OLOGRAMMA PER IL RE
Dave Eggers
Recensione
"Ora aveva cinquantaquattro anni e per l’America aziendale era interessante come un aeroplano fatto col fango. Non riusciva a trovare lavoro, non riusciva a trovare clienti. Era passato dalla Schwinn alla Huffy e dai Frontier Manufacturing Partners all’Alan Clay Consulting, finché era semplicemente rimasto in casa a guardare DVD dei Red Sox che vincevano il campionato nel 2004 e nel 2007.”
«Maggiore efficienza senza i sindacati, eliminiamoli. Maggiore efficienza senza operai americani, punto, eliminiamo anche loro. Perché non ho visto arrivare la tempesta? Maggiore efficienza anche senza di me. Accidenti, Kit, rendemmo quella fabbrica così efficiente che diventai superfluo anch’io.»
I momenti di riflessione sullo stato attuale della società e dell'economia sono molto ben scritti, un libro sotto molti aspetti utile e che mette in luce come la ricerca del profitto come unico obiettivo non sia la strada giusta.
Un libro che per forza di cose ricorda "Il deserto dei tartari" con la snervante attesa dell'incontro con il Re saudita che resta sullo sfondo pagina dopo pagina man mano che il protagonista si avventura tra la gente e i luoghi di questa lontana, esotica ma pur sempre terrena capitale araba.
Il protagonista, Alan Clay, è il campione dell’americano medio: ha sposato la donna sbagliata, gettato via i molti soldi guadagnati negli anni del boom e si ritrova adesso, a 54 anni, con più debiti che risorse, sfiancato, preoccupato di non riuscire a pagare le tasse universitarie della figlia, in ansia per uno strano bozzo che ha scoperto di avere sul collo (sarà un tumore?). Ora però ha la grande occasione: in Arabia Saudita, un re visionario o pazzo sta costruendo, nel nulla del deserto, la città del futuro: la King Abdullah Economic City (che esiste davvero). Serve alta tecnologia e Alan è lì per venderla.
"Ologramma per il re" ha a toni da commedia inglese: ricorda un po’ Paul Torday o Jonathan Coe (o anche il McEwan di Solar) in quanto a stile e a personaggi. La trama è compatta e varia, la costruzione eccellente. Soprattutto, dietro una storia divertente, c’è una certa profondità: Alan è il simbolo dell’occidentale spaurito e inerme di fronte a un mondo che non capisce più, che lo respinge, che gli preferisce potenze emergenti.
OLOGRAMMA PER IL RE
I
Alan Clay si svegliò a Gedda, in Arabia Saudita. Era il 30 maggio 2010. Aveva passato due giorni in aereo per andarci.
A Nairobi aveva incontrato una donna. Sedevano vicini, aspettando i loro voli. Era alta, ben fatta, con minuscoli orecchini d’oro. Aveva un colorito acceso e una voce melodiosa. Alan scoprì che gli piaceva più delle molte persone che facevano parte della sua vita, persone che vedeva tutti i giorni. Gli disse che abitava nella zona settentrionale dello Stato di New York. Non molto lontano dalla casa di Alan nella Boston dei sobborghi.
Se avesse avuto un po’ di coraggio avrebbe trovato il modo di trascorrere più tempo con lei. Invece salì sul suo aereo e volò a Riad, poi a Gedda. Un uomo venne a prenderlo all’aeroporto e lo portò all’Hilton.
Con un clic, Alan entrò nella sua camera all’Hilton all’una e dodici del mattino. Si preparò rapidamente per andare a letto. Aveva bisogno di dormire. Doveva partire alle sette, un’ora di viaggio verso nord, per essere alle otto all’Economic City di re Abdullah. Là, insieme alla sua squadra avrebbe installato un impianto olografico per teleconferenze e atteso di presentarlo a re Abdullah in persona. Se fosse rimasto favorevolmente colpito, Abdullah avrebbe assegnato alla Reliant il contratto dell’Information Technology per l’intera città, e la commissione di Alan, che era intorno ai cinquecentomila dollari, avrebbe spazzato via tutti i suoi crucci.
Aveva dunque bisogno di sentirsi riposato. Di sentirsi pronto. Passò invece quattro ore a letto senza chiudere occhio.
Pensò a sua figlia, Kit, che era al college, un college molto buono e molto caro. Alan non aveva i soldi per pagarle le tasse autunnali. Non poteva pagargliele perché nella vita aveva preso una serie di decisioni sbagliate. Non aveva fatto bene i conti. Gli era mancato il coraggio quando ne avrebbe avuto bisogno.
Le sue decisioni erano state miopi.
Le decisioni dei suoi pari erano state miopi.
Queste decisioni erano state opportunistiche e assurde.
Ma allora Alan non sapeva che quelle decisioni erano miopi, opportunistiche e assurde. Lui e i suoi pari non sapevano che stavano prendendo decisioni che li avrebbero lasciati, che lo avrebbero lasciato, esattamente come era ora: praticamente in bolletta, quasi disoccupato, unico proprietario e dipendente dello studio di consulenza che gestiva da casa.
Aveva divorziato da Ruby, la madre di Kit. Avevano passato più tempo da separati che da sposati. Ruby era una tremenda rompipalle che ora viveva in California e non dava il minimo contributo finanziario per Kit. Il college è roba tua, diceva all’ex marito. Comportati da uomo, diceva.
Così Kit, in autunno, non sarebbe più potuta andare al college. Alan aveva messo in vendita la casa, ma non si era ancora fatto avanti nessuno. A parte ciò, non aveva altre opzioni. Doveva soldi a molta gente, compresi diciottomila dollari a una coppia di progettisti di biciclette che gli avevano costruito il prototipo di un nuovo modello che Alan credeva di poter produrre nell’area di Boston. Gli avevano dato dell’idiota, per questo. Doveva soldi a Jim Wong, che gli aveva prestato quarantacinquemila dollari per pagare del materiale e la prima e ultima rata dell’affitto di un magazzino. Doveva altri sessantacinquemila dollari o giù di lì a una mezza dozzina di amici e di potenziali soci.
Era in bolletta, dunque. E quando si rese conto di non poter pagare le tasse di Kit era troppo tardi per cercare aiuto da qualche altra parte. Troppo tardi per cambiare college.
Era una tragedia che una florida ragazza come Kit perdesse un semestre di college? No, non era una tragedia. La lunga e tormentata storia del mondo non si sarebbe nemmeno accorta che una ragazza intelligente e capace come Kit aveva perso un semestre di college. Sua figlia sarebbe sopravvissuta. Non era una tragedia. Non somigliava a una tragedia neanche da lontano.
Semmai era una tragedia ciò che era capitato a Charlie Fallon. Charlie Fallon era morto assiderato nel lago vicino alla casa di Alan. Il lago adiacente alla casa di Alan.
Alan pensava a Charlie Fallon mentre non riusciva a dormire nella camera dell’Hilton di Gedda. Aveva visto Charlie entrare in acqua, quel giorno. Alan stava andando via in macchina per recarsi alla cava. Non gli era sembrato normale che un uomo come Charlie Fallon entrasse nelle acque nere e lucenti del lago in settembre, ma non era neanche un fatto così straordinario.
Charlie Fallon inviava ad Alan pagine di libri. Lo faceva da due anni. Charlie aveva scoperto i Trascendentalisti tardi nella vita e sentiva di avere con loro un’affinità. Aveva visto che Brook Farm*non era lontana da dove abitavano lui e Alan, e pensò che significasse qualcosa. Aveva cercato notizie dei propri antenati bostoniani sperando di trovare dei collegamenti, ma non ne aveva trovati. Comunque, mandava ad Alan queste pagine, con alcuni brani sottolineati.
