venerdì 18 ottobre 2019


DAPHNE DU MAURIER 
LA CASA SULL'ESTUARIO 
(The House On The Strand, 1969) 
AVVERTENZA 
Desidero ringraziare - per le informazioni che mi hanno dato e per i documenti originali che mi hanno concesso di consultare - Miss Hawkridge del County Record Office; il professor H. L. Douch, conservatore del County Museum, Truro; il professor R. Blewett, di St. Way; Mrs St. George Saunders e il Public Record Office. Vorrei inoltre porgere un ringraziamento particolare a Mr J. R. Thomas della Tywardreath Old Cornwall Society, alla squisita gentilezza del quale devo il prestito dei suoi appunti sulla storia del Maniero e del Priorato di Tywardreath. Tali note, dopo aver risvegliato il mio interesse, mi hanno guidato nel fondere realtà e fantasia in questo racconto della casa sull'estuario. 
DAPHNE DU MAURIER 
Ai miei predecessori a Kilmarth 
Le prime cose che notai furono l'aria cristallina e il verde netto della campagna, senza mezze tinte o sfumature morbide. Invece di fondersi col cielo, le colline lontane si stagliavano come rocce, così vicine da poterle quasi toccare, dandomi quel senso di sorpresa e meraviglia che prova un bambino guardando per la prima volta in un telescopio. Anche più da vicino tutto aveva la stessa durezza quasi metallica; l'erba si divideva in singoli steli scaturendo da un suolo più giovane e aspro di quello che conoscevo. 
Mi sarei aspettato - se mi fossi aspettato qualcosa - una trasformazione d'altro genere: un senso pacato di benessere; l'ebbrezza confusa di un sogno; con tutto, intorno a me, torbido e mal definito; non questo trauma terribile, una realtà più aggressiva di quanto avessi mai sperimentato finora dormendo o da sveglio. Ora ogni impressione era intensificata, ogni parte di me singolarmente consapevole: vista, udito, olfatto in qualche modo acuiti. 
Tutto tranne il tatto: non riuscivo a sentire il terreno sotto i piedi. Magnus mi aveva avvertito. «Quando il tuo corpo toccherà degli oggetti inanimati» mi aveva detto «non te ne accorgerai. Potrai camminare, stare in piedi, sederti, sfiorarli, ma non avvertirai nulla. Non preoccuparti. Il solo fatto di poterti muovere rimanendo insensibile è già metà del prodigio.» 
L'avevo naturalmente preso come uno scherzo, una delle tante lusinghe che dovevano convincermi a quell'esperimento. E invece era vero. Quando cominciai a camminare fu una sensazione elettrizzante: mi sembrava di muovermi senza sforzo, senza sfiorare neppure il terreno. 
Scendevo verso il mare attraverso campi di un'erba argentata e tagliente che brillava al sole, poiché il cielo - che un momento prima il mio sguardo normale vedeva ancora coperto - era adesso di un azzurro luminoso, estatico, senza una nuvola. Mi ricordai la bassa marea, le strisce piatte di sabbia, le cabine che allineate come denti di una bocca aperta, facevano da solido sfondo alla distesa dorata. Ora erano sparite, e con loro la fila delle case prospicienti la strada, le attrezzature del porto, l'intera Par - comignoli, tetti, edifici - e i tentacoli dilatati di St. Austell che avvinghiavano la campagna oltre la baia. Di tutto questo era rimasto solo erba e boscaglia, e le alte lontane colline, che sembravano vicinissime, mentre davanti a me il mare si srotolava nell'insenatura coprendo l'intera striscia di sabbia, come se la furia della marea avesse invaso il retroterra inghiottendolo in un solo avido morso. A nordovest la scogliera scendeva a congiungersi col mare che, restringendosi gradualmente, formava un vasto estuario in cui, affluendo verso l'interno, le acque seguivano il disegno frastagliato della costa fino a scomparire alla vista. Quando giunsi sull'orlo della scogliera, guardai in basso, dove avrebbero dovuto esserci la strada, la locanda, gli ospizi alle falde della collina di Polmear, e mi accorsi che anche qui il mare entrava nel retroterra formando un'insenatura che s'incuneava a est nella valle. Strada e case erano sparite lasciando soltanto un affossamento al centro dell'insenatura stessa. Quel canale correva così stretto tra argini di fango e sabbia, che con la bassa marea l'acqua sarebbe stata certamente risucchiata lasciando una pista paludosa da potersi affrontare a cavallo, se non a piedi. 
Scesi dalla collina e mi fermai in riva all'estuario cercando di ricostruire mentalmente il tracciato della strada che conoscevo così bene. Ma già il vecchio senso di orientamento mi aveva abbandonato; non avevo più niente che potesse guidarmi, se non il terreno stesso, la valle e le colline. 
Le acque del piccolo canale s'increspavano rapide e azzurre sulla rena, lasciandosi ai due lati una schiuma vaporosa. Le bolle che si formavano alla loro superficie si gonfiavano e svanivano e la corrente trasportava i soliti detriti senza età: grovigli di scure alghe marine, piume, ramoscelli, resti di qualche burrasca autunnale. Pur sapendo che nel mio tempo, malgrado la giornata grigia e coperta, eravamo al colmo dell'estate, mi vedevo intorno una luce più chiara che annunciava l'inverno. Doveva essere senza dubbio uno di quei pomeriggi precoci quando, prima che arrivino le nuvole della notte, il sole ancora sfolgorante, ma che già cala a ovest, arrossa cupamente il cielo. 
Misi a fuoco i primi esseri viventi: gabbiani che seguivano la marea, trampolieri minuscoli che sfioravano il pelo dell'acqua, mentre in alto, sulla collina di fronte, stagliata netta sull'orizzonte, una coppia di buoi seguiva arando la sua rotta obbligata. Chiusi gli occhi per riaprirli dopo un istante. I buoi erano spariti dietro una gobba del campo che aravano, ma il nugolo di gabbiani che li seguiva con alti gridi mi dimostrava che li avevo visti realmente e non sognati. 
Aspirando con forza mi riempii i polmoni di quell'aria fredda. Anche soltanto respirare era una gioia che non avevo ancora provata per se stessa, dotata di una speciale magia finora ignota. Impossibile analizzare i miei pensieri, lasciare la mia ragione trastullarsi con ciò che vedevo: in questo mondo nuovo di percezioni e gioie poteva servirmi di guida soltanto l'intensità dei sentimenti. 
Avrei potuto rimanere lì per sempre, affascinato, contento di galleggiare fra cielo e terra, distaccato da ogni forma di vita che conoscessi o avessi mai desiderato conoscere. Ma quando voltai a un tratto la testa mi accorsi che non ero solo. Gli zoccoli non avevano fatto rumore mentre il cavallo attraversava come me i campi, ma adesso l'urto dei ferri sui ciottoli mi colpiva violentemente gli orecchi e sentivo l'odore caldo e forte dell'animale sudato. 
Vedendo il cavaliere arrivarmi addosso, ignaro della mia presenza, indietreggiai istintivamente trasalendo. Fermato il cavallo in riva all'acqua lui guardò verso l'estuario senza dubbio per misurare il livello della marea. Io provavo per la prima volta non soltanto esaltazione, ma paura, perché quel cavaliere non era un fantasma, ma un uomo in carne e ossa, coi piedi saldamente infilati nelle staffe, la mano sulle redini, troppo pericolosamente vicino perché non mi allarmassi. Non temevo di essere travolto: ciò che mi atterriva era l'incontro stesso, il lungo arco di secoli che dividevano la sua epoca dalla mia. Distogliendo gli occhi dal mare l'uomo me li posò a un tratto addosso. Si era dunque accorto di me e io forse in quei suoi occhi profondamente incassati non vedevo un lampo di riconoscimento? Dopo aver carezzato sorridendo il collo del cavallo, lo spinse, affondandogli i tacchi nei fianchi, nello stretto canale e fino all'altra riva. 
Non mi aveva visto, non poteva vedermi: viveva in un altro tempo. E allora perché quel guizzo improvviso sulla sella, quel voltarsi a guardare proprio verso di me? "Seguimi, se osi!" sembrava stranamente sfidarmi. 
Misurai la profondità del guado, e benché l'acqua arrivasse ai garretti del cavallo, m'immersi per seguirlo senza curarmi di bagnarmi, rendendomi conto, quando fui sull'altra riva, di essere completamente asciutto e di non aver provato alcuna sensazione. 
Il cavaliere aveva cominciato a salire sulla collina - seguito sempre da me - per un sentiero fangoso e ripido che nel suo tratto più alto svoltava bruscamente a sinistra. Va anche oggi nella stessa direzione, mi dissi, soddisfatto di averlo riconosciuto - lo avevo risalito in macchina appena quella mattina. Ma la rassomiglianza finiva qui perché la stradicciola non era più bordata da siepi come ai miei tempi. A destra e a sinistra campi arati, esposti ai venti, e chiazze di brughiera ispida punteggiate di ciuffi di ginestre. Quando raggiungemmo la coppia di buoi vidi per la prima volta l'uomo che li guidava: una misera, piccola figura incappucciata, curva su un pesante aratro di legno. Alzò una mano gridando un saluto al cavaliere e riprese ad arrancare, con i gabbiani che gli schiamazzavano e giostravano al disopra della testa. 
Quel saluto così naturale fra i due uomini mi aiutò a superare lo choc dell'incontro col cavaliere al guado. Il timore diventò meraviglia, e, infine, accettazione. Mi ricordai il primo viaggio fatto in Francia da bambino, in vagone letto, quando appena sveglio avevo sollevato il finestrino e avevo visto passare campi, villaggi, città sconosciute e uomini curvi a coltivare la terra come colui che spingeva ora l'aratro. Mi ero chiesto con stupore infantile: "Sono vivi come me, o fingono soltanto?". 
La mia meraviglia questa volta era più giustificata. Guardavo il mio cavaliere e il suo cavallo, ed ero così vicino a loro che avrei potuto toccarli. Esalavano entrambi un odore così pungente e forte da far pensare all'essenza stessa della vita. I fianchi rigati di sudore del cavallo, la sua criniera incolta, il morso macchiato di schiuma, e quel largo ginocchio della gamba del cavaliere, chiusa nella calza, quel giustacuore di pelle allacciato sulla tunica, la faccia stessa, rubizza e scarna, incorniciata da capelli neri spioventi fin sotto le orecchie. Ecco la realtà: ero io la presenza estranea. 
Morivo dalla voglia di allungare una mano per posarla sul fianco del cavallo. Ma non avevo dimenticato l'avvertimento di Magnus: «Se incontrerai qualcuno del passato, per amor del cielo, non toccarlo. Gli oggetti inanimati non contano, ma se ti azzardassi a metterti in contatto con un essere vivente, il tuo legame col loro mondo si spezzerà e tornerai in te con una scossa sgradevolissima. Lo so perché l'ho provato». 
Dopo aver attraversato i campi il sentiero prese a scendere e l'intero paesaggio alterato mi si offrì allo sguardo. La cittadina di Tywardreath era completamente cambiata da come l'avevo vista poche ore prima. Le villette e le case, che estendendosi a nord e a ovest della chiesa formavano come il disegno di un rompicapo, non c'erano più e al loro posto vedevo un villaggio minuscolo che sembrava costruito da un bambino, simile alla fattoria in miniatura con cui giocavo sul pavimento della mia camera da letto. Basse casupole dal tetto di paglia accatastate intorno a un gran prato, dove si aggiravano maiali, oche, due o tre cavallucci zoppicanti, e gl'inevitabili cani randagi. Da quelle umili dimore salivano spirali di fumo, non dai camini, ma da qualche buco dei tetti. Poi grazia e simmetria si riaffermarono, perché al disotto di quell'agglomerato c'era la chiesa, ma non quella che avevo vista poche ore prima. Questa era più piccola, senza campanile, comprendente, o così sembrava, un caseggiato basso e lungo, di pietra, cinto da muri anch'essi di pietra. Nel recinto c'erano frutteti, giardini, rustici e un boschetto da cui il terreno declinava fino a una valle risalita dal lungo braccio del mare. 
Mi sarei fermato ad ammirare quella vista così semplice e bella, ma il mio cavaliere proseguì e fui costretto a seguirlo. Il sentiero ci portò sullo spiazzo erboso. Mi trovavo ora al centro della vita del villaggio. Nell'angolo più vicino del prato alcune donne erano ferme accanto al pozzo, con le lunghe gonne rimboccate intorno alla vita e il capo fasciato da un panno che le copriva fino al mento lasciando fuori soltanto gli occhi e il naso. 
L'arrivo del mio cavaliere creò un certo trambusto. I cani cominciarono ad abbaiare, altre donne sbucarono dalle casupole - miseri tuguri, mi accorsi esaminandole più da vicino - mentre da un capo all'altro del prato la gente si chiamava rivelando malgrado l'urto sgraziato delle consonanti, l'inconfondibile accento gutturale della Cornovaglia. 
Dopo aver girato a sinistra il cavaliere smontò davanti al muro di cinta, buttando le redini su una forcella piantata in terra, e varcò un ampio portone bullonato di ottone. In una mensola al disopra dell'arco, c'era una statua di legno di un santo in abito talare che stringeva nella destra la croce di Sant'Andrea. La mia educazione cattolica, da tempo dimenticata, a volte perfino derisa, m'indusse a farmi il segno della croce davanti alla porta. E proprio allora un rintocco proveniente dall'interno mi fece vibrare nella memoria una corda così profonda che esitai a entrare, quasi temessi che quell'antico potere potesse farmi tornare fanciullo. 
Non avrei dovuto preoccuparmi. Al mio sguardo non apparvero sale e corridoi ben ordinati, chiostri tranquilli, odore di santità, silenzio nato dalla preghiera. Il portone dava in un cortile fangoso nel quale due uomini rincorrevano un ragazzo atterrito, flagellandogli con dei correggiati le cosce nude. A giudicare dalla tonaca e dalla tonsura, erano entrambi monaci, e il ragazzo un novizio, con le vesti legate al disopra della vita per rendere quello sport più piccante. 
Il cavaliere assisté senza battere ciglio alla pantomima. Intervenne solo quando vide infine il ragazzo stramazzare a terra con la tonaca rovesciata fino alle orecchie, che gli denudava le gambe magre e la schiena. «Non dissanguatelo, per ora» gridò. «Al Priore il porcellino da latte piace servito senza salsa. Ai contorni ci penserà quando il maialino si sarà irrobustito.» La campana seguitava intanto a suonare, chiamando alla preghiera, senza che quei due bravi sportivi del cortile mostrassero di udirla. 
Applaudito per la sua tirata, il mio cavaliere traversò il cortile ed entrò nell'edificio che avevamo di fronte, infilando un corridoio che, a giudicare dall'odore di pollo rancido, appena addolcito dal fumo di torba del camino, doveva dividere la cucina dal refettorio. Disprezzando sia il tepore e gli aromi stuzzicanti della cucina alla sua destra che il conforto più freddo del refettorio con le nude panche alla sua sinistra, andò diritto a una porta al centro e salì una rampa di scale fino al piano superiore, dove un altro corridoio era sbarrato in fondo da una nuova porta. Dopo aver bussato entrò senza attendere risposta. 
La stanza, col soffitto di travi e le pareti intonacate, sarebbe stata forse accogliente se austeramente pulita e lustrata a fondo come quella di cui conservavo dall'infanzia un ricordo così vivo. Il suo pavimento era coperto di paglia e di ossi mezzo rosicchiati dai cani. Contro la parete opposta, il letto, con le sue tende ammuffite, doveva servire per buttarci sopra alla rinfusa quello che capitava: un tappetino di pelle di pecora, un paio di sandali, una forma di formaggio su un piatto di stagno, una canna da pesca, e lì in mezzo un levriero sdraiato che si grattava. 
«Salve, Padre Priore» disse il mio cavaliere. 
Qualcosa si rizzò a sedere nel letto facendo saltare a terra il levriero: un monaco anziano dalle guance rosse, destato di soprassalto. 
«Avevo ordinato di non disturbarmi!» 
Il mio cavaliere si strinse nelle spalle. «Neppure per l'Ufficio?» chiese, e posò la mano sul cane che gli si strofinò contro agitando la coda smozzicata. 
Insensibile al sarcasmo, il Priore si avvolse meglio nelle coperte, piegando le ginocchia. «Ho bisogno» replicò «di tutto il riposo possibile per poter ricevere degnamente il Vescovo. Avete sentito la notizia?» «Corrono sempre tante voci» disse il cavaliere. 
«Questa volta è vero. Sir John ci ha avvertiti ieri. Il Vescovo è già partito da Exeter. Sarà qui lunedì, al ritorno da Launceston, aspettandosi da noi ospitalità e alloggio per una notte.» 
Il cavaliere sorrise. «Il Vescovo sa scegliere il momento delle sue visite. Messa di San Martino e carne fresca macellata per la sua cena. Dormirà con la pancia piena, non preoccupatevi.» 
«Non dovrei preoccuparmi?» La voce petulante del Priore era salita di tono. «V'illudete che possa tenere a bada il mio gregge ribelle? Che impressione faranno su quella scopa nuova del Vescovo, deciso com'è a ripulire l'intera diocesi?» 
«Si comporteranno bene se prometterete di ricompensarli. Conservatevi il favore di Sir John Carminowe; l'essenziale è questo.» 
Il Priore si agitava sotto le coperte. «Non è facile abbindolare Sir John. E poi, deve barcamenarsi anche lui, tenendo un piede in ogni staffa. È il nostro patrono, ma non mi sosterrà se non giovasse ai suoi scopi.» 
Il cavaliere si piegò a prendere un osso e lo buttò al cane. «Quale lord del maniero, Sir Henry, avrà in questa occasione la precedenza su Sir John» disse. «Non vi farà vergognare presentandosi vestito da penitente. Scommetto che anche adesso è inginocchiato nella cappella.» 
Il Priore non sembrò divertito. «Come intendente di Sua Grazia dovreste rispettarlo di più» osservò. Aggiunse soprapensiero: «Henry di Champernoune è un uomo di Dio migliore di me». 
Il cavaliere rise. «Lo spirito sarebbe forte, Padre, ma la carne?» Giocherellava con l'orecchio del cane. «Meglio non parlarne prima della visita del Vescovo.» Si raddrizzò avvicinandosi al letto. «Il bastimento francese è all'ancora davanti a Kylmerth. Vi rimarrà per altre due maree, nel caso voleste affidarmi qualche messaggio.» 
Il Priore respinse le coperte e saltò dal letto. «Perché, nel nome di Antonio benedetto, non mi avete avvertito subito?» urlò mettendosi a frugare nelle carte ammonticchiate su una panca. Offriva uno spettacolo pietoso con quelle gambe stecchite che gli uscivano dal camice, tutte macchiate dalle vene varicose e i piedi incredibilmente sporchi dagli alluci a martello. 
«Non riesco a trovare niente, in questo bailamme» si lamentava. «Perché le mie carte non sono mai in ordine? Perché fratello Jean non è mai qui quando ne ho bisogno?» 
Afferrò un campanello che era sulla panca e prese a scuoterlo protestando contro il cavaliere che aveva ricominciato a ridere. Argomentai, dalla fretta con cui arrivò un frate, che costui doveva origliare dietro la porta. 
Era giovane e bruno, con due occhi notevolmente brillanti. 
«Ai vostri ordini, Padre» disse in francese. E prima di traversare la stanza per raggiungere il Priore, ammiccò al cavaliere. 
«Avanti dunque, cosa aspettate?» si spazientì il Priore, voltandosi di nuovo verso la panca. 
Nel passare davanti al cavaliere il monaco gli aveva bisbigliato all'orecchio: «Vi porterò le lettere stasera e continuerò a istruirvi sulle arti che desiderate imparare». 
Dopo essersi inchinato con aria ironica, il cavaliere si avviò alla porta. «Buona notte, Padre Priore. Non rimanete sveglio a pensare alla visita del Vescovo.» 
«Buona notte, Roger, buona notte. Dio sia con voi.» 
Mentre uscivamo insieme il cavaliere annusò con una smorfia l'aria. Al tanfo della stanza del Priore si mescolava un soffio di profumo esalato dalla tonaca del frate francese. 
