mercoledì 2 ottobre 2024

FINITUDINE Telmo Pievani

 

FINITUDINE

Telmo Pievani

Recensione 

L’intera cornice narrativa del romanzo filosofico "Finitudine" si fonda, su una storia controfattuale: cosa sarebbe successo se Albert Camus non fosse morto nell’incidente stradale del 4 gennaio 1960?

Pievani immagina una storia pienamente plausibile: Camus, in convalescenza presso il Centre Hospitalier di Fontainebleau, e Jacques Monod, biologo dell’Istituto Pasteur e suo caro amico che periodicamente gli rende visita, scrivono a quattro mani un libro per interrogarsi sulla possibilità di un’etica laica della conoscenza e dell’esistenza, informata dal materialismo metafisico di Lucrezio quale emerge dai versi del De rerum natura, i quali, posti in epigrafe a ogni capitolo, costituiscono il fil rouge di questa indagine: «Andiamo a scoprire quanto è lucreziana la scienza di oggi» (T. Pievani, Finitudine p. 31) è una delle chiavi di lettura del testo.

In tal modo, il libro di Pievani si configura come un romanzo dentro un romanzo: in ogni capitolo, alla lettura di Monod delle bozze del loro libro sulla finitudine, segue il dialogo fra i due premi Nobel, in cui essi si confrontano sui temi del testo che stanno scrivendo, sul dramma della Seconda guerra mondiale e della Resistenza da loro vissuta in prima persona, sulle illusioni e la dittatura politica e scientifica imposte dall’Unione sovietica nei Paesi del Patto di Varsavia negli anni più critici della Guerra fredda. Il risultato è un ritratto non convenzionale di due fra i maggiori intellettuali del XX secolo, che ne enfatizza l’umanità, la fragilità, ma anche il coraggio assunto nell’affrontare le pagine più buie della storia del Novecento. I due pensatori collaborano all’insegna della condivisione intellettuale e umana delle loro esperienze di vita, guidati da una curiosità neotenica e da una forte passione civile: «La gratuità unisce la mia filosofia alla tua scienza. Forse per questo stiamo scrivendo insieme», dice Camus a Monod (ibid., 80).

La prospettiva congiunta del filosofo e dello scienziato riesce a sollevare il velo dell’illusoria certezza nella stabilità perenne dell’universo, del sistema solare, della Terra e, in definitiva, della nostra stessa esistenza come specie e come individui.

La finitudine ci sgomenta; è disarmante. «C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose» , (ibid. p. 20). Un incanto che è «meraviglia», ma nel senso greco di thauma, di quello stupore inquietante che Socrate, rivolto a Teeteto, afferma essere il contrassegno della pratica filosofica.

Ma esiste un messaggio positivo che si può ricavare dalla finitudine? Nella finzione letteraria di Pievani, Monod e Camus propongono una risposta affermativa a tale quesito:«L’amara verità della finitudine di tutte le cose ci restituisce allora libertà, la tragica libertà di chi non crede più nei migliori mondi possibili, ma nemmeno si lascia intrappolare nel nichilismo più angoscioso. Una libertà in bilico tra la certezza di morire e la passione di vivere» (ibid., p. 58). Bisogna dunque «assumere la finitudine, accettarla, smettere di tradirla invano, e tuttavia affrontarla a viso aperto in piena libertà. La consapevolezza della finitudine ci rende umani» (ibid., p. 241). Il punto d’arrivo di questo itinerario teoretico, al contempo punto di partenza di un cammino etico, è perciò l’etica della conoscenza. 

Finitudine 

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960

Il biologo dell’Istituto Pasteur, Jacques Monod, è accorso in ospedale per far visita all’amico scrittore Albert Camus, gravemente ferito in un incidente stradale.

Camus, immobile ma lucido, fasciato in testa, dalla penombra gli aveva fatto cenno di esser pronto.


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del prologo

La Terra è vecchia

Così dunque anche intorno, le mura del vasto mondo, espugnate, finiranno in rovina e in corrotte macerie. Bisogna infatti che il cibo reintegri e rinnovi, che il cibo ristori, che il cibo alimenti ogni cosa, ma invano, poiché le vene non sopportano più quanto basta e la natura non somministra quanto serve. Così è ormai fiaccata la nostra era e la terra stremata stenta a creare piccoli animali, lei che ha creato ogni specie e partorito fiere dai corpi smisurati.

LUCREZIO, De rerum natura, libro II, 1144-1152


Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo?

Sa che la Terra è vecchia. Avendola noi ammirata pochi mesi fa nelle prime immagini satellitari dell’Explorer 6, corrugata di vortici bianchi, il profilo curvilineo stagliato sul nulla, risplendente di colori che possiamo solo immaginare, non si direbbe proprio che una tale solitaria meraviglia sia così anziana. Tuttavia, per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia. Eppure, basta far di conto.

Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle della nostra galassia, brilla da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo. Si piegheranno le ginocchia di Atlante e la Terra esploderà in un grande sconquasso. Lucrezio ha ragione.


In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali. Da allora in poi il circolo vizioso sarà inarrestabile: temperature più alte favoriranno l’ulteriore evaporazione degli oceani. Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo. Se già ora vogliamo farci un’idea di quel che accadrà, basta osservare un asfissiato vicino di casa apparentemente sterile, Venere, dove un processo simile è già avvenuto, data la sua sventurata prossimità al Sole.


Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nell’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita. Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro). Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.


Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri. In tal senso, oggi, grazie al brusco allenamento di due recenti guerre mondiali, gli strumenti di autodistruzione non ci mancano: dalla guerra nucleare alla devastazione ambientale, passando sempre per la miope ingordigia umana. Ammettiamo dunque, per un assurdo ottimismo, che tra un miliardo di anni avremo resistito alla tentazione nichilistica del suicidio collettivo e che, grazie al nostro spirito di conservazione, qualche nostro discendente sarà ancora nei paraggi. Non è lecito, in ogni caso, rilassarsi, perché altre dinamiche planetarie potrebbero andare storte ben prima della scadenza.


L’orbita terrestre, per esempio, potrebbe deragliare fuori controllo. I modelli fisici a disposizione non sanno infatti predire l’andamento delle traiettorie planetarie da qui a 50 milioni di anni. La docile teoria di pianeti orbitanti intorno al Sole, all’apparenza così affidabile, è in realtà un sistema fisico caotico, soggetto alle perturbazioni e alle mutue interazioni di tutti i corpi che lo compongono. I pianeti sia interni sia esterni sono già migrati più volte in passato e un giorno potrebbe capitare anche a noi, che siamo lì sballottati nel mezzo. L’orbita terrestre potrebbe così avvicinarsi o allontanarsi troppo dal Sole, uscendo dalla zona abitabile, e intonando l’addio alla vita.


E se anche ammettessimo di riuscire a rimanere stabili al nostro posto, lì tra Venere e Marte, per 50 milioni di anni, resta il fatto statistico, appurato di recente da alcuni paleontologi, secondo cui, mediamente, ogni qualche milione di anni la Terra è colpita da meteoriti o comete di dimensioni tali da mettere a repentaglio la vita di gran parte delle specie animali e vegetali, soprattutto quelle, come la nostra, che soffrono particolarmente all’idea di essere travolte da tsunami giganteschi, di finire accerchiate da incendi smisurati e di passare decenni al gelo dell’inverno glaciale che deriverebbe dall’offuscamento dell’atmosfera.


Veniamo, dunque, al calcolo sorprendente che ci porta ad affermare che la Terra è vecchia. Decidiamo di essere irrazionalmente fiduciosi. Supponiamo di essere così bravi da perpetuare la nostra stirpe per milioni di anni, imparando a controllare i nostri istinti tribali, a rispettare l’ambiente e a deviare gli asteroidi assassini prima della catastrofe. Il Sole, però, non possiamo regolarlo a nostro piacimento. Se ne sta lì, con la sua biografia prestabilita dalla fisica. Quando tra un miliardo di anni sarà diventato più caldo del 10%, per noi sarà il fine corsa. Sarà un viaggio al termine della Terra così come la conosciamo.


Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, per i cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens.


Ne deduciamo una prima constatazione, positiva: un bel pezzo del tempo totale concesso fin qui all’universo ha visto almeno un esperimento di vita di successo, cioè i resistentissimi microbi terrestri e poi, marginalmente, alcuni mammiferi bipedi e vocianti. Seconda constatazione, meno piacevole: siamo entrati nella vecchiaia della vita sulla Terra. Se, infatti, compariamo tutto quanto è successo sin qui sulla Terra all’arco di vita medio di un uomo – diciamo, per eccesso, 72 anni –, scopriamo che adesso, agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, abbiamo compiuto 56 anni. La vita sulla Terra ha già consumato 56 anni su un totale di 72 a disposizione. Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio, ma la Terra è già vecchia!


Stiamo per andare in pensione. Ci restano soltanto sedici anni da vivere, cioè, fuor di metafora, un miliardo di anni su 4,5 totali. E a questa veneranda età abbiamo ancora problemi di rifornimento energetico, non abbiamo ancora messo il naso fuori dall’atmosfera, non abbiamo colonizzato nemmeno il nostro satellite né i pianeti più vicini, facciamo esplodere bombe nucleari sempre più potenti e alteriamo il mondo naturale a nostro pieno discapito. Meglio darsi da fare se non vogliamo essere ricordati come arzilli vecchietti un po’ rimbambiti che si sono messi a disfare il pianeta poco prima del gran botto finale.


Quindi, se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni. La Terra è vecchia. Ora guardiamo la stessa faccenda da un’altra angolazione. Il genetista, tra noi due scriventi, calcola che, dagli inizi dell’evoluzione di Homo sapiens, dovrebbero essere vissuti circa 100 miliardi di esseri umani in carne e ossa. Quindi noi, adesso, nel 1960, siamo i 3 miliardi di umani che vivono l’età della vita sulla Terra corrispondente a 56 anni su 72. Sono esistiti finora soltanto 100 miliardi di storie individuali, di fili tessuti dalle Parche e poi recisi, di sguardi umani aperti sul mondo e poi chiusi per sempre, di esperienze uniche, di pensieri segreti mai condivisi con altri, di sogni e di fugaci sentimenti. Cento miliardi di esseri umani che sono nati, hanno amato, avuto figli, compiuto imprese, e sono morti: è così semplice. Qualcosa è rimasto – le invenzioni di cui non possiamo più fare a meno, le idee importanti, gli scritti più significativi, le gesta e le opere di pochi, le rovine –, ma i contenuti di quelle vite si sono per lo più persi per sempre, come baci nel vento, senza un segno che li ricordi.


Cento miliardi sembra una cifra enorme, ma è pur sempre un numero finito, una quantità trattabile e recintabile, una gran massa di persone assembrate a perdita d’occhio in una prateria. Tutta l’umanità è su quel prato. Tutto ciò che è stato di noi. Potremmo catalogare 100 miliardi di esseri umani anche dentro un grande archivio, un’enorme biblioteca antropologica: 100 miliardi di cartellini divisi per sale, in livelli sempre più profondi, con i dati anagrafici essenziali e qualche storia, schedati a supremo omaggio della coscienza storica. Il bibliotecario di tutti i nomi che ci sono stati, di tutte le esistenze, non potrà che essere la morte.


Se ora volgiamo lo sguardo al futuro, capiremo che non ci saranno infiniti umani; soltanto un altro po’. Qualche milione di generazioni fino al termine del nostro miliardo di anni, non di più. Il loro cicaleccio resterà impresso per qualche tempo ancora nella frenesia universale; una parte di esso viaggerà nello spazio con le onde radio, ma prima o poi tutte le parole svaniranno nel nulla. Non ci saranno infiniti altri fili di Parche, infinite altre esperienze uniche; soltanto un altro po’. Non ci sarà per sempre un’altra storia, dopo l’ultima storia. Del resto, la posterità è una ridicola eternità. I posteri saranno indifferenti a noi, essendo gli umani notoriamente privi di memoria duratura. Se tutte le glorie sono effimere e i cimiteri, prima o poi, sono disertati, le nostre opere migliori, tra qualche millennio, saranno polvere, dimenticate. Forse gli archeologi ci rintracceranno sotto qualche frana, ma se così non fosse apprezzeremo ancora di più la profonda nobiltà di questa indifferenza della posterità. Non c’è una storia infinita da sobbarcarsi. Il futuro è più leggero del previsto e ci lascia liberi.


Crollerà, dunque, la macchina del mondo. La Terra è già vecchia. Quanto al resto, grazie alle capacità di previsione della scienza cosmologica, possiamo andare oltre l’orizzonte della nostra particolare finitezza e accorgerci, non senza iniziale sgomento, che anche il mondo, prima o poi, scomparirà. Tutto finisce. La galassia di Andromeda ci sta venendo addosso alla velocità di 110 chilometri al secondo; sarà qui tra 6 miliardi di anni e si fonderà con la Via Lattea. Noi non siederemo in platea per questa danza di stelle, peccato. Intanto l’universo continuerà la sua espansione, distanziando sempre più le galassie: il cosmo, visto da qui, diventerà più buio e più freddo. Non esistendo più, eviteremo l’esperienza di sentirci ancora più soli. Forse l’universo continuerà la sua corsa espansiva fino alla morte termica, fino al Grande Freddo, al lentissimo esaurimento di tutto il combustibile stellare, tra migliaia di miliardi di anni. Questo sì, un numero quasi inimmaginabile. O forse, in un istante benedetto di sospensione cosmica da lasciare senza fiato, si fermerà e tornerà indietro, collassando di nuovo fino a un punto di inizio infinitesimale. O un punto di fine.


C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960


Monod ripose i fogli sulla sedia accanto. Dal giardino saliva il chiacchiericcio festoso dei parenti dei malati in visita domenicale.


“Se scrivi ancora una volta che il culmine dell’assurdità è morire in un incidente stradale, Albert, ti strozzo”, gli disse, fingendosi serio.


“Sei diventato superstizioso Jacques?”, rispose piano Camus, senza girarsi nel letto.


“No, ma la prossima volta che ti invitano per una conferenza a New York potresti dire che l’estrema, involontaria coerenza di chi crede nella condizione assurda dell’uomo è precipitare con l’aereo.”


“Buona idea, sarebbe in effetti il copione perfetto dell’assurdo, un agguato di sorte beffarda, un colpo di teatro dell’insensatezza. Sempre meglio che dieci giorni di nave.”


“Albert, che ti pare di questo prologo?”, chiese Monod riassettando i fogli.


“Non male, lo si potrebbe asciugare ancora un po’. Il calcolo che hai fatto è impressionante, non si pensa mai che la Terra possa essere già vecchia. Te l’immagini che esista da sempre, il nostro pianeta, e che sempre esisterà dopo di noi. Mi piace quest’idea che la storia, perfino la nostra altisonante storia di specie, abbia un termine. Non c’è un tempo infinito da addomesticare a nostro piacimento: l’avvenire è un imbroglio.”


“Già, a proposito di imbrogli, ti ha detto Francine che la polizia ha aperto un fascicolo sull’incidente perché c’è il sospetto che possa trattarsi di un sabotaggio?”


“Mi ha accennato qualcosa. Lo trovo ridicolo. Michel è uno che corre, lo sanno tutti. Dall’inizio del viaggio gli avevamo chiesto di andare piano, e ha obbedito, poi non ricordo più niente. Come sta?”


“Lo operano domani a Parigi. Ha perso molto sangue, il torace è sfondato e la milza spappolata. Janine ha raccontato che tu e Michel, poco prima che l’auto iniziasse a sbandare, stavate parlando di imbalsamazione e di una polizza sulla vita. Ridevate all’idea che nessuno la stipulerebbe a due tubercolotici come voi. Peraltro, due tubercolotici fumatori accaniti di Gauloises.”


“Me ne farei volentieri una, ma qui non si può… Poi che cosa ricorda Janine?”


“Che sul rettilineo della Nazionale 5, verso Petit Villeblevin, una ventina di chilometri dopo Sens, la Facel Vega di Michel ha sbandato più volte. Janine ha sentito cedere qualcosa sul lato sinistro, dove sedeva. Una spinta improvvisa vi ha fatto attraversare la corsia centrale di sorpasso e vi siete schiantati contro un platano sul lato sinistro. Poi siete rimbalzati di nuovo verso la carreggiata e vi siete fermati contro un altro platano, a destra. Tremendo. Pare che abbiate fatto tutto da soli. Dovevate andare parecchio forte, perché l’auto era accartocciata e spezzata in due intorno al tronco; la parte anteriore sbriciolata, quella posteriore ancora integra. Per qualche strana carambola, la tua testa e il tuo collo hanno in qualche modo resistito a una serie di urti terribili.”


“Sì, ma da quando mi sono risvegliato i dolori sono fortissimi e non mi hanno detto per quanto dovrò stare immobilizzato. Non voglio nemmeno che mi diano troppa morfina. Ci sarà un sacco di tempo, dopo morti, per essere incoscienti. Anne sta bene vero?”


Camus pensò alla cena di festa per il diciottesimo compleanno di Anne che avevano organizzato la sera del 3 gennaio nel rinomato Le Chapon Fin, sulla strada del ritorno. Un po’ sul serio un po’ per scherzo, Camus aveva cercato di convincere Michel a far recitare la figlia nelle sue opere teatrali a Parigi.


“Ancora più miracolata di te, la ragazza. I rottami erano sparsi per centinaia di metri. Janine l’hanno trovata vicino a Michel, seduta e stordita, solo una vertebra cervicale incrinata. Anne era pressoché illesa, nonostante sia stata scagliata a venti metri in un campo. Il suo cane scomparso e mai più ritrovato.”


“Quindi eravamo a meno di cento chilometri da Parigi. Dovevo rientrare per cena, avevo preso appuntamento con Maria. Ho il buio totale nella memoria dopo il pranzo a Sens, ho l’immagine del Beaujolais che abbiamo bevuto e della salsiccia di sanguinaccio con le mele renette dell’Hotel de Paris et de la Poste. Si è capito cosa è successo?”


“Presumo che Francine non sappia che avevi fretta di andare a cena con Maria.” Monod fece quella sua smorfia sorniona che si allargava fin sotto gli zigomi alti.


“Tu non preoccuparti. Francine sta male indipendentemente da questo, e mi addolora non poter far nulla.”


“La stradale dice che il traffico era scarso. Eravate su un rettilineo con asfalto asciutto, in buone condizioni di luce e di tempo. Un guidatore che stava dietro sostiene che lo avevate sorpassato poco prima a 145 chilometri orari, ma nessun’altra vettura pare coinvolta nell’impatto. Potrebbe essere stato un colpo di sonno di Gallimard, favorito dal Beaujolais, ma Janine dice che Michel ha urlato ‘Merde!’, quindi era ben cosciente che stava perdendo il controllo del mezzo. Dai rilievi risulta una striscia nera di 150 metri sull’asfalto, lasciata da una parte meccanica dell’auto. L’ipotesi più probabile è il cedimento di un semiasse oppure il blocco di una ruota. Considerando lo zig-zag che avete fatto sulle tre corsie, sbandando di colpo a sinistra, potrebbe essere scoppiato uno pneumatico su quel lato.”


“Stai facendo lo scienziato. Perché non affidano a te le indagini, anziché perder tempo aprendo un fascicolo per sospetto sabotaggio?”


“Questa è una scienza indiziaria. Un gendarme ha notato che la gomma della ruota anteriore sinistra era squarciata dall’interno.”


“Ho capito, Jacques, ma quello schianto doppio contro gli alberi che mi hai descritto è stato così devastante che mi pare difficile stabilire se quella rottura sia l’esito di una manomissione precedente o dell’impatto. Non trovi?”


“Infatti. Ma sai che immaginare complotti è una radicata propensione cognitiva umana, un lenitivo potente per le nostre ansie. Appena qualcosa non torna, neghiamo la semplice e lineare crudeltà dell’esistenza e ci consoliamo nella paranoia di trovare un senso purchessia, un senso coerente con le nostre presupposizioni.”


“Qui, però, proprio non sta in piedi. Non c’è nemmeno l’indizio. E chi sarebbe l’agente nascosto nella mia fattispecie?”


“Ma naturalmente il KGB! Sono così bravi a far fuori gli oppositori simulando perfettamente gli incidenti e le morti più naturali!”, rispose Monod, prorompendo in una risata.


“Ma che la smettano, non sono Trockij, non sono così pericoloso, spero che gli agenti del KGB abbiano qualcosa di meglio di cui occuparsi, altrimenti avrei forti dubbi sulla serietà delle ambizioni criminali del comunismo sovietico.”


“Continui a sminuirti Albert. Quando ti hanno dato il Nobel, la prima cosa che hai detto è che in Francia lo avrebbe meritato un altro, cioè Malraux, ma ti sembra il caso? Sei uno degli intellettuali più letti al mondo. Dopo i fatti d’Ungheria non gliene hai fatta passare una: per gli scrittori dissidenti ungheresi sei un punto di riferimento, infiammi gli studenti di mezzo mondo contro il socialismo dei patiboli, hai firmato appelli e tre anni fa hai avuto l’ardire di attaccare frontalmente il ministro degli Esteri russo Dmitrij Šepilov. Gli hai dato del massacratore, del propagandista, del grigio burocrate, parlando di genocidio della nazione ungherese e di macelleria sovietica sotto gli occhi di noi occidentali ignavi, vergognosi e impotenti dinanzi alla carneficina. Hai sparato ad alzo zero, giustamente, contro l’illegale e ignobile esecuzione di Imre Nagy. Come se non bastasse, hai appoggiato la candidatura al Nobel di Boris Pasternak e intrattieni scambi epistolari con lui. Ce n’è abbastanza per farli infuriare sul serio, i compagni. Io non scarterei a priori l’ipotesi.”


“Se così fosse, il KGB e i suoi sicari dovrebbero fare una strage di scrittori e di liberi pensatori in tutto il mondo. E avrebbero il dovere di venire a prendere anche te Jacques, che hai tradito la loro chiesa già nel 1945. Quanti inutili appelli abbiamo firmato tu e io finora? E poi, scusa, Šepilov è caduto in disgrazia poco dopo il mio discorso contro di lui. Lo hanno destituito e spedito come ambasciatore in Mongolia perché sospettato di aver ideato un colpo di stato in Unione Sovietica. In pratica, lo hanno graziato. Ce lo vedi mentre da Ulan Bator organizza un sofisticato sabotaggio della Facel Vega HK500 del nipote del famoso editore francese Gaston Gallimard, sulla quale io ero salito per puro caso due giorni prima?”


“Lo so, non ha molto senso. Certo che essere un premio Nobel attira le più irrazionali attenzioni. Qualcuno, sui giornali, sta dicendo che il tuo è stato un tentativo inconscio di suicidio, perché sapevi che Michel Gallimard guida come un pazzo sconsiderato e non hai voluto prendere il treno di rientro da Avignone insieme alla tua famiglia anche se avevi già comprato il biglietto.”


“Queste interpretazioni psicoanalitiche sono demenziali. Io non sono depresso nemmeno imbottito di farmaci in questo letto di ospedale.”


“Depresso no, inquieto sì. Stavo pensando che tra te e me messi insieme, se qualcuno organizzasse un attentato, sarebbe ben difficile per gli inquirenti scoprire chi è stato. Abbiamo una tale quantità di nemici, a destra e a manca, che dovrebbero setacciare mezza Francia.”


“Hai ragione Jacques!”, Camus si illuminò all’improvviso. “Proviamo a elencare i nostri potenziali odiatori e i mandanti degli assassini.”


“Be’, di stalinisti e comunisti più o meno ortodossi abbiamo già detto. Non ci perdoneranno mai il pensiero non intruppato e la sfrontatezza di non voler mai essere allineati. Anche l’intellighenzia impegnata del tuo vecchio amico Jean-Paul Sartre ci osserva sdegnata dalla Rive Gauche e non sopporta certa coerenza. Ti trattano come un parvenu, come il ragazzo venuto d’oltremare, e invece sono loro i più conformisti di tutti. Però, secondo me, ci vuole fegato per un’operazione del genere e loro non ce l’hanno, almeno non a Parigi. Sull’altro fronte, stiamo sulle scatole a tutti i reazionari di Francia, per la militanza nella sinistra libertaria e per tutto quanto abbiamo scritto durante e dopo la Resistenza. Nemmeno la borghesia illuminata ci arruolerebbe tra le sue fila, per via delle nostre critiche alle storture della società capitalistica che fa della produzione industriale il suo dio e la sua promessa perpetua, proprio come il nemico sovietico. Nel tuo caso, aggiungerei i nazionalisti francesi contrari all’indipendenza dell’Algeria e, quindi, ostili a tutti i tuoi discorsi di libertà e di tutela delle popolazioni locali. Ma anche i terroristi e gli estremisti arabi indipendentisti ce l’hanno con te, perché, troppo moderato o perfino traditore, difendi i francesi piedi-neri d’Algeria con le pezze sui pantaloni come le avevi tu e rifiuti l’ideologia violenta di chi vede in ogni francese un nemico in quanto tale o un ricco possidente assetato di sangue. Vorresti due popoli solidali sotto lo stesso Stato, uno Stato che difendesse i diseredati dell’uno e dell’altro. Quindi te li sei inimicati entrambi e quattro anni fa, quando andasti avventatamente in Algeria, qualche minaccia di morte l’hai anche ricevuta, in effetti. Quella tua frase che tra la giustizia astratta e tua madre sceglieresti tua madre sta facendo ancora il giro del mondo.”


“Quella frase è stata riportata male dai giornali. Io ho risposto allo studente che se giustizia significa mettere bombe sui tram e uccidere innocenti, tra i quali ad Algeri potrebbe esserci mia madre, allora scelgo mia madre.”


“Il senso è chiaro. Poi ci metterei anche i fiancheggiatori del franchismo in Spagna, che hai condannato e denunciato senza sosta, al punto da proporre di non far entrare la Spagna nell’UNESCO finché ci saranno i colonnelli. In sostanza, quelli di destra ci considerano pericolosi radicali, quelli di sinistra eretici o troppo indipendenti.”


“Che splendida lista, Jacques. Siamo due esuli in patria. In pratica, sono in troppi quelli che avrebbero voluto sabotare la macchina di Gallimard. Fine delle indagini per eccesso di imputati potenziali!”


“Volendo citare Camus, direi che siamo stranieri in ogni dove, stranieri a tutti, anche a noi stessi. Ma ritrovandoci fra stranieri, non siamo soli, perché condividiamo una condizione comune di estraneità alle dottrine e ai conformismi.”


“Non siamo soli, ma siamo pochi. André Malraux mi ha mandato un messaggio di buona ripresa in cui dice che sono la voce della coscienza dei francesi; che, grazie a me, la Francia è nel cuore dell’umanità. Esagerato come sempre, si vede che è diventato gollista. E poi non sono mica morto.”


“Tienilo buono il ministro Malraux, che vuole affidarti un grosso teatro parigino. Chi ha mandato questi fiori? Maria? Catherine? La giovane Mi?”


“Piantala, vengono dagli scrittori ungheresi in esilio.”


Percependo uno sbuffo di nervosismo, a Monod venne un dubbio: “Ti stanno tornando i ricordi di prima dell’incidente?”.


“Molto sfocati ancora. So che ero a Lourmarin da novembre a scrivere Il primo uomo. Per le vacanze di Natale ero arrivato a 144 pagine, sono ancora nella borsa. Cominciavo finalmente a farmi trasportare dalla storia, ma mi sto dannando con un romanzo enorme: è ancora lungo da scrivere. Mi ha raggiunto Francine con i ragazzi e poi, per la fine dell’anno, sono arrivati in Provenza anche i Gallimard e René Char, il mio amico poeta.”


“Certo, me lo ricordo bene, era anche lui nella Resistenza.”


“Siamo stati bene, in quella luce invernale del Sud, così tersa e cruda. Ricordo di aver scritto una lettera a mia madre ad Algeri. Il 2 di gennaio abbiamo pranzato tutti insieme all’Hotel Ollier nella piazzetta di Lourmarin, poi ho portato i miei e René alla stazione di Avignone e ho assecondato la proposta gioiosa di Michel di tornare in auto per borghi e ristoranti. Difficile dirgli di no. Doveva venire anche René, ma eravamo troppo stretti. Il 3 ricordo di aver lasciato le chiavi, come sempre, alla signora Ginoux, dicendole che sarei ridisceso nel Midi dopo una settimana o, al massimo, prima della fine del mese per continuare a scrivere. Ho firmato una copia dello Straniero per il benzinaio a Lourmarin, gliel’avevo promessa già due volte. Il percorso ci era familiare: la Nazionale 7 da Avignone a Lione; poi la Nazionale 6 attraverso la Borgogna; e quindi la 5 da Sens, via Fontainebleau, per Parigi. In due giorni, per non arrivare spossati. Il 3 gennaio abbiamo pranzato a Orange e dormito a Thoissey. Ho impresse in testa le immagini della gloriosa cena stellata a Le Chapon Fin per Anne, l’allegria e le risate. Il 4 mattina abbiamo tirato per 250 chilometri fino a Sens e pranzato all’Hotel de Paris et de la Poste. Poi più niente.”


“Non importa, hai rimosso, è una difesa legittima e salutare del tuo cervello. Non insistere nel richiamare altro alla memoria. Stai leggendo Nietzsche?”


“Vorrei, ma ancora non riesco”, rispose Camus girando lo sguardo stanco verso la copia della Gaia scienza sul comodino. “L’hanno recuperata dalla macchina distrutta.”


Nietzsche fece venire in mente a Monod che avrebbero dovuto proseguire nella lettura delle bozze.


“Adesso ti lascio riposare Albert. La prossima volta ti leggo il primo capitolo, quello sulla finitudine di tutte le cose e sul perché non dovremmo comunque consegnarci al nichilismo e al pessimismo cosmico.”


Monod cercò di nascondere la sua preoccupazione per l’amico e lo salutò. In corsia aveva incrociato un medico che gli aveva sussurrato come Camus non fosse ancora fuori pericolo e come fosse troppo fragile per un trasferimento a Parigi. Gli era sembrato un rimprovero implicito, ma si ripromise di tornare la domenica seguente.

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 17 gennaio 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del capitolo primo

La finitudine di tutte le cose

Poiché il corpo della terra e l’acqua e gli aliti lievi dei venti e l’ardente calore, che appaiono comporre quest’intero universo, consistono tutti di un corpo che nasce e poi muore, di ugual materia va ritenuta la natura tutta del mondo. E infatti le cose di cui vediamo le parti e le membra fatte di un corpo che nasce e di forme che muoiono, ci si rivelano esse stesse di continuo soggette alla morte, come pure alla nascita. Per questo quando vedo le immense membra e parti del mondo consumarsi e rinascere, è chiaro che anche il cielo e la terra hanno avuto un loro tempo d’origine e avranno una fine.

LUCREZIO, De rerum natura, libro V, 235-246


Il cielo e la terra hanno il loro tempo. Pure loro, come noi, ebbero un’origine e avranno una fine. Tutto senza tregua fluisce e si consuma, come fiamma, come pietra scavata, come monumento in rovina tormentato dal tempo. Evoluzione e dissoluzione si compenetrano. Là dove una creatura marcisce e langue snervata dal tempo, un’altra cresce sollevandosi dal disordine. Ogni cosa è peritura, tranne gli atomi e il vuoto.


Andiamo a scoprire quanto è lucreziana la scienza di oggi.


La versione aprioristica della finitudine

La caducità è un sasso nello stagno: le sue onde si allargano in cerchi concentrici. Siamo creature mortali, prima onda; esemplari di una specie biologica che, come tutte le altre, si estinguerà, seconda onda; vaganti sulla superficie di un pianeta che sarà inghiottito dal suo sole, il quale, a tempo debito, si spegnerà ed esploderà, terza onda; dentro una galassia destinata a scompaginarsi e ad arrendersi al caos termodinamico, quarta onda; il tutto nella cornice epica di un universo in espansione che, pur in un futuro inconcepibile, finirà anch’esso, ultima onda. Si erge dinanzi l’evidenza schiacciante della finitudine di tutte le cose, che ci lascia attoniti e increspa la superficie del nostro quieto vivere.


La vita media di una specie di mammifero, in natura, è di qualche milione di anni. Più del 99% di tutte le forme di vita apparse sulla Terra si è già estinto. La parola “fine” sulla parabola terrestre di una pianta o di un animale viene posta, di solito, dai capricci dell’ambiente, che cambia così radicalmente o così rapidamente da impedire alla selezione naturale di riguadagnare terreno e far emergere nuovi adattamenti. L’animale, braccato da condizioni avverse, cerca di inseguire gli habitat più congeniali, ma non li trova, non ha il tempo di aspettare nuove mutazioni, arranca in una vita grama, cerca un interstizio di sopravvivenza, la sua prole raramente raggiunge l’età fertile. Sicché la popolazione di quella specie condannata si restringe sempre più, diminuisce la variabilità genetica, i pochi rimasti si incrociano tutti tra loro, e tramonta ogni speranza di tornare indietro.


Altre volte, la fine piomba dritta dal cielo nella forma di comete e asteroidi, o erompe dal basso nella forma di eruzioni vulcaniche catastrofiche. Altri diligenti assassini sono i cambiamenti climatici, le oscillazioni dell’ossigeno in atmosfera, la tettonica a placche. Altre volte ancora, la morte assume le sembianze di una specie invasiva, arrivata da chissà dove, che trova spazi da colonizzare senza limiti, si moltiplica a scapito degli autoctoni, sottrae loro risorse o se li divora direttamente. Essendo ormai in 3 miliardi sparsi in ogni dove, siamo pure noi, a tutti gli effetti, una specie invasiva planetaria che stermina le altre con la caccia e la pesca indiscriminate, l’inquinamento, la distruzione delle foreste. Per il resto del vivente, la finitudine si presenta spesso così, con la faccia piatta e la testa tondeggiante di un Homo sapiens.


Un cinico potrebbe dire che, in fondo, stiamo solo accelerando ciò che la natura farebbe comunque da sola. Nascere, crescere, essere autonomi, muoversi, nutrirsi, digerire, percepire indizi del mondo, intessere relazioni sociali, riprodursi e morire. Questo è il paradosso definitorio di tutto ciò che è vivo. Include in sé il suo contrario: morire. O forse non è esattamente il suo contrario. Considerando, poi, la sequenza di fortunate contingenze che ci hanno condotto fin qui, in molte evoluzioni alternative della vita animale – tanto possibili e coerenti quanto l’unica a essersi attuata – la nostra ingombrante presenza non sarebbe neppure contemplata. Se uno qualsiasi dei nostri antenati non ce l’avesse fatta, se una di quelle catastrofi avesse compiuto il suo sporco lavoro fino in fondo, la catena della nostra dipendenza dalla storia pregressa si sarebbe spezzata. Potremmo definirla la versione aprioristica della finitudine: il probabile non realizzarsi di una delle condizioni essenziali per la nostra nascita.


Abbiamo avuto una fortuna cosmica a essere qui, dove “cosmica” va inteso in senso letterale. Le mutazioni genetiche casuali – gli errori di copiatura nel manoscritto del DNA – sono il carburante di ogni cambiamento evolutivo. Esse dipendono anche dall’arrivo di raggi cosmici e di radiazioni dallo spazio esterno alla Terra, i quali interferiscono accidentalmente con la vita delle cellule, rompendo legami e alterando quel poco che basta la sequenza genetica durante una delle innumerevoli replicazioni. La sorgente casuale di variazioni – che fanno del bene e del male al contempo, e più spesso ancora non fanno né l’uno né l’altro – dipende dalle relazioni del nostro pianeta con il resto dell’universo, così come dipendono dai cicli astronomici le oscillazioni climatiche che hanno sballottato per millenni anche la specie umana, mettendone a dura prova la resistenza.


La versione a posteriori della finitudine

Se la Terra è vecchia, come abbiamo detto, ci accorgiamo anche di essere come la schiuma insignificante sulla cresta di un’onda spropositata di tempo. Per gran parte della durata della vita sul pianeta, noi non c’eravamo e nessuno ci stava aspettando. A dire il vero, gli altri non sentivano proprio la nostra mancanza. Succederà anche in futuro: se non bandiremo una volta per tutte i test nucleari e non elimineremo alla radice la possibilità stessa di un terzo conflitto mondiale con armi suicide stipate negli arsenali, la Terra tornerà presto a godere della rinfrancante esperienza della nostra assenza. Un attimo prima di scomparire per mano nostra, forse capiremo che non eravamo indispensabili, avendo il mondo fatto a meno di noi per quasi tutta la sua storia e potendo benissimo continuare a farlo.


Di certo, sarà uno spreco. Se davvero saremo capaci di autoestinguerci, apparirà chiaro ai posteri non umani il totale non-senso della nostra evoluzione: duecento millenni o poco più di storia umana, di generazioni di guerrieri, filosofi, artigiani, condottieri, imperatori, poveri cristi, lavoratori sfruttati, monaci, asceti, dittatori psicopatici, che culminano nel tentativo di distruggere il pianeta che stoicamente ci ospitava. Potremmo definirla la versione a posteriori della finitudine: una specie che, sconsideratamente, aumenta le già non trascurabili probabilità di scomparire dalla faccia della Terra.


Tuttavia, dobbiamo essere realisti. L’evidenza schiacciante non basta. Noi a tutto questo non crediamo: né alla finitudine a priori né a quella a posteriori. Non vogliamo crederci. Noi, i definitivamente provvisori, facciamo così fatica ad accettare questa scomoda realtà che la nostra mente – ben predisposta a ragionare all’opposto, cioè per fini e grandi progetti – si lascia avvincere da un falso ragionamento di tipo circolare. Poiché la vita sulla Terra e la comparsa della specie umana hanno richiesto una congiura estremamente improbabile di condizioni apparentemente aleatorie, ecco il ribaltamento prospettico, ecco la disperata mossa del cavallo: non può essere un caso, deve esserci un disegno; anzi, l’universo è perfettamente calibrato per ospitare la vita, fin dall’inizio era pregno di vita cosciente che lo potesse ammirare e adorare. L’Universo, la suprema personificazione, ci stava aspettando. Miele per il nostro cervello, psichedelica illusione.


Questa astronomica presunzione di centralità crolla quando riflettiamo sul semplice fatto che è assai più ragionevole supporre che la vita si sia faticosamente adattata a quelle condizioni preesistenti e non viceversa, a meno di non voler credere davvero all’assunto finalistico, privo di qualsiasi riscontro, secondo cui l’universo si sarebbe organizzato fin dall’inizio per annunciare la nostra venuta. Non c’è alcuna ragione per presumere che l’universo avesse bisogno di un essere cosciente in grado di studiarlo. Le condizioni normali nell’universo sono, infatti, quelle della più spietata e ubiqua ostilità nei confronti della vita: gelo, asfissia, silenzio. Anche al netto della presunzione in sé dell’argomento antropocentrico, visto che noi siamo una specie cosciente e che, guarda caso, ci siamo ritagliati su misura questa interpretazione, il conflitto di interessi è palese. Questo è l’unico universo di cui abbiamo coscienza e vogliamo che sia sintonizzato, per l’appunto, sulla nostra coscienza. Ma non appena l’onestà si fa strada fra le autoindulgenze, ci rendiamo conto che l’universo non è un orologio sintonizzato sul nostro fuso orario. È un gigantesco sistema in evoluzione, con le sue leggi e le sue svolte contingenti, al cui interno la Terra fluttua come un fragilissimo puntino.


L’inganno ha la sua spiegazione: è un effetto di prospettiva. In qualunque punto ci troviamo – sia che guardiamo il mare, un deserto o il cielo stellato – come osservatori noi siamo il centro del grande cerchio dell’orizzonte. Anche quando guarderemo la Terra da fuori, lo faremo a partire dal punto di osservazione della nostra navicella. Da qui, la perenne percezione di centralità. Siamo come l’ago del compasso. I nostri sensi filtrano solo ciò di cui hanno bisogno dalla realtà e poi mischiano, interpretano, ricostruiscono un mondo. Ogni nostra teoria illumina con un cono di luce uno spicchio di realtà, mettendo in ombra tutto il resto. Ma non per questo siamo autorizzati a presumere che in quel buio lontano dal lampione non vi sia nulla e che gli oggetti e i fenomeni sul grande palcoscenico esistano solo se rischiarati dalla nostra coscienza.


Piuttosto, è la nostra coscienza a discendere da un lungo e sanguinoso processo evolutivo di sintonizzazione con la realtà.


Una stranezza nell’universo

Torniamo allora all’evidenza. Siamo individui mortali di una specie mortale su un pianeta mortale che ruota intorno a una stella mortale dentro una galassia destinata a finire. Inoltre, la Terra ha fatto a meno di noi per il 99,99% della sua storia e farà tranquillamente a meno di noi quando, volenti o nolenti, toglieremo il disturbo. Il problema sta proprio qui: più studiamo l’universo, l’evoluzione della vita e le sue leggi, più ci convinciamo, oltre ogni ragionevole dubbio, che la natura è del tutto indifferente alla nostra presenza. Se sopra le nostre teste non vi fosse uno straterello di ozono di tre millimetri – solo tre, un velo di tre millimetri lassù nella stratosfera –, verremmo crivellati di radiazioni ultraviolette dall’alba al tramonto. Quei tre millimetri che separano la vita dalla morte non sono lì per noi: si sono formati 2 miliardi di anni fa per tutt’altre ragioni, quando sulla Terra (o meglio, nell’oceano) c’erano solo microbi.


Dunque, non eravamo previsti. Siamo un orpello, una sorpresa, buona o cattiva dipenderà da noi, dall’evoluzione. Se esistesse mai una teoria unificata dell’universo che tenesse insieme relatività generale, meccanica quantistica, fisica delle particelle elementari, cosmologia, chimica e biologia, e ammesso che si possano fissare le condizioni iniziali, tale monumento dell’intelletto umano potrebbe prevedere l’evoluzione dell’universo solo in senso generale, per ampie classi di oggetti e di strutture (per esempio, gli elementi chimici, le galassie, i sistemi planetari), e solo in senso statistico. Non potrebbe mai dedurre dai suoi maestosi principi – a meno che qualcuno non possegga una mente onnisciente – l’esistenza necessaria e puntuale di un certo oggetto o avvenimento o sistema locale.


La biosfera rientra in questa seconda categoria, perché non contiene classi prevedibili di oggetti e di fenomeni generali: è nel suo insieme un evento particolare, non prevedibile a priori, frutto della somma di eventi storici altrettanto imprevedibili che la precedono. La sua esistenza è compatibile, spiegabile e del tutto interna ai principi fisici e chimici fondamentali, quindi non serve aggiungerne di speciali, ma non è deducibile necessariamente da essi come fenomeno storico particolare. Se ora avviciniamo la lente, vediamo che Homo sapiens è un evento particolare e imprevedibile dentro una biosfera particolare e imprevedibile. Qui traspare una comunanza. Abbiamo una proprietà in comune con tutto il resto del vivente e con il pianeta: la contingenza, cioè la dipendenza dalla storia pregressa.


E come ha funzionato questa storia pregressa? L’evoluzione è il risultato di una gigantesca tombola genetica in cui vengono tirati a sorte dei numeri, tra i quali una cieca selezione designa rari vincenti. Sembra incredibile (e per molti lo è), data la complessità delle forme di vita a cominciare da una cellula batterica, ma le evidenze ci dicono che è così, oltre ogni ragionevole dubbio. La vita è comparsa sulla Terra una volta sola oppure tra i vari tentativi ne è sopravvissuto soltanto uno, altrimenti non si spiegherebbe la straordinaria universalità del codice genetico, che è pressoché lo stesso in qualsiasi forma vivente sulla Terra. Una fratellanza globale, fondata sulla contingenza storica.


L’origine della vita come evento unico o molto raro lascia supporre che, prima dell’avvenimento in sé, prima dello spartiacque, le probabilità fossero molto basse. Un certo numero di eventi strani si sono sommati e combinati. Siamo una stranezza nell’universo. Il senso di estraneità sprigionato da questa scoperta urta contro la tendenza umana a credere che ogni cosa sia necessaria a priori, e da sempre. Ma dobbiamo diffidare di questo senso forte del destino, perché è una prigione della mente. Il destino viene scritto nel momento stesso in cui si compie, non prima. La comparsa della specie umana fu l’ennesimo evento unico, accidentale e improbabile nella biosfera. Questo dovrebbe trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Prima del suo manifestarsi, le possibilità di avere Homo sapiens sulla Terra erano minime. Dunque, se consideriamo preferibile l’esistere al non esistere, ci è andata bene.


L’aspetto contingente che vengono ad assumere l’esistenza dell’uomo, le società, la comparsa della vita stessa, l’emergere di qualunque specie come evento singolare è la parte della teoria dell’evoluzione più inaccettabile per il maggior numero di persone, anche illustri e colte. La nostra esistenza è accessoria rispetto non soltanto al resto dell’universo, ma anche al resto degli esseri viventi. La condanna ulteriore sta nel fatto che noi umani siamo un evento singolare anche perché abbiamo il linguaggio simbolico, l’immaginazione e il pensiero argomentativo, quindi possiamo essere ben consapevoli della nostra cosmica irrilevanza. L’evidenza di marginalità è anzi parte del nostro regno delle idee, del mondo astratto della logica, dei principi matematici, delle arti e della creatività. Come un numero irrazionale, come una sinfonia di Beethoven, anche l’idea della nostra contingenza ha preso forma ed esistenza nella sfera dell’evoluzione culturale, che è il proseguimento dell’evoluzione con altri mezzi, e peculiare prodotto di un cervello triplicatosi di volume negli ultimi 2 milioni di anni. Forse, un giorno, un genio scriverà la storia naturale della selezione delle idee.


Scienza sacrilega

Sul piano razionale e logico, la nostra reazione al fatto che l’universo non stava per partorire né la vita né l’uomo, e al fatto che il nostro numero è uscito alla roulette cosmica, è sorprendente. Non dovremmo dolercene così tanto. Facciamo un esempio. Non saremmo affatto infelici se vincessimo un miliardo alla lotteria. Ci renderemmo conto di essere astronomicamente fortunati e ci vergogneremmo quasi di sì tanta fortuna. Il pudore e, forse, il senso di colpa ci potrebbero indurre a donare una parte della vincita in beneficenza. Ecco, dovremmo avere lo stesso tipo di reazione emotiva quando scopriamo come ci siamo evoluti. I sentimenti idonei sarebbero lo stupore, la gratitudine e la gioia. Invece non è così. Anzi, dopo aver vinto ci sentiamo predestinati, e non, semplicemente, molto fortunati.


Questo ragionamento sulla roulette cosmica ci delude, non ci soddisfa. Anzi, ci lascia atterriti e disincantati. Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, scolpiti nell’ordine delle cose da sempre, un ingranaggio perfetto nell’armonia delle sfere… altro che vincita miliardaria! Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie con poche eccezioni, anche quelle esistenzialistiche, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità di negare la propria contingenza e la propria finitudine. Qui, esattamente, risiedono la grande rottura, il tradimento, perfino il sacrilegio della scienza contemporanea. Un sacrilegio paragonabile, sul piano filosofico, a quello del De rerum natura di Lucrezio, la cui memoria fu dannata: il manoscritto respinto nell’oblio per quindici secoli; la persona, oltre che le idee, vituperata, odiata, messa all’indice.


Si capisce: il nervo scoperto era di quelli che dolgono fino a farti svenire. Viviamo di automatismi, di abitudini, di attaccamento alla vita. Poi, di soppiatto, l’assurdo fa breccia all’improvviso e fa crollare il castello delle illusioni. Il pensiero della finitudine sgretola le consuetudini, apre un vuoto, uno squarcio verso una realtà estranea. Perdiamo l’appiglio. Si rompe l’incanto. Inizia l’inquietudine. Ci accorgiamo di vivere per un dopo che non ci sarà e intanto perdiamo l’unica occasione che abbiamo avuto. Viviamo per conquistare una posizione o, addirittura, per andare in pensione. Impostiamo la vita su traguardi progressivi, come fosse una carriera: quando finirà la scuola, quando si metterà su famiglia, quando avremo ciò che meritiamo sul lavoro, quando ritroveremo i nostri spazi perché i figli saranno cresciuti. E intanto invecchiamo. Sapere di essere mortali e fingere di non pensarci, o riuscire davvero a non pensarci, a scacciare la sensazione della matematica esattezza della morte, questo l’obiettivo. La finitudine è sempre quella degli altri.


Poi l’avvenire si rivela per quello che è: un’arma di distrazione di massa. L’egoismo dei figli mette i genitori in casa di riposo: il parcheggio finale, l’occultamento dell’inevitabile decadimento di chi ci ha generato, il delegarne ad altri la cura, nascondere ai propri occhi il manifestarsi della finitudine, metterla in disparte. Ma l’assurdo è sempre lì, in agguato. Fino al momento in cui se ne vanno i più anziani della nostra famiglia: ora sappiamo che, anagraficamente, tocca a noi, ma non lo vogliamo pensare. Scattano altre rimozioni, per ripensarci quando sarà troppo tardi. Essere coerenti fino in fondo con la finitudine rischia di stravolgere ogni giorno le nostre esistenze: occorre innalzare difese.


Per millenni la mente umana si è crogiolata in un contesto di idee animistiche o di loro surrogati, idee che davano un senso direzionato al cosmo, alla storia umana e alle traiettorie individuali al suo interno. Si era saldata una potente alleanza tra l’uomo e la natura intesa come agente intenzionale, come elargitrice di premi e ricompense, di castighi e benedizioni. C’era un patto, un prezioso legame frutto di un’esigenza profonda di senso. Montaigne pensava che fosse ridicolo lo spettacolo di una “miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa, esposta alle ingiurie di tutte le cose”, che si dice padrona e signora di un universo che conosce in minima parte e in nessun modo governa. Eppure, in quel ridicolo c’era una profondità eroica, una strenua resistenza, che nasceva dall’irruzione dell’assurdo e della finitudine nel quotidiano delle nostre esistenze.


Questa tradizione millenaria è stata ora infranta dalla scienza, spazzata via dalla conoscenza oggettiva, da una fredda e austera evidenza che non offre alcuna spiegazione ulteriore, non allevia l’angoscia ma, semmai, la esaspera, la sostituisce soltanto con un’ansiosa e penosa ricerca di un senso purchessia in un universo di raggelante solitudine. Questa consapevolezza lacerata sopravvive, e tenacemente si insinua, solo grazie alla vastità crescente delle scoperte scientifiche che l’attestano, altrimenti sarebbe già stata rifiutata, negata, oltraggiosamente respinta. E invece la scienza continua a riproporcela.


Le società moderne, infatti, accolgono della scienza solo il lato pratico e comodo, non quello filosofico e culturale deflagrante. Le nostre società sono costruite sulla scienza, se ne alimentano, le devono la loro ricchezza, la potenza, l’aspettativa di vita sempre più lunga, la certezza di uno sviluppo indefinito grazie alle innovazioni tecnologiche. E tuttavia, non colgono il messaggio più radicale e sovversivo della scienza: la rottura dell’antica alleanza animistica. Per rimarginare la ferita profonda, molti, allora, fanno un passo indietro e considerano la tradizionale alleanza non più come fonte di verità, ma come fonte di valore. Tale scissione, però, è una menzogna di fondo, perché non ci può essere valore autentico se non a partire da quel disincanto radicale del mondo.