Il lavorio della mente di un privilegiato, pensò Alan. Non mandarmene altra, di quella robaccia, aveva detto a Charlie. Ma Charlie aveva sorriso e gliene aveva mandato ancora.
Così, quando Alan vide Charlie entrare nel lago a mezzogiorno di un sabato, interpretò la cosa come una logica estensione della nuova passione di quell’uomo per la terra. L’acqua gli arrivava appena alle caviglie quando Alan, quel giorno, gli passò davanti.
☆Comunità fondata in America nell’Ottocento dall’utopista George Ripley, che si proponeva di fondere il pensatore con il lavoratore, assicurando a tutti i benefici dell’istruzione e i profitti del lavoro. (Tutte le note sono a cura del traduttore.
II
Quando Alan si svegliò all’Hilton di Gedda era già tardi. Erano le otto e un quarto. Si era addormentato poco dopo le cinque.
Lo aspettavano all’Economic City di re Abdullah alle otto. C’era almeno un’ora di strada. Quando avesse fatto la doccia, si fosse vestito e avesse raggiunto in macchina il luogo dell’appuntamento, sarebbero state le dieci. Avrebbe avuto due ore di ritardo il primo giorno della sua missione lì. Era uno stupido. Era più stupido ogni anno che passava.
Chiamò il cellulare di Cayley. Rispose lei, con la sua voce rauca. In un altro tempo e un’altra vita, un diverso giro della ruota entro il quale lui era più giovane e lei più vecchia e tutti e due abbastanza stupidi per provarci, Alan e Cayley sarebbero stati una bomba.
«Pronto, Alan! Qui è bellissimo. Be’, forse non bellissimo. Ma tu non sei venuto.»
Alan spiegò. Non mentì. Non aveva più l’energia, la creatività necessarie.
«Be’, sta’ tranquillo» disse lei con una risatina – quella voce suggeriva una possibilità... celebrava l’esistenza di una vita fantastica colma di un’ininterrotta sensualità – «noi stiamo già installando tutto. Ma tu dovrai trovarti un mezzo di trasporto. Qualcuno di voi sa come può fare Alan ad arrivare fin qui?»
Sembrava che Cayley gridasse per farsi udire dal resto della compagnia. La sua voce rimbombava in uno spazio che pareva cavernoso. Alan s’immaginò un posto vuoto e buio, e tre ragazzi con una candela in mano che aspettavano lui e la sua lanterna.
«Non può noleggiare una macchina» disse Cayley agli altri.
E poi, a lui: «Puoi noleggiare una macchina, Alan?».
«Troverò una soluzione» disse lui.
Chiamò la reception.
«Pronto? Sono Alan Clay. Lei come si chiama?»
Chiedeva sempre il nome. Un’abitudine che gli aveva instillato Joe Trivole ai tempi della Fuller Brush. Chiedi il nome, ripetilo. Memorizza i nomi della gente, si ricorderanno di te.
L’impiegato disse che si chiamava Edward.
«Edward?»
«Sì, signore. Mi chiamo Edward. Come posso aiutarla?»
«Di dov’è, lei, Edward?»
«Giakarta, Indonesia, signore.»
«Ah, Giakarta» disse Alan. Poi si rese conto che non aveva niente da dire su Giakarta. Non sapeva niente di Giakarta.
«Edward, secondo lei posso noleggiare una macchina tramite l’albergo?»
«Ha una patente di guida internazionale?»
«No.»
«Allora no, non credo che dovrebbe farlo.»
Alan chiamò il portiere. Gli spiegò che aveva bisogno di un autista per andare da re Abdullah all’Economic City.
«Ci vorrà qualche minuto» disse il portiere. Il suo accento non era saudita. A quanto pareva, in questo albergo saudita non c’erano lavoratori sauditi. Alan l’aveva immaginato. I sauditi che lavoravano erano pochi ovunque, gli avevano detto. Importavano ogni genere di manodopera. «Dobbiamo trovare un autista adatto a lei» disse il portiere.
«Non potrebbe chiamare semplicemente un taxi?»
«No davvero, signore.»
Ad Alan cominciò a ribollire il sangue, ma questo casino era opera sua. Ringraziò l’uomo e riattaccò. Sapeva che a Gedda o Riad non era possibile chiamare semplicemente un taxi: o almeno così dicevano le guide, tutte piuttosto esagerate quando si trattava di illustrare ai viaggiatori stranieri i pericoli del Regno dell’Arabia Saudita. Il Dipartimento di Stato manteneva la massima vigilanza sui sauditi. I sequestri di persona non erano un’eventualità remota. Alan poteva essere venduto ad al Qaeda, usato per chiedere un riscatto, portato oltre confine. Ma Alan non si era mai sentito in pericolo da nessuna parte, e gli impegni di lavoro lo avevano portato a Juarez negli anni Novanta, in Guatemala negli anni Ottanta.
Il telefonò squillò.
«Le abbiamo trovato un autista. Per quando ne avrebbe bisogno?»
«Il più presto possibile.»
«Sarà qui tra dodici minuti.»
Alan fece una doccia e si passò un rasoio sul collo maculato. Indossò la canottiera, la camicia bianca con le punte del colletto abbottonate, i pantaloni cachi, i mocassini, dei calzini marrone chiaro. Vestiti come un uomo d’affari americano, gli avevano detto. C’erano i racconti ammonitori di occidentali troppo zelanti che portavano la thobe* e il copricapo. Che cercavano di confondersi con la popolazione, di fare questo sforzo. Uno sforzo che non era apprezzato.
Mentre si aggiustava il colletto della camicia, Alan sentì sul collo l’escrescenza che aveva scoperto un mese prima. Era grande come una pallina da golf, gli sporgeva dalla spina dorsale e a toccarla sembrava cartilagine. Certi giorni Alan immaginava che appartenesse alla spina dorsale; infatti, che altro poteva essere?
Poteva essere un tumore.
Un bozzo come quello, proprio lì sulla spina dorsale: doveva essere invasivo e micidiale. Negli ultimi tempi Alan si era sentito mentalmente confuso e impacciato nel camminare, e sembrava perfettamente e terribilmente ragionevole che lì ci fosse qualcosa che cresceva, che lo rosicchiava, che lo privava della sua vitalità, che gli toglieva ogni acume e ogni prontezza.
Si era ripromesso di farsi visitare da qualcuno, ma poi non ne aveva fatto nulla. Un semplice dottore non poteva operare una cosa come quella. Alan non voleva sottoporsi a radiazioni, non voleva diventare calvo. No, il trucco era toccarselo ogni tanto, analizzare i sintomi che lo accompagnavano, toccarlo ancora un po’ e non fare nulla.
Dopo dodici minuti Alan fu pronto.
Chiamò Cayley.
«Lascio adesso l’albergo.»
«Bene. Quando sarai qui avremo montato tutto.»
La squadra poteva andare là senza di lui, la squadra poteva allestire l’impianto senza di lui. E allora perché Alan era lì? Le ragioni erano speciose, ma lo avevano costretto a partire. Prima di tutto, lui era più vecchio degli altri componenti della squadra, in effetti tutti giovanissimi, nessuno con più di trent’anni. Secondo, Alan un tempo aveva frequentato il nipote di re Abdullah, quando a metà degli anni Novanta avevano collaborato in un’impresa nel settore della plastica, ed Eric Ingvall, il vicepresidente della Reliant di New York, pensava che fosse un contatto abbastanza buono per richiamare l’attenzione del re. Probabilmente non era vero, ma Alan aveva deciso di non fargli cambiare idea.
