venerdì 21 febbraio 2020

SAPIENS
DA ANIMALI A DÈI
Yuval Noah Harari


Centomila anni fa almeno sei specie di umani abitavano la Terra. Erano animali insignificanti, il cui impatto sul pianeta non era superiore a quello di gorilla, lucciole o meduse. Oggi sulla terra c’è una sola specie di umani. Noi: Homo sapiens. E siamo i signori del pianeta. Il segreto del nostro successo è l’immaginazione. Siamo gli unici animali capaci di parlare di cose che esistono solo nelle nostre fantasie: come le divinità, le nazioni, le leggi e i soldi. Sapiens. Da animali a dèi spiega come ci siamo associati per creare città, regni e imperi; come abbiamo costruito la fiducia nei soldi, nei libri e nelle leggi; come ci siamo ritrovati schiavi della burocrazia, del consumismo e della ricerca della felicità.

PARTE PRIMA
LA RIVOLUZIONE COGNITIVA
 1.

Anni prima di oggi

 13,5 miliardi Appaiono materia ed energia. Inizio della fisica. Appaiono atomi e molecole. Inizio della chimica.

4,5 miliardi Formazione del pianeta Terra.

3,8 miliardi Comparsa degli organismi. Inizio della biologia. 6 milioni Ultima progenitrice comune di umani e scimpanzé.

2,5 milioni Gli esseri umani evolvono in Africa. Primi utensili di pietra.

2 milioni Gli umani si diffondono dall’Africa all’Eurasia. Evoluzione di specie umane diverse.

500.000 I Neanderthal si evolvono in Europa e nel Medio Oriente.

300.000 Uso quotidiano del fuoco.

200.000 Homo sapiens si evolve nell’Africa orientale.

70.000 Rivoluzione cognitiva. Emergere del linguaggio e della capacità di creare finzioni. Inizio della storia. I Sapiens si diffondono al di fuori dell’Africa.

45.000 I Sapiens si stabiliscono in Australia. Estinzione della megafauna australiana.

30.000 Estinzione dei Neanderthal.


16.000 I Sapiens si stabiliscono nel continente americano. Estinzione della megafauna americana.

13.000 Estinzione di Homo floresiensis. Homo sapiens è l’unica specie umana rimasta.

12.000 Rivoluzione agricola. Domesticazione delle piante e degli animali. Insediamenti permanenti.

5000 Primi regni, prime forme di scrittura e di moneta. Religioni politeiste.

4250 Il primo impero: l’impero accadico di Sargon.

3000 Invenzione della coniatura: una moneta universale. L’impero persiano: un ordine politico universale “a beneficio di tutti gli umani”. Buddhismo in India: una verità universale “per liberare tutti gli esseri dalla sofferenza”.

2000 Impero degli Han in Cina. Impero romano nel Mediterraneo. Cristianesimo.

1400 Islam.

500 Rivoluzione scientifica. L’umanità ammette la propria ignoranza e comincia ad acquisire un potere senza precedenti. Gli europei cominciano a conquistare l’America e gli oceani. Unificazione della storia del pianeta. Ascesa del capitalismo.

200 Rivoluzione industriale. Le famiglie e le comunità sono sostituite dallo stato e dal mercato. Estinzione di animali e piante su grande scala. Oggi Gli uomini trascendono i limiti del pianeta Terra. Le armi atomiche minacciano la sopravvivenza dell’umanità. Gli organismi sono sempre più modellati dalla ingegnerizzazione dell’intelligenza artificiale più che dalla selezione naturale. Domani L’ingegnerizzazione dell’intelligenza artificiale diventa il principio base della vita? Prime forme di vita non organiche? Homo sapiens viene sostituito da superuomini?


PARTE PRIMA
LA RIVOLUZIONE COGNITIVA
1.