Chi non è disposto nemmeno a quella bugia consolatoria persiste nel senso di timore, di sospetto, di alienazione verso la scienza. Gli antiscientisti di ogni epoca se la prendono con le tecnologie, ma sbagliano bersaglio. Dallo studio dell’atomo ricaveremo inesauribile energia, la distruzione dell’ambiente è dovuta a tecnologie troppo arretrate e non all’eccesso di tecnologia, l’esplosione demografica è dovuta anche al fatto che sottraiamo i bambini alla morte, e questo è un bene.


Eppure, costoro, per certi aspetti, hanno ragione a rifiutare la scienza in nome del sacro, perché la scienza è davvero sacrilega. La scienza sgretola valori radicati e vanifica i desideri più cari. Non direttamente né per puntiglio, ma distruggendo nei fatti tutte le narrazioni mitiche e metafisiche sulle quali la tradizione animistica – dalle cosmogonie tribali alla cieca fiducia in un progresso storico – ha fondato i propri valori, la morale, i doveri, i diritti e le interdizioni. Se prende coraggio e accetta questo messaggio scientifico in tutto il suo significato, l’uomo si desta infine dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Questo uomo del disincanto ora sa che, come un nomade errante, si trova ai margini di un universo in cui, tuttavia, deve vivere. Ai margini di un universo che è sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini.


Esseri finiti che conoscono l’infinito

Dunque, gli dei ora sono muti. Nella loro impersonale beatitudine, hanno smesso di provare sentimenti, ire e affanni; non fanno più niente, non regolano né i fenomeni celesti né le faccende umane, non sono più causa di nulla, né del bene né del male. Se lo fossero, infatti, sarebbero immischiati nel mondo e, dunque, imperfetti e non più dei incorruttibili. Hanno messo in sciopero la provvidenza divina del mondo. Torna inutile tanto il temerli quanto il venerarli. La nostra felicità ora dipende soltanto dalle scelte autonome che compiamo. La natura non ha più padroni superiori: è creatrice di sé. Gli dei sono nullafacenti.


L’essere umano, dal canto suo, si sente estraneo all’universo: un esiliato nel mondo, senza rimedio, senza nostalgie e ricordi di una patria perduta e senza speranze di terre promesse. L’attore litiga con la scena, si accorge che non gli appartiene, che gli sfugge. Venuti al mondo grazie a un’imperscrutabile sequenza di biforcazioni contingenti, ce ne andremo senza un perché, come vento nel deserto che soffia libero e privo di direzione. La scienza ha questo di paradossale: tanto ci regala in termini di conoscenza, di salute e di possibilità tecnologiche, tanto ci toglie in termini psicologici, facendoci pagare il prezzo di un radicale demansionamento umano, di un declassamento alla periferia dell’impero della biodiversità. Altri presenti erano possibili, altrettanto plausibili di questo, e non si sono attuati. La grande catena dell’essere è in frantumi.


In quanto accidenti cosmici ai margini dell’universo, condividiamo se non altro questa condizione inessenziale con tutto il resto. Essere alla periferia implica che vi sia un centro. Se c’è un impero, dovrà esistere un imperatore. Ma nulla e nessuno può ambire a tale privilegio. In un universo senza centro né disegno, disomogeneo, con sterminati mondi al suo interno, si profila una sorta di giustizia distributiva di tutte le cose, perché è uguale in qualsiasi direzione, senza alcuna gerarchia nei punti di osservazione. Dunque, siamo zingari nel cosmo proprio come lo sono tutti gli altri. Emerge così un’insperata comunanza, una simpatia tra emarginati che forse – lo vedremo più avanti – offre qualche scampolo di conforto a chi voglia farla propria.


Se Homo sapiens è una presenza decorativa, piccola e passeggera in un vasto universo, possiamo reagire deprimendoci e rifugiandoci in narrazioni consolatorie. Oppure possiamo faticosamente imparare che questo colpo al nostro orgoglio non è una vittoria del nichilismo e del pessimismo, ma, al contrario, è un’occasione per apprezzare la nostra libertà, e la nostra conseguente responsabilità morale, in un mondo che non aveva alcun bisogno di noi, e dunque non ci impone come pensare e agire. La grande catena dell’essere era pur sempre una catena, un ceppo dal quale ora, finalmente, ci emancipiamo.


Tuttavia non ci basta. Quella riconquistata autonomia resta per noi una parvenza e non ci sazia minimamente, perché ci contorciamo dentro una contraddizione che la nostra stessa evoluzione ha generato. Siamo effimeri, e sappiamo di esserlo. Difficile dare un senso a un’esistenza che, come un’ombra, adesso c’è, prima non c’era, poi non ci sarà; a un’evenienza casuale destinata a scomparire per sempre nel nulla e nella dimenticanza. Fossimo ignari e beatamente inconsapevoli sarebbe un conto, ma la nostra è l’esperienza finita di esseri senzienti dentro un universo immenso che non si prende cura di noi. È finitudine conscia. Ne deriva che la morte resta per noi uno scandalo, un mistero inaccettabile. La conoscenza scientifica, per certi aspetti, può anche peggiorare questa lacerante consapevolezza: grazie alle imprese meravigliose dei fisici nella prima metà di questo secolo, l’universo ci sta svelando uno dopo l’altro i segreti materiali della sua origine, ma alla domanda di senso resta muto, enigmatico, imperscrutabile.


In quanto umani, non siamo dunque effimeri come lo sono molte altre meravigliose creature dalla vita breve o brevissima, esposte al mutare di un tempo inesorabile al cui interno non lasciano traccia permanente. Non siamo effimeri come lo sono le farfalle omonime che vivono sui corsi d’acqua dolce: in poche ore diventano adulte, spiccano il volo, si accoppiano, depongono le uova se femmine e poi muoiono. Il tutto in meno di un giorno. Dopo un lungo periodo larvale, quasi fosse la lenta preparazione a un’esplosione di vita, la loro esistenza si consuma in poche ore, in alcune specie perfino in pochi minuti. Deposte le uova, si ripuliscono le ali in trenta secondi, prendono uno scorcio di sole per qualche istante e si spengono. Questa è la vita intensissima di un’effimera, da ninfa a cibo per saprofagi.


Anche se non sappiamo quale sia la loro percezione del tempo (magari un minuto per quell’insetto è un’eternità), tutto lascia pensare che noi non siamo effimeri come l’effimera. Noi abbiamo tutto il tempo per metabolizzare il fatto che non abbiamo tempo. Non siamo dunque effimeri nemmeno come un polpo o una seppia, che vivono tre anni densissimi di interazioni con l’ambiente e poi si sfaldano malinconicamente in acqua dopo aver assolto al compito darwiniano della riproduzione, tornando al grande oceano in cui sono nati, come ogni aggregazione temporanea di molecole. Possiamo solo immaginare quale esperienza di vita condensata e fugace resti impressa nel cervello distribuito di questi invertebrati.


La nostra sensazione specifica del tempo è un’altra camicia di forza, non solo perché ci comprime entro una tirannica finitudine conscia, ma anche perché ci impedisce di comprendere quale densità e quale senso abbia avuto l’esistenza di una singola seppia dentro la sproporzione di un oceano che ha 4 miliardi di anni. Così come l’esistenza di qualsiasi altro essere vivente immerso nel suo tempo. Di converso, quanta noia ci sarà nei tre secoli di vita di uno squalo o nel mezzo millennio di una vongola artica. Chissà se il tempo è davvero un accidente di accidenti, come pensava Epicuro: una grandezza derivata che non esiste di per sé, ma solo nelle cose stesse, composta da unità indivisibili di tempo. Anche se così fosse, cioè se il tempo fosse relativo, non potremmo comunque uscirne per contemplarlo da uno spiazzo atemporale. Il tempo è il nemico.


Gli effimeri cercatori di senso

La finitudine conscia ci rende esseri desideranti, perennemente insoddisfatti, animati dalla voglia di agire e di conoscere, di cambiare e di scrutare un mondo al quale, però, dovremo dire addio. Creature rammendate e rattoppate da cima a fondo, fragili, imperfette, patetiche, ambiziose, ostinate quali siamo, non ci arrendiamo, ci facciamo domande, tra mille dubbi cerchiamo di fare ordine nel mondo e in noi stessi. Nella condizione primigenia di condannati a morte, viviamo una tregua provvisoria con l’assurdo, una schiavitù liberamente accettata.


Le nostre aspettative si scontrano con la realtà. Si consuma il divorzio tra il nostro spirito che desidera e il mondo che delude. Ora siamo consci del naturale invecchiamento di ogni cosa, dalle pietre ai templi degli dei, dal Sole alla Luna e alle stelle. Per una legge universale di aggregazione e disgregazione già intuita dagli antichi, tutte le cose passano, migrano: la natura le trasmuta, le costringe a trasformarsi. Nascono, crescono, decadono e muoiono. Tutta la materia è in perenne tumulto. La finitudine è invincibile e inevitabile, senza redenzione, senza speranza di un altro viaggio.


Ma davvero basta la fiducia nella ragione per sottrarci ai timori della morte? Siamo capaci di vivere questa consapevolezza con semplicità austera, non turbata dalla prospettiva della fine, eliminando ogni superstizione, sapendo che è inutile ribellarsi a una legge di natura e che un giorno lasceremo questa vita come banchettanti felici dopo una festa? Siamo in armonia con il mondo quando capiamo – ancor prima di conoscerne il meccanismo – che non è un messaggero divino a scagliare i fulmini, visto che gran parte di essi si scaricano in luoghi deserti e remoti, che devastano anche templi e chiese senza alcuna riverenza, e colpiscono gli innocenti risparmiando i malvagi?


No, questa pace ci è del tutto estranea. Anche Lucrezio ammette che questa verità – così amara per noi, così controintuitiva – vada in qualche modo edulcorata, somministrata per gradi: “L’acre assenzio di questa dottrina, che sembra troppo tetra per l’animo umano a chi non la pratica, va addolcito con il miele della poesia”. Resta, infatti, lo scandalo di quel momento fatale in cui si scioglie l’unione degli atomi che ci hanno dato la vita e che il poeta descrive così: “Si scompongono le disposizioni dei principi-atomi e nel profondo si inceppano i moti vitali, finché la materia, scossa per tutte le membra, scioglie dal corpo i nodi vitali dell’anima e da tutti i pori la espelle e disperde”. Così torna indietro alla terra ciò che prima dalla terra era venuto, dalle membra sfugge il calore, dalla bocca l’ultimo respiro: “Né la morte annienta le cose fino a consumare i corpi della materia, ma ne dissolve le unioni; poi ne combina alcuni ad altri e fa sì che tutte le cose mutino forma e cambino colore, acquisiscano i sensi e in un attimo li perdano”.


Scandalo, perché noi concepiamo l’infinito, nella libertà di una ricerca inesausta: “L’animo, infatti, cerca di spiegare”, dice ancora Lucrezio, di andare oltre, per dispiegare il suo libero slancio. Siamo effimeri e siamo cercatori di senso: effimeri cercatori di senso. Se quel senso non si palesa, continuiamo a cercare, anche fuori dalle mura di questo mondo. Non ci rassegniamo al lutto, alla desolazione, alla distruzione e alla morte. Permane in noi un’angoscia, il tremore, l’incertezza. Non è per niente facile, e forse nemmeno giusto, restare quieti e impassibili dinanzi alla finitudine di tutte le cose.


Scandalo, perché noi siamo forse l’animale meno vincolato al presente. Gli scimpanzé, i nostri cugini più prossimi, come anche altri primati e mammiferi, sembrano avere una qualche percezione del futuro, perché pianificano alcuni loro comportamenti e si aspettano reazioni dagli altri. Tuttavia, questa capacità sembra meno marcata della nostra. Per esempio, anche gli elefanti afferrano l’ineluttabilità della morte di un loro simile, capiscono che è senza ritorno e provano emozioni di lutto, ma non danno alcun segno apparente di aver coscienza della propria mortalità. Hanno forse una mente più legata al qui e ora. Gli scimpanzé ripassano sempre gli stessi bordi di un disegno, non lo riempiono. Homo sapiens, invece, pensa subito a ciò che manca, lo colma, si proietta in un altrove.


Potremmo ipotizzare che lo scimpanzé veda quello che c’è, sia concentrato sul presente, non si preoccupi del futuro, non provi ansia ma nemmeno nutra speranze. È parte del mondo, è mondo. Noi, invece, siamo la scimmia che immagina quello che non c’è, nello spazio e nel tempo, proiettando se stessa su passato e futuro, dilatandosi in uno spazio-tempo mentale. In noi una coscienza perpetua rinnova continuamente la frattura tra spirito individuale e mondo. Così, forse, abbiamo imparato a pensare a un tempo che precede la nostra nascita e fantastichiamo su ciò che sarà dopo la nostra morte. Tra i primi segni di intelligenza simbolica umana, infatti, ci sono sempre le sepolture rituali: pensiamo che il nostro simile sia partito per un viaggio, lo accompagniamo con i suoi oggetti, consapevoli che i compagni un giorno faranno lo stesso con noi. Proviamo empatia e ci immedesimiamo in chi non c’è più, in quegli altri miliardi di fili recisi dalle Parche. Ci interroghiamo sul futuro del nostro Io dopo la morte, essendone quasi ossessionati. Speriamo in un futuro migliore o ci preoccupiamo immaginandolo peggiore per le altre moltitudini di finestre umane che si apriranno sul mondo, quando la nostra sarà chiusa.


Che cosa può esserci, dunque, di più assurdo e straziante, ma anche commovente, di un cercatore nato di senso, il quale capisce che non c’è alcun senso? Che prova e prova ancora a trovare quel senso, che tuttavia gli sfugge? L’indifferenza della natura ci assedia e ci soffoca, eppure sentiamo un desiderio di felicità e di ragione. La condizione assurda nasce qui, dal confronto tra l’insopprimibile richiamo umano e il silenzio disarmante del mondo. Si tratta di una contraddizione evoluzionistica!


L’uomo del disincanto e la natura

La condizione assurda si alimenta oggi di risultati scientifici e si traduce in una lotta incessante, per esempio tra l’uomo cosciente della finitudine e le sue idee di natura. Senza di noi il mondo tornerebbe a rifiorire. Alla lunga, la natura non perde mai. Non per questo dovremmo arrenderci e rinunciare, al contrario. Se la natura non ci aspettava e noi siamo natura, allora possiamo cambiare il mondo. Se la natura è indifferente alle nostre sorti e non è un’autorità morale, allora siamo liberi e responsabili dentro la finitudine di tutte le cose. Soprattutto, nei confronti di una natura sorda alle nostre vicissitudini, e che pure ci ha dato la vita, non siamo più tenuti a personificazioni indebite. La natura non ci sta punendo, non ci castiga, non le dobbiamo chiedere perdono, perché tanto non ascolterebbe. La natura è una scusa troppo facile per noi umani. Se qualche evento naturale ci colpisce – un uragano, un terremoto o una nuova pandemia come la spagnola del 1918 – possiamo solo prendercela con la sfortuna, il che sarebbe abbastanza improduttivo, oppure chiederci se abbiamo fatto abbastanza per prepararci alla circostanza, in modo da farci trovare pronti la prossima volta.


Se la natura è il sistema di cui noi siamo parte inessenziale, possiamo certo rispettarla e temerla, con sospetto, diffidenza e circospezione, ma non avrebbe senso amarla o odiarla come se fosse una nostra interlocutrice, come se fosse un’amica, un’amante o una nemica. Del resto, le decantate imprese umane che reputiamo talvolta superiori alla bellezza stessa della natura – opere di ingegneria, opere d’arte, opere di intelletto: la matematica, una sinfonia di Mozart, un affresco di Michelangelo – sono pur sempre il frutto delle doti cerebrali che la natura ci ha dato.


Dentro la natura, Homo sapiens non può trascendere del tutto se stesso, non può rinunciare alle proprie prerogative in modo assoluto, snaturandosi a favore di altre specie o di una presunta Natura da salvare. Non possiamo che relazionarci con la natura dal nostro punto di vista, almeno minimamente antropocentrico. Anche quando ci poniamo giustamente dalla parte degli animali non umani che soffrono per causa nostra, lo facciamo pur sempre da animali umani, attraverso le categorie mentali di un primate di grossa taglia con un cervello di un litro e mezzo. Se pensiamo che proteggere la natura sia l’unico modo che abbiamo per proteggere noi stessi – un dato di fatto scientificamente corroborato – stiamo pur sempre perseguendo un obiettivo egoistico.


Siamo una specie ambivalente, invasiva, trasformativa, creatrice e distruttrice. Siamo capaci del peggio e di inorridire per il peggio che abbiamo commesso. Da un battito di ciglia geologico facciamo il nostro gioco evolutivo, siamo diventati 3 miliardi, abbiamo un’immaginazione strepitosa, un’adattabilità formidabile, una tensione al piacere, all’esplorazione, al godimento delle nostre provvisorie parabole terrene. Siamo a nostro modo un contingente prodigio della natura e abbiamo il diritto minimale di far durare il più possibile, dal nostro punto di vista soggettivo di ominidi africani, la nostra non scontata permanenza su questo pianeta. Del resto, anche l’ecologia, l’ambientalismo e il senso astratto della giustizia li abbiamo inventati noi, non i panda.


Amando la natura, amiamo ciò che ben presto ci ucciderà. Come amore, dunque, è ben strano: amiamo un apparente altro da noi, che ingloba anche noi, e che è del tutto indifferente alle sorti di quel noi. Contempliamone allora la magnificenza, ma sapendo che non è una bellezza fatta per noi e che nella bellezza della natura si nasconde sempre qualcosa di inumano. Forse, anche per questo ci attrae così tanto, perché ci trascende come individui e resiste agli scossoni della storia umana. Tributiamole la meritata riconoscenza per averci prodotto e per averci dato occasione di conoscerla, ma con un pizzico di disappunto per aver generato in Homo sapiens una specie paradossale e dilaniata che ambisce all’infinito e all’eternità, ma si ritrova a essere cosciente della fragilità e della finitudine di tutte le cose.


La relazione è dunque asimmetrica: la natura è indifferente a noi, ma noi non possiamo essere indifferenti a lei, perché ne siamo parte e ne siamo in balìa. Non nascondiamoci, quindi: la forza dell’uomo consiste anche nel resistere alla natura, non solo nell’assecondarla. Abbiamo lottato furiosamente contro la natura per affermarci, e anche per affrancarci dalla miseria e dal dolore. I nostri antenati cacciatori, raccoglitori e poi agricoltori e allevatori hanno bestemmiato per generazioni nella fatica del vivere in natura. Da millenni sfidiamo le fiere, i malanni di stagione, le morti premature e gli eccessi della natura, certe volte troppo avara, certe altre così generosa da soffocarci. Difendiamo strenuamente i cuccioli umani che nascono inermi, bisognosi, piangenti. Siamo da sempre un po’ contronatura.


In rivolta contro la finitudine

Per fortuna il gioco di leggi e contingenza, di caso e necessità, l’intreccio di concause senza un legislatore sovrano, ci risparmia l’ulteriore sventura di vivere in un universo deterministico, dove tutto è già scritto. La prigione le cui sbarre fossero fatte di leggi di natura inflessibili sarebbe ancor più crudele di quella della provvidenza, giacché non contemplerebbe nemmeno l’illusoria consolazione di un glorioso destino nell’avvenire. Se tutti i fatalismi cadono, allora siamo davvero liberi di agire, e responsabili degli effetti. L’amara verità della finitudine di tutte le cose ci restituisce allora libertà, la tragica libertà di chi non crede più nei migliori mondi possibili, ma nemmeno si lascia intrappolare nel nichilismo più angoscioso. Una libertà in bilico tra la certezza di morire e la passione di vivere.


Quest’avventura in un universo smisurato e ostile, un’avventura limitata nel tempo, è pur tuttavia libera e consapevole. Il nostro destino individuale e collettivo non è scritto da nessuna parte, quindi sta solo a noi la scelta tra un regno di giustizia, ragione, felicità e le tenebre della disuguaglianza, della tirannia, dell’ignoranza. Dobbiamo scegliere, ne abbiamo la responsabilità. Se non esistono più dei né nature mitizzate cui rendere conto, giudicare sul senso delle nostre esistenze diventa una prerogativa solo nostra, momento per momento. Il male umano, infatti, esiste e ha contorni molto chiari: è tutto ciò che attenta alla libertà e alla dignità della vita umana nella sua finitudine e nel suo essere l’unica che abbiamo, ed è un dovere combatterlo. Nel non-senso del mondo, ora siamo solo noi la fonte delle norme che ci diamo.


Tocca dunque essere coerenti e trarre le conseguenze logiche, con onestà intellettuale, della finitudine di tutte le cose. Essa suppone la totale assenza di speranze trascendenti, che però non significa disperazione; suppone il continuo rifiuto di un senso, che però non vuol dire rinunzia; suppone insoddisfazione cosciente e dissenso permanente: un dissenso adulto. Essere coerenti con la finitudine non significa fare della ragione un dio, perché la nostra ragione di mammiferi ha i suoi limiti costitutivi ed evolutivi. La ragione è fallibile, ma non c’è nulla al di là di essa. Nemmeno la nostra condizione assurda, di effimeri cercatori di un senso che non c’è, va divinizzata. Non dobbiamo crogiolarci in essa e macerarci romanticamente nei suoi risvolti. Gli innumerevoli traditori della finitudine si nutrono, infatti, non soltanto di metafisiche e di religioni, ma anche di filosofie dell’evasione, di speranze forzate, di misticismi, di redenzioni e scappatoie. In tanti hanno guardato negli occhi la finitudine e poi hanno girato la testa inorriditi. Sono restati muti, se ne sono compiaciuti o sono fuggiti.


La finitudine, dunque, non si tradisce, ma neppure ci si rassegna a essa. Un rischio terribile, e opposto a quello della fuga, si annida, infatti, nella mente di chi coglie l’evidenza geometrica della mortalità: quello di ritenere che, essendo tutto precario e transitorio, allora nulla sia degno di essere vissuto e ogni scelta di vita, anche la più orribile, sia indifferente. È la tentazione nichilistica. Se niente dura, allora niente è giustificato. Ciò che muore è privo di senso, dunque non esiste più alcuna scala di valori. Nulla per cui valga la pena di vivere. Vinca pure il più forte, il più furbo, il più efficiente.


Non è così. Semmai il contrario. Dobbiamo rivoltarci contro questa conseguenza perversa della finitudine. Bisogna allora insorgere con tutti i mezzi, in questa vita e adesso, contro la pena di morte generalizzata che caratterizza la nostra condizione. Protestare contro la morte e contro il male senza senso del mondo, contro la sofferenza ingiustificata di un bambino che muore, contro il terrore e le vessazioni dei potenti. E dunque, anche insorgere contro il nichilismo e lo svilimento dei valori. Lottare contro la morte significa scoprire le ragioni della vita, dell’unica vita che abbiamo in dote. Se ne potrà ricavare addirittura un ottimismo, disperato ma vitale. Una gioia sempre in pericolo, ma pur sempre una gioia.


La finitudine, infatti, ha questo in comune con le oppressioni e i totalitarismi: ci circonda, è inevitabile, ci stringe d’assedio, come la peste. Diventa un dovere tentare la rivolta, contrapporle la generosità dell’anima. Dal prossimo capitolo passeremo dunque in rassegna le sfide possibili, solamente umane, alla finitudine, congiungendo lo sguardo di uno scrittore e quello di uno scienziato. Essere consapevoli della nostra condizione assurda e transitoria significa, dopotutto, essere vivi, poter resistere, protestare contro il male del mondo. Siamo provvisori, imperfetti, desideranti, quindi non ci arrendiamo. Per dire che la vita è un barlume che fugge via, bisogna pure che la coscienza sia viva. Dunque, per chi sia coerente con la finitudine di tutte le cose la vita assume un valore altissimo, incommensurabile, perché è la sola possibilità che abbiamo di fare la differenza tra la nostra non-esistenza e la nostra esistenza. Qualsiasi ipotesi suicida sarebbe fuga o liberazione.


L’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è. L’unica che, a un certo punto, senza ragione apparente se non un moto libero e insondabile di volontà, dice di no. Lo spettacolo doloroso della nostra finitudine ci pare inevitabile, ma non per questo meno ingiusto. Scatta un giudizio di valore, una presa di coscienza, un moto di insurrezione, un’impazienza, una resistenza che scopriamo dentro di noi irriducibile. Dunque, rivoltiamoci contro la nostra condizione, così come ci rivoltiamo contro un oppressore. Seguitiamo a pensare, a interrogare, a chieder conto, a rivendicare il nostro umano diritto di dire di no per porre un limite a ciò che, per noi, è divenuto intollerabile. Non in nome di un testo sacro o della natura, ma in nome di una scelta etica umana, concreta: limitare il dolore, le sopraffazioni, l’ingiustizia, tra esseri finiti che non vogliono perdere la loro libertà e dignità. Insomma, la nostra carne si ribella alla stranezza del mondo e non vuole che diventi un alibi per il dominio del più forte.


Forse, allora, c’è una breccia nella finitudine di tutte le cose. Dobbiamo trovarla. C’è un ingranaggio fallace che può trasformarla in una generatrice di valori positivi. Il no della rivolta può ribaltarsi in un sì, in un progetto di umanità che diminuisca aritmeticamente il dolore del mondo. Ma il passaggio è stretto e periglioso: possiamo rivoltarci contro la condizione assurda della finitudine senza con ciò tradire il finito? Possiamo accettare fino in fondo e incondizionatamente la nostra finitudine e il disincanto del mondo, e tuttavia trovare forme laiche e materialistiche di sopravvivenza al finito? Potrebbe essere proprio la scienza a offrirci un’inattesa possibilità di protesta contro la mortalità?


L’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 17 gennaio 1960


Monod era stanco della lunga lettura.


“Hai saputo di Michel?”


“Certo che ho saputo. Tre giorni fa.” Camus non aggiunse altro, impietrito.


“Emorragia cerebrale durante l’intervento chirurgico, non sono riusciti a recuperarlo.”


Dopo un po’, Camus prese a ricordare ad alta voce.


“Quanti viaggi insieme. Le serate. Una meravigliosa faccia da schiaffi. Nel 1944 eravamo scappati insieme da Parigi, in bicicletta, dopo l’arresto di una redattrice di Combat, Jacqueline, che di sicuro aveva nel suo taccuino i nostri nomi. Ci avrebbero preso quelli della Gestapo. C’erano Janine e Michel. Fu lo zio di Michel, Gaston Gallimard, il patron della casa, a dare a uno squattrinato come me una scrivania in redazione quando arrivai a Parigi dall’Algeria nel 1940. Leggevo centinaia di manoscritti. Quante discussioni per progettare la collana Espoir. Le scelte dei titoli, le revisioni…”


Monod lasciò passare il grumo di memorie.


“Che ne dici, Albert, del primo capitolo, troppo duro?”


“Per niente. Abbiamo smussato anche più del dovuto. Mi piace questa architettura concettuale per cui dall’intreccio del caso e delle leggi di natura emerge la contingenza della vita, e da essa trae nutrimento la nostra irriducibile libertà.”


“Ho sempre amato la frase di Democrito ‘Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità’.”


“Alla diade manca un elemento, la libertà, e diventa la nostra triade, Jacques. La morte di Michel e la mia improbabile sopravvivenza a un metro da lui mi portano a pensare a quanto possa essere tragicamente vera la contingenza nelle nostre vulnerabili esistenze.”


Monod pensò che fosse il caso di trovare un diversivo e gli venne l’idea di esemplificare la contingenza.


“Non sarà questa né la prima né l’ultima volta che un caso benevolo ti concede di essere qui. Prova a fare mente locale su quante volte poteva finire tutto e non è successo.”


“Dunque… non saprei da dove cominciare. La prima manifestazione di fragilità e di scampato pericolo l’ho avuta a 17 anni, quando ho contratto la tubercolosi e mi hanno esentato dal fare il soldato, come invece accadde a molti dei miei coetanei figli di coloni francesi in Algeria, richiamati alle armi per via della mobilitazione contro i tedeschi. Per solidarietà verso i compagni, cercai due volte di arruolarmi, ma non ci fu nulla da fare. A causa della tubercolosi mi esclusero anche dall’insegnamento. Da ragazzo mi afflosciarono il polmone destro pensando di guarirmi dalla tubercolosi.”


“Se è per questo, nemmeno io ho fatto il militare, perché un attacco di polio mi ha reso leggermente zoppo. Ma su, non abbiamo rischiato la vita. Io, invece, nel 1934 partecipai a una spedizione naturalistica in Groenlandia. Fu dura, ma affascinante. Quando la nave del comandante Charcot, che si chiamava Perché no?, ripartì, mi invitarono di nuovo a bordo, ma io rifiutai, perché il microbiologo Boris Ephrussi mi aveva invitato a un soggiorno di ricerca al Caltech di Pasadena per studiare genetica. La nave naufragò al largo dell’Islanda e morirono tutti i membri dell’equipaggio tranne uno. La genetica mi ha salvato la vita.”


“Sicuro, questa è contingenza adamantina. Però mi dicevi che, dopo la dichiarazione di guerra, ti hanno arruolato comunque nel genio civile.”


“Sì, ho fatto il corso a Montpellier, dove mi insegnarono anche il codice Morse. Poi mi trasferirono a Versailles. Pochi giorni dopo i tedeschi entravano a Parigi.”


“Se la metti su questo piano”, rilanciò Camus, “durante i quattro anni di occupazione della peste bruna io ho rischiato di farmi beccare dalla Gestapo almeno due volte. Se ci pensi, sono vivo solo perché i redattori di Combat arrestati dai tedeschi, e poi anche lo stampatore di Combat a Lione, non hanno parlato durante le torture. Si sono fatti fucilare senza scucire un’informazione. Schiene dritte. Nel marzo del 1944 io e Maria siamo stati fermati durante una retata sui Grands Boulevards di Parigi e per puro caso la polizia non mi ha trovato addosso una copia delle bozze con il logo di Combat. Le avevo passate un attimo prima a Maria perché, di solito, la polizia non perquisiva le donne che avevano i documenti in regola. Sarebbe stata la fine. Qualche settimana dopo arrestarono e torturarono altri compagni della tipografia clandestina, nelle cui agende, forse, c’era anche il mio nome. Sono fuggito poche ore prima che venissero a cercarmi. Rischiare la pelle per un editoriale è un modo efficace per imparare il peso reale delle parole.”


“Già, e anche il peso della coerenza. Anch’io collaboravo a un foglio clandestino, Résistance, ma niente di che. È davvero un caso che non ci siamo conosciuti già durante l’occupazione, Albert. Colpa dei reciproci anonimati. Ripensandoci, io ho rischiato soprattutto all’inizio della Resistenza. Eravamo troppo avventati. Molti di noi hanno sfiorato più volte l’arresto e l’esecuzione, scampandola. Il 30 dicembre del 1940 – lo ricordo come se fosse ieri – la polizia mi identificò come sospetto; perquisirono casa mia, senza trovare tracce dell’attività clandestina. La Gestapo fece irruzione anche nel mio laboratorio alla Sorbona, ma, a disagio com’erano in quell’ambiente, non scoprirono che cosa nascondessi. Tutto sarebbe potuto finire vent’anni fa esatti.”


“Nei mesi successivi la situazione peggiorò. Ricordo che quasi tutti i compagni al Musée de l’Homme vennero arrestati. Fu così che diventasti comunista.”


“Me lo stai rinfacciando? Guarda che io sono uscito dal Partito Comunista già alla fine del 1945. Mentre tutti aderivano, salendo sul carro del vincitore, io me ne andavo.”


“Non rinfacciavo, era una notazione storica oggettiva.”


“Dopo che, per tutto il 1941, si erano succeduti gli attentati delle organizzazioni clandestine comuniste e le vigliacche rappresaglie naziste su cittadini innocenti, decisi di unirmi al fronte comunista universitario, benché non avessi idee comuniste. L’obiettivo era reclutare studenti e diffondere documenti. Portai Odette e i bambini dai nonni a Cannes. Poco dopo, il comando della repressione passò nelle mani delle SS e iniziarono esecuzioni di massa e deportazioni di ebrei. Lo ricorderai. A quel punto feci una scelta di campo, l’unica possibile: passai alla resistenza armata con i comunisti, perché erano i meglio organizzati e i più disciplinati. Lavoravamo all’insurrezione, all’addestramento militare di altri giovani e all’organizzazione di azioni di guerriglia. Avevamo pochi soldi. Per fortuna cominciò ad aiutarci mio fratello maggiore Philo, da Ginevra, dove aveva insediato una cellula della Resistenza per il supporto economico e logistico. Il pericolo maggiore lo corsi quando partecipai a un vertice segreto della Resistenza proprio a Ginevra, passando pericolosamente il confine e rientrando. Era una mezza follia, ma per puro caso andò tutto bene. Una guardia di frontiera fece finta di niente.”


Camus era divertito: l’ombra nera di Michel sembrava per un attimo dissipata.


“Sai che ti ci vedo, con quel profilo scolpito, elegante, affilato, a fare il comandante partigiano?”


“Non mi piace tanto parlarne, non so perché: è una parentesi della mia vita che ho chiuso per sempre quindici anni fa. Però devo ancora aggiungere un altro momento in cui la morte bussò alla porta e non risposi. Nell’inverno del 1943 le rappresaglie della Gestapo e delle milizie filonaziste di Vichy si fecero sempre più violente, i controlli si infittirono, molti compagni del nostro gruppo vennero arrestati. Immagino sia successo anche ai tuoi, in quei mesi. Alla Sorbona ero in pericolo e, fra l’altro, non erano nemmeno interessati alle mie ricerche. Il mio capo di allora disse che non sarei andato da nessuna parte con i miei esperimenti. Così, il grande microbiologo André Lwoff, direttore del dipartimento di Fisiologia microbica all’Istituto Pasteur, che avevo conosciuto tempo prima alla Stazione biologica di Roscoff, mi propose di trasferirmi da lui, nel mitico attico del Pasteur. In quel clima di arresti, torture, esecuzioni, compagni inviati nei campi, facevo il ricercatore e, al contempo, il capo delle operazioni parigine delle Forces Francaises de l’Intérieur. Fai conto che i miei tre predecessori in quel ruolo erano scomparsi nel nulla. Quando due colleghi biologi furono arrestati, mi decisi a entrare in clandestinità. Dormivo ogni notte in un posto diverso. Feci un’altra sortita a Ginevra. Ci voleva un sangue freddo notevole, o forse era solo incoscienza. Sabotavamo le linee ferroviarie e aiutavamo i piloti alleati caduti in terra francese a scappare. Al mio fianco c’era sempre una compagna della corale di Bach che dirigevo, Geneviève Noufflard, faceva la postina, mestiere rischiosissimo.”


“Dirigevi una corale di Bach? Anche Francine suona benissimo Bach al pianoforte.”


“Certo, Bach era e resta la mia prima passione! Nel maggio del 1944, però, eravamo stravolti, non ne potevamo più di aspettare lo sbarco; il coro era sospeso. Mi nominarono capo aggiunto del coordinamento nazionale della Resistenza. Noufflard divenne la mia segretaria. Cominciai a spostarmi camuffato, era buffo. Dismisi il mio solito montone, sostituendolo con un cappotto di sartoria. E qui si palesò l’ironia della sorte. Il 5 giugno, il giorno prima dello sbarco, per un nulla una riunione di capi della Resistenza, da me presieduta, non venne scoperta. Avrebbero trovato armi, mappe per gli alleati con gli obiettivi da bombardare e documenti sull’insurrezione imminente e sui sabotaggi delle linee di rifornimento tedesche, per favorire l’avanzata alleata. Ci avrebbero scorticati vivi e appesi ai lampioni come monito per gli invasori.”


“Ricordo bene quei giorni febbrili. Tornai anch’io a Parigi da Verdelot e mi rinserrai nella redazione di Combat a preparare il primo numero della Parigi liberata. Ma voi come avete fatto a non farvi beccare al Pasteur?”


“Me lo sono chiesto anch’io. L’aura di autorevolezza scientifica, la fortuna e la dirittura morale dei compagni proteggevano in qualche modo i corridoi dell’Istituto. Nel mio attico ho soccorso e nascosto diversi soldati alleati feriti. Con alcuni sono ancora in contatto. A un certo punto, quando gli alleati erano ormai alle porte della città, ci siamo messi pure a costruire bottiglie molotov. E non ci hanno preso.”


“Molotov all’Istituto Pasteur!? Smettila Jacques, non ti credo.”


“Ti assicuro che era così. Avevamo tutta la strumentazione per prepararle. Quando il 20 agosto cominciò l’insurrezione, mi misi a correre in bicicletta da una barricata all’altra. Alcuni volevano occupare subito gli edifici e assaltarono la prefettura. Ci furono molte perdite. Io mandai un dispaccio nel quale ordinavo di fare piuttosto guerriglia mobile e agguati, in attesa degli alleati. Mi occupai delle stazioni radio e dei comunicati.”


“Ah, ma allora eri tu l’autore di quel famoso dispaccio che invitava alle barricate! Non me lo ricordavo. Pensa come i nostri sentieri si sono incrociati più volte, senza però farci incontrare. Io, in quei giorni, facevo uscire il primo numero pubblicato di Combat, il numero 59, 180.000 copie vendute per strada.”


“L’ho ben presente, lo presi anch’io. E ricordo perfettamente il tuo editoriale: la battaglia continua, andiamoci a prendere la libertà. Anche quello dopo: la notte della verità, il riscatto risiede nella rivolta. Intanto Hitler aveva dato ordine di minare tutti i ponti sulla Senna e di radere al suolo la città pur di non perderla. Troppo tardi. Il 23 agosto – ricordi? – la radio libera chiese di far suonare tutte le campane della città perché stava entrando la Seconda Divisione Corazzata del generale Leclerc. Fu allora che io e Noufflard ci recammo al ministero della Guerra, occupato dai francesi. Sulla via, abbassammo la soglia di attenzione e, ancora una volta, per poco non ci costò caro: una pattuglia di tedeschi in ritirata ci rovesciò addosso una scarica di mitraglia che, francamente, non so come ci abbia potuto mancare.”


“La sera del 25 agosto si riaccesero le luci della città.”


“I tedeschi firmarono la resa e de Gaulle venne a congratularsi al ministero della Difesa.”


“Strinse la mano anche al comandante Monod?”


“Sì, dopo averlo sentito mille volte su Radio Londra, il generale si palesò. E anch’io pensai, come scrivesti tu, che era giunto il tempo di ricostruire una democrazia sui due pilastri della giustizia e della libertà. Tu eri la voce di Parigi. Ma io non ebbi tempo di rifletterci, perché mi dissero che la mia guerra non era ancora finita.”


“In che senso?”


“La Germania era ancora forte. Bisognava amalgamare le truppe regolari francesi, 250.000 uomini, con quelle irregolari del fronte della Resistenza, altri 200.000 uomini. Un’impresa non da poco, di addestramento e integrazione. Viaggiai in lungo e in largo per la valle del Reno, finché, nel febbraio del 1945, cominciò la penetrazione in territorio tedesco. A maggio, dopo la vittoria finale, lessi il tuo editoriale su ribellione e libertà come essenza dell’uomo, nel quale facevi un confronto tra il martirio del credente, convinto che il proprio sacrificio sia una stazione di passaggio verso un mondo migliore, e il significato estremo e radicale del gesto dei combattenti della Resistenza al nazifascismo, che non credevano nella resurrezione e che hanno dato la vita, cioè tutto, senza speranza o consolazione, per la causa della libertà, con lucido coraggio, in solitudine e consapevolezza, senza sperare in alcuna ricompensa ultraterrena. Mi colpì. Tra i comunisti da una parte e i gollisti dall’altra, sembravi un cavaliere solitario.”


“Solitario, e sconfitto. La mettiamo nel libro quella cosa dei partigiani non credenti, è un punto importante. Il loro fu un sacrificio assoluto. Sarebbe un delitto tradire i valori che lo ispirarono. E tu, quindi, fino al maggio del 1945 non tornasti casa.”


“No. Il mio nome di battaglia era prima Marchal, poi Malivert.”


“Il mio Albert Mathé e poi Bauchard. Così, però, Jacques, sembriamo due vecchi reduci coperti dalle ragnatele della nostalgia.”


“Hai ragione, scusa, ma il fatto è che la guerra è un addensato di eventi eccezionali, che nella loro barbarie ti temprano e ti restano addosso. Io, però, non ne volevo parlare. Mi sembrava che facesse piacere a te.”


“Ma no, figurati, lo so che è così. Quei pericoli scampati, il senso di fragilità della vita e della libertà, danno un senso di urgenza e di volontà. Si diventa intolleranti verso l’inessenziale. Ma tu perché non hai mai scritto nulla su questa storia?”


“Ma no, la mia è una storia come tante della Resistenza.”


“Non è vero, la tua storia meriterebbe di essere scritta. Però ti capisco. Secondo me tu hai percepito che in quegli anni noi, odiando la violenza e la guerra, siamo stati costretti a fare la guerra e a esercitare violenza, per sconfiggere il male. La bestia umana è ambivalente e contraddittoria. E la guerra fa esplodere questa crisi umana.”


“Sì, forse hai ragione, ma dipende anche dal carattere personale. Il mio amico e collega François Jacob, lo hai conosciuto a cena da me due anni fa, è più propenso a scriverne. La sua è una vicenda ancor più pazzesca. Di famiglia militare, è il nipote del primo generale francese a quattro stelle di origine ebraica. A 19 anni, secondo anno di Medicina, scappa da Parigi unendosi al fiume di rifugiati fino a Vichy. Quando Pétain chiede l’armistizio, decide di lasciare la Francia per combattere dall’estero contro i nazisti. Arriva in Inghilterra, dove conosce de Gaulle. Da Londra, si unisce alle truppe di liberazione francesi come ufficiale medico. Combatte in tutta l’Africa equatoriale francese, in Senegal, Congo francese, Gabon, Camerun, Ciad, poi ai comandi del generale Leclerc in Libia e Tunisia. Nell’agosto del 1943 torna a Londra per addestrarsi ed entra nella Seconda Divisione Blindata francese, che un anno dopo sbarca in Normandia per dare sostegno alle truppe alleate. Mi ha raccontato il paesaggio di distruzione, le colonne di prigionieri tedeschi, gli ultimi rabbiosi colpi di coda della belva nazista. Mentre avanza verso Parigi, il suo plotone subisce un pesante bombardamento tedesco. François viene gravemente ferito. Si prende cinquanta schegge in tutto il corpo. Cinquanta. Guerra finita, vita appesa a un filo e carriera di chirurgo abortita. Tu dimmi se si poteva prevedere che diventasse un biologo al Pasteur.”


“Era proprio destino!”, esclamò ironico Camus, pentendosene subito a causa del dolore al torace che il movimento impulsivo gli aveva procurato.


“Sì, appunto, era proprio destino. Come pensano tutti.”


Monod percepì che Camus era in vena di racconti autobiografici, forse per rilassarsi. I medici tardavano a rientrare. E allora attaccò.


“Anch’io, del resto, sono uno scienziato per caso. Ho progettato a lungo di fare il musicista di professione. Nel 1936 accompagnai il mio mentore di allora, Ephrussi, a Pasadena, a studiare nel laboratorio niente meno che di Thomas H. Morgan, il leader della genetica mondiale, premio Nobel, l’uomo dei moscerini della frutta artefice della scoperta che i cromosomi sono le entità preposte all’ereditarietà e che su di loro risiedono, in specifiche posizioni, i geni. Una specie di divinità per noi. Tu pensa in quale sfolgorante compagnia mi trovavo, e invece in California combinai poco e mi dedicai prevalentemente alla vita di società e alla musica, fondando anche una Bach Society. Tornato a Parigi, alla Sorbona, che non si direbbe ma a quel tempo era un ambiente scientificamente depresso, lavoravo da solo sul tema della crescita dei batteri in coltura, che non appassionava nessuno. Nel 1938 fondai e diressi una corale di Bach, ‘La Cantate’, con discreto successo. A quel punto davvero fui tentato di darmi definitivamente alla musica. Fra l’altro, fu nella corale che conobbi Odette, che al tempo era già orientalista al Musée Guimet, vicino ai giardini del Trocadero.”


“Certo che in quella corale di Bach allignavano molte compagne interessanti…”


“Smettila Albert, non sono tutti come te.”


“Lo so, tu sei uno scienziato rinascimentale. Sei un bravo marinaio cresciuto a Cannes e un eccellente musicista, suoni divinamente il violoncello e fai il direttore di corali di Bach. Io, invece, nella vita non ho fatto altro che scrivere.”


“Non è vero, me l’hai detto tu che prima della guerra facevi il grafico a Paris-Soir, quel covo di nazionalisti. E poi sei un fascinoso attore di teatro, e tra poco magari anche di cinema, che porta la sigaretta e veste i trench come Humphrey Bogart.”


“Detto da te ci credo. Tu sembri un incrocio tra un imperatore romano e una star del cinema di Hollywood! Assomigli a Henry Fonda.” Camus rise con gli occhi.


“Anche tu sei poliedrico, non sottovalutarti. Hai fatto il portiere del Racing Club Universitaire di Algeri.”


“Se è per questo mi proposero anche di fare il professore di grammatica nel quartier generale della Legione straniera, a Sidi-bel-Abbès. Fuggii dopo 24 ore, giusto in tempo per non sentirmi in dovere di restare.”


“Quando hai vinto il Nobel ho letto in un tuo profilo sul giornale che per qualche mese avevi fatto anche il tecnico meteorologo all’Istituto di Geofisica dell’Università di Algeri: per un pelo non diventavi anche tu uno scienziato!”


“Non dirlo nemmeno per scherzo. Sarei stato un disastro in laboratorio. Io ero combattuto tra il giornalismo e il teatro. Francine, piuttosto, da Orano era andata a studiare matematica. A proposito di scienza, quella vera, le tue ricerche al Pasteur come vanno? Sono sempre quelle che avevi iniziato sotto la guerra?”


“Ci stavo pensando proprio l’altro giorno: è da vent’anni che mi arrovello tenacemente sullo stesso problema, che però, secondo me, è della massima importanza. Era il dicembre del 1940, a inizio occupazione, quando osservai per la prima volta la curva di crescita bifasica dei batteri Escherichia coli. Nel 1886, a Monaco, il pediatra Theodor Escherich aveva descritto nei bambini questo batterio intestinale, quasi sempre inoffensivo, che si riproduce ogni venti minuti e si è rivelato molto facile da manipolare in laboratorio. Curva di crescita bifasica significa questo.” Monod prese un foglio bianco dal taccuino di Camus e iniziò a scarabocchiare. “Se tu prendi i batteri E. coli e li coltivi in presenza del loro nutrimento normale, la loro fonte principale di energia, che è il glucosio, vedrai una curva di crescita esponenziale: si moltiplicano fino a quando non esauriscono il nutriente.”


“Non sono previdenti. Fanno fuori tutto fin che ce n’è. Assomigliano all’animale umano.”


“Direi di sì. Quando, però, i batteri vengono fatti crescere in presenza di combinazioni di due zuccheri differenti, per esempio glucosio e lattosio, prima li vedi crescere esponenzialmente, poi fanno una pausa e quindi tornano a crescere esponenzialmente. Io ho osservato che, in pratica, loro prima esauriscono lo zucchero preferito, poi si fermano un attimo e quindi sfruttano l’altro zucchero fino alla fine.”


“E perché dovrebbe essere così strano? Finita la prima risorsa, aggrediscono la seconda.”


“Stiamo parlando di batteri, Albert, come fanno a ‘imparare’ a digerire anche l’altro?”


Camus rimuginava. Non rispose.


“Il momento misterioso è quella pausa lì in mezzo. Che cosa succede dentro i batteri? Secondo Lwoff, durante la pausa i batteri adattano i loro enzimi, che sono proteine particolari che catalizzano, cioè favoriscono, specifiche reazioni chimiche. In sostanza, i batteri producevano enzimi diversi per digerire prima lo zucchero preferito e poi il secondo, con una breve pausa in mezzo. E. coli predilige il glucosio, e va bene. Per digerire il lattosio, che è un disaccaride, cioè glucosio più galattosio, E. coli ha bisogno di un enzima in più, che si chiama beta-galattosidasi, che spezza in due il lattosio. Pensa che questa intuizione precorritrice venne in mente negli anni Trenta a un finlandese, un certo Karstrom, che poi abbandonò la ricerca pensando bene di farsi monaco. In realtà, adesso sappiamo che ne servono anche altri due di enzimi, la permeasi e la acetilasi, ma non facciamola troppo difficile perché già ti vedo provato.”


“No, ci tengo a capire che cosa diavolo fai nella tua soffitta al Pasteur, mentre il mondo va avanti. È una sfida con me stesso.”


“Adesso non sono più in soffitta, e comunque era un attico. Strettino, ma pur sempre un attico.”


“Senti, scusa, ma magari i batteri di Escherich hanno vari tipi di enzimi nel loro magazzino cellulare e li tirano fuori all’occorrenza.”


“No, perché in assenza di lattosio, E. coli non produce l’enzima, è proprio assente. Abbiamo controllato. Se invece i batteri hanno solo lattosio come nutriente, allora l’enzima magicamente compare. Noi vogliamo capire come avviene e che cosa controlla questo adattamento dell’attività enzimatica, perché un tipo di zucchero inibisce l’adattamento all’altro zucchero e il suo uso.”


“Da quanto mi racconti sei diventato anche tu lamarckiano, come il truce Lysenko in Unione Sovietica. L’ambiente dà le istruzioni (in questo caso, voi che, sadicamente, cambiate lo zucchero) e gli organismi, plasticamente, rispondono.”


“Lamarck non c’entra niente, Albert. Il carattere acquisito, cioè l’enzima per il nuovo zucchero, non viene ereditato dalla generazione successiva se tolgo lo zucchero. Dev’esserci sotto qualcosa di diverso, come una sorta di regolazione attivata dalla presenza o assenza dello zucchero. Le molecole di lattosio non istruiscono direttamente le cellule batteriche affinché producano lo specifico enzima necessario.”


“Ho capito, ma quei batteri, in precedenza, avranno evoluto in qualche modo la capacità di cibarsi sia di glucosio sia di lattosio, o sbaglio?”


“Scusa Albert, sono stato poco chiaro io: l’abilità evolutiva dei batteri di metabolizzare il lattosio non è indotta dallo zucchero in sé nell’ambiente, ma da mutanti genetici diffusi nella popolazione di batteri. Già nel 1943, insieme ad Alice Audereau, avevamo osservato che popolazioni di E. coli incapaci di utilizzare il lattosio occasionalmente davano origine a colonie che riuscivano a crescere nel lattosio. Quindi, è una mutazione genetica. La sintesi, cioè la produzione chimica, di quegli enzimi è legata ai geni.”