Era felice di quel lavoro. Ne aveva bisogno. I diciassette o diciotto mesi prima della convocazione di Ingvall erano stati mortificanti. Presentare una dichiarazione dei redditi con un imponibile di 22 dollari e 35 cent fu un’esperienza che non si era aspettato di fare alla sua età. Aveva fatto l’agente immobiliare per sette anni, e le sue entrate erano diminuite di anno in anno. Nessuno aveva soldi da spendere. Fino a cinque anni prima gli affari andavano ancora bene; vecchi amici gli passavano del lavoro e lui si rendeva utile. Li metteva in contatto con venditori che conosceva, otteneva favori, combinava buoni affari, guadagnava bene. Aveva delle soddisfazioni.
Ora aveva cinquantaquattro anni e per l’America aziendale era interessante come un aeroplano fatto col fango. Non riusciva a trovare lavoro, non riusciva a trovare clienti. Era passato dalla Schwinn alla Huffy e dai Frontier Manufacturing Partners all’Alan Clay Consulting, finché era semplicemente rimasto in casa a guardare DVD dei Red Sox che vincevano il campionato nel 2004 e nel 2007. La partita in cui fecero quattro home run consecutivi contro gli Yankees. Il 22 aprile 2007. Aveva guardato cento volte quei quattro minuti e mezzo, e ogni volta aveva provato qualcosa di simile alla gioia. Un senso di esattezza, di ordine. Era una vittoria che nessuno avrebbe mai potuto mettere in discussione.
Alan chiamò il portiere.
«È arrivata la macchina?»
«Mi spiace, è un po’ in ritardo.»
«Parlo con l’impiegato di Giakarta?»
«Sì.»
«Edward.»
«Sì.»
«Salve, Edward. Che ritardo avrà la macchina?»
«Altri venti minuti. Posso mandarle su qualcosa da mettere sotto i denti?»
Alan andò alla finestra e guardò fuori. Il mar Rosso era calmo e da quell’altezza non aveva nulla di speciale. Lungo il mare correva una superstrada a sei corsie. Tre uomini vestiti di bianco pescavano dal molo.
Alan guardò verso il balcone accanto al suo. Vide la propria immagine riflessa nel vetro. Aveva l’aspetto di un uomo comune. Sbarbato e vestito, sembrava uno a posto. Ma sotto la fronte qualcosa si era incupito. I suoi occhi si erano infossati e la gente lo notava. All’ultima rimpatriata con i compagni di scuola un uomo, un ex giocatore di football che Alan disprezzava, gli aveva detto: Alan Clay, hai lo sguardo di uno che ha corso centocinquanta chilometri. Cosa ti è successo?
Dal mare arrivò una raffica di vento. Lontano, un portacontainer si muoveva sull’acqua. Qua e là qualche altra imbarcazione, piccola come un giocattolo.
C’era un uomo accanto a lui sul volo da Boston a Londra. Beveva un gin and tonic dopo l’altro e monologava.
Era andata bene per un po’, giusto? diceva. Cos’erano? trent’anni o giù di lì. Forse venti, ventidue? Ma era finita, era sicuramente finita, e ora dovevamo prepararci a unirci all’Europa occidentale in un’era di turismo e vendite al minuto. Non era forse questo in sostanza ciò che aveva detto quell’uomo in aereo? Qualcosa del genere.
Non la voleva smettere, e i drink continuavano ad arrivare.
Siamo diventati un paese di pantofolai, aveva detto. Un paese di gente dubbiosa, apprensiva, che non ci pensa su una volta ma cento. Ma non erano questi, vivaddio, gli americani che avevano colonizzato il paese. Erano di una pasta diversa! Attraversavano il paese su carri con le ruote di legno! La gente tirava le cuoia per strada, e quelli manco si fermavano o quasi. Seppellivi i tuoi morti e continuavi a muoverti, allora.
Anche quell’uomo, che era sbronzo e forse fuori di testa, aveva lavorato nell’industria come Alan, e col passare del tempo si era perso in qualche mondo tangenziale alla produzione di oggetti. Si stava impregnando di gin and tonic come una spugna e aveva dato un calcio a tutto il resto. Andava in Francia a ritirarsi in una villetta vicino a Nizza costruita da suo padre dopo la Seconda guerra mondiale. Ecco tutto.
Alan lo aveva assecondato, e tra loro c’era stato uno scambio di idee sulla Cina, la Corea, sulla produzione di capi di vestiario in Vietnam, sull’ascesa e il crollo dell’industria dell’abbigliamento a Haiti, sul prezzo di una buona stanza a Hyderabad. Alan era stato per qualche decennio nell’industria delle biciclette, poi per periodi più o meno lunghi aveva lavorato come consulente in una dozzina di altri settori e aiutato società a diventare concorrenziali migliorandone l’efficienza, utilizzando la robotica, riducendo i costi di produzione, questo genere di cose. E tuttavia di anno in anno, per un tipo come lui c’era stato sempre meno lavoro. Sul suolo americano la gente aveva smesso di produrre. Come poteva, Alan o chiunque altro, convincere un industriale a spendere per un prodotto da cinque a dieci volte più di quanto avrebbe speso in Asia? E quando in Asia i salari raggiungevano livelli insostenibili – cinque dollari l’ora, diciamo –, c’era l’Africa. I cinesi stavano già facendo scarpette da tennis in Nigeria. Jack Welch* diceva che la produzione di merci sarebbe dovuta avvenire su una chiatta che facesse perpetuamente il giro del globo terrestre cercando le condizioni più economiche possibili, e pareva che il mondo lo avesse preso in parola. L’uomo in aereo aveva protestato: Non dovrebbe contare qualcosa, il posto dove si fa un certo prodotto?
Ma Alan non voleva farsi prendere dalla disperazione, e non voleva lasciarsi contagiare dal malessere del compagno di posto. Alan era un ottimista, no? O così diceva. Malessere. Fu questa la parola che l’uomo usò ripetutamente. È l’umorismo nero la causa di tutto. Le barzellette! piagnucolò l’uomo. Le sentivo in Francia, Inghilterra, Spagna. E in Russia! La gente che si lagnava del governo inefficiente, delle disfunzioni basilari e irreversibili del proprio paese. E l’Italia! L’acredine, il pensiero della decadenza. Era così dappertutto, e ora è così anche da noi. Quel cupo sarcasmo. È lui il killer, lo giuro su Dio. È il segno che sei a terra e non ti puoi rialzare!
Alan aveva già sentito quelle cose e non aveva più voglia di sentirle. Si mise le cuffie e guardò film per il resto del volo.
Alan lasciò il balcone e tornò nella fresca penombra della stanza.
Pensò alla sua casa. Chissà chi c’era nella sua casa in quel momento. Chi poteva passare di là, toccare degli oggetti, uscire.
La sua casa era in vendita, era in vendita da quattro mesi. È quello il lago dove l’uomo è morto assiderato?
L’unica cosa per cui Ruby telefonava era la casa. Era già stata venduta? Aveva bisogno di soldi e pensava che Alan avrebbe venduto la casa e mantenuto in qualche modo il segreto sulla vendita. Quando l’avrò venduta lo saprai, le aveva detto lui. C’è anche internet, disse. Quando lei si mise a urlare, riattaccò.
La casa di Alan era stata rinfrescata e rimessa in ordine da una donna. C’è gente che fa questo lavoro. Vengono a casa tua e la rendono più bella di quanto avresti mai potuto fare tu. Dissipano le tenebre che ci hai lasciato dentro tu col casino della tua vita.
Poi, fino a quando non la vendi, vivi in una versione della tua casa, una versione migliore. C’è più giallo. Ci sono dei fiori e dei tavoli di legno riciclato. La tua roba è in magazzino.
