venerdì 27 dicembre 2019


LA GIACCA STREGATA

Estratto da "La boutique del mistero"

Dino Buzzati 


Benché io apprezzi l’eleganza nel vestire, non bado, di solito, alla perfezione o meno con cui sono tagliati gli abiti dei miei simili. Una sera tuttavia, durante un ricevimento in una casa di Milano conobbi un uomo, dall’apparente età di quarant’anni, il quale letteralmente risplendeva per la bellezza, definitiva e pura, del vestito.
Non so chi fosse, lo incontravo per la prima volta, e alla presentazione, come succede sempre, capire il suo nome fu impossibile. Ma a un certo punto della sera mi trovai vicino a lui, e si cominciò a discorrere. Sembrava un uomo garbato e civile, tuttavia con un alone di tristezza. Forse con esagerata confidenza – Dio me ne avesse distolto – gli feci i complimenti per la sua eleganza; e osai perfino chiedergli chi fosse il suo sarto.  L’uomo ebbe un sorrisetto curioso, quasi che si fosse aspettato la domanda.
«Quasi nessuno lo conosce» disse «però è un gran maestro. E lavora solo quando gli gira. Per pochi iniziati.»
«Dimodoché io… ?»
«Oh, provi, provi. Si chiama Corticella, Alfonso Corticella, via Ferrara 17.»
«Sarà caro, immagino.»
«Lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato.»
«Corticella? Via Ferrara 17, ha detto?»
«Esattamente» rispose lo sconosciuto. E mi lasciò per unirsi ad un altro gruppo.
In via Ferrara 17 trovai una casa come tante altre e come quella di tanti altri sarti era l’abitazione di Alfonso Corticella. Fu lui che venne ad aprirmi. Era un vecchietto, coi capelli neri, però sicuramente tinti. Con mia sorpresa, non fece il difficile. Anzi, pareva ansioso che diventassi suo cliente. Gli spiegai come avevo avuto l’indirizzo, lodai il suo taglio, gli chiesi di farmi un vestito. Scegliemmo un pettinato grigio quindi egli prese le misure, e si offerse di venire, per la prova, a casa mia. Gli chiesi il prezzo. Non c’era fretta, lui rispose, ci saremmo sempre messi d’accordo. Che uomo simpatico, pensai sulle prime. Eppure piú tardi, mentre rincasavo, mi accorsi che il vecchietto aveva lasciato un malessere dentro di me (forse per i troppi insistenti e melliflui sorrisi). Insomma non avevo nessun desiderio di rivederlo. Ma ormai il vestito era ordinato. E dopo una ventina di giorni era pronto Quando me lo portarono, lo provai, per qualche secondo, dinanzi allo specchio. Era un capolavoro. Ma, non so bene perché, forse per il ricordo dello sgradevole vecchietto, non avevo nessuna voglia di indossarlo. E passarono settimane prima che mi decidessi. Quel giorno me lo ricorderò per sempre. Era un martedì di aprile e pioveva. Quando ebbi infilato l’abito – giacca, calzoni e panciotto – constatai piacevolmente che non mi tirava o stringeva da nessuna parte, come accade quasi sempre con i vestiti nuovi. Eppure mi fasciava alla perfezione. Di regola nella tasca destra della giacca io non metto niente, le carte le tengo nella tasca sinistra. Questo spiega perché solo dopo un paio d’ore, in ufficio, infilando casualmente la mano nella tasca destra, mi accorsi che c’era dentro una carta. Forse il conto del sarto? No. Era un biglietto da diecimila lire. Restai interdetto. Io, certo, non ce l’avevo messo. D’altra parte era assurdo pensare a un regalo della mia donna di servizio, la sola persona che, dopo il sarto, aveva avuto occasione di avvicinarsi al vestito. O che fosse un biglietto falso? Lo guardai controluce, lo confrontai con altri. Più buono di così non poteva essere. Unica spiegazione possibile, una distrazione del Corticella. Magari era venuto un cliente a versargli un acconto, il sarto in quel momento non aveva con sé il portafogli e, tanto per non lasciare il biglietto in giro, l’aveva infilato nella mia giacca, appesa ad un manichino. Casi simili possono capitare. Schiacciai il campanello per chiamare la segretaria. Avrei scritto una lettera al Corticella restituendogli i soldi non miei. Sennonché, e non ne saprei dire il motivo, infilai di nuovo la mano nella tasca.
