, tutto merito dell’aggressione, mi hanno rubato il telefono e il portafogli e l’orologio, ma mi hanno anche picchiato con violenza. Fece una pausa. A far davvero paura è la cattiveria. Non ce n’era bisogno, avevano già i miei soldi. E io non stavo opponendo resistenza.

Erano in tanti?

Anton scosse la testa, come se fosse una domanda seccante.

Non ricordo, disse sbrigativo. È un vero mistero.

Com’è andato l’incontro con la polizia? chiese Eline.

Anton si mise a mangiare. Mentre masticava, posò forchetta e coltello sul piatto. Prese un sorso di vino, poi deglutì. Mi hanno fatto fare una seduta di ipnosi, disse alla fine.

Ipnosi? chiese Eline, stupefatta.

Sì.

Non pensavo che facessero cose del genere. Ha funzionato?

Anton si appoggiò allo schienale. Be’, anch’io ero sorpreso. Quando sono arrivato alla stazione di polizia mi hanno portato in un ufficio per alcune domande di approfondimento, mi hanno dato un caffè, eccetera eccetera. E poi mi hanno detto di voler fare una cosa un po’ anticonvenzionale – se ero d’accordo, chiaro. Fece una pausa. Ho detto che per me andava bene e ho chiesto cos’avessero in mente.

E com’era?

Chi?

L’ipnotizzatore.

Anton si strinse nelle spalle. Era vestito come un burocrate di poco conto. All’inizio ho pensato fosse un altro ispettore. Però aveva una voce molto tranquillizzante. Io ero diffidente, certo, in genere queste cose non mi piacciono, non ci credo. Ma ho acconsentito. Non ero mai stato ipnotizzato, prima, e devo dire che in quell’uomo c’era qualcosa di persuasivo.

E ha funzionato? Eline si sporse in avanti, l’espressione attenta.

No.

Niente di nuovo?

Temo di no. Ha seguito tutta la trafila, mi ha riportato al momento dell’aggressione, mi ha fatto entrare nel mio corpo, o uscire? Non importa, tanto è stato inutile. Non ricordo un accidenti, ipnosi o meno. So solo quello che mi hanno raccontato dopo l’accaduto.

Prese il bicchiere di vino. Bevve a lungo, senza smettere di battere le palpebre. Eline si schiarì la gola, È una specie di amnesia, mi spiegò. Non riesce a ricordare nulla della notte della rapina.

A quanto pare è molto comune, dopo un grave trauma, disse Anton. Certo, per la polizia è davvero frustrante. Continuano a sperare che ricordi qualcosa, e come puoi vedere ricorrono a misure disperate.

Non ricordi chi ti ha aggredito? chiesi.

No. Non ricordo niente – chi mi ha assalito, o perché mi trovassi in quel quartiere, che di solito non frequento. Non c’ero mai stato in vita mia, è davvero un merdaio, non il mio genere. Con tante scuse alla vostra amica. Anton abbassò lo sguardo, gli occhi in movimento, la bocca tirata, ed ebbi la netta percezione che stesse mentendo. Credo sia una sorta di amnesia selettiva, proseguì, con voce suadente e troppo tranquilla. La risposta del cervello a un terribile trauma.

Quello che non capisco, disse Eline, è perché non ricordi cosa facevi lì. Posso capire che non ricordi l’aggressione, che ci possa essere un’amnesia intorno all’evento concussivo – vidi che si stava sforzando con il linguaggio, e mi chiesi se nemmeno lei credesse, come me, a quella faccenda poco convincente. Ma il motivo per cui sei andato in quella zona è precedente al trauma, in teoria.

E io che ne so? disse Anton, brusco. Se lo sapessi, non mi troverei in questo frangente. Non è esattamente piacevole, sai, non lo sto facendo apposta. Il mio corpo era già un disastro, e adesso lo è anche la mia testa. Ora Anton aveva la voce stizzita, ed era rosso in faccia. È come se mi avessero tolto un pezzo di cervello e niente possa restituirmelo. Secondo la polizia, se riescono a farmi la domanda giusta la chiave girerà, gli argini si romperanno e sarò in grado di individuare i responsabili con un normale confronto all’americana. Ma non succede. Sono rimasto lì per ore. Ho controllato il mio diario, i miei messaggi. Mi sono fatto ipnotizzare, Cristo santo. E niente.

Shh, disse Eline, e allungò una mano verso di lui. Calmati. Lui scostò la mano. Sì, disse aggressivo, è quello che dice anche Miriam.

A tavola calò il silenzio. Lui sa, pensai di colpo. Sa più di quanto dica. Eline cominciò a sparecchiare e mi alzai per aiutarla. Per dessert c’era della frutta, e poco dopo dissi che dovevo andare, il giorno seguente c’era una sessione alla Corte e avevo bisogno di una bella dormita. L’ombra della solitudine mi era calata addosso mentre guardavo Eline e il fratello; nonostante i bisticci e i segreti tra di loro c’era un’intima complicità, di cose non dette e capite. Anton annuì, con mia sorpresa si alzò a sua volta, dicendo che anche lui doveva andare. Mi seguì in corridoio. Avevo una nuova consapevolezza della sua presenza, mentre ci infilavamo il cappotto, e quando mi voltai per ringraziare Eline le vidi negli occhi uno sguardo allarmato.

Fuori, Anton camminò con me per mezzo isolato, fino a quando non vidi un taxi e dissi che avrei fatto meglio a prenderlo. Lui fece segno alla macchina e mi aprì la portiera con galanteria. Quando salii gli dissi che era stato un piacere conoscerlo. Lui si sporse e disse che sperava di rivedermi molto presto. Aveva un tono malizioso e nel movimento del suo corpo verso il mio c’era una nota lasciva che mi innervosì. Ciononostante, pensai che potesse essere pericoloso per Anton camminare in strada da solo, in quelle condizioni, e dopo un attimo gli chiesi se voleva un passaggio. Sapevo bene che rischiava di sembrare un altro genere di invito, anche se non era quella la mia intenzione. Ma lui si stava già allontanando, scosse la testa e agitò il bastone nell’aria notturna. Non stasera, gridò voltandosi appena, Non stasera.

13.

Scrissi a Eline una mail per ringraziarla della cena. Mi rispose che era felice che fossi tornata a casa sana e salva, una frase che almeno in parte sembrava riferirsi al fratello, e a cui non sapevo bene come rispondere. Pensai fosse in cerca di informazioni, cosa che mi rese ancora più dubbiosa e che lasciò la sua mail a languire nella casella, senza una risposta.

La settimana seguente, Amina andò in maternità. Ora era Robert il mio compagno fisso di cabina, e ci abituammo in fretta l’una all’altro. Era gentile, e sembrò capire che dovevo adattarmi a quelle nuove circostanze. Alla fine della nostra prima giornata di lavoro insieme mi accompagnò nell’atrio e mi raccomandò di prenderla con calma. Il processo durerà ancora molti mesi. Devi pensarlo come una maratona. Eravamo arrivati all’ingresso, e si fermò per aiutarmi a infilare il cappotto. Mesi, dissi, mentre allacciavo i bottoni e mi avvolgevo la sciarpa intorno al collo. Avvertii l’incredulità nella mia voce, anche se era una cosa che già sapevo. Lui mi diede un colpetto sulla spalla. Non voglio sembrarti paternalistico, ma lascia che te lo dica, ti abituerai. Poi diventa normale. Tutta routine.

Aveva ragione. La settimana seguente notai che gli aspetti estremi del processo – i suoi contenuti, il linguaggio, lo sforzo fisico di stare in cabina – avevano già cominciato a smussarsi. Alla fine di ogni giornata ero sempre meno esaurita, nonostante a quel punto del processo fossimo impantanati in tecnicismi; le udienze si trascinavano per ore di tediose, minuziose testimonianze che di rado portavano un evidente vantaggio all’accusa o alla difesa.

Nel corso di quelle giornate in aula, finii anche per capire quanto fosse disciplinato l’ex presidente. Polo e pantaloni vennero rimpiazzati da abiti di sartoria che gli conferivano un piglio sobrio, perfino dignitoso. In quei momenti avevo la percezione della volontà ferrea che animava quell’uomo. A differenza degli avvocati e a volte dei giudici, il volto non lo tradiva mai. Al contrario, per tutta la durata del procedimento sfoggiò la stessa espressione, di spiccato ma anonimo interesse. Mantenne uno spirito degno del miglior oratore di una squadra universitaria, di qualcuno in cerca di crepe, che prendeva nota di tutto, un uomo che non ammetteva nulla e che non aveva nulla da nascondere. Non vidi neanche una volta la cupa indifferenza notata sulle facce di altri imputati e anche sulla sua in sala conferenze, un’espressione che sembrava dichiarare che qualsiasi cosa accadesse in aula fosse di scarso rilievo, e che la colpevolezza fosse una conclusione scontata.

No, non era affatto l’uomo che vedevo nella soffocante sala del centro di detenzione – anche se forse avevo sempre saputo che quell’individuo, quell’avversario raffinato e senza pietà, si nascondeva dentro il personaggio più impulsivo che incontravo durante quelle riunioni. In quel periodo non andò mai alla sbarra, eppure ogni gesto che faceva era calcolato fino all’ultimo dettaglio. Appena entrato in aula, guardava verso la galleria, verso il suo pubblico, e rivolgeva un cenno ai suoi sostenitori, che erano ancora numerosi, così tanti che mi chiesi se fossero venuti all’Aja apposta, e come potessero permettersi il costo e il tempo di rimanere in città per settimane e mesi, che genere di vita facessero in quel luogo piovoso.