Scendemmo le scale, ma prima di riattraversare il corridoio il cavaliere aprì, dopo una breve pausa, un'altra porta e guardò dentro. La porta dava nella cappella dove stavano pregando i monaci che poco prima si divertivano col novizio. Ossia, per essere più esatti, facevano i gesti della preghiera: muovevano le labbra tenendo gli occhi abbassati. C'erano anche altri quattro frati che non avevo visti nel cortile, due dei quali dormivano saporitamente nei loro stalli. Quanto al novizio, piegato sulle ginocchia, piangeva amaramente in silenzio. L'unica figura dignitosa era quella di un uomo di mezza età, avvolto in un lungo mantello, con un viso amabile inquadrato da riccioli grigi. Giungendo con riverenza le mani, teneva gli occhi fissi sull'altare. Immaginai che fosse Sir Henry Champernoune, lord del maniero e padrone del mio cavaliere, di cui il Priore aveva vantato la pietà. 
Chiusa la porta il cavaliere tornò attraverso il corridoio nel cortile ormai vuoto e uscì dal Priorato. Il prato era deserto, le donne avevano abbandonato il pozzo, il cielo nuvoloso annunziava la fine del giorno. Il cavaliere montò in sella e prese per un sentiero che attraversava le terre arate. 
Non avevo nessuna idea dell'ora, né della sua né della mia. Ero sempre insensibile e potevo camminargli accanto senza sforzo. Arrivammo al canale e questa volta, dato che c'era bassa marea, lui poté guadarlo senza che il cavallo si bagnasse i garretti, poi riprendemmo a salire per altri campi. 
Quando arrivammo in cima alla collina, e la campagna riprese l'aspetto che mi era familiare, mi resi conto, sempre più eccitato e sorpreso, che il mio cavaliere mi stava riportando a casa, perché Kilmarth, la villa che Magnus mi aveva prestato per le vacanze estive, era dietro il boschetto che ci stava davanti. Accanto a noi pascolavano sei o sette cavalli. Nell'avvistare quello del cavaliere uno di essi alzò la testa nitrendo. Poi fecero tutti insieme uno scarto e galopparono via dopo aver scalciato verso di noi. Il cavaliere proseguì attraverso una radura del bosco; poco dopo il sentiero prese a scendere e nella valle ci trovammo improvvisamente davanti a una casa di pietra dal tetto di paglia, circondata da un cortile fangoso. Una parte di quell'abitazione era adibita a porcile e a stalla; dall'unica apertura del tetto usciva una spirale di fumo azzurro. Riconobbi soltanto il terreno su cui sorgeva il fabbricato. 
Attraversato il cortile, il cavaliere smontò chiamando qualcuno, e un ragazzo accorse dalla stalla a prendersi il cavallo. Era più giovane di lui, con gli stessi occhi profondamente incassati, probabilmente era il fratello che condusse via l'animale mentre il cavaliere entrò - con me alle calcagna - dalla porta aperta nella casa che, a prima vista, sembrava consistere di una sola stanza. Il fumo mi permise di notare soltanto che i muri erano di quel miscuglio di gesso e paglia, che nella regione chiamano cob, e il pavimento di nuda terra, neppure coperto dalle solite stuoie. 
Nel fondo una scala a pioli portava a una soffitta più alta di forse due metri della stanza stessa; guardando in su scorsi due pagliericci stesi sul tavolato. Il camino, in cui ardevano torba e ginestra, era sistemato in un'alcova del muro, e da una pentola appesa fra due sbarre di ferro conficcate nel pavimento, usciva un vapore più leggero del fumo. Davanti al fuoco era inginocchiata una ragazza con i capelli lisci che le arrivavano a metà schiena. Udendo il cavaliere gridarle un saluto, alzò gli occhi e gli sorrise. 
Improvvisamente - io gli ero dietro - lui si voltò fissandomi, eravamo quasi spalla a spalla. Sentendomi sulla guancia il suo fiato allungai istintivamente una mano per respingerlo. Sentii un dolore acuto alle nocche delle dita che cominciarono a sanguinare, e intanto udivo come un rumore di vetro infranto. Cavaliere, ragazza, camino acceso, tutto era sparito: mi trovavo nel vecchio cortile affossato di Kilmarth e avevo infilato il pugno in una delle finestre della vecchia cucina del seminterrato. 
Incespicando varcai la porta della stanza della caldaia assalito da violenti conati di vomito, non per la vista del sangue, ma perché ero scosso dalla testa ai piedi da un'intollerabile nausea. Tremando in tutto il corpo, mi addossai al muro di pietra della stanza della caldaia, lasciandomi scorrere sul polso il sangue che stillava dalla mano ferita. 
Nella biblioteca al piano di sopra il telefono si scatenò insistente con il richiamo di un mondo scomparso, indesiderato. Lo lasciai suonare. 
Dovettero passare più di dieci minuti prima che la nausea si calmasse. Ero rimasto seduto su una catasta di legna nella stanza della caldaia. Il peggio era la vertigine. Non mi azzardavo a rimettermi in piedi. Il taglio alla mano non era profondo, ed ero riuscito a tamponare il sangue col fazzoletto. Da dov'ero vedevo la finestra rotta e le schegge di vetro nel patio sottostante. Più tardi sarei forse riuscito a ricostruire la scena, a stabilire dove si trovava esattamente il mio cavaliere, a calcolare lo spazio che occupava una volta quella casa sparita da tanto tempo e dove, allora, non c'erano né patio né cantine: ma adesso non me la sentivo proprio. Ero esausto. 
Mi chiesi che figura avrei fatto se qualcuno mi avesse visto camminare nei campi, traversare la strada ai piedi della collina, e risalire il sentiero di Tywardreath. Che c'ero stato era sicuro. Le mie scarpe infangate, la mia camicia inzuppata di un sudore rappreso, non facevano certo pensare a una pigra passeggiata sulla scogliera. 
Poco dopo, passate nausea e vertigine, risalii lentamente per la scala di servizio nell'atrio del piano superiore. Andai nel ripostiglio dove Magnus teneva i suoi impermeabili, gli stivali, e il resto del suo ciarpame, e mi guardai nello specchio del lavandino. Sembravo abbastanza normale. Un po' pallido intorno alla bocca, ma nulla di più. 
Avevo soprattutto bisogno di qualcosa di forte. Ma mi ricordai un'altra raccomandazione di Magnus. «Non bere alcool per almeno tre ore dopo aver preso la droga,» mi aveva detto «e anche poi vacci piano.» Un tè era un povero surrogato, ma mi avrebbe forse fatto bene. Andai in cucina a prepararmelo. 
Quando Magnus era ragazzo la cucina era la sala da pranzo della famiglia. L'aveva trasformata lui negli ultimi anni. Mentre aspettavo che l'acqua bollisse, guardai dalla finestra nel cortile: un recinto asfaltato chiuso da muri incrostati di muschio. In un accesso d'entusiasmo, non so quando, Magnus aveva cercato di farne un patio, come lo chiamava lui, dove avrebbe potuto ciondolare nudo se ci fosse mai stata un'ondata di caldo. Sua madre, mi spiegò, non si era mai curata di quel cortile, perché ci si arrivava da quelli che erano allora i servizi. 
Lo guardai ora con occhi diversi. Impossibile far risorgere quello che avevo visto poco prima: il cortile fangoso con la stalla, il sentiero che portava al boschetto, e io stesso che seguivo fra gli alberi il cavaliere. La mia avventura era forse soltanto un'allucinazione provocata da quella droga infernale? Mentre riflettevo e bevevo il mio tè, il telefono ricominciò a squillare nella biblioteca. Sospettai che fosse Magnus, e non mi sbagliavo. La sua voce, secca e decisa come sempre, mi rimise in sesto più del drink proibito e della tazza di tè. Mi lasciai cadere su una sedia e mi preparai ad affrontarlo. 
«Ti sto chiamando da ore» cominciò. «Hai dimenticato che mi avevi promesso di telefonarmi alle tre e mezzo?» 
«No» risposi. «Ma ero occupato diversamente.» 
«Me lo sono immaginato. Ebbene?» 
Il momento era di quelli che vanno gustati. Il pensiero di poter tenere sospeso Magnus... mi dava una piacevole sensazione d'importanza. Ma era inutile; non potevo continuare a tacere. 
«La pozione ha funzionato» dissi. «Pienamente.» 
Il silenzio all'altra estremità del filo mi rivelò che Magnus non si aspettava quella notizia. Aveva previsto un fiasco. La sua voce, quando mi giunse, era molto più bassa, come se parlasse fra sé. 
«Non riesco a crederlo. È meraviglioso... Hai fatto esattamente come ti ho detto? Hai seguito le istruzioni?» Continuò, prendendo come sempre il comando: «Raccontami tutto dal principio... Un momento... stai bene?». 
«Sì» risposi «mi pare di sì, tranne che sono terribilmente stanco e mi sono tagliato una mano, e per poco non ho vomitato nella stanza della caldaia.» 
«Sciocchezze, ragazzo! Sciocchezze... Poi si prova spesso quel senso di nausea. Ma passa presto. Continua.» 
«Prima di tutto» ripresi (mi divertivo un mondo) «non ho mai visto qualcosa di più macabro del tuo cosiddetto laboratorio. La stanza di Barbablù sarebbe una definizione più esatta. Tutti quegli embrioni sotto vetro, e quella disgustosa testa di scimmia...» 
«Ottimi esemplari... di grande valore» m'interruppe lui. «Ma non scantonare. Io so a che cosa servono; tu no. Dimmi quello che è accaduto.» 
Bevetti un sorso del mio tè, che si stava rapidamente raffreddando, e posai la tazza. 
«Ho trovato tutte le bottiglie in fila e scrupolosamente etichettate - A, B, C, - nell'armadio chiuso a chiave. Ho versato in un bicchiere esattamente tre misurini dalla A, ho richiuso l'armadio e il laboratorio e mi sono messo ad aspettare. Beh, non mi è successo nulla.» 
Tacqui per permettergli di digerire quelle notizie. 
«E così,» ripresi, poiché lui non faceva commenti, «me ne sono andato in giardino. Ancora nessuna reazione. Mi avevi avvertito che il fattore tempo variava; che potevano passare tre, cinque, anche dieci minuti prima che accadesse qualcosa. Mi aspettavo, anche se non me l'avevi esattamente detto, di provare una certa sonnolenza. Ma vedendo che continuava a non succedere niente ho pensato di uscire a fare due passi. Ho scavalcato il muro dalla parte della serra, sono sceso nel campo e mi sono avviato verso la scogliera.» 
«Pezzo di cretino!» sbottò Magnus. «Ti avevo ordinato di non muoverti di casa, perlomeno la prima volta.» 
«Lo so,» replicai «ma, francamente, non mi aspettavo un successo simile. Se la droga funzionasse, avevo comunque deciso, mi siederò e mi lascerò trascinare in qualche sogno delizioso...» 
«Cretino» ripeté lui. «Non è così che accade.» 
«Grazie» risposi. «Ora lo so anch'io.» 
Gli descrissi minutamente la mia esperienza dal momento in cui la droga aveva cominciato a farmi effetto, fino al vetro rotto nella cucina del sottosuolo. 
Magnus non m'interruppe, tranne per bisbigliare, quando tacqui per riprendere fiato e bere un sorso di tè: «Continua... continua...». 
Quando ebbi finito il mio resoconto, compreso l'epilogo nella stanza della caldaia, pensai, talmente il silenzio era profondo, che fossimo stati interrotti. 
«Magnus,» chiesi «ci sei?» 
La sua voce chiara e forte ripeté le parole dette all'inizio della nostra telefonata: 
«È meraviglioso! Assolutamente meraviglioso!». 
Forse... Ma per essere sincero, dopo aver rivissuto per due volte tutto, ero sfinito, morto. 
Magnus cominciava a parlare in fretta, e mi sembrò di vederlo, seduto al suo scrittorio di Londra, reggendo con una mano il ricevitore, e tendendo l'altra verso l'immancabile taccuino e la matita. 
«Ti rendi conto» chiese «che questa è la cosa più importante che sia accaduta da quando i chimici scoprirono il teonanacatl e l'ololiuqui? Quelle sostanze... si limitano a spingere il cervello in diverse direzioni, in modo assolutamente caotico. La mia è invece controllata, specifica. Sapevo di essere sull'orlo d'una scoperta potenzialmente tremenda, ma non potevo giurare, avendola sperimentata soltanto su di me, che la droga non fosse un allucinogeno. Se lo fosse, tu e io avremmo avuto le stesse reazioni fisiche - perdita del tatto, una maggiore intensità di visione, eccetera - ma non ci saremmo ritrovati tutti e due in un altro tempo. Il risultato tremendamente elettrizzante, è questo...» 
«Vuoi dire» lo interruppi «che quando hai preso la droga sei tornato anche tu indietro nel tempo e hai visto quello che ho visto io?» 
«Precisamente. E non me l'aspettavo, come non te l'aspettavi tu. No... non è esatto, perché un certo esperimento di cui mi occupavo allora presentava già una vaga possibilità di riuscita. C'entravano il D.N.A., gli enzimi catalitici, gli equilibri molecolari, eccetera. Non mi dilungo perché è roba troppo astrusa per te, ragazzo. Ma ciò che m'interessa in questo momento è il fatto che tu e io, si direbbe, siamo andati a finire nello stesso periodo di tempo. Il tredicesimo o il quattordicesimo secolo, se non sbaglio, a giudicare dagli abiti. Ho visto anch'io l'individuo che descrivi come il tuo cavaliere - Roger, non è così che lo chiamava il Priore? - e la ragazza accoccolata davanti al fuoco, e qualcun altro, un monaco, che fa pensare a un rapporto col monastero medievale che faceva parte una volta di Tywardreath. Il problema è questo: la droga inverte forse un qualche processo chimico dei sistemi mnemonici del cervello, respingendolo in una particolare situazione termodinamica esistente nel passato e facendo così rivivere quelle sensazioni in tutto il resto del cervello stesso? E se è così, perché quel processo molecolare sembra scegliere proprio quel dato periodo di tempo? Perché non invece ieri, cinque, centoventi anni fa? Potrebbe darsi - ed è questo che mi affascina - che si stabilisca un legame molto forte fra il drogato e la prima immagine umana che gli s'imprime nel cervello sotto l'influenza della droga stessa. Tanto tu che io abbiamo visto il cavaliere e sentito l'impulso prepotente di seguirlo. Ciò che ancora non capisco è perché lui ci faccia da Virgilio in questo particolare Inferno, ma è proprio così e non possiamo sfuggirgli. Ho ripetuto già due volte il "viaggio" - per usare il linguaggio dei miei studenti - e me lo ritrovo sempre accanto. Vedrai che la prossima volta ti capiterà ancora la stessa cosa. È come se fossimo affidati a lui.» 
La sua convinzione che avrei continuato a fargli da cavia non mi stupì. Era tipica della nostra lunga amicizia, sia a Cambridge che in seguito. Lui batteva il tempo io ballavo: Dio solo sa in quante mai scappatelle riprovevoli della nostra vita di studenti, e dopo, quando ognuno aveva seguito la sua strada, lui per arrivare alla cattedra di biofisica dell'Università di Londra, io a un impiego più modesto e banale, in una casa editrice. 
Il mio matrimonio con Vita aveva creato fra noi, tre anni prima, un primo allontanamento, forse salutare per entrambi. L'offerta, ora, della sua casa per le vacanze estive, che avevo accettato con gratitudine ansioso com'ero di guadagnar tempo prima di decidermi ad assumere, come avrebbe voluto Vita, la direzione di una fiorente casa editrice di New York appartenente al fratello, non mi sembrava più completamente disinteressata. Il miraggio di lunghe, pigre giornate passate a poltrire nel giardino o a veleggiare nella baia, con cui Magnus mi aveva adescato, cominciava a svanire... 
«Senti, Magnus,» gli dissi «oggi ho fatto per te quello che sai perché la faccenda m'incuriosiva e anche perché non aveva in fondo importanza, finché ero solo qui, se la droga funzionava o no. Ma è escluso che possa continuare. Quando arriveranno Vita e i ragazzi dovrò dedicarmi a loro.» 
«Quando arriveranno?» 
«Le vacanze dei ragazzi cominceranno all'inarca fra una settimana. Vita tornerà in volo da New York per andarli a prendere in collegio e portarli qui.» 
«Allora va tutto bene. In una settimana puoi concludere. Comunque, ora debbo lasciarti. Ti chiamo domani alla stessa ora. Ciao.» 
Se n'era già andato, piantandomi col ricevitore in mano, e con cento domande da rivolgergli ancora: e non c'era niente di deciso. Era un modo di fare maledettamente tipico di Magnus. Non mi aveva neppure detto se dovevo aspettarmi qualche reazione secondaria dal suo diabolico filtro di funghi sintetici e cellule cerebrali di scimmia, e quale fosse la droga che aveva estratto da quelle sue disgustose bottiglie. Potevano riprendermi capogiro e nausea. Potevo diventare improvvisamente cieco, o pazzo, o tutt'e due le cose. All'inferno Magnus e il suo mostruoso esperimento! 
Decisi di salire di sopra a farmi un bagno. Sarebbe stato un bel sollievo togliermi di dosso la camicia inzuppata di sudore, i calzoni laceri, e immergermi in una vasca di acqua bollente, profumata con i sali. Magnus era sempre stato un raffinato. A Vita sarebbe piaciuto l'appartamento che aveva messo a nostra disposizione, il suo, per essere esatti: stanza da letto con una spettacolare vista della baia; bagno e spogliatoio. 
Mi stesi nella vasca, lasciando che l'acqua mi arrivasse al mento, ripensando alla nostra ultima sera a Londra, quando Magnus mi aveva proposto quel suo dubbioso esperimento. Aveva cominciato col dirmi che se cercavo un posto dove portare i ragazzi in vacanza, Kilmarth era a mia disposizione, e io avevo telefonato a Vita, a New York, incitandola ad accettare. Piuttosto fredda - essendo come la maggioranza delle americane uno di quei fiori di serra che preferiscono godersi le vacanze sotto un cielo mediterraneo, con un casinò nei paraggi - mia moglie aveva obiettato che in Cornovaglia pioveva sempre, no?, e che la casa sarebbe stata forse fredda. Come ci saremmo organizzati, aveva chiesto, per i rifornimenti? L'avevo rassicurata su tutti questi punti, perfino sulla donna a ore che sarebbe venuta tutte le mattine dal paese, e lei si era infine arresa; soprattutto, credo, perché le avevo spiegato che nella cucina trasportata di recente al primo piano, c'erano una lavapiatti e un frigorifero enormi. Magnus si era molto divertito quando glielo avevo raccontato. 
«Tre anni di matrimonio» aveva commentato «e nella vostra vita coniugale la lavapiatti conta già più del letto a due piazze con cui speravo di rendervi felici. Ti avevo avvertito che non sarebbe durato. Il matrimonio, intendo, non il letto.» 
Sorvolai sull'argomento un po' spinoso del mio matrimonio, che dopo i primi dodici mesi di passione impulsiva si era alquanto afflosciato. In verità non andavamo più d'accordo perché io volevo rimanere in Inghilterra e Vita voleva trascinarmi negli Stati Uniti. Comunque, poiché né il mio matrimonio né il mio futuro impiego lo riguardavano, Magnus spostò il discorso sulla casa, i cambiamenti che vi aveva fatto dopo la morte dei suoi genitori (mentre eravamo a Cambridge vi avevo passato a più riprese con lui dei lunghi periodi); e infine parlò della vecchia lavanderia seminterrata che aveva trasformata in laboratorio per potercisi "divertire" con degli esperimenti che non avevano niente a che vedere col suo lavoro di Londra. 
Quell'ultima sera aveva preparato abilmente il terreno con un pranzo squisito, e io mi ero lasciato soggiogare come al solito dalla sua personalità. 
«Credo di aver avuto successo» dichiarò a un tratto «in certe mie particolari ricerche. Sono riuscito ad ottenere, mescolando una certa pianta con delle sostanze chimiche, una droga che ha sul cervello un effetto straordinario.» 
Lo disse quasi con indifferenza. Ma Magnus prendeva sempre quel tono casuale quando alludeva a qualcosa di molto importante per lui. 
