martedì 29 ottobre 2024

UOMO NEL BUIO Paul Auster


UOMO NEL BUIO
Paul Auster 
Titolo originale Man in the Dark 

Recensione 
“Le parole non servono, quando uno sa quello che sta facendo“.

“Malgrado le pene e le noie e le delusioni, vivere in questo mondo è la cosa più vicina a vedere il paradiso cui arriveremo“.

In una atmosfera soffusa ma intensa, quasi bergmaniana, Auster racconta dei rapporti fra August e la nipote Katia e fra August e la figlia Miriam.

Grande piacere è stato nel leggere in particolare le pagine dedicate al rifugio che nonno e nipote trovano nella visione domestica di film su film (con un saggio di critica cinematografica strepitoso), e quelle in cui il nonno racconta a Katia l’amore con sua moglie (tanto per dire: “Quando l’hai vista per la prima volta?“. “Il quattro aprile del cinquantacinque, alle due e trenta del pomeriggio”).
Mi è piaciuto molto anche il dialogo fra August e Miriam che chiude il romanzo:
"Per un momento la seguo con gli occhi e poi dico: Rose Hawthorne non valeva molto come poetessa, vero?No. Francamente, non era granché.
Però c’è un verso... un grande verso. Credo non sia inferiore a nient’ altro che abbia mai letto.
E quale?, chiede lei, voltandosi a guardarmi.
il folle mondo viene avanti rotolando.
Miriam fa un altro sorriso raggiante. Lo sapevo, mi dice. Mentre trascrivevo la citazione mi sono detta: Questo gli piacerà. Potrebbe essere stato scritto per lui.
Il folle mondo viene avanti rotolando, Miriam. Stampella in mano, si avvicina al letto e si siede accanto a me. Sì, papà, dice, osservando sua figlia con aria preoccupata, il folle mondo viene avanti rotolando."


UOMO NEL BUIO
Sono solo nel buio a rigirarmi il mondo nella testa mentre attraverso con fatica un’altra crisi d’insonnia, un’altra notte in bianco nei grandi spazi selvaggi d’America. Di sopra, mia figlia e mia nipote dormono ognuna nella propria stanza, sole anche loro: la mia unica figlia Miriam, di quarantasette anni, che dorme sola da cinque, e la sua unica figlia Katya, di ventitre, che dormiva con un ragazzo di nome Titus Small, ma ora Titus è morto e Katya dorme sola col suo cuore spezzato.  
Luce intensa, poi buio. Il sole che entra da ogni angolo di cielo seguito dal nero della notte, le stelle silenziose, il vento che fa stormire i rami. É la norma. Abito in questa casa da più di un anno - cioè da quando mi hanno dimesso dall’ospedale. Miriam aveva insistito che venissi qui, e all’inizio eravamo noi due soli più un’infermiera diurna che mi accudiva quando Miriam era al lavoro. Poi, tre mesi dopo, la disgrazia si abbatté su Katya e lei lasciò la scuola di cinema di New York per tornare a vivere con sua madre nel Vermont.  
I genitori lo avevano chiamato come il figlio di Rembrandt, il bambino dei quadri, il piccolo con la chioma d’oro e il cappello rosso, lo scolaretto sognante che si arrovella sulla lezione: il bambino, insomma, che diventò un ragazzo dilaniato dalla malattia e morì nei suoi vent’anni, proprio come il Titus di Katya. É un nome maledetto, un nome che si dovrebbe mettere al bando per sempre. Ripenso spesso alla morte di Titus, all’orrore di quella morte, alle sue immagini, alle sue conseguenze disastrose per la mia disperata nipote, ma ora non voglio andare su quel terreno, non posso andarci, devo tenerlo il più lontano possibile. La notte è ancora giovane, e mentre sto supino con gli occhi che guardano nel buio, un buio casi nero che non si vede il soffitto, comincio a ricordarmi il racconto che ho iniziato la notte scorsa. Quando il sonno non vuole venire faccio casi. Rimango steso a letto e mi raccontò storie. Forse vorranno dire poco, ma fino a quando sono al loro interno mi impediscono di pensare alle cose che preferirei scordare. Restare concentrato, però, può essere dura, e il più delle volte la mia mente finisce per scivolare dalla storia che cerco di raccontare alle cose cui non vorrei pensare. Non posso farci nulla. Fallisco a ripetizione, sono più i fallimenti dei successi, ma questo non significa che non faccia il possibile.  
Lo metto in una buca. Mi sembra buono come inizio, un modo promettente per avviare le cose. Metti un uomo che dorme in una buca e vedi che succede quando si sveglia e cerca di tirarsi fuori. Parlo di una buca nel terreno, profonda, due metri e mezzo o anche tre, scavata in modo da formare un cerchio perfetto, con pareti a novanta gradi di terra densa, compattissima, così dura che la sua superficie è liscia come ceramica o addirittura vetro. In altre parole, quando l’uomo nella buca aprirà gli occhi non sarà in grado di venirne fuori. A meno che non abbia un equipaggiamento da alpinista, per esempio un martello e dei chiodi di metallo, o una fune per prendere allaccio un albero vicino; ma quest’uomo non ha nessun attrezzo, e al risveglio capirà subito la natura della situazione problematica in cui si trova.  
Bene, ora succede. L’uomo riprende i sensi e scopre di essere disteso supino, lo sguardo alzato a un cielo serale senza nuvole. Il suo nome è Owen Brick e non ha idea di come sia finito in questo posto, non ricorda di essere caduto in questa buca cilindrica del diametro - a occhio - di  circa quattro metri. Si alza a sedere. Con sua sorpresa, veste una divisa militare di ruvida lana grigio-opaco. Ha un berretto in testa, ai piedi un paio di anfibi in pelle nera, decisamente usati, allacciati ben stretti sopra le caviglie con un doppio nodo. Sulle maniche della giacca ha due «baffi» di stoffa, quindi la divisa appartiene a qualcuno con il grado di caporale. Quel qualcuno potrebbe essere Owen Brick, ma l’uomo nella buca che si chiama Owen Brick non ricorda di aver fatto il soldato o combattuto una guerra in nessun momento della sua vita.  
In mancanza di altre spiegazioni pensa di aver preso una botta in testa, con temporanea amnesia. Quando però si tocca il cranio con la punta delle dita e comincia a cercare bernoccoli o tagli, non trova alcun segno di gonfiore, né abrasioni, né lividi: nessun indizio che abbia avuto simili ferite. E allora, cos’è stato? Forse ha subito un trauma debilitante che gli ha annebbiato ampie porzioni di cervello? Può darsi. Ma a meno che d’un tratto non gli torni il ricordo di quel trauma, non lo potrà sapere. Poi comincia a esplorare l’eventualità di essere addormentato, a casa, nel suo letto, preso in un sogno di una lucidità soprannaturale, così intenso e realistico che il confine tra sogno e coscienza sembra quasi svanito. Se questo fosse vero, allora non dovrebbe fare altro che aprire gli occhi, saltare giù dal letto e andare in cucina a prepararsi il caffè mattutino. Ma come puoi aprire gli occhi quando sono già aperti? Sbatte le palpebre per un po’ di volte, pensando come un bambino che magari così spezzerà l’incantesimo - però non c’è un incantesimo da spezzare, e il letto magico non si materializza.  
In alto passa una frotta di storni, che entrano per cinque o sei secondi nel suo campo visivo e poi vanno a scomparire nel crepuscolo. Brick si alza in piedi per ispezionare i dintorni, e nel gesto si accorge di un oggetto che gli gonfia la tasca anteriore sinistra dei calzoni. L’oggetto è un portafoglio, il suo portafoglio che, oltre a settantasei dollari americani, contiene una patente di guida rilasciata dallo Stato di New York a un certo Owen Brick, nato il 12 giugno 1977. Una conferma di quanto Brick sa già: cioè che sta per compiere trent’anni e vive a Jackson Heights, nel Queens. Sa anche di essere sposato con una donna di nome Flora e di aver svolto negli ultimi sette anni la professione di prestigiatore - soprattutto alle feste di compleanno dei bambini in giro per la città - col nome d’arte di Il Grande Zavello. 
Questi dati non fanno che infittire il mistero. Se è casi certo della propria identità, come mai è finito in fondo a questa buca, vestito nientemeno che con una divisa da caporale, senza documenti né piastrina, e senza una carta d’identità militare che ne certifichi la condizione di soldato?  
Non gli ci vuole molto per capire che la fuga è impossibile. Il muro circolare è troppo alto, e quando gli dà un calcio con lo scarpone nella speranza di scalfire la superficie creando una specie di tacca per il piede che lo aiuti a salire, l’unico risultato è un alluce dolente. La notte sta calando veloce e nell’aria c’è freddo, un freddo umido primaverile che gli penetra nel corpo; e anche se Brick ha cominciato a preoccuparsi, per adesso è ancora più sconcertato che impaurito. Comunque non riesce a trattenersi dal chiamare aiuto. Finora attorno a lui tutto è stato silenzioso, da far pensare che si trovi in una campagna remota, spopolata, senza altri rumori che un grido d’uccello ogni tanto e il fruscio del vento. E invece quasi a comando, come per una qualche logica sghemba di causa-effetto, nel momento in cui grida la parola AIUTO, in lontananza esplode un fuoco di cannoni e il cielo dell’imbrunire è illuminato da sfreccianti comete di distruzione. Brick sente mitragliatrici, scoppi di bombe a mano e, in sottofondo, senza dubbio a chilometri di distanza, un coro soffocato di voci umane ululanti. Capisce che questa è una guerra e lui è un soldato di questa guerra, ma senza armi con sé, senza alcun modo di difendersi da un attacco, e per la prima volta dal risveglio nella buca ha veramente paura. 
Gli spari continuano per più di un’ora, poi man mano si placano in silenzio. Poco dopo Brick sente un debole suono di sirene e immagina che siano le autopompe che accorrono verso gli edifici danneggiati nell’attacco. Quindi tacciono anche le sirene e la quiete ridiscende su di lui. Oltre che infreddolito e spaventato, Brick è esausto, e dopo essersi aggirato dentro i confini del suo carcere cilindrico finché nel cielo non appaiono le stelle, si sdraia a terra e finalmente riesce ad addormentarsi.  
La mattina presto è svegliato da una voce che lo chiama da sopra la buca. Brick alza gli occhi e vede la faccia di un uomo che si sporge sull’orlo: non vedendo nient’altro che il viso suppone che l’uomo sia steso a pancia in giù.  
Caporale, dice l’uomo. Caporale Brick, è ora di muoversi.  
Brick si alza in piedi e, adesso che i suoi occhi sono soltanto a un metro dalla faccia dello sconosciuto, vede che è un uomo bruno, col mento squadrato, una barba di due giorni e un berretto militare identico al suo. Prima che Brick possa far presente che muoversi gli piacerebbe eccome, ma non è affatto in condizione di farlo, il viso dell’uomo sparisce.  
Non temere, lo sente dire. Fra un attimo ti tiriamo fuori.  
Passa qualche secondo e poi si sente il rumore di un martello, o un mazzuolo di ferro, che batte su un oggetto metallico, e poiché il rumore a ogni colpo diventa meno sonoro, Brick ipotizza che l’uomo stia piantando un picchetto. E se fosse un picchetto, forse tra poco ci attaccheranno una fune, e con quella fune Brick ce la farà ad arrampicarsi fuori dalla buca. Il baccano finisce, passano altri trenta o quaranta secondi e poi, come previsto, una fune cala fino ai suoi piedi. 
Brick è un prestigiatore, non un culturista, e anche se salire circa un metro di fune non è un’impresa epica per un trentenne in buona salute ... be’, ha il suo daffare a issarsi fino in cima. La parete non gli è di alcun aiuto perché le suole degli anfibi continuano a scivolare sulla superficie liscia, e quando cerca di stringere la fune tra i piedi non trova una presa salda, quindi deve contare soltanto sulla forza delle braccia; ma dato che le sue braccia non sono né muscolose né potenti, e il materiale ruvido della fune gli sfrega i palmi, questa semplice operazione si trasforma in una specie di battaglia. Quando finalmente si avvicina all’orlo e l’altro uomo lo afferra per la mano destra issandolo all’altezza del suolo, Brick è senza fiato, e si vergogna di se stesso. Dopo una prestazione così misera, si aspetta di essere deriso per la sua inettitudine, ma miracolosamente l’uomo si astiene da commenti sprezzanti.  
Mentre si alza faticosamente in piedi, Brick nota che la divisa del suo salvatore è identica alla sua, con l’unica eccezione che sulle maniche della giacca non ci sono due strisce, ma tre. C’è una fitta nebbia, e stenta a capire dove si trova. Qualche punto isolato nella campagna, come sospettava, ma la città o cittadina che è stata attaccata nella notte non si vede da nessuna parte. Le uniche cose che riesce a distinguere con una certa chiarezza sono il paletto di metallo cui è annodata la fune e una jeep infangata a tre metri dall’orlo della buca.  
Caporale, dice l’uomo salutando Brick con una stretta di mano ferma e calorosa. Sono Serge Tobak, il tuo sergente. più noto come Serge Serge.  
Brick abbassa lo sguardo su quell’uomo, che è almeno quindici centimetri più piccolo di lui, e ripete il nome sottovoce: Serge Serge. 
Lo so, fa Tobak. É un nome troppo ridicolo, ma mi è rimasto appiccicato, e non posso farci niente. Se non puoi batterli unisciti a loro, giusto?  
Cosa ci faccio qui?, chiede Brick, cercando di dominare l’ansia nella sua voce.  
Vedi di calmarti, ragazzo. Stai combattendo una guerra. Cosa credevi che fosse? 
Un luna park?  
Quale guerra ? Vuoi dire che siamo in Iraq? Iraq? E che c’importa dell’Iraq?  
L’America sta combattendo una guerra in Iraq. Lo sanno tutti.  
Che si fotta, l’Iraq. Qui siamo in America, e l’America combatte contro l’America.  Che cosa dici ?  
Guerra civile, Brick. Non sai niente? É il quarto anno, ormai. Ma ora che sei arrivato tu, finirà presto. Sei l’uomo della svolta.  
Come sai il mio nome? Appartieni al mio plotone, scemo.  
E la buca? Cosa ci facevo lì dentro?  
È la procedura. Tutte le nostre nuove reclute arrivano così.  
Ma io non ho firmato. Non mi sono arruolato.  
Certo. Nessuno si arruola. Ma funziona in questo modo. Sei lì che stai vivendo la tua vita e poi... zac, ti ritrovi nella guerra.  
Brick è così sconcertato dalle parole di Tobak che non sa cosa rispondere.  
La situazione è questa, continua a blaterare il sergente.  
Tu sei il cretino che hanno scelto per il lavoro grosso. Non chiedermi perché, ma lo stato maggiore ti crede l’uomo ideale per questo incarico. Forse perché nessuno ti conosce, o forse perché hai questa ... questa che cosa? quest’aria insulsa, e nessuno sospetterebbe che tu sia un sicario.  
Sicario?  
Esatto, sicario. Ma io preferisco usare il termine liberatore. O pacificatore. 
Comunque ti vada di chiamarti, senza di te la guerra non finirebbe mai.  
Brick vorrebbe scappare via all’istante, ma essendo disarmato non gli vengono in mente altre soluzioni che stare al gioco. E chi dovrei uccidere?, domanda.  
Non è tanto un chi, quanto un che cosa, risponde il sergente, enigmatico. Non siamo neanche certi del suo nome. Potrebbe essere Blake. Potrebbe essere Black. Potrebbe essere Bloch. Ma abbiamo un indirizzo, e se a quest’ora non se l’è già filata, non dovresti avere problemi. Ti organizziamo un contatto in città, ti metti sotto copertura e fra qualche giorno tutto sarà finito.  
E come mai quest’uomo merita di morire?  
Perché possiede la guerra. L’ha inventata lui, e tutto quello che succede o succederà sta dentro la sua testa. Elimina quella testa e la guerra finisce. Semplice.  
Semplice? Da come ne hai parlato, sembra Dio.  
Non Dio, caporale ... solo un uomo. Sta tutto il giorno seduto in una stanza a scrivere, e quello che scrive si avvera. Secondo i rapporti dell’intelligence è tormentato dal senso di colpa, ma non può fermarsi. Se quel bastardo avesse il fegato di farsi saltare le cervella, ora non saremmo qui a fare questi discorsi.  
Mi dici che è una storia ... che un uomo sta scrivendo una storia, e che tutti ne facciamo parte.  
Più o meno.  
E quando sarà morto, cosa succederà? La guerra finirà, ma che sarà di noi?  Tutto tornerà normale.  
O forse spariremo.  
Forse. Però è un rischio che dobbiamo correre. Agire o morire, figliolo. Ci sono stati oltre tredici milioni di morti. Se le cose continuano così ancora per molto, metà della popolazione resterà uccisa prima che tu te ne accorga.  
Brick non ha intenzione di uccidere nessuno, e più ascolta Tobak più è sicuro che sia un pazzo scatenato. Ma per ora non ha altra scelta che fingere di capire, di comportarsi come se fosse ansioso di portare a termine la missione.  
Serge Serge si avvicina alla jeep, prende dal sedile posteriore una sacca di plastica bella gonfia e la porge a Brick. I tuoi nuovi vestiti, dice; e ordina al prestigiatore, lì, all’aperto, di togliersi la divisa e indossare i panni civili contenuti nella sacca: un paio di jeans neri, una camicia Oxford azzurra, un golf scollato a V, una cintura, un giubbotto di pelle marrone e scarpe di pelle nera. Poi gli consegna uno zaino di nylon verde con dentro altri vestiti, l’occorrente per radersi, uno spazzolino e un dentifricio, una spazzola, una rivoltella calibro 38 e una scatola di proiettili. Infine Brick riceve una busta con venti banconote da cinquanta dollari e un foglietto con nome e indirizzo del suo contatto.  
Lou Frisk, dice il sergente. Brava persona. Appena arrivi in città vai da lui e ti dirà tutto ciò che devi sapere.  
Di quale città parli?, chiede Brick. Non ho la minima idea di dove siamo.  
Wellington, risponde Tobak, girando sui tacchi verso destra e indicando la densa nebbia mattutina. Venti chilometri a nord. Resta su questa strada e a metà pomeriggio ci sarai.  
Ma devo andare a piedi?  
Mi spiace. Ti darei un passaggio, però vado nella direzione opposta. I miei uomini Mi aspettano.  
Senza fare colazione ? Venti chilometri a stomaco vuoto ...  
Scusami anche di questo. Avrei dovuto portarti un tramezzino con l’uovo e un thermos di caffè, ma mi sono dimenticato.  
Prima di partire per tornare dai suoi, Serge Serge tira su la fune dalla buca, svelle il paletto dal terreno e getta il tutto sul sedile posteriore della jeep. Poi si mette al volante e accende il motore. Nel salutare Brick militarmente, aggiunge: Non mollare, soldato. A me non sembri troppo un killer, ma cosa ne so io? lo ho sempre torto su tutto.  
Senza aggiungere altro, Tobak preme il piede sull’acceleratore e dopo un attimo non c’è più, è già sparito nella nebbia. Brick non si muove. É infreddolito e affamato, sconcertato e atterrito, e per oltre un minuto resta lì, in mezzo alla strada, a domandarsi cosa farà adesso. Alla fine comincia a rabbrividire nell’aria gelida. Ed è questo che gli fa prendere la decisione. Deve muovere le gambe per scaldarsi e così, senza nessuna idea di quello che lo aspetta, si volta, mette le mani in tasca e si incammina verso la città.  


Di sopra si è appena aperta una porta e sento rumore di passi in corridoio. Miriam o Katya, non so chi delle due. La porta del bagno si apre e si richiude; riconosco appena appena la musica flebile, familiare della pipì che colpisce l’acqua, ma chiunque l’abbia fatta è abbastanza premurosa da non rischiare, azionando lo scarico, di svegliare la famiglia, peraltro già sveglia per due terzi. Poi la porta del bagno si apre, e di nuovo il cammino silenzioso in corridoio e il chiudersi della porta di una stanza da letto. Dovessi scegliere, direi che era Katya. La povera, l’addolorata Katya, non meno refrattaria ad addormentarsi del suo nonno paralitico. Come vorrei poter salire le scale, entrare in camera sua e parlare un po’ con lei. Magari raccontarle qualcuna delle mie brutte barzellette, o anche soltanto carezzarle la testa finché gli occhi si chiudono e prende sonno. Ma non posso salire le scale sulla sedia a rotelle, giusto? E se mi servissi della stampella probabilmente finirei per cadere nel buio. All’inferno questa stupida gamba. L’unica soluzione è mettere le ali, due gigantesche ali di morbidissimo piumino bianco. Così arriverei su in un lampo.  
Negli ultimi due mesi, Katya e io abbiamo passato le giornate guardando film insieme. Fianco a fianco, sul divano del soggiorno, gli occhi fissi al televisore, aspirando due, tre, persino quattro film di seguito, interrompendoci per cenare con Miriam e poi, finito di mangiare, tornando sul divano pet un altro film o due prima di andare a letto. Dovrei lavorare al mio manoscritto: le memorie che avevo promesso a Miriam di scrivere per lei tre anni fa, quando andai in pensione, la storia della mia vita, la storia della nostra famiglia, la cronaca di un mondo scomparso, ma la verità è che preferisco stare sul divano con Katya tenendole la mano, lasciando che mi posi la testa sulla spalla, e sentendo la mia mente che si annebbia nella sfilata infinita di immagini sullo schermo. Per più di un anno ho ripreso il manoscritto tutti i giorni accumulando una bella quantità di fogli, circa metà della storia credo, forse anche un po’ di più, ma adesso è come se avessi perso lo slancio. Forse è iniziato con la morte di Sonia, non so, la fine della vita matrimoniale, la solitudine della sua esistenza, la porca solitudine dopo che l’ho persa, e poi sono andato a sbattere con quell’auto a nolo spappolandomi la gamba, rischiando di morire, forse anche questo ha contribuito; l’indifferenza, la sensazione che, dopo settantadue anni sulla terra, a fhi può mai fregare se scrivo di me stesso oppure no? É un’idea che non mi ha mai interessato, neanche da giovane, e in ogni caso non ho mai avuto l’ambizione di scrivere un libro. Mi piaceva leggerli, ecco tutto, leggere e scrivere dei libri letti, ma sono sempre stato uno scattista, mai un maratoneta: un levriero che per quarant’ anni ha lavorato a scadenza, esperto nel tirar fuori l’articolo di tremila o seimila battute, la rubrica che esce due volte alla settimana, ogni tanto un reportage per la rivista - quante migliaia di pezzi ho vomitato così? Decenni di effimero, mucchi di carta da giornale bruciata e riciclata e, a differenza della maggioranza dei miei colleghi, non ho mai avuto alcun desiderio di raccogliere le cose buone, sempre che ce ne fossero, e ripubblicarle in libri che nessuna persona sana di mente perderebbe tempo a leggere. Lasciamo per ora che il mio manoscritto semicompiuto continui ad accumulare polvere. Miriam, da parte sua, si sta affaticando su una biografia di Rose Hawthorne ormai in dirittura d’arrivo, si ritaglia le ore della notte, dei fine settimana, dei giorni in cui non deve guidare fino a Hampton per i suoi vari corsi, e forse al momento uno scrittore in casa può bastare. 
Dov’ero rimasto? A Owen Brick. Owen Brick che cammina lungo la strada verso la città. L’aria fredda, il trambusto, una seconda guerra civile in America. Un preludio  a qualcosa, ma prima che capisca cosa farne del mio disorientato prestigiatore, mi serve qualche istante per riflettere su Katya e i film, dato che non so ancora stabilire se sia una cosa buona o cattiva. Quando lei ha cominciato a ordinare i dvd su Internet, l’ho considerato un segno di progresso, un piccolo passo nella direzione giusta. Se non altro dimostrava di essere disposta a farsi distrarre, a pensare a qualcosa di diverso dal suo defunto Titus. In fin dei conti studia cinematografia, si sta specializzando in montaggio, e quando casa nostra fu invasa dai dvd inizialmente mi chiesi se non pensasse di tornare a scuola, o di approfondire la propria istruzione per conto suo. Ma dopo un po’ questa cinefilia ossessiva cominciò a sembrarmi una specie di auto terapia, un rimedio omeopatico per anestetizzarsi dal bisogno di pensare al futuro. Fuggire in un film non è come fuggire in un libro. I libri ti costringono a contraccambiarli con qualcosa, a esercitare l’intelligenza e la fantasia, mentre un film si può vedere - e anche godere in uno stato di passività inerte. Ciò detto, non vorrei far credere che Katya si sia trasformata in un sasso. Sorride, qualche volta durante le scene buffe delle commedie le scappa pure una risatina, e spesso le scene commoventi dei drammi hanno stimolato i suoi dotti lacrimali. più che altro mi fa effetto la sua postura, quel modo di accasciarsi sul divano con i piedi allungati sul tavolino, immobile per ore, rifiutando di spostarsi anche solo per prendere il telefono, senza praticamente dare segni di vita tranne quando la tocco o l’abbraccio. Temo sia colpa mia. L’ho incoraggiata a questa vita piatta, e forse dovrei porvi termine: ma se tentassi dubito che mi starebbe a sentire.  
Comunque certi giorni sono meglio degli altri. Ogni volta che terminiamo un film, prima che Katya faccia partire il successivo ne parliamo un po’. In genere io voglio iscutere la trama e la qualità della recitazione, mentre i suoi giudizi si concentrano sugli aspetti tecnici: l’uso della macchina, il montaggio, le luci, i suoni e così via. Proprio stasera, però, dopo aver visto tre film stranieri di fila - La grande illusione, Ladri di biciclette, Il mondo di Apu, Katya ha formulato alcuni commenti sintetici e incisivi, abbozzando una teoria di tecnica cinematografica che mi ha sbalordito per il suo acume.  
Oggetti inanimati, ha detto.  
In che senso?, le ho chiesto.  
Gli oggetti inanimati come mezzo per esprimere le emozioni umane. Questo è il linguaggio del cinema. Solo i buoni registi capiscono come si fa, ma Renoir, De Sica e Ray sono tre fra i più grandi, sei d’accordo?  
Senz’altro.  
Pensa alle prime scene di Ladri di biciclette. L’eroe riesce ad avere un lavoro, ma non potrà andarci se non riscatta la bicicletta dal monte di pietà. Torna a casa in preda all’autocommiserazione. E davanti alla casa c’è sua moglie che trasporta due pesanti secchi d’acqua. Tutta la loro miseria, gli affanni di questa donna e della sua famiglia, sono dentro quei secchi. Il marito è talmente assorto nei suoi problemi che non si cura nemmeno di aiutarla finché non hanno fatto metà del cammino verso la porta. E anche allora prende uno solo dei secchi, lasciando che sia lei a portare l’altro. Tutto quello che dobbiamo sapere del loro matrimonio ci è comunicato in quei pochi secondi. Poi salgono le scale dell’appartamento e la moglie vien fuori con l’idea di riscattare la bicicletta impegnando le lenzuola. Ricorda con che violenza sferra un calcio al secchio in cucina, ricorda con che violenza apre il cassetto del comò. Oggetti inanimati, emozioni umane. Poi ci spostiamo al monte di pietà, che non è un negozio, ma un luogo enorme, una specie di deposito di beni indesiderati. La moglie impegna le lenzuola e vediamo uno degli operai portare il fagotto verso le scaffalature dove sono ammassati i vari beni. Lì per lì gli scaffali non sembrano tanto alti, però poi la macchina indietreggia e quando l’uomo comincia a inerpicarsi vediamo che salgono sempre più su, fino al soffitto, e ogni scaffale, ogni vano, è stipato di fagotti identici a quello che adesso l’uomo sta immagazzinando, ed ecco che d’un tratto ci sembra che tutte le famiglie di Roma abbiano venduto le proprie lenzuola, che l’intera città versi nelle medesime difficoltà dell’eroe e di sua moglie. In un’inquadratura, nonno, in un’inquadratura sola, riceviamo l’immagine di una società al completo sull’orlo del disastro.  
Niente male, Katya. Le rotelline girano ...  
Mi è venuta quest’idea proprio stasera. E mi sa che ci sono, perché ho visto degli esempi in tutti e tre i film. Ricordi i piatti nella Grande illusione?  
I piatti?  
Proprio verso la fine. Gabin dice alla donna tedesca che la ama, che quando la guerra sarà finita tornerà a prendere lei e sua figlia, ma ora i soldati si stanno avvicinando e lui e Dalio devono tentare di superare il confine con la Svizzera prima che sia troppo tardi. I quattro mangiano insierp.e per l’ultima volta e poi viene il momento dei saluti. É naturale che tutto sia molto commovente. Gabin e la donna ritti sulla soglia, la possibilità che non si rivedano mai più, le lacrime della donna mentre gli uomini scompaiono nella notte. Quindi Renoir stacca su Gabin e DaHo che corrono nella foresta, e potrei scommetterci che qualsiasi altro regista al mondo sarebbe rimasto con lorò fino alla fine del film. Ma Renoir no. Lui ha il genio - e quando dico genio intendo l’intelligenza, la profondità d’animo, la sensibilità - di tornare alla donna e alla sua figlioletta, alla giovane vedova che ha già perso il marito per la follia della guerra, e cosa le tocca fare? Rientrare in casa e mettersi di fronte al tavolo da pranzo e ai piatti sporchi del pasto che hanno appena consumato. Adesso gli uomini sono andati via, e poiché sono andati quei piatti si sono trasformati in un segno della loro assenza, nel solitario dolore delle donne quando gli uomini vanno in guerra; e a uno a uno, senza dire una parola, lei li raccoglie, i piatti, e rigoverna la tavola. Quanto dura la scena? Dieci secondi? Quindici? Praticamente nulla, ma ti mozza il respiro, non è vero? Ti scaraventa a terra.  
Sei una ragazza coraggiosa, dissi, pensando improvvisamente a Titus.  
Basta, nonno. Non voglio parlare di lui. Un’altra volta, forse, ma non ora. D’accordo?  
D’accordo. Stiamo sui film. Ne resta ancora uno. L’indiano. Credo sia quello che mi è piaciuto di più.  
Perché parla di uno scrittore, disse Katya con un breve sorriso ironico.  
Può darsi. Ma questo non vuol dire che non sia bello.  
Non lo avrei scelto se non fosse bello. Niente spazzatura. É la regola, ricordi? Film di tutte le razze, dallo strambo al sublime, ma niente spazzatura.  
Intesi. Ma in Apu qual è l’oggetto inanimato? Pensaci.  
Non voglio pensare. La teoria è tua, quindi dimmelo tu. Le tende e la forcina per i capelli. Una transizione da una vita all’altra, lo snodo della storia. Apu è andato in campagna per il matrimonio della cugina di un suo amico. Un tradizionale matrimonio combinato - e quando lo sposo arriva si rivela un demente, un perfetto cretino. Le nozze vengono annullate e i genitori della cugina dell’amico cominciano a cedere al panico, temendo che se la figlia non si sposa quel pomeriggio sarà maledetta per tutta la vita. Apu si è addormentato sotto gli alberi senza un pensiero al mondo, felice di essere fuori città per qualche giorno. Si avvicinano i famigliari della ragazza. Gli spiegano che è l’unico scapolo disponibile, l’unico che possa risolvere il loro problema. Apu è sgomento. Li crede dei pazzi, una banda di bifolchi superstiziosi, e si rifiuta di assecondarli. Ma poi riflette e decide di dire di sI. Solo per compiere una buona azione, un gesto di altruismo, però non ha intenzione di riportare la ragazza con sé a Calcutta. Dopo la cerimonia nuziale, quando finalmente restano per la prima volta soli insieme, Apu scopre che questa ragazza mansueta è molto più coriacea di quanto pensasse. Sono povero, le spiega, voglio fare lo scrittore, non ho niente da offrirti. Lo so, risponde lei, ma non importa: è decisa a seguirlo. Esasperato, confuso, però anche colpito dalla sua fermezza, Apu con riluttanza cede. Stacco sulla città. Un carro si ferma davanti alla casa fatiscente dove vive Apu, e scendono Apu stesso e la sua sposa. Tutti i vicini accorrono sgranando gli occhi alla bellezza di questa giovane, mentre Apu l’accompagna su per la scala fino alla sua soffitta angusta, squallida. Un attimo dopo qualcuno lo chiama e lui esce. La cinepresa rimane sulla ragazza, sola in questa stanza estranea, in questa città estranea, sposata con un uomo che conosce appena. Infine lei si avvicina alla finestra, che al posto di una vera tenda è coperta da un sudicio pezzo di tela da sacco. Nella tela c’è un buco: la ragazza guarda dentro e vede il cortile, dove un bambino piccolo in mutandine trotterella fra la polvere e i calcinacci. La macchina inverte l’inquadratura e vediamo l’occhio di lei attraverso il buco. Quell’occhio sta piangendo, e del resto ... come biasimarla se si sente turbata, impaurita, sperduta? Apu rientra nella stanza e le chiede cosa c’è che non va. Niente, risponde lei scuotendo la testa, proprio niente. Segue una dissolvenza in nero, e la grande domanda resta: e dopo? Che sorte attende questa coppia improbabile, che solo un puro caso ha fatto sposare? Con qualche colpo abile e deciso, in nemmeno un minuto ci è rivelato tutto. Oggetto numero uno: la finestra. Dissolvenza in apertura, mattina presto, e la prima cosa che vediamo è la finestra da cui stava guardando la ragazza nella scena precedente. Ma la tela consunta non c’è più: al suo posto un paio di linde tendine a quadri. La cinepresa indietreggia un po’, ed ecco l’oggetto numero due: fiori in vaso sul davanzale. Sono segni incoraggianti, però non siamo ancora sicuri del loro significato. Un’atmosfera domestica, accogliente, il tocco femminile, ma è quanto ci si aspetta da una moglie, e il solo fatto che la moglie di Apu abbia adempiuto i suoi doveri non significa che gli voglia bene. La macchina continua a indietreggiare e vediamo i due a letto, addormentati. Suona la sveglia e la moglie scende dal letto mentre Apu mugola e affonda la testa nel cuscino. Oggetto numero tre: il sari di lei. Quando la moglie scende dal letto e fa per allontanarsi, a un certo punto non le è più possibile - perché i suoi vestiti sono legati a quelli di Apu. Stranissimo. Chi può aver fatto questo - e perché? L’espressione sul suo viso è insieme di dispetto e di piacere, e capiamo subito che è stato Apu. La ragazza si riavvicina alletto, gli dà un buffetto sul sedere e scioglie il nodo. Cosa mi dice questo momento? Che hanno intesa sessuale, che è nato un senso di gioco e di complicità, che sono veramente sposati. Si, ma l’amore? Sembrano soddisfatti, però quanto sono forti i reciproci sentimenti? É qui che appare l’oggetto numero quattro: la forcina. La moglie esce dal quadro per preparare la colazione, e la macchina stringe su Apu. Finalmente lui riesce ad aprire gli occhi, e mentre sbadiglia e si stira e si volta nel letto vede qualcosa nello spazio fra i due cuscini. Infila la mano e tira fuori una delle forcine di sua moglie. Siamo al coronamento. Apu solleva la forcina e la osserva, e quando vedi gli occhi di Apu, la tenerezza e l’adorazione dentro quegli occhi, sei sicuro al di là di ogni dubbio che è pazzamente innamorato di lei, che lei è la donna della sua vita. E Ray riesce a indicare tutto questo senza una sola parola di dialogo.  
Proprio come con i piatti, aggiunsi io. E con il fagotto delle lenzuola. Senza parole.  
Le parole non servono, disse Katya. Quando uno sa quello che sta facendo.  
C’è un’altra cosa a proposito di queste tre scene. Mentre guardavamo i film non me n’ero accorto, ma ora, sentendoteli raccontare, mi è balzata agli occhi. 
Che cosa?  
Sono tutte centrate sulle donne. Sul fatto che sono loro a reggere il mondo. Le donne fanno il lavoro di sostanza, mentre i loro sfortunati uomini ciampicano qua e là combinando pasticci. Oppure se ne stanno distesi senza far nulla. Come succede dopo la forcina. Apu guarda sua moglie che, all’altro capo della stanza, prepara la colazione china su una pentola, e nemmeno si muove per aiutarla. Come il marito italiano, del resto, ignaro della fatica che fa sua moglie per portare quei secchi.  
Finalmente, dice Katya, dandomi una leggera ditata nelle costole. Un uomo che ci arriva.  
Adesso non esageriamo. Ho solo inserito una postilla alla tua teoria. Alla tua acutissima teoria, potrei aggiungere.  
E tu, nonno, che marito sei stato?  
Ah ... distratto e infingardo come quelli dei film. Faceva tutto tua nonna.  
Non è vero.  
Si, invece. Quando tu eri con noi mi comportavo sempre al meglio di me stesso. Avresti dovuto vederci quando eravamo soli. 