“Dunque, fammi capire se ho afferrato: nei batteri c’è una variabilità, come tra i partiti in Parlamento, e il fatto che voi cambiate lo zucchero favorisce di volta in volta un partito o quell’altro.”


“Esatto! Un ceppo di batteri, che ha la maggioranza assoluta, utilizza il lattosio solo quando è presente. Un altro ceppo produce sempre gli enzimi, anche quando non servono. Un altro ancora, minoritario, non li produce mai. I batteri producono spesso grandi quantità di un enzima in risposta a zuccheri che non possono usare o, viceversa, non riescono a produrre un enzima per uno zucchero che potrebbero usare. I batteri, quindi, non si stanno adattando direttamente in risposta all’ambiente. Comunque un po’ hai ragione, nel senso che l’espressione ‘adattamento enzimatico’, qui, può ingannare, tanto è vero che poi abbiamo optato per ‘induzione enzimatica’. Considera che, mentre noi ci arrabattavamo al Pasteur temendo perquisizioni della Gestapo da un giorno all’altro, in Inghilterra e negli Stati Uniti i mostri sacri della genetica andavano avanti. Nel 1943 Salvador Luria e Max Delbrück avevano confermato che le colonie di E. coli che utilizzavano il lattosio erano mutanti genetici: la capacità di metabolizzare il lattosio derivava da una mutazione genetica ereditaria. L’anno dopo Erwin Schrödinger aveva pubblicato Che cos’è la vita? e gente come Francis Crick e Jim Watson si era messa a lavorare al problema della struttura fisica e chimica dei geni.”


“Ho letto Che cos’è la vita?, bellissimo.”


“Nel 1946 Oswald Avery, a New York, capì che la sostanza che porta l’informazione ereditaria è il DNA e che i cromosomi sono costituiti da una lunghissima molecola di DNA. Nell’estate del 1946 Joshua Lederberg, a Cold Spring Harbor, spiegò a Lwoff e a me la scoperta che i batteri si accoppiano e si scambiano i geni direttamente. Gli hanno dato il Nobel due anni fa, a 33 anni, un mostro.”


“Mi sono tanto crucciato per essere un Nobel troppo giovane io…”


“A me piace che i Nobel, almeno nella scienza, non siano dati alla carriera, ma alla scoperta in quanto tale. O, nel tuo caso, alla potenza in sé delle opere.”


“E tu stai studiando per vincerlo, ammettilo.”


“Ma figurati Albert, non lo hanno ancora avuto nemmeno Watson e Crick. E poi i Nobel li vincono tutti gli americani, gli inglesi e i tedeschi.”


“Mi pare, però, che questi siano anni esaltanti per il vostro campo di ricerca. Siete tutti in corsa.”


“Questo sì. Noi al Pasteur abbiamo per le mani almeno due caratteri che, secondo noi, sono geneticamente controllati. Uno è la crescita dei batteri in presenza di lattosio, che ti ho detto. L’altro è il meccanismo di difesa dei batteri contro i virus che li attaccano, i fagi. Lo sta studiando Lwoff insieme a François Jacob. La posta in gioco è capire il segreto della vita.”


“Addirittura, Jacques? Ma quello non lo hanno capito già Watson e Crick? Con tutta la grancassa mondiale che hanno avuto sette anni fa.”


“Loro hanno capito la struttura molecolare del DNA e adesso stanno studiando come le istruzioni contenute nei geni vengono tradotte in proteine. E va bene. Secondo me, però, l’induzione enzimatica nei batteri è la porta per comprendere un tema molto più generale: il differenziamento cellulare. Sappiamo che tutte le cellule del corpo hanno gli stessi cromosomi e geni, cioè la stessa informazione genetica. Nel corso dello sviluppo, però, le nostre cellule si differenziano molto: diventano neuroni, cellule del muscolo, della pelle, del sangue e così via. Come è possibile se il DNA è il medesimo? Evidentemente, cellule diverse producono molecole diverse. Quindi, se capiamo come fanno i geni di un batterio a causare la produzione di un certo enzima in certe condizioni e non in altre, forse capiremo come agiscono i geni in generale e come avviene il differenziamento cellulare. La mia ipotesi è che, se i geni sono gli stessi, allora sarà una questione di regolazione o di attivazione e disattivazione dei geni.”


“Stai parlando dello sviluppo di una creatura complessa a partire da un singolo uovo fecondato. È da Aristotele che ci si lavora…”


“Proprio così. Sarebbe suggestivo trovare la risposta a questo grande interrogativo studiando umili batteri in coltura, proprio nell’istituto fondato da Louis Pasteur.”


“Voi pasteuriani siete proprio una setta religiosa, me l’avevano detto.”


“Abbiamo i nostri riti monacali: il pranzo rigorosamente in comune negli uffici piccolissimi; il seminario di ricerca, una specie di corrida in cui tutti cercano di mettere alla prova le idee proprie e quelle degli altri. Ma la cerimonia più sentita è ogni anno alla fine di settembre, quando omaggiamo devotamente il fondatore. Con tutto il personale, dal direttore fino all’ultimo inserviente, andiamo in processione al mausoleo istoriato di Pasteur, fino alla cripta. Da noi, ogni germe, anche il più strano, ha il suo studioso adepto. La nostra è una comunità speciale dedita alla religione della ricerca pura, mossa dalla sola curiosità di capire come funzionano le cose. Dimmi, dove lo trovi un altro posto pieno di medici senza pazienti, di farmacisti senza farmacie, di professori senza studenti e di chimici senza un’industria? Al Pasteur.”


“La gratuità unisce la mia filosofia alla tua scienza. Forse per questo stiamo scrivendo insieme. Ora mi riposo. Tra poco arriverà Francine. La prossima volta mi devi leggere del nostro primo assalto alla finitudine di tutte le cose. Sono curioso di vedere come ce la caveremo in questa impresa impossibile. Come scriveva Tolstoj, dobbiamo trasformare la nostra vita in modo da darle un senso che la morte non le può rapire.”

Monod era contento di vedere l’amico così volitivo e proiettato verso il futuro.

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 7 febbraio 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del capitolo secondo

Sfidare la finitudine con la tecnica

Se la natura dell’anima risulta immortale e si insinua nel corpo a chi nasce, perché non riusciamo a ricordare anche la vita precedente né conserviamo alcuna traccia delle azioni compiute? Se infatti il potere dell’animo è tanto mutato che è sparita la memoria delle azioni passate, non si allontana di molto – io credo – dalla morte; va ammesso quindi che l’anima di prima è morta, quella di ora è stata ora creata.

LUCREZIO, De rerum natura, libro III, 670-678


Ancorché vecchia, la Terra ci concede un altro magnanimo miliardo di anni. Tutto sommato, non sono pochi. Peraltro, sono anche gli anni della maturità, nostra e del pianeta, caratterizzati – si suppone – da maggiore saggezza. Sembrerebbero esserci, quindi, le condizioni e il tempo per evadere, innanzitutto, dalla nostra finitudine planetaria. Se, tuttavia, analizziamo i sogni di fuga dall’atmosfera terrestre fin qui elaborati dalla fantasia umana, essi ci appaiono in tutta la loro imbarazzante ingenuità.


La follia di fuggire su altri pianeti

Innanzitutto, i problemi tecnici si sprecano. Le altre terre abitabili, se mai ne esistono, sono troppo lontane dalla nostra. Non abbiamo ancora la tecnologia per raggiungerle nemmeno con una sonda, a maggior ragione per arrivarci e mandarci una colonia di terrestri. Gli anni luce sono così tanti che ci vorrebbero secoli anche soltanto per scambiare banali messaggi. Nel lasso di tempo necessario a inventare quelle tecnologie e a parlarsi tra un sistema planetario e l’altro, dovremmo conservare comunque, in buon ordine, l’unico pianeta che abbiamo, quindi il problema non si risolve. Semmai si pospone, con il rischio psicologico che questi tentativi di fuga diventino un colossale diversivo per rimandare la cura della Terra.


Si potrebbe allora volgere l’attenzione verso un obiettivo più prossimo e casalingo: un corpo del sistema solare, che al cospetto dei viaggi interstellari appare decisamente più alla portata. In attesa che una delle due superpotenze sbarchi sulla Luna e che gli astronomi indaghino più a fondo sulla natura di alcuni interessanti satelliti di Giove e di Saturno, nel nostro sistema potremmo provarci con Marte. Lì, però, le condizioni di sopravvivenza sarebbero estreme. Dopo un viaggio di molti mesi esposti a letali radiazioni cosmiche, gli esploratori umani metterebbero piede su un deserto rosso spazzato da tempeste di vento, bombardato da meteoriti, cotto da raggi mortali, senza ossigeno né acqua. Condurrebbero una vita d’inferno, nascosti in caverne, buchi e crepacci come insetti, oppure chiusi in cupole maleodoranti costruite con i nuovi polimeri sintetici di Giulio Natta, assumendo farmaci contro il panico da isolamento, drogandosi con visori psichedelici, mangiando cibi liofilizzati e ortaggi insipidi coltivati in serre idroponiche come quelle di William Gericke, usate dagli americani sulle isole del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. Così torneremmo all’agricoltura senza suolo dei Babilonesi e degli Aztechi.


I coloni marziani verrebbero presto avvinti da una devastante nostalgia per la vecchia Terra verde e azzurra, con tutte le sue vanità e le sue guerre. In attesa spasmodica della prossima chiamata da casa, rimpiangerebbero perfino i dibattiti politici terrestri. Gli sforzi della povera esistenza di questi sventurati astronauti sarebbero in gran parte tesi a proteggersi, da tutto e da tutti: tanto dal vento solare e dai raggi cosmici, quanto dall’egoismo e dall’aggressività di compagni claustrofobici, contro i quali nessuna corazza sarà mai sufficiente.


E allora il sogno visionario, anziché arrestarsi e darsi una misura, rilancerà in grande la posta e penserà a un progetto ancor più temerario: rendere gli altri pianeti, primo tra tutti lo stesso Marte, il più simile possibile alla Terra. L’idea che circola è quella di cospargere il nostro pianeta cugino di batteri fotosintetici e di piante che lentamente trasformino l’atmosfera marziana al fine di attivare l’effetto serra e di innalzare la percentuale di ossigeno. L’ambizione è ingegneristica: modificare i parametri della macchina planetaria marziana al punto da simulare 3 miliardi di anni di storia terrestre. Per il processo è stato coniato nel 1942, dallo scrittore statunitense Jack Williamson – si badi bene, autore di fantascienza –, il termine “terraformare”, cioè creare altrove un’ecologia terrestre.


Gli astronomi stanno prendendo sul serio la questione del rimodellamento di Marte e ne discutono negli uffici della neonata NASA. C’è una deliberata follia, tipicamente umana, in questo. Che diritto avremmo, infatti, di terraformare Marte inquinandone l’atmosfera in modo del tutto innaturale? Chi ha stabilito che Marte sia una proprietà vergine, a disposizione di un intraprendente mammifero terrestre? Forse una volontà divina interplanetaria, sul modello di quella usata per colonizzare, depredare di territori e risorse, annientare tutti i popoli oppressi della Terra? Arriverà un Colombo a piantar bandiera e a requisire i tesori in nome di Sua Maestà l’Umanità?


C’è addirittura chi sostiene che sia un obbligo morale portare la vita su altri sistemi, per continuare altrove l’avventura terrestre. Se il pianeta da trasformare è sterile (ma bisognerebbe esserne sicuri), non si interferirebbe con alcun altro essere vivente, quindi non dovremmo farci scrupoli etici. Così, però, si trasforma l’istinto moltiplicativo della vita, in quanto dato di fatto, in un valore positivo da coltivare. È più o meno come si comportano le alghe assassine che colonizzano un lago e lo devastano.


Non si dimentichi, poi, che ci vorrebbero molte generazioni umane per ottenere un minimo risultato: di una capacità di programmazione così paziente, lungimirante e tenace sembrano sprovvisti tutti i politici terrestri. Già questo chiuderebbe il capitolo. Sarebbe peraltro una salvezza per pochi, giusto un manipolo per continuare la specie. Come li sceglieranno? Il progetto si preannuncia alquanto elitario. Ma soprattutto, il gioco non vale la candela. Anche senza contare quanto tempo impiegheremmo per terraformare Marte, rispetto all’aspettativa di vita della Terra quella di Marte sarebbe di poco superiore. Quando il Sole diventerà una gigante rossa e comincerà a inghiottire, come Crono, i suoi figli orbitanti, subito dopo la Terra toccherà a Marte, poco distante. Non varrebbe proprio la pena di fare tutto quello sforzo di terraformazione a base di microbi e piante per guadagnare qualche millennio di sopravvivenza umana. A meno di non dare per scontato, ma andrebbe ammesso onestamente, che Homo sapiens non sarà in grado di gestire il proprio sviluppo economico e demografico senza compromettere la salute della Terra. Ben prima dello scadere del nostro miliardo di anni.


Per lucrare qualche tempo ancora, bisognerebbe riprendere il cammino verso lidi più esterni da terraformare e rinverdire, sui bastioni di Giove o di Saturno. Un rinvio dopo l’altro, costoso e disperato, per evitare l’inevitabile. Le esplorazioni lunari e marziane, le colonie permanenti a fini di ricerca o di sfruttamento minerario, di cui si comincia a vagheggiare, non sarebbero insomma altro che un diversivo rispetto alla mortalità del destino terrestre. L’ostilità del cosmo che ci circonda e la finitudine della Terra insegnano che dobbiamo tenerci buono il più a lungo possibile l’unico, fragile, prezioso e bellissimo pianeta che abbiamo.


Risorgere dal freddo?

Non ha senso, dunque, sperare in un’altra Terra: sarebbe un atto di presunzione, di mancanza di senso del limite, l’ennesima forma di imperialismo. Non abbiamo alcun diritto naturale di invadere altri sistemi planetari con le nostre carcasse al carbonio. L’idea di puntare sul nomadismo planetario implica poi una ben triste rassegnazione: la fatalistica accettazione della distruzione anticipata della nostra biosfera. Prepariamoci alla partenza, perché il vorace Homo sapiens non è redimibile e si ingoierà tutto l’ingoiabile.


Se pure tale pessimismo antropologico fosse fondato, questi progetti presuppongono che la strategia, dinanzi alla miopia suicida dell’umana ingordigia, dovrà essere l’alto tradimento: volgere le spalle alla Terra e andarsene verso altri lidi cosmici, dove vivere come reclusi, ancor più straniati e spaesati in un universo gelido e solitario che, palesemente, confermerà di non essere fatto per noi. La vita resiste fino allo stremo, certo, ma lo fa all’interno del sistema di risorse e di vincoli fisici in cui è nata. Noi, invece, vorremmo salvarci sottraendoci a esso e portandoci comunque appresso tutte le nostre angosce e paure.


Già ora, sulla Terra, i tecnici innamorati del futuro prefigurano, e simulano in piccolo, queste fughe solitarie. Tra romanzi e circoli scientifici, girano i disegni di fattorie sperimentali in ambienti artificiali, di frazioni di foresta pluviale sotto cupole di vetro, di biosfere ingegnerizzate, Eden delocalizzati, arche di Noè. Tutti prodotti di una superba ingegneria della resa, della sconfitta preventiva: tra poco il pianeta sarà esausto, consumato, consunto, degradato, invivibile e inservibile. Intossicato. Chiudiamoci allora in mondi alternativi purificati, in piccole nuove terre dentro la Terra, nell’illusione che, quando le cose là fuori andranno male, noi saremo al sicuro. Come se non fosse invece assai più realistico ipotizzare che, giunti a tale degradazione ambientale, orde di diseredati e di affamati verrebbero ad abbattere a sprangate le nostre ipertecnologiche mura.


Se la fuga su altri pianeti ci pare, in conclusione, una via impraticabile per sfidare la finitudine terrestre, si potrebbe allora ribaltare quel pessimismo sociale in un ottimismo individuale. Mettiamo il caso che gli sviluppi della medicina, della chirurgia, della farmacologia, dell’igiene, della prevenzione allunghino smisuratamente la nostra aspettativa di vita qui, sulla Terra, ben prima che siano disponibili tecnologie per viaggi interplanetari. Grazie a una sconfinata e acritica fiducia nella scienza, sconfiggeremo le malattie, sapremo riattaccare le teste ai corpi, sposteremo sempre più avanti il limite tra la vita e la morte, scopriremo i segreti dell’invecchiamento e ne rallenteremo il processo. Ecco un’altra sfida, questa volta diretta, a viso aperto, alla finitudine biologica umana. Del resto, la battaglia è già ingaggiata, se è vero che l’aspettativa di vita media si sta allungando progressivamente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale.


Il presupposto è che la causa della finitudine consista nel materiale scadente di cui siamo fatti: dovremmo solo trovare il tempo e il modo per migliorarlo un po’. Siamo macchine, rivedibili e perfettibili. Merce deperibile. Se i termini sono questi, potremmo allora immaginare di ibernare tutto il nostro corpo, o anche solo la testa, in attesa di risvegliarci in epoche tecnologicamente più avanzate, nelle quali sarà stata trovata la cura per la malattia che ci ha ucciso. Potremmo insomma provare a interrompere il decadimento, a fermare l’orologio della finitudine dentro il ghiaccio. Relegati in un tempo sospeso, attenderemo il sole dell’avvenire, quando una mano che ci parrà semidivina schiaccerà il pulsante del ritorno a temperatura ambiente.


Anche in questo caso, tuttavia, le difficoltà tecniche sembrano, almeno al momento, insormontabili. È vero che il freddo protegge dai danni e rallenta tutte le funzioni vitali, ma, anche intervenendo pochi secondi o pochi minuti dopo la morte e portando lentamente il corpo al congelamento, bisognerebbe evitare i danni ai tessuti causati dalla formazione di ghiaccio o disidratando il corpo o iniettandovi qualche sostanza protettiva, che non sappiamo quanto, a sua volta, possa essere tossica per l’organismo. L’espansione di volume del ghiaccio e la formazione di cristalli crepano perfino i cementi e gli asfalti; sarebbe bizzarro scoprire che non fracassano l’architettura cellulare complessa di un cervello o di un polmone. Anche ammettendo che si trovino i composti chimici adatti per vetrificare l’organismo prima del congelamento, resta da comprendere come sia possibile che un corpo resista per anni o secoli allo shock termico del gelo e poi del disgelo, senza irrorazione sanguigna e senza ossigeno.


Sei anni fa si è riusciti, in effetti, a congelare gli spermatozoi umani e a usarli con successo per l’inseminazione artificiale, ma un conto è conservare nel ghiaccio una cellula, tutt’altro conto è un organismo. I sostenitori della tecnica rispondono che un giorno ci riusciremo con un tessuto, poi con un organo, e che nessuna barriera teorica impedisce, in linea di principio, di provarci anche con un corpo intero. Alcuni animali, del resto, sono in grado di ibernarsi naturalmente, come i piccoli tardigradi, o di resistere al congelamento parziale, nel caso di alcuni anfibi. Forse hanno evoluto qualche segreto meccanismo di essicazione, ibernazione e resurrezione che potremo importare nei mammiferi. Per ora non funziona: i criceti degli esperimenti di James Lovelock si rianimano soltanto se congelati per poco tempo, altrimenti i loro organi subiscono danni irreversibili.


Soprattutto, di quale resurrezione stiamo parlando? Immaginiamo la scena: i medici accorrono al capezzale del morente; constatato il decesso, iniziano il raffreddamento e avviano la procedura di sostituzione del sangue con il liquido vetrificante; quando i parametri sono corretti, immergono il cadavere in un bagno di azoto liquido a –196 gradi contenuto in un serbatoio di acciaio. Si noti bene: non si allunga la vita, ma si congela la morte. A caro prezzo, si conserva nel gelo chi è già morto. La stasi biologica che ne consegue è un cimitero di presunti non-morti. Più che una sfida alla finitudine, sembra uno sfregio alla morte, trattata come un incidente di percorso, rimediabile o almeno rinviabile. Ma intanto c’è sempre e solo lei, in quei cilindri assiderati.


Magari, un giorno, vedremo coniugi congelati insieme, nella speranza di rifarsi una vita che ripeta esattamente la loro storia d’amore, in barba a ogni contingenza. Vedremo signore che si fanno mettere in frigorifero con i loro gattini e cagnolini, vecchissima idea plagiata direttamente dai faraoni egizi: l’imbalsamazione in edizione XX secolo. E, naturalmente, guai a farsi cremare: sarebbe la fine di ogni speranza di ritorno. Sembra la nuova versione del solito paradiso delle religioni, con i corpi al posto delle anime; ma una religione del tutto egoistica, che non lega insieme più niente. Più che una religione, è il culto dell’eterno ritorno in versione tecnologica.


I sostenitori ribattono che, in realtà, stanno solo mettendo in pratica la scommessa di Pascal. Se la tecnica non funziona, cioè il deus ex machina dell’ibernazione non esiste, avranno perso soltanto un mucchio di soldi, per chi può permetterselo (anche questa sfida alla finitudine, infatti, come la precedente, non è materia per poveracci). Se invece la tecnica funziona e il deus ex machina esiste, avranno guadagnato tantissimo: un’altra vita, e poi un’altra ancora, sconfiggendo la mortalità biologica. Converrebbe, dunque, scommettere.


Immortalità digitali

In questa sfida alla finitudine, dal sapore velatamente gotico, si dimentica un altro problema, il più radicale. Nel fatidico atto dello scongelamento, i medici del futuro dovrebbero comunque invertire la causa della morte, visto che gli ibernati sono stati congelati da defunti, non da vivi e sani. Anche ammesso che il gelo non abbia alterato o distrutto i sistemi cellulari, bisogna resuscitare il paziente, ripristinare il circolo sanguigno, avviargli il primo respiro come fece l’ostetrica favorendo l’atto istintuale che ci riempì i polmoni alla nascita. Sarà di nuovo un pianto a celebrare il ritorno alla vita? Nella malaugurata circostanza che si sia congelata solo la testa (costava un po’ meno), va aggiunto il problema che la si deve prima riattaccare a un corpo (di chi? Dei condannati a morte?).


E se poi avessimo sbagliato i calcoli con quell’ottimismo di partenza? Se venissimo svegliati dalla mano ruvida di un criminale che si è impossessato del laboratorio durante una delle sommosse che stanno sconvolgendo la città, in un futuro distopico in cui l’umanità, anziché progredire nella scienza, si è abbrutita e invelenita tra faide e inquinamenti ambientali? La laica resurrezione promessa dalla scienza è proprio complicata, tanto più che nessuna evidenza garantisce sul buon risveglio.


Se anche vi fosse un qualche sussulto fisiologico in alcune cellule, in quel guscio estenuato e protratto, con ogni probabilità, non ci saremmo più noi. Cancellata la memoria dell’esistenza precedente, senza più ricordi di esperienze passate, anche le nostre spoglie sarebbero trasfigurate da quel lungo letargo in freezer. Che senso avrebbe puntare tutto sulla mera sopravvivenza biologica del nostro involucro? Il nostro Io sarebbe già morto comunque e per sempre. Ci sarebbe qualcun altro al posto nostro, un estraneo che, a quel punto, sarebbe più etico far nascere da infante, non da adulto e malato. Se poi avessimo una qualche nebbiosa reminiscenza della vita precedente, sarebbe ancora peggio, saremmo scissi nella personalità, con un piede nel passato e uno nel presente, stranieri a entrambi. Come scriveva Lucrezio, senza memoria del passato, è comunque morire. Se c’è uno stacco della memoria e della coscienza, è come essere morti.


Pensare che la morte sia solo un problema provvisorio di conoscenze tecniche in via di soluzione è un’illusione che genererà sale d’aspetto dell’eternità, incubatori di vane speranze in cui sono già tutti morti senza saperlo. Non sarà una vittoria della vita, e nemmeno una protesta contro la morte, ma, al contrario, una glorificazione della finitudine nel suo volto peggiore, quello del disfacimento biologico. Anziché farsi prendere dalla morte e sparire, gli ibernati prolungheranno indefinitamente la loro fine, in un continuo fermoimmagine della loro decomposizione. Questo è così vero che, in fondo, non ci credono nemmeno loro, altrimenti sarebbero disposti a farsi congelare la testa nell’azoto liquido prima di essere morti. Ma non lo faranno mai.


E allora esploriamo altre strade. Le complicanze della resurrezione tramite il freddo sembrano essere di tipo prettamente biologico. Anche se alcune specie di mammifero vanno in letargo e sanno rallentare fortemente il loro metabolismo, pare difficile ipotizzare che si possano applicare queste abilità evolutive per spegnere il nostro organismo e risvegliarci in epoche migliori. Potremmo, però, aggirare la biologia. In questi anni in cui le favolose macchine di Alan Turing stanno rivoluzionando il mondo e gli scienziati della mente, riuniti al Dartmouth College, parlano di “intelligenze artificiali” capaci di giocare a dama e di risolvere problemi logici, perché non sognare di battere la finitudine grazie ai circuiti di un calcolatore?


In effetti, quando il nostro cervello interrompe la sua attività cosciente a causa di un trauma o anche di un principio di congelamento, nel momento in cui riprende conoscenza noi non siamo diventati un’altra persona, siamo ancora noi e ci riconosciamo: permane, insomma, una continuità nel nostro essere soggetti coscienti. Appunto, ci “riprendiamo” la nostra conoscenza. Se dunque fossimo capaci di simulare il cervello umano, neurone per neurone, e lo trasferissimo dentro una macchina di Turing, ci troveremmo nell’inusitata situazione in cui un substrato esterno non biologico, cioè un armadio pieno di transistor, potrebbe conservare (eternamente?) una copia di noi stessi. A quel punto, non dovremmo più resuscitare in toto, con le noie di cui sopra, ma colonizzare un nuovo cervello con la nostra identità incorporea. Il fondatore della cibernetica, Norbert Wiener, già dieci anni fa preconizzava una prospettiva simile.


Tralasciando le sterili obiezioni magiche di chi ritiene tale idea impossibile perché nel nostro cervello risiederebbe una qualche imprecisata e insondabile sostanza immateriale – un’anima o una mente ultraterrena –, il trasferire la coscienza da un cervello all’altro come se fosse la memoria di un computer, aspirando a una sorta di persistenza in silicio, implica comunque un’assunzione forte: che il nostro Io sia interamente rappresentato dalle informazioni contenute nel cervello, e non invece dal sistema di relazioni, sviluppatosi nel tempo, tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo. È evidente, tuttavia, che non siamo soltanto una massa di dati immagazzinati, ma un impasto di natura e cultura, di antichi retaggi e recenti sollecitazioni, di ragionamenti logicamente coerenti ed emozioni fisicamente incarnate.


Il facsimile di cervello non sarebbe, quindi, un altro Io. Sarebbe un’altra intelligenza, con un’altra storia, un altro corpo e, alla fine, un’altra personalità. La copia digitale verrebbe poi realizzata in un dato momento della vita biologica dell’originale: sarebbe, cioè, una fotografia della sua mente in un certo istante della sua esistenza. Da quella soglia in avanti, le due menti, quella biologica e quella in silicio, comincerebbero a divergere, diventando due individualità differenti. Dovremmo quindi aggiornare continuamente il nostro alter ego, oppure attivarlo solo quando saremo morti. Quando muore un gemello omozigote, perfino a parità di geni e di ambiente vissuto, la sua identità non si trasferisce in quella del fratello sopravvissuto. Se dunque applichiamo il principio di Lucrezio riportato in esergo, il trapianto di coscienza non sarebbe una rinascita, ma una nascita da capo, il che significa che l’identità di prima non c’è più, è morta. La finitudine ha vinto ancora.


Rimaniamo in ogni caso nel regno della fantasia, una fantasia logicamente non impossibile, ma pur sempre fantasia. Come per gli scenari precedenti, le leggi fisiche non proibiscono di per sé che un giorno si potranno creare copie digitali della mente, ma lasciano supporre che sia molto complicato arrivarci. Non sappiamo nemmeno come l’informazione e la memoria vengano immagazzinate e distribuite nelle cellule cerebrali. Non riusciamo a ricreare artificialmente nemmeno il cervello di una formica. Non ci è noto come il cervello generi l’esperienza cosciente. Risulta quindi irrealistico che si possa realizzare a breve il sogno di trascendenza informatica di Wiener. Inoltre, una volta estratto il contenuto del nostro cervello e depositato in una macchina di Turing, in quale altro cervello potremmo inserirlo? In un cervello vuoto, disoccupato, cresciuto per essere un pezzo di ricambio? Si presuppone, infatti, che qualsiasi altro cervello abbia già il suo, di contenuto, e vi sia affezionato. A meno di non vagheggiare identità multiple e confliggenti nel medesimo cervello.


Sul piano evolutivo, poi, non è ancora ben chiaro se ci convenga essere così consci, cioè se la coscienza sia davvero un vantaggio in termini di sopravvivenza e riproduzione. In particolare, essere pienamente e drammaticamente coscienti della propria mortalità, del destino effimero della nostra vita, potrebbe essere solo un terrificante effetto collaterale dell’evoluzione delle nostre capacità immaginative e astrattive. Il paradosso sta nel fatto che, senza questa sofferta coscienza della nostra mortalità, non potremmo ribellarci a essa coscientemente, al punto da ipotizzare forme digitali di immortalità. Anche se vani, questi tentativi implicano qualcosa di meravigliosamente umano.


Il clone non è l’identico

Sembra che il prezzo di queste sfide alla finitudine sia la perdita dell’identità individuale, un prezzo altissimo che in pochi saremmo disposti a pagare. Che senso ha diventare immortali se non saremo più noi? La questione non si sposterebbe di un millimetro, rispetto al trapianto di coscienza, se fossimo capaci di trasferire la mente non in una matassa di circuiti integrati, ma in robot umanoidi. I golem del XX secolo saranno comunque surrogati familiari e servizievoli, androidi ben lontani dal raggiungere le vette di creatività autonoma di un essere umano imperfetto, frutto di milioni di anni di rabberci evolutivi, fragile e, proprio per questo, imprevedibile e intelligente. Dietro l’ebbrezza del sentirsi creatori di replicanti immortali, si nascondono ambizioni totalitarie di perfezione meccanica. Avremo presto intelligenze muscolari fatte di memoria quantitativa e di rapidità di calcolo. Molto più difficile è sbagliare, improvvisare, da veri mortali.


In un modo o nell’altro si torna dunque alla biologia, come per attrazione di gravità. Le mura della finitudine biologica ci imprigionano e al contempo ci proteggono, dandoci una misura. Quell’idea della copia di noi stessi potrebbe essere rivista utilizzando un altro linguaggio: non quello di Turing, ma quello dell’acido desossiribonucleico, l’ADN o DNA all’anglosassone, di cui abbiamo recentemente scoperto la struttura e la composizione chimica. Poiché nel nucleo della cellula sono contenute le istruzioni per lo sviluppo dell’organismo, già nel 1928 l’embriologo tedesco, poi premio Nobel, Hans Spemann aveva abbozzato un esperimento ai limiti dell’azzardo fisiologico: prendere una cellula uovo di anfibio, toglierle il nucleo e trapiantarvi al suo posto il nucleo di un’altra cellula, prelevata dal corpo di un altro individuo. Se la cellula uovo venisse fecondata dal nucleo estraneo e iniziasse a dividersi, dando origine a un embrione, quest’ultimo sarebbe geneticamente identico al donatore del nucleo. In sostanza, sarebbe un “clone”, una copia genetica perfetta.


Otto anni fa, a Philadelphia, Robert Briggs e Thomas King ci hanno riprovato con una rana. Da un uovo hanno asportato il nucleo, sostituendolo con quello di una cellula embrionale di un’altra rana. La cellula uovo, apparentemente, non si è danneggiata e, in effetti, ha iniziato ad abbozzare alcune divisioni cellulari, come se il nucleo trapiantato avesse riprogrammato la cellula uovo, il che è di per sé formidabile. Non si è sviluppata una rana adulta clonata, però sembra che la tecnica possa funzionare. Correndo un po’ con la fantasia, nulla esclude che in futuro si possa estrarre il DNA ben conservato da quei cadaveri congelati, trasferirlo in una cellula uovo umana e, quindi, far nascere un clone del defunto. Del resto, potremo far nascere anche un figlio del defunto, partendo dai suoi spermatozoi congelati.


Questa ci pare una sfida alla finitudine decisamente più seria. Noi moriamo, ma una copia genetica di noi sopravvive, e poi un’altra ancora. Anche in questo caso, come per l’ibernazione, l’evoluzione ci era già arrivata. Talune piante gemmano le loro figlie, geneticamente identiche, da una talea, cioè da una parte del proprio corpo. In molte specie di pesci e rettili, le femmine generano da sole le proprie figlie, tutte cloni, per partenogenesi. Si noti, però, che la clonazione, per quanto assai più veloce e comoda della riproduzione sessuata, presenta alcune spiacevoli controindicazioni. Se i figli clonati ereditano una mutazione genetica deleteria, se la portano dietro tutti. Se un microbo fa ammalare un clone, finirà per attaccarli tutti perché, essendo geneticamente identici, saranno tutti soggetti a quel patogeno. Quindi, clonarsi non implica automaticamente diventare immortali.


Clonare in natura è una strategia rischiosa, perché riduce la variabilità genetica, che è il materiale su cui agisce la selezione naturale. In sostanza, riduce il ruolo del caso, il che è una pessima idea se vuoi sopravvivere ai cambiamenti ambientali. Senza contare che, nel caso di animali complessi, quella tecnica di trapianto del nucleo richiederà probabilmente molti tentativi ed errori, sacrifici, aborti, mostruosità. Farlo con gli esseri umani sarebbe bestiale, così come è bestiale pensare di clonare un corpo di ricambio per farne un repertorio di pezzi sostitutivi oppure clonare individui artificialmente selezionati per svolgere specifici compiti, per farli schiavi o soldati. Sarebbe un’altra aberrante espressione di una smisurata ambizione degli esseri umani di diventare creatori, signori delle vite altrui, da assoggettare o sterminare. Abbiamo dissipato una tenebra simile solo quindici anni fa.


Inoltre, tornerebbero a galla gli stessi problemi della copia digitale. Chi di noi ha un gemello omozigote, che a tutti gli effetti è un nostro clone genetico, sa che non è una nostra copia esatta e interscambiabile. Non è un secondo Io. Non ha esattamente i nostri ricordi e i nostri traumi, le nostre esperienze, idiosincrasie, relazioni. Ha una storia di esperienze e una personalità inevitabilmente diverse dalle nostre. Se potessimo creare un nostro clone, dovremmo comunque educarlo, se non altro per migliorarci di clone in clone, per evitare che commetta i nostri stessi errori, per trasmettergli le nostre conoscenze. Senza la garanzia che ci obbedisca, però, così come noi, a tempo debito, abbiamo fortunatamente disobbedito ai nostri genitori. Ma per questa pratica di trasmissione imperfetta esistono già i figli, non servono i cloni.


Un clone, dunque, è un individuo con lo stesso DNA, ma non è lo stesso individuo, perché l’ambiente e le esperienze lo scolpiranno diversamente. Come tale, sembra difficile che possa superare la nostra finitudine. Dentro un clone, noi comunque non ci saremmo più. In generale, pensare oggi di dirigere l’evoluzione per via tecnologica è una chimera. Creare un superuomo attraverso quella che nel 1951 Williamson – l’autore di fantascienza prima citato – ha battezzato “ingegneria genetica” è una speranza allucinata.


Si vagheggia che, prima di trasferire quel nucleo nella cellula uovo, lo si potrebbe manipolare geneticamente al fine di far nascere esseri umani intenzionalmente modificati. Ma la correzione finalizzata del DNA sarà per lungo tempo solo individuale e somatica, non trasmissibile alla discendenza. Forse, in futuro, troveremo palliativi medici per pazienti con gravi tare genetiche. Prima di poterlo riscrivere, il DNA, dobbiamo infatti imparare a leggerlo e a interpretarlo. L’unico modo per indirizzare davvero l’evoluzione sarebbe lavorare per migliaia di generazioni su una deliberata e rigorosa selezione, il che sarebbe immorale, perché gli esseri umani non sono piante da coltivare o animali da allevare. Queste sono illusioni diffuse da scienziati per modo di dire.


Quando la selezione ci abbandona

Prima di sostituirci al lento processo della selezione naturale e di ambire all’eternità per via genetica, abbiamo ben più pressanti problemi e minacce da affrontare. Il DNA non è un oracolo, un destino già scritto. Non è il prodotto di una mera necessità interna, ma di un intreccio fra caso e necessità. A maggior ragione, la nostra storia umana non è un destino già scritto. Il fallimento della tecnica nel redimerci dalla nostra caducità non implica affatto che ci si debba, per converso, rassegnare all’imperio della natura. Al contrario, abbiamo il diritto e il dovere di rivoltarci contro quell’ordine sociale che viene spacciato come “naturale”. Molti scienziati pensano che un limite strutturale invalicabile per la lunghezza della vita umana permarrà, forse intorno ai 120 anni o chissà. Si tratta di capire quale sarà la qualità di una vita così ostinatamente protratta, e il suo impatto sociale in un mondo di anziani sulle spalle di pochi giovani. La medicina, l’igiene e le tecnologie umane, allungando la vita, interagiscono con la nostra evoluzione.


Invecchiare, infatti, ha un preciso significato evolutivo. Come hanno di recente sostenuto John B.S. Haldane, Peter B. Medawar e George C. Williams, la selezione naturale perde efficienza – quindi è meno attenta nell’eliminare mutazioni deleterie – una volta superata l’età riproduttiva. Ecco perché invecchiamo: più passano gli anni, dopo il periodo in cui possiamo generare figli, e più accumuliamo danni fisiologici. Assolto il compito darwiniano, la selezione ci abbandona. Il caso prende il sopravvento sulla necessità. A riprova dell’ipotesi, l’incidenza di molte malattie che insorgono in età avanzata, e che quindi non influiscono sulla riproduzione, non viene ridotta dalla selezione naturale. Ne consegue che più allunghiamo la vita e più si manifesteranno mutazioni negative (malattie degenerative, tumori, acciacchi dell’età) che la selezione non ha eliminato perché non si presentano in età riproduttiva.


Questa scoperta lascia supporre che, grazie alla medicina, all’igiene, alla prevenzione, alla chirurgia e magari, un giorno, alla correzione genetica dei nostri difetti congeniti e acquisiti, potremo certamente allungare la nostra aspettativa di vita, perfino oltre i 100 anni, ma difficilmente arriveremo al punto di aggirare i profondi meccanismi di senescenza delle nostre cellule, di esaurimento funzionale degli organi e di accumulo di mutazioni genetiche cancerogene. La mortalità non è, sul piano evolutivo, una malattia da curare: è una condizione strutturale inscritta in ogni componente della nostra organizzazione fisiologica. Il tempo è il nemico.


Se analizziamo il concetto da un altro punto di vista, la selezione naturale non avrebbe motivo di favorire un gene che allunghi indefinitamente la vita, cioè che esponga il corpo all’accumulo delle ingiurie del tempo. A meno che gli individui anziani non contribuiscano in modo significativo alla vita sociale dei gruppi, per esempio proteggendo i nipoti in assenza dei genitori o contribuendo alla trasmissione di conoscenze, come succede in alcune specie di mammiferi in cui i nonni hanno una funzione adattativa importante. Ma si tratta solo di un rallentamento del processo inevitabile di abbandono degli individui non più fertili. Gli esseri viventi sono circondati da un mondo fisico ostile al quale si sono adattati, ma che non è fatto per loro. I danni aumentano con il passare del tempo, diventano sempre più gravi, portando al collasso il sistema. L’evoluzione ci sta dicendo, insomma, che esiste un limite strutturale alla longevità di ogni specie, compresa la nostra. La vecchiaia, del resto, ammettiamolo, è un orrore. Non c’è redenzione nella vecchiaia e nei suoi odiosi malanni. La natura abbandona a una a una le sale sempre più spoglie del nostro palazzo, fino a quando il proprietario non se ne va.


Ci vorrebbe più pietà per noi stessi. Gli allungamenti tecnologici non rimuovono la sostanza della questione, vale a dire la nostra inesorabile finitudine e l’invecchiamento inscritto nelle leggi lucreziane di aggregazione e disgregazione degli atomi; tuttavia, non sono di per sé illegittimi. Se rientrano nella giusta misura – estendere la finestra dell’unica esistenza che ci è data in questo mondo e ridurne sofferenze e ingiustizie –, possono anzi diventare un fulgido esercizio di umanità. Le tecnologie di cui abbiamo trattato in questo capitolo non scalfiscono il decadimento, ormai è chiaro, ma sono tentativi, più o meno equilibrati, di deviare il corso degli eventi, di diventare protagonisti liberi e consapevoli del progresso umano attenuando o rinviando di un po’ la finitudine.


Le peggiori iniquità e discriminazioni sono sempre state giustificate dall’idea che fossero “naturali”, e dunque immodificabili. Ebbene, non erano né l’uno né l’altro. Non erano scritte nella dura pietra del determinismo naturale. Noi siamo natura: ci siamo dentro e possiamo cambiarla. La strada delle tecnoillusioni, quindi, è sbarrata, d’accordo, ma potremmo imboccarne un’altra: quella, appunto, della civilizzazione, della crescita umana sociale e morale, della rivolta contro le innate condizioni assurde della vita. Il singolo individuo mortale resta una cometa passeggera, certo, ma potrebbe trovare un senso dentro una marcia più grande, in un cammino collettivo di emancipazione del genere umano. Forse l’insurrezione contro la finitudine può nascere da lì, dal progresso della giustizia e della libertà, al cui interno ciascuno di noi può fare la sua parte.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 7 febbraio 1960


Monod scagliò i fogli sul comodino a sinistra. Raramente reagiva con stizza.


“Siamo stati troppo severi con le pretese della scienza. Non mi va bene.”


“Ma cosa dici, Jacques? La parte sulla clonazione l’hai scritta tu; le altre, obiettivamente, sono tutte sciocchezze. Forza!”


“All’inizio del Mito di Sisifo tu hai scritto che Galileo ha fatto bene ad abiurare. È uno dei pochi punti della tua opera su cui dissento totalmente. Dici che la verità scientifica che aveva in mano non valeva il rogo; parli del valore relativo della verità; lo giudichi debole e poco virile, ma riconosci che, in fondo, ha fatto bene, perché la prevalenza dell’eliocentrismo sul geocentrismo è un tema futile, per il quale non vale la pena di morire, e via discorrendo.”


“Senti, non avevo ancora 30 anni quando ho scritto quell’introduzione.”


“Non importa, la tendenza a sottovalutare il sapere scientifico ti è rimasta. Io penso sia nostro dovere etico sapere a quale mondo naturale apparteniamo. L’ambizione ultima della scienza è chiarire la relazione tra l’uomo e l’universo, quindi, se vogliamo porre il problema della natura umana in termini non metafisici, abbiamo bisogno della scienza, e della biologia soprattutto. Non puoi negare che l’avvento dell’evoluzionismo abbia sconvolto profondamente e irreversibilmente il pensiero moderno in tutti i campi: filosofico, religioso e politico. Non puoi dire che la verità di Galileo non valeva il rogo, perché le verità di Galileo e di Darwin hanno contribuito a smantellare irreversibilmente il grande e antico miraggio della centralità umana nel cosmo, e questa acquisizione va ben al di là della scienza. Lo sai. Adesso la teoria darwiniana è stata rafforzata dall’innesto di una teoria fisica dell’ereditarietà e dalla teoria molecolare del codice genetico, base fondamentale della biologia. Tutto questo val bene un rogo.”


“Quanto dici è ovvio per me, Jacques. Il punto è un altro. Essendo l’uomo estraneo al mondo e a se stesso, io posso conoscere il mondo, apprezzarne la potenza e la bellezza, enumerarlo, studiarlo, comprenderlo scientificamente, ma nemmeno tutta la scienza della Terra potrà mai restituirmi quel mondo, farlo sentire mio, o farmi davvero appartenere a esso. Nella condizione assurda in cui siamo da sempre, il pensiero nega se stesso, il volere genera paradossi, la scienza non mi aiuta a trovare un senso all’esistenza, perché un senso non c’è e quel mondo scientificamente compreso, anche se mai del tutto, mi è estraneo.”


“Non ti capisco. La tua filosofia deve comunque basarsi sulla conoscenza del mondo, e quella ti viene data dalla scienza, non da altri saperi; non c’è contraddizione né estraneità tra scienza ed esistenza.”


“Alla fine, la vostra scienza si perde nelle metafore. Pensa all’atomo come sistema planetario: sconfina in immagini quasi poetiche, in ipotesi; non coglie mai la totalità. C’era dunque bisogno di tutti questi sforzi? Sono descrizioni certe che non mi insegnano nulla sul significato della mia esistenza, cioè l’estraneità rispetto a quel mondo. Oppure sono ipotesi che vorrebbero indicarmi qualcosa, ma non sono certe. Mi insegna di più la poesia sul nostro universo indecifrabile e limitato.”


“Non è vero Albert. La scienza, certo, è ipotetica, ma è anche cumulativa. Le sue verità non sono relative nel senso di arbitrarie: sono relative nel senso che, per mezzo della critica e dell’autocorrezione, sono costantemente suscettibili di integrazioni, generalizzazioni e revisioni. Quindi l’universo non è indecifrabile, ma progressivamente, ancorché indefinitamente, decifrabile. La scienza, più che relativa, è provvisoria, parziale, perennemente integrabile: la differenza è sostanziale. Procede grazie al dubbio sistematico e costruttivo. La critica serrata e intransigente gli uni degli altri diventa crescita della conoscenza. Dovrebbe piacerti, ma forse non ne cogli il valore rivoluzionario.”


“Sai che io preferisco le rivolte alle rivoluzioni. Secondo me, c’è una vena di follia in chi cerca spiegazioni deterministiche, figlie di una ragione cieca che ha pretesa di chiarezza. Le categorie che tutto spiegano mi innervosiscono: il mondo non è ragionevole. L’ossessione dei fisici di trovare una razionalità ultima nell’universo, di scovare le leggi immutabili di natura come se fossero idee nella mente di Dio, assomiglia allo storicismo hegeliano. Il razionalismo universale di certi scienziati ci riporta a Platone.”


“D’accordo, la ragione della scienza è una ragione lucida, che accetta i propri limiti. La spiegazione scientifica è probabilistica, statistica, soggetta a incertezza ed errore. Ma il mondo non è irragionevole nel senso di non intelligibile; ha una propria ragionevolezza che è estranea al senso che noi vorremmo trovare in esso: un senso teleologico, rassicurante, illusorio. La modestia si addice allo scienziato, ma non alle sue idee, che lui ha il dovere di difendere fino all’estremo e che possono avere implicazioni filosofiche, ideologiche, etiche e politiche enormi. La scienza non è soltanto un insieme di risultati e di successi pagati al costo di molti fallimenti. La scienza non è un corpo di conoscenze, come la vedi tu, ma è un modo di pensare.”


Camus pensò che l’amico tenesse particolarmente a questo argomento e allora ci mise tutto il suo orgoglio. Continuò a provocarlo.


“Suvvia, Jacques, in questi mesi il mondo è preoccupato soltanto di andare sulla Luna o di far sposare le altezze reali. Ci sono battaglie ben più importanti da fare.”


“Non accostare le insulsaggini sulle casate reali con la corsa allo spazio, da cui discenderanno applicazioni tecnologiche di vasta portata che, se ben indirizzate, possono ridurre le sofferenze umane e contribuire anche alle tue lotte di libertà, verità e giustizia.”


“Dipende da chi metterà piede per primo sulla Luna…”


“Intendevo la missione americana.”


Il sarcasmo di Camus sulla scienza aveva irritato Monod, che decise di ricambiare con la stessa moneta.


“Comunque non mi stupisce che tu non abbia ben chiaro come funzioni il metodo scientifico. Ti ricordo che, nel 1949, mi chiedesti aiuto per lo stato di salute precario del padre di una delle tue amanti storiche, María Casarès, che era stato primo ministro repubblicano in Spagna e si era rifugiato in Francia. Ti avrei aiutato di buon grado, ma tu volevi un consiglio su uno strano intruglio miracoloso, un certo siero di Bogomolec, scienziato ucraino che Stalin aveva scelto tra i suoi eroi. C’eri quasi cascato.”


“La scienza, Jacques, giunta al termine dei suoi paradossi, cessa di proporre e si arresta a contemplare e disegnare il paesaggio sempre vergine dei fenomeni.”


“Smettila di declamare, non siamo a teatro. La scienza non è soltanto descrizione, è anche spiegazione e predizione, slancio verso l’ignoto. Lo scienziato non apre la finestra per rappresentare un paesaggio, ma disegna molti paesaggi possibili nel buio della sua stanza e poi apre la finestra per vedere se il paesaggio là fuori corrisponde a uno di quelli da lui prefigurati. La funzione più alta dell’intelligenza umana è la simulazione: attingiamo all’esperienza, ma attraverso schemi cognitivi geneticamente fondati, quindi basati a loro volta sull’esperienza accumulata nel corso dell’evoluzione. Solo noi immaginiamo, prevediamo, proiettiamo, anticipiamo la trama del mondo. Creiamo per gioco entità matematiche nella nostra testa: pensa, per esempio, alle geometrie non euclidee, che poi si rivelano essere strumenti essenziali per rappresentare fedelmente la natura, in particolare lo spazio-tempo di Albert Einstein. Non sappiamo come sia possibile, ma di sicuro non dipende dalla nostra esperienza individuale e concreta. Forse nel nostro cervello c’è la sedimentazione delle esperienze e delle capacità di simulazione dei nostri predecessori: la mente dei nostri avi si è sintonizzata con la natura, si è co-evoluta con essa interrogandosi per migliaia di generazioni sulle regolarità naturali. Ecco perché la matematica funziona e anticipa la realtà.”


“Guarda, Jacques: la mia preoccupazione principale è che il progresso tecnico ci allontani dalla realtà, dalla concreta materialità delle nostre effimere esistenze, trasformando l’uomo in un’entità astratta e plasmabile a piacimento. Devo ammettere, però, che la tua idea di scienza mi sembra molto più profonda e affascinante di quella che leggo sulle riviste. Peraltro, c’è una strana parentela fra le teorie e i modelli scientifici – ai quali tu ti riferisci – e i romanzi.”


“In che senso?”


“I romanzi non sono esercizi di evasione dalla realtà. Sono la fabbricazione di universi alternativi, chiusi e compiuti. Non rappresentano e non copiano; costruiscono una storia mediante una composizione di fatti veri. Il romanzo è una cosa seria. L’uomo rifiuta il mondo quale è, senza però accettare di evitarlo. Non desidera lasciare il mondo, ci tiene, ma soffre perché non lo possiede abbastanza. Siamo esuli in patria, strani cittadini del mondo; per noi ogni realtà è incompiuta, e si compie solo nell’attimo fuggente della morte. Nel romanzo, invece, i lettori possono conquistare quella pienezza, possono fare della vita degli altri – benché non della propria – un’opera d’arte. Il romanzo è l’universo in cui l’azione trova una sua forma, in cui le parole finali vengono pronunciate, in cui la vita tutta prende il volto del destino. Nel romanzo correggiamo questo mondo secondo i nostri desideri. L’universo romanzesco ha quindi una sua logica interna, una continuità imperturbabile che non c’è mai nella vita, ma che ritroviamo nella fantasticheria. Se vuoi fare filosofia, devi scrivere romanzi. Forse, anche voi scienziati fate lo stesso quando ricostruite il mondo dentro una teoria. Solo che, nella scienza, questi universi alternativi sono messi costantemente a confronto con le durezze della realtà osservativa e sperimentale, mentre nel romanzo fanno sì che il lettore si senta lacerato tra la finzione, l’invidia per la vita degli altri e il senso soverchiante della propria irredimibile incompiutezza, che prorompe non appena terminata la lettura.”