 1. Un animale di nessuna importanza 

Circa 14 miliardi di anni fa, materia, energia, tempo e spazio scaturirono da quello che è noto come il Big Bang. La storia di queste caratteristiche fondamentali del nostro universo si chiama fisica. Circa 300.000 anni dopo la loro comparsa, materia ed energia cominciarono a fondersi in complesse strutture chiamate atomi, che poi si combinarono a formare le molecole. La storia degli atomi, delle molecole e delle loro interazioni si chiama chimica. Circa 4 miliardi di anni fa, su un pianeta chiamato Terra, certe molecole si combinarono venendo a formare strutture particolarmente articolate e complesse chiamate organismi. La storia degli organismi si chiama biologia. Circa 70.000 anni fa, gli organismi appartenenti alla specie Homo sapiens cominciarono a formare strutture ancora più elaborate chiamate culture. Il successivo sviluppo di queste culture umane è chiamato storia. A modellare il corso della storia furono tre importanti rivoluzioni: la Rivoluzione cognitiva diede il via alla storia circa 70.000 anni fa. La Rivoluzione agricola partì intorno a 12.000 anni fa. La Rivoluzione scientifica, messasi in marcia solo 500 anni fa, potrebbe considerarsi come un termine della storia e l’inizio di qualcosa di completamente differente. Questo libro cerca di raccontare come queste tre rivoluzioni abbiano inciso sugli umani e sui loro organismi. Molto tempo prima che avesse inizio la storia, c’erano già degli umani. Animali molto simili agli umani moderni comparvero per la prima volta intorno a 2,5 milioni di anni fa. Ma per innumerevoli generazioni non si distinsero dalla miriade di organismi con cui spartivano il loro habitat. Circa 2 milioni di anni fa, in Africa orientale, era facile incontrare una tipologia di caratteri umani familiari: madri apprensive che stringono al seno i loro figli e gruppi di bambini più grandi che giocano nel fango; giovani esagitati che inveiscono contro le regole della società e anziani stanchi che vogliono essere lasciati in pace; maschi impettiti che cercano di impressionare le bellezze locali e matriarche vecchie e sagge che non si stupiscono più di nulla. Questi umani arcaici amavano, giocavano, formavano strette amicizie, competevano tra loro per conquistare status e potere – ma la stessa cosa facevano gli scimpanzé, i babbuini e gli elefanti. Non c’era niente di speciale in loro. Nessuno, e tanto meno gli stessi umani, aveva la minima idea che i loro discendenti avrebbero un giorno camminato sulla Luna, scisso l’atomo, individuato il codice genetico e scritto libri di storia. La cosa più importante da sapere circa gli umani preistorici è che erano animali insignificanti: il loro impatto sull’ambiente in cui vivevano non era superiore a quello di gorilla, lucciole e meduse. I biologi classificano gli organismi viventi in specie. Si dice che gli animali appartengono alla stessa specie se tendono ad accoppiarsi tra loro, mettendo al mondo una prole fertile. Cavalli e asini hanno un recente antenato comune e condividono molti tratti fisici. Mostrano però, gli uni verso gli altri, una scarsa attrazione sessuale. Si accoppiano se indotti a farlo, ma i loro nati – per esempio i muli – sono sterili. Le mutazioni nel DNA degli asini non possono dunque incrociarsi con quelle dei cavalli, e viceversa. Conseguentemente i due tipi di animali sono considerati due specie distinte, che seguono un cammino evolutivo separato. Invece un bulldog e uno spaniel possono sembrare assai diversi, ma sono membri della medesima specie, condividendo lo stesso pool genico. Possono accoppiarsi e i loro cuccioli potranno crescere, fare coppia con altri cani e generare altri cuccioli. Le specie che si sono evolute da un antenato comune vengono raggruppate sotto un “genere” (dal latino genus). Leoni, tigri, leopardi e giaguari sono specie differenti in seno al genere Panthera. I biologi chiamano gli organismi viventi con un nome latino composto da due parti, cioè il genere seguito dalla specie. Il leone, per esempio, viene chiamato Panthera leo, perché appartiene alla specie leo del genere Panthera. Presumibilmente, chiunque stia leggendo questo libro è un Homo sapiens – la specie sapiens (intelligente) del genere Homo (uomo). I generi a loro volta sono raggruppati in famiglie, come i felini (leoni, ghepardi, gatti domestici), i canidi (lupi, volpi, sciacalli) e gli elefanti (elefanti, mammut, mastodonti). Tutti i membri di una famiglia fanno risalire il loro lignaggio alla matriarca o al patriarca che l’ha fondata. Tutti i felini, per esempio, dal più piccolo gattino domestico al leone più feroce, hanno un comune antenato felino che è vissuto venticinque milioni di anni fa. Anche Homo sapiens appartiene a una famiglia. Questo fatto banale è stato uno dei segreti più strettamente custoditi della storia. Homo sapiens ha preferito a lungo considerarsi un essere a parte rispetto agli animali: un orfano privo di una famiglia, senza fratelli o cugini e, cosa più importante di tutte, senza genitori. Però così non era. Ci piaccia o no, siamo membri di una famiglia vasta e particolarmente rumorosa, quella delle grandi scimmie. I nostri parenti prossimi comprendono gli scimpanzé, i gorilla e gli orangutan. I più vicini sono gli scimpanzé. Appena 6 milioni di anni fa, un’unica scimmia femmina ebbe due figlie. Una fu la progenitrice di tutti gli scimpanzé, l’altra la nostra nonna. Scheletri nell’armadio Homo sapiens ha tenuto nascosto un segreto ancora più disturbante. Non soltanto abbiamo una gran quantità di cugini non civilizzati: c’è stato un tempo in cui abbiamo avuto anche un bel po’ di fratelli e sorelle. Siamo abituati a pensare a noi come gli unici umani, perché da 10.000 anni in qua la nostra è stata in effetti l’unica specie umana in circolazione. Tuttavia, il vero significato della parola “essere umano” è “animale appartenente al genere Homo”, e c’erano molte altre specie di questo genus oltre a Homo sapiens. Inoltre, come vedremo nell’ultimo capitolo di questo libro, in un futuro non molto distante potremmo di nuovo dover competere con degli umani non sapiens. Perché sia chiaro questo punto, userò spesso il termine “Sapiens” (mantenendolo invariato al plurale) per denotare membri della specie Homo sapiens, riservando il termine “umano” per riferirmi a tutti i membri esistenti del genere Homo. L’evoluzione degli umani ebbe luogo per la prima volta in Africa orientale circa due milioni e mezzo di anni fa da un precedente genere di scimmia chiamata Australopithecus, che significa “Scimmia dell’emisfero sud”. Circa due milioni di anni fa, alcuni maschi e femmine di questi umani arcaici lasciarono il loro territorio e cominciarono un viaggio stanziandosi in vaste aree del Nord Africa, dell’Europa e dell’Asia. Poiché nelle foreste nevose dell’Europa settentrionale erano richieste qualità differenti rispetto a quelle necessarie per sopravvivere nelle giungle umide dell’Indonesia, le popolazioni di umani si evolsero in direzioni differenti. Il risultato fu il prodursi di tante specie distinte, a ciascuna delle quali gli scienziati hanno assegnato un pomposo nome latino. In Europa e Asia occidentale gli umani si evolsero in Homo neanderthalensis (“Uomo della Valle di Neander”), e a loro ci si può anche riferire semplicemente con “i Neanderthal”. I Neanderthal, più massicci e muscolosi di noi Sapiens, si adattavano bene al clima freddo dell’Eurasia occidentale dell’era glaciale. Le regioni più orientali dell’Asia erano popolate da Homo erectus, che sopravvisse lì per quasi due milioni di anni, il che fa di lui la specie umana durata di più al mondo. È improbabile che tale record possa essere infranto persino dalla specie a cui apparteniamo. Difficilmente, infatti, Homo sapiens sarà in circolazione fra una decina di secoli, per cui quei due milioni di anni paiono davvero al di là delle nostre possibilità. Sull’isola di Giava, in Indonesia, viveva Homo soloensis, l’“Uomo della Valle di Solo”, che si era adattato alla vita nei tropici. Su un’altra isola indonesiana – la piccola isola di Flores – gli umani arcaici subirono un processo di rimpicciolimento. Erano arrivati a Flores quando il livello del mare era eccezionalmente basso e l’isola era facilmente accessibile dalla terraferma. Quando il mare tornò a salire, alcuni individui rimasero intrappolati nell’isola, che aveva risorse scarse. Quelli più grandi e grossi, che abbisognavano di molto cibo, morirono per primi. Se la cavarono meglio i mingherlini. Generazione dopo generazione, la gente di Flores diventò nana. Questa specie unica, nota agli scienziati come Homo floresiensis, raggiungeva l’altezza di un metro e non pesava oltre i 25 chilogrammi. Furono capaci comunque di produrre utensili di pietra e occasionalmente riuscirono ad abbattere anche alcuni elefanti presenti sull’isola – anche se, a dire il vero, pure questi ultimi erano di una specie nana. Nel 2010 un altro fratello perduto è stato strappato all’oblio quando alcuni scienziati, scavando nella grotta di Denisova in Siberia, scoprirono l’osso fossilizzato di un dito. L’analisi genetica dimostrò che il dito apparteneva a una specie umana fin lì sconosciuta, che ha preso il nome di Homo denisova. Chissà quanti parenti perduti abbiamo, che stanno aspettando di essere scoperti in altre grotte, su altre isole e sotto altri climi. Mentre questi umani si evolvevano in Europa e in Asia, l’evoluzione in Africa orientale non si era fermata. La culla dell’umanità continuò a nutrire numerose specie nuove, come Homo rudolfensis (l’“Uomo del Lago Rudolf”), Homo ergaster (l’“Uomo industre”) e infine la nostra stessa specie, che con poca modestia abbiamo chiamato Homo sapiens: l’uomo intelligente, l’uomo che sa.
I membri di alcune di queste specie erano di grande corporatura, altri erano nani. Alcuni erano tremendi cacciatori, altri quieti raccoglitori di piante. Alcuni vivevano su un’isola e solo lì, mentre molti altri migravano attraverso i continenti. Ma tutti appartenevano al genere Homo. Erano tutti degli esseri umani. Uno sbaglio comune è quello di immaginare queste specie come ordinate in una stretta linea di discendenza, dove l’ergaster determina la venuta dell’erectus, l’erectus determina la venuta del Neanderthal e questi si evolve in quello che siamo noi. Questo modello lineare dà l’erronea impressione che in ogni particolare momento sia solo un tipo di umano a popolare la Terra, e che tutte le specie precedenti siano semplicemente modelli più obsoleti di ciò che siamo noi. La verità è che da circa due milioni di anni fa e fino a circa 10.000 anni fa, il mondo era la casa, contemporaneamente, di diverse specie umane. Perché mai non dovrebbe essere così? Oggi ci sono molte specie di orsi: orsi bruni, orsi neri, grizzley e orsi polari. Un tempo la Terra era calpestata da almeno sei differenti specie di uomo. È la nostra attuale esclusività, e non certo un passato multispecie, a essere insolita e, forse, incriminante. Come vedremo fra breve, noi Sapiens abbiamo buone ragioni per sopprimere il ricordo dei nostri fratelli. Il prezzo del pensiero Nonostante le molte differenze, tutte le specie umane condividono certe caratteristiche distintive. Quella più saliente è che gli umani hanno cervelli straordinariamente sviluppati rispetto agli altri animali. I mammiferi del peso di 60 chilogrammi posseggono in media un cervello di 200 centimetri cubi. Il Sapiens moderno sfoggia un cervello che misura in media 1200-1400 centimetri cubi. Il cervello del Neanderthal era ancora più grosso. Che l’evoluzione dovesse per forza propendere verso cervelli più grandi, a noi può sembrare qualcosa di lapalissiano. Siamo talmente innamorati della nostra elevata intelligenza da presumere che quando si tratta di capacità cerebrale, più se ne ha meglio è. Ma, se fosse stato così, la famiglia dei felini avrebbe prodotto anche esemplari in grado di fare calcoli. Come mai il genere Homo è il solo, nell’intero mondo animale, ad avere concepito queste poderose macchine del pensiero? Non c’è dubbio che un cervello grosso è un bel fardello per il corpo. Non è facile portarselo in giro, specie se è inscatolato in un cranio massiccio. Ed è anche più difficile alimentarlo. In Homo sapiens il cervello vale circa il 2-3% del peso corporeo totale, ma consuma il 25% dell’energia del corpo quando questo è in stato di riposo. Facendo il confronto, i cervelli