«Che cos’ha dottore? si sente male?» mi chiese la segretaria entrata in quel momento. Dovevo essere diventato pallido come la morte. Nella tasca, le dita avevano incontrato i lembi di un altro cartiglio; il quale pochi istanti prima non c’era.
«No, no, niente» dissi. «Un lieve capogiro. Da qualche tempo mi capita. Forse sono un po’ stanco. Vada pure, signorina, c’era da dettare una lettera, ma lo faremo più tardi.»
Solo dopo che la segretaria fu andata, osai estrarre il foglio dalla tasca. Era un altro biglietto da diecimila lire. Allora provai una terza volta. E una terza banconota usci. Il cuore mi prese a galoppare. Ebbi la sensazione di trovarmi coinvolto, per ragioni misteriose, nel giro di una favola come quelle che si raccontano ai bambini e che nessuno crede vere. Col pretesto di non sentirmi bene, lasciai l’ufficio e rincasai. Avevo bisogno di restare solo. Per fortuna, la donna che faceva i servizi se n’era già andata. Chiusi le porte, abbassai le persiane. Cominciai a estrarre le banconote una dopo l’altra con la massima celerità, dalla tasca che pareva inesauribile. Lavorai in una spasmodica tensione di nervi, con la paura che il miracolo cessasse da un momento all’altro. Avrei voluto continuare per tutta la sera e la notte, fino ad accumulare miliardi. Ma a un certo punto le forze mi vennero meno. Dinanzi a me stava un mucchio impressionante di banconote. L’importante adesso era di nasconderle, che nessuno ne avesse sentore. Vuotai un vecchio baule pieno di tappeti e sul fondo, ordinati in tanti mucchietti, deposi i soldi, che via via andavo contando. Erano cinquantotto milioni abbondanti. Mi risvegliò al mattino dopo la donna, stupita di trovarmi sul letto ancora tutto vestito. Cercai di ridere, spiegando che la sera prima avevo bevuto un po’ troppo e che il sonno mi aveva colto all’improvviso. Una nuova ansia: la donna mi invitava a togliermi il vestito per dargli almeno una spazzolata. Risposi che dovevo uscire subito e che non avevo tempo di cambiarmi. Poi mi affrettai in un magazzino di abiti fatti per comprare un altro vestito, di stoffa simile; avrei lasciato questo alle cure della cameriera; il “mio”, quello che avrebbe fatto di me, nel giro di pochi giorni, uno degli uomini più potenti del mondo, l’avrei nascosto in un posto sicuro. Non capivo se vivevo in un sogno, se ero felice o se invece stavo soffocando sotto il peso di una fatalità troppo grande. Per la strada, attraverso l’impermeabile, palpavo continuamente in corrispondenza della magica tasca. Ogni volta respiravo di sollievo. Sotto la stoffa rispondeva il confortante scricchiolio della carta moneta.
Ma una singolare coincidenza raffreddò il mio gioioso delirio. Sui giornali del mattino campeggiava la notizia di una rapina avvenuta il giorno prima. Il camioncino blindato di una banca che, dopo aver fatto il giro delle succursali, stava portando alla sede centrale i versamenti della giornata, era stato assalito e svaligiato in viale Palmanova da quattro banditi. All’accorrere della gente, uno dei gangster, per farsi largo, si era messo a sparare. E un passante era rimasto ucciso. Ma soprattutto mi colpì l’ammontare dei bottino: esattamente cinquantotto milioni (come i miei). Poteva esistere un rapporto fra la mia improvvisa ricchezza e il colpo brigantesco avvenuto quasi contemporaneamente? Sembrava insensato pensarlo. E io non sono superstizioso. Tuttavia il fatto mi lasciò molto perplesso. Più si ottiene e più si desidera. Ero già ricco, tenuto conto delle mie modeste abitudini. Ma urgeva il miraggio di una vita di lussi sfrenati. E la sera stessa mi rimisi al lavoro. Ora procedevo con più calma e con minore strazio dei nervi. Altri centotrentacinque milioni si aggiunsero al tesoro precedente. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Era il presentimento di un pericolo? O la tormentata coscienza di chi ottiene senza meriti una favolosa fortuna? O una specie di confuso rimorso?