Si chiamava Renee, e aveva i capelli cotonati sulla testa come zucchero filato. Lei intanto cominci a eliminare il disordine, disse. Dovrà riempire degli scatoloni e togliere il novanta per cento di tutta questa roba, disse, abbracciando con un gesto della mano tutto ciò che lui aveva accumulato in vent’anni.
Alan riempì gli scatoloni. Tolse, tolse. Lasciò i mobili, ma quando lei tornò disse: Ora cambiamo il mobilio. Vuole comprarlo o affittarlo?
Tolse il mobilio. Nel soggiorno c’erano due divani e li diede via entrambi. Uno a un amico di Kit. L’altro a Chuy, che gli tosava il prato. Renee affittò delle opere d’arte. Astrazioni poco impegnative, le chiamava. Erano in ogni stanza, tele dai colori gradevoli, forme vaghe che non avevano alcun significato.
Questo era successo quattro mesi prima. Lui aveva continuato ad abitare nella casa, evacuandola quando l’agenzia voleva mostrarla a qualcuno. Qualche volta era rimasto. Qualche volta era rimasto, chiuso nel suo ufficio casalingo mentre i potenziali acquirenti visitavano la sua casa, facendo commenti. Soffitti bassi, dicevano. Camere da letto piccole. Sono i pavimenti originali? C’è odore di muffa. Gli occupanti sono persone anziane?
Qualche volta li guardava entrare, uscire. Sbirciava dalla finestra dell’ufficio come un imbecille. Una coppia restò così a lungo che Alan fu costretto a orinare in una tazza da caffè. Una cliente, una donna dall’aria professionale con un lungo soprabito di pelle, lo vide nel vano di una finestra mentre lei si allontanava lungo il vialetto. Si voltò verso l’agente e disse: Credo di avere appena visto uno spettro.
Alan guardò le onde che si rompevano dolcemente sulla spiaggia. Chi lo sapeva che l’Arabia Saudita aveva un litorale vasto e intatto? Alan non lo sapeva. Guardò le palme sotto di lui, qualche dozzina, piantate nel cortile del suo albergo o di quello vicino, e, dietro, il mar Rosso. Pensò di restare lì. Poteva assumere una nuova identità. Poteva liberarsi di tutti i debiti. Mandare in qualche modo soldi a Kit, lasciarsi alle spalle la morsa implacabile della sua vita in America. Ci aveva scontato cinquantaquattro anni della sua vita. Non bastava?
Macché. Alan era più grande di così. Certi giorni era più grande di così. Certi giorni era capace di abbracciare il mondo. Certi giorni vedeva a chilometri e chilometri di distanza. Certi giorni scalava le montagne dell’indifferenza e vedeva il panorama della sua vita e il futuro per quello che era: mappabile, attraversabile, raggiungibile. Tutto quello che voleva fare era stato fatto prima da qualcun altro, dunque perché non poteva farlo lui? Poteva. Se avesse potuto impegnarsi su una base di continuità. Se fosse riuscito a tracciare un piano e realizzarlo. Poteva! Doveva credere di poterlo fare. Certo che poteva.
Questo affare con Abdullah sembrava una cosa assodata. Nessuno poteva competere con un’azienda delle dimensioni della Reliant, e ora avevano un maledetto ologramma. Alan avrebbe chiuso la partita, preso la sua parte, pagato tutti a Boston, poi si sarebbe dato una mossa. Avrebbe aperto una fabbrichetta, partendo con una produzione di mille biciclette l’anno, per incrementarla via via. Le tasse di Kit le avrebbe pagate con gli spiccioli. Avrebbe congedato gli agenti immobiliari, pagato le ipoteche che restavano sulla sua casa, fatto passi da gigante fino a diventare un colosso, abbastanza ricco per mandare affanculo tutti quanti.
Qualcuno bussò alla porta. Era arrivata la colazione. Patate fritte a tocchetti, in cinque minuti lì nella sua stanza. Impossibile, a meno che ora non stesse mangiando roba preparata per qualcun altro. E lui era qualcun altro. La cosa non gli dispiaceva. Lasciò che il cameriere apparecchiasse la tavola sul balcone e, seduto là fuori al decimo piano, socchiudendo gli occhi a causa del vento, firmò il conto con uno svolazzo. Per un momento sentì che questo era lui. Che se lo meritava. Doveva assumere l’aria padronale di uno che in quel posto era di casa. Forse, se era uno di quegli uomini che potevano mangiare le patate a tocchetti di un altro, uno di quegli uomini che l’albergo voleva impressionare tanto da inviargli la colazione di un altro, forse allora era proprio il tipo che poteva ottenere un’udienza dal re.
* L’abito bianco e accollato tipico dei sauditi.
* Presidente e amministratore delegato della General Electric, Jack Welch è considerato il re dei manager americani
III
Il telefonò squillò.
«Abbiamo avuto un problema col primo autista. Ne abbiamo chiamato un altro. Sta venendo. Tra venti minuti dovrebbe essere qui.»
«Grazie» disse Alan, e riattaccò.
Restò seduto, respirando lentamente finché non si fu calmato. Era un uomo d’affari americano. Non c’era nulla di cui vergognarsi. Oggi poteva combinare qualcosa. Poteva dimostrare di essere qualcosa di meglio di uno sciocco.
Non gli avevano dato nessuna garanzia. Il re è molto occupato, gli dissero ripetutamente per telefono e via email. Lo credo bene, disse Alan più e più volte, e ripeté che era pronto a incontrarsi con lui quando e ovunque avesse voluto Sua Maestà. Ma non era così semplice; non soltanto il re era molto occupato, ma la sua agenda cambiava spesso e rapidamente. Doveva cambiare spesso e rapidamente, perché c’erano molte persone che forse desideravano fargli del male. Così, non soltanto l’agenda del re cambiava spesso per esigenze di Stato, ma doveva cambiare spesso, per il bene del re e del suo regno. Ad Alan fu detto che la Reliant, insieme a molti altri venditori interessati a fornire servizi all’Economic City di re Abdullah, doveva preparare le sue mercanzie e presentarle in una località da determinarsi, un luogo nel cuore costiero della città in via di sviluppo, e che sarebbero stati avvertiti poco prima dell’arrivo del re. Alan fu informato che poteva essere un giorno qualunque, e poteva essere a un’ora qualunque.
«Dunque giorni, settimane?» chiese.
«Sì» risposero.
E così Alan aveva organizzato questo viaggio. Aveva già fatto cose del genere: baciare l’anello, mostrare il campionario, trovare un accordo. Non era un compito impossibile, di solito, se avevi i mediatori giusti e tenevi la testa bassa. E lavorare per la Reliant, il più grande fornitore mondiale di servizi IT, non era una sfida. Abdullah, presumibilmente, voleva il meglio, e la Reliant si considerava il meglio, di sicuro era il fornitore più grosso, il doppio del loro più vicino concorrente americano.
Conosco suo nipote Jalawi, avrebbe detto Alan.
O magari: Sono amico intimo di suo nipote Jalawi.
Jalawi, suo nipote, è un mio vecchio amico.
Alan sapeva che altrove questi rapporti non contavano più. Non contavano in America, non contavano quasi da nessuna parte, ma lì, tra i membri della casa reale, sperava che l’amicizia avesse ancora un significato.
Della spedizione facevano parte altri tre impiegati della Reliant, due ingegneri e un direttore marketing: Brad, Cayley e Rachel. Sarebbero stati loro a dare una dimostrazione delle capacità della Reliant, mentre Alan avrebbe snocciolato le cifre. Fornire servizi IT all’ECRA avrebbe voluto dire almeno qualche centinaio di milioni sull’unghia, e altri dopo, per la Reliant e, cosa di importanza più cruciale, un’agiata esistenza per Alan. O forse non proprio agiata. Ma intanto Alan poteva evitare una potenziale bancarotta, avrebbe avuto qualcosa con cui poter andare in pensione, e Kit sarebbe rimasta nel college che preferiva e avrebbe avuto meno delusioni dalla vita e da suo padre.