Mi interrompo un attimo per cambiare posizione sul letto, sistemare il guanciale, bere un sorso d’acqua dal bicchiere sul comodino. Non voglio mettermi a pensare a Sonia. É ancora troppo presto, e se mi lascio andare adesso, finirà per rimuginare su di lei per ore. Continua con la storia. É l’unica soluzione. Continua con la storia e vedi che succede se riesco ad arrivare alla fine.  
Owen Brick. Owen Brick diretto verso Wellington, in quale stato non sa, in quale parte del paese non sa, ma data l’aria così umida e fredda ha il sospetto di essere nel Nord, forse nel New England, forse nello Stato di New York, forse in un punto dell’Upper Midwest; e poi, memore dei discorsi di Serge Serge su una guerra civile, si domanda perché ci si combatta e chi stia combattendo contro chi. Ancora il Nord contro il Sud? L’Est contro l’Ovest? Il Rosso contro il Blu? Il Bianco contro il Nero? Qualunque sia stata la causa della guerra, si dice, e qualunque interesse o ideale sia in gioco, non ha senso. Come può essere l’America, questa, se Tobak non sa nulla dell’Iraq? Completamente smarrito, Brick torna all’ipotesi precedente, cioè di essere prigioniero di un sogno: di trovarsi, malgrado l’evidenza fisica attorno a lui, sdraiato accanto a Flora a casa, nel suo letto.  
La visibilità è scarsa, ma nella nebbia Brick riesce vagamente a capire che è fiancheggiato da alberi su entrambi i lati; che non si vedono in nessuna direzione né case né altri edifici, né pali del telegrafo né cartelli stradali, nessun segnale di presenza umana salvo la strada stessa, una striscia male in arnese di catrame e di asfalto seminata di buche e di crepe che senz’altro non viene riparata da anni. Cammina per un chilometro, poi per un altro e un altro ancora senza mai incontrare un’auto, né una persona che emerga dal vuoto. Infine, dopo una ventina di minuti, sente qualcosa che si avvicina, un rumore, un sibilo metallico che stenta a identificare. Dalla nebbia gli esce incontro un uomo in bicicletta. Brick alza la mano per richiamare la sua attenzione, dice: Salve, signore, scusi, tuttavia il ciclista lo ignora e si allontana pedalando. Dopo un po’ cominciano ad apparire altre persone in bicicletta, alcuni vanno in una direzione, altri nell’altra, ma per l’attenzione che prestano a Brick quando domanda loro di fermarsi, potrebbe anche essere invisibile.  
Dopo altri otto-dieci chilometri, sulla strada cominciano ad apparire segni di vita - o meglio, segni di vita precedente: case bruciate, negozi di alimentari rasi al suolo, un cane morto, alcune automobili saltate in aria. D’un tratto compare davanti a lui una vecchia in vestiti laceri che spinge un carrello della spesa pieno delle sue cose.  
Mi scusi, chiede Brick. Sa se questa è la strada che va a Wellington?  
La donna si ferma e guarda Brick con gli occhi di una che non ha capito. Brick nota un ciuffetto di peli che le spunta dal mento, la bocca raggrinzita, le mani nodose, artritiche. Wellington?, dice lei. Chi glielo ha chiesto?  
Nessuno me l’ha chiesto, risponde Brick. Sono io che lo chiedo a lei.  
A me? E io che c’entro? Se non la conosco nemmeno. Né io conosco lei. Le sto solo chiedendo se questa strada va a Wellington.  
La donna scruta Brick per un attimo e dice: Le costerà cinque dollari.  
Cinque dollari per un sì o per un no? Lei è matta.  
Tutti da queste parti sono matti. Sta cercando di dirmi che lei non lo è ?  
Non sto cercando di dirle niente. Voglio solo sapere dove sono.  
È su una strada, tonto.  
Sì, certo, sono su una strada, ma quello che voglio sapere è se questa strada va a Wellington.  
Dieci dollari.  Dieci?  
Venti dollari.  
Se li sogna, fa Brick, ormai al limite della sopportazione. Lo capirò da solo.  
Che cosa, capirà?, chiede la donna.  
Invece di rispondere, Brick si rimette in cammino, e mentre avanza nella nebbia sente che alle sue spalle la donna scoppia a ridere come se qualcuno le avesse appena raccontato una barzelletta.  
Le strade di Wellington. È già passato mezzogiorno quando entra in città, esausto e affamato, i piedi indolenziti per l’asprezza della lunga marcia. Il sole ha bruciato la nebbia mattutina, e mentre vaga nei quindici gradi di un clima mite, Brick è contento di vedere che si trova in un luogo ancora quasi intatto, anziché in una zona di guerra bombardata, ingombra di macerie e cadaveri di civili. Nota diversi edifici distrutti, alcune strade crivellate di crateri, qualche barricata abbattuta, ma nel complesso Wellington sembra una città funzionante, con viavai di pedoni, gente che entra ed esce dai negozi e nessuna minaccia imminente sospesa nell’aria. L’unica cosa che la distingue da una normale metropoli americana è l’assenza di macchine, camion e autobus. Quasi tutti si spostano a piedi, e quelli che non camminano sono in sella a una bicicletta. Brick non può ancora sapere se questo sia l’effetto della penuria di benzina o di una politica municipale, ma deve ammettere che il silenzio ha un effetto gradevole, che gli piace di più del baccano e del caos delle strade di New York. Al,di là di questo, Wellington non ha molto di attraente. É un luogo desolato, in decadenza, con fabbricati brutti e mal costruiti, non si vede un albero e i marciapiedi sono seminati da mucchi di spazzatura. Una città deprimente, forse, ma non il vero e proprio buco infernale che Brick si aspettava.  
Il primo problema da risolvere è riempirsi lo stomaco, però a Wellington i ristoranti sembrano merce rara, e deve girare molto prima di adocchiare una tavola calda in una viuzza laterale. Sono quasi le tre, l’ora di pranzo è passata da un pezzo e quando entra trova il posto vuoto. Alla sua sinistra c’è un bancone con sei sgabelli liberi, a destra, disposti lungo la parete di fronte, quattro séparé angusti, liberi anche quelli. Brick decide di sedersi al bancone. Pochi secondi dopo che si è accomodato su uno degli sgabelli esce dalla cucina una ragazza che gli sbatte davanti la lista dei cibi. Sarà sui venticinque, ventotto anni: è bionda e magra, con lo sguardo stanco e l’ombra di un sorriso sulle labbra.  
Che c’è di buono oggi?, domanda Brick senza nemmeno aprire il menu. 
Diciamo piuttosto che cosa abbiamo, oggi, risponde la cameriera.  
Eh? Be’, cosa si può prendere?  
Insalata di tonno, insalata di pollo, e uova. Il tonno è di ieri, il pollo dell’altro ieri e le uova fresche di stamattina. Gliele possiamo fare come vuole. Fritte, strapazzate, in camicia. Sode, barzotte, alla coque. Quel che vuole, come vuole.  
Avete pancetta o salsicce? Pane tostato, patate?  
La cameriera straluna gli occhi con beffarda incredulità. Lei è un sognatore, bello. Le uova sono uova. Non uova e qualcos’altro. Uova e basta.  
Va bene, dice Brick, deluso ma sforzandosi di fare buon viso a cattivo gioco. Vada per le uova.  
Come le vuole?  
Dunque ... come le voglio? Strapazzate.  
Quante?  
Tre. No, anzi, quattro.  
Quattro? Guardi che le costeranno venti dollari. La cameriera stringe gli occhi e guarda Brick come se lo vedesse per la prima volta. Scuote la testa e aggiunge: Cosa ci fa in una chiavica come questa, con venti dollari in tasca?  
Perché voglio mangiare delle uova, risponde Brick. Quattro uova strapazzate servite da ...  
Molly, risponde la cameriera con un sorriso. Molly Wald.  
... da Molly Wald. Qualcosa da ridire?  
No, a occhio e croce niente.  
Così Brick ordina le sue quattro uova strapazzate, sforzandosi di mantenere un tono leggero, canzonatore, con la magra e abbastanza amichevole Molly Wald, ma sotto sotto sta calcolando che con questi prezzi - un uovo a cinque dollari in un buco sudicio e di infimo livello - il denaro che Tobak gli ha dato stamattina non può durare molto. Mentre Molly si volta per riferire l’ordine alla cucina, Brick si chiede se sia il caso di cominciare a farle delle domande sulla guerra, o se convenga non sbottonarsi e stare con la bocca chiusa. Ancora in dubbio, chiede una tazza di caffè.  
Spiace, non si può fare, dice Molly. È finito: Tè caldo. Quello, se vuole gliela posso fare.  
D’accordo, dice lui. Un bricco di tè. Dopo un momento di esitazione prende coraggio e chiede: Solo per curiosità... quanto costa.  
Cinque dollari.  
Cinque dollari? Sembra che tutto costi cinque dollari, qui dentro.  
Chiaramente perplessa per la sua battuta, Molly si fa avanti, puntella le braccia sul bancone e scuote la testa. Lei è un po’ tonto, vero?  
Probabile, fa Brick.  
Sono sei mesi che abbiamo smesso di usare i biglietti da uno e le monete. Dov’è stato, cocco? É straniero, o che cosa?  
Non so. lo sono di New York. Quindi sono straniero, o non lo sono?  
New York City?  
Queens.  
Molly fa una risatina asciutta che sembra comunicare a un tempo disprezzo e pietà per questo sprovveduto di cliente. Questa è grande, commenta, ma grande. Un tipo di New York che non distingue la sua testa dal culo.  
Io... mhh...balbetta Brick, sono stato malato. Fuori uso. Capisce, in ospedale... e non so nulla di quanto è successo.  
Be’, per sua norma e regola, signor citrullo, fa Molly, siamo in guerra, ed è stata New York a cominciarla.  
Oh?  
Proprio: oh. Secessione. Forse ne ha sentito parlare. Quando uno stato si dichiara indipendente dal resto dell’Unione. Adesso siamo sedici stati, e Dio solo sa quando finirà. Non sto dicendo che sia una brutta cosa, ma quando è troppo è troppo. Ti sfianca, e presto ti ritrovi nauseata da tutto.  
Ieri sera si è sentito sparare parecchio, dice Brick, azzardando finalmente una domanda diretta. Chi ha vinto?  
I Federali hanno attaccato, ma i nostri li hanno respinti. Non credo che ci riproveranno tanto presto.  
Quindi la situazione a Wellington sarà abbastanza tranquilla?  
Si, almeno per adesso. O casi dicono. Ma chi può saperlo?  
Una voce dalla cucina annuncia: quattro strapazzate, e un attimo dopo un piatto bianco appare sullo scaffale alle spalle di Molly. Lei gira su se stessa, prende il pranzo di Brick e lo depone davanti a lui. Poi comincia a preparare il tè.  
Le uova si rivelano troppo asciutte e troppo cotte: nemmeno una robusta dose di sale e pepe riesce a insaporirle granché. Famelico dopo i venti chilometri a piedi, Brick si rovescia nella bocca una forchettata di cibo dopo l’altra, masticando faticosamente le uova gommose e innaffiandole con frequenti sorsi di tè - che non è caldo come dichiarato, ma tiepido. Non fa niente, dice fra sé. In mezzo a tante domande senza risposta, la qualità del cibo è l’ultimo dei suoi pensieri. Interrompendosi un momento a metà della battaglia con le uova, Brick guarda Molly che, sempre ritta dietro il bancone, lo guarda mangiare con le braccia conserte spostando il peso ora sulla gamba sinistra, ora sulla destra, mentre i suoi occhi verdi lampeggiano di’ quella che sembra una specie di ilarità soffocata.  
Che cosa c’è da ridere?, le chiede.  
Niente, risponde lei facendo spallucce. Solo ... mangia casi in fretta che mi ricorda un cane che avevamo quand’ ero bambina. 
Chiedo scusa, risponde Brick. Ho fame.  
L’avevo capito.  
Magari avrà anche capito che sono nuovo di qui, fa lui. 
Non conosco un’anima a Wellington, e ho bisogno di un posto dove stare. Lei per caso non avrebbe un’idea?  
Quanto tempo?  
Non so. Forse una notte, forse una settimana, forse per sempre. É troppo presto per dirlo.  
Non è un po’ troppo vaga, come intenzione?  
Non posso farci nulla. Mi trovo in una situazione, sa... una situazione strana, e insomma, ecco... brancolo nel buio. A dire il vero non so neanche che giorno è.  
Giovedi 19 aprile.  
Il 19 aprile. Bene. É quello che avrei detto anch’io. Ma di che anno?  
Mi prende in giro?  
No, purtroppo. In che anno siamo?  
Nel 2007.  
Strano.  
Perché strano?  
Perché l’anno è giusto, ma tutto il resto è sbagliato. Mi stia a sentire, Molly...  
La ascolto, amico. Sono tutta orecchi.  
Bene. Dunque, se ora le dico le parole 11 settembre... hanno un significato speciale per lei?  
Non particolarmente.  
E World Trade Center?  
Le torri gemelle? Quei grattacieli alti di New York?  
Esatto.  
Embè?  
Sono ancora in piedi?  
Certo. Cosa le prende?  
Nulla, risponde Brick, mormorando fra sé con voce quasi impercettibile. Poi abbassa gli occhi sulle uova mezze mangiate e sussurra: Un incubo dopo l’altro.  
Cosa? Non l’ho sentita.  
Alzando la testa e guardando Molly dritto negli occhi, Brick le fa un’ultima domanda: E non ci sono guerre in Iraq, vero?  
Se sa già la risposta, perché lo chiede a me?  
Volevo solo essere sicuro. Mi scusi.  
Senta, signor...  
Owen. Owen Brick.  
Bene, Owen. Io non so che problema abbia tu, e non so cosa ti è successo in quell’ospedale, ma fossi in te finirei quelle uova prima che si freddino. Vado un attimo in cucina a telefonare. C’è un mio cugino che fa il turno di notte in un alberghetto qua dietro l’angolo. Magari hanno una stanza libera.  
Perché sei casi gentile? Non mi conosci nemmeno. Non sono gentile. Mio cugino e io abbiamo fatto un patto. A ogni nuovo cliente che gli mando lui mi dà il dieci per cento sulla prima notte. Sono affari e nient’altro, extraterrestre. Se ha posto per te, non mi devi un bel niente.  
Risulta che ce l’ha. Ora che Brick ha finito di mandar giù il suo cibo (con l’ausilio di un’altra sorsata di tè ormai freddo), Molly è tornata dalla cucina con la buona notizia. Ci sono tre stanze libere, gli dice: due da trecento a notte, e la terza da duecento. Non conoscendo i suoi mezzi, si è presa la responsabilità di prenotargli quella da duecento: segno evidente, pensa con gratitudine Brick, che malgrado il discorso cinico sugli affari e nient’altro, per fargli un piacere Molly si è ridotta di dieci dollari la sua quota. Una brava figliola in fondo in fondo, pensa Brick, nonostante si sforzi di nasconderlo. Si sente così solo, così scombussolato dagli eventi delle ultime diciotto ore, che vorrebbe che lei abbandonasse il suo posto al bancone per accompagnarlo in albergo - ma sa che non può, ed è troppo timido per chiederle di fare un’ eccezione per lui. In compenso Molly fa uno schizzo su un tovagliolo di carta indicandogli la strada da seguire per arrivare all’Exeter Hotel, che è solo a un isolato di distanza. Quindi Brick paga il conto insistendo per darle dieci dollari di mancia, e la saluta con una stretta di mano. 
Spero di rivederti, le dice, all’improvviso e scioccamente sull’orlo delle lacrime.  
Sono sempre qui, risponde lei. Dalle otto alle sei, da: lune di al venerdì. Se hai ancora voglia di mangiar male, sai dove andare.  
L’Exeter Hotel è una palazzina in calcare di sei piani, al centro di un isolato con negozi di scarpe a poco prezze e bar male illuminati. Forse sessanta o settant’ anni fa sad stato un bel posto, ma a Brick basta uno sguardo nell’atrio, con le sue poltrone di velluto semisfondate e rose dalle tarme e le palme defunte nei vasi, per capire che a Wellington con duecento dollari non si compra granché. Rimane alquanto perplesso quando alla reception insistono per far· gli pagare la notte in anticipo, ma non conoscendo bene gli usi locali non si mette nemmeno a protestare. L’impiega· to, che potrebbe passare per il gemello di Serge Tobak, conta i quattro biglietti da cinquanta dollari, li infila in un cassetto sotto il bancone di marmo incrinato, e consegna a Brick la chiave della camera 406. Senza richiedere né firme né prove della sua identità. Quando Brick domanda dove sia l’ascensore, l’impiegato risponde che è guasto.  
Abbastanza sfiatato dopo quattro piani di scale, Brick apre la porta ed entra nella stanza. Nota che il letto è stato rifatto, che i muri bianchi sembrano pitturati di fresco, che tutto è relativamente pulito, ma quando comincia a guardarsi attorno sul serio è colto da un senso di angoscia che lo annienta. La stanza è casi squallida, casi poco accogliente, che immagina che decine di disperati negli anni siano venuti ad alloggiare qui senz’altro scopo che suicidarsi. Da dove gli deriva questa sensazione? É il suo stato d’animo, si chiede, o può essere confermato dai fatti? Per esempio, la scarsità del mobilio: solo un letto e un armadio malandato, isolati in uno spazio fin troppo grande. Né sedie, né telefono. L’assenza di qualsiasi quadro alle pareti. Il bagno spoglio, tetro, con un’unica minisaponetta posata nel suo involucro sul lavabo bianco, un solo tela bianco appeso al portasciugamani, lo smalto arrugginito nella vasca bianca. Aggirandosi nella stanza in una spirale di depressione, Brick decide di accendere il vecchio televisore in bianco e nero vicino alla finestra. Forse guardarlo lo calmerà, pensa, o forse, con un po’ di fortuna, troverà un telegiornale e saprà qualcosa della guerra. Quando preme il bottone esce dall’apparecchio un ping sonoro, echeggiante. Un segno promettente, dice fra sé, ma poi, dopo aver atteso a lungo che il televisore si sia scaldato, sul video non appare nessuna immagine. Nient’altro che neve, e il sibilo acuto dell’elettricità statica. Cambia canale. Altra neve, altro sibilo. Gira la manopola fino in fondo, ma ogni scatto dà lo stesso risultato. Anziché limitarsi a spegnere il televisore, Brick stacca il cavo dalla parete. Poi si siede sul letto vetusto, che scricchiola sotto il peso del suo corpo.  
Prima che abbia modo di accasciarsi in un inutile gorgo di pietà di se stesso, qualcuno bussa alla porta. Uno del personale, pensa Brick, ma sperando in segreto che sia Molly Wald, riuscita in qualche modo a evadere per due minuti dalla tavola calda per venire a trovarlo e controllare che stia bene. Non è molto probabile, ovviamente, e appena apre la porta la sua flebile speranza è cancellata. La visitatrice non è Molly, però non è neanche un dipendente dell’albergo. No: si trova di fronte una donna alta, bellissima, con i capelli scuri e gli occhi azzurri, che indossa un paio di jeans neri e un giubbotto di pelle marrone - panni simili a quelli che gli aveva dato quella mattina Serge Serge. Osservandone la faccia, Brick si convince che si sono già visti, ma la mente si rifiuta di porgergli un ricordo del dove o del quando.  
Ehilà, Owen, fa la donna con un sorriso ammaliante e fugace; e guardando la sua bocca lui nota che è dipinta di rosso carico.  
Io ti conosco, vero?, risponde Brick. Almeno, mi sembra. O forse mi ricordi solo qualcuno. 
Virginia Blaine, annuncia la donna con allegria, un’eco di trionfo nella voce. Non ricordi? In seconda superiore ti eri anche preso una cotta per me.  
Oh mio Dio, mormora Brick, più smarrito che mai. Virginia Blaine. Eravamo compagni di banco durante le lezioni di geometria di Miss Blunt.  
Non mi fai entrare?  
Ah, certo, certo, dice lui scostandosi dalla soglia e osservandola entrare con passo deciso.  
Dopo aver girato lo sguardo per la stanza nuda e triste, Virginia si volta verso di lui e dice: Che posto orrendo. Cosa ti è saltato in mente di venire qui?  
È una lunga storia, risponde Brick, non volendo entrare nei dettagli.  
Così non va, Owen. Dovremo trovarti qualcosa di meglio.  
Domani, forse. Per stanotte ho già pagato, e dubito che adesso mi renderebbero i soldi.  
Non c’è neanche una sedia.  
Lo so. Ma se vuoi, ti puoi sedere sul letto.  
Grazie, dice Virginia, dando un’occhiata al liso copriletto verde; preferisco stare in piedi.  
Cosa ci fai qui?, chiede Brick, saltando di palo in frasca. Ti ho visto entrare  nell’albergo, e sono venuta a...  
No, no, non dico questo, la interrompe lui. Parlo di qui a Wellington, una città che io non avevo mai sentito nominare. In questo paese che dovrebbe essere l’America ma non è l’America, almeno non quella che conosco io.  
Non posso dirtelo. Almeno, non ancora.  
Vado a letto con mia moglie a New York. Facciamo l’amore, ci addormentiamo, e al mio risveglio sono steso in una buca in uno stramaledetto nulla, e con addosso una cazzo di divisa da soldato. Che diavolo sta succedendo?  
Calmati, Owen. So che all’inizio si è un po’ disorientati, ma poi ti abituerai, te lo prometto. 
Non voglio abituarmi. Voglio tornare alla mia vita. Ci tornerai. E molto prima di quello che pensi.  
Be’, meglio di niente, dice Brick, che non sa se crederle o meno. Ma se io potrò tornare, tu invece?  
Io non voglio tornare. Sono qui da tanto tempo, e mi piace più di dov’ ero prima.  
Tanto tempo... ma allora quando hai smesso di venire a scuola non era perché tu e i tuoi genitori avevate cambiato città.  
No.  
Mi sei mancata molto. Ci avevo messo tre mesi a farmi coraggio per chiederti di uscire con me e poi, proprio quando ero pronto, sei partita.  
Non c’era niente da fare. Non avevo altra scelta.  
Che cosa ti trattiene qui? Sei sposata? Hai dei figli? Figli no, ma sono stata sposata. Mio marito è morto all’inizio della guerra.  
Mi spiace.  
Anche a me. E mi spiace pure un pochino sentire che sei sposato tu. Non ti ho dimenticato, Owen. Lo so che è passato tanto tempo, ma anch’io desideravo quell’appuntamento, come te.  
E me lo dici adesso.  
È la verità. Insomma, di chi credi sia stata l’idea di farti venire qui?  
Vuoi scherzare. E dài, Virginia, perché avresti dovuto farmi una vigliaccata simile?  Perché volevo rivederti. E poi pensavo che saresti stato perfetto per il lavoro.  
Quale lavoro?  
Non fare l’indiano, Owen. Sai di che cosa sto parlando. Tobak. Quel pagliaccio che si fa chiamare Serge Serge. E Lou Frisk. Dovevi andare subito da lui, ricordi?  
Ero stanco. Avevo camminato tutto il giorno a stomaco vuoto, e dovevo mangiare qualcosa e dormire un po’. Stavo per buttarmi a letto quando hai bussato tu. 
Ti è andata male. Siamo tiratissimi, e dobbiamo andare da Frisk immediatamente.  
Non posso. Sono troppo sfinito. Lasciami dormire un paio d’ore, e poi verrò con te.  
Non dovrei proprio...  
Per favore, Virginia. In nome dei vecchi tempi.  
D’accordo, dice lei guardando il suo orologio. Ti do un’ ora. Adesso sono le quattro e mezzo. Alle cinque e mezzo precise sentirai bussare alla tua porta.  
Grazie.  
Però non fare il furbo, Owen. Intesi?  
Stai tranquilla.  
Dopo avergli rivolto un caldo, affettuoso sorriso, Virginia saluta Brick con un abbraccio. É stato bellissimo rivederti, gli sussurra all’orecchio. Brick sta zitto, le braccia lungo i fianchi, mentre nella mente gli guizzano mille pensieri. Alla fine Virginia si stacca da lui, gli dà un buffetta sulla guancia e va verso la porta che apre spingendo rapidamente in basso la maniglia. Prima di uscire si volta e gli dice: Cinque e mezzo.  
Cinque e mezzo, le fa eco Brick, poi la porta si chiude con un tonfo e Virginia Blaine se n’è andata.  
Brick ha già un piano - e una serie di principi. Non intende per nessun motivo incontrarsi con Frisk, né eseguire il lavoro che gli è stato assegnato. Non ucciderà nessuno, non obbedirà all’ordine di nessuno, sparirà dalla circolazione fino a quando sarà necessario. Dato che Virginia sa dove abita, dovrà uscire subito dall’albergo e non tornare mai più. Il problema più urgente è dove andare adesso, e gli vengono in mente solo tre possibili soluzioni. Tornare alla tavola calda e chiedere aiuto a Molly Wald. E se non fosse disposta a darglielo? Girare per la città in cerca di un altro albergo, oppure aspettare il buio e svignarsela da Wellington.  
Si concede dieci minuti, un tempo più che sufficiente perché Virginia scenda i quattro piani di scale ed esca dall’Exeter. Naturalmente potrebbe essere nell’atrio, o di guardia all’ingresso dell’albergo sull’altro lato della strada - ma se non è nell’atrio lui uscirà da una porta sul retro, purché ci sia e riesca a trovarla. E se invece Brick la incontrasse nell’atrio? Non farà altro che scappare a gambe levate. Magari non sarà l’uomo più veloce del mondo, però durante il colloquio ha notato che Virginia portava stivali con i tacchi: e un uomo con le scarpe senza tacchi non dovrebbe avere alcun problema a correre più svelto di una donna con gli stivali con i tacchi.  
Quanto all’abbraccio e al sorriso affettuoso, così come al desiderio professato di rivederlo e al rimpianto di non essere uscita con lui ai tempi del liceo, Brick è oltremodo scettico. Virginia Blaine, la sua passione di quindicenne, era la ragazza più carina della classe, e tutti i ragazzi si scioglievano di voglie inespresse ogni volta che passava. Quando aveva detto che era lì lì per chiederle un appuntamento non era stato sincero. Certo, avrebbe voluto farlo, ma in quella fase della sua vita non avrebbe mai osato.  
Cerniera del giubbotto tirata su, zaino appeso alla spalla destra, ecco che Brick scende imboccando la scala sul retro, l’uscita antincendio, che per fortuna gli permette di evitare completamente l’atrio conducendolo a una porta di metallo che si apre su una via parallela all’ingresso principale dell’albergo. Nessun segno di Virginia da nessuna parte, e il nostro stanchissimo eroe è talmente rasserenato dal successo della fuga che prova un momentaneo impulso di ottimismo: sente di poter finalmente aggiungere al lessico delle sue vicissitudini la parola speranza. Cammina svelto, sgusciando accanto a gruppi di pedoni, schivando un ragazzo su un bastone pogo, rallentando un po’ all’avvicinarsi di quattro soldati armati di fucile, ascoltando l’onnipresente rumore metallico delle bici per strada. Gira un angolo, poi un altro, poi un altro ancora, ed ecco lo lì di fronte al Pulaski Diner, la tavola calda dove lavora Molly. 
Brick entra e anche stavolta il posto è vuoto. Adesso che conosce l’ambiente, la cosa non lo sorprende più di tanto: perché la gente dovrebbe perder tempo a entrare in una tavola calda dove non hanno nulla da mangiare? Perciò non si vede ombra di cliente, ma la cosa più allarmante è l’assenza della stessa Molly. Pensando che magari sia uscita presto dal lavoro, Brick chiama il suo nome, e quando lei non compare lo chiama un’altra volta. Dopo qualche secondo di ansia la vede con sollievo entrare nella sala, però quando lei lo riconosce l’espressione annoiata sul suo volto subito si trasforma in preoccupazione, forse anche rabbia.  
É tutto a posto?, gli chiede con voce tesa, sulla difensiva.  
Sì e no, risponde Brick.  
Cosa vuoi dire? Ti hanno fatto problemi, all’albergo? Nessun problema. Mi aspettavano. Ho pagato in anticipo una notte e sono salito in camera.  
E com’era, la camera? Non ti è piaciuta?  
Lascia che te lo dica, Molly, dice Brick, senza poter reprimere il sorriso che si sta allargando sulle sue labbra, ho viaggiato in tutto il mondo, e se parliamo di alloggi di prim’ordine, cioè del massimo di comfort ed eleganza, non c’è niente che regga lo strascico alla camera 406 dell’Exeter Hotel di Wellington.  
A questa ironica osservazione, Molly fa un grande sorriso e di colpo sembra un’altra persona. Sì, lo so, dice. É un posticino di classe, vero?  
Vedendo quel sorriso, Brick afferra di colpo il motivo del suo allarme. Inizialmente doveva aver creduto che lui fosse tornato per lagnarsi, per accusarla di averlo truffato, ma ora che sa che non è così ha abbassato la guardia, si è sciolta in un atteggiamento più amabile.  
L’albergo non c’entra niente, dice. C’entra la situazione di cui ti avevo parlato prima. Ho un gruppo di persone alle calcagna. Vogliono farmi fare qualcosa che non voglio fare, e adesso sanno che alloggio all’Exeter. Quindi non posso più restarci. Per questo sono tornato. Per chiederti aiuto.  
Perché a me?  
Perché sei l’unica persona che conosco.  
Tu non mi conosci, dice Molly, spostando il peso dalla gamba destra alla sinistra. Ti ho dato delle uova, ti ho trovato una stanza, abbiamo parlato per cinque minuti. 
Questo io non lo chiamo conoscermi.  
Hai ragione. Non ti conosco. Ma non mi viene in mente un altro posto dove andare.  
Perché dovrei rischiare per te? Probabilmente sei nei guai. Guai con la polizia o con l’esercito. Forse ci sei scappato, da quell’ospedale. Chissà, scommetto che era un manicomio. Dimmi un motivo valido per cui dovrei aiutarti.  
Non ne ho. Neanche uno, risponde Brick, avvilito per aver sbagliato così malamente il giudizio su questa ragazza, per essere stato così sciocco da credere di poter contare su di lei. La sola cosa che ti posso offrire sono i soldi, aggiunge, ricordando la busta di biglietti da cinquanta nello zaino. Se conosci un posto dove posso nascondermi per un po’, naturalmente ti pagherei.  
Ah, be’, allora il discorso cambia, dice la trasparente, non troppo sveglia Molly. Quanti soldi sarebbero?  
Non so. Dimmelo tu.  
Diciamo che potrei tenerti a casa mia una notte o due.  
Il divano è abbastanza lungo, a occhio dovresti starei. Però, le mani a posto. Il mio ragazzo vive con me e ha un brutto carattere, non so se mi spiego, quindi non metterti in testa scemenze.  
Sono sposato. Non mi interessano queste cose.  
Da morir dal ridere. In questo mondo non esiste uomo sposato che rinunci a una scopata extra, se gli capita a tiro.  
Non è detto che io viva in questo mondo.  
Sì, forse è vero, a pensarci bene. Questo spiegherebbe un sacco di cose, no? 
D’accordo, allora, quanto mi fai pagare?, chiede Brick, ansioso di chiudere la trattativa.  
Duecento carte.  
Duecento? Siamo un po’ esose, non ti sembra?  
Tu non sai proprio un cazzo, mio caro. Da queste parti più basso di così non si può, è già sottoterra. Prendere o lasciare.  
Va bene, dice Brick, chinando la testa con un lungo, lugubre sospiro. Prendo. 