“Mi piace il parallelo tra romanzo e teoria scientifica. Pensa a questo tremendo interrogativo: com’è che il mondo astratto dei concetti scientifici, fatto di logica, di idee, di teorie scientifiche e di matematica, com’è che questo mondo cerebrale e culturale si dimostra adeguato alla descrizione del mondo reale là fuori? E spesso ne intuisce mentalmente alcuni frammenti e alcune caratteristiche fondamentali, in modo non intenzionale, ben prima di averli osservati e misurati? Questa è veramente la più fondamentale delle questioni filosofiche.”


“Almeno converrai con me che la scienza non può ambire a un sapere globale, definitivo, onnicomprensivo, perché diventerebbe una nuova forma di metafisica totalizzante. La scienza deve limitarsi a verità solo parziali, con la minuscola: solo frammenti di verità. Altrimenti peccherebbe di dismisura, quasi fosse un simulacro di assoluto; il desiderio di conoscenza umano travalicherebbe i suoi limiti intrinseci, anche se, ovviamente, non c’è nulla al di là della conoscenza dei fenomeni naturali e al di là della ragione, ancorché vana nel rivelarci il senso dell’universo. Prima o poi, dovremo scegliere tra il suicidio collettivo o l’uso intelligente delle conquiste scientifiche.”


“Questa è un’obiezione di retroguardia. Io non ho mai avuto un’idea totalizzante della scienza. So benissimo quanta bellezza c’è negli altri saperi. Mia moglie Odette è un’archeologa, orientalista ed esperta di pittura tibetana. La musica rivaleggia da sempre con la scienza nella mia vita di ogni giorno. Ma il dominio della conoscenza razionale della realtà spetta alla scienza e non ad altre forme di sapere. Se la scienza ci presenta una nuova immagine del mondo e fa a pezzi le nostre illusioni, dobbiamo prenderne atto e starci dentro, non fuggire. La filosofia non può essere indifferente. Altrimenti significa che, della scienza, noi accettiamo solo quello che ci fa comodo, nuovi strumenti e possibilità, come in questo ospedale, ma non quello che conta, cioè la revisione totale delle basi dell’etica. Quello della scienza è il candore di uno sguardo sempre rinnovato che illumina di luce nuova antichi problemi. La teoria molecolare del codice genetico, per esempio, ha in primo luogo implicazioni epistemologiche, certo, ma anche etiche e politiche.”


“Per come la definisci tu, Jacques, la scienza è lo strumento più potente che abbiamo per combattere la menzogna, per smantellare riposanti certezze. Se è così, mi va bene. Posso anche ricredermi, se vuoi. Se esistesse il partito di quelli che non sono sicuri di avere ragione, io sarei già iscritto”.


“Ti ricordo che stiamo scrivendo questo libro insieme, uno scrittore e uno scienziato, per proporre un’etica del disincanto fedele alla scienza, che si faccia carico di tutta la lucidità della finitudine. Ciò che è raramente coincide con ciò che è desiderabile.”


“Forse il mio pregiudizio nasce dal fatto che, quando facevo il giornalista, ho assistito a processi in cui lo scienziato, l’esperto di turno, si esprimeva come un prete, e la giuria annuiva come davanti a un sacerdote. Ho visto la farsa delle perizie e delle controperizie, la scienza che presume di saper trovare sia l’innocenza sia la colpevolezza. Nessuno dovrebbe essere condannato a morte sulla base di una prova ‘scientifica’.”


“I duelli giudiziari tra accusa e difesa hanno a che fare più con la retorica che con la scienza. Le indagini si basano più sulla ragionevolezza e sulla perspicacia dell’investigatore che sul metodo sperimentale. Guarda quante ne stanno dicendo sul tuo incidente.”


“Ci sono novità?”


“Mi pare che brancolino nel buio. Stanno interrogando alcuni agenti dei servizi di sicurezza, ma non emerge nulla, o non si sbottonano. Ho chiesto al procuratore e dice che proveranno a sondare alcuni contatti con i servizi dell’Est Europa, da quanto ho capito cecoslovacchi.”


“Ah be’, allora siamo a posto. Vedi, da quelle parti hanno messo la scienza al servizio della grande Storia. L’oscurantismo razionalistico diventa tecnocrazia, burocrazia scientista. Motivo in più per diffidare di certi usi della scienza.”


“Non mescolare le carte, Albert, il marxismo ha fallito non perché quel socialismo fosse troppo scientifico, ma perché non lo era per niente. La ragione scientifica – lo hai scritto anche tu nell’Uomo in rivolta –, se ben esercitata, può diventare un fecondo strumento di indagine, di pensiero, e anche di rivolta.”


“In quel passaggio stavo pensando alla scienza recente di oggi che ci insegna la misura delle cose, il senso del limite, la relatività dei nostri concetti contro ogni assolutismo. Meccanica quantistica, relatività, incertezza e probabilità, indeterminazione. In pratica, scopriamo che il mondo non ha una realtà definibile se non alla scala di quelle grandezze medie che ci sono proprie. Il resto sfugge.”


“E allora vedi che mi dai ragione. Nel secondo capitolo siamo stati molto severi con gli slanci tecnologici che sfidano la finitudine, ma sarebbe inutile rovesciare o rinnegare la tecnica. La macchina non è cattiva in sé, ma nell’uso che ne viene fatto attualmente. Una parte della scienza di oggi tradisce le proprie origini e nega le proprie acquisizioni lasciandosi porre al servizio del terrorismo di Stato e dello spirito di potenza. La sua degradazione sta nel produrre solo mezzi di distruzione e di asservimento. Ma la scienza che ho in mente io è al servizio dell’uomo e della sua emancipazione, sia dai gioghi della natura sia dai gioghi del potere. La scienza è libertà.”


“Quella sovietica, secondo me, non è nemmeno più scienza, è pura ideologia anche quando fa esperimenti in laboratorio. Ma dobbiamo esserle grati perché ci ha fatto incontrare, ricordi?”


Camus cercò di stemperare la tensione.


“Altro che se mi ricordo, Albert, ci ha fatti conoscere quel losco figuro di Trofim Lysenko. È incredibile come gli zelanti funzionari e gli intellettuali impegnati del Partito Comunista cercassero di difenderlo, in perfetta malafede.”


“Quel tuo articolo sul nostro Combat fu formidabile. Rimasi folgorato.”


“Ricordo bene. Era calata la cortina di ferro e i partiti comunisti occidentali erano chiamati alla stretta osservanza dell’ortodossia. Era il 26 agosto del 1948; io avevo lasciato la chiesa comunista con tutte le sue intolleranze tre anni prima. Un giornale filocomunista parigino annunciava che in Unione Sovietica era avvenuto un grande sovvertimento scientifico. Trasecolai. In un convegno alla Lenin Academy of Agricultural Sciences, le posizioni lamarckiane di Lysenko avevano prevalso sulle teorie genetiche di Mendel e Morgan. Non per ragioni scientifiche, ma politiche! Ti rendi conto? L’ereditarietà dei caratteri acquisiti, i cambiamenti indotti direttamente dall’ambiente sugli organismi, come aveva già teorizzato Ivan Mičurin – ti ricordi? –, erano più funzionali alle politiche agricole interventiste criminali di Stalin. Bisognava dimostrare il potere plasmante dell’uomo sulla natura, e poi bisognava fare l’uomo nuovo. La vernalizzazione dei semi di grano proposta da Lysenko per farli germogliare in anticipo non funzionò e morirono a milioni nelle carestie. Intanto, però, l’idea che l’evoluzione avvenisse per mutazione e selezione venne bollata come scienza occidentale borghese, reazionaria, erronea e metafisica.”


“Vedi quali danni può fare lo scientismo? E poi non si conosceva ancora il DNA, si poteva sbagliare sul fatto che le mutazioni ereditarie dipendessero direttamente dalle condizioni esterne.”


“Ma quale scientismo! Li stai giustificando solo per farmi arrabbiare? Quelli erano, e sono, delinquenti nella stanza dei bottoni nucleari. Dissero addirittura che la genetica mendeliana era stata il presupposto del razzismo nazista. A Brno, in Moravia, fecero cancellare la memoria storica del lavoro di Mendel. Perseguitarono i miei valentissimi colleghi genetisti russi, come il grande botanico e agronomo Nikolaj Vavilov, un eroe della resistenza ai nazisti a Leningrado, e un eroe per l’idea della banca mondiale dei semi e dei centri di origine delle piante coltivate. Un gigante della scienza massacrato e morto di stenti in una prigione di Saratov nel gennaio del 1943. Cinque anni fa hanno avuto il coraggio di riabilitarlo, il che è ancora più ipocrita. Fu vittima di purghe lamarckiane e staliniste, ti rendi conto?”


“Già, per loro il fine giustifica ogni mezzo, anche il più orrendo. E a Parigi i comunisti cercavano un compromesso, come se nella scienza fosse possibile trovare una via di mezzo tra due teorie incompatibili. Poveretti, si arrampicavano sui vetri. Compreso il guru Sartre. Il 5 settembre pubblicai la tua stroncatura, memorabile: Mendel non contraddice Darwin, ma ne è il presupposto; voi comunisti usate gli stessi argomenti dei creazionisti biblici (touché!); la scienza è metodo deduttivo ed esperimenti, non obbedienza all’autorità precostituita; la selva delle vostre contraddizioni fiorisce su dogmi antiscientifici e terrorismo ideologico. Grandioso.”


“Grazie Albert. Ma il vero punto per me era un altro: com’è possibile che Lysenko sia diventato così potente in patria, con tutte le sue aberrazioni scientifiche? La verità di Stato, totalitaria, per me è mostruosa. Questo fanatismo dottrinale imposto come un’ideologia sulla scienza decretò la fine della genetica russa, purtroppo. Pensa che fu il caso Lysenko a spingere Jacob a passare alla genetica: anche lui decise di contrapporre la ragione all’ideologia.”


“Ti feci diventare una star a Parigi con quell’articolo, Jacques.”


“Vero, e mi toccò pure andare a dibattiti feroci con i comunisti lysenkoisti che non sapevano nemmeno di cosa stessero parlando. Molti ex compagni della Resistenza mi voltarono le spalle. Che tristezza.”


“E allora in laboratorio mettesti proprio alla prova, con i tuoi batteri sotto il vetrino, le assurdità di Lysenko. Ma ti ricordi quando ci vedemmo la prima volta?”


“Credo di sì. Nell’autunno del 1948 venni invitato a una riunione dei Gruppi di legame internazionale, una banda commovente di laici, illuministi, antistalinisti, libertari, che non contavano niente, per una serata sui diritti umani nella Guerra fredda, e l’amico comune Jean Bloch-Michel ci presentò. Fui molto grato a Jean, perché ero da anni un ammirato lettore dei tuoi pezzi su Combat. Andammo a cena; c’era anche Jean Daniel. Poi mi regalasti l’edizione dei tuoi scritti giornalistici con una bellissima dedica: A Jacques Monod, sullo stesso cammino, fraternamente, Albert Camus.”


Quando Monod si metteva a fare il sentimentale, Camus scartava subito di lato.


“Con i comunisti avevamo proprio chiuso, tutti e due. Ci seppellirono di critiche. Dissero che eravamo borghesi ipocriti e conservatori. Anime belle. Nel tuo caso avevano ragione sul borghese, con quel tuo profilo affilato, i capelli tirati indietro, le buone maniere e lo humour. Io invece vado fiero delle mie origini proletarie, che molti di quegli intellettuali impegnati non avevano!”


“Borghesi o no, due socialisti libertari come noi saranno sempre in minoranza. Abbiamo entrambi fatto la campagna elettorale per Pierre Mendès-France ed è finita come sappiamo. Ora non ci conviene appoggiare i socialisti, con tutte le loro contraddizioni e ambiguità, perché finiremmo per litigare anche lì. Ci siamo indignati troppo spesso invano, Albert.”


“Lo so, i grandi sistemi non fanno per noi. Con socialisti e radicali, almeno, possiamo fare qualche battaglia comune, sulla laicità, sull’abolizione della pena di morte e sull’appoggio al dissenso in Europa orientale.”


“Su questo fronte io sono passato all’azione.”


“In che senso Jacques?”


“Nel senso che… è una storia lunga.”


“Sputa il rospo, Jacques, possibilmente non clonato.”


“Adesso è tardi, ti racconterò. Comunque si tratta dell’Ungheria.”


“Stai aiutando gli esuli e gli scrittori dissidenti ungheresi a Parigi? Anch’io.”


“No, ti ho detto che sono passato all’azione.”


“Ti sei rimesso nella Resistenza? La guerra è finita da un pezzo.”


“La Guerra fredda non è affatto finita. Sto cercando di fare espatriare illegalmente dall’Ungheria due oppositori del regime di Kádár.”


“Cosa? Non ci credo Jacques! C’è sempre il cuore di un partigiano sovversivo che batte sotto quel camice bianco da sacerdote della scienza. Dimmi, dimmi, chi sono?”


“Lei si chiama Agnes Ullmann, è una bravissima biochimica laureata a Budapest. Le hanno insegnato Lysenko, ovviamente, ma lei non si è fatta inculcare la propaganda. Nei suoi corsi universitari era proibito insegnare la genetica. Nel settembre del 1948 ha letto clandestinamente la mia critica feroce su Combat, quindi vedi che ci sei di mezzo anche tu in questa storia, e mi ha contattato tramite un amico esule a Vienna. Pensa il destino di questa giovane donna: ha vissuto prima l’occupazione nazista e poi la dittatura comunista.”


“Prima una peste e poi l’altra.”


“Un suo collega jugoslavo è stato arrestato e ucciso dai bastardi della polizia segreta di Kádár. Con la repressione, hanno arrestato suo marito, pure lui biologo. Agnes studia come si formano le proteine e il ruolo dell’RNA, un acido nucleico simile al DNA, ma più instabile: un tema scientifico nuovo e bellissimo. Due anni fa è riuscita ad avere un permesso per venire a Parigi e mi ha fatto visita al Pasteur. Ha tenuto un seminario sulle sue ricerche a Budapest e le ho suggerito di indagare gli effetti degli antibiotici sulla sintesi di proteine. L’ho invitata a cena a casa, c’era anche mio fratello Philo. È lì che ci ha raccontato tutta la sua storia di oppressione in Ungheria.”


“Ho capito, vi siete emozionati e mobilitati.”


“Lo avresti fatto anche tu. Philo aveva già aiutato diversi rifugiati e dissidenti ungheresi quando stava in Svizzera. Conosce buoni finanziatori per queste imprese. Le abbiamo promesso di darle una mano per scappare dall’Ungheria insieme al marito. Chi l’avrebbe mai detto: sto riprendendo contatto con tutte le mie vecchie conoscenze della clandestinità per organizzare la fuga.”


“E come pensate di fare?”


“Guarda, la prossima volta che vengo a trovarti ti racconto i tentativi che abbiamo fatto fin qui, non hai idea della follia dei piani di evasione che ci è toccato inventare. Tra alcuni giorni proviamo con un circo itinerante dell’Est.”


“Un circo?”


“Sì, un circo, dovrebbe funzionare, non controlleranno tutte le gabbie alla frontiera.”


“Vuoi mettere quei due ragazzi insieme alle tigri e ai leoni? Jacques, ti si è ringiovanito il viso mentre parli di questa pazzia: hai ritrovato lo spirito della Resistenza?”


“Ma no, è solo una questione di dignità umana e di democrazia.”

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 28 febbraio 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del capitolo terzo

Sfidare la finitudine con il progresso

Quel che resta dei campi, lo coprirebbe comunque di rovi la natura con la sua forza, se la forza dell’uomo non resistesse, abituata, per sopravvivere, a gemere sul robusto bidente e a solcare la terra premendo l’aratro. Se voltando col vomere le zolle feconde e soggiogando il suolo non li destiamo alla vita, i raccolti da sé non potrebbero spuntare nell’aria serena; e a volte comunque, ottenuti con grande fatica, quando già nei terreni si coprono tutti di foglie e di fiori, li brucia col calore eccessivo il sole nel cielo, o li devastano piogge improvvise e gelide brine e con vortice sfrenato li squassano raffiche di vento.


LUCREZIO, De rerum natura, libro V, 206-217


Che fatica vivere come natura comanda. Il potere divino – discetta il poeta – non avrebbe mai creato una natura così difettosa, improntata a vizi tanto gravi. Non ci avrebbe gettato in un mondo pieno di rupi, deserti, paludi, neve, rovi, selve, geloni, terra dura che fa dannare, fiere assetate di sangue, malanni di stagione, bambini inermi che muoiono. La natura è in gran parte inospitale, inclemente, segno che non è stata fatta per l’uomo. Anzi, la forza dell’uomo, e le sue speranze di emancipazione, risiedono nel resistere strenuamente alla natura. Dobbiamo lottare contro di essa, essendo noi stessi natura, per affermarci, per affrancarci dal suo giogo. La specie umana – sembra suggerire Lucrezio – è da sempre contronatura.


L’agricoltura stessa, prototipo di civiltà e assioma di apparente naturalità, è una millenaria opera ingegneristica di trasformazione e di addomesticazione della natura e dei paesaggi, di piante e animali. Non fu una rivoluzione trionfale, ma una faticosa transizione. Aratro e vomere che fendono la terra e la rivoltano, facendo produrre al suolo un sovrappiù che, di per sé, non produrrebbe mai, conducendo una vita per i più grama in società classiste: ecco ciò che siamo da una dozzina di millenni.


Conquiste di civiltà

Anche questa, dopotutto, è paradossale rivolta contro la finitudine: sfidare con il sudore la natura ostile e avara da cui proveniamo e che ci condanna a essere mortali. Tra il naturale e l’artefatto non sussiste, infatti, alcuna dicotomia. La natura ci ha dato le facoltà per concepire e realizzare le ardite tecniche discusse nel capitolo precedente e, viceversa, saranno quelle tecniche a plasmare gli ambienti che, in futuro, saranno per noi “naturali” e ci modificheranno, anche sul piano biologico. La natura, se presa alla lettera, è di destra. Non c’è eresia, diversità, eterodossia che non sia stata condannata perché contronatura. Non c’è tiranno, ideologo e fanatico invasato che non ami follemente quelle che, a sua discrezione, sarebbero le “leggi di natura”. Il teocrate che vuole decidere con chi dobbiamo andare a letto userà la natura come argomento principe. La natura è tradizione, è cosa già scritta, è ordine precostituito, è l’aver sempre fatto così, è conservazione e nostalgia. La natura presa alla lettera è fascista.


Ne deriva, per converso, che superare i limiti naturali, coltivare il progresso civile e morale, indirizzare la scienza e la tecnologia verso il benessere sociale più inclusivo, distribuire le risorse per abbattere le disuguaglianze naturali, elettrificare, portare acqua potabile, contestare ogni oppressione che brandisca le presunte leggi di natura come un’arma, ebbene, tutto ciò dovrebbe essere di sinistra. In generale, rompere le catene della natura è di sinistra. Non lo è, invece, il voler tornare a catafratti equilibri naturali, a immaginari idilli, a paradisi perduti che in realtà nascondono il volto, disfatto dalle sofferenze, dei padri.


Si spalanca, dunque, una seconda possibile via per sfidare la finitudine. Siamo mortali, d’accordo, irrimediabilmente, ma almeno facciamo parte di una storia più grande, di un’impresa collettiva, dentro la quale il nostro contributo non andrà perduto. Il progresso sociale, civile e politico dell’umanità ci dice che siamo i tasselli, ancorché finiti, di una storia che non finisce e che accumula conquiste di civiltà. Il singolo muore per sempre, ma ha in qualche modo scalfito la morte (e sfidato la natura), se ha contribuito a questa marcia dell’umanità, al compito di solidarietà per costruire un mondo più giusto, senza guerre, senza violenza, senza oppressione del più forte sul più debole, senza menzogna.


Una messe di dati convincenti conferma quest’idea. Dopo il duplice bagno di sangue dei recenti conflitti mondiali, e forse anche in reazione a quelli, se adottiamo un insieme di parametri oggettivi che misurino lo stato di benessere umano (salute, disponibilità di cibo e di mezzi, sicurezza, libertà individuali, alfabetizzazione, estensione dei diritti e così via), l’inizio di questi anni Sessanta dovrebbe essere all’insegna dell’ottimismo.


L’aspettativa di vita media degli esseri umani, alla nascita, è rimasta ferma intorno ai 35 anni fino alla metà dell’Ottocento, in Europa e in America settentrionale (tra i 29 e i 30, mediamente, nel resto del mondo). Poi ha cominciato a salire inesorabilmente. Nonostante le guerre, la pandemia dell’influenza spagnola e la mortalità infantile, ha superato i 40 anni in Africa, i 50 in Asia, i 60 nelle Americhe, mentre in Europa e in Giappone si avvicina ai 70. Nella prima metà dell’Ottocento, in Europa, i bambini morivano prima dei 5 anni in una percentuale che variava da un terzo alla metà. Su dieci figli, vederne morire tre, come successe a Charles Darwin, era la norma. Dal 1945 a oggi siamo invece scesi dal 5 al 3%: la morte di un figlio è diventata una sciagura rara nel nostro continente. Anche la salute delle partorienti, grazie all’igiene, è molto migliorata: tra la fine del Settecento e oggi la percentuale di donne che muoiono durante il parto è calata drasticamente. Dati analoghi si ritrovano nell’aspettativa di vita media dopo i 30 e i 50 anni (quindi al netto della mortalità infantile) e nella durata della qualità della vita, cioè negli anni che viviamo senza malattie debilitanti e disabilità gravi.


La lotta contro il principale alleato della finitudine, la malattia, registra in questi anni vittorie memorabili, per le quali stiamo accumulando un enorme debito di gratitudine nei confronti della scienza, a cominciare dalla teoria microbica dei morbi che, grazie a giganti come Louis Pasteur, ha rivoluzionato le nostre esistenze, oltre che la medicina. Diamo spesso per scontato ciò che solo un secolo fa non lo era: l’anestesia, gli antisettici, le trasfusioni di sangue, le antitossine, gli antibiotici, i vaccini, la pastorizzazione, le reti fognarie pubbliche, l’acqua pulita e trattata con il cloro, i lavaggi delle mani e dei denti, la sterilizzazione degli strumenti chirurgici, il controllo delle malattie infantili, l’eradicazione della malaria da un numero crescente di Paesi. Questi sono indubbiamente progressi nel senso più nobile del termine.


E tutto lascia pensare che continueranno. Il 12 aprile di cinque anni fa venne annunciato al mondo che il vaccino di Jonas Salk contro la poliomielite era sicuro ed efficace, e tutti ricordiamo i festeggiamenti negli Stati Uniti: la gioia, le campane, le preghiere, il sollievo per aver trovato un’arma che, nel tempo, debellerà questa terribile infezione virale. L’anno scorso, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato la campagna mondiale per l’eradicazione del vaiolo. Altre malattie sono nel mirino, come tetano e difterite. Sei anni fa a Boston è stato isolato il terribile virus del morbillo, che uccide ogni anno milioni di bambini nel mondo, e si sta lavorando alacremente al vaccino. I primi trattamenti farmacologici contro il cancro, per quanto ancora molto tossici, cominciano a dare i loro frutti. Quindi è prevedibile che la curva dell’aspettativa di vita salirà ancora di più.


Ritroviamo dati simili in relazione alla disponibilità di cibo. Il numero di calorie pro capite è in costante crescita da inizio Settecento, in Europa, con una potente accelerazione in Francia dal 1830 in poi. Diminuisce il numero assoluto, nel mondo, di bambini sottonutriti e rachitici. Nel 1947 la percentuale globale di persone che non avevano accesso a un’alimentazione completa era del 50%. Ora siamo sotto il 40%, benché la popolazione complessiva sia in aumento e abbia superato i 3 miliardi. Il reddito mondiale si è triplicato nell’ultimo mezzo secolo, nonostante le devastanti turbolenze di questa fase storica e la crisi del 1929. La porzione di esseri umani che vivono in condizioni di povertà estrema è ancora intollerabilmente alta, ma in termini assoluti va riconosciuto che sta gradatamente diminuendo.


Anche l’istruzione di base e la scolarizzazione sono mediamente in aumento nel mondo. Per tutte queste ragioni, va ribadito in modo limpido e senza ombre che la scienza ha migliorato considerevolmente la nostra vita materiale. I bei tempi andati sono quasi sempre il frutto di cattiva memoria. Certo, questi miglioramenti del benessere umano hanno subìto fluttuazioni significative e arretramenti, accelerazioni e stagnazioni, ma nel complesso le tendenze sono positive. L’evoluzione delle istituzioni umane, delle conoscenze, della tecnica e della medicina ha oggettivamente ridotto la quantità di dolore nel mondo, offrendo a un maggior numero di persone gli strumenti per condurre un’esistenza dignitosa, se non proprio felice.


Queste evidenze ci portano allora a pensare che proprio la vita politica sia una possibile risposta al significato dell’esistenza individuale, una valida sfida alla finitudine umana. Come eroi omerici, sconfiggiamo la morte grazie a gesta coraggiose in battaglia e alla gloria che ne consegue, consapevoli che la vera condanna sarebbe l’oblio, non la fine fisica del nostro corpo. Pur consci del potere incontrastato della morte, non smettiamo mai di lottare, non ci accontentiamo, vogliamo che resti di noi un ricordo indelebile, che si dica di noi che abbiamo vissuto, che siamo stati umani nel pieno significato del termine.


L’azione politica ha questo di unico: l’uomo può creare da sé i propri valori, senza soccorsi dall’esterno. Mette al mondo il nuovo, lo progetta. Solo la creazione artistica fa altrettanto. Riesce a mettere provvisoriamente in scacco l’angoscia, senza ricorrere alla dismisura delle fedi e delle ipostasi, ai tradimenti del finito. Dà un senso all’esistenza del singolo, dentro un mondo senza senso. La politica, dunque, è nobilissima arte, soprattutto se fatta da uomini che conoscono il prezzo della vita.


Possiamo dunque battere la morte attraverso l’azione politica e sociale, fino al parossismo di morire per sconfiggere la morte? Se l’eroe lotta per la collettività, aggira la morte attraverso l’impegno solidale, muore per la propria città, per la patria, per la libertà, per resistere all’oppressore. In effetti, la sua finitudine sembra indebolita. Darsi una norma etica e sociale di comportamento è una seconda vita che ci emancipa dalle necessità della natura e ci rende liberi di costruire un mondo compiutamente umano. Attraverso l’agire politico, realizziamo le potenzialità umane, siamo felici e sfidiamo l’oblio che calerà su di noi dopo la morte. Essere parte, orgogliosi e grati, di questo progresso umano è dunque motivo sufficiente per avere meno timore della finitudine?


Le ambivalenze del progresso

Ecco alcune ragioni per rispondere che no, purtroppo nemmeno le “magnifiche sorti e progressive”, nemmeno la condotta esemplare e la gloria omerica ci spalancano le porte di un’eternità materiale e collettiva. Innanzitutto, abbondano gli esempi di segno opposto. Permangono forti e crescenti disuguaglianze tra diverse aree del mondo e tra i pochi che hanno sempre di più e i molti che hanno sempre di meno. L’aumento della spesa sociale nei Paesi più sviluppati, a partire dall’immediato dopoguerra, non sembra in grado di mitigare queste disparità. Il colonialismo è una piaga suppurante di tremenda ingiustizia che ci copre di vergogna. Genocidi, guerre, repressioni colonialiste, conflitti tra potenze regionali e guerre civili interne ai Paesi non accennano a diminuire e restano una triste abitudine di regolazione degli affari internazionali, perfino dopo il trauma della Seconda guerra mondiale. I morti a causa di crimini violenti e di incidenti sul lavoro diminuiscono troppo lentamente, con frequenti recrudescenze in base al contesto sociale e politico.


Anche le democrazie non se la passano benissimo: nel 1922 i Paesi governati da democrazie costituzionali erano più numerosi di quelli che resistono oggi, in questo lungo dopoguerra sfociato nell’equilibrio del terrore nucleare. Nonostante la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le violazioni dei diritti umani nel mondo non accennano a diminuire, così come il numero dei Paesi che mantengono la barbara usanza della pena capitale a dispetto della sua comprovata inutilità e brutalità. In Francia, la ghigliottina continua a lavorare. Nella civile Europa, solo Norvegia, Svezia, Islanda, Svizzera, Belgio, Austria, Portogallo, Germania Ovest, Paesi Bassi, Italia, Andorra e San Marino l’hanno abolita di fatto per tutti i reati in tempo di pace. In alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti l’omosessualità è ancora illegale.


Inoltre, le conquiste elencate non riguardano tutte le parti del mondo e non sono irreversibili. Si può tornare indietro, si può regredire alle sofferenze dei padri e degli avi a causa di altre componenti della natura umana che controbilanciano e spesso vanificano la nostra curiosità, l’innovazione e la creatività, ovvero: tribalismo, conformismo, pensiero magico, ricerca di capri espiatori. Dunque, l’autore di quel progresso non fornisce sufficienti garanzie intellettuali di poterlo gestire indefinitamente. Le soluzioni ai problemi che affliggono l’umanità tendono a creare nuovi problemi. Pertanto, dalle tendenze positive degli ultimi due secoli non siamo legittimati a estrapolare andamenti futuri dello stesso segno.


Volendo restare ottimisti, le conquiste culturali dei padri sono ereditate dai figli, che le danno per scontate essendovi nati dentro, ma il progresso in sé si riguadagna ogni volta palmo a palmo. Richiede manutenzione quotidiana, vigilanza e protezione da nemici intuitivi che non se ne sono andati: sono da qualche parte là, nel deserto, e torneranno ad assaltare il fortino. Ma non sono soltanto i pericoli esterni a minacciare quell’edificante narrazione. I frutti del progresso hanno un prezzo intrinseco, che non sempre si paga subito. Gli avanzamenti materiali, sociali e culturali possono perfino gettare le basi della propria regressione se, per esempio, peggiorano le condizioni ambientali, depauperano le risorse e aggravano le disuguaglianze alimentando conflitti e instabilità.


Lo slancio della ricostruzione dopo il cataclisma nazifascista, gli investimenti nelle infrastrutture, nella ricerca e nelle tecnologie, la competizione tra i due blocchi ci hanno spinto nel vortice di una grande accelerazione delle attività umane. Leggiamo sui giornali le cronache della costruzione di enormi dighe, porti e strade; dell’uso massiccio di fertilizzanti; del consumo di acqua e di petrolio; del circuito autorinforzante produzione-consumo. I geologi del futuro troveranno una macabra firma in calce a questo “progresso”: carbonio-14, plutonio-239, plutonio-240 e altri isotopi radioattivi (il cui decadimento durerà anche milioni di anni, come nel caso dello iodio-129) che stiamo disseminando dal 1945 sulla superficie terrestre, prima con l’esplosione delle bombe atomiche sganciate sulla popolazione civile in Giappone e poi con le decine di test nucleari durante i quali, ogni anno, le potenze atomiche si sfidano follemente facendo brillare senza remore ordigni di crescente potenza nei poligoni di superficie, nel sottosuolo e perfino nell’atmosfera.


Il progresso conferisce all’uomo, a questa specie disperata e imperfetta, sempre più potere. Ma quanto più grande è il potere, tanto più pericoloso è il suo abuso. Nessuna descrizione oggettiva delle conquiste dell’umanità può dunque prescindere da un elemento altrettanto oggettivo: l’ambivalenza dei comportamenti umani e la loro scarsa lungimiranza. Non era mai successo prima, nell’evoluzione, che una specie inventasse armi così potenti da consentirle di porre fine, volendolo, alla propria esistenza. Basterà solo che schiacci alcuni bottoni e chi utilizzerà l’arma avrà la certezza di essere annientato insieme al suo nemico. Abbiamo creato strumenti efficacissimi per uccidere le persone: 17 milioni di morti nella Prima guerra mondiale e più di 50 milioni nella Seconda.


L’equilibrio tra la vita e la morte è diventato ambivalente. Prendiamo la crescita demografica. In termini di progresso umano è una buona notizia, perché quando i Paesi si sviluppano, la mortalità infantile diminuisce e il tasso di natalità supera quello di mortalità. Nascono più individui di quanti ne muoiano: vince la vita. Tuttavia, se la curva demografica dovesse continuare a salire in questo modo (2% annuo nel 1959), diventerebbe un serio problema. Dovremmo con ciò dire che fare figli è un crimine contro la natura e contro l’umanità? Astenersi dal generare sarebbe etico verso il pianeta, da un certo punto di vista, ma in contraddizione con l’imperativo darwiniano al quale anche noi umani soggiacciamo. Il paradosso nasce dal fatto che, forse, dovremmo ridefinirci come specie invasiva. Siamo come i batteri sulla piastra di Petri. Come l’alga tossica nel lago, che prolifera grazie all’azoto e al fosforo dei fertilizzanti agricoli. La correlazione tra crescita demografica e degrado ambientale è chiara, d’accordo. Ma non abbiamo anche noi umani, come ogni specie, il diritto di perpetuare le generazioni e passare i nostri geni alle successive? Certo, dobbiamo promuovere l’educazione e la libertà delle donne, la scelta procreativa libera, l’istruzione, la pianificazione familiare non imposta. Ma i nostri geni, e la miopia del tutto subito, remano contro. Non si esce dal paradosso.


Come ogni azione umana, i progressi generano effetti collaterali non intenzionali, retroazioni, controindicazioni. Il fatto di avere a disposizione maggiori risorse ed energia è un bene per strati sempre più ampi della popolazione umana, ma non è necessariamente un bene per gli ecosistemi. Il consumismo di massa di questi anni, la famelica necessità del capitalismo di espandersi indefinitamente, il boom dei commerci mondiali e dei veicoli a motore, il dollaro come valuta mondiale di fatto, l’allargamento del ceto medio, la corsa all’industrializzazione nei due blocchi, il consumo crescente di energia, l’agricoltura industriale: tutto ciò ha un prezzo che la società di mercato non mette a bilancio.


Trappola evolutiva

Solitamente, i cantori del progresso, di questo progresso ambivalente e dilaniato, adottano la strategia di bollare gli scettici come reazionari, passatisti, antistorici e nostalgici. Come se la vigilanza critica sulle storture della grande accelerazione in cui siamo immersi fosse sinonimo di ingratitudine verso i benefici che la scienza e la tecnica ci stanno regalando. Esiste, certo, un’attitudine reverenziale e sentimentalistica verso la natura che nasconde tendenze conservatrici, animistiche e talora misantrope. Ma sarebbe demenziale accusare di incoerenza chi stesse denunciando in pubblico i danni del progresso solo perché sta usando un microfono, cioè un prodotto di quel progresso. La civiltà non è un ricatto morale, ma un’impresa aperta.


Il progresso possiede anche un altro difetto: l’impressione di ineluttabilità e il conformismo che ne consegue. La protezione dell’ambiente non piace ai comunisti perché prima vengono gli operai; non piace alla destra perché teme interventi statali; non piace ai padroni perché porta a dubitare del capitalismo; non piace alla Chiesa perché di controllare le nascite non se ne parla. La mondializzazione mercantile e produttiva diventa così l’unico progresso possibile, al prezzo di ingiustizie e depredazioni, ma in realtà è un’ipostasi del progresso, che poi altro non è se non la nuova versione tecnico-scientifica dell’ipostasi della Storia: si identifica il progresso, lo si astrae e lo si trasforma in un idolo.


Un progresso ineluttabile ha bisogno di basi antropologiche, che però sono di palta. Per esaltare gli avanzamenti inesorabili della civilizzazione è necessario, per esempio, supporre che la partenza fosse un abisso di brutalità e abiezione. Il pessimismo antropologico ci dice che, agli inizi, i nostri antenati erano scimmie assassine, cacciatori spietati divisi in bande, bestioni stupefatti impegnati nelle basse funzioni della sopravvivenza. Se invece scoprissimo, come alcuni indizi negli studi comparati sul comportamento animale e umano lasciano ipotizzare, che alcuni tra i nostri parenti più prossimi – gli scimpanzé pigmei o “bonobo” osservati da Ernst Schwarz negli anni Venti e riconosciuti come specie distinta sei anni fa – possiedono notevoli capacità di socializzazione e di cooperazione pacifica, allora tutto questo bisogno di una civilizzazione redentrice verrebbe meno. Forse siamo meno aggressivi “per natura” di quanto pensassimo e la guerra organizzata resta, secondo la documentazione archeologica, un’invenzione recente dell’umanità.


Sul piano evolutivo, le ambivalenze del progresso sembrano delineare una dinamica ricorsiva. A differenza degli scimpanzé, noi umani – attraverso la cultura, la scienza e la tecnologia – trasformiamo il mondo che ci circonda. Tuttavia, non ci siamo certo emancipati da quel mondo naturale e dobbiamo conviverci, adattandoci a esso. Se, dunque, il saccheggio delle risorse terrestri o un conflitto nucleare dovessero sconvolgere la biosfera, ci troveremmo nella condizione assurda di doverci adattare, a fatica e a un prezzo altissimo, a un mondo da noi stessi perturbato. La trappola del progresso non è, quindi, una paura irrazionale, ma una possibilità concreta prevista dalla teoria darwiniana dell’evoluzione.


Quando si è dentro una trappola, e magari ci si è entrati lentamente, con passi impercettibili, si rischia di non vederla più. Ci si accorge del suo scatto letale quando è troppo tardi. Per questo è indispensabile una costante attenzione critica. Sarebbe insensato e puerile ergersi contro il progresso in quanto tale, ma non si può nemmeno acconsentire alle sue conseguenze più deleterie. Occorre rivoltarsi contro il lato malato del progresso, non con spirito reazionario, bensì libertario. Il male centrale della grande accelerazione è infatti la sua dismisura, la crescita illimitata, il disprezzo per i limiti: umani e planetari.


La trappola del progresso ci obbliga a un altro passaggio stretto. Come già scriveva Lucrezio, gli stadi apparentemente “naturali” del progresso umano sono, in realtà, il frutto di accidenti storici e non di un disegno. Alla fine si va verso una situazione migliore; c’è una tendenza, d’accordo, ma conquistata passando attraverso un susseguirsi di incidenti. La civiltà non è già data all’inizio, perché la storia non è nemmeno la lenta caduta da una primordiale e saturnina età dell’oro. Non è un lungo tradimento. È semmai un percorso: si è andata facendo nel cammino, con le sue forze e le sue contraddizioni.


Fatto sta che tutto si logora, anche le imprese umane, e in certi momenti di stanchezza il passato ci sembra più vigoroso. Non c’è impero che non abbia già i suoi barbari alle porte. Scrive Lucrezio (libro II, 1164-1175):


E ormai, scuotendo il capo, sempre più di frequente il vecchio aratore sospira che sono andate sprecate le sue grandi fatiche e quando confronta col tempo passato il presente, spesso loda la fortuna del padre. Anche il triste piantatore di una vigna vecchia e avvizzita accusa il corso del tempo e si lagna della sua epoca e mugugna che la gente antica era piena di devozione e senza disagi sopportava la vita in angusti poderi, pur essendo ben più piccola una volta la parte di terra per ciascuno; e non sa che tutto pian piano si corrompe e va alla tomba, stremato dal lungo cammino della vita.


Il progresso è dunque relativo, instabile, imprevedibile, incerto. Possiamo fare affidamento su di esso fino a un certo punto, mai fideisticamente. È una sfida incessante, non una consolazione. Un’immortalità a intermittenza. Potremmo dirci pessimisti, ma non per questo rinunciatari. O ancor meglio, ottimisti, ma con beneficio d’inventario. Non possiamo aver fede nel migliore dei mondi possibili, ma nemmeno consegnarci a un nichilismo angoscioso. Teniamoci stretta l’ambizione, di impronta illuministica, per cui comprendendo il mondo attraverso la scienza potremo migliorare la condizione umana, affrancandola anche dai suoi vincoli naturali. Ma non facciamo del progresso una trionfale filosofia della storia.


Solo un folle può infatti pensare che l’uomo, grazie alla scienza e alla tecnica, possa impadronirsi una volta per tutte della natura e plasmarla a suo piacimento. Eppure, di quella follia sono pieni i nostri anni. Fare un uomo nuovo dentro una natura nuova è l’incubo dei totalitarismi, è il crimine del lamarckismo di Stato staliniano che ha procurato miseria, carestia, fame e morte per stenti a milioni di innocenti. Anche sulla storia, infatti, noi proiettiamo le nostre allucinate speranze di eternità.


La dittatura della Storia

L’idea positivistica di un’evoluzione continuativa e ascendente della biosfera fino all’umanità e ai suoi progressi si è rivelata ingenua e infondata. Non c’è alcuna forza ignota che agisca nell’universo spingendolo verso la coerenza, la specializzazione, l’ordine. Addomesticando la storia, o rintracciando forzatamente in essa una logica e un senso, stiamo di nuovo ripristinando l’antica alleanza tra uomo e natura. Ma la scienza del Novecento ha infranto questo sogno una volta per tutte.


Ecco che torna il paradosso dell’assurdo inscritto nell’evoluzione umana. Le categorie innate del nostro cervello si sono evolute in modo tale da farci accettare le leggi tribali e per darci spiegazioni onnicomprensive. Abbiamo inventato istituzioni, miti e religioni per lenire l’angoscia di non trovare un significato all’esistenza. La fede nel progresso è l’ennesimo retaggio di questa paura del vuoto.


La ragione scientifica, però, è sempre autocritica e ci fa comprendere che anche il progressionismo scientistico fa parte di questa illusione. Molti vedono nella scienza solo applicazioni, conseguenze pratiche in termini di potenza e di ricchezza, e si consolano all’idea dello sviluppo prodigioso dell’umanità, ignorando il suo cammino ambivalente e aperto anche verso le tenebre. Detto altrimenti, il progressionismo non coglie il messaggio più profondo della scienza: l’esigenza di una revisione totale delle basi dell’etica e di una rottura radicale con tutte le forme di animismo.


Ciò spiega lo strano fenomeno per cui viviamo in società che si alimentano delle applicazioni della scienza, ma sono al contempo impregnate di valori prescientifici, se non antiscientifici. È l’ennesima metamorfosi dell’animismo. Le società liberali occidentali propugnano come base della loro morale una scoraggiante miscellanea di religiosità giudeo-cristiana, di progressionismo scientistico, di fede in alcuni diritti naturali dell’uomo e di pragmatismo utilitaristico. Le società marxiste, dal canto loro, sono a loro volta dentro una grande narrazione animistica: la religione materialistica della storia. Le une e le altre sono in sostanza ostili al messaggio più profondo della scienza, che è l’incertezza dei nostri destini. Che è la finitudine.


L’evoluzione, infatti, non è una legge necessaria. Semmai lo è la conservazione. La prerogativa prima degli esseri viventi non è evolvere, ma cercare di conservarsi. Poi si innescano eventi – le mutazioni e la conservazione degli accidenti – che producono l’evoluzione. L’evoluzione non è una legge, ma un fenomeno, un processo contingente. Quelli che pensano che vi sia una norma ascendente di progresso per tutto – il cosmo, il pianeta, la vita, l’intelligenza umana – sono animisti.


Poco sopra abbiamo scritto che l’idolatria del progresso prevede un inizio di infernale brutalità, dopo il quale si può solo migliorare. Il lato complementare di quest’idea è che all’altro apice, nel futuro, vi sia un eden di opportunità. Le utopie politiche con un’età dell’oro alla fine dei tempi pongono l’avvenire della società e dello Stato come fine supremo. Legittimano tutto per quel fine: ogni mezzo è giustificato, compresi la repressione delle libertà individuali, l’uccisione di Stato, il cinismo politico, il moto perpetuo di conquista, la ricerca di sempre nuovi nemici. Così, i totalitarismi, religioni senza trascendenza, uccidono in massa condannati senza speranza. Se il valore è alla fine del tempo e se un’immanente necessità guida la Storia, gli interpreti di questa necessità avranno potere assoluto.


Questa Storia con la maiuscola impone, quindi, ideologie che vogliono ricreare il mondo e rifare l’uomo. Impone una volontà generale, punendo con ferocia il sommo peccato del dissenso, contro i singoli punti di vista, le concrete volontà autonome, il molteplice empirico dei ciascuno. Nascono altre ipostasi astratte, come il Genere Umano e l’Umanità, generalizzazioni plebiscitarie che soffocano le volontà concrete dei singoli. La Storia diventa il tribunale che giustifica ogni cosa, purché sia di successo, purché vittoriosa a posteriori. L’obbedienza, il conformismo, il realismo politico più cinico sono i suoi cavalieri. Ma la storia non può mai essere innalzata a oggetto di culto. La storia è solo un’occasione, da rendere feconda con la nostra rivolta vigile contro tutti gli oppressori.


Ovviamente, l’età dell’oro, come una profezia, è sempre rinviata un po’ più in là. Nel frattempo, ci resta l’inferno del presente. Se il fine, obbedire alla Storia, giustifica ogni mezzo, allora tutto è lecito e non resta alcun valore nell’individuo e nelle sue libertà. Dove qualsiasi cosa ha perso di senso, prevale il potere del più forte, la sopraffazione arbitraria. Questo è il vero nichilismo di oggi, non il fatto di vivere in un universo senza senso. Il vero nichilismo si manifesta nel fascismo, esaltazione del carnefice da parte del carnefice stesso, tanto quanto nel comunismo, l’ancor più drammatica esaltazione del carnefice da parte delle vittime. Il primo libera i pochi per soggiogare tutti gli altri; il secondo libera tutti asservendo tutti, provvisoriamente, con la promessa di un mondo senza oppressione, rinviato sine die. Il culto della produzione li accomuna.


Il doppio nichilismo di Stato è quello dei totalitarismi, dove tutto è permesso dal realismo politico, con i suoi funzionari, le burocrazie, i sacerdoti, i partiti apparato, le nuove chiese. A essi si aggiunga il nichilismo borghese e mercantile, che giustifica ogni mezzo per conservare i privilegi, attraverso formalismi e ipocrisie. Quando i principi astratti vincono sulle intenzioni più nobili, la Storia diventa un lungo castigo poiché solo alla fine dei tempi si gusterà il vero premio.


Tutte queste concezioni, nemiche della democrazia e della libertà, considerano la natura una materia inerte a disposizione, da trasformare, plasmare, convertire in prodotto. Un oggetto, una risorsa sulla quale signoreggiare. Distruggono il bell’equilibrio solare tra l’elemento umano e la natura, il consenso dell’uomo al mondo, che solleva e fa splendere tutto il pensiero classico greco, e che ora è invece infranto a tutto profitto della storia e di un’ambigua e comoda idea di progresso che giustifica il presente promettendo un avvenire prosperoso. Ma l’avvenire è un imbroglio: è la speranza che il padrone concede di buon grado ai suoi schiavi.


Per tutte queste ragioni, di dettaglio e generali, non possiamo sfidare la finitudine mediante la narrazione del progresso e le sue promesse incerte. La Storia non è un paravento dietro il quale dissimulare i nostri delitti. Dobbiamo lottare nel presente, nell’unica vita che ci è data, senza sperare che l’agire politico ci assicuri immortalità. La vita politica è fallibile, contingente, irrazionale, ed è a sua volta figlia del desiderio e dei suoi turbamenti. Dobbiamo tornare a volgere il nostro sguardo contemplativo sulla natura, in cerca di altre strade, più razionali, per rivoltarci contro la finitudine. Contro la tirannia della storia, dobbiamo trovare una ragion d’essere anche nelle trame della natura, rivendicare una parte intatta del reale che abbia la sua bellezza, dacché si può rifiutare tutta la storia e tuttavia essere in sintonia con il mondo delle stelle e del mare.


In un cosmo rotto, infranto, che non ha più direzione né centro, non ha disegno, dove non c’è più alcuna unità che regga il tutto, dentro il quale la nostra mente si ritrova fallibile e parziale, incontrando sempre le sue colonne d’Ercole, i suoi limiti costitutivi e ancestrali, ebbene, in tali condizioni la conoscenza diventa un vagare senza più meta in un universo che ha perso il suo ordine, ma conserva la sua bellezza non sottomessa. C’è una solitudine immensa cui dare significato. Eppure, qualcosa resta, non di politico ma di biologico, una filigrana virtualmente eterna, alla quale ora, disperatamente, ci appiglieremo per rinnovare la nostra ribellione alla condanna del finito.


Tornerà la peste

Beninteso, lo smacco del progresso come antidoto alla finitudine non implica alcuna rinuncia all’agire. Il male del mondo non lo permette. Si disobbedisce alla storia, restandovi dentro. La grande depressione, le due carneficine mondiali, il degrado ambientale, le armi di distruzione di massa, le epidemie… tutto ciò svela la nostra vulnerabilità, nel senso che percepiamo chiaramente la possibilità della finitudine, se non proprio della nostra specie in quanto tale, che ha dimostrato finora ottime dosi di adattabilità, sicuramente del mondo così come lo conosciamo. Le ambivalenze del progresso, se non altro, lasciano aperti gli esiti della storia, della storia con la minuscola, la storia come possibilità e non come necessità. Su quelle ambivalenze possiamo agire, spostando la bilancia da una parte anziché dall’altra, facendo con onestà il nostro dovere.


In altri termini, non possiamo migliorare il mondo in generale, ma possiamo cambiarlo in meglio nella contingenza della nostra epoca concreta. Prendiamo, per esempio, un nemico non politico, ma biologico. Fa parte della nostra condizione assurda essere prede e ospiti di agenti patogeni di ogni tipo: parassiti, batteri, virus. Più siamo sociali, globalizzati e diffusi, più la peste nelle sue varie forme ci colpirà nuovamente e duramente. La malattia tornerà, essendo connaturata alla nostra condizione. Ma noi possiamo fare molto, adesso. Possiamo salvare vite, accudirle, lavorare, pulire, guarire, sacrificarci, insomma provare a uscirne, ogni volta, con fatica di Sisifo.


Che sia di Sisifo, quella onorevole fatica, lo spiega l’evoluzione. Gli agenti patogeni sono esseri semplicissimi, rispetto a noi. Pensiamo al virus influenzale che tra il 1918 e il 1920 fece più di 50 milioni di morti nel mondo. Un pacchetto di acidi nucleici a singolo filamento, avvolto in una capsula di proteine, piccolissimo (nell’ordine dei milionesimi di metro), fece ammalare mezzo miliardo di persone, depresse le Borse, rallentò tutti i comparti produttivi, limitò gli spostamenti e gettò l’umanità nella paura e nell’incertezza. Una fluttuazione all’indietro, nella grande marcia del progresso. I virus sono così piccoli da sembrare astratti, ma quando l’astratto comincia a ucciderti, bisogna ben occuparsi dell’astratto.