Lasciò la camera. La porta si chiuse con un rimbombo che sembrò una cannonata. S’incamminò lungo il corridoio arancione.
Avevano costruito l’albergo in modo che nulla testimoniasse che si trovava entro i confini del Regno dell’Arabia Saudita. L’intero complesso, isolato dalla strada e dal mare, mancava di contenuto e di contesto, era privo della minima traccia della sua origine araba. Questo luogo, tutto palme e mattoni cotti al sole, avrebbe potuto essere in Arizona, a Orlando, ovunque.
Alan abbassò lo sguardo nell’atrio, dieci piani sotto di lui, dove si aggiravano decine di uomini, tutti nel tradizionale abito saudita. Doveva ricordare la terminologia: le lunghe tuniche bianche erano le thobe. La pezzuola che copriva i capelli e il collo era il gutra, tenuto a posto dal cordone nero rotondo, l’iqal. Alan guardò gli uomini che si aggiravano là sotto, con le thobe che davano ai loro movimenti una sorta di assenza di peso. Un convegno di spiriti.
In fondo al corridoio vide la porta di un ascensore che si chiudeva. La raggiunse di corsa e ficcò la mano nella fessura. Le ante scattarono all’indietro, spaventate e contrite. Nell’ascensore di vetro c’erano quattro uomini, tutti in thobe e gutra. Alcuni alzarono lo sguardo su Alan, ma lo riabbassarono in fretta per tornare a posarsi su un nuovo tipo di tablet che uno di loro teneva in mano: stava mostrando come funzionava la tastiera virtuale e come, ogni volta che girava il tablet, in orizzontale o in verticale, i tasti si riconfiguravano puntualmente, con gran divertimento dei suoi amici.
La scatola di vetro che li conteneva tutti filò giù attraverso l’atrio nel foyer, silenziosa come la neve, e le porte si aprirono davanti a un muro di sassi finti. C’era odore di cloro.
Alan tenne la porta aperta per i sauditi, nessuno dei quali lo ringraziò. Li seguì. Alcune fontane spruzzavano acqua in aria senza un senso né un ritmo.
Si sedette a un tavolino di ghisa nell’atrio. Un cameriere fece la sua comparsa. Alan ordinò un caffè.
Lì vicino due uomini, uno nero e uno bianco, sedevano insieme, vestiti con identiche thobe bianche. Nella sua guida dell’Arabia Saudita, Alan aveva letto che c’era un razzismo dichiarato, addirittura scoperto, eppure ecco qua. Forse non proprio una dimostrazione di armonia sociale, ma comunque... Non riusciva a trovare un esempio in cui un’osservazione o un’usanza descritta in una guida fosse mai stata confermata nella pratica. Dare un’idea delle norme culturali era come descrivere le condizioni del traffico. Quando le rendevi pubbliche erano già diventate irrilevanti.
Ora c’era qualcuno ritto accanto ad Alan, che alzò gli occhi e vide un uomo paffuto che fumava una sottilissima sigaretta bianca. L’uomo alzò una mano, come per salutare. Alan ricambiò il saluto, confuso.
«Alan? Alan Clay è lei?»
«Sì.»
L’uomo spense la sigaretta in un portacenere di vetro e gli diede la mano. Le sue dita erano lunghe e sottili, morbide come una pelle di camoscio.
«Lei è l’autista?» chiese Alan.
«Autista, guida, eroe. Yusef» disse l’uomo.
Alan si alzò. Yusef era basso, e la thobe bianco panna conferiva al suo fisico tarchiato la silhouette di un pinguino. Era giovane, non molto più grande di Kit. La sua faccia era tonda, liscia, con i baffetti radi di un adolescente.
«Sta bevendo il caffè?»
«Sì.»
«Vuole finire?»
«No, va bene così.»
«Bene. Da questa parte, allora.»
Uscirono. Il caldo era vivo, impetuoso.
«Di qua» disse Yusef, e attraversarono in fretta il piccolo parcheggio fino a una vecchia Chevy Caprice color pozzanghera. «Questo è il mio amore» disse lui, presentando l’auto come un mago avrebbe fatto con un bouquet di fiori finti.
La macchina era una bagnarola.
«Pronto? Non ha una borsa o qualcosa?»
Alan non l’aveva. Un tempo girava sempre con una borsa, dei taccuini, ma mai una volta aveva guardato gli appunti che prendeva durante le riunioni. Adesso ascoltava e non scriveva niente, e questa prassi era diventata una sorgente di forza. La gente attribuiva grande acume mentale a chi non prendeva appunti.
Alan aprì la portiera posteriore.
«No, no» disse Yusef. «Non sono uno chauffeur. Venga a sedersi davanti.»
Alan obbedì. Dal sedile si alzò una nuvoletta di polvere.
«Sicuro che questo coso ci porterà a destinazione?» chiese Alan.
«Vado sempre a Riad con questa» disse Yusef. «Non mi ha mai tradito.»
Yusef salì e girò la chiave. Il motore rimase muto.
«Oh, un momento» disse, e scese, aprì il cofano e sparì dietro il coperchio. Dopo qualche istante chiuse il cofano, risalì in macchina e avviò il motore che, tossendo, si svegliò, con un suono che ricordava il passato.
«Problemi al motore?» chiese Alan.
«No, no. Ho dovuto staccare i fili prima di entrare in albergo. Devo solo assicurarmi che nessuno ci attacchi qualcosa.»
«Ci attacchi qualcosa?» chiese Alan. «Qualcosa che può esplodere?»
«Il terrorismo non c’entra» disse Yusef. «È solo un tizio convinto che mi stia scopando sua moglie.»
Yusef fece marcia indietro.
«Potrebbe tentare di uccidermi» disse. «Andiamo.»
Lasciarono la rotonda dell’albergo. All’uscita passarono davanti a un blindato color deserto con una mitragliatrice sul tetto. Accanto c’era un militare saudita, su una sedia a sdraio, con i piedi a mollo in una piscinetta gonfiabile.
«Dunque sono su una macchina che potrebbe saltare in aria?»
«No, non ora. Ho solo controllato per sicurezza. Ha visto.»
«Sta parlando seriamente? Qualcuno sta cercando di ucciderla?»
«Potrebbe» disse Yusef, e imboccò la superstrada che correva parallela al mar Rosso. «Ma non si sa mai con certezza finché non succede, dico bene?»
«Ho aspettato un’ora per avere un autista con una macchina che potrebbe esplodere.»
«No, no» disse Yusef, già distratto. Stava cercando di far partire il suo iPod, un modello sorpassato che giaceva nel portabottiglie in mezzo a loro. C’era qualcosa che non andava nel collegamento tra l’iPod e lo stereo della macchina.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Non credo che sappia mettere una bomba su una macchina. Non è un tipo con le palle. È soltanto ricco. Sarebbe possibile solo se assoldasse qualcuno.»
Alan continuò a guardarlo fisso finché il giovanotto tirò le somme: un uomo ricco poteva benissimo assoldare qualcuno per mettere una bomba sulla macchina dell’uomo che si scopava sua moglie.
«Caaazzo» disse Yusef, voltandosi verso Alan. «Ora sì che mi ha messo paura.»
Alan si chiese se non fosse il caso di aprire la portiera e buttarsi giù dalla macchina. Pareva una scelta più prudente che farsi scarrozzare da quell’uomo.