All’improvviso un urgente bisogno di svuotare la vescica. Ho fatto male a bere quell’ultimo bicchiere di vino, però la tentazione era troppa, e il fatto è che mi piace andare a dormire un po’ brillo. La bottiglia di succo di mela è appoggiata per terra accanto alletto, ma quando allungo una mano e la cerco a tastoni nel buio, sembra proprio introvabile. La bottiglia è stata un’idea di Miriam per risparmiarmi le pene e la difficoltà di scendere dal letto e zoppicare fino al bagno nel cuore della notte. 
Ottima, come idea, ma poi tutto sta ad avere sottomano la bottiglia, e in questa specifica notte le mie dita brancolanti, protese, non trovano il contatto col vetro. L’unica soluzione è accendere la lampada da notte, ma una volta fatto questo ogni possibilità che mi addormenti svanirà definitivamente. La lampadina è da soli quindici watt, però accenderla nel buio nero-inchiostro di questa stanza sarà come espormi a una vampata di fuoco lancinante. Per qualche secondo resterò abbagliato e poi, con l’espandersi delle pupille, sarò completamente sveglio e il mio cervello continuerà a rimuginare anche dopo aver rispento la luce, fino all’alba. Lo so per lunga esperienza: tutta una vita di battaglie contro me stesso nelle trincee della notte. E sia: non c’è niente da fare, proprio un bel niente. Accendo. Resto abbagliato. Sbatto piano le palpebre mentre i miei occhi si assuefanno ed ecco che l’ho vista, la bottiglia, ritta sul pavimento a quattro dita dal suo solito posto. Mi allungo, tendo il corpo ancora un po’ e afferro la maledetta. Poi, rovesciando indietro le coperte, a poco a poco mi tiro a sedere - con prudenza, piano piano, per non destare l’ira della mia gamba malandata -, svito il tappo, infilo il pistolino nel foro e lascio uscire la pipi. É sempre appagante questo momento in cui il fiotto comincia, e poi anche guardare il liquido giallo che sgorga nella bottiglia spumeggiando mentre il vetro si scalda nella mano. Quante volte orina una persona in settantadue anni? Potrei anche fare i calcoli, ma perché prendermi la briga adesso che il lavoro è quasi finito? Mentre sfilo il pene dall’imboccatura guardo il mio vecchio compare e mi chiedo se mi capiterà ancora un’occasione sessuale, se troverò mai più una donna disposta a venire a letto con me, a passare una notte fra le mie braccia. Ricaccio il pensiero e dico a me stesso di desistere, sapendo che questa è la strada della follia. Perché dovevi morire tu, Sonia? Perché non me ne sono andato io per primo?  
Ritappo la bottiglia, la rimetto al suo posto preciso sul pavimento, e tiro su le coperte. E adesso? Spegnere la luce o non spegnerla? Vorrei tornare alla mia storia e scoprire che cosa succede a Owen Brick, ma sul ripiano basso del comodino ci sono le ultime puntate del libro di Miriam, e ho promesso di leggerle e dirle cosa ne penso. A furia di guardare film con Katya sono rimasto indietro, e mi secca pensare di averla trascurata. E allora solo un po’, un altro capitolo o due - per amore di Miriam.  
Rose Hawthorne, ultima dei tre figli di Nathaniel Hawthorne, nata nel 1851, appena tredici anni quando morì suo padre, Rose rossa di capelli, nota in famiglia come Rosebud, il Bocciolo di Rosa, una donna che visse due vite, la prima triste, tormentata, fallimentare, la seconda straordinaria. Mi sono chiesto spesso perché Miriam avesse scelto di sobbarcarsi questo progetto, ma ora credo di cominciare a capire. Il suo ultimo libro è stato una biografia di John Donne, il principe coronato dai poeti, il genio dei geni, e poi si imbarca in un lavoro d’indagine su una donna che per quarantacinque anni ha brancolato per il mondo, una persona scontrosa e difficile, una «straniera a se stessa» per propria ammissione, che dapprima tentò la sorte con la musica, poi con la pittura, e non avendo avuto risultati con nessuna di queste attività si volse alla poesia e ai racconti, riuscendo anche a pubblicarne alcuni (senz’altro grazie al nome di suo padre), ma la sua produzione era pesante e goffa, a essere generosi mediocre: tranne un verso di una poesia citata nel manoscritto di Miriam, che mi piace moltissimo: E il folle mondo viene avanti rotolando.  
Aggiungiamo al ritratto pubblico le circostanze private della fuga d’amore, a vent’anni, col giovane scrittore George Lathrop, un talento che non mantenne mai le promesse, gli amari conflitti del loro matrimonio, la separazione, la riconciliazione, la morte a cinque anni del loro unico figlio, la separazione definitiva, i litigi protratti di Rose con suo fratello e sua sorella, e viene da pensare: perché darsi la pena, perché dedicare tempo all’esplorazione dell’anima di una persona così insignificante e infelice? Ma poi, nella maturità, Rose ebbe una metamorfosi. Si converti al cattolicesimo, prese i voti e fondò un ordine di suore, le Serve del conforto per il cancro incurabile, dedicando i suoi ultimi trent’anni alla cura dei malati terminali poveri come appassionata tutrice del diritto di ognuno a morire con dignità. Il folle mondo viene avanti. In altre parole, come per Donne, la vita di Rose Hawthorne fu una storia di conversione, e questa doveva essere l’attrattiva, l’elemento che accese la scintilla dell’interesse di Miriam verso di lei. Perché dovesse poi interessarle, è un’ altra faccenda, ma credo che le venga direttamente da sua madre: una fondamentale convinzione che le persone hanno il potere di cambiare. Insomma era l’influsso di Sonia,  non il mio, e forse è per questo che è una persona migliore, ma per quanto mia figlia sia intelligente, in lei c’è anche qualcosa di ingenuo e fragile, e vorrei tanto che imparasse che le azioni abiette che gli esseri umani perpetrano gli uni contro gli altri non sono solo aberrazioni, ma una parte essenziale di quello che noi siamo. In questo modo soffrirebbe meno. Il mondo non le crollerebbe addosso ogni volta che le succede qualcosa di negativo, e non si addormenterebbe ogni notte in lacrime.  
Non voglio dire che il divorzio non sia una cosa crudele. Dolore indicibile, atroce disperazione, rabbia diabolica, e nella testa una nuvola costante di tristezza, che a poco a poco si trasforma in una specie di lutto, come se stessimo piangendo una morte. Ma Richard ha lasciato Miriam cinque anni fa, e uno si aspetterebbe che ormai si sia adattata alla sua nuova situazione, si sia rimessa in gioco, abbia cercato di ridisegnare la propria vita. Invece tutta la sua energia si è convogliata nell’insegnamento e nella scrittura, e ogniqualvolta sollevo la questione di altri uomini drizza il pelo. Per fortuna, quando ci fu la rottura Katya aveva già diciotto anni ed era via all’università, era abbastanza grande e forte da assorbire il trauma senza crollare. Era stata molto più dura per Miriam quando io mi separai da mia moglie. Aveva solo quindici anni, lei, un’età molto più vulnerabile, e anche se Sonia e io tornl’tmmo insieme.nove anni dopo, ormai il danno era fatto. É già difficile da adulti sopravvivere a un divorzio, ma da ragazzi è ancora peggio. Sono del tutto impotenti, e portano il peso più grande del dolore.  
Miriam e Richard commisero lo stesso errore mio e di Sonia: si sposarono quando erano troppo giovani. Nel nostro caso avevamo entrambi ventidue anni - caso non molto raro nel lontano 1957. Ma quando Miriam e Richard salirono all’altare un quarto di secolo dopo, lei aveva la stessa età di sua madre. Richard aveva qualche anno in più, diciamo ventiquattro o venticinque, ma ormai il mondo era cambiato, ed erano poco più che bambini, due studentelli-primi-della-classe che si stavano specializzando a Yale; e meno di due anni dopo ebbero anche una figlia. Non lo capiva, Miriam, che c’era il rischio che Richard scivolasse nell’irrequietudine? Non capiva che un professore quarantenne, davanti a un’aula piena di studentesse rischiava di finire stregato da quei giovani corpi? É la storia più vecchia del mondo, ma Miriam - la sgobbona, fedele, nervosa Miriam - non ci badava. Pur avendo la storia di sua madre impressa a fuoco nel profondo dell’anima: quel momento terribile in cui quel farabutto di suo padre, dopo diciotto anni di matrimonio, se n’era andato con una ragazza di ventisei anni. lo allora ne avevo quaranta. Diffidate dei quarantenni. 
Perché faccio casi? Perché insisto a percorrere questi sentieri vecchi e stanchi; perché questa pulsione a tormeqtare le vecchie ferite e farle sanguinare un’ altra volta? É impossibile descrivere un disprezzo maggiore di quello che provo talora per me stesso. Avrei dovuto leggere il manoscritto di Miriam e invece eccomi qui con gli occhi fissi su una crepa nel muro, a setacciare i resti del passato, cose rotte che non si potranno riparare mai. Datemi il mio racconto. Non voglio altro, adesso - il mio raccontino per tener lontani i fantasmi. Prima di spegnere la luce sfoglio a caso il manoscritto fino a un’ altra pagina ed ecco cosa trovo: gli ultimi due paragrafi della nota biografica di Rose sul padre - scritti nel 1896 -, che raccontano l’ultima volta in cui lo vide.  
Mi sembrò terribile che un uomo di eccezionale forza, così sensibile e luminoso come mio padre, dovesse farsi vieppiù debole e fioco, e infine immoto e bianco come un fantasma. E tuttavia, mentre il passo era vacillante e la figura quella di uno spettro, conservava la dignità dei suoi giorni più fieri, portandosi, con militaresco autocontrollo, ancor più eretto di prima. Non mancava di venire a cena col suo migliore abito nero, laddove l’estrema modestia del vitto non influiva  sulla distinzione del pasto. Odiava il fallimento, la dipendenza e il disordine, la trascuraggine delle regole e la mollezza della disciplina, come odiava la codardia. Non so esprimere quanto mi apparisse coraggioso. L’ultima volta che lo vidi stava lasciando la casa per compiere quel viaggio curativo che lo condusse improvvisamente nell’altro mondo. Mia madre doveva accompagnarlo alla stazione: mia madre, che quando le dissero che era morto, come si seppe in seguito barcollò e gemette, seppur tanto lontana da lui, dicendoci che qualcosa sembrava inaridirle ogni forza; a fatica lasciai che i miei occhi si posassero sulla sua persona rattratta e sofferente in quel giorno degli addii. Mio padre sapeva per certo quello che lei sentiva vagamente, cioè che non sarebbe mai tornato.  
Come il simulacro di neve di un uomo non piegato ma vecchio, molto vecchio, rimase per un attimo a guardarmi. Mia madre singhiozzò camminando al suo fianco verso la carrozza. Ci è mancato sempre, da allora: con il sole, la pioggia, nel crepuscolo. 



Spengo, e daccapo mi ritrovo al buio, risucchiato dal buio infinito, balsamico. In lontananza sento i rumori di un camion che viaggia su una strada di campagna deserta. Ascolto l’aria entrarmi e uscirmi dalle narici. Stando alla sveglia sul comodino, che ho controllato prima di spegnere la lampada, è mezzanotte e venti. Ore e ore fino all’alba, gran parte della notte ancora davanti a me... A Hawthorne non importava. Se il Sud vuole staccarsi dal paese, disse, lasciamoli andare, sarà meglio perderli che trovarli. Il folle mondo, il mondo percosso, il mondo che viene avanti mentre le guerre divampano attorno a noi: le braccia mozzate in Africa, le teste mozzate in Iraq, e nella mia testa quest’altra guerra, una guerra immaginaria sul suolo di casa nostra, l’America spaccata, il nobile esperimento infine morto. I miei pensieri vagano ancora verso Wellington e di colpo rivedo Owen Brick seduto in uno dei séparé al Pulaski Diner, che guarda Molly Wald passare lo straccio su tavoli e bancone mentre si avvicinano le sei. Poi sono sulla strada, camminano insieme in silenzio, lei lo conduce verso il suo appartamento, i marciapiedi gremiti di uomini dall’aria stanchissima e di donne che tornano a casa arrancando dopo il lavoro, soldati con i fucili di guardia agli incroci principali, un cielo dai riflessi rosei sopra la testa. Brick ha perso ogni fiducia in Molly. Capendo che non può contare su di lei, che non può contare su nessuno, una ventina di minuti prima che uscissero è sgattaiolato nel gabinetto della tavola calda e ha trasferito la busta di biglietti da cinquanta dallo zaino nella tasca anteriore destra dei jeans. Sentiva che così avrebbe corso meno rischi di essere rapinato, e quando quella sera andrà a dormire è ben deciso a tenersi i calzoni. Nel gabinetto si è preso finalmente la briga di controllare i soldi, e vedere la faccia di Ulysses S. Grant incisa sul davanti di ciascuna banconota lo ha un po’ rincuorato. È la dimostrazione che questa America, quest’altra America che non ha passato l’Il settembre o la guerra in Iraq, tuttavia ha forti legami storici con l’America che lui conosce. La domanda è: a che punto le due storie hanno cominciato a divergere?  
Molly, dice Brick, rompendo il silenzio quando camminano da dieci minuti, ti spiace se ti faccio una domanda?  
Dipende dalla domanda, risponde lei.  
Hai mai sentito parlare della seconda guerra mondiale? La cameriera fa un breve grugnito di irritazione. Cosa mi credi?, gli chiede. Una ritardata? Sicuro che ne ho sentito parlare.  
E del Vietnam?  
Mio nonno è stato uno dei primi soldati che han fatto evacuare.  
Se ti dicessi New York Yankees, cosa diresti? 
Ma dài, lo sanno tutti.  
Ma tu cosa diresti?  
Con un sospiro di impazienza, Molly lo guarda e annuncia in tono sarcastico: Le New York Yankees? Sono quelle ragazze che ballano alla Radio City Music Hall.  Ottimo. E invece le Rockettes sono una squadra di baseball, vero?  
Esatto.  
Bene. Un’ultima domanda, poi smetto.  
Lo sai che sei davvero un rompiballe?  
Mi spiace. So che mi credi uno stupido, ma non è colpa mia.  
No, infatti. Sei solo nato così.  
Chi è il presidente?  
Come, il presidente? Cosa dici? Non abbiamo nessun presidente.  
No? E allora chi sta a capo del governo?  
Il primo ministro, scemo. Oh Cristo santo, ma da che pianeta arrivi?  
Ho capito. Gli stati indipendenti hanno un primo ministro. Ma quelli federali? Loro ce l’hanno ancora, un presidente?  
Naturale.  
E come si chiama?  
Bush.  
George W.?  
Si. George W. Bush.  
Brick mantiene la parola evitando di fare altre domande e i due continuano a camminare in silenzio. Un paio di minuti dopo Molly indica una casa di legno a quattro piani in un quartiere popolare, costituito da una schiera di case in legno a quattro piani simili, tutte abbastanza bisognose di pittura. Cumberland Avenue 628. Eccoci, dice Molly, tirando fuori una chiave dalla borsa e aprendo la porta; poi Brick la segue su due rampe di scale traballanti, fino all’appartamento che occupa insieme al suo ragazzo. Piccolo ma in ordine, composto da una camera da letto, il soggiorno, la cucina e un bagno con doccia però senza vasca. Mentre si guarda attorno, Brick nota con stupore che non ci sono né il televisore né la radio. Quando lo segnala a Molly, lei gli spiega che tutti i ripetitori dello stato sono stati fatti saltare nelle prime settimane di guerra e il governo non ha abbastanza soldi per ricostruirli.  
Forse quando la guerra sarà finita, dice Brick.  
Seh, forse, risponde Molly, sedendosi sul divano del soggiorno e accendendosi una sigaretta. Fatto sta che sembra non interessi più a nessuno. All’inizio è stata dura - mioddio, niente Tv! - ma poi diciamo che ci si abitua, e dopo un altro paio d’anni comincia a piacerti. Cioè, il silenzio. Niente più voci urlanti ventiquattro ore al giorno. Ora, vabbè, è una vita un po’ all’antica, tipo come saranno state le cose cento anni fa. Se vuoi avere notizie, leggi il giornale. Se vuoi vedere un film, vai al cinema. Niente più stravaccamenti sul divano. So che è morta un sacco di gente e che è proprio bruttissima, là al fronte, ma forse ne è davvero valsa la pena. Forse. Soltanto forse. Se la guerra non finisce presto, andrà tutto a puttane.  
Brick non sa perché, ma capisce che Molly non gli sta più parlando come se fosse un deficiente. Come interpretare questo inatteso cambiamento di tono? Con il fatto che ha finito di lavorare, e se ne sta comodamente seduta nel suo appartamento a fumare una sigaretta? Con il fatto che comincia ad avere pietà di lui? O viceversa con il fatto che l’ha resa più ricca di duecento dollari e quindi lei ha deciso di smetterla di prenderlo in giro? In ogni caso, pensa Brick, una ragazza dai diversi volti, magari non ottusa come sembra, ma neanche un’aquila. Avrebbe altre cento domande da farle, ma decide di non abusare della propria fortuna.  
Spenta la sigaretta, Molly si alza in piedi e dice a Brick che fra meno di un’ora ha un appuntamento per cena dall’altra parte della città col suo ragazzo. Si avvicina a un armadio fra la camera da letto e la cucina, tira fuori due lenzuola, due coperte e un cuscino, li porta in soggiorno e li lascia cadere sul divano.  
To’, ecco qua, gli dice. Biancheria da letto per il tuo letto, che non è un vero letto. 
Spero non abbia troppi bozzi.  
Sono talmente stanco, risponde Brick, che riuscirei a dormire anche sui sassi.  
Se ti vien fame, in cucina c’è un po’ di roba. Un barattolo di minestra, il pane, delle fette di tacchino. Puoi farti un sandwich.  
Quanto?  
Non ho capito.  
A quanto me lo metti?  
Finiscila. Non ti faccio pagare per un po’ di cibo. Mi hai già dato abbastanza.  
E per la colazione di domattina?  
Non c’è problema. Ma non abbiamo molto. Solo caffè e pane tostato.  
Senza aspettare la risposta di Brick, Molly corre in camera a cambiarsi. La porta sbatte e Brick comincia a farsi il letto che non è un letto. Quando ha finito si aggira nella stanza cercando giornali o riviste, nella speranza di trovare qualcosa che lo informi sulla guerra, qualcosa che gli dia un’idea di dove si trova, qualche frammento di notizia che lo aiuti a saperne un po’ di più del paese sconcertante dove è capitato. Ma in soggiorno non ci sono né giornali né riviste, solo una piccola libreria stipata di mystery e thriller tascabili che non ha voglia di leggere.  
Torna verso il divano, si siede, posa il capo sul poggiatesta foderato e si addormenta subito.  
Mezz’ora dopo, quando riapre gli occhi, la porta della camera da letto è socchiusa e Molly non c’è più.  
Fruga nella stanza in cerca dei giornali - invano.  
Poi entra in cucina per riscaldarsi un barattolo di minestra di verdure e prepararsi un sandwich al tacchino.  
Nota che le marche gli sono conosciute: Progresso, Boar’s Head, Arnold’s. Lavando i piatti dopo aver terminato questo pasto modesto, guarda il telefono bianco alla parete e si domanda che succederebbe se provasse a chiamare Flora.  
Prende il ricevitore, compone il numero di casa sua a Jackson Heights e in breve conosce la risposta. Il numero è fuori servizio.  
Asciuga i piatti e li rimette nella credenza. Quindi, spenta la luce in cucina, va nel soggiorno e pensa a Flora, la sua compagna di letto argentina con i capelli scuri, il suo piccolo vulcano, sua moglie negli ultimi tre anni. Cosa starà passando, dice fra sé.  
Spegne la luce in soggiorno. Si slaccia le scarpe. Si infila sotto le coperte. Si addormenta.  
Qualche ora dopo lo sveglia il rumore di una chiave che entra nella serratura dell’appartamento. Tenendo gli occhi chiusi, Brick ascolta lo scalpiccio, il suono basso di una voce maschile, quella più acuta e metallica della sua compagna, senz’altro Molly, certo, è proprio Molly, che parla all’uomo chiamandolo Duke, e poi si accende una luce che ondeggia come un barlume rossastro sulla superficie delle sue palpebre. Sembrano tutti e due un po’ ubriachi, e quando la luce si spegne ed entrano a passi pesanti nella camera - dove immediatamente si accende un’altra luce -, Brick capisce che stanno bisticciando. Prima che la porta si chiuda coglie le parole non mi va, duecento, pericoloso, innocuo, e si rende conto che l’argomento della discussione è lui, e che Duke non è al settimo cielo per la sua presenza in casa.  
Riuscendo a riaddormentarsi quando il trambusto in camera si spegne (suoni di accoppiamento: grugniti di Duke, squittii di Molly, cigolii di materasso e molle), Brick scivola poi in un complicato sogno su Flora. Dapprima le sta parlando al telefono. Non è la voce di Flora, però, con le sue r sonore e la cantilena, ma la voce di Virginia Blaine, e Virginia/Flora lo sta pregando di volare - non camminare, volare - fino a un certo angolo di Buffalo, nello Stato di New York, dove lei sarà in piedi, nuda sotto un impermeabile trasparente, con un ombrello rosso in una mano e un tulipano bianco nell’altra. Brick scoppia a piangere, le dice che lui non sa volare, al che Virginia Flora grida rabbiosamente nella cornetta che non vuole vederlo mai più, e riaggancia. Sbigottito per tanta veemenza, Brick scuote la testa e mormora fra sé: Ma oggi non sono a Buffalo, sono a Worcester, nel Massachusetts. Quindi sta camminando su una strada a Jackson Heights, vestito nel suo costume da Grande Zavello con il lungo mantello nero, alla ricerca della sua palazzina condominiale. Ma la palazzina non c’è più, e al suo posto c’è una villetta a un piano, di legno, la porta sormontata da un cartello con la scritta Clinica Odontoiatrica All-American. Entra e c’è Flora, quella vera, vestita da infermiera. Sono molto contenta che sia venuto, Mr Brick, gli dice, a quanto pare senza riconoscerlo, e poi lo sta accompagnando in uno studio e gli fa cenno di sedersi su una poltrona da dentista. É davvero un peccato, dice, prendendo una pinza grossa, scintillante, un peccato davvero, ma sembra proprio che dovremo strapparle tutti i denti. Proprio tutti?, chiede Brick, di colpo atterrito. Si, risponde Flora, tutti quanti. Ma non si preoccupi. Quando avremo finito, il dottore le darà una faccia nuova.  
Il sogno termina qui. Qualcuno sta scrollando Brick per una spalla mentre sbraita parole al suo indirizzo, e quando infine il sognatore intontito apre gli occhi, vede un uomo grande e grosso, con spalle larghe e braccia nerborute, che torreggia su di lui. É uno di quelli che fanno body building, pensa Brick, il fidanzato Duke, quello con un brutto carattere, in maglietta nera aderente e calzoncini azzurri, che gli dice di levarsi dai coglioni, fuori di qui.  
Ma io ho già pagato... comincia Brick.  
Per una notte, grida Duke. Adesso la notte è finita, e devi andartene.  
Un momento, un momento solo, dice Brick alzando la mano destra in segno di pace. Molly mi ha promesso la colazione. Caffè e pane tostato. Mi accontento di un goccio di caffè, poi me ne vado.  
Niente caffè. Né pane. Niente di niente.  
E se te li pagassi? Cioè, un piccolo extra.  
Che, sei sordo, allora?  
E con queste parole Duke si china, agguanta Brick per il maglione e lo solleva di peso. Ora che è in piedi, Brick ha una vista chiara della porta della stanza da letto, e nel momento in cui la vede esce Molly, che si stringe la cintura dell’accappatoio e si passa le mani fra i capelli.  
Basta, fa a Duke. Non devi metterla sulla violenza. Taci, ribatte lui. Hai combinato tu questo casino, e adesso tocca a me rimediare.  
Molly alza le spalle e poi guarda Brick con un sorrisetto di scuse. Mi rincresce, dice. Ora sarà meglio che tu vada.  
Mentre infila i piedi nelle scarpe senza neanche allacciarle, prende il giubbotto dal fondo del divano e se lo rimette addosso, Brick le dice: Non capisco. Ti do tutti ‘sti soldi, e ora mi cacci. Non ha senso.  
Invece di rispondergli, Molly guarda per terra e rialza le spalle. Quel gesto apatico ha in sé tutta la forza di una diserzione, di un tradimento. Senza più un’alleata che si batta per lui, Brick decide di andarsene senza protestare oltre. Si china e solleva dal pavimento lo zaino verde, ma appena si volta per uscire Duke gliela strappa di mano.  Questo cos’è?, gli chiede.  
La mia roba, risponde Brick. Ovviamente.  
La tua roba?, ribatte Duke. Secondo me no, buffone.  
Cosa stai dicendo?  
Che adesso è mia.  
Tua? Non puoi farlo. Lì dentro c’è tutto quello che ho.  
Allora prova a riprendertela.  
Brick capisce che Duke vuole la rissa, e che la borsa è solo un pretesto. Sa anche che se viene alle mani col fidanzata di Molly è praticamente sicuro che prenderà un sacco di botte. O questo è quanto gli dice il cervello nell’istante in cui sente Duke lanciare la sfida: ma Brick non pensa più col cervello, perché l’indignazione che gli monta dentro ha sgominato ogni raziocinio, e se consentirà a questo bestione di fare a modo suo senza opporgli nessuna resistenza, perderà il poco rispetto di se stesso che gli rimane. E allora Brick non si arrende, ma inaspettatamente ristrappa la borsa dalle mani di Duke, e qui all’istante comincia il pestaggio, un’ aggressione così unilaterale e fulminea che l’energumeno atterra Brick con soli tre colpi: sinistro al ventre, destro al volto e ginocchiata nelle palle. Il dolore si espande in ogni angolo del corpo del prestigiatore, e mentre lui si rotola sul tappeto sdrucito annaspando per riprendere fiato, tenendosi una mano sullo stomaco e l’altra attorno allo scroto, vede prima del sangue gocciolare dalla ferita che si è aperta nella sua guancia; e poi, sdraiato nella pozza rossa che si sta formando, il frammento di un dente - la metà inferiore del suo incisivo sinistro. Si rende conto solo vagamente delle grida di Molly, flebili come se provenissero da dieci isolati più in là. Un momento dopo, non capisce più nulla.  
Quando riprende il filo della propria storia, Brick si ritrova in piedi, impegnato a far scendere il proprio corpo dalle scale reggendosi alla ringhiera con entrambe le mani, procedendo verso il piano terra lentamente, un gradino alla volta. Lo zaino non c’è più, il che significa che non ci sono più neppure la pistola e le pallottole, per non parlare di tutte le altre cose che erano nella borsa, ma quando Brick si interrompe per frugare nella tasca anteriore destra dei suoi jeans, sulla bocca devastata gli frulla la traccia di un sorriso, il sorriso amaro di chi non è completamente sconfitto. I soldi ci sono ancora. Non più i mille che gli aveva dato Tobak ieri mattina, ma cinquecentosessantacinque dollari sono meglio di niente, pensa lui, più che sufficienti per trovarsi una stanza da qualche parte e un boccone da mangiare. Adesso i suoi pensieri non possono portarlo più in là di tanto. Nascondersi, lavarsi il sangue dalla faccia, riempire lo stomaco se e quando l’appetito tornerà.  
Per modesti che siano, questi piani svaniscono nell’attimo in cui esce di casa e si trova sul marciapiede. Dritta di fronte a lui, con le braccia conserte e la schiena appoggiata alla portiera di una jeep militare, Virginia Blaine sta guardando Brick con una faccia disgustata.  
Niente furbate, dice. Me l’avevi promesso.  
Virginia, risponde Brick, facendo del suo meglio per cadere dalle nuvole. Che cosa ci fai qui?  
Ignorando la domanda, l’ex reginetta del corso di geometria di Miss Blunt scuote il capo e ribatte: Dovevamo vederçi ieri pomeriggio alle cinque e mezzo. Mi hai bidonata.  
É successa una cosa e son dovuto andare via all’ultimo momento.  
Vuoi dire che sono successa io, e sei scappato via.  
Non riuscendo a trovare una risposta, Brick tace.  
Non hai un bell’aspetto, Owen, continua Virginia.  
No, immagino di no. Mi hanno appena fatto un mazzo così.  
Dovresti stare attento alle compagnie che frequenti.  
Quel Rothstein è uno tosto.  
Chi è Rothstein?  
Duke. Il ragazzo di Molly.  
Lo conosci?  
Lavora per noi. È uno dei nostri uomini migliori. 
È un animale. Un sadico pezzo di merda.  
É stata tutta una commedia, Owen. Per darti una lezione.  
Ah, sì? Brick sbuffa, gonfiandosi di sdegno. E che lezione sarebbe? Mi ha rotto un dente, il figlio di puttana.  
Ti è andata bene che non te li ha rotti tutti.  
Tante grazie, borbotta Brick in tono sarcastico, e poi, d’un tratto, gli ritorna in mente l’ultimo capitolo del sogno: la Clinica Odontoiatrica All-American, Flora e la pinza, la faccia nuova. Bene, pensa Brick toccandosi la ferita sulla guancia, adesso ho la mia faccia nuova, giusto? Grazie al pugno di Rothstein.  
Non puoi vincere, gli dice Virginia. Ovunque tu vada ci sarà qualcuno che ti osserva. Non ci sfuggirai mai.  
Questo lo dici tu, fa Brick, che non vuole ancora cedere, ma in cuor suo sa che Virginia ha ragione.  
Ergo, mio caro Owen, questo piccolo intermezzo di temporeggiamenti e nascondini è finito. Salta sulla jeep. E ora che parli con Frisk.  
Scordatelo, Virginia. lo non posso saltare, non posso correre e non posso ancora andare da nessuna parte. Ho la faccia sanguinante, i coglioni in fiamme, e tutti i muscoli dell’addome a pezzi. Prima devo rimettermi in sesto. Poi parlerò con quel tizio. Però almeno lasciami fare un bagno, accidenti.  
Per la prima volta dall’inizio della conversazione, Virginia sorride. Povero scemo, dice, con un sorrisetto lezioso di compassione, ma se questa nuova sollecitudine per lui sia vera o falsa, Brick proprio non lo capisce.  
Stai con me o no?, le chiede.  
Monta, gli dice lei, dando un buffetto alla portiera. Certo che sto con te. Ti porto a casa mia, e lì ti rimetteremo a posto. É ancora presto. Lou può aspettare. Basta che ti veda prima di sera.  
Rassicurato, Brick zoppica fino alla jeep e issa la sua carcassa sofferente sul sedile del passeggero mentre Virginia si mette al volante. Quindi accende il motore e si lancia in un lungo e tortuoso racconto della guerra civile, sentendosi evidentemente in dovere di illustrare a Brick lo sfondo storico del conflitto; ma il problema è che lui non è in condizione di seguire quello che sta dicendo, e mentre corrono sulle strade tutte buche di Wellington, ogni sobbalzo e ogni accelerata trasmettono al suo corpo un nuovo assalto di dolore. Peggio ancora, il fracasso del motore è così forte che quasi sovrasta la voce di Virginia, e per sentire almeno qualcosa Brick deve tendere le orecchie per quanto gli permettono le forze, che sono come minimo ridotte, se non del tutto azzerate. Afferrando a due mani il fondo del sedile, puntando contro il pavimento le suole per reggersi al sobbalzo successivo del telaio, resta per tutti i venti minuti del viaggio con gli occhi chiusi, e delle mille e mille notizie che gli vengono disordinatamente seminatè addosso tra l’appartamento di Molly e la casa di Virginia, questo è quanto riesce a trattenere:  
Le elezioni del 2000... subito dopo la sentenza della corte suprema... proteste... tumulti nelle principali città... un movimento per abolire il collegio elettorale... la proposta di legge battuta al Congresso... un nuovo movimento... capeggiato dal sindaco e dai presidenti dei boroughs di New York... secessione... approvata dal corpo legislativo dello stato nel 2003... le truppe federali attaccano... Albany, Buffalo, Syracuse, Rochester... la città di New York bombardata, 80000 morti... ma il movimento cresce... nel 2004 il Maine, il New Hampshire, il Vermont, il Massachusetts, il Connecticut, il New Jersey e la Pennsylvania si uniscono a New York negli Stati Indipendenti d’America... più tardi quell’anno stesso la California, l’Oregon e Washington si staccano per formare una propria repubblica, la Pacifica... nel 2005 l’Ohio, il Michigan, l’Illinois, il Wisconsin e il Minnesota entrano a far parte degli Stati Indipendenti... l’Unione Europea riconosce il nuovo paese vengono strette relazioni diplomatiche ... poi il Messico quindi i paesi dell’America centrale e di quella meridionale... segue la Russia, e poi il Giappone... Nel frattempo gli scontri continuano, spesso terrificanti, il conto delle perdite sale senza sosta... risoluzioni dell’Onu ignorate dai Federali, ma finora non si è fatto uso di armi nucleari, che significherebbero morte per tutti da entrambe le parti... Politica estera: non intromettersi negli affari di nessuno... Politica interna: assistenza sanitaria per tutti, niente più petrolio, niente auto o aeroplani, aumento  del quattrocento per cento degli stipendi degli insegnanti (per attirare verso la professione gli studenti migliori), rigoroso controllo delle armi da fuoco, istruzione gratuita e formazione lavorativa per i poveri... per ora tutto nel regno della fantasia, un sogno per il futuro, dato che la guerra continua a trascinarsi ed è ancora in vigore lo stato di emergenza.  
La jeep rallenta e poi si ferma. Quando Virginia spegne il motore, Brick apre gli occhi e scopre di non essere più al centro di Wellington. Sono arrivati in una lussuosa via suburbana con grandi case in stile Tudor circondate di prati inappuntabili, aiuole di tulipani, cespugli di forsizie e rododendri, la miri ade di simboli del benessere. Mentre scende dalla jeep e guarda lungo l’isolato, però, nota che alcune case sono in rovina: finestre rotte, muri carbonizzati, grossi buchi nelle facciate, gusci abbandonati dove un tempo vivevano persone. Brick immagina che il quartiere abbia subito un bombardamento durante la guerra, ma non fa domande. Invece osserva blandamente, puntando il dito verso la casa dove stanno per entrare: Che bel posto, Virginia. Pare che tu ne abbia fatta di strada.  
Mio marito era avvocato, esperto di diritto commerciale, risponde lei con voce atona, riluttante a parlare del passato. Ha guadagnato un sacco di soldi.  
Virginia apre con una chiave la porta ed entrano in casa.  
Un bagno caldo, immerso fino al collo nell’acqua per venti minuti, mezz’ora, inerte, placido, solo. Poi si mette l’accappatoio del defunto marito di Virginia, entra in camera da letto e si siede su una sedia mentre Virginia gli applica con pazienza un antibatterico sulla guancia e copre la ferita con una piccola benda. Brick comincia a sentirsi un po’ meglio. Le meraviglie dell’acqua, dice fra sé, rendendosi conto che il dolore all’addome e alle parti basse è quasi scomparso. La guancia gli fa ancora male, ma pure questo fastidio finirà per calmarsi. Quanto al dente in meno, non si può fare nulla finché non potrà andare dal dentista a farsi mettere una capsula; ma dubita che succederà presto. Per ora (come confermato dall’esame del proprio volto nello specchio del bagno) l’effetto è davvero ripugnante. Basta qualche centimetro di smalto in meno per sembrare un povero balordo, uno zotico ritardato. Meno male che il buco si vede solo quando sorride; e nelle condizioni attuali sorridere è l’ultima cosa che Brick ha voglia di fare. A meno che l’incubo non finisca, pensa, è molto probabile che non sorriderà mai più per il resto della vita.  
Venti minuti dopo, vestito e seduto in cucina con Virginia - che gli ha preparato pane tostato e caffè, la stessa colazione minima che quel mattino gli era quasi costata la vita -, Brick sta rispondendo alla decima domanda che lei gli ha fatto riguardo a Flora. La curiosità di Virginia lo lascia perplesso. Se è la responsabile di averlo portato in questo posto, logica vuole che sappia già tutto di lui, comprese le vicende del suo matrimonio con Flora. Invece lei è insaziabile, e adesso Brick comincia a sospettare che tutte queste domande siano solo un espediente per trattenerlo in casa, per fargli perdere la nozione del tempo cosicché non ritenti di fuggire prima dell’arrivo di Frisk. E lui in effetti vorrebbe fuggire, ma dopo il lungo ammollo nella vasca da bagno, e l’accappatoio, e la delicatezza delle dita di Virginia mentre gli bendava il viso, qualcosa in lui ha cominciato ad ammorbidirsi, e sente pian piano riaccendersi la vecchia fiamma dell’adolescenza.  
L’ho conosciuta a Manhattan, le spiega. Circa tre anni e mezzo fa. A una sontuosa festa di compleanno di un ragazzo, nell’Upper East Side. lo facevo il prestigiatore, e lei era nel catering.  
È bella, Owen?  
Per me, si. Non una bellezza come sei tu, Virginia, con il tuo viso incredibile e il tuo fisico slanciato. Flora è piccola, uno e sessanta o poco più, un donnino, davvero, ma ha quei due occhioni di fuoco, e i capelli scuri aggrovigliati e la risata più bella che abbia mai sentito.  
La ami? Certo.  
E lei ti ama?  
Sì. Almeno, quasi sempre. Flora ha un caratteraccio, e può partire per la tangente con tirate paurose. Quando litighiamo mi vie n sempre da pensare che l’unico motivo per cui mi ha sposato sia che voleva la cittadinanza americana. Ma non capita spesso. 
Nove giorni su dieci andiamo d’accordo. Sul serio.  
Bambini, ne volete?  
Sono in programma. Abbiamo cominciato a provarci un paio di mesi fa.  
Non rinunciate. É l’errore che ho fatto io. Ho aspettato troppo tempo, e adesso... guardami. Niente marito, niente figli: niente.  
Sei ancora giovane. E sei sempre la bella del quartiere. Qualcun altro arriverà, ne sono sicuro.  
Prima che Virginia possa rispondergli, suona il campanello. Lei si alza, mormorando sottovoce cazzo come se fosse sincera, come se l’intrusione la contrariasse davvero, ma Brick sa che ormai ha le spalle al muro: ogni speranza di fuga è svanita. Prima di uscire dalla cucina, Virginia si volta verso di lui e dice: Ho chiamato mentre facevi il bagno. Gli ho detto di venire fra le quattro e le cinque, ma evidentemente non poteva aspettare. Scusami, Owen. Avrei voluto avere quelle ore con te per sedurti fino a farti saltare i pantaloni. Sul serio. Avrei voluto scopare con te fino a farti scoppiare la testa. Ricordalo quando tornerai a casa.  
A casa? Stai dicendo che tornerò a casa?  
Lou ti spiegherà. È il suo mestiere. lo sono solo un ufficiale addetto al personale, un piccolo ingranaggio in una grande macchina.  
Lou Frisk si rivela un cinquantenne accigliato, bassotto, con le spalle striminzite, gli occhiali cerchiati di metallo e la pelle butterata di chi ha sofferto di acne. Indossa un maglione a V, una camicia bianca e una cravatta scozzese, e nella mano sinistra ha una borsa nera che sembra una valigetta da medico. Appena entra in cucina posa la borsa e dice: Tu hai cercato di evitarmi, caporale.  
Non sono caporale, risponde Brick. Lo sai benissimo. Non ho mai fatto il soldato in vita mia.  
Non nel tuo mondo, dice Frisk, ma in questo mondo sei un caporale del Settimo Massachusetts, un membro delle forze armate degli Stati Indipendenti d’America.  
Prendendosi la testa fra le mani, Brick fa un piccolo gemito mentre un altro elemento del sogno gli torna in mente: Worcester, Massachusetts. Alza gli occhi, vede Frisk sedersi su una sedia all’altro lato del tavolo e dice: Allora sono nel Massachusetts. È questo che mi stai dicendo?  
Frisk annuisce. Wellington, Massachusetts. Già nota come Worcester.  
Brick batte il pugno sul tavolo dando finalmente sfogo alla rabbia che si è accumulata in lui. Questo non lo accetto!, grida. Ho qualcuno dentro la testa. Neanche i miei sogni mi appartengono più. Mi hanno rubato tutta la mia vita. Poi, voltandosi verso Frisk e fissandolo negli occhi, grida a squarciagola: Chi mi sta facendo questo?  
Non prendertela, gli risponde Frisk, dandogli un buffetto sul capo. Hai tutti i diritti di essere confuso. Per questo sono qui. Sono quello che spiega, che sistema le cose. Non vogliamo che tu soffra. Se fossi venuto da me quando dovevi, non avresti fatto quel sogno. Capisci cosa sto cercando di dirti?  
No, risponde Brick più pacatamente.  
Attraverso i muri della casa coglie il suono leggero del motore della jeep che si accende, e poi lo stridore lontano di un cambio di marcia mentre Virginia va via.  
Virginia?, chiede.  
Virginia cosa?  
È lei che è partita, vero?  
Ha molto da fare, e la nostra faccenda non la riguarda. Non mi ha nemmeno salutato, aggiunge Brick, restio a lasciar cadere l’argomento. Ha un tono offeso, come se non potesse credere che lei lo abbia mollato con tanta leggerezza.  
Dimentica Virginia, dice Frisk. Abbiamo cose più importanti di cui parlare.  
Mi ha detto che sarei tornato a casa. É vero?  
Si. Ma prima devo spiegarti perché. Ascoltami bene, Brick, e poi rispondimi sinceramente. Frisk appoggia le braccia sul tavolo, si fa avanti e domanda: Siamo nel mondo reale, oppure no?  
Come faccio a saperlo? Tutto sembra reale. Tutti i discorsi sembrano reali. Sto qui seduto nel mio corpo, ma nello stesso tempo non posso essere qui, giusto? Il mio posto è altrove.  
È vero, tu sei qui. E il tuo posto è altrove.  
Entrambe le cose non sono possibili. Deve essere vera o l’una o l’altra.  
Ti dice qualcosa il nome Giordano Bruno?  
No. Mai sentito.  
Era un filosofo italiano del Cinquecento. Sosteneva che se Dio è infinito, e i poteri di Dio sono infiniti, allora ci dev’essere un numero infinito di mondi.  
Be’, un senso ce l’ha. Purché uno creda in Dio.  
Per questa idea l’hanno messo al rogo. Ma ciò non significa che avesse torto, no?  
Perché lo chiedi a me? Non ne so un tubo, di queste cose. Come faccio ad avere un’opinione su una cosa che non conosco?  
Prima che ti svegliassi nella buca, l’altro giorno, tutta la tua vita era trascorsa in un solo mondo. Ma come potevi essere sicuro che fosse l’unico?  
Perché... perché è l’unico mondo che abbia mai conosciuto. 
Però adesso ne conosci un altro. E questo cosa ti suggerisce, Brick?  
Non ti seguo.  
Non c’è un’unica realtà, caporale. Ce ne sono molte. Non c’è un unico mondo. Ci sono molti mondi, e tutti continuano in parallelo l’uno all’altro, mondi e antimondi e mondi-ombra, e ciascun mondo è sognato o immaginato o scritto da qualcuno in un altro mondo. Ciascun mondo è la creazione di una mente.  
Mi sembri Tobak: ha detto che la guerra era nella mente di un tale, e che eliminandolo la guerra finirebbe. É la castroneria più grossa che abbia mai sentito.  
Magari Tobak non sarà il soldato più intelligente dell’esercito, ma ti ha detto la verità.  
Se vuoi che creda a una follia simile, dovrai darmene una dimostrazione.  
D’accordo, risponde Frisk battendo le mani sul tavolo, che mi dici di questo? Senza aggiungere altro, si fruga sotto il maglione con la mano destra e tira fuori dalla tasca della camicia una fotografia formato 8 x 15. Questo è il colpevole, dice, facendo scivolare la foto sul tavolo verso Brick.  
Brick si limita a sbirciare l’immagine. È il ritratto a colori di un uomo sulla settantina seduto su una sedia a rotelle davanti a una casa di campagna bianca. Non sembra male come persona, nota Brick, con i capelli grigi a spazzola e la faccia cotta dal vento.  
Questo non dimostra nulla, commenta, restituendo bruscamente la foto a Frisk. È solo un uomo. Uno come tanti. Per quanto ne so, potrebbe essere tuo zio.  
Si chiama August Brill, comincia Frisk, ma Brick lo interrompe prima che possa aggiungere altro.  
Per Tobak, no. Lui mi ha detto che si chiamava Blake. Blank.  
Quello che era.  
Tobak non è aggiornato sugli ultimi rapporti dei servizi. Blank è stato a lungo il nostro principale sospetto, ma poi l’abbiamo depennato. É Brill, l’uomo. Ormai ne siamo certi.  
Allora fammi vedere la storia. Fruga in quella valigia lì, tira fuori il suo manoscritto e indicami una frase in cui compaia il mio nome.  
Questo è il problema. Brill non scrive mai niente. La storia se la racconta nella testa.  
E voi come fate a saperlo?  
Segreto militare. Ma lo sappiamo, caporale. Credimi.  
Palle.  
Vuoi tornare a casa, no? Be’, questo è l’unico modo. Se non accetti il lavoro, resterai bloccato qui per sempre.  
Bene. Soltanto per ipotesi, immaginiamo che io spari a questo tizio... questo Brill. Cosa succederà dopo? Se lui ha creato il vostro mondo, nel momento in cui morirà voi non esisterete più.  
Non ha inventato questo mondo. Ha soltanto inventato la guerra. E ha inventato te, Brick. Non capisci? Questa è la tua storia, non la nostra. Il vecchio ti ha inventato per ucciderlo.  
Quindi si tratterebbe di un suicidio.  
In modo indiretto, si.  
Brick si prende di nuovo la testa fra le mani e ricomincia a gemere. Non ce la fa più, e dopo essersi sfiancato per tener duro contro i deliri demenziali di Frisk, sente che la sua mente si scioglie, roteando impazzita in un universo di pensieri sconnessi e orrori amorfi. Solo una cosa gli è chiara: vuole tornare a casa. Vuole essere di nuovo accanto a Flora e riprendere la sua vecchia vita. Per ottenere questo deve accettare l’ordine di uccidere un uomo che non ha mai visto, un perfetto sconosciuto. Dovrà accettare, ma quando arriverà dall’altra parte cosa gli impedirà di esimersi dal compiere il lavoro?  
Sempre con gli occhi al tavolo, si costringe a dire queste parole: Raccontami qualcosa di quel tizio. 
Ah, così va meglio, dice Frisk. Cominciamo a ragionare, se Dio vuole.  
Non farmi l’accondiscendente, Frisk. Dimmi soltanto quello che devo sapere.  
Critico letterario in pensione, settantadue anni, abita vicino a Brattleboro, nel Vermont, con una figlia di quarantasette anni e una nipote di ventitre. Sua moglie è morta da poco più di un anno. Il marito della figlia l’ha lasciata cinque anni fa. Il fidanzato della nipote è stato ucciso. É una casa di anime in lutto, ferite, e ogni notte Brill veglia al buio cercando di non pensare al suo passato, inventandosi storie di altri mondi.  
Perché è su una sedia a rotelle?  
Incidente stradale. Una gamba maciullata. Ha rischiato l’amputazione.  
E se accetto di uccidere quest’uomo, mi manderete a casa.  
Questo è il patto. Ma non provare a svignartela, Brick. Se non mantieni la promessa, ti cercheremo. Due pallottole. Una per te e una per Flora. Pam, pam. Fine per te. Fine per Flora.  
Però, se mi eliminate, la guerra continuerà.  
Non necessariamente. Allo stato attuale è solo un’ipotesi, ma alcuni di noi pensano che eliminare te produrrebbe lo stesso effetto che eliminare Brill. La storia sarebbe conclusa, e la guerra finita. Non credere che non saremmo disposti a correre quel rischio.  
E come faccio a tornarci?  
Nel sonno.  
Ma mi sono già addormentato, qui. Due volte. Ed entrambe le volte mi sono svegliato nello stesso posto.  
Quello è sonno normale. lo invece sto parlando di un sonno indotto farmacologicamente. Ti faranno un’iniezione. L’effetto è simile a un’ anestesia, quando ti addormentano prima di un’operazione. Il vuoto nero dell’oblio, un nulla profondo e buio come la morte.  
Proprio uno spasso, dice Brick, così sconcertato da quello che l’aspetta che non può esimersi dal fare una battuta sciocca.  
Te la senti di provarci, caporale?  
Perché, ho altra scelta?  