Dopo, l’ex presidente percorreva con lo sguardo la galleria fino agli interpreti nelle cabine, dove mi trovavo io. Mi guardava negli occhi, attraverso il vetro, e faceva un cenno del capo. Come per riconoscere il lavoro che svolgevo, come per dimostrare il suo livello di civiltà e considerazione. Tutto questo divenne routine, ma la prima volta che accadde fu così inaspettato da sembrare irreale. Robert reagì con sorpresa, e io mi sentii arrossire. Giù in aula, Kees si girò verso le cabine. Io esitai, poi annuii goffamente a mia volta, non sapevo quale fosse l’etichetta in situazioni del genere. Poi l’ex presidente si mise a parlare con un associato della sua squadra di difesa. Ancora seduta, mi sporsi e vidi che alcuni dei sostenitori in galleria ora mi osservavano con aria curiosa, il gesto dell’ex presidente non era passato inosservato. Giù in aula, Kees tornò alle sue carte, scuotendo piano la testa.

Da quella volta in poi, l’ex presidente non mancò mai di salutarmi, sia all’inizio che alla fine di ogni lunga sessione. In quei primi giorni nell’aula 1, ero certa che non mi sarei mai abituata al suo cenno di riconoscimento, di cui ancora non capivo il significato. Era semplice buona educazione o si trattava di qualcosa di più sinistro, più calcolato ed egoista? Ma poi, come aveva detto Robert, diventò routine. Ci scambiavamo un cenno del capo, poi guardavamo altrove e andavamo avanti.

Nel corso delle lunghe ore in cabina, a volte avevo la spiacevole sensazione che di tutta la gente nella sala sottostante, di tutta la gente in quella città, l’ex presidente fosse la persona che conoscevo meglio. In quei momenti, causati da quanto posso solo definire un eccesso di immaginazione, era come se mi calassi nella sua prospettiva. Sussultavo quando il procedimento sembrava andargli contro, provavo un silenzioso sollievo quando invece era in suo favore. Era per me oltremodo inquietante, come trovarmi in un corpo che non avevo alcun desiderio di occupare. Scoprirmi così permeabile mi disgustava. Evitavo sempre più spesso di guardare giù in aula, mi concentravo sugli appunti davanti a me, sulle parole che uscivano dal mio auricolare. Ma l’ex presidente era sempre lì, seduto al suo posto, inevitabile, inesorabile.

Poi, però, l’accusa chiamò alla sbarra la prima di molte vittime le cui testimonianze, promise il pubblico ministero, avrebbero ricordato alla corte la gravità dei crimini commessi dall’imputato, il peso morale degli eventi attualmente al vaglio. Robert mi aveva già avvisato che le testimonianze delle vittime erano quasi sempre le più difficili da tradurre, e mi confessò che all’inizio di quell’anno aveva chiesto di essere esonerato dalla testimonianza di una giovane madre i cui bambini erano stati assassinati con ferocia, letteralmente strappati via dalle sue braccia e fatti a pezzi. Ho dei nipoti, aveva detto con voce tremante. Non ho avuto alcun rimorso nel dire di non poterlo fare.

Quando arrivai in cabina, Robert era già lì. Non avrei saputo dire se fosse più silenzioso del solito, o se fosse la mia ansia a darmi quell’impressione, non avevo mai lavorato con la testimonianza di una vittima. Robert rivolse un cenno alla cabina di fronte alla nostra e io alzai una mano per salutare gli interpreti ospiti, che risposero allo stesso modo; il testimone avrebbe parlato in dioula, che la coppia nella cabina di fronte avrebbe tradotto in francese, e che noi avremmo tradotto a nostra volta in inglese. Mi sedetti, e vidi che avevano coperto con delle tende le vetrate della galleria del pubblico. Al link video sarebbe stato applicato un software di distorsione facciale, la voce sarebbe stata alterata, sarebbe stato preso ogni provvedimento possibile per evitare di rivelare l’identità del testimone. Quasi tutte le vittime avevano una famiglia a casa, e decidendo di comparire in aula correvano un rischio enorme, che avrebbe anche potuto concretizzarsi senza preavviso in sacrificio, violenza o morte per uno dei loro cari.

Il peso morale della situazione, quindi, era già evidente in aula, e quando le persone cominciarono a entrare nella sala, trovai che anche le loro espressioni fossero più sobrie del solito. Niente sorrisi, niente manifestazioni scherzose, e neppure la frenetica urgenza che avevo visto in precedenza. Regnava, invece, una specie di attutita solennità, piuttosto spontanea; per cominciare, nessuno sembrava recitare, né per sé né per il bene altrui. Perfino Kees, quando entrò passandosi le mani fra i capelli, sembrò contenuto, si limitò a sedersi e a fissare il testo sul monitor davanti a sé.

Quando l’ex presidente fu portato in aula, vidi subito che non aveva intenzione di adattarsi a quell’atmosfera generale, percepiva quell’emotività repressa come una concessione all’enormità della perdita della vittima, e quindi come una conferma della gravità dei crimini di cui era accusato. O forse non era semplicemente abituato al fatto che l’attenzione della sala fosse rivolta a qualcun altro. Osservai le ondate di disprezzo che sembrava emanare, lo vidi alzare il mento ed esaminare l’aula, posare senza esitazione gli occhi sulla sbarra dei testimoni e poi spostarli con calma, come per dimostrare di non avere niente da temere, nessun motivo di ansia. Provai un guizzo di disgusto così forte da sentirne il sapore in bocca.

Entrarono i giudici. In pochi attimi, o così sembrò, la giudice che presiedeva chiese che la testimone venisse introdotta in aula. La porta laterale si aprì ed entrò una ragazza snella. Per raggiungere la sbarra dei testimoni fu costretta a passare davanti all’ex presidente, e lo fece rigida, senza guardarlo. Lui si sporse in avanti, incrociando le mani sul tavolo e guardandola con attenzione. La ragazza non sembrava avere più di vent’anni. L’usciere di corte le versò un bicchiere d’acqua, le sistemò il microfono. La testimone sembrava a malapena presente, aveva il volto inespressivo. Si vedeva che per lei era un calvario, sedeva rigida sulla sedia e guardava fisso davanti a sé, come se avesse paura di muoversi.

Grazie per essere con noi oggi, disse la giudice che presiedeva. Mi sembrò che avesse una voce più dolce del solito, come se temesse di spaventare la testimone. Davanti a lei c’è un foglio con il giuramento. Può leggere, per piacere?

La ragazza si inumidì le labbra, poi si sporse in avanti e parlò nel microfono. Mentre parlava, mi accorsi di aver frainteso il suo personaggio: quello che avevo preso per nervosismo era invece un’assoluta concentrazione, era venuta lì per svolgere un compito monumentale e ne conseguiva che fosse una persona straordinariamente coraggiosa. La voce, mentre leggeva il testo della Corte e giurava di dire la verità, era bassa, forte e sicura, e smosse l’atmosfera dell’aula. Vidi che non ero l’unica a ricalibrare la percezione di quella ragazza, anche l’ex presidente alzò lo sguardo al suono della sua voce, e per la prima volta gli vidi negli occhi qualcosa di simile alla paura.

La giudice era fin troppo sollecita, chiese alla testimone come si sentiva, la ringraziò per essere lì alla Corte e la rassicurò sul valore della sua testimonianza. La ragazza annuì, ma anche se la giudice enfatizzò il sostegno della Corte, vidi che per lei era di poco interesse, ne capiva fin troppo bene i limiti. Non aveva fatto tutta quella strada per il supporto del tribunale, ma per la giustizia promessa dal tribunale stesso. La giudice disse che la Corte aveva già registrato le dichiarazioni della testimone, con la descrizione dell’assassinio dei fratelli e del padre. Ora la testimone era a disposizione per l’esame di entrambe le parti. La giudice fece una pausa, poi disse che era molto dispiaciuta di doverle chiedere di ripercorrere gli eventi di quel giorno terribile, eventi che sapeva essere profondamente sconvolgenti. È nella natura del processo esigere più dalle vittime che dagli imputati, disse la giudice, cosa che di per sé è un’ennesima ingiustizia, e per cui posso solo esprimere il mio grande dispiacere. La giovane annuì. La giudice disse poi che dava la parola all’accusa.

Il pubblico ministero si alzò e si avvicinò alla sbarra. Disse che avrebbe rivolto alla testimone alcune domande su un giorno in particolare, durante i disordini successivi alle elezioni. Sarebbe stato obbligato a chiederle di scendere nei dettagli, cosa di cui si scusava. Si scusò anche per il fatto di parlarle in francese, purtroppo non conosceva la sua lingua. Dopo una breve pausa, durante la quale le sue parole vennero tradotte, guardai verso la cabina di fronte alla mia. La giovane annuì, secca, e il pubblico ministero si schiarì la gola e controllò gli appunti prima di iniziare.

Lei era a casa, nel giorno in questione, giusto?

La ragazza si sporse avanti e rispose.

Sì, ero a casa con la mia famiglia.

Ma in mattinata è uscita.

Sì. In mattinata sono uscita con i miei fratelli. Sembrava che le cose si fossero calmate, e volevamo andare a scuola. La notte precedente c’erano stati degli spari, da quella direzione.

La ragazza mantenne la voce ferma e bassa. Parlò con grande attenzione, ogni parola era come l’anello di una catena, e tutto resse anche nel passaggio da una lingua all’altra. Da lei, agli interpreti ospiti, a noi. Il pubblico ministero annuì.

Quanto dista la scuola da casa sua?

Circa dieci minuti.

E cos’ha trovato una volta raggiunta la scuola?