Come al solito, molti pregarono o accarezzarono amuleti; altri invocarono il castigo divino; altri chiesero perdono a una natura matrigna; altri ancora chiusero gli occhi, negarono l’evidenza e dissero che era una grande montatura per farci spaventare. Ma la chiave di lettura era un’altra: la nostra assurda posizione nella natura. I virus sono antichissimi: circolano su questo vecchio pianeta da miliardi di anni. Forse i primi esseri semiviventi sulla Terra erano fatti come loro. Noi invece, goffi primati della specie Homo sapiens, siamo nati tra i 200 e i 300 millenni fa in Africa. Non c’è partita. I virus, colpendo batteri, piante e animali da miliardi di anni, hanno avuto un oceano di tempo per sperimentare strategie infettive ed elaborare contromosse per aggirare le difese immunitarie dei loro ospiti.


I virus usano le cellule come veicoli di trasmissione. Rispondono a un semplice, atavico imperativo della vita: riprodursi, moltiplicarsi, fare copie di se stessi. Sono campioni del mondo nel gioco darwiniano, anche perché accumulano mutazioni con grande rapidità. Noi, al confronto, siamo pachidermi pluricellulari lentissimi. Proprio per questo, le tante specie tormentate dai virus nel corso dell’evoluzione inventarono il sesso: un generatore di variabilità genetica per far sì che almeno una parte dei figli, ognuno diverso dagli altri, fosse resistente all’agente patogeno.


Quando la resistenza innata non basta, subentrano le altre linee di difesa del sistema immunitario. Quindi, tra noi e loro è in corso da sempre una rincorsa evolutiva: noi sviluppiamo gli anticorpi e loro mutano di nuovo; troviamo un vaccino e loro si nascondono per un po’, oppure diventano meno letali, in modo da contagiare più individui. Continuano, insomma, a fare l’elementare, terribile mestiere che praticano dall’alba dei tempi. Un mestiere oggi favorito dal fatto che noi siamo 3 miliardi, viviamo in città e metropoli, viaggiamo ammassati su navi, treni e ora anche aerei. Per chiedere un passaggio e diffondersi, siamo gli ospiti perfetti. Il nostro corpo, per gli agenti patogeni, è un fiorente ecosistema da colonizzare, pieno di risorse.


Insomma, un’oggettiva inferiorità biologica si somma alla nostra incapacità di essere previdenti. Quindi la peste ritornerà. Qualcosa di simile all’influenza spagnola ritornerà. E allora non resterà, ogni volta, che spingere di nuovo il macigno di Sisifo su per la parete, cioè soccorrere i nostri simili, trovare i farmaci e il vaccino, contenere il contagio, educare la popolazione alle norme di igiene, garantire a tutti l’accesso alle cure. La peste tornerà comunque, nel gioco senza fine che è l’evoluzione, ma avremo se non altro fatto il nostro dovere contro l’avidità e la miopia, contro l’ingiustizia verso gli ultimi e verso le generazioni future. L’essenziale, ogni volta, sarà far bene il proprio mestiere, ognuno il proprio. Non ce lo imporrà nessuno, perché l’etica è un atto di libertà, un atto gratuito e autonomo. Abbiamo il dovere di lottare affinché tutti godano di una vita piena, proprio perché quella vita è l’unica possibilità che hanno.


Dovrà essere fatto, anche se la natura umana non cambierà facilmente. All’inizio ci faremo ancora sorprendere. Negheremo, minimizzeremo e poi ci abbandoneremo al panico. Flagelli, pestilenze e guerre colgono sempre impreparati. Poi verrà il tempo della separazione, dell’esilio, della solitudine, della desolazione. Ci si chiederà se, a causa della peste, si diventi migliori o peggiori, ma non valgono verità generali. Certo, microbi e virus sono naturali, naturalissimi. Ciò non toglie che dobbiamo lottare contro di loro, contro ciò che di orrendo l’evoluzione ha creato, contro la morte. Ci sono dei malati e bisogna guarirli, punto.


Non ci si inginocchia, dunque, dinanzi alla peste. La si combatte a viso aperto, con lucidità e scienza, facendo con onestà il proprio mestiere, sapendo che ogni vittoria sarà provvisoria, che la peste è un’interminabile sconfitta. Verrà poi il momento della disperazione e dell’abbrutimento, delle fosse comuni, dei bambini che muoiono. Alcuni sapranno restare uomini e medici, sempre dalla parte delle vittime e degli appestati, rifiutandosi ostinatamente di considerare ammissibile quel male gratuito. Infine, per ragioni che ancora sfuggono alla scienza, la peste come è venuta se ne andrà. Nel tempo della festa e del sollievo, l’oblio e la rimozione cominceranno subito a scavare le loro gallerie. Si negherà contro ogni evidenza quel che è stato, si vorrà tornare a com’era prima. Ma intanto il bacillo non muore e non scompare mai: si nasconde. Tornerà.


Non arrendersi mai al male umano e naturale non è progresso: è dignità nella rivolta. Non ci salva dalla finitudine, non ci consegna alla storia, ma ci nobilita. Il meccanismo del contagio ci lascia, però, un ulteriore indizio, che merita di essere ora esplorato. Il virus dell’influenza spagnola e il batterio della peste condividono la stessa brutale strategia: moltiplicarsi e moltiplicarsi ancora, usando i loro ospiti come veicoli di diffusione. Non devono uccidere troppo presto le loro vittime, altrimenti non fanno in tempo a contagiarne altre. Obbediscono a una logica semplice, dettata dalla loro informazione genetica: trasmettersi, per non finire. In un certo senso, loro hanno sconfitto la finitudine, hanno trovato il modo di fregarla.


Anche noi, in ognuna delle nostre cellule, portiamo informazione genetica. Se abbiamo figli, quell’informazione non muore, ma si tramanda. È tempo di tentare un’altra strada, ispirata dalla peste: quella dell’eternità genetica.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 28 febbraio 1960


Camus lasciò finire la lettura dell’amico. Non sembrava affatto convinto su un punto.


“Scusa Jacques, il capitolo è ottimo, a parte la sviolinata iniziale sul progresso materiale, però secondo me ci criticheranno su un aspetto. Abbiamo messo alla berlina le ingenue ideologie progressionistiche, e va bene. Però sei tu Monod il primo a dire che l’evoluzione, sia quella biologica sia quella culturale, è data dal caso e dalla necessità, dove la necessità è la selezione naturale che si ciba del caso conservato nel DNA, giusto?”


“È corretto, ma non capisco dove vuoi andare a parare.”


“Benché la tua selezione attinga a una fonte di rumore, alla fine genera strutture altamente funzionali e complesse, che sono il meglio possibile nelle condizioni date, obbedendo a una sorta di inesorabile determinazione dentro un campo di necessità rigorosa in cui il caso è bandito. Ma allora la direzione irreversibile dell’evoluzione è rigidamente segnata; ascende verso funzionalità e complessità. Quindi anche tu sei un progressionista!”


“Ma no Albert, non devi avere della selezione naturale un’immagine così impoverita e banale: la solita storia della lotta per la vita, della sopravvivenza del più adatto o, peggio ancora, del più forte. Quelle sono estremizzazioni feroci, semplicistiche e gladiatorie di Herbert Spencer, più che di Darwin. Quel che conta è il tasso differenziale di sopravvivenza e di riproduzione dei singoli individui in seno a una specie. È una questione di probabilità, come quasi tutto nella scienza.”


“Cambia poco, se l’esito è comunque una successione di conquiste, il dipanarsi ordinato di una crescita in determinati valori di sopravvivenza.”


“Non è vero, perché il primo criterio di sopravvivenza di una mutazione casuale è che sia compatibile con l’insieme di un sistema già esistente e già evoluto, con tutti i suoi innumerevoli vincoli, cioè l’organismo.”


“Ah, vedi? Allora la necessità della tua selezione non è così onnipotente.”


“Non ho mai detto che lo fosse! Oltre alle condizioni iniziali vincolanti, c’è il fatto che molte mutazioni sono indifferenti, altre hanno effetti negativi e vengono scartate; solo poche comportano come conseguenza il miglioramento di un organismo e pochissime introducono nuove possibilità. Ma le mutazioni positive, pur essendo rare, avvengono in popolazioni di moltissimi individui nel corso di innumerevoli generazioni e su un vastissimo materiale genetico che si ricombina; quindi, a livello di popolazione, la mutazione è la regola e la selezione naturale agisce sulla frequenza di una certa variante in una popolazione, non sul singolo. La necessità della selezione naturale lavora su un’immensa riserva di variabilità fortuita. È come un’enorme roulette. Tra caso e necessità si instaura una continua dialettica.”


“D’accordo, quindi non è onnipotente. E poi vedi che sei rimasto comunista? Vedi l’evoluzione come una dialettica storica.”


“Ma la smetti di provocare? Che ti prende oggi? Non venivo da tre settimane e ti trovo peggiorato.”


“Lo faccio per rafforzare la nostra argomentazione, Jacques, come fa l’avvocato del diavolo. Anche questa è dialettica…”


“La dialettica di Marx ed Engels non c’entra niente qui. Tanto è vero che l’evoluzione trabocca di stabilità. I piani corporei fondamentali degli animali sono gli stessi da 600 milioni di anni, Albert. La cellula moderna è antichissima. La vera legge, come abbiamo scritto in questo capitolo, è la conservazione: l’evoluzione è una perturbazione creativa di quella conservazione, che si alimenta di accidenti conservati.”


“Noi umani, però, non siamo più dentro una dinamica di questo tipo. Abbiamo la morale, la politica, la consapevolezza dell’assurdo e della rivolta. Nessun animale ce l’ha.”


“Non ci vedo uno iato. Nell’evoluzione può succedere che le attività stesse degli organismi e i loro comportamenti orientino e incanalino le pressioni selettive. Nel nostro caso, la socialità e l’evoluzione del linguaggio simbolico, anch’esse frutto della selezione naturale, hanno a loro volta generato forti tendenze selettive a favore del potenziamento di adattamenti sociali e comunicativi, soprattutto nella competizione tra gruppi. La cultura è una seconda evoluzione, creatrice di un nuovo regno, di idee e conoscenza, quindi anche di nuove pressioni selettive. Capisci?”


“Capisco, ma resta il fatto che, anche se non è onnipotente ed è piuttosto conservativa rispetto alle possibilità offerte dalla roulette della natura, tu descrivi sempre la selezione naturale come se prescrivesse una direzione evolutiva: dal batterio all’uomo. Te l’ho sentito dire nelle tue conferenze.”


“Allora: io dico che il processo evolutivo è irreversibile, questo sì, perché è il risultato di un gran numero di mutazioni casuali indipendenti, di avvenimenti irripetibili. Quindi è statisticamente assai improbabile tornare sui propri passi: il processo è irreversibile. Ma ciò non significa che sia un progresso ascendente verso chissà quale meta. Resta sempre e comunque una gigantesca lotteria. Anche perché un elemento di contingenza è presente pure nell’ambiente esterno: le pressioni selettive cambiano, l’ambiente stesso viene modificato dalle attività degli organismi e dalle capacità degli individui, dalle loro inclinazioni personali. La teoria dell’evoluzione ha bisogno di un contesto ecologico cangiante.”


“Mi sembra che la tua ferrea necessità stia un po’ sbiadendo. Io direi che l’evoluzione è un’esplorazione di possibilità, offerte dal caso. Invece, secondo te, la selezione perfeziona e arricchisce sempre di più gli apparati funzionali degli organismi. Questo è il residuo di necessità che ti concedi?”


“Non dovresti esprimerti così, Albert. La selezione naturale non fa nulla di per sé, non è un agente intenzionale e non ha finalità: è un meccanismo cieco.”


“Non essere pedante Jacques. Anche tu usi un linguaggio finalistico quando descrivi le tue proteine e i tuoi acidi nucleici. È inevitabile nel linguaggio comune, perché la nostra mente è predisposta a narrazioni teleologiche. Tra noi, ciò che conta è capirsi; lo diceva anche Darwin.”


“Va bene, mettiamola così: il punto, secondo me, è che la selezione naturale esprime una tendenza naturale irreversibile a creare strutture sempre più ordinate e complesse, ma ciò non rappresenta né una finalità né una direzione inscritta fin dall’inizio, tanto è vero che è soggetta a molte eccezioni e solo una minima parte degli esseri viventi ha esplorato forme complesse. Il resto sono tutti microbi e bacilli come quello della tua peste.”


“Diciamo allora che è un progresso, ma contingente e provvisorio.”


“In generale, l’evoluzione tende a disobbedire, temporaneamente e localmente, alla freccia del tempo indicata dal secondo principio della termodinamica, cioè la crescita direzionata dell’entropia, del disordine. Poiché il secondo principio considera la statistica complessiva di un sistema chiuso, al suo interno, localmente, si possono formare isole di ordine, cioè di entropia negativa e di informazione, senza con ciò sottrarsi alla crescita netta complessiva di entropia.”


“Fammi capire: se la legge dell’entropia dice che, con il passare del tempo, tutto va alla malora, verso un crescente disordine, e invece i viventi evolvono strutture ordinate, allora significa che la vita va in controtendenza rispetto alla freccia del tempo. Un progresso all’indietro?”


“In un movimento di piccolissima ampiezza e per una brevissima durata rispetto al sistema universo, la necessità della selezione naturale, in effetti, ci fa andare indietro nel tempo, controcorrente rispetto al grande flusso del secondo principio. Gli esseri viventi sono fuggevoli e solitari movimenti di dissenso, destinati alla sconfitta rispetto alla tirannia della crescita inevitabile dell’entropia complessiva. Sono rari e preziosi incidenti, offerti dall’immensa riserva di eventi casuali, mantenuti dalla selezione naturale. L’evoluzione, da questo punto di vista, è una sorta di macchina per sfidare la freccia termodinamica. Ecco perché queste isole di ordine ci sembrano così meravigliosamente architettate, ma è un effetto, non la causa del processo.”


“Mi piace molto questa immagine della vita come dissenso e rivolta contro la tirannia termodinamica! Siamo isole, fragili e provvisorie, di ordine in un mare di disordine crescente. Mi sembra un’efficace rappresentazione della nostra disperata, eppur resistente, condizione. Mettiamola nel prossimo capitolo, quello sul DNA. Comunque, da quanto capisco, la tua è una necessità che deve scendere a patti con non poche limitazioni, quindi non insisterei troppo, nel libro, su espressioni come ‘ferrea’ o ‘inflessibile’ determinazione. Anche perché i presupposti della casualità originaria e degli innumerevoli vincoli contingenti entro i quali l’evoluzione deve barcamenarsi – come tu mi insegni – sono proprio quelli che distinguono la scienza seria, la tua, dalle farneticazioni neolamarckiane di Lysenko, convinto di poter fare l’uomo nuovo e di poter plasmare le coltivazioni sovietiche solo modificando le condizioni ambientali, come se fosse l’ambiente a istruire direttamente le mutazioni e queste, una volta acquisite nel corso della vita, fossero ereditarie.”


“Sì, questo è un punto importante. Del resto, lo hai scritto anche tu, che l’impero sovietico presuppone una certezza e una negazione: la certezza dell’infinita plasticità dell’uomo e la negazione della natura umana, da cui il controllo panottico, la burocrazia asfissiante, l’educazione all’asservimento.”


“A proposito di sovietici, Jacques, la volta scorsa mi stavi raccontando dei tuoi tentativi di far fuggire alcuni dissidenti dall’Ungheria. Ci siete riusciti?”


“Non ancora. È complicato, e pericoloso. Con il circo non ha funzionato.”


“Sai che ci avrei scommesso? Che cosa avete combinato?”, disse Camus ridendo.


“Niente, il direttore del circo si è tirato indietro all’ultimo. L’idea era che Agnes e il marito Erdos si nascondessero sotto una coperta dentro la gabbia del leone. Ovviamente avrebbero dovuto anestetizzare la bestia, ma già qui il domatore si era messo a strillare che la sedazione era pericolosa per l’animale. Se poi non agisce nei tempi previsti a causa dello stress o di altro, e il leone si risveglia prima, sono guai. Alla fine il capo del circo si è spaventato e ha mandato tutto all’aria.”


“Posso dire che non aveva tutti i torti? Avreste fatto espatriare due dissidenti già ben digeriti nello stomaco di un felino!”


“Sì infatti, era un piano folle.”


“Era stata tua l’idea? Spero di no.”


“No, lo aveva proposto Andre Kovesi, il mio intermediario, un ungherese rifugiato a Vienna, è lui che deve organizzare materialmente la fuga e accogliere per primo Agnes oltre il confine.”


“Ma con che soldi pensate di architettare questa fuga?”


“Con quelli che sto raccogliendo io con l’aiuto di Philo: sono arrivato quasi a 8000 dollari. Provengono soprattutto da ungheresi emigrati negli Stati Uniti: un mio collega biologo e il suo giro. Adesso voglio chiedere aiuto anche alla Hebrew Immigrant Aid Society, sono ricchissimi.”


“Ma avevate fatto già altri tentativi?”


“Sì, la scorsa estate…”


“Jacques Monod, tu hai una seconda vita e non me ne vuoi parlare. Qual era il piano quella volta?”


“Con un battello sul Danubio…”


“Romantico!”


“Lascia stare, un batticuore. Era tutto pronto, settimane di preparazione, ma Andre tardava a dare il via libera da Vienna perché i controlli di frontiera si erano intensificati. Il fiume è una via di fuga arcinota e c’erano battelli dei Vopos ungheresi ovunque. Poi, un bel giorno di luglio, sembrava che si fossero allontanati tutti, ma abbiamo capito subito dopo il perché.”


“Cioè?”


“Erano cominciate le inondazioni estive del Danubio. Piano saltato.”


“Natura ostile, Jacques. Ma come fate a dirvi tutte queste cose e, soprattutto, a comunicare con Agnes a Budapest?”


“La corrispondenza, ovviamente, è controllata dalla polizia segreta. All’inizio si andava di parole criptiche mescolate ai nostri scambi scientifici. Ma era un metodo troppo lento e farraginoso. Allora Agnes è stata fantastica, perché ha inventato da sola un inchiostro trasparente biologico che si attiva con una sostanza chimica e ti permette di comunicare in codice. Gli ultimi aggiornamenti me li ha mandati dentro un vinile di Béla Bartók.”


“Geniale! La scienza al servizio della sedizione, in combutta con la musica di un antifascista e grande cultore dei canti popolari.”


“Agnes dice che bisognerebbe provare con metodi di fuga più tradizionali ma sicuri, per esempio nascosti dentro una vettura, nel sottofondo del bagagliaio o qualcosa del genere, ma io non mi fido. Le guardie se lo aspettano. Ma lei, giustamente, è preoccupata anche per i soldi, che stanno finendo. In questi giorni sto pensando che forse, per sbloccare la situazione, dovrò andare io da lei.”


“In che senso? Dov’è che vorresti andare?”


“In Ungheria.”


“E come ci vai in Ungheria?”


“Dimentichi che sono un affermato conferenziere e che la scienza è una grande comunità transnazionale. Posso farmi invitare e, una volta dentro, con Agnes avrei modo di fare tutti i sopralluoghi necessari per la fuga.”


“Certo, con i servizi segreti comunisti che vi spiano. Buona idea Jacques. E poi non mi pare che la scienza offra passaporti diplomatici così efficaci. Tu nove anni fa non sei nemmeno riuscito a entrare negli Stati Uniti!”


“Questa è un’altra storia, Albert. Quelli ormai sono ossessionati dal maccartismo. Pensa che avevo in mano l’invito dell’American Chemical Society e della Harvey Society di New York. Non è bastato. Conseguenze nefaste della guerra di Corea.”


“Il comandante Monod è indesiderato. Eri infuriato come non ti capita quasi mai!”


“Vorrei vedere. Il console mi suggerì di fare ricorso, ma io rifiutai. Risposi che non stavo chiedendo un favore. Il tipo di interrogatorio richiesto, poi, assomigliava troppo a quelli che facevano i nazisti durante l’occupazione. Aggiunsi che l’isolazionismo è contrario alla scienza e alla libertà di ricerca, e che quelle misure sarebbero andate a scapito innanzitutto della scienza statunitense. E me andai.”


“Sei stato nel Partito Comunista, Jacques, e tanto basta.”


“Anche tu eri nel Partito, quando stavi in Algeria, nel 1936, la polizia ti aveva già schedato; eri segretario della Casa della Cultura di Algeri e animatore del Teatro del Lavoro. Me lo hai raccontato tu stesso.”


“Sì, ma fui espulso già nel 1937, perché avevo protestato in favore dei militanti arabi traditi e contro il patto tra sovietici e nazisti. Già allora cominciarono a dirmi che ero un moralista, in senso offensivo, ovviamente. Il realismo politico non ha mai fatto per me.”


“Eppure ti hanno fatto entrare negli Stati Uniti d’America. Quand’era?”


“Era il 1946. Be’, mentii alla dogana, o meglio, commisi peccato di omissione.”


“Ah ecco, non dicesti che eri stato comunista. L’onesto e sincero Camus!”


“Ma sai, è una delle poche bugie di cui non riesco a dolermi più di tanto. Gli Stati Uniti non mi piacquero per niente: città disumane, diritti civili calpestati. L’FBI indagò sul mio passato e non trovò nulla. Poi scoprii che mi avevano scambiato per un altro. Decisero che non ero una minaccia per la nazione. Una cosa ridicola. Se questi sono i controlli di sicurezza della superpotenza capitalistica siamo a posto.”

“Sia quel che sia, io in Ungheria ci vado e porto fuori Agnes.”

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 27 marzo 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del capitolo quarto

Sfidare la finitudine con il DNA

I corpi che vengono meno a ogni cosa riducono ciò da cui partono, accrescono ciò a cui pervengono, quello costringono a invecchiare, questo invece a fiorire, né indugiano in quel punto. Così l’insieme delle cose si rinnova sempre e gli esseri mortali vivono di mutuo scambio. Crescono alcune specie, se ne riducono altre, in breve tempo si danno il cambio le generazioni dei viventi e come staffette si passano la fiaccola della vita.


LUCREZIO, De rerum natura, libro II, 72-79


Nessuno vorrebbe le strade deserte nelle città. Nessuno vorrebbe vedere i parchi giochi con le ragnatele, i ritrovi dei ragazzi abbandonati, le piazze desolate. Nessuno vorrebbe rinunciare alle proprie libertà fondamentali. Nessuno si augura di vedere in vita sua i corpi per le strade e le fosse comuni. Nessuno vorrebbe sperimentare l’incubo di assistere alla scena di un genitore che muore soffocato dai bubboni. Poi, però, succede che la natura ti attacca nella maniera meno prevedibile. Un tiro mancino. La peste.


Tempi umani e tempi naturali

Persi in ben altri affari, non ci si pensa proprio alla peste: per questo tornerà. Come un meteorite, un terremoto, un’eruzione vulcanica: sui tempi lunghi dell’evoluzione sono eventi certi e banali; sui tempi brevi delle nostre generazioni di mortali sono accadimenti spaventosi e memorabili. Ma c’è qualcos’altro, di ancor più meraviglioso e sublime, che avviene durante queste improvvise sospensioni della normalità. L’umanità si ritrae, allenta la pressione del suo pesante piede, e d’incanto animali e piante che prima se ne stavano discosti e impauriti ora prendono il centro della scena. O meglio, si riprendono ciò che era sempre stato loro.


Delfini, foche e tartarughe riconquistano, solo per un po’, il loro splendido Mediterraneo. Cinghiali, cervi, cerbiatti e altre creature dei boschi passeggiano senza più timidezze in città. Le volpi lo facevano già, sapendo quanto cibo sprecano certi primati di grossa taglia delle classi agiate. Orsi, lupi e sciacalli si sono accorti della nostra ritirata e si lasciano avvistare più di frequente. Perfino le erbe e i muschi cominciano ben presto a spuntare tra le crepe di luoghi prima trafficati. L’esperimento involontario della peste dura il volgere di un attimo, rispetto ai tempi naturali. Il desiderio di dimenticare ci ricaccia subito dentro l’accelerazione antropica, dentro la grande cecità. Ma quell’attimo di sospensione è memorabile, come se avessimo trattenuto il respiro e avessimo sentito ciò a cui prima eravamo sordi.


Gli animali escono dai nascondigli, mentre gli uomini muoiono sotto il sole. Lucrezio, nella magnifica chiusa del suo poema, racconta che la peste venne ad Atene da lontano e colse tutti impreparati. Aveva già fatto strage in Egitto, poi in altri lidi e, infine, era entrata nel grande porto della città. Nel 430 a.C. i saggi insegnavano che il morbo era portato da semi letali che si addensavano nell’aria nociva e nell’acqua putrida. Pasteur era molto di là da venire e si dava colpa al cielo corrotto e ai miasmi del clima. Sempre che non si addossassero le responsabilità a un capro espiatorio, al soldato nemico: pratica prediletta nell’agorà e nelle bettole. Quel flagello, però, sembrava nuovo. Come tutte le altre volte. La peste è sempre nuova.


Avuta notizia della pestilenza, raccontava già Tucidide, perfino le armate nemiche che, provenienti dal Peloponneso, imperversavano nella regione si ritirarono. L’effluvio di morte non fu arginato né dalle suppliche nei templi né dal ricorso agli oracoli. La malattia irrompeva senza bussare. Avanzava dall’alto verso il basso: febbre e occhi arrossati, piaghe in bocca, starnuti e poi tosse violenta, spasmi di vomito, un’insopportabile arsura interna. La mente degli infermi ne era sconvolta. Poi insonnia, respiro affannoso, sudori freddi, nervi contratti, bubboni, fino all’oblio di se stessi e del mondo. Dopo otto o nove giorni, misericordiosa giungeva la fine sui volti pallidi, le narici serrate, gli occhi infossati.


I cronisti riportano che la medicina balbettava in silenzioso timore, sicché, esperti o profani che fossero, tutti dicevano la loro su cause e rimedi. I dotti si contraddicevano e si punzecchiavano, tronfi e narcisi. Intanto, per la città i cadaveri giacevano insepolti e nemmeno gli animali li toccavano. Il morbo dava sintomi diversi da persona a persona e qualcuno sopravviveva, diventando immune. La vita sociale era interrotta. Ai primi segni del male si era presi dalla disperazione. I funerali andavano deserti per le vie. I più nobili d’animo – i soccorritori, gli infermieri, i volontari – continuavano a fare semplicemente il loro mestiere, e a infettarsi. Dalle campagne affluivano i contadini disperati e affamati, ammassandosi nei tuguri e peggiorando l’epidemia. Nemmeno la religione fu più di conforto, dinanzi alla paura e al dolore presenti. Finché, al punto più basso di degradazione, anche il rito atavico della sepoltura fu sospeso: ciascuno, angosciato, seppelliva il suo caro come poteva o lo gettava sulle pire degli altri.


La storia della peste, così ricorrente, sempre nuova e sempre uguale, è paradigma della fragilità umana dinanzi a una natura imprevedibile e indifferente alle nostre sorti. Ma quanto imprevedibile? Forse anche gli ateniesi, distratti dalla Guerra del Peloponneso, sulle prime minimizzarono. Lo fecero tutti, compresi i veneziani nel 1576, quando il Senato della Serenissima fu ben contento di approvare i resoconti rassicuranti di Girolamo Mercuriale e altri medici, confidando così di salvare commerci e affari. Poco dopo, le morti nelle calli divennero migliaia. La peste si ammette solo quando è troppo tardi.


Tra i ricorsi storici, troviamo anche lo schema secondo cui alla peste seguirebbe sempre un rinascimento. Ma c’è modo e modo di rinascere. Quando, finalmente, il flagello se ne va, festeggiano tutti e comincia subito il tempo della rimozione e dello stordimento. Ma è un’allegria sempre minacciata.


Quello che c’è di più memorabile nella peste è che la natura, priva di fini e di intenzioni, di castighi e di perdoni, ci fa capire come non abbia alcun bisogno di noi, che non siamo indispensabili, e che il giorno in cui fossimo così folli da imporci una quarantena definitiva e fatale, lei si riprenderebbe ben presto i suoi spazi, mangerebbe i nostri fragili decori e tornerebbe rigogliosa come e più di prima. Memorabilia saranno allora i nostri segni, gli artefatti, i monumenti e manufatti, quando Homo sapiens non ci sarà più e altri occhi li osserveranno con rinnovata curiosità, collezionandoli come cimeli. Quei trofei autografati da una star del passato racconteranno la storia di una specie intelligente che, a un certo punto, perse il senso della misura e smise di sentirsi parte di una biosfera che non l’aveva prevista. Ma noi abbiamo l’immaginazione e la fantasia – quelle che mancano ai bacilli della peste, e alle pulci e ai ratti che se li portano – e potremmo sceglierci un futuro diverso. Un futuro ridestato e perfino meno schiavo della finitudine.


Scrive Lucrezio che le specie e le generazioni di viventi si danno il cambio, come le staffette si passano la fiaccola della vita. La decimazione della peste non è mai totale e i pochi immuni ereditano un mondo traumatizzato, ma ricco di opportunità e di spazio. La scienza ha scoperto in questi anni che cosa sia quella fiaccola che passa da una generazione all’altra: si chiama DNA. È una molecola ritorta che abbiamo in comune con tutti gli altri esseri viventi, compreso il bacillo della peste. Se un flagello sterminasse gli uomini, ma ne salvasse anche solo un piccolo manipolo, un villaggio isolato, da quei pochi la fiaccola si riaccenderebbe e tornerebbe a trasmettersi e a diffondersi. Senza fine, di generazione in generazione. Forse che in quella staffetta si nasconda il segreto per sconfiggere la finitudine?


Progetto interno e invarianza

Le farfalle effimere, che abbiamo già incontrato, vivono un solo giorno, o una manciata di minuti. Eppure, in quel grumo addensato di vita trovano il tempo di depositare centinaia, se non migliaia, di uova. Molte di esse, certo, nutrono trote e altri pesci, ma alcune sopravvivono, restano a lungo larve e poi sbocciano nella loro esplosiva e palpitante esistenza. Qualcosa è passato, qualcosa resta e si tramanda. Si direbbe che l’intero ciclo del loro sviluppo e la fragile permanenza della forma adulta sotto la volta del cielo siano strumentali a quel passaggio, veicoli di una sostanza che contiene le istruzioni per rinnovare, ogni volta, quel prodigio di effimera esistenza.


Le farfalle, i vermi, i batteri e gli esseri umani sono oggetti strani. Non sono oggetti naturali inanimati, cioè modellati dalle forze fisiche esterne. Non sono nemmeno oggetti artificiali, frutto di un’intenzione progettuale. Un artefatto si distingue subito: presenta regolarità e ripetizioni di moduli. Quindi, fin qui, è tutto facile: le pietre sono oggetti naturali inanimati, le case sono artefatti. Ma che dire del mirabile favo delle api selvatiche? Sembra proprio un artefatto, ma è prodotto dall’attività automatica di organismi viventi. E l’ape stessa? Ha le proprietà di un artefatto – cioè regolarità, ripetizione e complessità –, ma non è stata progettata da un artefice intelligente. Dunque?


Il paradosso non si risolve se lo decliniamo usando criteri funzionali. Come già scriveva Darwin, è facile pensare che l’occhio funzioni come un telescopio e, dunque, sia stato progettato da un artefice intelligente. L’occhio e la fotocamera hanno entrambi un progetto interno: sono costruiti in modo tale da assolvere una o più funzioni. Gli esseri viventi, quindi, sono oggetti dotati di un progetto interno, cioè di adattamenti funzionali che favoriscono la riproduzione e la sopravvivenza o, se vogliamo, di strutture funzionali e di relative prestazioni (diverse per efficienza da individuo a individuo).


Qui si innesta la grande distinzione darwiniana, che spezza un argomento millenario. Negli artefatti, il progetto è dato dall’esterno, appunto da un progettista e da un piano costruttivo che precede, finalisticamente, la realizzazione dell’oggetto. L’architetto ha in mente un disegno e si prodiga per realizzarlo. Negli esseri viventi, invece, il progetto è dato da interazioni interne, frutto dell’evoluzione. Gli organismi possiedono una propria determinazione autonoma interna, non dettata da forze esterne, che potrebbero, anzi, ostacolarla. Possiedono organizzazione e sviluppo autonomi, che sgorgano da sé, ovvero processi “morfogenetici” interni che dettano forma e tempi di crescita. Ecco ciò che separa il vivente da qualsiasi artefatto e dagli oggetti naturali inerti.


Questa determinazione autonoma interna è resa possibile dalla presenza di informazione biologica, che si esprime nella struttura dell’essere vivente. L’informazione è ricchissima, perché deve descrivere un’organizzazione straordinariamente complessa di cellule, tessuti, organi, sistemi. Non solo, gli esseri viventi hanno l’ulteriore proprietà unica di riprodurre e di trasmettere questa sofisticata informazione. Quest’ultima, quindi, si conserva da una generazione alla successiva. Proviene sempre da un altro organismo, ci caratterizza nel corso di tutta l’esistenza e, se abbiamo figli, passa alla generazione successiva. È proprio una staffetta, come scrive Lucrezio, oppure, più precisamente, un’invarianza. L’organismo nasce, si sviluppa, invecchia e muore, ma qualcosa resta, invariante. Le specie nascono, evolvono, si estinguono, si ramificano, ma qualcosa resta, invariante.


Ora abbiamo due proprietà generali di tutti gli esseri viventi, da fondere insieme: avere un progetto interno ed essere portatori di invarianza, traghettatori di un bagaglio di informazione biologica che si tramanda. Il contenuto di invarianza si può dunque esprimere, quantitativamente, in unità di informazione. Detto semplicemente, il contenuto di invarianza di una data specie è la quantità di informazione che, trasmessa da una generazione all’altra, assicura la conservazione della struttura normale e tipica di quella specie.


Le due proprietà sono strettamente connesse. In ogni organismo esistono progetti interni specifici legati a funzioni particolari: digerire, respirare, muoversi, percepire il mondo esterno e così via. Ciascuno di essi è un frammento di un progetto più generale dell’organismo, ovvero la conservazione e la moltiplicazione della specie, e dunque la riproduzione invariante. Il progetto essenziale consiste nella trasmissione da una generazione all’altra del contenuto di invarianza caratteristico della specie, attraverso strategie riproduttive dirette (per esempio, competere per accedere alle femmine o per farsi scegliere dalle femmine) o strategie che contribuiscono direttamente alla sopravvivenza e indirettamente alla riproduzione (cacciare, mimetizzarsi, stare in gruppo, giocare e così via). Insomma, ogni struttura funzionale corrisponde a una certa quantità di informazione trasmessa.


A ciò si aggiunga un’altra caratteristica materiale universale degli esseri viventi: essere costituiti da due insiemi di grosse molecole diverse, uguali per tutti, dai vermi alle balenottere, dalla mosca all’uomo. In qualsiasi creatura terrestre, le proteine presiedono alle strutture e alle prestazioni funzionali: potremmo dire che sono gli agenti molecolari essenziali alla realizzazione del progetto interno degli organismi. Gli acidi nucleici (cioè DNA e RNA) presiedono invece all’invarianza, un’invarianza genetica. Ecco, il gioco della vita sta tutto nelle interazioni, nelle complementarità e nelle trasformazioni di questi due gruppi di macromolecole. In realtà, è una semplificazione, perché alcune strutture del DNA, così come gli RNA, hanno funzioni proprie e, viceversa, alcune proteine hanno un ruolo cruciale nel funzionamento degli acidi nucleici, ma tanto basti. Importante è ricordare che strettissime interazioni legano le proteine e gli acidi nucleici.


Ci stiamo avvicinando al segreto molecolare della vita, e forse della sua finitudine.


Le forme sono funzioni

La vita si regge su una logica combinatoria. Tutte le proteine sono fatte da venti aminoacidi. Ci sono almeno 2500 proteine diverse nel batterio Escherichia coli, almeno un milione negli esseri umani. La prodigiosa diversità delle strutture macroscopiche dei viventi si basa, quindi, su una profonda unità sottostante, un’unità di composizione e di struttura microscopica. Il filamento flessibile di aminoacidi si raggruppa formando la struttura primaria della proteina, precisa e definita. Legami chimici più deboli si aggiungono, generando una struttura secondaria, fatta di ripiegamenti ripetuti, come in un gomitolo la cui forma è tipica di ciascuna proteina.


Le proteine devono le loro proprietà strutturali e funzionali alla capacità di riconoscere altre molecole sulla base proprio della loro forma tridimensionale e della loro struttura spaziale, a sua volta determinata dalla struttura molecolare. È un po’ come il meccanismo della chiave e della serratura: combaciano grazie alla complementarità della loro forma tridimensionale. Questa proprietà (detta stereo-specificazione, cioè riconoscersi dalla forma) permette di creare affinità e opposizioni a livello microscopico e di specificare la funzione di una certa proteina, che si è evoluta nel corso della storia naturale in relazione a un valore adattativo. Il linguaggio delle proteine, dunque, è tridimensionale. Per esempio, la struttura globulare simmetrica della proteina emoglobina, formata da quattro sottounità, determinata l’anno scorso da Max Perutz a Cambridge, le permette di trasportare l’ossigeno nei globuli rossi. Quando si lega all’ossigeno, cambia conformazione.


Se una proteina ha una certa forma tridimensionale e, in alcuni punti della sua superficie, presenta uno o più siti in cui può legarsi a una certa molecola, succederà che, in caso di legame con quella molecola, la forma della proteina cambierà. In pratica, tramite questa invenzione evolutiva, la proteina può assumere due forme: senza la molecola legata e con la molecola legata. Se, per esempio, la molecola non si lega alla proteina, questa svolgerà una data funzione, mentre se la molecola si lega, la proteina non sarà più in grado di eseguire quella funzione. La molecola (che in questo caso si chiama effettore) diventa una sorta di interruttore acceso-spento per la proteina. Oppure l’effettore attiva e disattiva di più quella proteina, regolandola. Questo processo si chiama allosteria (“altra forma”), o regolazione allosterica, perché la proteina viene regolata sulla base dell’aggiunta o meno di una componente che ne cambia la conformazione, e dunque la funzione.


Insomma, è tutto un gioco di forme e funzioni, un grande meccano di proteine. Gli stessi meccanismi di riconoscimento tra proteine guidano poi lo sviluppo dell’organismo: un complesso processo basato sui segnali tra cellule, su raggruppamenti, divisioni, specializzazioni funzionali. Questo significa che la forma aggiunge informazione rispetto a quella contenuta nella sola sequenza di aminoacidi, la quale, a sua volta, è dettata dal DNA. In pratica, i costituenti si portano già dentro, in potenza, l’organizzazione di un maestoso edificio plurimolecolare. Il DNA impone geneticamente la sequenza degli aminoacidi, poi il filamento si ripiega spontaneamente per giungere alla sua configurazione. Il filamento disteso non farebbe nulla. Il filamento ripiegato contiene molta più informazione e compie la sua funzione.


Ma le sorprese sul segreto della vita non finiscono qui. Si direbbe che un testo così preciso abbia una propria necessità interna, che sia cioè determinato da vincoli chimici precisi. E invece no, è figlio del caso. Non esistono leggi chimiche di associazione necessaria tra aminoacidi. Come ci ha insegnato Frederick Sanger nel 1952, quando è riuscito a definire la struttura dell’insulina – formidabile risultato che gli è valso il premio Nobel per la chimica due anni fa –, nessuna legge stabilisce che a un aminoacido x debba seguire l’aminoacido y. Non esiste alcuna regolarità predefinita, alcuna limitazione particolare.


Questa scoperta suggerisce che alla base c’è la legge del caso, cioè sperimentazioni libere e accidentali. Queste ultime, da sole, non sarebbero però in grado di raggiungere la precisione funzionale delle proteine. Le sperimentazioni casuali sono filtrate da un meccanismo ad altissima fedeltà, la selezione naturale, grazie al quale lo stesso ordine si ripete sempre in tutte le molecole di quel tipo di proteina funzionale. Il messaggio è generato a caso, ma acquisisce un significato in virtù delle sue funzioni. Il cieco caso viene insomma captato, conservato e riprodotto dal meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola, necessità.


Questo processo duale – caso e necessità – è importantissimo: vale per lo sviluppo di una proteina come per l’origine e l’evoluzione dell’intera biosfera! La selezione ha infatti prodotto la diversificazione di una vasta biblioteca di proteine funzionali, di forme differenti: filamentose, globulari… gomitoli complicatissimi, un fuoco d’artificio di diversità a più stadi. Poi le interazioni associative tra proteine formano gli organelli cellulari. Poi, ancora, le interazioni tra cellule formano tessuti e organi. La coordinazione e il differenziamento, in tutte le fasi di queste attività chimiche, sono resi possibili dalle interazioni allosteriche delle proteine. Il caso e la necessità, unendosi, danno origine alla possibilità, che è la vera categoria della vita.


Le Variazioni Goldberg della vita

Ma come è possibile che qualcosa figlio del caso porti con sé un “progetto”? Stiamo forse facendo rientrare dalla finestra quell’animismo che avevamo accompagnato definitivamente alla porta? Non dovremmo stupircene, visto che la nostra mente predilige questo tipo di spiegazioni e ne è attratta inesorabilmente. Interpretare la realtà in termini di progetti, finalità, teleologie, intenzioni è un adattamento tipico della mente di Homo sapiens. Le concezioni animistiche risalgono all’infanzia dell’umanità e si piantano nel terreno della nostra quotidianità come radici profonde e vigorose nell’anima dell’uomo moderno. Perfino l’evoluzione viene storpiata dagli animisti e diventa un’ascensione forzata di non ben definite energie cosmiche. Ma come abbiamo detto sin dal primo capitolo, ora l’alleanza è spezzata e siamo gettati in una spaventosa e immensa solitudine.


Si realizza, dunque, la situazione paradossale per cui l’evoluzione, per le sue buone ragioni adattative, ci ha reso predisposti a spiegazioni finalistiche che, tuttavia, la scienza ha destituito di qualsiasi fondamento. È un paradosso spaesante e angosciante, l’ennesimo. E non è certo l’ultima contraddizione in cui dibattersi. Il postulato di oggettività della scienza, da Galileo e Darwin in poi, esclude il ricorso a cause finali e a qualsiasi progetto. Risulta impossibile concepire un esperimento che provi la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura; quindi resta un postulato, ma tutto conduce a quella conclusione. Quel progetto non c’è, e in ogni caso non ne abbiamo bisogno per spiegare la natura.


Tuttavia, quella stessa oggettività ci porta a riconoscere il carattere progettuale degli esseri viventi: le loro strutture realizzano un progetto. Come uscire dalla contraddizione? Riconoscendo innanzitutto che è solo apparente. L’invarianza, infatti, precede il carattere progettuale degli organismi. La comparsa, l’evoluzione e l’affinamento delle strutture progettuali sono dovuti a perturbazioni in strutture preesistenti già dotate della proprietà di invarianza, cioè capaci di conservare il caso e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale. Darwin ebbe questa formidabile intuizione, ma non sapeva che il meccanismo che spiega la progettualità funzionale dei viventi è il DNA.


Avere un programma, un libretto di istruzioni, che trattiene il caso e lo sottopone al vaglio della selezione naturale: questo è il segreto della vita. La progettualità, quindi, è riducibile a una proprietà secondaria, derivata dall’invarianza, dal DNA. Se, invece, si concede importanza primaria alla progettualità dei viventi, a quella loro apparenza di finalità, si finisce per dare la stura ai vitalismi di certi fisici che non colgono la peculiarità degli esseri viventi e, dunque, vi scorgono un qualche inesistente slancio interno immateriale.


L’invarianza non solo precede il carattere progettuale degli organismi, ma gode di un’ulteriore proprietà, a sua volta paradossale e cruciale, che esclude ogni animismo e finalismo. L’invarianza è perennemente perturbata. Ecco la magnifica ambivalenza del DNA: essere invariante e mutevole allo stesso tempo. Il DNA tiene insieme Platone ed Eraclito. La natura, infatti, è incessante movimento, modificazione. Eppure la scienza è sempre alla ricerca di entità immutabili, di invarianze, di principi di conservazione e simmetrie. Forse, sono solo convenzioni della nostra mente, o forse esistono davvero nella realtà. Nella scienza c’è un ineliminabile elemento platonico. Nella stupefacente varietà delle morfologie e delle modalità di vita degli animali noi cerchiamo un numero finito di strutture anatomiche fondamentali, di piani corporei e schemi di organizzazione.


Siamo fatti così. Altrimenti non avremmo scoperto nemmeno l’unità chimica fondamentale del vivente, quelle stesse due classi di macromolecole in tutti gli organismi, entrambe date da combinazioni di elementi più semplici (5 basi azotate, 20 aminoacidi), le stesse reazioni chimiche. Da questa base armonica universale deriva che i nuovi adattamenti sono sempre riutilizzazioni di sequenze metaboliche universali, di strutture già esistenti, precedentemente adibite ad altre funzioni. L’evoluzione è variazione sul tema, come in musica: è passacaglia e ciaccona, è le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.


Se, però, fosse solo invarianza e variazioni sul tema, da dove nascerebbe la diversità delle specie, e ancor più quella di ogni singolo individuo? Da dove nasce la novità? Il DNA, abbiamo detto, è il principe dell’invarianza. Lo si pensa come un alfabeto in cui è scritta tutta la diversità della vita. Il suo testo si replica grazie alla complementarità stereoscopica, ancora una volta, delle due sequenze di nucleotidi appaiate per coppie di basi e disposte su due filamenti associati e attorcigliati a doppia elica. Quando l’elica si apre, l’uno impone la sequenza all’altro che va formandosi. Per il tramite di altri acidi nucleici, la sequenza trascritta si traduce in modo irreversibile e univoco in una sequenza di aminoacidi. Il “codice genetico” è scritto in linguaggio tridimensionale.


Ebbene, sia la sequenza sia il codice di trasferimento sono arbitrari. Nessuna legge impone che dopo una base azotata ce ne sia necessariamente un’altra. Il codice ha un’accezione ristretta, cioè la corrispondenza tra la sequenza delle basi del DNA e la sequenza di aminoacidi, e un’accezione generale, cioè il modo in cui il genoma esercita le sue due funzioni principali di replicarsi fedelmente e di trasferire la sua informazione alla cellula e all’individuo. Il trasferimento di informazione avviene attraverso convenzioni chimiche non necessarie: è una catena di montaggio, ad alta fedeltà. La sequenza di nucleotidi nel segmento di DNA definisce completamente la sequenza di aminoacidi nella proteina. In tal modo, il DNA come principe dell’invarianza garantisce stabilità delle specie e fedeltà della replicazione e della traduzione. Si oppone al cambiamento.


Ma il cambiamento è inevitabile, ed ecco l’antagonismo radicale al centro dell’evoluzione. Nessuna entità può esimersi da perturbazioni microscopiche, perfino quantistiche. Il meccanismo subisce errori, perturbazioni, alterazioni. Le mutazioni genetiche sono errori di trascrizione, sostituzioni, addizioni, inversioni, ripetizioni, traslocazioni, fusioni, slittamenti. Sono accidentali, meramente casuali. Essendo il testo genetico l’unico depositario di informazione ereditaria, soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni autentica creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, è alla radice del prodigioso edificio dell’evoluzione sulla Terra.


Non siamo più noi

Il caso è indigeribile per il nostro antropocentrismo, è lo spettro da esorcizzare per noi esseri intrinsecamente animisti, ma dobbiamo farcene una ragione. Il caso in senso operativo è la misura della nostra ignoranza, è l’indeterminatezza del risultato, il lancio di dadi che ammette solo un calcolo di probabilità. Esistono cause microscopiche di ciascun esito, ma non ci è dato conoscerle. Ma il caso in senso essenziale significa anche la coincidenza di catene di eventi indipendenti, l’indeterminazione quantistica, l’associazione del tutto arbitraria tra la mutazione e gli effetti funzionali che essa genera a livello delle interazioni della proteina. Le mutazioni, infatti, hanno agenti causali – agenti chimici mutageni che producono appaiamenti illeciti o deformano il DNA, raggi X e altre radiazioni ionizzanti che creano delezioni e altri refusi –, ma tali agenti sono del tutto indifferenti agli effetti evoluzionistici delle mutazioni.


Nell’evoluzione non esiste, dunque, alcuno slancio vitale interno. L’evoluzione non obbedisce a un programma già scritto, non è rivelazione di un progetto, come invece lo è lo sviluppo di un organismo. L’evoluzione ha radice proprio nell’imperfezione del meccanismo di conservazione molecolare, nell’imperfezione della replicazione, nella capacità di cibarsi del rumore, delle perturbazioni, per generare strutture ordinate. Per un sistema non vivente il caso è minaccia, distruzione, entropia. Per un sistema vivente, al contrario, è combustibile di cambiamento. Il DNA conserva il caso e lo consegna al filtro della selezione naturale.


Siamo così giunti al paradosso più profondo dell’invarianza genetica: gli esseri viventi sono dotati di una struttura e di un meccanismo che garantisce al contempo la riproduzione fedele della struttura stessa e la riproduzione ugualmente fedele di qualunque accidente ereditabile si verifichi nella struttura! L’evoluzione è la conservazione degli accidenti, sottoposti poi al vaglio ambientale della selezione. Il DNA è come un fiume che scorre perenne e si snoda nei meandri dell’albero della vita, lungo i rami di una lunga genealogia, con ininterrotti passaggi dai primi microbi fino alla biodiversità attuale. La sua struttura lo rende stabile, quindi permane, ma allo stesso tempo si trasmette e muta. Il tutto in una molecola sola: è formidabile.


L’invarianza, quindi, non è perfetta, non può esserlo. È un’invarianza perturbata, è conservazione del caso, che rende ogni individuo biologico in natura assolutamente unico. Ed eccoci giunti al punto di questo capitolo. Tutto ciò indebolisce fortemente la speranza di trovare nel DNA una reale sfida alla finitudine. È vero, infatti, che quella filigrana molecolare si trasmette dall’inizio della vita e che la sua chimica è sempre la stessa, ma a ogni passaggio accumula mutazioni e ricombinazioni. Noi siamo soltanto un effimero passaggio in quell’eterna staffetta. Il testimone ci è stato consegnato e lo abbiamo portato per un po’, ma nel prima e nel poi non eravamo noi, non esistevamo e non esisteremo.


Una pulsione naturale ci accomuna a tutti gli altri animali: riprodursi, preservare la vita, continuarla. Il nemico di questa pulsione erotica è la morte. Quindi la sfida esiste. È potentissimo, bellissimo e straziante in noi l’istinto di trasmettere la vita, farla moltiplicare, allungare quella filigrana scritta nel linguaggio del DNA. Così il mortale sente di partecipare, in effetti, a una forma di immortalità: desidera un compagno e una compagna, ha cura dei figli, li ama e accudisce, è pronto perfino a morire per loro. Sotto, agisce una pulsione di vita che vuole sconfiggere la morte certa, sopravvivendo in un individuo simile.