Sento la tosse addensarsi nel mio petto, un lieve borbottare di catarro sepolto in fondo ai bronchi, e prima che riesca a trattenermi, una furiosa detonazione mi erompe dalla gola. Da’ una raschiata, risucchia il grumo gelatinoso verso nord, stacca i residui viscidi imprigionati ai condotti - ma non basta un tentativo, né due, né tre, ed eccomi qui in preda a uno spasmo: sento tutto il corpo che si contrae convulsamente. É colpa mia. Avevo smesso di fumare quindici anni fa, ma adesso che in casa c’è Katya con le sue onnipresenti American Spirits ho cominciato a ricadere nei vecchi, sporchi piaceri, scroccandole sigarette mentre fianco a fianco sul divano trangugiamo l’opera omnia del cinema mondiale, soffiando fumo in tandem, due locomotive che sbuffando si allontanano dall’odioso, intollerabile mondo - ma senza rimpianti, posso aggiungere, senza un ripensamento e nemmeno una fitta di rimorso. É la compagnia che conta, il legame di complicità, la solidarietà stile fanculo tutto dei dannati.  
Ritornando ai film, mi rendo conto di avere un altro esempio da aggiungere alla lista di Katya. Devo ricordarmi di dirglielo domattina presto - in sala da pranzo, mentre facciamo colazione - perché sono sicuro che le farà piacere, e se riesco a strappare un sorriso a quella sua faccia triste lo considererò un grande risultato.  
L’orologio alla fine di Viaggio a Tokyo. Abbiamo visto il film qualche giorno fa ed era per entrambi la seconda volta, ma la prima per me risaliva a decenni orsono, alla fine degli anni Sessanta o ai primi anni Settanta, e anche se ricordavo che mi era piaciuto, gran parte della storia era svanita dalla mia mente. Ozu, 1953, otto anni dopo la sconfitta del Giappone. Un film lento, solenne, che ci racconta la più semplice delle storie, ma realizzato con un’eleganza e una profondità di sentimento tali che alla fine avevo le lacrime agli occhi. Certi film sono belli come i libri, belli come i migliori libri (si, Katya, questo te lo concedo), e Viaggio a Tokyo è senza dubbio fra questi: è un’opera sottile e commovente come una novella di Tolstoj.  
Un’anziana coppia si reca a Tokyo in visita ai figli ormai adulti: un medico in cattive acque, con moglie e figli, una parrucchiera sposata e proprietaria di un salone di bellezza e una nuora che è stata sposata con un altro figlio, morto in guerra: una giovane vedova che vive sola e lavora in un ufficio. É chiaro fin dall’inizio che il figlio e la figlia considerano la presenza dei vecchi genitori un peso, una seccatura. 
Sono occupati col proprio lavoro, le proprie famiglie, e non hanno tempo di dedicare loro le dovute premure. Solo la nuora si fa in quattro per coprirli di attenzioni. Alla fine i genitori ripartono da Tokyo per tornare nel luogo dove vivono (mai nominato, credo, o ho avuto un attimo di distrazione e mi è sfuggito), e qualche settimana dopo, improvvisamente, senza malattie che lo facessero prevedere, la madre muore. A questo punto l’azione si sposta nella casa di famiglia, in quella città o cittadina innominata. I figli adulti vengono da Tokyo per il funerale, insieme alla nuora Norika - o Noriko, non ricordo: ma facciamo Noriko e non parliamone più. Poi arriva un secondo figlio maschio da un’altra località, e infine c’è la figlia più giovane che viveva ancora con i genitori, una maestra elementare poco più che ventenne. Presto capiamo che quest’ultima non solo adora e ammira Noriko, ma la preferisce ai fratelli e alla sorella. Dopo il funerale la famiglia è seduta attorno a un tavolo, pranzano, e anche qui il figlio e la figlia di Tokyo sono indaffarati, indaffaratissimi, troppo assorti nelle loro preoccupazioni per sostenere veramente il padre.  
Cominciano a guardare l’orologio e decidono di tornare a Tokyo con l’espresso della notte. Anche il secondo fratello decide di partire. Nella loro condotta non c’è nulla di apertamente crudele - questo va sottolineato, perché di fatto è l’argomento essenziale di Ozu. Sono solo distratti, presi nel vortice delle loro vite: altre responsabilità li allontanano. Ma la dolce Noriko rimane, non volendo lasciar solo il suocero affranto dal dolore (un dolore racchiuso, dal volto di pietra, ma dolore tuttavia), e l’ultima mattina della sua visita prolungata lei e la figlia insegnante fanno colazione insieme.  
La ragazza è ancora arrabbiata per la partenza frettolosa dei suoi fratelli. Dice che avrebbero dovuto trattenersi più a lungo, li chiama egoisti. Noriko difende la loro condotta (anche se non avrebbe mai fatto come loro), spiegando che alla fine tutti i figli si allontanano dai genitori, che hanno le proprie vite a cui pensare. La ragazza ripete che lei non sarà mai così. Che senso ha appartenere a una famiglia se ci si comporta a quel modo?, dice. Noriko ribadisce la considerazione precedente e cerca di consolare la ragazza dicendole che con i figli queste cose succedono e c’è poco da fare. Segue una lunga pausa, poi la ragazza guarda sua cognata e dice: La vita è una delusione, vero? Noriko ricambia lo sguardo e con un’espressione distante le risponde: Sì.  
La maestra va a lavorare e Noriko comincia a riordinare la casa (qui mi ricorda le donne degli altri film di cui mi ha parlato Katya stasera), e poi arriva la scena con l’orologio, il momento verso cui è indirizzato tutto il film. Il vecchio entra in casa dal giardino e Noriko gli dice che partirà col treno del pomeriggio. Si siedono e parlano, e se riesco a ricordare più o meno il succo e il tenore del colloquio, è perché ho chiesto a Katya di rifarmi vedere la scena dopo la fine del film. A tal punto mi aveva colpito, e volevo studiare meglio il dialogo per vedere come Ozu riusciva a renderlo.  
Il vecchio inizia ringraziandola di tutto quello che ha fatto, ma Noriko scuote il capo e risponde che non ha fatto nulla. Il vecchio insiste, ribadendo che lo ha aiutato molto e che sua moglie gli aveva detto che era stata tanto gentile con lei. Ancora, Noriko rifiuta il complimento definendo i propri atti futili, trascurabili. Il vecchio non si arrende: racconta che sua moglie gli ha detto che a Tokyo ha passato i momenti più felici in compagnia di Noriko. Era così in ansia per il tuo futuro, continua. Non puoi andare avanti così. Devi risposarti. Dimenticati di X (suo figlio, marito di lei). È morto.  
Noriko è troppo turbata per reagire, ma il vecchio non demorde, non vuol lasciar cadere il discorso. Parlando nuovamente di sua moglie, aggiunge: Diceva che eri la donna più buona che avesse mai conosciuto. Noriko tiene duro, protesta che la moglie l’ha sopravvalutata, ma il vecchio le ribatte senza mezzi termini che sbaglia. Noriko comincia a lasciarsi andare. Non sono così brava come credete, dice. Anzi, sono una bella egoista. E poi spiega che non è vero che pensa sempre al figlio del vecchio, che sovente passano giorni senza che lui le venga in mente neanche una volta. Dopo una breve pausa gli confessa di sentirsi tanto sola e che di notte, quando non riesce a dormire, rimane stesa a letto a chiedersi cosa sarà di lei. Il mio cuore sembra aspettare qualcosa, gli dice. Sono egoista.  
VECCHIO: No, non lo sei.  
NORIKO: Sì che lo sono.  
VECCHIO: Sei una brava donna. Una donna onesta.  
NORIKO: Non è vero.  
A questo punto, finalmente Noriko crolla e si mette a piangere, il volto fra le mani mentre si aprono le cateratte - questa giovane donna che ha sofferto in silenzio così a lungo, questa persona buona che rifiuta di credere di essere buona perché soltanto i buoni dubitano della propria bontà, ed è questo il presupposto che li rende buoni. I cattivi sanno di essere buoni, ma i buoni non sanno niente.  
Passano la vita perdonando gli altri, però non possono perdonare se stessi.  
Il vecchio si alza in piedi e pochi secondi dopo torna con l’orologio, un vecchio cipollone con il quadrante protetto da un coperchio di metallo. Apparteneva a sua moglie, dice a Noriko, e vuole che sia lei ad averlo. Accettalo per amor suo, dice. Sono sicuro che sarebbe contenta.  
Commossa dal gesto, Noriko lo ringrazia mentre il pianto continua a rigarle le guance. Il vecchio la studia con uno sguardo pensoso, ma quei pensieri a noi restano impenetrabili dato che tutte le sue emozioni sono nascoste dietro una maschera di cupa neutralità. Poi, mentre guarda piangere Noriko, fa un’affermazione semplice, pronunciando le parole in un modo così diretto e privo di sentimentalismi da farla scoppiare in un nuovo accesso di singhiozzi, singhiozzi prolungati, strazianti, un grido di infelicità così profonda e dolorosa, come se fosse stato squarciato il nucleo più intimo del suo io.  
Voglio che tu sia felice, dice il vecchio.  
Una frase breve e Noriko si spezza, schiacciata sotto il peso della sua vita. Voglio che tu sia felice. Mentre lei continua a piangere, prima che la scena finisca il suocero fa un’altra osservazione. É strano, dice, quasi incredulo. Abbiamo figli nostri, eppure sei tu quella che ha fatto di più per noi.  
Stacco sulla scuola. Sentiamo dei bambini cantare e un attimo dopo siamo nella classe della figlia. In lontananza si sente il rumore di un treno. La ragazza guarda l’orologio e si avvicina alla finestra. Passa un treno: l’espresso del pomeriggio che riporta a Tokyo la sua diletta cognata.  
Stacco sul treno - con il rombo delle ruote che corrono sui binari. Stiamo andando avanti, verso il futuro.  
Pochi secondi dopo ci troviamo all’interno di un vagone. Noriko è seduta sola, con gli occhi vuoti fissi nello spazio, la mente altrove. Passa ancora qualche attimo, e poi solleva dal grembo l’orologio di sua suocera. Apre il coperchio e improvvisamente sentiamo il ticchettio della lancetta dei secondi che percorre il quadrante. Noriko continua a esaminare l’orologio con un’ espressione insieme triste e assorta, e mentre guardiamo lei con l’orologio sul palmo della mano sentiamo che stiamo guardando il tempo stesso, il tempo che corre avanti mentre il treno corre avanti, spingendoci più in là a vivere e a vivere ‘ancora, ma pure il tempo come passato, il passato della suocera morta, il passato di Noriko, il passato che ancora vive nel presente, il passato che portiamo con noi nel futuro.  
Il fischio di un treno risuona stridulo nelle nostre orecchie, un rumore crudele e penetrante. La vita è una delusione, vero?  
Voglio che tu sia felice.  
E poi la scena termina di colpo.  



Vedove. Donne che vivono sole. Nella mia mente un’immagine di Noriko che singhiozza. Impossibile ora non pensare a mia sorella e alla disgrazia che le è toccata di sposare un uomo morto giovane. Da quando ho cominciato a pensare alla mia guerra civile sta crescendo dentro di me l’idea che nella vita mi è stata risparmiata qualsiasi vicenda militare. La casualità della data di nascita, la fortuna di essere venuto al mondo nel 1935, di essere perciò troppo giovane per la Corea e troppo vecchio per il Vietnam, e poi il colpo ulteriore di essere stato scartato dall’esercito alla visita di leva, nel 1957. Dissero che avevo un soffio al cuore, cosa che dopo si rivelò falsa, e mi riformarono. Niente guerre, dunque, ma il momento in cui arrivai più vicino a qualcosa di simile fu in compagnia di Betty e del suo secondo marito, Gilbert Ross. Era il 1967, saranno esattamente quarant’anni questa estate, e stavamo cenando noi tre nell’Upper East Side, credo in Lexington Avenue, all’angolo con Sixty-sixth o Sixty-seventh Street, in un ristorante cinese che non esiste più da tempo, il Sun Luck, si chiamava. Sonia era andata a trovare i suoi genitori in Francia, vicino a Lione, con Miriam, che aveva sette anni. Avrei dovuto raggiungerle in seguito, ma per il momento ero rintanato nel nostro microappartamento dalle parti di Riverside Drive, a partorire nel sudore un lungo pezzo per «Harper’s» sulle recenti opere di poesia e narrativa americane ispirate alla guerra nel Vietnam; niente aria condizionata, solo un modesto ventilatore di plastica: scrivevo a mano e a macchina in mutande, mentre torrenti mi uscivano dai pori nell’ennesima ondata di calura newyorkese. Soldi ai tempi ne vedevamo pochi, ma Betty aveva sette anni più di me e viveva agiatamente, come si dice: e quindi era in grado di invitare ogni tanto il fratellino a cena fuori. Dopo un primo matrimonio riuscito male e durato troppo, circa tre anni prima aveva sposato Gil. Scelta saggia, pensai - o almeno all’epoca appariva tale. Gil si guadagnava da vivere facendo l’avvocato del lavoro e il mediatore negli scioperi, ma all’inizio degli anni Sessanta era anche stato assunto dal Comune di Newark come capo dell’ufficio legale, e quando lui e mia sorella vennero a New York, quella sera di quarant’anni fa, guidava un’ auto del Comune dotata di ricetrasmittente. Non ricordo nulla della cena, però quando tornammo alla macchina e Gil accese il motore per riportarmi a casa, sentimmo delle voci trafelatissime - sulle frequenze della polizia, immagino - dire che il CentraI Ward di Newark era nel caos. Senza neanche puntare verso uptown per lasciarmi al mio appartamento, Gil partì dritto verso il Lincoln Tunnel, e fu così che potei essere testimone di uno dei più gravi tumulti razziali della storia americana. Oltre venti morti, oltre settecento feriti, oltre millecinquecento arresti, oltre dieci milioni di dollari di danni alle cose. Ricordo queste cifre perché Katya qualche anno fa, quando era alle superiori, compilò una ricerca sul razzismo per il corso di Storia americana e mi intervistò riguardo alla sommossa. Strano che quelle cifre mi siano rimaste impresse, ma visto che ormai sento tante altre cose scivolare via mi aggrappo a loro come prova che non sono completamente andato.  
Entrare a Newark quella sera fu come entrare in uno dei gironi più profondi dell’inferno. Case in fiamme, orde di uomini che correvano all’impazzata per le strade, il rumore dei vetri di una vetrina dopo l’altra che andavano a pezzi, le sirene, il rumore degli spari. Gil si fermò davanti al Municipio, e quando fummo dentro l’edificio andammo direttamente tutti e tre nell’ufficio del sindaco. Seduto alla scrivania c’era Hugh Addonizio, tarchiato, calvo, piriforme, sui cinquantacinque anni, eroe di guerra, sei volte deputato al Congresso, al secondo mandato come sindaco, e l’omaccione era totalmente smarrito, lì al suo tavolo con la faccia bagnata di lacrime. E ora cosa faccio?, diceva, alzando lo sguardo su Gil. Che diavolo faccio?  
Un quadro indelebile, nitidissimo dopo tanti anni: la vista di quel personaggio patetico, paralizzato dal peso degli eventi, irrigidito dalla disperazione mentre la città gli scoppiava attorno. Frattanto Gil sbrigava le sue cose con calma, chiamando il governatore a Trenton, chiamando il capo della polizia, facendo del suo meglio per assumere il controllo della situazione. A un certo punto lui e io uscimmo dalla stanza e scendemmo nella prigione al piano più basso dell’edificio. Le celle erano stipate di prigionieri, tutti di colore, e almeno metà di loro avevano i vestiti strappati, le teste sanguinanti, i volti tumefatti. Non era difficile indovinare cosa avesse provocato quelle ferite, ma Gil fece ugualmente la domanda. Un uomo dopo l’altro, la risposta non cambiava mai: tutti erano stati picchiati dalla polizia.  
Tornammo nell’ufficio del sindaco, e poco dopo entrò anche un comandante della polizia di stato del New Jersey, tale colonnello Brand o Brandt, un quarantenne con i capelli a spazzola dritti come un puntaspilli, la mascella quadra contratta e gli occhi duri del marine pronto a imbarcarsi per una missione di commando. Strinse la mano ad Addonizio, si sedette e pronunciò le seguenti parole: Daremo la caccia a ogni negro bastardo di questa città. Probabilmente non avrei dovuto esserne scioccato, ma lo fui. Non dalla frase, forse, ma dal glaciale disprezzo della voce che la pronunciava. Gil gli disse di non usare quel linguaggio, tuttavia il colonnello si limitò a sospirare e a scuotere la testa, archiviando il commento di mio cognato come se lo considerasse un povero idiota.  
Questa fu la mia guerra. Non una vera guerra, forse, ma quando hai assistito a una violenza su quella scala, non fatichi a immaginare qualcosa di peggio; e quando la tua mente è in grado di far questo, capisci che le peggiori possibilità della fantasia sono incarnate dal paese in cui vivi. Basta pensarlo, e ci sono buone probabilità che succeda.  
Quell’autunno, quando Gil fu messo nell’insostenibile posizione di dover difendere la città di Newark contro decine di denunce di esercenti i cui negozi erano andati distrutti nella sommossa, lasciò il suo posto e non lavorò mai più per gli enti pubblici. Quindici anni dopo, due mesi prima del suo cinquantatreesimo compleanno, era morto.  
Voglio pensare a Betty, ma per farcela devo pensare a Gil; e per pensare a Gil devo tornare all’inizio. Si, però quanto so? Non molto, alla fin fine, solo qualche fatto pertinente, spigolato dai suoi racconti e da quelli di Betty. Era il primo dei tre figli del proprietario di una mescita di Newark che, a quanto pare, era praticamente il sosia di’ Babe Ruth. A un certo punto Dutch Schultz, imponendo la legge della malavita, portò via il locale al padre di Gil, non so come o perché: e non molto dopo il pover’uomo morì di infarto. Gil aveva undici anni, e dato che il padre era morto in rovina le uniche cose che ereditò da lui furono una cronica ipertensione e un disturbo del cuore che gli fu diagnosticato la prima volta quando aveva diciotto anni, e ad appena trentaquattro sfociò in un vero e proprio infarto coronarico, seguito da un secondo due anni dopo. Gil era un pezzo d’uomo alto e robusto, ma passò tutta la vita con una condanna a morte in circolo nelle vene.  
Quando lui aveva tredici anni sua madre si risposò, e il patrigno non si oppose a tenere in casa i due figli più piccoli, ma di Gil non volle saperne e lo mandò via - con l’assenso della madre. Pensa un po’: essere cacciato da tua madre ed esiliato presso parenti in Florida per il resto dell’infanzia.  
Dopo il liceo tornò al Nord e si iscrisse alla N.Y.U., sempre al verde, costretto a fare diversi lavoretti part-time per sopravvivere. Una volta, ricordando la miseria di quei tempi, raccontò che andava da Ratner’s, il vecchio ristorante ebreo sul Lower East Side, si sedeva a un tavolo e diceva al cameriere che aspettava da un momento all’altro l’arrivo della sua ragazza. Una delle principali attrattive del posto era la rinomata pietanza di panini di Ratner’s. Appena ti sedevi arrivava un cameriere e ti piazzava davanti un cestino con quei panini tondi accompagnati da un’abbondante razione di burro. Un panino imburrato dopo l’altro, Gil faceva fuori tutto il cestino, guardando ogni tanto l’orologio e fingendo dispetto per il ritardo dell’inesistente ragazza. Quando il primo cestino era vuoto veniva automaticamente sostituito da un secondo, poi il secondo da un terzo. Infine la ragazza non si faceva vedere, e Gil usciva dal ristorante con aria delusa. Dopo un po’ i camerieri mangiarono la foglia, ma non prima che Gil stabilisse un record personale di ventisette panini consumati gratis in un’unica seduta.  
La facoltà di Legge, seguita dalla fondazione di uno studio di successo e dal crescente impegno nel Partito democratico. Di un progressismo idealista, di sinistra, sostenitore di Stevenson per la nomination presidenziale del 1960, presente alla convention di Atlantic City del 1964, e nel frattempo una fotografia {in mio possesso dalla morte di Betty) di Gil che stringe la mano a John F. Kennedy durante una visita a Newark nel 1962, o nel 1963, mentre Kennedy gli dice: Abbiamo sentito grandi cose di lei. Ma tutto ciò dopo il disastro di Newark perse il sapore che aveva, e quando Gil lasciò la politica, lui e Betty fecero armi e bagagli e si trasferirono in California. Da allora non li vidi molto spesso, ma nei sei o sette anni successivi era chiaro che tutto andava bene. Gil avviò uno studio di avvocato, mia sorella aprì a Laguna Beach un negozio di accessori per la cucina (stoviglie, tovaglieria, tritacarne e aggeggi di prima qualità), e anche se Gil per rimanere vivo doveva ingoiare più di venti pillole al giorno, le volte in cui vennero sulla costa orientale a trovare la famiglia mi sembrò in buona forma. Poi la sua salute cambiò. A metà degli anni Settanta, dopo una serie di arresti cardiaci e altri malanni, non riusciva quasi più a lavorare. lo inviavo loro tutto quello che potevo quando potevo, e ora che Betty lavorava a tempo pieno per reggere la baracca Gil passava gran parte dei suoi giorni solo in casa, a leggere libri. Mia sorella maggiore e suo marito moribondo, lontani cinquemila chilometri da me. Betty mi raccontò che in quegli ultimi anni Gil le lasciava bigliettini d’amore nei cassetti del comò, nascondendoli fra reggiseni, slip e culottes; e lei ogni mattina, quando si alzava e si vestiva, trovava un nuovo billet doux su cui c’era scritto che era la donna più bella del mondo. Niente male, diciamolo. Pensando a tutti i guai che avevano, proprio niente male.  
Non voglio pensare alla fine: il cancro, l’ultima degenza ospedaliera, il sole osceno che inondava il cimitero la mattina del funerale. Ho già rivangato a sufficienza, e tuttavia non posso staccarmi da questo argomento senza rivisitare un ultimo dettaglio, un’ultima pennellata di bruttura. Quando morì Gil, Betty ormai era indebitata fino al collo, al punto che pagare il terreno della tomba fu un autentico dramma. lo ero pronto ad aiutarla, ma lei mi aveva già chiesto così spesso del denaro che non se la sentì di farlo un’ altra volta. Anziché a me, si rivolse a sua suocera, la snaturata donna che aveva acconsentito ad allontanare Gil da ragazzino. Non ne ricordo il nome (forse perché la disprezzavo troppo), ma nel 1980 era sposata col suo terzo marito, un uomo d’affari in pensione che fra l’altro era ricco come Creso. Quanto al marito numero due, non ricordo se la sua dipartita fosse dovuta alla morte o al divorzio...:. ma poco importa. Il facoltoso marito numero tre era proprietario di un’ ampia area in un cimitero nel Sud della Florida, e mia sorella riuscì a convincerlo a lasciarvi seppellire Gil. Meno di un anno dopo il marito numero tre morì e fra i suoi figli e la madre di Gil scoppiò una grande guerra balzachiana per l’eredità. La portarono in tribunale, vinsero il processo e una delle clausole dell’accordo finale perché avesse comunque una liquidazione fu che i resti di Gil fossero rimossi dal lotto di famiglia. Immaginarsi. Una donna sfratta il figlio dalla sua casa quando è bambino e poi, per un pugno di quattrini, lo sfratta dalla tomba da morto. Betty chiamò per dirmi quello che era successo: stava piangendo. Aveva resistito alla morte di Gil con una specie di grazia risoluta, stoica, ma questo era troppo: si abbatté, perse totalmente il controllo. Quando Gil fu esumato e sepolto di nuovo, non era più la donna di prima.  
Durò altri quattro anni. Vivendo sola in un appartamentino nei sobborghi del New Jersey diventò prima grassa, poi grassissima, e in breve si ritrovò col diabete, le arterie occluse e un cospicuo dossier di altri disturbi. Mi stette vicina quando Gona mi lasciò e i nostri catastrofici cinque anni di matrimonio finirono, mi fece festa quando Sonia e io tornammo insieme, incontrava suo figlio quando lui e la moglie venivano in aereo da Chicago, partecipava alle riunioni di famiglia, guardava la televisione da mane a sera, sapeva ancora raccontare buone barzellette quando era in vena, e si trasformò nella persona più triste che abbia mai conosciuto. Una mattina della primavera del 1987 la sua donna di servizio mi telefonò in uno stato di semiisteria. Era appena entrata nell’appartamento di Betty servendosi della chiave che aveva per le pulizie settimanali, e aveva trovato mia sorella sdraiata sul letto. Mi feci prestare la macchina da un vicino, andai nel New Jersey e identificai il corpo per la polizia. Il trauma di vederla in quel modo: così immobile, così remota, così terribilmente, terribilmente morta. Quando mi chiesero se volevo che l’ospedale eseguisse l’autopsia, risposi di soprassedere. Delle due l’una. O il suo corpo era crollato, o aveva preso qualche pillola: e io non volevo sapere il verdetto, perché in entrambi i casi non sarebbe stata la vera storia. Betty era morta di crepacuore. Ci sono persone che ridono quando sentono questa espressione, ma è perché non sanno nulla del mondo. La gente muore di crepacuore. Succede tutti i giorni, e continuerà a succedere fino alla fine dei tempi.  