La ragazza fece una pausa e bevve un sorso d’acqua.

Faccia con calma.

Lei tornò subito a guardare il pubblico ministero. Scosse la testa, come a dire che non aveva bisogno di trattamenti speciali, e proseguì.

C’erano cadaveri ovunque.

Quanti?

Trentadue.

Come fa a saperlo?

Li ho contati.

Perché?

Che altro avrei dovuto fare?

Lo disse in modo molto semplice, senza un’ombra di autocommiserazione. Era Robert a tradurre, e sentii la sua voce farsi asciutta. Proseguì.

E i cadaveri erano dell’etnia presa di mira?

Sì.

Come fa a saperlo?

Perché erano i miei vicini di casa. Ci ero cresciuta, con quei ragazzi. Li conoscevo molto bene. Conoscevo le loro madri e sorelle. Sapevo cosa gli piaceva mangiare a cena, cosa volevano fare da grandi.

Robert mi rivolse un cenno, io annuii e lo sostituii.

E poi, cos’è successo?

Hanno ripreso a sparare. Abbiamo sentito altri colpi, e quindi siamo tornati a casa più in fretta che potevamo. Siamo corsi a casa.

Cos’è successo quando siete arrivati?

Nostro padre ci ha fatto entrare, e lui e i miei fratelli hanno sbarrato le porte. Sentivamo le grida provenire dalla strada. Sono corsa fuori e mi sono nascosta nel capanno.

Dov’erano suo padre e i suoi fratelli?

Sono rimasti in casa. Sono corsa fuori solo io.

E poi cos’è successo?

Mentre lavoravo, ero obbligata a concentrarmi sulla voce dell’interprete nella cabina di fronte, che era misurata e precisa e copriva gran parte del discorso della ragazza. Eppure la voce della giovane emergeva con notevole chiarezza durante le pause della traduzione, le sue sillabe distinte, il suo timbro inconfondibile, tanto da darmi ancora la sensazione di parlare per lei, nonostante gli strati di lingue che ci separavano.

Dissi: Ho sentito le grida farsi sempre più forti, poi gli uomini hanno cominciato a picchiare sulla porta. Li sentivo dal capanno fuori, sentivo tutto. Hanno sfondato la porta e hanno ordinato a mio padre e ai miei fratelli di stendersi a terra. Ho sentito gli spari e sono corsa dal capanno in casa...

Perché l’ha fatto?

Perché volevo proteggere la mia famiglia.

Come sperava di proteggere la sua famiglia?

Con il mio corpo. È minuto, eppure può fermare un proiettile.

E non è stata in grado di proteggere la sua famiglia?

No. Quando sono entrata, i miei fratelli erano morti. Erano stesi in fila sul pavimento, a faccia in giù. Mio padre era per terra accanto a loro, e io ho pregato quegli uomini di non ucciderlo, mi sono buttata in avanti per fermarli. Ma uno di loro mi ha colpito in testa con il calcio della pistola e sono caduta all’indietro sul pavimento, senza più riuscire a muovermi. Li ho guardati sparare in testa a mio padre. Il suo sangue si è mischiato a quello dei miei fratelli, e io ho cominciato a urlare. Mi hanno ignorata, si sono messi a girare per la casa prendendo i nostri soldi e la radio e qualsiasi altra cosa trovassero, si sono perfino mangiati il nostro cibo, quello che era stato preparato per il pranzo. Non avevano rispetto né per i vivi né per i morti, ridevano mentre io strillavo. Mentre scuotevo i miei fratelli e mio padre per cercare di riportarli in vita. Con le mani sporche del loro sangue.

Guardai verso la cabina di fronte. L’interprete alzò gli occhi, mentre parlava e mentre io continuavo a tradurre, e per un lungo momento ci fissammo e basta.

L’altro interprete abbassò di nuovo lo sguardo quando la testimone tacque. Mi dispiace, non mi sono fermata per permettere la traduzione, disse. Chiedo scusa. La testimone guardò verso le cabine. Di nuovo, chiedo scusa. Posso continuare?

Qualcuno doveva aver fatto notare che era passato tempo sufficiente, perché la testimone ricominciò. Mentre la guardavo, la stranezza del pronunciare le parole al posto suo, la scorrettezza di usare quell’io suo e non mio, mi attraversò come un formicolio.

Dissi: E poi se ne sono andati. Non hanno ritenuto che valesse la pena uccidermi. Per loro non ero nulla. Il mio dolore non era nulla. Mi consideravano insignificante, una ragazzina meno preziosa della pallottola che sarebbe servita ad ammazzarmi.

Il pubblico ministero annuì. Quando parlò, lo fece con voce molto gentile.

E la sua impressione è che quegli uomini appartenessero ai gruppi mobilitati dall’ex presidente in seguito alle elezioni?

Kees si alzò subito, Vostro Onore, alla testimone non può essere chiesto di esprimere un giudizio...

La testimone si interruppe, e lui si zittì. Trattenni il respiro mentre la guardavo sporgersi in avanti e parlare nel microfono, le braccia incrociate sul tavolo, la voce ferma.

Ci fu un leggero ritardo, e poi l’interprete nell’altra cabina disse, come me subito dopo, con voce tremante, a differenza di quelle dell’altro interprete e della testimone, che rimasero ferme e solide e forti: Sì. Ne sono sicura. So benissimo chi erano quegli uomini, e perché fossero venuti a ucciderci. Sapevo benissimo chi gli aveva ordinato di sterminarci tutti.

E mentre parlavo non riuscii a trattenermi, il mio sguardo passò dalla ragazza all’ex presidente. Che non aveva bisogno di quegli strati di interpretazione. Che sedeva dritto come un fuso e non si muoveva, e il cui sguardo era puntato con attenzione e interesse assoluti sulla testimone.

14.

Una settimana dopo, vidi Anton in un ristorante vicino alla Corte. Bettina mi aveva invitata a pranzo fuori. In genere non socializzava con lo staff, ed era probabile che volesse discutere con me di qualcosa. Pensavo si trattasse del mio contratto, se sarei rimasta o meno alla Corte.

Era una questione che aveva cominciato a pesarmi ogni giorno di più. Dalla testimonianza della ragazza, stare in cabina era diventato più difficile, e avevo iniziato a vedere i miei colleghi in modo diverso. Non sembravano più le persone equilibrate conosciute al mio arrivo, adesso erano segnate da preoccupanti crepe, insostenibili livelli di dissociazione. E poi c’era la questione di Adriaan, per la quale non avevo una vera risposta. Non sapevo se rimanere all’Aja o no. Ma dove avrei potuto andare, se avessi lasciato la città? Non ero ancora in grado di visualizzare un’alternativa. Anche solo per questo, era di grande importanza per me capire se la Corte mi avrebbe rinnovato o no il contratto.

Bettina, però, non tirò fuori l’argomento fino all’ultimo, e così trascorsi il pranzo in uno stato di tensione, godendomi il cibo meno di quanto avrei voluto. Ci trovavamo in un ristorante italiano, una vecchia farmacia trasformata in un locale accogliente. Eravamo sedute a un tavolo vicino alla cucina, da cui potevo vedere tutta la sala. Il ristorante era un luogo rinomato per appuntamenti galanti e occasioni speciali, ma siccome era mezzogiorno i tavoli erano occupati da pranzi di lavoro. Quel giorno la Corte non era in sessione, ma rimasi comunque sorpresa dai modi rilassati di Bettina, che ordinò un antipasto e poi la portata principale. Pensavo che subito dopo mi avrebbe spiegato lo scopo di quell’appuntamento, ma lei continuò a chiacchierare del più e del meno, in attesa del cibo e anche dopo. Al nostro arrivo il ristorante era pieno, ma dopo le due si era svuotato in fretta, nessun altro si attardava così tanto a pranzo. Eppure Bettina non veniva al dunque. Solo quando il cameriere ci chiese se volevamo vedere la carta dei dessert e Bettina rispose sì per entrambe, e solo dopo aver ordinato il dolce e il caffè, Bettina finalmente mi guardò e disse, C’è una cosa di cui ti vorrei parlare.

Fu in quel preciso momento che Anton comparve nel ristorante. Entrò con il gestore, gli stava raccontando qualcosa che lo fece ridere, forse una delle sue interminabili storie. Il locale era silenzioso da un po’, ma tornò a vibrare di energia quando i due uomini attraversarono la sala vuota. Parlavano e gesticolavano con entusiasmo, il gestore sembrava davvero affezionato ad Anton, e pensai che fosse un cliente abituale. La zoppia era appena visibile, era molto più energico rispetto alla settimana precedente da Eline, e chiaramente di umore migliore. Il gestore lo accompagnò a un tavolo d’angolo. Lui si sedette e lisciò la tovaglia con le mani, era un’ottima sistemazione e ne sembrò felice. I due continuarono a scambiarsi rumorosi convenevoli finché
il gestore non gli porse il menu e si allontanò. Anton posò il menu e tirò fuori un paio di occhiali da lettura, che piazzò sulla punta del suo – me ne accorsi solo allora – enorme naso. Come avevo fatto a non notarlo prima? Prese il telefono e si mise a digitare veloce sullo schermo prima di rimetterlo giù. Il motivo per cui ti ho invitato a pranzo, disse Bettina, e io mi voltai. Bettina mi stava guardando in modo strano, e non accennava a proseguire. Senza dubbio si stava chiedendo perché fossi così distratta. Il motivo per cui ti ho invitato a pranzo è che vorremmo rinnovare il tuo contratto e proporti un posto fisso.