Intanto Yusef aveva preso un’altra sigarettina da un pacchetto bianco e se l’era accesa, guardando con gli occhi socchiusi la strada davanti a sé. Stavano passando accanto a una lunga serie di enormi sculture color caramella.
«Terribili, vero?» disse Yusef. Tirò una lunga boccata, e ogni preoccupazione per la presenza di eventuali sicari parve svanire. «Dunque, Alan. Lei di dov’è?»
Qualcosa nell’aria blasé di Yusef si trasmise al passeggero, che cessò di preoccuparsi. Con quel fisico da pinguino, le sigarette sottili e la Chevy Caprice, non era il tipo d’uomo che potesse interessare a un assassino.
«Boston» disse Alan.
«Boston, Boston» disse Yusef, tamburellando sul volante. «Io sono stato in Alabama. Un anno di college.»
Pur sapendo che faceva una cosa poco saggia, Alan continuò a parlare con questo pazzo.
«Ha studiato in Alabama? Perché l’Alabama?»
«Perché ero l’unico arabo nel raggio di mille chilometri, intende dire? Avevo ottenuto una borsa di studio per un anno. La città era Birmingham. Piuttosto diversa da Boston, immagino.»
Alan amava Birmingham e glielo disse. A Birmingham aveva degli amici.
Yusef sorrise. «Quella grossa statua di Vulcano, giusto? Terrificante.»
«Giusto. Io amo quella statua» disse Alan.
Il periodo passato in Alabama spiegava l’inglese americano di Yusef. Parlava con appena un debolissimo accento saudita. Portava sandali fatti a mano e occhiali da sole Oakley.
Attraversarono Gedda a gran velocità, e tutto sembrava nuovissimo, non diversamente da Los Angeles. Los Angeles con i burqa, gli aveva detto una volta Angie Healy. Avevano lavorato insieme alla Trek per qualche tempo. Alan sentiva la sua mancanza. Un’altra donna morta nella sua vita. Erano troppe, amichette che diventavano vecchie amiche, poi vecchie amiche, amichette che si sposavano, che erano un po’ invecchiate, che avevano dei figli ormai grandi. E poi c’erano quelle decedute. Morte di aneurisma, di cancro al seno, di un linfoma non Hodgkin. Era una follia. Sua figlia aveva già vent’anni, presto ne avrebbe avuti trenta, e subito dopo gli acciacchi sarebbero venuti come se piovesse.
«Allora, lei si sta scopando la moglie di questo tizio o cosa?» chiese Alan.
«No, no. È la mia ex moglie, siamo stati sposati tanto tempo fa...» Guardò Alan per misurare le sue reazioni fino a quel momento.
«Ma non ha funzionato. Ha sposato un altro. Adesso si annoia e mi manda un sms dietro l’altro. Mi scrive su Facebook, dappertutto. Il marito lo sa e crede che abbiamo una relazione. Desidera mangiare qualcosa?»
«Intende dire che dovremmo fermarci a mangiare?»
«Potremmo andare in un posto nella Città Vecchia.»
«No, ho appena mangiato. Siamo in ritardo, ricorda?»
«Oh. Abbiamo fretta? Non me l’hanno detto. Non dovevamo passare di qui, se siamo in ritardo.»
Yusef fece un’inversione a U e accelerò.
IV
Forse per Kit sarebbe stato meglio stare a casa un anno. Al college la sua compagna di stanza era uno strano tipo, una ragazza di Manhattan sottile come uno stecco, una che notava ogni cosa. La sua compagna aveva notato che Kit aveva un sonno agitato, e aveva le sue idee su ciò che significava, sul modo in cui poteva essere curato e sulle cause profonde di un simile comportamento. Le sue osservazioni erano seguite da domande e sospetti sui vari problemi che Kit poteva avere. Notava piccole ecchimosi sulle braccia di Kit e voleva sapere quale uomo gliele aveva provocate. Notava che la voce di Kit era acuta, un po’ fioca, quasi infantile, e questo, spiegava la compagna, era spesso un indizio di abusi sessuali durante l’infanzia, la voce della vittima bloccata all’età del trauma. Hai mai notato che la tua voce sembra quella di una bambina? le chiedeva.
«Lo fa spesso?» chiese Alan.
«Portare gente in giro? È un’attività marginale. Sono uno studente.»
«Di che?»
«Della vita!» disse Yusef, poi rise. «No, scherzo. Business, marketing. Queste cose. Non so perché.»
Passarono davanti a un vasto parco giochi, e per la prima volta Alan vide dei bambini. Sette o otto, appesi a un castello di tubi metallici e arrampicati sugli scivoli. E con loro c’erano tre donne in burqa neri come il carbone. Era già stato tra donne in burqa, ma vedere quelle ombre che si muovevano nel parco giochi, seguendo i bambini, lo raggelò. Non aveva un po’ dell’incubo, essere inseguiti da un’agile figura in nero con le mani tese? Ma Alan non sapeva nulla e nulla disse.
«Quanto tempo ci vuole?» chiese.
«Per l’Economic City di re Abdullah? È lì che andiamo?»
Alan non disse nulla. Yusef sorrideva. Questa volta stava scherzando.
«Un’oretta. Forse un po’ di più. A che ora doveva essere là?»
«Alle otto. Otto e trenta.»
«Be’, arriverà a mezzogiorno.»
«Le piacciono i Fleetwood Mac?» chiese Yusef. Era riuscito a far funzionare l’iPod – sembrava che per secoli fosse rimasto sepolto nella sabbia e poi dissotterrato – e ora stava facendo scorrere le canzoni.
Lasciarono la città e in pochi minuti si trovarono su una superstrada diritta come un fuso che attraversava un deserto nudo. Non aveva la bellezza dei deserti. Non c’era una duna. Era ostinatamente piatto. E la superstrada che lo attraversava era brutta. La macchina di Yusef sorpassava autocisterne, camion. Ogni tanto, in lontananza, si vedeva un piccolo villaggio di cemento grigio, un labirinto di muri e fili elettrici.
Una volta Alan e Ruby avevano attraversato gli Stati Uniti, da Boston all’Oregon, per le nozze di un amico. Una di quelle ridicole opzioni che si presentano prima di avere dei figli. Avevano litigato ripetutamente, esplosivamente, soprattutto ricordando i loro ex. Ruby voleva parlare dei propri, in tutti i dettagli. Voleva che Alan sapesse perché aveva lasciato loro e scelto lui, e Alan si tappava le orecchie. Una tabula rasa era chiedere troppo? Ti prego di smetterla, implorava. Ma lei continuava, gloriandosi della propria storia. Basta basta basta, urlò lui alla fine, e tra Salt Lake City e l’Oregon non dissero una parola. Ogni chilometro di silenzio rendeva Alan più forte e, almeno così credeva, aumentava il rispetto di Ruby per lui. Le uniche armi che aveva contro di lei erano il silenzio, la truculenza; Alan coltivava sporadicamente una meditabonda intensità. Non era mai stato così ostinato come quando era con Ruby. Questa era la versione di se stesso che aveva passato sei anni con lei. Questa versione di Alan era ardente, gelosa, sempre vigile. Non si era mai sentito più vitale.
Yusef si accese un’altra sigaretta.
«Non è la marca più mascolina» osservò Alan.
Yusef rise. «Sto cercando di smettere, così sono passato da quelle normali a queste. Sono grosse la metà. Meno nicotina.»
«Ma più raffinate.»
«Raffinate. Raffinate. Mi piace. Sì, sono raffinate.»
Uno dei due denti davanti di Yusef passava obliquamente davanti al suo gemello, conferendo al suo sorriso una particolare impronta di follia.