delle altre scimmie richiedono solo l’8% dell’energia in stato di riposo. Gli umani arcaici pagarono in due modi il fatto di avere cervelli grandi. In primo luogo, spesero più tempo alla ricerca di cibo. Secondariamente, atrofizzarono i loro muscoli. Allo stesso modo di un governo che dirotta fondi dalla difesa all’educazione, gli umani dirottarono l’energia dai bicipiti ai neuroni. Che questa fosse una buona strategia per sopravvivere nella savana non era affatto scontato. Uno scimpanzé non può vincere una disputa con un Homo sapiens; ma quello stesso scimmione può spaccare in due un uomo come se fosse una bambola di pezza. Oggi i nostri grossi cervelli vanno benissimo, perché siamo capaci di produrre automobili e armi che ci consentono di spostarci più velocemente degli scimpanzé ed eventualmente di sparargli da una distanza di sicurezza invece di lottare corpo a corpo. Ma le macchine e i fucili sono fenomeni recenti. Per oltre due milioni di anni i sistemi neuronali umani avevano continuato a crescere, ma a parte qualche coltello di selce e qualche bastone appuntito, gli uomini possedevano ben poco che potesse comprovarlo. Che cosa, dunque, aveva dato impulso all’evoluzione di un cervello umano sempre più grande durante quei due milioni di anni? Francamente non lo sappiamo. Un altro singolare tratto umano è che possiamo camminare eretti su due gambe. Stando in piedi, è più facile perlustrare la savana per vedere se ci sono prede o nemici; e le braccia, non più necessarie per la locomozione, sono libere per altri scopi, come lanciare pietre o fare segnalazioni. Quante più cose braccia e mani furono in grado di fare, tanto più successo ebbero i loro possessori: ecco perché la pulsione evolutiva produsse una crescente concentrazione di nervi e di muscoli adatti a movimenti di precisione nei palmi e nelle dita. Di conseguenza gli umani possono svolgere compiti molto complessi con le mani. In particolare possono produrre e utilizzare utensili sofisticati. La prima testimonianza della produzione di utensili viene fatta risalire a due milioni e mezzo di anni fa, e la manifattura e l’impiego di tali utensili costituiscono i criteri in base ai quali gli archeologi riconoscono e classificano gli antichi umani. Il fatto di camminare eretti ha però il suo lato negativo. Lo scheletro dei nostri progenitori si era sviluppato per milioni di anni in modo da sostenere una creatura che camminava a quattro zampe e aveva una testa relativamente piccola. Adattarsi alla stazione eretta fu una sfida enorme, specie quando l’impalcatura dovette sostenere un cranio extralarge. Mal di schiena e collo rigido furono lo scotto da pagare in cambio di una visuale più elevata e di mani operose. Alle donne ciò costò anche di più. L’andatura eretta richiedeva fianchi più stretti, venendo così a restringere il canale vaginale – e ciò mentre le teste dei bambini diventavano sempre più grosse. Per le femmine degli umani, la morte per parto diventò un pericolo enorme. Le donne che partorivano in anticipo, quando il cervello e il cranio del bambino erano ancora relativamente piccoli e morbidi, avevano maggiori possibilità di sopravvivere e davano alla luce più figli. Di conseguenza, la selezione naturale favorì le nascite anticipate. E infatti, se si fa il raffronto con gli altri animali, gli umani nascono prematuramente, quando molti dei loro sistemi vitali non sono ancora sviluppati. Poco tempo dopo essere nato, un puledro può tirarsi su e mettersi a trotterellare; un gattino si stacca da sua madre per cercare cibo da sé dopo solo poche settimane. I piccoli umani sono inermi, e per anni restano dipendenti dagli adulti per quanto riguarda il sostentamento, la protezione e l’educazione. Questo fatto ha contribuito in modo considerevole sia alle straordinarie qualità sociali degli umani sia ai loro problemi sociali parimenti unici. Madri sole difficilmente potevano procurare abbastanza cibo per la loro prole e per sé se avevano un piccolo da accudire. Allevare figli richiedeva un costante aiuto da parte di altri membri della famiglia e dei vicini. Per allevare un umano ci vuole una tribù. L’evoluzione, dunque, favorì quegli individui capaci di creare forti legami sociali. Inoltre, poiché gli umani nascono quando non sono ancora sviluppati, essi possono essere educati e socializzati in una misura assai più estesa rispetto a qualsiasi altro animale. La maggior parte dei mammiferi esce dal grembo come la terracotta smaltata esce dal forno – ogni tentativo di rimodellarla manderebbe tutto in frantumi. Gli umani, invece, escono dal grembo come la pasta di vetro dalla fornace. Possono essere rigirati, stirati e modellati con un sorprendente grado di libertà. Ecco perché oggi possiamo educare i nostri figli a diventare cristiani o buddhisti, capitalisti o socialisti, bellicosi o pacifisti. Si presume che un cervello grande, l’uso di utensili, di conoscenze e abilità di buon livello, e infine strutture sociali complesse costituiscano enormi vantaggi. Pare ovvio che siano state queste cose a rendere l’essere umano l’animale più potente che esista sulla Terra. Però gli umani godettero di tutti questi vantaggi per due milioni d’anni buoni, durante i quali rimasero comunque creature deboli e marginali. Così gli umani di un milione di anni fa, nonostante i loro grandi cervelli e gli affilati utensili di selce, vivevano nella costante paura dei predatori, raramente cacciavano selvaggina di grossa taglia e campavano sostanzialmente raccogliendo piante, piluccando insetti, seguendo le piste di piccoli animali e mangiando le carogne di altri carnivori più possenti. I primi utensili di pietra venivano comunemente usati per spaccare ossa, così da poterne ricavare il midollo. Alcuni ricercatori ritengono che questa fosse la nostra specialità. Così come il picchio è specializzato a estrarre gli insetti dai tronchi degli alberi, i primi umani si specializzarono nell’estrarre il midollo dall’interno delle ossa. Perché il midollo? Bene, supponiamo che stiate osservando un branco di leoni che atterrano una giraffa e la divorano. Aspettate pazientemente finché non si siano saziati. Ma non è ancora il vostro turno, perché prima ci sono le iene e gli sciacalli – con cui non è il caso d’interferire – che setacciano i resti. Solo allora voi e la vostra squadra oserete avvicinarvi cautamente alla carcassa – guardandovi intorno a destra e a manca – e potrete buttarvi sull’unico tessuto edibile che è rimasto. Questa è la chiave per capire la nostra storia e la nostra psicologia. Fino a tempi molto recenti, la posizione del genere Homo nella catena alimentare è rimasta stabilmente su un punto mediano. Per milioni di anni gli umani hanno cacciato piccole creature e raccolto quel che potevano, essendo intanto oggetto dell’attenzione di predatori più grandi. Fu solo 400.000 anni fa che alcune specie umane cominciarono a cacciare in pianta stabile selvaggina di grande taglia, e solo negli ultimi 100.000 anni – con la nascita di Homo sapiens – l’uomo si insediò in cima alla catena alimentare. Quel salto spettacolare dalla posizione mediana al vertice ebbe enormi conseguenze. Altri animali al vertice della piramide, come i leoni e gli squali, avevano guadagnato quella posizione molto gradualmente, impiegandoci milioni di anni. Ciò aveva consentito all’ecosistema di sviluppare filtri ed equilibri che impedivano ai leoni e agli squali di creare troppo scompiglio. Mentre i leoni diventavano micidiali, le gazzelle imparavano a correre più forte, le iene a cooperare meglio tra di loro e i rinoceronti a diventare di carattere più iroso. Gli umani, invece, raggiunsero la vetta così in fretta che l’ecosistema non ebbe il tempo di equilibrare le cose. Per giunta, neppure gli stessi umani riuscirono ad adattarsi. I principali predatori del pianeta sono in gran parte creature maestose. Il fatto di aver dominato per milioni di anni ha infuso loro un’assoluta sicurezza. Al contrario, il Sapiens somiglia al dittatore di una repubblica delle banane. Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi. Molte calamità storiche, dalle guerre mortali alle catastrofi ecologiche, sono la conseguenza di questo salto oltremodo veloce. Una razza di cuochi Un passo significativo sulla via che portò ai vertici della catena alimentare fu l’addomesticamento del fuoco. È possibile che alcune specie umane abbiano usato occasionalmente il fuoco fin da 800.000 anni fa. Ma 300.000 anni fa Homo erectus, Neanderthal e i progenitori di Homo sapiens usavano il fuoco quotidianamente. Gli umani disponevano ora di una formidabile fonte di luce e di calore, oltre che di un’arma micidiale contro i leoni a caccia di prede. Non molto tempo dopo, gli umani devono aver iniziato a incendiare deliberatamente i dintorni dei propri insediamenti. Un fuoco gestito con cura poteva trasformare tratti di impenetrabile boscaglia in spazi in cui sarebbe cresciuta erba alta che si sarebbe popolata di selvaggina. Per di più, una volta che il fuoco s’era spento, i più intraprendenti fra i nostri antenati dell’Età della pietra potevano camminare attraverso i resti fumanti e fare incetta di animaletti abbrustoliti, di noci e di tuberi. Comunque, la cosa migliore che si faceva col fuoco era cucinare. I cibi che gli umani non riuscivano a digerire nelle loro forme naturali – come il frumento, il riso e le patate – diventarono le basi della nostra dieta grazie alla cottura. Il fuoco non solo cambiò la chimica dei cibi, cambiò anche la biologia. Cuocere voleva dire uccidere i germi e i parassiti che infestavano il cibo. Inoltre anche frutti, nocciole, insetti e pure carogne – cibi già noti e apprezzati – diventavano, una volta cotti, più facili da masticare e da digerire. Mentre gli scimpanzé trascorrono cinque ore al giorno a masticare il cibo crudo, a chi mangia cibo cotto basta un’ora. L’avvento della cottura consentì agli umani di consumare una gamma più vasta di cibi, di destinare meno tempo a nutrirsi e di cavarsela con denti più piccoli e intestini più corti. Alcuni studiosi ritengono che ci sia un legame diretto tra l’avvento della cottura del cibo, l’accorciamento del tratto intestinale e la crescita del cervello umano. Siccome sia gli intestini lunghi sia i cervelli grandi sono forti consumatori d’energia, è un po’ difficile averli entrambi. Accorciando gli intestini e diminuendo il loro consumo energetico, la cottura, involontariamente, aprì la strada ai grandi cervelli dei Neanderthal e dei Sapiens.1 L’uso del fuoco, inoltre, marcò il primo grande distacco tra l’uomo e gli altri animali. La potenza di quasi tutti gli animali dipende dai loro corpi: dalla forza dei loro muscoli, dalla dimensione dei loro denti, dall’apertura delle loro ali. Benché essi riescano a sfruttare venti e correnti, non sono in grado di controllare queste forze naturali e restano sempre condizionati dal loro modello fisico. Le aquile, per esempio, sanno identificare le colonne termiche di aria calda che le fanno.