Benché all’altro capo della sala, sentii il telefono vibrare. Sbirciai alle mie spalle. Al tavolo d’angolo, Anton prese il telefono e fissò lo schermo con impazienza, stava aspettando qualcuno. Sotto il mio sguardo, sospirò e si tolse gli occhiali; aveva appoggiato il bastone di lato e si mise a guardare in giro per la sala, con occhi stretti e arroganti. Guardò verso di me e io mi voltai subito, tornando a Bettina. Lei proseguì, Il lavoro che hai svolto con noi quest’anno ci ha colpito molto. È stato un periodo non privo di complicazioni, un momento di vari cambiamenti per la Corte.

Avrei dovuto risponderle, Bettina era già abbastanza perplessa dal mio comportamento. Annuii e dissi, Grazie. Non bastava, ma non sapevo cos’altro dire. Pensai distrattamente ad Adriaan. Era un’illusione credere che avessimo ancora una relazione, credere che potesse tornare da me. Lo sapevo. Eppure, nei momenti in cui riuscivo a guardare oltre i miei sentimenti e il mio ego, ero costretta a riconoscere un’indecorosa verità: che sarebbe bastata una telefonata per farmi tornare a sperare. Se Adriaan mi avesse mandato un messaggio in quel momento, se mi avesse scritto che sarebbe rientrato dopo pochi giorni, sapevo che avrei guardato Bettina e le avrei detto che accettavo con gioia, malgrado quel lavoro mi mettesse a disagio.

Ma per come stavano le cose, in assenza di un messaggio del genere, non sapevo cosa risponderle. Avevo poco altro, oltre ai miei ostinati sentimenti per Adriaan, oltre a quell’irragionevole attaccamento. Dall’altra parte della sala, Anton non stava più guardando verso di me, ero abbastanza sicura che non mi avesse notata. Fissava il telefono imbronciato, era al punto in cui l’aspettativa minacciava di trasformarsi in irritazione e rancore, forse doveva vedersi con un cliente importante, o con qualcuno che voleva vendergli un libro raro. Trovai che in quell’attesa ci fosse un che di bramoso. Bettina era silenziosa, e mi costrinsi a dire qualcos’altro. Il processo è stato una sfida interessante, dissi, e lei annuì comprensiva. Cos’è successo alla testimone, dov’è adesso? chiesi.

Bettina distolse lo sguardo. Sono informazioni che non vengono condivise. Certo, mormorai. È un caso complicato, continuò. Potrebbe anche sgonfiarsi. Ma al di là del risultato del processo e delle sue ripercussioni sulla Corte, dovresti essere soddisfatta, sei stata brava. Fece una pausa. Mi chiesi cosa intendesse con le sue ripercussioni sulla Corte, quali potessero mai essere queste ripercussioni. In quel momento, una donna bionda attraversò il mio campo visivo, passando alle spalle di Bettina. Indossava un tailleur doppiopetto viola intenso e aveva gambe muscolose e nude, scintillanti stinchi depilati. Camminava in fretta ma anche timorosa, come se si stesse arrampicando su un pendio sdrucciolevole. Guardai in basso e vidi che aveva un paio di scarpe con il tacco alto e la suola rossa, di una marca notoriamente costosa, quasi impossibili da portare per camminare.

Erano scarpe sexy, o perlomeno trasudavano sesso in modo piuttosto evidente, forse in origine erano nate come scarpe da indossare scopando, del genere che gli uomini regalano alle donne. Con orrore, vidi la donna dirigersi al tavolo di Anton. Aveva un’espressione di frivola risolutezza, come se niente potesse fermarla, né le scarpe con il tacco alto né la superficie scivolosa del pavimento. Anton, dal canto suo, si era alzato in una posizione di assoluta, estatica attenzione, come un cagnolone davanti a un pezzo di carne cruda. La donna emise un ansimante squittio di eccitazione e affrettò il passo, con un improvviso rumore di tacchi.

Bettina continuava a parlare. In ogni caso, ci farebbe molto piacere se rimanessi. Avrai un aumento di stipendio, e la Corte ha i mezzi per aiutarti ad avviare la tua vita qui in modo più definitivo, perlomeno dal punto di vista burocratico. Mi voltai per guardare Bettina. Quale vita qui? pensai, prima senza capire, e poi con amarezza. A dispetto del mio silenzio, Bettina proseguì, Non stiamo parlando di sostituire Amina durante la maternità, parliamo di un posto vero, un posto fisso, per te. Fece una pausa. Sempre che tu voglia accettarlo.

Annuii. Posso pensarci su? Lei si appoggiò allo schienale, un po’ delusa. Certo, prenditi una settimana per pensarci. Anche due, disse. La ringraziai, e mentre parlavo il mio sguardo scivolò di nuovo verso il tavolo d’angolo. Anton e la bionda si erano accomodati uno accanto all’altra. La donna sedeva immobile, con la scollatura che minacciava di traboccare sul tavolo, mentre intorno a lei Anton era una specie di turbinio, sembrava incapace di levarle le mani di dosso, le toccava le guance, le mani, i capelli, mentre con la bocca in perpetuo moto la innaffiava di parole. La donna ogni tanto annuiva, sorrideva timida, la poveretta sembrava travolta da tutte quelle attenzioni.

Mentre sedeva lì, sbattendo gli occhi confusa, vidi che nonostante il potere carismatico del corpo aveva un viso molto semplice, dai lineamenti anonimi. Ma Anton aveva ragione di rallegrarsi, quella donna era una prospettiva carnale di non poco conto. Anton era eccitatissimo, tanto da sembrare sul punto di esplodere. Le strinse la mano così forte da strapparle un gridolino. Lei gli rivolse un’espressione di pura adorazione, mentre lui si portava la sua mano in grembo con un sorriso malizioso. Guardandoli, capii che Anton era attraente, senza dubbio un uomo in grado di affascinare, quell’accoppiata aveva una sua strana logica.

Vuoi farmi qualche domanda? Qualcosa che possa aiutarti a decidere? Mi girai di nuovo verso Bettina. Sembrava dubbiosa, il mio comportamento l’aveva sconcertata. Si appoggiò all’indietro e disse, Dov’è la tua famiglia? Credo di non avertelo mai chiesto. Era vero, Bettina non mi aveva mai fatto domande personali. Mia madre si è trasferita a Singapore qualche anno fa. Mio padre è morto. Mi dispiace, disse Bettina, e io scossi la testa. Sono passati anni, non è successo all’improvviso. Anzi, è stato quasi un sollievo, era malato da molto tempo. Bettina si schiarì la gola. E Singapore è casa, per te? chiese, e io feci di nuovo segno di no. Credo di averci passato non più di due settimane. Mi sono trasferita qui da New York.

Sì, disse Bettina, molta gente impiegata alla Corte ha una storia familiare simile, sembra quasi che una certa mancanza di radici sia un requisito fondamentale. Annuii. Con la coda dell’occhio, vidi Anton mettersi in piedi e far alzare a fatica la donna. Lei barcollò, e mi chiesi se non fosse già ubriaca, Anton aveva ordinato champagne ed entrambi avevano svuotato la bottiglia in fretta. Attraversarono la sala, lui con il bastone, lei qualche passo indietro, sbattendo i tacchi sul pavimento. Probabile che stessero uscendo a fumare una sigaretta. Tornai a Bettina, e dissi che le avrei fatto sapere appena possibile, che non l’avrei fatta aspettare. Lei annuì, e poi le chiesi da quanto viveva nei Paesi Bassi.

Dieci anni.

Era molto tempo, eppure meno di quanto avessi pensato. Seduta lì davanti a me, Bettina sembrava davvero originaria di quella città, ne capiva la lingua e gli usi, le tacite ideologie della cultura. Alla fine c’erano voluti solo dieci anni per integrarsi, e non erano molti.

Mi sono adattata, aggiunse mentre il cameriere ci serviva il dessert. Bettina aspettò che si allontanasse, poi prese la forchetta. Vivere qui non costa poco, il paesaggio ha un che di limitato, perlomeno rispetto al posto da dove vengo io. Torno a casa quando posso. Ho bisogno di stare dove sono cresciuta, e per arrivare in Germania basta un breve tragitto in auto. Però gli olandesi mi piacciono, è gente molto neutrale, anche se perfino questo è, in sé e per sé, una cosa cui bisogna abituarsi.

In quel momento, Anton e la donna rientrarono barcollando nel ristorante. Lui le teneva un braccio intorno alla vita e lei gli si appoggiava addosso con tutto il peso, senza alcun riguardo per le sue condizioni fisiche. Anton la sosteneva senza lamentarsi, più dritto di quanto l’avessi mai visto. La bionda teneva la testa pudicamente appoggiata alla sua spalla, e vidi che aveva la pelle della nuca arrossata, i capelli in disordine. Mentre passavano, lei si chinò per sistemarsi la gonna.

Distolsi lo sguardo, avvampando. C’era qualcosa di grottesco e titillante in quello spettacolo, dovevano essere andati in bagno per una sveltina contro il muro. O forse lei si era inginocchiata per succhiarglielo mentre lui era rimasto con la schiena appoggiata alla parete, o forse
era stata lei ad appoggiarsi contro il lavandino, con il culo nel lavello. Mentre tornavano al tavolo sembravano compiaciuti e un po’ accaldati, e anche un po’ meno interessati l’uno all’altra. Poco dopo il cameriere portò gli antipasti, e mi sembrò di vedere Anton sospirare mentre guardava il suo piatto. Non avevano neanche iniziato, avevano un intero pasto davanti a sé prima di potersene andare.