Simile, appunto, non il medesimo. Ciò che si tramanda è la vita in generale, è il mio DNA inconsapevole di cui noi siamo strumenti di trasmissione, non certo la mia vita individuale, con i miei pensieri, sogni, desideri, le mie azioni e le mie paure. La vita individuale finisce comunque nel nulla. Dunque, non ricaviamo un senso della nostra vita attraverso la continuità genetica della vita in generale. È una dolce vittoria della natura e dell’attaccamento alla continuità delle esistenze, d’accordo, ma non del singolo individuo momentaneo, che è comunque travolto dalle onde del nulla.


Isole ribelli in un mare di entropia

Lo scoglio, dunque, è l’individualità. In particolare, l’individualità di noi esseri complessi e pensanti. Gli organismi unicellulari e tutti quelli che si riproducono duplicandosi, gemmando o dividendosi non conoscono la morte individuale, perché si trasformano – da uno diventano due – e trasferiscono l’uno all’altro, direttamente, il materiale genetico. La morte come noi la intendiamo entra in gioco con la pluricellularità e con il sesso. Poco più di mezzo miliardo di anni fa si separarono infatti due linee cellulari: da una parte, le cellule sessuali, maschili e femminili, cioè la linea germinale; dall’altra, le cellule del corpo, cioè la linea somatica. La prima linea contiene l’invarianza ereditaria, che si trasmette e si mescola di generazione in generazione grazie alla riproduzione sessuata. La linea germinale è il binario su cui corre il treno infinito del DNA. Il corpo, invece, con le sue cellule somatiche, ha il compito di trasportare, nutrire e proteggere la linea germinale. Assolto il suo dovere, con l’atto della riproduzione, il corpo invecchia e muore.


La morte individuale è allora un effetto collaterale della logica evolutiva. Pensiamoci. L’immortalità biologica dei nostri geni ci rende partecipi di un’ininterrotta linea della vita che va avanti da miliardi di anni, ma ciascuno di noi come individuo cosciente è solo uno strumento temporaneo di questa più grande impresa che lo trascende. L’argomento secondo cui la morte sarebbe necessaria per liberare spazio alle nuove generazioni non è sostenuto da stringenti motivi evolutivi. Se la morte avesse una funzione prettamente demografica, sarebbe più efficace se colpisse gli individui prima dell’età riproduttiva, non dopo! Uccidere un anziano ha meno effetto che uccidere un giovane ancora senza figli, impedendogli di farne.


A ulteriore riprova della debolezza dell’argomento, non appena una specie è liberata dai freni ambientali – limiti di risorse, predatori, agenti patogeni – tende a moltiplicarsi per quanto possibile, andando a invadere tutti gli spazi disponibili finché ce ne sono. Quindi, invecchiamento e morte non si sono evoluti con una funzione di calmieramento demografico interno. Non essendoci un vantaggio intrinseco nella morte, è raro trovare geni deputati alla sua realizzazione, salvo in specie in cui, per esempio, subito dopo l’accoppiamento il maschio si lascia andare e diventa cibo per la femmina, obbedendo a un suo tremendo orologio genetico.


La spiegazione evolutiva della finitudine è un’altra e l’abbiamo già incontrata. Ora possiamo rileggerla alla luce del DNA. Quando il corpo ha assolto il suo compito di veicolo dei geni e l’individuo si è riprodotto, la selezione naturale cessa di sorvegliare la salute delle cellule, quindi inizia un lento processo di deterioramento. Una volta che il genitore ha imposto ai figli i propri geni (visto che non chiede loro il permesso), i meccanismi di correzione delle alterazioni del DNA perdono gradualmente la loro efficacia. Si accumulano anomalie, il sistema immunitario si indebolisce e le cellule invecchiano. Spuntano le malattie connesse alla vecchiaia e il deperimento procede fino al disfacimento finale del sistema che regge l’organismo. Agenti patogeni e attacchi ambientali fanno il resto.


Tale disfacimento è, a tutti gli effetti, una verifica, e una vittoria, del secondo principio della termodinamica: un’entropica dissoluzione nei confronti della quale siamo impotenti. L’invarianza e il progetto interno degli organismi, infatti, non contraddicono il secondo principio, perché sono incrementi locali di ordine, che si pagano con il trasferimento di energia al resto del sistema. L’entropia complessiva aumenta comunque. Il secondo principio si applica all’evoluzione d’insieme di un sistema energeticamente isolato. I viventi, come ha scritto magistralmente il fisico Erwin Schrödinger, sono provvisorie eccezioni al secondo principio: isole di ordine, energivore, dispendiose, perché scambiano energia con l’esterno e ne aumentano l’entropia, e comunque temporanee. Prima o poi restituiscono all’universo tutto l’ordine che hanno sottratto. Sono tentativi di rivolta al secondo principio, disperati e a termine.


La morte non è, quindi, una falce assassina che arriva da chissà dove e taglia il filo delle Parche, ma un attributo essenziale della vita, una sua precondizione quasi, una proprietà connaturata al vivente. La natura tende allo stato più disordinato possibile. L’invecchiamento è un processo di lenta sconfitta dei sistemi biologici che, pur resistendo strenuamente, soccombono al secondo principio. I processi termodinamici spingono inesorabilmente verso il caos, il funzionamento ordinato delle cellule comincia a saltare. La vita è una lenta combustione. A medio e lungo termine, tutti i nostri tentativi di mettere ordine nel sistema anche attraverso artefatti, edifici, strutture, paesaggi si scontrano con l’ineluttabile legge dell’aumento dell’entropia. Perfino una maestosa galassia apparentemente immutabile sta invecchiando e degenerando. Anche il nostro sistema solare si consegnerà al caos dei suoi moti, sensibili alle condizioni iniziali e alle perturbazioni reciproche.


Quando non c’eravamo, quando non ci saremo

Tutto ciò, chiaramente, non ci consola. I nostri geni ci sopravvivono nei figli, d’accordo, ma solo finché esisterà la nostra specie, che non è eterna. Non si tradisce il finito, nemmeno in questo modo. La morte ha un senso evolutivo, ma resta il fatto che noi, come soggetti coscienti, non ci saremo più. Tuttavia, anche prima di nascere, nella sterminata distesa di tempo che ci precede, noi come individui non c’eravamo, eppure questa evidenza non ci ferisce altrettanto. La nostra assenza futura pesa molto più della nostra assenza pregressa. Come mai?


Lucrezio provò a contestare questa debolezza psicologica umana. Sapere che non c’eravamo quando i Cartaginesi attaccavano Roma non ci procura alcun dispiacere, anzi, ci lascia del tutto indifferenti: e allora perché dolersi se non assisteremo a chissà quali eventi futuri? A bombe atomiche, pandemie, disastri ambientali, eccitanti invenzioni tecnologiche? Dovrebbe valere una perfetta simmetria fra tempo passato e tempo futuro, in entrambi i casi noi non ci saremo, per cui nulla potrà turbare i nostri sensi. Scrive Lucrezio (libro III, 972-977):


Considera inoltre che sia stata nulla per noi la durata del tempo eterno, trascorsa prima che nascessimo. Questo è dunque lo specchio che la natura ci mostra del tempo futuro, successivo alla nostra morte. Forse vi compare qualcosa di terribile, o qualcosa di funesto? Non appare più tranquillo di ogni sonno?


Prima di noi e dopo di noi, insomma, regna dal nostro punto di vista un buio insensibile, senza gioie né dolori.


Come dire, in altri termini, che non c’è inferno nel prima e nel poi. L’unico inferno è adesso, l’inferno siamo noi. Qui, però, notiamo un’interessante asimmetria. Fin da bambini, accettiamo di buon grado l’idea che altri siano vissuti prima di noi, che le nostre sorelle e i nostri fratelli maggiori abbiano vissuto esperienze entusiasmanti (un viaggio, una scoperta, un’avventura inaspettata) quando noi eravamo ancora nel nulla della nostra incosciente non-esistenza. Vediamo quelle scene in fotografia negli album di famiglia e non ci turbano. A scuola studiamo senza alcun imbarazzo le imprese di tutti coloro che sono vissuti in quel lasso sterminato di tempo in cui noi non eravamo nemmeno nei propositi di qualcuno.


Quando, invece, pensiamo a tutto ciò che accadrà quando noi non ci saremo più, a tutti gli avvenimenti epocali, a tutte le scoperte che ci perderemo, alle esperienze uniche che faranno i nostri figli e i loro discendenti senza di noi, ecco, quando immaginiamo la posterità ci dispiace, la rifiutiamo intuitivamente, ci mettiamo a fantasticare su cieli, stelle lontane e altri luoghi angelici dai quali continueremo a goderci lo spettacolo e a comparire in sogno a chi ci è sopravvissuto. Benché, palesemente, non vi sia alcuna differenza intrinseca tra il nulla che ci precede e il nulla che ci attende.


La tesi di Lucrezio non fa una piega. Il punto sta nel fatto che, per lui, non c’è alcun male nel non essere mai nati. Nulla, infatti, può nuocere a chi mai ha gustato l’amore della vita né mai è stato tra i vivi. Il non esser nati è un’occasione perduta, certo, ma non un male di per sé. Tuttavia, una differenza aritmetica sembra esserci, tra quel prima e quel poi. Non c’è una perfetta simmetria, come ritiene Lucrezio. Se sottraiamo il nulla che ci precede al nulla in cui torneremo, qualcosa rimane. La differenza, lo scarto, è che il nostro Io cosciente è esistito. Per una parentesi infima, ma è esistito. Anche se dopo un certo numero di generazioni nessuno se lo ricorderà più, è stato e ha agito, come un fragile ponte sospeso tra due lunghissime assenze. Da lì in poi, nel computo dei 100 miliardi di esseri umani complessivi ci sarà anche il nostro nome, per quanto minuscolo, apparentemente insignificante e, da un certo momento in poi, muto per sempre. Sul piano squisitamente storico, esser nati fa una differenza. Siamo entrati nella grande biblioteca degli esemplari della nostra specie.


E poi c’è l’ingiustizia di chi muore troppo presto. Come la mettiamo? Chi muore giovane, magari senza figli, ha consegnato al tempo dopo la morte un certo numero di anni che avrebbe ragionevolmente e biologicamente potuto vivere ma che non ha vissuto, quindi lo riteniamo ingiusto, il che significa che, per noi, il tempo successivo non è davvero equivalente al tempo che ci precede. Qui gli epicurei come Lucrezio avrebbero risposto che ciò che non si vive non può essere considerato una perdita, perché riflette una condizione di insensibilità; non è un’opportunità mancata di godere di beni e piaceri. Chi non esiste più non può mancare di alcunché e non può reclamarlo, altrimenti dovremmo pensare che pure tutti coloro che non sono nati perché nessuno li ha concepiti soffrano di un’orribile ingiustizia.


Detto in termini morali, secondo gli epicurei la felicità di cui gode il saggio non viene accresciuta aggiungendo quantitativamente altro tempo: bisogna piuttosto godere qualitativamente del tempo che ci è dato, un tempo sempre presente. Una felicità non è preferibile perché più lunga e durevole di un’altra. Si è felici nella sobrietà, nella misura, nel senso del limite. E la morte, in effetti, ci dà un limite: mette una cornice alla nostra esistenza, scioglie tutte le contraddizioni. Questo è alquanto ragionevole; tuttavia, qualcosa non torna. Morire giovani ci sembra ingiusto lo stesso, punto. Il finire anzitempo ci turba e ci disgusta. Possiamo mettere sul tavolo tutti gli argomenti razionali che vogliamo, ma la morte di un bambino resta per noi intollerabile. Ci sarà una spiegazione. Proviamo a seguire questo indizio per capire se, una volta abbandonato anche il DNA, sia possibile esplorare qualche altra forma di immortalità materiale.


Come sfide contro la finitudine, la tecnica, il progresso e il DNA hanno fallito. L’impresa sembra sempre più disperata, ma non ci arrendiamo.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 27 marzo 1960


Monod aveva letto questo capitolo sul DNA con particolare trasporto: erano i suoi temi più cari.


Camus, invece, univa l’affaticamento fisico, che sembrava peggiorare di settimana in settimana, all’insoddisfazione. Si sentiva in gabbia, a guardare dalla finestra l’inizio della primavera nei giardini disadorni della clinica. Anche questa volta, gli pareva che qualcosa non andasse nell’argomentazione di quel libro a quattro mani. Ma non riusciva a tirar fuori la stessa energia delle altre volte.


“Perdonami Jacques, ma non capisco.”


“Che cosa?”


“Il capitolo è po’ ostico sul piano scientifico, ma è pieno di idee originali. Se riuscissi a sciogliere i passaggi più ardui sarebbe meglio. Tuttavia, mi pare che tu nutra un’eccessiva fiducia nel tuo DNA.”


“Di nuovo? Sei tu che hai qualche problema irrisolto con la scienza…”


“No, ne abbiamo già parlato. Qui, però, hai descritto un’informazione quasi immateriale, eterea, invece il DNA, benché piccolo e invisibile quanto vuoi, ha una struttura tridimensionale, è una sostanza concreta ed evoluta, da quanto ne capisco. Non è solo un codice: è materia.”


“Ma certo che il DNA è materia, tanto è vero che noi lavoriamo alla decifrazione della sua struttura chimica. Forse ho capito che cosa intendi. Non voglio affatto difendere un riduzionismo ingenuo. So bene che le strutture e le funzioni complesse degli organismi non possono essere dedotte immediatamente dalla teoria del codice genetico né sono direttamente analizzabili in scala molecolare. Se vuoi, è un po’ come la teoria quantistica rispetto alla chimica: non puoi predire e risolvere la seconda alla luce della prima, ma la prima ne costituisce la base universale. Allo stesso modo, il DNA non prevede e non risolve tutta la biosfera, ma costituisce la base di una teoria generale dei sistemi viventi. Anche se molti dettagli ancora ci sfuggono, sono convinto che nel DNA si disveli il segreto della vita che abbiamo cercato per secoli.”


“Io ci vedo un pizzico di retorica. Noi siamo anche il nostro sacrosanto corpo, una festa di muscoli, sangue e palpitazioni, che abita il presente, che delimita la nostra finitudine, per il quale il tempo è sempre disfacimento e consegna alla morte. Io ci litigo da quand’ero ragazzo, ma mi rifiuto di pensare che il nostro corpo sia soltanto un robot o un automa che obbedisce ai suoi benedetti geni, un veicolo di trasmissione dell’informazione genetica. Mi fa una gran tristezza. Il mio corpo, sofferente da sempre in un modo che mi fa bestemmiare perché non riesco più a farmi una nuotata o a correre su un prato con i miei figli, per di più adesso così martoriato da un accidente aggiuntivo, è comunque il campo di possibilità di tutte le mie esperienze carnali. Il tuo DNA non è più vero del mio corpo, di questo complice che mi fa dannare.”


“Capisco Albert, ma senza il DNA non ci sarebbe alcun corpo. Non lasciarti abbindolare da fumose teorie olistiche o organicistiche, o da vaghe teorie generali dei sistemi. Questa è una disputa grossolana. Il metodo analitico è fondamentale per comprendere i sistemi complessi: se vuoi capire come funziona una macchina devi smontare i componenti. C’è già tantissima complessità anche in una struttura molecolare, con la sua gratuità chimica, la selezione dal basso, eccetera. Se partissimo da uno studio delle capacità globali di un sistema, non capiremmo quasi niente. Solo salendo dalle unità primarie alle loro relazioni riusciamo a capire in che senso la rete di regolazione di un organismo sembra trascendere, senza trasgredirle, le leggi fisiche e chimiche fondamentali. Capisci? Dopo di che, certo, non è la materia a essere vivente, ma è un sistema, cioè un insieme di relazioni, il più basilare dei quali è la cellula.”


“Tu descrivi il DNA come se fosse la memoria di un calcolatore e noi fossimo la macchina.”


“Non è vero. Il DNA non è come la memoria di un calcolatore, perché questa non codifica per la costruzione e la crescita della macchina stessa, quindi DNA e memoria di calcolo non hanno la stessa funzione. E poi la memoria del calcolatore è integrabile a piacimento, il DNA no, è l’invariante stabile della vita, salvo mutazioni.”


“Ma non c’è solo questa ‘trascendenza’ materiale del vivente, ce n’è un’altra: quella per cui una specie biologica come noi crea opere d’arte sublimi, immagina mondi che non esistono, capisce di essere il frutto di un’evoluzione contingente e si ribella alla sua finitudine.”


“Sono d’accordo. Ma questo è un altro piano ancora. L’anima non ha alcuna sostanza immateriale, come scriveva Lucrezio, ma da un certo punto di vista esiste: è il regno delle idee che noi stessi abbiamo creato nel corso dell’evoluzione. Evoluzione biologica e culturale da tempo sono in simbiosi l’una con l’altra. Ai malati genetici viene permesso di riprodursi, quindi la selezione naturale agisce più debolmente, con rischi di degradazione genetica, ma non può essere altrimenti se vogliamo restare umani.”


“Appunto, vedi che dobbiamo ribellarci anche al tuo DNA?” Camus fece una smorfia.


“Io lo direi diversamente, Albert. I comportamenti individuali e, soprattutto, di gruppo orientano la selezione naturale; quindi, oggi, la componente intellettuale ha preso sempre più il sopravvento, per pressione selettiva. L’evoluzione delle idee si sta dissociando sempre più dal mondo fisico e sta andando per conto suo. Secondo me, il caso e la necessità agiscono anche nelle idee: si perpetuano, si moltiplicano tra gli esseri umani, si ricombinano, modificano i comportamenti con effetti differenziali. Pensa al potere di penetrazione di un’idea nella popolazione: non necessariamente vincono le idee migliori! Anzi, le idee di maggior successo evolutivo sono proprio quelle che spiegano l’uomo nel contesto di un destino immanente, che incitano al conformismo tribale e alla coesione contro altri gruppi, contro ogni oggettività scientifica. È il paradosso dell’animismo. Questa evoluzione culturale, se non è ben diretta sul piano politico, rende Homo sapiens sempre più potente nei confronti dell’ambiente e sempre più ambiguo, ovvero sempre più radicalmente sospeso tra il regno delle idee e le tenebre dell’autodistruzione. L’uomo diventa la principale minaccia per se stesso.”


“Ma allora vedi, Jacques, che non c’è solo il DNA?”


“Ma chi l’ha mai detto? Non mi pare che abbiamo scritto questo. Nemmeno restando nella biologia. In ogni animale esistono sistemi che assicurano su larga scala il coordinamento di tutte le attività dell’organismo: sistema nervoso, endocrino, il tuo sistema respiratorio malandato e così via. Il coordinamento tra migliaia di miliardi di cellule si realizza attraverso una rete estremamente complessa di segnali. Ma anche all’interno di ciascuna cellula esiste una formidabile rete cibernetica, cioè di controllo e regolazione, delle attività metaboliche che assicura la coerenza funzionale dell’intricato apparato chimico intracellulare. La cellula è una città così complessa che, senza un raffinato sistema di regolazione, finirebbe presto nel caos. Negli esperimenti che stiamo facendo al Pasteur e in quelli degli americani e degli inglesi su metabolismo, accrescimento e divisione dei batteri, vediamo che i governatori della rete cibernetica della cellula sono le proteine regolatrici, in particolare alcuni enzimi detti allosterici, come ho spiegato nel capitolo. Sono come migliaia di microscopici diavoletti di Maxwell che danno la potenza cibernetica alla cellula.”


“Questa cosa dell’allosteria non mi è del tutto chiara. Forse dovremmo scriverla meglio.”


“Va bene, mi rileggo quella parte. Provo a dirtelo in altro modo. Gli enzimi classici, che sono proteine pure quelli, riconoscono un substrato specifico associandosi a esso e attivano la sua conversione in prodotti: in pratica sono catalizzatori, facilitatori di reazioni chimiche. Quelli allosterici hanno una proprietà aggiuntiva: riconoscono in modo selettivo uno o vari altri composti chimici, associandosi ai quali riescono a modificare la loro azione sul substrato, per esempio aumentandola o inibendola. Il segreto sta sempre nella forma tridimensionale delle proteine, nella loro struttura, e nelle sue modificazioni. Se cambia la conformazione, cambiano le proprietà e le funzioni, capisci?”


“Questo mi è chiaro, ma non riesco bene a visualizzarlo. Tu queste cose le fai negli esperimenti, ma per me sono invisibili.”


“Le interazioni allosteriche sono alla base delle modalità di regolazione delle attività cellulari. Le molecole che si attaccano agli enzimi non partecipano alla reazione chimica: sono come i relè dei circuiti elettronici che, con una minima energia, scatenano grandi reazioni. In pratica, il linguaggio attraverso il quale le proteine riconoscono i segnali chimici è dato dalla loro forma tridimensionale. Inoltre, l’attivazione di enzimi allosterici dipende in modo non lineare dalle loro concentrazioni, quindi ci sono effetti soglia: superata una certa concentrazione, scattano; al di sotto, niente. Non è magnifico?”


“Magnifico lo è di certo. Forse, se mi racconti come ci siete arrivati capisco meglio. Non spiegare la scienza dalla coda, spiegala dall’inizio, cioè dal processo che vi ha portati al risultato.”


“Ti ricordi quando sono venuto, una delle prime domeniche, a gennaio, e ti ho raccontato l’induzione enzimatica e quella questione dei geni regolati, attivati e disattivati?”


“Certo, mi ricordo, la storia dei batteri di Escherich che imparano a digerire il latte.”


“Sì, qualcosa del genere. È grazie a quella linea di ricerca che abbiamo capito.”


“Capito cosa? L’allosteria o come diavolo si chiama?”


“Esatto. Dopo aver capito l’induzione enzimatica, in parallelo Jacob – insieme a un americano e al figlio di due scienziati ebrei deportati ad Auschwitz, Élie Wollman, cresciuto fin da ragazzo con noi al Pasteur – ha escogitato un modo geniale di individuare i geni nei batteri e nei virus che li attaccano, i fagi. In pratica, interrompono il trasferimento dei geni da un batterio all’altro durante l’accoppiamento e riescono a individuarli. Lo abbiamo chiamato metodo del coitus interruptus…”


“Efficace definizione! Ma le proteine cosa c’entrano?”


“Il grande tema è quello che, nel capitolo, abbiamo solo sfiorato, perché ancora ci mancano dettagli. Ma siamo vicini alla soluzione. Che relazione c’è tra l’informazione codificata nei geni e la produzione delle proteine, che sono i mattoni di tutta la vita? Adesso sappiamo bene o male come sono fatte le proteine e sappiamo che fanno tutti i lavori nelle cellule: spezzano i nutrienti, assemblano componenti cellulari, copiano il DNA. E a loro volta sono sintetizzate a partire dal DNA! Questa circolarità tra l’uovo e la gallina mi fa impazzire. Non ci dormo la notte.”


“Però, scusa, nel capitolo hai messo che la sequenza del DNA specifica la sequenza degli aminoacidi, ho capito bene?”


“Giusto. Ma c’è dell’altro. Tre anni fa, allo University College di Londra, Francis Crick ci ha solennemente enunciato due principi chiave, senza prove sperimentali, sul modo in cui il DNA controlla la sintesi delle proteine: il primo è l’ipotesi della sequenza, secondo cui la specificità di un frammento di DNA è data soltanto dalla sequenza delle sue basi, che funge da codice lineare per la sequenza di aminoacidi delle proteine; il secondo l’ha chiamato ‘Dogma Centrale’ e dice che l’informazione va dal DNA alle proteine, mai viceversa, ovvero che è un flusso direzionato. Io credo che abbia ragione su entrambi i punti e presto troveranno i riscontri. Ma tra il DNA e le proteine c’è una scatola nera; non si capisce che cosa succeda lì nel mezzo.”


“E qui subentrate voi francesi, giusto?”


“Corretto. A me interessa la regolazione della sintesi delle proteine, cioè: come e perché un enzima è sintetizzato dai batteri in risposta a un nutriente. Crick sostiene che è prematuro porsi questa domanda; per me no. Dobbiamo trovare le molecole coinvolte nel processo di induzione e identificare, attraverso mutazioni, i geni coinvolti. Un paio di mutazioni le avevamo anche trovate, con il metodo di Jacob, ma non ne venivamo a capo. Non riuscivamo ad afferrare il meccanismo. Finché, due anni fa, ci ha fatto visita al Pasteur il grande fisico ungherese Leó Szilárd, che dalla fisica atomica è passato alla biologia.”


“Szilárd! Uno dei famosi ‘marziani’ emigrati negli Stati Uniti: gli scienziati ungheresi con un’intelligenza inarrivabile. Ho letto la sua storia. Apprezzo molto il suo appoggio ai dissidenti e ai rifugiati, e il senso di responsabilità dei suoi appelli sui pericoli di una guerra nucleare condotta con le bombe che lui stesso ha contribuito a realizzare nel Progetto Manhattan.”


“Be’, da noi ha confermato di essere un genio. Ci disse che aveva parlato con Crick e che gli era venuta un’idea: la sintesi degli enzimi, secondo lui, non è prodotta da induttori diretti, cioè da molecole che arrivano e la fanno partire, ma, al contrario, in condizioni normali è inibita o repressa. Gli induttori, quando arrivano, bloccano i repressori, attivandola. In pratica, è una via indiretta. Sulle prime non gli ho dato retta, poi ho capito che quella era l’idea che spiegava i nostri esperimenti. Ha senso: l’enzima deve essere prodotto quando serve; quindi, normalmente, è represso e quando è necessario viene ‘liberato’. Non ci avevamo pensato. La natura segue una via contorta!”


“Le grandi scoperte si fanno sempre con gli occhi degli altri. Vero?”


“Vero, la scienza è un’impresa collettiva, c’è poco da celebrare gli eroi romantici solitari.”


“Mi pare che il vostro creare una nuova teoria significhi scoprire connessioni inaspettate tra il vostro punto di partenza e l’ambiente circostante.”


“Lo diceva anche Darwin: il genio scientifico è trovare connessioni tra fatti sparsi.”


“Poi che cosa è successo? Come siete arrivati al meccanismo?”


“Non so se ci siamo arrivati, Albert! Posso però dirti che l’estate di due anni fa il mio amico Jacob, mentre se ne stava sfaccendato al cinema, ha avuto un’intuizione. Ha messo insieme le sue ricerche sui virus dei batteri e i nostri esperimenti sull’enzima lattasi.”


“Connessione tra fatti sparsi!”


“Appunto. In entrambi i casi la logica è la stessa: un gene, che noi chiamiamo regolatore, governa la formazione di un repressore che, legandosi a un operatore, blocca l’espressione di altri geni, detti strutturali, e previene sia la sintesi dell’enzima sia la moltiplicazione del virus che attacca i batteri. Il lattosio, da una parte, e la luce ultravioletta usata da Jacob sui batteri e i virus, dall’altra, disattivano il repressore e così avviene l’induzione sia enzimatica sia virale!”


“Aspetta, aspetta, mi sono perso tra geni regolatori, repressori, operatori, strutturali…”


“In pratica, abbiamo scoperto che alcuni geni regolano l’attivazione o la disattivazione di altri geni, che danno le istruzioni per fare le proteine. I primi fanno i direttori di cantiere, i secondi fanno i muratori. Il meccanismo è quello dell’interruttore, acceso-spento. I due protagonisti sono il repressore, che è generato dal gene regolatore, e l’induttore esterno. Se un induttore, per esempio lo zucchero lattosio, si lega al repressore o all’operatore, che sta a monte dei geni muratori o strutturali, impedisce l’attracco, e dunque l’azione, del repressore. Quindi, i geni strutturali vengono attivati ed espressi, cioè avviano la sintesi proteica. Se, invece, l’interruttore si rompe proprio, se va in palla, non c’è più repressione e l’attività genica diventa continuativa e costitutiva. Se una mutazione altera il gene regolatore, si disabilita la repressione, a meno che non vi sia un altro gene normale nella cellula. Oppure la mutazione può avvenire nell’operatore e disabilitare il legame con il repressore. O ancora, mutazioni nei geni strutturali possono direttamente alterare la produzione di specifici enzimi. In tutti questi casi il repressore non fa il suo mestiere e la proteina viene sintetizzata. Normalmente invece, quando non serve, il repressore blocca tutto.”


“Forse adesso ho capito: è un meccanismo di regolazione genica per cui certi enzimi vengono prodotti solo in presenza di un certo nutriente, il vostro induttore.”


“Esatto, e se abbiamo visto giusto, questi meccanismi di regolazione delle proteine sono universali, cioè valgono per i batteri di Escherich come per gli elefanti. Crick era stato pessimista. Questo è il lato che mancava per capire il segreto della vita.”


“E come l’hanno presa inglesi e americani?”


“Bene, direi. L’estate scorsa, a Copenaghen, c’erano tutti e abbiamo proposto di distinguere tre elementi genetici coinvolti nella regolazione della sintesi delle proteine: i geni strutturali portano il codice che permette la sintesi della struttura delle proteine; i geni regolatori governano l’espressione dei geni strutturali; e poi c’è l’operatore, il sito dove si lega il repressore. Le mutazioni che avvengono a questi tre diversi livelli hanno diversi effetti e proprietà. Ma dobbiamo ancora trovare le prove definitive di questo modello.”


“Ma il repressore che cos’è?”


“Non ne siamo sicuri. Forse una proteina.”


“Quindi, fammi capire, la regolazione genica è una questione di interazioni tra proteine e DNA, più le sostanze esterne tipo il lattosio, che interferiscono con il repressore e sbloccano i geni.”


“Proprio così. Ora ti sarai convinto, spero, che il gioco della vita non è solo a base di DNA.”


“Sì, ma al DNA sempre si ritorna, in un modo o nell’altro. Come si collega tutto questo con l’allosteria, che ancora mi risulta ostica da digerire?”


“Si collega perché queste interazioni si basano sulla struttura delle molecole e sui loro cambiamenti. Il gene regolatore dirige la sintesi della proteina repressore a tasso costante e basso. Questa è la condizione normale e non succede nulla, perché il repressore riconosce selettivamente il segmento operatore nel DNA al quale si associa formando un composto stabile. La struttura di questo composto blocca l’operatore a monte, che a sua volta interrompe la sintesi della proteina a valle. Dove ‘a monte’ e ‘a valle’ significa che l’operatore viene subito prima dei geni strutturali nel DNA. Risultato: i geni strutturali non avviano la trascrizione e la traduzione in sequenze di aminoacidi; quindi, niente proteine. Tutto quieto e spento. Se, invece, arriva l’induttore, legandosi al repressore ne modifica la forma, la struttura – ecco perché allo-steria, cioè ‘cambio di conformazione’ –, con il risultato che non si lega più all’operatore. Tutto chiaro?”


“Adesso è un po’ più chiaro.”


“Quindi, se in coltura si introduce un induttore (tipo il galattoside, ti ricordi?), questo penetra nella cellula e si lega al repressore, che riconosce i galattosidi, cambia proprietà allosterica, cioè struttura, non si lega più all’operatore e sblocca il processo. Vale a dire: trascrizione e traduzione in proteine. Vedi che l’allosteria è sempre decisiva, sempre in mezzo. Il repressore è il punto di snodo, ma è un semplice mediatore di segnali chimici, non ha alcuna attività propria. L’effetto dell’induttore galattoside sulla sintesi dell’enzima è indiretto e dipende dalle capacità allosteriche del repressore. Aveva ragione Szilárd.”


“In pratica, il repressore inattiva la trascrizione ed è sua volta inattivato dall’induttore esterno. Jacques, sei diventato hegeliano?”


“In che senso?”


“Stai dicendo che la negazione di una negazione genera una proposizione o proprietà nuova e di livello superiore. L’inibitore viene inibito. Dialettica hegeliana.”


“Ma no, non è una relazione dialettica. Gli stati possibili sono due e sono sempre quelli, negativo o positivo, cioè trascrizione o non trascrizione di un’informazione che è già inscritta nel DNA. Quindi non è Hegel, è semplice algebra!”


“Meno male…”


“Non c’è niente di più assurdo delle interpretazioni dialettiche di fenomeni naturali, tipo che la pianta sarebbe la negazione del chicco: follie! Non sopporto queste interpretazioni soggettivistiche e antropomorfiche della natura. Sono ideologie che fanno danni epistemologici, morali e politici. Piuttosto, ha ragione Lysenko quando afferma che la teoria del gene è incompatibile con il materialismo dialettico! Quindi, è vera la prima e falso il secondo.”


“A proposito di Lysenko e di ungheresi, Jacques, quando parti per la tua missione segreta a Budapest?”


“Tra una settimana, il 4 aprile. Ci ho messo un po’ a farmi invitare e a superare le ritrosie dei colleghi più timorosi a Budapest. Pure nella scienza ci sono i conformisti che interiorizzano sempre le norme anche più del dovuto. I biologi ungheresi sono molto indietro sulla genetica dei batteri. Per fortuna adesso parto, perché Kovesi, nel frattempo, ne aveva inventata un’altra e devo arginarlo.”


“Dopo il circo e il battello sul fiume, non oso immaginare.”


“Mi ha scritto dicendomi di aver trovato una vecchia Ford Fairlane insospettabile, in cui nascondere la coppia. Gli ho intimato di fermarsi. Il problema è che, tra un tentativo e l’altro, abbiamo speso quasi tutti gli 8000 dollari del budget. Agnes è disperata. Sto cercando di rincuorarla. Adesso viene la bella stagione: ora o mai più. Ho litigato con un collega ungherese emigrato negli Stati Uniti, Árpád Csapó, che rivuole indietro i soldi della Hebrew Immigrant Aid Society da me in persona. Come se dovessi rispondere io del denaro. In compenso, sono riuscito a farmi prestare altri 5000 dollari da Lwoff.”


“Dal grande capo!? Ma voi al Pasteur siete proprio un covo di rivoltosi.”


“Una famiglia, tutti solidali con la causa. Ho anche scritto 68 pagine di appunti di demolizione analitica della dottrina di Lysenko. Ho provato a leggere cosa scrive quel criminale ed è un orrore. Non ha capito le mutazioni spontanee, onnipresenti e imprevedibili, né il ruolo del caso nell’evoluzione. Non ha capito che le scienze, oggi, hanno una base statistica e probabilistica. È proprio puro bolscevismo fondamentalista.”


“Di cosa ti stupisci? Poiché il marxismo non è stato capace di rendersi scientifico, ha cercato di rendere marxista la scienza mediante il terrore. E allora nega, nega tutto: le scoperte successive a Darwin, le mutazioni di de Vries, il concetto di caso. Stalin ha incaricato Lysenko di disciplinare i cromosomi: se non fossero degli sterminatori, sarebbero ridicoli. Non vedo l’ora che neghino anche il principio di indeterminazione in fisica, la relatività, la teoria dei quanti, il Big Bang.”


“E io glielo vado a dire agli ungheresi.”


“Non li convincerai mai, Jacques. Parlate due lingue diverse. Quelli promettono miracoli in terra, sempre dilazionati. Cambia poco rispetto alle illusioni delle religioni. Cristianesimo e comunismo sovietico hanno in comune la promessa di un paradiso – uno in cielo l’altro in terra – che dovrebbe indurci a sacrificare la nostra vita adesso. L’unica che abbiamo. Un delitto. Non bisogna combattere per una promessa astratta di giustizia futura, per un’utopia, ma per la giustizia adesso, in questa vita.”

“Sono d’accordo, però come tu mi insegni la rivolta parte da azioni concrete di onestà, lucidità e verità. La mia è far uscire Agnes da quel delirio di Stato.”

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 8 maggio 1960

Jacques Monod cominciò a leggere.

Bozza del capitolo quinto

Diventare un coleottero alato

Ma poiché sopra ho dimostrato che nulla può crearsi dal nulla, né al nulla può tornare ciò che è stato generato, devono essere di sostanza immortale gli elementi primordiali in cui possa scomporsi ogni essere nell’ora suprema, affinché basti la materia per rifare le cose.

LUCREZIODe rerum natura, libro I, 543-547

Eccoci dunque sospesi tra due interminabili nulla: il nulla prima di noi, il nulla dopo di noi. Il nulla del passato è la somma di tutte le vite andate che non erano la nostra. Il nulla del futuro è la somma di tutte le vite a venire che non saranno la nostra. Il nulla, in quanto tale, non dovrebbe aggiungere né togliere alcunché al reale. Non dovremmo aver paura di quando non ci saremo più, perché appunto non ci saremo più, esattamente come non c’eravamo prima. Non sapremo di non esserci. Quando vegliamo un caro defunto, lui o lei non è più lì, non sta soffrendo con noi, non c’è più. Eppure, le esperienze psicologiche di questi due nulla sono molto diverse tra loro, come abbiamo visto. La simmetria tra passato e futuro, quindi, è un’astrazione: come non ci duole di non aver camminato tra i colonnati del foro dell’antica Roma, così non ci dovrebbe dispiacere di non poter vedere come saranno le città e le genti nel XXII secolo. Ebbene, non è così.

Rideranno ancora i bambini, dopo di noi

Lo sbilanciamento tra il passato e il futuro è irrazionale, d’accordo, ma tra l’uno e l’altro c’è una differenza reale, scritta nella carne delle nostre esistenze individuali: la comparsa di un essere cosciente di sé, che è esistito in un insignificante frammento di tempo tra quel passato e quel futuro. Insignificante in astratto, ma significante massimamente per l’interessato, essendo la sua unica, provvisoria finestra di consapevolezza su questo universo. La finitudine può anche cancellare ogni traccia della nostra esistenza, ma nulla può impedirci di essere esistiti.

La Terra è già vecchia, ci restano un miliardo di anni o forse meno. Ecco dunque una conferma anche numerica dell’asimmetria: il tempo che abbiamo alle spalle, noi umani del XX secolo, è molto più lungo di quello che abbiamo davanti. Siamo nati su un pianeta anziano. E allora culliamo l’illusione (perché rimane un’illusione, ma un’illusione a suo modo commovente) che ciascuno di noi, mentre di certo non poteva influenzare retroattivamente il suo passato, possa invece influenzare il suo futuro, possa cioè introdurre qualche minuscola perturbazione da far propagare e deflagrare nel miliardo di anni che resta.

La morte prematura ci scandalizza e ci indigna, e ora capiamo che è giusto così. Il prematuro è ovviamente relativo all’epoca in cui si nasce, visto che l’età media umana superava a fatica i 40 anni fino a pochi decenni fa. Ma non importa. Dobbiamo ascoltare la verità di quel grido di ingiustizia. Un tempo era normale che morissero i bambini, oggi non più, almeno in una parte del mondo. Chi muore giovane, ebbro di vita, ha consegnato al tempo post mortem, al nostro residuo miliardo di anni, un certo lasso cronologico che non ha vissuto e che avrebbe potuto vivere. Ha aggiunto un piccolissimo cucchiaino di tempo perduto all’oceano enorme, ma non infinito, della sua assenza futura. Quindi c’è una differenza: infinitesima, ma c’è.

In questo viaggio nella finitudine, allora, ci distacchiamo dalla nostra guida poetica, Lucrezio, quando scrive, nella possente chiusa del libro III (1087-1094) del De rerum natura, che il tempo della nostra non-esistenza è infinito, quindi non cambia nulla vivere qualche mese o anno in più:

Né prolungando la vita sottraiamo qualcosa al tempo della morte, né riusciamo a intaccarlo, magari per poter essere morti meno a lungo. Vivendo puoi quindi seppellire tutte le generazioni che vuoi: nondimeno ti aspetterà proprio la morte eterna, e chi ha smesso di vivere soltanto da oggi non sarà meno a lungo privo di esistenza di chi è morto molti mesi e anni prima.

Non è così. L’argomento è razionalmente ineccepibile, ma è solo aritmetica. Il malato terminale che guadagna sei mesi di vita grazie a una nuova terapia è davvero “morto meno a lungo”. Quell’impercettibile sottrazione alla sua assenza sarà anche uno sputo nell’universo, ma per lui o per lei significa abbracci, parole, sguardi, lasciare una lettera in eredità, fare testamento, veder crescere ancora un pizzico i suoi figli, lavorare e far finta che non sia finita, regolare un conto in sospeso con qualcuno o qualcosa, bere ancora una volta l’acqua fresca nel cavo delle mani, soffrire in un letto ma pur sempre con un cielo fuori dalla finestra. Quel tempo futuro senza di noi è comunque un tempo che ha avuto noi nel suo passato, compresi quei sei mesi regalati dalla medicina o dalla sorte.

La resistenza psicologica dello sbilanciamento tra passato e futuro va dunque rispettata, perché ci insegna una lezione importante. Erodere alla morte ancora un po’ di tempo significa mantenere accesa, nel tumulto dei venti, la candela della nostra coscienza. Il tempo futuro della nostra assenza ci ferisce e ci tormenta perché è diverso dal passato: è un tempo che ha avuto noi nel suo passato. È un tempo che ammette la possibilità della nostra esistenza, una possibilità già realizzata, conclusa e incasellata nel grande archivio dell’umanità. Il nostro Io fu. Nell’antica Roma, al contrario, la nostra esistenza non era minimamente contemplata. Ecco perché non ci tocca.

Non importa se saremo dimenticati, perché noi saremo esistiti, avremo il nostro posto nella popolosa biblioteca della specie. Il nocciolo della questione della finitudine, in penultima istanza, sta dunque nel nostro attaccamento alla coscienza e alla personalità soggettiva. Sta nelle nostre inalienabili esperienze in prima persona. Risiede nell’inevitabile, antropomorfico individualismo di ognuno di noi. Proiettiamo le nostre categorie sulla natura, sul senso dell’universo e sull’asimmetria tra tempo passato e tempo futuro della nostra assenza. Sono sempre io che vedo, che capisco, che mi interrogo.

Non resta, quindi, che pagare un prezzo, altissimo ma inaggirabile, per tentare un’estrema sfida alla finitudine: rinunciare all’amore per il proprio Io, all’ossessione per la propria individualità, al miraggio persistente di essere il filtro interpretativo del mondo. Se non è più lo specchio e la riproposizione esatta del nostro Ego a ciò a cui teniamo, allora anche l’eternità del DNA ci consola un po’ di più. Se non è la narcisistica reiterazione della soggettività l’obiettivo, allora proprio nella composizione materiale del nostro essere potremmo trovare un’ambizione di immortalità.

L’Io, in fondo, è un’allucinazione passeggera. Gli alberi continueranno a cadere nella foresta, anche se non potremo vederli. I bambini continueranno a ridere nei prati, anche se non potremo sentirli. E qualcosa di noi resterà.

Vagiti e ultimi respiri

Quale immortalità materiale potremo dunque concepire, dopo la dolorosa rinunzia al nostro egocentrismo? Scrive Lucrezio che solo due cose nell’universo sono eterne: gli atomi e il vuoto. Gli atomi sono immortali e incorruttibili. Formano cicli infiniti di aggregazioni e disgregazioni, ma loro restano sempre, non c’è dissoluzione nel nulla. Altrimenti noi non saremmo qui a parlarne. Si perdono ogni volta il tessuto, le trame dei corpi, ma le loro componenti minime sopravvivono e torneranno ad aggregarsi. Non cadranno nel nulla, ma entreranno in altri cicli stagionali, in altri circuiti degli elementi, nell’infinito gioco della nascita e della morte di ogni cosa. Non si genera mai nulla se non dalla morte di qualcos’altro.

Le particelle elementari delle cose sono eterne. I mattoni sono eterni, le loro costruzioni, invece, mortali e corruttibili. Il mondo è mutazione incessante di forme composte da sostanze indistruttibili. Materia e vuoto, prosegue Lucrezio, si compenetrano sempre nella loro eternità: non esistono il pieno perfetto né il vuoto perfetto. I corpi si dissolvono più velocemente di quanto si costituiscano, e poi si ricostruiscono di nuovo. C’è infatti un limite allo scindersi, al distruggere e al disgregarsi, perché altrimenti tutto finirebbe nel nulla e nulla potrebbe più rifarsi. Il disgregarsi è la condizione per nuove aggregazioni, e viceversa. La natura è eterno ricominciamento.

La vita, in effetti, ha una logica combinatoria, abbiamo detto. Anzi una doppia logica combinatoria, inscritta nella diarchia DNA-proteine. Lucrezio, due millenni fa, scriveva di urti, connessioni, incontri, pesi e contrappesi, movimenti. Per lui era l’eterna lotta ciclica della vita e della morte (libro II, 569-580):

Non possono allora vincere sempre i moti distruttori né seppellire in eterno l’istinto vitale, né possono d’altra parte i moti generatori e accrescitivi conservare per sempre quanto hanno creato. Così, ad armi pari, si combatte tra i principi una guerra impegnata da tempo infinito. Qua e là, ora vincono le forze vitali, ora son vinte a loro volta. Al rito funebre si mischia il vagito che levano i bimbi nel vedere le rive della luce; né mai notte è seguita a un giorno, né aurora a una notte che non abbia sentito, misti all’inquieto vagire, i pianti compagni della morte e del nero funerale.

Vagiti e ultimi respiri: la morte non è mai assoluta, non è onnipotente, non è sola. Bisogna pure che qualcosa resti immutabile affinché la realtà delle cose non degeneri ben presto nel nulla. Dunque, esiste un residuo immortale, limitatamente allo sterminato destino temporale dell’universo. Immortali non sono gli dei, ma quelli che Lucrezio chiamava i principi primi, insensibili, le fondamenta di tutto: gli atomi e il vuoto. Da quelli veniamo e a quelli torniamo. Oggi, sulla composizione della materia e dell’energia sappiamo ben di più e il linguaggio, ovviamente, è assai diverso, ma la sostanza dell’argomento filosofico lucreziano non cambia.

Siamo ombra e polvere, ma ombra e polvere generative. Onnipotente non è la morte, ma il cambiamento. Gli atomi che compongono il nostro corpo, incluso il nostro cervello, dopo la nostra morte torneranno nel grande flusso e calderone universale. Certo, la perdita dell’identità individuale e del destino personale è senza ritorno, è l’inevitabile prezzo – compreso il ricordo-palliativo di opere e gesta, che in un lasso di tempo abbastanza lungo sbiadirà pure quello –, ma gli elementi della nostra costituzione materiale, quelli no, non svaniranno. Non sarà mai più la nostra vita, ma dopo la morte la vita continua, sotto altre forme, anche grazie al minuscolo contributo materiale di ciò che fummo.

Immortalità di un atomo di carbonio

E allora potremmo andare oltre, fantasticando su questa immortalità materiale senza coscienza. Se gli atomi del nostro corpo serviranno forse, un giorno, a formare altri organismi viventi, nella nostra o in lontane biosfere, allora ci viene restituito un senso di appartenenza al mondo. O almeno un riverbero. Pensiamo all’elemento carbonio che tanto ci caratterizza. Si forma nelle fornaci stellari ad altissime temperature e pressioni, in stelle di grandi dimensioni, quando l’idrogeno si esaurisce e diventa elio, e il collasso gravitazionale fa ripartire il processo di fusione sintetizzando elementi via via più pesanti, fino alla loro espulsione finale. Letteralmente, ogni singolo atomo di carbonio che compone il nostro corpo è nato dentro una stella e poi ha compiuto un lunghissimo viaggio accidentale fino alla Terra.

Per nostra cosmica fortuna, la Via Lattea è una galassia sufficientemente antica da aver avuto al suo interno vari cicli di nascita, evoluzione e morte di stelle, che, detonando, hanno disseminato la nostra regione cosmica di elementi pesanti indispensabili per la vita. Dunque, non solo viviamo su un pianeta anziano, ma su un pianeta anziano dentro un sistema solare sufficientemente anziano che fa parte di una galassia anziana. Scopriamo, così, un legame insospettato tra la nostra presenza nell’universo e la vecchiaia dei mondi. Se la Via Lattea fosse stata più giovane, non avrebbe avuto nel suo grembo gli elementi pesanti, come carbonio, ferro, calcio, fosforo e altri, necessari alla vita. La Terra è vecchia, la galassia è vecchia, dunque esistiamo.

Stabilita la nobile provenienza degli atomi di carbonio, possiamo ipotizzare che fossero presenti sulla Terra nella forma di rocce calcaree o sedimenti petroliferi, di diamanti e grafite. Per affioramento o combustione, sposandosi con due atomi di ossigeno, entrarono in atmosfera nella forma di gas, l’anidride carbonica. Poi il vento se li portò, gli animali li respirarono ed espulsero, si sciolsero nell’acqua e furono di nuovo eiettati nell’aria. Senza fine, intrapresero altri viaggi casuali in atmosfera. Tutto sommato, stiamo parlando di poche parti per milione, lo 0,03% dell’atmosfera è anidride carbonica: un niente, un’impurezza dell’aria da cui, però, discende tutta la vita e anche noi, grazie all’effetto serra. Quel che in atmosfera appare come un rimasuglio di nessun conto costituisce in realtà la preziosa materia, composta di molecole lunghe, di cui è intrisa la nostra impalcatura corporea.

Il manipolo di atomi di carbonio rasentò una foglia, venne catturato, inchiodato da un raggio di sole, rivoltato dalla clorofilla, il tutto in milionesimi di millimetro e di secondo, silenziosamente, invisibilmente, alla temperatura e alla pressione dell’atmosfera. Separato dall’ossigeno, unito all’idrogeno e ad altri elementi, formò lunghe catene. Gli atomi di carbonio entrarono in un’arzigogolata struttura proteica oppure formarono un anello esagonale e, disciolti in acqua, divennero linfa della pianta, cioè glucosio. E qui si palesa quel senso di appartenenza.

Noi mangiamo un frutto o una parte della pianta, oppure beviamo il succo dei grappoli fermentati: il digerito va nel fegato come riserva e viene usato per alimentare i muscoli in uno sforzo; il glucosio, con il suo carico di carbonio, si spacca in acido lattico, poi viene ossidato e i polmoni, avidi di ossigeno, espellono di nuovo anidride carbonica. L’atomo di carbonio è di nuovo libero di fluttuare in quel mare d’aria da cui era venuto. L’energia chimica intrappolata dalla pianta è diventata calore nello sforzo dell’animale che di quella pianta si è alimentato. Come tale, è un’energia più degradata: contribuisce al disordine, all’entropia, fino all’equilibrio finale, cioè la morte. La vita si annida in un’ansa del fiume inarrestabile che porta all’equilibrio termodinamico. Prima o poi, un’onda la strappa a quell’ansa e se la trascina via.

Gli atomi di carbonio, viaggiando senza meta, finiscono nella cellulosa di un abete rosso. Questo, abbattuto da una tempesta, diventa cibo per tarli e larve, che si trasformano in farfalle e volano via con il loro pacchetto di carbonio. La farfalla – effimera, come si è detto – muore e si decompone. La chitina delle sue ali e delle sue tuniche resiste un po’ di più. I microrganismi dell’humus la disintegrano e l’atomo di carbonio torna ancora una volta in volo. Ha ragione Lucrezio: la fine degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile.