No, non ho dimenticato. La tosse mi ha proiettato in un’ altra zona, ma ora sono tornato e Brick è ancora con me. Nella buona e nella cattiva sorte, malgrado la sinistra escursione nel passato, ma come impedire alla mente di vagare dove vuole? La mente ha una sua vita propria, non le si può comandare. Chi ha detto questo? Qualcuno, o forse l’ho solo pensato io, fa lo stesso. Coniare aforismi nel cuore della notte, inventare storie nel cuore della notte - stiamo andando avanti, mie piccole care, e per straziante che sia, questo disastro contiene anche della poesia, purché si trovino le parole per esprimerla, ammesso che quelle parole esistano. Sì, Miriam, la vita è una delusione. Ma voglio anche che tu sia felice.  
Niente smanie. Sto segnando il passo perché vedo che la storia può puntare nell’una o nell’altra di varie direzioni e non ho ancora deciso che via prendere. Speranza o non speranza? Sono disponibili entrambe le possibilità, eppure nessuna mi soddisfa del tutto. Esiste una via di mezzo dopo un simile inizio, dopo aver gettato il povero Brick in mezzo ai lupi e avergli terremotato il cervello? Probabilmente no. E allora pensa cupo e non fermarti, accompagnalo fino alla fine.  
Gli hanno già praticato l’iniezione. Brick cade nel nero senza fondo dell’incoscienza, e diverse ore dopo riapre gli occhi e scopre di essere a letto con Flora. É mattina presto, le sette e mezzo o le otto, e mentre guarda la schiena nuda di sua moglie addormentata, Brick pensa che forse ha sempre avuto ragione, che il tempo trascorso a Wellington apparteneva solo a un incubo di un realismo nauseabondo. Ma poi, spostando il capo sul cuscino sente la benda di Virginia premergli nella guancia, e quando passa la lingua sull’orlo seghettato dell’incisivo rotto non ha altra scelta che guardare in faccia la situazione: è stato di là, e tutto quanto gli è successo in quel luogo era reale. Ormai resta soltanto un’unica, improbabile possibilità di salvezza: e se i due giorni passati a Wellington, in questo mondo non fossero più che un batter di ciglia? Se Flora non avesse mai saputo che è stato via? Questo risolverebbe il problema di dover spiegare dove è andato, perché Brick non ignora che la verità sarà dura da digerire, specie per una donna gelosa come sua moglie; e tuttavia, anche se la verità può sembrare menzogna, lui non ha la forza o la determinazione di inventarsi una storia che suoni più plausibile, qualcosa che calmi i sospetti di lei e le faccia capire che questi due giorni di assenza non c’entrano nulla con un’ altra donna.  
Purtroppo per Brick, gli orologi di entrambi i mondi segnano la stessa ora. Flora sa che è stato assente e quando, girandosi nel sonno, lui tocca inavvertitamente il corpo della moglie, subito lei si sveglia di soprassalto. Le ansie di Brick sono spente dalla gioia che corre negli intensi occhi marroni di lei, e d’un tratto ha vergogna di se stesso, è mortificato di aver mai potuto dubitare dell’amore di Flora.  
Owen?, chiede lei, come se non osasse credere a quello che è successo. Sei proprio tu?  
Sì, Flora, dice lui. Sono tornato.  
Lei gli butta le braccia al collo stringendoselo contro la pelle liscia, nuda. Stavo dando i numeri, gli dice, arrotando la r con un forte trillo della lingua. Oh, sì, davo i numeri. Poi, quando vede la benda sulla guancia e i lividi attorno alle labbra, la sua espressione si fa allarmata. Che è successo?, gli chiede. Sei tutto pesto, amore.  
Impiega più di un’ ora a raccontare per filo e per segno il misterioso viaggio nell’altra America. L’unica cosa che omette è l’ultima frase di Virginia sul volerlo sedurre fino a fargli saltare i pantaloni e scopare con lui fino a fargli scoppiare la testa, ma è un dettaglio secondario, e non vede nessun motivo per destare l’ira di Flora con argomenti di scarso rilievo nella storia. La parte più difficile viene verso la fine, quando cerca di ricapitolare la sua conversazione con Frisk. Sul momento l’aveva trovata praticamente senza senso, e adesso che è tornato a casa sua e sta seduto in cucina a bersi un caffè con sua moglie, tutto quel parlare di molteplici realtà e molteplici mondi sognati e immaginati da altre menti gli sembra completamente incomprensibile. Scuote la testa, come per scusarsi di non essere riuscito a raccontare meglio la storia. Ma l’iniezione, aggiunge, era vera. E l’ordine di sparare ad August Brill era vero. E se non porta a termine il lavoro, lui e Flora saranno in costante pericolo.  
Fin qui Flora ha ascoltato in silenzio, osservando con pazienza suo marito raccontare la sua storia assurda e ridicola, che lei considera il più gran cumulo di cazzate mai fabbricato da menti umane. In circostanze normali partirebbe con una delle sue sfuriate accusandolo di averla tradita, ma qui non siamo in circostanze normali e Flora, che conosce tutti i difetti di Brick e nei tre anni del loro matrimonio gli ha mosso innumerevoli critiche, non gli ha mai dato del bugiardo, e di fronte alle assurdità che le sono state appena riferite si ritrova attonita, senza parole.  
So che sembra incredibile, dice Brick. Ma è tutto vero, dalla prima parola all’ultima.  
E tu ti aspetti che ti creda, Owen?  
Stento a crederlo io stesso. Ma è successo tutto, Flora, esattamente come te l’ho raccontato.  
Mi prendi per scema?  
Come, scusa?  
O mi prendi per scema, o sei ammattito.  
Non ti prendo per scema e non sono ammattito.  
A sentirti parlare, sembri uno di quei fuori di testa...  
Sai, uno di quei tizi che sono stati rapiti dagli alieni. Come erano fatti i marziani, eh, Owen? Avevano una grande astronave?  
Basta, Flora. Non fai ridere.  
Ridere? E chi vuoi far ridere? Io voglio solo sapere dove sei stato.  
Te l’ho già detto. Non credere che mi sia venuta la tentazione di inventarmi un’altra storia. Una stupidaggine, tipo che mi hanno aggredito e ho perso la memoria per due giorni. O che sono stato investito da un’ auto. O che sono caduto dalle scale in metrò. Qualche scemenza del genere. Ho deciso di dirti la verità.  
Forse è vero. In fin dei conti, le botte le hai prese. Forse gli ultimi due giorni sei rimasto svenuto in un vicolo, e hai sognato tutto.  
E allora perché avrei questo sul braccio? Me lo ha messo un’infermiera, dopo che mi hanno fatto l’iniezione. É l’ultima cosa che ricordo prima di stamattina, quando ho riaperto gli occhi.  
Brick si rimbocca la manica sinistra, indica un cerotto colar carne sul braccio, in alto, e poi lo stacca con la mano destra. Guarda, dice. La vedi questa crosticina? É il punto dove l’ago mi è entrato nella pelle.  
Non vuol dire niente, ribatte Flora, liquidando l’unica prova concreta che Brick le possa offrire. Potresti essertela procurata in un milione di modi diversi.  
Vero. Ma fatto sta che è successo in un modo solo, proprio come te l’ho raccontato. É stato l’ago di Frisk.  
D’accordo, Owen, dice Flora cercando di stare calma, forse ora dovremmo smetterla di parlarne. Sei tornato. Per me è l’unica cosa che conta. Cristo, tesoro, non sai come ho passato questi due giorni. Ho dato fuori di testa, ma fuori veramente. Ho pensato che fossi morto. Ho pensato che mi avessi lasciato. Ho pensato che fossi con un’ altra ragazza. E adesso sei tornato. É come un miracolo, e se vuoi sapere la verità, non m’interessa molto di cosa sia successo. Eri andato via, e ora sei tornato. Fine della storia, va bene?  
No, Flora, non va bene. Sono tornato, però la storia non è finita. Devo andare nel Vermont a uccidere Brill. Non so quanto tempo ho a disposizione, ma non posso indugiare troppo a lungo. Se non eseguo verranno a prenderci. Una pallottola per te e una per me. Così ha detto Frisk, e non scherzava.  
Brill, brontola Flora, pronunciando il nome come se fosse un insulto in una lingua straniera. Scommetto che non esiste nemmeno.  
Ho visto la sua foto, non ricordi?  
Una foto non dimostra nulla.  
È proprio quello che ho detto io quando Frisk me l’ha fatta vedere.  
Bene, c’è un solo modo per scoprirlo, giusto? Se quello lì è uno scrittore famoso, deve trovarsi su Internet. Accendiamo il computer e lo cerchiamo.  
Frisk ha detto che una ventina d’anni fa ha vinto un Premio Pulitzer. Se non c’è il suo nome sulla lista, possiamo stare tranquilli. Se c’è, stai attenta, piccola Flora. Ci sono guai in vista.  
Non ci sarà, Owen. Contaci. Brill non esiste, dunque il suo nome non può esserci.  
E invece sì. August Brill, vincitore del Premio Pulitzer 1984 per la critica. Fanno altre ricerche e in pochi minuti ottengono un sacco di informazioni, tra cui i dati biografici nel Who’s Who in America (nato a New York, 1935; sposato con Sonia Weill, 1957, divorziato, 1975; sposato con Oona McNally, 1976, divorziato 1981; una figlia, Miriam, nata 1960; laurea in Lettere alla Columbia, 1957; dottorati onorari al Williams College e al Pratt Institute; membro American Academy of Arts and Sciences; autore di oltre 1500 articoli, recensioni ed elzeviri per riviste e giornali; editor letterario Boston Globe, 1972-91), un sito Internet contenente più di quattrocento dei suoi articoli scritti fra il 1962 e il 2003, oltre a diverse foto di Brill trentenne, quarantenne e cinquantenne, tali da non lasciare dubbi che siano versioni più giovanili del vecchio sulla sedia a rotelle davanti alla casa di legno bianco nel Vermont.  
Brick e Flora sono seduti fianco a fianco a una piccola scrivania in camera da letto, con gli occhi fissi sullo schermo davanti a loro, troppo spaventati per guardarsi l’un l’altra mentre assistono al tramonto delle loro speranze. Infine Flora spegne il computer e dice a voce bassa, tremante: Mi sa che avevo torto, eh?  
Brick si alza in piedi e comincia a camminare per la stanza. Mi credi, ora?, le chiede. Questo Brill, questo maledetto August Brill ... fino a ieri non l’avevo mai sentito nominare. Come potrei avere inventato tutto? Non sono abbastanza intelligente da inventarmi manco la metà delle cose che ti ho detto, Flora. lo sono soltanto uno che fa giochi di prestigio per i bambini. lo non leggo, non so niente di critici letterari e non mi interesso di politica. Non chiedermi come, ma sono appena arrivato da un posto che si trova nel bel mezzo di una guerra civile. E adesso devo uccidere un uomo.  
Si siede sull’orlo del letto sopraffatto dalla ferocia della sua situazione, dall’incredibile ingiustizia di quanto gli è successo. Osservandolo con occhi ansiosi, Flora attraversa la stanza e si siede accanto a lui. Abbraccia il petto del marito, gli appoggia la testa su una spalla e dice: Tu non ucciderai nessuno.  
Ma devo, replica Brick, gli occhi bassi.  
Non so cosa pensare o non pensare, Owen, ma ora stammi a sentire: non ucciderai proprio nessuno. Quell’uomo lo lascerai in pace.  
Non posso.  
Perché credi che ti abbia sposato? Perché sei dolce, amore mio, sei una persona gentile e sincera. lo non ho sposato un killer. Ho sposato te, il mio buffo Owen Brick, e non intendo starmene con le mani in mano e permetterti di uccidere qualcuno, per poi passare il resto della vita in galera.  
Non sto dicendo che lo voglio fare. Solo che non ho scelta.  
Non parlare così. Tutti abbiamo una scelta. E poi, cosa ti fa pensare che ne saresti capace? Ti vedi veramente entrare nella casa di quell’uomo, puntargli una pistola alla testa e sparargli a sangue freddo? Neanche in cent’anni, Owen. Non è proprio nella tua natura fare una cosa simile. Grazie a Dio.  
Brick sa che Flora ha ragione. Non potrebbe mai uccidere uno sconosciuto innocente, nemmeno se ne andasse della propria vita - come probabilmente è il caso. Fa un sospiro lungo e tremulo, poi passa la mano fra i capelli di Flora e dice: E allora, che cosa dovrei fare?  
Nulla.  
Come sarebbe, nulla?  
Ricominciamo a vivere. Tu fai il tuo lavoro e io il mio.  
Mangeremo, dormiremo e pagheremo i conti. Laveremo i piatti e passeremo l’aspirapolvere sul pavimento. Faremo un bambino. Mi metterai nella vasca e mi farai lo shampoo. lo ti strofinerò la schiena. Imparerai nuovi trucchi. Andremo a trovare i tuoi genitori e sentiremo tua madre lamentarsi dei suoi acciacchi. Tireremo avanti, tesoro, e vivremo la nostra piccola vita. È questo che voglio dire. Nulla di particolare.  
Passa un mese. La prima settimana dopo il ritorno di Brick, Flora accusa un ritardo, e il test di gravidanza dà loro la notizia che se tutto andrà bene, per il prossimo gennaio diventeranno genitori. Per festeggiare vanno a cena in un ristorante alla moda di Manhattan decisamente al di sopra dei loro mezzi e bevono una bottiglia intera di champagne francese prima di fare le ordinazioni, per poi rimpinzarsi di una pantagruelica bistecca porterhouse per due, che Flora giudica buona quasi come la carne in Argentina. L’indomani, in occasione della sua seconda visita dal dentista, l’incisivo sinistro di Brick viene ricoperto con una capsula e lui può ricominciare la sua carriera come Grande Zavello. Rimbalzando da un angolo all’altro della città sulla sua malconcia Mazda gialla, si esibisce ammantellato nelle scuole elementari a classi riunite, nelle case di riposo, nelle sedi delle associazioni di quartiere e alle feste private, estraendo colombe e conigli dal cilindro, facendo sparire foulard di seta, materializzando uova dal nulla e trasformando comunissimi giornali in mazzi colorati di viole del pensiero, tulipani e rose. Flora, che ha smesso di lavorare nel settore del catering due anni prima e adesso fa la segretaria nell’ambulatorio di un medico in Park Avenue, chiede al suo capo venti dollari di aumento e lui glieli rifiuta. Lei fa una scenata di orgoglio ferito ed esce dal palazzo come una furia; ma quella sera ne parla con Brick che la persuade a tornare dal dottor Sontag la mattina dopo e chiedergli scusa; Flora torna e il dottore, che non vuol perdere un’impiegata sgobbona e competente, la ricompensa con dieci dollari di aumento, che in realtà è quello in cui inizialmente sperava. Però i soldi scarseggiano e adesso che c’è un bambino in arrivo, Brick e Flora dubitano che con gli attuali guadagni riusciranno a sfamare quella terza bocca. Una triste domenica pomeriggio, verso fine mese, discutono anche l’eventualità che Brick vada a lavorare da suo cugino Ralph, proprietario di una fiorente agenzia immobiliare in Park Slope. La magia diventerebbe l’occupazione part-time, poco più di un hobby da praticarsi nelle giornate libere, e Brick non è convinto di fare un passo così drastico: si ripromette di trovare un lavoro meglio pagato che dia loro il respiro di cui hanno bisogno. Nel frattempo non ha dimenticato la sua visita all’altra America. Wellington brucia ancora dentro di lui, e non passa giorno senza che pensi a Tobak, a Molly Wald, a Duke Rothstein, a Frisk e, cosa più inquietante, a Virginia Blaine. Non ne può fare a meno. Dal suo ritorno Flora è molto più tenera con lui, si è trasformata nella compagna amorevole che aveva sempre sognato, e anche se lui senza dubbio la riama, Virginia è sempre lì, in agguato in un angolo del suo cervello, mentre gli benda con dolcezza il viso e gli dice che ha una voglia matta di fargli saltare i pantaloni. Forse come compensazione, comincia a leggere le vecchie recensioni di Brill su Internet - sempre in segreto, certo, poiché non vuole far sapere a Flora che sta ancora pensando all’uomo che ha avuto l’ordine di uccidere -, e ogni volta che incontra un articolo su un libro che gli pare interessante va in biblioteca a prenderlo. Prima passava le sere guardando la televisione con Flora su un divano in soggiorno. Ora va a letto e legge libri. Finora le scoperte più importanti che ha fatto sono Cechov, Calvino e Camus.  
E così Brick e Flora continuano a nuotare nel loro nulla coniugale, nella piccola vita alla quale l’ha convinto a tornare con il buonsenso di una donna che non crede in altri mondi, che sa che esiste solo questo e il trantran narcotizzante e i brevi battibecchi e le ansie finanziarie ne sono una parte essenziale, che malgrado le pene e le noie e le delusioni vivere in questo mondo è la cosa più vicina a vedere il paradiso cui mai arriveremo. Anche Brick non desidera che questo, dopo le ore orribili che ha passato a Wellington: la routine caotica di New York, il corpo nudo della sua piccola Floratina, il suo lavoro come Grande Zavello, il figlio non ancora nato che cresce invisibilmente col passare dei giorni - e però nel profondo dell’anima è consapevole di essere stato contaminato dalla sua visita all’altro mondo, e che presto o tardi tutto finirà. Pensa di andare nel Vermont e parlare con Brill. Non si potrebbe convincere il vecchio a smetterla di pensare alla sua storia? Prova a immaginare il colloquio, cerca di trovare le parole che userebbe per motivare la sua posizione, ma riesce solo a vedere Brill che ride di lui, la risata incredula di un uomo che lo prenderebbe per un deficiente, un minorato, e lo butterebbe fuori di casa al volo. Quindi Brick non fa niente, e un mese dopo il suo ritorno da Wellington, la sera del 21 maggio, mentre è seduto in soggiorno insieme a Flora per mostrare un nuovo trucco con le carte alla sua divertita moglie, qualcuno bussa alla porta. Senza neanche doverci pensare, Brick sa già cosa è successo. Dice a Flora di non aprire, di correre in camera da letto e scendere per la scala antincendio più veloce che può, ma Flora - volitiva e indipendente, incurante del casino in cui si trovano deride le sue istruzioni atterrite e fa giusto quello che le ha detto di non fare. Balzando dal divano prima che lui la possa prendere per un braccio, esegue una veronica beffarda, danza fino alla porta e la apre. Sulla soglia ci sono due uomini, Lou Frisk e Duke Rothstein, e dato che ciascuno dei due tiene in mano un revolver e lo punta su Flora, Brick non si muove dal divano. In teoria potrebbe ancora tentare la fuga, ma se si alzasse, in quello stesso momento la madre di suo figlio sarebbe morta.  
E voi chi cazzo siete?, dice Flora con voce stridula, inviperita.  
Tu siediti vicino a tuo marito, risponde Frisk, indicando con l’arma in direzione del divano. Dobbiamo discutere di affari.  
Rivolgendosi a Brick con un’espressione angosciata, Flora dice: Che succede, tesoro?  
Vieni qui, risponde Brick, dando un buffetto sul divano con la mano destra. Quelle pistole non sono giocattoli... devi fare come ti dicono.  
Per una volta Flora non oppone resistenza, e mentre i due uomini entrano in casa e chiudono la porta va verso il divano e si siede di fianco a suo marito.  
Questi sono i miei amici, le dice Brick. Duke Rothstein e Lou Frisk. Ricordi quando ti ho parlato di loro? Be’, eccoli.  
Oh Cristo santo, mormora Flora, ormai terrorizzata. Frisk e Rothstein si siedono su due sedie davanti al divano. Le carte usate per la dimostrazione sono seminate sul tavolino davanti a loro. Frisk ne prende una, la volta e dice: Sono contento che ti ricordi di noi, Owen. Cominciavamo ad avere dei dubbi.  
Non preoccuparti, risponde Brick. Non dimentico mai una faccia.  
Come va il dente?, chiede Rothstein, aprendo il volto in quello che sembra un incrocio fra una smorfia e un sorriso.  
Molto meglio, grazie, risponde Brick. Sono andato dal dentista e mi ha messo una capsula.  
Mi spiace averti colpito così forte. Ma gli ordini sono ordini, e dovevo fare il mio lavoro. Una tattica di intimidazione. Ma mi sa che non ha funzionato, giusto?  
Ti avevano mai puntato addosso una pistola?, chiede Frisk.  
Che tu ci creda o no, risponde Brick, è la prima volta; Però non sembri molto impressionato.  
L’ho vissuto nella mente così tante volte che è come se mi fosse già successo.  
Allora ci aspettavi.  
Certo che vi aspettavo. Mi sorprende soltanto che non siate venuti prima.  
Pensavamo di darti un mese. É pesante come incarico, e ci sembrava giusto lasciarti un po’ di tempo per prepararti psicologicamente. Ma adesso il mese è finito e risultati ancora non ne abbiamo visti. Vuoi spiegarci il perché?  
Non posso farlo. Tutto qui. Non posso proprio farlo. Mentre tu ti giravi i pollici a Jackson Heights, la guerra è andata di male in peggio. I Federali hanno lanciato un’offensiva di primavera e quasi ogni città della costa orientale è stata attaccata. Operazione Unity, la chiamano. Un altro milione e mezzo di morti mentre tu te ne stai qui a lottare con la tua coscienza. Tre settimane fa hanno invaso le Città Gemelle, e mezzo Minnesota è tornato sotto il controllo federale. Grosse parti dell’Idaho, del Wyoming e del Nebraska sono state trasformate in campi di concentramento. Devo continuare?  
No, no, ho afferrato il concetto.  
Devi farlo, Brick.  
Mi spiace. Non posso davvero.  
Hai presenti le conseguenze, vero?  
Non è per questo che siete venuti?  
Non ancora. Ti diamo un limite. Una settimana da oggi. Se Brill non sarà stato sistemato entro la mezzanotte del ventotto, Duke e io torneremo, e la prossima volta con le pistole cariche. Mi senti, caporale? Una settimana da oggi, in caso contrario tu e tua moglie morirete per niente.  



Non so che ora sia. Le lancette della sveglia non sono illuminate e non ho nessuna voglia di riaccendere la luce per infliggermi i raggi accecanti della lampadina. Ho sempre in mente di chiedere a Miriam di comprarmi uno di quegli arnesi che brillano nel buio, ma poi ogni mattina quando mi alzo me ne dimentico. La luce cancella il pensiero, e non me ne ricordo più fino a quando non sono di nuovo a letto, sveglio come adesso, con gli occhi fissi al soffitto invisibile della mia stanza invisibile. Non posso esserne certo, ma direi che sia fra l’una e mezzo e le due. E va avanti piano piano, piano piano...  
Il sito Internet fu un’idea di Miriam. Se avessi saputo quello che aveva in testa le avrei detto di non sprecare tempo, ma lei me lo tenne segreto (con la complicità di sua madre, la quale aveva messo da parte quasi ogni scritto che avessi pubblicato in vita mia), e quando venne a New York alla cena per i miei settant’ anni mi portò nel mio studio, accese il mio portatile e mi mostrò quello che aveva fatto. Gli articoli non valevano la fatica, ma il pensiero che mia figlia avesse dedicato un’ enorme quantità di ore a battere a macchina tutti quei vecchi pezzi - per i posteri, disse rischiò di farmi sciogliere, e rimasi senza parole. Il mio impulso normale è sviare le scene commoventi con una battuta pungente o un’ osservazione saggia, ma quella sera mi limitai ad abbracciare Miriam senza dire nulla. Naturalmente Sonia pianse. Piangeva sempre quando era felice, ma in quell’occasione le sue lacrime furono particolarmente toccanti e terribili per me, perché solo tre giorni prima le avevano trovato il cancro, e la prognosi era nebulosa, poco rassicurante nel migliore dei casi. Nessuno ne fece parola, ma tutti e tre sapevamo che forse non sarebbe stata con noi per il mio prossimo compleanno. Emerse poi che un anno era sperare troppo.  
Non dovrei fare così. Ho promesso a me stesso di non cadere nella trappola dei pensieri su Sonia e dei ricordi di Sonia: di non abbandonarmi. Non posso permettermi di crollare ora, sprofondando nel dolore e nel rimorso. Potrei mettermi a ululare, svegliando le ragazze di sopra - o passare le prossime ore architettando modi sempre più ingegnosi e subdoli per togliermi la vita. Il compito è stato riservato a Brick, protagonista della storia di stanotte. Forse questo spiega perché lui e Flora accendono il computer ed entrano nel sito di Miriam. Sembra importante che il mio eroe arrivi a conoscermi un po’, a capire contro quale uomo si sia messo, e ora che si immerge in alcuni dei libri da me raccomandati, abbiamo finalmente cominciato a stabilire un legame. Sta diventando, temo, uno scherzo un po’ complicato, ma in verità il personaggio di Brill nel mio progetto originario non c’era. La mente che ha creato la guerra doveva appartenere a qualcun altro, un altro personaggio di fantasia, non meno irreale di Brick e Flora e Tobak eccetera; ma più andavo avanti, più capivo quanto stessi ingannando me stesso. La storia parla di un uomo che deve uccidere la persona che lo ha creato, e perché fingere che non sia io, quella persona? Introducendomi nella storia, la storia diventa reale. Oppure io divento irreale, un’ altra finzione della mia fantasia. In un modo o nell’altro, l’effetto è più soddisfacente, più in sintonia col mio umore - che è nero, mie care, nero come la notte d’ ossidiana che mi circonda.  
Sto blaterando, e lascio che i pensieri volino alla rinfusa per tenere a bada Sonia, ma per quanto mi sforzi lei è ancora qui, l’assente onnipresente, che tante notti ha passato con me in questo letto, ora distesa in una tomba al Cimetière Montparnasse, la mia moglie francese per diciotto anni, e poi nove anni di separazione, e poi altri ventuno anni insieme, in tutto trentanove anni, quarantuno con i due prima del matrimonio, oltre metà della mia vita, molto più di metà, e ora non resta altro che le scatole di fotografie e sette 33 giri scricchiolanti, le esecuzioni che incise negli anni Sessanta e Settanta, Schubert, Mozart, Bach, e la possibilità di riascoltare la sua voce, quella voce non potente ma bellissima, così intrisa di sentimento, quasi l’essenza di quello che lei era. Fotografie... e musica... e Miriam. Mi ha lasciato anche nostra figlia, questo non va sottovalutato, la bambina che non è più bambina, e com’è strano pensare che ora sarei perduto senza di lei, ubriaco ogni sera, di sicuro, se non morto o attaccato alle macchine in un ospedale. Dopo l’incidente, quando mi chiese di andare a vivere con lei rifiutai con garbo, spiegandole che aveva già abbastanza pesi sulle spalle senza aggiungere anche il mio. Lei mi prese la mano e disse: No, papà, non capisci. lo ho bisogno di te. Mi sento casi sola, in quella casa, che non so quanto tempo potrò ancora resistere. Ho bisogno di qualcuno con cui parlare. Ho bisogno di qualcuno da guardare, che ceni con me, che ogni tanto mi abbracci e mi dica che non sono una persona orribile.  
Persona orribile dev’essere farina del sacco di Richard, un epiteto che gli sarà volato di bocca in un brutto litigio alla fine del loro matrimonio. La gente dice le peggiori cose sull’onda della rabbia, e mi addolora che Miriam abbia permesso a queste parole di incollarsi a lei come una specie di giudizio finale sul suo carattere, una condanna contro chi, e che cosa, lei è. Ci sono tesori di bontà in questa ragazza, lo stesso genere di bontà autopunitiva incarnata da Noriko nel film, e per questo, quasi inevitabilmente, anche se è stato Richard ad abbandonare la nave, lei continua ad addossarsi la colpa dell’accaduto. Non so se le sono stato granché di aiuto, ma almeno non è più sola. Prima che Titus fosse ucciso ci stavamo assestando in una quotidianità abbastanza soave, e voglio solo ricordare questo, Miriam: quando Katya si è trovata nei guai non ha cercato suo padre, ma te. 



Ormai Frisk e Rothstein sono usciti dall’appartamento. Nell’istante in cui la porta si chiude alle loro spalle Flora comincia a imprecare in spagnolo, sgranando un rosario di invettive che Brick non riesce a seguire, dato che la sua conoscenza della lingua è limitata a poche parole, in sostanza buongiorno e arrivederci, e tuttavia non vuole interromperla, ma in quei trenta secondi di incomprensione si ritrae in se stesso per meditare sul dilemma che si trovano di fronte e pensare alla mossa successiva. Gli sembra strano, ma è come se ogni paura lo avesse abbandonato, e mentre ancora pochi minuti prima aveva creduto che lui e Flora stessero per essere uccisi, anziché tremare e barcollare nell’immediato seguito di quell’inaspettata sospensione della pena, si sente avvolto da una grande calma. Ha visto la sua morte nella forma della pistola di Frisk, e anche se la pistola non c’è più, la morte è ancora con lui come se adesso fosse l’unica cosa che gli appartiene, come se la quantità di vita che gli resta dentro fosse già stata rubata dalla morte. E se la sorte di Brick è segnata, la prima cosa da farsi è proteggere Flora mandandola via il più lontano possibile da lui.  
Brick è tranquillo, ma la cosa sembra non avere effetto su sua moglie, che appare sempre più agitata.  
Cosa facciamo?, dice Flora. Mio Dio, Owen, non possiamo starcene qui seduti in attesa che tornino. lo non voglio morire. É troppo stupido morire a ventisette anni. 
Non so... forse potremmo scappare e nasconderci da qualche parte.  
Non servirebbe a niente. Ovunque andassimo, ci rintraccerebbero.  
Forse allora dovrai uccidere quel vecchio.  
Ne abbiamo già parlato. Eri contraria, ricordi? Ma allora non sapevo niente. Adesso, so.  
Non vedo cosa cambi. Non posso farlo, e anche se potessi finirei sicuramente in prigione.  
E chi l’ha detto che ti prenderanno? Se escogiti un buon piano, forse la farai franca.  
Lascia perdere, Flora. Non vuoi che lo uccida più di quanto lo voglia io.  
Bene. Allora paghiamo qualcuno per farlo al posto tuo. Ora basta. Non uccidiamo nessuno. Intesi?  
E allora? Se non facciamo niente, tempo una settimana da stanotte saremo morti.  
Anzitutto ti mando via. Questo è il primo passo. Da tua madre, a Buenos Aires.  
Ma hai appena detto che ci troverebbero ovunque.  
Tu non gli interessi. Sono io quello che vogliono, e una volta che saremo separati non si preoccuperanno più di te.  
Che stai dicendo, Owen?  
Solo che ti voglio al sicuro.  
E tu, invece?  
Non preoccuparti, inventerò qualcosa. Ti prometto che non mi lascerò far fuori da quei due pazzi. Tu andrai giù da tua madre per una settimana, e quando tornerai sarò qui in questa casa ad aspettarti. D’accordo?  
Non mi piace, Owen.  
Non deve piacerti. Devi soltanto farlo. Per me.  
Quella sera prenotano un volo di andata e ritorno per Buenos Aires, e l’indomani mattina Brick accompagna Flora all’aeroporto. Sa che è l’ultima volta che la vede, ma si sforza di non lasciarsi andare, di non tradire nulla dell’angoscia che si agita dentro di lui. Mentre la saluta con un bacio all’ingresso di sicurezza, nella calca dei viaggiatori e del personale dell’aeroporto in divisa, Flora improvvisamente scoppia a piangere. Brick l’abbraccia e le carezza la testa, ma ora che sente il corpo della moglie contrarsi spasmodicamente contro il suo, ora che le lacrime di lei filtrano attraverso la sua camicia e gli bagnano la pelle, non sa più cosa dire.  
Non farmi partire, lo prega Flora.  
Niente lacrime, le sussurra Brick. É solo una settimana. Quando torni a casa, sarà tutto finito.  
E lo sarà, pensa lui mentre risale in macchina e torna dall’aeroporto verso Jackson Heights. A questo punto è fermamente deciso a mantenere la parola: evitare altri incontri con Rothstein e Frisk ed essere lì in casa quando Flora ritorna - ma ciò non significa che intenda essere vivo.  
Quindi si tratterebbe di un suicidio, si ricorda di aver detto a Frisk.  
In modo indiretto, sì.  
Brick si sta avvicinando al suo trentesimo compleanno e in vita sua non aveva mai pensato di suicidarsi. Ora è diventato il suo unico pensiero, e nei due giorni seguenti resta in casa, seduto, cercando di individuare il modo meno doloroso e più efficace per lasciare questo mondo. Valuta l’idea di comprare una pistola e spararsi in testa. Quella del veleno. Quella di tagliarsi le vene. Sì, dice fra sé, il vecchio sistema, no? Ti scoli mezza bottiglia di vodka, mandi giù venti o trenta pillole, ti infili in una vasca calda e poi ti apri le vene con un coltello da cucina. Pare che non si senta quasi niente.  
L’inghippo è che mancano ancora cinque giorni, e a ogni giorno che passa la calma e la sicurezza scese sulla sua mente proprio mentre guardava nella canna della pistola di Frisk allentano la presa di qualche grado. Prima la morte era una cosa scontata - una pura formalità, date le circostanze -, ma quando a poco a poco la sua calma si tramuta in inquietudine, la sicurezza si dissolve nel dubbio, Brick prova a immaginare la vodka e le pillole, il bagno caldo e la lama del coltello e d’un tratto ritorna la vecchia paura, e nel momento in cui questo succede lui capisce che la sua fermezza è svanita, che non troverà mai il coraggio di andare fino in fondo.  
Quanto tempo è passato a questo punto? Quattro giorni, no, cinque: di conseguenza restano solo quarantott’ore. Brick deve ancora muoversi da casa sua e avventurarsi all’esterno. Ha cancellato tutti i suoi impegni settimanali come Grande Zavello con la scusa di un’influenza, e ha staccato il telefono. Ha il sospetto che Flora possa aver cercato di contattarlo, ma non se la sente di parlarle adesso, sa che il suono della voce di lei lo turberebbe fino a fargli rischiare di perdere il controllo, di mettersi a farfugliare idiozie, o peggio ancora a piangere, allarmandola ancora di più. Comunque, finalmente la mattina del 27 maggio si rade, fa la doccia e indossa vestiti puliti. Dalle finestre entra il sole, la luce invitante della primavera di New York, e Brick decide che una camminata all’aperto potrebbe fargli bene. Se la sua mente non è riuscita a risolvere i suoi problemi, forse troverà una risposta nei suoi piedi.   
Ma appena muove un passo sul marciapiede sente qualcuno chiamarlo per nome. É una voce di donna, e non essendoci altri pedoni di passaggio Brick non riesce a identificarne la provenienza. Si guarda attorno, la voce lo chiama di nuovo ed eccola, è Virginia Blaine, seduta al volante di un’auto parcheggiata all’altro lato della strada. Nel vederla, Brick prova suo malgrado una gioia sfrenata, ma quando scende dal marciapiede e va verso la donna che lo ossessiona da un mese, è investito da un’ onda di apprensione. Mentre si accosta alla berlina Mercedes bianca sente il sangue pulsare nella testa.  
Buongiorno, Owen, gli dice Virginia. Hai un minuto di tempo?  
Non pensavo di rivederti, risponde Brick scrutando il suo viso bellissimo, che è ancora più bello di come se lo ricordava, e i capelli castano scuro, che sono più corti dell’ultima volta, e la bocca delicata con il rossetto e gli occhi azzurri dalle lunghe ciglia e le mani sottili, aggraziate, sul volante.  
Spero di non averti disturbato, dice lei. Oh, no. Andavo solo a fare quattro passi.  
Bene. Che ne diresti, invece, di un giro in macchina? Dove?  
Te lo spiego dopo. Prima abbiamo tante cose di cui parlare. Quando saremo a destinazione capirai perché ti ci ho portato.  
Brick tentenna, ancora in dubbio se fidarsi o meno di Virginia, ma poi capisce che non gliene importa, che con ogni probabilità qualunque cosa faccia è un uomo morto. Se queste sono le ultime ore della sua vita, pensa, be’, sarà meglio passarle con lei che aspettare da solo.  
E così partono, nel luminoso mattino di maggio, lasciandosi alle spalle New York e proseguendo lungo il limite meridionale del Connecticut sulla I-95 per poi passare sulla 395 appena prima di New London, e dirigersi a centodieci all’ora verso nord. Brick non è molto attento al paesaggio che scorre, preferisce tenere gli occhi addosso a Virginia, che è vestita con un golf di cashmere azzurrino e un paio di calzoni di lino bianco e siede sul sedile di pelle marrone con un’ aria talmente sicura e autosufficiente che gli ricorda la Virginia più giovane, quella che lo faceva balbettare ogni volta che cercava di parlarle. Ora le cose sono cambiate, dice fra sé. Brick è cresciuto, e lei non lo intimidisce più. Forse è un po’ diffidente, ma non verso la donna Virginia - piuttosto, verso il piccolo ingranaggio nella grande macchina, la donna in combutta con Frisk.  
Stai molto meglio, Owen, comincia lei. Niente più tagli, niente più bende. E vedo che ti sei fatto sistemare il dente. Miracoli dell’odontoiatria, eh? Da pugile suonato a novello Adone.  
L’argomento non interessa Brick, che invece di dilungarsi sullo stato della sua faccia va al punto. Frisk ti ha fatto l’iniezione?, le chiede.  
Non importa come sono arrivata qui, risponde lei. L’importante è il perché sono venuta.  
Per farmi fuori, immagino.  
Sbagli. Sono venuta perché mi sentivo in colpa. Sono io che ti ho messo in questo guaio, e adesso voglio provare a tirarti fuori.  
Però tu sei una donna di Frisk. Se lavori per lui, ci stai  dentro anche tu.  
Ma io non lavoro per lui. È solo una copertura.  
Cosa significa?  
Be’, te lo devo sillabare?  
Sei un agente doppiogiochista.  
Più o meno.  
Non vorrai dirmi che lavori per i Federali.  
Neanche per sogno. Li odio, quei bastardi assassini.  
E allora per chi?  
Pazienza, Owen. Devi darmi un po’ di tempo. Una cosa alla volta, d’accordo?  
Bene. Sono tutto orecchi.  
È vero, sono stata io a proporti per il lavoro. Ma non sapevo di che cosa si trattasse. Roba grossa, dicevano, qualcosa di vitale per l’esito della guerra, però non mi hanno mai spiegato i dettagli. Almeno fino a quando non sei venuto dall’altra parte. Ti giuro che non avevo idea che ti avrebbero ordinato di uccidere qualcuno. E poi, anche quando l’ho scoperto, non avevo idea che Frisk ti avrebbe minacciato di morte se non avessi portato a termine il lavoro. L’ho saputo soltanto ieri sera. Per questo sono venuta. Perché volevo aiutarti.  
Non credo a una sola parola di quello che hai detto.  
E perché dovresti? Se fossi al posto tuo, non mi crederei nemmeno io. Ma è la verità.  
La cosa buffa, Virginia, è che non mi importa più. Quando menti, voglio dire. Mi piaci troppo per farmi arrabbiare. Potresti essere finta, potresti anche essere quella che alla fine mi ucciderà, ma non smetterai mai di piacermi.  
Anche tu mi piaci, Owen.  
Sei una strana persona. Te l’ha mai detto nessuno?  
Sempre. Fin da bambina.  
Da quanto tempo non tornavi da questa parte?  
Quindici anni. É il mio primo viaggio. Fino a circa tre mesi fa non era neanche possibile. Sei stato tu il primo ad andare e tornare. Lo sapevi?  
No, non me l’hanno detto.  
È come entrare in un sogno, vero? Lo stesso posto, però completamente diverso. L’America senza la guerra. É dura da digerire. Ti abitui talmente a combattere che è come se ti entrasse nelle ossa, e dopo un po’ non riesci a immaginarti un mondo in cui non c’è.  
Sì, ma l’America è comunque in guerra. Solo che non la si combatte qui. Almeno, non ancora.  
Come sta tua moglie, Owen? Oh, che stupida ... non ricordo come si chiama.  
Flora.  
Si, Flora. Vuoi telefonarle e dirle che sarai via per un paio di giorni?  
Non è a New York. L’ho mandata in Argentina, da sua madre.  
Bella pensata. Hai fatto la cosa più giusta.  
Fra l’altro è incinta. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo.  
Bel lavoro, ragazzo. Complimenti.  
Flora aspetta un bambino, io la amo più che mai, preferirei tagliarmi il braccio destro piuttosto che compiere un’azione che la faccia soffrire, eppure la sola cosa che voglio veramente, adesso, è venire a letto con te. Ti sembra sensato?  
Certamente.  
Il canto del cigno.  
Non parlare casi. Tu non morirai, Owen.  
Be’, che ne pensi? Ti piace l’idea?  
Ricordi che cosa ti ho detto l’ultima volta che ci siamo visti ?  
Come potrei dimenticarlo?  
Allora sai già la risposta, no?  
Superano il confine col Massachusetts e pochi minuti dopo si fermano a fare benzina, vanno in bagno e mangiano un paio di abominevoli hot dog riscaldati al microonde, in panini molli, spingendoli giù a forza di acqua minerale. Mentre tornano alla macchina Brick abbraccia Virginia e l,a bacia, spingendo la lingua fino in fondo alla sua bocca. É un momento delizioso per lui, corona il sogno di mezza vita, però è anche macchiato di vergogna e rimpianto, perché questo piccolo preludio a ulteriori piaceri col suo antico amore corrisponde alla prima volta in cui tocca un’ altra donna da quando ha sposato Flora. Ma Brick, che adesso è un vero e proprio soldato, un uomo che combatte in una guerra, giustifica l’infedeltà ricordando a se stesso che domani potrebbe benissimo essere morto.  
Quando ripartono sull’autostrada si rivolge a Virginia e le fa la domanda che rimandava da più di due ore: dove stanno andando?  
In due posti, risponde lei. Il primo oggi, il secondo domani.  
Be’, è già qualcosa, direi. Ma non vorresti essere più precisa?  
Della prima fermata non ti posso parlare perché ti voglio fare una sorpresa. Però domani andiamo nel Vermont.  
Vermont ... questo vuol dire Brill. Mi stai portando da Brill!.  
Capisci al volo, Owen.  
Non servirà, Virginia. Ho pensato un sacco di volte di andarci, ma proprio non saprei che cosa dirgli.  
Chiedigli solo di smetterla.  
Ma non mi ascolterà.  
Come lo sai se non provi?  
Lo so e basta.  
Dimentichi che io sarò con te.  
Che differenza fa ?  
Ti ho già detto che in realtà non lavoro per Frisk. Da chi credi che prenda gli ordini?  
Come faccio a saperlo?  
E su, caporale. Pensaci.  
Da... Brill? No.  
Si, da Brill!.  
Impossibile. Lui è da questa parte e tu dall’altra. Non potete comunicare.   
Mai sentito parlare del telefono?  
I telefoni non funzionano. Ho già provato a chiamare, quando ero a Wellington. Ho fatto il numero di casa mia, nel Queens, e mi hanno detto che era fuori servizio.  
Ci sono telefoni e telefoni, mio caro. Credi che Brill, con la parte che svolge in tutta questa storia, ne abbia uno che non funziona?  
Quindi parli con lui.  
Di continuo.  
Ma non vi siete mai incontrati.  
No. Domani è il gran giorno.  
E perché non adesso? Perché non andare da lui adesso? Perché l’appuntamento è domani. E prima, io e te abbiamo altri progetti.  
La tua sorpresa ...  
Esatto.  
Quanta strada manca?  
Meno di mezz’ora. Fra un paio di minuti ti chiederò di chiudere gli occhi. Potrai riaprirli quando saremo arrivati.  
Brick sta al gioco, adattandosi volentieri ai capricci infantili di Virginia, e passa gli ultimi minuti del viaggio seduto al suo posto senza dire una parola, cercando di indovinare quale scherzo abbia in serbo per lui. Se fosse più ferrato in geografia, forse avrebbe trovato una soluzione ben prima del loro arrivo, ma Brick non ha che una vaga comprensione delle cartine stradali, e non avendo mai messo piede a Worcester, Massachusetts (solo in sogno ha creduto di trovarsi lì), quando l’auto si ferma e Virginia gli dice di aprire gli occhi è convinto di essere tornato a Wellington. La macchina si è fermata davanti alla casa in periferia in cui erano entrati il mese prima, la stessa villa di mattoni e stucchi con il prato antistante rigoglioso, le aiuole e gli alti cespugli in fiore. Quando guarda lungo la strada, però, vede che tutte le case vicine sono intatte. Niente muri anneriti dal fumo, niente tetti crollati, niente finestre rotte. La guerra non ha toccato l’isolato, e mentre Brick gira lentamente su se stesso cercando di assimilare l’ambiente familiare ma alterato, infine l’illusione scoppia e sa dove si trova. Non a Wellington, ma a Worcester, il precedente nome della città nell’altro mondo.  
Non è una meraviglia?, dice Virginia alzando le braccia e accennando alle case intatte. Ha gli occhi illuminati, e un sorriso si allarga sul suo volto. É così che era un tempo, Owen. Prima dei cannoni... prima degli attacchi... prima che Brill cominciasse a distruggere tutto. Non avrei mai creduto di vivere abbastanza da vederlo di nuovo.  
Lasciamo che Virginia Blaine si goda il suo breve momento di gioia. Lasciamo che Owen Brick dimentichi la piccola Flora e trovi conforto fra le braccia di Virginia Blaine. Lasciamo che l’uomo e la donna che si sono conosciuti da bambini traggano reciproco piacere dai loro corpi adulti. Che insieme si distendano sul letto e facciano quello che gli pare. Che mangino. Che bevano. Che tornino a letto e rifacciano quello che gli va a ogni centimetro e orifizio dei loro corpi adulti. La vita, dopotutto, continua anche nelle circostanze più dolorose: continua fino alla fine, e poi si interrompe. E queste vite si interromperanno perché così dev’essere, perché né l’uno né l’altra devono riuscire ad arrivare nel Vermont e parlare con Brill, perché Brill potrebbe cedere, allora, e rinunciare, e Brill non può mai rinunciare, perché deve continuare a raccontare la sua storia, la storia della guerra in quell’altro mondo, che è anche questo mondo, e non può permettere a niente né a nessuno di fermarlo.  
È notte fonda. Virginia dorme sotto le coperte, la carne sazia che si espande e si contrae mentre l’aria fresca entra ed esce dai suoi polmoni, sognando Dio sa cosa alla fioca luce lunare che entra dalla finestra semiaperta. Brick è su un fianco, il corpo raggomitolato attorno a quello di lei, una mano sul suo seno sinistro, l’altra posata sulla zona tondeggiante dove si confondono il fianco e la natica, ma il caporale è inquieto, inspiegabilmente vigile, e dopo aver cercato di addormentarsi per quasi un’ ora scende dal letto per andare giù a bere qualcosa, chissà che un goccetto di whiskey non possa placare i tremori che crescono dentro di lui mentre immagina l’incontro di domani col vecchio. Con addosso l’accappatoio del marito morto, entra in cucina e accende la luce. Di fronte allo sfavillio di questo spazio elegante, con le lucide superfici e gli elettrodomestici costosi, Brick comincia a pensare al matrimonio di Virginia. Suo marito doveva essere un bel po’ più vecchio di lei, riflette, un furbone con abbastanza grana da permettersi una casa come questa, e dato che Virginia su di lui non ha ancora detto niente (a parte che era ricco), il non agiatissimo prestigiatore del Queens si domanda se avrà voluto bene al suo defunto sposo, o lo avrà sposato solo per i soldi. I pensieri oziosi di un insonne, che rovista negli armadietti in cerca di un bicchiere pulito e di una bottiglia di scotch; le infinite banalità che frullano nella testa mentre un’idea si trasforma nell’idea successiva. Così capita a tutti noi, giovani e vecchi, ricchi e poveri, finché un fatto inatteso ci piomba addosso richiamandoci di soprassalto dal torpore.  
Brick sente in lontananza gli aerei volare bassi, poi il motore di un elicottero e un istante dopo lo schianto secco di un’esplosione. Le finestre della cucina vanno in frantumi, il pavimento trema sotto i suoi piedi nudi e poi comincia a inclinarsi, come se tutte le fondamenta della casa stessero cambiando posizione, e quando Brick corre nell’ingresso per salire la scala e cercare Virginia, si trova guizzare di fronte grandi lingue di fuoco. Dal tetto cadono schegge di legno e tegole di ardesia. Brick alza gli occhi e, dopo qualche attimo di confusione, capisce che sta guardando il cielo notturno attraverso nuvole di fumo fluttuante. La metà superiore della casa non c’è più, il che significa che non c’è più nemmeno Virginia, e pur sapendo che sarà inutile Brick vuole disperatamente salire la scala e cercare il suo corpo. Ma ora la scala è in fiamme, e se si avvicina di più brucerà vivo.  
Corre fuori, sul prato, e tutto attorno a lui vicini ululanti si riversano dalle case nella notte. Un contingente di soldati federali si è raccolto al centro della via, cinquanta o sessanta uomini in elmetto, tutti armati di mitraglietta. Brick alza le mani per arrendersi, ma invano. La prima pallottola lo colpisce alla gamba e lui cade afferrando la ferita con una mano mentre il sangue gli sprizza sulle dita. Prima che possa esaminare il danno e constatarne la gravità, una seconda pallottola gli trapassa l’occhio destro ed esce dalla nuca. E questa è la fine di Owen Brick, che lascia il mondo in silenzio, senza la possibilità di dire un’ultima parola o pensare un ultimo pensiero.  
Frattanto, centoventi chilometri a nordovest, in una casa di legno bianco nel Sud del Vermont, August Brill è sveglio, sdraiato a letto con gli occhi fissi nel buio. E la guerra continua.  