La donna bionda prese la forchetta con aria svogliata e sospirò. Anton le strinse la mano, come per consolarla. Parlavano a voce bassa e in olandese, e io non avevo particolarmente voglia di origliare. Ma il mio orecchio captò comunque frammenti di conversazione, lui torna domani, è un bel posto e poi meglio del Sampurna. La parola Sampurna mi era familiare, e mi resi conto che era il nome di un ristorante non lontano dall’appartamento di Jana, c’ero passata davanti molte volte, avevo notato l’insegna ma non mi ero mai fermata a guardare dentro. Mi voltai di scatto verso di loro. Anton era impegnato a riempirsi la bocca di cibo, la bionda mangiava in fretta. Rilassati, disse Anton, e perfino dalla parte opposta della sala riuscii a cogliere l’irritazione nella sua voce. Nessuno sa che sei qui. D’istinto abbassai lo sguardo, come per nascondermi. La donna era senza dubbio il motivo per cui Anton era andato nel quartiere di Jana, forse addirittura il motivo della sua improbabile reticenza riguardo l’aggressione.

Guardai di nuovo verso il loro tavolo, verso quella strana coppia. Poi pensai a Miriam – la moglie di Anton, assente anche stavolta, che lui stava platealmente tradendo nella sala da pranzo dov’ero seduta. Pensai a Eline, all’affetto con cui aveva parlato di Miriam, definendola una madre per i suoi figli. Ma guardando quei due mangiare – Anton ora taceva, e l’unico suono proveniente dal tavolo era il tintinnio di piatti e posate – capii che non era l’infedeltà a disturbarmi. No, a disturbarmi era che nella vita di Anton ci fossero quelle correnti sotterranee nascoste, cose celate alle persone che lo conoscevano meglio di tutti. Ricordai l’evidente disagio di Anton quando Eline gli aveva chiesto se ricordava perché fosse andato in un quartiere che di solito non frequentava, e dove non aveva alcun motivo di recarsi, a parte quello che adesso sedeva accanto a lui, in quel ristorante dall’altra parte della città.

Di colpo provai un brivido di paura. Se Anton non poteva confidare nemmeno a Eline perché era andato là, allora forse era per via di Miriam. Forse, nonostante lui per primo lo aggredisse di continuo, nel suo matrimonio c’era comunque qualcosa di sacrosanto, un’illusione che Anton non osava mandare in frantumi, per quanto scissa dalla realtà di quel momento, in quel ristorante. Eccolo, il potere di un matrimonio. Pensai a me, ad Adriaan e a Gaby. Nonostante avessi lasciato l’appartamento, nonostante non fossi così ingenua, avevo ancora la speranza che alla fine Adriaan si sarebbe fatto vivo, che sarebbe tornato da Lisbona libero, senza strascichi, che sarei tornata a casa sua e che avrei accettato il posto alla Corte offertomi da Bettina.

Finalmente, però, capii di dover riconoscere quello che era, e ormai lo era da tempo, evidente. Adriaan non sarebbe tornato all’Aja senza Gaby. Il loro matrimonio era rinato, il contratto rinnovato. Proprio come aveva detto Kees. Adriaan era andato in Portogallo per riconquistare Gaby, per salvare il matrimonio, perché i figli crescessero con entrambi i genitori sotto lo stesso tetto. Forse mi aveva ingannato fin dall’inizio, o forse nemmeno lui aveva ben presente le proprie motivazioni quand’era partito, quando mi aveva chiesto di restare a casa sua. Forse solo dopo l’arrivo a Lisbona e l’incontro con Gaby, sorpreso dalla profondità dei suoi sentimenti, si era reso conto di non pensare davvero quello che mi aveva detto. L’invito a stare da lui, le chiavi sul bancone, erano stati solo uno sbaglio.

C’è qualcosa che non va? chiese Bettina. Feci segno di no, anche se mi accorsi che stavo piangendo, con tante lacrime da offuscarmi la vista.

15.

Fu in quello stato mentale che tornai a casa di Adriaan. Volevo recuperare il libro comperato nel negozio di Anton, o perlomeno era quello che mi dicevo. Sapevo che non era una buona idea, e sapevo che quel ritorno aveva altri motivi, oltre al libro. Ma l’impulso era troppo forte per resistervi, e il mattino seguente, presto, tornai nell’appartamento. Entrai con le chiavi che avevo ancora, e che erano rimaste sempre in fondo alla mia borsa. Dopo che me n’ero andata, era passata la donna delle pulizie, e ogni cosa era immacolata, qualunque traccia avessi lasciato – uno sbaffo sullo specchio, un rimasuglio nel lavandino – era stata rimossa con cura. Mentre passavo da una stanza all’altra, mi sentivo trasparente. Come priva di pelle. Mi sedetti in cucina e passai le mani sul tavolo. La forza della memoria era sorprendente, ricordavo non le settimane che avevo passato lì da sola, ma le volte che c’ero stata con Adriaan, le volte che si era seduto davanti a me a quel tavolo. Sentivo la sua presenza, come un tremito nel corpo.

Ero ancora seduta al bancone, quando sentii il rumore di una chiave nella toppa, e la porta d’ingresso aprirsi. Per un attimo pensai che potesse essere Adriaan, ma i movimenti avevano qualcosa di strano, e la mia breve euforia si trasformò quasi subito in preoccupazione. Il mio intero corpo andò in tensione, come se ci fosse un ladro, qualcuno che stava entrando con la forza. Ma la realtà era molto peggio, era la moglie di Adriaan. Entrò nel soggiorno a quell’orario improbabile, con un lungo cappotto color cammello e una grande borsa di pelle, nient’altro. Sembrava rincasare da una riunione, anche se mi sembrò impossibile, vista l’ora.

Quando mi vide si fermò, e per un lungo momento ci fissammo a vicenda. Era proprio come in fotografia: bella in modo inverosimile, e anche impeccabile, come se vivesse aspettandosi di essere osservata in continuazione. Al contrario, io avevo i capelli sporchi ed ero senza trucco. Ma anche in circostanze migliori, anche in circostanze ideali, non avrei mai potuto competere con lei. Ero consapevole della macchia che avevo sulla camicia. Lei si accigliò, lasciando cadere la borsa e sfilandosi il cappotto, e mi venne incontro. Mi sentii come se fossi stata colta sul fatto, pur senza sapere bene quale. Non sapevo nemmeno se Gaby sapeva chi fossi, o che rapporti avessi con suo marito.

Si fermò davanti a me, con aria perplessa. Forse si stava chiedendo perché mai Adriaan si fosse preso la briga di iniziare una storia con me, o forse si stava chiedendo chi mai potessi essere. A disagio, scesi dallo sgabello.

Non ci conosciamo, disse alla fine. Io sono Gaby.

Sì, dissi come una stupida.

Sei l’amica di Adriaan, disse. Quella che gli ha tenuto d’occhio l’appartamento. Parlò in tono vivace e un po’ duro, da cui si evinceva che «amica» era un eufemismo, e che sapeva benissimo chi ero. Fece una pausa e si guardò intorno. Questo posto sembra disabitato, va tutto bene?

Non avevo ancora detto ad Adriaan di essermene andata. Non la disillusi su quell’equivoco, e invece annuii. Gaby non era ostile, ma volutamente neutrale. Hai già preso un caffè? chiese di colpo. Non aspettò una risposta e mi passò davanti diretta agli armadietti, dove prese due tazze. Cosa preferisci? Cappuccino? Un americano? Dissi che l’americano andava bene, lei annuì e si voltò verso la macchinetta. Non potevo cancellare l’impressione che occupasse lo spazio con silenziosa aggressività, che preparare il caffè fosse in qualche modo un atto performativo, studiato per ricordarmi chi era la vera padrona di casa.

Ma su quello non si discuteva. Mi porse il caffè e io bevvi un sorso cauto, come se potesse essere avvelenato. Non ero l’unica a sentirmi così, anche lei mi guardava piuttosto circospetta, come se fossi un’incognita senza forma, una presenza che poteva esplodere di colpo nella sua vita. Vidi che il nostro incontro era complicato per lei come lo era per me, forse anche di più, ed ero strabiliata di non essere riuscita a pensarci prima, tutte le volte che avevo speculato su quella donna.

Forse per questo mi sentii più cordiale nei suoi confronti, e notai che la cosa era reciproca. Gaby sorrise, fragile e abbagliante al tempo stesso. Scusa se sono piombata in casa così, disse, anche se non sembrava affatto dispiaciuta. Adriaan non ti aveva avvisata? Scossi la testa, con la bocca secca. A volte è proprio pessimo, con le questioni organizzative, mormorò, come se la relazione tra me e Adriaan fosse stata solo una faccenda logistica, gestionale. O forse aveva voluto infondere al commento una nota cospiratoria; due donne che discutevano delle debolezze dell’uomo che avevano in comune. Rimasi davanti a lei, senza capire bene cosa stesse cercando di dirmi.

Si voltò e andò al lavello. Torneranno tutti tra una settimana, annunciò di spalle, mentre versava il caffè nello scarico. Adriaan e anche i ragazzi. Si voltò verso di me e incrociò le braccia. Non era chiaro chi intendesse con tutti, se la famiglia riunita al completo, lei compresa. E tu? chiesi. La guardai in faccia, non avevo nulla da perdere. Lei scosse la testa e guardò l’orologio. Prese la borsa. Ho una riunione a Rotterdam, disse. E anche se non era una risposta, anche se aveva scosso la testa in modo assolutamente ambiguo, io annuii.