salire in alto. Tuttavia non sono in grado di controllare l’ubicazione di tali colonne, e la loro massima capacità di trasporto è strettamente proporzionale alla loro apertura alare. Addomesticando il fuoco, gli umani acquisirono il controllo di una forza totalmente gestibile e potenzialmente illimitata. A differenza delle aquile, gli umani potevano decidere quando e dove accendere la fiamma, ed erano in grado di sfruttare il fuoco per soddisfare le esigenze più diverse. Cosa più importante di tutte, la potenza del fuoco non era condizionata dalla forma, dalla struttura o dalla forza del corpo umano. Bastavano una pietra focaia o un bastoncino da rigirare fra le mani e anche una donna, da sola, poteva appiccare un incendio che avrebbe arso un’intera foresta nel giro di poche ore. L’addomesticamento del fuoco fu un presagio delle cose a venire. I custodi dei nostri fratelli Nonostante i benefici del fuoco, gli umani di 150.000 anni fa erano ancora creature marginali. Ora potevano scacciare i leoni, riscaldarsi durante le notti fredde e se necessario incendiare una foresta. Eppure, calcolando tutte le specie insieme, non erano forse più di un milione gli umani che vivevano tra l’arcipelago indonesiano e la penisola iberica: solo un debole bip del radar ecologico. Mappa 1. Homo sapiens conquista il globo. La nostra specie, Homo sapiens, era già presente sulla scena mondiale, ma per il momento si limitava a badare ai fatti propri stando in un angolo dell’Africa. Non sappiamo esattamente dove e quando gli animali che possiamo classificare come Homo sapiens si siano evoluti rispetto a un precedente tipo di umani. Secondo la maggioranza degli scienziati, 150.000 anni fa l’Africa orientale era popolata da Sapiens che ci somigliavano molto. Se in un obitorio moderno giacesse uno di loro, il patologo non noterebbe nulla di speciale. Grazie alla risorsa rappresentata dal fuoco, essi avevano sviluppato denti e mandibole più piccoli rispetto a quelli dei loro antenati, mentre avevano cervelli massicci, del tutto comparabili, per volume, ai nostri. Gli scienziati concordano anche sul fatto che circa 70.000 anni fa i Sapiens si siano diffusi dall’Africa orientale nella penisola araba e, da lì, si siano distribuiti velocemente nelle più diverse regioni euroasiatiche. Quando Homo sapiens approdò in Arabia, numerose parti dell’Eurasia contavano già insediamenti di altri umani. Che cosa ne fu di loro? Esistono due teorie contrapposte. La teoria dell’ibridazione parla di attrazione, sesso e mescolanza. Propagandosi per il mondo, gli immigrati provenienti dall’Africa si accoppiarono con altre popolazioni umane, e ciò che siamo oggi è il risultato di questa fusione. 3. Ricostruzione ipotetica di un giovane Neanderthal. Le prove genetiche indicano che almeno alcuni Neanderthal forse avevano pelle e capelli chiari. Per esempio, quando i Sapiens arrivarono in Medio Oriente e in Europa, incontrarono i Neanderthal. Questi umani erano più muscolosi dei Sapiens, avevano un cervello più sviluppato ed erano meglio adattati ai climi freddi. Usavano utensili e il fuoco, erano buoni cacciatori e a quanto pare si prendevano cura dei malati e degli infermi (alcuni archeologi hanno scoperto ossa di Neanderthal vissuti per molti anni con severi handicap fisici, e questo dimostra come essi fossero accuditi dai propri parenti). I Neanderthal vengono spesso rappresentati in modo caricaturale, come archetipi del rozzo e stupido “popolo delle caverne”, ma scoperte recenti hanno mutato l’immagine che si dava di loro. Secondo la teoria dell’ibridazione, quando i Sapiens si diffusero nelle terre dei Neanderthal, si mescolarono con loro finché le due popolazioni si fusero completamente. Se le cose sono andate in questo modo, allora vuol dire che gli euroasiatici non sono puri Sapiens. Sono una mescolanza di Sapiens e Neanderthal. Allo stesso modo, quando i Sapiens raggiunsero l’Asia orientale si incrociarono con i locali Erectus, per cui i cinesi e i coreani sono una mescolanza di Sapiens e di Erectus. All’opposto la teoria del rimpiazzamento racconta una storia molto diversa, fatta di incompatibilità, di repulsione, forse persino di genocidio. Secondo questa teoria, i Sapiens e altri umani possedevano anatomie differenti, e molto probabilmente differenti consuetudini di accoppiamento e persino differenti odori corporali. Avrebbero avuto scarso interesse sessuale gli uni verso gli altri. E anche se un Romeo Neanderthal e una Giulietta Sapiens si fossero innamorati, non avrebbero avuto figli fertili, perché il divario genetico che separava le due popolazioni era già incolmabile. Le due popolazioni rimasero completamente distinte, e quando i Neanderthal si estinsero, o furono eliminati, i loro geni morirono con loro. Secondo questa concezione, i Sapiens rimpiazzarono tutte le precedenti popolazioni umane senza fondersi con esse. Se le cose sono andate così, la discendenza di tutti gli umani contemporanei può esser fatta risalire, in modo esclusivo, all’Africa orientale di 70.000 anni fa. Siamo tutti dei “puri Sapiens”. Tale diversità di vedute ha molte conseguenze. Da un punto di vista evoluzionistico, 70.000 anni sono un intervallo di tempo relativamente breve. Se è valida la teoria del rimpiazzamento, tutti gli esseri umani posseggono grosso modo lo stesso bagaglio genetico, e le distinzioni razziali fra di essi sono trascurabili. Ma se è valida la teoria dell’ibridazione, possono esserci senz’altro differenze genetiche tra africani, europei e asiatici, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. Dal punto di vista politico, questa è dinamite, e potrebbe essere usata per sostenere teorie razziali esplosive. Negli scorsi decenni, a dettare legge nel campo è stata la teoria del rimpiazzamento. Possedeva una più solida base archeologica, ed era più politicamente corretta (gli scienziati non avevano voglia di scoperchiare il vaso di Pandora del razzismo affermando la significativa diversità genetica tra le moderne popolazioni umane). Ma ciò ebbe termine nel 2010, quando furono pubblicati i risultati di una ricerca quadriennale che mirava a mappare il genoma dei Neanderthal. I genetisti riuscirono a raccogliere dai fossili DNA neanderthaliano intatto in quantità sufficiente per compararlo, con un raffronto di massima, al DNA degli umani contemporanei. Vedendo i risultati, la comunità scientifica rimase stupefatta. Risultò che, nel DNA unico condiviso dalle moderne popolazioni del Medio Oriente e dell’Europa, una porzione variabile fra l’1 e il 4% era costituita da DNA neanderthaliano. Non è una quantità enorme, ma è pur sempre rilevante. Un secondo shock arrivò alcuni mesi più tardi, quando venne mappato il DNA ricavato dal dito fossilizzato proveniente da Denisova. I risultati dimostrarono che fino al 6% del DNA umano dei moderni malesi e aborigeni australiani è DNA denisovano. Se questi risultati sono validi – non si dimentichi che sono in corso ulteriori ricerche che possono corroborare o modificare tali conclusioni – i sostenitori della teoria dell’ibridazione hanno ragione almeno in parte. Questo non significa peraltro che la teoria del rimpiazzamento sia completamente sbagliata. Poiché i Neanderthal e i Denisova hanno contribuito solo con una piccola quota di DNA al nostro genoma attuale, è impossibile parlare di una “fusione” tra i Sapiens e le altre specie umane. Sebbene le loro differenze non fossero tanto grandi da impedire del tutto accoppiamenti fertili, lo furono a sufficienza per rendere questo tipo di unioni molto rare. Come dovremmo quindi intendere le relazioni biologiche tra Sapiens, Neanderthal e Denisova? Chiaramente non erano specie totalmente differenti tra loro come lo sono i cavalli e gli asini. D’altro canto non erano neppure popolazioni differenti della stessa specie, come i bulldog e gli spaniel. Non c’è bianco e nero nella realtà biologica. Ci sono anche importanti aree grigie. Tutte le specie che si sono evolute da un progenitore comune – come i cavalli e gli asini – sono state, un tempo, semplicemente popolazioni diverse della stessa specie – come i bulldog e gli spaniel. Dev’esserci stato un momento in cui le due popolazioni erano diventate già molto differenti tra loro, ma erano ancora capaci, in rare occasioni, di avere rapporti sessuali e di generare una prole fertile. In seguito, un’altra mutazione ha reciso questo ultimo filo di connessione, e le due specie hanno intrapreso percorsi evoluzionistici separati. Pare che intorno a 50.000 anni fa, i Sapiens, i Neanderthal e i Denisova si siano ritrovati proprio a quel punto di svolta. Costituivano specie quasi separate, sebbene ancora non del tutto. Come vedremo nel prossimo capitolo, i Sapiens erano già molto diversi dai Neanderthal e dai Denisova non solo per quanto riguarda il codice genetico e i tratti fisici, ma anche per le capacità cognitive e sociali; e tuttavia pare che, in rare occasioni, fosse ancora possibile per un Sapiens e un Neanderthal generare prole fertile. Le popolazioni dunque non si fusero, ma furono solo pochi fortunati geni neanderthaliani a salire a bordo del Sapiens Express. È piuttosto sconcertante – e forse anche eccitante – pensare che noi Sapiens potevamo un tempo fare sesso con un animale di una specie diversa, e avere figli da questo rapporto. Ma se i Neanderthal, i Denisova e altre specie umane non si fusero con i Sapiens, perché scomparvero? Una possibilità è che a portarli all’estinzione sia stato Homo sapiens. Immaginate l’arrivo di un gruppo di Sapiens in una vallata dei Balcani dove per centinaia di migliaia di anni erano vissuti dei Neanderthal. I nuovi venuti cominciarono a cacciare i cervi e a raccogliere noci e bacche, che erano un tradizionale alimento dei Neanderthal. Come vedremo nel prossimo capitolo, i Sapiens erano più efficienti come cacciatori e raccoglitori – grazie alle migliori competenze tecnologiche e alle più spiccate abilità sociali – e conseguentemente ebbero modo di moltiplicarsi e diffondersi. Per gli svantaggiati Neanderthal iniziò a diventare sempre più difficile procurarsi del cibo. La loro popolazione scemò e un po’ alla volta si spense, eccetto forse per uno o due componenti che si unirono ai vicini Sapiens. Un’altra possibilità è che la competizione per usufruire delle risorse disponibili sia deflagrata in una serie di violenze e genocidi. La tolleranza non è una caratteristica dei Sapiens. In tempi moderni, una piccola differenza circa il colore della pelle, il dialetto o la religione è bastata per convincere un gruppo di Sapiens a sterminarne un altro. Forse gli antichi Sapiens sarebbero stati più tolleranti nei confronti di una specie umana totalmente differente? Ci sono buone ragioni per credere che l’incontro fra i Sapiens e i Neanderthal si sia risolto nella prima e più drastica campagna di pulizia etnica della storia. Comunque sia andata, i Neanderthal (e le altre specie umane) costituiscono uno dei grandi “se” della storia. Immaginiamo quale piega avrebbero preso le cose se i Neanderthal e i Denisova fossero sopravvissuti accanto a Homo sapiens. Che tipo di culture, di società e di strutture politiche sarebbero venute fuori da un mondo in cui fossero coesistite più specie umane differenti tra loro? Come si sarebbero sviluppate, per esempio, le fedi religiose? Il libro della Genesi avrebbe forse dichiarato che i Neanderthal discendono da Adamo ed Eva, Gesù sarebbe forse morto per i peccati dei Denisova e il Corano avrebbe forse riservato posti in cielo a tutti gli uomini giusti, a prescindere dalla loro specie? Sarebbero stati in grado, i Neanderthal, di servire nelle legioni romane o nella sterminata burocrazia della Cina imperiale? La Dichiarazione d’indipendenza americana avrebbe forse annoverato fra le “verità per se stesse evidenti” che tutti i membri del genere Homo sono creati uguali? Karl Marx avrebbe forse sollecitato a unirsi i lavoratori di tutte le specie? Negli ultimi 10.000 anni Homo sapiens si è talmente abituato a essere l’unica specie umana da rendere difficile, per noi, concepire altre possibilità. L’assenza di “fratelli e sorelle” ci induce facilmente a immaginare di essere il compendio della creazione, e che un abisso ci separi dal resto del regno animale. Quando Charles Darwin dichiarò che Homo sapiens era solo un altro tipo di animale, la gente s’infuriò. Ancora oggi molti si rifiutano di crederci. Se i Neanderthal fossero sopravvissuti, continueremmo a pensare di essere creature a parte? Forse questo è esattamente il motivo per cui i nostri antenati hanno eliminato i Neanderthal. Erano troppo familiari per poterli ignorare, ma troppo diversi per poterli tollerare. Fossero o no colpevoli, non appena i Sapiens arrivavano in un nuovo territorio, la popolazione nativa dopo un po’ si estingueva. Gli ultimi resti di Homo soloensis sono databili a circa 50.000 anni fa. Homo denisova scomparve poco tempo dopo. I Neanderthal uscirono di scena approssimativamente 30.000 anni fa. Gli ultimi umani simili a gnomi dell’isola di Flores scomparvero circa 12.000 anni fa. Si lasciarono dietro alcune ossa, qualche utensile, pochi geni appartenenti anche al nostro DNA e una quantità enorme di domande senza risposta. E lasciarono dietro di sé anche Homo sapiens, l’ultima specie umana: la nostra. Quale fu il segreto del successo dei Sapiens? Come potemmo insediarci così rapidamente in così tanti habitat, distanti ed ecologicamente differenti? Come riuscimmo a relegare nell’oblio tutte le altre specie umane? Perché neppure i forti, intelligenti e temprati Neanderthal riuscirono a sopravvivere al nostro furioso assalto? Il dibattito in merito continua a essere molto acceso. La risposta più probabile è proprio quella che rende possibile il dibattito: Homo sapiens conquistò il mondo soprattutto grazie al suo linguaggio unico.

