FLOATING CLOUDS (Ukigumo)
film di Naruse Mikio
(1955)
Quando si scopre un regista e si vuole rendergli omaggio, la cosa più semplice è iniziare descrivendo l'effetto che produce il suo cinema. Una volta finito il film, fluttua come una nuvola nel cielo nebbioso del mio cervello.
Nei romanzi di Ayashi Fumiko, molto amati da Naruse che ne adatta ben sei per lo schermo, le protagoniste femminili sono il corpo della sofferenza e del cambiamento: su di loro ricadono non solo i sacrifici imposti da una tradizione rigida, ma anche la violenza della Storia. Come fiori nella pioggia, le donne della Ayashi non smettono di fiorire e appassire dolcemente, dopo una vita di aperto colloquio col cielo cui aspirano. Floating Clouds mette in scena, con tutto lo splendore di una Takamine Hideko luminosa e bellissima anche nel martirio, una di queste figure irriducibili: Yukiko, mossa da un infinito desiderio e pronta a farsi strada tra le macerie (così vere che Naruse ricorre a immagini documentarie nell’incipit).
Il film rappresenta, la storia del rapporto passato e presente di Yukiko e Tomioka: un amore simile a un viaggio, un continuo girovagare senza meta di due nubi fluttuanti, senza scopo, fantasmi pallidi tra le rovine. Naruse li accompagna senza mai giudicarne l’impetuosa irrazionalità o le scelte autolesioniste: il regista guarda alla coppia così come allo smarrimento del paese nel caos postbellico. Il reale si interseca con i frammenti del pensiero di Yukiko e del suo discorso amoroso. Quando, nelle prime scene, Yukiko appare dopo brani di cinegiornale del 1946, assistiamo a uno spostamento dalla Storia all’individuo. La ragazza, ormai priva di una vera identità e di uno spazio in cui riconoscersi, si aggrappa all’amore e alla sua idealizzazione: «per noi», dice Yukiko a Tomioka, «il passato è l’unica realtà». Flashback ci riportano al loro primo incontro nel palazzo coloniale di Dalat: Tomioka, le lancia uno sguardo intenso e penetrante. Yukiko, innocente come i suoi abiti candidi e appena arrivata in Indocina per lavorare come tipografa, trasalisce: è l’inizio di un amore selvatico, in un percorso dalla luce alla fine dolorosa. La maestria di Naruse consiste nell’intersecarei piani temporali. i
I flashbacks, le memorie sensoriali e proustiane inducono uno spaesamento che solo il cinema può dare.
Il gioco tra i due amanti non ha fine e il desiderio sopravvive malato, errabondo. Tomioka non è un predatore ma un personaggio complesso, moderno e novecentesco, vittima di opacità morale Tomioka è inetto, tormentato e incapace di azione, ma allo stesso tempo limpidamente consapevole dei suoi fallimenti che non esita ad ammettere. Tra propositi mancati, debolezze e sottili crudeltà, Tomioka inganna anche se stesso: le lacrime finali non testimoniano una catarsi, ma sono il segno di una paralisi che non trova soluzione.
Le infinite passeggiate, tra non-luoghi anonimi, lungo ferrovie o tra baracche – è la prigionia reciprocamente inflitta: nessuno dei due è libero, nemmeno l’apparentemente distaccato e infedele Tomioka. La malattia – pallida e sofferta – invade entrambi.
L’erotismo, verso il quale Naruse ha sempre nutrito un interesse profondo, qui si respira denso: Come le due donne, anche lo spettatore si accorge di essere caduto in una rete sensuale quando è troppo tardi, quando ormai è completamente coinvolto.
Il finale, tra le cose più belle di tutta la storia:Tomioka, curvo e disperato su una Yukiko che è ormai pura luce spirituale, tramuta la sua maschera inespressiva in dolore. Le sue lacrime sono così vere e insostenibili che Naruse sposta la macchina da presa alle sue spalle, rispettandolo, per poi chiudere su una triste epigrafe: «La vita di un fiore è così breve/eppure deve sopportare tanto dolore».