Andò alla scrivania del soggiorno e aprì un cassetto, frugò tra fogli e blocchi di appunti, residui di vita che non avevo mai visto prima, o che non mi ero permessa di sfogliare. Con aria corrucciata raggruppò un mucchio di documenti e li mise nella borsa prima di richiudere il cassetto con una spinta. Recuperò il cappotto, che aveva buttato a casaccio sullo schienale del divano, e si avviò verso la porta. Cosa faccio con le chiavi? chiesi. Lei si voltò verso di me. Sotto tutta quella bellezza, vidi uno scintillio crudele negli occhi. Guardò l’appartamento, scrollò appena le spalle. Tienile, se vuoi. A me non importa. E senza aspettare una risposta si girò e se ne andò, sbattendo la porta.

Feci come mi aveva detto. Rimisi le chiavi in borsa e uscii. In tram, avevo la testa pesante come un macigno. In parte era per via di Gaby; rendeva difficile riflettere, toglieva l’aria, e mi chiesi come avesse fatto Adriaan a vivere con lei così a lungo. Ma non si trattava di questo, non solo. Era il ritorno di Adriaan. Cosa significava, e perché non l’avevo saputo direttamente da lui? Ripensai alle parole di Gaby: quando aveva detto anche i ragazzi c’era stata un’ombra di sconfitta nella voce? Come se avesse perso una battaglia, quella della custodia? Oppure era rassegnazione, per la vita lasciata a Lisbona, per la decisione di tornare?

Guardai fuori dal finestrino, cosparso di polvere e goccioline d’acqua. Dovevo pranzare con Eline, non ci vedevamo dalla cena con Anton. Pensai con disagio alla scena del ristorante il giorno prima, e mi chiesi quale fosse il mio dovere, se riferirla o meno a Eline. Ma appena arrivai al locale, quasi prima che ci sedessimo a tavola, Eline disse, Anton mi ha detto che ieri vi siete visti. Aveva un tono vivace, e vidi che era pronta al peggio. Mi guardò cauta, al tempo stesso sollecita e circospetta. Forse pensava che il fratello mi avesse sedotta, o che intendesse farlo. Mentre aspettava la mia risposta, preoccupata e con le labbra tirate, capii che quasi sicuramente si era già trovata in quella situazione, e che stava solo cercando di valutare quale ricaduta ci sarebbe stata questa volta.

Sì, dissi. Ma non pensavo mi avesse riconosciuto, sembrava piuttosto occupato. Eline sbatté gli occhi. La vidi ricalibrare i pensieri, vidi i parametri della faccenda cambiare davanti a lei. Era con una donna, dissi, riluttante.

Oh, disse.

Non conosco la natura del loro incontro, dissi.

Eline si appoggiò indietro, allo schienale, e la distanza tra noi sembrò subito appesantire l’aria. Vanno a letto insieme? Aveva un tono rigido, sembrava quasi un’altra persona. Non importa, proseguì, senza aspettare una risposta. Ho pensato spesso che fosse stata una donna a portare Anton in quel quartiere. Fece una pausa. Era una escort? Ad Anton piacciono le prostitute, ci è già andato altre volte. Aveva un tono troppo casuale, come se stesse parlando di una macchina o di una lavanderia, e una parte di me si ritrasse.

No, dissi, no. Erano... si piacevano.

Ma com’era lei?

Scossi la testa. Non saprei descriverla.

Eline mi fissò a lungo, poi annuì. In questa faccenda c’è stato qualcosa di sbagliato fin dall’inizio, disse. Io non credo ad Anton, quando dice di non ricordare nulla dell’aggressione. Conosco bene mio fratello, e so quando mente. Ma perché non dirmelo e basta? L’infedeltà non è niente di così tremendo, e poi non lo direi certo a Miriam, non è come se... Si fermò. Dovrebbe saperlo, che di me può fidarsi.

Forse si sente in imbarazzo, si vergogna, dissi. Ricordai quello che Anton aveva detto al ristorante. Rilassati. Nessuno sa che sei qui. O forse la donna è sposata, proseguii, e ci sono altre ragioni per cui non vuole coinvolgere la polizia. Forse non vuole coinvolgere lei.

Eline annuì lentamente, poi fece una breve risata. Ha una fortuna sfacciata, Anton. La polizia non ha neanche un indizio. Non sa che pesci prendere. Se sta nascondendo qualcosa, riuscirà a sfangarla. Non ci sono prove, niente, nell’intero girato di quel giorno. È come se l’aggressore non esistesse. Fece una pausa. Sai, Anton ama Miriam. Ma chiederle di accettare le condizioni del suo amore è dura.

Eline era meditabonda, sapevo che stava parlando più a se stessa che a me. Forse credeva addirittura che l’accaduto fosse stato inventato di sana pianta, l’ennesima storia di Anton. Se così era, era storia particolarmente pericolosa, la polizia avrebbe perquisito gli alloggi popolari in cerca di sospetti, ci sarebbero stati interrogatori e altro. Conseguenze che sarebbero andate ben oltre i confini della vita di Anton ed Eline. Qualcosa nel mio sguardo dovette tradirmi, perché Eline sembrò di colpo in imbarazzo. Non ci conoscevamo abbastanza bene perché simili rivelazioni ci avvicinassero ancora di più, ci eravamo esposte a vicenda nel modo e nel momento sbagliati.

Ebbi la sensazione che non ci saremmo più riviste. Mi resi conto che non sentivo Jana da settimane. Ero davvero molto sola. Forse proprio per questo, quando ci alzammo per andare via, chiesi a Eline, Davvero non c’era nulla, in tutte quelle ore di girato? Lei tentennò per un attimo, sembrò capire cosa stava dicendo del fratello. Poi scosse la testa. Niente. Nemmeno un fantasma.

16.

Una settimana dopo, il processo all’ex presidente fu sospeso. La giudice che presiedeva ordinò al pubblico ministero di fornire un ragguaglio, che evidenziasse come le testimonianze e le prove presentate alla Corte sostenessero le accuse nei confronti dell’imputato. L’ordine rappresentava un radicale cambio di rotta all’interno del processo; la difesa stava avendo un successo imprevisto. Fui convocata per un incontro finale con l’ex presidente. Nonostante il potenziale collasso dell’impianto accusatorio, non ero preparata all’atmosfera di strana eccitazione che trovai in sala conferenze quando arrivai al centro di detenzione. L’ex presidente, appena entrai, mi rivolse un’occhiata trionfale, accennò alla sedia accanto alla sua e mi disse di sedermi. C’erano solo due membri della squadra, la scena sapeva di ultimo giorno di scuola. Tirai fuori un bloc notes e un foglio, l’avvocato spiegò che nelle dichiarazioni dell’ultimo testimone c’erano alcune frasi che volevano verificare, se per favore potevo aiutarli.

Fin da subito l’ex presidente non fece grandi sforzi per seguire la conversazione, e poco dopo esclamò, Ma niente di tutto questo ha importanza, non più. Aveva modi stizziti, come sempre quando veniva messo davanti alla descrizione dei suoi crimini. L’avvocato lo guardò dalla parte opposta del tavolo e poi gli chiese se volesse fare una pausa. L’ex presidente scrollò le spalle. I suoi difensori avevano fatto per lui un lavoro straordinario, eppure, anche se si avvicinava una possibile fine del processo, il suo disprezzo nei loro confronti sembrava aumentare, vedeva già il momento in cui non gli sarebbero più serviti.

Se volete farla voi, una pausa, nessun problema, disse l’ex presidente. L’avvocato si alzò stancamente in piedi. Desidera qualcosa? mi chiese, e io feci segno di no. Uscì dalla stanza, anche se l’associato rimase. L’ex presidente si rivolse a me. Le chiedo scusa per il mio collega, disse in tono cerimonioso. È stato un processo molto lungo, molto faticoso per tutti. Parlava come se facesse parte della difesa, immaginai che sotto alcuni aspetti fosse così. Sembrò notare il mio disagio. Assunse un’espressione insoddisfatta. Qualcosa non va? chiese. Scossi la testa. Ma sì, disse lui, qualcosa non va. Mi voltai, riluttante. Aveva la faccia vicina alla mia, l’espressione gentile, perfino preoccupata. Studiò il mio viso per un lungo momento, poi fece un sorriso ironico.

Ah, disse. Capisco. Lei pensa che io sia una brutta persona. Nonostante il caso contro di me – adesso sembra quasi certo – stia per squagliarsi del tutto. Sa, i miei avvocati dicono che potrebbero rilasciarmi nel giro di qualche settimana. Presto sarò un uomo libero. Fece una pausa. Eppure queste false accuse e queste false testimonianze l’hanno messa contro di me. Alzò una mano. Non si scusi, disse, sebbene io non ne avessi intenzione. Quel teatrino alla Corte può distorcere anche la più brillante delle menti. Io guardavo fisso davanti a me, immobile.

Sa, proseguì dopo una pausa, la prima volta che l’ho vista ho pensato: questa donna mi piace, perché non è davvero occidentale. In fin dei conti, però, lei fa parte dell’istituzione per cui lavora. All’altro capo della stanza, l’associato era immobile, la testa china sui fogli. L’ex presidente fece un lungo sospiro. Anche così, si sarà pur accorta che la giustizia della Corte è lungi dall’essere imparziale, lei viene da un paese che ha commesso crimini e atrocità tremendi. In altre circostanze, a essere sotto processo sarebbe il suo Dipartimento di Stato, non io. Lo sanno tutti. E per quanto riguarda la sua razza... fece una pausa, spostando gli occhi su di me. Be’, meno si parla di quella terribile storia meglio è.