Deve proprio finire in questo modo? Probabilmente sì, anche se non sarebbe difficile escogitare un epilogo meno brutale. Ma a cosa servirebbe? Stanotte il mio tema è la guerra, e adesso che la guerra è entrata in questa casa mi sembrerebbe di offendere Titus e Katya se edulcorassi l’impatto. Pace sulla terra, buona volontà agli uomini. Piscio sulla terra, buona volontà a nessuno. Questo è il cuore di tutto, il nucleo nero della notte, quattro ore buone ancora da bruciare, e ogni speranza di sonno ridotta in frantumi. L’unica soluzione è lasciarmi alle spalle Brick, accertarmi che abbia onorata sepoltura e poi inventare un’altra storia. Stavolta una vicenda terraterra, un contraltare alla macchina fantastica che ho appena costruito. Giordano Bruno e la teoria degli infiniti mondi. Roba provocatoria, sì, ma ci sono anche altre pietre da dissotterrare.  



Storie di guerra. Se abbassi la guardia per un attimo ti si avventano contro, una dopo l’altra...  



In occasione del nostro ultimo viaggio in Europa Sonia e io ci recammo un paio di giorni a Bruxelles per partecipare a una riunione di qualche ramo lontano della sua famiglia. Un pomeriggio pranzammo con un suo anziano secondo cugino: un ex editore prossimo agli ottant’anni che era cresciuto in Belgio e poi si era trasferito in Francia, una persona affabile, colta, che si esprimeva con periodi complessi, articolatissimi, un libro ambulante in forma d’uomo. Il ristorante si trovava in un passage nel centro della città, e prima che entrassimo a mangiare ci condusse in un cortiletto in fondo per mostrarci una fontana, con la statua in bronzo di una ninfa acquatica seduta nella vasca. Non era un capolavoro - il ritratto un po’ più piccolo del naturale di una ragazza nuda di sedici-diciott’anni -, ma malgrado il livello mediocre aveva anche delle qualità toccanti, qualcosa nella curva della schiena della fanciulla, credo, o forse i seni minuti e i fianchi snelli, o magari anche solo la scala ridotta della figura. Mentre stavamo lì tutti e tre a osservarla, Jean-Luc ci disse che poi la modella, da adulta, era stata la sua professoressa di letteratura al liceo: quando aveva posato per l’artista aveva solo diciassette anni. Ci voltammo ed entrammo nel locale, e mentre pranzavamo Jean-Luc ci spiegò altre cose del suo legame con quella donna. 
Fu lei a farlo innamorare dei libri, ci disse, perché da studente si era preso una cotta tremenda per la professoressa e quell’amore finì per cambiare direzione alla sua vita. Nel 1940, quando il Belgio fu occupato dai tedeschi, Jean-Luc aveva solo quindici anni, ma entrò come staffetta in un’unità della Resistenza: di giorno andava a scuola, e di notte portava i messaggi. Anche la sua insegnante diventò partigiana, e un mattino del 1942 i tedeschi fecero irruzione nel liceo e la arrestarono. Poco dopo la cellula di Jean-Luc fu infiltrata e distrutta. Lui dovette nascondersi, ci raccontò, e negli ultimi diciotto mesi di guerra visse da solo in una soffitta e non fece altro che leggere libri - tutti i libri, qualsiasi libro, dai classici greci al Rinascimento fino al ventesimo secolo, divorando romanzi e opere di teatro, poesia e filosofia, e rendendosi conto che non avrebbe mai potuto far questo senza l’influsso della sua insegnante, che era stata arrestata sotto i suoi occhi e per cui pregava tutte le sere. Quando la guerra finì, Jean-Luc apprese che la donna non era mai tornata dal campo di concentramento, ma nessuno seppe dirgli come o quando fosse morta. Era stata cancellata, espunta dalla faccia della terra, e nessuno, nessuno sapeva cosa le fosse successo. Qualche anno dopo (fine anni Quaranta? inizio anni Cinquanta?), stava pranzando da solo in un ristorante di Bruxelles, e casualmente sentì due uomini parlare a un altro tavolo. Uno dei due durante la guerra era stato in un campo di concentramento, e quando raccontò la storia di una sua compagna di prigionia JeanLuc a poco a poco si convinse che stesse parlando della sua insegnante, la piccola ninfa acquatica seduta nella fontana in fondo al passage. Tutti i particolari sembravano coincidere: una ventenne belga rossa di capelli, minuta ma bellissima, una pasionaria di sinistra che aveva disobbedito a un ordine di una delle guardie del campo. Per dare agli altri prigionieri un esempio di cosa succedeva a quelli che disobbedivano alle guardie, il comandante decise di giustiziarla in pubblico, con tutta la popolazione del campo radunata ad assistere all’uccisione. Jean-Luc si aspettava che l’uomo raccontasse che l’avevano impiccata o messa al muro e fucilata, ma sentì che il comandante aveva in mente qualcosa di più tradizionale, un sistema passato di moda da qualche secolo. Jean-Luc non riuscì a guardarci mentre diceva quelle parole. Girò la testa verso la finestra come se l’esecuzione stesse avvenendo lì, fuori dal ristorante - e con la voce bassa all’improvviso colma di emozione disse: La squartarono. La condussero nello spiazzo centrale con delle lunghe catene ai polsi e alle caviglie, la costrinsero a stare sull’attenti mentre le catene venivano assicurate a quattro camionette girate in quattro direzioni diverse, e poi il comandante diede ordine agli autisti di accendere i motori. Secondo quel tale al tavolo vicino la donna non gridò, non fece un suono mentre dal corpo le veniva strappato un membro dopo l’altro. É possibile una cosa simile? Jean-Luc ci disse che era stato tentato di parlare, ma poi aveva capito che non era in grado di farlo. Respingendo le lacrime si era alzato in piedi, aveva buttato una manciata di soldi sul tavolo ed era uscito dal ristorante. 



Mia moglie e io tornammo a Parigi e nel giro di quarantott’ore ascoltai altri due racconti che mi colpirono forte non con la violenza nauseante di quello di Jean-Luc, ma abbastanza forte da avere su di me un impatto duraturo. Il primo, di Alec Foyle: un giornalista britannico che arrivò in aereo da Londra una sera per cenare con noi. Alec adesso ha quasi cinquant’anni ed è un ex fidanzato di Miriam, e anche se ormai è acqua passata Sonia e io restammo entrambi un po’ sorpresi quando nostra figlia non scelse lui, bensì Richard. Da anni avevamo perso i contatti, e dovevamo riaggiornarci su un sacco di cose, il che diede il la a una di quelle conversazioni febbrili che saltano continuamente da un tema all’altro. A un certo punto cominciammo a parlare di famiglie e Alec ci raccontò di una recente conversazione con una sua amica, una donna che lavorava all’inserto culturale dell’« Independent» o del «Guardian», non mi ricordo più quale dei due. Lui le disse: Prima o poi ogni famiglia vive eventi straordinari, orrendi delitti, inondazioni e terremoti, incidenti bizzarri, miracolosi colpi di fortuna, e non c’è una famiglia in tutto il mondo che non abbia segreti e scheletri nell’armadio, bauli pieni di cose nascoste che, se si alzasse il coperchio, ti lascerebbero esterrefatto. L’amica dissentiva. Sarà vero per molte famiglie, ribatté, per la maggioranza forse, ma non per tutte. La sua famiglia, per esempio. Non riusciva a pensare a una sola cosa interessante, un fatto eccezionale, che fosse mai capitato a uno di loro. Impossibile, ribatté Alec. Concentrati un attimo e senz’altro troverai qualcosa. Insomma, l’amica rifletté per un po’ e alla fine disse: Be’, forse una cosa c’è. Me l’ha raccontata mia nonna, non molto tempo prima di morire, e forse è abbastanza insolita.  
Alec ci sorrise dall’altro lato del tavolo. Insolita, disse. Se quella cosa non fosse successa la mia amica non sarebbe nata, e lei la definì insolita. A mio avviso, è proprio una cosa da non crederci.  
La nonna dell’amica era nata a Berlino nei primi anni Venti e nel 1933, quando i nazisti andarono al potere, la sua famiglia, che era ebrea, reagì come reagirono tantissime altre: credevano che Hitler non fosse niente di più che un villano rifatto di passaggio, e non mossero un dito per lasciare la Germania. Anche quando la situazione si aggravò, continuarono a essere ottimisti e non vollero allontanarsi. Quando la nonna aveva diciassette o diciotto anni, un giorno i suoi genitori ricevettero una lettera con la firma di uno che si diceva capitano delle SS. Alec non specificò l’anno degli eventi, ma credo si possa ragionevolmente dedurre che fosse il 1938 - forse un po’ prima. Secondo l’amica di Alec, la lettera diceva così: Voi non mi conoscete, ma io ho ben presenti voi e i vostri figli. Quello che sto scrivendo potrebbe costarmi la corte marziale, ma sento che è mio dovere avvertirvi che state correndo un grave pericolo. Se non agirete in fretta, sarete tutti arrestati e inviati in un campo di prigionia. Credetemi, non è solo una semplice ipotesi. Sono disposto a fornirvi i visti di espatrio che vi permetteranno di fuggire in un altro paese, ma in cambio del mio aiuto dovrete farmi un grande favore. Mi sono innamorato di vostra figlia. É da tempo che la osservo, e anche se non ci siamo mai parlati il mio amore per lei è assoluto. È la persona che sognavo da tutta la vita, e se questo mondo fosse diverso e fossimo governati da leggi diverse, domani le proporrei di sposarmi. Vi chiedo solo questo: la mattina di mercoledì prossimo, alle dieci, vostra figlia si recherà nel parco dinanzi a casa vostra, si siederà sulla sua panchina preferita e resterà lì per due ore. Prometto di non toccarla, di non avvicinarmi, di non dirle nemmeno una parola. Per tutte le due ore mi terrò nascosto. A mezzogiorno potrà alzarsi e tornare a casa. Ormai certamente il motivo della mia richiesta vi sarà chiaro. Ho bisogno di vedere un’ultima volta la mia amata, prima di perderla per sempre...  
È inutile dire che lei acconsentì. Doveva farlo, anche se i famigliari temevano che fosse tutto uno scherzo, per non parlare delle ipotesi più inquietanti di molestie, rapimento, violenza carnale. La nonna dell’amica di Alec era una ragazza inesperta, e l’idea di essere stata tramutata in un’ adorata Beatrice da qualche sconosciuto Dante delle SS che negli ultimi mesi l’aveva spiata, origliando le sue conversazioni e pedinandola per la città, la gettò in un panico sempre più intenso man mano che si avvicinava il giorno prefissato. Tuttavia, allo scoccare dell’ora stabilita fece quello che doveva: andò nel parco con la sua stella gialla attorno alla manica della maglia, si sedette su una panchina e aprì il libro che aveva portato per aiutarsi a calmare i nervi. Per due ore intere non alzò mai gli occhi. Moriva di paura, raccontò a sua nipote, e fingere di leggere era la sua unica difesa, la sola cosa che la trattenne dal saltare in piedi e scappar via di corsa. Impossibile dire quanto dovettero sembrarle lunghe quelle due ore, ma finalmente arrivò mezzogiorno e tornò a casa. Come promesso, l’indomani i visti di espatrio furono fatti scivolare sotto la porta e la famiglia parti per l’Inghilterra.  



L’ultima storia la sentii da uno dei nipoti di Sonia, figlio maggiore del primo dei suoi fratelli maggiori, Bertrand, l’unico altro membro della famiglia ad aver fatto il musicista e perciò una figura speciale per lei - violinista nell’orchestra dell’Opéra di Parigi, collega e amico del cuore. Ci vedemmo a mangiare da Chez Allard il giorno dopo la cena con Alec, e a metà pranzo cominciò a parlare di una violoncellista della sua orchestra, che alla fine della stagione pensava di ritirarsi. Tutti conoscevano la sua storia, spiegò, quindi pensava di non tradire nessuna confidenza raccontandola a noi. Françoise Duclos. Dio solo sa come mai mi ricordo ancora il suo nome, eppure eccolo qui: Françoise Duclos, la violoncellista. Sposò suo marito a metà degli anni Sessanta, raccontò Bertrand, nei primi anni Settanta diventò madre di una figlia e, due anni dopo, suo marito svanì. Un fatto non rarissimo, le spiegò la polizia quando lei denunciò la scomparsa, però Françoise sapeva che suo marito l’amava, che impazziva per la loro bambina e che, a meno che non fosse la donna più cieca e ottusa del mondo, non aveva nessun’ altra. Guadagnava benino, dunque i soldi non mancavano; il suo lavoro gli piaceva, e non aveva mai mostrato interesse per il gioco d’azzardo o gli investimenti a rischio. Ma allora cosa gli era successo, perché era scomparso? Nessuno lo sapeva.  
Passarono quindici anni. Il marito fu dichiarato morto per la legge, ma Françoise non si risposò mai più, ‘né visse con altri uomini. Allevò la figlia da sola (con l’aiuto dei suoi genitori), fu assunta dall’orchestra, diede lezioni private in casa, e stop: un’ esistenza ridotta all’essenziale, con un piccolo nucleo di amici, le estati in campagna insieme alla famiglia del fratello e un mistero irrisolto per compagno perenne.  
Poi un giorno, dopo tutti quegli anni di silenzio, squillò il telefono e si sentì chiedere di andare all’obitorio per identificare un cadavere. La persona che l’accompagnò le disse di prepararsi a un’esperienza pesante: il defunto era stato spinto da una finestra al sesto piano ed era morto al contatto col marciapiede. Malgrado il corpo fosse sfigurato, Françoise lo riconobbe subito. Era aumentato di dieci chili, i capelli si erano diradati e ingrigiti, ma non c’era alcun dubbio: stava guardando il cadavere del marito scomparso.  
Prima che potesse andarsene, un uomo entrò nella stanza, prese Françoise per un braccio e disse: Per favore, Madame Duclos, venga con me. Ho qualcosa da dirle.  
L’accompagnò fuori, la portò alla sua auto parcheggiata davanti a una panetteria in una via adiacente e le chiese di salire. Quando furono dentro, invece di inserire la chiave nel quadro l’uomo abbassò il finestrino e si accese una sigaretta. Quindi, per l’ora successiva, raccontò a Françoise la storia degli ultimi quindici anni, mentre lei stava seduta al suo fianco nella piccola auto blu guardando le persone uscire dalla panetteria con le baguette. Questo è un particolare che Bertrand ricordava: le baguette - mentre dell’uomo non seppe dirci nulla. Il suo nome, l’età, la sua fisionomia... buio totale, ma in fondo, che importa?  
Le spiegò che Duclos era un agente della DGSE. Ovviamente la moglie non poteva saperlo dato che gli agenti sono rigidamente tenuti a non parlare del proprio lavoro, e in tutti gli anni in cui lei aveva creduto che suo marito stesse scrivendo trattati di economia per il ministero degli Esteri, in realtà lui era stato una spia al servizio della Direction Générale des Services Extérieurs. Subito dopo la nascita della loro figlia, diciassette anni prima, gli era stato assegnato un incarico che lo aveva trasformato in un agente doppiogiochista: in superficie lavorava per i sovietici, ma in realtà passava informazioni ai francesi. Dopo due anni i russi scoprirono la sua attività e tentarono di eliminarlo. Duclos riuscì a scamparla, ma da allora non poté più tornare a casa. I russi sorvegliavano Françoise e sua figlia, il telefono dell’appartamento era controllato, e se Duclos avesse cercato di chiamarle o di andarle a trovare, subito sarebbero stati uccisi tutti e tre.  
Fu così che per proteggere la sua famiglia se ne tenne lontano, nascosto dai francesi per quindici anni, spostandosi per Parigi da un appartamento all’altro come un uomo braccato, un perseguitato che ogni tanto si recava, di soppiatto, a gettare un’ occhiata furtiva a sua figlia, guardandola crescere da lontano senza mai riuscire a parlare con lei, a conoscerla, osservando sua moglie mentre pian piano i tratti giovanili appassivano e scivolava nella mezza età; finché per imprudenza, o per colpa di un delatore, o per semplice cieca malasorte, i russi lo presero. La cattura... la benda sugli occhi le corde attorno ai polsi... i pugni al volto e al corpo e poi il salto dalla finestra del sesto piano. Morte per defenestrazione. Un altro metodo classico, l’esecuzione prediletta da secoli fra le spie e i poliziotti.  
Nel racconto di Bertrand c’erano molte lacune, ma non seppe rispondere a nessuna delle domande che gli facemmo Sonia e io. Come aveva occupato il suo tempo Duclos in tutti quegli anni? Era vissuto sotto falso nome? Aveva continuato in una forma o nell’altra a lavorare per la DGSE ? Con che frequenza poteva uscire? 
Bertrand scosse la testa. Proprio non lo sapeva.  
In che anno è morto Duclos?, gli chiesi infine. Questo non puoi non ricordartelo.  
Nell’89. Nella primavera dell’89. Ne sono sicuro, perché fu allora che entrai nell’orchestra, e la faccenda di Françoise avvenne poche settimane dopo.  
La primavera dell’89, dissi. Il Muro di Berlino cadde a novembre. Il blocco dell’Est rovesciò i suoi governi e poi ci fu la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Quindi Duclos fu una delle ultime vittime della Guerra Fredda, giusto?  