«Pensavo» replicai «che tutte le droghe cosiddette dure, avessero quest'effetto. Chi le prende, alludo alla dimescalina, all'L.S.D., eccetera, viene trasportato in un mondo fantastico popolato di meravigliosi fiori esotici e si crede in paradiso.» 
Magnus mi versò dell'altro brandy. «Il mondo dove sono penetrato non aveva niente di fantastico. Tutto era perfettamente reale.» 
La mia curiosità fu stimolata. "Per attirarlo," mi dissi "questo mondo diverso da quello egoistico di cui è il centro, deve avere delle attrattive speciali." 
«Che genere di mondo?» 
«Il passato.» 
Ricordo che quando presi il bicchiere ridevo. «Tutt'i tuoi trascorsi, intendi? I misfatti di una gioventù spesa male?» 
«No, no,» e scosse spazientito la testa «assolutamente nulla di personale. Ero soltanto un osservatore. Ossia...» Si strinse nelle spalle. «Non ti dirò quello che ho visto; non voglio sciuparti l'esperimento.» 
«Sciuparmi l'esperimento?» 
«Esatto. Voglio che provi anche tu la droga, per vedere se produce in te lo stesso effetto.» 
Scossi la testa. «Oh, no. Non siamo più a Cambridge. Vent'anni fa avrei forse ingurgitato uno dei tuoi intrugli a costo di rimetterci la pelle. Oggi non più.» 
«Non ti chiedo di rischiare la pelle,» protestò lui seccato «ma soltanto di sacrificare una ventina di minuti, al massimo un'ora, di un pomeriggio ozioso, prima che arrivino Vita e i ragazzi, per tentare anche tu un esperimento che potrebbe modificare completamente il concetto del tempo che abbiamo oggi.» 
Era perfettamente convinto di quello che diceva, non c'erano dubbi. Non era più il Magnus beffardo e irriverente dei giorni di Cambridge, ma un professore di biofisica già famoso nel suo campo. E sebbene capissi poco o niente del suo lavoro, mi rendevo conto che se aveva realmente scoperto questa droga eccezionale, poteva esagerarne l'importanza, ma non mentire sul valore che lui stesso le attribuiva. 
«Perché io?» chiesi. «Perché non la provi, quando ne avrai l'opportunità, sui tuoi discepoli di Londra?» 
«Perché sarebbe prematuro,» replicò «e perché non posso correre di nuovo il rischio di parlarne con chicchessia, neppure con i miei discepoli, come ti piace chiamarli. Tu sei perfino il solo a sapere che ho intrapreso queste ricerche, completamente estranee al mio lavoro abituale. Ho scoperto per un puro aso questa sostanza, e devo saperne di più prima di cominciare anche soltanto ad ammettere che possa avere delle possibilità. Ho intenzione di lavorarci sopra quando verrò a Kilmarth in settembre. Intanto tu sarai solo nella casa. Prendi almeno una volta la droga e riferiscimi quello che ti accade. Potrei sbagliarmi completamente; forse a te la droga farà il solo effetto d'intorpidirti per un po' mani e piedi, e renderti il cervello - quel poco che possiedi, caro ragazzo - infinitamente più agile e sveglio.» 
Com'era prevedibile, dopo un terzo bicchierino di brandy Magnus mi aveva persuaso. Mi diede istruzioni particolareggiate sul laboratorio, me ne consegnò le chiavi insieme a quelle dell'armadio dove teneva la droga; mi avvertì che avrebbe potuto farmi bruscamente il suo effetto, senza alcuna transizione da uno stato all'altro. E aggiunse qualcosa sugli effetti ritardati e la possibilità di essere assalito da nausee. Diventò evasivo soltanto quando gli chiesi bruscamente di dirmi che cosa avrei visto. 
«Meglio di no» rispose. «Potrei predisporti involontariamente a vedere quello che ho visto io. Devi fare quest'esperimento liberamente, senza prevenzioni.» 
Pochi giorni dopo partii in macchina da Londra per la Cornovaglia. La casa era stata arieggiata ed era pronta. Magnus si era messo d'accordo con una certa signora Collins di Polkerris un piccolo villaggio al disotto di Kilmarth - e trovai fiori nei vasi, provviste nel frigo e, benché fossimo a metà luglio, il fuoco acceso nella sala di musica e in biblioteca. La stessa Vita non avrebbe potuto far meglio. 
Passai i primi giorni godendomi la pace del luogo e le comodità che, se ben ricordavo, mancavano quando Kilmarth apparteneva agli adorabili e un tantino eccentrici genitori di Magnus. Suo padre, il comandante Lane, un ufficiale di marina in pensione, aveva la mania di stiparci su un panfilo di dieci tonnellate dov'eravamo invariabilmente assaliti dal mal di mare; sua madre, una affascinante svampita perpetuamente in giro dentro e fuori, qualsiasi tempo facesse, con un'enorme paglia dalla falda spiovente, passava il suo tempo tagliando con le forbici le rose appassite che coltivava con ardore ma con scarso successo. Io ridevo di quei due, ma li amavo, e quando morirono a un anno di distanza l'uno dall'altro, mi disperai quasi più dello stesso Magnus. 
Tutto sembrava ormai così lontano... Sebbene la casa fosse molto cambiata e rimodernata, l'attraente presenza di quelle due persone continuava ad aleggiarvi, o così mi era sembrato in quei primi giorni. Adesso, dopo l'esperimento, non ne ero più tanto sicuro. Amenoché, essendo sceso poco nel seminterrato in quelle lontane vacanze, non mi fosse sfuggito che conteneva altre memorie. 
Uscii dal bagno, mi asciugai, mi vestii e accesa una sigaretta scesi nella stanza detta della musica invece che convenzionalmente soggiorno, perché i genitori di Magnus non solo suonavano ambedue molto bene il piano, ma si dilettavano a cantare duetti. 
Mi chiesi se non era ancora troppo presto per bere il drink di cui sentivo tanto bisogno. Ma poi mi dissi: meglio sano che pentito, e decisi di aspettare un'altra ora. 
Misi in moto il radiogrammofono e presi un disco a caso in cima al mucchio. Il Concerto Brandeburghese N. 3 di Bach mi avrebbe ridato equilibrio e serenità. Ma evidentemente l'ultima volta che era stato qui, a Pasqua, Magnus doveva aver mescolato i dischi, perché mentre me ne stavo steso sul sofà davanti al fuoco di legna, non mi arrivarono alle orecchie le cadenze misurate di Bach, ma l'insidioso, inquietante mormorio di La Mer di Debussy. Una strana scelta, da parte sua. Avevo sempre avuto l'impressione che disprezzasse i compositori romantici. Dovevo essermi sbagliato, a meno che i suoi gusti non fossero mutati con gli anni. 
O forse da quando si avventurava nell'ignoto era attratto da suoni più mistici, dal magico esorcismo del mare sulla spiaggia? Magnus aveva visto, com'era accaduto a me in questo pomeriggio, l'estuario incunearsi profondamente nel retroterra? Aveva visto quei campi verdi, chiari e netti, l'acqua azzurra che mordeva la valle, i muri di pietra del Priorato che si stagliavano sullo sfondo della collina? Lo ignoravo, e lui non me l'aveva detto. Quante domande non ero riuscito a rivolgergli durante quella telefonata bruscamente interrotta. Lasciai che il disco arrivasse alla fine. Ma invece di calmarmi, quella musica ebbe su di me l'effetto contrario. Ora la casa era stranamente silenziosa. 
Avendo ancora nelle orecchie il ritmo di La Mer, andai attraverso l'atrio nella biblioteca e mi affacciai all'ampia finestra. Il mare era di un grigio ardesia, scurito a tratti dalle sferzate del vento che soffiava da ovest, e tuttavia calmo, quasi piano. Quanto diverso dal mare azzurro scatenato che avevo intravisto nel pomeriggio in quell'altro mondo. 
Per scendere nel seminterrato, a Kilmarth ci sono due scale. La prima porta direttamente dall'atrio alle cantine, alla stanza della caldaia, e di lì al patio. La seconda, a cui si arriva attraverso l'attuale cucina, conduce all'ingresso di servizio, all'antica cucina, all'acquaio, alla dispensa e alla lavanderia. La lavanderia che si raggiungeva appunto da questa seconda scala, era il locale che Magnus aveva trasformato in laboratorio. 
Scesi questa scala e girai la chiave della porta. Il laboratorio non aveva affatto un aspetto clinico. Accanto al vecchio lavandino, sempre al suo posto sul lastricato di pietra, sotto una finestrella a grata, c'era un camino, con uno di quei forni d'argilla che si usavano anticamente per cuocere il pane, contenuto nello spessore del muro. Dal soffitto coperto di ragnatele pendevano ancora gli uncini arrugginiti ai quali venivano probabilmente attaccati una volta carni salate e prosciutti. 
Magnus aveva disposto i suoi strani esemplari sulle assicelle fissate al muro. Alcuni erano scheletri, altri erano ancora intatti, conservati in una soluzione chimica che li aveva sbiancati. Non riuscii a decidere che cosa fossero esattamente, se embrioni di gatti o topi. I due soli esemplari che riconobbi erano la testa di scimmia, dal teschio lucido, perfettamente conservato, simile al cranio calvo di un minuscolo feto umano, cogli occhi chiusi, e accanto un'altra testa di scimmia che si trovava in un barattolo di vetro scurito dalla soluzione salina in cui era immersa. 
In altri barattoli e bottiglie c'erano funghi, piante e erbe con tentacoli mostruosi e foglie sottili e ricurve come lingue. 
Poco prima, al telefono, mi ero burlato di Magnus chiamando il suo laboratorio la stanza di Barbablù. Ma mentre ora mi guardavo di nuovo intorno, col ricordo del mio pomeriggio ancora vivo nella mente, l'atmosfera di quella stanzetta mi sembrò a un tratto diversa. Più del barbuto sovrano di una fiaba orientale, mi ricordava ora un'incisione intitolata L'Alchimista che mi terrorizzava da bambino. Rappresentava un uomo completamente nudo, tranne per una fascia intorno ai lombi, che accovacciato davanti a un forno murato, come quello della lavanderia, attizzava il fuoco con un mantice, e aveva alla sua sinistra un monaco incappucciato e un abate che reggeva una croce. Un quarto personaggio, con manto e cappello medievale, conversava con loro appoggiandosi a un bastone. Anche nell'incisione c'erano bottiglie su un tavolo, barattoli aperti contenenti gusci d'uovo, capelli e vermi filiformi, e al centro della stanza un bottiglione su un treppiedi con dentro una minuscola lucertolina dalla testa di drago. 
Perché il ricordo di quella paurosa incisione ritornava soltanto ora a ossessionarmi? Uscii risolutamente dal laboratorio di Magnus, chiudendo a chiave la porta e corsi di sopra. Avevo talmente bisogno di quel drink che non potevo aspettare un minuto di più. 
Il giorno dopo una di quelle pioggerelle implacabili e la nebbia fitta che saliva dal mare proibivano qualsiasi svago all'aperto. 
Mi ero svegliato in perfetta forma, dopo un sonno sorprendentemente lungo e calmo. Ma quando tirai le tende e vidi il tempo che faceva, mi rificcai scoraggiato a letto, chiedendomi come avrei fatto ad arrivare alla sera. 
Era purtroppo il clima della Cornovaglia, di cui Vita si era giustamente preoccupata. M'immaginavo già i suoi rimproveri, se questo tempaccio avesse continuato ad affliggerci al colmo delle vacanze e lei si fosse vista costretta a far infilare ai figli, che guardavano avviliti dalla finestra, impermeabili e stivali e a spedirli, malgrado le loro proteste, a passeggiare sulla spiaggia di Par. Dopo essersi aggirata a lungo fra stanza di musica e biblioteca spostando i mobili, dicendomi come sarebbe riuscita a rendere più accoglienti quegli ambienti se fossero stati suoi, non potendone più, Vita avrebbe telefonato a qualcuno dei suoi numerosi amici della banda dell'Ambasciata americana di Londra, tutti sul piede di partenza per la Sardegna o per la Grecia. Recriminazioni e critiche mi sarebbero ancora risparmiate per un po' di tempo. Quei giorni di tregua, piovosi o sereni che fossero, erano se non altro liberi, e il tempo tutto mio per farne quello che volevo. 
La premurosa signora Collins mi portò su la prima colazione e il giornale del mattino. Compatendomi per il tempo e dopo avermi detto che il professore trovava sempre da fare in quella sua buffa e vecchia stanzetta del sottosuolo, m'informò che avrebbe arrostito uno dei suoi polli per il mio lunch. Non avevo nessuna intenzione di scendere nel sottosuolo. Aprii il giornale e mi misi a leggere sorseggiando il caffè. Ma presto la pagina sportiva non m'interessò più e ricominciai fatalmente a cercare di spiegarmi esattamente che cosa mi era accaduto nel pomeriggio precedente. 
Magnus e io eravamo riusciti a comunicare telepaticamente? A Cambridge avevamo fatto l'esperimento con carte e numeri, ma non ci era mai riuscito, tranne un paio di volte per pura coincidenza. E allora eravamo molto più intimi di adesso. Non vedevo come, grazie alla telefonata o ad altro, Magnus e io avremmo potuto avere la stessa esperienza a tre mesi di distanza: Magnus aveva preso la droga a Pasqua; a meno che quell'esperienza non fosse direttamente connessa con dei fatti avvenuti anticamente a Kilmarth. 
Secondo Magnus una parte del cervello poteva essere reversibile, capace cioè di far rivivere, sotto l'influsso della droga, un qualche periodo precedente della sua storia chimica. Ma perché quella particolare epoca? Quel cavaliere aveva lasciato nei luoghi dov'era vissuto un'impronta così indelebile da cancellare ogni periodo anteriore o posteriore? 
Mi rimisi a pensare ai soggiorni che facevo qui da studente, quando a Kilmarth la vita era gaia e spensierata. Ricordai che una volta avevo chiesto alla signora Lane se avesse mai visto fantasmi. Non perché la casa avesse un'atmosfera lugubre, tutt'altro; semplicemente perché era vecchia. 
«Grazie a Dio no» aveva esclamato. «Qui siamo sempre troppo assorti in noi stessi per incoraggiarli. Morrebbero di noia, poveretti, dopo aver tentato inutilmente di farsi notare. Perché me lo chiede?» 
«Così... senza motivo» la rassicurai, temendo di averla offesa. «Soltanto perché per quasi tutte le vecchie case è un punto d'onore essere abitate da fantasmi.» 
«Beh, se a Kilmarth ce ne sono, non ce ne siamo mai accorti» disse la madre di Magnus. «Questa ci è sempre sembrata una casa felice. Intorno al Cinquecento apparteneva a una famiglia di nome Baker e rimase di loro proprietà finché, nell'Ottocento, non venne ricostruita dai Rashleigh. Non so dirle nulla sulle sue origini, ma qualcuno ci disse una volta che le fondamenta sono del quattordicesimo secolo.» 
Il discorso era finito lì. Ma ecco che adesso mi era tornato in mente quell'accenno alle fondamenta del quattordicesimo secolo. Ripensai alle stanze del seminterrato affacciate sul cortile, e alla strana scelta di Magnus della lavanderia per il suo laboratorio. Avrà avuto certamente i suoi motivi, mi dissi. Poiché la vecchia lavanderia era molto lontana dall'ala abitata della casa, Magnus non correva perlomeno il rischio di essere disturbato da visitatori o dalla signora Collins. 
Mi alzai piuttosto tardi; mi chiusi a scrivere lettere nella biblioteca; feci onore al pollo arrosto della signora Collins e cercai di concentrarmi sul futuro, e sulla decisione che dovevo prendere circa l'offerta di mio cognato di entrare come socio nella sua azienda di New York. Ma fu inutile. È un problema ancora lontano, mi dissi, farò ampiamente in tempo a discuterlo con Vita quando lei sarà qui. 
Guardando dalla finestra della stanza di musica vidi la signora Collins che se ne andava risalendo il viale. Pioveva sempre e avevo davanti un lungo scoraggiante pomeriggio. 
Non so quando mi venne l'idea. La covavo forse nel mio inconscio da quando mi ero svegliato. Volevo assodare se, quando il giorno precedente avevo preso la droga, non c'era stata telepatia tra Magnus e me. Può darsi, ragionai, che nell'istante in cui inghiottivo la droga lui sia riuscito, per un qualche fenomeno telepatico, a mettersi in comunicazione con me influendo su quanto avrei poi visto o immaginato in quel pomeriggio. Se la droga non fosse più presa in quel funesto laboratorio con la sua suggestiva somiglianza con la cella di un alchimista, l'effetto non potrebbe essere diverso? L'unico modo per saperlo era di ripetere l'esperimento. 
Nell'armadio della dispensa c'era una piccola fiaschetta che avevo notato la sera prima. La presi e andai a sciacquarla sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Non significa, mi dicevo, che mi sia deciso. Poi scesi nel seminterrato e sentendomi come quando, da ragazzo, rubavo durante la quaresima qualche tavoletta di cioccolato, girai la chiave della porta del laboratorio. 
Fu facile ignorare gli esemplari nei loro barattoli di vetro, e allungare la mano verso la piccola fila ordinata delle bottiglie con le loro etichette. Contai, come il giorno innanzi, le gocce della boccetta A, ma facendole cadere nella fiaschetta tascabile. Mi chiusi poi alle spalle la porta e andai attraversando il cortile a togliere dalla rimessa la mia macchina. 
Risalito lentamente il viale svoltai a sinistra nella strada maestra e scesi dalla collina di Polmear fermandomi in fondo per esaminare la scena. Qui, dove oggi c'erano gli ospizi e la locanda, c'era ieri il guado. A onta della strada moderna la topografia del luogo non era cambiata, ma la valle dove s'ingolfava la marea era adesso soltanto palude. Presi la strada di Tywardreath, pensando, con una certa apprensione, che se sotto l'influenza della droga avessi preso quella stessa strada il giorno prima avrei potuto essere investito, senza udirla, da qualche macchina. 
Scesi per la stradicciola stretta e ripida fino al villaggio e lasciai la macchina poco lontano dalla chiesa. Piovigginava ancora e non si vedeva un'anima. Un camion risalì la strada principale di Par, scomparve. Una donna sbucò da una drogheria incamminandosi nella stessa direzione. Non arrivò nessun altro. Smontai, aprii il cancello di ferro del cimitero e mi fermai sotto il portico della chiesa per ripararmi dalla pioggia. Il cimitero declinava verso sud, fino al muro di cinta e più in basso c'erano le costruzioni delle fattorie. Ieri, in quell'altro mondo, non esistevano fabbricati, ma solo le acque azzurre di un fiume che a marea alta riempiva la valle. E l'intero spazio dell'attuale cimitero era occupato dal monastero. Ora conoscevo meglio la topografia dei luoghi. Se la droga mi avesse fatto effetto avrei potuto lasciare la macchina dove era, e tornarmene a casa a piedi. Dopo essermi assicurato che intorno non c'era anima viva presi la fiaschetta e, come un nuotatore che si tuffi in un lago artico, ne inghiottii il contenuto. 
Fui assalito immediatamente dal panico. Questa seconda dose poteva avere un effetto molto diverso. Farmi dormire per ore, ad esempio. Dovevo rimanere dov'ero o risalire in macchina? poiché il portico della chiesa mi dava la claustrofobia andai a sedere su una tomba non lontana dal viottolo, ma invisibile dalla strada. Forse, se non mi muovevo, non mi sarebbe accaduto niente. "Fa' che non succeda nulla!" pregai. "Impedisci alla droga di agire!" 
Rimasi seduto lì per circa cinque minuti, troppo preoccupato degli effetti eventuali della droga per curarmi della pioggia. Quando l'orologio della chiesa suonò le tre, controllai il mio. Vedendo che era indietro di pochi minuti lo regolai e, quasi immediatamente, mi arrivò dal villaggio un gran vocio o forse uno scroscio di applausi - uno strano miscuglio di ambedue - e un cigolio di ruote. Oh Dio mio, pensai, che accade? La carovana di un circo starà venendo giù dal paese? Dovrò spostare la macchina? Mi alzai e andai verso il cancello del cimitero. Ma non ci arrivai perché era sparito, e io ero davanti alla finestra rotonda di un muro di pietra che dava su uno spiazzo quadrato bordato da sentieri sassosi. 