Alle prime luci balzai dal letto, mi vestii e corsi fuori in cerca di un giornale. Come lessi, mi mancò il respiro. Un incendio terribile, scaturito da un deposito di nafta, aveva semidistrutto uno stabile nella centralissima via San Cloro. Fra l’altro erano state divorate dalle fiamme le casseforti di un grande istituto immobiliare, che contenevano oltre centotrenta milioni in contanti. Nel rogo, due vigili del fuoco avevano trovato la morte. Devo ora forse elencare uno per uno i miei delitti? Sì, perché ormai sapevo che i soldi che la giacca mi procurava, venivano dal crimine, dal sangue, dalla disperazione, dalla morte, venivano dall’inferno. Ma c’era pure dentro di me l’insidia della ragione la quale, irridendo, rifiutava di ammettere una mia qualsiasi responsabilità. E allora la tentazione riprendeva, e allora la mano – era così facile! – si infilava nella tasca e le dita, con rapidissima voluttà, stringevano i lembi del sempre nuovo biglietto. I soldi, i divini soldi!
Senza lasciare il vecchio appartamento (per non dare nell’occhio), mi ero in poco tempo comprato una grande villa, possedevo una preziosa collezione di quadri, giravo in automobili di lusso, e, lasciata la mia ditta per “motivi di salute”, viaggiavo su e giù per il mondo in compagnia di donne meravigliose. Sapevo che, ogniqualvolta riscuotevo denari dalla giacca, avveniva nel mondo qualcosa di turpe e doloroso. Ma era pur sempre una consapevolezza vaga, non sostenuta da logiche prove. Intanto, a ogni mia nuova riscossione, la coscienza mia si degradava, diventando sempre più vile.
E il sarto? Gli telefonai per chiedere il conto, ma nessuno rispondeva. In via Ferrara, dove andai a cercarlo, mi dissero che era emigrato all’estero, non sapevano dove. Tutto dunque congiurava a dimostrarmi che, senza saperlo, io avevo stretto un patto col demonio. Finché nello stabile dove da molti anni abitavo, una mattina trovarono una pensionata sessantenne asfissiata col gas; si era uccisa per aver smarrito le trentamila lire mensili riscosse il giorno prima (e finite in mano mia). Basta, basta! per non sprofondare fino al fondo dell’abisso, dovevo sbarazzarmi della giacca. Non già cedendola ad altri, perché l’obbrobrio sarebbe continuato (chi mai avrebbe potuto resistere a tanta lusinga?). Era indispensabile distruggerla.
In macchina raggiunsi una recondita valle delle Alpi. Lasciai l’auto su uno spiazzo erboso e mi incamminai su per un bosco. Non c’era anima viva. Oltrepassato il bosco, raggiunsi le pietraie della morena. Qui, fra due giganteschi macigni, dal sacco da montagna trassi la giacca infame, la cosparsi di petrolio e diedi fuoco. In pochi minuti non rimase che la cenere. Ma all’ultimo guizzo delle fiamme, dietro di me – pareva a due o tre metri di distanza – risuonò una voce umana: «Troppo tardi, troppo tardi!».
Terrorizzato, mi volsi con un guizzo da serpente. Ma non si vedeva nessuno. Esplorai intorno, saltando da un pietrone all’altro, per scovare il maledetto. Niente. Non c’erano che pietre. Nonostante lo spavento provato, ridiscesi al fondo valle con un senso di sollievo. Libero, finalmente. E ricco, per fortuna. Ma sullo spiazzo erboso, la mia macchina non c’era più. E, ritornato che fui in città, la mia sontuosa villa era sparita; al suo posto, un prato incolto con dei pali che reggevano  l’avviso «Terreno comunale da vendere». E i depositi in banca, non mi spiegai come, completamente esauriti. E scomparsi, nelle mie numerose cassette di sicurezza, i grossi pacchi di azioni. E polvere, nient’altro che polvere, nel vecchio baule. Adesso ho ripreso stentatamente a lavorare, me la cavo a mala pena, e, quello che è più strano, nessuno sembra meravigliarsi della mia improvvisa rovina. E so che non è ancora finita. So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abbietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora.
ragazza che precipita
A diciannove anni, Marta si affacciò dalla sommità del grattacielo e, vedendo di sotto la città risplendere nella sera, fu presa dalle vertigini.
Il grattacielo era d’argento, supremo e felice in quella
sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottilifilamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro
assolutamente incredibile. Era infatti l’ ora che le città
vengono prese dall’ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto.