Mi schiarisco la voce, e dopo un attimo riprendo a tossire, espellendo grumi di muco mentre mi copro la bocca per far meno rumore. Vorrei sputare nel fazzoletto, ma quando allungo la mano e lo cerco con le dita sfioro la sveglia, che cade dal comodino e sbatte a terra. Ancora niente fazzoletto. Poi ricordo che tutti i miei fazzoletti sono a lavare, e allora deglutisco e lascio che la porcheria scivoli in gola ripetendomi per la cinquantesima volta negli ultimi cinquanta giorni che devo smettere di fumare, e sapendo che non lo farò mai: ma lo dico lo stesso, solo per tormentarmi con la mia stessa ipocrisia.  
Ricomincio a pensare a Duclos, chiedendomi se non potrei tirar fuori una storia da quella vicenda terribile, non necessariamente su Duclos e Françoise, non sui quindici anni di nascondigli e attesa, non su quello che già so, ma su qualcosa che potrei creare strada facendo. Sulla figlia, per esempio, spostandoci dal 1989 al 2007. E trasformandola in una giornalista o una romanziera, insomma una che scrive, e che dopo la morte della madre decide di fare un libro sui suoi genitori. .. Sennonché l’uomo che ha consegnato il padre ai russi è ancora vivo, e quando ha sentore delle sue intenzioni cerca di fermarla - o addirittura ucciderla...  
Arrivo fino a qui. Un attimo dopo sento altri passi al piano superiore, ma stavolta non vanno verso il bagno, stanno scendendo la scala, e mentre immagino Miriam o Katya entrare in cucina e cercare qualcosa da bere, o una sigaretta o uno spuntino nel frigo, capisco che i passi vengono in questa direzione, che qualcuno si sta avvicinando alla mia camera. Sento bussare alla porta - no, non è proprio un bussare, ma un graffiare leggero di unghie contro il legno - e poi Katya sussurra: Sei sveglio?  
Le dico entra, e quando la porta si apre riconosco il suo profilo nella luce incerta, bluastra alle sue spalle. Sembra indossi la sua maglietta dei Red Sox e i calzoni grigi della tuta; i capelli lunghi sono raccolti in una coda.  
Tutto bene?, mi chiede. Ho sentito qualcosa cadere per terra e poi una brutta scarica di tosse.  
Sono sano come un pesce, rispondo. Ammesso che i pesci siano sani.  
Hai dormito un po’ ?  
Neanche un secondo. E tu?  
A sprazzi, ma non molto.  
Perché non chiudi la porta? Qui dentro è meglio quando è tutto buio. Ti darò uno dei miei cuscini, casi ti puoi sdraiare accanto a me.  
La porta si chiude, metto un cuscino al vecchio posto di Sonia e pochi secondi dopo Katya è stesa supina al mio fianco.  
Mi torna in mente quando eri piccola, dico. Quando tua nonna e io venivamo a trovarvi ti infilavi sempre nel lettone con noi.  
Mi manca da pazzi, sai? Non riesco ancora a convincermi che non ci sia più.  
Manca tanto a tutti.  
Nonnino, perché hai smesso di scrivere il tuo libro? Ho deciso che era più divertente guardare i film con te. Questa è una cosa recente. Tu avevi smesso già da tanto tempo.  
Era diventato troppo triste. Mi era piaciuto scrivere le parti iniziali, ma poi sono arrivato ai momenti brutti ed è cominciata la fatica. In vita mia ho fatto grandi sciocchezze, e non avevo il coraggio di riviverle. Poi si è ammalata Sonia. Dopo che è morta, l’idea di riprenderlo mi faceva ribrezzo.  
Non devi essere casi severo con te stesso.  
Non è severità. Sono solo sincero.  
Il libro doveva essere scritto per me, ricordi?  
Per te e tua madre.  
Ma lei sa già tutto. Io no. È per questo che non vedevo l’ora di leggerlo.  
Ma poi probabilmente ti saresti annoiata.  
Nonnino, qualche volta sei proprio tonto. Lo sai?  
Perché mi chiami ancora nonnino? Hai smesso di chiamare tua madre mami da anni. Credo fossi al liceo, e improvvisamente mami è diventata mamma.  
Non volevo più parlare come una bambina.  
Be’, io ti chiamo Katya. Tu potresti chiamarmi August. Non mi è mai piaciuto granché, questo nome. Sulla carta sta bene, ma pronunciarlo è dura.  
Allora qualcos’altro. Che ne dici di To ?  
To? Da dove è saltato fuori?  
Mah... non so. Cercavo un nome... cara vecchia ton... ta.  
Katya fa un breve rantolo sarcastico.  
Scusa, continuo. Non so resistere. Sono nato col gene della battutaccia, e ci ricasco sempre.  
Non prendi proprio niente sul serio, eh?  
Io prendo tutto sul serio, tesoro. Solo, fingo di no.  
August Brill, mio nonno, attualmente noto come To. Come ti chiamavano da bambino?  
Di solito Augie. Nelle giornate buone ero Augie, ma la gente mi chiamava in un sacco di altri modi.  
Non riesco a immaginarlo. Te da piccolo, voglio dire. Devi essere stato un bambino strambo. Scommetto che leggevi libri tutto il tempo.  
Quello è stato dopo. Fino a quindici anni l’unica cosa di cui m’importava era il baseball. Lo giocavamo da mattina a sera fino a novembre inoltrato. Dopo, per qualche mese toccava al football, ma a fine febbraio si ripartiva col baseball. La vecchia banda di Washington Heights. Eravamo talmente fissati che giocavamo a baseball anche sotto la neve.  
E le ragazze? Ricordi come si chiamava il tuo primo grande amore?  
Sicuro. Non si scorda mai. E chi era?  
Virginia Blaine. Mi innamorai di lei in seconda liceo, e del baseball di botto non m’importò più niente. Cominciai a leggere poesie, a fumare sigarette, e mi innamorai di Virginia Blaine.  
E tu a lei piacevi?  
Non l’ho mai capito. Per sei mesi fu tutta un volermi e respingermi, e poi mi piantò per un altro. Mi sembrò la fine del mondo, la prima volta che mi si spezzò veramente il cuore.  
Poi hai conosciuto la nonna. Avevi solo vent’anni, no? più giovane di me adesso.  
Quante domande ...  
Se no come faccio a scoprire quello che ho bisogno di sapere, dato che non finirai il tuo libro?  
Come mai questo improvviso interesse?  
Non è improvviso. É tanto che ci penso. Ora, quando ho sentito che eri sveglio, mi sono detta: É l’occasione giusta. Sono scesa e ho bussato alla tua porta.  
Hai graffiato alla mia porta.  
Vabbè, graffiato. Ma adesso siamo qui, sdraiati al buio, e se non risponderai alle mie domande non ti lascerò più guardare i film con me.  
A proposito, ho trovato un altro esempio a sostegno della tua teoria.  
Bravo. Ma ora non stiamo parlando di film. Stiamo parlando di te.  
Non è una storia casi bella, Katya. Contiene tante cose deprimenti.  Sono grande, Io. Posso incassare tutto quello che mi rifili.  
Chissà.  
Per quanto ne so, l’unica cosa deprimente a cui alludi è il fatto che hai tradito tua moglie e l’hai lasciata per un’ altra donna. Spiacente, caro, ma sai ... da queste parti è una procedura standard. Pensi che non la sopporterò? L’ho già sopportata, con mio padre e mia madre.  
Quand’è l’ultima volta che hai parlato con lui?  
Con chi?  
Con tuo padre.  
Chi?  
Su, Katya. Tuo padre. Richard Furman, ex marito di tua madre e mio ex genero. Parlamene un po’, bambina. Prometto di rispondere alle tue domande, ma dimmi solo quando hai parlato l’ultima volta con tuo padre.  
più o meno quindici giorni fa. Avete preso accordi per vedervi?  
Mi ha invitato a Chicago, ma gli ho risposto che non me la sentivo. Il mese prossimo, a fine semestre, mi ha promesso che verrà a New York per un weekend, e potremmo alloggiare in un hotel da qualche parte e mangiare un mucchio di cibi squisiti. Probabilmente andrò, ma non ho ancora deciso. A proposito, sua moglie è incinta. La bella Susettina è in dolce attesa.  
Tua madre lo sa?  
Non gliel’ho detto. Pensavo che potesse rimaner male.  
Comunque prima o poi lo scoprirà.  
Lo so. Ma sembra che ora stia un po’ meglio, e non volevo agitare le acque.  
Sei un bel biscottino, bimba.  
No, non è vero. Sono una bella ciambella con la marmellata. Tutta ripieno e melassa.  
Prendo la mano di Katya, e poi per mezzo minuto guardiamo nel buio senza dire una parola. Mi viene in mente che forse se rimango zitto si addormenterà, ma un attimo dopo che l’ho pensato lei rompe il silenzio e mi fa un’altra domanda:  
Quando l’hai vista per la prima volta?  
Il quattro aprile del cinquantacinque, alle due e mezzo di pomeriggio.  
Veramente?  
Veramente.  
Dov’eri?  
A Broadway. All’angolo con Hundred-fifteenth Street: camminavo verso uptown per andare alla Butler Library. Sonia andava alla Juilliard, che ai tempi era vicino alla Columbia, e camminava verso downtown. Devo averla adocchiata più o meno a un isolato di distanza, probabilmente perché aveva un cappotto rosso - il rosso balza all’occhio, soprattutto su una strada di città, con uno sfondo interamente di mattoni e pietre grigiastre. Insomma, noto questo cappotto rosso che viene verso di me e poi vedo che la persona che lo porta è una ragazza piccolina con i capelli scuri. Piuttosto promettente da lontano, ma ancora troppo distante per avere certezze. Lo sai, i ragazzi sono fatti casi. Sempre a guardare le ragazze, sempre a radiografarle, a sperare di imbattersi nella bellezza da urlo che ti lascia senza fiato e ti ferma il cuore. Insomma. Ho visto quel cappotto rosso, e ho visto che lo porta una ragazza con i capelli corti e scuri, alta sull’uno e sessantacinque, e poi la prima cosa che osservo è che la sua testa dà dei lievi sobbalzi come se stesse canticchiando fra sé, e che nel passo c’è un accenno di rimbalzo, una leggerezza nel modo di muoversi, e mi dico: Questa ragazza è felice, felice di esser viva e di camminare per la strada nell’aria frizzante e intrisa di sole della primavera appena iniziata. Pochi secondi dopo la sua faccia comincia a delinearsi meglio e vedo che ha un rossetto rosso vivo; e poi, man mano che la distanza fra noi si riduce, registro simultaneamente due dati importanti. Uno: che lei sta veramente canticchiando un’aria di Mozart, credo, però non sono sicuro -, e non solo canticchia, ma ha una voce da vera cantante. Due: che è attraente da morire, bellissima forse, e il mio cuore sta per cessare di battere. Ormai è solo a un metro, un metro e mezzo di distanza, e io, che non mi sono mai fermato per strada a parlare con una ragazza sconosciuta, che in tutta la mia vita non ho mai avuto l’audacia di rivolgermi in pubblico a un’estranea di bell’aspetto, apro la bocca e dico: Salve, e visto che le sto sorridendo, e probabilmente sorridendo in un modo che non appare neanche vagamente minaccioso o aggressivo, lei smette di canticchiare, mi sorride a sua volta e ricambia il mio saluto. Fine. Sono troppo nervoso per dire qualcos’altro, quindi continuo a camminare, come anche la bella ragazza col cappotto rosso, ma dopo sei o sette passi rimpiango la mia irresolutezza e faccio dietrofront sperando che ci sia ancora tempo per attaccar discorso, però la ragazza cammina troppo in fretta ed è già fuori tiro e così, con gli occhi alla sua schiena, la guardo attraversare la strada e sparire tra la folla.  
Frustrante... ma comprensibile. lo odio quando gli uomini cercano di rimorchiarmi per strada. Probabilmente se avessi agito con più decisione Sonia si sarebbe scocciata e non avresti combinato niente con lei.  
Mi sembra un’ opinione generosa. Quando scomparve, pensai di aver buttato l’occasione della mia vita.  
Quanto tempo passò prima che la rivedessi?  
Quasi un mese. Passavano i giorni, e io non riuscivo a smettere di pensare a lei. Se avessi saputo che studiava alla Juilliard, magari sarei riuscito a rintracciarla, ma non sapevo niente. Era solo una splendida apparizione che mi aveva guardato negli occhi per due secondi e poi era svanita. Ero convinto che non l’avrei rivista mai più. Gli dèi si erano presi gioco di me, e la ragazza di cui ero destinato a innamorarmi, l’unica persona inviata su questa terra per dare un senso alla mia vita, mi era stata rubata e lanciata in un’ altra dimensione - un luogo inaccessibile, dove non sarei mai potuto entrare. Ricordo di aver scritto una lunga, ridicola poesia sui mondi paralleli, le occasioni perdute, la tragica merdosità del destino. Vent’anni, e mi sentivo già un maledetto.  
Ma il destino era con te.  
Destino, fortuna, come vuoi chiamarlo. 
Dove successe?  
In metropolitana. Alla IRT di Seventh Avenue. Mentre andavo verso downtown, la sera del 27 aprile 1955.  
La carrozza era piena, ma il posto accanto al mio era libero. Ci fermammo in Sixty-sixth Street, le porte si aprirono ed entrò lei. Non essendoci altri posti vuoti, venne a sedersi vicino a me.  
Si ricordava di te?  
Solo un barlume. Le rammentai il nostro breve incontro di quello stesso mese a Broadway e le tornò alla mente. Non avevamo molto tempo. lo stavo andando al Village per vedere amici, ma Sonia scendeva in Forty-second Street, quindi restammo insieme solo per tre fermate. Riuscimmo a presentarci e a scambiarci gli indirizzi e i numeri di telefono. Venni a sapere che studiava alla Juilliard. Che era francese, ma aveva passato i primi dodici anni della sua vita in America. Parlava un inglese perfetto, senza il minimo accento. Quando mi lanciai nel mio mediocre francese, il suo si rivelò altrettanto perfetto. Parlammo probabilmente per sette minuti, dieci al massimo. Quindi scese, e io capii che era successo qualcosa di enorme. Per me lo era, comunque. Non sapevo cosa pensasse o sentisse Sonia, ma dopo quei sette o dieci minuti sapevo di avere incontrato la persona giusta.  
Primo appuntamento. Primo bacio. Prima... hai capito cosa.  
L’indomani pomeriggio le telefonai. Mani tremanti ... devo aver preso e mollato la cornetta tre o quattro volte, prima di trovare il coraggio per comporre il numero. Un ristorante italiano nel West Village, non ricordo più il nome. Economico, non nuotavo nell’oro, ed era la prima volta difficile crederlo -, la prima volta in vita mia che invitavo una ragazza fuori a cena. Non riesco a vedermi. Non ho idea di che razza d’impressione le feci, ma posso vedere lei seduta di fronte a me con la camicetta bianca, gli occhi verdi fermi, vigili, all’erta, divertiti, e quella bocca splendida con le labbra tonde che sorrideva, sorrideva spesso, e la sua voce profonda, una voce sonora che arrivava da qualche recesso del diaframma, la trovavo terribilmente sexy e fu sempre così, e poi la sua risata - che era molto più acuta, a volte quasi stridula, una risata che sembrava venir fuori dalla gola, dalla testa perfino, e ogni volta che qualcosa le faceva il solletico alla punta del gomito - adesso sto parlando di dopo, non di quella sera -la prendeva una ridarella folle ... rideva così forte che le venivano le lacrime agli occhi.  
Mi ricordo. Non ho mai visto nessuno ridere come lei.  
A volte, quand’ero piccola, mi spaventava. Continuava così a lungo che pensavo non si sarebbe mai fermata, che sarebbe morta dal ridere, persino. Poi col tempo ho imparato ad amarla.  
Insomma, eccoci lì, due ragazzi di vent’anni, in quel ristorante di Bank Street, Perry Street, non so più, la prima volta che uscivamo insieme. Parlammo di un sacco di cose, che in gran parte ho dimenticato, ma mi ricordo come fui colpito quando mi raccontò della sua famiglia, delle sue origini. La mia storia, al confronto, appariva così banale, con un padre venditore di mobili e una madre maestra elementare, i Brill di Upper Manhattan, che non erano mai andati da nessuna parte né avevano fatto altro che lavorare e pagare l’affitto. Il padre di Sonia era un biologo, un professore, uno dei massimi scienziati europei. Alexandre Weill - parente alla lontana del compositore -, nato a Strasburgo, ebreo (come sai già), e quindi fu un bel colpo di fortuna quando, nel 1935, Princeton gli offrì un lavoro e lui ebbe il buonsenso di accettarlo. Se la famiglia fosse rimasta in Francia durante la guerra, chissà come sarebbero finiti... La madre di Sonia, Marie-Claude, era nata a Lione. Non ricordo cosa facesse suo padre, ma i nonni erano entrambi pastori protestanti, perciò Sonia non era proprio una classica ragazza francese. Nemmeno un’ombra di cattolicesimo, niente avemarie, niente visite al confessionale. Marie-Claude conobbe Alexandre quando entrambi studiavano a Parigi, e si sposarono all’inizio degli anni Venti. Quattro figli in tutto: tre maschi e poi, cinque anni dopo l’ultimo, arrivò Sonia, la piccola della compagnia, la principessina che aveva solo un mese quando la famiglia parti per l’America. A Parigi non tornarono più fino al 1947. Assegnarono ad Alexandre una posizione di prestigio all’Institut Pasteur - credo che avesse il titolo di Directeur - e Sonia finì per andare al Lycée Fénelon. Aveva già deciso di fare la cantante e non ci teneva a completare il suo bac, ma i suoi genitori insistettero. Perciò a Parigi frequentò la Juilliard anziché il conservatorio. Era arrabbiata con i suoi per le loro pressioni e praticamente scappò di casa. Però alla fine tutto fu perdonato, e quando la conobbi io, tra i Weill era scoppiata la pace. La famiglia mi accolse a braccia aperte. Penso che li intenerì l’idea che anch’io venissi da una famiglia mista - nel mio caso, madre ebrea e padre episcopaliano -, e così, in onore di qualche mistico codice non scritto sui clan e le fedeltà tribali, pensarono che Sonia e io saremmo stati un buon abbinamento.  
Tu stai correndo troppo. Torna al cinquantacinque. Il primo bacio. Il momento in cui hai capito che Sonia era coinvolta.  
È un ricordo vivido, perché un contatto fisico ci fu quella sera stessa, davanti alla porta di casa sua. Divideva con altre due ragazze della Juilliard un appartamento in Hundred-fourteenth Street, e dopo essere tornati in metrò verso uptown l’accompagnai a casa. Due brevi isolati, da Hundred-sixteenth a Hundred-fourteenth, ma in quel breve itinerario, proprio ancora all’inizio, forse al decimo o dodicesimo passo, tua nonna mi prese a braccetto e l’emozione di quel momento è durata nel cuore di tuo nonno fino a oggi. Sonia fece la prima mossa. Non ci fu niente, in essa, di apertamente erotico - solo una muta dichiarazione che le piacevo, che aveva apprezzato la serata insieme ed era intenzionata a rivedermi, ma quel gesto significava tanto ... e mi rese così felice che per poco non caddi come un sacco di patate. Poi la porta. Darsi la buonanotte sulla porta, classica scena di ogni corteggiamento agli inizi. Baciarla o non baciarla? Un cenno del capo o una stretta di mano? Sfiorarle la guancia con le dita? Stringerla in un rapido abbraccio? Tante possibilità, e così poco tempo per scegliere. Come capire i desideri di un’ altra persona, come entrare nei pensieri di qualcuno che si conosce appena? Non volevo spaventarla precipitando le cose, ma neanche farle credere che fossi un timido ne che non sa ciò che vuole. La via di mezzo, dunque ... che improvvisai come segue: le misi le mani sulle spalle, mi chinai in avanti e in basso (in basso perché era più piccola di me) e premetti le labbra sulle sue - con una certa energia. Niente lingua, niente abbracci polipeschi, ma un bello sbaciucchio deciso lo stesso. Sentii un gorgoglio attutito nella gola di Sonia, un suono basso tipo m, mmmm, e poi un breve arresto del respiro, una discesa a un altro registro e qualcosa che somigliava a una risata. Indietreggiai, vidi che stava sorridendo e l’abbracciai. Un attimo dopo le sue braccia erano attorno a me e allora mi tuffai in un vero bacio, un bacio alla francese, un bacio alla francese con la ragazza francese che da un momento all’altro rimase l’unica persona importante. Solo uno, ma lungo, e poi, non volendo abusare della mia fortuna, le dissi buonanotte e andai verso la scala.  
Pas mal, mon ami.  
Un bacio per i secoli.  
Ora mi serve una lezione di sociologia. Stiamo parlando del 1955, e in base a tutto quello che ho sentito e letto gli anni Cinquanta non furono il periodo migliore per i giovani. Intendo dire, per i giovani e il sesso. Oggi la maggior parte dei ragazzi comincia a scopare nell’adolescenza, e arrivati a vent’anni sono dei professionisti. Dunque, ecco te a vent’anni. Il tuo primo appuntamento con Sonia è appena terminato in un bacio trionfale, sbavante. Siete chiaramente in bollore l’uno per l’altra. Ma la dottrina dominante del periodo dice: niente rapporti prematrimoniali, almeno se sei una ragazza. Non vi sposaste fino al 1957· Non verrai a dirmi che vi siete trattenuti per due anni!  
Be’, no, macché.  
Ah, meno male.  
L’arrapamento è una costante umana, il motore che fa girare il mondo, e anche allora, nei tempi bui del medio Novecento, gli studenti scopavano come coniglietti.  
Che linguaggio, nonnino.  
Pensavo che avresti apprezzato.  
Infatti. Apprezzo.  
D’altronde, non fingerò che non ci fosse un mucchio di ragazze fedeli al mito della sposa vergine, perlopiù erano ragazze borghesi, le cosiddette brave ragazze ... ma insomma, non esageriamo. L’ostetrica-ginecologa che fece nascere tua madre nel 1960 era medico da quasi vent’anni. Mentre ricuciva l’episiotomia di Sonia dopo la nascita di Miriam, mi assicurò che sarebbe stato un lavoro splendido. Era esperta di suture, spiegò, perché aveva fatto tanta pratica ricucendo ragazze in vista della prima notte di nozze, per far credere ai mariti di aver sposato una vergine.  
Le cose che non ho mai saputo...  
Quelli erano gli anni Cinquanta. Sesso a gogò, ma la gente chiudeva gli occhi e faceva come se niente fosse. Almeno in America. A cambiare le cose, per me e per tua nonna, fu il dettaglio che lei era francese. Il vivere francese ha innumerevoli ipocrisie, ma il sesso non è fra queste. Sonia tornò a Parigi a dodici anni e rimase là fino a diciannove. La sua educazione era molto più avanzata della mia, ed era pronta a fare cose che avrebbero fatto fuggire urlando dal letto la maggioranza delle ragazze americane.  
Per esempio?  
Un po’ di fantasia, Katya.  
Be’, non pensare di scioccarmi. Ricordati che sono andata alla Sarah Lawrence... 
per noi occidentali, la capitale del sesso. Credimi, ne ho combinate che la metà basta.  
Il corpo ha un numero limitato di orifizi. Diciamo solo che li esplorammo tutti.  
In altre parole, la nonna a letto ci dava dentro.  
Parlando volgarmente, si: ci dava dentro. Era disinibita, a proprio agio col suo corpo, sensibile ai moti e ai ghiribizzi dei sensi. Ogni volta che facevamo l’amore, sembrava diversa da quella precedente. Un giorno intenso e drammatico, il giorno dopo lento e languido, e sempre pieno di sorprese, infinite sfumature...  
Ricordo le sue mani, la delicatezza delle sue mani quando mi toccava.  
Mani delicate, è vero. Ma anche forti. Mani sapienti. É questo che pensavo. Mani che sapevano parlare.  
Avete convissuto prima di sposarvi?  
No, no... questo era impensabile. Ci toccarono molti viavai furtivi. La cosa aveva i suoi aspetti eccitanti, ma perlopiù era frustrante. lo abitavo ancora con i miei genitori a Washington Heights, non avevo una casa mia. E Sonia aveva le sue due compagne di appartamento. Andavamo da lei ogni volta che non c’erano, ma non succedeva così spesso da soddisfarci.  
E gli hotel?  
Impossibile. Anche se avessimo potuto permetterceli, era troppo pericoloso. A New York c’era una legislazione per cui le coppie non sposate non potevano trovarsi sole insieme nella stessa stanza. Ogni hotel aveva un poliziotto privato - lo sbirro di casa -, e se ti beccava finivi dentro.  
Che spasso.  
Come fare, allora? Sonia da bambina aveva vissuto a Princeton e aveva ancora degli amici là. C’era una coppia - i Gontorski, non li dimenticherò mai -, un professore di fisica e sua moglie, profughi polacchi che adoravano Sonia e se ne infischiavano dei costumi sessuali americani. Nei fine settimana ci davano la camera degli ospiti. E poi c’era il sesso all’aperto, il sesso dei mesi caldi nei campi e nei prati fuori città. Con elevati rischi. Alla fine qualcuno ci trovò nudi tra le frasche, e da allora fummo più timorosi e la smettemmo di scherzare col fuoco. Senza i Gontorski saremmo stati malissimo.  
E perché non vi siete sposati, semplicemente? Subito, ancora studenti.  
Il militare. Subito dopo la laurea dovevo sottopormi alla visita di leva, e credevamo che sarei stato due anni sotto le armi. Al mio ultimo anno Sonia era già una cantante professionista ... e se mi avessero spedito in Germania Ovest o in Groenlandia o in Corea del Sud? Mica potevo chiederle di seguirmi. Sarebbe stato ingiusto.  
Ma poi il militare non l’hai fatto, vero? Se ti sei sposato nel 1957...  
Mi riformarono. Una diagnosi che poi si rivelò errata ... ma non fa niente, ero libero, e un mese dopo ci sposammo. Chiaro, di soldi ne avevamo pochi, però la situazione non era così disperata. Sonia aveva abbandonato la Juilliard e stava avviando la sua carriera, e io quando finii il college avevo già pubblicato almeno una decina di articoli e recensioni. Prendemmo in subaffitto uno di quegli appartamenti «in linea» a Chelsea, sudammo tutta un’estate newyorkese e poi il fratello maggiore di Sonia, Patrice, che era ingegnere civile, fu assunto per costruire una diga in qualche punto dell’Africa e ci offrì gratis il suo appartamento a Parigi. Furono salti di gioia. Appena letto il suo telegramma, cominciammo a fare i bagagli.  
Le questioni immobiliari non mi interessano, e le vostre carriere le conosco già. Voglio che mi parli delle cose importanti. Com’era lei? Com’era essere sposato con lei? Andavate d’accordo? Avete mai litigato? Le componenti strutturali, nonnino, non solo qualche dato accessorio.  
Be’, allora lasciami cambiare marcia e riflettere un attimo. Com’era Sonia? Cosa scoprii di lei dopo che ci sposammo, che prima non sapevo? Contraddizioni. Complessità. Un buio che si rivelò lentamente, col tempo, e mi portò a riconsiderare chi fosse. Katya, io l’amavo follemente, questo devi capirlo, e non la critico per essere quella che era. Solo che quando la conobbi meglio compresi quanto dolore portava dentro di sé. Sotto molti aspetti tua nonna era una persona eccezionale. Tenera, dolce, fedele, indulgente, piena di spirito, con una straordinaria capacità di amore. Ma ogni tanto scivolava via, a volte nel bel mezzo di una conversazione, e cominciava a fissare il vuoto con quegli occhi sognanti, ed era come se non mi conoscesse più. All’inizio credevo che fosse concentrata in qualche pensiero profondo, o che ricordasse qualcosa che le era successo, ma quando infine le chiesi cosa le passava per la mente in quegli attimi, mi sorrise e rispose: Nulla. Era come se tutto il suo essere si svuotasse e si staccasse da lei stessa e dal mondo. Tutti i suoi istinti, tutti i suoi impulsi in relazione agli altri erano profondi, incredibilmente profondi, ma il suo rapporto con se stessa era stranamente superficiale. Aveva una bella intelligenza, però in sostanza era incolta e faticava a concatenare i pensieri: non riusciva a concentrarsi su niente troppo a lungo. Tranne che sulla musica, che era la cosa più importante della sua vita. Credeva nel proprio talento, ma era anche cosciente dei suoi limiti e rifiutava di affrontare brani che considerava troppo difficili perché potesse eseguirli bene. Ammiravo la sua sincerità, però in questo c’era anche qualcosa di triste, come se si ritenesse di una categoria inferiore, condannata a restare sempre un gradino o due al di sotto dei migliori. Ecco perché non cantò mai nessuna opera lirica. Lieder, parti in pezzi d’ensemble, cantate per solista poco impegnative... ma non si spinse mai più in là. Abbiamo litigato? Sicuro che abbiamo litigato. Tutte le coppie litigano, però nei nostri battibecchi non era mai né perfida né crudele. Perlopiù, devo ammetterlo, le critiche che mi faceva erano centrate. Per essere francese si rivelò piuttosto scadente come cuoca, ma le piaceva la buona tavola e quindi andavamo al ristorante abbastanza spesso. Era una donna di casa mediocre, senza alcun interesse per le cose materiali - lo dico come un complimento -, e pur essendo una ragazza bellissima, con un corpo incantevole, vestiva maluccio. Adorava gli abiti, ma sembrava non scegliere mai quelli giusti.  
Francamente, a volte con lei mi sentivo solo, solo nel mio lavoro, perché passavo tutto il tempo a leggere libri e a scrivere di libri, e lei non leggeva molto e parlava con difficoltà di quello che aveva letto.  
Ho l’impressione che ti abbia un po’ deluso.  
No, non deluso. Niente affatto. Due sposi novelli che a poco a poco si adattano ai rispettivi limiti, alle rivelazioni dell’intimità. Tutto sommato fu un periodo felice per me... anzi, per entrambi, senza lamentele serie da parte di nessuno dei due, e poi la diga in Africa fu completata e tornammo a New York con Sonia incinta di tre mesi.  
Dove abitavate?  
Credevo che il capitolo immobiliare non ti interessasse.  
É vero, sì. Ritiro la domanda.  
In vari posti, negli anni. Ma quando nacque tua madre eravamo in un appartamento di West Eighty-fourth Street, vicino a Riverside Drive. Una delle strade più ventose della città.  
Com’era da bambina?  
Facile e difficile. Strillava e rideva. Grande spasso e tremenda rompiballe.  
Insomma, una bambina.  
No. La superbambina. Perché era la nostra bambina, e la nostra bambina era diversa da tutte le altre bambine del mondo.  
Quanto aspettò la nonna prima di riprendere a cantare? Per un anno smise di viaggiare, però a New York ricominciò a cantare quando Miriam aveva solo tre mesi. Lo sai che è stata una bravissima mamma - tua madre te l’avrà ripetuto un centinaio di volte -, ma per lei c’era anche il suo lavoro. Era nata per quello, e io non mi sarei mai sognato di trattenerla. Però ebbe i suoi dubbi, soprattutto all’inizio. Un giorno, quando Miriam avrà avuto sei mesi, entrai in camera e trovai Sonia inginocchiata accanto alletto con le mani giunte e la testa sollevata: mormorava tra sé in francese. Lo sapevo abbastanza bene ormai, e capii tutto quello che diceva. Constatai con sorpresa che stava pregando. Buon Dio, dammi un segno, dimmi che cosa devo fare con la mia piccolina. Buon Dio, riempi il vuoto dentro di me e insegnami ad amare, a essere paziente, a darmi agli altri. Dall’espressione e dalle parole sembrava una bimba, una bimbetta semplice, e devo dire che la cosa mi sconcertò un poco - ma ne fui anche commosso: profondamente, profondamente commosso. Fu come se si fosse aperta una porta e io stessi guardando una Sonia nuova, una persona diversa da quella che avevo conosciuto negli ultimi cinque anni. Quando si accorse della mia presenza si voltò e mi fece un sorriso imbarazzato. Mi spiace, disse, non volevo che lo sapessi. Mi avvicinai e mi sedetti sul letto. Non c’è bisogno di scusarti, le dissi. Sono soltanto un po’ perplesso. Quindi parlammo a lungo, almeno un’ ora, seduti fianco a fianco sul letto, discutendo i misteri della sua anima. Sonia mi raccontò che era cominciato verso la fine della gravidanza, a metà del settimo mese. Un pomeriggio, mentre rincasava, stava camminando per la strada quando era stata pervasa da un improvviso sentimento di gioia, una gioia inspiegabile e travolgente. Sembrava che l’intero universo stesse scorrendo nel suo corpo, mi disse, e in quel momento aveva capito che tutto era legato a tutto il resto, ogni uomo nel mondo era legato a tutti gli altri e questa forza che unisce, questo potere che tiene tutti insieme e tutto, era Dio. Era l’unica parola che le veniva in mente. Dio. Non un dio ebreo, o cristiano, non il dio di una religione, ma Dio come presenza che anima tutta la vita. Poi aveva cominciato a parlargli, spiegò, convinta che potesse sentire ciò che lei diceva e quei monologhi, quelle preghiere, quelle suppliche - comunque si volessero chiamare - la consolavano sempre, la rimettevano sempre in pace con se stessa. Durava ormai da mesi, ma non aveva voluto parlarmene per paura che la giudicassi una sciocca. lo ero tanto più intelligente di lei, casi superiore nelle cose intellettuali - parole sue, non mie -, e temeva che se mi avesse detto di aver scoperto Dio scoppiassi a ridere per la sua ignoranza. Non risi. Per quanto sia un pagano, non risi affatto. Sonia aveva il suo modo di pensare e il suo modo di fare le cose, e io chi ero per ridere di lei?  
L’ho conosciuta per tutta la mia vita ma non mi ha mai parlato di Dio, neanche una volta.  
Perché poi smise di credere. Quando il nostro matrimonio fallì, sentì che Dio l’aveva abbandonata. É successo tanti anni fa, angelo mio, molto prima che tu nascessi.  
Povera nonna.  
Si, povera nonna.  
Ho una teoria sul vostro matrimonio. La mamma e io ne abbiamo parlato, e lei in linea di massima è d’accordo, ma mi serve una conferma dalla viva voce del protagonista. Cosa risponderesti se dicessi: Tu e la nonna avete divorziato per colpa della sua carriera?  
La mia risposta sarebbe: Assurdo.  
D’accordo, non per la carriera in sé. Ma perché era sempre in viaggio.  
Be’, qui direi fuochino... però solo come causa indiretta, un fattore secondario.  
La mamma dice che non sopportava quando la nonna andava in tournée. Entrava in crisi, piangeva, gridava, la supplicava di non andare. Scene isteriche angoscia allo stato puro... separazione dopo separazione.  
Sì, è capitato un paio di volte, ma non ingigantirei la portata del caso. Quando Miriam era molto piccola, diciamo dagli uno ai sei anni, Sonia non si assentò mai per più di una settimana. Mia madre si trasferiva da noi per accudire la bambina, e tutto filava abbastanza liscio. La tua bisnonna era una maga con i bambini piccoli, adorava Miriam - che era la sua unica nipote -, e Miriam non vedeva l’ora di trovarsi con lei. Ora ricordo tutto ... le strane cose che faceva tua madre. Quando aveva tre o quattro anni, era affascinata dai seni di sua nonna. Devo dire che erano molto grossi, dato che mia madre a quel punto era diventata una bella matrona. Sonia in su era piccina, con seni adolescenti che si riempirono per allattare Miriam, ma dopo lo svezzamento diventarono ancora più piccoli di prima della gravidanza. Il contrasto era nettissimo, e Miriam non poté fare a meno di accorgersene. Mia madre aveva un petto prosperoso, venti volte più grande di quello di Sonia. Un sabato mattina lei e Miriam erano sedute sul divano a guardare i cartoni animati. Diedero la pubblicità di una pizza che terminava con le parole: Ullallà, questa si che è una pizza! Un attimo dopo tua madre si volse verso mia madre, addentò il suo seno destro e poi rialzò la testa, gridando: Ullallà, questa si che è una pizza! Mia madre rise così forte che le sfuggì un peto, un gigantesco peto strombettante. La cosa scatenò l’ilarità di Miriam a tal punto che si fece la pipi addosso. Saltò giù dal divano e cominciò a correre per la stanza gridando a squarciagola: scoreggina-pipi, scoreggina-pipi, oui, oui, oui!  
Questa la stai inventando.  
No, è successa davvero, te lo giuro. Te ne ho parlato unicamente per mostrarti che non c’era solo tristezza in casa nostra quando Sonia andava via. Miriam non si aggirava col broncio come un Oliver Twist negletto e abbandonato. Perlopiù stava benissimo.  
E tu, invece?  
Me ne feci una ragione.  
Questa mi sembra una risposta evasiva.  
Ci furono vari periodi, varie fasi, e ognuna ebbe un suo tessuto. All’inizio Sonia era relativamente sconosciuta. Aveva cantato un po’ a New York prima che traslocassimo a Parigi, ma in Francia fu costretta a cominciare daccapo e poi, proprio quando sembrava sulla rampa di lancio, tornammo in America e dovette ripartire di nuovo. Infine tutto si volse a suo favore, perché era nota sia qui sia in Europa. Però impiegò molto tempo per farsi una reputazione. La svolta fu nel ‘67 o ‘68, quando firmò il contratto per incidere quei dischi con la Nonesuch, ma prima non si assentava molto spesso. lo ero diviso in due. Da una parte ero felice per lei ogni volta che la scritturavano per esibirsi in una città nuova. Dall’altra - proprio come tua madre -, soffrivo quando la vedevo partire. L’unico modo era farsene una ragione. Questo non è essere evasivi, è la realtà.  
Le eri fedele ...  
Assolutamente.  
E quando hai cominciato a vacillare?  
Probabilmente la parola giusta è sbandare.  
O cadere. Ha una connotazione spirituale che mi sembra appropriata.  
D’accordo, a cadere. Verso il ‘70, credo. Ma non ci fu proprio niente di spirituale. Fu tutta una questione di sesso, puro e semplice sesso. Venne l’estate, Sonia parti in tournée per tre mesi in Europa - con tua madre, fra l’altro - e mi ritrovai da solo, ad appena trentacinque anni, con gli ormoni ruggenti a tutto spiano, senza una donna a New York. Lavoravo sodo tutti i giorni ma le notti erano vuote, incolori, stagnanti. Cominciai a bazzicare un gruppo di giornalisti sportivi, perlopiù forti bevitori, a giocare a poker fino alle tre del mattino, a frequentare i bar, non perché mi piacessero particolarmente, ma per non annoi armi, e perché dopo essere stato solo tutto il giorno volevo avere un po’ di compagnia. Una sera, dopo l’ennesima bevuta al bar, stavo tornando a casa da midtown verso l’Upper West Side quando notai una prostituta sotto un portone. Una ragazza bellissima, per la verità, e io ero abbastanza ubriaco da accettare la sua offerta di divertirmi un po’. Ti dà fastidio quello che sto dicendo?  
Un pochino.  
Non intendevo raccontartelo nei dettagli. Solo per sommi capi.  
Fa niente. É colpa mia. Sono io che ho voluto che questa fosse la Notte della Verità a Castel Disperazione, e ora che abbiamo iniziato, tanto vale andare fino in fondo.  Proseguo, allora?  
Sì, continua la storia.  
Insomma, ebbi il mio divertimento, che non fu affatto divertente, ma dopo quindici anni che andavo a letto con la stessa donna, trovai affascinante toccare un altro corpo, sentire una carne diversa dalla carne che conoscevo. Fu la scoperta di quella notte. La novità di stare con un’ altra.  
Ti sei sentito in colpa?  
No. L’ho considerato un esperimento. Una lezione appresa, diciamo.  
Quindi la mia teoria è esatta. Se la nonna fosse stata a casa a New York, non avresti mai pagato quella ragazza per venire con te.  
In quel particolare caso, no. Ma nel nostro fallimento non c’era solo l’infedeltà, non c’erano solo le assenze di Sonia. Ci ho pensato per anni, e l’unica spiegazione un po’ sensata che abbia trovato è che ci fosse qualcosa di sbagliato in me stesso, un difetto nella macchina, una parte guasta che bloccava il congegno. Non sto parlando di debolezza morale. Parlo della mia mente, del mio quadro psicologico. Adesso sono un po’ migliorato, credo, con l’età il problema sembrò diminuire, ma allora, a trentacinque, trentotto, quarant’ anni, andavo in giro con la sensazione che la mia vita non mi fosse mai appartenuta davvero, di non avere mai davvero abitato me stesso, di non essere mai stato reale. E non essendo reale non capivo l’effetto che avevo sugli altri, il male che potevo far loro, le ferite che potevo infliggere a quelli che mi volevano bene. Sonia era la mia base, il mio unico legame solido col mondo. Stare con lei mi rendeva migliore di quanto veramente fossi - più sano, più forte, più equilibrato -, e siccome avevamo cominciato a vivere insieme quando eravamo così giovani, il difetto fu mascherato per tanti anni, e mi credetti come tutti gli altri. Ma non lo ero. Nel momento in cui iniziai ad allontanarmi da lei, la benda cadde dalla mia ferita e l’emorragia fu inarrestabile. Inseguivo altre donne perché sentivo di aver smarrito qualcosa e di dover rimediare al tempo perduto. Sto parlando di sesso, di nient’altro che sesso, ma uno non può spassarsela e comportarsi come mi comportavo io e sperare che il suo matrimonio regga. Ho voluto ingannare me stesso, convincendomi di sì.  
Non odiarti così, nonnino. In fondo lei ti ha rivoluto, no?  
Lo so ... però tutti quegli anni sprecati. Se ci ripenso mi sento male. Le mie scappatelle cretine, le avventurette. Che cosa mi hanno dato? Qualche emozione d’accatto, niente di importante - ma senza dubbio dissodarono il terreno per ciò che accadde dopo.  
Oona McNally.  
Sonia era così fiduciosa, e io così discreto, che la nostra vita a due continuò senza grandi turbamenti. Lei non sapeva e io non glielo dissi, né pensai mai, nemmeno per un attimo, di lasciarla. Poi, nel ‘74, scrissi una recensione favorevole per un romanzo d’esordio di una giovane scrittrice americana. Anticipazione, della suddetta O. M. Era un libro sbalorditivo, mi sembrava, originalissimo e scritto con maestria, un debutto forte, promettente. Della scrittrice non sapevo nulla - solo che aveva ventisei anni e viveva a New York. Lessi il libro nella bozza rilegata, e dato che negli anni Settanta le bozze non erano corredate della foto dell’autore, non sapevo nemmeno che faccia avesse. Più o meno quattro mesi dopo andai a un reading di poesia al Gotham Book Mart (senza Sonia, che era a casa con Miriam), e quando la lettura terminò e noi del pubblico ci avviammo per scendere la scala, mi sentii prendere per un braccio. Oona McNally. Voleva ringraziarmi della bella recensione che avevo scritto per il suo romanzo. Niente di più, ma fui così colpito dalla sua bellezza - alta e snella, una faccia incantevole, il secondo avvento di Virginia Blaine - che le chiesi di uscire a bere qualcosa. Quante volte avevo tradito Sonia fino ad allora? Tre o quattro storielle da una notte e una minirelazione di circa quindici giorni. Un catalogo non proprio tremendo rispetto a certi uomini, ma sufficiente per dirmi che ero capace di afferrare le occasioni al volo ogniqualvolta mi capitassero. Però questa ragazza era diversa. Non andavi a letto con Oona McNally per dirle addio la mattina dopo - no, di lei ti innamoravi, volevi che ti entrasse nella vita. Non intendo annoiarti con gli squallidi dettagli. Le cene clandestine, i lunghi colloqui nei bar fuorimano, la lenta seduzione reciproca. Non mi saltò subito fra le braccia. Dovetti inseguirla, conquistarmi la sua confidenza, persuaderla che per un uomo era possibile essere innamorato di due donne contemporaneamente. Vedi, a questo punto non avevo nessuna intenzione di lasciare Sonia. lo le volevo entrambe. La mia moglie da diciassette anni, la mia compagna, il mio più intimo amore, la madre della mia unica figlia ... e questa ragazza così intensa, dall’intelligenza fiammeggiante, questa nuova fascinazione erotica, una donna con cui finalmente potevo condividere il mio lavoro e parlare di libri e di idee. Cominciai a somigliare a un personaggio di un romanzo ottocentesco: solido matrimonio in una scatola, amante piena di vita in un’ altra scatola e io, il re dei giochi di prestigio, in piedi fra di esse, con la perizia e la scaltrezza di non aprire mai entrambe le scatole nello stesso momento. Per qualche mese riuscii a far funzionare tutto, e non ero più solo un mago, ma anche un funambolo, piroettavo sulla mia fune facendo ogni giorno la spola fra l’estasi e l’angoscia, sempre più sicuro che non sarei mai caduto.  
E poi?  
Dicembre del 1974, due giorni dopo Natale.  
Cadesti.  
Caddi. Quella sera Sonia aveva un recital di Schubert alla Ninety-second Street Y, e quando tornò mi disse che sapeva.  
E come lo scoprì?  
Non me l’ha voluto dire. Ma tutti i dati corrispondevano e mi sembrò inutile negarli. La cosa che ricordo meglio di quel colloquio è la sua compostezza - fino alla fine  
almeno, quando smise di parlare. Non pianse, non gridò, non diede in escandescenze, non mi prese a pugni e non lanciò oggetti per la stanza. Devi scegliere, disse. lo sono disposta a perdonarti, ma devi andare subito da quella ragazza e farla finita. Non so che cosa ci succederà, non so nemmeno se saremo più gli stessi. Ora come ora, la sensazione è che tu mi abbia piantato un coltello nel petto e mi abbia strappato il cuore. Mi hai uccisa, August. Quella che stai guardando è una donna morta, e l’unica ragione per cui fingerò di essere viva è che Miriam ha bisogno di sua madre. Ti ho sempre amato, ti ho sempre creduto un uomo con un’ anima grande, e invece scopro che sei uno stronzo, un bugiardo come tutti gli altri. Come hai potuto, August? .. Qui la voce si incrinò e Sonia si prese la faccia tra le mani e scoppiò a piangere. Mi sedetti al suo fianco sul divano e le misi un braccio attorno alle spalle, ma mi respinse. Non toccarmi, mi disse. Non ti avvicinare più a me fino a quando non avrai parlato con quella ragazza. Se non torni stasera, non perdere tempo a tornare ... mai più.  
E tu tornasti?  
Temo di no.  
Questa storia sta diventando piuttosto pesante, sbaglio?  
Se vuoi mi fermo qui. Possiamo sempre cambiare argomentò.  
No, continua. Però facciamo un salto, va bene? È inutile che mi parli del tuo matrimonio con Oona. So che l’amavi, so che è stato un periodo turbolento, e so che ti lasciò per quel pittore tedesco. Klaus Vattelapesca.  
Bremen.  
Klaus Bremen. So che è stata durissima, so che hai passato un brutto periodo.  
Il periodo alcolico. Soprattutto whiskey scozzese, puro malto.  
E non parlarmi neanche dei tuoi problemi con mia madre. Me ne ha già parlato lei. Sono passati, e non c’è motivo di tornarci sopra.  
Se lo dici tu.  
L’unica cosa che voglio sentire adesso è come tu e la nonna vi rimetteste insieme.  
È lei il tema centrale, giusto?  
Per forza. E quella che non c’è più.  
Nove anni divisi. Ma non nutrii mai del malanimo verso di lei. Rimpianto e rimorso, disprezzo di me stesso, il veleno corrosivo dell’incertezza: questi furono gli elementi che minarono i miei anni con Oona. Sonia era troppo parte di me, e anche dopo il divorzio lo rimase, nella mia testa continuava a parlarmi - l’assente onnipresente, come a volte la definisco adesso. Sì, eravamo in contatto, dovevamo esserlo per via di Miriam, i problemi legati all’affido condiviso, gli accordi per i fine settimana, le vacanze estive, gli eventi del liceo e dell’università, e mentre lentamente ci adattavamo alla nuova situazione sentii la sua rabbia contro di me trasformarsi in una specie di pietà. Povero August, il re dei fessi. Ebbe degli uomini. Questo è ovvio, n’est ce pas? Aveva solo quarant’anni quando la lasciai ed era ancora fantastica, la stessa splendida ragazza che era sempre stata, e una delle sue relazioni diventò abbastanza seria, credo, anche se probabilmente su questo tua madre ne sa più di me. Quando Oona si involò col suo pittore tedesco, per me fu una tragedia. La tua fine allusione a un brutto periodo non è neanche la pallida ombra di quanto è stato brutto. Ti prometto che non mi dilungherò su quei giorni, ma neanche allora, in un periodo in cui ero completamente solo, mi passò per la mente di rivolgermi a Sonia. Era il 1981. Nell’82, un paio di mesi prima delle nozze dei tuoi genitori, lei mi scrisse una lettera. Non parlava di noi, ma di tua madre: era preoccupata perché Miriam era troppo giovane per tuffarsi nel matrimonio, rischiava di fare lo stesso errore fatto da noi a vent’anni. Profetica, certo, però tua nonna ha sempre avuto fiuto per queste cose. Le risposi dicendo che probabilmente aveva ragione, ma comunque non avremmo potuto farci niente. Non ci si può impicciare nei sentimenti altrui, tantomeno in quelli dei propri figli, e la verità è che i figli non imparano nulla dagli sbagli dei genitori. Dobbiamo lasciarli in pace, che si sbattano nel mondo per fare i loro, di sbagli. Questa fu la mia risposta, e poi conclusi la lettera con una frase un po’ ritrita: L’unica cosa che possiamo fare è sperare in bene. Il giorno delle nozze Sonia mi si avvicinò e disse: lo spero in bene. Se devo individuare il momento d’inizio della nostra riconciliazione, sceglierei quello, l’istante in cui tua nonna mi disse quelle parole. Era un giorno importante per tutti e due - le nozze di nostra figlia - e c’era molta emozione nell’aria: felicità, ansia, nostalgia, un ventaglio completo di sentimenti ... e nessuno di noi era propenso a serbare rancore. Ai tempi ero ancora distrutto, lungi dall’essermi ripreso dalla catastrofe di Oona, ma anche Sonia stava passando un periodo difficile. Quell’anno aveva smesso di cantare, e come scoprii in seguito da tua madre (Sonia non mi svelò mai i segreti della sua vita privata), si era lasciata di recente con un uomo. Così, oltre a tutto il resto, quel giorno eravamo entrambi giù di corda, e fu piuttosto consolante rivederci. Due reduci che hanno combattuto nella stessa guerra e osservano la loro figlia marciare verso una nuova guerra, tutta sua. Ballammo insieme, parlammo dei vecchi tempi, e per qualche secondo ci tenemmo addirittura per mano. Poi la festa fini e tutti tornammo a casa, ma ricordo che una volta a New York pensai che ritrovarmi con lei quel giorno fosse stata la cosa più bella che mi era successa da un sacco di tempo. Non presi mai una decisione cosciente in merito, però circa un mese dopo una mattina mi svegliai e capii che volevo rivederla. No, di più. Volevo riconquistarla. Sapevo di avere possibilità vicine allo zero, ma sapevo anche di dover provare. Così telefonai.  
Su due piedi? Hai semplicemente preso il telefono e l’hai chiamata?  
Non senza trepidazione. Non senza un groppo alla gola e un nodo allo stomaco. Fu una replica esatta della mia prima telefonata - ventisette anni prima. Ero tornato ventenne - un ragazzino tremante e malato d’amore che prende il coraggio a due mani per telefonare alla ragazza dei suoi sogni e chiederle di uscire con lui. Devo essere rimasto a fissare il telefono per una decina di minuti, ma quando finalmente feci il numero Sonia non era in casa. Scattò la segreteria telefonica, e il suono della sua voce mi scombussolò al punto che riappesi. Calma, mi dissi, ti stai comportando da idiota; quindi rifeci il numero e lasciai un messaggio. Niente di complicato. Dissi solo che volevo parlarle di una cosa, che speravo stesse bene e che mi avrebbe trovato in casa tutto il giorno.  
Ti richiamò - o dovesti riprovare?  
Richiamò. Ma questo non dimostrava nulla. Lei non aveva idea di cosa volessi dirle. Per quel che ne sapeva, poteva trattarsi di Miriam - o di qualche banale cosa pratica. Ad ogni modo la sua voce sembrava calma, un po’ riservata, ma non irrigidita. Le dissi che avevo pensato a lei e volevo sapere come stava. Mah, tiro avanti, mi rispose, o qualcosa del genere. É stato bello vederti alla festa, le dissi. Sì, rispose lei, era stata una giornata stupenda, si era sentita meravigliosamente bene. Facemmo un po’ di tira e molla, con qualche titubanza da entrambe le parti, educati e prudenti, senza mai osare sbilanciarci. Poi buttai la domanda: le andava di cenare con me una sera di quella settimana? Cenare? Mentre ripeteva la parola, sentii l’incredulità nella sua voce. Seguì una lunga pausa e poi rispose che non era sicura, avrebbe dovuto pensarci. Non insistetti. L’importante era non calcare la mano. La conoscevo troppo bene, e se mi fossi messo a spingere, con ogni probabilità lei si sarebbe messa a respingere. Lasciammo la cosa a questo punto. Le dissi stammi bene e ci salutammo.  
Non molto promettente, come inizio.  
No. Ma avrebbe potuto andare peggio. Lei non aveva respinto l’invito, solo non sapeva se accettarlo o meno. Mezz’ora dopo il telefono squillò di nuovo. Certo che vengo a cena, disse Sonia. Si scusò per avere esitato, ma l’avevo colta alla sprovvista, ed era rimasta lì. Così prendemmo accordi per la cena, e fu l’inizio di un lungo e delicato balletto, un minuetto di desiderio, paura e capitolazione durato più di un anno e mezzo. Tanto ci volle prima che tornassimo a vivere insieme, ma anche se non ci lasciammo più per altri ventun anni Sonia non volle mai risposarmi. Non so se lo sapevi. Tua nonna e io vivemmo nel peccato fino al giorno della sua morte. Diceva che il matrimonio ci avrebbe portato sfortuna. Ci avevamo già provato una volta, e vedi cosa ci era successo, quindi perché non scegliere un’ altra tattica? Con tutta la fatica che avevo fatto per riconquistarla, fui ben felice di accettare le sue regole. Ogni anno, il giorno del suo compleanno le chiedevo di sposarmi, ma quelle dichiarazioni non erano che messaggi in codice, segnali che poteva di nuovo fidarsi di me, che poteva continuare a fidarsi di me fino alla fine. C’erano tante cose in lei che non capivo, tante cose che lei non capiva in se stessa. Quel secondo corteggiamento fu un’impresa, un uomo che fa la corte alla sua ex moglie, e l’ex moglie che si sottrae, senza mollare un’unghia, senza sapere quello che voleva, facendo la spola fra tentazione e ripulsa fino al cedimento finale. Sei mesi ci vollero prima che andassimo a letto insieme. La prima volta che facemmo l’amore alla fine lei rise, si abbandonò a una delle sue ridarelle scatenate e durò casi a lungo che cominciai ad avere paura. La seconda volta pianse, continuò a singhiozzare nel cuscino per più di un’ora. Tante cose erano cambiate per lei. La voce aveva perso quella qualità indefinibile che la rendeva la sua voce, il dolore fragile e cristallino di un sentimento senza freni, il dio nascosto che aveva parlato attraverso di lei - tutto ciò era sparito, ormai, e lei lo sapeva, ma rinunciare alla carriera era stato un duro colpo, e stava ancora cercando di riprendersi. Ora insegnava, dava lezioni private di canto nel suo appartamento, e spesso non aveva voglia di vedermi. Altre volte mi telefonava in piena crisi di disperazione: Vieni subito, devo vederti adesso. Fummo di nuovo amanti, probabilmente più vicini l’una all’altro di quanto non fossimo mai stati la prima volta, ma lei preferiva tenere le nostre vite separate. lo avrei voluto di più, però lei non mollava. Quella era la linea che non intendeva superare ... e poi, dopo un anno e mezzo, successe qualcosa, e improvvisamente cambiò tutto.  
Cosa successe?  
Tu.  
Io? Cosa vuol dire, io?  
Che sei nata. La nonna e io prendemmo il treno per New Haven ed eravamo li quando tua madre iniziò il travaglio. Non voglio esagerare o sembrarti troppo sentimentale, ma la prima volta che Sonia ti tenne fra le braccia guardò verso di me, e quando vidi la sua faccia - qui mi impappino, sto cercando le parole giuste -, la sua faccia ... era illuminata. Aveva le lacrime sulle guance. Sorrideva, sorrideva e piangeva, e sembrava come colmata di luce. Qualche ora dopo, tornati in albergo, eravamo a letto nel buio. Lei mi prese la mano e disse: August, voglio che tu venga a vivere con me. Appena torniamo a New York voglio che tu venga a stare a casa mia e resti per sempre con me.  
E lo hai fatto.  
Tu, lo hai fatto. Sei stata tu quella che ci ha rimessi insieme.  
Be’, almeno nella vita una cosa sono riuscita a farla. Peccato fossi al mondo solo da cinque minuti e non capissi cosa stavo facendo.  
Fu la prima di molte grandi imprese, e tante altre ne seguiranno.  
Perché la vita è così orribile, nonnino?  
Perché lo è. Lo è, e basta.  
Tutti quei brutti momenti fra te e la nonna. Tutti i brutti momenti fra mia madre e mio padre. Ma almeno voi vi siete amati, e avete avuto una seconda occasione. Almeno mia madre amava abbastanza mio padre da sposarlo. lo non ho mai amato nessuno.  
Ma cosa dici ?  
Ho cercato di amare Titus, però invano. Lui mi amava, ma io non riuscivo a riamarlo. Perché credi che si sia fatto assumere da quella ditta del cavolo e sia partito?  
Per i soldi. Con un anno di contratto avrebbe guadagnato quasi centomila dollari. É un mucchio di denaro per un ragazzo poco più che ventenne. Ho fatto una lunga chiacchierata con lui prima che partisse. Sapeva di rischiare, tua pensava che ne valesse la pena.  
E per me che è andato via. Non capisci? Gli ho detto che non volevo più vederlo, casi è partito e si è fatto ammazzare. É morto per colpa mia.  
Non devi pensare questo. É morto perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato.  
Sono stata io a metterlo là.  
Tu non c’entri. Smettila di flagellarti, Katya. È durato abbastanza.  
Non posso.  
Ormai è da nove mesi che sei arenata qui, e non ti fa per niente bene. lo dico che è ora di cambiare.  
Non voglio che cambi nulla.  
Hai mai pensato di tornare a scuola in autunno? Ogni tanto. Non sono sicura di essere pronta. Mancano ancora quattro mesi.  
Lo so. Ma se voglio tornare devo comunicarglielo entro la prossima settimana.  
E comunicaglielo. Se poi non te la senti puoi sempre cambiare idea all’ultimo momento.  
Vedremo.  
Intanto, qui c’è da darsi una scrollatina. Non ti interessa un viaggio, come idea?  
Un viaggio dove?  
Dove vuoi tu, della durata che vuoi tu.  
E la mamma? Non possiamo semplicemente lasciarla sola.  
Il mese prossimo termina le lezioni. Potremmo andare insieme, tutti e tre.  
Ma sta lavorando al libro. Voleva finirlo quest’estate. Può scrivere per strada.  
Strada? Non puoi girare in macchina. La gamba ti farebbe troppo male.  
No, io pensavo a un mezzo come un camper. Non ho idea di quanto costino quegli aggeggi, ma ho una bella sommetta in banca. I proventi della vendita dell’appartamento di New York. Sono sicuro che potrei permettermelo. Se non nuovo, usato.  
Cosa stai dicendo? Che dovremmo girare noi tre in camper per tutta l’estate?  
Sì. Miriam lavora al libro, e tu e io tutti i giorni partiamo per una ricerca.  
Una ricerca di che?  
Non so. Qualsiasi cosa. Il miglior hamburger d’America. Facciamo un elenco dei ristoranti di hamburger più buoni del paese e poi giriamo dall’uno all’altro e li classifichiamo in base a un complesso elenco di criteri. Gusto, sugosità, dimensione, qualità del pane eccetera.  
Se mangi hamburger ogni giorno, probabilmente ti verrà un infarto.  
Pesce, allora. Cercheremo il miglior ristorante di pesce dei quarantotto stati confinanti.  
Ti stai arrampicando sugli specchi.  
No, no. E come faccio ad arrampicarmi? Ho la gamba zoppa.  
Un camper sarebbe un po’ troppo affollato. E comunque, dimentichi una cosa importante.  
Che cosa?  
Tu russi.  
Ah. Sì, è vero, russo. Vabbè, scartiamo il camper. E se andassimo a Parigi? Potresti rivedere i tuoi cugini, parlare un po’ francese e imparare a osservare la vita da una nuova prospettiva.  
No, grazie. Preferisco star qui e guardare i miei film. Lo sai che stanno diventando una droga? Secondo me dovremmo limitarci, forse anche smettere per un po’.  
Non posso. Ho bisogno delle immagini. Devo distrarmi guardando altre cose.  Altre cose? Non capisco. Altre rispetto a che?  
Non fare lo zuccone.  
Sono tonto, lo so, ma non capisco proprio.  
Titus.  
Ma quel video lo abbiamo visto una volta sola... più di nove mesi fa.  
Lo hai dimenticato?  
No, figurati. Ci ripenso venti volte al giorno.  
Questo è il fatto. Se non lo avessi visto tutto sarebbe diverso. Gli uomini vanno in guerra e a volte muoiono. Ti arriva un telegramma o una telefonata e qualcuno ti dice che tuo figlio, o tuo, marito, o il tuo ex fidanzato, è rimasto ucciso. Ma non vedi come è successo. Ti crei delle immagini nella mente, però non sai com’è andata davvero. E anche se qualcuno che c’era te lo racconta, quello che ti resta sono solo parole, e le parole sono vaghe, aperte alle interpretazioni. Noi abbiamo visto. Abbiamo visto come lo hanno ucciso, e se non copro quel filmato con altre immagini è la sola cosa che vedo. Non riesco a liberarmene.  
Non ce ne libereremo mai. Devi accettarlo, Katya. Accettalo e cerca di tornare a vivere.  
Sto facendo del mio meglio.  
Ma se non hai mosso un muscolo in quasi un anno! Ci sono altre distrazioni, oltre a guardare film per tutto il giorno. Come il lavoro. Un progetto, qualcosa in cui buttarti.  
Per esempio?  
Non ridere, ma dopo aver guardato tutti quei film con te ho pensato che forse dovremmo scriverne uno noi.  
Non sono una scrittrice. Non so inventare storie Che cosa credi che abbia fatto io, stanotte?  
Non so. Pensato. Ricordato.  
Il meno possibile. Sto meglio se riservo i pensieri e i ricordi alle ore diurne. Invece, per gran parte del tempo mi sono raccontato una storia. Quando non riesco a dormire faccio casi. Resto disteso al buio e mi raccontò storie. Ormai ne avrò qualche decina. Potremmo trasformarle in film. Coautori, cocreatori. Perché non inventare immagini nostre, al posto di guardare quelle degli altri?  
Che genere di storie?  
Tutti i generi. Farse, tragedie, continuazioni di libri che mi sono piaciuti, drammi storici, ogni tipo di vicenda che puoi immaginare. Ma se accetti la mia offerta, credo che sia meglio iniziare con una commedia.  
In questo periodo non ho tanta voglia di ridere. Perfetto. Proprio per questo dovremmo lavorare a una cosa leggera - un’inezia, ma la più futile, frivola e divertente che si può. Se ci concentriamo a fondo su questo obiettivo potremmo divertirci.  
Chi ha voglia di divertirsi?  
Io. E anche tu, tesoro mio. Siamo diventati una coppia di lugubri, io e te, e quella che sto proponendo è una cura, un rimedio per scacciare la malinconia.  