Attraverso il cancello d'ingresso spalancato all'estremità più lontana dello spiazzo vedevo una folla di gente, uomini, donne e bambini, ammassati sullo spiazzo erboso. Erano loro che gridavano e il cigolio era prodotto dalle ruote di un carro enorme, tirato da cinque cavalli, due dei quali - il secondo davanti e quello fra le stanghe - avevano in groppa un cavaliere. Il baldacchino di legno del carro era dipinto di un violetto acceso e oro. In quel momento le pesanti cortine che nascondevano la parte anteriore del veicolo, furono aperte e le urla e gli applausi della folla aumentarono, mentre colui che era apparso alzava le mani nel gesto della benedizione. Notando i suoi magnifici paramenti ecclesiastici mi ricordai che Roger e il Priore avevano alluso a una visita imminente del Vescovo di Exeter, e anche dell'apprensione, probabilmente giustificata, del Priore. Il personaggio doveva essere Sua Grazia in persona. 
Si fece all'improvviso silenzio e tutti caddero in ginocchio. La luce era abbagliante, ma io non sentivo più niente e per me niente aveva più importanza. Ero indifferente a tutto, la droga poteva agire su di me come voleva, il mio solo desiderio era di far parte di quel mondo che mi circondava. 
Vidi il Vescovo scendere dal suo carro coperto, mentre la folla si spingeva in avanti, entrare dal cancello nello spiazzo quadrangolare seguito dalla sua corte. 
Da una qualche porticina al disotto di me, vidi il Priore andargli incontro accompagnato dai suoi monaci, poi il cancello richiudersi sulla folla. 
Girai la testa e mi accorsi di trovarmi in una sala a volte dove c'erano una ventina di persone che, a giudicare dall'ansia che non riuscivano a contenere, aspettavano di venire presentate a Sua Grazia. Da come erano vestiti era chiaro che appartenevano alla piccola nobiltà terriera, presumibilmente ammessa al monastero. 
«Vedrai» disse al mio orecchio una voce «che date le circostanze lei non si sarà dipinta la faccia.» 
Il mio cavaliere, Roger, mi era accanto, ma si rivolgeva a un compagno, un uomo della sua età, o di poco più vecchio, che per soffocare il riso si mise una mano davanti alla bocca. 
«Dipinta o al naturale, Sir John l'avrà,» replicò «e quale occasione migliore della vigilia di San Martino, con la sua lady opportunamente inferma a letto a Bockenod, a otto miglia di qui?» 
«Potrebbe riuscirci,» convenne l'altro «ma non senza rischi, dato che non si può contare sull'assenza di Sir Henry. Stanotte, col Vescovo nella stanza degli ospiti, è difficile che lui dorma al monastero. No, a quei due conviene aspettare un altro po', se non altro per aguzzarsi l'appetito.» 
Poiché il fenomeno dello scandalo è rimasto immutato nei secoli, mi domandavo perché quei pettegolezzi dovessero interessarmi ora mentre mi avrebbero fatto sbadigliare se li avessi uditi scambiare fra i miei contemporanei a qualche ricevimento. Forse, mi dissi, li trovo più piccanti perché li sto spiando tra mura monastiche. 
Roger e il suo amico guardavano il piccolo gruppo vicino alla porta, senza dubbio i pochi prescelti per essere presentati al Vescovo: fra i quali riconobbi il galante Sir John, quello a cui piaceva, se ben ricordavo, l'osservazione del Priore, tenere un piede in ogni staffa. Ma chi era la dama del suo cuore che aveva tralasciato d'imbellettarsi? 
Nel gruppo c'erano quattro uomini, due donne e due giovanotti. Ma i copricapi imposti dalla moda alle dame m'impedivano di distinguere da lontano i visi, fasciati com'erano da cuffie e da soggoli. Avevo riconosciuto il lord del castello, Henry di Champernoune, l'uomo anziano, dignitoso, che il giorno innanzi pregava nella cappella. Era vestito più sobriamente dei suoi amici, che indossavano tuniche di svariati colori lunghe fino a metà dei polpacci, con cinturoni portati sotto i fianchi, da cui pendevano al centro borsellini e pugnali. Avevano tutti la barba e i capelli arricciati, quasi crespi, come probabilmente imponeva la moda. 
Roger e il suo compagno erano stati raggiunti da un nuovo venuto in abito talare, con rosario appeso alla cintola. Il suo naso rosso e la sua pronunzia inceppata tradivano una visita recente alla dispensa del Priore. 
«Qual è l'ordine di precedenza?» biascicò. «Come parroco nonché cappellano di Sir Henry, dovrei far parte del suo seguito, no?» 
Battendogli una mano sulla spalla Roger lo spinse davanti alla finestra. «Sir Henry e Sua Grazia il Vescovo possono fare a meno del vostro fiato. O ci tenete a perdere la vostra posizione?» 
Dopo aver protestato, appoggiandosi però prudentemente al muro, il nuovo venuto si accasciò sulla panca. Scrollando le spalle Roger si voltò verso il suo compagno che vi era addossato. 
«Mi sorprende che Otto Bodrugan osi mostrarsi qui» gli disse l'amico. «Non sono due anni che combatteva per Lancaster contro il Re. Dicono che era a Londra quando la folla trascinò per le strade il Vescovo Stapledon.» 
«No» protestò Roger. «Era a Wallinford con molte centinaia di partigiani della Regina.» 
«Anche così la sua situazione è delicata» disse l'altro. «Se fossi il Vescovo non vedrei di buon occhio l'uomo di cui si dice abbia condonato l'assassinio del mio predecessore.» 
«Sua Grazia non ha il tempo di occuparsi di politica» replicò Roger. «Avrà anche troppo da fare con la Diocesi. I processi passati non lo interessano. Bodrugan è qui oggi per le proprietà che divide con i Champernoune, perché sua sorella Joanna è la lady di Sir Henry e per il debito che ha con Sir John. Non gli ha ancora restituito i duecento marchi che si fece prestare.» 
Un gran baccano davanti alla porta spinse quei due personaggi minori a farsi avanti per vedere meglio. 
Entrò il Vescovo affiancato dal Priore, più elegante e pulito di quando era seduto in quel suo vecchio letto col levriero che si spulciava. I gentiluomini s'inchinarono, le gentildonne fecero la riverenza, e il Vescovo tese a ognuno la mano da baciare, mentre stordito dal cerimoniale il Priore li presentava a turno. 
Non recitando una parte del loro mondo, io potevo andare e venire invece come volevo, purché non avessi toccato nessuno dei presenti. Mi avvicinai infatti, curioso di vedere da chi era composto il gruppo. 
«Sir Henry di Champernoune, lord feudatario di Tywardreath,» sussurrava il Priore «appena tornato da un pellegrinaggio a Campostella.» 
L'anziano nobiluomo si avanzò, piegando a terra un ginocchio, e fui colpito di nuovo dalla sua aria elegante e dignitosa unita a una fiera umiltà. Baciata la mano che gli veniva tesa, si rialzò voltandosi verso la donna che aveva accanto. 
Mentre la presentava: «Mia moglie Joanna, Vostra Grazia», lei si prostrò a sua volta riuscendo abbastanza bene a imitare l'umiltà del marito. Questa era dunque la lady che non si era imbellettata soltanto perché doveva comparire davanti al Vescovo. Decisi che aveva fatto bene ad astenersene. L'unico suo ornamento, il soggolo che le incorniciava il viso, avrebbe fatto risaltare i pregi di qualunque donna. Joanna non era né bella né brutta, e tuttavia non mi sorprese che si dubitasse della sua fedeltà ai voti coniugali. Avevo visto a donne del mio mondo occhi come i suoi, grandi e sensuali; basterà il cenno di un maschio a farla capitolare, mi dissi. 
«Mio figlio e erede, William» continuò suo marito, mentre uno dei due giovani si faceva avanti per inchinarsi. 
«Sir Otto Bodrugan» presentò ancora Sir Henry «e sua moglie, mia sorella Margaret.» 
Poiché poco prima il mio cavaliere Roger aveva detto che, come fratello di Joanna, moglie di Champernoune, Otto Bodrugan era doppiamente imparentato col feudatario, doveva trattarsi di un gruppo molto strettamente legato. Margaret era piccola, smunta ed evidentemente nervosa, perché nel fare la riverenza a Sua Grazia, inciampò e sarebbe caduta se il marito non l'avesse sorretta. Bodrugan mi piacque. Era un bell'uomo dall'aria spavalda che sarebbe stato senza dubbio un ottimo alleato in un duello o in un'avventura. Doveva avere anche spirito perché invece di arrossire e irritarsi per la topica della moglie, le sorrise per rassicurarla. I suoi occhi scuri, come quelli della sorella Joanna, erano meno sporgenti dei suoi, ma doveva avere senza dubbio tutte le sue altre qualità. 
Dopo aver presentato a sua volta al Vescovo il figlio primogenito, Henry, Bodrugan indietreggiò per lasciare il posto a chi lo seguiva e che smaniava da un pezzo, si capiva, per farsi avanti. 
Vestito con più lusso di Bodrugan e di Champernoune, costui aveva sulle labbra un sorriso fiducioso. Questa volta fu il Priore a fare la presentazione. 
«Il nostro beneamato e riverito patrono, Sir John Carminowe di Bockenod,» annunziò «senza di cui in questi tempi agitati il nostro monastero si sarebbe trovato in gravi difficoltà.» 
Eccolo dunque, il cavaliere col piede in due staffe, una lady coricata a otto miglia di qui e un'altra presente ma non ancora portata a letto. Mi deluse: mi ero aspettato un tipo di conquistatore irresistibile e Sir John era invece piccolo, tarchiato, grasso e gonfio di presunzione come un tacchino. Lady Joanna doveva contentarsi facilmente. 
«Vostra Grazia,» disse con tono enfatico «siamo profondamente onorati di avervi fra noi» e si chinò sulla mano che gli offriva il Vescovo, con tanta affettazione che se fossi stato Otto Bodrugan, che gli doveva duecento marchi, gli avrei pagato il mio debito assestandogli un bel calcio nel sedere. 
Sveglio e attento, il Vescovo non si lasciava sfuggire nulla. Mi faceva pensare a un generale che passa in rassegna una nuova guarnigione prendendo mentalmente appunti sugli ufficiali. Champernoune superato, doveva dirsi, e da sostituire; Bodrugan valoroso ma insubordinato, a giudicare dalla parte avuta recentemente nella rivolta contro il Re; Carminowe ambizioso e troppo zelante, un tipo che potrebbe crearci dei fastidi. Quanto al Priore, quella macchia sulla tonaca non era uno schizzo di salsa? Avrei giurato che il Vescovo se ne sarebbe accorto come me. Poco dopo il suo sguardo cominciò a vagare sul pesce minuto andando a fermarsi sulla figura quasi prostrata del parroco. Mi augurai, per il bene del Priore, che l'ispezione non sarebbe continuata più tardi nelle cucine del monastero o, peggio, nella stanza stessa del Priore. 
Sir John si era rialzato. «Mio fratello Sir Oliver Carminowe, Vostra Grazia,» presentò a sua volta «uno dei Delegati di Sua Maestà, e Isolda, la sua lady.» Assestò una gomitata al fratello che a giudicare dalla sua faccia congestionata e dallo sguardo torbido doveva aver passato le ore di attesa nella dispensa del Priore. 
«Vostra Grazia» disse Sir Oliver stando attento a non piegare troppo il ginocchio per il timore di perdere l'equilibrio quando si sarebbe rialzato. Malgrado la sbornia era più avvenente di Sir John: più alto e robusto, con qualcosa di crudele nella mascella, non certo il tipo a cui pestare i piedi in una zuffa. 
«Lei è quella che sceglierei se la fortuna mi assistesse.» 
Il bisbiglio mi arrivò da molto vicino all'orecchio. Roger mi era di nuovo accanto, ma parlava al suo compagno, non a me. C'era qualcosa di soprannaturale nel modo in cui influenzava i miei pensieri, come era sempre al mio fianco quando meno me l'aspettavo. Aveva scelto bene, comunque. Vedendo la donna che lo interessava fissarci quando si rialzò dalla riverenza e dal baciamano al Vescovo, mi domandai se si era accorta anche lei della sua ammirazione. 
Isolda, moglie di Sir Oliver Carminowe, non aveva il viso incorniciato da un soggolo. Portava i capelli biondi raccolti in due trecce e una reticella d'oro tempestata di pietre sul piccolo velo che le copriva la testa. Non aveva neppure un manto sul vestito come le altre dame e il vestito stesso era meno largo sui fianchi, più aderente, con lunghe maniche attillate che le arrivavano oltre i polsi. Forse, mi dissi, essendo più giovane delle altre, non dimostrava più di venticinque o ventisei anni, dà più importanza di loro agli abiti. Non si sarebbe detto, comunque, tanta era la grazia disinvolta con cui li portava. 
Non avevo mai visto un viso più bello e più annoiato, e mentre ci posava addosso senza un'ombra d'interesse lo sguardo - guardava, beninteso, Roger e il suo amico - un fremito impercettibile delle sue labbra mi fece capire che soffocava uno sbadiglio. 
È destino di ogni uomo, suppongo, d'intravedere prima o poi una faccia in una folla e di non dimenticarla o, forse, per un colpo di fortuna, incontrarne di nuovo più tardi la proprietaria in un ristorante o a un party. Conoscersi rompe spesso l'incanto e delude. Ma a me non poteva accadere. Guardavo attraverso i secoli colei che Shakespeare definì "una fanciulla impareggiabite" che ahimè non mi avrebbe mai guardato. 
«Per quanto tempo ancora» mormorava Roger «sopporterà di rimanere fra le mura di Carminowe montando la guardia ai suoi pensieri per impedirgli di smarrirsi?» 
Magari lo avessi saputo. Se fossi vissuto nel suo tempo, mi sarei licenziato da intendente di Sir Champernoune, per correre a offrire i miei servgii a Sir Oliver e alla sua lady. 
«L'unica sua fortuna» replicò l'altro «è che con quei tre robusti figliastri già sulla breccia non è costretta a fornire un erede al marito. E avendo ormai partorito due figlie che Sir Oliver potrà accasare con profitto quando saranno in età da marito, può disporre come le pare del suo tempo.» 
Ecco che cos'erano in quei tempi le donne, mi dissi. Articoli di commercio allevate per ricavarne il maggiore utile, comprate poi, o vendute, in una piazza di mercato, o, diciamo, maniero. Non c'era da stupirsi se, compiuto il dovere, si cercavano intorno una consolazione prendendosi un amante o sostenendo una parte attiva nella contrattazione dei propri figli. 
«Ti dirò una cosa» riprese Roger. «Bodrugan ha messo l'occhio su di lei. Ma finché non avrà pagato il suo debito a Sir John, deve badare a dove mette i piedi.» 
«Scommetto cinque denari contro niente che lei non lo guarderà neppure.» 
«Accettato. Ma se ti sbagli farò loro da ruffiano. Tengo già spesso mano alla mia lady e a Sir John.» 
La mia parte di spia nel tempo era passiva, senza compromessi e responsabilità. Potevo muovermi nel loro mondo inosservato, sapendo che qualunque cosa accadesse - commedia, dramma o farsa - non avrei potuto far nulla per impedirla, mentre nella mia esistenza del ventesimo secolo dovevo contribuire a costruire un futuro per me e i miei. 
Il ricevimento sembrava terminato, ma non la visita, perché una campana chiamò tutti ai vespri e la compagnia si divise: i privilegiati per dirigersi verso la Cappella del monastero, la minutaglia verso la chiesa che soltanto un arco con una griglia divideva dalla Cappella stessa. 
Credevo di potermi dispensare dai vespri anche se, mettendomi proprio dietro la grata, avrei potuto guardare Isolda. Ma la mia guida inseparabile, allungando il collo con lo stesso pensiero, decise di essere rimasto ozioso troppo a lungo e, fatto un cenno brusco al suo compagno, si avviò verso il monastero e di lì, attraverso lo spiazzo quadrangolare, al portone d'ingresso. Qualcuno lo aveva spalancato di nuovo e un gruppo di gente, fratelli laici e servi, si era fermato lì a guardare, ridendo, i dipendenti del Vescovo che si scalmanavano per far entrare nel cortile del monastero il rozzo veicolo, le cui ruote si erano impantanate fra il sentiero melmoso e il cortile del Priorato. Ma questo non doveva essere l'unico spettacolo divertente perché lo stesso spiazzo erboso era gremito di uomini donne e bambini. Si sarebbe detto un mercato: c'erano piccoli stalli e bancarelle e un uomo batteva in un tamburo mentre un altro raschiava un violino e un terzo mi rompeva le orecchie con due corni lunghi come lui in cui riusciva, con un'abilità fantastica, a soffiare contemporaneamente. 
Seguii Roger e il suo amico attraverso il campo. Vedendoli fermarsi a ogni istante a salutare i conoscenti, capii che non si trattava di una festa in onore del Vescovo ma, poiché dai pioli delle baracche pendevano pecore e maiali sgozzati di fresco, ancora sanguinanti, di un qualche paradiso dei macellai. Le case che circondavano il campo esibivano gli stessi ornamenti. Ogni padrone di casa si affaticava brandendo un coltello, a spellare qualche vecchia pecora o a tagliare la gola a un porco, mentre un paio di tipi, forse un po' più in su nella scala sociale, sollevavano teste di buoi dalle corna lunate strappando alla folla urla, risa e applausi. 
Quando cominciò a imbrunire, macellatori e scuoiatori, prendendo alla luce delle torce un aspetto demoniaco, affrettavano furiosamente il loro lavoro per assolvere il loro compito prima che annottasse e il suonatore dei due corni, che si passava gli strumenti da una mano all'altra, prese ad aggirarsi fra la folla sollevandoli per ottenere squilli ancora più forti. 
«Se Dio vuole quest'inverno avranno il ventre ben foderato» osservò Roger. 
Me n'ero dimenticato in quella confusione, ma lui era sempre lì. 
«Avrete contato gli animali, immagino» disse l'amico. 
«Non solo contati, ma ispezionati prima del macello. Anche se gli mancassero un centinaio di capi, Sir Henry non se ne accorgerebbe neppure. Ma my lady sì. Lui è troppo immerso nelle preghiere per tener d'occhio la sua borsa e i suoi beni.» 
Ero passato da un mondo all'altro istantaneamente, senza transizioni sensibili, senza le reazioni fisiche secondarie del giorno innanzi. L'unica difficoltà era il riassestamento mentale che esigeva una concentrazione quasi intollerabile. Per fortuna il vicario mi precedé nella navata, continuando a discorrere. E ammesso che la mia espressione avesse qualcosa di strano, era troppo educato per fare commenti. 
«L'estate» mi diceva «abbiamo parecchi visitatori che abitano qui a Par, o che vengono da Fowey. Ma per trattenersi così a lungo sotto la pioggia nel cimitero della chiesa lei dev'essere innamorato di questi luoghi.» Feci uno sforzo enorme per riprendermi. 
«Per essere preciso,» replicai, stupito di scoprire che riuscivo perfino a parlare, «non erano in realtà la chiesa stessa o le tombe, ad attirarmi. Qualcuno ha detto che molti anni fa qui c'era un Priorato.» 
«Ah, sì, il Priorato» ripeté lui. «È sparito purtroppo da secoli senza lasciar tracce. Tutte le sue costruzioni crollarono a poco a poco dopo la chiusura dei monasteri avvenuta nel 1539. Dicono che si trovasse dov'è ora la Newhouse Farm, proprio al disotto di noi nella valle. Secondo altri occupava l'attuale cimitero, a sud del chiostro. Ma nessuno ne sa davvero qualcosa.» 
Mi guidò alla navata nord per mostrarmi la tomba dell'ultimo Priore, che era stato sepolto nel 1538 davanti all'altare; m'indicò il pulpito e alcuni stalli e quanto rimaneva dell'originale parete divisoria fra navata e coro. Niente di tutto ciò somigliava neppure lontanamente alla chiesetta che avevo vista poco prima, con la griglia nel muro che la separava dalla cappella del Priorato. E tanto meno, mentre ero lì col vicario, riuscii a ricostruire col pensiero una transenna e una navata più antiche. 