2. L’albero della conoscenza Nel capitolo precedente abbiamo visto che, sebbene avessero già popolato l’Africa orientale 150.000 anni fa, i Sapiens cominciarono a penetrare in tutte le altre parti del pianeta – causando l’estinzione delle altre specie umane – soltanto 70.000 anni fa circa. Nei millenni intercorsi tra le due epoche, quei Sapiens arcaici, che pure ci somigliavano in tutto e per tutto e avevano cervelli grandi quanto i nostri, non godettero di alcun significativo vantaggio sulle altre specie umane, non produssero utensili particolarmente sofisticati e non compirono alcuna prodezza. In realtà, nel primo incontro di cui si sappia tra i Sapiens e i Neanderthal, i Neanderthal vinsero. Circa 100.000 anni fa alcuni gruppi Sapiens migrarono verso il Levante, che era territorio Neanderthal, ma non riuscirono a porre solide basi. Forse fu dovuto al cattivo carattere dei nativi, al clima inclemente o ai parassiti locali cui non erano abituati. Quale sia stata la ragione, i Sapiens alla fine si ritirarono, lasciando i Neanderthal padroni del Medio Oriente. Questo magro bilancio di conquiste ha spinto gli studiosi a ipotizzare che la struttura interna dei cervelli di questi Sapiens fosse probabilmente differente dalla nostra. Nell’aspetto erano simili a noi, ma le loro capacità cognitive per imparare, ricordare e comunicare erano probabilmente assai più limitate. Insegnare a questi antichi Sapiens l’inglese, persuaderli della verità del dogma cristiano o far loro capire la teoria dell’evoluzione sarebbero state, probabilmente, imprese senza speranza. 4. Una figurina d’avorio che rappresenta un “leone-uomo” (o una “leonessadonna”) proveniente dalla grotta di Stadel in Germania (circa 32.000 anni fa). Il corpo è umano, ma la testa è leonina. È uno dei primi indiscutibili esempi di arte, e probabilmente di religione, oltre che della capacità della mente umana di immaginare cose che non esistono nella realtà. E, per converso, noi avremmo avuto un bel daffare a imparare il loro linguaggio e intendere il loro modo di pensare. Ma poi, a partire da circa 70.000 anni fa, Homo sapiens cominciò a fare cose davvero speciali. Intorno a quella data, gruppi di Sapiens lasciarono l’Africa per una seconda volta. E in questo caso non si limitarono a cacciare i Neanderthal e gli umani di tutte le altre specie dal Medio Oriente, ma li cancellarono dalla faccia della Terra. In un arco di tempo straordinariamente breve, i Sapiens raggiunsero l’Europa e l’Asia orientale. Circa 45.000 anni fa riuscirono ad attraversare l’oceano e approdarono in Australia – un continente fino a quel momento mai raggiunto dagli umani. Il periodo che va da 70.000 fino a circa 30.000 anni fa vide l’invenzione delle imbarcazioni, delle lampade a olio, degli archi e delle frecce e degli aghi (essenziali per cucire gli indumenti che riparavano dal freddo). I primi oggetti che possono sicuramente essere chiamati oggetti d’arte e di gioielleria risalgono a quell’epoca, così come la prima incontrovertibile testimonianza che esistevano la religione, il commercio e la stratificazione sociale. La maggioranza dei ricercatori sostiene che tali realizzazioni senza precedenti siano state il prodotto di una rivoluzione avvenuta nelle capacità cognitive dei Sapiens. E che le genti che portarono i Neanderthal all’estinzione, colonizzarono l’Australia e scolpirono l’uomo-leone di Stadel fossero intelligenti, creative e sensibili tanto quanto noi. Se potessimo incontrare gli artisti della grotta di Stadel, riusciremmo a impararne il linguaggio e loro imparerebbero il nostro. Riusciremmo a spiegare loro tutto quello che sappiamo – dalle avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie ai paradossi della fisica quantistica – e loro potrebbero insegnarci come il proprio popolo concepisce il mondo. La comparsa di nuovi modi di pensare e di comunicare, nel periodo che va da 70.000 a 30.000 anni fa, costituisce la Rivoluzione cognitiva. Da che cosa fu determinata? Non lo sappiamo con precisione. La teoria più diffusa sostiene che accidentali mutazioni genetiche modificarono le connessioni neuronali del cervello dei Sapiens, consentendogli di pensare in forme prima inesistenti e di comunicare usando nuovi tipi di linguaggio. Potremmo chiamare tale processo una mutazione dell’albero della conoscenza. Come mai questo accadde nel DNA dei Sapiens e non in quello dei Neanderthal? Per quanto possiamo dire, si trattò di un puro caso. Ma capire le conseguenze di tale mutazione è più importante che ricostruirne le cause. Che cosa avvenne di tanto speciale nel linguaggio di noi Sapiens da metterci in condizione di conquistare il mondo?* Del resto non si trattava del primo sistema di comunicazione esistente. Ogni animale sa come comunicare. Tutti gli insetti, come le api e le formiche, sanno come comunicare tra loro e lo fanno in modi sofisticati, informandosi reciprocamente sui posti dove si può trovare cibo. Né era il primo sistema di comunicazione vocale. Numerosi animali, comprese tutte le scimmie antropomorfe e non, usano segnali vocali. Per esempio, il cercopiteco gialloverde usa richiami di vario tipo per lanciare allarmi. Gli zoologi ne hanno identificato uno che significa “Attenzione! Aquila!” Un richiamo leggermente differente avvisa “Attenzione! Un leone!” Quando i ricercatori facevano ascoltare a un gruppo di queste scimmiette la registrazione del primo richiamo, tutte interrompevano le proprie occupazioni e guardavano verso l’alto impaurite; le stesse scimmie, udendo il secondo richiamo (l’allarme leone), correvano a rifugiarsi su un albero. I Sapiens sanno riprodurre molti più suoni distinti rispetto ai cercopitechi gialloverdi, ma balene ed elefanti posseggono capacità comunicative ugualmente impressionanti. Un pappagallo può dire tutte le cose che poteva dire Albert Einstein, e in più può mimare il suono del telefono che squilla, quello di una porta che sbatte o quello delle sirene. Quale che fosse il vantaggio di Einstein su un pappagallo, non stava certo in una maggiore capacità vocale. Che cosa c’è quindi di così speciale nel nostro linguaggio? La risposta più comune è che esso è straordinariamente duttile. Possiamo connettere un numero limitato di suoni e segnali per produrre una quantità infinita di frasi, ciascuna avente un distinto significato. Così siamo in grado di introiettare, immagazzinare e comunicare una prodigiosa quantità di informazioni riguardo al mondo che ci circonda. Un cercopiteco gialloverde può gridare ai suoi compagni “Attenzione! Un leone!” Ma un umano moderno può dire ai suoi amici che questa mattina, vicino all’ansa del fiume, ha visto un leone che stava puntando un branco di bisonti. Ed è anche in grado di descriverne l’ubicazione esatta, compresi i differenti percorsi per arrivare nella zona. Con questa informazione, i membri del suo gruppo possono consultarsi e discutere sull’opportunità o meno di avvicinarsi al fiume per mettere in fuga il leone e dare la caccia a un bisonte. Una seconda teoria conviene sul fatto che il nostro linguaggio, unico nel suo genere, si sia sviluppato come mezzo per condividere informazioni sul mondo. Ma sostiene che le informazioni più importanti che occorreva trasmettere riguardassero gli umani, non i leoni o i bisonti. Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, Homo sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione. Agli individui, uomini o donne che siano, non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere, riguardo al proprio gruppo, chi odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione. La quantità di informazioni che un individuo deve ottenere e immagazzinare per rimanere aggiornato sui rapporti in continuo mutamento che intercorrono tra le poche decine di membri del suo gruppo è sbalorditiva. (In un gruppo di 50 individui, si possono contare 1225 rapporti biunivoci, e innumerevoli altre combinazioni sociali complesse.) Tutti i primati mostrano uno spiccato interesse per questo tipo di informazione sociale, ma non riescono a spettegolare in maniera davvero efficace. Probabilmente anche i Neanderthal e i Sapiens arcaici trovavano difficile sparlare gli uni alle spalle degli altri – una capacità che gode di cattiva fama ma che di fatto è essenziale per cooperare nelle comunità più numerose. Le nuove abilità linguistiche che i Sapiens acquisirono circa 70.000 anni fa consentirono loro di chiacchierare per ore senza interruzione. Il fatto di avere informazioni attendibili riguardo agli individui di cui ci si poteva fidare diede l’opportunità di ampliare i ranghi del gruppo, e i Sapiens poterono sviluppare più stretti e più sofisticati tipi di cooperazione.2 Questa teoria incentrata sul pettegolezzo potrebbe anche sembrare uno scherzo, eppure è stata supportata da numerosi studi. Ancora oggi, gran parte della comunicazione umana – nella forma delle e-mail, delle conversazioni telefoniche o delle rubriche sui giornali – è, di fatto, un pettegolezzo. Chiacchierare ci viene così naturale da farci pensare che il nostro linguaggio si sia sviluppato proprio per questo scopo. Pensate forse che i professori di storia, quando s’incontrano a pranzo, stiano a discutere delle ragioni per cui è scoppiata la prima guerra mondiale, o che i fisici nucleari, alle conferenze scientifiche, passino il tempo della pausa caffè a parlare dei quark? Qualche volta, sì. Ma più spesso chiacchierano della professoressa che ha sorpreso il marito a tradirla, o della disputa tra il capo di dipartimento e il preside, o delle voci che corrono sul fatto che un collega ha usato i suoi fondi destinati alla ricerca per comprarsi una Lexus. Di solito, infatti, il gossip s’incentra sulle malefatte. Il vero quarto stato sono le malelingue e i cronisti, che tengono informata la società e così la proteggono dagli imbroglioni e dai parassiti. È assai probabile, comunque, che siano valide entrambe le teorie, quella del gossip e quella del c’è-un-leone-vicino-al-fiume. Tuttavia la caratteristica davvero unica del nostro linguaggio non è la capacità di trasmettere informazioni su uomini e leoni. È piuttosto la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. Per quanto ne sappiamo, solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attento! Un leone!” Grazie alla Rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù.” Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens. È relativamente facile concordare sul fatto che solo Homo sapiens può parlare di cose che non esistono veramente e mettersi in testa storie impossibili appena sveglio. Non riuscirete mai a convincere una scimmietta a darvi una banana promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà. Ma come mai è così importante? Dopotutto la finzione può essere ingannevole o pericolosa. Chi vaga per la foresta alla ricerca di fate e unicorni avrà certo meno chance di sopravvivenza rispetto a chi ci va per trovare funghi e cervi. E chi passa ore a pregare inesistenti spiriti guardiani, non spreca tempo prezioso che sarebbe meglio dedicare a cercare cibo, a combattere o a fornicare? Il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli sul Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui. Anche formiche e api possono lavorare insieme in comunità numerose, ma lo fanno in forme estremamente rigide e solo all’interno di strette parentele. I lupi e gli scimpanzé cooperano in maniera molto più flessibile rispetto alle formiche, ma lo possono fare solo con gruppi ristretti di altri individui che conoscono intimamente. I Sapiens sono in grado di cooperare in modi estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei. Ecco perché governano il mondo, mentre le formiche mangiano i nostri avanzi e gli scimpanzé sono rinchiusi negli zoo o nei laboratori di ricerca. La leggenda della Peugeot I nostri cugini scimpanzé vivono di solito in piccole comunità composte da alcune decine di individui. Stringono strette amicizie, cacciano insieme e combattono fianco a fianco contro i babbuini, i cercopitechi e gli scimpanzé nemici. La loro struttura sociale tende a essere gerarchica. Il membro dominante, che quasi sempre è un maschio, viene definito “maschio alfa”. Tutti gli altri, maschi e femmine, fanno mostra di sottomissione al maschio alfa chinandosi davanti a lui ed emettendo piccoli grugniti, non diversamente dai soggetti umani che si prostrano davanti al re. Il maschio alfa si adopera a mantenere l’armonia sociale in seno al gruppo. Se due individui si azzuffano, interviene a far cessare la violenza. Con minore benevolenza, può monopolizzare cibi molto ambiti e impedire che maschi di rango inferiore possano accoppiarsi con le femmine. Quando due maschi contestano la posizione di alfa, di solito lo fanno formando ampie coalizioni di sostenitori, sia maschi sia femmine, appartenenti al gruppo. I legami tra i membri della coalizione si basano su un contatto fisico quotidiano – abbracci, carezze affettuose, baci, grooming e favori reciproci. Proprio come durante una campagna elettorale i politici vanno in giro a stringere mani e baciare bambini, così gli scimpanzé che aspirano alla posizione dominante nel proprio gruppo passano molto tempo ad abbracciare, a dare colpetti sulla schiena e a baciare i cuccioli. Di solito il maschio alfa ottiene la propria posizione non perché sia fisicamente più forte, ma perché guida un’ampia e stabile coalizione. Tali coalizioni hanno un ruolo centrale non soltanto durante le lotte per conquistare la guida del branco, ma in quasi tutte le attività che si svolgono quotidianamente. I membri di una coalizione trascorrono più tempo insieme, condividono il cibo e si aiutano l’un l’altro nei momenti di difficoltà. Esistono quindi evidenti limiti all’ampiezza del gruppo che può essere formato e mantenuto in una forma siffatta. Perché funzioni, tutti i membri devono conoscersi intimamente. Due scimpanzé che non si sono mai incontrati, che non hanno mai fatto la lotta insieme e non si sono mai spulciati a vicenda non sapranno mai se possono fidarsi l’uno dell’altro, se varrebbe la pena di aiutarsi reciprocamente, e quale di loro due sia di rango più alto. In condizioni naturali, un branco tipico di scimpanzé è composto di venti-cinquanta individui. Via via che aumenta il numero degli scimpanzé di un branco, l’ordine sociale si destabilizza, portando infine alla rottura e alla formazione di un nuovo branco da parte di qualcuno degli animali. Solo in una manciata di casi gli zoologi hanno osservato gruppi con più di cento componenti. Di rado i gruppi che si sono separati cooperano, piuttosto tendono a competere per il territorio e per il cibo. I ricercatori hanno documentato prolungati stati di guerra tra gruppi e anche un caso di attività “genocida”, in cui un branco ha massacrato sistematicamente quasi tutti i membri di un gruppo confinante.3 Modelli simili dominarono probabilmente la vita sociale dei primi umani, compreso l’Homo sapiens arcaico. Gli umani, al pari degli scimpanzé, posseggono istinti sociali che hanno consentito ai nostri antenati di formare amicizie e gerarchie e di cacciare e combattere insieme. Tuttavia, proprio come gli scimpanzé, anche gli istinti sociali degli umani erano adatti solo a piccoli gruppi. Quando il gruppo diventava troppo allargato, l’ordine sociale si incrinava e il gruppo finiva per spaccarsi. Anche se una vallata particolarmente fertile poteva dar da mangiare a cinquecento Sapiens arcaici, non c’era modo che un numero così grande di estranei riuscisse a convivere. Come potevano mettersi d’accordo su chi doveva comandare, chi doveva combattere e dove o chi doveva accoppiarsi con chi? Sulla scia della Rivoluzione cognitiva, il pettegolezzo aiutò Homo sapiens a formare comunità più grandi e più stabili. Solo che anche il gossip ha i suoi limiti. La ricerca sociologica ha dimostrato che la grandezza “naturale” massima di un gruppo unito da questa pratica è di circa centocinquanta individui. La maggior parte delle persone, infatti, non può conoscere intimamente più di centocinquanta esseri umani né chiacchierare su di loro con qualche effetto. Persino oggi, una soglia critica delle organizzazioni umane cade intorno a questo numero magico. Al di sotto di tale soglia, comunità, gruppi di lavoro, social network e unità militari possono essere basati principalmente sulla conoscenza intima e sui pettegolezzi. Affinché si mantenga l’ordine, non c’è bisogno di ranghi formali, di titoli o di trattati di giurisprudenza.4 Un plotone di trenta soldati o persino una compagnia di cento soldati possono funzionare sulla base delle relazioni intime, con un minimo di disciplina formale. Un sergente rispettato può diventare il “re della compagnia” ed esercitare un’autorità anche maggiore di quella degli ufficiali. Una piccola azienda di famiglia può sopravvivere e prosperare senza un consiglio d’amministrazione, un amministratore delegato o un ufficio di contabilità. Ma una volta scavalcata la soglia di centocinquanta individui, le cose non funzionano più nella stessa maniera. Non si può comandare una divisione con migliaia di soldati nello stesso modo in cui si comanda un plotone. Le aziende di famiglia si trovano di solito in crisi quando diventano più grandi e assumono altro personale. Se non riescono a reinventarsi, falliscono. Come ha fatto Homo sapiens ad attraversare questa soglia critica, arrivando a fondare città con decine di migliaia di abitanti e poi imperi che governavano centinaia di milioni di persone? Il segreto sta probabilmente nella comparsa della finzione. Grandi numeri di estranei riescono a cooperare con successo se credono in miti comuni. Qualsiasi cooperazione umana su vasta scala – si tratti di uno stato moderno, di una chiesa medievale, di una città antica o di una tribù arcaica – è radicata in miti comuni che esistono solo nell’immaginazione collettiva. Le chiese sono radicate in miti religiosi comuni. Due cattolici che non si siano mai incontrati prima possono ugualmente partire insieme per una crociata o raccogliere fondi per costruire un ospedale, perché entrambi credono che Dio si sia fatto carne e sangue e si sia sacrificato sulla croce per redimere i nostri peccati. Gli stati si fondano su miti nazionali condivisi. Due serbi che non si siano mai visti prima possono rischiare la propria vita l’uno per l’altro perché credono entrambi nell’esistenza di una nazione serba, nella madrepatria serba e nella bandiera serba. I sistemi giudiziari sono radicati in miti legali comuni. Due avvocati che non si siano mai incontrati prima possono, nonostante questo, concertare i propri sforzi per difendere un perfetto estraneo, perché hanno fede nell’esistenza delle leggi, della giustizia e dei diritti umani – e nel denaro pagato per le loro parcelle. Eppure nessuna di queste cose esiste al di fuori delle storie che le persone si inventano e si raccontano vicendevolmente. Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani. Non si fa fatica a riconoscere che i “primitivi” cementano il proprio ordine sociale attraverso la credenza in fantasmi e spiriti, raccogliendosi a danzare intorno al fuoco nelle notti di luna piena. Quello che stentiamo a capire è che le nostre moderne istituzioni funzionano esattamente sugli stessi presupposti. Si consideri per esempio il mondo delle grandi società finanziarie. I moderni uomini d’affari e avvocati sono, in realtà, potenti stregoni contemporanei. La differenza principale tra loro e gli sciamani tribali è che gli avvocati moderni raccontano storie assai più bizzarre. La leggenda della Peugeot fornisce un buon esempio. Un’icona che assomiglia in qualche modo al leone-uomo di Stadel compare oggi su automobili, camion e motociclette, a Parigi come a Sydney. È lo stemma che adorna i veicoli costruiti dalla Peugeot, una delle più antiche e più grandi fabbriche automobilistiche d’Europa. La Peugeot ha cominciato come una piccola azienda familiare nel villaggio di Valentigney, che si trova ad appena 300 chilometri dalla grotta di Stadel. Nel 2011 la società aveva circa 200.000 dipendenti sparsi nel mondo, che nella stragrande maggioranza sono totali estranei tra loro. Questi sconosciuti cooperano così efficacemente che nel 2008 la Peugeot ha prodotto oltre un milione e mezzo di automobili, con introiti di circa 55 miliardi di euro. 5. Il leone della Peugeot. In che senso possiamo affermare che la Peugeot SA (la denominazione ufficiale dell’azienda) esiste? Ci sono molti veicoli Peugeot, ma questi ovviamente non sono la stessa cosa dell’azienda. Anche se ogni Peugeot nel mondo fosse fatta a pezzi e venduta come rottame di ferro, la Peugeot SA non scomparirebbe. Continuerebbe a fabbricare nuove auto e a emettere i suoi rapporti annuali. La società in questione possiede fabbriche, macchinari e showroom, e impiega meccanici, contabili e segretarie, ma tutti questi insieme non costituiscono la Peugeot. Un disastro potrebbe uccidere ogni singolo impiegato della Peugeot, e persino distruggere tutte le catene di montaggio e tutti gli uffici direzionali. Anche allora la società potrebbe ottenere finanziamenti, assumere nuovi impiegati, costruire nuovi stabilimenti e comprare nuovi macchinari. La Peugeot ha manager e azionisti, ma né gli uni né gli altri costituiscono di per sé la compagnia. Tutti i manager potrebbero essere liquidati e tutte le azioni potrebbero essere vendute, ma la società di per sé resterebbe intatta. Questo non significa che la Peugeot SA sia invulnerabile o immortale. Se un giudice dichiarasse lo scioglimento della società, le sue fabbriche resterebbero in piedi, e i suoi operai, contabili, manager e azionisti continuerebbero a esistere – mentre la Peugeot SA svanirebbe immediatamente. In breve, la Peugeot SA pare non avere alcuna connessione essenziale con il mondo fisico. Possiamo dire che esiste veramente? La Peugeot è un’invenzione della nostra immaginazione collettiva. Gli uomini di legge chiamano questo fenomeno “finzione giuridica”. Non può essere additata; non è un oggetto fisico. Esiste come entità giuridica. Al pari di te e di me, è vincolata alle leggi dei paesi in cui opera. Può aprire un conto in banca e avere delle proprietà. Paga le tasse e può essere citata in giudizio e anche perseguita separatamente da coloro che la posseggono o che vi lavorano. La Peugeot appartiene a un particolare genere di finzioni giuridiche chiamate “società a responsabilità limitata”. Il concetto che sta dietro queste società è tra le più ingegnose invenzioni dell’umanità. Homo sapiens è vissuto per innumerevoli millenni senza che se ne sentisse il bisogno. Durante la maggior parte della storia, la proprietà poteva dirsi attribuibile solo a chi era di carne e sangue umani, erto su due gambe e con un grosso cervello. Nella Francia del XIII secolo, Jean avviò un laboratorio in cui costruire carri: era la sua specialità. Se un carro da lui fabbricato si rompeva una settimana dopo che era stato comprato, l’acquirente insoddisfatto poteva citare in giudizio Jean personalmente. Se Jean si era fatto prestare mille monete d’oro per avviare il laboratorio e l’attività falliva, egli avrebbe ripagato il prestito ottenuto vendendo le sue proprietà private – la sua casa, la sua mucca, la sua terra. Forse sarebbe stato costretto a vendere anche i suoi figli mettendoli a servitù. Se non ce la faceva a coprire tutto il debito, poteva essere imprigionato dalle autorità statali o