Mi lancio in una storia che avevo abbozzato la settimana scorsa - le romantiche avventure di Punto e Virgola, un brizzolato cuoco di pasti veloci e una cameriera grassottella che lavorano in una tavola calda a New York -, ma quando abbiamo iniziato da meno di cinque minuti, Katya si addormenta e la nostra chiacchierata ha termine. Ascolto il suo respiro lento, regolare, contento che finalmente sia riuscita a staccare la spina, e mi domando che ore saranno. Un bel po’ dopo le quattro, probabilmente, forse anche le cinque. più o meno un’ ora, prima dell’alba, quel momento indecifrabile in cui il nero comincia ad affievolirsi e il vireo che abita sull’albero vicino alla mia finestra fa il primo cinguettio della giornata. Mentre rimugino sulle cose che mi ha detto Katya, pian piano i miei pensieri vanno a Titus e in breve mi ritrovo dentro la sua storia, a rivivere il disastro che ho lottato tutta la notte per allontanare.  
Katya si dà la colpa di quello che è successo, legando si falsamente alla catena di causa-effetto che ha portato infine alla sua uccisione. Uno non deve lasciarsi andare a pensarla così, ma se accettassi la sua logica errata anche Sonia e io saremmo responsabili, in quanto fummo noi a presentarla a Titus. Cena del Ringraziamento di cinque anni fa, appena dopo il divorzio dei genitori di lei. Lei e Miriam scesero a New York in macchina per passare il weekend lungo con noi, e il giovedì Sonia e io cucinammo il tacchino per dodici persone. Fra gli ospiti c’erano Titus e i suoi genitori, David Small ed Elizabeth Blackman, entrambi pittori, ed entrambi nostri amici di vecchia data. Fra il diciannovenne Titus e la diciottenne Katya sembrò scattare la molla. Titus è morto perché si era innamorato di nostra nipote? Seguendo quel pensiero fino in fondo, potresti anche incolpare i suoi genitori. Se David e Liz non si fossero conosciuti, Titus non sarebbe mai nato.  
Era un ragazzo d’ingegno, pensavo, un ragazzo generoso e indisciplinato con la chioma rossa ribelle, le gambe lunghe e i piedoni. Lo avevo conosciuto quando aveva quattro anni, e dato che Sonia e io andavamo a trovare abbastanza spesso i suoi genitori, lui si sentiva a suo agio in nostra compagnia, non ci trattava tanto da amici di famiglia quanto da vice-zia e vice-zio. A me piaceva perché leggeva i libri, un raro caso di ragazzino affamato di letteratura, e quando - a metà dell’adolescenza - cominciò a scrivere dei racconti, me li mandava e mi chiedeva un parere. Non erano granché, ma trovavo toccante che si rivolgesse proprio a me per dei consigli, e dopo un po’ iniziò a venire a casa nostra circa una volta al mese a parlare dei suoi ultimi tentativi. lo gli suggerivo delle letture che lui ingurgitava diligentemente con una specie di entusiasmo brancolante, indiscriminato. Pian piano il suo lavoro migliorò un po’, ma ogni mese era diverso, recava i segni di qualunque scrittore stesse leggendo in quel momento: una cosa normale nei principianti, un segno di crescita. Lampi di talento cominciarono a balenare nella sua prosa ricercata e pletorica, ma era ancora presto per giudicare se ci fosse davvero qualcosa di promettente in lui. Quando era all’ultimo anno di liceo e annunciò di voler rimanere in città e fare l’università alla Columbia, gli scrissi una lettera di raccomandazione. Non so se sia servita, ma la mia alma mater lo accettò e le visite mensili continuarono.  
Era al secondo anno quando partecipò a quella cena del Ringraziamento e conobbe Katya. Pensai che formavano una coppia strana e avvincente. Titus dinoccolato, sorridente, le braccia sempre in moto, e la figlia di mia figlia piccola, snella e bruna. La Sarah Lawrence aveva sede a Bronxville, solo poche fermate di treno in direzione centro, e i primi anni di università Katya era spessissimo da noi, in pratica gran parte dei fine settimana, defilandosi dalla vita del dormitorio in cambio di un comodo letto a casa dei nonni e delle notti bianche di New York. Ora dice che non amava Titus, ma negli anni in cui stavano insieme facemmo decine di cene a casa nostra, perlopiù noi quattro soli, e non notai fra loro mai nient’ altro che affetto. Forse ero cieco. Forse davo per scontate troppe cose, però a parte sporadici dissensi intellettuali e una rottura durata meno di un mese mi sembravano una coppia felice, affiatata. Quando Titus veniva a trovarmi da solo non alludeva mai a problemi con Katya, e Titus era chiacchierone, un tipo che diceva tutto quello che gli passava per la testa: se Katya gli avesse detto arrivederci e grazie, me l’avrebbe di sicuro riferito. O forse no. Forse non lo conoscevo tanto bene come pensavo.  
Quando cominciò a parlare di andare a lavorare in Iraq, i suoi genitori precipitarono in una spirale di panico. David, di solito il più dolce e tollerante degli uomini, perse la testa: disse a suo figlio che era un disturbato patologico, un dilettante allo sbaraglio, un pazzo suicida. Liz pianse, si mise a letto e iniziò a prendere massicce dosi di tranquillanti. Questo a febbraio dell’anno scorso. Sonia era morta nel novembre precedente e io ero in condizioni disastrose, ogni sera trovavo l’oblio nel bere, ero inadatto ai contatti umani, fuori di me dal dolore - ma David era così sconvolto che mi chiamò lo stesso, chiedendomi se me la sentivo di provare a richiamare il ragazzo al buonsenso. Non potei rifiutare. Conoscevo Titus da troppo tempo, e in realtà anch’io ero preoccupato per lui. Così raccolsi le mie forze e feci il possibile - che si rivelò niente, niente del tutto.  
Da quando Sonia si era ammalata avevo perso i contatti con Titus, ed era come se negli ultimi mesi fosse cambiato. L’ottimista loquace e sprovveduto si era fatto ombroso, quasi ostile, e capii subito che non sarei mai riuscito a farlo recedere dalla sua decisione. Tuttavia credo che non gli dispiacque vedermi, e quando parlò di Sonia e della sua morte, nella sua voce c’era pietà autentica. Lo ringraziai per le belle parole, riempii due bicchieri di scotch liscio e ci trasferimmo nel soggiorno dove tanti colloqui avevamo avuto in passato.  
Non è mia intenzione sedermi qui a litigare con te, cominciai. Ma sono un po’ confuso, e mi piacerebbe che mi chiarissi alcune cose. D’accordo?  
D’accordo, rispose Titus. Non c’è problema.  
Ormai la guerra dura da quasi tre anni. Quando iniziarono l’invasione mi dicesti che eri contrario. Credo che tu abbia usato la parola inorridito. Dicevi che era una guerra fasulla, un imbroglio, il più grave errore politico della storia americana. Ho ragione, o ti confondo con un altro?  
Hai ragionissima. La pensavo esattamente così.  
Di recente non ci siamo visti molto, ma l’ultima volta che sei venuto qui ricordo che mi dicesti che Bush sarebbe stato bene in galera - insieme a Cheney, Rumsfeld, e a tutta la banda di fascisti corrotti a capo del paese. Quando è stato? Otto mesi fa? 
Dieci?  
La scorsa primavera. Aprile o maggio, non ricordo.  
Hai cambiato opinione da allora?  
No.  
Nemmeno in parte?  
Nemmeno un po’.  
Ma allora, che accidenti ti frulla di andare in Iraq? Perché prendere parte a una guerra che odi?  
Non ci vado per aiutare l’America. Ci vado per me stesso.  
I soldi. È per quello? Titus Small, mercenario disponibile a tutto.  
Non sono un mercenario. I mercenari portano armi e uccidono. lo andrò a guidare un camion, tutto qui. A trasportare rifornimenti da un posto all’altro. Lenzuola e asciugamani, sapone, barrette di cioccolato, biancheria sporca. Un lavoro di merda, ma la paga è stratosferica. BRK - casi si chiama la ditta. Firmi per un anno e torni a casa con novanta o centomila dollari in tasca.  
Ma casi di fatto sosterrai una cosa a cui ti opponi. Come puoi giustificarlo con te stesso?  
Io la vedo diversamente. Per me non è una decisione morale. Si tratta di imparare qualcosa, avviare un nuovo genere di formazione. So quanto è orrendo e pericoloso laggiù, ma voglio andarci proprio per questo. più è orrendo, e meglio è.  
Non ti capisco.  
Per tutta la vita ho voluto fare lo scrittore. Tu lo sai, August. Ti ho mostrato per anni i miei squallidi raccontini, e tu sei stato così buono da leggerli e darmi il tuo parere. Mi hai incoraggiato, e te ne sono davvero grato, ma tutti e due sappiamo che non valgono niente. La mia roba è arida, pesante e monocorde. Ogni parola che ho scritto fin qui è merda. Ho finito l’università da più di un anno e passo i giorni seduto in un ufficio a rispondere al telefono per un agente letterario. Che vita è? Così tranquilla, cazzo, così monotona. Non la sopporto più. lo non so niente, August. lo non ho fatto niente. Per questo vado via. Per sperimentare qualcosa che non riguarda me stesso. Per ritrovarmi fuori, nel grande e marcio mondo, e scoprire cosa si sente a essere parte della storia.  
Andare in guerra non ti farà diventare scrittore. Ragioni come uno scolaretto, Titus. Ben che vada, tornerai con la testa piena di ricordi insopportabili. E se va male non tornerai affatto.  
Esiste questo rischio. Ma devo correrlo. Devo cambiare la mia vita... subito.  
Due settimane dopo quel colloquio salii su una Toyota Corolla a nolo e partii per il Vermont per stare un po’ da Miriam. Il viaggio terminò con l’incidente per cui finii all’ospedale, e quando mi dimisero Titus era già in Iraq. Non ci fu modo di salutarlo o augurargli buona fortuna o pregarlo un’ultima volta di tornare sulla sua decisione. Che razza di romanticume ... che tiritere infantili... ma il ragazzo era disperato per le sue ambizioni spezzate, si trovava di fronte alla realtà di non aver le capacità per fare l’unica cosa che aveva sempre voluto fare, e fuggì in un tentativo avventato di redimersi agli occhi di se stesso.  
Ai primi di aprile mi trasferii da Miriam. Tre mesi dopo Katya telefonò da New York, singhiozzando; Accendete la televisione, disse, e al telegiornale della sera c’era Titus seduto su una sedia in una stanza anonima, con le pareti in blocchi di calcestruzzo, circondato da quattro uomini incappucciati armati di fucile. La qualità del video era scadente, ed era difficile capire bene l’espressione sul volto di Titus. Sembrava più attonito che terrorizzato, pensai, ma probabilmente lo avevano picchiato, perché intravidi sulla sua fronte quello che sembrava un grosso livido. Non c’era il sonoro, ma fuoricampo il conduttore stava leggendo un testo che più o meno diceva: Titus Small, ventitre anni, di New York, camionista della ditta appaltatrice BRK, è stato rapito stamattina mentre guidava in direzione Baghdad. I rapitori, che non si sono ancora identificati come nessuna organizzazione terroristica nota, chiedono per il suo rilascio dieci milioni di dollari oltre alt immediata cessazione di ogni attività in Iraq da parte della BRK. Hanno aggiunto che qualora tali richieste non siano soddisfatte entro settantadue ore dalla cattura l’ostaggio verrà giustiziato. Il portavoce della BRK George Reynolds ha dichiarato che la sua compagnia sta facendo tutto quanto è in suo potere per salvare il signor Small.  
L’indomani Katya arrivò a casa di sua madre, e due sere dopo accendemmo il suo portatile e guardammo il secondo e ultimo video girato dai rapitori, quello visibile solo su Internet. Sapevamo già che Titus era morto. La BRK aveva offerto una cifra notevole per il suo riscatto, ma come prevedibile (perché pensare all’impensabile, quando ci sono in ballo dei profitti?) rifiutarono di chiudere le loro operazioni in Iraq. La sentenza fu eseguita come preannunciato, settantadue ore esatte dopo che Titus era stato rapito dal camion e gettato in quella stanza con le pareti di calcestruzzo. Non so ancora perché noi tre ci siamo sentiti in obbligo di guardare il filmato - come se fosse un debito, un dovere sacro. Lo sapevamo tutti che ci avrebbe ossessionato per il resto della vita, eppure sentivamo chissà come di dover stare vicini a Titus, di tenere gli occhi aperti sull’orrore per amor suo, di inspirarlo in noi e tenercelo dentro - in noi, quella morte sventurata e solitaria, in noi, la crudeltà che gli avevano inflitto in quegli ultimi momenti, in noi e nessun altro, per non abbandonarlo al buio senza pietà che lo aveva inghiottito.  



Per fortuna non c’è sonoro.  
Per fortuna gli hanno coperto la testa con un cappuccio. É seduto su una sedia con le mani legate dietro la schiena, immobile, e non fa alcun tentativo di liberarsi. I quattro uomini del video precedente sono in piedi attorno a lui, tre armati di fucile, il quarto con una scure nella mano destra. Senza nessun segnale, nessun gesto degli altri, all’improvviso il quarto abbatte la lama sul collo di Titus. Titus ha uno scatto verso destra, la parte superiore del suo corpo si dimena e poi il sangue comincia a filtrare dal cappuccio. Un altro colpo, questa volta da dietro. La testa di Titus dondola in avanti e ora il sangue lo inonda dappertutto. Altri colpi: da dietro e da davanti, da destra e da sinistra, la lama smussata che infierisce ben oltre il momento della morte.  
Uno degli uomini posa il fucile e afferra saldamente tra le mani la testa di Titus per tenerla ferma mentre l’uomo con la scure continua il suo lavoro. Entrambi sono coperti di sangue.  
Quando infine la testa è recisa dal corpo, il boia lascia cadere la scure sul pavimento. L’altro leva il cappuccio dalla testa di Titus e poi un terzo afferra i lunghi capelli rossi di Titus e avvicina la testa alla videocamera. Il sangue, gocciola dappertutto. Titus non è più veramente umano. É diventato l’idea di una persona, una persona e non una persona, una cosa morta sanguinante: une nature morte.  
L’uomo che tiene la testa si allontana arretrando dalla videocamera e un quarto si avvicina con un coltello. Lavorando con velocità pari alla precisione, cava gli occhi al ragazzo, uno dopo l’altro.  
La videocamera continua a girare ancora qualche secondo e poi lo schermo è nero.  Impossibile sapere quanto sia durato. Un quarto d’ora. Mille anni.  



Sento il ticchettio della sveglia sul pavimento. Per la prima volta dopo ore chiudo gli occhi chiedendomi se, alla fine, non sarà possibile dormire. Katya si muove, fa un piccolo gemito e si gira su un fianco. Mi vien voglia di metterle una mano sulla schiena e carezzarla per qualche secondo, ma rinuncio. In questa casa il sonno è merce così rara che non voglio rischiare di disturbarla. Stelle invisibili, cielo invisibile, un mondo invisibile. Vedo le mani di Sonia sulla tastiera. Sta suonando un pezzo di Haydn, ma non sento nulla, le note non fanno rumore, e poi ruota sullo sgabello e Miriam le corre fra le braccia, una Miriam di tre anni, un’immagine da un passato lontano, forse reale, forse immaginario, ormai faccio fatica a scorgere la differenza. Il reale e l’immaginario sono tutt’uno. I pensieri sono reali, anche i pensieri di cose irreali. Stelle invisibili, cielo invisibile. Il rumore del mio respiro, il rumore del respiro di Katya. Le preghiere prima di andare a letto, i rituali dell’infanzia, la solennità dell’infanzia. Se dovessi morire prima di svegliarmi. Tutto procede casi in fretta. Ieri un bambino, oggi un vecchio, e quanti battiti del cuore da allora a oggi, quanti respiri, quante parole dette e sentite ... Che mi tocchi, qualcuno. Che mi metta la mano sulla faccia e mi parli ...  



Non ne sono sicuro, ma credo di essermi appisolato per un po’. Non più di qualche minuto, forse solo secondi, ma all’improvviso mi ha interrotto qualcosa, un rumore, credo, si, anzi alcuni rumori, bussavano alla porta, un bussare debole e insistente, poi apro gli occhi e dico a Miriam di entrare. Quando la porta si apre vedo il suo volto con discreta chiarezza e capisco che non è più notte ormai, che sta albeggiando. 
Adesso il mondo nella mia stanza è grigio.  
Miriam si è già vestita (blue jeans e maglione bianco abbondante), e nel momento in cui si chiude la porta alle spalle il vireo cinguetta per la prima volta nella giornata.  
Che sollievo, sussurra lei guardando Katya che dorme. Ho dato un’occhiata, e quando ho visto che non era a letto mi sono spaventata.  
É scesa qualche ora fa, le sussurro. Un’altra nottataccia, e così siamo rimasti stesi al buio a parlare.  
Miriam si avvicina alletto, mi bacia su una guancia e si siede accanto. Hai fame?, mi domanda.  
Un po’.  
Vuoi che faccia il caffè?  
No, rimani un po’ qui a parlare con me. C’è una cosa che devo sapere.  
Su che?  
Su Katya e Titus. Lei mi ha detto che avevano rotto prima che partisse. É vero? Sembra convinta che se ne sia andato per colpa sua.  
Avevi già tanti pensieri, e non ho voluto darti questo cruccio. Il cancro della mamma... tutti quei mesi... e poi l’incidente. Però si, si erano lasciati.  
Quando?  
Fammi pensare ... tu hai compiuto settant’anni a febbraio, febbraio del 2005. Quando la mamma era già ammalata. É successo qualche mese dopo. A fine primavera, inizio estate.  
Ma Titus non è partito fino al febbraio successivo, nel 2006.  
Otto o nove mesi dopo la loro rottura.  
E quindi Katya ha torto. Non è andato in Iraq per causa sua.  
Sta punendo se stessa. Tutto qui. Si attribuisce delle colpe in quello che gli è successo ma in realtà lei non c’entra nulla. Gli hai parlato prima che partisse e lui ti ha spiegato le sue ragioni.  
E non ha mai nominato Katya. Neanche una volta.  
Vedi?  
Adesso sto un po’ meglio. E anche un po’ peggio.  
Ne sta uscendo. Lo capisco a naso. Pian pianino, pianissimo. Il passo successivo sarà convincerla a tornare a scuola.  
Dice che ci sta pensando.  
Solo due mesi fa non se ne parlava neppure.  
Prendo la mano di Miriam e le dico: Per poco non mi scordavo. Stanotte ho letto un po’ del tuo manoscritto ...  
E allora?  
Secondo me ci siamo. Niente più dubbi, chiaro? Stai facendo un lavoro coi fiocchi.  
Sei sicuro?  
Ho raccontato un sacco di balle in vita mia, ma sui libri non mento mai.  
Miriam sorride, consapevole delle duecentocinquantanove allusioni segrete sepolte in questa frase, e io ricambio il sorriso. Continua a sorridere, le dico. Sei bellissima quando sorridi.  
Solo quando sorrido?  
Sempre. Ogni minuto di ogni giorno.  
Un’ altra frottola delle tue, ma penso che la berrò. Mi dà un buffetto sulla guancia e chiede: Caffè e pane tostato?  
No, oggi no. Penso che stamattina dovremmo uscire tutti e tre. Uova strapazzate, bacon, pan fritto, frittelle, non ci si fa mancare niente.  
Colazione del contadino.  
Esatto, colazione del contadino.  
Ti prendo la stampella, dice, alzandosi e andando verso il gancio nel muro vicino al mio letto.  
Per un momento la seguo con gli occhi e poi dico: Rose Hawthorne non valeva molto come poetessa, vero?  
No. Francamente, non era granché.  
Però c’è un verso... un grande verso. Credo non sia inferiore a nient’ altro che abbia mai letto.  
E quale?, chiede lei, voltandosi a guardarmi.  
E il folle mondo viene avanti rotolando.  
Miriam fa un altro sorriso raggiante. Lo sapevo, mi dice. Mentre trascrivevo la citazione mi sono detta: Questo gli piacerà. Potrebbe essere stato scritto per lui.  
Il folle mondo viene avanti rotolando, Miriam. Stampella in mano, si avvicina al letto e si siede accanto a me. Sì, papà, dice, osservando sua figlia con aria preoccupata, il folle mondo viene avanti rotolando.