«È cambiato tutto» dissi. 
«Cambiato?» ripeté perplesso lui. «Ma sì, certo. La chiesa fu ampiamente restaurata nel 1880, non tutta con successo, forse. È deluso?» 
«No» mi affrettai ad assicurargli. «Niente affatto. È solo che... Insomma, come le dicevo, m'interessa soprattutto il periodo più antico, anteriore all'abolizione dei monasteri.» 
«Capisco.» Il vicario mi sorrise cordialmente. «Mi sono chiesto spesso anch'io che aspetto poteva avere una volta la chiesa col Priorato così vicino. Si trattava di una comunità francese, sa, dipendente dall'Abbazia Benedettina dei Santi Sergio e Bacco di Angers, e quasi tutti i monaci dovevano essere francesi. Vorrei potergliene dire di più ma mi trovo qui da pochi anni e purtroppo non sono uno storico.» 
«Neppure io.» 
Mentre tornavamo verso il portico gli chiesi: «Sa niente degli antichi feudatari, i lords del maniero?». 
Lui si fermò per spegnere i lumi. «Soltanto quello che ne ho letto nella Storia della Parrocchia. Nel Grande Libro del Catasto il maniero è chiamato Tiwardrai - la casa sull'estuario - e appartenne alla grande famiglia dei Cardinham finché l'ultima erede, Isolda, non la vendé nel tredicesimo secolo agli Champernoune. Alla loro morte passò in altre mani.» 
«Isolda?» 
«Sì. Isolda di Cardinham. Sposò un certo William Ferrers di Bere nel Devon... purtroppo non ricordo i particolari. Potrà documentarsi meglio nella biblioteca pubblica di St. Austell.» 
Mi sorrise di nuovo, prima di tornare con me nel cimitero. «Lei risiede nei dintorni, o si trova qui di passaggio?» mi chiese. 
«Trascorrerò qui l'estate. Il professor Lane mi ha gentilmente prestato la sua casa.» 
«Kilmarth? La conosco, certo, ma non ci sono mai entrato. Se non sbaglio il professore ci viene di rado. E non si fa mai vedere in chiesa.» 
«No,» confermai «me lo immagino.» 
«Beh,» riprese il vicario, prima che mi congedassi da lui al cancello «ogni volta che avrà voglia di tornare, per assistere a una funzione o anche soltanto per fare due passi, sarò lieto di rivederla.» 
Ci stringemmo la mano. Mi chiesi, nel risalire la strada per andarmi a riprendere la macchina, se non ero stato imperdonabilmente scortese. Non solo non avevo ringraziato il vicario della sua cortesia, ma non mi ero neppure presentato. È chiaro, mi dissi, che deve considerarmi un qualunque villeggiante, più maleducato degli altri e per giunta picchiato. Salii in macchina, accesi una sigaretta e mi sforzai di riordinare i miei pensieri. Il fatto di non aver reagito fisicamente alla droga era, per cominciare, un sollievo enorme. Non provavo neppure lontanamente vertigine o nausea, non sudavo e gambe e braccia non mi dolevano come la prima volta. 
Abbassai il finestrino della macchina e dopo aver dato un'occhiata alla strada guardai indietro, verso la chiesa. Non c'era nulla che coincidesse. Il campo del villaggio, dove la gente si era affollata fino a tardi, una volta doveva coprire tutta l'area attuale e stendersi forse fin dove la strada moderna comincia a salire verso la collina. Il cortile del Priorato, dove l'equipaggio del Vescovo per poco non era stato rovesciato, doveva trovarsi in quell'affossamento al disotto della bottega del barbiere, e confinare col muro est del cimitero. E il Priorato stesso, secondo una delle teorie citate dal vicario, riempiva allora tutto lo spazio occupato oggi dalla parte sud del cimitero. Chiusi gli occhi e rividi l'ingresso, il grande cortile quadrangolare, il dormitorio dei monaci, la sala del capitolo dove si era svolto il ricevimento, e, al piano di sopra, la stanza del Priore; ma quando li riaprii i pezzi del rompicapo non s'incastravano più e il campanile della chiesa me lo scombinava tutto. Era inutile: niente corrispondeva, tranne l'ubicazione del terreno. 
Buttai la sigaretta e partii prendendo la strada che passava davanti alla chiesa. Mentre scendevo dalla collina lasciandomi dietro la valle, il suo ruscello e la bassa, disordinata accozzaglia delle botteghe di Par, mi sentii invadere da una strana esaltazione. Neppure dieci minuti prima tutto questo era sott'acqua e il mare lambiva le terre basse e declinanti del Priorato. Lì, dove sorgevano ora quei villini, candidi banchi di sabbia bordavano l'ampia distesa dell'estuario, e queste case e queste botteghe erano un canale azzurro dove s'ingolfava ribollendo la marea. Arrivato davanti alla farmacia entrai a comprare un dentifricio. Mentre la ragazza al banco me lo incartava sentii crescere la mia strana euforia. Notando che la ragazza stessa, il negozio e le altre due persone che erano lì sembravano privi di sostanza, evanescenti, mi venne da sorridere furtivamente. 
"Non esistete" ebbi l'impulso di dirgli. "Voialtri e tutto il resto siete coperti dall'acqua." 
Dopo che fui uscito mi fermai un momento sul marciapiedi. Non pioveva più. La pesante cappa che ci opprimeva dalla mattina si era infine frantumata e i cielo sembrava una coperta a patchwork in cui rettangoli azzurri si alternavano agli ultimi brandelli grigi di nuvole. Era ancora troppo presto per rincasare, troppo presto per chiamare Magnus. Se non altro ero riuscito a stabilire una cosa: che fra noi questa volta non c'era stata telepatia. Ieri Magnus aveva forse potuto intuire vagamente quello che avrei fatto. Non oggi. Il laboratorio di Kilmarth non era l'antro di un orco dove si evocassero gli spiriti, e tantomeno di fantasmi ce n'erano nel chiostro della chiesa di Sant'Andrea. Magnus non si era sbagliato considerando reversibile, sotto l'azione della droga, qualche processo chimico primario. Ottenute queste condizioni i sensi entravano successivamente in azione riafferrando il passato... 
Quando il vicario mi aveva battuto sulla spalla non mi ero svegliato da un sogno nostalgico: ero passato da una realtà vivente a un'altra. Era mai possibile che in un tempo pluridimensionale l'ieri, l'oggi e il domani scorressero simultaneamente in una ripetizione incessante? Sarebbe bastato cambiare uno degl'ingredienti, usare un enzima diverso per rivelarmi il futuro: vedermi vecchio calvo rammollito a New York, i ragazzi cresciuti e sposati e Vita morta... Era un pensiero sconcertante. Preferivo dedicarmi agli Champernoune, ai Carminowe, e a Isolda. Qui la telepatia non c'entrava. Magnus non me li aveva mai nominati. Ma il vicario sì, e soltanto dopo che li avevo visti in carne e ossa. 
Decisi a questo punto che sarei andato subito fino a St. Austell per cercare di snidare nella biblioteca pubblica qualche documento che li riguardasse. 
La biblioteca era appollaiata al disopra della piccola città. Parcheggiai la macchina ed entrai. Premurosa, la ragazza al banco mi diede l'utile consiglio di salire al reparto consultazioni e di sfogliare Le Visitazioni di Cornovaglia. Vi avrei forse trovato gli alberi genealogici che cercavo. 
Tolsi dallo scaffale il grosso volume e mi sedetti a uno dei tavoli. Una prima occhiata all'elenco alfabetico mi deluse. Non c'erano Bodrugan, Champernoune o Carminowe. E neppure Cardinham. Ricominciai da capo e mi accorsi, elettrizzato, che dovevo aver saltato una pagina. La scorsi con gli occhi e trovai infatti un Sir John, sposato per giunta a una Joanna (non sarà stato comodo, per lui, ragionai, avere la moglie e l'amante con lo stesso nome). Questo Sir John aveva una sequela di figli, e uno dei suoi nipoti, Miles, figurava come l'erede di Boconnoc, Boconnoc... Bockenod... L'ortografia si era un po' modificata con gli anni, ma si trattava senza dubbio del mio Sir John. 
Trovai nella pagina seguente il suo fratello maggiore, Sir Oliver Carminowe, e appresi che aveva avuto diversi figli dalla sua prima moglie. Più in là trovai anche la sua seconda moglie, Isould, figlia di un certo Reynold Ferrers di Bere nel Devon, e in fondo alla pagina le loro figlie, Joanna e Margaret. Era la mia Isolda - non Isolda Cardinham, l'ereditiera del Devon citata dal vicario - ma una sua discendente. 
Mentre chiudevo il pesante volume mi sorpresi a sorridere fatuamente a un tipo occhialuto immerso nel Daily Telegraph, che dopo avermi squadrato con diffidenza si nascose di nuovo la faccia col giornale. Quella fanciulla incomparabile non era dunque un prodotto della mia immaginazione; o il frutto di un rapporto telepatico fra me e Magnus. Era vissuta, anche se non sapevo esattamente quando fosse nata e morta. 
Sempre più esaltato dalla mia scoperta andai a rimettere a posto il volume e lasciai la biblioteca pensando a tutti quei Carminowe, Champernoune, Bodrugan, morti da seicento anni ma ancora vivi nel mio nuovo mondo di quel tempo. 
Mi allontanai da St. Austell dicendomi stupefatto che in un solo pomeriggio avevo assistito a una cerimonia in un monastero crollato da secoli e mi ero mescolato, sul campo del villaggio, alla folla che festeggiava il San Martino. Tutto grazie a una specie di filtro magico distillato da Magnus che non solo non mi aveva procurato reazioni sgradevoli ma mi dava adesso addirittura una sensazione di benessere e gioia. Era facile come cadere in un precipizio... Risalii a più di ottanta all'ora la collina di Polmear e soltanto quando ebbi percorso il viale di Kilmarth e messa la macchina nel garage, mi tornò in mente quel paragone: come cadere in un precipizio... L'effetto ritardato era questo? Ieri nausea e vertigine perché non avevo rispettato le regole. Oggi quest'esaltazione felice perché ero passato senza incidenti né sforzo da un mondo all'altro. 
Salii nella biblioteca e formai il numero telefonico dell'appartamento di Magnus. Lui rispose subito. 
«Che notizie?» 
«Che cosa intendi esattamente?» replicai. «Ha piovuto tutto il giorno, se alludi al tempo.» 
«Qui a Londra è stata una splendida giornata. Ma lascia stare il tempo. Com'è andato il secondo viaggio?» 
La sua certezza che avessi ripetuto l'esperimento mi irritò. «Che cosa ti fa credere che l'abbia fatto?» 
«Era inevitabile.» 
«Beh... hai ragione. Non avrei voluto... ma ci tenevo ad assodare qualcosa.» 
«Che cosa?» 
«Che l'esperimento non fosse influenzato da un qualche fenomeno telepatico fra noi due.» 
«Avrei potuto dirtelo io.» 
«Forse... Ma il particolare che avessimo fatto ambedue il nostro primo esperimento nella stanza di Barbablù avrebbe potuto influire a mia insaputa sul secondo.» 
«Perciò...» 
«Perciò ho versato le gocce nella tua fiaschetta... - perdonami se mi sono preso questa libertà - sono tornato in macchina alla chiesa e le ho inghiottite nel chiostro.» 
Il suo grugnito di soddisfazione m'irritò ancora di più. 
«Che c'è?» sbottai. «Non dirmi che facesti anche tu così!» 
«Sì, invece. Ma non nel chiostro, caro: nel cimitero, e dopo il tramonto. 
Ma il punto è: che cosa hai visto?» 
Glielo dissi, concludendo col mio incontro col vicario, la visita alla biblioteca pubblica e l'assoluta mancanza, o così mi era parso, degli effetti ritardati della prima volta. 
Lui mi ascoltò senza interrompermi. Quando ebbi finito mi disse di aspettarlo un momento. «Vado a versarmi un drink» aggiunse «ma ti ricordo che non devi imitarmi.» 
Il pensiero del suo gin-and-tonic mi esasperò. 
«Non solo ne sei uscito molto bene,» riprese dopo un intervallo Magnus «ma hai incontrato il fiore della Contea, cosa di cui io, allora come adesso, non posso vantarmi.» 
«Vuoi dire che non hai visto le stesse cose?» 
«No davvero. Per me niente sala capitolare o campo del villaggio. Mi sono trovato nel dormitorio dei monaci - una faccenda molto diversa, credimi.» 
«Perché?» chiesi. «Insomma, che cosa hai visto?» 
«Esattamente quello che puoi aspettarti quando un branco di francesi del 
Medioevo si ritrovavano insieme. Usa l'immaginazione.» 
Toccò a me sogghignare. Il pensiero del mio Magnus schifiltoso costretto a spiare chissà quali turpitudini mi rimise di buon umore. 
«Sai quello che penso?» dissi. «Secondo me abbiamo trovato ognuno quello che meritavamo. Io Sua Grazia il Vescovo e i lords della Contea, con tutto il fascino snob, dimenticato, del nostro collegio di Stonyhurst; tu le deviazioni sessuali che ti proibisci da trent'anni.» 
«Come lo sai che me le proibisco?» 
«Non lo so. Voglio credere che ti comporti bene.» 
«Grazie del complimento. Resta comunque dimostrato che niente di tutto questo può essere attribuito alla telepatia. D'accordo?» 
«D'accordo.» 
«Perciò abbiamo visto quello che abbiamo visto attraverso un altro canale: il cavaliere Roger. Era con te nella sala capitolare e sul prato; con me nel dormitorio. È lui il cervello che ci trasmette le informazioni.» 
«Sì, ma perché?» 
«Perché? Non t'illuderai di scoprirlo in un paio di viaggi? Ne hai, di lavoro da fare.» 
«E va bene» dissi. «Ma è una gran seccatura dover seguire quel tipo, o sopportare che lui mi segua, ogni volta che decidessi di rifare l'esperimento. Non lo trovo molto simpatico. E neppure la lady del maniero.» 
«La lady del maniero?» Magnus s'interruppe, senza dubbio per riflettere. «Dev'essere quella che vidi nel mio terzo viaggio. Capelli di un biondo fulvo; occhi scuri; senz'altro una sgualdrina?» 
«Sembra proprio lei, Joanna Champernoune» confermai. 
Scoppiammo a ridere insieme. Era una follia, e anche qualcosa di straordinariamente fascinoso, ce ne rendevamo conto tutte e due: poter discorrere di una donna morta da secoli come se l'avessimo incontrata a un party nel nostro tempo. 
«Discuteva di terre appartenenti al maniero» riprese Magnus. «Non le prestai troppa attenzione. Ti sei accorto, a proposito, che afferriamo il senso dei loro discorsi senza tradurli coscientemente dal francese medievale che debbono usare? Dipenderà anche questo dal nesso fra il cervello di quel Roger e il nostro. Se li vedessimo stampati, quei discorsi, in inglese antico, in franco-normanno o in gaelico, non ne capiremmo un'acca.» 
«Hai ragione» dissi. «Non ci avevo riflettuto...» 
«Sì?» 
«Sono ancora un po' preoccupato degli effetti secondari. Voglio dire che, grazie a Dio, oggi non ho provato nausee o vertigini ma, al contrario, un'esaltazione straordinaria. Nel rientrare debbo aver superato più volte il limite di velocità.» 
Quando Magnus mi rispose, non subito, il suo tono era guardingo. «Questa è una delle ragioni» disse «per continuare a collaudare la droga. Il suo effetto potrebbe essere additivo.» 
«Che cosa intendi esattamente?» 
«Quello che ho detto. Non alludo soltanto al fascino dell'esperimento in sé, che finora, come sappiamo, non è stato fatto da altri, ma allo stimolo alla zona interessata del cervello. Ti ho già messo in guardia contro possibili rischi materiali: essere investito e altre cose del genere. Renditi conto che quando sei sotto l'influsso della droga quella parte del cervello è come paralizzata. Il resto continua a controllare i tuoi movimenti più o meno come si può guidare senza avere incidenti anche con un'alta percentuale di alcool nel sangue. Ma non significa che il pericolo sia escluso e non sembra che fra una zona e l'altra del cervello funzioni un sistema di allarme. Bada che non lo escludo nemmeno. È un'altra cosa che mi propongo di scoprire.» 
«Sì,» dissi «capisco.» 
Mi sentivo come sgonfiato. Quel senso inebriante di leggerezza provato durante la corsa di ritorno era svanito. «Sarà meglio che mi fermi» dissi 
«finché ogni rischio non sia eliminato.» 
Magnus fece un'altra pausa prima di rispondere. 
«Dipende da te» replicò infine. «Devi giudicare tu. Hai altro da chiedermi? Stasera ceno fuori ed è già tardi.» 
Altre domande? Ma dieci, venti... che mi sarebbero venute purtroppo in mente dopo che lui avrebbe riattaccato. 
«Sì» dissi. «Lo sapevi, prima del tuo primo "viaggio", che allora Roger abitava proprio qui?» 
«Nient'affatto» fu la risposta di Magnus. «Mia madre mi parlava a volte dei Baker del Seicento e dei Rashleigh che li avevano seguiti. Non sapevamo niente dei loro predecessori, sebbene, secondo mio padre, le fondamenta della nostra casa dovessero risalire al quattordicesimo secolo. Non so chi glielo avesse detto.» 
«È perciò che trasformasti la vecchia lavanderia nell'antro di Barbablù?» 
«No. Mi sembrava soltanto un posto adatto, e il forno di argilla mi è molto utile. Trattiene il calore quando accendo il fuoco e posso tenerci dei liquidi a un'alta temperatura mentre mi occupo d'altro. L'atmosfera è perfetta, nient'affatto sinistra. Non metterti in testa, caro ragazzo, che quest'esperimento sia una specie di caccia alle streghe. Non stiamo evocando spiriti dall'ai di là.» 
«No. L'ho capito.» 
«Per ridurre il problema ai suoi minimi termini: quando te ne stai seduto su una poltrona a guardare un vecchio film trasmesso dalla TV, i personaggi non escono dallo schermo per ossessionarti, anche se molti degli attori sono morti? È più o meno quello che hai vissuto oggi. Una volta il nostro cicerone Roger e i suoi amici erano vivi. Ma oggi sono definitivamente, irrevocabilmente sepolti.» 
Sapevo quello che Magnus intendeva. Ma non era così semplice. Le implicazioni erano più profonde e il trauma non era tanto quello di vedere il loro mondo, ma di prendervi parte. 
«Vorrei saperne di più sulla nostra guida» dissi. «Gli altri credo di poterli pescare nella biblioteca pubblica di St. Austell. Ho già trovato i Carminowe: John e suo fratello Oliver, e la moglie di Oliver, Isolda. Ma un intendente, di cui sappiamo soltanto che si chiama Roger, è un altro paio di maniche. Mi sembra difficile che possa figurare in qualche albero genealogico.» 
«Anche a me, ma non si può mai sapere. Uno dei miei studenti ha un amico che lavora all'Archivio Pubblico e al British Museum, e io sono ormai un esperto in materia. Non gli ho detto perché quel periodo e quei personaggi m'interessano, ma solo che avrei bisogno di una lista dei tassati della parrocchia di Tywardreath nel quattordicesimo secolo. Credo che potrà trovarmela nell'Elenco dei contribuenti Laici per il 1327, che dev'essere più o meno il periodo che ci preme. Se saltasse fuori qualcosa, t'informerò. Hai notizie di Vita?» 
«No.» 
«Sarebbe stato meglio che tu le avessi spedito i ragazzi in volo a New York.» 
«Mi sarebbe costato troppo. E poi avrei dovuto andarci anch'io.» 
«Beh tienili alla larga più che potrai. Inventati che gli impianti igienici non funzionano. Vita si spaventerà.» 
«Mia moglie non ha paura di niente» lo informai. «Sarebbe capace di portarsi dietro l'idraulico specializzato dell'Ambasciata americana.» 
«E va bene, datti da fare prima che arrivi. A proposito, sai il campione etichettato B che è nel laboratorio accanto alla soluzione A che stai usando?» 