divenire schiavo dei suoi creditori. Era pienamente responsabile, senza limiti, di tutte le obbligazioni e gli impegni contratti dal suo laboratorio. Se foste vissuti a quel tempo, probabilmente ci avreste pensato due volte prima di avviare un’impresa per vostro conto. E infatti questa situazione giuridica scoraggiava l’imprenditorialità. La gente aveva paura di avviare un’attività e di assumere i rischi economici che ciò comportava. Ne valeva la pena, visto che la propria famiglia avrebbe potuto piombare nella miseria più nera? Ecco perché si cominciò a immaginare la formazione di società a responsabilità limitata. Tali aziende erano giuridicamente indipendenti dalle persone che le avevano avviate, che vi avevano investito soldi o che le gestivano. Nel corso degli ultimi secoli, le società di questo tipo sono diventate le principali protagoniste dell’arena economica, e il fatto che ci siano ormai tanto familiari ci porta a dimenticare che esistono solo nella nostra immaginazione. Negli Stati Uniti il termine tecnico per una società a responsabilità limitata è corporation, termine quanto mai ironico, visto che deriva dal latino corpus – e che il corpo fisico è proprio ciò che manca a queste corporations. Benché non abbiano un vero corpo, il sistema giuridico americano tratta le corporations come persone giuridiche, come se fossero esseri umani in carne e ossa. E così fece il sistema giuridico francese nel 1896, quando Armand Peugeot, che aveva ereditato dai genitori un’officina meccanica che produceva molle, seghe e biciclette, decise di entrare nel campo delle automobili. Con tale obiettivo fondò una società a responsabilità limitata. La battezzò con il proprio nome, ma essa era qualcosa di indipendente dalla sua persona. Se una macchina si rompeva, l’acquirente poteva far causa alla Peugeot, non ad Armand Peugeot. Se la società si faceva prestare milioni di franchi e poi andava in rovina, Armand Peugeot non doveva dare un singolo franco ai creditori dell’azienda. Quel finanziamento, dopotutto, era stato dato alla Peugeot, l’azienda, e non ad Armand Peugeot, l’Homo sapiens. Armand Peugeot morì nel 1915. La Peugeot SA è tuttora viva e vegeta. Come fece Armand Peugeot, la persona, a creare Peugeot, la società? In un modo molto simile a quello in cui i sacerdoti e gli stregoni avevano creato dèi e demoni nel corso della storia, e in cui migliaia di curati francesi ancora creavano il corpo di Cristo ogni domenica nelle chiese parrocchiali. Tutto ruotava intorno al fatto di raccontare storie e di convincere gli altri a crederci. Nel caso dei curati francesi, la storia cruciale era quella della vita e morte di Cristo così come viene trasmessa dalla Chiesa cattolica. Secondo questa narrazione, se un prete cattolico, vestito dei paramenti sacri, pronunciava le parole giuste nel momento giusto, del comunissimo pane e del comunissimo vino si trasformavano nel corpo e sangue di Dio. Il prete esclamava “Hoc est corpus meum!” cioè questo è il mio corpo e, hocus pocus, il pane diventava la carne di Cristo. Constatando che il prete aveva osservato tutte le procedure, milioni di devoti cattolici francesi agivano come se Dio fosse esistito realmente nel pane e nel vino consacrati. Nel caso della Peugeot SA, il punto focale stava nel codice francese, quale era stato scritto dal parlamento nazionale. Secondo i legislatori francesi, se un legale abilitato seguiva la debita liturgia e procedura, scriveva tutte le formule e proposizioni richieste su un pezzo di carta meravigliosamente decorato e apponeva la propria firma svolazzante in calce a tale documento, allora, hocus pocus, nasceva una nuova società. Quando nel 1896 Armand Peugeot volle creare una società, pagò un avvocato affinché espletasse tutte queste sacre procedure. Dopo che il legale ebbe eseguito tutti i rituali necessari e pronunciato tutte le debite formule, milioni di onesti francesi si comportarono come se la società Peugeot esistesse veramente. Costruire narrazioni che funzionino non è facile. La difficoltà non risiede tanto nel raccontare una storia, quanto nel convincere tutti gli altri a crederla vera. Gran parte della Storia (quella con la S maiuscola) gira intorno a questa domanda: come convincere milioni di persone a credere a narrazioni specifiche circa gli dèi, le nazioni o le società a responsabilità limitata? E tuttavia, quando ci si riesce, ciò conferisce ai Sapiens un immenso potere, poiché fa sì che milioni di estranei cooperino e agiscano in direzione di obiettivi comuni. Provate solo a immaginare quanto sarebbe stato difficile creare stati, chiese o sistemi giuridici se avessimo potuto parlare soltanto delle cose che esistono veramente, come i fiumi, gli alberi e i leoni. Nel corso del tempo abbiamo intessuto una rete di storie incredibilmente complessa. In seno a questa rete, finzioni come quella della Peugeot non solo esistono, ma accumulano un immenso potere. I tipi di cose che la gente crea attraverso questa rete di storie vengono chiamati, nei circoli accademici, “costrutti sociali” o “realtà immaginate”. Una realtà immaginata non è una bugia. Io mento se dico che c’è un leone vicino al fiume pur sapendo perfettamente che lì non ce n’è nessuno. Le bugie non sono qualcosa di speciale. Sanno mentire anche gli scimpanzé e i cercopitechi gialloverdi. Si è visto, per esempio, un cercopiteco verde lanciare il grido “Attenzione! Un leone!” senza che nei dintorni ci fosse alcun leone. Questo allarme ha messo in fuga un altro esemplare del branco, che aveva appena trovato una banana, così il bugiardo ha potuto restare a godersi da solo il bottino. A differenza della menzogna, la realtà immaginata è qualcosa in cui tutti credono; e, fintantoché questa credenza comune persiste, esercita un’influenza sul mondo. È possibile che lo scultore della grotta di Stadel credesse sinceramente nell’esistenza di un uomo-leone come spirito guardiano. Alcuni stregoni sono ciarlatani, ma in gran parte credono davvero nell’esistenza di dèi e demoni. Molti milionari credono sinceramente nell’esistenza del denaro e delle società a responsabilità limitata. Molti attivisti credono sinceramente nell’esistenza dei diritti umani. Nessuno mentiva quando, nel 2011, le Nazioni Unite richiesero che il governo libico rispettasse i diritti umani dei suoi cittadini, anche se le Nazioni Unite, la Libia e i diritti umani sono invenzioni della nostra fertile immaginazione. Dall’inizio della Rivoluzione cognitiva Homo sapiens ha dunque vissuto una realtà duale. Da un lato, la realtà oggettiva di fiumi, alberi e leoni; dall’altra, la realtà immaginata di dèi, nazioni e società per azioni. Col passare del tempo, la realtà immaginata è diventata via via sempre più potente, di modo che oggi la sopravvivenza stessa di fiumi, alberi e leoni dipende dalla benevolenza di entità quali gli dèi, le nazioni e le società per azioni. Bypassare il genoma La capacità di creare una realtà immaginata partendo dalle parole ha consentito che grandi numeri di estranei cooperassero efficacemente tra di loro. Ma ha fatto anche qualcosa di più. Poiché la cooperazione umana su vasta scala si basa su miti, il modo in cui gli individui cooperano può venire alterato attraverso un avvicendamento dei miti – cioè raccontando storie differenti. In circostanze favorevoli i miti possono cambiare rapidamente. Nel 1789 la popolazione francese passò, praticamente dalla sera alla mattina, dalla credenza nel mito del diritto divino dei re alla credenza nel mito della sovranità del popolo. Dunque con la Rivoluzione cognitiva Homo sapiens imparò a rivedere il suo comportamento con rapidità, conformandosi al mutare delle necessità. Ciò aprì una corsia di sorpasso per l’evoluzione culturale, che bypassava gli ingorghi dell’evoluzione genetica. Percorrendo questa corsia veloce, Homo sapiens presto distanziò sempre più marcatamente tutte le altre specie umane e animali, per quanto riguarda la capacità di cooperare. Il comportamento degli altri animali sociali è determinato in grande misura dai loro geni. Ma il DNA non è un autocrate: il comportamento animale è anche influenzato da fattori ambientali e dall’estro individuale. Ciò nonostante, in un dato ambiente, gli animali della stessa specie tendono a comportarsi in modo simile. In generale non è possibile che avvengano cambiamenti significativi nel comportamento sociale senza che vi sia qualche mutazione genetica. Per esempio gli scimpanzé comuni hanno una tendenza genetica a vivere in gruppi gerarchizzati con a capo un maschio alfa. I bonobo, specie strettamente imparentata con gli scimpanzé, vivono di solito in gruppi egalitari dominati da un’alleanza tra le femmine. Le femmine degli scimpanzé comuni non possono prendere lezione dalle loro parenti bonobo e inscenare una rivoluzione femminista. Gli scimpanzé maschi non possono riunirsi in un’assemblea costituzionale per abolire la carica di maschio alfa e dichiarare che da quel momento in avanti tutti gli scimpanzé devono essere considerati uguali. Cambiamenti tanto radicali del comportamento avverrebbero solo se cambiasse qualcosa nel loro DNA. Per ragioni analoghe, gli umani arcaici non dettero il via ad alcuna rivoluzione. Per quanto se ne sa, i cambiamenti nei modelli sociali, l’invenzione di nuove tecnologie e l’insediamento in habitat sconosciuti furono l’esito non tanto di iniziative culturali, ma di mutazioni genetiche e di esigenze ambientali. Ecco perché agli umani furono necessarie centinaia di migliaia di anni per compiere questi passi. Due milioni di anni fa le mutazioni genetiche provocarono la comparsa di una nuova specie umana, detta Homo erectus. Questo evento fu accompagnato dallo sviluppo di una nuova tecnologia negli utensili di pietra, ora riconosciuta come caratteristica distintiva di questa specie. Finché Homo erectus non subì ulteriori mutazioni genetiche, i suoi utensili di pietra restarono praticamente gli stessi – per quasi due milioni di anni! Per contrasto, a partire dalla Rivoluzione cognitiva i Sapiens sono stati capaci di trasformare il loro comportamento molto velocemente, trasmettendo ogni volta i nuovi comportamenti alle generazioni successive senza alcun bisogno di mutamenti genetici o ambientali. Come esempio fondamentale, si consideri la ripetuta comparsa di élite senza progenie, come il clero cattolico, gli ordini monastici buddhisti e il sistema burocratico cinese degli eunuchi. L’esistenza di simili élite va contro i più fondamentali principi della selezione naturale, poiché questi membri dominanti della società rinunciano volontariamente alla procreazione. Laddove i maschi alfa degli scimpanzé usano il loro potere per avere rapporti sessuali con quante più femmine possibile – e conseguentemente generare una cospicua quota di nuove leve all’interno del branco – il maschio alfa cattolico si astiene completamente dal rapporto sessuale e dalla cura della prole. Tale astinenza non deriva da particolari condizioni ambientali, come una grave carenza di cibo o la mancanza di potenziali compagne di accoppiamento. E non è neppure il risultato di una qualche bizzarra mutazione genetica. La Chiesa cattolica è sopravvissuta per secoli, non trasmettendo un “gene del celibato” da un papa all’altro, ma trasmettendo le storie del Nuovo Testamento e della Legge canonica. In altre parole, mentre i modelli di comportamento degli umani arcaici rimasero fissi per decine e decine di migliaia di anni, i Sapiens poterono trasformare le loro strutture sociali, la natura dei loro rapporti interpersonali, le attività economiche e una miriade di altri comportamenti nel giro di 10-20.000 anni. Immaginiamo un abitante di Berlino, nato nel 1900 e vissuto fino alla cospicua età