«Anche la scatola» disse Alan. «La guardi.»
Era argentata, bianca e piccina, come una Cadillac in miniatura guidata da un magnaccia grande come un insetto.
Yusef aprì il cassetto dei guanti e vi buttò la scatola.
«Meglio?» disse.
Alan rise. «Grazie.»
Per dieci minuti non dissero niente.
Alan si chiedeva se quest’uomo lo stesse davvero portando all’Economic City di re Abdullah. Se non fosse piuttosto un simpatico rapitore.
«Le piacciono le barzellette?» gli chiese.
«Barzellette? Intende dire quelle che si ricordano e si raccontano?»
«Sì» disse Alan. «Barzellette che si ricordano e si raccontano.»
«Non sono roba per i sauditi, queste barzellette» disse Yusef. «Però ne ho sentite. Un inglese mi ha raccontato quella della Regina e del grosso cazzo.»
Ruby odiava le barzellette. «Che cosa imbarazzante» diceva dopo ogni serata fuori, quando lui ne aveva raccontate una o dieci. Alan ne sapeva mille e tutti quelli che conoscevano Alan sapevano che ne sapeva mille.
Lo avevano messo alla prova, persino: un gruppo di amici, qualche anno prima, gli avevano fatto raccontare barzellette per due ore filate. Credevano che in due ore avrebbe esaurito tutto il suo repertorio, mentre lui aveva appena cominciato. Perché poi ne ricordasse tante non avrebbe saputo dirlo. Ma ogni volta che ne finiva una, davanti agli occhi gliene compariva un’altra. Non c’era mai un’interruzione. Ogni barzelletta era legata a quella successiva, come la collana di fazzoletti annodati di un mago.
«Non essere patetico» gli disse una volta Ruby. «Sembri un attore del varietà. Nessuno racconta più barzellette come queste.»
«Io sì.»
«La gente racconta barzellette quando non ha niente da dire» osservò lei.
«La gente racconta barzellette quando non resta più niente da dire» disse lui.
Veramente non disse proprio così. Lo pensò molti anni dopo, quando ormai lui e Ruby non si parlavano più.
Yusef tamburellava sul volante.
«Okay» disse Alan. «Il marito di una donna è malato. Entra ed esce dal coma da parecchi mesi, ma ogni giorno lei è al suo capezzale. Quando lui si sveglia, le fa segno di avvicinarsi. Lei si avvicina, gli si siede accanto. La voce del malato è fioca. Le prende la mano. “Sai una cosa?” dice. “Tu sei stata con me in tutti i momenti difficili. Quando mi hanno licenziato, c’eri tu a sostenermi. Quando gli affari sono andati a rotoli, tu c’eri. Quando abbiamo perso la casa, mi hai dato il tuo appoggio. Quando la mia salute ha cominciato a peggiorare, c’eri sempre tu al mio fianco... Sai una cosa?” “Cosa, caro?” chiede dolcemente lei. “Mi sa che porti sfiga!”»
Yusef sbuffò, tossì. Dovette spegnere la sigaretta.
«Buona. Non me l’aspettavo. Ne conosce delle altre?»
Alan gliene fu molto grato. Da parecchi anni non raccontava più una barzelletta a un giovane che fosse in grado di apprezzarla.
«Certo» disse Alan. «Vediamo... Oh, questa è buona. Okay, c’era quest’uomo che si chiamava Strano. John Strano. E odiava il suo cognome. La gente se ne burlava in continuazione, chiamava lui e sua moglie “la strana coppia”, commentava “strano ma vero” ovunque lui andasse, e via dicendo. Così, quando lui diventa vecchio, scrive il testamento. E nel testamento dice che quando morirà non vuole il suo nome sulla lapide. Vuole solo essere sepolto in una fossa anonima, con una lapide nuda, senza nome, senza niente. E alla fine muore, e la moglie rispetta le sue ultime volontà. È là si trova ora, dunque, in questa tomba senza nome, ma ogni volta che qualcuno attraversa il cimitero e vede la tomba senza nome dice: “Guarda, non è Strano?”.»
Yusef rise tanto da doversi asciugare gli occhi.
Alan lo trovava adorabile. Perfino sua figlia, Kit, scuoteva il capo, no, ti prego, ogni volta che lui tentava di raccontare una barzelletta.
Alan continuò. «Okay. Ecco una domanda. Come chiami un tizio che conosce quarantotto modi di far l’amore ma non conosce neanche una ragazza?»
Yusef si strinse nelle spalle.
«Un consulente.»
Yusef sorrise. «Mica male» disse. «Un consulente. Come lei.»
«Come me» disse Alan. «Almeno per un po’.»
Passarono davanti a un piccolo lunapark, coloratissimo ma apparentemente abbandonato. Una ruota panoramica, rosa e gialla, si ergeva isolata, senza bambini.
Alan pensò a un’altra barzelletta.
«Okay, questa è più bella. C’è un poliziotto. E si è appena fermato sulla scena di un orribile incidente stradale. Vittime fatte a pezzi sparse ovunque, un braccio qui, una gamba là. Lui sta prendendo nota di tutto, quando trova una testa. Scrive sul suo taccuino: “Testa sul gardrail”, ma scrive g-a-r-d e sa che è sbagliato. Allora cancella e riprova. “Testa sul gaardrail.” Di nuovo sbagliato, troppe “a”. Allora via, cancellato. Ci riprova. “Testa sul garrail”, g-a-r-r. “Maledizione!” dice. Si guarda intorno e vede che nessuno sta guardando. Sposta appena appena la testa con un piede e ritira fuori la matita. “Testa sul marciapiede.”»
«Questa è buona» disse Yusef, anche se non aveva riso.
Viaggiarono in silenzio per un paio di chilometri. Il paesaggio era pianeggiante e vuoto. Qualunque cosa avessero costruito in questo implacabile deserto, era un atto di pura e semplice volontà imposto a un territorio inabitabile.
Il corpo di Charlie, quando lo tirarono fuori dal lago, sembrava un sacco di spazzatura. Indossava una giacca a vento nera, e la prima cosa che Alan pensò fu che fosse un mucchio di foglie dentro un’incerata. Solo le mani erano visibilmente umane.
«Avete bisogno di me per qualcosa?» chiese Alan alla polizia.
Non avevano bisogno di niente. Avevano visto tutto. Quattordici tra poliziotti e pompieri guardarono Charlie Fallon morire in quel lago per ben cinque ore.
V
«Allora, perché ci va?»
«Dove?»
«All’ECRA.»
Yusef la pronunciava come la parola ecco.* Buono a sapersi, pensò Alan.
«Per lavoro» disse Alan.
«Lei è nell’edilizia?»
«No. Perché?»
«Pensavo che magari l’aiutasse a muovere i primi passi. Non succede nulla, là. Non c’è nessuna costruzione.»
«Lei c’è stato?»
Alan immaginava che la risposta sarebbe stata “sì.” Doveva essere la cosa più grossa che ci fosse nei dintorni di Gedda. Dunque Yusef doveva averla vista per forza.
«No» disse lui.
«Perché no?»
«Non c’è niente, là.»
«Non ancora» lo corresse Alan.
«Mai.»
«Mai?»
«Non succederà» disse Yusef. «È già morta.»
«Come? Non è morta. Io ci sto lavorando da mesi. Devo fare una presentazione. Quelli vanno a tutto gas.»
Yusef si voltò dalla sua parte e sorrise, un largo sorriso monumentalmente divertito. «Aspetti di essere là» disse. Si accese un’altra sigaretta.
«A tutto gas?» disse. «Gesù.»