Dall’ aereo culmine la ragazza vedeva le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e là dove il bianco delle case finiva,cominciava il blu del mare che visto dall’ alto sembrava in salita. E siccome dall’ oriente avanzavano i velari
della notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava. C’erano
dentro gli uominipotenti e le donne ancora di più, le pellicce e i violini, le macchine smaltate d’onice, le insegne
fosforescentidei tabarins, gli androni delle spente regge, le fontane, i diamanti, gli antichi giardini taciturni, le feste, idesideri, gli amori e, sopra tutto, quello struggente incantesimo della sera per cui si fantastica di grandezza edi gloria.Queste cose vedendo, Marta si sporse perdutamente oltre la balaustra e si lasciò andare. Le parve di librarsi nell’aria, ma precipitava. Data la straordinaria altezza del grattacielo, le strade e le piazze laggiù in fondoerano estremamente lontane, chissà quanto tempo per arrivarci. Ma la ragazza precipitava.Le terrazze e i balconi degli ultimi piani erano
popolati in quell’ora da gente
elegante e ricca che prendeva cocktails e faceva sciocche conversazioni. Ne venivano fiotti sparsi e confusi di musiche. Marta vi passò dinanzi e parecchi si affacciarono a guardarla.Voli di quel genere – nella maggioranza appunto ragazze – non erano rari nel grattacielo e costituivano pergli inquilini un diversivo interessante; anche perciò il prezzo di quegli appartamenti era altissimo.Il sole, non ancora del tutto disceso, fece del suo meglio per illuminare il vestitino di Marta. Era un modestoabito primaverile comprato-fatto per pochi soldi. Ma la luce lirica del tramonto lo esaltava alquanto,rendendolo chic.Dai balconi dei miliardari, mani galanti si tendevano verso di lei, offrendo fiori e bicchieri. « Signorina, unpiccolo drink?… Gentile farfalla, perché non si ferma un minuto tra noi? »Lei rideva, svolazzando, felice (ma intanto precipitava): « No, grazie, amici. Non posso. Ho fretta d’arrivare.»« Di arrivare dove? » le chiedevano.« Ah, non fatemi parlare » rispondeva Marta e agitava le mani in atto di confidenziale saluto.
Un giovanotto, alto, bruno, assai distinto, allungò le braccia per ghermirla. Le piaceva. Eppure Marta sischermì velocemente: «Come si permette, signore?» e fece in tempo a dargli con un dito un colpetto sulnaso.La gente di lusso si occupava dunque di lei e ciò la riempiva di soddisfazione. Si sentiva affascinante, dimoda. Sulle fiorite terrazze, tra l’andirivieni di camerieri in bianco e le folate di canzoni esotiche si parlò perqualche minuto, o forse meno, di quella giovane che stava passando (dall’alto in basso, con rotta verticale).Alcuni la giudicavano bella, altri così così, tutti la trovarono interessante.«Lei ha tutta la vita davanti » le dicevano « perché si affretta così? Ne ha di tempo disponibile per correre eaffannarsi. Si fermi un momento con noi, non è che una modesta festicciola tra amici, intendiamoci, eppuresi troverà bene.»Lei faceva atto di rispondere ma già l’accelerazione di gravità l’aveva portata al piano di sotto, a due, tre,quattro piani di sotto; come si precipita infatti allegramente quando si hanno appena diciannove anni.Certo la distanza che la separava dal fondo, cioè dal livello delle strade, era immensa; meno di poco fa,certamente, tuttavia sempre considerevole. Nel frattempo però il sole si era tuffato nel mare, lo si era vistoscomparire trasformato in un tremolante fungo rossastro. Non c’erano quindi più i suoi raggi vivificanti ailluminare l’abito della ragazza e a farne una seducente cometa. Meno male che i finestrini e le terrazze delgrattacielo erano quasi tutti illuminati e gli intensi riverberi la investivano in pieno via via che passava dinanzi.