In un perpetuo girotondo di vita e di morte, mediamente ogni duecento anni l’atomo di carbonio a zonzo per la Terra entra, esce e rientra nel ciclo dei viventi, passando attraverso la strettissima porta della fotosintesi: un miracolo ineguagliabile di biochimica. A meno che quell’atomo non sia trattenuto più a lungo in una qualche struttura: nel calcare dei sedimenti, negli strati di gusci e scheletri, nel carbon fossile e nel petrolio, figli di legni antichi, cioè ancora di attività fotosintetiche compiute in epoche lontane; ma anche nella celluloide, nella bachelite e nel moplen, emblemi del progresso che ora impregnano le nostre vite urbane e industrializzate.

Palingenesi

E se andassimo ancora oltre? Facciamo un esperimento mentale. Poniamo che il rimescolamento degli atomi immortali prosegua per un tempo infinito. In effetti, la fine dell’universo, per come lo conosciamo, è così lontana nel futuro da assomigliare a un asintoto. In un tempo infinito, le combinazioni degli atomi sono infinite e ciascuna potrebbe ripetersi indefinite volte. Quindi, non possiamo escludere che un ipotetico giorno gli atomi del nostro corpo possano ricostituire un’aggregazione già esistita in passato e tornare a far parte di un essere umano.

Lucrezio, in effetti, si lasciò ammaliare da questa vertigine, nel libro III del De rerum natura (847-858). Nello “spazio immenso del tempo passato”, non è impossibile che i nostri atomi si assemblino di nuovo nello stesso modo e con lo stesso ordine. Considerando un tempo infinito, il nostro corpo potrebbe riformarsi di nuovo. Si tratta di una versione, meramente probabilistica, dell’idea di palingenesi, l’esser generati di nuovo, che attraversa la teologia, la filosofia ma anche scienze come la geologia e la biologia. Giunta la fine dei tempi, chiuso un ciclo, si rinasce di nuovo:

Rivolgendoti infatti a guardare tutto lo spazio immenso del tempo passato e quanto siano molteplici i moti della materia, puoi senza sforzo convincerti che questi stessi semi, di cui ora siamo fatti, in precedenza sono spesso stati posti nello stesso ordine di ora.

Lucrezio, però, precisa subito che la palingenesi non è una resurrezione. Infatti, come nel caso dell’ibernazione e della clonazione di cui abbiamo discusso nel secondo capitolo, anche se rigenerati non saremo più noi, perché “uno stacco della vita” avrà interrotto la continuità della memoria e “tutti i moti han vagato lontano dai sensi”:

Anche se il tempo raccogliesse la nostra materia dopo la morte e di nuovo la ricomponesse così com’è ora, e a noi fosse ridata la luce della vita, tuttavia non ci riguarderebbe neppure questo fatto, una volta interrotta la coscienza di noi stessi. Pure adesso non ci importa niente di noi, quali prima siamo stati, né per quelli ci assale più l’angoscia.

La palingenesi ci attrae e ci affascina. In un universo infinito nel tempo e nello spazio, senza limiti di luogo e di materia, in fondo non esiste mai una fine ultima, assoluta, definitiva. Esiste, piuttosto, un ciclo di aggregazioni e disgregazioni. Alla morte succede la vita; alla vita segue sempre la morte. Altrove ci sarà crescita e sviluppo di vita nonché di esotiche civiltà sconosciute. La materia è in continuo rivolgimento. Quindi, non dobbiamo postulare che la finitudine sia sinonimo di decadenza generale, semmai solo locale. In un modo o nell’altro, tutto perisce, ma facciamo parte di una realtà infinita di cui siamo solo un granello.

Chiaramente, nella palingenesi cerchiamo un’ennesima, e assai remota, consolazione. Come scrisse anche Michel de Montaigne, i movimenti degli atomi sono così vari e infiniti da prefigurare la possibilità che, ricombinandosi, un giorno possano dare origine a un altro Montaigne. Se il tempo è infinito, ciò diventa pressoché una certezza. Si trova un’eco di tale suggestione anche nella cosmologia contemporanea, che in questi anni dibatte di Big Bang esplosivi iniziali, di accelerazioni e decelerazioni, di nuovi collassi, di cicli infiniti di espansioni e contrazioni dell’universo. Qualcuno si lancia in fisiche palingenetiche, in cui un universo eterno passa attraverso infiniti cicli di disgregazione e aggregazione, che Lucrezio avrebbe molto apprezzato.

Che si tratti di una consolazione è evidente dal fatto che la palingenesi, da mera possibilità astratta, si tramuta facilmente in necessità. Dagli stoici alla dialettica di Engels, l’eterno ritorno della materia pensante diventa addirittura una ferrea necessità inscritta nell’ordine dinamico delle cose. Se gli attributi di una materia che è eternamente la stessa non vanno persi, essa creerà di nuovo, in altro tempo e in altro luogo, il suo più alto frutto: lo spirito pensante. Ancora e sempre noi al centro dell’universo. L’animismo, invincibile, si insinua di nuovo, anche nella palingenesi.

La palingenesi di Lucrezio non si spingeva a tanto. Non avrebbe potuto. La sua era solo una possibilità probabilistica e atomistica, non un determinismo di cicli ed eterni ritorni inevitabili. Scoprirsi parte dell’infinito processo di aggregazioni e disgregazioni, e immergersi in esso, anche nell’ipotesi di scuola che il nostro corpo si riformi, significa comunque rinunciare al proprio destino personale, all’identità individuale, perfino all’idea che la storia umana nel suo insieme possa lasciare un segno imperituro.

Ma come dovremmo reagire umanamente a questa verità? Per gli epicurei, la risposta è che niente, dunque, è per noi la morte. Trascorrere l’esistenza in preda all’ansia del trapasso sarebbe pura follia. La vita scivolerebbe via, non goduta e incompleta. Ancor più egoistico e crudele sarebbe infliggere quell’ansia agli altri, vagheggiando di premi e punizioni in un’altra vita. Lucrezio, però, sembra intuire che non è così facile. Contemplare i cicli infiniti di un universo infinito che non dipende da noi, ammirare la forza di leggi fisiche che ci tolgono dai capricci degli dei per immergerci nei capricci della storia naturale, soggetti a meccanismi non alterabili da noi umani, ci restituisce al contempo un divino piacere e un brivido di terrore, di smarrimento. Tanto è vero che dobbiamo edulcorare questa tetra realtà con la poesia, con l’arte, con la creatività, con l’impegno politico e sociale.

Se non c’è alcuna provvidenza, né direzione di progresso, allora ricaviamo in cambio libertà, amicizia, senso del limite, coinvolgimento nel flusso della natura e delle sue leggi, affrancamento dalla schiavitù verso gli dei e verso la società. La guerra permanente tra forze vitali e moti distruttori è un’aspra verità, che dà turbamento e responsabilità. È una vertigine che ci restituisce libertà, sì, ma una libertà inquieta.

L’impassibile è impossibile

Il celebre incipit lucreziano del libro II (1-4) ha fatto discutere per secoli i filosofi e i moralisti:

Dolce, quando i venti sul grande mare turbano le acque, è guardare da terra il grande travaglio di un altro; non perché dia gioia e piacere che uno s’affanni, ma perché dolce è vedere da che tormenti sei immune.

Ce lo immaginiamo, il poeta epicureo, mentre, sdraiato sotto la pergola della Villa dei Papiri a Ercolano, osserva il naufragio di chi va per mare e affronta le insidie del mondo. L’autore, nel passo appena riportato, si premura di specificare che il suo sentimento non è quello che i tedeschi chiamano Schadenfreude, ossia il piacere provocato dalle sventure altrui. In tal caso sarebbe una forma di pericoloso coinvolgimento, troppo vicino ai turbamenti dell’invidia, proprio di chi gode delle disgrazie altrui perché ne invidiava le fortune.

Tuttavia, i confini sono labili. Osservando l’infelicità altrui – causata da condotte di comportamento improprie che esaltano le ambizioni di potere, di gloria e di ricchezze – esaltiamo per riflesso la nostra felicità. La descrizione del locus amoenus al riparo dai travagli prosegue (5-14):

Dolce è anche osservare grandi contese di guerre svolgersi in campo senza prender parte al pericolo. Ma niente è più bello che abitare le alte dimore serene, ben difese dalla dottrina dei saggi, e da lì poter chinare lo sguardo sugli altri e vederli errare dispersi e cercare smarriti la via della vita, impegnare sfide d’ingegno, contese di nobiltà, notte e giorno sforzarsi con affanno tenace di salire a vertici di ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o cuori ciechi!

Si finisce in questa vita di tenebre, tra ridicole e grottesche illusioni di conquista e di carriera, quando basterebbe evitare i dolori e averne piacere. Servirebbe poco, distesi sull’erba con gli amici a conversare, senza tesori, nobiltà, glorie e ricchezze, che non servono a curare né l’animo né il corpo. Ma dove passa il confine tra la frugalità e la codardia? Epicuro non fu un banale quietista, come talvolta lo si dipinge. Non sostenne l’astensione assoluta dalla vita pubblica. Predicò che il saggio doveva stare lontano dagli affanni della politica e, se possibile, “vivere nascostamente”, in disparte. Ma l’attività politica non è un male in sé: dipende dalle circostanze e dalle finalità, perché la vita felice della comunità deriva anche dalla sicurezza materiale garantita da una buona gestione della cosa pubblica. Dunque, è una delle precondizioni per l’assenza di dolori personali e di sofferenze sociali.

Tuttavia, contemplare le sventure altrui e gioire della propria atarassia, se non è cinismo, è comunque una forma di rinuncia, di indifferenza per le sorti del mondo. Qui, di nuovo, la nostra indagine sulla finitudine ci separa dalla pur saggia guida di Lucrezio e di Epicuro, che forse non hanno intravisto un altro paradosso. L’universo, quello sì, è indifferente alle nostre sorti. La conflagrazione dell’intero sistema solare non gli farebbe nemmeno il solletico. Sapendolo, poniamo fine alle illusioni irrazionali e coltiviamo virtù terrene che sono figlie di una comprensione disincantata della nostra irrilevanza, nel contesto di leggi naturali prive di qualsiasi intenzionalità o provvidenza. E va bene. Noi, però, non riusciamo a essere indifferenti all’universo. Esso lo è nei nostri confronti, ma noi non possiamo fare altrettanto, perché ne siamo parte.

Forse, al tramonto di un’esistenza piena, sazi di giorni, possiamo permetterci quella serenità. Prima no. Prima bisogna combattere, anche se ciò reca affanni, timori, delusioni, angosce. Bisogna combattere perché, se arriva la peste, occorre fronteggiarla, arginarla, fare con onestà il proprio mestiere. Lei tornerà, inesausta, e la affronteremo ancora, con fatica di Sisifo. Quando arriva la peste non ci si rifugia in un locus amoenus. Se incalzano la guerra e il terrore, si discende agli inferi, si sconfigge la bestia umana e si risale.

La morte, recita il celebre insegnamento di Epicuro, è la peggiore delle nostre vane paure, ci paralizza la vita, rovina ogni gioia limpida e pura. Ma la morte, per noi, non esiste: quando ci siamo noi, lei ancora non c’è; quando c’è lei, noi già non ci siamo più. Quindi noi la morte non la incontriamo mai. Inutile averne terrore. Quando lei avrà vinto, noi saremo cenere insensibile e atomi in libera uscita. Questa di Epicuro resta senza dubbio una delle riflessioni più alte, e ignorate, sulla morte. Resta, tuttavia, il problema che abbiamo già incontrato riguardo alla morte prematura.

Se moriamo all’improvviso o nel sonno o da incoscienti, Epicuro ha ragione. Ma è possibile che si possa vivere come momento presente e conscio la realtà della propria morte, sia che giunga come un sonno subitaneo o come un lento assopirsi. A volte sappiamo che si sta avvicinando a larghe falcate, che il suo margine di indeterminazione sul quando e sul dove si assottiglia. Rimaniamo lucidi fino al penultimo istante. Così ne scorgiamo il profilo, come una linea di costa che si avvicina all’orizzonte. Non temiamo il nulla della morte, certo, ma la perdita della vita sì, perché quella, adesso, l’abbiamo, la viviamo, la sentiamo, e a un certo punto non l’avremo più. Per le stesse ragioni temiamo una morte prematura, sapendo quello che ci perdiamo.

Possiamo entrare nella morte a occhi aperti, ed esserne atterriti. Dunque, l’olimpica luminosità di spirito epicurea, purtroppo, non è realistica. Pur essendo la migliore, come molte altre filosofie non considera i limiti della natura umana. Il piacere non è mai perfetto: è contrastato, screziato, minacciato. Vivere come un dio tra gli uomini, contemplandone i tormenti, non è umano. È appunto divino, condizione che, malinconicamente, ci è preclusa. Non possiamo negare la nostra intrinseca dipendenza dal tempo, dalla fugace impermanenza della nostra condizione. Noi siamo dentro le contingenze del tempo e non possiamo uscirne. Ma tutti lo sono come noi, anche i ricchi e i potenti; così, proviamo commiserazione e compassione per la condizione umana, una costante tensione, un dolore, un’opacità.

L’impassibilità epicurea non è possibile. Quasi sempre moriamo non conciliati, sfidando la morte fino all’ultimo. Nell’inquietudine di questa rivolta troviamo un senso alla finitudine. Noi siamo i progetti per cui lottiamo, non la somma delle nostre rinunce. Siamo sempre esposti al rischio della sconfitta, del fallimento, dell’inatteso. La nostra esistenza è così bella – a volte un capolavoro – proprio perché finita, fragile, mortale. Quindi, è la finitudine, paradossalmente, a darle una cornice di senso. Sapendola invincibile e ciò nonostante sfidandola, conquistiamo il bene più prezioso: la libertà.

Caso, necessità e libertà

Le leggi della natura, non intenzionali, sanno essere ancora più implacabili di quelle degli dei di una volta. Questo è il problema. Nel fluire inesorabile della materia e dei suoi atomi, ci si sente prigionieri. Rinunciamo a tutte le consolazioni irrazionali, mondane e ultramondane, e va bene, ma non siamo capaci di raggiungere alcun ascetismo psicologico, alcuna ostentazione di serenità. Per allineare desideri e realtà, coltiviamo la consapevolezza interiore della finitudine. Eliminiamo false aspettative e ambizioni spropositate, ma restiamo inquieti. Non restiamo affatto indifferenti dinanzi alla finitudine di ogni cosa. La nostra condanna è capire di essere ininfluenti e continuare ciò nonostante a combattere.

Per questo gli epicurei ipotizzavano una primigenia indeterminazione, una deviazione impercettibile degli atomi, un’anomalia imprevedibile, un clinamen che si ripete ogni volta che prendiamo una decisione libera. Volevano sottrarsi al determinismo atomistico di Democrito, il genio greco che coniò l’espressi one “caso e necessità”. La diade dovrebbe diventare una triade: caso, necessità e libertà. Solo uno scarto intrinseco negli atomi giustifica, infatti, la volontà di resistere e di contrastare l’andamento del mondo materiale, senza alcuna acquiescenza. La finitudine non è un alibi. La libera autodeterminazione delle nostre esistenze fa da cerniera tra il caso e la necessità, ci rende responsabili delle azioni e imputabili per esse.

Se il moto degli atomi nel vuoto inerte fosse stato sempre uniforme, regolare e prevedibile, non ci sarebbe mai stata alcuna aggregazione, quindi nessuna creazione: “Che se non usassero deviare, cadrebbero tutti verso il basso, come gocce di pioggia, nel vuoto profondo, e non si sarebbe creato urto, né prodotta collisione tra i principi: così la natura non avrebbe prodotto mai nulla” (De rerum natura, libro II, 221-224). Non solo: il clinamen fonda anche la possibilità della rivolta. Splendida è l’immagine lucreziana dei cavalli scalpitanti dietro le sbarre che stanno per aprirsi. Nel loro ardente desiderio, si manifestano il potere causale della mente, la propagazione del moto in ogni muscolo del corpo teso allo scatto, la volontà libera che si scatena. Le sbarre si aprono e la forza prorompe nelle membra. Corrono finalmente liberi.

La libertà, quindi, non è un miracolo, ma la conseguenza della logica interna della materia. Lo stesso accade nello scarto impercettibile che occorre nel nostro petto: nel lottare contro, nell’opporsi all’andamento malvagio delle cose umane, alle forze esterne che ci costringono, alle ingiustizie del mondo. Non è tutto già scritto, allora, in quegli atomi. Un seme di resistenza e di ribellione è piantato all’interno. Forse, proprio per questo la dottrina di Lucrezio fu considerata per secoli eretica, scandalosa, inaccettabile, cosa per pazzi ed empi, opera maledetta e dissoluta, anticamera di roghi. Non per la vituperata etica del piacere, ma per la doppia libertà che sovverte l’ordine del mondo religioso: la libertà della natura da ogni provvidenza; e la libertà umana di scegliersi la propria strada in quella natura indifferente.

Quando, nel 1417, l’umanista e supremo copista Poggio Bracciolini ritrovò il manoscritto del De rerum natura nell’abbazia benedettina di Fulda, stava esplodendo il Rinascimento. Quel manoscritto radicalmente disturbante, eppure fedelmente e segretamente conservato per secoli, innervò di ispirazioni la scienza moderna. La storia delle idee è piena di ricadute non intenzionali. Scoprire di essere fatti della stessa materia delle stelle, degli oceani e di tutti gli esseri terrestri ha un valore scientifico, filosofico e poetico. Insieme. Ancor più ne ha se ci accorgiamo di essere liberi dentro questa appartenenza. Si sprigiona un’energia erotica nel comprendere il mondo, noi stessi, la natura delle cose. Nel farsi bastare la compagnia dei mortali.

Perfino la decomposizione cessa di essere qualcosa di soltanto ripugnante. Se non ci faremo cremare, verremo digeriti da microbi interni ed esterni, da una ricca biodiversità di vermi e insetti. In caso di sepoltura all’aria, vi contribuiranno anche roditori e uccelli. Se smorziamo i nostri impulsi egoistici e accettiamo l’idea di essere parte di un ecosistema, ci accorgiamo di essere noi stessi un ecosistema. Quando moriamo, tutto ciò che ha reso possibile la nostra breve esistenza, che ci ha permesso di pensare, di creare e di amare, torna alla fonte di una natura non umana. La nostra caducità cosmica è, in realtà, un’appartenenza cosmica.

Un collega evoluzionista diede le seguenti disposizioni per il suo funerale. Voleva che il suo cadavere fosse portato nel pieno di una foresta tropicale in Brasile. Lasciò indicazioni geografiche precise, perché il corpo doveva rimanere esposto sul terreno e attrarre un insetto particolare, un coleottero alato di grandi dimensioni, del genere Coprophanaeus. Le sue membra putrefatte avrebbero in tal modo nutrito la prole di quel meraviglioso scarabeo alato, una prole che sarebbe alfine emersa dal suo corpo e volata via lontano. Scrisse: “Niente vermi per me, né sordide mosche. Io ronzerò al crepuscolo come un bombo enorme. Io sarò molti, ronzerò come uno sciame di motociclette, sarò portato in alto, un corpo dentro un altro corpo in volo sotto le stelle, nella natura selvaggia del Brasile, sotto quelle splendide elitre libere che tutti noi abbiamo sul dorso. Così, alla fine, anch’io brillerò come un carabide violaceo sotto una pietra”.

“Che tutti noi abbiamo sul dorso.” Il suo Io era diventato un Noi. Un Noi tanto grande. Un Noi che fa compagnia. Questa, forse, è l’unica vera sconfitta della finitudine. Non ci resta che scoprirlo.

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Camus aveva ascoltato con particolare attenzione la parte finale.

“Potente questa storia della sepoltura in Brasile del tuo collega e del diventare coleotteri alati. Ma poi lo hanno accontentato?”

“Purtroppo no, è morto prematuramente a Londra; un’emorragia interna, forse conseguenza di una malaria non curata che si era preso in Congo, e non se la sono sentita di spedirlo con un aereo in Brasile, troppo complicato.”

“Senti, uomo delle spedizioni impossibili, com’è andata in Ungheria mentre io languivo in questo letto? Raccontami.”

“Bene direi, sono passato prima da quel matto di Kovesi a Vienna e poi sono arrivato a Budapest. Ho visitato i loro istituti di genetica. Hanno grandi menti, ma come strutture sono indietro. Le conferenze benissimo, affollatissime. Ho illustrato gli ultimi aggiornamenti sulla genetica dei batteri e sulla regolazione genetica. Lysenko addio.”

“Smettila, Jacques, lo sai che non ti sto chiedendo delle tue conferenze. Hai visto Agnes?”

“Certo, ho incontrato colleghi e studenti, e anche lei. Erdos è stato liberato su cauzione. Pensa che, a una serata di gala, l’ambasciatore francese mi ha detto di stare attento, perché gira voce che Agnes sia un’informatrice della polizia segreta ungherese. Ma ti rendi conto? Ha capito tutto, il nostro!”

“Pensa se fosse vero, Jacques, vorrebbe dire che Agnes sta facendo il doppio gioco e ti sta usando per scoprire la rete di favoreggiamento dei dissidenti ungheresi all’estero. Saresti nei guai, professor Monod.”

Monod rimase zitto qualche secondo e lo guardò.

“Ti dà fastidio ipotizzarlo, Jacques, o ti dà fastidio accorgerti che non ci avevi nemmeno pensato?”

“Non ci avevo nemmeno pensato, a dire il vero, Albert, e va bene così. Non posso credere che Agnes abbia fatto tutte queste scene, con due visite a Parigi da noi, per poi restare in patria al servizio di quella gente.”

“Avete fatto i sopralluoghi per la fuga?”

“Sì, il piano è pronto.”

“Eravate pedinati? Ci sono informatori ovunque da quelle parti.”

“Ma figurati, lo so, guarda che ho fatto anch’io la Resistenza e la clandestinità. Agnes e Erdos sono stati prudenti in ogni dettaglio. Per evitare le cimici comunicavamo solo tramite bigliettini. In taxi abbiamo ispezionato le rive del Danubio fuori città per concordare il luogo in cui i due fuggiaschi saliranno su una vecchia roulotte inglese.”

“Una vecchia che?”

“L’ultima trovata di Kovesi è questa. Abbiamo individuato una famiglia con bambini che è abituata a transitare ogni anno a inizio estate per il confine con l’Austria. Agnes e Erdos si nasconderanno in un sottofondo della roulotte.”

“Ma siete sicuri? Non mi pare un’idea molto originale. Li controlleranno. Quanto rischiano se li beccano?”

“Vent’anni di galera, se va tutto bene, se non sospettano altro e se non li torturano.”

“Che coraggio, Jacques. Vi state prendendo un rischio enorme. Qual è la data fatidica?”

“Il 18 giugno.”

“Allora per la lettura della bozza dell’ultimo capitolo devi venire dopo quel giorno, così mi racconti. Ti avevo già mandato i miei appunti per la parte finale, giusto?”

“Sì li ho, ci sto lavorando, spero di chiudere entro giugno. Magari sarai uscito e ne parleremo direttamente a Parigi, a cena da me. Senza che io debba tornare a Fontainebleau.”

“Non ci giurerei, Jacques, i parametri qui non vanno bene. I medici hanno facce accigliate e scure, anche se cercano di non darlo a vedere. Di dimissioni proprio non si parla. A Francine hanno detto che i miei polmoni, già debolissimi, non si stanno riprendendo dalla botta che ho preso al torace. Continuo a sputare sangue e ho febbre. Temono per il cuore.”

“Dannata tubercolosi, Albert. Vedrai che è solo questione di tempo.”

“È sempre e solo una questione di tempo, Jacques, come abbiamo scritto in cinque capitoli del libro!” Sorrise, nonostante tutto. Ricambiato.

“Già, anch’io di tempo per scrivere ne ho troppo poco, perché abbiamo concluso gli esperimenti e stiamo finalmente per pubblicare il nostro modello completo.”

“Quello della regolazione dei geni? I famosi operatori, repressori e induttori? Funziona?”

“Altro che se funziona!”, s’illuminò Monod.

“Forza, spiegami cos’altro avete scoperto, ma con linguaggio chiaro e onesto.”

“Be’, innanzitutto quello che ti dissi le scorse volte è confermato sperimentalmente. Le mutazioni nell’operatore – ti ricordi? Quel gene che fa partire o meno l’attivazione di altri geni a valle – influenzano l’espressione di altri geni, che sono adiacenti sullo stesso cromosoma. Per esempio, una stessa mutazione causa l’espressione costitutiva e continuativa di due geni strutturali (la galattosidasi e la permeasi) necessari per il sistema del metabolismo del lattosio. Noi e un altro gruppo negli Stati Uniti abbiamo fatto gli esperimenti di controllo, e tutto torna. Quindi, l’operatore agisce proprio come un interruttore su più geni, come avevamo intuito. Il repressore è come una mano pigiata che blocca i geni; quando l’induttore è presente, blocca il repressore, la mano si alza e i geni si esprimono.”

“Quindi esiste un’organizzazione gerarchica militaresca nel DNA. Geni che comandano, regolatori, e geni che obbediscono, strutturali. Non è un bel posto.”

“Non direi militaresca. Ci sono unità che coordinano l’attivazione di più geni strutturali, controllate e regolate a loro volta da un comune induttore e repressore. Chissà, poi, che non esistano regolazioni di livello ancora più alto. Abbiamo costatato che lo stesso meccanismo vale in molti altri processi. Quindi è universale per qualsiasi essere vivente, ti rendi conto? Abbiamo deciso di chiamare questi pacchetti genetici, costituiti da più geni strutturali controllati da un comune operatore e repressore, ‘operoni’.”

“Operoni? Che razza di nome è? È orrendo, non si capisce. Vi devo trovare io un altro termine.”

“Non ti piace? Lo dirò a Jacob, l’idea è sua. Adesso manca l’ultimo tassello del meccanismo, cioè capire che cosa leghi il DNA alle proteine. Come fa il repressore a bloccare tutto? È un rebus. Negli eucarioti la sintesi avviene nel citoplasma della cellula, fuori dal nucleo, in macchinari stabili che stiamo studiando e che due anni fa sono stati battezzati ‘ribosomi’. Secondo noi, però, non sono ribosomi diversi a fare proteine diverse. Ce ne vorrebbero troppi e sarebbero troppo lenti. Deve esserci un qualche intermediario nella cellula – instabile, veloce, di vita breve – che porta l’informazione dal DNA alle proteine attraverso i ribosomi. Lo abbiamo chiamato ‘intermediario X’ a un convegno a Cambridge, ma nessuno ci ha dato retta. C’era anche Jim Watson. Ha letto il giornale per tutto il tempo delle presentazioni; così, per ripicca, quando è venuto il suo turno di parlare, anche noi, tutti insieme, ci siamo messi a leggere il giornale. Che brutta persona.”

“Intermediario X… Certo che voi continuate a immaginarvi cose che non esistono, o che comunque non avete ancora mai visto, e qualche volta ci azzeccate pure.”

“Esatto, la scoperta scientifica si compie quando il possibile diventa reale, caro Albert. Non è solo una questione di duri fatti, come pensano gli americani. Il metodo scientifico consiste nello spiegare le osservazioni immaginando l’esistenza di entità ancora invisibili, e ipotizzandone le proprietà. Si spiega il visibile con l’invisibile, concependo nuove strutture nascoste che producono predizioni da controllare sperimentalmente e, soprattutto, da falsificare, come giustamente sostiene Karl Popper. Così ci siamo immaginati repressori, operatori, interruttori e così via, e poi abbiamo fatto gli esperimenti per andare a vedere le carte della natura.”

“Voi trovate una logica nell’assurdo, questo mi stupisce. Continuo a pensare che ci sia una parentela tra la scienza e il romanzo. Voi non descrivete il mondo là fuori per come è o come sembra, ma lo anticipate nella vostra testa e poi lo andate a cercare. Quindi vi sarete già immaginati chi è l’intermediario X.”

“Certo. Andiamo per esclusione. Gli americani hanno verificato che non può essere fatto di DNA. Un nostro collega allievo di Crick, un sudafricano geniale, Sydney Brenner, sostiene che i ribosomi sono macchine capaci di ‘leggere’ l’informazione che arriva loro dai geni, tramite un intermediario instabile come potrebbe essere l’RNA, l’acido ribonucleico. Nei ribosomi c’è un sacco di RNA, ma hanno controllato e non porta l’informazione genetica. Quindi, secondo noi, deve esistere un altro RNA in circolo, che fa da ‘stampo’ alla sequenza di DNA e la fa leggere ai ribosomi, che vi associano gli aminoacidi e assemblano le proteine. Lo abbiamo chiamato ‘RNA messaggero’, mRNA, è lui il misterioso intermediario. Questo ti piace?”

“Sì questo mi piace, perché ‘messaggero’ si capisce, è l’Hermes delle cellule. E quindi un’altra delle vostre creature di pura ragione prende vita.”

“Sì, ma è dura. I giganti del settore, tipo Max Delbrück, dicono che siamo completamente fuori strada. Non riuscivamo a catturarlo questo RNA messaggero, troppo sfuggente. Poi, in primavera, Jacob e Brenner, a Pasadena, dopo non so quanti incidenti con la radioattività e con le loro centrifughe pazze, lo hanno finalmente visto e isolato!”

“Percepisco un fremito di palpabile eccitazione, Jacques: è una scoperta importante per il segreto della vita?”

“Importantissima. Gli inglesi sono troppo ossessionati dal codice. Pensano solo al codice. Ma ciò che fa funzionare le cellule è la regolazione, non solo il codice. L’informazione – il messaggio – non basta immagazzinarla: la devi anche trasferire, deve avere un significato, una funzione, in relazione al resto della cellula. Capisci? Ancora una volta, abbiamo connesso fatti sparsi, perché ci siamo accorti che già altri esperimenti avevano intercettato l’RNA messaggero, ma senza capirlo. Watson, adesso, dice che anche lui è arrivato alle stesse conclusioni sul messaggero e pretende da noi che rimandiamo la pubblicazione su Nature in modo da uscire insieme. Il solito prepotente.”

“Non si capisce se siete alleati nell’impresa o nemici.”

“Tutte e due le cose, dipende dai momenti. Gruppi diversi stanno attaccando il problema da prospettive diverse e con tecniche differenti. La cittadella sotto assedio è avvolta dalla nebbia. Ognuno fa i suoi esperimenti. Poi, in certi momenti, ci si trova e parlando si capisce insieme che cosa si stava cercando. La nebbia si dirada improvvisamente e vai a sapere, a posteriori, chi è stato il primo a scorgere la cittadella.”

“La scienza è un’impresa collettiva. Non sempre solidale, ma collettiva. Quindi, a chi lo daranno il Nobel?”

“Ma, non lo so, Albert.”

“Non ti schermire, Jacques, sei già stato candidato l’anno scorso, lo so da fonte certa, a te molto vicina. A maggior ragione quest’anno. Ai primi di ottobre, quando annunciano i vincitori, al Pasteur vi mettete tutti in religiosa veglia di attesa. Ammettilo.”

“Lo ammetto. Pensa che la tua candidatura al Nobel fu presentata da un mio lontano cugino, ti ricordi?”, disse Monod svicolando.

“Altro che! Fu un certo Sylvère Monod, dell’Università di Caen. Per la purezza e la forza dell’opera, scrisse. Bontà sua: non riesco a convincermi che avesse ragione.”

“Stai sempre a flagellarti, Albert, come se pensassi di non meritare la tua reputazione.”

“Non è una posa per riscuotere commiserazione, è la verità. La fama, nel migliore dei casi, è un malinteso. Se non avessi dubbi sulla mia vena creativa in esaurimento non ti avrei chiesto di scrivere questo libro insieme.”

“Bella mossa! Lo hai chiesto a uno come me che in vita sua non ha mai scritto una riga che non fosse un noioso testo scientifico.”

“Io so guardare in prospettiva, Jacques. Adesso sei tu a sminuirti. E comunque, sta venendo bene: la fusione meticcia di due linguaggi così diversi funziona. Dopo tutte le tue spiegazioni, adesso, però, voglio che mi fai un disegno, qui sul quaderno del mio prossimo libro, un disegno dei… meccanismi-di-regolazione-genetica-della-sintesi-delle-proteine. L’ho detto giusto? Uno di quei disegni mitici della scienza che si fanno sui tovaglioli. Così, poi, me lo rivendo quando ti danno il Nobel.”

“L’hai detto giusto Albert. Passami il taccuino. Faccio qui dietro.”

Monod si mise a disegnare, guardando di sbieco il foglio.

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“Questa è la sequenza del DNA su un cromosoma. Va bene? Qui c’è l’operatore, che da solo o con l’aiuto di un promotore ancora più a monte – non lo sappiamo – fa iniziare la trascrizione dei geni strutturali. La sequenza di questi geni viene copiata su uno stampo complementare, il tuo Hermes RNA messaggero, che esce dal nucleo, va nel citoplasma, viene letto dai ribosomi e si traduce – anche qui non sappiamo ancora bene come – in una sequenza di aminoacidi che, contorcendosi, danno origine alle proteine. Tutto chiaro fin qui?”

“Mi piace che ripeti spesso ‘Non lo sappiamo’. Comunque, tutto chiaro, questo è ciò che succede quando i vostri batteri di Escherich producono gli enzimi per digerire il lattosio.”

“Esatto, ma la situazione normale è un’altra, cioè quella in cui il processo è bloccato. Devi pensare che ogni attività della cellula ha un costo energetico, quindi non sarebbe funzionale mantenere attivi i geni di cui non c’è bisogno in un dato momento. Ecco perché si sono evoluti i repressori.”

“Capisco. C’è sempre dietro una logica economica: costi e benefici.”

“In un certo senso sì, ma in questo caso non è una brutta notizia. Comunque, quando un gene di cui non hai bisogno è spento, è perché un altro gene, detto regolatore, situato da un’altra parte del DNA ma non troppo lontano, attiva l’espressione di un repressore. Non lo abbiamo ancora isolato, ma il repressore è sicuramente una proteina, che si lega specificamente alla sequenza dell’operatore. Così facendo, modifica la conformazione del complesso repressore-operatore e questo cambiamento blocca l’attivazione dei geni strutturali.”

“Però mancano ancora gli induttori, i disturbatori esterni.”

“Bravo. Ora è chiaro che cosa succede nei nostri batteri di Escherich. Se in coltura mettiamo del lattosio, qualche molecola penetra nella cellula batterica; il repressore ha una maggiore affinità con il lattosio, quindi si stacca dall’operatore e si lega al lattosio. A quel punto, l’operatore è di nuovo libero, attiva i geni strutturali, che vengono trascritti in RNA messaggero e producono gli enzimi di cui c’è bisogno. Come vedi, è tutta una questione di affinità tra molecole di forme diverse: il repressore ha affinità con l’operatore, ma ne ha un po’ di più con l’induttore esterno.”

“La famosa allosteria di cui mi parli sempre: le affinità elettive di Goethe in versione molecolare.”

“Certo, è fondamentale. Se una mutazione impedisce a repressore e operatore di riconoscersi, il batterio continua a produrre l’enzima anche se non serve a niente. Se, al contrario, una mutazione rende il repressore molto più affine all’operatore che all’induttore, il batterio non produce mai l’enzima. Succede perché la loro forma è cambiata. Repressori, induttori e operatori producono questi effetti perché, legandosi, modificano la forma e quindi l’attività delle proteine e dei complessi proteine-DNA. Se due molecole hanno superfici con aree complementari che combaciano perfettamente, il loro legame avrà bisogno di meno energia di attivazione: sarà più veloce e spontaneo. Viceversa, se cambiano forma, il legame diventa più difficile o impossibile. Il segreto è la struttura tridimensionale, la forma delle molecole. Secondo me, questo è il secondo segreto della vita dopo la doppia elica. Il suo segreto complementare.”

“Detto così solennemente, Jacques, sembra il secondo segreto di Fatima. E adesso come andrete avanti?”

“Abbiamo praterie da esplorare. Pensa al differenziamento cellulare. Se nei batteri e nei virus i geni fanno cose diverse in base al momento, allora lo stesso meccanismo potrebbe funzionare negli organismi pluricellulari: tutte le cellule hanno lo stesso DNA, ma i geni saranno in gran parte repressi, mentre saranno attivi solo quelli che producono le proteine necessarie ai diversi tipi di cellule: neurali, del muscolo, della pelle e così via.”

“Quindi, tutte hanno l’informazione genetica completa, ma ognuna ne usa solo una parte in base alle sue specializzazioni: ingegnoso. In potenza c’è tutto, poi si attua una porzione o l’altra mediante il processo di differenziazione. È un aggiornamento di Aristotele.”

“Non so se sia un aggiornamento di Aristotele. L’idea è che, se tu hai un sistema di regolazione, non devi stare a cambiare tutte le volte il gene o la sequenza o la funzione della proteina. Ti basta regolare diversamente la base genetica. Quindi, il DNA è più un libretto di istruzioni, più un ricettario che un testo da prendere alla lettera. I geni strutturali potrebbero essere anche pochi: quello che conta è come sono regolati da altri geni. Nello sviluppo embrionale deve succedere qualcosa di analogo: il patrimonio genetico è lo stesso, ma si attiva in tempi e modi differenti nelle cellule per scolpire i diversi tessuti e organi dell’organismo che cresce. Forse l’evoluzione, nel produrre la grande diversità delle forme animali, ha lavorato proprio sulla regolazione dei geni.”

“Se davvero l’evoluzione ha lavorato sulla regolazione, è strano, Jacques, che tutto si basi su una logica semplicistica del tipo tutto-o-niente. Attivato o represso, acceso o spento. Come mi hai raccontato tu. Non trovi?”

“Nei batteri sembra così. Negli organismi come noi, forse, la regolazione è più fine. Tipo a manopola, anziché a interruttore. Non lo sappiamo.”

“E poi c’è sempre questo cane che si morde la coda, per cui il repressore, forse, è una proteina, prodotta da un gene, che si lega a un altro gene per attivarlo o disattivarlo in modo che generi o non generi… una proteina! Sembra l’uroboro, il serpente che si mangia la coda della mitologia.”

“Finché lo descrivi in una cellula, mentre sta succedendo, funziona. Il problema è capire come si è evoluto. Secondo me, sempre attraverso il caso e la necessità.”

“Non avete la macchina del tempo, Jacques. Come si è arrivati fin qui non lo scoprirete mai.”

“Non è vero! Chiaramente, non possiamo rifare l’esperimento della storia della vita, ma oggi possiamo vedere l’evoluzione in vitro, mentre agisce su una popolazione di batteri di Escherich. E i meccanismi sono gli stessi, dai virus ai dinosauri. Capisci? Darwin non sapeva nulla di geni e cromosomi, ma il DNA era già inscritto, era già implicito nella sua teoria. Quindi la spiegazione evoluzionistica ha un alto valore predittivo, perché contiene conseguenze teoriche ed empiriche che vanno molto al di là di quanto potesse immaginare lo stesso Darwin. La teoria dell’evoluzione soddisfa i più stringenti criteri di scientificità. Noi stiamo solo estendendo e approfondendo i concetti darwiniani.”

“Non lo metto affatto in dubbio. Io, però, il caso continuo a vederlo poco, Jacques. Dici sempre che tutto questo è gratuito, che non c’è alcuna necessità intrinseca. A me pare così determinato!”

“Per gratuito intendo che non esiste alcuna relazione chimicamente necessaria tra il fatto che le proteine prodotte metabolizzano il lattosio e il fatto che il lattosio stesso innesca la reazione inducendo il repressore. Capisci? Qui sta la sorpresa. La relazione è utile sul piano fisiologico e razionale, ma arbitraria sul piano chimico, cioè gratuita. Le interazioni allosteriche sono indirette. Con la mediazione di una proteina allosterica, tutto è possibile: si può assoggettare una qualsiasi reazione all’intervento di un qualsiasi composto chimico estraneo e indifferente. L’evoluzione funziona così: massima libertà di sperimentazione chimica casuale e poi la selezione naturale filtra le soluzioni emerse in base all’efficacia e alla coerenza che conferiscono alla cellula e all’organismo.”

“Se è così, allora mi confermi che il tuo fatidico codice è un enigma. Il codice non ha senso se non è tradotto, ma nella cellula moderna il meccanismo di traduzione ha bisogno del concorso di altri costituenti, a loro volta codificati dal DNA. Quindi, il codice genetico può essere tradotto solo dai prodotti stessi della traduzione!”

“Lo so, te l’ho detto che questa circolarità dell’uovo e della gallina è da impazzire. Secondo me, all’inizio si è andati a tentoni, per tentativi ed errori, finché il cerchio si è chiuso. Quindi, se devo scegliere, viene prima l’uovo, cioè il DNA.”

“Sempre questa tua primazia del DNA.”

“Quando, nel marzo del 1953, Jim Watson venne in visita al Pasteur e ci descrisse la recente scoperta della doppia elica, capii subito che quella molecola straordinaria poteva essere stabile, che poteva fare copie di se stessa e, al contempo, mutare accumulando errori di copiatura. Io vidi tanta semplicità e tanta bellezza in quell’ordine e in quelle simmetrie. Non poteva essere falso. Poi abbiamo scoperto come quel DNA dialoghi con il resto della cellula. Bello e vero. Questa, a suo modo, è filosofia. Una volta la scienza si chiamava filosofia naturale. Bisognerebbe tornarci. È filosofia sapere come siamo fatti e da dove veniamo. La scienza arricchisce la cultura, ne fa parte, sposta i problemi e li riempie di nuovi contenuti. Da sola non basta, d’accordo, ma senza di lei le altre discipline sono vuote, diventano chiacchiere autoreferenziali.”

“Ma sì, Jacques, sono disposto a darti ragione. Se penso alle contorsioni e involuzioni mentali di certi miei colleghi esistenzialisti parigini, l’autoreferenzialità mi è molto chiara.”

“Concordo. C’è un’estetica nella scienza. Una bella teoria o un bel modello possono anche non essere giusti, ma una brutta teoria o un brutto modello sono sicuramente sbagliati. Ora ti lascio Albert. Tra una decina di giorni hanno fissato un’udienza di aggiornamento sulle indagini per l’incidente. Francine e io ci andiamo. Spero non ci sia cagnara.”

Camus affondò nel cuscino.

“Ma non le hanno già archiviate? Che spreco di tempo e di denaro pubblico…”

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 26 giugno 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza del capitolo sesto

Le virtù della finitudine

Cede sempre il vecchio, scacciato dal nuovo, e occorre che ogni cosa si rigeneri dalle altre, e nessuno è consegnato al baratro e al Tartaro tenebroso: c’è bisogno di materia perché crescano le generazioni future, che tutte, a loro volta, consumata la vita, ti seguiranno; e non meno di te sono cadute in passato e ancora cadranno. Così mai cesserà di nascere una cosa dall’altra e la vita non è data a nessuno in proprietà, a tutti in uso.


LUCREZIO, De rerum natura, libro III, 964-971


La finitudine di tutte le cose ci stringe ancora d’assedio. Il pertugio per tentare una sortita si è fatto via via più stretto, ma non è ancora del tutto ostruito. Davanti alla morte siamo tutti come una città senza mura. Inutile erigere barriere sempre più alte. La natura sperimenta senza sosta – scriveva Lucrezio – per tentativi ed errori, variazioni, false partenze, mostri e prodigi che poi vengono filtrati dalle differenti capacità di sopravvivere e di riprodursi. Non esiste alcun aldilà, proseguiva il poeta. Dopo la morte non ci sono né premi né punizioni. Da lì non si passa. C’è finitudine e basta.


Le vie precluse, e uno spiraglio là in fondo

Le vie della tecnica, del progresso, del DNA, una dopo l’altra, si sono rivelate illusorie. La finitudine ha comunque trionfato. Nell’incorruttibilità degli atomi che ci compongono abbiamo trovato per un attimo un residuo di immortalità materiale, ma al prezzo altissimo di rinunciare all’individualità cosciente. Nella nostra cittadella senza mura, non avrebbe senso vivere di paura, come quei miliardari che hanno già comprato un bunker dove rifugiarsi in caso di guerra nucleare, di pandemia, di sconvolgimenti climatici o di impatti di asteroidi, e ogni tanto ci vanno in vacanza per pregustarsi l’atmosfera. Pensano di vincere la finitudine come topi in camere di lusso. Si sono costruiti un inferno, prima dell’inferno.


Per le strade della nostra città senza mura, non possiamo cavarcela nemmeno rifugiandoci in arcadie, simposi e cenacoli, alla ricerca di piaceri, quiete e tranquillità. Non possiamo, per il semplice fatto che non siamo divini, ma esseri imperfetti e desideranti. Non possiamo, per il semplice fatto che anche le società che costruiamo sono imperfette, che l’iniquità del mondo è adesso, non rimandabile a un’imprecisata giustizia futura: è adesso, nel tempo in cui la miseria grida, dentro quel tempo in cui anche noi dobbiamo stare. Talvolta, sotto un sole mediterraneo, ci pare di cogliere l’essenziale della vita, nella sua nudità e povertà, nei colori semplici e smaglianti, senza i fronzoli e le chiacchiere di città. Ma sono doni passeggeri.


Del tutto vano, quindi, è ambire all’assenza di turbamenti. Sono proprio quei turbamenti a renderci umani, anche di fronte alla finitudine. Ecco allora, forse, la traccia che ci porta al passaggio stretto. Homo sapiens è un avvenimento piccolo, ma anche unico nella biosfera. Ha proprietà come il linguaggio simbolico, l’immaginazione, l’astrazione. Tale unicità non implica alcuna discontinuità, né salti, né eccezionalità, ma solo una diversità di percorsi storici all’interno della natura.


Questa unicità è la nostra dannazione e, insieme, il nostro riscatto. Essa implica che abbiamo una percezione della mortalità tutta nostra, sulla quale proiettiamo le nostre fantasie, le speranze e le illusioni. Non abbiamo certo creato noi la finitudine, ma abbiamo creato il problema della finitudine e lo abbiamo reso scandalo. La grande e silente, implicita e ingombrante questione della finitudine fa parte da almeno sessanta millenni – da quando ebbero inizio le manifestazioni di intelligenza simbolica e artistica – della nostra ecologia sociale: ci siamo dentro come in una bolla. La morte è presenza costante, un perdurante interrogativo, un’inquietudine che irrompe nella nostra quotidianità e ne svela l’assurdo.


Eppure, in quella unicità consapevole si nasconde anche la nostra possibilità più bella e struggente: assumere la finitudine, accettarla, smettere di tradirla invano, e tuttavia affrontarla a viso aperto in piena libertà. La consapevolezza della finitudine ci rende umani. Ci ostiniamo a sfidare la morte per sconfiggerla, mostrandola vana e inconsistente, e se invece fosse proprio lei, la Nera Signora – anzi, non lei, che non ha intenzioni né fini, ma la nostra consapevolezza di lei, del suo potere incontrastato – a renderci esseri umani, giacché solo noi ci interroghiamo sul nostro destino mortale?


Solo noi possiamo dare un senso alla finitudine, un senso che non sia umiliante né paralizzante. Quel senso non potrà che essere morale, non potrà che appartenere, cioè, alla sfera della nostra libertà: della libertà di darci una norma e di trovare valori. L’indifferenza dell’universo, in sintesi, non si traduce in un’indifferenza morale, al contrario. Nei tradizionali sistemi animistici, infatti, i valori erano fuori dalla portata umana. Ora invece, senza dei e senza più la natura come autorità morale, l’uomo sa di essere padrone della norma; anzi, sa di essere il solo a possedere valori. E proprio in quel momento gli sembra che i valori si dissolvano nel vuoto indifferente dell’universo. Ecco la libertà paradossale.


Lo spiraglio si chiama etica della conoscenza. L’indagine oggettiva della natura esclude qualsiasi giudizio di valore. L’etica, al contrario, è nonoggettiva per sua stessa natura, essendo il regno del dover-essere. Quindi, non si può fondare un’etica sociale su diritti ritenuti “naturali” per l’uomo, proprio perché la natura non è un’autorità morale. E tuttavia, etica e conoscenza sono legate, benché radicalmente distinte. Sono associate nel discorso e nell’azione, che si basano tanto sulla conoscenza quanto sui valori. Non solo: la definizione stessa della conoscenza vera si fonda, in ultima analisi, su un postulato di ordine etico, su una rivolta contro i sistemi tradizionali, su una scelta che stabilisce la norma oggettiva della conoscenza.


L’etica della conoscenza non è imposta all’uomo ma, al contrario, è l’uomo che se la impone, facendone assiomaticamente la condizione di autenticità di ogni azione e discorso. Il suo fine è la conoscenza stessa, nient’altro. Anche nella ricerca scientifica – come scelta individuale e come esercizio rigoroso della curiosità umana – si nasconde, quindi, un valore etico di per sé. È proprio la scienza, del resto, a dirci che la nostra libertà non potrà mai essere assoluta, come pensano alcuni esistenzialisti che tradiscono la finitudine divinizzando ora la libertà, ora l’assurdo, ora l’irrazionale. La libertà umana non è assoluta, perché subisce i vincoli della nostra natura biologica: è condizionata da retaggi dell’evoluzione ben radicati nel nostro cervello.


L’uomo, però, ha bisogno di superamento, di una trascendenza laica, e l’etica della conoscenza gli offre proprio questo: una rivolta contro i retaggi dell’evoluzione (che lo rendono istintivamente animista), una rivolta che costruisce il regno delle idee, una rivolta che rimane pur sempre all’interno delle potenzialità dell’evoluzione stessa. Conoscere e rispettare i nostri retaggi, pur riuscendo, quando è il caso, a dominarli: su questo si basa l’etica della conoscenza. Gli ideali di giustizia e libertà, su tutti, trascendono l’individuo al punto da giustificarne, se è il caso, il sacrificio.


L’etica della conoscenza si basa su valori di umanesimo, perché si tratta di rispettare l’uomo come creatore della norma: un umanesimo scientifico, realista, perché conosce l’animale umano – assurdo, strano –, le sue pulsioni e passioni, le esigenze e i limiti dell’essere biologico; un umanesimo socialista, non ideologico, liberato da ogni profezia sulla Storia, che faccia leva sulle più elevate qualità umane – il coraggio, l’altruismo, la generosità, l’ambizione creatrice –, anch’esse di umili origini, ma trascinanti nei loro ideali. Noi, stranieri nel cosmo, possiamo conquistare l’universo solo mediante la conoscenza.


L’etica della conoscenza propugna istituzioni votate alla difesa e all’arricchimento dei saperi e delle arti, della conoscenza e della libera creazione. La scelta tra questo regno delle idee e il regno delle tenebre, sempre pronto a riemergere, sta tutta a noi, non è più delegata. Scopriamo, così, che la caducità tiene in serbo per noi virtù preziosissime, virtù laiche che i numerosi e sempre nuovi tradimenti della finitudine ci fanno dimenticare e rimuovere. Proviamo ad analizzarle.


Prendiamo, per cominciare, la nostra vita, la nostra esistenza mortale, e seguiamo la logica e l’etica della conoscenza. Se è la sola che abbiamo, se non ci sarà un dopo per rimediare e ricominciare, se è come l’arcobaleno sulla cascata e dura un attimo di poesia, sospesa tra due nulla sconfinati, allora la vita vale tantissimo. La vita, proprio perché contingente e finita, ha un valore assoluto.