Con perfetto tempismo apparve un tabellone che reclamizzava il complesso. Si vedeva una famiglia su una veranda e, sullo sfondo, un tramonto non troppo convincente. L’uomo era saudita, un uomo d’affari, con un cellulare in una mano e un giornale nell’altra. La donna, che stava servendo la colazione al marito e a due figli impazienti, portava uno hijab, una modesta camicetta e i pantaloni. Sotto la foto c’era scritto L’ECONOMIC CITY DI RE ABDULLAH: LA VISIONE DI UN UOMO, LA SPERANZA DI UNA NAZIONE.
Alan glielo indicò. «Lei non crede che la realizzeranno?»
«Che ne so? Io so solo che non hanno fatto ancora niente.»
«E Dubai? Quella è stata fatta.»
«Questa non è Dubai.»
«Non potrebbe essere Dubai?»
«Non sarà Dubai. Quali donne vorranno venirci? Nessuno viene in Arabia Saudita se non è costretto, anche con i condomini rosa lungo il mare.»
«La donna sul tabellone sembra un passo avanti» disse Alan.
Yusef sospirò. «È questa l’idea, dicono. O meglio non lo dicono, ma lasciano intendere che nell’ECRA le donne avranno maggiore libertà. Che potranno mescolarsi più liberamente con gli uomini e guidare l’automobile. Cose così.»
«E non è un bene?»
«Se succederà, magari. Ma non succederà. Sarebbe potuto succedere una volta, ma non ci sono più soldi. L’Emaar è alla bancarotta. A Dubai stanno fallendo. Tutto era sopravvalutato e ora sono rovinati. Devono soldi all’intero pianeta, e l’ECRA è ormai defunta. Tutto è morto. Vedrà. Non conosce altre barzellette?»
Alan si era allarmato, ma cercò di non prendere troppo sul serio le dichiarazioni di Yusef. Sapeva che c’erano dei detrattori, in Arabia Saudita e altrove. L’Emaar, la multinazionale immobiliare che aveva costruito gran parte di Dubai, era in crisi, vittima della bolla, e tutti sapevano che senza il coinvolgimento personale di re Abdullah e dei suoi capitali l’ECRA era nei guai. Ma naturalmente il re ci avrebbe messo soldi suoi. Naturalmente si sarebbe assicurato che il progetto andasse avanti. C’era il suo nome, sopra. Era il suo retaggio. L’orgoglio di re Abdullah non gli avrebbe permesso di lasciare che tutto andasse in malora. Queste furono le dichiarazioni di Alan a Yusef, ma si vedeva che stava cercando di convincere anche se stesso.
«Ma... e se il re muore?» chiese Yusef. «Ha ottantacinque anni. Che succede?»
Alan non sapeva come rispondere. Voleva credere che queste cose, una città che spuntava dalla polvere, potevano accadere. I modellini architettonici che aveva visto erano magnifici. Torri lucenti, passeggiate e spazi pubblici alberati, una serie di canali che avrebbero permesso ai pendolari di andare in barca quasi dappertutto. La città era futuristica e romantica, ma anche pratica. Poteva essere costruita con la tecnologia esistente e un mucchio di soldi, ma ad Abdullah i soldi non mancavano di certo. Perché non ce li avesse messi da solo, senza l’Emaar, era un mistero. Aveva abbastanza soldi per tirar su la città in una notte: perché dunque non lo faceva? Certe volte un re doveva fare il re.
L’uscita successiva diceva Economic City di re Abdullah. Yusef si voltò verso Alan, aggrottando le sopracciglia in un’espressione fintamente drammatica.
«Si comincia. A tutto gas!»
Uscirono dalla superstrada e deviarono verso il mare.
«È sicuro che sia la direzione giusta?» chiese Alan.
«Questo è il posto dove lei voleva andare» disse Yusef.
Alan non vedeva alcuna traccia di una futura città.
«Qualunque cosa sia, è là» disse Yusef, puntando il dito davanti a loro. La strada era nuova, ma correva attraverso il nulla. Percorsero un paio di chilometri prima di arrivare a una modesta porta di città, una coppia di archi in pietra sopra la strada, una grande cupola su tutto l’insieme. Era come se qualcuno avesse costruito una rotabile attraverso un deserto incorreggibile, quindi eretto una porta più o meno a metà strada per suggerire la fine di una cosa e l’inizio di un’altra. Era promettente, ma poco convincente.
Yusef fermò l’auto e abbassò il finestrino. Due guardie in uniforme di fatica blu, col fucile che penzolava mollemente dalla spalla, si avvicinarono con cautela e circondarono la macchina. Parevano sorprese di vedere qualcuno, tanto più due uomini su una Chevy di trent’anni prima.
Yusef rivolse loro la parola, indicando il passeggero alla sua destra con un cenno del mento. Le guardie si chinarono per vedere l’americano sul sedile accanto al suo. Alan sorrise professionalmente. Una delle guardie disse qualcosa a Yusef, e Yusef si voltò verso Alan.
«I suoi documenti.»
Alan gli porse il passaporto. La guardia sparì nel suo ufficio. Tornò indietro, riconsegnò il passaporto a Yusef e fece segno di passare.
Oltre il posto di controllo la strada si divideva in due corsie. Lo spartitraffico era ricoperto di erba, bruciata e stenta, tenuta viva da due uomini in tuta rossa che la stavano annaffiando con un tubo.
«Scommetto che questi uomini non sono sindacalizzati» disse Alan.
Yusef gli rivolse un cupo sorriso. «Ho sentito un tale l’altro giorno, nel negozio di mio padre. Diceva: “Non abbiamo sindacati, qui. Abbiamo i filippini”.»
Ripresero il viaggio. Sull’erba dello spartitraffico cominciò un filare di palme, tutte piantate di fresco, alcune ancora nei loro involucri di tela. Ogni dieci alberi o giù di lì c’erano degli striscioni attaccati ai pali della luce con immagini di come sarebbe stata la città una volta finita. Uno mostrava un uomo in thobe che scendeva da uno yacht, con una ventiquattrore in mano, e veniva accolto da due uomini in abito nero e occhiali da sole. In un altro, un uomo brandiva una mazza da golf all’alba, con un caddy di fianco a lui: presumibilmente un altro asiatico del Sud. C’era l’immagine dipinta con l’aerografo di un favoloso stadio nuovo. La veduta aerea di una spiaggia punteggiata di luoghi di villeggiatura. La foto di una donna che aiutava suo figlio a usare un laptop. Portava lo hijab, ma per il resto era vestita all’occidentale, in nuances color lavanda.
«Perché farebbero la réclame di queste forme di libertà se non fossero sinceri?» chiese Alan. «Il rischio che corre Abdullah di far incavolare i conservatori è piuttosto grosso.»
Yusef si strinse nelle spalle.
«Chissà. Se fa colpo su persone come lei, forse funziona.»
La strada ridivenne rettilinea e tornò ad attraversare un deserto piatto e senza punti di riferimento. C’era un lampione ogni sette o otto metri, ma per il resto non c’era assolutamente nulla, tutto l’insieme sembrava un’area di sviluppo urbano appena abbandonata sulla luna.
Fecero un altro paio di chilometri verso il mare, finché riapparvero degli alberi. Gruppi di operai, alcuni col casco, altri con una sciarpa sulla testa, si accalcavano sotto le palme. Lontano, la strada finiva a qualche centinaio di metri dall’acqua, dove sorgeva una manciata di edifici che sembravano vecchie pietre tombali.
«Eccola qua, in sostanza» disse Yusef.
Il vento del deserto era forte e spingeva la polvere sulla strada come una nebbiolina. Eppure, due uomini la stavano spazzando.
Yusef puntò il dito e rise. «Ecco dove vanno a finire i soldi. Spazzano la sabbia nel deserto.»