Ora nell’interno degli appartamenti Marta non vedeva più soltanto compagnie di gente spensierata,di quando in quando c’erano pure degli uffici dove le impiegate, in grembiali neri o azzurri, sedevano aitavolini in lunghe file. Parecchie erano giovani come e più di lei e, ormai stanche della giornata, alzavanoogni tanto gli occhi dalle pratiche e dalle macchine per scrivere. Anch’esse così la videro, e alcune corseroalle finestre: « Dove vai? Perché tanta fretta? Chi sei? » le gridavano, nelle voci si indovinava qualcosa disimile all’invidia.«Mi aspettano laggiù » rispondeva lei. « Non posso fermarmi. Perdonatemi.» E ancora rideva, fluttuando sulprecipizio, ma non erano più le risate di prima. La notte era subdolamente discesa e Marta cominciava asentir freddo.In quel mentre, guardando in basso, vide all’ingresso di un palazzo un vivo alone di luci. Qui lungheautomobili nere si fermavano (per la distanza grandi come formiche), e ne scendevano uomini e donne,ansiosi di entrare. Le parve di distinguere, in quel formicolio, lo scintillare dei gioielli. Sopra l’entratasventolavano bandiere.Davano una grande festa, evidentemente, proprio quella che lei, Marta, sognava da quando era bambina.Guai se fosse mancata. Laggiù l’aspettava l’occasione, la fatalità, il romanzo, la vera inaugurazione della vita.Sarebbe arrivata in tempo? Con dispetto si accorse che una trentina di metri più in là un’altra ragazza stavaprecipitando. Era decisamente più bella di lei e indossava un vestito da mezza sera, abbastanza di classe.Chissà come, veniva giù a velocità molto superiore alla sua, tanto che in pochi istanti la sopravanzò e sparì inbasso, sebbene Marta la chiamasse. Senza dubbio sarebbe giunta alla festa prima di lei, poteva darsi che fosse tutto un piano calcolato per soppiantarla.
Poi si rese conto che a precipitare non erano loro due sole. Lungo i fianchi del grattacielo varie altre donne giovanissime stavano piombando in basso, i volti tesi nell’eccitazione del volo, le mani festosamente agitatecome per dire: eccoci, siamo qui, è la nostra ora, fateci festa, il mondo non è forse nostro?Era una gara, dunque. E lei aveva soltanto un misero abitino, mentre quelle altre sfoggiavano modelli digran taglio e qualcuna perfino si stringeva, sulle spalle nude, ampie stole di visone. Così sicura di sé quandoaveva spiccato il volo, adesso Marta sentiva un tremito crescerle dentro, forse era semplicemente il freddoma forse era anche paura, la paura di aver fatto uno sbaglio senza rimedio.Sembrava notte profonda orm ai. Le finestre si spegnevano una dopo l’altra, gli echi di musica divennero piùrari, gli uffici erano vuoti, nessun giovanotto si sporgeva più dai davanzali tendendo le mani. Che ora era?All’ingresso del palazzo laggiù – che nel frattempo si era fatto più grande, e se ne potevano distinguere ormaitutti i particolari architettonici – permaneva intatta la luminaria, ma l’andirivieni delle automobili era cessato.Di quando in quando, anzi, piccoli gruppetti uscivano dal portone allontanandosi con passo stanco. Poi anchele lampade dell’ingresso si spensero.Marta sentì stringersi il cuore. Ahimè, alla festa, non sarebbe più giunta in tempo. Gettando un’occhiataall’insù, vide il pinnacolo del grattacielo in tutta la sua potenza crudele. Era quasi tutto buio, rare e sparse finestre ancora accese agli ultimi piani. E sopra la cima si spandeva lentamente il primo barlume dell’alba.In un tinello del ventottesimo piano un uomo sui quarant’anni stava prendendo il caffè del mattino e intantoleggeva il giornale, mentre la moglie rigovernava la stanza. Un orologio sulla credenza segnava le novemeno un quarto. Un’ombra passò repentina dinanzi alla finestra.
«Alberto » gridò la moglie « hai visto? E’ passata una donna.»
«Com’era? » fece lui senza alzare gli occhi dal giornale.«Una vecchia » rispose la moglie. « Una vecchia decrepita. Sembrava spaventata.»«Sempre così » l’uomo brontolò. « A questi piani bassi non passano che vecchie cadenti. Belle ragazze sivedono dal cinquecentesimo piano in su. Mica per niente quegli appartamenti costano così cari. »«C’è il vantaggio » osservò la moglie « che quaggiù almeno si può sentire il tonfo, quando toccano terra.»«Stavolta, neanche quello» disse lui, scuotendo il capo, dopo essere rimasto alcuni istanti in ascolto. E bevve un altro sorso di caffè.