Non riuscivo a rallentare il respiro, a frenare il calore che si accumulava sottopelle. C’era poca aria nella stanza. In un angolo, la luce della telecamera di sicurezza lampeggiava. L’ex presidente continuò a guardarmi. Sorrise, come se stessimo facendo due chiacchiere innocenti. Ma poi il volto si indurì, cordialità e fascino sparirono in un battibaleno. Si appoggiò allo schienale. Vedo che se ne sta seduta lì compiaciuta, si crede al di sopra di ogni biasimo, disse. Aveva la voce bassa e rabbiosa. E perché? Lei non è migliore di me. All’improvviso scattò in avanti, arrivando con la faccia a pochi centimetri dalla mia. Forse pensa che i miei principi morali siano diversi dai suoi. Ma non c’è nulla che ci separi. Non c’è alcuna distanza, tra di noi.

Tornò a sedersi e fece un gesto di congedo. Può andare, disse, sistemandosi la cravatta e mettendosi a leggere i documenti che aveva davanti. Con lentezza, mi alzai e raccolsi le mie cose. Le gambe sembravano muoversi da sole, e quasi inciampai mentre aprivo la porta. Non riuscii a guardare l’ex presidente mentre lasciavo la stanza, non salutai. Mentre camminavo lungo il corridoio, l’associato mi corse dietro. Mi chiamò e io mi fermai, appoggiandomi al muro. Mi guardò, sbigottito.

Perché non gli ha risposto? Perché gli ha lasciato dire quelle cose?

Perché non ha detto nulla di falso.

Rimanemmo lì per un lungo momento. Ci capivamo, eppure non eravamo d’accordo. Lui era un uomo che si riteneva obiettivo. Non poteva immaginare di essere complice, non era nella sua natura. Ma io ero diversa. Non ero una di loro, non ero così. L’associato scosse la testa e se ne andò.

Non parla neanche sul serio, disse voltandosi. Lui manipola. È un manipolatore.

Lo so, dissi.

Mi allontanai. Camminai così in fretta che finii per mettermi a correre. Recuperai la borsa, aprii le porte e riemersi da quell’oscurità nella fredda aria esterna. Le macchine mi sfrecciavano accanto, sentii un clacson e feci un salto indietro. Avevo i capelli sulla faccia. Non potevo tornare alla Corte. Mi incamminai invece verso la costa, sulle dune, proseguii fino a vedere il mare e fino a quando il rumore delle onde non cancellò quello della strada, la città, il centro di detenzione e l’uomo che c’era dentro. Per un bel po’ rimasi in piedi, poi mi sedetti sulla sabbia. Il sole stava scendendo lentamente sull’acqua.

Tirai fuori il telefono e chiamai mia madre a Singapore. Era tardi, là, ma pensai che forse avrebbe risposto. Lo fece dopo il primo squillo, non avevamo l’abitudine di sentirci con regolarità e avvertii subito la preoccupazione nella sua voce. Va tutto bene? Lì per lì non seppi cosa rispondere, e poi le dissi che dovevo decidere se rimanere o meno all’Aja. Il vento era diventato più forte e lei disse, Non ti sento, la linea è disturbata. Dove sei? Sulla spiaggia, dissi, è il vento.

Oh, disse lei, e sembrò calmarsi. Una volta ti abbiamo portato su quella spiaggia. È quella dell’Aja?

Le dune, dissi. Ai confini della città.

Sì, disse. Ti ci abbiamo portato un weekend, c’era un tempo terribile. Ma a tuo padre non importava. Avete corso su e giù per le dune fino ad avere la lingua fuori, e poi abbiamo mangiato poffertjes. Te li ricordi? Li hai mangiati di nuovo? Da piccola li adoravi.

Non mi ricordavo, non sapevo di essere già stata qui.

All’Aja? Credo fossi molto piccola. A quei tempi viaggiavamo spesso. Non sembrava accorgersi di dire qualcosa di importante, forse per lei era solo un piccolo, banale aneddoto familiare. Eppure aveva la voce intrisa di nostalgia. Il vento mi schiacciava di nuovo i capelli in faccia, li scostai e mi guardai intorno. Cercai di mettere a fuoco il paesaggio, di capire la sensazione di riconoscimento che adesso mi invadeva. Mia madre aveva smesso di parlare, e mi chiese se stessi davvero bene. Sembri molto lontana, disse, con voce di colpo malinconica.

Sto bene, dissi. Tutto a posto.

Dopo poco riattaccammo. Ma io rimasi sulla spiaggia, e quando mi alzai il sole era tramontato da tempo. Ero rimasta seduta al buio per un po’.

La causa contro l’ex presidente venne ufficialmente chiusa due settimane dopo. Sapevamo tutti che sarebbe potuto accadere: la relazione del pubblico ministero, una volta presentata, era stata poco convincente. Fin dall’inizio nel caso c’erano stati punti deboli, problemi nel provare la catena di comando. Da un punto di vista morale, l’ex presidente era colpevole; da un punto di vista legale, l’ex presidente era probabilmente innocente. Era chiaro che entrambe le cose fossero possibili. Ma vedere la causa crollare sotto i nostri occhi, vedere le crepe allargarsi una dopo l’altra, fu un’altra cosa. Vidi l’incertezza invadere l’edificio, e dilagare come una muffa.

Ancora prima che il caso fosse chiuso, era partita l’attribuzione delle colpe. Da una certa distanza, la vidi abbattersi sui vari dipartimenti rapida e feroce, e non ero l’unica a chiedermi quanto ancora sarebbe durato il pubblico ministero. Per svariati giorni, alla Corte si affollarono molti giornalisti, nell’atrio, nei corridoi, a volte occupavano letteralmente la mensa, radunando le sedie per formare gruppi mentre si accalcavano con i loro caffè, e l’aria sempre sbrigativa e professionale. Li osservavamo con sospetto e soggezione, avevano la capacità di dirigere l’attenzione su un evento, una persona o un luogo in particolare schiacciando un semplice pulsante, e ora stavano usando quel potere per attirare lo sguardo del mondo sulla Corte.

Noi interpreti eravamo solo comparse alle spalle del cast principale, eppure ci muovevamo con cautela, ci sentivamo sotto osservazione. Capivamo che si stava scrivendo la storia del processo, e anche quella della Corte, la cui reputazione sarebbe stata duramente colpita da quel caso. L’ex presidente aveva già rilasciato una dichiarazione dove definiva la Corte uno strumento dell’imperialismo occidentale, per giunta inefficace. Per ovvi motivi si sentiva scagionato dal crollo della causa nei suoi confronti. La maggior parte dei giornalisti veniva alla Corte solo per le dichiarazioni di apertura e chiusura. Del tutto assenti nei mesi, negli anni del processo, ora venivano a osservare i momenti finali e il conseguente caos. Erano in possesso solo di alcuni frammenti dell’intera narrazione, eppure li assemblavano in una storia assolutamente plausibile, una storia all’apparenza solida.

Un pomeriggio, scorsi nell’atrio un capannello di giornalisti. Da lontano, tra le teste e i vari dispositivi, notai la presenza di Kees. Gesticolava alla folla riunita, e vidi con quanta convinzione trasmettesse il messaggio. Tutto era calcolato: lo sguardo in camera, quello diretto ai singoli giornalisti, l’attenta dizione mentre univa pollice e indice per poi aprire le dita in un solo, ampio movimento di pacato, educato trionfo.

Finita la sua dichiarazione, partì una valanga di domande, i telefoni vennero tesi nella sua direzione, i giornalisti gridavano il suo nome. Lui si sporse in avanti e ascoltò chi aveva avuto la meglio sui colleghi, e poi – come se avesse percepito il mio sguardo tra tutti quelli che già aveva addosso, mezza dozzina o forse più – smise di guardare la giornalista che gli stava facendo una domanda e perlustrò con gli occhi l’atrio fino al punto in cui mi trovavo. Aveva un’espressione indecifrabile, ma non c’era dubbio che stesse guardando me. Molti dei presenti si voltarono per capire cosa o chi stesse guardando. Mi fissò ancora un attimo e poi mi rivolse un solo cenno – di addio, quasi certamente – prima di riabbassare la testa verso i giornalisti.

Quella stessa settimana, dissi a Bettina che non potevo accettare la sua offerta. Non sembrò molto sorpresa: forse se l’aspettava, dato il ritardo nel darle una risposta, o forse non aveva importanza, visto il caos che stava travolgendo la Corte, o forse aveva iniziato a sospettare quello che io già sapevo, cioè che non ero adatta a quel lavoro. Nonostante questo, mi chiese con calma se avessi una ragione in particolare per rifiutare la posizione che mi veniva offerta. Le dissi la verità: non ritenevo di essere la persona giusta. Mi guardò comprensiva, e io cercai di spiegarmi meglio, le dissi che in definitiva non credevo di essere davvero qualificata per quel ruolo.

Le tue qualificazioni sono eccellenti, disse confusa, aggrottando la fronte. E il tuo lavoro è stato sempre molto preciso. Non ti avremmo fatto questa offerta se avessimo avuto qualche dubbio sulle tue competenze. Fece una pausa. Ma è anche una questione di carattere. Alcuni non hanno quello giusto per questo lavoro, e forse vale anche per te. Se le cose stanno così, è meglio capirlo subito, per il tuo bene ma anche per il nostro.

Annuii. Vidi che in cuor suo stava già cominciando a lasciarmi andare. Ebbi la sensazione di averle fatto sprecare tempo. Aveva ragione a dire che era una questione di carattere, e che il mio non era adatto. Ma non credevo più che la compostezza fosse sostenibile od opportuna. Corrodeva tutto dall’interno. Non avevo mai conosciuto nessuno più composto dell’ex presidente. Ma valeva per tutti – per l’accusa e la difesa, per i giudici e perfino per gli altri interpreti. Loro erano in grado di lavorare. Avevano il carattere giusto. Ma a quale costo interiore?