di cent’anni. Avrà trascorso l’infanzia nell’impero Hohenzollern di Guglielmo II; l’età adulta nella Repubblica di Weimar, nel Terzo Reich nazista e poi nella Germania dell’Est comunista; sarà morto da cittadino di una Germania democratica e riunificata. Sarà riuscito a far parte di cinque sistemi sociopolitici molto differenti, anche se il suo DNA è rimasto esattamente lo stesso. Questa è stata la chiave del successo dei Sapiens. In una rissa uno contro uno, un Neanderthal avrebbe probabilmente battuto un Sapiens. Ma in un conflitto tra centinaia di individui, i Neanderthal non avrebbero avuto alcuna chance. I Neanderthal riuscivano a condividere informazioni sulla posizione dei leoni, ma probabilmente non sapevano raccontare – e modificare – storie sugli spiriti tribali. Non essendo capaci di comporre narrazioni che prescindevano dalla realtà, i Neanderthal non potevano cooperare efficacemente all’interno di comunità numerose, né potevano adattare il proprio comportamento sociale a situazioni che cambiavano continuamente. Se ci è impossibile entrare nella mente dei Neanderthal per capire il loro modo di pensare, abbiamo però una prova indiretta dei limiti che le loro capacità cognitive avevano se confrontate con quelle dei loro rivali Sapiens. Scavando i siti Sapiens di 30.000 anni fa nel cuore dell’Europa, gli archeologi vi trovano occasionalmente conchiglie delle coste mediterranee e atlantiche. Con tutta probabilità, queste conchiglie arrivarono nell’interno del continente attraverso gli scambi a lunga distanza tra differenti comunità di Sapiens. Nei siti Neanderthal non ci sono evidenze di commerci di questo genere. Ciascun gruppo fabbricava i propri utensili con i materiali locali.5 Un altro esempio viene dal Pacifico del Sud. Gruppi di Sapiens che vivevano sull’isola di Nuova Irlanda, a nord della Nuova Guinea, usavano un vetro vulcanico chiamato ossidiana per fabbricare utensili particolarmente resistenti e taglienti. Solo che la Nuova Irlanda non ha alcun giacimento di ossidiana. I test di laboratorio hanno rivelato che l’ossidiana da essi lavorata proveniva da giacimenti della Nuova Britannia, un’isola a 400 chilometri di distanza. Alcuni degli abitanti di queste isole devono dunque essere stati provetti navigatori, che commerciavano di isola in isola percorrendo lunghe distanze.6 Quella degli scambi potrebbe sembrare un’attività molto pragmatica, che non ha bisogno di una premessa finzionale. Sta di fatto che nessun animale, se non il Sapiens, si impegna nel commercio, e tutte le reti commerciali Sapiens si basavano su finzioni. Non può esistere commercio senza fiducia, ed è molto difficile fidarsi degli estranei. La rete commerciale globale di oggi si basa su entità fittizie come le valute, le banche e le aziende. Quando nelle società tribali due estranei vogliono attuare scambi tra loro, stabiliscono una base di fiducia facendo appello a un dio comune, a progenitori mitici o a un animale-totem. Nelle società moderne, sulle banconote di solito campeggiano simboli religiosi, venerabili antenati e totem aziendali. Se i Sapiens arcaici che credevano in simili costrutti narrativi commerciavano conchiglie e ossidiana, è ragionevole pensare che abbiano anche scambiato informazioni, creando in tal modo una rete di nozioni più fitta e più ampia di quella che serviva ai Neanderthal e agli altri umani arcaici. Le tecniche di caccia forniscono un’ulteriore dimostrazione di queste differenze. I Neanderthal di solito cacciavano singolarmente o in piccoli gruppi. I Sapiens, invece, svilupparono tecniche che avevano come presupposto la cooperazione tra molte decine di individui, e forse anche tra gruppi differenti. Un metodo particolarmente efficace era quello di circondare un intero branco di animali, per esempio cavalli selvatici, per poi spingerli in una stretta gola dove era facile ucciderli in massa. Se tutto andava secondo i piani, quei gruppi di umani potevano ricavare tonnellate di carne, di grasso e di pelli animali in un unico pomeriggio di sforzo collettivo, e consumare queste ricchezze in un gigantesco banchetto cerimoniale, oppure essiccarle, affumicarle e (nelle zone artiche) congelarle per usufruirne in seguito. Gli archeologi hanno scoperto siti in cui interi branchi venivano macellati annualmente in questo modo. Esistono anche siti nei quali erano state erette recinzioni e barriere allo scopo di creare trappole e luoghi per la macellazione. Si può presumere che i Neanderthal non siano rimasti molto contenti nel vedere che i loro tradizionali terreni di caccia diventavano macelli a uso dei Sapiens. Tuttavia, se fra le due specie esplodeva la violenza, i Neanderthal non erano molto più abili dei cavalli selvaggi. Cinquanta Neanderthal che cooperavano secondo modelli statici tradizionali non potevano certo competere con cinquecento Sapiens versatili e innovativi. E anche se i Sapiens avessero perso il primo round, presto avrebbero inventato nuovi stratagemmi grazie ai quali vincere la volta successiva. Che cosa accadde nella Rivoluzione cognitiva? Nuove capacità Conseguenze Trasmettere maggiori quantità di informazione circa il mondo che stava intorno a Homo sapiens. Pianificazione ed esecuzione di azioni complesse, come sfuggire ai leoni e cacciare i bisonti. Trasmettere maggiori quantità di informazione circa le relazioni sociali tra i Sapiens. Formazione di gruppi più ampi e coesi, fino a 150 individui. Trasmettere informazioni su cose che non esistono nella realtà, quali spiriti tribali, nazioni, società a responsabilità limitata, diritti umani. a. Cooperazione tra numeri molto alti di estranei. b. Rapida innovazione del comportamento sociale. Storia e biologia L’immensa varietà delle realtà immaginate che inventarono i Sapiens e la conseguente varietà dei modelli comportamentali sono le principali componenti di quelle che chiamiamo “culture”. Una volta avviate, le culture non cessarono mai di mutare e svilupparsi, e le loro alterazioni inarrestabili costituiscono ciò che noi chiamiamo “storia”. La Rivoluzione cognitiva, di conseguenza, segna un punto di svolta: quello in cui la storia dichiarò la propria indipendenza dalla biologia. Fino alla Rivoluzione cognitiva, le azioni delle specie umane appartenevano al regno della biologia o, se preferite, alla preistoria (tendo a evitare il termine “preistoria”, perché implica erroneamente che anche prima della Rivoluzione cognitiva gli umani costituissero una categoria a sé). Dalla Rivoluzione cognitiva in avanti, le narrazioni storiche sostituiscono le teorie biologiche come nostro mezzo primario per spiegare lo sviluppo di Homo sapiens. Per comprendere la nascita del cristianesimo o la Rivoluzione francese, non è sufficiente capire quali siano le interazioni tra geni, ormoni e organismi. È necessario prendere in considerazione anche l’interazione fra idee, immagini e fantasie. Questo non significa che Homo sapiens e la cultura umana diventino esenti dalle leggi biologiche. Siamo sempre animali, e le nostre capacità fisiche, emotive e cognitive sono sempre modellate dal nostro DNA. Le nostre società umane sono costruite partendo dagli stessi mattoni su cui si erano edificate le società dei Neanderthal e degli scimpanzé, e più esaminiamo questi mattoni – sensazioni, emozioni, legami familiari – meno differenze riscontriamo tra noi e le altre scimmie. Sarebbe tuttavia uno sbaglio cercare le differenze a livello individuale o familiare. Considerati uno rispetto all’altro, o anche a gruppi di dieci, noi siamo simili agli scimpanzé in misura imbarazzante. Le differenze significative cominciano a presentarsi solo quando superiamo la soglia dei centocinquanta individui; e quando arriviamo a mille-duemila individui tali differenze si fanno sorprendenti. Se si cercasse di riunire migliaia di scimpanzé in piazza Tienanmen, nella basilica di San Pietro o nella sede delle Nazioni Unite, il risultato sarebbe un pandemonio. I Sapiens, invece, si radunano regolarmente a migliaia in questi posti. Insieme, essi creano modelli ordinati – quali reti commerciali, celebrazioni di massa e istituzioni politiche – che non avrebbero mai potuto creare in una situazione di isolamento. La vera differenza tra noi e gli scimpanzé è il collante dei miti, che lega insieme grandi numeri di individui, di famiglie e di gruppi. Questo collante ci ha resi i padroni del creato. Naturalmente ci occorreva possedere anche altre abilità, come la capacità di creare e usare utensili. La manifattura di utensili, tuttavia, è di per sé poco significativa se non è accompagnata dalla capacità di cooperare con molti altri individui. Com’è possibile che noi oggi disponiamo di missili intercontinentali dotati di testate nucleari mentre 30.000 anni fa avevamo solo bastoni con punte di selce? Dal punto di vista della fisiologia non c’è stato, da 30.000 anni a questa parte, alcun miglioramento significativo nella nostra capacità di fabbricare utensili. Albert Einstein aveva un’abilità manuale molto meno sviluppata di quella di un antico cacciatore-raccoglitore. Però la nostra capacità di cooperare con grandi numeri di estranei è migliorata straordinariamente. La punta di lancia fatta con la selce veniva fabbricata in qualche minuto da una singola persona, che contava sul consiglio e sull’aiuto di pochi amici intimi. La produzione di una testata nucleare moderna richiede la cooperazione di milioni di persone che non si conoscono e vivono in luoghi diversi del pianeta – dagli operai che estraggono il minerale d’uranio nelle profondità della Terra ai fisici teorici che scrivono lunghe formule matematiche per descrivere le interazioni delle particelle subatomiche. Per sintetizzare il rapporto che c’è tra biologia e storia così come si è posto dopo la Rivoluzione cognitiva: a) La biologia stabilisce i parametri basilari per il comportamento e per le capacità di Homo sapiens. Tutta la storia si svolge entro i confini di questa arena biologica. b) Tale arena, tuttavia, è straordinariamente ampia, e consente ai Sapiens di giocare una sorprendente varietà di mosse. Grazie alla loro capacità di creare finzioni, i Sapiens sviluppano giochi sempre più complessi, che ogni generazione sviluppa ed elabora ulteriormente. c) Di conseguenza, per capire come si comportano i Sapiens, dobbiamo descrivere l’evoluzione storica delle loro azioni. Facendo riferimento soltanto ai nostri vincoli biologici, ci comporteremmo come un radiocronista che commentando i campionati mondiali offrisse ai suoi ascoltatori una dettagliata descrizione del campo di gioco invece di raccontare che cosa stanno facendo i giocatori. Che giochi facevano i nostri antenati dell’Età della pietra nell’arena della storia? Per quanto ne sappiamo, gli uomini che scolpirono l’uomo-leone della grotta di Stadel circa 32.000 anni fa possedevano le stesse capacità fisiche, emotive e intellettuali che abbiamo noi oggi. Che cosa facevano quando si svegliavano? Che cosa mangiavano per colazione e a pranzo? Com’erano le loro società? Avevano rapporti monogami e famiglie nucleari? Svolgevano cerimonie, osservavano codici morali e rituali religiosi, facevano gare sportive? Combattevano guerre? Il prossimo capitolo getterà uno sguardo oltre la cortina del tempo, cercando di esaminare come si viveva nei millenni che vanno dalla Rivoluzione cognitiva alla Rivoluzione agricola. * Qui e nelle pagine seguenti, quando parlo di linguaggio dei Sapiens, mi riferisco alle capacità linguistiche basilari della nostra specie, e non a un particolare idioma. Inglese, hindi e cinese sono tutte varianti di linguaggio Sapiens. Ovviamente, anche al tempo della Rivoluzione cognitiva i differenti gruppi di Sapiens avevano idiomi diversi. (N.d.A.)