«Sì.» 
«Impacchettamelo con cura e spediscimelo. Voglio collaudarlo.» 
«Vuoi ripetere l'esperimento a Londra?» 
«Non su di me. Ma su una bella e vispa scimmietta. Non vedrà i suoi antenati medievali, ma potrebbe venirle il capogiro. Beh, ciao!» 
Come al solito Magnus mi aveva bruscamente piantato in asso lasciandomi quell'inevitabile senso di frustrazione. Succedeva ogni volta che c'incontravamo e ci fermavamo a discorrere, o passavamo insieme una serata. Sul più bello della sua stimolante conversazione - i minuti volavano e l'aria sembrava rigata di scintille - Magnus si alzava per chiamare un tassi e spariva, a volte per diverse settimane, mentre io me ne tornavo a casa facendo lunghi, inutili giri. 
«E come va il tuo professore?» mi chiedeva Vita, col tono un tantino beffardo che prende dopo le mie serate con Magnus, calcando sul "tuo" con un'enfasi che non mancava mai di ferirmi. 
«Come al solito» rispondevo. «Pieno di idee pazze che trovo divertenti.» 
«Sono contenta che ti sia divertito» replicava lei con un'asprezza che implicava il contrario. Mi disse una volta - ero rientrato un po' alticcio verso le due del mattino, dopo una seduta più lunga del solito - che Magnus mi svuotava; che quando tornavo da lei sembravo un pallone forato. 
Era una delle nostre prime liti, e non sapevo come cavarmela. Vita passeggiava nel soggiorno gonfiando cuscini e vuotando i suoi posacenere personali; seduto sul sofà io la guardavo offeso. Ci coricammo senza parlarci, senonché la mattina dopo, con mia sorpresa e sollievo, lei non solo si comportò come se non fosse accaduto niente, ma brillava addirittura di grazia e calore femminili. Non nominammo più Magnus, ma io decisi tacitamente di non pranzare più con lui, a meno che non capitasse un'occasione in cui Vita avesse anche lei un impegno. 
Quel giorno quando Magnus riattaccò, non mi sentivo come un pallone forato - un'immagine, ripensandoci, offensiva, che evocava un respiro maleodorante, quasi un rutto fetido - ma soltanto un po' depresso e preoccupato, e mi chiedevo come mai Magnus avesse tutt'a un tratto bisogno di quella boccetta B. Voleva collaudarne il contenuto su una disgraziata scimmia prima di sottoporre me, la sua cavia umana, a un esperimento forse ancora più pericoloso? Intanto nella boccetta A c'era ancora abbastanza droga perché andassi avanti... 
A questo punto fui strappato dai miei ragionamenti. Perché andassi avanti? Pensando mio malgrado a un alcolizzato che si preparava ad altre sbornie, mi ricordai il timore di Magnus sulle possibilità che quella droga poteva diventare un vizio. Forse anche per questa ragione voleva prima sperimentarla sulla scimmia. Mi sembrò di vederla, nella sua gabbia, con gli occhi iniettati di sangue, reclamare urlando un'altra iniezione. 
Mi cercai nella tasca la fiaschetta e la lavai con cura. Ma non la rimisi sullo scaffale della dispensa perché alla signora Collins poteva saltare in testa di trasferirla altrove e sarebbe stato noioso, se ne avessi avuto bisogno, dover ricorrere a lei. 
Era ancora troppo presto per cenare, ma poiché il vassoio che la donna a ore mi aveva lasciato, con prosciutto e insalata, frutta e formaggio, mi tentava, decisi di portarmelo nella sala della musica e starmene tutta la sera davanti a quel bel fuoco di legna. 
Presi a caso sei o setti dischi e li ammucchiai sul pick-up. Ma quali che fossero i suoni che riempirono la stanza non m'impedirono di tornare col pensiero alle scene di quel pomeriggio: il ricevimento nella sala capitolare del Priorato; le carcasse sbranate dai cani nello spiazzo erboso del villaggio; il suonatore incappucciato che si aggirava col suo doppio corno fra i bambini e i cani latranti, e soprattutto la giovane donna dalle trecce bionde raccolte nella reticella ingioiellata che in un pomeriggio di seicento anni fa aveva continuato ad annoiarsi a morte finché una frase incomprensibile per me di un uomo di un altro tempo, non le aveva fatto rialzare la testa e sorridere. 
La mattina dopo trovai sul mio vassoio del breakfast una lettera di Vita, spedita dalla casa di suo fratello a Long Island. Il caldo era tremendo, m'informava mia moglie; loro se ne stavano tutto il giorno a mollo nella piscina e Joe avrebbe portato presto la famiglia a Newport col panfilo che aveva noleggiato. Se Joe ci avesse informati prima dei suoi piani, avrei potuto raggiungerli in volo con i ragazzi e avremmo passato tutti insieme le vacanze estive. Ormai era troppo tardi per cambiare programma. Lei sperava soltanto che la casa del professore non la deludesse, com'era anzi? Volevo che portasse delle provviste da Londra? Sarebbe partita in volo da New York il mercoledì e sperava di trovare a Londra una mia lettera. 
Mercoledì era oggi. Vita sarebbe atterrata all'aeroporto di Londra alle dieci di questa sera. E non avrebbe trovato a casa nessuna lettera perché non potevo prevedere che sarebbe arrivata prima del weekend. 
Il pensiero di vedermela piombare fra poche "ore" qui fu un vero choc. I giorni che consideravo completamente miei, con piena libertà d'impiegarli come volevo, sarebbero stati sconvolti da telefonate, corse, impegni, lagnanze, tutte le gioie della vita en famille. Dovevo assolutamente escogitare, prima della sua inevitabile telefonata, un trucco qualsiasi per trattenere almeno per qualche altro giorno a Londra mia moglie e i ragazzi. 
Magnus mi aveva suggerito l'impianto igienico. Sì, forse. Il guaio era che, appena arrivata. Vita avrebbe subissato di domande la signora Collins e quella brava donna sarebbe rimasta di stucco. Dirle che le stanze non erano pronte? Vita ne avrebbe naturalmente incolpata la signora Collins e i rapporti fra le due donne ne avrebbero sofferto. L'impianto elettrico funzionava perfettamente, come quello idraulico. E se avessi finto di star male? Vita, che in fatto di medici ammetteva solo le celebrità, si sarebbe precipitata subito qui per trasportarmi, avvolto in coperte, in un ospedale di Londra. Dovevo comunque escogitare qualcosa, fosse pure soltanto per amore di Magnus. Non potevo tradirlo interrompendo bruscamente il nostro esperimento dopo due tentativi coronati dal successo. 
Oggi era dunque mercoledì. Vuol dire, decisi, che tenterò di nuovo venerdì e ancora domenica, saltando il sabato. E se Vita se lo è ficcato davvero in testa, ebbene, venga pure lunedì. 
Il mio piano mi concedeva altri tre "viaggi" (il gergo degli adepti all'L.S.D. era senz'altro adatto). E a patto che tutto andasse liscio, che scegliessi bene il momento e non facessi sciocchezze, l'unica conseguenza sarebbe stata, come l'ultima volta, quel senso di euforia che avrei subito riconosciuto e accettato come un avvertimento. Per ora ero tutt'altro che euforico. Ma la causa del mio lieve avvilimento, mi dissi, era senza dubbio la lettera di Vita ricevuta quel giorno. 
Quando, dopo il breakfast, dissi alla signora Collins che mia moglie sarebbe arrivata quella sera a Londra e ci avrebbe probabilmente raggiunti con i ragazzi il lunedì o il martedì della settimana seguente, lei si affrettò a compilare una lunga lista di acquisti da fare dal droghiere. Ebbi così un pretesto per scendere a Par, e durante la corsa composi mentalmente la mia risposta a Vita, che le sarebbe giunta la mattina dopo. 
La prima persona che vidi dal droghiere fu il vicario di St. Andrew, che attraversò la bottega per venirmi a salutare. Mi presentai, un po' in ritardo, come Richard Young. 
«Ho seguito il suo consiglio,» lo informai «subito dopo aver lasciato la chiesa mi sono recato alla biblioteca pubblica di St. Austell.» 
«Ammiro il suo entusiasmo» commentò lui. «Ha trovato quello che cercava?» 
«In parte» replicai. «L'ereditiera Isolda di Cardinham continua sfuggirmi. Ma esaminando gli altri alberi genealogici ho trovato una sua discendente, Isolda Carminowe, figlia di un Reynold Ferrers di Bere nel Devon.» 
«È un nome che mi ricorda qualche cosa...» disse lui. «Deve trattarsi, se non sbaglio, del figlio di quel Sir William Ferrers che sposò l'ereditiera. La sua Isolda sarebbe dunque la loro nipote. L'ereditiera, questo lo so, vendé nel 1269, per cento sterline, il maniero di Tywardreath a uno degli Champernoune, poco prima di sposare William Ferrers. Era una grossa somma, in quei tempi.» 
Feci un rapido calcolo. La mia Isolda non poteva essere nata prima del 1300. Quando mi era apparsa al ricevimento del Vescovo, non ne dimostrava più di ventotto, e quell'evento doveva risalire intorno al 1328. 
Seguii il vicario che si aggirava nella bottega facendo i suoi acquisti. 
«A Tywardreath celebrate sempre la festa di San Martino?» 
«La festa di San Martino?» ripeté lui voltandosi a guardarmi stupito dal banco dei biscotti. «Mi perdoni, non capisco bene. Era una festa molto importante nei secoli prima della Riforma. Ora celebriamo sempre quella di Sant'Andrea, si capisce, e teniamo quasi sempre la vendita di beneficenza della parrocchia verso la metà di giugno.» 
«Mi scusi» mormorai. «Devo aver confuso le date. La verità è che sono stato allevato da cattolico e alla mia scuola di Stonyhurst attribuivano, se ben ricordo, una certa importanza alla Vigilia di San Martino...» 
«Ha perfettamente ragione» m'interruppe sorridendo il vicario. «Ormai è stata sostituita dall'11 novembre, l'anniversario o meglio la domenica dell'armistizio. Ma se lei è cattolico ora capisco perché la storia del Priorato la interessa tanto.» 
«Cattolico sì, ma non praticante» lo corressi. «Però è difficile, certo, sbarazzarsi di certe abitudini. Organizzate ancora fiere sul campo comunale?» 
«Temo di no» replicò lui sempre più perplesso. «E che io sappia a 
Tywardreath non c'è mai stato un campo comunale... Mi scusi...» 
Dopo avergli messo nel paniere i suoi acquisti, il commesso del droghiere si girò verso di me. Consultai la lista che mi aveva consegnata la Collins mentre il vicario usciva dopo avermi salutato cordialmente. Mi crederà matto, mi chiesi, oppure soltanto uno degli amici più eccentrici del professor Lane? Mi ero dimenticato che la Vigilia di San Martino cade proprio l'11 di novembre. Una strana coincidenza di date. Una volta carneficine di buoi, maiali e pecore, oggi la commemorazione di migliaia e migliaia di caduti in battaglia. Debbo ricordarmi, mi dissi, di dirlo a Magnus. 
Andai a mettere i miei voluminosi acquisti nel portabagagli e per uscire da Par presi la strada che univa la chiesa a Tywardreath. Ma invece di parcheggiare, come il giorno innanzi, davanti al barbiere, salii lentamente sulla collina attraverso il centro del villaggio sforzandomi, senza riuscirci, di ricostruire quel campo comunale inesistente. Giunta sulla collina la strada, bordata sui due lati di case, si biforcava per proseguire a destra verso Fowey, mentre il cartello a sinistra informava: A TREESMILL. Dalla cima di questa collina, erano scesi ieri il Vescovo e il suo corteo e i carri coperti, ornati dei loro stemmi, dei Carminowe, degli Champernoune e dei Bodrugan. Sir John Carminowe avrebbe preso la biforcazione a destra - se allora esisteva - per tornare a Lostwithiel e al suo castello di Bockenod, dove la sua lady aspettava di partorire. Oggi Bockenod era Boconnoc, una grande proprietà a poche miglia da Lostwithiel; arrivando da Londra ero passato davanti a uno dei suoi cancelli. Ma dove aveva allora il suo dominio il feudatario, il lord del maniero, Sir Henry di Champernoune? «Stasera i Bodrugan alloggeranno da noi» aveva detto sua moglie Joanna al mio cavaliere Roger. Dove poteva trovarsi una volta il loro maniero? 
Frenai in cima alla collina e mi guardai intorno. Nel villaggio stesso di Tywardreath non c'erano case importanti; qualcuno dei cottages risaliva forse al tardo diciottesimo secolo; nessuno più addietro. Gli antichi manieri, me lo diceva la logica, non venivano quasi mai distrutti se non dal fuoco, e perfino quando erano completamente inceneriti e le loro mura crollate, sul loro sito sorgeva quasi sempre entro pochi anni una casa colonica. 
Gli Champernoune, ragionai, per poter sfruttare le terre già appartenute al feudatario, avevano costruito quasi certamente la loro nuova dimora nel raggio di una o due miglia dal Priorato e dalla chiesa, oppure erano tornati nella vecchia quando la prima Isolda - l'ereditiera dei Cardinham - aveva venduto loro nel 1269 le terre del maniero. Dopo il ricevimento al Priorato, impaziente di tornarsene a casa accompagnata dal suo malinconico consorte Sir Henry e dal loro figlio William e seguita da suo fratello Otto Bodrugan e dalla moglie di lui Margaret, Joanna aveva dovuto infilare col suo carro dipinto quella stradicciola a sinistra, dove oggi il cartello diceva A 
TREESMILL. 
Guardai il mio orologio. Erano già le dodici passate e la signora Collins mi stava aspettando per riporre i miei acquisti e prepararmi il lunch. Dovevo anche rispondere a Vita. 
Mi misi alla scrivania subito dopo aver mangiato. Quella lettera mi prese più di un'ora. Il risultato non mi soddisfece, ma dovetti accontentarmene. 
«Cara,» dicevo a mia moglie «poiché la tua lettera mi ha informato soltanto stamattina che torni in volo oggi, non riceverai questa mia prima di domani. Perdonami se ti ho capita male. Ma ho dovuto buttarmi nel lavoro per farvi trovare la casa in ordine, e non ho ancora finito. La signora Collins, la donna a ore di Magnus, mi ha molto aiutato, ma tu sai come vivono gli scapoli e dato che Magnus stesso non veniva più qui da Pasqua, la casa era sottosopra. Come se non bastasse, e questo è il peggio, Magnus mi ha pregato di riordinargli le sue carte - ha qui, nel suo laboratorio, un mucchio di dati scientifici di cui è naturalmente gelosissimo - e di classificargliele. Me l'ha chiesto come un favore personale che non posso negargli perché dopotutto ci sta ospitando gratis ed è una maniera come un'altra di disobbligarmi. Dovrei essermi sbarazzato per lunedì di questa corvée, a patto di avere tutti per me anche i prossimi giorni, weekend compreso. Incidentalmente, finora il tempo è stato orribile. Ieri non ha mai smesso di piovere. Perciò non hai perduto niente, e secondo gl'indigeni la settimana prossima il sole tornerà a splendere. 
«Quanto alle provviste puoi stare tranquilla. Pensa a tutto la signora Collins, che è anche una bravissima cuoca. Sono sicuro che saprai tenere occupati i ragazzi fino a lunedì: a Londra debbono esserci musei, e altre cose, che non hanno ancora visitato e tu vorrai certamente rivedere i tuoi amici. Insomma cara, ti chiedo di rimandare il tuo arrivo alla settimana prossima, quando tutto sarà certamente a posto. 
«Sono contento che ti sia trovata tanto bene con Joe e i suoi. Sì, ripensandoci sarebbe stata una buona idea spedirti i ragazzi a New York. Ma del senno di poi... Spero che il tuo volo non ti abbia stancata, cara. Telefonami appena avrai ricevuto questa mia. «Il tuo affezionato Dick.» 
Rilessi due volte la lettera. La seconda mi convinse di più: sembrava proprio sincera. E dovevo veramente riordinare le carte di Magnus. Tengo sempre a dare almeno una base di verità alla mie menzogne. 
Affrancai la busta e me la ficcai in tasca. E mi ricordai soltanto allora che Magnus voleva che gli spedissi a Londra la boccetta B. Frugando, riuscii a scovare una scatoletta, della carta e dello spago, e scesi nel sottosuolo. 
Confrontai la boccetta A con la B, senza riuscire a notare differenze. E poiché avevo ancora addosso la fiaschetta del giorno innanzi, non fu un problema versarvi una seconda dose dalla boccetta A. Avrei deciso lì per lì se e quando mi conveniva ingerirla. 
Risalii di sopra dopo aver chiuso il laboratorio e andai ad affacciarmi alla finestra della biblioteca. Non pioveva e il cielo si stava schiarendo verso il mare. Impacchettai con cura la boccetta B e andai con la macchina a Par per fare la raccomandata e imbucare la lettera per Vita, chiedendomi non tanto che cosa mia moglie ne avrebbe pensato leggendola, quanto come avrebbe reagito la scimmia al suo primo viaggio nell'ignoto. Assolta la mia missione risalii attraverso Tywardreath svoltando a sinistra per Treesmill. 
La strada stretta correva tra i campi e saliva fino a una valle, inclinandosi bruscamente prima dell'ultimo tratto per scavalcare un ponte a gobba d'asino sotto cui passava la ferrovia Par-Plymouth. Mentre frenavo prima del ponte, udii il fischio dell'espresso che sbucava da un tunnel alla mia destra ma che io ancora non potevo vedere. Pochi minuti dopo il treno passava sferragliando sotto il ponte e, descrivendo un'ampia curva nella valle, scendeva verso Par. 
Fui assalito dai ricordi dei miei anni di liceo. Magnus e io tornavamo sempre a casa in treno. Sbucati appena dal tunnel ci apprestavamo, fra Lostwithiel e Par, a tirare giù le valigie. Vedevo a quel punto, a sinistra, dai finestrini, dei campi in salita e a destra una valle piena di salici nodosi e di canneti. Poi il treno entrava bruscamente nella stazione e appariva il grande cartello nero con la scritta in bianco: PAR - CAMBIARE PER NEWQUAY. Ed eravamo arrivati. 
Guardando ora l'espresso sparire alla svolta della valle osservavo il terreno da un altro angolo, rendendomi conto di come più di un secolo prima l'avvento della ferrovia avesse alterato i campi in pendio ricavando la linea dal fianco stesso della collina. Ma la pace non era stata disturbata soltanto dai treni. Il lato opposto della valle, l'altopiano dove un secolo fa erano stati scoperti i giacimenti di rame e zinco, recava le cicatrici delle miniere. Il comandante Lane, mi ricordai, ci aveva detto una volta a pranzo che nell'epoca vittoriana lavoravano lì centinaia di uomini, e che dopo la crisi alti forni e fabbriche erano stati lasciati crollare e marcire mentre i minatori emigravano o cercavano d'impiegarsi nelle nuove fabbriche per la lavorazione del caolino. 
Ora, scomparso il treno e spento il suo sferragliare, il silenzio si era ristabilito e nulla si muoveva più nella valle, tranne le poche mucche che pascolavano nel prato acquitrinoso ai piedi della collina. 
Lasciai che la macchina scendesse senza fretta la china fin dove la strada si impenneva di nuovo bruscamente per arrampicarsi sulla collina opposta. Un ruscello neghittoso, scavalcato da un basso ponte, tagliava il prato dove pascolavano le mucche, e al disopra del ruscello sorgevano a destra della strada le costruzioni di alcune vecchie fattorie. Abbassai il finestrino e mi guardai intorno. Un cane sbucò in quel momento da una fattoria abbaiando, seguito da un uomo che portava un secchio. Mi sporsi per chiedergli se ero a Treesmill. 
«Sì» rispose. «Continuando diritto arriverà sulla strada principale fra 
Lostwithiel e St. Blazey.» 
«Stavo cercando il mulino.» 
«Non c'è più» disse l'uomo. «Al suo posto fu costruita questa casa e tutto quello che rimane del fiume è ciò che vede. La corrente principale fu deviata molti anni fa, quando non ero ancora nato. Prima che costruissero il ponte c'era qui, dicono, un guado. Il fiume seguiva più o meno questa strada e la valle era quasi tutta sotto acqua.» 