Quella sera mi avventurai fuori per prendere qualcosa da mangiare al ristorante cinese più vicino. Quando entrai, la ragazza alla cassa mi parlò in mandarino, con aria speranzosa. Si rabbuiò quando scossi la testa, e da quel momento in poi mi trattò con più disprezzo del previsto. Pensai: voglio andare a casa. Voglio stare in un posto dove sentirmi a casa. Dove fosse, non lo sapevo.

Incontrai Adriaan in un ristorante del suo quartiere. Avevamo frequentato spesso quel locale insieme, e ci ero andata molte volte nel periodo in cui stavo da lui. Ma adesso sembrava un luogo sconosciuto, come se vi fossi tornata dopo un lungo esilio. L’aspettativa del suo arrivo aveva alterato l’ambiente. Mi sedetti a un tavolo d’angolo, sentivo il corpo così pesante che pensavo non sarei più riuscita a rialzarmi. Adriaan era tornato all’Aja da una settimana, ma non ci eravamo ancora visti, solo sentiti al telefono, molti giorni prima.

Quando avevo risposto era rimasto un attimo in silenzio, poi aveva detto, Sono felice che tu abbia risposto. Te ne sei andata dall’appartamento. Aveva la voce calma, ma al tempo stesso con una nota dura, calcata, e mi resi conto in quel momento che il silenzio tra noi aveva avuto un significato, per lui. Sei stato via più a lungo di quanto mi aspettassi, dissi. Cercai di impedire alle parole di esprimere troppo; ma era impossibile parlare di attesa, di quello che una volta avevo creduto di sperare, senza sentire qualcosa spalancarsi dentro di me. Adriaan era rimasto calmo, poi aveva detto che a Lisbona le cose erano state complicate, ma che ora era tornato, e che sarebbe stato meglio parlarsi di persona.

Così ci eravamo dati appuntamento in quel locale. Lui arrivò poco dopo di me, e appena lo vidi entrare mi alzai in piedi. Attraversò la stanza. Rimasi stupita dal tumulto fisico che provai in sua presenza, una sensazione che avevo quasi dimenticato. Erano passati due mesi dall’ultima volta in cui ci eravamo visti. Ci baciammo sulle guance, come sconosciuti o semplici conoscenti, e ci sedemmo. Adriaan aveva qualcosa di diverso, che non riuscii a identificare subito, come se dal suo solito aspetto stesse emergendo un’altra versione.

Ho letto le notizie sul processo, disse.

Annuii.

La gente sarà turbata.

Io non credo che costituisca la minaccia all’esistenza della Corte di cui molti parlano. Però non è una cosa buona, nessuno è contento.

Hai mai tradotto per lui?

Mi resi di nuovo conto di quanto tempo fosse stato via.

Sì.

Che tipo era?

Meschino e vanesio, ma in grado di aggirarsi nei meandri del comportamento umano. Dove la gente comune non arriva. Il che gli dà un enorme potere, anche rinchiuso in una cella.

Ho visto alcuni servizi da Lisbona, in televisione.

Annuii e guardai da un’altra parte. Non potevo fare a meno di immaginarlo in quella città che non conoscevo, in un appartamento con Gaby e i figli, mentre magari guardava proprio i giornalisti che avevo visto raccontare la serie di eventi. Quell’altra vita mi sbocciò davanti agli occhi, e fu più doloroso del previsto.

Non sono mai stata a Lisbona.

È una bellissima città, disse, come se non potesse evitare di essere sincero. Molto diversa da questa. Gaby vorrebbe rimanere là, ma con i ragazzi è difficile. Qui hanno la loro scuola, i loro amici, non possono trasferirsi in Portogallo solo perché la loro mamma lo desidera. Ma al tempo stesso, com’è ovvio, hanno bisogno di lei.

Adriaan esitava, non voleva sbilanciarsi troppo su cosa fosse successo a Lisbona, o forse non sapeva come esprimerlo in parole. Di colpo sembrò stanco, e capii che quanto era successo era una cosa sua, proprio come le ultime settimane erano state profondamente mie, e pensai che negli anni a venire avremmo potuto convivere in uno stato di armonia, contro ogni previsione avremmo potuto invecchiare insieme. Avremmo potuto essere una di quelle coppie che si capiscono così a fondo e da così tanto tempo da non dover più spiegarsi le cose a vicenda, una di quelle coppie dove le routine sono stabilite da tempo, e la conoscenza è assoluta. Tutto questo pur senza esserci mai detti cos’era successo in quei due mesi. Nello specchietto retrovisore della nostra relazione, quel lasso di tempo sarebbe rimasto un punto cieco, da aggirare con cautela, fino a quando non fosse diventato naturale, fino a quando non ce ne saremmo neanche più accorti.

Quindi Gaby rimarrà a Lisbona? chiesi. Sì, disse lui piano. I ragazzi staranno qui con me e andranno a Lisbona durante le vacanze scolastiche. Non è l’ideale, no, ho cercato in ogni modo di convincere Gaby. Ma lei è stata irremovibile. Così ho portato indietro i ragazzi con me, e ora siamo di nuovo qui. Sotto molti aspetti, è un sollievo. Sono più tranquillo. Non è quello che speravo per i miei figli, ma quando sono tornato all’Aja mi sono accorto di quanto mi pesasse questa situazione. È bello aver fatto chiarezza, nonostante il risultato non sia perfetto.

Fece una pausa. Spero che li conoscerai presto. I miei ragazzi.

Mi hanno offerto un posto fisso alla Corte.

Ottima notizia.

Ho rifiutato.

Capisco.

Ma io vidi che non capiva, o che non era sicuro di cosa significassero quelle parole, non capiva se dicendogli che avevo rifiutato il lavoro alla Corte gli stavo anche dicendo che non sarei rimasta all’Aja, che non avrei mai conosciuto i suoi figli, che non c’era un futuro possibile per noi. Avevo dovuto prendere quella decisione senza di lui, avevo dovuto prenderla da sola. Dopo un momento, mi guardò negli occhi.

Per via del lavoro? O per causa mia?

Adriaan me lo chiese con una certa vaghezza, ma gli lessi in faccia che aveva bisogno di sapere. Lo guardai all’altro capo del tavolo e finalmente capii il significato di quello che aveva appena detto: Gaby sarebbe rimasta a Lisbona e lui era rientrato all’Aja, era tornato. Era quasi troppo, da capire. Prima che potessi parlare, Adriaan proseguì.

Mi dispiace di non averti chiamato più spesso dal Portogallo. Mi dispiace per il lungo silenzio. Scosse la testa. Le cose sono state più difficili di quanto mi aspettassi. La verità è che avrei dovuto essere preparato, dopotutto sono stato sposato a Gaby per più di quindici anni. Ma non avevo capito quanto si fossero deteriorate le cose tra di noi. Mi guardò e abbassò la voce. Mi dispiace per Gaby. Non sapevo che avesse intenzione di passare da casa, non sapevo nemmeno che sarebbe venuta all’Aja. Non avrei mai lasciato che ti accadesse una cosa del genere di proposito.

Lo disse con una certa premura nella voce, e vidi che capiva, o cominciava a capire, cos’erano state per me quelle settimane senza di lui. E anche se c’erano alcune cose che avrei voluto dirgli, parole che mi erano passate per la testa molte volte, parole che ritenevo necessarie, risposi solo: Capisco. Nelle giuste circostanze, e per la persona giusta, potevo capire qualsiasi cosa. Era una forza e insieme una debolezza. Lo guardai in faccia, e pensai che dopotutto, nonostante tutto, Adriaan potesse essere quella persona.

Pensi che potresti lasciare la Corte, disse Adriaan, ma rimanere all’Aja?

Allungai le mani verso di lui. Lui le guardò, come se non le riconoscesse, o come se le vedesse solo in quel momento. Le afferrò strette e mi guardò.

Sono andata sulle dune, l’altro giorno, dissi. Sono subito dietro la Corte, eppure non c’ero mai stata. Non ero mai andata sulla spiaggia. Era difficile credere che fosse stata sempre lì. E che quella distesa di mare fosse appena fuori dal mio campo visivo. Abbassai lo sguardo, non sapevo bene come andare avanti, le parole sembravano dire così poco. Poi ho scoperto che c’ero già stata, che avevo trascorso del tempo qui all’Aja con la mia famiglia, da bambina.

Smisi di parlare. La prospettiva che si era aperta per un istante, l’idea che il mondo dovesse ancora formarsi, o essere riscoperto, forse era qualcosa che in fin dei conti non potevo spiegare. La spiaggia non era che una semplice lingua di sabbia, e quella stessa acqua bagnava altre rive. Eppure, per un attimo, avevo sentito il paesaggio intorno a me vibrare di possibilità. Era da tanto tempo che cercavo di mettere ogni cosa al proprio posto, di tracciare una linea che le unisse.

Che ne dici di andarci? chiese Adriaan.

Alzai lo sguardo, sorpresa.

Adesso?

Sì. È qui vicino. Come sai.

Non risposi. Adriaan chiese il conto al cameriere con un cenno. Il mio silenzio durava abbastanza da significare qualcosa, ormai. Dovevo decidere. Sì, dissi piano. Lui si voltò e gli vidi negli occhi un barlume di speranza. Avremmo potuto ripartire da lì. Quello poteva bastare. Cercò la mia mano, mi guardò, e capii che avremmo potuto conoscerci. Così lo dissi di nuovo. Dissi di sì.