Dalla finitudine, il valore assoluto della vita

Assoluto significa sciolto da ogni vincolo, incondizionato. Se la vita, questa vita, è l’unico bene di cui gli esseri umani dispongono, allora è una perla rarissima. Come onde nel mare, ci siamo sollevati per un momento ad ammirare il resto dell’oceano e poi ci immergeremo di nuovo nel tutto. Ne deriva che nessuna violenza deve interrompere quel momento unico. Nessun fine giustificherà mai e poi mai, come suo mezzo, la rescissione di quell’unico filo che la contingenza della natura ha tessuto per ognuno di noi. Ogni uomo, dunque, è sempre il primo uomo. In ciascun uomo è racchiusa, ogni volta, un’angusta particella dell’intera umanità. C’è, insomma, qualcosa di profondamente unico, e degno di rispetto, nella vita di ogni singolo essere umano, qualcosa che va non solo accettato, ma anche interpellato e indagato.


Ne consegue che l’omicidio è imperdonabile. Nulla è più osceno della bocca del giornalista che chiede al congiunto di un assassinato se intende perdonare il colpevole. Solo la vittima in prima persona potrebbe farlo, ma non c’è più. E non varrebbe nemmeno se la vittima lo avesse detto in punto di morte, o lo avesse lasciato scritto, perché il perdono è atto libero del momento, sempre rivedibile. Nessuno dunque, nemmeno una madre e un padre, nemmeno una moglie e un marito, è autorizzato a perdonare un atto di negazione assoluta e irreversibile qual è la distruzione intenzionale dell’unica vita dell’altro. Il congiunto può perdonare il dolore arrecatogli, ma non la morte in sé. Chi priva della vita un altro commette un delitto irreparabile in senso non solo biologico, ma anche etico, perché strappa all’altro l’unica possibilità che aveva di assistere allo spettacolo assurdo del mondo.


Doppiamente imperdonabile è l’omicidio di Stato. Proprio perché non ha un dopo e non ha una speranza, il valore assoluto della vita non potrà mai essere una merce di scambio, né il terribile baratto di una vendetta. La pena di morte è dunque il delitto assoluto, castigo atroce e intollerabile, oltre che inutile, crimine foriero di altri crimini e lutti senza redenzione. Non c’è nulla di riparatorio o di edificante nell’uccidere legalmente. Se fosse una punizione esemplare, non se ne vergognerebbero così tanto quelli che ancora la praticano. Il supplizio pubblico, la somma e nauseante barbarie di ammazzare in piazza, è sempre meno ostentato: forse sanno che genera solo altra violenza, semina paura e smarrimento.


Le evidenze ci dicono che la pena suprema, nonostante il terrore atavico della morte, non è un deterrente efficace e non esercita alcuna prevenzione, perché l’instabile natura umana alimenta istinti imprevedibili, reazioni variabili e passioni subitanee. Tutti i dati provano che non c’è rapporto tra pena di morte e livelli di criminalità: dove è stata abolita la prima, non è aumentata la seconda. Sussiste, poi, una ben nota contraddizione: per essere esemplari, le esecuzioni dovrebbero essere tante, ma se sono tante vuol dire che non sono state esemplari.


La legge non dovrebbe mai trucidare i cittadini, ma difenderli da ogni arbitrio, compresa l’ordalia. Quante sciagure devono compiersi ancora, in questo secolo, dalla Spagna all’Algeria alla Palestina, per capire che la spirale sanguinosa delle ritorsioni non avrà mai fine, non avrà né vincitori né vinti, finché uno spirito libero si alzerà e, unilateralmente, dirà basta, dirà un no alla morte di innocenti, rivoltandosi contro la follia umana e imponendo una tregua? Gli uni gli daranno del traditore, gli altri del codardo. Il fatto è che la pena capitale considera solo le responsabilità individuali, e mai la colpevolezza distribuita nella società che ha contribuito a generare quel criminale e quel nemico.


Comminando la pena della morte, l’errore giudiziario – pressoché una certezza statistica, considerando l’imperfezione umana – diventa intollerabile in quanto irreparabile. La sproporzione dell’errore è in questo caso infinita e non c’è rimedio, non essendovi alcuna giustizia ultraterrena cui chiedere appello. Giustiziare un singolo innocente disonora questa pratica per sempre.


Lo spettacolo della violenza gratuita e mortale è diventato talmente insopportabile che si fatica a tollerarlo perfino a teatro, al cinema. Non c’è nobiltà di causa che giustifichi il terrorismo omicida e indiscriminato. Uccidere un essere umano non è mai un argomento politico: è un assassinio e basta. Non c’è nulla di edificante nel collo reciso di un omicida, nel volto lapidato dell’adultera, nel corpo di un giovane omosessuale che penzola dalla forca. C’è solo la vergogna indelebile di ciò che la bestia umana è capace di fare: il sadismo della folla, il voyeurismo, lo spregevole godimento, il disprezzo, il disgusto, perfino la vanagloria del criminale, la vergogna e l’umiliazione, il cinismo e la volgarità dei boia.


La pena capitale è, a tutti gli effetti, una vendetta di Stato, il taglione di Stato, quindi un’apoteosi del sentimento, dell’emozione primordiale. In realtà, è peggio del taglione, perché il condannato a morte riceve un trattamento peggiore di quello che ha inflitto: vi si aggiungono, infatti, un regolamento e una procedura, una premeditazione pubblica, la paura devastatrice e degradante che si accumula per mesi, l’attesa snervante, l’alternanza di disperazioni e di speranze di grazia, quella grazia supplicata o chiesta da altri che a volte arriva all’ultimo, o all’ultimo non arriva, essendo lo spaventoso arbitrio nelle mani di un giudice che si pretende assoluto e puro, e si sostituisce tanto al dio redentore quanto alla natura selettrice. Il condannato è ridotto a cosa: tutto è deciso al di fuori di lui; è un pacco, un animale impastoiato che non può nemmeno rifiutare di mangiare e non può suicidarsi, in quanto ingranaggio di una macchina inesorabile. Quindi, l’attesa e il supplizio fanno due morti, non una.


Forse, proprio da questo dipende la strana, insopportabile sottomissione dei condannati a morte che vanno al patibolo. Quasi mai urlano, bestemmiano, protestano, scalciano, benché non abbiano più nulla da perdere e possano farlo senza con ciò peggiorare una situazione già irreparabile. Invece, quasi nessuno si ribella per morire da uomo libero, grida le sue ultime parole o inveisce mandando alla malora i suoi carnefici. Si legge in quei volti solo passività e cupa prostrazione. Non è codardia. Gli intellettuali e gli artisti sono i più calmi. La realtà è che sono già stati annientati dalla paura, dal terrore dell’attesa, dal senso di morte ineluttabile imminente, dall’impotenza e dalla solitudine. Questo spiega la sconcertante e illogica remissività dei soldati vinti che attendono in coda, ordinati e diligenti, di essere passati per le armi. Quando arrivano al momento fatale, sono già morti.


La finitudine ci restituisce, dunque, questo primo valore: il diritto inviolabile alla vita di ogni essere umano, cioè il suo diritto di compiere altre azioni che possano compensare il male commesso o almeno lo rendano cosciente del male. È il diritto di avere una possibilità di riscatto, il diritto naturale perfino dell’uomo peggiore sulla Terra a rivoltarsi contro la sua stessa vita. Bisogna dunque abolire la pena di morte in ogni angolo del mondo, questo disgustoso massacro, non perché l’uomo è buono, ma, al contrario, perché l’uomo è un impasto inestricabile di virtù e abiezione. Almeno quella morte, almeno quella finitudine, va messa fuorilegge. Logica e realismo ci dicono che nessuno di noi è autorizzato a disperare una volta per tutte di un altro uomo.


Dalla finitudine, il senso di un’irripetibile opportunità

Quando, allora, possiamo giudicare una vita e dire che è stata a suo modo un capolavoro? A conti fatti, solo a morte avvenuta. Ecco un secondo, alto valore della finitudine. La morte trasforma la vita in destino e consente un giudizio. Dà una cornice al tragitto terreno. Gli ultimi istanti del condannato a morte, come anche del malato terminale, hanno una densità e dignità straordinarie, come se condensassero in sé l’intero percorso di un’esistenza. La vicinanza alla soglia è un attrattore potente. In quegli ultimi momenti, chissà qual è l’attenzione ai dettagli, ovvero l’assaporare ogni istante che rimane, sull’orlo della vertiginosa caduta, dello sprofondamento nel nulla. Mentre tutto diventa poco interessante tranne la pura fiamma della vita.


In realtà, non sarebbe così, perché nel bilancio a posteriori che gli altri stileranno di quella vita è possibile che il suo frammento finale sia considerato irrilevante. Con il passare del tempo postumo, non ci piace ricordare una persona cara solo nella sofferenza degli ultimi giorni. Per le stesse ragioni, può essere odioso e ingiusto leggere i giudizi che altri daranno – al netto della pietas, che non è uniformemente distribuita tra gli umani – di quell’unica vita che, per l’interessato, è stata un valore assoluto: giudizi affrettati, sbrigativi, banali, liquidatori, disinformati ai quali non potrà rispondere per le rime. Nemmeno dopo morti si è al sicuro dagli attacchi della viltà.


Per chi non crede nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione, la pena capitale è una perdita assoluta e irreversibile. Si immagini, allora, quale sacrificio possa essere quello di chi rischia la morte o che, deliberatamente, va incontro alla fine per una causa e da non credente sa che sta pagando il prezzo più alto, il prezzo assoluto. Per il credente sincero, il martirio è una stazione di passaggio verso un mondo migliore. I combattenti della Resistenza al nazifascismo, che non credevano nella resurrezione e che hanno dato la vita, cioè tutto, hanno compiuto invece un sacrificio assoluto. Hanno messo in gioco la fine di tutto, con lucido coraggio, in solitudine e consapevolezza, senza affidarsi ad alcuna ricompensa ultraterrena. Quel sacrificio, nel segno della libertà e della giustizia, è tale da rappresentare un impegno ineludibile per le generazioni future.


La vita, nella sua dignità, è quindi inviolabile non perché non ci appartenga, come molti vorrebbero indurci a pensare, ma per l’esatto contrario, ovvero proprio perché appartiene soltanto a ognuno di noi e nella sua finitudine è un’occasione unica che ci pertiene integralmente, senza ritorno e senza speranza di un proseguimento quando finirà. Abbiamo avuto una bellissima, irripetibile occasione a essere qui – ecco un altro valore della finitudine – proprio perché l’universo è indifferente alle nostre sorti e poteva fare a meno di noi. Se ci fosse una provvidenza già scritta, dovremmo aspettarcelo di esistere, e financo pretenderlo. Se invece gli dei sono muti, immobili e nullafacenti, come quelli di Epicuro e Lucrezio, e la nostra comparsa sulla scena è stata del tutto contingente, allora possiamo riappropriarci del nudo splendore della nostra esistenza casuale.


Ci siamo, potevamo non esserci, siamo capitati: questo è tutto, questo è meraviglioso. Non siamo più schiavi di una posizione privilegiata nel cosmo. Non siamo più schiavi di un radioso avvenire da tradurre in realtà. Non siamo più schiavi di un’attesa che vanifica il presente. Siamo circondati da due oceani di inesistenza, ma nel dirlo esistiamo. Non c’è nulla di disperante, quindi, nel dispiegarsi della finitudine di tutte le cose, perché non c’è vita che, almeno per un attimo, non sia stata immortale.


Avere coscienza della finitudine ha inoltre un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, esseri fragili tra creature fragili, in piedi su una Terra vagante che pure condivide questo destino, ma ci dona anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso. La finitudine è il fondamento della nostra comunità di destino, della solidarietà tra disperati, una solidarietà che nasce tra le catene. Siamo mortali, ma non siamo soli. Lo siamo tutti. Siamo uniti nella sofferenza, nello sforzo eroico di Sisifo, partecipi della medesima sorte: noi, gli altri esseri viventi, il pianeta e l’universo.


Siamo stranieri al mondo, ma lo siamo tutti. Stranieri fra stranieri. Rivoltarci contro la finitudine ci stringe insieme. Non possiamo farlo da soli, ma sempre in relazione ad altri come noi, che piangono la nostra finitudine o ce la rinfacciano. Questa solidarietà nella finitudine è parte costitutiva della natura umana, di quel nocciolo irriducibile a qualsiasi cultura e a qualsiasi storia che rende ognuno di noi membro del consesso umano e trascende le individualità. L’atto di rivolta – contro i mali del mondo, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro la finitudine stessa – è un seme di solidarietà umana, che travalica i singoli e diventa tessitura collettiva. L’incommensurabilità della nostra vita personale ci rende individualisti: quando soffriamo una pena, quella pena è solo nostra. Ma è un individualismo altruista e solidale. Se difendo la mia dignità, difendo la dignità che ho in comune con tutti gli altri.


La finitudine, dunque, ci accomuna in una stessa complicità, ma non ci omologa. Ognuno è mortale a modo suo. La finitudine è molteplice, variegata e stravagante, eppure è un sentiero di umanità per tutti. La specie umana dovrebbe prendere coscienza di sé nella sua totalità, come specie biologica tra milioni di altre. Condividendo ogni essere umano una comunità di destino, i diritti e i valori umani andrebbero difesi a livello internazionale, da un vero Parlamento mondiale, da legislazioni globali vincolanti che prevalgano su ogni egoismo nazionale e su ogni nichilistica strategia di potenza. Non ha alcun senso abolire la pena di morte, la tortura, le discriminazioni razziali in un Paese solo. Anche in questo senso, quindi, la violenza omicida, a maggior ragione se di Stato, rappresenta il massimo della dismisura. Disporre della vita dell’altro è nichilismo, è un’effrazione della fraternità umana. La pena di morte spezza la base indiscutibile della fraternità umana: la solidarietà nella finitudine.


Solidali nella finitudine

Si potrebbe assumere una prospettiva più materiale. C’è una necessità biologica nella finitudine: fare spazio. Definiamo questo possibile valore aggiunto come l’argomento del mancato rinnovamento. Un banchetto che non dovesse finire mai diverrebbe stucchevole e stomachevole. Proprio la finitudine dà un senso allo spettacolo della vita, che, al pari di ogni spettacolo, ha un inizio e una fine. I due sipari danno valore all’esistenza ivi contenuta. In un mondo in cui, invece, nessuno morisse, non ci sarebbe spazio per nuova vita, per altre generazioni.


Senza la morte, forse, non sapremmo nemmeno più che cosa sia un essere umano. Un intuitivo ragionamento per assurdo lo mostra chiaramente. Se la morte decidesse di concederci una tregua unilaterale, immaginiamo quale turbamento, lo scompiglio: all’inizio, lo stordimento e l’euforia, la fine di un incubo, della paura quotidiana di non esserci più. Si avvererebbe il sogno di una vita eterna. Ma sapremmo goderne? La biologia ci dice che si invecchierebbe indefinitamente, fino ad arrivare a una condizione di vita sospesa, diremmo vegetale, se non fosse un’abusata mancanza di rispetto verso le piante.


Saremmo malati terminali a vita, invalidi permanenti nei secoli dei secoli. La società si spaccherebbe tra la speranza di vivere per sempre e il timore di non morire mai. L’immortalità del corpo getterebbe in crisi le religioni: alle ortiche tutte le loro promesse di un’altra vita di premi e punizioni. Senza morte, niente resurrezione. I costi sociali sarebbero insostenibili: si avrebbe un rapido e persistente incremento demografico; sarebbe impossibile pagare le pensioni; gli ospedali verrebbero intasati da malati cronici all’infinito, così come le case di riposo, un riposo eterno ma da vivi, un cimitero di vivi. Insomma, sarebbe la bancarotta dello Stato.


Interi settori professionali andrebbero in crisi, non solo le pompe funebri, ma anche le assicurazioni e i pomposi filosofi dispensatori di senso. La situazione sarebbe ancor più aberrante se tutti gli altri esseri viventi continuassero regolarmente a morire e solo noi facessimo eccezione. In ultima istanza, dovesse la morte entrare in sciopero, tutto lascia supporre che non diventeremmo necessariamente più felici. È paradossale, ma senza la morte non c’è futuro.


Con il passare del tempo comincerebbero anche a serpeggiare una certa noia, l’assenza di prospettive, un’attesa indefinita, senza scadenze, la monotona ripetizione degli stessi gesti. Si diffonderebbe un’invincibile pigrizia: tanto c’è tempo, si può rimandare. Fino alla paralisi delle attività. Tutti si ritroverebbero liberi di ingozzarsi, tanto che i piaceri finirebbero per equivalersi, poiché nessuno di essi sarebbe più vissuto come intenso e unico, proprio perché finito. Senza paura della finitudine, tutto si diluisce. Idealmente tutti preferiscono la vita alla morte, ma nella pratica la vita eterna sarebbe la morte del desiderio. Nessuno prenderebbe più decisioni epocali, contando di poter essere ricordato dopo la morte. Ogni cosa sarebbe rivedibile, relativa, a lungo andare ininfluente.


Qualcosa di simile accadrebbe se la morte persistesse nella sua certezza, ma cessasse di essere indeterminata: se arrivasse, per esempio, una busta arancione ad annunciarla qualche giorno prima della sua irruzione nella nostra vita ordinaria. Non arriverebbe più a tradimento, senza preavviso, senza un’allerta. Più civilmente, si farebbe annunciare una settimana prima. Ebbene, sarebbe pure quella una catastrofe: immaginiamoci il terrore di ricevere l’avviso, la devastazione morale degli ultimi giorni nel tentativo di goderci il tempo che resta, la rescissione del contratto temporaneo che chiamiamo vita o esistenza. Insomma, disperazione e angoscia sarebbero le conseguenze di una fatalità che diventa crudelmente determinata. Ci farebbe sentire tutti condannati, vittime di una spada di Damocle a scadenza prefissata. Con i giorni contati lo siamo comunque, fin dal primo, ma l’incertezza sul dove e sul quando alimenta, se non altro, la nostra rivolta contro la finitudine, la nostra ricerca di qualche attimo d’immortalità prima della fine. Sarebbe anche un test morale: alcuni opterebbero per la ribellione, suicidandosi in modo da decidere autonomamente il quando; altri reagirebbero con stoicismo; altri ancora si darebbero al godimento sfrenato di tutto ciò che prima non si erano mai concessi.


Prefigurandosi questi scenari, viene quasi da ringraziarla, la finitudine, nella sua certezza indeterminata. La finitudine ci accomuna e ci distingue al contempo. Si dice che la morte sia una livella, uguale per tutti. Ma non è così. Certo, la morte non rispetta gerarchie, ma la morte non è la stessa per tutti. Ognuno ha la sua morte: bella, brutta, banale, lungamente attesa, ingiusta. Come il sonno, arriva solo quando smettiamo di pensarci, quindi sempre di soppiatto. Comunque, non sarà paragonabile a quella degli altri. Esistono infinite forme di passaggio dalla vita alla non-vita. Ognuno l’ha pensata per tutta la vita – o non pensata per tutta la vita – a modo suo. Non c’è, quindi, la morte in generale, la Morte con la maiuscola; c’è ogni volta l’agonia di una persona con un nome e un cognome, che se la portava dentro fin dalla nascita nel luogo più segreto della sua anima.


Gli immortali sono tutti uguali; i mortali sono tutti diversi l’uno dall’altro. Quindi, le morti sono tante quanti sono gli esseri umani vissuti dall’inizio della nostra evoluzione, per la precisione 100 miliardi e passa di morti, come abbiamo detto. Poi ci sono le morti dei singoli esseri viventi all’interno della loro specie; le morti delle specie, ogni specie la sua anche in quel caso; la morte del pianeta che ospita le specie; le morti dei pianeti che ospitano le loro forme di vita; le morti degli dei (oggi non ci sono più gli dei dell’Olimpo: anche gli dei sono mortali!); e poi ci sarà l’immane morte dell’universo, la morte suprema, anche se, forse, non definitiva. A quel punto, anche per la morte forse calerà la buia cortina, perché non ci sarà più nessuno da ammazzare. Solo la morte, a pensarci bene, è noiosamente immortale.


La finitudine dell’attore

Ricapitoliamo. La finitudine attribuisce un valore assoluto alla vita e, specularmente, ci porta a considerare un delitto – in termini altrettanto assoluti – la privazione violenta o comunque intenzionale della vita altrui. La finitudine ci restituisce la riconoscenza per la meravigliosa opportunità che abbiamo avuto di esistere, per un po’, affacciati a questo cielo, nonostante tutto, anche se è stata grama, anche se è finita prima del tempo, anche se le infamie del mondo ci hanno sopraffatto. La finitudine, poi, ci rende solidali, in questo destino fragile e nella rivolta per renderlo più degno. Del resto, ribaltando la prospettiva, la finitudine è necessaria, perché in sua assenza saremmo catapultati nel bel mezzo di un incubo antropologico. Grazie alla finitudine, la stessa esistenza non si ripete mai due volte.


Ma abbiamo visto che il fare spazio, nella sua aritmetica brutalità, non è nemmeno la causa evolutiva remota del morire. Non ci ha consolato né mai lo farà.


Chiediamoci dunque, mentre anche questo libro si approssima alla sua fine, se le virtù sopra elencate siano sufficienti a regalarci una serena consapevolezza del nostro destino e a guidarci con calma e fermezza nelle decisioni. In tutta franchezza, no. La natura non ci ha domandato se volevamo vivere e non ci domanderà se vogliamo morire. Suoniamo tutti nell’orchestra del Titanic, ognuno con il suo spartito. Metaforicamente, è una ben misera vendetta fare la linguaccia al boia che ci taglierà la testa, sennonché non possiamo fare molto più di questo. In altri termini, la libertà che ci fa essere consapevoli della finitudine ci spinge a riconsiderare continuamente la nostra condizione assurda. E a non essere mai soddisfatti.


Questo discorso sui valori della finitudine, insomma, è ancora troppo accomodante. La libertà nell’assurdo del mondo è contrastata, irrisolta, non conciliata. Acquisite le virtù di cui sopra, dovremmo congedarci dalla vita come commensali sazi, pieni di vita, pronti a un meritato riposo? Niente affatto. La finitudine non è il nulla verso cui essere indifferenti. È presenza costante e assillante. Non è con l’insensibilità e con l’aridità che se ne esce, anestetizzandosi alla finitudine. L’assenza di dolore di Epicuro è la felicità delle pietre, non degli esseri umani. La città senza mura non è un giardino: è un campo di battaglia, attraversato da energie frementi dinanzi alle ingiustizie del mondo.


Se il mondo è assurdo, dovremmo cercare di metterlo in dubbio in ogni istante, come se fosse l’ultimo. Non c’è speranza oltre la finitudine, ma questo non ci acquieta. Il suicidio sarebbe un cedimento alla rassegnazione, al fatalismo, all’ingratitudine: anche quella strada è sbarrata. Non resta che farsi carico di quell’assurdo e viverlo fino in fondo, senza conciliazioni finali, nello strazio e nella grandezza della finitudine di tutte le cose che ci rende liberi. Ci svegliamo dal sonno quotidiano e assaporiamo la vita appieno, nel presente; la spremiamo, la esauriamo finché possibile nelle sue gioie e fortune. Ammiriamo le bellezze dell’arte e della natura, aderiamo alla pura passione dell’essere.


È una libertà a termine, d’accordo, ma se l’unica fatalità della vita è la morte, tutto il resto è un mondo libero di cui l’uomo è rimasto il solo padrone. L’uomo è padrone dei suoi giorni. Dobbiamo fare come quel musicista incarcerato che, in cella, costruisce nella sua mente un pianoforte immaginario e inizia a suonare dentro di sé: solo la morte potrà togliergli la libertà. Sisifo vede rotolare la pietra agli inferi, un’altra volta. La osserva, la accetta, ridiscende, dice che tutto è bene, e così anche lui si rivolta, perché prende coscienza dell’insensatezza dell’universo. Adesso è al di sopra del suo destino, è più forte del macigno, obbedisce a una fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni. La lotta per raggiungere la cima basta a riempire il suo cuore.


Dobbiamo vivere il più possibile, perché nulla potrà mai compensare la somma di tutte le esperienze che non potremo fare, la gioia di sentirci ancora per un po’ parte di questa Terra e della sua bellezza non sottomessa. Si può essere insomma felici, di una felicità sempre minacciata, vivendo fino in fondo la nostra contraddizione. La tenace rivolta contro la propria condizione, la perseveranza coerente in uno sforzo ritenuto sterile, è la sola dignità dell’uomo. La vita non ha un senso e allora, a maggior ragione, vale la pena di viverla.


Questa rivolta senza avvenire, ma generosa e senza rimpianti, si paga con un’incessante inquietudine. È l’inquietudine dell’attore, re del perituro. Tra tutte le glorie, la sua è la più effimera: muore mille volte, obbedendo a una morale della quantità, del viaggio, dell’esplorazione, della conquista. Porta con sé i suoi personaggi, si perde per ritrovarsi, impersona magnifici destini, ha il gusto delle cause perse, compendia molte anime in un solo corpo, accentua le passioni e i silenzi. Al contrario di quando torna uomo del quotidiano, passando il tempo a sottintendere, a distogliere lo sguardo e a tacere. L’attore, giustamente, è stato mille volte scomunicato dalle Chiese, perché è sacrilego: rifiuta l’eterno in cambio di un’eterna vivacità; si disperde ogni sera sul palcoscenico, che preferisce alla salvezza; scaglia le sue passioni sulla scena e le vive interpretandole. Creando, vive più volte. Non spiega niente e non risolve. L’attore è il più consapevole di morire, perché ogni sera il sipario si chiude. Sente più di ogni altro quanto sia straziante e insostituibile l’avventura umana.


Bisogna vivere all’altezza della nostra grandezza, sapendo che è peritura. Vivere, dunque, insoddisfatti, inquieti. Come tanti piccoli Don Chisciotte, affrontiamo una lotta indefessa per l’onore, la libertà, la difesa degli umili, degli offesi, dei perseguitati; per ribellione contro lo stato di cose. Una lotta indomabile e senza tregua contro l’iniquità e la finitudine, con la certezza della sconfitta. L’uomo è finito, ma è capace di pensare l’infinito. Così alimenta un insopprimibile, e sempre inappagato, appetito di assoluto. Restare coerentemente dentro la finitudine richiede coraggio. Non si tratta di invidiare o di rimpiangere ciò che non si ha, con risentimento, ma di difendere ciò che si è e si ha: il valore assoluto della vita.


Bisogna immaginare Sisifo inquieto. Inquieto non dell’inquietudine di chi insegue piaceri innaturali e non necessari – fama, gloria, onori, potere e ricchezze – ovvero piaceri che non soddisfano bisogni reali e non eliminano il dolore, ma, al contrario, generano affanni e angosce. No: la sua, la nostra, è un’inquietudine costitutiva, una disobbedienza congenita. La finitudine ci lascia infatti senza requie, tormentati. La sappiamo invincibile, ma ciò nonostante la sfidiamo, e così facendo protestiamo contro la morte. Consapevoli della caducità di tutte le cose, ci attacchiamo alla vita fin dal primo vagito, tanto che ci sembra una preghiera il suggere della bocca nei cuccioli d’uomo e animale.


common


Centre Hospitalier, Fontainebleau, 26 giugno 1960


Monod fece un sospiro profondo e si aggiustò la ciocca di capelli brizzolati sulla fronte. La lettura dell’ultimo capitolo gli era costata.


“Con questo abbiamo finito, Albert, resta solo la chiusa, breve e incisiva, che ti leggo tra poco. Che te ne pare?”


“Molto bene, le virtù della finitudine mi hanno convinto.”


“Scorrendo adesso questi paragrafi ho notato, però, che un passaggio non mi torna. Nella citazione di Sisifo che hai messo, non capisco dove starebbe la sua libertà. Sisifo non si è scelto quel destino, non è libero e non può ribellarsi al macigno: al massimo fa di necessità virtù.”


“No, Jacques, nessuno si sceglie il proprio destino assurdo: c’è dentro fin dall’inizio. Sisifo non è meritevole della sua condanna ma ne è responsabile, nel senso che la sua condanna è coerente con il suo essere. Allora si ribella nel momento in cui ne diventa consapevole e decide liberamente di vivere appieno ogni istante dell’esistenza, benché disperata fin dall’inizio, che gli è data in sorte.”


“Capisco, ma poi appunto: se è una dannazione eterna, Sisifo non muore mai e ha sconfitto la finitudine. Comunque non sottilizziamo.”


“Esatto, non sottilizziamo. È un mito, non ci criticheranno per questo, ma soprattutto non divaghiamo. Che cosa mi racconti dei fatti d’Ungheria? Come è andata il 18 giugno?”


“Ce l’abbiamo fatta Albert! Ma è mancato davvero pochissimo che li prendessero. Quando, all’appuntamento convenuto con la famiglia, Agnes e Erdos sono entrati nella roulotte, non se la sono sentita di nascondersi sotto i letti dei bambini. Era un nascondiglio troppo prevedibile. Hanno ispezionato gli altri locali e hanno deciso di rintanarsi dentro la scatola ripostiglio del bagno. Non ti dico le dimensioni, ci stavano per un pelo, tutti rannicchiati, con le dita delle mani sul bordo. Si sono fatti coprire con i rotoli di carta igienica, le salviette e le saponette del bagno.”


“Alla frontiera gli agenti sono entrati nella roulotte?”


“Certo che sì, ovviamente. Era notte, hanno guardato il fondo con le torce e poi si sono fatti aprire. E per prima cosa hanno controllato sotto i letti dei bambini.”


“Appunto… ovvio.”


“Poi una guardia ha spalancato la toilette, ha illuminato intorno con la pila, ha aperto il coperchio della scatola… non ha visto le dita delle mani in un angolo in mezzo alle cianfrusaglie… e ha richiuso. Da non crederci, Albert, il confine tra vent’anni di galera e la libertà è passato per una scatola in bagno e per la contingenza di un poliziotto non proprio attento e diligente.”


“Fantastico, ne sono davvero felice. Un’altra piccola fessura per far crollare le mura di quella prigione di Stato.”


“L’ho saputo la notte stessa, i due sono arrivati dopo qualche ora a Vienna da Kovesi. Liberi! Martedì scorso erano già a Parigi da noi. Abbiamo trovato loro una sistemazione e adesso sto cercando di farli assumere in qualche laboratorio. Mi piacerebbe che Agnes venisse a lavorare al Pasteur.”


“Immagino il loro entusiasmo. Avranno coltivato il mito di Parigi, così distante dalla realtà.”


“Agnes mi ha scritto una lettera meravigliosa, che finisce così: sei un uomo straordinario, una finzione che esiste solo nei sogni e invece sei vero.”


“Accidenti, Jacques, ma hai pure una foto di Agnes con te?”


“Tieni.”


A Camus brillarono gli occhi, evento che si era fatto raro.


“Ma è bellissima! Che luce nello sguardo. Jacques? Mi stai nascondendo qualcosa?”


“Albert ti ho già detto che io non coltivo le tue abitudini poligame. È stata una questione di giustizia e di libertà, non di altro.”


“Quali abitudini? La mia non è poligamia: è amore per il molteplice. Cedo alla seduzione di universi alternativi. Soffro di questo disordine, ma non riesco a farne a meno.”


“Sì, però, anche per il tuo benessere fisico e psichico avere tre donne oltre a Francine non è molto salutare. Come hai fatto con le visite qui?”


“È venuta solo Maria, qualche volta. In giorni stabiliti.”


“Ti hanno detto delle indagini?”


“Mi ha raccontato qualcosa Francine, ma era talmente angosciata e depressa che ci ho capito poco e non ho insistito.”


“La polizia ha archiviato il caso. Pare proprio che non ci sia stato alcun complotto.”


“Peccato, mi stavo quasi cullando nel romanticismo di un’idea infondata.”


“Il Nobel per la letteratura braccato dai servizi comunisti, o da una congiura dei suoi plurimi detrattori. Da film.”


“Tu ci scherzi, ma gli attacchi anche personali che ho subito dopo il Nobel mi hanno ferito e abbattuto. Pubblicamente reagisco d’orgoglio, ma non mi capacito della bassezza e della malafede dei colleghi e di certa stampa.”


“Poi, forse, sei troppo sensibile ai giudizi altrui. Continui ad autocommiserarti: sei stato il primo a dire che era un Nobel prematuro, che da dieci anni non uscivi con un romanzo degno di questo nome e così via.”


“Ma è la verità, Jacques, sono soltanto onesto. Comunque, perché hanno archiviato?”


“Perché il cedimento del semiasse potrebbe essere dovuto a un difetto strutturale della Facel Vega. Hanno interrogato alcuni agenti dei servizi segreti francesi e non sapevano nulla. Hanno interpellato il ministero dell’Interno. Sono perfino riusciti a parlare con alcune fonti di collegamento con i servizi dell’Est Europa, grazie alle frequentazioni di certi ambienti del Partito Comunista Francese, ma nulla di fatto. Le risposte sono sembrate non evasive, come da loro abitudine, ma proprio ignare, come se il fatto non sussistesse.”


“Diciamo che è stato un attentato così perfetto che non si trova traccia né dei mandanti potenziali, che sono troppi, né degli esecutori né della meccanica del sabotaggio stesso. Un attentato così perfetto che non c’è stato.”


“Esatto! Un esercizio di immaginazione. Stavi per accontentare tutti i tuoi nemici in un colpo solo, senza che muovessero un dito.”


“Abbiamo fatto bene a chiudere il sesto capitolo sulle inquietudini, Jacques, è il sentimento decisivo. Io, però, lo sono più di te, inquieto. Tu vai a fare arrampicata sulle Alpi, vai a navigare a Cannes.”


“Ti assicuro che il mondo della scienza è un serbatoio di inquietudini. Almeno nel nostro campo, però, se un’idea ha le gambe buone finisce per prevalere.”


“Pensa, Jacques, a quante cose abbiamo in comune tu e io, due ribelli solitari e solidali, oltre all’inquietudine.”


“Vuoi che facciamo un altro elenco? Vedo che gli elenchi ti rilassano. Per cominciare, veniamo entrambi dal Sud. Io da questa parte del Mediterraneo e tu dall’altra.”


“I nostri padri avevano lo stesso nome, Lucien. Il mio era un francese piede-nero in Algeria, lavorava come sorvegliante e fattore in un’azienda vinicola di Mondovi, un colono mandato in guerra a difendere la madrepatria nel 1914, morto quasi subito, quando io avevo un anno, per le ferite riportate nella battaglia della Marna. Mia madre conserva ancora adesso, in una scatola per biscotti, la scheggia di granata che lo ha ucciso.”


“Hai ragione. Il mio Lucien, invece, era pittore, scultore, storico dell’arte, libero pensatore, appassionato di Darwin. Le nostre madri, al contrario, non hanno niente in comune, credo.”


“La mia è la creatura più amabile del mondo. Catherine, sangue spagnolo. Faceva la donna delle pulizie, è sorda e quasi muta, non sa leggere, è modesta, discreta, buona, non vuole mai disturbare. In seguito a questo incidente, il dolore più grande, insieme a quello per la perdita di Michel, è la preoccupazione che ho dato a lei, che è già molto in ansia per la situazione ad Algeri, per gli attentati e le ostilità verso i coloni francesi. Non sono mai riuscito a convincerla a trasferirsi in Francia, ma forse ha ragione lei. Dice che nel suo quartiere popolare di Belcourt, ad Algeri, le cose sono più semplici che a Parigi.”


“Passerà. Intanto le hai regalato un Nobel. Mia madre Charlotte, invece, era una statunitense di Milwaukee di origini scozzesi. Una volta, in un saggio, non volevo attribuirmi un paio di citazioni che però mi piacevano molto e allora ho inventato un filosofo di fantasia con il cognome di mia madre, McGregor, spacciandolo per l’autore degli aforismi. Finora non mi ha scoperto nessuno!”


“Non ci credo, Jacques! E cosa dicevano gli aforismi?”


“Be’… uno era molto camusiano. L’altro monodiano.”


“In che senso?”


“Il primo recitava così: Ogni conquista della scienza è una vittoria dell’assurdo. Il secondo: L’universo è riempito solo di rumori. L’uomo li sceglie e li usa per comporre a sua immagine una musica di cui si meraviglia. Firmato un tale McGregor.”


“Ma sono forti e veri! Mettiamoli nel libro. Puoi anche togliere il McGregor, visto che lo stiamo scrivendo a quattro mani. Stavo per dire, a proposito di elementi accomunanti, che entrambi vogliamo educare i nostri figli alla bellezza, al pensiero critico e all’onestà intellettuale: le tre virtù cardinali. Ma sulla tua specchiata onestà, adesso, ho qualche dubbio. Ti inventi anche le citazioni!”


“Smettila. Ti ricordo che tu hai mentito ai funzionari del servizio immigrazione americano per entrare nel loro Paese. A proposito di educazione dei figli, Albert: entrambi abbiamo avuto due gemelli. Mai viste tante comunanze tra due cani sciolti come noi. E poi ci accomuna l’amore per il Mediterraneo, io a Cannes e tu in Provenza. Siamo due pensatori ‘meridiani’.”


“Il Sud mi è sempre sembrato più essenziale, più vicino alla natura delle cose, all’unione tra bellezza del mondo e bellezza artistica. La Grecia, l’Italia, ma anche l’Algeria fuori dalle città, il deserto, le rovine di Tipasa sul mare. Ad Algeri, quand’ero piccolo, nel nostro povero appartamento senz’acqua corrente sentivi lo sforzo naturale di sopravvivere, le necessità elementari della vita; bastava un bagno a mare per non sentirsi infelici. Sai che non ho alcuna voglia di tornare nel grigiore, nei finti obblighi e nelle chiacchiere di Parigi?”


Monod fece quel suo sorriso largo e prorompente. Era, come sempre, magrissimo. Pensò al mare di Cannes. Si accompagnò l’onda di capelli brizzolati sopra la fronte alta. Nelle origini familiari erano oggettivamente diversi.


“È stato bellissimo quando hai dedicato il tuo discorso del Nobel a tua madre Catherine e al tuo maestro di scuola ad Algeri, Louis Germain.”


Camus rimase muto e assorto. Negli occhi uno strano bagliore, misto di incoscienza e di stupore.


“Mi sembri un po’ più affaticato e pallido del solito oggi, Albert. Anche un po’ distaccato. Stai impersonando il tuo impiegato Meursault?”


“Non so. Sarà perché è da quando sono ragazzo che, periodicamente, mi rinchiudono in sanatori e ospedali; non ne posso più. Vorrei tornare al teatro e ai suoi rituali comunitari. Stando prigionieri in questa stanza da sei mesi è facile pensare che la vita ci capita così, senza ragioni e senza colpe. Scivoliamo verso la condanna finale.” Fece una pausa per prendere respiro. “Eppure, è da un sacco che di notte non ho più l’incubo della mia esecuzione. Chissà perché.”


“Dai, ti leggo la chiusa, lascia stare gli incubi, che ne dici?”


“Va bene”, e si voltò porgendo il lato destro in ascolto.

Centre Hospitalier, Fontainebleau, 26 giugno 1960


Jacques Monod cominciò a leggere.


Bozza della chiusa

“Fuori dalle mura di questo mondo”: l’inquietudine dello scienziato

L’animo infatti cerca di spiegare – poiché l’insieme dello spazio è infinito fuori dalle mura di questo mondo – che cosa vi sia oltre, fin dove la mente voglia esplorare, fin dove voli il libero slancio dell’animo.


LUCREZIO, De rerum natura, libro II, 1044-1047


Non esiste spettacolo più bello di un’intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spettacolo dell’orgoglio umano, faccia a faccia con l’assurdo, è ineguagliabile. Proprio l’inumanità del mondo rende grande il Prometeo che alberga in ogni uomo. Il suo unico errore può essere la dismisura, ma nulla vale la rinuncia a questa sfida. Magnifica, dunque, l’intelligenza che rischiara questo deserto, che conosce le proprie virtù e le spiega, che morirà con il corpo, ma lo sa, e ne trae la sua libertà. L’animo umano affronta l’infinito grazie alla propria libertà di ricerca: vuole sempre andare oltre, “fuori dalle mura di questo mondo”.


Sotto il segno di questa inquietudine conoscitiva ed etica, lo scienziato assurge ad autentica figura dell’assurdo. La ragione scientifica, infatti, non è solo un fecondo strumento di indagine e di pensiero, ma anche di rivolta. Anzi, la ricerca scientifica è la forma più elevata di rivolta contro l’incoerenza dell’universo. La mossa è dirompente: non ci accontentiamo più di consolarci con miti di dei, eroi e giganti, ma alziamo lo sguardo al mondo per quello che è. Lo sforzo indefesso di capire l’universo è tra le poche cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, in cui solitamente si attarda, conferendole un po’ della dignità della tragedia.


Lo scienziato è un sovversivo a tutto tondo. Si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere dell’epoca, contro ogni conservazione, pagandone il prezzo. Lo scienziato sfida necessariamente le autorità precostituite, comprese quelle interne alla scienza. Lo scienziato si rivolta contro le ipotesi dei colleghi e dei pari, contro le correnti di pensiero dominanti, contro le tradizioni di ricerca alternative alla sua. Mette sotto la ghigliottina le sue idee, anziché la sua testa. Si conquista un’indipendenza contro il suo capo di laboratorio. Lo scienziato si rivolta perfino contro i fatti recalcitranti che non gli danno ragione, e può succedere che talvolta abbia la meglio. Lo scienziato si rivolta contro le sue stesse concezioni, le rimette continuamente in discussione, si tormenta e infine le modifica. Lo scienziato è un contestatore nato che tradisce i suoi maestri, e i maestri se lo aspettano perché, un tempo, anche loro hanno tradito. I migliori maestri si mettono anzi in sospetto, se non vedono nel loro migliore allievo un rivoltoso. Lo scienziato disobbedisce ai suoi mentori e ai suoi mecenati, oggi diremmo ai suoi finanziatori. Attraverso le sue creazioni più imperiture, lo scienziato trionfa provvisoriamente sulla morte stessa. Quale migliore interprete della rivolta?


Lo scienziato si rivolta non per attitudine riottosa, per partito preso, e nemmeno per scelta soggettiva. Si rivolta per statuto. Si rivolta per mestiere, per etica della conoscenza, per competenza professionale, e questo lo rende un eretico di una specie particolare. Lo scienziato, infatti, non deve confortare né rendere felici gli esseri umani. Certo, medici e inventori hanno ridotto sostanzialmente i dolori e le fatiche dell’esistenza, ma la scienza trascende la sua utilità. Peraltro, gli stessi medici e inventori sono giunti alle loro scoperte rivoltandosi contro le conoscenze pregresse, tradendole, superandole. Comunque sia, lo scienziato deve dire la verità, che a volte – anzi, spesso – è scomoda, spiazzante, controintuitiva. Sfida la percezione comune. Non carichiamo, dunque, la scienza di un compito che non ha: non deve dissolvere le nostre angosce assegnandoci un posto nell’universo. Non deve darci un senso posticcio, perché un senso non c’è. Non deve spiegare l’uomo, ma capire come siamo arrivati fin qui. Il suo unico nemico è la menzogna.


L’eroico sforzo dell’umanità di negare disperatamente la propria contingenza proseguirà – possiamo contarci –, e lo scienziato continuerà a disfarlo, come faceva Penelope con la sua tela. Non c’è dogma, non c’è aristocrazia colta che possa reggere, dinanzi a un ribelle del genere. Ha i fatti dalla sua parte. E i fatti, certe volte, sanno essere implacabili. Come disse nel 1923 il biologo John B.S. Haldane in un discorso non a caso rivolto alla Heretics Society di Cambridge, coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni” sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”. Spesso, pensando di farle un piacere, si presenta la scienza come un’attività esclusivamente costruttiva e creativa, oltre che utile. Si dimenticano così le enormi potenzialità distruttive, in senso culturale, del metodo scientifico, che ha reso indifendibili uno dopo l’altro i concetti tradizionali che avevano dato un significato alla vita umana.


Non si pensi, tuttavia, che la scienza sia un’avventura disincarnata, di pura ragione. Coinvolto in un’impresa di cambiamento tanto ardita, anche lo scienziato, chiaramente, è inquieto, combattuto, insoddisfatto, perché è un essere umano imperfetto come tutti gli altri. Un essere umano che paga in prima persona. Così come non accetta lo stato di cose, allo stesso modo non accetta se stesso come atomo di quello stato di cose. I grandi della scienza – Galileo, Darwin, Einstein, i fondatori della meccanica quantistica, Marie Curie, Gödel, Turing – sono sempre stati uomini e donne inquieti, assillati dal dubbio, tormentati. Sapevano di avere una sola vita a disposizione, troppo breve. Nella scienza, l’autocompiacimento è la morte. L’autosoddisfazione personale è la morte dello scienziato. L’autosoddisfazione collettiva è la morte della ricerca. Di converso, è l’ansia, l’insoddisfazione, l’inquietudine, l’agonia della mente che alimenta la scienza.


Nello scienziato, superba figura dell’assurdo, la filosofia del finito diventa, quindi, una filosofia della libertà: libertà di conoscere dinanzi all’inesauribilità dell’universo, ma anche, in molti casi, libertà di agire, di impegnarsi, di solidarizzare. Da una fonte di rumore, grazie al caso e alla necessità, sono emerse tutte le melodie della biosfera. Ora sappiamo che dal caso e dalla necessità è emersa anche la libertà, l’interrogazione gratuita, la continua lotta che nasce dal divorzio tra l’uomo e il mondo. Lo scienziato è un dissidente rispetto a ogni verità precostituita, paternalistica e autoritaria, che sia esterna alla scienza o sostenuta dai pari.


Il lavoro dello scienziato è fatica di Sisifo. Aggiunto un macigno alla montagna della conoscenza, trovata la risposta alle domande che tormentavano i predecessori, ecco affacciarsi nuove domande, ancor più difficili: altri macigni da portare. Con il passare del tempo, gli interrogativi aumentano anziché diminuire. Più si sa e più si possiedono strumenti per capire che non si sa. E allora succede che, mentre lo scienziato ribelle cerca qualcosa, la natura, più ribelle di lui, gli mostra tutt’altro, lo svia su una strada inaspettata in fondo alla quale c’è la scoperta di qualcosa che lui nemmeno sapeva di non sapere.


Lo scienziato, in un certo senso, si dà sempre obiettivi irraggiungibili, e nell’inquietudine di inseguirli perennemente si scopre felice. Nella vita ci sono molte cose che desideriamo e che sono alla nostra portata: qualcuno da amare, una casa, i figli, un lavoro gratificante, i viaggi nelle bellezze della natura. Molte di queste cose riusciremo a ottenerle e ci daranno gioia, ma il loro conseguimento non sarà mai equiparabile ai sogni incerti e ansiosi che le hanno precedute. Ecco, la scienza è sempre dentro quel sogno, sempre lì a sfidare l’ignoto, sempre lì a desiderare di andare oltre. Ha sempre davanti un obiettivo che non cessa mai di essere tale.


Anche grazie alla scienza, la nostra contingenza e la nostra finitudine non implicano né nichilismo né cinismo, ma, al contrario, impegno, ricerca, solidarietà umana, rivolta contro ogni padrone e lotta per la giustizia, una vita vissuta appieno in ogni istante. Homo sapiens, il cacciatore nato del senso, capisce che un senso non c’è. Allora decide di vivere fino in fondo il non-senso e di sobbarcarsi, felice, le fatiche di Sisifo della scienza, dell’etica e della convivenza umana. Di sorridere, perfino, dinanzi all’assurdità del proprio destino. Di godersi lo spettacolo della natura. Non ripiega su se stesso, insomma, ma si apre al mondo e agli altri.


Anche se ognuno di noi finirà, anche se la vita finirà, anche se la Terra finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se l’universo in un gran botto finirà, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla

............


Monod alzò lo sguardo, con espressione interrogativa.

Camus si era addormentato, sul lato sinistro.

Il riquadro dei parametri in alto segnava un’anomalia in rosso, sottolineata da un leggero bip.

Due medici entrarono di corsa nella stanza e chiesero a Monod di uscire.

POST SCRIPTUM

Jacques Monod vinse il premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1965, insieme agli amici e colleghi di una vita François Jacob e André Lwoff, per il modello dell’operone e per le loro scoperte sul controllo genetico della sintesi delle proteine. Da trent’anni non veniva assegnato un Nobel scientifico alla Francia. Fu conferito a tre uomini della Resistenza e a tre pasteuriani. Nel 1970 Monod pubblicò un bestseller internazionale: Il caso e la necessità. Nel 1971 divenne l’ottavo direttore generale dell’Istituto Pasteur. Continuò a lottare per i diritti civili, per le libertà individuali, per la necessità della ribellione contro ogni oppressione. In alcune interviste disse di ispirarsi all’esistenzialismo dell’amico Albert Camus, un esistenzialismo arricchito dalla filosofia della natura che scaturiva dalle sue conoscenze scientifiche. Morì nel 1976 a Cannes.


Agnes Ullmann ha condotto una brillante carriera come microbiologa all’Istituto Pasteur. Si è spenta a 91 anni, nel 2019, a Parigi.


Albert Camus, in realtà, perì nell’incidente stradale del 4 gennaio 1960. Pochi anni prima aveva detto di aver conosciuto un solo genio nella sua vita: Jacques Monod. Entrambi, morendo, lasciarono incompiuti gli appunti di un libro: L’ultimo uomo, quello di Camus; L’uomo e il tempo, quello di Monod.


Qui abbiamo solo immaginato che quei libri fossero lo stesso libro, composto a quattro mani, e che questo avesse Lucrezio come suo nume.1 Le tesi del libro immaginario fanno riferimento a ciò che Camus e Monod hanno davvero detto e scritto nella loro vita, ma naturalmente l’unico responsabile dei suoi contenuti è il sottoscritto.


Sappiamo che una piccola deviazione, una leggera smagliatura nella trama del tempo può talvolta aprire un universo alternativo, la cui storia apparirà, ai posteri, non meno plausibile e, al contempo, non meno soggetta ai capricci del caso. Quindi, ciò che avete letto non rappresenta una situazione impossibile. I romanzi, anche quelli filosofici, sono interi mondi coerenti, con la loro logica, le loro intuizioni e i loro postulati. Non spiegano niente. Non hanno un senso. Talvolta raccontano storie di esilio, di sacrificio, di rivolta e di solidarietà, dello splendore senza speranza delle vite umane.


Se poi l’esperimento mentale di questa amicizia incompiuta abbia saputo librarsi al di sopra delle sue ragioni e sprigionare anche un goccio di poesia, lo giudicheranno i lettori.


1. Le citazioni lucreziane nel testo sono tratte dalla seguente edizione: Lucrezio, De rerum natura, a cura di A. Schiesaro, traduzione di R. Raccanelli, Einaudi, Torino 2003.


Temi

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La paura di essere brutti.

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e di qualche sua conseguenza


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L’arte di stare sdraiati.

Manuale di vita orizzontale


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“Non è più come prima”.

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6 esercizi facili per allenare la mente


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