«Sì» replicai. «Doveva essere proprio così.» 
L'uomo accennò a un cottage dall'altra parte del ponte. 
«Anticamente,» riprese «quando sfruttavano ancora le miniere, su a Lanescot e a Carrogett, quello era un pub. Il sabato sera, dicono, era pieno di minatori. Ne sono rimasti ormai pochi che si ricordano quei tempi.» 
«Lei sa» chiesi «se in questa valle c'è qualche casa colonica che possa essere stata una volta un castello medievale?» L'uomo rifletté, prima di rispondermi. 
«Beh,» disse infine «ci sarebbe Trevenna, su alle nostre spalle, sulla strada di Stonybridge. Ma non ho mai sentito che sia molto vecchio. E, più lontano, Trenadlyn; e naturalmente Treverran nell'alta valle, presso il tunnel della strada ferrata. Quella sì che è una bella e vecchia casa, costruita centinaia di anni fa.» 
«Più o meno quando?» insistei ansioso. 
L'uomo rifletté di nuovo. «Nel giornale misero tempo fa un pezzo su Treverran. Erano andati a visitarla certi signori di Oxford. Dissero, mi pare, che era stata costruita nel 1705.» 
Il mio interesse si afflosciò. Case stile Queen Anne, miniere di zinco e di rame, il pub sull'altro lato della strada, risalivano appena a un paio di secoli prima del mio tempo. Mi sentivo come un archeologo che scopre una villa della tarda romanità quando si aspettava un accampamento dell'età del bronzo. 
«Grazie molto,» dissi «e buongiorno.» 
Voltai la macchina e risalii sulla collina. Se gli Champernoune, mi dicevo, scesero nel 1328 per questa strada, i loro carri coperti dovettero essere fermati in fondo dal fiume del mulino, se non lo scavalcava un ponte più antico di quello che ho visto. 
A metà salita svoltai in un sentiero a sinistra e vidi poco dopo le tre case coloniche a cui aveva alluso l'uomo. Il viottolo dove mi trovavo avrebbe raggiunto la strada in cima alla collina. Il lungo tunnel, un trionfo dell'ingegneria moderna, doveva correre a una grande profondità sotto la strada. La fattoria alla mia destra era Trevenna, quella di fronte Trenadlyn e la terza, la più vicina alla strada ferrata, senza dubbio Treverran. E ora che cosa faccio? mi chiesi. Vado a bussare a turno a quelle tre porte: vi dispiace, gli chiedo, se rimango seduto qui una mezz'ora, mi bevo un sorso di questa droga e sto a vedere che cosa accade? 
I più fortunati sono gli archeologi, decisi. Senza correre il rischio di vedersi chiudere alla fine della loro impresa in un manicomio, trovano sempre qualcuno che finanzi i loro scavi e dei collaboratori entusiasti. 
Mi voltai, rifeci la traversa e risalii la collina ripida verso Tywardreath. A un tratto una macchina che tirandosi dietro una roulotte si sforzava di entrare nel cortile di un bungalow a metà della collina, mi sbarrò letteralmente la strada. Frenai e rischiai di finire nel fosso a lato della strada. Gridandomi delle scuse l'uomo al volante riuscì poco dopo a parcheggiare dove voleva macchina e rimorchio. 
Saltò a terra e mi si avvicinò ricominciando a scusarsi. 
«Ora può passare» disse. «Mi dispiace di averla bloccata in quel modo.» 
«Non importa,» risposi «non ho fretta. Ho ammirato la sua manovra per spostare dalla strada la sua roulotte.» 
«Ci sono abituato» disse. «Abito qui d'estate e la roulotte ci fornisce una stanza in più quando abbiamo visite.» 
Guardai la targa sul cancello. «Chapel Down» lessi. «Un nome insolito.» 
Lui sorrise. «Era quello che aveva da secoli il terreno su cui costruimmo il villino. Decidemmo, dopo aver riflettuto, di conservarglielo. Le due proprietà sull'altro lato della strada si chiamano Chapel Park.» 
«Secondo lei,» chiesi «potrebbe esserci qualche nesso con l'antico Priorato?» 
L'uomo non reagì come speravo. 
«Una volta» riprese «c'erano qui un paio di cottages, una specie di quartier generale dei metodisti. Ma se non sbaglio i nomi dei campi risalgono a molto più addietro.» 
Vedendo uscire dalla casa sua moglie con un paio di bambini, ingranai la marcia. Mentre lui mi rassicurava: «Vada pure», partii con prudenza e affrontai la salita. Poco dopo la curva della strada mi nascose il villino. Andai a fermarmi in uno slargo a destra, davanti a un mucchio di pietre e legname. 
Ero arrivato in cima alla collina. Dopo lo slargo la strada ridiscendeva verso Tywardreath, di cui s'intravedevano le prime case. Chapel Down... Chapel Park... In altri tempi c'era forse una cappella, demolita ormai da secoli, sul terreno del villino del proprietario della roulotte; o qui, presso lo slargo, dove sorgeva ora, sul ciglio della strada, un'abitazione moderna. 
Dietro la casa un cancello dava in un campo. Lo scavalcai e girai intorno al campo tenendomi vicino alla siepe finché, digradando, il terreno non mi nascose la vista della strada. Questo era il campo che secondo il proprietario della roulotte chiamavano Chapel Park. Non riuscii a vedervi niente di particolare. Alla sua estremità più lontana pascolavano delle mucche. Attraversata la siepe in fondo mi trovai su un prato fortemente in pendio, affacciato, a un cento metri dalla strada ferrata, quasi a picco sulla valle. 
Mi accesi una sigaretta e esaminai il paesaggio. 
Niente cappelle nascoste fra gli alberi. Ma che vista! Treesmill Farm, alla mia destra, le altre fattorie più lontano, tutte ben riparate da venti e intemperie; sotto di me la strada ferrata, e più in là, nella strana conca della valle, non più rettangoli di campi ma una tappezzeria fitta di salici, betulle e ontani. In primavera senza dubbio un paradiso per gli uccelli, e per i ragazzi un bel posto per nascondercisi dai genitori. Ma oggi, mi dissi, i ragazzi, perlomeno i miei figli adottivi, non vanno più a caccia di nidi. 
Mentre mi sedevo contro la siepe per finire la mia sigaretta mi accorsi di avere nel taschino la fiaschetta con la dose della droga. La presi e la guardai. Forse apparteneva al padre di Magnus. Sarebbe stato proprio adatta per fornirgli una sorsata di rum quando andava a vela e l'aria cominciava a rinfrescarsi. Se Vita fosse ritornata per mare, mi dissi, ora avrei qualche altro giorno... 
Un brusio ai miei piedi mi fece abbassare gli occhi nella valle. Una motrice diesel solitaria se ne veniva su all'impazzata, senza il suo seguito di vagoni, snodandosi come un grosso, rapido verme al disopra dei salici e delle betulle, passando sotto il ponte di Treesmill per sparire infine dopo forse un miglio nelle fauci spalancate del tunnel. Svitai il tappo della fiaschetta e bevvi. 
E va bene, mi dissi, e ora? Mi sento di nuovo pronto a tutto. E Vita è ancora a metà dell'Atlantico. Chiusi gli occhi. 
Questa volta non mi sarei lasciato sfuggire il momento della transizione. Me ne stavo immobile, gli occhi chiusi, seduto per terra e con la schiena appoggiata a una siepe. Le altre due volte camminavo - la prima attraverso i campi, la seconda percorrevo il sentiero del cimitero - quando la scena si era trasformata. Questa volta le cose sarebbero andate certo diversamente perché mi stavo concentrando sull'istante del trauma. Avrei avvertito quel benessere, come di un peso che mi venisse tolto e insieme quel senso meraviglioso di leggerezza. Niente panico, oggi, o pioggia sconfortante, mentre il mio corpo diventava insensibile. Faceva perfino caldo e il sole, di cui sentivo attraverso le palpebre chiuse lo splendore, doveva cominciare a spuntare fra le nuvole. Tirai un'ultima boccata dalla sigaretta e la buttai. 
Se questa contentezza, mi dicevo trasognato, dovesse durare ancora molto mi addormenterei. Il ritorno trionfante del sole rallegrava perfino gli uccelli; sentivo un merlo cantare nella siepe alle mie spalle, e, più incantevole ancora, prima lontano poi vicinissimo, un cucù chiamare dalla valle. Quel richiamo, un mio suono favorito, si ricollegava nel ricordo ai miei vagabondaggi spensierati di trent'anni addietro. Il cucù chiamò ancora, proprio al di sopra della mia testa. 
Aprii gli occhi, e mentre seguivo nel cielo il suo volo strano, incerto, mi ricordai che fra poco sarebbe stato agosto. La breve estate inglese del cucù finiva a giugno, insieme col canto dei merli, e le primule che fiorivano sul terrapieno accanto a me avrebbero dovuto seccarsi nella seconda metà di maggio. Quel calore, quel sole sfavillante appartenevano a un altro mondo, a una primavera più precoce. Malgrado la mia concentrazione il salto era avvenuto in un lasso di tempo così breve che il mio cervello non era riuscito a registrarlo. Tutto l'aspro verde di quel primo giorno mi si allargava intorno sulla collina digradante ai miei piedi e la valle con la sua tappezzeria di betulle e salici giaceva sommersa sotto un lenzuolo liquido, parte dell'ampio, movimentato estuario che s'incuneava nella costa, bordato da banchi di sabbia dove l'acqua era più bassa. Vidi, mentre mi alzavo, come il fiume si restringesse per mescolarsi sotto Treesmill col ruscello tumultuoso del mulino; la casa colonica stretta e col tetto di paglia; le colline di fronte fittamente coperte di querce dal fogliame giovane e tenero. 
Proprio sotto di me, dove poco prima il campo scendeva ripidamente verso la strada, il terreno - dal pendio ora più dolce - era tagliato a metà da una larga pista che correva verso l'estuario terminando su un molo dove, nel porto naturale formato dal canale, più profondo in questo punto, erano ancorate delle navi. Una, più grande, era in mezzo alla corrente, con le vele quasi tutte ammainate. Sentivo cantare gli uomini del suo equipaggio e a un tratto un'imbarcazione più piccola si staccò dal suo fianco per portare qualcuno a terra. Quando il passeggero alzò la mano per imporre il silenzio tutte le voci tacquero di colpo. Mi guardai infine intorno. La siepe era sparita, la collina alle mie spalle era fittamente boscosa come quelle di fronte, e alla mia sinistra, dove c'erano prima campi di erica e boscaglia, un lungo muro di pietra circondava una casa di cui vedevo spuntare il tetto al disopra degli alberi che la circondavano. Una pista portava direttamente dal molo alla collina e alla casa. 
Mi avvicinai, guardando, là sotto, l'uomo smontare dalla barca sul molo e risalire la strada venendomi incontro. Proprio allora, volando sulle nostre teste il cucù fece sentire di nuovo il suo richiamo; fermandosi a riprendere fiato lo sconosciuto alzò la testa per guardarlo con un gesto così semplice e naturale che me lo rese caro, per la sola ragione che lui viveva e io ero soltanto un fantasma nel suo tempo. Un tempo per giunta neppure costante perché ieri era San Martino - novembre - e oggi, a giudicare dal cucù e dalle primule in fiore, doveva essere primavera. 
Quando l'uomo mi ebbe raggiunto sulla collina lo riconobbi. E sebbene la sua espressione fosse più grave e solenne del giorno innanzi, mi venne istintivo di paragonare queste facce ai quadri, i cuori e le picche di un vecchio mazzo di carte mescolato da qualcuno che facesse un solitario. Comunque venissero scelte, le carte continuavano a formare delle combinazioni che il giocatore non riusciva a prevedere. Tanto io che loro ignoravamo come si sarebbe svolto il gioco. 
L'uomo che saliva sulla collina era Otto Bodrugan, seguito da suo figlio Henry. Quando alzò la mano per salutare, il suo gesto fu così istintivo che feci anch'io il gesto di rispondergli, sorridendo perfino. Ma, avrei dovuto prevederlo, padre e figlio continuarono, sfiorandomi quasi, a camminare verso il cancello d'ingresso della casa, mentre il loro intendente, Roger, andava loro incontro per accoglierli. Aveva dovuto spiare di lì il loro arrivo, anche se non l'avevo visto. L'aria festiva, il sorriso beffardo del giorno innanzi erano spariti; indossava, come Bodrugan e suo figlio, una tunica scura, e avevano tutti e tre un'aria grave. 
«Che notizie?» chiese Bodrugan. 
Roger scosse la testa. «Si sta spegnendo in fretta» rispose. «Non c'è più speranza per lui. My lady Joanna è dentro con tutta la famiglia. Sir William Ferrers è già arrivato da Bere, accompagnato da lady Matilda. Sir Henry non soffre; abbiamo provveduto, o, per dirla più chiaramente, ci ha pensato fratello Jean, che non si allontana un momento dal suo capezzale.» 
«Qual è la causa del suo male?» 
«Soltanto la debolezza generale che sapevamo e il freddo che prese con quell'ultima gelata tardiva. Non fa che vaneggiare, parlando dei suoi gravi peccati e invocando il perdono. Non contento di essersi confessato al parroco, ha implorato l'assoluzione anche da fratello Jean e ha ricevuto gli ultimi sacramenti.» 
Roger si scostò per permettere a Bodrugan e a suo figlio di varcare il cancello. 
Adesso l'intero edificio era visibile, con i suoi muri di pietra, il tetto di tegole e un grande cortile davanti. Una rozza scala esterna simile a quella dei granai delle moderne fattorie, portava a delle stanze superiori. Dietro c'erano le scuderie e oltre il recinto delle mura la pista continuava a salire serpeggiando verso Tywardreath e le casupole dai tetti di paglia dei servi che coltivano le terre ai due lati del maniero. 
Udendoci arrivare dei cani traversarono latrando il cortile. La voce severa di Roger li fece accucciare abbassando le orecchie, mentre un servo dall'aria spaventata sbucava da un angolo dell'edificio per venire a portarseli via. Bodrugan e suo figlio varcarono la soglia seguiti da Roger con me alle calcagna. Entrammo in una sala lunga e stretta che correva per l'intera larghezza della casa affacciandosi con le sue finestrelle a due battenti a est sul cortile e a ovest sull'estuario. All'estremità più lontana c'era un camino in cui ardeva ancora, fumando, della torba, e al centro della sala un grande tavolo su trespoli con intorno delle panche. L'atrio era quasi buio, sia per le finestre troppo piccole che per il fumo che velava l'aria, ma anche perché l'intonaco rosso intenso dei suoi muri dava all'insieme un'aria lussuosa e cupa. 
Più che un vero dolore l'espressione avvilita dei tre ragazzi a cavallo sulle panche - due maschi e una femmina - rivelava un muto stupore davanti all'avvicinarsi della morte. Il maggiore, William Champernoune - che avevo visto il giorno prima mentre lo presentavano al Vescovo - fu il primo ad alzarsi e a farsi avanti per salutare lo zio e il cugino. Dopo una breve esitazione gli altri due lo imitarono. Come fanno i ragazzi vedendo arrivare improvvisamente, in un'emergenza, qualche adulto, dopo che Otto Dobrugan si fu chinato per abbracciarli colsero l'opportunità per sgattaiolarsela portandosi dietro il cugino Henry. 
Adesso potevo studiare con comodo le persone rimaste nella stanza. Due di esse le vedevo per la prima volta: un uomo e una donna, lui biondo e barbuto, lei corpulenta e con un'espressione dura che non doveva presagire niente di buono a chi le avesse intralciato la strada. Era già vestita di nero, in previsione della vicina sciagura. Le sue vesti scure facevano risaltare la sua cuffia bianca. Dovevano essere Sir William Ferrers e sua moglie Matilda, accorsi, come aveva detto Roger, in fretta dal Devon. 
La terza persona seduta su un basso sgabello non era un'estranea, ma la mia Isolda. Si era preparata anche lei al lutto imminente abbigliandosi in lilla, ma il vestito aveva dei riflessi d'argento e il nastro, anche lilla, che le rialzava dal viso le trecce era annodato con civetteria. 
Si avvertiva nell'aria una tensione acuta e l'espressione sdegnosa di Matilda Ferrers faceva prevedere guai. Infatti aggredì Otto Bodrugan che avanzava verso di lei: «Vi aspettavamo da un pezzo. Ci vuole davvero tanto tempo per attraversare la baia, o ve la siete presa comoda per permettere ai vostri uomini di divertirsi a pescare?». 
Lui le baciò la mano fingendo di non udire. «Come state, William?» domandò all'uomo in piedi dietro il seggiolone di Matilda, scambiando con lui uno sguardo. «Un'ora dal mio ancoraggio a qui, controvento, non mi sembra molto. Con i cavalli ci avremmo messo di più.» 
Abituato alle impennate della moglie, William annuì limitandosi ad alzare quasi impercettibilmente le spalle. «Me lo sono detto anch'io» mormorò. «Non avreste potuto arrivare prima, e comunque, purtroppo, non potete fare niente.» 
«Niente?» sbottò Matilda. «Tranne darci il suo appoggio quando sarà arrivato il momento e aggiungere alle nostre la sua voce. Scacciare dal capezzale di Henry quel monaco francese e quell'ubriacone di parroco dalla cucina. Soltanto lui, con la sua autorità di fratello, potrà far ragionare Joanna.» 
Bodrugan si era voltato verso Isolda. Notai che la salutava sfiorandole appena la mano e che lei evitava di guardarlo e di sorridergli. Quel riserbo era senza dubbio prudenza: una parola, uno sguardo un po' troppo intimi fra quei due sarebbero bastati a scatenare i commenti. 
Dal ricevimento al Priorato e dal mio primo "viaggio" - novembre... maggio - calcolai che dovevano essere passati sei mesi. 
«Dov'è Joanna?» chiese Bodrugan. 
«Nella stanza di sopra» replicò William Ferrers. Notavo ora come somigliava a sua sorella Isolda, anche se doveva avere dieci, forse quindici anni di più. Aveva il viso fortemente segnato e i capelli striati di grigio. «Capite in che guaio ci troviamo?» continuò. «Henry vuole avere vicino soltanto quel monaco francese, Jean; accetta medicamenti solo dalle sue mani, non vuole neppure vedere il cerusico che è venuto con noi dal Devon e che gode di una così grande fama. E ora, essendo fallita la cura, è caduto in coma e potrebbe spirare da un momento all'altro.» 
«Se Henry ha voluto così, e se non soffre, perché dovremmo lamentarcene?» chiese Bodrugan. 
«Perché le cose non si fanno in questo modo!» esplose di nuovo Matilda. «Come possiamo esaudire, per esempio, il suo desiderio di essere sepolto nella cappella del Priorato? Conosciamo tutti la reputazione del Priore, la sua condotta vergognosa, l'indisciplina dei monaci. Che figura faremmo agli occhi del mondo se tollerassimo che un uomo del rango di 
Henry avesse lì la sua tomba?» 
«Che mondo?» chiese Bodrugan. «Il vostro comprende l'intera Inghilterra, o soltanto il Devon?» 
Matilda avvampò. «Sappiamo benissimo che negli ultimi sette anni avete sostenuto una regina adultera contro il Re legittimo suo figlio. Tutto ciò che è francese ha il vostro appoggio, dagli eserciti invasori, se dovessero mai attraversare il Canale, ai monaci dissoluti dipendenti da un ordine straniero!» 
Suo marito William le mise una mano conciliante sulla spalla. «A che cosa può giovarci riaprire queste vecchie ferite? La parte avuta da Otto in quella rivolta non ci riguarda più. Comunque...» e lanciò un'occhiata a Bodrugan «Matilda non ha torto. Per uno Champernoune farsi sotterrare fra monaci francesi non sarebbe buona politica. Vi converrebbe di più lasciarlo riposare a Bodrugan considerando che per il suo matrimonio Joanna ne possiede già una gran parte. Oppure io sarei felice di vederlo seppellire a Bere, dove stiamo ricostruendo proprio ora la chiesa. Henry dopotutto è mio cugino; la nostra parentela è stretta quasi come la vostra.» 
«Oh, per amor del cielo,» intervenne spazientita Isolda «lasciate che Henry riposi dove vuole. Vi sembra bello comportarci come macellai che prima di sgozzare una pecora litigano per la sua carcassa?» 
Era la prima volta che udivo la sua voce. Si era espressa come gli altri in francese, con lo stesso accento nasale. Ma forse perché era la più giovane e parteggiavo già per lei mi sembrò che la sua voce avesse una musicalità, una limpidezza che mancava agli altri. 
Il marito la guardò costernato e Matilda scoppiò a piangere mentre Bodrugan si avvicinava alla finestra e fissava accigliato il paesaggio. Quanto a Isolda si limitò, increspando sdegnosamente il bel viso, a battere con ira il piede a terra. 
Guardai Roger che mi era come al solito accanto, in un atteggiamento rispettoso verso i presenti. Contenendo a fatica un sorriso, si fece avanti. 
«Se vi garba,» disse, senza rivolgersi in particolare a nessuno, ma, sospettai, per attirare l'attenzione d'Isolda, «vado ad annunziare a my lady l'arrivo di Sir Otto.» 
Prendendo senza dubbio il silenzio generale per un assenso si ritirò dopo essersi inchinato. Mentre saliva al piano di sopra gli rimasi vicino come se ci legasse un filo invisibile. Entrò senza bussare, respingendo le tende pesanti che nascondevano l'ingresso della stanza, grande quasi quanto la sala sottostante e quasi interamente occupata, in fondo, da un enorme letto a baldacchino. Dalle finestrelle, sigillate con fogli di pergamena oleata, entrava poca luce e le candele accese sul tavolo a trespoli ai piedi del letto gettavano ombre mostruose sulle pareti intonacate di un giallo ocra. 
Nella stanza c'erano tre persone: Joanna, un monaco e il moribondo, Henry di Champernoune, sostenuto da un enorme, duro cuscino che lo costringeva a tener abbassato il mento sul petto. Il panno bianco legato a mo' di turbante intorno alla sua testa lo faceva assurdamente somigliare a uno sceicco arabo. Aveva gli occhi chiusi, e a giudicare dal suo pallore stava esalando l'ultimo respiro. Udendoci entrare, il monaco, piegato a rimescolare qualcosa in un vaso sul tavolo, alzò in silenzio la testa. Riconobbi il giovanotto dagli occhi brillanti che durante la mia prima visita al Priorato fungeva da segretario o da scrivano del Priore. 
Roger si era voltato verso Joanna. Seduta all'altra estremità della stanza, perfettamente composta e senza traccia di dolore sul viso, la giovane donna continuò a scegliere e a intrecciare i fili di seta colorata formandone un disegno. 
«Sono tutti qui?» chiese senza alzare gli occhi dal telaio. 
«Quelli che sono stati invitati» precisò Roger. «E hanno già cominciato ad azzuffarsi. Lady Ferrers, che poco fa aveva sgridato i ragazzi perché alzavano troppo la voce, sta litigando con Sir Otto, e a giudicare dalla sua espressione Lady Carminowe vorrebbe essere a cento miglia di qui. Sir John non è ancora arrivato.» 
«E non arriverà, almeno per ora» disse Joanna. «Ho lasciato decidere a lui. Se accorresse troppo in fretta a farci le sue condoglianze potrebbero accusarlo di zelo eccessivo e sua sorella Lady Ferrers sarebbe la prima a mettere zizzania.» 
«Ha già cominciato» ribatté l'intendente. 
«Me ne rendo conto. Prima questa faccenda finirà, meglio sarà per tutti noi.» 
Roger si avvicinò ai piedi del letto e abbassò lo sguardo sul moribondo. 
«Quanto può durare ancora?» chiese al monaco. 
«Non si sveglierà più» fu la risposta. «Toccatelo pure, se volete, ormai non sente più niente. Stiamo solo aspettando che gli si fermi il cuore. Poi my lady potrà annunziare la sua morte.» 
Roger spostò lo sguardo dal letto ai barattoli sul tavolo. «Che cosa gli avete dato?» 
«Sempre lo stesso: meconio, il succo di un'intera pianta mescolato in parti eguali con giusquiamo. In tutto una dramma.» 
«Per evitare discussioni sulla cura sarà meglio portare via questa roba» dice Roger guardando Joanna. «Lady Ferrers parlava poco fa del suo cerusico. I Ferrers non oseranno opporsi ai vostri desideri. Ma potrebbero crearvi dei fastidi.» 
Sempre occupatissima con le sue matasse di seta, Joanna alzò le spalle. 
«Se lo credete opportuno» replicò «portatevi pure via tutto. Dei liquidi ci siamo già sbarazzati. Ma non credo che fratello Jean abbia alcunché da temere. È stato di una discrezione perfetta.» 
Vedendo il monaco rispondere con un lampo dei suoi occhi espressivi al sorriso della giovane donna, mi domandai se durante le settimane della malattia del marito Joanna non avesse concesso anche a lui, come all'assente Sir John, i suoi favori. 
Aiutato dal monaco, Roger avvolse i barattoli in un brandello di tela di sacco. Il mormorio di voci che continuava ad arrivarmi dalla sala sottostante mi faceva intanto capire che, superata la sua crisi di pianto, Lady Ferrers doveva essersi buttata di nuovo vigorosamente nella mischia. 
«Come la sta prendendo mio fratello Otto?» chiese Joanna. 
«Non ha fatto commenti, quando Sir William si è dichiarato contrario al seppellimento nel Priorato suggerendo di ospitare invece i resti di Sir Henry nella cappella di Bodrugan. Non credo che s'intrometterà nella discussione. Come alternativa Sir William ha proposto anche la sua chiesa di Bere.» 
«Con che scopo?» 
«Per vanità e sete di grandezza, chissà. Io non gliela darei vinta. Potrebbero farsi venire delle... curiosità, una volta che avessero nelle mani il corpo di Sir Henry. Mentre, nella cappella del Priorato...» 
«... andrebbe tutto bene. Il desiderio di Sir Henry rispettato e noialtri in pace. Mi affido a voi, Roger, per tenere tranquilli i nostri affittuari. Qui la gente non è molto devota al Priorato.» 
«Per non aver noie basterà trattarli bene alla festa del funerale» replicò lui. «Promettergli una riduzione delle ammende alla prossima riunione della corte, e il perdono di tutti i loro misfatti. Credo che basterà.» 
«Speriamolo.» Joanna si alzò respingendo il telaio e si avvicinò al letto. «È ancora vivo?» 
Dopo aver preso il polso inerte del suo paziente il monaco piegò la testa per auscultargli il cuore. 
«Appena appena» rispose. «Accendete pure le candele, se volete; non faremo neppure a tempo ad avvertire i familiari.» 
Era come se parlassero di un vecchio mobile da buttar via, invece che del marito moribondo di quella giovane donna. Joanna se ne tornò al suo seggiolone, prese un velo nero e cominciò a drappeggiarselo intorno alla testa e alle spalle. Prese poi sul vicino tavolo uno specchio di argento. 
«Va bene così,» chiese a Roger «o debbo coprirmi anche la faccia?» 
«Meglio coprirsi,» le consigliò lui «a meno che non siate capace di piangere a volontà.» 
«Non piango dal giorno delle mie nozze.» 
Il monaco Jean incrociò al moribondo le mani sul petto e gli legò una benda di lino intorno al mento. Dopo essere indietreggiato per esaminare la sua opera, diede l'ultimo tocco mettendo fra le mani intrecciate un crocifisso. 
Roger stava riordinando il tavolo. «Quante candele vi servono?» disse. 
«Il giorno della morte se ne mettono cinque,» spiegò il monaco «in onore delle cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo. Avete una coltre nera per il letto?» 
«Laggiù, in quel cofano» indicò Joanna. E mentre il monaco e Roger la prendevano e ne drappeggiavano il letto, prima di coprirsi la faccia col velo, lei si guardò un'ultima volta nello specchio. 
«Se mi permette di consigliarglielo,» riprese il monaco «my lady farebbe, secondo me, un'impressione migliore inginocchiandosi accanto al letto. 
Io mi metterò ai piedi. Così quando entreranno i familiari potrò recitare le preghiere dei morti. A meno che my lady non preferisca che ci pensi il parroco.» 
«È troppo ubriaco per salire le scale» intervenne Roger. «Sarebbe la sua fine, se lo vedesse Lady Ferrers.» 
«Lasciamolo perdere, allora, e andiamo avanti» disse Joanna. «Roger, volete scendere? Fate salire prima William, che è l'erede.» 
Si era inginocchiata accanto al letto piegando in atto di dolore la testa. La sollevò di nuovo prima che uscissimo, per dire a Roger, voltandosi verso di lui: «Quando mio padre morì a Bodrugan mio fratello Otto spese quasi cinquanta marchi, senza contare le bestie sgozzate per il banchetto. Non possiamo essere da meno. Non badate a spese.» 
Roger sollevò i tendaggi della porta e io scesi con lui. Il contrasto fra il giorno luminoso e l'atmosfera fosca della casa dové colpirlo quanto me perché si fermò in cima alle scale abbassando gli occhi, al disopra del muro di cinta, sulle acque scintillanti dell'estuario. 
La nave all'ancora di Otto Bodrugan aveva le vele mollemente ammainate sui pennoni e a prua un uomo in una barchetta andava su e giù cercando il punto buono per pescare. I ragazzi della casa erano scesi dalla collina per andare a guardare la nave dello zio. Henry, il figlio di Bodrugan, stava indicando qualcosa a suo cugino William e i cani saltavano abbaiando intorno al gruppetto. 
Avvertii in quel momento sempre più forte quanto fosse assurda, macabra perfino, la presenza fra loro di un essere come me, invisibile, non ancora nato, testimonio mostruoso di avvenimenti accaduti secoli prima, dimenticati, trascorsi senza lasciar traccia, e mi chiesi come mai, fermo qui, su questi scalini, nascosto ma vedendo tutto, potessi sentirmi così profondamente turbato da quegli amori e quelle morti. L'uomo che stava spirando avrebbe potuto essere un parente del mio lontano mondo giovanile: anche mio padre, morto quando avevo più o meno l'età del giovane William che stava laggiù, in quel campo. Il cablogramma dell'Estremo Oriente - mio padre era caduto battendosi contro i giapponesi - era arrivato nell'albergo del Galles dove passavamo le vacanze di Pasqua proprio mentre mia madre e io stavamo finendo il nostro lunch. Lei era salita a chiudersi nella sua stanza e io mi ero aggirato a lungo nel viale dell'albergo, rendendomi conto della mia sventura ma incapace di piangere, atterrito all'idea di affrontare, se fossi rientrato, la pietà dell'impiegata della portineria. 
Con in mano l'involto dei barattoli macchiati dai succhi delle erbe, Roger scese nel cortile e passò sotto un arco, in fondo, che portava in quello delle scuderie. Al suo arrivo i servi della casa che vi erano raccolti smisero di parlare e si allontanarono, eccettuato un ragazzo che avevo visto il primo giorno e che riconobbi, perché gli somigliava, per il fratello di Roger. Costui gli ordinò con un cenno del capo di avvicinarsi. 
«È finita» gli disse. «Corri subito al monastero a informare il Priore, perché ordini di suonare le campane. Il lavoro cesserà appena si udranno i rintocchi, e gli uomini cominceranno ad arrivare dai campi. Dopo aver dato il tuo messaggio al Priore galoppa a casa a mettere questo pacco in cantina e aspetta lì il mio ritorno. Ho molto da fare e potrei anche non rientrare.» 
Dopo aver annuito il ragazzo sparì nelle scuderie mentre Roger ripassava sotto l'arco. Vedendo fermo all'ingresso della casa Otto Bodrugan, esitò prima di raggiungerlo. 
«My lady» gli disse «vi prega di andare da lei con Sir William, Lady 
Ferrers e Lady Isolda. Vado ad avvertire anche William e i bambini.» «Sir Henry è peggiorato?» chiese Bodrugan. 
«È morto, Sir Otto. Nemmeno da cinque minuti, senza riprendere coscienza, pacificamente, nel sonno.» 
«Mi dispiace,» disse Bodrugan «ma è meglio così. Prego Iddio di farci finire tutti e due, quando sarà arrivato il momento, serenamente come lui, anche se non lo meritiamo.» 
Vedendo che si segnavano li imitai automaticamente. 
«Lo dirò agli altri» continuò Bodrugan. «Non importa se Lady Ferrers si farà venire una delle sue crisi isteriche. Come sta mia sorella?» 
«È calma, Sir Otto.» 
«Me lo aspettavo.» 
Bodrugan non si decideva ad andarsene. «Avete riflettuto,» chiese leggermente impacciato «che essendo ancora minorenne William dovrà lasciarsi confiscare fino alla maggiore età le sue terre dal Re?» 
«Sì, Sir Otto.» 
«In circostanze ordinarie,» continuò Bodrugan «la confisca dei suoi beni sarebbe poco più di una formalità. Come zio per matrimonio, di William, e perciò suo tutore legale, verrei incaricato io dal Re di amministrarglieli. Ma dopo la parte che ebbi nella cosiddetta rivolta la situazione è cambiata.» 
L'altro lo ascoltava in silenzio, senza battere ciglio. 
«Perciò il confiscatore, che agirà per William e per il Re, sarà probabilmente qualcuno che gode più stima di me; molto probabilmente suo cugino Sir John Carminowe. Se le cose andassero così Sir John si preoccuperà senza dubbio anche degl'interessi di mia sorella» concluse con palese ironia Bodrugan. 
Rientrò in casa mentre Roger si limitava a piegare la testa. Il suo lento sorriso di soddisfazione si spense bruscamente appena i giovani Champernoune entrarono col cugino Henry nel cortile, ridendo e chiacchierando. Intuendo per primo ciò che doveva essere accaduto, Henry, il maggiore di loro, impose agli altri il silenzio e fece cenno a William di avvicinarsi. Vedendo l'espressione del ragazzo alterarsi capii che una brusca apprensione gli torceva lo stomaco. 
«Si tratta di mio padre?» chiese. 
Roger annuì. «Prendete i vostri fratelli e andate da vostra madre. Ricordatevi che siete il maggiore e che da ora in poi lei cercherà in voi il suo sostegno.» 
Henry si era aggrappato al braccio dell'intendente. «Voi rimarrete con noi, è vero? E anche lo zio Otto?» 
«Vedremo» fu la risposta. «Ma adesso siete voi il capo della famiglia.» 
Controllandosi con uno sforzo enorme, William si girò verso il fratello e la sorella. «Nostro padre è morto. Venite con me, vi prego» disse entrando in casa, pallidissimo ma a testa alta. 
Impressionati, i due bambini lo seguirono dopo aver preso per mano il loro cugino Henry. Guardando Roger vidi per la prima volta sul suo viso qualcosa che poteva sembrare compassione e anche orgoglio, perché il ragazzo che conosceva fin dalla culla si stava dimostrando degno del suo nome. Attese prima di rientrare a sua volta. 
La grande sala appariva deserta. L'arazzo appeso all'estremità più lontana, presso il caminetto, era stato rialzato e rivelava una stretta scala, che poco prima avevano dovuto usare Otto Bodrugan, i Ferrers e dopo di loro i ragazzi. Mi giunse dall'alto un fruscio di piedi e dopo una pausa il mormorio lento del monaco: 
«Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis...». 
Ho detto che la sala appariva deserta, e lo era infatti, tranne che per un'esile figura in lilla. Isolda era l'unica del gruppo che non fosse salita di sopra. Vedendola, Roger indugiò sulla soglia prima di avanzare rispettivamente verso di lei. 
«Lady Carminowe non desidera rendere omaggio al morto come il resto della famiglia?» 
Isolda, che non si era ancora accorta di lui, girò la testa per fissarlo. Vicino com'ero all'intendente fui avvolto nello stesso sguardo sprezzante dei suoi occhi gelidi. 
«Non ho l'abitudine di burlarmi della morte.» 
Se fu sorpreso, Roger non solo non lo fece capire ma ripeté il suo gesto rispettoso. «Sir Henry vi sarebbe grato delle vostre preghiere.» 
«Le ha avute regolarmente per molti anni» replicò Isolda. «E nelle ultime settimane sempre più fervide.» 
L'acredine con cui furono pronunziate queste parole dové colpire molto più di me il mio compagno. 
«Sir Henry si ammalò dopo il suo pellegrinaggio a Campostella» replicò Roger. «Dicono che Sir Ralph di Beaupré soffra dello stesso male: una febbre logorante per cui non esistono rimedi. Sir Henry ha sempre avuto così pochi riguardi per la sua persona che non è stato facile curarlo. Vi assicuro che abbiamo fatto tutto quello che era possibile.» 
«Pare che malgrado questo male sir Ralph di Beaupré conservi tutte le sue facoltà» obiettò sempre più aspra Isolda. «Mio cugino aveva la fronte fresca, la sua febbre non era alta, eppure da più di un mese non ci riconosceva più.» 
«Nella malattia ognuno si comporta diversamente» le fece notare Roger. «Ciò che salva l'uno può nuocere all'altro. È stata la sua malasorte a far vaneggiare Sir Henry.» 
«Aiutata dalle pozioni che gli davano. Mia nonna, Isolda di Cardinham, aveva un trattato delle erbe scritto da un dotto medico che era andato alle Crociate. Me lo lasciò alla sua morte perché portavo il suo nome. Conosco perciò le virtù del papavero nero e di quello bianco, della cicuta acquatica e della mandragora... e il sonno che possono procurare.» 
Troppo stupito per conservare il suo atteggiamento deferente, Roger la fissò in silenzio. 
«Queste erbe» replicò infine «sono usate da tutti gli apotecari per alleviare le sofferenze. Il monaco Jean di Meral ha studiato nella casa madre di Angers ed è considerato un esperto. Sir Henry se ne fidava nella maniera più assoluta.» 
«Non discuto la fiducia di Sir Henry, la scienza del monaco o il suo zelo nello sfruttarla. Ma una pianta benefica può diventare dannosa se la dose viene aumentata.» 
Lo stava sfidando e lui lo sapeva. Mi ricordai il tavolo ai piedi del letto e i barattoli avvolti con tanta cura nella tela di sacco, prima di portarli via. «Questa è una casa in lutto,» disse Roger «e lo sarà per diversi altri giorni. Vi consiglio di parlare di queste faccende a my lady, non a me. Non è affar mio.» 
«Neppure mio» disse Isolda. «Ho parlato soltanto per l'affetto che portavo a mio cugino, e perché non mi lascio facilmente abbindolare. Sarà bene che ve ne ricordiate.» 
Al primo piano uno dei bambini scoppiò a piangere. Il mormorio delle preghiere e gli altri rumori s'interruppero e udimmo nelle scale dei passi rapidi. L'unica figlia femmina di Sir Henry - poteva avere al massimo dieci anni - arrivò correndo a buttarsi nelle braccia di Isolda. «Dicono che è morto,» gemé «eppure una volta, una sola, ha aperto gli occhi e mi ha guardata prima di richiuderli. Non se n'è accorto nessuno; erano troppo occupati a pregare. Significa che debbo accompagnarlo nella sua tomba?» 
Stringendosi protettivamente al seno la bambina, Isolda voltò la testa e continuò a fissare Roger. 
«Se oggi o ieri» disse improvvisamente «in questa casa è stato commesso un delitto, a suo tempo ne sarete ritenuto responsabile anche voi, insieme agli altri. Non in questo mondo, dove non abbiamo prove, ma nell'altro, davanti a Dio.» 
Mentre cercavo di sbarrare la strada a Roger, che impulsivamente si era mosso verso di lei per farla tacere, credo, o per toglierle la bambina, infilai il piede sotto una lastra di pietra tentennante. E a un tratto non ebbi più intorno che cumuli di terra e ciuffi d'erba, cespugli di saggina e la radice di un albero morto, e alle mie spalle un grande affossamento, rotondo come una cava, pieno di barattoli arrugginiti e di schegge di lavagna. 
Mi aggrappai a un cespuglio di finestre secco e contorto, vomitando violentemente e udendo arrivare da lontano il fischio di una motrice diesel che attraverò la valle sotto di me, sferragliando